Chimica farmaceutica [1 ed.] 9788808187123


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Chimica farmaceutica
00
0000_III-IV_Frontespizio
0000_IX_Sommario
0000_VII-VIII_Prefazione
0000_V-VI_Autori
0000_X-XIX_Indice GeneraleONLINE
00 Organizzazione del volume
01 I bersagli dei farmaci
02 Proprietà chimico-fisiche e attività biologica
03 Caratteristiche strutturali e attività biologica
04 Fasi dell'azione di un farmaco
05 Enzimi e farmaci
06 Recettori e farmaci
07 Ricerca e sviluppo dei farmaci
08 Chimica farmaceutica computazionale e modellistica molecolare
09 Anestetici generali
10 Ipnotici, sedativi e tranquillanti
11 Anticonvulsivanti
12 Antidepressivi e antipsicotici
13 Analgesici
14 Anestetici locali
15 Farmaci per le malattie neurodegenerative
16 Farmaci cardiaci
17 Diuretici
18 Ipotensivi
19 Simpaticolitici e vasodilatatori
20 Ipolipidemizzanti
21 Antitrombotici
22 Antitussivi e broncodilatatori
23 Antiallergici e decongestionanti nasail
24 Insulina e farmaci ipogicemizzanti
25 Farmaci tiroidei
26 Prostanoidi
27 Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi
28 Ormoni steroidei
29 Farmaci dell'omeostasi del calcio
30 Antistaminici
31 Antiulcera e antiacidi
32 Antidiarroici e lassativi
33 Introduzione ai farmaci antinfettivi
34 Disinfettanti e antisettici
35 Antibiotici
36 Chemioterapici antibatterici
37 Chemioterapici antimicobatterici
38 Chemioterapici antifungini
39 Chemioterapici antiprotozoari
40 Chemioterapici antivirali
41 Antielmintici
42 Farmaci antitumorali
43 Farmaci biotecnologici
44 Radiofarmaci
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Chimica farmaceutica [1 ed.]
 9788808187123

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Chimica farmaceutica a cura di Alberto Gasco, Fulvio Gualtieri, Carlo Melchiorre Testi di Stefano Alcaro, Giuseppina Aricò, Anna Artese, Daniela Barlocco, Francesco Berardi, Alessandra Bisi, Maria Laura Bolognesi, Livio Brasili, Olga Bruno, Stefania Butini, Ivana Cacciatore, Maria Luisa Calabrò, Angelo Carotti, Violetta Cecchetti, Saverio Cellamare, Vittoria Colotta, Luca Costantino, Federico Da Settimo, Marco De Amici, Carlo De Micheli, Fabio Del Bello, Roberto Di Santo, Andrea Duranti, Stephanie Federico, Alberto Gasco, Mario Giannella, Silvana Grasso, Giovanni Greco, Giorgio Grosa, Fulvio Gualtieri, Antonio Lavecchia, Marcello Leopoldo, Antonello Mai, Gabriella Massolini, Carlo Melchiorre, Andrea Milelli, Anna Minarini, Filippo Minutolo, Stefano Moro, Gabriele Murineddu, Giorgio Ortar, Francesco Ortuso, Andrea Pancotti, Maria Pigini, Gerard Aimé Pinna, Francesco Enrico Pinnen, Gaetano Ragno, Marinella Roberti, Barbara Rolando, Maria Novella Romanelli, Sergio Romeo, Giuseppe Ronsisvalle, Michela Rosini, Paolo Rovero, Gianluca Sbardella, Silvia Schenone, Romano Silvestri, Daniele Simoni, Giampiero Spalluto, Sabrina Taliani, Elisabetta Teodori, Vincenzo Tumiatti

Sommario

CHIMICA FARMACEUTICA Parte generale

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

1 I bersagli dei farmaci 2  Proprietà chimico-fisiche e attività biologica 3  Caratteristiche strutturali e attività biologica 4 Fasi dell’azione di un farmaco 5 Enzimi e farmaci 6 Recettori e farmaci 7 Ricerca e sviluppo dei farmaci 8  Chimica farmaceutica computazionale e modellistica molecolare

24 Insulina e farmaci ipoglicemizzanti 25 Farmaci tiroidei 26 Prostanoidi 27 Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi 28 Ormoni steroidei 29 Farmaci dell’omeostasi del calcio 30 Antistaminici

FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO 9 Anestetici generali 10 Ipnotici, sedativi e tranquillanti 11 Anticonvulsivanti 12 Antidepressivi e antipsicotici 13 Analgesici 14 Anestetici locali 15 Farmaci per le malattie neurodegenerative

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO 16 Farmaci cardiaci 17 Diuretici 18 Ipotensivi 19 Simpaticolitici e vasodilatatori 20 Ipolipidemizzanti 21 Antitrombotici 22 Antitussivi e broncodilatatori 23 Antiallergici e decongestionanti nasali

FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE 31 Antiulcera e antiacidi 32 Antidiarroici e lassativi

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI 33 Introduzione ai farmaci antinfettivi 34 Disinfettanti e antisettici 35 Antibiotici 36 Chemioterapici antibatterici 37 Chemioterapici antimicobatterici 38 Chemioterapici antifungini 39 Chemioterapici antiprotozoari 40 Chemioterapici antivirali 41 Antielmintici

FARMACI ANTITUMORALI 42 Farmaci antitumorali

FARMACI BIOTECNOLOGICI 43 Farmaci biotecnologici

RADIOFARMACI 44 Radiofarmaci

Prefazione

Quando l’Editore ci ha proposto di curare un testo didattico di Chimica Farmaceutica scritto da docenti italiani siamo rimasti un poco perplessi, essenzialmente per la mancanza di specifica esperienza in questo campo (della curatela, non della chimica farmaceutica, naturalmente), ma soprattutto sorpresi che la proposta venisse fatta a docenti che, più o meno recentemente, erano ormai usciti dai ruoli. Il perché di questa scelta l’abbiamo capito meglio in questi mesi, nei quali abbiamo lavorato a tempo pieno al progetto, cosa che difficilmente avremmo potuto fare se fossimo stati impegnati nella vorticosa attività accademica di questi tempi. Anziani docenti, con tempo a disposizione e, forse, con la voglia inconsapevole di mantenere un legame con quella Università nella quale avevano operato fino a poco tempo prima con tanta passione per una disciplina di frontiera e affascinante in continua espansione ed evoluzione. L’iniziativa di scrivere un testo di autori italiani colma una lacuna: questa, infatti, è la prima opera collettiva di autori italiani appositamente finalizzata alla didattica, che fornisce agli studenti un’esauriente trattazione della moderna Chimica Farmaceutica, adatta a soddisfare le esigenze delle Scuole di Farmacia delle Università italiane. Le principali linee guida che abbiamo elaborato con la Casa editrice sono state: a) produrre un volume relativamente snello, attorno alle mille pagine, dalla grafica sobria e ordinata, e dal contenuto moderno; b) affidare la stesura dei vari capitoli a docenti con esperienza didattica dell’argomento trattato e provenienti da sedi diverse per rendere trasversale il testo; c) organizzare il materiale didattico in modo che ne potessero fruire gli studenti di Farmacia e quelli di CTF; d) riportare gli schemi sintetici e metabolici indipendenti dal testo, in modo da poter essere consultati liberamente dagli utenti interessati, mettendo in evidenza con colorazione diversa i gruppi che reagiscono nella sintesi e quelli che si formano nel metabolismo; e) istituire un importante sito web nel quale raccogliere, sotto forma di schede, informazioni supplementari utilizzabili da docenti e studenti per approfondire determinati argomenti; f) collegare al testo, su apposita piattaforma web, un ricco assortimento di test di autovalutazione. Ci siamo riusciti? Crediamo di sì, ma l’ultima parola spetta ai lettori. Come sempre succede in questi casi, abbiamo faticato a mantenere le pagine di ogni capitolo nei limiti indicati: l’esigenza di spiegare tutto si affianca naturalmente all’obbiettiva complessità di alcuni argomenti. In compenso, l’iniziale pessimismo sulla nostra capacità di gestire gli autori dei 44 capitoli del volume si è rivelato eccessivo e, a parte qualche ritardo fisiologico, ci sono stati pochi disguidi, probabilmente inevitabili in un’operazione così complessa. Sorprendentemente, per noi, l’indice è stato uno dei nodi più difficili da sciogliere e fino all’ultimo ha subìto aggiustamenti. Soprattutto come curatori abbiamo avuto sempre l’obiettivo di ottenere dagli autori la massima omogeneità tra i vari capitoli, cosa non semplice visto l’elevato numero. Ovviamente agli Autori vanno i nostri ringraziamenti per la disponibilità e l’entusiasmo dimostrati. Il libro è diviso in due parti: la prima, generale, illustra i principi che regolano l’attività dei farmaci e le procedure per la loro scoperta. Particolare attenzione è de-

dicata alla descrizione delle proprietà chimico-fisiche e alla loro influenza sul comportamento dei farmaci, alla progettazione del farmaco sia nei suoi aspetti tradizionali sia in quelli che vedono l’applicazione delle tecniche computerizzate. Specifici capitoli sono stati dedicati ai bersagli della grande maggioranza dei farmaci in uso: i recettori e gli enzimi. Nella seconda parte sono riportati i farmaci e la loro caratterizzazione: struttura, proprietà farmacocinetiche, relazioni struttura-attività, usi, effetti collaterali e, per quelli più significativi, sintesi e metabolismo. La classificazione dei farmaci è stata fatta usando in via principale un criterio misto: il tipo di bersaglio su cui agiscono e/o la patologia per cui vengono usati. Questa scelta è stata, in alcuni casi, integrata con la classificazione secondo classi chimiche. Ai capitoli tradizionali sono stati aggiunti un capitolo sui farmaci biotecnologici e uno sui farmaci e diagnostici marcati, spesso trascurati. È importante sapere che la Casa editrice ha deciso di preparare una versione elettronica del libro, che potrà essere fruita sulla piattaforma Booktab. Questa versione sarà offerta a tutti gli acquirenti del libro, senza oneri aggiuntivi e sarà accessibile per due anni. Naturalmente, essendo questa la prima edizione, qualcosa ci sarà sfuggito, soprattutto perché un testo con numeri e formule chimiche è un campo minato per autori, curatori e per la redazione. Pertanto ogni segnalazione in tal senso sarà gradita, oltreché utile per la prossima edizione del volume. I curatori

Autori

Stefano Alcaro

Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro Giuseppina Aricò

Università degli Studi di Catania Anna Artese

Angelo Carotti

Università degli Studi di Bari Aldo Moro Violetta Cecchetti

Università degli Studi di Perugia Saverio Cellamare

Università degli Studi di Bari Aldo Moro

Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro

Vittoria Colotta

Daniela Barlocco

Luca Costantino

Francesco Berardi

Federico Da Settimo

Università degli Studi di Bari Aldo Moro

Università di Pisa

Alessandra Bisi

Marco De Amici

Università degli Studi di Milano

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Maria Laura Bolognesi

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Livio Brasili

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Olga Bruno

Università degli Studi di Genova Stefania Butini

Università di Siena Ivana Cacciatore

Università degli Studi di Firenze Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Università degli Studi di Milano Fabio Del Bello

Università degli Studi di Camerino Carlo De Micheli

Università degli Studi di Milano Roberto Di Santo

Sapienza Università di Roma Andrea Duranti

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Stephanie Federico

Università degli Studi di Trieste

Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara

Alberto Gasco

Maria Luisa Calabrò

Mario Giannella

Università degli Studi di Messina

Università degli Studi di Torino Università degli Studi di Camerino

Silvana Grasso

Gerard Aimé Pinna

Giovanni Greco

Francesco Enrico Pinnen

Università degli Studi di Messina Università degli Studi “Federico II” di Napoli Giorgio Grosa

Università degli Studi di Sassari Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara

Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”

Gaetano Ragno

Fulvio Gualtieri

Marinella Roberti

Università degli Studi di Firenze Antonio Lavecchia

Università degli Studi “Federico II” di Napoli Marcello Leopoldo

Università degli Studi di Bari Aldo Moro Antonello Mai

Sapienza Università di Roma Gabriella Massolini

Università degli Studi di Pavia Carlo Melchiorre

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Andrea Milelli

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Anna Minarini

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Filippo Minutolo

Università di Pisa Stefano Moro

Università degli Studi di Padova Gabriele Murineddu

Università degli Studi di Sassari Giorgio Ortar

Sapienza Università di Roma Francesco Ortuso

Università della Calabria Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Barbara Rolando

Università degli Studi di Torino Maria Novella Romanelli

Università degli Studi di Firenze Sergio Romeo

Università degli Studi di Milano Giuseppe Ronsisvalle

Università degli Studi di Catania Michela Rosini

Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Paolo Rovero

Università degli Studi di Firenze Gianluca Sbardella

Università degli Studi di Salerno Silvia Schenone

Università degli Studi di Genova Romano Silvestri

Università La Sapienza di Roma Daniele Simoni

Università degli Studi di Ferrara Giampiero Spalluto

Università degli Studi di Trieste

Università degli Studi “Magna Græcia” di Catanzaro

Sabrina Taliani

Andrea Pancotti

Elisabetta Teodori

Maria Pigini

Vincenzo Tumiatti

Università degli Studi di Milano Università degli Studi di Camerino

Università di Pisa

Università degli Studi di Firenze Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

Indice generale

Chimica farmaceutica Parte generale Capitolo 1

Capitolo 3

I bersagli dei farmaci 2

Caratteristiche strutturali e attività biologica 35

Fulvio Gualtieri

1.1 D  efinizione di farmaco e di Chimica Farmaceutica 2 1.2 Classificazione dei farmaci 3 1.3 Come agiscono i farmaci 3 1.4 I bersagli dei farmaci 3

1.4.1 Proteine 4 1.4.2 Acidi nucleici 12 1.4.3 Lipidi e carboidrati 14

Capitolo 2

Proprietà chimico-fisiche e attività biologica 16 Maria Laura Bolognesi, Marinella Roberti

2.1 Acidità, basicità, pKa 16 2.2 P  ercentuale di ionizzazione e distribuzione dei farmaci 17 2.3 Coefficiente di ripartizione 21 2.4 Coefficiente di distribuzione 22 2.5 L egami chimici coinvolti nell’interazione tra farmaco e bersagli biologici 23

2.5.1 Il legame covalente 24 2.5.2 Il legame ionico 27 2.5.3 Il legame idrogeno 28 2.5.4 I legami dipolari 29 2.5.5 Il legame a trasferimento di carica 29 2.5.6 L’interazione catione-π 30 2.5.7 Il legame alogeno 31 2.5.8 Il legame idrofobico 32 2.5.9 Le forze di van der Waals dipolo istantaneo-dipolo indotto o forze di dispersione di London 32 2.5.10 Il legame di coordinazione con un metallo 33

Mario Giannella

3.1 Isomeria costituzionale 35 3.2 Stereoisomeria 36

3.2.1 Isomeria configurazionale 36 3.2.2 Isomeria conformazionale 46

3.3 Analoghi rigidi 50 3.4 Isomeria e farmacocinetica 53 3.5 Metodi per l’ottenimento di enantiomeri puri 54 3.5.1 Risoluzione di una miscela racemica 54 3.5.2 Uso di prodotti naturali enantiomericamente puri (chiral pool) come precursori sintetici 55 3.5.3 Sintesi asimmetrica 56

3.6 Metodi analitici per la determinazione della purezza ottica degli enantiomeri 57

3.6.1 Polarimetria 58 3.6.2 Risonanza magnetica nucleare 59 3.6.3 Cromatografia liquida ad alta pressione 59

Capitolo 4

Fasi dell’azione di un farmaco 60 Giorgio Grosa, Gabriella Massolini

4.1 La fase farmaceutica 60

4.1.1 Vie di somministrazione e forme farmaceutiche 60 4.1.2 Passaggio in soluzione, solubilità dei farmaci 64

4.2 La fase farmacocinetica 66

4.2.1 Assorbimento, distribuzione e accumulo del farmaco 67 4.2.2 Metabolismo del farmaco (reazioni di fase I e di fase II) 73 4.2.3 Escrezione 85

indice generale online

ISBN 978-88-08-18712-3

4.3 L a farmacocinetica nella progettazione e nello sviluppo dei farmaci 87

4.3.1 Profarmaci, farmaci morbidi e farmaci duri 87 4.3.2 Interazioni tra farmaci 92 4.3.3 Sistemi di rilascio di farmaci 96

4.4 Farmacodinamica: farmaci strutturalmente aspecifici e specifici 98

Capitolo 5

Enzimi e farmaci 100 Angelo Carotti, Saverio Cellamare

5.1 Catalisi enzimatica 101 5.2 Cinetica enzimatica 103 5.2.1 Inibitori enzimatici e cinetica di reazione 104

5.3 Inibitori enzimatici come farmaci 105

5.3.1 Isoenzimi e loro inibitori selettivi 107 5.3.2 Inibitori dell’acetilcolinesterasi 109 5.3.3 Inibitori delle monoaminossidasi 113

5.4 Inibitori enzimatici analoghi dello stato di transizione 115 5.4.1 Inibitori di proteasi 116 5.4.2 Inibitori della neuraminidasi 118 5.4.3 Inibitori dell’adenosina deaminasi 119

5.5 Inibizione allosterica 122 5.5.1 Inibitori/modulatori allosterici come farmaci 123

Capitolo 6

Recettori e farmaci 125 Anna Minarini, Livio Brasili

6.1 Neurotrasmettitori 127 6.2 Interazione farmaco-recettore 127

6.2.1 Agonisti, antagonisti e agonisti inversi 128

6.3 Eventi successivi all’attivazione dei recettori di membrana 134

6.3.1 Recettori accoppiati a proteina G 136 6.3.2 Recettori canale 140

6.4 S  istemi recettoriali dei neurotrasmettitori 141

6.4.1 Acetilcolina 142 6.4.2 Noradrenalina e adrenalina 147 6.4.3 Dopamina 148 6.4.4 Serotonina 149 6.4.5 Istamina 150 6.4.6 Adenosina 150 6.4.7 Aminoacidi centrali 151

6.5 Ormoni 155

6.5.1 Ormoni peptidici, proteici e glicoproteici 156 6.5.2 Ormoni derivati da aminoacidi 158 6.5.3 Ormoni steroidei 158

6.6 Recettori ormonali 159 6.6.1 Recettori di membrana per ormoni peptidici 159 6.6.2 Recettori intracellulari 163

Capitolo 7

Ricerca e sviluppo dei farmaci 166 Maria Novella Romanelli, Elisabetta Teodori, Marco De Amici

7.1 P  rocesso di sviluppo di un farmaco 167

7.2 V  alutazione dell’attività biologica 167 7.3 Individuazione del punto di partenza (hit) e del prototipo (lead) 169 7.3.1 Scoperta casuale 170 7.3.2 Screening sistematico e mirato 172 7.3.3 Identificazione di prodotti di origine naturale 173 7.3.4 Amplificazione di effetti secondari di altri farmaci 176 7.3.5 Copia di farmaci preesistenti 176 7.3.6 Identificazione di metaboliti di farmaci noti 177 7.3.7 Chimica combinatoriale 179

7.4 Progettazione razionale 185

7.4.1 Progettazione basata sui ligandi 186 7.4.2 Data mining 189 7.4.3 Progettazione basata sulla struttura del bersaglio 189

7.5 S  coperta di lead basata su piccole molecole (frammenti) 191 7.6 Efficienza del ligando 193 7.7 Manipolazioni molecolari di hit e lead 195 7.7.1 Isosteria e bioisosteria 196 7.7.2 Semplificazione e complicazione molecolare202 7.7.3 Modulazione sterica 208 7.7.4 Modulazione chimico-fisica 211

7.8 Nomenclatura dei farmaci 219 7.9 Brevettazione 220

7.9.1 Il brevetto in ambito farmaceutico 220 7.9.2 Chiral switch 221 7.9.3 Brevetto di ulteriore uso medico 221 7.9.4 Farmaci generici e strategie di brevettazione 222

7.10 S  viluppo industriale di un farmaco 223

7.10.1 Aspetti normativi 223 7.10.2 Lo sviluppo chimico su larga scala 225

Capitolo 8

Chimica farmaceutica computazionale e modellistica molecolare 228 Stefano Moro

8.1 V  irtualizzazione della struttura chimica 230 8.1.1 La struttura chimica come stringa di caratteri

231

8.2 Relazioni struttura-attività quantitative (QSAR)

232 8.2.1 L’analisi di Free-Wilson 234 8.2.2 L’analisi 3D-QSAR basata sul metodo CoMFA 234

8.3 V  irtualizzazione di un’ipotesi farmacoforica 236 8.4 V  irtualizzazione dell’energetica associata alla struttura chimica 237 8.5 V  irtualizzazione dell’energetica associata all’interazione ligando-recettore 239 8.6 V  irtualizzazione della struttura ligando241 recettore: docking molecolare

XI

XII

indice generale online

8.6.1 Identificazione del sito di riconoscimento 242 8.6.2 Protocolli di ricerca conformazionale 242 8.6.3 Funzioni di scoring 243

8.7 V  irtualizzazione di una procedura di screening: virtual screening

244 8.7.1 Identificazione di nuovi inibitori della 5-lipossigenasi attraverso un approccio di ligand-based virtual screening di una libreria combinatoriale derivata da un prodotto naturale 245

ISBN 978-88-08-18712-3

8.7.2 Identificazione di nuovi antagonisti del recettore adenosinico umano A2A attraverso un approccio di structure-based virtual screening 246

8.8 V  irtualizzazione della coordinata tempo: dinamica molecolare 246 8.8.1 Calcolo del ΔGbinding attraverso il metodo della free energy perturbation 8.8.2 Campionamento conformazionale attraverso tecniche di metadinamica

247 248

Farmaci del sistema nervoso Capitolo 9

Capitolo 11

Anestetici generali 250

Anticonvulsivanti 297

Filippo Minutolo

Giampiero Spalluto, Stephanie Federico

9.1 L’anestesia generale 250 9.2 Farmaci anestetici per via inalatoria 251

11.1 L’epilessia 297

9.2.1 Fattori che determinano la farmacocinetica e la tossicità degli anestetici volatili 252 9.2.2 Idrocarburi ed eteri alogenati 254 9.2.3 Gas inorganici 259 9.2.4 Meccanismo d’azione degli anestetici volatili259

9.3 Farmaci anestetici iniettabili 261 9.4 Farmaci miorilassanti 264

9.4.1 Bloccanti neuromuscolari non depolarizzanti 265 9.4.2 Bloccanti neuromuscolari depolarizzanti 272

Capitolo 10

Ipnotici, sedativi e tranquillanti 273

11.1.1 Crisi parziali 298 11.1.2 Crisi generalizzate 298 11.1.3 Status epilepticus 299

11.2 B  ersagli terapeutici dei farmaci anticonvulsivanti 299 11.2.1 Canali voltaggio-dipendenti 299 11.2.2 Neurotrasmissione GABAergica 301 11.2.3 Neurotrasmissione glutamatergica 302 11.2.4 Anidrasi carbonica 302 11.2.5 Proteina SV2A 302

11.3 Farmaci anticonvulsivanti 302

11.3.1 Barbiturici e derivati 303 11.3.2 Idantoine 304 11.3.3 Ossazolidindioni 306 11.3.4 Succinimidi 307 11.3.5 Iminostilbeni 308 11.3.6 Benzodiazepine 309 11.3.7 Altre strutture 310

Federico Da Settimo, Sabrina Taliani

10.1 L’ansia 273

10.1.1 Terapia dell’ansia 274

10.2 Il sonno 274 10.3 L’insonnia 274

10.3.1 Tipi principali di insonnia 274 10.3.2 Le cause dell’insonnia 275 10.3.3 Conseguenze dell’insonnia 275 10.3.4 Terapia dell’insonnia 275

10.4 Alcoli 276 10.5 Aldeidi e derivati 276 10.6 Barbiturici 277 10.7 Benzodiazepine 282 10.8 Ansiolitici agonisti e agonisti parziali 5-HT1A: buspirone 285 10.9 Farmaci non benzodiazepinici: farmaci-Zeta 289 10.10 Agonisti al recettore della melatonina 295

Capitolo 12

Antidepressivi e antipsicotici 321 Anna Minarini, Carlo Melchiorre

12.1 Farmaci antidepressivi 321

12.1.1 Inibitori delle monoaminossidasi 322 12.1.2 Antidepressivi triciclici 324 12.1.3 Inibitori della ricaptazione delle amine biogene324 12.1.4 Antagonisti 2-adrenergici presinaptici 328 12.1.5 Antagonisti 5-HT2-serotoninergici/inibitori della ricaptazione della serotonina 328 12.1.6 Antidepressivi in sviluppo clinico 329

12.2 Farmaci antipsicotici 329 12.2.1 Farmaci antipsicotici tipici o di prima generazione330 12.2.2 Farmaci antipsicotici atipici o di seconda generazione337 12.2.3 Aspettative future 340

indice generale online

ISBN 978-88-08-18712-3

Capitolo 13

Analgesici 342 Giuseppe Ronsisvalle, Giuseppina Aricò

13.1 Dolore 342 13.1.1 Nocicettori e vie dolorifiche 343

13.2 Oppioidi 344

13.2.1 Peptidi oppioidi endogeni 344 13.2.2 Recettori oppioidi 345 13.2.3 Farmaci oppioidi 347 13.2.4 Relazioni struttura-attività (RSA) 347

14.5 Anestetici locali esterei, amidici e di varia natura 365

14.5.1 Anestetici locali esterei 365 14.5.2 Anestetici locali amidici 369 14.5.3 Anestetici locali di varia natura 376

Capitolo 15

Farmaci per le malattie neurodegenerative 377 Michela Rosini, Carlo Melchiorre

15.1 Malattia di Alzheimer 378

Capitolo 14

Anestetici locali 357 Andrea Duranti

14.1 C  aratteristiche strutturali e funzionamento del bersaglio biologico degli anestetici locali: il canale ionico del sodio voltaggio-dipendente 359 14.2 Meccanismo d’azione dei farmaci anestetici locali 360 14.3 Relazioni struttura-attività 362 14.4 Proprietà farmacocinetiche 363

15.1.1 Sistema colinergico 380 15.1.2 Inibitori dell’acetilcolinesterasi 381 15.1.3 Recettori NMDA 383 15.1.4 Antagonisti dei recettori NMDA: la memantina 383

15.2 Malattia di Parkinson 384 15.2.1 Modelli sperimentali per lo studio del Parkinson 385 15.2.2 Terapie farmacologiche del Parkinson 386 15.2.3 Farmaci che agiscono sul sistema dopaminergico 386 15.2.4 Antagonisti muscarinici 396

15.3 Malattia di Huntington 399 15.4 S  clerosi laterale amiotrofica 400 15.5 Aspettative future 401

Farmaci del sistema cardiovascolare e dell’apparato respiratorio Capitolo 16

Capitolo 17

Farmaci cardiaci 404

Diuretici 425

Alessandra Bisi

Luca Costantino

16.1 Farmaci per l’insufficienza cardiaca 404

17.1 Inibitori dell’enzima anidrasi carbonica 426

16.1.1 Glicosidi cardiaci 405 16.1.2 Inotropi non digitalici 411

16.2 Farmaci antiaritmici 413 16.2.1 Farmaci che agiscono sui canali del sodio (classe I) 413 16.2.2 Farmaci che agiscono sul recettore -adrenergico (classe II) 415 16.2.3 Farmaci che agiscono sul periodo refrattario (classe III) 416 16.2.4 Farmaci che agiscono sui canali del calcio (classe IV) 416 16.2.5 Altri antiaritmici 419

16.3 Farmaci antianginosi 420

16.3.1 Nitrati organici 420 16.3.2 -bloccanti 421 16.3.3 Calcio-antagonisti 421 16.3.4 Antianginosi di seconda generazione 421 16.3.5 Modulatori metabolici 423

17.1.1 Inibitori come diuretici 426 17.1.2 Inibitori per il trattamento del glaucoma a uso topico 429

17.2 Inibitori del cotrasporto Na+/K+/2Cl– (Diuretici dell’ansa di Henle) 432 17.2.1 Diuretici dell’ansa a carattere sulfonamidico 17.2.2 Diuretici dell’ansa a carattere non sulfonamidico +

432 433



17.3 Inibitori del cotrasporto Na /Cl

435 17.3.1 Diuretici benzotiadiazinici o tiazidici 435 17.3.2 Diuretici non tiazidici agenti sul tubulo contorto distale 437

17.4 D  iuretici risparmiatori di potassio 437 17.4.1 Composti interagenti con lo scambiatore Na+/K+ 438 17.4.2 Antagonisti dell’aldosterone 439

17.5 Diuretici osmotici 439 17.6 V  asopressina: agonisti e antagonisti 443

XIII

XIV

indice generale online

17.6.1 Agonisti 443 17.6.2 Antagonisti 443

Capitolo 18

Ipotensivi 445 Roberto Di Santo

18.1 Classi di ipotensivi 445 18.2 Farmaci calcio-antagonisti 446 18.2.1 Canali ionici e calcio 446 18.2.2 Alterazioni patologiche 447 18.2.3 Farmaci calcio-bloccanti 447

18.3 Farmaci che agiscono a livello renale 453

18.3.1 Il sistema renina-angiotensina 453 18.3.2 ACE-inibitori 455 18.3.3 Antagonisti del recettore dell’angiotensina II 460 18.3.4 Inibitori della renina 463

Capitolo 19

Simpaticolitici e vasodilatatori 464

ISBN 978-88-08-18712-3

Capitolo 21

Antitrombotici 504 Silvana Grasso, Maria Luisa Calabrò

21.1 Emostasi e cascata coagulativa 504 21.2 Anticoagulanti 506 21.2.1 Antagonisti della vitamina K 506 21.2.2 Inibitori indiretti della trombina e/o del fattore Xa  509 21.2.3 Inibitori diretti della trombina e del fattore Xa 511

21.3 Antiaggreganti piastrinici 514

21.3.1 Antipiastrinici che interferiscono con il metabolismo dell’acido arachidonico 516 21.3.2 Inibitori del TXA2 516 21.3.3 Inibitori della fosfodiesterasi 517 21.3.4 Inibitori dei recettori purinergici P2Y12 517 21.3.5 Antagonisti del recettore GPIIb/IIIa 521

21.4 Trombolitici 522

21.4.1 Trombolitici di I generazione 522 21.4.2 Trombolitici di II e III generazione 522

Capitolo 22

Maria Pigini, Fabio Del Bello

Antitussivi e broncodilatatori 524

19.1 Simpaticolitici 464

Gaetano Ragno

19.1.1 1-Antagonisti 464 19.1.2 -Bloccanti 471 19.1.3 Simpaticolitici indiretti 476

19.2 Vasodilatatori 480

19.2.1 Attivatori dei canali del potassio 481 19.2.2 Antagonisti dell’endotelina e inibitori delle fosfodiesterasi 482

Capitolo 20

Ipolipidemizzanti 484 Carlo De Micheli

20.1 Aspetti generali 484

20.1.1 Principali lipidi plasmatici 485 20.1.2 Le lipoproteine 486 20.1.3 Le iperlipoproteinemie 487

22.1 Apparato respiratorio: funzione e patologie 524 22.2 La tosse: meccanismo e cause 525 22.3 Antitussivi 526 22.3.1 Antitussivi ad azione centrale 526 22.3.2 Antitussivi ad azione centrale e periferica 528 22.3.3 Antitussivi ad azione periferica 530

22.4 Mucolitici ed espettoranti 531

22.4.1 Mucolitici 532 22.4.2 Espettoranti 533 22.4.3 Muco-regolatori 533 22.4.4 Muco-cinetici 533 22.4.5 Balsamici 533

22.5 Broncodilatatori 534 22.5.1 Controllo delle vie respiratorie 534 22.5.2 I farmaci broncodilatatori 535

20.2 Approcci terapeutici 487

20.2.1 Inibitori dell’enzima HMG-CoA (statine) 487 20.2.2 Sequestranti degli acidi biliari 496 20.2.3 Inibitori dell’assorbimento intestinale del colesterolo 497 20.2.4 Fibrati 498 20.2.5 Acido nicotinico 500

20.3 N  uovi approcci terapeutici in fasi di sperimentazione clinica 502

20.3.1 Inibitori della squalene sintasi 502 20.3.2 Inibitori dell’assorbimento di colesterolo 502 20.3.3 Interruzione della circolazione enteroepatica 503 20.3.4 Inibitori della proteina microsomale di trasferimento 503

Capitolo 23

Antiallergici e decongestionanti nasali 541 Francesco Berardi

23.1 Le allergie 541 23.2 I meccanismi della reazione allergica 542 23.2.1 Il rilascio dei mediatori mastocitari 542 23.2.2 I bersagli dell’azione antiallergica 542

23.3 I farmaci antiallergici 544 23.3.1 Farmaci ad attività glucocorticoide (corticosteroidi)

544

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ISBN 978-88-08-18712-3

23.3.2 Farmaci agonisti b2-adrenergici 544 23.3.3 Farmaci stabilizzanti della membrana dei mastociti 544 23.3.4 Farmaci inibitori delle fosfodiesterasi 546 23.3.5 Farmaci antimuscarinici 549 23.3.6 Istamina e antistaminici 549 23.3.7 Farmaci antistaminici a duplice meccanismo d’azione 549

23.3.8 Farmaci agenti sull’attività dei leucotrieni 551 23.3.9 Anticorpi monoclonali anti-IgE 555 23.3.10 Altri agenti sperimentali 556

23.4 La congestione nasale 556 23.5 I farmaci decongestionanti nasali 556

23.5.1 Farmaci agonisti 1-adrenergici 556 23.5.2 Farmaci adrenergici misti e indiretti 559

Farmaci per i sistemi endocrino e metabolico Capitolo 24

Insulina e farmaci ipoglicemizzanti 564 Daniela Barlocco, Luca Costantino

24.1 D  iabete e complicanze diabetiche 564 24.2 Insulina 565 24.2.1 Formulazioni d’insulina 565 24.2.2 Insuline modificate nella sequenza aminoacidica 567 24.2.3 Insuline innovative 567

24.3 Pramlintide 567 24.4 Ipoglicemizzanti orali 568 24.4.1 Sostanze che aumentano il rilascio d’insulina 24.4.2 Sostanze sensibilizzatrici all’azione dell’insulina

568 568

24.5 S  ostanze in grado di interagire con il sistema delle incretine 570 24.5.1 Analoghi di glucagon-like peptide 1 (GLP-1) 570 24.5.2 Inibitori di DPP-IV 572

24.6 Inibitori delle a-glicosidasi intestinali 574 24.7 Inibitori del trasportatore renale sodioglucosio cotrasportatore 2 (SGLT2) 578 24.8 N  uovi approcci per la terapia del diabete: attivatori della glucochinasi (GC) 581

Capitolo 25

Farmaci tiroidei 583 Vincenzo Tumiatti, Andrea Milelli

25.1 Anatomia e funzione della tiroide 583

25.1.1 Struttura della tiroide 584

25.2 B  iosintesi degli ormoni tiroidei 584

25.2.1 Trasporto degli ormoni tiroidei 586 25.2.2 Biosintesi e metabolismo degli ormoni T3 e T4 586

25.3 Effetti fisiologici degli ormoni tiroidei 587 25.4 Malattie della tiroide 588 25.5 Recettori degli ormoni tiroidei 590 25.6 Analoghi degli ormoni tiroidei 591 25.6.1 Ligandi selettivi 591

25.6.2 Farmaci per il trattamento dei disturbi tiroidei 592 25.6.3 Amiodarone e sistema tiroideo 593

25.7 Prospettive future 594

Capitolo 26

Prostanoidi 595 Antonio Lavecchia

26.1 La scoperta degli eicosanoidi 596 26.2 N  omenclatura e struttura delle prostaglandine 597 26.3 Formazione dell’acido arachidonico e degli acidi grassi omega 3 598 26.3.1 La via della ciclossigenasi 598 26.3.2 La via della lipossigenasi 600 26.3.3 Lipossine, resolvine, protectine e maresine 600 26.3.4 La via della citocromo P450 epossigenasi 603 26.3.5 Gli isoprostani 603

26.4 Inattivazione metabolica degli eicosanoidi locali 604 26.5 Recettori ed effetti farmacologici degli eicosanoidi 604 26.5.1 Effetti cardiovascolari 604 26.5.2 Piastrine 607 26.5.3 Utero 607 26.5.4 Muscolatura bronchiale 607 26.5.5 Tratto gastrointestinale 607 26.5.6 Reni 607 26.5.7 Sistema nervoso centrale 607 26.5.8 Sistema nervoso autonomo 607 26.5.9 Dolore 607 26.5.10 Occhio 607 26.5.11 Sistema endocrino 607 26.5.12 Metabolismo 608

26.6 L a progettazione di analoghi degli eicosanoidi 608 26.7 Eicosanoidi approvati per l’uso clinico umano 608 26.7.1 Prostaglandine per uso oftalmico 611

26.8 Inibizione dei leucotrieni 614

26.8.1 Inibizione della via della lipossigenasi 614 26.8.2 Inibizione della proteina attivante la 5-lipossigenasi (FLAP)  614 26.8.3 Inibitori della sintesi dei leucotrieni 615 26.8.4 Antagonisti dei leucotrieni 615

XV

XVI

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Capitolo 27

Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi 616 Alberto Gasco, Barbara Rolando

27.1 L’infiammazione 616 27.2 L a cascata dell’acido arachidonico 617 27.2.1 La biosintesi dei prostanoidi 617 27.2.2 La biosintesi dei leucotrieni 618

27.3 Farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) 618 27.3.1 Generalità e usi 618 27.3.2 Meccanismo d’azione 619 27.3.3 FANS tradizionali 619 27.3.4 COXIB 636

27.4 Farmaci antireumatici 639 27.4.1 Farmaci usati nel trattamento dell’artrite reumatoide 639 27.4.2 Farmaci usati nel trattamento dell’artrosi 641

27.5 Farmaci antigottosi 642 27.5.1 Colchicina 643 27.5.2 Ipouricemizzanti 643

Capitolo 28

Ormoni steroidei 645 Silvia Schenone

28.1 Meccanismo d’azione degli ormoni steroidei 646 28.2 Estrogeni 646 28.2.1 Biosintesi e caratteristiche chimiche degli estrogeni 647 28.2.2 Estrogeni naturali e loro derivati 648 28.2.3 Estrogeni semisintetici 650 28.2.4 Usi degli estrogeni 650 28.2.5 Antiestrogeni 651

28.3 Progestinici 653 28.3.1 Ormonoidi progestinici 654 28.3.2 Progestinici derivati del testosterone e del nortestosterone 654 28.3.3 Progestinici sintetici a scheletro non naturale 657 28.3.4 Antagonisti del progesterone 657 28.3.5 Farmaci contraccettivi 658

28.4 Androgeni 658

28.4.1 Androgeni sintetici anabolizzanti 659 28.4.2 Usi ed effetti collaterali degli steroidi androgeni anabolizzanti 660 28.4.3 Antiandrogeni 661

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28.5 O  rmoni della corteccia surrenale o corticosteroidi: glucocorticoidi e mineralcorticoidi 662 28.5.1 Attività del cortisolo e dell’aldosterone 662 28.5.2 RSA nei corticosteroidi: differenze e similitudini tra glucocorticoidi e mineralcorticoidi 663 28.5.3 Mineralcorticoidi naturali e sintetici 663 28.5.4 Glucocorticoidi naturali e loro derivati 664 28.5.5 Glucocorticoidi di sintesi 664 28.5.6 Usi terapeutici ed effetti secondari dei glucocorticoidi e dei mineralcorticoidi 669

Capitolo 29

Farmaci dell’omeostasi del calcio 670 Francesco Enrico Pinnen, Ivana Cacciatore

29.1 Il calcio 670 29.1.1 Ormoni coinvolti nel controllo dei livelli sierici di calcio 670 29.1.2 Omeostasi del calcio 672

29.2 Malattie associate a disfunzioni nell’omeostasi ossea del calcio 674 29.2.1 Osteoporosi 674 29.2.2 Trattamento farmacologico dell’osteoporosi 674 29.2.3 Morbo di Paget 681

29.3 Alcuni sviluppi futuri 681

Capitolo 30

Antistaminici 682 Vittoria Colotta

30.1 Istamina 682 30.1.1 Proprietà chimiche dell’istamina 682 30.1.2 Modifiche strutturali dell’istamina 683 30.1.3 Proprietà fisiologiche dell’istamina 684 30.1.4 I recettori dell’istamina 685

30.2 Antistaminici H1

686 30.2.1 Antistaminici H1 di prima generazione 687 30.2.2 Antistaminici H1 di seconda generazione 694 30.2.3 Antistaminici H1 con azione stabilizzante i mastociti 698

30.3 Antistaminici H2

698 30.3.1 Identificazione della cimetidina 699 30.3.2 Sviluppo di analoghi della cimetidina 700

30.4 Ligandi dei recettori H3 e H4 702

Farmaci dell’apparato digerente Capitolo 31

Antiulcera e antiacidi 704 Giorgio Ortar

31.1 Patologie acido-peptiche 704 31.2 Fisiologia della secrezione gastrica 705 31.3 Farmaci antiulcera 705

31.3.1 Inibitori della pompa protonica 706

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31.3.2 Antistaminici H2 708 31.3.3 Sucralfato 709 31.3.4 Alginato sodico 710 31.3.5 Analoghi prostaglandinici: misoprostolo 710

31.4 Antiacidi 711

Capitolo 32

Antidiarroici e lassativi 713 Giorgio Ortar

32.1 Antidiarroici 713

32.1.1 Aspetti generali 713 32.1.2 Adsorbenti intestinali 713 32.1.3 Resine sequestranti gli acidi biliari 714 32.1.4 Microrganismi antidiarroici 714 32.1.5 Bismuto subsalicilato 715 32.1.6 Antipropulsivi e agenti antisecretori 715

32.2 Lassativi 715 32.2.1 Aspetti generali 716 32.2.2 Lassativi luminali 716 32.2.3 Lassativi di contatto (stimolanti o irritanti non specifici) 717 32.2.4 Agenti procinetici 720 32.2.5 Lassativi diversi 721

Farmaci antinfettivi e antiparassitari Capitolo 33

Introduzione ai farmaci antinfettivi 724 Stefania Butini

33.1 Farmaci antinfettivi: definizioni e classificazioni 724 33.2 Tossicità selettiva e indice terapeutico 725 33.2.1 Tossicità selettiva 725 33.2.2 Indice terapeutico 726

33.3 Resistenza agli agenti antinfettivi 727 33.3.1 Meccanismi dell’antibiotico-resistenza 728 33.3.2 Tolleranza e persistenza 730

33.4 Sinergismo 732 33.5 P  rincipali meccanismi d’azione dei farmaci antinfettivi 732 33.5.1 Meccanismo d’azione degli antibiotici -lattamici e degli antibiotici che hanno i ribosomi come bersaglio 732 33.5.2 Meccanismo d’azione degli antifungini azolici 734 33.5.3 Meccanismo d’azione dell’antimicobatterico isoniazide 736 33.5.4 Meccanismo d’azione degli antiretrovirali inibitori della trascrittasi inversa (anti-HIV) 736 33.5.5 Meccanismo d’azione dell’antimalarico clorochina 737

Capitolo 34

Disinfettanti e antisettici 739 Olga Bruno

34.1 Definizioni e classificazioni 740

34.1.1 Definizioni 740 34.1.2 Classificazione basata sull’efficacia 740 34.1.3 Classificazione basata sulle proprietà chimico-fisiche 740

34.2 Sostanze inorganiche 741 34.2.1 Sostanze basiche 741 34.2.2 Sostanze ossidanti: alogeni e derivati 742 34.2.3 Sostanze ossidanti: ossigeno e derivati 744

34.2.4 Sostanze riducenti 745 34.2.5 Sali di metalli 745

34.3 Sostanze organiche 746

34.3.1 Alcoli 746 34.3.2 Aldeidi 747 34.3.3 Fenolo e derivati fenolici 747 34.3.4 Acidi carbossilici e derivati 749 34.3.5 Amine 750 34.3.6 Sali di ammonio quaternario 750 34.3.7 Biguanidi 751 34.3.8 Coloranti 753

Capitolo 35

Antibiotici 754 Giovanni Greco

35.1 Cenni storici 755 35.2 Antibiotici che interferiscono con la sintesi del peptidoglicano 755 35.2.1 Antibiotici -lattamici 755 35.2.2 Fosfomicina 769 35.2.3 Vancomicina e teicoplanina 769

35.3 Antibiotici che interferiscono con la trascrizione 770 35.4 Antibiotici che interferiscono con la sintesi delle proteine 772 35.4.1 Macrolidi 772 35.4.2 Streptogramine 774 35.4.3 Lincosamidi 776 35.4.4 Amfenicoli 776 35.4.5 Tetracicline 777 35.4.6 Aminoglicosidi 779 35.4.7 Ciclopeptidi 781 35.4.8 Acido fusidico 783

35.5 P  roprietà ormetiche degli antibiotici 783 35.6 D  osi giornaliere di mantenimento 783

Capitolo 36

Chemioterapici antibatterici 784 Violetta Cecchetti

36.1 Sulfamidici 785

36.1.1 Meccanismo d’azione 785

XVII

XVIII

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36.1.2 Relazioni attività-struttura 788 36.1.3 Proprietà farmacocinetiche 788 36.1.4 Applicazioni terapeutiche 789 36.1.5 Resistenza 789 36.1.6 Effetti collaterali e interazioni  789

36.2 Trimetoprim 790 36.2.1 Associazione trimetoprimsulfametossazolo

790

36.3 Composti nitroeteroaromatici 791 36.3.1 Meccanismo d’azione 791 36.3.2 Farmaci in uso e applicazioni terapeutiche 792

36.4 Chinoloni 793

36.4.1 Meccanismo d’azione 794 36.4.2 Relazioni attività-struttura 796 36.4.3 Proprietà farmacocinetiche dei fluorochinoloni 797 36.4.4 Applicazioni terapeutiche 798 36.4.5 Resistenza 798 36.4.6 Effetti collaterali e interazioni  798

36.5 Ossazolidinoni 799

36.5.1 Meccanismo d’azione 799 36.5.2 Relazioni attività-struttura 800 36.5.3 Proprietà farmacocinetiche 800 36.5.4 Applicazioni terapeutiche 800 36.5.5 Resistenza 800 36.5.6 Effetti collaterali e interazioni 801

Capitolo 37

Chemioterapici antimicobatterici 802 Sergio Romeo, Andrea Pancotti

37.1 Tubercolosi 802 37.1.1 Storia della terapia antitubercolare 803 37.1.2 La resistenza 803 37.1.3 Attuali terapie 803

37.2 Farmaci per il trattamento della lebbra 810 37.2.1 Dapsone 811

Capitolo 39

Chemioterapici antiprotozoari 832 Gianluca Sbardella

39.1 I protozoi 833 39.2 Chemioterapia della malaria 833

39.2.1 Biologia dell’infezione malarica 834 39.2.2 Farmaci per il trattamento della malaria 835 39.2.3 Chinina, arilaminoalcoli e 4-aminochinoline835 39.2.4 8-Aminochinoline 841 39.2.5 Artemisinine 842 39.2.6 Inibitori del metabolismo dell’acido folico: pirimetamina, sulfadossina, cicloguanil e proguanil 843 39.2.7 Antibiotici 844 39.2.8 Tendenze future 844

39.3 C  hemioterapia della tripanosomiasi 845 39.3.1 Farmaci per il trattamento della malattia di Chagas 845 39.3.2 Farmaci per il trattamento della malattia del sonno 847

39.4 C  hemioterapia della leishmaniosi 848 39.4.1 Farmaci per il trattamento della leishmaniosi

848

39.5 C  hemioterapia di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi 850 39.5.1 Amebiasi, giardiasi e tricomoniasi 850 39.5.2 Farmaci per il trattamento di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi 851

39.6 C  hemioterapia della toxoplasmosi 852

39.6.1 La toxoplasmosi 852 39.6.2 Farmaci per il trattamento della toxoplasmosi 852

Capitolo 40

Chemioterapici antivirali 853 Romano Silvestri

Capitolo 38

Chemioterapici antifungini 813 Stefano Alcaro, Anna Artese, Francesco Ortuso

38.1 I miceti 814 38.2 Le micosi 815 38.3 Farmaci antifungini 815 38.3.1 Polieni 818 38.3.2 Azoli 820 38.3.3 Allilamine/benzilamine 826 38.3.4 Tiocarbamati 827 38.3.5 Morfoline 827 38.3.6 Benzofuran-cicloeseni 828 38.3.7 Echinocandine 828 38.3.8 Pirimidine 830 38.3.9 Poliossine e nikkomicine 830

38.4 Conclusioni 830

40.1 Farmaci che interferiscono con la penetrazione del virus nella cellula ospite e bloccano gli stadi precoci della replicazione 854

40.1.1 Amantadina e rimantadina 854 40.1.2 Interferoni 855 40.1.3 Induttori di interferone 855 40.1.4 Inibitori della neuraminidasi 856

40.2 Inibitori della replicazione virale 857

40.2.1 Analoghi nucleosidici 857 40.2.2 Analoghi nucleosidici aciclici 860 40.2.3 Analoghi non nucleosidici 861

40.3 Agenti antiretrovirali per l’HIV e l’AIDS 863

40.3.1 Inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa 863 40.3.2 Inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa 867 40.3.3 Inibitori della proteasi 869 40.3.4 Inibitori della fusione 873 40.3.5 Inibitori dell’ingresso – CCR5 873

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Capitolo 41

Antielmintici 874 Gerard Aimé Pinna, Gabriele Murineddu

41.1 Classificazione degli elminti 874 41.2 Infezioni da platelminti: trematodi 875 41.2.1 Schistosomiasi 875

41.3 Infezioni da platelminti: cestodi 879 41.3.1 Infezioni da cestodi intestinali (cestodiasi)

879

41.3.2 Teniasi 879 41.3.3 Imenolepiasi 881 41.3.4 Difillobotriasi 882 41.3.5 Infezioni da cestodi tissutali: idatidosi 883

41.4 Infezioni da nematelminti: vermi tondi 883

41.4.1 Infezioni da nematodi intestinali (geoelmintiasi) 883 41.4.2 Ascariasi 883 41.4.3 Infezioni da nematodi tissutali 887 41.4.4 Filariasi linfatica (elefantiasi tropicale) 887 41.4.5 Trichinosi 888

Farmaci antitumorali Capitolo 42

Farmaci antitumorali 890 Daniele Simoni, Antonello Mai

42.1 Cenni storici 891 42.2 Replicazione cellulare 891 42.3 Farmaci antitumorali alchilanti 892 42.3.1 Mostarde azotate: meccanismo d’azione e reattività chimica 893 42.3.2 Principali mostarde azotate utilizzate in terapia 894 42.3.3 Farmaci aziridinici e alchilsolfonati 899 42.3.4 Farmaci triazenici 900 42.3.5 Nitrosouree 903 42.3.6 Complessi organoplatino 905

42.4 Farmaci antitumorali antimetaboliti 905

42.4.1 Analoghi dell’acido folico 906 42.4.2 Analoghi delle basi pirimidiniche 908 42.4.3 Analoghi delle basi puriniche 911

42.5 Terapia antitumorale ormonale 912 42.5.1 Agonisti e antagonisti del fattore di rilascio delle gonadotropine GnRH

912

42.6 Farmaci intercalanti del DNA e attivi sulle topoisomerasi 914

42.6.1 Farmaci che si intercalano nel DNA 915 42.6.2 Farmaci che si intercalano nel DNA come veleni della topoisomerasi II 916

42.6.3 Veleni della topoisomerasi II non intercalanti 918 42.6.4 Camptotecine 919

42.7 Farmaci attivi sul sistema tubulina/microtubuli 920 42.7.1 Inibitori della polimerizzazione della tubulina 921 42.7.2 Combretastatine 922 42.7.3 Colchicina e altri composti naturali inibitori della polimerizzazione della tubulina 922 42.7.4 Inibitori della depolimerizzazione dei microtubuli 923 42.7.5 Epotiloni e altri composti naturali inibitori della polimerizzazione dei microtubuli 924

42.8 Inibitori delle protein chinasi 924 42.8.1 Vari tipi di protein chinasi come bersagli per una chemioterapia antitumorale 925 42.8.2 Inibitori BCR-ABL e BCR-ABL/SRC 926 42.8.3 Inibitori EGFR ed EGFR/HER2 928 42.8.4 Inibitori VEGFR, inibitori multichinasi 929

42.9 Farmaci attivi su altre vie di segnale 930 42.9.1 Inibitori della farnesiltrasferasi 930 42.9.2 Inibitori della proteina HSP90 932 42.9.3 Inibitori del proteasoma 933 42.9.4 Inibitori delle istone deacetilasi (histone deacetylases, HDAC) 934 42.9.5 Inibitori delle metalloproteinasi di matrice (matrix metalloproteinases, MMP) 937

42.10 Farmaci vari 937

Farmaci biotecnologici Capitolo 43

Farmaci biotecnologici 940 Paolo Rovero

43.1 Le proteine terapeutiche 940 43.1.1 Vantaggi e problemi delle proteine terapeutiche 941 43.1.2 Tecniche di produzione 941 43.1.3 Proteine terapeutiche di seconda e terza generazione 942

43.2 C  lassificazione delle proteine terapeutiche 942 43.2.1 Gruppo I: proteine terapeutiche con attività regolatoria o enzimatica 942 43.2.2 Gruppo II: proteine terapeutiche con attività rivolta a bersagli specifici 943 43.2.3 Gruppo III: vaccini proteici 948 43.2.4 Gruppo IV: proteine di uso diagnostico 950

43.3 Insulina 950 43.4 Attivatore tissutale del plasminogeno 951 43.5 Pegilazione 953

XIX

XX

indice generale online

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Radiofarmaci Capitolo 44

Radiofarmaci 956 Marcello Leopoldo

44.1 Radiofarmaci diagnostici 956

44.1.1 Radiofarmaci per la SPECT 958

44.1.2 Radiofarmaci PET 963

44.2 Radiofarmaci terapeutici 966

44.2.1 Radiofarmaci -emittenti 966 44.2.2 Radiofarmaci -emittenti 967

44.3 Conclusioni e prospettive 968

Organizzazione del volume Il volume è organizzato in 44 capitoli, suddivisi nelle seguenti Sezioni:

Chimica farmaceutica: parte generale Farmaci del sistema nervoso Farmaci del sistema cardiovascolare e dell’apparato respiratorio Farmaci per i sistemi endocrino e metabolico Farmaci dell’apparato digerente Farmaci antinfettivi e antiparassitari Farmaci antitumorali Farmaci biotecnologici Radiofarmaci

Ogni capitolo è arricchito da approfondimenti sugli argomenti trattati, racchiusi in riquadri e pertanto facilmente riconoscibili e fruibili anche separatamente dal testo corrente. Tra questi approfondimenti sono compresi anche schemi riguardanti le vie sintetiche e metaboliche di numerosi principi attivi. Per facilitarne la comprensione da parte dello studente, si è ricorso all’uso del colore: in particolare, i gruppi in colore sono quelli che reagiscono nelle sintesi e quelli che si formano nel metabolismo. Abbreviazioni e acronimi Per rendere più agevole la lettura da parte dello studente, si sono spesso utilizzate abbreviazioni e acronimi dei termini più ricorrenti. Inevitabilmente, all’interno dell’intero libro alcune abbreviazioni indicano termini diversi: per questo motivo, le abbreviazioni utilizzate all’interno di ciascun capitolo sono descritte nel testo corrente del capitolo stesso.

Metabolismo Approfondimento

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Sintesi

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MATERIALE ONLIne Il libro è arricchito dalla presenza di materiale online, disponibile al sito http://online.universita.zanichelli.it/gasco, cui potrai accedere seguendo le istruzioni riportate in seconda di copertina.

All’interno del sito troverai: 1. Oltre 200 schede di approfondimento, richiamate nel testo dall’indicazione Scheda. 2. Test a risposta multipla sulla piattaforma ZTE, il sistema di somministrazione di test interattivi (raggiungibile anche tramite zte.universita.zanichelli.it)

SCHEDE DI APPROFONDIMENTO Le schede di approfondimento sono accessibili anche tramite la piattaforma Booktab. All’inizio di ogni Capitolo è presente un link che consente l’accesso alle schede relative.

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1

I bersagli dei farmaci Fulvio Gualtieri

1.1  Definizione di farmaco e di Chimica Farmaceutica 1.2  Classificazione dei farmaci 1.3  Come agiscono i farmaci 1.4  I bersagli dei farmaci 1.4.1 Proteine 1.4.2 Acidi nucleici 1.4.3 Lipidi e carboidrati

1.1 D  efinizione di farmaco e di Chimica Farmaceutica Esistono varie definizioni di farmaco: quella apparentemente più semplice si riferisce a un prodotto chimico che interagisce con un sistema biologico e produce una risposta biologica. Questa definizione include le sostanze che si utilizzano per curarci, ma anche quelle che si assumono col cibo e le bevande con cui veniamo a contatto casualmente (xenobiotici): è troppo generica. Una definizione più mirata sulla quale c’è un notevole consenso è quella che definisce come farmaco qualsiasi sostanza o prodotto che è usato o che si intende usare per modificare o esplorare uno stato fisiologico o patologico a beneficio del paziente. Fortunatamente nella nostra lingua non c’è l’ambiguità insita nella parola drug che nei paesi anglofoni indica sia un farmaco (benefico) sia una droga (nociva). Va tuttavia tenuto presente che anche i farmaci possono essere nocivi, soprattutto in relazione al loro dosaggio, e che molte droghe, per lo stesso motivo, possono essere utilizzate come farmaci. Un esempio del primo caso è la digossina, che in dosi giuste è un utilissimo farmaco cardiaco, mentre a dosi solo leggermente più alte diventa una sostanza mortale. Un esempio del secondo caso è quello della morfina: se utilizzata ad alte dosi e come droga può essere devastante a causa dei suoi effetti collaterali, ma alle dosi opportune è un potente e utilissimo analgesico. Quindi la linea di confine tra farmaci “buoni” e

farmaci “cattivi” è dipendente dal dosaggio, ma non solo, come ci indica il caso del curaro usato dagli Inca per avvelenare la frecce con cui cacciavano e del suo principio attivo, la tubocurarina. Questa non è assorbita dall’intestino a causa della sua struttura chimica e quindi uccide l’animale, entrando nel sangue, senza danneggiare chi si ciba dell’animale stesso; un esempio di tossicità selettiva secondo Adrian Albert, dovuta alla farmacocinetica. È importante chiarire subito la differenza tra farmaco e sostanza biologicamente attiva. Esiste un’enorme quantità di prodotti chimici in grado di mostrare attività a livello biologico, mentre il numero di principi attivi usati come farmaci è ridotto a qualche migliaio di molecole. Ciò deriva dal fatto che, per esercitare la sua azione biologica, una sostanza deve avere le caratteristiche (peso molecolare, solubilità, lipofilia) necessarie per penetrare e muoversi nell’organismo vivente senza danneggiarlo, venire a contatto con il suo bersaglio ancora integra e infine essere eliminata sia come tale sia opportunamente modificata. Un farmaco è infatti caratterizzato da farmacodinamica, farmacocinetica e tossicità. La farmacodinamica è l’insieme delle interazioni e delle reazioni che conducono al suo effetto biologico, mentre la farmacocinetica è la quantizzazione delle interazioni tra il farmaco e l’organismo nel quale è stato introdotto e viene normalmente indicata con l’acronimo ADMET (assorbimento, distribuzione, metabolismo, escrezione). La T finale sta per tossicità, che è la valutazione degli effetti non voluti del farmaco a breve e a lungo termine (Cap. 4).

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La Chimica Farmaceutica è una disciplina relativamente giovane che è diventata quella che noi conosciamo solo negli anni ’30 del secolo scorso con la scoperta e lo sviluppo dei sulfamidici. Attualmente la Chimica Farmaceutica si può definire una branca della chimica che si occupa di scoperta, sviluppo, produzione e caratterizzazione dei farmaci e ne mette in relazione la struttura chimica con l’attività biologica; a questo scopo si interfaccia con altre discipline quali la chimica, la fisica, la biochimica, la biologia, la farmacologia, la tossicologia, l’informatica e naturalmente la medicina. Mentre in italiano la dizione Chimica Farmaceutica comprende tutte le fasi dello studio dei farmaci, nel mondo anglosassone Chimica Farmaceutica e Medicinal Chemistry non sono sinonimi. Infatti la Medicinal Chemistry è così definita (1974, IUPAC): “[…] concerns the discovery, the development, the identification and the interpretation of the mode of action of biologically active compounds at the molecular level. Emphasis is put on drugs, but the interest of the medicinal chemist is not restricted to drugs but include bioactive compounds in general. Medicinal chemistry is also concerned with the study, identification and synthesis of the metabolic products of these drugs and related compounds”. Come si può osservare, è definita in modo restrittivo, tale da non comprendere ad esempio un aspetto importante dello sviluppo di un farmaco, la formulazione, che è invece inclusa nella dizione di Pharmaceutical Chemistry: “[…] is the science dealing with the composition and preparation of chemical compounds used in medical diagnoses and therapies”. Questa divergenza è maturata a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e una delle conseguenze è stata probabilmente la decisione di cambiare il nome della più importante rivista del settore, da Journal of Medicinal and Pharmaceutical Chemistry in quello attuale di Journal of Medicinal Chemistry. Per maggiore chiarezza e per mettersi al passo con la predominante tradizione anglosassone si è cercato di utilizzare le dizioni rispettivamente di Chimica Medicinale e Chimica Farmaceutica, ma con scarsa fortuna. Comunque, a parziale adeguamento all’impostazione anglosassone, è oggi di uso comune intendere con Medicinal Chemistry la ricerca, lo sviluppo e la caratterizzazione di molecole biologicamente attive, e con Pharmaceutical Chemistry la farmacocinetica, la tecnica farmaceutica e la formulazione del principio attivo oltre alla qualità dei prodotti finiti (good manufacturing practice, GMP). È importante tener presente che nel mondo moderno la scoperta e lo sviluppo di un nuovo farmaco è un processo lungo ed estremamente costoso, soprattutto nella fase clinica, e può essere sostenuto solo da grandi compagnie farmaceutiche (Big Pharma). Le università, i centri di ricerca pubblici e privati e le piccole compagnie farmaceutiche si dedicano prevalentemente alla ricerca di nuovi principi attivi e allo studio delle loro proprietà chimiche, farmacologiche e farmacocinetiche (fase preclinica) (Cap. 7).

1.2 Classificazione dei farmaci La natura complessa ed eterogenea dei farmaci ha fino a oggi eluso una classificazione univoca e accettata da tutti. Gli schemi di classificazione proposti vanno dalla natura chimica del farmaco (prostaglandine, steroidi ecc.), al modo di azione (inibitori enzimatici, calcio bloccanti ecc.), al tipo di patologia nella quale vengono usati (antidiabetici, antiper-

CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

tensivi ecc.). La WHO (World Health Organization) nel 1968 ha proposto un criterio basato sulla fisiologia, in cui i farmaci sono classificati in base alla struttura fisiologica nell’ambito della quale agiscono (sistema circolatorio, sistema nervoso ecc.). Nessuna di queste proposte ha prevalso e in pratica si usa una personale combinazione di questi schemi, il che determina una situazione piuttosto caotica nella quale è difficile orientarsi. Con la classificazione adottata in questo libro anche noi ci siamo adeguati al caos esistente. I farmaci sono, nella maggior parte dei casi, sviluppati e utilizzati per curare uno stato patologico, ma questo non è sempre vero: alcuni sono stati sviluppati per esigenze diverse, come ad esempio i farmaci che curano i problemi erettili o gli anticoncezionali. In ogni caso sono caratterizzati dall’efficacia, dalla dose, dagli effetti collaterali e dalla sicurezza d’uso che è valutata come indice terapeutico: questo è il rapporto tra la dose che dà l’effetto tossico sul 50% dei pazienti e quella che ne cura il 50%. Il farmaco (principio attivo) è identificato da un nome generico (nome non proprietario) e può essere somministrato da solo o in associazione con un altro principio attivo e con materiale inerte (eccipienti). I prodotti finiti, in forma, dosaggio e formulazione precise sono commercializzati con nomi di fantasia e spesso capita che lo stesso principio attivo sia venduto sotto nomi diversi. Quando il brevetto che usualmente protegge un principio attivo scade, questo può essere messo in commercio, sotto determinate regole, da una qualsiasi ditta sotto la qualifica di prodotto generico.

1.3 Come agiscono i farmaci Il principio formulato da Paul Ehrlich nel 1913, corpora non agunt nisi fixata, che può essere riformulato in non c’è azione senza interazione, è alla base dell’attività dei farmaci e quindi della terapia farmacologica moderna. In questa formulazione è implicito il concetto di bersaglio (target) sul quale il farmaco deve interagire per produrre la sua azione. Come si vedrà più avanti, questi bersagli sono le macromolecole biologiche, principalmente proteine e acidi nucleici e in misura molto minore lipidi e polisaccaridi. L’interazione può essere reversibile o irreversibile, dipenderà dalle caratteristiche chimico-fisiche del farmaco e della macromolecola biologica e dalla forza ed efficacia dei legami che si possono stabilire tra le due molecole (Cap. 2). In questo quadro, dato che le macromolecole biologiche sono nella grande maggioranza chirali, la configurazione spaziale dei gruppi chimici che interagiscono per dare il legame tra i due partner assume un ruolo particolarmente importante. Questo principio ha l’importante corollario che due molecole congeneri che si legano in modo simile al medesimo target debbono presentare, qualitativamente, la stessa attività biologica. Ciò rende possibile la modulazione chimica di una molecola attiva e la formulazione di relazioni struttura-attività (RSA), che sono naturalmente essenziali per l’ottimizzazione del principio attivo (Cap. 7).

1.4 I bersagli dei farmaci Le macromolecole proteiche si trovano all’interno e all’esterno delle cellule o disperse nella membrana cellulare (Fig. 1.1), gli acidi nucleici all’interno della cellula e in partico-

3

4

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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produttive con i farmaci (attività biologica). Conviene allora richiamare alcuni concetti di base su questa famiglia di sostanze dal punto di vista del chimico farmaceutico. 1. Le proteine sono polimeri costituiti da combinazioni di venti α aminoacidi detti naturali (classificabili in neutri, acidi o basici e tutti della serie S eccetto la glicina che non è chirale, Tab. 1.1). R S

H2 N



1.4.1 Proteine Nella straordinaria varietà di macromolecole che possono esistere, le proteine sono quelle che danno le interazioni più

COOH

Gli aminoacidi sono tenuti insieme dal legame peptidico, il quale, per effetto della risonanza, è parzialmente rigido, con gli atomi che lo compongono che giacciono circa sullo stesso piano: questa caratteristica condiziona le conformazioni stabili di peptidi e proteine. A pH fisiologico gli aminoacidi basici sono protonati e quelli acidi sono dissociati: le specie chimiche che interagiscono con altre proteine o con i farmaci sono quindi il catione ammonio (–NH+3 ) e l’anione carbonato (–COO–), il cui contributo è spesso determinante (Cap. 2). Questa classe di sostanze può variare da pesi molecolari modesti per i piccoli peptidi a molte decine di migliaia di Dalton per le proteine più complesse.

Figura 1.1 La membrana cellulare e le sue proteine.

lare nel nucleo, i lipidi e i carboidrati nella membrana cellulare. Le membrane cellulari sono costituite da un doppio strato lipidico e contengono una varietà di altri costituenti, innanzitutto proteine e glicoproteine di vario tipo, poi lipidi, anch’essi di varia struttura e funzioni, come i glicosfingolipidi che sono importanti in molte funzioni cellulari: hanno un ruolo nel riconoscimento cellulare (caratterizzazione dei gruppi sanguigni) e sembrano essere tra i responsabili della trasformazione delle cellule in cellule tumorali. Un altro componente molto importante delle membrane cellulari è il colesterolo, che si coordina con i lipidi e modula le proprietà delle membrane stesse.

H

2. Ogni peptide o proteina è univocamente identificato dalla sequenza di aminoacidi (struttura primaria). 3. Le proteine sono caratterizzate da disposizioni spaziali particolari, imposte soprattutto dal legame idrogeno tra i legami peptidici che determinano la cosiddetta struttura secondaria: α eliche, foglietti β, anse.

Tabella 1.1 Nomi, struttura e simboli degli aminoacidi naturali. Aminoacido

a

Codice a tre lettere

Codice a una lettera

Struttura della catena laterale R

Alanina

Ala

A

CH3

-

-

Arginina

Arg

R

CH2CH2CH2NH-C(=NH)-NH2

-

12,5

Asparagina

Asn

N

CH2CONH2

-

-

Acido aspartico

Asp

D

CH2COOH

 3,7

-

Acido glutamico

Glu

E

CH2CH2COOH

 4,3

-

Cisteina

Cys

C

CH2SH

10,3

-

Fenilalanina

Phe

F

CH2C6H5

-

-

Glutamina

Gln

Q

CH2CH2CONH2

-

-

Glicina

Gly

G

H

-

-

Istidina

His

H

CH2-2-pirrolidina

-

 6,0

Isoleucina

Ile

I

CH(CH3)CH2CH3

-

-

Leucina

Leu

L

CH2CH(CH3)2

-

-

Lisina

Lys

K

CH2CH2CH2CH2NH2

-

10,5

Metionina

Met

M

CH2CH2SCH3

-

-

c

pKaa

pK’ab

Prolina

Pro

P

Pirrolidina-2-COOH

-

-

Serina

Ser

S

CH2OH

-

-

Treonina

Thr

T

CH(OH)CH3

-

-

Triptofano

Trp

W

CH2-2-indolo

Tirosina

Tyr

Y

CH2C6H4OH

Valina

Val

V

CH(CH3)2

pKa della catena laterale acida. b pK’a dell’acido coniugato della catena laterale basica. c Non rientra nella formula generale.

-

-

10,1

-

-

-

CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

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H N

H C HC

O C O C

N

CH3

HN

H C

O C

H N

CH2 HC

HC

CH3

CH3

H C

O C

H N

H C

CH3 HC

CH2 CH3

O C

H N

H C

CH3 HC

CH3

O

H N

C

CH3

H C

O C

H N

CH2

CH2

O C

CH2

H N

H C

O C

CH2

H N

H C

O C

CH2

SH

CH3

CH2 CH3

H C

OH

Sequenza

Foglietti 

-Elica

Struttura terziaria (ad es. tripsina)

Struttura quaternaria (ad es. emoglobina)

Figura 1.2 Struttura delle proteine.

4. Queste strutture si susseguono e si arrangiano in modi piuttosto specifici che dipendono dalla sequenza primaria (struttura terziaria). Nelle proteine ci sono zone distinguibili (domini) e unite da segmenti flessibili di catene polipeptidiche. La struttura terziaria è fondamentale per il riconoscimento molecolare di altre proteine e per l’interazione con piccole molecole quali quelle dei farmaci: queste interazioni danno origine all’attività biologica. 5. Frequentemente unità proteiche diverse si assemblano tra loro (struttura quaternaria) per dare origine a sistemi più complessi quali i recettori, i recettori canale, gli enzimi, i canali ionici, le proteine di trasporto (Fig. 1.2). 6. Le proteine, a seconda che si trovino in ambiente acquoso o lipofilo, assumono conformazioni differenti. Nel primo caso adottano una conformazione globulare che espone all’esterno i gruppi idrofili (carbossili, ossidrili, amine, legami peptidici, anse): ciò rende la proteina più solubile, grazie ai legami idrogeno con l’acqua. La proteina mantiene all’interno i gruppi lipofili (alchili, anelli aromatici) che stabilizzano la struttura mediante legami idrofobici (Cap. 2). Le proteine, o le parti di esse, che attraversano o sono immerse nelle membrane biologiche (lipofile) han-

no invece una struttura a elica che mantiene all’esterno i gruppi lipofili. Molte proteine di membrana (quelle che affiorano sulla superficie cellulare) sono glicosilate (glicoproteine) con brevi catene di carboidrati, importanti per il riconoscimento cellulare. 7. Le proteine strutturali sono di rado bersaglio di farmaci, ad eccezione della tubulina per il suo ruolo nella formazione dei microtubuli e nella divisione cellulare. 8. Le proteine funzionali che modificano sostanze chimiche (enzimi) o si attivano a seguito dell’interazione con esse (recettori) hanno un sito di interazione ben definito (rispettivamente sito catalitico e sito attivo) costituito da un numero limitato di aminoacidi specifici (Capp. 5 e 6). 9. Gli anticorpi (Fig. 1.3) sono proteine con una forma particolare (a Y) costituite da due catene peptidiche pesanti e due leggere. A queste si legano i gruppi chimici (antigeni) della membrana di cellule estranee, scatenando la risposta immunitaria che distrugge la cellula che espone gli antigeni. Poiché gli anticorpi riconoscono specifiche cellule, si possono utilizzare per eliminare fattori di crescita cellulari, come fa il bevacizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato che si lega al fattore vascolare

5

6

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

di crescita endoteliale, o per portare sulle cellule cancerose anticorpi caricati con farmaci antitumorali, come fa il trastuzumab, recentemente approvato, che si lega alle cellule che espongono HER2 (Cap. 42). 10. Il complesso delle proteine in un sistema biologico, ovvero le proteine prodotte dal genoma, si chiama proteoma e proteomica la scienza che le studia. Il loro numero complessivo in un organismo come quello dei mammiferi è però superiore a quello dei geni, in quanto le proteine possono essere variamente modificate dopo la sintesi ribosomale. I chimici farmaceutici in questi anni sono alla continua ricerca di proteine che, per la loro implicazione in patologie specifiche (da validare), possano essere considerate bersagli utili di un farmaco. Verificato il coinvolgimento della proteina nella patologia, si cerca di determinare la sua struttura (Cap. 8). Si può individuare il gene che codifica per quella proteina, se ne determina la sequenza, per arrivare così alla sequenza della proteina bersaglio. Il gene della proteina viene isolato e inserito tramite vettore in un organismo che la produce in quantità utili allo studio. La proteina quindi può essere isolata e sottoposta a tecniche cristallografiche o NMR per la determinazione della struttura. Si utilizza la proteina purificata per saggi biologici, o l’organismo che la produce come mezzo per lo studio della funzione e della possibile modulazione farmacologica. Definita la struttura, sia direttamente sia per omologia, si passa a identificare molecole che siano in grado di modulare le funzioni della proteina nella patologia con i metodi di screening abituali (HTS, FBDD, VS, Cap. 7), secondo la Figura 1.4. Naturalmente, se la proteina appartiene a una famiglia nota (recettori, enzimi ecc.) si può procedere più rapidamente sulla base delle relazioni struttura-attività (RSA) di quella famiglia (Cap. 7).

Figura 1.4 Passaggi dell’identificazione di nuovi ligandi.

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Figura 1.3 Struttura degli anticorpi.

11. Le proteine hanno un loro ciclo vitale e vengono periodicamente sintetizzate e degradate, cosa da tenere presente nell’utilizzazione di farmaci che le bloccano irreversibilmente. 12. Infine è importante ricordare che molto spesso per diventare funzionali alcune proteine (ad es. le subunità di un canale o di un recettore) devono legarsi tra di loro e può essere utile trovare farmaci che ostacolino queste interazioni. Purtroppo questa ricerca si sta rivelando molto difficile e finora non ha prodotto grandi risultati.

Enzimi Tra le varie molecole di natura proteica, gli enzimi costituiscono il bersaglio di moltissimi farmaci, alcuni dei quali sono indicati nella Figura 1.5.

CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

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N

N

H3CO HO

COOH H3C

HO

N NH2 H

Carbidopa Inibitore della DOPA decarbossilasi

N

CH3

H3CO

HOOC

O

N

N

H N

HOOC

NH2

N

NH2 O

Metotressato Inibitore della tetraidrofolato reduttasi

Donepezil Inibitore dell’acetilcolinesterasi

Figura 1.5 Farmaci che agiscono su enzimi.

La loro funzione è trasformare chimicamente i loro substrati. Questo avviene in un sito specifico della molecola proteica (sito catalitico) ad opera di amminoacidi specifici. Ad esempio la scissione dell’acetilcolina in colina e acido acetico (Fig. 1.6) ad opera delle acetil colinesterasi avviene in un sito catalitico costituito dalla triade Glu199, Ser200, His440 (Cap. 5). Va ricordato che in natura esistono molti isoenzimi, generalmente specie-specifici, che svolgono le stesse funzioni (stesso sito catalitico) ma differiscono per la struttura primaria. Ciò permette di ottenere farmaci selettivi, generalmente ad azione inibitoria, contro infezioni da microrganismi. Tra le proprietà più utili delle proteine enzimatiche c’è quella di essere cristallizzabili. Questo ha reso possibile determinare con relativa facilità la loro struttura a livello atomico tramite la cristallografia ai raggi X. Di conseguenza sono note moltissime strutture di siti catalitici enzimatici, spesso legate a substrati o inibitori, che facilitano lo studio delle RSA e la progettazione di nuovi farmaci. Un’altra importante caratteristica degli enzimi è legata alla trasformazione chimica dei substrati e quindi alla formazione di prodotti facilmente quantificabili con tecniche analitiche standard. Questo permette un’accurata e rapida valutazione della loro azione catalitica (cinetica enzimatica) e la valutazione quantitativa dei loro inibitori; ad esempio nel caso appena citato dell’acetilcolinesterasi, l’enzima libera acido acetico (Fig. 1.6), che può essere quantificato con un semplice pH-metro. Hanno una struttura generalmente di tipo globulare che, come visto, facilita la solubilità; la denaturazione altera questa struttura e conduce alla perdita dell’azione biologica. Alcuni di questi enzimi (ad es. quelli ossidanti come i citocromi) sono di particolare importanza nella metabolizzazione degli xenobiotici, in particolare dei farmaci (Cap. 4).

Recettori È importante chiarire subito che la definizione di recettore si riferisce a una proteina che, per interazione con una molecola specifica detta ligando, subisce una variazione conformazionale in grado di generare una risposta biologica. In questo caso è sempre identificabile una sostanza endogena che funziona da ligando specifico. Fino a quando questo ligando fisiologico non è identificato si parla di sito accettore, ma non di recettore. Questa è stata la situazione del recettore oppioide fino all’identificazione delle due encefaline. Con il tempo, la definizione di recettore si è estesa a tutte le molecole bersaglio dei farmaci e, incredibilmente, anche ai partner di reazioni chimiche, cosa che genera confusione non solo semantica ma anche concettuale. I recettori, la cui struttura atomica è molto diversificata, rappresentano il bersaglio più frequente dei farmaci e si trovano sia all’interno (citoplasma, nucleo) sia all’esterno delle cellule (membrane cellulari). Questi ultimi sono particolarmente importanti in quanto mettono in relazione l’ambiente esterno con l’interno della cellula. Non è un caso che la maggioranza dei farmaci in uso interagisca appunto con i recettori di membrana. Nella Figura 1.7 sono riportati tre farmaci che agiscono su recettori.

O H3C

S

H N

N

H N

NO2

CH3

Ranitidina Antagonista del recettore H2-istaminergico H3C

H3 C H3C H3C

N CH3

O

CH3 O

Acetilcolinesterasi

OH

N

O OH

CH3

N H

CH3

O

N

CH3

H3 C

CH3

Cl

N

+ HO

CH3 O

Figura 1.6 Scissione dell’acetilcolina in colina e acido acetico.

Propranololo Antagonista dei recettori -adrenergici

Diazepam Modulatore allosterico del recettore GABAA

Figura 1.7 Farmaci che agiscono su recettori.

7

8

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

Lo studio delle funzioni dei recettori, il loro isolamento e la determinazione della loro struttura sono stati tra i principali oggetti di ricerca fin dall’inizio del XX secolo. Molte delle informazioni che abbiamo sui recettori, soprattutto quelli di membrana, provengono da studi di farmacologia molecolare, genetica, ingegneria genetica, biochimica e chimica farmaceutica. Da questi studi si è compreso che recettori attivati da ligandi diversi hanno una sequenza aminoacidica diversa e lo stesso si verifica per i sottotipi recettoriali. Solo recentemente si è trovato il modo di ottenere cristalli di alcuni recettori di membrana. Sia che il recettore cristallizzi come tale o complessato con ligandi, è ora possibile tramite la cristallografia ai raggi X determinarne la struttura atomica.

Figura 1.8 Classificazione (semplificata) dei recettori.

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Così si sono chiarite definitivamente le strutture di rodopsina, opsina, recettori adrenergici β1 e β2, dopaminergici D3, adenosinici A2, delle chemochine CXCR4, dell’istamina H1, muscarinico M2 e M3, e dei recettori oppioidi µ, κ, δ, mentre altre sono sicuramente in arrivo. Si è così confermato che i recettori di membrana accoppiati con le proteine G hanno tutti 7 domini transmembrana, come largamente previsto dagli studi precedenti, soprattutto l’analisi anfipatica e l’omologia con la batteriorodopsina. È facile ipotizzare che in futuro questi risultati faciliteranno la ricerca di nuovi farmaci (Capp. 6 e 7). Una classificazione dei recettori molto semplificata è mostrata nella Figura 1.8. Come si vede, ci sono due gruppi maggiori che raccolgono i recettori più importanti dal punto

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CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

Figura 1.9 Le principali classi dei recettori accoppiati alle proteine G. Rappresentano circa il 99% di tutti i recettori accoppiati alla proteina G.

di vista fisiologico e di conseguenza come bersaglio di farmaci. Si tratta in entrambi i casi di recettori di membrana: sono i recettori canale (ionotropici) e quelli accoppiati alle proteine G (metabotropici). I recettori metabotropici sono a loro volta suddivisi in sei classi (A-E), delle quali le più importanti sono quelle della rodopsina (classe A, 89% dei re-

Figura 1.10 La struttura dei recettori nicotinici.

cettori accoppiati alle proteine G, a cui appartengono tutti i neurorecettori), della classe B (recettori LH, 7%, i cui ligandi naturali sono peptidi spesso piuttosto grandi) e del m-glutamato (classe C, 4%, caratterizzati dal dominio extracellulare detto Venus Fly Trap, VFT). I recettori di queste classi si differenziano soprattutto per alcune caratteristiche strutturali, per il sito d’azione dei ligandi endogeni e la posizione dei siti allosterici (Fig. 1.9, Cap. 6). Curiosamente, talvolta un recettore canale e uno metabotropico sono attivati dallo stesso ligando endogeno. Questo fatto, insieme alla presenza di sottotipi recettoriali, pone al chimico farmaceutico complessi problemi di selettività. Il recettore nicotinico e quello muscarinico sono tra i recettori più studiati e sono serviti come modelli per comprendere il meccanismo d’azione di tutti i loro congeneri. Il recettore nicotinico di placca (Fig. 1.10) è costituito da cinque unità proteiche – (α1)2, β1, γ, δ –, ciascuna con 4 eliche (M1-M4), che attraversano la membrana cellulare, e si dispongono a formare un poro che si apre e si chiude in seguito all’interazione con l’acetilcolina, lasciando entrare nella cellula ioni sodio e calcio. L’elica M2 di ciascuna unità forma le pareti del canale. Siccome le unità proteiche che compongono il canale hanno varie isoforme assemblabili con diverse stechiometrie, esistono una varietà di sottotipi recettoriali nicotinici, alcuni costituiti dalla stessa unità proteica, per esempio (α7)5, altri eterogenei, per esempio (α4)2 (β2)3 (Cap. 6). Questi ultimi tipi di recettori sono presenti prevalentemente a livello centrale. Non esiste ancora una struttura completa del recettore nicotinico, anche se la risoluzione di una proteina che si lega all’acetilcolina ha permesso di ottenere buoni modelli per omologia della parte esterna del recettore (Cap. 6).

9

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CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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H3C H3CO

H N

CH3 OCH3

O

CH3

O NO2

H N

N O

CH3 Nifedipina Bloccante del canale del calcio

CH3 CH3

Lidocaina Bloccante del canale del sodio NH2

O

N N

N

NH2

Minossidile Attivante dei canali del potassio

Figura 1.12 Farmaci che interagiscono con i canali ionici.

Figura 1.11 Recettore 2-adrenergico legato alla proteina G. Struttura atomica elaborata dai dati cristallografici di Protein Data Bank (codice PDB 2rh1).

Il recettore metabotropico muscarinico è anch’esso attivato dall’acetilcolina, la quale provoca una variazione conformazionale che lo fa interagire con le proteine G; queste a loro volta attivano sistemi enzimatici endocellulari che producono sostanze in grado di attivare varie funzioni cellulari (secondi messaggeri). Anche per il recettore muscarinico esistono isoforme (sottotipi recettoriali) che possono attivare proteine G diverse (Cap. 6). Nella Figura 1.11 è riportata la struttura atomica recentemente risolta del recettore β2-adrenergico legato al carazololo e accoppiato alla proteina G, un eccezionale risultato ottenuto da Brian Kobilka, Premio Nobel per la Chimica 2012, e dal suo gruppo.

Canali ionici La funzione dei canali ionici è permettere selettivamente il passaggio di alcuni ioni, principalmente Na+, K+, Ca2+ e Cl–, la cui concentrazione varia secondo le necessità fisiologiche della cellula. Anche i canali ionici sono uno dei principali bersagli dei farmaci. Nella Figura 1.12 sono riportate le formule di 3 farmaci che interagiscono con i canali ionici. Abbiamo già preso in considerazione i canali ionici attivati da un ligando (recettori canale, Ligand Operated Channels, LOC). Oltre ai LOC esistono canali attivati o disattivati

dal potenziale di membrana (Voltage Operated Channels, VOC). Esistono infine canali attivati dai secondi messaggeri dei recettori come l’AMP ciclico o il GMP ciclico (Signal Operated Channels, SOC). A questo proposito è importante notare che si può ottenere lo stesso effetto farmacologico sia con un farmaco che interagisce con il recettore sia con uno che interagisce con il canale. Gli effetti dovuti all’interazione diretta sui canali sono molto più rapidi dell’attivazione tramite secondo messaggero. I canali VOC vengono classificati e identificati tramite il nome chimico della specie ionica per la quale il canale è selettivo, seguito dalla lettera v, che indica la voltaggio-dipendenza. Segue un numero che indica la sottofamiglia del gene che codifica quel tipo di canale, che può a sua volta essere seguito da un altro numero, che indica la specifica isoforma del canale: per esempio Cav1.1, Cav1.2, Cav1.3, Cav1.4. I canali VOC sono in genere costituiti da più unità proteiche che si assemblano per costituire il canale operativo. Ogni unità può attraversare la membrana più volte, formando un dominio transmembranale; una di esse funziona da sensore di voltaggio per aprire o chiudere il canale. I canali del calcio sono tra i meglio conosciuti; sono costituiti da un complesso eteropentamerico α1, α2, β, γ, δ, nel quale l’unità α1 costituisce il poro in cui transitano gli ioni calcio (Fig. 1.13). Come per altre strutture di membrana, le proteine che costituiscono un canale possono essere assemblate in membrane artificiali per studiarne le caratteristiche e le funzioni.

Pompe ioniche Si definiscono pompe ioniche quelle proteine integrali di membrana che hanno la funzione di far entrare o uscire dalla cellula uno ione la cui concentrazione cellulare deve essere mantenuta entro certi limiti. Se la pompa è in grado allo stesso tempo di fare entrare uno ione e di farne uscire un altro, il trasporto è definito di antiporto, perché i due ioni viaggiano in direzioni opposte e contrarie e, in alcuni casi,

CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

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Figura 1.13 Il canale del calcio. L’unità 1 attraversa la membrana e costituisce il canale.

anche contro un gradiente di concentrazione. In questo caso, il meccanismo è detto trasporto attivo poiché utilizza energia metabolica, spesso come adenosintrifosfato (ATP). Possono essere scambiati ioni metallici con ioni metallici e anche ioni con protoni. Anche le pompe ioniche sono bersaglio di farmaci importanti come l’omeprazolo, che è utilizzato come antiacido nell’ulcera peptica e inibisce l’antitransporter H+/K+-ATPasi gastrica (Fig. 1.14).

mediante la diffrazione ai raggi X delle molecole cristallizzate. Si tratta di proteine che attraversano la membrana con un elevato numero di eliche, frequentemente 12, con importanti domini eso- ed endocitoplasmatici. L’interazione con il substrato induce spesso una serie di variazioni conformazionali che determinano la traslocazione del substrato da un lato all’altro

Proteine di trasporto Le proteine di trasporto nelle membrane biologiche sono di due tipi: canali e trasportatori. I primi funzionano come pori selettivi che permettono il movimento di un soluto secondo il gradiente di concentrazione e facilitano la diffusione senza dispendio di energia (diffusione facilitata). I secondi (transporter) usano energia per traslocare un substrato contro il gradiente di concentrazione (trasporto attivo). Le proteine che effettuano il trasporto attivo utilizzano fonti di energia come gradienti chimici o l’ATP. Così i trasportati dei neurotrasmettitori, come il SERT (serotonine transporter), usano il gradiente Na+/Cl–, mentre la superfamiglia ATP-binding cassette (ABC) usa l’energia dell’ATP per traslocare molecole lipofile attraverso le membrane. In genere, le proteine di trasporto sono specifiche per una specie molecolare, ma le proteine della superfamiglia ABC sono in grado di trasportare substrati molto diversi tra loro. Questi substrati appartengono solitamente a due categorie: nutrienti e sostanze endogene necessarie al funzionamento cellulare e xenobiotici potenzialmente tossici per la cellula, che devono essere eliminati una volta entrati per diffusione passiva. La struttura e il meccanismo d’azione delle proteine di trasporto è studiato con varie tecniche, ma principalmente

H N

N O

CH3 S

H3CO

N

H3C

OCH3

Omeprazolo Inibitore della pompa H+/K+

Figura 1.14 Un farmaco inibitore di una pompa.

Figura 1.15 P-gp murina. Struttura atomica elaborata dai dati cristallografici di Protein Data Bank (codice PDB 3g60).

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12

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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H N O

F

O

COO CH3

O

N

123I

F

[123I]-Ioflupane Marca il DAT CH3

Paroxetina Blocca il SERT

CH3

CN

H3C

N

OCH3

H3CO

OCH3

H3CO

Verapamil Inibisce la P-gp

e più studiata. La sua capacità di estrudere dalla cellula una gran varietà di molecole lipofile fa sì che essa sia in grado di interferire con l’assorbimento di molti farmaci e con il loro passaggio attraverso le barriere fisiologiche come la barriera ematoencefalica. La sua espressione indotta dai chemioterapici determina, inoltre, l’apparizione di resistenze sia a livello di cellule tumorali sia di microrganismi. Non esistono al momento strutture cristalline risolte di proteine di trasporto umane; per i trasportatori dei neurotrasmettitori si utilizzano modelli per omologia costruiti sulla struttura di LeuT, un trasportatore di leucina di un procariote, mentre per la superfamiglia ABC ci si basa su modelli per omologia della P-gp murina (ABCB1), che ha un’alta omologia con quella umana e la cui struttura cristallina è riportata nella Figura 1.15. Nella Figura 1.16 sono mostrate due molecole che interagiscono con il trasportatore di dopamina (DAT), quello della serotonina (SERT) e con la proteina di trasporto multisubstrato ABCC1 (P-gp).

1.4.2 Acidi nucleici

Figura 1.16 Farmaci che agiscono sulle proteine di trasporto.

della membrana. Tra le proteine di questo tipo, due famiglie rappresentano importanti bersagli dei farmaci. Le proteine che trasportano i neurotrasmettitori, come ad esempio noradrenalina (NET), serotonina (SERT), dopamina (DAT), controllano la ricaptazione specifica (uptake) dei rispettivi mediatori nelle sinapsi nervose. I moderni farmaci antidepressivi inibiscono il loro funzionamento, con il risultato di mantenere un’elevata concentrazione del neurotrasmettitore nella sinapsi. Le funzioni delle proteine di trasporto multisubstrato e il loro impatto sui farmaci sono esemplificate dalla glicoproteina ABCB1 (P-170, P-gp, Fig. 1.15) che è un membro della superfamiglia ABC (ATP binding cassette) ed è la più diffusa

Gli acidi nucleici sono macromolecole destinate alla conservazione e al trasporto dell’informazione genetica negli esseri viventi. Si trovano in maggior densità nel nucleo, ma sono presenti anche nel citoplasma. Ci sono due tipi di acidi nucleici: il DNA (acido desossiribonucleico) depositario dell’informazione genetica, e l’RNA (acido ribonucleico), che serve a traslare l’informazione per sintetizzare le proteine. Chimicamente sono polimeri di nucleotidi, che a loro volta sono formati da uno zucchero, che può essere il ribosio o il desossiribosio, e una base azotata tra adenina (A), guanina (G), citosina (C) e timina (T) o uracile (U) nell’RNA (Fig. 1.17). La polimerizzazione avviene tra l’ossidrile del carbonio 3ʹ, il gruppo fosfato e l’ossidrile del carbonio 5ʹ del nucleotide seguente. Il fosfato è naturalmente acido e quindi nella forma a doppia elica il DNA (e in parte anche l’RNA) è come una corda avvolta di cariche negative.

O

NH2 N N O O

P

N

Base azotata: adenina Nucleoside: adenosina

O HO

P

O

HO

O H

OH

H

P

Base

O

Base

O

O

O P

Figura 1.17 La struttura del DNA.

O

N O

O

Base

O

O

Nucleotide: adenosina fosfato

O

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CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

3. Esplica due funzioni: (a) duplicazione dell’informazione genetica, la quale è codificata nel codice genetico che, come regola generale, identifica ognuno dei venti aminoacidi naturali con una tripletta di basi (codoni); (b) espressione dell’informazione genetica in cui una data sequenza di DNA viene usata come stampo per la crea­ zione di un filamento complementare di RNA; a ogni codone corrisponde uno specifico aminoacido. 4. Può assumere una forma chiamata superelica (supercoil) che ricorda il doppio avvolgimento del filo di un telefono; ha rilevanza fisiologica ed è anch’essa bersaglio di farmaci. 5. L’elica del DNA è caratterizzata dall’esposizione verso l’esterno di gruppi acidi (ioni fosfato) e da due solchi detti ansa maggiore (major groove) e ansa minore (minor groove), di grande rilevanza per l’interazione con altre molecole (proteine, farmaci) (Fig. 1.18). Figura 1.18 Possibili siti di interazione dei farmaci sul DNA. I farmaci con determinate caratteristiche elettroniche e strutturali si possono intercalare tra due coppie di basi successive (sinistra). Quelli in grado di dare legami ionici o idrogeno si legano all’esterno della doppia elica, sull’ansa maggiore o minore (destra).

DNA Alcune caratteristiche del DNA sono importanti per il disegno di farmaci destinati ad agire su questo bersaglio. 1. È costituito da una doppia elica che può dare origine a forme diverse (A, B, Z). Il peso molecolare medio è di circa 10-20 × 106 dalton. Le basi delle due eliche si accoppiano sempre nel seguente modo: A/T, G/C (A/U nell’RNA). 2. Circa l’80-90% è costituito di introni (DNA silenzioso), il 10-20% è costituito da esoni (DNA che porta l’informazione genetica).

Figura 1.19 Le diverse conformazioni dell’RNA.

6. Tra coppie di basi successive esiste uno spazio accessibile a molecole a struttura piatta che si intercalano con legami a trasferimento di carica (Fig. 1.18, Cap. 2). 7. L’interazione può anche avvenire all’esterno della doppia elica per mezzo di legami elettrostatici (Fig. 1.18) con i gruppi fosforici ionizzati.

RNA Le funzioni fisiologiche dell’RNA ne fanno un possibile bersaglio per la modulazione della sintesi delle proteine. 1. È costituito normalmente da una sola elica. 2. In esso la timina (T) è sostituita dall’uracile (U). 3. Esiste in tre conformazioni (Fig. 1.19) con diverse funzioni fisiologiche: rRNA (ribosomale; che fa parte della struttura dei ribosomi); mRNA (messaggero; contiene l’informazione per la sintesi delle proteine); tRNA (tran-

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CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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lare le funzioni fisiologiche degli acidi nucleici. Tra questi hanno un ruolo rilevante le topoisomerasi/girasi, che determinano il riavvolgimento e lo svolgimento delle supereliche del DNA. Le due eliche sono tagliate in due punti ben precisi dall’enzima che fa passare i due capi attorno a un’altra doppia elica per poi ricucire i due punti di rottura (Fig. 1.20). In questo modo possono avvenire incatenamenti e annodamenti per produrre la superelica o viceversa per rimuoverla. I chinoloni sono farmaci antibatterici che bloccano questo enzima (Cap. 36)

1.4.3 Lipidi e carboidrati Rispetto alle proteine e agli acidi nucleici si tratta di bersagli decisamente minori, il cui interesse sta però crescendo nel tempo. I lipidi che interagiscono con i farmaci sono quelli di membrana. In generale il meccanismo delle sostanze attive sui lipidi di membrana è quello di disarticolare la funzione della membrana stessa alterandone la permeabilità. I prodotti attivi che formano canali sono spesso costituiti da due domini, uno idrofilo e uno lipofilo; quest’ultimo interagisce con le catene degli acidi grassi stabilizzando conformazioni che portano il dominio idrofilo a costituire le pareti del canale. Questo è il meccanismo d’azione degli antibiotici antifungini quali l’amfotericina B (Fig. 1.21). La valinomicina (Fig. 1.21), un farmaco antibiotico ciclico della famiglia dei macrolidi, agisce invece come ionoforo, riducendo la concentrazione di potassio nel citoplasma, specificatamente dei batteri Gram-positivi. Il ruolo dei carboidrati è prevalentemente quello energetico (glicogeno) o strutturale (cellulosa), ma negli ultimi anni sono emerse altre caratteristiche che ne fanno dei bersagli di crescente interesse quando siano coniugati con proteine e lipidi. La componente glucidica nelle membrane è presente esclusivamente sul versante esterno. Gli zuccheri possono essere legati alle proteine (glicoproteine) o ai lipidi (glicolipidi) e fluttuano alla superficie della membrana. Queste componenti glucidiche sono implicate nel riconoscimento, nella regolazione e nella crescita cellulare. Patologie come le malattie autoimmuni, le infezioni virali e batteriche e i tumori sono in qualche modo legate alle funzioni di questi carboidrati. È ragionevole pensare che molecole in grado di legarsi a questi zuccheri possano ostacolare l’insorgere di molte patolo-

Figura 1.20 Meccanismo d’azione delle topoisomerasi/girasi.

sfer; trasferisce nei ribosomi gli aminoacidi accoppiando il proprio anticodone con il codone sull’mRNA). 4. Il peso molecolare è più basso di quello del DNA e varia tra 25 000 e 1 000 000. 5. Gli oligonucleotidi antisenso (farmaci antisenso) sono molecole corte a singolo filamento di DNA o, in alcuni casi di RNA, complementari alla sequenza di una molecola di mRNA che, a seguito dell’interazione, non è più in grado di essere tradotta. Potrebbero essere dei farmaci ideali, ma hanno problemi molto seri dal punto di vista farmacocinetico (Cap. 4). Nel 1996 è stato approvato il fomivirsen (Cap. 40), primo farmaco di questo tipo, esclusivamente per il trattamento di retiniti da citomegalovirus in soggetti immuno-compromessi, refrattari alla terapia classica. Ma la molecola non è più utilizzata negli Stati Uniti. 6. Recentemente altre forme di RNA, quali microRNA e lncRNA hanno assunto un notevole interesse come bersagli di farmaci. In particolare gli lncRNA (long non-coding RNA, RNA non codificanti lunghi) sembrano essere particolarmente interessanti per la loro funzione di regolatori dell’espressione genica. Ci sono numerosissimi enzimi coinvolti nella sintesi, nella duplicazione, nella riparazione, nella traduzione del DNA e dell’RNA, che possono diventare il bersaglio di farmaci per modu-

OH OH

OH

3

5

1

O 37

H3C HO

O

7

OH

OH HO

9

11

OH

CH3 34

CH3

COOH 15

H

13

O

1

D-Val

17

O CH3

19

O HO

OH

L-Lac

L-Val

L-Lac

L-Val L-Lac

D-Hyi D-Val

D-Hyi 12

D-Val

D-Hyi

L-Val

29 28

Amfotericina B

Figura 1.21 Farmaci che interagiscono con i lipidi di membrana.

NH2

Valinomicina Lac = lattato, Hyi = idrossivalerato

CAPITOLO 1 • I bersagli dei farmaci

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OH

OH

OH H

O

H3C

O

OH

Acido sialico

H

COOH OH

OH HN

OH

O

COOH

OH HN H3C

O

NH

HN

NH2 Zanamivir

Figura 1.22 Un farmaco che interagisce con i carboidrati.

gie, in particolare quelle conseguenti all’entrata nella cellula di microrganismi. Ci sono numerosi farmaci (spesso di origine naturale, come i glucosidi cardiocinetici) che contengono una o più unità di carboidrati, anche se non è sempre chiaro se il contributo è solo farmacocinetico (solubilità) o anche farmacodinamico. Quest’ultimo sembra il caso degli antivirali antinfluenza inibitori delle neuroaminidasi (Cap. 40) che sono stati progettati a partire dall’acido sialico, un carboidrato substrato dell’enzima (Fig. 1.22). L’enzima neuroaminidasi presente nel virus taglia i residui di acido sialico; in questo modo favorisce l’uscita dei virus riprodottisi nella cellula infetta. Zanamivir, essendo un analogo dell’acido sialico, è in grado di legarsi al sito attivo della neuroaminidasi causando un cambiamento conformazionale che ne inibisce l’attività.

15

2

Proprietà chimico-fisiche e attività biologica Maria Laura Bolognesi, Marinella Roberti

2.1  Acidità, basicità, pKa 2.2 Percentuale di ionizzazione e distribuzione dei farmaci 2.3  Coefficiente di ripartizione 2.4  Coefficiente di distribuzione 2.5 Legami chimici coinvolti nell’interazione tra farmaco e bersagli biologici 2.5.1 2.5.2 2.5.3 2.5.4 2.5.5 2.5.6 2.5.7 2.5.8 2.5.9

Il legame covalente Il legame ionico Il legame idrogeno I legami dipolari Il legame a trasferimento di carica L’interazione catione-π Il legame alogeno Il legame idrofobico L  e forze di van der Waals dipolo istantaneo-dipolo indotto o forze di dispersione di London 2.5.10 Il legame di coordinazione con un metallo

La Chimica Farmaceutica mira alla comprensione dei principi molecolari alla base dell’azione di un farmaco e del suo comportamento all’interno dell’organismo. Per questo motivo è necessario che il chimico farmaceutico conosca le proprietà chimico-fisiche dei farmaci per meglio comprenderne il profilo farmacocinetico e farmacodinamico e scoprire farmaci sempre più efficaci. Con proprietà chimico-fisiche ci si riferisce all’influenza dei gruppi funzionali presenti in un dato farmaco sulle proprietà acido-base, solubilità, lipofilia, capacità di legarsi reversibilmente e covalentemente ai bersagli molecolari. Inoltre ci si riferisce alla stabilità in soluzione e alla stabilità metabolica. Queste proprietà influenzano globalmente l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’escrezione, così come l’attività e la tossicità del farmaco.

2.1 Acidità, basicità, pKa La maggior parte dei farmaci in soluzione acquosa si comporta come acidi o basi deboli, dando luogo a reazioni di equilibrio che possono influenzarne notevolmente assorbimento, distribuzione, escrezione e la compatibilità con altri farmaci. Il modello più indicato per spiegare e predire il comportamento acido-base dei farmaci è quello basato sulla teoria formulata in maniera indipendente da Brønsted e Lowry, secondo la quale un acido è una sostanza capace di fornire protoni (ioni H+) a un’altra specie chimica in grado di acquisirli, detta base. La definizione di Brønsted e Lowry introduce pertanto il concetto di complementarità tra acido e base, dato che una sostanza ha bisogno della presenza dell’altra

CAPITOLO 2 • Proprietà chimico-fisiche e attività biologica

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per manifestare il proprio comportamento acido o basico. Un acido si trasforma nella sua base coniugata quando cede un protone a una base che lo accetta e a sua volta si trasforma nel suo acido coniugato; quindi a ogni acido corrisponde la propria base coniugata e viceversa. Generalizzando, se si indica con HA un generico acido e con B una generica base, l’equilibrio della reazione può essere così schematizzato:

Quanto più grande è Kb (ovvero quanto più piccolo è pKb) tanto più forte è la base; quanto più piccolo è Kb (ovvero quanto più grande è pKb) tanto più debole è la base. Poiché a una base forte corrisponde un acido coniugato debole e a una base debole corrisponde un acido coniugato forte, è conveniente esprimere la forza delle basi in termini di Ka (ovvero dei pKa) dei loro acidi coniugati. Ka =

Coppia coniugata

A-

HA + B Acido

Base

+

BH+

Base Acido coniugata coniugato

Coppia coniugata

dove A– è la base coniugata dell’acido HA, mentre BH+ è l’acido coniugato della base B. L’acqua funziona da accettore o donatore di protoni in funzione delle condizioni in cui si trova ad agire, di conseguenza è considerata una sostanza anfotera. In soluzione acquosa, gli acidi e le basi deboli non si dissociano completamente e sono caratterizzati dalle seguenti reazioni di equilibrio. HA + H2O Acido

Base

+

OH

Base

+

H3O

Base Acido coniugata coniugato -

H2O + B Acido

-

A

+

+ BH

Base Acido coniugata coniugato

La forza di un acido generico HA è espressa dalla costante della reazione di dissociazione, detta costante di dissociazione acida Ka. [A–][H3O+] Ka = [HA] Si noterà che la concentrazione dell’acqua non compare nell’espressione perché, in soluzioni diluite, il suo valore praticamente non cambia per effetto della dissociazione di HA e pertanto, essendo costante, viene inglobato in Ka. Poiché la forza dei diversi acidi varia in un intervallo estremamente ampio di Ka, allo scopo di usare numeri piccoli si preferisce impiegare la costante di dissociazione in forma logaritmica. pKa = –log Ka Valori alti di Ka (ovvero valori piccoli di pKa) competono agli acidi forti; valori bassi di Ka (ovvero valori grandi di pKa) competono agli acidi deboli. Analogamente, la forza di una base generica B potrebbe essere espressa dalla costante della reazione di dissociazione detta costante di dissociazione basica Kb. Pertanto [BH+][OH–] Kb = [B] e pKb = –log Kb

[B][H3O+] [BH+]

Conseguentemente il pKa per una base è in realtà il pKa dell’acido coniugato BH+ della base e indica le proprietà acide della forma protonata della molecola. Esiste una regola generale per stabilire se una sostanza chimica sia un acido forte o debole: • pKa  12: in pratica non ci sono proprietà acide in acqua e la base coniugata è forte. Alcuni esempi di farmaci che si comportano in soluzione come acidi o basi deboli sono riportati in Figura 2.1. Esistono inoltre farmaci che contengono nella loro struttura più funzioni acide o più funzioni basiche (farmaci polifunzionali) oppure entrambe le funzionalità acido-base (farmaci anfoteri). I farmaci con gruppi funzionali che non possiedono né la capacità di accettare né quella di donare un protone sono considerati neutri. In Tabella 2.1 sono riportati esempi di queste classi di farmaci.

2.2 P  ercentuale di ionizzazione e distribuzione dei farmaci A partire dai principi generali descritti finora, è possibile predire il grado di ionizzazione di una molecola a un determinato valore di pH se si conoscono i valori di pKa dei gruppi funzionali acidi o basici presenti e il valore di pH dell’ambiente in cui il composto si trova. Il rapporto in soluzione tra la concentrazione della specie ionizzata e la concentrazione della specie non ionizzata può essere calcolato mediante la nota equazione di Henderson-Hasselbach (Eq. 2.1).

pH = pKa + log

[base coniugata]  [acido coniugato]

(2.1)

Per un acido debole HA, il rapporto ([A–]/[HA) si ottiene applicando l’Equazione 2.1: pH = pKa + log ([A–] ∕ [HA]) log ([A–] ⁄ [HA]) = pH – pKa ([A–] ∕ [HA]) = 10(pH – pKa) Sulla base di quest’ultima espressione, si noti che quando il pH coincide con il pKa il rapporto [A–]/[HA] è uguale a 1, quindi l’acido sarà dissociato al 50%. Quando il pH aumenta di 1 o 2 unità rispetto al pKa, il rapporto [A–]/[HA] è pari

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CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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A) Acido acetilsalicilico e la sua base coniugata (pKa: 3,49, logP: 1,19, logD: –2,32) CH3 O

CH3

O

O

O

O OH

O O

H2O

+

+

H3O

O

CH3

B) Indometacina e la sua base coniugata (pKa: 4,5, logP: 4,27, logD: 1,77) CH3

O

OH

N

H2O

+

O

Cl

O

N O

Cl

O CH3

+

H3O

O CH3

C) Clorpromazina e il suo acido coniugato (pKa di BH+: 9,3, logP: 5,41, logD: 3,10) CH3 H3C

CH3

N

H3C N

NH N

Cl +

Cl

H2O

+

S

OH

S

D) Amantadina e il suo acido coniugato (pKa di BH+: 10,71, logP: 2,44, logD: -1,27) NH2

NH3

+

H 2O

+

OH

Figura 2.1 Esempi di equilibri di dissociazione di acidi o basi deboli. Sono riportati i valori di pKa di HA e BH+ e i valori di logP a pH 7 tratti dal sito www.drugbank.ca. I valori di LogD a pH 7 sono stati calcolati usando le Equazioni 2.8 e 2.9.

rispettivamente a 10/1 e 100/1. Se il pH diminuisce di 1 o 2 unità rispetto al pKa, il rapporto [A–]/[HA] è pari rispettivamente a 1/10 e 1/100. La percentuale di ionizzazione di un acido debole HA è definita come segue: [A–] [A–] / [HA] = 100 % ionizz. = 100 [HA]+[–] 1+[A–] / [HA]

nella quale il pKa sarà riferito alla dissociazione dell’acido coniugato BH+. BH+ ∏ B + H+ Per calcolare il rapporto in soluzione tra la concentrazione della specie ionizzata e la concentrazione della specie non ionizzata della base occorre impostare i seguenti calcoli:

Questa espressione può essere convertita nell’Equazione 2.2 esprimendo il rapporto [A–]/[HA] in funzione del pH e del pKa.

% ionizz. = 100

10(pH – pKa)  1+10(pH – pKa)

(2.2)

Per una base debole B l’equazione di Henderson-Hasselbach sarà: pH = pKa + log ([B] ∕ [BH+])

log ([B] ∕ [BH+]) = pH – pKa log ([BH+] ⁄ [B]) = pKa – pH ([BH+] ∕ [B]) = 10(pKa – pH) Conseguentemente la percentuale della forma ionizzata di B (acido coniugato BH+) è calcolata usando l’Equazione 2.3:

% ionizz. = 100

10(pKa – pH)  1+10(pKa – pH)

(2.3)

CAPITOLO 2 • Proprietà chimico-fisiche e attività biologica

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Tabella 2.1 Proprietà chimico-fisiche di farmaci esemplificativi. Caratteristiche acido-basiche Griseofulvina

H3 C

H3C

O

OO

CH3

LogP

LogD

-

2,18

2,18

-

4,20

4,20

7,12

0,91

0,54

9,55

–0,3

–2,85

3,11

1,11

–2,76

1,11

1,92

–3,97

HA

BH+

-

-

O

O

O

H3C

Cl

Farmaci neutri

pKa

Struttura del farmaco

Rimexolone H3C

HO

H3C

O CH3

CH3

CH3 H

H O

Trimetoprim

NH2 O

N N

H2N

Farmaci basici polifunzionali

O O

Etambutolo

CH3 CH3

CH3

OH H3 C

H

H N

N H

H

C H3

HO

Carbenicillina

HO

O H N

H S

O

N

CH3

O

Farmaci acidi polifunzionali

OH

O

Acido cromoglicico

CH3

O

O O

HO O

Ampicillina

O

OH O

O

NH2 H N

S N

7,44

1,35

–2,41

6,09

8,68

0,28

–0,68

OH

O

Farmaci anfoteri O F

CH3 CH3

O

N

3,24 H

O

Ciprofloxacina

OH O

O OH

N

HN I valori di pKa di HA e BH+ e i valori di logP a pH 7 sono tratti dal sito www.drugbank.ca. I valori di pKa riportati sono per il gruppo HA più fortemente acido e per il gruppo BH+ più debolmente acido (o l’azoto più basico). I valori di logD a pH 7 sono stati calcolati usando le Equazioni 2.8 e 2.9.

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CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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Tabella 2.2 Percentuali della forma neutra e della forma ionizzata di un acido debole HA e di una base debole B a determinati valori di pH.

100 90 80

Acido acetilsalicilico (pKa 3,48)

70

% Ionizzazione

20

60

Clorpromazina (pKa 9,3)

50 40

pH = pKa

30 20

% A– o B

% HA o BH+

pH = pKa + 2

99

 1

pH = pKa + 1

91

 9

pH = pKa – 0

50

50

pH = pKa – 1

 9

91

pH = pKa – 2

 1

99

1 0 0

1

2

3

4

5

6

7

8

9 10 11 12 13 14

pH

Figura 2.2 Percentuale di ionizzazione in funzione del pH per l’acido acetilsalicilico (pKa 3,48) e per la clorpromazina (pKa di BH+ 9,3).

Applicando i concetti descritti finora è possibile prevedere la percentuale di ionizzazione dei farmaci a un determinato pH utilizzando l’Equazione 2.2 per gli acidi HA e l’Equazione 2.3 per gli acidi BH+. Il diagramma riportato in Figura 2.2 riporta la percentuale di ionizzazione in funzione del pH per l’acido acetilsalicilico (acido HA, pKa 3,48, Fig. 2.1A) e la clorpromazina (acido BH+, pKa di BH+ = 9,43, Fig. 2.1C). Il grafico mostra come il grado di ionizzazione possa variare significativamente per piccoli cambiamenti di pH. È importante notare che quando il valore di pH è uguale a quello di pKa, la molecola è dissociata al 50%, ovvero la concentrazione dell’acido è la stessa della sua base coniugata, come si evince applicando l’Equazione 2.1 di HendersonHasselbach. Quando il pH aumenta di 1 unità rispetto al valore di pKa per un acido HA come l’acido acetilsalicilico, la percentuale di ionizzazione e di conseguenza di base coniugata arriva al 91%, mentre per un acido BH+ come la clorpromazina la percentuale della forma ionizzata scende al 9%. Un aumento di 2 unità di pH porta l’acido HA alla completa ionizzazione (99%), mentre l’acido BH+ si troverà al 99% nella forma non ionizzata di base coniugata. Accade l’opposto quando il valore di pH del mezzo diminuisce rispetto a quello del pKa. In questo caso l’aumento di idrogenioni sposterà l’equilibrio aumentando la concentrazione dell’acido e diminuendo quella della base coniugata. Nel caso dell’acido acetilsalicilico, la diminuzione di 1 unità di pH rispetto al pKa diminuirà la concentrazione della forma ionizzata, non protonata, al 9%. Analogamente, una diminuzione di 2 unità di pH farà in modo che l’acido acetilsalicilico si trovi nella forma di base coniugata ionizzata solo all’1%. Accade il contrario per gli acidi BH+: la percentuale di clorpromazina presente come acido ionizzato, protonato, è 91% se il pH è 1 unità sotto la pKa e 99% se è sotto di 2 unità. Questi risultati sono riassunti nella Tabella 2.2. Con questi concetti ben chiari, prendiamo in considerazione l’acido acetilsalicilico (pKa 3,48, Fig. 2.1) e analizziamo il suo comportamento nel plasma (pH 7,4) e in due differenti localizzazioni del tratto gastrointestinale: lo stomaco (pH

1,5), e il duodeno (pH 5) (Tab. 2.3). Servendoci dell’Equazione 2.2 otterremo le percentuali della forma ionizzata che saranno rispettivamente del 99,9%, dello 0,99% e del 97%. Analogamente possiamo calcolare le percentuali di ionizzazione, negli stessi distretti, della clorpromazina (pKa di BH+ 9,3, Fig. 2.1) applicando l’Equazione 2.3. In questo caso i valori saranno rispettivamente del 99%, del 99,99% e del 99,96%. Si può quindi affermare che per l’acido salicilico nello stomaco prevale la forma indissociata, mentre nel plasma e nel duodeno quella dissociata. Diversamente, la clorpromazina si troverà nel plasma, nello stomaco e nel duodeno quasi completamente nella sua forma acida ionizzata. Prendiamo ora in esame una molecola che contiene entrambe le funzionalità acido/base, quale ad esempio la ciprofloxacina che contiene un’amina alchilica secondaria (pKa di BH+ 8,68) e un acido carbossilico (pKa 6,09). In funzione del valore di pH della soluzione (o del tessuto) potrà avere un comportamento acido, basico o anfotero. Applicando opportunamente le Equazioni 2.2 e 2.3 si otterranno le percentuali di ionizzazione dei rispettivi gruppi acidi e basici. Va notato che al pH acido dello stomaco e nel duodeno solo l’amina alchilica si trova in forma ionizzata, mentre al pH neutro del sangue entrambe le funzioni acide e basiche sono ionizzate e quindi la molecola è in forma zwitterionica (Tab. 2.3). Da quanto detto risulta chiaro che il pKa può avere effetti importanti sulla farmacocinetica (Cap. 4). Dalla loro sede di applicazione i farmaci devono passare al sangue attraverso le membrane biologiche e successivamente dal mezzo acquoso del sangue si distribuiscono ai diversi compartimenti dell’organismo per raggiungere il sito d’azione. In generale i farmaci passano le membrane non polari dei capillari, le membrane cellulari e la barriera ematoencefalica nella forma non ionizzata. Per gli acidi HA è l’acido originario che passa queste membrane. Per gli acidi BH+ sarà invece la base coniugata non ionizzata a passare le membrane non polari (Fig. 2.3). Come è stato detto in precedenza, la percentuale di ionizzazione di acidi e basi deboli dipende dal loro pKa, che rimane costante, e dal pH del mezzo in cui si trovano. Si consideri la variazione di pH percepita dal farmaco somministrato per via orale: il farmaco entra prima nello stomaco, dove il pH varia da 2 a 6 a seconda della presenza di cibo. Farmaci acidi con pKa di 4-5 tenderanno a essere non ionizzati e dovrebbero essere assorbiti dalla mucosa gastrica. In realtà molti farmaci acidi vengono assorbiti a livello della mucosa del piccolo intestino (duodeno, digiuno

CAPITOLO 2 • Proprietà chimico-fisiche e attività biologica

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Tabella 2.3 Forme predominanti dell’acido acetilsalicilico, della clorpromazina e della ciprofloxacina nel plasma, nello stomaco e nel duodeno in assenza di cibo. Plasma (pH 7,4)

Stomaco (pH 1,5)

Duodeno (pH 5)

Acido acetilsalicilico CH3 O

CH3

O

O

O

CH3

O

O

O

O

O

O

OH

O

Clorpromazina H3C H

CH3

H3C

N

H N

CH3

H3C

N

H

Cl

N

S

CH3 N

Cl

N

Cl

S

S Ciprofloxacina O

F N H

N H

O

O F

O N

N H

N H

e ileo) anziché nello stomaco. Il paradosso deriva dal fatto che alcuni fattori anatomo-fisiologici sono più rilevanti del fattore pH nel processo di assorbimento. In particolare la mucosa intestinale offre una più ampia superfice di assorbimento ed è maggiormente permeabile rispetto a quella gastrica. Al contrario i farmaci basici (pKa 9-10) saranno protonati nello stomaco e di solito non sono assorbiti finché non raggiungono il pH blandamente alcalino dell’intestino. Anche qui solo una porzione dei farmaci basici sarà nella forma non polare. Una volta che i farmaci arrivano nel circolo sistemico, il valore di pH del plasma (7,4) sarà uno dei fattori che regolano la tendenza del farmaco a rimanere nell’ambiente acquoso del sangue o a ripartirsi attraverso le membrane lipidiche nei siti d’azione per colpire i propri bersagli molecolari, nel fegato per essere metabolizzati, nel rene per essere escreti e nei tessuti di deposito.

2.3 Coefficiente di ripartizione Come accennato nel paragrafo precedente, un qualsiasi farmaco, per distribuirsi nell’organismo, deve attraversare una serie di membrane. Ne sono esempi l’assorbimento, il trasporto attraverso i capillari, la penetrazione nelle cellule, l’escrezione. Poiché molti dei movimenti attraverso le membrane sono processi di ripartizione, il coefficiente di ripartizione è considerato la proprietà chimico-fisica più comune per predire l’entità dell’assorbimento di un farmaco.

O

O F

OH N

OH

N H

O

N

N H

Il coefficiente di ripartizione (generalmente indicato con la lettera “P” per partition) misura la lipofilia di una sostanza ed è determinato utilizzando due solventi tra di loro immiscibili: generalmente uno è di natura organica e l’altro è l’acqua. “P” è il rapporto tra la concentrazione molare della sostanza non ionizzata nella fase organica e nella fase acquosa. A partire dagli anni ’60 l’n-ottanolo e l’acqua costituiscono la coppia di solventi standard utilizzata per determinare i coefficienti di ripartizione dei farmaci. La lipofilia dei farmaci si esprimerà quindi con il coefficiente di ripartizione P (Eq. 2.4) e più comunemente come logaritmo di P (Eq. 2.5). Pottanolo/acqua =

[soluto]ott  [soluto]acq

logPottanolo/acqua = log

[soluto] ( [soluto] ) ott

acq

(2.4) (2.5)

Le membrane che i farmaci devono attraversare, in prima approssimazione, possono essere considerate doppi strati lipidici, composti ciascuno da una testa polare e una lunga coda idrofobica. I due strati esterni, che si affacciano sul lato intra- ed extracellulare, sono formati dalle terminazioni polari dei lipidi bifunzionali. Queste superfici sono esposte a un ambiente acquoso polare, così le terminazioni polari dei fosfolipidi carichi e altri lipidi sono solvatati dalle molecole di acqua. Al contrario, l’interno delle membrane è formato dalle catene alifatiche idrofobiche degli esteri degli acidi grassi. Tenendo presente questa rappresentazione, si può parzialmente spiegare perché il sistema n-ottanolo/acqua sem-

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CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

A

HA + H2O

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+ H3O

B +

BH + H2O

Barriera lipidica

H3O

Barriera lipidica

A

HA + H2O

+ H3O

B +

BH + H2O

H3O

Figura 2.3 Passaggio di acidi HA e BH+ attraverso le barriere lipidiche.

bra riprodurre il sistema membrane lipidiche/acqua dell’organismo. L’ottanolo viene usato per mimare la natura anfifilica dei lipidi, dal momento che ha un gruppo principale polare (alcol primario) e una lunga catena idrocarburica, o coda, analoga a quella degli acidi grassi che costituiscono parte di una membrana lipidica. In ogni caso si ricordi che il sistema n-ottanolo/acqua è solo un’approssimazione del vero ambiente che si trova all’interfaccia tra la membrana cellulare e i fluidi intra- o extracellulari. Le membrane sono strutture altamente organizzate, formate da canali per il trasporto dentro la cellula di molecole importanti (come metaboliti, aminoacidi, glucosio, acidi grassi e ormoni), e per la rimozione dalla cellula di prodotti di scarto e sostanze prodotte da processi biochimici. Le membrane sono dinamiche e il sistema è così complesso che non è raro avere situazioni in cui c’è scarsa correlazione tra il coefficiente di ripartizione di alcune molecole e la loro attività biologica. In base al valore di logP possiamo classificare i composti in tre categorie: • idrofobici o lipofili o apolari, con logP > 0; • idrofili o polari, con logP T4 b

Tiroidei a b

Grado di potenza degli ormoni

Ormoni

DHT, 5α-diidrotestosterone. T3, Triiodotironina; T4, tiroxina.

monomero, omodimero o eterodimero, con i membri della famiglia di recettori RXR. La Tabella 6.5 riporta la classificazione dei recettori degli ormoni steroidei e tiroidei con il grado di potenza relativo degli ormoni con cui interagiscono. I 3-chetosteroidi endogeni – 5α-diidrotestosterone (DHT), aldosterone, cortisolo, corticosterone, progesterone e testosterone – condividono una certa analogia strutturale che ne permette l’interazione

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con i corrispondenti recettori definiti AR, GR, MR e PR, anche se con un diverso grado di potenza. L’attivazione dei recettori intracellulari può avvenire tramite due distinti meccanismi: interazione ligando-recettore, che è la forma principale di attivazione, e attivazione in assenza di ligando. I recettori nucleari sono proteine modulari, costituite da 3 domini principali e che condividono una comune organizzazione strutturale (Fig. 6.39). • Il terminale aminico (dominio A/B) contiene alcune regioni di transattivazione autonome (AD) e almeno una regione di transattivazione ligando-indipendente (AF-1) che è di lunghezza e sequenza variabili nei differenti membri della famiglia, ed è riconosciuta da coattivatori (quali l’enzima istone acetilasi) e da altri fattori di trascrizione. Il dominio A/B presenta diversi siti di fosforilazione ed è bersaglio della via di segnalazione mediata da diverse chinasi. • Il dominio C di legame con il DNA (DBD, DNA binding domain) è il più conservato ed è coinvolto nella dimerizzazione dei recettori nucleari. La dimerizzazione include la formazione di omodimeri ed eterodimeri. La struttura tridimensionale di DBD è stata risolta per la maggior parte dei recettori nucleari e contiene due motivi zinc-finger, in ognuno dei quali 4 cisteine chelano uno ione Zn2+. Tali motivi permettono l’inserimento del recettore all’interno del solco maggiore del DNA.

Figura 6.39 Schematizzazione di un recettore intracellulare. Sono indicate le funzioni principali dei domini A/B, C ed E che costituiscono la proteina modulare. AD, regione di trans-attivazione ligando-indipendente; NLS, segnale di localizzazione nucleare.

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• Il terminale carbossilico E è il dominio di legame col ligando (LBD, ligand binding domain), la cui architettura è conservata nei diversi sottotipi, pur garantendo una sufficiente selettività nel riconoscimento del ligando. Il dominio LDB ha la funzione di attivazione indotta dal ligando (AF-2, activation function 2) in quanto, interagendo con coattivatori e corepressori, regola la trascrizione genica ligando-dipendente ed è coinvolto nella dimerizzazione recettoriale. LDB ha una struttura secondaria a 12 α-eliche (H1-H12) che è maggiormente conservata rispetto alla sequenza primaria. Di queste, 11 eliche formano una struttura compatta a formare la tasca

CAPITOLO 6 • Recettori e farmaci

per l’interazione del ligando e la dimensione varia significativamente tra i diversi recettori. L’ingresso alla tasca è regolato dall’elica H12, che contiene residui aminoacidici critici per la funzione di AF2 e che costituisce una sorta di sbarra mobile sopra la tasca che, in seguito ad attivazione, si sposta per permettere l’interazione del ligando. • La regione di connessione D è poco conservata e contiene il segnale di localizzazione nucleare (NLS), il quale media l’interazione con le HSP e può essere compreso in parte nel dominio C. La regione F non è presente in tutti i recettori nucleari e la sua funzione non è ancora stata chiarita.

165

7

Ricerca e sviluppo dei farmaci Maria Novella Romanelli, Elisabetta Teodori, Marco De Amici

7.1 Processo di sviluppo di un farmaco 7.2 Valutazione dell’attività biologica 7.3 Individuazione del punto di partenza (hit) e del prototipo (lead) 7.3.1 7.3.2 7.3.3 7.3.4 7.3.5 7.3.6 7.3.7

Scoperta casuale Screening sistematico e mirato Identificazione di prodotti di origine naturale A  mplificazione di effetti secondari di altri farmaci Copia di farmaci preesistenti Identificazione di metaboliti di farmaci noti Chimica combinatoriale

7.4 Progettazione razionale 7.4.1 Progettazione basata sui ligandi 7.4.2 Data mining 7.4.3 P  rogettazione basata sulla struttura del bersaglio

7.5 Scoperta di lead basata su piccole molecole (frammenti) 7.6 Efficienza del ligando 7.7 Manipolazioni molecolari di hit e lead 7.7.1 7.7.2 7.7.3 7.7.4

Isosteria e bioisosteria S  emplificazione e complicazione molecolare Modulazione sterica Modulazione chimico-fisica

7.8 Nomenclatura dei farmaci 7.9 Brevettazione 7.9.1 7.9.2 7.9.3 7.9.4

Il brevetto in ambito farmaceutico Chiral switch Brevetto di ulteriore uso medico F  armaci generici e strategie di brevettazione

7.10 Sviluppo industriale di un farmaco 7.10.1 Aspetti normativi 7.10.2 Lo sviluppo chimico su larga scala

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7.1 P  rocesso di sviluppo di un farmaco La scoperta e lo sviluppo di un nuovo farmaco (drug discovery and development) costituisce un processo molto complesso e costoso, della durata di molti anni. Si tratta di un’impresa che coinvolge centinaia di ricercatori ed esperti nelle aree di ricerca che generalmente vanno sotto il nome di scienze della vita; tra queste hanno un ruolo predominante la biologia, la chimica e la farmacologia preclinica e clinica. Il processo di ricerca e sviluppo dei farmaci, perciò, può essere realizzato solo nei laboratori di imprese di grandi dimensioni (big pharma), i cui fatturati consentono investimenti molto consistenti. Tuttavia, le fasi iniziali del progetto, quale la ricerca di hit e lead (Par. 7.3) e la loro ottimizzazione per manipolazione molecolare (Par. 7.7), possono essere condotte anche in aziende di minori dimensioni. Dato che il ritorno economico derivante dalla commercializzazione del nuovo farmaco deve essere adeguato, l’industria farmaceutica privilegia le malattie diffuse nei Paesi più avanzati, dove sia i sistemi sanitari sia la disponibilità economica dei cittadini consentono un largo accesso al farmaco. Tra queste rientrano le malattie cardiovascolari e neurodegenerative, i tumori, la depressione, l’obesità e le malattie infettive. Purtroppo, molta meno attenzione viene rivolta alle malattie rare e a quelle dei Paesi in via di sviluppo, salvo quando esiste il rischio che queste malattie minaccino di diffondersi anche nei Paesi industrializzati a causa degli spostamenti a scopo di turismo nei Paesi tropicali o delle migrazioni. Numerose sono le motivazioni per cui un’industria farmaceutica intraprende un progetto per la ricerca e lo sviluppo di un nuovo farmaco. Tra queste rientrano: l’individuazione di nuove patologie per le quali non esiste ancora una cura; la necessità di individuare nuovi farmaci in grado di curare malattie che al momento non sono trattate efficacemente; la perdita di efficacia di vecchi farmaci. Con il progresso della biologia si sono raggiunte maggiori conoscenze delle cause biochimiche alla base dello sviluppo di una determinata patologia; ciò ha portato all’individuazione di nuovi bersagli e meccanismi sui quali possono agire i farmaci. Nuovi farmaci vengono cercati per curare vecchie malattie, per le quali i farmaci disponibili non sono sufficientemente efficaci o presentano eccessivi effetti collaterali. Infine l’uso diffuso dei chemioterapici antibatterici e antitumorali ha portato all’insorgenza del fenomeno della resistenza, per cui farmaci capaci nel periodo iniziale del loro uso terapeutico di controllare le malattie tumorali o le infezioni causate da microrganismi hanno perso parte della loro efficacia. Si rende quindi necessaria la ricerca di nuovi chemioterapici in grado di superare il problema della resistenza. In realtà c’è un quarto motivo per la ricerca di nuovi farmaci, legato solo marginalmente alla patologia: si tratta di quei prodotti che sono richiesti da nuovi stili di vita come gli anticoncezionali e i farmaci dei disturbi erettivi. Attualmente nel processo di scoperta e sviluppo di un nuovo principio attivo, il primo passo è l’individuazione dell’area terapeutica nella quale sarà collocato il nuovo farmaco. Il passo successivo è l’identificazione del potenziale bersaglio biologico (target) sul quale il farmaco deve agire per modificare il decorso della malattia.

CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci

In passato l’individuazione dell’effetto farmacologico di una sostanza precedeva quella del bersaglio biologico, che spesso poteva essere individuato sulla base dell’effetto che la sostanza endogena (un neurotrasmettitore, un ormone) o esogena (prodotti naturali o di sintesi) produce interagendo con esso. Gli effetti colinergici differenti della nicotina e della muscarina, sostanze presenti rispettivamente nella pianta del tabacco e nel fungo Amanita muscaria, hanno permesso di scoprire le due classi fondamentali dei recettori colinergici, detti pertanto nicotinici e muscarinici. Un altro esempio è dato dalla morfina, principale alcaloide dell’oppio, che ha permesso la scoperta della famiglia dei recettori per gli oppioidi, e così via. Attualmente il bersaglio biologico viene di solito individuato prima dell’identificazione della sostanza che, attraverso l’interazione con questo, produce l’effetto farmacologico. Infatti, con l’avvento e il progresso della genomica e della proteomica, si stanno individuando sempre nuove proteine che possono costituire dei potenziali bersagli di farmaci. Se la proteina rappresenta effettivamente un elemento chiave di un sistema di segnalazione, di un processo fisiologico o metabolico ed essa viene alterata o prodotta in condizioni patologiche, questa proteina può costituire un bersaglio per nuovi farmaci. Lo stesso vale per gli acidi nucleici che, come già discusso nel Capitolo 1, sono tra i bersagli più frequenti dei farmaci. Oggi è possibile determinare la struttura tridimensionale di molte macromolecole biologiche bersaglio attraverso tecniche di spettrometria di risonanza magnetica nucleare (NMR) o di diffrazione ai raggi X (nel caso siano cristallizzabili) (Cap. 1). Non è sempre facile identificare il bersaglio su cui intervenire per controllare una patologia. Una volta però che sia stato identificato con una certa sicurezza il ruolo di una determinata macromolecola biologica, è possibile progettare piccole molecole in grado di modularne l’azione. Ne sono un esempio gli inibitori di un determinato enzima oppure gli agonisti o antagonisti di un particolare recettore o i composti in grado di interferire con le funzioni degli acidi nucleici. Così, molecole ad azione agonista sul recettore β2adrenergico sono utili nella cura delle patologie bronchiali come l’asma, in quanto la loro interazione con tale recettore provoca broncodilatazione, mentre composti ad azione antagonista sul recettore β1-adrenergico sono usati per il controllo delle malattie cardiovascolari. In alcuni casi si può ottenere il controllo di una malattia agendo su bersagli biologici diversi, come nel caso dell’ipertensione, in cui si possono utilizzare sia farmaci che si comportano da inibitori dell’enzima ACE (angiotensin converting enzyme), come il captopril, sia farmaci ad azione antagonista sul recettore dell’angiotensina II, anche se le due categorie di farmaci non sono interscambiabili in quanto si differenziano per potenza ed effetti collaterali.

7.2 Valutazione dell’attività biologica Per l’identificazione di nuovi composti attivi sul bersaglio biologico prescelto occorre disporre di un saggio che permetta di valutare la capacità delle molecole in studio di interagire con la macromolecola bersaglio, determinando così l’effetto terapeutico atteso. Tale saggio biologico deve essere

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CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

semplice, rapido, specifico, poco costoso e deve consentire in breve tempo la valutazione di un elevato numero di molecole. Nella maggior parte dei casi si utilizzano studi di inibizione enzimatica o di affinità recettoriale o, nel caso di chemioterapici, direttamente studi su colture di microrganismi. Questi test in vitro vengono eseguiti su tessuti isolati o su cellule che esprimono la proteina bersaglio. Spesso è possibile saggiare gli inibitori enzimatici direttamente sugli enzimi isolati. Per molti anni è stato difficile isolare e purificare gli enzimi in quantità sufficienti per tali test. Attualmente con le tecniche dell’ingegneria genetica è possibile incorporare in cellule batteriche, o lieviti, il gene di un particolare enzima; è così possibile ottenere quantità cospicue di proteina che ne permettono l’isolamento e la purificazione. Ad esempio la proteasi del virus HIV, che è un importante bersaglio di farmaci antivirali contro l’AIDS, viene clonata ed espressa nel batterio Escherichia coli. I composti ad azione agonista o antagonista recettoriale possono essere saggiati su cellule o tessuti isolati che esprimono sulla loro superficie il recettore bersaglio. Si può quindi studiare la capacità delle molecole di legarsi con la proteina recettoriale attraverso studi di legame (binding) oppure misurare l’effetto fisiologico derivante dalla modulazione del recettore sui tessuti isolati. La necessità di valutare rapidamente l’attività biologica di un gran numero di prodotti ha suggerito lo sviluppo della tecnica nota come saggio ad alta efficienza (HTS, highthroughput screening). Questa metodica consiste in un sistema di valutazione in vitro, in tempi rapidi, di prodotti di varia provenienza su numerosi bersagli molecolari, tramite sistemi miniaturizzati e automatizzati. Con questa tecnica possono essere saggiati migliaia di composti con test biologici diversi, che producono effetti facilmente misurabili come la crescita cellulare, una reazione enzimatica evidenziabile da un cambiamento di colore, o lo spostamento di un ligando marcato (radioattivo) dai suoi recettori. Questi test sono altamente sensibili, tanto da permettere la rilevazione anche di prodotti debolmente attivi. Da una campagna HTS viene in genere identificata una serie di molecole chiamate hit (traducibile come punto di partenza) che posseggono una bassa attività biologica nel saggio in esame. Questi composti possono essere dei buoni suggerimenti per ottenere uno o più prototipi (lead) da ottimizzare in una molecola chiamata candidato farmaco. Dato il forte impegno finanziario necessario per lo sviluppo di un nuovo farmaco, per ridurre i frequenti e costosi fallimenti in fase clinica è importante valutare, già nelle fasi preliminari della ricerca, non solo l’attività nei confronti del bersaglio biologico prescelto, ma anche altre importanti caratteristiche quali gli effetti secondari, la tossicità, il metabolismo e l’assorbimento, così da determinare il profilo farmacologico generale delle molecole più interessanti. A tale scopo le molecole emergenti dallo studio preliminare effettuato sulla macromolecola bersaglio vengono valutate anche su altri bersagli (altri recettori o enzimi) per individuare eventuali effetti secondari. Molte molecole lipofile hanno affinità per canali ionici come il canale per il potassio cardiaco hERG, il cui blocco può provocare alterazioni della frequenza cardiaca. Uno studio di affinità nei confronti di questi canali consente di avere informazioni sull’eventuale tossicità car-

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diaca in uno stadio preliminare del progetto. Informazioni preliminari sul metabolismo possono essere ricavate tramite studi in vitro su epatociti umani. Questo consente di stabilire la suscettibilità delle molecole a subire biotrasformazioni e/o a dar luogo a metaboliti tossici o reattivi. Infatti, alcuni composti che non sono di per sé tossici possono, in seguito al metabolismo, dare origine a prodotti che provocano effetti dannosi all’organismo. Inoltre una prima indicazione sulla capacità delle molecole di presentare un buon assorbimento orale può essere ottenuta con test in vitro di assorbimento su adatti modelli cellulari. Ad esempio le cellule Caco-2 sono una linea di cellule che in monostrato costituiscono un modello di barriera intestinale umana utilizzato per studi di assorbimento gastroenterico. A questo stadio del progetto di ricerca viene selezionato un composto (o più di uno) con caratteristiche tali da prospettarne lo sviluppo come farmaco; questo verrà sottoposto a una serie di studi condotti su animali per verificarne l’efficacia, approfondire l’entità degli eventuali effetti collaterali e della tossicità e anche per valutare le possibili interferenze o interazioni, determinarne la dose e la via di somministrazione. Per i saggi in vivo viene indotta nell’animale la malattia da trattare e si osserva se la molecola in studio è in grado di eliminare i sintomi. Ad esempio, lo studio dei farmaci antinfiammatori viene condotto iniettando nella zampa dell’animale una sostanza edemigena, quale il polisaccaride carragenina, e osservando la capacità delle molecole in esame di ridurre le dimensioni dell’edema. Altrimenti è possibile selezionare ceppi di animali affetti da una particolare patologia. Così lo studio di molecole ad attività antipertensiva può essere effettuato su ceppi di ratti spontaneamente ipertesi. Il complesso degli studi chimici, farmacologici, farmacocinetici, tossicologici e formulativi su un candidato farmaco viene chiamato fase preclinica. Questa consiste in un processo lineare a stadi, che si avvale della cooperazione integrata di ricercatori con competenze diverse e fa da raccordo tra la fase di drug discovery e la successiva sperimentazione clinica, eseguito secondo una normativa codificata dalle autorità competenti e che prevede l’impiego di animali per la sperimentazione. Le diverse fasi della sperimentazione preclinica richiedono quindi un elevato rigore metodologico, del quale si fanno garanti le agenzie regolatorie sanitarie che controllano in modo dettagliato le procedure sperimentali utilizzate. Lo standard dei risultati relativi allo sviluppo preclinico è un requisito essenziale sia per l’approvazione di nuove molecole sia ai fini di un nuovo impiego terapeutico di molecole già approvate dalle agenzie regolatorie. Dato che per questo tipo di studi sono necessarie quantità rilevanti del composto in studio, e anche nell’eventualità della sua commercializzazione, in questa fase diventa necessario affrontare il problema della sintesi su larga scala, della stabilità e della formulazione del candidato farmaco. La fase di sviluppo preclinico richiede da 2 a 3 anni e costituisce il 30% dell’investimento totale. Generalmente, al termine di questa fase viene avanzata la richiesta di brevettare il farmaco. Da questo punto in poi il processo di sviluppo di un farmaco è svolto sotto la vigilanza degli organismi di controllo,

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CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci

quali la European Medicines Agency (EMA) o la Food and Drug Administration (FDA) statunitense, che autorizzano o meno l’avvio degli studi clinici nell’uomo (fase clinica). Questi si suddividono in quattro fasi, di seguito elencate.

provazione). Una volta iniziata la commercializzazione, il farmaco è comunque costantemente tenuto sotto osservazione (farmacovigilanza) e questo periodo è indicato come fase IV.

• Fase I: è la prima fase di sperimentazione sull’uomo; si effettua su un numero limitato (da 20 a 50) di volontari sani e serve a confermare quanto sperimentato sull’animale, cioè che la molecola non sia pericolosa. Operativamente i volontari vengono divisi in 2 o 3 gruppi, ciascun gruppo riceverà ogni giorno, per alcune settimane, una certa dose della sostanza in oggetto e sarà costantemente controllato. Questi test avvengono in ambito ospedaliero, dove i soggetti possono essere tenuti sotto osservazione dal personale medico. In alcuni casi particolari, come per i farmaci antitumorali, la fase I non avviene sul volontario, bensì sul malato di tumore in fase avanzata e quindi considerato incurabile. Questa scelta è conseguente al fatto che, in generale, i farmaci antitumorali sono molto tossici e non sarebbe corretto sottoporre persone sane a questi trattamenti; inoltre, nel caso di efficacia del nuovo preparato, il paziente ne trarrebbe immediato beneficio. Se alla fine di questo studio il farmaco ha dimostrato di avere un livello di tossicità accettabile rispetto al beneficio previsto (profilo beneficio/rischio), allora può passare alle successive fasi della sperimentazione.

• Fase IV: quando un nuovo farmaco viene commercializzato, è già stato testato su centinaia di pazienti, si è dimostrato efficace, sicuro e ha rivelato i suoi principali effetti collaterali. Tuttavia un campione di 100 o 1000 pazienti, per quanto accuratamente selezionato, non può rappresentare nemmeno lontanamente la variabilità del genere umano: quando un medicinale entra in commercio sarà utilizzato da milioni di persone. Ogni persona sarà diversa dalle altre per età, sesso, patologie di cui soffre, abitudini alimentari, professione, clima in cui vive, farmaci che assume, allergie e così via. Tutti questi fattori e le loro infinite combinazioni non possono essere verificati prima della commercializzazione e influenzano sia l’efficacia sia la tollerabilità di un farmaco. Così, nel numero molto elevato di persone trattate con il farmaco è estremamente probabile che si verifichi un’azione sfavorevole imprevista (di regola le più pericolose) che abbia una frequenza di circa 1 su 10 000 assuntori del medicamento. Azioni sfavorevoli di un farmaco con così bassa incidenza o con lunga latenza non possono essere evidenziate prima di alcuni anni di commercializzazione, a prescindere dall’accuratezza con cui gli studi di fase II e III siano stati condotti. Inoltre, stante la variabilità dei fattori interferenti, è spesso assai difficile stabilire con certezza un rapporto causa-effetto fra farmaco e reazioni sfavorevoli. Di qui l’importanza della farmacovigilanza dopo l’introduzione sul mercato di un farmaco, quando la somministrazione avviene in un contesto notevolmente diverso dalle indagini cliniche controllate, dove il contemporaneo uso di altri farmaci (anche di autoprescrizione) o prodotti erboristici, la presenza di patologie complesse e multiple, l’uso in fasce di età a rischio possono influenzare la reattività al farmaco.

• Fase II: la sperimentazione si allarga coinvolgendo un numero maggiore di individui, affetti dalle patologie che rientrano nella probabile attività terapeutica del candidato-farmaco. In questo modo si identifica la patologia (o le patologie) verso le quali la molecola è sicuramente efficace. Ulteriore scopo della fase II è stabilire la minima dose efficace sull’uomo e il regime di somministrazione ottimale (posologia e durata del trattamento). I soggetti arruolati per lo studio vengono generalmente divisi in più gruppi, a ciascuno dei quali è somministrata una dose differente del farmaco o, quando è eticamente possibile, un placebo (una sostanza priva di efficacia terapeutica). Per evitare che la somministrazione del placebo influenzi le aspettative dei partecipanti, le valutazioni dei parametri di attività e sicurezza sono condotte senza che paziente (si parla così di studio in singolo cieco), o medico e paziente (studio in doppio cieco), conoscano il tipo di trattamento ricevuto o somministrato. Contemporaneamente si continuano ad acquisire informazioni sulla sicurezza e tollerabilità della molecola. Questo stadio dura circa 2 anni. • Fase III: rappresenta l’ultima verifica prima dell’entrata in commercio, e quindi deve soddisfare un numero molto ampio di requisiti, tanto che può richiedere alcuni anni. La sperimentazione si effettua su qualche centinaio di pazienti che vengono randomizzati in gruppi ai quali verrà somministrato il nuovo principio attivo, oppure il farmaco d’elezione per quella specifica patologia. In questa fase, infatti, si deve verificare se la nuova molecola, rispetto a quelle già esistenti, offre dei vantaggi che ne giustifichino la commercializzazione. Dopo il completamento delle prime tre fasi, la documentazione raccolta è inviata agli organismi di vigilanza per ottenere l’approvazione alla commercializzazione del farmaco (fase di ap-

Per portare a termine tutto il processo delle prove cliniche e ottenere l’approvazione alla commercializzazione dagli organi competenti sono necessari tempi lunghi che si aggirano intorno ai 10 anni. Questo significa che dall’inizio del progetto alla commercializzazione del nuovo farmaco sono necessari generalmente 15-20 anni (Fig. 7.1).

7.3 Individuazione del punto di partenza (hit) e del prototipo (lead) Una volta individuata la malattia da trattare e il corrispondente bersaglio biologico, in un progetto di ricerca per un nuovo farmaco è necessario identificare una molecola prototipo (la parola inglese è lead e verrà usata nel resto del capitolo). La molecola lead non è necessariamente la prima molecola individuata, in quanto può derivare da una o più molecole chiamate hit. Come già detto in precedenza, un hit è una sostanza attiva nei confronti di un bersaglio biologico che è

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Figura 7.1 Schema delle varie fasi dello sviluppo di un farmaco.

Figura 7.2 Fasi iniziali della ricerca di nuovi farmaci. VS, virtual screening; FBLD, fragment based ligand discovery.

considerata un punto di partenza. Per modificazione della struttura chimica di un hit si può ottenere un lead. La molecola hit può essere individuata attraverso vari metodi che verranno trattati in altri paragrafi di questo capitolo (Fig. 7.2). Il lead è un composto di origine naturale o sintetica in grado di interagire con il bersaglio farmacologico scelto, anche se privo di alcune caratteristiche ideali per poter essere definito farmaco. Non è necessario perciò che possieda un’attività elevata, oppure che presenti selettività e non abbia effetti collaterali. Spesso il lead ha una farmacocinetica insufficiente e un profilo metabolico inadeguato, che devono essere ottimizzati prima di poterlo considerare un candidato farmaco. Altre importanti proprietà di cui il lead può essere ancora sprovvisto sono la stabilità chimica, la flessibilità e la facilità di sintesi, e la brevettabilità (Tab. 7.1). Caratteristiche ottimali possono essere ottenute attraverso la modulazione della struttura del lead con la tecnica della manipolazione chimica. Quindi il processo di ottimizzazione (Par. 7.7) consiste nell’identificare nuove molecole che mantengano o migliorino l’attività del lead e, contempora-

neamente, acquisiscano le caratteristiche farmaco-tossicologiche e chimiche ideali per essere sviluppate come candidati farmaci. L’individuazione di un lead può avvenire attraverso varie modalità: • scoperta casuale; • screening sistematico e mirato; • identificazione di prodotti di origine naturale; • amplificazione di effetti collaterali; • copia di farmaci preesistenti; • identificazione di metaboliti di farmaci noti; • chimica combinatoriale; • progettazione razionale.

7.3.1 Scoperta casuale Nella storia della scoperta dei farmaci si può osservare che alcuni di questi sono stati individuati casualmente. Il termine inglese serendipity indica l’esperienza di imbattersi in qual-

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Tabella 7.1 Caratteristiche ideali di hit, lead e candidato farmaco. Proprietà

Hit

Lead

Candidato farmaco

Affinità (potenza)

+ (mM-μM)

++ (μM-nM)

+++ (nM)

Selettività

+/–

++/–

+++

Tossicità

+/–



–––

Maneggiabilità chimica

+++

+++

+++

Brevettabilità

+/–

++

+++

Farmacocinetica

+/–

++

+++

Profilo metabolico

+/–

+

+++

Effetti collaterali

+/–



–––

cosa per caso, o la capacità di collegare fra loro fatti apparentemente insignificanti, arrivando a una preziosa conclusione. In altre parole, la casualità nella scoperta dei farmaci non può essere ricondotta semplicemente a un evento fortunato ma, spesso, è dovuta alla capacità e all’intuito del ricercatore di afferrare l’importanza del fenomeno osservato, saperlo sviluppare e sfruttare. Tantissimi sono i farmaci che sono stati scoperti casualmente, come ad esempio le penicilline, le benzodiazepine, la nitroglicerina, l’iproniazide, il cis-platino, la clorpromazina. In questi casi la scoperta iniziale ha portato all’identificazione di una molecola utilizzata come farmaco che ha costituito il lead per lo sviluppo di altri composti con caratteristiche migliori. Nel 1928, A. Fleming, studiando la crescita di colonie di Staphylococcus aureus su piastre di Petri nel suo laboratorio di St. Martin a Londra, osservò che alcune colture di microbi erano state invase da muffe (Penicillium notatum) che ne impedivano la crescita e in alcuni casi ne provocavano la scomparsa. Fleming comprese subito l’importanza dell’evento, pensando che la muffa fosse la causa della morte dei batteri, in quanto produceva una sostanza in grado di uccidere i microrganismi. Probabilmente con uno scienziato più distratto tutto sarebbe passato inosservato. Successivamente Florey e Chain isolarono dal Penicillium il principio attivo che fu denominato penicillina G e che entrò in uso come antibiotico nel 1940. In seguito sono state ottenute numerose penicilline semisintetiche con caratteristiche migliori, come l’attività per via orale e uno spettro d’azione più ampio (Cap. 35). H N

H

H S N

O O

CH3 CH3

COOH

Penicillina G

Il clordiazepossido, capostipite delle benzodiazepine, farmaci ad azione sedativa, muscolo-rilassante e anticonvulsivante, è un farmaco entrato in terapia come agente ansiolitico nel 1960. La sua scoperta è stata il frutto del caso; infatti negli anni ’50, Leo Sternbach, ricercatore della Hoffman-La Roche, stava ricercando composti ad attività tranquillante che fossero alternativi ai barbiturici. Sintetizzò una serie di composti basici poiché aveva notato che la presenza di gruppi azotati basici nella struttura delle molecole frequentemen-

te conferiva loro proprietà biologiche. Sulla base di questa osservazione, preparò una serie di molecole trattando l’intermedio clorometilchinazolina-N-ossido con amine per ottenere composti che avessero proprietà tranquillanti agendo sul sistema nervoso centrale (SNC). L’unico composto attivo dimostrò di non possedere la struttura chinazolinica attesa, ma risultava da una reazione non prevista di allargamento di anello. Tuttavia questa molecola, denominata clordiazepossido, era dotata di proprietà sedative, anticonvulsivanti e miorilassanti superiori e di una minore tossicità rispetto ai barbiturici. La struttura del clordiazepossido fu modificata per migliorarne le proprietà farmacocinetiche, portando alla sintesi del diazepam (Cap. 11), che non contiene gruppi azotati basici come il clordiazepossido, tuttavia è 3-10 volte più potente. Il diazepam, introdotto in commercio nel 1963 con il nome Valium, divenne presto il farmaco più prescritto al mondo (Fig. 7.3). Centinaia di benzodiazepine sono state sintetizzate successivamente; di queste un elevato numero ha raggiunto il mercato e numerose sono tuttora usate in terapia. Agli inizi degli anni ’50 l’iproniazide veniva utilizzata come antitubercolare insieme all’isoniazide (Cap. 37). Entrambi i farmaci sono efficaci nel trattamento della tubercolosi, ma nei pazienti che assumevano l’iproniazide, rispetto a quelli trattati con l’isoniazide, fu osservato un miglioramento dell’umore. Più tardi fu scoperto che l’iproniazide è in grado di inibire l’enzima monoaminossidasi (MAO, Cap. 12), responsabile della degradazione delle amine biogene quali la noradrenalina, la serotonina e la dopamina. In questo modo aumentano i livelli di tali neurotrasmettitori nel SNC, determinando un effetto antidepressivo. L’isoniazide non ha questo effetto sulle MAO ed è tuttora utilizzata come farmaco di prima scelta nella cura della tubercolosi. Dalla scoperta dell’azione antidepressiva dell’iproniazide sono stati identificati altri inibitori MAO con caratteristiche migliori in termini di potenza e selettività. H N

O

NH2

N Isoniazide

H N

O

N H

N Iproniazide

CH3 CH3

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N

N

NHCH3 N

Cl

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O

N

Cl

Prodotto voluto ma non ottenuto

O

N

N

Cl

Clorometilchinazolina-N-ossido

CH3

NHCH3

N

Cl

O

Clordiazepossido

O

N

Cl

Diazepam

Figura 7.3 Sviluppo delle benzodiazepine.

7.3.2 Screening sistematico e mirato L’indagine generalizzata di prodotti chimici per l’identificazione di nuove molecole con una certa attività biologica, in inglese indicata come screening, è una strategia di uso generale per l’individuazione di lead. Questa metodica può essere impiegata per valutare gli effetti di una molecola su una varietà di saggi farmacologici, allo scopo di individuarne l’eventuale attività (screening sistematico). In alternativa può servire a saggiare un numero molto grande di molecole su un unico modello farmacologico per individuare il lead da sviluppare (screening mirato). Le sostanze usate nello screening possono essere composti naturali o provenire dalle collezioni di molecole delle varie industrie farmaceutiche, possono essere raccolte da laboratori accademici o, come avviene oggi, provenire dalla sintesi combinatoriale (Par. 7.3.7). Questa strategia, quando ha successo, fornisce strutture attive su nuovi target o seleziona nuove molecole attive su target conosciuti. Un esempio fortunato di questo approccio è quello della scoperta del donepezil, un inibitore dell’enzima acetilcolinesterasi con potenza nanomolare, usato nel trattamento della malattia di Alzheimer (Cap. 15). Questo farmaco deriva dallo sviluppo chimico di una molecola con debole azione

inibitoria sull’enzima acetilcolinesterasi, individuata attraverso il saggio in un test di inibizione enzimatica di migliaia di sostanze chimiche presenti nella collezione della ditta produttrice (Fig. 7.4). La popolarità dello screening sia sistematico sia mirato è andata via via diminuendo, poiché tali metodiche richiedevano tempi lunghi e notevoli investimenti finanziari. Più recentemente, tuttavia, lo sviluppo di saggi farmacologici e biologici ad alta efficienza e capacità (HTS) li ha resi nuovamente praticabili e altamente produttivi. Attualmente è una pratica diffusa nelle industrie farmaceutiche dotarsi di una vasta collezione di sostanze che possono essere saggiate rapidamente su un dato modello farmacologico, ad esempio un nuovo sistema recettoriale. Solitamente, questa procedura conduce all’identificazione di un numero limitato di hit che possono dare uno o più lead in seguito a opportuna validazione (ad es. conferma dell’attività e della maneggevolezza chimica) e selezione (hit triage). Come già detto nel Paragrafo 7.2, il termine hit si riferisce a una molecola identificata con un processo di screening tramite un saggio biologico. Spesso la molecola hit ha una debole affinità per il target e ha generalmente un profilo farmacocinetico, chimico-fisico e tossicologico da modificare OCH3

O

N N IC 50 = 12,6 µM

Figura 7.4 Sviluppo del donepezil.

N

OCH3

NO2 Donepezil IC 50 = 2 nM

O

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per diventare un lead (Tab. 7.1). Va ricordato inoltre che con i mezzi informatici moderni si possono formare collezioni di molecole virtuali che possono essere sottoposte a uno screening virtuale, se è nota la struttura atomica del bersaglio biologico o un suo attendibile modello per omologia (Cap. 8).

resistenti in molte aree geografiche infestate dalla malaria. La ricerca farmaceutica fu nuovamente stimolata e portò alla sintesi della meflochina, che fu introdotta sul mercato nel 1977 come agente attivo sui ceppi di plasmodio resistenti alla clorochina (Fig. 7.5 e Cap. 39). Un altro esempio, in cui i composti naturali di origine vegetale hanno costituito il punto di partenza per la sintesi di prodotti sintetici dotati di caratteristiche migliori, è quello degli anestetici locali sintetizzati a partire dalla struttura della cocaina, un alcaloide contenuto nelle foglie di Erythroxylon coca, da cui è stato isolato nel 1862. La cocaina ha attività anestetica locale ma, sfortunatamente, ha anche azione stimolante sul SNC e provoca dipendenza. Iniziarono così numerosi studi mirati a ottenere analoghi strutturalmente più semplici che non dessero dipendenza e altri effetti collaterali, quali reazioni allergiche e irritazione dei tessuti. Nel 1905 fu sintetizzata la procaina che, pur avendo una struttura più semplice della cocaina, conserva alcuni requisiti sterici (un anello aromatico, un azoto basico) che le consentono di mantenere l’azione anestetica locale perdendo le proprietà euforizzanti e la capacità di indurre dipendenza del lead naturale (Cap. 14). Nonostante questi importanti successi, per alcuni decenni l’industria farmaceutica ha avuto scarso interesse nella ricerca di farmaci basata sui prodotti di origine naturale. Le ragioni sono probabilmente dovute alle difficoltà nella separazione e nell’identificazione dei principi attivi presenti nella matrice naturale, che rendono il processo lento e costoso. Più recentemente la ricerca di farmaci di origine naturale ha riacquistato interesse in seguito a numerosi successi di questo tipo di approccio. Recenti scoperte in questo campo sono, ad esempio, il taxolo, principio attivo contenuto nella corteccia del tasso del Pacifico (Taxus brevifolia), che possiede azione citotossica poiché è in grado di bloccare il processo mitotico della cellula. L’iniziale sviluppo del taxolo come farmaco antitumorale è stato rallentato da problemi di disponibilità su larga scala e di solubilità. Tali problemi sono stati superati anche con l’ottenimento del derivato semisintetico taxotere (docetaxel) che, essendo più idrofilo, ha una miglior biodisponibilità. Attualmente il tassolo è commercializzato come paclitaxel (Cap. 42). Un esempio recente di particolare interesse è la scoperta dell’antimalarico artemisinina, che contiene nella sua struttura un anello ossigenato con un gruppo perossidico (ciclo triossanico) che, perciò, sembrerebbe estremamente instabile da rendere la molecola inadatta a diventare un farmaco (Fig. 7.6).

7.3.3 Identificazione di prodotti di origine naturale Le sostanze di origine naturale, in particolare quelle derivanti dal mondo vegetale, costituiscono la fonte di nuovi farmaci più antica ma di maggior successo. Le piante, i microrganismi e gli organismi marini forniscono una ricca collezione di strutture chimiche del tutto originali che difficilmente potrebbero essere progettate dai chimici. L’evoluzione naturale ha consentito la sopravvivenza di quelle specie che sono in grado di produrre sostanze tossiche di difesa (metaboliti secondari). Frequentemente queste sostanze esercitano un’attività biologica nell’uomo e possono essere usate in terapia come tali o, più spesso, possono costituire dei prototipi per la progettazione di farmaci con proprietà migliori. Numerosi sono gli esempi di composti naturali usati come farmaci: morfina, chinina, atropina, digitossina, efedrina. Altri sono stati il punto di partenza per la sintesi di prodotti dotati di caratteristiche migliori, come gli anestetici locali sintetizzati usando la struttura della cocaina come modello. Uno tra i più importanti farmaci di origine naturale è la chinina (Cap. 39), che costituisce il principale alcaloide della Cinchona, albero originario del Perù, la cui corteccia veniva utilizzata dagli Incas per curare la malaria. Il suo uso fu introdotto in Europa dai Gesuiti nel XVII secolo come antifebbrile. Nel 1820 fu isolato il principio attivo che da allora, nonostante i suoi effetti collaterali (tinnito e parziale sordità), è stato largamente utilizzato come farmaco antimalarico. Visto il successo di questo farmaco, la Cinchona veniva coltivata in grandi piantagioni in Indonesia. Con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale gli approvvigionamenti di Cinchona divennero problematici cosicché, per garantire la protezione e la cura delle truppe americane impegnate nelle isole del Pacifico infestate dalla malaria, fu avviato un programma di ricerca per la sintesi di derivati della chinina con struttura più semplice. Delle centinaia di molecole sintetizzate, la clorochina risultò la più efficace e quella dotata di minori effetti collaterali rispetto alla chinina. Fu così introdotta sul mercato nel 1945. La clorochina è stata per molto tempo il farmaco antimalarico di elezione fino alla comparsa, negli anni ’60, di ceppi

N

HO H

H3CO

CH3

CH3

H

N Chinina

Figura 7.5 Chinina e analoghi.

HN

CH2

Cl

N

CH3

HO

N Clorochina

H N H

N CF3

CF3

Meflochina

173

174

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

ISBN 978-88-08-18712-3

NH2

COOCH3 H3C

N

H5C2

O

O

N C2H5

O Cocaina

C6H5

Procaina

H3COCO

O

O OH CH3

C6H5

CH3

CH3 CH3

H3C O

NH

O

HO

OH

O

C6H5OCO

H3C

O

H3C

HO

O

C6H5

O

O

C6H5OCO

O O H

CH3

prototipi, dai quali per manipolazione molecolare è stato possibile ottenere altri farmaci. In modo analogo alle piante, i microrganismi producono sostanze tossiche per difendersi da altri microrganismi in competizione con loro. La maggior parte dei farmaci derivanti da microrganismi è utilizzata per combattere le infezioni batteriche, ma alcuni metaboliti secondari sono stati utilizzati come prototipi per ottenere farmaci con altri tipi di azione. Ad esempio la lovastatina, prodotta dal fungo Aspergillus terreus, è stata il prototipo per una serie di farmaci ipocolesterolemizzanti. La sua scoperta è dovuta all’isolamento dal brodo di fermentazione del fungo Penicillium citrinum di un prodotto, la mevastatina, che, sperimentato sugli animali, causava abbassamento dei livelli del colesterolo nel sangue per inibizione di un enzima chiave nella biosintesi del colesterolo, la HMG-CoA reduttasi. Successivamente, dal brodo di fermentazione dell’Aspergillus H

H3C

O

O O

H

O

H

CH3

H H3C

O

H

H CH3

H H3C

O O H

O

O

CH3

O H

O

CH3 O

O O- Na+

O Artesunato sodico

CH3

H CH3

OR Artemetere: R = CH3 Arteetere: R = CH2CH 3

OH Diidroartemisinina

Artemisinina

O O

O

CH3 O

Figura 7.6 Artemisinina e derivati.

O OCOCH3

Taxotere

L’artemisinina è un prodotto naturale isolato dall’Artemisia annua (qinghao) in uso da secoli nella medicina tradizionale cinese per il trattamento delle sindromi febbrili. Da questa pianta nel 1972 fu estratta l’artemisinina, che si rivelò un potente antimalarico efficace contro ceppi resistenti di plasmodio. La complessa struttura dell’artemisinina non ha nessuna somiglianza con quella dei precedenti farmaci antimalarici. Oltre al particolare ciclo triossanico, è presente un gruppo carbonilico la cui elaborazione ha permesso di ottenere derivati semisintetici. Infatti per riduzione del gruppo lattonico si ottiene la diidroartemisinina da cui, per esterificazione, sono stati ottenuti l’artemetere, l’artesunato e l’arteetere. Questi derivati semisintetici sono più attivi dell’artemisinina stessa e sono dotati di migliori caratteristiche di solubilità (Fig. 7.6 e Cap. 39). Oltre al mondo vegetale, anche i microrganismi, in particolare i batteri e i funghi, hanno fornito molti farmaci o

H3C

HO

OH

OCOCH3

Paclitaxel

H

CH3 CH3

H3C O

NH

O OH CH3

CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci

ISBN 978-88-08-18712-3

terreus, fu isolata la lovastatina, strutturalmente molto simile alla mevastatina ma 2 volte più potente nell’inibire l’enzima HMG-CoA reduttasi. La lovastatina, che è stata approvata per il trattamento dell’ipercolesterolemia nel 1987, ha costituito il prototipo per la sintesi di numerosi inibitori di questo enzima oggi largamente utilizzati in terapia per la riduzione dei livelli ematici del colesterolo (Cap. 20). HO

O O

O H3C

H O

CH3

H

CH3

H3C Lovastatina

Anche il mondo animale rappresenta una fonte di prototipi di farmaci. L’alcaloide epibatidina, isolato negli anni ’70 dalla pelle di una rana velenosa dell’Ecuador, è un analgesico con una potenza 200 volte superiore a quella della morfina. L’azione analgesica dell’epibatidina è dovuta all’attivazione dei recettori nicotinici centrali e non dei recettori degli oppioidi, come nel caso della morfina. Una molecola con questo meccanismo d’azione permette di indurre analgesia senza che si verifichino gli effetti collaterali spiacevoli causati dalla morfina, come la dipendenza e la tolleranza. L’epibatidina, che è stata ottenuta per sintesi nel 1993, non è però utilizzabile come farmaco a causa della sua tossicità. Dalla modificazione della sua struttura sono stati ottenuti composti analoghi attualmente in studio per un loro uso clinico. NH

matica ha portato alla sintesi di farmaci antipertensivi per uso orale, quali il captopril (Par. 7.3.5 e Cap. 18). 5-oxoPro-Trp-Pro-Arg-Pro-Gln-Ile-Pro N Teprotide

Gli organismi marini e i sedimenti dei mari e degli oceani costituiscono una ricchissima fonte di sostanze dotate di effetti biologici. Tra i tanti composti prodotti dagli organismi marini per difendersi dai predatori è stata individuata la conotossina SX-111, una tossina prodotta da una lumaca del mare delle Filippine, il Conus magnus. Essa è in grado di bloccare selettivamente i canali del calcio di tipo N, la cui inattivazione a livello del midollo spinale blocca la trasmissione del dolore. Questa tossina è un peptide di 25 aminoacidi e il suo analogo sintetico, ziconotide, è stato autorizzato nel 2004 per la cura del dolore cronico. Esso infatti, iniettato nel canale vertebrale, possiede un’efficacia analgesica paragonabile o superiore a quella della morfina. Le molecole, quali neurotrasmettitori e ormoni, che hanno funzioni fisiologiche nell’organismo umano rappresentano un caso particolare di prodotti naturali che possono essere presi come prototipi per ottenere composti più specifici, più stabili, più selettivi o dotati di un’utile azione antagonista. Ad esempio, la struttura della noradrenalina, ligando naturale dei recettori α- e β-adrenergici, è stata il punto di partenza per la sintesi dell’isoprenalina, primo farmaco selettivo per la sottoclasse recettoriale β-adrenergica. Ulteriori modifiche hanno portato a composti selettivi per la sottoclasse β2-adrenergica, tra cui il salbutamolo, utilizzati come broncodilatatori nella terapia dell’asma (Fig. 7.7 e Cap. 22). Anche i farmaci antiemicrania appartenenti al gruppo dei triptani, come il sumatriptan, con azione agonista selettiva per la sottoclasse 5-HT1 del recettore serotoninergico, sono stati sviluppati a partire dalla struttura del ligando naturale serotonina (5-idrossitriptamina, 5-HT).

H

Epibatidina

O O

N

HO

Dal veleno di una vipera brasiliana è stato isolato il peptide teprotide, un potente inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE). Il teprotide, data la sua natura peptidica, non è utilizzabile come farmaco per uso orale per instabilità agli enzimi digestivi. La sua struttura però ha costituito il prototipo per lo sviluppo di inibitori peptidomimetici dell’ACE utilizzabili per via orale. Infatti l’aver riconosciuto il nucleo prolinico dell’aminoacido terminale del teprotide come requisito strutturale importante per l’inibizione enzi-

H3C

H3C

NH2

Cl

N

COOH

O2S N H

Sumatriptan

O N

CH3

O CH3

Acetilcolina agonista colinergico

N H

Utilizzando come modello le strutture dei ligandi naturali sono stati sviluppati anche composti con effetto antagonista, ad esempio dal mediatore dei recettori colinergici acetilcolina sono stati ottenuti composti ad azione antagonista muscarinica quali lo spasmolitico adifenina.

CH3

CH3

NH

H3C

Serotonina

CH3 N

CH3

Adifenina antagonista muscarinico

175

176

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

OH

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OH

HO

NH2

HO

HO

OH CH3

H N

HO

CH3

HO

Noradrenalina agonista - e -adrenergico

H N

CH3 CH3 CH3

HO

Isoprenalina agonista selettivo -adrenergico

Salbutamolo agonista selettivo 2 -adrenergico

Figura 7.7 Noradrenalina e derivati.

7.3.4 A  mplificazione di effetti secondari di altri farmaci La maggior parte dei farmaci, oltre all’azione biologica per la quale sono utilizzati in clinica, provocano un certo numero di effetti collaterali, in genere indesiderati. Se tali effetti inattesi sono di interesse terapeutico, questi farmaci possono diventare i lead per lo sviluppo di nuove molecole nelle quali l’azione identificata corrisponda all’effetto principale. Così, attraverso la manipolazione molecolare, vengono separate le due azioni, esaltando il nuovo meccanismo ed eliminando il più possibile quello originale. Un esempio è costituito dalla classe dei sulfamidici utilizzati come agenti antibatterici. L’uso clinico di alcuni rappresentanti di questa classe ha portato all’osservazione che, accanto all’azione antibatterica, questi composti avevano anche effetti diuretici e ipoglicemizzanti. Tali osservazioni hanno stimolato lo sviluppo di nuove classi di molecole ottenute in seguito a modificazione della struttura dei sulfamidici, in modo da eliminare l’azione antibatterica ed esaltare l’effetto diuretico, o ipoglicemizzante, fino a farlo diventare l’unica attività farmacologica presente. È stata così identificata la classe dei diuretici sulfonamidici, di cui la clorotiazide è il capostipite (Cap. 17), e quella degli ipoglicemizzanti orali a struttura sulfanilureica, di cui il capostipite è la tolbutamide (Fig. 7.8 e Cap. 24). Un recente esempio di sviluppo di farmaci in seguito all’osservazione degli effetti collaterali clinici è il sildenafil. Questo composto era stato sintetizzato dai ricercatori della Pfizer come inibitore dell’enzima fosfodiesterasi 5 (PDE-5) in seguito all’osservazione che questa sottoclasse enzimatica è presente nella muscolatura liscia dei vasi sanguigni e la sua inibizione provoca diminuzione della resistenza vascolare. Il sildenafil è stato quindi sviluppato come vasodilatatore utile per il trattamento dell’angina pectoris e dell’ipertensione. I risultati delle prove cliniche per saggiare la reale efficacia e

O

O S

N H

O

la sicurezza del farmaco nelle malattie cardiovascolari non furono entusiasmanti, in quanto il sildenafil risultò poco efficace nel trattamento dell’angina pectoris. Alcuni pazienti reclutati per la sperimentazione, tuttavia, riportarono come effetto collaterale un miglioramento della funzione erettile. Studi approfonditi misero in evidenza la maggior efficacia di questo composto come vasodilatante sui vasi del pene rispetto a quelli cardiaci. Così gli studi per il trattamento dell’angina pectoris del sildenafil vennero accantonati e cominciarono invece quelli per il trattamento dell’impotenza (Cap. 19). O O N H3C

N H

H3C Tolbutamide ipoglicemizzante

Figura 7.8 Farmaci derivati dai sulfamidici.

O

CH3 N

N

S

N N

N

O Sildenafil

CH3 CH3

Il sildenafil, introdotto sul mercato nel 1998 con il nome di Viagra, è stato il primo farmaco efficace per via orale per il trattamento della disfunzione erettile, e costituisce un esempio di “riposizionamento” (Par. 7.9.3). Successivamente, basandosi sulla struttura del sildenafil, sono stati ottenuti altri farmaci per la cura della disfunzione erettile dotati di migliori caratteristiche di potenza, selettività e farmacocinetica.

7.3.5 Copia di farmaci preesistenti Un altro metodo per l’identificazione del prototipo è quello di utilizzare un farmaco già noto per ottenere, tramite la manipolazione molecolare della struttura, nuove molecole con migliori caratteristiche farmacologiche. Questa strategia è in genere perseguita dalle industrie farmaceutiche interessate a

O

O S

C4H9

H

H2N Sulfamidici antibatterici ipoglicemizzanti diuretici

N H

R

O

O H2NO2S

S

Cl

N Clorotiazide diuretico

NH

CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci

ISBN 978-88-08-18712-3

sviluppare un proprio farmaco da immettere sul mercato in competizione con il farmaco già in uso (me-too drugs). A tale scopo vengono apportate modifiche alla struttura originale che permettano di superare le protezioni brevettuali. Si tratta in genere di farmaci indicati per la cura di malattie diffuse nei Paesi più avanzati, la cui commercializzazione è perciò particolarmente remunerativa. Anche se tale approccio manca di originalità e le motivazioni che spingono a intraprenderlo spesso sono prevalentemente di tipo economico, in molti casi sono stati ottenuti composti con caratteristiche terapeutiche migliori in termini di potenza, selettività e tollerabilità, favorendone quindi anche l’accettazione da parte dei pazienti. Numerosi sono gli esempi, fra cui quello degli analoghi del captopril, sviluppato negli Stati Uniti dalla ditta Squibb negli anni ’70. Questo farmaco è un inibitore dell’ACE ed è uno dei primi esempi di farmaco progettato in base alle conoscenze della struttura della macromolecola bersaglio. L’ACE catalizza due reazioni coinvolte nella regolazione della pressione arteriosa: la conversione del decapeptide angiotensina I nell’octapeptide angiotensina II, dotata di marcata attività vasocostrittiva, e l’inattivazione della bradichinina, un peptide ad attività vasodilatante. L’inibizione dell’ACE porta quindi a una diminuzione della pressione arteriosa. Il captopril è infatti utilizzato come farmaco antipertensivo e ha costituito il capostipite di una nutrita schiera di analoghi sviluppati da altre ditte interessate a coprire questo settore del mercato. Sono stati così introdotti sul mercato l’enalapril e il lisinopril dalla Merck, il ramipril dalla Hoechst e molti altri. Questi congeneri del captopril si differenziano dal capostipite per la maggior potenza e i ridotti effetti collaterali (Fig. 7.9 e Cap. 18). Un altro esempio di questo approccio è dato dai numerosi farmaci derivati dalla cimetidina, primo antagonista dei recettori H2 dell’istamina sviluppato negli anni ’60 dalla ditta Smith, Kline & French e immesso in commercio, con grande successo, nel 1976 come farmaco per il controllo dell’iperacidità gastrica. In seguito furono sviluppati altri antagonisti tra i quali la ranitidina, introdotta sul mercato nel 1981 dalla Glaxo. La ranitidina ha un profilo farmacologico migliore

della cimetidina, in quanto è 10 volte più potente, ha una maggiore durata d’azione e presenta minori effetti collaterali. Altri H2-antagonisti sviluppati negli anni ’80 sono la famotidina e la nizatidina, che presentano caratteristiche migliori rispetto al prototipo (Fig. 7.10 e Cap. 30).

7.3.6 Identificazione di metaboliti di farmaci noti Dallo studio del metabolismo dei farmaci in uso clinico è possibile talvolta trarre importanti suggerimenti per lo sviluppo di nuove molecole. Infatti in alcuni casi i metaboliti sono anch’essi dotati di attività farmacologica e il loro uso, come tali o attraverso modifiche, può portare a farmaci con un profilo farmacologico migliore. Un classico esempio è quello del paracetamolo, metabolita di due vecchi farmaci ad azione antipiretica e analgesica, l’acetanilide e la fenacetina. Questi due composti mostrano, rispettivamente, tossicità ematica e renale, e perciò non vengono più utilizzati. Al contrario, il loro metabolita paracetamolo è un farmaco di largo impiego, essendo più potente dei composti da cui deriva e privo di tossicità significativa alle dosi terapeutiche (Fig. 7.11 e Cap. 27). La terfenadina è un farmaco anti-H1 di seconda generazione. È stato individuato negli anni ’80 durante una ricerca finalizzata alla scoperta di nuovi farmaci antiallergici privi degli effetti sedativi a livello del SNC, tipici dei composti di questa classe già utilizzati in terapia. La terfenadina possiede marcati effetti antiallergici ed è effettivamente priva di effetti centrali, ma il suo uso clinico estensivo ha messo in evidenza alcuni importanti effetti collaterali, in particolare può provocare aritmie potenzialmente fatali. La ragione di questa tossicità cardiaca è stata individuata nell’affinità della terfenadina nei confronti dei canali del potassio cardiaci hERG. È stato però osservato che la trasformazione metabolica della terfenadina porta alla formazione del corrispondente derivato acido per ossidazione di uno dei metili del gruppo t-butilico. Questo metabolita è ancora in grado di legarsi al recettore H1-istaminergico ma non ai canali del potassio hERG, non

COOR CH3

CH3 HS

N O

N H COOH

Captopril (Squibb)

N O

COOH

Enalapril (Merck)

NH2 COOR CH3 H

COOH N H

O

Lisinopril (Merck)

Figura 7.9 Captopril e congeneri.

N H

N COOH

H N

O

COOH

Ramipril (Hoechst)

177

178

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

HN

CH3

CN

N S

N

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N H

N H

NO2

CH3 CH3

N

H3C

Cimetidina (SK&F)

S

O

N H

Ranitidina (Glaxo) Maggiore durata di azione, minori effetti tossici

S N

H2N

S

N

N

NH2

CH3

N H

CH3 SO2NH2

NH2

N

H3C

Famotidina (Yamanouchi) più potente

NO2

S S

N

N H

N H

CH3

Nizatidina (Axid) migliore biodisponibilità

Figura 7.10 Cimetidina e congeneri.

O

O HN

HN

CH3

CH3

OH Acetanilide

Paracetamolo

CH3

CH3

O HN

CH3

O

CH3

O OH

O

N H

O

CH3

OH

N H

CH3

OH CH3 O

Fenacetina Metoprololo

Figura 7.11 Paracetamolo e suoi precursori.

Figura 7.12 Metabolismo del metoprololo.

è quindi tossico a livello cardiaco. La terfenadina è stata ritirata dal mercato nel 1997 e attualmente viene usato il suo metabolita con il nome di fexofenadina (Cap. 30). Studiando il metabolismo di un farmaco in uso clinico è possibile talvolta avere indicazioni sul modo di ottenerne un altro a partire da un metabolita inattivo e facilmente eliminabile. Se questo può essere trasformato in un derivato con la stessa attività del composto di riferimento, avremo un farmaco con la medesima azione ma con una via metabolica sicura già predisposta. Ad esempio, dallo studio del metabolismo del farmaco β1-bloccante metoprololo è emerso che uno dei metaboliti

che si formano nell’organismo è il corrispondente derivato carbossilico, privo di attività adrenergica (Fig. 7.12). Allo scopo di ottenere un farmaco con una breve emivita per un’azione ultrarapida, sono stati sintetizzati vari derivati esterei del metabolita acido in modo da ottimizzare l’attività e la velocità di idrolisi. Il derivato esmololo è risultato il composto con le caratteristiche migliori, in quanto presenta una buona potenza come β1-bloccante e un rapido metabolismo che porta a un composto acido inattivo. Il tempo di emivita di pochi minuti dell’esmololo ne permette l’uso per infusione endovena durante interventi chirurgici (Fig. 7.13). COOH

CH3

CH3

CH3

CH3

CH3 N

N

OH

OH HO

HO Terfenadina

Fexofenadina

CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci

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N H

O OH

CH3

CH3 O

CH3

N H

OH

CH3

Esterasi

O

O O

CH3

Esmololo 1-bloccante ad azione ultrarapida

OH Metabolita inattivo

Figura 7.13 Metabolismo dell’esmololo.

7.3.7 Chimica combinatoriale Come già detto nell’introduzione del capitolo, lo sviluppo della genomica e della proteomica ha reso disponibile un elevato numero di nuovi possibili bersagli biologici, le cui funzioni possono essere caratterizzate e controllate attraverso composti in grado di interagire con essi. Spesso non si hanno indicazioni sui requisiti strutturali che il composto deve avere per potersi legare al nuovo target. In questo caso, sottoporre all’analisi farmacologica un consistente numero di molecole con strutture anche molto diverse fra loro consente di aumentare la probabilità di identificare un numero adeguato di hit e quindi di lead. Mentre in passato la sperimentazione farmacologica delle nuove molecole costituiva lo stadio lento del processo di sviluppo di un farmaco, con l’introduzione e la diffusione dei metodi ad alta efficienza (HTS) è oggi possibile valutare, in poco tempo, centinaia di composti in decine di saggi

Figura 7.14 Sintesi classica e sintesi combinatoriale.

biologici. Perciò la sintesi chimica delle nuove molecole da provare sui nuovi bersagli biologici è diventata il fattore limitante del processo di ricerca. La chimica combinatoriale nasce dall’esigenza di porre la sintesi chimica al passo con le nuove potenzialità dei saggi biologici. L’idea base della chimica combinatoriale è quella di costruire, tutte in una volta, ampie collezioni di composti contenenti un alto numero di varianti di strutture fondamentali, di procedere alla valutazione della loro attività biologica e, infine, di identificare i prodotti che eventualmente risultano attivi. Sperimentalmente questa strategia è basata su una metodica in cui una serie di miscele di composti vengono fatte reagire ottenendo una miscela di prodotti, indicata come libreria, contenuta in un unico reattore. Il numero di molecole con strutture diverse presenti in ciascuna libreria è derivabile dal calcolo combinatorio. A questo punto, i prodotti presenti nel reattore non vengono isolati e purificati, ma sono saggiati in miscela per valutarne l’attività biologica. Nel caso in cui

179

180

CHIMICA FARMACEUTICA – PARTE GENERALE

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Tabella 7.2 Peptidi ottenibili dalla combinazione di 20 aminoacidi. Numero di aminoacidi

Peptide

Combinazioni

2

H2N-A1-A2-COOH

202

400

3

8000

3

H2N-A1-A2-A3-COOH

20

Numero di prodotti

4

160 000

4

H2N-A1-A2-A3-A4-COOH

20

5

H2N-A1-A2-A3-A4-A5-COOH

205

3 200 000

6

H2N-A1-A2-A3-A4-A5-A6-COOH

206

64 000 000

tale miscela mostri positività al saggio, con adatte metodiche, è possibile identificare il prodotto, o più di uno, attivo e quindi individuare nuovi lead in tempi molto rapidi. La sintesi combinatoriale è quindi molto diversa dalla sintesi convenzionale in cui si sintetizza un prodotto alla volta, che dopo essere stato purificato e caratterizzato viene sottoposto alle prove farmacologiche. In questo caso, ovviamente, i tempi necessari per individuare un eventuale lead risultano molto più lunghi. Nella sintesi classica una molecola A viene fatta reagire con una molecola B per dare un prodotto AB il quale, dopo essere stato purificato, fornisce il prodotto ABC per reazione con C, e così via. Nella sintesi combinatoriale invece una serie di molecole di tipo A (A1, A2, A3…An) viene fatta reagire con una serie di molecole di tipo B (B1, B2, B3…Bm) ottenendo, in teoria, tutte le possibili combinazioni tra A e B per un totale di n  ×  m composti. Eseguendo la reazione successiva con una serie di reagenti di tipo C (C1, C2, C3…Cp) si ottengono n × m × p composti del tipo ABC, e così via. Il numero dei prodotti totali ottenibili dipende dal numero di reagenti utilizzati e dal numero di passaggi N = n × m × p × q (ad es. N = 10 × 10 × 10 × 10 = 10 000) (Fig. 7.14). Ad esempio, il numero di dipeptidi ottenibili dalla combinazione dei 20 aminoacidi naturali (A) corrisponde a 400 (202). Con l’aumento della lunghezza del peptide, il numero di composti ottenibili cresce esponenzialmente; così nel caso di esapeptidi si possono ottenere 64 milioni di molecole (Tab. 7.2). L’impiego della chimica combinatoriale prevede un’attenta pianificazione della fase di sintesi, per la quale devono essere utilizzati metodi in grado di dare alte rese su una grande varietà di substrati. Nella maggior parte dei casi la sintesi avviene mediante applicazione di tecniche in fase solida, nelle quali la reazione viene condotta su un supporto solido, come ad esempio una resina polimerica. In questa tecnica i composti di partenza sono legati covalentemente a differenti perline di resina insolubili nei solventi di reazione. Le perline sono poi miscelate e trattate, tutte insieme, con un reagente in soluzione per ottenere il prodotto di reazione

che rimane legato alla perlina di resina. In questo modo i reagenti o gli eventuali prodotti secondari in soluzione possono essere facilmente allontanati dall’ambiente di reazione. Si possono così tranquillamente utilizzare reagenti in eccesso per forzare la reazione a completamento e ottenere rese maggiori. Facendo reagire molti substrati contemporaneamente può però accadere che, a causa delle diverse cinetiche di rea­zione, il numero teorico dei prodotti ottenibili non corrisponda a quello realmente ottenuto o che la concentrazione dei prodotti ottenuti non sia omogenea. Per confermare la presenza dei singoli prodotti teorizzati e valutare la loro concentrazione possono essere utilizzati i classici metodi di analisi (HPLC, NMR, massa, gas-cromatografia). Una volta completata la serie di reazioni, il supporto polimerico viene distaccato dai prodotti finali e può essere rigenerato e riutilizzato. Un aspetto molto importante è che tutte le fasi di questa procedura possono essere automatizzate, riducendo così notevolmente i tempi di operazione necessari. La sintesi in fase solida fu originariamente ideata da Merrifield per essere applicata alla preparazione di peptidi, ma successivamente è stata adattata alla sintesi di piccole molecole organiche di natura non peptidica. Per utilizzare questa tecnica è quindi necessario disporre di un supporto solido, un gruppo di ancoraggio (linker) e gruppi proteggenti. Il supporto solido è costituito da un polimero insolubile e inerte nelle condizioni di reazione. La prima resina utilizzata da Merrifield nella sintesi peptidica era un copolimero polietilene/polistirene derivatizzato con un gruppo clorometilico, in modo da ancorare il primo aminoacido attraverso la formazione di un legame estereo (Fig. 7.15). Questo legame estereo è in grado di resistere a tutte le condizioni di reazione usate nel processo mentre può essere scisso alla fine in condizioni acide, in modo da liberare il peptide finale dal supporto polimerico. Oggi sono disponibili tipi di resina più versatili che possono essere utilizzati in reazioni effettuate in solventi organici, come la resina TentaGel® formata da un copolimero polistirene-poliossietilene. Questa resina costituisce un ambiente simile a quello dell’etere o del tetraidrofurano. Inoltre, poiché non tutte le reazioni organiche a disposizione pos-

Figura 7.15 Resina di Merrifield per funzioni carbossiliche. Boc: t-butilossicarbonile.

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Figura 7.16 Sintesi su fase solida e distacco del prodotto finale.

sono essere condotte su fase solida, sono stati sviluppati dei polimeri, tipo polietilenglicole monoetiletere, solubili nei comuni solventi organici permettendo di operare in soluzione. Alla fine della reazione il polimero viene fatto precipitare per effettuare le operazioni di separazione e lavaggio. Il gruppo di ancoraggio (linker) consiste in una porzione molecolare che funziona da spaziatore per facilitare la reazione. Il linker è legato covalentemente alla resina e deve possedere un gruppo funzionale con cui il primo dei reagenti della sintesi programmata può reagire e rimanere quindi attaccato alla resina. Il legame tra il linker e il substrato deve essere stabile nelle condizioni di reazione usate nell’intero processo ma, una volta che la sintesi è stata completata, deve essere facilmente scindibile per rilasciare il composto finale. Il linker viene scelto a seconda del gruppo funzionale presente nel substrato e di quello che dovrà essere presente nel prodotto finale una volta rilasciato (Fig. 7.16). Per una buona resa di reazione spesso sono utili linker estesi, in modo da evitare le limitazioni della reattività dovute all’ingombro sterico. A tale scopo si usano linker contenenti il polietilenglicole (PEG) (Fig. 7.17). I gruppi proteggenti vengono legati reversibilmente a eventuali gruppi funzionali che potrebbero dar luogo a prodotti di reazione indesiderati durante le varie fasi del processo sintetico. Devono essere scelti gruppi proteggenti che formino legami stabili nelle condizioni della reazione in esame, ma rimovibili in condizioni blande quando la sintesi è terminata. Uno dei gruppi proteggenti più usati è il t-butilossicarbonilico (Boc), utilizzato per la protezione delle funzioni aminiche; tale gruppo è rimosso con acido trifluoroacetico (TFA). Il gruppo 9-fluorenilmetossicarbonilico (Fmoc) è anch’esso utilizzato per la protezione dell’azoto aminico: è stabile in ambiente acido, ma può essere rimosso in condizioni blande per trattamento con una base debole come la piperidina (Fig. 7.18). Le prime applicazioni della chimica combinatoriale hanno riguardato la sintesi di catene peptidiche a partire da aminoacidi mediante un solo tipo di reazione. Si possono così preparare librerie contenenti un alto numero di peptidi, tra i quali c’è un’alta probabilità di trovare prodotti dotati di attività biologica (Fig. 7.19). Questo metodo ha portato alla scoperta di numerosi composti dotati di attività farmacologica come gli inibitori delle proteasi del virus HIV. Le molecole di tipo peptidico sono però poco adatte a diventare farmaci, in quanto hanno una scarsa biodisponibilità orale e sono instabili al metabolismo.

L’interesse per la chimica combinatoriale è aumentato dopo che è stato compreso che le stesse procedure utilizzate per la sintesi dei peptidi potevano essere applicate alla sintesi di piccole molecole organiche. In questo caso si realizzano librerie costituite da un numero limitato di molecole recanti sostituenti diversi. A tale scopo si impiega un’ampia varietà di reazioni organiche e reagenti molto diversi tra loro (Fig. 7.20). Uno dei primi esempi di applicazione della chimica combinatoriale alla sintesi di molecole eterocicliche è stato la preparazione di composti a struttura benzodiazepinica. Oltre alle note azioni ansiolitiche e miorilassanti, molecole contenenti questo tipo di struttura possono presentare numerose altre proprietà biologiche. Nella sintesi delle 1,4-benzodiazepine, riportata in Figura 7.21, dall’assemblaggio di tre distinti blocchi molecolari variamente sostituiti, è possi-

Figura 7.17 Esempio di linker contenente polietilenglicole legato alla fase solida.

H3C H3C

O CH3

O O

Boc

O Fmoc

Figura 7.18 Gruppi proteggenti.

Figura 7.19 Schema di assemblaggio di monomeri su un supporto solido.

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Figura 7.20 Schema di sintesi combinatoriale di piccole molecole organiche.

Figura 7.21 Sintesi in fase solida di 1,4-benzodiazepine.

bile ottenere molte decine di composti finali diversi fra loro, sfruttando la possibilità di combinare opportunamente i 4 sostituenti (Ar, R1, R2 e R3). Le reazioni da condurre sono soltanto 3, mentre con l’approccio classico sarebbero necessarie oltre cento reazioni e l’isolamento e la purificazione di tutti i prodotti finali. La sintesi combinatoriale può essere effettuata principalmente con due metodi: la sintesi “dividi e combina” (split and mix) e la sintesi “in parallelo”.

Sintesi dividi e combina (split and mix) Nel metodo split and mix le molecole legate al supporto solido sono suddivise (split), in porzioni uguali, in più reattori (a seconda della strategia sintetica) e ciascuna è fatta reagire separatamente con un reattivo diverso, permettendo così di tenere conto della diversa reattività dei reagenti. A questo punto il contenuto dei diversi reattori è miscelato (mix) e successivamente di nuovo diviso in aliquote uguali. A ogni passaggio sintetico si ripete l’operazione di separazione e miscelazione. Questo metodo consente quindi di preparare un alto numero di molecole diverse con un basso numero di passaggi. Nell’esempio riportato in Figura 7.22 si ottengono 27 composti diversi con un totale di 6 esperimenti. Alla fine del processo la libreria può essere sottoposta alla valutazione dell’attività biologica, lasciando i composti legati al supporto solido oppure in soluzione dopo aver rimosso la resina. La valutazione dell’attività biologica dei composti ottenuti tramite la sintesi combinatoriale in miscela è uno dei

punti critici di questa tecnica. A tale scopo è importante poter disporre di metodi ad alta efficienza (HTS), adatti alle esigenze di rapidità di esecuzione, miniaturizzazione, automazione e compatibili con le basse concentrazioni di molecole presenti in soluzione. I saggi possono essere effettuati in soluzione, dopo aver quindi staccato le molecole dal supporto solido, oppure direttamente sulle molecole legate alla perlina di resina. Nel primo caso ogni perlina viene posta in un pozzetto dove avviene la rimozione della molecola, così il saggio in soluzione può essere eseguito direttamente nel pozzetto. Il secondo è il metodo più semplice ma non sempre è applicabile, in quanto la presenza del supporto solido può ostacolare l’interazione con le macromolecole bersaglio. Per l’individuazione delle molecole attive è utile poter identificare il supporto solido cui è legato il composto che risulta positivo al saggio. A questo scopo spesso la macromolecola bersaglio (recettore, enzima, canale) viene accoppiata con porzioni molecolari (reporter), ad esempio derivati fluorescenti, che possono essere individuati e quantificati anche a concentrazioni molto basse (Fig. 7.23). Le perline che risultano attive possono essere quindi isolate tramite tecniche di micromanipolazione per la determinazione della struttura del composto attivo. Un altro modo per identificare il composto che presenta attività è codificare ciascuna perlina di resina che lega una molecola, in modo da risalire alla struttura del prodotto attivo. Un metodo è quello dell’etichettatura, che consiste nel legare alla stessa perlina di resina due molecole, la molecola in studio e una molecola codificante, come per esempio un oligonucleotide o un oligopeptide, la cui composizione iden-

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Figura 7.22 Esempio di sintesi dividi e combina (split and mix).

tifica ogni perlina di resina in ciascuno stadio del processo sintetico. A ogni stadio della sintesi si aggiunge un nucleotide, o un aminoacido, all’etichetta in formazione per identificare quale reagente è stato utilizzato. Al termine della sequenza di reazioni ogni perlina sarà legata al prodotto voluto e a un’etichetta costituita, ad esempio, da un peptide. Dalla sequenziazione del peptide è possibile ricostruire la serie di reazioni cui è stata sottoposta la perlina. In alternativa, la molecola attiva può essere identificata tramite il metodo della deconvoluzione, che consiste nel sintetizzare librerie più piccole (sottolibrerie) della libreria in cui viene riscontrata attività, secondo una strategia che tiene costante di volta in volta il blocco sintetico di ogni posizione (Fig. 7.24).

Sintesi parallela Con questo metodo le reazioni sono eseguite in reattori separati in modo che in ogni reattore venga prodotto un solo composto. Questa tecnica consente di sintetizzare una minor varietà di composti ma in maggiori quantità e, inoltre, non è necessaria l’identificazione della struttura del prodotto attivo. Il vantaggio di una sintesi in parallelo, rispetto alla sintesi

organica convenzionale, è la semplificazione dei processi di lavorazione dei prodotti ottenuti dalle reazioni (estrazione, evaporazione dei solventi). Rientrano in questa procedura il metodo del sacchetto (tea bag) e il metodo degli spilli (multipin). Nel metodo del sacchetto (tea bag), sviluppato per la sintesi dei peptidi, la resina di supporto, in genere sotto forma di perline, è sigillata in sacchetti di polipropilene poroso (Fig. 7.25). Ogni singolo sacchetto viene etichettato e posto in un reattore per la reazione di accoppiamento con la prima molecola dello schema sintetico, così come per le reazioni successive, mentre le operazioni di lavaggio e deprotezione avvengono tutte insieme in uno singolo recipiente. La storia di ogni sacchetto viene registrata, per cui alla fine ogni sacchetto contiene un composto finale dalla struttura ben definita. Questa tecnica può essere automatizzata e permette la sintesi di quantità relativamente alte di prodotto finale (Fig. 7.26). Nel metodo degli spilli (multipin) la sintesi avviene sulla punta di bastoncelli di polietilene, disposti in modo da poter essere immersi contemporaneamente nei pozzetti di una piastra. Sulla punta degli spilli c’è un polimero al quale viene legato il composto. Una tipica piastra contiene 96 bastoncelli

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Figura 7.23 Identificazione di una perlina mediante legame con un recettore accoppiato a una molecola fluorescente.

Figura 7.24 Deconvoluzione di una libreria.

che si adattano perfettamente a un’altra piastra contenente 96 pozzetti dove avvengono le reazioni con il reattivo scelto, secondo la strategia sintetica programmata. Le operazioni di deprotezione e lavaggio sono effettuate in recipienti in grado di ospitare l’intero blocco degli spilli. Il prodotto finale viene identificato dalla posizione nella piastra. Questo metodo si adatta molto bene all’automazione e l’analisi biologica può essere condotta sia sui prodotti legati sia sui prodotti solubilizzati (Fig. 7.27).

Vantaggi e svantaggi della chimica combinatoriale Le tecniche di chimica combinatoriale esposte, insieme ai saggi ad alta efficienza (HTS), hanno il grande vantaggio di permettere l’identificazione, in breve tempo, di un gran numero di nuove molecole che possono essere considerate il punto di partenza (hit) da cui poi ricavare il nuovo prototipo (lead). In una prima fase l’industria farmaceutica ha investito ingenti risorse nello sviluppo di queste tecniche. Al momento attuale, la chimica combinatoriale si è sempre più spostata

Figura 7.25 Sacchetto di polipropilene poroso contenente la resina.

verso la sintesi di librerie contenenti un numero non troppo elevato di composti. Infatti, le librerie in miscela hanno spesso creato problemi nell’identificazione dei componenti attivi, perché le attività misurate si sono a volte rivelate

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Figura 7.26 Sintesi in parallelo con il metodo del sacchetto.

Figura 7.27 Sintesi in parallelo con il metodo degli spilli. X: gruppo funzionale derivatizzabile.

degli artefatti non riproducibili (falsi positivi) o, viceversa, non sono stati identificati prodotti con attività (falsi negativi). Questi e altri inconvenienti hanno portato l’industria a privilegiare le librerie dell’ordine di centinaia o di poche migliaia di prodotti (librerie focalizzate). Nel caso si utilizzi la sintesi parallela nella fase di ottimizzazione dell’attività del composto guida, si impiegano librerie costituite da poche decine di composti. Infatti, questo approccio richiede di indirizzare la ricerca verso la sintesi di un certo numero di analoghi che differiscono solo leggermente dalla struttura del prototipo e quindi è probabile che presentino anch’essi attività. L’esperienza ha dimostrato che l’utilizzazione delle tecniche della chimica combinatoriale nella ricerca di un nuovo farmaco ha reso possibile ridurre di 1-2 anni il tempo necessario per arrivare all’identificazione di un candidato clinico, consentendo una significativa riduzione del costo della sintesi dei singoli composti preparati.

7.4 Progettazione razionale Come evidenziato nelle pagine precedenti, un farmaco, o lo stesso lead, può essere scoperto in maniera fortuita o basandosi sull’osservazione empirica di effetti biologici o terapeutici. Oggi spesso si utilizzano farmaci il cui meccanismo di

azione si basa su processi fisiologici o patologici identificati solo dopo l’uso terapeutico. Un esempio tra i tanti può essere l’azacitidina. NH2 N N

O

HO H H

O

H H

OH

OH

Azacitidina

Questa è una molecola di origine naturale, estratta da un microrganismo detto Streptoverticillium ladakanus, i cui effetti antiproliferativi sono stati immediatamente riconosciuti. Questa sostanza può essere classificata tra gli antimetaboliti: un chimico farmaceutico avrebbe potuto progettarla applicando il principio dell’isosteria (Par. 7.7.1). Oggi sappiamo che l’azacitidina inibisce la DNA metil transferasi, un enzima coinvolto nel rimodellamento della cromatina (Cap. 42); tuttavia nel 1974, quando questa molecola è stata descritta, i meccanismi epigenetici erano totalmente sconosciuti!

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Quando oggi s’intraprende un progetto per la scoperta di un nuovo farmaco, si cerca di operare su base razionale: la scelta di un bersaglio biologico ben preciso, selezionato sulla base della conoscenza dei meccanismi della malattia, della fisiologia del tessuto o dell’organo nel quale il farmaco agirà, il disegno di farmaci basato su conoscenze precise del bersaglio biologico. Ad esempio, per anni i farmaci antitumorali colpivano indiscriminatamente cellule tumorali e cellule sane; adesso si studiano le differenze genetiche tra i due tipi di cellule, per provare ad agire selettivamente su una proteina che sia presente solo nel tumore e non nella cellula sana. Uno dei primi esempi di questo nuovo approccio è stato lo sviluppo dell’imatinib, un farmaco usato nella leucemia mieloide cronica (CML): questa forma di leucemia si sviluppa a causa della presenza di una proteina chimera, chiamata Bcr-Abl, perché deriva dalla fusione, anomala, di due geni, detti appunto bcr (Breakpoint Cluster Region) e abl (Abelson). La Bcr-Abl, una chinasi iperattiva che provoca l’accumulo di precursori emopoietici, è quindi un bersaglio ideale per colpire questo tipo di cancro, permettendo un’azione specifica da parte di molecole, come l’imatinib, in grado di bloccare selettivamente questa proteina (Cap. 42). Quindi, in generale, con approccio razionale s’intende una strategia che si avvale di approfondite conoscenze nei vari ambiti connessi con la scoperta e sviluppo del farmaco. Più specificamente nel campo della chimica farmaceutica, la progettazione razionale dei farmaci viene generalmente divisa in due approcci, che si basano sulla disponibilità di modulatori di un particolare bersaglio (approccio ligand-based), oppure sulla disponibilità della struttura tridimensionale del bersaglio molecolare (approccio structure-based). In entrambi i casi si fa uso delle tecniche computerizzate che saranno descritte nel Capitolo 8; ci sono vari esempi in cui i due approcci sono stati applicati in combinazione, per sfruttarne appieno le potenzialità. Questo tipo di progettazione è chiamato in silico, una definizione che richiama i termini in vitro e in vivo. Attenzione, però: questo tipo di approccio non si

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sostituisce ai test biologici, piuttosto dovrebbe servire a una loro razionalizzazione.

7.4.1 Progettazione basata sui ligandi L’approccio basato sui ligandi (ligand-based drug design, LBDD) è incentrato sulla ricerca e sulla rappresentazione tridimensionale del farmacoforo (vale a dire l’insieme dei requisiti strutturali indispensabili per produrre l’azione biologica desiderata, Cap. 4), costruito estraendo le caratteristiche strutturali comuni a un gruppo di molecole che sono in grado di interagire con un particolare bersaglio molecolare. Quello del farmacoforo è un concetto che risale a Erlich, all’inizio del ’900; i chimici farmaceutici hanno ben presto imparato a estrarre da una serie di ligandi bioattivi le caratteristiche importanti per l’attività. Le tecniche computerizzate attuali permettono di avere a disposizione una rappresentazione non solo qualitativa, ma soprattutto tridimensionale, e consentono l’analisi di grandi gruppi di molecole, anche strutturalmente diverse. Per fare un esempio, il farmacoforo nicotinico è composto da un atomo accettore di legame idrogeno e un atomo di azoto cationico o potenzialmente tale: due ricercatori, W. H. Beers e E. Reich, nel 1970 estrapolarono queste caratteristiche semplicemente valutando le molecole di nicotina e acetilcolina e, con l’aiuto di modellini molecolari rigidi, indicarono un requisito geometrico importante: la distanza tra questi due atomi doveva essere attorno a 4,5 Å (Fig. 7.28). Questa informazione, che in sé non ha ancora carattere tridimensionale, è stata la base per sviluppare, circa trent’anni dopo, modelli farmacoforici più complessi, caratterizzati da set di distanze e orientazioni specifiche, sviluppati attraverso programmi di modellistica molecolare e basati sull’analisi di un numero ben più alto di molecole. Per sviluppare questi modelli, generalmente, un gruppo di molecole strutturalmente diverse sono sovrapposte l’una all’altra allo scopo di individuarne le caratteristiche strutturali comuni che rendono possibile l’interazione con un

Figura 7.28 Farmacoforo nicotinico sviluppato da Beers e Reich nel 1970. L’interazione con il recettore nicotinico è dovuta alla presenza di un atomo accettore di legame idrogeno (azoto piridinico della nicotina o ossigeno carbonilico dell’acetilcolina) e di un centro cationico (il gruppo ammonico quaternario dell’acetilcolina) o potenzialmente tale (l’azoto pirrolidinico della nicotina) posti alla distanza di 4,5-5 Å. Se si prende in considerazione il doppietto elettronico impegnato nel legame idrogeno, come mostrato per l’acetilcolina, la distanza risulta 5,9 Å. Nelle strutture gli eteroatomi (N, O) sono indicati con il simbolo atomico e sono mostrati in arancione scuro; gli atomi di carbonio sono mostrati in arancione chiaro e gli atomi di idrogeno in bianco.

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particolare bersaglio molecolare. Il farmacoforo è generalmente descritto tramite elementi, cui è associata una precisa posizione nello spazio, che rappresentano strutture chimiche (gruppi funzionali) in grado di dare interazioni elettrostatiche (gruppo con carica positiva o negativa) o lipofile (ad es. anelli aromatici o gruppi alchilici) o di legame idrogeno (accettori o donatori). Un esempio di rappresentazione è riportato in Figura 7.29. Sono disponibili numerosi software in grado di generare il farmacoforo e darne rappresentazioni diverse (Cap. 8). Il risultato di questo tipo di analisi dipende in larga misura sia dal tipo di allineamento sia dalla conformazione scelta per questa operazione. Il modo di allineamento delle molecole, cioè l’identificazione dei punti di sovrapposizione, viene impostato dall’operatore sulla base delle sue conoscenze e della sua intuizione; spesso vengono generati modelli diversi, per poi scegliere quello che dà più affidamento, sulla base di opportuni parametri statistici o di quanto il modello è in grado di riprodurre i dati sperimentali. La conformazione da utilizzare è selezionata dopo un’analisi accurata delle preferenze conformazionali della molecola: generalmente è meglio partire da dati sperimentali, ma in assenza di questi si conducono ricerche conformazionali teoriche (Cap. 8). I dati sperimentali possono derivare da cristallografie ai raggi X, da NMR o da altre tecniche spettroscopiche. Se è stato cristallizzato il complesso tra proteina e ligando, la conformazione bioattiva di questo viene direttamente estratta da questa struttura tridimensionale e può costituire la base per l’allineamento. In assenza di questo dato, le informazioni più utili sono quelle riferite alle conformazioni del ligando in soluzione, nel solvente acqua, in modo da simulare l’ambiente biologico. Si può usare anche l’analisi ai raggi X di un cristallo contenente il solo ligando, che fornisce indicazioni sulla conformazione allo stato solido, in un ambiente

Figura 7.29 Farmacoforo per l’interazione con il sottotipo nicotinico 7, disegnato sulla struttura tridimensionale di EVP6124 (enceniclina), un agonista nicotinico attualmente in fase clinica. Per l’interazione con questo sottotipo occorre un centro potenzialmente cationico, un gruppo in grado di dare legame idrogeno e un centro idrofobico.

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comunque molto diverso da quello biologico. Spesso però questi dati sperimentali non sono disponibili, per cui l’unica possibilità di avere informazioni sulle conformazioni è attraverso un’analisi conformazionale teorica (Cap. 8), con la quale si calcolano tutte le conformazioni accessibili alla molecola nel vuoto. Mentre il dato sperimentale è riferito solo all’ambiente in cui viene misurato, il pregio di un’analisi teorica è di mettere a disposizione dell’operatore tutte le possibili conformazioni della molecola. Questo può diventare un problema se la molecola è molto flessibile, per cui le possibili conformazioni diventano un numero non facilmente gestibile, rendendo complessa la selezione. Spesso, per guidare la scelta, s’inserisce nel set di molecole da allineare un analogo rigido o semirigido da usare come modello (template). Il farmacoforo può essere usato per progettare nuovi farmaci, anche strutturalmente diversi dalle molecole che l’hanno generato (un esempio di applicazione, l’approccio detto scaffold hopping, sarà descritto nel Par. 7.7.1); ad esempio può costituire la base per cercare all’interno di un database di molecole le sostanze che contengono i requisiti strutturali desiderati. Questo approccio viene chiamato virtual screening. Il farmacoforo viene espresso attraverso elementi chimici e geometrici: gli elementi di tipo chimico sono, ad esempio, gruppi donatori o accettori di legame idrogeno, gruppi che stabiliscono interazioni idrofobiche, anelli aromatici; gli elementi di tipo geometrico sono le possibili distanze tra tali gruppi, la presenza di piani su cui giacciono questi gruppi, i vettori di orientazione. Tutto questo costitui­ sce la base per andare a cercare in opportune banche dati le molecole che contengono queste caratteristiche strutturali, richieste per l’interazione con un particolare bersaglio. Una volta identificata una o più molecole che possiedono tali requisiti, queste vengono sintetizzate e saggiate sul bersaglio. Se le molecole risultano attive, possono rappresentare hit o lead da ottimizzare. Un esempio può aiutare a chiarire questo approccio. Come detto in precedenza, per interagire con il recettore colinergico nicotinico occorre un gruppo accettore di legame idrogeno (HB) e un atomo di azoto cationico o potenzialmente tale (N+), disposti a una certa distanza. Generalmente il gruppo accettore di legame idrogeno fa parte di una struttura planare (ad es. l’anello eterociclico della nicotina) e il legame idrogeno nel sito recettoriale (HB) sarà stabilito in questo piano secondo la direzione del doppietto non condiviso dell’atomo di azoto piridinico N. Quindi il farmacoforo nicotinico può essere espresso da (a) un piano su cui giacciono N e HB; (b) un punto dove è localizzato N+; (c) la distanza HB-N+; (d) la distanza di N+ dal piano. Questi requisiti geometrici sono stati la base per cercare nel Cambridge Structural Database (CSD) le molecole che contengono queste caratteristiche strutturali. La ricerca ha individuato diverse strutture che presentavano i suddetti requisiti, tra cui la stessa nicotina, la cui struttura ai raggi X è contenuta nel CSD. Una delle molecole selezionate è stata semplificata e opportunamente modificata, generando un analogo strutturale della nicotina (Fig. 7.30). Il CSD è una banca dati di pubblico dominio che a oggi raccoglie i dati strutturali di più di 500 000 piccole molecole

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organiche e metallorganiche, ottenute dall’analisi di diffrazione ai raggi X. Le molecole contenute in questo database sono composti di cui è nota la sintesi, ma che possono avere una struttura anche molto complicata, tale per cui, per renderle in grado di adattarsi al bersaglio molecolare prescelto, devono essere largamente modificate e semplificate, spogliandole di tutti i gruppi non necessari. Il pregio di questa banca dati è che le informazioni strutturali sono di tipo sperimentale e sono determinate in maniera accurata. Possono essere utilizzate però anche altre banche dati, che offrono altre potenzialità rispetto al CSD. Un database molto sfruttato è ZINC (http://zinc.docking.org/), che raccoglie circa 21 milioni di molecole presenti nei cataloghi commerciali, le cui strutture tridimensionali sono generate a partire dalla formula 2D attraverso opportuni software (Cap. 8). Un’altra banca dati importante è la Drug Bank (www.drugbank.ca), che raccoglie circa 7000 sostanze per le quali vengono fornite informazioni di tipo chimico-fisico e biologico, oltre che la struttura in 2D e 3D. Questi sono solo due esempi, ma le banche dati su cui cercare sono oggi moltissime, con il limite che alcune sono a pagamento. Il vantaggio di una banca dati come ZINC è che i prodotti sono commerciali: quindi, se viene selezionato un composto promettente, questo può essere comprato. Inoltre è possibile inserire dei filtri nella ricerca che escludono molecole che presentano gruppi reattivi o tossicofori, oppure che sono caratterizzate da valori non ottimali di proprietà chimicofisiche cruciali nel processo di ottimizzazione. Infatti, poiché durante il processo di ottimizzazione si tende ad aumentare le dimensioni e la lipofilia delle molecole, sarebbe opportuno partire da lead le cui proprietà chimico-fisiche non siano già al limite: sarebbe auspicabile che i nuovi hit o lead avessero un peso molecolare non superiore a 300, un clogP non su-

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periore a 3, un numero di donatori di legame idrogeno non maggiore di 3. Questa regola, detta “regola del tre” è stata sviluppata insieme all’approccio fragment-based che sarà descritto più avanti, e si rifà alla più famosa regola di Lipinski, o “regola del cinque”. La regola di Lipinski è servita da guida per lo sviluppo di nuovi farmaci da somministrare per via orale. Partendo dalla diffusa convinzione che il fallimento di molti nuovi progetti di scoperta di farmaci fosse dovuto a proprietà chimico-fisiche non ottimali dei candidati farmaci, G. Lipinski selezionò, secondo certi criteri, una serie di composti presenti nel World Drug Index, di cui calcolò alcune semplici proprietà come clogP (Cap. 2), peso molecolare, numero di gruppi donatori o accettori di legame idrogeno, definiti come la somma di tutti i gruppi NH e OH, i primi, o di tutti gli atomi di N e O, i secondi. Da quest’analisi fu evidenziato come ci si potesse aspettare uno scarso assorbimento orale se le molecole avevano un clogP maggiore di 5, un peso molecolare maggiore di 500, un numero di donatori e di accettori di legame idrogeno maggiore, rispettivamente, di 5 e 10. In anni successivi questa regola fu implementata da D. Veber e colleghi, con l’introduzione di ulteriori proprietà come il numero di legami ruotabili, e l’area superficiale polare (PSA, polar surface area), che viene calcolata attraverso opportuni software; quest’ultimo indicatore è strettamente correlato con il numero di legami idrogeno che la molecola può stabilire. La Tabella 7.3 riporta, oltre alla regola di Lipinski, altre regole che sono state derivate in maniera analoga per guidare, ad esempio, il disegno di farmaci attivi nel SNC o la scelta di frammenti. Tutte queste proprietà sono facilmente calcolabili, e possono costituire un filtro da inserire nel virtual screening per selezionare i prodotti più opportuni.

Figura 7.30 Un esempio di virtual screening. Il farmacoforo nicotinico è individuato da un piano dove giace il gruppo in grado di formare legame idrogeno (in questo caso un azoto di tipo eterociclico) lungo la direzione del lone pair (HB), un atomo di azoto cationico (N+), le distanze tra N+ e il piano, e tra N+ e HB. La ricerca ha condotto alla molecola A, che è stata opportunamente semplificata (B) e ottimizzata (C).

CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci

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Tabella 7.3 Regole empiriche che riguardano le proprietà chimico-fisiche di farmaci e lead. Farmaco attivo per via orale

Farmaco per il SNCa

Lead

Frammento

< 500

< 450

< 400

≤ 300

logP (clogP)

  isoflurano (>>  alotano >  sevoflurano). Tuttavia, poiché il desflurano viene utilizzato in anestesia a concentrazioni maggiori di quelle dell’enflurano a causa della sua inferiore potenza (MAC = 7,3% contro 1,7% dell’enflurano), i casi più frequenti d’intossicazione da CO si verificano proprio con il desflurano. Staccati in graduatoria troviamo alotano e sevoflurano, in cui l’assenza della porzione difluorometossilica si riflette in una ridotta acidità del gruppo C-H deprotonabile. Gli attuali standard di utilizzo degli assorbitori di CO2 tendono a limitare notevolmente il rischio di produzione di quantitativi tossici di CO durante l’anestesia, soprattutto evitando la disidratazione del materiale utilizzato e impiegando materiali di nuova generazione in cui il contenuto di KOH e NaOH è ridotto, se non eliminato completamente.

Metabolismo Gli anestetici inalatori dal profilo ideale vengono eliminati principalmente mediante la ventilazione, quindi la rilevanza del loro metabolismo nella farmacocinetica non dovrebbe essere così marcata come per altre categorie di farmaci. Tuttavia risulta interessante considerare il metabolismo di alcuni di questi anestetici, soprattutto per spiegarne gli effetti tossici come descritto di seguito (Fig. 9.3). Infatti sono proprio quegli idrocarburi alogenati che subiscono un metabolismo più esteso (alotano, metossiflurano) a presentare gli effetti tossici più marcati, mentre quelli che vengono eliminati prevalentemente con la respirazione sono molto più sicuri e, di conseguenza, più utilizzati negli interventi.

253

254

FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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solubile), insieme ad acqua (15-20%) e piccole percentuali di idrossido di sodio e potassio (1-5%) che esercitano il ruolo di “facilitatori” nel processo di sequestro di CO2.

Idrocarburi ed eteri non alogenati Utilizzati in passato H3C Ciclopropano

O

CO2 + Ca(OH)2 → CaCO3↓ + H2O

CH3

Etere dietilico

Idrocarburi ed eteri alogenati Utilizzati in passato F H3C

CHCl3

F Cl

O

Cl Metossiflurano

Cloroformio

Attualmente in uso F F

F

F

O

F

CF3

Cl

F

Cl

Cl

Enflurano

F

O

CF3

Isoflurano

Br Alotano

F F

F O

CF3 CF3

F

Desflurano

O

CF3

Sevoflurano

Gas inorganici Attualmente in uso N

N

O

N

N

O

Protossido d’azoto (N2O) Sperimentale Xe Xenon

Figura 9.1 Strutture chimiche degli anestetici somministrati per via inalatoria.

Bisogna inoltre considerare che i gas medicali come l’ossigeno e gli anestetici per inalazione vengono riciclati all’interno di circuiti respiratori, allo scopo di rendere più economico ed ecologico il loro uso. Per permettere il riutilizzo del gas emesso dal paziente è essenziale evitare il più possibile che l’anidride carbonica ritorni a essere inspirata nuovamente dal paziente stesso. A tale scopo si utilizzano dei dispositivi contenenti materiale granulare composto da sostanze in grado di reagire chimicamente con la CO2, intrappolandola al loro interno, chiamati assorbitori di CO2. Questi materiali sono storicamente costituiti da calce sodata, contenente un’elevata percentuale di idrossido di calcio (75-80%) quale principale agente sequestrante della CO2 (con la quale forma carbonato di calcio in-

Tuttavia basi così forti come gli idrossidi alcalini sono altamente reattive nei confronti degli anestetici alogenati e sono responsabili della formazione di prodotti tossici come il monossido di carbonio (Box 9.2) e, nel caso del sevoflurano, anche di composti organici nefrotossici come, ad esempio, il composto A (Par. 9.2.2). Ciò avviene soprattutto se il materiale granulare risulta eccessivamente essiccato, ad esempio dopo il passaggio prolungato di miscele gassose senza la dovuta reidratazione dei granuli, oppure a seguito dell’elevato riscaldamento causato dalla reazione esotermica fra la CO2 e le basi presenti nel granulato. È stato poi notato che, mantenendo un grado sufficiente di umidità e rimuovendo le basi alcaline più forti, soprattutto la KOH, dal materiale che compone gli assorbitori, la produzione di CO viene notevolmente ridotta. Quindi risulta evidente che i principali responsabili della produzione di CO a partire dagli anestetici alogenati siano soprattutto KOH e NaOH a secco.

9.2.2 Idrocarburi ed eteri alogenati Alotano L’alotano – 2-bromo-2-cloro-1,1,1-trifluoroetano –, la cui sintesi è descritta nel Box 9.3, è un idrocarburo polialogenato a 2 atomi di carbonio che contiene ben 3 alogeni differenti nella sua struttura (fluoro, cloro e bromo), l’unico in questa categoria di farmaci. È stato il primo anestetico fluorurato e rappresenta la prima evoluzione della semplice struttura del cloroformio, di cui mantiene molte caratteristiche, fra cui l’odore dolciastro, l’elevata volatilità (bolle a 50 °C), la scarsa infiammabilità, ma soprattutto la potenza anestetica (MAC = 0,75%). Al tempo stesso l’alotano risulta più sicuro del cloroformio: grazie alla sua scarsa solubilità nel sangue (λ = 2,4) dà luogo a un’induzione più veloce dell’anestesia e a un conseguente recupero più rapido rispetto al cloroformio. Tuttavia l’alotano mantiene ancora un livello elevato di lipofilia (P = 224) che può creare problemi soprattutto in pazienti obesi e in occasione di interventi che si protraggono per diverse ore. Numerosi effetti tossici possono verificarsi con l’utilizzo di questo anestetico, soprattutto ipotensione, aritmie cardiache, necrosi epatica e, in alcuni pazienti geneticamente predisposti, ipertermia maligna. Il danno epatico deriva soprattutto dalla formazione di prodotti tossici del metabolismo ossidativo dell’alotano, che avviene prevalentemente nel fegato e interessa fino al 20% della dose inalata di anestetico. Uno dei più pericolosi metaboliti è il trifluoroacetil cloruro (Fig. 9.3), un composto fortemente elettrofilo che si lega covalentemente alle proteine epatiche, inducendo risposte immunitarie che, in caso di successive esposizioni al farmaco, causano le cosiddette “epatiti da alotano”. L’idrolisi del trifluoroacetil cloruro porta alla formazione di un altro prodotto del metabolismo ossidativo dell’alotano, l’acido trifluoroacetico, che è fortemente corrosivo e contribuisce a generare gravi danni a carico del tessuto epatico. Attualmen-

CAPITOLO 9 • Anestetici generali

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Tabella 9.1 Proprietà dei principali anestetici volatili. Temperatura di ebollizione (°C)

Anestetico

Peso molecolare

Ciclopropano

 42

–33

Dietiletere

 74

35

Cloroformio

119

Alotano

Partizione sangue/gas (λ) 0,55

Partizione olio/gas (P)

MACa (Vol %)b

Utilizzo clinico

12

9,2

Abbandonato

12,1

61

1,9

Abbandonato

61

10,3

401

0,50

Abbandonato

197

50

2,4

224

0,75

Attuale

Metossiflurano

165

105

970

0,16

Sospeso/limitato

Enflurano

184

56

1,8

96

1,7

Attuale

Isoflurano

184

48

1,4

91

1,2

Attuale

Desflurano

168

24

0,45

19

7,3

Attuale

Sevoflurano

200

58

0,65

47

2,1

Attuale

Protossido d’azoto

 44

–88

0,46

1,4

104

Xenon

131

–108

0,12

1,9

71

12

Attuale Sperimentale

a

Concentrazione alveolare minima. b In ossigeno al 100%.

te si tende a usare sempre meno l’alotano a favore di altri anestetici fluorurati meno tossici, sebbene esso trovi ancora spazio nella chirurgia pediatrica, poiché nei bambini il metabolismo epatico è meno efficace rispetto agli adulti e, di conseguenza, meno propenso a generare metaboliti tossici.

incontro (50-70% della dose inalata), che sfocia in una frequente tossicità renale. Nell’organismo il metossiflurano viene trasformato secondo due percorsi metabolici principali. Il primo inizia con una O-demetilazione ossidativa seguita da perdita di HF (primo fluoruro eliminato), per formare un fluoruro acilico reattivo, che può acilare strutture cellulari, oppure idrolizzarsi ad acido dicloroacetico liberando un altro fluoruro. L’altra via metabolica inizia in modo analogo a quella dell’alotano, con un’ossidrilazione del carbonio dicloro-sostituito, seguita da un’eliminazione di HCl per formare il corrispondente cloruro acilico, anche questo molto elettrofilo e reattivo nei confronti di componenti nucleofile delle cellule. A seguito d’idrolisi del cloruro acido si forma l’acido metossidifluoroacetico, il quale può a sua volta seguire una serie di trasformazioni analoghe a quelle della prima via (O-demetilazione e doppia eliminazione di fluoruro) fino a formare l’acido ossalico (Fig. 9.3). La formazione di questi metaboliti e, soprattutto, di notevoli quantità di ioni fluoruro a livello renale, causa la nefrotossicità associata all’uso di questo anestetico. Attualmente si tende a non utilizzarlo più e a sostituirlo con anestetici che producono minori quantità di ioni F– come l’enflurano e l’isoflurano.

Metossiflurano Il metossiflurano – 2,2-dicloro-1,1-difluoro-1-metossietano – è un etere polialogenato contenente 2 atomi di fluoro e 2 di cloro, che si presenta come liquido incolore dall’odore fruttato piuttosto altobollente (105 °C) e relativamente poco volatile. È il più potente anestetico della serie (MAC = 0,16), ma anche quello con i profili di partizione più sfavorevoli, con un valore di λ pari a 12 (probabilmente anche a causa della sua scarsa volatilità) e una preferenza per la fase oleosa rispetto all’acqua di quasi 1000 volte (P = 970). Queste proprietà fanno sì che i vari passaggi fra gli stadi dell’anestesia, a partire dall’induzione fino al risveglio, siano molto lenti e molto variabili a seconda della corporatura del paziente. A peggiorare il suo profilo c’è l’esteso metabolismo cui va

Enflurano L’enflurano – 2-cloro-1-(difluorometossi)-1,1,2-trifluoroetano –, la cui preparazione è riportata nel Box 9.4, è un etere alogenato in cui, a differenza del metossiflurano, la proporzione di atomi di fluoro (ben 5) predomina rispetto al cloro (uno soltanto). È un liquido incolore dall’odore dolciastro, molto più volatile del metossiflurano (T. eb. = 56 °C), ma meno potente (MAC = 1,7%). Presenta un livello intermedio di partizione sangue/gas (λ = 1,8) che causa una certa lentezza nell’induzione dell’anestesia. È dotato anche di una moderata lipofilia (P = 96), produce un effetto miorilassante, una buona analgesia e tende a deprimere la contrattilità del miocardio. Una caratteristica negativa dell’enflurano sono i cambiamenti caratteristici che causa nelle onde cerebrali nei tracciati dell’e-

Figura 9.2 Equilibrio fra le tensioni di vapore dell’anestetico somministrato (PG) negli alveoli polmonari (PA), nel sangue (PS) e nel cervello (PC).

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

Cl C

Cl

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Cl

[ox]

H

Cl

C

Cl

Cl OH

Cl

C

-HCl

Cloroformio

F

F

Br

C

C

F

Cl

Fosgene

[ox]

H

F

F

Br

C

C

F

Cl

F OH

F

-HBr

C

O

Cl F

[ox]

OCH3

Cl F

H

-HCHO

C

OH

H

-HF

Cl F

F

-HCl

Cl

C

-HF

F

Cl

[ox]

C

Cl H

O

C

O

O

C

C

OH Cl Acido dicloroacetico

C

HO

OH

Acido ossalico -HF

Cl F C

OH

H2O

Metossiflurano

HO

C

F

O

C

O

C

Acido trifluoroacetico

Cl

C

F

H2O

C

Trifluoroacetil cloruro

Cl F C

C F

Alotano

H

O

Cl

F

O OCH3

Cl F

-HCl

C Cl

C

OCH3

F

F

O

H2O

C

-HCl

HO

OCH3

F

-HCHO

F

O

[ox]

C

C HO

C

O OH

F

O C

-HF

C

HO

F

Acido metossidifluoroacetico

F H

C

O

F

F

F

C

C

F

Cl

H

[ox]

F H

C

O

F

F

F

C

C

F

F

Cl

OH

H

-HCl

F

C

O

C

F

F

O

H2 O

C

-HF

F

F [ox]

H

C

O

F

H

F

C

C

X

F

Isoflurano: X = Cl Desflurano: X = F

F

H

OH F C

Via F principale

X

F

F

H

F

C

C

X

F

HO

C

O

F

C

[ox]

C

F

O

F

-HX

H

C

CF3 O

O

F

CF3CHO F

-HX

F

+ O

C

C

[ox] H2 O

F

CF3 H

C CF3

H O

C H

Sevoflurano

CF3

[ox]

F

F

C

O

F

C F

O C OH

Acido difluorometossidifluoroacetico

Enflurano

F

F H

HF + CO2 + H

C

OH

Glucuronide

CF3 HFIP

Figura 9.3 Principali vie metaboliche degli anestetici volatili alogenati.

H2 O

CHF2OH + CF3COOH

H2O

Acido trifluoroacetico CO2 + 2 HF

HCOOH + 2 HF

CAPITOLO 9 • Anestetici generali

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BOX 9.3 ■ Sintesi dell’alotano La sintesi dell’alotano prevede un’iniziale fluorurazione del tricloroetilene, seguita da una bromurazione in fase gassosa a 450 °C.

Cl HF

Cl

Cl

Cl

Br2

CF3

SbCl5 100 °C

H

450 °C

Cl

CF3 Br

Alotano

BOX 9.4 ■ Sintesi di enflurano, isoflurano e desflurano Le sintesi di questi tre eteri alogenati prevedono tutte dei passaggi comuni: una clorurazione fotochimica seF Cl

F

CH3OH KOH

F H3C

+ CHClF2

Cl

O

F

CF3CH2OH

F

guita, nel caso dell’enflurano e del desflurano, dalla reazione di Swarts (con HF e SbCl5). Cl

Cl2 h

Cl

F

F Cl

O

F

F F

O

CF3

SbCl5

F

h

lettroencefalogramma: queste segnalano delle forti attività convulsive, fino a causare dei veri e propri attacchi epilettici, sia in presenza sia in assenza di sintomatologie motorie, a causa di un abbassamento della soglia scatenante le convulsioni. Pertanto l’enflurano non va assolutamente utilizzato in pazienti affetti da epilessia. Il suo metabolismo non è molto esteso, in quanto viene principalmente eliminato mediante la respirazione (80-90%) e riguarda soltanto una piccola percentuale della dose inalata. La principale trasformazione metabolica avviene a livello epatico e interessa il carbonio terminale cloro/fluoro-sostituito, il più sensibile nei confronti della reazione di ossidazione (in quanto meno elettronpovero) dei due carboni terminali (Fig. 9.3). L’iniziale introduzione di un atomo di ossigeno da parte del citocromo porta a un intermedio instabile che tende rapidamente a perdere del cloruro (miglior gruppo uscente rispetto al fluoruro) sotto forma di HCl. Si forma così un fluoruro acilico intermedio che, al solito, può reagire con i gruppi nucleofili delle componenti cellulari oppure essere metabolizzato ad acido difluorometossidifluoroacetico, che in effetti costituisce il principale metabolita dell’enflurano. È importante rimarcare che, a differenza del metossiflurano, le quantità di fluoruro prodotte non sono tali da causare una nefrotossicità significativa.

Isoflurano L’isoflurano – 2-cloro-2-(difluorometossi)-1,1,1-trifluoroetano – è probabilmente l’anestetico volatile più utilizzato (Box 9.4). Si tratta di un isomero strutturale dell’enflurano, in cui sono cambiate le posizioni relative di atomi di fluo-

F

Cl O

Isoflurano

F Cl

Enflurano

F

HF

CF3

F O

F

F

Cl2

KOH

F

HF

SbCl5

F

F

F O

CF3

Desflurano

ro, cloro e idrogeno nella catena a due atomi di carbonio, mentre il raggruppamento difluorometossilico resta immutato. Si tratta di un liquido ancora più volatile dell’enflurano (T. eb. = 48 °C) che presenta valori di potenza (MAC = 1,2%), partizione sangue/gas (λ = 1,4) e lipofilia (P = 91) paragonabili a quelli dell’enflurano. Pertanto la farmacocinetica dell’isoflurano, in termini di velocità d’induzione, distribuzione e tempi di risveglio, ricalca in modo analogo quella descritta in precedenza per il suo isomero strutturale, sebbene la minore solubilità nel sangue tenda ad accorciare un po’ i tempi dei vari passaggi. L’odore dell’isoflurano risulta tuttavia più pungente e irritante per le mucose, che può provocare tosse e laringospasmo nel paziente. Infatti non può essere usato nella fase d’induzione, in cui bisogna quindi somministrare altri agenti anestetici. Trova ampio utilizzo soprattutto nella neurochirurgia in quanto, a differenza degli altri anestetici fluorurati, provoca un ridotto aumento del flusso ematico cerebrale e della pressione intracranica, con minori rischi di emorragie e di complicazioni durante interventi al cervello. Inoltre l’isoflurano è molto poco tossico grazie a un ridotto metabolismo epatico che riguarda soltanto lo 0,2% circa della dose inalata, mentre il resto viene eliminato semplicemente mediante la respirazione. Il metabolismo può seguire due percorsi distinti, che portano entrambi alla produzione finale di acido trifluoroacetico e di ioni fluoruro (Fig. 9.3). La principale via metabolica inizia con un’ossidrilazione microsomale del carbonio cloro-sostituito. Tuttavia le quantità esigue di metaboliti prodotti non espongono il paziente a eccessivi rischi di nefrotossicità o epatotossicità.

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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Desflurano Il desflurano – 2-(difluorometossi)-1,1,1,2-tetrafluoroetano – è uno stretto analogo strutturale dell’isoflurano (Box 9.4), in cui l’atomo di cloro è stato rimpiazzato dall’ennesimo atomo di fluoro (sono 6 in tutto). Questo “alleggerimento” strutturale causato dalla sostituzione di un cloro con il più piccolo fluoro porta in primo luogo a un aumento notevole della volatilità del composto, il quale, pur essendo sempre un liquido, presenta una temperatura di ebollizione di appena 24 °C. Questa sua peculiarità lo rende inadatto a essere somministrato mediante i classici vaporizzatori utilizzati per gli altri anestetici volatili. Infatti esistono delle apparecchiature appositamente progettate per la vaporizzazione del desflurano. Anche questo anestetico è caratterizzato da un odore pungente, che va a esercitare un’azione irritante a carico dall’apparato respiratorio: perciò non è adatto nella fase d’induzione, nella quale occorre utilizzare spesso degli anestetici iniettabili (Par. 9.3). La potenza anestetica è inferiore rispetto all’isoflurano (MAC = 7,3%), tuttavia la sua bassissima solubilità nel sangue (λ = 0,45) lo rende particolarmente adatto quando è richiesta una rapida induzione dell’anestesia e dei tempi di risveglio molto brevi, ad esempio negli interventi fatti in day-hospital. Inoltre presenta una modesta lipofilia (P = 19), grazie alla quale non viene accumulato in modo eccessivo nel tessuto adiposo e non dà problemi particolari nei pazienti obesi. L’estensione del metabolismo a carico del desflurano è davvero irrisoria (circa lo 0,02% della dose inalata, inferiore rispetto all’isoflurano con cui condivide le principali vie metaboliche), con formazione di minime quantità di acido trifluoroacetico e di fluoruri che vengono eliminate con le urine, senza causare alcun problema di tipo epatico o renale. Quindi il desflurano, grazie alle sue caratteristiche, rende attualmente possibili molti interventi di chirurgia ambulatoriale senza la necessità di ricovero ospedaliero. Alcuni problemi possono verificarsi in pazienti con patologie coronariche, perché il desflurano causa un au-

mento della frequenza cardiaca. Un altro problema comune a tutti gli anestetici fluorurati, ma che riguarda in particolar modo il desflurano (in minor misura anche l’enflurano) è la possibile intossicazione da monossido di carbonio, che si può formare negli assorbitori di anidride carbonica utilizzati nel circuito di riciclo respiratorio come già descritto (Box 9.2 e Par. 9.2.1).

Sevoflurano Il sevoflurano – 1,1,1,3,3,3-esafluoro-2-(fluorometossi) propano –, la cui sintesi è descritta nel Box 9.5, è un anestetico alogenato contenente esclusivamente il fluoro come il desflurano, ma a differenza di quest’ultimo presenta una volatilità inferiore (T. eb. = 58 °C) e un odore gradevole anziché pungente, risultando quindi non irritante per il tratto respiratorio. È un anestetico piuttosto potente (MAC = 2,1%) caratterizzato da una bassa solubilità nel sangue (λ = 0,65) e da una modesta lipofilia (P = 47), che ne garantiscono tempi rapidi di induzione e di recupero. Queste caratteristiche lo rendono particolarmente adatto all’induzione di anestesia in pazienti pediatrici e si presta a interventi svolti sia in regime ambulatoriale sia in ricovero ospedaliero. Il suo metabolismo riguarda circa il 5% della dose assorbita ed è caratterizzato prevalentemente da un’ossidazione microsomale a livello epatico che porta alla formazione di CO2, ioni fluoruro ed esafluoroisopropanolo (HFIP), un caratteristico metabolita che subisce un’estensiva glucuronazione sull’ossidrile. Questo tipo di metabolismo può giustificare, almeno in parte, l’insorgenza di effetti tossici a livello epatico e renale. Tuttavia uno dei principali problemi associati all’utilizzo del sevoflurano è costituito dalla sua reattività con alcuni tipi di assorbitori di CO2, che porta alla formazione di un sottoprodotto nefrotossico (composto A). Infatti, nonostante il sevoflurano produca quantità insignificanti di CO a prescindere dal tipo di assorbitore e dalle condizioni di utilizzo, purtroppo reagisce in modo rilevante con le basi forti del granulato, produ-

BOX 9.5 ■ Sintesi del sevoflurano Il sevoflurano viene normalmente prodotto a livello industriale in un singolo passaggio a partire dall’1,1,1,3,3,3esafluoro-2-propanolo (HFIP), il quale viene trattato a caldo (65 °C) con paraformaldeide, acido fluoridrico gassoso e acido solforico concentrato. Tuttavia questo metodo produce anche altri sottoprodotti, costituiti principalmente da poliacetali fluorometilici dell’HFIP. La risultante miscela richiede una complessa procedura di purificazione. Inoltre l’acido fluoridrico gassoso è notevolmente CF3 F3C

OH

tossico e corrosivo, pertanto sono stati sviluppati successivamente altri metodi di preparazione del sevoflurano. Uno dei più recenti prevede una procedura a due passaggi in cui l’HFIP viene prima sottoposto a una reazione di clorometilazione con paraformaldeide, seguita da uno scambio dell’atomo di cloro con uno di fluoro mediante trattamento a caldo (90-95 °C) con potassio fluoruro in polietilen glicole 400 (PEG-400).

CF3

(CH2O)n, HF(g) H2SO4, 65 °C

F3C

O

Sevoflurano KF

(CH2O)n AlCl3

CF3 F3C

O

Cl

PEG-400 90-95 °C

F

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cendo vari sottoprodotti, fra cui il cosiddetto composto A, il quale è in grado di causare nefrotossicità. Il meccanismo di formazione di questo composto prevede un’eliminazione di HF promossa dalle basi forti presenti nel granulato e, come si può vedere dal meccanismo di reazione, è specifico per il sevoflurano, non essendo possibile per le strutture degli altri anestetici alogenati. F H

O

H F3C

F C C

F O

OH-

F

Sevoflurano

-H2O -F-

F

F3C

C C

Box 9.6 ■ P  roduzione del protossido d’azoto Il protossido d’azoto viene ottenuto mediante una decomposizione termica (250-255 °C) dell’ammonio nitrato, tenendo sotto controllo il sistema per non innescare una decomposizione esplosiva.

F NH4NO3 O

250-255 °C

N2O + 2 H2O

F

Composto A

La nefrotossicità del composto A sembra essere legata a una sua attivazione metabolica da parte della β-liasi a livello renale, sebbene studi attuali abbiano evidenziato soltanto una nefropatia transitoria in soggetti esposti a questa sostanza. La formazione di questo composto è indipendente dal grado d’idratazione del materiale impiegato, quindi la sua presenza nel gas anestetico può essere eliminata esclusivamente facendo uso di nuovi materiali assorbitori privi di basi forti come KOH e NaOH. Pertanto il suo uso richiede una scelta attenta dell’assorbitore e un’opportuna manutenzione dei sistemi di riciclo.

9.2.3 Gas inorganici Protossido d’azoto Il protossido d’azoto (N2O), o gas esilarante, ha recitato un ruolo pionieristico nella storia dell’anestesia (Scheda 9.1), ma a differenza dei suoi “coetanei” è tuttora in uso e la sua preparazione è indicata nel Box 9.6. È un gas (T. eb. = –88 °C) incolore, inodore e insapore, dotato di una debole attività anestetica (MAC = 104%) che ne impedisce l’utilizzo come singolo agente, tranne nei casi in cui non sia richiesta un’anestesia profonda (ad es. in alcuni interventi odontoiatrici). Viene invece utilizzato spesso in associazione con altri anestetici volatili per ridurne i dosaggi e, di conseguenza, gli effetti collaterali. Presenta una scarsa solubilità nel sangue (λ = 0,46) e nei lipidi (P = 1,4) ed è quindi in grado di produrre una rapida induzione e un pronto risveglio dall’anestesia. Il risveglio dev’essere seguito con particolare cautela per evitare il rischio d’ipossigenazione del paziente, poiché la liberazione di notevoli quantità di N2O negli alveoli polmonari in questa fase può portare a saturazione dei volumi, con esclusione dell’ossigeno. Normalmente questo rischio viene evitato somministrando ossigeno al 100% a fine anestesia. Il suo uso è controindicato in pazienti con pneumotorace o in presenza di embolie gassose, in quanto tenderebbe a peggiorare queste condizioni. Il protossido d’azoto è dotato di un notevole potere analgesico, che viene bloccato da un antagonista oppioide come il naloxone, suggerendo la possibilità di un’azione sul sistema oppioide endogeno da parte dell’N2O. Genera un effetto euforico e può provocare allucinazioni. Non subisce praticamente alcun tipo di trasformazione metabolica significativa e viene eliminato tal quale mediante la respirazione. L’esposizione cronica a questo anestetico, soprattutto a carico dei dentisti o di chi ne fa abuso voluttuario, può causare delle gravi intossicazioni a causa delle sue proprietà ossidanti, che vanno a inattivare la vitamina B12 (o cobalamina) mediante

ossidazione del suo ione di cobalto. Ciò induce principalmente delle patologie ematiche come neutropenia, anemia aplastica e megaloblastica, poiché la vitamina B12 è un cofattore nella sintesi della metionina, un aminoacido essenziale la cui carenza porta a questo tipo di problemi.

Xenon Lo xenon è il più grande (131 Da) fra i gas nobili non radioattivi, quindi risulta particolarmente stabile dal punto di vista sia isotopico sia chimico. Attualmente è ancora considerato un anestetico sperimentale. Non è estremamente potente (MAC = 71%), ma grazie al suo bassissimo coefficiente di partizione sangue/gas (λ = 0,12) e di lipofilia (P = 1,9) mostra dei tempi di induzione e di recupero molto brevi. Inoltre lo xenon è dotato di una buona azione analgesica, non induce ipertermia maligna e presenta pochissimi effetti collaterali, grazie anche all’assenza di trasformazioni metaboliche a suo carico nell’organismo. Esercita anche un effetto neuroprotettivo e cardioprotettivo, probabilmente a causa del suo meccanismo d’azione che sembra coinvolgere un antagonismo del recettore NMDA (Par. 9.2.4). Inoltre, a differenza degli idrocarburi alogenati, non contribuisce a distruggere lo strato dell’ozono nell’atmosfera, né ad aumentare l’effetto serra (che invece è causato anche dall’N2O). Tuttavia è un gas piuttosto raro (0,086 ppm nell’atmosfera) e viene prodotto per distillazione frazionata dell’aria liquida. Pertanto la sua produzione, oltre a essere molto costosa, ha un notevole impatto ambientale, in quanto richiede il consumo di una notevole quantità di energia (un milione di volte superiore a quella richiesta per l’N2O). A titolo di esempio, un’anestesia con lo xenon costa circa 30 volte di più di quella con isoflurano e 15 volte di più di quella con propofol. Quindi l’uso dello xenon dovrebbe essere limitato soltanto a situazioni particolari, ad esempio per pazienti colpiti da infarto o da trauma cranico e in alcuni specifici casi di rianimazione, in cui il rapporto costi/benefici ne giustifichi l’impiego.

9.2.4 M  eccanismo d’azione degli anestetici volatili Gli anestetici volatili esercitano il loro effetto mediante vari tipi di azioni sul sistema nervoso centrale (SNC). Le iniziali ipotesi sul loro meccanismo d’azione derivarono da alcune osservazioni riportate a cavallo fra il 1800 e il 1900 da un farmacologo tedesco, Hans Horst Meyer, e da un suo collega inglese, Charles Ernest Overton. I due formularono una teoria, nota anche come regola di Meyer-Overton, in cui è

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

stata descritta per la prima volta una correlazione diretta fra la lipofilia degli anestetici volatili e la loro potenza anestetica, indicata dal loro valore di MAC. L’applicazione di questa teoria utilizzando i valori di partizione olio/gas (P) e di MAC degli anestetici descritti in questo capitolo (Tab. 9.1) è rappresentata graficamente in scala logaritmica in Figura 9.4, in cui si può notare la sorprendente correlazione che si ottiene anche con gli anestetici più moderni. Quindi, farmaci più lipofili come il metossiflurano o l’alotano presentano dei valori di MAC nettamente inferiori rispetto a quelli meno lipofili come lo xenon e il protossido d’azoto. Inizialmente questo aumento piuttosto lineare di attività anestetica all’aumentare della lipofilia della molecola ha portato a pensare che il sito d’azione degli anestetici fosse esclusivamente il doppio strato lipidico delle membrane dei neuroni, la cui perturbazione da parte degli anestetici portava ad alterazioni della trasmissione dello stimolo nervoso. Attualmente si pensa che gli anestetici non agiscano tutti mediante uno stesso meccanismo d’azione, spiegabile esclusivamente sulla base della loro lipofilia, bensì che essi siano invece coinvolti in vari tipi di interazioni con lipidi e proteine delle membrane neuronali, inclusi recettori specifici e canali ionici. Infatti è stato dimostrato, ad esempio, che gli enantiomeri destrogiro e levogiro dell’isoflurano, pur avendo gli stessi valori di lipofilia, hanno invece delle potenze anestetiche significativamente differenti, con il (S)-(+)-isoflurano più potente del (R)-(–)isoflurano. Sulla base di ciò l’isoflurano dovrebbe interagire con dei target biologici otticamente attivi come le proteine, e non limitarsi esclusivamente a un’intercalazione aspecifica nella matrice lipidica della membrana dei neuroni. Ciò non sarebbe comunque in contrasto con la correlazione di Meyer-Overton, in quanto un motivo per cui anestetici più polari si mostrino meno potenti di quelli più lipofili potrebbe risiedere nella loro inferiore abilità di attraversare la barriera ematoencefalica (BEE). Pertanto la regola di Meyer-Overton sarebbe una conseguenza di una distribuzione più favorevole degli anestetici caratterizzati da una maggiore lipofilia all’in-

Figura 9.4 Teoria di Meyer-Overton: correlazione grafica fra partizione olio/gas e MAC di alcuni anestetici volatili.

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terno del SNC, piuttosto che una più efficace interazione con il loro bersaglio farmacologico. Tuttavia gli anestetici generali sono tutti costituiti da molecole piuttosto apolari e questo implica che le interazioni con i loro bersagli siano fondamentalmente di tipo idrofobico oppure siano generate da deboli polarizzazioni. A causa di ciò, questi farmaci mostrano delle affinità di binding alquanto basse nei confronti dei loro target proteici, rendendo molto difficile l’osservazione diretta delle loro interazioni e l’identificazione dei loro meccanismi d’azione. Attualmente, grazie a evidenze farmacologiche indirette, nonché a studi di NMR e di modellazione molecolare, sono state evidenziate delle interazioni specifiche degli anestetici volatili con alcuni tipi di recettori presenti nel SNC, come recettori per GABAA, glicina (GlyR), NMDA, colinergico-nicotinico (nAChR), e con canali ionici del potassio (TREK e TASK).

GABAA e GlyR Il sottotipo ionotropico del recettore dell’acido γ-amino­ butirrico, GABAA, è associato al canale ionico del cloruro. Se stimolato dal suo mediatore naturale (il GABA) induce un aumento del flusso ionico di cloruro verso l’interno della cellula, che provoca un’iperpolarizzazione della membrana neuronale e, di conseguenza, riduce la trasmissione dell’impulso nervoso. Infatti il sistema GABAergico è generalmente responsabile delle risposte inibitorie nel SNC. Molti anestetici generali sembrano esercitare una modulazione allosterica del recettore GABAA, facilitando la sua attivazione da parte del GABA, in modo simile al meccanismo d’azione delle benzodiazepine ma su un sito molecolare differente. Tuttavia la facilitazione nell’attivazione GABAergica non è l’unico meccanismo degli anestetici volatili, in quanto la somministrazione di bloccanti dei canali del cloruro o di antagonisti delle benzodiazepine ha un effetto soltanto parziale nel ridurne l’azione anestetica. Il recettore per la glicina (GlyR) è per molti aspetti analogo al GABAA e anche nel suo caso gli anestetici generali sembrano potenziarne l’azione inibitoria soprattutto a livello spinale, dove risultano particolarmente efficaci nel provocare una perdita della sensibilità dolorifica. Questi recettori sono coinvolti, almeno in parte, nel meccanismo d’azione degli idrocarburi alogenati e dell’etere dietilico, mentre l’N2O e lo xenon non sembrano interagirvi. NMDA Il recettore di NMDA (N-metil-d-aspartato) è anch’esso ionotropico, però è voltaggio-dipendente ed è di tipo eccitatorio, in quanto abbinato a un canale ionico che consente l’ingresso di Na+ e di piccole quantità di Ca2+, insieme a una fuoriuscita di K+. A seguito della coattivazione da parte del glutamato o dell’NMDA stesso, si ha la depolarizzazione della membrana neuronale promuovendo la generazione del potenziale d’azione. In questo caso si pensa che gli anestetici generali possano svolgere il ruolo di antagonisti nei confronti di questo recettore. Azioni inibitorie nei confronti di questo recettore sono state riscontrate soprattutto per l’N2O e lo xenon, ma anche per gli anestetici alogenati e l’etere dietilico.

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Recettori nicotinici dell’acetilcolina (nAChR) I recettori nicotinici dell’acetilcolina (nAChR) sono associati a dei canali ionici presenti nella membrana neuronale, i quali vengono attivati a seguito dell’interazione con il neurotrasmettitore endogeno, l’acetilcolina, oppure da molecole esogene come la nicotina. Studi recenti hanno mostrato che gli anestetici volatili alogenati sono in grado di inibire in modo non competitivo l’attivazione degli nAChR, andando quindi a ridurre la trasmissione colinergica mediata da questi recettori sia a livello centrale (perdita di coscienza) sia periferico (rilassamento muscolare). Canali ionici del K+ (TREK e TASK) Più di recente è stato riportato che i canali del potassio dal dominio a due pori, appartenenti alle due sottofamiglie dei TASK e TREK, possano essere probabili bersagli di alcuni anestetici generali, che sembrano attivare soprattutto i TREK-1. L’aumento del flusso di ioni K+ attraverso questo tipo di canali produce un’iperpolarizzazione della membrana neuronale, riducendone l’eccitabilità e, di conseguenza, ostacolando la trasmissione dello stimolo nervoso. In particolare sembra che anestetici volatili come gli idrocarburi alogenati vadano a stimolare questi canali a livello del locus coeruleus e del nucleo del nervo ipoglosso, riducendo la percezione del dolore e favorendo la perdita della coscienza. È probabile che questi canali ionici siano attivati, in misura maggiore o minore, da tutti gli anestetici volatili attualmente in uso, mentre non sembrano essere coinvolti nell’azione degli anestetici iniettabili (Par. 9.3).

9.3 Farmaci anestetici iniettabili Gli anestetici iniettabili vengono somministrati per via endovenosa e possono essere utilizzati per ottenere uno stato di anestesia generale sia da soli (anestetici primari), sia in combinazione con gli anestetici per inalazione (anestetici adiuvanti). Ad esempio, nel caso di alcuni anestetici per inalazione costituiti da idrocarburi/eteri alogenati, soprattutto dal desflurano, è necessario prima somministrare degli anestetici iniettabili nella fase d’induzione (Par. 9.2.2). Generalmente causano una ridotta depressione del sistema cardiovascolare rispetto agli anestetici volatili. Inoltre, grazie ai rapidi tempi d’instaurazione del loro effetto e alle loro brevi emivite, forniscono delle fasi d’induzione e di recupero molto tranquille e, pertanto, vengono spesso preferiti agli anestetici inalatori. Per quanto riguarda alcuni agenti iniettabili usati in anestesia, ma che appartengono ad altre categorie terapeutiche, ad esempio benzodiazepine/barbiturici (Cap. 10), analgesici oppioidi (Cap. 13) e antinfiammatori non steroidei (Cap. 27), si rimanda ai capitoli di pertinenza. In questo capitolo verranno trattati i tre anestetici iniettabili principalmente utilizzati in anestesia generale: propofol, etomidato e ketamina (Fig. 9.5).

Propofol Il propofol – 2,6-(diisopropil)-fenolo – è un fenolo piuttosto lipofilo a causa della presenza di due gruppi alchilici ingombrati in entrambe le posizioni orto (Box 9.7). Infatti è scarsamente idrosolubile e va somministrato in formulazioni che

N CH3

OH

H3C

CH3

O N O

CH3

CH3

CH3

Propofol

Etomidato CH3 NH O

Cl

Ketamina

Figura 9.5 Strutture chimiche degli anestetici utilizzati per via endovenosa.

consistono in emulsioni olio-acqua dall’aspetto lattiginoso. A differenza dei barbiturici come il tiopentale, che sono utilizzati esclusivamente nel periodo d’induzione, il propofol viene impiegato anche nella fase di mantenimento dell’anestesia. Dà luogo a un rapido recupero dall’anestesia, perciò è uno degli anestetici più comunemente usati. Inoltre esercita un’azione antiemetica che riduce notevolmente l’insorgenza di nausea postoperatoria. Tuttavia ha anche un blando effetto depressivo sul sistema cardiovascolare, che si manifesta con ipotensione e con un effetto inotropo negativo: pertanto non viene somministrato in alcuni tipi di pazienti cardiopatici, nei quali si preferisce invece l’etomidato (vedi oltre). Il suo principale bersaglio molecolare è il recettore GABAA, sul quale esercita un’attivazione di tipo allosterico in modo analogo alle benzodiazepine. Tuttavia il sito d’interazione del propofol sembra essere ben distinto da quello dei derivati benzodiazepinici, in quanto la sua azione non viene inibita dal flumazenil, un antagonista delle benzodiazepine. Inoltre il propofol esercita un’azione attivante anche sul recettore GlyR a livello spinale. Infine esso inibisce altri tipi di canali ionici, noti come hyperpolarization-activated cyclic-nucleotide-gated channels o canali HCN, la cui modulazione può contribuire alla depressione delle funzioni nervose e cardiovascolari che si verificano durante l’anestesia. Il propofol subisce un metabolismo rapido ed esteso (Fig. 9.6), che si manifesta a livello epatico in una coniugazione con glucuronato e solfato, i cui prodotti idrosolubili vengono eliminati con le urine. Si formano anche prodotti derivanti dall’ossidrilazione aromatica, come il 2,6-diisopropil-1,4-chinolo, che a sua volta subisce un metabolismo di seconda fase su entrambi gli ossidrili fenolici, sia con glucuronato sia con solfato. Soltanto una piccola percentuale (1% circa) di propofol viene eliminata intatta nelle urine. A causa della sua elevata lipofilia, il propofol ha degli ampi volumi di distribuzione nell’organismo e dei tempi di eliminazione piuttosto lunghi (emivita di eliminazione di 4-24 ore), dovuti anche al suo elevato binding con le proteine plasmatiche e alla diffusione nel tessuto adiposo, che lo rilascia gradual-

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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BOX 9.7 ■ Sintesi del propofol La produzione commerciale di propofol inizia con una doppia alchilazione di Friedel-Craft dell’acido p-idrossi-

benzoico con isopropanolo in acido solforico concentrato a caldo (55-60 °C), seguita da decarbossilazione termica.

CH3

OH

H3C

CH3

OH

conc. H2SO4

OH

CH3

H3C

CH3

55-60 °C

H3C

CH3 CH3

CH3

H3C

COOH

Si preferisce questa procedura a due passaggi (alchilazione/decarbossilazione) a partire dall’acido p-idrossibenzoico piuttosto che l’alchilazione di Friedel-Craft diretta del fenolo non sostituito, poiché in quest’ultimo caso si

OH

OH

CH3

130 °C

COOH

CH3

CH3

NaOH glicole etilenico

Propofol

osserva la formazione di sottoprodotti derivanti dall’alchilazione in para del fenolo, i quali vanno a costituire una miscela di reazione di difficile purificazione.

CH3

O

R

2-

CH3

SO3

Coniugazione

H3C

CH3

R =

O

COOOH OH

HO

Propofol Ossidrilazione

CH3

OH

H3C

CH3 CH3

CH3 Coniugazione

OH

CH3

H3C

CH3

CH3 +

OH 2,6-Diisopropil-1,4-chinolo

O

R

O

H3C

R

CH3 CH3

OH

Figura 9.6 Principali trasformazioni metaboliche del propofol.

mente nel circolo sanguigno in modo molto lento. Ciò spiega la frequente instaurazione di un certo senso di benessere nei pazienti che hanno subito un’anestesia generale da propofol anche a distanza di 2-3 giorni dall’intervento.

Etomidato L’etomidato – (R)-(+) etile 1-(1-feniletil)-1H-imidazol5-carbossilato – è un estere lipofilo di un acido imidazolcarbossilico, quindi dotato di una modesta basicità (pKa = 4,2), contenente un centro chirale, la cui sintesi è riportata nel Box 9.8. Non è sufficientemente idrosolubile, quindi viene formulato come soluzione idroglicolica oppure emulsione olio-acqua. Viene utilizzato l’enantiomero destrogiro di configurazione (R) in quanto risulta più attivo dell’isomero levogiro. È un farmaco ipnotico che non presenta azione analgesica. Viene normalmente utilizzato per l’induzione dell’anestesia grazie al suo effetto immediato, soprattutto in pazienti affetti da instabilità cardiovascolare e ipotensione dovute a patologie coronariche o ad altri tipi di cardiopatie,

in cui viene preferito al propofol. Tuttavia l’etomidato inibisce la produzione degli ormoni surrenali come cortisolo e aldosterone, pertanto va usato soltanto quando la riduzione dei rischi cardiovascolari è giustificata dall’aumento di quelli dovuti all’insufficienza surrenalica (disidratazione, ipotensione, ipoglicemia). Questo effetto collaterale nella corteccia del surrene è probabilmente dovuto a un’azione inibitoria che l’etomidato esercita sull’enzima 11β-idrossilasi, il quale catalizza il passaggio finale della sintesi di cortisolo e corticosterone (a sua volta precursore dell’aldosterone). In alcuni casi può indurre spasmi nella muscolatura scheletrica, fino a delle vere e proprie convulsioni. Non se ne consiglia l’uso come anestetico di mantenimento nel corso di interventi prolungati oppure in pazienti in condizioni critiche, mentre può essere impiegato per interventi brevi, grazie anche ai rapidissimi tempi di risveglio. Il meccanismo d’azione riguarda un’interazione diretta con il recettore GABAA, che subisce una modulazione allosterica da parte di questo farmaco in modo analogo al pro-

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BOX 9.8 ■ Sintesi dell’(R)-etomidato La sintesi dell’(R)-etomidato parte dalla (R)-1-feniletilamina enantiomericamente pura, la quale viene alchilata dal cloroacetato di etile in presenza di trietilamina. Una prima formilazione con acido formico a caldo ha luogo sull’azoto aminico, mentre il successivo impiego di formiato di etile in condizioni alcaline per etossido di sodio

porta alla formilazione anche del CH2. Il derivato diformilato viene direttamente sottoposto a un’eterociclizzazione di Marckwald, che porta alla formazione dell’anello imidazolico. La rimozione ossidativa del gruppo tiolico fornisce l’etomidato. O

NH2

Cl

COO C2H5

CH3

HCOOC2H5 -

+

C2H5O Na

H

COOC2H5

H

O

N

COOC2H5

S

CH3

Toluene 95 °C

KSCN

HS

COOC2H5

N

HCl / H2O 40-45 °C

H2O2 opp. HNO3/HNO2

CH3

N

O

COOC2H5

N

N

CH3

HO

H

HCOOH

CH3

(C2H5)3N

O

HN

N N

COOC2H5 CH3

(- SO2)

CH3

Acido sulfinico

pofol, facilitando l’attivazione del recettore, il conseguente ingresso di Cl– nella cellula e l’inibizione della trasmissione dello stimolo nervoso. Il metabolismo dell’etomidato è molto esteso (Fig. 9.7), infatti soltanto il 2% del farmaco viene eliminato tal quale, mentre il resto viene metabolizzato ed eliminato per il 13% con la bile e per il restante 85% per via urinaria. I metaboliti vengono prodotti prevalentemente a livello epatico e plasmatico. La principale trasformazione metabolica è caratterizzata da un’azione idrolitica da parte delle esterasi a carico del gruppo estereo, per produrre l’acido (R)-(+)-1-(1-feniletil)-1Himidazol-5-carbossilico come principale metabolita, il quale è inattivo e viene eliminato nelle urine, nelle quali costituisce circa l’80% dei prodotti di escrezione urinaria del farmaco. Altri metaboliti prodotti in minor misura, ma che si formano soprattutto grazie all’azione del sistema microsomale epatico, sono quelli derivanti dalla N-dealchilazione ossidativa e che sono caratterizzati dal nucleo 1H-imidazol-5-carbossilato sia in forma esterea sia, dopo idrolisi, in forma acida.

Ketamina La ketamina – (±)-2-(2-clorofenil)-2-(metilamino)cicloesanone – è un derivato aminico secondario contenente un

COOC2H5

N

(R)-Etomidato

sostituente fenilico clorurato e una porzione cicloesanonica (Box 9.9). È dotata di una lipofilia sufficiente a garantirle una buona permeazione attraverso la BEE, come d’altronde avviene per molti altri farmaci di tipo aminico aril-sostituiti. Ha un N

N

O N O

CH3

Idrolisi

OH

(via principale)

CH3

O N CH3

Etomidato N-Dealchilazione ossidativa (via minore)

N

N

O N H

O

O

Idrolisi

CH3

Figura 9.7 Metabolismo dell’etomidato.

N H

OH

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BOX 9.9 ■ Sintesi della ketamina La ketamina viene sintetizzata a partire dal 2-clorobenzonitrile mediante una reazione di Grignard seguita da bro-

murazione in a al gruppo chetonico, formazione dell’intermedio iminico e riarrangiamento termico finale. Cl

MgBr

1.

Cl CN

O

H2O

O

Br2

Br

2. H2O

Cl

CH3NH2

Cl

Cl

CH3 N

H

O

130 °C

CH3 NH

O

Decalina

Ketamina

comportamento debolmente basico (pKa = 7,5) che tuttavia ne permette una dissoluzione sufficiente in soluzioni acide a pH 3,5-5,5, nelle quali viene formulata per l’utilizzo endovenoso. Possiede un centro chirale, ma viene usata in anestesia come miscela racemica, sebbene l’enantiomero destrogiro di configurazione (S) sia più attivo. I suoi effetti s’instaurano molto rapidamente e viene utilizzato come anestetico primario oppure come adiuvante nella fase d’induzione. Ha un’azione anestetica dissociativa, ovvero causa una dissociazione fra il sistema limbico e quelli talamo-corticali, generando uno stato d’incoscienza apparentemente vigile (occhi aperti), in cui si ha una distorta percezione degli stimoli esterni e un distaccamento dall’ambiente circostante. Infatti la ketamina appartiene a una serie di derivati, come la fenilciclidina (conosciuta anche come polvere d’angelo o PCP), che esercitano un’azione allucinogena. Di conseguenza durante la fase di risveglio dall’anestesia non è raro che i pazienti siano in preda a fenomeni allucinatori e delirio. A differenza del propofol e dell’etomidato, la ketamina non interagisce con i recettori GABAA, ma esercita la sua azione anestetica principalmente mediante un’inibizione dei recettori NMDA, che blocca la trasmissione sinaptica sia nel cervello sia nel midollo spinale. Inoltre ha un effetto analgesico molto marcato, probabilmente a seguito di un effetto agonista sui recettori oppioidi, che si manifesta in misura maggiore con la (S)-(+)-ketamina, mentre l’enantiomero levogiro di configurazione (R) è 2-3 volte meno potente. L’uso di ketamina causa anche un’inibizione della ricaptazione di catecolamine sia a livello centrale sia periferico. Questo ulteriore meccanismo d’azione lo rende particolarmente adatto nell’anestesia di pazienti affetti da broncospasmo, poiché la maggiore presenza di catecolamine a livello dei recettori β2 della muscolatura liscia bronchiale ha un effetto rilassante e broncodilatatore. L’aumentato tono adrenergico causato da questo meccanismo provoca anche un innalzamento della pressione arteriosa, della frequenza e della gittata cardiaca. Quindi la ketamina va usata con cautela nei pazienti cardiopatici, sebbene

la conseguente stimolazione simpatica risulti particolarmente vantaggiosa nel caso di pazienti affetti da shock circolatorio con grave ipotensione arteriosa e rischio di arresto cardiaco. Il metabolismo della ketamina avviene essenzialmente a livello del sistema microsomale epatico ed è caratterizzato da reazioni ossidative di N-demetilazione o di ossidrilazione della porzione cicloesanonica in varie posizioni (Fig. 9.8). Il principale metabolita è costituito dalla norketamina, che mantiene una certa attività, seppur ridotta a circa un terzo rispetto alla ketamina. Gli altri metaboliti sono invece inattivi e, a seguito dell’introduzione del gruppo ossidrilico, vengono ulteriormente coniugati con glucuronato ed eliminati nelle urine. Si osserva anche una reazione di disidratazione nel caso di derivati ossidrilati che possono generare un doppio legame coniugato con il gruppo chetonico, portando alla formazione del derivato cicloesenonico in cui è presente una funzionalità chetonica α,β-insatura.

9.4 Farmaci miorilassanti I farmaci miorilassanti utilizzati in anestesia sono dei bloccanti neuromuscolari che vanno a inibire la trasmissione dello stimolo nervoso, impedendogli di trasformarsi in contrazione muscolare. Vengono somministrati per via endovenosa e generalmente hanno una durata d’azione controllata, in modo da evitare rischi dovuti al dosaggio eccessivo. Non si tratta di anestetici veri e propri, ma di adiuvanti che consentono di ridurre in modo significativo le quantità di anestetici generali da somministrare durante le operazioni che richiedono uno stato di rilassamento della muscolatura. In questo modo si ha un aumento dei margini di sicurezza durante gli interventi chirurgici. Questi farmaci agiscono a livello postsinaptico nella giunzione neuromuscolare, in particolar modo vanno a legarsi al recettore nicotinico nAChR muscolare, impedendo all’acetilcolina (ACh) di accedervi e, di conseguenza, di promuovere la contrazione della fibra muscolare. A seconda del meccanismo d’azione,

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CH3 N-Demetilazione ossidativa

NH O

NH2 O

Cl Ketamina

Cl

Norketamina

Ossidrilazione

Ossidrilazione

CH3 HO

HO

NH O

NH2 O

Cl

Cl

Coniugazione -OOC

HO HO

O

Disidratazione

R O

R = H, CH3 O-glucuronidi

NH2

NH

OH O

O Cl

Cl

Figura 9.8 Metabolismo della ketamina.

questi farmaci possono fungere da antagonisti (non depolarizzanti, Par. 9.4.1) se non stimolano il potenziale d’azione, oppure da agonisti (depolarizzanti, Par. 9.4.2) se inducono il potenziale d’azione, ma in questo caso, rimanendo legati al recettore postsinaptico, impediscono la ripolarizzazione della membrana e di fatto paralizzano anche la fibra muscolare. La struttura di tutti i bloccanti neuromuscolari utilizzati in anestesia contiene sempre almeno un sito cationico costituito da un sale d’ammonio quaternario. La presenza di questo tipo di raggruppamento permette alla molecola di mimare la porzione cationica presente nel mediatore naturale (ACh), anch’essa costituita da un sale d’ammonio quaternario. Inoltre la carica positiva rende questi agenti molto idrofili, impedendo loro di superare membrane dalle caratteristiche lipofile come la BEE. Questo aspetto è di fondamentale importanza affinché il blocco colinergico avvenga soltanto a livello periferico (nelle placche neuromuscolari) e non a livello centrale, dove potrebbe creare molti problemi. Anche la barriera placentare e le membrane cellulari sono normalmente impermeabili a questo tipo di composti e questo limita ulteriormente l’insorgenza di possibili ulteriori effetti collaterali off target. Di fondamentale importanza è il fatto che questi farmaci miorilassanti siano degli agenti competitivi dell’ACh, in modo che il loro effetto possa essere fatto regredire prontamente in caso d’insufficienza respiratoria causata da iperdosaggio (che viene tuttavia contrastata anche mediante respirazione assistita). Come antidoti si somministrano degli agonisti colinergici, i quali possono essere diretti, ad esempio l’acetilcolina stessa, oppure indiretti, come la neostigmina o

l’edrofonio, che inibiscono in modo reversibile l’acetilcolinesterasi. Nel caso in cui sia necessario interrompere l’azione dei bloccanti neuromuscolari con questi agenti, potrebbe essere opportuno somministrare prima degli antagonisti dei recettori muscarinici (atropina o glicopirrolato), altrimenti c’è il rischio che si manifesti una bradicardia indotta dalla stimolazione dei recettori muscarinici cardiaci.

9.4.1 B  loccanti neuromuscolari non depolarizzanti I più diffusi bloccanti neuromuscolari utilizzati in anestesia sono quelli non depolarizzanti, che vanno a legarsi in modo reversibile al recettore nAChR, senza però attivarlo. Dal punto di vista strutturale questi farmaci possono essere generalmente ricondotti alle categorie dei derivati curarici, benziltetraidroisochinolinici e aminosteroidei.

Derivati del curaro Storicamente la scoperta di questa classe di farmaci trae origine dal curaro, un veleno vegetale usato dagli indigeni del Sud America sulla punta delle loro frecce per renderle letali, poiché anche una semplice ferita con queste armi può provocare la paralisi della vittima colpita. Il principio attivo presente nel curaro è la d-tubocurarina (Fig. 9.9), che si ottiene sotto forma di cloruro a seguito di purificazione dagli estratti grezzi del Chondrodendron tomentosum. Si tratta di una molecola chirale destrogira dalla struttura piuttosto complessa, caratterizzata comunque dalla presenza di due atomi d’azoto carichi positivamente (un’amina terziaria protonata e un ammonio quaternario) distanti 11,5 Å fra di loro. È stato il primo

265

266

FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

H3C

ISBN 978-88-08-18712-3

O S

O

N

H

HO

H3C

H CH3

N

R

H

O

H 3C

N

H

O

2Cl-

CH3

S

O H3C

H3C

O CH3 CH3

2I-

CH3 N

R

H

O CH3

OH O CH 3 d-Tubocurarina cloruro

O O CH 3 Metocurina ioduro

Figura 9.9 Bloccanti neuromuscolari curarici.

bloccante neuromuscolare usato in anestesia, grazie alla sua efficace azione miorilassante nella fase preparatoria all’intervento chirurgico. Tuttavia la d-tubocurarina ha una durata d’azione piuttosto lunga (la paralisi può protrarsi anche per 1-2 ore dopo la sospensione dell’infusione), anche perché la molecola non viene prontamente metabolizzata dall’organismo. Infatti una buona porzione di farmaco viene eliminata tal quale per via renale, perciò occorre porre particolare attenzione soprattutto nel caso di pazienti affetti da insufficienza renale. Inoltre presenta anche un’azione inibitoria collaterale a livello dei recettori nicotinici gangliari, che produce ipotensione nel paziente e può costituire un serio rischio nel caso di alcune patologie cardiovascolari. Infine la d-tubocurarina può favorire il rilascio d’istamina provocando broncospasmo, che risulta particolarmente dannoso in pazienti asmatici. Quindi attualmente il suo uso è stato sostituito da altri farmaci dotati di un profilo farmacocinetico più favorevole. Il trattamento della d-tubocurarina con un eccesso di iodometano porta alla formazione della metocurina ioduro (Fig. 9.9), un derivato curarico semisintetico, dotato di un’azione bloccante di circa 4 volte superiore al suo precursore naturale. In questo caso, l’aumento di attività potrebbe essere dovuto alla presenza contemporanea di due gruppi ammonici quaternari. Anche questo derivato curarico presenta un’azione paralizzante piuttosto prolungata che in alcuni casi rischia di causare un iperdosaggio.

Derivati benziltetraidroisochinolinici Allo scopo di trovare bloccanti neuromuscolari dotati di proprietà farmacologiche migliori rispetto ai derivati curarici, è stata sviluppata la classe dei composti benziltetraidroisochinolinici, in cui sono presenti due raggruppamenti ammonici quaternari spaziati a una distanza simile a quella della tubocurarina. Un primo esempio appartenente a questa classe strutturale è costituito dall’atracurio besilato (Fig. 9.10), in cui i siti cationici sono presenti nei due gruppi isochinolinici terminali posti alle estremità di una catena spaziatrice lineare composta da 13 atomi, che include due gruppi esterei. L’atra-

curio ha 4 centri chirali, 2 sull’azoto quaternario e altri 2 sul C1 dell’anello tetraidroisochinolinico, ma a causa della simmetria della molecola ne esistono soltanto 10 stereoisomeri (anziché 16 teoricamente possibili per molecole dotate di 4 centri chirali, ma prive di simmetrie) di cui 3 di tipo cis-cis – (R)-cis,(R)-cis; (R)-cis,(S)-cis; (S)-cis,(S)-cis –, 4 di tipo cistrans – (R)-cis,(R)-trans; (R)-cis,(S)-trans; (S)-cis,(R)-trans; (S)-cis,(S)-trans – e 3 di tipo trans-trans – (R)-trans,(R)-trans; (R)-trans,(S)-trans; (S)-trans,(S)-trans. L’atracurio besilato utilizzato in clinica è generalmente costituito da un 58% di isomeri cis-cis, un 36% di isomeri cis-trans e da un restante 6% di isomeri trans-trans. Poiché l’isomero di configurazione (R)-cis,(R)-cis (o 1R,2R,1'R,2'R), meglio noto come cisatracurio besilato (Fig. 9.10), è quello dotato del miglior profilo farmacologico/tossicologico rispetto agli altri 9 stereoisomeri, ha recentemente rimpiazzato l’uso della miscela isomerica di atracurio (Box 9.10). Infatti il cisatracurio produce un’azione bloccante neuromuscolare più potente rispetto all’atracurio, ma allo stesso tempo non causa effetti collaterali significativi a carico del sistema cardiovascolare e non aumenta in modo significativo i livelli plasmatici d’istamina. In questi derivati è indispensabile la presenza di entrambi i centri ammonici quaternari caricati positivamente, in quanto la rimozione di uno dei due porta a perdita di attività miorilassante. Questi farmaci hanno una durata d’azione inferiore ai curarici, in quanto subiscono un rapido metabolismo nel plasma (Fig. 9.11) sia di tipo enzimatico (idrolisi dell’estere ad opera delle esterasi plasmatiche) sia di tipo chimico (eliminazione di Hofmann). Questo profilo farmacocinetico è particolarmente favorevole nel caso dei bloccanti neuromuscolari, poiché è più facile controllare la paralisi muscolare mediante una regolazione dell’infusione del farmaco, con ridotti rischi di sovraddosaggio. Inoltre l’eliminazione del farmaco dipende meno dalla funzionalità renale, quindi presenta meno problemi della d-tubocurarina nei casi d’insufficienza renale. L’idrolisi enzimatica di gruppi esterei è una reazione ampiamente diffusa fra i farmaci, mentre risulta molto peculiare la reazione di eliminazione

CAPITOLO 9 • Anestetici generali

ISBN 978-88-08-18712-3

H3C H3C H3C H3C

O

O CH3

N

O O

O

H3C

O

O

N

O

O

O

2 C6H5SO3O

O

CH3 CH3 CH3 CH3

Atracurio besilato

H3C H3C H3C H3C

O

O R

O

CH3

N

O

O

O

O

cis

H3C O

2 C6H5SO3-

N

R

O O

cis

O

O

CH3 CH3 CH3 CH3

Cisatracurio besilato

O

CH3 O

H3C H3C H3C H3C

O R

O O

N

CH3

cis/trans

cis/trans

O

O

E

O

O O

H3C

N

R

O O

2 Cl-

CH3 CH3 CH3 CH3

O H 3C

O Mivacurio cloruro

Figura 9.10 Bloccanti neuromuscolari a struttura benziltetraidroisochinolinica.

di Hofmann. Questa reazione, ben nota in chimica sintetica, riguarda la perdita di un protone alchilico in posizione β rispetto a gruppi di ammonio quaternario, che porta all’eliminazione di un’amina terziaria (buon gruppo uscente) e alla formazione di un alchene. Normalmente questa reazione richiede la presenza di basi per poter avvenire, ma quando l’acidità del protone è aumentata, come nel caso dell’atracurio (c’è un C=O estereo in posizione α), allora può avvenire anche a pH 7,4, che è il valore normalmente presente nel plasma. La molecola risulta stabile in soluzioni acide e, infatti, viene formulata e conservata in soluzioni acquose refrigerate contenenti dell’acido benzensolfonico che mantiene il pH a 3,2-3,7. Quindi è importantissimo evitare di somministrare l’atracurio miscelandolo con soluzioni alcaline, come quella di sodio tiopentale (un barbiturico ad azione breve impiegato spesso nell’induzione di anestesia), poiché verrebbe degradato rapidamente prima che possa svolgere la sua azione. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per il cisatracurio. I principali metaboliti prodotti dall’atracurio/cisatracurio sono costituiti dalla laudanosina e da un acrilato, a seguito dell’eliminazione di Hofmann, insieme a un acido carbossilico e un derivato alcolico provenienti dall’idroli-

si dell’estere (Fig. 9.11). Questi metaboliti sono tutti privi dell’attività paralizzante del farmaco di partenza. Tuttavia l’acrilato è chimicamente reattivo e può dare tossicità epatica/renale. Inoltre la laudanosina può stimolare un’attività convulsivante nel paziente a causa del fatto che, essendo un derivato aminico terziario neutro, è in grado di superare la BEE e di andare a esercitare un’azione neurostimolante a livello centrale. Ciononostante, i livelli di laudanosina che si accumulano durante un normale intervento chirurgico, soprattutto se si usa il cisatracurio, non raggiungono livelli rilevanti, mentre possono elevarsi molto nel caso di somministrazioni prolungate nelle unità di terapia intensiva. Un altro farmaco miorilassante contenente raggruppamenti di benziltetraidroisochinolinio è il mivacurio cloruro (Fig. 9.10), il quale differisce dall’atracurio per tre caratteristiche strutturali essenziali che ne determinano un differente comportamento nell’organismo: 1. la catena dello spaziatore è più lunga, ma contiene al suo interno un doppio legame di configurazione (E) e i gruppi esterei sono invertiti (porzione alcolica vicina all’isochinolinio, porzione acida sullo spaziatore centrale);

267

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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BOX 9.10 ■ Sintesi del cisatracurio besilato La sintesi del cisatracurio besilato inizia con una condensazione del metilmetacrilato con l’1,5-pentandiolo. La successiva doppia reazione di Michael con 2 molecole di (R)-tetraidropapaverina, seguita dalla metilazione dei 2 gruppi aminici terziari, porta all’ottenimento di una HO

miscela di diastereoisomeri del prodotto finale. La purificazione del diastereoisomero (R)-cis,(R)-cis mediante separazioni cromatografiche e cristallizzazioni produce il cisatracurio besilato puro.

OH p- CH3 C 6 H 4 SO3H

+ O CH3

H2C

O

H2C

O

O

CH2 O

O H3CO R

H3CO

N

H

H3CO

CH3COOH

H3CO

OCH3

H3CO H3CO

R

O

O

N O

H3CO H3CO

1.

N

R

O

O O

OCH3 OCH3

2. Separazione diastereoisomeri

H5C6 S O CH3

OCH3

H3CO H3CO H3CO

R

N +

CH3

O

H3C

O

O

O 2

H3CO

OCH3

Anche questo farmaco può esistere in varie forme stereoisomere in quanto presenta 4 centri chirali. Tuttavia esso si ottiene per via sintetica e, oltre alla ben definita configurazione (E) dell’alchene centrale, possiede i centri chirali in posizione 1 e 1' dei nuclei isochinolinici di configurazione (R) (come nel cisatracurio), mentre i centri ammonici quaternari sono di configurazione variabile. Questo porta a ottenere, grazie anche alla simmetria della molecola, una miscela composta soltanto da 3 stereoisomeri, che variano esclusivamente

R

OCH3 OCH3

C6H5SO3-

Cisatracurio besilato

2. il gruppo ammonico quaternario è distanziato dal gruppo estereo da 3 unità metileniche (mentre l’atracurio ne ha soltanto 2); 3. sul sostituente benzilico è presente un gruppo metossilico aggiuntivo.

N +

OCH3

per la configurazione sugli atomi di azoto nelle posizioni 2 e 2'. Il più abbondante (57%) è lo stereoisomero trans-trans (o (R)-trans,(R)-trans) di configurazione (1R,2S,1'R,2'S), seguito dal cis-trans (o (R)-cis,(R)-trans) di configurazione (1R,2R,1'R,2'S), che costituisce il 37% della miscela. Questi due isomeri sono quelli dotati della maggiore attività miorilassante. Lo stereo­isomero presente in minore quantità (6%) è il cis-cis (o (R)-cis,(R)-cis) di configurazione (1R,2R,1'R,2'R), il quale mostra un’attività di circa 10 volte inferiore agli altri stereoisomeri, a differenza dell’atracurio in cui lo stereoisomero (R)-cis,(R)-cis risulta invece essere il più attivo. Il mivacurio ha una durata d’azione inferiore all’atracurio, ma può presentare dei problemi correlati al rilascio d’istamina e all’ipotensione. Dal punto di vista del metabolismo, il mivacurio differisce profondamente dall’atracurio,

CAPITOLO 9 • Anestetici generali

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H3C H3C H3C H3C

O

Idrolisi dell’estere

Eliminazione di Hofmann +

H

N

O

O

CH3

O

O

H O

O

N

+

O

CH3

O

O

Atracurio

O

O

CH3 CH3 CH3 CH3

Metaboliti derivanti dall’eliminazione di Hofmann H3C H3C H3C H3C

O

O O

H2C

O O

N

O

CH3

N+

O

O

CH3

O

O

Acrilato O

O

CH3 CH3 CH3 CH3

Laudanosina

Metaboliti derivanti dall’idrolisi dell’estere H3C H3C H3C H3C

O

O O O

N+ CH3

OH

HO

O

N+

O O

CH3

O O O

O

CH3 CH3 CH3 CH3

Figura 9.11 Metabolismo dell’atracurio: eliminazione di Hofmann e idrolisi dell’estere.

in quanto non può subire la degradazione chimica mediante l’eliminazione di Hofmann, non essendo presenti dei protoni sufficientemente acidi in posizione β rispetto al gruppo ammonico quaternario. Il mivacurio viene invece metabolizzato dalle esterasi plasmatiche mediante una rapida idrolisi dei legami esterei, che in questo caso risulta più rapida rispetto alla stessa trasformazione dell’atracurio, probabilmente grazie a un minore ingombro spaziale in prossimità dei gruppi esterei del mivacurio che facilita l’accessibilità da parte delle esterasi. Grazie al fatto che il metabolismo del mivacurio non produce laudanosina, lo si preferisce all’atracurio/cisatracurio nel caso di interventi molto lunghi o di durata non prevedibile. Tuttavia condizioni genetiche particolari possono portare a una ridotta attività colinesterasica plasmatica e l’azione del mivacurio può protrarsi in modo pericoloso, quindi in questi casi il mivacurio non va usato.

Derivati aminosteroidei Alcuni bloccanti non depolarizzanti della placca neuromuscolare appartengono alla categoria dei composti aminosteroidei (Fig. 9.12), i quali s’ispirano alla malouetina, un alcaloide steroideo contenente due gruppi ammonici qua-

ternari estratto dalla Malouetia bequaertiana, una pianta originaria dell’Africa subsahariana, che possiede un’azione simile a quella del curaro. Da questa molecola naturale sono stati poi sviluppati dei farmaci miorilassanti più potenti e sicuri, fra cui il pancuronio bromuro, la cui sintesi è descritta in dettaglio nel Box 9.11. In questo farmaco la distanza fra i due centri cationici è di circa 11 Å, quindi paragonabile a quella presente nei derivati curarici. Mostra un’attività miorilassante nettamente superiore alla d-tubocurarina e, al tempo stesso, non induce rilascio d’istamina, non ha attività collaterali inibitorie a carico di recettori nicotinici gangliari e non causa ipotensione. Esercita un certo effetto vagolitico, che va ad aumentare le risposte adrenergiche a livello cardiaco (tachicardia, maggiore gittata sistolica) e vascolare (aumento della pressione arteriosa), tuttavia può causare l’insorgenza di extrasistoli. Quindi è particolarmente indicato nei pazienti asmatici e negli anziani, purché non presentino coronaropatie. Il pancuronio ha una lunga durata d’azione, anche perché subisce un metabolismo epatico piuttosto lento. I metaboliti derivanti dall’idrolisi dei gruppi esterei nelle posizioni 3α e 17β mantengono una certa attività e sono in parte responsabili del prolungato blocco

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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H3C H3C

CH3 N

CH3

CH3 CH3 H3C H3C

H

H N CH3

H

H

H Malouetina

CH3 CH3O CH3

N CH3 O H3C

H

CH3O

O N

H

H

CH3

CH3

N

H3C

H

O

2 Br-

H O

H3C

N H

H

O

H3C Br-

H O

Pancuronio bromuro

Vecuronio bromuro CH3

CH3 CH3O O N

CH3 H

HO

H

H

CH3O

O N

CH3

N

H

H H2C

O

BrH3C

Rocuronio bromuro

H

H

O N

H H2C

Br-

O Rapacuronio bromuro

Figura 9.12 Bloccanti neuromuscolari a struttura aminosteroidea.

neuromuscolare se la somministrazione del farmaco viene protratta a lungo. Il vecuronio bromuro è l’analogo monoquaternarizzato del pancuronio, in cui l’azoto piperidinico in posizione 2β non è quaternarizzato, ma è comunque prevalentemente protonato a pH fisiologico. Questo farmaco ha una durata d’azione inferiore al pancuronio e viene anch’esso metabolizzato principalmente mediante idrolisi dei due gruppi esterei, producendo comunque metaboliti attivi. Il rocuronio bromuro differisce ulteriormente dai primi due, in quanto ha un gruppo morfolinico non quaternarizzato in posizione 2β, manca del gruppo estereo in posizione 3α, dove è presente un semplice ossidrile, e in posizione 16β ha un anello pirrolidinico quaternarizzato sull’azoto con un gruppo allilico. Ha una durata d’azione intermedia, ma è caratterizzato da un’insorgenza molto rapida dell’effetto

bloccante. Infine il rapacuronio bromuro è strutturalmente riconducibile al vecuronio, da cui differisce per la presenza di un estere propionico in 17β e per un gruppo quaternarizzante allilico, anziché metilico, sull’azoto piperidinico in posizione 16β. È caratterizzato da una durata d’azione breve e da un rapido tempo d’insorgenza dell’effetto, tuttavia è stato recentemente ritirato dall’impiego clinico poiché il suo uso può causare broncospasmo, talvolta anche grave.

Altri derivati Fra i farmaci la cui struttura non può essere ricondotta alle precedenti categorie, vale la pena di menzionare la gallamina trietioduro (Fig. 9.13), la quale ha principalmente una valenza storica, essendo stata sopravanzata dagli altri bloccanti non depolarizzanti. Presenta tre gruppi ammonici quaternari legati mediante degli spaziatori etossilici alle

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Box 9.11 ■ Sintesi del pancuronio bromuro Il pancuronio bromuro viene sintetizzato a partire dal 5α-androst-2-en-17-one (prodotto dalla disidratazione dell’epiandrosterone). L’iniziale acetilazione in posizione 17 e la successiva reazione con mCPBA porta alla formazione dei due epossidi, con un andamento stereoselettivo ben definito che produce l’inserimento degli anelli

CH3 OOCCH3

CH3 O CH3

H

CH3

(CH3CO)2O

H

H

epossidici sulla faccia a dello steroide nelle posizioni 2,3 e 16,17. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’avvicinamento del mCPBA dalla faccia β è ostacolata dai due gruppi β-metilici, il 18β- e 19β-CH3, i quali si trovano in prossimità dei due doppi legami coinvolti nell’epossidazione.

H

CH3

mCPBA

H

H

H

CH3 OOCCH3 O

(C2H5)2O

O

H H

H

H

H CH3O

N

CH3

N

H

H

NaBH4

H

H

H2O

HO

N

H CH3OOCCH3

CH3 OH N

CH3 H

HO

H

1. (CH3CO)2O 2. CH3Br

N

CH3

N

H

CH3

H

CH3COO

H

H

N H

H3C

H

2 Br-

Pancuronio bromuro

La reazione di apertura dell’epossido 2α,3α porta all’inserimento del gruppo piridinico in posizione 2β, grazie a

un meccanismo di apertura di tipo trans-diassiale dell’epossido.

Regio- e stereochimica dell’apertura del diepossido con piperidina

N

H CH3

trans diassiale

CH3

OOCCH3

O O

Anche l’anello epossidico 16α,17α dà luogo a un’apertura regio- e stereoselettiva con la piperidina, che infatti va a inserirsi nella posizione 16β, dove trova meno ostacoli di tipo sterico rispetto alle altre possibili soluzioni. In questo passaggio si ha anche la contemporanea idrolisi dell’acetato, con formazione del gruppo chetonico in posizione 17, il quale viene poi ridotto con NaBH4 ad alcol 17β in

H N

C16 meno ingombrato

modo stereoselettivo. Anche in questo caso l’ingresso dell’idruro avviene dalla faccia a della posizione 17, che è meno ingombrata della β (a causa del 18β-CH3). I due passaggi finali prevedono l’esterificazione con anidride acetica dei due gruppi ossidrilici in posizione 3α e 17β, e la quaternarizzazione dei due atomi di azoto piperidinici con metil bromuro.

271

272

FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

H5C2

C2H5 H5C2

N

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C2H5

N

O

O

C2H5 C2H5

O

N H5C2

H3C

C2H5

N

CH3

O

O

H3C

C2H5

O

CH3

O

N H3C

3 I-

CH3 2 Cl-

Succinilcolina (o sussametonio) cloruro

Gallamina trietioduro

Figura 9.13 Strutture della gallamina (non depolarizzante) e della succinilcolina o sussametonio (depolarizzante).

BOX 9.12 ■ Sintesi della succinilcolina cloruro La preparazione della succinilcolina cloruro prevede l’iniziale doppia transesterificazione del dimetil succinato, O

CH3

OCH3 OCH3

N

HO

O

O

LiNH2

O

CH3 O

CH3

seguita da quaternarizzazione con clorometano.

O

N N

CH3

O CH3Cl

O O

CH3

CH3

CH3 N CH3 + CH3

O

2 Cl-

+ CH3 N CH 3 CH3

Succinilcolina cloruro

posizioni 1, 2 e 3 dell’anello fenilico centrale. Ha una durata d’azione piuttosto lunga, paragonabile a quella dei derivati curarici. A causa del suo effetto inibitorio sul nervo vago cardiaco, induce tachicardia. Inoltre può provocare rilascio d’istamina.

9.4.2 B  loccanti neuromuscolari depolarizzanti I bloccanti della placca neuromuscolare di tipo depolarizzante vanno a legarsi al recettore nAChR attivandolo, quindi inducendo un’iniziale depolarizzazione, ma a differenza del neuromediatore naturale (ACh) permangono nel sito del recettore impedendo la ripolarizzazione del potenziale di membrana. Quindi a una breve contrazione della fibra muscolare segue un periodo di rilassamento prolungato. Un classico esempio di bloccante depolarizzante è costitui­ to della succinilcolina dicloruro (o sussametonio) (Fig. 9.13), che è una sorta di analogo dimerico dell’acetilcoli-

na, in cui sono presenti due gruppi ammonici quaternari terminali legati fra loro da un doppio estere con un linker centrale derivante dall’acido succinico (Box 9.12). Ha un tempo d’induzione rapidissimo e una durata d’azione molto breve, poiché viene rapidamente metabolizzata dalle pseudocolinesterasi plasmatiche. Si usa principalmente per consentire una rapida intubazione della trachea e quando sono richiesti periodi molto brevi di rilassamento muscolare. A differenza dei bloccanti non depolarizzanti, la succinilcolina non libera istamina e non ha effetti depressivi sui gangli del sistema nervoso autonomo. A causa della depolarizzazione prolungata può produrre una sindrome mialgica postoperatoria. Aumenta temporaneamente la pressione intraoculare, quindi non va usato per interventi oftalmici. A livello cardiaco può causare aritmie, fino a sfociare occasionalmente in arresto sinusale. Può anche indurre ipertermia maligna in pazienti geneticamente predisposti, in modo analogo a quanto visto per gli anestetici volatili fluorurati (Par. 9.2.2).

10

Ipnotici, sedativi e tranquillanti Federico Da Settimo, Sabrina Taliani

10.1  L’ansia 10.1.1 Terapia dell’ansia

10.2   Il sonno 10.3  L’insonnia 10.3.1 10.3.2 10.3.3 10.3.4

Tipi principali di insonnia Le cause dell’insonnia Conseguenze dell’insonnia Terapia dell’insonnia

10.4  Alcoli 10.5   Aldeidi e derivati 10.6  Barbiturici 10.7  Benzodiazepine 10.8  Ansiolitici agonisti e agonisti parziali 5-HT1A: buspirone 10.9  Farmaci non benzodiazepinici: farmaci-Zeta 10.10 A  gonisti al recettore della melatonina

L’ansia è una sensazione spiacevole caratterizzata da tensione, apprensione o disagio. Tra i disturbi psichici, quelli che comportano ansia sono i più comuni. I sintomi dell’ansia grave sono simili a quelli della paura (tachicardia, sudorazione, tremiti, palpitazioni) e coinvolgono l’attivazione del sistema simpatico. Episodi di ansia lieve sono comuni nella vita quotidiana e non richiedono alcun trattamento. Viceversa, quando i sintomi di ansia risultano gravi, cronici e debilitanti, devono allora essere trattati con farmaci antiansia (talvolta chiamati ansiolitici o tranquillanti minori) e/o con alcune forme di terapia psichica o comportamentale. Poiché tutti i farmaci ansiolitici possono causare sedazione, gli stessi farmaci vengono spesso utilizzati in clinica sia come ansiolitici sia come ipnotici (ipnoinduttori). Fino a qualche decennio fa, i barbiturici e i farmaci a essi correlati venivano usati a bassi dosaggi per i loro effetti ansiolitici e a dosaggi più alti per indurre il sonno. Dosi eccessive di questi farmaci provocano perdita di coscienza e, spesso, morte a causa della depressione respiratoria che inducono. L’introdu-

zione delle benzodiazepine nel 1961 ha reso disponibile una classe di farmaci ansiolitici più sicuri in quanto privi di tutti gli effetti deprimenti sul sistema nervoso centrale causati dai barbiturici. Pertanto le benzodiazepine hanno rapidamente sostituito in terapia i vecchi composti ansiolitici e ipnotici.

10.1 L’ansia L’ansia può essere definita come una complessa combinazione di emozioni negative che includono paura, apprensione e preoccupazione. A determinate dosi e in particolari situazioni, l’ansia può essere considerata un fenomeno benefico in quanto implica un’attivazione generalizzata di tutte le risorse dell’individuo, consentendo così l’attuazione di iniziative e comportamenti utili all’adattamento (ad es. l’ansia prima di un colloquio di lavoro può aiutare il candidato a superare brillantemente il colloquio stesso). Essa è diretta contro uno stimolo realmente esistente, spesso ben conosciuto, rappresentato da condizioni difficili e inusuali. Ma quando i livelli di ansia

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

sono eccessivi rispetto a quanto la situazione può richiedere, quando disturba in maniera più o meno notevole il funzionamento psichico, determinando una limitazione delle capacità di adattamento dell’individuo, si sfocia nella patologia. I disturbi d’ansia rappresentano a livello mondiale i più comuni e frequenti disordini mentali. Si stima che tali disturbi affliggano una percentuale significativa della popolazione mondiale; in particolare, in Europa tale percentuale si attesta intorno al 14%. Il decorso dei disordini d’ansia è aggravato dalla cronicità, dai frequenti episodi ricorrenti e dalla rilevante sovrapposizione con i disordini dell’umore e da abuso di sostanza (comorbidità). Secondo le definizioni riportate nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM V, American Psychiatric Association, 2013) e adottate dagli organismi scientifici internazionali, i disordini d’ansia sono essenzialmente caratterizzati dalla presenza di una condizione patologica di apprensione e indecisione che interferisce con le normali funzioni sociali e occupazionali. Un approfondimento sull’ansia è presente nella Scheda 10.1.

10.1.1 Terapia dell’ansia L’ansia può essere trattata farmacologicamente o con psicoterapia, a seconda delle cause della patologia stessa e delle preferenze del paziente. La complessità dei quadri psicopatologici dei disturbi d’ansia e l’elevata comorbidità rendono però difficile la prescrizione farmacologica e nella pratica clinica è frequente la necessità di utilizzare, in associazione, classi diverse di farmaci (Tab. 10.1), come le benzodiazepine (Bz) e gli antidepressivi. Le Bz, grazie alla loro attività ansiolitica, ipnoinducente, miorilassante e anticonvulsivante, risultano indicate nella terapia dei disturbi ansiosi. I loro effetti collaterali consistono in un’accentuazione delle loro proprietà farmacologiche (eccessiva sedazione, astenia, diminuzione delle prestazioni psicomotorie e cognitive, hangover, cioè un effetto post-ubriacatura) e in un aumento della tolleranza e della dipendenza fisica, specialmente in individui dipendenti da sostanze d’abuso. Inoltre, la contemporanea assunzione di alcolici o di altri farmaci deprimenti del sistema nervoso centrale (SNC) può essere particolarmente pericolosa. Gli antidepressivi (Cap. 12) sono spesso efficacemente utilizzati in associazione con le benzodiazepine in alcuni disturbi d’ansia (attacco di panico, disturbo ossessivo-compulsivo, fobie sociali). Il trattamento farmacologico dei disturbi d’ansia al momento disponibile è mirato al controllo dei sintomi e deve essere spesso ripetuto in diversi cicli intervallati, affinché risulti diminuito il rischio dell’instaurarsi di meccanismi di tolleranza e dipendenza. Lo sviluppo di nuovi ansiolitici è descritto nella Scheda 10.2.

10.2 Il sonno Passiamo circa un terzo della nostra vita a dormire. La maggior parte delle persone accumula ben 175 000 ore di sonno durante la sua vita. Il sonno fisiologico è un processo biologico attivo regolato dalla sostanza reticolare ascendente e dal

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Tabella 10.1 Farmaci impiegati nella terapia dell’ansia. Ansiolitici Benzodiazepine (bromazepam, alprazolam, diazepam, clordemetildiazepam ecc.) Ansiolitici non benzodiazepinici (buspirone) Antidepressivi Triciclici (clomipramina, imipramina, amitriptilina ecc.) Serotoninergici (fluoxetina, fluvoxamina, sertralina, citalopram, paroxetina ecc.) Inibitori delle MAO (tranilcipromina, meclobemide ecc.) Inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina (reboxetina ecc.)

sistema limbico e consiste di due stadi: il sonno ortodosso o sincronizzato (N-REM, o sonno non-REM da Non Rapid Eyes Movement), suddiviso a sua volta in quattro fasi caratterizzate da differenti tracciati EEG, e il sonno paradosso o desincronizzato (REM, o sonno REM da Rapid Eyes Movement). Nel sonno si ha quindi un’alternanza regolare di fasi N-REM e REM costituita da cicli di durata simile tra loro. Dopo l’addormentamento il soggetto passa progressivamente dallo stadio 1 del sonno N-REM allo stadio 4, dopodiché ritorna fino allo stadio 3 o allo stadio 2 e quindi, tra i 70 e i 90 minuti dopo l’addormentamento, si verifica la prima fase di sonno REM che dura circa 15 minuti. Alla fine della prima fase di sonno REM si conclude il primo ciclo che dura all’incirca dagli 80 ai 100 minuti. Dopo il primo ciclo se ne susseguono altri di durata piuttosto costante, dove il sonno REM tende ad aumentare in durata a scapito del sonno N-REM, in particolare gli stadi 3 e 4 (sonno profondo) si fanno più brevi. Le fasi del sonno, pertanto, variano circa 5 volte durante una notte di riposo di 8 ore e il sonno N-REM costituisce circa il 70-75% del sonno totale, mentre il sonno REM il 25-30%. Il sonno N-REM precede sempre il sonno REM: il sonno comincia sempre con N-REM. È possibile che tra i vari cicli vi siano momenti di veglia. Approfondimenti sul sonno sono trattati nella Scheda 10.3.

10.3 L’insonnia L’insonnia si definisce come uno stato in cui si osserva una diminuzione della durata del sonno. Più generalmente con questo termine si indica la sensazione soggettiva di non avere tratto dal sonno l’adeguato beneficio perché troppo breve o poco riposante. Infatti il fattore “durata” non è di per sé significativo, perché ciascuno di noi ha esigenze individuali in merito alla quantità di sonno di cui ha bisogno: per alcuni è sufficiente un sonno di 3-5 ore per sentirsi in completo benessere, mentre altri non considerano adeguato un sonno inferiore alle 8-9 ore.

10.3.1 Tipi principali di insonnia Esistono vari tipi di insonnia che possono essere classificati come insonnia iniziale quando è presente una difficoltà nell’addormentarsi, insonnia centrale quando il sonno non

CAPITOLO 10 • Ipnotici, sedativi e tranquillanti

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è continuo e il soggetto è disturbato da continui risvegli, e insonnia terminale quando il risveglio mattutino è precoce. Viene classificata anche la durata dell’insonnia e quindi, a seconda della durata temporale del disturbo, è possibile distinguere: • insonnia occasionale: che dura generalmente pochi giorni ed è legata alla presenza di particolari fattori come stati di malattia, ansia, rumori, temperatura ambientale inadeguata, cambiamento di fuso orario ecc.; • insonnia transitoria: quando il soggetto lamenta il disturbo per un periodo che si prolunga fino alle 3 settimane; è causata da stress acuto o da situazioni stressanti in persone che di solito non hanno problemi con il sonno. • insonnia cronica: quando il disturbo persiste nel tempo; solitamente dovuta a fattori di natura psicopatologica, turbe psichiatriche, abuso di alcol o di farmaci.

che depressione, disturbi neurologici e psichiatrici di vario tipo, possono essere le cause primarie dei disturbi del sonno.

10.3.2 Le cause dell’insonnia

I farmaci principalmente prescritti per la terapia dell’insonnia sono riportati nella Tabella 10.2. Nel sonno indotto o forzato dagli ipnotici, cioè nel cosiddetto sonno farmacologico, il profilo del sonno fisiologico viene spesso alterato in maniera più o meno netta. Un disturbo frequente, provocato da quasi tutti gli ipnotici, è il verificarsi di un REM-deficit determinato dalla riduzione o dall’accorciamento della fase REM. Questo porta a un effetto rebound, nel quale la fase REM dura più a lungo del normale causando sonno agitato, incubi, disturbi vegetativi, insonnia. Un farmaco ipnotico ideale, in seguito a somministrazione a pazienti anziani, dovrebbe essere caratterizzato dalle seguenti proprietà: • rapidità di assorbimento e di effetto; • selettività recettoriale per i recettori del SNC; • induzione di un sonno qualitativamente simile a quello fisiologico;

I fattori che possono influenzare la quantità e la qualità del sonno sono molteplici e di varia natura; talvolta l’origine dell’insonnia può essere imputabile a una sola causa, altre volte invece più motivi contribuiscono all’insorgenza del disturbo. I meccanismi del sonno sono sensibili all’influenza di fattori psicologici quali tensioni emotive, preoccupazioni familiari, problemi economici, che causano ansia e stress; talvolta invece la causa dell’insonnia è da imputare alla presenza di fattori ambientali legati ad esempio all’altitudine oppure alla sindrome del jet lag. Quando il disturbo si manifesta in un soggetto sano in cui non sia riconoscibile la presenza di malattie note si parla di insonnia primaria; quando invece l’alterazione dei meccanismi del sonno è correlata alla presenza di particolari patologie l’insonnia viene definita secondaria. Infatti alcune disfunzioni o malattie fisiche come disturbi epatici, respiratori, gastroenterici, cardiaci, ma an-

10.3.3 Conseguenze dell’insonnia L’insonnia provoca ripercussioni anche gravi sullo stato di benessere e sull’efficienza dell’individuo. La sonnolenza, la diminuzione della capacità di concentrazione, i problemi di memoria, l’irritabilità e la stanchezza generale influenzano negativamente la qualità della vita delle ore diurne del soggetto che dorme poco e male. Il nostro organismo ha bisogno di riposo per recuperare le forze, per salvaguardare la propria efficienza fisica e per rinforzare il sistema immunitario: l’insonnia induce una diminuzione delle difese dell’organismo e provoca quindi una maggiore suscettibilità a malattie e infezioni.

10.3.4 Terapia dell’insonnia

Tabella 10.2 Farmaci impiegati nel trattamento dell’insonnia. Nome generico

Classe

Durata d’azione

Emivita di eliminazione (ore)

Inizio dell’azione (min)

Dose (mg)

Estazolam

Bz

Intermedia

8-24

15-30

1-2

Addormentamento e mantenimento del sonno

Flurazepam

Bz

Lunga

48-120

60-120

15-30

Mantenimento del sonno

Lormetazepam

Bz

Breve

2-10

30

1-2

Addormentamento e mantenimento del sonno

Temazepam

Bz

Intermedia

3-25

45-60

7,5-30

Mantenimento del sonno

Triazolam

Bz

Breve

1,5-5

15-30

0,125-0,25

Addormentamento

Eszopiclone

Non-Bz

Breve

6

30

2-3

Addormentamento e mantenimento del sonno

Ramelteon

Non-Bz

Breve

2-5

30

8

Addormentamento

Zaleplon

Non-Bz

Breve

0,5-1

20

5-10

Addormentamento

Zolpidem

Non-Bz

Breve

1,5-4,5

30

5-10

Addormentamento e mantenimento del sonno

Zopiclone

Non-Bz

Breve

5

30

3,75-7,5

Addormentamento e mantenimento del sonno

Indicazioni

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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mantenimento del sonno per un periodo adeguato senza risvegli indesiderati; durata di azione tale da garantire una copertura notturna con minime reazioni avverse al risveglio mattutino o durante il giorno; assenza di metaboliti attivi derivanti dall’eliminazione del farmaco, così da prevenire gli effetti residui durante il giorno; assenza di sedazione o assopimento indesiderati durante il giorno; assenza di disturbi alla coordinazione e alla funzione psicomotoria; non perdere di efficacia quando assunto ripetutamente (per una serie di notti consecutive o in seguito a terapia cronica); non accumularsi nell’organismo in seguito a impiego cronico; non risultare pericoloso in caso di sovradosaggio; non causare insonnia da effetto rebound, ovvero l’insorgenza di insonnia secondaria in seguito all’interruzione della somministrazione del farmaco; non esasperare l’apnea notturna o altre condizioni che contribuiscono a un sonno agitato; assenza di dipendenza fisica e psichica; assenza di effetti secondari sulle funzioni cognitive e di memoria.

10.4 Alcoli L’attività ipnotica degli alcoli, così come la loro azione disinfettante, aumenta con l’aumentare del numero di atomi di carbonio, raggiungendo un massimo nei composti che ne contengono da 6 a 8. L’attività ipnotica aumenta anche passando dagli alcoli primari ai secondari, e dagli alcoli a catena lineare a quelli a catena ramificata. L’attività aumenta inoltre anche per la presenza di atomi di alogeno e di insaturazioni come doppi o tripli legami. L’etanolo è un deprimente del SNC che, per dosi crescenti, può determinare sedazione e poi ipnosi. È stato il primo ipnotico utilizzato. L’etanolo interagisce con uno specifico sito sul recettore GABAA potenziando il legame del neurotrasmettitore e aumentandone l’effetto inibitorio. Studi recenti dimostrano che anche i recettori GABAB sono coinvolti negli effetti comportamentali dell’etanolo. Gli effetti da intossicazione acuta da etanolo comprendono perdita delle inibizioni, aumento della sicurezza in se stessi,

Cl

OH

Cl

alterazione del linguaggio ed euforia. A dosi più alte si ha compromissione delle prestazioni intellettive e motorie. A concentrazioni superiori a 460 mg/mL si verificano coma e morte. L’assunzione cronica provoca steatosi epatica, ittero e cirrosi. L’etanolo ha azione sinergica con molti altri sedativi e può provocare una grave depressione del SNC se viene associato con antistaminici e barbiturici. A oggi l’etanolo non trova applicazione terapeutica come ipnotico-sedativo e viene utilizzato solo come disinfettante. L’assunzione continuativa di etanolo può provocare sindromi di astinenza nel caso in cui si debba ridurre o sospenderla. Tale sindrome, detta delirium tremens, è caratterizzata da ipereccitabilità, convulsioni, delirio, allucinazioni. Nei casi di media gravità si hanno ansia, tremori, irrequietezza, agitazione, insonnia, irritabilità, sudorazione, nausea e vomito. L’etanolo viene assorbito per semplice diffusione a livello dello stomaco e del tenue; l’assorbimento è rapido e dopo 40 minuti si raggiunge la massima concentrazione ematica. L’assorbimento cambia a seconda se lo stomaco è pieno o vuoto. L’etanolo viene metabolizzato principalmente nel fegato, prima ad acetaldeide dall’alcol deidrogenasi, e poi ad acetato dall’aldeide deidrogenasi. Il disulfiram blocca l’ossidazione dell’acetaldeide ad acido acetico inibendo l’acetaldeide-deidrogenasi. Ciò dà luogo ad accumulo di acetaldeide nel sangue e causa vampate, tachicardia, iperventilazione e nausea. Il metabolita finale acido acetico entra nel ciclo di Krebs degli acidi grassi ed è per questo motivo che l’etanolo facilita l’assorbimento dei cibi provocando aumento del peso corporeo. L’etanolo viene eliminato con le urine e la respirazione, anche come tale (prova del palloncino con bicromato): la concentrazione di etanolo presente negli alveoli polmonari è proporzionale alla concentrazione plasmatica.

10.5 Aldeidi e derivati Il cloralio idrato è un efficace sedativo-ipnotico che induce il sonno in circa 30 minuti e ha una durata d’azione di circa 6 ore. Responsabile della lunga durata d’azione è il suo prodotto di riduzione, il tricloroetanolo, che ha un potere ipnotico addirittura maggiore di quello del cloralio idrato. Entrambi vengono poi metabolizzati per ossidazione ad acido tricloroacetico inattivo (Fig. 10.1). Nonostante l’indice terapeutico abbastanza ristretto, il gusto sgradevole e la scarsa tollerabilità a livello topico (provoca irritazione delle mucose), il cloralio idrato ha ultimamente riacquistato interesse terapeutico. Viene assorbito velocemente, non provoca effetti di accumulo, non ha conseguenze sul sonno profondo e sulle fasi REM, non provoca

OH

Cl

Cl Cl

OH

Cloralio idrato

Figura 10.1 Metabolismo del cloralio idrato.

Cl Cl

Cl Tricloroetanolo

COOH Cl

Acido tricloroacetico

CAPITOLO 10 • Ipnotici, sedativi e tranquillanti

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hangover, non deprime il respiro e anche il rischio di sviluppare tolleranza è scarso. L’associazione tra cloralio idrato ed etanolo produce un effetto fortemente sinergico che si traduce in un potentissimo deprimente centrale. Viene somministrato in capsule alla dose di 0,5-1 g al giorno. Viene principalmente usato nella medicazione preanestetica. Il cloralio idrato, oltre che con gli alcoli per dare emiacetali, reagisce facilmente con le amidi dando emiaminali. I derivati che si ottengono non presentano le caratteristiche organolettiche svantaggiose del cloralio idrato e sono meno irritanti per lo stomaco; in vivo liberano gradualmente cloralio idrato producendo un’azione più duratura nel tempo. Tra i derivati del cloralio idrato ricordiamo il cloralio salicilamide, il petricloralio, la clorbetaina (Fig. 10.2). La paraldeide è il trimero dell’acetaldeide, dalla quale si ottiene per aggiunta di alcune gocce di acido solforico concentrato. È un deprimente più valido dei barbiturici e del cloralio idrato. La sua azione compare rapidamente (15 minuti) e ha una breve durata. Viene utilizzata prevalentemente in clinica come anestetico, nel trattamento degli attacchi epilettici, del tetano, del delirium tremens e in ostetricia. Alle dosi ipnotiche non dà analgesia e non influisce sul respiro e sulla pressione. La dose ipnotica è di 4-8 mL per via orale o rettale. Viene escreta immodificata con il respiro fino al 25%, impartendo all’alito cattivo odore; il restante 75% viene metabolizzato nel fegato ad acido acetico e poi ad anidride carbonica e acqua. CH3 O H3C

O CH3

O Paraldeide

10.6 Barbiturici I barbiturici sono deprimenti non selettivi del SNC. Un tempo rappresentavano il principale trattamento per sedare

il SNC e indurre e mantenere il sonno. Oggi sono stati quasi totalmente rimpiazzati dalle benzodiazepine, che sono meglio tollerate e presentano un indice terapeutico più elevato. Nonostante questo, alcuni barbiturici sono ancora utilizzati in terapia per la loro azione anestetica generale, sedativa, ipnotica, antiepilettica. Presentano un meccanismo d’azione complesso. Interferiscono con il trasporto di ioni sodio e potassio attraverso le membrane cellulari, determinando l’inibizione del sistema reticolare attivante (RAS) mesencefalico. Quest’ultimo controlla l’attività cerebrale e spinale (rispettivamente mediante il sistema ascendente attivatore e il sistema discendente inibitore), regolando i meccanismi generali dell’attenzione, della coscienza e dell’allerta, e coordinando lo stato di veglia e di sonno. I barbiturici inoltre si legano a uno specifico sito allosterico del complesso recettore-canale GABAA, potenziando l’azione del GABA sul recettore GABAA, e prolungando il periodo di apertura del canale per lo ione cloruro. Infine, a concentrazioni più elevate, esercitano un’azione deprimente sui potenziali d’azione calcio-dipendenti e riducono la liberazione calciodipendente dei neurotrasmettitori. Possiamo definire quindi i barbiturici come inibitori depolarizzanti, capaci di determinare un’inibizione della trasmissione sinaptica in tutte le aree del SNC, mediante aumento della soglia di eccitabilità e prolungamento del periodo refrattario dei neuroni postsinaptici, rallentando la trasmissione degli impulsi. Le aree preferenziali di azione sono il RAS, il sistema limbico, il talamo. Dal punto di vista strutturale i barbiturici sono derivati dell’acido barbiturico – 2,4,6-triossiesaidropirimidina –, di per sé farmacologicamente inattivo per la sua acidità dovuta agli atomi di idrogeno presenti nella struttura, che danno vita a tautomerie di tipo lattame ∏ lattime. Analisi ai raggi X dimostrano che allo stato cristallino l’acido barbiturico esiste come trioxo-tautomero, mentre in soluzione è probabilmente in equilibrio tra le forme mono- e dilattimica, dal momento che dati UV escludono la presenza della forma trienolica (Fig. 10.3). OH

O Cl3C(HO)HCO

OCH(OH)CCl3

Cl3C(HO)HCO

N H

OCH(OH)CCl3

CH3

CHCCl3 H3C

CH2COO

CCl3CHO

CH3

OCH2CH3

Petricloralio

N

Clorbetaina

Cloralio salicilamide

Figura 10.2 Derivati del cloralio idrato.

O H

O

H

NH O

HO NH

NH O

H

O

O NH

H

Acido barbiturico

Figura 10.3 Forme tautomeriche dell’acido barbiturico.

H

OH

N

NH HO

N OH

HO

N HO

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FARMACI DEL SISTEMA NERVOSO

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Nel 1951 Sandberg ha enunciato un postulato essenziale, secondo il quale un barbiturico per essere farmacologicamente attivo (a) deve essere un acido debole (7,1  CF3 >> F; 2. la sostituzione dell’atomo di azoto del ponte con un gruppo isosterico S, O, CH2 provoca una forte diminuzione dell’attività; 3. critiche appaiono anche la natura e l’ampiezza del nucleo basico: infatti, l’allargamento dell’anello a 6, 7 o 8 termini o la sostituzione di un atomo di azoto imidazolinico con S, O, CH2 generano composti significativamente meno attivi. La sintesi della clonidina è riportata nel Box 19.5 e il suo metabolismo nella Scheda 19.9.

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CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori

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Cl > Br > CF3 >> F

R

Anello a 5 termini >> 6, 7, 8

N X

Y R

NH >> S, O, CH2 NH >> S, O, CH2

Figura 19.16 RSA degli analoghi della clonidina dedotte dallo studio di composti clonidino-simili.

BOX 19.5 ■ Sintesi della clonidina reazione finale con etilendiamina conduce al prodotto desiderato.

La 2,6-diclorofenilamina è condensata con acido formico e quindi clorurata per trattamento con SOCl2; la Cl

Cl

HCOOH

N H

NH2 Cl

Cl

O

Cl

SOCl2

N

H

Cl

NH2 N

N

Cl

NH2 Cl

Guanabenz

H2 N

Cl

NH2

Cl Cl

Cl

O

NH N H

NH2

N N H

N H Clonidina

comprende i sottotipi I1-imidazolinici (definiti anche recettori I1-imidazolinici), riconosciuti preferenzialmente dalla clonidina, e i sottotipi I2-imidazolinici, riconosciuti preferenzialmente dall’antagonista α2-adrenergico idazoxan. Inoltre i sottotipi I2 sono stati ulteriormente suddivisi in I2A e I2B sulla base dell’affinità, rispettivamente alta e bassa, nei confronti dell’amiloride.

Nel tentativo di eliminare o quanto meno ridurre gli effetti secondari della clonidina, sono state brevettate numerose altre molecole tra cui guanabenz e guanfacina che, pur superiori alla clonidina per la durata d’azione, continuano a manifestare un’elevata incidenza di effetti sedativi mediati dal sottotipo α2A. Cl

Cl

Cl

Cl O

Guanfacina O

*

N

O

H2N N

H2N

O

*

N

N

N

H NN

NH2

H N

Studi molto recenti hanno fornito efficaci ligandi come alliNH NH2 O NH2 O HN HN fenilina e ciclometilina che, grazie alla natura del sostituente orto fenilico, mentre attivano il sottotipo α2C, antagonizza- Idazoxan Idazoxan Amiloride Amiloride no significativamente il sottotipo α2A. Un ulteriore aggiornamento di questa classificazione si è CH2 CH2 avuta con la scoperta nelle cellule β del pancreas di un altro sottotipo, indicato con la sigla I3, la cui attivazione favorisce la secrezione di insulina. CH3 CH3 CH3 CH 3 In particolare l’I1 svolge un ruolo importante nella regoN N N N O O O O lazione cardiovascolare e un’elevata densità dei recettori I1 è osservata nella regione del midollo allungato contenente i siti HN HN HN HN d’azione ipotensiva per composti clonidino-simili. Il coinvolAllifenilina Ciclometilina Allifenilina Ciclometilina gimento dei recettori I1 è risultato particolarmente vantaggioso nel caso degli antipertensivi moxonidina e rilmenidina. In un classico esperimento eseguito da Bousquet e coll. nel HN HN 1984 è stato notato che la microiniezione di clonidina nel nucleo reticolare laterale del tronco cerebrale provocava una riN N HN sposta ipotensiva non totalmente contrastabile con i comuni HN HCl Cl H3CO antagonisti α2-adrenergici. Questo risultato è stato spiegato 3CO con il riconoscimento da parte della clonidina anche di altri N N N siti, cui è stato dato il nome di siti di legame imidazolinici.N I numerosi studi sia con radioligandi sia di tipo funzionaCH3 le, oltre a confermarne l’esistenza, hanno anche permesso CH3 Moxonidina Moxonidina di evidenziare la loro eterogeneità. L’attuale classificazione

NH2 NH

N N H Rilmenidina

N O

N H Rilmenidina

O

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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Figura 19.17 Principali effetti della stimolazione dei recettori 2-adrenergici e I1-imidazolinici.

Questi, pur capaci di stimolare i recettori α2 e I1, manifestano una significativa selettività per questi ultimi, con conseguente ridotta incidenza degli effetti della stimolazione dei recettori α2-adrenergici (Fig. 19.17). Il coinvolgimento del sistema I1 nei disordini metabolici associati all’ipertensione consente alla moxonidina di ridurre anche i molteplici fattori di rischio derivanti dai disturbi cardiovascolari. Infatti la moxonidina rappresenta un utile agente nel trattamento dell’ipertensione e delle patologie correlate, quali la resistenza all’insulina, la diminuita tolleranza al glucosio e l’iperlipidemia. Pertanto, sulla base di queste osservazioni, gli agonisti selettivi dei recettori I1 potrebbero essere considerati una seconda generazione di antipertensivi agenti a livello centrale.

19.2 Vasodilatatori I vasodilatatori sono farmaci che favoriscono il rilassamento della muscolatura liscia vasale (MLV) tramite dilatazione del lume, con conseguente aumento del flusso sanguigno e quindi diminuzione della pressione arteriosa. Numerosi sono i sistemi coinvolti: adrenergico, colinergico, purinergico, arginina-vasopressina, ciclo- e lipossigenasi, canali ionici (K+ e Ca2+), ossido nitrico (NO) e renina-angiotensina. Pertanto il grado di contrazione della cellula muscolare liscia dipende da una molteplicità di meccanismi che modulano il complesso equilibrio contrazione/rilassamento (Fig. 19.18). L’alterazione di questo equilibrio porta allo sviluppo di manifestazioni patologiche che, a seconda della loro tipologia, vengono aggredite con farmaci di varia natura che incrementano (vasocostrittori) o riducono (vasodilatatori e spasmolitici) il tono vascolare. Fondamentalmente la contrazione della muscolatura liscia vasale dipende dalla concentrazione dello ione Ca2+. La sua presenza all’interno della cellula è dovuta al flusso attraverso specifici canali o alla sua liberazione dalle riserve intracellulari quali, ad esempio, il reticolo sarcoplasmatico. Il Ca2+ libero si lega a una speciale proteina chiamata

calmodulina. Il complesso risultante attiva la miosinchinasi a catena breve (MLCK) che, in presenza di ATP, fosforila la miosina. La formazione di legami incrociati a ponte fra la testa della miosina fosforilata e i filamenti dell’actina determina contrazione della MLV. Il processo contrario, in particolare la defosforilazione della miosina, media il rilassamento della MLV. Pertanto, qualsiasi agente capace di accrescere la concentrazione intracellulare di Ca2+ esercita effetti vasocostrittori. È ciò che accade, ad esempio, attivando i recettori vasali accoppiati alla proteina Gq, come i recettori α1-adrenergici, dell’endotelina-1 o dell’angiotensina II. Il risultato è infatti la formazione di inositolo trifosfato (IP3), che stimola il reticolo sarcoplasmatico a rilasciare Ca2+ con conseguente contrazione della MLV. Al contrario, qualsiasi agente in grado di attivare la guanilato ciclasi o l’adenilato ciclasi, catalizzando la formazione di cGMP e cAMP, produce effetti vasodilatatori. Non è del tutto chiaro il meccanismo attraverso il quale il cGMP esercita il rilassamento della MLV; tuttavia questo nucleotide, oltre ad attivare la miosina fosfatasi con conseguente defosforilazione della miosina, sembra inibire il flusso di Ca2+ all’interno della cellula, attivare i canali di K+ e diminuire la concentrazione di IP3. La vasodilatazione indotta dal cAMP risulta invece associata all’inattivazione per fosforilazione di MLCK. È interessante notare che, mentre a livello cardiaco il cAMP rafforza le contrazioni, a livello di muscolatura liscia produce invece rilassamento. Proprietà vasodilatatrici sono perciò possedute da numerosi composti appartenenti a diverse classi chimiche: oltre agli antipertensivi già trattati in questo capitolo, tali proprietà sono anche condivise da donatori di NO e bloccanti dei canali del calcio, per i quali si rimanda al Capitolo 16, diuretici esaminati nel Capitolo 17, inibitori della conversione dell’angiotensina e antagonisti dei recettori dell’angiotensina descritti nel Capitolo 18, e ancora ganglioplegici (descritti nella Scheda 19.10), attivatori dei canali del potassio, antagonisti endoteliali e inibitori delle fosfodiesterasi.

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori

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Figura 19.18 Meccanismi di modulazione dell’equilibrio contrazione/rilassamento della muscolatura liscia vasale.

L’appartenenza dei farmaci a classi chimiche differenti è ovviamente giustificata dalla molteplicità dei bersagli verso cui tali molecole sono dirette. I vasodilatatori vengono impiegati nella prevenzione e nel trattamento di varie affezioni cardiache e circolatorie con il fine principale di ridurre l’ipertensione. Tuttavia l’effetto ipotensivo può provocare, tramite mediazione di fattori nervosi e umorali, risposte compensatorie che contrastano l’azione dei farmaci. Questa è la ragione per cui è opportuno associare i vasodilatatori ad altri farmaci antipertensivi.

19.2.1 Attivatori dei canali del potassio Meccanismi d’azione complessi presiedono gli effetti vasodilatatori e ipotensivi del derivato pirimidinico minossidile, del diazossido (Cap. 17) e della idralazina, agenti direttamente a livello vasale. Il minossidile rientra nella famiglia degli attivatori dei canali del K+; la conseguente iperpolarizzazione della membrana chiude i canali voltaggio-mediati del Ca2+ riducendone la concentrazione intracellulare (Fig. 19.18). Questo evento diminui­ sce a cascata la quantità del complesso calcio/calmodulina, la successiva attivazione del MLCK e quindi la fosforilazione della miosina. Tale effetto è particolarmente evidente a livello di arterie e arteriole dove elevato è il tono della muscolatura liscia. NH2 O N N

N

Minossidile

NH2

Gli effetti collaterali limitano l’uso del minossidile solo a pochi casi di ipertensione grave, resistente ad altri farmaci. Un particolare effetto collaterale di questo composto è rappresentato dall’irsutismo e per questo motivo è assai diffuso il suo utilizzo per via topica nel trattamento dell’alopecia androgenetica. Il diazossido esercita i suoi effetti vasodilatatori con un meccanismo simile a quello del minossidile, tramite attivazione dei canali del potassio. Un altro effetto è l’incremento della concentrazione ematica di glucosio (iperglicemia) dovuto sia a una riduzione della secrezione di insulina nelle “insulae” pancreatiche, sia a un incremento del rilascio di glucosio epatico. I suoi effetti collaterali quali iperglicemia, ritenzione idrico-salina, tachicardia e irsutismo, lo rendono un farmaco di seconda scelta nel trattamento dell’ipertensione, limitandone l’uso alle emergenze di crisi ipertensive. Somministrato per via orale, trova invece impiego nel trattamento dell’ipoglicemia degli adulti. H N

H3C N O

Cl

S O

Diazossido

Anche l’idralazina prolunga l’apertura dei canali del potassio, provocando un’iperpolarizzazione delle cellule della muscolatura liscia vascolare. A seguito del suo meccanismo d’azione si può manifestare anche l’inibizione del secondo messaggero IP3, con ridotto rilascio di calcio sarcoplasmatico. Inoltre l’idralazina sembra stimolare la formazione di NO

481

482

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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Figura 19.19 Meccanismi pressori mediati dall’endotelina.

endoteliale con conseguente vasodilatazione cGMP-mediata (Fig. 19.18). La riduzione pressoria indotta dall’idralazina causa però una risposta riflessa che si manifesta attraverso H3C un’aumentata attività cardiaca. Tale risposta compensa l’ef3C fetto ipotensivo prodotto dalla dilatazione arteriolare,HlimiCH3 tando quindi le potenzialità di questa molecola. Il suo uso è diretto al trattamento di emergenze ipertensive associate con eclampsia. HN

NH2

O S N N

S

O O

NH

S

O H3C HN 3C

N

O

OCHO 3 NH

N

OH

N

O

H3C

N

O S

HN

O

H3CCl

N

O H3C Sitaxentan

OH

Bosentan

N

Bosentan O

N

O N

Idralazina H3C

L’Informatore Farmaceutico include nella stessa classe terapeutica gli antipertensivi bosentan – 4-(t-butil)-N-[6(2-idrossietossi)-5-(2-metossifenossi)-(2,2'-bipirimidin)4-il]benzensolfonamide – e sildenafil – 5-{2-etossi-5-[(4metilpiperazin-1-il)solfonil]fenil}-1-metil-3-propil-1Hpirazolo[4,3-d]pirimidin-7(6H)-one – anche se agiscono con meccanismi differenti. Il primo, infatti, è un antagonista dei recettori dell’endotelina-1 (ET-1), un peptide di 21 aminoacidi a forte potere vasocostrittore prodotto principalmente a livello di endotelio vascolare.

O

O O

N

19.2.2 A  ntagonisti dell’endotelina e inibitori delle fosfodiesterasi

S

HN

Cl

O

N

O CH3

CH3

O

O

CH3

HN

S

N

N N

O

H3C Sildenafil

O

N O

N

O

N

HN

S CH3

CH3 N N

N CH3

O

Sildenafil

CH3

Tale peptide, legandosi ai corrispondenti recettori ETA ed ETB della muscolatura liscia vasale, provoca il rilascio del Ca2+ dal reticolo sarcoplasmatico con conseguente costrizione dei vasi sanguigni e aumento della pressione sanguigna. Come evidenziato dalla Figura 19.19, ETA è localizzato prevalentemente nella muscolatura liscia, mentre ETB è presente sia nella muscolatura liscia sia nelle cellule endoteliali. Pertanto, ET-1 può attivare anche il recettore ETB delle cellule endoteliali, con conseguente formazione dei vasodilatatori prostaciclina e NO che provocano rilassamento della muscolatura liscia. Pertanto il sistema endoteliale nel suo complesso regola i valori pressori attraverso meccanismi bilanciati.

CH3

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori

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Guanilato ciclasi

NO Stimolo sessuale

GTP

Rilassamento del muscolo liscio

cGMP GMP

Sildenafil

PDE-5

Erezione

Figura 19.20 Meccanismo di rilassamento della muscolatura liscia nei corpi cavernosi del pene da parte del sildenafil.

BOX 19.6 ■ Sintesi del sildenafil La reazione del 2,4-diossoeptanoato di etile con idrazina dà origine all’intermedio pirazolico che viene sottoposto a una N-metilazione per trattamento con dimetilsolfato e NaOH. I successivi trattamenti con acido nitrico in acido solforico, cloruro di tionile, idrossido d’ammonio e cloruro stannoso conducono alla 4-amino-1-metil-3-propil-1H-

pirazol-5-carbossamide. Questa viene fatta reagire con 2-etossibenzoil cloruro e successivamente con NaOH per dare un intermedio pirimidinico che, per trattamento dapprima con ClSO2OH e poi con N-metilpiperazina, conduce al sildenafil.

H3C O O

NH2-NH2 H2O

O

H3C

O

O H N

1. (CH3)2SO4

N

O

CH3 1. HNO3, H2SO4 2. SOCl2

N

HO

N

2. NaOH

H2N

3. NH4OH 4. SnCl2

HC

CH3 N N

H2N

O O

CH3

CH3

CH3

H3C

O

O

CH3

Cl

O O N H3C

O

HN

S

CH3

O

N N N

N

O

CH3

2. H3C N

N

HN

1. ClSO2OH NH

CH3

Sildenafil

L’implicazione delle endoteline nelle malattie vascolari di diversi organi rende gli antagonisti dei recettori dell’ET-1 efficaci vasodilatatori utilizzati esclusivamente nei casi di ipertensione polmonare, una patologia caratterizzata da sovrapproduzione di endoteline. Il bosentan è ugualmente attivo su ETA ed ETB. Le fosfodiesterasi (PDE) sono enzimi il cui compito è quello di idrolizzare i legami fosfodiesterici. Sono note 11 diverse isoforme di fosfodiesterasi, ma quelle che presiedono gli effetti di rilassamento della MLV sono la PDE-3 e la PDE-5. La prima, presente nel cuore e nella MLV, degrada il cAMP che, come visto, promuove rilassamento. Di conseguenza gli inibitori di tale enzima, contrastandone gli effetti metabolici, producono stimolazione cardiaca, diminuzione della resistenza sistemica vascolare e abbassamento della pressione arteriosa (Cap. 16).

HC

O

CH3 H2N

N

NaOH

N

HN

N O

CH3 N

CH3

CH3

O

CH3 O

CH3

La PDE-5 è una fosfodiesterasi cGMP-dipendente. Questa forma di isoenzima, presente nella MLV e nei corpi cavernosi del pene, è responsabile del metabolismo del cGMP che si forma a seguito dell’incremento di NO. Pertanto, gli inibitori della PDE-5, il cui termine più noto è il sildenafil, aumentano la concentrazione di cGMP intracellulare, provocando di conseguenza un rilassamento della muscolatura liscia (Fig. 19.20). L’uso principale del sildenafil è nelle disfunzioni erettili in uomini altrimenti impotenti e, in terapia di combinazione, nell’ipertensione polmonare. Generalmente il sildenafil appare sicuro e gli unici effetti avversi possono essere l’emicrania, l’arrossamento cutaneo e la dispepsia. La sintesi del sildenafil è riportata nel Box 19.6.

483

20

Ipolipidemizzanti Carlo De Micheli

20.1  Aspetti generali 20.1.1 Principali lipidi plasmatici 20.1.2 Le lipoproteine 20.1.3 Le iperlipoproteinemie

20.2  Approcci terapeutici 20.2.1 20.2.2 20.2.3 20.2.4 20.2.5

Inibitori dell’enzima HMG-CoA (statine) Sequestranti degli acidi biliari Inibitori dell’assorbimento intestinale del colesterolo Fibrati Acido nicotinico

20.3 Nuovi approcci terapeutici in fasi di sperimentazione clinica 20.3.1 20.3.2 20.3.3 20.3.4

Inibitori della squalene sintasi Inibitori dell’assorbimento di colesterolo Interruzione della circolazione enteroepatica Inibitori della proteina microsomale di trasferimento

20.1 Aspetti generali L’ipercolesterolemia, se associata all’ipertensione, all’obesità, al diabete e a stili di vita non corretti quali il fumo e l’inattività fisica, rappresenta un importante fattore di rischio di malattie cardiovascolari. Si deve ricordare che le malattie cardiovascolari sono la principale causa di mortalità e disabilità sia nei Paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Tale rilevanza è destinata a crescere nei prossimi anni, anche a causa dell’aumento della percentuale di persone obese nei Paesi industrializzati; caso paradigmatico è la situazione negli Stati Uniti d’America. Le principali forme di malattie cardiovascolari sono le patologie coronariche e l’ictus. La causa principale delle coronaropatie è l’aterosclerosi, che consiste in un progressivo ispessimento della parete delle arterie che evolve nella formazione di placche di dimensioni crescenti, fino all’occlusione dell’arteria stessa. Le suddette trasformazioni sono causate da un progressivo accumulo di lipidi sulla superficie interna dell’arteria.

L’aterosclerosi è quindi causata dalla presenza di livelli elevati di lipidi nel sangue (iperlipidemia), associati a bassi livelli di lipoproteine plasmatiche ad alta densità (HDL). Le lesioni che caratterizzano l’aterosclerosi sono dette ateromi o placche aterosclerotiche. Originano con lesioni tipiche dette strie lipidiche, causate da un aumento del contenuto di lipoproteine plasmatiche a bassa densità (LDL), a livello dell’intima (lo strato più interno delle arterie), ed evolvono nel tempo a placche aterosclerotiche che, nelle fasi avanzate, restringono il lume arterioso (stenosi) fino all’occlusione dell’arteria. L’ipercolesterolemia gioca quindi un ruolo fondamentale nella patogenesi delle lesioni aterosclerotiche, promuovendo l’accumulo di LDL nell’intima. La successiva deposizione di colesterolo, lipoproteine e fosfolipidi provoca la formazione delle placche che progressivamente aumentano di dimensione. Da quanto sopra esposto, risulta di particolare evidenza la necessità di controllare e ridurre livelli elevati di lipidi nel sangue. Anomalie del quadro lipidico possono essere causate da inappropriati stili di vita (diete ricche di colesterolo e grassi saturi, un eccessivo introito calorico che causa obesità

CAPITOLO 20 • Ipolipidemizzanti

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I trigliceridi (o triacilgliceroli) sono gli esteri del glicerolo in cui i tre gruppi alcolici sono esterificati con acidi grassi. La caratteristica principale dei trigliceridi è la loro elevata idrofobicità. Rappresentano una forma di deposito dell’energia, poiché, in caso di necessità, sono idrolizzati dalle lipasi e gli acidi grassi così generati sono utilizzati a livello mitocondriale per la produzione di energia mediante una reazione di β-ossidazione. In analogia ai trigliceridi, anche i fosfolipidi (o fosfogliceridi), che sono costituiti da glicerolo, acidi grassi e acido fosforico, rappresentano forme di immagazzinamento degli acidi grassi. Essi sono inoltre costituenti importanti delle membrane cellulari e sono il bersaglio di fosfolipasi nella produzione di secondi messaggeri. Il termine iperlipidemia fa riferimento a una condizione in cui le concentrazioni plasmatiche di uno o più di questi lipidi sono sopra la norma. Si utilizza spesso anche il termine iperlipoproteinemia, in quanto a una situazione di iperlipidemia si associa sempre anche un incremento delle lipoproteine plasmatiche. Queste ultime sono deputate al

e ipotiroidismo subclinico) e da fattori genetici predisponenti, quali l’ipercolesterolemia multifattoriale. La disponibilità di farmaci ipolipidemizzanti risulta quindi di grande rilevanza nel ridurre l’incidenza di malattie cardiovascolari, con conseguente aumento della vita media e diminuzione dei casi di grave disabilità fisica.

20.1.1 Principali lipidi plasmatici Il colesterolo e i suoi esteri, i fosfolipidi e i trigliceridi rappresentano i principali lipidi presenti nel sangue. Il colesterolo svolge negli organismi animali un ruolo fisiologico essenziale, in quanto è un costituente sia delle membrane cellulari sia delle guaine mieliniche dei neuroni centrali e periferici. Esso è inoltre il precursore chiave nella biosintesi degli acidi biliari e di numerosi composti a struttura steroidea caratterizzati da attività ormonale o vitaminica. Il colesterolo è assunto con la dieta, ma può anche essere biosintetizzato dall’organismo a partire da acetil-coenzima A (acetil-CoA).

H3C H 3C

COOH

HO

O

O

SCoA

H3C

HMG-CoA reduttasi

COOH

HO

OH

SCoA

3

3 Acetil-CoA

3-Idrossi-3-metilglutaril-CoA

Acido mevalonico

H 3C CH3

H3C CH3 CH3 H3C

O H3C

H3C

OH P

O

O

OH P O

CH3

CH3

H 3C Squalene

HO

OH

O

CH3

CH3

Isopentenil pirofosfato

H3C CH3

CH3 H3C

CH3

CH3 H3C

HO

CH3 Lanosterolo

Figura 20.1 Biosintesi del colesterolo.

OH

H2C

Farnesil pirofosfato

CH3

HO

P

O O

Condensazione di 3 unità

H3C

CH3

OH

O

P

Colesterolo

CH3 H 3C

485

486

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

trasporto dei lipidi ai tessuti in cui essi sono necessari e al mantenimento in una soluzione acquosa, qual è il plasma, di composti con caratteristiche idrofobiche. Tutte le cellule del nostro organismo sono in grado di sintetizzare il colesterolo, ma il fegato e l’intestino sono i maggiori responsabili della sua produzione. La metà del colesterolo totale è assunta con la dieta, mentre la rimanente quota viene biosintetizzata utilizzando tre unità di acetil-CoA. La biosintesi del colesterolo è alquanto complessa e prevede il coinvolgimento di numerosi enzimi (Fig. 20.1). La condensazione di 3 unità di acetil-CoA genera il 3-idrossi-3-metilglutaril-coenzima A (HMG-CoA), che è in seguito ridotto ad acido mevalonico dal NADPH mediante una reazione catalizzata dall’enzima HMG-CoA reduttasi. Il mevalonato è poi convertito, dopo fosforilazione e decarbossilazione, in isopentenil pirofosfato, un derivato isoprenico a cinque atomi di carbonio. Per condensazione di 3 unità isopreniche si forma il farnesil pirofosfato che, a sua volta, è convertito in squalene. Tale intermedio subisce una reazione di ciclizzazione a cascata, generando il lanosterolo, che è infine convertito in colesterolo. L’attività dell’enzima HMG-CoA reduttasi è fisiologicamente cruciale, poiché tale enzima è deputato alla regolazione delle concentrazioni dei prodotti derivanti dal mevalonato. La regolazione avviene sia a livello della sintesi o della degradazione dell’acido mevalonico, sia nel processo di fosforilazione. Poiché la reazione catalizzata da HMG-CoA reduttasi rappresenta lo stadio limitante nella biosintesi del colesterolo, tale enzima è stato individuato come il bersaglio di inibitori specifici che hanno generato una serie di farmaci con un’efficace azione ipocolesterolemizzante.

20.1.2 Le lipoproteine Le lipoproteine hanno il compito di mantenere in soluzione nel plasma i lipidi, caratterizzati da scarsa solubilità in ambiente acquoso. Fungono quindi da proteine di trasporto dei lipidi. Esse sono particelle sferiche contenenti nella parte centrale trigliceridi ed esteri del colesterolo e all’esterno uno strato di fosfolipidi, le cui catene idrofobiche sono orientate verso l’interno, mentre le teste polari sono rivolte verso l’ambiente acquoso circostante (Fig. 20.2). Hanno quindi una natura lipofilica all’interno e idrofilica all’esterno, che facilita la solubilizzazione e il trasporto in ambiente acquoso di molecole anfifiliche quali il colesterolo libero e proteine specializzate dette apolipoproteine. La classificazione delle

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Figura 20.2 Struttura delle lipoproteine.

diverse lipoproteine si basa sulla densità o sulla loro mobilità elettroforetica (Tab. 20.1). In base alla densità si distinguono, in ordine decrescente, chilomicroni, HDL (high density lipoprotein), LDL (low density lipoprotein) e VLDL (very low density lipoprotein); le IDL hanno una composizione intermedia fra LDL e VLDL. Le HDL sono caratterizzate da una densità compresa nell’intervallo 1,063-1,210 g/mL e da un diametro di 8-11 nm. I lipidi assunti con il cibo sono assorbiti a livello intestinale sotto forma di colesterolo, acidi grassi liberi e monoacilgliceroli. Nelle cellule della mucosa intestinale gli acidi grassi liberi sono esterificati e, insieme al colesterolo e all’apoproteina ApoB48, sono incorporati nei chilomicroni, i quali sono poi rilasciati nel circolo linfatico mesenterico. Le VLDL hanno il compito di veicolare i trigliceridi in eccesso dagli epatociti ai tessuti periferici; esse trasportano anche piccole quantità di colesterolo sia libero sia esterificato. Le VLDL sono convertite in particelle più piccole, chiamate LDL, per azione della lipoproteina lipasi che rimuove i trigliceridi. Tali lipoproteine sono responsabili del trasporto e del rilascio della maggior parte del colesterolo ai tessuti periferici. Le HDL sono lipoproteine più piccole, il cui ruolo fisiologico è il trasporto del colesterolo non esterificato dai tessuti periferici al fegato. Per tale ragione, esse svolgono un ruolo

Tabella 20.1 Classificazione delle lipoproteine. Composizione Trigliceridi

Colesterolo

Esteri del colesterolo

Fosfolipidi

Apoproteine

Chilomicroni

85-95%

 1-3%

  2-4%

  3-6%

  1-2%

VLDL

50-65%

 4-8%

16-22%

15-20%

 6-10%

LDL

  4-8%

 6-8%

45-50%

18-24%

18-22%

HDL

  2-7%

 3-5%

15-20%

26-32%

45-55%

IDL

composizione intermedia fra VLDL e LDL

CAPITOLO 20 • Ipolipidemizzanti

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Tabella 20.2 Classificazione di Frederickson delle iperlipoproteinemie. Fenotipo

I

IIA

IIB

III

IV

V

Lipoproteina elevata

Chilomicroni

LDL

LDL e VLDL

Chilomicroni e IDL

VLDL

Chilomicroni e VLDL

Trigliceridi

++++

––

++

++/+++

++

++++

Colesterolo

+/++

+++

++/+++

++/+++

––/+

++/+++

Colesterolo LDL













Colesterolo HDL

↓↓↓







↓↓

↓↓↓

LDL: low density lipoprotein; HDL: high density lipoprotein; IDL: intermediate density lipoprotein.

protettivo nei confronti dell’aterosclerosi e sono comunemente chiamate “gli spazzini del sangue”.

20.1.3 Le iperlipoproteinemie La classificazione delle iperlipoproteinemie si basa sul tipo di lipoproteina la cui concentrazione ematica è superiore ai valori indicati come normali (Tab. 20.2). Il coinvolgimento delle LDL nella formazione della placca aterosclerotica è già stato discusso in precedenza. Al contrario delle LDL, le HDL svolgono, come detto sopra, un ruolo protettivo. Gli individui che presentano alti livelli di colesterolo LDL sono quindi maggiormente a rischio di fenomeni aterosclerotici. Secondo le più moderne linee guida, sono considerati accettabili valori di colesterolo totale   80%) nel tratto intestinale e nel fegato al corrispondente glucuronato dalle varie isoforme di uridina 5'-difosfato glucuronosiltransferasi (UGT). Tale metabolita è attivo e, per effetto del ricircolo enteroepatico, viene escreto con la bile nell’intestino dove, legandosi al sito attivo del farmaco, ne potenzia l’attività.

HN

CH2

CH2 HO

CH2 CH

NH

CH2N(CH3)3

Colestiramina

Resina

n

N(CH3)3

CH

N CH2 HC

OH

CH2

CH2

N

NH

Colestipolo

OOC

HN

Acido biliare

Figura 20.9 Struttura della colestiramina e del colestipolo, sequestranti degli acidi biliari.

n

497

498

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

OH

Aumenta l’emivita

OH F N

Aumenta l’emivita

O Ezetimibe

F

UGT > 80%

O OH

Glucuronato

F N O

Ezetimibe glucuronato

F

Figura 20.10 Struttura dell’ezetimibe e del suo metabolita principale.

Gli altri due anelli aromatici, localizzati rispettivamente nelle posizioni 1 e 3 del sistema azetidinonico, sono sostituiti nella posizione para con un atomo di fluoro che ha la funzione di contrastare il metabolismo, aumentando la durata d’azione del farmaco e favorendone la localizzazione a livello intestinale. L’ezetimibe è somministrata per via orale. Il tempo di emivita del farmaco e del suo glucuronato è di circa 22 ore e l’effetto persiste per alcuni giorni dopo la cessazione della terapia. Il farmaco non sembra essere substrato degli enzimi microsomali epatici P450. Nelle valutazioni cliniche non sono state rilevate importanti interazioni con altri farmaci comunemente utilizzati come ipocolesterolemizzanti. L’unica avvertenza è di evitare la cosomministrazione di ezetimibe con sequestranti degli acidi biliari, quali la colestiramina. Infatti, la contemporanea somministrazione di questi due farmaci ha come effetto una marcata riduzione della biodisponibilità orale dell’ezetimibe. Pertanto, ezetimibe e colestiramina devono essere somministrati separatamente a distanza di parecchie ore. L’ezetimibe può essere somministrata in monoterapia o in associazione con statine, quali la simvastatina.

20.2.4 Fibrati L’impiego dei fibrati nel trattamento delle iperlipoproteinemie precede l’avvento sul mercato dei farmaci trattati nei paragrafi precedenti e precisamente i sequestranti degli acidi biliari e gli inibitori dell’enzima HMG-CoA (statine). La loro scoperta risale agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso a seguito di uno screening sistematico di acidi

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a struttura 2-arilossiisobutirrica. L’estere etilico dell’acido 2-(4-clorofenossi)-2-metilpropionico, denominato clofibrato, mostrò una rilevante capacità di abbassare in vivo i livelli plasmatici sia del colesterolo sia dei lipidi totali. Il clofibrato è un profarmaco poiché l’azione è dovuta al suo prodotto di idrolisi enzimatica, l’acido clofibrico (Fig. 20.11). Il clofibrato fu approvato dalla FDA nel 1967, tuttavia studi successivi evidenziarono che il farmaco effettivamente provocava una marcata riduzione dei trigliceridi e, in misura minore, del colesterolo plasmatico ma, contestualmente, non era in grado di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari; anzi, l’incidenza statistica della mortalità in pazienti che assumevano tale farmaco aumentava. Per le ragioni sopra riportate il clofibrato è stato ritirato dal mercato negli Stati Uniti. Tuttavia, esso è stato utilizzato come composto modello nella progettazione di derivati più efficaci e con un maggiore margine di sicurezza; tra questi si devono annoverare il fenofibrato – propan-2-il 2-[4-(4-clorobenzoil)fenossi]-2-metilpropanoato –, e il gemfibrozil – acido 5-(2,5-dimetilfenossi)-2,2dimetil-pentanoico – (Box 20.4), apparsi sul mercato negli anni ’80-’90 del secolo scorso (Fig. 20.11). Studi recenti hanno reso evidente l’utilità dei fibrati, superiore a quella delle statine, per la riduzione del rischio cardiovascolare in pazienti affetti da diabete o da sindrome metabolica. In particolare i fibrati, a differenza delle statine, sono particolarmente utili in quei pazienti il cui quadro lipidico mostra un’elevata trigliceridemia e/o bassi livelli di colesterolo HDL. Dal punto di vista strutturale, tutti i derivati di questa classe possono essere descritti dalla struttura a blocchi indicata in Figura 20.11, le cui parti essenziali (gruppi farmacoforici) sono costituite dal gruppo arilossi e dalla porzione acida 2-metil-2-propanoato, che possono essere legate direttamente o mediante l’interposizione di uno spaziatore. Nel caso del gemfibrozil lo spaziatore è costituito da una catena a 3 atomi di carbonio, mentre in tutti gli altri farmaci i due gruppi farmacoforici sono legati direttamente. Le maggiori differenze fra i vari termini della classe sono legate ai sostituenti sul sistema aromatico. La presenza di un sostituente in posizione para (ad es. cloro o diclorociclopropile nel ciprofibrato – acido (±)-2-[4-(2,2-diclorociclopropil)fenossi]-2-metilpropanoico – riduce sensibilmente la velocità di metabolizzazione, aumentandone conseguentemente l’emivita. Molti derivati sono in commercio come acidi carbossilici e quindi già nella loro forma biologicamente attiva, mentre il clofibrato e il fenofibrato sono commercializzati in forma esterea (profarmaci) e, come conseguenza, si attivano in vivo solo a seguito dell’azione di enzimi idrolitici.

Meccanismo d’azione Quando, negli anni ’60 del secolo scorso, fu introdotto sul mercato il clofibrato come agente ipolipidemizzante, il suo meccanismo d’azione era sconosciuto e sussistevano perplessità sull’uso dei fibrati a seguito di studi su animali da esperimento che avevano evidenziato una tendenza a indurre carcinogenesi epatica. Studi successivi hanno chiarito che tale effetto era legato alla proliferazione perossisomale e che sia i primati sia l’uomo ne erano immuni.

CAPITOLO 20 • Ipolipidemizzanti

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CH3 Cl

O

CH3

In vivo

COOCH2CH3

Cl

O

CH3 Acido clofibrico

Clofibrato

O

CH3 O

Cl

CH3 (CH2)3

Gemfibrozil

H3C

COOH CH3

CH3

COOH Cl

CH3

O Fenofibrato

CH3

CH3

HN

Cl

CH3 O

CH3 CH3

COOCH

O

O

COOH

COOH CH3

CH3 Ciprofibrato

Bezafibrato Cl

CH3 Arilossi

Spaziatore

C

COOH

CH3

Figura 20.11 Principali fibrati e loro struttura a blocchi.

Il meccanismo con il quale i fibrati provocano un effetto ipolipidemizzante fu definito negli anni ’90. A livello molecolare, i fibrati agiscono da agonisti del recettore nucleare peroxisome proliferator-associated receptor α (PPAR-α), il quale regola l’espressione di geni coinvolti nel metabolismo delle lipoproteine. La loro azione prevalente consiste nel provocare una marcata riduzione dei trigliceridi, una diminuzione delle VLDL (ricche in trigliceridi) e un lieve rialzo del colesterolo HDL. Gli effetti sulle LDL sono variabili; generalmente si ha una riduzione dei livelli delle LDL, ma in alcuni pazienti dislipidemici si instaura un effetto paradosso che causa un aumento del colesterolo LDL. Analizzando in modo dettagliato il meccanismo con il quale i fibrati provocano un effetto ipolipidemizzante, si può affermare che l’evento inziale è l’attivazione del recettore PPAR-α che, a sua volta, attiva l’espressione delle apoproteine A1 e A2, principali componenti del colesterolo HDL, determinando in tal modo un innalzamento dei livelli di HDL-C. L’effetto prevalente, cioè la riduzione dei trigliceridi, è correlato alla ridotta sintesi e all’aumentato catabolismo delle VLDL; la riduzione delle VLDL è dovuta sia alla stimolazione dell’attività della lipoproteina lipasi e dell’apolipoproteina A-V, sia all’inibizione dell’espressione di apolipoproteina C-III. I fibrati hanno inoltre la capacità di promuovere la captazione di acidi grassi a livello epatico, che sono convertiti nei derivati acil-CoA e, in seguito, catabolizzati con un proces-

so di β-ossidazione. La ridotta disponibilità di acidi grassi e quindi di trigliceridi porta a una diminuzione della produzione di VLDL. Il recettore PPAR-α appartiene alla superfamiglia dei recettori nucleari degli ormoni. A oggi sono stati identificati tre diversi geni PPAR (α, δ e γ) (Fig. 20.12). Tali recettori mediano la trasmissione del segnale da parte di fattori liposolubili (ormoni, vitamine e acidi grassi) al genoma. I recettori PPAR, in seguito ad attivazione per opera di uno specifico ligando, formano un eterodimero con il recettore X dei retinoidi (il cui agonista specifico è l’acido retinoico). Questo eterodimero si lega a specifici siti sul DNA, detti elementi responsivi (PPRE) a livello dei geni bersaglio, attivandone o reprimendone l’espressione. I diversi sottotipi di recettore PPAR mostrano specifici profili di espressione, che suggeriscono l’esistenza di importanti differenze funzionali. Ad esempio il recettore PPAR-α è espresso in prevalenza nei tessuti che metabolizzano elevate quantità di acidi grassi, come il fegato, il rene, il muscolo e il cuore. Il recettore PPAR-γ è invece maggiormente espresso a livello del tessuto adiposo, dove modula la differenziazione degli adipociti e controlla il processo dell’adipogenesi. Il recettore PPAR-α rappresenta il principale bersaglio dell’azione farmacologica dei fibrati, che si comportano da agonisti di tale recettore, mentre il recettore PPAR-γ media l’azione antidiabetica di farmaci utilizzati nel trattamento del diabete di tipo II, quali il pioglitazone – (±)-5-{4-[2-(5-etil-

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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BOX 20.4 ■ Sintesi del gemfibrozil La procedura di sintesi qui riportata permette di ottenere il prodotto desiderato in alte rese e privo di impurezze difficilmente eliminabili. La reazione di O-alchilazione del 2,5-dimetilfenolo con l’estere isobutilico dell’acido 5-cloro-2,2-dimetil-pentanoico viene condotta, a differenza di precedenti procedure, in un sistema bifasico, utilizzando il tetrabutilammonio bromuro (TBAB) come catalizzatore di trasferimento di fase. In questa reazione è preferibile utilizzare l’estere isobutilico in quanto dà rese più elevate rispetto all’estere metilico che, più facilmente, si idrolizza prima della reazione di condensazio-

ne. Per estrazione con toluene si ottiene l’estere isobutilico del gemfibrozil, che viene purificato da impurezze di 2,5-dimetilfenolo per lavaggio con una soluzione diluita di soda caustica. Il sale di sodio del gemfibrozil è ottenuto per riscaldamento a riflusso di una miscela dell’estere isobutilico in toluene e una soluzione acquosa concentrata di soda caustica. Il gemfibrozil è infine isolato come acido libero per trattamento con una soluzione acquosa di acido cloridrico.

OH H3C

H3C +

Cl

CH3

CH3

CH3

CH3 O

1. H2O/NaOH/TBAB 125-130 °C

CH3

H3C

CH3

CH3

O

O

2. Toluene

CH3

O

O CH3

H2O / NaOH / Toluene a ricadere

CH3

H3C

CH3

CH3

O

OH

H2O/HCl 25-30 °C

O CH3

Gemfibrozil

piridin-2-il)etossi]benzil}tiazolidin-2,4-dione – che appartiene alla classe dei tiazolidindioni (detti anche glitazoni).

Metabolismo I profarmaci clofibrato e fenofibrato sono rapidamente idrolizzati ai corrispondenti acidi carbossilici che ne costituiscono la forma attiva. Tutti i fibrati vengono escreti per via renale immodificati (bezafibrato – acido 2-(4-{2-[(4-clorobenzoil)amino]etil} fenossi)-2-metilpropanoico) o come glucuronati. Nel caso del gemfibrozil si ha la formazione di metaboliti idrossimetilici per ossidazione dei metili sull’anello benzenico (Scheda 20.2). Il gemfibrozil glucuronato è un potente inibitore irreversibile dell’enzima microsomiale epatico CYP2C8.

20.2.5 Acido nicotinico L’acido nicotinico (o niacina – acido piridin-3-carbossilico) (Fig. 20.13) è stato il primo farmaco entrato in commercio come agente ipolipidemizzante. Nella metà degli anni ’50 del secolo scorso fu scoperta la sua capacità di abbassare i livelli ematici di colesterolo in modo indipendente dalla sua attività vitaminica.

H3C

CH3

O

O

Na

O CH3

L’acido nicotinico possiede un ampio spettro d’azione sul metabolismo delle lipoproteine, poiché è in grado di aumentare i livelli plasmatici di colesterolo HDL e, contemporaneamente, di abbassare quelli dei trigliceridi e del colesterolo LDL. In aggiunta, l’acido nicotinico è il solo farmaco in grado di ridurre in modo significativo le concentrazioni della lipoproteina-A. L’effetto principale dell’acido nicotinico è dovuto alla parziale inibizione della lipolisi nel tessuto adiposo, con conseguente diminuzione dell’afflusso di acidi grassi liberi al fegato. In tal modo si ha una produzione minore di VLDL. Il meccanismo con cui l’acido nicotinico esercita gli effetti ipolipidemizzanti sopra descritti è stato chiarito di recente. L’acido nicotinico attiva il recettore HCA2 (hydroxycarboxylic acid 2 o GPR109A) che appartiene alla superfamiglia dei recettori accoppiati a proteine G. In particolare questo recettore è accoppiato alla proteina Gi e quindi la sua attivazione ha come conseguenza una diminuzione della concentrazione di AMP ciclico (cAMP). Tale diminuzione riduce l’attività della protein-chinasi A (PKA) che, a sua volta, provoca una ridotta attività lipolitica. Una ridotta disponibilità di acidi grassi liberi al fegato condiziona sia l’espressione del coattivatore-1b di PPAR-γ

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Figura 20.12 Localizzazione e funzione dei recettori PPAR (peroxisome proliferator activated receptors).

SO2CH3

O

N

COOH N Acido nicotinico

Cl

N H N Acido nicotinurico (metabolita)

COOH

COOH F Laropiprant

Figura 20.13 Struttura dell’acido nicotinico, del prodotto di coniugazione con la glicina (acido nicotinurico) e del laropiprant, antagonista selettivo del recettore delle prostaglandine PGD2.

(PGC-1b) sia dell’apolipoproteina C3 (APOC3). La diminui­ ta espressione di PGC-1b provoca una riduzione nella produzione e secrezione di VLDL, mentre la contestuale riduzione dell’espressione di APOC3 concorre alla riduzione dei livelli di VLDL, aumentandone il turnover. Poiché le VLDL sono i diretti precursori delle LDL, l’effetto finale è una diminuzione della concentrazione ematica di LDL. La ridotta sintesi delle VLDL a livello epatico sembra coinvolgere anche l’azione che l’acido nicotinico esercita sulla diacilglicerolo O-aciltransferasi (DGAT-2). Un aspetto molto interessante è legato alla capacità dell’acido nicotinico di innalzare i livelli di colesterolo HDL del 20-25%, operando una riduzione della clearance di Apo-A1. Questa caratteristica dell’acido nicotinico è di grande rilevanza dal punto di vista dell’applicazione terapeutica, poiché è sempre più chiaro che l’aumento dei livelli di colesterolo HDL è una strategia risolutiva nella riduzione del rischio di malattie cardiovascolari. A differenza delle altre due classi di farmaci ad attività

ipolipidemizzante (gli inibitori della HMG-CoA reduttasi e i sequestranti degli acidi biliari), l’acido nicotinico non agisce né sul catabolismo né sulla biosintesi del colesterolo. La combinazione acido nicotinico-statine rappresenta una valida opzione terapeutica perché è basata sulla complementarietà d’azione dei due trattamenti. In particolare, mentre le statine sono molto efficaci nel ridurre i livelli di LDL-C, l’acido nicotinico aumenta i livelli di HDL-C e riduce i livelli di trigliceridi. La combinazione non solo migliora in modo significativo il profilo lipidico, ma apporta anche un beneficio clinico.

Effetti collaterali Nonostante il suo eccellente profilo ipolipidemizzante, l’acido nicotinico è sottoutilizzato nella pratica clinica o spesso la sua somministrazione è interrotta dal paziente a causa dell’elevata incidenza di effetti collaterali quali vampate di calore associate a prurito, intolleranza gastrointestinale, iperglicemia e iperuricemia.

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Il principale effetto collaterale, che affligge una rilevante percentuale di pazienti (70-80%), è la comparsa di vampate di calore al viso e al petto che provocano la sensazione di bruciore. Tale effetto è dovuto al rilascio di prostaglandine D2 (PGD2) dalle cellule cutanee, con conseguente dilatazione delle arteriole. Questo fenomeno può essere controllato cosomministrando acido nicotinico con il laropiprant – acido (–)-[(3R)-4-(4-clorobenzil)-7-fluoro-5-(metilsulfonil)1,2,3,4-tetraidrociclopenta[b]indol-3-il]acetico – un antagonista selettivo del recettore delle prostaglandine PGD2 (sottotipo 1; recettore DP1) (Fig. 20.13). Quest’associazione diminuisce in modo significativo l’incidenza delle vampate di calore, anche se non le elimina completamente poiché esse sono prodotte anche dalle prostaglandine E2.

Metabolismo Per somministrazione orale, la biodisponibilità dell’acido nicotinico si attesta intorno al 70% della dose assunta. Ai dosaggi normalmente utilizzati (> 1 g al giorno) per il trattamento delle dislipidemie, l’acido nicotinico raggiunge il picco di concentrazione plasmatica entro 30-60 minuti. L’emivita è di circa 60 minuti e questo comporta la necessità di somministrarlo in 2-3 dosi al giorno. La disponibilità di una forma farmaceutica a rilascio prolungato permette la somministrazione 1 volta al giorno (la sera). L’acido nicotinico è una vitamina del complesso B; esso è convertito in nicotinamide, NAD+ e NADP+. Ai dosaggi più bassi, l’acido nicotinico, una volta saturata la via che porta alla nicotinamide, è captato dal fegato e coniugato con glicina, portando alla formazione dell’acido nicotinurico (Fig. 20.13) che viene escreto nelle urine. A dosi elevate, come quelle utilizzate nel trattamento delle iperlipoproteinemie, l’acido nicotinico viene escreto immodificato con le urine (Fig. 20.13).

20.3 N  uovi approcci terapeutici in fasi di sperimentazione clinica Come indicato in precedenza, elevati livelli ematici di colesterolo a bassa densità (LDL-C) sono strettamente correlati al rischio di patologie cardiovascolari. Pertanto, è consigliabile una progressiva riduzione delle concentrazioni di LDL-C utilizzando farmaci ipocolesterolemizzanti. I farmaci più utilizzati sono le statine, che sono considerate sicure ma che possono generare effetti collaterali alle dosi più elevate. Gli effetti collaterali che si osservano con maggiore frequenza sono un aumento degli enzimi epatici e della creatininchinasi, con contemporanea comparsa di mialgie e/o miopatie; in casi molto rari può comparire la rabdomiolisi. La comparsa di questi effetti collaterali non è accettata da molti pazienti: è pertanto indispensabile poter disporre di nuovi farmaci in grado di ridurre i livelli di LDL-C, diminuendo il rischio di complicazioni cardiovascolari. Fra i possibili nuovi approcci terapeutici recentemente oggetto di studio, vale la pena ricordare gli inibitori dell’enzima squalene sintasi, gli inibitori dell’enzima ACAT, i bloccanti del trasportatore sodio-dipendente degli acidi biliari, situato nella zona apicale dell’ileo (ASBT) e infine gli inibitori della proteina di trasferimento degli esteri del colesterolo (CETP).

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20.3.1 Inibitori della squalene sintasi L’enzima squalene sintasi è coinvolto nella sintesi del colesterolo e, precisamente, trasforma 2 molecole di farnesilpirofosfato, formatosi dall’acetil-CoA come indicato in Figura 20.1, prima in pre-squalene e quindi in squalene (processo a due stadi). Esso gioca un ruolo fondamentale nella biosintesi del colesterolo, giacché è in grado di direzionare il substrato verso la sintesi di steroli o verso la produzione di derivati non-steroidei (Fig. 20.14). Infatti, l’inibizione di tale enzima provocherebbe l’accumulo di farnesilpirofosfato che non resta nell’organismo poiché utilmente convertito in metaboliti importanti per l’organismo quali l’ubichinone (coenzima Q10), proteine farnesilate, l’eme A o il dolicolo, gruppo di composti formati da più unità isoprenoidi insature che contengono nell’unità terminale una funzione alcolica. In questo modo non si avrebbero effetti collaterali simili a quelli associati all’accumulo di idrossimetilglutarato, causato dalle statine. Molti degli inibitori della squalene sintasi in fase di studio clinico sono strutturalmente assimilabili ai substrati naturali farnesilpirofosfato o pre-squalene pirofosfato: un esempio è il lapaquistat (Fig. 20.15). Il lapaquistat – acido (1-{[(3R,5S)-7-cloro-5-(2,3dimetossifenil)-1-(3-idrossi-2,2-dimetilpropil)-2-osso1,2,3,5-tetraidro-4,1-benzossazepin-3-il]acetil}piperidin4-il)acetico – (Fig. 20.15), sviluppato dalla Takeda, è un nuovo potente inibitore della squalene sintasi, in grado di ridurre i livelli di colesterolo in diversi animali modello, inclusi i modelli di ipercolesterolemia omozigote familiare in cui le statine sono poco efficaci. Purtroppo, gli studi clinici di fase III furono interrotti nel 2008 poiché fu evidenziata tossicità a livello epatico.

20.3.2 Inibitori dell’assorbimento di colesterolo Un altro interessante target è rappresentato dall’enzima ACAT, che catalizza la formazione di esteri del colesterolo Acetil-CoA 4 passaggi Farnesil pirofosfato X

Ubichinone (CoQ10) Proteine farnesilate Eme A Dolicolo

Squalene sintasi Squalene X Lanosterolo

Colesterolo

Figura 20.14 Blocco della biosintesi del colesterolo con inibitori dell’enzima squalene sintasi. Trasformazione del farnesil pirofosfato in derivati non steroidei.

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H3C O

H 3C

CH3

H3C

HO

H3C H3C

CF3 N

O

CH3

O

N

O O

N

O

N

Cl

O

O

OH O

F3C

CF3

O Lapaquistat

Torcetrapib

Figura 20.15 Struttura del lapaquistat, inibitore della squalene sintasi, e del torcetrapib, inibitore della proteina di trasferimento degli esteri del colesterolo (CETP).

condensando il colesterolo con acidi grassi a lunga catena. L’enzima ACAT regola l’omeostasi del colesterolo a livello intracellulare e inoltre fornisce esteri del colesterolo necessari per l’assemblaggio delle lipoproteine a livello del fegato e dell’intestino tenue. In condizioni patologiche, l’accumulo di esteri del colesterolo prodotti da ACAT nei macrofagi può portare alla formazione delle cellule schiumose, uno dei segni tipici degli stadi iniziali dell’aterosclerosi. Per tale motivo gli inibitori di ACAT sono oggetto di studio come farmaci per il trattamento dell’aterosclerosi.

20.3.3 Interruzione della circolazione enteroepatica Considerando i problemi gastrointestinali causati dall’utilizzo dei sequestranti degli acidi biliari, una possibile alternativa è rappresentata dall’interruzione della circolazione enteroepatica. Vi sono evidenze che indicano l’ASBT come bersaglio molto interessante nel trattamento dell’ipercolesterolemia;

quest’approccio potrebbe costituire una valida alternativa all’utilizzo dei sequestranti degli acidi biliari. Attualmente vi sono parecchi composti in fase di sperimentazione clinica.

20.3.4 Inibitori della proteina microsomale di trasferimento Attualmente la ricerca è orientata alla scoperta di nuovi agenti terapeutici in grado di innalzare i livelli di colesterolo HDL anziché diminuire i livelli di colesterolo LDL. Ricercatori della Pfizer hanno notato che soggetti carenti di CETP presentavano valori di HDL più alti della norma. Partendo da queste premesse hanno sviluppato inibitori di questo enzima. Sfortunatamente, la molecola torcetrapib – (2R,4S)-4-({[3,5-bis(trifluorometil)fenil]metil}(metossicarbonil)amino)-2-etil-6-(trifluorometil)-1,2,3,4-tetraidrochinolin-1-carbossilato di etile – (Fig. 20.15), dopo essere arrivata in fase clinica III, è stata ritirata a causa dell’aumentata incidenza di eventi cardiovascolari.

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Antitrombotici Silvana Grasso, Maria Luisa Calabrò

21.1  Emostasi e cascata coagulativa 21.2  Anticoagulanti 21.2.1 Antagonisti della vitamina K 21.2.2 Inibitori indiretti della trombina e/o del fattore Xa 21.2.3 Inibitori diretti della trombina e del fattore Xa

21.3  Antiaggreganti piastrinici 21.3.1 21.3.2 21.3.3 21.3.4 21.3.5

A  ntipiastrinici che interferiscono con il metabolismo dell’acido arachidonico Inibitori del TXA2 Inibitori della fosfodiesterasi Inibitori dei recettori purinergici P2Y12 A  ntagonisti del recettore GPIIb/IIIa

21.4  Trombolitici 21.4.1 Trombolitici di I generazione 21.4.2 Trombolitici di II e III generazione

La trombosi è una patologia causata dalla formazione di coa­ guli solidi (trombi) all’interno del torrente circolatorio, che comporta inevitabilmente danni ischemici, con effetti diver­ si a seconda del distretto interessato. Il trombo, infatti, ten­ de a frammentarsi staccandosi dalla sede di origine, dando luogo a emboli che possono migrare o bloccarsi nel circolo vascolare, creando ulteriori complicanze. Le patologie trom­ botiche possono comportare a livello cardiaco infarto mio­ cardico acuto, angina instabile, fibrillazione atriale, disturbi delle valvole cardiache e complicanze da interventi chirur­ gici di angioplastica o di protesi valvolare; a livello vascola­ re possono causare tromboembolia venosa, tromboembolia arteriosa, di cui l’ictus è una delle principali complicazioni, e patologie vascolari periferiche. I disordini trombotici rappresentano la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale e l’aumento in­ cessante delle patologie correlate, anche nei Paesi in via di svi­ luppo, pone la terapia antitrombotica al centro dell’attenzione della medicina moderna, con un’incidenza della malattia sti­ mata intorno a un nuovo caso ogni 1000 abitanti per anno.

I farmaci in grado di controllare le manifestazioni trom­ boemboliche agiscono con meccanismi diversi, sulla base dei quali è possibile distinguerli in 3 classi: (a) anticoagulanti, in grado di inibire una o più tappe della cascata coagulativa, (b) antiaggreganti piastrinici, che agiscono inibendo l’at­ tivazione delle piastrine, (c) trombolitici, capaci di lisare i trombi patologici. Per i siti d’azione dei farmaci antitrombo­ tici vedi la Scheda 21.1. Prima di passare in rassegna le varie classi di farmaci, è indispensabile una breve veduta d’insieme sull’emostasi.

21.1 Emostasi e cascata coagulativa Coagulazione e fibrinolisi sono due eventi biologici opposti, che prendono parte a un meccanismo di equilibrio compen­ sativo. Il sistema coagulativo si attiva in seguito al contatto del sangue con il tessuto danneggiato: i fattori della coagula­ zione, attivati a cascata, portano alla formazione di trombi­ na, responsabile della formazione del coagulo, che tampona l’emorragia nel sito di lesione. Il sistema fibrinolitico si at­

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tiva in risposta alla presenza di un trombo o di un coagulo intracellulare: il processo di dissoluzione inizia con la con­ versione del plasminogeno in plasmina, in grado di tagliare la fibrina insolubile del coagulo. Il sistema assicura una risposta emostatica rapida ed efficiente nel sito di lesione: alterazioni dell’emostasi sono responsabili di episodi trombotici o emor­ ragici (Fig. 21.1). Il processo emostatico si avvale dell’attivazione sequen­ ziale di una serie di fattori plasmatici. Ciascun fattore della coa­gulazione viene indicato con un numero romano (da I a XIII) progressivo, in ordine di scoperta, che non ha alcun rapporto con la sequenza di reazione nella cascata. Sono tutte proteine circolanti nel sangue, normalmente in forma inattiva, a eccezione del fattore tissutale (fattore III). Una volta attiva­ ti, vengono designati con l’aggiunta di una “a”. Per la mag­ gior parte sono proenzimi (zimogeni) che, una volta attivati, esplicano attività proteasica. Come proenzima, sono molecole

CAPITOLO 21 • Antitrombotici

costituite da un’unica catena polipeptidica; un singolo taglio proteasico genera la forma attiva, che contiene nel sito cataliti­ co l’aminoacido serina: si tratta quindi di serinoproteasi. Altri fattori della coagulazione (fattore V, fattore VIII) sono cofat­ tori di natura non enzimatica e hanno il compito di coadiuva­ re le proteine enzimatiche durante la loro funzione, aumen­ tandone la cinetica di reazione. Nel sistema della coagulazione intervengono anche i fosfolipidi delle superfici cellulari e gli ioni Ca2+, che hanno la funzione di favorire l’interazione tra l’enzima, l’eventuale cofattore e i fosfolipidi. La via intrinseca della coagulazione ha inizio con l’attiva­ zione del sistema plasmatico attivabile da contatto (chininoge­ no ad alto peso molecolare, precallicreina, fattore XII, fattore XI) che, in seguito a danno delle cellule endoteliali, si lega alla superficie carica negativamente del sottoendotelio e si atti­ va. Il fattore XIa attiva il fattore IX, il cui ruolo consiste nella conversione del fattore X in Xa. Tale attivazione si realizza ad

Figura 21.1 Emostasi: cascata della coagulazione e della fibrinolisi. La fibrina reticolata è prodotta grazie alla transamidasi, che catalizza la formazione di legami tra le catene laterali dei residui di glutamina e lisina.

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4 1

O

O

Cumarina H3C OH

R

OCH3 OH

O

* O

O

R

OH

* X

Fenprocumone: X = H, R = CH2CH3 Warfarin: X = H, R = CH2COCH3 Acenocumarolo: X = NO2, R = CH2COCH3

O

O

O

Ciclocumarolo

MONO

OO

O

Dicumarolo (bisidrossicumarina): R = H Etilbiscumacetato: R = COOC2H5 Cumetarolo: R = CH2OCH3 BIS

Figura 21.2 Antagonisti della vitamina K a struttura cumarinica.

opera del complesso tenasico, costituito da fattore IXa, fattore VIIIa, ioni Ca2+ e fosfolipidi della membrana cellulare. La via estrinseca si attiva ad opera del fattore III, glicopro­ teina di membrana ubiquitaria nei tessuti, e da questi esposta quando il sangue viene a contatto con il tessuto danneggiato. Costituisce il principale fattore di regolazione della cascata e innesca la coagulazione all’interno del vaso legando specifica­ mente il fattore VII. Il complesso che risulta, enzimaticamen­ te attivo, catalizza l’attivazione del fattore X a Xa. Il complesso fattore III/fattore VIIa/Ca2+/fosfolipidi attiva anche il fattore IX (cross-over con la via intrinseca). Le due vie convergono nella fase finale (via comune), cioè nell’attivazione del fattore X, direttamente responsabi­ le della formazione di trombina (fattore IIa) a partire dallo zimogeno protrombina (Scheda 21.2). La trombina così ori­ ginata scinde proteoliticamente le molecole di fibrinogeno in monomeri di fibrina (Fig. 21.1), la cui polimerizzazione spontanea dà origine a un coagulo morbido in cui i mono­ meri interagiscono tra loro mediante legami non covalenti. Il coagulo morbido solubile viene stabilizzato e reso insolubile per azione di un altro fattore plasmatico, XIIIa, una transa­ midasi che, attivata dalla trombina, determina la formazione di legami peptidici intermolecolari tra i monomeri di fibrina, in particolare tra le catene laterali dei residui di glutamina e lisina, che portano ad aggregati reticolati insolubili e stabili.

21.2 Anticoagulanti Un anticoagulante ideale dovrebbe garantire massima effi­ cacia nel prevenire la formazione del trombo e al contempo minimo rischio di sanguinamento, avere un’ampia finestra terapeutica, rapida insorgenza e breve durata d’azione, rela­ zione dose-risposta prevedibile (tale da non rendere necessa­ rio il monitoraggio della coagulazione), minime interazioni farmacologiche e alimentari, limitati effetti collaterali. Gli anticoagulanti tradizionali a oggi sul mercato inibi­ scono più passaggi della cascata coagulativa e comprendono sia farmaci attivi per os, come gli antagonisti della vitamina K impiegati per la terapia di lunga durata, sia farmaci attivi

per via parenterale, essenzialmente inibitori indiretti della trombina e del fattore Xa, quali eparina e derivati, a rapido effetto, impiegati nel trattamento iniziale della tromboembo­ lia arteriosa e venosa. Gli anticoagulanti innovativi, alcuni dei quali già disponibili e altri in fase avanzata di sviluppo clinico, inibiscono selettivamente uno specifico fattore della coagulazione, come gli agenti antitrombina, che inibiscono la fase terminale del processo, ovvero la formazione di fibri­ na, e gli agenti anti-fattore Xa, che inibiscono la fase di pro­ pagazione della coagulazione.

21.2.1 Antagonisti della vitamina K Gli antagonisti della vitamina K, attivi per via orale, sulla base della struttura chimica si possono distinguere in deriva­ ti cumarinici, utilizzati in terapia (Fig. 21.2), e indandionici (Fig. 21.3). La scoperta dei derivati cumarinici risale agli studi di Campbell e Link, che nel 1939 identificarono nella bisidrossicumarina (dicumarolo) la sostanza responsabile delle manifestazioni emorragiche osservate nei bovini, in segui­ to all’ingestione di trifoglio avariato. Successivamente, un O

OH

O

O

1 3

1,3-Indandione O R O

Fenindione: R = C6H5 Clorindione: R = C6H4 p-Cl Bromindione: R = C6H4 p-Br Anisindione: R = C6H4 p-OCH3 Difenadione: R = COCH(C6H5)2 Pindone: R = CO(CH3)3

Figura 21.3 Antagonisti della vitamina K a struttura 1,3-indandionica.

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monoderivato strutturalmente correlato al dicumarolo ma più potente, denominato warfarin, fu immesso sul mercato come rodenticida, ma si rivelò ben presto utile come anticoa­ gulante nell’uomo. Altri monoderivati della cumarina sono fenprocumone, acenocumarolo, ciclocumarolo; nell’ambito dei derivati bis-cumarinici, oltre al dicumarolo, altri compo­ sti sono l’etilbiscumacetato e il cumetarolo. I derivati indandionici agiscono con un meccanismo si­ mile alle cumarine e comprendono fenindione, clorindione, bromindione, anisindione, difenadione e pindone. Anticoagulanti “superwarfarinici” sono i rodenticidi, quali difenacoum, brodifacoum, bromadiolone (a struttura cumari­ nica) e clorofacinone (a struttura indandionica), tutti caratte­ rizzati da una lunga durata di azione (Scheda 21.3). In parti­ colare, il brodifacoum, 5 volte più potente e con un’emivita 9 volte più lunga rispetto al warfarin, può produrre nell’uomo, se ingerito accidentalmente, emorragie a esito fatale.

La vitamina K interviene nel processo sintetico dei fattori della coagulazione II, VII, IX e X come cofattore essenziale per il completamento della loro struttura mediante l’aggiunta di un carbossile. La bioattivazione si realizza attraverso la car­ bossilazione di residui di acido glutamico, da 9 a 13, presenti nei proenzimi in prossimità delle estremità N-terminali. La reazione, che porta alla formazione del γ-carbossiglutamico, è catalizzata dalla γ-glutamilcarbossilasi vitamina K-dipen­ dente. Il γ-carbossiglutamico, attraverso la chelazione degli ioni Ca2+, modifica la conformazione della proteina, e la di­ versa struttura terziaria permette ai fattori della coagulazio­ ne di legarsi ai fosfolipidi di membrana nel corso del proces­ so di attivazione. L’enzima γ-glutamilcarbossilasi richiede la vitamina K in forma idrochinonica (KH2), che viene ossidata a vitamina K 2,3-epossido (KO). La successiva rigenerazione della forma idrochinonica si realizza attraverso un processo di riduzione in due stadi: nel primo, la vitamina KO è ridot­ ta a vitamina K chinone ad opera dell’enzima vitamina KO reduttasi; nel secondo, il chinone intermedio è ulteriormen­ te ridotto a vitamina KH2 ad opera dell’enzima vitamina K 2,3-chinone reduttasi. Gli anticoagulanti cumarinici, iniben­ do gli enzimi chiave, interrompono il ciclo ossidoriduttivo

Cumarine Gli anticoagulanti cumarinici agiscono come inibitori della vitamina K 2,3-epossido reduttasi e della vitamina K 2,3-chi­ none reduttasi (Fig. 21.4). COO

COO OOC

H N

H N O

O

Glutamato (forma inattiva)

OH

-Carbossiglutamato (forma attiva)

O

CO2

R

-Glutamilcarbossilasi vitamina K-dipendente

O

CH3 OH

O2

Vitamina K idrochinone (KH2) NAD

Vitamina K 2,3chinone reduttasi

H2O

Bloccato dalle cumarine

+

O

O R CH3 O Vitamina K chinone CH3

CH3

CH3

CH3

R= CH3

Figura 21.4 Ciclo ossidoriduttivo della vitamina K.

CH3

Vitamina K 2,3-epossido (KO)

Vitamina K 2,3epossido reduttasi

NADH

R

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della vitamina K. Come conseguenza, i fattori della coagula­ zione vitamina K-dipendenti risultano disfunzionali, incapa­ ci di svolgere la loro azione coagulante. Le cumarine agisco­ no bloccando la sintesi di nuovi fattori funzionali, ma quelli già formati permangono attivi fino alla normale degradazio­ ne; perciò l’inizio dell’attività anticoagulante necessita di un tempo di latenza (36-72 ore), dovuto al graduale ricambio dei fattori nel sangue. L’effetto, inoltre, persiste anche dopo l’interruzione del trattamento, fino alla risintesi graduale di nuovi fattori funzionali. Da più di 50 anni le cumarine si impiegano nella profilassi e nella terapia dei disordini tromboembolici, ma risultano ave­ re alcune importanti limitazioni. La lenta induzione/regressio­ ne dell’effetto antitrombotico ne rende talvolta controindicato l’uso in fase acuta di patologia tromboembolica; l’effetto va­ ria da paziente a paziente, necessita uno stretto monitoraggio di laboratorio, ha una ridotta finestra terapeutica, con rischi emorragici da sovradosaggio e inefficacia da sottodosaggio e importanti interazioni con altri farmaci. Di contro, le cumari­ ne hanno un basso costo, un’ottima tollerabilità per via orale e il loro effetto può essere neutralizzato più o meno rapidamen­ te mediante somministrazione di vitamina K. Chimicamente, i derivati cumarinici sono lattoni sosti­ tuiti nelle posizioni 3 e 4 del ciclo. Il residuo 4-idrossicuma­ rinico con un sostituente carbonioso in posizione 3 (nei mo­ noderivati un gruppo benzilico variamente sostituito) costi­ tuisce il farmacoforo (Fig. 21.2). Il centro stereogenico sulla catena laterale in 3 influenza l’attività biologica: nel warfarin, la cui sintesi è illustrata nel Box 21.1, l’eutomero è l’enan­ tiomero (S). L’influenza della stereoselettività è evidente an­ che in altre cumarine asimmetriche, come l’acenocumarolo, in cui l’eutomero è l’enantiomero (R). I derivati cumarinici sono insolubili in acqua, ma la presenza dell’ossidrile in posi­ zione 4 conferisce alla molecola una debole acidità, permet­ tendo la formazione di sali sodici solubili. L’ossidrile in 4, inoltre, consente l’esistenza di forme emichetaliche cicliche

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diastereomeriche (Fig. 21.5). Avvalorando l’ipotesi che, in vivo, identifica l’attività della vitamina K nella forma emiche­ talica, le forme cicliche cumariniche potrebbero rappresen­ tare le forme biologicamente attive. Il warfarin e l’acenocumarolo sono attualmente gli unici derivati cumarinici commercialmente disponibili. Il sale sodico del warfarin – (±)-4-idrossi-3-(3-osso1-fenilbutil)cromen-2-one – è rapidamente assorbito dopo somministrazione orale, la biodisponibilità è pressoché to­ tale e la curva di risposta è regolare e di lunga durata. Con­ siderando le emivite dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti (fattore II, 60 ore; fattore VII, 4-6 ore; fattore IX, 24 ore; fattore X, 48-72 ore), l’effetto risultante in vivo della somministrazione di warfarin è una depressione se­ quenziale dell’attività dei fattori VII, IX, X e II. Nell’uomo, l’(S)-warfarin è 5 volte più potente dell’(R)-warfarin, ma in genere ha una clearance più rapida. In terapia, comunque, si impiega il racemo. Il warfarin è soggetto a metabolismo ossidativo epatico ad opera dell’isoenzima CYP2C9; i princi­ pali metaboliti sono il 6- e il 7-idrossiwarfarin, inattivi (Fig. 21.6). In misura minore, il warfarin subisce metabolismo ri­ duttivo a carico della funzione chetonica sulla catena laterale in posizione 3, dando luogo a una coppia di diastereoisomeri (2'-idrossiderivati), entrambi attivi. Fino al 92% della dose somministrata per via orale è ri­ trovata nelle urine, principalmente sotto forma di metaboliti. L’emivita è piuttosto lunga (25-60 ore), probabilmente a causa del legame con le proteine plasmatiche (95-99%), responsabi­ le anche delle interazioni con numerosi altri farmaci. Tutti i farmaci che spiazzano il warfarin dal sito di legame con le pro­ teine plasmatiche aumentano i livelli di farmaco libero: come conseguenza aumenta il rischio di manifestazioni emorragiche. Numerosi farmaci, insieme a fattori esogeni ed endoge­ ni, possono influenzare la risposta del paziente al warfarin. Tra i principali, gli induttori e gli inibitori del sistema mi­ crosomiale epatico, soprattutto CYP2C9, che possono com­

BOX 21.1 ■ Sintesi dell’(S)-warfarin Un metodo classico per sintetizzare il warfarin sotto forma racemica è quello di effettuare una condensazione acido- o base-catalizzata tra la 4-idrossicumarina e il benzalacetone in acqua. L’(S)-warfarin viene ottenuto O

O

O

O +

CH3

H2O, H+

OH

O

O C6H5

O

NaOH

C6H5

CH3

{[(R,R)- C2H5 -DuPhos]Rh}+ 2. HCl

NaO

O

C6H5 O

1. H2 , CH3 OH

ONa

OH

O



CH3

H5 C6

OH

O

in seguito, a partire dal racemato mediante ossidazione con cloruro rameoso, trattamento con sodio idrossido e successiva idrogenazione catalizzata da DuPhos-Rh(I).

CH2

[O] CuCl

O

O CH3

R

HO H5 C6 H (S)-warfarin

O

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H2O O H3C

OH

H3C OH

O

HO

O

OH H 3C

O

O

O

O

O

2'-Idrossiwarfarin (attivo) Warfarin

Warfarin emichetale

Figura 21.5 Formazione dell’emichetale ciclico del warfarin. Warfarin

portare, rispettivamente, una riduzione o un potenziamento dell’effetto anticoagulante. L’altro derivato cumarinico, impiegato in terapia come antagonista della vitamina K, è l’acenocumarolo – (±)-4-idrossi-3-1-(4-nitrofenil)-3-ossobutil-2H-cromen2-one. Som­ministrato come miscela racemica, viene rapi­ damente assorbito per via orale, ma solo il 60% circa della dose si rende disponibile sistemicamente. In alta percentuale (98,7%) si lega alle proteine plasmatiche, principalmente all’albumina. Viene ampiamente metabolizzato, principal­ mente ad opera del CYP2C9; i derivati 6- e 7-ossidrilati sono i principali metaboliti. L’acenocumarolo viene eliminato dal plasma con un’emivita più breve rispetto al warfarin (8-11 ore). La clearance plasmatica totale dell’enantiomero (R)-(+), che possiede un’attività anticoagulante significativamen­ te maggiore, è inferiore a quella dell’enantiomero (S)-(–). Analogamente al warfarin, anche per l’acenocumarolo gli induttori e gli inibitori del sistema microsomiale epatico ne influenzano la risposta.

Indandioni I derivati 1,3-indandionici agiscono, analogamente ai cuma­ rinici, antagonizzando gli effetti della vitamina K. Solo anisindione e fenindione sono disponibili in alcuni Paesi, ma non in Italia (Fig. 21.3). A parte un’insorgenza d’azione più lunga, le proprietà farmacocinetiche, confrontate con quelle dei cumarinici, non sono dissimili. L’elevata tossicità renale ed epatica e le gravi reazioni da ipersensibilità ne compro­ mettono l’impiego. La somiglianza strutturale tra i derivati 1,3-indandionici e i cumarinici, inoltre, comporta sensibili­ tà crociata tra le due classi di farmaci, vanificando l’impie­ go degli indandioni su pazienti intolleranti alle cumarine. I derivati di seconda generazione, come il clorofacinone, non sono utili come anticoagulanti e sono in commercio come rodenticidi (Scheda 21.3).

21.2.2 Inibitori indiretti della trombina e/o del fattore Xa L’eparina, o acido eparinico, è un glicosaminoglicano presen­ te nei granuli secretori dei mastociti. La struttura consiste di unità disaccaridiche alternate, composte da N-acetil-d-gluco­ samina e acido uronico (acido d-glucuronico o l-iduronico), unite da legami α-1,4 glucosidici (Fig. 21.7). I polimeri, al­

CYP2C9 O H3C OH R1 R2

O

O

6-Idrossiwarfarin (inattivo): R1 = OH, R2 = H 7-Idrossiwarfarin (inattivo): R1 = H, R2 = OH

Figura 21.6 Metabolismo ossidativo (preponderante) e riduttivo del warfarin.

tamente solfatati, sono costituiti da 200-300 unità monosac­ caridiche. Nei mastociti, 10-15 di queste catene polimeriche vengono legate a una proteina centrale per dare il proteogli­ cano (conglomerato proteina/zucchero da 750-1000 kDa). All’interno dell’organismo il proteoglicano subisce una serie di modificazioni strutturali: O-solfatazione e N-solfatazione di residui di d-glucosamina in posizione C6 e C2, rispettiva­ mente; N-deacetilazione di glucosamina e O-solfatazione di glucosamina al C3; O-solfatazione di residui di acido glucu­ ronico e iduronico al C2; epimerizzazione al C5 di acido dglucuronico a l-iduronico. Tali reazioni di modificazione non vanno tutte a completamento; come conseguenza, originano catene polisaccaridiche strutturalmente diverse. Nei mastociti, un’endo-β-glucuronidasi degrada il proteoglicano eparinico, rilasciando catene polisaccaridiche di 5-30 kDa (circa 16-100 unità monosaccaridiche), biologicamente attive. L’azione anticoagulante dell’eparina si esercita attraver­ so il legame di una sua specifica sequenza pentasaccaridica con l’antitrombina III, un inibitore di serinoproteasi o ser­ pina. L’antitrombina forma un complesso equimolecolare e irreversibile con la trombina e alcune altre esterasi seriniche, come il fattore Xa (in misura minore anche con i fattori IXa, XIa e VIIa), rendendole inattive (Scheda 21.4). L’interazione fra serinoproteasi e antitrombina avviene anche spontanea­ mente, ma in presenza di eparina la velocità della reazione aumenta di oltre 3 ordini di grandezza (1000-3000 volte). Dopo la costituzione del complesso irreversibile antitrom­ bina-enzima serinico, l’eparina può dissociarsi da esso e rendersi così disponibile per catalizzare una nuova reazione.

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Figura 21.7 Struttura dell’eparina. In evidenza la sequenza pentasaccaridica specifica, sito di legame per l’antitrombina.

La sequenza pentasaccaridica attiva è presente sia nei fram­ menti di eparina ad alto PM, sia in quelli a basso PM, ma le dimensioni influenzano la selettività di azione, descritta nella Scheda 21.5. Le eparine ad alto PM, contenenti 18 o più unità monosaccaridiche, bloccano sia il fattore IIa sia il Xa. Per contro, le eparine a basso PM hanno una capacità considerevolmente maggiore di potenziare l’inibizione del fattore Xa, a cui l’eparina partecipa con meno di 18 unità monosaccaridiche e la catalisi si verifica unicamente grazie all’induzione di una modificazione conformazionale dell’an­ titrombina, che facilita la reazione con il Xa.

Eparina ad alto peso molecolare, o eparina non frazionata L’eparina standard è anche definita ad alto PM, o non frazio­ nata (unfractionated  heparin, UH). L’eparina UH commer­ ciale, di origine suina o bovina, è costituita da miscele di mu­ copolisaccaridi eterogenee, di lunghezza variabile (PM 3-30 kDa). L’eterogeneità strutturale comporta affinità variabili per i diversi bersagli biologici e, conseguentemente, un diverso effetto anticoagulante e una scarsa correlazione tra dose ed effetto. Grazie alla rapidità di azione, è particolarmente uti­ le nella terapia iniziale delle trombosi venose e dell’embolia polmonare. In vivo si osserva anche attività antidislipidemica, dovuta alla liberazione di una lipoproteinlipasi dalle pareti dei capillari. L’elevato PM e l’alta densità di carica negativa limi­ tano fortemente l’assorbimento nel tratto gastrointestinale. Si somministra pertanto per via endovenosa o sottocutanea, come sale di sodio o di calcio. Il sale di calcio risulta parti­ colarmente vantaggioso nel trattamento per via sottocutanea, poiché rispetta l’integrità dei capillari e consente un riassorbi­ mento graduale ed efficace. In circolo si lega in misura molto elevata alle proteine plasmatiche e ciò potrebbe essere respon­ sabile dell’inattivazione del farmaco e della variabilità interin­ dividuale della relazione dose-risposta. Tali legami non spe­ cifici, inoltre, contribuiscono alla bassa biodisponibilità, alla possibile comparsa di trombocitopenia e alla ristretta finestra terapeutica. Diversi farmaci (ad es. digitalici, glucocorticoidi, nicotina, penicilline, fenotiazine, antistaminici) possono par­ zialmente ridurne l’azione anticoagulante. L’emorragia è la principale complicanza. Eparine a basso peso molecolare Con l’obiettivo di migliorare sia le caratteristiche farmacodi­ namiche sia quelle farmacocinetiche dell’eparina, sono state sviluppate preparazioni a basso PM (low molecular weight

heparins, LMWH). Le eparine LMWH sono miscele di frammenti mucopolisaccaridici (PM 3-6 kDa) ottenute per frazionamento dall’eparina standard mediante diverse tec­ niche di depolimerizzazione (trattamento enzimatico o con reagenti chimici, gel filtrazione o precipitazione differenziale con etanolo). Si impiegano nella profilassi delle trombosi ve­ nose profonde, della coagulazione extracorporea nell’emo­ dialisi in chirurgia generale e ortopedica, e nel trattamento della malattia coronarica instabile. Per le LMWH il rapporto dell’attività anti-fattore Xa/antitrombina è circa 3-4 volte più elevato rispetto a quello osservato con l’eparina UH. Anche l’inibizione dei fattori IXa e XIa è inferiore. Tale capacità di dissociare l’attività antitrombotica, misurata dal dosaggio del fattore Xa, da quella anticoagulante (antitrombina) può esse­ re considerata indice di sicurezza. Sono disponibili commer­ cialmente diverse preparazioni LMWH, sia come sale sodico (bemiparina, dalteparina, enoxaparina, parnaparina, revirapina), sia calcico (nadroparina), da somministrare per via sottocutanea. La composizione è diversa e, come conse­ guenza, anche gli effetti antitrombotici non sono equivalenti (Scheda 21.6). La farmacocinetica più prevedibile delle LMWH rispetto alla UH consente un regime di somministrazione di tipo fis­ so e la minore capacità di legame manifestata dalle LMWH nei confronti delle proteine plasmatiche comporta una mag­ giore biodisponibilità (circa 90%). La capacità di interazione con le piastrine è ridotta e quindi il profilo di tollerabilità più favorevole. L’emivita biologica è di circa 4-6 ore e i livelli di attività anti-fattore Xa risultano ancora misurabili dopo 1824 ore. Tali caratteristiche rendono possibile la monosom­ ministrazione giornaliera.

Eparan solfato Sono anche disponibili commercialmente preparazioni a base di eparan solfato, mucopolisaccaride sintetizzato a partire da­ gli stessi precursori dell’eparina. Nell’eparan solfato, tuttavia, le unità disaccaridiche subiscono un minor numero di modi­ ficazioni strutturali: ciò comporta una maggiore presenza di acido glucuronico e di N-acetilglucosamina e un minor grado di solfatazione. L’attività antitrombotica è mediata da una ri­ dotta formazione di trombina e da un’attivazione dose-dipen­ dente della fibrinolisi, accompagnata da un aumento dei livelli ematici di attivatore tissutale del plasminogeno (tissue plasminogen activator, t-PA) e da una riduzione del suo inibitore fisiologico. Risulta indicato in tutte le condizioni patologiche caratterizzate da un deficit della fibrinolisi. Somministrato per

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via orale, viene rapidamente assorbito dal tratto gastrointesti­ nale. Formulato in crema, si utilizza anche nel trattamento lo­ cale di ematomi traumatici, nella patologia postflebitica degli arti o nelle affezioni cutanee di origine vascolare.

del tutto scevra da complicanze locali e risulta pertanto poco adatta a trattamenti prolungati; inoltre, il costo non è trascu­ rabile e possono dar luogo, oltre a rischi emorragici, anche ad altre reazioni avverse, come la trombocitopenia eparinoindotta.

Preparati sintetici dell’eparina Il fondaparinux è un pentasaccaride di sintesi struttural­ mente correlato all’eparina, di cui rappresenta un prodotto di semplificazione molecolare. È stato progettato mantenen­ do dell’eparina originaria la sola sequenza pentasaccaridica specifica, responsabile del legame con l’antitrombina. La ridotta lunghezza del polimero comporta un’inibi­ zione selettiva nei confronti del fattore Xa: attraverso il le­ game selettivo con l’antitrombina il fondaparinux potenzia la neutralizzazione del fattore Xa da parte dell’inibitore en­ dogeno di circa 300 volte. La neutralizzazione interrompe la cascata della coagulazione ematica e inibisce sia la formazio­ ne di trombina sia lo sviluppo del trombo. Il fondaparinux non inattiva la trombina e non ha effetto sulle piastrine. È indicato nella prevenzione di episodi tromboembolici venosi (TEV), in particolare negli adulti sottoposti a chirurgia orto­ pedica o addominale, ad alto rischio di complicanze trom­ boemboliche. Dopo somministrazione sottocutanea sotto forma di sale sodico, il fondaparinux viene completamente e rapidamente assorbito, con una biodisponibilità totale. Non si lega significativamente alle proteine del plasma; come conseguenza, non si verificano interazioni con altri farmaci. Inoltre, non legando cellule ematiche o proteine plasmati­ che diverse dall’antitrombina, può essere somministrato una volta al giorno a dose fissa, senza necessità di monitoraggio. È escreto immodificato dal 64% al 77% dai reni, con un’emi­ vita di eliminazione di circa 17-20 ore. Non reagisce in modo crociato con il siero di pazienti con trombocitopenia indotta da eparina. Tale caratteristica, insieme ai limitati effetti col­ laterali e all’azione anticoagulante selettiva, contribuisce a tracciare un profilo vantaggioso di questo preparato sinteti­ co, rispetto all’eparina. Un altro derivato sintetico, al momento ancora in fase di sviluppo clinico, è l’idraparinux (Scheda 21.7). Anch’esso, legando ad alta affinità l’antitrombina, si comporta da inibi­ tore indiretto del fattore Xa e genera una risposta anticoagu­ lante prevedibile, che non richiede monitoraggio. Globalmente considerati, i preparati sintetici e le eparine hanno il pregio di avere un rapido inizio d’azione, che con­ sente l’impiego nella fase acuta della malattia tromboembo­ lica e, per le LMWH e il fondaparinux, un’emivita che per­ mette una monosomministrazione giornaliera; d’altra parte, non sono somministrabili per os, la via sottocutanea non è Na

HO

Un’importante caratteristica comune a molti dei nuovi an­ ticoagulanti è l’origine sintetica, con strutture che riprodu­ cono o mimano la componente attiva di anticoagulanti na­ turali. Rispetto a questi ultimi, i prodotti sintetici hanno il vantaggio di una maggiore omogeneità, sia di struttura sia di attività, e di minori rischi di contaminazione insiti nel pro­ cesso produttivo. Altri vantaggi comprendono selettività d’a­ zione, prevedibilità e stabilità della risposta anticoagulante, utili nella terapia del TEV a lungo termine. La trombina e il fattore Xa sono dei buoni target per la progettazione di nuovi anticoagulanti: la trombina, per la capacità di convertire il fibrinogeno in fibrina e di attivare altri substrati della cascata coagulativa, e il fattore Xa per la sua posizione all’inizio della cascata comune e perché costituisce il sito primario di ampli­ ficazione dell’attività serinoproteasica.

Inibitori diretti della trombina La trombina gioca un ruolo centrale come procoagulante, intervenendo in molti passaggi chiave della cascata coagu­ lativa, fin dall’attivazione delle piastrine; le conoscenze più approfondite dei meccanismi molecolari coinvolti nella co­ agulazione hanno portato alla progettazione e allo sviluppo di inibitori diretti della trombina (IDT). Un IDT naturale, l’irudina, è stato isolato dalle ghiandole salivari di una san­ guisuga, la Hirudo medicinalis; è un peptide di 65 aminoaci­ di, in grado di interagire con alta affinità con il sito catalitico della trombina (Scheda 21.8). Attualmente non trova impie­ go come tale, ma si utilizzano suoi prodotti da DNA ricom­ binante. Gli IDT possono bloccare l’azione della trombina legandosi a tre diversi domini presenti sull’enzima: il sito ca­ talitico, sede dell’attività proteasica, e i due esositi localizzati in prossimità del sito catalitico, l’esosito 1, che lega la fibrina orientandola in modo da posizionare il legame peptidico in prossimità del sito attivo della trombina, e l’esosito 2, che funge da sito di legame per l’eparina. Il meccanismo d’azione è illustrato nella Scheda 21.9. Attualmente sono commercializzati IDT per via parente­ rale, quali lepirudina e desirudina nella prevenzione del TEV in pazienti sottoposti a interventi chirurgici ortopedici; biva­

Na O3S NH

HO

21.2.3 Inibitori diretti della trombina e del fattore Xa

O SO3

HO O

OH O

OOC

Na

OOC

O

OO O3S

Na Na

OSO3

HN

O

SO3 Na

Fondaparinux

Na

Na

HO OH O

O3SO NH

O

O OSO3 Na

OSO3

Na

OCH3

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

lirudina per il trattamento di pazienti sottoposti ad angiopla­ stica coronarica percutanea, o con angina instabile/infarto miocardico in caso di intervento di urgenza; argatroban per il trattamento della trombocitopenia indotta dall’eparina. È anche disponibile un inibitore orale, il dabigatran etessilato, che ha mostrato un soddisfacente profilo di efficacia e si­ curezza nella profilassi del TEV dopo chirurgia ortopedica maggiore, e dell’infarto miocardico. Dall’irudina sono stati prodotti, in cellule di lievito, due derivati ricombinanti, lepirudina e desirudina (non dispo­ nibili in Italia). L’estensione della sequenza aminoacidica è identica, ma sono entrambe muteine, proteine ricombinanti di II generazione, che differiscono dalla proteina originaria per sostituzioni aminoacidiche in corrispondenza della se­ quenza N-terminale. La lepirudina è Leu1-Thr2, la desiru­ dina è Val1-Val2; entrambe, inoltre, sono prive del gruppo solfato in corrispondenza della Tyr63. La bivalirudina, invece, è un polipeptide di sintesi di 20 aminoacidi. All’estremità N-terminale contiene la sequen­ za Phe1-Pro2-Arg3-Pro4, che occupa il sito catalitico della trombina; segue un tratto poliglicinico, quindi una sequenza simil-irudina, che lega l’esosito 1 della trombina. La struttura e i siti di legame per la trombina sono riportati nella Scheda 21.10. Lepirudina, desirudina e bivalirudina sono inibitori bivalenti, in grado di bloccare la trombina legandosi sia al sito catalitico sia all’esosito 1. Le irudine ricombinanti forma­ no un complesso irreversibile con la trombina e inibiscono sia la trombina libera sia quella legata alla fibrina. Il legame della bivalirudina con la trombina, e quindi la sua attività, è invece reversibile, poiché la trombina scinde lentamente il legame Arg3-Pro4 della bivalirudina all’N-terminale. Come conseguenza, la bivalirudina funge inizialmente da inibitore completo non-competitivo della trombina, ma si trasforma con il tempo in un inibitore competitivo, permettendo a mo­ lecole di trombina, inizialmente inibite, di interagire con al­ tri substrati e, se necessario, di consentire la coagulazione. La bivalirudina si somministra come bolo endovenoso iniziale, seguito da infusione continua. La biodisponibilità è completa e immediata. Il metabolita primario derivante dalla scissio­ ne del legame Arg3-Pro4 non è attivo, a causa della perdita O O

di affinità per il sito catalitico della trombina. L’emivita è di 20-35 minuti. Circa il 20% è escreto in forma immodificata con le urine. La reversibilità dell’effetto anticoagulante della bivalirudina comporta minori rischi di emorragie rispetto ai derivati irreversibili. Argatroban e dabigatran sono inibitori competitivi uni­ valenti della trombina, legano cioè solo il sito catalitico. L’argatroban – acido (2R,4R)-4-metil-1-[N2-(3-metil1,2,3,4-tetraidro-8-chinolinsolfonil)-l-arginil]-2-piperidin­ carbossilico – è un peptidomimetico, che si può conside­ rare un derivato sintetico della l-Arg. La sintesi è decritta nel Box 21.2. Relativamente al centro chirale in posizione 21, le forme (R) e (S) sono in rapporto 64:36; l’isomero (S) è l’eutomero (2 volte più potente), ma l’argatroban è commer­ cializzato come miscela di due diastereoisomeri. Si tratta di un inibitore reversibile della trombina altamente selettivo e inibisce la formazione della fibrina, l’attivazione dei fattori della coagulazione V, VIII e XIII, l’attivazione della proteina C e l’aggregazione piastrinica. È capace di inibire l’azione sia della trombina libera sia di quella legata al coagulo. Dopo infusione endovenosa, i livelli allo stato stazionario degli ef­ fetti anticoagulanti si raggiungono entro 1-3 ore. Si lega per il 54% alle proteine del siero. I metaboliti attualmente iden­ tificati si formano per aromatizzazione (M1) e ossidrilazione (M2 e M3) dell’anello 3-metiltetraidrochinolinico a livello del fegato, ad opera del CYP3A4/5 (Fig. 21.8). Il metabolita principale (M1) presenta solo un debole effetto antitrombo­ tico ed è stato rilevato nel plasma e nelle feci. Non avviene alcuna interconversione dei diastereoisomeri (21R) e (21S) e il loro rapporto non viene alterato dal metabolismo. L’emi­ vita media è di 50-60 minuti. L’argatroban viene eliminato principalmente nelle feci, presumibilmente per secrezione biliare. Le principali reazioni indesiderate sono costituite dalle complicazioni emorragiche, ma l’incidenza di emorra­ gie maggiori è bassa (circa 5%). Nello sviluppo di nuovi anticoagulanti, di particolare in­ teresse sono gli IDT somministrabili per os. Il primo è stato lo ximelagatran, sviluppato e immesso sul mercato per la te­ rapia del TEV. Si tratta di un profarmaco convertito in vivo nella molecola attiva melagatran (Scheda 21.11). Purtroppo, CH3

R

S

M1, R =

NH

N N

HN NH

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CH3

OH

O

H2N

HOOC

CH3 M2, R = N H

21

Argatroban, R = N H

CH3

CH3 M3, R =

N OH

Figura 21.8 Argatroban e suoi metaboliti.

CAPITOLO 21 • Antitrombotici

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BOX 21.2 ■ Sintesi dell’argatroban La sintesi dell’argatroban procede mediante condensazione dell’Na-(t-butossicarbonil)-Nw-nitro-l-arginina con l’estere benzilico dell’acido 4-metilpipecolico. Il prodotto della condensazione, ottenuto come miscela diastereoisomerica, viene poi separato mediante cromatografia su colonna e il diastereoisomero a configurazione assoluta NH2 N NO2

N H

(l,R,R), previa deprotezione al gruppo amminico, viene trattato con il 3-metil-chinolino-8-solfonil cloruro. Infine l’idrogenazione del derivato sulfonamidico ottenuto induce la debenzilazione della funzione esterea, il clivaggio del nitro-gruppo e l’idrogenazione dell’anello piridinico per dare l’argatroban.

1. (CH3CH2)3N, (CH3)2CHCH2OCOCl

O OH

H3C

N

CO2Bn

2.

NHt-Boc

NH2

N

NO2

O

N H

CO2Bn 1. Separazione

N

2. HCl

NHt-Boc

H

CH3

SO2Cl N

NH2 N NO2

N H

O

1.

CO2Bn

(CH3CH2)3N

N NH2

NH2

CH3

N NO2

2. H2O

CH3

O

N H

CO2Bn N

O2S

Pd/C, H2

NH

CH3 N CH3

NH2 HN

O

COOH

5

N H O2S

N

NH

7 9

H N

CH3

21

CH3 Argatroban

nella fase finale di sviluppo clinico, problemi di epatotossici­ tà ne hanno determinato il ritiro dal mercato. Successivamente, la ricerca farmaceutica ha messo a di­ sposizione un altro IDT, il dabigatran – acido 3-({2-[(4-car­ bamidoilfenilamino)metil]-1-metil-1H-benzoimidazolo5-carbonil}piridin-2-il-amino)propionico –, inibitore non peptidico univalente, non epatotossico, somministrato in forma di profarmaco, dabigatran etessilato (Fig. 21.9). È un potente IDT, competitivo e reversibile. Inibisce la trombina libera, quella legata a fibrina e l’aggregazione delle piastrine trombino-indotta. È stato approvato per la prevenzione pri­ maria di episodi tromboembolici in pazienti adulti sottopo­ sti a chirurgia ortopedica maggiore. Dabigatran etessilato e dabigatran non sono metabolizzati dal CYP450; pertanto il rischio di interazione con altri farmaci è basso. Dopo som­ ministrazione orale, il dabigatran etessilato è rapidamente assorbito e convertito in dabigatran mediante idrolisi cata­ lizzata da esterasi nel plasma e nel fegato; le concentrazioni plasmatiche aumentano rapidamente e il picco di concen­

trazione si raggiunge entro 0,5-2 ore. L’emivita media è di 11 ore e il legame alle proteine è basso (34-35%). Il dabiga­ tran è soggetto a coniugazione con la formazione di acilglu­ curonidi farmacologicamente attivi, ciascuno stimato per meno del 10% di dabigatran totale nel plasma. Viene eli­ minato principalmente in forma immodificata con le urine (85%). Le reazioni avverse più comunemente riportate sono i sanguinamenti, ma la frequenza di sanguinamenti maggio­ ri è inferiore al 2%. In generale, tutti gli IDT presentano indubbi vantaggi ri­ spetto all’eparina e derivati: effetto anticoagulante più preve­ dibile e capacità di inattivazione non solo della trombina libe­ ra, ma anche della trombina legata alla fibrina, che comporta un ridotto accrescimento del trombo rispetto alle eparine.

Inibitori diretti del fattore Xa Anche l’inibizione del fattore Xa può essere ottenuta con inibitori diretti, attivi per via orale, quali apixaban e rivaro­ xaban (Fig. 21.10) ed edoxaban, quest’ultimo in fase avan­

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

O

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O

R1O

N

N

N

N

N

R2

NH NH2

CH3

O

Dabigatran etessilato: R1 = CH 2CH 3, R2 =

CH3

O

Dabigatran: R1, R2 = H

Figura 21.9 Struttura del profarmaco dabigatran etessilato e del suo metabolita attivo.

Cl S

H3CO

O N O

HN

N COONH2

N

O

N O

O Apixaban

O

N

N

O Rivaroxaban

Figura 21.10 Inibitori diretti del fattore Xa.

zata di sviluppo clinico (Scheda 21.12). La conoscenza dei meccanismi molecolari coinvolti nel processo coagulativo e, al contempo, l’impiego di tecniche di modeling, hanno con­ sentito lo sviluppo di nuovi anticoagulanti selettivi (Scheda 21.13). Sono tutti inibitori diretti e altamente selettivi del fat­ tore Xa. La facilità della somministrazione per os senza mo­ nitoraggio offre indubbi vantaggi. L’inibizione interrompe le vie intrinseca ed estrinseca della cascata coagulativa e blocca sia la formazione di trombina sia lo sviluppo di trombi. Inol­ tre, essi inibiscono indirettamente l’aggregazione piastrinica indotta dalla trombina. L’apixaban – 1-(4-metossifenil)-7-osso-6-[4-(2-ossopi­ peridin-1-il)fenil]-4,5-diidropirazol[5,4-c]piridin-3-carbos­ samide –, la cui sintesi è riportata nella Scheda 21.14, è indi­ cato nella prevenzione del TEV in pazienti adulti sottoposti a interventi di chirurgia ortopedica maggiore e nella preven­ zione dell’ictus o dell’embolia sistemica in pazienti affetti da fibrillazione atriale non valvolare. Dopo somministrazione orale, la biodisponibilità è di circa il 50%. Le concentrazioni massime si riscontrano dopo 3-4 ore. Il legame con le pro­ teine nell’uomo è elevato (circa 87%). La O-demetilazione

e l’ossidrilazione sulla porzione 3-ossopiperidinica sono le principali biotrasformazioni. L’apixaban è metabolizzato principalmente tramite il CYP3A4/5. L’emivita di elimina­ zione è di circa 12 ore. Viene eliminato dall’organismo in prevalenza per via fecale; l’escrezione renale rappresenta cir­ ca il 20-30% della clearance totale. Il rivaroxaban, un derivato ossazolidinonico – (S)5-cloro-N-({2-osso-3-[4-(3-ossomorfolin-4-il)fenil]ossazo­ lidin-5-il}metil) tiofen-2-carbossamide –, è approvato per la prevenzione di eventi aterotrombotici in pazienti adulti con sindrome coronarica acuta. Viene assorbito rapidamente e le concentrazioni massime si riscontrano 2-4 ore dopo l’as­ sunzione. L’effetto è prevedibile e prolungato, tale da con­ sentirne la monosomministrazione giornaliera, senza mo­ nitoraggio. L’assorbimento orale è pressoché completo e la biodisponibilità elevata (80-100%). Il legame con le proteine plasmatiche raggiunge circa il 92-95%. Viene metabolizzato tramite il CYP3A4, il CYP2J2 e con meccanismi indipendenti dal CYP. La degradazione ossidativa del gruppo morfolinone e l’idrolisi dei legami amidici sono le principali biotrasfor­ mazioni. L’eliminazione dal plasma avviene con un’emivita terminale di 8-12 ore. Circa 1/3 viene eliminato immodifica­ to nelle urine; il rimanente sotto forma di metaboliti, escreti per via renale e fecale. Apixaban e rivaroxaban sono substrati della glicoprotei­ na P e vengono in parte metabolizzati da CYP3A4; la loro biodisponibilità viene pertanto aumentata da tutti i potenti inibitori di questi due sistemi (antimicotici azolici, inibitori delle proteasi HIV), con accresciuto rischio emorragico. Gli induttori di glicoproteina P e di CYP3A4 (rifampicina, feni­ toina, carbamazepina, fenobarbital), per contro, ne riducono biodisponibilità ed efficacia. Il sanguinamento è segnalato più frequentemente durante il trattamento a lungo termine, in aggiunta a terapia antipiastrinica.

21.3 Antiaggreganti piastrinici L’attivazione piastrinica costituisce un momento chiave nell’emostasi primaria e nella successiva formazione del trombo. I farmaci antiaggreganti piastrinici agiscono con differenti e specifici meccanismi che si realizzano attraver­ so due vie principali: inibizione dell’attivazione piastrinica e

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inibizione dell’aggregazione. Il principale impiego consiste nella prevenzione delle complicanze ischemiche in pazienti con patologie coronariche. In condizioni fisiologiche, la parete vascolare sintetizza e rilascia prostaciclina (PGI2), che induce la conversione di adenosina trifosfato (ATP) in adenosina monofosfato ciclico (cAMP), il più importante secondo messaggero ad attività inibente l’aggregazione e la degranulazione piastrinica. In caso di lesione della parete vascolare, le piastrine circolanti si spostano verso la periferia del vaso e possono così aderire alle strutture esposte in seguito al danno vascolare (essen­ zialmente al collagene), processo che determina l’attivazione piastrinica (Fig. 21.11). L’adesione e la successiva aggregazione piastrinica av­ vengono per la presenza, sulla superficie delle piastrine, di molecole di adesione, la maggior parte delle quali appartiene alla superfamiglia delle integrine, molecole costituite da due catene peptidiche unite da legame non covalente, la cui di­ versità è data dalle differenti isoforme delle due catene. Una di queste, l’integrina glicoproteina Ia (GPIa), che ha la capa­ cità di legare il collagene, dà inizio all’adesione piastrinica al sottoendotelio, quando il collagene, come conseguenza della lesione, è esposto. Nel processo interviene anche un’altra molecola di ade­ sione, una glicoproteina denominata GPIb, che ha la capacità di legare il fattore di von Willebrand, molto abbondante nel­ la zona di lesione endoteliale; il legame formatosi viene a co­

CAPITOLO 21 • Antitrombotici

stituire una sorta di ponte fra il recettore GPIb delle piastrine e il sottoendotelio, stabilizzando l’adesione e la conseguente attivazione delle piastrine. L’ultimo stadio dell’aggregazione piastrinica è mediato dalle integrine GPIIb/GPIIIa esposte sulla superficie delle piastrine attivate. In seguito a stimolo, l’eterodimero GPIIb/ GPIIIa lega il fibrinogeno, che a sua volta lega i recettori GPIIb/GPIIIa di piastrine adiacenti, formando dei veri e pro­ pri ponti, in una reazione a catena che amplifica il fenomeno dell’aggregazione piastrinica. La degranulazione delle piastrine porta al rilascio di al­ tre sostanze ad azione aggregante, quali adenosina difosfato (ADP), trombossano A2 (TXA2), serotonina (5-HT), tutti potenti induttori dell’aggregazione: la superficie piastrinica è infatti dotata di recettori per tali molecole, che si legano ad altre piastrine e le attivano, generando un effetto a cascata. Una conseguenza diretta del rilascio di ADP dai granuli è l’attivazione della fosfolipasi A2 (PLA2), enzima chiave che porta alla liberazione di acido arachidonico (AA). Da que­ sto, per azione sequenziale degli enzimi ciclossigenasi (COX) e trombossano sintetasi nelle piastrine, ha origine il TXA2, uno dei più potenti agonisti dell’aggregazione piastrinica; nelle cellule endoteliali, l’attività della COX determina la produzione di PGI2, con attività biologica opposta a quella del TXA2. La rapida aggregazione piastrinica nel sito di le­ sione vascolare consente la formazione del tappo emostatico primario.

Figura 21.11 Attivazione piastrinica e formazione di un trombo nel sito di lesione vascolare e siti d’azione dei farmaci antiaggreganti.

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

21.3.1 A  ntipiastrinici che interferiscono con il metabolismo dell’acido arachidonico Inibitori della COX-1 Il TXA2 è un potente agonista piastrinico e vasocostrittore, la cui biosintesi è regolata dall’enzima chiave COX piastrinica (COX-1), che quindi può considerarsi un buon target per lo sviluppo di agenti ad azione inibente il TXA2, quali aspirina, triflusal, indobufene, sulfinpirazone (Fig. 21.12). L’acido acetilsalicilico (aspirina) agisce inibendo la COX-1, responsabile della conversione di AA in prostaglan­ dina G2 (PGG2), prestadio del TXA2. L’inibizione si realizza attraverso l’acetilazione della Ser530 della COX-1, che ostrui­ sce il canale situato sotto la tasca catalitica, disattivandola in modo irreversibile. Nelle piastrine l’inibizione della COX-1 è permanente, l’effetto antitrombotico permane per tutto il ciclo vitale della piastrina (9-11 giorni) e l’aggregazione può essere ripristinata solo dalla sintesi di nuove piastrine; anche a livello endoteliale l’inibizione della COX è irreversibile. L’i­ nibizione dell’attivazione piastrinica si realizza anche attra­ verso la stimolazione della sintesi di ossido nitrico (NO) nei neutrofili. L’aspirina è un farmaco consolidato nella profilassi dell’infarto miocardico, degli eventi ischemici occlusivi, in pazienti con attacchi ischemici transitori (TIA) e dopo ictus cerebrale, e nella prevenzione antitrombotica connessa agli interventi di angioplastica coronarica. Somministrata per via orale, viene rapidamente assorbita nello stomaco e veloce­ mente idrolizzata ad acido salicilico dalle esterasi della mu­ cosa intestinale, del circolo portale e del fegato. L’assunzione giornaliera di circa 100 mg di aspirina, dose molto al di sotto di quella richiesta per l’azione antinfiammatoria/analgesica, è sufficiente per l’inattivazione completa della COX-1, senza interferire con l’enzima di altre cellule. A queste dosi, infatti, inibisce la sintesi di TXA2, ma non quella di PGI2. Dosi supe­ riori non migliorano l’efficacia e ne aumentano la tossicità, in particolare le manifestazioni emorragiche e le irritazioni

COOH

O O

COOH

CH3 N O

C2H5

Aspirina

Indobufene

COOH O

O

CH3 O

CF3 Triflusal

N N

S O

O

Sulfinpirazone

Figura 21.12 Inibitori della COX-1.

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gastrointestinali (per sintesi, farmacocinetica e approfondi­ menti vedi Cap. 27). Un altro inibitore irreversibile della COX piastrinica è il triflusal – acido 2-acetossi-4-trifluorometilbenzoico. Nonostante l’elevata somiglianza strutturale con l’aspirina, presenta alcune proprietà farmacologiche e farmacocinetiche dissimili; sulla COX endoteliale esercita un’azione reversibile, salvaguardando così la produzione di PGI2; il blocco della COX-1, dopo 2 ore dalla somministrazione, è del 25%, e solo dopo una settimana di trattamento raggiunge l’85%; nel caso dell’aspirina l’inibi­ zione è superiore al 90% già dopo 2 ore e rimane costante per una settimana. Inoltre, attraverso l’inibizione delle fosfodiesterasi cicliche, il trifusal alle dosi terapeutiche aumenta i livelli di cAMP piastrinico, promuovendo l’azione antiaggregante attraverso la mobilitazione di calcio. Ulteriori effetti sono l’ini­ bizione dell’attivazione di NFκB, fattore nucleare che controlla l’espressione di molecole di adesione necessarie per l’aggrega­ zione piastrinica, e l’induzione della sintesi di NO, con risul­ tante effetto vasodilatatore. Impiegato per la cura della malattia tromboembolica arteriosa, il suo uso sembra comportare mi­ nori rischi di manifestazioni emorragiche rispetto all’aspirina. Somministrato per via orale viene rapidamente assorbito e me­ tabolizzato e, a differenza dell’aspirina, il suo metabolita deace­ tilato conserva una significativa attività antipiastrinica. L’indobufene, invece, è un inibitore reversibile della COX-1, in grado di bloccare la sintesi di TXA2 senza alte­ rare i livelli ematici di PGI2. È il capostipite dei derivati aril­ propionici – acido 2-[4-(1-osso-2,3-diidro-1H-isoindol-2-il) fenil]butanoico. Il centro stereogenico sulla catena laterale influenza l’attività biologica: l’eutomero è l’enantiomero (S), ma è commercializzato come racemo. La potenza è parago­ nabile a quella dell’aspirina ed è particolarmente adatto per i trattamenti a lungo termine. È rapidamente assorbito per via orale. Si lega quasi totalmente alle proteine plasmatiche; l’emivita è di circa 8 ore, l’eliminazione avviene prevalente­ mente per via renale (75%) come glucuronato e in piccola parte inalterato. Un altro inibitore reversibile della COX-1 è il sulfinpirazone – 1,2-difenil-4-(2-fenilsulfiniletil)pirazolidin-3,5-dione –, in grado di bloccare l’aggregazione piastrinica all’interno del trombo senza influire sulla sintesi della PGI2 nelle cellule en­ doteliali. Chimicamente deriva dal fenilbutazone, ma è privo di attività antinfiammatoria; oltre che negli stati tromboembolici legati a un alterato comportamento dei parametri piastrinici, per la sua attività uricosurica viene frequentemente impiegato nel trattamento della gotta. Il sulfinpirazone è metabolizzato per riduzione a solfuro, per ossidazione a solfone e a vari com­ posti ossidrilati; i principali metaboliti sono riportati in Figura 21.13. Il metabolita ridotto mantiene l’attività antiaggregante. Considerata l’inibizione COX-1 reversibile, l’effetto perdura finché permangono in circolo i componenti attivi (sulfinpira­ zone: emivita 3-6 ore; solfuro: emivita 11-14 ore).

21.3.2 Inibitori del TXA2 La picotamide – 4-metossi-N,N'-bis(piridin-3-il-metil)isof­ talamide – monoidrato interviene sulla funzionalità piastri­ nica con un duplice meccanismo d’azione: inibizione della trombossano sintetasi, che converte la prostaglandina H2 (PGH2) in TXA2, e blocco dei recettori piastrinici del trom­

CAPITOLO 21 • Antitrombotici

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O HO

O

N

O N

S

O

N N

S O

O

O Solfone

p-Idrossisulfinpirazone Sulfinpirazone

O

O

N N

S

HO

S

N N O

O

p-Idrossisolfuro

Solfuro

Figura 21.13 Metabolismo del sulfinpirazone.

bossano. Il suo impiego prevalente è nei disordini trombo­ embolici, in cui è indicata un’inibizione della reattività pia­ strinica e un’attivazione del potenziale fibrinolitico. Per via orale è rapidamente assorbita e raggiunge il picco di massi­ ma concentrazione entro un’ora. L’eliminazione prevalente è per via urinaria, già subito dopo la terza ora dal trattamento. O OCH3

NH

NH N

N

O Picotamide

21.3.3 Inibitori della fosfodiesterasi Nelle piastrine e nei vasi, la fosfodiesterasi-3 (PDE-3) è l’en­ zima responsabile della rapida conversione del cAMP in AMP. Gli inibitori di tale enzima, quali dipiridamolo e ci­ lostazolo (Fig. 21.14), inducono un aumento dei livelli di cAMP piastrinico; l’accumulo di cAMP si realizza, inoltre, attraverso il blocco della ricaptazione dell’adenosina, inibi­ tore fisiologico, la quale agisce sui recettori A2 stimolando l’adenilato ciclasi delle piastrine. I due effetti concomitanti determinano aumento della concentrazione di cAMP, con conseguente blocco dell’aggregazione e vasodilatazione. Il dipiridamolo – N,N'-(4,8-dipiperidinopirimido[5,4-d] pirimidin-2,6-di-il)bis(2,2'-iminodietanolo) –, la cui sintesi è descritta nel Box 21.3, è un derivato pirimido-pirimidini­ co che, oltre a essere un antiaggregante piastrinico, esercita azione vasodilatatrice. L’assorbimento del dipiridamolo è estremamente variabile e può determinare una scarsa bio­ disponibilità del farmaco. Le formulazioni a rilascio modifi­ cato migliorano la biodisponibilità e sono quelle adottate in associazione con aspirina. Si lega in ampia misura all’albu­

mina, viene escreto principalmente per via biliare sotto for­ ma di glucuronato ed è soggetto a circolo enteroepatico. L’e­ mivita è di circa 10 ore. Si utilizza soprattutto in associazione con aspirina nella prevenzione dell’ictus e del TIA. L’effetto collaterale più comune è la cefalea. Il cilostazolo – 6-[4-(1-cicloesil-1H-tetrazol-5-il)bu­tos­ si]-3,4-diidro-2(1H)-chinolinone – è un derivato chinoloni­ co con maggiore selettività d’azione per la PDE-3, rispetto al dipiridamolo. Il cilostazolo è indicato nella prevenzione de­ gli eventi trombotici in pazienti con arteriopatia periferica. Dopo somministrazione orale l’assorbimento di cilostazolo è variabile e correlato all’assunzione di cibo. Ha un’alta af­ finità per l’albumina; l’emivita è di circa 11 ore ed è meta­ bolizzato estensivamente nel fegato, soprattutto da CYP3A4 e CYP2C19. I principali metaboliti, entrambi attivi, sono il 3,4-diidro- e il 4'-trans-idrossicilostazolo (Fig. 21.15). Oltre alla cefalea, l’effetto collaterale più frequente è rap­ presentato dai disturbi gastrointestinali.

21.3.4 Inibitori dei recettori purinergici P2Y12 Il ruolo dell’ADP nell’attivazione e nell’aggregazione pia­ strinica è fondamentale. All’interno della cellula la trasdu­ zione del segnale ADP-dipendente coinvolge due recettori purinergici, P2Y1 e P2Y12; il legame dell’ADP al P2Y1 dà ini­ zio all’aggregazione piastrinica, attraverso l’induzione di un cambiamento di forma delle piastrine e la mobilizzazione di calcio intracellulare; il successivo legame dell’ADP al P2Y12 comporta un notevole incremento dell’aggregazione piastri­ nica, mediato dall’inibizione dell’adenilato ciclasi e conse­ guente riduzione dei livelli di cAMP. Gli antagonisti dei recettori purinergici P2Y12, caratte­ rizzati da strutture chimiche diverse, riducono l’attivazione piastrinica.

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BOX 21.3 ■ Sintesi del dipiridamolo La sintesi del dipiridamolo procede mediante un’iniziale condensazione tra l’urea e l’etil 3-ossobutanoato per dare la 6-metilpirimidina-2,4-dione. Quest’ultima è sottoposta a nitrazione nella posizione 5 e successivamente l’amino derivato, ottenuto per idrogenazione catalitica,

viene condensato con un’altra molecola di urea per dare l’intermedio a struttura pirimido-pirimidinica. Quest’ultimo, previa clorurazione, viene opportunamente funzionalizzato per dare il dipiridamolo.

O O H2N

NH2

HN

OH-

+

H3C

O HN

NH

N

O COOC2H5

O

O

HOOC

H2N

HOOC

H2 Pd/C

O

OH

N H

O

NH

NO2

HO

NH

HN

NH2

OH

H2SO4

O

NH2

O

HN

HNO3

N

H 3C

H N

O

NH

O

OH

CH3

N

N

N

O

N

PCl5

OH

OH OH

Cl Cl

N

Cl

N

N

N

N

N

NH

N N

Cl

Cl

N N

HOH2CH2C

H N

N

N

HO

CH2CH2OH

N

Cl

OH

N

N

N

N

N OH Dipiridamolo

O

N N

N N

N HO

N

N

OH N

OH

N

N

N H

O

N N N

N

N H

Dipiridamolo OH

N

N

O

4'-Idrossicilostazolo

Figura 21.15 Metabolismo del cilostazolo.

O

N N

O

3,4-Diidrocilostazolo

Cilostazolo

N

HO

N

N H Cilostazolo

Figura 21.14 Inibitori della fosfodiesterasi.

O

Inibitori indiretti Ticlopidina – 5-[(2-clorofenil)metil]-6,7-diidro-4H-tieno[3,2c]piridina –, clopidogrel – (S)-(+)-metil 2-(2-clorofenil)2-(6,7-diidrotieno[3,2-c]piridin-5(4H)-il)acetato –, la cui sin­ tesi è descritta nella Scheda 21.15, e prasugrel – (±)-5-[2-ci­

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BOX 21.4 ■ Sintesi del prasugrel La sintesi del prasugrel è stata ottenuta a partire dal 1-bromometil-2-fluorobenzene, che è stato inizialmente trattato con tetra-butilammonio bromuro (TBAB) e cianuro di sodio per ottenere il corrispondente ciano-derivato, il quale è stato in seguito bromurato e condensato con la 4,5,6,7-tetraidro-2-metossitieno[3,2-c]piridina per F

Br

F

CN

F

HN

Br

1. NaCN,TBAB 2. Br2

dare come intermedio chiave il 2-(2-fluorofenil)-2-(2-metossi-6,7-diidrotieno[3,2-c]piridin-5(4H)-il)acetonitrile. Quest’ultimo è stato sottoposto a reazione di Grignard con il bromuro di ciclopropilmagnesio, e il prodotto ottenuto è stato poi idrolizzato alla funzione eterea e successivamente acilato per dare il prasugrel. CN

OCH3 S

N

OCH3

K2CO3

S

1-Bromometil-2-fluorobenzene F

O

F

O

MgBr

N

OCH3 S

1. HCl 2. NaH; ( CH3CO)2 O

N

OCOCH3 S

Prasugrel

clopropil-1-(2-fluorofenil)-2-ossoetil]-4,5,6,7-tetrai­ drotieno[3,2-c]piridin-2-il acetato –, la cui sintesi è riportata nel Box 21.4, rappresentano tre generazioni di tienopiridine orali, strutturalmente correlate, che inibiscono selettivamente l’aggregazione piastrinica ADP-indotta. Si impiegano nel trattamento di fenomeni ateroscleroti­ ci in pazienti con infarto miocardico o disfunzioni arteriose periferiche e sono utili come trattamento alternativo nei pa­ zienti in cui l’aspirina non sia tollerata o risulti inefficace. La ticlopidina (prima generazione) presenta la limitazio­ ne della tossicità midollare ed è stata ampiamente sostituita dal clopidogrel (seconda generazione), il quale è diventato il farmaco di riferimento. Tuttavia, anche il clopidogrel pre­ senta delle limitazioni, come la variabilità di assorbimento, di effetto e il ritardo nell’inizio e nella fine dell’azione an­ tiaggregante. Il prasugrel, tienopiridina di terza generazione, presenta una più rapida insorgenza d’azione e un’inibizio­ ne della funzione piastrinica più efficace e meno variabile rispetto alle tienopiridine classiche. Ticlopidina e prasugrel sono commercializzati come cloridrato e il clopidogrel, oltre che come cloridrato, anche come besilato e idrogeno solfato. Tutte e tre le tienopiridine sono somministrate per via orale come profarmaci e, in quanto tali, presentano una latenza nell’inizio dell’azione farmacologica. La bioattivazione av­ viene ad opera di isoenzimi del CYP450 epatico. La via me­ tabolica delle tienopiridine è riportata in Figura 21.16. Vengono inizialmente ossidate a 2-chetoderivato, che successivamente viene idrolizzato a tiolo. Quest’ul­ timo inibisce il recettore P2Y12 in modo permanente, formando un ponte disolfuro con due residui cisteini­ ci liberi nel dominio extracellulare del recettore (Cys17 e Cys270), prolungandone così l’effetto (ad es. clopidogrel, Figura 21.16). L’inibizione del recettore P2Y12 da par­ te di tutte le tienopiridine è irreversibile; in misura mino­ re inibiscono la produzione di AA, collagene e trombina.

La ticlopidina è rapidamente assorbita con un’elevata bio­ disponibilità (90%). La quasi totalità si lega reversibilmente alle proteine plasmatiche. L’emivita è di circa 24-36 ore. Per la ticlopidina sono stati identificati anche altri metaboliti a emivita breve, responsabili della tossicità del farmaco. Il clo­ pidogrel, rapidamente assorbito, per la maggior parte (85%) viene metabolizzato dalle esterasi che producono un derivato carbossilico acido inattivo; il 15% rimanente viene ossidato alla forma attiva dagli isoenzimi del citocromo. Polimorfismi genetici degli enzimi epatici responsabili del metabolismo, così come le interazioni tra farmaci (in particolare gli inibi­ tori di pompa protonica), influiscono sui livelli circolanti al­ tamente variabili del suo metabolita attivo, e rendono conto della variabilità interindividuale dell’effetto antiaggregante del clopidogrel. Il prasugrel è rapidamente assorbito e con­ vertito in metabolita attivo, con un’emivita di circa 4 ore. Nel caso del prasugrel la bioattivazione ad opera del CYP450 epatico avviene direttamente in singolo stadio; come conse­ guenza, il metabolismo risulta più rapido ed efficiente. La rapida insorgenza d’azione e la maggiore potenza rispetto alle tienopiridine classiche giustificano la minore incidenza di eventi cardiovascolari maggiori, ma di contro determina­ no un aumentato rischio di complicanze emorragiche. Tra gli effetti indesiderati più gravi si riscontrano neutropenia e porpora trombotica trombocitopenica.

Inibitori diretti L’azione antagonista fisiologica dell’ATP nei confronti del recettore P2Y12 ha portato allo sviluppo di suoi analoghi come antiaggreganti, cangrelor e ticagrelor, entrambi anta­ gonisti diretti e reversibili del P2Y12 (Fig. 21.17). A differenza dei profarmaci tienopiridinici, questi anta­ gonisti non richiedono bioattivazione epatica e ciò riduce il rischio di interazioni farmacologiche. Sono caratterizzati da un inizio rapido dell’effetto antiaggregante, che altrettanto

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

Cl

Cl

S

Cl

S O

N

N CYP450

C H O H3CO (S)-Clopidogrel

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N

CYP450

C H O H3CO

SH

C H O H3CO

Tiometabolita attivo

2-Cheto-clopidogrel

P2Y12

Esterasi

Cl

Cl

S

S

S-cisteina-P2Y12

N

N

C H O H3CO

COOH

H

COOH

COOH

Carbossi-metabolita inattivo

F

F

S OCOCH3

N H

O

N H

O

F

S

O

Esterasi

CYP450

SH N

H

O

COOH

Tiometabolita attivo

Prasugrel

Cl

Cl

S N

N COOH

Ticlopidina

Cl

Tiometabolita attivo

Cl

S N

SH

+

S N

Tienopiridinio

Tienodiidropiridinio Metaboliti tossici

Figura 21.16 Inibitori indiretti dei recettori purinergici P2Y12 e loro metabolismo.

rapidamente cessa dopo sospensione. Tali caratteristiche li rendono alternative attraenti rispetto alle tienopiridine. Il cangrelor è attivo solo per somministrazione endovenosa e ha un’emivita brevissima (3-5 minuti), a causa della rapi­ da defosforilazione a cui è soggetto. Tale inattivazione ha portato allo sviluppo del ticagrelor, che manca dell’unità

fosfatidica, ma mantiene buona attività. Il ticagrelor ha il vantaggio, rispetto al cangrelor, di avere una sommini­ strazione orale e un’elevata potenza d’azione. L’effetto ini­ bitorio sulle piastrine si ha entro 30 minuti. Questi nuovi inibitori reversibili garantiscono un’attività antiaggregante quasi immediata, che li rende particolarmente interessanti

CAPITOLO 21 • Antitrombotici

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S HN N OHO HO P P O

Cl

O

P O O OH OH HO Cl

N

O

CH3

N

F

HN

N

CF3

N

S O

O

HO OH

N

CH3

S

N

OH

HO

Cangrelor

F

N

N

Ticagrelor

Figura 21.17 Struttura degli inibitori diretti dei recettori purinergici P2Y12.

per i pazienti che devono essere sottoposti a interventi di angioplastica o di chirurgia maggiore; tuttavia la maggiore efficacia anti-ischemica avviene al prezzo di un aumentato rischio emorragico.

O

O

S

O

H3C

NH

21.3.5 Antagonisti del recettore GPIIb/IIIa Un gruppo innovativo di farmaci antitrombotici è costitui­ to dagli antagonisti del recettore GPIIb-IIIa. L’espressione di tale recettore sulla superficie piastrinica è fondamentale per il legame con il fibrinogeno e con altri substrati endogeni contenenti la sequenza Arg-Gly-Asp (RGD) o Lys-Gly-Asp (KGD); il complesso che ne deriva costituisce la via comune finale dell’aggregazione. Tali antagonisti competono reversi­ bilmente con il fibrinogeno e gli altri ligandi fisiologici per il legame con il recettore piastrinico (Scheda 21.16). Si tratta di una classe eterogenea di composti, che include un frammen­ to anticorpale diretto contro il recettore GPIIb-IIIa (abcixi­ mab), peptidi naturali isolati dal veleno di serpente conte­ nenti la sequenza RGD, peptidi sintetici ad azione mimetica della sequenza RGD (tirofiban), o contenenti la sequenza KGD (eptifibatide) (Fig. 21.18). Sono tutte molecole attive per infusione endovenosa, indicate per la terapia dell’angina instabile, dell’infarto miocardico e in caso di procedure co­ ronariche percutanee. L’abciximab è un singolo frammento Fab dell’anticor­ po monoclonale chimerico murino/umano IgG1k-7E3. L’abciximab blocca il recettore GPIIb/IIIa interagendo, ad alta affinità, con siti diversi dal sito di legame della sequen­ za RGD (inibizione non competitiva); le variazioni confor­ mazionali e l’impedimento sterico successivi al legame di abciximab bloccano l’accesso al recettore del fibrinogeno e degli altri ligandi endogeni. Oltre al GPIIb/IIIa, l’abciximab lega anche il recettore della vitronectina presente sulle pia­ strine e sulle cellule endoteliali, responsabile delle proprietà procoagulanti delle piastrine. A causa della duplice specifi­ cità, l’abciximab blocca più efficacemente il meccanismo di amplificazione della generazione di trombina, conseguente all’attivazione piastrinica, rispetto ad altri composti che ini­ biscono solo il recettore GPIIb/IIIa. Dopo la somministrazio­ ne di un bolo per via endovenosa, più dell’80% dei recettori GPIIb/IIIa risulta bloccato e l’aggregazione piastrinica pres­ soché abolita; le concentrazioni plasmatiche di farmaco li­ bero diminuiscono abbastanza rapidamente, con un’emivita

O

NH

OH

Distanza interatomica sequenza RGD

Tirofiban

NH H2N

NH O

HN O

O

H N

OH O

N H

O

Sequenza KGD

HN O

S

N

S

N H

H2N

O

N H

O Eptifibatide

Figura 21.18 Antagonisti sintetici del recettore GPIIb/IIIa.

breve (30 minuti), ma forte legame con il recettore (settima­ ne). L’aggregazione piastrinica torna alla normalità dopo 4872 ore. Il tirofiban – acido (2S)-2-(butilsulfonilamino)-3-[4-(4piperidin-4-il-butossi)fenil]propanoico – è un peptidomi­ metico strutturalmente simile alla disintegrina, peptide iso­ lato dal veleno di serpente. L’analogia tra la distanza inte­ ratomica tra i centri anionico e cationico del tirofiban e gli stessi gruppi presenti nella sequenza RGD della disintegrina è responsabile dell’antagonismo competitivo. L’eptifibatide è un eptapeptide ciclico sintetico costituito da 6 aminoacidi e dall’acido mercaptopropionico. Nella ciclizzazione intervie­ ne un ponte disolfuro tra un residuo di cisteina e l’acido mer­

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

captopropionico. La sequenza KGD lega competitivamente il recettore GPIIb/IIIa con bassa affinità, e ciò rende conto della reversibilità dell’effetto. Si somministrano entrambi per bolo endovenoso e le concentrazioni plasmatiche si rag­ giungono rapidamente; l’effetto antipiastrinico di tirofiban ed eptifibatide permane per circa 4 ore, contro le 48-72 ore dell’abciximab. Entrambi si impiegano associati all’aspirina e all’eparina non frazionata. Analogamente agli altri antitrombotici, il principale ri­ schio da terapia con tutti gli antagonisti della GPIIb/IIIa è il sanguinamento; inoltre, possono causare trombocitopenia.

21.4 Trombolitici La deposizione della fibrina e delle piastrine nei vasi è una delle principali cause di decesso nel mondo. La terapia trom­ bolitica precoce, che si avvale di farmaci in grado di dissolvere il coagulo di fibrina, ha consentito oggi di migliorare signifi­ cativamente gli esiti di vari disordini trombotici. Il sistema fondamentale attraverso il quale si realizza la dissoluzione del trombo è la fibrinolisi (Fig. 21.1). Analoga­ mente al sistema coagulativo, anche quello fibrinolitico è un sistema multienzimatico, costituito da zimogeni di serino­ proteasi che vengono bioattivati mediante un taglio proteoli­ tico. La reazione centrale è la conversione del plasminogeno in plasmina. La plasmina generata è in grado di tagliare la fibrina in frammenti peptidici solubili, determinando la lisi del coagulo. L’azione è aspecifica e può esercitarsi anche su altre proteine plasmatiche, tra cui diversi fattori della coagu­ lazione. Tale azione, che comporta la possibilità di sciogliere coaguli fisiologici e indurre emorragie, è tipica anche della gran parte degli agenti trombolitici e costituisce il principale effetto collaterale di questa classe di farmaci. L’attivazione della plasmina si realizza ad opera di due tipi diversi di se­ rinoproteasi: il t-PA, il più importante, e l’attivatore del pla­ sminogeno di tipo urochinasico, o urochinasi (u-PA). Il t-PA circolante plasmatico ha bassa affinità per il plasminogeno, mentre lega specificamente la fibrina. Il complesso bimole­ colare t-PA/fibrina ha un’alta affinità per il plasminogeno, che si lega preferenzialmente al complesso e viene attivato a plasmina sulla superficie del coagulo. Il meccanismo fi­ brinolitico è regolato da inibitori specifici, il più importante dei quali è il PAI-1 (inibitore dell’attivatore del plasminoge­ no-1).

21.4.1 Trombolitici di I generazione La somministrazione terapeutica di trombolitici aspecifici nei confronti della fibrina del coagulo, come gli agenti di I generazione, streptochinasi e urochinasi, può comportare una fibrinolisi massiva, difficilmente controllabile da parte di inibitori endogeni, che li rende potenzialmente tossici. Il capostipite è la streptochinasi, proteina di 47 kDa estratta da streptococchi β-emolitici. L’effetto trombolitico della strep­ tochinasi è dovuto alla capacità di formare un complesso unimolecolare, molto stabile, con il plasminogeno. Il com­ plesso però, oltre a degradare la fibrina del coagulo, degrada anche il fibrinogeno e i fattori V e VII della coagulazione. Successivamente è stata introdotta in terapia l’urochinasi, serinoproteasi di origine umana, isolata per la prima volta

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nelle urine, che si presenta in due forme, di 54 e 33 kDa. Ri­ spetto alla streptochinasi di origine batterica, l’urochinasi è priva di antigenicità e la sua efficacia è costante anche in trat­ tamenti ripetuti, in quanto non si formano anticorpi neutra­ lizzanti. Attualmente sono entrambe poco utilizzate, essendo state sostituite da farmaci dotati di maggiore specificità.

21.4.2 Trombolitici di II e III generazione Un’attivazione del plasminogeno fibrino-specifica, accom­ pagnata da una minima fibrinogenolisi sistemica, si realiz­ za con gli agenti trombolitici ricombinanti a base di t-PA: alteplasi, reteplase e tenecteplase, impiegati per la terapia trombolitica dell’infarto acuto del miocardio. Il t-PA uma­ no è una serinoproteasi di 527 aminoacidi (Scheda 21.17). La versione ricombinante del t-PA umano (rt-PA), alteplasi, trombolitico di II generazione, è identico al t-PA en­ dogeno sia per struttura aminoacidica, sia per composizione zuccherina. Reteplase e tenecteplase sono prodotti ricombi­ nanti di III generazione, messi a punto per la realizzazione di una forma variante di rt-PA, dotata di caratteristiche più vantaggiose: maggiore carattere fibrino-specifico; aumento dell’emivita plasmatica; maggiore resistenza all’inibitore endogeno PAI-1. Le strategie adottate per lo sviluppo del­ le forme mutate di rt-PA sono state: delezione di domini, modifiche nella glicosilazione, sostituzioni sito-specifiche di aminoacidi (Fig. 21.19). L’alteplasi, analogamente al t-PA endogeno, viene rapi­ damente eliminato dal circolo, con un’emivita di 4-8 minuti. Si somministra per via endovenosa in bolo, seguito da infu­ sione continua per 90 minuti. Il reteplase è un mutante delezionale del t-PA nativo, ottenuto per eliminazione dei primi 172 aminoacidi. È per­ tanto costituito da 355 aminoacidi; inoltre manca di glico­ silazione. Tali modifiche strutturali comportano un’emivita superiore all’alteplasi (13-16 minuti), in quanto ne riducono l’eliminazione epatica e consentono una somministrazione più semplice, con due boli per via endovenosa a distanza di 30 minuti. Un altro vantaggio è il costo ridotto rispetto all’al­ teplasi. La forma ricombinante di t-PA più recente immessa sul mercato è il tenecteplase, ottenuto attraverso tre mu­ tazioni sito-specifiche (senza delezione di domini): Thr103 sostituita con Arg (creazione di un nuovo sito di glicosila­ zione) e Asn117 con Gln (eliminazione del sito che facilita l’escrezione epatica). La modifica del pattern di glicosila­ zione del t-PA rallenta la clearance plasmatica e quindi al­ lunga l’emivita della molecola in circolo, che dai 4-8 minuti dell’alteplasi passa a 20-25 minuti. Ciò consente la sommi­ nistrazione in singolo bolo endovenoso. La terza mutazione è stata realizzata nelle posizioni 296-299 del dominio seri­ noproteasico. La sostituzione di Lys-His-Arg-Arg con quat­ tro residui di Ala determina una maggiore specificità per la fibrina e una maggiore resistenza all’inattivazione da parte del PAI-1. Con l’alteplasi l’incidenza di emorragie sistemiche e intracraniche è bassa (1% dei pazienti), ma significativa; la fibrino-specificità dei derivati di III generazione sembra rilevante ai fini di un maggior controllo delle complicazioni emorragiche, che risultano ridotte.

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CAPITOLO 21 • Antitrombotici

Figura 21.19 Rappresentazione schematica degli analoghi ricombinanti del t-PA di III generazione ottenuti dall’alteplasi. Reteplase è ottenuto per rimozione degli aminoacidi 1-172 (il sito di taglio è indicato con due cunei in colore); tenecteplase è ottenuto mediante mutazioni sito-specifiche nelle posizioni 103, 117, 296-299 (indicati con triangoli neri).

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Antitussivi e broncodilatatori Gaetano Ragno

22.1 Apparato respiratorio: funzione e patologie 22.2  La tosse: meccanismo e cause 22.3  Antitussivi 22.3.1 Antitussivi ad azione centrale 22.3.2 A  ntitussivi ad azione centrale e periferica 22.3.3 Antitussivi ad azione periferica

22.4  Mucolitici ed espettoranti 22.4.1 22.4.2 22.4.3 22.4.4 22.4.5

Mucolitici Espettoranti Muco-regolatori Muco-cinetici Balsamici

22.5  Broncodilatatori 22.5.1 Controllo delle vie respiratorie 22.5.2 I farmaci broncodilatatori

22.1 A  pparato respiratorio: funzione e patologie L’apparato respiratorio è costituito da tre sezioni principali: • centri respiratori: nuclei presenti nel tronco encefalico del SNC che regolano il ritmo respiratorio in funzione degli stimoli che provengono da recettori periferici e centrali, gabbia toracica e muscoli respiratori; • vie aeree: con funzione di veicolazione dell’aria fino agli alveoli polmonari, comprendono il naso, la faringe, la laringe, la trachea e i bronchi: questi si diramano a loro volta per formare una serie di bronchioli che terminano con gli alveoli polmonari; • polmoni: dove avvengono gli scambi gassosi all’interfaccia alveoli-capillari. Manifestazioni infiammatorie, degenerative, infettive e neoplastiche possono essere localizzate nei diversi distretti dell’ap-

parato respiratorio. Tra le manifestazioni patologiche più note sono da annoverare la bronchite acuta, che può insorgere come complicazione di infezione (in genere virale) delle vie aeree superiori o in seguito a patologie croniche ostruttive, e la polmonite (o broncopolmonite) che consiste nell’infiammazione degli alveoli polmonari causata da un’infezione virale o batterica. L’insufficienza respiratoria è causata da diverse patologie di tipo infiammatorio e degenerativo. Può essere di tipo ostruttivo, caratterizzata da resistenza all’aria inspirata, o di tipo restrittivo, nel quale i polmoni non si espandono in modo efficace, riducendo sensibilmente la superficie disponibile allo scambio dei gas. Asma bronchiale, bronchite cronica ed enfisema sono le più frequenti malattie respiratorie croniche di tipo ostruttivo. La bronchite cronica è sostenuta dal danno chimico (fumo o inquinamento) e da infezioni batteriche o virali (bronchiti acute). Se non adeguatamente trattata, la bronchite cronica può determinare l’insorgenza di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) o, nei casi più gravi, di neoplasie.

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La tosse rappresenta uno dei sintomi più caratterizzanti le patologie dell’apparato respiratorio. Fisiologicamente si tratta di un meccanismo protettivo, con cui l’organismo cerca di liberare la trachea o i bronchi dalla presenza di espettorato che tende a ostruirli o irritarli. Le classi di farmaci antitussivi (o antibechici o sedativi della tosse) e broncodilatatori sono le più usate nelle affezioni dell’apparato respiratorio.

22.2 La tosse: meccanismo e cause La tosse è un riflesso fisiologico che si attiva per espellere secrezioni bronchiali o materiale estraneo dalle vie respiratorie e si rende necessaria per impedirne l’ostruzione. Si tratta di un’espirazione forzata, a glottide chiusa, che obbliga il materiale presente a essere espulso. Sotto questo aspetto, la tosse deve essere considerata come un meccanismo fisiologico utile e non deve essere soppressa indiscriminatamente. In molti casi, tuttavia, la tosse può essere provocata da un’irritazione della mucosa e non dalla presenza di secrezione, diventando fastidiosa per il paziente o ostacolando le normali attività quotidiane e lavorative. Il “riflesso” della tosse parte generalmente dalla stimolazione di recettori meccanici o chimici presenti nella gola, nell’albero bronchiale e nei polmoni. Tale stimolazione porta all’attivazione di formazioni nervose poste nel bulbo cerebrale, generalmente chiamato centro della tosse. I segnali efferenti sono convogliati attraverso i nervi vago e frenico e i nervi motori spinali fino alla muscolatura respiratoria (Fig. 22.1). Generalmente la tosse viene distinta sotto tre forme: • tosse non produttiva (o secca); • tosse produttiva (o grassa); • tosse cronica.

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

La tosse secca si presenta generalmente stizzosa e solleticante ed è uno dei sintomi di esordio delle patologie da raffreddamento, essenzialmente quando si è in presenza di un problema alla laringe e alla trachea. Spesso questo tipo di tosse può essere provocato da irritazioni delle mucose di trachea, faringe e bronchi ad opera di agenti irritanti quali fumo di sigaretta, polveri, allergeni, inquinamento atmosferico. È definita “non produttiva” perché non si accompagna a espettorato. La tosse grassa, o produttiva, viene così definita per la presenza di un’iperproduzione di muco più o meno consistente nelle vie respiratorie. Il muco in realtà rappresenta la secrezione di rivestimento di tutte le mucose del nostro organismo e garantisce l’idratazione dei tessuti e la protezione degli stessi dalle particelle esterne. Quando però nelle vie respiratorie esso è prodotto in quantità eccessive, viene eliminato proprio attraverso la tosse, che funge così da importante strumento di difesa e protezione. Con il termine catarro si fa tradizionalmente riferimento al solo muco prodotto nei bronchi. La tosse cronica si protrae oltre 3 settimane e/o si presenta ciclicamente durante tutto l’anno. È sintomo di una costante infiammazione delle mucose respiratorie, causata dall’irritazione da fumo di sigaretta, allergeni e agenti inquinanti presenti nell’aria. Una vasta gamma di patologie può causare tosse e il trattamento specifico di essa richiede una chiara identificazione delle cause e preferibilmente una diagnosi della patologia responsabile della sua insorgenza. In molti casi però risulta difficile associare una causa specifica e la tosse viene trattata in maniera sintomatica. La tosse rappresenta anche uno dei sintomi principali nei pazienti con patologie respiratorie croniche come l’asma. Se si presenta con più frequenza di notte, la tosse può essere la spia di una malattia cardiaca (scompenso cardiocircola-

Figura 22.1 Rappresentazione schematica della stimolazione e delle fasi meccaniche del riflesso tussigeno.

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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torio). Alcune forme infettive virali possono causare tosse che si prolunga anche per diversi mesi dopo la remissione dei sintomi principali dell’infezione. Anche diversi disturbi dell’esofago, come il reflusso gastroesofageo, sono responsabili dell’insorgenza di tosse cronica. Il gocciolamento rinofaringeo, noto come “post nasal drip syndrome” è la causa più frequente di tosse cronica, basato sulla stimolazione del centro bulbare della tosse mediante un riflesso glosso-faringeo e vagale. Questa patologia può essere causata da rinite allergica stagionale e perenne, sinusite cronica batterica e micotica, rinite vasomotoria, rinite post-infettiva. L’insorgenza della tosse può essere causata anche da trattamenti farmacologici (tosse iatrogena). Ad esempio, i farmaci antipertensivi ACEinibitori presentano, tra gli effetti collaterali comuni, la stimolazione della tosse. Il fumo di tabacco è la causa di gran lunga più comune della BPCO, della quale la tosse persistente rappresenta il sintomo più caratteristico. La tosse rappresenta un sintomo particolarmente caratteristico in malattie infettive anche gravi come la tubercolosi e la pertosse.

prime, dato il carattere propriamente difensivo della tosse nell’espellere il muco presente nelle vie aeree. Tuttavia, se la tosse persiste per diverso tempo ed è causa di impedimento del riposo del paziente o ne impedisce le normali attività sociali o lavorative, appare necessario intervenire farmacologicamente. I farmaci antitosse attualmente utilizzati sono sommariamente divisi in antitussivi ad azione centrale e periferica, anche se molti principi attivi agiscono su entrambi i siti d’azione (Tab. 22.1). Con fluidificanti ed espettoranti si indica invece una serie di principi attivi che si utilizzano soprattutto in caso di tosse produttiva. I primi sono farmaci che provvedono a scindere le macromolecole del muco rendendolo più fluido e facilitandone l’eliminazione. Gli espettoranti invece agiscono con meccanismi irritanti sulle mucose bronchiali, stimolando la vasodilatazione e la secrezione della componente liquida del muco. La maggiore produzione di muco induce naturalmente lo stimolo fisiologico della tosse e quindi l’eliminazione forzata del secreto dalle vie respiratorie.

22.3 Antitussivi

22.3.1 Antitussivi ad azione centrale

Gli antitussivi sono tra i farmaci più utilizzati in tutto il mondo, anche se il loro impiego è sempre al centro di una discussione sulle reali necessità di impiego e sulla tempistica di somministrazione. Un trattamento appropriato di molte malattie, delle quali la tosse rappresenta solo uno dei sintomi, porta spesso alla cessazione o almeno a un miglioramento significativo dello stimolo a tossire. Una tosse di tipo produttivo insorta da poco tempo generalmente non si sop-

Gli antitussivi ad azione centrale agiscono sulle formazioni nervose del centro della tosse con azione depressiva sul riflesso della tosse. I più noti farmaci appartenenti a questa classe sono derivati dalla morfina o dal morfinano, che agiscono rispettivamente su recettori oppioidi e σ (Capp. 1 e 6). La codeina è il farmaco più rappresentativo dei derivati morfinici, detti anche narcotici, mentre il destrometorfano lo è dei derivati morfinanici.

Tabella 22.1 Dati farmacocinetici dei principali antitussivi ad azione centrale e periferica. Principio attivo

Posologia media (mg/die)

Emivita plasmatica (ore)

Picco plasmatico (ore)

Codeina

60-150

2,5-3

1

6-Glucuronide da uridina difosfato glucuronosil transferasi. 5-10% convertita in morfina e norcodeina.

Destrometorfano

40-120

3-5

2,5

Degradazione in destrorfano, 3-metossimorfinano e 3-idrossimorfinano. In parte eliminato immodificato.

Levocloperastina

30-60

2-3

1-1,5

Ampio metabolismo epatico. I metaboliti vengono eliminati per via renale e biliare entro 15 e 24 ore.

Levodropropizina

100-150

1-2

0,5-1

Idrossilazione dell’anello aromatico, N-dealchilazione del farmaco e del metabolita nei derivati N-fenilpiperazinici.

Baclofene

15-45

2-4

1-1,5

Metabolismo epatico con deaminazione ad acido β-clorofenil-γidrossibutirrico, inattivo. 70% eliminato inalterato nelle urine e una minore quantità con le feci.

Butamirato

30-50

4-6

3-5

I metaboliti del farmaco presentano residua azione antitussiva. La loro eliminazione avviene principalmente per via renale.

Folcodina

20-40

30-40

4-8

Lentamente biotrasformata nel fegato mediante ossidazione e coniugazione. Principale eliminazione con le urine, al 27% in forma immodificata e il resto come metaboliti solfati o glucuronati.

Idrocodone

10-30

3-6

1-2

A livello epatico, O-demetilazione, N-demetilazione e riduzione del gruppo chetonico a gruppi α- e β-ossidrilici. Una piccola parte trasformata in idromorfone e noridrocodone.

Levometadone

2,5-5

15-40

2-4

La principale trasformazione è la N-demetilazione e ciclizzazione, nel fegato. Tutti i metaboliti, insieme al farmaco invariato, vengono escreti nelle feci e nelle urine.

Noscapina

50-150

1,5-4

1-2

Metabolismo epatico con formazione di nornoscapina.

I parametri sono riferiti alla somministrazione per via orale.

Metabolismo

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

ISBN 978-88-08-18712-3

Farmaci attivi su recettori oppioidi Gli antitussivi narcotici agiscono sui recettori degli oppioidi, che appartengono alla classe dei recettori accoppiati a proteine G (Capp. 1 e 6). Tali recettori sono fisiologicamente attivati dai peptidi endogeni, endorfine, encefaline e dinorfine. L’attivazione di questi recettori è di tipo inibitorio con effetto analgesico. I recettori oppioidi sono trattati più dettagliatamente nel Capitolo 13. L’azione tramite questi recettori degli antitussivi derivati da alcaloidi dell’oppio è dimostrata anche dal fatto che l’azione antitussiva è abolita da antagonisti oppiacei come il levallorfano e il naloxone. I sedativi narcotici della tosse agirebbero soprattutto tramite i recettori μ, mentre i recettori κ sembrano contribuire solo in parte agli effetti di questi farmaci. I recettori oppioidi μ sono stati riscontrati sia nel sistema nervoso centrale sia periferico. Gli agonisti oppioidi sembrano agire sulla trasmissione colinergica delle vie respiratorie mediante inibizione del rilascio di acetilcolina dalle fibre nervose post-gangliari del parasimpatico. Il contributo dei recettori oppioidi δ, come anche quello dei recettori degli oppioidi periferici, sembra tuttavia molto limitato nell’indurre un effetto antitosse. Le caratteristiche chimiche della struttura della morfina e dei congeneri e le relazioni struttura-attività vengono trattate in maniera più approfondita nel Capitolo 13, dedicato alla classe degli analgesici narcotici. I principali antitussivi narcotici sono riportati nella Figura 22.2. La codeina – (5α,6α)-7,8-dideidro-4,5-epossi-3-metossi17-metilmorfinan-6-olo – è l’etere metilico della morfina (Fig. 22.3). È un alcaloide contenuto nell’oppio in quantità inferiore all’1%, ma che si preferisce preparare sinteticamente dalla morfina.  Nelle formulazioni farmaceutiche è usato generalmente come sale solfato o fosfato. Rispetto alla morfina presenta una minore attività analgesico-narcotica e influisce in modo decisamente inferiore sui centri della respirazione. L’attività analgesica della codeina tuttavia aumenta quando è somministrata per via orale per la maggiore biodisponibilità rispetto a quella parenterale. Questa proprietà è spiegata dalla metilazione dell’ossidrile in posizion 3, e che limita il legame con i recettori oppioidi e, nello stesso tempo, rallenta la glucuronazione e quindi l’eliminazione. La migliore efficacia antitussiva della codeina rispetto alla morfina è molto probabilmente dovuta all’interazione con sottotipi di recettori oppioidi maggiormente affini. Pur inducendo dipendenza fisica e psicologica dopo un uso continuato, i

H3C

O

O

H3C H

H HO

Farmaci attivi su recettori σ Studi recenti hanno dimostrato che gli oppioidi destrometorfano e noscapina agiscono su recettori σ sia centrali sia periferici piuttosto che a livello dei recettori oppioidi. L’effetto inibitorio sui recettori NMDA rafforza l’effetto antitussivo. I recettori σ, inizialmente considerati recettori oppioidi, sono una classe distinta di recettori indipendenti affini per ligandi endogeni. Il recettore σ1, in particolare, è una proteina che

O

H3C

O N CH 3

sintomi di astinenza sono relativamente lievi. Viene somministrata quasi esclusivamente per  via  orale,  è assorbita con facilità e viene escreta dal rene dopo una prima conversione in morfina e successiva coniugazione con acido glucuronico nel fegato. Pur essendo molto meno tossica della morfina, può causare cefalea, sedazione, depressione respiratoria, ipotensione, tachicardia, stitichezza e nausea. La diidrocodeina – 4,5-α-epossi-3-metossi-17-metil­ morfinan-6-olo – è un oppioide semisintetico utilizzato in alternativa alla codeina, in quanto presenta una maggiore efficacia ed emivita. La mancanza del doppio legame rende la molecola più resistente all’ambiente acido e alla trasformazione metabolica rispetto alla codeina. Anche l’idrocodone – 4,5-α-epossi-3-metossi-17-metilmorfinan-6-one – presenta una farmacocinetica simile ma un’attività leggermente superiore alla codeina. Gli effetti collaterali della diidrocodeina e dell’idrocodone sono sovrapponibili a quelli della codeina. Tra gli oppioidi di sintesi il più noto è il  metadone – (±)-6-dimetilamino-4,4-difenileptano-3-one – soprattutto per il suo impiego nella terapia sostitutiva della dipendenza da stupefacenti. È un derivato della fenilpropilamina, la cui struttura può assumere una conformazione sovrapponibile a quella della morfina. I principali oppioidi sintetici usati come antitussivi sono riportati in Figura 22.4. Il normetadone – 6-dimetilamino-4,4-difenil-esan-3-one – presenta un’efficacia sul SNC circa doppia rispetto al metadone e una lunga durata d’azione. Il levometadone – (6R)-6-(dimetilamino)-4,4difenileptano-3-one – (Box 22.1) è l’enantiomero (R)-(–) del metadone, utilizzato sia come analgesico sia come antitussivo. Presenta una potenza circa 50 volte maggiore rispetto all’enantiomero (S)-(+) soprattutto per la maggiore selettività verso i recettori oppioidi μ. Il levopropossifene – (1R,2S)1-benzil-3-(dimetilamino)-2-metil-1-fenilpropil-propionato – è l’enantiomero levogiro del propossifene, con esclusiva azione antitussiva centrale, al contrario dell’isomero destrogiro che invece presenta anche attività analgesica.

H

O

H N CH 3

HO Codeina

O

H

H

N CH 3

O Diidrocodeina

Figura 22.2 Antitussivi ad azione centrale a struttura fenantrenica.

Idrocodone

527

528

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

HO

Cl H3C

O

H

H3C

+

H

OH

ISBN 978-88-08-18712-3

CH3

CH3

O

O

N

CH3 CH3

O

KOH

H

N CH 3

HO

H2

H

Pt / Pd / Ni

N CH 3

HO Morfina

O H

H N CH 3

HO Codeina

Diidrocodeina

Figura 22.3 Semisintesi della codeina dalla morfina e successiva riduzione a diidrocodeina.

CH3 O C N CH3

CH3

Levometadone

CH3

CH3 O C N

CH3

Normetadone

CH3

CH3

O

O Levopropossifene

H3C H3C

N CH3

Figura 22.4 Antitussivi sintetici correlati al metadone attivi sui recettori oppioidi.

concorre alla regolazione dei  canali ionici, soprattutto del potassio e del calcio, e alla modulazione della contrattilità dei miociti cardiaci. È presente in molti tessuti ma particolarmente concentrato in alcune regioni del SNC. I recettori NMDA sono recettori postsinaptici dell’acido glutamico, così chiamati in base al ligando selettivo N-metil-d-aspartato. Si tratta di recettori ionotropici, cioè con funzione di canale ionico, permeabili al sodio e al calcio. In Figura 22.5 sono raffigurate le strutture dei principali farmaci attivi su recettori σ. La nascita del destrometorfano negli anni ’50 è legata alla ricerca di antitussivi sostituti della codeina, privi degli effetti

sedativi e del forte potenziale di abuso e dipendenza della stessa. Nei derivati del morfinano si ha eliminazione dell’anello furanico, tipico della struttura morfinica. L’attività analgesica e antitussiva è assicurata dalla conservazione dal sistema planare triciclico legato a un carbonio quaternario con configurazione (S), come nella morfina. Anche l’azoto basico terziario, legato quasi sempre a gruppi metilici, mantiene la stessa distanza dal carbonio quaternario. Il destrometorfano – (1S,9S,10S)-4-metossi-17-metil17-azatetraciclo[7.5.3.01,10.02,7]eptadeca-2(7),3,5-triene – sop­prime il riflesso della tosse mediante un’azione diretta sul centro midollare della tosse. È un farmaco a struttura oppioide-simile che agisce da agonista per i recettori σ1 e σ2 e da antagonista non competitivo al recettore NMDA. Alcuni studi affermano che il farmaco abbia anche proprietà inibitoria sulla ricaptazione di serotonina e dopamina. Strutturalmente è un derivato del morfinano, infatti è anche indicato come (+)-3-metossi-17-metil-9α,13α,14α-morfinano. Il destrometorfano viene rapidamente assorbito dal tratto gastrointestinale e in parte trasformato dal fegato nel 3-idrossi derivato destrorfano. Alcuni derivati metabolici del destrometorfano hanno una maggiore affinità per i recettori NMDA e l’attività terapeutica del destrometorfano è imputabile in parte a questo metabolita. Il destrometorfano subisce sia N-demetilazione, formando il 3-metossimorfinano, sia parziale coniugazione con acido glucuronico e ioni solfato. Sempre mediante interazione con recettori σ1, agiscono alcuni esteri dell’acido fenilacetico, tra i quali il butamirato – 2-(2-dietilaminoetossi)etil 2-fenilbutanoato –, l’osseladina – 2-(2-dietilaminoetossi)etil 2-etil-2-fenil-butanoato – e la pentossiverina – 2-[2-(dietilamino)etossi]etil 1-fenilciclopentano-1-carbossilato. Sono farmaci molto efficaci per trattare tosse di diversa eziologia. Non presentano analgesia e depressione respiratoria né tantomeno dipendenza o assuefazione. Per la pentossiverina è stata verificata anche un’azione antagonista sui recettori muscarinici e un eventuale sovradosaggio causa infatti effetti anticolinergici quali tachicardia o ritenzione urinaria.

22.3.2 A  ntitussivi ad azione centrale e periferica Alcuni farmaci utilizzati nella sedazione della tosse sono difficilmente inquadrabili in una classe chimica o farmaco-

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

ISBN 978-88-08-18712-3

BOX 22.1 ■ Sintesi del levometadone La molecola si ottiene a partire dalla sintesi di Kolbe tra difenilacetonitrile (1) e 2-dimetilamino-1-metiletil cloruro (2) in presenza di tetrametilammonio bromuro per dare il 4-dimetilamino-2,2-difenilvaleronitrile (3). Il gruppo nitrile di (3) viene fatto reagire con etilmagnesio

bromuro (4) in ambiente acido, ottenendo il metadone racemico (5). L'acido (2R,3R)-(+)-tartarico viene infine usato per la risoluzione della miscela racemica fornendo il levometadone o (R)-(–)-metadone. CN

CH3

CH3

+

N

Cl

CN 1

CH3

N

CH3

CH3

CH3

2

3

H3C

H2O

MgBr

4 CH3

CH3 O

O

C N CH3

(+)-Acido tartarico

CH3

C

CH3

N

CH3

CH3

CH3

5

Levometadone

CH3

CH3O

CH3

O H N

N

O

CH3

O CH3

Butamirato

Destrometorfano

CH3 H3C H3 C

O

O

N

CH3

CH3

O

O

O

N

CH3

O

Osseladina

Pentossiverina

Figura 22.5 Antitussivi ad azione centrale attivi sui recettori .

logica. Inoltre molti di essi presentano attività sia sui centri nervosi della tosse sia a livello periferico. La cloperastina – 1-{2-[(4-clorofenil)-fenil-metossi]etil} piperidina – è una molecola di sintesi con azione sul SNC per

inibizione del centro della tosse a livello bulbare. Tuttavia appare priva di attività narcotica e deprimente il centro respiratorio. Possiede anche una discreta attività antistaminica, inibendo gli stimoli che inducono il riflesso tussigeno e

529

530

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

lo spasmo bronchiale, ma causando sonnolenza come effetto collaterale principale. In effetti, la struttura chimica è molto simile a quella dell’antistaminico difenidramina, con un nucleo piperidinico invece del gruppo dimetilaminico. La cloperastina viene generalmente somministrata per via orale, sotto forma di cloridrato, presentando un rapido assorbimento nel tratto gastrointestinale e altrettanto rapida distribuzione, raggiungendo un’elevata concentrazione nel tessuto polmonare. Il farmaco viene completamente metabolizzato in breve tempo e i metaboliti eliminati in gran parte con le urine. Molecola con caratteristiche simili alla cloperastina è l’enantiomero levogiro levocloperastina, che agisce sia centralmente sul centro della tosse sia sui recettori periferici dell’albero tracheobronchiale. Anche gli effetti collaterali sono simili, tra i quali la sonnolenza è il più importante. Il nepinalone – 1-metil-1-(2-piperidin-1-iletil)-3,4-di­ idronaftalene-2(1H)-one – agisce principalmente a livello del SNC, ma l’azione antitussiva è rafforzata da una discreta azione antinfiammatoria e broncodilatatoria. Causa un modesto effetto analgesico senza però indurre azione deprimente e farmacodipendenza. È rapidamente assorbito dopo somministrazione orale e pressoché completamente metabolizzato in derivati più idrosolubili. Il pipazetato – 2-(2-piperidin-1-iletossi)etil 10H-pirido[3,2-b][1,4]benzotiazina10-carbossilato – presenta azione antitussiva sia centrale, deprimendo l’eccitabilità del centro della tosse, sia a livello periferico, attenuando gli stimoli irritativi provenienti dai recettori situati lungo le vie aeree superiori. Possiede inoltre attività spasmolitica bronchiale. Anche alcuni antagonisti del recettore GABA, presente a livello centrale e periferico, presentano proprietà antitussive. Tra questi, le migliori capacità farmacologiche sono state mostrate dal baclofene – acido (±)-4-amino-3-(4-cloropenil)butanoico – e dal pentetrazolo – 6,7,8,9-tetraidro-5H-tetrazolo(1,5-a)azepina. Le strutture degli antitussivi ad azione sia centrale sia periferica sono riportati in Figura 22.6.

22.3.3 Antitussivi ad azione periferica Gli antitussivi periferici agiscono sopprimendo la risposta di uno o più recettori sensoriali che inducono la tosse. Questi farmaci sono spesso preferiti per evitare gli effetti collaterali associati agli antitosse ad azione centrale, soprattutto sedazione e disturbi gastrointestinali. Attualmente si dispone di una buona gamma di principi attivi ad azione periferica, tuttavia molte altre molecole di questa classe sono in fase di sperimentazione. Gli stimoli che avviano il riflesso della tosse corrono lungo gruppi di fibre nervose periferiche, la cui integrazione avviene a livello del nucleo del tratto solitario localizzato nel midollo dorsale. Anche se soggetti a controllo corticale, in tale sede i neuroni contribuiscono all’attivazione del riflesso della tosse. In diverse condizioni patologiche, l’attività sensoriale di queste fibre nervose viene alterata causando in genere una maggiore eccitabilità. Tra le fibre nervose periferiche che concorrono all’attivazione del riflesso della tosse, le fibre Aδ, C e SARs (slowly adapting stretch receptors) sono le più coinvolte. Questi gruppi di fibre si trovano all’interno dello strato epiteliale della trachea e delle basse vie respiratorie. Le fibre Aδ includono i recettori RAR (rapidly adapting receptors), spar-

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Cl O N Cloperastina

CH3 N O Nepinalone S N O

N O

O

N

Pipazetato

NH2 Cl

O OH Baclofene N

N N N Pentetrazolo

Figura 22.6 Antitussivi ad azione centrale e periferica.

si sotto l’epitelio intrapolmonare, che rispondono a stimoli meccanici delle vie aeree come la secrezione di muco. Fibre Aδ sensibili anche a stimolanti chimici sono state rilevate a livello gangliare. Le fibre C hanno un ruolo importante nella difesa delle vie aeree. Fibre C sensibili sia a stimoli meccanici sia a quelli chimici sono state localizzate nella laringe e nella parete alveolare. Non ci sono ancora prove certe sull’induzione diretta della tosse da parte di queste fibre nervose, ma finora è noto solo un loro coinvolgimento nell’attivare il riflesso della tosse. Le fibre SARs, a differenza delle altre, non sono direttamente coinvolte nel riflesso della tosse, ma esercitano solo un’influenza sulla risposta dei recettori RAR. Vediamo di seguito i principali antitussivi ad azione periferica utilizzati in terapia. Anestetici locali come lidocaina, mexiletina, trattati nel Capitolo 14 e soprattutto benzonatato – 2-[2-(2-{2[2-(2-{2-[2-(2-metossietossi)etossi]etossi}etossi)etossi]etossi}etossi)etossi] etil-4-butilaminobenzoato – (Fig. 22.7) sono efficaci nel trattare la tosse resistente ad altri trattamenti. La

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

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O

O

HN

(

O

(9

degli stimoli sensoriali lungo le vie respiratorie grazie all’azione inibitoria a livello delle fibre C amieliniche localizzate nelle pareti alveolari. Il farmaco è ben assorbito dopo somministrazione orale e altrettanto rapidamente distribuito nei tessuti dell’organismo. Viene escreto principalmente per via urinaria inalterato o in forma di metaboliti. Gli effetti collaterali sono modesti, soprattutto a carico del sistema gastrointestinale. Grazie all’elevato profilo di sicurezza, il farmaco è indicato anche per il trattamento di attacchi acuti di tosse in età pediatrica. La moguisteina – ​​ etil 3-{2-[(2-metossifenossi)metil]-1,3-tiazolidin-3-il}-3-ossopropanoato – è un nuovo antitussivo ad azione periferica il cui meccanismo è legato all’attivazione di canali del potassio. Dimostra efficacia simile a quella della codeina. Come alternativa agli antitussivi ad azione centrale, associati a rilevanti effetti collaterali, la ricerca su nuovi principi attivi periferici è particolarmente vivace. Un certo interesse suscitano gli antagonisti dei recettori delle tachichinine, un gruppo di peptidi presenti nelle terminazioni delle fibre C, la cui liberazione stimola i recettori RAR e quindi il riflesso tussigeno. Anche la presenza di recettori cannabinoidi è stata dimostrata nelle fibre nervose delle vie aeree e molecole ad azione agonista di questi recettori sembrano dotate di buona azione antitussiva. Infine, alcuni antagonisti dei recettori dei leucotrieni e della bradichinina si sono dimostrati efficaci nel controllo del riflesso tussigeno.

CH3

C4H9 Benzonatato

N

OH

N

OH

Levodropropizina

O

CH3 O

N O

S

OCH3 Moguisteina

Figura 22.7 Antitussivi ad azione periferica.

22.4 Mucolitici ed espettoranti

loro azione è purtroppo transitoria e la somministrazione ripetuta causa assuefazione, rendendo necessario aumentare le dosi con conseguenti seri effetti collaterali. Il meccanismo d’azione è collegato all’inibizione di canali del sodio che porta alla riduzione nella trasmissione dei segnali nervosi. La levodropropizina – (2S)-3-(4-fenilpiperazin-1-il) propan-1,2-diolo – presenta una struttura fenilpiperazinopropanica e agisce come antitussivo periferico con efficacia comparabile a quella del destrometorfano e della diidrocodeina. La levodropropizina dimostra la stessa attività antitussiva della miscela racemica, ma presenta una maggiore selettività dovuta alla scarsa attività sul SNC. Modula i livelli

Una presenza eccessiva di muco nelle vie aeree è causa di limitazione al flusso d’aria e insieme di un aumento della colonizzazione batterica che può causare infezioni del tratto respiratorio inferiore o la riacutizzazione di patologie pregresse. I farmaci muco-attivi (Tab. 22.2) intervengono sulle secrezioni bronchiali presenti lungo il tratto respiratorio, regolandone la produzione o facilitandone l’eliminazione mediante modifica delle proprietà chimico-fisiche. Questi farmaci partecipano attivamente al controllo della tosse, poiché l’iperproduzione di muco e le modifiche delle sue caratteristiche possono generare una sintomatologia di tipo ostruttivo che obbliga l’organismo a ricorrere al riflesso della tosse per liberare le vie aeree.

Tabella 22.2 Dati farmacocinetici dei principali antitussivi muco-attivi. Principio attivo

Posologia media (mg/die)

Emivita plasmatica (ore)

Picco plasmatico (ore)

Acetilcisteina

400-600

4-6

2-3

Dopo l’assorbimento, rapidamente metabolizzata a cisteina. Principale prodotto di escrezione il solfato derivato.

Guaifenesina

1000-2400

1 -4

1-2

Rapidamente ossidata ad acido β-(2-metossi-fenossi) lattico. Circa il 40% escreto entro 3 ore nelle urine in forma di metaboliti.

Carbocisteina

1500-2250

1-2

1-1,5

Metabolismo con grande variabilità individuale comprendente acetilazione, decarbossilazione e solfossidazione. Da 30% a 60% viene escreto immodificato nelle urine.

Sobrerolo

400-600

2-3

1-1,5

Biotrasformazione a carvone in fase I e coniugazione con acido glucuronico in fase II. Eliminato per via renale come sobrerolo libero, sobrerolo glucuronato, carvone.

Ambrossolo

80-100

7-12

1-3

Metabolismo epatico con glucuronazione. Eliminazione prevalentemente per via renale.

I parametri sono riferiti alla somministrazione per via orale.

Metabolismo

531

532

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

Il muco è composto al 95% di acqua e il resto da carboidrati, proteine, lipidi e DNA, ed è secreto da ghiandole sieromucose nel tessuto connettivo della sottomucosa e da cellule caliciformi nell’epitelio superficiale della mucosa. La struttura tridimensionale del muco dipende da un certo numero di legami. Tra i principali, legami disolfuro intramolecolari che uniscono subunità glicoproteiche in catene macromolecolari note come mucine, legami idrogeno tra residui oligosaccaridi delle mucine, interazioni ioniche tra cariche negative e strutture reticolari tra filamenti di actina e DNA di leucociti morti (Fig. 22.8). Nel muco è presente anche il lisozima, un enzima con proprietà antibatteriche. Il carattere vischioso del muco aiuta a intrappolare particelle di polvere, batteri e altri agenti estranei. La produzione di muco nelle vie aeree è normale, mentre una ipersecrezione è un riflesso di processi infiammatori legati a diverse patologie dell’apparato respiratorio. In questo caso si accumulano sottoprodotti della cascata infiammatoria comprendenti neutrofili, cellule morte, batteri, che concorrono alla trasformazione del muco in espettorato o catarro. La ritenzione di muco nelle vie aeree è generalmente una combinazione di ipersecrezione e alterata clearance mucociliare. Le strategie terapeutiche attuali includono il trattamento con agenti mucolitici per interrompere la reticola-

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zione eccessiva del gel mucoso e mucocinetici per stimolare l’espulsione del muco. I farmaci muco-attivi (Fig. 22.9) si possono distinguere in due categorie: • mucolitici o fluidificanti, che rendono fluido il contenuto bronchiale già presente nelle vie aeree, scindendo le macromolecole delle secrezioni bronchiali; • espettoranti, che agiscono sulla produzione del muco, modificandone la secrezione e le caratteristiche. Viste le molteplici funzioni, si preferisce distinguere i farmaci di questa classe in muco-regolatori e muco-cinetici, oltre che espettoranti propriamente detti.

22.4.1 Mucolitici Il meccanismo principale dei mucolitici è la depolimerizzazione delle glicoproteine “mucine” e del DNA. Alcuni di essi agiscono anche sui legami crociati delle proteine filamentose actine e sui legami idrogeno. Il principio attivo più noto è la N-acetilcisteina – acido (2R)-2-acetamido-3-sulfanilpropanoico – che riduce la viscosità del muco rompendo i legami disolfuro delle mucoproteine grazie al gruppo sulfidrilico libero, in grado di interagire con questi legami. Le molecole glicoproteiche vengono scisse in unità più pic-

Figura 22.8 Struttura tridimensionale del gel mucoso. I legami disolfuro sono il bersaglio di agenti mucolitici classici come l’N-acetilcisteina; i legami idrogeno tra oligosaccaridi di catene laterali della mucina possono essere idrolizzati da mucolitici polimerici; le interazioni ioniche tra cariche aumentano la viscosità e possono essere attaccate da soluzioni saline ipertoniche.

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

ISBN 978-88-08-18712-3

O H3C

H3C

SH H

O

OH O

O

N H

OH Acetilcisteina

OH

Guaifenesina

O HO

S O

HO

OH

CH3

NH2

H3C

OH CH3

Carbocisteina Sobrerolo OH

NH2 Br

N H Br

NH2 Br

N CH3

Ambrossolo Br

Bromessina

Figura 22.9 Farmaci mucolitici, espettoranti, muco-regolatori e muco-cinetici.

cole e più facilmente espettorabili grazie alla riduzione della viscosità. Questa azione aumenta all’aumentare del pH ed è più significativa a valori compresi tra 7 e 9. La N-acetilcisteina possiede anche proprietà antiossidanti e antinfiammatorie. Ha inoltre dimostrato di ridurre l’entità del danno epatico a seguito di sovradosaggio di paracetamolo. La via di elezione per il farmaco è quella inalatoria e dopo un rapido assorbimento si riscontra a livello plasmatico e tissutale sia in forma libera sia come metaboliti (N,N-diacetilcisteina, cisteina).

22.4.2 Espettoranti Gli espettoranti inducono l’espulsione del muco accumulato nelle vie respiratorie. L’azione è coadiuvata dalla tosse e dagli starnuti e risulta molto utile nel ridurre la dispnea in diverse patologie dell’apparato respiratorio. Espettoranti utilizzati di frequente sono le soluzioni saline ipertoniche, generalmente somministrate per aerosol, utilizzando come soluto urea, acido ascorbico, mannitolo. La guaifenesina – 3-(2-metossifenossi)propan-1,2-diolo – o glicerolo guaiacolato, è una molecola derivante dal propandiolo. Oltre ad aumentare il volume e ridurre la viscosità delle secrezioni, stimola anche la produzione di muco. A seguito di somministrazione per via orale, il farmaco viene rapidamente assorbito a livello gastrointestinale e rapidamente metabolizzato mediante processi di ossidazione.

22.4.3 Muco-regolatori I muco-regolatori presentano diversi meccanismi d’azione ma tutti miranti a modificazioni della secrezione mucosa. La

carbocisteina – acido (R)-2-amino-3-(carbossimetilsulfanil) propanoico – chimicamente correlata all’acetilcisteina, ha la capacità di ridurre le proprietà viscoelastiche del muco, stimolando il trasporto di cloruro attraverso l’epitelio delle vie aeree. Tale azione richiama acqua, che comporta di conseguenza una maggiore fluidificazione del muco. La molecola dimostra anche proprietà antinfiammatorie e antiossidanti, mentre gli effetti collaterali sono poco significativi. Il sobrerolo, accanto alle proprietà mucolitiche, ha la capacità di attirare acqua a livello della mucosa delle vie aeree, rendendo in questo modo il muco ulteriormente fluido.

22.4.4 Muco-cinetici I farmaci muco-cinetici promuovono, insieme a un aumento della secrezione, l’allontanamento dell’espettorato attraverso un incremento del movimento ciliare. L’ambrossolo – acido (R)-2-amino-3-(carbossimetilsolfanil)propanoico – il più noto rappresentante di questo gruppo di farmaci (Box 22.2), è un metabolita attivo della  bromessina – 2,4-dibromo6-{[cicloesil(metil)amino]metil}anilina – un altro diffuso muco-cinetico.

22.4.5 Balsamici I farmaci indicati come balsamici comprendono una serie di sostanze di origine vegetale e di differente struttura chimica. Agiscono alla stregua di fluidificanti delle secrezioni bronchiali attraverso una stimolazione diretta delle ghiandole e un’eccitazione delle ciglia dell’epitelio bronchiale, facilitando l’espettorazione. La modalità di somministrazione più usata è in forma di suffumigi o aerosol.

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BOX 22.2 ■ Sintesi dell’ambrossolo La molecola si ottiene sottoponendo a riduzione il paracetamolo e poi a idrolisi il prodotto ottenuto. Il trans-4-amino-cicloesanolo (2) ottenuto viene fatto reagire con OH

2-amino-3,5-dibromo (3) ottenendo la corrispondente base di Schiff (4). Quest’ultima viene infine sottoposta a riduzione con sodio boroidruro ottenendo l’ambrossolo. OH

OH H2, Rh

HN

CH3

NaOH

HN

O

NH2

CH3

2

O

NH2

1

Paracetamolo

Br

CHO

3 Br

OH

NH2 Br

N H

OH

NH2 NaBH4

Br

N

Br

Br 4

Ambrossolo

I principi attivi più impiegati in formulazioni farmaceutiche sono la terpina, la canfora, l’eucaliptolo, il mentolo (Fig. 22.10). Da menzionare anche una serie di miscele di origine vegetale quali il balsamo del Perù, il creosoto, il balsamo del Tolù. L’eucaliptolo – 1,3,3-trimetil- 2-ossabiciclo[2,2,2]ottano – è un etere ciclico monoterpenoide che si estrae dalle foglie di  eucalipto. La terpina – trans-4-(2-idrossipropan-2-il)1-metilcicloesan-1-olo – è un dialcol che si ottiene dall’αpinene mediante idratazione con acidi diluiti. La d-(+) can­ fora – 1,7,7-trimetilbiciclo [2.2.1] eptan-2-one – è un chetone ciclico ottenuto da ossidazione del pinene o prodotta sinteticamente da olio di trementina. La canfora, come il mentolo, viene impiegata in formulazioni semisolide per applicazioni topiche o inalatorie in quanto, assorbita velocemente attraverso la pelle, produce una sensazione di refrigerazione. Possiede anche debole azione anestetica locale e antimicrobica. Il  mentolo – (1R-2S-5R)-2-isopropil-5-metilcicloesanolo –, estratto dall’olio essenziale della  menta  piperita, è un alcol  chirale monoterpenoide presente in natura solo come uno stereoisomero degli 8 possibili.

HO H3C H3C

O

CH3

CH3



H3C Eucaliptolo

OH

H2O

CH3

Terpina idrata

CH3 H3C

CH3

H3C H3C

O

(D)-(+)-Canfora

H 3C

CH3

(–)-Mentolo

Figura 22.10 Molecole ad attività balsamica.

22.5 Broncodilatatori 22.5.1 Controllo delle vie respiratorie Il tono delle vie aeree è controllato principalmente dal nervo vago e le fibre parasimpatiche afferenti a esso producono un

tono basale stabile, ma facilmente modificabile, della muscolatura liscia. I gangli parasimpatici delle vie respiratorie si riscontrano principalmente nelle vie aeree più grandi, ma le successive fibre postgangliari, colinergiche parasimpati-

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che e non-adrenergiche non-colinergiche, innervano tutto l’albero respiratorio, assumendone il controllo del tono. In questo modo determinano il calibro di bronchi e bronchioli e regolano il flusso di aria che entra nei polmoni. Anche il microcircolo e le ghiandole presenti nelle vie aeree sono controllate dalle stesse fibre nervose. La muscolatura liscia delle vie aeree non presenta un’innervazione simpatica diretta, che invece esiste per il sistema vascolare delle vie respiratorie. Tuttavia ci sono recettori β2-adrenergici sparsi ed esiste anche un input simpatico ai gangli parasimpatici. L’acetilcolina agisce attraverso l’attivazione di recettori muscarinici accoppiati a proteine G (GPCR). Sono stati finora identificati cinque diversi sottotipi di recettori muscarinici (M1-M5) espressi in quasi ogni tipo di cellula delle vie aeree e del tessuto polmonare, comprese la muscolatura liscia vascolare e diverse cellule ghiandolari. Il sottotipo M1 è presente soprattutto nelle pareti alveolari, mentre i sottotipi M2 e M3 nelle vie aeree maggiori. La contrazione della muscolatura liscia delle vie aeree è mediata principalmente dai recettori M3, mentre i sottotipi M2 esercitano azione inibitoria sulla formazione di cAMP mediata da recettori β-adrenergici. Nei gangli delle vie aeree, recettori M1 inibiscono l’apertura di canali del potassio che porta alla depolarizzazione delle cellule gangliari parasimpatiche, mentre recettori M2 hanno azione inibitoria sul rilascio di acetilcolina. I recettori M3 sono predominanti nel mediare la secrezione di muco e concorrono al processo di dilatazione dei vasi sanguigni nelle vie aeree. Fibre nervose simpatiche postgangliari si estendono nel polmone per rilasciare noradrenalina su cellule effettrici in maniera analoga all’innervazione parasimpatica. Queste fibre innervano soprattutto le ghiandole del muco e i vasi sanguigni, mentre sono scarse nella muscolatura liscia. Nonostante questo scarso ruolo delle fibre simpatiche sulla muscolatura liscia in condizioni fisiologiche, l’azione della noradrenalina sui recettori α- e β-adrenergici diventa invece essenziale nell’indurre contrazione o rilassamento delle vie aeree in presenza di asma o altre patologie dell’apparato re-

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

spiratorio. I recettori β-adrenergici nel tessuto polmonare si suddividono nei tre sottotipi β1, β2 e β3, tutti recettori a 7 domini transmembrana GPCR. Dei recettori β-adrenergici presenti nel tessuto polmonare, ben il 70% è del sottotipo β2, localizzato nella muscolatura liscia delle vie aeree e dei vasi e nelle ghiandole sottomucosali. Sottotipi β1 si riscontrano solo negli alveoli e nelle ghiandole. La stimolazione di recettori β2 produce rilassamento delle vie aeree, ma una prolungata attivazione può comportare un processo di desensibilizzazione con diminuzione della risposta recettoriale. La Figura 22.11 riporta lo schema del controllo del tono bronchiale da parte delle fibre colinergiche e adrenergiche. Gli studi più recenti hanno dimostrato che il controllo del tono delle vie aeree non è limitato solo ai sistemi colinergico e adrenergico. Infatti anche fibre nervose non-adrenergiche e non-colinergiche (NANC) sembrano giocare un ruolo importante nella risposta inibitoria ed eccitatoria della muscolatura liscia delle vie aeree.

22.5.2 I farmaci broncodilatatori I broncodilatatori sono utilizzati nel trattamento degli spasmi della muscolatura liscia bronchiale e rappresentano i farmaci di elezione per il trattamento dell’asma e della bronco­ pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Il loro effetto principale è quello rilassante la muscolatura liscia delle vie aeree. La BPCO è un’infiammazione  cronica delle vie aeree e del  parenchima  polmonare  caratterizzata da ostruzione bronchiale progressiva, tosse e produzione di espettorato. L’asma è una malattia polmonare cronica caratterizzata da ostruzione reversibile delle vie aeree. I sintomi dell’asma sono dispnea, respiro sibilante e tosse. Questi sintomi peggiorano drammaticamente durante un attacco d’asma, che spesso è il risultato di esposizione a uno o più fattori scatenanti. Questi possono variare a seconda del paziente e dell’ambiente, ma alcuni sono ben noti come fumo, polvere, pollini, peli di animali, aria fredda, inquinanti atmosferici,

Figura 22.11 Schema delle principali vie di controllo dei bronchi e siti di azione delle principali classi di broncodilatatori.

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Tabella 22.3 Dati farmacocinetici dei principali broncodilatatori. Posologia mediaa (mg/die)

Emivita plasmatica (ore)

Picco plasmatico (ore)

Salbutamolo

6-12 0,3-0,6

2-4

1-3

Metabolismo epatico ed eliminazione principalmente per via urinaria, non modificato o in forma coniugata come solfato fenolico.

Fenoterolo

15-30 0,1-0,6

6 -8

2-3

La quota assorbita è soggetta a effetto di primo passaggio epatico. Viene metabolizzato quasi esclusivamente per solfatazione ed eliminato per via urinaria soprattutto sotto forma di solfoconiugati.

Terbutalina

7-15 1-2

5-6

1-4

Metabolismo epatico ed eliminazione del farmaco in gran parte inalterato in urine, bile e feci. Il principale metabolita è solfoconiugato.

Salmeterolo

0,05-0,1

3-5

0,5-1

Ampiamente trasformato, mediante ossidazione alifatica, nel metabolita α-idrossisalmeterolo. Eliminato nelle feci (60%) e nelle urine (25%).

Formoterolo

0,02-0,05

8-10

1-1,5

Metabolizzato, principalmente a livello epatico, tramite O-demetilazione e reazioni di glucuronazione. 67% escreto per via renale, principalmente sotto forma di metaboliti, e la rimanente quantità nelle feci.

Ipratropio bromuro

1,5-2

2-3

1-1,5

Subisce processi di idrolisi e coniugazione, formando metaboliti privi di attività anticolinergica. Gran parte viene eliminata nelle feci, la frazione assorbita nelle urine, in forma invariata (40%) e di metaboliti.

Teofillina

300-800

3-6

1-2

Ampiamente metabolizzata nel fegato (fino al 70%) soprattutto per N-demetilazione. Escreta immodificata nelle urine (fino al 10%).

Principio attivo

a

Metabolismo

I parametri sono riferiti alla somministrazione per via orale e inalatoria.

prodotti chimici. Tra le conseguenze di una crisi asmatica, particolarmente importanti sono quelle a carico del sistema cardiovascolare, con ipertensione e tachicardia, seguite da ipotensione e aritmie se l’ipossia si protrae. Un alto numero di principi attivi ad azione broncodilatatoria è disponibile (Tab. 22.3). La terapia medica è in gran parte rivolta a prevenire o controllare i sintomi e ridurre il numero e la gravità delle riacutizzazioni. Attualmente, le principali classi di farmaci broncodilatatori sono tre: • agonisti β2-adrenergici (a breve e a lunga durata d’azione); • anticolinergici (a breve e a lunga durata d’azione); • metilxantine. Considerando il carattere infiammatorio dell’asma in seguito a contatto con agenti allergenici, anche principi attivi della classe degli antistaminici e dei glucocorticoidi possono essere utilizzati. Di questi farmaci si parla in maniera dettagliata nei Capitoli a essi riservati. L’uso della via inalatoria nel trattamento delle malattie respiratorie è una pratica che dura da secoli ed è tuttora considerata la modalità d’elezione per le patologie respiratorie bronchiali. L’inalazione di broncodilatatori migliora le funzioni polmonari e allevia i sintomi di problemi respiratori cronici, come asma, bronchite, BPCO. Il vantaggio primario consiste nell’ottenere maggiori concentrazioni di farmaco in loco e nel minimizzare gli effetti collaterali rispetto ai farmaci assunti per via sistemica. Un altro importante vantaggio è la rapidità di risposta al farmaco, evitando assorbimento sistemico e metabolismo epatico. La terapia inalatoria è realmente efficace quando le particelle di farmaco inalato rag-

giungono i polmoni e solo particelle molto piccole, dell’ordine dei μm, possono penetrare in profondità. La parcellizzazione della preparazione farmaceutica è fatta con l’aiuto di apparecchi inalatori che generano un aerosol pronto a essere inalato. Affinché l’aerosol sia efficace la respirazione deve avvenire per via orale, poiché il naso funge da filtro trattenendo gran parte dell’aerosol, che non può di conseguenza arrivare ai bronchi.

Agonisti β2-adrenergici Agli inizi del XX secolo, gli attacchi di asma erano trattati direttamente con adrenalina, anche se in casi molto limitati per via degli effetti sull’apparato cardiovascolare. I primi farmaci broncodilatatori ad ampio uso clinico sono stati l’isoprenalina negli anni ’40 e poi l’orciprenalina negli anni ’60, anche questi però non esenti dagli stessi problemi dell’adrenalina. L’era moderna dei broncodilatatori agonisti β2-selettivi è iniziata con la sintesi del salbutamolo nel 1990. Lo studio sulle relazioni struttura-attività delle molecole attive nei vari comparti controllati dal sistema simpatico è trattato dettagliatamente nei relativi Capitoli. La classe dei broncodilatatori β2-agonisti (Fig. 22.12) si basa sulla struttura catecolica e ha come riferimento strutturale l’isoprenalina, avente efficacia massima. La sostituzione o il riposizionamento di un gruppo OH sull’anello benzenico rende il farmaco generalmente meno potente ma più resistente alla degradazione metabolica ad opera delle COMT. Anche le sostituzioni sia nel gruppo aminico sia sull’anello benzenico conferiscono alle molecole resistenza al metabolismo COMT, con notevole aumento dell’emivita e allo stesso tem-

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

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OH HO

H N

OH CH3

HO

CH3 CH3

HO

H N

HO

Salbutamolo

OH HO

Salmeterolo

H

OH

H N

H N

HO CH3

OH

O

CH3 CH3 CH3

CH3

O HN HO

OH

H N CH3

OCH3

OH Fenoterolo

Terbutalina

Formoterolo

Figura 22.12 Broncodilatatori ad attività agonista sui recettori b2-adrenergici.

po una maggiore selettività per il recettore β2-adrenergico. Proprio il tempo di emivita è alla base della classificazione degli agonisti β2 in broncodilatatori a breve e a lunga durata d’azione. Il sostituente t-butilico sull’azoto aminico sembra essere il gruppo ottimale per l’interazione con i recettori β2 della trachea e dei bronchi, mentre un gruppo isopropilico favorisce l’interazione con i recettori β1. La presenza di un gruppo alchilico in posizione α al gruppo aminico favorisce l’attività su recettori β2. Ulteriori studi strutturali sono stati sviluppati sull’attività delle forme enantiomeriche di questa classe di farmaci. È stato provato che le forme (R)-(–) di salbutamolo o (R,R)-(–) di formoterolo presentano un migliore profilo di sicurezza rispetto alla miscela racemica. L’enantiomero (S)-(–) del salbutamolo ha mostrato effetti indesiderati a livello polmonare. Effetti collaterali sono più frequenti quando gli agonisti β2-adrenergici vengono somministrati per via orale o parenterale. La somministrazione per via inalatoria riduce di gran lunga gli effetti sul sistema cardiocircolatorio, anche se un aumento della frequenza cardiaca e palpitazioni possono sempre verificarsi. Un calo di potassiemia, causato da un aumento intracellulare di potassio ad opera della pompa Na+/K+ del muscolo scheletrico, può provocare un leggero tremore. I broncodilatatori β2-agonisti a breve durata d’azione presentano emivita tra 1 e 6 ore circa, anche se questo valore può aumentare con la dose. Il salbutamolo – 4-[2-(tbutilamino)-1-idrossietil]-2-(idrossimetil)fenolo – (o albuterolo, Box 22.3) è attualmente il farmaco che dimostra la maggiore selettività tra i recettori β1 e β2 e in più una trascurabile attività sui recettori α-adrenergici. La breve durata d’azione è dovuta soprattutto alla debole interazione con il recettore. Gli effetti collaterali a carico del sistema cardiocircolatorio sono minimi e questo rende il salbutamolo il farmaco di prima scelta nel trattare il broncospasmo. Sebbene la via inalatoria sia la preferita, la somministrazione endovenosa può essere utilizzata in caso di scarsa ventilazione. L’enantiomero (R)-(–) del salbutamolo, il levalbuterolo, sembra

offrire la stessa efficacia broncodilatatoria a dosaggi inferiori e meno effetti collaterali. Il fenoterolo – (RR,SS)-5-(1-idrossi-2-{[2-(4-idros­si­ fenil)-1-metiletil]amino}etil)benzene-1,3-diolo – è un derivato resorcinolico con buona selettività per i recettori β2 e trascurabile per i recettori α. L’attività broncodilatatoria è paragonabile a quella del salbutamolo, con una durata d’azione leggermente superiore. La terbutalina – 5-[2-(terbutilamino)-1-idrossietil]benzen-1,3-diolo – possiede, come il salbutamolo, un gruppo butilico terziario sull’azoto terminale della catena laterale, che conferisce alla molecola una maggiore specificità per il recettore β2-adrenergico. In alternativa all’utilizzo inalatorio di terbutalina, si può utilizzare il profarmaco bambuterolo per via orale, dotato di una durata d’azione più lunga. Gli agonisti β2-adrenergici selettivi a lunga durata d’azione sono in grado di mantenere una valida broncodilatazione fino a 12 ore dopo la somministrazione. Il salmeterolo – 2-(idrossimetil)-4-{1-idrossi-2-[6-(4-fenilbutossi) esi­la­mino]etil}fenolo – è finora la molecola più efficace da questo punto di vista. La lunga durata d’azione è dovuta, oltre al legame con il recettore adrenergico al pari degli altri congeneri, all’interazione della lunga catena idrofobica sul sito secondario “exosite”. Questo è un sito di legame ausiliario caratterizzato da aminoacidi altamente idrofobici nel quarto dominio del recettore β2. Il salmeterolo si diffonde rapidamente anche se l’insorgenza d’azione è lenta. Anche il formoterolo – N-[2-idrossi-5-(1-idrossi-2-{[1-(4-metossifenil)propan-2-il]amino}etil)fenil]formamide – deve la lunga durata d’azione al suo carattere lipofilo, non per interazione con il sito exosite ma per un’efficace partizione nei doppi strati lipidici della muscolatura liscia delle vie aeree, dai quali poi diffonde lentamente verso i recettori β2. Le principali caratteristiche strutturali della molecola sono un gruppo etilfenilico sull’azoto, che migliora notevolmente la selettività verso i recettori β2, e un gruppo formamidico al posto di un ossidrile catecolico, il quale stabilisce legami idrogeno con aminoacidi chiave nel sito recettoriale. Il formoterolo pre-

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BOX 22.3 ■ Sintesi del salbutamolo Il 4-idrossi-3 cloroetilacetofenone viene ottenuto da addizione nucleofila del 4-idrossiacetofenone alla formaldeide. Si effettua quindi una doppia acetilazione con anidride acetica in tampone acetico. Dopo bromurazione, O

CH3

O

la molecola viene fatta reagire con t-butilbenzilamina e poi sottoposta a idrolisi in acido cloridrico. Due processi consecutivi di riduzione, il primo con sodio boroidruro e il secondo con H2/Pd, permettono di ottenere il farmaco.

CH3

O

CH3

(CH3CO)2O CH3COONa CH3COOH

CH2O HCl

Cl

OH

O

OH

H 3C

4'-Idrossiacetofenone

O

CH3 O

O Br2, CHCl3

CH3 CH3 N

H N

CH3

O

CH3

Br

CH3

CH3

O

O

O H3C

O

H 3C

CH3

O

CH3 O

O

O

O HCl

CH3 CH3 N

CH3 CH3 N

CH3

O

NaBH4

CH3 CH3

HO

N H

CH3

HO

CH3

H2, Pd-C

OH OH OH

senta però effetti secondari sul cuore più marcati rispetto ai farmaci congeneri. Negli ultimissimi anni sono stati introdotti in terapia, o sono in fase di sviluppo, alcuni broncodilatatori β2adrenergici con durata d’azione ultralunga fino a 24 ore, offrendo la possibilità di una somministrazione unica giornaliera. Tra questi il più interessante è l’indacaterolo – (R)5-[2-(amino)-1-idrossietil]-8-idrossichinolin-2-one – (Fig. 22.13). La molecola ha un netto carattere lipofilo con rapida insorgenza d’azione e un effetto broncodilatatore prolungato, dovuto a una forte interazione con la componente lipidica delle membrane. È ben tollerato e non presenta effetti indesiderati clinicamente significativi.

OH OH

OH Salbutamolo

Antagonisti muscarinici Gli antagonisti dei recettori muscarinici sono stati utilizzati per secoli come spasmolitici bronchiali. Piante come l’Atropa belladonna e la Datura stramonium, note per l’alto contenuto in alcaloidi anticolinergici, venivano essiccate e fumate per contrastare gli attacchi di asma. Gli effetti collaterali conseguenti all’assorbimento sistemico e all’attraversamento della barriera ematoencefalica (BEE) dei principi attivi ne hanno poi decretato il graduale abbandono. Partendo dal modello atropina sono stati però sintetizzati efficaci broncodilatatori anticolinergici con effetti secondari di gran lunga minori. Soprattutto la presenza di un gruppo ammonico quaternario ha permesso di ridurre in maniera sostanziale l’assorbimento

CAPITOLO 22 • Antitussivi e broncodilatatori

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dalle superfici mucosali e la penetrazione nella BEE. Tutti gli antagonisti muscarinici attualmente approvati hanno un ampio margine terapeutico e sono molto ben tollerati, anche perché la somministrazione per via inalatoria riduce grandemente l’assorbimento sistemico. Il contatto accidentale con gli occhi può causare dilatazione pupillare e visione offuscata e diventa rischioso nei pazienti con glaucoma. Negli anziani si può verificare ritenzione urinaria. In maniera analoga alla classe degli agonisti adrenergici, anche i broncodilatatori antimuscarinici si possono sottoclassificare in base alla durata d’azione. Tra gli antimuscarinici a breve durata d’azione, i più noti sono l’atropina metonitrato, l’ipratropio bromuro e l’ossitropio bromuro (Fig. 22.14), con una durata d’azione di circa 6-8 ore. L’atropina metonitrato – nitrato di (8,8-dimetil-8-azoniabiciclo[3.2.1]ottan-3-il) 3-idrossi-2-fenilpropanoato – presenta efficacia broncodilatatoria superiore alla stessa atropina, probabilmente a causa del basso assorbimento della molecola a livello epiteliale. Dopo nebulizzazione, l’effetto massimo è raggiunto in 40-50 minuti e l’azione dura per almeno 6 ore. L’efficacia può essere paragonata a quella

H3C

CH3 HN HO H

O

N H

OH Indacaterolo

Figura 22.13 Broncodilatatore 2-adrenergico a lunghissima durata d’azione.

NO3– H3C

CH3 N OH O O

Atropina metonitrato

H3C

Br

H3C

Br

CH3

H3C

N OH

CH3 N OH

O O

O

O

O Ipratropio bromuro

Br

Ossitropio bromuro

CH3

CH3 N

S

O

Br

OH

O O

O OH

S

Tiotropio bromuro

N O

Glicopirronio bromuro

Figura 22.14 Broncodilatatori ad attività antagonista sui recettori colinergici muscarinici.

CH3 CH3

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del salbutamolo, ma i tempi di risposta sono decisamente più elevati. L’ipratropio bromuro – bromuro di [8-metil-8-(1metiletil)- 8-azoniabiciclo[3.2.1]oct-3-il] 3-idrossi-2-fenilpropanoato – è un derivato della N-isopropil noratropina, e presenta azione antagonista non selettiva verso tutti i sottotipi recettoriali muscarinici. È scarsamente assorbito dalla mucosa orale e nasale e, se somministrato per via orale, anche dal tratto gastrointestinale. I metaboliti presentano attività anticolinergica scarsa o nulla. Se somministrato per via parenterale, l’ipratropio bromuro presenta una potenza maggiore rispetto all’atropina, ma con effetti collaterali decisamente inferiori. Nella terapia dell’asma o della BPCO tuttavia, se somministrato per via inalatoria, risulta meno efficace rispetto agli agonisti β2-adrenegici sia a breve sia a lunga durata d’azione. L’ossitropio bromuro – bromuro di (8R)-6β,7β-epossi-8-etil-3α-idrossi-1αH,5αH-tropanio bromuro – è una struttura ammonica quaternaria derivata dalla struttura base della scopolamina. L’azione broncodilatatoria si instaura dopo 60-80 minuti e persiste per 5-8 ore. Il rappresentante principale dei broncodilatatori antimuscarinici a lunga durata d’azione è il tiotropio bromuro – 7-[(idrossidi-2-tienilacetil)ossi]-9,9-dimetil-3-ossa-9azo­niatriciclo[3.3.1.02,4]nonano bromuro. Il farmaco mostra affinità per tutti i sottotipi recettoriali muscarinici ma maggiore selettività per M1 e M3, dai quali si dissocia molto lentamente. Questo comporta un’emivita superiore alle 30 ore che consente un’unica somministrazione quotidiana. La lunga permanenza sui recettori viene imputata alla presenza di un gruppo epossidico sull’anello tropanico che creerebbe una forte interazione con gruppi aminici del sito recettoriale. Il tiotropio bromuro viene rapidamente assorbito, raggiungendo rapidamente il picco ematico ma la piena azione broncodilatatoria dopo 1-2 ore. Le buone caratteristiche farmacologiche e farmacocinetiche del tiotropio hanno portato alla sintesi di strutture analoghe, tra le quali merita citazione il glicopirronio bromuro – 3-(2-ciclopentil-2-idrossi2-fenilacetossi)-1,1-dimetilpirrolidinio bromuro. La struttura ammonica quaternaria accentua il carattere basico dei composti. L’effetto sui recettori nicotinici gangliari risulta aumentato e nel contempo l’effetto antimuscarinico si riduce. Inoltre, l’incapacità di attraversamento della BEE limita fortemente gli effetti sul SNC.

Xantine Gli studi sull’azione antispasmodica delle xantine (Fig. 22.15) sulla muscolatura liscia dei bronchi risalgono agli inizi del XX secolo, ma solo verso il 1940 una combinazione di teofillina e aminofillina è stata impiegata negli attacchi di asma. La teofillina – 3,7-diidro-1,3-dimetil-1H-purina-2,6dione – è una dimetilxantina caratterizzata da assorbimento rapido e completo, ma con dose terapeutica e tempo di emivita difficilmente definibili a causa delle ampie variazioni nel metabolismo del farmaco. Le dosi di teofillina vanno pertanto sempre calibrate per il singolo paziente. Viene eliminata in gran parte a livello epatico dal sistema citocromo P450 e in misura minore dal sistema urinario. Il meccanismo d’azione

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O H3 C

H N

N N

O

N

CH3 Teofillina OH O H3C

N

O

OH

N

N

N

CH3 Diprofillina O O H3C O

N

N N

O

N

CH3 Dossofillina

Figura 22.15 Broncodilatatori a struttura metilxantinica.

non è ancora ben definito. L’inibizione di fosfodiesterasi non selettive con conseguente aumento in cAMP e cGMP, finora considerata la più plausibile, è stata rimessa in discussione perché considerata solo relativa. Molti studi convergono invece su un aumento di attività dell’istone deacetilasi 2 da parte del farmaco. L’istone deacetilasi è una molecola con un ruolo chiave nel bloccare la produzione di citochine proinfiammatorie nei macrofagi alveolari. La teofillina dimostra anche proprietà analettiche e antinfiammatorie. Gli effetti avversi più comunemente riportati includono nausea, mal di testa e disturbi del sonno. In alcuni casi può causare effetti gastrolesivi e aritmie cardiache. L’aminofillina è il sale etilendiaminico della teofillina, il che aumenta notevolmente la solubilità della molecola. L’effetto broncodilatatore è causato soprattutto da un effetto rilassante sulla muscolatura liscia delle vie aeree. Effetti collaterali quali nausea e vomito sono purtroppo comuni dopo la somministrazione del farmaco. Altre molecole a struttura xantinica sono state sviluppate, come diprofillina – 7-(2,3-diidrossipropil)-1,3-dimetil-3,7-diidro-1Hpurina-2,6-dione – e dossofillina – 7-(1,3-diossolan2-ilmetil)-1,3-dimetilpurina-2,6-dione – con l’obiettivo primario di ridurre gli effetti secondari tipici delle xantine. In particolare, la dossofillina ha mostrato di avere meno effetti cardiostimolanti rispetto alla teofillina.

23

Antiallergici e decongestionanti nasali Francesco Berardi

23.1  Le allergie 23.2 I meccanismi della reazione allergica 23.2.1 Il rilascio dei mediatori mastocitari 23.2.2 I bersagli dell’azione antiallergica

23.3  I farmaci antiallergici 23.3.1 F  armaci ad attività glucocorticoide (corticosteroidi) 23.3.2 Farmaci agonisti 2-adrenergici 23.3.3 F  armaci stabilizzanti della membrana dei mastociti 23.3.4 Farmaci inibitori delle fosfodiesterasi 23.3.5 Farmaci antimuscarinici 23.3.6 Istamina e antistaminici 23.3.7 Farmaci antistaminici a duplice meccanismo d’azione 23.3.8 Farmaci agenti sull’attività dei leucotrieni 23.3.9 Anticorpi monoclonali anti-IgE 23.3.10 Altri agenti sperimentali

23.4  La congestione nasale 23.5  I farmaci decongestionanti nasali 23.5.1 Farmaci agonisti 1-adrenergici 23.5.2 F  armaci adrenergici misti e indiretti

23.1 Le allergie Le allergie rappresentano manifestazioni di una reazione anomala del sistema immunitario in alcuni individui geneticamente predisposti. Finalità della reazione è la difesa dell’organismo nei confronti di agenti esterni o di sostanze xenobiotiche (antigeni), che per la maggior parte degli individui sono innocui. Per questo motivo, la sintomatologia scatenata dal contatto con tali antigeni, che diventano così allergeni, viene più appropriatamente denominata ipersensibilità. Infatti la reattività allergica si manifesta per successivi contatti con l’allergene in individui precedentemente

sensibilizzati, in maniera asintomatica, da un primo contatto con lo stesso o con altri allergeni (reattività crociata). Il sistema immunitario è un insieme di organi, tessuti e cellule deputato a difendere l’organismo dalle aggressioni di parassiti, batteri, virus ecc., ma anche a eliminare sostanze esogene, quali tossine, componenti di alimenti o anche materiale endogeno modificato. L’azione di difesa è però molto complessa, perché presuppone che il sistema sia in grado di distinguere e riconoscere ciò che va attaccato e distrutto, da ciò che invece è innocuo o addirittura fisiologico. Nelle reazioni di ipersensibilità, la reazione tra antigene e anticorpi si trasforma in un danno tissutale.

542

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

23.2 I meccanismi della reazione allergica Le reazioni di ipersensibilità sono classificate in quattro tipi (I-IV) sulla base del meccanismo immunitario che le sostiene. L’ipersensibilità di tipo I o anafilattica è detta immediata, perché si sviluppa entro pochi minuti dall’esposizione all’antigene. Mentre gli altri tipi di meccanismo portano a malattie autoimmuni, l’ipersensibilità di tipo I è mediata da linfociti T, che stimolano la produzione di IgE, tipica delle manifestazioni allergiche localizzate o generalizzate. La sede di esposizione all’antigene e l’entità della sensibilizzazione determinano la manifestazione clinica della reazione: anafilassi cutanea (orticaria), rinite allergica (febbre da fieno), asma allergica e shock anafilattico, con esito anche fatale (Scheda 23.1).

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la PLA2, che libera PAF e acido arachidonico dai fosfolipidi di membrana dei mastociti: si formano prostaglandine PGD2 e leucotrieni, che vengono secreti per svolgere la loro azione broncospastica. Vengono attivate anche la degranulazione dei granuli di istamina e di altri mediatori: proteasi, fattori chemiotattici, adenosina, che vengono rilasciati rapidamente per esocitosi. Gli effetti conseguenti, che costituiscono la risposta immediata, consistono in vasodilatazione, aumentata permeabilità vasale, spasmo della muscolatura liscia e aumento di secrezione di muco. Un’ulteriore azione di broncospasmo tardivo è sostenuta dai leucotrieni e dalla secrezione di citochine, che causano inoltre danno epiteliale, infiammazione e infiltrazione di leucociti (eosinofili, neutrofili e linfociti T).

23.2.1 Il rilascio dei mediatori mastocitari Le fasi attraverso cui si producono gli effetti dannosi dell’interazione tra allergene e sistema immunitario sono illustrate nella Figura 23.1. A un primo contatto con l’allergene introdotto per inalazione, ingestione o iniezione (farmaci), vengono attivati i linfociti TH2 (helper). Questi secernono citochine, tra le quali IL-4, che stimolano lo scambio di classe (switch) delle catene pesanti (H) delle Ig nei linfociti B specifici per l’allergene. Ciò consente agli anticorpi di mantenere la specificità, ma di cambiare la funzione. I linfociti B così attivati sono in grado di secernere anticorpi specifici (IgE), i quali migrano su recettori FcεRI espressi da mastociti, basofili ed eosinofili. I mastociti sono ampiamente distribuiti sotto l’epitelio, in prossimità di nervi e vasi sanguigni, mentre gli altri sono cellule circolanti. I recettori FcεRI posseggono un’elevata affinità per il frammento Fc della catena H di tipo ε delle IgE, sicché sono sempre occupati, nonostante la concentrazione molto bassa di IgE circolanti. Con questa fase, detta risposta primaria, i mastociti risultano sensibilizzati, senza conseguenze immediate. In caso di successiva esposizione all’allergene, questo va a legarsi a più molecole adiacenti di IgE specifiche, fissate sulla superficie dei mastociti sensibilizzati che incontra per primi. È questo l’evento scatenante la reazione allergica, perché i mastociti attivati promuovono una serie di reazioni biochimiche che portano a secrezione di mediatori e a degranulazione di granuli di istamina (risposta secondaria). Le reazioni patologiche si distinguono in immediata e tardiva. La prima è causata da istamina, adenosina, fattori chemiotattici, prostaglandine e leucotrieni, la seconda da citochine e leucotrieni.

23.2.2 I bersagli dell’azione antiallergica A parte la terapia desensibilizzante, che, seppur di dubbia efficacia, rappresenta una strategia nella cura delle allergie e dell’asma allergica in particolare, sono identificabili una varietà di bersagli per l’azione di farmaci nei complessi processi dell’ipersensibilità agli allergeni (Fig. 23.2). In linea teorica sono possibili molte alternative, ma fra la grande varietà di farmaci, non sempre efficaci, e molto spesso non selettivi, solo poche classi hanno avuto tradizionalmente successo. Quando l’antigene innesca la risposta secondaria delle IgE fissate sul recettore FcεRI, partono segnali di attivazione del-

Figura 23.1 Sequenza di eventi che portano alla degranulazione dei mastociti e alla liberazione di mediatori nell’ipersensibilità di tipo I, a reazione immediata.

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Si suppone che i glucocorticoidi, inibendo la fosfolipasi A2, impediscano il rilascio di acido arachidonico dai fosfolipidi di membrana, oltre ad aumentare la responsività dei recettori β2 con potenziamento reciproco degli effetti. Essenzialmente, però, i glucocorticoidi interferiscono nel rilascio di proteine dell’infiammazione, agendo su propri recettori endocellulari GR, anche a livello bronchiale. I farmaci agonisti del recettore β2-adrenergico agiscono da broncodilatatori, contrastando il broncospasmo attraverso la stimolazione dell’adenilato ciclasi e il conseguente aumento intracellulare del cAMP. Un aumento del livello di cAMP nei mastociti, inoltre, contrasta con l’attivazione della degranulazione operata dal cGMP, impedendo il rilascio di istamina. Insieme ai glucocorticoidi sono i più utilizzati e i più efficaci nella cura dell’asma per via inalatoria.

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

Gli stabilizzanti della membrana mastocitaria prevengono il rilascio dei mediatori allergici (dell’istamina in particolare), impedendo la fusione dei granuli con la membrana in avvio di esocitosi. Gli inibitori della PDE-4 aumentano il cAMP, impedendone l’idrolisi ad AMP, sia nei mastociti sia nelle cellule bronchiali. Il risultato è simile a quello di una stimolazione prolungata del recettore β2. I farmaci con questo meccanismo sono tra i più innovativi, anche se sono difficilmente selettivi. Gli antagonisti muscarinici, in particolare M3, possono contrastare gli eventi che si verificano nei mastociti e nel muscolo liscio bronchiale. Inibendo la liberazione di mediatori procurano un’azione broncodilatatoria. Gli antistaminici, basati sull’antagonismo neutrale, o sull’agonismo inverso per i recettori istaminergici H1, sono

Figura 23.2 Rappresentazione schematica di una cellula di mastocita con i principali siti d’azione delle classi di farmaci antiallergici. In basso è rappresentato il bersaglio anatomico principale (bronchi) dell’azione dei farmaci antiasmatici, con i relativi recettori. Abbreviazioni: IgE, immunoglobuline E; FcεRI, recettori per la regione Fc della catena pesante (H) di tipo ε delle immunoglobuline IgE; PLA2, fosfolipasi A2; PAF, fattore di attivazione delle piastrine (platelet activating factor); PGD2, prostaglandine della serie D2; LTB4, LTC4, LTD4, leucotrieni; GTP, guanosina 5′-trifosfato; cGMP, guanosina 3′,5′-monofosfato ciclico; GMP, guanosina 5′-monofosfato; ATP, adenosina 5′-trifosfato; AC, adenilato ciclasi; cAMP, adenosina 3′,5′-monofosfato ciclico; PDE-4, fosfodiesterasi della famiglia 4; AMP, adenosina 5′-monofosfato; ECF, fattore chemiotattico per gli eosinofili (eosinophil chemotactic factor); NCF, fattore chemiotattico per i neutrofili (neutrophil chemotactic factor); M3, H1, CysLT1, GR, 2, sigle dei relativi recettori.

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

stati tra i primi farmaci utilizzati. Ancora oggi sono usati nelle allergie meno gravi, per contrastare l’azione dell’istamina. Gli effetti dei leucotrieni nella reazione lenta dell’anafilassi possono essere contrastati inibendone la biosintesi o agendo con antagonisti sui loro recettori specifici CysLT1. Tuttavia, la strategia più efficace che si possa mettere in campo in risposta allo scatenamento dell’allergia è di impedire che s’inneschi, quanto più a monte possibile, la cascata di eventi che porta agli effetti pericolosi della broncocostrizione e dell’infiammazione cronica. Recenti ricerche hanno prodotto anticorpi monoclonali anti-IgE, che bloccano gli anticorpi circolanti responsabili dell’attivazione dei recettori FcεRI mastocitari. Sottraendoli al legame con i recettori, raggiungono molto efficacemente lo scopo ultimo di evitare la degranulazione. Altre classi di agenti sperimentali per bersagli alternativi si potrebbero inserire in questo quadro variegato e complesso, quali fonti di probabili farmaci del futuro.

23.3 I farmaci antiallergici In base alla gravità della manifestazione allergica, si può ricorrere a una varietà di medicamenti, utili a curare dai sintomi più leggeri a livello topico fino allo shock anafilattico severo mediante somministrazione sistemica. Si va dai colliri o gocce oculari, agli spray nasali, alle polveri nebulizzate o agli aerosol per inalazioni, per passare alle compresse per via orale e finire con le iniezioni e.v. nelle situazioni di emergenza. Nei casi più gravi di cadute pressorie, in seguito a shock, si ricorre anche all’adrenalina per via i.m. Agonista endogeno dei recettori adrenergici, essa possiede attività vasocostrittrice e quindi ipertensiva, dovuta a stimolazione dei recettori α-adrenergici, alla quale si aggiunge l’attività stimolante cardiaca e broncodilatatoria da azione agonista rispettivamente sui recettori β1- e β2-adrenergici. L’adrenalina endogena ha configurazione R al C1, ma quella sintetica usata in clinica è racemica. Per altri impieghi si veda oltre (Par. 23.5), mentre per le caratteristiche strutturali farmacodinamiche e le proprietà farmacocinetiche si veda il Capitolo 16. OH HO

H N

CH3

HO

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a elevata attività topica. Diversi farmaci sono disponibili in formulazioni per via inalatoria: beclometasone dipropionato, fluticasone propionato, mometasone furoato, budesonide, flunisolide, triamcinolone acetonide, ciclesonide. Quest’ultimo, insieme al fluticasone furoato oltre a quelli già citati, è indicato anche per la rinite allergica. In formulazioni d’associazione si trovano anche fluocinolone acetonide e betametasone. Il meccanismo d’azione dei glucocorticoidi è vario e complesso, e non è completamente noto. Essenzialmente consiste in un’attività antinfiammatoria basata in parte sull’inibizione della PLA2, e quindi della biosintesi di prostaglandine e leucotrieni, e soprattutto sulla repressione dei fattori di trascrizione genica. Questi farmaci si legano al proprio recettore endocitoplasmatico GR e migrano nel nucleo per impedire la sintesi di proteine infiammatorie (citochine, interleuchine ecc.), sia direttamente, sia attraverso il reclutamento di una deacetilasi di istoni. I farmaci corticosteroidi trovano collocazione nel Capitolo 28, al quale si rimanda per una trattazione più completa.

23.3.2 Farmaci agonisti b2-adrenergici La stimolazione dei recettori β2-adrenergici presenti nella muscolatura liscia, provoca rilassamento. Dato che i recettori β2-adrenergici predominano a livello della muscolatura bronchiale, gli agonisti β2-adrenergici sono in grado di provocare broncodilatazione. L’effetto è sfruttato per contrastare validamente la broncocostrizione nell’asma di origine allergica, ma anche nelle broncopneumopatie croniche ostruttive. Dato il più ampio utilizzo quali broncodilatatori in genere, per la discussione di questa classe di farmaci si rimanda al Capitolo 22.

23.3.3 F  armaci stabilizzanti della membrana dei mastociti Si tratta di farmaci che impediscono la degranulazione e il rilascio di mediatori degli effetti allergici e asmatici in mastociti, macrofagi, eosinofili, neutrofili e in altre cellule infiammatorie. Questa classe di farmaci trae origine dalla scoperta di una blanda attività broncodilatatoria della kellina, principio attivo estratto da Ammi visnaga, una pianta utilizzata in medicina popolare egiziana e denominata khella.

(R)-Adrenalina

23.3.1 F  armaci ad attività glucocorticoide (corticosteroidi) Comportando l’asma una componente infiammatoria cronica, i farmaci corticosteroidi trovano impiego nelle forme di broncocostrizione da asma sia di natura allergica, sia di origine ostruttiva. Tuttavia, i notevoli effetti collaterali dei farmaci glucocorticoidi, benché quasi privati della componente mineralcorticoide, confinano il loro uso orale a situazioni gravi o a patologie polmonari particolari. L’introduzione di corticosteroidi strutturalmente modificati in posizione 17α con l’esterificazione (propionati) dell’ossidrile alcolico o la derivatizzazione a chetale degli ossidrili in 16α e 17α con acetone (acetonidi) ha consentito di disporre di antiasmatici

O H3C

O

O

CH3 O

O

CH3

Kellina

Dall’identificazione della struttura furo-cromonica della kellina è partito lo sviluppo di analoghi sintetici per incrementare senza successo l’attività broncodilatatoria. Un derivato bis-cromonico però mostrò efficacia preventiva nei confronti di attacchi asmatici di origine allergica, pur non dimostrando attività broncodilatatoria (Fig. 23.3). Si tratta

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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O

O O

O

Na

O

CH3

O O

Na

Na

O

CH3

N

O

O

O

O O

Na

OH O

O

O

O

Nedocromil disodico

Cromoglicato disodico

O

H N

HO

Cl

H N

Lodoxamide trometamolo

N

N

N N

OH N

H2N

OH

2

CN

K

N

OH O

O

O

O

CH3

HO Pemirolast potassico

Figura 23.3 Strutture degli stabilizzanti della membrana dei mastociti.

del cromoglicato, impiegato come sodio cromoglicato (o cromolin sodico) – sale disodico dell’acido 5-[3-(2-carbossi4-ossocromen-5-il)ossi-2-idrossipropossi]-4-ossocromen2-carbossilico. La sua struttura simmetrica rappresenta la duplicazione (farmaco gemello identico) della porzione del cromone (benzopiran-4-one) contenuta nella kellina. La forma non salificata prende il nome di acido cromoglicico e ha pKa = 1,85 (sintesi riportata nel Box 23.1).

È stato provato che i due cromoni sono necessari per l’attività e che devono disporsi in maniera coplanare. L’attività si perde se la catena intermedia viene allungata a più di 6 carboni o se viene innestata nella posizione 8 di ciascun cromene, facendone perdere la coplanarità. Il cromoglicato non ha attività broncodilatatoria diretta né agisce a livello di recettori, ma risulta efficace nel trattamento profilattico dell’asma allergica. Il meccanismo d’azione consiste nel bloccare la degra-

BOX 23.1 ■ Sintesi dell’acido cromoglicico (cromolin) L’acido cromoglicico viene preparato industrialmente a partire dal 2,6-diidrossiacetofenone, che viene fatto reagire con l’epicloridrina. L’intermedio ottenuto viene poi HO

HO

Cl

O

O

O

O

O O

O

O

O

O

O

O

CH3

O

O

CH3

O

O O

CH3

HO

O O

O

1. NaOH

OH O

CH3

OH O

OH

O H 3C

OH

H3C

H3C O

fatto condensare con dietilossalato a dare il dietil estere dell’acido cromoglicico, che, per idrolisi con idrossido di sodio, fornisce il prodotto desiderato.

2. HCl

OH O

O

O

Acido cromoglicico

O

OH

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

nulazione dei mastociti stabilizzando indirettamente la membrana dei granuli. Probabilmente interviene anche un blocco del flusso di Ca2+ in entrata nei mastociti, responsabile del rilascio di istamina e di altri mediatori della reazione allergica (LTC4, LTD4, LTE4 e prostaglandine). Pertanto è in grado di bloccare sia la reazione immediata sia quella ritardata, che procurano broncocostrizione. Il cromoglicato è scarsamente assorbito e viene eliminato praticamente inalterato. Utilizzato anche in colliri per congiuntiviti allergiche e cheratiti, o in gocce e spray nasali per riniti allergiche, il sodio cromoglicato viene somministrato correntemente con dispensatore per inalazione attraverso la faringe, a scopo preventivo di attacchi d’asma allergica e bronchiale. Può presentare pertanto, come effetti collaterali, l’irritazione della trachea e della gola. Nonostante l’ottima tollerabilità, il suo impiego è andato riducendosi a favore dei corticosteroidi ad azione antinfiammatoria per via inalatoria. Un profilo farmacologico molto simile a quello del cromoglicato è presentato dal nedocromile, un altro analogo cromonico a esso correlato. Il nedocromil sodico – sale disodico dell’acido 9-etil-4,6-diosso-10-propil-6,9-diidro-4Hpirano[3,2-g]chinolin-2,8-dicarbossilico – rispetto alla kellina presenta l’anello 1,4-diidropiridinonico al posto di quello furanico. Possiede un’ampia attività inibitoria del rilascio di mediatori da diverse cellule: macrofagi, mastociti, piastrine ecc. Modula anche la produzione di citochine da parte delle cellule epiteliali stimolate. La biodisponibilità è molto bassa, dato il ridotto assorbimento. Si lega alle proteine plasmatiche per l’89% e viene eliminato immodificato. Utilizzato per via inalatoria orale nell’asma bronchiale moderata, è disponibile anche come soluzione oftalmica per congiuntiviti allergiche pruriginose. Di introduzione più recente sono la lodoxamide – acido 2-[2-cloro-5-ciano-3-(ossalamino)anilino]-2-ossoacetico – sotto forma di sale con due molecole di trometamolo – 2-amino-(2-idrossimetil)-propan 1,3-diolo – e il pemirolast potassico – sale di potassio del 9-metil-3-(1H-tetrazol5-il)-4H-pirido[1,2-a]pirimidin-4-one. Ambedue sono utilizzati come formulazioni oftalmiche nel prurito oculare da congiuntiviti allergiche e nelle cheratiti da pollini primaverili. Sono efficaci nell’inibire il rilascio sia di istamina, sia dei leucotrieni. La lodoxamide presenta una struttura simmetrica di diamide della m-fenilendiamina con l’acido ossalico. La so-

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miglianza con il nedocromile è evidente per i due carbossili, mentre le funzioni amidiche potrebbero simularne isostericamente la struttura triciclica. Nel pemirolast l’anello tetrazolico acido sostituisce bioisostericamente il carbossile.

23.3.4 F  armaci inibitori delle fosfodiesterasi Si conoscono 11 famiglie di enzimi fosfodiesterasi (PDE), l’inibizione delle quali può essere sfruttata per una varietà di azioni farmacologiche vantaggiose. Diversi farmaci inibitori delle PDE sono impiegati come vasodilatatori (in particolare nella disfunzione erettile), antiaggreganti piastrinici, antispasmodici cardiaci e broncospasmolitici nell’asma. Le PDE sono responsabili dell’idrolisi dei secondi messaggeri cAMP e cGMP rispettivamente ad AMP e GMP, ponendo così termine allo stimolo in diversi tipi di cellule in tutto il corpo ed equilibrando l’attività dell’adenilato ciclasi. Tra gli effetti del cAMP, che è ubiquitario, vi sono il rilassamento del muscolo liscio delle vie aeree, la rimodellazione del tessuto polmonare e la soppressione delle funzioni delle cellule infiammatorie. Gli inibitori PDE, pertanto, prolungano il rilassamento del muscolo bronchiale. Inoltre, nei mastociti e nelle altre cellule infiammatorie l’inibizione delle PDE prolunga l’azione del cAMP nel contrastare la liberazione di mediatori.

Teofillina e derivati Il prototipo naturale e il primo degli inibitori delle PDE è stata la teofillina – 1,3-dimetil-2,3,6,7-tetraidro-1H-purina-2,6-dione –, una metilxantina come caffeina e teobromina, e cioè la 1,3-dimetilxantina (Fig. 23.4). Le metilxantine sono contenute in bevande nervine (tè, caffè, cioccolata ecc.), che manifestano attività stimolante centrale. La teofillina ha inoltre azione stimolante cardiaca e respiratoria, coronarodilatatoria, vasodilatatoria periferica e polmonare, diuretica e broncospasmolitica, in misura maggiore rispetto alle altre metilxantine. Viene preparata per sintesi, anche se in natura è presente nel cacao e in piccole quantità nel tè (Box 23.2). La teofillina è scarsamente solubile in acqua e si comporta da acido molto debole: l’N9 è basico con pKa = 0,7 e l’NH-7 è acido con pKa = 8,8. È rapidamente assorbita, si lega per il 50% alle proteine plasmatiche e ha un’emivita variabile dalle CH3

Teofillina: R = -H

N

OH O H3C O

R

OH

N

N N

N

O

Diprofillina: R = H3C

O O

Acefillina: R = OH

CH3 Doxofillina: R =

N

N

∙ HCl N

N

CH3

O O

Figura 23.4 Strutture della teofillina e di alcuni suoi derivati.

OH

Bamifillina cloridrato

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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BOX 23.2 ■ Sintesi della teofillina La teofillina si prepara per reazione dell’N,N'-dimetilurea con il cianoacetato di etile in anidride acetica. Il derivato ureico intermedio viene poi ciclizzato a 6-amino-1,3-dimetiluracile con idrossido di sodio; segue la nitrosazione

in posizione 5 con acido nitroso e successivamente la riduzione del nitrosoderivato con ditionito di sodio a dare il 5,6-diamino-1,3-dimetiluracile. Condensando quest’ultimo con la formamide, si ottiene la teofillina. O

H3C O

CH3

NH

O

N

(CH3CO)2O

H3C

O

NH

N

NaOH

NH

O

CH3

H3C

N N

O

CH3

H3C O

N

N N

O

Na2S2O4

NH2

CH3

H3C O

NH2

NH2

N N CH3

NH2

NH2

CH3

O

O HNO2

O

N

O

H

O H3C O

H N

N

7 9

N

N

CH3 Teofillina

3 alle 6 ore. La velocità di metabolizzazione e la dose ottimale variano molto da individuo a individuo: i livelli plasmatici raccomandati sono di 5-15 mg/L. A dosi terapeutiche, la teofillina è solo un debole inibitore PDE non selettivo, che presenta anche diverse altre attività, tra cui quella di antagonista sui recettori A1 dell’adenosina. La struttura xantinica planare della teofillina, infatti, è una forma tautomerica della purina 2,6-diidrossilata e quindi ha la stessa intelaiatura strutturale delle basi puriniche. La teofillina inibisce equipotentemente PDE-4 e PDE-5, occupando sull’enzima una sottotasca del sito attivo. Essa instaura interazioni idrofobiche con una tirosina su una faccia e una valina sull’altra. La formazione di legami idrogeno dell’O carbonilico in posizione 6 della teofillina con l’N amidico di un residuo di glutamina e tra il gruppo aminico in posizione 7 e un residuo di tirosina rafforzano l’interazione con l’enzima. L’inibizione di PDE-4 comporta un aumento di cAMP e cGMP, con conseguente broncodilatazione. Per di più, dato che l’effetto stimolatorio A1 consiste nell’inibire l’adenilato ciclasi, antagonizzarlo significa innalzare ancora il livello di cAMP e quindi contrastare lo spasmo del muscolo liscio bronchiale. Ma l’attività antagonista A1, insieme a quella inibitoria di PDE-5, è ritenuta responsabile anche di molti degli effetti indesiderati. Più recentemente, inoltre, la teofillina ha dimostrato in vitro un nuovo meccanismo d’azione: la capacità di modulare in aumento l’attività dell’istone deacetilasi. Questa proprietà, che potrebbe essere anche di altre xantine, amplifica gli effetti antinfiammatori dei corticosteroidi ed è sfruttabile per ripristinarne la sensibilità in pazienti asmatici che sviluppano resistenza ai corticosteroidi. In definitiva, i meccanismi d’azione sono molteplici e ancora non del tutto chiariti, nonostante la mole di ricerche attinenti all’argomento. L’uso della teofillina ha subìto una riduzione significativa in seguito all’introduzione di suoi derivati più

idrosolubili, degli agonisti β2-adrenergici e dei corticosteroidi per inalazione. Tuttavia, le sue proprietà broncodilatatrici alle quali sembra si associno effetti antinfiammatori, rimangono molto utili clinicamente sia nell’asma severa, sia nella broncopneumopatia cronica ostruttiva, in particolare per terapie alternative o coadiuvanti. La teofillina viene metabolizzata prevalentemente nel fegato per dare prodotti di demetilazione quali la 1-metilxantina e la 3-metilxantina; quest’ultima possiede ancora attività broncodilatatoria. La 1-metilxantina viene rapidamente ossidata ad acido 1-metilurico dalla xantina-ossidasi; l’ossidazione principale ha luogo sulla teofillina per produrre l’acido 1,3-dimetilurico. Nei neonati e nei bambini, poi, una ridotta percentuale origina la caffeina per metilazione in posizione 7 (Fig. 23.5). Poiché nel metabolismo non origina acido urico, la teofillina non è controindicata per i pazienti con la gotta. Non essendo efficace per via inalatoria, può essere usata e.v. a dosi elevate per risolvere gli attacchi asmatici e per os, in affidabili preparazioni a rilascio prolungato e costante, nelle forme croniche di asma allergica e non allergica. La bassa efficacia e la scarsa selettività sono causa di notevoli effetti collaterali quali ipertensione, eccitazione cardiaca e centrale, con rischio di tossicità pericolosa. Le aritmie cardiache, le convulsioni e la diuresi sono dovute all’antagonismo A1, mentre l’inibizione delle PDE determina disturbi gastrointestinali (nausea, vomito) e mal di testa; alla tossicità contribuisce anche la liberazione di catecolamine. La teofillina dà luogo a interazioni con altri farmaci e con alcuni alimenti. Farmaci che inibiscono il CYP450, tra i quali zileuton e zafirlukast, diminuiscono la sua clearance, mentre rifampicina, barbiturici e alcol, che sono induttori enzimatici di CYP1A2, la accrescono. Una metabolizzazione più rapida per lo stesso motivo è causata da fumo di sigaretta, carne alla brace o una dieta ricca

547

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

O

O H3C

N N H

O

H N

H3C

N

O

1-Metilxantina

N

O

N

N

H3C

CH3

Teofillina

3-Metilxantina

O H N

N

Acido 1-metilurico

H3C O

N H

N

O

N H

N

N

O

CH3

O N H

H N

HN

O H N

N

O H N

O H3C

ISBN 978-88-08-18712-3

CH3 N

N

N

N

O

CH3

CH3

Acido 1,3-dimetilurico

Caffeina

Figura 23.5 Metabolismo della teofillina.

Inibitori selettivi delle PDE-4 Nei mastociti e in molte altre cellule infiammatorie la PDE-4 è la classe predominante delle fosfodiesterasi. L’azione prolungata del cAMP dovuta a inibizione dalla PDE-4 si traduce in un’ampia gamma di effetti antinfiammatori in vitro e in vivo. È proprio questo l’aspetto più interessante, che motiva la progettazione di farmaci antiasmatici inibitori selettivi della PDE-4. Tuttavia, diversi candidati farmaci saggiati clinicamente hanno deluso le aspettative, in quanto hanno mostrato intensi effetti indesiderati o inefficacia alle dosi ben tollerate. La nausea, il vomito, i dolori addominali, la dispepsia, il mal di testa e la diarrea, quali effetti collaterali, sono verosimilmente dovuti a inibizione scarsamente selettiva dei sottotipi di PDE. Infatti sono state individuate almeno 4 isoforme delle PDE-4 (PDE-4 A-D), delle quali le PDE-4A, PDE-4B e PDE-4D sono ampiamente espresse nelle cellule infiammatorie umane. L’inibizione della PDE-4D sembra essere correlata al vomito, mentre l’inibizione della PDE-4B, che è la più presente nelle cellule infiammatorie, pare esserlo meno, alle dosi terapeutiche. Per questo motivo, la ricerca attuale è rivolta verso gli inibitori selettivi delle PDE-4B, in quanto diversi inibitori PDE-4 finora sperimentati sull’uomo per via orale o inalatoria sono risultati inefficaci a causa di un basso indice terapeutico. L’enzima

di proteine e scarsa in carboidrati. Pertanto il dosaggio della teofillina deve essere monitorato periodicamente, per via della stretta finestra terapeutica e dell’ampia variabilità individuale della risposta. Nonostante queste limitazioni, in alcuni Paesi è ancora molto usata per la sua accessibilità e per il basso costo. Data la scarsa solubilità in acqua della teofillina, sono stati preparati derivati salini con basi organiche, come l’aminofillina (teofillina-etilendiamina 2:1), o la teofillina con etanolamina o con l’isopropanolamina, o ancora la teofillina sale di lisina. Allo stesso scopo sono disponibili derivati idrosolubili ottenuti mediante complessazione con sali di acidi organici: teofillina sodio acetato e teofillina sodio glicinato. Sempre per ovviare all’inconveniente della ridotta solubilità sono stati preparati derivati della teofillina sostituiti in posizione 7 con porzioni strutturali idrofile (Fig. 23.4). Tra i più diffusi la diprofillina (o difillina) – 7-(2,3-diidrossipropil) teofillina –, meno attiva della teofillina, ma con effetti collaterali meno gravi. Altri esempi sono l’acefillina – acido 7-teofillinacetico –, la doxofillina – 7-(1,3-diossolan-2-ilmetil) teofillina – con la stessa attività sulla PDE, ma meno attiva come antagonista A1; la bamifillina – 8-(fenilmetil)-7-[2{N-etil-N-(2-idrossietil)amino]etil}teofillina – è un derivato 7,8-disostituito, impiegato come sale cloridrato.

N NH O

O

O O

O

O OH

O

O

CH3

CH3 Rolipram

Figura 23.6 Strutture di inibitori selettivi delle PDE4.

N H

O F

Cilomilast

Cl

F Roflumilast

N

Cl

ISBN 978-88-08-18712-3

PDE-4 presenta due siti cationici (Mg2+ e Zn2+) e un residuo di glutamina nel sito catalitico. Prototipo degli inibitori PDE-4 su base progettuale è il rolipram – 4-[3-(ciclopentilossi)4-metossifenil]-2-pirrolidinone –, utilizzato esclusivamente come mezzo di indagine farmacologica in quanto selettivo PDE-4 (Fig. 23.6). L’enantiomero (R)-(–) è poco più attivo di quello (S)-(+). Contiene la porzione farmacoforica del dialcossifenil, caratteristica degli inibitori selettivi della PDE-4. Gli ossigeni eterei interagiscono con il residuo di glutamina dell’enzima attraverso due legami idrogeno e il ciclopentile contribuisce al legame con interazioni idrofobiche. Il cilomilast – acido cis-4-ciano-4-[3-(ciclopentilossi)4-metossifenil]cicloesan-1-carbossilico – contiene la stessa porzione dialcossifenilica del rolipram e interagisce in maniera simile con l’enzima PDE-4. Inoltre il gruppo carbossilico forma legami idrogeno con l’acqua di coordinazione del Mg2+ localizzato a un’estremità della tasca di legame. Lo sviluppo del cilomilast dura da più di vent’anni: è stato in sperimentazione per il trattamento dell’asma e attualmente per quello della broncopneumopatia cronica ostruttiva in USA. La sperimentazione in fase III è stata deludente, per la scarsa efficacia delle dosi impiegate e un ristretto indice terapeutico. Infatti, a dosi più elevate di 15 mg/kg 2 volte al giorno, cilomilast non è tollerato, per via degli effetti collaterali tipici già menzionati e dovuti forse all’inibizione della PDE-4D. Il roflumilast – 3-(ciclopropilmetossi)-N-(3,5-dicloropiridin-4-il)-4-(difluorometossi)benzamide – ha una struttura in parte simile al cilomilast. Il legame al residuo di glutamina dell’enzima è assicurato dai due ossigeni eterei, anche se il radicale ciclopropilmetil contribuisce meno del ciclopentile al legame idrofobico. Inoltre nel legame idrogeno con l’acqua di coordinazione del Mg2+ è coinvolto l’azoto piridinico, al posto del carbossile del cilomilast. Queste piccole differenze strutturali rendono il roflumilast un inibitore per la PDE-4B più potente del cilomilast. Sperimentato anche per l’asma, è l’unico inibitore PDE-4 da poco in commercio in Europa (Italia compresa) e negli USA, con l’indicazione però di broncopneumopatia cronica ostruttiva associata alla bronchite cronica. Il roflumilast è ben assorbito per via orale e ha un’emivita di 10 ore; viene metabolizzato nel fegato a N-ossido derivato, che risulta ancora attivo come inibitore PDE-4. Presenta un basso indice terapeutico e gli stessi effetti collaterali degli altri inibitori della PDE-4, ma con un profilo di tollerabilità accettabile.

23.3.5 Farmaci antimuscarinici Gli antagonisti muscarinici sono stati tra i primi rimedi farmacologici utilizzati per alleviare la broncocostrizione. I recettori muscarinici dei bronchi, in particolare gli M3, causano infatti broncocostrizione quando attivati. Purtroppo, dati gli effetti ad ampio spettro degli antagonisti muscarinici, gli effetti collaterali connessi sono svariati. Un solo farmaco di questo tipo è ancora in commercio in Italia, l’ipratropio bromuro, un antimuscarinico dei recettori M1, M2 e M3 non selettivo. Avendo attività antimuscarinica generica, rientra nei broncodilatatori trattati nel Capitolo 22.

23.3.6 Istamina e antistaminici L’istamina è un’amina biogena sintetizzata nell’apparato del Golgi di mastociti e basofili, dove viene immagazzinata in gra-

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

nuli, complessata rispettivamente con eparina e condroitin solfato. La biosintesi a partire dall’istidina è catalizzata dalla listidina decarbossilasi. Una volta liberata dai granuli, l’istamina viene rapidamente metabolizzata. Benché in piccole quantità, tuttavia rappresenta il meccanismo primario associato all’ipersensibilità mediata da IgE. I mastociti sono presenti nella pelle e nelle mucose dei tratti respiratorio, gastrointestinale e genito-urinario, in prossimità di vasi sanguigni e linfatici. Nei basofili invece il rilascio può avvenire senza degranulazione. L’occupazione dei recettori H1 dell’istamina comporta broncocostrizione e spasmo dei muscoli lisci gastrointestinali. Inoltre l’istamina influenza la maturazione delle cellule dendritiche, dei monociti e dei linfociti T helper, che a loro volta rilasciano grandi quantità di istamina. L’istamina a livello vasale aumenta la permeabilità dei capillari, con conseguente edema e possibile caduta pressoria (shock anafilattico). Per farmaci antistaminici si intendono gli antagonisti del recettore H1 dell’istamina. In realtà si dovrebbero considerare antagonisti neutrali o agonisti inversi. Infatti si suppone che il recettore H1 esista in due stati di attività, poiché la trasduzione del segnale, mediante la proteina G collegata, è indipendente dalla presenza di istamina. I farmaci antistaminici sono stati ampiamente usati, e lo sono ancora, nelle manifestazioni allergiche, anche se si dimostrano efficaci solamente contro la reazione immediata, dovuta al rilascio di istamina e non contro la reazione lenta sostenuta dall’effetto dei leucotrieni. Il blocco dei recettori dell’istamina, inoltre, può risultare inefficace se la degranulazione dei mastociti è già in atto al momento della somministrazione. Ciò li rende poco validi nelle crisi asmatiche. Sono utilizzabili però per il trattamento sintomatico di altre patologie allergiche. I numerosi farmaci, appartenenti a diverse classi, saranno discussi nel Capitolo 30, al quale si rimanda per una trattazione specifica.

23.3.7 F  armaci antistaminici a duplice meccanismo d’azione In questo paragrafo si descrivono alcuni particolari composti ad attività antistaminica mista, tra i quali l’azelastina, il ketotifene e l’olopatadina (Fig. 23.7). Questi farmaci, oltre a presentare attività antagonista per il recettore H1 dell’istamina, si comportano anche come gli stabilizzatori di membrana visti poco sopra. Si tratta di una caratteristica molto interessante, che ha stimolato la ricerca di nuovi antistaminici a duplice meccanismo d’azione nel recente passato. L’azelastina – (±)-4-[(4-clorofenil)metil]-2-(1-metilazepan-4-il)ftalazin-1-one – presenta una qualche somiglianza strutturale con i benzimidazoli, quale ad esempio l’astemizolo. Oltre all’attività antistaminica diretta, stabilizza i mastociti, impedendo il rilascio di istamina, leucotrieni e PGD2. Sotto forma di sale cloridrato è impiegata nel trattamento del raffreddore da fieno stagionale o annuale, e della rinite vasomotoria accompagnata da congiuntivite allergica. È disponibile come spray nasale, collirio e, in alcuni Paesi, sotto forma di compresse per il trattamento dell’asma e delle allergie di stagione. Nell’impiego topico per le vie nasale e oculare, l’assorbimento dell’azelastina è molto modesto. In caso di somministrazione orale si lega alle proteine per l’80% ed è ampiamente metabolizzata per dealchilazione ossidativa. Il principale metabolita, l’N-desmetilazelastina, contribuisce ancora considerevolmente all’attività farmacologica. Il 75%

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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O O

N

CH3

O

S

O

N N

OH

Cl Azelastina

CH3

N

N

CH3

CH3 Olopatadina

Ketotifene

Figura 23.7 Strutture di antistaminici a duplice meccanismo d’azione.

dell’azelastina e dei suoi metaboliti è eliminato con le feci. Gli effetti indesiderati manifestatisi per la somministrazione oculare sono bruciore passeggero all’occhio, mal di testa e gusto amaro. Da usarsi con cautela in gravidanza e allattamento. Il ketotifene – 4-(1-metil-4-piperidilidene)-4H-benzo[4,5]cicloepta[1,2-b]tiofen-10(9H)-one – comunemente in commercio come fumarato acido, è un antistaminico triciclico strutturalmente analogo dei dibenzocicloeptani e loro cicloisosteri, quale l’azatadina. Come quest’ultima, il ketotifene presenta stereoisomeria conformazionale, non avendo centri di asimmetria. I due enantiomeri conformazionali (atropisomeri) si generano per dissimmetria del sistema triciclico 6-7-6, non completamente planare. Essi risultano, pertanto, due entità chirali interconvertibili ad alte temperature ma isolabili a temperatura ambiente, con conseguente differente affinità per il recettore. L’enantiomero conformazionale (R)(+) è infatti più attivo dell’enantiomero (S)-(–). Il ketotifene è un antagonista non competitivo del recettore istaminergico H1, stabilizza i mastociti e inibisce la degranulazione degli eosinofili, probabilmente per interazione con i fosfolipidi di membrana. Inoltre diminuisce la chemiotassi e inibisce le fosfodiesterasi del cAMP. L’inibizione del rilascio dei mediatori allergici quali istamina, leucotrieni LTC4 e LTD4, e PAF, gli consente di contrastare l’asma conseguente a broncospasmo. Per uso topico ha come indicazioni il trattamento del prurito oculare nelle congiuntiviti allergiche, mentre per via sistemica è impiegato nella rinite allergica stagionale, nella febbre da fieno e nell’asma allergica. Il metabolismo avviene per lo più nel fegato e il metabolita principale rinvenuto nel plasma umano e nelle urine è l’N-glucuronide, coniugato del ketotifene (Fig. 23.8). Nel plasma si ritrovano anche il norketotifene, prodotto di demetilazione, il 10-idrossiderivato, prodotto di riduzione del carbonile chetonico, e il 10-idrossi-norketotifene, risultato di ambedue i processi metabolici. I primi due sono gli altri unici metaboliti rivelabili nelle urine. L’N-glucuronide e il 10-idrossi-derivato possono riformare il ketotifene in vivo. Effetti collaterali della somministrazione sistemica sono sonnolenza, sedazione, mal di testa, nausea, vomito; l’applicazione come collirio può comportare secchezza, irritazione o dolore oculare, fotosensibilità, aumento del prurito e reazioni allergiche. Da usarsi con cautela in gravidanza e allattamento. L’olopatadina – acido 2-{(11Z)-11-[3-(dimetilamino) propilidene]-6,11-diidrodibenz[b,e]ossepin-2-il}acetico – è un nuovo antistaminico, selettivo per i recettori H1, struttu-

ralmente correlato agli antistaminici della classe delle diarilpropilamine, ma con un ponte ossimetilenico a formare un triciclo dibenzossepinico. Il gruppo carbossilico limita l’assorbimento e l’affinità per il recettore colinergico. Utilizzata principalmente nel trattamento delle allergie stagionali come collirio o spray nasale, in alcuni Paesi si somministra per via orale nel trattamento sistemico dei sintomi della rinite allergica, dell’orticaria e della dermatite. L’olopatadina, oltre all’effetto antagonista sui recettori H1, ha dimostrato un’attività stabilizzante. Inibisce infatti il rilascio di istamina, di proteasi e prostaglandine dai mastociti, presumibilmente per interazione con lo strato fosfolipidico di membrana, analogamente al ketotifene. Ha un’azione di pronta insorgenza e di lunga durata. Viene assorbita in quantità molto limitata, raggiungendo una concentrazione plasmatica bassa ed è eliminata con le urine e la bile. Gli effetti indesiderati riscontrati per l’olopatadina sono modesti: irritazione, bruciore e prurito oculare, sensazione di secchezza e fastidio alla luce. Sono prescritti esclusivamente per uso topico la levocabastina – acido (3S,4R)-1-[cis-4-ciano-4-(4-fluorofenil) cicloesil]-3-metil-4-fenilpiperidin-4-carbossilico – e l’epinastina – (±)-9,13b-diidro-1H-dibenz[c,f]imidazo[1,5-a] azepin-3-amina –. Si tratta di due potenti antistaminici H1 di seconda generazione con gruppi polari ionizzabili, che limitano l’assorbimento sistemico, in particolare nel SNC. La scarsa lipofilia sembra influire positivamente sulla loro efficacia e sull’incidenza di irritazioni oculari. N C

CH3 N

F O Levocabastina N

NH2 N

Epinastina

OH

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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O

O

OH

S

S

S

OH N

N

CH3

CH3

10-Idrossi-derivato

O HO HO

Ketotifene

OH

N

O OH

CH3

N-Glucuronato

O S

S

N H 11-Idrossi-norketotifene

N H Norketotifene

Figura 23.8 Metabolismo del ketotifene.

La levocabastina, per la presenza di un carbossile (pKa = 3,56), ha un logP pari a 5. Pur differendo strutturalmente dagli antistaminici H1 tradizionali, risulta essere potente e selettiva nei confronti di recettori adrenergici, serotoninergici e dopaminergici. Presenta una bassa concentrazione plasmatica, si lega per il 55% alle proteine e viene eliminata con le urine prevalentemente immodificata. Viene impiegata come collirio nelle congiuntiviti allergiche. Previene anche il rilascio di mediatori dai mastociti, presenti in alta concentrazione nella congiuntiva. È utilizzata anche come spray nasale nelle riniti allergiche. L’epinastina presenta un gruppo aminico spiccatamente basico (pKa = 12,02), con logP pari a 3,51. Oltre all’attività antistaminica diretta H1, possiede un effetto stabilizzante sulla membrana dei mastociti, che impedisce il rilascio di istamina e di altri mediatori. L’epinastina si lega per il 64% alle proteine plasmatiche, viene metabolizzata per meno del 10% ed eliminata principalmente con le urine. È utilizzata come collirio per la congiuntivite allergica. L’effetto indesiderato più frequente è la sensazione di lieve bruciore all’occhio.

23.3.8 F  armaci agenti sull’attività dei leucotrieni I leucotrieni (LT) sono acidi grassi idrossilati a venti atomi di carbonio (eicosanoidi), con quattro insaturazioni, coniugati con il glutatione o con aminoacidi residui del glutatione (Fig. 23.9). La loro origine ha luogo con la formazione del

leucotriene LTA4, un derivato epossidico dell’idroperossiacido 5-HPETE (5-idroperossieicosatetraenoico). Questo si forma, a sua volta, per azione della 5-lipossigenasi (5-LO) dall’acido arachidonico – acido (5Z,8Z,11Z,14Z)-5,8,11,14eicosatetraenoico –, che è prodotto dalla PLA2 in seguito a scissione dei fosfolipidi di membrana durante i processi infiammatori. Il leucotriene LTC4 si forma per addizione del glutatione (γ-glutamilcisteinilglicina) all’anello epossidico dell’LTA4 mediante il gruppo tiolico della cisteina. Gli altri due LT derivano dall’LTC4 per perdita di un aminoacido per volta: l’LTD4 contiene il dipeptide residuo cisteinilglicina e l’LTE4 il solo residuo di cisteina. Dall’LTA4 si forma anche l’LTB4, che non ha attività broncocostrittrice, ma è comunque un potente agente chemiotattico per i leucociti. Per un quadro completo della biosintesi e dei recettori dei LT si veda il Capitolo 26. L’interesse per l’attività dei leucotrieni si sviluppò in seguito alla scoperta che la sostanza a lenta reazione dell’anafilassi (SRSA) era costituita da una miscela dei leucotrieni LTC4, LTD4 e LTE4, detti cisteinilleucotrieni (CysLT). Il rilascio di tali sostanze durante le manifestazioni allergiche ha offerto lo spunto per l’individuazione di nuovi bersagli per l’azione di farmaci antiallergici. Le strategie adottate sono state finora due: agire sulla biosintesi, per evitarne la produzione, oppure contrastarne l’attività su recettori specifici attraverso l’azione di antagonisti. Alcuni dei farmaci esistenti agiscono come inibitori della 5-lipossigenasi, l’enzima coinvolto nella sintesi dei LT, altri come antagonisti sui recettori CysLT1.

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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Zileuton

OH Fosfolipasi A2

Fosfolipidi di membrana

O

CH3

5-Lipossigenasi

Acido arachidonico

O R

HO

O

LTC4 sintasi

OH

H2N

OH

5

5-HPETE (R = C10H17)

OH

R O

R

O

LTA4 Glutatione (Glu--Cys-Gly)

OOH

OH

S N H

O

H N

O O

OH -Glutamil transpeptidasi

OH

R S

OH

O O

H N

H2N

O

OH

O

LTC4

LTD4 Aminopeptidasi

OH

Montelukast

OH

R S Recettore CysLT1

O OH

H2N O LTE4

Figura 23.9 Strategie di intervento farmacologico sulla sintesi (zileuton) e sull’attività (montelukast) dei cisteinilleucotrieni (LTC4, LTD4, LTE4).

Farmaci inibitori della 5-lipossigenasi Data la conoscenza non approfondita dell’enzima 5-LO e la complessità del meccanismo di catalisi che attua, la ricerca di inibitori ha coinvolto diverse strategie, con numerosi candidati farmaci prodotti. È noto che per l’ossidazione dell’acido arachidonico a 5-HPETE interviene il Fe3+, che origina inizialmente un radicale catione pentadienilico. Tra i vari inibitori 5-LO in vitro, i composti chelanti il Fe3+ derivati dell’N-idrossiurea si sono rivelati i più efficaci per via orale e metabolicamente più stabili in vivo. I composti con questo meccanismo raggiungono il duplice scopo di ridurre il broncospasmo e l’azione chemiotattica, poiché impediscono la sintesi sia dei CysLT, sia del LTB4. Un solo farmaco di questa classe tra le centinaia di derivati idrossilati dell’urea preparati è utilizzato in terapia, lo zileuton – (±)-1-[1-(1-benzotiofen-2-il)etil]-1-idrossiurea.

HO S

O N NH2 CH3

Zileuton

L’ossidrile è funzione importante per l’attività chelatrice inibitoria, come pure il metile in α, che origina un centro stereogenico, mentre il nucleo lipofilo benzotiofenico influenza la farmacocinetica. Lo zileuton è un potente inibitore della 5-LO in vitro, con una selettività di oltre 100 volte nei confronti della COX-1, ma mostra anche una notevole attività antinfiammatoria. È utilizzato in forma racemica, in quanto i due enantiomeri sono quasi equipotenti. Si suppone che il metile si accomodi in un sito dell’enzima sufficientemente

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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flessibile da consentire comunque all’N-ossidrile l’interazione con il Fe3+. Il meccanismo d’azione rimane complicato e va oltre la semplice chelazione. Lo zileuton è rapidamente assorbito per via orale con una biodisponibilità superiore al 90%, ma ha un’emivita di 3 ore. Circola legato per il 93% alle proteine plasmatiche e viene inattivato metabolicamente nel fegato a O-glucuronide sull’ossidrile e minimamente a Ndeidrossi derivato. È escreto quasi tutto con le urine. Data la breve emivita, occorrono quattro dosi giornaliere di 600 mg. Risponde bene in svariate forme di asma causate da differenti stimoli, compresa l’asma cronica, ed è molto efficace nell’asma indotta da aspirina. Gli effetti collaterali consistono nell’innalzamento degli enzimi epatici, che costringono alla sospensione in caso di manifestazioni di sintomi di disfunzione epatica.

Farmaci antagonisti dei recettori dei leucotrieni Sono stati caratterizzati due tipi di recettori dei CysLT, dei quali è stato anche clonato il gene, ambedue appartenenti alla famiglia dei recettori accoppiati a proteina G: CysLT1 e CysLT2. Tuttavia solo i CysLT1 hanno importanza ai fini della terapia antiasmatica e i farmaci in commercio attualmente sono solo antagonisti selettivi per questo recettore. Le loro strutture (Fig. 23.10), piuttosto complesse, sono state individuate attraverso approcci di screening casuale, senza saggi di binding, su analoghi strutturali dei LT. Il farmacoforo individuato contiene un gruppo carbossilico dissociabile, tre regioni idrofobiche e una funzione accettrice di legame idrogeno, che nei ligandi prototipo è rappresentato dall’azoto chinolinico (ad es. montelukast). Montelukast sodico è il sale di sodio dell’acido 2-{1-[(1R)1-{3-[(E)-2-(7-clorochinolin-2-il)etenil]fenil}-3-[2-(1-idrossi-1-metiletil)fenil]propil)solfanilmetil]ciclopropil}acetico. È un antagonista selettivo del recettore CysLT1 con alta affinità, per la cura dell’asma e delle allergie in adulti e bambini. Benché nella struttura presenti gli elementi adatti a simulare un

antagonista LTD4, il montelukast è stato sviluppato a seguito di ampi screening condotti su analoghi contenenti la struttura stirilchinolinica, che mima la coda lipofila dei LT. Su questa porzione sono possibili diverse variazioni senza perdere l’attività. Gli altri elementi strutturali confacenti all’imitazione dei LT derivano da modificazioni su una porzione peptidica e un gruppo acido, che come tali, portavano invece a scarsa biodisponibilità orale. Nel Box 23.3 è rappresentato uno dei possibili schemi sintetici per la preparazione del montelukast sodico. Il montelukast circola legato alle proteine plasmatiche per la quasi totalità e viene estesamente metabolizzato nel fegato dai citocromi CYP3A4 e CYP2C9. I metaboliti vengono escreti in maniera predominante attraverso la bile, mentre l’escrezione urinaria non è significativa. Il metabolita principale è l’acido dicarbossilico formatosi per ossidazione successiva all’ossidrilazione di un metile; i prodotti di ossidrilazione alifatica sono generati quali coppie di diastereoisomeri. Metaboliti minori derivano da coniugazione con acido glucuronico e dall’ossidazione dello zolfo a solfossido (Fig. 23.11). È ottimamente tollerato, anche se andrebbero monitorati gli enzimi epatici poiché può originare raramente una vasculite, la sindrome di Churg-Strauss. Zafirlukast – ciclopentil N-[3-({2-metossi-4-[(2-metilfenil)solfonilcarbamoil]fenil}metil)-1-metil-1H-indol-5-il] carbamato – è stato il primo modulatore dei LT approvato negli USA. Lo zafirlukast è un antagonista selettivo CysLT1 sviluppato per ibridizzazione di un analogo dei LT con una struttura fenonica. Presenta un nucleo indolico legato a una benzimide che condivide l’azoto con una toluensulfonimide. Il gruppo NH imidico, che è discretamente acido e quindi ionizzabile, serve a mimare un gruppo carbossilico. Lo zafirlukast è caratterizzato da un profilo eccellente in vivo: antagonizza gli effetti broncocostrittori di tutti i CysLT ed è somministrabile per via orale, con ottima biodisponibilità. Il gruppo carbamico viene idrolizzato metabolicamente,

O Na

N H3C

Cl

O

H3C

S

O

N

OH

N H

CH3 O

O

NH

O

Montelukast sodico

Zafirlukast

O NH

HN O

O

Pranlukast

N N N

O

Figura 23.10 Strutture di antagonisti del recettore CysLT1 dei cisteinilleucotrieni.

O

CH3

S O

CH3

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

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BOX 23.3 ■ Sintesi del montelukast Una via sintetica per preparare il montelukast prevede la condensazione in anidride acetica della 7-cloro-2-metilchinolina con l’aldeide isoftalica a dare un derivato vinilchinolinico della benzaldeide; questo viene sottoposto a reazione di Grignard con bromuro di vinilmagnesio. L’alcol ottenuto viene fatto reagire con 2-bromobenzoato di metile in presenza di acetato di litio e con acetato di palladio come catalizzatore (reazione di Heck). Il prodotto di reazione viene quindi sottoposto a riduzione enantioseH Cl

N

lettiva del carbonile chetonico con catalizzatore chirale. Seguono una reazione di Grignard con bromuro di metilmagnesio sul carbonile estereo del benzoato e la mesilazione della funzione alcolica chirale. A questo punto sono possibili diverse vie sintetiche: una è quella che vede la sostituzione del gruppo metansolfonico da parte dell’acido 2-[1-(mercaptometil)ciclopropil]acetico con inversione di configurazione per ottenere il montelukast; la salificazione del gruppo carbossilico porta al montelukast sodico. H

O

CH3

O

(CH3CO)2O

+

BrMg

Cl

O

CH2

N

H

O HO

CH2

Br O

Cl

O

O

CH3

Cl

O

CH3

N

N (CH3COO)2Pd, CH3COOLi, DMF

HO O

O

(–)-B-Clorodiisopinocanfeilborano

Cl

CH3

O

H3C BrMg CH3

N

THF, toluene

O H 3C

S

Cl

Toluene, CH3CN, N,N-diisopropiletilamina

O

O

S

HO

O H 3C

Cl

S O

N

OH

O

CH3

H3C

SH

HO

Cl

N

1. BuLi, THF 2. Dicicloesilamina 3. CH3COOH

Montelukast

O Na

S

O

H3C Cl

N

NaOH, toluene/H 2O

Montelukast sodico

OH

CH3

OH

CH3

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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R

R

R

OH H3C OHCH3

H3C

(R) e (S)

OH H3C

OH

OH

OH

(R) e (S)

(R) e (S)

OH

O S

HO

R R H 3C

Cl

O

N

CH3 OH

H3C OHCH3

Montelukast

R=

O

HO HO HO

O OH O

O S

O

S

HO H3C

Cl

N

CH3 OH

O

H3C Cl

N

CH3 OH

Glucuronide

Figura 23.11 Metabolismo del montelukast.

quindi segue la N-acetilazione. Più del 90% viene eliminato con le feci. La dose di 40 mg (solo in compresse) per 2 volte al giorno è clinicamente efficace nel trattamento dell’asma. In alcuni pazienti predisposti può procurare epatotossicità e, come il montelukast, può raramente portare alla sindrome di Churg-Strauss. Data la proprietà di inibire i citocromi CYP2C9 e CYP3A4, può interferire nel metabolismo di diversi altri farmaci, substrati di queste isoforme. Pranlukast – N-[4-osso-2-(1H-tetrazol-5-il)-4H-cromen-8-il]-4-(4-fenilbutossi)benzamide – è stato il primo antagonista CysLT1 commercialmente disponibile, ma solo in Giappone. La struttura deriva da uno sviluppo differente dagli altri due antagonisti visti sopra. La potenza in vitro e in vivo è stata esaltata grazie alla sostituzione bioisosterica del carbossile con un tetrazolo, mentre l’ottimizzazione della coda idrofobica ha portato al sostituente fenilbutilossi.

23.3.9 Anticorpi monoclonali anti-IgE Questa classe di farmaci biotecnologici rappresenta la più moderna soluzione ai problemi di asma allergica. Si tratta di

molecole proteiche in grado di legarsi al sito delle IgE, che presenta affinità per i recettori FcεRI dei mastociti e dei basofili. Gli anticorpi monoclonali anti-IgE impediscono alle IgE di svolgere il loro ruolo risolvendo il problema alla fonte. Servono per gli attacchi severi di asma allergica, ma sono efficaci anche per riniti allergiche stagionali e altre manifestazioni mediate da IgE. L’omalizumab è un anticorpo monoclonale di origine murina, ma umanizzato con l’incorporazione di sequenze aminoacidiche umane. È molto efficace contro l’asma di grado severo, unica indicazione per la quale è prescrivibile, in individui sensibili ad allergeni aerei e che non rispondono ai glucocorticoidi per inalazione o ad altre terapie tradizionali. Ha mostrato comunque efficacia clinica anche in riniti, dermatiti atopiche, orticarie e aspergillosi allergiche, e nell’anafilassi. Inoltre è attivo anche in patologie non mediate da IgE, quali l’asma non allergica e alcune orticarie. Il meccanismo d’azione consiste nel legare in complessi le molecole di IgE circolanti, sottraendole al legame con il recettore ad alta affinità FcεRI. In base al rapporto di concentrazione circolante, forma complessi immunologici esamerici con le IgE,

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

in rapporto 1:1, oppure trimerici con rapporti 2:1 o 1:2. Si riesce così a inibire il legame di più del 96% di IgE, causando anche una modulazione in subespressione (down regulation) del recettore sulla superficie dei mastociti, con conseguente riduzione delle IgE legate ai mastociti. Inoltre l’omalizumab non si combina con le IgE già legate al recettore FcεRI, e quindi non è in grado di stimolare la degranulazione. Disponibile come polvere liofilizzata per iniezioni monouso. Il costo elevato non ne consente un uso generalizzato, ma riservato ai casi più gravi in ambito ospedaliero.

23.3.10 Altri agenti sperimentali Diversi altri bersagli dell’azione antiallergica sono stati individuati e sono oggetto di ricerche innovative. Numerosi altri agenti candidati farmaci sono attualmente in fase di studio o di sperimentazione, soprattutto per l’asma, anche non allergica, la cui importanza epidemiologica è in ascesa. L’aspetto infiammatorio offre senza dubbio un motivo di interesse per nuove soluzioni terapeutiche. A tal proposito, gli agenti dei recettori dell’adenosina, in particolare gli agonisti A2A, appartengono a una delle classi più investigate. L’adenosina è uno dei mediatori rilasciati durante la reazione allergica, che causa broncospasmo e inibizione dell’aggregazione piastrinica. Diversi recettori dell’adenosina (A1, A2A, A2B, A3) sono noti e sono oggetto di studio quale bersaglio di farmaci antiasmatici e antinfiammatori. Gli inibitori delle proteasi o i bloccanti dei fattori chemiotattici per ora si sono dimostrati inefficaci, probabilmente perché le cause della patologia sono multifattoriali. Finora non è stato introdotto in terapia nessun farmaco antiallergico o antiasmatico progettato per interferire con i succitati bersagli.

23.4 La congestione nasale Nelle malattie da raffreddamento sostenute da infezioni (di solito il comune raffreddore) e nelle riniti allergiche (o febbre da fieno) viene a determinarsi un’infiammazione della delicata membrana mucosa che riveste le vie nasali. Tra le manifestazioni dell’infiammazione, la vasodilatazione accompagnata da un’aumentata permeabilità capillare provoca edema e gonfiore nella mucosa e un’eccessiva produzione di muco. La congestione da muco e plasma trasudato produce un intasamento delle vie nasali, e talvolta dei seni nasali, che ostacola il flusso dell’aria originando quella fastidiosa sensazione di naso chiuso.

23.5 I farmaci decongestionanti nasali I farmaci decongestionanti nasali hanno come scopo la decongestione delle vie aeree nasali mediante la costrizione dei vasi sanguigni. Si riduce così il gonfiore della membrana mucosa e la produzione di muco, liberando le vie nasali otturate e producendo sollievo alla respirazione. Una tale azione è perseguita per stimolazione del sistema adrenergico a livello delle arteriole, tramite i recettori α-adrenergici. I principi attivi dei preparati decongestionanti appartengono alla classe dei simpaticomimetici α-adrenergici, con qualche eccezione rappresentata dagli antistaminici, soprattutto per la cura sintomatica delle allergie. Nella gran parte dei casi si ritrovano

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in medicinali da banco (OTC) o, in qualche caso, in quelli dispensabili senza ricetta medica (SOP). Tali medicinali sono somministrabili sia per via sistemica (gocce per bocca, compresse, sciroppi ecc.), sia più frequentemente per via topica nel naso (gocce e spray nasali, inalatori) e nell’occhio (colliri decongestionanti). Nel caso della somministrazione topica si raggiunge un effetto quasi immediato, ma non durevole (4-8 ore); con la somministrazione orale invece, l’insorgenza dell’effetto è più ritardata e la durata d’azione più protratta. Tuttavia le forme per bocca, sia per la posologia, sia per la via di somministrazione, possono presentare effetti indesiderati, correlati alla stimolazione del sistema simpatico. Le forme per uso topico, invece, presentano pochi effetti avversi, in quanto si basano su una posologia ridotta e su uno scarso assorbimento. Normalmente non si usano nel raffreddore comune, se non in caso di sintomatologia persistente, non risolvibile con rimedi più semplici (suffumigi), o nel caso di rischio di patologie più gravi (sinusiti, otite media ricorrente). Vanno assunti solo per reale necessità, nelle dosi efficaci minime.

23.5.1 Farmaci agonisti 1-adrenergici Benché l’attività simpaticomimetica a livello vasale coinvolga anche la stimolazione dei recettori α2-adrenergici vascolari, la risposta predominante risulta essere un’azione vasocostrittrice mediata dai recettori α1-adrenergici. La stimolazione del recettore α1-adrenergico produce diversi effetti, che sfociano principalmente in contrazioni del muscolo liscio, compreso quello vasale, e nella stimolazione cardiaca (Tab. 23.1). I farmaci agonisti α1-adrenergici sono pertanto utili nei casi in cui si voglia ottenere un rialzo pressorio immediato. Generalmente l’azione vasocostrittrice o vasopressoria non è richiesta, data la pericolosità dei suoi effetti, per lo più indesiderati. Le occasioni d’impiego di farmaci vasocostrittori o vasopressori quindi sono piuttosto limitate a casi di emergenza, come nel già citato shock anafilattico o di altra origine, nell’ipotensione ortostatica e in caso d’ipotensione durante gli interventi chirurgici. In particolare, per anestesia del midollo spinale si possono verificare cali della pressione sanguigna pericolosi per il rischio di scarsa irrorazione cerebrale. In questi casi si può ricorrere ad agonisti α1-adrenergici della classe delle ariletanolamine. Più frequentemente, gli agonisti α1-adrenergici sono utilizzati come decongestionanti nasali e oculari, sia per via sistemica sia per via topica. Tabella 23.1 Effetti dell’attivazione di recettori 1-adrenergici postsinaptici su organi e tessuti. Organo o tessuto

Effetti

Vasi sanguigni

Contrazione

Muscolo liscio

Contrazione

Cuore

Inotropo e cronotropo positivi (cronotropo negativo)

Occhio

Midriasi, ipertensione oculare

Fegato

Attivazione della fosforilasi del glicogeno

SNC

Stimolazione, inibizione degli input afferenti dai barorecettori

Neuroni del simpatico (presinaptici?)

Inibizione del rilascio di noradrenalina (?)

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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La progettazione razionale di farmaci agonisti α1adrenergici ha sfruttato studi di RSA condotti sui neuromediatori endogeni adrenalina e noradrenalina e su composti analoghi. Ne sono derivati agenti agonisti adrenergici non molto dissimili dalle catecolamine di riferimento, aventi come farmacoforo una struttura ariletanolaminica o fenilpropanolaminica. Alcune di queste ultime strutture, non completamente riconducibili al modello farmacoforico degli agonisti adrenergici, si ritrovano in principi attivi naturali che rientrano tra gli agenti adrenergici a meccanismo indiretto o misto. Analoghi alle ariletanolamine, ma più simili alle ariletilamine, sono gli agonisti α-adrenergici a struttura 2-benzilimidazolinica. La struttura catecolica non è indispensabile per l’attività agonista α1-adrenergica in quanto un solo ossidrile in 3 è sufficiente, o anche il solo anello fenilico, sicché lo scheletro comune è quello della feniletilamina. I principali effetti indesiderati di questi farmaci sono accelerazione della frequenza cardiaca e tremore; vanno quindi usati con cautela da cardiopatici, ipertesi e ipertiroidei. I decongestionanti nasali si devono assumere per non più di quattro-cinque giorni, altrimenti si produce un aumento della congestione come effetto di rimbalzo (rebound). La stessa cosa si verifica interrompendo bruscamente un trattamento prolungato o eccessivo. Per via sistemica sono controindicati ai minori di 12 anni.

Ariletanolamine A questa classe appartengono numerosi agenti, in quanto è stata la classe più studiata e per la quale sono state ricavate RSA ben definite. Per i farmaci con questa struttura è possibile spiegare razionalmente l’interazione con i recettori adrenergici. Una RSA dettagliata è reperibile in altri capitoli in cui sono trattati farmaci adrenergici. In breve, sono caratterizzate da un gruppo aminico basico primario o secondario metilato (pKa 8,5-10) che si protona a pH fisiologico. Un ossidrile sul C1 della catena etilenica laterale, lo rende asimmetrico: la configurazione R procura la massima attività agonista α1-adrenergica diretta.

O O

HO HO

OH

OH O

OH

H N

HO

La scarsa lipofilia (logP = –0,3) e il metabolismo di primo passaggio sono motivo di una bassa biodisponibilità (< 10%) e di ridotti effetti centrali. I metaboliti principali, escreti con le urine, sono il solfato e il glucuronide della fenilefrina, quali prodotti di coniugazione di fase II, e l’acido 3-idrossimandelico non coniugato, formatosi per ossidazione in α all’azoto. Quantità più modeste di un altro solfato derivano dalla coniugazione del 3-idrossifenilglicole, anch’esso generato dall’ossidazione del C in α all’azoto (Fig. 23.12). La fenilefrina è utilizzata per via sistemica (compresse) e topica (gocce nasali), e anche come midriatico in chirurgia oculistica. La dimetofrina – (±)-4-[1-idrossi-2-(metilamino) etil]-2,6-dimetossifenolo –, presentando due metossili in meta rispetto alla catena etanolaminica, contiene una struttura catecolica mascherata, in grado di essere bioattivata per O-demetilazione metabolica. Come tale non è attaccabile dalle COMT, a vantaggio della durata d’azione. OH

CH3

H N

O

H3C

O Dimetofrina

CH3 NH

HO

OH

O -O

O

S

O

HO

OH

OH Acido 3-idrossimandelico

Figura 23.12 Metabolismo della fenilefrina.

NH

3-Solfato

OH

HO

CH3

O

Fenilefrina

OH

CH3

HO

HO

O-Glucuronide

CH3

(R)-Fenilefrina

OH

CH3 NH

Anche l’adrenalina è stata impiegata come decongestionante nasale topico, ma attualmente è stata soppiantata da farmaci più nuovi e sicuri. Un farmaco in uso come decongestionante nasale è la fenilefrina – 3-[(1R)-1-idrossi-2-(metilamino)etil]fenolo –, strutturalmente la 4-desossiadrenalina.

3-Idrossifenilglicole

OH

O -O

O

S O

OH

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

N N H

N

N CH3

NH

H3C

Tetrizolina

NH

N CH3

NH

HO H3C

Nafazolina

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H 3C

CH3

H 3C

CH3

CH3 CH3 Oximetazolina

Xilometazolina

Figura 23.13 Strutture delle 2-benzilimidazoline.

È uno stimolante cardiaco α1-adrenergico usato anche come decongestionante nasale in associazione, per uso sistemico (compresse effervescenti e capsule di gelatina). 2-Benzilimidazoline  I composti di questa classe sono correlati alle ariletanolamine, condividendone lo scheletro della feniletilamina, con l’N aminico inserito in un eterociclo diazotato. Sono caratterizzati da una struttura arilica (fenile o naftile o nuclei isosterici) collegata con un ponte metilenico alla posizione 2 di un’imidazolina (diidroimidazolo), donde il suffisso “-azolina” nel nome (Fig. 23.13). Vengono preparate per reazione tra un nitrile o un imidoestere appropriato ed etilendiamina. L’introduzione in terapia di questa classe di farmaci risale a prima della scoperta e della classificazione dei recettori α-adrenergici nelle sottoclassi α1 e α2. In seguito sono risultati agonisti α-adrenergici misti, dei quali le RSA α1/α2 sono poco note. La presenza dell’anello imidazolinico, spiccatamente basico (pKa 10-11), garantisce la ionizzazione a pH fisiologico e quindi uno scarso assorbimento sistemico. Molto poco si sa del metabolismo dei farmaci di questa classe: solo recentemente è stato proposto uno schema di vie metaboliche per l’oximetazolina. Benché i pericoli di metaboliti tossici siano stati ritenuti scongiurati da dosaggi bassi dei medicinali per la mucosa nasale, in realtà si è trovato che l’attività metabolica del CYP450 nell’epitelio nasale è la più alta di qualsiasi altro tessuto, compreso il fegato. Questo in accordo con il ruolo di barriera difensiva che deve svolgere la mucosa olfattiva verso agenti esterni e xenobiotici potenzialmente pericolosi. Somiglianze strutturali tra le ariletanolamine e le 2-benzilimidazoline sono state investigate tenendo conto rispettivamente della conformazione preferita della noradrenalina e di quella della clonidina in fase solida e in soluzione: trans estesa per la prima, con i due anelli perpendicolari per la seconda. Si è dimostrato anche che tali conformazioni sono le preferite dai recettori α1-adrenergici e α2-adrenergici. La clonidina è una 2-arilaminoimidazolina, con ponte azotato isosterico del metilene, più nota come ipotensivo agonista del recettore α2A-adrenergico, ma che presenta anche attività agonista α1-adrenergica. Dall’analisi cristallografica ai raggi X su noradrenalina e clonidina si deducono distanze (a) molto simili tra il centro del fenile e l’N protonabile nei due composti, come pure la distanza (b ≈ b') di quest’ultimo dal piano su cui giace l’arile (Fig. 23.14).

H

NH2

HO

b

OH

HO a

HN Cl

NH

N Cl

b'

H

Figura 23.14 Confronto fra distanze intramolecolari nella noradrenalina e nella forma protonata della clonidina, che determinano il farmacoforo per l’attività agonista sul recettore adrenergico a.

Tuttavia permangono differenze spiccate tra le due classi. La struttura catecolica non è indispensabile nelle 2-benzilimidazoline, perché aumenta la potenza agonista α1/α2adrenergica, ma influenza l’efficacia e non l’affinità. Il recettore α-adrenergico, infatti, accoglie varie differenti strutture, diversamente dal recettore β-adrenergico, che richiede requisiti farmacoforici più stringenti (catecolo). Inoltre l’attività α1-adrenergica delle 2-benzilimidazoline è potente e selettiva, anche se sono prive dell’ossidrile alcolico presente sulle ariletanolamine; anzi la sua presenza sul ponte metilenico riduce marcatamente l’attività agonista α-adrenergica. Inoltre la stereochimica del C recante l’ossidrile influenza scarsamente il rapporto eudismico, non determinandosi preferenza spiccata per uno degli enantiomeri. Tutte queste argomentazioni messe insieme fanno dedurre che il modo di interagire con i recettori α1-adrenergici per le 2-benzilimidazoline sia stericamente diverso da quello delle ariletanolamine. Si suppone che l’aggancio al recettore α1-adrenergico non necessiti di una terza interazione sostenuta dall’ossidrile alcolico, ma si basi su un’interazione a soli due punti: il fenile e un atomo di N imidazolinico protonato. Dalla RSA si deduce infine che l’attività agonista di tipo sia α1- sia α2-adrenergica dipende anche dalla presenza di un sostituente lipofilo in orto al ponte sull’anello aromatico. La presenza invece di gruppi lipofili voluminosi in posizione meta o para ridurrebbe l’affinità per il recettore α2-adrenergico, aumentando la selettività per il recettore α1-adrenergico.

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

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La somministrazione per via sistemica delle 2-benzilimidazoline ad attività agonista α1-adrenergica diretta produce una potente vasocostrizione; pertanto sono utilizzate esclusivamente per applicazioni topiche in gocce nasali e colliri. Gli effetti collaterali sono rari alle dosi raccomandate. Dosi eccessive possono provocare sonnolenza, palpitazioni, mal di testa, ma soprattutto irritazioni locali e fenomeni di congestione di rimbalzo all’interruzione delle somministrazioni. Se ne sconsiglia l’uso agli ipertesi. Il farmaco più antico e prototipo di questa classe strutturale è la nafazolina – 2-(naftalen-1-ilmetil)-4,5-diidro-1Himidazolo –, in cui il sostituente lipofilo in orto è rappresentato dal secondo anello aromatico del naftalene (prefisso “naf” nel nome). La preparazione è raffigurata nel Box 23.4. È utilizzata, sotto forma di sale nitrato o cloruro, in gocce o spray nasali per comuni raffreddori, sinusiti e riniti allergiche e in colliri per arrossamenti e congestioni oculari. La durata d’azione è di 4-8 ore. La tetrizolina (o tetraidrozolina) – (±)-2-(1,2,3,4-tetraidronaftalen-1-il)-4,5-diidro-1H-imidazolo – è una variante della nafazolina, in cui sembrerebbe mancare il ponte metilenico. In realtà è compreso nell’anello saturo della tetralina, che dalla parte opposta funge da sostituente lipofilo in orto sull’anello aromatico. Il C1 della tetralina diventa così chirale. Ha le stesse indicazioni della nafazolina, è più usata però come collirio. Nel nome della xilometazolina – 2-{[4-(1,1-dimetiletil)-2,6dimetilfenil]metil}-4,5-diidro-1H-imidazolo – c’è l’allusione alla presenza di xilene nella porzione arilica: “xil(il)o met(il)”. È utilizzata solo come decongestionante nasale. L’ oximetazolina, o ossimetazolina – 3-[(4,5-diidro-1H-imidazol-2-il) metil]-6-(1,1-dimetiletil)-2,4-dimetilfenolo – rispetto alla xilometazolina contiene in più un ossidrile fenolico in meta (prefisso “ossi” nel nome) e quindi anche una minor lipofi-

lia. Ha attività agonista α1-adrenergica e agonista parziale α2-adrenergica, presentando un’affinità significativa per il recettore α2A-adrenergico. Tuttavia non vi sono sostanziali differenze di attività con la xilometazolina. Come metaboliti sono stati proposti prodotti di idrossilazione sul t-butile, di ossidazione a imidazolo e di ambedue le ossidazioni in un primo studio in vitro molto recente condotto su microsomi di fegato umano. È presente in formulazioni nasali e oculari.

Analoghi arilimidazolinici Molto simile alla nafazolina, la metizolina – 2-[(2-metil1-benzotiofen-3-il)metil]-4,5-diidro-1H-imidazolo – presenta un nucleo benzotiofenico isosterico del naftalene (Fig. 23.15). La tramazolina – N-(5,6,7,8-tetraidronaftalen1-il)-4,5-diidro-1H-imidazol-2-amina – dimostra che per l’attività agonista α1-adrenergica, la sostituzione del ponte metilenico con un gruppo NH non porta a perdita significativa di potenza. Tale sostituzione isosterica fu alla base della progettazione della clonidina. Nella tinazolina – 3-[(4,5-diidro-1H-imidazol-2-il)solfanil]-1H-indolo – un nucleo indolico, bioisosterico del naftalene, è collegato all’imidazolina con ponte solforato, isosterico del metilene, formando una funzione isotioureica. È un potente vasocostrittore a lunga durata d’azione, utile come decongestionante nasale. La timazolina – 2-{[5-metil-2-(1-metiletil)fenossi]metil}-4,5-diidro-1H-imidazolo – ha un ponte ossimetilenico bioisosterico con quello della tinazolina.

23.5.2 F  armaci adrenergici misti e indiretti Fenilpropanolamine Nella medicina popolare asiatica sono in uso da millenni alcune specie di piante del genere Ephedra, che fanno parte di

BOX 23.4 ■ Sintesi della nafazolina Trattando l’(1-naftil)acetonitrile con etanolo in acido cloridrico si ottiene il cloridrato dell’iminoestere corrispondente, il quale, condensato con etilendiamina, fornisce la na-

fazolina. Dalla reazione dello stesso (1-naftil)acetonitrile con etilendiamina dicloridrato a 175-200 °C si può ottenere direttamente la nafazolina in rese molto elevate. HCl

NH

N

O HO

HCl

CH3

H2N HCl

NH2 HCl

H2N

N N H

Nafazolina

NH2

CH3

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560

FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

N N

N H

HN N H CH3 S Tramazolina

Metizolina

H3C

N S

CH3

N

O

N H

N H

N H

CH3 Timazolina

Tinazolina

Figura 23.15 Strutture di analoghi arilimidazolinici isosteri e bioisosteri delle 2-benzilimidazoline.

preparati erboristici e integratori alimentari, note in tutto il mondo col nome cinese di Ma huang. Recentemente vietati in Italia come integratori, per la pericolosità degli effetti ipertensivi cui danno luogo, contengono principi attivi, i principali dei quali sono l’efedrina (80-90%), la pseudoefedrina e l’N-metilefedrina. I primi due sono alcaloidi fenilpropanolaminici ad attività adrenergica mista, poiché posseggono strutture diastereoisomeriche, capaci di interazioni stereospecifiche e non. Il metile sul C in α al gruppo aminico delle fenilpropanolamine può conferire attività simpaticomimetica mista o indiretta. La sua presenza genera infatti un altro centro stereogenico in C2 della catena propilica, la cui stereochimica è importante nel determinare il tipo di azione. OH 1

2

H N

OH R

CH3 Efedrina: R = CH3 Norefedrina: R = H

1

2

H N

R

CH3 Pseudoefedrina: R = CH3 Norpseudoefedrina: R = H

L’azione simpaticomimetica diretta si esplica quando la stereochimica del C1 è la stessa della (R)-(–)-noradrenalina e il resto della molecola è compatibile con un’interazione ottimale per il recettore adrenergico (α o β). L’azione indiretta, invece, è dovuta alla capacità di spostare la noradrenalina endogena dalle vescicole sinaptiche e di indurne il rilascio nella sinapsi. Di conseguenza, in questo caso se ne ricava una stimolazione indiretta non selettiva di tutti i sottotipi di recettori adrenergici, operata dalla noradrenalina. Anche se incrementa la potenza agonista, la presenza degli ossidrili catecolici non è indispensabile, in quanto, come già detto, il recettore α1-adrenergico accoglie bene anche la struttura fenilica. Una struttura con porzione catecolica inoltre non

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è utilizzabile, a causa degli effetti cardiostimolatori che produrrebbe sul recettore β-adrenergico, e soprattutto per una farmacocinetica sfavorevole. La mancanza di struttura catecolica preserva il composto dall’azione delle COMT, ma nel contempo, aumentandone la lipofilia, incrementa l’azione stimolante centrale e la possibilità di azione indiretta. Il metile in posizione α al gruppo aminico favorisce l’attività indiretta e conferisce resistenza alle MAO. La presenza invece dell’ossidrile in posizione β fa diminuire l’attività indiretta, al contrario di quanto richiesto per l’attività diretta. La sostituzione dell’azoto produce una riduzione dell’attività indiretta, che si annulla se i sostituenti sono più voluminosi del metile. Le feniletilamine terziarie non sono in grado neppure di stimolare il rilascio di noradrenalina. La (–)-efedrina – (–)-(1R,2S)-1-fenil-2-metilamino1-propanolo – è l’alcaloide naturale che viene estratto dall’efedra o preparato anche otticamente attivo per sintesi enzimatica. Possiede due atomi di carbonio asimmetrici ed è l’enantiomero levogiro della coppia di stereoisomeri eritro (Box 23.5). La mancanza degli ossidrili catecolici rende la molecola dell’efedrina più lipofila (logP = 1,05 rispetto a logP = –1,63 dell’adrenalina) e quindi somministrabile per via orale (pKa = 9,6). Inoltre, non essendo attaccabile dalle COMT ed essendo resistente alle MAO, ha una durata d’azione più lunga rispetto ai composti catecolici. Ha infatti un’emivita di 3-6 ore ed è eliminata per lo più immodificata. L’azione della (–)-efedrina, che è la più potente dei quattro stereoisomeri, è di tipo misto: agonista diretta e indiretta non selettive. L’azione α-adrenergica diretta è dovuta alla configurazione ottimale (R) del C1 e il blando effetto agonista β-adrenergico è in parte dovuto al sostituente Nmetil, come nell’adrenalina. La (–)-efedrina presenta anche una certa attività indiretta, mentre questa è principale per la (+)-efedrina. In clinica vengono utilizzati la (–)-efedrina e il racemo. Le proprietà simpaticomimetiche dell’efedrina sono note da ben prima che fossero scoperte e isolate adrenalina e noradrenalina. È stata utilizzata in clinica quale broncodilatatore (attività β2-adrenergica), stimolante cardiaco (attività β1-adrenergica) e centrale (attività α-adrenergica) grazie alla discreta lipofilia, che le permette di attraversare la barriera ematoencefalica (BEE) meglio delle catecolamine. Può essere impiegata nelle allergie, nell’ipotensione e nella narcolessia, ma soprattutto attualmente come decongestionante nasale, grazie all’effetto di vasocostrizione per stimolazione dei recettori α-adrenergici. È somministrabile per via sistemica, anche parenterale (i.m. o e.v.), e per via topica. Gli effetti collaterali sono dovuti all’aumento della pressione arteriosa e alla stimolazione cardiaca (palpitazioni, tremori), e del SNC (agitazione, insonnia). La (+)-pseudoefedrina, – (+)-(1S,2S)-1-fenil-2-metilamino-1-propanolo –, enantiomero naturale della coppia racemica treo-pseudoefedrina (ψ-efedrina), costituisce il 1015% degli alcaloidi dell’efedra. La stereochimica (S) del C1 non è adatta per l’interazione con i recettori adrenergici, pertanto la sua azione simpaticomimetica si esplica essenzialmente per via indiretta. Risulta così meno attiva e con minori effetti collaterali dell’efedrina sia pressori, sia centrali, pur essendo in grado di attraversare la BEE. La (+)-pseudoefedrina è utilizzata esclusivamente come decongestionante

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CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali

BOX 23.5 ■ Stereochimica degli efedrinici L’efedrina presenta due centri stereogenici, corrispondenti ai due atomi di carbonio nelle posizioni 1 e 2 della catena propanolaminica. In questo caso, come pure in quello della norefedrina, sono possibili quattro stereoisomeri, che costituiscono due coppie di enantiomeri. La disposizione spaziale dei legami secondo Fischer è rappresentata da legami a croce, in cui i bracci laterali si protendono in avanti dal piano del foglio, mentre l’asse verticale è costituito da legami che entrano nel piano del foglio; ai punti d’intersezione, cioè al centro di ciascun incrocio, si trovano gli atomi di carbonio. In questo modo i sostituenti ossidrilico in C1 e quello aminico in C2 possono trovarsi dalla stessa parte (eritro) o da parti opposte (treo), in analogia alla stereochimica degli zuccheri eritrosio e treosio. Applicando la convenzione di Cahn, Ingold e Prelog o CIP (R/S) della IUPAC, la configurazione assoluta della (–)-efedrina e della norefedrina corrispondente risulta essere (1R,2S), mentre i loro rispettivi enantiomeri avranno configurazione invertita su entrambi i centri, e cioè (1S,2R), in quanto immagini speculari. L’altra coppia di enantiomeri, chiamata pseudoefedrina, differirà per la configurazione di uno dei carboni asimmetrici. Lo stereoisomero (1S,2S) è la (+)-pseudoefedrina ed è diastereoisomero dell’efedrina. L’enantiomero della (+)-pseudoefedrina, a sua volta, possiede entrambi i centri chirali a conformazione opposta, e cioè (1R,2R). A parte la relazione enantiomerica tra le molecole che sono tra loro speculari, tutte le altre relazioni, e cioè quelle in cui la configurazione è opposta per uno solo dei centri chirali, sono di tipo diastereoisomerico. Un discorso analogo vale per la norpseudoefedrina.

nasale. Purtroppo può costituire materiale di partenza per la sintesi illegale di metamfetamina, il che sta imponendo restrizioni alla vendita di medicinali OTC che la contengono. Alcaloidi secondari dell’efedra sono i derivati N-demetilati dei precedenti in forma otticamente attiva. La fenilpropanolamina (o norefedrina) – (1RS,2SR)-2-amino-1-fenilpropan-1-olo – è il racemo sintetico degli enantiomeri eritro corrispondenti all’efedrina. La stereochimica eritro identica a quella dell’efedrina comporta attività mista. L’altra coppia di enantiomeri (treo) costituisce la norpseudoefedrina, corrispondente alla pseudoefedrina (Box 23.5). La (+)-norpseudoefedrina è chiamata anche catina (alcaloide della Catha edulis). La fenilpropanolamina è un’amina simpaticomimetica con proprietà farmacologiche simili all’efedrina; è stimolante e anoressizzante. Tuttavia, la mancanza dell’N-metile non consente attività β2-adrenergica agonista. La maggiore polarità, dovuta al gruppo aminico non sostituito, procura minori effetti centrali e una più lunga durata d’azione rispetto all’efedrina. La fenilpropanolamina, che è espressamente esclusa dalla tabella degli stupefacenti, è utilizzata per via orale come decongestionante nasale da banco. Negli USA è stata ritirata dal commercio, per rischio di ictus cerebrale.

Fenilisopropilamine L’amfetamina – (±)-α-metil-feniletilamina – presenta un centro stereogenico (C-N) ed è utilizzata come racemo o

CH3 H H

2 1

CH3

NHCH3

H3CHN

H

HO

H

OH ENANTIOMERI

(–)-Efedrina

(+)-Efedrina

1R,2S (eritro)

1S,2R (eritro) DIASTEREOISOMERI

CH3 H3CHN H

2 1

CH3

H

H

OH

HO

NHCH3 H

ENANTIOMERI (–)-Pseudoefedrina

(+)-Pseudoefedrina 1S,2S (treo)

1R,2R (treo)

anche come singoli enantiomeri, aventi attività periferica quasi equivalente. NH2 CH3 (±)-Amfetamina

H N

CH3

CH3 (S)-Metamfetamina

La (S)-metamfetamina – (S)-(+)-N,α-dimetil-feniletilamina – è l’enantiomero più attivo, con impieghi simili a quelli dell’amfetamina. Le fenilisopropilamine (amfetaminici) rappresentano il risultato di un’ulteriore semplificazione strutturale dei derivati fenilpropanolaminici. La mancanza di ossidrili sia catecolici, sia in β sulla catena propilica non inficia l’attività adrenergica, che diventa però esclusivamente di tipo indiretto. Anzi, l’amfetamina è un capostipite dei farmaci adrenergici ad azione indiretta, proprio per le caratteristiche strutturali dell’atomo di N non sostituito e del metile in posizione α. Inoltre l’aumentata lipofilia ne promuove il passaggio attraverso la BEE, facilitando l’azione stimolante centrale, che consiste anche nell’aumentare il rilascio di dopamina. Per questo motivo, anche se in passato questi composti venivano usati quali vasocostrittori delle mucose delle vie aeree superiori in preparazioni per la cura sintomatica del raffreddore, attualmente sono in disuso per questa indicazione. In Italia l’uso illecito dell’amfetamina è

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FARMACI DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE E DELL’APPARATO RESPIRATORIO

H N CH3 Propilesedrina

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NH2 CH3

NH2

CH3

CH3

H3C Tuaminoeptano

HO Fenolpropamina

Figura 23.16 Strutture di alchilamine ad attività adrenergica indiretta.

sanzionato, in quanto inserita nella Tabella I delle sostanze stupefacenti e psicotrope, soggette a controllo nazionale e internazionale. Alchilamine  È noto da tempo che le amine alifatiche e la stessa ammoniaca, diluite, presentano proprietà decongestionanti, sfruttate in cosmetica. Non era infrequente, fino alla metà del secolo scorso, la pratica di medicina popolare, suffragata talora da vero e proprio consiglio medico, di far stazionare pazienti con insistenti riniti in stalle di paese o di fattorie in campagna, per trarre sollievo dalle esalazioni di ammoniaca provenienti dal letame del bestiame. Diversi composti aminici alifatici e cicloalifatici sono stati utilizzati in passato come agenti simpaticomimetici, e come decongestionanti nasali in particolare, da molto tempo prima che venisse scoperta l’adrenalina. Permangono

in commercio il tuaminoeptano – (±)-1-metilesilamina – e la propilesedrina – (±)-N,α-dimetil-cicloesiletilamina –, derivato cicloalifatico della metamfetamina e da questa ottenuta per idrogenazione catalitica dell’anello aromatico, con azione pressoria ed effetti centrali ridotti (Fig. 23.16). Sono utilizzati nel raffreddore comune, nella rinite allergica e nelle sinusiti. La propilesedrina è anche anoressizzante. Simile all’amina biogena tiramina è la fenolpropamina – (±)-1-(4-idrossifenil)propilamina iodidrato –, non propriamente semplice alchilamina. Infatti contiene la porzione p-fenolica e una catena laterale che può essere considerata bioisosterica con quella della tiramina, tipico simpaticomimetico indiretto. È disponibile in associazione con tonzilamina e lisozima in gocce nasali, controindicate al di sotto dei 12 anni d’età.

24

Insulina e farmaci ipoglicemizzanti Daniela Barlocco, Luca Costantino

24.1 Diabete e complicanze diabetiche 24.2  Insulina 24.2.1 Formulazioni d’insulina 24.2.2 Insuline modificate nella sequenza aminoacidica 24.2.3 Insuline innovative

24.3  Pramlintide 24.4  Ipoglicemizzanti orali 24.4.1 Sostanze che aumentano il rilascio d’insulina 24.4.2 Sostanze sensibilizzatrici all’azione dell’insulina

24.5  Sostanze in grado di interagire con il sistema delle incretine 24.5.1 A  naloghi di glucagon-like peptide 1 (GLP-1) 24.5.2 Inibitori di DPP-IV

24.6 Inibitori delle a-glicosidasi intestinali 24.7  Inibitori del trasportatore renale sodio-glucosio cotrasportatore 2 (SGLT2) 24.8 Nuovi approcci per la terapia del diabete: attivatori della glucochinasi (GC)

24.1 D  iabete e complicanze diabetiche Insulina e diabete sono un binomio inscindibile. Seppure le cause della malattia non siano state ancora del tutto spiegate, è tuttavia inequivocabile che a una mancanza o a una scarsa efficacia dell’insulina consegua sempre l’insorgere del diabete. Una malattia caratterizzata da un’eccessiva produzione di urine è stata descritta in un manoscritto egiziano risalente al 1500 a.C. Successivamente in India fu utilizzato il termine di “urine al miele”, sulla base della capacità di attrarre le formiche. Già nel 400-500 d.C. erano state individuate due forme della patologia, attualmente indicate come diabete di tipo 1 e 2. Il termine diabete (in greco “sifone”) fu coniato da Arateo di Cappadocia nel primo secolo d.C. L’aggettivo “mellito” fu aggiunto solo verso la fine del 1700.

La prima testimonianza del coinvolgimento del pancreas nella malattia venne da Paul Langerhans, che nel 1869, all’età di ventidue anni, identificò le cellule raggruppate in isole che presero il suo nome. L’insulina fu identificata all’inizio del 1900 separatamente da de Mayer e Schaefer. Nel 1921, con un esperimento di legatura del dotto pancreatico compiuto nel laboratorio diretto da Macleod, fu definitivamente provata la correlazione tra carenza d’insulina e diabete. Macleod e il suo collaboratore Banting ricevettero il Premio Nobel per i loro risultati. A riprova dell’importanza del lavoro di gruppo, essi lo condivisero con i principali collaboratori Best e Collip. È degno di nota ricordare che Banting non volle mai depositare un brevetto sulle sue scoperte relative all’insulina. Questa sua straordinaria generosità ha avuto un riconoscimento con la scelta del 14 novembre, data del suo compleanno, come giornata mondiale del diabete. Il diabete costituisce una patologia cronica, caratterizzata da elementi ambientali e di predisposizione genetica. Rappre-

CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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senta uno dei principali problemi di salute pubblica. Nel 2011 i pazienti diabetici erano 366 milioni (pari a 8,5% della popolazione mondiale; 3,5 milioni sono stimati in Italia) con una previsione di 552 milioni nel 2030. La malattia è caratterizzata da un innalzamento dei livelli ematici di glucosio, in condizioni normali regolati da insulina, che stimola la formazione di glicogeno e inibisce la glicogenolisi e la lipolisi in caso di iperglicemia. Altri agenti (glucagone, adrenalina, ormone della crescita) hanno effetto opposto. Come anticipato, si conoscono due forme di diabete: • diabete di tipo 1, caratterizzato da mancanza d’insulina in seguito a un’alterazione delle cellule β delle isole del Langerhans, spesso di tipo autoimmune; • diabete di tipo 2, caratterizzato da una combinazione di carenza d’insulina e di resistenza alla stessa. È spesso associato a obesità. Il diabete è una malattia che resta per anni silenziosa e questo probabilmente facilita l’insorgenza di numerose patologie collaterali, dette complicanze diabetiche, quali nefropatie, retinopatie (portano spesso a cecità), neuropatie e malattie cardiovascolari. Anche se non c’è un’interpretazione comune sul legame tra iperglicemia e complicanze diabetiche, alcuni meccanismi sono indicati come più probabili. Tra questi, attivazione delle proteinchinasi C, aumento della glicazione (glicosilazione non enzimatica delle proteine) con la formazione di AGE (advanced glycation end products), aumento dello stress ossidativo, attivazione della via dei polioli. La scoperta di biomarker per l’individuazione di condizioni prediabetiche è uno degli obiettivi principali della ricerca, al fine di poter prevenire l’insorgere dell’iperglicemia, possibile responsabile delle complicanze. Ne sono stati ipotizzati alcuni: livelli di emoglobina glicata (relazione diretta), high-density lipoprotein cholesterol (HDL-C) e HDL (relazione inversa). L’emoglobina glicata (HbA1C, Fig. 24.1) è un marker clinico della glicemia nell’arco di 2-4 mesi (tempo richiesto per il completo turnover dell’emoglobina). Essa deriva dalla reazione tra il gruppo aldeidico del glucosio e il gruppo aminico N-terminale della valina, con formazione di una base di Schiff. In individui normali, i livelli di HbA1C sono del

Emoglobina-NH2 H H HO

O OH H

H

OH

H

OH

CH2OH Glucosio

H

N-Emoglobina

H

OH

HO -H2O

H

H

OH

H

OH CH2OH

Emoglobina glicata (HbA1C) (Base di Schiff)

Figura 24.1 Glicazione dell’emoglobina.

4-6%; l’obiettivo della terapia antidiabetica è di contenere tale valore entro il 6,5-7%. Per quanto riguarda HDL, il suo cattivo funzionamento ha come conseguenza una maggior sensibilità delle cellule β del pancreas allo stress ossidativo, all’apoptosi (morte cellulare), infiammazione e accumulo di colesterolo.

24.2 Insulina L’insulina ha rappresentato una pietra miliare nella storia della medicina. È stato il primo ormone a essere isolato e impiegato a scopi terapeutici e il primo a essere prodotto e modificato con le biotecnologie. È il farmaco di elezione per il trattamento del diabete di tipo 1 e in alcuni casi può essere impiegata anche nel diabete di tipo 2. Viene prodotta nell’organismo in forma di pre-proinsulina (110 aminoacidi), che rilascia la proinsulina (86 aminoacidi), che a sua volta libera insulina (51 aminoacidi). La secrezione d’insulina è regolata da diversi agenti, oltre che dall’innalzamento del glucosio, tra cui aminoacidi e acidi grassi, catecolamine, acetilcolina e ormoni prodotti dalle cellule endocrine del tratto gastrointestinale. L’insulina è un ormone polipeptidico prodotto dalle cellule β del pancreas, costituito da 2 catene: A, formata da 21 aminoacidi, e B, formata da 30 aminoacidi, legate da 2 ponti disolfuro (Fig. 24.2). Sulla catena A esiste un terzo ponte disolfuro. L’ormone agisce come monomero ma dimerizza e successivamente tre dimeri si uniscono tramite interazione con 2 ioni zinco a formare esameri, che costituiscono la forma di deposito. L’insulina agisce legandosi a uno specifico recettore di membrana. L’unico reale pericolo associato all’utilizzo d’insulina è il sovradosaggio, che può portare a stati d’ipoglicemia grave, talvolta mortale. Il rimedio più sicuro in questi casi è il glucagone.

24.2.1 Formulazioni d’insulina L’emivita dell’insulina naturale è di 4-6 minuti. Sono state preparate diverse formulazioni e diverse forme modificate allo scopo di migliorare il controllo glicemico del soggetto diabetico e quindi rallentare la comparsa delle complicanze (Tab. 24.1). Sia le une sia le altre hanno portato alla disponibilità di farmaci ad azione rapida, intermedia e lenta. La diversa durata d’azione nelle formulazioni è ottenuta variando la granulometria della sospensione e le concentrazioni di ioni zinco e di protamina, proteina basica in grado di formare legami ionici con l’insulina (entrambe sono infatti cariche a livello fisiologico, con carica positiva e negativa, rispettivamente). Al fine di evitare l’iniezione sottocutanea richiesta per la somministrazione d’insulina, sono state studiate anche diverse formulazioni d’insulina inalabile, ma l’unica che ha raggiunto il mercato per breve tempo (Exubera, PfizerNektar Therapeutics, 2006) è stata ritirata l’anno successivo, a causa di risultati insoddisfacenti, spesso dovuti a scarsa farmacocinetica.

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

Figura 24.2 Struttura dell’insulina e principali modifiche apportate.

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CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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Tabella 24.1 Formulazioni d‘insulina e insuline modificate disponibili. Durata d’azione

Tipo d’insulina

Aspetto

Componenti aggiuntivi

Sequenza nativa

Insulina regolare

Soluzione

Zinco (0,01-0,04 mg/100U)

Modificazione nella composizione aminoacidica

Insulina lispro

Soluzione

Modificazione nella composizione aminoacidica

Insulina aspart

Soluzione

Modificazione nella composizione aminoacidica

Insulina glulisina

Soluzione

Sequenza nativa

Insulina NPHa

Sospensione

Zinco (0,01-0,04 mg/100U), protamina (0,32-0,44 mg/100U)

Sequenza nativa

Insulina umana lenta

Sospensione

Zinco (0,12-0,25 mg/100U)

Sequenza nativa

Insulina ultralenta

Sospensione

Zinco (0,12-0,25 mg/100U)

Modificazione nella composizione aminoacidica

Insulina glargine

Soluzione

Modificazione nella composizione aminoacidica

Insulina detemir

Soluzione

Insuline premiscelate (varie preparazioni)

Sospensioni

Azione breve

Azione intermedia

Azione protratta

Azione breve: insorgenza: 0,5 ore dall’iniezione, picco a 2 ore, durata 5 ore; azione intermedia insorgenza a 1,5 ore, picco a 9 ore, durata 20 ore, azione protratta insorgenza a 5 ore, picco a 15 ore, durata > 24 ore. a NPH: Neutral Protamine Hagedorn, combinazione equimolecolare tra insulina e la proteina basica protamina, che forma una sospensione: Hagedorn fu lo scopritore (1936) e la preparazione viene effettuata a pH neutro; per tale preparazione si usa anche il termine “isofano NPH”.

24.2.2 Insuline modificate nella sequenza aminoacidica Le biotecnologie hanno recentemente permesso la preparazione d’insuline modificate con diversa durata d’azione. La maggior parte delle modifiche riguarda la regione compresa tra gli aminoacidi B26-B30, che non ha una funzione critica per il legame col recettore dell’insulina (Fig. 24.2). Tramite modifiche degli aminoacidi coinvolti nel processo di dimerizzazione sono state ottenute insuline ad azione rapida. • Insulina lispro: differisce da quella umana per inversione di due aminoacidi della catena B. Ha quindi lisina in posizione 28 e prolina in posizione 29. • Insulina aspart: differisce da quella umana per la sostituzione della prolina in posizione 28 sulla catena B con acido aspartico. Si viene così a creare una repulsione tra cariche negative che sfavorisce la formazione di aggregati. Le insuline ad azione lenta sono state per lo più ottenute modificando il punto isoelettrico (PI) del peptide con l’inserimento di aminoacidi basici come Arg. (Il PI è il valore di pH al quale una proteina non migra in campo elettrico; si ha un bilanciamento tra le cariche positive e quelle negative e quindi un minimo di solubilità.) • Insulina glargine: rispetto all’insulina nativa presenta la sostituzione della Gly21 (catena A) con una Asn e l’addizione di due molecole di Arg nella catena B nel residuo C-terminale (Arg31 e Arg32). (PI insulina = 5,4; PI insulina glargine = 7,0)

24.2.3 Insuline innovative Anche l’acilazione del gruppo aminico della Lys B29 con un acido grasso favorisce il legame con l’albumina, ritardando sia l’assorbimento dal sito d’iniezione sia la distribuzione. Esempi sono: • insulina detemir: rispetto all’insulina nativa presenta la rimozione della treonina B30 e l’acilazione con acido miristoilico del gruppo aminico laterale della lisina B29; • insulina degludec: simile alla precedente, ma tra il gruppo aminico laterale della lisina e l’acido esadecacadioico usato come acilante viene inserita una molecola di acido glutamico. Sono inoltre allo studio numerose forme d’insulina attive per via orale. Al momento nessuna di queste è tuttavia disponibile commercialmente.

24.3 Pramlintide La pramlintide è un peptide sintetico di 37 aminoacidi somministrato per via sottocutanea come l’insulina (Fig. 24.3). Ha caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche analoghe all’amilina umana, ed è entrata in terapia per il trattamento del diabete di tipo 1 e 2. L’amilina è un peptide di 37 aminoacidi a catena singola secreta dalle cellule β del pancreas in risposta ai pasti, insieme all’insulina. Essa agisce su recettori del SNC ed è carente in pazienti affetti da diabete di tipo 2; media la riduzione dell’assorbimento di glucosio rallentando lo svuotamento gastrico, promuovendo il senso di sazietà e inibendo la secrezione di glucagone. L’amilina umana forma facilmente aggregati insolubili e non può esse-

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

23

29

Amilina umana

-Phe-Gly-Ala-Ileu-Leu-Ser-Ser-

Amilina di ratto

-Leu-Gly-Pro-Val-Leu-Pro-Pro-

Pramlintide

-Phe-Gly-Pro-Ileu-Leu-Pro-Pro-

Figura 24.3 Differenze tra la sequenza di amilina umana, quella di ratto e pramlintide.

re utilizzata terapeuticamente. La scoperta della pramlintide ha preso spunto dalla sequenza di amilina di ratto, che non forma aggregati.

24.4 Ipoglicemizzanti orali 24.4.1 S  ostanze che aumentano il rilascio d’insulina Sulfaniluree e glinidi Le sulfaniluree sono agenti insulinotropici che stimolano direttamente le cellule β delle isole del Langerhans a rilasciare insulina. Sono in grado di chiudere i canali del K+ presenti sulle cellule β, causando depolarizzazione della cellula e apertura dei canali del Ca2+, promuovendo così la secrezione d’insulina. Le sulfaniluree sono nate dalla ottimizzazione dell’effetto collaterale ipoglicemizzante di un sulfamidico (2254 RP, derivato isopropiltiadiazolico della sulfanilamide, Cap. 17), e vengono suddivise in composti di I generazione (generalmente ad azione breve, recanti sostituenti R1 di piccole dimensioni) e di II generazione, a maggiore durata d’azione, recanti sostituenti voluminosi in R1 (Fig. 24.4). Il primo termine della serie è stata la carbutamide (1956), che manteneva debole attività antibatterica data la presenza del gruppo aminico primario; essa è stata in breve tempo sostituita dalla tolbutamide (1956), il cui gruppo metile era però substrato dei CYP450 con formazione d’idrossimetile e conseguente glucuronazione. La sostituzione del metile con un cloro (clorpropamide) ha portato a un composto difficilmente metabolizzabile e con emivita più lunga. Le glinidi hanno avuto origine dallo studio dell’effetto biologico di una porzione della molecola della glibenclamide, inaspettatamente dotata di attività ipoglicemizzante. Pur non essendo delle sulfaniluree, hanno meccanismo d’azione e caratteristiche farmacologiche del tutto simili. Entrambe le classi sono attive per via orale, hanno un’eccellente biodisponibilità e possono causare ipoglicemia.

24.4.2 S  ostanze sensibilizzatrici all’azione dell’insulina Biguanidi Lo sviluppo delle biguanidi prese spunto dall’osservazione clinica riportata nel 1914 da F. P. Underhill e N. R. Blatherwick su frequenti casi d’ipoglicemia in pazienti sottoposti a paratiroidectomia. Due anni più tardi C. K. Watanabe ipo-

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tizzò un legame tra l’elevata concentrazione di guanidina nel sangue di questi soggetti e le crisi ipoglicemiche. I primi composti a essere preparati furono derivati monoguanidinici, che tuttavia mantenevano l’elevata tossicità del composto di partenza. Nel 1926 divenne disponibile la prima biguanide, sintalina A, seguita poco dopo dalla sintalina B. Sviluppi successivi portarono alla sintesi di numerosi analoghi, di cui solo la metformina, derivata da studi fatti su composti biguanidinici presenti nella pianta Galega officinalis, è attualmente utilizzata. NH H2N

NH N H

N

CH3

CH3

Metformina

La metformina è fortemente basica (pKa = 11,5) ed è quasi completamente protonata a pH fisiologico. L’assorbimento della metformina dopo somministrazione orale è incompleto e il 30% della dose viene ritrovato nelle feci; non viene metabolizzata e viene escreta nelle urine inalterata. Essa è stata introdotta nel 1950 come agente antiperglicemizzante in quanto non causa ipoglicemia, aumenta la sensibilità all’insulina e non è attiva in assenza della stessa. Il principale effetto antidiabetico è dovuto alla soppressione della produzione epatica di glucosio (riduzione della gluconeogenesi) e a un migliore utilizzo del glucosio nei tessuti periferici.

Ligandi PPAR-γ I tiazolidindioni (chiamati anche glitazoni) sono composti destinati alla somministrazione orale per il trattamento del diabete di tipo 2. Questi composti, di cui si mise in luce l’effetto farmacologico antiperglicemizzante prima della scoperta del loro meccanismo d’azione, si comportano come agonisti del recettore PPAR-γ (peroxisome proliferator-activated receptor γ); esso è un membro della famiglia di recettori ormonali nucleari che agiscono come fattori di trascrizione, modulando l’espressione genica di proteine coinvolte nel metabolismo di carboidrati e proteine, nonché nella differenziazione degli adipociti. Diversi acidi grassi, con il loro raggruppamento carbossilico terminale, sono ligandi naturali per questi recettori. L’anello tiazolidindionico, eterociclo debolmente acido e parzialmente ionizzato a pH fisiologico (la carica negativa risultante viene dispersa facilmente sui due carbonili adiacenti, come mostrato in Fig. 24.5), si comporta come bioisostero del gruppo carbossilico. In accordo con l’importanza della presenza di una forma ionizzata per l’interazione col recettore, sono stati preparati agonisti in cui è presente un carbossile, ma essi non sono stati approvati per l’uso clinico. Nonostante la loro efficacia, questi composti esercitano molti effetti collaterali legati all’attivazione dei recettori PPAR-γ, come incremento di peso e un aumentato rischio d’infarto; per questi motivi molti termini sono stati ritirati dal mercato e la ricerca in questa direzione è stata per lo più sospesa.

CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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Sulfaniluree di I generazione R2

R1 Carbutamide

NH2

CH3

Tolbutamide (12 ore)

CH3

CH3

Clorpropamide (60 ore) Cl

CH3

CH3

Tolazamid (12 ore)

N

Sulfaniluree di II generazione (24 ore) R1

R2

O N H

Glipizide H3C O N

H3C

Glimepiride

N H CH3

O

H3C

O

R1 S O2

H N

H N

Cl

Gliburide R2

O

O

N H CH3

O Glibenclamide

Cl O

CH3

Glinidi (poche ore) O O

OH

O Cl O

N H

H3C

CH3

O

Nateglinide

CH3

Meglitinide

OH

R

N H N

O H

N

OH

S

O H

Mitiglinide

H3C

O

O CH3

Repaglinide

CH3 OH

O

Figura 24.4 Termini rappresentativi di sulfaniluree e glinidi. Le ore indicate tra parentesi indicano la durata dell’effetto.

569

570

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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Figura 24.5 Strutture di risonanza della forma ionizzata dei tiazolidindioni, termini entrati in terapia e meccanismo d’azione.

24.5 S  ostanze in grado di interagire con il sistema delle incretine Le incretine sono un gruppo di ormoni peptidici secreti dall’apparato gastrointestinale in grado di stimolare una riduzione della glicemia mediante un incremento del rilascio d’insulina da parte delle cellule β del pancreas dopo i pasti e da una diminuzione della secrezione di glucagone da parte delle cellule α. Esplicano la loro azione mediante interazione con recettori accoppiati alle proteine G (GPCR). Si può agire su questo sistema in due modi: • con analoghi a emivita più lunga dell’ormone naturale glucagon-like peptide 1 (GLP-1); • con inibitori della proteasi serinica dipeptidil peptidasi IV (DPP-IV).

Tali sostanze sono molto efficaci, ma recentemente è stato notato che esse possono causare gravi effetti collaterali e il loro futuro terapeutico appare incerto (Fig. 24.6).

24.5.1 A  naloghi di glucagon-like peptide 1 (GLP-1) Glucagon-like peptide 1 (GLP-1) è il principale rappresentante delle incretine. Esso è sintetizzato a partire dal peptide proglucagone, che libera, mediante proteolisi selettiva, GLP-1 (7-37) e GLP-1 (7-36) amide (la numerazione fa riferimento alla catena del proglucagone; per convenzione, i peptidi si scrivono sempre con l’N-terminale a sinistra, e il carbossile terminale a destra; un –NH2 a destra significa che il peptide non ha un gruppo -COOH terminale, ma un

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CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

Figura 24.6 Interazioni possibili con le incretine.

BOX 24.1 ■ Sintesi della liraglutide Poiché la sintesi prevede un attacco nucloeofilo da parte di -NH2 della Lys26 di GLP-1, bisogna impedire che reagisca anche la Lys in posizione 34; la sostituzione con un aminoacido recante una catena laterale più basica, Arg, che ha una guanidina al posto del gruppo aminico pri-

mario, fa sì che quest’ultima, essendo ancora protonata a un pH in cui l’amina primaria non lo è più, non reagisca con l’acido glutamico attivato (pKa della base coniugata > 14 per Arg, 10 per Lys).

571

572

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

gruppo amidico -CONH2). GLP-1 non può essere utilizzato come farmaco perché possiede un’emivita brevissima a causa del metabolismo operato da una proteasi serinica, la dipeptidil peptidasi IV (DPP-IV). Sono però entrati in commercio analoghi a maggiore durata d’azione, tra cui l’exenatide e la liraglutide. L’exenatide è il progenitore di una nuova classe di farmaci detti incretinomimetici ed è l’analogo sintetico di un peptide isolato dalla saliva di una lucertola, Gila monster. Presenta il 53% di omologia con GLP-1, con cui condivide il meccanismo d’azione. Ha però emivita più lunga poiché non viene metabolizzata efficacemente da DPP-IV (il secondo aminoacido è una Gly e non una Ala, e DPP-IV preferisce come substrato in quella posizione Ala oppure Pro). Viene somministrato mediante iniezione sottocutanea a dosi da 5 a 10 μg una volta al giorno un’ora prima del pasto. A differenza di GLP-1, l’exenatide riduce anche l’assunzione di cibo e rallenta lo svuotamento gastrico, ritardando quindi l’immissione in circolo di glucosio. Nella liraglutide il gruppo aminico laterale della Lys26 è stato acilato con un residuo di acido glutamico, a sua volta derivatizzato con un acido grasso (Box 24.1): in questo modo vengono rallentati sia l’assorbimento dal sito d’iniezione sia il metabolismo da parte di DPP-IV; la sostituzione di Lys34 con Arg è motivata dalla necessità di limitare i centri reattivi durante la sintesi (Fig. 24.7).

Figura 24.7 Struttura di GLP-1 e dei suoi derivati.

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Altre due sostanze sono in sperimentazione clinica per somministrazione sottocutanea (Fig. 24.7): albiglutide (proteina di fusione tra albumina umana, HSA, e un dimero di GLP-1 nel quale Ala in posizione 8 è stata sostituita con Gly per ridurre l’affinità con DPP-IV) e taspoglutide, analogo di GLP-1 (7-36) in cui la resistenza a DPP-IV viene ottenuta mediante sostituzione di Ala in posizione 8 con una 2-metil-Ala. L’emivita di taspoglutide è breve (4-5 minuti), ma quando viene allestita la soluzione in presenza di ZnCl2, il composto precipita dopo iniezione sottocutanea e viene ceduto lentamente dal sito d’iniezione; viene somministrata una volta a settimana.

24.5.2 Inibitori di DPP-IV L’enzima DPP-IV è una proteasi serinica, in cui l’ossidrile di una serina effettua un attacco nucleofilo al carbonio carbonilico di un legame amidico con conseguente idrolisi. (Il funzionamento di una proteasi serinica è uguale a quello dell’acetilcolinesterasi. In quest’ultimo caso però viene idrolizzato il gruppo funzionale estereo dell’acetilcolina e non un legame amidico.) La DPP-IV metabolizza numerosi peptidi, rimuovendo due aminoacidi a partire dalla loro porzione N-terminale, e ha una preferenza per gli aminoacidi Ala o Pro in posizione 2 (H2N-Xaa-Ala- oppure H2N-Xaa-Pro-; Xaa designa un aminoacido qualunque; non è importante ai

CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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fini del riconoscimento da parte di DPP-IV). In particolare, DPP-IV è in grado di inattivare la forma attiva di GLP-1 (736) convertendolo nella forma inattiva GLP-1 (9-36). La prima classe di composti in grado di inibire tale enzima è costituita da composti che ricordano il substrato, formati da due aminoacidi, uno dei quali è prolina, in cui il legame amidico che viene scisso è sostituito con un elettrofilo (nei prodotti commerciali un nitrile) in grado di reagire con la Ser630 del sito catalitico. Tali composti presentano

un gruppo aminico primario corrispondente al gruppo Nterminale del substrato peptidico (Fig. 24.8A). Essi non sono però molto stabili a causa della reazione intramolecolare che possono facilmente subire, con formazione di una dichetopiperazina inattiva (Fig. 24.8B). A tal fine sono stati introdotti sostituenti voluminosi, come l’adamantano, in grado di ostacolare tale reazione. Nel caso della vildagliptina e della anagliptina si ha un’amina secondaria anziché primaria, come sarebbe richieOH O

CN N

NH2

A)

Saxagliptina

O

Xaa

NH-Xaa

N

Sostituzione del legame amidico da idrolizzare con un gruppo elettrofilo (il CN è risultato il migliore)

OH

H N

O N

Cianopirrolidine

Struttura del substrato e punto di idrolisi da parte di DPP-IV

Vildagliptina

N H3C

H3C H N

N

N

O Anagliptina B) R N

H2N

O O

H2O

N

N

O

C NH N H Imidato ciclico

N

Legame ionico tra il gruppo aminico terminale del peptide substrato o dell’inibitore Glu205/Glu206 -COO-

Glu205/Glu206 -COO+

NH3

N 

O

N O

R

R

NH3+ R 

O N H Dichetopiperazina

R

Ciclizzazione (reazione nucleofila intramolecolare)

C)

CN

C

OSer

HN +



H

C

O

N - Ser-OH Glicine sostituite

Interazione con Ser catalitica

Legame H che stabilizza l’imidato

Tyr547

Figura 24.8 Strategie di progettazione di inibitori di DPP-IV e interazione con l’enzima.

CH3 N H

N O

CN

573

574

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

sto in base all’analogia col substrato; il sito catalitico dell’enzima è comunque evidentemente in grado di accogliere il sostituente. In Figura 24.8C è riportata la modalità di legame della saxagliptina con DPP-IV, come evidenziato dalla struttura a raggi X. Un’altra classe chimica che sta emergendo è quella delle β-aminoamidi sostituite, omologhi superiori dei composti precedenti, il cui capostipite, il primo di questa categoria a essere stato approvato, è la sitagliptina (Fig. 24.9 e Box 24.2). Da uno screening di circa 500 000 composti sono stati evidenziati possibili lead a struttura xantinica, successivamente ottimizzati a dare, tra altri, linagliptina e alogliptina (Fig. 24.10).

24.6 Inibitori delle a-glicosidasi intestinali Prima dell’assorbimento, i carboidrati della dieta devono essere idrolizzati enzimaticamente a monosaccaridi nel tratto gastrointestinale. Gli enzimi che catalizzano tale idrolisi a carico del legame α-glicosidico vengono chiamati α-glicosidasi (Fig. 24.11). Gli inibitori di questi enzimi riducono l’assorbimento intestinale di amido e disaccaridi; il picco postprandiale di glucosio plasmatico viene quindi abbassato.

CH3

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Nella Figura 24.12 è riportato il meccanismo di idrolisi di un legame glicosidico in parallelo con l’idrolisi di un acetale (omettendo gli aminoacidi coinvolti nella reazione enzimatica; la reazione è analoga all’idrolisi di un legame glicosidico effettuata in laboratorio per effetto di catalisi acida, senza la presenza di enzima). Le glicosidasi effettuano l’idrolisi grazie alla presenza nel sito catalitico di due residui di acido glutamico, che forniscono l’acidità necessaria. La catalisi avviene mediante protonazione dell’ossigeno esociclico da parte di un residuo di acido glutamico, che lo converte in un buon gruppo uscente con formazione di uno ione ossonio. Esso reagisce con una molecola di acqua, assistito dalla presenza del secondo carbossilato, per originare un emiacetale. Si ritiene che lo stato di transizione di una reazione enzimatica sia il punto che richiede il massimo livello di stabilizzazione enzimatica; composti quindi in grado di mimare lo stato di transizione, da un punto di vista sterico ed elettronico, possono essere inibitori enzimatici molto potenti. La progettazione di analoghi stabili dello stato di transizione è quindi un attraente bersaglio nella progettazione di inibitori enzimatici. Sono entrati in commercio alcuni inibitori delle α-glicosidasi intestinali che, a pH fisiologico, mimano l’ossigeno esociclico che viene protonato nel corso della reazione enzimatica di idrolisi del legame glucosidico, grazie alla presenza di un gruppo aminico secondario. Essi sono acarbosio

O

H3C

N

S

F

NH2

NH2

O

F

O

NH2

O

F

R

N

N

R

H N

N

N

Sitagliptina

CF3

N

Glu205/Glu206 -COO-

Composti lead inibitori di DPP-IV ottenuti da screening

+

R

NH3 

N H3C

N

O N

-Aminoamidi (formula generale) N N

Teneligliptina

O N H

N S

Figura 24.9 Strategie di progettazione di altri inibitori di DPP-IV.

Composti eterociclici

R1

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BOX 24.2 ■ S  intesi di sitagliptina dal laboratorio di ricerca all’industria di produzione Il processo di sintesi impiegato per la scoperta di un nuovo farmaco, effettuato in scala di laboratorio (ordine di grammi), è di solito progettato per fornire facilmente un numero elevato di analoghi. Tuttavia, una volta che il canA)

F

F

NH2

F

O

didato farmaco entra e procede attraverso le fasi cliniche, è necessaria una procedura di sintesi efficiente, applicabile industrialmente, a basso impatto ambientale (principi della green chemistry) e che possa fornire rapidamen-

F

HN

F

NH2

R

O

N

F

N

N

N

N

OH

N

F3C

N

F3 C

B) O

CH3

HC

CH3

N

R1

O

H 3C

CH3 O

CH3

3

HCl (Boc)2O

2

NHBoc O O

N

O

F

CH3

R1

N

N

F

Cl NHBoc H2 C

N

CH3

H3C

1

CH3

O

Br

N

N

CH3

O

CH3

F

F

F

C4H9Li

N

H2C

H3C

O

F

H2C

7

O O

O

CH3 Cl

CH3

NHBoc

CH3 O

CH3

O

R1

N

N

5R=H

6

CH2N2

R

O 4 R = CH3

-HCl CH3Cl + N2

NHBoc R1

NHBoc N

O

-N2

N

R1

Ag2O

NHBoc H

NHBoc

O

C

R1

H

8

C

R1

O

O

H

9

HN

NHBoc

O

13

R1

F F

NHBoc

N N

N

NHBoc

11 R = CH3

N

10

O

R1

R

N

N

Sitagliptina

C H

N

C

CH3OH

12 R = H

N

H2N F

R1

OR

F3C

R1 =

O

R1

F3C

N 14

N

N CF3

O

575

576

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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te quantità crescenti di sostanza per i test clinici. Esiste sempre una certa resistenza a cambiare completamente la procedura di sintesi, a causa della necessità di avere il profilo delle impurezze analogo tra i composti usati nei saggi animali e quelli eseguiti sull’uomo. La sitagliptina è stata sintetizzata inizialmente in base allo schema retrosintetico descritto in (A). Secondo tale strategia, la sintesi del composto è stata fatta derivare dalla reazione tra un β-aminoacido chirale e un sistema eterociclico biciclico. Nella parte (B) viene riportata la procedura inizialmente utilizzata per la componente aminoacidica del prodotto (la sintesi dell’eterociclo non verrà discussa). In questi schemi i prodotti tra parentesi quadra sono sostanze che non vengono isolate, ma utilizzate come tali. Centrale nel processo è la reazione di omologazione di Arndt-Eistert che sfrutta la trasposizione di Wolff, in cui l’α-aminoacido (5) viene omologato a (12). Il processo sintetico inizia con la sintesi dell’aminoacido (4): al fine di ottenere la corretta stereochimica è stato usato l’ausiliario chirale (1) (reagente di Schollkopf, (2S)-(+)-2,5-diidro-3,6-dimetossi-2-isopropilpirazina), che subisce attacco nucleofilo al sale di litio dal lato stericamente meno impedito. Il composto (3) viene idrolizzato, protetto alla funzione aminica con di-t-butildicarbonato (Boc) (4) quindi idrolizzato a (5). Il trattamento di quest’ultimo con isopropilcloroformiato seguito da diazometano origina il diazochetone (7). La reazione viene condotta in presenza di due equivalenti di diazometano: il primo effettua l’attacco nucleofilo che conduce a (7), il

secondo reagisce con l’acido cloridrico che si forma, che potrebbe condurre alla sintesi di clorochetoni, originando azoto e cloruro di metile. Il successivo riarrangiamento di Wolff in presenza di sali di Ag+ conduce all’estere (11) via carbene (9) e chetene (10), quindi, dopo idrolisi, all’acido (12). Quest’ultimo prodotto viene quindi fatto reagire con l’amina (13) mediante la chimica di formazione dei legami peptidici (1-idrossibenzotriazolo, HOBT, 1-etil-3-(3-dimetilaminopropil)carbodimide, EDC, N,N-diisopropiletilamina, DIPEA) per originare il prodotto finale. Tale schema presenta diversi aspetti problematici per quanto riguarda la possibilità di sintetizzare quantitativi relativamente grandi di sostanza. Il primo passaggio prevede l’uso di un ausiliario chirale (1), che non viene recuperato. La separazione e purificazione del prodotto può essere difficile. La necessità di introdurre un gruppo protettore (Boc) incrementa il numero di passaggi e richiede reagenti addizionali, quindi un aumento di prodotti collaterali. Il diazometano (CH2N2) è altamente tossico e il diazocomposto che si ottiene può essere esplosivo. L’uso di sali di Ag+ nella trasposizione di Wolff introduce un metallo pesante in prossimità del termine del processo di sintesi, e questo ione potrebbe quindi rimanere nel prodotto finito come impurezza. La sintesi ottimizzata per la preparazione industriale è riportata in (C). L’acido di Meldrum (16) agisce come un sintone a due atomi di carbonio e come un carbossilato

O

C)

F

O

F

CH3

F

O

F

O

O

OH

O

CH3

O

16

CH3

F

OH

O

O

F 15

CH3

17

F F

O

O

N

N

N F

N

N

H2N Transaminasi

CH3

O

CH3

F NH2

H3C

CH3

O N

N F

N Sitagliptina

N CF3

F F

O

O O

O CH3

N CF3

13

CF3

19

F

N

HN

CH3

F

O

CO2 CH3

18

O

CH3

CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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attivato per la formazione del legame amidico. L’acido (15) attivato con pivaloil cloruro o carbonildiimidazolo consente la sintesi di (17) e quindi di (19). L’ultimo passaggio è eseguito mediante una reazione catalizzata da una transaminasi, ingegnerizzata per accettare come substrato il composto (19). Tale enzima è in grado di convertire concentrazioni di 200 g/L di substrato a sita-

gliptina (non è necessario lavorare in condizioni diluite, cosa che complica il recupero del prodotto finito) con un eccesso enantiomerico > 99,95% in presenza di concentrazioni di enzima di 6 g/L in DMSO acquoso al 50% v/v, con una resa del 92%, senza prevedere l’uso di apparecchiature dedicate. Il vantaggio, rispetto alla sintesi iniziale, è evidente.

O 1

O

HN N

HN

N

NH

N

N

O

O

2

6

5

3 4

N H

H N 7

9

8

N

Xantina (2,6-diossopurina)

CH3 Lead da screening (500 000 composti)

CN O H3C O

N

N

N N

N

NH2

CH3

Il nitrile non interagisce con Ser630 (Ser catalitica) ma con Arg125

CH3

O N

N N

CH3

O

O

N

H3C

N N

CH3

N

CN N

N NH2

Linagliptina

O

NH2

Alogliptina

Interazione con Glu205/Glu206

Figura 24.10 Derivati xantinici, poi ottimizzati, di inibitori di DPP-IV originati da screening di composti.

(un prodotto naturale ottenuto da fermentazione di Actinoplanes) e voglibosio. Contemporaneamente, l’acarbosio, a causa del doppio legame presente nell’anello cicloesanico, ricorda anche la struttura dello ione ossonio, simile quindi alla

struttura dello stato di transizione della reazione glicolitica, anche se solo da un punto di vista geometrico, poiché manca la carica positiva sull’ossigeno e l’atomo di ossigeno piranico stesso (approccio seguito anche dai chimici farmaceutici:

577

578

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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OH Acarbosio

HO

OH

HO

O

OH N H HO

OH

OH

O

O HO

OH

1

OH

Acarviosina

4

O

 O

HO

OH OH HO HO

OH

OH

Maltosio (Glucosio (1-4) Glucosio)

O

OH

OH HN

OH

Voglibosio

HO HO

N

OH

OH

OH

Miglitolo

Figura 24.11 Struttura degli inibitori delle a-glicosidasi intestinali.

vedi ad es. la progettazione dell’antivirale oseltamivir, nel quale un cicloesene ha sostituito l’anello piranico dell’acido sialico). Il miglitolo, un altro inibitore delle α-glicosidasi intestinali, grazie alla presenza del gruppo aminico secondario al posto dell’ossigeno piranico, mima a pH fisiologico lo ione ossonio, in virtù della carica, ma ha una conformazione a sedia anziché la necessaria conformazione half-chair; la somiglianza con lo stato di transizione anche in questo caso è limitata, in quanto non è possibile per lo stato di transizione possedere la carica sull’ossigeno dell’anello e contemporaneamente una conformazione a sedia. In Figura 24.12 si nota la somiglianza di acarbosio, voglibosio e miglitolo (di cui sono state riportate solo le porzioni di molecola rilevanti ai fini della discussione circa la motivazione della loro struttura) con la struttura degli intermedi (e dei corrispondenti stati di transizione) della reazione di idrolisi dei legami glucosidici. Gli inibitori delle α-glicosidasi intestinali non provocano ipoglicemia, però causano flatulenza, diarrea e distensione addominale a causa della fermentazione dei carboidrati non idrolizzati e assorbiti, causata dai batteri del colon.

24.7 Inibitori del trasportatore renale sodio-glucosio cotrasportatore 2 (SGLT2) Questi composti hanno come bersaglio il trasportatore di glucosio SGLT2 presente nel tubulo prossimale del nefrone (rene) e responsabile del riassorbimento della maggior parte del glucosio ultrafiltrato. La rimanente quantità viene riassorbita dall’ultrafiltrato mediante un altro trasportatore, SGLT1 (Tab. 24.2). Mentre SGLT2 è espresso solamente nel rene, SGLT1 è presente in altri tessuti, compreso il cuore, con funzioni biologiche ignote, e nell’intestino tenue, dove effettua l’assorbimento del glucosio e galattosio attraverso la parete intestinale. Il composto lead per questi inibitori è stato il composto naturale β-O-glucosidico florizina (Fig. 24.13), isolato dalla radice del melo nel 1835 e oggetto di numerose ricerche, che però in vivo si era dimostrato poco biodisponibile e soggetto a idrolisi da parte delle β-glicosidasi intestinali.

Tabella 24.2 Trasportatori di glucosio SGLT1 e SGLT2. SGLT1

SGLT2

Sito

Principalmente intestino tenue, ma anche nel rene (tubulo contorto prossimale del nefrone)

Rene (tubulo contorto prossimale del nefrone)

Affinità per il glucosio

Alta

Bassa

Capacità di trasporto del glucosio

Bassa

Alta

% di riassorbimento renale di glucosio

10%

90%

CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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H3C

O

O

R

H O

OH

HO

CH3

Acetale

O

R1

HO

-H

H3C

HO O

R

H

O

R O

O H

CH3OH

R1

OH OH HO HO

O HO

CH3

Voglibosio (substruttura)

-H2O

H

R

HO

CH3

H

N Acarbosio H H (substruttura)

O

H

OH

O

OH H N R 1 H

H2O

O

R

H O H

O

OH

HO O

CH3

H

H

Miglitolo (substruttura)

+H

O R

H HO

CH3

OH

Emiacetale

N

R

OH

Porzioni di molecole degli inibitori delle -glicosidasi presenti a pH fisiologico rilevanti per l’interazione con l’enzima

O

H O

HO HO

H

-H

O R H

H

H

O

H O

O R

HO OH

CH3

OH

H H

H

H

CH3OH

OH

+H

O

HO

O R

O

HO

H

H

Figura 24.12 Meccanismo chimico di idrolisi degli acetali; in parallelo, meccanismo di idrolisi del legame glicosidico (acetalico), quindi, confronto tra la struttura degli intermedi (stati di transizione) della reazione, con la struttura a pH fisiologico della parte di molecola degli inibitori delle -glicosidasi rilevante per l’inibizione.

579

580

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

OH

ISBN 978-88-08-18712-3

O

HO

Cl

O

OH

O

OH

O

OH

O

HO

HO

OH

CH3

OH

OH

OH

Florizina

Dapagliflozina

Figura 24.13 Inibitori di SGLT2.

BOX 24.3 ■ S  chema generale di sintesi dei composti b-C-arilglucosidici inibitori di SGLT2 I progressi nella sintesi dei β-C-arilglucosidi hanno rappresentato un fattore critico nella scoperta e sviluppo degli inibitori di SGLT2. La sintesi prevede l’addizione iniziale di un reagente organometallico (ad es. un derivato di arillitio) a un gluconolattone opportunamente protetto. Il lattolo (emichetale) che si ottiene (R' = H) può quindi essere ridotto direttamente, o previa trasformazione in chetale (R' = CH3) mediante trattamento con CH3OH/acido metansolfonico. Come agente riducente stereospecifico (si ottiene il β-C-glucoside) viene utilizzato trietilsilano OR

((C2H5)3SiH) in presenza dell’acido di Lewis borotrifluoruro dietileterato (BF3-OC2H5). La natura metallica del silicio e la sua bassa elettronegatività relativa all’idrogeno conducono a una polarizzazione del legame Si–H tale che il composto può cedere uno ione idruro, comportandosi da riducente più blando rispetto ad altri idruri, come il sodio boroidruro. La stereospecificità della riduzione sembra dovuta alla stabilizzazione, a causa dell’effetto anomerico, dell’intermedio ossocarbenio, che favorisce l’attacco dello ione idruro sulla faccia α. OR

X

O

RO

Reagente organometallico (ad es. Ar-Li); prodotto con R' = H

OR

Conversione in chetale facoltativa (R' = CH3)

OR

OR'

X RO

OR

R' = H, CH3

OR

Riduzione stereospecifica del lattolo (R' = H) o del chetale (R' = CH3) mediante trietilsilano in presenza dell’acido di Lewis BF3•O(C2H5)2)

R = Gruppo protettore (C6H5-CH2- o CH3CO-) X = O, S

OR X RO

OR OR

OH X Deprotezione

HO

OH

OR X

OH

H–

-C-arilglucoside La stereospecificità della riduzione può essere dovuta alla stabilizzazione dell’intermedio carbenio da parte dell’effetto anomerico, che favorisce l’attacco alla faccia 

RO

OR OR

Attacco sulla faccia 

CAPITOLO 24 • Insulina e farmaci ipoglicemizzanti

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La dapagliflozina, inibitrice di SGLT2, è stata approvata dall’EMA (European Medicines Agency) per il trattamento del diabete di tipo 2. È un β-C-glucoside, come molti altri composti presenti in trial clinici; essi, in virtù del loro legame C-glucosidico (Box 24.3), sono metabolicamente molto più stabili dei composti contenenti un legame O-glucosidico. La somministrazione di questi composti esercita un buon controllo della glicemia; i trial clinici hanno inoltre evidenziato che essi provocano una perdita di peso corporeo, al contrario di altri farmaci sensibilizzanti all’azione dell’insulina, e un abbassamento della pressione sanguigna, entrambi fattori positivi per il trattamento del diabete di tipo 2. Altri composti in sperimentazione clinica contengono un atomo di zolfo al posto dell’ossigeno piranico.

24.8 N  uovi approcci per la terapia del diabete: attivatori della glucochinasi (GC) La glucochinasi (GC) è un enzima che catalizza la fosforilazione ossidativa degli esosi (zuccheri a 6 atomi di carbonio) da parte di ATP; in seguito a questa reazione, il glucosio viene fosforilato a glucosio-6-fosfato. Nel fegato, GC è complessata con una proteina regolatoria (GCRP) che funziona come un inibitore competitivo di GC stessa. Quando i livelli di glucosio o di fruttosio-1-fosfato aumentano, si libera GC attiva. Negli epatociti GC rappresenta il passaggio limitante per la captazione del glucosio e gioca un ruolo chiave nella sintesi di glicogeno e nella produzione epatica di glucosio.

Formule generali degli attivatori di GC CH3 R H 3C

H N O

Cl

H N

NH2 H3C

O

Cl Lead da screening (Roche) condotto su 120 000 composti come attivatore di GC

S O2

Eterociclo

O Cl

H N

R

Eterociclo

O RSA

La presenza di un gruppo -COOH sull’eterociclo non ostacola il legame con l’enzima (rimane esposto verso l’esterno della proteina) e indirizza selettivamente i composti al fegato. Il carbossile determina una minore permeabilità passiva (limitando la distribuzione in tessuti extraepatici) e allo stesso tempo rende il composto substrato per la famiglia dei trasportatori epatici di polipeptidi anionici (OATP), non presenti nel pancreas

H N H3C

N

O

S O2

N

Cl

Inibitore dei canali hERG del potassio Inibizione di CYP3A4

Determinazione strutturale dei metaboliti Sintesi e determinazione della attività dei metaboliti

O HO

N

O

CH3 O

H N S O2

CH3

O N

H3C

N

N H

O

N N

Cl Piragliatina

Figura 24.14 Struttura di due attivatori di GC e progettazione della piragliatina.

MK-0941 (Merck)

S O2

CH3

581

582

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

L’enzima GC è presente anche nel pancreas, dove probabilmente la sua attività è regolata mediante interazione con altre proteine e funziona in quest’organo come sensore della glicemia; infatti nelle cellule β delle Isole del Langerhans la fosforilazione del glucosio da parte di GC attiva il rilascio d’insulina. Sono stati quindi cercati composti che potessero agire come il glucosio o come il fruttosio-1-fosfato (attivatori di GC). Mediante uno screening random dell’attività in vitro su GC di 120 000 molecole, è stata individuata la piragliatina (MK-0941), priva di organoselettività e con un alto rischio d’ipoglicemia. Per indirizzare i composti solo al fegato, dato che la maggior parte di GC si trova in questo organo, è stato introdotto un gruppo carbossilico in grado di interagire col trasportatore epatico OATP (organic anion transport polypeptide) (Fig. 24.14).

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Una più recente strategia per modulare selettivamente l’azione di GC a livello epatico ha avuto come obiettivo composti in grado di destabilizzare l’interazione GC-GCRP, mediante legame a un sito di GCRP. In questo modo GC può migrare nel citoplasma e svolgere la sua azione senza essere attivata da composti in grado di interagire con il sito allosterico, rendendo improbabile l’instaurarsi d’ipoglicemia. In Figura 24.15 vengono riportati i bersagli attualmente considerati per il trattamento del diabete di tipo 2, mentre la Tabella 24.3 riassume l’efficacia dei vari farmaci antidiabetici disponibili e i loro effetti sul peso corporeo; quest’ultimo dato è particolarmente importante poiché i pazienti affetti da tale diabete sono quasi sempre obesi, e un farmaco in grado di diminuire il peso corporeo contemporaneamente all’effetto sulla glicemia è di particolare valore terapeutico.

Tabella 24.3 Efficacia di alcuni farmaci antidiabetici sui livelli di HbA1C e loro effetti collaterali più rilevanti. Classe terapeutica

Composto

Riduzione HbA1C (%)

Effetti avversi

Insulina

Dipende dal tipo d’insulina

Ipoglicemia, causa aumento di peso

Amilinomimetici

Pramlintide

0,5-0,7

Causa perdita di peso

Biguanidi

Metformina

1,0-2,0

Non ha effetto sul peso

Tiazolidindioni

Rosiglitazone

0,5-1,0

Causa aumento di peso

Inibitori di DPP-IV

Sitagliptina

0,6-1,4

Non ha effetto sul peso

Sulfaniluree

Glimepiride

1,0-2,0

Ipoglicemia, causa aumento di peso

Inibitori α-glicosidasi

Acarbosio

0,5-1,0

Non ha effetto sul peso

Incretinomimetici

Exenatide

0,5-0,9

Causa diminuzione di peso

Glinidi

Repaglinide

1,0-1,5

Ipoglicemia, causa aumento di peso

Inibitori SGLT2

Dapagliflozina

0,71-0,90

Causa diminuzione di peso

Figura 24.15 Bersagli per il trattamento del diabete di tipo 2.

25

Farmaci tiroidei Vincenzo Tumiatti, Andrea Milelli

25.1 Anatomia e funzione della tiroide 25.1.1 Struttura della tiroide

25.2 Biosintesi degli ormoni tiroidei 25.2.1 Trasporto degli ormoni tiroidei 25.2.2 B  iosintesi e metabolismo degli ormoni T3 e T4

25.3 Effetti fisiologici degli ormoni tiroidei 25.4  Malattie della tiroide 25.5  Recettori degli ormoni tiroidei 25.6  Analoghi degli ormoni tiroidei 25.6.1 Ligandi selettivi 25.6.2 F  armaci per il trattamento dei disturbi tiroidei 25.6.3 Amiodarone e sistema tiroideo

25.7  Prospettive future

Gli ormoni tiroidei e i loro analoghi sono sostanze in grado di legarsi ai recettori nucleari andando a regolare l’espressione di diversi geni in tutto l’organismo. I derivati di questa classe possono quindi essere considerati dei promettenti agenti terapeutici, che però non sono stati abbastanza sfruttati a causa dei loro effetti collaterali. Tuttavia, visti i progressi che sono stati fatti in campo terapeutico, si può pensare che un aumento di selettività dovuto all’incremento delle conoscenze delle interazioni specifiche ormoni-recettori e la possibilità di utilizzare dei saggi farmacologici più selettivi possano portare nel breve futuro a sviluppare degli agenti tiroidei dotati di maggiore efficacia e minori effetti collaterali.

25.1 A  natomia e funzione della tiroide La tiroide è una delle più grandi ghiandole endocrine, altamente vascolarizzata, di colore rosso bruno ed è collocata

nella parte anteriore della porzione inferiore del collo, inferiormente alla laringe. Essa produce due diversi tipi di ormoni denominati triiodotironina (levotironina, liotironina, T3, 3,3',5-triiodo-l-tironina – acido (2S)-2-amino-3-[4-(4-idrossi-3-iodofenossil)-3,5-diiodofenil] propanoico) e tiroxina o tirossina (levotiroxina, T4, 3,3',5,5'-tetraiodo-l-tironina – acido (2S)-2-amino-3-[4-(4-idrossi-3,5-diiodossifenossil)-3,5diiodofenil] propanoico), entrambi necessari per una corretta crescita, sviluppo e controllo di funzioni importanti come quelle relative al metabolismo energetico e alla sintesi proteica. La tiroide si estende dalla quinta vertebra cervicale fino alla prima toracica. È formata da due lobi laterali allungati caratterizzati da poli superiori e inferiori connessi tra di loro tramite un istmo e di un’altezza media di 12-15 mm. Talvolta l’istmo può essere assente e quindi la ghiandola può esistere in due lobi distinti. Il suo peso può variare: in genere nell’adulto arriva a pesare circa 25-30 g; da notare che le sue dimensioni possono aumentare durante le varie fasi del ciclo mestruale o durante la gravidanza.

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

Il nome tiroide deriva dall’aggettivo greco ϑυρεοειδής, che significa “a forma di scudo”, e questo nome le fu dato da Wharton nel 1656, proprio per la sua forma caratteristica. Le conoscenze circa la funzione della tiroide risalgono al XII secolo, quando fu osservato che le persone affette da cretinismo, patologia diffusa tra le popolazioni che abitavano le zone montuose delle Alpi, presentavano dei rigonfiamenti della tiroide (gozzo) dovuti alla mancanza di iodio nella loro dieta. Fin dall’antichità furono utilizzati prodotti derivati dalle alghe marine per la terapia del gozzo. Solo nel 1811 si scoprì che lo iodio era in correlazione con la funzione tiroidea e nel secolo successivo, nel giorno di Natale del 1914, Edward Calvin Kendall isolò la tiroxina come composto attivo dal tessuto tiroideo, assegnandole però una struttura chimica errata, caratterizzata da un nucleo indolico, ma identificandone comunque le proprietà biologiche. Solo nel 1926 ne fu determinata la struttura esatta da parte di Harrington, e questo fatto ne permise la sintesi per via chimica, e quindi la disponibilità in grandi quantità per la terapia dell’ipotiroidismo. Infine nel 1952 Rosalind Pitt-Rivers scoprì e sintetizzò la triiodotironina (T3), dimostrando come fosse biologicamente più attiva della tiroxina (T4).

25.1.1 Struttura della tiroide La tiroide è costituita da follicoli, all’interno dei quali vengono immagazzinati gli ormoni tiroidei. A livello microscopico sono identificabili due aspetti caratteristici: i follicoli e le cellule parafollicolari. I primi, di aspetto, sferico hanno un diametro di circa 300 µm e sono costituiti da uno strato di

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cellule epiteliali delimitanti una cavità interna detta lume follicolare, all’interno della quale viene riversata e accumulata una sostanza colloidale principalmente costituita da una glicoproteina contenente iodio, chiamata tireoglobulina. Le cellule parafollicolari sono responsabili della biosintesi dell’ormone calcitonina, necessario per l’omeostasi del calcio corporeo. I follicoli sono circondati da un singolo strato di cellule epiteliali tiroidee in grado di rilasciare gli ormoni tiroidei T3 e T4, sotto il controllo dell’ormone ipofisario tireotropina (TSH), che è a sua volta regolato dall’ormone di rilascio della tireotropina secreto dai nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo. Gli ormoni tiroidei e i loro analoghi sono sostanze in grado di legarsi ai recettori nucleari, regolando l’espressione di diversi geni in tutto l’organismo.

25.2 B  iosintesi degli ormoni tiroidei Il meccanismo sotteso alla biosintesi degli ormoni tiroidei è schematizzato nella Figura 25.1 e prevede la formazione di tireoglobulina all’interno del reticolo endoplasmatico, che viene successivamente veicolata alla membrana apicale e quindi secreta per esocitosi all’interno del lume follicolare. Questa glicoproteina contiene, legati al suo interno, numerosi residui tirosinici che subiranno successivamente una reazione di iodinazione diventando diiodotirosina (DIT)

Figura 25.1 Meccanismo di biosintesi degli ormoni tiroidei nel follicolo tiroideo.

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei

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e monoiodotirosina (MIT). Contemporaneamente, gli ioni ioduro provenienti dal torrente plasmatico superano l’endotelio tramite meccanismi non noti e penetrano all’interno della cellula follicolare per simporto con gli ioni sodio contro gradiente, sotto il controllo di TSH. Gli stessi ioni ioduro entrano successivamente all’interno del lume follicolare, utilizzando il sistema di trasporto pendrina con un meccanismo passivo. All’interno della sostanza colloidale, gli ioni ioduro vengono ossidati a iodio elementare da un enzima denominato tiroide perossidasi (TPO). TPO è una proteina di membrana che subisce sovraregolazione da parte di TSH. Questo enzima svolge tre importanti funzioni necessarie per la biosintesi degli ormoni tiroidei:

derli capaci di interagire con i residui tirosinici, da parte di TPO, che per questa importante azione utilizza acqua ossigenata come agente ossidante. L’acqua ossigenata presente a questo livello viene prodotta da ossidasi tiroidee DUOX 1 e 2 (dual oxidase), che sono flavoproteine NADPH-dipendenti. Per la tiroide sono quindi necessarie significative quantità di ioduro, che vengono introdotte tramite la dieta. Lo iodio elementare, o altre specie reattive correlate, reagisce velocemente con i residui tirosinici presenti nella catena peptidica. Il processo di iodinazione avviene nella parte colloidale della cellula nelle vicinanze della membrana apicale. L’accoppiamento è anch’esso una reazione catalizzata da TPO a livello della membrana apicale e questi due ultimi processi avvengono simultaneamente. La posizione all’interno della struttura della tireoglobulina dei residui tirosinici iodinati facilita la reazione di accoppiamento fra i diversi residui per la biosintesi di T4. Questa reazione prevede l’intervento dell’enzima tiroide perossidasi, in grado di accoppiare il residuo di diiodotirosina (DIT) e monoiodotirosina (MIT) con DIT per formare rispettivamente T4 e T3 (Fig. 25.2). L’ormone prodotto principalmente all’interno della tiroide è T4, insieme ad alcune piccole quantità di T3 do-

1. ossidazione degli ioni ioduro; 2. iodinazione dei residui tirosinici presenti all’interno della tireoglobulina; 3. catalisi della reazione di accoppiamento ossidativo (coniugazione) tra i residui tirosinici DIT e MIT per dare T4 e T3. Alcuni autori riportano l’ulteriore ossidazione degli ioni ioduro a ioni ipoiodato (IO–), altri a ioni iodinio (I+), per ren-

H

CO

TG

H

CO

H

TG

CO

NH

NH

H

TG

CO

NH 2 e-

+ I

I

TPO

I

OH

OH

DIT

MIT

TG

NH

I

I

I

O

H

CO

TG

H

NH

O

CO

TG

NH H2C

CO

TG

NH

Residuo di diidroalanina

+ I

I I

O

I O

I

H

CO TG

NH

I

OH T3

O

Intermedio

Figura 25.2 Probabile meccanismo di biosintesi di T3. Se reagiscono due residui di DIT si ottiene T4. Il meccanismo è probabilmente di origine radicalica e prevede l’estrazione di un elettrone da ciascun residuo di MIT e DIT per dare origine a un accoppiamento radicalico. DIT, diiodotirosina; MIT, monoiodotirosina; T3, triiodotironina; TG, tireoglobulina; TPO, tiroide perossidasi.

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vute all’accoppiamento di MIT con DIT. La tireoglobulina iodinata è conservata come polipeptide extracellulare nel colloide luminale. Successivamente il colloide viene riassorbito per endocitosi e la tireoglobulina subisce un processo di proteolisi all’interno dei lisosomi. Vengono così rilasciati gli ormoni T3 e T4 attraverso la superficie basale all’interno del flusso sanguigno, dove si legano con diverse proteine trasportatrici in grado di distribuirli per l’intero organismo. Recentemente è stato visto come questo rilascio nel torrente circolatorio sia mediato da un sistema di trasporto costituito dalla proteina MCT8, che fa parte della famiglia dei trasportatori di specie monocarbossilate.

possono essere rilasciati secondo richiesta, rappresentando quindi una scorta di questi ormoni necessaria per garantire una costante e uguale distribuzione nel tempo ai vari tessuti. Il loro legame alle proteine plasmatiche ne impedisce l’eliminazione per via urinaria, dato che la frazione libera può venire ultrafiltrata a livello renale. Una piccola quota (circa lo 0,03% di T4 e lo 0,3% di T3) viaggia come ormone libero, le cosiddette fT4 e fT3 (f sta a indicare free, cioè aliquote libere), che rappresentano la frazione fisiologicamente attiva, cioè capace di legarsi ai recettori tiroidei presenti a livello cellulare.

25.2.1 Trasporto degli ormoni tiroidei

25.2.2 B  iosintesi e metabolismo degli ormoni T3 e T4

Gli ormoni tiroidei si trovano legati per il 99% alle proteine plasmatiche, dalle quali possono facilmente venire rilasciati per permettere la loro entrata nelle cellule. Circa il 70% di T3 e T4 circolante è legato alla proteina denominata globulina legante la tiroxina (TBG) e questo è dovuto all’alta affinità che caratterizza questa proteina per questo tipo di ormoni. Un’altra proteina in grado di trasportare gli ormoni tiroidei a livello ematico è la transtiretina (TTR), che presenta un’affinità minore di TBG per T3 e T4 e la frazione di questi ormoni a essa legata è di circa il 15%. Tuttavia, proprio per questa minore affinità, essa è in grado di intervenire nella fase di trasporto intermedio di T4 e T3 tra TBG e ambito cellulare. Da notare che questa proteina presenta due siti di legame per gli ormoni tiroidei ed è in grado di legare anche altri substrati oltre a T4 e T3. Gli ormoni tiroidei sono in grado di legarsi anche ad altre proteine presenti nel plasma come albumine (15-20%) e lipoproteine. La frazione legata rappresenta dunque una riserva di ormoni tiroidei, che

Come abbiamo già riportato, una piccola quota di T3 viene prodotta durante la biosintesi di T4, ma la maggior parte di T3 circolante viene prodotta tramite 5'-deiodinazione di T4 circolante da parte di selenoenzimi, denominati tiroxina deiodinasi di tipo 1 e 2 (ID-1 e ID-2). La forma attiva è risultata essere T3, che oltre a essere formata direttamente per biosintesi insieme al precursore T4 (proormone) si forma anche in sede periferica per opera appunto di ID-1 espressa per la maggior parte a livello epatico, renale e muscolare, e di ID-2, che ha un’affinità maggiore ed è espressa a livello cerebrale e dalle cellule tireotrope dell’ipofisi. La disattivazione degli ormoni tiroidei è catalizzata dalla deiodinasi di tipo 3 (ID-3), ma anche da ID-1, che rimuove lo iodio esclusivamente dall’anello tirosinico di T4 per dare 3,3',5'-triiodotironina (rT3), che attualmente risulta priva di attività biologica. I triiododerivati T3 e rT3 vengono successivamente deiodinati da 3 diversi tipi di selenoenzimi per dare 3,3'-didiodotironina (3,3'-T2) (Fig. 25.3). T3 e T4 venI

I HO

O I

I

HO

ID-1 ID-2

O

I

I

I H T4

H

COOH T3

NH2

COOH NH2

ID-1 ID-3

ID-1 ID-3

I I HO HO

O

I

O

I

ID-1 ID-2

I

H H rT3

COOH NH2

Figura 25.3 Biosintesi e disattivazione di T3 e T4. ID, deiodinasi.

3,3'-T2

COOH NH2

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei

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gono eliminate mediante deaminazione, decarbossilazione e deiodinazione. La coniugazione con acido glucuronico o la formazione di solfati ne permette l’eliminazione per via renale e biliare. Il metabolismo degli ormoni tiroidei porta alla formazione di una miriade di metaboliti nei tessuti periferici. Nella Figura 25.4 sono riportati solamente i metaboliti relativi agli anelli aromatici e alla catena aminoacidica. Il piruvato T4 deriva dalla deaminazione ossidativa del T4, mentre il lattato T4 è probabilmente un prodotto di riduzione del piruvato. I derivati acetati TETRAC, TRIAC, e l’acido tiroacetico rappresentano un gruppo numeroso di metaboliti di T4 modificati nella catena aminoacidica. È stato ipotizzato che questi composti derivino dalla decarbossilazione ossidativa dei corrispondenti derivati piruvici, ma non ci sono ancora riscontri definitivi a tal proposito. Un ultimo aspetto riguarda i sistemi di trasporto attraverso i quali gli ormoni tiroidei, in particolare T3, vengono introdotti all’interno delle cellule. Fino a poco tempo fa si pensava che gli ormoni tiroidei potessero oltrepassare le membrane a livello cellulare grazie alla loro lipofilia e per diffusione passiva. Recentemente è stato verificato come invece esistano dei sistemi di trasporto specifici responsabili quindi della concentrazione intracellulare di T3. A oggi sono noti diversi sistemi di trasporto caratterizzati da alta affinità nei confronti di T3, ma con differente distribuzione nei vari tessuti e le cui affinità di legame per T3 sono state determinate. Uno dei sistemi più conosciuti è quello legato alla proteina trasportatrice di specie monocarbossilate di tipo 8 e 10 (MCT8 e MCT10) e a numerosi membri della famiglia dei polipeptidi trasportatori degli anioni organici (OATP).

H

S-T4, G-T4

H I

Solfoconiugazione, glucuronoconiugazione

I

COOH NH2

Rottura dell’etere

HO

O I

I

I H

COOH

T4

NH2 Modificazioni della catena aminoacidica

I HO

O

I

Piruvato-T4 I

I COOH

I HO

O I

25.3 E  ffetti fisiologici degli ormoni tiroidei Per quanto riguarda gli effetti fisiologici dell’ormone tiroideo T3, è noto che esplica una pronunciata attività a livello cardiaco, influenzando la frequenza cardiaca. Questo effetto è visibile in quanto la tachicardia rappresenta uno dei principali segnali legati all’ipertiroidismo, mentre la bradicardia viene osservata nell’ipotiroidismo. L’ormone tiroideo T3 ha effetto anche sulla contrattilità del muscolo cardiaco e sulla gittata cardiaca, infine ha anche influenza sui geni che mediano queste risposte a livello cardiaco. L’ormone tiroideo T3 ha effetti anche sulla biosintesi dei lipidi e sulla loro mobilitazione, agendo principalmente a livello epatico. In particolare riduce i livelli di colesterolo attraverso meccanismi poco noti, ma che coinvolgono la regolazione dei recettori epatici delle lipoproteine a bassa densità e di altri geni che presiedono al metabolismo del colesterolo. L’ormone tiroideo T3 ha effetto anche sul metabolismo basale che determina un aumento del consumo di ossigeno. L’effetto più importante è quello relativo al peso corporeo, dove la perdita di peso è indice di ipertiroidismo, mentre il suo aumento lo è di ipotiroidismo. Questo effetto di tipo metabolico è correlato alla regolazione di geni che mediano la respirazione mitocondriale e la produzione e l’utilizzazione di ATP. L’ormone tiroideo T3 è un importante regolatore della termogenesi sia di tipo adattativo sia

I

O

O

I

Lattato-T4

I COOH I

OH

HO

O I

I

I

TETRAC COOH

HO

O I

I

TRIAC

I COOH

HO

O

Acido tiroacetico COOH

Figura 25.4 Metaboliti dell’ormone tiroideo T4.

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

obbligatoria. Quest’ultima si riferisce alla produzione di calore corporeo dovuto a un incremento del metabolismo basale risultante da un aumento del turnover e del consumo di ATP. Dall’altra parte troviamo la termogenesi di tipo adattativo, che consiste nella produzione di calore in risposta a stimoli esterni come il freddo o all’assunzione di cibo. Alterazioni della termogenesi sono correlate anche con lo stato dell’ormone tiroideo, in quanto individui ipertiroidei risultano poco tolleranti al calore mentre quelli ipotiroidei sono intolleranti al freddo. L’ormone tiroideo ha effetto anche a livello osseo, andando a influenzare nascita, maturazione e metabolismo osseo. L’ipotiroidismo predispone a ridotti sviluppi e turnover a livello osseo, mentre l’ipertiroidismo è associato con un aumento del metabolismo e decremento della massa ossea. Sono stati riscontrati effetti diretti dell’ormone tiroideo su altri sistemi ormonali, come quello collegato all’ormone della crescita e all’ormone della crescita insulino-simile (IGF-1). Inoltre, l’ormone tiroideo ha mostrato la capacità di stimolare l’attività di geni ossospecifici associati all’espressione di osteocalcina, collagene di tipo 1 e collagenasi. L’ormone tiroideo T3 ha azione anche nei confronti dello sviluppo cerebrale, andando a controllare diversi processi tra i quali quello relativo al differenziamento delle cellule del Purkinje. È stato verificato infatti come in neonati ipotiroidei si abbia uno sviluppo cerebrale insufficiente. Infine, la rassegna degli effetti legati all’ormone tiroideo prevede la descrizione di effetti definiti non genomici, in quanto avvengono in tempi troppo brevi per pensare a un interessamento dei processi trascrizionalitraduzionali e comprendono fenomeni legati all’attivazione di canali ionici, alla contrattilità di miociti e alla risposta adrenergica. I meccanismi molecolari che stanno alla base di questi fenomeni sono sconosciuti, al momento, anche se sembrano mediati da recettori tiroidei ormonali. Questi effetti potrebbero essere correlati all’attivazione di recettori tiroidei che agiscono tramite meccanismi non trascrizionali o attraverso popolazioni recettoriali che non appartengono alle tradizionali famiglie di recettori tiroidei.

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25.4 Malattie della tiroide Le malattie legate alla tiroide possono principalmente essere correlate a insufficiente o eccessiva produzione di ormoni tiroidei, stati che vengono definiti rispettivamente di ipotiroidismo o ipertiroidismo. Altri disturbi sono di tipo funzionale causati dall’ingrossamento della tiroide, oppure da sue trasformazioni neoplastiche, o da combinazioni dei processi appena descritti. Sintomi particolari di ipotiroidismo, come già visto, sono rappresentati da aumento di peso corporeo, intolleranza al freddo e bradicardia. Una delle malattie più comuni è il gozzo, costituito da un ingrossamento funzionale della tiroide, a seguito di stimolazione da parte di TSH, nel tentativo di captare una maggior quantità di iodio. Questo tipo di patologia si verifica prevalentemente in quelle regioni nelle quali la popolazione assume scarse quantità di iodio. Questo stato si può prevenire assumendo quantità supplementari di iodio tramite la dieta, ad esempio utilizzando sale iodato. Se la deficienza tiroidea è presente sin dalla nascita, si ha il cretinismo, se invece si evidenzia da adulto si ha il mixedema, caratterizzato da un notevole ritardo dell’attività fisica e mentale, pelle secca e pallida, peli secchi e radi e ispessimento del tessuto sottocutaneo. La terapia ormonale sostitutiva rappresenta la cura più adatta per i vari casi di ipotiroidismo e prevede la somministrazione di sali sodici di T3 o di T4, o entrambi, preparati per via sintetica (Box 25.1). La levotiroxina T4 è solitamente preferita per la terapia sostitutiva, ma anche per quella soppressiva dell’iperattività tiroidea per feedback negativo. I vantaggi si basano su stabilità chimica e facilità di sintesi e di assorbimento, uniformità di potenza, mancanza di proteine sensibilizzanti ed emivita di 7 giorni, che ne permette la somministrazione di un’unica dose giornaliera. Esistono anche degli estratti naturali di ormoni tiroidei rappresentati da tiroide essiccata e tireoglobulina che derivano da tessuti ghiandolari di animali domestici, di bovini o suini, e gli ormoni tiroidei vengono rilasciati dopo proteo­

BOX 25.1 ■ Sintesi di levotiroxina (T4) e levotironina (liotironina, T3) La sintesi di levotiroxina (T4) e levotironina (T3) parte dal 4-idrossi-3-iodo-5-nitrobenzaldeide (1). Il gruppo ossidrilico in posizione 4 viene attivato tramite reazione con benzensolfonilcloruro (2) e il composto (3) così ottenuto viene fatto reagire con in 4-metossifenolo (4) a dare il derivato etereo 3-iodo-4-(4-metossifenossi)benzaldeide (5). Questo derivato va incontro a reazione di Knoevenagel con l’N-acetilglicina (6): questa reazione genera il derivato ossazolonico (7). L’ossazolone è un eterociclo che presenta al suo interno la funzione aminoacidica mascherata; infatti, il trattamento con sodio metossido porta all’apertura del ciclo con ottenimento del derivato cinnamico (8). Il gruppo nitro in posizione 5 viene ridotto a gruppo aminico (9) per trattamento con idrogeno e Nickel Raney come catalizzatore. Questa amina aromatica in presenza di nitrito di sodio in ambiente acido forma il sale di diazonio intermedio che, per trattamento con

iodio (I2 e KI), produce il derivato (10) che porta l’atomo di iodio nelle posizioni 3 e 5. Il trattamento con acido iodidrico e fosforo permette di ridurre il doppio legame di (10) con contemporanea demetilazione del gruppo in posizione 4′ e deprotezione dei gruppi carbossilico e aminico a ottenere la d,l-diiodotironina (11). Il gruppo aminico viene quindi riprotetto con il gruppo formile a seguito del trattamento con acido formico in anidride acetica (12). La risoluzione della miscela racemica tramite brucina permette di ottenere il corretto enantiomero, che viene deprotetto al gruppo aminico tramite idrolisi acida a dare l-(+)-3,5-diiotironina (13). Questa è un intermedio comune nella sintesi dei due derivati: infatti, il trattamento di (13) con un equivalente di iodio permetterà di ottenere la levotironina (T3), mentre l’utilizzo di maggiori equivalenti di iodio permetterà di ottenere la levotiroxina (T4).

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I HO

SO2Cl

I

O2 S O

Piridina

+ O2N

CHO

O2N

1

2

3

I H3CO

OH

O

4

CHO

CH3CONHCH2COOH

6

H3CO

O2N 5

I O H3CO

CHO I O

O CH3ONa / CH3OH

O

O2N

COOCH3 H3CO

N

O2N

CH3

7

NHCOCH3

8 I

O H 2 / Ni Raney

1. NaNO2 / H2SO4 2. KI / I2 / (NH2)2CO

COOCH3 H3CO

H2N NHCOCH3 9

I O

I O

HI / P / CH3COOH

COOCH3 H3CO

I

HO

I

CH2CH COOH

NHCOCH3

NH2

11

10 I O

1. Risoluzione chirale 2. HBr

HCOOH / (CH3CO)2O

HO

I

CH2CH COOH 12

N H

CHO

I

I

O H HO

I

I

2 eq. I2 / KI / CH3NH2

H

CH2C COOH 13

O

HO

I

CH2C COOH

I

NH2

NH2

Levotiroxina (T4)

1 eq. I2 / KI / CH3NH2

I I

O H

HO

I

Levotironina (T3)

CH2C COOH NH2

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lisi enzimatica a livello intestinale. Per determinarne l’attività biologica si ricorre a saggi enzimatici o al dosaggio della quantità di iodio contenuta. Una patologia autoimmune che può portare all’ipotiroidismo è la tiroidite acuta di Hashimoto, che ha preso il nome da colui che l’ha descritta per la prima volta nel 1912. Questa malattia prevede un’infiltrazione dei tessuti tiroidei da parte di cellule plasmatiche, linfociti e tessuto fibroso, effetto dovuto all’esposizione per motivi ignoti del contenuto follicolare, con la formazione di anticorpi antitireoglobulina e antiperossidasi e innesco di reazioni autoimmuni progressive. Si è già visto come l’ipertiroidismo comporti un aumento del metabolismo basale. L’iperfunzionalità della tiroide viene definita tireotossicosi e a questo stato sono legate numerose patologie come il morbo di Graves e il gozzo nodulare tossico. Per quanto riguarda la prima malattia, essa prevede un aumento di rilascio di ormoni tiroidei in quanto l’organismo produce anticorpi che vanno a stimolare la tiroide al rilascio di T3 e T4. Nel caso del gozzo nodulare tossico possono verificarsi degli aumenti di liberazione di ormoni tiroidei (tempesta tiroidea), accompagnati da febbre, tachicardia, scompenso cardiaco e vomito, tutti segnali clinici riferibili appunto a un’iperproduzione di T3 e T4. Infine, è da prendere in considerazione il tumore della tiroide, che presenta una sempre maggiore diffusione ed è caratterizzato dalla formazione di noduli a livello tiroideo; per la sua diagnosi sono necessari particolari esami radiologici e bioptici per verificare la presenza di cellule neoplastiche al loro interno. I tumori più comuni sono di tipo epiteliale e sono così classificati: carcinoma papillare, carcinoma follicolare, carcinoma midollare e carcinoma indifferenziato. Solitamente la terapia è di tipo chirurgico (tiroidectomia totale), seguita da radioterapia con iodio radioattivo (Iodio-131, 131I) in grado di emettere radiazioni β e γ, per colpire selettivamente eventuale tessuto tiroideo rimasto o eventuali metastasi di origine tiroidea presenti nell’organismo. Questo tipo di trattamento, con quantità minori, può risultare utile, oltre che come tracciante radioattivo, anche nel trattamento dell’ipertiroidismo, in quanto 131I viene assorbito a livello follicolare e quindi è in grado di irradiare le zone circostanti in modo limitato diminuendo quindi l’attività della tiroide.

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conosciuti come elementi responsivi dell’ormone tiroideo (TRE). I TR possono legare il DNA come monomeri, omodimeri o eterodimeri: ad esempio, essi possono eterodimerizzare con i recettori dei retinoidi RXR. Come gli altri recettori nucleari, anche i TR sono costituiti caratterizzati rispettivamente da 410 e 462 aminoacidi; la differenza tra le due isoforme è dovuta alla più grande porzione N-terminale dell’isoforma β1. Questi recettori sono costituiti da: (a) ligand binding domain (LBD) C-terminale che riconosce l’ormone, media le interazioni con i coregolatori e presenta la superficie necessaria all’omo- e all’eterodimerizzazione; (b) DNA binding domain che è localizzato centralmente ed è coinvolto nel riconoscimento con i TRE dei promotori dei geni bersagli; (c) dominio N-terminale. Il LBD è caratterizzato da 12 α-eliche disposte in modo da formare la tasca per il legame con il ligando. L’elica H12 gioca un ruolo cruciale, in quanto è essenziale per il cambiamento del recettore da silenziatore ad attivatore. Questa elica funziona da switch che permette al recettore di interagire con i coattivatori o con i corepressori. Infatti, quando T3 non è legato, il recettore assume una conformazione che promuove l’interazione con un gruppo di corepressori trascrizionali. Il legame di T3 induce un cambiamento conformazionale che rende il recettore non più in grado di legare i corepressori, ma permette il legame a un gruppo di coattivatori proteici che attivano la trascrizione di diversi geni bersaglio (Fig. 25.5). Il LBD nell’isoforma β1 presenta un’istidina (His435) in grado di agire come accettore di legame idrogeno vicino all’elica H12; dalla parte opposta si trova un’area con caratteristiche idrofile, carica positivamente, costituita da tre residui flessibili di arginina (Arg282, Arg316, Arg320). La zona compresa tra l’His435 e la parte idrofila è costituita da residui idrofobici. Le due isoforme α1 e β1 sono altamente omologhe e differiscono solo per un aminoacido nel LBD: una serina (Ser277) nell’isoforma α1 è sostituita da un’asparagina (Asn331) nell’isoforma β1.

25.5 Recettori degli ormoni tiroidei I recettori degli ormoni tiroidei (TR) appartengono alla superfamiglia dei recettori degli ormoni nucleari. Questi recettori sono prodotti da differenti geni che codificano per diverse isoforme: dal gene TRα derivano il TRα1 e il c-erbAα-2, che però non è in grado di legare T3. Dal gene TRβ derivano le isoforme TRβ1 e TRβ2. L’espressione delle varie isoforme è altamente variabile in funzione del tessuto; i TRα1 sono presenti soprattutto a livello cardiaco e dei muscoli scheletrici, i TRβ1 sono espressi principalmente a livello del cervello, del fegato e dei reni, mentre l’isoforma TRβ2 si trova soprattutto a livello della ghiandola pituitaria anteriore e di zone dell’ipotalamo. Il complesso T3-recettore regola l’attività di geni bersaglio, modulandone la trascrizione interagendo con corepressori o coattivatori quando si lega a siti specifici sul DNA,

Figura 25.5 Regolazione della trascrizione dei geni bersaglio.

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25.6 Analoghi degli ormoni tiroidei Gli ormoni tiroidei utilizzati nel trattamento dell’ipotiroidismo svolgono la loro azione legandosi a due differenti recettori nucleari, TRα e TRβ; il complesso T3-recettore si lega al DNA producendo cambiamenti nell’espressione di geni che codificano per svariate proteine: in questo modo gli ormoni tiroidei controllano fondamentali funzioni fisiologiche coinvolte, come già visto, nella crescita e nello sviluppo del cervello e delle ossa. I TR presentano un LBD in cui si può distinguere una porzione idrofobica, che stabilisce interazioni con entrambi gli anelli aromatici di T3, e una porzione idrofilica che interagisce con la catena laterale carica. Un legame idrogeno si instaura tra l’OH in 4' e l’anello imidazolico di una His (His435 in TRβ e His381 in TRα), ed è importante sia per il legame sia per l’attività funzionale (Fig. 25.6). Il sostituente in R1 contiene generalmente funzioni polari acide, come il residuo di alanina, che si legano in una regione idrofila che contiene diversi residui di arginina. Prima della scoperta dei diversi sottotipi recettoriali e della loro purificazione e caratterizzazione, gli studi di interazione ligandorecettore necessari per definire le relazioni struttura-attività (RSA) venivano effettuati tramite saggi di binding su TR non purificati ottenuti da diverse fonti, come le cellule di fegato di ratto. Inoltre, dati in vivo erano ottenuti tramite il saggio “antigozzo”. In tale saggio, l’attività tiromimetica viene misurata come l’abilità del composto in esame di sopprimere il rilascio di TSH e la formazione del gozzo indotto da farmaci antitiroidei come tiouracile. Successivamente si è scoperto che la soppressione del rilascio di TSH è un processo mediato dai TRβ, per cui tale test è formalmente insensibile nei confronti dei composti che si legano al TRα. Per legarsi a questi recettori la struttura base richiesta è rappresentata da una sequenza anello aromatico-atomo ponte-anello aromatico: infatti, T4 e T3 sono dei biaril-eteri le cui strutture possono essere schematicamente suddivise in 4 porzioni: catena laterale, anello aromatico centrale, atomoponte, anello aromatico periferico. In T3 e T4 la catena laterale è rappresentata dalla l-alanina, ma questa porzione può essere notevolmente variata senza significativa perdita dell’attività, in quanto i residui di arginina (Arg282, Arg316, Arg320) presenti nella zona recettoriale e con i quali la catena laterale interagisce sono altamente flessibili. T3 risulta

Interazioni idrofobiche Interazioni idrofobiche

N

His N H

H

R3 R'3

O

O

R5 R4'

R1

Interazioni idrofile

Interazioni idrofobiche

Figura 25.6 Interazioni tra ormoni tiroidei (R1 = CH2CHNH2COOH, R3, R5, R'4 = I, R'3 = H) e recettori tiroidei.

essere più attiva di T4 sia in saggi in vivo sia in vitro. L’analogo che presenta in posizione R1 la d-Ala invece della l-Ala mantiene una significativa affinità in vitro e una moderata attività in vivo (Scheda 25.1). I risultati degli studi di RSA sono riassunti nella Figura 25.7.

25.6.1 Ligandi selettivi Come già detto in precedenza, i recettori tiroidei sono espressi in quasi tutti i tessuti, ma la proporzione tra le diverse isoforme è variabile. I TRα sono espressi principalmente a livello cardiaco e della muscolatura liscia e, pertanto, mediano effetti cardiovascolari; i TRβ1 mediano principalmente gli effetti metabolici degli ormoni tiroidei, essendo espressi a livello del fegato, mentre i TRβ2 sono espressi in diverse zone del cervello. Esperimenti effettuati su topi knockout per i TR hanno confermato che i TRα mediano gli effetti degli ormoni tiroidei sulla frequenza cardiaca, mentre i TRβ entrano in gioco nella regolazione dei livelli sierici di colesterolo e nell’inibizione della produzione degli ormoni tiroidei; i TRβ1, essendo espressi principalmente nel fegato, sono critici nel controllo del metabolismo epatico del colesterolo. È stato osservato che un’eccessiva produzione di ormoni tiroidei porta all’insorgenza di ipertiroidismo, accompagnato da un aumento della frequenza cardiaca con possibili aritmie atriali e infarto e altri effetti sfavorevoli come osteoporosi nelle donne in postmenopausa e ansietà. Dall’altro lato, l’eccesso di ormoni tiroidei porta a una serie di effetti benefici come la riduzione del colesterolo sierico e la riduzione del grasso corporeo. Queste osservazioni suggeriscono quindi che un’attivazione selettiva dei TRβ potrebbe produrre gli effetti benefici generati dagli ormoni tiroidei sul colesterolo sierico, senza gli effetti sfavorevoli a livello cardiaco e ligandi TRβ-selettivi potrebbero essere utilizzati nel trattamento di patologie di tipo ipercolesterolemico. Le strategie per sviluppare TRβ-selettivi consistono nel progettare ligandi in grado di legarsi preferenzialmente ai TRβ rispetto ai TRα e sfruttare la diversa distribuzione tissutale delle differenti isoforme. La prima strategia di progettazione risulta particolarmente complessa, in quanto le isoforme α e β differiscono nel LBD solo per un aminoacido, mentre la seconda è più facilmente attuabile in quanto i TRβ sono espressi principalmente a livello epatico e i TRα principalmente a livello cardiaco (Scheda 25.2, 25.3 e 25.4). Uno dei primi tiromimetici selettivi a essere sviluppato è stato SKF-94901 (Scheda 25.2); nei ratti, esso mostra attività tiromimetica inducendo una riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo senza concomitante stimolazione cardiaca. La sua selettività d’azione però non risiede in una maggiore capacità di legarsi ai TRβ rispetto ai TRα, ma in una captazione selettiva da parte del fegato. Dal punto di vista strutturale SKF-94901 presenta un residuo di l-Ala in posizione 1 e un sostituente metilpiridazinonico in 3'; inoltre, la sostituzione degli atomi di iodio in 3 e 5 con atomi di bromo lo rende metabolicamente più stabile. Un altro analogo tiroideo è il TRIAC, già visto tra i metaboliti di T3, il quale, rispetto a T3, presenta in posizione 1 un residuo di acido acetico ed esibisce una selettività per il fegato. Numerosi analoghi di T3 sono stati sviluppati nel tempo, modificandone anche pesantemente la struttura, in particolare a livello del

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Può essere sostituito con altri alogeni o gruppi alchilici; l’isopropile è il sostituente migliore Distanza ottimale: 2 atomi di C

Cruciale per l’attività; la sostituzione con NH 2 riduce l’attività, mentre con un metile causa perdita di attività

I

O

HO

I

I

O

OH

Importante per l’attività

NH2 I

Può essere eliminato

Può essere eliminato Può essere sostituito con S o CH2

3 e 5 possono essere sostituiti con altri alogeni o con gruppi metilici; la sostituzione con gruppi di dimensioni superiori al metile porta invece a una riduzione dell’attività

Figura 25.7 Riassunto delle RSA di T4 nei confronti dei recettori della tiroide.

gruppo laterale: le richieste strutturali recettoriali in posizione 1 non sono elevate, perché questa zona è ricca di residui idrofili altamente flessibili, quindi R1 può essere facilmente modificato senza perdita di affinità verso i TR.

25.6.2 F  armaci per il trattamento dei disturbi tiroidei È già stato visto come i disturbi tiroidei siano principalmente riconducibili all’ipotiroidismo e all’ipertiroidismo. Nel primo caso si fa riferimento alla terapia sostitutiva, già trattata precedentemente, per riportare nella norma i valori degli ormoni tiroidei a livello plasmatico. Una breve nota riguarda l’assunzione orale di levotiroxina sodica, che deve avvenire a digiuno, evitando l’assunzione di cibi per almeno 30 minuti, preferibilmente alla mattina, per ottenere un assorbimento ottimale. Per quanto riguarda invece il trattamento dell’ipertiroidismo si fa ricorso all’utilizzo principalmente di due farmaci che sono il metimazolo, il suo profarmaco carbimazolo – 1-carbetossi-3-metiltioimidazolo – e il propiltiouracile (Fig. 25.8 e Box 25.2). L’utilizzo del profarmaco si è reso necessario per migliorare le caratteristiche organolettiche del metimazolo e ottimizzarne l’assorbimento. In vivo il legame etossicarbonilico viene rapidamente idrolizzato enzimaticamente ripristinando il metimazolo. Questi due farmaci appartengono alla famiglia della tioamidi, che presentano il gruppo tiocarbamidico che è fondamentale per l’attività antitiroidea. Essi agiscono attraverso diversi meccanismi d’azione. Innanzitutto, essi inibiscono l’enzima TPO, che è responsabile della reazione di iodinazione dei residui di tirosina della tireoglobulina e bloccano l’accoppiamento delle iodotirosine e quindi prevengono la sintesi degli ormoni tiroidei. Il meccanismo di questi effetti non è stato ancora del tutto chiarito. Questi farmaci non hanno effetto né sulla captazione dello iodio né sul rilascio degli ormoni tiroidei; il propiltiouracile, a differenza del

metimazolo, è in grado di bloccare la conversione periferica di T4 a T3, andando a inibire l’attività dell’enzima 5' deiodinasi (ID-1 e ID-3). Si pensa che il propiltiouracile possa interagire con il selenio presente a livello enzimatico e impedire l’attività di questi enzimi necessari per la formazione di T3. Questi due farmaci vengono concentrati attivamente dalla tiroide contro gradiente di concentrazione. Grazie a ciò, è sufficiente una somministrazione giornaliera dei due farmaci, sebbene presentino tempi brevi di emivita (pari a 1,5 ore per il propiltiouracile e 6 ore per il metimazolo). Gli effetti collaterali più comuni sono riferibili a nausea e vomito. Per il metimazolo è stato riportato anche un cambiamento dei gusti e dell’olfatto. Gli effetti più gravi sono riferibili a epatotossicità e agranulocitosi, quest’ultima riscontrata nello 0,35% di pazienti trattati con metimazolo e nello 0,37% di quelli trattati con propiltiouracile. Dal punto di chimico, le tioamidi sono derivati ciclici della tiourea a 5 o 6 termini: il gruppo tioureidico può esistere in un equilibrio tautomerico tra la forma chetonica e la forma enolica. Studi di RSA mostrano che il gruppo tioureidico e l’atomo di azoto non sostituito in posizione 1 sono fondamentali per l’attività. È stato verificato nel metimazolo come l’equilibrio tiocheto-tioenolico sia spostato verso la struttura tiochetonica, che risulta maggiormente stabile. Questo impedisce l’ossidazione del gruppo tiolico, caratteristico della forma tioenolica, a disolfuro con la formazione di dimeri di questo farmaco. Una volta assunto, l’enzima TPO, responsabile della iodinazione e della formazione di T3 e T4, va a iodinare preferenzialmente l’atomo di zolfo presente nel metimazolo, portando alla formazione di solfenil ioduro. In questo caso il metimazolo si configura come un vero e proprio substrato alternativo per la TPO, andando a competere con i residui tirosinici presenti nella tireoglobulina che dovrebbero essere iodinati. Il solfenil derivato instabile può quindi andare incontro a reazione di disproporzione

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei

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R

O

N

HN

S N H

S

N

CH3

6

CH3

Propiltiouracile

Metimazolo: R = H Carbimazolo: R = COOCH2CH3

R

C

N

N

S N

S

Tioamide

HS

N Forma tiochetonica

N Forma tioenolica

Figura 25.8 Struttura di propiltiouracile, metimazolo e reazione di equilibrio tra la forma tiochetonica e tioenolica.

BOX 25.2 ■ Sintesi di propiltiouracile e metimazolo Il propiltiouracile è ottenuto per trattamento di etilbutirroacetato (1) con tiourea (2) in presenza di etossido di sodio. La sintesi del metimazolo parte dalla reazione tra il metiltioisocianato (4) con un derivato aminico che presenta

un gruppo aldeidico protetto come il dietilacetale (3). Il composto ureidico disostituito così ottenuto (5) in ambiente acido va incontro a una reazione di ciclizzazione per dare il metimazolo. O

O

O

C3H7

S O

C2H5

H3C

2

3

NH2

H3C

N

C

S

4

per dare il corrispondente disolfuro, che velocemente degrada al derivato desolforato N-metil imidazolo (Fig. 25.9). Per quanto riguarda il propiltiouracile, si è visto che la presenza di gruppi alchilici in posizione 6 causa un aumento dell’attività inibitoria. È stata anche sviluppata una serie di antagonisti (Scheda 25.5) per la terapia dell’ipertiroidismo, e di agonisti indiretti (Scheda 25.6).

25.6.3 Amiodarone e sistema tiroideo L’amiodarone è un farmaco attualmente utilizzato nel trattamento delle aritmie ventricolari e sopraventricolari. Dal punto di vista strutturale è un derivato benzofuranico che ricorda molto da vicino la struttura di T3 e T4. Ogni molecola di amiodarone presenta 2 atomi di iodio ed è metabolizzato tramite reazione di dealchilazione a desetilamiodarone,

CH3

Propiltiouracile

H3C

O O

6

N H

S

1

H3C

HN

NH2CNH2

H3C

O O 5

H N H N

H N S

H2SO4

CH3

O N CH3 Metimazolo

il quale è un metabolita attivo. L’amiodarone esplica i suoi effetti sulla tiroide attraverso molteplici meccanismi. Questo derivato e i suoi analoghi, come desetilamiodarone e dronedarone, si legano ai recettori tiroidei e mostrano attività antagonista in saggi cellulari (Fig. 25.10). A livello periferico e particolarmente a livello epatico, l’amiodarone inibisce l’azione della 5'-deiodinasi, la cui attività, come già visto, consiste nel rimuovere l’atomo di iodio dall’anello aromatico di T4 a generare T3. Questa inibizione persiste per diversi mesi dalla sospensione del farmaco. Inoltre, l’amiodarone inibisce l’ingresso degli ormoni tiroidei nei tessuti periferici. Entrambi questi meccanismi sono responsabili dell’aumento della concentrazione sierica di T4 e della contemporanea riduzione della concentrazione sierica di T3 in pazienti in trattamento con l’amiodarone. L’amiodarone e i suoi metaboliti, oltre a influenzare l’attività di alcuni enzimi

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S H

N

I

S CH3 TPO

N

H

N

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N

H3C

H

N

N

CH3

CH3

H

CH3 Metimazolo

N

N

N Intermedio ipotizzato

N

S

S

N-metilimidazolo

Metimazolo disolfuro

Figura 25.9 Probabile meccanismo di interazione del metimazolo con TPO.

I

I O

O

N

I CH3

I CH3

CH3 CH3

O

HN CH3

O

Amiodarone

Desetilamiodarone

O H3 C

O

O

S

O

O H N

N

O

CH3 CH3

O

Dronedarone

CH3

Figura 25.10 Struttura dell’amiodarone e suoi derivati.

che intervengono nel metabolismo tiroideo, hanno anche un effetto citotossico sulla tiroide. Nei follicoli tiroidei umani avviene la lisi del 50% delle cellule tiroidee a una concentrazione di amiodarone di circa 200 mmol/L; è interessante notare come tale effetto citotossico sia significativamente inibito dal metimazolo, che inibisce l’organicazione dello iodio. Questa attività citotossica dell’amiodarone è stata osservata anche su cellule non tiroidee. Il meccanismo alla base dell’azione tossica non è ancora del tutto chiarito, ma sembra almeno in parte dovuto alla quantità di iodio che il farmaco può liberare: infatti, è stato dimostrato che in cellule tiroidee lo iodio causa apoptosi non mediata da p53. Inoltre, l’eccesso di iodio prodotto dall’amiodarone sembra essere responsabile dell’insorgenza di fenomeni auto-immuni. Infine, è stato verificato che l’amiodarone induce anche down-regulation dei recettori tiroidei.

25.7 Prospettive future Gli ormoni tiroidei sono di fondamentale importanza per il funzionamento di quasi tutti gli organi del nostro corpo e alterazioni delle loro corrette funzioni sono responsabili dei più comuni disturbi endocrini. Come è emerso dalla discussione

nelle pagine precedenti, nel corso degli anni sono state sviluppate numerose molecole in grado di interferire a vari livelli con l’azione di tali ormoni. Nonostante l’enorme quantità di composti sviluppati, sono ancora pochi quelli in fase di studio clinico. Questo è dovuto sia alla difficoltà nel separare gli effetti benefici dagli effetti sfavorevoli dovuti all’attivazione dei recettori tiroidei, sia alla conoscenza non ancora completa dei geni chiave responsabili di questi effetti. Grazie allo sviluppo di tecniche di biologia molecolare, che hanno permesso di ottenere le varie isoforme recettoriali purificate, e agli studi di cristallografia a raggi X, che hanno permesso di chiarire la struttura molecolare delle varie isoforme e come i vari ligandi siano in grado di interagire con loro, sono stati sviluppati diversi e interessanti composti selettivi verso le varie isoforme e sono attualmente in fase di studio per il trattamento di dislipidemia e prevenzione di aterosclerosi; inoltre, questi agenti possono anche rivelarsi utili nel trattamento di obesità, diabete, sindromi metaboliche. Molto interessante è stato lo sviluppo di agonisti selettivi nei confronti di recettori mutati, i quali possono essere utili nel trattamento di diversi tipi di tumori. Di notevole importanza risultano gli antagonisti tiroidei, i quali sono studiati per il trattamento di sindromi ipertiroidee.

26

Prostanoidi Antonio Lavecchia

26.1  La scoperta degli eicosanoidi 26.2  Nomenclatura e struttura delle prostaglandine 26.3 Formazione dell’acido arachidonico e degli acidi grassi omega 26.3.1 26.3.2 26.3.3 26.3.4 26.3.5

La via della ciclossigenasi La via della lipossigenasi L  ipossine, resolvine, protectine e maresine L  a via della citocromo P450 epossigenasi Gli isoprostani

26.4 Inattivazione metabolica degli eicosanoidi locali 26.5 Recettori ed effetti farmacologici degli eicosanoidi 26.5.1 Effetti cardiovascolari 26.5.2 Piastrine 26.5.3 Utero 26.5.4 Muscolatura bronchiale 26.5.5 Tratto gastrointestinale 26.5.6 Reni 26.5.7 Sistema nervoso centrale 26.5.8 Sistema nervoso autonomo 26.5.9 Dolore 26.5.10 Occhio 26.5.11 Sistema endocrino 26.5.12 Metabolismo

26.6 La progettazione di analoghi degli eicosanoidi 26.7 Eicosanoidi approvati per l’uso clinico umano 26.7.1 Prostaglandine per uso oftalmico

26.8  Inibizione dei leucotrieni 26.8.1 26.8.2 26.8.3 26.8.4

Inibizione della via della lipossigenasi Inibizione della proteina attivante la 5-lipossigenasi (FLAP) Inibitori della sintesi dei leucotrieni A  ntagonisti dei leucotrieni

596

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

Le prostaglandine, la prostaciclina (PGI2), il trombossano A2 (TXA2) e i leucotrieni (LT), noti con il nome di eicosanoidi, dal greco eikosi (venti), derivano dal metabolismo ossidativo dell’acido arachidonico, un acido grasso essenziale a 20 atomi di carbonio. Gli eicosanoidi sono sostanze fisiologicamente presenti in quasi tutti i tessuti e i fluidi dell’organismo umano, dotate di molteplici azioni biologiche, soprattutto di mediazione locale della risposta cellulare a differenti stimoli. La ricerca sugli eicosanoidi continua a elucidare il loro ruolo critico in numerosi processi fisiologici e patologici comprendenti l’aggregazione piastrinica, il mantenimento del bilancio elettrolitico, il controllo del tono della muscolatura liscia vasale e bronchiale, l’emostasi, la trombosi, la contrazione uterina durante il parto e la secrezione gastrointestinale. Molto importante è l’azione degli eicosanoidi nel meccanismo dell’infiammazione. Essi, infatti, determinano l’ampiezza e la durata della reazione infiammatoria con la regolazione locale dell’irrorazione sanguigna, il controllo della permeabilità vasale e la regolazione della chemiotassi macrofagica e leucocitaria. I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS, Cap. 27), gli inibitori delle COX-2 e gli inibitori dei leucotrieni, devono la loro azione terapeutica al blocco della sintesi degli eicosanoidi. Dato l’ampio spettro di effetti biologici attribuito a questi metaboliti, la ricerca futura nell’ambito della fisiologia e della farmacologia degli eicosanoidi può portare allo sviluppo di nuovi farmaci per il trattamento dell’asma, delle patologie infiammatorie, delle malattie autoimmunitarie, del cancro, delle patologie cardiovascolari e di altre condizioni cliniche. Questo capitolo descrive la sintesi, il metabolismo e il meccanismo d’azione degli eicosanoidi e analizza anche il valore terapeutico degli inibitori selettivi della loro sintesi e azione.

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chimici svedesi Sune Bergström e Bengt Samuelsson, per le ricerche sulla scoperta delle prostaglandine, della PGI2 e del TXA2 e del loro ruolo in numerosi processi fisiologici e patologici, e all’identificazione del meccanismo d’azione dell’aspirina e dei farmaci analoghi. Tabella 26.1 Effetti biologici degli eicosanoidi. Sostanza

Attività biologica osservata

PGD2

Debole inibizione dell’aggregazione piastrinica Broncocostrizione Reazione allergica

PGE1

Vasodilatazione Inibizione dell’aggregazione piastrinica Broncodilatazione Contrazione della muscolatura liscia gastrointestinale Inibizione della lipolisi

PGE2

Potente vasodilatazione Contrazione della muscolatura liscia uterina Broncodilatazione Aumento della produzione di muco Riduzione della secrezione di acido gastrico Natriuresi Febbre Stimolazione della risposta iperalgesica

PGF2α

Vasodilatazione Contrazione della muscolatura liscia uterina Stimolazione della luteolisi negli animali Broncocostrizione Febbre

PGI2

Potente vasodilatazione Potente inibizione dell’aggregazione piastrinica Broncodilatazione (lieve) Riduzione della secrezione di muco (debole) Natriuresi Febbre Stimolazione della risposta iperalgesica

PGJ2

Stimolazione dell’osteogenesi Inibizione della proliferazione cellulare

TXA2

Potente vasocostrizione Potente induzione dell’aggregazione piastrinica Broncocostrizione Stimolazione del rilascio di ADP e serotonina dalle piastrine

LTB4

Aumento della chemiotassi e dell’aggregazione leucocitaria

LTC4/LTD4

Sostanze a reazione lenta dell’anafilassi Potente e prolungata contrazione del muscolo liscio dell’ileo di cavia Broncocostrizione nell’uomo Contrazione di strisce di parenchima polmonare di cavia Aumento della permeabilità vascolare nella cute di cavia (potenziata dalle PGE)

5- o 12-HPETE

Vasodilatazione della circolazione gastrica di ratto e coniglio Inibizione dell’aggregazione piastrinica indotta

5- o 12-HETE

Aumento della chemiotassi e dell’aggregazione leucocitaria

26.1 La scoperta degli eicosanoidi All’inizio del secolo scorso (1931), Kurzrok e Lieb notarono che estratti del fluido seminale umano determinavano contrazioni muscolari spontanee del tessuto uterino in condizioni controllate. L’effetto osservato sulla muscolatura uterina si pensò fosse indotto da una sostanza acida vasoattiva generata dalla ghiandola prostatica, che successivamente (1936) von Euler chiamò prostaglandina. Molto più tardi (1950) si scoprì che l’estratto acido non conteneva una sola sostanza, bensì diverse, strutturalmente correlate alla prostaglandina. Queste sostanze successivamente furono separate, purificate e caratterizzate come prostaglandine, differenziandosi leggermente per il grado di ossigenazione e deidrogenazione e, decisamente, per l’attività biologica (Tab. 26.1). Nel 1964 sia Bergström che van Dorp riuscirono indipendentemente a sintetizzare la prostaglandina E2 (PGE2) a partire dall’acido arachidonico usando omogenati di vescicole seminali di pecora. La scoperta del trombossano A2 (TXA2), della prostaciclina (PGI2) e dei leucotrieni (LT) seguirono in tempi brevi. Nel 1971, Vane, Smith e Willis scoprirono che l’aspirina e i FANS agiscono attraverso l’inibizione della biosintesi delle prostaglandine. Questo intenso periodo di scoperte fu onorato nel 1982 con l’attribuzione del Premio Nobel per la Medicina al farmacologo inglese John Vane, insieme ai bio-

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

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26.2 N  omenclatura e struttura delle prostaglandine

al posto del gruppo chetonico in posizione 9; il gruppo ossidrilico è nella configurazione α nelle PGF presenti in natura e queste sono chiamate PGFα. Le prostaglandine della serie E e F sono conosciute come prostaglandine primarie. Tre ulteriori serie di prostaglandine sono designate con le lettere A, B e C. Le prostaglandine A e B derivano dal trattamento delle PGE con un acido (A) o una base (B). Le prostaglandine A e C isomerizzano alla corrispondente PGB per trattamento con basi. PGG e PGH sono endoperossidi biciclici. Le prostacicline (PGI) presentano un ponte a ossigeno fra C6 e C9. Il trombossano A (TXA) contiene una struttura biciclica ossigenata instabile, mentre il trombossano B (TXB) ha una struttura ossanica stabile. Il numero di doppi legami nella molecola sono indicati da indici numerici che appaiono dopo il nome della prostaglandina. Così, le prostaglandine E1, F1, A1 e B1 hanno un solo doppio legame (trans) in posizione 13,14. Le prostaglandine E2, F2, A2 e B2 hanno un secondo doppio legame (cis) in posizione 5,6, mentre le prostaglandine E3, F3, A3 e B3 hanno un terzo doppio legame (cis) in posizione 17,18. Nelle prostaglandine della serie A, C, E e F, l’attacco della catena acida carbossilica all’anello ciclopentanico in C8 è in

Da un punto di vista chimico, le prostaglandine si dividono in vari gruppi, tutti contenenti il sistema fondamentale dell’acido prostanoico (Fig. 26.1), che si può considerare derivato dalla ciclizzazione tra gli atomi di carbonio 8 e 12 di un acido grasso non saturo a 20 atomi di carbonio. Le prostaglandine naturali differiscono tra loro sia per il numero dei gruppi sostituenti nelle posizioni 9, 11, 15, sia per il numero e la posizione dei doppi legami. Nella letteratura scientifica, per indicare le prostaglandine è stata adottata la sigla PG seguita da una lettera A-K, che indica la natura e la posizione dei sostituenti presenti sull’anello del ciclopentano. Le lettere E e F in PGE e PGF derivano dai primi esperimenti di Bergström e Sjövall, i quali osservarono che i due tipi di prostaglandine potevano essere parzialmente separati grazie alla differente ripartizione in etere (E) e tampone fosfato (F). Nell’uso corrente, la lettera E è assegnata alla serie di prostaglandine che contengono un gruppo chetonico in posizione 9 (e un sostituente ossidrilico in posizione 11), mentre le prostaglandine della serie F hanno un sostituente ossidrilico

9

8

7

5

6

1

3

4

COOH

2

10 12

11

13

14

15

16

CH3

18

17

19

20

Acido prostanoico O

O

O

HO

O

C7

C7

C7

C7

C7

C13

C13

C13

C13

C13

O PGA

PGB

PGC

HO PGD

PGE

C7 HO C7

C13

C7

O O

O C7

C13 C13

HO PGF

C7

O

C13 HO

PGG/PGH

PGI

O

C13 O

PGJ

PGK

OH C7

C7

O O TXA

C13

HO

O

C13

TXB

Figura 26.1 Struttura dell’acido prostanoico e del sistema anellare delle prostaglandine e dei trombossani. C7 e C13 rappresentano le catene laterali dell’anello ciclopentanico dell’acido prostanoico.

597

598

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

posizione trans rispetto all’attacco della porzione ottanilica terminale o ω della catena. Questa asimmetria scompare nelle PGB poiché il legame 8-12 è insaturo. Tutte le prostaglandine naturali farmacologicamente attive hanno un gruppo ossidrilico sul C15, il quale, insieme a quello in posizione C11, è nella configurazione α nella formula simbolica convenzionale e ha configurazione assoluta (S). Le prostaglandine con configurazione (R) ai carboni C15 e C11 sono invece indicate con il prefisso epi-. Le immagini speculari delle prostaglandine naturali vengono designate con il prefisso ent-. Le prostaglandine in cui le due catene laterali sono orientate in cis e non in trans rispetto all’anello vengono indicate come 8-isoprostaglandine.

26.3 F  ormazione dell’acido arachidonico e degli acidi grassi omega 3 L’acido arachidonico – acido cis-5,8,11,14-eicosatetraenoico – è il precursore della maggior parte degli eicosanoidi (Fig. 26.2). Esso deriva dall’acido grasso essenziale precursore acido linoleico – acido cis-9,12-ottadecadienoico –, che gli esseri umani possono assumere solo con la dieta. L’acido eicosapentaenoico – acido cis-5,8,11,14,17-eicosapentaenoico, (EPA) – e l’acido docosaesaenoico – acido cis4,7,10,13,16,19-docosaesaenoico, (DHA) – sono i precursori di resolvine, protectine e maresine. Nell’uomo, l’EPA e il DHA derivano dalla dieta o dalla biotrasformazione dell’acido grasso precursore α-linolenico – acido cis-9,12,15-ottadecatrienoico. L’acido α-linolenico, l’EPA e il DHA sono anche chiamati acidi grassi omega 3, poiché contengono un doppio legame fra il terzo e il quarto carbonio della catena terminale (ω) della molecola. Nella cellula, l’acido arachidonico non esiste come acido grasso libero, ma è esterificato nella posizione sn-2 (dove sn è l’acronimo di stereospecific numbering, ossia numerazione stereospecifica) dei fosfolipidi di membrana, principalmente fosfatidilcolina e fosfatidiletanolamina. Il rilascio dell’acido arachidonico libero, che successivamente può essere metabolizzato per via ossidativa, avviene mediante la stimolazione dell’attività dell’enzima fosfolipasi A2 (PLA2) in risposta a un evento traumatico (ad es. danno tissutale, esposizione a tossine o stimolazione ormonale). L’idrolisi del legame estereo ad opera della PLA2 (Fig. 26.2), che è il primo passaggio della cascata dell’acido arachidonico, è lo stadio cineticamente determinante nella formazione degli eicosanoidi. Sono state caratterizzate almeno tre isoforme della PLA2: quella secretoria (sPLA2), quella citosolica (cPLA2) e quella Ca2+-indipendente (iPLA2). Queste isoforme si differenziano sulla base del peso molecolare, della sensibilità al pH, della regolazione e delle caratteristiche di inibizione, della richiesta di ioni calcio e della specificità del substrato. L’esistenza di isoforme multiple permette la regolazione calibrata dell’enzima in differenti tessuti per ottenere risposte biologiche selettive. Stimoli chimici e fisici attivano la traslocazione Ca2+-dipendente della cPLA2 appartenente al gruppo IVA verso la membrana, dove essa rilascia l’acido arachidonico per il quale ha elevata affinità. In condizioni di assenza di stimolo, l’acido arachidonico libera-

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to ad opera della iPLA2 viene reincorporato nella membrana cellulare, quindi vi è una biosintesi trascurabile di eicosanoidi. Mentre la cPLA2 predomina nel rilascio acuto di acido arachidonico, la sPLA2 inducibile contribuisce al rilascio di acido arachidonico in condizioni di sostenuta o intensa stimolazione. È importante ricordare che l’azione antinfiammatoria dei glucocorticoidi steroidei sembra essere dovuta, in parte, alla loro capacità di interferire con questo passaggio del metabolismo dell’acido arachidonico: infatti, questi ormoni inducono l’espressione genica della lipocortina 1, una proteina capace di inibire la PLA2.

26.3.1 La via della ciclossigenasi L’acido arachidonico, una volta liberato, è rapidamente metabolizzato a prodotti ossigenati ad opera di numerosi e distinti sistemi enzimatici, tra cui le ciclossigenasi (COX-1 e COX-2), le lipossigenasi (LOX) e le citocromo P450 epossigenasi; ciascun enzima porta alla formazione di una specifica classe di eicosanoidi locali. La via della ciclossigenasi porta alla formazione di prostaglandine, prostacicline e trombossani; la via della lipossigenasi produce leucotrieni e lipossine; e la via dell’epossigenasi genera gli acidi epossieicosatetraenoici (EET) (Fig. 26.2). Il relativo significato di ciascuna di queste vie può variare in base al tessuto o allo stato patologico. Le ciclossigenasi (note anche come prostaglandine-endoperossido sintasi) sono enzimi glicosilati, omodimerici, ancorati alla membrana e contenenti eme; sono ubiquitari nelle cellule dei mammiferi. Vi sono due distinte isoforme della ciclossigenasi: la COX-1, che è espressa costitutivamente nella maggior parte delle cellule ed è considerata la sorgente dominante, ma non esclusiva, di prostanoidi per funzioni di tipo omeostatico, e la COX-2, che è inducibile, cioè la sua espressione varia in relazione al tipo di stimolo patologico (fisico, termico, chimico ecc.). La COX-2 è la maggiore fonte di prostaglandine sintetizzate nell’infiammazione, nella febbre e nel dolore. Per una dettagliata descrizione di questi enzimi si veda il Capitolo 27. Ciascuna ciclossigenasi catalizza due reazioni sequenziali. La prima, detta ciclossigenasica, consiste nell’addizione altamente stereospecifica di due molecole di ossigeno al substrato acido arachidonico per formare l’endoperossido ciclico prostaglandina G2 (PGG2); la seconda reazione, detta perossidasica, consiste nella riduzione dell’idroperossido in posizione 15 della PGG2 al 15-(S)-alcol PGH2 (Fig. 26.2). L’inibizione della ciclossigenasi nella forma costitutiva (COX-1) o inducibile (COX-2) rappresenta il meccanismo d’azione dei FANS, trattati dettagliatamente nel Capitolo 27. Entrambi gli endoperossidi PGG2 e PGH2 sono instabili chimicamente (con emivita di 5 minuti), ma possono essere convertiti in un’ampia gamma di prostanoidi attraverso isomerasi e sintasi. Questi enzimi sono espressi in modo specifico a livello cellulare, così che molte cellule producono uno o due prostanoidi dominanti. La PGH2 viene convertita a PGE2 ad opera della PGE sintasi. Esistono almeno tre isoforme di questo enzima, strutturalmente e biologicamente distinte: la cPGE sintasi è la forma citosolica dell’enzima, invece la mPGE sintasi 1 e la mPGE sintasi 2 sono le forme microsomiali. La cPGE sintasi e la mPGE sintasi 2 sono espresse costitutivamente in diversi tipi di cellule. In particolare, la cPGE sintasi produce la PGE2

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

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Sito di idrolisi

O R

O

P

-O

5

O

O

R = colina o etanolamina

11

8

14

CH3 CH3

O Fosfolipidi

Lipossine Leucotrieni

5-LOX PLA 2 5

8

Perossidazione non enzimatica

Isoprostani

COOH

10

Citocromo P450 epossigenasi

CH3 11

20

14

Acido arachidonico

COOH

COX-1 COX-2

COOH

O

CH3

O OH

9

O

TXA 2

8

O

6

O

CH3

OOH

O

PGI 2

PGI sintasi

CH3

O OH

L-PGD sintasi H-PGD sintasi

PGH2

PGH 2 reduttasi

PGE 2

HO

9-cheto- HO

COOH reduttasi

COOH

COOH

CH3

CH3

CH3 HO

PGE 2

OH

COOH

mPGE sintasi cPGE sintasi

OH

OH

PGG2

Perossidasi

TXA sintasi

HO

CH3

COOH 15

11 13

O

5

Acidi eicosatetraenoici (EET)

OH

PGF2

O

Disidratazione

OH

PGD 2

Disidratazione

O

OH

COOH

COOH

CH3

CH3 O

PGA 2

OH

PGJ 2

Isomerizzazione

Isomerizzazione

O

OH

COOH

COOH

CH3

CH3 O

PGC2

Isomerizzazione

PGB2

12-PGJ 2

Disidratazione

O

OH

OH

COOH

COOH

CH3

CH3 O

Figura 26.2 Metabolismo dell’acido arachidonico attraverso la via della ciclossigenasi.

15-deossi-12,14-PGJ 2

599

600

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

a partire dalla PGH2 formata dall’enzima COX-1, mentre la mPGE sintasi 2 produce la PGE2 a partire dalla PGH2 formata sia da COX-1 sia da COX-2. Al contrario, l’isoforma enzimatica mPGE sintasi 1 è principalmente espressa in risposta a stimoli proinfiammatori e funziona di concerto con la COX-2 inducibile. Analogamente, la PGD2 è formata dalla PGH2 ad opera della PGD sintasi, anch’essa prodotta in due isoforme, evolutivamente distinte ma funzionalmente convergenti: la PGD sintasi di tipo lipocalinico (L-PGD sintasi), che si trova nel sistema nervoso centrale, e la PGD sintasi ematopoietica (H-PGD sintasi), che si trova nei tessuti periferici. Le prostaglandine ciclopentenoniche A e J, caratterizzate da gruppi chetonici α,β-insaturi reattivi, sono prodotte da PGE2 e PGD2, rispettivamente, attraverso reazioni spontanee di disidratazione e possono ulteriormente modificarsi. Così, la PGA2 isomerizza per formare il composto molto instabile PGC2, che subisce una rapida isomerizzazione secondaria per produrre la PGB2; invece, la PGJ2 isomerizza per formare la Δ12-PGJ2 e poi promuove una successiva disidratazione dell’ossidrile in posizione C15 per dare il 15-deossi-Δ12,14-PGJ2 come prodotto finale. I gruppi chetonici α,β-insaturi altamente elettrofili di questi prostanoidi reagiscono facilmente con le funzioni tioliche dei residui di cisteina del glutatione e delle proteine cellulari. La PGF2α può essere prodotta attraverso due vie differenti: direttamente dalla PGH2 ad opera della PGH2 9,11-endoperossido reduttasi, usando l’NADPH come cofattore, oppure dalla PGE2 mediante l’enzima PGE2 9-chetoreduttasi. L’endoperossido PGH2 è inoltre metabolizzato in due composti instabili e biologicamente molto attivi: il TXA2, che è prodotto da una TXA sintasi, e la PGI2, che si forma dalla PGH2 ad opera della PGI sintasi. Le due sintasi sono legate al gruppo di proteine del citocromo P450 e si trovano sul lato citosolico del reticolo endoplasmatico, così che il precursore PGH deve attraversare la membrana. Le prostacicline sono i principali prostanoidi sintetizzati nelle cellule endoteliali e muscolari lisce, mentre i trombossani sono i metaboliti dominanti nelle piastrine e nel polmone.

26.3.2 La via della lipossigenasi Oltre alla via della ciclossigenasi, l’altro principale pathway metabolico dell’acido arachidonico è quello della lipossigenasi, che porta alla formazione di leucotrieni e lipossine (Fig. 26.3). Le lipossigenasi (LOX) sono enzimi che catalizzano l’inserimento di ossigeno molecolare (O2) sul carbonio in posizione 5, 8, 12 e 15 dell’acido arachidonico, utilizzando ferro non-eme per generare idroperossidi specifici. Il metabolismo dell’acido arachidonico da parte delle LOX porta alla produzione di acidi idroperossieicosatetraenoici (HPETE), che sono rapidamente convertiti in acidi idrossieicosatetraenoici (HETE) e leucotrieni (LT). Esistono cinque isoforme attive dell’enzima LOX umano: 5(S)-LOX, 12(S)-LOX, 12(R)-LOX, 15(S)-LOX-1 e 15(S)-LOX-2. Esse differiscono per la specificità con cui posizionano il gruppo idroperossido nell’acido arachidonico e vengono espresse in maniera cellulo-specifica. Ad esempio, le piastrine esprimono una 12(S)-LOX in grado di generare esclusivamente il 12(S)-HETE dall’acido arachidonico, mentre i leucociti contengono un’isoforma che può sintetizzare sia il 12- sia il 15-HETE. La 12(R)-LOX è espressa unicamente nella cute. Le LOX della cute costituiscono un distinto sottogruppo di

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LOX che include anche la 15-LOX-2 e l’isoforma epidermica LOX-3, la quale ha attività idroperossidoisomerasica. La 5-LOX, che è presente nei leucociti (neutrofili, basofili, eosinofili e monociti-macrofagi) e in altre cellule infiammatorie (mastociti e cellule dendritiche), è la lipossigenasi più importante, poiché è responsabile della sintesi dei leucotrieni. A differenza delle altre lipossigenasi, la 5-LOX deve traslocare sulla membrana nucleare per funzionare correttamente. La proteina attivante la 5-LOX (5-lipoxygenase activating protein, FLAP), una proteina integrale di membrana, aiuta la 5-LOX a traslocare sulla membrana nucleare, a formare un complesso enzimatico attivo e ad accettare il substrato acido arachidonico dalla PLA2. Sebbene la struttura della 5-LOX non sia stata ancora determinata, sembra che contenga due elementi essenziali per la sua attività: un dominio catalitico e un dominio N-terminale in grado di legare il calcio e la fosfatidilcolina zwitterionica della membrana (ma non i fosfolipidi cationici). Inoltre, l’attività dell’enzima è regolata dalla fosforilazione di tre residui di serina da parte di specifiche chinasi. La 5-LOX catalizza una reazione in due fasi: la formazione del 5-HPETE – acido 5-idroperossieicosatetraenoico – mediante l’incorporazione di una molecola di ossigeno nella posizione C5 dell’acido arachidonico e la disidratazione del 5-HPETE a un 5,6-epossido instabile conosciuto come LTA4. Non è noto se il 5-HPETE diffonda fuori dal sito attivo della 5-LOX o rimanga legato a esso durante queste due fasi. LTA4 è successivamente convertito in LTB4 e in LTC4. L’enzima LTA4 idrolasi converte LTA4 in acido 5,12-diidrossieicosatetraenoico (LTB4) nei neutrofili e negli eritrociti. La conversione di LTA4 in LTC4 si verifica nelle mast-cellule, nei basofili, negli eosinofili e nei macrofagi per coniugazione al C6 del tripeptide γ-glutamilcisteinil glicina (glutatione) ad opera della LTC4 sintasi. LTC4, LTD4, LTE4 e LTF4, che rappresentano i cisteinil-leucotrieni (cysLT), si interconvertono per rimozione di porzioni aminoacidiche del tripeptide γ-glutamil-cisteinil glicina. LTB4 esplica una potente attività proinfiammatoria poiché induce il reclutamento, l’attivazione e la migrazione di neutrofili, eosinofili e monociti. LTB4 incrementa la funzione lisosomiale dei neutrofili e genera specie reattive dell’ossigeno (ROS), aumenta la produzione di citochine e potenzia le azioni di cellule natural killer (NK). Al contrario, i cysLT, in particolare LTC4 e LTD4, sono potenti costrittori delle cellule muscolari lisce delle vie aeree e dei vasi sanguigni, con un’attività circa 1000 volte superiore a quella della metacolina e dell’istamina. I cysLT, inoltre, sono responsabili dell’iperreattività delle vie aeree e della contrazione della muscolatura liscia vascolare che si verifica nei processi asmatici, allergici e di ipersensibilità. Sia LTB4 sia LTC4/LTD4 giocano un ruolo chiave nella psoriasi, nell’artrite e nelle varie risposte infiammatorie. Essi sono anche mediatori chiave nelle malattie vascolari e sono probabilmente importanti nell’aterosclerosi, nell’obesità e nell’asma.

26.3.3 L  ipossine, resolvine, protectine e maresine Le lipossine (prodotti di interazione della lipossigenasi) sono derivati dell’acido arachidonico contenenti quattro doppi legami coniugati e tre gruppi ossidrilici. Questi metaboliti modulano le azioni dei leucotrieni e delle citochine e sono importanti nella risoluzione dell’infiammazione. Tre sono le

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

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.

COOH CH3 Acido arachidonico FLAP 5-LOX

OOH COOH CH3 5(S)-HPETE 5-LOX

O

COOH

CH3

LTA 4 LTC 4 sintasi

LTA 4 idrolasi

OH

OH

OH

COOH

COOH CH3

S LTB 4

Gly Cys

LTC 4

Glu CH3

-Glutamil-transpeptidasi

Carbossipeptidasi A

OH

OH COOH

S

COOH

Gly Cys

S

LTD 4

Cys

LTF 4

Glu CH3

CH3 Dipeptidasi

-Glutamil-transpeptidasi

OH COOH S

Cys

LTE 4

CH3

Figura 26.3 Metabolismo dell’acido arachidonico attraverso la via della 5-lipossigenasi.

principali vie biosintetiche che portano alla formazione delle lipossine: la via della 15-LOX, la via della 5-LOX e la via indotta dall’aspirina (Fig. 26.4). La via della 15-LOX comprende l’azione sequenziale sull’acido arachidonico della 15-LOX, presente in eosinofili, macrofagi alveolari, mono-

citi e cellule epiteliali, e della 5-LOX, presente nei neutrofili e nei monociti. La 15-LOX inserisce ossigeno molecolare nella posizione C15 dell’acido arachidonico, generando il 15(S)-HPETE, che può essere ridotto a 15(S)-HETE da una perossidasi. La successiva attività della 5-LOX sul 15(S)-HE-

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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COOH 13

CH3

15

15-LOX cellule epiteliali macrofagi monociti

COX-2 acetilata (dopo aspirina) cellule endoteliali o epiteliali

Acido arachidonico

5-LOX neutrofili monociti

Perossidasi

O

COOH 13

CH3

COOH

COOH

CH3 LTA 4

15

OH

CH3 OH

15(S)-HETE

15(R)-HETE 5-LOX leucociti

12-LOX piastrine

5-LOX

OOH

OH COOH

O

COOH

6

COOH

CH3

CH3 14

LTA 4

OOH

OH 5(S)-Idroperossi-15(S)-HETE

CH3 OH 5,6-Epossitetraene LXA 4 idrolasi

5-LOX

O

OH

HO

COOH CH3

R

H2O

CH3

R

OH 5,6-Epossitetraene

OH

OH

LXA4 idrolasi

15(R)-epi-LXA 4

LXB4 idrolasi

LXB4 idrolasi

COOH

S

COOH

S R

HO R

OH

OH COOH

S

CH3

S

HO COOH

S R

HO

OH LXA4

S

R

CH3

OH

15(R)-Epi-LXB4 CH3

OH

LXB4

Figura 26.4 Biosintesi delle lipossine.

TE porta alla formazione del 5(S)-idroperossi-15(S)-HETE, che, dopo trasformazione a 5,6-epossitetraene, può essere convertito non enzimaticamente a lipossina A4 (LXA4) o, ad opera della LXB4 idrolasi, a lipossina B4 (LXB4). L’interazione tra neutrofili e piastrine esemplifica la seconda via che genera le lipossine. In questo caso, la 5-LOX, presente nei neutrofili, e la 12-LOX, presente in elevata

quantità nelle piastrine, trasformano l’acido arachidonico in LXA4 e LXB4. La 12-LOX estrae un idrogeno al C13 del prodotto epossidico LTA4 formato dalla 5-LOX nei neutrofili e inserisce ossigeno molecolare nella posizione C15. Questo passaggio converte LTA4 in un carbocatione intermedio, che si apre formando LXB4, se attaccato dall’acqua in posizione C14, o LXA4, se attaccato in posizione C6.

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Infine, nel terzo processo biosintetico, la forma aspirinoacetilata della COX-2, quando è indotta nelle cellule endoteliali o epiteliali attraverso le citochine pro-infiammatorie IL-1β, LPS e TNFα, cambia la sua attività catalitica convertendo l’acido arachidonico nel 15(R)-HETE al posto dell’endoperossido delle prostaglandine. Il 15(R)-HETE può essere ulteriormente trasformato dalla 5-LOX presente nei leucociti aderenti alle cellule endoteliali, a dare prima il 5,6-epossitetraene e, successivamente, le epilipossine 15(R)-epi-LXA4 e 15(R)-epi-LXB4. Le 15-epilipossine interagiscono con i recettori delle lipossine native; tuttavia, la 15(R)-epi-LXA4 è più potente della lipossina nativa LXA4 nell’inibire l’adesione dei neutrofili alle cellule endoteliali, mentre la 15(R)-epiLXB4 è più potente di LXA4 e LXB4 nell’inibire la proliferazione cellulare. Nei siti di infiammazione, di solito, c’è una relazione inversa tra la quantità di lipossine e leucotrieni presenti. Questa osservazione ha suggerito che le lipossine possano agire come regolatori negativi dell’azione dei leucotrieni. I recettori di LXA4 sono presenti sui neutrofili e nei polmoni, nella milza e nei vasi sanguigni. Le lipossine bloccano la chemiotassi, l’adesione e la trasmigrazione endoteliale dei neutrofili (diminuendo l’espressione della P-selectina), limitano il reclutamento degli eosinofili, stimolano la vasodilatazione (inducendo la sintesi di PGI2 e PGE2), inibiscono la vasocostrizione stimolata da LTC4 e LTD4, inibiscono gli effetti infiammatori di LTB4 e inibiscono la funzione delle cellule NK. Le lipossine, inoltre, stimolano la captazione e il rilascio di neutrofili apoptotici da parte dei macrofagi e quindi mediano la risoluzione della risposta infiammatoria. Poiché la produzione di lipossine sembra essere importante nella risoluzione dell’infiammazione, uno squilibrio nell’omeostasi lipossine-leucotrieni può essere un fattore chiave nella patogenesi di malattie infiammatorie. Recentemente sono stati identificati altri mediatori lipidici derivanti dagli acidi grassi omega 3 che controllano sia l’entità sia la durata dell’infiammazione. Questi mediatori chimici, noti come resolvine, protectine e maresine, costituiscono, insieme alle lipossine, una nuova classe di mediatori chimici specializzati pro-risolutivi (SPM). Le resolvine, le protectine e le maresine vengono biosintetizzate a partire da precursori degli acidi grassi essenziali omega 3, in particolare EPA e DHA, grazie all’azione sequenziale della COX-2 acetilata dall’aspirina e dalla 5- o dalla 15-LOX. Per una descrizione più dettagliata della biosintesi e delle principali azioni pro-risolutive di tali mediatori si vedano le Schede 26.1, 26.2, 26.3 e 26.4. La mappatura di questi circuiti endogeni risolutivi dell’infiammazione apre nuove strade per esplorare le basi molecolari di molte malattie infiammatorie. Le resolvine, le protectine e le maresine possiedono molteplici azioni potenti e stereoselettive nelle cellule umane e in modelli animali di patologie umane. In generale, questi mediatori locali specializzati limitano il reclutamento dei neutrofili ai siti di infiammazione e stimolano i macrofagi a rimuovere, dalla sede dell’infiammazione, le cellule apoptotiche, quelle necrotiche e le eventuali particelle microbiche. Le resolvine e le protectine sono prodotte non solo nei siti infiammatori, ma anche nel midollo osseo e nel cervel-

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

lo, dove sembra svolgano potenti azioni di mediatori locali. È importante sottolineare che l’identificazione di SPM funzionali biosintetizzati durante i meccanismi endogeni di infiammazione/risoluzione indica che la risoluzione è un processo attivo: questo rappresenta un cambiamento di paradigma rispetto alla convinzione che lo smorzamento dell’infiammazione acuta sia un evento passivo in vivo. Recenti scoperte suggeriscono che meccanismi di risoluzione difettosi o carenti possano essere alla base di alcune malattie infiammatorie croniche, aprendo la possibilità a una loro risoluzione farmacologica.

26.3.4 L  a via della citocromo P450 epossigenasi Le citocromo P450 (CYP) epossigenasi microsomiali, in particolare le isoforme CYP2C e CYP2J nell’uomo, ossigenano l’acido arachidonico, determinando la formazione di acido epossieicosatetraenoico (EET) e derivati idrossiacidi (Fig. 26.2). La via dell’epossigenasi è importante nei tessuti che non esprimono COX o LOX, come alcune cellule renali. L’epossigenazione dell’acido arachidonico produce quattro differenti regioisomeri (14,15-, 11,12-, 8,9- e 5,6-EET), ciascuno contenente una miscela di enantiomeri (R,S) e (S,R) a seconda del doppio legame coinvolto. Gli acidi idrossieicosatetraenoici (16-, 17-, 18-, 19- o 20-HETE), prodotti ad opera di CYP idrolasi (principalmente CYP4A e 4F), possono regolare il tono vascolare, inibendo la Na+/K+ ATPasi nelle cellule muscolari lisce vascolari, e possono influenzare la funzione renale, regolando l’assorbimento e la secrezione di ioni. La ricerca futura dovrà chiarire meglio le funzioni degli EET nella fisiologia umana.

26.3.5 Gli isoprostani Gli isoprostani sono composti strutturalmente simili alle prostaglandine, sintetizzati in vivo in seguito a perossidazione lipidica dell’acido arachidonico da parte di radicali liberi dell’ossigeno (Fig. 26.2). L’azione dei radicali sull’acido arachidonico avviene quando l’acido grasso è esterificato nei fosfolipidi di membrana, dando luogo a fosfolipidi contenenti isoprostani in posizione sn-2. Questi nuovi fosfolipidi, più polari e meno flessibili, possono contribuire a determinare la profonda alterazione delle caratteristiche chimico-fisiche delle membrane conseguente al danno ossidativo. Una volta liberati dalle membrane, gli isoprostani raggiungono diversi liquidi biologici (liquor, plasma), dove persistono grazie alla loro stabilità chimica e all’abbondanza relativa rispetto agli altri prodotti di perossidazione lipidica, e successivamente sono eliminati attraverso le urine. Gli isoprostani possono attivare l’NFκB, la fosfolipasi Cγ, la proteina chinasi C e il flusso di calcio. Poiché la velocità di formazione degli isoprostani dipende dalle condizioni di ossidazione cellulare, il loro livello può essere indicativo di stress ossidativo associato a molte condizioni patologiche come sindromi ischemiche, danno da riperfusione, aterosclerosi e malattie epatiche. Due isoprostani, l’8-epi-PGF2α e l’8-epi-PGE2, sono potenti vasocostrittori.

603

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

26.4 Inattivazione metabolica degli eicosanoidi locali Tutti i prostanoidi vengono rapidamente inattivati in circolo. Le prostaglandine (con l’eccezione della PGI2 e del TXA2) sono metabolizzate da due diversi sistemi enzimatici largamente distribuiti nell’organismo, la 15-OH-PG-deidrogenasi (15-OH-PGDH) e la PG Δ13-reduttasi (Fig. 26.5). Sono stati identificati due tipi di 15-OH-PGDH. Il tipo l, NAD+dipendente, è la forma predominante coinvolta nel catabolismo degli eicosanoidi. Questo enzima ossida selettivamente il gruppo ossidrilico in posizione C15 al corrispondente chetone, generando le 15-chetoprostaglandine, che sono totalmente prive di attività biologica. Le 15-chetoprostaglandine vengono successivamente metabolizzate al 13,14-diidrossi derivato tramite la riduzione del doppio legame in posizione 13 ad opera della PG Δ13reduttasi. Questo passaggio catabolico è seguito dalla β- e dalla ω-ossidazione delle catene laterali, dando origine ad acidi dicarbossilici polari: questi vengono escreti nelle urine come principali metaboliti sia della PGE1 sia della PGE2. Queste reazioni avvengono principalmente nel fegato. Al contrario della PGE2, la PGD2 viene inizialmente ridotta in vivo a 9α,11β-PGF2, che presenta una notevole attività biologica. In seguito, questo composto subisce un metabolismo simile a quello degli altri eicosanoidi. Il TXA2 è instabile e ha un’emivita di soli 30 secondi; si idrolizza spontaneamente a formare il TXB2, stabile ma biologicamente inattivo (Fig. 26.5). Il principale metabolita plasmatico del TXB2 è l’11-diidroTXB2, ottenuto per azione della 11-idrossi TXB2 deidrogenasi, mentre i principali metaboliti urinari sono l’11-diidroTXB2 e il 2,3-dinor-TXB2. La PGI2 ha un’emivita di 3 minuti circa; si idrolizza spontaneamente nel sangue a formare il metabolita stabile, ma inattivo, 6-cheto PGF1α. Il principale metabolita urinario del 6-cheto-PGF1α è il 2,3-dinor-6cheto-PGF1α. L’analisi dei livelli urinari o plasmatici di tali metaboliti è in grado di fornire un indice sufficientemente predittivo della sintesi di TXA₂ o PGI₂ in vivo. Il metabolismo di LTC4 ha luogo nel polmone, nel rene e nel fegato. La sua conversione in LTE4 comporta la perdita di attività biologica. LTC4 può anche essere inattivato dall’ossidazione dell’atomo di zolfo cisteinilico a solfossido. La principale via di inattivazione di LTB4 è l’ω-ossidazione della catena laterale.

26.5 Recettori ed effetti farmacologici degli eicosanoidi Le prostaglandine esercitano i loro effetti sulla muscolatura liscia, sull’aggregazione piastrinica, sulla neurotrasmissione e sulla secrezione ghiandolare attivando specifici recettori prostanoidi nei tessuti bersaglio. Questi recettori sono accoppiati a proteine G e possono essere classificati in 5 tipi sulla base dell’affinità e della selettività ai cinque prostanoidi naturali: PGD2, PGE2, PGF2α, PGI2 e TXA2. Questi recettori sono chiamati P-recettori e vengono preceduti da una lettera indicante il prostanoide naturale a cui il recettore è più affine. La sigla dei recettori dei 5 prostanoidi elencati è quindi DP, EP, FP, IP e TP, rispettivamente. Inoltre, i recettori EP

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sono suddivisi in 4 sottotipi (EP1, EP2, EP3 ed EP4), i recettori DP in DP1 e DP2, i recettori FP in FPA e FPB, e i recettori TP in TPα e TPβ sulla base della loro affinità a una serie di agonisti e antagonisti. Recentemente sono stati proposti 4 ulteriori sottotipi del recettore EP3 (EP3A, EP3B, EP3C ed EP3D). Per i leucotrieni sono stati identificati due sottotipi recettoriali sia per LTB4 (BLT1 e BLT2) sia per i cisteinil-leucotrieni (cysLT1 e cysLT2). Tutti i recettori e i loro sottotipi sono stati clonati e ne sono stati caratterizzati i meccanismi di trasduzione del segnale. La Tabella 26.2 riassume le caratteristiche dei recettori prostanoidi finora identificati. I recettori dei prostanoidi sono stati suddivisi in tre classi principali: (a) recettori dei prostanoidi che inducono il rilassamento (EP2, EP, IP e DP1); (b) recettori dei prostanoidi che inducono contrazione (EP1, FP e TP); (c) recettori dei prostanoidi che inducono inibizione (DP2 ed EP3). I primi sono accoppiati alla proteina Gs e promuovono il rilassamento della muscolatura liscia, aumentando i livelli di cAMP intracellulare. I secondi, invece, sono accoppiati alla proteina Gq e promuovono la contrazione della muscolatura liscia mediante l’attivazione del metabolismo del fosfatidilinositolo, con conseguente formazione di inositolo trifosfato (IP3) e aumento del Ca2+ libero intracellulare. L’attivazione delle isoforme del recettore TP può stimolare o inibire l’adenilato ciclasi tramite la proteina Gs (TPα) o Gi (TPβ), rispettivamente, e inviare il segnale, attraverso Gq e proteine correlate (G12/13 e G16), alle vie delle small G-protein, inclusa Rho, e alla protein-chinasi attivata da mitogeno (MAPK) ERK. I recettori appartenenti alla terza classe sono accoppiati alla proteina Gi e prevengono la contrazione della muscolatura liscia sia inibendo la sintesi di cAMP sia innalzando i livelli di Ca2+ intracellulare. LTB4 genera il rilascio di IP3 attraverso il recettore BLT1, causando l’attivazione, la degranulazione e la generazione dell’anione superossido nei leucociti polimorfonucleati. Il recettore a bassa affinità per LTB4, BLT2, lega con buona affinità il 12(S)-HETE e il 12(R)-HETE, sebbene la rilevanza biologica di questa osservazione non sia chiara. I recettori cysLT1 sono accoppiati a proteine Gq e portano a un aumento del Ca2+ intracellulare. L’unico recettore per la lipossina, ALX, è identico al recettore per la formil-metionil-leucilfenilalanina-1 (fMLP-1) e il suo ligando naturale più potente è LXA4. La Tabella 26.1 riassume gli effetti farmacologici degli eicosanoidi sui processi fisiologici nonché sugli stati ormonali.

26.5.1 Effetti cardiovascolari La PGE2 e la PGF2α agiscono come potenti vasodilatatori in molti distretti vascolari. In preparati isolati, queste prostaglandine sono vasodilatatori più potenti dell’acetilcolina e dell’istamina. La PGF2α è un potente vasocostrittore dei vasi di grosso calibro come le vene e le arterie polmonari nell’uomo. La somministrazione endovenosa di PGE2 causa ipotensione, mentre la PGF2α ha scarso effetto sulla pressione arteriosa. La PGI2 causa vasodilatazione in modo uniforme ed è un ipotensivo più potente della PGE2. Il TXA2, invece, produce vasocostrizione. Gli endoperossidi PGG2 e PGH2 sono vasocostrittori, ma spesso possono causare vasodilatazione o una risposta bifasica dovuta alla rapida conversione ad altre

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HO COOH CH3 O

PGD 2

OH

11-Chetoreduttasi

O

HO

HO

OH

HO

COOH

COOH

COOH

CH3

CH3

CH3

HO

PGE 2

OH

15-OH-PGDH

HO

PGF2

15-OH-PGDH

O

15-OH-PGDH

HO

HO

HO

O

O

COOH

COOH

CH3

CH3 HO

O

13-Riduzione

-Ossidazione -Ossidazione

-Ossidazione

COOH COOH HO

COOH

OH

O CH3 OH

COOH O

-Ossidazione

OH

HO

OH COOH

O

PGI 2

COOH

O

TXB 2

deidrogenasi

OH

Idrolisi non enzimatica

CH3 OH

PGD-M

TXA 2

Idrolisi non enzimatica

11-Idrossi-TXB 2

O

COOH

CH3

O

HO

-Ossidazione

HO

PGF-M

O

O

OH

13-Riduzione

COOH HO

PGE-M

O

O

COOH

COOH HO

CH3

13-Riduzione

-Ossidazione

HO

COOH HO

-Ossidazione

COOH

OH 9,11-PGF2

CH3

O

CH3 COOH

HO

CH3

O

OH 11-deidro-TXB 2

OH

OH 6-cheto-PGF1 -Ossidazione

OH 2,3-dinor-TXB 2 O

COOH

HO CH3 OH

Figura 26.5 Principali vie cataboliche dei prostanoidi.

OH 2,3-dinor-6-cheto-PGF 1

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Tabella 26.2 Caratteristiche dei recettori dei prostanoidi. Recettore

Ligando principale

DP1

Tessuto / azione

Trasduzione

Effetto del knockout genico

PGD2

Ileo / rilassamento Cervello (leptomeningi) /induzione del sonno

Gs / ↑cAMP

↓ Asma allergica

DP2

PGD2 15D-PGJ2

Chemoattrattore degli eosinofili (CRTh2)

↑Ca2i+ Gi / ↓cAMP

↑ Infiammazione allergica delle vie aeree ↓ Infiammazione cutanea

EP1

PGE2 PGI2 Iloprost Bimatoprost

Rene / dotti papillari Polmone / broncocostrizione Stomaco / contrazione della muscolatura liscia

Gq / Ca2i+

↓ Riposta del colon a cancerogeni

EP2

PGE2 PGE1 Misoprostolo

Polmone / broncocostrizione Utero / annidamento

Gs / ↑cAMP

↓ Ovulazione ↓ Fertilizzazione ↑ Ipertensione sodica

EP3

PGE2 PGE1 Misoprostolo Enprostil Gemeprost

Stomaco / azione antiacida Stomaco / citoprotezione Utero / inibizione contrazione Cervello / azione termoregolatoria

EP3A Gi / ↓cAMP, ↑Ca2i+ EP3B Gs / ↑cAMP EP3C Gs / ↑cAMP EP3D Gq / ↑IP3, ↑Ca2i+

Resistenza a sostanze pirogene ↓ Infiammazione cutanea acuta

EP4

PGE2 PGE1 Misoprostolo

Dotto arterioso / rilassamento Rene / glomerulo Antro gastrico / secrezione mucosa Utero / endometrio

Gs / ↑cAMP

Pervietà del dotto arterioso ↓ Riduzione massa/densità ossea in topi invecchiati ↑ Risposta infiammatoria intestinale ↓ Carcinogenesi nel colon

FPA,B

PGF2α IsoPs Carboprost Unoprostone Travoprost Bimatoprost

Occhio / diminuzione della pressione intraoculare Corpo luteo / luteolisi Polmone / broncocostrizione

Gq / ↑IP3, ↑Ca2i+

Insuccesso del parto

IP

PGI2 PGE2 Iloprost

Piastrine / aggregazione Arterie / dilatazione Neuroni DRG / dolore Rene / arteriole afferenti (↑VFG)

Gs / ↑cAMP

↑ Trombosi ↓ Risposta al danno vascolare ↑ Aterosclerosi ↑ Fibrosi cardiaca Ipertensione sodica ↓ Infiammazione delle articolazioni

TPα,β

TXA2

Polmone / broncocostrizione Rene / ↓VFG Arterie / costrizione Timo / ↓timociti immaturi

Gq, Gi, G12/13, G16 / ↑IP3, ↑Ca2i+

↑ Tempo di sanguinamento ↓ Risposta al danno vascolare ↓ Aterosclerosi ↑ Sopravvivenza dopo trapianto allogenico cardiaco

IsoPs

BLT1

LTB4

Leucociti / infiammazione, reclutamento delle cellule T

G16, Gi / ↑Ca2i+, ↓cAMP

Parziale abolizione della risposta infiammatoria

BLT2

LTB4 12(S)-HETE 12(R)-HETE

Ubiquitario

simil-Gq, simil-Gi, similGz / ↑Ca2i+

Non disponibile

cysLT1

LTD4 LTC4/LTE4

Leucociti, muscolo liscio bronchiale / asma, allergia

Gq / ↑IP3, ↑Ca2i+

↓ Risposta immunitaria di permeabilità vascolare innata e adattativa ↑ Infiammazione polmonare e risposta fibrotica

cysLT2

LTC4/LTD4 LTE4

Leucociti, cuore, midollare del surrene

Gq / ↑IP3, ↑Ca2i+

↓ Infiammazione polmonare e risposta fibrotica

Ca2i+, calcio intracellulare; cAMP, adenosina 3’,5’-monofosfato ciclico; IP3, inositolo trifosfato; IsoPs, isoprostani; DRG, gangli delle radici dorsali; VFG, velocità di filtrazione glomerulare.

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prostaglandine, come la PGI2 nei vasi sanguigni. La PGE2 e le PG2α stimolano il cuore attraverso una debole azione diretta, ma soprattutto come riflesso conseguente alla riduzione della pressione arteriosa. La gittata cardiaca risulta aumentata dalle prostaglandine delle serie E e F. La somministrazione endovenosa di LTC4 e LTD4 provoca un breve innalzamento della pressione arteriosa seguito da una prolungata ipotensione. L’abbassamento della pressione arteriosa è probabilmente dovuto al ridotto volume intravascolare (conseguente all’incrementata permeabilità capillare) e alla riduzione della gittata cardiaca (conseguente alla vasocostrizione coronarica). I leucotrieni aumentano marcatamente la permeabilità capillare e sono più potenti dell’istamina nel causare la formazione di edema locale. LTB4 è un fattore altamente chemotattico per i neutrofili e i monociti; questa proprietà è condivisa da HETE ma non da altri leucotrieni. LTB4, inoltre, promuove anche la migrazione di neutrofili attraverso i capillari e la loro aggregazione ai siti di infiammazione nei tessuti.

26.5.2 Piastrine Il TXA2, che può essere prodotto localmente dalle piastrine, è un potente induttore dell’aggregazione e della reazione di rilascio. Gli endoperossidi PGG2 e PGH2 sono anche proaggreganti. Dall’altro canto, la PGI2 (generata dall’endotelio vascolare) è un potente inibitore dell’aggregazione piastrinica. La PGD2 ha azione antiaggregante, ma è molto meno potente della PGI2. La PGE2 ha effetti trascurabili.

26.5.3 Utero La PGE2 e la PGF2α provocano la contrazione dell’utero di donne gravide e non gravide in modo uniforme. La sensibilità è maggiore durante la gravidanza e vi è un ulteriore modesto incremento con il suo progredire. Tuttavia, tale aumento è inferiore a quello dell’ossitocina. Le prostaglandine aumentano il tono nonché l’ampiezza delle contrazioni uterine.

26.5.4 Muscolatura bronchiale La PGF2α, la PGD2 e il TXA2 sono potenti broncocostrittori (più potenti dell’istamina), mentre la PGE2 è un potente broncodilatatore. La PGI2 causa broncodilatazione lieve. I pazienti asmatici sono più sensibili agli effetti broncocostrittori che rispetto a quelli broncodilatatori delle prostaglandine. La PGE2 e la PGI2 inibiscono anche il rilascio di istamina e sono efficaci mediante aerosol, ma causano irritazione del tratto respiratorio e hanno un’azione breve. LTC4 e LTD4 sono potenti broncocostrittori e inducono la contrazione spastica del tratto gastrointestinale a basse concentrazioni. Essi, inoltre, aumentano la secrezione bronchiale di muco e causano edema delle mucose.

effetti collaterali). La PGE2 agisce direttamente sulla mucosa intestinale e aumenta l’acqua, gli elettroliti e la secrezione di muco (citoprotezione). La PGI2 non provoca diarrea e infatti si oppone alla PGE2 e al movimento di fluido indotto da tossina. La PGE2 riduce notevolmente la secrezione di acido nello stomaco. Sono ridotti anche il volume delle secrezioni e il contenuto di pepsina. Essa, inoltre, inibisce la secrezione a digiuno e indotta da cibo, istamina e gastrina. Il pH gastrico può aumentare fino a 7. Anche la PGI2 inibisce la secrezione gastrica, ma è meno potente. La secrezione di muco nello stomaco e il flusso sanguigno della mucosa sono aumentati. I cysLT, inducendo la contrazione dei vasi sanguigni gastrici e l’aumento della produzione di citochine proinfiammatorie, possono contribuire al danno gastrico.

26.5.6 Reni La PGE2 e la PGI2 aumentano l’escrezione di acqua, Na+ e K+ e hanno un effetto diuretico. La PGE2 ha inoltre dimostrato di avere un effetto inibitorio simile alla furosemide sul riassorbimento degli ioni Cl–. Queste prostaglandine causano vasodilatazione renale e inibiscono il riassorbimento tubulare. La PGE2 antagonizza l’azione dell’ormone antidiuretico (ADH), e questo si aggiunge all’effetto diuretico. Al contrario, il TXA2 provoca vasocostrizione renale. La PGI2, la PGE2 e la PGD2 stimolano la secrezione di renina.

26.5.7 Sistema nervoso centrale Le prostaglandine penetrano poco il cervello e gli effetti centrali non sono importanti. Tuttavia, se iniettate nei ventricoli cerebrali, la PGE2 produce sedazione, rigidità, variazioni comportamentali e marcato aumento della temperatura corporea, la PGI2 e la PGF2α inducono anche febbre, mentre la PGD2 e il TXA2 non inducono febbre.

26.5.8 Sistema nervoso autonomo A seconda della prostaglandina, della specie e del tessuto, è stata osservata sia inibizione sia aumento del rilascio di noradrenalina dalle terminazioni nervose adrenergiche.

26.5.9 Dolore Le prostaglandine (soprattutto la PGE2 e la PGI2) e il LTB4 sensibilizzano le terminazioni nervose afferenti che trasportano impulsi dolorifici indotti da stimoli chimici o meccanici. Inoltre, irritano le membrane della mucosa e provocano dolore duraturo quando vengono iniettati nel derma.

26.5.10 Occhio La PGF2α induce infiammazione oculare e abbassa la pressione intraoculare migliorando il deflusso uveosclerale.

26.5.5 Tratto gastrointestinale

26.5.11 Sistema endocrino

Nelle preparazioni isolate, la PGE2 contrae il muscolo longitudinale dello stomaco, mentre il muscolo circolare si contrae in risposta alla PGF2α e si rilassa in risposta alla PGE2. L’attività propulsiva è aumentata nell’uomo, soprattutto da parte della PGE2 (coliche e diarrea fluida sono importanti

La PGE2 facilita il rilascio di ormoni dall’ipofisi anteriore (ormone della crescita, prolattina, ACTH, FSH e LH) nonché dell’insulina e degli steroidi surrenalici. Essa ha un effetto sulla tiroide simile all’ormone tireotropo (TSH). La PGF2α provoca luteolisi e interrompe in anticipo la gravidanza in

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

molti mammiferi, ma l’effetto non è significativo nella donna. Sebbene le prostaglandine determinino l’interruzione della gravidanza in anticipo nelle donne, ciò non è associato con l’abbassamento dei livelli di progesterone.

26.5.12 Metabolismo Le prostaglandine sono antilipolitiche (diminuiscono la mobilizzazione del grasso corporeo), esercitano un effetto simile all’insulina sul metabolismo dei carboidrati e mobilizzano Ca2+ dall’osso.

26.6 L  a progettazione di analoghi degli eicosanoidi Sebbene gli eicosanoidi siano potenti effettori di varie funzioni biologiche (Tab. 26.1), il loro uso come farmaci è stato ostacolato da vari fattori: (a) la complessità chimica e l’instabilità, che ne hanno limitato, in certa misura, la produzione su larga scala e la formulazione per gli studi clinici; (b) la suscettibilità alla rapida degradazione in vivo (Fig. 26.5), che ne riduce l’emivita biologica; (c) la propensione a influenzare diversi tessuti (in particolare il tratto gastrointestinale con conseguente nausea e vomito), laddove penetrino nella circolazione sistemica, anche a piccole dosi. Diversi approcci sono stati usati per superare queste difficoltà. In primo luogo, sono stati sintetizzati analoghi strutturali di particolari eicosanoidi più resistenti alla degradazione chimica e metabolica, in grado di mantenere un’apprezzabile attività biologica. Sebbene la produzione commerciale e la formulazione siano facilitate da questo approccio, la potenza biologica di questi analoghi risulta di solito ridotta di diversi ordini di grandezza rispetto ai metaboliti naturali. Inoltre, gli effetti collaterali sistemici possono diventare problematici a causa dell’incrementata emivita biologica. Per ridurre o eliminare il rapido metabolismo degli eicosanoidi a prodotti metabolici relativamente inattivi (Fig. 26.5), sono state apportate al sistema dell’acido prostanoico originario piccole modificazioni strutturali. La metilazione in posizione 15 o 16 elimina o riduce l’ossidazione del gruppo 15-OH essenziale. L’esterificazione della funzione carbossilica acida influenza la formulazione o le caratteristiche di assorbimento degli eicosanoidi, considerato che le esterasi presenti nel sangue o nei tessuti rigenerano rapidamente l’agente terapeutico attivo. Nonostante i restrittivi requisiti configurazionali ai centri chirali, le due catene alchiliche sature possono essere sostituite da vari sostituenti idrofobici (compresi anelli fenilici), senza perdere la bioattività. Qualsiasi variazione dell’anello ciclopentanico, invece, determina una riduzione dell’attività biologica. L’allargamento o il restringimento dell’anello dà luogo a composti inattivi. La sostituzione dell’atomo di carbonio dell’anello ciclopentanico con un atomo di ossigeno, zolfo o azoto genera composti inattivi. La sostituzione del gruppo chetonico in posizione 9 con un gruppo metilenico (=CH2) dà luogo a prostaglandine attive. L’introduzione di un gruppo acetilenico fra i carboni C13 e C14 aumenta l’attività luteolitica. Un altro approccio è basato sull’idea di trasportare l’agente desiderato, sia esso un eicosanoide naturale o un analogo modificato, a un sito d’azione localizzato attraverso un

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sistema di rilascio controllato. Il sistema di rilascio adatto può variare a seconda del sito di azione desiderato (ad es. utero, stomaco, polmone) e comprende aerosol, supposte, gel o complessi con ciclodestrine.

26.7 E  icosanoidi approvati per l’uso clinico umano Alprostadil – acido (8α,11α,12β,13E,15S)-11,15-diidrossi-9ossoprosta-13-en-1-oico – (Fig. 26.6) è la forma sintetica della PGE1 che ha trovato particolare impiego nel mantenere la pervietà del dotto arterioso in neonati con difetti cardiaci congeniti che limitano il flusso sanguigno polmonare o sistemico. Alprostadil è un vasodilatatore e un inibitore dell’aggregazione piastrinica, e contrae la muscolatura liscia uterina e intestinale. Viene di solito somministrato per infusione endovenosa continua con un dosaggio iniziale di 0,05-0,1 μg/kg al minuto, che può essere aumentato a 0,4-0,1 μg/kg al minuto per mantenere temporaneamente la pervietà del dotto arterioso fino all’intervento chirurgico correttivo. Nell’organismo subisce un rapido e complesso metabolismo ossidoriduttivo, principalmente a livello polmonare (95% di una dose, 80% al primo passaggio) e, in minor misura, nel fegato e nei reni. L’unico metabolita intermedio attivo identificato in vivo è il derivato ridotto PGE0 – 13,14-diidro-PGE1. I metaboliti finali sono tutti inattivi e vengono eliminati prevalentemente con l’urina in forma coniugata (glucuronati e solfati). Poiché è stata osservata apnea in circa il 10-12% dei neonati sottoposti a trattamento con alprostadil, questo prodotto deve essere somministrato solo quando è immediatamente disponibile l’assistenza ventilatoria. Altri effetti indesiderati comunemente osservati sono la diminuzione della pressione arteriosa, che dovrebbe essere monitorata durante l’infusione, l’inibizione dell’aggregazione piastrinica, che potrebbe aggravare la tendenza al sanguinamento, e la diarrea. Alprostadil, somministrato attraverso iniezione intracavernosa o supposte uretrali, è efficace anche nel trattamento di seconda linea dell’impotenza. Sono utilizzate dosi di 2,5-25 μg. Un effetto collaterale frequente è un dolore a carico del pene, che può essere correlato agli effetti algogeni dei PGE-derivati; tuttavia, solo pochi pazienti ne interrompono l’uso a causa del dolore. La disponibilità di farmaci somministrabili per via orale per il trattamento della disfunzione erettile, come sildenafil, tadalafil e vardenafil, ha ridotto l’uso terapeutico di questo composto. Gemeprost – metil(2E,8α,11α,12β,13E,15R)-11,15-diidrossi16,16-dimetil-9-ossoprosta-2,13-dien-1-oato – (Fig. 26.6) è un analogo sintetico dell’alprostadil. Viene usato per rilassare e dilatare la cervice nell’intervento di interruzione dello stato di gravidanza nel primo e secondo trimestre. Il farmaco viene anche somministrato da solo oppure in associazione al mifepristone (RU486) o al misoprostolo per indurre l’aborto entro la ventiquattresima settimana di gravidanza. È disponibile sotto forma di ovuli vaginali contenenti 1 mg di gemeprost. Per il rammollimento della cervice nel primo trimestre di gravidanza, si può somministrare un ovulo 3 ore prima della dilatazione. Per l’interruzione della gravidanza nel secondo trimestre di gravidanza, si può somministrare un ovulo ogni ora con un massimo di 5 dosi. Quando viene usato localmente, gli effetti collaterali sistemici sono meno

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

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O

COOH

O

O H3C

CH3 HO

HO

OH Alprostadil (PGE 1)

O

CH3

OCH3

OH

H3C

CH3

OCH3 CH3

HO

OH Gemeprost

Misoprostolo

COOH O

H

HO

O HO F

HO

CH3 F Lubiprostone

COOH

COOH

CH3

CH3 HO

OH Dinoprostone (PGE 2)

COOH

COOH

O

CH3

CH3 H 3C

OH

OH Dinoprost (PGF 2)

COOH

HO

HO

O

O

CH3

CH3 OH

Carboprost

OH

OH Epoprostenolo (PGI 2)

OH Iloprost

HOOC O

CH3 OH

OH Treprostinil

Figura 26.6 Strutture chimiche di alcuni eicosanoidi e derivati degli eicosanoidi attualmente in uso clinico.

comuni. Si consiglia di non associare il gemeprost con farmaci ossitocici che possano potenziarne l’azione. La somministrazione contemporanea di antalgici di tipo non steroideo può diminuire l’effetto del gemeprost. Misoprostolo – metil (8α,11α,12β,13E,16S)-11,16diidrossi-16-metil-9-ossoprosta-13-en-1-oato – (Fig. 26.6) è un analogo sintetico modificato della PGE1 approvato dalla FDA per la prevenzione delle ulcere gastriche indotte da FANS e, in associazione a RU486 o metotressato, per l’interruzione precoce della gravidanza intrauterina. Il prodotto commerciale è una miscela di diastereoisomeri, ma la maggior parte dell’attività è ascrivibile all’isomero 11R,16S. Il misoprostolo differisce dalla PGE1 per la presenza di un estere metilico in C1, che incrementa l’efficacia e la durata dell’effetto antisecretorio, lo spostamento del gruppo ossidrilico dal C15 al C16 e l’introduzione di un gruppo metilico in C16, che migliora l’attività dopo somministrazione orale, la durata dell’azione antisecretoria e il profilo di sicurezza del farmaco. Si lega ai recettori EP3 nelle cellule parietali gastriche e stimola la proteina Gi, riducendo l’AMP ciclico intracellulare e, di conseguenza, la secrezione acida gastrica.

Poiché altre classi di farmaci, in particolare gli antagonisti del recettore H2 e gli inibitori della pompa protonica, sono più efficaci nel trattamento delle ulcere peptiche acute, il misoprostolo è indicato in pazienti che assumono FANS e sono ad alto rischio di sviluppare ulcere indotte da questi ultimi. Il misoprostolo può, inoltre, esercitare un’azione citoprotettiva sulla mucosa gastrica e intestinale, stimolando la secrezione di muco e di bicarbonato, e aumentando la velocità del flusso ematico a livello della mucosa. Il suo effetto è rapido e si protrae per oltre 3 ore. La dose giornaliera consigliata per la profilassi dell’ulcera è di 200 μg 4 volte al giorno. Il misoprostolo viene inoltre utilizzato da anni off-label (cioè fuori dalle indicazioni riportate nel foglietto illustrativo) anche per il trattamento medico dell’aborto spontaneo nel primo trimestre di gravidanza. Si lega ai recettori uterini inducendo potenti contrazioni miometriali che favoriscono l’espulsione del feto. Può essere somministrato per via orale, vaginale, sublinguale, buccale o rettale. Uno schema terapeutico comunemente utilizzato prevede la somministrazione di 800 μg per via vaginale, ripetibile una volta nell’arco di 2472 ore in caso di incompleta espulsione dei tessuti embrio-

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nali. I risultati di alcuni studi comparativi suggeriscono che l’assunzione di misoprostolo per via orale può essere meno efficace rispetto alla somministrazione per via vaginale. La somministrazione orale, sublinguale o buccale può causare una maggiore incidenza di effetti gastrointestinali rispetto a quella vaginale. All’interno dell’organismo, il misoprostolo viene massicciamente de-esterificato dai sistemi enzimatici tissutali preposti all’ossidazione degli acidi grassi (β- e ω-ossidazione). Il maggiore metabolita, l’acido misoprostolico, ha una potenza sovrapponibile al composto parentale nell’inibire la secrezione gastrica, e in vivo è pressoché interamente responsabile dell’attività farmacologica. Il misoprostolo acido è a sua volta convertito in derivati terminali inattivi, eliminati con l’urina (62-84% di una dose) e con la bile (15%). Gli effetti collaterali all’uso del farmaco sono essenzialmente gastrointestinali e consistono nella comparsa di diarrea, in una percentuale dal 14 al 40%, la cui intensità è proporzionale al dosaggio assunto. Sono anche possibili dolori addominali, in una percentuale intorno al 10%. Nell’uomo, la comparsa di febbre, sedazione, tremore, convulsioni, dispnea, ipotensione, bradicardia, oltre a diarrea profusa e dolori addominali intensi, a seguito dell’assunzione di misoprostolo, dovrebbe far pensare a un sovradosaggio del farmaco. Il misoprostolo è controindicato durante la gravidanza in quanto può incrementare la contrattilità uterina. Lubiprostone – acido (8α,11β,12α,15R)-16,16-difluoro15-idrossi-9-osso-11,15-epossiprostan-1-oico – (Fig. 26.6) è un derivato biciclico della PGE1 approvato dalla FDA negli Stati Uniti per l’utilizzo in pazienti adulti con stipsi cronica idiopatica al dosaggio di 24 μg 2 volte al giorno, e nelle donne con età superiore ai 18 anni con sindrome del colon irritabile con stipsi predominante al dosaggio di 8 μg 2 volte al giorno. Agisce localmente sul tratto gastrointestinale mediante l’attivazione dei canali del cloro di tipo 2 (CIC-2), i quali incrementano la concentrazione di cloruro e la secrezione di fluido intestinale, provocando un aumento del passaggio delle feci senza causare cambiamenti significativi dei livelli sierici degli elettroliti. Il farmaco è anche attivo sui recettori EP4 delle prostaglandine e sui recettori transmembrana della fibrosi cistica (CFTR), la cui attivazione determina un ulteriore secrezione di fluidi intestinali. Il lubiprostone riduce lo svuotamento gastrico e, nello stesso tempo, accelera il transito intestinale in adulti volontari sani. Esso ha un assorbimento sistemico minimo e viene metabolizzato per riduzione/ossidazione dal sistema microsomiale carbonil reduttasi nello stomaco e nel digiuno. Il principale effetto collaterale è rappresentato dalla nausea (32%), che tuttavia si attenua se il farmaco viene somministrato con il cibo. Dinoprostone – acido (5Z,8α,11α,12β,13E,15S)-11,15diidrossi-9-ossoprosta-5,13-dien-1-oico – (Fig. 26.6) è la forma esogena della PGE2 (Box 26.1). Questa prostaglandina è in uso da più di una decade per la maturazione o ripening della cervice uterina. Può essere somministrata, per via orale, intravenosa, vaginale, intracervicale o extramniotica. Il dinoprostone influenza direttamente la collagenasi della cervice e induce contrazioni del muscolo uterino in tutti gli stadi della gravidanza. Agisce anche come vasodilatatore e broncodilatore. È principalmente usato per l’induzione del parto. Tutta-

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via, può essere usato anche per l’interruzione della gravidanza in casi di morte del feto, di mola idatiforme e per indurre l’aborto. Il dinoprostone è rapidamente metabolizzato in polmoni, fegato, reni e milza. Il 90% di una dose di dinoprostone viene trasformata in metaboliti in un singolo passaggio, attraverso il torrente circolatorio. L’emivita plasmatica del farmaco è inferiore a un minuto, mentre quella del suo metabolita principale, il 15-cheto-13,14-diidro-PGE2, è compresa tra 5 e 10 minuti. Il dinoprostone è escreto per via urinaria (> 70% dopo 12 ore). Si lega in vitro per circa il 73% alle proteine plasmatiche, prevalentemente all’albumina. Per l’induzione del parto, il dinoprostone viene utilizzato sia sotto forma di gel (0,5 mg di PGE2) sia come formulazione a rilascio controllato (10 mg di PGE2) in grado di rilasciare PGE2 in vivo a una velocità di circa 0,3 mg/h su 12 ore. Un vantaggio della formulazione a rilascio controllato è la minore incidenza degli effetti indesiderati gastrointestinali (< 1%). Per fini abortivi, il dosaggio raccomandato è di 20 mg di dinoprostone sotto forma di ovuli vaginali ripetuto a intervalli da 3 a 5 ore in base alla risposta dell’utero. Il tempo medio all’aborto è di 17 ore, ma in oltre il 25% dei casi l’aborto è incompleto e richiede ulteriori interventi. Nausea, vomito e diarrea sono i più comuni effetti collaterali. Vampate, cefalea, vertigini e ipotensione sono anche frequenti. Collasso cardiovascolare, convulsioni, e variazioni dell’EEG si verificano raramente. Durante l’induzione del parto, si può avere sofferenza fetale, morte fetale e rottura dell’utero. Il farmaco non dovrebbe essere usato in pazienti con storia di parto cesareo, di intervento chirurgico all’utero o di contrazioni uterine cefalo-pelviche. Dinoprost – acido (5Z,8α,11α,9α,12β,13E,15S)-9,11,15triidrossi-prosta-5,13-dien-1-oico – (Fig. 26.6) è la forma sintetica della PGF2α (Box 26.1). Viene somministrato per via intramniotica per indurre contrazioni dell’utero, indipendentemente dalla fase della gravidanza. Il tempo medio per l’aborto è di circa 20 ore. Agisce anche come vasocostrittore e broncocostrittore. Viene usato principalmente per l’interruzione della gravidanza e nell’induzione del parto. Gli effetti collaterali con dinoprost sono simili a quelli del dinoprostone. Essendo un broncocostrittore, può causare respiro affannoso e dispnea, specialmente nei pazienti asmatici. Carboprost – acido (5Z,8α,11α,9α,12β,13E,15S)-9,11,15triidrossi-15-metilprosta-5,13-dien-1-oico – (Fig. 26.6) è un analogo sintetico della PGF2α con azione ossitocica più prolungata rispetto al dinoprost. La presenza del gruppo metilico ne ritarda l’inattivazione per deidrogenazione enzimatica. Il suo sale di trimetanolamina (trometamina) trova impiego per indurre l’aborto o per facilitare l’espulsione del feto nel corso dell’aborto provocato con altro mezzo e per arrestare l’emorragia grave post partum. Viene somministrato per via intramuscolare in una dose singola di 250 μg, seguita da 250 μg dopo 2-3 ore per un massimo di 12 mg e non per più di 2 giorni. Il tempo medio per l’aborto è di 16 ore, dopo iniezione intramuscolare. I più comuni effetti collaterali sono vomito e diarrea, probabilmente a causa della stimolazione della muscolatura liscia gastrointestinale. In alcuni pazienti può verificarsi broncocostrizione transitoria. Aumenti transitori della temperatura sono stati osservati in circa il 10% dei pazienti. Epoprostenolo – acido (5Z,9β,11α,13E,15S)-11,15-diidrossi6,9-epossiprosta-5,13-dien-1-oico – (Fig. 26.6) è la forma sinteti-

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ca della PGI2 con una potente azione vasodilatante, antiaggregante piastrinica e antiproliferativa. L’epoprostenolo è stato il primo farmaco disponibile per la terapia dell’ipertensione arteriosa polmonare. Una volta raggiunto il circolo ematico, viene rapidamente degradato a metaboliti non attivi e ciò è alla base della sua breve durata d’azione che è di circa 3-5 minuti; questo spiega la necessità di somministrare il farmaco per via endovenosa continua mediante l’utilizzo di pompe di infusione portatili. La pompa infonde ininterrottamente il farmaco attraverso un catetere che, dopo un percorso sotto la cute di circa 8-10 cm, viene inserito in una grossa vena all’altezza della clavicola. Il farmaco è molto efficace ed è in grado di migliorare significativamente i sintomi e la prognosi della malattia, anche nelle fasi più avanzate, evitando il ricorso al trapianto in numerosi pazienti; per tale ragione l’epoprostenolo è in genere molto ben tollerato dai pazienti e rappresenta ancora un trattamento ampiamente utilizzato, soprattutto quando si ha bisogno di un effetto potente e rapidamente efficace. I principali effetti indesiderati (in genere di lieve entità) sono rappresentati da: cefalea, dolore parotideo alla masticazione, disturbi intestinali e flushing cutaneo (prevalentemente al volto). Essi sono dovuti alla vasodilatazione che il farmaco determina anche a livello sistemico e, in genere, sono più marcati nei primi giorni, dopo l’inizio del trattamento, e diminuiscono di intensità e frequenza nel corso delle settimane successive. Iloprost – acido (5E)-5-[(3aR,4S,5S,6aR)-5-idrossi-4[(1E,3S)-3-idrossi-4-metil-1-otten-6-in-1-il]esaidro-2(1H)pentalenilidene]pentanoico – (Fig. 26.6) è un analogo stabile della PGI2 somministrabile per via endovenosa o inalatoria nel trattamento dell’ipertensione arteriosa polmonare. La via di somministrazione inalatoria permette di evitare gli effetti indesiderati correlati alla presenza di un catetere e, in secondo luogo, garantisce un certo grado di selettività polmonare, ovvero il farmaco inalato agisce prevalentemente a livello della circolazione polmonare e, in misura minore, a livello della circolazione sistemica; ciò determina una minor incidenza di effetti indesiderati sistemici come cefalea, flushing cutaneo, dolore parotideo alla masticazione ecc. La terapia con iloprost determina effetti favorevoli nei pazienti trattati: migliora i sintomi, la capacità di esercizio e i parametri emodinamici e riduce l’incidenza di complicanze della malattia e la necessità di ricoveri ospedalieri. La somministrazione richiede uno specifico apparecchio aerosolizzatore capace di sincronizzare l’emissione del farmaco con gli atti inspiratori e in grado di produrre particelle di farmaco delle dimensioni adeguate da garantirne la deposizione intralveolare. La terapia con iloprost per via inalatoria prevede un dosaggio iniziale di 2,5 μg 6-9 volte al giorno, da aumentare sino a 5 μg 9 volte al giorno. I limiti della terapia con iloprost per via inalatoria sono le frequenti inalazioni (9 al giorno) e la frequente necessità di associare un altro farmaco per mantenere un’efficace risposta clinica nel tempo. Treprostinil – acido ({(1R,2R,3aS,9aS)-2-idrossi-1[(3R)-3-idrossiottil]-2,3,3a,4,9,9a-esaidro-1H-ciclopenta[b] naftalen-5-il}ossi)acetico – (Fig. 26.6 e Box 26.2) è un analogo della PGI2 che, rispetto all’epoprostenolo, possiede una maggior stabilità chimica e un’emivita più lunga (3-4 ore), che garantisce la possibilità di somministrare il farmaco sia per via endovenosa sia sottocutanea. Quest’ultima viene ef-

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

fettuata tramite piccole pompe a micro-infusione collegate a sottili cateteri sottocutanei. La terapia con treprostinil sottocutaneo va iniziata alla dose di 1-2 ng/kg/min e aumentata progressivamente sino alla massima dose tollerata nelle settimane successive. Oltre agli effetti collaterali tipici dei prostanoidi somministrati per via sistemica (diarrea, dolore all’articolazione mandibolare, rossore cutaneo), un limite del treprostinil è legato agli effetti locali (dolore e infiammazione nel punto di infusione), che solitamente sono limitati alla prima settimana dopo il cambiamento del sito di infusione (il sito di infusione sottocutaneo viene cambiato massimo ogni 4 settimane). Per la gestione del dolore locale è possibile utilizzare preparati topici (cortisonici, antidolorifici) o farmaci per via sistemica (FANS, steroidi, oppiacei). Negli USA il farmaco è stato approvato anche per la somministrazione endovenosa e un recente studio ha dimostrato come il treprostinil e.v. possa sostituire la terapia con epoprostenolo ottenendo risultati clinici sovrapponibili, ma con una dose di farmaco più alta (circa il doppio).

26.7.1 Prostaglandine per uso oftalmico Il glaucoma è una patologia degenerativa lenta ma progressiva, accompagnata generalmente da un aumento della pressione intraoculare (IOP), con danno del nervo ottico. Il glaucoma si manifesta in presenza di squilibri fra la produzione e il drenaggio del liquido oculare (umore acqueo), dovuta all’ostruzione delle vie di deflusso del liquido nel sistema venoso. Nel glaucoma ad angolo aperto si ha una ostruzione graduale dei canali di deflusso. Nel più raro glaucoma ad angolo chiuso, i sistemi di deflusso si ostruiscono invece improvvisamente. L’aumento della pressione all’interno del globo oculare comprime i piccoli vasi ematici e le fibre del nervo ottico, determinando una progressiva perdita della vista che può portare alla cecità. Numerosi analoghi delle prostaglandine sono stati introdotti di recente sul mercato per il trattamento del glaucoma ad angolo aperto o ipertensione oculare in pazienti che abbiano risposto in maniera insufficiente ad altre terapie disponibili. Attualmente sono stati approvati per l’uso clinico quattro analoghi delle prostaglandine riportati in Figura 26.7: bimatoprost – (Z)-7-[(1R,2R,3R,5S)-3,5-diidrossi-2-[(E,3S)-3-idrossi-5-fenilpent-1-enil]ciclopentil]-N-etilept-5-enamide –, latanoprost – propan-2-il (Z)-7-[(1R,2R,3R,5S)-3,5-diidrossi-2-[(3R)-3-idrossi-5-fenilpentil]ciclopentil]ept-5-enoato –, travoprost – propan-2-il (Z)-7-[(1R,2R,3R,5S)-3,5-diidrossi2-[(E,3R)-3-idrossi-4-[3-(trifluorometil)fenossi]but-1-enil] ciclopentil]ept-5-enoato –, che sono chimicamente correlati alla PG2α, e unoprostone isopropil estere – propan-2-il (Z)-7-[(1S,2S,3S,5R)-3,5-diidrossi-2-(3-ossodecil)ciclopentil] ept-5-enoato –, un composto docosanoide (22 atomi di carbonio), correlato con il metabolita della PGF2α. Questi composti si legano ai recettori prostanoidi FP localizzati nell’iride, promuovendo il deflusso uveosclerale dell’umore acqueo, che diminuisce di conseguenza la IOP. Il latanoprost e il travoprost sono profarmaci che attraversano la cornea e diventano biologicamente attivi dopo essere stati idrolizzati ad acido libero dalle esterasi corneali. Entrambi riducono la IOP del 25-32%. Il bimatoprost abbassa la IOP del 27-33%; l’unoprostone è meno efficace, riducendo la

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BOX 26.1 ■ Sintesi di PGF2α e PGE2 Il ciclopentadiene (1), per reazione con clorometil metil etere in presenza di sodio, dà il derivato metossimetilciclopentadiene (2), che per reazione con il 2-cloroacrilonitrile (3) dà l’addotto di Diels-Alder (4) come miscela di endo ed eso diastereoisomeri. Trattando (4) con una base acquosa a caldo si ottiene il chetone biciclico (5), che per reazione con acido m-cloroperossibenzoico (m-CPBA) subisce un’ossidazione di Bayer-Villiger per dare il lattone (6). La saponificazione del lattone e la successiva acidificazione porta all’idrossiacido (7). La reazione di iodurazione in ambiente basico e la successiva esterificazione del gruppo alcolico secondario produce lo iodolattone acetato (8). La reazione di iodolattonizzazione può essere razionalizzata, ipotizzando la formazione di un sale di iodonio ciclico; l’attacco da parte dell’anione carbossilato dà il lattone (8) con la stereochimica osservata. La rimozione dell’alogeno con tributil stagno idruro conduce all’acetossi-lattone (9). La reazione con tribromuro di boro idrolizza l’etere fornendo l’alcol

primario (10). Il trattamento con il reattivo di Collins (CrO3 e piridina) ossida l’alcol primario ad aldeide e conduce al lattone di Corey (11), che è l’intermedio chiave maggiormente usato nella sintesi delle prostaglandine. La reazione di (11) con il sale sodico del dimetil 2-ossoeptilfosfonato (12) subisce la reazione di Witting per formare l’enone (13). La riduzione della funzione chetonica mediante zinco boroidruro porta all’alcol (14). L’idrolisi alcalina del gruppo estereo alla posizione C11 e la successiva protezione dei gruppi ossidrilici primari conduce al derivato bistetraidropiranil (THP) etere (15), che è ridotto all’emiacetale (16) con diisobutil alluminio idruro (i-C4H9)2AlH). La reazione di Witting fra l’intermedio (16) e il bromuro di (4-carbossibutil)trifenilfosfonio (17) fornisce il derivato bis-THP etere della PGF2α (18). L’idrolisi acida dei gruppi eterei conduce alla PGF2α. L’ossidazione del gruppo 9-ossidrilico di (18) mediante il reattivo di Jones e il successivo trattamento con acido portano alla PGE2.

H3CO

1. Na 2. ClCH2OCH3

H3CO

H3CO

OCH3 CH2

1

CN

Cl

2

1. NaOH 2. H+

O

O 5

4

3

O

HOOC

m-CPBA

KOH, 

CN Cl

6

O

O

O

O

O

O

9

OCH3 HO

8

I 1. OH-/I2 2. (CH3CO)2O

OCH3

12

CH3CO

7

(n-C4H9)3SnH

11

OCH3 CH3CO

8

O

BBr3

CH3CO

9

O

O

H3CO

O P

H3CO

CH3CO 11

O

O

C- + H Na

Zn(BH4)2

14

CH3 4

10

O

O

CHO

CrO3/piridina

OH

12

CH3CO

4

13

15

CH3CO

O

13

12

11

CH3

14

1. K2CO3 2. THP

4 CH3

OH

OH

O O

O

HO

6 7

(i-C4H9)2AlH

Br- (C6H5)3 P+(CH2)4COOH

COOH

8 4

OTHP

OTHP

CH3

4

OTHP

CH3

4

17

OTHP

OTHP

18

1. CrO3/H2SO4 2. CH3COOH

16

15

CH3

OTHP

CH3COOH

HO

O

COOH

COOH

9

CH3

CH3 OH

OH PGE2

OH

OH PGF2

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

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BOX 26.2 ■ Sintesi del treprostinil Il gruppo ossidrilico del 3-metossibenzil alcol (1) viene protetto mediante terbutil-dimetil-silil cloruro (TBDMSCl) per dare il terbutil-dimetil-silil etere (2). L’alchilazione dell’anione del derivato (2), generato dalla reazione con n-butil litio, è ottenuta con bromuro di allile. Il gruppo protettore è poi rimosso mediante l’uso di tetra-n-butilammonio fluoruro (TBAF) per dare l’alcol (3), il quale viene successivamente ossidato con ossalil cloruro in presenza di trietilamina (TEA) all’aldeide (4). Il gruppo carbonilico di (4) è poi condensato con il derivato organo-magnesio proveniente dalla reazione tra un acetilene chirale e l’etil magnesio bromuro per dare il derivato (5). Quest’ultimo è poi ossidato a chetone (6) con piridinio clorocromato

(PCC). I successivi passaggi aggiustano la stereo­ chimica dell’alcol, ottenuto nuovamente per riduzione. Questa riduzione è eseguita con diborano in presenza di 2-(idrossidifenilmetil)pirrolidina chirale: essa genera l’alcol come singolo enantiomero, il quale è poi di nuovo protetto come TBDMS derivato (7). Questo intermedio, otticamente puro, subisce la reazione di Pauson-Khand in presenza di dicobalto ottacarbonile per generare il composto triciclico (8). Due successive idrogenazioni conducono all’intermedio (9), il quale per reazione con n-butillitio e difenilfosfina genera il fenolo (11). Il prodotto è poi alchilato con 2-cloroacetonitrile. L’idrolisi basica del gruppo ciano ad acido, infine, conduce al treprostinil. H

OH

OTMBDS 1. n-C4H9Li

TBDMS-Cl

2. Br

OCH3

OCH3

1

2

CH2

CH2

3. TBAF

OCH3

CH2

Cl

Cl

OCH3

O

3

4

O

C2H5MgBr

PCC

HC 4

4

CH2

CH3

OCH3

OTHP

CH3

OTHP

OCH3

CH2

CH3

CH3

1.

OTHP

C6H5

N OH H C6H5 2. BH3 3. TBDMSCl

6

H3CO

4

4

CH2

5

OTBDMS

H3CO

Co2(CO)8

OTMBDS

1. NaBH4 2. H+

H2 , Pd/C

OTHP 7

4

CH3

4

OTHP

O

OH 10

9

O 1. ClCH2CN 2. KOH aq

(C6H5)2 PH, n-BuLi

4

CH3

OTHP

O

8

HO

H3CO

OH

O

O

OH

OCH3

C

TEA

OH

CH3

4

OH

OH 11

HOOC

CH3

4

OH

OH

Treprostinil

CH3

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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O N H

HO

HO

O CH3

Bimatoprost

HO

CH3

OH Latanoprost

O

O

CH3 O

HO

O

HO

HO

OH

CH3

O

CH3

CF3

OH Travoprost

CH3 O

HO

CH3

CH3 HO

O Unoprostone isopropil estere

Figura 26.7 Strutture chimiche di alcuni analoghi delle prostaglandine usati nel trattamento del glaucoma.

IOP del 13-18%. Latanoprost, travoprost e bimatoprost vengono usati una volta al giorno, di solito di notte, e sono meno efficaci se utilizzati 2 volte al giorno; l’unoprostone viene utilizzato 2 volte al giorno. Effetti avversi comuni, generalmente transitori, comprendono visione offuscata o diminuzioni dell’acuità visiva di diversa entità, prurito, bruciore o dolore pungente, secchezza oculare e lacrimazione eccessiva. I pazienti hanno segnalato anche dolori corporei, rash, infezioni delle vie respiratorie superiori, raffreddore e (raramente) sintomi influenzali. Gli effetti avversi sistemici sono molto rari. I pazienti con infiammazione intraoculare attiva non dovrebbero iniziare il trattamento con analoghi delle prostaglandine poiché possono peggiorarne la condizione. Cautela deve essere utilizzata nei pazienti con storia di infiammazione oculare. L’iperpigmentazione dell’iride, in particolare nei soggetti con occhi nocciola, è stata riportata da pazienti in trattamento con prostaglandine oftalmiche. Inoltre, questi farmaci tendono a scurire i tessuti periorbitali, che assumono una colorazione marrone. Questi effetti possono essere permanenti. Un effetto collaterale piuttosto raro e particolare è lo scurimento, ispessimento e allungamento delle ciglia. Sebbene l’American Academy of Ophthalmology e l’American Optometric Association non abbiano espresso alcuna preferenza definitiva per il trattamento farmacologico del glaucoma, si ipotizza che gli analoghi delle prostaglandine siano preferibili ai β-bloccanti per la loro maggior efficacia nel diminuire la IOP e per il minor numero di effetti sistemici.

26.8 Inibizione dei leucotrieni 26.8.1 Inibizione della via della lipossigenasi L’inibizione della 5-LOX rappresenta un’importante modalità terapeutica nelle malattie che coinvolgono la fisio-

patologia mediata dai leucotrieni, come l’asma, la malattia infiammatoria intestinale e l’artrite reumatoide. L’inibizione della via della lipossigenasi è un approccio terapeutico interessante in queste malattie perché i leucotrieni sono potenti mediatori che agiscono a livello locale. Sono possibili diverse strategie per la progettazione di inibitori della 5-LOX, basate su struttura, funzione e meccanismo degli enzimi della via della lipossigenasi. Sono stati sviluppati inibitori suicidi della 5-LOX (ad es. i derivati dell’acido arachidonico con tripli legami piuttosto che con doppi legami), che si legano covalentemente al sito attivo e lo rendono inattivo; tuttavia, questi composti non sono disponibili per l’uso clinico. Scavenger di radicali come composti catecolici, idrossitoluene butilato (BHT) e α-tocoferolo intrappolano i radicali intermedi nella reazione della lipossigenasi e quindi impediscono il funzionamento dell’enzima; tuttavia, questi farmaci aspecifici non possono essere utilizzati clinicamente per inibire la lipossigenasi. Si ritiene che farmaci che danneggiano o alterano la capacità della 5-LOX di utilizzare il proprio ferro non-eme inibiscano l’attività dell’enzima. L’unico inibitore della lipossigenasi in uso clinico è lo zileuton, un derivato benzotiofenico dell’N-idrossiurea, che inibisce la 5-LOX per chelazione del suo ferro non-eme (Cap. 23.3.8).

26.8.2 Inibizione della proteina attivante la 5-lipossigenasi (FLAP) Interferire con il ruolo di FLAP può rappresentare un approccio alternativo per l’inibizione selettiva dell’attività della 5-LOX e della funzione dei leucotrieni. Occorre ricordare che la 5-LOX viene attivata dopo che l’enzima trasloca alla membrana nucleare e si associa a FLAP; successivamente, FLAP lega l’acido arachidonico rilasciato dalla PLA2 e lo trasporta al sito attivo della 5-LOX. Sono stati sviluppati inibitori di FLAP che prevengono il legame della 5-LOX a FLAP e bloccano il

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sito di legame dell’acido arachidonico; tuttavia, attualmente non ci sono inibitori di FLAP disponibili per l’uso clinico.

26.8.3 Inibitori della sintesi dei leucotrieni Oltre allo zileuton, non sono disponibili per l’uso clinico inibitori specifici degli enzimi coinvolti nella sintesi dei leucotrieni. Inibitori specifici dell’LTA4 idrolasi in grado di bloccare la biosintesi di LTB4 sono attualmente in fase di sviluppo. L’adenosina, che agisce attraverso i suoi recettori sui neutrofili, inibisce la biosintesi di LTB4 regolando il rilascio di acido arachidonico e, possibilmente, interferendo con l’afflusso di calcio. Inoltre si ritiene che l’adenosina abbia un ruolo nel limitare i danni delle cellule e dei tessuti durante l’infiammazione. Un elevato turnover cellulare nei siti di infiammazione genera elevate concentrazioni locali di adenosina, la quale può diminuire la biosintesi di LTB4 e ridurre

CAPITOLO 26 • Prostanoidi

di conseguenza il reclutamento e l’attivazione dei leucociti. Agonisti selettivi del recettore dell’adenosina potrebbero essere sviluppati come agenti farmacologici nel controllo dell’infiammazione.

26.8.4 A  ntagonisti dei leucotrieni L’antagonismo del recettore dei leucotrieni rappresenta un meccanismo recettoriale per inibire la broncocostrizione mediata dai leucotrieni e altri effetti. Gli antagonisti del recettore cysLT1 sono efficaci contro l’asma indotto da antigeni, esercizio fisico, freddo o aspirina. Questi agenti migliorano significativamente il tono bronchiale, i test di funzionalità polmonare e i sintomi dell’asma. Zafirlukast, montelukast e pranlukast sono antagonisti selettivi, ad alta affinità e competitivi per il recettore cysLT1, che è espresso dalle cellule del muscolo liscio bronchiale, dagli eosinofili, dai linfociti B, dai macrofagi/monociti e dai mastociti (Cap. 23.3.8).

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27

Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi Alberto Gasco, Barbara Rolando

27.1  L’infiammazione 27.2 La cascata dell’acido arachidonico 27.2.1 La biosintesi dei prostanoidi 27.2.2 La biosintesi dei leucotrieni

27.3 Farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) 27.3.1 27.3.2 27.3.3 27.3.4

Generalità e usi Meccanismo d’azione FANS tradizionali COXIB

27.4  Farmaci antireumatici 27.4.1 F  armaci usati nel trattamento dell’artrite reumatoide 27.4.2 F  armaci usati nel trattamento dell’artrosi

27.5  Farmaci antigottosi 27.5.1 Colchicina 27.5.2 Ipouricemizzanti

27.1 L’infiammazione L’infiammazione (o flogosi) è una reazione di difesa naturale dei tessuti nei confronti di danni provocati da agenti di varia natura quali agenti chimici, fisici o meccanici, microrganismi, parassiti, tossine, inibitori metabolici e altri ancora. L’infiammazione si manifesta attraverso quattro principali segni, detti segni cardinali dell’infiammazione, già descritti dall’enciclopedista medico romano Celso: rubor (arrossamento), calor (aumento della temperatura), tumor (gonfiore), dolor (dolore). Più recentemente Rudolf Virchow, famoso patologo tedesco del 1800, ha descritto un quinto segno, la functio lesa (perdita di funzione). I segni cardinali dell’infiammazione sono mediati da varie sostanze di origine cellulare o plasmatica dette “mediatori dell’infiammazione” che si accumulano nel tessuto danneggiato. Si tratta di sostanze che, a seguito dello stimolo infiammatorio, vengono rilasciate da siti specifici in cui erano compartimentalizzate,

oppure vengono attivate (essendo inattive in condizione di normale omeostasi del tessuto), o ancora vengono sintetizzate ex novo. I principali mediatori dell’infiammazione sono riportati in Tabella 27.1. Il rilascio dei mediatori dell’infiammazione induce vasodilatazione, aumento della permeabilità capillare e una maggior espressione di varie molecole di adesione sulla membrana delle cellule endoteliali. L’insieme di questi effetti favorisce la penetrazione della parete vasale da parte dei leucociti polimorfonucleati, che sono le principali cellule coinvolte nella difesa immunitaria innata. Dopo aver superato tale parete, essi migrano in direzione del tessuto infiammato (chemotassi), dove fagocitano lo stimolo nocivo. Molto schematicamente si può distinguere la reazione infiammatoria in due forme principali: l’infiammazione acuta (angioflogosi) e l’infiammazione cronica (istoflogosi). Una caratteristica dell’infiammazione acuta è che i polimorfonucleati, compiuto il loro ciclo vitale, muoiono per apoptosi, un processo di

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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Tabella 27.1 Esempi di mediatori coinvolti nella risposta infiammatoria acuta. Mediatori

Esempi

Mediatori preformati

Istamina Serotonina Enzimi lisosomiali

Mediatori attivati

Proteine del sistema delle chinine Proteine del sistema della coagulazione/fibrinolisi Proteine del sistema del complemento

Mediatori sintetizzati ex novo

Prostanoidi Leucotrieni Fattori attivanti le piastrine Specie reattive dell’ossigeno Ossido d’azoto Citochine

morte programmata che non comporta lisi della membrana cellulare. Anche i macrofagi vengono richiamati al sito infiammato e qui rimuovono i polimorfonucleati apoptotici rilasciando contemporaneamente nell’ambiente circostante vari agenti antinfiammatori (ad es. il fattore di crescita trasformante TGF-β, l’interleuchina IL-10). L’aumento della permeabilità capillare nel tessuto insultato favorisce anche la formazione di essudati che possono contenere molecole di fibrinogeno, le quali vengono rapidamente convertite in fibrina; l’infiammazione acuta è caratterizzata da una prevalenza di questi fenomeni vasculo-essudativi. Fino a poco tempo fa era opinione comune che la risoluzione dell’infiammazione acuta fosse un processo passivo. Molto schematicamente, si pensava che dopo la rimozione da parte dei leucociti dello stimolo nocivo i mediatori dell’infiammazione venissero metabolizzati e il tessuto lentamente riacquistasse la sua omeostasi iniziale. Studi recenti hanno invece dimostrato che la risoluzione dell’infiammazione acuta è un processo attivo, altamente coordinato e controllato da mediatori endogeni “prorisolutivi”, tra cui sono da annoverare l’NFκB (un fattore di trascrizione nucleare), la lipocortina-1, alcuni mediatori dell’apoptosi e diverse sostanze di natura lipidica. Queste ultime derivano dal metabolismo ossidativo di tre acidi grassi: l’acido arachidonico (AA, acido eicosatetraenoico), il suo analogo acido eicosapentaenoico (EPA) contenente un addizionale doppio legame e l’acido docosaesaenoico (DHA), contenente 22 atomi di carbonio. Questi acidi, come discusso nel Capitolo 26, vengono ossidati da lipossigenasi in modo stereospecifico in varie posizioni della loro catena carboniosa, per dar luogo a una famiglia di mediatori prorisolutivi, denominati specialized pro-resolving mediators (SPM), che comprendono lipossine, resolvine, protectine/neuroprotectine e maresine. I mediatori prorisolutivi bloccano il reclutamento dei leucociti al sito infiammato, invertono la vasodilatazione e la permeabilità vascolare, contribuiscono a creare le condizioni per l’eliminazione controllata dei leucociti infiammatori, dell’essudato e della fibrina, rigenerando così l’equilibrio omeostatico tessutale. Se l’ospite non riesce a neutralizzare lo stimolo nocivo responsabile dell’inizio del processo infiammatorio e/o gli agenti prorisolutivi falliscono nel loro compito, allora l’infiammazione acuta si cronicizza. L’infiammazione cronica è principalmente caratterizzata dal fatto che il

reclutamento dei polimorfonucleati al tessuto infiammato diviene continuo e la maggior parte di essi, a differenza di quanto accade nell’infiammazione a decorso acuto, non muore per apoptosi ma per necrosi, un altro processo di morte programmata in cui avviene però una parziale lisi della membrana. Questo comporta la fuoriuscita di parte del contenuto tossico di queste cellule nell’ambiente circostante, con conseguente ulteriore esacerbazione del processo infiammatorio. Inoltre, a differenza di quanto accade nella fagocitosi dei granulociti morti per apoptosi, la fagocitosi da parte dei macrofagi dei granulociti morti per necrosi è accompagnata dal rilascio di mediatori proinfiammatori (ad es. il fattore di crescita trasformante TNFα, l’interleuchina IL-8 e il trombossano TXB2). Da tempo è noto che l’infiammazione cronica è coinvolta in alcune patologie tra cui l’artrite reumatoide e forme correlate. Oggi è ormai accettato che essa è anche coinvolta in diverse malattie vascolari, neurologiche e tumorali.

27.2 L  a cascata dell’acido arachidonico L’AA si trova esterificato nei fosfolipidi di membrana dai quali viene liberato per azione dell’enzima fosfolipasi A2 (PLA2). L’AA libero viene metabolizzato attraverso vie diverse per generare vari tipi di autacoidi, tra cui i prostanoidi e i leucotrieni, che sono coinvolti nell’infiammazione. L’inibizione della loro sintesi è stata la strategia più usata per la realizzazione della maggior parte dei farmaci antinfiammatori oggi usati in terapia.

27.2.1 La biosintesi dei prostanoidi Per lo schema dettagliato di questa via metabolica si veda il Capitolo 26 (Fig. 26.2). Il primo passaggio della biosintesi dei prostanoidi viene catalizzato dalla prostaglandina H sintasi (PGHS), enzima comunemente conosciuto con il nome di ciclossigenasi (COX), il quale possiede due centri catalitici: uno ciclossigenasico e uno perossidasico. Ambedue i centri sono collocati nella porzione terminale di un canale idrofobico a forma di L in cui si dispone la catena carboniosa dell’AA, legandosi a esso tramite interazioni idrofobiche (Fig. 27.1). All’imbocco del canale idrofobico sono presenti vari residui aminoacidici tra cui un residuo basico di arginina (Arg120), protonato a pH fisiologico, a cui si ancora il gruppo carbossilato dell’AA attraverso un ponte salino, ossia un legame idrogeno rinforzato dall’interazione coulombiana di due cariche opposte. Sopra questo residuo è disposto un residuo di serina (Ser530) che gioca un ruolo fondamentale nel determinare la stereochimica dell’ossidazione del C15. Il centro catalitico ciclossigenasico è rappresentato da un residuo di tirosina (Tyr385) e quello perossidasico da un cofattore emico. Sotto l’azione del sito perossidasico attivato da endoperossidi endogeni, il residuo di Tyr385 viene trasformato in radicale tirosinico (Tyr•), il quale inizia il processo ossidativo che porta alla formazione della prostaglandina PGG2 estraendo un atomo di idrogeno dal CH2 allilico presente in posizione 13 dell’AA. La PGG2 viene successivamente ridotta a prostaglandina PGH2 sotto l’azione catalitica del sito pe-

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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espressa a livello di stomaco, rene e piastrine, dove contribui­ sce al mantenimento dell’equilibrio omeostatico. La COX-2 è prevalentemente di tipo induttivo e viene iperespressa in risposta a stimoli infiammatori, inducendo così una produzione massiccia di prostanoidi che sono coinvolti in modo determinante nella comparsa dei segni cardinali dell’infiammazione. La COX-2 è anche iperespressa in certe patologie renali e cerebrali, nell’angiogenesi tumorale (ad es. tumore alla mammella, prostata, polmone) e nella carcinogenesi del colon. In alcuni tessuti, quali rene, cervello, utero e vasi, ha anche carattere costitutivo.

27.2.2 La biosintesi dei leucotrieni

Figura 27.1 Sito attivo della COX. Per cortese concessione del Dott. Paolo Tosco (DSTF, Università degli Studi di Torino).

rossidasico. La PGH2 così formata ha destini metabolici diversi. Sotto l’azione catalitica di enzimi detti prostaglandine sintasi, viene trasformata nelle prostaglandine PGE2, PGD2 e PGF2α; per azione invece dell’enzima trombossano sintasi dà origine al trombossano A2 (TXA2), prodotto instabile (tempo di emivita di 30 secondi), che per via non enzimatica si trasforma nel trombossano B2 (TXB2) stabile e inattivo. Infine, sotto l’azione di un enzima detto prostaciclina sintasi, la PGH2 genera la prostaciclina PGI2. L’insieme di questi autacoidi prende il nome di prostanoidi, termine ormai in uso anche se non completamente corretto, in quanto non tutti questi prodotti possono essere considerati derivati dell’acido prostanoico. La maggior parte dei tessuti è in grado di produrre la prostaglandina PGH2, ma l’entità della sua trasformazione nelle varie famiglie di prostanoidi varia in funzione del loro corredo enzimatico. Legandosi ai loro recettori specifici i prostanoidi esercitano una gran varietà di azioni fisiologiche (Cap. 26, Tab. 26.1). Una pietra miliare nella ricerca sugli antinfiammatori è rappresentata dalla scoperta che l’enzima COX esiste in due isoforme denominate COX-1 e COX-2, le cui sequenze aminoacidiche presentano un grado di omologia di circa il 60%. L’isoforma COX-1 è di tipo costitutivo ed è altamente

Per lo schema dettagliato di questa via metabolica si veda il Capitolo 26. Sotto l’azione della 5-lipossigenasi (5-LOX), enzima che possiede due attività catalitiche, una ossigenasica e una deidrasica, l’AA viene prima ossidato a 5-idroperossieicosatetraeneoico (5-HPETE) e poi trasformato in leucotriene A4 (LTA4). Questo primo leucotriene, per azione della LTA idrolasi, genera il leucotriene B4 (LTB4), oppure, per coniugazione con il glutatione, il leucotriene C4 (LTC4). Da quest’ultimo per effetto di due diverse peptidasi, si formano i leucotrieni LTD4 e LTF4 dai quali, per azione di altre due peptidasi, ha origine il leucotriene LTE4. Legandosi ai loro recettori specifici, i leucotrieni esercitano una gran varietà di azioni fisiologiche (Cap. 26, Tab. 26.1). Sono stati sviluppati diversi prodotti capaci di comportarsi da antagonisti dei leucotrieni o da inibitori della loro sintesi e alcuni di loro sono entrati in terapia. Dal momento che questi farmaci vengono usati principalmente nella cura dell’asma, per la loro trattazione si rimanda al Capitolo 23.

27.3 F  armaci antinfiammatori non steroidei (FANS) 27.3.1 Generalità e usi I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) (nella terminologia anglosassone non steroidal anti-inflammatory drugs, NSAID) sono un’importante classe di farmaci usati per trattare i sintomi dell’infiammazione; essi non sono però in grado di risolvere l’infiammazione acuta, né di curare quella cronica. Sono così denominati per distinguerli da un’altra importante classe di antinfiammatori trattati dettagliatamente nel Capitolo 28, i glucocorticoidi, che hanno struttura steroidea e devono la loro attività alla capacità di indurre l’espressione di proteine antinfiammatorie tra cui la lipocortina-1, potente inattivatore della PLA2. I FANS sono dotati di attività antinfiammatoria, antipiretica e analgesica. Tali proprietà vengono sfruttate nel trattamento di una gran varietà di affezioni infiammatorie, quali sindromi influenzali e da raffreddamento, stati febbrili, infiammazioni articolari e muscolari, malattie reumatiche, sindromi dolorose varie, negli attacchi acuti di gotta e nel trattamento della dismenorrea. Alcuni FANS esplicano anche azioni uricosuriche, altri una spiccata azione antiaggregante piastrinica che ne permette l’uso come antitrombotici. Recentemente si è pure proposto l’impiego di specifici

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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FANS nella cura del tumore al colon-retto e della malattia di Alzheimer. La risposta al trattamento con un FANS spesso varia da individuo a individuo e questo, unitamente al gran numero di farmaci disponibili in terapia, complica la scelta del medico nell’indicare al paziente il prodotto più opportuno da usare.

27.3.2 Meccanismo d’azione Le proprietà farmacologiche della maggior parte dei FANS sono principalmente dovute al fatto che, essendo questi degli inibitori dell’enzima COX, bloccano la cascata dell’AA impedendo così la formazione dei prostanoidi sotto lo stimolo infiammatorio. Essi competono con l’AA per il legame al sito attivo dell’enzima, impedendone l’accesso. In particolare, possedendo per la maggior parte un gruppo carbossilico ionizzato a pH fisiologico, possono interagire con il residuo protonato di Arg120 che, come si è precedentemente detto, è un importante sito d’ancoraggio per l’AA (Fig. 27.1). Studi cinetici hanno evidenziato che è possibile distinguere tre diversi meccanismi di inibizione. 1. Meccanismo competitivo semplice:

E+I

EI



Il complesso EI si forma velocemente e altrettanto velocemente si dissocia. La maggioranza dei FANS agisce con questo meccanismo e l’ibuprofene ne è il prototipo. 2. Meccanismo competitivo tempo-dipendente lentamente reversibile: E+I EI EI*

Il complesso EI si forma velocemente e velocemente si trasforma in un nuovo complesso stabile EI*, che si dissocia solo molto lentamente. Alcuni importanti FANS agiscono con questo meccanismo, ad esempio indometacina, flurbiprofene, diclofenac, acido meclofenamico.

3. Meccanismo competitivo tempo-dipendente irreversibile:

EI E __ I E+I Il farmaco riconosce il sito catalitico dell’enzima e dà origine a un complesso reversibile EI, che si trasforma in un complesso irreversibile a seguito della formazione di un legame covalente tra enzima e inibitore. Di tutti i FANS solo l’aspirina agisce con questo tipo di meccanismo; essa infatti è capace di posizionarsi di fronte al residuo di

O

CH3 O

O O

Ser530

COX

Ser530 presente nel sito catalitico e di interagire con esso acetilandolo irreversibilmente (Fig. 27.2). Questa caratteristica, insieme con la capacità di inibire preferenzialmente l’isoforma COX-1, è alla base dell’uso di questo farmaco come antitrombotico (vedi oltre) e ne fa un prodotto unico tra i FANS. Durante gli studi che hanno portato alla scoperta dei mediatori prorisolutivi, si è trovato che l’isoforma COX-2 acetilata irreversibilmente dall’aspirina non perde le sue capacità catalitiche, ma le modifica. Essa infatti può funzionare da lipossigenasi catalizzando l’introduzione di un gruppo ossidrilico in determinate posizioni della catena carboniosa degli acidi grassi precursori dei mediatori lipidici prorisolutivi. L’ossidazione è stereospecifica e gli idrossiderivati che si formano danno origine per successive trasformazioni a epimeri dei corrispondenti mediatori prorisolutivi naturali (si veda il Cap. 26). I mediatori lipidici aspirina-indotti sono noti con il nome di famiglia ATLM (aspirin-triggered lipid mediators) ed esercitano azioni prorisolutive simili a quelle dei loro analoghi SPM endogeni. L’aspirina è pertanto l’unico FANS che, oltre a curare i sintomi dell’infiammazione, contribuisce anche alla sua risoluzione. I FANS sviluppati ed entrati in terapia prima della scoperta dell’esistenza delle due isoforme della COX sono detti tradizionali. La loro capacità di inibire preferenzialmente l’una o l’altra isoforma varia da prodotto a prodotto. Come si vede dagli esempi riportati in Figura 27.3, alcuni possiedono scarsa o nessuna selettività, altri mostrano una preferenza per la COX-1 (tra questi sono da annoverare l’aspirina e l’indobufene), altri ancora una preferenza per l’isoforma COX-2. I FANS più recenti sono quelli sviluppati specificatamente come inibitori altamente selettivi dell’isoforma COX-2. Questi farmaci sono conosciuti con il nome di famiglia di COXIB e verranno trattati in un paragrafo a parte.

27.3.3 FANS tradizionali Sulla base della loro struttura i FANS tradizionali possono essere classificati in: • derivati salicilici; • derivati dell’acido antranilico (fenamati); • derivati dell’anilina; • pirazolinoni e pirazolidindioni; • acidi enolici (ossicami); • acidi aril ed eteroaril alcanoici; • altri.

OH H3C O

H

O O

O

Figura 27.2 Acetilazione della COX.

+ O

Ser530

COX

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Di seguito sono descritte alcune caratteristiche generali di questi farmaci e i principali termini appartenenti alle singole classi.

file e attraversa facilmente la membrana delle cellule della mucosa gastrica. Al pH intracellulare (pH = 7,4) essi si dissociano in larga misura, dando origine alle corrispondenti forme ioniche altamente idrofile che non sono più in grado di riattraversare il plasmalemma delle cellule, restando così intrappolate al loro interno (ion trapping). La conseguenza è un’alterazione della permeabilità cellulare che rende possibile una “retrodiffusione” di ioni idrogeno (back diffusion) dal lumen gastrico nella mucosa; questo induce un rilevante danno che si estende fino ai capillari sottostanti provocando sanguinamento. La tossicità indiretta, più importante della diretta sotto il profilo patologico, è conseguente all’assorbimento del farmaco e si manifesta anche quando questo viene somministrato per via parenterale. Essa deriva principalmente dalla capacità dei FANS di inibire l’isoforma COX-1 presente a livello della mucosa gastrica. Questo comporta la mancata formazione della PGE2 e della PGI2, due prostanoidi che esercitano potenti azioni gastroprotettive inducendo la formazione di muco e di bicarbonato, attivando la microcircolazione della mucosa e modulando la secrezione acida gastrica. La gastrotossicità si manifesta in dolori addominali, dispepsia, nausea, stipsi, diarrea, ulcere, sanguinamenti e nei casi più gravi può indurre perforazioni dello stomaco. I FANS tradizionali presentano gradi di gastrotossicità diversi; così l’ibuprofene, l’acido tioprofenico e l’etodolac, per citare quelli più noti, sembrano essere meno gastrolesivi di altri quali l’indometacina, il pirossicam, il naprossene, il diclofenac, il chetoprofene e il flurbiprofene. I FANS tradizionali possono indurre anche tossicità renale a seguito della loro capacità di ridurre sia il flusso ematico renale sia il filtrato glomerulare e di indurre ritenzione di sodio alterando così l’equilibrio idrico-salino. Ciò può dar luogo alla formazione di edemi e a un aumento della pressione sanguigna. L’uso prolungato di questi farmaci può indurre lesioni renali importanti. Anche questi effetti sono principalmente dovuti all’inibizione della sintesi dei prostanoidi vasodilatatori PGE2 e PGI2 coinvolti nell’omeostasi renale. Alcuni FANS tradizionali (ad es. indometacina e alcuni derivati ossicamici) presentano con una certa frequenza tossicità sul sistema nervoso centrale che provoca cefalea, irritabilità, insonnia, capogiri, allucinazioni, alterazioni della vista, per citare i sintomi più frequenti. Alcuni FANS possono indurre anche tossicità epatica, che si manifesta generalmente in modo asintomatico, con un aumento dell’attività delle transaminasi; in alcuni casi sono però possibili ittero, anoressia, nausea. I FANS che preferenzialmente inibiscono la COX-1, ad esempio aspirina e indobufene, hanno come effetto collaterale un allungamento del tempo di sanguinamento.

Tossicità I FANS tradizionali presentano una serie di effetti tossici che ne limitano fortemente l’uso. Tra questi il più importante è la gastrotossicità, che può essere di tipo diretto o di tipo indiretto. La gastrotossicità diretta, detta anche da contatto, deriva dal contatto del farmaco con lo stomaco a seguito della sua somministrazione orale. Essa è strettamente collegata alla natura acida di molti di questi farmaci; la maggior parte di loro sono infatti acidi con pKa compresa tra 3,5 e 6 e quindi a pH gastrico (pH = 1-2) sono largamente presenti nella forma indissociata. Tale forma ha caratteristiche lipo-

Proprietà farmacocinetiche Questi farmaci sono ben assorbiti attraverso il tratto gastroenterico per diffusione passiva e la loro biodisponibilità è superiore all’80%, con poche eccezioni. Il picco plasmatico viene spesso raggiunto dopo 1-2 ore e il legame con le proteine plasmatiche è generalmente elevato; solo paracetamolo, fenazone e aminofenazone si legano per meno del 50%. L’emivita plasmatica può essere breve ( 8 ore) a seconda del tipo di prodotto. Le principali proprietà farmacocinetiche di alcuni FANS tradizionali sono riportate nella Scheda 27.1.

Figura 27.3 Selettività di alcuni FANS. La selettività è espressa come rapporto tra la concentrazione inibente il 50% dell’attività (IC50) dell’isoforma COX-1 piastrinica e quella inibente l’attività della COX-2 monocitaria, valutate su sangue intero. Il valore di questo rapporto può variare in modo significativo a seconda della fonte. I dati riportati provengono da: Immunofarmacologia e farmaci delle risposte infiammatorie, Ed. Di Rosa M., Fioretti M.C., Marcolongo F.R., Rugarli C., UTET, 2002; Tacconelli S. et al. Curr. Med. Res. Opin. 2002, 18, 503511; Esser R. et al. British Journal of Pharmacology 2005, 144, 538-550.

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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Interazioni con altri farmaci Nel torrente circolatorio, la maggior parte dei FANS tradizionali interagisce fortemente con le proteine plasmatiche e quindi può spiazzare altri farmaci a esse precedentemente legati, aumentandone la frazione libera nel sangue. È il caso degli anticonvulsivanti, degli ipoglicemizzanti orali (sulfoniluree), del metotressato e degli anticoagulanti. Di conseguenza è necessario riconsiderare il dosaggio di questi farmaci per evitarne la tossicità. A tale proposito, di particolare rilevanza clinica è lo spiazzamento degli anticoagulanti, vista la capacità dei FANS di indurre sanguinamento gastroduodenale. Altre possibili interazioni si hanno con i diuretici (riduzione dell’effetto diuretico), con gli ipotensivi (riduzione dell’effetto ipotensivo), con il litio (potenziamento della sua azione), con gli antiacidi e gli H2-antagonisti (riduzione dell’assorbimento gastrico dei FANS) e con i contraccettivi orali (aumento del metabolismo del contraccettivo). Derivati salicilici Questa classe di farmaci possiede proprietà antinfiammatorie, analgesiche e antipiretiche tipiche dei FANS; l’aspirina è anche un potente inibitore dell’aggregazione piastrinica e un importante antitrombotico. Il loro meccanismo d’azione è prevalentemente legato all’inibizione delle due isoforme della ciclossigenasi. Sono deboli inibitori sia della COX-1 sia della COX-2, a eccezione dell’aspirina che risulta più potente verso la COX1. Sono facilmente assorbiti per diffusione passiva a livello dello stomaco e soprattutto della porzione prossimale del piccolo

intestino; alcuni possono anche attraversare la cute intatta. Nello stomaco, i prodotti con caratteristiche acide sono assorbiti nella loro forma più lipofila, cioè quella indissociata, mentre nel piccolo intestino, dove il pH tende ad aumentare (pH = 5,0-7,7), sono prevalentemente assorbiti come basi coniugate. In quest’ultimo processo l’elevata estensione della membrana intestinale dovuta alla presenza dei villi compensa la scarsa capacità di diffusione passiva della specie ionizzata, altamente idrofila, rendendone possibile l’assorbimento. Vengono metabolizzati principalmente a livello epatico e i metaboliti sono escreti per via renale o biliare. Dosi eccessive di salicilati inducono intossicazione (salicilismo) e possono essere letali; i principali sintomi sono nausea, vomito, diarrea, disturbi alla vista, stato confusionale. I salicilati non devono essere somministrati a bambini di età inferiore a 16 anni con malattie febbrili di origine virale; questo perché l’insorgere della sindrome di Reye, una rara forma di encefalopatia dell’infanzia, è stata associata all’uso di aspirina nel trattamento di tali affezioni. I principali esponenti della classe sono riportati in Figura 27.4. L’acido salicilico – acido o-idrossibenzoico –, un tempo chiamato acido spirico, è il capostipite di questa classe di farmaci. In natura non esiste allo stato libero ma solo sotto forma di derivati. È il prodotto di ossidazione dell’alcol salicilico, presente come glucoside, la salicina, in diverse specie di salice (Salicaceae). Nell’antichità si faceva uso della corteccia di queste piante per il trattamento delle affezioni reumatiche e febbrili (Galeno, II secolo a.C.).

F

O

O

OH

OH

OH -D-glucosio

H2N

OH

Acido salicilico

O

O

HO

OH

OH

H N

Salicilato di metile

Figura 27.4 Derivati salicilici.

O OH

OH O

O

OH

O

CH3 Benorilato

CH3

Etenzamide

O

CH3

O O

O

O

O

CH3

NH2

Salicilamide

O O

O

OH

Acido gentisico

O

OH Diflunisal

NH2

OH

Mesalazina

F

Alcol salicilico

O

OH

OH

OH

Salicina

O

CH3

Acido acetilsalicilico

O Salsalato

OH

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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L’acido salicilico, la cui sintesi è descritta nel Box 27.1, è un acido diprotico (pKCOOH = 3,0, pKOH = 13,8); a pH fisiologico (pH = 7,4) la funzione carbossilica è pressoché completamente dissociata, mentre a pH gastrico (pH = 1-2) è largamente indissociata. Come tale viene usato in dermatologia quale cheratolitico e antisettico. Il suo sale sodico, il salicilato di sodio, è stato molto usato in passato nel trattamento della febbre reumatica acuta, nella terapia analgesica e antipiretica e trovava applicazione anche negli attacchi di gotta acuta. Le sue attività farmacologiche sono mediate da più meccanismi non completamente chiariti, tra cui una debole inibizione reversibile di ambedue le isoforme della COX; non è invece attivo come antiaggregante piastrinico. Le sue proprietà antinfiammatorie, analgesiche e antipiretiche sono pressoché assenti nei due isomeri di posizione, l’acido m-idrossibenzoico e l’acido p-idrossibenzoico. Viene metabolizzato a livello epatico principalmente per coniugazione con la glicina (dando origine ad acido salicilurico) e con l’acido glucuronico; in minor entità viene metabolizzato attraverso l’ossidrilazione dell’anello aromatico, generando acidi idrossibenzoici. L’acido gentisico e piccole quantità di acido 2,3-diidrossibenzoico e di acido 2,3,5-triidrossibenzoico sono i metaboliti ossidrilati più importanti (Fig. 27.5). In alternativa al salicilato di sodio possono essere usati vari sali inorganici e organici: tra di essi ricordiamo quelli di magnesio, di colina e di imidazolo, che presentano una migliore tollerabilità gastrica. Nel tentativo di ottimizzare il suo profilo farmacologico e in particolare di ridurre la sua gastrotossicità, sono stati preparati molti derivati dell’acido salicilico. Si tratta di composti in cui è stato introdotto un nuovo sostituente all’anello, oppure che sono stati modificati al raggruppamento carbossilico e/o ossidrilico. Alcune di queste sostanze sono entrate in terapia. Tra i prodotti modificati all’anello aromatico ricordiamo il diflunisal – acido 5-(2,4-difluorofenil)salicilico – che è usato nel trattamento dell’artrite reumatoide, dell’osteoartrite e come antiaggregante piastrinico. Ha un’attività analgesica e antinfiammatoria superiore a quella dell’aspirina ed è in larga parte privo di effetti antipiretici. È caratterizzato da un rapido assorbimento, da un forte legame con le proteine plasmatiche, da una lunga emivita e da una tossicità gastrica relativamente bassa. Quest’ultima sembra dovuta a una modesta capacità di inibire la sintesi delle prostaglandine gastriche. L’introduzione di un gruppo aminico in posizione 5 genera la mesalazina

– acido 5-aminosalicilico –, un prodotto usato per il trattamento di malattie infiammatorie dell’intestino (colite ulcerosa, morbo di Crohn). Un impiego simile ha la sulfasalazina (Fig. 27.20), che è un cofarmaco ad azione antibatterica e antinfiammatoria, poiché a livello del colon subisce scissione ad opera di azoreduttasi batteriche liberando mesalazina e sulfapiridina. Il farmaco è usato anche nel trattamento dell’artrite reumatoide (Par. 27.4.1). Anche gli idrossiderivati dell’acido salicilico hanno ricevuto una certa attenzione. Tra questi, l’acido gentisico – acido 2,5-diidrossibenzoico – ha dato ottimi risultati nel trattamento delle febbri reumatiche acute, ma ha il difetto di subire una rapida eliminazione. Tra i prodotti modificati al gruppo carbossilico sono di rilevante interesse la salicilamide – amide dell’acido salicilico – e il suo O-etil derivato, la etenzamide – 2-etossibenzamide –, dotati entrambi di una buona attività analgesica. È interessante sottolineare che la salicilamide e i suoi derivati non agiscono come profarmaci dell’acido salicilico, ma hanno una propria attività. Tra i prodotti ottenuti modificando il gruppo carbossilico sono da annoverare molti esteri che si comportano come profarmaci e vengono impiegati per uso esterno. Tra questi ricordiamo il salicilato di metile, che è il principio attivo di unguenti e linimenti antireumatici. La contemporanea modifica del gruppo carbossilico e del gruppo ossidrilico ha dato luogo a numerosi derivati, di cui il più interessante è il benorilato – 4-(acetilamino)fenil 2-(acetilossi)benzoato –; il prodotto, stabile a pH gastrico, viene velocemente idrolizzato dalle esterasi ematiche ed epatiche a paracetamolo e acido salicilico ed è quindi un cofarmaco. Tra i vari composti modificati al gruppo ossidrilico, il derivato più importante è certamente l’acido acetilsalicilico (aspirina). Questo farmaco è stato introdotto in terapia nel 1899 e, nonostante i suoi oltre cento anni di vita, resta uno dei medicamenti più usati al mondo. A pH fisiologico e gastrico si dissocia in modo simile all’acido salicilico (pKCOOH = 3,48). L’acido acetilsalicilico è un importante analgesico, antipiretico e antinfiammatorio ottenuto per acetilazione dell’acido salicilico (Box 27.1). Tali proprietà sono principalmente dovute alla sua capacità di inibire irreversibilmente l’enzima COX, con una netta preferenza per l’isoforma COX-1, ma in parte anche al suo metabolita acido salicilico. Un’altra importante applicazione dell’aspirina è come antitrombotico. Questo utilizzo è strettamente legato alla sua capacità di inibire a livello piastrinico l’enzima COX-1, la principale isoforma presente, e di conseguenza la trasformazione

BOX 27.1 ■ Sintesi degli acidi salicilico e acetilsalicilico L’acido salicilico viene preparato per trattamento del fenato sodico secco con una corrente di anidride carbonica mantenendo la temperatura sotto i 160 °C (la reazione è esotermica); il salicilato sodico formatosi viene ripreso O O- Na+

1. CO2

con acqua e quindi trattato con H2SO4 diluito (sintesi di Kolbe-Schmitt). L’acido salicilico, disciolto in acido acetico glaciale, sotto l’azione dell’anidride acetica genera l’acido acetilsalicilico.

OH

O OH

2. H+

(CH3CO)2O CH3COOH

Acido salicilico

OH CH3

O O

Acido acetilsalicilico

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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O

O

O

OH

OH

O

OH

OH CH3

O

R2 OH

Acido salicilico

R1

Acido acetilsalicilico

O

O N H

OH

OH O

Acido salicilurico

O O

Glu

OH O-acilglucuronide

HOOC OH

O

Acido gentisico: R 1 = H, R2 = OH Acido 2,3-diidrossibenzoico: R1 = OH, R2 = H Acido 2,3,5-diidrossibenzoico: R1 = OH, R2 = OH

Glu

O-glucuronide

Glu =

OH OH

O

OH

Figura 27.5 Metabolismo dell’acido salicilico e dell’acido acetilsalicilico.

dell’acido arachidonico in trombossano TXA2, un potente vasocostrittore e aggregante piastrinico. Dal momento che l’inibizione è irreversibile e che le piastrine sono frammenti di citoplasma di megacariociti privi di nucleo, ma dotati di un corredo enzimatico, l’inibizione ad aggregarsi dura per tutto il loro ciclo vitale (9-11 giorni). Questo rende l’aspirina un farmaco essenziale nel trattamento dell’infarto del miocardio, nella prevenzione antitrombotica connessa agli interventi di angioplastica coronarica e nella prevenzione dell’ictus trombotico. Secondo alcuni autori il farmaco potrebbe essere di qualche utilità nella prevenzione di tumori, in particolare del colon-retto. Come analgesico, antipiretico e antinfiammatorio si impiega alla dose di 1,2-4 g/die, nella malattia reumatica alla dose di 4-8 g/die. Nella profilassi dell’infarto viene usato alla dose di 30-100 mg/die. Per un approfondimento sull’uso dell’acido acetilsalicilico come antitrombotico si rimanda alla Scheda 27.2. L’aspirina viene somministrata principalmente per via orale sotto forma di confetti, capsule, compresse normali, compresse a cessione ritardata o gastroprotette. Spesso viene cosomministrata con agenti alcalinizzanti e tamponanti. È anche commercializzata in associazione ad altri farmaci: tra questi preparati ricordiamo l’associazione con caffeina e paracetamolo. L’aspirina è piuttosto stabile all’idrolisi acida e viene facilmente assorbita dalla membrana gastrointestinale; è invece idrolizzata ad acido salicilico dalle esterasi della mucosa intestinale, del circolo portale e del fegato. Solo una parte entra come tale nella circolazione sistemica e nei tessuti, dove è definitivamente degradata ad acido salicilico (Fig. 27.5). Si lega meno del salicilato alle proteine plasmatiche; è però capace di acetilare il gruppo aminico libero della lisina, modificando così il legame di altri farmaci con queste proteine. Viene escreta inalterata nell’urina in piccolissima quantità e solo per un breve intervallo di tempo subito dopo la somministrazione. Le interazioni dell’aspirina con altri farmaci sono state estensivamente studiate. Oltre a quella con gli anticoagulanti, qui ci limitiamo a ricordare quella con i corticosteroidi (possibilità di salicilismo e aumentata gastrolesività) e quella con alcol etilico (aumentata gastrolesività). Gli effetti

indesiderati dose-dipendenti dell’aspirina sono lesioni a carico del tratto gastroenterico, alterazioni della funzione epatica e renale, alterazioni dell’udito ed effetto ipoglicemizzante. Tra gli effetti non dose-dipendenti sono da annoverare alcuni fenomeni allergici. Nel tentativo di ridurre la gastrolesività per contatto di questo farmaco, ne sono stati preparati molti esteri che effettivamente sono meno gastrolesivi del farmaco madre, ma che non sono veri profarmaci. Con rare eccezioni, essi vengono metabolizzati molto rapidamente a salicilati prima e poi, più lentamente, ad acido salicilico, senza che si formino quantitativi rilevanti di aspirina. Tra i prodotti modificati al gruppo ossidrilico, di un certo interesse è il salsalato (acido salicilsalicilico). Questo farmaco viene idrolizzato ad acido salicilico ed è caratterizzato da un’azione protratta. Viene usato sia sistematicamente sia localmente come succedaneo dell’acido salicilico.

Derivati dell’acido antranilico (fenamati) Questa classe di FANS è stata introdotta in terapia a seguito di studi condotti sulla potenziale attività antinfiammatoria, analgesica e antipiretica dell’acido antranilico – acido 2-aminobenzoico – in quanto isostero dell’acido salicilico. Tali studi evidenziarono come prodotti di maggior interesse i derivati dell’acido N-fenilantranilico, composti acidi con pKa compresa tra 4,0 e 4,2. Sono inibitori non selettivi della COX, in alcuni dei quali prevale l’azione antinfiammatoria e antipiretica, in altri l’azione analgesica. Vengono generalmente somministrati per via orale, sono assorbiti dal tratto gastroenterico e hanno una buona biodisponibilità; in generale si legano fortemente con le proteine plasmatiche e possono spiazzare altri farmaci dal legame con dette proteine, dando luogo a interazioni tipiche dei FANS. Vengono largamente metabolizzati e i loro metaboliti sono eliminati prevalentemente per via renale e biliare come coniugati. Gli effetti collaterali principali sono a carico dell’apparato gastrointestinale (diarrea, dolore addominale e, meno frequentemente, ulcera peptica) e a livello cutaneo (rash cutanei). Oggi la tendenza è quella di usare sempre meno questa classe di

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O

O

O

O

O

OH

O

O

OH

OH N

NH

NH R3

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N

O

NH

NH

N

R1 R2

Acido N-fenilantranilico: R1 = R2 = R3= H Acido mefenamico: R1 = R2 = CH3, R3= H Acido flufenamico: R1 = R3 = H, R2 = CF3 Acido meclofenamico: R1 = R3 = Cl, R2 = CH3

CF3

CF3 Etofenamato

CF3 Morniflumato

Acido niflumico

Figura 27.6 Derivati antranilici.

FANS che non presenta nessun particolare vantaggio rispetto alle altre. I principali esponenti della classe sono riportati in Figura 27.6 e il profilo farmacocinetico di alcuni di loro in Scheda 27.1. Lo studio sistematico di vari derivati dell’acido N-fenilantranilico ha evidenziato che il gruppo NH è essenziale per l’attività e che i prodotti più attivi sono quelli sostituiti al gruppo fenilico in posizione 2,3,6. Il prototipo di questa classe di farmaci è l’acido mefenamico – acido N-[(2,3-dimetilfenil)antranilico –, immesso sul mercato statunitense come analgesico nel 1967. La sintesi industriale del farmaco e il suo metabolismo sono illustrati nella Scheda 27.3. L’introduzione alla posizione 3 dell’N-fenile di un gruppo trifluorometilico genera l’acido flufenamico – acido N-(3-trifluorometilfenil)antranilico –, un prodotto 2-3 volte più potente dell’acido mefenamico come antinfiammatorio, ma dotato di scarsa attività analgesica. L’etofenamato – estere 2-(2-idrossietossi)etilico dell’acido flufenamico – è un profarmaco dell’acido flufenamico, usato topicamente per il trattamento di dolori muscolari e osteoarticolari. L’acido niflumico – acido 2-{[3-(trifluorometil)fenil]amino}3-piridincarbossilico – è un isostero dell’acido flufenamico avente un nucleo piridinico al posto dell’anello benzenico nella sottostruttura antranilica; ha molte delle indicazioni dell’acido mefenamico ed è stato usato anche in alcune patologie urinarie come antiflogistico e analgesico. Il morniflumato – 2-(4-morfolinil)etil estere dell’acido 2-{[3-(trifluorometil)fenil]amino}3-piridincarbossilico – è un profarmaco dell’acido niflumico. Si usa nel trattamento di stati flogistici dolorosi e non, anche accompagnati da febbre, a carico delle vie respiratorie. L’acido meclofenamico – acido N-[(2,6-dicloro-3-metil)fenil]antranilico – è circa 10-20 volte più potente dell’acido mefenamico come antinfiammatorio. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che i 2 atomi di cloro presenti alle posizioni 2 e 6 dell’anello N-fenilico impediscono a questa sottostruttura di essere coplanare con la restante parte della molecola, dando così origine a una conformazione molecolare che ottimizza l’interazione del farmaco con il sito attivo della COX. Viene usato come sale sodico e ha un profilo farmacocinetico simile a quello dell’acido mefenamico. Il suo uso è accompagnato da un’alta incidenza di episodi diarroici.

Derivati dell’anilina Sono prodotti di modificazione dell’anilina, che non può essere usata come tale in terapia a causa della sua elevata tossicità (ematotossicità in particolare). Si tratta di una classe di farmaci ad azione antipiretica e antidolorifica, ma praticamente privi di attività antinfiammatoria e antiaggregante. Sono solo dei deboli inibitori della COX e il loro preciso meccanismo d’azione è sconosciuto. Sono dotati di nefro-, epato- ed ematotossicità e alcuni di essi sono caduti in disuso. I principali esponenti della classe sono riportati in Figura 27.7. Il primo derivato dell’anilina a essere usato in terapia è stato l’acetanilide (antifebbrina) – N-fenilacetamide –, preparata per acetilazione dell’anilina. Entrata in terapia nel 1886 come analgesico-antipiretico, oggi è pressoché abbandonata a causa della sua elevata emato- e nefrotossicità. Nel sangue viene trasformata per idrolisi in anilina, inducendo così metemoglobinemia e ittero (Fig. 27.8).

O NH2

CH3

HN

Anilina

Acetanilide

O HN

O

CH3 HN

CH3

O OH

CH3 Fenacetina

Paracetamolo

Figura 27.7 Derivati dell’anilina.

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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O-glucuronide

Solfato

O

O O NH2

CH3

HN

O

OH Acetanilide

Paracetamolo

CH3

HO O

HO

CH3

N

Fenacetina

O

O

HN

CH3

HN

CH3

HN

CH3

N

CH3 O

OH SG OH

CH3

Glutatione (GSH)

O

O O HN

N CH3

N-acetilcisteina

OH

CH3

HN

HN

CH3

R-XH Nucleofilo cellulare

COOH

S

CH3

O

X OH

R

N-Acetilbenzochinonimina

O

Figura 27.8 Metabolismo dei derivati anilinici.

Al fine di trovare prodotti meno tossici sono stati studiati diversi derivati acetanilidici tra cui la fenacetina – p-etossiacetanilide. Questo farmaco veniva usato nel trattamento sintomatico di stati flogistici dolorosi e febbrili di lieve e media entità. Viene metabolizzato nel fegato principalmente a paracetamolo, per seguire poi il destino metabolico di quest’ultimo (Fig. 27.8). Nella pratica clinica la fenacetina è stata sostituita con il paracetamolo (acetaminofene) – Nacetil-p-aminofenolo –, che ha caratteristiche debolmente acide (pKa = 9,5) ed è l’esponente più importante della classe. La sua sintesi è riportata nel Box 27.2. È molto usato nel trattamento sintomatico di febbre di varia natura e di sindromi dolorose varie, nonché come antipiretico e analgesico in alternativa ai salicilati. Possiede una debolissima attività antinfiammatoria a seguito della sua scarsa capacità di inibire la sintesi della prostaglandine a livello periferico. Il meccanismo con cui inibisce l’enzima COX non è quello classico dei FANS, ma è probabilmente fondato sulle sue proprietà antiossidanti e in particolare sulla sua capacità di ridurre i livel-

li di radicale tirosinico che inizia il processo ossidativo sulla via della sintesi della PGG2. La sua potente azione antipiretica-analgesica potrebbe derivare da una particolare sensibilità nei suoi confronti della COX-2 a livello centrale o dal fatto che possa raggiungere alte concentrazione in questo distretto. Altri autori hanno ipotizzato l’esistenza a livello centrale di una terza isoforma della COX, la COX-3, con cui il farmaco interagirebbe. Somministrato per via orale è ben assorbito dal tratto gastroenterico e si lega scarsamente alle proteine plasmatiche (Scheda 27.1). Il prodotto viene eliminato per via urinaria, per la maggior parte come solfoconiugato e glucuronato (Fig. 27.8). Sotto l’azione di ossidasi a funzione mista del citocromo P450, genera anche piccole quantità di un derivato idrossiamidico che viene ulteriormente ossidato a un prodotto altamente tossico, l’N-acetilbenzochinonimina. Questo elettrofilo reagisce rapidamente con il glutatione cellulare, dando un addotto privo di tossicità. Tuttavia, in presenza di eccessive quantità di farmaco la concentrazione di benzochinonimina aumenta e le limitate quantità di glu-

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BOX 27.2 ■ Sintesi del paracetamolo Il paracetamolo può essere preparato per idrogenazione catalitica su Pd o riduzione elettrolitica del nitrobenzene in soluzione solforica diluita; si forma dapprima fenilidrossilamina, che in ambiente solforico traspone

a p-aminofenolo. Quest’ultimo viene acetilato con anidride acetica in acido acetico glaciale per dare il paracetamolo. O

NHOH

NO2 H2

HN

NH2

CH3

(CH3CO)2O

H2SO4

CH3COOH

HO

HO Paracetamolo

tatione presenti nel fegato e nel rene vengono rapidamente esaurite, con il risultato che il metabolita reagisce con i nucleofili cellulari generando epato- e nefrotossicità. Per ridurre questo effetto tossico si somministra N-acetilcisteina, anch’essa capace di reagire con l’N-acetilbenzochinonimina, disattivandola. La nefro- e la epatotossicità del paracetamolo non sono quindi conseguenti alla sua capacità di inibire l’enzima COX, ma alla produzione di metaboliti tossici in questi distretti. La formazione di specie benzochinoniche sembra avere un ruolo anche nell’epatotossicità di altri FANS (Schede 27.11, 27.12 e 27.15).

Pirazolinoni e pirazolidindioni Questa classe comprende composti a struttura 3-pirazolin5-onica e a struttura pirazolidin-3,5-dionica (Fig. 27.9). Il primo di questi farmaci, il fenazone, fu sintetizzato da Knorr nel 1883. Subito vennero evidenziate le potenti azioni antipiretiche, analgesiche e antinfiammatorie del prodotto, che fu immesso in commercio con il nome di antipirina. Nel 1949 fu introdotto in terapia il primo derivato pirazolidindionico, il fenilbutazone, come antinfiammatorio nel trattamento dell’artrite reumatoide. In un secondo tempo per questo farmaco, così come per alcuni altri della serie, è stata evidenziata anche attività uricosurica. I farmaci appartenenti ad ambedue i gruppi presentano azioni analgesiche, antipiretiche e antinfiammatorie, largamente conseguenti alla loro capacità di interagire con la COX di cui sono deboli inibitori non selettivi. Vengono prevalentemente usati nel trattamento dell’artrite reumatoide e di malattie del collagene. Nei derivati 3,5-pirazolidindionici il gruppo CH in 4 ha caratteristiche acide (pKa compresa tra 2,8 e 5) a seguito della presenza dei due carbonili adiacenti in 3 e in 5. Alcuni esponenti di questa classe, in particolare i derivati del fenilbutazone, si legano fortemente alle proteine plasmatiche e quindi danno marcate interazioni con altri farmaci, spiazzandoli dai loro siti di legame. Sono prodotti notevolmente tossici a livello gastrointestinale, renale e alcuni anche a livello midollare, dove possono generare granulocitopenia e agranulocitosi. Per questo motivo il loro uso tende a essere abbandonato. I principali esponenti della classe sono riportati in Figura 27.9 e il profilo farmacocinetico di alcuni di loro nella Scheda 27.1. Il capostipite dei derivati pirazolonici è il fenazone (antipirina) – 1-fenil-2,3-dimetil-3-pirazolin-5-one –, la

cui sintesi e il cui metabolismo sono descritti nella Scheda 27.4. In passato è stato usato come analgesico e antipiretico minore, oggi è in prevalenza impiegato topicamente nell’analgesia del condotto uditivo esterno in associazione con procaina cloridrato. Già a piccole dosi può dare eruzioni cutanee eritematose, che sono più gravi ad alte dosi, dolore nella zona epigastrica, raramente insufficienza renale, agranulocitosi e anemia emolitica. La modulazione strutturale del fenazone ha portato all’ottenimento di numerosi composti, alcuni entrati in terapia. Tra questi ricordiamo i 4-alchil derivati di cui il più importante è il propifenazone – 1-fenil-4-isopropil-2,3-dimetil-3-pirazolin-5-one – che ha impieghi simili a quelli del fenazone, da cui si differenzia per la sua scarsa solubilità in acqua. Sono stati sviluppati anche derivati aminici, il prototipo dei quali è l’aminofenazone (amidopirina) – 2,3-dimetil-4-dimetilamino-1-fenil3-pirazolin-5-one –; per la sua sintesi e il suo metabolismo si veda la Scheda 27.4. Veniva impiegato come analgesico, antiflogistico e antipiretico; l’azione analgesica viene potenziata dalla cosomministrazione di barbiturici (Cap. 10). In supposte è tuttora usato in associazione con caffeina ed ergotamina nella terapia sintomatica dell’attacco acuto di emicrania. Gli effetti collaterali sono simili a quelli del fenazone. Questo farmaco non deve essere confuso con uno dei suoi metaboliti, il 4-aminofenazone, un tempo usato come suo succedaneo. Un derivato 5-pirazolonico con caratteristiche simili a quelle dell’aminofenazone è il metamizolo (dipirone, metampirone) – [(2,3-diidro-1,5-dimetil-3-osso-2-fenil-1H-pirazol-4-il)metilamino] metansolfonato sodico – che viene usato come antiflogistico, antipiretico, analgesico e spasmolitico. Si somministra preferenzialmente per os e in seconda scelta per via rettale, molto meno frequentemente per via parenterale. L’assorbimento orale è rapido e viene escreto con i suoi metaboliti per via urinaria (Scheda 27.4). Gli effetti collaterali sono simili a quelli dell’aminofenazone e possono sorgere improvvisamente; da segnalare in particolare episodi allergico-anafilattici, agranulocitosi, anemia emolitica e altre discrasie ematiche. Non è adatto a trattamenti prolungati. Il capostipite dei farmaci a struttura 3,5-pirazolidindionica è il fenilbutazone – 4- butil-1,2-difenil-3,5-pirazolidindione –, di cui sintesi e metabolismo sono schematizzati nella Scheda 27.5. Inizialmente questo composto veniva

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ISBN 978-88-08-18712-3

R2

R3 O

N

N

O

R1

N

Struttura generale dei 3-pirazolin-5-oni

N

O

H 3C

N

N

O

O

N

N CH 3

Metamizolo

Aminofenazone

O O

O

N CH 3

N

CH3

N

CH3

N

CH3

O

O

N CH 3

Propifenazone

Fenazone

H3C

N

H3C

CH3

NaO3S

CH3 CH3

H3C

N CH 3

R1

Struttura generale dei pirazolidin-3,5-dioni

CH3

O

N

R

R

CH3

O

R2

N

N

S O

O

N

N

H3C O O

N

H3C N Fenilbutazone

Feprazone

Sulfinpirazone

CH3

N

CH3

N Azapropazone

Figura 27.9 Derivati pirazolinonici e pirazolidindionici.

usato in associazione con l’aminofenazone come solubilizzante del farmaco e solo in un secondo tempo si evidenziarono le sue proprietà terapeutiche. Viene usato come antiflogistico, antipiretico, analgesico e negli attacchi acuti di gotta. Gli effetti antinfiammatori sono simili a quelli dei salicilati, ma la sua azione analgesica è inferiore. Ha anche una certa attività uricosurica. È impiegato in studi sul metabolismo epatico in vista della sua capacità di indurre la sintesi di enzimi microsomiali e di inibire l’ossidrilazione di molti farmaci da parte del sistema microsomiale epatico. Quando viene somministrato per via orale o rettale l’assorbimento è rapido; è invece lento quando somministrato intramuscolo. Ha un tempo di emivita molto lungo (50-100 ore) e la sua misura viene usata in test di funzionalità epatica. Quantità significative di farmaco possono permanere nelle articolazioni fino a 3 settimane dopo la somministrazione. Sono in commercio anche preparazioni a uso topico. Gli effetti collaterali principali del fenilbutazone sono disturbi gastroenterici, rash cutanei, e, meno frequenti ma assai pericolosi, agranulocitosi e trombocitopenia. Questo farmaco deve essere usato solo in pazienti refrattari ad altri FANS. Il feprazone – 4-(3-metil-2-butenil)-1,2-difenil-3,5-pirazolidindione – ha proprietà e applicazioni del tutto simili a quelle del fenilbutazone, ma alcuni effetti collaterali meno marcati. Tra i derivati a struttura 3,5-pirazolidindionica un interessante pro-

dotto è il sulfinpirazone – (±)-1,2-difenil-4-[2-(fenilsolfinil) etil]-3,5-pirazolidindione. È un acido più forte degli altri pirazolidindioni (pKa = 2,8) per la presenza in catena laterale del gruppo fenilsolfinilico. Questo prodotto è stato anche usato nel trattamento di malattie trombotiche, a seguito della sua attività antiaggregante piastrinica, e nel trattamento dell’iperuricemia, a seguito delle sue proprietà uricosuriche (Par. 27.5). Come antiaggregante piastrinico è decisamente inferiore all’aspirina, ma il suo effetto permane per oltre 70 ore; come uricosurico è più potente del probenicid e presenta minori effetti collaterali. Può provocare gastralgie ed eccezionalmente ulcera gastrica. L’azapropazone (apazone) – 9-metil-5-dimetilamino-2-propil-1H-pirazolo[1,2-a][1,2,4] benzotriazina-1,3(2H)-dione – è un derivato a struttura pirazolidindionica condensata con un sistema benzotriazinico usato nella terapia antiflogistica e per il trattamento della gotta acuta.

Acidi enolici (ossicami) Gli ossicami sono derivati benzotiazinici e più precisamente della 4-idrossi-2-metil-2H-1,2-benzotiazina-3-carbossamide 1,1-diossido (Fig. 27.10, R = H). Contengono un ossidrile di tipo enolico, la cui elevata acidità (pKa = 4-6) è dovuta alla notevole stabilità della base coniugata conseguente alla possibilità di delocalizzare

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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Struttura generale degli ossicami OH HN

R

H

O

-

N

O N

S O

O

R

OR

O

CH3

N

S O

O

N

S

CH3

O

O

O

N H

N

CH3

Pirossicam: R = H Cinnossicam: R = CO–CH=CH-C6H5 CH3 OH

S O

O

N O

OH

O N H

N

CH3

Isossicam

S O

N

O

N O

N H

S

S R S

CH3

O

Sudossicam: R = H Melossicam: R = CH3

O

OH

R

N O

N H

N

CH3

Tenossicam: R = H Lornossicam: R = Cl

Figura 27.10 Derivati ossicamici.

la carica negativa sul gruppo carbonilico in β e di dare un legame idrogeno intramolecolare con l’NH del gruppo amidico. Sono inibitori non selettivi della COX, con l’eccezione del melossicam che inibisce preferenzialmente la COX-2. Presentano le classiche azioni antinfiammatorie analgesiche e antipiretiche dei FANS. Come antinfiammatori vengono usati in particolare nel trattamento dell’artrite reumatoide e dell’osteoartrosi. Gli effetti collaterali principali sono manifestazioni cutanee e a carico del tratto gastroenterico e del SNC. Con rare eccezioni, hanno una lunga durata d’azione, derivante dalla loro lunga emivita plasmatica, che ne permette la somministrazione in un’unica dose giornaliera. I principali esponenti della classe sono riportati in Figura 27.10 e il profilo farmacocinetico di alcuni di loro nella Scheda 27.1. Il prototipo di questi farmaci e il primo a essere stato usato in terapia è il pirossicam – 4-idrossi-2-metil-N-(2piridil)-2H-1,2-benzotiazina-3-carbossamide 1,1-diossido –, la cui sintesi è schematizzata nel Box 27.3. Viene impiegato in diverse affezioni reumatiche come antiflogistico, analgesico, antipiretico e negli attacchi acuti di gotta, e presenta anche azioni uricosuriche e antiaggreganti. Viene rapidamente assorbito dopo somministrazione orale o rettale. A livello sinoviale raggiunge una concentrazione 2,5 volte superiore a quella plasmatica. Sono disponibili anche preparati a uso topico. Per il suo metabolismo si veda la Scheda 27.6. Gli effetti secondari più comuni derivanti dalla sua tossicità gastrica sono epigastralgia, nausea, vomito, diarrea e sanguinamento occulto. Sono stati sviluppati anche alcuni profarmaci, il cinnossicam (cinnamato di pirossicam) ne è un tipico esempio. La sostituzione del nucleo piridinico con un gruppo arilico induce una forte diminuzione dell’acidità e dell’attività antinfiammatoria. La sostituzione dell’anello piridinico con eteroarili pentaatomici ha invece portato a un gruppo di analoghi (isossicam, melossicam, sudossicam) entrati in terapia. Essi vengono preparati con

le stesse modalità del pirossicam, utilizzando nel procedimento sintetico gli appropriati eterocicli aminosostituiti al posto della 2-aminopiridina. L’isossicam – 4-idrossi-2-metil-N-(5-metil-3-isossazolil)-2H-1,2-benzotiazin-3-carbossamide 1,1-diossido – è usato soprattutto nelle malattie reumatiche articolari e negli attacchi di gotta. In alcuni Paesi è stato ritirato dal commercio a seguito di gravi reazioni cutanee. Il melossicam – 4-idrossi-2-metil-N-(5-metil2-tiazolil)-2H-1,2-benzotiazina-3-carbossamide 1,1-diossido – ha impieghi analoghi a quelli del pirossicam, ma una maggiore durata d’azione; sembra inoltre possedere ridotte gastrotossicità ed epatotossicità. Come già sottolineato è un inibitore preferenziale dell’isoforma COX-2. Per il metabolismo si veda la Scheda 27.6. Il sudossicam – 4-idrossi2-metil-N-(2-tiazolil)-2H-1,2-benzotiazina-3-carbossamide 1,1-diossido – è uno stretto analogo del melossicam da cui differisce solo per l’assenza del gruppo metilico al nucleo tiazolico. Questo particolare strutturale ne modifica però in modo drastico il metabolismo citocromo P450dipendente, che in questo caso comporta anche la scissione del nucleo tiazolico con risultante formazione di derivati aciltioureidici dotati di notevole epatotossicità (Scheda 27.6). Il tenossicam – 4-idrossi-2-metil-N-(2-piridil)-2Htieno[2,3-e][1,2]tiazina-3-carbossamide 1,1-diossido – è un isostero del pirossicam in quanto contiene un nucleo tiofenico al posto dell’anello benzenico nel nucleo benzotiazinico. Ha un quadro farmacocinetico simile a quello del pirossicam, ma un tempo di emivita quasi doppio. Il lornossicam – 6-cloro-4-idrossi-2-metil-N-(2-piridil)-2Htieno[2,3-e][1,2]tiazina-3-carbossamide 1,1-diossido – è l’analogo clorurato del tenossicam. Disponibile in formulazione orale e parenterale, viene usato nel trattamento del dolore acuto e cronico e come antinfiammatorio nelle osteoartriti. Rispetto agli altri ossicami ha un tempo di emivita decisamente più corto (3-5 ore).

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BOX 27.3 ■ Sintesi del pirossicam Il pirossicam viene sintetizzato per azione del cloroacetato di metile sulla saccarina, seguita da metilazione dell’azoto in 2 del sistema 1,2-benzotiazinico 1,1-diossido con O

O

Cl

O O

CH3ONa

S O

OH

CH3

O

NH O

OH

S O

solfato dimetilico; l’intermedio così ottenuto è poi trattato con 2-aminopiridina. OH O

(CH3)2SO4

NH

O

CH3 N

S

O

O

O

CH3

O

CH3

H2N

S

N

O

N O

N H

N

CH3

Pirossicam

Acidi aril ed eteroaril alcanoici Questo importante gruppo di antinfiammatori è stato sviluppato a partire da metà degli anni ’60 a seguito dell’osservazione che alcuni derivati dell’acido fenilacetico, usati in passato come ipocolesterolemizzanti, presentavano anche azioni antiflogistiche. Tutti i termini di maggior interesse hanno una struttura caratterizzata dalla presenza di un gruppo carbossilico legato tramite un ponte etilidenico (CH3CH) o metilenico (CH2) a un arile o a un eteroarile (Figg. 27.11 e 27.12). I primi vengono considerati derivati propionici 2-so-

stituiti, i secondi derivati acetici. Sono noti esempi in cui l’anello aromatico occupa la posizione 3 dell’acido propionico, (ad es. l’ossaprozina, vedi oltre). La funzione carbossilica è essenziale per l’azione inibitoria sulla COX che in generale non è selettiva; tuttavia è da sottolineare che il diclofenac, un derivato della serie acetica, mostra una netta preferenza per l’isoforma COX-2, mentre l’indobufene, un derivato propionico, per la COX-1. La sostituzione della funzione acida con funzioni isostere (ad es. idrossamica, sulfonamidica, tetrazolica) mantiene l’attività; sono da ricordare in particolare

CH3

CH3 OH

CH3 O

H3C

CH3

CH3 OH O Fenoprofene

Ibuprossam

CH3 F

O

OH

O

H3C

Ibuprofene

H N

O

OH

CH3

CH3 OH

O

OH

S O

O O

Flurbiprofene

Suprofene

Chetoprofene

OH CH3

O OH

H3C

N

O

O

Chetorolac

HO O CH3

O

Ossaprozina

HO

O

HO

O N

O N

CH3

O Acido tiaprofenico

O

N

O

Naprossene

S

O

OH

Indoprofene

Figura 27.11 Derivati degli acidi aril- ed eteroarilpropionici.

Indobufene

H3C

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R

H3C

O

O

N

N

CH3 N

O

O

H3C

O

CH3

N

NH

CH3

N

O

O

Cl

H3C

Cl

Indometacina: R = OH Ossametacina: R = NHOH

Proglumetacina

OH

OH

O

O

Cl

O

O

O

O

O

F

CH3

N

O

N

CH3

N H CH3

O CH3

O O

CH3 N

O CH3

H

O

O

O H3C

OH

S O

Clometacina

H 3C

H 3C

Amtolmetina guacile

Tolmetina

Sulindac OH

O

R

O O O

O OH CH3

NH Cl

N H

Cl

Felbinac

O CH3

H3C Diclofenac: R = OH Aceclofenac: R = OCH2COOH

CH3

Etodolac

Nabumetone

Figura 27.12 Derivati degli acidi aril- ed eteroarilacetici.

i derivati idrossamici, alcuni dei quali sono entrati in terapia. Nella serie acetica la presenza sul ponte metilenico di gruppi ingombranti riduce l’attività. Nella serie propionica la presenza del ponte etilidenico rende la molecola chirale, generando così due antipodi ottici. Nei termini della classe in cui la miscela racemica è stata risolta (ad es. ibuprofene, chetoprofene, fenprofene, naprossene, indobufene e altri ancora) si è visto che l’attività in vitro risiede prevalentemente nella forma destrogira (+). Questa differenza non si riscontra in vivo, a seguito dell’estesa conversione metabolica catalizzata da un’epimerasi dell’antipodo inattivo levogiro (–) a configurazione assoluta (R) in quello attivo destrogiro (+) a configurazione assoluta (S) (ad es. ibuprofene, Fig. 27.13). Per questo motivo nella maggior parte dei derivati propionici viene usata la miscela racemica. Tutti i membri della classe degli acidi alcanoici presentano azioni antinfiammatorie, analgesiche e antipiretiche. Alcuni di loro posseggono anche azione antiaggregante piastrinica e uricosurica. Sono

usati principalmente per il trattamento di dolore e flogosi nelle malattie reumatiche e altre malattie muscoloscheletriche e in varie forme dolorose minori; alcuni prodotti sono pure impiegati nel trattamento degli attacchi acuti di gotta. A seguito della presenza del gruppo carbossilico si legano fortemente alle proteine plasmatiche e di conseguenza danno origine a interazioni con altri farmaci a esse legate. La maggior parte di loro ha un’elevata biodisponibilità, dà il picco plasmatico entro 2 ore e presenta un’emivita plasmatica breve o media. Il profilo farmacocinetico dettagliato dei principali esponenti della classe è riportato nella Scheda 27.1. I principali esponenti dei derivati aril ed eteroaril propionici sono riportati in Figura 27.11; molti di questi farmaci vengono indicati con il suffisso “profene”. L’ibuprofene – acido (±)-(2-(p-isobutilfenil)propionico –, il prototipo degli antinfiammatori arilpropionici, viene preparato attraverso vie sintetiche diverse che vengono impiegate per sintetizzare

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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H

CH3 OH

CH3

H HS CoA

CH3

O

H3C

CH3 S

CoA

O

H3C (R)-(–)-Ibuprofene

Epimerasi H3C

H3C

H OH

CH3

S

CH3

O

H3C

H CoA

O

H 3C

(S)-(+)-Ibuprofene

CH3

CH3 OH

CH3 O

H3C

OH

CH3 O

H3C

Ibuprofene

OH

CH3

CH3 OH

HO

HO H3C

O

H3 C

(+)

O (+)

CH3

CH3 HO H3 C

OH

CH3

OH

OH

O O

O

HO

(+)

O

Figura 27.13 Racemizzazione in vivo e metabolismo dell’ibuprofene.

anche molti suoi analoghi; la sintesi più utilizzata è illustrata nel Box 27.4. Esiste in 2 antipodi ottici e la sua attività è dovuta allo stereoisomero (S)-(+) (dexibuprofene), ma viene commercializzato principalmente come miscela racemica per i motivi precedentemente detti. L’ibuprofene è il farmaco di prima scelta nelle forme flogistiche e dolorose minori ed è usato anche negli attacchi di gotta acuta. Ha un’efficacia paragonabile a quella dell’aspirina, ma inferiore a quella di indometacina, pirossicam e fenilbutazone. Viene anche usato topicamente. Somministrato per os viene assorbito rapidamente dal tratto gastroenterico. I principali metaboliti derivano dall’ossidrilazione della posizione ω, ω-1 e ω-2 della catena isobutilica; l’ω-idrossi derivato viene ulteriormente ossidato ad acido carbossilico, che subisce poi una demolizione ossidativa della catena laterale (Fig. 27.13). Dopo somministrazione

di un singolo enantiometro oppure della miscela racemica, i metaboliti di cui si è determinato il potere rotatorio sono tutti destrogiri (+), sia che la trasformazione comporti o meno la formazione di un nuovo centro chirale, ciò è in accordo con un’estesa conversione dello stereoisomero (R)-(–) in (S)-(+). Tutti i metaboliti con parte del farmaco immodificato vengono escreti per via renale. L’ibuprofene ha numerosi effetti collaterali, in particolare a livello del tratto gastroenterico, ma meno pronunciati rispetto a quelli di altri potenti FANS. La sostituzione del gruppo carbossilico con il gruppo isostero idrossamico dà luogo all’ibuprossam – acido (±)-2-(4-isobutilfenil)propionidrossamico –, usato nel trattamento acuto e cronico dell’artrite reumatoide e della osteoartrosi, come antiflogistico e analgesico topico. Sono stati sintetizzati moltissimi acidi aril ed eteroarilpropionici, i più importanti dei quali sono elencati di seguito e breve-

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BOX 27.4 ■ Sintesi del (±)ibuprofene Una via di sintesi dell’ibuprofene molto usata è quella che parte dal p-isobutilacetofenone, facilmente ottenibile per reazione del cloruro di acetile in presenza di AlCl3 sul corrispondente idrocarburo aromatico (sintesi di Friedel e Crafts); per azione di zolfo e morfolina, seguita da idrolisi acida (reazione di Willgerodt) questo prodot-

O

O

CH3

Cl

NH , S

O

CH3

H+

H3C

OH

CH3

CH3

CH3

AlCl3

H3C

to viene trasformato in acido p-isobutilfenilacetico, poi esterificato con alcol etilico o metilico, trattato con cloroformiato di etile in presenza di etilato sodico, metilato con solfato dimetilico e quindi idrolizzato in ambiente basico al prodotto finale.

O

H3C

CH3CH2OH

CH3 O

O

O

O

CH3

Cl

CH3

O

CH3 O

CH3

O

H3C

CH3CH2ONa

CH3

O

H3C

(CH3)2SO4

CH3 O H3C

O

CH3 H3C

CH3

O CH3

O

mente discussi. Il fenoprofene – acido (±)-2-(3-fenossifenil) propionico –, usato principalmente come sale di calcio in quanto il sale sodico è igroscopico, viene impiegato come antiflogistico e analgesico somministrandolo per os. Gli effetti collaterali sono simili a quelli dell’ibuprofene. Il flurbiprofene – acido (±)-2-(2-fluoro-4-bifenilil)propionico – ha impieghi terapeutici simili all’ibuprofene. Gli effetti collaterali più frequenti sono di tipo gastroenterico e neurologico. Il chetoprofene – acido (±)-2-(3-benzoilfenil)propionico – è commerciato in Europa anche sotto forma di stereoisomero, (S)-(+)-dexchetoprofene. Per la sintesi e il metabolismo si veda la Scheda 27.7. È un antipiretico 4 volte più potente dell’indometacina, ma con simili proprietà antinfiammatorie. Nel trattamento dell’artrite reumatoide sembra essere più efficace dell’ibuprofene. Gli effetti collaterali più frequenti sono di tipo gastrointestinale e sono ridotti quando il farmaco è assunto con il cibo. Il suo analogo tiofenico, il suprofene – acido (±)-2-[4-(2-tenoil)fenil]propionico – è usato come antinfiammatorio in chirurgia oculare. Il naprossene – acido (±)-2-(6-metossi-2-naftil)propionico – viene commerciato come stereoisomero (S), spesso come sale di piperazina (piprossene). La miscela racemica del naprosse-

OH-

OH

CH3

CO2

O

H3C Ibuprofene

ne può essere preparata dal 6-metossi-2-naftil metilchetone secondo la reazione di Willgerodt-Kindler illustrata in Scheda 27.8 e risolta nei due antipodi con (–)-cinconidina. Sono state messe a punto anche diverse vie sintetiche enantioselettive, un esempio è la sintesi di Noyori riportata nella Scheda 27.8. È usato nella terapia antinfiammatoria e nel trattamento dell’attacco acuto di gotta ed è somministrato per via orale, per via rettale e per via intramuscolare; sono disponibili anche preparati a uso topico. È rapidamente assorbito dal tratto gastroenterico e viene eliminato per via renale in larga parte immodificato (60%); per il suo metabolismo si veda la Scheda 27.8. Come tutti i FANS è gastrolesivo, ma meno dei salicilati e dell’indometacina. L’acido tiaprofenico – acido (±)-2-(5-benzoil-2-tienil)propionico – è un derivato eteroarilpropionico usato nel trattamento dell’artrite reumatoide e dell’osteoartrite. Gli effetti collaterali sono prevalentemente a livello gastrico. Il chetorolac – acido (±)-5-benzoil-2,3diidro-1H-pirrolizina-1-carbossilico – si può considerare un derivato 2-eteroarilpropionico se il legame C2-C3 del nucleo diidropirrolizidinico viene formalmente scisso per generare due gruppi metilici. È usato per il trattamento a breve termine del dolore postoperatorio e da colica renale. Il sale di

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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trometamina – tris(idrossimetil)amino metano – è solubile in acqua e quindi idoneo per una formulazione iniettabile (la soluzione deve essere protetta dalla luce). È piuttosto ben tollerato, ma può causare con relativa frequenza i tipici effetti gastro- e neurotossici della classe. L’indoprofene – acido (±)-2-[4-(1-ossoisoindolin-2-il)fenil]propionico – presenta attività antiflogistiche e analgesiche proprie di questa classe; è usato nel trattamento di sindromi dolorose di varia natura e in diverse malattie reumatiche. L’indobufene – (±)-2-[4-(1-ossoisoindolin-2-il)fenilbutirrico] – è l’omologo superiore dell’indoprofene e viene generalmente commerciato come stereoisomero (S)-(+) perché questo antipodo è un inibitore dei prodotti ciclossigenasi-dipendenti 2 volte più potente del racemo e presenta una selettività per la COX1 piastrinica 25 volte maggiore rispetto a quella per la COX2 monocitaria (Fig. 27.3). Di conseguenza possiede una rilevante attività antiaggregante piastrinica ed è usato come antitrombotico. L’ossaprozina – acido 2,4-difenilossazolo2-propionico – è caratterizzata da un’emivita particolarmente lunga (40-60 ore) che ne permette la somministrazione in un’unica dose giornaliera. È impiegata soprattutto nel trattamento dell’artrite reumatoide e dell’osteoartrite. I principali derivati aril ed eteroaril acetici sono riportati in Figura 27.12. Il suffisso “ac” è spesso presente nel nome comune di questi farmaci. Il prototipo degli antinfiammatori eteroaril acetici è l’indometacina – acido 1-(4-clorobenzoil)2-metil-5-metossi-1H-indolo-3- acetico –, la cui sintesi è descritta nel Box 27.5.

Studi di grafica molecolare hanno evidenziato che la conformazione attiva al sito attivo è quella in cui il raggruppamento p-clorofenile è orientato verso il gruppo metossilico e quindi in direzione opposta al metile in 2 (Scheda 27.9). È un farmaco largamente usato come antiflogistico, antipiretico, analgesico e negli attacchi di gotta acuta. La posologia varia a seconda dell’uso. È somministrato per os, per via rettale ed esiste anche un preparato solubile, il sale di meglumina (Nmetilglucamina), per somministrazioni parenterali. Viene in parte escreto per via renale come farmaco immodificato (1020%), in parte metabolizzato per O-demetilazione ossidativa (50%), per N-deacilazione (10-20%) e coniugato con l’acido glucuronico (10%). Gli effetti collaterali più comuni riguardano l’ambito gastrointestinale e sono nausea, vomito, diarrea; meno frequenti sono i disturbi nell’ambito del sistema nervoso centrale, che si manifestano principalmente come depressione, confusione, sonnolenza. A livello ematico sono possibili casi di leucopenia, trombocitopenia, anemia emolitica; sono rari i casi di agranulocitosi. Tra i profarmaci dell’indometacina ricordiamo la proglumetacina, commercializzata sotto forma di dimalea­ to. È ben assorbita a livello gastroenterico e presenta il picco plasmatico dopo 3 ore. Viene metabolizzata a livello epatico con formazione del farmaco madre. Sono stati sintetizzati molti analoghi dell’indometacina portanti sostituenti diversi alla posizione 5 e gruppi acilici diversi, dal p-clorobenzoilico all’azoto indolico, ma nessuno ha prodotto derivati migliori del lead. La trasformazione dell’indometacina da derivato ace-

Box 27.5 ■ Sintesi dell’indometacina L’indometacina viene preparata a partire dalla p-metossifenilidrazina e acido levulinico in accordo alla sintesi di Fischer degli indoli; il derivato fenilidrazonico che si ottiene da questi due reagenti scaldato con acido cloridrico etanolico ciclizza al corrispondente acido indolacetico sostituito che successivamente viene esterificato con

t-butanolo in presenza di dicicloesilcarbodiimide. L’introduzione del gruppo p-clorobenzoilico sull’NH indolico si realizza per trattamento dell’estere con sodio idruro e cloruro di p-clorobenzoile; la pirolisi in acido p-toluensolfonico a 210 °C genera il prodotto finale. O

H3C

O

O

OH

H3C

N H

O

NH2

H3C

O N H

CH3 N

N

O

O

CH3

HCl, CH3 CH2OH

N H

C6H11-N=C=N-C6H11

CH3 CH3 CH3 HO

H3C H3C O Pirolisi pCH3-C6H4SO3H

H3C

O

O

CH3

O

N

Cl Cl

CH3 CH3

O

NaH pCl-C6H4COCl

H3C O

Indometacina

H3C

CH3

O

O

NH3

CH3

OH

H3C

OH OH

CH3 O

O

CH3 N H

633

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

tico in derivato 2-propionico genera un composto chirale di cui, come nella serie propionica precedentemente discussa, il solo stereoisomero (S)-(+) è attivo. Lo scambio di posizione tra il gruppo carbossimetilico e il p-clorobenzoile e il contemporaneo spostamento del metossile alla posizione 6 dell’indolo ha generato un interessante prodotto, la clometacina – acido 3-(4-clorobenzoil)-2-metil-6-metossiindolo-1-acetico –, in cui l’attività predominante è quella analgesica. La sostituzione del gruppo carbossilico con il gruppo isostero idrossamico dà luogo all’ossametacina – acido 1-(4-clorobenzoil)-2-metil5-metossiindolo-3-acetoidrossamico –, che è stata usata nel trattamento sintomatico delle forme flogistiche minori. Un interessante composto ottenuto dalla modulazione strutturale dell’indometacina è il sulindac – acido (Z)-5-fluoro-2-metil-1[4-(metilsolfinil)benzilidene]-1H-indene-3-acetico. Si tratta di un derivato indenacetico che porta in posizione 5 un atomo di fluoro, in 2 un gruppo metilico e in 1 un gruppo benzilidenico. Con questa struttura sono possibili 2 stereoisomeri geometrici: il prodotto attivo ha la configurazione (Z) in cui il raggruppamento 4-metilsolfinilfenilico ha orientazione opposta a quella del metile in 2. Questa configurazione riproduce l’aspetto spaziale della conformazione dell’indometacina che si pensa sia attiva al sito catalitico. Per una sua via di sintesi si veda la Scheda 27.10. Il sulindac si usa principalmente nel trattamento dell’artrite reumatoide e negli attacchi di gotta acuta. Si tratta di un profarmaco perché il prodotto è di per sé inattivo, ma viene trasformato per riduzione metabolica reversibile nel corrispondente solfuro a cui deve l’attività. Altri metaboliti, ma

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inattivi, sono il prodotto ossidrilato sia al gruppo metilico sia al gruppo benzilidenico e il prodotto di ossidazione a solfone, ambedue eliminati principalmente come O-acilglucuronidi, nonché il glucuronide del farmaco stesso (Fig. 27.14). I metaboliti vengono in gran parte eliminati per via renale, in piccola parte per via biliare e fecale e sono sottoposti a un modesto circolo enteroepatico. Sia il farmaco sia il metabolita attivo sono largamente legati alle proteine plasmatiche. Il sulindac è meno irritante dell’indometacina sul tratto gastroenterico, soprattutto se preso durante o dopo i pasti, e ha minori effetti sul SNC. La tolmetina – acido 1-metil5-(4-metilbenzoil)-1H-pirrolo-2-acetico – è un prodotto di semplificazione dell’indometacina. Viene usato nell’artrite reumatoide dell’adulto e nell’osteoartrosi con risultati analoghi a quelli dell’ibuprofene. Il farmaco somministrato per os viene rapidamente assorbito. In generale è meglio tollerato di altri FANS. I principali effetti collaterali sono a livello del tratto gastroenterico, più rari gli effetti sul SNC. L’amtolmetina guacile – estere 2-metossifenilico della N{[1-metil-5-(4-metilbenzoil)-1H-pirrol-2-il]acetil}glicina – è un profarmaco della tolmetina che viene idrolizzato nel tratto gastrointestinale a derivato tolmetinglicinamidico, a sua volta trasformato nei tessuti in tolmetina e glicina. È dotata di ridotta gastrotossicità e viene usata in somministrazione unica nel trattamento di artrite reumatoide, osteoartrite, reumatismo extrarticolare, dolore postoperatorio. Tra i derivati arilacetici quello più comunemente usato è il diclofenac – acido 2-(2,6-dicloroanilino)fenilacetico –; per la sua sintesi

OH O

F

CH3 H

OH

OH O

F

O

F

CH3

CH3

H

H3C

S Metabolita attivo

O S H3 C

O

O-acilglucuronidi

H

H3C

S O

OH O

F Sulindac

OH OH

H3C

S O

Figura 27.14 Metabolismo del sulindac.

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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e il suo metabolismo si veda la Scheda 27.11. Il diclofenac è un inibitore preferenziale della COX-2; si lega all’enzima assumendo una conformazione in cui il gruppo carbossilato interagisce attraverso legami idrogeno con la Tyr385 e la Ser530 e non con l’Arg120 come avviene per la maggior parte dei FANS contenenti questa funzione (Par. 27.3.2). Questa stessa posa è assunta dal lumiracoxib, un COXIB di simile struttura, che è un potente e selettivo inibitore della COX2 (Par. 27.3.4). È usato per os nel trattamento di numerosi stati flogistici e dolorosi, viene somministrato anche per via rettale e sono disponibili numerosi preparati per uso topico. Gli effetti secondari più frequenti sono di tipo gastroenterico; si sono però riscontrati occasionali ma gravi episodi di epatotossicità. L’aceclofenac – carbossimetil estere dell’acido 2-(2,6-dicloroanilino)benzenacetico – è un profarmaco del diclofenac usato nel dolore e nella flogosi di artrite reumatoide, artrosi e spondilite anchilosante. Sono disponibili anche preparati per applicazioni topiche. Il felbinac – acido 4-bifenilacetico – è usato topicamente nel trattamento di affezioni infiammatorie localizzate sotto forma di gel al 3%, in quanto diffonde bene attraverso la cute. L’etodolac – acido (±)-1,8-dietil1,3,4,9-tetraidropirano[3,4-b]indolo-1-acetico – è commercializzato sotto forma racemica e usato come antinfiamma-

torio, principalmente nel trattamento di artrite reumatoide e osteoartrite, e come analgesico periferico, mentre ha una scarsa azione antipiretica. Presenta una ridotta gastrotossicità. Il nabumetone – 4-(6-metossi-2-naftil)butan-2-one – è un antinfiammatorio ad azione antipiretica e analgesica, usato soprattutto nel trattamento di patologie osteo- e periarticolari. Non ha una sua attività diretta in quanto è un profarmaco che viene rapidamente metabolizzato a livello epatico per ossidazione della catena laterale, deetilazione ossidativa e riduzione del gruppo chetonico. Il metabolita principale a cui si deve l’attività è l’acido 6-metossinaftalene-2-acetico (6MNA), che deriva dall’ossidazione della catena butanonica a raggruppamento carbossimetilico; altri metaboliti, ma inattivi, sono prodotti di ossidrilazione eliminati come glucuronidi (Fig. 27.15). Il farmaco presenta una limitata tossicità gastrica poiché, non avendo caratteristiche acide, perde la componente di tossicità diretta.

Altri FANS Questo gruppo è costituito da una serie di prodotti molto eterogenea sotto il profilo strutturale: qui ne riportiamo solo alcuni (Fig. 27.16). La nimesulide – (2-fenossi-4-nitro)metansolfonanilide – è un inibitore preferenziale dell’isoforma COX-2 ed è OH

O OH O

O

O

6-MNA

CH3

CH3

CH3

O

Nabumetone

CH3

CH3 O-glucuronidi

O

OH CH3

CH3

HO

HO

Figura 27.15 Metabolismo del nabumetone.

Struttura generale di analoghi della nimesulide O HN

S

O

O

CH3

HN

O A

X

S

H3C N

R

NO2

Figura 27.16 Altri FANS.

O

O

O N

Nimesulide

O

CH3

N

N

OH

N

W R = alchile X = O, S W = gruppo elettronattrattore A = anello aromatico, eteroaromatico, cicloalifatico

Benzidamina

Bendazac

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impiegato come antinfiammatorio analgesico e antipiretico soprattutto nel trattamento di patologie osteo- e periarticolari. Per la sua sintesi si veda la Scheda 27.12. Viene principalmente metabolizzato attraverso tre vie: apertura del legame etereo, riduzione del gruppo NO2, ossidrilazione dell’anello fenossidico seguita da reazioni di coniugazione, dando origine a un complesso quadro metabolico (Scheda 27.12). La nimesulide presenta una buona tollerabilità a livello gastrico, ma dà con una certa frequenza reazioni cutanee allergiche e può indurre episodi di epatotossicità. Sono stati preparati numerosi derivati di questo importante farmaco, da cui è stato possibile derivare le relazioni struttura-attività schematizzate nella formula generale di Figura 27.16. La benzidamina – 1-benzil-3-[3-(dimetilamino)pro­possi]1H-indazolo – è un derivato indazolico che viene usato sia per via topica sia sistemica per il trattamento di stati flogistici e dolorosi di media intensità. È un farmaco con caratteristiche basiche che solo a elevata concentrazione è inibitore della COX; il suo preciso meccanismo d’azione non è noto. Possiede scarsi effetti collaterali, caratteristica questa che ne ha facilitato la dif-

fusione. Il bendazac – acido [(1-benzil-1H-indazol-3-il)ossi] acetico – come il precedente è un derivato indazolico, ma con caratteristiche acide. Viene usato topicamente nel trattamento di affezioni dermatologiche quali eczemi, crosta lattea, dermatite seborroica, ragadi e ulcere cutanee. Agisce stabilizzando le proteine tissutali durante il processo infiammatorio.

27.3.4 COXIB La più recente classe di antinfiammatori non steroidei entrati in terapia è quella dei COXIB (Fig. 27.17). Si tratta di prodotti la cui caratteristica saliente è quella di essere inibitori altamente selettivi dell’isoforma COX-2 (Fig. 27.3) e quindi largamente privi di gastrotossicità, aspetto che maggiormente limita l’uso dei FANS tradizionali. Il primo composto che ha mostrato una spiccata selettività nei confronti della COX-2 è il DUP 697. Un approfondito studio di farmacomodulazione ha permesso di definire le relazioni struttura-attività che operano in questo modello (Fig. 27.17) e ha quindi aperto la via alla sintesi di numerosi suoi analoghi. Determinante per la selettività è la presenza di un

Struttura generale dei COXIB R2

R1

R = di preferenza alogeno, CF3, CH3 R1 = SO2CH3, SO2NH2 R2 = di preferenza alogeno, CF3, CH3, OCH3 Di preferenza eterociclo pentaatomico, benzene, piridina

R O

O O

S

CH3

F

O

S

NH2

O

O

CH3

O

S

CH3

O

S

CH3

CH3 N

N N

N Br

S

O

O F

DUP 697

F

F

Cl

Rofecoxib Etoricoxib

Celecoxib O O

S

NHR

Struttura generale di analoghi del lumiracoxib

Cl

R1

COOH

NH F H3C

O

O

N

Valdecoxib: R = H Parecoxib: R = COCH2CH3

Figura 27.17 COXIB.

NH

OH

R4

R2

CH3 Lumiracoxib

R3

R1 = CH3 R2, R 4 = di preferenza Cl,F; Cl,Cl; CH3,CH3; CH3,Cl R3 = H, CH3

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fenile p-sostituito con un gruppo metilsolfonile (CH3SO2) o aminosolfonile (NH2SO2) legato al sistema ciclico centrale. La determinazione della struttura tridimensionale del sito attivo della COX-1 e della COX-2 e una serie di studi di modellistica molecolare hanno chiarito le basi della inibizione selettiva dell’isoforma COX-2 da parte di questi farmaci. La struttura tridimensionale del sito è largamente simile nelle due isoforme, ma il relativo volume è circa il 25% più grande nella COX-2 che nella COX-1. Vi sono anche alcune differenze nei residui aminoacidici che delimitano la cavità (Fig. 27.18). Di particolare rilevanza ai fini della selettività è la presenza nell’isoforma COX-2 di una valina (Val523) al posto della più ingombrante isoleucina (Ile523) presente nella COX-1. Questi due residui sono posizionati all’imbocco di una tasca di dimensioni maggiori nella COX-2 rispetto alla COX-1, al fondo della quale nell’isoforma COX-1 è presente un residuo di istidina (His513) e nell’isoforma COX-2 un residuo altamente idrofilo di arginina (Arg513). Il raggruppamento fenilico portante in para il gruppo metilsolfonil o aminosolfonil presente nei COXIB può facilmente accedere alla tasca della COX-2 e legarsi a essa, principalmente tramite forti interazioni idrogeno che si instaurano tra il residuo di Arg513 e questi sostituenti. Ciò non è possibile nell’isoforma COX-1: infatti la tasca non è in grado di accomodare bene questo raggruppamento a causa delle sue dimensioni ridotte e a causa dell’ingombro sterico della Ile523, che la rende difficilmente accessibile. In Figura 27.19A è schematizzata la struttura del complesso tra il sito catalitico della COX-2 e il celecoxib ottenuta via raggi X. Un diverso impianto strutturale è presente nel lumiracoxib, un COXIB di recente acquisizione. Questo farmaco non ha la classica struttura diarileterociclica propria dei COXIB, ma quella difenilaminica del diclofenac, con cui condivide la modalità di interazione con l’enzima COX-2 (Fig. 27.19B). Uno studio di farmacomodulazione ha permesso di definire le relazioni struttura-attività che operano in questo modello

A)

(Fig. 27.17). La presenza del gruppo metilico sull’anello fenilacetico è importante ai fini della selettività e in minor misura anche la presenza del cloro in 2 nella sottostruttura anilinica. I COXIB vengono usati nel trattamento di varie forme di artriti e spondiloartriti, nel dolore acuto nell’adulto e nella dismenorrea primaria. Ancora in larga parte da esplorare le possibili applicazioni nella cura di patologie in cui la COX-2 viene sovraespressa, come in alcune malattie tumorali e centrali. La diretta conseguenza della scarsa capacità dei COXIB di inibire l’isoforma COX-1 è la loro ridotta gastrolesività. Studi clinici condotti su pazienti sofferenti di osteoartrosi e di artrite reumatoide trattati con celecoxib, uno dei COXIB più usati, hanno evidenziato una riduzione circa del 40% di rischio di ulcere del tratto gastrointestinale superiore, rispetto al trattamento con i FANS tradizionali. Ulteriore diretta conseguenza di questa selettività è la loro elevata tossicità cardiovascolare. A livello delle cellule endoteliali dei vasi è presente in prevalenza l’isoforma COX-2 a carattere costitutivo, che induce la formazione di prostaciclina PGI2. Questo prostanoide è un potente vasodilatatore e antiaggregante piastrinico che contribuisce all’omeostasi vascolare. L’inibizione della sua formazione, senza una concomitante bilanciata riduzione di produzione del trombossano TXA2, che al contrario provoca potenti azioni vasocostrittrici e aggreganti piastriniche, rompe l’equilibrio omeostatico dei vasi, inducendo predisposizione sia verso l’ipertensione sia verso la trombosi. Il rischio cardiovascolare si manifesta pertanto con un’alta incidenza di episodi tromboemolitici e infarto del miocardio. Per questo motivo il rofecoxib, il primo COXIB entrato in terapia, e altri esponenti della classe sono stati ritirati dal mercato, mentre quelli tuttora registrati in vari Paesi sono sotto vigilanza. Recenti studi hanno evidenziato che qualche rischio cardiovascolare è presente anche per i FANS tradizionali, inibitori non selettivi della COX-2. In generale, il danno renale indotto dai COXIB è simile a quello indotto dai FANS.

B)

Figura 27.18 Struttura schematizzata delle cavità COX-1 (A) e COX-2 (B). Per i residui della COX-2 si è adottata la stessa numerazione della COX-1, in modo che i residui equivalenti abbiano lo stesso numero in entrambe le isoforme. Per cortese concessione del Dott. Paolo Tosco (DSTF, Università degli Studi di Torino).

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A)

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B)

Figura 27.19 Complesso di celecoxib (A) e lumiracoxib (B) con il sito attivo della COX-2. Per cortese concessione del Dott. Paolo Tosco (DSTF, Università degli Studi di Torino).

Le proprietà farmacocinetiche di alcuni importanti COXIB sono riportate nella Scheda 27.1. Il legame con le proteine plasmatiche è sempre elevato, il picco plasmatico compare dopo circa 2 ore, il tempo di emivita è lungo (≥ 8 ore) e la biodisponibilità è buona, con l’eccezione del celecoxib.

Principali esponenti della classe Il celecoxib – 4-[3-(trifluorometil)-5-(4-metilfenil)pirazol1-il]benzensolfonamide – ha caratteristiche debolmente acide (pKa = 9,68) conseguenti alla presenza del gruppo solfonamidico. Per una via di sintesi si veda la Scheda 27.13. È usato per il trattamento di varie forme di artriti, del dolore acuto nell’adulto e della dismenorrea primaria. Il farmaco è utilizzato anche per ridurre i polipi del colon e del retto in pazienti in cui la poliposi adenomatosa è familiare. Tra tutti i COXIB è quello che presenta il minor grado di selettività sulla COX-2; il farmaco non deve essere comunque usato in pazienti con patologie cardiache. È metabolizzato a livello epatico dal citocromo P450, isoforma CYP2C9, mentre è invece un inibitore dell’isoforma CYP2D6 e quindi può dare accumulo di farmaci metabolizzati da quest’ultimo isoenzima. Per il suo metabolismo si veda la Scheda 27.13. Il rofecoxib – 4-[4-(metilsolfonil)fenil]-3-fenil-2(5H)furanone – è stato il primo COXIB a entrare in terapia con il nome registrato di Vioox, poi ritirato dal commercio a seguito della sua rilevante tossicità cardiovascolare. Il valdecoxib – 4-(5-metil-3-fenil-4-isossazolil) benzensolfonamide – ha, come il celecoxib, caratteristiche debolmente acide (pKa = 10,1) per la presenza del gruppo solfona-

midico. Una sintesi di questo farmaco e il suo metabolismo sono riportati nella Scheda 27.14. È indicato nel trattamento dell’osteoartrite, dell’artrite reumatoide, della dismenorrea e del dolore postoperatorio. Il valdecoxib è stato ritirato dal commercio in Canada, Stati Uniti ed Europa a causa di notevoli rischi di infarto e ictus. Il parecoxib – N-{[4-(5-metil-3-fenilisossazol-4-il)fenil] solfonil}propionamide – viene usato come sale di sodio, che è un prodotto solubile in acqua e quindi utilizzabile per somministrazione parenterale. Si prepara acilando con anidride propionica il valdecoxib, in cui è rapidamente convertito da microsomi epatici umani (Scheda 27.14); è stabile invece alle esterasi plasmatiche e del sangue intero. È un potente analgesico a rapida azione, indicato per il trattamento a breve termine del dolore acuto postoperatorio. L’etoricoxib – 5-cloro-2-(6-metilpiridin-3-il)-3-(4-metilsolfonilfenil) piridina – è usato in adulti e giovani sopra i 16 anni per il trattamento dell’artrosi, di varie malattie croniche dell’apparato muscolo-scheletrico, della dismenorrea e dell’artrite reumatoide. È metabolizzato a livello epatico dal citocromo P450 (isoforma CYP3A4) e i principali metaboliti derivano da schemi ossidativi. Il lumiracoxib – acido 2-[2-(2-cloro6-fluoroanilino)-5-metilfenil]acetico – ha caratteristiche acide paragonabili a quelle dei FANS (pKa = 4,7). Viene sintetizzato attraverso diverse vie, una delle quali è riportata nella Scheda 27.15. Di tutti i COXIB, il lumiracoxib è quello che presenta il maggior grado di selettività nei confronti della COX-2. Il farmaco viene usato nel trattamento dell’osteoartrosi, dell’artrite reumatoide e del dolore grave. Per il suo metabolismo si veda la Scheda 27.15.

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27.4 Farmaci antireumatici

dante. La loro azione è lenta: i primi effetti compaiono dopo 2-3 mesi e per questo motivo sono conosciuti anche con il nome di famiglia di SAARD (slow-acting antirheumatic drugs, farmaci antireumatici ad azione lenta). Oggi nel nostro paese è invalso l’uso di denominarli farmaci di fondo. Associazioni binarie o ternarie tra alcuni di questi farmaci, contenenti in genere il metotressato, presentano un effetto sinergico e sono comunemente usate in terapia. Le strutture dei principali esponenti della classe sono riportate in Figura 27.20.

Le malattie reumatiche sono un gruppo di malattie a carico del tessuto connettivo dell’apparato locomotore. Esse rappresentano un capitolo della patologia estremamente complesso e una loro classificazione incontra difficoltà notevoli. Il termine reumatico deriva dalla parola greca reo che significa scorrere e fa riferimento al tipo di dolore vagante caratteristico di certe forme. Alcune malattie reumatiche hanno una vasta rilevanza a causa della loro larga diffusione e del loro potenziale disabilitante: tra queste sono da annoverare l’artrite reumatoide e l’artrosi.

Farmaci contenenti oro La terapia a base di farmaci contenenti oro prende il nome di crisoterapia. Questi farmaci sono stati inizialmente progettati come antitubercolari sulla base dell’osservazione di Koch che l’oro inibiva lo sviluppo del Mycobacterium tuberculosis. Alcuni sali dell’oro sono usati da molto tempo per il trattamento dell’artrite reumatoide, ma oggi la loro efficacia terapeutica è messa in discussione. Tutti contengono un atomo di oro monovalente, molto più efficace del trivalente, legato a un vettore tramite un ponte di zolfo. Il loro meccanismo d’azione non è noto; gli effetti terapeutici sono probabilmente il risultato della capacità di stabilizzare il collagene, di esercitare azioni inibitorie sugli enzimi lisosomiali, sulla proliferazione endoteliale, sulla chemotassi dei leucociti e di avere numerosi altri effetti a livello del sistema immunitario. Vengono generalmente impiegati sotto forma di preparazioni colloidali acquose o oleose somministrate per via intramuscolare; solo l’auranofina viene somministrata per os. I preparati iniettabili presentano svariati effetti collaterali: i più frequenti sono a livello della cute (eritemi, dermatite esfoliativa) e delle mucose (mucositi varie tra cui stomatiti, glossiti, faringiti, tracheiti). Con minor frequenza si possono avere danni renali (proteinuria, sindrome nefrosica) e discrasie ematiche (trombocitopenia, ipereosinofilia, neutropenia). La somministrazione orale di auranofina è meglio tollerata, ma induce un’elevata incidenza di effetti gastroenterici (diarrea, nausea, gastrite,

27.4.1 F  armaci usati nel trattamento dell’artrite reumatoide L’artrite reumatoide è una malattia del tessuto connettivo, probabilmente di origine autoimmune, che interessa circa l’1-3% della popolazione mondiale, in particolare quella di sesso femminile. Colpisce le articolazioni piccole e grandi ed è caratterizzata inizialmente solo dai tipici segni cardinali dell’infiammazione, senza danni e deformazione articolari che compaiono invece con il progredire della malattia, causando grave invalidità fisica. Sono comuni anche danni a livello dei vasi, della pelle e in qualche caso dell’apparato renale; frequenti anche le complicazioni neurologiche. L’artrite reumatoide viene trattata con tre classi di farmaci: i FANS (farmaci di prima linea), i farmaci denominati DMARD (disease modifying antirheumatic drugs, farmaci antireumatici che modificano la malattia) (farmaci di seconda linea) e gli immunosoppressori (farmaci di terza linea). I FANS vengono usati per trattare i sintomi dell’infiammazione e di loro già si è detto; di seguito verranno brevemente trattate le altre due classi.

Farmaci che modificano l’evoluzione della malattia (DMARD) Sono prodotti caratterizzati dalla capacità di modificare la progressione clinica della malattia e la sua evoluzione invali-

S

Au

H3C

HO

O

OS OAc

O

O

+ O- Na

O

OH

O- Na+

OH

O Aurotiomalato

S OH

OAc

Au

Au P(Et)3 Na3Au(S2O3)2.H2O

OAc

Auranofina

Aurotioglucosio

Aurotiosolfato sodico

R CH3 SH H3C H3C

HN

O

N

CH3

OH NH2

D-Penicillamina

O N

N H

O S N

Cl

N

COOH OH

Clorochina: R = H Idrossiclorochina: R = OH

Figura 27.20 Farmaci usati nel trattamento dell’artrite reumatoide.

Sulfasalazina

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crampi addominali e dolori epigastrici). Nel caso di grave intossicazione da farmaci contenenti oro gli antidoti usati sono il dimercaprolo e la penicillamina. L’aurotiomalato sodico (miscela di sale mono- e disodico dell’acido aurotiomalico) viene somministrato come iniezione intramuscolare profonda sotto forma di sospensione acquosa contenente circa il 46% di oro. La dose media è di 10-50 mg/settimana. La massima concentrazione plasmatica si raggiunge dopo 2-6 ore, il legame con le proteine del sangue è di circa il 95%, e viene escreto per via renale e biliare. Il tempo di dimezzamento dipende dalla dose: per una dose di 50 mg è di 7 giorni. L’aurotioglucosio – (1-tio-α-d-glucopiranosato)oro – si somministra sotto forma di sospensione oleosa contenente circa il 50% di oro. Il suo profilo farmacocinetico è del tutto simile a quello dell’aurotiomalato, con l’eccezione dell’assorbimento, che è più lento. L’aurotiosolfato di sodio – Na3Au(S2O3)2∙H2O – si somministra come sospensione oleo­sa alla dose media di 0,05-0,1 mg/settimana. L’auranofina è l’addotto tra trietilfosfina e (2,3,4,6-tetra-O-acetil-1-tio-β-d-glucopiranosato) oro; l’assenza di gruppi ossidrilici liberi sull’anello glucopiranosico e la presenza della trietilfosfina impartiscono al prodotto caratteristiche lipofile che lo rendono adatto alla somministrazione orale. Il contenuto in oro è di circa il 29%. Viene somministrato per os alla dose di 6 mg/die e viene assorbito per circa il 25%. Il picco plasmatico si raggiunge dopo 8-12 ore, l’emivita plasmatica è compresa tra 11-30 giorni. Si lega fortemente alle proteine plasmatiche, in particolare all’albumina. Viene escreto principalmente per via urinaria.

Antimalarici Alcuni antimalarici della serie 4-aminochinolinica hanno dimostrato di possedere, oltre a una potente azione tossica nei confronti del Plasmodium vivax e del Plasmodium falciparum, anche una certa attività nel ritardare la progressione dell’artrite reumatoide. Tra questi composti sono entrati in terapia la clorochina e l’idrossiclorochina. Il primo viene usato a una posologia massima di 2,5 mg/kg/die (base libera) e la seconda di 5 mg/kg/die (base libera). La loro efficacia è paragonabile a quella dell’auranofina, ma inferiore a quella dei sali d’oro somministrati per via intraperitoneale. Tendono ad accumularsi nei tessuti ricchi di melanina, tra cui l’occhio, dove possono indurre danni alla retina, disfunzioni ciliari, depositi corneali. Nel trattamento prolungato sono possibili danni irreversibili alla retina. Altri effetti tossici sono di tipo ematico, cutaneo, gastrointestinale e neurologico. L’esatto meccanismo d’azione non è conosciuto. Per la descrizione dettagliata di questi farmaci si rimanda al Capitolo 39. Altri Alcuni composti solfidrilici sono stati studiati quali potenziali agenti per il trattamento dell’artrite reumatoide. Tra questi merita di essere menzionata la d-penicillamina – 3,3-dimetil-d-cisteina – che è il principale prodotto di degradazione della penicillina, da cui viene preparata. È un potente chelante di molti metalli pesanti ed è usata come antidoto nelle intossicazioni da Pb, Au, Hg e As e nel morbo di Wilson, una rara tossicosi ereditaria da rame. Il meccanismo d’azione come antiartritico non è noto: è probabile che sia coinvolta la sua potente azione antiossidante. Veniva usata

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nelle malattie reumatiche, ma oggi è caduta in disuso anche a causa dei notevoli effetti collaterali. La sulfasalazina (salazosulfapirina) – acido 2-idrossi5-[4-(2-piridilsolfamoil)fenilazo]benzoico – viene preparata diazotando la sulfapiridina e copulando l’intermedio con acido salicilico. È usata nel trattamento dell’artrite reumatoide alla dose media di 0,5-2,0 g/die. L’assorbimento gastrointestinale è scarso (12% circa), il picco plasmatico si ha dopo 3-7 ore, l’emivita è di circa 10 ore. La parte di farmaco che non viene assorbita raggiunge il colon, dove viene metabolizzata in sulfapiridina e acido 5-aminosalicilico (Cap. 36). La sulfapiridina viene assorbita in modo pressoché completo, a differenza dell’acido 5-aminosalicilico che viene riassorbito solo per il 20% e la parte restante eliminata principalmente con le feci. Gli effetti tossici principali sono nausea, febbre, vomito, dolori addominali, eruzioni cutanee, cefalee, sindromi depressive. Il suo meccanismo d’azione non è noto, ma è probabile che svolga un ruolo importante la sua capacità di inibire la produzione di prostanoidi e di leucotrieni e di interferire a vari livelli con la funzione immunitaria.

Agenti immunosoppressori Nell’eziologia dell’artrite reumatoide la risposta immunitaria svolge un ruolo importante. Di conseguenza, in questi ultimi anni è stata dedicata molta attenzione alla possibilità di usare farmaci che interferiscano con questa risposta attraverso diversi meccanismi biochimici. Gli immunosoppressori sono la classe di composti su cui si è focalizzata l’attenzione, perché hanno dimostrato una certa capacità di influire sull’evoluzione dell’artrite reumatoide e alcuni di loro sono attualmente usati in terapia. Si tratta di farmaci che possono essere raggruppati in 4 classi: antimetaboliti, agenti alchilanti, inibitori della trasduzione del segnale, farmaci biotecnologici (Fig. 27.21). Di seguito si farà cenno solo ai farmaci più noti; per la trattazione dei farmaci biotecnologici si veda il Capitolo 43. Antimetaboliti La leflunomide – 5-metil-N-[4-(trifluorometil)fenil]-4isos­ sazolocarbossiamide –, utilizzata per il trattamento dell’artrite reumatoide, è un profarmaco che nella parete intestinale, nel plasma e nel fegato viene rapidamente metabolizzato al principio attivo teriflunomide – A77 1726, N-4-(trifluorometilfenil)-2-ciano-3-idrossicrotonamide. Si tratta di un potente inibitore della diidroorotato deidrogenasi (DHODH), l’enzima che nella sintesi delle pirimidine catalizza la conversione dell’acido diidroorotico ad acido orotico. Nel trattamento dell’artrite reumatoide viene usato alla dose media di 10-100 mg/die e deve essere impiegato con cautela in pazienti con insufficienza renale. A elevate concentrazioni è anche un inibitore della trasduzione del segnale. Il metotressato è un inibitore della diidrofolatoreduttasi (DHFR), l’enzima che catalizza l’ultimo passaggio della cascata che porta alla formazione dell’acido tetraidrofolico (Cap. 42). È indicato nel trattamento dell’artrite reumatoide da moderata a grave e si somministra per via orale o parenterale alle dosi di 7,5-25 mg alla settimana; spesso viene impiegato in associazione con i farmaci biotecnologici. La somministrazione di acido folinico alla dose di 2,5-5 mg/settimana o, se necessario, alla dose di 1,5 mg/die, aiuta a prevenire la

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F3C

O

F3C

CH3

N H

O N H

O N

N

N

O

N

H N

HO O

OH

N

CH3 HO H3C

Metotressato

P O

Cl

N

N

N O O

H3C

Cl

H3C

CH3

H3C H3C

Ciclofosfamide

N O

N H

O

CH3

O

CH3

H3C

O

O

H3C

NH2

N

NH2

NH

CH3

NC

Teriflunomide A77 1726

Leflunomide CH3

OH

H N

N

CH3 O CH3 H3C CH3 O

H N CH3

N O

CH3 H3C

O N

CH3

CH3 H3C H N

CH3

O N

CH3 CH3

O

Ciclosporina A

Figura 27.21 Agenti immunosoppressori.

mucosite e la mielodepressione conseguenti alla somministrazione del farmaco.

Agenti alchilanti La ciclofosfamide (Cap. 42) è un agente alchilante impiegato nel trattamento dell’artrite reumatoide solo qualora non si abbiano risposte con altri farmaci di fondo, a causa dei pesanti effetti collaterali. Il meccanismo d’azione nel trattamento di questa patologia non è noto. Inibitori della trasduzione del segnale La ciclosporina A, un prodotto a struttura undecapeptidica ciclica isolato da Tolypocladium inflatum, largamente usato per inibire il rigetto nei trapianti d’organo, è stato registrato per il trattamento dell’artrite reumatoide resistente al metotressato. Viene somministrato per os alla dose iniziale di 3 mg/kg/die da aumentare fino a 5 mg/kg/die.

27.4.2 F  armaci usati nel trattamento dell’artrosi L’artrosi (osteoartrosi) è una malattia reumatica dovuta alla degradazione del tessuto cartilagineo formato da un’abbondante matrice ricca di collagene e di fibre elastiche in cui sono immersi i condrociti, cellule che ne governano la sintesi. In seguito a insulti di varia natura, i condrociti rilasciano specie ossigenate reattive (ROS), citochine, ossido d’azoto (NO), vari enzimi proteolitici, in particolare metalloproteasi, e altre sostanze ad azione condrolesiva. Il risultato è un’alterata sintesi della matrice collagenica e un inasprimento dell’insulto cellulare, con conseguente deterioramento della cartilagine. L’artrosi è la malattia reumatica più diffusa: ne soffrono in modo più o meno grave circa l’80% delle persone di età superiore a 55 anni senza distinzione tra i sessi. La localizzazione

più frequente è a livello della articolazioni portanti (colonna vertebrale, anche, ginocchia), ma colpisce anche mani, piedi, spalle, caviglie e altre articolazioni. Si manifesta con dolore, perdita della funzionalità, rigidità articolare. Per il trattamento degli episodi dolorosi acuti che si manifestano durante la malattia vengono usati i FANS e i cortisonici. Studi condotti in vitro su colture cartilaginee hanno evidenziato che alcuni FANS possono stimolare la biosintesi dei proteoglicani (ad es. acido niflumico), altri possono inibirla (ad es. fenilbutazone), altri ancora non hanno nessun effetto (ad es. etodolac) su di essa. Per cercare di controllare l’evoluzione dell’artrosi vengono usati farmaci detti condroprotettori.

Condroprotettori Sono prodotti che avrebbero la capacità di influire positivamente sulla conservazione dell’integrità dei condrociti, sulla riattivazione della sintesi del tessuto cartilagineo e sull’inibizione della sua degradazione e avere quindi effetti di “fondo” sulla malattia. Si tratta principalmente di glicosaminoglicani, che sono costituenti importanti della cartilagine. Il razionale del loro uso è basato sul fatto che nell’artrosi ve ne è una carenza. I principali esponenti della classe sono riportati in Figura 27.22. La glucosamina – 2-amino-2-desossi-β-d-glucopiranosio – (pKa = 6,91) è uno dei costituenti dei glicosoaminoglicani e come tale è coinvolta nella loro sintesi. Viene usata generalmente come sale solfato. Ha effetti sulla sintomatologia della malattia e sembrerebbe capace di inibire a lungo termine l’evoluzione delle lesioni cartilaginee nell’animale e nell’uomo, ma al momento non vi è nessuna prova certa di una sua reale efficacia. Il suo meccanismo d’azione non è chiaro; vi potrebbe essere coinvolta l’inibizione di enzimi lisosomiali e l’inibizione

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OH

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OH

COOH

O OH

O

O

O

HO

HO

O

O

OH

OH

O OH HO

OH

O

HN

O

OH

OH OH

NH2

OH

COOH

HN n-1

Glucosamina

O CH3

CH3 Acido ialuronico

R1 = SO2OH, R2 = H R1 = H, R2 = SO2OH

OR1 COOH O O

R2O O

O

OH OH

HN

O

CH3

CH3 O

O

O

O

O

OH

O

H3C Condroitin solfato (unità ripetitiva)

O

O

Diacereina

Figura 27.22 Farmaci usati nel trattamento dell’artrosi.

della produzione di anione superossido da parte di leucociti e macrofagi. Viene somministrata per os alla dose di 1-1,5 g/die e per via intramuscolare alla dose di 400 mg/die, a cicli di 2-6 settimane, 2-3 volte la settimana, con ripetizione dei cicli 2-3 volte l’anno. L’acido ialuronico è un polimero lineare ad alto peso molecolare formato alternativamente da un’unità di acido glucuronico e un’unità di N-acetilglucosamina, legate tra loro alternativamente con un legame β-1,3 glicosidico e un legame β-1,4 glicosidico. È presente nel liquido sinoviale delle articolazioni, nell’umor vitreo e nel cordone ombelicale ed è pressoché ubiquitario nel tessuto connettivo. In vitro esplica svariate attività tra cui: stimolazione della sintesi proteica, della sintesi dei glicosaminoglicani, induzione dell’aggregazione dei proteoglicani. Esplica azione analgesica e antiflogistica, in parte da collegare alla capacità di inibire il rilascio di PGE2 nelle cellule sinoviali, di inibire la chemotassi dei leucociti e dei macrofagi e di bloccare le specie reattive dell’ossigeno. Nell’azione analgesica giocherebbe un ruolo importante la sua capacità di stabilizzare la viscoelasticità del liquido sinoviale articolare. La terapia prevede un’infiltrazione settimanale di 20 mg del sale sodico da ripetersi 2 volte all’anno per 3-5 settimane. È usato anche in oculistica e dermatologia. Il condroitin solfato sodico (condroitina) è un glicosoaminoglicano la cui unità ripetitiva è un disaccaride formato da acido glucuronico e N-acetilgalattosamina, legate tra loro alternativamente con un legame β-1,3 glicosidico e un legame β-1,4 glicosidico e in cui è presente un gruppo solfato. Il condroitin 4-solfato e il condroitin 6-solfato sono i termini più abbondanti nell’uomo. Viene generalmente usato alla dose di 800 mg/die. La diacereina – acido 1,8-diacetossiantrachinon-3-carbossilico –, possiede proprietà chelanti

del rame e del calcio. È un profarmaco della reina – acido 1,8-diidrossiantrachinon-3-carbossilico – in cui si trasforma rapidamente dopo somministrazione orale. Non ha azione sulla COX e la sua attività è da collegarsi alla capacità di inibire enzimi proteolitici, di stimolare la sintesi dei proteoglicani, di possedere azioni antiossidanti, di inibire la formazione di alcuni mediatori proinfiammatori (NO, interleuchina IL-1). Viene somministrata per os alla dose di 50-100 mg/die per 2-3 mesi e questo ciclo deve essere ripetuto 2-3 volte all’anno.

27.5 Farmaci antigottosi La gotta è una complessa patologia legata all’abnorme deposizione di acido urico in vari compartimenti; la forma più diffusa ha localizzazione articolare e viene detta artrite gottosa. L’acido urico è un prodotto che deriva del catabolismo delle basi puriniche. La parte terminale di questo schema metabolico comporta la trasformazione dell’ipoxantina in xantina e della xantina in acido urico, entrambe catalizzate dall’enzima xantina ossidasi (Fig. 27.23). L’acido urico è un biacido con pKa = 5,4 e 10,3, scarsamente solubile in acqua; a pH fisiologico esiste quindi come monoanione (urato) più solubile dell’acido coniugato. Viene escreto per via renale per circa l’8-12% e quando la sua concentrazione nel sangue è troppo alta (> 80 mg/L, iperuricemia) tende a depositarsi, prevalentemente come urato, sotto forma di ammassi cristallini a livello renale (calcoli renali), nel liquido sinoviale (micro tofi) e nei tessuti extra articolari (tofi). La gotta si manifesta in forma acuta o in forma cronica. La forma acuta viene trattata con alcuni FANS che riducono l’infiammazione e leniscono il dolore, i due principali sinto-

CAPITOLO 27 • Antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi

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Xantina ossidasi

N

HN N

O

O

O HN

N H

O

Ipoxantina

Xantina ossidasi

N N H

N H

H N

HN

Xantina

O N H

O

O

Urato ossidasi

H2N

N H

O N H

O

Acido urico

H N N H

Allantoina

Figura 27.23 Biosintesi dell’acido urico e sua trasformazione in allantoina catalizzata da urato ossidasi.

mi della malattia. Tra i FANS più usati sono da annoverare pirossicam, indometacina, ibuprofene, naprossene e diclofenac; il pirossicam ha anche una certa azione uricosurica. Il sulfinpirazone, che ha una potente azione uricosurica, veniva usato nel trattamento della forma cronica della malattia. Tra i farmaci in uso per lenire l’infiammazione nell’attacco acuto, di rilevante importanza è la colchicina, che possiede azione antinfiammatoria ma non analgesica. La forma cronica della gotta viene trattata con gli ipouricemizzanti, farmaci che abbassano il livello di acido urico nel sangue. I principali farmaci antigottosi sono riportati in Figura 27.24.

mina dalle mastcellule, di stabilizzare i lisosomi e di bloccare la mitosi cellulare in metafase. Non avendo una diretta azione sui livelli sierici di acido urico, viene spesso combinata con uricosurici. Negli attacchi acuti di gotta viene usata alla dose di 1,8 mg/die per os. È ben assorbita dal tratto gastroenterico, dà il picco plasmatico dopo circa 2 ore e si lega alle proteine plasmatiche per il 50%. È parzialmente deacetilata nel fegato e viene escreta per via urinaria e fecale. Può causare nausea, diarrea e rush cutanei.

27.5.2 Ipouricemizzanti Gli ipouricemizzanti possono essere suddivisi in: uricosurici, che inibiscono il riassorbimento tubulare dell’acido urico favorendone così l’eliminazione, inibitori della sintesi dell’acido urico, che inibiscono la formazione di acido urico, e uricolitici, che inducono la trasformazione di acido urico in allantoina.

27.5.1 Colchicina La colchicina – (S)-N-(5,5,7,9-tetraidro-1,2,3,10-tetrametossi-9-ossobenzo[a]eptalen-7-il)acetamide – è un alcaloide formato da un nucleo tropolonico condensato con un anello benzocicloeptanoico. Si ottiene dai semi e dai bulbi di Colchicum autumnale e da altre specie di colchico o anche da piante del genere Gloriosa. Ha diverse applicazioni terapeutiche, ma è usata principalmente nel trattamento dell’attacco acuto di gotta e come strumento diagnostico nel sospetto di gotta acuta. Non modifica i livelli di acido urico nel sangue, ma lenisce l’infiammazione conseguente alla deposizione di acido urico nelle giunture; questo a seguito della sua capacità di inibire la migrazione dei leucociti e la liberazione di ista-

Uricosurici Già si è detto che il sulfinpirazone (Par. 27.3.3) è un FANS dotato di attività uricosurica che è stato usato nel trattamento della gotta cronica. Altri importanti uricosurici sono i derivati sulfonamidici, i derivati indandionici e i derivati benzofuranici (Fig. 27.24). Tra i derivati sulfonamidici il più noto è il probenecid – acido 4-[(dipropilamino)solfonil]benzoico – che è usato nel trattamento dell’iperuricemia primaria e secondaria poiché inibisce il riassorbimento tubulare degli urati, con conseguente aumento della loro escrezione urinaria. Veniva anche R

O O

H3C

CH3

H3C

N

H3C O

Colchicina

O

N N H

Allopurinolo

HO

N

N H

H3C

HN

N

N

O

Isobromindione

Probenecid

OH

N N

O

O CH 3

OH

R

Br

H3C

O

OH

O

COOH

S

O H3C

O

O

O

NH

Alloxantina

Figura 27.24 Farmaci usati nel trattamento della gotta.

N H

CN N CH3

S

COOH

Acido orotico

Benzbromarone: R = Br Benziodarone: R = I

O

HO O

CH3

CH3

O Febuxostat

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usato per ritardare l’escrezione tubulare di penicilline, cefalosporine e di alcuni sulfamidici. Gli effetti collaterali sono poco frequenti e consistono principalmente in lievi rush cutanei e febbre. I derivati indandionici sono stati sviluppati come uricosurici sulla base dell’osservazione che alcuni anticoagulanti della serie cumarinica presentavano anche azioni uricosuriche. Studi rivolti a dissociare l’effetto anticoagulante da quello uricosurico hanno portato a evidenziare l’importanza a questo proposito dell’alogenazione del nucleo indanico. Il prototipo di questo gruppo è l’isobromindione – 5-bromo-2-fenil-1,3indandione – che è stato usato solo o in associazione con la colchicina nel trattamento della gotta cronica e della iperuricemia primaria e secondaria. Agisce inibendo selettivamente il riassorbimento di acido urico a livello del tubulo prossimale. Dà raramente effetti collaterali (nausea, diarrea, rash cutanei). I derivati benzofuranici sono stati sviluppati come coronarodilatatori e la loro attività uricosurica è stata scoperta casualmente. Il primo a entrare in terapia è stato il benzbromarone – 2-etil-3-(3,5-dibromo-4-idrossibenzoil)benzofurano –, usato per il trattamento della gotta cronica e dell’iperuricemia primaria e secondaria, spesso in associazione con colchicina. Viene somministrato per os di regola alla dose unica di 100 mg/die. Ha una biodisponibilità del 50-55%. Presenta il picco plasmatico dopo circa 3 ore (che si riducono a 2 nelle formulazioni micronizzate), l’emivita è di circa 3 ore, si lega fortemente alle proteine plasmatiche. Viene metabolizzato a livello epatico principalmente nel corrispondente monobromo derivato (bromobenzarone) e nell’analogo debromurato (benzarone), ambedue eliminati per via renale e fecale. È un farmaco in generale ben tollerato, soprattutto in presenza di insufficienza renale, che può provocare a volte disturbi gastrointestinali, insonnia, cefalea. Il benziodarone – 2-etil-3-(3,5-diiodo-4-idrossibenzoil)benzofurano – ha proprietà e usi largamente simili a quelle del suo analogo bromurato. La principale differenza consiste in un minor assorbimento gastrointestinale (33%) e nel fatto che non subisce dealogenazione metabolica, ma viene direttamente escreto con circolo enteroepatico. È impiegato spesso in associazione con la colchicina. Ha effetti secondari simili a quelli del benzbromarone e raramente può avere effetti sulla tiroide (ipo- e ipertiroidismo).

Inibitori della sintesi dell’acido urico Come precedentemente discusso, l’acido urico è il prodotto finale del catabolismo delle basi puriniche. La ricerca di inibitori di questo schema metabolico quali potenziali uricosurici si è focalizzata su prodotti capaci di inibire la xantina ossidasi, l’enzima che catalizza gli ultimi due stadi della trasformazione. Il prodotto più importante entrato in terapia è l’allopurinolo – 4-idrossipirazolo[3,4-d]pirimidina. Le sue principali indicazioni terapeutiche sono il trattamento della gotta cronica, la prevenzione delle crisi di gotta acuta e iperuricemie correlate a situazioni non gottose quali malattie mieloproliferative e trattamenti antitumorali. Viene generalmente usato alla dose media di 100-300 mg/die. L’allopurinolo potenzia l’attività dei farmaci substrati della xantina ossidasi e aumenta l’emivita dei farmaci metabolizzati dal sistema microsomiale epatico. Somministrato per os viene facilmente assorbito dal tratto gastroenterico, il picco plasmatico si ha dopo 30-60 minuti, l’emivita è di 1-3 ore, non si lega alle proteine

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plasmatiche. L’allopurinolo viene ampiamente trasformato (75-90%) in ossipurinolo (alloxantina) e il rimanente escreto per via urinaria. In generale è un farmaco ben tollerato, tuttavia con bassa frequenza può dar luogo a rush cutanei, disturbi gastrointestinali, discrasie ematiche, cefalea, febbre. L’ossipurinolo (alloxantina) – 3,4-diidrossipirazolo[3,4-d] pirimidina – ha proprietà simili a quelle dell’allopurinolo, di cui è il principale metabolita e della cui attività è in larga parte responsabile perché viene riassorbito a livello del tubulo prossimale e quindi permane a lungo nel torrente circolatorio. Somministrato per os risulta essere 2 volte meno efficace dell’allopurinolo in quanto viene scarsamente assorbito dal tratto gastroenterico. Viene usato alla dose di 300 mg/die. L’acido orotico – acido 6-uracilcarbossilico – è un intermedio nella biosintesi delle basi pirimidiniche ed è un costituente del latte. È stato proposto per il trattamento ipouricemizzante alla dose media di 2-4 g/die, possiede anche azione ipolipidemizzante. Recentemente è stato approvato un nuovo inibitore delle xantina-ossidasi il febuxostat – acido 2-(3-ciano4-isobutossifenil)-4-metiltiazolo-5-carbossilico –, che forma un complesso sia con la forma ridotta sia con quella ossidata dell’enzima. Il picco plasmatico compare dopo 1-1,5 ore, si lega significativamente alle proteine plasmatiche e viene metabolizzato principalmente da 3 isoforme del citocromo P450 (CYP1A2, 2C8, 2C9), generando derivati ossidrilati alla catena isobutilica. Ha un’emivita di circa 5-8 ore e nell’urina e nelle feci sono presenti l’O-acilglucuronide del farmaco inalterato, i metaboliti ossidati e i loro glucuronidi. Il farmaco è stato approvato per pazienti con attacchi di gotta e si usa alla dose iniziale di 40 mg/die.

Uricolitici La trasformazione dell’acido urico in allantoina è catalizzata da una urato ossidasi detta uricasi, enzima che è presente in molte specie animali, ma non nell’uomo. Il primo prodotto della reazione è il 5-idrossiisourato che spontaneamente si trasforma in allantoina (Fig. 27.23). L’enzima può essere isolato da colture di Aspergillus flavus come polvere cristallina di colore bruno grigiastro poco solubile in acqua e solubile in soluzioni debolmente alcaline, in cui però è poco stabile. È un omotetramero di peso molecolare di 135 kDa; ciascuna subunità, di peso molecolare di circa 34 kDa, è formata da 301 aminoacidi e ha un pH isoelettrico di 6,3. Esplica azione ipouricemizzante quando somministrato all’uomo; l’allantoina che si forma viene facilmente eliminata per via renale, essendo molto più solubile dell’acido urico. L’enzima uricasi è usato per il trattamento dell’uricemia primaria e secondaria. La dose media è di 1000 UI/die (4 mg/die), quella massima di 3000-4000 UI/die somministrate per via endovenosa o intramuscolare; spesso viene associato a colchicina. Non viene filtrato a livello renale e ha una vita plasmatica di 3-4 giorni. Quando somministrato per via intramuscolare può provocare dolore e arrossamenti e può indurre un attacco acuto di gotta, febbre e manifestazioni cutanee. Il rasburicase è una urato ossidasi estratta da un ceppo modificato di Saccharomyces cerevisiae. È indicata nel trattamento di iperuricemie conseguenti a malattie tumorali in pazienti pediatrici alla dose di 0,15-0,2 mg/die. Ha un tempo di emivita di circa 18 ore. Può indurre vomito, febbre, nausea, diarrea, metaemoglobinemia, insufficienza renale, anafilassi.

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Ormoni steroidei Silvia Schenone

28.1 Meccanismo d’azione degli ormoni steroidei 28.2 Estrogeni 28.2.1 28.2.2 28.2.3 28.2.4 28.2.5

B  iosintesi e caratteristiche chimiche degli estrogeni Estrogeni naturali e loro derivati Estrogeni semisintetici Usi degli estrogeni Antiestrogeni

28.3 Progestinici 28.3.1 28.3.2 28.3.3 28.3.4 28.3.5

Ormonoidi progestinici P  rogestinici derivati del testosterone e del nortestosterone P  rogestinici sintetici a scheletro non naturale Antagonisti del progesterone Farmaci contraccettivi

28.4 Androgeni 28.4.1 Androgeni sintetici anabolizzanti 28.4.2 U  si ed effetti collaterali degli steroidi androgeni anabolizzanti 28.4.3 Antiandrogeni

28.5 Ormoni della corteccia surrenale o corticosteroidi: glucocorticoidi e mineralcorticoidi 28.5.1 A  ttività del cortisolo e dell’aldosterone 28.5.2 R  SA nei corticosteroidi: differenze e similitudini tra glucocorticoidi e mineralcorticoidi 28.5.3 M  ineralcorticoidi naturali e sintetici 28.5.4 G  lucocorticoidi naturali e loro derivati 28.5.5 Glucocorticoidi di sintesi 28.5.6 U  si terapeutici ed effetti secondari dei glucocorticoidi e dei mineralcorticoidi

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

I composti steroidei costituiscono un importante gruppo di derivati di interesse farmaceutico, caratterizzati da una struttura chimica comune. A tale gruppo di sostanze appartengono steroli, quali il colesterolo, ormoni sessuali maschili e femminili, ormoni della corteccia surrenale, acidi biliari, provitamine D, agliconi cardioattivi, alcuni alcaloidi e antibiotici. I composti steroidei sono di frequente usati in terapia e, pur possedendo similarità di struttura chimica, possiedono attività biologiche molto diverse. Oltre agli steroidi naturali sono stati preparati moltissimi derivati sintetici o semisintetici, diventati farmaci con diverse applicazioni terapeutiche. Questi derivati vengono definiti ormonoidi, hanno spesso attività superiore rispetto agli analoghi naturali e, a differenza delle sostanze naturali, sono generalmente somministrabili per via orale. Dal punto di vista strutturale, gli steroidi derivano dall’idrocarburo tetraciclico ciclopentanoperidrofenantrene o gonano, costituito dalla fusione di tre anelli cicloesanici (spesso indicati come A, B, C) e uno ciclopentanico (D). Quando l’atomo di carbonio in posizione 17 è sostituito (come in tutti i prodotti di origine naturale), nella struttura del ciclopentanoperidrofenantrene sono presenti 7 centri stereogenici. Questo comporterebbe la possibilità di avere 27 (= 128) stereoisomeri. In realtà, in natura sono presenti soltanto 4 delle 128 configurazioni possibili, riconducibili a colestano, coprostano e a due gruppi di agliconi cardiocinetici. Queste strutture non sono planari e, a seconda del tipo di giunzioni tra gli anelli, le molecole assumono disposizioni tridimensionali tipiche di ogni famiglia di steroidi. Considerando per semplicità la struttura tetraciclica planare, i sostituenti che si trovano sopra al piano hanno configurazione β e si indicano con cuneo pieno, mentre quelli sotto al piano hanno configurazione α e si indicano con un cuneo tratteggiato. Viene preso come riferimento la disposizione del sostituente in posizione 10, a cui si è attribuita per convenzione la configurazione β. Inoltre, i sostituenti nelle posizioni 5-10, 8-9 e 13-14 vengono indicati con cis, se si trovano dalla stessa parte del piano ideale della molecola, e con trans se si trovano da parti opposte. Per sostituenti nelle posizioni 9-10 e 8-14 queste disposizioni vengono invece chiamate sin (stesso lato) e anti (lato opposto). Viene riportata come esempio la struttura tridimensionale del colesterolo, da cui derivano gli ormoni steroidei (Fig. 28.1). Comunque in molti steroidi naturali o di semisintesi è presente un doppio legame tra le posizioni 4,5 o 5,6: perciò tra i due anelli cicloesanici A e B non vi può essere una relazione di tipo cis o trans. Dal 5α-gonano, che secondo la regola appena descritta ha la configurazione trans,anti-trans,anti-trans (Fig. 28.1), derivano il 5α-estrano, capostipite degli ormoni sessuali femminili estrogeni, il 5α-androstano, capostipite degli ormoni sessuali maschili androgeni, il 5α-pregnano, capostipite degli ormoni sessuali femminili progestinici e degli ormoni corticali, e infine il 5α-colestano, precursore degli steroli (Fig. 28.2). L’estrano è l’idrocarburo a 18 atomi di carbonio, derivante dal gonano e contenente un gruppo metilico in posizione 13, numerato come 18.

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L’androstano è l’idrocarburo a 19 atomi di carbonio, derivante dal gonano e contenente 2 gruppi metilici in posizione 13 e 10, numerati come 18 e 19. Il pregnano è l’idrocarburo a 21 atomi di carbonio, derivante dal gonano e contenente, oltre ai due gruppi metilici angolari in posizione 13 e 10, un gruppo etilico in posizione 17β (i cui atomi di carbonio sono numerati 20 e 21). Il colestano è l’idrocarburo a 27 atomi di carbonio, derivante dal gonano, e contenente una catena alchilica ramificata a 8 atomi di carbonio in posizione 17. Gli ormoni steroidei sono sintetizzati nei mammiferi a partire dal colesterolo, formato a sua volta a partire dall’acetil-coenzima A. Gli steroidi sono, salvo poche eccezioni, solidi bianchi con differenti forme cristalline.

28.1 M  eccanismo d’azione degli ormoni steroidei Gli ormoni steroidei, pur presentando una struttura chimica comune, hanno una specificità d’azione dovuta alla presenza nei diversi tessuti di recettori selettivi per un determinato ormone: ad esempio gli estrogeni agiscono in modo selettivo a livello uterino provocando proliferazione cellulare, mentre non hanno effetto sul tessuto prostatico. I recettori degli steroidi sono saturabili e quindi il numero di molecole capaci di entrare nella cellula bersaglio è limitato. La saturabilità recettoriale varia nelle diverse situazioni fisiologiche e determina l’ampiezza della risposta biologica. Comunque i meccanismi d’azione sono simili per tutti gli ormoni steroidei. Ciò che varia è la specificità per proteine recettoriali diverse che attivano specifici processi biologici, come descritto nel Capitolo 6 (Scheda 28.1).

28.2 Estrogeni Gli ormoni sessuali femminili comprendono gli estrogeni e i progestativi (o progestinici), gli ormoni sessuali maschili, chiamati androgeni, hanno come capostipite il testosterone. Nell’organismo dell’uomo e della donna sono sintetizzati sia gli estrogeni sia gli androgeni a partire da precursori comuni come riportato nella Scheda 28.2 (vedi anche Cap. 6). Gli estrogeni sono biosintetizzati nella donna sessualmente matura a partire dal colesterolo nei follicoli ovarici e nella placenta, che diventa la principale fonte di estrogeni durante la gravidanza. Nell’uomo piccole quantità di questi ormoni vengono prodotte nei testicoli, mentre in entrambi i sessi vengono sintetizzati dalle ghiandole surrenali. Nella donna in menopausa le fonti prevalenti di estrogeni sono i tessuti extraghiandolari, in particolare quello adiposo. Gli estrogeni svolgono le loro funzioni mediante interazione con due diversi sottotipi recettoriali, indicati come ERα ed ERβ (estrogen receptor). Gli ERα sono presenti in alta concentrazione in utero, vagina, ovaie, tessuto mammario, ipotalamo e nella muscolatura vascolare, mentre gli ERβ sono maggiormente localizzati nelle ovaie e nella prostata, e in minor misura in altri tessuti quali cervello, polmoni e tessuto vascolare. Alcuni estrogeni hanno la stessa affinità per

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12 11 1 2

10

A 3 4

C

9

B 5

D

8 14

H

R

17

13

H

16

H

a

15

t

H

t

H t

a

H

H

H

a

H

c

t

t a

H

7

H

6

Ciclopentanoperidrofenantrene o gonano

= centri stereogenici

H

5-Gonano

Gruppo del colestano

5-Gonano

Gruppo del coprostano

R

R

R

5,9,14 8,10,13,17 Tutto assiale

R

9,14 5,8,10,13,17 5-Equatoriale

Gruppi degli agliconi cardiocinetici R

R R

R

9 5,8,10,13,14,17 5,14-Diequatoriale

5,9 8,10,13,14,17 14-Equatoriale

Srtuttura tridimensionale del colesterolo

Figura 28.1 Struttura dello scheletro steroideo. t, trans; a, anti; c, cis.

entrambi i sottotipi recettoriali, mentre altri mostrano una certa selettività.

28.2.1 B  iosintesi e caratteristiche chimiche degli estrogeni La formazione degli estrogeni avviene, accanto a quella dei progestinici, nell’ovaio ed è regolata dagli ormoni follicolo-

stimolante (FSH, follicle-stimulating hormone) e luteinizzante (LH, luteinizing hormone), secreti dall’adenoipofisi che, a sua volta, è sotto il controllo dell’ipotalamo, il quale secerne la gonadoliberina GnRH (ormone di rilascio delle gonadotropine, acronimo di gonadotropin releasing hormone). Brevemente, l’FSH si lega al suo specifico recettore a livello delle cellule ovariche; tale legame stimola un aumento dei livelli di cAMP (adenosina monofosfato ciclico) tramite attivazione

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648

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21 18

18

CH3

CH3

CH3

CH3

H3C

20

CH3

19

CH3

CH3

CH3

CH3 H3C

H

H

5-Estrano

H

5-Androstano

H

5-Pregnano

5-Colestano

Figura 28.2 Strutture base dei precursori degli ormoni steroidei.

di una specifica proteina G. Questo evento attiva l’enzima colesterolo-esterasi che libera colesterolo dai fosfolipidi di membrana. Sotto lo stimolo dell’FSH nelle cellule tecali del follicolo, il colesterolo viene convertito in androgeni, che a loro volta sono convertiti in estrogeni nelle cellule granulose del follicolo. Dopo l’ovulazione le cellule ovariche si trasformano in luteiniche. L’LH agisce sul corpo luteo per stimolare la biosintesi e la secrezione sia degli estrogeni sia dei progestativi (Scheda 28.3).

28.2.2 Estrogeni naturali e loro derivati Il primo estrogeno naturale isolato da urine di donna gravida è stato l’estrone (o follicolina), che costituisce il 60-80% degli estrogeni circolanti. Successivamente sono stati isolati gli altri estrogeni naturali, l’estradiolo (o diidrofollicolina), che è l’estrogeno più potente, e l’estriolo, con azione estrogena debole (Fig. 28.3). Gli estrogeni naturali sono quindi tutti caratterizzati dalla presenza dell’anello A aromatico sostituito in posizione 3 con un ossidrile fenolico. L’estradiolo è il più attivo degli estrogeni naturali ed è il precursore metabolico di estrone ed estriolo. È attivo per via parenterale, ma possiede una breve durata d’azione. Per via orale ha scarsa biodisponibilità, in quanto viene metabolizzato e inattivato dagli enzimi plasmatici ed epatici. Si somministra come spray nasale, cerotti transdermici, gel, compresse, fiale per somministrazione i.m. e dispositivi vaginali. La sintesi dell’estradiolo è riportata nel Box 28.1. L’estrone è sintetizzato a partire dall’estradiolo, di cui ha circa 1/3 dell’attività. Viene estratto dalle urine di giumenta gravida, dove è contenuto in quantità di circa 10 g per 1000 L di urina. Non viene utilizzato come farmaco, ma costituisce il prodotto di partenza per la preparazione di ormonoidi di sintesi.

L’estriolo viene commercializzato come creme od ovuli vaginali. Tutti gli estrogeni vengono escreti sotto forma di glucuronidi o solfati sull’ossidrile fenolico e/o alcolico, solubili in acqua.

Esteri dell’estradiolo Il problema della scarsa biodisponibilità degli estrogeni naturali è stato ridotto o eliminato mediante modificazioni chimiche mirate. Ad esempio, per esterificazione dell’ossidrile fenolico in 3 o di quello alcolico in 17 con acidi carbossilici a carattere lipofilo, si ottengono principi somministrabili per via orale o i.m. sotto forma di soluzioni oleose. Questi esteri costituiscono dei profarmaci che presentano un’azione a lunga durata (effetto ritardo). In Italia sono in commercio l’estradiolo 3-benzoato e l’estradiolo 17β-valerato. CH3 OR'

RO Estradiolo 3-benzoato: R = COC6H5, R' = H Estradiolo 17-valerato: R = H, R' = CO(CH2)3CH3

Estrogeni coniugati Come preparati ad attività estrogena vengono utilizzate miscele di equilenina ed equilina, due estrogeni presenti nelle urine di cavalle gravide. Questi composti vengono secreti nell’urina come sale sodico del coniugato con acido solforico e sono quindi idrosolubili. Sono commercializzati in preparazioni che contengono miscele di sodio estrone solfato,

CH3 O

CH3 OH

CH3 OH OH

A

A

HO

A

HO Estrone

Figura 28.3 Strutture degli estrogeni naturali.

HO Estradiolo

Estriolo

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BOX 28.1 ■ Sintesi dell’estradiolo Un metodo per la sintesi di estrone ed estradiolo utilizza come prodotto di partenza il colesterolo, il quale viene dapprima acetilato sull’ossidrile in 3, bromurato sul doppio legame e ossidato con anidride cromica a ottenere il dibromo-androstenolone acetato. Questo intermedio viene poi debromurato con zinco e deacetilato a 5-deidroepiandrosterone, ridotto cataliticamente a epiandrosterone. Il carbonile in 17 viene quindi protetto come chetale ciclico mediante reazione con 1,2-etandiolo. L’intermedio così ot-

tenuto viene ossidato a chetone e successivamente bromurato nelle due posizioni in α al carbonile. Mediante reazione con collidina a caldo si ha una doppia deidrobromurazione, con conseguente formazione di un sistema coniugato α,β-insaturo. La successiva reazione con litio comporta un’addizione 1,4 (il litio si addiziona in C1 e sull’ossidrile in 3), a cui segue l’aromatizzazione dell’anello mediante riscaldamento. Infine, mediante idrolisi, si ottiene l’estrone, che può essere successivamente ridotto a estradiolo.

H3 C

H3C

H3C

CH3

CH3

CH3

CH3

CH3

CH3

CH3

(CH3CO)2O

H3C

CH3

H3C

HO

H3C

O Colesterolo

O

O

CH3

O

CH3 O CrO3 CH3COOH

O

Br CH3

CH3 Idrolisi

O

Br

O

Dibromo-androstenolone acetato

HO CH3

5-Deidroepiandrosterone

5-Deidroepiandrosterone acetato

CH3 O

CH3 O CH2OH

CH3

H2/Pd

H3 C

CH3 O

O CrO3

CH3

CH2OH

HO

Br

CH3 O

CH3

Zn -ZnBr2

O

Br CH3

CH3 O

CH3

CH3

Br2

SO3H

HO

CH3

O

Epiandrosterone

CH3 O

Br2

CH3 O

O

CH3

Br

CH3 O

O

CH3 Collidina

1. Li, bifenile, difenilmetano



O

2. 

O

LiO

-CH3Li

Br

CH3 O Idrolisi

CH3 O

CH3 OH

CH3 O

H2/Ni

HO

HO

HO Estrone Equilenina

RO Estradiolo

Equilina: R = H Equilina sodio solfato: R = SO3- Na+

O

O

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BOX 28.2 ■ Sintesi del 17-etinilestradiolo Il 17α-etinilestradiolo viene sintetizzato a partire dall’estrone solubilizzato in una miscela di etere anidro e ammoniaca liquida (a circa –40  °C). Per aggiunta di sodio metallico si forma la sodio amide, che a sua volta reagisce con l’acetilene aggiunto all’ambiente di reazione portando alla formazione dell’acetiluro di sodio. Quest’ultimo dà reazione di addizione al carbonile in 17 dell’estrone, portando alla formazione del sale sodico 2 NaNH2 + H2

2 Na + 2 NH3 NaNH2 + HC

del 17α-etinilestradiolo. Si scalda quindi a temperatura ambiente, l’NH3 torna allo stato di gas e si allontana. Il residuo, il sale sodico del 17α-etinilestradiolo, si riprende con sola acqua o con acqua leggermente acidulata; l’alcolato si decompone dando il composto desiderato. Questo meccanismo di sintesi è comune per la preparazione di tutti i derivati steroidei 17-idrossietinilici.

HC

CH

C- Na+ + NH3 O-Na+

CH3 O

OH CH

+ HC

C-

CH H3O+

Na+

HO Estrone

sodio equilina solfato e altri metaboliti minori, sempre sotto forma di sali sodici coniugati con solfato. CH3 O

HO

CH3 O

RO Equilenina

Equilina: R = H Equilina sodio solfato: R = SO3- Na+

28.2.3 Estrogeni semisintetici Per ridurre l’ossidazione metabolica dell’estradiolo sull’ossidrile in C17, è stato inserito in tale posizione (in configurazione α) un gruppo alchinico che funziona da “scudo” protettore, ottenendo il 17α-etinilestradiolo (Fig. 28.4 e Box 28.2) che risulta da 15 a 20 volte più attivo dell’estradiolo per via orale. Di interesse terapeutico, anche se oggi scarsamente utilizzati, sono gli eteri dell’etinilestradiolo, in particolare il

3-metiletere, mestranolo, e il 3-ciclopentiletere, quinestrolo. Questi eteri vengono attivati nell’organismo in seguito alla liberazione dell’ossidrile fenolico in posizione 3 e sono quindi dei profarmaci (Fig. 28.4). Altri estrogeni di sintesi utilizzati in terapia sono il promestriene e il gestrinone. Il promestriene (Fig. 28.4) è un dietere dell’estradiolo ed è commercializzato in capsule o creme vaginali utilizzate per il trattamento degli stati atrofici e dei ritardi di cicatrizzazione post-partum e in chirurgia plastica. Il gestrinone (Fig. 28.4) non è un estrogeno classico, in quanto l’anello A non è aromatico, ma presenta un sistema di doppi legami coniugati (il gruppo carbonilico in C3 e i doppi legami in 4, 9 e 11); inoltre in posizione 13 il sostituente angolare è un etile, non un metile. È commercializzato in capsule per il trattamento dell’endometriosi.

28.2.4 Usi degli estrogeni Nella donna gli estrogeni vengono usati nella contraccezione, in associazione con gli ormoni progestinici (Par. 28.3.5), nella terapia ormonale sostitutiva (hormone replacement

CH3 OH C

H3C

CH3 OCH3 CH

C

H3C

RO Etinilestradiolo: R = H Mestranolo: R = CH3 Quinestrolo: R = ciclopentile

Figura 28.4 Estrogeni semisintetici.

OH

O

O Promestriene

Gestrinone

CH

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therapy, HRT), anche in questo caso spesso in associazione con progestinici, e durante la menopausa. Vengono inoltre somministrati nel trattamento dell’ipogonadismo, dell’ipoplasia (incompleto sviluppo) genitale, della pubertà ritardata, dell’amenorrea primaria o della dismenorrea, e nel trattamento dell’insufficienza ovarica dovuta a rimozione chirurgica delle ovaie. Nell’uomo gli estrogeni vengono usati nel carcinoma prostatico, dove si possono usare anche antiandrogeni o analoghi del GnRH.

28.2.5 Antiestrogeni Vengono spesso utilizzati nel trattamento di tumori mammari estrogeno-dipendenti, ma hanno anche altre applicazioni terapeutiche. Gli antiestrogeni, chiamati anche antagonisti ER, vengono suddivisi in tre classi: derivati estrogenici “impediti”, antiestrogeni trifeniletilenici e inibitori dell’aromatasi.

Derivati estrogenici impediti Sono composti agonisti dei recettori tissutali degli estrogeni, ma si dissociano troppo rapidamente dal recettore stesso

per potere dare effetti rilevabili; se però la loro concentrazione locale è sufficientemente elevata, essi possono competere con l’estradiolo. Il principale estrogeno di questo tipo è l’estriolo.

Antiestrogeni trifeniletilenici Sono strutturalmente correlati agli estrogeni sintetici non steroidei. Essi sono in grado di legare in modo forte e duraturo il recettore per gli estrogeni, che quindi non è più in grado di legarsi correttamente al sito del DNA. In realtà alcuni di questi composti possono avere un’azione antagonista o agonista per i recettori degli estrogeni in base al tessuto su cui agiscono. Ad esempio il tamoxifene è antagonista a livello del tessuto mammario, ma si comporta da agonista a livello dell’endometrio, del fegato, delle ossa e del sistema cardiovascolare. A causa di questa complessità di comportamento è stata recentemente introdotta per questi composti la denominazione di modulatori selettivi dei recettori estrogenici (SERM, selective estrogen receptor modulators). Il tamoxifene – trans-2-[4-(1,2-difenil-1-butenil)fenossi]N,N-dimetiletilamina – (Fig. 28.5 e Box 28.3) trova il suo impiego principale nel trattamento del carcinoma alla mammella estrogeno-dipendente. Il principale effetto collaterale

Cl

CH3

Cl

R

O

CH3 N

O

CH3

CH3 N

Tamoxifene: R = H 4-Idrossitamoxifene: R = OH

O

CH3

N

Toremifene

Clomifene

OH OH

H3C

S

N

N HO HO

O

O

O

Raloxifene

Bazedoxifene

CH3

OH

O S

HO Fulvestrant

Figura 28.5 Antiestrogeni.

CH3

F

F CF3

N

CH3

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BOX 28.3 ■ Sintesi del tamoxifene Il 2-idrossi-1,2-difeniletanone viene (1) ridotto con zinco e acido cloridrico a 1,2-difeniletanone (2), a sua volta etilato sul metilene con ioduro di etile. L’1,2-difenil-butan2-one (3) viene fatto reagire con l’opportuno reattivo di Grignard; l’intermedio ottenuto (4), trattato con acqua, porta all’1-(4-metossi-fenil)-1,2-difenil-butan-1-olo (5),

successivamente disidratato al corrispondente alchene (6). Il metossile sull’anello benzenico viene poi idrolizzato con HBr. L’ossidrile così ottenuto (7) viene funzionalizzato per reazione con (2-cloro-etil)-dimetilamina. Si ottiene così la miscela cis-trans del tamoxifene. L’isomero trans è ottenuto mediante cristallizzazione frazionata.

HO Zn, HCl

O

O

1

O

2

3

CH3 H3CO

CH3

1. C2H5ONa 2. C2H5I

CH3

MgBr

Idrolisi

BrMgO

H2SO4 conc.

HO

H2 O

O

CH3

O

4

CH3

5

CH3

CH3 ClCH2CH2N(CH)3

HBr

C2H5ONa

O

CH3

OH

6

7

CH3 Cristallizzazione frazionata

O

Isomero (Z)

CH3 N

CH3

Miscela cis-trans tamoxifene

è l’aumentato rischio di carcinomi endometriali. Altri effetti collaterali sono nausea, vomito, vampate di calore, riduzione del numero delle piastrine. Il tamoxifene viene commercializzato in compresse come citrato. Le dosi variano tra i 20 e i 40 mg giornalieri. Il toremifene – (Z)-2-[4-(4-cloro-1,2-difenil-1-butenil) fenossi]-N,N-dimetiletilamina – (Fig. 28.5), caratterizzato dalla presenza di una catena cloroetilica, ha gli stessi usi del

tamoxifene. Studi recenti hanno evidenziato una minore incidenza di tumori endometriali rispetto all’uso del tamoxifene. Anch’esso viene commercializzato come citrato. La dose è di 60 mg giornalieri. Il clomifene – 2-[4-(2-cloro-1,2-difenietenil)fenossi]N,N-dietiletanamina – (Fig. 28.5) stimola la produzione di GnRH, e quindi di gonadotropine, da parte dell’ipofisi, determinando un innalzamento dei livelli di estrogeni

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e progestinici. Il suo meccanismo di azione è, presumibilmente, il blocco del feedback negativo sull’ipotalamo. Viene commercializzato come citrato. La dose iniziale consigliata è di 50 mg al giorno per 5 giorni a partire dal quinto giorno del ciclo. Raloxifene – [6-idrossi-2-(4-idrossifenil)benzo[b]tien-3il]{4-[2-(1-piperidinil)etossi]fenil}metanone – e bazedoxifene – 1-[4-(2-azepan-1-il-etossi)benzil]-2-(4-idrossifenil)3-metil-1H-indol-5-olo – (Fig. 28.5), pur non possedendo uno scheletro trifeniletilenico, presentano una struttura correlata ai farmaci appena riportati. In queste due molecole il gruppo etilenico è bloccato in un eterociclo fuso con uno dei tre anelli benzenici. Vengono entrambi utilizzati per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi nelle donne in postmenopausa. Il raloxifene ha un’attività antagonista sul tessuto endometriale e su quello mammario e agonista sul tessuto osseo e sul sistema cardiovascolare. Un altro composto ad attività simile, ma appartenente a una classe chimica diversa, in quanto strutturalmente correlato all’estradiolo, è il fulvestrant (Fig. 28.5). Questo presenta in posizione 7α una lunga catena alchilica fluorurata nella porzione terminale. Ha azione antagonista su entrambi i sottotipi recettoriali degli estrogeni, mentre non presenta azione agonista. Inoltre è un down-regulator dei recettori estrogenici. Viene utilizzato nel trattamento dei tumori mammari estrogeno-dipendenti in donne in postmenopausa. La dose raccomandata è 250 mg i.m. a intervalli di un mese.

Inibitori dell’aromatasi L’aromatasi è un complesso enzimatico che appartiene alla famiglia dei citocromi: il suo nome biochimico infatti è citocromo P450 19A. È responsabile della conversione degli androgeni in estrogeni, in particolare della reazione di trasformazione dell’androstenedione a estrone e quella da testosterone a estradiolo (Scheda 28.4). Gli inibitori dell’aromatasi vengono utilizzati nel trattamento del carcinoma alla mammella estrogeno-dipendente. Vari derivati del 4-idrossiandrostenedione competono con l’androstenedione per il binding al sito catalitico dell’aromatasi. L’unico composto usato in terapia è l’exemestano – 6-metileneandrosta-1,4-diene-3,17-dione – (Fig. 28.6), caratterizzato dalla presenza di un secondo doppio legame nell’anello A e da un sostituente metilenico in C6. È un inibitore irreversibile dell’aromatasi e riduce il livello di estrogeni

dell’85-95% in pochi giorni. Viene somministrato in compresse da 25 mg una volta al giorno. Anche alcuni composti non steroidei caratterizzati dalla presenza nella loro struttura di anelli eterociclici azotati sono risultati attivi come inibitori dell’aromatasi. Tra essi quelli utilizzati in terapia antitumorale sono l’anastrozolo – 2,2"-[5-(1H-1,2,4-triazol-1-ilmetil)-1,3-fenilen]bis(2-metil)propiononitrile – e il letrozolo – 4,4'-(1H-1,2,4-triazol-1-ilmetilen)bisbenzonitrile – (Fig. 28.6).

28.3 Progestinici Il capostipite fisiologico del secondo gruppo di ormoni sessuali femminili, detti progestinici o progestativi, è il progesterone (ormone del corpo luteo o della gravidanza), derivato del pregnano, steroide a 21 atomi di carbonio (Fig. 28.7). Il progesterone viene biosintetizzato soprattutto nel corpo luteo dopo l’ovulazione, nel periodo luteale del ciclo mestruale. Durante la gravidanza la sua biosintesi si realizza sia nel corpo luteo gravidico sia nella placenta. È inoltre secreto in piccola quantità dalla corteccia surrenale e nei testicoli. Il progesterone favorisce, a livello dell’endometrio uterino, il passaggio dalla fase di proliferazione promossa dagli estrogeni a quella di secrezione, facilitando l’attecchimento dell’uovo fecondato; inoltre, insieme agli estrogeni, impedisce ulteriori ovulazioni dopo la fecondazione, bloccando la liberazione di gonadotropine responsabili della maturazione di un’altra cellula uovo, con un meccanismo di feedback negativo a livello ipotalamico e ipofisario. Dal momento che inibisce l’ovulazione, viene considerato un contraccettivo naturale. La biosintesi del progesterone è stimolata dal legame dell’ormone luteinizzante LH al suo specifico recettore cellulare e avviene, come per tutti gli steroidi naturali, a partire dal colesterolo. Il progesterone può essere somministrato solo per via parenterale (come preparato i.m.), in quanto per via orale non viene assorbito adeguatamente e viene rapidamente metabolizzato nel fegato. Il progesterone iniettabile è utilizzato nella preparazione a interventi chirurgici ginecologici ed extraginecologici da eseguirsi in gravidanza, nella minaccia di aborto, in caso di disturbi del ciclo e di insufficienza ovarica. Le dosi variano da 50 a 200 mg al giorno. Recentemente è stata introdotta in commercio una preparazione per uso orale, in cui il progeNC

CH3

O

N

N

N

N CH3

N

CH3 NC CH3

CH3

O CH2 Exemestano

Figura 28.6 Inibitori dell’aromatasi.

H3 C Anastrozolo

CN

CN Letrozolo

N

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H3C

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H3C

O

CH3 CH3

O

CH3

O

CH3 O

O Progesterone

H3C CH3 CH3

O

CH3

Idrossiprogesterone caproato

H3C

O O

CH3

CH3

O

O

CH3

O

Medrossiprogesterone acetato

CH3

CH3

O O

CH3

O

O CH3

H3C

O

CH3 O

O CH3

Cl

Megestrolo acetato

Clormadinone acetato

Figura 28.7 Progesterone e derivati.

sterone micronizzato è introdotto in capsule di gelatina. Il progesterone utilizzato in terapia è ottenuto per via sintetica (Box 28.4).

28.3.1 Ormonoidi progestinici Questi composti conservano le proprietà progestative e possono essere usati anche per via orale. Tra i numerosi esteri studiati è stato commercializzato l’idrossiprogesterone caproato o esanoato (Fig. 28.7), utile nella minaccia di aborto, nelle amenorree primarie e secondarie e nella sterilità da insufficienza luteinica. Viene usato come soluzione oleosa, che funziona da forma di deposito, contenente 341 mg di principio attivo per fiala. Mantenendo esterificato l’ossidrile in 17α, in particolare acetilato, e introducendo in posizione 6α un metile, oltre a impedire il metabolismo, si migliora la liposolubilità e la regolazione a feedback negativo a livello ipofisario. Il composto utilizzato è il medrossiprogesterone acetato – 17α-idrossi6α-metil-4-pregnene-3,20-dione – (Fig. 28.7), attivo per via orale. Viene utilizzato per via intramuscolare nel trattamento del carcinoma endometriale metastatizzato e del carcinoma mammario ormono-dipendente. Il megestrolo acetato – 17α-acetossi-6-metil-4,6pregnediene-3,20-dione – (Fig. 28.7) differisce dal medrossiprogesterone acetato per la presenza di una seconda insaturazione in posizione 6,7 e di un metile in 6β. Anch’esso è indicato nel trattamento palliativo del carcinoma della mammella o dell’endometrio in fase avanzata. Viene somministrato per via orale a dosaggi solitamente compresi tra 160 e 320 mg al giorno. È presente anche in preparazioni contraccettive. Il farmaco è inoltre utilizzato per il trattamento dell’anoressia-cachessia da neoplasie maligne in fase avanzata e da

AIDS. Il meccanismo che sta alla base dell’azione stimolante dell’appetito non è noto. Il clormadinone acetato – 17α-acetossi-6-cloro-4,6pregnadiene-3,20-dione – (Fig. 28.7) è sostituito in posizione 6β con un atomo di cloro. Non viene utilizzato da solo, ma in combinazioni estro-progestiniche in preparati anticoncezionali.

28.3.2 P  rogestinici derivati del testosterone e del nortestosterone I primi derivati semisintetici preparati dal testosterone, seguendo il razionale della protezione del gruppo OH in 17 con l’introduzione di un gruppo alchinico, erano stati progettati nell’intento di ottenere androgeni più potenti, più stabili al metabolismo e somministrabili per os. Inaspettatamente, l’α-etiniltestosterone o etisterone (Fig. 28.8), ha una modesta attività androgena mentre è un buon progestativo. Esso è stato il primo progestinico di sintesi, ma non è utilizzato come farmaco. In seguito fu osservato che l’attività migliorava eliminando il metile in 19, ottenendo così derivati norsteroidei. Tra questi, il noretindrone, 17α-etinil-19-nortestosterone (Fig. 28.8), è meno attivo del progesterone, ma offre il vantaggio di poter essere somministrato per via orale. La sintesi del noretindrone è riportata nel Box 28.5. Il noretisterone è indicato nell’amenorrea primaria e secondaria, nelle sindromi premestruali e nelle metrorragie, solitamente a dosi di 10 mg al giorno. Viene inoltre utilizzato nel trattamento del carcinoma mammario. Associato a estrogeni viene utilizzato nella HRT. La ricerca nel campo dei 19-norsteroidi è proseguita, portando alla sintesi dell’etinodiolo (Fig. 28.8), progestativo atti-

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BOX 28.4 ■ Degradazione di Marker per la sintesi del progesterone Il progesterone utilizzato in terapia viene sintetizzato a partire dalla diosgenina, attraverso una via sintetica messa a punto dal chimico americano R. E. Marker alla fine degli anni ‘30, la cosiddetta degradazione di Marker. Questa strategia prevede un primo step di acetilazione con conseguente apertura del sistema spiranico. La successiva ossidazione con triossido di cromo porta alla scissione ossidativa dell’anello diidrofuranico, con formazio-

ne di un gruppo chetonico e un gruppo estereo. Quest’ultimo viene idrolizzato in ambiente acido, il gruppo alcolico in C16 formatosi spontaneamente disidrata formando il Δ16-pregnenolone-3-acetato. Le successive reazioni di idrogenazione e saponificazione portano all’ottenimento del pregnenolone. Questo viene trattato, nell’ordine, con bromo, triossido di cromo e zinco in ambiente acido, portando all’ottenimento del progesterone. H3C O

O H3C

CH3

O

CH3

H3C CH3

CH3 O

CH3

O

Piridina, HCl 200 °C

HO

O

CH3

(CH3CO)2O

H3 C

CrO3 CH3COOH

O

Diosgenina CH3

CH3 H3C

O

CH3

O

CH3

O

O

O

CH3 Idrolisi acida

O

H2, Pd/C

CH3

O

O CH3

H3 C

O

H3C

O  16-Pregnenolone-3-acetato

CH3

CH3

CH3

CH3 Idrolisi basica

CH3

CH3

O

CH3

O

CH3

Br2

CH3

O

O H3C

HO

HO

O

Pregnenolone

Pregnenolone-3-acetato

CH3

O

O

CH3

CH3

CrO3

Br

CH3

CH3 CH3

Br

Zn/HCl

O

O Br

Br

vo per via orale, libero da effetti secondari androgeni e utilizzato in associazione con estrogeni in preparati contraccettivi. Il tibolone (Fig. 28.8) è il principale rappresentante dei modulatori selettivi degli estrogeni (SEEM, selective estrogen enzyme modulators) e presenta un’azione tessuto specifica,

Progesterone

abbinando attività estrogenica ad attività progestinica e androgenica, anche se quest’ultima poco marcata. È indicato nel trattamento dei disturbi della menopausa a dosi di 2,5 mg al giorno e presenta minori effetti collaterali rispetto all’uso degli estrogeni.

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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CH3 OH

CH3 OH

C

CH3

CH

C

O

CH3 OH CH

C

O

CH

O Noretindrone

-Etiniltestosterone

Noretinodrel

CH3 OH

CH3 OH C

C

CH

O

HO

CH

CH3

Etinodiolo

Tibolone

Figura 28.8 Progestinici sintetici derivati del testosterone e del nortestosterone.

BOX 28.5 ■ Sintesi del noretindrone Il prodotto di partenza è l’etere metilico sull’OH fenolico dell’estradiolo. Questo derivato viene sottoposto alla riduzione di Birch. L’intermedio ottenuto è ossidato a 19-nor-4-androsten-3,17-dione, a sua volta trattato con trietil-ortoformiato (vedi riquadro in basso per il mecca-

nismo di reazione). Il composto con i due doppi legami coniugati viene dapprima trattato con acetilene e potassio t-butossido, per inserire il gruppo etinico in 17, e di seguito con HCl, portando così al noretindrone.

CH3 OH

CH3 OH

Li/NH3 liq./C2H5OH Riduzione di Birch

H3CO

CH3 O

CrO3

H3CO

O

Estradiolo-3-metiletere

19-Nor-4-androsten-3,17-dione CH3 OH

CH3 O

C 1. HC CH potassio t-butossido

HC(OC2H5)3 Py•HCl

CH

2. HCl

CH3CH2O

O

H+

••

Noretindrone 17a-etinil-19-nortestosterone

O CH2CH3

H

O CH3CH2

O

H

O H

O+ CH2CH3 H

C

OCH2CH3 + CH3CH2OH + CH3CH2O

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Il drospirenone – dimetilen-3-oxo-17α-pregn-4-en21,17-carbolattone – (Fig. 28.9) viene definito progestinico di quarta generazione. Ha una struttura che si differenzia dagli altri progestinici in quanto caratterizzata dalla presenza di un anello spironolattonico in C17 e da due anelli ciclopropilici fusi con le posizioni C6-C7 e C15-C16.

28.3.3 P  rogestinici sintetici a scheletro non naturale Tra i progestinici più recenti si trovano derivati a scheletro non naturale, nei quali in C13 è presente un gruppo etilico anziché metilico. Sono composti con potente attività progestinica e con scarsi effetti androgenici. Il norgestrel – (17α)-13-etil-17-idrossi-18,19-dinorpregn4-en-20-in-3-one – (Fig. 28.9), commercializzato come miscela di enantiomeri o come levonorgestrel – (7α,17α)-17idrossi-7-metil-19-norpregn-5(10)-en-20-in-3-one – che è l’enantiomero levogiro attivo, è uno tra i progestinici più utilizzati. Altri progestinici comunemente usati sono il gestodene – (17α)-13-etil-17-idrossi-18,19-dinorpregna-4,15-dien-20in-3-one – (Fig. 28.9), caratterizzato da un doppio legame tra C15 e C16 e il desogestrel – 13-etil-11-metilen-18,19-dinor17α-4-pregnen-20-in-17-olo – (Fig. 28.9). Il desogestrel è un profarmaco e viene ossidato in vivo mediante ossidrilazione in C3 e successiva ossidazione del gruppo ossidrilico a chetone. L’etonogestrel – 3-cheto-desogestrel – (Fig. 28.9) è il metabolita attivo del desogestrel e viene utilizzato sotto forma di impianto sottocutaneo con un dosaggio di 68 mg. Il norgestimato – (17α)-17-(acetilossi)-13-etil-18,19-dinorpregn-4-en-20in-3-one 3-ossima – (Fig. 28.9) presenta una funzione ossimica in C3 e viene deacetilato metabolicamente a norelgestromina. La norelgestromina – 17-deacilnorgestimato – (Fig. 28.9), a sua volta metabolizzata a norgestrel, viene usata in cerotti transdermici da 6 mg, a cui viene associata una minima quantità di etinilestradiolo. H3C

Il mifepristone – 11β-(4-dimetilamino)fenil-17β-idrossi-17(1-propinil)estra-4,9-dien-3-one – ha attività antiprogestinica in quanto, a livello endometriale, agisce bloccando l’azione del progesterone sul suo specifico recettore. È stato approvato come farmaco abortivo da utilizzare nei primi due mesi di gravidanza. Solitamente il trattamento con mifepristone, assunto in un’unica dose di 3 compresse da 200 mg, viene seguito dopo due giorni dalla somministrazione di misoprostolo, un analogo della prostaglandina E2, che rende completo l’aborto. CH3 H3C

C

C

CH3

O Mifepristone

H3C

OH

CH

C

O

N CH3 OH

H3C

OH C

28.3.4 Antagonisti del progesterone

H2C

CH

OH C

CH

O Norgestrel

Gestodene

H3C

H3C

Desogestrel O

H2C

O

OH C

CH

O C

HO

CH

Norgestimato

O O

CH3

O Drospirenone

Figura 28.9 Progestinici sintetici a scheletro non naturale.

N Norelgestromina

H3C

OH C

HO

N

Etonogestrel

H3C

CH3

CH

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

28.3.5 Farmaci contraccettivi Il punto di partenza che ha portato alla scoperta dei contraccettivi orali è stata la conoscenza del ruolo fisiologico del progesterone che, durante la gravidanza, impedisce l’ovulazione. I farmaci contraccettivi vennero immessi sul mercato all’inizio degli anni ’60. Nessun tipo di farmaco ha raggiunto una così vasta applicazione in un tempo così rapido come i contraccettivi orali. Successivamente sono stati messi a punto vari tipi di formulazioni quali dispositivi intrauterini, impianti sottocutanei, formulazioni iniettabili, cerotti transdermici.

Meccanismo d’azione L’azione combinata di opportuni livelli di estrogeni e progestinici durante la gravidanza blocca la maturazione di altri follicoli ovarici, proteggendo l’organismo da ulteriori gravidanze. La pillola contraccettiva mira a determinare uno stato di pseudo-gravidanza, introducendo opportune quantità di ormoni che determinano sull’ipofisi lo stesso complesso di stimoli ormonali che produce la gravidanza. Mimando lo stato naturale di gravidanza, si inibisce l’ovulazione in quanto si inibisce, tramite un processo di feedback, la liberazione di FSH e LH. Inoltre si influenza il trasferimento tubarico dell’uovo che, in condizioni fisiologiche, si realizza secondo una sequenza cronologica ben stabilita. I contraccettivi orali agiscono anche sulle caratteristiche del muco cervicale, che risulta più denso, e rende più difficile il passaggio degli spermatozoi attraverso la cervice. Anche il secreto tubarico, che è importante per il trasporto e per la preservazione della cellula uovo, risulta modificato. È stato riconosciuto che sia gli estrogeni sia i progestinici sono in grado, singolarmente, di inibire l’ovulazione. Inizialmente il metodo più fisiologico per la contraccezione fu ritenuto il metodo o regime sequenziale: l’estrogeno veniva somministrato da solo nella fase iniziale del ciclo e, successivamente, nella fase finale, veniva aggiunto il progestinico. Gli effetti collaterali di questo regime si sono rivelati col tempo non indifferenti: scarsa efficacia, perdite intermestruali, neoplasie endometriali, patologie cardiovascolari quali tromboembolie. Per queste ragioni oggi tale metodo non è più usato. Infatti le associazioni estro-progestiniche del cosiddetto metodo combinato sono risultate più efficaci e causano minori effetti collaterali. Durante il trattamento combinato si cerca di simulare meglio il normale ciclo mestruale per avere maggiore efficacia e sicurezza. Estrogeno e progestinico vengono somministrati in combinazione, per i primi 20-21 giorni del ciclo e poi sospesi per 7-8 giorni, includendo il periodo dell’emorragia che viene definita “emorragia da privazione ormonale”. Esistono vari tipi di formulazione di compresse combinate: pillola monofasica, bifasica e trifasica. Le principali formulazioni sono riportate nella Scheda 28.5. Altre preparazioni a uso contraccettivo Preparati contraccettivi in cerotti transdermici sono a base di norelgestromina (6 mg) ed etinilestradiolo (0,075 mg).

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Il levonorgestrel viene utilizzato per impianti sottocutanei, la cui durata d’azione è di 5 anni. Esistono in commercio anche particolari dispositivi noti come IUD (intrauterine device) che, su un supporto polimerico a T, contengono, disperse in olio di silicone, alcune decine di mg (circa 50 mg) di progesterone o di un progestinico sintetico e hanno durata d’azione di un anno. Questo tipo di preparazioni sono state sostituite dai sistemi di rilascio intrauterini (intrauterine system, IUS) di levonorgestrel (LRIS, levonorgestrel-releasing intrauterine system). La pillola del giorno dopo è un farmaco utilizzato come metodo di contraccezione post-coitale (ossia per la contraccezione di emergenza) entro le 72 ore successive a un rapporto sessuale. Benché siano disponibili diverse preparazioni, il principio attivo oggi maggiormente utilizzato è il progestinico levonorgestrel, impiegato però in un dosaggio 10-15 volte maggiore rispetto al dosaggio giornaliero (1,5 mg) delle normali pillole anticoncezionali. Il levonorgestrel agisce bloccando l’ovulazione. Secondo gli studi più recenti non ha effetti sull’impianto e non ha azione abortiva. Le associazioni estro-progestiniche vengono utilizzate, oltre che nella contraccezione, anche nella HRT, indicata nel trattamento dei sintomi della menopausa e nella prevenzione e trattamento dell’osteoporosi. La sicurezza di impiego delle associazioni estro-progestiniche sia nella contraccezione sia nella HRT è un problema particolarmente sentito. L’estrogeno presente costituisce il primo fattore di rischio di tromboembolie. Inoltre l’uso di tali associazioni è stato correlato a un’aumentata insorgenza di tumori mammari, soprattutto in donne che assumono estrogeni dopo la menopausa. Per questi motivi l’estrogeno è presente in dosaggi molto bassi (inferiori a 0,05 mg) e le preparazioni con dosaggi più elevati sono stati ritirati dal commercio. I principali effetti collaterali e le controindicazioni all’uso delle associazioni estro-progestiniche sono riportati nella Scheda 28.6.

28.4 Androgeni I meccanismi di controllo dello sviluppo delle gonadi maschili sono simili a quelli descritti per gli estrogeni. L’ipotalamo controlla il funzionamento dell’adenoipofisi mediante lo stesso fattore di rilascio citato per gli ormoni femminili e cioè GnRH. Tale fattore ormonale ipotalamico stimola il rilascio da parte dell’adenoipofisi di FSH e LH, quest’ultimo detto nell’uomo ormone stimolante le cellule interstiziali (ICSH, interstitial cells stimulating hormone) o cellule di Leydig. Nell’uomo l’FSH promuove la spermatogenesi per stimolazione dei tubuli seminiferi, mentre l’azione principale del ICSH è l’attivazione della produzione di testosterone nelle cellule interstiziali, a partire dal colesterolo (Scheda 28.2). Gli ormoni androgeni sono responsabili dello sviluppo dei caratteri sessuali primari e secondari. Gli androgeni, come gli estrogeni, vengono sintetizzati anche a livello della corteccia surrenale e, in piccola quantità, dalle gonadi femminili e nel tessuto adiposo.

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Gli androgeni stimolano la produzione di eritrociti, partecipano alla regolazione ormonale della funzionalità dei testicoli e della spermatogenesi, causano un bilancio azotato (differenza tra azoto introdotto e azoto eliminato) positivo, perché deprimono il catabolismo e stimolano l’anabolismo delle proteine, favorendo nell’uomo lo sviluppo muscolare (azione anabolica). Infine gli androgeni regolano il comportamento psichico dell’uomo. L’androgeno endogeno più attivo non è il testosterone, bensì il suo metabolita 5α-ridotto, il 5α-diidrotestosterone o 5α-DHT (Fig. 28.10), che ha una potenza 10 volte superiore al testosterone. L’androstenedione (Fig. 28.10), ormone di interesse sia perché interconvertibile con il testosterone, sia perché precursore dell’estrone, è un androgeno circa 15 volte più debole rispetto al testosterone. L’androsterone (Fig. 28.10), androgeno 8-10 volte meno potente del testosterone, è stato il primo androgeno isolato nel 1931. Gli androgeni trovano uso terapeutico nel trattamento di ipogonadismo, impotenza, infertilità maschile, ritardo costituzionale della crescita. Il testosterone non può essere somministrato efficacemente né per via orale né per iniezione parenterale perché metabolizzato nel fegato. Esistono comunque varie formulazioni a base di testosterone: gel, cerotti transdermici e compresse da impianto. Per rallentare la velocità del catabolismo e aumentare la potenza androgena sono state identificate utili modificazioni chimiche che consistono nell’esterificazione dell’ossidrile in 17, nella metilazione in 17α e infine altre sostituzioni quali l’introduzione di un atomo di fluoro in posizione 9α. L’esterificazione dell’ossidrile in 17 aumenta il carattere lipofilo della molecola, rendendola più solubile nei veicoli lipidici usati per iniezione intramuscolare. Gli esteri sono

CH3 OH

profarmaci che vengono idrolizzati più o meno lentamente, rilasciando in modo graduale il testosterone. Tra gli esteri commercializzati si trova il testosterone propionato (Fig. 28.10), usato nell’uomo nell’ipogenitalismo prepuberale e dell’individuo adulto, nell’impotenza, nell’ipertrofia prostatica, nelle dermatosi di origine endocrina; nella donna nelle emorragie da fibromioma, nell’ingorgo mammario post-partum e come coadiuvante in alcune forme di carcinoma mammario; in entrambi i sessi è usato nelle nefropatie di tipo glomerulare, in quanto agisce sul metabolismo dei composti azotati, nelle fratture ossee con ritardo nella formazione del callo, nell’indebolimento senile. Il testosterone enantato o eptanoato e il testosterone undecanoato (Fig. 28.10) hanno applicazioni simili al precedente. Tra i composti ad attività androgena commercializzati in Italia si trova il mesterolone – 1α-metilandrostan-17β-ol-3one – (Fig. 28.10), derivato del 5α-diidrotestosterone in cui è stato introdotto un metile in 1α. È disponibile in compresse da 50 mg ed è indicato nella cura della sterilità maschile, nell’ipogonadismo, nelle turbe della potenza virile e nella riduzione della capacità fisica e intellettiva dell’età avanzata. Nel fluossimesterone (Fig. 28.10), derivato del 17α-me­ tiltestosterone, è stato introdotto un ossidrile in posizione 11 e un atomo di fluoro in posizione 9. Rispetto al suo progenitore questo composto risulta 10 volte più attivo come androgeno. Non è commercializzato in Italia.

28.4.1 Androgeni sintetici anabolizzanti Come già accennato, gli androgeni, favorendo la sintesi proteica, sono, in modo più o meno marcato, anabolizzanti. A partire dagli anni ’40 gli steroidi androgeni anabolizzanti (AAS) sono stati utilizzati diffusamente in ambito sportivo. Tale uso è vietato, ma anche dopo l’introduzione di

CH3 OH

CH3

CH3

O

CH3

O Testosterone

CH3 O

CH3 O CH3

O

HO Androstenedione

5-diidrotestosterone

Androsterone

O CH3 O

CH3 OH

R CH3

CH3

CH3 OH

HO

CH3

CH3 F

O Testosterone propionato: R = C2H5 Testosterone enantato: R = (CH2)5CH3 Testosterone undecanoato: R = (CH2)9CH3

Figura 28.10 Derivati ad azione androgena.

O

O Mesterolone

Fluossimesterone

CH3

659

660

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

test urinari antidoping che identificano facilmente la presenza di tali sostanze, il loro abuso è tuttora presente. Uno degli scopi della ricerca farmaceutica è tuttora la separazione dell’attività virilizzante da quella anabolizzante, per ottenere steroidi puramente anabolizzanti, da utilizzare in ambito terapeutico per le indicazioni sopradescritte. Gli steroidi anabolizzanti possono essere suddivisi in derivati del 17α-metil-5α-diidrotestosterone e derivati del 19-nortestosterone o nandrolone. Studi di RSA tra derivati del 17α-metil-5α-diidrotestoste­ rone hanno evidenziato che la sostituzione del carbonio in posizione 2 con un atomo di ossigeno porta a uno steroide, l’oxandrolone – 17β-idrossi-17α-metil-2-ossa-5α-androstan3-one – (Fig. 28.11), che, tra una numerosa serie di azo- e ossasteroidi, è di interesse clinico per la sua rilevante attività anabolica. L’introduzione di funzioni ossigenate quali l’idrossimetilenica e la conseguente presenza di un carbonio ibridato sp2 che aumenta la planarità dell’anello A potrebbe essere responsabile dell’aumento dell’attività anabolizzante riscontrata nell’oximetolone – 17β-idrossi-2-(idrossimetilen)-17metil-5α-androstan-3-one – (Fig. 28.11). La fusione sull’anello A con un anello pirazolico, eterociclo elettronricco, ha portato all’ottenimento dello stanozololo – 17β-idrossi-17α-metil-5α-androstan[3,2-c]pirazolo – (Fig. 28.11). Tutti questi composti sono attivi per via orale, ma non vengono commercializzati in Italia. Le sintesi di oximetolone e stanozololo sono descritte nel Box 28.6. Gli steroidi anabolizzanti derivati dal 19-nortestosterone o nandrolone sono ottenuti demetilando il testosterone ed esterificando l’ossidrile in posizione 17β. Tra questi viene commercializzato il nandrolone decanoato – 17β-idrossi19-nor-4-androsten-3-one 17-decanoato – (Fig. 28.11), utilizzato per via i.m. a dosi di 25 mg per il trattamento di supporto dell’osteoporosi senile o iatrogena.

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Danazolo Un composto a parte, riportato in questo paragrafo in quanto dotato di parziale attività androgena, ma che presenta anche altri effetti biologici, è il danazolo – 17β-idrossi2,4,17α-pregnadien-20-in[2,3-d]isossazolo. In questo composto l’anello A della struttura steroidea è fuso con un anello isossazolico e in posizione 17α è sostituito con un gruppo etinilico. Il danazolo, oltre all’azione androgena, ha una debole attività estrogena e progestinica. Inibisce la produzione di FSH e di LH da parte dell’ipofisi, infatti viene classificato nella categoria farmacoterapeutica delle antigonadotropine. L’azione prevalente è quella di sopprimere l’attività ovarica e viene utilizzato per via orale in dosaggi da 50 a 200 mg nel trattamento delle endometriosi. Inoltre è prescritto nei casi di mastopatia fibrocistica e dell’angioedema ereditario. CH3 OH

O Danazolo

28.4.2 U  si ed effetti collaterali degli steroidi androgeni anabolizzanti In entrambi i sessi vengono applicati nei casi di esaurimento o di deperimento generale, come pure nelle manifestazioni asteniche dovute all’età avanzata, nei disturbi della crescita, nel trattamento delle anemie, nelle malattie croniche debilitanti, nelle osteoporosi, nei casi di fratture ossee.

CH3 OH

CH3

O

CH3

CH3 HO

O

O Oxandrolone

Oximetolone

CH3 OR

CH3 OH CH3

CH3

HN O

N Stanozololo

Figura 28.11 Steroidi androgeni anabolizzanti.

CH

N

CH3 OH CH3

C

CH3

Nandrolone: R = H Nandrolone decanoato: R =COC9H19

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BOX 28.6 ■ Sintesi dell’oximetolone e dello stanozololo Il prodotto di partenza per la preparazione di questi due farmaci è il 5-deidroepiandrosterone, già riportato come intermedio della sintesi dell’estradiolo. Il composto è ridotto a epiandrosterone, il quale viene trattato con bromuro di metil magnesio per formare il corrispondente 17α-metil derivato. Questo viene ossidato con anidride CH3 O

cromica a mestanolone, che mediante una condensazione di Claisen porta al 2-idrossimetilen-derivato, chiamato oximetolone. Mediante reazione di ciclizzazione tra il carbonile in 3 e il gruppo idrossimetilenico in 2 con idrazina si ottiene lo stanozololo. CH3 OH CH3

CH3 O

CH3

CH3

HO

HO

5-Deidroepiandrosterone CH3

HO Epiandrosterone

OH

CH3

CrO3

CH3

2 CH3MgBr

H2, Pd/C

CH3

O Mestanolone 17-metilandrostan-17-ol-3-one

CH3 HCOOC2H5 NaOC2H5 Condensazione di Claisen

HOHC

OH

CH3

CH3

CH3

OH CH3

CH3

NH2NH2

HN O

N

Oximetolone 17-idrossi-2-idrossimetiliden17-metil-3-androstanone

La loro somministrazione prolungata in un uomo normale può provocare una diminuzione della spermatogenesi a causa del feedback negativo che una concentrazione di androgeni troppo elevata produce sulla liberazione di gonadotropine. Inoltre, la conversione degli androgeni in estrogeni può portare all’insorgenza di effetti collaterali femminilizzanti (ad es. ginecomastia). Inoltre, la retroazione a livello ipofisario, dovuta a uso prolungato di anabolizzanti, provoca la cessazione della secrezione di altri ormoni ipofisari, con conseguente disarmonia endocrina grave. Il loro uso è controindicato in caso di tumore prostatico, disturbi cardiocircolatori, compromessa funzionalità epatica, compromessa funzionalità renale, gravidanza.

28.4.3 Antiandrogeni Sono stati identificati composti antiandrogeni a struttura steroidea e altri a struttura non steroidea. Tra i primi possono essere annoverati gli estrogeni e lo stesso progesterone che, comunque, sono antiandrogeni molto deboli. Più potenti sono alcuni progestinici di sintesi, tra cui il ciproterone acetato – 6-cloro-1β,2β-diidro-17idrossi-3ʹH-ciclopropa(1,2)-pregna-1,4,6-triene-3,20-dione acetato – (Fig. 28.12) che, pur mantenendo l’attività progestativa, possiede anche attività antiandrogena. Il suo meccanismo d’azione è di competizione nei confronti del legame del 5α-diidrotestosterone con gli specifici recettori. Viene utilizzato nel trattamento antiandrogeno del carcinoma pro-

Stanozololo 17-idrossi-17-metil-5androstan[3,2-c]pirazolo

statico inoperabile e per la riduzione delle deviazioni dell’istinto sessuale negli uomini. Il suo uso non è indicato nelle donne. Entra come componente progestinico in miscela con estrogeni quali l’etinilestradiolo e l’estradiolo valerato nelle associazioni estro-progestiniche. Tra i composti a struttura non steroidea, il derivato ad azione antiandrogena più utilizzato è la flutamide – 2-metil-N-[4-nitro-3-(trifluorometil)fenil]propanamide – (Fig. 28.12), un potente antagonista competitivo del legame del DHT con il proprio recettore. Ancora più attivo è risultato il suo metabolita idrossiflutamide – 2-idrossi-2-metil-N-[4nitro-3-(trifluorometil)fenil]propanamide – (Fig. 28.12). La flutamide è indicata quale monoterapia o in associazione con un agonista GnRH nella terapia del carcinoma prostatico. Il composto presenta una notevole tossicità epatica. La dose raccomandata in monoterapia è di una compressa da 250 mg 3 volte al giorno. La bicalutamide – N-[4-ciano-3-(trifluorometil)fenil]3-[(4-fluorofenil)solfonil]-2-idrossi-2-metilpropanamide – (Fig. 28.12) è meno tossica della flutamide e attiva a dosaggi inferiori (una compressa da 50 mg al giorno) nel trattamento del carcinoma prostatico. Nella terapia dell’iperplasia benigna della prostata sono usati anche farmaci che inibiscono la 5α-reduttasi, l’enzima che catalizza il passaggio del testosterone al metabolita 5α-ridotto, il 5α-DHT, che gioca un ruolo importante nell’insorgenza di tale patologia. I farmaci utilizzati sono la finasteride – N-t-butil-3-oxo-4-aza-5α-androst-1-en-17βcarbossamide – e la dutasteride (Fig. 28.12).

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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O CH3

CH3 O CH3

CH3

CH3 R

H N

O

O

O2N

O

H HO N

CH3

Ciproterone acetato

O

NC

Flutamide: R = H Idrossiflutamide: R = OH

O CH3

NH

F

Bicalutamide

CF3

O

CH3

CH3

CH3 CH3

CH3

O

CF3

CF3

Cl

O CH3 S

NH

CH3 CF3

O

N H

O Finasteride

N H

Dutasteride

Figura 28.12 Antiandrogeni e inibitori della 5-reduttasi.

28.5 O  rmoni della corteccia surrenale o corticosteroidi: glucocorticoidi e mineralcorticoidi Le ghiandole surrenali, poste sopra i reni, sono formate da una parte midollare interna e una parte corticale esterna. Quest’ultima è a sua volta divisa in una zona glomerulare più esterna che secerne ormoni mineralcorticoidi (MC), una zona fascicolata intermedia che secerne ormoni glucocorticoidi (GC) e una zona reticolata più interna che secerne ormoni sessuali maschili e femminili. I MC e i GC costituiscono una classe di ormoni a 21 atomi di carbonio, analoghi, come numero di unità carboniose, agli ormoni steroidei derivati dal pregnano. Il principale GC è l’idrocortisone o cortisolo (Fig. 28.15), coinvolto nel metabolismo intermedio di glucidi, proteine e lipidi. Il principale MC è l’aldosterone (Fig. 28.14), coinvolto nel bilancio elettrolitico.

28.5.1 A  ttività del cortisolo e dell’aldosterone La sintesi dei GC è regolata dall’ormone adrenocorticotropo, ACTH (adrenocorticotropic hormone), conosciuto anche come corticotropina, prodotto dalle cellule dell’adenoipofisi, mentre, benché non siano ancora stati chiariti tutti gli aspetti, la sintesi dell’aldosterone (il principale MC) è poco influenzata dall’ACTH. L’ACTH agisce a livello della ghiandola surrenale legandosi al suo specifico recettore accoppiato a una proteina G

e situato sulla superficie delle cellule corticali. In seguito a tale legame si ha liberazione di colesterolo dai fosfolipidi di membrana e da lipoproteine come le LDL (lipoproteina a bassa densità) captate da appositi recettori presenti sulla membrana corticale. Il colesterolo può inoltre essere sintetizzato nella corteccia surrenale a partire da unità di acetato. I GC e i MC vengono sintetizzati a partire dal colesterolo (Scheda 28.7). La funzione fisiologica primaria dei CG è quella di mantenere i livelli ematici di glucosio e quindi di assicurare i processi dipendenti dal glucosio che sono critici per la vita di tutto l’organismo. Il cortisolo e gli steroidi a esso correlati svolgono questa azione stimolando la formazione di glucosio. Infatti i CG, a seguito di un aumento della demolizione delle proteine (effetto catabolico) e di un’inibizione della loro biosintesi negli organi periferici, in particolare nella muscolatura, aumentano la disponibilità degli aminoacidi a livello epatico. A tale livello si ha un conseguente aumento dell’attività degli enzimi che trasformano gli aminoacidi in glucosio (gluconeogenesi), che viene immagazzinato come glicogeno. In pratica la quantità di glucosio aumenta a scapito della quantità di proteine. I GC agiscono anche sul metabolismo lipidico, sul sistema cardiovascolare e nervoso, sull’apparato scheletrico e muscolare, e regolano l’espressione dei geni dell’ormone della crescita. I GC mostrano inoltre attività antinfiammatoria e immunosoppressiva, attuate mediante meccanismi di regolazione complessi. La funzione fisiologica primaria dei MC è la regolazione del bilancio idrico-salino. Conseguentemente influiscono sulla pressione del sangue e sul volume ematico. Sotto la loro azione a livello renale aumenta la permeabilità della cellula

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CH2OH HO 11 1

CH3 9 C

A

F

O

CH3

Catena idrossichetonica in posizione 17

OH D

2

16

Y

B

O

6

X = CH3, F Y = CH3, OH

X

Gruppo chetonico in posizione 3

Doppio legame in posizione 4,5

Figura 28.13 RSA dei corticosteroidi. Nella struttura sono messi in evidenza i gruppi caratteristici per l’attività glucocorticoide. I cerchi tratteggiati evidenziano i sostituenti comuni tra MC e GC.

del tubulo distale agli ioni Na+, che vengono trattenuti con una quantità equivalente di acqua, mentre gli ioni K+ vengono eliminati. La produzione di aldosterone in condizioni fisiologiche (contrariamente a quanto avviene per i glucocorticoidi) non dipende dall’adenoipofisi ma viene regolata dalla variazione di volume del plasma nei vasi, dal rapporto Na+/K+ intracellulare e dall’irrorazione del sangue a livello renale (sistema renina-angiotensina-aldosterone). Il morbo di Conn (o iperaldosteronismo primario), dal medico internista americano che l’ha per primo descritto, è dovuto a un’eccessiva produzione di aldosterone con conseguente ipertensione.

Inoltre, le RSA suggeriscono che nell’anello A l’introduzione di un doppio legame 1,2 potenzia l’attività di tipo glucocorticoide. Nell’anello B la sostituzione in 6α provoca effetti diversi a seconda che sia o no presente anche l’insaturazione 1,2. Se è presente l’insaturazione, tale sostituzione porta a un aumento dell’effetto glucocorticoide e a una diminuzione di quella mineralcorticoide. Se tale insaturazione non è presente, la sostituzione in 6α provoca un aumento sia dell’effetto glucocorticoide sia di quello mineralcorticoide. La sostituzione in 9α con un alogeno, di preferenza il fluoro, potenzia tutti gli effetti biologici (Fig. 28.13).

28.5.3 M  ineralcorticoidi naturali e sintetici

28.5.2 R  SA nei corticosteroidi: differenze e similitudini tra glucocorticoidi e mineralcorticoidi

L’aldosterone (Fig. 28.14) è il più potente tra i mineralcorticoidi naturali. Ha una potenza relativa come mineralcorticoide pari a 3000, come glucocorticoide pari a 0,3, prendendo come composto di riferimento il cortisolo (Tab. 28.1). I sintomi legati a un iperaldosteronismo sono ipertensione e ipokaliemia. L’aldosterone è presente nell’organismo in equilibrio con la forma semiacetalica, che è la preponderante, quindi l’ossidrile in posizione 11β è presente libero in piccola parte e questo giustificherebbe la prevalente attività mineralcorticoide di questo ormone.

Sono stati sintetizzati moltissimi analoghi degli ormoni naturali e ciò ha permesso uno studio approfondito della RSA in queste famiglie di composti (Fig. 28.13). I glucocorticoidi si differenziano dai mineralcorticoidi per la presenza di: • un ossidrile o più raramente un metile in posizione 17α; • un ossidrile in posizione 11β, in pochi casi sostituito da un cloro.

O HO

CH2OH

OH

O

O

CH3

O

CH

CH2OH

CH2OR

O

CH3

CH3

O Aldosterone

Figura 28.14 Mineralcorticoidi naturali e sintetici.

O

CH3

O Desossicorticosterone: R = H Desossicorticosterone acetato: R = COCH3

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Tabella 28.1 Potenze relative dei principali glucocorticoidi e loro durata d’azione. Glucocorticoide

Potenza glucocorticoide

Potenza mineralcorticoide

Durata d’azione

Cortisolo

 1

1

Breve

Cortisone

 0,8

0,8

Breve

Prednisone

 4

0,8

Media

Prednisolone

 4

0,8

Media

6α-Metilprednisolone

10

0

Media

Triamcinolone

 5

0

Media

Betametasone

25

0

Lunga

Desametasone

25

0

Lunga

L’aldosterone non si usa in terapia perché la sua sintesi è costosissima; inoltre è troppo potente, per cui presenta rischi nell’utilizzo come farmaco. Il desossicorticosterone o desossicortone o DOC – 11-desossicorticosterone – (Fig. 28.14) è stato il primo ormone corticosteroide a essere sintetizzato e a essere conseguentemente reso disponibile per il trattamento del morbo di Addison. Questa è una malattia, spesso di origine autoimmunitaria, che provoca insufficienza corticosurrenalica, con conseguente carenza della secrezione di GC e MC. È caratterizzata da grave ipotensione, che può evolvere fino al coma. Il DOC è praticamente privo di effetti glucocorticoidi e a esso viene attribuita una potenza relativa come mineralcorticoide pari a 100. Qualitativamente il DOC ha gli stessi effetti dell’aldosterone, quantitativamente ha una potenza che corrisponde a circa il 3% di quella dell’aldosterone. Non viene commercializzato come tale ma come estere acetico, somministrato i.m., ed è usato nel trattamento di morbo di Addison, iposurrenalismo e astenia di tipo iposurrenalico, forme tubercolari croniche, sindromi ipotensive. Il fludrocortisone acetato, un derivato fluorurato del cortisolo, è l’unico mineralcorticoide somministrabile per via orale. Non è commercializzato in Italia.

28.5.4 G  lucocorticoidi naturali e loro derivati Il cortisolo o idrocortisone (Fig. 28.15) è l’ormone glucocorticoide naturale per eccellenza e presenta un rapporto fra attività glucocorticoide e mineralcorticoide pari a 15. Viene commercializzato come tale o in forma di acetato, succinato, fosfato, butirrato in preparati di uso topico utili per eczemi, punture di insetti, pruriti, eritemi o ustioni circoscritte. Come succinato sodico viene commercializzato in preparati iniettabili per trattamenti sistemici, quali crisi iposurrenaliche, stati anafilattici allergici gravi e non rispondenti alla terapia tradizionale o reazioni trasfusionali. È presente in numerose associazioni con argento vitellinato in preparati per uso oftalmico, con benzocaina in preparazioni antiemorroidali, con cloramfenicolo in preparazioni dermatologiche e con tetrizolina in decongestionanti nasali. Il cortisone o cortone (Fig. 28.15), con rapporto pari a 20 tra attività glucocorticoide e mineralcorticoide, è commercializzato come acetato in compresse o in preparati iniettabili. È indicato nelle affezioni reumatologiche in fase acuta,

nelle malattie del collagene, nelle forme allergiche. È scarsamente attivo per uso topico in quanto deve essere ridotto in vivo a idrocortisone. Il cortisolo, il cortisone e i loro derivati vengono classificati tra i GC con ritenzione salina da moderata a bassa. Infatti la ritenzione salina è dovuta all’attività mineralcorticoide, che in queste molecole è notevolmente inferiore all’attività glucocorticoide.

28.5.5 Glucocorticoidi di sintesi Dopo l’introduzione del cortisone (1948) e dell’idrocortisone (1951) per il trattamento dell’artrite reumatoide, la ricerca si è indirizzata verso composti più attivi e con minori effetti collaterali. Il rapporto tra l’attività glucocorticoide e quella mineralcorticoide e la durata di azione in seguito a somministrazione orale dei principali glucocorticoidi è riportata nella Tabella 28.1. Ricordando le RSA discusse in precedenza per questa famiglia di ormoni, una variazione utile al fine del potenziamento dell’attività è stata l’introduzione di un alogeno in 9α. Constatato che l’attività glucocorticoide era inversamente proporzionale alle dimensioni dell’alogeno introdotto, il fluoro risultò avere maggiore successo e portò alla sintesi di derivati più attivi. Il fludrocortisone acetato – 9α-fluoro-11β,17α,21triidrossi-4-pregnene-3,20-dione acetato –, già citato, è il 9α-fluoro derivato dell’idrocortisone, 11 volte più attivo dell’acetato di cortisone come glucocorticoide: tale alogenazione causa però anche un contemporaneo aumento dell’attività mineralcorticoide che motiva l’uso terapeutico nell’ipoaldosteronismo. Prednisolone e prednisone (Fig. 28.15), 1-deidroderivati rispettivamente del cortisolo e del cortisone, hanno attività antiallergica e antireumatica superiore ai composti di partenza, attività mineralcorticoide limitata e minori effetti collaterali. Il prednisolone è usato come tale o come succinato sodico, quest’ultimo in forma iniettabile per il pronto intervento nelle crisi anafilattiche, negli shock gravi di tipo emorragico, traumatico e chirurgico. Il prednisolone è associato ad atropina solfato e fenilefrina in colliri e a neomicina in preparati oftalmici o dermatologici. Il prednisone è usato nella terapia di affezioni reumatologiche come artrite reumatoide, spondiliti anchilosanti,

CAPITOLO 28 • Ormoni steroidei

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A) CH2OR

CH2OR O

CH3

HO

OH

CH3

O

CH3

O

OH

CH3

O

O

Cortisone o cortone: R = H Cortisone acetato: R = COCH3

Cortisolo o idrocortisone: R = H Idrocortisone acetato: R = COCH3 Idrocortisone butirrato: R = COC3H7 Idrocortisone sodio succinato: R = COCH2CH2COO-Na+

B) CH2OR O

CH3

HO

CH2OH

OH

CH3

O

CH3

O

O 6-metilprednisolone

CH2OH

CH2OH O

CH3

O

CH3

OH

CH2OH

O

CH3

HO

OH

CH3

CH3

Prednisone

Prednisolone: R = H Prednisolone acetato: R = COCH3 Prednisolone sodio succinato: R = COCH2CH2COO-Na+

CH3

CH3

O

CH3

Triamcinolone acetonide

CH2OH O

CH3

HO

O

CH3

HO

OH

O OH

CH3

OH

F

F O

O

F

H3C Betametasone

CH2OH

CH3

CH3

F O

Desametasone

CH3

OH

CH3

CH3

O

Triamcinolone

CH3

O OH

F

O

HO

CH3

HO

F

F O

OH

CH3

O

HO

O

CH3

HO

OH

CH3

O

CH2OH

Fluorometolone

Fluocinolone

Figura 28.15 Glucocorticoidi naturali (A) e sintetici (B).

endocardite reumatica acuta, artrite gottosa, nella terapia di malattie del collagene e nel controllo di condizioni allergiche gravi e debilitanti non trattabili in maniera convenzionale come asma bronchiale, nella terapia di affezioni ematologi-

che come anemia di origine autoimmune, nelle leucemie e nei linfomi. Il 6α-metilprednisolone – 11β,17α,21-triidrossi-6αmetil-1,4-pregnadiene-3,20-dione – (Fig. 28.15) entra a far

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parte di numerose specialità con usi analoghi a quelli dei derivati precedentemente descritti. È utilizzato anche come estere acetico e come succinato sodico, quest’ultimo somministrato i.m. e i.v., ed è indicato generalmente nella terapia corticosteroidea a effetto rapido e cioè nelle forme acute gravi, negli stati di shock e di collasso quando non possa essere effettuata la terapia orale. Lo sviluppo razionale di questo tipo di derivati ha portato alla sintesi e alla sperimentazione di composti in cui sono presenti sia il doppio legame 1,2 sia un atomo di fluoro in 9α. Il triamcinolone – 9α-fluoro-11β,16α,17,21-tetraidrossi1,4-pregnadiene-3,20-dione – (Fig. 28.15) è contenuto in specialità di uso orale e topico. Generalmente viene utilizzato sotto forma di triamcinolone acetonide – 9α-fluoro-11β,16α,17α,21-tetraidrossi-1,4pregnadiene-3,20-dione 16,17-acetonide – (Fig. 28.15) (cioè il 16α, 17α-chetale ciclico), efficace per uso topico nella terapia di svariate dermatosi, erosioni e irritazioni del cavo orale, nelle riniti allergiche. Per uso sistemico è efficace nell’asma e nelle malattie reumatiche. La sostituzione in 16α dell’ossidrile con un metile ha sia la funzione di proteggere e/o stabilizzare la catena idrossichetonica, sia di ridurre le proprietà mineralcorticoidi, che provocano ritenzione di sodio. Questa modifica ha portato al desametasone – (11β,16α)-9-fluoro-11,17,21-triidrossi16-metilpregna-1,4-diene-3,20-dione – (Fig. 28.15), cui ha fatto quasi immediatamente seguito l’epimero betametasone – 9α-fluoro-11β,17α,21-triidrossi-16β-metillpregna-1,4diene-3,20-dione – (Fig. 28.15), che differisce per la configurazione del metile al C16, che è β. I due epimeri sono praticamente equivalenti. Numerose sono le specialità che li contengono anche in associazione e che possono essere somministrate per svariate vie. La sintesi del betametasone è riportata nel Box 28.7. Altri congeneri fluorurati in cui il metile è stato spostato dalla posizione 16α a quella 6α o in cui la posizione 6α

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porta un atomo di fluoro sono il fluorometolone – 11β,17αdiidrossi-9-fluoro-6-metil-1,4-pregnadiene-3,20-dione – e il fluocinolone – 6α,9α-difluoro-11β,16α,17α,21-tetraidrossi1,4-pregnadiene-3,20-dione – (Fig. 28.15), glucocorticoidi di notevole interesse terapeutico, perché presentano una maggiore resistenza alla metabolizzazione, quindi un’aumentata vita media. Più recentemente sono stati sintetizzati glucocorticoidi caratterizzati dalla presenza nella struttura di atomi di cloro. Il beclometasone – 9α-cloro-11β,17α,21-triidrossi-16βmetilpregna-1,4-diene-3,20-dione – (Fig. 28.16), 9α-cloro analogo del betametasone, è un potente glucocorticoide commercializzato in forma di dipropionato in varie specialità in uso come spray o aerosol per la terapia dell’asma o delle riniti. Un potente glucocorticoide a uso topico che contiene un atomo di cloro in 7α è l’alclometasone (Fig. 28.16), in commercio come dipropionato in specialità di uso dermatologico. Il clobetasone – 21-cloro-9-fluoro-17-idrossi-16-metilpre­ gna-1,4-diene-3,11,20-trione –, il clobetasolo – (11β,16β)21-cloro-9-fluoro-11,17-diidrossi-16-metilpregna-1,4diene-3,20-dione – e l’alcinonide (Fig. 28.16) sono caratterizzati dalla presenza di un atomo di cloro nella posizione 21. Questa modifica dà origine ad antinfiammatori topici con proprietà farmacologiche simili. Il primo è in commercio come estere butirrico. Il secondo è in commercio come estere propionico in preparati indicati nella terapia sintomatica delle dermatosi resistenti, quali psoriasi, eczemi recidivanti, lupus eritematoso. Il terzo è di uso analogo ai precedenti e viene anche associato con acido salicilico, con amfotericina B e con neomicina. Più recentemente sono stati introdotti in terapia altri derivati ad azione glucocorticoide, molti dei quali presentano modificazioni soprattutto a livello del gruppo in C17. La budesonide – 16,17-butilidenebis(ossi)-11,21-diidrossipre-

BOX 28.7 ■ Sintesi del betametasone Il desametasone può essere ottenuto dalla diosgenina, un composto di origine vegetale. La diosgenina presenta una funzione chetalica e la reazione con anidride acetica comporta la formazione di un estere e di un enoletere. La successiva ossidazione con CrO3 permette l’apertura dell’anello diidrofuranico e la formazione di un intermedio, successivamente idrolizzato a 3,16-diidrossipregn-5-en-20-one. Trattando con acido a caldo si ha una reazione di β-eliminazione, con formazione del pregnadienolone, caratterizzato da un sistema carbonilico α,β-insaturo. La successiva reazione con diazometano porta alla formazione di un derivato pirazolinico, che a caldo perde N2 permettendo la formazione del derivato caratterizzato da un metile in posizione β sul C16. Mediante idrogenazione catalitica si ha la riduzione dei due doppi legami presenti sullo scheletro. Si effettua quindi la reazione di Claisen, facendo reagire con dietilossalato e sodio etilato e successivamente si dibromura il metilene in α ai due carbonili. Trattando

quindi con metossido di sodio si effettua la trasposizione di Favorskii, che permette la formazione di un estere α,β-insaturo. L’estere viene quindi ridotto ad alcol con litio alluminio idruro. Si aggiunge anidride acetica che reagisce con l’alcol primario e successivamente si ossida con H2O2 in presenza di N-metilmorfolina. Si tratta quindi con bromo e successivamente con carbonato di litio, in modo tale da ottenere un sistema coniugato sull’anello A. Mediante ossidazione enzimatica si inserisce quindi un ossidrile in posizione 11. La reazione con il cloruro dell’acido para-toluen solfonico (TsCl) permette la formazione dell’estere e successiva eliminazione. Infine si fa reagire con N-bromoacetamide, che in acqua genera acido ipobromoso, dando reazione di addizione al doppio legame e formando la bromidrina. Trattando con una base in ambiente basico si forma l’epossido che, per successiva aggiunta di acido fluoridrico, permette di ottenere il betametasone.

CAPITOLO 28 • Ormoni steroidei

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H3C

CH3

O

H3C CH3

CH3 (CH3CO)2O

O

CH3

CH3

CH3

200 °C

HO

CrO3

O H3C

O O

HO Diosgenina

CH3

H3C H3C CH3

O

O O

CH3

CH3

CH3 CH3

O

CH3 O

CH3

OH

Idrolisi

O

CH3

O

H+/ -H2O

HO

HO Pregnadienolone

HO

CH2N2



CH3

-N2

H HO

H2 Pd/C

CH3



O

COOC2H5

CH3

C2H5ONa

Br O

O

CH3

CH3

O OC2H5

COOC2H5

CH3

HO

HO O

O

CH3

O

CH3

CH3

Condensazione di Claisen

CH3

CH3

O H3C CH3 N N

CH3

O

Br

CH3

O

CH3

2 Br2 CH3COONa

OCH3 OC2H5 CH3

CH3ONa

CH3

CH3

CH3

Trasposizione di Favorskii

HO

HO HO O CH2OH

CH3 LiAlH4

CH3

CH3

CH3

Br

CH3

O

O

Br O

CH3

O

CH3

O O OH

CH3

DMF

2 Br2

CH3

CH3

O O OH

CH3

2. H2O2 N-metilmorfolina

HO

Li2CO3

O O OH

CH3

1. (CH3CO)2O

CH3

O

CH3

O

Ossidazione enzimatica

CH3

O

HO CH3

CH2OH HO

O OH

CH3

1. CH3CONHBr 2. Trattamento basico 3. HF

F O Betametasone

O O OH

S

CH3

O

Cl

O H3 C

TsCl

CH3 CH3

CH3 O

O

CH3

CH3

CH3

O O OH CH3

CH3

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CH2OH O

CH3

HO

CH2OH

CH3

CH3

HO

OH

CH3

CH3

O OH CH3

Cl O

Cl

O Beclometasone

CH2Cl

CH2Cl

O

O

CH3

O

Alclometasone

CH3

CH3

HO

OH

F

O Clobetasolo

Alcinonide

CH2OH

CH2OH O

CH3

O

CH3

O * * nuovo centro chirale

CH3

Desonide

O O

CH3

Rimexolone

CH2OH

OCH2Cl O

CH3

CH3

O

Budesonide

CH3

CH3

O

CH3

HO

CH3

CH3

O

CH2OH

O

O

CH3

CH3

O

O

O F

Desossimetasone

Loteprednolo etabonato

Flunisolide

SCH2F

CH3

CH2Cl

O

CH3

HO

OCOCH2CH3

F O

O

CH3

CH3

O O

CH3

HO

CH3

Cl O

F Fluticasone propionato

Figura 28.16 Altri glucocorticoidi sintetici.

O CH3

CH3

HO

F

O

O

CH3

HO

O

O

HO

CH2CH3

O CH3

CH3

HO

CH3

O

CH3

CH3

O

F

O Clobetasone

HO

O

CH3

CH3

F

O

O CH3

CH3

HO

OH

CH3

CH3

CH2Cl

Mometasone furoato

O

CH3

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gna-1,4-diene-3,20-dione – (Fig. 28.16) è utilizzata per via orale nel trattamento del morbo di Crohn, malattia infiammatoria cronica dell’intestino. La sua affinità per i recettori dei GC è 200 volte superiore a quella dell’idrocortisone e 15 volte superiore a quella del prednisolone. La molecola ha un centro chirale in posizione 22 e si usa come miscela racemica, anche se l’epimero (R) ha un’affinità doppia per il recettore rispetto all’epimero (S). La desonide è utilizzata per uso topico cutaneo od oftalmico. Il rimexolone è utilizzato per uso oftalmico. Il loteprednolo etabonato è utilizzato come sospensione per uso oftalmico. La sua attività sistemica è notevolmente ridotta a causa della rapida metabolizzazione a derivato carbossilato inattivo. Il desossimetasone – 9-fluoro-11β,21-diidrossi-16αmetillpregna-1,4-diene-3,20-dione –, derivato 9α-fluorurato, trova applicazione per uso topico cutaneo. La flunisolide – 6-fluoro-11,16α,17,21-tetraidrossi­ pregna-1,4-diene-3,20-dione 16,17-acetonide – e il fluticasone propionato vengono utilizzati come spray inalatori per il trattamento dell’asma e delle riniti allergiche. Il mometasone furoato – (11β,16α)-9,21-dicloro-17[(2-furanilcarbonil)ossi]-11-idrossi-16-metilpregna-1,4diene-3,20-dione – (Fig. 28.16) è un potente GC disponibile in varie preparazioni per uso topico e in formulazioni per asma e rinite allergica.

28.5.6 U  si terapeutici ed effetti secondari dei glucocorticoidi e dei mineralcorticoidi I principali usi terapeutici dei GC sono correlati alla loro azione antinfiammatoria, antiallergica e immunosoppressiva. Sono attivi come antinfiammatori qualunque sia l’agente stimolante: radiante, meccanico, chimico, infettivo. Vengono infatti utilizzati nell’artrite reumatoide, nelle febbri reumatiche acute, nelle borsiti, nella gotta, nelle endocarditi reumatoidi. Alcuni glucocorticoidi sono efficaci nel trattamento della psoriasi. L’azione antinfiammatoria è puramente sintomatica: i sintomi ricompaiono con la sospensione del farmaco. I glucocorticoidi possono essere associati con antibiotici nella cura di polmoniti, febbri tifoidi e meningococciche. Come antiallergici sono usati a partire da allergie e dermatiti da contatto fino alle forme gravi di asma. Come immunosoppressori trovano impiego nella profilassi del rigetto del trapianto di organi.

CAPITOLO 28 • Ormoni steroidei

Inoltre vengono utilizzati nel trattamento dell’insufficienza surrenalica dovuta a una loro carenza o in casi di ablazione totale o parziale delle surrenali o dell’adenoipofisi. I GC provocano linfocitopenia e quindi sono usati come inibitori della iperproliferazione delle cellule mieloidi nella leucemia e nei linfomi, in associazione ad agenti antitumorali. I MC, in alcuni casi in associazione con i glucocorticoidi, trovano applicazione terapeutica nell’insufficienza surrenalica, dove si riscontrano livelli ematici bassi di Na+ ed elevati di K+ con marcata riduzione del volume di acqua extracellulare, debolezza muscolare e ipotensione. Negli stati di shock i mineralcorticoidi vengono generalmente somministrati con glucocorticoidi. La terapia con GC, specialmente se prolungata, non deve essere interrotta bruscamente. I glucocorticoidi vengono somministrati per via orale, per via parenterale (endovenosa, intramuscolare, sottocutanea, intrasinoviale) e per applicazione topica (pomate, creme e lozioni cutanee, creme e lozioni oftalmiche, aerosol). Per la maggior parte degli aerosol, l’assorbimento è praticamente uguale a quello che si ha con la somministrazione parenterale od orale. Sebbene gli effetti collaterali e la tossicità varino con la natura del farmaco e, alle volte, con il soggetto, la maggior parte dei glucocorticoidi provoca una serie di reazioni avverse che sono costituite da un ampliamento delle loro azioni fisiologiche e impongono una prescrizione responsabile. Le principali reazioni avverse dei GC sono rappresentate da disordini gastrointestinali, fino ad arrivare a ulcera gastrica, aumento della glicemia (con conseguente aggravamento di diabete preesistente), bilancio negativo dell’azoto, miopatie con progressiva distruzione delle masse muscolari, osteoporosi, accumulo di lipidi in particolari zone del corpo (dorso, volto), abbassamento della resistenza alle infezioni, ipertensione, aumento della pressione intraoculare (glaucoma), acne, ipertricosi e psicosi. I MC o i GC con componente mineralcorticoide causano ritenzione di liquidi ed edemi, ipokaliemia che può essere seguita da aritmie fino a paralisi e arresto cardiaco. Quindi questi farmaci vanno utilizzati con particolare attenzione in individui che presentino già una delle condizioni patologiche appena indicate. In generale tutti i GC, quando utilizzati per uso topico su piccole superfici corporee e su cute intatta, non vengono assorbiti e non hanno azione sistemica con conseguenti effetti collaterali. Se l’applicazione di GC viene fatta su ampie superfici, su cute non integra o con bendaggi occlusivi si può avere un certo grado di assorbimento sistemico.

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Farmaci dell’omeostasi del calcio Francesco Enrico Pinnen, Ivana Cacciatore

29.1  Il calcio 29.1.1 O  rmoni coinvolti nel controllo dei livelli sierici di calcio 29.1.2 Omeostasi del calcio

29.2 Malattie associate a disfunzioni nell’omeostasi ossea del calcio 29.2.1 Osteoporosi 29.2.2 T  rattamento farmacologico dell’osteoporosi 29.2.3 Morbo di Paget

29.3  Alcuni sviluppi futuri

29.1 Il calcio Il calcio ricopre un ruolo chiave in una vasta gamma di funzioni biologiche, sia come ione libero sia sotto forma di complessi. Una delle funzioni più importanti svolte dal calcio sotto forma di complesso riguarda la mineralizzazione ossea. La maggior parte della quantità totale di calcio nel corpo (>  99%) è presente nello scheletro come complessi calcio-fosfato, principalmente idrossiapatite, responsabile delle proprietà del materiale osseo. Le funzioni principali del calcio nelle ossa sono: (a) fornire la resistenza scheletrica; (b) fornire un pool dinamico di calcio intra- ed extracellulare. Il calcio non osseo rappresenta meno dell’1% di tutto il calcio corporeo; esso è responsabile di una vasta gamma di funzioni essenziali, tra cui la segnalazione intra- ed extracellulare, la trasmissione dell’impulso nervoso e la contrazione muscolare. Le concentrazioni di calcio sierico variano da 0,088 a 0,104 mg/mL in soggetti sani; nel siero tale elemento è presente sotto forma di ioni liberi (51%), complessi legati alle proteine (40%) e complessi ionici (9%). Al fine di evitarne la tossicità, la concentrazione di calcio ionizzato nel siero è strettamente mantenuta all’interno di un range fisiologico di 0,044-0,054 mg/mL. Il calcio non ionizzato è associato a una varietà di proteine e anioni, sia nel pool intracellulare sia in quello extracellulare. Le principali proteine che legano il calcio includono albumina e globulina nel siero e calmodulina e altre proteine leganti il calcio nella cellula. I principali complessi ionici nel siero sono costituiti da calcio fosfato, calcio carbonato e calcio ossalato.

Una dieta media occidentale fornisce un apporto di circa 1 g di calcio elementare al giorno. Tipicamente, circa il 30% (300 mg) viene assorbito attraverso l’intestino tenue e una piccola percentuale nel colon. Poiché la secrezione intestinale di calcio è relativamente costante, l’assorbimento netto di calcio è di 150 mg al giorno per un adulto sano. Il calcio assorbito dall’intestino entra nel sangue e viene filtrato dal rene. La gran parte del calcio filtrato (98%) viene riassorbita nei tubuli renali prossimali, quindi solo 150 mg al giorno vengono escreti dagli individui sani.

29.1.1 O  rmoni coinvolti nel controllo dei livelli sierici di calcio L’omeostasi del calcio è un complesso processo biologico basato sul controllo della concentrazione del calcio nel siero. Essa è in gran parte regolata da un sistema ormonale integrato che controlla il trasporto del calcio nell’intestino, nei reni e nelle ossa. In tale processo omeostatico sono coinvolti: (a) l’ormone paratiroideo (PTH) e i rispettivi recettori PTHR; (b) la 1,25-diidrossivitamina D [1,25-(OH)2D] e il rispettivo recettore VDR; (c) la calcitonina; (d) il calcio ionizzato sierico associato al recettore calcio-sensibile (CaSR). L’ormone paratiroideo, sintetizzato dalle ghiandole paratiroidee, è un ormone polipeptidico costituito da 84 aminoacidi prodotto da un precursore inattivo di 115 aminoacidi, detto ormone preproparatiroideo (Pre-Pro-PTH, Fig. 29.1). A livello del reticolo endoplasmatico, ad opera di en-

CAPITOLO 29 • Farmaci dell’omeostasi del calcio

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Ormone PTH (1-84 aa)

Figura 29.1 Sintesi del PTH. aa, aminoacidi.

zimi proteolitici, si assiste alla scissione dei 25 aminoacidi terminali che genera l’ormone proparatiroideo (Pro-PTH). Quest’ultimo si dirige verso l’apparato di Golgi dove, dopo aver subito idrolisi di altri 6 aminoacidi terminali ad opera di un enzima proteolitico, genera il PTH. Il PTH (1-84) rimane nei granuli secretori fino alla sua liberazione nel torrente circolatorio. L’attività biologica del PTH risiede solo nei residui 1-34 dell’estremità N-terminale. L’emivita di questo ormone è di circa 4 minuti e l’eliminazione è prevalentemente epatica e renale. Le importanti funzioni svolte dal PTH, mediate dai due recettori PTH1R e PTH2R, comprendono: (a) la stimolazione della formazione dell’osso per effetto diretto sugli osteoblasti; (b) l’aumento del riassorbimento del calcio e dell’escrezione di fosfato da parte del rene; (c) la stimolazione della produzione di 1,25-(OH)2D a livello renale, che determina un assorbimento di calcio e fosfato a livello intestinale. La 1,25-(OH)2D, il metabolita più attivo della vitamina D (Cap. 6, Fig. 6.37), è sintetizzata nel tubulo renale prossimale a partire dalla 25-idrossivitamina D (25-OHD), proveniente dalla ossidrilazione sul C25 della vitamina D a livello epatico (Fig. 29.2). H3C CH3

1

HO

OH 1,25-(OH)2D

CH3 CH3 CH3 25

OH

L’emivita di tale ormone è pari a circa 5 ore negli esseri umani; il 15% è escreto come metabolita a livello renale e il 50% come metaboliti fecali. La concentrazione di questo metabolita nel sangue è strettamente regolata. Gli stimoli più importanti per la sintesi renale di tale metabolita includono il PTH, il suo secondo messaggero adenosina monofosfato ciclico (cAMP) e la mancanza di fosfato. Mentre originariamente si pensava che l’ipocalcemia e la calcitonina promuovessero la sintesi di questo metabolita attraverso la stimolazione del rilascio di PTH, attualmente è stato dimostrato che esse stimolano direttamente la reazione di ossidrilazione. Anche gli estrogeni aumentano la produzione di 1,25-(OH)2D, probabilmente mediante up-regulation dei recettori PTHR renali. La 25-OHD α-idrossilasi renale viene inibita dalla 1,25-(OH)2D, dall’ipercalcemia e da un carico di fosfato. L’asse PTH-vitamina D, essendo modulato dal livello di calcio ionizzato, controlla l’adattamento ad alterazioni nell’assunzione di calcio e sodio con la dieta e ai cambiamenti nel turnover scheletrico basato sul livello di attività fisica. La 1,25-(OH)2D esplica un ampio spettro di azioni: (a) aumenta i livelli di calcio e fosforo nel sangue mediante incremento dell’assorbimento di calcio e fosfato a livello gastrointestinale; (b) aumenta il riassorbimento dell’osso e gli effetti del PTH a livello del rene per promuovere il riassorbimento di calcio a livello tubulare renale; (c) svolge un ruolo cruciale nella normale mineralizzazione scheletrica, causando la maturazione degli osteoclasti in cellule multinucleate atte al riassorbimento osseo. Tali funzioni sono svolte mediante interazioni con uno specifico recettore nucleare VDR (vitamin D receptor) nei tessuti target a livello citoplasmatico; successivamente il complesso ormone-recettore trasloca nel nucleo. Quindi la 1,25-(OH)2D, una volta legata ai cosiddetti elementi di risposta alla vitamina D (VDRE) situati su specifiche regioni dei promotori dei geni target, ne modula la trascrizione stimolando il trasporto di calcio nei vari tessuti. Un regolatore secondario dei livelli sierici di calcio è rappresentato dalla calcitonina, un peptide di 32 aminoa-

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Figura 29.2 Sintesi della 1,25-(OH)2D. A partire dal colecalciferolo, la prima ossidrilazione avviene sul C25 per formare la 25-OHD ad opera della vitamina D 25-ossidrilasi a livello epatico; tale passaggio non dipende dalle concentrazioni seriche di calcio. Successivamente, la 25-OHD, a livello renale, subisce ossidrilazione sul C1 ad opera della vitamina D 1α-ossidrilasi, un sistema enzimatico complesso mitocondriale (citocromo P450) localizzato a livello dei tubuli prossimali, per formare la 1,25-(OH)2D. L’ossidrilazione in posizione 1α, il punto più importante per il metabolismo della vitamina D, è funzione delle concentrazioni di fosfato, di calcio e di quelle di PTH circolanti.

cidi sintetizzato e secreto dalle cellule parafollicolari delle ghiandole tiroidee. Chimicamente essa presenta un ponte disolfuro tra le cisteine in posizione 1 e 7, fondamentale per l’attività biologica; tutta la sequenza aminoacidica, a differenza del PTH, è indispensabile per la bioattività. La calcitonina ha una breve emivita (pochi minuti) ed è secreta prevalentemente per via renale. Essa è per lo più un ormone ipocalcemizzante le cui funzioni sono generalmente opposte a quelle del PTH. La sua secrezione dipende dalle concentrazioni di calcio ionizzato; in uno stato di ipercalcemia, l’aumentata produzione di calcitonina (a) provoca una diminuzione di calcio, favorendo l’eliminazione di calcio e fosfato a livello renale, (b) previene il riassorbimento di calcio osseo inibendo gli osteoclasti e (c) inibisce l’assorbimento intestinale di calcio. Negli stati in cui i livelli di calcio sono

bassi, la secrezione di calcitonina viene ridotta con conseguente inversione dei processi biologici sopra descritti. Le funzioni svolte dalla calcitonina sono mediate da recettori (calcitonine receptors, CTR) esistenti in diverse isoforme, strutturalmente simili a quelli del PTH e della secretina, ossia recettori costituiti da sette domini transmembrana accoppiati a proteine G.

29.1.2 Omeostasi del calcio La maggior parte dei meccanismi di difesa fisiologici contro ipercalcemia e ipocalcemia è mediata dalle azioni ormonali del PTH e di 1,25-(OH)2D. Una caduta della concentrazione di calcio ionizzato (ipocalcemia) è immediatamente percepita dalle ghiandole paratiroidi (il recettore CaSR viene inattivato), che rispondono con un aumento della secrezio-

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CAPITOLO 29 • Farmaci dell’omeostasi del calcio

BOX 29.1 ■ Interazioni calcio-fosfato: omeostasi del fosfato I livelli di fosforo, presente sia in forma organica sia inorganica, sono regolati dall’assorbimento intestinale, dall’escrezione renale e dall’accrescimento delle ossa. Tuttavia, ci sono parecchie differenze importanti tra il mantenimento dell’equilibrio dei livelli di fosforo e di calcio. L’assorbimento del fosforo è raramente limitato; infatti, esso è presente in abbondanza in molti alimenti, a differenza del calcio presente solo in pochi elementi dietetici. Il fosforo assunto con la dieta viene assorbito quasi due volte più efficientemente rispetto al calcio e, pertanto, raramente rappresenta un problema nutrizionale. Generalmente, un adulto sano assume 1400 mg di fosforo nella dieta e di questi circa 900 mg vengono assorbiti. In condizioni fisiologiche più di 200 mg di fosforo entrano nell’osso e una eguale quantità viene rilasciata e riassorbita nel pool centrale di calcio; circa 900 mg vengono escreti con le urine. L’osso rappresenta il deposito principale di fosforo e calcio. Nei tessuti molli sono presenti notevoli depositi di fosforo, a causa del ruolo centrale di tale elemento nel metabolismo energetico, nella segnalazione intracellulare e nel mantenimento delle strutture cellulari. Calcio e fosfato (fosforo inorganico) interagiscono in diversi processi fondamentali. Nello scheletro, il metabolismo del calcio e del fosfato funziona in accordo con osteoblasti, osteociti e proteine della matrice extracellulare per mineralizzare l’osteoide mentre si deposita. D’altra parte, nei tessuti non scheletrici vi è un sistema regolatore, non ancora ben compreso, che impedisce la deposizione dannosa dei complessi calcio-fosfato nei tessuti molli. La comprensione della regolazione dell’omeostasi del fosfato è stata meno studiata rispetto a quella del calcio; tuttavia, con la delucidazione del ruolo delle fosfatonine e dei trasportatori fosfato sodio-dipendenti implicati nel metabolismo del fosfato, la regolazione del fosfato sierico e la sua interazione con l’omeostasi del calcio sono diventate più chiare. Il sistema ormonale di regolazione dell’omeostasi del fosfato coinvolge due ormoni principali: il fattore di crescita dei fibroblasti 23 (FGF-23) e il complesso recettore FGF/Klotho. L’FGF-23 (sequenza peptidica di 251 aminoacidi), espresso in prevalenza nell’osso ma anche in una varietà di tessuti umani, gioca un ruolo fondamentale nell’inibizione della sintesi dell’1,25-(OH)2D. Il meccanismo di azione dell’FGF-23 non è ancora completamente noto, ma sembra certo che agisca attraverso un recettore specifico (FGF-R), espresso a livello renale, paratiroideo, del plesso coroide e ipofisario. Tuttavia, l’affinità di FGF-23 per il suo recettore è piuttosto bassa e, perché si abbia un significativo effetto biologico, è necessaria la presenza di un cofattore, oggi identificato nella proteina Klotho. Gli effetti di questa proteina non sono ancora completamente definiti, ma si ritiene che sia implicata nei processi di invecchiamento. Come precedentemente detto, l’FGF-23 esercita i suoi principali effetti sul metabolismo e sul mantenimento dell’omeostasi del fosfato. Un aumento del fosfato sierico stimola la secrezione dell’FGF-23 dall’osso, che agisce sui cotrasportatori Na/Pi II a livello delle cellule tubulari

prossimali del rene per ridurre il riassorbimento del fosfato. Contemporaneamente, l’FGF-23 riduce la secrezione renale della 1,25-(OH)2D, che diminuisce l’assorbimento intestinale di fosfato. L’effetto complessivo è quello di riportare i livelli di fosfato sierico alla normalità. Una riduzione del fosfato sierico ha azioni opposte poiché, riducendo i livelli di FGF-23, si ha un ripristino di fosfato sierico. I livelli del PTH sierico, fondamentale nell’omeostasi del calcio, svolgono un ruolo chiave anche nell’omeostasi del fosfato. Un’azione prolungata da parte del PTH sui cotrasportatori Na/Pi II renali diminuisce il riassorbimento renale di fosfato, mentre una ridotta attività da parte del PTH aumenta il riassorbimento renale di fosfato. Va anche notato che il PTH ha un effetto sulla secrezione di 1,25-(OH)2D opposto a quella del FGF-23. Un aumento del PTH stimola la secrezione del 1,25-(OH)2D, mentre un aumento dell’FGF-23 riduce la secrezione di 1,25-(OH)2D. Viceversa, una diminuzione del PTH riduce la secrezione del 1,25-(OH)2D, mentre una diminuzione dell’FGF-23 aumenta la secrezione dell’1,25-(OH)2D. Pertanto esiste un complicato equilibrio tra l’omeostasi del calcio e quella del fosfato. La rottura di tale equilibrio dovuta a malattie renali croniche (come la CKD, chronic kidney disease) ha importanti implicazioni nella regolazione del calcio e del fosfato e sulla propensione a sviluppare calcificazione dei tessuti ectopici. Quando la funzione renale diminuisce e si sviluppa la CKD, un’aumentata ritenzione di fosfato determina un aumento del fosfato sierico e dei livelli di FGF-23. Nel frattempo, una riduzione dell’assorbimento del calcio causata da una ridotta secrezione di 1,25-(OH)2D porta a una diminuzione del calcio sierico e a un aumento del PTH. Quindi la tendenza a sviluppare iperfosfatemia nella CKD è ritardata da alti livelli di FGF-23 e PTH, che compensano diminuendo il riassorbimento renale e l’assorbimento intestinale del fosfato. Tuttavia, l’iperfosfatemia si sviluppa mentre la funzione renale continua a diminuire. Il rischio di calcificazione ectopica rimane relativamente basso finché la calcemia rimane bassa. Tuttavia, un aumento dei livelli sierici di calcio causato da condizioni patologiche, come lo sviluppo di iperparatiroidismo terziario, o sovradosaggio di calcio e vitamina D, aumenta notevolmente il rischio di calcificazione ectopica. L’omeostasi del fosfato evidenzia molte differenze rispetto a quella del calcio. In primo luogo, un recettore che rileva il livello di fosfato sierico non è stato ancora identificato. In secondo luogo, i cambiamenti nella concentrazione sierica di fosfato sono facilmente tollerati; l’intervallo fisiologico è ampio, poiché vi è una marcata fluttuazione dei livelli sierici ai pasti, e i bambini hanno valori molto più alti rispetto agli adulti. Infine, l’effetto dose-risposta tra le concentrazioni di fosfato sierico e FGF-23 è molto meno rapido rispetto a quello tra il calcio e i suoi ormoni regolatori. D’altro canto, l’escrezione renale di fosfato è strettamente regolata come quella del calcio, e il rene gioca un ruolo fondamentale nell’omeostasi di entrambi.

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ne di PTH. A sua volta il PTH aumenta il riassorbimento di osteoclasti nell’osso, liberando calcio e fosfato dall’osso verso il fluido extracellulare. Inoltre, il PTH provoca anche un aumento del riassorbimento di calcio a livello dei tubuli renali e un’inibizione del riassorbimento di fosfato. Gli aumentati livelli di PTH stimolano: (a) la secrezione renale di 1,25-(OH)2D che, attivando i recettori VDR a livello gastroenterico, incrementa ulteriormente l’assorbimento di calcio e fosfato dall’intestino; (b) la riduzione della secrezione di PTH dalle ghiandole paratiroidee; (c) il riassorbimento osseo. Tale risposta ormonale integrata ripristina il calcio sierico bloccando il meccanismo di feedback negativo. Nella situazione opposta (ipercalcemia), un aumento della concentrazione di calcio ionizzato, con conseguente attivazione dei CaSR, provoca una diminuzione della secrezione di PTH dalle ghiandole paratiroidee. Conseguentemente, anche il riassorbimento tubulare renale di calcio e il riassorbimento osseo di osteoclasti sono diminuiti. La sintesi di 1,25-(OH)2D risulta diminuita, e a sua volta diminuisce l’assorbimento di calcio e fosfato assunti con la dieta. Pertanto, un individuo sano risponde agli aumenti di calcio ionizzato con un aumento dell’escrezione renale di calcio e una riduzione dell’assorbimento intestinale di calcio. Insieme, questi meccanismi di feedback negativi contribuiscono a mantenere i livelli totali di calcio sierico nei soggetti sani entro un campo fisiologico relativamente ristretto del 10%.

29.2 M  alattie associate a disfunzioni nell’omeostasi ossea del calcio 29.2.1 Osteoporosi Tra le varie patologie derivanti da disfunzioni dell’omeostasi del calcio, l’osteoporosi è certamente la più diffusa e importante, con crescente impatto sanitario e socio-economico nelle nazioni più industrializzate, anche come conseguenza del progressivo invecchiamento della popolazione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) definisce l’osteoporosi “una malattia scheletrica sistemica caratterizzata da basso tenore di massa ossea e deterioramento della microarchitettura, con conseguente aumento della fragilità ossea e della suscettibilità alle fratture” (skeletal muscle wasting, SMW). La fragilità scheletrica è generalizzata, anche se femore, radio e vertebre sono le sedi più a rischio, dal momento che circa il 50% delle donne e il 20% degli uomini oltre i 50 anni di età presentano rischio progressivamente elevato di contrarre fratture ossee. Poiché la perdita di massa ossea è inizialmente asintomatica, l’osteoporosi viene spesso diagnosticata solo dopo che si sia verificato il primo episodio di frattura ossea. La prevenzione di eventuali nuovi episodi di frattura ossea non può prescindere da un’attenta valutazione di fattori di rischio, quali l’età, un elevato indice di massa corporea (BMI), uso di sigarette e alcolici, precedenti storie in famiglia di fratture, uso di glucocorticoidi, scarsa attività fisica. Pertanto, modificazioni nello stile di vita sono di norma raccomandate accanto alla terapia farmacologica nel trattamento dell’osteoporosi. Esistono tuttavia moderni me-

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todi diagnostici efficaci per l’osteoporosi; tra questi la scansione ossea attraverso l’impiego dell’assorbimetria a raggi X a doppia energia (dual-energy X-ray absorptiometry, DXA) è una tecnica affidabile per conoscere il valore di densità minerale ossea (BMD) di un individuo e, al tempo stesso, operare una prevenzione. L’osteoporosi può essere distinta in primaria e secondaria. La primaria è riconducibile a due differenti tipi: l’osteoporosi di tipo I (post-menopausa) e osteoporosi di tipo II (senile). Il tipo I si associa a bassi livelli sierici di 1,25-(OH)2D e ridotto trasporto intestinale di calcio. Essa è caratterizzata dalla perdita di osso trabecolare, imputabile a carenza di estrogeni in menopausa. A livello cellulare si verifica una perdita di massa ossea a causa di uno sbilanciamento tra l’attività degli osteoclasti e quella degli osteoblasti. Com’è noto, lo scheletro è continuamente rimodellato in un’ordinata sequenza di processi di riassorbimento promossi dagli osteoclasti e di formazione ossea attivata dagli osteoblasti (Fig. 29.3). L’attivazione di differenti cellule nel tessuto osseo durante il processo di rimodellamento è orchestrata attraverso svariate vie metaboliche che vedono coinvolti, tra l’altro, l’attivatore del recettore del fattore nucleare NF-κB (il ligando RANKL) e le vie di trasduzione del segnale Wnt. Gli estrogeni svolgono un ruolo dominante multifattoriale nel mantenere una corretta formazione ossea, promuovendo l’attività degli osteoblasti e prevenendo il riassorbimento osseo attraverso un’inibizione dell’attività degli osteoclasti. La diminuzione del tenore di estrogeni, a seguito della menopausa, porta a uno squilibrio del normale rimodellamento fisiologico caratterizzato da progressiva perdita di tessuto osseo trabecolare, almeno in parte causata da una aumentata osteoclastogenesi (Fig. 29.3). Nell’uomo, il testosterone esercita un ruolo cruciale nella protezione dell’apparato scheletrico. Esperimenti eseguiti su topi knockout hanno dimostrato che, in assenza di recettori androgenici sulla superficie delle cellule ossee, nei ratti maschi si sviluppa osteoporosi ma non nelle femmine e che l’azione protettiva del testosterone risulta essere associata a un’azione favorente l’attività degli osteoblasti rispetto a quella degli osteoclasti. Nell’osteoporosi di tipo II (senile) si osserva una prevalente diminuzione dell’attività degli osteoblasti con conseguente diminuzione della velocità di formazione della massa ossea trabecolare. L’osteoporosi secondaria insorge invece per svariate cause che possono ricondursi alla prolungata terapia del soggetto con alcuni farmaci (ad es. l’uso cronico di corticosteroidi) o a determinate disfunzioni sistemiche, come ad esempio ipogonadismo, svariati disordini della nutrizione (ivi compresa l’anoressia nervosa) e malattie neoplastiche. Anche l’osteoporosi secondaria si associa ad alterazioni del rimodellamento osseo e, pertanto, sono previsti interventi terapeutici analoghi a quelli utilizzabili per l’osteoporosi primaria.

29.2.2 T  rattamento farmacologico dell’osteoporosi I farmaci utilizzabili nel trattamento dell’osteoporosi possono essere distinti sulla base del loro prevalente meccanismo

CAPITOLO 29 • Farmaci dell’omeostasi del calcio

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Figura 29.3 Meccanismo del processo fisiologico di rimodellamento osseo.

d’azione in agenti in grado di ostacolare il riassorbimento osseo e agenti anabolici, cioè capaci di favorire l’accrescimento osseo (Fig. 29.4 e Tab. 29.1).

Inibitori del riassorbimento osseo Tra gli inibitori del riassorbimento osseo, i bifosfonati rappresentano i farmaci più comunemente usati nel trattamento dell’osteoporosi (Fig. 29.4). Essi sono in grado di aumentare la densità ossea e ridurre il rischio di fratture a livello dell’anca, del rachide e in altre sedi. Tali farmaci possono essere suddivisi in due classi: bifosfonati non azotati (o di prima generazione) e aminofosfonati (o di seconda generazione). Le due classi presentano differente potenza, distinti bersagli intracellulari e un diverso meccanismo d’azione che porta, comunque, all’inibizione osteoclasto-mediata del riassorbimento osseo. O HO

P OH

O

O O

P OH

Pirofosfato

OH

HO

P OH

R1

O P

OH R2 Bifosfonato

OH

La sequenza -P-(R1)C(R2)-P- caratterizza tutti i bifosfonati: essi sono quindi analoghi del pirofosfato, contenendo un carbonio geminale sostituito in luogo dell’atomo di ossigeno del polifosfato. Il backbone di sequenza fosfato-carbonio-fosfato impartisce alla struttura proprietà chelanti per lo ione Ca2+, dotando i bifosfonati di forte affinità per la superficie ossea, specie nella fase di rimodellamento, con conseguente capacità di inibire il riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti. Inoltre, modificazioni anche modeste nella natura dei sostituenti nelle posizioni R1 e R2 presenti sul carbonio geminale possono portare a significativi cambiamenti nelle proprietà chimico-fisiche, biologiche, terapeutiche e tossicologiche.

I bifosfonati di prima generazione presentano come sostituenti al carbonio geminale (R1 e R2) semplici gruppi alchilici o atomi di cloro (etidronato e clodronato). L’affinità dei bifosfonati per la superfice ossea è sensibilmente innalzata qualora R1 sia un gruppo –OH (ad es. l’etidronato) piuttosto che un alogeno (come nel caso del clodronato) e ciò è stato spiegato sulla base delle migliori capacità chelanti lo ione Ca2+ dei chelanti tridentati come gli idrossi-derivati rispetto ai bidentati. Tali strutture vengono incorporate dagli osteoclasti e metabolizzate ad analoghi non idrolizzabili dell’adenosina trifosfato (ATP) con conseguente accumulo nella cellula e attivazione dell’apoptosi degli osteoclasti. Sebbene la prima generazione di bifosfonati si sia sviluppata già dal 1970, i precisi obiettivi biochimici dei bifosfonati non furono noti prima della fine degli anni ’90, grazie al successo dello screening di nuovi composti ottenibili soprattutto mediante modificazioni strutturali all’R2: queste nuove molecole mostrarono profonde e inaspettate differenze di affinità ossea e rivelarono nuovi bersagli cellulari. O HO

P OH

CH3 OH

O P OH

Etidronato

O OH

HO

P OH

Cl Cl

O P OH

OH

Clodronato

I bifosfonati di seconda e di terza generazione presentano, generalmente associato al residuo R1 = –OH, un residuo R2 azotato collocato come sostituente del carbonio geminale (pamidronato, alendronato, risedronato, zoledronato). Si ritiene che tali bifosfonati presentino un meccanismo d’azione alternativo a quelli di prima generazione, basato sull’inibizione della farnesilpirofosfatosintasi (FPPS), enzi-

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Figura 29.4 Meccanismo d’azione di differenti classi di farmaci per il trattamento dell’osteoporosi. (A) Inibitori del riassorbimento osseo: 1) la calcitonina, dopo essersi legata al suo recettore di superficie (CTR) sull’osteoclasto, inibisce la funzione di quest’ultimo impedendo così il riassorbimento osseo; 2) i bifosfonati vengono internalizzati nell’osteoclasto dove esplicano la loro funzione inibitoria; 3) il denosumab agisce mediante un meccanismo indiretto catturando il ligando RANKL e impedendone il legame con il suo recettore (RANK) e la sua conseguente azione di riassorbimento osseo. (B) Terapia ormonale: il raloxifene, legandosi al recettore intracellulare degli estrogeni ERα presente nell’osteoblasto, inibisce l’attività osteoclastica sia mediante up-regulation dell’osteoprotegerina sia mediante down-regulation del ligando RANKL. (C) Agenti anabolici: 1) la teriparatide si lega al recettore di superficie PTHR sull’osteoblasto, stimolando così il ligando RANKL a interagire con il proprio recettore e promuovere l’attività osteoblastica; 2) lo stronzio ranelato a livello osteoblastico agisce legandosi al recettore CaSR promuovendo sia la up-regulation dell’osteoprotegerina, con conseguente inibizione dell’attività osteoclastica, sia la down-regulation del ligando RANKL, riducendo pertanto l’attività osteoblastica; a livello osteoclastico, invece, lo stronzio agisce direttamente legandosi al recettore CaSR e inducendo l’apoptosi degli osteoclasti stessi. (D) Anticorpi monoclonali: gli anticorpi anti-sclerostina impediscono a quest’ultima di legarsi al recettore LRP5/6, lasciandolo disponibile per il legame con il ligando Wnt, il quale attiva la via di segnalazione che promuove l’attività osteoblastica.

CAPITOLO 29 • Farmaci dell’omeostasi del calcio

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Tabella 29.1 Trattamento farmacologico dell’osteoporosi attualmente in atto. Medicinale

Posologia e modo di somministrazione

Indicazioni terapeutiche

Inibitori del riassorbimento osseo Etidronato bisodico

Osteoporosi post-menopausale; prevenzione e trattamento della perdita ossea, allo scopo di ridurre il rischio di fratture osteoporotiche.

400 mg al giorno per via orale

Clodronato disodico

Osteolisi tumorale; mieloma multiplo; iperparatiroidismo primario; prevenzione e trattamento dell’osteoporosi postmenopausale.

Uso endovenoso o intramuscolare

Alendronato sodico triidrato

Trattamento dell’osteoporosi in età post-menopausale.

70 mg una volta a settimana per via orale

Pamidronato bisodico

Trattamento dell’ipercalcemia neoplastica; prevenzione degli eventi correlati all’apparato scheletrico in pazienti affetti da tumore della mammella con metastasi ossee o mieloma multiplo con lesioni ossee, in aggiunta al trattamento specifico del tumore.

Solo per infusione endovenosa

Risedronato sodico

Trattamento dell’osteoporosi post-menopausale per ridurre il rischio di fratture vertebrali; trattamento dell’osteoporosi post-menopausale accertata per ridurre il rischio di fratture dell’anca; trattamento dell’osteoporosi nell’uomo ad alto rischio di fratture.

35 mg una volta a settimana per via orale

Acido zolendronico monoidrato

Prevenzione di eventi correlati all’apparato scheletrico in pazienti adulti affetti da tumori maligni allo stadio avanzato che interessano l’osso; trattamento di pazienti adulti con ipercalcemia neoplastica (TIH).

Solo per infusione endovenosa

Tamoxifene citrato

Il tamoxifene induce il mantenimento della densità minerale ossea nelle donne in post-menopausa.

Da 20 a 40 mg in una o due somministrazioni giornaliere

Raloxifene cloridrato

Trattamento e prevenzione dell’osteoporosi nelle donne dopo la menopausa; riduzione significativa del rischio di fratture vertebrali da osteoporosi, ma non femorali.

60 mg al giorno per via orale

Bazedoxifene acetato

Trattamento dell’osteoporosi post-menopausale in donne con aumentato rischio di fratture; riduzione significativa nell’incidenza delle fratture vertebrali.

20 mg una volta al giorno per via orale

Teraparatide

Trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa e negli uomini ad aumentato rischio di frattura. Nelle donne in post-menopausa è stata dimostrata una riduzione significativa nell’incidenza delle fratture vertebrali e non vertebrali, ma non delle fratture femorali. Trattamento dell’osteoporosi indotta da una prolungata terapia con glucocorticoidi per via sistemica nelle donne e negli uomini ad aumentato rischio di frattura.

20 μg una volta al giorno per iniezione sottocutanea nella coscia o nell’addome

Stronzio ranelato

Trattamento dell’osteoporosi nelle donne in post-menopausa per ridurre il rischio di fratture vertebrali e dell’anca; trattamento dell’osteoporosi negli uomini adulti che presentano un aumentato rischio di frattura.

2 g una volta al giorno per somministrazione orale

Trattamento dell’osteoporosi in donne in post-menopausa ad aumentato rischio di fratture; riduzione significativa del rischio di fratture vertebrali, non vertebrali e di femore. Trattamento della perdita ossea associata a terapia ormonale ablativa in uomini con cancro alla prostata ad aumentato rischio di fratture: in questi pazienti si osserva riduzione significativa del rischio di fratture vertebrali.

60 mg somministrati come iniezione sottocutanea singola una volta ogni 6 mesi nella coscia, nell’addome, o nella parte superiore del braccio

Terapia ormonale

Agenti anabolici

Anticorpi monoclonali Denosumab

ma impegnato nella via metabolica che dall’acido mevalonico porta al colesterolo. Oltre che nella sintesi del colesterolo, tale via è coinvolta nella sintesi del farnesil e del geranil-geranilpirofosfato, implicati nella regolazione di processi critici

per la funzione degli osteoclasti, compreso il traffico vescicolare. La potenza dei bifosfonati azotati nell’inibire l’attività dell’FPPS è stata correlata con l’abilità di favorire il riassorbimento osseo.

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BOX 29.2 ■ Schema generale di sintesi dei bifosfonati Il classico metodo di sintesi degli 1-idrossimetilen-bifosfonati, che rappresentano i precursori per tutti gli attuali bifosfonati impiegati in terapia, prevede il riscaldamento dell’appropriato acido carbossilico con una miscela di acido fosforoso e tricloruro di fosforo, seguito da idrolisi. La reazione è generalmente lenta potendo richiedere diversi giorni per giungere a compimento e ha, in ge-

1. PCl3/H3PO3, clorobenzene, 70-100 °C, 3,5 ore 2. H2O, riflusso, 6 ore

O OH

R

O HO

P

OH

OH

O

O

P OH

OH

HO

P

OH

OH

O HO

P OH

OH

OH

OH

Pamidronato

O OH N

Risedronato

P

NH2

O P

O OH

NH2 Alendronato

HO

nere, bisogno di essere ottimizzata su scala industriale con l’appropriata scelta della temperatura e del solvente più opportuno. In particolare, mentre la reazione viene usualmente condotta in clorobenzene in scala di laboratorio, migliori rese sono ottenute su scala industriale utilizzando l’acido netansolfonico come solvente.

P OH

OH

O P OH N

OH N

Zoledronato

I primi bifosfonati azotati, caratterizzati dalla presenza in R2 di un residuo basico di amina primaria (pamidronato e alendronato) si sono mostrati 10-100 volte più potenti rispetto a etidronato e clodronato. In particolare, l’alendronato fu progettato quale omologo superiore del pamidronato mediante l’aggiunta di un frammento metilenico in catena laterale. Negli anni ’80 venne realizzata la sintesi e la valutazione dell’attività biologica di un elevato numero di candidati azotati, anche se il ruolo della presenza dell’atomo di azoto rimase misterioso per più di una decade. Quale significativa evoluzione nella realizzazione degli analoghi del pamidronato è da menzionare la realizzazione di composti eterociclici imidazolici quali, ad esempio, lo zoledronato, che si è rivelato uno dei più potenti bifosfonati inibitori del riassorbimento osseo, e del piridil-derivato risedronato. In particolare, un dettagliato studio su analoghi del risedronato, indirizzato a chiarire l’orientamento del residuo azotato nella molecola, ha dimostrato il coinvolgimento di eventi stereospecifici di ricognizione. Recentemente, studi su derivati fenilalchil-imidazolici, non soltanto hanno permesso di confermare l’importanza nell’orientamento dei residui azotati, ma hanno anche provato come un ulteriore incremento della potenza possa realizzarsi median-

O

O

P P HO OH HO OH R HO

te l’incorporazione nella struttura del bifosfonato di funzionalità in grado di interagire con una tasca idrofobica dell’enzima FPPS. Inoltre, significative acquisizioni sulle interazioni di binding sono state ottenute mediante l’analisi cristallografica dei complessi inibitore-FPPS. In particolare, da complessi contenenti magnesio del risedronato e dello zoledronato con l’FPPS umana si è constatato come le funzioni fosfonato di queste strutture siano in grado di interagire con residui carichi positivamente di lisina situati nelle vicinanze del sito attivo, mentre interazioni di legame idrogeno si osservano per l’atomo di azoto piridinico o per l’NH imidazolico con il gruppo ossidrilico di Thr201 e con il carbonile del backbone della Lys200. Per quanto concerne la preparazione di questa classe di composti si rimanda al Box 29.2. Nella pratica clinica, l’alendronato è stato il farmaco più comunemente prescritto per il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale. In associazione con il calcio, è in grado di migliorare sensibilmente la densità minerale ossea (BMD) e di ridurre il rischio di incorrere in nuove fratture. I bifosfonati per via orale, ma soprattutto l’alendronato, presentano come effetto collaterale significativo la possibilità di insorgenza di disturbi gastrointestinali (irritazione locale della mucosa). Pazienti intolleranti all’alendronato orale possono ricevere migliore giovamento dal trattamento per via endovenosa o dall’uso di altri bifosfonati azotati assai più potenti, quali il pamidronato, lo zoledronato e il risedronato. In particolare, lo zelodronato risulta essere altamente efficace nel trattamento dell’osteoporosi nel ridurre il rischio di fratture e nel prevenire nuove fratture se dispensato in monosomministrazione endovenosa annuale di 5 mg. Le recenti e più dettagliate acquisizioni sulla fisiopatologia ossea e sugli eventi molecolari che caratterizzano l’osteoporosi hanno portato all’identificazione di nuovi bersagli di intervento farmacologico per l’osteoporosi.

Terapia ormonale Il trattamento dell’osteoporosi ha trovato giovamento anche con l’ausilio della terapia ormonale. I modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni (SERM, Fig. 29.5) sono in grado di esibire attività agonista o antagonista sul recettore estrogenico in funzione della loro struttura e del tessuto

CAPITOLO 29 • Farmaci dell’omeostasi del calcio

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H3C

O

N CH3

CH3

Tamoxifene HO

O

S

OH

O N Raloxifene HO

N

N

O

CH3

OH

Bazedoxifene

Figura 29.5 Modulatori selettivi dei recettori degli estrogeni (SERM).

target sui quali agiscono (Fig. 29.4). Diverse generazioni di SERM si sono succedute nella prevenzione e/o nel trattamento dell’osteoporosi in post-menopausa, tenendo conto che il ligando ideale dovrebbe essere in grado di proteggere il tessuto osseo senza stimolare, in particolare, la mammella o l’endometrio, né dar luogo a tromboembolie (effetti collaterali che rappresentano un serio problema nella terapia a lungo termine che caratterizza il trattamento dell’osteoporosi). I recettori per gli estrogeni (ERα e ERβ) sono infatti distribuiti in vari organi, principalmente cervello, utero, ossa, mammella, ovaie e fegato. Il tamoxifene, un SERM di prima generazione, presenta attività ER-agonista nell’utero e il suo impiego è pertanto associato ad aumentato rischio di cancro endometriale. Il raloxifene, un derivato del benzotiofene tra i più documentati esempi di SERM di seconda generazione, è stato approvato

per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi in postmenopausa sia negli USA sia nell’Unione Europea. Esso è in grado di svolgere attività ER-agonista su osteoblasti e osteoclasti e antagonista a livello dei recettori ER del seno e dell’utero, non presentando pertanto lo svantaggio di aumentare il rischio di tumore al seno e all’endometrio. Nel corso degli anni i SERM si sono evoluti sempre più verso il raggiungimento delle caratteristiche di un SERM ideale, associando ai benefici effetti sul tessuto scheletrico, positivi effetti sul sistema cardiovascolare (ad es. buon profilo lipidico) e sul sistema nervoso centrale (non significativa interferenza sul sistema noradrenergico, dopaminergico e colinergico), con assenza di stimolazione a livello del seno e del tessuto uterino. Tra i SERM di ultima generazione, il basedoxifene ha mostrato una capacità di stimolazione mammaria sensibilmente ridotta e nessuna evidenza di stimolazione uterina.

Farmaci anabolici Differentemente dalla strategia attuata dai farmaci inibitori del riassorbimento osseo, i farmaci anabolici promuovono la formazione della massa ossea e ne migliorano la microarchitettura (Fig. 29.4). Sulla base dell’evidenza che l’ormone paratiroideo possiede un effetto anabolico sul riassorbimento osseo quando somministrato in modo intermittente, il peptide teriparatide, costituito dalla sequenza aminoacidica attiva N-terminale 1-34 del PHT, è stato approvato come analogo del PHT umano nel trattamento dell’osteoporosi post-menopausale e, più in generale, per il trattamento di stati osteoporosici a elevato rischio di fratture. Per garantire la sicurezza (e considerando anche l’alto costo del farmaco), sono raccomandati cicli di terapia non superiori ai 24 mesi (20 μg/die, via sottocutanea), intervallati con cicli di agenti inibitori del riassorbimento osseo. Appartiene alla classe degli agenti anabolici anche lo stronzio ranelato. Gli ioni stronzio divalenti hanno la capacità di sostituire gli ioni calcio nell’osso senza influenzare negativamente il processo di mineralizzazione (Fig. 29.4). Il ranelato di stronzio, un sale dello stronzio salificato con un carrier farmacologicamente neutro, l’acido ranelico, è capace di aumentare il valore della BMD riducendo il rischio di fratture vertebrali e non. Si tratta di un farmaco dual-acting, essendo in grado sia di diminuire il riassorbimento osseo, sia di aumentare la produzione di nuovo tessuto osseo. Il meccanismo con cui questo sale presenta questi concomitanti effetti viene attribuito, almeno in parte, al suo coinvolgimento sul CaSR (Fig. 29.4), recettore responsabile di mediare la risposta cellulare agli ioni calcio extracellulari. N O

O

–O

Sr2+

O– 2+ O– Sr

N S

–O

O

O Stronzio ranelato

Somministrato 2 g al giorno, il ranelato di stronzio riduce dopo 3 anni di terapia le fratture vertebrali del 41% e le frat-

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BOX 29.3 ■ Schema generale di sintesi dell’odanacatib Il derivato dell’acido aspartico, in seguito a riduzione con NaBH4, è stato ciclizzato in presenza dell’anidride ptoluensolfonica e successivamente trattato con il reattivo di Grignard per dare l’alcol terziario. La sostituzione nucleofila della funzione alcolica con il fluoro è stata seguita dall’idrolisi della funzione carbammato e successiva sililazione della funzione alcolica. Il prodotto ottenuto dapprima è stato condensato con la trifluoroacetaldei-

CO2Bn BocHN

1. ClCOOC(CH3), N-metil-morfolina, NaBH4, dimetossietano 2. Anidride p-toluensolfonica, piridina, dicloroetano

CO2Bn HN

COOH

de emiacetale, fornendo la corrispondente imina, e poi trattato con bromofenillitio per fornire la relativa trifluoroetilamina. Le successive desililazione, ossidazione con acido periodico e coniugazione in presenza di HATU e ciclopanoaminoacetonitrile hanno fornito la corrispondente amide. L’ultimo step di sintesi, mediante reazione di Suzuki e successiva ossidazione, ha fornito il prodotto finale in rese 97%. CH3 F

1. Ba(OH)2, CH3CH2OH/H2O CH3 2. t-butildimetilsilil cloruro, (CH3CH2)3N

1. CH3MgBr, toluene/THF 2. S-dietilamino trifluoruro, CH2Cl2

HN

O

O

O CH3 F

CH3 F

CF3C(OH)OCH2CH3, benzene

CH3 H2N

O

CH3 N

OTBS

OTBS

CH3 F

1. BrC6H5Li, THF 2. N-tetrabutilammonio fluoruro, THF

CF3 N H

F3C

CH3 OH

Br CH3 F

1. H5IO6, CrO3, CH3CN 2. 1-amino-1-cianociclopropano cloridrato, ((CH3)2CH)2NCH2CH3, HATU, DMF

CF3 N H Br

CH3 H N

CN

O CH3 F CF3

1. CH3SC6H5B(OH)2, PdCl2 dppf, Na2CO3, DMF 2. H2O2, Na2WO4 .2H2O, C4H9NHSO4, C2H5OAc

N H

CH3 H N

CN

O

H 3CO2S

HATU: 1-[Bis(dimetilamino)metilen]-1H-1,2,3-triazolo[4,5-b]piridinio 3-ossiesafluorofosfato PdCl2 dppf: [1,1'-Bis(difenilfosfino)ferrocene]dicloropalladio

ture all’anca di circa il 36%. Sono tuttavia significativi anche gli effetti collaterali tra cui, principalmente, eventi cardiovascolari per formazione di trombi venosi.

Anticorpi monoclonali Il denosumab è un anticorpo monoclonale completamente umano capace di riconoscere, legarsi e inibire una proteina specifica dell’organismo denominata RANKL, coinvolta nell’attivazione degli osteoclasti (Fig. 29.4). L’impiego del denosumab (60 mg, sottocute ogni 6 mesi) è stato approvato per il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale che non risponde ad altro tipo di terapie ed esteso succes-

sivamente al trattamento dell’osteoporosi maschile con alto rischio di fratture. Studi comparativi sull’efficacia del denosumab nei confronti dell’alendronato hanno rivelato che tale anticorpo monoclonale presenta analoga efficacia del bifosfonato nel migliorare la BMD a livello lombare e dell’anca. Tuttavia, la cessazione del trattamento con denosumab porta a una più rapida riduzione del valore di BMD rispetto a quanto si verifica con l’analoga cessazione della terapia con alendronato, in accordo con l’evidenza che, al contrario dell’alendronato, il denosumab non viene incorporato e sequestrato dalla struttura ossea.

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29.2.3 Morbo di Paget Il morbo di Paget è una malattia metabolica dell’osso caratterizzata da un eccessivo riassorbimento osteoclastico e da concomitante sostituzione di tessuto osseo mineralizzato con tessuto più molle e scarsamente mineralizzato (osso fragile). L’esatta eziologia non è stata completamente comprovata, anche se le ipotesi più accreditate per spiegare l’eccessiva attività osteoclastica sono un’immunodeficienza ereditaria o un effetto di un’infezione da virus lento. L’evidenza di elevati livelli sierici di fosfatasi alcalina e di idrossiprolina nelle urine costituiscono un valido strumento di diagnosi e prevenzione, unitamente ai riscontri radiologici a livello osseo. La malattia di Paget raramente colpisce persone sotto i 40 anni; la prevalenza varia dall’1% all’8% delle persone adulte, con una leggera precedenza nel sesso maschile. Lo scopo del trattamento farmacologico consiste nel prevenire il rischio di fratture che caratterizzano la malattia, nel ridurre i dolori ossei e le deformità progressive, nello stabilizzare e prevenire altre complicanze che possono associarsi alla malattia stessa, quali la perdita di udito e l’insufficienza cardiaca ad alta gittata. I bifosfonati come il risedronato risultano essere oggi il trattamento di scelta per la malattia di Paget, essendo in grado di rallentare il turnover dell’osso e di diminuire sia i livelli sierici di fosfatasi alcalina sia quelli urinari di idrossiprolina.

29.3 Alcuni sviluppi futuri Attualmente la ricerca si sta direzionando verso lo sviluppo di anticorpi anti-sclerostina e inibitori della catepsina K. La sclerostina è una proteina regolatoria che inibisce la formazione ossea antagonizzando l’interazione tra il ligando Wnt e il corecettore LRP5/6 sugli osteoblasti e inibendo, di conseguenza, il segnale del Wnt (Fig. 29.4). È stato messo in evidenza che la sclerostina appare sovraespressa nei processi che riducono la BMD e che anticorpi specifici per tale proteina sono in grado di prevenire la perdita ossea nell’a-

CAPITOLO 29 • Farmaci dell’omeostasi del calcio

nimale da esperimento. Sono stati realizzati, e si trovano in via di sperimentazione, alcuni efficienti anticorpi monoclonali umanizzati anti-sclerostina. Tra questi, l’AMG 785 ha mostrato di incrementare la formazione ossea e di ridurne l’assorbimento in esperimenti condotti su soggetti sani e su donne in post-menopausa. La catepsina K è una proteasi a cisteina tessuto-specifica che svolge un ruolo significativo nel processo di degradazione dei componenti proteici della matrice ossea durante il processo di riassorbimento. Sono stati realizzati svariati inibitori della catepsina K, molti dei quali, purtroppo, non idonei per mancanza di selettività o per l’importanza degli effetti collaterali, principalmente a carico della cute. L’odanacatib (Box 29.3) – N-(1-cianociclopropil)4-fluoro-N 2-{(1S)-2,2,2-trifluoro-1-[4'-(metillsolfonil)4-bifenilil]etil}-l-leucinamide – è attualmente l’inibitore della catepsina K che si trova in fase più avanzata di sperimentazione clinica. CH3

F CH3

CF3 N H

O HN

CN

H3CO2S Odanacatib

Si tratta di un inibitore selettivo reversibile a struttura diarilata non peptidica, efficace nell’aumentare la BMD qualora utilizzato in dose settimanale di 50 mg e dotato di eccellente emivita (maggiore di 93 ore). L’odanacatib riduce il riassorbimento osseo non influenzandone il processo di formazione, in accordo con il ruolo svolto dalla catepsina K nel rimodellamento osseo.

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30

Antistaminici Vittoria Colotta

30.1  Istamina 30.1.1 30.1.2 30.1.3 30.1.4

Proprietà chimiche dell’istamina M  odifiche strutturali dell’istamina Proprietà fisiologiche dell’istamina I recettori dell’istamina

30.2  Antistaminici H1 30.2.1 A  ntistaminici H1 di prima generazione 30.2.2 A  ntistaminici H1 di seconda generazione 30.2.3 A  ntistaminici H1 con azione stabilizzante i mastociti

30.3  Antistaminici H2 30.3.1 Identificazione della cimetidina 30.3.2 Sviluppo di analoghi della cimetidina

30.4  Ligandi dei recettori H3 e H4 L’istamina è un’amina biogena ampiamente diffusa in natura, sia nel regno animale sia in quello vegetale. È presente nelle piante, nei batteri ed è ubiquitaria anche nell’uomo, dove viene prodotta da molti tipi di cellule, quali mastociti e basofili, cellule parietali della mucosa gastrica e cellule neuronali. L’istamina, come l’acetilcolina, è stata studiata come sostanza di sintesi prima ancora di essere identificata come sostanza endogena. Dale e Laidlaw (1910-1911) evidenziarono che molte azioni dell’istamina erano simili a quelle di estratti tissutali, nei quali essa venne poi identificata. Nel 1927 Best, Dale, Dudley e Thorpe isolarono l’istamina da campioni freschi di tessuto (da cui il nome dal greco histos, “tessuto”) prelevati da polmoni e fegato, fornendo la prova che essa fosse un componente naturale dell’organismo umano. Studi successivi evidenziarono il ruolo dell’istamina nei fenomeni allergici e infiammatori. Essa, infatti, induce contrazione della muscolatura liscia bronchiale, aumento della permeabilità vascolare e diminuzione della pressione arteriosa, tutti effetti simili a quelli che si manifestano nello shock anafilattico. In aggiunta a ciò, l’istamina aumenta la secrezione di succo gastrico e stimola l’attività cardiaca. Oltre a esercitare queste funzioni periferiche, l’istamina è anche in grado di regolare

numerosi processi centrali, quali il ciclo sonno-veglia, l’assunzione di cibo, l’apprendimento e la memoria. Tutti gli effetti dell’istamina sono mediati da recettori specifici di membrana, appartenenti alla famiglia dei recettori accoppiati a proteine G e suddivisi in 4 sottotipi: H1, H2, H3 e H4.

30.1 Istamina 30.1.1 Proprietà chimiche dell’istamina L’istamina – 2-(1H-imidazol-4(5)-il)-etanamina – è costituita da un anello imidazolico legato a una catena etilaminica. Può esistere in due forme tautomeriche, derivanti dallo spostamento del protone sui due azoti imidazolici, Nτ (N-tele) o Nπ (Ν-pros) (Fig. 30.1). Nelle due specie, la numerazione dell’anello imidazolico è differente: nel tautomero Nτ–Η la posizione che lega la catena etilaminica è la 4, mentre nell’Nπ–Η è la 5. L’istamina ha due centri basici, rappresentati dal gruppo aminico primario (pKa = 9,40) e dall’azoto imidazolico (pKa = 5,80), e un gruppo debolmente acido, l’Nτ–H (pKa = 14). In soluzione acquosa l’istamina esiste sotto forma di specie tautomeriche e ioniche differenti (Fig. 30.2).

CAPITOLO 30 • Antistaminici

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NH2

4

HN 

2

NH2

5

N

N

NH 2

Figura 30.1 Tautomeri dell’istamina.

A pH 7,4, valore tipico dei fluidi extracellulari, la forma principale è la monocationica (96%), costituita principalmente dal tautomero Nτ–H (78%) e in misura minore dall’Nπ–Η (18%). È inoltre presente anche la specie dicationica (2,5%), che diventa predominante (circa 72%) a valori di pH intorno a 5, come accade in prossimità di alcuni tipi di membrane. Molti studi, sia computazionali che spettroscopici, sono stati condotti per stabilire quale sia la forma farmacologicamente attiva dell’istamina. Entrambe le specie, monocationica e dicationica, potrebbero esserlo, mentre è poco probabile che la forma neutra (1%) o quella anionica, poco popolate nell’intervallo di pH 5,4-7,4, possano essere coinvolte nell’interazione con il target biologico. La specie neutra potrebbe comunque avere importanza fisiologica, poiché è probabile che rappresenti la forma nella quale l’istamina attraversa le membrane biologiche. Allo stato solido, l’istamina monocatione (bromidrato) esiste nella forma tautomerica Nτ–H, al contrario di quanto avviene nella base libera che cristallizza come tautomero Nπ–H.

Tabella 30.1 Attività agonista dell’istamina e di suoi derivati sui recettori H1 e H2 e abbondanza del tautomero Nτ–H.

30.1.2 M  odifiche strutturali dell’istamina Con lo scopo di chiarire quale sia il tautomero farmacologicamente attivo dell’istamina, furono inseriti piccoli sostituenti nelle diverse posizioni della molecola. Queste ricerche avevano anche lo scopo di studiare le relazioni struttura-attività (RSA) e di individuare agonisti selettivi dei recettori dell’istamina. Nei derivati sostituiti in posizione 4(5) dell’ anello imidazolico, il rapporto fra le specie tautomeriche varia a seconda delle caratteristiche elettroniche del sostituente, poiché queste ultime modificano la densità di carica sugli azoti imidazolici (Tab. 30.1). Nella 4(5)-metilistamina, è preferito il tautomero Nτ–H, così come nell’istamina, mentre gruppi elettronattrattori (Cl

NH2 HN

e NO2) spostano l’equilibrio verso il tautomero Nπ–H, poiché riducono la densità di carica sull’azoto Nτ. La prevalenza della forma Nπ–H è accompagnata da una ridotta potenza agonista sui recettori H1 e H2, a sostegno dell’ipotesi che la forma Nτ–H possa essere quella farmacologicamente attiva. Studi conformazionali indicano che, in soluzione, l’istamina può esistere sia nella forma trans (o antiperiplanare) sia in quella gauche (o sinclinale) (Fig. 30.3), caratterizzate da stabilità comparabile. Sono stati sintetizzati anche analoghi metilati dell’istamina, dei quali è stata valutata la potenza agonista sui recettori H1, H2 e H3 (Tab. 30.2). La metilazione degli azoti imidazolici porta a perdita di attività su tutti e tre i recettori. Questo risultato suggerisce che gli atomi di azoto siano importanti per l’interazione della molecola col sito recettoriale. L’introduzione di un metile in posizione 2 conduce a un agonista H1-selettivo, mentre in 4(5) porta a un agonista selettivo per il recettore H2, la 4(5)-metilistamina. La presenza di gruppi metilici in posizione α o β sulla catena etilaminica favorisce la forma gauche e conduce ad agonisti deboli sui recettori H1 e H2 e molto potenti sugli H3, come la α-metilistamina e la β-metilistamina. In particolare, l’α(R)-(–)metilistamina si è rivelata l’enantiomero più attivo. Sulla base di questi risultati è stato ipotizzato che la conformazione trans sia quella preferita dai re-

R NH2 HN τ

R

Nτ-H

H

69

CH3

71

Cl

12

N

100

N

NH

H+

1,7

12 0,6

N

NH3 N

NH

Monocatione N-H

Figura 30.2 Equilibri ionici e tautomerici dell’istamina.

39

0,17

H+

H NH2

0,23

NH3

Monocatione N-H

H+

100

Frazione molare × 100 a pH 7,4. b Ileo di cavia. c Atrio di cavia.

NH2

N

H2c

a

HN

H+

H1b

0,9

NO2

H+

N

N a

H+

NH3

N N H Dicatione

683

684

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

H

H

H H

N N

NH3 H

N

H



H

N 2

HN N

NH2



R

H1a

H2b

π

< 0,01

< 0,1

2

N NH3

NH3

Figura 30.3 Conformeri dell’istamina.

Attività agonista relativa (istamina = 100)



HN

gauche

HN



5

H H3N

trans

Tabella 30.2 Attività agonista relativa di metilistamine.

H H

N

ISBN 978-88-08-18712-3

16

4,4

τ

0,42

< 0,1

4(5)

0,23

39

H3c 24

11-15

65%

Bilastina

1,5

2

24

14,5

87%

Mizolastina

1,5

1

24

12,9

98%

Acrivastina

1-2

0,5

8

1,4-3,1

50%

Loratadina

a

Tmax (ore)b

 ati ricavati principalmente da: Estelle, R. Simons, Keith J. Simons. J. Allergy Clin. Immunol. 2011; 128: 1139-1150; Estelle, R. Simons. Am. J. Med. 2002; D 113: 38S-46S. b Tempo fra assunzione orale e picco di concentrazione plasmatica.

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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F HO

N

HO

H

N O

Azaciclonolo

Aloperidolo

F HO

N

R

R= O Derivato fluoro-butirrofenonico CH3 CH3 CH3 R= OH Terfenadina

Figura 30.12 Sviluppo della terfenadina.

D4 dai mastociti ed è rapidamente trasformata dal CYP3A4 in metaboliti, fra i quali l’acido carbossilico carebastina (Fig. 30.11), che deriva dall’ossidazione di uno dei gruppi metilici. La carebastina mantiene il profilo farmacologico del progenitore, ma è migliore in termini di sicurezza. Non provoca infatti, sia in modelli animali sia nell’uomo, alterazioni del ritmo cardiaco, che invece compaiono con l’ebastina quando è somministrata a dosi elevate o in presenza di substrati competitivi del CYP3A4. In base a dati farmacocinetici, è stato ipotizzato che l’attività dell’ebastina sia dovuta alla carebastina, avendo la prima una bassa emivita. La cetirizina – acido (±)-(2-{4-[(4-clorofenil)fenilmetil]-1-piperazinil}etossi)acetico – (Fig. 30.11) è il metabolita attivo dell’idrossizina, farmaco di prima generazione (Tab. 30.7), dal quale deriva per ossidazione del gruppo alcolico a gruppo carbossilico. La natura zwitterionica e l’essere substrato della P-gp riducono il passaggio della cetirizina attraverso la BEE. Ciò nonostante, può indurre una certa sonnolenza, in maniera dose-dipendente. La sua elevata selettività H1 riduce gli effetti collaterali, ma si possono comunque manifestare secchezza delle fauci, affaticamento, cefalea e vertigini. Non sono stati segnalati cambiamenti elettrocardiografici, anche con dosi 6 volte superiori a quella raccomandata. La cetirizina è poco metabolizzata, viene eliminata principalmente per via renale (60%), si lega molto alle proteine plasmatiche (93%), ha una lunga durata d’azione e un rapido onset. La cetirizina è più potente della fexofenadina ed è uno degli antistaminici H1 più prescritti in Europa per il trattamento delle riniti e congiuntiviti stagionali, della rinite cronica allergica e dell’orticaria di origine allergica. Dei due enantiomeri, quello levogiro, a configurazione (S), è circa 30

volte più affine per il recettore H1 e ha una cinetica di dissociazione 20 volte più lenta. Per queste caratteristiche è stato sviluppato come farmaco col nome di levocetirizina. La loratadina – 4-(8-cloro-5,6-diidro-11H-benzo[5,6] cicloepta[1,2-b]piridin-11-ilidine)-1-piperidincarbossilato di etile – (Fig. 30.11) ha una struttura triciclica simile a quella dell’azatadina, dalla quale differisce per la presenza di un atomo di cloro sul benzene condensato e del gruppo carbossietilico, al posto del metilico, sull’azoto piperidinico. Quest’ultima modifica riduce in modo significativo la basicità della molecola, che non è più in grado di protonarsi sull’azoto piperidinico. Analogamente agli altri farmaci di seconda generazione, la loratadina ha un buon profilo di selettività per il recettore H1, ma ha maggiore attività antiserotoninergica. Ha una buona biodisponibilità orale, viene rapidamente metabolizzata a livello epatico dagli isoenzimi CYP3A4 e CYP2D6. Il principale metabolita è il derivato privo del gruppo carbossiletilico (desloratadina), che si forma per ossidazione della catena etilica, seguita dall’idrolisi e dalla decarbossilazione della funzione carbamica (Fig. 30.13). La desloratadina, essendo attiva come antistaminico e in gran parte responsabile dell’effetto clinico del progenitore, è stata introdotta in terapia. La desloratadina – 8-cloro-6,11-diidro-11-(4-piperi­ dinilidene)-5H-benzo[5,6]cicloepta[1,2-b]piridina – è circa 150 volte più potente della loratadina. Questo forte incremento di attività è stato razionalizzato con studi di modellistica molecolare, che hanno evidenziato la formazione di un legame ionico fra l’azoto piperidinico della desloratadina, protonato a pH fisiologico, e il residuo di Asp107 del sito recettoriale. Nella

CAPITOLO 30 • Antistaminici

ISBN 978-88-08-18712-3

BOX 30.5 ■ Sintesi della fexofenadina La sintesi della fexofenadina prevede la preparazione di due intermedi, l’estere (A) e l’azaciclonolo, che vengono successivamente fatti reagire fra loro. Il primo è ottenuto per trattamento dell’α,α-dimetilfenilacetato di etile con il 3-cloropropionil cloruro, in presenza di AlCl3 (reazione di Friedel-Crafts). L’azaciclonolo viene sintetizzato a partire dall’estere etilico dell’acido isonicotinico, che viene CH3 H

COOC2H5 + Cl(CH2)2COCl

trattato con 2 equivalenti di fenilmagnesio bromuro. La successiva riduzione catalitica dell’intermedio (1) conduce all’azaciclonolo che, fatto reagire con il composto (A) in presenza di potassio carbonato e di potassio ioduro, conduce al derivato butirrofenonico (2). La riduzione con sodio boroidruro dà il derivato alcolico (3), che per idrolisi della funzione esterea conduce alla fexofenadina. CH3

AlCl3

Cl(CH2)3

COOC2H5

CH3

O

CH3 A

2

MgBr + C2H5OOC

HO

N

N

H2/PtO

HO

NH

1 Azaciclonolo

Azaciclonolo + A

K2CO3/KI

HO

N

Toluene

CH3 COOC2H5

(CH2)3 O

CH3

2 NaBH4

CH3 HO

N

(CH2)3

R OH

CH3

3: R = COOC2H5 Fexofenadina: R = COOH

loratadina questo legame non può formarsi, perché l’azoto piperidinico non è protonato, essendo di natura carbamica. La desloratadina, oltre ad avere proprietà antistaminiche, è anche inibitore del rilascio di istamina. A differenza degli altri antistaminici di seconda generazione, loratadina e desloratadina non possono esistere come zwitterioni. Ciò nonostante non superano la BEE, poiché sono substrati della P-gp. Per questo motivo, entrambi i farmaci non hanno effetto sedativo. Non inducono tossicità cardiaca, neanche in presenza di inibitori del CYP3A4 (chetoconazolo, eritromicina), che ne aumentano la concentrazione ematica. La desloratadina è metabolizzata a 3-idrossi derivato, ancora attivo, che viene coniugato con acido glucuronico (Fig. 30.13). La sintesi di loratadina e desloratadina è mostrata nel Box 30.6. L’acrivastina – acido (2E)-3-{6-[(1E)-(4-metilfenil)-3(1-pirrolidinil)-1-propenil]-2-piridinil}-2-propenoico – (Fig.

30.11) è un analogo della triprolidina, antistaminico di prima generazione, dalla quale differisce per la presenza di un residuo di acido acrilico nella posizione 2' del nucleo piridinico. Questo gruppo è cruciale perché conferisce alla molecola una maggiore polarità. Infatti, mentre la triprolidina ha un logP (ottanolo/acqua) di 3,92 (a pH 7,6), quello di acrivastina è 0,33. A differenza della triprolidina, l’acrivastina ha, quindi, un basso potere sedativo, per la sua ridotta capacità di penetrazione nel SNC, a sua volta dovuta a una scarsa lipofilia. L’acrivastina, inoltre, non ha proprietà anticolinergiche. È eliminata prevalentemente inalterata (80%) per via renale; il suo principale metabolita è il derivato ridotto sul residuo acrilico. Studi recenti di modellistica molecolare hanno permesso di razionalizzare l’importanza del gruppo carbossilico per l’affinità H1 dell’acrivastina e di altri derivati di seconda generazione, come levocetirizina e fexofenadina (Fig. 30.11). Il docking di questi composti nella struttura cristallina del recettore H1 ha evidenziato l’interazione fra il loro gruppo car-

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698

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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Cl

Cl

N

COOC2H5

CYP3A4

N

CYP2D6

N

COOCH-CH3 OH

N

Loratadina Cl

Cl

Desloratadina3-O-glucuronide

NH

NH N

N HO 3-Idrossidesloratadina

Desloratadina

Figura 30.13 Metabolismo della loratadina e della desloratadina.

bossilico e il residuo di Lys191 (TM5) presente solo in questo sottotipo recettoriale. La mizolastina – 2-[(1-{1-[(4-fluorofenil)metil]-1Hbenzimidazol-2-il}-4-piperidinil)metilamino]-4(1H)-pirimidinone – (Fig. 30.11) è strutturalmente correlata all’astemizolo, ma, a differenza di questo, non provoca aritmie. È un antistaminico potente e selettivo che ha anche azione antinfiammatoria ed è privo di effetti antimuscarinici, antiserotoninergici e antiadrenergici. Non provoca sonnolenza. La mizolastina è utilizzata per via sistemica, ha una buona biodisponibilità orale (65%) e una lunga durata d’azione. Viene intensamente metabolizzata dal CYP3A4 e dal CYP2C9, quindi può dare interazioni farmacologiche con substrati o inibitori di queste isoforme. I principali metaboliti sono i derivati coniugati (65%) con acido glucuronico e solforico. Trasformazioni minori sono la N-dealchilazione, con rimozione del p-fluorobenzile e l’idrossilazione dell’anello piridinonico. La mizolastina è eliminata prevalentemente con le feci (84-95%). Probabilmente agisce da inibitore della P-gp; associata alla digossina ha provocato innalzamento dei livelli plasmatici di questa. Anche la bilastina – acido 2-[4-(2-{4-[1-(2-etossietil)1H-benzoimidazol-2-il]piperidin-1-il}etil)fenil]-2-metilpropionico – (Fig. 30.11) è un derivato imidazolico che presenta analogie strutturali con l’astemizolo. È stata introdotta in terapia nell’Unione Europea nel 2010. È un antistaminico H1 potente ed efficace, impiegato per via sistemica. Ha un’elevata selettività, non essendo affine né per i recettori muscarinici M3, né per i recettori α1- e β-adrenergici. La sua idrofilia, legata alla presenza del gruppo carbossilico, e l’essere substrato della P-gp, ne limitano l’ingresso nel SNC e l’effetto sedativo. Ha una buona biodisponibilità orale (circa

il 60%) e viene poco metabolizzata. Circa il 95% si ritrova, infatti, inalterata nelle feci (66%) e nelle urine (28%). Studi in vitro hanno dimostrato che la bilastina non interferisce con l’attività di numerose isoforme di CYP; pertanto non si prevedono interazioni clinicamente importanti con altri farmaci o con alimenti. Possiede un elevato profilo di sicurezza per quanto riguarda gli effetti cardiaci, in quanto non induce cambiamenti nel tracciato elettrocardiografico.

30.2.3 A  ntistaminici H1 con azione stabilizzante i mastociti Nel corso delle ricerche di antistaminici H1, sia della prima sia della seconda generazione, sono stati individuati composti che, oltre ad avere capacità di bloccare l’azione dell’istamina sui recettori H1, sono in grado di inibire il suo rilascio dai mastociti e quello di altri mediatori coinvolti nella risposta allergica (PGD2, leucotrieni). Questi farmaci possono essere impiegati per via orale, ma più spesso sono formulati come spray nasali, per la rinite allergica, o come colliri, contro il prurito oculare. I farmaci di questa classe (chetitofene, olopatadina, azelastina, epinastina e levocabastina) sono trattati dettagliatamente nel Capitolo 23.

30.3 Antistaminici H2 Gli antistaminici H2 vengono utilizzati nel trattamento di patologie causate da ipersecrezione acida gastrica (reflusso gastroesofageo, ulcera gastrica e duodenale, sindrome di Zollinger-Ellison). La produzione di acido cloridrico da parte delle cellule parietali gastriche viene modulata da diversi mediatori fra i quali l’istamina, che è rilasciata dalle cellule

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BOX 30.6 ■ Sintesi di loratadina e desloratadina La loratadina può essere preparata a partire dal nitrile 3-metilpicolinico che, per idrolisi, fornisce l’acido carbossilico corrispondente. Questo composto viene salificato con la litio diisopropilamide e poi trattato con il 3-clorobenzilcloruro per dare l’acido 3-(3-clorofenetil)picolinico. La reazione con cloruro di tionile e la successiva ciclizzazione del cloruro acilico intermedio (reazione di Friedel-Crafts)

CH3

CH2 Li+

CH3

1. KOH

2 LDA

2. H+

N

N

CN

conducono al derivato triciclico benzocicloeptapiridinico (1). Questo composto viene trasformato, per mezzo di un opportuno reattivo di Grignard, nel derivato alcolico (2), il quale in ambiente acido subisce disidratazione fornendo l’intermedio (3). Il trattamento di quest’ultimo con cloroformiato di etile conduce alla loratadina, dalla quale, per idrolisi acida, si ottiene la desloratadina.

THF, -15 °C

N

COOH

COO Li+

Acido 3-metilpicolinico 1. 3-ClC 6H4CH2Cl 2. CH3COOH

Cl

Cl

1. SOCl2 2. AlCl3

N 1

N

O

COOH

Acido 3-(3-clorofenetil)picolinico N-CH3

1. ClMg 2. H+

H2SO4

N

OH

2

N CH3

Cl

Cl

Cl

ClCOOC2H5

N

N

3

N

N

COOC2H5 Loratadina

CH3 H+

Cl N

N H Desloratadina

enterocromaffino-simili per azione dell’acetilcolina e della gastrina. L’istamina così liberata attiva i recettori H2 delle cellule parietali e induce aumento di cAMP intracellulare a cui fa seguito l’attivazione della pompa H+/K+-ATPasi, responsabile delle secrezioni di ioni H+ nel lume gastrico. Maggiori dettagli sui meccanismi che regolano la produzione di acido gastrico sono riportati nel Capitolo 31. Gli antistaminici H2 sono stati considerati per molto tempo antagonisti recettoriali. In realtà anche questi, come gli antistaminici H1, si comportano generalmente da ago-

nisti inversi, poiché riducono l’attività basale del recettore H 2.

30.3.1 Identificazione della cimetidina A differenza degli antistaminici H1, che sono stati scoperti casualmente, gli antistaminici H2 derivano da uno studio multidisciplinare, un esempio mirabile di progettazione razionale di farmaci. Le ricerche nell’ambito dei recettori H2 hanno avuto inizio verso la metà degli anni ’60, quando Ash e Schild osservarono che gli antistaminici classici, come la

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700

FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

H N HN

N

NHCH3 S

Burimamide

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H3C HN

S N

H N

NHCH3 N-CN

Cimetidina

Figura 30.14 Struttura della burimamide e della cimetidina.

Figura 30.15 Struttura generale degli antistaminici H2.

mepiramina, non erano in grado di bloccare gli effetti dell’istamina su cuore, utero e stomaco. In questi organi fu ipotizzata, quindi, l’esistenza di un secondo recettore dell’istamina (H2) per il quale era già disponibile un agonista selettivo, la 4(5)-metilistamina (Tab. 30.2). Per individuare degli antagonisti, necessari per la caratterizzazione del nuovo recettore, è stato condotto un intenso lavoro di ricerca che, partendo dalla struttura dell’istamina, ha portato alla sintesi di numerosi derivati imidazolici, recanti catene alchiliche di diversa lunghezza e gruppi terminali polari in grado di formare legami idrogeno. L’interesse verso questo tipo di antagonisti era, inoltre, accresciuto dal fatto che per essi si intravedevano importanti potenzialità terapeutiche per la cura di patologie legate all’ipersecrezione acida gastrica, per le quali non erano allora disponibili farmaci efficaci. La burimamide, mostrata in Figura 30.14, è stata il primo antagonista H2 individuato (J. Black, 1972). Questo derivato, utile come strumento farmacologico, non era sufficientemente attivo per via orale da meritare lo sviluppo clinico. Ulteriori studi hanno portato alla cimetidina (Fig. 30.15), primo antistaminico H2 introdotto in terapia (1976). Maggiori dettagli sulle principali tappe della progettazione razionale della cimetidina sono riportati nella Scheda 30.4. La scoperta della cimetidina ha aperto una nuova era nella terapia dell’ulcera gastrica riducendo, nel giro di pochi anni, il numero di interventi chirurgici necessari per risolvere la malattia e migliorando la qualità della vita di milioni di persone. L’importanza di questa scoperta è anche testimoniata dal fatto che Sir James Black, per l’identificazione degli antistaminici H2 come potenti inibitori della secrezione acida gastrica, è stato insignito del Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia (1988). La cimetidina – N-ciano-N'-metil-N''-(2-{[(5-metil-1Himidazol-4-il)metil]tio}etil)guanidina – ha una buona biodisponibilità orale (circa 60-70%) e un’emivita di circa 2 ore. Viene trasformata, a livello epatico, nel solfossido e nel 5-idrossimetil derivato; circa il 70% è eliminata inalterata per via renale. La cimetidina è un inibitore reversibile di molte isoforme del CYP, fra le quali CYP3A, CYP2C e CYP2D6. Per questo motivo riduce il metabolismo di numerosi far-

maci, fra i quali teofillina, warfarin, imipramina, diazepam, fenitoina e propranololo, provocando l’aumento dei loro livelli ematici e importanti conseguenze cliniche. L’impiego della cimetidina richiede, quindi, particolari precauzioni se somministrata in associazione a farmaci che presentano una stretta finestra terapeutica, quali warfarin o fenitoina. La cimetidina riduce anche l’escrezione renale di alcuni farmaci come la procainamide. Un suo effetto collaterale importante è l’attività antiandrogena, che può provocare iperprolattinemia, ginecomastia e impotenza. Quest’attività sembra essere dovuta all’inibizione del legame del diidrotestosterone al suo recettore e all’inibizione della sintesi del testosterone. La capacità della cimetidina di inibire le diverse forme di CYP è stata messa in relazione alla presenza nella molecola dell’anello imidazolico, poiché quest’ultimo può mimare l’imidazolo dell’istidina coinvolta nel legame col ferro porfirinico dei citocromi. La cimetidina, come tutti gli antistaminici H2, aumenta il pH del succo gastrico, pertanto può alterare la biodisponibilità orale di farmaci che richiedono un pH acido per essere assorbiti, come il ferro o gli antimicotici azolici, come il chetoconazolo.

30.3.2 S  viluppo di analoghi della cimetidina L’alto valore terapeutico e il grosso successo di mercato della cimetidina spinsero molte industrie farmaceutiche a finalizzare parte delle ricerche all’individuazione di nuovi antistaminici H2. I nuovi composti mostrano forti analogie strutturali con la cimetidina e sono riconducibili alla struttura generale riportata in Figura 30.15. Questa è costituita da un gruppo eteroaromatico o aromatico, recante un residuo basico, una catena flessibile, solitamente di 4 atomi, legata a un gruppo terminale polare, in grado di formare legami idrogeno. A differenza della cimetidina, nei nuovi derivati (Fig. 30.16) non è presente il nucleo imidazolico, che è stato sostituito con altri eterocicli (furano e tiazolo) o con un benzene poiché, come detto precedentemente, l’imidazolo era ritenuto responsabile dell’attività inibitoria del CYP.

CAPITOLO 30 • Antistaminici

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NO2

CH3 H3C

5

N

2

S

O

N H

CH3

NHCH3

2

N

H3C

4

H2N

N

N H

CN

N S

N H

NH2

NHCH3

H2N

S

N

S

N

Famotidina

Tiotidina

SO2NH2 NH2

H3C N N

O

NHCH3

Nizatidina

S N

S

N

Ranitidina

NH2

NO2

S

N H

O

N N

N

O

R

Lamtidina: R = NH 2 Loxtidina: R = CH2OH

N H

O

R

Roxatidina acetato: R = COCH3 Roxatidina: R = H

Figura 30.16 Antistaminici H2 a struttura eterociclica e fenossipropilaminica.

Derivati del 2-(N,N-dimetilaminometil)furano e del 2-(N,N-dimetilaminometil)tiazolo La ranitidina – N-{2-[({5-[(dimetilamino)metil]-2-furanil} metil)tio]etil}-N'-metil-2-nitro-1,1-etenediamina – (Fig. 30.16) è stato il primo antistaminico H2 entrato sul mercato (1981) dopo la cimetidina. La sua attività ha dimostrato che il nucleo imidazolico non è necessario ma può essere sostitui­ to con un anello furanico recante in posizione 2 un gruppo N,N-dimetilaminometilico. Nella catena solforata è presente un residuo terminale diamino-nitroetenico che ha alcune caratteristiche simili a quelle del gruppo cianoguanidinico della cimetidina. È un gruppo polare, contiene elettroni π ed è in grado di formare legami idrogeno. Nella ranitidina, la sostituzione del nucleo furanico con gruppi più lipofili, come tiofene o benzene, riduce l’attività. Altre modifiche strutturali deleterie sono l’inserimento di un metile in posizione 3 del furano, la sostituzione dell’atomo di zolfo con un metilene o il suo allontanamento dal nucleo furanico. La ranitidina è 10 volte più potente della cimetidina e inibisce solo debolmente il CYP, pertanto non interferisce col metabolismo di altri farmaci. Inoltre è priva degli effetti antiandrogeni della cimetidina. Ha una biodisponibilità orale di circa il 50% e un’emivita di 2-3 ore. Viene eliminata per via renale, come i suoi metaboliti, che sono il solfossido e gli N-desmetilderivati. La ranitidina, per il suo migliore profilo farmacologico, ha soppiantato la cimetidina nella terapia delle patologie da ipersecrezione acida gastrica e alla fine degli anni ’80 è stato uno dei farmaci più prescritti nel mondo. La nizatidina – N-{2-[({2-[(dimetilamino)metil]-4-tiazolil}metil)tio]etil}-N'-metil-2-nitro-1,1-etenediamina – (Fig. 30.16) è l’analogo tiazolico della ranitidina. È più potente della cimetidina e ha un’elevata biodisponibilità orale (> 90%). Viene eliminata con le urine, prevalentemente im-

modificata per il 60%. I suoi metaboliti sono il solfossido (6%), l’N-ossido (sul gruppo dimetilaminico) e i derivati Ndemetilati. Non ha effetto antiandrogeno né inibisce il CYP.

Derivati 2-guanidinotiazolici La tiotidina è il capostipite dei derivati a struttura 2-guanidinotiazolica e presenta la stessa catena laterale della cimetidina, rispetto alla quale è circa 20-30 volte più potente. La sostituzione del gruppo cianoguanidinico della tiotidina con uno solfonilamidinico ha portato alla famotidina – 3-[({2[(aminoimino-metil)amino]-4-tiazolil}metil)tio]-N(aminosulfonil)-propanimidamide – (Fig. 30.16), derivato più potente della ranitidina, introdotto in terapia nel 1985. La famotidina non inibisce il CYP né ha effetto antiandrogeno. Ha una bassa biodisponibilità orale (37-45%), viene metabolizzata a solfossido (30-35%) ed è eliminata per via renale. Derivati a struttura 3-fenossipropilaminica Oltre ai derivati strettamente correlati alla cimetidina, è stata individuata una nuova classe di antistaminici H2 caratterizzata dalla presenza di un anello benzenico al posto del nucleo eterociclico. I derivati di questa classe hanno una struttura 3-fenossipropilaminica, recante sull’anello aromatico un residuo N-piperidinometilico, analogo ciclico del gruppo dimetilaminometilico della ranitidina. Il gruppo aminico terminale può essere variamente sostituito. In Figura 30.16 sono riportati alcuni fra i derivati più rappresentativi di questa classe. La lamtidina e la loxtidina presentano, sul gruppo aminico, un nucleo 1-metil-1,2,4-triazolico 3-sostituito. Questi derivati sono 3-5 volte più potenti della ranitidina e hanno una durata d’azione più lunga. Tuttavia gli effetti manifestati in studi di tossicità cronica su animali, indicanti la possibilità

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FARMACI PER I SISTEMI ENDOCRINO E METABOLICO

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O N

O

OCOCH3

N H

Roxatidina acetato HO

3

OH O

4

N

O

O OH

N H

N

O

N H

OH

O N

O Roxatidina

OH

N H

O N

O

N H 4% Acido ossamico

O N

COOH

O

N H

O-glucuronide

3% N

O

N

O

NH2

COOH

17%

Figura 30.17 Metabolismo della roxatidina acetato.

di provocare tumori gastrici, hanno fatto interrompere i loro studi clinici. Maggiore successo ha ottenuto la roxatidina acetato – 2-(acetilossi)-N-{3-[3-(1-piperidinilmetil)fenossi]propil} acetamide –, antistaminico H2 circa due volte più potente della ranitidina. È completamente assorbita dopo somministrazione orale (> 95%) ed è rapidamente convertita ad opera di esterasi plasmatiche, intestinali ed epatiche, nel suo metabolita attivo roxatidina (Fig. 30.17). La roxatidina ha un’emivita di circa 5 ore e lega poco le proteine plasmatiche (9%). Viene escreta inalterata per circa il 70% con le urine. Il suo principale metabolita è l’acido carbossilico (17%) che si forma per idrolisi del legame amidico e successiva deaminazione ossidativa. La roxatidina viene anche ossidata a livello del gruppo alcolico trasformandosi in acido ossamico, oppure può essere coniugata con acido glucuronico o idrossilata, sia sul nucleo aromatico sia su quello piperidinico. È ben tollerata in quanto è priva di effetti antiandrogeni, inoltre non interferisce col metabolismo di altri farmaci perché non inibisce il CYP.

30.4 Ligandi dei recettori H3 e H4

Come detto in precedenza, il recettore H3 è un recettore presinaptico presente a livello centrale, con funzione sia di autorecettore sia di eterorecettore. La sua attivazione inibisce il rilascio di istamina e di altri neurotrasmettitori. Quindi, agonisti inversi/antagonisti H3 sono in grado di influenzare molte funzioni fisiologiche cerebrali, fra le quali l’attenzione, la memoria, l’assunzione di cibo, l’attività locomotoria. Nessun agonista inverso/antagonista H3 è ancora entrato in terapia, ma alcuni sono in avanzato studio clinico per il trattamento di disturbi del sonno, fra i quali la narcolessia. Il recettore H4 è ampiamente espresso nelle cellule del sistema emopoietico e immunitario, dove media la chemiotassi degli eosinofili e dei mastociti. Il ruolo del recettore H4, sia in periferia sia a livello centrale, deve essere ancora chiarito. Sembra che questo recettore possa essere un target importante per la cura dei disordini infiammatori e del dolore neuropatico. Nella Scheda 30.5. sono riportate maggiori informazioni riguardo i ligandi dei recettori H3 e H4 e le loro potenzialità terapeutiche.

31

Antiulcera e antiacidi Giorgio Ortar

31.1  Patologie acido-peptiche 31.2  Fisiologia della secrezione gastrica 31.3  Farmaci antiulcera 31.3.1 31.3.2 31.3.3 31.3.4 31.3.5

Inibitori della pompa protonica Antistaminici H2 Sucralfato Alginato sodico Analoghi prostaglandinici: misoprostolo

31.4  Antiacidi

La prevenzione e il trattamento dei disturbi correlati alla secrezione di acido peptico si basano principalmente sulla diminuzione dell’acidità gastrica. Gli agenti antisecretori utilizzati più comunemente sono gli inibitori della pompa protonica seguiti dagli antistaminici H2. Gli inibitori della pompa protonica sono impiegati in associazione con antibatterici per eradicare l’infezione da Helicobacter pylori prevenendo così le ulcere ricorrenti.

31.1 Patologie acido-peptiche Il termine “patologie acido-peptiche” comprende una serie di condizioni patologiche nelle quali giocano un ruolo importante l’acido gastrico e la pepsina. Esse comprendono la malattia da reflusso gastroesofageo, le ulcere peptiche dello stomaco e dell’intestino e la sindrome di Zollinger-Ellison. La malattia da reflusso gastroesofageo deriva dal reflusso del succo gastrico attraverso il cardias. Sebbene la sua patofisiologia abbia a che fare soprattutto con disturbi della motilità gastrointestinale, tuttavia la maggior parte dei sintomi è dovuta agli effetti dell’acido peptico rifluito sull’epitelio esofageo. L’ulcera peptica deriva da uno squilibrio tra fattori aggressivi (acido cloridrico, pepsina) da un lato e l’azione difensiva della mucosa gastroduodenale dall’altro. L’eziologia dell’ulcera peptica comprende numerosi fattori: genetici,

emozionali, alimentari e assunzione di farmaci, soprattutto antinfiammatori non steroidei (FANS). Un ruolo importante nella genesi dell’ulcera è ricoperto da Helicobacter pylori. Si tratta di un batterio Gram-negativo che si trasmette per via orale da persona a persona con grande facilità e che sopravvive nell’ambiente fortemente acido dello stomaco grazie alla produzione di un’ureasi (enzima in grado di decomporre l’urea in CO2 e ammoniaca) estremamente efficace. L’infezione si manifesta spesso in forme asintomatiche o di moderata entità, ma può evolvere verso gastriti croniche, ulcere gastriche e duodenali e, addirittura, verso un carcinoma gastrico. Attualmente si ritiene che la maggior parte delle ulcere non provocate da FANS sia associata a infezione della mucosa gastrica da parte del batterio. Dietro le frequenti ricomparse di un’ulcera vi è proprio la cronica presenza di Helicobacter. Diversi studi hanno confermato che l’eradicazione del batterio mediante farmaci antibatterici è associata a un’incidenza di ricadute significativamente più bassa. Le terapie preferite per il trattamento dell’infezione da Helicobacter comprendono, oltre a uno specifico farmaco antisecretorio, amoxicillina (o metronidazolo) + claritromicina, oppure amoxicillina + metronidazolo. La sindrome di Zollinger-Ellison infine è causata da un adenoma secernente gastrina spesso localizzato nel duodeno o nel pancreas. Ciò comporta un’ipersecrezione di acido, con ulcere recidivanti.

ISBN 978-88-08-18712-3

CAPITOLO 31 • Antiulcera e antiacidi

Figura 31.1 Regolazione fisiologica della secrezione acida gastrica. Il simbolo + indica vie stimolatorie, il simbolo – vie inibitorie.

31.2 F  isiologia della secrezione gastrica La secrezione di acido gastrico è un processo continuo controllato da fattori neurali, endocrini e paracrini. Le cellule parietali sono stimolate a secernere HCl attraverso i canalicoli secretori a seguito dell’attivazione di recettori dislocati a livello della membrana latero-basale delle cellule parietali. Alcuni di tali recettori sono anche presenti sulle cellule enterocromaffino-simili (Fig. 31.1). I tre principali mediatori della secrezione acida gastrica sono acetilcolina, gastrina e istamina. Essi agiscono su recettori specifici e cioè muscarinici M, gastrinici CCK2 e istaminergici H2, rispettivamente. Tale interazione provoca l’attivazione dell’adenilato ciclasi nel caso dell’istamina, o della fosfolipasi C nel caso di acetilcolina e gastrina, le quali avviano una catena di eventi biochimici (cascate dell’adenilato ciclasi e del fosfoinositolo) che infine promuovono il trasporto attivo, mediato dall’enzima H+, K+-ATPasi, di ioni H+ nel lume gastrico. Gli ioni H+ provengono dalla dissociazione dell’H2CO3 che deriva a sua volta dal metabolismo delle cellule parietali. Gli ioni HCO3− passano invece nel circolo sanguigno. Le cellule parietali sono ricche di mitocondri e sono sede di un attivo metabolismo ossidativo se stimolate. Esse sono inoltre ricche di anidrasi carbonica, perciò la CO2 prodotta dal metabolismo mitocondriale viene rapidamente convertita in H2CO3. L’efflusso di ioni Cl− avviene attraverso un canale ionico distinto ed è accompagnato da quello di ioni K+, che vengono poi riportati all’interno della cellula dalla H+,K+-ATPasi. Gli stimoli gastrinico e muscarinico possono agire direttamente sulla cellula parietale oppure indirettamente, stimo-

lando il rilascio di istamina dalle cellule enterocromaffino-simili localizzate in prossimità delle cellule parietali. I recettori muscarinici localizzati sulle cellule parietali sono del sottotipo M3, mentre quelli presenti sulle cellule enterocromaffinosimili sono di un sottotipo non precisato. La mucosa gastrica si protegge dall’acido gastrico mediante diversi meccanismi, quali la presenza di strette giunzioni intercellulari tra le cellule epiteliali gastriche e la produzione di un muco viscoso alcalino ad opera delle prostaglandine E2 e I2, le quali aumentano inoltre il flusso sanguigno locale e inibiscono la secrezione acida gastrica mediante un effetto diretto sulle cellule parietali mediato dal recettore EP3.

31.3 Farmaci antiulcera Per il trattamento dei disturbi correlati alla secrezione di acido gastrico vengono impiegati farmaci: • in grado di ridurre la secrezione gastrica (antisecretori); • che svolgono azione difensiva nei confronti della mucosa gastrica (adsorbenti, protettivi); • che stimolano le capacità di autodifesa della mucosa stessa (epiteliotrofici, citoprotettivi). I farmaci antisecretori sono a loro volta distinguibili in: antigastrinici, anticolinergici, antistaminici e inibitori della pompa protonica (H+,K+-ATPasi). Gli agenti impiegati più comunemente e con i migliori risultati sono gli inibitori della pompa protonica e gli antistaminici H2. A causa della loro efficacia relativamente bassa e degli effetti collaterali anticolinergici, sono invece utilizzati ormai solo raramente gli an-

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FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE

H3CO

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N

N

N H

N

S O H3C

N H

S O H3C

CH3 OCH3

OCH2CF3

Omeprazolo

F2HCO

Lansoprazolo

N N H

N

N N

S

N H

O H3CO

S

N

O H3C

OCH3

O(CH2)3OCH3

Pantoprazolo

Rabeprazolo

H3CO

N N H

S

N

O H3C

CH3 OCH3

Esomeprazolo

Figura 31.2 Strutture degli inibitori della H+,K+-ATPasi.

tagonisti dei recettori muscarinici M1 dei gangli intramurali come la pirenzepina.

31.3.1 Inibitori della pompa protonica Gli inibitori della pompa protonica H+,K+-ATPasi sono i più efficaci soppressori della secrezione acida gastrica. Omeprazolo – 5-metossi-2-[[(4-metossi-3,5-dimetilpiridin-2-il)metil]sulfinil]-1H-benzimidazolo –, lansoprazolo – 2-[[[3-metil-4-(2,2,2-trifluoroetossi)piridin-2-il]metil]sulfinil]-1Hbenzimidazolo –, pantoprazolo – 5-(difluorometossi)2-[[(3,4-dimetossipiridin-2-il)metil]sulfinil]-1H-benzimidazolo –, rabeprazolo – 2-[[[4-(3-metossipropossi)-3-metilpiridin-2-il]metil]sulfinil]-1H-benzimidazolo – ed esomeprazolo (S-enantiomero dell’omeprazolo) (Fig. 31.2) sono α-piridilmetilsulfinil benzimidazoli e agiscono, dopo attivazione in ambiente acido, come inibitori irreversibili della H+, K+-ATPasi (Fig. 31.3). Entrano nelle cellule parietali dal circolo sanguigno e si accumulano, in virtù delle loro proprietà di basi deboli, nei canalicoli secretori delle cellule stesse, dove vengono rapidamente trasformati dal pH acido presente. L’acido sulfenico o la sulfenamide costituiscono gli effettivi inibitori della H+,K+-ATPasi. Il bersaglio delle forme attivate del farmaco è rappresentato dal gruppo tiolico di tre residui cisteinici dell’enzima e ciascun inibitore colpisce in modo specifico uno o più di questi residui. Il residuo Cys318 è l’unico tra i tre a essere attaccato da tutti gli inibitori. Tali farmaci vanno quindi considerati come profarmaci che ri-

chiedono un’attivazione da parte del mezzo acido. La presenza di un gruppo alcossi in posizione para e di 1 o 2 gruppi metilici in posizione meta dell’anello piridinico accentua la nucleofilicità dell’azoto piridinico favorendone l’attacco sul carbonio elettrondeficiente in posizione 2 dell’anello benzimidazolico. L’inizio dello sviluppo degli inibitori dell’H+,K+-ATPasi risale agli anni ’70, quando la 2-piridiltioacetamide (Fig. 31.4), originariamente studiata come farmaco antivirale, evidenziò proprietà antisecretorie. I tentativi di scoprire analoghi più potenti e meno tossici portarono dapprima al derivato piridilmetil tiobenzimidazolico H124/26 e successivamente al suo metabolita più attivo timoprazolo. L’ottimizzazione dei sostituenti sui due sistemi anulari con l’obiettivo di ottenere un corretto bilanciamento tra potenza, stabilità chimica e facilità di preparazione si è concretizzata infine nell’identificazione dell’omeprazolo. Gli inibitori dell’H+,K+-ATPasi hanno un profondo effetto sulla produzione di acido. Quando vengono somministrati nelle dosi terapeutiche, la produzione di acido diminuisce dell’80-95% e si ripristina solo dopo che nuove molecole dell’enzima sono inserite nella membrana luminale. Essi sono instabili a basso pH e quindi sono formulati per l’uso orale come capsule rigide contenenti granuli o come compresse rivestite gastroresistenti. L’omeprazolo è utilizzato come tale o come sale sodico, il pantoprazolo e il rabeprazolo come sali sodici, l’esomeprazolo come sale sodico e di magnesio.

CAPITOLO 31 • Antiulcera e antiacidi

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N H

R'

N

N

R

N

S

H+

NH

R

R'

O

H

N H

N

R'

N

R S

N H

O

S O H+

N

R N H

N

R N

N

R'

S

Enz-SH

Enz-SH

S

OH

N

R'

Sulfenamide

Acido sulfenico N

R N H

N

Enz-SH = H+,K +-ATPasi

R'

Enz-S-S

Figura 31.3 Meccanismo d’azione degli inibitori della H+,K+-ATPasi.

Gli inibitori della pompa protonica sono rapidamente assorbiti, la loro biodisponibilità orale è compresa tra il 30% (omeprazolo) e l’80% (lansoprazolo), si legano altamente alle proteine plasmatiche (> 95%) e sono estesamente metabolizzati dai citocromi P450 epatici per dare metaboliti inattivi Le principali trasformazioni metaboliche comprendono ossidazione del metile in posizione 5 dell’anello piridinico (omeprazolo, esomeprazolo), O-demetilazione del gruppo –OCH3 dell’anello benzimidazolico (omeprazolo, esomeprazolo) e in posizione 4 dell’anello piridinico (pantoprazolo, rabeprazolo), C5 ossidrilazione dell’anello benzimidazolico (lansoprazolo), e ossidazione e riduzione del gruppo solfossido a solfone e a tioetere, rispettivamente. Nella Figura 31.5 è illustrato a titolo di esempio il metabolismo dell’omeprazolo. I tempi di emivita sono compresi tra 0,5 e 1,9 ore, ma

H2N

la durata dell’effetto è molto superiore (15-48 ore) e dipende dal numero e dalla natura dei residui cisteinici della pompa a cui gli inibitori si legano. L’enantiomero (S) dell’omeprazolo, esomeprazolo, è metabolizzato in misura inferiore rispetto all’enantiomero (R) ed è anche eliminato meno rapidamente. Esso costituisce un esempio di chiral switching, cioè di sviluppo di un singolo enantiomero a partire da una forma racemica commercializzata in precedenza. Sono state anche introdotte alcune formulazioni degli inibitori della pompa protonica per uso parenterale, utili in pazienti gravemente compromessi, in nutrizione parenterale, in caso di drenaggio con sondino gastrico ecc. I farmaci vanno assunti con i pasti poiché il cibo intensifica la produzione di acido da parte delle cellule parietali. Gli inibitori della pompa protonica causano in genere pochi effetti collaterali; nausea, dolori addominali, costipazione,

N

N N H

S

N

S

H124/26 H3CO

N N H

S O

N

N N H

S O H3C

Omeprazolo

Figura 31.4 Sviluppo dell’omeprazolo.

N CH3 OCH3

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H3CO

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N S

N H

N

O H 3C

OH OCH3 H3CO

H3CO

N S

N H

S N H O O

N CH3 OCH3

H3CO

N S

N

H3C

N N H

CH3 OCH3

N H HO

N

H3C

O H3C

Omeprazolo

N

S

N

O H3C

CH3 OCH3

CH3 OCH3

Figura 31.5 Metabolismo dell’omeprazolo.

flatulenza, diarrea sono quelli più comuni. Nel 5-10% delle assunzioni a lungo termine si registra ipergastrinemia. Poiché la gastrina è un fattore trofico per le cellule epiteliali, vi è il rischio teorico che l’ipergastrinemia possa promuovere lo sviluppo di tumori del tratto gastrointestinale. Nei ratti in effetti si è registrato lo sviluppo di iperplasia delle cellule enterocromaffino-simili e di tumori carcinoidi gastrici. Nell’uomo, tuttavia, dopo oltre 20 anni di impiego non si sono evidenziati dati circa l’opportunità di interrompere la terapia a seguito di ipergastrinemia. L’uso cronico degli inibitori della pompa protonica è stato anche associato a un aumento del rischio di fratture ossee e della suscettibilità ad alcuni tipi di infezioni. Gli inibitori dell’H+,K+-ATPasi sono usati per promuovere la guarigione delle ulcere gastriche e duodenali e per il trattamento dell’esofagite da reflusso e della sindrome di Zollinger-Ellison. Nel caso di ulcere gastroduodenali e dell’esofagite da reflusso, i dosaggi sono 20-40 mg per omeprazolo, rabeprazolo, esomeprazolo, 40 mg per il pantoprazolo, 15-30 mg per il lansoprazolo; nel trattamento della sindrome di Zollinger-Ellison i dosaggi sono solitamente il doppio dei precedenti. Gli inibitori della H+,K+-ATPasi sono più efficaci degli antistaminici H2 nella risoluzione dei sintomi e nella guarigione dell’esofagite (80-90% dei casi contro 50-75% dopo 4 e 8 settimane, rispettivamente). Un risultato simile si osserva nel caso delle ulcere peptiche, mentre nel caso della sindrome di Zollinger-Ellison gli inibitori della pompa sono chiaramente i farmaci di scelta. Tutti gli inibitori della

pompa protonica hanno, a dosi paragonabili, efficacia simile. Nel Box 31.1 è riportato uno schema di sintesi degli inibitori della H+,K+-ATPasi.

31.3.2 Antistaminici H2 Informazioni dettagliate sull’istamina e sulle principali tappe della progettazione degli antistaminici H2 sono riportate nel Capitolo 30. Gli antistaminici H2 sono meno potenti degli inibitori della pompa protonica e sopprimono la secrezione acida gastrica per circa il 70%. Gli effetti più profondi si hanno sulla secrezione acida basale e sono perciò particolarmente efficaci nell’inibizione della secrezione acida notturna che riflette principalmente l’attività basale delle cellule parietali. Ciò ha rilevanza clinica poiché il più importante fattore di guarigione delle ulcere duodenali è il livello di acidità notturna. Quindi le ulcere duodenali possono essere guarite mediante la somministrazione di una dose di antistaminici H2 la sera prima di coricarsi. Anche alcuni pazienti con esofagite da reflusso in terapia con inibitori della pompa protonica possono trarre beneficio dall’aggiunta di un antistaminico H2. Gli antistaminici H2 sono assorbiti rapidamente dopo somministrazione orale, sono scarsamente legati alle proteine plasmatiche e modeste percentuali di essi (da < 10% a circa 35%) sono metabolizzate nel fegato. Le principali reazioni metaboliche sono la S- e la N-ossidazione. Sia i metaboliti sia il farmaco immodificato sono escreti attraverso i reni.

CAPITOLO 31 • Antiulcera e antiacidi

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BOX 31.1 ■ Sintesi degli inibitori della H+/K+-ATPasi Uno schema generale di sintesi degli inibitori della H+/K+ATPasi prevede la ciclizzazione in ambiente alcalino del potassio O-etil ditiocarbonato con l’opportuno 1,2-diaminobenzene per dare l’intermedio 2-mercapto-1Hbenzimidazolico, che viene alchilato con l’opportuna 2-clorometilpiridina in presenza di NaOH. Infine, il sol-

furo così ottenuto è ossidato a solfossido con acido mcloro-perbenzoico in CH2Cl2. L’opportuna 2-clorometilpiridina è ottenuta mediante una reazione di Polonovski dalla corrispondente 2-metilpiridina N-ossido, seguita da idrolisi alcalina del gruppo acetilossi e conversione del gruppo alcolico in cloruro. R'

NH2

S + C2H5O

R NH2

R

S - K+

N SH H 2-Mercapto-1H-benzimidazolo R-sostituito

Potassio O-etil ditiocarbonato

1,2-Diaminobenzene R-sostituito

N

N

Cl

2-Clorometilpiridina R'-sostituita

Cl

N

R N H

S

N

R

N

CO3H

R'

N H

Acido m-cloroperbenzoico

N

S O

R'

Per la preparazione della 2-clorometilpiridina R'-sostituita:

R'

1. (CH3CO)2O R' 2. OH -

+

N O

CH3

N

OH

SOCl 2

R' N

Cl



2-Metilpiridina N-ossido R'-sostituita

2-Idrossimetilpiridina R'-sostituita

L’incidenza degli effetti indesiderati è bassa (< 3%). Le manifestazioni più comuni comprendono diarrea, cefalea, sonnolenza, fatica, dolori muscolari, costipazione. La cimetidina, a causa della sua capacità di legarsi anche ai recettori degli androgeni e di inibire i sistemi a citocromo P450, può provocare anche effetti endocrini quali ginecomastia, galattorrea, oligospermia e alterare il metabolismo di altri farmaci. Sotto questo aspetto, la ranitidina e, ancora maggiormente, famotidina e nizatidina, presentano un profilo di sicurezza superiore. La roxatidina, introdotta sul mercato italiano nel 1992, è una molecola strutturalmente diversa da quella dei precedenti antistaminici H2. Il composto presenta un’affinità molto elevata verso i recettori H2 e risulta essere più potente della cimetidina nell’inibire la secrezione acida gastrica. L’assorbimento per via orale è rapido e completo (80-90%). La roxatidina viene completamente metabolizzata e il suo principale metabolita è il prodotto deacetilato. L’emivita plasmatica è di circa 3 ore. L’eliminazione è prevalentemente per via renale (90-99%). La posologia giornaliera è di 150 mg in un’unica somministrazione serale.

2-Clorometilpiridina R'-sostituita

Nella Tabella 31.1 è riportato il confronto di alcune proprietà degli antistaminici H2.

31.3.3 Sucralfato Il sucralfato è un sale basico di alluminio del saccarosio octasolfato, efficace nei confronti dell’ulcera peptica, nelle forme infiammatorie della mucosa gastroduodenale e negli stati irritativi secondari all’assunzione di farmaci gastrolesivi. Non viene assorbito dall’apparato digerente e quindi non provoca azioni sistemiche. A contatto con l’ambiente acido dello stomaco forma una pasta che aderisce al cratere ulceroso e costituisce una barriera protettiva contro l’ulteriore aggressione da parte dell’acido cloridrico e della pepsina. Vengono in tal modo favoriti i processi riparativi della mucosa ulcerata. Nell’uomo la pasta rimane aderente all’epitelio ulcerato per più di 6 ore. Essa aderisce maggiormente alle ulcere duodenali che a quelle gastriche; il cibo non sembra influenzare l’integrità del gel aderente. L’incidenza e la gravità degli effetti collaterali provocati dal sucralfato sono molto basse (stipsi, secchezza delle fauci). La dose è di una compressa da

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FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE

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Tabella 31.1 Proprietà degli antistaminici H2. Biodisponibilità (%)

Emivita (ore)

Cimetidina

63-78

1,5-2

1

800

Ranitidina

52

2-3

4-10

300

Famotidina

37-45

2,5-4

20-50

 40

Nizatidina

98

1,5-2

4-10

300

Roxatidina

80-90

~3

8-20

150

1 g o una bustina di granulare 4 volte al giorno. Il sucralfato è efficace sia nei confronti dell’ulcera gastrica sia di quella duodenale. In diversi casi l’incidenza delle guarigioni con il sucralfato è risultata quasi eguale a quella con la cimetidina. La prosecuzione del trattamento dopo remissione prolunga notevolmente l’intervallo libero da recidive. CH2OR O OR RO RO

OR O

ROH2C

CH2OR

RO O

R = SO3[Al2(OH)5]

Sucralfato

La formazione della pasta deriva dai seguenti processi. Si ha inizialmente consumo di 4 equivalenti di HCl e dissociazione di 2 atomi di alluminio. Al2(OH)5SO3R + 4 H+ → [Al2OH]5+ + RSO3– + 4 H2O Non tutti gli anioni RSO3– formatisi sono però liberati in soluzione, ma una certa frazione di essi è trattenuta nella porzione indisciolta del sale a mano a mano che il processo di dissoluzione continua. Di conseguenza, la fase solida assume un eccesso di cariche negative, mentre in soluzione si manifesta un corrispondente eccesso di cariche positive. Per compensare tale sbilanciamento, un ulteriore H+ si dispone in prossimità di ciascun gruppo RSO3– trattenuto dal solido e reagisce con il gruppo alluminio idrossido situato in posizione adiacente all’RSO3– trattenuto. H+ + Al2(OH)5SO3R → [Al2(OH)4SO3R]+ + H2O Come risultato si ha la formazione di un legame ionico tra la specie positiva così generata e l’RSO3– trattenuto. RSO3–[Al2(OH)4SO3R]+ Se si forma intermolecolarmente un certo numero di tali coppie ioniche, ne deriva una struttura polimerica di consistenza semisolida con molecole di acqua coordinate agli ioni e ciò costituisce la pasta adesiva a cui si è accennato all’inizio. Tale pasta è relativamente resistente all’attacco di ioni H+ e conserva il 90% dell’attività antiacida del sucralfato originale. Man mano che la reazione con gli ioni H+ procede, si formano sempre più specie [Al2(OH)4SO3R]+ che liberano 2 atomi di alluminio per reazione con 4 H+. [Al2(OH)4SO3R]+ + 4 H+ → 2 Al3+ + RSO3– + 4 H2O

Potenza relativa

Dosaggio (mg)

In tal modo, molto gradualmente la pasta si disgrega e i componenti del sucralfato vanno in soluzione.

31.3.4 Alginato sodico L’alginato sodico è il sale sodico dell’acido alginico, un copolimero lineare formato da blocchi omopolimerici di dimensione variabile di acido β-(1→4) d-mannosiluronico e acido α-(1→4) d-gulosiluronico. Viene utilizzato in associazione con sodio (o potassio) bicarbonato nel trattamento sintomatico dell’esofagite da reflusso.

O HO

NaO2C

OH O

OH

O HO

CO2Na

O

O n

m

Sodio alginato

Una volta assunto (sotto forma di compresse masticabili o di sospensione orale), subisce idrolisi ad opera dell’HCl dello stomaco e l’acido alginico che si libera gelifica in soluzione acquosa, agendo come barriera antireflusso. La presenza del bicarbonato di sodio (o di potassio) ha lo scopo di favorire la risalita del gel verso la parte superiore dello stomaco a seguito della liberazione di CO2. Gli effetti collaterali del sodio alginato sono prevalentemente a carico dell’apparato digerente: flatulenza, nausea, distensione addominale e, raramente, reazioni di ipersensibilità.

31.3.5 A  naloghi prostaglandinici: misoprostolo Le prostaglandine E2 (PGE2) e I2 (PGI2) (Fig. 31.6) sono le principali prostaglandine sintetizzate dalla mucosa gastrica. Esse si legano al recettore EP3 localizzato sulle cellule parietali e stimolano la via Gi, inibendo l’adenilato ciclasi. Di conseguenza, riducono i livelli intracellulari di AMP ciclico e la secrezione di acido gastrico. Inoltre, la PGE2 esercita effetti citoprotettivi, che comprendono stimolazione della secrezione di mucina e bicarbonato e aumento del flusso sanguigno locale. L’impiego di PGE2 e PGI2 nel trattamento dell’ulcera peptica è fortemente limitato dal rapido metabolismo, che si traduce in inattività per via orale e breve durata d’azione per via parenterale, dall’incidenza di numerosi effetti collaterali e dall’instabilità chimica. Un primo progresso importante nel settore degli analoghi prostaglandinici sintetici antiulcera si è avuto l’introdu-

CAPITOLO 31 • Antiulcera e antiacidi

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CO2H

O

O CO2H

CH3

CH3 HO

HO

OH PGE2

OH Prostaciclina (PGI2)

Figura 31.6 Strutture delle prostaglandine E2 e I2.

zione di gruppi metilici ai carboni 15 o 16 della PGE2 al fine di bloccare l’ossidazione metabolica dell’OH in posizione 15. I derivati (15S)-15-metil- e 16,16-dimetil-PGE2 (Fig. 31.7) si sono dimostrati attivi per via orale, potenti e relativamente a lunga durata d’azione. Tuttavia, entrambi gli analoghi hanno evidenziato una serie di effetti collaterali che ne hanno limitato l’utilità clinica (nausea, vomito, diarrea, piressia ed effetti ossitocici, cioè di stimolazione delle contrazioni uterine). Un secondo passo in avanti si è registrato con la scoperta che lo spostamento dell’ossidrile dalla posizione 15 alla posizione 16 adiacente riduceva significativamente molti dei tipici effetti collaterali delle prostaglandine senza ridurne l’attività antisecretoria. Tale modifica strutturale e la successiva aggiunta al carbonio C16 di un gruppo metilico hanno portato alla realizzazione del misoprostolo (Fig. 31.7), introdotto in commercio nel 1985. Il misoprostolo è una miscela di 4 stereoisomeri. L’attività antisecretoria risiede quasi interamente nello stereoisomero (8R,11R,12R,16S). Il misoprostolo è utile nel trattamento sia dell’ulcera gastrica sia di quella duodenale, riducendo la secrezione acida

e promuovendo i meccanismi naturali di difesa della mucosa gastrointestinale. Il farmaco viene rapidamente assorbito ed è poi rapidamente ed estesamente idrolizzato nell’acido corrispondente, il principale metabolita attivo. L’acido ha un’emivita di 20-40 minuti e la maggior parte di esso viene escreta nelle urine. Il misoprostolo è particolarmente indicato nella prevenzione e nella terapia di ulcere gastroduodenali indotte da FANS in pazienti artrosici a rischio. È invece assolutamente controindicato in gravidanza a causa dei suoi effetti ossitocici. La posologia consiste nella somministrazione giornaliera di 800 μg, ripartiti in 2-4 volte per il trattamento di ulcere peptiche e di 200 μg per la loro prevenzione. Gli effetti collaterali consistono in diarrea, nausea, cefalea, vertigini e dolori addominali.

31.4 Antiacidi I farmaci antiacidi sono utilizzati per neutralizzare l’acidità gastrica e trovano indicazione nel trattamento del reflusso

O CO2 CH3 H3C

O CO2H CH3

15

HO

HO

16S 8R,11R,12R

CO2 CH3 H3C

OH

H3C

OH

CH3

16R

HO O

O

CO2CH3 H3C

CH3 16

HO

CH3

HO O

CH3

(15S)-15-Metil PGE2

OH

OH

CO2H CH3

CH3

16S

HO 8S,11S,12S

O CO2 CH3

16,16-Dimetil PGE2

H3C

OH

HO Misoprostolo

Figura 31.7 Strutture degli analoghi prostaglandinici antiulcera.

CH3

16R

711

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FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE

esofageo e nei casi di ulcera peptica con iperacidità. Agiscono localmente sul contenuto gastrico con effetto neutralizzante, senza tuttavia inibire l’attività secretoria. Il loro effetto è quindi temporaneo e scompare quando le somministrazioni vengono interrotte. Gli antiacidi comunemente impiegati sono: • antiacidi associati a sodio bicarbonato (NaHCO3); • composti del magnesio come Mg(OH)2, MgCO3, magnesio trisilicato; • composti dell’alluminio come Al(OH)3, AlPO4; • associazioni e complessi fra composti di alluminio, calcio (CaCO3) e magnesio. L’azione degli antiacidi è influenzata dalla velocità di dissoluzione della forma farmaceutica, dalla reattività con l’acido, dagli effetti fisiologici del catione, dalla solubilità e dalla presenza o meno di cibo nello stomaco. Per confrontare gli antiacidi si utilizza frequentemente come misura la capacità di neutralizzare l’acido gastrico, definita come il numero di mL di HCl 1 N che possono essere portati a pH 3,5 da una compressa o da 5 mL di soluzione di un antiacido nel corso di 15 minuti. Gli antiacidi variano nel grado di assorbimento della quota che non viene neutralizzata. L’NaHCO3, molto idrosolubile, è assorbito completamente e causa una transitoria alcalosi sistemica, mentre gli antiacidi contenenti alluminio, calcio e magnesio non sono assorbiti completamente e perturbano solo modestamente l’equilibrio acido-base. Tra gli antiacidi scarsamente solubili, Mg(OH)2 è quello che agisce più rapidamente. Il carbonato di magnesio, anche se più idrosolubile, reagisce molto meno rapidamente a causa della sua struttura cristallina. Una velocità di neutralizzazione paragonabile a quella del MgCO3 è presentata dal CaCO3, mentre quella dell’Al(OH)3 è notevolmente inferiore. La neutralizzazione parziale dell’acido gastrico è in grado di fare aumentare l’attività peptica che si mantiene elevata fino a pH 4. L’innalzamento del pH nell’antro determina un’ipersecrezione di acido gastrico e di pepsina. L’alcalinizzazione del contenuto gastrico aumenta la motilità intestinale attraverso l’azione della gastrina. L’Al3+

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provoca costipazione, mentre l’effetto opposto si verifica con il Mg2+. Nel caso del CaCO3, gli effetti sulla motilità gastrointestinale sono imprevedibili. Una alcalizzazione superiore a pH 4,5 può permettere un accrescimento dei batteri nello stomaco con eventuale colonizzazione delle vie respiratorie. Gli effetti indesiderati degli antiacidi dipendenti dall’aumento di pH sono in genere transitori e insignificanti clinicamente nei soggetti con funzione renale normale. In passato, quando si utilizzavano dosi elevate di NaHCO3 e/o di CaCO3, con il latte o la crema si registrava spesso la cosiddetta sindrome da latte e alcali con ipercalcemia, alcalosi e nefrocalcinosi. Nei soggetti con funzione renale normale, il modesto accumulo di Al3+ o Mg2+ non costituisce un problema, mentre in presenza di un’insufficienza renale l’Al3+ assorbito può esacerbare o addirittura indurre osteoporosi, encefalopatia e miopatia prossimale. In generale è consigliabile evitare di somministrare antiacidi in concomitanza con farmaci destinati all’assorbimento sistemico, dal momento che gli antiacidi possono modificare la velocità di assorbimento, la biodisponibilità e l’eliminazione renale di numerosi farmaci. Il bicarbonato di sodio può causare, oltre ad alcalosi sistemica, dilatazione gastrica, eruttazioni e possibile ritorno acido. Il carbonato di calcio può provocare ipercalcemia e una secrezione di rimbalzo di acido gastrico superiore a quella dell’NaHCO3. I composti dell’alluminio e quelli misti di alluminio e magnesio sono presenti in numerosi prodotti commerciali: fosfato di alluminio idrato, algeldrato e magaldrato. L’algeldrato (gel di alluminio idrato) è costituito da una sospensione acquosa di ossido di alluminio idrato, accompagnato in quantità variabile da carbonato basico di alluminio. È un antiacido ad azione prolungata con azione astringente. Il magaldrato è un complesso idrossimagnesio alluminato con formula approssimativa [Mg(OH)]+4 [Al2(OH)10]4–·2H2O, che è convertito rapidamente dall’acido gastrico in Mg(OH)2 e Al(OH)3. Questi sono scarsamente assorbiti e producono di conseguenza un effetto antiacido prolungato, con effetti bilanciati sulla motilità intestinale.

32

Antidiarroici e lassativi Giorgio Ortar

32.1  Antidiarroici 32.1.1 32.1.2 32.1.3 32.1.4 32.1.5 32.1.6

Aspetti generali Adsorbenti intestinali R  esine sequestranti gli acidi biliari Microrganismi antidiarroici Bismuto subsalicilato A  ntipropulsivi e agenti antisecretori

32.2  Lassativi 32.2.1 32.2.2 32.2.3 32.2.4 32.2.5

Aspetti generali Lassativi luminali Lassativi di contatto (stimolanti o irritanti non specifici) Agenti procinetici Lassativi diversi

32.1 Antidiarroici 32.1.1 Aspetti generali La diarrea consiste in evacuazioni troppo rapide di feci eccessivamente fluide. Il limite superiore del peso giornaliero di acqua nelle feci è stimato intorno a 200 grammi negli adulti. Nella maggior parte dei casi le diarree derivano da disordini dell’acqua intestinale e del trasporto di elettroliti. Esse possono essere causate da un aumento del carico osmotico intestinale, con ritenzione di acqua nel lume intestinale, da un’eccessiva secrezione di elettroliti e acqua, da un’essudazione di proteine e fluidi dalla mucosa e da un’alterata motilità intestinale. Queste cause agiscono spesso simultaneamente. In parecchi soggetti, il disturbo è benigno e autolimitante e non richiede alcun trattamento. Nei casi più gravi è importante reidratare il paziente, assumendo soluzioni contenenti glucosio ed elettroliti. Nella maggior parte dei casi di diarrea, la misura più corretta consiste nell’individuarne le cause (ad es. un’infezione batterica) e agire su di essa in maniera specifica.

La farmacoterapia dovrebbe essere riservata ai pazienti con sintomi significativi o persistenti. Essa comprende le seguenti categorie di farmaci: antinfettivi intestinali, adsorbenti intestinali, resine sequestranti gli acidi biliari, microrganismi antidiarroici, composti del bismuto e antipropulsivi. Gli antinfettivi intestinali (quali nistatina, paromomicina, vancomicina, rifaximina e neomicina) agiscono sulla patofisiologia responsabile della diarrea, mentre gli antidiarroici non specifici producono un’azione sintomatica. Parecchi di questi agenti diminuiscono la motilità intestinale e dovrebbero essere evitati il più possibile nelle diarree causate da organismi invasori.

32.1.2 Adsorbenti intestinali Colloidi idrofili scarsamente fermentabili o polimeri come carbossimetilcellulosa e calcio policarbophil sono comunemente utilizzati come purganti, ma sono talvolta utili nelle diarree in pazienti che soffrono di sindrome del colon irritabile. La carbossimetilcellulosa è un derivato della cellulosa in cui alcuni gruppi ossidrilici sono sostituiti con gruppi carbossimetilici.

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FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE

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32.1.3 R  esine sequestranti gli acidi biliari

CH2OR O OR O OR R = H o CH2CO2Na Carbossimetilcellulosa

Il calcio policarbophil, chimicamente una fibra acrilica non assorbibile, ha la capacità di adsorbire a livello intestinale una quantità di acqua pari a circa 60 volte il suo peso e, di conseguenza, favorisce la formazione di feci soffici e voluminose. Pertanto può esserne giustificato l’impiego terapeutico, oltre che nelle forme di stitichezza, anche nelle diarree non specifiche, poiché, adsorbendo dall’intestino la quantità di liquidi in eccesso, tende a regolarizzare consistenza e volume della massa fecale. Il caolino, un silicato idrato di alluminio [(Al2SiO2O5(OH)4] e l’attapulgite, un magnesio allumino fillosilicato, sono minerali argillosi in grado di adsorbire efficacemente l’acqua libera nell’intestino e di compattare le feci; inoltre possono anche adsorbire tossine batteriche nei casi di diarrea da infezioni. Proprietà simili sono riscontrabili nelle pectine, eteropolisaccaridi indigeribili che si ricavano da diversi tipi di frutta.

Sono farmaci utilizzati principalmente come ipolipemizzanti. Il loro eventuale impiego come antidiarroici riguarda la prevenzione e il trattamento della diarrea cronica da malassorbimento degli acidi biliari a causa di processi infiammatori come morbo di Crohn, contaminazione batterica o resezione chirurgica dell’ileo. L’eccessiva concentrazione di acidi biliari nel colon stimola la secrezione di acqua e di elettroliti. Le resine sequestranti gli acidi biliari sono macromolecole non assorbibili che espongono sulla loro superficie anioni, ad esempio Cl–, disponibili per uno scambio ionico con i gruppi anionici degli acidi biliari. In tal modo gli acidi biliari vengono sequestrati nell’intestino, ne viene prevenuto il riassorbimento e ne viene facilitata l’escrezione fecale. Tra le resine sequestranti gli acidi biliari sono da ricordare i seguenti farmaci (Fig. 32.1): colestiramina, colestipolo e colesevelam.

32.1.4 Microrganismi antidiarroici La diarrea associata all’impiego di antibiotici è il risultato di uno squilibrio, causato dalla terapia antibiotica, nella microflora intestinale. Esso si traduce in cambiamenti a livello del metabolismo dei carboidrati, con ridotto assorbimento

NH HO CH

CH2 CH

CH2

H N

N

N

N H

OH

HN

OH

H 2C

HC

NH

H N

N

CH2N+(CH3)3 Cl-

OH

n Colestiramina

NH

OH NH

Colestipolo

a NH3+Cl-

c NH2+Cl-

NH2+Cl-

d NH2+Cl-

OH NH2+Cl-

b

Colesevelam

N+(CH3)3 Clm

Figura 32.1 Strutture di colestiramina, colestipolo e colesevelam. Nella struttura del colesevelam, a, b, c e d rappresentano il numero dei quattro gruppi costituenti il tetrapolimero di base, mentre m indica l’estesa rete polimerica (m ≥ 100).

CAPITOLO 32 • Antidiarroici e lassativi

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Cl

CH3 O

N

CH3

CN

N

N OH

CO2R

Loperamide

Difenossilato: R = C2H5 Difenossina: R = H

Figura 32.2 Strutture di loperamide, difenossilato e difenossina.

di acidi grassi a catena corta e conseguente diarrea osmotica. Un’altra conseguenza dell’antibioticoterapia è la proliferazione di microrganismi potenzialmente patogeni come il Clostridium difficile. Il trattamento con probiotici (cioè microrganismi vivi che, somministrati in quantità adeguata, apportano un beneficio alla salute dell’ospite) può ridurre l’incidenza e la gravità della diarrea associata ad antibiotici. I probiotici utilizzati più comunemente come antidiarroici comprendono microrganismi produttori di acido lattico, Saccharomyces boulardii, spore di Bacillus clausii e di Bacillus subtilis.

32.1.5 Bismuto subsalicilato I composti del bismuto, in particolare il bismuto subsalicilato, sono stati utilizzati a lungo per il trattamento di tutta una serie di disturbi gastrointestinali tra cui la diarrea. Nello stomaco il bismuto subsalicilato reagisce con l’HCl per formare bismuto ossicloruro e acido salicilico. O O O

Bi

OH

Bismuto salicilato

La quasi totalità del bismuto passa nelle feci mentre il salicilato è assorbito nello stomaco e nel tenue ed è fonte degli stessi effetti collaterali degli altri salicilati. Il bismuto ha anche azioni antisecretorie, antinfiammatorie e antibatteriche, queste ultime sfruttate nel trattamento dell’Helicobacter pylori (in associazione con metronidazolo e tetraciclina). L’efficacia terapeutica del bismuto subsalicilato deriva probabilmente da una combinazione dei seguenti effetti: • ritardo dell’espulsione dei fluidi nel tratto digestivo; • stimolazione dell’adsorbimento di fluidi ed elettroliti da parte della parete intestinale; • riduzione dell’infiammazione/irritazione del tratto digestivo; • capacità di legare le tossine prodotte da E. coli; • azione battericida dei suoi componenti e attraverso il cosiddetto effetto oligodinamico (piccole quantità di metalli pesanti sono tossiche per un certo numero di microrganismi); • deboli proprietà antiacide.

32.1.6 Antipropulsivi e agenti antisecretori Alla categoria degli antipropulsivi appartiene la loperamide (Fig. 32.2), un agonista dei recettori oppioidi con elevata affinità per la sottoclasse μ, in particolare per quelli del plesso mioenterico. È 40-50 volte più potente della morfina come antidiarroico ed è quasi del tutto priva di attività sul sistema nervoso centrale (SNC). Il legame della loperamide con i recettori μ mioenterici provoca diminuzione dell’attività muscolare in questo distretto; ciò rallenta il transito intestinale, consentendo un maggiore assorbimento d’acqua, diminuendo la frequenza delle scariche e aumentando la consistenza delle feci. La loperamide ha inoltre attività antisecretoria nei confronti della tossina del colera e di alcune forme di quella di Escherichia coli. Agisce rapidamente raggiungendo il picco plasmatico dopo 3-5 ore. La sua emivita è di circa 11 ore e subisce un esteso metabolismo epatico. Il difenossilato e il suo metabolita attivo, la difenossina (Fig. 32.2), sono derivati piperidinici strutturalmente correlati alla meperidina, più potenti come antidiarroici della morfina. Entrambi sono estesamente assorbiti oralmente. Il difenossilato è rapidamente idrolizzato a difenossina, che viene poi eliminata con un’emivita di circa 12 ore. Ad alte dosi essi possono produrre effetti sul SNC. Nelle loro preparazioni è contenuta una piccola dose di atropina per scoraggiarne l’abuso e il sovradosaggio intenzionale. L’octreotide (Fig. 32.3) è un octapeptide analogo della somatostatina, utilizzato per il sollievo dei sintomi associati a tumori endocrini gastroenteropancreatici funzionali e nell’acromegalia, e si dimostra efficace anche nel trattamento della diarrea grave indotta da tumori del pancreas e del tratto gastrointestinale (GI). Agisce inibendo la secrezione da parte di tali tumori di vari ormoni tra cui 5-HT, gastrina, polipeptide intestinale vasoattivo, insulina e secretina. È stato anche utilizzato per altre forme di diarrea, come quelle indotte dalla chemioterapia e dall’infezione da HIV. L’octreotide viene somministrata per via sottocutanea o endovenosa, ha un tempo di emivita di 1-2 ore e presenta come effetti collaterali nausea, rigonfiamento addominale, ipo- e iperglicemia e calcolosi.

32.2 Lassativi La costipazione può essere spesso risolta semplicemente mediante l’assunzione di fibre alimentari, la non assunzione di farmaci che la provocano ed, eventualmente, l’uso giudizioso

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NH2 O

HO HO CH3

O N H

S

HN O

NH

H N

S O O CH3 OH O O N H

NH

H N

NH NH2

1. Lassativi luminali, comprendenti: a. lassativi di volume (colloidi idrofili); b. agenti osmotici (sali inorganici o zuccheri non assorbibili); c. lubrificanti ed emollienti (docusato, olio minerale). 2. Lassativi di contatto (stimolanti o irritanti non specifici) comprendenti: a. olio di ricino; b. droghe antrachinoniche; c. difenilmetani (bisacodil, picosolfato sodico). 3. Agenti procinetici: a. agonisti dei recettori 5-HT4; b. antagonisti dei recettori della dopamina; c. motilidi (eritromicina).

Figura 32.3 Struttura dell’octreotide.

32.2.2 Lassativi luminali di lassativi osmotici. L’uso prolungato di lassativi di contatto dovrebbe essere evitato. Nel caso di sintomi persistenti, possono dimostrarsi efficaci agenti procinetici agonisti del recettore 5-HT4 o attivatori dei canali del Cl–.

32.2.1 Aspetti generali La consistenza e la forma delle feci dipendono soprattutto dal loro contenuto in acqua, che è normalmente compreso tra il 70 e l’85% del peso totale. Circa 8-9 L di fluido entrano giornalmente nell’intestino. Nel tenue si verifica poi un riassorbimento netto di acqua in risposta a gradienti osmotici, mentre nel colon viene estratta la maggior parte dell’acqua residua fino a lasciarne circa 100 mL nelle feci. A causa di una diminuita motilità intestinale e di un eccesso di rimozione dei fluidi, le feci divengono dure e secche producendo costipazione. In parecchi casi la costipazione può essere corretta mediante una dieta ricca di fibre, un’assunzione adeguata di liquidi e un appropriato stile di vita. Se le misure non farmacologiche risultano inadeguate, possono essere integrate dall’impiego di lassativi. I termini lassativo, catartico, purgante sono spesso utilizzati scambievolmente, anche se il termine lassativo si riferisce più propriamente a una sostanza in grado di promuovere l’evacuazione dal retto di materiale fecale formato, mentre un catartico promuove l’evacuazione di materiale fecale non formato, in genere materiale fecale acquoso, dal colon. I lassativi agiscono secondo uno dei seguenti meccanismi: 1. aumento della ritenzione di fluido intraluminale mediante meccanismi idrofilici o osmotici; 2. diminuzione del riassorbimento dei fluidi mediante effetti sul trasporto dei fluidi e degli elettroliti nel colon; 3. alterazione della motilità intestinale, inibendo le contrazioni non propulsive e stimolando quelle propulsive. In base ai meccanismi suddetti, i lassativi si possono classificare come:

Lassativi di volume Lo psillio (Plantago psyllium) è una pianta erbacea i cui semi contengono una mucillagine che a contatto con l’acqua si rigonfia. Il gel che così si produce nell’intestino aumenta il volume delle feci, ne ammorbidisce il contenuto e stimola la peristalsi facilitando la defecazione. È utile non solo in caso di stitichezza, ma anche in presenza di diarrea. In quest’ultimo caso agisce assorbendo l’eccesso di liquidi e aumentando la consistenza del bolo fecale. La mucillagine contiene polisaccaridi complessi tra cui gli arabinoxilani, costituiti da xilosio e arabinosio. Agenti osmotici I lassativi salini contengono cationi magnesio – MgCO3, MgSO4, Mg(OH)2, magnesio citrato – o anioni fosfato (Na3PO4). La loro azione deriva dalla ritenzione per osmosi di acqua che stimola quindi la peristalsi. Inoltre, i lassativi a base di magnesio possono stimolare il rilascio di citochine con accumulo intraluminale di elettroliti e fluidi. I lassativi salini vanno utilizzati con cautela nei soggetti con insufficienza renale, cardiopatici, con preesistenti anomalie elettrolitiche e in terapia con diuretici. Il lattulosio e il lattilolo sono due disaccaridi sintetici costituiti rispettivamente da galattosio e fruttosio e galattosio e sorbitolo (Fig. 32.4). Essi arrivano inalterati fino al colon, sfuggendo all’azione digestiva del succo gastrico nello stomaco e delle disaccaridasi intestinali. Nel colon sono idrolizzati ad acidi grassi a catena corta, che richiamano una quantità di acqua sufficiente ad ammorbidire le feci e stimolare la peristalsi. Il macrogol è un tipo di eccipiente farmaceutico della famiglia dei polietilenglicoli che viene utilizzato anche da solo come lassativo. È in grado di richiamare acqua e sali minerali nel lume gastrointestinale e in questo modo espleta un’azione di stimolazione meccanica della peristalsi. Lubrificanti ed emollienti I lubrificanti ed emollienti comprendono gli emollienti oleosi e quelli fecali. Tra i primi sono da ricordare la paraffina liquida (olio minerale), una miscela di idrocarburi ottenu-

CAPITOLO 32 • Antidiarroici e lassativi

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HO

OH

OH

O HO

HO O

OH

OH OH

HO HO

OH O

OH O

OH

O

OH

OH

OH

OH Lattulosio

Lattilolo

Figura 32.4 Strutture del lattulosio e del lattilolo.

stimola la motilità intestinale. Fanno parte di questo gruppo l’olio di ricino, le droghe antrachinoniche e alcuni purganti di sintesi quali bisacodil e sodio picosolfato. L’olio di ricino è costituito da una miscela di trigliceridi dai quali per saponificazione nell’intestino tenue ad opera di lipasi si ottengono acidi grassi, tra cui prevale l’acido ricinoleico, che presenta i caratteri chimici propri di un tensioattivo. È in grado perciò di impoverire la mucosa intestinale dello strato protettivo, permettendo un maggiore contatto con le terminazioni nervose e quindi l’irritazione con conseguente peristalsi. Inoltre, come tutti i tensioattivi anionici, riduce l’assorbimento di acqua e di elettroliti. A causa del sapore sgradevole e dei potenziali effetti tossici sull’epitelio intestinale e sui neuroni enterici, l’olio di ricino è attualmente poco raccomandato.

ti dal petrolio che, assunta oralmente, penetra nelle feci e le rammollisce. Il suo uso regolare è sconsigliato a causa di tutta una serie di effetti collaterali. Il docusato sodico (diottilsulfosuccinato sodico) è il principale rappresentante della categoria degli emollienti fecali. È un tensioattivo anionico che esplica un effetto emolliente abbassando la tensione superficiale delle feci e favorendone l’idratazione. CH3 O

CH3 O O

NaO3S O

CH3

COOH

CH3 Docusato sodico CH3

32.2.3 L  assativi di contatto (stimolanti o irritanti non specifici)

OH Acido ricinoleico

Droghe antrachinoniche Le droghe antrachinoniche – il termine droga vegetale si riferisce a piante o parti di piante generalmente in forma essiccata impiegate in terapia come polvere o preparazioni da esse ottenute (infusi, decotti estratti, tisane) – hanno come costituenti glicosidi di antrachinoni, antroni e diantroni (Fig. 32.5).

Olio di ricino I lassativi di contatto (stimolanti o irritanti) producono effetti diretti su enterociti, neuroni enterici e muscolatura liscia del tratto GI. Inducono una limitata infiammazione intestinale che promuove l’accumulo di acqua e di elettroliti e

O

O

O

O Antrachinone

Antrone

O

Figura 32.5 Strutture base delle droghe antrachinoniche.

Diantrone

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FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE

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OH HO OH O HO

R

O

O

OH

OH

10

O

R'

OH

10

CH3

HO

HO

O

O OH

OH HO

HO OH

OH

Cascarosidi A-F: R, R' = H, OH

Crisaloina

Figura 32.6 Strutture dei cascarosidi A-F e della crisaloina.

L’aloe è il succo essiccato ottenuto dalle foglie di varie specie di Aloe. Il principio attivo dell’aloe è l’aloina (o barbaloina). È una miscela di aloina A (10S) e B (10R). OH

O

OR1

O

OH

OH R2O

10

CH3 O

OH

R2

R1

HO O

Frangula emodina

H

OH

H OH

Frangulina A

HO

H

CH3

OH

OH

OH

Aloina

La cascara sagrada è costituita dalla corteccia del tronco e dei rami di Rhamnus purshiana e contiene i glucosidi aloina, cascarosidi A-F (tre coppie di diastereoisomeri al C10) e crisaloina (miscela di crisaloina A e B) (Fig. 32.6). Nella frangola, droga ricavata dalla corteccia di Rhamnus frangula, sono presenti come costituenti attivi monoglicosidi e diglicosidi della frangula emodina, rispettivamente franguline A e B e glicofranguline A e B (Fig. 32.7). Il rizoma essiccato di varie piante del genere Rheum (rabarbaro) contiene come principali costituenti i glicosidi di crisofanolo, emodina, aloe-emodina e reina, i reinosidi A-D e i sennosidi A-F. Si riteneva in precedenza che i costituenti attivi fossero il crisofanolo e gli altri antrachinoni, ma evidenze successive hanno indicato come responsabili dell’azione purgante i sennosidi A-F (Fig. 32.8). Infine le foglie di senna, ricavate da piante del genere Cassia, contengono come principali costituenti i sennosidi A e B. I glucosidi antrachinonici sono di per sé inattivi come purganti, a differenza di quelli antronici e diantronici. Le droghe antrachinoniche agiscono poiché vengono trasformate dalla flora batterica intestinale in derivati antronici o diantronici. È probabile che l’azione catartica sia dovuta alla messa in libertà della porzione agliconica. Per questo motivo il loro effetto si manifesta dopo 6-12 ore dall’ingestione. Gli

O

Frangulina B

HO

H

O

OH

OH

HO O

OH

OH

Glicofrangulina A

O CH3

OH OH

OH

OH HO O OH

Glicofrangulina B

HO

O

OH OH

OH

OH

Figura 32.7 Strutture delle franguline A e B e delle glicofranguline A e B.

effetti collaterali derivanti dal loro uso prolungato ne limitano l’uso. È stata ad esempio osservata una pigmentazione melanica della mucosa del colon, provocata dalla presenza di macrofagi pigmentati nella lamina propria. Questi agenti

CAPITOLO 32 • Antidiarroici e lassativi

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OH OH OH

O

OH

OH

O HO

R2

R1

HO

O

O

CO2H

R

OH

R 1 = CH3; R2 = H R 1 = OH; R2 = CH3 R 1 = CH2OH; R2 = H R 1 = CO2H; R2 = H

OH

9

O Crisofanolo: Emodina: Aloe-emodina: Reina:

O

OH OH Reinosidi A-D: R = H, OH

OH OH OH O

O

HO

O

OH

9'

R2 CO2H

9

R1O O O

Sennoside A: R1 = H; R2 = CO2H; (9R,9'R) (treo) Sennoside B: R1 = H; R2 = CO2H; (9R,9'S) (eritro) Sennoside C: R1 = H; R2 = CH2OH; (9R,9'R) (treo) Sennoside D: R1 = H; R2 = CH2OH; (9R,9'S) (eritro) Sennoside E: R1 = COCO2H; R2 = CO2H; (9R,9'R) (treo) Sennoside F: R1 = COCO2H; R2 = CO2H; (9R,9'S) (eritro)

OH

OH OH OH

Figura 32.8 Strutture di crisofanolo, emodina, aloe-emodina, reina, dei reinosidi A-D e dei sennosidi A-F.

OCOCH3 N

OSO3Na N

OCOCH3 Bisacodil

OSO3Na Picosolfato sodico

Figura 32.9 Strutture di bisacodil e picosolfato sodico.

sono stati anche associati allo sviluppo del cosiddetto “colon catartico”, che si manifesta con serie anomalie radiologiche e funzionali.

Difenilmetani La categoria più importante dei purganti irritanti di sintesi è quella dei derivati difenilmetanici, a cui appartengono bisa-

codil e picosolfato sodico, caratterizzati dalla presenza di un raggruppamento 4,4'-diossidifenilico (Fig. 32.9). Gli ossidrili fenolici sono acetilati o solforati. Accanto a questa porzione farmacologicamente attiva è presente un terzo residuo aromatico piridinico. Il bisacodil viene attivato per idrolisi dei gruppi acetato ad opera di esterasi intestinali e il suo effetto lassativo si produce dopo circa 6 ore nel

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FARMACI DELL’APPARATO DIGERENTE

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motilina. Tali interazioni sono alla base dell’aumento della frequenza e/o della forza delle scariche peristaltiche. I procinetici come metoclopramide, domperidone, bromopride, alizapride, clebopride e levosulpiride che agiscono come antagonisti sul recettore D2 (Fig. 32.10) sono indicati per il trattamento di nausea e vomito di genesi organica o funzionale, della sindrome da reflusso gastroesofageo, dei disturbi digestivi da stasi gastrica e possono essere utilizzati anche nelle condizioni di stipsi croniche primitive o iatrogene (terapia con oppioidi). Di recente approvazione è la prucalopride (Fig. 32.11), una diidrobenzofurancarbossamide, che si lega ai recettori della serotonina 5-HT4 responsabili della motilità intestinale con un’affinità molto elevata e che ha dimostrato una significativa efficacia nei pazienti con stipsi cronica non responsiva ai comuni lassativi. L’eritromicina (Fig. 32.11) è un antibiotico macrolidico utilizzato per infezioni delle vie respiratorie superiori e inferiori, della cute e dei tessuti molli. In corso di trattamento, sono frequenti vari disturbi gastrointestinali, poiché l’eritro-

caso di somministrazione orale, mentre le supposte agiscono molto più rapidamente (30-60 minuti). È escreto principalmente nelle feci. Non dovrebbe essere utilizzato per più di 10 giorni a causa della possibilità di sviluppare un colon atonico non funzionante. Il suo sovradosaggio può produrre deficit di elettroliti e fluidi. Anche il picosolfato sodico è idrolizzato dalla flora batterica per dare la forma attiva, che agisce perciò solamente a livello del colon. Può causare crampi ed eccessiva secrezione di fluidi. I difenilmetani possono danneggiare la mucosa intestinale e innescare un processo infiammatorio.

32.2.4 Agenti procinetici Il termine si riferisce a composti che stimolano il transito GI mediante l’interazione con recettori specifici coinvolti nella regolazione della motilità intestinale. Tra questi, i più importanti sono i recettori muscarinici, il recettore dopaminergico D2, alcuni recettori (come il 5-HT3 e il 5-HT4) per la serotonina e, in grado minore, i recettori per l’ormone peptidico CH3

O Cl H 2N

N

CH3

N H

N H

O

OCH3

N N H

O N H

N

OCH3

H2N

Alizapride

OCH3 Bromopride

Domperidone

CH2 Cl

CH3

N H

H 2N

N H

O

O N

Cl Br

N

Metoclopramide

CH3

O

N

CH3

O

N H2NO2S

N H

N

N H OCH3

OCH3 Clebopride

Levosulpiride

Figura 32.10 Strutture degli agenti procinetici.

O CH3

H3C HO

O Cl H 2N

N

OCH3

N H O

H3C H3C

OH OH

CH3 HO O

H3C O O

O

Figura 32.11 Strutture di prucalopride ed eritromicina.

O OCH3

CH3 O

Prucalopride

N(CH3)2

Eritromicina A

CH3 OH

CH3

CH3

CAPITOLO 32 • Antidiarroici e lassativi

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H H N

O

HO2C O CO2H

O

NH

H N O

O

N H

O

H H

NH

O

H N

O

NH2

N H H

S H N

O

NH O

H3C

S

OH O

S

S

CH3

O HN O OH

N

O CONH2

NH

HO F

F

CH3

OH

Lubiprostone

S

S Linaclotide

H

H N O CO2H

Figura 32.12 Strutture di lubiprostone e linaclotide.

micina agisce come agonista della motilina, un ormone peptidico che stimola nell’uomo intensi fenomeni di peristalsi gastroduodenale. Questa proprietà è alla base del suo impiego occasionale come agente procinetico.

32.2.5 Lassativi diversi Un nuovo sviluppo nel trattamento della costipazione è rappresentato dall’introduzione di farmaci che aumentano la secrezione di fluidi agendo localmente su canali ionici localizzati nell’epitelio del colon. Un esempio al riguardo è il lubiprostone, un prostanoide attivatore dei canali del Cl– (Fig. 32.12). Il composto è stato approvato recentemente per il trattamento della stipsi cronica e per la sindrome dell’intestino irritabile con costipazione. Esso promuove la secrezione di fluido ricco di ioni cloruro, migliorando la consistenza delle feci e la frequenza dell’evacuazione attraverso

un’attivazione riflessa della motilità. Il farmaco ha una bassa biodisponibilità e agisce solamente nel lume intestinale. Gli effetti collaterali comprendono nausea, cefalea, diarrea, reazioni allergiche e dispnea. Un secondo agente secretorio di nuova introduzione è la linaclotide (Fig. 32.12), un peptide a 14 aminoacidi che agisce come agonista della guanilato ciclasi C e stimola le secrezioni di fluidi e la motilità. Inoltre ha proprietà antinocicettive, utili nella sindrome dell’intestino irritabile. Dopo somministrazione orale la linaclotide viene assorbita in misura minima dal tratto gastrointestinale. Viene trasformata nel suo principale metabolita attivo attraverso la rimozione della tirosina terminale. Sia la linaclotide sia il suo metabolita sono successivamente degradati all’interno del lume intestinale in piccoli peptidi e aminoacidi. Il farmaco viene eliminato con le feci.

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Introduzione ai farmaci antinfettivi Stefania Butini

33.1 Farmaci antinfettivi: definizioni e classificazioni 33.2 Tossicità selettiva e indice terapeutico 33.2.1 Tossicità selettiva 33.2.2 Indice terapeutico

33.3 Resistenza agli agenti antinfettivi 33.3.1 M  eccanismi dell’antibiotico-resistenza 33.3.2 Tolleranza e persistenza

33.4  Sinergismo 33.5 Principali meccanismi d’azione dei farmaci antinfettivi 33.5.1 M  eccanismo d’azione degli antibiotici -lattamici e degli antibiotici che hanno i ribosomi come bersaglio 33.5.2 M  eccanismo d’azione degli antifungini azolici 33.5.3 M  eccanismo d’azione dell’antimicobatterico isoniazide 33.5.4 Meccanismo d’azione degli antiretrovirali inibitori della trascrittasi inversa (anti-HIV) 33.5.5 M  eccanismo d’azione dell’antimalarico clorochina

Questo capitolo tratta dei farmaci antinfettivi in generale (antibatterici, antivirali, antifungini e antiprotozoari), definendo le loro classi e i principali meccanismi d’azione. L’aspetto della selettività (tossicità selettiva) sarà trattato ponendo un accento particolare sulla biodiversità, per poi definire l’indice terapeutico delle varie classi dei farmaci antinfettivi. Dato che l’uso prolungato, ma più spesso il cattivo uso, degli agenti antinfettivi è la principale causa d’insorgenza di fenomeni di resistenza, saranno anche affrontati alcuni aspetti riguardanti le resistenze e il sinergismo d’azione di differenti classi di antinfettivi come valido strumento per combatterle.

33.1 F  armaci antinfettivi: definizioni e classificazioni Gli antinfettivi sono farmaci che possono sia uccidere un agente infettivo sia inibirne la propagazione; essi sono una categoria di farmaci molto ampia che comprende differenti classi di composti: (a) antibiotici e antibatterici, (b) antifungini, (c) antimicobatterici, (d) antivirali e (e) antiprotozoari.

Ciascuna classe di antinfettivi può poi essere suddivisa in base allo specifico meccanismo d’azione o in base alla struttura chimica dei composti che la rappresentano. Gli antibatterici possono, infatti, essere classificati in base al loro meccanismo d’azione come segue: 1. inibitori della sintesi della parete cellulare batterica (ad es. gli antibiotici β-lattamici e altri agenti come la vancomicina); 2. composti che agiscono direttamente sulla membrana cellulare per aumentarne la permeabilità, provocando quindi la fuoriuscita di materiale intracellulare; 3. agenti che interrompono funzionalità delle subunità ribosomali per inibire reversibilmente la sintesi proteica (ad es. cloramfenicolo, tetracicline, eritromicina e clindamicina); 4. agenti che alterano la sintesi proteica legandosi alla subunità ribosomale 30S (ad es. gli aminoglicosidi); 5. agenti che influenzano il metabolismo batterico degli acidi nucleici inibendo l’RNA polimerasi (ad es. rifampicina) o la topoisomerasi (ad es. i chinoloni);

CAPITOLO 33 • Introduzione ai farmaci antinfettivi

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6. composti che agiscono come antimetaboliti, compresi trimetoprim e sulfamidici, bloccando gli enzimi essenziali del metabolismo dei folati. Gli agenti antifungini possono essere suddivisi in due grandi categorie: gli antibiotici (antibiotici polienici e vari, ad es. la griseofulvina) e i composti di sintesi, che sono prevalentemente rappresentati dai derivati azolici (Cap. 38). Gli agenti antimicobatterici includono i farmaci antileprotici e gli antitubercolari. Si definiscono antileprotici (antilebbra, leprostatici) tutti quei farmaci dotati di attività batteriostatica nei confronti del bacillo della lebbra (Mycobacterium leprae o bacillo di Hansen), mentre gli antitubercolari sono farmaci attivi contro il bacillo della tubercolosi (Mycobacterium tuberculosis o bacillo di Koch). La notevole somiglianza biochimica dei due bacilli giustifica in parte la sovrapponibilità della chemioterapia antileprosa e quella antitubercolare. Le terapie antileprosa e antitubercolare si basano sull’impego di un’associazione di almeno due farmaci. I pazienti sono seguiti in regime ambulatoriale, tranne che negli stati reattivi che vanno seguiti in regime di ricovero. Le chemioterapie antileprosa e antitubercolare ebbero inizio negli anni ’40, quando un derivato solfonico, il dapsone o 4,4'-diaminodifenilsolfone (DDS), venne introdotto nella pratica medica per il trattamento di queste malattie. O H2N

S

NH2

O Dapsone

Questo farmaco, che oggi non trova più applicazione come antitubercolare, resta uno degli agenti terapeutici più validi per il trattamento della lebbra. Tra i farmaci di seconda scelta per la terapia della lebbra possiamo ricordare la clofazimina (usata esclusivamente nella terapia multifarmaco), la rifampicina e la talidomide. Gli antitubercolari possono essere suddivisi in: 1. antitubercolari di prima scelta: un posto preminente in questo gruppo è occupato da isoniazide e rifampicina; 2. antitubercolari di seconda scelta: acido p-aminosalicilico (PAS), linezolid, alcuni fluorochinoloni (ofloxacina), amikacina. Gli agenti antivirali includono: 1. farmaci che interferiscono con la penetrazione del virus nella cellula ospite e bloccano gli stadi precoci della replicazione (interferoni e induttori d’interferone); 2. inibitori della replicazione virale (analoghi nucleosidici e non nucleosidici); 3. agenti antiretrovirali usati per il trattamento dell’human immunodeficiency virus (HIV), che è l’agente responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS), e che possono a loro volta essere ulteriormente suddivisi in 4 classi:



• analoghi degli acidi nucleici capaci di inibire selettivamente la DNA polimerasi virale o l’enzima trascrittasi inversa dell’HIV (nucleoside reverse transcriptase inhibitors, NRTI); •  inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa dell’HIV (non-nucleoside reverse transcriptase inhibitors, NNRTI); • inibitori di altri enzimi virali essenziali come le proteasi (protease inhibitors, PI) e l’integrasi; • inibitori della fusione e dell’ingresso. Attualmente la terapia dell’HIV viene esercitata mediante l’impiego delle classi di antivirali sopracitate e anche di loro combinazioni che hanno portato a un eccellente controllo della virulenza dell’HIV. Tali combinazioni sono definite come (a) terapia antiretrovirale ad alta efficienza o highly active antiretroviral therapy (HAART), rappresentata da un appropriato “cocktail” di farmaci e (b) terapia multifarmaco di recupero (o multi drug recover therapy, MDRT), che prevede una combinazione comprendente fino a 9 diversi farmaci antivirali. Classi di agenti antiprotozoari sono rappresentate per la maggior parte dagli agenti antimalarici, ma anche da tutti quei chemioterapici impiegati per il trattamento delle amebiasi, giardiasi, tricomoniasi, tripanosomiasi, leishmaniosi, toxoplasmosi ecc. Gli antimalarici possono essere raggruppati in base alla loro struttura chimica in: 1. alcaloidi della china; 2. derivati a struttura 4-aminochinolinica; 3. derivati a struttura 8-aminochinolinica; 4. composti a struttura policiclica (come l’artemisinina e i suoi derivati).

33.2 T  ossicità selettiva e indice terapeutico 33.2.1 Tossicità selettiva Nella terapia antinfettiva il confine tra efficacia e sicurezza è un aspetto di fondamentale importanza: si parla quindi di tossicità selettiva intendendo la capacità dei composti dotati di attività antinfettiva di essere tossici esclusivamente nei confronti dei microrganismi e non nei confronti delle cellule (eucariotiche) dell’ospite. Secondo questo stesso principio, già alla fine del 1800 Paul Ehrlich affermava che “come esistono coloranti dotati di una spiccata affinità selettiva per le cellule batteriche, possono esistere sostanze chimiche capaci di danneggiare selettivamente i batteri senza ledere le cellule dell’organismo infettato”. Poiché l’obiettivo della terapia antimicrobica è l’uccisione (o il blocco della riproduzione) dell’agente eziologico della malattia infettiva, sia esso un batterio, un virus, un protozoo, un micete o un elminta, i farmaci usati a questo scopo sono selettivi e ben si applica a questi composti il concetto di tossicità selettiva. Ad esempio, gli antibatterici capaci di inibire la crescita batterica a concentrazioni che non danneggiano le cellule dell’ospite sono dotati di tossicità selettiva; al

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

contrario i disinfettanti, dato che non presentano tossicità selettiva, non trovano impiego nel trattamento sistemico delle malattie infettive. Per poter avere successo nello sviluppo di un chemioterapico efficace e dotato di tossicità selettiva dovremmo quindi sfruttare le differenze funzionali, strutturali e biochimiche che esistono tra le cellule eucariote (quelle dell’ospite) e le cellule procariote (quelle dei batteri). Lo studio della diversità biologica (biodiversità) risulta quindi un elemento strategico per lo sviluppo di farmaci selettivi (Tab. 33.1). Alcune caratteristiche che hanno consentito lo sviluppo di composti selettivamente tossici per i batteri sono: (a) la presenza della parete cellulare ricca di peptidoglicano, assente nelle cellule eucariotiche; (b) la differente affinità del farmaco per strutture simili funzionalmente, ma non strutturalmente (ad es. antibiotici che bloccano la sintesi proteica, per la diversa struttura del ribosoma procariotico); (c) la diversa capacità di penetrazione del farmaco nelle cellule eucariotiche e procariotiche (ad es. tetracicline, Cap. 35). Ovviamente nel caso degli antifungini il conseguimento della tossicità selettiva è complicato dal fatto che sia le cellule del patogeno sia quelle dell’ospite sono eucariote, pertanto vanno identificati meccanismi specifici o proteine peculiari per la sintesi di costituenti vitali per la cellula fungina (ad es. ergosterolo) che possano rappresentare un valido bersaglio farmacologico. Infatti, la principale differenza tra cellule animali e fungine sfruttata dai farmaci antifungini è la presenza di steroli. Gli steroli sono composti grassi che svolgono un ruolo fondamentale all’interno delle membrane cellulari. L’ergosterolo è presente nelle membrane delle cellule fungine e assente nelle membrane cellulari animali, dove invece si trova il colesterolo. L’ergosterolo rappresenta pertanto un valido bersaglio per i farmaci antifungini. Gli antifungini polienici (Cap. 39), dotati di una maggiore affinità per le membrane contenenti ergosterolo (funghi) rispetto a quelle che contengono colesterolo (mammiferi), si inseriscono nelle membrane cellulari fungine alterandone la funzionalità, con conseguente morte della cellula a seguito di perdita di componenti cellulari. Invece la tossicità selettiva degli antifungini azolici (Cap. 39) è dovuta proprio alla loro capacità di inibire la biosintesi dell’ergosterolo. Va comunque ricordato che un’importante differenza tra la cellula fungina e quella dei mammiferi consiste nella presenza nella prima di una parete cellulare. Perciò lo sviluppo di farmaci capaci di interferire con la biosintesi della parete cellulare fungina potrebbe rappresentare una valida strategia per ottenere farmaci antimicotici dotati di tossicità selettiva. Va inoltre sottolineato che il principio della tossicità selettiva trova applicazione anche per gli antitumorali, dove le cellule da colpire non sono quelle di un agente esterno bensì quelle dell’organismo stesso, pertanto in questo caso la selettività sarà molto più difficile da ottenere (per approfondimenti si rimanda ai Capp. 42 e 43) e questa è la ragione per cui gli effetti tossici della chemioterapia antitumorale sono tuttora pesanti e molto difficili da contenere. Nel caso delle infezioni virali si possono identificare tutti i peculiari meccanismi che la cellula virale deve mettere in atto per potersi replicare sfruttando la cellula (eucariota)

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Tabella 33.1 Differenze tra cellule procariote ed eucariote e possibili bersagli della terapia antimicrobica. Struttura cellulare

Procarioti

Eucarioti

Farmaci

Membrana cellulare

Pochi steroli

Molti steroli

Polimixina

Ribosomi

70Sa

80Sa

Macrolidi, lincomicina, cloramfenicolo

Parete cellulare

Peptidoglicano

Assente

β-Lattamine, vancomicina

Divisione cellulare

Assenza di mitosi

Mitosi

a

Il ribosoma batterico ha un coefficiente di sedimentazione di 70S e differisce da quello della cellula eucariotica, di dimensioni maggiori (80S). I ribosomi si possono poi suddividere in 2 subunità, una più grande e una più piccola: 50S e 30S nei procarioti, e 60S e 40S negli eucarioti.

ospite dall’interno. Questo approccio ha infatti prodotto ottimi risultati nel caso dei retrovirus (o virus a RNA, come l’HIV, Cap. 40), dove la cellula virale possiede un corredo enzimatico molto particolare e specifico che le consente di potersi integrare e replicare all’interno delle cellule dell’organismo infettato. Quindi il bersaglio molecolare del farmaco deve essere una struttura non presente o diversa da quelle delle cellule eucariote. Alternativamente uno studio più approfondito del meccanismo d’azione di agenti terapeutici in uso o delle caratteristiche delle strutture cellulari degli agenti patogeni può consentire di sfruttare meccanismi alternativi per ottenere la selettività. Ad esempio sappiamo che gli antiprotozoari agiscono selettivamente sul parassita attraverso vari meccanismi: (a) inibendo la sintesi degli acidi nucleici (ad es. la chinina e altri antimalarici, Cap. 39); (b) inibendo la sintesi dei cofattori (trimetoprim, Cap. 39); (c) inibendo la sintesi delle proteine (tetraciclina, Cap. 35); (d) destabilizzando la membrana cellulare (amfotericina B, Cap. 38); (e) interferendo con il metabolismo energetico (primachina). La tossicità relativamente bassa che tali composti mostrano per l’ospite può essere dovuta a differenti fattori, come la capacità di accumularsi nel parassita (chinina, clorochina, meflochina, pentamidina, tetraciclina), di venire attivati solo dal parassita (metronidazolo), oppure, più classicamente, grazie alla presenza del bersaglio d’azione solo nel parassita (sulfadossina, dapsone).

33.2.2 Indice terapeutico Un elemento che anche per gli antinfettivi è direttamente correlato alla tossicità selettiva è l’indice terapeutico (IT), che serve per quantificare la sicurezza di un farmaco e a cui può essere dato un valore numerico derivabile dalla seguente formula: IT = DT50/DE50 dove DT50 è la dose tossica media (dose tossica per il 50% dei soggetti trattati) e DE50 è la dose efficace (dose efficace per il 50% dei soggetti trattati). Più in generale per tutti i farmaci, l’IT è dipendente dal rapporto rischio/beneficio che l’uso di ogni agente chemio-

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terapeutico implica e che è correlato al rapporto tra l’efficacia del farmaco e gli effetti tossici o indesiderati che esso comporta. Infatti, il suo valore si calcola come rapporto tra la dose letale media (che uccide il 50% degli animali trattati) e la dose efficace media (che produce una risposta terapeutica positiva nel 50% degli animali trattati). Un farmaco sicuro deve avere un valore di IT più grande possibile. Un IT elevato significa che per raggiungere la dose tossica (o letale) occorre una grande quantità di farmaco, che sarà sicuramente superiore alla dose efficace. Inoltre tanto più distanti sono la dose tossica e la dose efficace, tanto più larga sarà la “finestra terapeutica” (Fig. 33.1), che è un intervallo di concentrazioni all’interno delle quali si ha l’efficacia senza che si manifestino gli effetti collaterali: la dose terapeutica si sceglie all’interno di questi valori. In sintesi, per un agente antinfettivo la dose di farmaco somministrata deve essere sufficiente a produrre l’effetto desiderato sul microrganismo, ma le sue concentrazioni plasmatiche devono rimanere inferiori alle dosi tossiche per le cellule dell’ospite. Se entrambe le condizioni si verificano, allora abbiamo un microrganismo sensibile, al contrario, se la concentrazione di farmaco efficace è maggiore della dose tollerata dall’organismo, allora possiamo essere in presenza di fenomeni di resistenza al trattamento farmacologico.

33.3 R  esistenza agli agenti antinfettivi L’ultimo ventennio del secolo scorso ha testimoniato una grande evoluzione dello sviluppo della terapia antibiotica, ma attualmente è sempre più evidente che la terapia delle malattie infettive umane deve affrontare numerose sfide scoraggianti. Le principali ragioni che giustificano la perdita di interesse delle grandi compagnie farmaceutiche verso lo sviluppo di agenti antinfettivi non sono solo le severe normative per lo sviluppo e la commercializzazione di nuovi composti, ma soprattutto il rapido sviluppo e la diffusione di fenomeni di resistenza agli agenti infettivi, oltre che l’insorgenza di nuove malattie infettive e la riemergenza di malattie che si credevano debellate.

Figura 33.1 Sicurezza di un farmaco e finestra terapeutica.

CAPITOLO 33 • Introduzione ai farmaci antinfettivi

La terapia antinfettiva ha successo quando il farmaco è in grado di raggiungere una concentrazione sufficiente a uccidere o inibire la crescita dell’agente patogeno (facilitando quindi il ruolo delle difese dell’ospite) nella sede dell’infezione. Ci sono ovviamente anche molteplici parametri farmacocinetici da cui dipende la concentrazione del farmaco nel suo sito d’azione, quali il superamento delle barriere, il legame alle proteine plasmatiche, il metabolismo del farmaco e la via di somministrazione; questi, oltre a una serie di fattori organici riferibili all’ospite come l’età o lo stato di salute, non saranno adesso presi in considerazione, ma si rimanda al Capitolo 4. Un agente antinfettivo è efficace quando raggiunge il suo bersaglio e, legandosi a esso, non gli permette di esercitare le sue funzioni; pertanto gli agenti patogeni possono mostrare resistenza alla chemioterapia per varie ragioni: • il farmaco non raggiunge il suo bersaglio; • il farmaco viene disattivato; • il bersaglio è alterato. Quando il chemioterapico ha raggiunto il suo bersaglio deve esercitare un effetto nocivo per il microrganismo. A questo punto, le variabilità naturali o le alterazioni acquisite dal bersaglio anche conseguenti alla terapia (mutazioni, trasduzione, trasformazione, coniugazione) possono impedire il legame del farmaco o la sua azione e possono portare a resistenza. Questo fenomeno non sorprende se si pensa a quanto rapidamente i microrganismi sfruttano la capacità di mutare il loro patrimonio genetico per adattarsi all’ambiente e sopravvivere anche in condizioni ambientali sfavorevoli. Inoltre le opportunità di mutazione sono enormi e la possibilità di scambiare il materiale genetico, anche tra specie diverse, offre ai microrganismi un illimitato assortimento di geni e di loro combinazioni. Si possono distinguere differenti modalità di resistenza alla chemioterapia antinfettiva: innanzitutto esistono meccanismi di resistenza intrinseca o di resistenza acquisita (dette anche insensibilità primaria e secondaria). La prima si riferisce all’insensibilità costituzionale di un microrganismo nei confronti di alcuni antibiotici e chemioterapici e questa è geneticamente determinata, immutabile

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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nel tempo e si manifesta in tutti i ceppi di una stessa specie. Questo tipo di resistenza può avvenire per: • mancata penetrazione nella cellula; • presenza di sistemi di efflusso specifici e aspecifici; • presenza di enzimi inattivanti l’antibiotico (codificati da geni cromosomici); • assenza del bersaglio. Esempi di resistenza intrinseca sono l’insensibilità degli enterobatteri alla penicillina o dei batteri Gram-negativi per i glicopeptidi. La resistenza acquisita, che può essere endogena (o cromosomica) o esogena (o extracromosomica), è più complessa ed è spesso originata dalla pressione farmacologica. Infatti è riferibile alla comparsa di ceppi che, nell’ambito di una specie microbica originariamente chemiosensibile, hanno perduto la sensibilità verso concentrazioni del farmaco terapeuticamente raggiungibili in vivo e inizialmente efficaci. La resistenza cromosomica ha una bassa frequenza di insorgenza, rappresentando solo il 10-15% di tutte le resistenze acquisite: questa avviene tramite una mutazione spontanea dell’informazione genetica cromosomica. In pratica l’antibiotico (o più in generale l’antinfettivo) esercita un’azione selettiva sulla popolazione microbica selezionando i mutanti, poiché è in grado di uccidere o inibire solo le cellule sensibili. Ovviamente tale tipo di resistenza interessa solo l’agente chemioterapico nei confronti del quale sono stati isolati i mutanti resistenti, anche se possono esistere fenomeni di resistenza crociata poiché i mutanti possono risultare insensibili anche ad altri chemioterapici appartenenti alla stessa famiglia di quello che ha indotto resistenza oppure che condividono con questo il medesimo meccanismo d’azione. Tale tipo di resistenza si trasmette verticalmente alla progenie (da cellula madre a cellula figlia). Quando una singola mutazione è sufficiente a generare la comparsa di ceppi resistenti, allora si parla di resistenza cromosomica a singolo passaggio (onestep), se invece occorrono più mutazioni allora la resistenza è a passaggio multiplo (multi-step), come accade con gli antibiotici β-lattamici, con i macrolidi e con il cloramfenicolo. La resistenza extracromosomica è invece la più frequente e rappresenta il 90% di tutte le resistenze: questa si genera per acquisizione di nuova informazione genetica che deriva da altri microrganismi e si trasmette tra le cellule microbiche mediante meccanismi di coniugazione, trasformazione e trasduzione. In questo caso si può avere una resistenza multipla se essa riguarda più agenti chemioterapici contemporaneamente. La resistenza extracromosomica è contagiosa, poiché si trasferisce orizzontalmente (tramite lo scambio genetico) anche a microrganismi appartenenti a specie differenti; infatti è dovuta alla presenza di elementi genici mobili su plasmidi o trasposoni.

33.3.1 Meccanismi dell’antibiotico-resistenza Volendo analizzare più in particolare il fenomeno delle resistenze possiamo considerare i meccanismi con i quali può instaurarsi una resistenza agli antibiotici che sono schematicamente rappresentati in Figura 33.2: (a) ridotta permeabili-

Figura 33.2 Principali meccanismi di resistenza agli antibiotici. a) Inattivazione dell’antibiotico; b) ridotta incorporazione dell’antibiotico per modifica delle proprietà di permeabilità della parete o della membrana; c) aumentata estrusione dell’antibiotico; d) modifica del bersaglio molecolare dell’antibiotico; e-f) aumentata espressione del bersaglio molecolare dell’antibiotico.

tà cellulare, (b) aumentato efflusso del farmaco, (c) alterazione del bersaglio proteico e (d) produzione di enzimi capaci di inattivare il farmaco.

Resistenza per ridotta permeabilità cellulare Questo tipo di resistenza si instaura quando la penetrazione di un antibiotico è ridotta da cambiamenti strutturali negli involucri superficiali della cellula. A tal proposito occorre ricordare che la membrana esterna dei batteri Gram-negativi rappresenta una vera e propria barriera che impedisce alle grandi molecole polari di entrare nella cellula; canali proteici chiamati porine permettono invece alle molecole polari più piccole, tra cui anche molti antibiotici, di entrare nella cellula come rappresentato in Figura 33.3. L’assenza delle porine, una loro mutazione che ne può variare il lume interno, la loro diminuzione o perdita (per mancata espressione) possono rallentare o addirittura impedire l’ingresso del chemioterapico all’interno delle cellule. Se il bersaglio del farmaco è intracellulare, allora si hanno un’inibizione o una perdita della sua attività perché occorre attivare un processo di trasporto attivo per far penetrare il composto all’interno della cellula. In tal caso, l’intervento di mutazioni dei complessi sistemi di trasporto o la variazione delle condizioni ambientali che influenzano questo fenomeno possono causare resistenza. Ad esempio, la gentamicina soffre di tale tipo di resistenza perché per entrare nelle cellule batteriche sfrutta appunto un fenomeno di trasportato attivo che utilizza l’energia fornita da un gradiente elettrochimico generato dagli enzimi respiratori. Una mutazione di uno degli enzimi che fanno parte di tale percorso, o le condizioni anaerobiche, rallentano l’ingresso della gentamicina nella cellula batterica.

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sabili della resistenza a numerosi farmaci (come le tetracicline, il cloramfenicolo, i fluorochinoloni, i macrolidi e gli antibiotici β-lattamici, ma anche il linezolid, che viene estruso tramite la pompa di efflusso multifarmaco o aspecifica multidrug resistance pumps AcrAB-TolC). Nei batteri Gramnegativi le pompe di efflusso operano accoppiate a “proteine canale” che provocano l’espulsione diretta del farmaco. Un fenomeno analogo è stato recentemente identificato come responsabile della resistenza di alcuni ceppi di Plasmodium falciparum all’antimalarico clorochina. Evidenze sperimentali hanno permesso di correlare l’insorgenza di mutazioni multiple a carico del gene pfcrt, che codifica per una proteina trasportatrice che si trova a livello del compartimento lisosomiale, con la resistenza alla clorochina. Tale resistenza si instaura perché la clorochina protonata, che si accumula a livello del suo sito d’azione (Par. 33.5.5), può venire estrusa dal lisosoma permeando facilmente attraverso il trasportatore mutato, il quale non possiede più gli aminoacidi carichi positivamente che impedivano il passaggio della clorochina (protonata) attraverso il canale originario.

Figura 33.3 Differenze principali del rivestimento esterno della cellula Gram-positiva e Gram-negativa. La parete dei Gram-negativi è molto più complessa di quella dei Grampositivi. I batteri Gram-positivi presentano una membrana cellulare fosfolipidica circondata da una parete cellulare costituita prevalentemente da peptidoglicano (PG). I batteri Gram-negativi possiedono una parete cellulare di spessore minore rispetto a quella dei Gram-positivi e hanno una seconda membrana esterna. Si noti anche la differente localizzazione delle PBP (penicillin binding proteins) a livello della membrana citoplasmatica e delle β-lattamasi. Nella figura è rappresentato il legame delle PBP all’antibiotico β-lattamico. Una peculiare caratteristica dei Gram-negativi è la presenza, nello strato esterno della membrana, di lipopolisaccaridi (LPS), endotossine in grado di innescare una risposta immunitaria nell’organismo ospite, e di porine, che permettono l’ingresso di piccole molecole nella cellula batterica. Altre proteine di membrana sono rappresentate da forme ovali, mentre gli acidi teicoici presenti nei Gram-positivi sono rappresentati da forme coniche. SP, spazio periplasmatico.

Resistenza per aumentato efflusso L’antibiotico, dopo essere penetrato nella cellula batterica, è allontanato dai suoi sistemi di efflusso. I microrganismi patogeni, come le altre cellule, possiedono pompe di efflusso preposte all’estrusione degli xenobiotici e che sono respon-

Resistenza per alterazione del bersaglio Quando il bersaglio dell’antibiotico è alterato, esso non viene più riconosciuto dall’antibiotico. Tale strategia si realizza tramite differenti vie: • l’affinità del farmaco per il bersaglio viene ridotta grazie alla messa in atto, da parte del microrganismo, di un cambiamento che, pur non variando l’attività biologica del bersaglio, riduce o annulla la sua capacità di legarsi all’antibiotico (può anche interviene una modifica enzimatica del bersaglio che lo rende irriconoscibile dall’antibiotico); ad esempio la mutazione della proteina RpsL nella subunità ribosomale 30S conferisce resistenza alla streptomicina; • un’aumentata sintesi della proteina bersaglio rende inefficace la concentrazione di farmaco raggiunta nel sito catalitico, poiché essa diviene insufficiente per saturare il numero di siti necessario per ottenere l’attività antimicrobica; • sostituzione del bersaglio: la resistenza è dovuta all’acquisizione di un gene che codifica per un bersaglio per il quale l’antibiotico non ha affinità. Resistenza per produzione di enzimi inattivanti La perdita di attività antimicrobica di alcuni antibiotici può anche essere dovuta alla sua inattivazione enzimatica da parte di enzimi specifici, quali ad esempio le β-lattamasi, le acetiltransferasi, le fosfotransferasi o le adeniltransferasi. Le β-lattamasi sono gli enzimi preposti all’idrolisi delle penicilline o delle cefalosporine, prodotti sia dai batteri Gram-positivi sia dai Gram-negativi. Essendo enzimi secreti, svolgono la loro funzione all’esterno della membrana plasmatica. La loro produzione è in alcuni casi costitutiva, mentre in altri casi può essere indotta dalla presenza dei substrati β-lattamici. Le β-lattamasi idrolizzano l’anello β-lattamico, convertendo i derivati dell’acido 6-aminopenicillanico (la struttura base della penicillina) nel corrispondente acido penicilloico, che è biologicamente inattivo secondo lo schema generale riportato in Figura 33.4 (vedi anche Cap. 36).

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Figura 33.4 Schema del meccanismo di idrolisi di un antibiotico b-lattamico da parte delle b-lattamasi a serina.

Ad oggi sono note e sono state caratterizzate oltre 200 proteine di questa famiglia. Le β-lattamasi possono essere raggruppate in 4 grandi classi molecolari, indicate con le lettere A, B, C e D sulla base di somiglianze a livello della sequenza primaria. Le β-lattamasi di classe A, C e D fanno parte a loro volta di una famiglia più ampia, le β-lattamasi a serina, e presentano forti omologie strutturali con le penicillin binding proteins (PBP). Esistono penicilline resistenti alle β-lattamasi come la meticillina, dove l’ingombro sterico offerto dal sostituente dimetossibenzenico impedisce un corretto posizionamento della molecola all’interno del sito catalitico dell’enzima, precludendone pertanto l’idrolisi (Fig. 33.5). Lo sviluppo di un certo numero di inibitori selettivi delle β-lattamasi (Cap. 35) ha consentito lo sviluppo della terapia con associazioni di farmaci per combattere il fenomeno delle resistenze. Le β-lattamasi della classe B sono invece classificabili come metallo-β-lattamasi: esse attaccano tutti i tipi di β-lattami, pertanto sono responsabili di un numero sempre crescente di resistenze; purtroppo a oggi sono note poche molecole capaci di inibirle. Il loro meccanismo d’azione si basa sull’attacco del sistema β-lattamico operato dal nucleofilo OH– presente nel sito attivo dell’enzima e ivi coordinato da uno o, come nella maggior parte dei casi, da due dei cationi metallici presenti, come rappresentato nella Figura 33.6. Le transferasi (acetiltransferasi, fosfotransferasi o adeniltransferasi) sono enzimi che trasferiscono un raggruppamento chimico nella molecola di base degli aminoglicosidi (streptomicina, kanamicina, amikacina ecc.) o del cloramfenicolo. Gli aminoglicosidi possono essere acetilati ad opera delle acetiltransferasi, fosforilati ad opera delle fosfotransferasi o adenilati ad opera delle adeniltransferasi. L’inattivazione dell’antibiotico in tal caso è dovuta al loro mancato accu-

mulo all’interno della cellula batterica e all’impossibilità di legarsi alle molecole bersaglio. Il cloramfenicolo può essere inattivato dall’enzima cloramfenicolo acetiltransferasi (CAT), che acetila i gruppi ossidrilici della molecola rendendola non tossica per la cellula batterica.

33.3.2 Tolleranza e persistenza Tra le diverse strategie che i batteri hanno adottato per eludere l’azione letale degli antibiotici possiamo ricordare anche la tolleranza e la persistenza. La tolleranza consente la sopravvivenza di tutta la popolazione microbica anche in presenza di un chemioterapico battericida e si distingue dalla persistenza, che invece permette la sopravvivenza solo di quella parte della carica microbica iniziale che si trova in uno stato fisiologico tale da sfuggire all’attività battericida dell’antibiotico, indipendentemente dal suo meccanismo d’azione. In effetti i microrganismi persistenti non sono ceppi mutanti, bensì varianti fenotipiche di normali cellule batteriche che si

Figura 33.5 Meticillina: un esempio di un b-lattamico -lattamasi resistente.

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Figura 33.6 Schema del meccanismo di idrolisi di un antibiotico -lattamico da parte delle metallo--lattamasi.

dividono attivamente. Essi si generano casualmente e sono forme quiescenti dal punto di vista metabolico: né crescono, né muoiono quando sono esposti a concentrazioni battericide di antibiotici che per funzionare, infatti, richiedono la presenza dei loro bersagli biologici operativi e attivi all’interno delle cellule batteriche. Mentre nel caso della resistenza e della tolleranza il carattere risulta ereditario e quindi più o meno efficacemente attaccabile da molecole alternative, la persistenza non lascia traccia nei microrganismi. Infatti successivamente alla cessazione del trattamento farmacologico, la nuova popolazione che si sviluppa dai batteri persistenti (i cosiddetti “sopravvissuti speciali”), presenta caratteristiche

di chemiosensibilità identiche a quelle dei microrganismi originali. Tutti gli agenti patogeni esaminati finora possono originare batteri persistenti, quindi il fallimento della terapia antibiotica dovuto a fenomeni di persistenza rappresenta un rischio reale di reinfezione. Dato che i meccanismi alla base dell’instaurarsi dei fenomeni di persistenza sono ancora in gran parte sconosciuti, diviene essenziale approfondire lo studio e la valutazione delle cause che determinano l’insorgenza di microrganismi persistenti. Data però l’elevata ridondanza di tale fenomeno, una strategia realistica e applicabile per la scoperta di farmaci che sia basata su tale fenomeno deve ancora essere identificata.

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33.4 Sinergismo La terapia con farmaci antinfettivi in associazione prevede l’utilizzo contemporaneo di uno o più farmaci. Nel caso degli antibatterici, questo approccio è raccomandabile in particolari condizioni: • nel trattamento di infezioni batteriche miste; • nella terapia di infezioni di cui non si conosce l’agente infettante; • per il potenziamento dell’attività battericida; • per evitare l’insorgenza di resistenza e generare ceppi difficilmente trattabili con le terapie convenzionali. In senso generale l’associazione tra chemioterapici può produrre vari effetti: sinergismo, antagonismo, indifferenza. Nel caso in cui ci sia sinergismo d’azione, si ottengono effetti ottimali anche in terapia antinfettiva. Come già accennato in precedenza, l’antibiotico-resistenza può essere contrastata anche mediante l’uso di associazioni tra antibiotici e inibitori della resistenza, come nel caso di acido clavulanico e amoxicillina, sulbactam e ampicillina, tazobactam e piperacillina. Come già ricordato nel Paragrafo 33.1, anche la terapia antiretrovirale usufruisce con successo di associazioni di farmaci relativamente alla HAART e alla MDRT. Possiamo ricordare un’associazione particolare e che coinvolge un antifungino (anche se quest’ultimo non viene usato per i suoi effetti antifungini): quella tra ciclosporina e chetoconazolo. La ciclosporina è un immunosoppressore utilizzato per evitare il rigetto nei pazienti trapiantati; tale terapia però risulta molto costosa a causa della bassa biodisponibilità del composto. La cosomministrazione con chetoconazolo, farmaco capace di inibire il CYP450, permette di

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utilizzare la ciclosporina a un dosaggio molto inferiore (fino all’80% in meno), garantendone livelli ematici adeguati ma permettendo di contenere i costi della terapia. Sono inoltre molteplici le combinazioni fisse tra antimalarici che risultano terapeuticamente proficue per il trattamento e la profilassi della malaria: sulfadossina e pirimetamina, atovaquone e proguanil, artemetere e lumefantrina.

33.5 P  rincipali meccanismi d’azione dei farmaci antinfettivi Gli agenti antinfettivi appartenenti alle 5 classi definite nel Paragrafo 33.1 sono gli antibatterici, gli antifungini, gli antimicobatterici, gli antivirali e gli antiprotozoari (con particolare riferimento agli antimalarici).

33.5.1 M  eccanismo d’azione degli antibiotici -lattamici e degli antibiotici che hanno i ribosomi come bersaglio Il meccanismo d’azione dei farmaci antibatterici più comunemente utilizzati è brevemente riassunto in Tabella 33.2 e in Figura 33.7.

Meccanismo d’azione degli antibiotici β-lattamici Le penicilline e le cefalosporine (e gli antibiotici β-lattamici in generale) interferiscono col processo di formazione del peptidoglicano. Il peptidoglicano è un mucopeptide prodotto dai batteri per conferire rigidità alla parete cellulare. L’indebolimento della sua struttura porta alla perdita di integrità della parete, che conduce alla morte della cellula batterica per lisi. Molti antibiotici agiscono interferendo con le

Figura 33.7 Principali bersagli delle diverse classi di antibiotici. THF, tetraidrofolato; DHF, diidrofolato; PABA, acido p-aminobenzoico.

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Tabella 33.2 Principali meccanismi d’azione dei più comuni farmaci antibatterici. Classe di antimicrobici

Meccanismo d’azione

β-Lattamici (penicilline, cefalosporine ecc.)

Inibizione transpeptidasi e legame PBP → alterazione struttura parete cellulare e lisi.

Peptidici (vancomicina, bacitracina)

Inibizione sintesi parete cellulare (vari meccanismi)

Polipeptidi ciclici (polimixina)

Alterazione della struttura della membrana cellulare

Chinolonici (ciprofloxacina, acido nalidissico)

Inibizione replicazione DNA per interazione con DNA girasi e topoisomerasi IV

Tetracicline

Blocco sintesi proteica per legame subunità ribosomale 30S

Macrolidi (eritromicina, claritromicina)

Blocco sintesi proteica per legame subunità ribosomale 50S

Aminoglicosidi (streptomicina, neomicina, gentamicina)

Blocco subunità ribosomale 30S ed errori nella traduzione

Cloramfenicolo, ossazolidinoni

Inibizione sintesi proteica

Inibitori della sintesi degli acidi nucleici (sulfamidici e trimetoprim)

Inibizione sintesi acido tetraidrofolico per inibizione di diidropteroato sintetasi o diidrofolato reduttasi

Rifamicine (rifampicina)

Inibizione sintesi RNA per inibizione DNA-RNA polimerasi

Nitroimidazoli (metronidazolo)

Danni sul DNA

fasi di sintesi del peptidoglicano, che pertanto rappresenta un ottimo bersaglio terapeutico sfruttato da molti antibiotici (Fig. 33.8) garantendo specificità e tossicità selettiva (Par. 33.2); il peptidoglicano e la presenza della parete cellulare rappresentano infatti un elemento di biodiversità tra le cellule dell’ospite e le cellule batteriche. Il peptidoglicano è costituito da una sequenza di catene glicantetrapeptidiche (l’N-acetilglucosamina e l’acido N-acetilmuramico legato a quattro aminoacidi) tenute insieme dai legami crociati che intervengono tra le sequenze tetrapeptidiche mediante un peptide pentaglicinico (Cap. 36). I β-lattami agiscono nelle fasi finali del processo di biosintesi del peptidoglicano, impedendo la formazione dei legami crociati; tale processo è catalizzato da un gruppo di enzimi, le PBP (inibite selettivamente e irreversibilmente dai β-lattamici), che si trovano sulla membrana cellulare rivolti verso la parete cellulare. Il ruolo delle PBP è quello di facilitare la reazione di transpeptidazione necessaria per formare i legami crociati tra le catene di peptidoglicano, rimuoven-

Figura 33.8 Struttura del peptidoglicano.

do un residuo di d-alanina terminale dal segmento pentapeptidico. Questa operazione genera un rilascio di energia che viene utilizzata per la formazione dei legami crociati nel peptidoglicano. Il meccanismo di inibizione delle PBP da parte degli antibiotici β-lattamici è un’inibizione covalente competitiva, poiché essi somigliano al dimero d-Ala-d-Ala (Fig. 33.9). I β-lattami vengono così riconosciuti come substrati dalle PBP che pertanto scindono il legame amidico β-lattamico e l’antibiotico idrolizzato si fissa covalentemente all’enzima, generando un acilenzima assai stabile (Fig. 33.10) e bloccando irreversibilmente l’enzima, che così non è più in grado di catalizzare le reazioni di sintesi del peptidoglicano.

Meccanismo d’azione degli antibiotici che hanno i ribosomi come bersaglio I ribosomi sono le fabbriche delle proteine di sintesi della cellula: su di essi vengono polimerizzati gli aminoacidi grazie alle indicazioni genetiche trasferite dall’mRNA. Data la

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CH3 CH3

CH3

CO2H

N

O

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O

CO2H

NH

S H N

H N R

CH3

R O Molecola -lattamica

O Dimero D-alaninico

Figura 33.9 Somiglianza tra il sistema -lattamico e un dimero di d-alanina.

strategica importanza della sintesi proteica, non sorprende che questo processo e il sistema ribosomale rappresentino un altro importante bersaglio della terapia antibiotica (Fig. 33.7). Ancora una volta la tossicità selettiva di tali antibiotici è basata sulle differenze tra il ribosoma batterico e quello dell’ospite, per il quale non hanno infatti affinità. L’attuale disponibilità delle strutture cristallografiche di antibiotici naturali e dei loro derivati semisintetici insieme alle particelle ribosomali ha fornito una visione approfondita e preziosissima per definire il loro meccanismo d’azione, utile anche per facilitare la progettazione di antibiotici più efficaci anche nei confronti di ceppi resistenti a più farmaci (multidrug-resistant). La sintesi proteica si divide in 4 fasi principali: inizio, allungamento, terminazione e riciclaggio. La fase iniziale comporta la formazione di un ribosoma 70S dalle subunità 30S e 50S e il posizionamento del codone di inizio (di solito AUG) dell’mRNA. L’elongazione prevede un ciclo composto da 4 passaggi che porta alla formazione della catena polipeptidica finché non si incontra il codone di arre-

sto. A questo punto si disassembla il complesso e si riciclano i componenti, che sono così pronti per un nuovo ciclo. La maggior parte degli antibiotici che hanno come bersaglio la sintesi proteica intervengono durante la fase di elongazione (aminoglicosidi, cloramfenicolo, acido fusidico, lincosamidi, macrolidi, ossazolidinoni, streptogramine e tetracicline). CH3 Nonostante le grandi dimensioni del ribosoma, sono relativamente pochi i siti bersaglio degli antibiotici. Sulla subunità 30S, i siti di legame per gli antibiotici sono raggruppati all’interfaccia tra l’mRNA e il tRNA. Sulla subunità 50S, la maggior parte dei siti di legame si raggruppa vicino al peptidyl-transferase centre (PTC), dove avviene la formazione del legame peptidico. L’azione degli antibiotici aminoglicosidici inibisce la sintesi proteica mediante fissazione sulla proteina S12 della subunità 30S o su siti differenti posti tra la 30S e la 50S, con formazione di peptidi aberranti non funzionali. Gli aminoglicosidi, legandosi alla subunità ribosomale, provocano una variazione conformazionale a carico di due basi e determinano conseguentemente la lettura non corretta del codice e l’introduzione di aminoacidi anomali. L’accumulo di proteine non funzionali danneggia le membrane cellulari, causando l’espulsione di ioni potassio e di aminoacidi per lisi cellulare.

33.5.2 M  eccanismo d’azione degli antifungini azolici L’effetto degli antifungini azolici è conseguente all’inibizione della lanosterolo 14α-demetilasi fungina, un enzima CYP450-dipendente, che catalizza la rimozione ossidativa del metile in posizione 14 e con stereochimica α del lanosterolo (Fig. 33.11). Il lanosterolo è uno steroide intermedio sia della biosintesi dell’ergosterolo (sterolo di membrana nei funghi) sia del colesterolo (sterolo di membrana nell’uomo).

Figura 33.10 Meccanismo d’inibizione delle PBP (penicillin binding proteins) da parte di un antibiotico -lattamico.

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Reazione di eliminazione del metile in posizione 14 O R

CH3

R

R

Ox

H OH

+

OH R

OH R HO

OH

OH H HCOOH

H3C

12 passaggi

CH3

CH3

Acetil-CoA CH3 2 1

HO H3C

3 4

10 5

11

9

12

13

8 7

6

17 14

16 15

CH3

CH3 Rimozione ossidativa operata dalla lanosterolo 14-demetilasi (citocromo P450)

CH3 Lanosterolo

Antifungini azolici

8 Stadi (Demetilasi: 2° stadio)

6 Stadi (Demetilasi: 1° stadio)

CH3 H3C CH3

CH3

H3C CH3

CH3

CH3

HO

CH3 CH3

CH3

HO Colesterolo (uomo)

Ergosterolo (funghi)

Ormoni steroidei: corticosteroidi, ormoni sessuali maschili e femminili

Figura 33.11 Schema della biosintesi dell’ergosterolo. Il passaggio chiave inibito dagli antifungini azolici è catalizzato dalla lanosterolo 14-demetilasi; il corrispondente processo di demetilazione ossidativa inibito è messo in evidenza.

L’inibizione di questo enzima CYP450-dipendente da parte degli antifungini azolici avviene perché l’N basico del sistema eterociclico (imidazolico o triazolico) forma un legame con il ferro del gruppo eme nella posizione che viene fisiologicamente occupata dall’ossigeno (Fig. 33.12). La selettività rispetto ad altri enzimi CYP450-dipendenti (quindi anche quelli dell’ospite) viene modulata mediante tutta la struttura del composto che è legata al sistema azolico e che è responsabile di interazioni specifiche con la restante parte della proteina. L’inibizione della lanosterolo 14α-demetilasi provoca, oltre al blocco di alcuni enzimi presenti sulla membrana, un

R N N N

N Fe

N

Sistema azolico di un generico antifungino

N Interazione con il ferro dell’eme di enzimi CYP450-dipendenti

Figura 33.12 Interazione del sistema azolico con il ferro del gruppo eme.

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O

N

O

N

OH

H2O

H N

O

O

N

NH2

N

NH

N Acido isonicotinico

Ione acildiazonio KatG

N

N

O2

O

Acilimide N Acilradicale

Figura 33.13 Processo di attivazione dell’isoniazide per produzione dell’acilradicale reattivo e dell’acido isonicotinico.

accumulo di 14α-metilsteroidi che disorganizza lo stretto impacchettamento delle catene alifatiche dei fosfolipidi di membrana. Ciò modifica la permeabilità della membrana e le sue funzioni di trasporto. Le alterazioni metaboliche che ne conseguono portano all’arresto della crescita del fungo, pertanto l’azione degli antifungini azolici è fungistatica. I derivati imidazolici inibiscono più potentemente la lanosterolo 14α-demetilasi fungina di quella umana; ad esempio il chetoconazolo ha una potenza di inibizione dell’enzima fungino che è 3 ordini di grandezza superiore rispetto alla potenza con cui inibisce quello umano, conferendo al farmaco un ottimo indice terapeutico. Vanno però considerati altri enzimi CYP450-dipendenti che sono inibiti dagli antifungini. Il chetoconazolo è infatti un potente inibitore del CYP3A4 umano e questo fattore non è da trascurare, dato che tale citocromo è responsabile del metabolismo di una grande quantità di farmaci: quindi vanno attentamente prese in considerazione le possibili interazioni tra farmaci (infatti il chetoconazolo aumenta di 7 volte l’emivita del triazolam), poiché questo può aggravare la tossicità di molti farmaci cosomministrati con gli antifungini per uso sistemico. Inoltre gli antifungini azolici sono dotati di una selettività relativamente modesta rispetto a una serie di CYP450 implicati nella steroidogenesi, cioè nella produzione degli ormoni steroidei (progestinici, androgeni, estrogeni, corticosteroidi) a partire dal colesterolo.

33.5.3 M  eccanismo d’azione dell’antimicobatterico isoniazide Sebbene l’isoniazide sia un farmaco utilizzato da molto tempo, il suo meccanismo d’azione, che prevede l’inibizione della sintesi degli acidi micolici (particolari acidi grassi costituenti la parete cellulare del micobatterio), è stato chiarito solo recentemente. L’isoniazide si comporta in realtà da profarmaco e, all’interno del micobatterio, viene attivata da una reazione di ossidazione che è catalizzata da una catalasiperossidasi (KatG). Come proposto in Figura 33.13, tale enzima converte il gruppo acilidrazinico in un’acilimide, che

poi si trasforma in un radicale isonicotinico che a sua volta acila un sistema enzimatico che si trova solo nel M. tuberculosis, bloccando così la riduzione degli acidi grassi insaturi che sono indispensabili per la sintesi degli acidi micolici. La parete del micobatterio risulterebbe così più debole ed esporrebbe la cellula all’azione lesiva di specie attive dell’ossigeno, come l’H2O2, presenti nei macrofagi. Oltre all’inibizione della sintesi degli acidi micolici è stato proposto un ulteriore meccanismo d’azione, che prevede l’interferenza con il sistema NAD+/NADH. Secondo questa ipotesi, l’isoniazide agirebbe come antimetabolita della nicotinamide (dopo conversione ad acido isonicotinico) per dare un falso NAD+ (Fig. 33.14).

33.5.4 M  eccanismo d’azione degli antiretrovirali inibitori della trascrittasi inversa (anti-HIV) I farmaci antivirali agiscono con differenti modalità a partire dalle fasi di riconoscimento e adesione, fino poi alla sintesi di specifiche proteine virali e all’inibizione della replicazione del virus. Quest’ultimo effetto può essere ottenuto con modalità differenti a seconda che l’infezione virale da trattare sia causata da un virus a DNA o a RNA (retrovirus) (Figg. 33.15 e 33.16). Si possono attaccare differenti sistemi enzimatici che il virus deve utilizzare per poter integrare il suo

O

O

NH2 N O

N O

O OH

P O

OH

N

O O

P

O

O

O OH

Figura 33.14 Struttura del falso NAD.

OH

N N

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materiale genetico nella cellula ospite (integrasi) e poi duplicarlo (DNA polimerasi), ma un meccanismo che permette di sfruttare al meglio le biodiversità tra le cellule dell’ospite e quelle del patogeno è sicuramente lo sfruttamento di enzimi peculiari della cellula virale. Un bersaglio che permette questo tipo di approccio è appunto la trascrittasi inversa, che è una DNA polimerasi RNA-dipendente che produce DNA provirale a doppia elica su stampo dell’RNA virale. Dato che tale processo non è mai contemplato nelle cellule eucariote, esso è un eccellente esempio di biodiversità e di come questa possa essere sfruttata per lo sviluppo di composti dotati di tossicità selettiva. Questo tipo di approccio ha dato risultati molto interessanti nella terapia anti-AIDS. Molti inibitori nucleosidici delle DNA polimerasi usati per l’HIV (ad es. zidovudina, dideossicitidina, dideossiinosina, stavudina e lamivudina) hanno un meccanismo d’azione comune: essendo mimetici dei nucleosidi, vengono incorporati nella sequenza del DNA al posto del nucleoside mimato, ma funzionano da terminatori di catena poiché, non avendo il gruppo ossidrilico in posizione 3' del residuo zuccherino, non consentono l’attacco del successivo nucleotide trifosfato. Dato che comunque gli inibitori nucleosidici sono dotati di una certa tossicità (potendo mimare nucleosidi analoghi su enzimi umani, alterandone il funzionamento), sono stati anche sviluppati inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa. Questi composti sono derivati eterociclici di varia natura chimica che legano un sito allosterico in prossimità del sito polimerasico dell’enzima (ad es. la nevirapina). Purtroppo anche nel caso

CAPITOLO 33 • Introduzione ai farmaci antinfettivi

dell’AIDS il fenomeno delle resistenze è un serio problema, poiché il virus HIV ha un tasso di mutazione molto elevato e i soggetti che hanno contratto l’HIV sono spesso infettati da diversi ceppi di virus dotati di diversa farmacosensibilità e farmacoresistenza. È infatti nota una grande quantità di mutazioni che si manifestano in condizioni di pressione farmacologica. Ad esempio, tra le molteplici mutazioni esistenti, possiamo ricordare quelle più frequenti dei ceppi Y181C resistenti alla nevirapina (dove la tirosina in posizione 181 della trascrittasi inversa è sostituita da una cisteina) e del ceppo K103N resistente all’efavirenz. La strategia per superare tale problema si basa su una dettagliata analisi della struttura del sito allosterico che possa portare allo sviluppo di composti capaci di “intercettare” e interagire con aminoacidi altamente conservati (ad es. il Trp229 e la Tyr183) nel sito allosterico e la cui mutazione sia incompatibile con la funzionalità dell’enzima.

33.5.5 M  eccanismo d’azione dell’antimalarico clorochina La clorochina e gli antimalarici chinolinici hanno rappresentato i pilastri della chemioterapia antimalarica per gli ultimi 40 anni. Il loro successo è dovuto all’eccellente efficacia e alla facilità d’uso, uniti a un processo di sintesi economico ed efficace che ha reso il farmaco poco costoso. Tuttavia, l’uso di questi farmaci negli ultimi anni ha subito una flessione, principalmente a causa dello sviluppo e della diffusione di parassiti resistenti alla clorochina e analoghi. Pertanto per lo sviluppo di molecole efficaci anche nei confronti dei ceppi

Figura 33.15 Rappresentazione schematica dei principali bersagli delle terapie antivirali.

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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Figura 33.16 Rappresentazione schematica delle fasi di replicazione di un retrovirus.

resistenti occorre conoscere sia il meccanismo d’azione del farmaco sia il fenomeno che è alla base della resistenza. Sebbene la clorochina sia stata utilizzata per molti anni, il suo meccanismo d’azione non è ancora completamente chiarito. Sembra comunque che il suo principale sito d’azione sia rivolto al parassita nella sua fase eritrocitaria e che coinvolga i lisosomi eritrocitari. In questa fase il parassita risiede in un ambiente ricco di emoglobina, che è assunta per pinocitosi dai trofozoiti che se ne nutrono. Nel vacuolo alimentare, la digestione dell’emoglobina produce grandi quantità di ematina libera (ferri-protoporfirina IX), un “re-

siduo” tossico per il parassita che esso accumula in cristalli di emozoina per detossificarlo. La clorochina interferisce proprio con questo processo di detossificazione, aumentando la concentrazione di ematina libera che produce uno stress ossidativo fatale per il parassita. La clorochina si accumula facilmente all’interno del vacuolo alimentare poiché essa oltrepassa facilmente le membrane: quando raggiunge tale compartimento a pH prossimo a 5 si protona e si accumula all’interno del vacuolo, poiché anche i pori che conducono fuori sono carichi positivamente, dando inizio alla sua azione farmacologica.

34

Disinfettanti e antisettici Olga Bruno

34.1  Definizioni e classificazioni 34.1.1 Definizioni 34.1.2 C  lassificazione basata sull’efficacia 34.1.3 C  lassificazione basata sulle proprietà chimico-fisiche

34.2  Sostanze inorganiche 34.2.1 Sostanze basiche 34.2.2 S  ostanze ossidanti: alogeni e derivati 34.2.3 S  ostanze ossidanti: ossigeno e derivati 34.2.4 Sostanze riducenti 34.2.5 Sali di metalli

34.3  Sostanze organiche 34.3.1 Alcoli 34.3.2 Aldeidi 34.3.3 Fenolo e derivati fenolici 34.3.4 Acidi carbossilici e derivati 34.3.5 Amine 34.3.6 Sali di ammonio quaternario 34.3.7 Biguanidi 34.3.8 Coloranti

L’uso di sostanze chimiche come disinfettanti/antisettici, scientificamente sostenuto, si può far risalire al 1825, quando Frenchman Labarraque propose le soluzioni di calcio ipoclorito nella sanificazione di ospedali, camere mortuarie, prigioni e altri ambienti pubblici. Egli descrisse inoltre i vantaggi ottenuti trattando ferite infette, ulcere e ustioni con teli imbevuti di soluzioni acquose di ipoclorito. Nel 1843 Holmes (a Boston) e Semmelweis (a Vienna) dedussero per vie indipendenti che la patologia febbrile che colpiva le puerpere fosse loro trasmessa dai medici e dalle ostetriche tramite le mani e gli abiti sporchi. Suggerirono quindi di lavarsi accuratamente le mani con soluzioni di ipoclorito di calcio,

prima di intervenire sulle puerpere (suscitando stupore e anche opposizione nel corpo medico). Nel 1867 Lord Joseph Lister, medico e chirurgo britannico, pubblicò sulla rivista The Lancet l’articolo dal titolo “Antiseptic principle of the practice of surgery”, in cui presentava i notevoli risultati ottenuti utilizzando soluzioni di acido fenico (oggi chiamato fenolo) per preparare il campo operatorio e per lavare le mani del chirurgo. Questo articolo rappresentò una pietra miliare nella storia della disinfezione e Lister si può considerare l’inventore e il propugnatore del metodo dell’antisepsi, non solo perché la parola “antisepsi” venne usata per la prima volta nella nomenclatura scientifica. Infatti Lister basava le sue os-

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

servazioni sugli studi condotti negli stessi anni da Pasteur e sulle numerose ipotesi che vari studiosi stavano avanzando in quegli anni riguardo all’esistenza di microrganismi viventi responsabili delle infezioni. L’esperienza di Lister avallava tali ipotesi e nello stesso tempo sosteneva l’idea che le infezioni fossero trattabili farmacologicamente. Pochi anni dopo, nel 1882, Robert Koch, medico e batteriologo tedesco, scoprì il bacillo responsabile del carbonchio (che da lui prese poi il nome) e, nel 1883, formulò i suoi “postulati”, ponendo le basi per la corretta interpretazione della relazione causaeffetto tra infezione batterica e malattia. Negli anni successivi la ricerca di nuove sostanze chimiche capaci di rallentare la crescita dei batteri divenne molto intensa e portò alle scoperte fondamentali di agenti chemioterapici come i sulfamidici e gli antibiotici. Il loro grande potenziale antibatterico a livello sistemico ha fatto passare in secondo piano le sostanze utilizzate per la disinfezione ambientale e topica, anche se la ricerca in tali settori non si è completamente arrestata. Tuttavia si può dire che, anche in tempi recenti, la ricerca sia stata mirata soprattutto a formulare in modo più moderno (ad es. sotto forma di gel) le sostanze note e utilizzate da tempo, piuttosto che alla scoperta di nuove sostanze. Per quanto riguarda l’applicazione in terapia, gli agenti chimici disinfettanti e antisettici sono stati per lunghi anni sottovalutati nella lotta contro le infezioni, a favore di altre categorie di farmaci chemioterapici (antibiotici, antivirali). Più recentemente, la consapevolezza che gli antibiotici, gli antivirali e i vaccini non possono essere sufficienti a limitare le possibili diffusioni endemiche di alcune patologie infettive ha portato con sé la necessità di adottare nuove strategie di intervento mirate soprattutto alla prevenzione. Il problema delle infezioni nosocomiali, sempre più diffuse e difficili da trattare a causa dei fenomeni di resistenza, è ormai noto da tempo. La diffusione della conoscenza delle sostanze disinfettanti e antisettiche, e soprattutto del loro uso corretto, è diventata negli ultimi anni un importante punto di intervento soprattutto nelle strutture ospedaliere, che a tale scopo devono dotarsi di opportune linee guida. Anche il farmacista deve avere una buona preparazione in tal senso, poiché molte di queste sostanze sono comunemente acquistate in farmacia e utilizzate in ambito domestico. Per questo motivo, oltre a una trattazione più strettamente “chimico-farmaceutica” dei disinfettanti/antisettici, indispensabile per una buona conoscenza dei loro meccanismi d’azione e delle loro potenzialità, si riportano nelle Schede 34.1 e 34.2 alcune informazioni sui requisiti e sulle buone norme di utilizzo di antisettici e disinfettanti che si ritiene siano parte indispensabile delle competenze di un operatore sanitario quale il farmacista.

34.1 Definizioni e classificazioni 34.1.1 Definizioni Si definisce disinfettante una sostanza chimica con attività antimicrobica aspecifica e non selettiva utilizzata per la disinfezione di superfici e materiali inerti. I disinfettanti hanno generalmente azione biocida ad ampio spettro, ma non sono

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in grado di distruggere le spore. I disinfettanti sono ampiamente utilizzati in strutture pubbliche (ambulatori, ospedali, edifici scolastici, mezzi di trasporto) onde evitare che eventuali agenti contaminanti possano essere trasmessi agli operatori e agli utenti. La disinfezione è solitamente preceduta dalla decontaminazione o sanificazione, ovvero operazioni di pulizia in cui sono utilizzate sostanze detergenti (in genere tensioattivi). La sterilizzazione, in altre parole la totale eliminazione di microrganismi, incluse le spore, è solitamente effettuata mediante processi chimici e fisici combinati. La descrizione dei mezzi fisici utilizzati non sarà argomento di questo capitolo. Si definisce antisettico un composto chimico capace di prevenire o arrestare la crescita di microrganismi (tranne le spore) sulla cute o su tessuti viventi. L’applicazione di tali sostanze è definita antisepsi e può essere eseguita sia su tessuti integri sia su tessuti lesi. Per questo un antisettico, oltre ad avere un ampio spettro d’azione e un’elevata potenza microbicida, caratteristiche importanti anche per un buon disinfettante, deve essere privo di citotossicità nei confronti dei tessuti su cui è applicato e deve avere bassa penetrabilità nei tessuti stessi. Questa distinzione è ancora oggi adottata dalle linee guida delle maggiori strutture ospedaliere italiane ed è ancora utilizzata nella pratica comune. Nella Scheda 34.3 sono riportate informazioni inerenti alle più recenti norme sulla classificazione di antisettici e disinfettanti.

34.1.2 C  lassificazione basata sull’efficacia Disinfettanti e antisettici sono solitamente classificati, in base alla loro capacità di debellare i microrganismi, in tre livelli: basso, medio, alto. Mentre si dispone di disinfettanti per ciascuno dei tre livelli, per quanto riguarda gli antisettici, dovendo rispettare anche il requisito di non tossicità, essi sono limitati ai livelli basso e medio. Nella Tabella 34.1 sono riportate le principali sostanze usate come disinfettanti e antisettici catalogate sulla base del loro livello di attività.

34.1.3 C  lassificazione basata sulle proprietà chimico-fisiche È stata effettuata una classificazione classica che utilizza come criterio principale la natura chimica delle sostanze e come criterio secondario la loro reattività, cui è legato spesso anche il meccanismo d’azione. Nella Tabella 34.2 sono riportate le diverse classi chimiche e le principali sostanze in esse contemplate. Occorre precisare che alcuni disinfettanti e antisettici hanno ormai una scarsa applicazione pratica (anche a causa della loro accertata tossicità). Alcuni di essi, segnati in Tabella 34.2, sono stati trattati nella Scheda 34.4 perché appartengono alla storia della chimica farmaceutica degli antinfettivi e hanno ancora un importante significato didattico.

CAPITOLO 34 • Disinfettanti e antisettici

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Tabella 34.1 Classificazione delle principali sostanze utilizzate come antisettici disinfettanti sulla base della loro efficacia.

Endospore batteriche

Funghi

Spore fungine

Virus lipofili

Virus idrofili

Sostanze chimiche

Micobatteri

Tipologia

Batteri

Microrganismi su cui agiscono

+

+

+

+

+

+

+

+

+



+

+

+

+

+





±



±



Livello alto Acido peracetico 0,2% Glutaraldeide 2% Disinfettanti

Clorossidante elettrolitico 0,1-0,5% (1000-5000 ppm cloro attivo) Perossido di idrogeno 6%

Livello medio Disinfettanti

Alcoli (etilico, isopropilico) 70-90% Polifenoli o derivati fenolici (alcune formulazioni) Alcoli (etilico/isopropilico) 70-90%

Antisettici

Clorossidante elettrolitico 0,05-0,1% (500-1000 ppm cloro attivo) Iodofori (> 40-50 mg di iodio libero ovvero > 10 g/L di iodio disponibile)

Livello basso Derivati ammonici quaternari Disinfettanti

Polifenoli o derivati fenolici (alcune formulazioni) Perossido di idrogeno 3%

Antisettici

Iodofori (alcune formulazioni) Clorexidina

34.2 Sostanze inorganiche 34.2.1 Sostanze basiche Basi caustiche Le basi forti inorganiche (idrossidi di sodio o potassio) non sono generalmente utilizzate come disinfettanti o antisettici perché caustiche e poco maneggevoli. L’idrossido di calcio (Ca(OH)2, calce spenta), ottenuto dall’ossido di calcio (CaO, calce viva) per idratazione a secco, dà soluzioni a pH fortemente basico. Esse sono usate solo nella disinfezione di ambienti particolarmente sporchi (pavimenti di stalle o altri ambienti analoghi). Basi non caustiche Il bicarbonato di sodio (NaHCO3) dà una soluzione acquosa lievemente alcalina (pH 8-9) usata come blando disinfettante (lavaggio della frutta o della verdura, collutori). Oltre a questo, il bicarbonato di sodio è diversamente impiegato sia

in ambito farmaceutico (antiacido) sia in quello alimentare (lievitante), cosmetico (sbiancante dentale) o industriale (deacidificazione dei fumi). Industrialmente il bicarbonato si produce tramite il metodo Solvay, messo a punto da Ernest Solvay nel 1863. Facendo passare ammoniaca e anidride carbonica in una soluzione di cloruro di sodio si formano cloruro di ammonio e bicarbonato di sodio secondo la reazione (1) (Fig. 34.1).

H2O + NaCl + NH3 + CO2 H2O + Na2CO3 + CO2

NH4Cl + NaHCO3 2 NaHCO3

Figura 34.1 Preparazione del bicarbonato di sodio.

(1) (2)

741

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

Tabella 34.2 Classificazione delle sostanze utilizzate come antisettici disinfettanti, sulla base della natura chimica e della reattività. Acido boricoa Acidi e basi

Idrossido di calcio

Inorganici

Bicarbonato di sodio Alogeni e derivati Ossidanti

Cloro e derivati cloranti Iodio e iodofori Ozono

Ossigeno e derivati

Perossido di idrogeno Acido peracetico

Riducenti Cationi Alcoli

Aldeidi

Nitritia Zolfo e derivati Sali di Cu, Zn, Ag, Hga Etanolo Isopropanolo Aldeide formicaa Aldeide glutarica Fenolo Cresoli, clorofenoli

Organici

Fenoli

Difenoli Acidi fenolici 8-Idrossichinolina a

Acidi carbossilici

a

Acido acetico , acido sorbico, acido lattico Acido salicilico, acido p-idrossibenzoico

Amine

Esetidina

Sali ammonici quaternari

Benzalconio, benzossonio, dequalinio

Biguanidi

Clorexidina

Queste sostanze sono trattate nella Scheda 34.4.

Il bicarbonato ottenuto con questo metodo è impuro, per cui per usi farmaceutici si prepara da carbonato di sodio, acqua e anidride carbonica secondo la reazione (2) (Fig. 34.1). Il carbonato di potassio (K2CO3) è usato in soluzione per la sterilizzazione a caldo degli strumenti chirurgici.

34.2.2 S  ostanze ossidanti: alogeni e derivati Cloro Il cloro (Cl2) è un gas molto tossico che in seguito a inalazione può causare irritazione delle vie respiratorie, tosse, dispnea, polmonite ed edema polmonare, sino alla morte in caso di esposizione intensa e prolungata. Non si usa per la disinfezione della cute né per gli ambienti (oltre che essere tossico, è anche corrosivo).

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Il cloro ha azione battericida; agisce ossidando le funzioni –SH, –NH2, –OH e i doppi legami degli acidi grassi del microrganismo. Esso è utilizzato soltanto nella potabilizzazione delle acque, producendolo in situ mediante reazione elettrolitica da una miscela di NaCl e CaCl2 fusi; si forma Cl2 all’anodo di grafite e H2 al catodo (gli elettrodi devono essere opportunamente distanziati per evitare reazione violenta tra i due gas). Il procedimento di potabilizzazione è in realtà un processo complesso che prevede diversi passaggi di decantazione e filtrazione delle acque in bacini opportunamente costruiti. La clorazione è uno degli interventi finali ed è condotta sino ad avere una concentrazione di Cl2 pari a 0,5-2 mg/L. Il cloro reagisce prima con gli agenti chimici eventualmente presenti, poi con i microrganismi; il residuo che resta può essere dannoso e conferisce cattivo odore all’acqua. Per questo occorre conoscere preventivamente il grado di inquinamento dell’acqua e la clorazione deve essere condotta in modo da avere un residuo inferiore a 0,5 mg/L. Per il trattamento dei liquami domestici si esegue la superclorazione con 25 mg/L. In ogni caso si deve fare una declorazione per eliminare il residuo eccedente.

Biossido di cloro Il biossido di cloro (ClO2) è usato nella potabilizzazione delle acque al posto del cloro o in associazione con esso. È un liquido instabile (esplosivo) e non può essere trasportato, per cui è prodotto in situ mediante appositi reattori che lo rilasciano nell’acqua da trattare. Ipoclorito L’ipoclorito (di sodio, NaClO; di potassio, KClO; di calcio, Ca(ClO)2) è un potente agente biocida usato in soluzione acquosa, a diversa concentrazione, sia come disinfettante ambientale sia come antisettico sulla cute integra. L’azione biocida è dovuta all’acido ipocloroso che si libera in seguito alla reazione (1) della Figura 34.2. Tuttavia, il meccanismo con cui l’acido ipocloroso determina la morte delle cellule batteriche non è stato completamente chiarito. L’ipotesi più accreditata è che l’acido ipocloroso inibisca qualche enzima essenziale nei processi cellulari e causi inoltre denaturazione delle proteine. Con la terminologia “cloro libero attivo” si indica la quantità di acido ipocloroso presente in una data soluzione acquosa di ipoclorito a una data concentrazione e a dati valori di pH.

ClO– + H2O

HClO + OH–

HCO3– + OH–

H2O + CO32–

(1) (2)

Cl2 + 2 NaOH

NaClO + NaCl + H2O

(3)

HClO + HCl

Cl2 + H2O

(4)

2 HClO

h

2 HCl + O2

Figura 34.2 Reazioni in cui sono coinvolti cloro e ipoclorito.

(5)

CAPITOLO 34 • Disinfettanti e antisettici

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Infatti, la reazione (1) della Figura 34.2 è dipendente dal pH e l’equilibrio è spostato nel senso della dissociazione dell’acido se il pH sale, con conseguente diminuzione del potere battericida. A pH intorno a 6 si ha una concentrazione ottimale di HClO rispetto a ClO–. Le soluzioni di ipoclorito troppo basiche possono essere “corrette” mediante diluizione con una soluzione di NaHCO3 al 5% sino ad abbassare il pH a 8-9; il bicarbonato reagisce con lo ione idrossido secondo la reazione (2) (Fig. 34.2). La sottrazione di OH– rende la soluzione meno caustica rispetto alle soluzioni con pH “non corretto”; inoltre il potere disinfettante migliora, perché a causa dell’equilibrio (2) la reazione (1) è spostata verso la produzione di HClO. In commercio sono disponibili diversi preparati a base di ipocloriti di sodio o di potassio. Il clorossidante elettrolitico si ottiene dall’elettrolisi di una soluzione ipertonica (18%) di NaCl di elevata purezza. L’elettrolisi è condotta sino a ottenere soluzioni a concentrazioni 0,1-0,5% (disinfettante ad alta efficacia) o 0,05-0,1% (antisettico a media efficacia). Per la disinfezione di ferite con pus si usa la soluzione antisettica concentrata; in casi meno gravi si usa una soluzione diluita con acqua (1:20). L’ipoclorito si può ottenere anche per sintesi mediante reazione a freddo del cloro gassoso su idrossido di sodio in soluzione (a caldo si forma biossido di cloro) secondo la reazione (3) (Fig. 34.2). In farmacia si preparavano la soluzione di Labarraque (soluzione acquosa al 2,5% di Ca(ClO)2) o la soluzione di Javel (soluzione acquosa al 2,5% di KClO). Le soluzioni di ipoclorito di sodio commercializzate per uso domestico come detergenti (candeggina, varechina) non sono solitamente a pH corretto, per cui non si possono usare per la disinfezione cutanea perché troppo irritanti. L’ipoclorito può reagire con sostanze acide, liberando cloro gassoso, altamente tossico, secondo la reazione (4) (Fig. 34.2). Pertanto, non si devono mescolare soluzioni di ipoclorito con detergenti anticalcare che contengono solitamente sostanze acide. L’ipoclorito decompone alla luce liberando ossigeno e acido cloridrico secondo la reazione (5) (Fig. 34.2); l’acido cloridrico a sua volta può reagire con l’ipoclorito residuo liberando cloro. Bisogna quindi conservare le soluzioni di ipoclorito in bottiglie scure o comunque non trasparenti per evitare reazioni di decomposizione.

Cl O

N Na S

O

S

O

H 2O

+ NaClO HClO

CH3

Figura 34.3 Reazione di liberazione di ipoclorito dalla cloramina-T.

O

Cl

S

N Na

O Cloramina-T

Iodio Lo iodio è un alogeno con potere ossidante inferiore a bromo e cloro; è un solido con alta tensione di vapore (sublima a pressione e temperatura ambiente). Lo iodio allo stato puro (“bisublimato” perché la purificazione consiste in una doppia sublimazione) si presenta come cristalli grigio antracite traslucidi. I vapori e le sue soluzioni sono invece colorati dal giallo intenso al rosso-violetto. Lo iodio ha un’elevata lipofilia per cui è poco solubile in acqua (0,33 g/L). La solubilità in acqua aumenta se viene miscelato con NaI perché si forma lo ione complesso triioduro (che ha un’idrofilia maggiore) secondo la reazione (1) della Figura 34.4. Lo iodio molecolare è più solubile in solventi organici come solfuro di carbonio (0,25 g/mL), cloroformio (0,22 g/mL), etanolo (0,077 g/mL). Le soluzioni in solventi alogenati o solforati non sono utilizzate per la disinfezione a causa della tossicità del solvente. Si possono usare le soluzioni etanoliche che sono colorate intensamente (rosso bruno); esse macchiano facilmente la cute in quanto il solvente alcolico veicola più facilmente, rispetto all’acqua, lo iodio attraverso lo strato corneo sino alle proteine del derma, alle quali si fissa (sui residui tirosinici). Con lo stesso meccanismo si lega alle fibre delle stoffe, che quindi si possono macchiare. Le macchie di iodio si decolorano facilmente con soluzioni diluite di tiosolfato di sodio (reazione ossidoriduttiva che genera ioduro, incolore e solubile in acqua). Lo iodio ha azione battericida, fungicida, amebicida e virulicida, dovuta sia a ossidazione sia a iodurazione di diverse strutture del microrganismo.

3 O2

H 2O

CH3

H3C

I2 + I–

NH2

O

Cloramina-T La cloramina è un composto organico del cloro caratterizzato da un gruppo cloro-sulfonamidico acido (solitamente salificato con sodio). Essa agisce come clorante liberando ipoclorito in ambiente acquoso, che a sua volta genera acido ipocloroso, l’agente attivo, secondo la reazione in Figura 34.3. La cloramina è utilizzata sia come antisettico della cute non lesa sia come disinfettante in ambito alimentare (per esempio nel lavaggio delle verdure) opportunamente diluita.

I3–

(1)

2 O3

(2)

2 H2O H2O2 + 2 H+ + 2 e– H2O2 O2 + 2 H+ + 2 e–

(3)

2 H2O2

(4)

2 H2O + O2

Figura 34.4 Reazioni dello iodio e dei derivati dell’ossigeno.

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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In farmacia erano disponibili diversi preparati galenici a base di iodio. Tra questi si ricordano: • tintura di iodio forte (soluzione alcolica di I2 al 7%): si prepara da I2, 7 g; NaI, 5 g; H2O, 5 g; etanolo 95% a 100 mL; • tintura di iodio mite (alcol iodato al 2%) si prepara da I2, 2 g; NaI, 2,5 g; H2O, 2,5 g; etanolo 95% a 100 mL; • soluzione di Lugol (al 5%): si prepara da I2, 5 g; KI, 10 g; H2O a 100 mL (questa soluzione colora meno perché l’acqua non favorisce la penetrazione nei tessuti).

A temperatura e pressione ambiente è un gas dall’odore pungente e sgradevole, instabile perché tende e trasformarsi in ossigeno. Allo stato liquido è esplosivo, per cui non è commercializzato in bombole, a differenza di molti altri gas, ma è prodotto in situ mediante apposite apparecchiature (ozonizzatori). Il processo utilizza aria (o anche ossigeno puro) e consiste nel generare scariche elettriche mediante elettrodi nella miscela gassosa. L’ozono ha notevoli proprietà ossidanti e, come il cloro, è utilizzato per la potabilizzazione delle acque in diverse situazioni (acquedotti, piscine, acqua da imbottigliare), ma anche per la disinfezione di superfici, dell’aria, di frutta e verdura (per eliminare muffe o spore).

Lo iodio si ottiene mediante trattamento ossidoriduttivo seguito da estrazioni con solventi, evaporazione del solvente stesso e sublimazione del solido ottenuto, dalle acque salsobromoiodiche (famosi gli impianti di Salsomaggiore), dalle ceneri di alghe marine o da sali iodati contenuti nel cosiddetto “nitro del Cile”.

Perossido di idrogeno Il perossido di idrogeno, comunemente detto acqua ossigenata, ha formula H2O2. È una molecola debolmente acida (Ka = 1,5 × 10–12) che può manifestare potente attività disinfettante o blanda attività antisettica, secondo le concentrazioni utilizzate e le condizioni di utilizzo. Infatti, si può comportare sia da ossidante (in ambiente acido) sia da riducente (in ambiente basico) secondo le reazioni (3) della Figura 34.4. La soluzione madre, ottenuta per sintesi e successiva distillazione, è detta “peridrolo”, ha una concentrazione pari al 36% (o 120 volumi) ed è instabile (tende a reagire violentemente con tracce di metalli), per cui è commercializzata solo in forma stabilizzata, cioè in soluzioni contenenti anche sostanze chelanti i metalli. Come disinfettante ambientale l’acqua ossigenata è solitamente utilizzata in soluzione diluita al 6% (o 20 volumi). A contatto con le tracce di metalli presenti nell’ambiente (o prodotti dal metabolismo dei batteri) si decompone, liberando alcune specie radicaliche ossidanti (OH•, O•–) che vanno a degradare diverse strutture delle cellule batteriche. Come antisettico è utilizzato in soluzione diluita al 3% (o 10 volumi) sulla cute lesa. L’azione è più blanda sia per la maggiore diluizione sia perché la catalasi presente nei tessuti decompone l’acqua ossigenata in acqua e ossigeno, impedendo la formazione di radicali ossidanti, secondo la reazione (4) della Figura 34.4. La formazione di ossigeno nascente ha un effetto favorevole sull’azione antisettica perché facilita la rimozione (mediante schiumeggiamento) di detriti eventualmente presenti nella cute lesa e di tessuto necrotizzato. L’uso sulla cute sana deve essere evitato, perché esso ha un’azione irritante e sbiancante. L’azione sbiancante è sfruttata anche in odontoiatria e in altri ambiti (ad es. nella sbianca del legno). L’acqua ossigenata va conservata a temperatura inferiore ai 35 °C e possibilmente protetta dalla luce per evitare decomposizione.

Iodopovidone Lo iodopovidone è uno iodoforo, vale a dire una sostanza antisettica che rilascia iodio nel punto di applicazione, utilizzato per la disinfezione della cute sia lesa sia integra. Poiché l’agente biocida è lo iodio, ha il suo stesso spettro d’azione e lo stesso meccanismo. Dal punto di vista chimico lo iodopovidone è un polimero neutro (polivinilpirrolidone) complessato con iodio in forma di triioduro: il complesso forma in acqua degli aggregati particellari che aumentano la solubilità dello iodio e nello stesso tempo consentono di rallentare la dismutazione dello ione triioduro a iodio e ioduro. Il rilascio di iodio è quindi effettuato in modo graduale, garantendo una maggior durata di azione e un minor effetto irritante rispetto alle soluzioni classiche di iodio. Il complesso è degradato dai detergenti anionici, dagli alcali e da temperature superiori ai 40 °C; inoltre è incompatibile con sali di mercurio, carbonati e perossido di idrogeno. È opportuno evitare la somministrazione in pazienti con iperfunzionalità tiroidea o ipersensibilità allo iodio accertate.

34.2.3 S  ostanze ossidanti: ossigeno e derivati Ossigeno e ozono L’ossigeno (O2) è utilizzato nelle camere iperbariche per trattare grandi superfici lese (a causa di traumi o ustioni) che potrebbero essere aggredite da batteri anaerobi con conseguente insorgenza di gangrena. Per le stesse motivazioni è insufflato tramite appositi dispositivi sulle piaghe da decubito in pazienti ospedalizzati. L’ozono (O3) è una forma allotropica dell’ossigeno, dal quale si forma in seguito a scariche elettriche secondo la reazione esotermica (2) della Figura 34.4.

I3– N

O

O

N

Polivinilpirrolidone

I 2, I –

H+ N

O

O

Iodopovidone

N

CAPITOLO 34 • Disinfettanti e antisettici

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La concentrazione è tradizionalmente espressa in volumi, intendendo per “Volume” i mL di O2 sviluppati da 1 mL di quella soluzione. Nella Scheda 34.5 è riportato un esempio di conversione da concentrazione espressa in % p/V a volumi. Il perossido di idrogeno è preparato industrialmente mediante elettrolisi di una soluzione di solfato di ammonio in presenza di acido solforico, oppure per auto-ossidazione dell’etilantrachinolo, secondo lo schema riportato nel Box 34.1.

Acido peracetico L’acido peracetico (CH3CO–O–OH) è un liquido incolore caratterizzato da odore pungente, solitamente commercializzato in concentrazioni al 5-15%. L’acido peracetico si ottiene mescolando acido acetico (CH3COOH) e perossido di idrogeno (H2O2). Le soluzioni acquose sono piuttosto instabili e quando è diluito si scinde in perossido di idrogeno e acido acetico, che sono i veri agenti attivi. L’acido peracetico ha un potenziale di ossidazione superiore al cloro e al biossido di cloro; ha un ampio spettro d’azione perché agisce, ossidando le membrane cellulari, su una grande varietà di microrganismi patogeni (è in grado di combattere i batteri del genere Legionella). Inoltre disattiva i virus e le spore. La sua attività dipende dal pH e dalla temperatura: infatti, essa è massima a pH intorno a 7 e a 35 °C e diminuisce a pH più basici e a temperature inferiori a 20 °C. L’azione, invece, non è influenzata dalla presenza di materiale organico. L’acido peracetico è molto usato nell’industria alimentare (per la rimozione di batteri e funghi da frutta e verdura e per la disinfezione dell’acqua riciclata da risciacquo delle derrate alimentari). È applicato anche per la disinfezione dei rifornimenti medici e per impedire la formazione di biofilm nelle industrie di cellulosa, o per la depurazione dell’acqua e per la disinfezione delle tubature.

34.2.4 Sostanze riducenti Zolfo e derivati Tra i derivati dello zolfo sono stati utilizzati solfuri (Na2S, (NH4)2S), solfiti, bisolfiti e tiosolfati (Na2SO3, NaHSO3, Na2S2O5) come deboli antifungini (per eliminare le muffe). In ambito farmaceutico sono usati come conservanti in alcune formulazioni. I solfiti causano degradazione della vitamina B1 per cui non possono essere utilizzati come conservanti in preparati multivitaminici. In ambito alimentare sono usati soprattutto come additivi nei vini (soprattutto in quelli bianchi). La presenza dei solfiti nei vini è inevitabile perché si formano in tracce durante la fermentazione per degradazione degli aminoacidi solforati. Se la concentrazione di solfiti è superiore a 10 mg/L la presenza deve essere dichiarata in etichetta.

34.2.5 Sali di metalli Gli ioni di metalli come zinco, rame, argento e mercurio sono generalmente classificati come cationi tiolo-privanti perché si legano fortemente ai gruppi –SH delle proteine enzimatiche o di struttura dei batteri determinandone la precipitazione, quindi la denaturazione. Purtroppo l’azione non è selettiva e quindi sono tossici anche nei confronti dell’uomo e dell’animale. Pertanto il loro uso è molto limitato. Il mercurio, in particolare, è stato bandito dall’uso sanitario (sono diventati illegali anche i dispositivi meccanici contenenti mercurio metallico, in passato ampiamente utilizzati come misuratori di pressione o di temperatura).

Solfato di rame (CuSO4) È usato ancora nella disinfezione delle piscine (ha un potere antialghe) o come antiparassitario in agricoltura (“verderame” usato nell’irrorazione delle viti contro la Peronospora).

BOX 34.1 ■ Sintesi industriale del perossido di idrogeno In una soluzione di etilantrachinolo in una miscela di solventi idrocarburici si insuffla ossigeno, che provoca l’ossidazione a etilantrachinone con liberazione di H2O2. Questa viene estratta dalla miscela di reazione mediante acqua fatta passare in controcorrente nel reattore. La soluzione di acqua ossigenata in acqua è portata al distillatore, che lavora a pressione ridotta e temperatura inferiore ai 70 °C. In queste condizioni distilla una soluRiciclo

zione acquosa arricchita in acqua ossigenata che viene poi convogliata al distillatore per nuovi ripetuti passaggi sino a ottenere la concentrazione desiderata. In teoria si può arrivare a concentrazioni intorno al 70%, che però sono molto instabili. Nel frattempo l’etilantrachinone è ridotto cataliticamente a etilantrachinolo, il quale rientra nuovamente nel ciclo.

H2O2 Reattore

OH Distillatore

CH2CH3

P = 28 mmHg T = 28-70 °C

O CH2CH3

O2

+ H2O2

H2 / Pd OH

O Flusso di acqua in controcorrente

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Solfato di zinco (ZnSO4) È utilizzato come astringente oftalmico, cicatrizzante, debole antimicrobico; solitamente è un componente di pomate o soluzioni dermatologiche. Ossido di zinco (ZnO) È utilizzato per le proprietà antifungine e “antiarrossamento” in preparati dermatologici (soprattutto per uso pediatrico). Derivati dell’argento Soluzioni di nitrato di argento (AgNO3) allo 0,5-1% sono utilizzate nel trattamento delle piaghe da decubito o da ustioni per evitare la diffusione di infezioni da Staphylococcus aureus e Pseudomonas aeruginosa: il nitrato reagisce con il cloruro di sodio del siero formando un precipitato di cloruro di argento (AgCl) che ha azione protettiva sulla cute lesa. Il proteinato colloidale di Ag o protargolo o argento vitellinato è un preparato galenico contenente, secondo la Farmacopea Ufficiale XII, non meno del 7,5% e non più dell’8,5% di argento, costituito da Ag2O mescolato con caseina/albumina e disciolto con acqua a freddo seguendo opportune indicazioni. Si ottiene una soluzione colloidale di colore bruno, con potere antisettico e antibatterico molto elevato. Esso può sostituire l’argento nitrato nella cura della blenorragia, perché meno irritante. In passato il protargolo era utilizzato per vulvovaginiti e cistiti; ora l’uso è limitato al trattamento di affezioni auricolari e come decongestionante nasale. L’unica controindicazione è una possibile ipersensibilità verso i componenti. La sulfadiazina argentica – argento (I) 4-amino­ fenilsulfonil(pirimidin-2-il)amide – è un composto metallorganico ottenuto da sulfadiazina e argento nitrato secondo la reazione riportata in Figura 34.5. O H2N

S

N N N

O Ag Sulfadiazina argentica

La sulfadiazina argentica è costituita per il 30,2% da argento e per il 69,8% da sulfadiazina. È un antimicrobico locale ad ampio spettro che unisce le proprietà batteriostatiche della sulfadiazina (sulfamidico) a quelle battericide dello ione argento. È impiegata clinicamente nella profilassi e nel trattamento delle infezioni locali in caso di ustioni, ulcere, piaghe da decubito e patologie di interesse dermatologico suscettibili a infezioni batteriche. Le moderne formulazioni di sulfadiazina argentica micronizzata agiscono rapidamente e per lungo tempo, rila-

O H2N

S

N N

O Na

AgNO3

sciando gradualmente i due componenti nei liquidi organici (sangue, siero, pus, trasudati ed essudati) delle superfici lese. Il preparato composto da argento metallico + benzoile perossido, a differenza della sulfadiazina argentica che si considera come principio attivo unico, è un’associazione di due principi attivi, formulato come polvere aspersoria o come spray, utilizzato per la pulizia e la disinfezione della cute integra e lesa. L’azione antisettica e disinfettante dell’argento metallico è dovuta ad alterazione della normale struttura della parete batterica (formazione di pori e lesioni tali da compromettere il normale network nutrizionale, inducendo la morte del microrganismo). Il benzoile perossido, invece, rilascia ossigeno e acido benzoico, i quali interagiscono con le proteine batteriche denaturandole. La presenza di eccipienti come calcio gluconato e alluminio silicato preserva la regione lesa da successive contaminazioni batteriche.

34.3 Sostanze organiche 34.3.1 Alcoli Alcol etilico L’alcol etilico o etanolo (CH3CH2OH) è un liquido incolore, volatile, dall’odore caratteristico e altamente infiammabile. Esso è usato come disinfettante o antisettico sulla cute non lesa. Agisce su batteri e funghi denaturandone le proteine, mentre è inattivo su virus e spore. Il suo potere è maggiore se idrato piuttosto che anidro. Infatti, in forma idrata è assorbito e penetra facilmente nelle cellule batteriche. In forma anidra, invece, richiama acqua dall’interno della cellula verso la superficie e provoca parziali coagulazioni nella membrana citoplasmatica: tutto questo crea una barriera che impedisce la penetrazione dell’alcol nella cellula stessa. L’azione ottimale si ha con etanolo/acqua al 70%. L’alcol etilico ha un ottimo potere solvente e come tale è spesso usato per dissolvere altri agenti disinfettanti o antisettici (ad es. clorexidina, iodio), di cui aumenta le capacità penetranti. In commercio sono disponibili diverse tipologie di alcol etilico: • alcol assoluto (BP): 99,4% (in v/V) o 99% (in p/V), che ha punto di ebollizione a 78-79 °C; • alcol o alcol rettificato (FU, BP, USP): 94,7-95,2% (v/V) o 92-92,7% (p/V); • alcol greggio: 80-96% alcol etilico + varie impurezze (aldeidi, eteri ecc.);

O H2N

N

Figura 34.5 Reazione di formazione della sulfadiazina argentica.

S

N + NaNO3

N

O Ag

N

CAPITOLO 34 • Disinfettanti e antisettici

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• alcol denaturato: è alcol greggio addizionato di denaturanti (metanolo, acetone, basi piridiche, coloranti come violetto di metile che conferiscono il caratteristico colore rosato, mercaptani che ne determinano l’odore sgradevole) usato come detergente, inadatto all’uso come antisettico o per uso alimentare, ed esente dalla tassazione governativa sui prodotti alcolici. L’alcol etilico può essere preparato: • per fermentazione: dal melasso di barbabietola, da materiali amilacei o cellulosici di varia provenienza, preventivamente idrolizzati in ambiente acido; • per sintesi: dall’etilene secondo gli schemi riportati nel Box 34.2.

Alcol isopropilico L’alcol isopropilico o, più correttamente, 2-propanolo, è usato come detergente, analogamente all’alcol etilico denaturato, o come blando antisettico. Trova poi ampia applicazione a livello industriale come solvente, come intermedio per sintesi farmaceutiche e cosmetiche, come additivo per carburanti e liquido per i radiatori delle automobili. OH H3C

CH3

Alcol isopropilico

Il suo potere sgrassante, accompagnato da bassa attività corrosiva, lo rende particolarmente adatto alla detersione di dispositivi ottici, schermi di computer o televisori.

34.3.2 Aldeidi Aldeide glutarica L’aldeide glutarica è oggi ampiamente usata per la disinfezione ambientale, soprattutto in ambito nosocomiale, grazie al suo ampio spettro d’azione simile a quello dell’aldeide formica, con la quale condivide anche il meccanismo d’azione, ma non la tossicità. Notevole è la sua azione antivirale, in particolare contro i virus lipofili (tra cui il virus HIV).

H

H

O

O Aldeide glutarica

Anche l’aldeide glutarica tende a polimerizzare con meccanismo dipendente dal pH e dalla temperatura, essendo facilitato e irreversibile a pH alcalino e a temperatura superiore ai 25 °C. Anche l’attività è massima a pH alcalino, per cui la glutaraldeide è commercializzata in soluzione acquosa neutra o debolmente acida al 2% e deve essere attivata prima dell’uso per aggiunta di una soluzione di NaHCO3 allo 0,3%.

34.3.3 Fenolo e derivati fenolici Fenolo Come già detto nell’introduzione, l’uso del fenolo come disinfettante ambientale e antisettico nelle sale chirurgiche fu diffuso da Lister già nel XIX secolo. Da allora tutti i derivati di sostituzione dell’anello fenolico (con gruppi i più disparati: alchili, alogeni, gruppi aminici, gruppi acidi ecc.) sono stati studiati al fine di trovare molecole più attive e maneggevoli del fenolo stesso. Il fenolo è stato abbandonato per una serie di problemi legati alla sua instabilità chimica e alla tossicità sistemica (che può portare anche a morte per insufficienza respiratoria se ingerito o assorbito attraverso la cute lesa). I derivati fenolici sono in genere più stabili e hanno lo stesso spettro d’azione, e alcuni hanno anche una potenza maggiore. Inizialmente l’efficacia dei vari derivati fu espressa in funzione dell’efficacia del fenolo non sostituito e in seguito il metodo del confronto fu esteso anche ad altre sostanze non fenoliche. Il coefficiente fenolico è il parametro utilizzato e consiste nel rapporto tra la minima concentrazione attiva (MIC) del fenolo e la minima concentrazione attiva della sostanza in esame. La MIC è misurata per il fenolo e la sostanza in esame in condizioni standard (contatto per 10 minuti, temperatura di 20 °C) sui ceppi di Staphylococcus aureus (Gram-positivo), Salmonella typhi (Gram-negativo) e Trichophyton interdigitale (fungo). Tanto più bassa è la MIC della sostanza in esame, tanto maggiore sarà il coefficiente fenolico. Il fenolo è sintetizzato industrialmente con il metodo DOW (disponibile online nella Scheda 34.6).

BOX 34.2 ■ Sintesi dell’etanolo L’etanolo si può ottenere mediante idratazione dell’etilene (che è un gas) ad alte temperature, in presenza di allumina che facilita il contatto tra reattivo e reagente. Un metodo alternativo prevede la solfonazione dell’etilene con acido solforico. L’etil-idrogenosolfato ottenuH 2C

H2C

CH2 + H2O

CH2

H 2SO4

Al 2 O3

CH3CH2OH

290 °C

O H3C

to può reagire con una seconda molecola di etilene per dare l’intermedio dietilsolfato che, per successiva idrolisi, libera alcol etilico ed etere dietilico, separati poi mediante distillazione frazionata.

O

S O

OH

H2C

C H2

O H3C

O

S

H2O

CH3

O

O

H3C

O

CH3

CH3CH2OH

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Fenoli alogenati e alchilati Gli studi RSA sui numerosi derivati fenolici testati hanno evidenziato che i derivati alogenati (soprattutto con alogeno in para all’OH) sono più attivi del fenolo e che l’aggiunta di un alchile (meglio di piccole dimensioni e lineare piuttosto che ramificato) aumenta ulteriormente l’attività. La condizione migliore si ha con alchile in orto e alogeno in para. Le formule del fenolo e dei principali derivati fenolici, descritti qui di seguito, sono riportate nella Figura 34.6. I cresoli (metilfenoli) sono molto attivi; la creolina è una soluzione saponosa di m-cresolo usata per la disinfezione ambientale. Timolo e carvacrolo sono derivati di origine naturale (oli essenziali ottenuti da alcune componenti delle Labiate, ad es. del timo, cui conferiscono il profumo caratteristico). Il timolo, il più attivo dei due, è antibatterico e antifungino. Il 4-cloro-3-metil-fenolo (o p-cloro-m-cresolo) è un potente battericida (attivo sui Gram-negativi), usato come conservante in preparazioni farmaceutiche, un tempo in associazione con l’esaclorofene (attivo sui Gram-positivi). L’esaclorofene – (3,4,6-tricloro-2-idrossibenzil)fenolo è un potente battericida (Gram-positivi) molto usato in passato come componente di saponi e detergenti liquidi antisettici. La sua tossicità (sia topica sia, soprattutto, sistemica) ne ha ridotto l’uso. Nel 1976 nello stabilimento ICMESA di Meda, che produceva esaclorofene su scala mondiale, accadde un incidente che provocò la fuoriuscita di una nuvola tossica di 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD o più comunemente nota come diossina). Nel Box 34.3 è riportata la sintesi dell’esaclorofene e la variante che porta alla formazione di diossina. Il meccanismo della formilazione è disponibile online nella Scheda 34.7. Fenoli bivalenti Il guaiacolo è un derivato del pirocatecolo (1,2-difenolo) ottenuto dal creosoto (distillato del legno di faggio) usato in passato come antisettico delle vie respiratorie ed espettorante.

L’eugenolo è un altro derivato 1,2-difenolico contenuto nell’olio essenziale dei chiodi di garofano; è usato come antisettico delle mucose in odontoiatria. L’esilresorcina è invece un derivato 1,3-difenolico con attività antimicrobica intestinale e topica (usato in soluzioni etanoliche da nebulizzare), dotato anche di azione antielmintica.

8-Idrossichinolina e derivati La 8-idrossichinolina (X = Y = H) è attiva contro i batteri Gram-positivi e i funghi; il suo meccanismo consiste nella formazione, mediante chelazione, di complessi (letali per il microrganismo) con alcuni metalli pesanti (Fe). Il meccanismo è confermato dal fatto che la 8-idrossichinolina è inattiva in assenza di metalli (ad es. dopo trattamento con EDTA che funge da sequestrante). Il gruppo –OH in 8 e l’atomo di N libero sono essenziali per l’attività perché sono i centri atomici di complessazione. Per la sua capacità di chelare i metalli, essa è usata anche per stabilizzare le soluzioni concentrate di perossido di idrogeno. Y

X OH

Alcuni derivati alogenati della 8-idrossichinolina (vioformio, X = I, Y = Cl; 5,7-dicloro-8-idrossichinolina, X = Y = Cl) sono usati sia come disinfettanti sia come amebicidi e antimicrobici a livello intestinale (dopo somministrazione per os). Si deve evitare la somministrazione in caso di lesioni della mucosa gastrointestinale che potrebbero facilitare l’assorbimento sistemico. Infatti, se assorbiti, sono molto tossici: in alcune popolazioni asiatiche la SMON (Subacute MieloOptic Neuropathy) è stata messa in correlazione con l’assunzione di queste sostanze come disinfettanti intestinali.

CH3 OH

CH3

OH

OH H3C

Cresoli HO

CH3

Timolo

CH3 H3C

4-Cloro- 3-metil-fenolo

OH OH Cl

OH O

O

Cl

CH3

Carvacrolo

Cl

OH Cl

OH OH

CH3

Fenolo

8-Idrossichinolina: X = Y = H 5,7-Dicloro-8-idrossichinolina: X = Y = Cl Vioformio: X = I; Y = Cl

N

CH3

O

CH3

CH3

Cl Cl Cl Esaclorofene

CH2 Guaiacolo

Eugenolo

Figura 34.6 Formule di alcuni derivati fenolici usati come antisettici o disinfettanti.

CH3 Esilresorcina

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BOX 34.3 ■ Sintesi dell’esaclorofene e formazione della diossina Il primo passaggio consiste nella clorurazione del benzene a tetraclorobenzene. Questo è trattato con una soluzione concentrata di idrossido di sodio in miscela acqua/ glicole etilenico a 140 °C. Si ottiene l’intermedio (1) che è poi trattato con acido cloridrico per liberare il fenolo dal suo sale. Nel terzo passaggio il triclorofenolo è formilato con formaldeide in ambiente acido. Si ha così la formazione di un intermedio che porta poi all’attacco di una seconda molecola di triclorofenolo con formazione dell’esaclorofene. Se la reazione in ambiente alcalino è condotta a temperature superiori a 200 °C si può avere un’auto-condensazione del triclorofenato, che dà origi-

ne alla diossina. La reazione è fortemente esotermica. Il mancato controllo della temperatura in questa fase ha portato nell’impianto ICMESA all’esplosione del reattore, con formazione di una nube tossica di diossina che ricoprì per diversi giorni il territorio circostante, interessando anche zone distanti molti chilometri, con pesanti conseguenze sulla salute delle popolazioni coinvolte. Gli edifici che erano stati contaminati furono completamente demoliti e il materiale della demolizione fu sepolto sotto diversi metri cubi di terreno. La zona fu chiusa e inaccessibile per molti anni. Oggi su quei terreni è sorto il Parco Naturale Bosco delle Querce.

Cl

OH Cl

Cl2

2. H+

Cl

Cl

1. NaOH, H2O/Glic. etil. 140 °C

CH2 =O/ H2SO4

Esaclorofene

Cl

Cl

Cl 1

NaOH, H2 O/Glic. etil. Temp. > 200 °C

Cl

O – Na+ Cl

Cl

Cl

O

Cl

Cl

Cl Na+ – O

Cl

Cl

O

Cl

2,3,7,8-Tetracloro-dibenzo-p-diossina

34.3.4 Acidi carbossilici e derivati Acido sorbico L’acido sorbico è un componente naturale di molti frutti come mele, prugne e frutti del sorbo (Sorbus aucuparia). Esso è impiegato soprattutto come conservante alimentare (con la sigla E200) grazie alle proprietà antifungine che si manifestano a pH neutro o lievemente acido (la forma indissociata è più attiva di quella dissociata). OH

H3C Acido sorbico

O

tità in condizioni di riposo e in grandi quantità in seguito a sforzi fisici prolungati e condotti in assenza di ossigeno. L’innalzamento dei livelli ematici di acido lattico causa alterazioni nella contrazione muscolare, ragione per la quale esso è notoriamente considerato responsabile dei crampi muscolari. CH3 H

OH

HO O Acido lattico

Tuttavia, è generalmente utilizzato come derivato salificato: sorbato di sodio (E201), di potassio (E202) e di calcio (E203) sono i sali più usati come additivi di molti alimenti e anche di preparati a uso cosmetico. Il suo grosso vantaggio è quello di non essere tossico e di non alterare il sapore degli alimenti, tranne che in alcuni vini in cui potrebbe dare origine a geraniolo, sostanza dal sapore e odore sgradevoli. L’acido sorbico viene spesso usato insieme ad acido benzoico con il quale (più attivo sui batteri) ha azione sinergica. L’acido sorbico e i sorbati sono sintetizzati industrialmente attraverso vari e differenti processi chimici.

L’acido lattico è molto utilizzato nell’industria alimentare come conservante, perché ha deboli proprietà antibatteriche, ma soprattutto come correttore dell’acidità. Recentemente è stato proposto il suo utilizzo per la disinfezione delle confezioni destinate a contenere cibi freschi, in particolare carni, perché è in grado di rallentare lo sviluppo del Clostridium botulinum. Come antisettico, l’acido lattico è un componente (insieme a vari altri agenti chimici con proprietà analoghe, ad es. acido borico, esetidina) di soluzioni o altri preparati (saponi, gel) per l’igiene intima esterna e per effettuare lavande vaginali.

Acido lattico L’acido lattico è prodotto nell’organismo umano dal metabolismo anaerobico lattacido. Si forma in piccole quan-

Acido salicilico L’acido salicilico è usato, per le sue proprietà antimicrobiche e antifermentative, come conservante alimentare (ad es. nelle

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

conserve di pomodoro casalinghe) e come eccipiente (preparazioni farmaceutiche). I derivati esterei sono inattivi. COOH OH

Acido salicilico

È una molecola abbastanza lipofila (coefficiente di ripartizione alto) perché si forma un legame intramolecolare tra il gruppo ossidrilico fenolico e il carbonile carbossilico. L’acido salicilico è preparato secondo il metodo di Kolbe, come descritto nel Capitolo 27 (Box 27.1).

Esteri dell’acido p-idrossibenzoico L’acido è inattivo a causa dei legami a H intermolecolari tra il gruppo ossidrilico di una molecola e quello carbossilico di un’altra. Gli esteri metilico, etilico, propilico, butilico e benzilico sono usati come conservanti in ambito farmaceutico, cosmetico e alimentare. O

O

R R = CH3, CH2-C6H5 o (CH2)nCH3 con n = 1, 2, 3

OH Esteri p-idrossibenzoici

34.3.5 Amine Esetidina L’esetidina – 1,3-bis(2-etilesil)-5-metilesaidropiridinil-5-amina – è un antisettico battericida ad ampio spettro d’azione, essendo attivo contro batteri Gram-positivi e Gram-negativi, funghi e Trichomonas. Il suo meccanismo consiste nella competizione con la vitamina B1 (tiamina), indispensabile per la crescita dei microrganismi. È usata come antisettico in collutori e lavande vaginali.

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cloridrati) e questo portò al recupero parziale dell’idrofilia; il gruppo aminico era poi liberato nuovamente in ambiente basico, ripristinando l’azione. Tuttavia i composti così ottenuti risultarono poco stabili e irritanti. Si pensò quindi di quaternarizzare l’atomo di azoto in modo da ottenere una funzione ionizzabile, e quindi polare, e nello stesso tempo più stabile in ambiente basico. I sali di ammonio quaternario oggi in uso hanno la seguente struttura generale: R1 R4

N

R2 R3

Sali quaternari di ammonio

in cui sull’atomo di azoto sono inserite catene di media e piccola grandezza; solitamente R1 = alchile (C12-C18); R2 = alchile (C1-C8); R3 = R4 = CH3. Le strutture di questi composti ricordano quelle dei tensioattivi (usati come detergenti), i quali sono sali sodici di acidi carbossilici, saturi o insaturi, a lunga catena. La differenza tra le due classi di sostanze è la natura della testa polare che nei derivati quaternari dell’azoto è di tipo cationico, mentre nei tensioattivi è di tipo anionico. Per questa ragione i sali di ammonio quaternario usati come disinfettanti/antisettici sono detti anche saponi invertiti. I derivati quaternari sono quindi lipofili ma solubili in acqua; si usano soluzioni all’1-3%. Hanno un coefficiente fenolico alto (200-1000) e sono utilizzati sia come disinfettanti sia come antisettici. La loro attività aumenta con la temperatura, mentre diminuisce con il pH (il pH ottimale è 8-10).

Benzalconio cloruro Il benzalconio – N-benzil–N,N-dimetildodecan-1-ammonio cloruro – è molto usato come antisettico sulla cute integra. In presenza di pus (che contiene fosfati e carbonati) l’anione cloruro è sostituito dagli anioni più ingombrati e dà sali insolubili che precipitano sulla ferita. I precipitati sono inattivi e irritanti.

Cl

CH3

H 3C

N

C12H25 H3C H2N

N

CH3

N

CH3

Esetidina

X

CH3

Benzalconio cloruro

CH3

34.3.6 Sali di ammonio quaternario Le prime amine testate come antisettici erano risultate poco attive, perciò furono modificate allo scopo di aumentarne il potere biocida; in particolare si pensò di aumentare la lunghezza della catena carboniosa portante il gruppo aminico per aumentare la lipofilia e facilitare la penetrazione nelle pareti batteriche. L’eccessiva lipofilia, tuttavia, rendeva poco maneggevoli le sostanze ai fini della preparazione di formulazioni liquide. Si provò a salificare i gruppi aminici (come

Benzossonio cloruro Il benzossonio – N-benzil-N,N-bis(2-idrossietil)dodecan-1am­monio cloruro – è un derivato analogo al precedente in cui sono stati inseriti due gruppi alcolici in catena laterale per aumentare la polarità. La testa cationica presenta un maggiore ingombro sterico che rende difficile lo scambio dello ione cloruro con grossi anioni. Di conseguenza la molecola resta in soluzione anche in presenza di essudati ricchi di carbonati e fosfati. HO

Cl

C12H25

N OH

Benzossonio cloruro

CAPITOLO 34 • Disinfettanti e antisettici

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BOX 34.4 ■ Sintesi di benzalconio e benzossonio Dalla reazione tra ossido di etilene e dodecilamina (laurilamina) si ottiene la dodecil-dietanolamina che, per quaternarizzazione con benzile cloruro, dà il benzossonio cloruro. La dodecilamina può essere mono-metilata mediante reazione di Eschweiler-Clarke (con formaldeide in acido formico); l’intermedio ottenuto dà una sostituzione nu-

cleofila sul benzile cloruro generando il derivato aminico terziario, che viene infine quaternarizzato per reazione con metile ioduro per dare il benzalconio ioduro. Se la reazione di metilazione iniziale non venisse controllata, porterebbe al composto dimetilato e la successiva quaternarizzazione con benzile cloruro porterebbe alla formazione del benzalconio cloruro, anziché del desiderato ioduro.

OH C12H25

N

OH

ClH2C

C12H25

N

Cl

OH OH Benzossonio cloruro

O

2

H3C

H3C

(CH2)11

NH2

NH CH3

CH2=O

H3C

NH

HCOOH

+

C12H25

Cl

CH3

CH3

CH3I

C12H25

N

N

CH3

H3C I Benzalconio ioduro

La sintesi di benzalconio e benzossonio sono riportate nel Box 34.4.

Dequalinio cloruro Il dequalinio – 1,1'-(decano-diil)bis(4-amino-2-metil-chinolinio)dicloruro – è caratterizzato da un atomo di azoto quaternario inserito in un sistema eterociclico (chinolina). È uno dei meno irritanti, per cui è usato su mucose sensibili, ma è anche più costoso dei precedenti.

34.3.7 Biguanidi Clorexidina La clorexidina – 1,1'-esametilen bis[5-(4-clorofenil)biguanide] – è un antisettico a basso livello di attività con proprietà batteriostatiche (alterazioni di membrana di batteri Grampositivi e Gram-negativi) o battericida ad alte concentrazioni (coagulazione delle proteine citoplasmatiche batteriche). Si usano solitamente soluzioni allo 0,5%. HN

NH2 Cl

H N

NH

NH HN

(CH2)6

NH

2Cl

CH3 (CH2)9

H3C

N

NH2 Dequalinio cloruro

La sintesi convergente del dequalinio (in cui l’anello chinolinico è preparato secondo il metodo di Conrad Limpach) è riportata nel Box 34.5.

Cl

HN

HN N

H N

NH Clorexidina

La clorexidina è un derivato biguanidico con caratteristiche idrofile (gruppi guanidinici) e lipofile (anelli aromatici clorosostituiti), per cui ad alte concentrazioni può essere parzialmente assorbita dagli strati più superficiali della cute e provocare dermatiti da contatto in soggetti sensibili. Non è assorbita sistemicamente per cui ha una bassa tossicità; tuttavia, se ingerita, causa nausea, vomito, neurotossicità e ototossicità. La solubilità in acqua è molto bassa, per cui è solitamente salificata con acido glucuronico per renderla più solubile. Manifesta la sua attività a valori di pH compresi tra 5 e 7 (in-

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752

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 34.5 ■ Sintesi del dequalinio L’anello chinolinico 4-idrossi-sostituito si ottiene con il metodo di Conrad-Limpach a partire dall’anilina, che viene condensata con l’estere acetoacetico a basse temperature. Successivamente, l’intermedia base di Schiff ottenuta viene fatta gocciolare in un solvente altobollente (ad es. difeniletere), ottenendo così la ciclizzazione con eliminazione di alcol metilico. Il successivo equilibrio cheto-enolico genera la 2-metil-4-idrossichinolina, che viene clorurata in 4. Il gruppo aminico viene introdotto mediante sostituzione nucleofila con ammoniaca e sucC2H5O

cessivamente protetto mediante acetilazione. La catena che farà da linker tra le due porzioni chinoliniche viene preparata dall’estere metilico dell’acido sebacico, che subisce riduzione con idruro di litio e alluminio ad alcol. Questo viene poi trasformato nel cloro derivato usato per la successiva quaternarizzazione sugli atomi di N di due molecole di derivato chinolinico. Infine, la deprotezione mediante idrolisi del gruppo amidico dà il prodotto desiderato.

O O CH3

+ O

NH2

OC2H5 (C6H5)2O

CH3COOH, 50 °C -H2O

O

N

CH3

OH

200-250 °C

Cl PCl5

N

CH3

N

NH3

CH3

NH2

N

CH3

NHCOCH3 (CH3CO)2

N

CH3

N

CH3

1 COOCH3 (CH2)8

CH2OH

LiAlH4

COOCH3

CH2Cl

SOCl2

(CH2)8

(CH2)8

CH2OH

CH2Cl 2 NH2

NHCOCH3 Cl N 1 + 2

HCl

(CH2)10 N

CH3

N

CH3

CH3

2Cl H3C

(CH2)9 N

Cl NHCOCH3

NH2 Dequalinio cloruro

tervallo cui si trovano solitamente i tessuti corporei superficiali); a pH basici (> 8) precipita e diventa inefficace. Può essere disattivata da diversi anioni (carbonati, solfati, borati, cloruri, fosfati), perciò deve essere diluita con acqua deionizzata. Inoltre è disattivata dai tensioattivi anionici e non

ionici. Pertanto, se la superficie da disinfettare è stata preventivamente lavata con saponi, è opportuno risciacquare accuratamente prima di applicare clorexidina. La clorexidina è spesso utilizzata come componente di collutori; l’uso prolungato può causare imbrunimento dello

CAPITOLO 34 • Disinfettanti e antisettici

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BOX 34.6 ■ Sintesi della clorexidina La 4-cloro-anilina viene addizionata alla dicianamide per ottenere il primo intermedio cianguanidinico. Due equivalenti di questo intermedio vengono fatti reagire con N 1° step

Cl

NH2

H N

2° step Cl

NH HN

H N

un equivalente di esildiamina che, per doppio attacco nucleofilo sui gruppi guanidinici di due molecole diverse, dà il desiderato prodotto biguanidico.

N

H2N

NH

H N

Cl

HN

HN

(CH2)6NH2

N

N

H N

N

Cl

NH HN

Cl

H N

NH

NH HN

(CH2)6

H N

NH

Cl

HN

HN NH Clorexidina

smalto dei denti (effetto reversibile che scompare con la sospensione del trattamento). La sintesi della clorexidina è riportata nel Box 34.6.

34.3.8 Coloranti Sono composti triciclici aromatici o derivati del trifenilmetano che assumono colorazioni intense per l’ampia coniugazione dei doppi legami (assorbimento di luce nel visibile). Si legano bene alla parete dei batteri e la denaturano. La ricerca di agenti antinfettivi iniziò proprio osservando la capacità delle sostanze coloranti di legarsi alle proteine costitutive di alcuni tessuti di origine animale e vegetale. Da qui si prese lo spunto per provare i coloranti anche sui batteri, nella speranza che potessero legarsi alla loro superficie causando alterazioni irreversibili. I successi più interessanti si ottennero con il Prontosil Rosso, che non mostrava attività antibatterica in vitro ma era molto attivo in vivo. L’approfondimento degli studi portò alla scoperta dei sulfamidici.

Blu di metilene È un derivato fenotiazinico – cloruro di 3,7-bis(dimetilamino) fenotiazin-5-io – solubile in acqua. Sono usate le soluzioni diluite come antisettici per mucose sensibili, per esempio del cavo oro-faringeo, mediante pennellazioni.

N H3C

CH3

S Cl

CH3

CH3

Blu di metilene

Eosina È un derivato – 2',4',5',7'-tetrabromofluoresceina – che si presenta come polvere gialla che dà soluzioni violette o fucsia secondo la concentrazione e il solvente. L’eosina è usata in soluzioni acquose o in miscele acqua/alcol (10:90) per la disinfezione cutanea e le piaghe da decubito o da varici nelle quali ha sostituito la merbromina, bandita dell’uso in quanto contiene mercurio. COO – Na+ Br

Br

Na+ –O

O

O Br

Eosina

Br

753

35

Antibiotici Giovanni Greco

35.1  Cenni storici 35.2 Antibiotici che interferiscono con la sintesi del peptidoglicano 35.2.1 Antibiotici -lattamici 35.2.2 Fosfomicina 35.2.3 Vancomicina e teicoplanina

35.3 Antibiotici che interferiscono con la trascrizione 35.4 Antibiotici che interferiscono con la sintesi delle proteine 35.4.1 35.4.2 35.4.3 35.4.4 35.4.5 35.4.6 35.4.7 35.4.8

Macrolidi Streptogramine Lincosamidi Amfenicoli Tetracicline Aminoglicosidi Ciclopeptidi Acido fusidico

35.5  Proprietà ormetiche degli antibiotici 35.6  Dosi giornaliere di mantenimento Gli antibiotici sono considerati tradizionalmente sostanze prodotte da microrganismi (soprattutto muffe e batteri) per uccidere microrganismi di specie diverse o arrestarne la proliferazione. Da tale proprietà deriva il termine “antibiotico”, coniato per definire una sostanza che agisce contro la vita dei microrganismi giacché “vita” corrisponde in greco a “bios”. La maggior parte degli antibiotici agiscono come antibatterici, alcuni come antifungini, altri come antiprotozoari, altri ancora sono utilizzati come farmaci antitumorali. Il presente capitolo è dedicato agli antibiotici attivi come antibatterici ed eventualmente anche come antiprotozoari. Gli antibiotici che hanno impiego sistemico risultano tossici per le cellule dei microrganismi patogeni a concentrazioni molto più basse di quelle tossiche per le cellule di mammifero (proprietà degli antinfettivi nota come tossicità selettiva). In base al loro meccanismo d’azione, gli antibiotici pos-

sono essere suddivisi in 3 gruppi principali: (a) antibiotici che interferiscono con la sintesi del peptidoglicano; (b) antibiotici che interferiscono con la trascrizione; (c) antibiotici che interferiscono con la sintesi delle proteine. Da un punto di vista chimico, gli antibiotici sono composti organici con peso molecolare inferiore a 2000 Da, solidi molecolari o ionici con l’aspetto di polveri amorfe o cristalline, di varia provenienza biosintetica (aminoacidi, zuccheri, acidi carbossilici a catena corta o una combinazione di queste sostanze) appartenenti a classi chimiche eterogenee. Gli antibiotici possono essere ottenuti su scala industriale attraverso metodi microbiologici o di sintesi. La scelta di produrre un antibiotico di origine naturale attraverso reazioni chimiche piuttosto che mediante processi di fermentazione, estrazione e purificazione è dettata da considerazioni economiche. Comunemente è considerato antibiotico an-

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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che un composto progettato e sintetizzato assumendo come riferimento una sostanza di origine naturale. In tal caso la sua preparazione può avvenire per sintesi, a partire da tipici reagenti di laboratorio, oppure per semisintesi, servendosi come materia prima di un antibiotico di origine naturale. I chemioterapici antibatterici, oggetto del Capitolo 36, sono farmaci preparati esclusivamente attraverso reazioni di sintesi, non rinvenibili in natura né progettati avendo come modelli composti di origine naturale. Gli antibiotici sono farmaci estremamente efficaci nel trattamento delle infezioni, adoperati sia per uso sistemico sia per uso esterno. Dato che intervengono sulla causa della malattia infettiva piuttosto che sui suoi sintomi, gli antibiotici, come tutti gli agenti antinfettivi dotati di tossicità selettiva, costituiscono una delle poche classi di farmaci eziologici attualmente disponibili.

35.1 Cenni storici L’uso di muffe nella cura delle infezioni superficiali era molto diffuso nelle antiche civiltà e lo è ancora oggi presso le popolazioni di alcune regioni del nostro pianeta non industrializzate. Nel 1895  Vincenzo Tiberio, medico molisano dell’Università di Napoli, descrisse il potere antimicrobico di alcune muffe in un articolo intitolato Sugli estratti di alcune muffe, pubblicato sulla rivista Annali di igiene sperimentale. La storia moderna degli antibiotici comincia nel 1928 con la scoperta casuale da parte di Alexander Fleming, medico e biologo inglese, delle proprietà battericide manifestate dalla muffa Penicillium notatum. Nel 1939 la penicillina G, contenuta nell’estratto grezzo di Penicillium, viene isolata in forma pura da un gruppo di chimici inglesi (Edward Penley Abraham, Ernst Chain, Howard Walter Florey, Norman George Heatley). Nel 1940 la penicillina G dimostra di essere efficace in prove cliniche. L’anno seguente i risultati di questi esperimenti sono pubblicati sulla rivista The lancet. Nel 1943 la penicillina G viene prodotta in quantità industriali da ceppi di Penicillium chrysogenum. La ricerca di nuovi antibiotici è proseguita ininterrottamente fino ai nostri giorni, con una proporzione crescente di composti di sintesi e di semisintesi progettati per migliorare una o più proprietà (spettro d’azione, potenza, maneggevolezza, profilo farmacocinetico) degli antibiotici di origine naturale. A partire dalla metà del secolo scorso un crescente numero di ceppi batterici di specie patogene per l’uomo ha sviluppato resistenza nei confronti degli antibiotici come risultato di un impiego diffuso e talvolta incongruo. Questo problema può essere affrontato sul fronte clinico impiegando gli antibiotici secondo criteri di appropriatezza prescrittiva e sul fronte scientifico intensificando le ricerche volte a identificare nuovi antibiotici.

35.2 A  ntibiotici che interferiscono con la sintesi del peptidoglicano Il peptidoglicano (o mureina) è un polimero reticolato di natura peptidica e zuccherina presente in tutti i batteri dotati di parete cellulare. Gli antibiotici che interferiscono con la sintesi del peptidoglicano includono i derivati β-lattamici, la fosfomicina, i glicopeptidi vancomicina e teicoplanina.

35.2.1 Antibiotici -lattamici Costituiscono la classe di antibiotici più diffusamente prescritti grazie alla loro elevata efficacia e all’estrema maneggevolezza. Devono la loro denominazione al fatto che le loro strutture contengono un anello β-lattamico, corrispondente all’azetidin-2-one, derivante dalla condensazione intramolecolare dell’acido β-aminopropionico. NH O Lattame dell’acido β-aminopropionico o azetidin-2-one

Gli antibiotici β-lattamici possono essere suddivisi in 4 sottoclassi di composti: penicilline, cefalosporine, carbapenemi e monobattami.

Penicilline Le penicilline sono antibiotici strutturalmente correlati alla penicillina G o benzilpenicillina. Questo antibiotico viene isolato da muffe del genere Penicillium o Aspergillus, che lo assemblano a partire dagli aminoacidi l-cisteina e d-valina oltre che dall’acido fenilacetico. H N O

S N

O O

CH3 CH3 OH

Penicillina G o benzilpenicillina

Nella penicillina G è presente un sistema biciclico in cui l’anello β-lattamico è fuso con quello a cinque termini della tiazolidina, corrispondente al (5R)-5-tia-1-azabiciclo[3.2.0] eptano. Se tale sistema incorpora il carbonile lattamico si ottiene il cosiddetto nucleo penam (Fig. 35.1). Secondo la nomenclatura IUPAC, la penicillina G è l’acido (2S,5R,6R)-3,3-dimetil-7-cheto-6-[(fenilacetil)amino]-4-tia1-azabiciclo[3.2.0]eptan-2-carbossilico. La stessa molecola come derivato penam corrisponde all’acido 6-[(fenilacetil) amino]-2,2-dimetilpenam-3-carbossilico. A questi due tipi di nomenclatura competono schemi di numerazione delle posizioni del sistema biciclico parzialmente divergenti. I due schemi fortunatamente convergono nella posizione 6, alla quale è legata una catena acilaminica che rappresenta la porzione peculiare di ciascuna penicillina e indispensabile per l’attività biologica. Nella penicillina G, come in tutte le penicilline, ulteriori elementi farmacoforici includono l’anello β-lattamico, il gruppo carbossilico e la configurazione dei 3 centri chirali. La penicillina G è moderatamente solubile in acqua, acida e lipofila (logPo/w = 1,8). Il suo gruppo carbossilico (pKa = 2,8) rende conto dell’elevata solubilità del composto in soluzioni acquose alcaline nonché dei suoi sali di sodio e di potassio. La penicillina G risulta battericida su diverse specie di cocchi Gram-positivi (streptococchi, stafilococchi, pneumococchi, Clostridium tetani, Corynebacterium diphtheriae), poche specie di cocchi Gram-negativi (neisserie) e spirochete. Può essere usata per trattare infezioni sostenute da streptococchi, tetano, gonorrea, meningite da meningococco e sifi-

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4(1) 6

5

7

3(2)

N

1(4)

O

H N

R

S

S

O

N O

2(3)

Figura 35.1 Il sistema penam corrispondente al (5R)-1azabiciclo[3.2.0]eptan-7-one. Lo schema di numerazione IUPAC differisce parzialmente da quello del sistema penam (tra parentesi).

CH3

H N

CH3

H N O

S N

CH3

O O

H H

N

CH3

N

O

H

H

Benzatina benzilpenicillina

2

N

O

CH3 CH3

O

+H

O

H

OH

Ulteriori reazioni di degradazione

O

H N

R

lide, una volta che sia accertata la sua efficacia attraverso un antibiogramma. Al pari di tutti gli antibiotici del suo gruppo, la penicillina G è estremamente maneggevole. La sua biodisponibilità orale è molto scarsa, essendo instabile al pH acido del succo gastrico. In questo ambiente la penicillina G subisce una complessa decomposizione che inizia con la formazione di un catione triciclico (Fig. 35.2). La velocità di formazione di questo intermedio, che condiziona la velocità dell’intero processo di degradazione dell’antibiotico, è favorita dall’effetto elettrondonatore del benzile in catena laterale. La penicillina G viene somministrata esclusivamente per via intramuscolare o endovenosa sotto forma di soluzioni preparate estemporaneamente sciogliendo il suo sale sodico o potassico in acqua per preparazioni iniettabili. Si distribuisce poco nel liquido cefalorachidiano, tranne quando le meningi sono infiammate. Ha un’emivita di eliminazione molto breve (30-45 minuti) poiché viene secreta attivamente nelle urine attraverso il carrier degli anioni organici localizzato nel tubulo del nefrone. L’elevata clearance renale della penicillina G è responsabile di notevoli fluttuazioni della sua concentrazione plasmatica in seguito a somministrazioni distanziate di circa 6 ore. Ciò nonostante, le dosi di penicillina G utilizzate risultano efficaci grazie alla sua ampia finestra terapeutica, oltre che a un discreto effetto post-antibiotico (effetto per cui l’attività antibatterica persiste per un certo tempo anche dopo la caduta della concentrazione del farmaco a valori più bassi della sua minima concentrazione inibente, o MIC). La benzatina benzilpenicillina è un sale della penicillina G molto poco solubile in acqua, somministrato per via intramuscolare come sospensione acquosa nel trattamento di infezioni croniche. Gli intervalli di somministrazione di questa forma ritardo variano da una volta alla settimana fino a una volta al mese in funzione della dose e del tipo di infezione.

S

R

OH

S

O

HN O O

CH3 CH3 OH

Figura 35.2 Stadi iniziali della degradazione delle penicilline in soluzioni acide. La velocità della prima reazione è influenzata dall’effetto elettronico esercitato dal sostituente R (benzile nel caso della penicillina G).

La penicillina G, come tutte le penicilline, può causare reazioni di ipersensibilità di entità lieve-moderata (ad es. rash cutanei) con una frequenza che interessa circa il 10% dei pazienti trattati. Un evento raro e molto severo è lo shock anafilattico, che ricorre con una frequenza che tocca circa lo 0,04% dei trattamenti. Il meccanismo d’azione della penicillina G, molto simile a quello dei vari antibiotici β-lattamici, consiste nell’inibire in maniera non competitiva una serie di enzimi a serina adibiti alla sintesi del peptidoglicano, noti come proteine che legano la penicillina (penicillin binding proteins, PBP). Uno di questi enzimi, la transpeptidasi, catalizza la formazione di un legame crociato nel peptidoglicano saldando un frammento di pentaglicina con un residuo di d-alanina (Fig. 35.3). Il substrato della transpeptidasi è il frammento dipeptidico terminale dAla-d-Ala del peptidoglicano immaturo. Il meccanismo della catalisi prevede la formazione iniziale di un peptidil-enzima tenuto insieme da un legame estereo. Questo legame viene successivamente attaccato dal gruppo aminico della pentaglicina per formare il legame crociato del peptidoglicano e rigenerare l’enzima. La penicillina G interagisce covalentemente con la transpeptidasi acilando, in modo irreversibile, l’ossidrile della serina del sito attivo attraverso l’anello β-lattamico (Fig. 35.4). La transpeptidasi è localizzata all’esterno della membrana citoplasmatica dei batteri. La penicillina G si lega alla transpeptidasi dei Gram-positivi dopo che l’antibiotico ha attraversato le larghe maglie del peptidoglicano. Nel caso dei Gram-negativi, tra antibiotico e transpeptidasi si frappone anche la membrana esterna (outer membrane) quale barriera estremamente selettiva alla diffusione dei soluti. Inoltre, la penicillina G non è in grado di attraversare le porine, proteine immerse nella membrana esterna e dotate al loro interno di un canale idrofilo con diametro di circa 12 Å. La maggior parte dei ceppi batterici che erano originariamente suscettibili alla penicillina G risultano attualmente resistenti a questo antibiotico. La produzione di β-lattamasi a serina è il meccanismo di resistenza alla pe-

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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AG

AG

AMA L-Ala

L-Ala

D-Glu L-Lys

AG

AMA

(Gly)5 NH2

L-Lys

OH

L-Ala

D-Glu

(Gly)5 NH2

D-Glu

(Gly)5 NH2

L-Lys D-Ala

D-Ala

D-Ala

AMA

L-Ala

D-Glu

D-Ala

AG

AMA

D-Ala

D-Ala

O

D-Ala

Ser

Ser

PBP

PBP

AG

(Gly)5 NH2

L-Lys D-Ala

AG

AMA

O

AMA

L-Ala

L-Ala

D-Glu

D-Glu

L-Lys

(Gly)5

D-Ala D-Ala

(Gly)5 NH2

L-Lys

D-Ala

N OH H

O

Ser PBP

Figura 35.3 Formazione del legame crociato nella biosintesi del peptidoglicano di batteri Gram-positivi catalizzata dalla transpeptidasi (PBP) a serina (Ser). AG e AMA indicano, rispettivamente, unità di acetilglucosamina e acido N-acetilmuramico.

H N O

S N

CH3

O O

O

H N

OH

CH3

Ser PBP

S

O OH

CH3

N

CH3

O O

O

Ser PBP

H N

S

O O

CH3

HN O

O

CH3 O

Ser PBP

Figura 35.4 Schema di inibizione dell’enzima a serina (Ser) transpeptidasi (PBP) ad opera della penicillina G.

nicillina G e agli altri antibiotici β-lattamici più frequentemente sfruttato dai batteri. Le β-lattamasi a serina sono enzimi che idrolizzano l’anello β-lattamico dell’antibiotico, trasformandolo in un composto privo di attività antibatte-

rica (l’acido penicilloico nel caso della penicillina G, Fig. 35.5). Mentre antibiotico e transpeptidasi formano un addotto covalente stabile (Fig. 35.4), l’interazione tra antibiotico e β-lattamasi prevede un terzo stadio in cui una mo-

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H N

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S

O

N

Ser

CH3

O O

H N

OH

CH3

O

CH3

N

CH3

O

OH

-lattamasi

O

S

O

O

Ser -lattamasi

H N

S

O OH

CH3

HN O

CH3

O O

O

H N

S

+ H2O

O

-H

CH3

HN

O

O

Ser

Ser

-lattamasi

-lattamasi

CH3

O

O

Figura 35.5 Idrolisi della penicillina G catalizzata da una -lattamasi a serina (Ser).

lecola d’acqua idrolizza il legame estereo dell’acil-enzima ripristinando l’attività catalitica. Le β-lattamasi a serina denominate penicillasi inattivano selettivamente le penicilline. Fino all’introduzione in clinica delle prime cefalosporine, le penicillasi sono stati gli unici enzimi inattivanti gli antibiotici β-lattamici. Ulteriori meccanismi di resistenza agli antibiotici β-lattamici, meno comuni della produzione di β-lattamasi, sono i seguenti: (a) espressione di PBP mutate prive di affinità per l’antibiotico; (b) espressione di porine mutate con ridotta permeabilità nei confronti dell’antibiotico; (c) espressione di carrier localizzati sulla membrana esterna che trasportano attivamente l’antibiotico dallo spazio periplasmico all’esterno dell’involucro batterico. Il primo di questi meccanismi è tipicamente utilizzato dallo stafilococco aureo meticillino-resistente (methicillin-resistant Staphylococcus aureus, MRSA), mentre gli ultimi due meccanismi sono peculiari dei batteri Gram-negativi. Come accennato, la penicillina G non è somministrabile per via orale e possiede un ristretto spettro d’azione che non include la maggior parte dei batteri Gram-negativi, nonché i batteri Gram-positivi che hanno acquisito resistenza nei suoi confronti. I limiti della penicillina G dettero impulso alla ricerca di analoghi di questo antibiotico che fossero dotati di migliori proprietà farmacocinetiche e/o farmacodinamiche. I primi studi sulle penicilline misero in evidenza che l’attività battericida e lo spettro d’azione di una penicillina risultano dall’insieme delle seguenti caratteristiche: (a) la capacità di raggiungere le PBP (nel caso dei batteri Gram-negativi coincide con la capacità di attraversare le porine); (b) l’affinità per le PBP; (c) la suscettibilità o la resistenza alle β-lattamasi. Riguardo al profilo farmacocinetico, la biodisponibilità orale di una penicillina dipende dalla sua stabilità al pH acido del succo gastrico nonché dalla sua lipofilia. Per ottenere penicilline di origine naturale caratterizzate da una catena laterale diversa da quella della penicillina

G occorre aggiungere al brodo di fermentazione un acido carbossilico diverso dall’acido fenilacetico. Questo metodo funziona solo con acidi in cui il gruppo carbossilico è legato a un metilene. La penicillina V o fenossimetilpenicillina è l’unico esempio degno di nota di penicillina naturale ottenuta usando l’acido fenossiacetico come precursore della catena laterale. H N

O

S

O

N O O

CH3 CH3 OH

Penicillina V o fenossimetilpenicillina

La fenossimetilpenicillina è stata la prima penicillina somministrabile per via orale, in virtù della sua stabilità nel succo gastrico oltre che della sua discreta lipofilia. La relativa stabilità al pH acido della fenossimetilpenicillina dipende dall’effetto elettronattrattore esercitato dal sostituente fenossimetilico in catena laterale, che impedisce la formazione del già menzionato catione triciclico (Fig. 35.2). Le penicilline semisintetiche (Tab. 35.1) sono ottenute per N-acilazione dell’acido 6-aminopenicillinanico (6-APA). Quest’ultimo è un composto privo di attività antibatterica ottenibile come illustrato nel Box 35.1. H2N

S N

O O

CH3 CH3 OH

Acido 6-aminopenicillanico (6-APA)

CAPITOLO 35 • Antibiotici

ISBN 978-88-08-18712-3

Tabella 35.1 Penicilline semisintetiche. H N

R1 O

S

CH3

N

CH3

O O Farmaco

R1

Meticillina

OCH3

OR2

R2

Farmaco

–H

Ticarcillina

R1

R2 –H

OH O

OCH3

Ossacillina

S

–H

CH3

Sulbenicillina

O

OH S

O

–H

O

N

Fluclossacillina

–H

CH3

–H

Carindacillina

O

O O

N

Cl

F

Ampicillina

–H

H2N

Piperacillina

–H

O

O

O

N HN

N CH3

Amossicillina

H2N

–H

Azlocillina

–H

O O N

NH

HN HO

Carbenicillina

OH

–H

O

La meticillina (Tab. 35.1) fu la prima penicillina usata per curare infezioni sostenute da cocchi Gram-positivi produttori di β-lattamasi grazie alla sua capacità di resistere a questi enzimi inattivanti. La resistenza della meticillina alle β-lattamasi dipende dalla mancanza di complementarietà sterica tra antibiotico e sito catalitico dell’enzima; questo fatto è a sua volta attribuibile alle caratteristiche strutturali dell’acile arilcarbonilico sostituito su entrambe le posizioni orto dell’anello aromatico. Al pari della penicillina G, la meticillina si decompone nello stomaco e deve essere somministrata per via parenterale, poiché il 2,6-dimetossibenzoile non è sufficientemente elettronattrattore. Le isossazolilpenicilline sono un gruppo di penicilline do-

Bacampicillina

H2N

O CH3

O

CH3

O

tate di un anello isossazolico in catena laterale i cui principali esponenti sono l’ossacillina e la fluclossacillina (Tab. 35.1). Queste penicilline non sono degradate dalle β-lattamasi grazie alle caratteristiche della catena laterale stericamente correlate a quelle della meticillina. A differenza della meticillina, le isossazolilpenicilline sono stabili in soluzione acida in virtù dell’effetto elettronattrattore esercitato dall’anello eteroaromatico. Esse possono essere somministrate per via orale nel trattamento di infezioni sostenute da stafilococchi o streptococchi produttori di β-lattamasi. L’ampicillina è il prototipo delle aminopenicilline, un sottogruppo di penicilline in cui l’azoto della catena laterale è acilato con l’acido d-fenilglicinico (Tab. 35.1).

759

760

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 35.1 ■ Sintesi del 6-APA Il 6-APA può essere preparato a partire dalla penicillina G con un metodo enzimatico oppure chimico. Il metodo enzimatico si basa sull’idrolisi della catena laterale della H N

S

O

N

CH3 CH3

O O

OH

penicillina G ad opera dalla penicillinoamidasi, un enzima estratto da varie specie batteriche, inclusa Escherichia coli. H2N

O

S

CH3

N

N

O N

O

O

O

H2N +

S N

S

CH3

N

CH3

O

O

Si(CH3)3

L’ampicillina viene prodotta come isomero ottico puro, poiché l’inversione della configurazione d del centro chirale in catena laterale riduce l’attività antibatterica. Essa è dotata di proprietà anfotere per la presenza del gruppo aminico basico (pKb = 6,8) oltre che del carbossile acido (pKa = 2,4). Questo composto è poco solubile in acqua. Raggiunge il valore minimo di solubilità in corrispondenza del punto isoelettrico (pH = 4,8) prevalendo all’equilibrio come zwitterione. L’ampicillina, al pari di tutte le penicilline anfotere, può essere salificata sia al gruppo aminico alifatico, come cloridrato, sia al gruppo carbossilico, come sale di sodio o di potassio. Lo spettro d’azione dell’ampicillina include non solo i batteri sui quali è attiva la penicillina G, ma anche diversi batteri Gram-negativi quali Salmonella, Shigella, Proteus mirabilis, Escherichia coli, Haemophilus influenzae e Helicobacter pylori. L’efficacia dell’ampicillina sui batteri Gram-negativi è da attribuire al suo gruppo aminico (prevalentemente protonato in un ampio intervallo di pH come gruppo ammonico) che la rende più idrofila della penicillina G e quindi più adatta ad attraversare le porine. L’ampicillina viene di solito somministrata 4 volte al giorno per via orale.

S

O O

H3C H2

Si(CH3)3

O

N

O

H2N

S N

O O

PCl5

CH3

N

n-BuOH

Si(CH3)3

CH3

O O

O H 3C

OH

CH3

O

O

N

Cl-Si(CH3)3

CH3

N

Cl

OH

nico. Quest’ultimo viene idrolizzato, per blando trattamento con acido cloridrico diluito, fornendo 6-APA trimetilsililestere e benzoato di n-butile. Dall’estere così ottenuto, rimuovendo il gruppo trimetilsililico si ottiene il composto desiderato mediante idrogenolisi.

OH S

CH3

O

CH3

O

CH3

O

+ H2O - C6H5CH2COOH

Il metodo chimico inizia con la protezione del gruppo carbossilico della penicillina G per trattamento con cloruro di trimetilsilile. L’estere risultante viene sottoposto a clorurazione della catena laterale con pentacloruro di fosforo. Si forma un iminocloruro che viene fatto reagire con n-butanolo a freddo per dare un etere n-butilimiH N

S

Penicillinoamidasi

O

CH3

H2O

CH3

H+ dil.

Si(CH3)3

CH3 CH3 OH

La discreta biodisponibilità orale di quest’antibiotico è dovuta alla sua stabilità in ambiente acido derivante dall’effetto elettronattrattore del gruppo ammonico. Un serio limite dell’ampicillina, come di tutte le altre penicilline che descriveremo in seguito, è dato dalla suscettibilità all’azione inattivante delle β-lattamasi. La bacampicillina è un profarmaco dell’ampicillina di natura esterea somministrabile per via orale (Tab. 35.1). Questo antibiotico viene assorbito dal tratto intestinale in misura maggiore rispetto all’ampicillina in virtù della sua maggiore lipofilia. Una volta raggiunto il torrente circolatorio, la bacampicillina si converte rapidamente in ampicillina secondo lo schema in tre stadi riportato nella Figura 35.6. L’amossicillina, il p-idrossi derivato dell’ampicillina, ha una biodisponibilità orale superiore a quella dell’ampicillina (95% contro 40%) pur essendo meno lipofila (Tab. 35.1). L’amossicillina e l’ampicillina si equivalgono per quanto riguarda l’acidità del gruppo carbossilico, ma il primo antibiotico è molto più basico del secondo (valori di pKb rispettivamente pari a 4,4 e 6,8). La maggiore basicità dell’amossicillina è attribuibile all’effetto elettrondonatore per risonanza

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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NH2

NH2

H N

S

CH3 CH3

N

O

CH3

O O

O

H N

S

Esterasi

O

O

O

+ H2 O - CH3CH2OH

O

CH3 CH3

N

CH3

O O

CH3

O

O

O

OH

- CO2

NH2

O

NH2

H N

S N

CH3

O

S

- CH3CHO

O

CH3

O

H N N

CH3 CH3 CH3

O O

OH

O

OH

Figura 35.6 Trasformazione in vivo della bacampicillina in ampicillina.

esercitato dall’ossidrile. Al pH fisiologico di 7,4, la percentuale della forma zwitterionica dell’amossicillina è maggiore rispetto a quella dell’ampicillina (99% contro 40%). Questa differenza potrebbe spiegare il migliore assorbimento a livello intestinale dell’amossicillina rispetto all’ampicillina. La sintesi dell’amossicillina è riportata nel Box 35.2. La scoperta dell’ampicillina suggerì che l’introduzione di un sostituente idrofilo sul carbonio alifatico della catena laterale (in posizione α al carbonile) poteva condurre a un ampliamento dello spettro d’azione nella direzione dei batteri Gram-negativi. Adottando questa strategia furono sviluppate un certo numero di penicilline denominate antiPseudomonas perché il loro spettro d’azione, ancora più esteso di quello dell’ampicillina nei confronti dei batteri Gramnegativi, includeva ceppi di Pseudomonas aeruginosa. Queste penicilline possono essere suddivise in 3 famiglie sulla base della natura del sostituente sul carbonio α della catena laterale: (a) carbossipenicilline, come la carbenicillina e la ticarcillina; (b) sulfossipenicilline, il cui principale esponente è la sulbenicillina; (c) ureidopenicilline, rappresentate dalla piperacillina e dall’azlocillina (Tab. 35.1). Le penicilline anti-Pseudomonas sono suscettibili all’attività idrolitica delle β-lattamasi a serina. La carbenicil-

lina, la ticarcillina e la sulbenicillina sono commercializzate come miscele dei due α-epimeri, poiché in soluzione acquosa l’isomero d si converte parzialmente in quello l e viceversa. Tale equilibrio è reso possibile dall’acidità dell’idrogeno sul carbonio α. Le penicilline sopra elencate, tutte instabili al pH acido del succo gastrico, sono somministrate esclusivamente per via parenterale come sali di sodio o di potassio. Al pH acido del succo gastrico, le carbossipenicilline perdono il gruppo carbossilico in catena laterale secondo una reazione di decarbossilazione simile a quella che subiscono gli acidi β-chetocarbossilici, dando origine a penicilline instabili in soluzione acida. Il gruppo solfonico della sulbenicillina, dotato di un pKa pari a 1,0, è significativamente dissociato come anione solfonato anche in soluzioni acide. Tale funzione anionica non è elettronattraente e non protegge l’antibiotico dalla degradazione in ambiente acido. La piperacillina e l’azlocillina, disponibili come α-epimeri d, si decompongono nel succo gastrico poiché il residuo ureidico non è elettronattrattore. L’esterificazione del gruppo carbossilico nella catena laterale della carbenicillina con l’indan-5-olo fornisce il profarmaco carindacillina (Tab. 35.1).

BOX 35.2 ■ Sintesi dell’amossicillina Uno dei metodi di sintesi dell’amossicillina consiste nel far reagire in condizioni controllate il 6-APA con il cloruro dell’acido (R)-α-amino(p-idrossifenil)acetico in presenza di dimetilanilina. Il cloruro acilico può essere a sua

volta ottenuto per trattamento con pentacloruro di fosforo del corrispondente acido carbossilico sotto forma di sale cloridrato.

H2N

Cl H3N

Cl H3 N

OH PCl5

O

HO

CH3

N

NH2

CH3

O O

O

HO

Cl

S

H N

S

OH

N(CH3)2

HO

O

N O O

CH3 CH3 OH

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

XH

XH

H O O

OH

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O

-H

N

O

O O

O

Ser

X

H O

O

+H

N O

HN

O

O

Ser

H O

O

O O

Ser

O

H O O

+2H

H3N

X

X

O

O

-H

O Ser

O

O

O

Ser

Figura 35.7 Inibizione di una -lattamasi a serina da parte dell’acido clavulanico. XH è un gruppo nucleofilo (OH, SH) del sito catalitico.

La funzione esterea di questo antibiotico, molto lipofila, previene la sua decarbossilazione nel succo gastrico e favorisce il suo assorbimento a livello intestinale. Una volta immessa nel torrente circolatorio, la carindacillina, priva come tale di attività antibatterica, viene rapidamente convertita in carbenicillina da esterasi aspecifiche.

Inibitori delle β-lattamasi Il problema della resistenza batterica basata sulla produzione di β-lattamasi a serina dette impulso allo sviluppo degli inibitori della β-lattamasi: una classe di farmaci con struttura β-lattamica, privi di attività antibatterica, in grado di inibire i predetti enzimi in maniera non competitiva. Gli inibitori delle β-lattamasi fino a oggi utilizzati in terapia sono l’acido clavulanico, il sulbactam e il tazobactam. O

HO

O S

O

CH3

N

N

CH3

O

O O

O

OH

OH

Sulbactam

Acido clavulanico O

O S

CH3

N

N

O O

N

N

OH

Tazobactam

L’acido clavulanico è un derivato ossapenam (isostero del penam) isolato da Streptomyces clavuligerus. Nella struttura

di questo composto è presente una catena laterale 3-idrossipropilidenica con configurazione (Z) al doppio legame olefinico. Il sulbactam e il tazobactam sono derivati penam in cui lo zolfo si trova nello stato ossidato di solfone. Questi composti sono ottenuti per semisintesi a partire dal 6-APA. Nella Figura 35.7 è schematizzato il meccanismo d’azione dell’acido clavulanico basato sulla formazione irreversibile di un addotto covalente con il suo enzima bersaglio. Il meccanismo con cui il sulbactam e il tazobactam inibiscono le β-lattamasi è analogo a quello illustrato per l’acido clavulanico. Nel caso dei due inibitori solfonici, la specie chimica che si forma in seguito all’attacco dell’ossidrile serinico al carbonile lattamico corrisponde a uno ione solfinato (–SO2–). Gli inibitori delle β-lattamasi sono relativamente stabili al pH acido del succo gastrico, perché l’assenza di una catena laterale in posizione 6 non innesca le reazioni degradative che subiscono le penicilline acido-labili (Fig. 35.2). Utilizzando una penicillina associata a un inibitore delle β-lattamasi è possibile trattare infezioni sostenute da batteri produttori di β-lattamasi a serina. Attualmente sono disponibili come specialità medicinali per uso parenterale le seguenti associazioni: (a) amossicillina + acido clavulanico; (b) ampicillina + sulbactam; (c) piperacillina + tazobactam. La prima è commercializzata anche in forme farmaceutiche atte alla somministrazione per via orale.

Cefalosporine Nel 1948 venne isolata da ceppi di Cephalosporium acremonium la cefalosporina C, dotata di una struttura simile a quella delle penicilline e, al pari di queste, biosintetizzata a partire da l-cisteina e d-valina. Nella struttura della cefalosporina C l’anello β-lattamico è fuso con l’anello della diidrotiazina; inoltre è presente un gruppo acetossimetilico

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5(1) 7 8

6

4(2)

N

1(5)

O

S

3 2(4)

Figura 35.8 Il sistema cefem corrispondente al (6R)5-tia-1-azabiciclo[4.2.0]oct-2-en-8-one. Lo schema di numerazione IUPAC differisce parzialmente da quello del sistema cefem (tra parentesi).

e una catena laterale acilaminica il cui precursore è l’acido d-α-aminoadipico. O

H N

HO NH2

S

O

N

O

CH3

O O

O

OH

acide, possedeva uno spettro più ampio che includeva diversi batteri Gram-negativi e non era substrato delle penicillasi. La relativa stabilità della cefalosporina C al pH acido dipende dalla geometria trigonale planare pressoché perfetta del nucleo cefem assunta dall’azoto e dagli atomi a esso legati. Tale geometria a sua volta scaturisce dalla scarsa tensione sterica che il ciclo a 6 termini trasferisce all’anello β-lattamico con cui è fuso. Ne consegue che nel nucleo cefem il legame tra azoto e carbonile è piuttosto stabile perché possiede un parziale carattere di doppio legame, tipico delle amidi acicliche. Nessuna cefalosporina di origine naturale si rivelò più attiva della cefalosporina C. Le ricerche si rivolsero, pertanto, alla preparazione di cefalosporine attraverso reazioni di sintesi organica nel tentativo di ottenere antibiotici che esibissero valori di MIC sufficientemente bassi ai fini dell’impiego clinico. Per la buona riuscita di tali ricerche divenne essenziale poter disporre dell’acido 7-aminocefalosporanico (7-ACA, Box 35.3) quale materia prima da sottoporre a Nacilazione. H2N

S

Cefalosporina C

Il sistema biciclico che include il carbonile lattamico della cefalosporina C è denominato sistema cefem (Fig. 35.8) e corrisponde al (6R)-5-tia-1-azabiciclo[4.2.0]oct-2-en-8-one. Questi due tipi di nomenclatura differiscono parzialmente nello schema di numerazione. Le posizioni 3 e 7, coincidenti nei due schemi di numerazione, sono state sottoposte alle variazioni strutturali dalle quali ha tratto origine la maggior parte delle cefalosporine introdotte in commercio. Gli studi preliminari sulla cefalosporina C mostrarono che questo nuovo antibiotico (nonostante la sua scarsa attività sulla maggior parte delle specie batteriche) offriva alcuni vantaggi rispetto alla penicillina G: era più stabile in soluzioni acquose

N

O

CH3

O O

OH

O

Acido 7-aminocefalosporanico (7-ACA)

Il 7-ACA è inattivo come antibatterico. Sottoponendo il 7-ACA a N-acilazione fu possibile ottenere numerose cefalosporine più attive della cefalosporina C. Furono anche messi a punto dei metodi di sintesi per rimpiazzare il gruppo 3-acetossimetilico (non indispensabile per l’attività) con sostituenti di varia natura. Tale modifica conduceva a cefalosporine metabolicamente stabili. Infatti, le 3-acetossimetil-

BOX 35.3 ■ Sintesi del 7-ACA Per quasi mezzo secolo, i metodi di produzione del 7-ACA si sono basati sul trattamento chimico della cefalosporina C poiché questo composto non è idrolizzato delle amidasi batteriche a livello della funzione acilaminica. Il primo metodo di deacilazione enzimatica della cefalosporina C è stato descritto nel 2006. Una delle possibili O

H N

HO NH2

O

NOCl HCOOH

S N

O

CH3

O O

procedure di semisintesi del 7-ACA prevede la reazione della cefalosporina C con cloruro di nitrosile e acido formico in ambiente anidro per ottenere un iminolattone. Quest’ultimo composto viene successivamente idrolizzato in condizioni molto blande per fornire il prodotto desiderato.

OH

N O

- N2 - HCl

O

S N

O

CH3

O O

O

OH

O

OH H2O

HO

H2N O

OH + O

OH

S N

O

CH3

O O

OH

O

763

764

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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cefalosporine sono idrolizzate in vivo da esterasi aspecifiche a derivati idrossimetilici, che si trasformano spontaneamente in lattoni privi di attività antibatterica (Fig. 35.9). L’eliminazione delle 3-acetossimetil-cefalosporine avviene per metabolizzazione in misura del 20-30% e per escrezione urinaria, attraverso filtrazione e secrezione attiva mediata dal carrier degli anioni, in misura del 70-80%. L’emivita di eliminazione della maggior parte delle cefalosporine è compresa tra le 2 e le 3 ore. Alcune cefalosporine sono dotate di un’emivita superiore alle 3 ore, poiché supportano in posizione 3 un sostituente, diverso dall’acetossimetile, che riduce la loro affinità per il carrier degli anioni. Queste cefalosporine con emivita relativamente lunga producono concentrazioni plasmatiche più stabili nel tempo e sono somministrate con minore frequenza. Nel Box 35.4 è descritta la sintesi di una delle prime cefalosporine immesse in commercio, la cefazolina, basata sull’impiego del 7-ACA. Le prime relazioni struttura-attività nelle cefalosporine mostrarono che il doppio legame non poteva essere idrogenato o spostato dalle posizioni che occupa nella cefalosporina C senza che ciò comportasse la perdita dell’attività. L’attività poteva invece essere conservata se nel nucleo cefem lo zolfo era rimpiazzato da un ossigeno o da un metilene per dare isosteri con nuclei denominati rispettivamente ossacefem e carbacefem. H N

R

S

O

O

CH3

O O

Esterasi

O

OH

O

N

O

CH3

O O

O

OH

Cefamicina C

Anche nelle cefalosporine, come nelle penicilline, l’integrità dell’anello β-lattamico e le configurazioni dei due centri chirali presenti nello stesso anello sono elementi necessari per l’attività antibatterica. Come risultato di una prolungata attività di ricerca iniziata con la scoperta della cefalosporina C e proseguita con parti-

S

O

H N

R

N

OH

- OH-

S

O

N

O

O

O

O

H OCH3 S N

HO

H N

R

N

Con l’introduzione in commercio delle prime cefalosporine, fecero la loro comparsa ceppi produttori di β-lattamasi a serina in grado di idrolizzare questi nuovi antibiotici con elevata specificità da substrato (cefalosporinasi) o includendo tra i loro substrati sia penicilline che cefalosporine (β-lattamasi a spettro ampio). L’isolamento della cefamicina C da ceppi di Streptomyces dimostrò che la presenza di un metossile nella posizione 7α del nucleo cefem non solo conservava l’attività antibatterica della molecola, ma la rendeva anche β-lattamasi-resistente.

O

O

O

O

Figura 35.9 Inattivazione in vivo delle cefalosporine dotate di un sostituente 3-acetossimetilico.

BOX 35.4 ■ Sintesi della cefazolina Uno dei modi di preparare la cefazolina consiste nel far reagire l’acido tetrazolilacetico con il cloruro dell’acido pivalico. L’anidride mista ottenuta si fa reagire con il 7-ACA. Il prodotto risultante è il 7-tetrazolilacetil-ACA,

N

O

N N N

CH3 CH3

O

CH3

7-ACA

N

che a sua volta viene trattato con il 2-mercapto-5-metil1,3,4-tiadiazolo, con conseguente eliminazione di acido acetico, per fornire il prodotto desiderato. H N

N N O

N

O

S N

O

O CH3 CH3

Cl

N

HS

OH

N

O

O

OH

N N

CH3 O

N N

CH3

O

N

CH3

S

H N

N N N

- CH3COOH

O

N

S

CH3 S

N

S

O O

N

OH

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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colare intensità fino alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, furono introdotte in terapia un cospicuo numero di cefalosporine, classificate in quattro “generazioni”. L’evoluzione delle cefalosporine nel corso degli anni è connotata essenzialmente da un progressivo ampliamento dello spettro d’azione nella direzione dei batteri Gram-negativi, nonché dalla capacità di resistere all’azione idrolitica delle β-lattamasi. Passando dalla prima alla terza generazione, si assiste, al contempo, a una relativa perdita di attività nei confronti dei batteri Gram-positivi. Le cefalosporine di quarta generazione presentano uno spettro d’azione leggermente più ampio rispetto alle cefalosporine di terza generazione, risultando egualmente efficaci sia su Pseudomonas aeruginosa sia su stafilococchi e streptococchi. Le cefalosporine di una stessa generazione differiscono tra di loro per alcune proprietà farmacodinamiche e farmacocinetiche che includono lo specifico spettro d’azione, la resistenza o meno all’inattivazione ad opera delle β-lattamasi, la biodisponibilità orale, l’emivita di eliminazione, alcuni effetti indesiderati. Come accennato, le cefalosporine sono relativamente stabili al pH acido del succo gastrico. La loro biodisponibilità orale dipende in gran parte dalla capacità di essere assorbite a livello intestinale per diffusione passiva in funzione della lipofilia e della possibilità, se il composto è anfotero, di prevalere in un ampio intervallo di pH come specie zwitterionica. Di seguito sono delineate le caratteristiche salienti delle cefalosporine più rappresentative delle quattro generazioni. Le cefalosporine di prima generazione (Tab. 35.2) includono la cefalotina, la cefazolina, la cefalessina, il cefadrossil, il cefaclor e il loracarbef (derivato carbacefem). Queste cefalosporine sono inattivate dalle cefalosporinasi e dalle β-lattamasi a spettro ampio ma non dalle penicillasi. Le loro emivite di eliminazione non superano le 2 ore. La cefalotina e la cefazolina sono somministrabili per via iniettiva. La cefalessina, il cefadrossil, il cefaclor e il loracarbef, caratterizzate da catene laterali acilaminiche identiche a quelle delle aminopenicilline nonché dalla presenza di piccoli sostituenti lipofili nella posizione 3 del nucleo cefem o carbacefem, sono somministrabili per via orale. Fanno parte delle cefalosporine di seconda generazione il cefamandolo, il cefonicid, la cefurossima, la cefurossima assetile, la cefossitina e il cefotetan (Tab. 35.3). Nel cefamandolo e nel cefonicid è presente una catena laterale d-α-idrossifenilacetilaminica nella posizione 7 del nucleo cefem. Questa catena amplia lo spettro d’azione dei due antibiotici nella direzione dei batteri Gram-negativi, con l’esclusione di ceppi produttori di cefalosporinasi o di β-lattamasi a spettro ampio. La cefurossima fu la prima cefalosporina introdotta in terapia resistente alle suddette β-lattamasi grazie alla presenza del gruppo α-metossiminico nella catena laterale acilaminica. La cefossitina e il cefotetan, progettate come analoghi della già citata cefamicina C, resistono all’azione inattivante delle β-lattamasi in virtù del gruppo α-metossilico in posizione 7 del nucleo cefem. Tra le cefalosporine di seconda generazione fin qui illustrate, la cefurossima assetile, corrispondente all’estere 1-(acetossi)etilico della cefurossima, è l’unica somministrabile per via orale come profarmaco in ragione della sua elevata lipofilia.

Le emivite di eliminazione del cefamandolo, della cefurossima e della cefossitina sono comprese entro le 2 ore, mentre quelle del cefotetan e del cefonicid sono rispettivamente di 3,5 ore e di 4,5 ore. Il cefamandolo, il cefonicid e il cefotetan possono causare fenomeni di intolleranza a bevande alcoliche ascrivibili alle loro caratteristiche di deboli inibitori dell’aldeide deidrogenasi, l’enzima che nel nostro organismo ossida l’acetaldeide ad acido acetico. L’acetaldeide proviene, a sua volta, dall’ossidazione dell’etanolo catalizzata dall’alcol deidrogenasi. Queste tre cefalosporine possono anche interferire con la sintesi dei fattori proteici della coagulazione e, conseguentemente, potenziare gli effetti di farmaci anticoagulanti. Gli effetti indesiderati condivisi dal cefamandolo, dal cefonicid e dal cefotetan sono stati messi in relazione con la presenza del sostituente tetrazoliltiometilico nella posizione 3 del nucleo cefem. Tra le cefalosporine di terza generazione (Tab. 35.4) sono incluse il cefoperazone, la cefotassima, la ceftizossima, il ceftriassone, la ceftazidima, la cefissima, il ceftibuten, il cefdinir, la cefpodossima prossetile (corrispondente all’estere 1-(isopropilossicarbossi)etilico della cefpodossima) e il latamossef (derivato ossacefem a cui compete anche la denominazione comune di mossalattam). Tabella 35.2 Cefalosporine di prima generazione. H N

R1

R3

S

N

O

R2

O OH

O Farmaco

R1

R2

Cefalotina

O S

Cefazolina

N

Cefalessina

O

N

N

–CH3

H2N

Cefadrossil

–CH3

H2N

HO

Cefaclor

Loracarbef

S

S

N

N

CH3

–Cl

H2N

NH2

H N N

O

Cl

O O

OH

CH3 N

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Il cefoperazone e la ceftazidima mostrano attività significativa nei confronti di ceppi di Pseudomonas aeruginosa. Il cefoperazone e il latamossef recano catene laterali acilaminiche simili o identiche a quelle delle penicilline a spettro molto ampio. A differenza del cefoperazone, il latamossef è resistente alla maggior parte delle β-lattamasi a serina grazie alla presenza del gruppo α-metossilico. Sia il cefoperazone sia il latamossef, dotati di un sostituente 3-tetrazoliltiometilico, possono causare intolleranza all’etanolo e disturbi della coagulazione. Il sistema 2-aminotiazolico e il gruppo α-alcossiminico nella catena laterale acilaminica della cefotassima, della ceftizossima, del ceftriassone, della ceftazidima e della cefissima sono responsabili dell’elevata attività sui batteri Gram-negativi e della resistenza alle β-lattamasi mostrate da questi antibiotici. Le suddette caratteristiche di spettro e di resistenza alle β-lattamasi sono possedute anche dal cefdinir il cui gruppo α-ossiminico rimpiazza il classico sostituente α-alcossiminico in catena laterale. Il ceftibuten, con proprietà farmacodinamiche simili a quelle delle cefalosporine sopra elencate, è dotato di un frammento α-propilidenico CH2–CH=C in luogo di quello α-ossiminico O–N=C con cui è in un rapporto di isosteria. Tra le cefalosporine di terza generazione, la cefissima, il ceftibuten, il cefdinir e la cefpodossima prossetile sono som-

ministrabili per via orale, mentre le altre sono somministrabili per via parenterale. Il ceftriassone è la cefalosporina con emivita di eliminazione più lunga (circa 8 ore) grazie alla presenza di un sostituente in posizione 3 che abolisce l’affinità dell’antibiotico per il carrier degli anioni. Questo sostituente incorpora un anello triazindionico il cui frammento NH, debolmente acido (pKa = 4,0), è prevalentemente dissociato al pH fisiologico. Le cefalosporine di quarta generazione includono la cefepima e il cefpirome, progettate avendo come modello la ceftazidima. N S

N

NH2

OCH3 H N

S R1

N

O O

OH

O H3C

Cefepima: R =

N

Cefpirome: R =

N

Tabella 35.3 Cefalosporine di seconda generazione. H N

R1

R3

S N

O

R2

O O

Farmaco Cefamandolo

R1

OH

R2

R3

HO

CH3 N

S N

Cefonicid

N N

–H

OH

HO

–H

O N

S N

Cefurossima

N

OCH3

O

N N

NH2

–H

O O

Cefurossima assetile

Cefurossima esterificata al carbossile come segue O O

O CH3

O

Cefossitina

O S

Cefotetan

O

NH2

–OCH3

CH3

–OCH3

O OH

H2N

S O

–H

CH3

S

N

S N

N N

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Tabella 35.4 Cefalosporine di terza generazione. H N

R1

S N

O

R2

O O

Farmaco

R1

Cefoperazone

R2 O

Farmaco

N

N

H3C

N

S NH

N

R1

R2

Cefissima

CH3

O O

OH

O

N

N

S

N

CH2 COOH

N

NH2 HO

Cefotassima

N

OCH3

O

Ceftibuten

CH3 O

S

–H

COOH S

N

N

NH2

NH2

Ceftizossima

N S

OCH3

–H

Cefdinir

S

N

N

NH2

NH2

Ceftriassone

N S

CH2

OH N

OCH3

CH3 N

S N

N

N

H

Cefpodossima prossetile

OCH3 N S

O

N

O

NH2

H N

S N

O

OCH3

O

NH2

O

O

H3C

Ceftazidima

O N S

CH3 CH3 COOH

Latamossef

O

CH3

H OCH3 N O

CH3

N

O

HO

N

N

S

O

NH2

Carbapenemi Costituiscono un gruppo di antibiotici β-lattamici dotati di un sistema isostero di quello penam, denominato carbapenem, in cui lo zolfo è rimpiazzato da un metilene ed è presente un doppio legame tra gli atomi di carbonio 2 e 3 del

O

OH

O

N

Grazie alla contemporanea presenza di un gruppo carbossilico e di un gruppo ammonico, sia la cefepima sia il cefpirome, prevalgono come zwitterioni al pH fisiologico. Entrambi gli antibiotici sono resistenti alle β-lattamasi e sono somministrati per via iniettiva. Una conseguenza dell’uso massiccio delle cefalosporine negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso fu la comparsa di ceppi batterici resistenti ai composti di seconda, di terza e di quarta generazione che producevano β-lattamasi a serina a spettro ampio, enzimi in grado di idrolizzare l’anello β-lattamico anche di questi antibiotici.

CH3

O

O

OH

N

N N

sistema biciclico. La tienamicina, isolata da Streptomyces cattleya, è il capostipite di questa sottoclasse. CH3 HO H

S

N

NH2

O O

OH

Tienamicina

Le posizioni 6 e 2 del sistema carbapenem di questo antibiotico supportano, rispettivamente, un gruppo (R)-1-idrossietilico in luogo della catena laterale acilaminica tipica degli antibiotici β-lattamici e un gruppo 2-aminoetiltiolico. Un’ulteriore caratteristica che rende la struttura della tienamicina originale rispetto a quelle delle penicilline e delle ce-

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O H

O

NH3

CH3

H O

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O HO

O H

Glu

O

O

S

HN

Glu

O H

H H

O

O

O

O O

Ser

NH3

CH3

S

HN

O O

Ser

Figura 35.10 Inattivazione di una -lattamasi a serina da parte della tienamicina.

falosporine è la configurazione al C6 del nucleo carbapenem, tale da proiettare il sostituente (R)-1-idrossietilico al di sotto del piano dell’anello β-lattamico, secondo una disposizione spaziale α piuttosto che β. La funzione aminica e quella carbossilica conferiscono proprietà anfotere alla tienamicina e fanno sì che al pH fisiologico essa esista prevalentemente sotto forma di zwitterione. L’anello β-lattamico del sistema carbapenem è sottoposto a una tensione sterica più elevata rispetto a quella associata ai sistemi penam e cefem, essendo fuso con l’anello della pirrolina, caratterizzato da legami covalenti relativamente corti. Per questo motivo i carbapenemi sono particolarmente suscettibili all’idrolisi dell’anello β-lattamico in seguito a somministrazione orale, cosicché sono tutti somministrati esclusivamente per via parenterale. Lo spettro d’azione della tienamicina è molto ampio (Gram-positivi, Gram-negativi, aerobi e anaerobi, Pseudomonas aeruginosa). Inoltre, la tienamicina è resistente alla maggior parte delle β-lattamasi a serina attraverso un meccanismo che la rende un inibitore irreversibile di questi enzimi (Fig. 35.10). Dopo aver acilato la serina catalitica, la tienamicina, attraverso il suo gruppo ossidrilico, forma un legame idrogeno con il carbossilato di un residuo di acido glutamico. Questa seconda interazione non covalente determina lo spiazzamento della molecola d’acqua che avrebbe dovuto attaccare il carbonile estereo dell’acil-enzima per liberare la serina e rigenerare l’enzima. L’impiego clinico della tienamicina è reso complicato da un’emivita di appena 10 minuti, che è la risultante di tre fenomeni di eliminazione: (a) secrezione attiva nelle urine mediata dal carrier degli anioni; (b) ossidazione della catena laterale 2-aminoetilica; (c) idrolisi dell’anello β-lattamico da parte dell’enzima deiidropeptidasi di tipo I (DHP-I) localizzata nei microvilli che si affacciano all’interno del tubulo prossimale del nefrone. L’imipenem è un derivato semisintetico della tienamicina ottenuto sostituendo il gruppo aminico (pKb = 5,1) con un gruppo N-formamidinico (pKb = 4,1). La differenza di basicità tra i due antibiotici fa sì che l’imipenem risulti più stabile della tienamicina nei confronti delle reazioni metaboliche ossidative. CH3 HO H

S

N

HN

O O Imipenem

OH

NH

L’imipenem viene somministrato per via parenterale associato alla cilastatina, un composto ottenuto interamente per sintesi. O

OH

CH3 NH2

S

H3C H

H N

OH

O O

Cilastatina

La cilastatina agisce sia come inibitore della DHP-I sia come substrato del carrier degli anioni a livello tubulare. Somministrato in associazione con la cilastatina, l’emivita di eliminazione dell’imipenem raggiunge circa 1 ora. Il meropenem e l’ertapenem sono analoghi della tienamicina ottenuti interamente per sintesi. Al pari del loro capostipite, sono entrambi anfoteri. CH3

CH3 H 3C

HO H

N

S

N O O

NH

OH

Meropenem: R =

R

O

H

Ertapenem: R = COOH

In questi due antibiotici, la posizione 1 del nucleo carbapenem reca un gruppo β-metilico, mentre la posizione 2 supporta una catena laterale rigida e ingombrante. Le suddette caratteristiche strutturali prevengono la metabolizzazione ossidativa e riducono significativamente quella idrolitica catalizzata dalla DHP-I. Il meropenem ha uno spettro d’azione simile alla tienamicina e all’imipenem. Somministrato per via parenterale, il meropenem viene eliminato principalmente per via urinaria con un’emivita di circa 1 ora. Rispetto al meropenem, l’ertapenem non è efficace su Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter, ma offre il vantaggio di un’emivita di eliminazione più lunga (circa 4 ore). Tra i meccanismi alla base della resistenza di alcuni ceppi batterici nei confronti dei carbapenemi è inclusa la produzione di β-lattamasi specifiche per questi antibiotici, denominate carbapenemasi.

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Monobattami A differenza delle penicilline, delle cefalosporine e dei carbapenemi, nella struttura dei monobattami è presente un anello β-lattamico che non è fuso con un altro anello. L’aztreonam è il principale esponente di questo gruppo di antibiotici. Si tratta di un composto progettato e sintetizzato utilizzando come riferimento le strutture di alcuni antibiotici naturali monobattamici dotati di debole attività antibatterica.

fradiae. Il suo precursore biosintetico è l’acido fosfoenolpiruvico. Si tratta di un composto solubile in acqua e con proprietà di acido debole diprotico (pKa1 = 2,5 e pKa2 = 7,5). Al pH fisiologico prevalgono all’equilibrio acido-base le corrispondenti basi coniugate mono- e dianioniche. La fosfomicina viene prodotta su scala industriale per sintesi chimica. OH CH3

CH3 O H3C OH

O N S

N

H

H N N

O O

NH2

CH3

O

O S

OH

Aztreonam

La catena acilaminica dell’aztreonam, identica a quella della ceftazidima, conferisce a questo antibiotico resistenza alla maggior parte delle β-lattamasi a serina. Purtroppo l’aztreonam è inattivato dalle β-lattamasi a serina con spettro esteso, i cui substrati includono le cefalosporine dotate di un gruppo α-alcossiminico in catena laterale. Il gruppo solfonico direttamente legato all’azoto lattamico rende il composto instabile in soluzioni acide. L’aztreonam è caratterizzato da uno spettro d’azione ristretto ai batteri aerobi Gram-negativi, inclusi ceppi di Pseudomonas aeruginosa. Viene somministrato per via parenterale come sale disodico. Ha un’emivita di eliminazione di circa 1,5 ore. In confronto agli altri antibiotici β-lattamici causa più raramente reazioni di ipersensibilità, comprese quelle crociate.

Resistenza agli antibiotici β-lattamici basata sulla produzione di β-lattamasi a zinco Circa 40 anni fa furono isolate le β-lattamasi a zinco, enzimi nel cui sito catalitico uno ione idrossido attacca il legame β-lattamico dell’antibiotico grazie all’assistenza di 1 o 2 ioni Zn2+. A differenza delle β-lattamasi a serina, le β-lattamasi a zinco idrolizzano quasi tutte le sottoclassi di antibiotici β-lattamici con l’eccezione dei monobattami (come l’aztreonam) e non sono inattivate dagli inibitori delle β-lattamasi il cui esponente è l’acido clavulanico. Il fenomeno della resistenza batterica basata sulle β-lattamasi a zinco non fu considerato un serio problema fino alla metà degli anni ’90 del secolo scorso, allorché cominciarono a essere isolati con frequenza crescente ceppi batterici, soprattutto Gram-negativi, che producevano tali enzimi. Alla luce dell’imponente diffusione dell’ampia gamma di β-lattamasi isolate fino ad oggi, l’aggettivo “β-lattamasiresistente” è da intendersi come “resistente alla maggior parte delle β-lattamasi, con l’eccezione di quelle in grado di idrolizzare quel particolare antibiotico”.

35.2.2 Fosfomicina La fosfomicina corrisponde all’acido (2R,3S)-cis-2-metil-1,2-epossipropan-1-fosfonico, estratto dallo Streptomyces

O O

P

OH

H

Fosfomicina

La fosfomicina risulta battericida su un notevole numero di batteri Gram-positivi (stafilococchi e streptococchi) e Gramnegativi (Escherichia coli, Proteus, Enterobacter, Citrobacter, Serratia, Pseudomonas aeruginosa). Questo antibiotico attraversa agevolmente le porine dei Gram-negativi, grazie alle sue ridotte dimensioni e alla sua idrofilia, e penetra successivamente nel citoplasma batterico servendosi di un carrier di membrana adibito al trasporto attivo dei fosfati organici. La fosfomicina interferisce con la sintesi del peptidoglicano inibendo l’enolpiruviltransferasi, enzima che catalizza l’incorporazione dell’acido enolpiruvico nell’acetilglucosamina (AG), una tappa chiave nella biosintesi dell’acido acetilmuramico (AMA) (Fig. 35.11). AG e AMA sono i due costituenti zuccherini del peptidoglicano. L’affinità della fosfomicina per l’enolpiruviltransferasi è basata sulla similarità strutturale tra l’antibiotico e l’acido fosfoenolpiruvico. L’inibizione è di tipo non competitivo, poiché la fosfomicina alchila irreversibilmente il gruppo tiolico di una cisteina presente nel sito catalitico con la contemporanea apertura del suo anello epossidico. La fosfomicina viene utilizzata usualmente per trattare infezioni gastrointestinali e urinarie in terapie di breve durata. Non è adatta per curare infezioni croniche perché seleziona facilmente ceppi resistenti. Uno dei meccanismi di resistenza all’antibiotico si basa sulla sua inattivazione attraverso una reazione enzimatica di coniugazione con glutatione. La resistenza alla fosfomicina può anche derivare da mutazioni nel carrier che trasporta attivamente l’antibiotico all’interno del citoplasma. La fosfomicina è un farmaco molto maneggevole. Il suo sale sodico, molto solubile in acqua, è utilizzato per le somministrazioni iniettive. La fosfomicina trometamolo, sale in cui l’antibiotico è combinato con l’amina H2N-C(CH2OH)3, è somministrata per via orale, con una biodisponibilità di circa il 50%. La fosfomicina viene assorbita dal tratto gastroenterico per diffusione paracellulare e trasporto attivo. La distribuzione nei tessuti è buona. Viene eliminata quasi interamente per escrezione urinaria con un’emivita di circa 3 ore.

35.2.3 Vancomicina e teicoplanina La vancomicina e la teicoplanina sono antibiotici glicopeptidici prodotti da actinomiceti, rispettivamente Streptococcus orientalis e Actinoplanes teichomyetius, dove sono assemblati a partire da aminoacidi e zuccheri. A differenza della van-

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comicina, che corrisponde a un singolo composto, la teicoplanina è una miscela di 5 composti strettamente correlati, che si differenziano tra loro per la natura di un acido grasso, contenente da 10 a 11 atomi di carbonio, che acila l’azoto di un residuo di glucosamina. H3C

OH

NH2 HO

HO

H3C

O

OH O

O O

Cl

O

O

HO

OH O

O

O

H N

N H

N H O

HN

O

O

H N

H N

N H

O

CH3 CH3

NH2

HO

CH3

O

OH HO

OH

Vancomicina OH HO

O R

OH

OH O

N H

Cl

O

Cl

O

O HO

O

O HO O

O

NH

O

CH3

HN

O

H N

N H

O

N H

O

H N

NH2

N H

O

O HO

HO

OH

HO

O HO

OH

1: R = -(CH2)2CH=CH(CH2)4CH3

O OH

HO

O Componenti:

2: R = -(CH2)6CH(CH3)2 3: R = -(CH2)8CH3 4: R = -(CH2)6CH(CH3)CH2CH3

OH

5: R = -(CH2)7CH(CH3)2

legame idrogeno tra un C=O amidico dell’antibiotico e l’NH della d-Ala terminale, rendendo impossibile la formazione del complesso tra antibiotico e frammento l-Lys-d-Ala-lattato. L’interazione tra antibiotici ciclopeptidici e peptidoglicano immaturo ha luogo all’esterno della membrana citoplasmatica dei batteri Gram-positivi. I due antibiotici hanno dimensioni troppo elevate (pesi molecolari compresi tra 1500 e 1900 Da) per poter attraversare le porine dei batteri Gram-negativi e raggiungere lo spazio periplasmico dove si svolgono le ultime tappe della sintesi del peptidoglicano. Per il suddetto motivo, il loro spettro d’azione è ristretto a cocchi e bacilli Gram-positivi, nei confronti dei quali esplicano azione battericida. Le notevoli dimensioni dei due antibiotici sono responsabili anche del loro scarso assorbimento a livello gastrointestinale. La somministrazione per via orale è riservata al trattamento localizzato della colite pseudomembranosa da Clostridium difficile o di altre infezioni intestinali. In ambiente ospedaliero sono somministrati per infusione lenta endovenosa (vancomicina e teicoplanina) o intramuscolare (teicoplanina) per trattare infezioni sistemiche gravi sostenute da batteri Gram-positivi multiresistenti. Entrambi i farmaci sono eliminati per via renale: la vancomicina con una emivita di 6 ore, la teicoplanina con un’emivita compresa tra le 40 e le 70 ore. Questa notevole differenza nella cinetica di eliminazione tra vancomicina e teicoplanina è originata da una diversa entità del legame tra farmaco e proteine plasmatiche, che è rispettivamente del 30% e del 95%. L’elevato legame plasmatico della teicoplanina, attribuibile alla presenza di un residuo di acido grasso, limita significativamente la concentrazione di farmaco libero sottoposto a filtrazione glomerulare. La vancomicina si somministra ogni 12 ore, mentre la teicoplanina ogni 24 ore. Se non iniettate lentamente, la vancomicina e la teicoplanina possono causare flebiti e dolore nel sito di iniezione, nonché reazioni allergiche scatenate dal rilascio di istamina nel torrente circolatorio (questi effetti si sono manifestati con maggiore frequenza per la vancomicina). Raramente si sono verificati casi di ototossicità e di nefrotossicità.

Teicoplanina

La porzione peptidica di queste sostanze è costituita in gran parte da aminoacidi non proteinogenici. La porzione glicidica si compone di zuccheri semplici e aminozuccheri. Nell’ossatura peptidica sono evidenziabili rispettivamente 3 e 4 sistemi macrocicli (da 12 a 16 termini) che riducono la libertà conformazionale. Questi cicli sono tenuti insieme grazie a legami peptidici e ponti eterei che congiungono le catene laterali di aminoacidi derivati della fenilglicina e della fenilalanina. La vancomicina e la teicoplanina sono anfotere, grazie alla presenza di un gruppo carbossilico e di almeno un gruppo aminico, e piuttosto solubili in acqua. I due antibiotici interferiscono con la sintesi del peptidoglicano legandosi al frammento l-Lys-d-Ala-d-Ala del polimero immaturo impedendo, in tal modo, le reazioni successive di transglicosidazione e di transpeptidazione (Fig. 35.3). Nei ceppi batterici resistenti ai due antibiotici la d-Ala terminale del suddetto frammento tripeptidico è rimpiazzata da un residuo di acido lattico. Tale mutazione fa mancare un

35.3 A  ntibiotici che interferiscono con la trascrizione Gli antibiotici che interferiscono con la trascrizione (processo mediante il quale le informazioni contenute nel DNA vengono trasferite enzimaticamente in una molecola di RNA messaggero) fanno parte della classe delle rifamicine. Questi composti inibiscono non competitivamente la RNA polimerasi DNA-dipendente di varie specie batteriche legandosi a un sito allosterico dell’enzima. La tossicità selettiva delle rifamicine scaturisce dalla loro scarsa affinità per l’RNA polimerasi eucariotica. Le rifamicine sono isolate da actinomiceti. I loro precursori biosintetici sono un aminozucchero e unità di acetato e propionato. Il prototipo di questa classe di antibiotici è la rifamicina B, isolata da Amycolatopsis mediterranei. Di seguito è riportata la struttura della rifamicina B con lo schema di numerazione IUPAC.

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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HO

HO O

O

OH

UDP

Enolpiruviltransferasi O

H2 C

HO

O

NH O

P

O

O

OH

O

Reduttasi

O

HO

OH

H2C

HO O

CH3

HO UDP

Acido fosfoenolpiruvico

H 3C

NH O O

CH3

Acido UDP-AG enolpiruvico

UDP-AG

O

UDP

HO

C

HO

O

HO

C

NH O O

CH3

UDP-AMA

Figura 35.11 Due reazioni connesse alla trasformazione dell’acetilglucosamina (AG) in acido acetilmuramico (AMA). La fosfomicina inibisce l’enolpiruviltransferasi che catalizza la prima reazione. UDP, uridin-difosfato. OH H 3C H3C O

CH3 17

19 21

CH3

O H3CO

OH

5

6

7

9

8

4 3

O

25

O

O

11

OH H3C 23

12

14

CH3

OH

NH 10

O 2

1

O

OH

O

CH3

Rifamicina B

La rifamicina B è caratterizzata dalla presenza di un sistema triciclico, quello del nafto[2,1-b]furano, le cui estremità si saldano attraverso un legame amidico e uno etereo, a formare una sorta di “ansa” carboniosa. Per tale motivo le rifamicine sono anche denominate ansamicine. Queste sostanze si presentano come cristalli di colore rosso-arancione grazie alla presenza di un cromoforo naftalenico al quale sono legati diversi gruppi auxocromici. I mediocri valori di MIC della rifamicina B precludevano il suo utilizzo come farmaco. Modifiche alla struttura della rifamicina B condussero alla rifamicina SV e, successivamente, alla rifampicina. OH CH3

H3C O CH3

H3C

O

CH3

OH

OH

O H3CO

OH

H3C 9

8

O

R

OH

O CH3 Rifamicina SV: R = Rifampicina: R =

NH

O

H C H

N N

N CH3

La rifamicina SV fu il primo antibiotico di questa classe ad avere impiego clinico grazie al suo elevato potere battericida esplicato prevalentemente sui batteri Gram-positivi e sui micobatteri.

Soluzioni acquose di rifamicina SV sodica, sale ottenuto neutralizzando l’acidità dell’ossidrile fenolico nella posizione 9 del nucleo naftofuranico, sono applicate topicamente su lesioni infette oppure somministrate per via parenterale nel trattamento di infezioni stafilococciche. La scarsa biodisponibilità orale e la rapida escrezione nella bile della rifamicina SV limitano un più diffuso impiego terapeutico di questo antibiotico. La rifampicina supporta nella posizione 8 del sistema naftofuranico una funzione idrazonica, con configurazione (E), che si prolunga con un anello piperazinico N4-metilato. Più specificamente, la rifampicina corrisponde all’(E)8-[N-(4-metil-1-piperazinil)formimidoil] derivato della rifamicina SV. La rifampicina è anfotera: il suo gruppo fenolico in posizione 9 è acido (pKa = 1,7) e l’azoto piperazinico metilato è basico (pKb = 6,1). Inoltre, è poco solubile in acqua (0,25% g/mL) ed è lipofila (logPo/w = 1,8). Il suo punto isoelettrico corrisponde a un pH di 4,8. Al pH fisiologico la sua solubilità è pari all’1% g/mL e la specie prevalente all’equilibrio acidobase è quella zwitterionica. L’anfoterismo e la lipofilia della rifampicina contribuiscono a conferire a questo antibiotico proprietà farmacodinamiche e farmacocinetiche migliori di quelle della rifamicina SV. La rifampicina è uno dei farmaci antitubercolari di prima scelta. Di solito viene somministrata una volta al giorno per via orale in associazione con altri agenti antimicobatterici. La sua biodisponibilità orale raggiunge circa il 95% se si includono i metaboliti attivi. Si distribuisce in tutti i tessuti, compreso il SNC. In seguito all’assorbimento del farmaco dal lume intestinale, si instaura un circolo enteroepatico nel corso del quale la rifampicina viene progressivamente metabolizzata. Si formano il 21-desacetil derivato e l’8-formil derivato, entrambi attivi come antibatterici, nonché due O21glucuronidi inattivi, che non sono riassorbiti dall’intestino perché estremamente idrofili. La rifampicina e i suoi metaboliti impartiscono alle urine un colore rosso-arancione. L’emivita della rifampicina, compresa tra le 3 e le 5 ore, si riduce gradualmente nell’arco delle prime 2 settimane di terapia poiché essa è un induttore di numerosi enzimi di biotrasformazione dei farmaci, inclusi quelli della propria metabolizzazione. Gli effetti indesiderati della rifampicina, in genere ben tollerata, includono nausea, vomito e, più raramente, disturbi epatici. La rifabutina è una rifamicina semisintetica di natura chinoniminica. Nella sua struttura un anello imidazolinico

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è spiro-condensato con un anello piperidinico, il cui azoto supporta un isobutile. OH CH3

H3C O CH3

H3C

O

CH3

OH

OH

O H3CO

O

H3C

NH

NH

O N

O CH3

35.4.1 Macrolidi

O

Rifabutina

e ciclopeptidi). Uno dei meccanismi con cui i batteri acquisiscono resistenza nei confronti degli antibiotici inibitori della sintesi proteica è basato su mutazioni o modifiche posttrascrizionali (ad es. la metilazione dell’N7 di una guanina o dell’O2 di un ribosio) che aboliscono l’affinità tra antibiotico e ribosoma. La resistenza agli inibitori della sintesi proteica può realizzarsi anche attraverso meccanismi condivisi con altre classi di antibiotici, quali la produzione di enzimi inattivanti l’antibiotico, l’efflusso attivo dell’antibiotico all’esterno del citoplasma, le mutazioni delle porine che riducono la permeabilità all’antibiotico.

N

CH3 CH3

La rifabutina è simile alla rifampicina per solubilità, lipofilia e comportamento acido-base (le funzioni ionizzabili sono rappresentate dall’NH imidazolinico acido e dall’azoto piperidinico basico). Anch’essa prevale al pH fisiologico come specie zwitterionica. Rispetto alla rifampicina, la rifabutina ha un’emivita di eliminazione molto più lunga (compresa tra le 35 e le 45 ore) e svolge un effetto di induzione enzimatica di scarso rilievo. Grazie alla sua minore interferenza con il sistema di metabolizzazione delle sostanze esogene, la rifabutina consente una più facile gestione dei pazienti che assumono vari farmaci. I ceppi di M. tuberculosis resistenti alla rifampicina resistono anche alla rifabutina nel 25% dei casi, cosicché la rifabutina rappresenta spesso una possibile alternativa terapeutica alla rifampicina. La rifabutina viene somministrata una volta al giorno per via orale nel trattamento della tubercolosi e delle infezioni da M. avium complex in malati di AIDS.

35.4 A  ntibiotici che interferiscono con la sintesi delle proteine Diversi antibiotici si legano al ribosoma batterico inibendo la sintesi proteica. La loro tossicità selettiva si basa sulle differenze strutturali esistenti tra il ribosoma batterico e quello di mammifero, per il quale non mostrano apprezzabile affinità. Alcuni di essi si legano alla subunità 50S (amfenicoli, streptogramine, macrolidi, lincosamidi, amfenicoli), altri alla subunità 30S (tetracicline e aminoglicosidi) e altri ancora all’interfaccia tra le due subunità (ciclopeptidi). Il legame tra antibiotico e subunità ribosomale provoca l’arresto della sintesi proteica interferendo con uno o più stadi di questo processo (formazione del complesso ribosomale, ancoraggio dell’aminoacil-tRNA, allungamento della catena peptidica, lettura corretta dell’mRNA). L’acido fusidico interferisce con la sintesi proteica inibendo un enzima citoplasmatico coinvolto nel funzionamento del ribosoma. Gli inibitori della sintesi proteica devono penetrare nel citoplasma della cellula batterica per raggiungere il loro bersaglio. Quelli lipofili e di media polarità diffondono passivamente attraverso la membrana citoplasmatica (macrolidi, streptogramine, lincosamidi, amfenicoli e acido fusidico); quelli idrofili penetrano all’interno del citoplasma servendosi di sistemi di trasporto attivo (tetracicline, aminoglicosidi

I macrolidi includono sostanze di origine naturale caratterizzate da un ciclo lattonico a 14 o a 16 termini, unito a residui zuccherini attraverso legami glicosidici. Per la maggior parte sono prodotti da ceppi di Streptomyces a partire da unità di propionato e metilmalonato, oltre che zuccheri. Alcuni macrolidi semisintetici contengono nella loro struttura un ciclo lattonico a 15 termini.

Macrolidi con macrociclo a 14 o 15 termini L’eritromicina A (d’ora in avanti semplicemente “eritromicina”) isolata da Streptomyces erythreus è il prototipo dei macrolidi con macrociclo a 14 termini. L’eritromicina etilsuccinato è un profarmaco dell’eritromicina ottenuto esterificando l’ossidrile nella posizione 2 della d-desosamina. Questo estere, somministrato per via orale sotto forma di sospensione preparata estemporaneamente, è stato proposto come succedaneo dell’eritromicina chimicamente più stabile al pH del succo gastrico. Tale vantaggio è stato messo in discussione da studi più recenti condotti in vitro. O H3C H3C H 3C

CH3

9

OH

OH

11

OH

14

O

H3C

CH3

CH3 R

6 5

O

O

2'

O

3

O

CH3

OCH3

O CH3 O

Eritromicina: R =

3'

CH3

N

CH3 OH CH3

H

Eritromicina etilsuccinato: R =

COCH2CH2COOCH2CH3

Nell’eritromicina gli zuccheri legati alle posizioni 3 e 5 del macrociclo (di natura alifatica, sostituito con gruppi metilici e ossigenati) sono rappresentati rispettivamente dall’lcladinosio e da una d-desosamina. Il gruppo dimetilaminico di quest’ultimo residuo aminozuccherino conferisce alla molecola proprietà basiche (pKb = 5,2). L’eritromicina è poco solubile in acqua (0,2% g/mL) ed è lipofila (logPo/w = 2,5). Alcuni suoi sali ottenuti sfruttando la basicità del residuo di d-desosamina sono molto solubili. L’attività antimicrobica dell’eritromicina, come quella di tutti i macrolidi, richiede l’integrità della funzione lattonica nonché dei gruppi 2'-ossidrilico e 3'-dimetilaminico

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nista del recettore della motilina, un peptide endogeno che stimola la motilità gastrointestinale. La ricerca di analoghi semisintetici dell’eritromicina produsse risultati di notevole rilievo con lo sviluppo della claritromicina e dell’azitromicina.

dell’aminozucchero. Lo zucchero e il gruppo chetonico rispettivamente nelle posizioni 3 e 9 del macrociclo possono essere modificati o rimossi senza che sia pregiudicata l’attività. Lo spettro d’azione dell’eritromicina, rappresentativo della classe dei macrolidi, comprende batteri Gram-positivi (stafilococchi, streptococchi, pneumococchi, Clostridium tetani, Corynebacterium diphtheriae), batteri Gram-negativi (neisserie e Moraxella catarrhalis, Bordetella pertussis, Legionella pneumophila, Helicobacter pylori), spirochete, alcuni micobatteri (Mycobacterium kansasii, Mycobacterium scrofulaceum), rickettsie, clamidie, micoplasmi e alcuni protozoi tra cui il Toxoplasma gondii (agente eziologico della toxoplasmosi). Al pari di tutti i macrolidi, l’eritromicina deve la sua azione antimicrobica alla capacità di legarsi reversibilmente alla subunità ribosomale 50S impedendo la traslocazione del peptidil-tRNA dal sito accettore al sito peptidilico. Il sito di legame dei macrolidi coincide interamente con quello delle streptogramine di tipo peptidico e coinvolge parzialmente quello delle lincosamidi e degli amfenicoli. L’eritromicina viene assunta per via orale 4 volte al giorno con una biodisponibilità di circa il 35%. Si distribuisce bene nei tessuti e all’interno delle cellule. Una quota di eritromicina è soggetta a circolo enteroepatico. Viene eliminata prevalentemente per via metabolica con un’emivita di circa 2 ore. L’enzima ossidativo CYP3A4 catalizza la sua trasformazione in un 14-idrossi derivato attivo e in un N-desmetil derivato inattivo. Oltre a essere un substrato del CYP3A4, l’eritromicina è un potente inibitore di questo stesso enzima. La velocità di metabolizzazione di numerosi farmaci ossidati dal CYP3A4 viene diminuita dalla concomitante somministrazione di eritromicina. L’eritromicina viene adoperata anche come principio attivo di preparati per uso topico. Pur essendo un antibiotico abbastanza maneggevole, l’eritromicina causa frequentemente disturbi gastrointestinali (nausea, vomito, crampi addominali, diarrea) attribuibili soprattutto alla sua instabilità chimica in soluzioni acide (Fig. 35.12). In particolare, subisce una parziale degradazione nel succo gastrico originando un enoletere che agisce come potente ago-

O

H3C

9

OH 11

OH

OH

H3C

O

6

OH O

O

Chetale

O

CH3 OH CH3

H3C N

H3C H3C

CH3 OH

OH OH

H3C

O O

CH3

CH3

H3C

O

CH3

N

HO

O

CH3

OCH3

O CH3 O

CH3 OH CH3

Azitromicina

La claritromicina corrisponde all’O6-metiletere dell’eritromicina. L’azitromicina è un analogo dell’eritromicina ottenuto rimpiazzando il gruppo chetonico in posizione 9 del macrociclo con un ponte (N-metil)metilenaminico. Il risultato di tale modifica strutturale è l’espansione del ma-

CH3

H3C H3C

OH

O

CH3

OH Emichetale

H+ CH3

CH3

Claritromicina

CH3

CH3

O

OCH3 O

H+

OH

CH3

N

HO

CH3

H+

- H2 O

H3C

O

OH CH3

CH3

CH3

H3C

O

Eritromicina

H3C

OCH3

OH

H3C

O H3C

CH3

H3C

CH3

H3C H3C

OH

O OH Enoletere

Figura 35.12 Degradazione parziale dell’eritromicina in soluzioni acquose acide.

CH3

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crociclo da 14 a 15 termini e l’introduzione di un gruppo aminico alifatico in aggiunta a quello della d-desosamina. L’azitromicina e i composti a essa correlati sono denominati azalidi. La claritromicina è efficace nei confronti del Mycobacterium avium complex e di Mycobacterium leprae. Rispetto alla claritromicina, l’azitromicina è meno attiva sui batteri Gram-positivi e sui micobatteri ma è più efficace su alcuni batteri Gram-negativi tra cui Haemophilus influenzae. La claritromicina e l’azitromicina non subiscono reazioni di degradazione acido-catalizzate simili a quelle descritte per l’eritromicina e sono pertanto ben tollerate a livello gastroenterico. Esse, inoltre, mostrano dei profili farmacocinetici migliori di quello dell’eritromicina in termini di biodisponibilità orale, volume di distribuzione ed emivita. Sotto forma di basi libere, eventualmente monoidrate o diidrate, possono essere somministrate sia per via orale (2 o 1 volta al giorno, rispettivamente) sia per infusione endovenosa lenta. L’azitromicina diidrato è utilizzata anche come collirio. Il citocromo CYP3A4 viene inibito dalla claritromicina ma non dall’azitromicina. Grazie alla loro efficacia, maneggevolezza e biodisponibilità orale, la claritromicina e l’azitromicina sono antibiotici di largo impiego che hanno reso obsoleto l’uso dell’eritromicina e dei suoi profarmaci.

Macrolidi naturali con macrociclo a 16 termini La josamicina e la spiramicina, isolate rispettivamente da Streptomyces narbonensis e da Streptomyces ambofaciens, sono i macrolidi con ciclo lattonico a 16 termini più comunemente impiegati in terapia.

macrolidi per la presenza di un aminozucchero legato alla posizione 9 del macrociclo. La josamicina e la spiramicina sono somministrate fino a 4 o, rispettivamente, fino a 3 volte al giorno per via orale. Sono entrambe ben tollerate a livello gastroenterico grazie alla loro stabilità in ambiente acido. La josamicina, ma non la spiromicina, inibisce il citocromo CYP3A4.

Macrolidi di tipo chetolidico La telitromicina è uno dei più recenti analoghi semisintetici dell’eritromicina. Questo antibiotico è il prototipo della famiglia dei chetolidi, così denominata poiché raggruppa composti recanti un gruppo chetonico nella posizione 3 del macrociclo in luogo di uno zucchero. Il metossile nella posizione 6, mutuato dalla claritromicina, rende la molecola stabile in soluzioni acide. Le posizioni 11 e 12 sono fuse con un anello ossazolidinonico che supporta, a sua volta, una catena laterale N-diarilbutilica. La telitromicina risulta efficace su alcuni ceppi resistenti agli altri macrolidi. Questa proprietà è stata messa in relazione con le sue innovative caratteristiche strutturali: il sostituente N-diarilbutilico contribuisce a conservare l’affinità dell’antibiotico per forme mutate o sottoposte a modifiche post-trascrizionali della subunità ribosomale 50S, mentre l’assenza dello zucchero in posizione 3 interferisce con l’attività dei carrier di efflusso attivo. La telitromicina è un inibitore del citocromo CYP3A4. Di solito viene somministrata 2 volte al giorno per via orale. N

OH CH3 O

9

CH3O O

CH3

CH3

N

H

6 5

H3C

CH3

HO O

O

CH3

O

CH3 O

CH3

O

CH3

CH3 O

CH3

CH3

H3C

O

H3 C

O

HO

CH3

N O

CH3

O CH3 Telitromicina

I macrocicli di questi due antibiotici incorporano due legami olefinici coniugati e supportano nelle posizioni 3, 5 e 6, rispettivamente, un ossidrile libero o acetilato, un disaccaride e un residuo di acetaldeide. Si noti che tale disaccaride contiene il residuo di d-desosamina, fondamentale per l’attività microbica. La spiramicina si contraddistingue dagli altri CH3 N CH 3 CH3

O

O

9

CH3 O H HO O

OCH3

O

Josamicina

6 5

CH3

N

O

O

CH3O O

O

O

OH

3

CH3 O

O

H3C O

N

N

CH3

CH3

N O

CH3

O

OH

3

O

OH Spiramicina

CH3 OH CH3

35.4.2 Streptogramine Le streptogramine sono una famiglia di antibiotici isolati da Streptomyces pristinaespiralis strutturalmente correlati ai macrolidi per la presenza di un macrociclo lattonico. Essi si suddividono in due gruppi biosinteticamente originati da aminoacidi e da acidi carbossilici a catena corta: macrolattoni peptidici con ciclo a 19 termini e macrolattoni olefinici con ciclo a 23 termini.

Streptogramine naturali I due gruppi sopra accennati hanno come esponenti di origine naturale rispettivamente la pristinamicina IA e la pristinamicina IIA. Ciascuna di queste due streptogramine risulta batteriostatica su un certo numero di batteri Gram-positivi.

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H3C

N

La somministrazione per via orale di una miscela di pristinamicina IA e di pristinamicina IIA non riesce a produrre concentrazioni tissutali dei due antibiotici adeguate per trattare infezioni di una certa gravità. Inoltre, la scarsa solubilità in acqua delle due pristinamicine rende molto difficile la loro somministrazione per via parenterale.

CH3

CH3

O

H

O O

O

N

O

N

N

H N

H

CH3 CH3

NH

O

O NH

O

Streptogramine semisintetiche Variazioni alle strutture della pristinamicina IA e della pristinamicina IIA hanno fornito rispettivamente la quinupristina e la dalfopristina. H 3C

O

CH3

N

OH

N

CH3

Pristinamicina IA

HN CH3

OH

O

H3 C

N

CH3

O

O H3 C

O

H

N

H

O O

O

N

H

O

N

N

H N

H

CH3 CH3

O

O NH

O

O

O O

N

NH

OH

N

O Pristinamicina IIA

La miscela costituita da entrambe risulta molto più potente, spesso battericida, sugli stessi ceppi batterici. In virtù della loro azione sinergica le streptogramine sono denominate anche sinergistine. Tale fenomeno è attribuibile al loro meccanismo d’azione. In particolare, la streptogramina peptidica e quella olefinica occupano due siti di legame adiacenti della subunità ribosomale 50S in modo tale che il legame dell’una facilita allostericamente il legame dell’altra. Il sito di legame della streptogramina peptidica è condiviso con quello dei macrolidi, mentre il sito di legame della streptogramina olefinica è condiviso con quello delle lincosamidi e degli amfenicoli. La formazione del complesso ternario risultante dalla combinazione delle due streptogramine con il loro bersaglio provoca l’arresto della sintesi proteica come conseguenza di distorsioni conformazionali che impediscono l’ancoraggio dell’aminoacil-tRNA al suo sito accettore, nonché l’attività peptidil-transferasica. I più comuni meccanismi di resistenza realizzati dai batteri nei confronti delle streptogramine includono modifiche strutturali di uno o di entrambi i siti di legame, l’efflusso attivo dell’antibiotico all’esterno del citoplasma e la produzione di enzimi inattivanti. Le streptogramine sono sufficientemente lipofile per diffondere passivamente nel citoplasma dei batteri Gram-positivi. Non penetrano nel citoplasma dei batteri Gram-negativi poiché le loro elevate dimensioni ne ostacolano la diffusione attraverso le porine.

Quinupristina HN CH3

CH3 OH

O

H3C O H3C H3C H3C

N

O

O

H

N

S O

O O

N O Dalfopristina

Nella struttura di ciascuna di queste due streptogramine semisintetiche è presente un azoto aminico basico. I sali di mesilato della quinupristina e della dalfopristina sono solubili in acqua tanto da poter essere somministrati per infusione endovenosa lenta in un rapporto ponderale di 3 a 7, 2 o 3 volte al giorno, per trattare infezioni gravi sostenute da batteri Gram-positivi multiresistenti. L’eliminazione dei due antibiotici avviene prevalentemente per via epato-biliare (si formano metaboliti ancora attivi) e, in misura inferiore, per via renale. Le emivite di eliminazione della quinupristina e della dalfopristina sono, rispettivamente, di 3 e di 2 ore. Gli effetti indesiderati più comuni provocati da questa associazione sono rappresentati da flebite e dolore nella sede di iniezione, disturbi gastrointestinali, artralgia e mialgia. L’associazione inibisce il CYP3A4 e può, pertanto, innalzare i livelli plasmatici dei farmaci metabolizzati da questo citocromo.

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35.4.3 Lincosamidi Il prototipo di questa classe di antibiotici è la lincomicina, prodotta dallo Streptomyces lincolnensis. È un’amide derivante dalla condensazione di un aminoacido, l’N-metil-γ(n-propil)-l-prolina, con un aminotiozucchero che conta 8 atomi di carbonio. CH3

CH3 CH 3 N

7

HO

6

NH



5

OH 

OH

O

H H O

Cl H

OH O

OH

OH

O

OH

SCH3

Clindamicina

A differenza della lincomicina, la clindamicina è decisamente lipofila (logPo/w = 2,2) e ha una biodisponibilità orale elevata (circa il 90%). Ha un’emivita di eliminazione di circa 3 ore e viene somministrata 3 o 4 volte al giorno per via orale come cloridrato. I meccanismi di resistenza alle lincosamidi includono modifiche ribosomali, efflusso attivo dell’antibiotico e produzione di enzimi di inattivazione. Le lincosamidi non sono farmaci di prima scelta in ragione di uno sfavorevole rapporto tra benefici e rischi. In particolare, non sono più efficaci di altri agenti antibiotici e chemioterapici di sintesi (macrolidi, metronidazolo), mentre possono causare la colite pseudo-

Cl H N

O2N

CH3 NH

Il primo esponente di questa classe di antibiotici è il cloramfenicolo, corrispondente al d-treo-1-(p-nitrofenil)-2-dicloroacetamido-1,3-propandiolo. Isolato da Streptomyces venezuelae, la sua produzione su scala industriale avviene per sintesi chimica (Box 35.5).

SCH3

La lincomicina è poco solubile in acqua, basica (pKb = 6,4) e di polarità intermedia (logPo/w = 0,2). Si lega alla subunità 50S del ribosoma batterico occupando lo stesso sito che accoglie le streptogramine olefiniche e gli amfenicoli. Svolge attività batteriostatica con uno spettro d’azione simile a quello dei macrolidi, con alcune significative eccezioni tra cui ceppi di Bacteroides fragilis nei confronti dei quali risulta efficace. La lincomicina viene somministrata come cloridrato 3 o 4 volte al giorno per via parenterale o, meno frequentemente, per via orale con una biodisponibilità che non supera il 30%. Si distribuisce bene nei tessuti. Viene eliminata principalmente per metabolizzazione ed escrezione biliare. Alcuni suoi metaboliti sono inattivi mentre altri conservano l’attività antimicrobica (derivati N-demetilato e solfossido). La sua emivita di eliminazione è di circa 5 ore. Non inibisce alcun enzima citocromiale. La clindamicina è un derivato semisintetico della lincomicina ottenuto per sostituzione dell’ossidrile nella posizione 7 dello zucchero con un atomo di cloro e simultanea inversione di configurazione (da d a l).

N

35.4.4 Amfenicoli

1

Lincomicina

H

membranosa, un effetto indesiderato raro e severo associato a un abnorme sviluppo del Clostridium difficile presente sporadicamente nella microflora intestinale.

2

OH

CH3 CH 3

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Cl O

OH Cloramfenicolo

Il cloramfenicolo deriva biosinteticamente dalla fenilalanina. Nella sua struttura sono presenti due centri chirali. Tra i quattro possibili isomeri ottici, solo quello naturale – con configurazione (1R,2R) – è attivo come antibatterico. Si presenta sotto forma di cristalli di colore giallo chiaro ed è poco solubile in acqua. È privo di funzioni acide e basiche ionizzabili in un ampio intervallo di pH. La discreta lipofilia (logPo/w = 1,1) e le piccole dimensioni consentono a questo antibiotico di diffondere passivamente attraverso gli involucri di numerose specie batteriche. Il cloramfenicolo si lega alla subunità ribosomale 50S provocando l’arresto dell’attività peptidil-transferasica. Il suo sito di legame è parzialmente condiviso con macrolidi, streptogramine olefiniche e lincosamidi. Lo spettro d’azione del cloramfenicolo è molto ampio: batteri Gram-positivi e Gram-negativi, aerobi e anaerobi, spirochete, rickettsie, clamidie e micoplasmi. L’azione è generalmente batteriostatica, tranne che su Haemophilus influenzae e Neisseria meningitidis, sui quali risulta battericida. Molti ceppi batterici hanno acquisito resistenza al cloramfenicolo attraverso almeno uno dei seguenti meccanismi: (a) produzione di enzimi che inattivano l’antibiotico acetilando uno o entrambi i suoi gruppi ossidrilici; (b) efflusso attivo dell’antibiotico all’esterno del citoplasma; (c) mutazioni del sito di legame a livello ribosomale. Il cloramfenicolo non è attivo su Pseudomonas aeruginosa e sui micobatteri a causa di una resistenza naturale basata sull’efflusso attivo dell’antibiotico e sulla produzione di enzimi inattivanti. Somministrato per via orale, il cloramfenicolo possiede un’eccellente biodisponibilità; si distribuisce in tutti i tessuti e penetra nelle cellule; è sottoposto a circolo enteroepatico; viene eliminato principalmente per via metabolica come O3glucuronide privo di attività antibatterica. La sua emivita è di circa 4 ore. Il cloramfenicolo è un antibiotico di seconda scelta nel trattamento di infezioni sistemiche, poiché in passato ha causato alcuni rari episodi di anemia aplastica, una reazione avversa mortale caratterizzata dal blocco irreversibile della crasi ematica. Il cloramfenicolo è impiegato più diffusamente come principio attivo di preparati per uso topico (pomate, colliri, ovuli vaginali).

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Tra gli analoghi del cloramfenicolo attualmente impiegati in clinica è degno di nota il tiamfenicolo, corrispondente al d-treo-1-(p-metansolfonilfenil)-2-dicloroacetamido-1,3propandiolo. OH

Le tetracicline, prodotte da varie specie di Streptomyces, sono derivati del sistema policiclico dell’ottaidronaftacene. I loro precursori biosintetici sono costituiti da unità di acido acetico e di acido malonico. La Tabella 35.5 elenca le strutture di alcune delle principali tetracicline naturali e semisintetiche che hanno avuto maggiore impiego clinico.

Cl H N

O H3C

35.4.5 Tetracicline

Cl O

S

OH

O

Tetracicline naturali Il capostipite delle tetracicline naturali è la clortetraciclina. Nella struttura di questo antibiotico solo uno dei 4 anelli benzenici fusi, quello D, è aromatico. Il nucleo ottaidronaftacenico, nel quale sono presenti due legami olefinici, supporta gruppi idrofili (5 ossidrili, 2 gruppi chetonici, 1 gruppo carbossamidico) e gruppi idrofobi (un gruppo dimetilaminico, un cloro e un metile). La clortetraciclina è molto poco solubile in acqua e idrofila (logPo/w = –0,6). L’acidità degli ossidrili nelle posizioni 3, 12 e 10 del nucleo naftacenico (valori di pKa rispettivamente pari a 3,3, 7,7 e 10,7) e la basicità del gruppo dimetilaminico (pKb = 4,3) conferiscono a questa

Tiamfenicolo

Questo antibiotico è l’amfenicolo attualmente più utilizzato per via sistemica (di solito per via parenterale) oltre che nella forma di aerosol per trattare infezioni delle vie respiratorie. Il tiamfenicolo viene eliminato principalmente per via urinaria (70%) e biliare (25%), mentre solo una minima quota (5%) viene biotrasformato in O3-glucuronide. L’impiego clinico di questo farmaco non è stato mai messo in correlazione con episodi di anemia aplastica.

BOX 35.5 ■ Sintesi del cloramfenicolo Una delle procedure di sintesi del cloramfenicolo ha inizio trattando il p-nitroacetofenone con bromo molecolare per ottenere l’ω-bromo-p-nitroacetofenone. Quest’ultimo viene trasformato nell’ω-amino-p-nitroa­ cetofenone per reazione con urotropina e successiva degradazione in acido cloridrico del corrispondente sale d’ammonio quaternario (metodo di Delépine). L’amina primaria risultante è acetilata con anidride acetica fornendo l’ω-acetamido-p-nitroacetofenone che, a sua volta, viene formilato per dare l’α-acetamido-β-idrossip-nitropropiofenone. Questo chetone viene ridotto con isopropossido di alluminio in alcol isopropilico (metodo O

di Meerwein-Ponndorf-Verley) ottenendo una miscela racemica di d- e l-treo-2-acetamido-1-(p-nitrofenil)-1,3propandiolo. La funzione acetamidica del diolo viene idrolizzata con acido cloridrico fornendo la corrispondente miscela racemica d,l-treo di amine. Tale miscela viene trattata con acido d-canforsolfonico e i risultanti sali diastereoisomeri sono separati attraverso metodi fisici. Dal sale dell’amina con configurazione d viene ottenuto il d-treo-2-amino1-(p-nitrofenil)-1,3-propandiolo che, per acilazione con il metilestere dell’acido dicloroacetico, fornisce il cloramfenicolo. O

O CH3

Br

Br2

NH2

1. (CH2)6N4

O2N

O2N O

O 2N O

H N

CH3

CH2O

O

O2 N

(CH3CO)2O

2. HCl

OH

H N

CH3

HOCH(CH3)2

O

O2N

H N

Al[(OCH(CH3)2]3

O

O2N

OH

CH3

OH D,L- treo

H3C

CH3

OH NH2

HCl

1.

O2N

OH D,L- treo

O

OH NH2

O S O HO O

2. Separazione sali diastereoisomeri

O2N

OH D-treo

H3C

OH

Cl

O

Cl

H N

Cl

Cl

O2N

O OH

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778

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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Tabella 35.5 Tetracicline naturali e semisintetiche. R3 8 9

R4

7 D 10

OH

H3C CH3 N R2 R2 R1 H H 3 OH 6 C 11

5 B 12a 12

O

OH

4 A 1

OH

2

O

NH2 O

Farmaco

R1

R2

R3

R4

Clortetraciclina

–H

–OH

–CH3

–Cl

Tetraciclina

–H

–OH

–CH3

–H

Demeclociclina

–H

–OH

–H

–Cl

Ossitetraciclina

–OH

–OH

–CH3

–H

Dossiciclina

–OH

–H

–CH3

–H

Minociclina

–H

–H

–H

–N(CH3)2

Tigeciclina

H3C

H3C H3C

H N CH3

N

CH3

H3C H

H

N

OH

O N H

CH3

NH2 OH

O

molecola proprietà anfotere. Il punto isoelettrico della clortetraciclina è situato a pH 5,5. Nell’intervallo di pH compreso tra 3,3 e 7,7, la clortetraciclina prevale in soluzione acquosa come zwitterione, la cui carica negativa e quella positiva sono formalmente centrate rispettivamente sull’ossigeno in posizione 3 e sull’azoto del gruppo dimetilaminico. In soluzioni neutre e alcaline la clortetraciclina forma dei chelati poco solubili con cationi bivalenti e trivalenti (ad es. Ca2+, Mg2+, Fe2+, Zn2+ e Al3+). La clortetraciclina, al pari di tutte le tetracicline, si lega alla subunità 30S del ribosoma batterico provocando distorsioni conformazionali che impediscono l’accesso dell’aminoaciltRNA al suo sito accettore. Questo meccanismo d’azione produce effetti batteriostatici su numerose specie di Gram-positivi (cocchi e bacilli), Gram-negativi (Haemophilus influenzae, Moraxella catarrhalis, Escherichia coli, Legionella pneumophila, Bordetella, Brucella, Helicobacter pylori), rickettsie, clamidie e micoplasmi. Ricadono nello spettro d’azione di questi antibiotici anche alcuni protozoi, tra cui il plasmodio della malaria e l’ameba istolitica. Un singolare meccanismo attraverso il quale i batteri possono acquisire resistenza nei confronti delle tetracicline prevede la sintesi di proteine specifiche che si associano alla subunità ribosomale 30S proteggendola dall’effetto di questi antibiotici. Altri meccanismi di resistenza consistono nell’efflusso attivo degli antibiotici fuori dal citoplasma e nella produzione di enzimi che li inattivano. La scarsa solubilità della clortetraciclina al pH fisiologico e la sua tendenza a precipitare in presenza di ioni Ca2+ e Mg2+ ne rendono impraticabile la somministrazione endovenosa e dolorosa quella intramuscolare. Per ottenere effetti sistemici la clortetraciclina viene somministrata come cloridrato per

OH

OH

O

O

via orale 3 o 4 volte al giorno. Attraverso questa via di somministrazione mostra una mediocre biodisponibilità (30%) attribuibile al suo incompleto assorbimento. La quota non assorbita viene eliminata con le feci in forma attiva. Per evitare che la sua biodisponibilità si riduca ulteriormente, la clortetraciclina non deve essere assunta insieme a farmaci, integratori alimentari o alimenti (latte e derivati) contenenti elevate quantità di cationi, con i quali formerebbe sali poco solubili. La distribuzione della clortetraciclina nei vari tessuti è discreta, tranne che nel SNC. Le cellule di mammifero dispongono di carrier che le consentono di attraversare la mucosa intestinale e di distribuirsi a livello sia extracellulare sia endocellulare. L’eliminazione della clortetraciclina è prevalentemente metabolica (il principale metabolita è l’O12-glucuronide farmacologicamente inattivo). Una piccola quota di farmaco viene escreta per via renale e per via biliare. La clortetraciclina può essere applicata topicamente come principio attivo di creme, pomate e unguenti. La clortetraciclina, come tutte le altre tetracicline, tende a depositarsi nei tessuti connettivali ricchi di calcio, inclusi i denti e le ossa, specie se in accrescimento. Una volta fissate nello smalto dei denti, le tetracicline si decompongono alla luce dando origine a prodotti di colore scuro. Questo effetto interessa anche gli abbozzi dentari del feto e del lattante. A causa di questo particolare tropismo tissutale, le tetracicline sono controindicate nei bambini e nelle gestanti. Ulteriori possibili effetti indesiderati delle tetracicline sono rappresentati dall’irritazione della mucosa gastrica, dalla tossicità epatica, dalla tossicità renale e da reazioni cutanee di fototossicità. Negli anni immediatamente successivi all’introduzione in clinica della clortetraciclina, furono commercializzate

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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altre tetracicline di origine naturale: la tetraciclina, la demeclociclina e l’ossitetraciclina. Le loro proprietà fisiche, farmacocinetiche e farmacodinamiche non costituiscono un significativo miglioramento rispetto alla clortetraciclina.

In base alla natura dell’aminociclitolo, gli aminoglicosidici sono classificabili in tre gruppi: (a) derivati della 2-deossistreptamina; (b) derivati della streptidina; (c) derivati della spectinamina.

Tetracicline semisintetiche Le tetracicline semisintetiche di particolare rilievo clinico per l’uso sistemico sono la dossiciclina e la minociclina. Entrambe sono solubili in acqua e per tale motivo sono molto biodisponibili per via orale (> 90%). Possono anche essere somministrate per via endovenosa come sali cloridrati. La loro somministrazione intramuscolare è dolorosa e può determinare infiammazione nel sito di iniezione. Sono somministrate 1 o 2 volte al giorno ed eliminate prevalentemente per metabolizzazione e secrezione biliare con emivite comprese tra le 14 e le 16 ore. A differenza delle altre tetracicline introdotte sul mercato, tutte idrofile, la minociclina è di media polarità. Ciò le consente di penetrare nei microrganismi non solo per trasporto attivo ma anche per diffusione passiva. Ne scaturiscono valori più bassi di MIC e un più ampio spettro d’azione. Per lo stesso motivo, la minociclina si distribuisce meglio delle altre tetracicline nei tessuti, incluso il SNC. Recentemente sono state messe a punto tetracicline semisintetiche, denominate glicilcicline, caratterizzate da una funzione glicilamidica nella posizione 9 del nucleo naftacenico. Attualmente questa sottoclasse ha come unico rappresentante la tigeciclina, corrispondente alla 9-(N-t-butil) glicilaminominociclina. È attiva su diversi ceppi resistenti ad altre tetracicline. In particolare, la catena laterale in posizione 9 (basica e protonata al pH fisiologico) fornisce alla tigeciclina ulteriori punti d’interazione con la subunità ribosomale 30S, nei confronti della quale conserva elevata affinità anche quando a tale subunità è legata una proteina “di protezione”. La stessa catena laterale, inoltre, interferisce stericamente con il legame ai carrier di efflusso attivo, consentendo alla tigeciclina di permanere nel citoplasma batterico. La tigeciclina, solubile in acqua e al pH fisiologico, viene somministrata per infusione endovenosa lenta 2 volte al giorno per trattare infezioni complicate sostenute da batteri multiresistenti. La sua eliminazione avviene prevalentemente per via biliare (60%) e in misura minore per via renale e metabolica. Causa frequentemente nausea e vomito di intensità lieve o moderata entro i primi giorni di trattamento.

Aminoglicosidi naturali derivati della 2-deossistreptamina Gli aminoglicosidi derivati della 2-deossistreptamina rappresentano il gruppo clinicamente più importante. Nelle loro strutture l’aminociclitolo è unito a due aminozuccheri nelle posizioni 4 e 6 oppure nelle posizioni 4 e 5. I derivati 4,6-disostituiti della 2-deossistreptamina includono la gentamicina, la tobramicina, la kanamicina e la sisomicina.

35.4.6 Aminoglicosidi Si tratta di una classe di antibiotici isolati da varie specie di Streptomyces e di Micromonospora. Devono la loro denominazione al fatto di essere costituiti per la maggior parte da aminozuccheri combinati con un aminociclitolo tramite legami glicosidici. Gli aminociclitoli sono derivati del cicloesano sostituiti con gruppi ossidrilici e gruppi azotati basici (aminici, alchilaminici o guanidinici). A causa della presenza nella loro struttura di elementi di simmetria, gli aminociclitoli non sono otticamente attivi, essendo sovrapponibili le immagini speculari di ciascuno di essi. Spesso la denominazione comune di un antibiotico aminoglicosidico corrisponde a una miscela di composti molto simili nella struttura e nelle proprietà farmacologiche.

R2

NH O

HO H2N

O

H2N

R1

4

O

H2N

NH2

3

HO

O

H3C

O

O

CH3

3

NH2 NH2

6

OH O

HO

NH OH

OH

H2N Tobramicina

Gentamicina C1: R1 = CH3, R2 = CH3 Gentamicina C2: R1 = CH3, R2 = H Gentamicina C1a: R1 = H, R2 = H

H2N

H2N O

HO HO R

4

HO

NH2

6

HO

O

HO

O

O

4

3

HO O HO

H2N

NH2 NH2

6

O H2N

Kanamicina A: R = OH Kanamicina B: R = NH2

OH OH

O

4

HO O HO H3C

3

NH2 NH2

6

O NH

CH3 OH

Sisomicina

La gentamicina e la tobramicina sono adoperate per uso sistemico o topico per trattare infezioni sostenute da batteri Gram-negativi aerobi (Enterobacter, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Proteus mirabilis, Citrobacter freundii, Pseudomonas aeruginosa). La kanamicina e la sisomicina sono gli esponenti di questo gruppo con minore efficacia antibatterica, tanto che il loro impiego è divenuto obsoleto. Dei derivati 4,5-sostituiti della 2-deossistreptamina fanno parte la neomicina B e la paromomicina. Nei loro spettri d’azione ricadono la maggior parte dei batteri sensibili ai derivati 4,6-disostituiti precedentemente illustrati con l’eccezione degli Pseudomonas. In compenso risultano molto efficaci su alcuni protozoi come l’Entamoeba histolytica. Data la loro minore maneggevolezza, la neomicina B e la paro-

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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momicina sono somministrate per via orale come antisettici intestinali privi di effetti sistemici o applicate topicamente sotto forma di creme, pomate, colliri o gocce otologiche. R O

HO HO

H2N

HO

O

O O

HO HO

NH2

4

O

6

5

NH2 OH

OH

O

NH2

H2N

Neomicina B: R = NH2 Paromomicina: R = OH

Aminoglicosidi naturali derivati della streptidina Il gruppo della streptidina ha come principale esponente la streptomicina. Nella struttura di questo antibiotico l’ossigeno in posizione 4 della streptidina è legato a uno zucchero dotato di una funzione aldeidica libera, unito a sua volta a un aminozucchero. La streptomicina è meno attiva degli altri aminoglicosidi sui batteri Gram-negativi, mentre è molto efficace su ceppi di Mycobacterium tuberculosis. Attualmente è un agente antitubercolare di seconda scelta. NH2 HN CHO O H3C

HO

NH

3 5

OH

OH H N

NH2

1

NH

O

OH HO HO

O

4

O

NHCH3

HO Streptomicina

Aminoglicosidi naturali derivati della spectinamina Il gruppo della spectinamina è rappresentato dalla spectinomicina, un composto privo di aminozuccheri. La sua struttura è caratterizzata da un sistema triciclico in cui le posizioni 4 e 5 della spectinamina sono unite con legami glicosidici a un medesimo zucchero. L’unica indicazione terapeutica della spectinomicina è la gonorrea. OH

NHCH3

4

O

O O

O

NHCH3 5

6

Farmacodinamica degli aminoglicosidi Gli aminoglicosidi sono composti solubilissimi in acqua, di natura basica (prevalgono come policationi a pH fisiologico), solitamente adoperati come solfati o cloridrati. Grazie alla loro idrofilia, questi antibiotici attraversano le porine dei batteri Gram-negativi e penetrano nel citoplasma dei microrganismi aerobi mediante un sistema di trasporto attivo ossigeno-dipendente. In questa sede si legano alla subunità 30S ribosomale interferendo sulla sintesi proteica attraverso vari meccanismi: blocco del ribosoma sul codone d’inizio, distacco del complesso ribosomale con sintesi di proteine incomplete, errori di lettura dell’mRNA. I complessi antibiotico-ribosoma sono fortemente stabilizzati da ponti idrogeno, soprattutto da quelli che si formano tra i gruppi ammonici dell’antibiotico e i gruppi fosfato dei nucleotidi. L’azione degli aminoglicosidi è in genere battericida. L’unica eccezione è rappresentata dalla spectinomicina, che è batteriostatica sulla maggior parte delle specie batteriche e risulta battericida esclusivamente nei confronti delle neisserie. Numerosi ceppi batterici acquisiscono resistenza agli aminoglicosidi producendo enzimi inattivanti (acetilasi, fosforilasi e adenilasi) che catalizzano, rispettivamente, le seguenti reazioni di coniugazione: N-acetilazione, O-fosforilazione, O-adenilazione. Nella Figura 35.13 sono schematizzate alcune di queste rea­zioni che hanno come substrato la kanamicina A. Ulteriori meccanismi di resistenza nei confronti degli aminoglicosidi sono basati su modifiche del sito di legame ribosomale o del carrier adibito al loro trasporto attivo nel citoplasma. Aminoglicosidi semisintetici Alcuni aminoglicosidi semisintetici furono sviluppati nel tentativo di ottenere antibiotici non suscettibili all’azione degli enzimi inattivanti sopra descritti. I risultati più soddisfacenti di queste ricerche culminarono con l’introduzione in commercio dell’amikacina e della netilmicina quali derivati, rispettivamente, della kanamicina A e della sisomicina. In ciascuno di questi composti l’aminogruppo in posizione 1 dell’aminociclitolo, cioè la 2-deossistreptamina, supporta un sostituente che interferisce stericamente con il legame dell’intera molecola ai siti catalitici della maggior parte degli enzimi di inattivazione. Tale sostituente è l’l-α-idrossiγ-aminobutirrile nell’amikacina e l’etile nella netilmicina. I due antibiotici in questione sono efficaci su numerosi ceppi resistenti agli aminoglicosidi di origine naturale. La sintesi dell’amikacina è descritta nel Box 35.6. H2N O

HO HO HO HO

HO

O H2N

Spectinomicina

Amikacina

NH2

O

N H

O

OH

H3C

NH2

O

OH OH OH

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H2N

H2N O

HO HO HO

NH2

O

Adenilasi

HO

NH2

O

OH OH

O

HO

NH2

O HO

NH2

O

O

HO HO HO

AMP

H2N

OH OH

O

O

H2N

Acetilasi

Fosforilasi

H2N

H2N O

O

HO O HO OH

HO

NH2

O HO

HO

O H2N

O CH3 NH

O HO

NH2

O

O

HO HO HO

P

NH2

O

OH OH

HO

O

OH OH

H2N

Figura 35.13 Reazioni di inattivazione catalizzate da enzimi prodotti da batteri resistenti agli aminoglicosidi. AMP, adenosinmonofosfato.

H2N O H2N

NH2

O HO

NH

O HO H3C

O NH

CH3

CH3 OH

Netilmicina

Farmacocinetica degli aminoglicosidi L’elevata idrofilia degli aminoglicosidi è alla base delle loro proprietà farmacocinetiche. Non diffondono passivamente attraverso le membrane citoplasmatiche e non sono pertanto assorbiti dal lume intestinale. La somministrazione orale comporta un’azione antimicrobica localizzata nel tratto gastroenterico. La loro penetrazione all’interno delle cellule è molto scarsa e il volume apparente di distribuzione è di poco superiore al volume del liquido extracellulare. Il legame di questi antibiotici alle proteine plasmatiche è insignificante e la loro distribuzione nel SNC è trascurabile. L’eliminazione è prevalentemente renale con emivite che non superano le 3 ore. In caso di insufficienza renale è necessario aggiustare la posologia per evitare effetti indesiderati da sovradosaggio. Nonostante la loro breve emivita, gli antibiotici aminoglicosidici si somministrano per via parenterale una sola volta al giorno. Le risultanti curve di livello plasmatico sono caratterizzate dal raggiungimento rapido di un’elevata con-

centrazione di picco e dalla caduta esponenziale della concentrazione plasmatica che, dopo 10-12 ore, scende al di sotto della MIC. L’efficacia di tale schema posologico risiede in un significativo effetto post-antibiotico. Tale effetto potrebbe essere correlato al fatto che gli aminoglicosidi si legano in modo pressoché irreversibile alla subunità ribosomale 30S.

Effetti indesiderati degli aminoglicosidi Gli aminoglicosidi sono poco maneggevoli rispetto ad altri antibiotici con simile spettro d’azione. La loro tossicità si manifesta a livello renale e a livello degli apparati vestibolare e cocleare dell’orecchio interno. L’ototossicità vestibolare comporta disturbi dell’equilibrio, mentre l’ototossicità coclea­re comporta disturbi dell’udito. L’entità di questi effetti indesiderati dipende dalla dose e dalla durata del trattamento. Pertanto, durante la terapia con un aminoglicoside è necessario monitorare le funzionalità renale, uditiva e vestibolare per evitare possibili danni irreversibili. In alcuni casi questi farmaci hanno determinato blocco neuromuscolare curaro-simile, interagendo con i recettori dell’acetilcolina a livello della placca neuromuscolare. Gli antibiotici aminoglicosidici sono attualmente considerati farmaci di seconda scelta a causa della loro ristretta finestra terapeutica e della necessità di essere somministrati per via parenterale.

35.4.7 Ciclopeptidi Fanno parte degli antibiotici ciclopeptidici la capreomicina e la viomicina, isolate da specie di Streptomyces (rispettivamente capreolus e vinaceus). Entrambe interferiscono con la sintesi proteica batterica legandosi all’interfaccia tra le subunità ribosomali 30S e 50S. Questi due antibiotici fanno parte

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 35.6 ■ Sintesi dell’amikacina La sintesi dell’amikacina inizia trattando la kanamicina con la N-(fenossicarbonilossi)succinimide in modo che reagisca il suo gruppo aminico più reattivo, corrispondente all’N6 dell’aminozucchero legato alla posizione 4 dell’aminociclitolo. Si forma un derivato N6-acilaminico che viene fatto reagire con un estere ottenuto

condensando la N-idrossisuccinimide con l’acido l-N-γfenossicarbonilamino-α-idrossibutirrico. Si ottiene un derivato N1,N6-diacilaminico che, sottoposto a idrogenazione catalitica con palladio su carbone, fornisce il prodotto desiderato. Le predette reazioni sono svolte in solventi non acquosi aprotici, come la dimetilformamide. O

H2 N

HN O

HO HO HO

O

O O

NH2

4

HO

O

O

NH2

4

HO 1

O

OH OH

O

HO

O

O

HO HO HO

N

NH2

1

O

O

O

OH OH

O

HO

H2N

NH2

H2N O O N

H N

O

O

OH

O

O

O H2N O

HO HO HO

O

NH2

4

HO 1

O

H2

O NH2

N H OH OH

O

HO

Pd/C

NH O

H N

H

H NH N H

O

H N O

HN

O

HO 1

O HO

O

H N

N H OH OH

O

OH

O O

NH2

NH2

O

NH

O

Capreomicina IB: R = H

O H N

H

H NH

HO NH2

H N

N H

NH2

N H O H N

H N

H2N

OH

O

O

NH

Capreomicina IA: R = OH

NH2

4

H2N

R N H

O

OH

della famiglia delle tuberactinomicine, composti contenenti la stessa ossatura pentapeptidica ciclica costituita per la maggior parte da aminoacidi non proteinogenici. La capreomicina impiegata in clinica è una miscela di due sostanze, la capreomicina IA e la capreomicina IB, differenti nella natura di un aminoacido (rispettivamente l-serina e l-alanina). O

O

HO HO HO

H2N

H2 N

O

HN

N H

HN

O

OH O H N

NH2 O

NH

Viomicina

Capreomicina e viomicina possiedono funzioni azotate basiche prevalentemente ionizzate a pH fisiologico. Manifestano attività battericida nei confronti di varie specie di Gram-positivi, Gram-negativi e soprattutto dei micobatteri. A causa della loro scarsa maneggevolezza (possono provo-

CAPITOLO 35 • Antibiotici

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care nefrotossicità e ototossicità sia cocleare sia vestibolare) sono relegate tra gli agenti antitubercolari di seconda scelta, impiegati in combinazione con altri farmaci. L’associazione di un ciclopeptide con un aminoglicoside va evitata, poiché sarebbero potenziati gli effetti collaterali tipici delle predette classi di antibiotici. Sebbene la viomicina sia stata la prima delle tuberactinomicine a essere stata isolata e caratterizzata, solo la capreomicina è attualmente disponibile in commercio come sale di solfato. Quest’ultima viene somministrata una volta al giorno per via intramuscolare, non essendo biodisponibile per via orale. La maggior parte della dose somministrata viene eliminata attraverso le urine.

35.4.8 Acido fusidico L’acido fusidico è un antibiotico steroide prodotto da Fusidium coccideum. Nella sua struttura i quattro anelli fusi dello scheletro del ciclopentanoperidrofenantrene sono interconnessi con una configurazione trans-sin-trans-anti-trans. È inoltre presente un gruppo carbossilico prevalentemente dissociato a pH fisiologico. H3C

CH3

H

HO H3C

CH3 H

HO

O OH CH3

O O

CH3

H CH3 Acido fusidico

Il composto è poco solubile in acqua. La sua solubilità aumenta in soluzioni neutre e alcaline. Di solito si adopera il suo sale sodico, sodio fusidato, che è molto solubile in acqua. L’acido fusidico esplica un effetto batteriostatico prevalentemente sui batteri Gram-positivi e su alcuni batteri Gram-negativi (Neisseria, Moraxella catarrhalis, Legionella pneumophila, Bacteroides fragilis). L’antibiotico inibisce non competitivamente un enzima citoplasmatico essenziale per la sintesi proteica, il fattore di allungamento GTP-dipendente (elongation factor GTP dependent, EF-G). L’EF-G lega il GTP e lo idrolizza a GDP in un processo accoppiato alla traslocazione del peptidil-tRNA dal sito accettore al sito peptidilico. La tossicità selettiva dell’acido fusidico risiede nella sua scarsa affinità per i fattori di allungamento delle cellule eucariotiche. I batteri divengono resistenti all’acido fusidico esprimendo forme mutate dell’EF-G. Grazie alla sua elevata lipofilia, l’acido fusidico attraversa le membrane citoplasmatiche dei batteri e delle cellule eucariotiche per diffusione passiva. L’acido fusidico ha impiego sistemico (somministrato per via orale) e soprattutto topico (come principio attivo di pomate, creme, unguenti e colliri). La sua biodisponibilità orale raggiunge circa il 90%. Si distribuisce in tutti i tessuti ed è caratterizzato da un elevato legame all’albumina plasmatica. Viene eliminato prevalente-

mente per via metabolica (subisce ossidazione in vari punti e O3-glucuronazione). Ha un’emivita di circa 6 ore. Può causare disturbi gastrointestinali e ittero colestatico.

35.5 P  roprietà ormetiche degli antibiotici Studi recenti hanno condotto a considerare gli antibiotici quali segnali chimici per la comunicazione tra cellule di microrganismi appartenenti a specie diverse. Nelle nicchie ecologiche (costituite prevalentemente da terreni, acque, vegetazioni) gli antibiotici si trovano in concentrazioni molto più basse di quelle microbistatiche o microbicide. A queste concentrazioni, più basse di circa un ordine di grandezza della MIC, gli antibiotici favoriscono la sopravvivenza e la virulenza dei batteri, svolgendo nei loro confronti un ruolo di stimolo ormetico. L’ormesi è il fenomeno per cui una sostanza risulta benefica o tossica per un organismo che si esponga a essa in piccole o, rispettivamente, elevate quantità. L’azione ormetica dipende dalla natura e dalla concentrazione dell’antibiotico, oltre che dal tipo di batterio. Essa deriva dalla capacità dell’antibiotico di modulare la trascrizione genica del batterio in modo da indurre in esso una varietà di variazioni fenotipiche tra cui la produzione di biofilm protettivi, l’aggregazione in sistemi multicellulari, l’aumento della motilità, la sintesi di sostanze citotossiche, la capacità di riparare il genoma. La modulazione genica dell’antibiotico non si realizza attraverso una sua diretta interazione con proteine che attivano e reprimono i geni; essa è piuttosto innescata dal legame stechiometricamente incompleto tra l’antibiotico e la sua macromolecola bersaglio (ad es. la RNA polimerasi, il ribosoma, la transpeptidasi). Questa ipotesi si fonda sul fatto che l’antibiotico non svolge effetti ormetici quando viene saggiato su ceppi batterici resistenti che esprimono bersagli macromolecolari privi di affinità per quel determinato antibiotico. Numerose ricerche sono attualmente in corso per comprendere i precisi meccanismi attraverso i quali il legame dell’antibiotico al suo bersaglio farmacologico attiva il processo di modulazione genica.

35.6 D  osi giornaliere di mantenimento In questo capitolo sono stati trascurati gli aspetti clinici connessi alla posologia degli antibiotici. Coloro che fossero interessati a questi aspetti possono consultare il sito web del Centro di Collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Salute per la Metodologia Statistica Applicata ai Farmaci che ha sede a Oslo (http://www.whocc.no). Tra le varie informazioni reperibili sono incluse le dosi giornaliere di mantenimento (defined daily dose o DDD, Scheda 35.1) nell’adulto (per definizione, una persona con peso corporeo di 70 kg, con normale distribuzione della massa magra, caratterizzato da una perfetta efficienza dei sistemi di eliminazione dei farmaci).

783

36

Chemioterapici antibatterici Violetta Cecchetti

36.1  Sulfamidici 36.1.1 36.1.2 36.1.3 36.1.4 36.1.5 36.1.6

Meccanismo d’azione Relazioni attività-struttura Proprietà farmacocinetiche Applicazioni terapeutiche Resistenza E  ffetti collaterali e interazioni con farmaci

36.2  Trimetoprim 36.2.1 Associazione trimetoprim-sulfametossazolo

36.3  Composti nitroeteroaromatici 36.3.1 Meccanismo d’azione 36.3.2 F  armaci in uso e applicazioni terapeutiche

36.4  Chinoloni 36.4.1 36.4.2 36.4.3 36.4.4 36.4.5 36.4.6

Meccanismo d’azione Relazioni attività-struttura P  roprietà farmacocinetiche dei fluorochinoloni Applicazioni terapeutiche Resistenza E  ffetti collaterali e interazioni con farmaci

36.5  Ossazolidinoni 36.5.1 36.5.2 36.5.3 36.5.4 36.5.5 36.5.6

Meccanismo d’azione Relazioni attività-struttura Proprietà farmacocinetiche Applicazioni terapeutiche Resistenza E  ffetti collaterali e interazioni con farmaci

CAPITOLO 36 • Chemioterapici antibatterici

ISBN 978-88-08-18712-3

La natura ha fornito quasi tutto l’armamentario terapeutico per il trattamento delle infezioni batteriche, e non solo. Tuttavia la scoraggiante complessità che caratterizza la maggior parte dei prodotti di origine naturale ha rappresentato una difficile sfida sintetica per la preparazione di derivati con migliorate proprietà. I farmaci tratti in questo Capitolo sono completamente di sintesi e strutturalmente molto meno complessi degli antibiotici, ma altrettanto efficaci dal punto di vista terapeutico. Nonostante ciò, non sono molte le classi di farmaci di origine sintetica utilizzate nella chemioterapia antibatterica, che rimane dominata dagli antibiotici.

36.1 Sulfamidici I sulfamidici sono stati i primi agenti antibatterici a trovare largo impiego per la cura di malattie infettive provocate da batteri patogeni. Ampiamente utilizzati dopo la loro introduzione in terapia a metà degli anni ’30, il loro impiego si è andato via via riducendo per il rapido sviluppo di una diffusa resistenza e per il crescente uso delle penicilline ad ampio spettro. Nell’odierna chemioterapia antibatterica i sulfamidici sono considerati farmaci minori. L’identificazione dei sulfamidici rimane, tuttavia, una delle più significative scoperte nella storia della chemioterapia, poiché ha portato a stabilire concetti di fondamentale importanza per la chimica farmaceutica, come quelli di inibizione enzimatica competitiva, antimetabolita e profarmaco (Box 36.1 e Scheda 36.1).

La sulfanilamide – 4-aminobenzensolfonamide – è il capostipite di questa classe di farmaci (Tab. 36.1). Nella decade che seguì la sua scoperta furono sintetizzati e studiati più di 5000 congeneri; una ventina di questi hanno raggiunto un’importante rilevanza terapeutica. Attualmente sono relativamente pochi i derivati considerati validi agenti antibatterici (Tab. 36.1). I sulfamidici derivano dalla sulfanilamide per monosostituzione sull’azoto solfonamidico, indicato come N1; l’azoto anilinico viene invece indicato come N4. Il sostituente influenza le proprietà chimico-fisiche e farmacocinetiche del farmaco. Sono polveri bianche, generalmente poco solubili in acqua ma solubili sia in acidi minerali sia in alcali, con formazione di sali a carico della funzione aminica e solfonamidica, rispettivamente (Fig. 36.1). I principali metodi generali di sintesi dei sulfamidici sono illustrati nel Box 36.2 (una sintesi in dettaglio è descritta nella Scheda 36.2)

36.1.1 Meccanismo d’azione I sulfamidici sono inibitori competitivi della diidropteroato sintetasi (DHPS), un enzima batterico necessario per la biosintesi dell’acido folico. La DHPS è un target ideale per realizzare una terapia antibatterica altamente selettiva, in quanto non è presente nell’uomo. Diversamente dai batteri, infatti, l’uomo non sintetizza l’acido folico ma lo assume direttamente con la dieta grazie a un meccanismo di trasporto attivo assente nella maggior parte dei batteri.

BOX 36.1 ■ La scoperta dei sulfamidici Sintetizzata da Gelmo nel 1908, per anni la sulfanilamide fu utilizzata esclusivamente come intermedio da sottoporre a reazione di copulazione per ottenere coloranti azoici a livello industriale (IG Farbenindustrie). La sua attività antibatterica fu messa in evidenza soltanto un quarto di secolo più tardi grazie alle ricerche intraprese da un patologo della Bayer, Gerard Domagk. Nel 1927 egli avviò uno screening sistematico di numerosi azocoloranti sulfonamidici sintetizzati dai laboratori Bayer partendo dall’ipotesi, già formulata da Ehrlich (1891), che i coloranti, così come si fissano alle proteine della lana e della seta, potessero fissarsi saldamente e selettivamente alle proteine batteriche, danneggiandole. Il risultato di queste ricerche portò all’introduzione in terapia, nel 1935, del primo derivato solfonamidico, la sulfacrisoidina, un azocolorante rosso brillante e per questo denominato Prontosil rubrum. Per il suo lavoro pioneristico Domagk fu insignito del Premio Nobel per la Medicina nel 1939. Il Prontosil aveva la singolare caratteristica di essere molto attivo contro le infezioni in vivo, mentre in vitro era praticamente inattivo. Il dilemma fu risolto poco dopo da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi (Trèfouël, Nitti e Bovet), i quali dimostrarono che il legame azoico del Prontosil veniva scisso in vivo ad opera di azoreduttasi, rilasciando il 2,3,4-triaminobenzene (metabolita inattivo) e la sulfanilamide (metabolita attivo), il prodotto sintetizzato da Gelmo molti anni prima. La sulfanilamide fu quindi introdotta in terapia nel 1937 con il nome di Prontosil album. Tutte queste scoperte inaugurarono l’era moderna della chemioterapia e sono state

fondamentali per stabilire i concetti di bioattivazione e di profarmaco. Un’altra tappa importante nella storia della chemioterapia venne compiuta nel 1940, quando Woods e Fildes, indipendentemente, evidenziarono come l’azione della sulfanilamide fosse completamente e competitivamente annullata dall’acido p-aminobenzoico (PABA). I sulfamidici vennero quindi visti come analoghi strutturali di questo metabolita endogeno e a ciò venne attribuita la loro attività antibatterica. Da qui il concetto di antagonismo metabolico (e di antimetabolita), che è stato estremamente utile in chimica farmaceutica per spiegare il meccanismo d’azione di molti farmaci e per il disegno razionale di nuovi agenti terapeutici. NH2 H2N

O

N

N

S

Prontosil rubrum

NH2 H2N

NH2

Triaminobenzene (metabolita inattivo)

NH2

O

O +

H2N

S

O Sulfanilamide (metabolita attivo)

NH2

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Tabella 36.1 Struttura chimica e principali proprietà farmacocinetiche dei sulfamidici. O H2N

S

NHR

O Nome generico

R

pKa

Sulfanilamide

–H

10,5

9

  9

Sulfacetamide

–COCH3

 5,4

9,5

  7

Sulfadiazina

N

Legame alle proteine (%)

Emivita plasmatica (ore)

 6,5

38

 17

 6,1

95

150

 5,0

76

  6

 6,0

60

 11

 8,4

70

  9

N Sulfadossina

H3CO

OCH3 N N

Sulfisossazolo

H3C

CH3

O

N

Sulfametossazolo

CH3

N

O

Sulfapiridina N

L’acido folico e i suoi derivati sono necessari per la crescita della maggior parte degli organismi viventi. I batteri sintetizzano l’acido folico, sotto forma di acido 7,8-diidrofolico (FH2) a partire dal GTP per formare, attraverso numerose tappe metaboliche, la 6-idrossimetil-7,8-diidropterina difosfato, che viene poi condensata, ad opera dell’enzima DHPS, con l’acido p-aminobenzoico (PABA) e una molecola di acido glutamico (Glu) (Fig. 36.2) L’FH2 prodotto dai batteri, così come l’acido folico introdotto con la dieta dall’uomo, viene poi ridotto dall’enzima diidrofolato reduttasi (DHFR) ad acido 5,(6S),7,8-tetraidrofolico (FH4). Forme ridotte di FH4, come acido N5-formiltetraidrofolico, acido N5,N10-metilentetraidrofolico e acido N10-formiltetraidrofolico, sono importanti cofattori enzimatici che funzionano da trasportatori di un’unità monocarboniosa nella biosintesi delle basi puriniche e pirimidiniche e di alcuni aminoacidi essenziali (serina, metionina) (Fig. 36.2). Una volta donata l’unità monocarboniosa, si riforma FH2 che, in un efficiente ciclo cellulare, è di nuovo ridotto

O H3N

S

H N

R

Condizioni acide

(N4) H2N

O R = H o eterociclo aromatico

Figura 36.1 Equilibrio acido-base dei sulfamidici.

dalla DHFR a FH4, pronto a rigenerare i cofattori enzimatici (Scheda 36.3). I sulfamidici sono degli analoghi strutturali del metabolita naturale PABA (Fig. 36.3) e si comportano da antagonisti competitivi in grado di legarsi al sito attivo della DHPS al posto del PABA (antimetaboliti), determinando l’inibizione dell’enzima. Ne consegue il blocco della biosintesi dei cofattori folici e indirettamente degli acidi nucleici, con conseguente arresto della crescita batterica e della divisione cellulare; in questo modo i sulfamidici esercitano un effetto batteriostatico che deve essere mantenuto abbastanza a lungo da consentire al sistema immunitario dell’ospite di eradicare l’infezione. In alcuni ceppi batterici può essere operativo un altro meccanismo d’azione: i sulfamidici possono reagire, al posto del PABA, con la diidropterina difosfato nella reazione DHPS catalizzata, per dare un “falso metabolita” che però non può essere condensato con l’acido glutamico per formare FH2; il risultato è in ogni caso un effetto batteriostatico. Dato l’antagonismo competitivo, in presenza di PABA in

(N1) Condizioni basiche H S N R H2N

O

O

O

O

S

N

R

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CAPITOLO 36 • Chemioterapici antibatterici

Figura 36.2 Via metabolica dei folati nei batteri e nell’uomo e siti d’azione dei sulfamidici e del trimetoprim.

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Farmaci ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 36.2 ■ Metodi generali per la sintesi dei sulfamidici Uno dei metodi industriali (A) per sintetizzare i sulfamidici prevede la sostituzione nucleofila del p-acetilaminobenzensolfonil cloruro con l’appropriata amina eteroaromatica, seguita da idrolisi, generalmente basica, del sulfamidico N4-acetilato così ottenuto. Il p-acetilaminobenzensolfonil cloruro si ottiene a sua volta mediante clorosolfonazione dall’acetanilide. Il gruppo acetilico nel prodotto di partenza è utilizzato come gruppo protettore per prevenire re-

A) O

HN

O

ClSO3H

HN O

CH3

S

Cl

azioni secondarie a carico del gruppo aminico (anilinico). Alternativamente (B) la sostituzione nucleofila con l’appropriata amina eteroaromatica può essere condotta sul p-nitrobenzensolfonil cloruro, dove il nitrogruppo attiva la sostituzione senza dar luogo a reazioni secondarie e fornisce il gruppo aminico libero per successiva riduzione. Come esempio esplicativo, nella Scheda 36.2 è riportata la preparazione del sulfametossazolo. O

NH2R

HN

S

O

O CH3

NHR

O

NH4OH dil.

CH3

O H2N

R = H o eterociclo aromatico

H2/cat.

O B)

O2N

S

S

NHR

O o Fe/HCl

O Cl

NH2R

O2N

S

O

eccesso o di prodotti derivanti da reazioni in cui sono implicati i cofattori di FH4 (timidina, purine, metionina e serina), l’efficacia dei sulfamidici è ridotta.

36.1.2 Relazioni attività-struttura La somiglianza strutturale dei sulfamidici con il PABA è un requisito fondamentale per la loro attività (Fig. 36.3). Nei sulfamidici il gruppo sulfonamidico (–SO2NH2 o –SO2NHR) sostituisce bioisostericamente il gruppo carbossilico del PABA. L’acidità del gruppo solfonamidico è garantita dalla stabilizzazione dell’anione coniugato per delocalizzazione della carica sia sul gruppo SO2 (solfonilico) sia sul sostituente eterociclico R. La natura di questo sostituente influenza fortemente il valore di pKa; mentre nella sulfanilamide il gruppo solfonamidico ha un pKa = 10,5, la presenza di sostituenti elettronattrattori, come eterocicli a 5 o 6 termini con uno o più eteroatomi, fa diminuire il pKa fino a valori simili o inferiori a quello del PABA (pKa = 6,5) (Tab. 36.1). Sulfamidici con bassi valori di pKa sono maggiormente solubili a pH fisiologico poiché sono presenti prevalentemente nella forma ionizzata. Diversi studi hanno dimostrato che il composto penetra all’interno della cellula batterica in forma non ionizzata (più lipofila), mentre l’azione antibatterica è dovuta alla forma ionizzata in N1. Per avere quindi la massima attività, il composto deve avere un pKa che sia un compromesso tra attività e penetrazione; la situazione migliore sembra essere rappresentata da uno stato di semidissociazione a pH fisiologico. Il gruppo anilinico N4 è essenziale per l’attività; deve essere in para al gruppo solfonamidico e non può essere rimpiazzato con gruppi isosterici o sostituito. Può essere però acilato per dare dei profarmaci che in vivo vengono idrolizzati per rigenerare il gruppo aminico libero. L’introduzione di sostituenti addizionali sul nucleo benzenico o la sua sostituzione con sistemi eterociclici forniscono prodotti privi di attività.

NHR

O

36.1.3 Proprietà farmacocinetiche I sulfamidici vengono per lo più somministrati per via orale e sono ben assorbiti nel tratto gastrointestinale ed estesamente distribuiti; attraversano anche la placenta entrando nella circolazione fetale. Fanno eccezione i sulfamidici intestinali, appositamente disegnati per esercitare un effetto locale (ad es. sulfasalazina). Il legame con le proteine plasmatiche è molto variabile e non sempre può essere correlato con l’emivita del farmaco; ad esempio la sulfadiazina, con un’emivita di 17 ore, è molto meno legata alle proteine plasmatiche (38%) del sulfametossazolo (60%), che ha un’emivita di 11 ore. I sulfamidici subiscono, in misura variabile, metabolismo epatico con formazione di metaboli N4-acetilati e N4-glucuronidati inattivi. L’eliminazione sia del farmaco immodificato sia dei metaboliti avviene per via renale. Gli N4-acetil derivati hanno ridotta solubilità e possono precipitare a pH urinario, dando fenomeni di cristalluria. La velocità di metabolizzazione e di escrezione determinano la durata d’azione del farmaco, in base alla quale i sulfamidici ad azione sistemica possono

H

N

H

H

N

H

6,7 Å

6,9 Å

RN O

O 2,3 Å

O

S

O

2,4 Å

Figura 36.3 Distanze interatomiche nel PABA e nei sulfamidici, rappresentati nella forma ionizzata (predominante a pH fisiologico).

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O HO O HO

N

N

S

H N N

O Sulfasalazina Azoreduttasi

O HO O HO

NH2

+

H2 N

S

H N

O Acido 5-aminosalicilico (Mesalazina)

N

Sulfapiridina

Figura 36.4 Attivazione metabolica della sulfasalazina.

essere classificati in: sulfamidici a breve (emivita 24 ore) durata d’azione. I sulfamidici che sono velocemente assorbiti e altrettanto velocemente eliminati sono inadatti per il trattamento di infezioni sistemiche e sono utilizzati principalmente come antisettici urinari. Infine, i sulfamidici caratterizzati da uno scarso assorbimento (< 5%) vengono trattenuti nel tratto gastrointestinale ed esplicano la loro azione antibatterica unicamente a tale livello (sulfamidici intestinali). Le principali proprietà farmacocinetiche dei sulfamidici sono riportate nella Tabella 36.1.

36.1.4 Applicazioni terapeutiche I sulfamidici hanno un ampio spettro d’azione che comprende batteri Gram-positivi, Gram-negativi, Nocardia, Chlamydia tracomatis e anche alcuni protozoi come Toxoplasma e Plasmodia. Tuttavia le loro applicazioni terapeutiche si sono notevolmente ridotte per l’insorgenza di ceppi resistenti e la scoperta di nuovi antibatterici con nuovi meccanismi d’azione. Rimangono ancora utili per il trattamento di infezioni urinarie sostenute da batteri sensibili grazie alla loro massiva escrezione attraverso i reni. A questo scopo il sulfisossazolo (Tab. 36.1) è il sulfamidico più indicato, per la breve emivita plasmatica e l’elevata solubilità al pH urinario. Alcuni sulfamidici sono occasionalmente impiegati per via topica. La loro efficacia è notevolmente ridotta nelle infezioni purulente dove, per decomposizione del tessuto, si ha liberazione di timina e di altri prodotti derivanti da reazioni in cui sono implicati i cofattori dell’acido folico. La sulfadiazina – 4-amino-N-2-pirimidinilbenzensulfonamide – (Tab. 36.1) è impiegata topicamente come sale d’argento per la profilassi e il trattamento di infezioni delle piaghe da ustioni, mentre la sulfacetamide – N-[(4-aminofenil)solfonil]acetamide – è utilizzata, sotto forma di sale sodico idrosolubile, per il controllo delle infezioni oftalmiche. Tra i sulfamidici intestinali va menzionato un sulfamidico azoico, la sulfasalazina, usata per via orale nella colite ulcerosa e nel morbo di Crohn. La sulfasalazina è un co-farmaco dotato di attività antibatterica

e antinfiammatoria che, a livello intestinale, viene scisso da azoreduttasi batteriche in sulfapiridina e acido 5-aminosalicilico (mesalazina), appartenente alla classe dei FANS (Cap. 27) (Fig. 36.4). Attualmente il principale impiego dei sulfamidici è in associazione con altri antibatterici, in particolare con inibitori della DHFR. L’associazione di più largo impiego è quella tra il sulfametossazolo – 4-amino-N-(5-metil-3-isossazolil) benzenesulfonamide – e il trimetoprim, denominata cotrimossazolo (Par. 36.2.1). L’acetilsulfisossazolo – N-[(4-aminofenil)solfonil]-N-(3,4-dimetil-5-isossazolil)acetamide – è utilizzato in combinazione con eritromicina etilsuccinato, per trattare le otiti medie causate da H. influenzae; l’acetilsulfisossazolo è un profarmaco insapore e quindi utile nelle preparazioni pediatriche. Altre associazioni contenenti sulfamidici sono utilizzate in terapia antiprotozoaria come la combinazione pirimetamina-sulfadossina – 4-amino-N-(5,6-dimetossi-4-pirimidinil)ben­zensulfonamide –, impiegata come antimalarico contro ceppi di Plasmodium falciparum clorochina-resistenti e l’associazione sulfadiazina-pirimetamina che rappresenta il trattamento di scelta per la toxoplasmosi (Cap. 39).

36.1.5 Resistenza La resistenza ai sulfamidici è molto diffusa e si verifica a seguito di mutazioni che determinano un’aumentata produzione di PABA o la sintesi di una DHPS con ridotta affinità per il farmaco. La resistenza è spesso mediata da plasmidi trasmissibili (fattore R) e si dissemina rapidamente. Si può anche avere resistenza per ridotta penetrazione del farmaco all’interno del batterio dovuta a meccanismi poco noti.

36.1.6 E  ffetti collaterali e interazioni con farmaci Gli effetti collaterali più comuni dei sulfamidici consistono in fenomeni allergici che si possono manifestare con febbre, eruzioni cutanee, orticaria e fotosensibilità. Possono anche causare una rara (meno dell’1% dei casi trattati) ma grave forma di eritema multiforme, associata con ulcerazioni estese della pelle e delle mucose (occhi, bocca, uretra), denominata sindrome di Stevens-Johnson, potenzialmente fatale. A causa della loro bassa solubilità in acqua, i sulfamidici e i loro metaboliti N 4-acetilati possono precipitare nelle urine dando cristalluria. Questo raramente rappresenta un problema per i sulfamidici più solubili (con bassi valori di pKa). Molto raramente si verificano anche effetti ematologici come anemia emolitica in pazienti con carenza di glucosio 6-fosfato deidrogenasi, anemia aplastica e agranulocitosi. I sulfamidici possono potenziare l’azione di alcuni farmaci spiazzandoli dal legame con le proteine plasmatiche (ad es. anticoagulanti cumarinici e sulfaniluree antidiabetiche); competono anche con la bilirubina per il legame con l’albumina plasmatica: sono quindi controindicati nelle donne al termine della gestazione o nel periodo dell’allattamento e nei neonati, in quanto possono provocare ittero. Dato il loro antagonismo competitivo con il PABA, la loro azione è inibita da anestetici locali come la procaina, che per azione delle esterasi libera PABA.

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36.2 Trimetoprim Il trimetoprim – 2,4-diamino-5-(3,4,5-trimetossibenzil)pirimidina – è un derivato pirimidinico che, nel ciclo dell’acido folico, inibisce in modo competitivo l’enzima DHFR responsabile della riduzione di FH2 a FH4 in presenza di NADPH (Fig. 36.2). NH2 OCH3

N H2N

OCH3

N Trimetoprim

OCH3

Studi di caratterizzazione della DHFR isolata da varie fonti hanno messo in evidenza notevoli differenze tra l’enzima di diversi microrganismi e quello dell’uomo. Il trimetoprim fu uno dei molti composti sintetizzati all’inizio degli anni ’60 con lo scopo di sfruttare queste differenze per massimizzare una tossicità selettiva (Scheda 36.4). L’affinità del trimetoprim per la DHFR batterica è da 20 000 a 60 000 volte maggiore di quella per l’isoforma umana (DHFR di E. coli IC50 = 5 nM; DHFR umana IC50 = 300 μM). Ne consegue un potente e selettivo effetto antibatterico che si manifesta rapidamente. Altri inibitori della DHFR con diversa selettività, e quindi diverso spettro d’azione, sono la pirimetamina e il proguanil, utilizzati come antimalarici (Cap. 39), e il metotressato utilizzato come antitumorale (Cap. 42). Somministrato per via orale, il trimetoprim viene quasi completamente assorbito nell’intestino (biodisponibilità circa del 100%) ed è largamente distribuito a livello dei fluidi e dei tessuti; il legame con le proteine plasmatiche è di circa il 45% e il 50-60% del farmaco viene eliminato con le uri-

ne nelle 24 ore, per lo più immodificato. Essendo una base debole (pKa circa 7,2) si concentra nei liquidi prostatico e vaginale, che sono più acidi del plasma. Pertanto può avere attività antibatterica a livello prostatico e vaginale maggiore di altri chemioterapici. Il trimetroprim ha un ampio spettro d’azione ed è utilizzato come farmaco singolo essenzialmente per il trattamento di infezioni complicate delle alte e basse vie urinarie e delle prostatiti batteriche. In questo caso può svilupparsi rapidamente resistenza, che si instaura con meccanismi simili a quelli osservati per i sulfamidici (sovraespressione di DHFR, produzione di una forma di DHFR resistente al farmaco, ridotta penetrazione del farmaco all’interno del batterio). Analoghi del trimetoprim sono riportati nella Scheda 36.5. Uno dei metodi sintetici per la preparazione del trimetoprim è riportato nel Box 36.3.

36.2.1 A  ssociazione trimetoprimsulfametossazolo Il principale impiego del trimetoprim è in combinazione con il sulfametossazolo in rapporto di 1:5.

Meccanismo d’azione L’associazione, nota come cotrimossazolo, ha effetti sinergici (dosi più basse, maggiore efficacia, minore probabilità di selezionare ceppi resistenti) attribuiti al blocco sequenziale di due enzimi della stessa via biosintetica: il sulfamidico inibisce la DHPS impedendo che si formi FH2, il trimetoprim inibisce la DHFR bloccando la trasformazione di FH2 in FH4 (Fig. 36.5). C’è inoltre da considerare che il trimetoprim è un inibitore competitivo della DHFR e quindi il suo effetto si riduce con l’accumulo di FH2 proveniente sia da nuova sintesi sia come prodotto di reazioni enzimatiche in cui vengono

BOX 36.3 ■ Sintesi del trimetoprim Uno dei metodi più convenienti per la preparazione del trimetoprim prevede la condensazione della 3,4,5-trimetossibenzaldeide con il 3-etossipropanonitrile, in condi-

zioni basiche, per dare il corrispondente cinnamonitrile che viene infine condensato con guanidina.

C2H5O

O

HN

N OCH3 OCH3 OCH3

OCH3

N CH3ONa

C2H5O

OCH3

NH

NH 2 H2N - C2H5OH

OCH3

HN N

H2N

OCH3

OCH3 OCH3

NH2 OCH3

N H2N

N Trimetoprim

OCH3 OCH3

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ficato come P. carinii), un fungo opportunista che infetta i malati di AIDS. Il cotrimossazolo è normalmente somministrato per via orale, ma per le infezioni più gravi è disponibile anche una forma iniettabile per via endovenosa.

Effetti collaterali L’associazione è generalmente ben tollerata. Le reazioni avverse più comuni sono nausea, vomito ed eruzioni cutanee. Tuttavia il cotrimossazolo può causare rari ma severi effetti indesiderati come la sindrome di Stevens-Johnson (Par. 36.1.6) e discrasie ematiche (anemia megaloblastica, trombocitopenia, leucopenia) che possono manifestarsi in pazienti con un ridotto livello nutrizionale di folati (donne in stato di gravidanza, pazienti malnutriti, alcolisti).

Figura 36.5 Rappresentazione schematica del meccanismo d’azione del cotrimossazolo.

cedute unità monocarboniose (ad es. biosintesi della timidina dall’uridina, Scheda 36.3). Poiché i sulfamidici inibiscono la sintesi ex novo di FH2, c’è meno substrato che compete con il trimetoprim e la sua efficacia è aumentata. Sebbene il sinergismo sia stato osservato con molti sulfamidici, il sulfametossazolo è il più indicato in quanto ha un’emivita simile a quella del trimetoprim (10-11 ore). Tuttavia altre proprietà farmacocinetiche sono diverse e queste differenze influenzano marcatamente il rapporto delle forme bioattive di ciascun componente nei diversi comparti dell’organismo; quando vengono somministrate 1 parte di trimetoprim e 5 parti di sulfametossazolo, dopo assorbimento e distribuzione, le concentrazioni plasmatiche dei due componenti sono nel rapporto di 1:20, che risulta ottimale per produrre un effetto sinergico.

Applicazioni terapeutiche Il cotrimossazolo trova ampio impiego terapeutico: viene utilizzato per il trattamento delle esacerbazioni acute della bronchite cronica, di polmoniti batteriche contratte in comunità, di infezioni ricorrenti delle vie urinarie e forme acute di otite media provocate da batteri sensibili. È inoltre indicato per trattare infezioni da Nocardia spp., enteriti da Shighella enteritis e infezioni sistemiche da Salmonella. In ambito antiprotozoario rappresenta il trattamento di scelta nella toxoplasmosi e per la profilassi e il trattamento della polmonite causata da Pneumocystis jiroveci (prima classi-

36.3 Composti nitroeteroaromatici L’attività antibatterica di nitrocomposti non-benzenoidi, comunemente detti nitroderivati, è nota fin dal 1944, anno in cui vennero introdotti in terapia i primi 5-nitrofurani. A questi seguirono in breve tempo i derivati nitroimidazolici e nitrotiazolici. L’interesse per questa classe di composti derivava dal loro facile ed economico ottenimento per sintesi e dal loro ampio spettro d’azione, che in molti casi va al di là del semplice ambito antibatterico; alcuni infatti possiedono attività antiprotozoaria, antifungina e antielmintica. Tuttavia, sebbene presentino una bassa tossicità acuta (nei trattamenti a breve termine), molti sono risultati mutageni e cancerogeni negli animali da esperimento in certe condizioni (alte dosi per lungo tempo). Pochi sono ancora in uso (Fig. 36.6).

36.3.1 Meccanismo d’azione Il meccanismo d’azione dei nitroderivati è stato ampiamente studiato ma ancora non del tutto chiarito. Grazie alla presenza del nitrogruppo, essenziale per l’attività, questi farmaci inibiscono una grande varietà di enzimi in diversi microrganismi, ma l’evento primario della loro azione sembra dipendere dalla loro capacità di causare danni al DNA. I nitroderivati possono essere considerati dei bioprecursori poiché necessitano di un’attivazione riduttiva a carico del ni-

O O2N

O N

N

O2N

N

O

H N

Nitrofurazone

Figura 36.6 Nitrofurani e nitroimidazoli.

O2N

CH3 N

Nitrofurantoina

O

NH

OH N

Metronidazolo

NH2 O

O2 N

S O2 CH3

N N Tinidazolo

CH3

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trogruppo da parte dei microrganismi sensibili. Durante il processo di riduzione, oltre a endoprodotti privi di attività, si formerebbero intermedi altamente reattivi responsabili della rottura dei filamenti del DNA, determinata sia per un danno diretto all’acido nucleico sia indirettamente, grazie alla capacità di generare radicali liberi all’ossigeno. La tossicità selettiva è da ricercare in un’attivazione da parte delle cellule batteriche dove gli enzimi ossidoriduttivi, essendo ancorati alla membrana plasmatica, sono maggiormente esposti all’azione di questi farmaci e non protetti nei mitocondri come nelle cellule dell’ospite. Aspetti peculiari del meccanismo d’azione del metronidazolo e analoghi saranno discussi successivamente.

allo 0,2% nel trattamento delle ustioni e nella prevenzione di infezioni di superfici cutanee destinate al trapianto. Il metronidazolo – 2-(2-metil-5-nitro-1H-1-imidazolil) etanolo – (Fig. 36.6) è il principale esponente della classe dei nitroimidazoli ed è un farmaco di ampio impiego terapeutico. Utilizzato in terapia antiprotozoaria (tricomoniasi, amebiasi intestinale ed extraintestinale, giardiasi, blantidiasi) (Cap. 39) sin dai primi anni ’60, possiede anche una pronunciata attività battericida specifica nei confronti dei batteri anaerobi obbligati, inclusi microrganismi difficili da trattare come Bacteroides spp. e Clostridium spp.; non è invece efficace contro gli anaerobi facoltativi e gli aerobi. La sintesi del metronidazolo è riportata nel Box 36.4.

36.3.2 F  armaci in uso e applicazioni terapeutiche

Meccanismo d’azione Gli organismi anaerobi obbligati possiedono un peculiare meccanismo di produzione di energia e di trasporto di elettroni che permette loro di vivere in assenza di ossigeno. Le proteine implicate in questo trasporto di elettroni, come la ferredossina o altre ferredossina-simili, hanno un potenziale redox molto basso (nei clostridi –460 mV) e sono in grado di cedere elettroni al metronidazolo (–415 mV). Il trasferimento di un solo elettrone forma un nitroaril anione radicale (ArNO2–•) altamente reattivo, che danneggia le macromolecole biologiche, compreso il DNA, con conseguenze fatali per la cellula. Lo spettro d’azione e la tossicità selettiva del farmaco possono essere spiegati in larga misura dal fatto che solo gli anaerobi hanno un sistema redox di sufficiente potenziale negativo per interagire con il farmaco (Box 36.5).

La nitrofurantoina – 1-(5-nitro-2-furfuriliden)-1-aminoidantoina – (Fig. 36.6) è un derivato nitrofuranico utilizzato come antisettico urinario nelle infezioni sostenute da vari batteri Gram-negativi (P. aeruginosa e alcuni ceppi di Proteus sono resistenti) e Gram-positivi. Somministrata per via orale, non ha attività sistemica in quanto viene rapidamente escreta nel rene per filtrazione glomerulare e secrezione tubulare, raggiungendo concentrazioni elevate solo nelle urine (emivita 20 minuti). La nitrofurantoina è controindicata in pazienti con funzioni renali compromesse, sia per le inadeguate concentrazioni urinarie raggiunte sia per l’aumentato rischio di sviluppare nefropatia. Nei batteri sensibili la comparsa di resistenza è rara, pertanto il farmaco può essere utilizzato nella profilassi continua così come in ripetuti cicli di terapia. Anoressia, nausea e vomito sono i più comuni effetti collaterali del farmaco, che possono essere ridotti rallentando la velocità di assorbimento con la somministrazione di una forma macrocristallina. Sono state osservate anche reazioni di ipersensibilità, complicazioni polmonari (polmoniti allergiche), discrasie ematiche e anemia emolitica in soggetti con carenza congenita di glucosio-6-fosfato deidrogenasi. Un altro derivato nitrofuranico ancora utilizzato in terapia è il nitrofurazone – semicarbazone della 5-nitro2-furfurilaldeide – (Fig. 36.6). Presenta un ampio spettro d’azione ed è battericida nei confronti dei batteri che più frequentemente causano infezioni superficiali. Il nitrofurazone è pertanto utilizzato topicamente come crema o unguento

Proprietà farmacocinetiche Il metronidazolo è poco solubile in acqua, stabile all’aria ma instabile alla luce. È disponibile in varie forme farmaceutiche per la somministrazione orale, endovenosa, rettale o vaginale. Somministrato oralmente, il farmaco ha elevata biodisponibilità (> 90%), scarso legame con le proteine plasmatiche (< 20%) e ottima distribuzione in tutti i fluidi e tessuti corporei compreso il latte materno (non passa la placenta). L’emivita è di circa 8 ore, il metabolismo è epatico e l’eliminazione principalmente renale. Applicazioni terapeutiche In ambito antibatterico il metronidazolo è il farmaco di elezione per il trattamento della colite pseudomembranosa

BOX 36.4 ■ Sintesi del metronidazolo Il metronidazolo si sintetizza a partire dal 2-metilimidazolo, che può essere preparato con il metodo di DebusRadziszewski per reazione tra ossalaldeide, acetaldeide e ammonica (2 Eq.). La nitrazione del 2-metilimidazolo fornisce il 2-metil-5(4)-nitroimidazolo, in cui le posizio-

O

H N

O + 2 NH3 +

O

CH3

ni 4 e 5 dell’imidazolo sono equivalenti per tautomeria. Questo viene successivamente alchilato con 2-cloroetanolo in presenza di una base forte o, alternativamente, con ossido di etilene in ambiente acido per acido formico, per ottenere il metronidazolo.

CH3 HNO3/H2SO4 O2N N

2-Metilimidazolo

OH

H N

CH3 N

Cl oppure O

OH

O2N

N

CH3

N Metronidazolo

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BOX 36.5 ■ Attivazione del metronidazolo negli anaerobi I microrganismi anaerobi, sensibili al metronidazolo, ricavano l’energia dalla fermentazione ossidativa dei chetoacidi come il piruvato. La decarbossilazione del piruvato, catalizzata dalla piruvato:ferredossina ossidoreduttasi (PFOR), produce elettroni che riducono la ferredossina; la forma ridotta della ferredossina, Fd(rid), cede poi cataliticamente i suoi elettroni ad accettori biologici o al metronidazolo.

antibiotico-indotta causata da C. difficile ed è inoltre un importante costituente della terapia multi-farmaco utilizzata per l’eradicazione di Helicobacter pylori associato a ulcere gastriche. Grazie alla sua attività sulla flora anaerobica, e in particolare su Bacteroides fragilis, viene spesso utilizzato per la profilassi chirurgica nei casi in cui il rischio di infezioni anaerobiche post-operatorie è alto (colon, isterectomia vaginale o addominale). Come gel o crema è impiegato topicamente per il trattamento di condizioni dermatologiche come la rosacea o nelle lesioni vegetanti per ridurre l’odore prodotto dai batteri anaerobi. Nonostante l’ampio impiego da più di 50 anni, la resistenza al farmaco è rara; nei casi osservati è determinata da una ridotta espressione e/o attività della ferredossina-ossidoreduttasi, che viene compensata dalla sovraregolazione di enzimi alternativi per il metabolismo del glucosio, incapaci di attivare il farmaco.

Effetti collaterali e interazioni con farmaci Il metronidazolo è in genere ben tollerato; gli effetti collaterali più comuni includono mal di testa, nausea e sapore metallico. Raramente e a seguito di un uso prolungato con alte dosi, il metronidazolo può provocare effetti neurotossici (encefalopatia, convulsioni e neuropatie periferiche). Il farmaco ha mostrato proprietà teratogene, mutagene e cancerogene in alcune specie animali. Sebbene questi effetti non siano stati dimostrati nell’uomo ne è sconsigliato l’uso nel primo trimestre di gravidanza. Il metronidazolo inibisce il CYP2C9 e di conseguenza potenzia gli effetti degli anticoagulanti cumarinici per riduzione del loro metabolismo. Il metronidazolo è un debole inibitore dell’aldeide deidrogenasi e per questo causa un effetto disulfiram-simile (nausea, vomito, vampate di calore, tachicardia, sonnolenza, stanchezza) in caso di assunzione di alcol durante la terapia. L’intolleranza all’alcol cessa completamente dopo due giorni dalla sospensione del trattamento con il farmaco. Il tinidazolo – 1-(2-etilsolfoniletil)-2-metil-5-nitroimidazolo – (Fig. 36.6) è un analogo strutturale del metronidazolo, più lipofilo e con una maggior durata d’azione (emivita 9-12 ore). Il meccanismo d’azione è analogo a quello del metronidazolo. Usato principalmente per il trattamento dell’amebiasi, può rappresentare una valida alternativa al metronidazolo nel trattamento di infezioni batteriche.

36.4 Chinoloni I chinoloni sono una classe di antibatterici largamente utilizzati in terapia per il loro ampio spettro d’azione e l’eleva-

Piruvato + CoASH

Fd(ox)

Ar-NO2

Fd(rid)

Ar-NO2

PFOR Acetil-CoA + CO2

ta efficacia. Singolarmente, il capostipite di questa classe di farmaci è un derivato 1,8-naftiridonico, l’acido nalidixico – acido 1-etil-7-metil-4-osso-1,4-diidro-1,8-naftiridin-3-carbossilico – (Fig. 36.7), identificato nel 1962 come frutto di una ricerca condotta dalla Sterling Winthrop verso la fine degli anni ’50, che aveva preso l’avvio dal riscontro casuale di una modesta attività antimicrobica in un prodotto secondario della sintesi dell’antimalarico clorochina (Scheda 36.6). L’acido nalidixico è stato introdotto in terapia nel 1967 seguito, negli anni ’70, da numerosi analoghi tra cui la cinoxacina e l’acido pipemidico (Fig. 36.7). Questi derivati, classificati oggi come chinoloni di prima generazione, sono però risultati utili per il trattamento delle sole infezioni urinarie a causa del loro spettro d’azione limitato ai batteri Gram-negativi e delle scarse proprietà farmacocinetiche (Tab. 36.2). La svolta decisiva per questa classe di farmaci è avvenuta a metà degli anni ’80, con l’ingresso in terapia della norfloxacina – acido 1-etil-6-fluoro-4-osso-7-(1-piperazinil)-1,4-diidrochinolin3-carbossilico –, seguita in rapida successione da numerosi analoghi di seconda, terza e quarta generazione (Fig. 36.8). Le modificazioni strutturali rispetto ai precedenti sono modeste (accoppiata presenza di un atomo di fluoro in C6 e di una base eterociclica in C7 del nucleo chinolonico), ma sono risultate di grande incisività determinando notevoli vantaggi terapeutici: uno spettro d’azione molto ampio, favorevoli proprietà farmacocinetiche tali da garantire un’azione sistemica e un’elevata potenza battericida, paragonabile a quella di molti antibiotici ottenuti per fermentazione. Tali proprietà hanno fatto di questi derivati, denominati fluorochinoloni O

OH O

H3C

N

N

CH3 Acido nalidixico O

OH

O O

O O

N

Cinoxacina

N

N CH3

OH

N HN

O N

N

CH3 Acido pipemidico

Figura 36.7 Chinoloni di prima generazione.

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O

OH

F

O

N

N

N

N

OH

H3C

N

O

*

CH3

H3C

Ofloxacina Levofloxacina: enantiomero (S) NH2

O

F H3 C HN

N

H3C

N S

F

F

OH

CH3

O F

O

N

N

Lomefloxacina O

H

OH O

N HN

OH

N

F CH3 Sparfloxacina

O F

Rufloxacina

O

N

OH O

N

N

Ciprofloxacina

O

N

O

N

F

N

OH

HN

Enoxacina

O

N

N CH3

Norfloxacina: R = H Pefloxacina: R = CH3

F

O F

O

HN

CH3

O

OH

F

O

N R

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H3CO N

N

OH O

N

N

OCH3 NH H

Moxifloxacina

H2N

Gemifloxacina

Figura 36.8 Fluorochinoloni di seconda generazione (norfloxacina, pefloxacina, enoxacina, ciprofloxacina, ofloxacina, rufloxacina, lomefloxacina), terza generazione (levofloxacina, sparfloxacina) e quarta generazione (gemifloxacina, moxifloxacina).

Tabella 36.2 Classificazione dei chinoloni antibatterici. Generazione

Proprietà

Prima generazione

Attivi vs molti Gram-negativi. Inattivi vs P. aeruginosa, Neisseria gonorrhoeae e Haemophilus influenzae, la maggior parte dei Gram-positivi e gli anaerobi. Basse concentrazioni sieriche e tissutali, breve emivita; inadatti all’uso sistemico.

Seconda generazione

Attività potenziata vs tutti i Gramnegativi. Buona attività vs stafilococchi Grampositivi, compresi ceppi meticillinoresistenti, alcuni streptococchi e batteri atipici (Clamydia, Mycoplasma, Legionella, Brucella e Mycobacterium). Inattivi vs anaerobi. Elevate concentrazioni sieriche e tissutali; uso sistemico.

Terza generazione

Attività vs i Gram-negativi. Attività potenziata vs i Gram-positivi, soprattutto pneumococchi e batteri atipici (Clamydia, Mycoplasma, Legionella, Brucella e Mycobacterium). Discreta attività vs gli anaerobi. Uso sistemico.

Quarta generazione

Attività incrementata vs gli anaerobi Gramnegativi e Gram-positivi e i pneumococchi. Uso sistemico.

proprio per la costante presenza del fluoro in C6, un’importante classe di farmaci antibatterici. I principali metodi di preparazione dei chinoloni sono riportati nel Box 36.6 (la sintesi di alcuni fluorochinoloni è descritta nella Scheda 36.7).

36.4.1 Meccanismo d’azione I chinoloni interferiscono con l’attività di due enzimi batterici correlati ma distinti, la DNA girasi e la topoisomerasi IV, fondamentali per l’arrangiamento topologico del DNA. La DNA girasi è stato il primo target identificato per i chinoloni (1976); è un enzima eterotetramerico formato da due subunità A e due subunità B, codificate rispettivamente dai geni gyrA e gyrB. La topoisomerasi IV, identificata successivamente (1990), è anch’essa un tetramero formato da due subunità C e due E, codificate dai geni parC e parE, che mostrano importanti analogie di sequenza con gyrA e gyrB. Entrambi gli enzimi sono delle topoisomerasi di tipo II, che presiedono alle modificazioni topologiche del DNA tagliandone entrambi i filamenti e facendo passare un segmento di DNA intatto attraverso il taglio e risaldando il taglio (Scheda 36.8). In tal modo risolvono i problemi di aggrovigliamento e concatenazione del DNA che si presentano durante i processi di replicazione e trascrizione. Ad esempio, affinché avvenga la replicazione, i due filamenti della doppia elica del

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BOX 36.6 ■ Principali metodi di sintesi dei chinoloni Due sono le classiche procedure con cui viene costruito il nucleo chinolonico: la procedura di Gould-Jacobs e la procedura di cicloaralcilazione. La procedura di Gould-Jacobs è illustrata con la sintesi della norfloxacina e prevede l’iniziale reazione della 3-cloro-4-fluoroanilina con (etossimetilene)malonato dietilico (EMME), seguita da ciclizzazione termica. L’estere etilico dell’acido 7-cloro-1,4-diidro-1-etil-6-fluorochinolin-3-one carbossilico così ottenuto viene poi alchilato in posizione N1 per reazione SN2 con etile ioduro in presenza di una base, idrolizzato in ambiente basico O

O

RO

OR

CH3

OR (EMME)

F Cl

F

R = etile

NH2

e infine sottoposto a reazione di sostituzione nucleofila aromatica con piperazina per inserire la base eterociclica in C7. Il gruppo carbonilico in posizione C4 attiva le posizioni orto e para alla sostituzione nucleofila aromatica, motivo per cui la reazione avviene sull’atomo di cloro C7 e non a carico dell’atomo di fluoro in C6. La procedura di Gould-Jacobs permette l’introduzione in N1 solo di gruppi alchilici primari e non può essere applicata per la sintesi di chinoloni con sostituenti più complessi.

O

Cl

reazione di Gould-Jacobs

O

N H

, difeniletere

O O

Cl

O

OH O

N

N

HN Norfloxacina

NH

OH

F

N H

O O

Cl

HCl

O

C2H5I, base reazione SN2

O HN

1. OH– , H2O 2. H+

N

CH3

O

O

F Cl

CH3 O

N

CH3

La procedura di cicloaracilazione nelle sue varianti è più versatile e permette di costruire un nucleo chinolonico funzionalizzato in N1 con gruppi alchilici o arilici di diversa natura. Tale procedura è esemplificata con la sintesi della ciprofloxacina dove il 2,4-dicloro-5-fluorobenzoil cloruro viene inizialmente fatto reagire con il 3-(dimetilamino)acrilato di etile. Il prodotto di reazione viene poi sottoposto a reazione di transaminazione con ciclopropilamina, seguita da ciclizzazione catalizzata da base via

CH3

O

H3C

F

O

F

CH3

sostituzione nucleofila aromatica, facilitata dalla presenza di alogeni elettronattrattori, dal gruppo carbonilico in orto e dalla natura di buon gruppo uscente del cloro. L’idrolisi dell’estere in posizione C3 in ambiente acido o basico e la successiva reazione di sostituzione nucleofila aromatica del cloro in C7 con piperazina forniscono la ciprofloxacina. Esempi di preparazione di fluorochinoloni a struttura triciclica sono riportati nella Scheda 36.7.

CH3 O

O F

N

O

O

F

CH3

Cl

Cl

CH3

Cl

NH2

CH3 O

Cl

Cl

N

O

O

CH3

F

CH3

Cl

O Cl

NH

CH3 NaH

O

N

OH

O HN

F

O N

HN Ciprofloxacina

HCl

NH

F Cl

OH

O O

N

1. OH– , H2O 2. H+

F Cl

O

CH3 O

N

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Figura 36.9 Rappresentazione schematica del meccanismo d’azione dei chinoloni.

DNA batterico devono essere separati ad opera dell’elicasi. La separazione determina però la formazione di superavvolgimenti positivi davanti alla forchetta di replicazione che, se non risolti, condurrebbero al blocco del processo stesso. La DNA girasi ha la peculiare capacità di introdurre in modo continuo dei superavvolgimenti negativi secondo una sequenza che prevede: (a) il taglio di entrambi i filamenti di DNA operato dalle subunità A tramite una reazione di transesterificazione tra i gruppi ossidrilici delle due tirosine in posizione 122 e i gruppi fosfato del DNA; (b) il passaggio di una porzione della doppia elica intatta di DNA attraverso il taglio ad opera delle subunità B; (c) la risaldatura dei filamenti operata dalle subunità A; (d) la dissociazione dell’enzima. Il processo richiede ATP e ioni Mg2+. In questo modo l’enzima rimuove i superavvolgimenti positivi e fornisce una doppia elica di DNA libera da tensione, permettendo al processo di replicazione di avanzare. I chinoloni si legano al complesso binario enzima/DNA, interagendo con la subunità A della girasi, e intrappolano l’enzima nella fase di taglio del DNA. Si forma così un nuovo complesso stabile chinolone/enzima/DNA che collide con il complesso di replicazione, formando una barriera fisica che arresta l’ulteriore progressione della forchetta di replicazione; il ciclo catalitico dell’enzima è bloccato così come la sintesi di DNA. L’accumulo di tagli nel DNA non risaldati e la

possibile generazione di frammenti di DNA che si liberano dal complesso chinolone/enzima/DNA innescano una serie di eventi responsabili della rapida morte del batterio (Fig. 36.9, Scheda 36.9). A differenza della DNA girasi, la topoisomerasi IV non introduce superavvolgimenti negativi, ma ha un ruolo essenziale nel separare le due molecole figlie concatenate di DNA, prodotte dalla replicazione del DNA batterico circolare. Nonostante le similarità funzionali tra i due enzimi, la loro suscettibilità ai chinoloni può variare nelle diverse specie batteriche: la DNA girasi sembra infatti essere il target primario dei chinoloni nella maggior parte dei batteri Gramnegativi, mentre la topoisomerasi IV lo è nei Gram-positivi. Le topoisomerasi umane non legano i chinoloni alle dosi terapeutiche, quindi l’azione di questi farmaci è selettiva.

36.4.2 Relazioni attività-struttura Dal punto di vista strutturale i chinoloni sono caratterizzati da un nucleo 4-piridonico-3-carbossilato (4-osso-1,4-diidropiridin-3-carbossilico) legato a un sistema aromatico, che rappresenta il farmacoforo; la struttura base è generalmente un nucleo chinolonico (ad es. norfloxacina, ciprofloxacina, levofloxacina) o un nucleo 1,8-naftiridonico (enoxacina, gemifloxacina) (Fig. 36.10).

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Controlla la potenza, aumenta l’attività vs Gram-positivi (NH2, CH3) Influenza la tossicità

Controlla la potenza, la farmacocinetica e la penetrazione cellulare R5

O

F Basi eterocicliche Controlla la potenza, lo spettro d’azione e la farmacocinetica Influenza la tossicità

R7

Non modificabile Essenziale per il legame con la girasi e il trasporto del chinolone

OH O

X

N R1 Essenziale Controlla la potenza Ciclopropile ottimale

C, N, C-alo, C-OCH3 Controlla la farmacocinetica e l’attività vs anaerobi Influenza la tossicità

Figura 36.10 Rapporto attività-struttura e tossicità-struttura dei chinoloni.

Il sostituente ottimale in posizione N1 è il ciclopropile (c-Pr), ma gruppi alchilici piccoli come l’etile o un anello condensato nelle posizioni N1/C8 (ofloxacina, rufloxacina) forniscono comunque composti attivi. La riduzione del doppio legame C2/C3 o del chetone in C4 abolisce l’attività. Il gruppo carbossilico in C3 e il chetone in C4 sono posizioni inviolabili della molecola, in quanto apparentemente coinvolte nel legame del chinolone al complesso binario DNA/ enzima. Questa porzione cheto-carbossilica ha inoltre la proprietà di chelare ioni metallici. Mentre l’anello 4-piridonico tollera poche modifiche strutturali, le posizioni 5, 6, 7 e 8 della porzione aromatica possono essere sostituite con buoni effetti. La semplice introduzione di un atomo di fluoro in posizione C6 (fluorochinoloni) ha incrementato più di 10 volte la capacità di inibire la girasi e ha ridotto le MIC di più di 100 volte rispetto ai chinoloni di prima generazione. L’atomo di fluoro in C6 aumenta la lipofilia della molecola e di conseguenza la capacità di penetrazione cellulare e l’emivita del farmaco. La posizione C7 del nucleo chinolonico è stata estensivamente studiata e ha un’importanza fondamentale nel determinare le caratteristiche farmacocinetiche e lo spettro d’azione. Sostituenti ottimali sono eterocicli azotati a 5 o 6 termini (piperazina, pirrolidina) con l’atomo d’azoto direttamente legato al C7 del nucleo chinolonico/naftiridonico, che garantiscono un ampio spettro d’azione; in genere le piperazine, particolarmente comuni, aumentano l’attività verso i Gram-negativi mentre le pirrolidine verso i Grampositivi. Il gruppo piperazinico in C7 sembra responsabile dell’affinità per i recettori GABA, contribuendo agli effetti indesiderati di questi farmaci a livello del SNC. L’affinità per questi recettori può essere ridotta con piperazine sostituite con gruppi metilici (lomefloxacina, ofloxacina, sparfloxacina), che migliorano inoltre l’assorbimento orale e l’attività in vivo. In posizione C8, così come in C5, sono tollerati gruppi piccoli. Un gruppo aminico o metilico in C5 sembra incre-

mentare l’attività verso i Gram-positivi ma anche l’incidenza degli effetti cardiotossici. In C8 può essere presente un azoto endociclico (derivati 1,8-naftiridonici) o un sostituente che, agganciato alla posizione N1, forma un terzo ciclo (ofloxacina, rufloxacina) o ancora un atomo di alogeno. In quest’ultimo caso aumenta la penetrazione cellulare del farmaco ma anche la fotosensibilità farmaco-indotta (lomefloxacina, sparfloxacina). Una ridotta fotosensibilità si ha invece con la presenza in C8 di un gruppo metossilico, che probabilmente stabilizza il nucleo chinolonico alla luce ultravioletta; il metossile in C8 garantisce inoltre un aumento dell’attività nei confronti dei batteri anaerobi.

36.4.3 P  roprietà farmacocinetiche dei fluorochinoloni La presenza di un gruppo carbossilico in C3 (pKa 5,5-6,3) e di un gruppo aminico ionizzabile in C7 (pKa 7,4-9,3) conferisce ai fluorochinoloni una natura zwitterionica che li porta a essere largamente ionizzati in tutti i comparti, ai pH fisiologicamente rilevanti. Nonostante ciò, i fluorochinoloni sono ben assorbiti dopo somministrazione orale con un’eccellente biodisponibilità. L’assorbimento orale dei chinoloni è ridotto in presenza di cationi divalenti o trivalenti (Ca2+, Mg2+, Al3+ o Fe3+) per formazione di chelati per lo più insolubili. Ad eccezione dei derivati di prima generazione, i fluorochinoloni sono diffusamente distribuiti nei vari liquidi e tessuti corporei. L’emivita varia da 3-5 ore (norfloxacina, ciprofloxacina) a 10 ore (pefloxacina, moxifloxacina); alcuni derivati presentano un’emivita particolarmente lunga (sparfloxacina e rufloxacina), tale da consentire un’unica somministrazione giornaliera. La maggior parte dei fluorochinoloni sono in genere scarsamente metabolizzati e vengono escreti principalmente per via renale. Le principali proprietà farmacocinetiche di alcuni fluorochinoloni sono riportate in Tabella 36.3.

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Tabella 36.3 Principali proprietà farmacocinetiche di alcuni fluorochinoloni. Nome generico

Biodisponibilità

Legame alle proteine (%)

Emivita plasmatica (ore)

Ciprofloxacina

 85

30

3-5

Enoxacina

 90

40

3-6

Gemifloxacina

 71

60-70

8

Levofloxacina

 95

25

5-7

Lomefloxacina

 95

10

8

Moxifloxacina

> 85

45

9-10

Norfloxacina

40

15

4

Ofloxacina

95

25

5-7

Pefloxacina

> 90

20-30

10

Rufloxacina

60

60-80

36

Sparfloxacina

92

45

15-20

36.4.4 Applicazioni terapeutiche L’acido nalidixico e i chinoloni di prima generazione (cinoxacina e acido pipemidico), per la loro attività limitata ai batteri Gram-negativi (tra cui i più comuni patogeni delle vie urinarie), per le basse concentrazioni sieriche e tissutali raggiunte e per la breve emivita, sono relegati al trattamento delle infezioni delle vie urinarie. Con i chinoloni di seconda generazione (ciprofloxacina, enoxacina, lomefloxacina, norfloxacina, ofloxacina, pefloxacina, rufloxacina) si ha un potenziamento dell’attività verso tutti i Gram-negativi e la comparsa di una moderata-buona attività verso cocchi Gram-positivi e alcuni streptococchi. Oltre a un ampliamento dello spettro d’azione, i chinoloni di seconda generazione presentano favorevoli proprietà farmacocinetiche con elevata penetrazione cellulare e ampia distribuzione tissutale, che garantiscono un’azione sistemica. La norfloxacina è, tra i fluorochinoloni, il meno attivo ed è utilizzata principalmente nelle infezioni urinarie. La ciprofloxacina – acido 1-ciclopropil-6-fluoro-4-osso-7-(1-piperazinil)-1,4diidrochinolin-3-carbossilico – e l’ofloxacina – acido 9-fluoro-3-metil-7-osso-10-(1-piperazinil)-2,3-diidro-7H-[1,4] ossazin[2,3,4-ij]chinolin-3-carbossilico – sono i fluorochinoloni più utilizzati e trovano largo impiego per il trattamento di: infezioni del tratto gastrointestinale (diarrea del viaggiatore, shighellosi e salmonellosi) e delle alte vie respiratorie, infezioni sessualmente trasmesse (gonorrea e clamidia), prostatiti, osteomieliti croniche, meningiti, endocarditi, sinusiti e otiti. La ciprofloxacina è inoltre indicata nella profilassi dell’antrace (Bacillus anthracis). Ciprofloxacina, ofloxacina e, più recentemente, moxifloxacina possono essere utilizzate in un regime multifarmaco nel trattamento della tubercolosi multiresistente e delle infezioni micobatteriche atipiche (complesso Mycobacterium avium intracellulare) nei pazienti affetti da AIDS. La levofloxacina è l’enantiomero (3S)-(–) dell’ofloxacina ed è 8-25 volte più attiva, a seconda della specie batterica, dell’enantiomero (3R)-(+). Per questo può essere classificata, insieme alla sparfloxacina – acido 5-amino-1-ciclopropil-7-[(3R,5S)-3,5-dimetil1-piperazinil]-6,8-difluo-4-osso-1,4-diidrochinolin-3-carbossilico –, tra i chinoloni di terza generazione, che sono particolarmente utili nel trattamento delle infezioni delle

alte e basse vie respiratorie per la loro eccellente attività nei confronti dei batteri Gram-positivi come lo S. pneumoniae. I chinoloni di quarta generazione, gemifloxacina – acido 7-[(4Z)-3-(aminometil)-4-(metossiimino)-1-pirrolidinil]1-ciclopropil-6-fluoro-4-osso-1,4-diidro-1,8-naftiridin3-carbossilico – e moxifloxacina – acido 1-ciclopropil6-fluoro-8-metossi-7-[(4aS,7aS)-octaidro-6H-pirrolo[3,4b]-6-piridinil]-4-osso-1,4-diidrochinolin-3-carbossilico –, si distinguono per un’addizionale attività nei confronti dei batteri anaerobi. Prulifloxacina e alatrofloxacina (trovafloxacina) sono descritte nella Scheda 36.10. Tra i flluorochinoloni, ciprofloxacina, levofloxacina e più recentemente moxifloxacina sono i farmaci più prescritti.

36.4.5 Resistenza I batteri acquisiscono resistenza ai chinoloni attraverso mutazione degli enzimi target. Nella DNA girasi le mutazioni avvengono in una regione ben definita del gene gyrA, che codifica per le due subunità A dell’enzima denominata QRDR (quinolone resistance-determining region); mutazioni simili sono state descritte anche nel gene parC, che codifica per le subunità C della topoisomerasi IV. Una moderata resistenza può inoltre verificarsi per una diminuita concentrazione intracellulare di farmaco, che può realizzarsi sia attraverso la sovraespressione di pompe di efflusso in grado di estrudere il farmaco, sia con una diminuita permeabilità della membrana al farmaco per riduzione delle porine.

36.4.6 E  ffetti collaterali e interazioni con farmaci I più comuni effetti collaterali dei chinoloni si hanno a livello gastrointestinale (nausea, vomito, dolori addominali, diarrea) e a livello del SNC (cefalea, vertigini, agitazione, insonnia), mentre solo occasionalmente si verificano eritema cutaneo e alterazioni della funzionalità epatica. Anche se molto raramente, i chinoloni possono provocare allucinazioni e convulsioni e sono quindi da usare con cautela in pazienti epilettici; la tossicità a livello del SNC è stata messa in relazione con l’inibizione dei recettori GABA (Par. 36.4.2) e può essere accentuata dal concomitante uso di FANS. Neu-

CAPITOLO 36 • Chemioterapici antibatterici

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O O

N

O

N F

H N

CH3 O

Linezolid

O

O N H3C

N

N N N

NH

O O

O

N F Tedizolid fosfato

P

NaO

N

ONa

N

N

N

F

F

Sutezolid

O

F HO

H N

N

N

O O

CH3 O

OH

F

CH3 O

Radezolid

O

O

H N

NH

O S

O

N

Posizolid

N O

Figura 36.11 Struttura del linezolid e di alcuni oxazolidinoni in trial clinici.

ropatie periferiche spesso irreversibili e un’acutizzazione dei sintomi della miastenia gravis sono altre rare reazioni avverse di tipo neurologico associate all’uso di questi farmaci. I fluorochinoloni sono composti fotoreattivi, possono pertanto causare fototossicità associata alla formazione di anioni superossido e radicali liberi; tale effetto è maggiore per quei farmaci che presentano un alogeno in posizione C8 (lomefloxacina, sparfloxacina) mentre è minimo quando in questa posizione è presente un gruppo metossilico (moxifloxacina). A livello cardiovascolare per alcuni chinoloni è stato osservato un prolungamento dell’intervallo QT nel tracciato elettrocardiografico, attribuito al blocco dei canali hERG del potassio e responsabile di aritmie spesso fatali. L’impiego dei chinoloni è stato inoltre associato a tendiniti, una complicanza rara ma grave che può portare a rottura tendinea; il rischio è maggiore nei soggetti anziani o in pazienti trattati con corticosteroidi. Per precauzione i fluorochinoloni sono di norma contrindicati in gravidanza, durante l’allattamento (passano nel latte materno) e in pazienti di età inferiore ai 18 anni, poiché sono stati riscontrati danni alle cartilagini in accrescimento e artropatia in molte specie di animali giovani; questo non sembra però avvenire nell’uomo. Le proprietà chelanti dei chinoloni sono alla base della loro incompatibilità con gli antiacidi, gli ematinici e gli integratori minerali contenenti cationi metallici bivalenti o trivalenti che dovrebbero essere quindi somministrati 4 ore prima o 2 ore dopo l’assunzione dell’antibatterico (Par. 36.4.3). Alcuni chinoloni riducono il metabolismo delle xantine per inibizione del CYP1A2, pertanto l’uso della teofillina come antiasmatico va evitato per non incorrere in effetti indesiderati da sovradosaggio. Va menzionato che alcuni farmaci di questa classe, introdotti in terapia per il loro ampio spettro d’azione e la loro potente attività nei confronti di batteri resistenti, sono

stati poi ritirati dal mercato a causa di rare ma inaccettabili tossicità riscontrate nella fase di farmacovigilanza e non emerse nei trial clinici. È questo il caso di grepafloxacina (prolungamento dell’intervallo QT), temafloxacina (sindrome emolitico-uremica e ipoglicemia) e trovafloxacina (epatotossicità), le cui strutture sono rappresentate nella Scheda 36.11.

36.5 Ossazolidinoni Gli ossazolidinoni rappresentano la prima nuova classe di agenti antibatterici di sintesi introdotti in terapia dalla scoperta dell’acido nalidixico, dopo più di 30 anni. Sviluppati alla fine degli anni ’80 per il trattamento dei cosiddetti superbugs (superbatteri resistenti agli antibiotici), gli ossazolidinoni sono attualmente rappresentati in terapia da un unico composto, il linezolid – N-({(5S)-3-[3-fluoro-4-(4-morfolinil)fenil]-2-osso-1,3-(5-oxazolidinil}metil)acetamide –, approvato nel 2000 (Fig. 36.11 e Scheda 36.12). Numerosi altri derivati sono attualmente in varie fasi dello sviluppo preclinico e clinico come il tedizolid fosfato (fase III), il profarmaco radezolid (fase II), il sutezolid (fase I) e il posizolid (fase I), gli ultimi due sviluppati come antitubercolari (Fig. 36.11). La sintesi del linezolid è riportata nel Box 36.7.

36.5.1 Meccanismo d’azione Gli ossazolidinoni sono inibitori della sintesi proteica e come tali determinano un effetto batteriostatico. Essi si legano alla subunità ribosomale 50S, tuttavia l’esatto meccanismo d’azione e la posizione precisa del loro sito di legame sono ancora oggetto di dibattito. Iniziali studi biochimici hanno suggerito che il linezolid inibisce la fase iniziale della sintesi proteica, impedendo la formazione del complesso d’iniziazione formato dalle subunità ribosomiali 50S e 30S,

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800

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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Gruppo N-arilico sostituito essenziale per l’attività antibatterica

O

Sostituenti di varia natura e grandezza, generalmente un eterociclo La natura di X influenza la selettività per la sintesi proteica batterica vs quella mitocondriale

2

X

N 4

F

F ottimale per l’attività antibatterica, ma non essenziale

1

O

3

5

H

CH2NHOCOCH3, CONHR', CH2OR', piccoli eterocicli. Ridotta tossicità con CH2NHOCOCH3, CONHR', CH2OR'

R

La configurazione (S) in C5 conferisce attività antibatterica ma anche attività inibente la sintesi mitocondriale

Figura 36.12 Relazione struttura-attività e tossicità-struttura degli ossazolidinoni.

dall’N-formilmetionil-tRNA e dall’mRNA. Studi più recenti indicano invece che il linezolid si lega all’RNA ribosomale 23S della subunità 50S, a livello del sito A, in prossimità del centro catalitico peptidiltransferasico che normalmente accoglie la porzione aminoacilica di un aminoacil-tRNA, prevenendo il suo allocamento nel sito stesso e favorendone il distacco. Il meccanismo d’azione degli ossazolidinoni è comunque diverso da quello degli altri inibitori della sintesi proteica, con i quali non presentano finora fenomeni di resistenza crociata. Il linezolid non interferisce con la sintesi proteica citoplasmatica dell’uomo, ma può avere effetti sulla sintesi mitocondriale, specie nei trattamenti a lungo termine, determinando la comparsa di alcuni effetti collaterali.

36.5.2 Relazioni attività-struttura Gli sforzi sintetici che hanno portato all’identificazione del linezolid e le numerose modificazioni strutturali effettuate successivamente allo scopo di identificare analoghi con ridotti effetti collaterali e incrementata potenza, hanno fornito importanti indicazioni di relazione struttura-attività e di rapporto tossicità-struttura per questa nuova classe di antibatterici, riportate in modo schematico in Figura 36.12.

36.5.3 Proprietà farmacocinetiche Il linezolid può essere somministrato per via endovenosa e per via orale allo stesso dosaggio (600 mg) ed equivalente biodisponibilità. Infatti, se somministrato oralmente ha un ottimo assorbimento con una biodisponibilità che si avvicina

al 100%. Il legame con le proteine plasmatiche è basso (31%) e l’emivita di circa 4-6 ore. È metabolizzato per ossidazione non enzimatica a livello del nucleo morfolinico in 2 metaboliti principali inattivi (Fig. 36.13). Circa l’80% della dose di farmaco somministrata viene eliminata con le urine (30% come farmaco immodificato, 50% come i due principali metaboliti), il 10% con le feci.

36.5.4 Applicazioni terapeutiche Il linezolid è efficace contro tutti i batteri Gram-positivi aerobi e anaerobi clinicamente rilevanti, inclusi ceppi resistenti ad altri agenti antibatterici, come streptococchi e stafilococchi meticillina-resistenti ed enterococchi vancomicina-resistenti. Non ha effetti significativi sui batteri Gramnegativi. Possiede invece una buona attività nei confronti del Mycobcterium tuberculosis. È indicato pertanto nel trattamento di infezioni da Enterococcus faecium-vancomicina resistente, polmoniti nosocomiali e contratte in comunità causate da S. aureus e S. pneumoniae, infezioni cutanee e/o degli annessi cutanei complicate e non complicate causate da batteri sensibili, comprese le infezioni del piede diabetico. Può essere inoltre utilizzato nella terapia multifarmaco per il trattamento della tubercolosi. Il linezolid è da considerare come il superamento, in termini di efficacia, rapidità d’azione e sicurezza, dei glicopeptidi (vancomicina e teicoplanina). Pertanto, come la stessa AIFA suggerisce, andrebbe utilizzato solo nei casi in cui non sono disponibili alternative terapeutiche (farmaco di riserva), al fine di limitare l’insorgenza di ceppi resistenti.

36.5.5 Resistenza O O HO HO

HO N

O F

HN F

Figura 36.13 Principali metaboliti del linezolid.

I batteri Gram-negativi sono naturalmente resistenti al linezolid per la presenza di pompe di efflusso che espellono il farmaco impedendone l’accumulo nella cellula. I casi di resistenza osservati nei Gram-positivi sono principalmente dovuti a mutazioni del gene 23S rRNA o, più raramente, a modificazioni del sito di legame operate da una metiltransferasi (codificata dal gene cfr), che determinano ridotta affinità del farmaco alla subunità 50S.

CAPITOLO 36 • Chemioterapici antibatterici

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BOX 36.7 ■ Sintesi del linezolid La sintesi industriale del linezolid prevede la sostituzione nucleofila aromatica del fluoro in C4 nel 3,4-difluoronitrobenzene con morfolina, seguita dalla riduzione palladio-catalizzata del nitrogruppo aromatico. L’amina così ottenuta viene fatta reagire con benzilcloroformiato per dare il carbamato derivato, che viene deprotonato con litio t-butossido e poi fatto reagire con l’(S)-3-cloro-1,2propandiolo. L’intermedio aperto che si forma ciclizza spontaneamente, con perdita di alcol benzilico, formanO

NH

+

F

NO2

O

do l’anello ossazolidinonico che viene poi fatto reagire con 3-nitrofenilsolfonil cloruro. L’estere solfonato cosi ottenuto viene sottoposto a reazione nucleofila con ammoniaca, seguita da acetilazione, per dare il linezolid con una resa totale del 65%. Da notare che la configurazione assoluta del centro chirale non cambia durante la sequenza di reazioni, cambia però la priorità degli atomi (Cl > O > N) a esso legati.

N

F

NO2

Pd/C

F

Cl

O N

O

O

OH

O

OH R

F

S

NH2 F

OH

O N

N

O Cl

O

O

O

N

NH

(S)-3-cloro-1,2-propandiolo

OH

F

Non isolato Ciclizzazione spontanea

O O2N

O O

N

N

Cl

S

O

O

O R

O OH

N

O O O

N

R

N(CH3)3

S NO2

O

F

F

1. Eccesso NH4OH 2. (CH3CO)2O, piridina

O O

N

N

O S

F

36.5.6 E  ffetti collaterali e interazioni con farmaci Il linezolid è in genere ben tollerato con minimi effetti avversi (disturbi gastrointestinali, mal di testa, eruzioni cutanee). Rari ma gravi effetti collaterali sono stati tuttavia osservati per trattamenti a lungo termine (> 8 settimane) quali mielosoppressione con trombocitopenia e anemia, neuropatie periferiche e del nervo ottico e acidosi lattica; alcuni di questi

Linezolid

H N

CH3 O

effetti sono in parte dovuti all’interferenza con la sintesi proteica mitocondriale dell’uomo. Il linezolid è un debole inibitore non specifico delle monoaminossidasi (MAO), per cui la concomitante somministrazione di agenti antiadrenergici o serotoninergici, o l’assunzione di cibi ricchi di tiramina, può determinare una sindrome serotoninergica (palpitazioni, mal di testa, ipertensione). Il linezolid non è substrato né inibitore del citocromo P450, non interferisce quindi con il metabolismo di altri farmaci.

801

37

Chemioterapici antimicobatterici Sergio Romeo, Andrea Pancotti

37.1  Tubercolosi 37.1.1 S  toria della terapia antitubercolare 37.1.2 La resistenza 37.1.3 Attuali terapie

37.2 Farmaci per il trattamento della lebbra 37.2.1 Dapsone

I micobatteri sono bacilli debolmente Gram-positivi, acidoresistenti, a forma di sottili barre diritte o leggermente curve. I membri più patogeni del genere sono Mycobacterium tuberculosis, la specie responsabile della tubercolosi (TB), M. leprae, l’agente che causa la lebbra, e M. ulcerans, la causa dell’ulcera di Buruli, un’infezione della pelle devastante e necrotizzante, altamente prevalente in molti Paesi tropicali, soprattutto in Africa occidentale. Con l’esplosione dell’epidemia di AIDS nel corso degli ultimi decenni, l’epidemia di tubercolosi a livello mondiale è cresciuta e si è diffusa. Anche le patologie causate dai micobatteri diversi da M. tuberculosis (noti anche come micobatteri non tubercolari, MOTT, micobatteri atipici, o micobatteri ambientali) sono diventate molto più diffuse, poiché individui infetti dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV) sono particolarmente sensibili alle infezioni da micobatteri, tra cui, ad esempio, le infezioni dovute al M. avium intracellulare complex (MAC). La caratteristica distintiva di tutte le specie di Mycobacterium è il maggior spessore della parete cellulare rispetto a molti altri batteri e l’abbondanza di acidi micolici/micolati. La parete cellulare consiste in uno strato idrofobico di micolato e uno strato di peptidoglicano tenuti insieme da un polisaccaride, l’arabinogalattano (Fig. 37.1). Essa offre quindi un contributo sostanziale alla robustezza di questo genere.

cienza umana (HIV). Le ultime stime contenute nel rapporto pubblicato nel 2013 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) indicano che nel 2012 ci sono stati 8,6 milioni di nuovi casi di tubercolosi e 1,3 milioni di morti di tubercolosi (poco meno di 1 milione tra le persone HIV-negative e 0,3 milioni di morti di TB associata a HIV). Questo gran numero di nuovi casi e di decessi si verifica a 20 anni dalla dichiarazione dell’OMS che considerava la TB come un’emergenza sanitaria pubblica a livello mondiale. Ciononostante sono stati compiuti importanti progressi a livello globale: il tasso di mortalità da TB (decessi per 100 000 abitanti per anno) dal 1990 è sceso del 45% e il tasso di incidenza da TB (nuovi casi per 100 000 abitanti l’anno) è in calo in molte parti del mon-

37.1 Tubercolosi La tubercolosi (TB) resta un grave problema di salute globale e si classifica come la seconda causa di morte per malattia infettiva a livello mondiale, dopo il virus dell’immunodefi-

Figura 37.1 Parete cellulare dei micobatteri.

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do. Con l’insorgenza dell’AIDS, la tubercolosi, in particolare, ha subito un temibile ritorno insieme ad altre patologie associate a micobatteri.

37.1.1 S  toria della terapia antitubercolare Nei primi anni ’40, un programma di ricerca avviato da Waksman negli Stati Uniti ha studiato l’azione dei microrganismi del suolo, in particolare degli Streptomycetes, contro microrganismi patogeni. Nel 1944, un antibiotico aminoglicosidico, la streptomicina, è stato isolato da Streptomyces griseus. Questo antibiotico ha mostrato una notevole attività anti-tubercolare e ha dato un importante contributo al controllo di questa malattia. Nel 1942 si verificarono in Europa diverse centinaia di migliaia di morti provocati dalla tubercolosi, e altri 5-10 milioni di persone soffrivano di questa malattia in tutto il mondo; i sulfamidici e le penicilline erano inefficaci contro il Mycobacterium tuberculosis, e Waksman studiò la capacità della streptomicina di trattare tale malattia, scoperta che nel 1952 gli valse il Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina (conferito anche per 17 altri antibiotici scoperti sotto la sua guida). Nel 1944 venne somministrata per la prima volta la streptomicina a un paziente gravemente malato di tubercolosi e venne osservato un impressionante e rapido recupero, ma il nuovo farmaco rendeva i pazienti sordi, essendo particolarmente tossico per l’orecchio interno. Dopo la scoperta della streptomicina vennero individuati durante gli anni successivi diversi farmaci antitubercolari, importanti poiché, a causa della monoterapia a base di streptomicina, cominciarono ad apparire i primi mutanti resistenti. Nel 1950, il medico britannico Austin Bradford Hill dimostrava che una combinazione di streptomicina e acido p-aminosalicilico (PAS) poteva meglio curare la malattia, anche se la tossicità della streptomicina era ancora un problema. Nel 1951, un farmaco antitubercolare ancora più potente veniva sviluppato simultaneamente e indipendentemente dalla Squibb e dalla Hoffmann-LaRoche. Questo farmaco, l’idrazide dell’acido isonicotinico, venne scoperto dopo aver esaminato oltre 5000 composti su più di 50 000 topi: esso era in grado di proteggere contro un inoculo letale di batteri tubercolari. È stato commercializzato con il nome di isoniazide (INH) e si è dimostrato particolarmente efficace in combinazione con la streptomicina o il PAS. In due decenni sono stati introdotti diversi farmaci contro la tubercolosi: dopo il PAS (1949) e l’isoniazide (1952) vennero introdotti la pirazinamide (1954), la cicloserina (1955), l’etambutolo (1962) e la rifampicina (RIF, 1963). Gli antibiotici aminoglicosidici e polipeptidici quali la capreomicina, la viomicina, la kanamicina e l’amikacina, e recentemente i nuovi fluorochinoloni (levofloxacina, moxifloxacina e ofloxacina), sono utilizzati soltanto in situazioni di resistenza agli altri farmaci.

37.1.2 La resistenza La resistenza ai farmaci antitubercolari di prima linea (cioè la resistenza alla rifampicina, il farmaco anti-TB più potente, e all’isoniazide) è nota come resistenza multifarmaco (MDR-

CAPITOLO 37 • Chemioterapici antimicobatterici

TB), mentre la resistenza a INH, RIF, fluorochinoloni e ad almeno un antibiotico iniettabile è chiamata farmacoresistenza estesa (XDR-TB). A livello globale, nel 2012, i dati provenienti da indagini di resistenza ai farmaci e la sorveglianza continua tra i casi di TB notificati suggeriscono che il 3,6% dei casi di TB di nuova diagnosi e il 20% di quelli precedentemente trattati mostravano MDR-TB. I più alti livelli di MDR-TB si trovano in Europa orientale e in Asia centrale, dove in alcuni Paesi più del 20% dei nuovi casi di tubercolosi e oltre il 50% di quelli precedentemente trattati hanno MDR-TB: si stima che il 9,6% dei casi di MDR-TB siano in realtà XDR-TB.

37.1.3 Attuali terapie Attualmente, la TB è trattata con terapie combinate che consistono di 3 o più farmaci (4, più tipicamente) selezionati da più di una dozzina di noti agenti anti-TB. Il trattamento raccomandato e promulgato a livello mondiale dall’OMS consiste nella somministrazione per 2 mesi (fase intensiva) di isoniazide, rifampicina, pirazinamide ed etambutolo, seguiti da isoniazide e rifampicina per altri 4 mesi (fase di mantenimento). Le terapie combinate sono state inizialmente sviluppate per ridurre al minimo lo sviluppo di resistenza alla streptomicina; più di recente sono progettate in modo che i vari farmaci agiscano orchestralmente contro le diverse popolazioni di M. tuberculosis. L’isoniazide, un inibitore della sintesi della parete cellulare, uccide i batteri in rapida crescita, e svolge un ruolo chiave nell’eradicare le popolazioni in replica. La rifampicina, un inibitore della sintesi dell’RNA, è attivo sia contro i batteri in replica, rapida o lenta, sia contro i batteri non in replica. La pirazinamide, presumibilmente un inibitore della forza motrice protonica, sembra essere attiva solo in condizioni acide durante i primi 2 mesi di terapia. La rifampicina e la pirazinamide hanno svolto un ruolo importante nella riduzione della durata della terapia, da oltre 24 mesi agli attuali 6 mesi. Per il trattamento della MDR-TB si utilizzano diverse combinazioni di farmaci a seconda del livello di resistenza. Sulla base di attività, efficacia, via di somministrazione, tolleranza, disponibilità e costi, i farmaci antitubercolari sono stati suddivisi dall’OMS in 5 gruppi (Tab. 37.1). Il gruppo 1 è composto dai farmaci di prima linea – etambutolo, pirazinamide e rifabutina – che devono essere utilizzati se si pensa che sussista suscettibilità. Un solo farmaco deve essere selezionato dai gruppi 2 (agenti iniettabili: kanamicina, amikacina, capreomicina, streptomicina) e 3 (fluorochinoloni), a causa della documentata totale o parziale cross-resistenza e tossicità all’interno dei gruppi. Il gruppo 4 è costituito da agenti orali meno potenti: etionamide, protionamide, cicloserina, terizidone, acido p-aminosalicilico. Il gruppo 5 è composto da farmaci per i quali l’azione antitubercolare non è stata documentata in studi clinici (a eccezione del tiacetazone): clofazimina, linezolide, amoxicillina/ acido clavulanico, tioacetazone, imipenem/cilastatina, alte dosi di isoniazide e claritromicina.

Isoniazide, etionamide e protionamide L’isoniazide, idrazide dell’acido 4-piridincarbossilico (Box 37.1) è stata identificata perseguendo i derivati della nicoti-

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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Tabella 37.1 Farmaci (e relative abbreviazioni) usati nella terapia della MDR-TB.

BOX 37.1 ■ Sintesi dell’isoniazide

Gruppo 1: farmaci orali di prima linea

L’isoniazide viene ottenuta molto semplicemente per reazione dell’idrazina con l’estere etilico dell’acido isonicotinico.

Pirizinamide (Z) Etambutolo (E) Rifabutina (Rfb)

N

N

Gruppo 2: farmaci Iniettabili Kanamicina (Km)

H2N NH2

Amikacina (Am) Capreomicina (Cm)

O

Streptomicina (S) Gruppo 3: fluorochinoloni

O

O

CH3

N H

NH2

Isoniazide

Isonicotinato di etile

Levofloxacina (Lfx) Moxifloxacina (Mfx) Ofloxacina (Ofx) Gruppo 4: farmaci batteriostatici orali di seconda linea Acido p-aminosalicilico (PAS) Cicloserina (cs) Terizidone (Trd) Etionamide (eto) Protionamide (pto) Gruppo 5: farmaci con un ruolo non definito nel trattamento della TB farmaco resistente Clofazimina (cfz) Linezolide (lzd) Amoxicillina/clavulanato (Amx/clv) Tioacetazone (Thz) Imipenem/cilastatina (ipm/cln) Isoniazide (alto dosaggio, H) Claritromicina (clr)

namide, un composto con attività anti-TB (Fig. 37.2). L’ottimizzazione della nicotinamide diretta da test in vitro e in vivo ha prodotto due farmaci distinti con caratteristiche molto diverse, l’isoniazide e la pirazinamide – pirazincarbossami-

de. Mentre la pirazinamide ha un profilo biologico simile e mostra resistenza crociata con la nicotinamide, l’isoniazide è biologicamente e con meccanismo d’azione distinto dal suo genitore. La maggior parte della chimica farmaceutica sulla serie isoniazide è stata completata nel 1950. L’isoniazide, l’etionamide – 2-etil-4-piridincarbotioamide – e la protionamide – 2-propil-4-pirinmidincarbotioamide – sono tutti profarmaci. L’isoniazide viene attivata da un enzima: la catalasi perossidasi (KatG). Le mutazioni nella KatG rappresentano la maggior causa di resistenza all’isoniazide. La specie attivata, presumibilmente un radicale acilisonicotinico, forma un addotto con il radicale NAD; il risultante addotto NADH-acilisonicotinico (INA) si lega a una enoil-ACP (proteina trasportante acili) reduttasi NADHdipendente (InhA), e inibisce la sintesi dell’acido micolico, un componente essenziale della parete cellulare di M. tuberculosis (Fig. 37.3). La struttura cristallina del complesso formato tra l’InhA isolata da M. tuberculosis e l’INA indica che l’INA si lega a InhA in modo competitivo con NADH e le mutazioni nella regione NADH vincolante dell’InhA conferiscono resistenza all’isoniazide. Anche l’etionamide agisce similmente all’isoniazide, con un meccanismo che coinvolge l’inibizione dell’InhA; tuttaN

N

NH2 N H Isoniazide

O N CONH2 Nicotinamide

N N

NH2

O Pirazinamide

Figura 37.2 Farmaci antitubercolari derivati dalla nicotinamide.

S

N

CH3

NH2

Etionamide

S

CH3

NH2

Protionamide

CAPITOLO 37 • Chemioterapici antimicobatterici

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H CONH2

N N

N

N

R

KatG

H

InhA

CONH2

O O

N H

NH2

Isoniazide

N

O Radicale acilisonicotinico

R

NADH-acilisonicotinico (INA)

Figura 37.3 Attivazione dell’isoniazide.

Richiede gruppi che possono essere attivati ossidativamente a radicale acilico: X = O; R1 = NH2, N=CR2R3, NHCR2R3 X=S H N

X

R1

4

Il gruppo isonicotinico può tollerare un piccolo sotituente

R4 N

Il gruppo isonicotinico è importante per l’attività: altri arili o eteroarili sono meno attivi

Figura 37.4 Relazioni struttura-attività dell’isoniazide.

via, questo agente è attivato da un enzima diverso, la monossigenasi EthA. La protionamide si presume che abbia lo stesso meccanismo d’azione dell’etionamide, a causa della somiglianza strutturale. La resistenza all’isoniazide, all’etionamide e alla protionamide è dovuta principalmente a una mutazione degli enzimi di attivazione (KatG o EthA) o del loro bersaglio molecolare (InhA), pertanto è prevista, ma non comune, la resistenza crociata tra l’isoniazide e l’etionamide/protionamide. Esistono due tracce indipendenti di RSA per questo farmaco: una regola l’attivazione del profarmaco e un’altra governa l’interazione delle specie attive con InhA. Molti gruppi in posizione 4 possono essere attivati dal M. tuberculosis, e sono possibili diversi profarmaci (Fig. 37.4). Dopo l’attivazione, i requisiti strutturali per l’interazione con InhA sembrano essere molto vincolanti: solo la struttura isonicotinica è sostanzialmente attiva tra i molti gruppi arilici ed eteroarilici esplorati. L’isoniazide viene metabolizzata dalla NAT-2 a N-acetilisoniazide, che si idrolizza a dare acido isonicotico e acetilidrazina, un potente nucleofilo citotossico (Fig. 37.5). La NAT-2 è un enzima polimorfo, quindi popolazioni che acetilano velocemente (asiatici) avranno bisogno di un dosaggio maggiore delle popolazioni che acetilano lentamente (indiani, europei). L’isoniazide con l’uso prolungato può mostrare epatotossicità e neuropatia periferica, particolarmente in pazienti che sono acetilatori lenti, malnutriti o a maggior rischio per la presenza di altre patologie quali il diabete mellito o l’HIV. Il

rischio può essere minimizzato mediante somministrazione di piridossina. L’acetilazione lenta sembra essere associata a un maggior rischio di tossicità, soprattutto se il paziente assume farmaci che inducono il citocromo CYP2E1: quindi il metabolismo dell’isoniazide mediato da questo citocromo potrebbe generare un metabolita più tossico dell’acetilisoniazide.

Pirazinamide La pirazinamide, come l’isoniazide, è uno stretto analogo della nicotinamide (Fig. 37.2), è un agente di prima linea ed è uno dei due farmaci che hanno giocato un ruolo significativo nella riduzione della durata della terapia da 12 a 6 mesi. La pirazinamide è un profarmaco che richiede l’attivazione da parte di una pirazinamidasi (PZasi): la specie attiva prodotta dall’attivazione è l’acido pirazinoico. Le mutazioni nella PZasi portano alla perdita dell’attività, e sono responsabili per lo sviluppo della resistenza alla pirazinamide. Le stesse mutazioni comportano resistenza crociata con la nicotinamide, suggerendo che la pirazinamide e la nicotinamide siano attivate dallo stesso enzima. La pirazinamide sembra essere attiva solo in condizioni acide, e il farmaco è più efficace in vivo di quanto sarebbe previsto dalla sua potenza in vitro. Recentemente è stato proposto un nuovo meccanismo d’azione per la pirazinamide che ne spiega alcune delle proprietà insolite, compresa la richiesta di condizioni acide. Secondo questa ipotesi, l’anione pirazinoico, in condizioni acide, funziona come trasportatore di protoni dall’esterno della membrana allo spazio intracellulare. Questo processo

805

806

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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O H N

O

N

NH2

H N

O

NAT-2

OH

O N H

Acido isonicotinico

CH3 N

N NHCOCH3 NH2

Acetilidrazina

NAT-2

NHCOCH3 NHCOCH3

Diacetilidrazina

Figura 37.5 Metabolismo dell’isoniazide.

esaurisce efficacemente la forza motrice protonica e impatta sulla produzione di energia. Il limite più evidente della pirazinamide è, oltre al suo profilo di sicurezza marginale, la sua stretta finestra terapeutica: infatti questo agente è attivo solo durante i primi 2 mesi di trattamento e in condizioni acide. La sintesi della pirazinamide è descritta nel Box 37.2. La pirazinamide viene metabolizzata ad acido pirazinoico e acido 5-idrossipirazinoico, che sono poi escreti per via renale; il farmaco compete con l’escrezione dell’acido urico, determinandone l’accumulo in pazienti trattati.

Rifamicine Le rifamicine sono agenti ad ampio spettro caratterizzati da una struttura ad ansa (Fig. 37.6): sono state isolate nel 1957 dallo Streptomyces mediterranei e i primi membri della famiglia erano generalmente indesiderabili come agenti terapeutici, a causa di scarsa potenza, bassa solubilità, scarsa biodisponibilità e breve emivita. Le modifiche strutturali alle rifamicine naturali hanno portato a diversi derivati, che sono molto potenti e disponibili per via orale. Attualmente, sono

in uso clinico quattro composti semisintetici: rifampicina, rifapentina, rifabutina e il più recente rifalazil. La rifampicina è diventata la pietra angolare della terapia antitubercolare attuale, nonché il principale responsabile della riduzione della durata del trattamento da 12 mesi agli attuali 6 mesi. I nuovi membri, rifapentina, rifabutina e rifalazil, hanno mostrato alcuni vantaggi rispetto alla rifampicina, tra cui un’emivita più lunga, una potenziale riduzione di interazione farmaco-farmaco e attività nei confronti di alcuni ceppi rifampicina-resistenti. Le rifamicine sono potenti inibitori della RNA polimerasi (RNAP) e le interazioni dettagliate tra la rifamicina e l’RNAP sono state chiarite dalla struttura ad alta risoluzione del complesso enzima-inibitore. La rifampicina si lega in una profonda tasca della subunità β all’interno del canale dell’RNA, lontano circa 12 Å dal sito catalitico. Il farmaco funziona bloccando il processo di elongazione dell’RNA quando il trascritto raggiunge la lunghezza di due o tre nucleotidi. La resistenza alle rifamicine si verifica frequentemente ed è principalmente dovuta a mutazioni nella regione di legame

BOX 37.2 ■ Sintesi della pirazinamide La pirazinamide è sintetizzata per reazione della o-fenilendiamina con il gliossale a dare la chinossalina. L’ossidazione di questo composto con il permanganato dà l’acido pirazin-2,3-dicarbossilico, la cui decarbossilazione H

H2N

O

N

H2N

O

N N

COOH

N

KMnO4

+ H

mediante riscaldamento dà l’acido pirazinoico. L’esterificazione dell’acido risultante con metanolo in presenza di acido cloridrico e l’ulteriore reazione di questo estere con ammoniaca dà la pirazinamide. 

N

CH3OH / HCl

COOH

N

N N

COOCH3

NH3

COOH

N N

CONH2

CAPITOLO 37 • Chemioterapici antimicobatterici

ISBN 978-88-08-18712-3

CH3

CH3

CH3

HO

O

O

CH3 OH O OH OH

O H3C H3CO

CH3

O

N

CH

O

CH3

O

N

N CH3

Rifampicina: R = CH3 Rifapentina: R = ciclopentile

O N Rifabutin

CH3 CH3 HO

O

CH3 OH O OH O CH3

O

H3C H3CO

CH3

NH

O

R

O

O NH

O

N

OH CH3

OH

H3C H3C H3CO

NH

CH3

CH3 OH

O

CH3

CH3

HO

CH3 CH3

CH3 NH

CH3 O

O

O

N

O

CH3

HO

N

CH3 N

Rifalazil

CH3

Figura 37.6 Strutture delle rifamicine in terapia.

mente con la RNAP attraverso legami idrogeno. La saturazione di uno o più doppi legami C16/C17, C18/C19 e C28/ C29 porta generalmente a composti con attività equivalente. I prodotti di deacetilazione al C25 sono spesso osservati come metaboliti delle rifamicine e sono equipotenti; altre modifiche al gruppo acetilico hanno portato anche a composti potenti con interessanti proprietà chimico-fisiche. Tuttavia, qualsiasi modifica a questa posizione potrebbe essere temporanea, perché i gruppi esterei legati a questa posizione sono facilmente idrolizzabili in vivo. I più

con la subunità β della RNAP. La mutazione di un singolo aminoacido porta a un elevato livello di resistenza: ne sono un esempio le mutazioni di Ser450 e di His445. Modificazioni alla struttura delle rifamicine di origine naturale hanno prodotto le rifamicine semisintetiche in uso clinico e caratterizzate da un profilo farmacinetico migliorato. Le RSA sono riassunte in Figura 37.7. I quattro gruppi ossidrilici in C1, C8, C21 e C23 sono essenziali per l’attività antibatterica: infatti questi ossidrili interagiscono nella struttura cocristallizzata rifampicina-RNAP diretta-

Gruppi ossidrilici a C1, C8, C21 e C23 essenziali per l’attività CH3 Prodotti di deacetilazione Sono possibili sostituzioni Possono essere utilizzate per migliorare le caratteristiche farmacocinetiche

HO

O

23

O H3C H3CO

CH3

17

19 CH3 OH O OH OH

CH3 CH3

28 29

18

21

4

O

O CH3

O

CH3

NH

1

8

16

Doppi legami C16-C19 e C28-C29 Possibile la saturazione La potenza non cambia

3

R3

R4 Posizioni C3 e C4 Sono possibili sostituzioni Importanti per migliorare le caratteristiche farmacocinetiche Possono essere utilizzate per modulare l’induzione degli enzimi P450

Figura 37.7 Importanti relazioni struttura-attività delle rifamicine.

807

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

H3 C

CH3

O

N N 7

8

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H3C

N

N

N

1

COOH

F

CH3

O

N

COOH

F

O

O

Ofloxacina

Levofloxacina

CH3 HN

H OCH3

N

OCH3 N

F

N H H

N

N

F

COOH O

COOH O

Gatixifloxacina

Moxifloxacina

Figura 37.8 Fluorochinoloni usati nella terapia antitubercolare.

importanti derivati della rifamicina sono quelli con modifiche alle posizioni C3 e C4: queste posizioni sono molto accessibili dal punto di vista sintetico e facili da modificare. Nella struttura del complesso con la RNAP, queste posizioni si trovano in uno spazio aperto della tasca di legame e permettono quindi modifiche significative. Le modifiche alle posizioni C3 e C4 hanno prodotto composti con un significativo miglioramento delle proprietà chimico-fisiche e del profilo farmacocinetico. La modifica strutturale della 3-formil rifamicina SV ha portato a rifampicina, un composto più potente e attivo per via orale. Un’ulteriore modifica della rifampicina ha prodotto la rifapentina, un analogo ciclopentilico della rifampicina. La rifapentina ha un tempo di dimezzamento più lungo della rifampicina, e quindi può essere usata nella terapia intermittente. La rifabutina presenta una struttura spiro tra le posizioni C3 e C4; ha diversi vantaggi rispetto alla rifampicina tra cui una migliore penetrazione nei tessuti e una ridotta induzione del citocromo P450. Il rifalazil è un nuovo membro della famiglia delle rifamicine, un gruppo benzossazinico fuso alle posizioni C3 e C4, e un’emivita di 61 ore. Esso non induce il citocromo P450 e ha attività contro alcuni batteri rifampicina-resistenti.

Antibiotici aminoglicosidici e polipeptidici Tutti gli agenti anti-TB aminoglicosidici e polipeptidici hanno simili profili di potenza, farmacocinetica e tossicità, con poche variazioni tra loro. La streptomicina viene ancora usata, ma la resistenza è comune tra gli isolati clinici. La streptomicina è l’aminoglicoside meno nefrotossico, ma tuttavia è altamente ototossico. Una delle principali differenze tra capreomicina e gli aminoglicosidi è l’attività anaerobica contro M. tuberculosis. La capreomicina è attiva contro M. tuberculosis in condizioni anaerobiche, mentre gli aminoglicosidi mostrano attività limitata contro questa popolazione cellulare. Ci sono delle limitazioni nell’uso degli antibiotici aminoglicosidici e polipeptidici: la man-

canza di disponibilità orale, la nefrotossicità e l’ototossicità. Inoltre, la resistenza alla streptomicina è comune, e ne limita l’uso. La resistenza crociata tra gli aminoglicosidi e i polipeptidi è comune, e le combinazioni di questi agenti non sono raccomandate. Gli aminoglicosidi non hanno attività contro i micobatteri intracellulari e i micobatteri nel loro stato nonreplicante; pertanto, questi agenti hanno uno scarso ruolo nell’eradicazione dei micobatteri dopo la fase iniziale del trattamento e nell’abbreviare la durata della terapia.

Fluorochinoloni Il fluorochinolone di seconda generazione ofloxacina e il suo stereoisomero (S) levofloxacina (Fig. 37.8) sono attualmente in uso per il trattamento della MDR-TB. Questi agenti sono leggermente meno attivi della rifampicina e dell’isoniazide, ma raramente si osserva resistenza ai fluorochinoloni. I fluorochinoloni di terza generazione, moxifloxacina e gatifloxacina, sono inibitori più potenti della DNA girasi rispetto agli agenti di seconda generazione, e dimostrano un’attività migliore di sterilizzazione contro M. tuberculosis persistente e rifampicina-tollerante. I chinoloni (Cap. 36) sono stati ampiamente ottimizzati contro molti patogeni comuni, e sono disponibili notevoli quantità di RSA. Le RSA contro i micobatteri sono molto meno ben definite: le posizioni che hanno un impatto significativo sull’attività antimicobatterica sono la N1, C7 e C8. Alla posizione N1, l’ordine di potenza dal maggiore al minore è: t-butile, ciclopropile, 2,4-fluorofenil, etile/ciclobutile e isopropile. In posizione C7, piperidina e pirrolidina sembrano avere un’attività simile. Il contributo del gruppo C8 dipende dalla struttura alla posizione N1. Quando il sostituente in N1 è un gruppo ciclopropile, l’ordine di potenza per il gruppo C8 dal maggiore al minore è C–OCH3, C–Br, C–Cl, C–F / C–H / C–OC2H5, N e C–CF3. Maggiori informazioni sui fluorochinoloni sono disponibili nel Capitolo 36.

CAPITOLO 37 • Chemioterapici antimicobatterici

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H3C

Etambutolo L’etambutolo – N,N '-bis-[(S)-1-(idrossimetil)propil]-etilendiamina – (Fig. 37.9) è un derivato dell’N,N-diisopropiletilenediamina, inizialmente identificata mediante screening casuale. L’etambutolo è un agente batteriostatico contro M. tuberculosis, e ha scarsa attività contro gli organismi non replicanti. La funzione principale dell’etambutolo è di prevenire l’insorgere della resistenza ad altri agenti nella terapia combinata. I meccanismi d’azione e di resistenza all’etambutolo non sono completamente noti. L’obiettivo primario dell’etambutolo sembra essere l’arabinosiltransferasi, un enzima coinvolto nell’assemblaggio della parete cellulare. L’interazione dell’etambutolo con il suo bersaglio molecolare sembra essere molto stereospecifica: lo stereoisomero (S,S) è tra le 200 e le 500 volte più attivo dell’enantiomero (R,R) e 20 volte più attivo della forma meso (R,S). La sintesi dell’etambutolo è descritta nel Box 37.3.

COOH

OH

OH

H N

N H

CH3 OH

Etambutolo

NH2 Acido p-aminosalicilico

Cl

CH3 H N

O

O NH2 Cicloserina

N

N

N

N H

Cl

Acido p-aminosalicilico L’acido p-aminosalicilico – acido 4-amino-2-idrossibenzoico – (PAS, Fig. 37.9) è un composto sintetico noto da più di 100 anni. La sua attività anti-TB è stata segnalata per la prima volta nel 1940 durante la prima epoca della scoperta degli antibiotici. Attualmente, il PAS viene utilizzato solo per il trattamento della MDR-TB, quando la suscettibilità a questo agente è nota o prevista. Il PAS è considerato un analogo strutturale dell’acido p-aminobenzoico, e inibisce la sintesi di acido folico. Diversamente dai sulfamidici ad

Clofazimina

O H3C

CH3

N H

N

H N

NH2 S

Tioacetazone

Figura 37.9 Antitubercolari batteriostatici di seconda linea.

BOX 37.3 ■ Sintesi dell’etambutolo L’etambutolo viene ottenuto per reazione dell’(S)-2-aminobutanolo con il dicloroetano; a sua volta l’(S)-2-aminobutanolo può essere sintetizzato mediante due strategie diverse. La prima prepara il 2-aminobutanolo racemo per ossimetilazione del nitropropano con formaldeide,

H3C

NO2

H3 C

CH2O

NO2 *

seguita dalla riduzione del gruppo nitro; infine prevede la separazione chirale mediante cristallizzazione del sale con l’acido l-tartarico. La seconda parte da prodotti otticamente attivi e prevede la riduzione dell’estere etilico dell’acido (S)-2-aminobutanoico. H3C

H2 / Raney-Ni

NH2 * OH

OH

Acido L-tartarico

NH2

H3C O

O

NH2

H3C

H2 / Raney-Ni oppure PtO

OH

CH3

ClCH2CH2Cl / NaOH

OH H3C

H N

N H

OH Etambutolo

CH3

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810

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

ampio spettro, il PAS è attivo solo contro M. tuberculosis. Il PAS ha utilità molto limitata nel trattamento della TB a causa della sua debole efficacia e della bassa tollerabilità. L’inibizione della sintesi di acido folico in genere provoca un effetto batteriostatico che scompare durante la fase di crescita persistente.

Cicloserina La cicloserina – d-4-amino-3-isossazolidinone – (Fig. 37.9) è un prodotto naturale inizialmente isolato dallo Streptomyces orchidaceus nel 1950. Questo composto è un agente ad ampio spettro, attivo contro Gram-positivi e Gram-negativi. La cicloserina è solo marginalmente attiva contro il M. tuberculosis, e viene utilizzata principalmente per il trattamento della MDR-TB. L’uso della cicloserina è limitato a causa della sua attività debole e delle frequenti reazioni avverse. L’obiettivo primario della cicloserina è la d-alanina racemasi, enzima responsabile dell’interconversione tra gli enantiomeri dell’alanina ed essenziale per la sintesi della parete cellulare batterica. La cicloserina agisce come analogo strutturale della d-alanina e lega covalentemente il sito catalitico dell’enzima. La limitazione principale della cicloserina, oltre alla sua attività relativamente bassa, è il suo profilo di tossicità. Tioacetazone Il tioacetazone – N-(4-{[(aminotiossometil)idrazono]metil} fenil)acetamide – (Fig. 37.9) è usato nel trattamento della tubercolosi, ma ha debole attività contro M. tuberculosis ed è utile solo nel prevenire la resistenza ai farmaci più potenti; è usato in modo simile all’etambutolo. Molti Paesi dell’Africa subsahariana usano ancora il tioacetazone perché è estremamente a buon mercato, ma il suo uso è in declino perché può causare gravi (talvolta fatali) reazioni cutanee nei pazienti HIV-positivi. Clofazimina La clofazimina – N,5-bis(4-clorofenil)-3-[(1-metiletil) im­mino]-2-fenazinamina – (Fig. 37.9) agisce legandosi alle basi guaniniche del DNA batterico, bloccando in tal modo la funzione di modello del DNA e inibendo la proliferazione batterica. La clofazimina aumenta anche l’attività della fosfolipasi A2 batterica, che porta al rilascio e all’accumulo di lisofosfolipidi: questi sono tossici e inibiscono la proliferazione batterica. Bedaquilina La bedaquilina – (1R,2S)-1-(6-bromo-2-metossi-3-quino­ lil)-4-dimetilamino-2-(1-naftil)-1-fenil-butan-2-olo – è il primo farmaco lanciato per il trattamento della TB da oltre 40 anni ed è originato da una partnership tra la Tibotec (Belgio) e l’alleanza globale per lo sviluppo della farmaci per la TB (USA), culminata nell’approvazione nel dicembre del 2012. La bedaquilina nasce dall’osservazione che il nucleo chinolinico è una struttura privilegiata nella chimica farmaceutica perché mostra una vasta gamma di attività biologiche, come antibatterico, antitumorale, antimalarico, antiprolife-

ISBN 978-88-08-18712-3

rativo, antinfiammatorio, antipertensivo e anti-HIV. L’ottimizzazione strutturale di una classe di composti a struttura chinolinica ha portato all’identificazione di diversi potenti composti anti-TB tra i quali la bedaquilina. Un dettagliato studio meccanicistico ha rivelato che l’obiettivo di questo composto è la ATP sintetasi micobatterica, enzima essenziale per la produzione di energia in M. tuberculosis. Br H3C N CH3 OH N H 3C

O

Bedaquilina

La bedaquilina è soggetta principalmente al metabolismo ossidativo che porta alla formazione del metabolita N-monodemetilato. Questo ha un’attività antitubercolare dalle 4 alle 6 volte inferiore rispetto al progenitore, e sembra possedere attività cardiotossica a causa dell’inibizione dei canali hERG.

37.2 F  armaci per il trattamento della lebbra Le lesioni della pelle, la perdita di sensibilità al dolore e i nervi superficiali sono i tre principali segni di lebbra, una malattia causata dal Mycobacterium leprae. La lebbra può essere classificata sulla base delle manifestazioni cliniche e dell’esame di uno striscio di pelle. Nella classificazione basata su strisci di pelle, i pazienti che presentano strisci negativi sono affetti da lebbra paucibacillare (PB), mentre gli strisci positivi definiscono la lebbra multibacillare (MB); tuttavia, nella pratica si utilizzano maggiormente criteri clinici quali il numero di lesioni cutanee e di nervi coinvolti. Secondo i rapporti ufficiali, il numero di nuovi casi registrati è diminuito da più di 400 000 nel 2004 a 219 000 nel 2011: questo risultato è stato possibile grazie all’integrazione di elementi chiave nella strategia per eliminare la lebbra, quali l’accesso alle informazioni, la diagnosi e il trattamento con la terapia multifarmaco (MDT). Il trattamento MDT è stato reso disponibile da parte dell’OMS gratuitamente a tutti i pazienti di tutto il mondo dal 1995, e fornisce una cura semplice ma molto efficace per tutti i tipi di lebbra. I farmaci utilizzati in OMS-MDT sono una combinazione di rifampicina, clofazimina e dapsone per i malati di lebbra MB; rifampicina e dapsone per i malati di lebbra PB. Tra questi, la rifampicina è il farmaco antilebbra più importante ed è quindi incluso nel trattamento di entrambi i tipi di lebbra. La maggior parte della produzione esistente di clofazimina viene donata attraverso l’OMS da Novartis.

CAPITOLO 37 • Chemioterapici antimicobatterici

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O

O S

O

NAT-2

H 2N O

N H

O

CH3

S H2N

O

NH2

Ossiemoglobina

O

Metaemoglobina

O

S

Dapsone CYP2C9

H 2N

O S

N H

OH

GSH

H2N

NO Nitrosodapsone

Idrossidapsone

Fase 2

O

O

O

S H2N

O S

NH-Glucuronide

H2N

NH-solfato

Figura 37.10 Dapsone e suo metabolismo.

O

O O H3C

N H

Acedapsone

O

O

S

S

O N H

CH3

O

S ONa

N H

Sulfoxone

N H

S

O

ONa

Figura 37.11 Derivati del dapsone.

37.2.1 Dapsone Il dapsone – 4,4'-solfonilbisbenzenamina – è un solfone che agisce probabilmente con un meccanismo d’azione simile a quello delle sulfonamidi e, oltre a essere usato nella terapia della lebbra, è anche un agente antinfiammatorio utile in condizioni caratterizzate dall’infiltrazione di neutrofili attivati, come la dermatite erpetiforme (DH). Tuttavia, il farmaco provoca la formazione di metaemoglobina dovuta a un’idrossilamina (idrossidapsone, Fig. 37.10) originata dall’ossidazione del dapsone mediata dal CYP2C9. Il dapsone, non essendo un substrato degli enzimi acetilanti, viene escreto nelle urine solo in piccola percentuale come monoacetilato; viene invece maggiormente ossidato dal CYP2C9 a dare l’idrossilamina che, a sua volta, è un substrato relativamente povero per la glucuroniltransferasi di fase II. L’idrossilamina che sfugge alla fase II entra nella circolazione e ossida l’emoglobina a metaemoglobina, generando il nitrosodapsone. Il ciclo si ripete più volte a causa della presenza di GSH nel globulo rosso, che rigenera l’idrossidapsone. L’ossidazione iniziale viene quindi amplificata dal GSH che è presente in

concentrazioni millimolari. Il risultato è un processo molto rapido, in cui appena il metabolita viene prodotto si inizia a formare metaemoglobina in quantità significativa, in modo direttamente proporzionale al livello di metabolita rilasciato dal fegato, che è ovviamente proporzionale alla dose del farmaco. La metaemoglobina che viene prodotta non può trasportare l’ossigeno: si verifica quindi anossia tissutale con sintomi che variano da mal di testa a effetti dei postumi di un’ubriacatura. Il dosaggio giornaliero standard di circa 100 mg di solito porta il livello di metaemoglobina circa al 5-8%, che è tollerabile per la maggior parte dei pazienti. Vista la scarsa solubilità in acqua del dapsone sono stati sintetizzati diversi analoghi in cui sono stati introdotti gruppi polari, in grado di permettere una più facile somministrazione per via iniettiva. Molti derivati sono stati sintetizzati nel corso degli anni e alcuni sono entrati in terapia, ma visti gli scarsi vantaggi terapeutici non sono più in uso. Si può citare il sulfoxone – sale disodico dell’acido solfonilbis(4,1fenileneimino)bismetanesolfinico – (Fig. 37.11), molto solubile in acqua, che viene convertito in vivo in dapsone.

811

812

FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 37.4 ■ Sintesi del dapsone e dei suoi derivati Il dapsone può essere sintetizzato per reazione del pcloronitrobenzene con il sale sodico dell’acido 4-acetamidobenzensolfinico e successiva riduzione e idrolisi con cloruro stannoso in acido cloridrico. Il sulfoxone e O

S

ONa

Cl

O

l’acedapsone vengono ottenuti a partire dal dapsone, il primo per reazione con l’addotto tra il sodio bisolfito e la formaldeide, il secondo per semplice acetilazione con anidride acetica.

O

O S

SnCl2/HCl

> 140 °C

+

HN HN

O

NO2

H2N

NO2

O S NH2

Dapsone

O

H3C

CH3

O HO

S

O H3C

O

O

O S

NaO

S O

N H Sulfoxone sodico

L’acedapsone – 4,4'-diacetildiaminodifenilsolfone – (Fig. 37.11) è il diacetil derivato del dapsone, è somministrato per via iniettiva (sospensione in olio) per essere lentamente convertito in dapsone con un’emivita di 42,6 giorni. L’acedapso-

S O

ONa

H3C

O

CH3

O S

O N H

O

ONa

N H

O N H

CH3

Acedapsone

ne viene quindi usato come forma deposito a lento rilascio per la profilassi e il trattamento della lebbra. La sintesi del dapsone e dei suoi derivati è descritta nel Box 37.4.

38

Chemioterapici antifungini Stefano Alcaro, Anna Artese, Francesco Ortuso

38.1  I miceti 38.2  Le micosi 38.3  Farmaci antifungini 38.3.1 38.3.2 38.3.3 38.3.4 38.3.5 38.3.6 38.3.7 38.3.8 38.3.9

Polieni Azoli Allilamine/benzilamine Tiocarbamati Morfoline Benzofuran-cicloeseni Echinocandine Pirimidine Poliossine e nikkomicine

38.4  Conclusioni

L’incidenza di infezioni fungine è aumentata significativamente durante gli ultimi anni. Praticamente sconosciute fino al secondo dopoguerra, fino agli anni ’70 le infezioni fungine erano diagnosticate raramente ed erano generalmente considerate curabili: di conseguenza si sentiva molto poco l’esigenza di disporre di nuovi farmaci antifungini. Da allora a oggi le infezioni micotiche della pelle e delle unghie sono divenute molto comuni e, sebbene nella maggior parte dei casi possano essere trattate con gli agenti antifungini esistenti, gravi infezioni fungine invasive stanno diventando un pericolo sempre maggiore per la salute pubblica. I più comuni agenti patogeni che causano infezioni fungine invasive sono Candida spp., Aspergillus (che rispettivamente provocano il 70-90% e il 10-20% di tutte le micosi invasive), Criptococcus neoformans, Pneumocystis carinii e Histoplasma capsulatum. Un allarmante aumento di casi di infezioni fungine sistemiche potenzialmente letali si registra nei malati di AIDS. In particolare la Candida è il secondo agente eziologico isolato negli ospedali in pazienti immunocompromessi, secondo solo allo stafilococco coagulasi-negativo. Studi recenti

indicano come le candidemie nosocomiali rappresentino il 1015% di tutte le infezioni sanguigne acquisite negli ospedali. Si registrano casi di candidosi sistemiche fin nel 10% di tutti i neonati sottopeso ( 1200 Da), le echinocandine presentano una bassa biodisponibilità orale: per tale motivo la loro somministrazione avviene esclusivamente per via endovenosa. Tutte le echinocandine possiedono un’emivita tra le 8 e le 13 ore e un alto tasso di legame alle proteine plasmatiche (> 99%), principalmente all’albumina serica. Vengono metabolizzate nel fegato, ma non si ipotizza un significativo coinvolgimento del sistema del citocromo P450. Non sono sottoposte a intense trasformazioni metaboliche prima dell’escrezione e i principali metaboliti, dovuti a reazioni di idrossilazione e metossilazione sulla catena laterale, risultano inattivi. La lunga emivita di eliminazione (circa 24 ore) consente un’unica somministrazione giornaliera. Gli effetti avversi più comuni, riscontrati in seguito all’uso delle echinocandine per infusione, sono manifestazioni di rossore, orticaria, prurito, rash, tromboflebiti nel sito di applicazione, disturbi gastrointestinali e occasionale aumento dei livelli degli enzimi epatici. Le echinocandine rappresentano gli antifungini con minori interazioni farmacologiche, a eccezione delle ciclosporine i cui livelli plasmatici, a seguito di cosomministrazione, risultano incrementati.

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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38.3.8 Pirimidine

38.3.9 Poliossine e nikkomicine

La flucitosina – 6-amino-5-fluoro-1H-pirimidin-2-one – o 5-fluorocitosina, è una pirimidina fluorurata strutturalmente correlata al fluorouracile e alla floxuridina.

Le poliossine (ad es. la poliossina A – (S)-(E)-1-(5-{[2-amino-5-O-(aminocarbonil)-2-deossi-l-xilonoil]amino}-1,5dideossi-1-[3,4-diidro-5-(idrossimetil)-2,4-diosso-1(2H)pirimidinil]-β-d-allofuranuronoil)-3-etilidene-2-azetidin acido carbossilico) e le correlate nikkomicine (ad es. la nikkomicina Z – (2S)-2-{[(2S,3S,4S)-2-amino-4-idrossi-4-(5-idrossipiridin-2-il)-3-metilbutanoil]amino}-2-[(2R,3S,4R,5R)5-(2,4-diossopirimidin-1-il)-3,4-diidrossiossolan-2-il]acido acetico) sono antibiotici nucleosido-peptidici prodotti dagli streptomiceti e scoperti tra gli anni ’60 e ’70. Sono una potente classe di agenti antifungini inibitori della sintesi della chitina, poiché competono con il substrato UDP-N-acetilglucosamina della chitina sintasi.

O NH NH2

N F

Flucitosina

Presenta attività contro Cryptococcus neoformans, Candida spp., Candida glabrata. La flucitosina determina il suo effetto antifungino in quanto interferisce con la sintesi delle pirimidine. Penetra all’interno della cellula, per mezzo di un enzima di permeazione (permeasi), e subisce una reazione di deaminazione da parte della citosina deaminasi, la quale la converte in 5-fluorouracile, potente antimetabolita. Il 5-fluorouracile è dapprima metabolizzato ad acido 5-fluorouridilico dall’enzima uridina monofosfato pirofosforilasi e successivamente può essere incorporato nell’RNA o essere metabolizzato ad acido 5-fluorodeossiuridilico, potente inibitore della timidilato sintasi (Scheda 38.11). Conseguentemente, la sintesi del DNA e la divisione nucleare sono compromesse. Le cellule dei mammiferi non convertono la flucitosina a fluoro uracile, per cui la flucitosina risulta altamente selettiva. Nei funghi filamentosi mancano gli enzimi fondamentali per la conversione della flucitosina, pertanto il farmaco possiede uno spettro ristretto nei confronti dei lieviti patogeni. Tuttavia, l’amfotericina B rimane l’agente terapeutico più efficace nella terapia di infezioni da lieviti. Quando usata in monoterapia, la flucitosina provoca la rapida comparsa di ceppi resistenti, per cui viene impiegata principalmente in associazione all’amfotericina B, eccetto che nel trattamento delle cromomicosi. La somministrazione contemporanea è risultata molto efficace nella cura della meningite criptococcica e di quella causata da Candida. L’assorbimento gastroenterico del farmaco è rapido e completo; il legame alle proteine plasmatiche è debole, mentre la diffusione tissutale è buona a tutti i livelli, compreso liquor, umor acqueo e secrezioni bronchiali. La sua biotrasformazione è assente e l’eliminazione risulta rapida ed esclusivamente per via renale in forma immodificata. La flucitosina può deprimere la funzione del midollo osseo e portare allo sviluppo di anemia, leucopenia e trombocitopenia; sono più inclini a questa complicazione i pazienti con disturbi ematologici in corso o quelli trattati con radiazioni e farmaci che danneggiano il midollo osseo. I motivi della tossicità midollare sono dovuti alla trasformazione del farmaco in 5-fluorouralcile da parte della flora batterica intestinale. L’intensità dell’effetto collaterale può aumentare a dosi elevate, in seguito all’associazione con amfotericina B, in soggetti immunodepressi (AIDS) e in presenza di insufficienza renale. Possono verificarsi anche eruzioni cutanee, disturbi digestivi, di tipo dose-dipendente, solitamente con nausea, vomito, diarrea e grave enterocolite.

OH CH3

O

O H2N

OH

O

O HO

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N

O

O

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O

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Poliossina A OH O

O HN O

OH HO O

O

N HO

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N CH3

NH2

Nikkomicina Z

In Candida albicans e in Saccharomyces cerevisiae sono stati isolati 3 geni implicati nell’espressione di 3 diverse isoforme ridondanti di chitina sintasi: Chs1, Chs2 e Chs3. Ceppi di S. cerevisiae esprimenti solo la Chs3 si sono dimostrati più sensibili alla nikkomicina Z, a differenza di ceppi dotati solo della Chs2. Questa evidenza ha fatto ipotizzare che la chitina sintasi Chs3 sia il reale target per questo tipo di agente antifungino. La nikkomicina Z è l’unico analogo delle nikkomicine che ha mostrato il suo effetto sia in vivo sia in vitro nei confronti dei dermatofiti, Coccidioidis immitis e B. dermatitidis, ma anche un moderato effetto in vitro contro C. albicans, C. neoformans e H. capsulatum. Altri funghi patogeni, quali Cryptococcus neoformans, Aspergillus spp. e Fusarium spp. risultano resistenti al farmaco. Inoltre, la nikkomicina Z ha evidenziato un effetto sinergico se utilizzata in combinazione con fluconazolo o itraconazolo.

38.4 Conclusioni I nuovi antimicotici entrati nell’uso clinico presentano degli importanti miglioramenti nello spettro d’azione e nella farmacocinetica. I vantaggi possono essere:

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• itraconazolo, terbinafina, posaconazolo, ravuconazolo, voriconazolo ed echinocandine: buona attività su Aspergillus; • chetoconazolo, fluconazolo e itraconazolo: possono essere somministrati per via orale nella terapia delle micosi sistemiche; • fluconazolo: favorevole nel trattamento delle micosi a localizzazione meningea e urinaria; • amorolfina e terbinafina: possiedono un alto potere di concentrazione e penetrazione cutanea e transungueale; • amfotericina liposomiale (nuova preparazione galenica): ha condotto a una diminuzione della tossicità indotta dall’amfotericina B. La ricerca di nuovi composti è molto attiva, soprattutto per contrastare fenomeni di resistenza. Sono in fase di sperimentazione agenti in grado di agire sia a livello della membrana sia della parete cellulare fungina. Sono in fase di studio composti glicolipidici naturali, come la corinecandina, in grado di bloccare la biosintesi della membrana cellulare. Alcuni depsipeptidi, come l’artrichitina, in grado di inibire la sintesi della chitina in varianti di Candida e Trychophyton

CAPITOLO 38 • Chemioterapici antifungini

sono stati individuati da funghi marini. Anche sul fronte dell’inibizione proteica vi sono nuovi rimedi terapeutici di origine naturale, quali le sordarine che, interagendo con un fattore di elongazione, producono il blocco a livello ribosomiale. Aminoacidi ciclici non naturali, come la cispentacina, esplicano azione antifungina interferendo con il trasporto e il metabolismo di quelli naturali e indirettamente con la biosintesi proteica. Un altro nuovo meccanismo d’azione di antifungini in fase sperimentale prevede l’inibizione della biosintesi degli sfingolipidi attraverso peptidi ciclici, come l’aureobasidina A, macrolidi a 14 termini e acidi aldonici lineari a 22 atomi di carbonio. Infine, sostanze naturali a struttura dilattonica, quali l’antimicina A, interferiscono sul trasporto di elettroni con conseguenze nella respirazione mitocondriale. Un forte impulso alla scoperta di nuovi antifungini viene dalla disponibilità di informazioni biostrutturali dettagliate sui bersagli molecolari chiave per il ciclo vitale dei miceti. Come nel caso del fluconazolo, di cui è stato riportato il legame e la interazione a livello molecolare che stabilisce nella 14α-demetilasi (Scheda 38.7), tali informazioni risultano molto utili per l’identificazione e la progettazione razionale di nuovi agenti antimicotici basati su strutture chimiche innovative.

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Chemioterapici antiprotozoari Gianluca Sbardella

39.1  I protozoi 39.2  Chemioterapia della malaria 39.2.1 39.2.2 39.2.3 39.2.4 39.2.5 39.2.6

Biologia dell’infezione malarica F  armaci per il trattamento della malaria C  hinina, arilaminoalcoli e 4-aminochinoline 8-Aminochinoline Artemisinine Inibitori del metabolismo dell’acido folico: pirimetamina, sulfadossina, cicloguanil e proguanil 39.2.7 Antibiotici 39.2.8 Tendenze future

39.3 Chemioterapia della tripanosomiasi 39.3.1 F  armaci per il trattamento della malattia di Chagas 39.3.2 F  armaci per il trattamento della malattia del sonno

39.4 Chemioterapia della leishmaniosi 39.4.1 F  armaci per il trattamento della leishmaniosi

39.5 Chemioterapia di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi 39.5.1 A  mebiasi, giardiasi e tricomoniasi 39.5.2 F  armaci per il trattamento di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi

39.6 Chemioterapia della toxoplasmosi 39.6.1 La toxoplasmosi 39.6.2 F  armaci per il trattamento della toxoplasmosi

Le malattie dovute a infezioni da protozoi costituiscono un grave problema di salute pubblica, particolarmente nelle regioni tropicali e subtropicali del pianeta, in cui risiedono circa tre quarti della popolazione mondiale. In queste aree in via di sviluppo, infatti, la principale causa di morte e di malattia è dovuta alle infezioni, in particolare da protozoi, e alle infestazioni da elminti. La trasmissione delle infezioni può avvenire tramite insetti vettori (in genere artropodi ematofagi) o richiedere la presenza di un ospite intermedio.

I primi tentativi di controllo delle infezioni da protozoi si sono concentrati soprattutto sul controllo dei vettori. La promozione dell’igiene ambientale e l’utilizzo estensivo di pesticidi ha permesso di controllare in modo efficace la maggior parte delle infezioni e da oltre 50 anni le malattie trasmesse da vettori non sono più considerate un problema nei Paesi occidentali. Nei Paesi emergenti però l’applicazione dei metodi di controllo del vettore è di difficile attuazione. Inoltre, questo approccio è condizionato da importanti fattori quali

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la tossicità dei pesticidi, lo sviluppo di resistenze e i danni ecologici e climatici che influenzano la biologia dei vettori. Attualmente non sono disponibili vaccini per la prevenzione delle infezioni causate da parassiti e quindi il controllo di queste patologie si basa essenzialmente sulla terapia farmacologica. Sfortunatamente i farmaci antiprotozoari attualmente disponibili sono caratterizzati da molti limiti. Per alcune patologie, come la tripanosomiasi africana (malattia del sonno) e la malattia di Chagas cronica, i farmaci efficaci sono molto tossici alle dosi terapeutiche, mentre per altre infezioni parassitarie non esiste ancora alcun trattamento. Inoltre, il rapido sviluppo della farmacoresistenza mina profondamente l’utilità dei farmaci più efficaci e meglio tollerati attualmente in uso, come è drammaticamente dimostrato dall’ampia diffusione di ceppi resistenti di Plasmodium falciparum, il protozoo responsabile delle forme letali della malaria. L’inadeguatezza dei farmaci antiprotozoari è facilmente comprensibile se si considera che la maggior parte delle molecole sono state sviluppate e introdotte in terapia diversi anni fa. Appare quindi logica la necessità di sviluppare nuovi farmaci per il trattamento delle infezioni parassitarie. Ciò nonostante, fino a pochi anni fa vi era scarso interesse da parte delle industrie farmaceutiche a investire nella ricerca per lo sviluppo di farmaci a beneficio principalmente di popolazioni che poi non avrebbero avuto disponibilità economica sufficiente al loro acquisto. Tuttavia, la situazione potrebbe mutare nel prossimo futuro. L’accesso da parte di una fetta crescente della popolazione mondiale a mezzi di trasporto sempre più rapidi rende possibile a persone affette da patologie contagiose di spostarsi rapidamente in luoghi diversi portando con sé agenti patogeni. È stata anche dimostrata la possibilità che a trasportare il contagio non siano esseri umani, ma artropodi vettori di microrganismi. A partire dagli anni ’80, inoltre, sono stati segnalati casi di quella che è stata definita malaria da aeroporto. Si tratta di casi di malaria contratta in Paesi nei quali questa malattia non è presente, da persone che abitavano nei pressi di aeroporti. Queste persone erano state punte e contagiate da zanzare portatrici del plasmodio della malaria “imbarcate” su aerei provenienti da Paesi dove la malaria è endemica. Anche gli accresciuti volumi di commercio, nazionale e internazionale, possono contribuire alla diffusione di malattie e, in particolare, il commercio di cibi e di animali. Infine è da ricordare il ruolo delle migrazioni. I flussi migratori odierni si svolgono da Paesi a più alta vulnerabilità per l’emergenza di infezioni a Paesi a più basso rischio di diffusione di infezioni. Ciò fa sì che i migranti tendano a portare con loro nei Paesi d’arrivo anche una maggiore vulnerabilità alle infezioni. Un ulteriore impulso alla ricerca di nuove terapie deriva dal recente finanziamento di studi finalizzati alla conoscenza dettagliata dei cicli cellulari dei parassiti e dei loro meccanismi molecolari di regolazione dell’espressione genica. Tali studi hanno permesso di scoprire meccanismi fondamentali prima sconosciuti nelle cellule eucariotiche, che saranno di grande importanza nello sviluppo di farmaci e vaccini contro queste infezioni.

39.1 I protozoi I protozoi (regno dei protisti) sono organismi eucariotici unicellulari caratterizzati da cicli vitali molto complessi, che

CAPITOLO 39 • Chemioterapici antiprotozoari

penetrano nell’uomo tramite ingestione, punture di insetti o attraverso la cute danneggiata. Sono gli agenti eziologici della malaria, della tripanosomiasi, della giardiasi, della leishmaniosi, della criptosporidiosi e dell’amebiasi. Alcuni sono organismi intracellulari (ad es. il Plasmodium della malaria vive all’interno dei globuli rossi e Leishmania all’interno dei macrofagi), altri sono extracellulari, come le amebe (Giardia) che risiedono nel tratto intestinale. I protozoi che infettano cellule del sangue o tessuti profondi non sono in grado di svilupparsi in ambienti esterni e non hanno, quindi, stadi del ciclo vitale che permettano loro di crescere in maniera autonoma. Di conseguenza, la trasmissione tra un individuo e l’altro è mediata da insetti vettori (in genere artropodi ematofagi) che, pungendo un nuovo soggetto, propagano l’infezione. I protozoi intestinali e quelli extracellulari, invece, sono trasmessi per via orofecale. In genere questi parassiti hanno una forma vegetativa all’interno del corpo di un individuo infetto, che produce cisti resistenti all’acido e alla disidratazione nell’intestino; una volta eliminate all’esterno, queste cisti vengono ingerite da un nuovo individuo e l’infezione si propaga. In diversi protozoi (plasmodi, Toxoplasma, Babesia) sono stati identificati organuli non presenti in altri organismi, come gli apicoplasti, che consentono loro di sopravvivere in particolari ambienti dell’ospite. Inoltre, membri del genere Trichomonas contengono un altro organulo, chiamato idrogenosoma, che non contiene DNA, citocromi o enzimi del ciclo dell’acido citrico e produce ATP utilizzando piruvato per mezzo di enzimi tipici dei batteri anaerobi. Infine, nei tripanosomi, in Toxoplasma e nei plasmodi sono presenti organuli coinvolti nell’omeostasi del Ca2+, gli acidocalcisomi, che possiedono pompe proteiche responsabili del trasporto attivo di molecole e antiporti (trasportatori secondari, Ca2+/H+ e Na+/H+).

39.2 Chemioterapia della malaria La malaria (etimologicamente, da mala aria, cioè aria cattiva, infetta) è la più importante malattia causata da protozoi e colpisce ogni anno circa 250 milioni di persone, causando quasi 900 000 morti. È diffusa nelle regioni tropicali e subtropicali di tutti i continenti, in particolare in Africa. La grande maggioranza dei casi di malaria si verifica per infezione in seguito a puntura di zanzare del genere Anopheles portatrici del parassita. Sebbene possibile, la trasmissione attraverso aghi contaminati o trasfusioni è estremamente rara. Sono note 5 specie del genere Plasmodium in grado di infettare l’uomo con diversi gradi di virulenza: P. falciparum, P. vivax, P. ovale, P. malariae, e P. knowlesi. I primi due sono responsabili della maggior parte delle infezioni malariche a livello mondiale, P. falciparum principalmente nell’Africa subsahariana ed è associato alla forma più grave della malattia (malaria maligna terziaria), P. vivax nel subcontinente sudamericano e in buona parte (Sud ed Est) di quello asiatico. P. ovale e P. malariae causano infezioni malariche relativamente poco comuni, ma comunque di importanza epidemiologica. P. knowlesi, che fino a poco tempo fa era considerato infettivo per i soli primati non umani, è un parassita malarico zoonotico ed è responsabile di una forma spesso letale di malaria umana diffusa soprattutto nel Sud-Est asiatico (Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia). Esso, quindi,

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

dovrebbe essere considerato come una potenziale causa della malaria tra i viaggiatori di ritorno da queste regioni. Per molte delle specie di Plasmodium, inclusi P. falciparum, P. vivax, P. knowlesi e altre specie infettive per roditori e primati non umani, è stata determinata l’intera sequenza genomica. Insieme alla disponibilità di metodi per infettare sperimentalmente le zanzare e generare sporozoiti e parassiti allo stadio epatico, questa conoscenza ha consentito lo sviluppo di piattaforme chiave per la scoperta di farmaci. Tali piattaforme includono modificazioni genetiche attraverso il knockout genico, l’espressione e la complementazione eterologa, la sostituzione allelica, la selezione ad alta produttività dei parassiti patogeni asessuati allo stadio ematico, e saggi a produttività inferiore diretti contro altri stadi del ciclo vitale dei parassiti. Tuttavia, simili approcci sperimentali non hanno ancora avuto successo per P. vivax. Attualmente non sono ancora disponibili metodi per mantenere a lungo colture in vitro di forme di P. vivax allo stadio ematico, ma sono in fase di sviluppo per P. knowlesi, che condivide importanti somiglianze biologiche con P. vivax.

39.2.1 Biologia dell’infezione malarica Il complesso ciclo vitale di Plasmodium (Fig. 39.1) è simile in tutte le specie che infettano l’uomo. Il parassita è presente nell’uomo prevalentemente negli eritrociti e negli epatociti, mentre nella zanzara Anopheles gambiae si localizza nelle

Figura 39.1 Ciclo vitale di Plasmodium.

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ghiandole salivari e nell’intestino. Come mostrato in Figura 39.1, il ciclo inizia con la puntura di una zanzara, che introduce nel sistema circolatorio dell’uomo gli sporozoiti del Plasmodium presenti nella saliva dell’insetto, la quale contiene un anticoagulante. Gli sporozoiti raggiungono le cellule parenchimali del fegato, dove avviene la riproduzione asessuata (schizogonia). Questa fase di crescita (ciclo esoeritrocitico) dura tra gli 8 e i 24 giorni a seconda della specie di Plasmodium. Quando smettono di dividersi nel fegato, gli sporozoiti si trasformano in una forma latente (ipnozoiti, prevalentemente in P. vivax e P. ovale), che può causare la malaria anche molti anni dopo l’infezione iniziale. Quando gli epatociti vanno incontro a lisi, i plasmodi maturi si sono trasformati in merozoiti, che entrano nel circolo sanguigno e attaccano i globuli rossi dando vita al ciclo eritrocitico (parassitemia). Durante questo ciclo i merozoiti si trasformano in forme ad anello (ring forms), i trofozoiti mononucleati, che generano gli schizonti dotati di 6-24 nuclei. Gli schizonti generano i merozoiti mononucleati che lisano il globulo rosso (il quale libera tossine pirogene che causano gli attacchi febbrili) e invadono altri globuli rossi, ripetendo il ciclo. La fase eritrocitaria ciclica si ripete ogni 48-72 ore, a seconda del plasmodio (malaria terziaria o quaternaria con attacchi febbrili e brividi). Il ciclo si interrompe quando i merozoiti formano i gametociti maschili e femminili, che non determinano la lisi dei globuli rossi. Una zanzara, pungendo un individuo infetto,

CAPITOLO 39 • Chemioterapici antiprotozoari

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ingerisce (blood meal, pasto ematico) i gametociti immaturi; questi, giunti nell’intestino dell’insetto, lisano e si fondono generando uno zigote diploide (oocinete). Lo zigote migra verso la parete dell’intestino, dove forma le oocisti. All’interno dell’oocisti avviene la meiosi, che determina la formazione di cellule aploidi, gli sporozoiti (sporogonia), che migrano nelle ghiandole salivari della zanzara completando il ciclo del plasmodio. Quando la zanzara punge un nuovo individuo, trasferisce il parassita e dà vita a un nuovo ciclo.





39.2.2 F  armaci per il trattamento della malaria La corteccia della china, contenente la chinina, è stato il primo trattamento efficace della malaria. Il suo utilizzo terapeutico ebbe inizio nel XVII secolo ed è rimasto il trattamento di scelta fino agli anni ’40, quando vennero sviluppati nuovi farmaci di sintesi. Per quasi tutto il XX secolo la malaria è stata trattata con clorochina, pirimetamina e sulfadossina, farmaci economici e rapidamente efficaci. Lo sviluppo di resistenze, evidente fino dagli anni ’60, ha determinato la progressiva perdita di efficacia di questi farmaci. La classe di farmaci più recente per il trattamento della malaria comprende il composto naturale artemisinina e suoi derivati semisintetici. Sono efficaci anche alcuni antibiotici utilizzati in associazione con derivati sintetici della chinina. Nessuno dei farmaci antimalarici oggi disponibili è stato sviluppato in maniera razionale, cioè con lo scopo di inibire uno specifico bersaglio molecolare, ma sono stati individuati in base a saggi in vitro o in vivo su modelli animali e solo successivamente si è cercato di identificarne il preciso meccanismo d’azione. La comprensione dei meccanismi molecolari del processo di infezione da parte di P. falciparum permetterà non solo di identificare con precisione il meccanismo d’azione di farmaci antimalarici, ma anche di capire le basi molecolari dei fenomeni di resistenza e sviluppare farmaci nuovi e più efficaci. I farmaci antimalarici possono essere classificati in base alla loro struttura chimica in: • chinina e arilaminoalcoli; • 4-aminochinoline; • 8-aminochinoline; • artemisinine; • inibitori del metabolismo dell’acido folico: pirimetamina, sulfadossina e cicloguanil; • antibiotici; o in base all’azione sulle diverse fasi del ciclo vitale del parassita (Fig. 39.1), come segue. • Schizonticidi tissutali per la profilassi: 8-aminochinoline. Questi farmaci inibiscono la crescita del parassita nelle fasi pre-eritrocitarie del ciclo vitale (ad es. nella forma epatica), prevenendo la forma eritrocitaria e sintomatica dell’infezione. Sono farmaci efficaci nella profilassi della malaria. • Schizonticidi tissutali per la prevenzione delle ricadute: 8-aminochinoline e pirimetamina. Questi farmaci uccidono gli ipnozoiti di P. vivax e P. ovale nel fegato, re-



sponsabili delle ricadute. Sono farmaci efficaci nell’eradicazione completa dell’infezione. Schizonticidi ematici: la maggior parte dei farmaci antimalarici. Questi farmaci agiscono sulla forma asessuata eritrocitaria, arrestando quindi i sintomi dell’infezione. Sono farmaci efficaci nella cura della malaria. Gametocitocidi: chinina e clorochina nei confronti di P. vivax e P. malariae; 8-aminochinoline nei confronti di tutte le specie di Plasmodium, compreso il P. falciparum. Questi farmaci agiscono sulle fasi ematiche sessuate del parassita, inibendo quindi la trasmissione del parassita dall’uomo alla zanzara. Sporontocidi: proguanil, clorproguanil, pirimetamine, atovaquone. Questi farmaci inibiscono la formazione delle oocisti nella zanzara, bloccando lo sviluppo degli sporozoiti e quindi la trasmissione dell’infezione.

Il meccanismo d’azione dei farmaci antimalarici è descritto nel Box 39.1. Dettagli sull’insorgenza della resistenza agli antimalarici sono contenuti nel Box 39.2.

39.2.3 C  hinina, arilaminoalcoli e 4-aminochinoline Gli alcaloidi della china sono presenti nella corteccia della Cinchona (Fig. 39.2), un genere di piante arboree diffuso soprattutto nelle Ande. I nativi americani utilizzavano da tempo la corteccia della cinchona come rimedio antipiretico, ma fu solo dopo l’arrivo degli spagnoli nel XVII secolo che ne vennero evidenziate le proprietà antimalariche. In seguito alla scoperta casuale, da parte dei gesuiti che vivevano in Perù, che la corteccia della china era in grado di curare la malaria, nel 1640 il monaco Bernabè Cobo ne introdusse l’uso nella medicina europea. La corteccia della china fu ufficialmente introdotta nella London Pharmacopoeia nel 1677 e nel 1681 fu universalmente accettata come prodotto antimalarico. Nel 1820 venne isolata la chinina (Fig. 39.2), il principio attivo presente nella corteccia della china, che sostituì quindi il preparato tradizionale nel trattamento della malaria. L’esigenza sempre più elevata di chinina determinò una marcata riduzione della disponibilità della fonte naturale e già nel 1850 i chimici si concentrarono sul determinare la corretta struttura della chinina per impostare strategie sintetiche che permettessero di ottenere la molecola non utilizzando la pianta. Solo nel 1940 venne però completamente chiarita la struttura della chinina e la sua sintesi totale venne realizzata nel 2001. Dal punto di vista strutturale la chinina presenta un nucleo chinolinico in cui il gruppo idrossimetilico in posizione 4 è sostituito con un anello chinuclidinico; nella molecola sono presenti 5 centri stereochimici importanti per l’attività antimalarica (Fig. 39.2 e Scheda 39.1). Dalla corteccia della Cinchona vengono estratti altri alcaloidi strutturalmente correlati alla chinina. Tra questi, la chinidina, che differisce dalla chinina per la configurazione dei carboni C8 e C9, è caratterizzata da una buona attività antimalarica, sebbene venga utilizzata in terapia principalmente come antiaritmico.

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BOX 39.1 ■ Meccanismo d’azione dei principali farmaci antimalarici La maggior parte dei farmaci antimalarici agisce sulla forma eritrocitaria del ciclo vitale del parassita. Il Plasmodium infetta gli eritrociti dell’ospite e la sua sopravvivenza in questo particolare ambiente implica diversi fenomeni di adattamento che lo rendono suscettibile

all’azione di diversi farmaci. La figura riassume il meccanismo d’azione dei principali farmaci antimalarici, evidenziando le strutture subcellulari bersaglio dell’azione dei farmaci e gli specifici processi che vengono inibiti.

BOX 39.2 ■ Meccanismo di resistenza agli antimalarici Nel corso degli anni gli antimalarici hanno perso progressivamente la loro efficacia a causa dello sviluppo di ceppi resistenti di P. falciparum. È opportuno sottolineare che la resistenza differisce da regione a regione e in alcuni casi verso un particolare farmaco può svilupparsi un ceppo resistente anche senza che il farmaco in questione sia mai stato usato in quella regione (possibile resistenza crociata). L’efficacia degli antimalarici correlati alla chinina è associata alla loro capacità di accumularsi selettivamente nel vacuolo digestivo del parassita e uno dei meccanismi di resistenza principale a questi farmaci è dovuto a un ridotto accumulo nel vacuolo digestivo. In particolare, nei ceppi resistenti sono state evidenziate

La difficoltà nel reperimento della materia prima naturale e la complessità della sintesi della chinina indussero le compagnie farmaceutiche a sviluppare composti strutturalmente correlati alla chinina ottenibili agevolmente per via sintetica. L’analisi delle relazioni tra la struttura e l’attività della chinina portò alla sintesi della meflochina, dell’alofantrina e

mutazioni cromosomali in geni che codificano per proteine di trasporto presenti nella membrana del vacuolo digestivo. Nel dettaglio, tre trasportatori sono stati associati alla resistenza ai farmaci antimalarici: PfCRT (P. falciparum chloroquine resistance transporter), PfMDR1 (P. falciparum multidrug resistance transporter 1) e PfMRP (P. falciparum multidrug resistance-associated protein). Da notare che nei mammiferi superiori sono presenti pompe di efflusso omologhe a PfMDR1, come la glicoproteina P umana (P-gp), una proteina di trasporto appartenente alla superfamiglia ABC (ATP-binding cassette) anche nota coma proteina di resistenza multifarmaco 1 (MDR1).

della lumefantrina, arilaminoalcoli rappresentati in Figura 39.3. Questi composti presentano proprietà farmacologiche analoghe o superiori a quelle della chinina, e sono ottenibili facilmente per via sintetica. Una seconda classe di antimalarici di sintesi correlati alla chinina e terapeuticamente molto importante sono le 4-aminochinoline. La clorochina, primo rappresentante di questa

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HO H3CO

6'

5'

H2C

*

H

4

9

*

* 8

N *

3

4'

7' 8'

H HO

2'

N

N

H3CO

3'

Corteccia di Cinchona

H2C

*

N

1'

Chinidina

Chinina

Figura 39.2 Struttura degli alcaloidi chinina e chinidina.

CH3 HO HO

N

Cl

F3C N

Meflochina

N

CH3 CH3

N H H

CF3

HO

CH3

Cl

Cl

CF3 Cl

Cl

Alofantrina

Lumefantrina

Figura 39.3 Struttura degli arilaminoalcoli meflochina, alofantrina e lumefantrina.

classe di farmaci, venne sviluppata sulla base delle relazioni struttura-attività della chinina e sulle proprietà antimalariche della chinacrina – mepacrina o N4-(6-cloro-2-metossi9-acridinil)-N1,N1-dietil-1,4-pentandiamina. La chinacrina, sintetizzata nel 1934, è un’acridina che presenta in posizione 9 una catena aminica e ha diverse proprietà farmacologiche, tra cui una debole azione antiparassitaria. Nel tentativo di trovare analoghi sintetici della chinina, vennero sintetizzati molti derivati della chinacrina, al fine di trovare composti con un’attività antimalarica più elevata. I composti più efficaci identificati furono le 4-aminochinoline: questi composti presentavano, come la chinina, un nucleo chinolinico, ma in posizione 4 avevano, in analogia alla chinacrina, un gruppo aminico anziché un gruppo idrossimetilico. Tra le centinaia di 4-aminochinoline sintetizzate, la clorochina risultò essere la più efficace e venne introdotta nel trattamento della malaria nel 1947. Altre 4-aminochinoline utilizzate sono l’idrossiclorochina e l’amodiachina (Fig. 39.4).

Meccanismo d’azione Durante la forma eritrocitaria il Plasmodium degrada fino all’80% dell’emoglobina della cellula ospite. Questo processo avviene nel vacuolo digestivo e porta all’accumulo di aminoacidi che vengono utilizzati dal parassita per la sintesi delle proprie proteine. La degradazione dell’emoglobina porta anche alla formazione di elevante quantità di Fe(II)eme libero

che rapidamente si ossida a Fe(III)eme libero [Fe(III)-ematina o Fe(III)-protoporfirina-IX], prodotto potenzialmente tossico per il plasmodio. Il Fe(III)eme libero infatti determina la formazione di specie reattive dell’ossigeno (reactive oxygen species, ROS) e, data la sua lipofilia, è in grado di inserirsi nelle membrane cellulari determinandone l’alterazione della permeabilità e l’ossidazione di alcuni componenti. Pertanto, la presenza di elevate concentrazioni di eme libero nei vacuoli digestivi induce stress ossidativo, lisi cellulare e può determinare la morte del parassita. Per ovviare alla tossicità del Fe(III)eme libero, il parassita presenta un particolare sistema di detossificazione, che consiste nella trasformazione dell’eme in un pigmento cristallino inerte, l’emozoina (pigmento malarico), un polimero la cui unità fondamentale è la β-ematina, ottenuta dalla dimerizzazione di due molecole di Fe(III)-ematina (Fig. 39.5). Questo processo di detossificazione viene efficacemente inibito dalla chinina, dagli arilaminoalcoli e dalle 4-aminochinoline. Questi antimalarici, infatti, si accumulano nel vacuolo digestivo e formano un complesso con l’eme, in cui la porzione aromatica si lega con la porfirina attraverso interazioni π. Il complesso farmaco-eme blocca la formazione e l’accrescimento del polimero di emozoina e determina l’aumento della concentrazione di eme libero, letale per il plasmodio. L’accumulo di 4-aminochinoline nel vacuolo digestivo è dovuto alla loro natura di basi deboli, come indicato dai valori di pKa. Infatti, una volta

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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4-Aminochinoline CH3

CH3 Acridina

N

HN

CH3

N OCH3

CH3

Cl

N Clorochina

Cl

OH

N Idrossiclorochina OH

Cl

N

HN

CH3

CH3 HN

CH3

CH3

N HN

Mepacrina

Cl

CH3 N

CH3

N Amodiachina

Figura 39.4 Struttura della mepacrina e delle 4-aminochinoline.

Figura 39.5 Detossificazione del Fe(III)eme libero e meccanismo d’azione degli antimalarici.

raggiunto il citoplasma, le chinoline si trovano nella situazione in cui il pH del liquido extracellulare è 7,4 e quello dei vacuoli digestivi è acido (pH 4,8-5,2): essendo basi deboli, si sposteranno verso i vacuoli digestivi. Di conseguenza,

la concentrazione di farmaco all’interno di questi ultimi è centinaia di volte più alta di quella nel plasma. Inoltre, il legame della chinolina all’eme sposta ulteriori quantità di farmaco all’interno dei vacuoli.

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Farmaci più utilizzati La chinina non è più considerata il farmaco antimalarico di prima scelta, date le sue notevoli limitazioni. Il principale svantaggio della chinina è determinato dalla sua elevata tossicità presente anche alle dosi terapeutiche. Gli effetti collaterali più significativi sono gravi cardiopatie e il cinconismo, una condizione patologica associata all’utilizzo degli alcaloidi della china caratterizzata da cefalea, convulsioni, disturbi uditivi, vertigini, nausea, vomito e disturbi visivi. La chinina viene rapidamente metabolizzata ed è efficace solo in seguito a trattamenti lunghi. Trova applicazione, in associazione con altri farmaci, nel trattamento della malaria da P. falciparum quando non sono utilizzabili agenti antimalarici di prima scelta. Ci sono 5 centri stereochimici nella molecola (C3, C4, C8, C9, N1; Scheda 39.1). La chinina – configurazione assoluta (3R,4S,8S,9R) –, la chinidina – configurazione assoluta (3R,4S,8R,9S) – e i loro isomeri ottici (tutti isomeri eritro) hanno attività antimalarica, mentre i loro epimeri C9 – isomeri treo, cioè la serie avente configurazione assoluta rispettivamente (3R,4S,8S,9S) e (3R,4S,8R,9R) – sono inattivi (o meno attivi) a causa della formazione di un legame idrogeno tra l’N1 alifatico e l’adiacente O12. Anche le modificazioni del gruppo alcolico secondario al C9, ottenute per

ossidazione o altro, fanno decrescere l’attività. La porzione chinuclidinica non è strettamente necessaria per l’attività, tuttavia è importante che al C9 sia legata un’amina alifatica terziaria. La chinina viene metabolizzata nel fegato ad opera dell’enzima CYP3A4 al derivato 2'-ossidrilato; successivamente l’anello chinuclidinico subisce un’ulteriore ossidrilazione che porta al 2,2'-diidrossi derivato, che costituisce il metabolita principale (Fig. 39.6). Esso ha scarsa attività e viene escreto rapidamente. La chinidina ha un’attività antimalarica maggiore della chinina, ma è anche più tossica, soprattutto a livello cardiaco. La meflochina – (R*,S*)-(±)-α-2-piperidinil-2,8-bis(tri­ fluorometil)-4-chinolinmetanolo –, sintetizzata con l’intento di bloccare il sito metabolico della chinina con il gruppo chimicamente stabile CF3 (Box 39.3), fu introdotta in terapia nel 1985. Esiste in forma di 4 isomeri ottici dotati circa della stessa attività. È un derivato metabolicamente più stabile della chinina ed è efficace sulla forma eritrocitaria di P. falciparum, mentre è inefficace contro le forme sessuate dell’organismo. È utilizzato per la profilassi e per la terapia malarica anche contro i ceppi clorochina-resistenti. Il metabolismo del farmaco è una possibile via per la resistenza. La

H2C

H2C

H

H

HO

N

H3CO

H2C HO N

HO H3CO

CYP3A4

HO

N

OH

N

2'-Idrossichinina

HO

COOH CYP3A4

N

CF3

N

CF3

CF3

Meflochina CH3 HO

N

Cl

F3 C

CH3

CH3

HO

N

CYP3A4

Cl Alofantrina

Figura 39.6 Metabolismo di chinina, meflochina e alofantrina.

OH

2,2'-Diidrossichinina

N H H

CF3

N

H3CO

CYP3A4

N Chinina

H

Cl

F3C

Cl Desbutilalofantrina

H

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 39.3 ■ Sintesi della meflochina La sintesi parte dall’eterociclizzazione della 2-(trifluorometil)anilina con l’estere etilico del trifluoroacetoacetato, in presenza di acido polifosforico (PPA). La 2,8-bis(trifluorometil)-4-idrossichinolina così ottenuta viene fatta reagire con fosforo ossibromuro (POBr3), così da sostituire il gruppo OH in C4 dell’anello chinolinico con un atomo di bromo. L’organolitio derivato ottenuto dalla

successiva reazione con butil litio reagisce, poi, con biossido di carbonio fornendo, dopo acidificazione, il corrispondente acido carbossilico. La reazione di quest’ultimo con 2-piridil-litio e la successiva idrogenazione catalitica (catalizzata da biossido di platino) forniscono, infine, la meflochina come miscela di isomeri. Br

OH CF3

O

NH2 +

O

F3C

PPA

POBr3

OC2H5

N

CF3

CF3

CF3

Etile 4,4,4-trifluoro3-ossobutanoato

2-(Trifluorometil)anilina

N

CF3

n-Butil litio

N O

COOH N

N

Li 1. CO2 2. H+

Li

CF3

N

CF3

CF3

CF3

N

CF3

CF3

H2, PtO2

NH R

H

NH OH

S

S

H

OH

R

+ N

CF3

CF3

N

CF3

CF3 Meflochina

meflochina è lentamente metabolizzata attraverso ossidazione, mediata da CYP3A4, a carbossimeflochina inattiva (Fig. 39.6). Gran parte del farmaco è escreta invariata nell’urina. La sua cosomministrazione con inibitori del CYP3A4 (ad es. chetoconazolo), ne prolunga l’attività per inibizione della via metabolica. La meflochina è disponibile solo in formulazioni orali, che risultano ben assorbite. La presenza di cibo nel tratto gastrointestinale influisce sulle proprietà farmacocinetiche del farmaco, solitamente migliorandone l’assorbimento. La natura lipofilica del farmaco rende conto del notevole legame ai tessuti e della bassa clearance, sebbene il farmaco non si accumuli, anche dopo prolungate somministrazioni. Il farmaco ha un’elevata affinità per le membrane eritrocitarie. L’incidenza degli effetti collaterali della meflochina è molto elevata. Essi sono classificati come neuropsichiatrici (giramenti di testa, vertigini, atassia, mal di testa, fino a convulsioni e tendenza al suicidio), gastrointestinali (nausea,

vomito, diarrea), dermatologici (rash, prurito e orticaria) e cardiovascolari (bradicardia, aritmia, extrasistole). L’alofantrina – 1,3-dicloro-α-[2-(dibutilamino)etil]-6(trifluorometil)-9-fenantrenemetanolo –, disponibile dal 1988, è un derivato del 9-fenantrenmetanolo ed emerse originariamente da un programma di sintesi sviluppato durante la Seconda Guerra Mondiale, ma fu completato solo alla fine degli anni ’60. L’alofantrina ha un centro chirale, ma viene utilizzata nella forma racemica, dal momento che la differenza di attività tra i due enantiomeri è molto piccola. L’alofantrina è schizonticida con marcata attività sulla forma eritrocitaria del parassita ed è efficace anche in ceppi resistenti a diversi farmaci. Il farmaco è metabolizzato via N-dealchilazione a desbutilalofantrina da parte del CYP3A4 (Fig. 39.6). Il metabolita sembra essere diverse volte più attivo del farmaco somministrato. Attualmente è disponibile solo in forma di compresse e ciò ha implicazioni significative sulla biodisponibilità del farmaco, anche in relazione alla sua scarsa solubilità. Gli stu-

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di su animali hanno dimostrato che dopo somministrazione orale il farmaco è eliminato nelle feci, probabilmente a causa di scarso assorbimento. Rispetto all’assunzione in compresse, la somministrazione in sospensione orale porta a una concentrazione plasmatica inferiore del 30%. Qualche miglioramento in termini di biodisponibilità è stato ottenuto con una forma micronizzata del farmaco. Considerevoli variazioni nella concentrazione plasmatica si hanno anche in funzione della presenza di cibo nello stomaco contemporaneamente all’assunzione del farmaco. Infatti, un pasto con alto contenuto di lipidi assunto 2 ore prima del farmaco porta a un incremento sostanziale della velocità e del grado di assorbimento. È probabile che la causa di diversi trattamenti falliti sia da ascrivere allo scarso assorbimento. L’assorbimento incompleto e il basso livello plasmatico che ne deriva, insieme al tempo di emivita prolungato, possono giocare un ruolo nell’induzione della resistenza da parte del parassita. I problemi di assorbimento dell’alofantrina non possono essere risolti aumentando le dosi a causa dell’elevata tossicità cardiovascolare (ipotensione ortostatica e allungamento intervalli QT dose-dipendente) e gastrointestinale (nausea, vomito, diarrea e dolori addominali). Ciò costituisce un limite all’utilizzo del farmaco nel trattamento della malaria. La lumefantrina – 2-(dibutilamino)1-[(9Z)-2,7-dicloro-9-(4-clorobenzilidene)-9H-fluoren-4-il] etanolo – ha le stesse proprietà antimalariche della meflochina e dell’alofrantina, ma presenta una minore tossicità. Dal 1999 è utilizzata in combinazione con l’artemetere (Par. 39.2.5) nel trattamento della malaria da P. falciparum multifarmacoresistente. Non sono stati riportati casi di cardiotossicità per questa associazione. La clorochina – N4-(7-cloro-4-chinolinil)-N1,N1-dietil-1,4-pentandiamina – (Scheda 39.2) è la più efficace delle centinaia di derivati a struttura 4-aminochinolinica sintetizzati durante la Seconda Guerra Mondiale come potenziali antimalarici. Le relazioni struttura-attività dimostrano che l’atomo di cloro in posizione 8 accresce l’attività, mentre l’alchilazione al C3 e al C8 la diminuisce. La sostituzione di uno dei gruppi N-etile della clorochina con un idrossietile produce l’idrossiclorochina – 2-({4-[(7-cloro4-chinolinil)amino]pentil}etilamino)etanolo – (Fig. 39.4), un composto con ridotta tossicità che oggi è usato di rado tranne che nei casi di artrite reumatoide. La clorochina è il principale farmaco utilizzato nella profilassi e nel trattamento della malaria, data la sua elevata attività antiparassitaria e i ridotti effetti collaterali. Il farmaco è comunemente

OH HN

somministrato come miscela racemica, poiché l’uso dei singoli isomeri non porterebbe maggiore beneficio. Il farmaco è ben assorbito dal tratto gastrointestinale e si distribuisce in molti tessuti, dove si lega tenacemente ed è eliminato lentamente. Il farmaco è metabolizzato attraverso N-dealchilazione dagli enzimi CYP2D6 e CYP3A4. È stato riportato che il livello di metabolismo è strettamente correlato al grado di resistenza. La clorochina è un eccellente agente soppressivo nel trattamento degli attacchi acuti di malaria causati da P. vivax e P. ovale. Generalmente è un farmaco sicuro, con effetti tossici che si manifestano solo ad alte dosi o se il farmaco è somministrato troppo rapidamente per via parenterale. Con la somministrazione orale, gli effetti secondari sono soprattutto gastrointestinali, leggero mal di testa, disturbi visivi e orticaria. Le elevate potenzialità terapeutiche di questo farmaco si sono notevolmente ridotte a causa della comparsa di ceppi resistenti. In alcune aree dell’Africa subsahariana, la resistenza alla clorochina è associata a un grave aumento della mortalità a causa della malaria. La clorochina è prescritta anche per il trattamento dell’artrite reumatoide, del lupus eritematoso discoide e di malattie da fotosensibilità. L’amodiachina – 4-[(7-cloro-4-chinolinil)amino]-2[(dietilamino)metil]fenolo – (Scheda 39.3), introdotta in commercio negli anni ’40 e attualmente non più commercializzata negli Stati Uniti, presenta un’attività antimalarica superiore alla clorochina ed è stata ampiamente utilizzata fino agli anni ’80 in alternativa alla clorochina. Attualmente, data la sua attività su alcuni ceppi clorochina-resistenti, l’utilizzo dell’amodiachina nel trattamento di gravi infezioni da Plasmodium è stato rivalutato. Rispetto alla clorochina è stata riscontrata una maggiore incidenza di casi di epatite e di agranulocitosi. È noto che il sistema p-aminofenolico si ossida rapidamente nella corrispondente forma iminochinonica (Fig. 39.7) per ossidazione spontanea e/o metabolica, e il composto che ne deriva può contribuire alla tossicità riscontrata.

39.2.4 8-Aminochinoline Il primo rappresentante degli antimalarici a struttura 8-aminochinolinica è stata la pamachina, introdotta in terapia nel 1926. Vennero quindi sintetizzati diversi derivati, tra cui la primachina (Scheda 39.4), che ha sostituito la pamachina nel trattamento della malaria.

CH3 N

O

CH3

N

CH3 N

Ossidazione Riduzione

Cl

N Amodiachina

Figura 39.7 Ossidazione dell’amodiachina.

Cl

N Iminochinone dell’amodiachina

CH3

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5

H3CO

H3CO

4

6

7

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3

8

HN

N

N

2

HN

1

N CH3

CH3

NH2 CH3

CH3

Pamachina

Primachina

Figura 39.8 Struttura delle 8-aminochinoline.

mancanti dell’enzima glucosio-6-fosfato deidrogenasi. Tale caratteristica genetica è frequente nelle popolazioni che vivono in aree endemiche per la malaria e conferisce una certa resistenza al parassita. La resistenza alla primachina, anche se riportata in alcuni ceppi di P. vivax, è rara.

Dal punto di vista strutturale le 8-aminochinoline presentano un nucleo chinolinico che presenta in posizione 8 una catena aminica e sono, quindi, correlate alla chinina e alle 4-aminochinoline (Fig. 39.8). Si osservano variazioni molto piccole nelle relazioni struttura-attività di questa serie di composti. Tutti i composti appartenenti a questa serie hanno un ponte alchilico a 4 o 5 atomi di carbonio tra i due atomi di azoto. Nei composti contenenti un atomo di carbonio asimmetrico c’è poca differenza nell’attività antimalarica degli isomeri, nonostante qualche differenza minore nel metabolismo.

Farmaci più utilizzati La pamachina – N1,N1-dietil-N4-(6-metossichinolin-8-il) pentan-1,4-diamina –, primo antimalarico di sintesi, è stata ampiamente utilizzata nel trattamento delle ricadute e, in associazione alla chinina, nel trattamento della malaria da P. vivax. A causa della sua tossicità ematica, l’uso è stato successivamente abbandonato. La primachina – N4-(6-metossi-8-chinolinil)-1,4-pentandiamina – in associazione con la clorochina, rappresenta un trattamento di prima scelta in tutti i casi di malaria. Per la sua attività contro gli schizonti di P. vivax e P. ovale, viene utilizzata nella prevenzione delle ricadute e nella completa eradicazione dell’infezione. La primachina è quasi completamente metabolizzata dal CYP3A4 (99%) con formazione del metabolita primario, la carbossiprimachina (Fig. 39.9) insieme a tracce di N-acetilprimachina e altri metaboliti. La primachina è caratterizzata da una grave tossicità a livello ematico, che ne limita l’uso nel trattamento e soprattutto nella profilassi della malaria.

Meccanismo d’azione e resistenza Alle analogie strutturali tra le 8-aminochinoline e gli antimalarici correlati alla chinina non corrispondono meccanismi d’azione simili. La primachina, prototipo delle 8-aminochinoline, ha attività sugli schizonti ed è l’unico farmaco a oggi disponibile efficace nel prevenire le ricadute della malattia e nel determinare la completa eradicazione dell’infezione. Ha anche attività contro i gametociti e sporozoiti di tutti i ceppi di plasmodio. Il meccanismo d’azione della primachina non è stato completamente chiarito e non sono stati ancora identificati con precisione i bersagli molecolari dell’azione del farmaco. Si suppone che l’azione antimalarica della primachina sia determinata da molteplici attività; è stato dimostrato che la primachina altera il metabolismo mitocondriale del parassita, inducendo stress ossidativo tramite metaboliti altamente reattivi. La formazione di specie reattive dell’ossigeno è responsabile non solo dell’efficacia, ma anche della tossicità delle 8-aminochinoline. L’utilità terapeutica di questa classe di farmaci è quindi limitata dagli effetti collaterali, soprattutto metaemoglobinemia e anemia emolitica, dovuti al danno ossidativo a livello dei globuli rossi nei pazienti

H3CO

39.2.5 Artemisinine Le artemisinine sono i farmaci antimalarici più recenti. L’artemisinina è un composto naturale isolato nel 1977 da Artemisia annua, pianta erbacea utilizzata nella medicina tradizionale cinese come antipiretico. Poiché l’elevata attività antimalarica dell’artemisina era limitata dalle sue sfavorevoli proprietà farmacocinetiche, sono stati preparati diversi derivati semisintetici (artemetere, artesunato, diidroarte-

H3CO CYP3A4

N HN

H3CO

NH2 CH3

Primachina

Figura 39.9 Metabolismo della primachina.

N HN

N

+ COOH

CH3 Carbossiprimachina

HN

NHCOCH3 CH3

N-Acetilprimachina

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H Artemisia annua

H3C

CH3 H

O

H3C

O O H

O

CH3 O

Artemisinina

CH3

O O O H

O

CH3 OR

Artemetere: R = CH3 Artesunato: R = OCO(CH2)2COONa Diidroartemisinina: R = H

Figura 39.10 Artemisinina e derivati semisintetici.

misinina), il cui uso si è ampiamente diffuso negli ultimi due decenni. L’elemento strutturale fondamentale per l’attività antimalarica dell’artemisinina e dei suoi derivati è la presenza di un sistema “triossanico” composto dai due atomi di ossigeno dell’endoperossido e dall’ossigeno ossepinico (Fig. 39.10). L’artemisinina e i suoi derivati hanno un’elevata azione nei confronti degli schizonti ematici su tutti i ceppi di P. falciparum, compresi quelli resistenti alla clorochina. L’attività delle artemisinine sulle forme asessuate del parassita è molto ampia e include l’inibizione dello sviluppo dei trofozoiti, prevenendo quindi la progressione della patologia. Le artemisinine non uccidono i gametociti maturi, ma hanno un’azione sui precursori delle forme sessuate del parassita e sui gametociti allo stadio iniziale, per cui la conseguente riduzione della gametocitogenesi riduce la trasmissione della malaria. Una caratteristica particolarmente vantaggiosa di questa classe di antimalarici è la rapidità della loro azione, che consente la veloce eliminazione del parassita anche negli stadi iniziali del ciclo vitale, prevenendone quindi lo sviluppo e la diffusione nei tessuti. Le artemisinine sono inoltre caratterizzate, per il momento, da una bassa frequenza di ceppi resistenti. Il principale svantaggio delle artemisinine è rappresentato dal ridotto tempo di emivita, che aumenta la probabilità che alcuni parassiti possano eludere l’azione del farmaco durante il trattamento. Per ovviare a questo problema le artemisinine sono utilizzate in associazione con un altro farmaco antimalarico caratterizzato da un tempo di emivita maggiore, in modo che un farmaco riduca rapidamente l’iniziale concentrazione di parassiti, mentre il secondo elimini completamente i parassiti sottratti all’azione dell’artemisinina.

Meccanismo d’azione e resistenza Il meccanismo d’azione delle artemisinine prevede l’accumulo selettivo del farmaco nel vacuolo digestivo del parassita e la successiva rottura ossidoriduttiva del gruppo endoperossidico catalizzata dal Fe(II) presente nel gruppo eme. Questa reazione genera specie radicaliche altamente reattive che inducono l’alchilazione dello stesso gruppo eme e di importanti molecole del parassita, determinandone la morte. Non è stato ancora completamente chiarito il meccanismo attraverso il quale vengano generati i radicali liberi e quali siano le proteine coinvolte nella morte del parassita,

anche se alcune evidenze sperimentali indicano come potenziale bersaglio selettivo la Ca2+/ATPasi del reticolo sarcoplasmatico/endoplasmatico di P. falciparum (PfATP6). Comunque, è stato dimostrato che la tossicità selettiva delle artemisinine è legata alla loro capacità di accumularsi selettivamente negli eritrociti infetti. Attualmente l’incidenza della resistenza alle artemisinine è molto bassa in seguito a diversi fattori. Il basso tempo di emivita delle artemisinine riduce la possibilità che i parassiti vengano esposti a dosi subterapeutiche di farmaco e che quindi vengano selezionati ceppi resistenti. Un altro fattore che gioca un ruolo importante nel ridurre il fenomeno della resistenza è la pratica comune di utilizzare le artemisinine sempre in associazione con altri farmaci antimalarici. Dato il ruolo fondamentale di questa classe di farmaci nella moderna terapia antimalarica, la diffusione di ceppi di Plasmodium resistenti alle artemisinine avrebbe un effetto drammatico.

Farmaci più utilizzati Attualmente sono state approvate per il trattamento della malaria alcune associazioni di derivati semisintetici dell’artemisinina con altri farmaci. L’Organizzazione Mondiale della Sanità indica l’utilizzo di queste combinazioni (abbreviate con l’acronimo ACT, artemisinin-based combination therapy) come trattamento di scelta della malaria da P. falciparum non complicata in tutte le aree in cui la malaria è endemica. Le associazioni approvate e più diffuse sono artemetere-lumefantrina, artesunato-amodiachina e artesunato-meflochina.

39.2.6 Inibitori del metabolismo dell’acido folico: pirimetamina, sulfadossina, cicloguanil e proguanil Gli inibitori del metabolismo dell’acido folico sono già stati descritti nel Capitolo 36. La strategia terapeutica più efficace nel bloccare la sintesi dell’acido folico nel Plasmodium è quella di utilizzare la pirimetamina – 5-(4- clorofenil)6-etil-2,4-pirimidindiamina –, un inibitore della diidrofolato reduttasi (DHFR), in associazione con la sulfadossina – 4-amino-N-(5,6-dimetossi-4-pirimidinil)benzensolfonamide –, un inibitore della diidropteroato sintetasi (DHPS) (Fig. 39.11). Gli enzimi che catalizzano la sintesi

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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OCH3

N N O S

Cl

NH2

OCH3 N

NH O

H2N

CH3

N

H2N Pirimetamina

Sulfadossina

Cl

CH3 OH O

Cl

NH2

O

Atovaquone

H3C

N H

NH

Cl

NH N H

N H

N

N CH3

H2N

Proguanil

CH3 Cicloguanil

Figura 39.11 Strutture degli antimalarici che inibiscono il metabolismo dell’acido folico.

dell’acido folico nel plasmodio differiscono da quelli presenti in altri organismi. Una singola proteina bifunzionale presente in Plasmodium spp. catalizza sia la fosforilazione di 6-idrossimetil-7,8-idropterina (fosfochinasi) sia l’incorporazione del PABA (acido p-aminobenzoico) nell’acido diidropteroico. Un secondo enzima bifunzionale catalizza la riduzione dell’acido diidropteroico e la sintesi dell’acido timidilico. Perciò, il medicinale di associazione garantisce non solo un’azione sinergica tra due farmaci che inibiscono due enzimi diversi coinvolti nella stessa via biosintetica, ma riduce la possibilità dello sviluppo di resistenze. L’associazione ha azione killing nei confronti degli schizonti e degli sporozoiti ed è utilizzata nel trattamento della malaria, ma non più a scopo profilattico a causa dello sviluppo di ceppi resistenti. Un’altra associazione molto diffusa nel trattamento della malaria è quella tra atovaquone – 2-[trans-4-(4-clorofenil)cicloesil]-3-idrossi-1,4-naftalendione – (Box 39.4) e proguanil. L’atovaquone agisce inibendo il sistema di trasporto degli elettroni con conseguente riduzione della sintesi di ATP e di acidi nucleici. Più specificamente, l’atovaquone è un inibitore della ubichinone reduttasi a livello del complesso citocromo bc1. Questa inibizione porta a un crollo del potenziale della membrana mitocondriale. Il composto mostra inibizione stereospecifica, con l’isomero trans più attivo dell’isomero cis. Ha un’elevata attività nei confronti di diverse specie di Plasmodium e di Pneumocystis jirovecii, ma nel trattamento della malaria non viene mai utilizzato come singolo farmaco. Il proguanil è un profarmaco e viene rapidamente trasformato in vivo a cicloguanil, potente inibitore della DHFR (Fig. 39.11). L’associazione atovaquone e proguanil mostra sinergia d’effetto: il proguanil diminuisce la concentrazione di atovaquone disponibile e responsabile del danno alla membrana mitocondriale, mentre l’atovaquone aumenta l’efficacia del proguanil ma

non del suo metabolita attivo. L’associazione atovaquone e proguanil trova applicazione nel trattamento e nella profilassi della malaria da P. falciparum, mentre l’atovaquone da solo viene usato nel trattamento delle forme lievi e moderate di polmonite da P. jirovecii in pazienti intolleranti ad altri farmaci.

39.2.7 Antibiotici Alcuni antibiotici normalmente utilizzati per il trattamento delle infezioni batteriche possono essere utilizzati, in associazione con altri farmaci specifici, nel trattamento della malaria. In particolare, la tetraciclina, la doxiciclina e la clindamicina hanno azione antiparassitaria per inibizione della sintesi proteica nell’apicoplasto, un organello presente in Plasmodium la cui distruzione impedisce l’ingresso del parassita in altre cellule.

39.2.8 Tendenze future La natura complessa del plasmodio e le sue interazioni con i globuli rossi umani offrono al sistema immunitario un gran numero di siti antigenici in grado di indurre una specifica risposta. Un vaccino ideale dovrebbe essere efficace almeno contro P. falciparum e P. vivax, le due specie complessivamente responsabili di circa il 90% dei casi di malaria. A oggi l’unico vaccino rivelatosi abbastanza promettente è RTS,S/AS01E, contenente le proteine di superficie dello sporozoita in modo da indurre una risposta immunitaria quando il parassita viene inoculato nel sangue del paziente dalla zanzara e prima che possa raggiungere il fegato. Oltre ai vaccini, di recente è stata identificata una nuova classe di antimalarici di sintesi a struttura spiroindolonica. Tra questi, il composto KAE609 ha recentemente raggiunto la fase IIb dei trial clinici. KAE609 agisce attraverso un nuovo

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BOX 39.4 ■ Sintesi di atovaquone La sintesi originale dell’atovaquone parte dalla reazione del cicloesene con acetil cloruro, in presenza di AlCl3, per ottenere 4-clorocicloesiletanone, il quale a sua volta dà un’alchilazione di Friedel-Crafts sul clorobenzene. Il 4-(4-clorofenil)cicloesiletanone risultante viene, quindi, ossidato con acqua di bromo fino a ottenere l’acido

4-(4-clorofenil)cicloesan-1-carbossilico. Questo, in presenza di AgNO3 e ammonio persolfato, produce una specie radicalica che reagisce con il 2-cloronaftalene-1,4dione. La successiva idrolisi con KOH in metanolo fornisce l’atovaquone.

1. AlCl3, -50 °C, CS2 Cl

O

+ H3C Cicloesene

Cl

2.

Cl

3. Br2, NaOH

Acetil cloruro

1. AgNO3, CH3CN,  2. (NH4)2S2O8 Decarbossilazione ossidativa

HOOC

O

Cl O

2-Cloronaftalene-1,4-dione

Cl

Cl 1. KOH, H2O, CH3OH,  2. HCl 3. ricristall. CH3CN

O

O

OH

Cl

O

O

Atovaquone

meccanismo d’azione che prevede l’inibizione di PfATP4 (Ptype cation-transporter ATPase 4), un trasportatore di membrana che regola l’omeostasi del sodio e, quindi, l’osmolarità del parassita. Poiché KAE609 sembra essere efficace anche contro le forme sessuate del parassita, potrebbe potenzialmente essere impiegato per prevenire la trasmissione della malattia. CH3 NH

F Cl

Cl

N H O

N H

KAE609

39.3 Chemioterapia della tripanosomiasi I tripanosomi sono parassiti emoflagellati che causano varie forme di malattie tropicali croniche, note con il nome di tripanosomiasi, che colpiscono sia l’uomo sia gli animali da allevamento. Nell’uomo i tripanosomi causano due distinte malattie: la tripanosomiasi americana, detta anche malattia di Chagas (Scheda 39.5), è causata da Trypanosoma cruzi, e la tripanosomiasi africana, detta anche malattia del sonno (sleeping sickness, Scheda 39.5), è causata da T. brucei. Poiché i due parassiti rispondono in modo diverso ai trattamenti

farmacologici, i farmaci utilizzati per trattare le due forme di tripanosomiasi sono diversi.

39.3.1 F  armaci per il trattamento della malattia di Chagas Gli unici farmaci attualmente approvati per il trattamento della tripanosomiasi americana sono il nifurtimox – 3-metil-N-[(5-nitro-2-furanil)metilene]-4-tiomorfolinamina-1,1diossido – (Box 39.5) e il benznidazolo – N-benzil-2-(2nitro-1H-imidazol-1-il)acetamide. Da un punto di vista strutturale sono dei nitroeterocicli, composti caratterizzati dalla presenza di un gruppo nitro legato a un anello eteroaromatico (Fig. 39.12). Il nifurtimox e il benznidazolo sono stati introdotti in terapia agli inizi degli anni ’70 ed entrambi hanno azione killing di tutte le forme del parassita. Sono molto efficaci nella cura della fase acuta della patologia, ma sono inadeguati nel trattamento della forma cronica. Il loro utilizzo è inoltre caratterizzato da effetti collaterali come neuropatie, alterazioni ematologiche e dermatologiche. Il nifurtimox è l’unico trattamento disponibile per entrambe le forme della malattia (acuta e cronica). Si somministra per via orale e ha un’elevata biodisponibilità, ma subisce un notevole metabolismo di primo passaggio. L’emivita è di 2-4 ore. È un farmaco poco tollerato, con un’alta incidenza di nausea, vomito, dolore addominale e anoressia. Di frequente si verificano anche sintomi di tossicità sul sistema nervoso centrale (SNC) e sul sistema nervoso periferico (SNP).

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BOX 39.5 ■ Sintesi di nifurtimox La reazione del 2-mercaptoetanolo con ossido di propilene in presenza di KOH fornisce (2-idrossietil)-(2-idrossipropil)solfuro che, in presenza di potassio bisolfato, dà disidratazione intramolecolare per formare il 2-metil-1,4-ossatiano. L’ossidazione dell’atomo di zolfo con

idrogeno perossido e la successiva reazione con idrazina forniscono il 4-amino-3-metiltetraidro-1,4-tiazin-1,1diossido. Questo reagisce con il 5-nitrofurfurale per dare il corrispondente idrazone, cioè il nifurtimox.

SH

S KOH

O

+ HO

O

KHSO4

HO

CH3

2-Mercaptoetanolo

S

HO

CH3

O

CH3

Propilene ossido

H2O2

O S

H3C

O2N

N

O

CHO

N 5-Nitrofurfurale

O

O

O

O

S

NH2NH2

O S

Idrazina

N

CH3

O

CH3

NH2

NO2 Nifurtimox

Meccanismo d’azione e resistenza L’azione killing nei confronti dei tripanosomi da parte dei nitroeterocicli aromatici si basa sulla formazione di ROS e/o di metaboliti elettrofili dannosi per diverse componenti cellulari del parassita (Fig. 39.13). Il gruppo nitro di entrambi i farmaci viene ridotto a gruppo aminico in seguito all’azione di una nitroreduttasi intracellulare. La riduzione del nifurtimox porta alla produzione di ROS come il radicale anione superossido, il radicale ossidrile e l’acqua ossigenata, che possono arrecare gravi

H3C N O2N

N

danni al DNA, alle membrane e alle proteine. L’azione del benznidazolo non è correlata alla formazione di ROS, ma è probabile che i prodotti della riduzione del gruppo nitro portino alla formazione di metaboliti fortemente elettrofili, quali il nitrosoimidazolo, che si legano covalentemente alle macromolecole cellulari alterandone la funzione. Poiché l’azione tripanocida dei nitroeterocicli dipende dalla loro attivazione da parte della nitroreduttasi, la riduzione dell’espressione di questo enzima è associata all’insorgenza di resistenze. La perdita di una singola copia di questo

A)

S

O O

O2 e-

Ar-NO2

Ar-NO2

O Nifurtimox

O2N

O• +

2 H+

e-

HO

OH

Ar-NO2

2 HO• ROS

B)

N

O

e-

N

H N O

Benznidazolo

Figura 39.12 Strutture di nifurtimox e benznidazolo.

Ar-NO2 2 Ar-NO2 + 2 H+

Ar-NO2 Ar-NO2 + Ar-NO + H2O Nitrosoimidazolo

Figura 39.13 Meccanismo d’azione proposto per nifurtimox (A) e benznidazolo (B).

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HO S

NH

NH2

S As

N N H

H2N

N N

NH

NH2

Melarsoprolo

F

NH2 O

F

O

NH2 O

H2N

Pentamidina

OH Eflornitina O HO3S

HN

H N O CH3

O N H

N H

Suramina

H N O H3C

SO3H

O N H SO3H

SO3H

HO3S SO3H

Figura 39.14 Strutture dei farmaci per il trattamento della malattia del sonno.

gene in T. cruzi è sufficiente a determinare una significativa resistenza crociata tra diversi farmaci a struttura nitroeterociclica.

39.3.2 F  armaci per il trattamento della malattia del sonno Quasi tutti i farmaci disponibili per il trattamento della tripanosomiasi africana sono stati introdotti in terapia più di 50 anni fa e questo riflette il disinteresse della ricerca nello sviluppo di molecole utili per il trattamento delle infezioni da parassiti. Attualmente solo quattro farmaci sono stati approvati e la loro efficacia dipende dallo stadio della malattia. Solo i farmaci in grado di passare la barriera ematoencefalica, il melarsoprolo e l’eflornitina, sono efficaci nello stadio meningoencefalitico dell’infezione, mentre la suramina e la pentamidina sono utili solo nello stadio iniziale della patologia (Fig. 39.14). La suramina, introdotta in terapia negli anni ’20, è ancora considerata il farmaco di scelta nel trattamento delle fasi iniziali della tripanosomiasi africana, soprattutto nell’infezione causata da T. brucei rhodesiense. Solo negli ultimi decenni si è scoperto che la suramina è un agente profilattico a lungo termine, la cui efficacia si mantiene per circa 3 mesi dopo una singola somministrazione. A pH fisiologico, la suramina, data la presenza dei gruppi solfonici, presenta 6 cariche negative che ne precludono l’accesso al SNC, rendendo il farmaco inutilizzabile nello stadio meningoencefalitico dell’infezione. Il farmaco si lega tenacemente alle proteine plasmatiche e, quindi, la sua eliminazione renale è trascurabile. Il bersaglio molecolare della suramina e il meccanismo d’azione del farmaco non sono stati ancora chiariti. È stato dimostrato che il farmaco, legato a diverse proteine plasmatiche, entra nel parassita tramite endocitosi mediata da recettori e, all’interno della cellula, inibisce efficacemente numerosi enzimi fondamentali per la sopravvivenza del parassita,

tra cui diverse deidrogenasi e chinasi. La suramina inibisce la diidrofolatoreduttasi (DHFR), un enzima cruciale nel metabolismo del folato, e la timidina chinasi. Inoltre, inibisce gli enzimi glicolitici in T. brucei con maggiore affinità rispetto agli omologhi presenti nelle cellule di mammifero. Anche i meccanismi di resistenza rimangono ancora ignoti. Il sale sodico della suramina è solubile in acqua ma è scarsamente assorbito per somministrazione orale e deve essere infuso per via endovenosa mediante iniezioni multiple. Il farmaco presenta un’ampia varietà di effetti secondari, tra cui nausea, vomito e affaticamento. La pentamidina – 4,4'-[1,5-pentanodiilbis(ossi)]bis(ben­ zenecarbossimidamide) – (Box 39.6), introdotta in terapia negli anni ’40, è il farmaco di scelta nel trattamento dello stadio emolinfatico della tripanosomiasi causata da T. brucei gambiense. Data la presenza delle due funzioni amidiniche, la pentamidina risulta carica positivamente a pH fisiologico e quindi non in grado di accedere al SNC. Anche nel caso della pentamidina le basi molecolari dell’azione non sono state ancora completamente spiegate. Ci sono, tuttavia, forti evidenze sperimentali che indicano che il farmaco ha vari meccanismi d’azione, probabilmente diversi a seconda dell’organismo su cui agisce (trova anche applicazione nel trattamento della leishmaniosi, Par. 39.4.2, e della polmonite da Pneumocystis carinii, PCP). Attraverso sistemi di trasporto attivo si accumula nella cellula del parassita, dove esplica diverse azioni citotossiche. Le cariche positive presenti rendono la molecola particolarmente affine per i componenti cellulari carichi negativamente, come i fosfolipidi e gli acidi nucleici. È stato ipotizzato che l’azione tripanocida della pentamidina sia correlata alla distruzione della struttura del DNA cinetoplastico, probabilmente in seguito all’inibizione della topoisomerasi II. La resistenza alla pentamidina è associata prevalentemente alla riduzione della concentrazione intracellulare del farmaco dovuta all’espressione di geni che codificano per specifici trasportatori che mediano l’efflusso

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BOX 39.6 ■ Sintesi di pentamidina La sintesi parte dalla reazione del 4-idrossibenzonitrile con 1,5-dibromopentano in presenza di sodio idrossido per dare il 1,5-bis-(4-cianofenossi)pentano. La reazione di questo con una soluzione etanolica di acido cloridrico

(nelle condizioni di Pinner) dà l’iminoestere intermedio che, per successivo trattamento con una soluzione etanolica di ammoniaca, fornisce la pentamidina.

OH +

NaOH

Br

NC

CN

Br O

CN 4-Idrossibenzonitrile

O

1,5-Dibromopentano Reazione di Pinner

1. HCl, CH3CH2OH 2. NH3, CH3CH2OH

NH

NH

H2N

NH2 O

O Pentamidina

del farmaco dalla cellula. La pentamidina è disponibile come sale isetionato, solubile in acqua, ed è somministrata sia per via endovenosa sia come aerosol. Il melarsoprolo – (2-{4-[(4,6-diamino-1,3,5-triazin2-il)amino]fenil}-1,3,2-ditiarsolan-4-il)metanolo – è una sostanza contenente arsenico trivalente, introdotta in terapia nel 1949. È efficace nel trattamento di tutti gli stadi della tripanosomiasi causata sia da T. brucei gambiense sia da T. brucei rhodesiense ma, per la sua tossicità, il suo uso è limitato al trattamento dello stadio meningoencefalitico della patologia. Numerose sostanze contenenti metalli pesanti sono state utilizzate per molto tempo nel trattamento di diverse infezioni. Il melarsoprolo viene convertito in vivo dall’ospite in melarsenossido che entra selettivamente nelle cellule del parassita mediante i trasportatori delle purine. All’interno delle cellule i composti trivalenti dell’arsenico sono in grado di legarsi efficacemente e inibire diverse proteine che contengono gruppi tiolici (Fig. 39.15). I bersagli molecolari principali del farmaco sembrano essere la glicerolo-3-fosfato deidrogenasi e la tripanotione reduttasi. La limitazione fondamentale del melarsoprolo è la sua tossicità a livello del sistema nervoso. Inoltre, è frequente lo sviluppo di ceppi resistenti dovuto a mutazioni dei sistemi di trasporto delle purine che impediscono la concentrazione del farmaco nella cellula del parassita. L’eflornitina difluorometilornitina, introdotta in terapia nel 1980, è il farmaco di scelta nel trattamento dello stadio meningoencefalitico della tripanosomiasi causata da T. brucei gambiense, mentre è inefficace nella patologia causata da T. brucei rhodesiense. L’eflornitina è un inibitore suicida dell’ornitina decarbossilasi, enzima che catalizza il primo passaggio nella biosintesi delle poliamine (Fig. 39.16). La deplezione delle poliamine nel parassita porta a diversi effetti

che si traducono con la morte cellulare. L’eflornitina inibisce efficacemente anche l’ornitina decarbossilasi dei mammiferi, ma in questi il turnover dell’enzima è molto rapido. Solo l’isomero (–), stereochimicamente correlato all’ornitina, è attivo. Il farmaco ha azione mielosoppressiva e causa alta incidenza di anemia, leucopenia e trombocitopenia.

39.4 Chemioterapia della leishmaniosi La leishmaniosi (Scheda 39.6) è una malattia parassitaria causata da un protozoo intracellulare obbligato del genere Leishmania che può essere presente in roditori, canidi e altri mammiferi. Viene trasmessa all’uomo dalla puntura del pappatacio femmina del genere Phlebotomus.

39.4.1 F  armaci per il trattamento della leishmaniosi Poiché non è stato ancora sviluppato un vaccino contro la leishmaniosi, il controllo della malattia è basato unicamente sulla terapia farmacologica. I sali organici dell’antimonio pentavalente [Sb(V)] sono da più di 60 anni la terapia di scelta nel trattamento della leishmaniosi, ma il recente diffondersi di ceppi resistenti ha ridotto notevolmente l’utilità di questa classe di farmaci (Scheda 39.7). Farmaci alternativi sono l’amfotericina B e la pentamidina. Recentemente sono stati introdotti nel trattamento della leishmaniosi viscerale la miltefosina e la paromomicina. Tuttavia nessuno dei farmaci a disposizione ha i requisiti ideali per il trattamento di questa malattia parassitaria: è quindi fondamentale sia sviluppare nuovi farmaci con meccanismi d’azione diversi rispetto ai farmaci esistenti, sia comprendere i meccanismi

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Figura 39.15 Meccanismo d’azione del melarsoprolo.

CHO

NH2

HO

O

F H3 C

HO

OH P

O

CHF F

N

Piridossal-5-fosfato

O

F

N

F

H2N

NH2

NH2

OH

-CO2 -F-

O-

O

N

N

HS-Cys-Enz

N NH2

NH2

Ornitina decarbossilasi

NH2 F S Cys Enz

S Cys Enz

C

N

H2N

N

S Cys Enz

H

-F-

Piridossal-5-fosfato

N

N

Figura 39.16 Meccanismo d’azione dell’eflornitina.

d’azione dei farmaci utilizzati al fine di aumentarne l’efficacia contro i ceppi resistenti e ridurne gli effetti collaterali.

Sali organici dell’antimonio pentavalente I farmaci di prima scelta nel trattamento della leishmaniosi sono lo stibogluconato e la meglumina antimoniato, due sali organici dell’antimonio pentavalente introdotti in terapia negli anni ’50 (Fig. 39.17).

Inizialmente queste molecole erano considerate farmaci efficaci e sicuri, ma successivamente si sono rivelati inadeguati in diversi casi di leishmaniosi a causa della comparsa di resistenze e della grave tossicità che si manifesta a dosi elevate. Nonostante siano ampiamente utilizzati da molti anni, il meccanismo d’azione dei derivati pentavalenti dell’antimonio non è ancora completamente chiarito.

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COOH HOOC HO HO OH

H

O

O

OH

O

O Sb

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O

Sb O

O

OH H

OH

3 Na+ 9 H2O

OH

H N

HO OH

OH

O CH3 O

OH

Sb

OH

Meglumina antimoniato

Stibogluconato sodico

-O

H3C

O

P

O O

N+

CH3

CH3 CH3

Miltefosina

Figura 39.17 Strutture dei farmaci per il trattamento della leishmaniosi.

Amfotericina B, pentamidina, miltefosina e paromomicina L’amfotericina B è utilizzata come farmaco di seconda scelta nel trattamento della leishmaniosi in pazienti che non rispondono ai sali organici dell’antimonio. L’utilizzo principale dell’amfotericina B è nel trattamento delle infezioni micotiche (per le caratteristiche strutturali, il meccanismo d’azione e di resistenza e le proprietà farmacologiche vedi Cap. 38). Per ridurre gli effetti collaterali si utilizzano preparazioni liposomiali. La pentamidina trova applicazione nel trattamento di diverse infezioni da parassiti, come la leishmaniosi, la tripanosomiasi africana e la pneumocistosi causata da Pneumocystis jirovecii (Cap. 39.3.4). La miltefosina – 2-{[(esadecilossi)idrossifosfinil]ossi}N,N,N-trimetiletanaminio sale interno – è un alchil-fosfolipide (Fig. 39.17), inizialmente sviluppato come farmaco antitumorale, che è attivo nei confronti della Leishmania. Nel 2002 il suo uso è stato approvato in India, da sola o in associazione con altri farmaci, per il trattamento della leishmaniosi viscerale resistente ad altri trattamenti. Nonostante la miltefosina sia l’unico farmaco antileishmania disponibile per via orale, il suo impiego terapeutico è limitato dalla tossicità gastrointestinale, dal potenziale teratogeno e dall’alto costo. Come per altri antiprotozoari, il meccanismo d’azione e i bersagli molecolari della miltefosina non sono stati ancora completamente compresi. L’attività antiprotozoarica della miltefosina è associata a diversi processi, che includono alterazioni morfologiche e funzionali del mitocondrio che causano apoptosi e inibizione di reazioni fondamentali nella biosintesi di lipidi e glicoproteine. La resistenza alla miltefosina è causata da una riduzione dell’accumulo intracellulare del farmaco, dovuto sia a una riduzione dell’ingresso del farmaco sia alla sovraespressione di geni che codificano per specifici trasportatori che mediano l’efflusso del farmaco dalla cellula. La paromomicina è un antibiotico aminoglicosidico con una buona attività antileishmania. È stato approvato in India nel 2006, da solo o in associazione con altri farmaci, nel trat-

tamento della leishmaniosi, mentre in altri Paesi sono ancora in corso le sperimentazioni cliniche. È un farmaco sicuro alle dosi terapeutiche e inoltre risulta attivo nei confronti di molti altri patogeni, inclusi i batteri. Un ulteriore vantaggio è il basso costo che rende il farmaco facilmente accessibile. (Per le caratteristiche strutturali, il meccanismo d’azione e di resistenza e le proprietà farmacologiche confronta il Cap. 36).

39.5 C  hemioterapia di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi 39.5.1 A  mebiasi, giardiasi e tricomoniasi L’amebiasi è una malattia causata dall’Entamoeba histolytica, che può invadere la parete del colon o di altre parti del corpo (ad es. fegato, polmoni, pelle). È considerata una malattia tropicale, ma in realtà ha una distribuzione a livello mondiale e colpisce circa il 10% della popolazione, con punte del 20% in zone a clima temperato con scarse condizioni igieniche. L’uomo è l’unico ospite noto di Entamoeba, che si trasmette quasi esclusivamente per via orofecale. Le cisti di E. histolytica ingerite mediante acqua o cibo contaminati sopravvivono al contenuto acido dello stomaco e si trasformano in trofozoiti, che risiedono nell’intestino crasso. L’esito di un’infezione da E. histolytica è variabile. Molti individui sono asintomatici ed eliminano le feci infette rendendosi fonte di propagazione dell’infezione. In altri individui, i trofozoiti di E. histolytica invadono le mucose del colon, causando coliti e diarrea sanguinosa (dissenteria amebica). In un numero ristretto di individui, i trofozoiti raggiungono il sistema portale attraverso la mucosa del colon e da qui il fegato, dove generano un ascesso epatico. Altre specie di protozoi che colonizzano l’intestino, causando enterite e diarrea, sono Balantidium coli e i flagellati Giardia lamblia (o Giardia intestinalis) e Cryptosporidium spp. La giardiasi ha una diffusione mondiale ed è causata dall’ingestione di cisti del parassita, che si trovano in acqua o cibo contaminati da feci. La giardiasi è una zoonosi (può essere trasmessa dall’animale all’uomo, direttamente o indi-

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39.5.2 F  armaci per il trattamento di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi

N N O2N

O2N

CH3

N

CH3

N

O

S O

OH Metronidazolo

CH3

Tinidazolo

O N O2N

S

O

O

CH3

N H

Nitazoxanide

Figura 39.18 Strutture dei farmaci per il trattamento di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi.

rettamente) e le cisti eliminate dagli animali o dagli individui infetti possono contaminare le scorte d’acqua. La trasmissione da uomo a uomo per via orofecale è comune specialmente tra i bambini negli asili e nei nidi d’infanzia, come anche tra gli individui che vivono in istituti. Le infezioni da Giardia causano tre sindromi: una forma asintomatica, una diarrea acuta a decorso stabilito, o una diarrea cronica. La forma più comune è l’infezione asintomatica, in cui i soggetti eliminano le cisti di Giardia, fonte di nuove infezioni. La maggior parte dei soggetti con un’infezione sintomatica sviluppa una malattia acuta a decorso stabilito, con feci maleodoranti e acquose, gonfiore addominale e flatulenza. Tuttavia, una percentuale significativa di questi soggetti sviluppa una sindrome cronica (superiore alle due settimane), con segni di malassorbimento (steatorrea) e perdita di peso. L’approccio più appropriato per il trattamento di queste infezioni protozoarie è la prevenzione. Poiché l’infezione avviene per consumo di acqua e cibo contaminati, la migliore prevenzione consiste nel non consumarli. Per ridurre il rischio conviene bollire o disinfettare l’acqua, oppure bere acqua confezionata in bottiglie. Il miglioramento dell’igiene personale e delle misure sanitarie generali è di grande beneficio. La tricomoniasi è una malattia venerea comune in tutto il mondo e causata dal protozoo flagellato Trichomonas vaginalis. Questo organismo si stabilisce nel tratto genitourinario dell’ospite, dove provoca vaginite nella donna e, meno frequentemente, uretrite nell’uomo. È una malattia sessualmente trasmissibile con più di 200 milioni di persone infette nel mondo. L’infezione da Trichomonas è stata associata a un aumento del rischio di contrarre l’infezione da HIV. Nelle secrezioni dei soggetti infetti sono stati identificati solo i trofozoiti del T. vaginalis. Anche se non è considerata una patologia grave, può comunque causare notevoli disagi fisici.

I derivati nitroazolici sono stati sviluppati e utilizzati nel trattamento di diverse infezioni sostenute da parassiti e da batteri anaerobi (Fig. 39.18). Il farmaco più utilizzato è il metronidazolo, che presenta il gruppo nitro legato a un anello imidazolico, e altri derivati nitroimidazolici, quali ad esempio il tinidazolo. Il meccanismo d’azione di questi derivati è simile, ma le caratteristiche farmacocinetiche, l’attività antimicrobica e la tossicità possono essere sensibilmente diverse. Sono stati inoltre sintetizzati composti strutturalmente correlati al metronidazolo in cui l’anello imidazolico è stato sostituito con altri sistemi eterociclici; nel nitazoxanide, ad esempio, al posto dell’imidazolo è presente un anello tioazolico. Questi nuovi derivati differiscono dal metronidazolo anche per il meccanismo d’azione. Il metronidazolo – 2-metil-5-nitro-1H-imidazol-1-etanolo – (Box 39.7) è un nitroimidazolo con un’eccellente attività nei confronti di batteri anaerobi, quali Bacillus fragili e Clostridium difficile, e di alcuni parassiti come Trichomonas vaginalis. La potente azione microbicida, associata all’elevata capacità di penetrare nei diversi tessuti (Scheda 39.8), compreso il SNC, rendono il metronidazolo un farmaco particolarmente utile nel trattamento delle infezioni profonde causate da batteri anaerobi e da alcuni parassiti. È il farmaco di scelta nel trattamento di amebiasi, giardiasi e tricomoniasi. Il metronidazolo è inoltre particolarmente efficace nel trattamento delle infezioni da C. difficile ed è un componente della terapia dell’ulcera gastrica (in associazione con claritromicina e amoxicillina) associata all’infezione da Helicobacter pylori; inoltre è raccomandato nel trattamento delle vaginosi batteriche (sostenute frequentemente da Gardnerella vaginalis) o delle vaginiti sostenute da T. vaginalis (tricomoniasi vaginali). Il tinidazolo – 1-[2-(etilsolfonil)etil]-2-metil-5-nitro1H-imidazolo – (Box 39.7) è un nitroimidazolo strutturalmente molto simile al metronidazolo. Le minime variazioni strutturali sono responsabili di importanti differenze farmacologiche tra due molecole. Rispetto al metronidazolo, il tinidazolo ha un maggiore tempo di emivita, una migliore capacità di penetrazione nei tessuti e raggiunge concentrazioni particolarmente elevate nelle secrezioni vaginali. Le analogie strutturali tra metronidazolo e tinidazolo si traducono in similitudini tra spettro d’attività antimicrobica, meccanismo d’azione e di resistenza dei due farmaci. Spesso i microrganismi resistenti al metronidazolo mostrano resistenza crociata con tutti i nitroimidazoli, anche se è stata evidenziata l’attività del tinidazolo su ceppi resistenti al metronidazolo. Il nitazoxanide – 2-(acetilossi)-N-(5-nitro-2-tiazolil) benzamide – (Box 39.7) differisce dal metronidazolo e dal tinidazolo per la presenza di un anello tiazolico al posto dell’anello imidazolico. Questa minima differenza strutturale si traduce in un diverso meccanismo d’azione. Il nitazoxanide è un potente inibitore della PFOR in T. vaginalis, E. histolytica, G. intestinalis, C. difficile, C. perfringens, H. pylori e Campylobacter jejuni ed è debolmente attivo nei confronti della PFOR di E. coli. Poiché PFOR è un enzima fondamentale nel metabolismo energetico anaerobio di

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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BOX 39.7 ■ Sintesi di metronidazolo, tinidazolo e nitazoxanide Il metronidazolo si prepara dalla nitrazione del 2-metilimidazolo per ottenere il 2-metil-5-nitroimidazolo. Questo reagisce, poi, con ossido di etilene per dare il composto desiderato. Anche il tinidazolo si prepara dal 2-metil-5-nitroimidazolo, per reazione con 2-(etilsolfonil)

N

N

N HNO3

H 3C

etil-p-toluensolfonato, quest’ultimo ottenuto a sua volta da p-toluensolfonil cloruro e 2-(etilsolfonil)etan-1-olo. Il nitazoxanide viene semplicemente preparato facendo reagire il 2-amino-5-nitrotiazolo con 2-acetossibenzoilcloruro, in presenza di trietilamina.

H 3C

N H

2-Metilimidazolo

O

O2N

NO2

N H

CH3

N

2-Metil-5-nitroimidazolo

OH Metronidazolo N N

H3C

H3C

HO

+ SO2Cl

S O

O

H 3C

O

CH3

S O

O

O S

CH3

O2N N H

O N H 2N

O

CH3

N

S

N O2

2-Amino-5-nitrotiazolo

+

Cl Trietilamina

2-Acetossibenzoilcloruro

questi microrganismi, la sua inibizione determina la morte cellulare. A differenza quindi dei nitroimidazoli, il nitazoxanide non determina produzione di specie in grado di danneggiare direttamente il DNA. Il nitazoxanide è stato approvato per il trattamento delle infezioni intestinali causate da Cryptosporidium parvum e G. intestinalis, ed è un’alternativa terapeutica per il trattamento di infezioni causate da altri parassiti; è inoltre efficace nel trattamento delle infezioni da C. difficile.

39.6 Chemioterapia della toxoplasmosi 39.6.1 La toxoplasmosi La toxoplasmosi è una zoonosi cosmopolita causata dal protozoo Toxoplasma gondii, un microrganismo che compie il suo ciclo vitale, estremamente complesso e diverso a seconda dell’ospite, solo all’interno delle cellule (parassita intracellulare obbligato). Sebbene gli ospiti naturali siano gatti e altri felini, il Toxoplasma può infettare moltissimi animali (dai mammiferi agli uccelli, dai rettili ai molluschi) e può trasmettersi da un animale all’altro attraverso l’alimentazione

O2N

S O

O

TEA, THF

O

2-Metil-5-nitroimidazolo

O

O

S

O

O

CH3

N

NO2

CH3

Tinidazolo

CH3

N H

Nitazoxanide

con carne infetta. Il Toxoplasma gondii non si trova solo nella carne, ma anche nelle feci di gatto e nel terreno in cui abbia defecato un gatto o un altro animale infetto (Scheda 39.9).

39.6.2 F  armaci per il trattamento della toxoplasmosi Nel caso in cui la donna dovesse essere contagiata durante la gravidanza, è possibile bloccare la trasmissione dell’infezione al bambino attraverso un trattamento antibiotico mirato. Il trattamento più utilizzato è quello con spiramicina, un antibiotico (Cap. 36) che si concentra nella placenta ed è ben tollerato sia dalla madre sia dal feto. Quando la trasmissione dell’infezione al feto sia dimostrata attraverso l’amniocentesi, il trattamento primario consiste nella somministrazione degli antifolici pirimetamina (Par. 39.2.6) e sulfadiazina (Cap. 36) in associazione all’acido folinico. L’uso di questa combinazione è d’obbligo almeno nell’impedire la comparsa di postumi all’anno di vita. Nel caso in cui il trattamento non sia stato adeguato o sia iniziato troppo tardi, il bambino potrebbe avere una malattia grave già visibile alla nascita. In alcuni casi, per motivi di tossicità, la sulfadiazina può essere sostituita con la clindamicina (Cap. 36) senza perdita di efficacia.

40

Chemioterapici antivirali Romano Silvestri

40.1 Farmaci che interferiscono con la penetrazione del virus nella cellula ospite e bloccano gli stadi precoci della replicazione 40.1.1 40.1.2 40.1.3 40.1.4

Amantadina e rimantadina Interferoni Induttori di interferone Inibitori della neuraminidasi

40.2 Inibitori della replicazione virale 40.2.1 Analoghi nucleosidici 40.2.2 Analoghi nucleosidici aciclici 40.2.3 Analoghi non nucleosidici

40.3 Agenti antiretrovirali per l’HIV e l’AIDS 40.3.1 40.3.2 40.3.3 40.3.4 40.3.5 40.3.6

Inibitori Inibitori Inibitori Inibitori Inibitori Inibitori

nucleosidici della trascrittasi inversa non nucleosidici della trascrittasi inversa della proteasi della fusione dell’ingresso – CCR5 dell’integrasi

I virus non possiedono una propria struttura autonoma e per riprodursi sono obbligati a parassitare cellule ospiti, delle quali utilizzano in parte i processi metabolici e i sistemi enzimatici. Proprio per questo motivo i virus hanno sviluppato meccanismi attraverso i quali riescono a internalizzarsi nelle cellule ospiti e a utilizzare il macchinario biochimico e le macromolecole dell’ospite ai fini della propria riproduzione. I virus sono responsabili di numerose malattie per l’uomo, causando patologie che in taluni casi possono avere esito letale. La progettazione di nuovi farmaci per trattare le malattie virali trova difficoltà nell’identificare farmaci soddisfacentemente selettivi, poiché i virus utilizzano essenzialmente le stesse proteine utilizzate dalla cellula ospite per replicarsi. La ricerca farmaceutica si è orientata verso target che permettano di superare il problema della selettività, sviluppan-

do farmaci che inibiscono bersagli specifici del ciclo virale. Tuttavia, il vero obiettivo rimane l’ottenimento di farmaci efficaci nei confronti dei ceppi virali mutanti divenuti farmacoresistenti (velocemente selezionati), e in grado di eradicare completamente l’infezione virale. I virus sono principalmente composti da un filamento di DNA virale oppure di RNA virale, che costituisce il genoma del virus. All’interno della macromolecola virale, un acido nucleico a singolo filamento oppure a doppio filamento si trova associato a delle proteine e può presentare un rivestimento proteico che prende il nome di capside, a sua volta costituito da unità proteiche dette protomeri. L’acido nucleico e il capside costituiscono il nucleocapside. La particella virale matura prende il nome di virione, che può essere costituito dal solo nucleocapside, oppure nel virione il nucleo-

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

capside può essere circondato da una membrana di natura lipidica. Il virus può presentare tre tipi di architettura: cubica (icosaedrica), elicoidale simmetrica o complessa. La classificazione dei virus prevede il raggruppamento in famiglie (i cui nomi terminano con il suffisso -viridae) e in generi (i cui nomi terminano in -virus). La classificazione sistematica può basarsi su vari fattori: il tipo di acido nucleico contenuto (DNA o RNA), la morfologia virale (icosaedrica, elicoidale), il sito di replicazione nell’ospite (nucleo, citoplasma), la presenza di rivestimento (pericapside), le proprietà antigeniche e il tipo di cellule infettate (linfociti B, linfociti T, monociti). La classificazione di David Baltimore fornisce una suddivisione alternativa dei differenti tipi di virus in base al tipo di acido nucleico. Una classificazione dei virus associata alla famiglia virale e alle relative patologie causate nell’uomo è illustrata in Tabella 40.1.

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40.1 F  armaci che interferiscono con la penetrazione del virus nella cellula ospite e bloccano gli stadi precoci della replicazione 40.1.1 Amantadina e rimantadina L’amantadina – 1-aminoadamantano – e il suo omologo rimantadina – 1-metil-1-aminometiladamantano – sono agenti antivirali che ostacolano la penetrazione del virus nella cellula ospite e gli stadi precoci della replicazione (Fig. 40.1). Utilizzata inizialmente come farmaco per combattere l’influenza asiatica, è stata successivamente approvata per la prevenzione e il trattamento dell’influenza di tipo A e si è rivelata utile anche nel trattamento della malattia di Parkinson (Cap. 15). È inefficace contro il virus dell’influenza di tipo B.

Tabella 40.1 Principali virus e malattie causate nell’uomo. Famiglia virale

Genere virale (esempi)

Malattie e siti d’infezione

Adenoviridae

Adenovirus, Mastadenovirus

Apparato respiratorio, occhio, tumore

Hepadnaviridae

Hepadnavirus, Virus epatite B

Epatite B, tumore

Herpesviridae

Herpes, Varicella, Cytomegalovirus, Epstein-Barr

Occhio, genitali, pelle, herpes zoster, mononucleosi, tumore, varicella

Papillomaviridae

Papilloma, Polioma

Ghiandole salivari, leucoencefalopatia, verruche, tumore

Parvoviridae

Parvovirus

Artrite, eritema, anemia

Poxviridae

Vaiolo

Vaiolo, varicella, tumore

Arenaviridae

Arenavirus

Febbre (Lassa, emorragica), coriomeningite

Astroviridae

Astrovirus

Diarrea

Burniaviridae

Hantavirus

Febbre emorragica

Caliciviridae

Virus Norwalk

Gastroenterite

Coronaviridae

Coronavirus

Raffreddore, gastroenterite, SARS

Filoviridae

Marburg, Ebola

Febbre (anche emorragica)

Flaviviridae

Dengue, Epatite C, West Nile

Epatite C, febbre, encefalite, tumore

Ortomixoviridae

Influenza A, B e C

Influenza

Paramixoviridae

Parainfluenzale, sinciziale

Morbillo, parotite

Picornaviridae

Coxackie, Enterovirus, Epatite A, Poliovirus, Rhinovirus

Infezioni gastrointestinali e respiratorie, meningite, poliomielite

Rabdoviridae

Encefalite, rabbia

Encefalite, rabbia

Reoviridae

Reovirus, Rotavirus, Orbivirus

Infezione respiratoria e gastrointestinale, febbre da zecche del Colorado

Retroviridae

HIV-1, HIV-2, Lentivirus, Linfotropico

AIDS e complesso AIDS-correlato, leucemia, tumore

Togaviridae

Alphavirus, Arbovirus, Rubella

Morbillo

Materiale proteinaceo prionico

Encefalopatia spongiforme bovina, Creutzfeldt-Jakob

Virus a DNA

Virus a RNA

Altro Prioni

CAPITOLO 40 • Chemioterapici antivirali

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NH2

Amantadina

H3C

NH2

Rimantadina

Figura 40.1 Farmaci antivirali adamantanici.

I principali effetti collaterali dell’amantadina sono a carico del sistema nervoso centrale, un fatto che non sorprende poiché è dotata di attività anti-Parkinson. La rimantadina cloridrato è generalmente 4-10 volte più potente dell’amantadina, rispetto alla quale è meglio tollerata probabilmente a causa di una trasformazione metabolica più estesa. Gli adamantani condividono due meccanismi d’azione, inibendo lo stadio precoce della penetrazione virale (probabilmente la perdita del rivestimento) e il processo di maturazione finale. A basse concentrazioni questi composti inibiscono la replicazione del virus influenzale A, bloccando la proteina virale M2 che agisce da ionocanale. A concentrazioni superiori, la natura basica degli adamantani esercita un effetto tampone sul pH degli endosomi, impedendo la formazione dell’ambiente acido necessario all’emoagglutinina per la fusione della membrana virale con quella endosomiale. L’amantadina può selezionare varianti virali farmacoresistenti che presentano variazioni nella regione del suo sito di legame con lo ionocanale M2.

40.1.2 Interferoni Gli interferoni (IFN) sono proteine solubili prodotte e secrete dalle cellule eucariotiche solitamente in seguito a uno stimolo. Furono scoperti nel 1957 da Isaacs e Lindemann, che identificarono una sostanza capace di interferire con la replicazione virale, che perciò chiamarono interferone. Gli IFN appartengono alla famiglia delle citochine elicoidali caratterizzate da una catena di 145-166 aminoacidi, e sono dotate di potente azione antivirale, antiproliferativa e immunomodulatoria. Macrofagi, linfociti e cellule tissutali producono gli IFN in risposta a vari tipi di stimoli: infezioni virali, tumori e altri tipi di induttori biologici. Gli IFN svolgono un’azione protettiva nei confronti delle cellule che si trovano nelle vicinanze e inducono la morte della cellula infettata. Sono note tre principali classi di interferoni umani dotati di significativa attività antivirale: interferone α (oltre 18 specie individuali), -β e -γ (rispettivamente IFN-α, IFN-β e IFN-γ). Gli IFN-α ricombinanti che trovano impiego in clinica sono proteine glicosilate, utilizzate negli Stati Uniti prevalentemente in forma legata covalentemente al polietilenglicole (forma pegilata) per renderle più accettabili dal sistema immunitario. I principali interferoni sono gli interferoni di tipo I (IFN-α, IFN-β, IFN-τ e IFN-ω) e gli interferoni di tipo II (IFN-γ). Quasi tutte le cellule producono IFN-α e IFN-β come risposta a uno stimolo, che può essere un’offesa virale, o a stimoli di natura non virale (citochine, interleuchina 1, interleuchina 2, fattore di necrosi tumorale). I linfociti T e

le cellule natural killer producono gli IFN-γ in risposta a stimoli antigenici, mitogenici e di citochine specifiche. Gli IFN-α e IFN-β sono dotati di attività antivirale e inibiscono la proliferazione cellulare, stimolano la risposta linfocitaria, le cellule natural killer e i macrofagi. L’IFN-γ è meno potente riguardo all’azione antivirale, ma è più efficace sugli effetti immunoregolatori, in particolare per l’attivazione dei macrofagi, espressione del complesso maggiore di istocompatibilità di classe 2 (MHC-II) e la mediazione della risposta infiammatoria locale. Gli IFN inibiscono la maggior parte dei virus animali, sebbene una parte dei virus a DNA sia insensibile agli IFN. In terapia sono disponibili IFN ricombinanti, ottenuti a partire da specifici interferoni, e naturali (linfoblastoide e leucocitario). Gli IFN naturali sono impiegati in caso di intolleranza o non-risposta all’IFN ricombinante. I farmaci basati su IFN ricombinanti includono le forme α-2a, α-2b, α-n1, α-n3 e α-con1, β-1a, β-1b e γ-1b. L’IFN α-2a è una proteina non glicosilata di 165 aminoacidi. Le limitazioni di IFN α-2a sono la breve emivita, l’ampio volume di distribuzione e la forte riduzione nella clearance renale. La pegilazione consiste nell’introduzione di catene anfifiliche a lunga catena di polietilenglicole (PEG), ottenute legando ripetutamente unità di ossido di etilene, ed essa è stata applicata per cercare di superare queste limitazioni. Poiché non vengono assorbiti dal tratto gastrointestinale, gli IFN sono somministrati per via intramuscolare o sottocutanea producendo prolungati effetti terapeutici con parametri farmacocinetici chiaramente determinabili. L’IFN ricombinante α-2a è stato approvato per il trattamento dell’epatite C cronica. Alcune nazioni hanno approvato l’IFN-α per il trattamento di mieloma multiplo, melanoma maligno e sarcoma di Kaposi. L’uso di IFN causa effetti collaterali severi, tra cui febbre, cefalee, dolori muscolari, nausea, vomito, riduzione della conta dei globuli bianchi e abbassamento della pressione sanguigna. La cellula infettata dal virus rilascia l’IFN, che diffonde verso le cellule circostanti. Quando l’IFN si lega sulla superficie di una cellula adiacente, induce la produzione di proteine che inibiscono la sintesi delle proteine virali, inibendo la diffusione del virus nei tessuti circostanti. Tra le proteine indotte dall’IFN vi sono la 2',5'-oligoadenilato (2',5'-OA) sintetasi, una proteina chinasi e una specifica fosfodiesterasi, che sono in grado di inibire la sintesi delle proteine virali in presenza di RNA a doppio filamento. I meccanismi di interferenza con la replicazione virale variano secondo la famiglia virale e includono la scissione dell’RNA virale (2',5'-OA), l’inibizione dell’iniziazione del complesso del ribosoma con l’mRNA (chinasi) e l’interruzione dell’elongazione peptidica (fosfodiesterasi) (Fig. 40.2).

40.1.3 Induttori di interferone Gli induttori di interferone sono stati progettati con lo scopo di indurre le cellule a produrre o rilasciare IFN similmente a quanto avviene in seguito a un attacco virale. Varie molecole strutturalmente differenti agiscono da induttori di IFN. Il poli[I:C] è un induttore di IFN macromolecolare ottenuto per copolimerizzazione di poli I (acido poliriboinosinico) e poli C (acido poliribocitidilico), una sorta di RNA sintetico a doppia elica. Il poli[I:C] si è dimostrato attivo nei

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

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Figura 40.2 Meccanismo d’azione generale degli interferoni.

confronti del virus influenzale di tipo A, di Rhinovirus e di Herpes simplex. Il poli[I:C]LC è un derivato di poli[I:C] stabilizzato con l-lisina e carbossimetilcellulosa che si è dimostrato superiore come induttore di interferone. Il poli[I:C] LC è risultato utile nel trattamento topico della rinite. Il poli[I:C12U] contiene una molecola di acido uridilico ogni 12 unità di citidina e stimola la produzione di IFN come il poli[I:C], ma è meglio tollerato. Il poli[I:C12U] ha dimostrato in vitro un’azione immunomodulante utile nel trattamento delle infezioni da HIV. Gli induttori di interferone a basso peso molecolare sono stati sviluppati con l’intento di superare le limitazioni farmacologiche e tecnico-produttive dei derivati poli[I:C]. Il tilorone è un derivato fluorenonico attivo per via orale che induce la produzione di IFN nell’animale da esperimento e nell’uomo, dove però non ha dimostrato la stessa efficacia. Il tilorone può essere utile nel trattamento di influenza, herpes, epatiti e malattie autoimmuni. L’efficacia clinica dell’IFN e degli induttori di IFN nell’indurre una risposta cellulo-mediata in caso di infezioni virali e di tumore necessita di ulteriori prove (Fig. 40.3).

40.1.4 Inibitori della neuraminidasi La neuraminidasi è un enzima appartenente alla classe delle idrolasi che rappresenta un bersaglio di elezione per lo sviluppo di farmaci attivi contro il virus influenzale di tipo A e B. La neuraminidasi e l’emoagglutinina sono enzimi che si trovano all’interno del rivestimento (envelope) del virus influenzale. L’emoagglutinina si lega alla cellula ospite formando legami con le glicoproteine che si trovano sulla superficie della cellula insieme all’acido sialico, mediando

l’ingresso della particella virale nell’ospite. Gli inibitori della neuraminidasi risultano utili nella fase opposta, quella della diffusione del virus dall’ospite, in quanto bloccano l’idrolisi dei residui di acido sialico, inibendo così il rilascio di nuovi virus dalla cellula (Fig. 40.4). L’acido sialico legato alla glicoproteina della cellula ospite presenta una conformazione dell’anello piranico a sedia, con l’acido carbossilico in C1 in posizione assiale. La conformazione si converte a barca in seguito alla formazione di legami del gruppo carbossilico con i residui Arg181, Arg371 e Arg292 del sito catalitico della neuraminidasi. La variazione di conformazione dell’anello piranico precede la formazione dell’intermedio ossonio stabilizzato da uno ione carbonio (Fig. 40.5). La struttura ai raggi X del complesso ha fornito le informazioni strutturali per la progettazione di efficaci inibitori della neuraminidasi. La struttura cristallografica dell’acido 2-desossi-2,3-deidro-N-acetilneuraminico (DANA), un inibitore non specifico delle neuraminidasi virali, è servita per la progettazione dello zanamivir (Scheda 40.1), che presenta una struttura identica al DANA, tranne che per la presenza di un gruppo guanidinico in posizione 4 al posto di quello ossidrilico. Lo zanamivir è stato scoperto da Beta Holdings e concesso in licenza Glaxo (ora GlaxoSmithKline) per lo sviluppo clinico e commerciale. Lo zanamivir è indicato per i casi di influenza di tipo A e B di recente esordio, accelerandone significativamente la guarigione. Mostra un’utile azione profilattica antinfluenzale, anche nei casi di epidemie di comunità, insieme all’oseltamivir e agli adamantanici amantadina e rimantadina (Fig. 40.6). L’oseltamivir è stato scoperto da Gilead e cosviluppato insieme a Hoffmann-La Roche (Scheda 40.2). L’oseltamivir è il primo inibitore della neuraminidasi dispensato per via

CAPITOLO 40 • Chemioterapici antivirali

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H H

N N

O N

ONa O

P

O

H

N

N

O

P

O

O

N Inosina

O

O OH Citidina

OH

ONa

O

P

O

O

O

O

ONa N

O

O

P

O

NaO

n

Poli[I:C]

O H3C

N

O

O

H3C

N

CH3 CH3

Tilorone

Figura 40.3 Induttori di interferone.

Figura 40.4 Attività della neuraminidasi.

orale. È un derivato estereo somministrato sotto forma di sale fosfato. Sotto questa forma agisce da profarmaco dell’oseltamivir carbossilato, che è il metabolita attivo. È utilizzato nel trattamento e nella profilassi dell’influenza di tipo A e B. Il peramivir è stato autorizzato per il trattamento dei casi influenzali di emergenza e di certi casi di pazienti ospedalizzati con sospetta influenza da virus H1N1. Il gruppo carbossilato dello zanamivir e dell’oseltamivir idrolizzato forma interazioni con Arg292, Arg371 e Arg118 nella tasca di legame C4 della neuraminidasi del virus dell’influenza A sottotipo H1N1. I gruppi guanidinico o aminico di zanamivir e oseltamivir, rispettivamente, formano legami nel-

la tasca C4 con Glu119 e Asp151. I gruppi acetilici di entrambi formano legami con Arg152 nella tasca C5, e nel caso di zanamivir anche con Arg152. La catena laterale idrossialchilica di zanamivir forma anche legami nella tasca C6 con Arg224 e Glu276 (Fig. 40.7).

40.2 Inibitori della replicazione virale 40.2.1 Analoghi nucleosidici Rispetto ai nucleosidi naturali, gli analoghi nucleosidici antivirali presentano modificazioni nella struttura della base nu-

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

HO

O

OH HO H3COC

HO

OH Neuraminidasi

O

H N

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OR

O

O

HO HN H3COC

HO

Arg181

OH

R = glicoproteina della cellula ospite

OH

HO

OR

Acido sialico: R = H H+

HO OH

Arg371

Arg292

ROH

HO OH

-

OH O

O

HO HN H3COC

HN H3COC

OH

HO

O

O

HO

OH

HO

Intermedio ossonio

Figura 40.5 Idrolisi dell’acido sialico dalla glicoproteina.

OH H HO

OH

1

O

COOH

H HO

OH

O

COOH

OH

N

4

H3COC

OH

HN HN

H3COC

NH2

DANA

HN Zanamivir

H3C O

CH3 H

COOC2H5

.

HN H3COC

H3C

H3PO4

NH2

Oseltamivir fosfato

H3 C

HO

COOH

H

NH HN H3COC

NH NH2

Peramivir

Figura 40.6 Inibitori della neuraminidasi.

cleica oppure nello zucchero fisiologico, che è sostituito da uno zucchero non fisiologico oppure da una catena alcolica che mima lo zucchero fisiologico (Fig. 40.8). La ribavirina – 1-β-d-ribofuranosil-1,2,4-triazolo-3carbossamide, RBV – è un analogo nucleosidico della guanosina che mostra ampio spettro d’azione verso virus a DNA e RNA. È indicata nel trattamento delle forme influenzali di tipo A e B e parainfluenzali. Si dimostra efficace anche nel trattamento delle affezioni erpetiche zoster e genitale, nel morbillo e nelle forme acute dell’epatite. Il meccanismo d’azione della ribavirina rimane controverso. A livello cere-

brale la ribavirina viene fosforilata a mono-, di- e trifosfato. Come monofosfato la ribavirina agisce da inibitore dell’inosina monofosfato deidrogenasi, interferendo con la biosintesi della guanosina trifosfato. Come trifosfato, la ribavirina esplica una specifica inibizione della RNA polimerasi virale, alterando la biosintesi degli RNA messaggeri. La ribavirina viene somministrata per via aerosol per la cura di infezioni del basso tratto respiratorio, quali bronchiti e polmoniti, e di gravi infezioni da virus respiratorio sinciziale. La ribavirina viene anche impiegata per via aerosol come farmaco antinfluenzale A e B e antierpetico. La ribavirina rallenta l’esor-

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Arg292

Arg292

Arg224 e Glu276 OH O

HO

O

COOH

Arg371 COOH

Arg118

Arg118

OH

C6

H3C

Arg371

H

CH3 H

HN

HN HN

H3COC

Arg152 C5

C1 NH2

C1

NH2

H3COC

Glu119

Arg152

Asp151

HN Asp151 Glu119

C5

C4

Zanamivir

C4

Oseltamivir carbossilato

Figura 40.7 Interazioni con il sito della neuraminidasi di H1N1. La numerazione delle tasche di legame è mostrata in colore.

O H2N

N N

HO

N

O

1,2,4-Triazolo-3-carbossiamide

Ribosio

OH OH Ribavirina O

O I

HN O HO

5-Iodouracile

N

O HO

O

N

O

Desossiribosio

Idossiuridina

Desossiribosio

Trifluridina

NH2 N

HO

NH2 N

O

5-Trifluorouracile

OH

OH

N

CF3

HN

N OH

OH Vidarabina (Ara-A)

N Adenina Arabinosio

O HO

O

N OH

Citosina Arabinosio

OH Citarabina (Ara-C)

Figura 40.8 Analoghi nucleosidici della replicazione virale. In colore è evidenziata la variazione rispetto al nucleoside naturale.

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FARMACI ANTINFETTIVI E ANTIPARASSITARI

dio dell’AIDS conclamato in soggetti sieropositivi, ma non presenta azione citoprotettiva verso le cellule infettate. Non mostra resistenza crociata nei confronti degli altri analoghi nucleosidici. La idoxuridina – 5-iodo-2'-deossiuridina, IDU – è un analogo nucleosidico della timidina caratterizzato dalla presenza di un atomo di iodio al posto del gruppo metilico. Il meccanismo d’azione della idoxuridina è competitivo nei confronti della timidina. Sotto forma di trifosfato la idoxuridina viene incorporata nella catena del DNA durante l’elongazione, bloccando o alterando l’mRNA con conseguente biosintesi di proteine anomale della particella virale. La sua selettività risiede nella maggiore affinità per la DNA polimerasi del virus herpes simplex (HSV) rispetto alla DNA polimerasi cellulare. Negli Stati Uniti la idoxuridina è utilizzata in applicazioni topiche sulle cheratiti da HSV. Sotto forma di soluzione in dimetilsolfossido viene altrove utilizzata per la cura di infezioni da herpes labiale, genitale e zoster. La trifluridina – trifluorotimidina, TFT, 5-trifluorometil-2'-desossiuridina – è un analogo nucleosidico strutturalmente correlato alla idoxuridina, rispetto alla quale presenta un gruppo trifluorometilico al posto dell’atomo di iodio. Il meccanismo della trifluridina attraverso la trasformazione a trifosfato ricalca quello della idoxuridina. La trifluridina risponde meglio dell’idoxuridina nelle applicazioni topiche. È utilizzata per il trattamento di cheratocongiuntiviti primarie e cheratiti epiteliali da HSV di tipo 1 (HSV-1) e 2 (HSV-2), e nelle infezioni cutanee da HSV resistenti all’aciclovir. La vidarabina – 9-β-d-arabinofuranosiladenina, Vira-A – è un analogo nucleosidico dell’adenosina, rispetto alla quale presenta come zucchero l’arabinosio, l’epimero al C2' del ribosio. La vidarabina viene convertita a trifosfato bloccando l’elongazione della catena del DNA. Sotto forma di trifosfato, la vidarabina interferisce anche con enzimi coinvolti nella biosintesi della timidina. La vidarabina è utilizzata per via endovenosa nel trattamento delle encefaliti da HSV di tipo 1 e 2. Si è dimostrata utile anche nel trattamento delle infezioni erpetiche labiali e genitali in pazienti con compromissione del sistema immunitario. In modelli animali la vidarabina ha dimostrato proprietà mutagene, cancerogene e teratogene, perciò il suo uso va evitato da parte delle donne in gravidanza. L’infusione endovenosa lenta di vidarabina nel trattamento delle encefaliti virali è seguita dalla rapida formazione di metaboliti ipoxantinici. La citarabina – 1-β'-arabinofuranosilcitosina, Ara-C – è un analogo nucleosidico pirimidinico della citidina. Analogamente alla vidarabina, presenta la sostituzione del ribosio con l’arabinosio. Interferisce con la biosintesi del DNA previa trasformazione a trifosfato, prevenendo alla cellula l’utilizzo della desossicitidina. Il suo impiego principale è come agente antitumorale nel linfoma di Burkitt e nelle leucemie mieloide e linfatica. L’impiego della citarabina come farmaco antivirale riguarda il trattamento topico e per via endovenosa di infezioni da herpes zoster, cheratiti erpetiche e dei casi resistenti alla idoxuridina.

40.2.2 Analoghi nucleosidici aciclici L’aciclovir – 9-[2-(idrossietossi)metil]-9H-guanina, ACV – è un analogo sintetico della deossiguanosina privo degli ato-

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mi C2' e C3' del ciclo furanosico (Fig. 40.9). L’aciclovir viene dapprima convertito in aciclovir monofosfato. La timidina chinasi virale mostra maggiore affinità per l’aciclovir rispetto alla normale timidina chinasi della cellula, risultando in una maggiore velocità di monofosforilazione nella cellula infettata rispetto alla cellula sana. Le successive trasformazioni a difosfato e trifosfato avvengono ad opera della guanosina monofosfato chinasi cellulare. Come trifosfato, l’aciclovir viene incorporato nella catena del DNA, dove blocca l’allungamento della catena agendo da chain terminator. Questo avviene a causa della mancanza del gruppo ossidrilico in posizione C3' presente nel desossiribosio che non permette la formazione dei legami 3',5'-fosfodiesterici. L’aciclovir trifosfato inibisce competitivamente la DNA polimerasi virale a concentrazioni più basse rispetto a quelle richieste per la DNA polimerasi cellulare (Fig. 40.10). Le cellule infettate da herpes virus mostrano una maggiore captazione dell’aciclovir rispetto alle cellule sane. Complessivamente ne risulta che l’aciclovir inibisce selettivamente la sintesi del DNA nelle cellule erpetiche senza disturbare significativamente la produzione del DNA nelle cellule non infettate dal virus. L’aciclovir è un agente antivirale molto efficace nei confronti di HSV-1 (herpes labiale) e HSV-2 (herpes genitale) sotto forma di preparazioni topiche e per via endovenosa; risulta meno efficace verso le infezioni da varicella-zoster virus (VZV), virus di EpsteinBarr (EBV) e citomegalovirus (CMV). Il valaciclovir cloridrato (Fig. 40.9) è un profarmaco tra l’aciclovir e l’estere etilico della l-valina. Rispetto all’aciclovir, scarsamente assorbito per via orale, il valaciclovir mostra un migliore assorbimento attraverso la membrana intestinale grazie alla maggiore lipofilia dovuta alla presenza della porzione l-valinica. Una volta assorbito, il valaciclovir viene rapidamente idrolizzato ad aciclovir dalle esterasi presenti nel plasma. Il valaciclovir presenta quindi le azioni dell’aciclovir. È particolarmente impiegato nel trattamento delle infezione da herpes zoster, una patologia comunemente nota come “fuoco di Sant’Antonio”. Il cidofovir – 1-[(S)-3-idrossi-2-fosfonometossi)propil] citosina – è un analogo purinico aciclico derivato dalla citosina contenente un’unità fosfato (Fig. 40.9). Nella cellula ospite il cidofovir viene trasformato nel suo corrispondente difosfato. Nella molecola attivata le unità fosfato sono 3. La fosforilazione del cidofovir è virus-indipendente, in quanto non richiede l’intervento delle chinasi virali. Il cidofovir difosfato viene incorporato nel filamento di DNA competendo con la desossicitosina trifosfato. Agisce da terminatore di catena e da inibitore della DNA polimerasi virale. Il cidofovir è attivo nei confronti di herpesvirus inclusi HSV-1 e HSV-2, VZV, CMV e EBV. È efficace verso ceppi di HSV resistenti all’aciclovir e ceppi di CMV resistenti al ganciclovir. Il cidofovir è anche attivo nei confronti di vari virus erpetici. È somministrato per infusione endovenosa nel trattamento in infezioni da CMV in pazienti di AIDS. È caratterizzato da una lunga durata d’azione, non ha azione curativa ed è inefficace nella retinite da CMV. Il famciclovir (Fig. 40.9) corrisponde al diestere acetilico del 6-desossipenciclovir, un analogo nucleosidico purinico sintetico strutturalmente correlato con la guanina. Il famciclovir agisce da profarmaco che in vivo viene metabolizzato a

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O O

N

HN

N

HN

N

N

H2N

H2N

HO

O

HO

HO

N

N

OH

O

Aciclovir

Guanosina O

NH2 N

HN

H2N

O

H3C

N

N

N

H2 N

O

P

OH

O

O

O

HO

O

H3C

OH O

O

O CH3

H

N

N

H2N N

N

HN

O

Cidofovir

Valaciclovir

CH3 O

Famciclovir O N

HN

N

N

H2N HO

NH2 N N

H3C

O O

CH3

O

N

O

OH Ganciclovir

O

N

P

O

O

O

CH3 O CH3 CH3 CH3

Adefovir dipivoxil

Figura 40.9 Analoghi nucleosidici aciclici della replicazione.

penciclovir – 9-[(4-idrossi-3-idrossimetil)but-1-il]guanina – per idrolisi dei gruppi esterei e ossidazione del C6. Lo spettro d’azione del penciclovir verso HSV e VSV è simile a quello dell’aciclovir, rispetto al quale è meno attivo. Il penciclovir inibisce anche il virus dell’epatite B. Il famciclovir è impiegato per la cura di patologie da herpes zoster e herpes genitale in soggetti adulti con sistema immunitario compromesso. Il ganciclovir – 9-[(1,3-diidrossi-2-propossi)metil]guanina – è un analogo dell’aciclovir rispetto al quale presenta un secondo gruppo idrossimetilico nella catena laterale (Fig. 40.9). Il ganciclovir si dimostra attivo al pari dell’aciclovir verso HSV e VSV, ma risulta significativamente più attivo verso CMV. Il primo stadio di fosforilazione del ganciclovir avviene ad opera di una specifica chinasi virale. Sotto forma di trifosfato, il ganciclovir inibisce maggiormente la DNA polimerasi virale rispetto a quella cellulare, provocando la terminazione della catena e la rottura del filamento di DNA. Il ganciclovir è attivo verso CMV, EBV e HSV, ma la sua tossicità ne limita l’utilizzo ai casi di retinite da CMV in pazienti con immunocompromissione e alla profilassi di CMV in soggetti organo-trapiantati.

L’adefovir dipivoxilato è un profarmaco che viene idrolizzato ad adefovir ad opera delle esterasi plasmatiche (Fig. 40.9). L’adefovir viene quindi trasformato in farmaco attivo per formazione di due legami fosfato. Sotto forma di difosfato (le unità di fosfato totali sono 3) l’adefovir agisce da terminatore di catena, prevenendo la DNA polimerasi virale. Per via orale l’adefovir dipivoxilato mostra un assorbimento migliore rispetto all’adefovir. In studi clinici l’adefovir dipivoxilato è risultato indicato per il trattamento di infezioni croniche di HBV (virus dell’epatite B), mostrando un basso sviluppo di farmacoresistenza.

40.2.3 Analoghi non nucleosidici Il foscarnet – fosfoformiato trisodico esaidrato – inibisce la replicazione di CMV, HSV, VSV e dell’HIV. Il foscarnet agisce inibendo competitivamente l’introduzione delle due unità di fosfato richieste dalla DNA polimerasi e dalla retrotrascrittasi nella fase di elongazione. La Food and Drug Administration (FDA) ha approvato l’impiego del foscarnet sodico come trattamento di seconda scelta delle retiniti da

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O

O N

HN

N

N

H2N HO

N

HN HSV o VZV timidina chinasi

H2N O HO

O

P

O

Chinasi cellulare

O

HO

Aciclovir (ACV)

N

N

ACV-monofosfato O

O N

HN

HO HO

P

O HO

P

N

N

H2N O

O

Chinasi cellulare

O O

N

HN

HO

O

P

HO

O

P

O

HO

ACV-difosfato

P

N

N

H2N O

O

O

O

HO

ACV-trifosfato

O

O

O OH P O

P O

O

OH O

P

O

OH O

3' 5'

Aciclovir

O

O

O

O

DNA polimerasi virale

O O O

P

O OH

O O

O

O

O

P

O O OH

O

P

O OH

O O

O

P

O OH

Figura 40.10 Rappresentazione schematica del meccanismo d’azione dell’aciclovir. L’ACV-trifosfato lega la DNA polimerasi virale competendo con la desossiguanosina-trifosfato; l’ACV viene incorporato nella catena di DNA durante l’elongazione e così la DNA polimerasi risulta “congelata” e non può legare il successivo desossinucleoside per la mancanza del C3’.

CMV in pazienti immunocompromessi. Il foscarnet sodico risulta utile nella cura delle infezioni mucocutanee da HSV e VZV resistenti all’aciclovir in pazienti di AIDS. Il farmaco può dare varie reazioni avverse, tra cui nefro- e neurotossicità, squilibrio elettrolitico, aritmie cardiache e farmacointerazioni. La lunga emivita del foscarnet viene attribuita a un accumulo del farmaco nel tessuto osseo. Il fomivirsen – oligodeossinucleotide-21-mero fosforotioato – è un oligonucleotide antisenso utilizzato come cura alternativa delle retiniti da CMV resistenti ai trattamenti

convenzionali in pazienti con immunocompromissione. Il meccanismo del fomivirsen è l’inibizione della sintesi di proteine implicate nell’espressione genica del CMV. Boceprevir e telaprevir sono potenti inibitori della proteasi NS3-4A di HCV (virus dell’epatite C) recentemente introdotti per il trattamento dell’epatite di tipo C. La proteasi NS3-4A è un enzima che processa i grossi blocchi proteici in quattro peptidi (NA4A, NS4B, NS5A e NS5B) che sono di importanza vitale per l’HCV. L’inibizione della proteasi NS3-4A porta all’inibizione della replicazione del virus

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HCV. L’FDA ha approvato l’impiego di boceprevir e telaprevir in combinazione con interferone pegilato e ribavirina (Fig. 40.11).

Tabella 40.2 Farmaci antiretrovirali in uso per il trattamento di HIV/AIDS.

40.3 A  genti antiretrovirali per l’HIV e l’AIDS L’HIV (human immunodeficiency virus) è l’agente eziologico responsabile dell’AIDS (acquired immunodeficiency syndrome). Sono noti due tipi di virus, HIV-1 e HIV-2. La maggior parte delle infezioni nel mondo sono causate dall’HIV-1, mentre HIV-2 è diffuso principalmente in alcune zone dell’Africa centro-meridionale. Il virus HIV infetta solamente quelle cellule che presentano sulla superficie le proteine complementari CD4 e uno dei corecettori CCR5 e CXCR4, alle quali può agganciarsi. Queste proteine complementari CD4-CCR5 e CD4-CXCR4 sono presenti su linfociti T CD4, macrofagi, cellule dendritiche e cellule gliali del sistema nervoso centrale (Fig. 40.12). La terapia HAART (highly active antiretroviral therapy) consente di rallentare notevolmente la replicazione del virus, ottenendo concentrazioni di particelle virali circolanti al di sotto dei limiti rilevabili dai sistemi diagnostici. Tuttavia la terapia non riesce a eradicare completamente l’infezione retrovirale; il paziente è costretto ad assumere i farmaci per tutta la vita, favorendo la selezione di mutazioni farmacoresistenti e la comparsa delle reazioni avverse. Il trattamento clinico dell’HIV/AIDS dispone di farmaci di prima scelta, che sono i più efficaci e meglio tollerati; di seconda scelta, utilizzati in sostituzione della prima scelta per superare la farmacoresistenza o gravi effetti collaterali; e di terza scelta, che includono le molecole di più recente introduzione per i casi particolari di resistenza o intolleranza (Tab. 40.2).

Classe

Farmaco (abbreviazione)

Inibitori nucleosidici o nucleotidici della trascrittasi inversa

Zidovudina (AZT) Didanosina (ddI) Zalcitabina (ddC) Stavudina (d4T)
 Lamivudina (3TC) Abacavir solfato (ABC) Tenofovir disopril (TFD) Emtricitabina (FTC)

Inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa

Nevirapina (NVP) Delavirdina (DLV) Efavirenz (EFV) Etravirina (ETV) Rilpivirina (RPV)

Inibitori della proteasi

Saquinavir (SQV) Indinavir (IDV) Ritonavir (RTV) Nelfinavir (NFV) Amprenavir (APV) Fosamprenavir (FOS-APV) Atazanavir (ATV) Tripranavir (TPV) Darunavir (DRV)

Inibitore della fusione

Enfuvirtide, T-20 (EFT)

Inibitore dell’ingresso – CCR5

Maraviroc (MRV)

Inibitore dell’integrasi

Raltegravir (RLG)

40.3.1 Inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa Il meccanismo dell’incorporazione di un inibitore nucleosidico della trascrittasi inversa (NRTI) fosforilato è lo stesso

H3C

5'-GCG TTT GCT CTT CTT CTT GCG-3' Fomivirsen

-O

P O-

COO-

H N

H N

H3C

3-

O

H3C

(Na+)3

CH3

O H3C

Foscarnet sodico

O

N

H H N

N O CH3 CH3

Boceprevir H

N

CH3

H

N H

H N O H3C

H H N

N O CH3 CH3

O

O

H N O

H3C

Telaprevir

Figura 40.11 Analoghi non nucleosidici aciclici della replicazione.

O

O NH2 O

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Figura 40.12 Ciclo replicativo di HIV. L’attaccamento della glicoproteina virale gp120 alle proteine complementari CD4CCR5 e CD4-CXCR4 presenti su linfociti T CD4 provoca la fusione del rivestimento del virus e il successivo rilascio dell’RNA virale nel citoplasma cellulare. La RT retrotrascrive l’RNA virale in DNA complementare a doppio filamento che nel nucleo viene integrato nel DNA cellulare dall’integrasi. Il DNA provirale è trascritto dalla polimerasi cellulare a formare mRNA per le proteine virali e l’RNA del genoma virale. Proteine e RNA vengono assemblati alla membrana cellulare per formare i virioni immaturi. All’esterno della cellula, i grossi blocchi polipeptidici precursori sono processati dalla proteasi virale a formare i virioni maturi. RT, trascrittasi inversa virale; gp120 e gp41, glicoproteine di membrana virali; CCR5, recettore C-C per le chemochine di tipo 5; CXCR-4, recettore C-X-C per le chemochine di tipo 4; RNasi H, ribonucleasi H; cDNA, DNA complementare; Gag, Pol ed Env, geni fondamentali per la replicazione di HIV che codificano per le proteine virioniche (Gag), la RT (Pol) e il rivestimento esterno (Env); Tat, Rev, Nef, Vif, geni virali che regolano il ciclo replicativo e la sintesi proteica.

dei substrati naturali deossinucleoside trifosfato (dNTP). Un modello generale per la catalisi prevede il coinvolgimento di due cationi metallici bivalenti, designati A e B. Il catione A promuove l’attacco nucleofilo dell’ossidrile in C3' del primer al fosfato α del nucleotide legato, mentre il catione B è coinvolto nel rilascio dell’unità difosfato; entrambi i cationi concorrono a stabilizzare lo stato di transizione. La deprotonazione del 3'-OH nucleofilo da parte di una generica base e la protonazione del gruppo pirofosfato uscente da parte di un generico acido possono avvenire simultaneamente nello stato di transizione per la formazione del legame fosfodiestereo. A questo punto la reazione può teoricamente seguire due direzioni, portando all’incorporazione del nucleoside monofosfato e al rilascio del pirofosfato, oppure all’esclusione del 3'-OH (Fig. 40.13). La ziduvudina – 2'-3'-deossi-3'-azidotimidina, AZT – è stato il primo farmaco introdotto in terapia nel 1987 per il

trattamento dell’infezione da HIV (Box 40.1 e Fig. 40.14). Poco dopo è stata dimostrata l’efficacia clinica dell’AZT nel complesso correlato all’AIDS (ARC). È un analogo nucleo­sidico della timidina caratterizzato dalla presenza di un gruppo azidico in posizione 3' del nucleo dideossiribosico. L’AZT è trasformato nel corrispondente 5'-trifosfato in tre stadi. L’AZT-5'-monofosfato è rapidamente generato ad opera della timidina chinasi cellulare; il monofosfato è trasformato ad AZT-5'-difosfato dalla timidilato chinasi, e infine nella forma attiva AZT-5'-trifosfato da parte della 5'-nucleoside difosfato (NDP) chinasi (Fig. 40.15). La fosforilazione a difosfato rappresenta il “collo di bottiglia” del processo di attivazione. La trascrittasi inversa (RT) incorpora l’AZT-5'-trifosfato al posto della timidina-5'-trifosfato durante la retrotrascrizione a DNA provirale. In virtù della presenza del gruppo 3'-azidico è prevenuta la formazione del normale legame 3'-5'-fosfodiestereo, impedendo l’elon-

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Base

A)

Asp72

HO

O

Base

O O

HO

Lys65



O

P O

OH

O O -



P

O -

O

Mg 2+

Mg 2+

I

II

Primer

Asp185

O 

P O

OH -

Asp110

Sostituzione dell’eteroatomo

B) Modifica/apertura del ciclo furanosico

Modifica della base Base

Modifica del 5'-OH

HO

X Aggiunta di gruppi funzionali/atomi

Inversione della configurazione Modifica/eliminazione del 3'-OH del ribosio

Figura 40.13 A) Rappresentazione schematica della reazione catalitica di trasferimento dei gruppi fosforici. Il gruppo ossidrilico in posizione 3’ del primer attacca il fosfato α del nascente nucleotide. I due metalli stabilizzano il posizionamento dei gruppi fosforici in coordinazione con i due gruppi aspartato. B) Siti molecolari per l’ottimizzazione degli NRTI.

gazione del singolo filamento di DNA provirale. Sotto forma di 5'-monofosfato, l’AZT agisce da inibitore competitivo della timidilato chinasi cellulare. L’AZT mostra maggiore affinità per la RT virale rispetto alla DNA polimerasi cellulare, col risultato che opportune concentrazioni di AZT riescono a inibire selettivamente la RT virale. L’AZT è altamente efficace nel trattamento clinico dell’AIDS in pazienti con numero di linfociti circolanti   90% dei casi), che rendono consigliabile un trattamento profilattico con antiemetici e sedativi. Si registrano inoltre fenomeni importanti di mie­ losoppressione con conseguente linfopenia e granulocito­ penia e, a causa dell’effetto mutageno sulle cellule staminali del midollo osseo, può essere causa di alcune forme di leu­ cemia. Nel tentativo di sviluppare nuovi farmaci alchilanti con minori effetti collaterali, è stato progettato il nitromin – 2-cloro-N-(2-cloroetil)-N-metiletanamina ossido – (forma latenziata della mecloretamina). Questo agente, inizialmente

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FARMACI ANTITUMORALI

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inattivo per l’impossibilità di generare uno ione aziridinio, viene trasformato per riduzione in vivo nella mecloretamina. In questo modo si riduce il potere vescicante della meclore­ tamina, che si manifesta spesso in sede di somministrazione endovenosa. La mecloretamina è stata utilizzata in passato come farmaco di prima scelta nella cura di diversi tumo­ ri del sangue. Oggi, solo in casi particolari per il morbo di Hodgkin, è impiegato il regime MOPP, una terapia di asso­ ciazione che comprende, oltre alla già citata mecloretamina, vincristina, procarbazina e prednisone. Nell’agosto 2013 la FDA ha autorizzato un nuovo medi­ cinale a base di mecloretamina, formulato come gel per uso topico nel trattamento della micosi fungoide, una forma di linfoma cutaneo a cellule T, nei pazienti già trattati con tera­ pia topica a base di corticosteroidi, fototerapia e bexarotene.

Clorambucile La progettazione del clorambucile – acido-4-{4-[bis(2-clo­ roetil)amino]fenil}butanoico – nasce dal tentativo di dimi­ nuire la reattività chimica della mecloretamina mediante sostituzione del gruppo elettrondonatore metilico con un gruppo elettronattrattore come il gruppo benzenico. COOH

Cl

N

Cl Clorambucile

Poiché le mostarde azotate sostituite solamente con un grup­ po fenilico non sono sufficientemente solubili in acqua, sono state preparate mostarde azotate aromatiche contenenti un gruppo carbossilico, in modo da rendere possibile la som­ ministrazione endovenosa. Sono stati sintetizzati composti in cui il gruppo fenilico viene separato dal carbossilato me­ diante l’aggiunta di metileni per attenuare l’effetto elettro­ nattrattore del gruppo carbossilico, che porterebbe a compo­ sti eccessivamente stabili e di conseguenza agenti alchilanti troppo deboli. Il clorambucile viene facilmente assorbito nel tratto ga­ strointestinale e ha una buona biodisponibilità orale, che diminuisce però drasticamente in presenza di cibo. Viene utilizzato nel trattamento del morbo di Hodgkin, di alcune forme di linfomi non Hodgkin e della leucemia linfocitica cronica (Scheda 42.2).

Melfalan (L-PAM) Sulla base delle stesse considerazioni che hanno portato alla sintesi del clorambucile, si inserisce la mostarda azotata melfalan – acido-3-{4-[bis(2-cloroetil)amino]fenil}-(2S)-2-ami­ nopropanoico. Questo agente alchilante contiene infatti nel­ la propria struttura un anello benzenico legato a un residuo aminoacidico che attenua in modo deciso la reattività chimica della mostarda.

NH2 Cl

COOH

N

Cl Melfalan

L’inserimento di l-fenilalanina (l-Phe) è stato dettato dall’i­ dea di sfruttare il trasporto attivo degli aminoacidi naturali così da favorire l’uptake della mostarda azotata all’interno delle cellule; in realtà non è stato dimostrato che il farmaco sfrutti questo meccanismo di trasporto preferenziale. Il farmaco può essere somministrato oralmente, ma l’as­ sorbimento in questo caso è molto variabile e può essere modificato drasticamente (AUC, cioè area sottesa alla curva, ridotta fino al 45%) dalla presenza di cibo nello stomaco. Per ovviare a questa problematica è disponibile anche la formu­ lazione per la somministrazione endovenosa. Il melfalan è il farmaco di elezione nella cura del mieloma multiplo; si uti­ lizza inoltre frequentemente nel carcinoma dell’ovaio e della mammella (trattamento postchirurgico) (Scheda 42.2).

Estramustina fosfato sodico e prednimustina L’estramustina fosfato – {(8R,9S,13S,14S,17S)-3-[bis(2cloroetil)carbamoilossi]-13-metil-6,7,8,9,11,12,14,15,16,17decaidrociclopentan[a]fenantrene-17-il} fosfato disodico – (Fig. 42.4) è una mostarda azotata ancorata al nucleo steroi­ deo dell’estradiolo: la parte steroidea della molecola svolge la funzione di vettore per il trasporto selettivo dell’agente alchi­ lante nel tessuto prostatico steroide-dipendente. Il suo uso è limitato al carcinoma della prostata metastatico o progressi­ vo, poiché questa condizione clinica porta a sovraespressio­ ne nel tessuto prostatico del recettore per gli estrogeni. Dal punto di vista chimico, il gruppo 17β-OH dell’estra­ diolo è stato esterificato con un gruppo fosfato: migliora la solubilità del composto in acqua e viene facilmente idroliz­ zato in condizioni fisiologiche. Nell’estramustina fosfato la mostarda è legata alla componente steroidea attraverso un residuo carbamico; questo gruppo è stato progettato per ri­ durre la nucleofilicità del gruppo aminico e quindi la velocità di formazione dell’intermedio reattivo aziridinico. La reatti­ vità chimica del farmaco è così sufficientemente attenuata ed è possibile la somministrazione orale. Si è visto che il gruppo carbamico può essere scisso in vivo prima che il farmaco raggiunga il target prostatico, di­ minuendo molto la selettività tissutale e promuovendo nel contempo la liberazione in vivo di elevate quantità di estra­ diolo. Per questo motivo l’estramustina fosfato non può essere utilizzata nei tumori estrogeno-dipendenti e va usa­ ta con molta cautela nei pazienti con problemi vascolari, predisposti all’ipertensione e con problemi al sistema della coagulazione; nei pazienti cardiopatici può inoltre causare scompenso cardiaco congestizio. Gli effetti tossici midollari sono rari, mentre sono molto comuni ginecomastia, impo­ tenza e ritenzione di liquidi; nausea e vomito sono frequenti soprattutto a inizio terapia.

CAPITOLO 42 • Farmaci antitumorali

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Cl

N

O CH3 O

P

-

O Na

+

Cl

O-Na+

H O Cl

N

H

O H

CH3

HO

O

CH3

O

OH

H H

H Cl

O

O Prednimustina

Estramustina fosfato sodico

Figura 42.4 Estramustina fosfato sodico e prednimustina.

L’estramustina fosfato viene oggi considerata un agente alchilante debole ed è stato ipotizzato che il suo meccanismo d’azione più importante sia diverso dalle sue capacità alchi­ lanti. È stata documentata infatti per l’estramustina fosfato un’importante attività antimitotica collegata alle sue capa­ cità di legarsi a una MAP (microtubule associated protein) e favorire la dissociazione di questa proteina dai microtubuli, con conseguente destabilizzazione e depolimerizzazione del fuso mitotico. La prednimustina – {2-[(8S,9S,10R,11S,13S,14S,17R)11,17-diidrossi-10,13-dimetil-3-osso-7,8,9,11,12,14,15,16octaidro-6H-ciclopenta[a]fenantren-17-il]-2-ossoetil} 4-{4-[bis(2-cloroetil)amino]fenil}butanoato – è trattata nella Scheda 42.2.

Ciclofosfamide La ciclofosfamide, o CP – N,N-bis(2-cloroetil)-2-osso-1,3,2ossazafosforina-2-amina – (Fig. 42.5) è un importante far­ maco antineoplastico utilizzato in terapia per il trattamento di una grande varietà di tumori maligni. La ciclofosfamide è un profarmaco, infatti la sua attivazione in vitro in colture tissutali di omogenato di fegato è dovuta all’intervento del si­ stema enzimatico CYP450. Questa mostarda è la più usata tra gli agenti chemioterapici alchilanti. È comunemente utilizzata in combinazione per il trattamento di carcinoma a seno e ova­ ie, sarcoma, leucemia monocitica acuta, leucemia mielocitica cronica, linfomi Hodgkin e non Hodgkin e mieloma multiplo. La ciclofosfamide è ben assorbita se assunta per via orale ed è disponibile sia in compresse sia in polvere liofilizzata da utilizzare per uso parenterale. Nelle cellule neoplastiche è stata documentata un’alta concentrazione di fosfatasi e fosforoamidasi; sfruttando que­ sta concentrazione enzimatica elevata, con l’idea di creare selettività tissutale attraverso l’attivazione del farmaco in modo mirato nelle cellule tumorali, sono stati sintetizzati molti analoghi fosfamidici di mostarde azotate, tra cui la ci­ closfosfamide stessa. La ciclofosfamide in realtà viene con­ vertita in metabolita attivo nel fegato grazie all’intervento del CYP2B6 (Box 42.2).

L’attivazione obbligatoria nel fegato rende questo agen­ te meno tossico per il sistema gastrointestinale; il farmaco non è però privo di effetti indesiderati anche importanti. In particolare l’acroleina, generata durante la formazione della mostarda fosforamidica, è un potente elettrofilo accettore di Michael, responsabile di effetti collaterali gravi al rene e alla vescica (Scheda 42.2). La ciclofosfamide (la cui sintesi è riportata nel Box 42.3) deve essere pertanto utilizzata con molta cautela in pazien­ ti con pregressi problemi renali e con inibizione del sistema enzimatico CYP450. Durante l’utilizzo della CP deve essere monitorata la velocità di filtrazione della creatinina.

Ifosfamide L’ifosfamide – 2-[(2-cloroetil)amino]-2-osso-3-(2-cloroetil) -1,3,2-ossazafosforina – è un farmaco che può essere con­ Cl NH P O

O N

N Cl

P O

Cl

O N H

Cl

Ifosfamide

Ciclofosfamide Cl N P O

O N

Cl

Cl Trofosfamide

Figura 42.5 Ciclofosfamide, ifosfamide e trofosfamide.

897

898

FARMACI ANTITUMORALI

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BOX 42.2 ■ Attivazione metabolica della ciclofosfamide L’attivazione enzimatica della ciclofosfamide comporta l’ossidazione della ciclofosfamide a 4-OH-CP, che si trova in equilibrio tautomerico con l’aldofosfamide. Per decomposizione dell’aldofosfamide viene generata acroleina, un’aldeide α-β insatura potente accettore di Michael, e la mostarda fosforamidica, che rimane come anione all’interno della cellula. La mostarda fosforamidica, spontaneamente o enzimaticamente, può a sua volta

decomporsi portando alla formazione di acido fosforico, ammoniaca e della mostarda più semplice bis(β-cloroetil) amina. Non è chiaro quale dei metaboliti, mostarda fosforoamidica o bis(β-cloroetil)amina, sia il vero responsabile dell’azione terapeutica; entrambi possono essere precursori di un intermedio reattivo aziridinico che alchila il DNA e porta alla morte cellulare.

HO NH P O

O N

CYP2B6

P

Equilibrio tautomerico

O N

O

Cl

H H2N

O NH

P

H

O

Cl

O

O H2C

N

B Cl Ciclofosfamide

Acroleina

Cl

Cl 4-OH-CP

H

Cl

Aldofosfamide

+ H2N

Cl

P

Spontanea o con azione enzimatica

HN

O N

O

Cl

H3PO4 + NH3

Cl Cl

Mostarda fosforamidica

Bis(-cloroetil)amina

Cl

Possibile protonazione a pH intracellulare

H2N

Cl

P

H N

O

N

Aziridina protonata

Aziridina terziaria

È interessante osservare che nei tessuti non tumorali le vie di detossificazione catalizzano l’ossidazione della 4-OH-CP a 4-cheto-CP e dell’aldofosfamide a carbossi-P, due metaboliti relativamente meno tossici rispetto alla ciclofosfamide.

P O

H2N

Cl 4-Cheto-CP

Cl

Cl

Per questo motivo la ciclofosfamide viene considerata la mostarda azotata relativamente meno tossica rispetto alle altre mostarde del gruppo.

O N

N

Ciclo aziridinico quaternario

O NH

O

HOOC

P O

O N

Cl Carbossi-P

Cl

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BOX 42.3 ■ Sintesi della ciclofosfamide La preparazione della ciclofosfamide prevede come rea­ zione iniziale l’ottenimento della bis(2-cloroetil)amina (2) che viene preparata per reazione della bis(2-idrossietil)amina (1) con cloruro di tionile. La bis(2-cloroetil)

amina (2) viene successivamente fatta reagire con ossicloruro di fosforo per dare N,N-bis-(2-cloroetil)diclorofosforamide (3). Infine la reazione della fosforamide con il 3-aminopropanolo genera la ciclofosfamide. Cl

OH SOCl2

HN

Cl

Cl O

POCl3

HN

P Cl

OH

TEA

Cl

2

Bendamustina La bendamustina – acido-4-{5-[bis(2-cloroetil)amino]1-metilbenzimidazol-2-il}butanoico – è un agente antineo­ plastico che combina nella propria struttura una mostarda azotata e un componente antimetabolita, analogo struttu­ rale della purina, rappresentato dalla porzione benzimida­ zolica. Cl

NH

canismo d’azione delle mostarde azotate. I farmaci aziridinici sono in genere considerati alchilanti più deboli rispetto alle mostarde azotate classiche, in quanto l’aziridina risulta essere un elettrofilo molto meno potente del sale aziridinico quater­ nario, intermedio reattivo delle mostarde azotate. La maggior stabilità del ciclo aziridinico è dovuta al limitato carattere basico del gruppo aminico, che porta a percentuali di pro­ tonazione molto basse in condizioni fisiologiche. Il carattere basico ridotto dell’aziridina è dovuto al fatto che la coppia so­ litaria di elettroni dell’atomo di azoto, a causa della struttura ciclica a tre termini, si trova in un orbitale a maggior carattere s rispetto a quanto succede comunemente nelle amine classi­ che. Il farmaco più importante tra gli aziridinici è il tiotepa, ma vanno comunque citati anche AZQ e BZQ (Scheda 42.3). Il tiotepa – tris(aziridin-1-il)tiofosforile – messo a punto negli anni ’50, chimicamente è un composto organofosforico analogo del N,N',N''-trietilenfosforamide (TEPA), dal quale si differenzia per la maggiore stabilità.

COOH Cl

Cl

P

3

siderato un analogo della ciclofosfamide con le due catene β-cloroetiliche legate a due diversi gruppi aminici. L’ifosfa­ mide (Fig. 42.5) necessita di attivazione metabolica da par­ te degli stessi sistemi enzimatici utilizzati anche dalla CP; è però meno prona all’attivazione enzimatica e questo com­ porta l’utilizzo di dosi superiori (anche di 4 volte) per otte­ nere lo stesso effetto terapeutico (Scheda 42.2).

N

O

Cl

Cl

1

O

NH2(CH2)3OH

N

S

N N N

CH3 Bendamustina

La bendamustina, nonostante un meccanismo d’azione fon­ damentalmente alchilante con crosslinking del DNA, ha mo­ strato un profilo d’azione in linee di cellule tumorali umane differente rispetto a quello di altri agenti alchilanti. Il farma­ co presenta una bassa o nulla resistenza crociata con altri far­ maci che interagiscono covalentemente con il DNA. La ben­ damustina è entrata in commercio nel 1971 e il suo successo è andato crescendo negli anni. Nel 2008 la FDA ha autoriz­ zato l’uso del principio attivo prima nella leucemia linfatica cronica e poi nei linfomi indolenti refrattari a rituximab; nel 2011 la bendamustina è entrata in commercio anche in Italia (Scheda 42.2).

42.3.3 Farmaci aziridinici e alchilsolfonati Questa classe di farmaci, caratterizzata strutturalmente dalla presenza di cicli aziridinici, nasce dall’osservazione del mec­

P N

O N

N

P N

N

TEPA trietilenfosforamide metabolita attivo del tiotepa dopo desolforazione ossidativa

Tiotepa

O R

N

N

R

AZQ: R = NHCOOCH2CH3 BZQ: R = NHCH2CH2OH

O

Il tiotepa viene somministrato per via endovenosa a causa dell’irregolarità dell’assorbimento dopo somministrazione orale. In vivo viene trasformato nel metabolita attivo TEPA, che è il responsabile dell’attività citotossica. Viene utilizzato in combinazione con altri chemioterapici principalmente nel trattamento del carcinoma papillare della vescica urinaria (an­ che per infusione intracavitaria) e nel tumore di ovaie e seno.

899

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Mitomicina C La mitomicina C – [6-amino-8a-metossi-5-metil-4,7-dios­ so-1,1a,8,8a,8b-esaidroazirina[2',3':3,4]pirrolo[1,2-a]indol8-il]metilcarbamato – è un prodotto naturale isolato nel 1958 da colture di Streptomyces caespitosus. Fa parte della classe degli antibiotici antitumorali ed è dotata di un mecca­ nismo d’azione alchilante mediato dalla componente aziridi­ nica contenuta nella sua struttura. I tre gruppi della molecola responsabili dell’azione anti­ tumorale sono il chinone, l’aziridina e il carbamato. Secondo alcuni studi l’antibiotico subisce inizialmente un’attivazione bioriduttiva a derivato idrochinonico ad opera di alcuni enzi­ mi, tra cui importante è la NAD(P)H chinone ossidoreduttasi, un enzima espresso in molte cellule tumorali (Fig. 42.6). La selettività per le cellule cancerose deriva inoltre dal fat­ to che il processo riduttivo è favorito da un ambiente ipossi­ co, cioè povero di ossigeno, caratteristico di cellule localizzate al centro di tumori solidi e quindi lontane dai vasi sanguigni. Grazie all’attivazione bioriduttiva, l’atomo di azoto eterocicli­ co passa da una situazione di tipo enaminonico a una di tipo aminico, che favorisce l’eliminazione del gruppo metossilico. Attraverso questo meccanismo si creano due siti forte­ mente elettrofili: il DNA prima attacca l’anello aziridinico e successivamente il gruppo metilenico in α al gruppo car­ bamico; quest’ultimo sito deve la sua reattività fondamen­ talmente alla presenza del carbamato, che funziona da buon gruppo uscente. La citotossicità della mitomicina C è ulteriormente po­ tenziata dal fatto che la riduzione del sistema chinonico porta alla concomitante formazione di radicali superossido e radicali ossidrilici, che possono promuovere la rottura dei filamenti del DNA.

H2N O

N O

42.3.4 Farmaci triazenici I farmaci antitumorali triazenici, definiti anche farmaci metilanti il DNA, vengono attivati per N-dealchilazione os­ sidativa e sono caratterizzati da una struttura generale molto

H 2N OH

OCH3

H3C

Busulfano Dal punto di vista chimico il busulfano – 4-metilsolfoni­ lossabutil metansolfonato – è un alchilsolfonato in grado di comportarsi da agente alchilante bifunzionale. Un sito nu­ cleofilo del DNA, in prevalenza l’N7 della guanina, è in gra­ do di interagire con il carbonio in α alla porzione esterea del solfonato, favorendo l’eliminazione del metilsolfonato come anione (Fig. 42.7). Entrambe le porzioni esteree possono subire sostituzione nucleofila, promuovendo legami crociati inter- o intracate­ nari con la macromolecola del DNA. Alcuni studi hanno di­ mostrato che l’allungamento della porzione alifatica da 4 a 8 gruppi metilenici aumenta la capacità dell’intera molecola di formare legami crociati, tuttavia il busulfano è l’unico este­ re metansolfonico entrato in terapia per il trattamento della leucemia mieloide cronica (Scheda 42.3).

O

O

H2N

L’attività alchilante della mitomicina C è rivolta princi­ palmente ai residui di guanina e citosina contenuti nel DNA: più precisamente sembra legare in modo importante due siti N2 guaninici all’interno del solco minore del DNA. La mitomicina è somministrata per via endovenosa nel tratta­ mento di vari tipi di tumori solidi, in particolare il carcinoma gastrico, uterino, pancreatico, della mammella, dell’esofago, i tumori della vescica, del colon-retto e l’adenocarcinoma polmonare. La mitomicina è stata inoltre usata intravesci­ calmente nel cancro superficiale della vescica (Scheda 42.3).

NH

Riduzione enzimatica



O2-

Radicale superossido

Mitomicina C

H2N

O

O

H2N

OH

OCH3 N

H3C

O

H2N

NH

N

H3C

OH

O DNA

NH

OH

Idrochinone

Indolo idrochinone

Reazione con DNA

DNA

OH H2N N

H3C OH

NH2

Doppia alchilazione del DNA

Figura 42.6 Mitomicina C e sua bioattivazione.

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O

O

H3C

O

S O

S

O

O

H2N

CH3

N

DNA

H2N

NH

N

N

NH2

DNA

N

HN

SO2CH3 O

N

N

Busulfano

O

O

N

HN

O

N

N

DNA O

O N

HN H2N

N

N

N

NH

N

DNA

N

NH2

DNA

Figura 42.7 Doppia alchilazione del DNA da parte del busulfano.

semplice (Fig. 42.8). Un’interessante serie triazenica è costi­ tuita dai triazenoimidazoli come dacarbazina e temozolomi­ de. Studi sulla correlazione struttura-attività di arildialchil­ triazeni hanno dimostrato che è fondamentale per l’azione alchilante la presenza di almeno un gruppo metilico nella

1

R

2

N

N

3

R'

R = arile R'= R''= metile

N R''

Struttura generale dei farmaci triazenici O O

N

N

N

N

CH3 N H

NH2

N NH2

N

N

O

CH3

posizione N3, cioè almeno R' o R'' devono essere forzatamen­ te un metile (Fig. 42.8). Connors (1976) ha dimostrato che solamente i dimetiltria­ zeni possono subire N-dealchilazione a monometiltriazeni e agire così da farmaci antitumorali. L’ossidazione metabolica di uno dei gruppi alchilici legato all’N3, catalizzata nel fegato dal sistema enzimatico CYP450, porta alla formazione di un intermedio reattivo, l’α-idrossialchiltriazene (Fig. 42.9). Questo intermedio, in presenza di un residuo nucleofilo enzimatico, viene degradato per dare un derivato carbonilico e il monometiltriazene. Il monometiltriazene tautomerizza alla struttura non coniugata instabile che a sua volta degrada per generare lo ione metildiazonio e la corrispondente ari­ lamina. Lo ione metildiazonio può alchilare il DNA nei siti dotati di maggiore nucleofilia.

N

H

N Arile

N

N

H

H H

3

CYP450

N

Nu OH

Arile

N

N

N CH3

CH3

CH3

H

Idrossialchiltriazene

Dacarbazina

Temozolomide O NH2

N

O

Arile

N

N N

N

N

CH3

Arile

N

N

Mitozolomide (abbandonato in fase clinica II)

Non coniugato instabile

Arile

O +

N CH3

N Cl

Figura 42.8 Farmaci triazenici.

H H N

H

H

Coniugato all’arile

+

NH2 + N N

CH3

Figura 42.9 Attivazione metabolica dei farmaci triazenici.

901

902

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BOX 42.4 ■ Attivazione metabolica di dacarbazina e temozolomide La dacarbazina subisce dealchilazione ossidativa da parte degli enzimi del CYP450 con formazione di formaldeide e del monometiltriazene coniugato, che si trova in equilibrio con il tautomero non coniugato. In particolare, la struttura non coniugata, instabile, è responsabile dell’attività metilante, in quanto è in grado di generare lo ione metildiazonio. Il tautomero non coniugato è particolarmente favorito dalla presenza sull’anello imidazolico, in orto rispetto al sostituente triazenico, di una funzione (carbossamide) in grado di formare legami idrogeno. La struttura non coniugata spontaneamente libera il metabolita 5-aminoimidazol-4-carbossamide (AIC) e lo ione metildiazonio. I triazeni metilano i siti nucleofili del DNA via ione metildiazonio e/o carbocatione metilico generato in situ per liberazione di N2. In particolare il sito che subisce preferenzialmente la metilazione è l’N7 della guanina, che viene alchilato in una percentuale pari al 70%. Si è visto però che la causa principale dell’effetto antineoplastico e mutageno della dacarbazina è la formazione dell’O6-metilguanina. Anche se l’O6-metilguanina si forma solo nel 6-8% dei casi, è in grado di provocare un accoppiamento errato tra le basi (O6-metilguanina-timina) che porta a mutazioni durante i cicli di replicazione del DNA, causando la morte della cellula. Il sistema di riparazione che previene la morte cellulare è l’enzima O6-alchilguanina trasferasi; questo enzima interviene trasferendo appunto il gruppo metilico presente sulla base nucleotidica metilata ai residui cisteinici presenti nella propria struttura: in questo modo l’enzima è inattivato irreversibilmente. La sovraespressione di questo enzima causa resistenza al farmaco; al contrario, livelli inferiori comportano una migliore risposta alla terapia.

O

O NH2

N

N

N H

N

N

CH2O

CH3

NH2

N

CYP450

CH3

CH3 N

N H

N

N H

H+

Dacarbazina

B Idrolisi

Monometiltriazene coniugato

CO2

O NH2

N

O N

N O

N

NH2

N

N

N H

N H

CH3

N

N

CH3

H+

Temozolomide

non coniugato (forma favorita per la presenza del gruppo amidico in orto)

O N

N

+

CH3

O

H2 N

N H

N

HN

NH2

N

NH2

AIC N

N

DNA

N2 O

HN H2N

CH3 N

N

N

DNA

Dacarbazina La dacarbazina – 5-(3,3-dimetiltriaz-1-en-1-il)imidazolo4-carbossamide – è un triazene legato alla struttura aroma­ tica del metabolita 5-aminoimidazol-4-carbossamide (AIC), intermedio chiave nella biosintesi dell’AICAR – 5-aminoi­ midazolo-4-carbossamide ribonucleotide – e quindi dell’a­ cido inosinico. La somiglianza della dacarbazina a un me­ tabolita delle basi aveva in passato portato a pensare a una doppia azione della dacarbazina, antimetabolita e alchilante. Attualmente la dacarbazina viene considerata un farmaco al­ chilante triazenico (Scheda 42.4). Il meccanismo di attivazione della dacarbazina è quello comunemente accettato per i farmaci triazenici e può essere esteso in linea generale a tutti i componenti della serie, come descritto nel Box 42.4.

Temozolomide La temozolomide – 3-metil-4-osso-3,4-diidroimidazo[5,1-d] [1,2,3,5]tetrazina-8-carbossamide – (Fig. 42.8) è un chemiote­ rapico antitumorale con struttura imidazotetrazinica in cui una funzione triazenica si trova mascherata all’interno di un ciclo te­ trazinonico. La temozolomide è un profarmaco che non neces­ sita attivazione metabolica da parte degli enzimi del citocromo; viene convertita a pH fisiologico, mediante idrolisi e rilascio di CO2, nella struttura attiva monometiltriazenica (Box 42.4). Grazie alla capacità di attraversare la barriera ematoen­ cefalica, la temozolomide viene utilizzata nel trattamento del glioma maligno (anche in pazienti pediatrici), tra cui il glioblastoma multiforme; inoltre è il farmaco di elezione nei tumori al cervello non aggredibili chirurgicamente. L’assor­ bimento orale è rapido e completo, ma l’eventuale presenza

CAPITOLO 42 • Farmaci antitumorali

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di cibo nello stomaco riduce la biodisponibilità del principio attivo. In Scheda 42.4 sono riportati ulteriori approfondi­ menti su questo farmaco e sull’analogo mitozolomide.

Procarbazina La procarbazina – 4-[(2-metilidrazinil)metil]-N-propan-2-il benzamide – è un profarmaco a struttura idrazinica attivato in vivo grazie a una reazione di N-ossidazione. Viene ben assorbita per via orale e somministrata sotto forma di capsule; è indicata nel trattamento di linfosarcoma, reticolosarcoma e linfoma di Hodgkin. Come già riportato, è un componente del protocollo multifarmaco MOPP in associazione con mecloretamina, vin­ cristina e prednisone, nella cura del linfoma di Hodgkin. La procarbazina subisce in vivo ossidazione ad azopro­ carbazina: il meccanismo di reazione è confermato dal fatto che quest’ultimo è un prodotto metabolico isolato e identifi­ cato (Fig. 42.10). La struttura azoprocarbazinica è in equilibrio con la struttura iminica, che subisce facilmente idrolisi per dare p-formil-N-isopropilbenzamide e metilidrazina. La metili­ drazina viene a sua volta ossidata a metildiazene, precursore dello ione metildiazonio e di radicali metilici, entrambi in grado di alchilare il DNA (Scheda 42.4).

42.3.5 Nitrosouree Le nitrosouree sono un gruppo di farmaci antitumorali al­ chilanti caratterizzati da una struttura di tipo ureidico e da un gruppo nitroso (–NO). Le molecole che fanno parte di

questo gruppo derivano tutte dal composto base N-metil-Nnitrosourea, dotato di moderata attività antitumorale. La N-metilnitrosourea è una struttura relativamente instabile e nell’ambiente acquoso della cellula si decompo­ ne per dare lo ione metildiazonio (Fig. 42.11), un potente agente alchilante, e acido isocianico, che può causare car­ bamoilazione a carico dei gruppi aminici delle proteine con conseguente compromissione di alcune funzioni biologiche, in particolare quelle di riparazione del DNA.

Carmustina, lomustina, semustina, fotemustina La carmustina o BCNU – 1,3-bis(2-cloroetil)-1-nitrosourea – ha attività antitumorale più importante rispetto al com­ posto N-metil-N-nitrosourea; inoltre la componente 2-clo­ roetilica (Fig. 42.12) conferisce alla molecola caratteristiche lipofile tali da permettere il passaggio della barriera emato­ encefalica. Questa caratteristica ne rende ideale l’utilizzo per il trattamento di tumori del cervello come il glioblastoma. Il meccanismo proposto per l’azione di questo farma­ co, e più in generale dei farmaci dell’intera classe, ricalca quello della N-metil-N-nitrosourea. In questo caso si ha la formazione di un isocianato più complesso e di uno ione cloroetildiazonio. Gli analoghi 2-cloroetilsostituiti, carmu­ stina, lomustina e fotemustina, possono alchilare il DNA direttamente attraverso lo ione cloroetildiazonio, oppure tramite il carbocatione 2-cloroetilico, e possono inoltre ge­ nerare legami intra- e intercatenari. Gli intermedi reattivi β-cloroetilisocianato e cicloesilisocianato, prodotti di degra­

H HN

NH

O

H3C

N CYP450

CH3 CH3

NH2

O

H2O idrolisi

O

+

CH3 H

CH3

HN

HN CH3

B

Procarbazina

H N

O CH

H

HN

H3C

N

H3C

Azoprocarbazina

N

O

H3C

CH3

HN

HN CH3

Metilidrazina

Ossidazione

N

Struttura iminica

O

H3C N N Ione metildiazonio H3C

CH3

p-Formil-N-isopropilbenzamide

NH

N N

DNA

Metildiazene

NH N

H3C NH2

N N

CH3 + H Radicale metilico

Figura 42.10 Attivazione metabolica di procarbazina.

O

DNA

NH N

NH2

903

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FARMACI ANTITUMORALI

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glioblastoma) e mediante somministrazione endovenosa nel mieloma multiplo e nei tumori Hodgkin e non Hodgkin. Il farmaco possiede un ampio spettro di effetti collaterali ripor­ tati nella Scheda 42.4, in cui è presente anche la descrizione di altri farmaci di questa classe, semustina e fotemustina. La lomustina (Fig. 42.12) o CCNU – 1-(2-cloroetil)-3-ci­ cloesil-1-nitrosourea – ha meccanismo d’azione, indicazioni ed effetti collaterali sovrapponibili a quelli della carmustina. A differenza di questa, la lomustina risulta più stabile e ciò fa sì che la somministrazione possa avvenire anche per via orale, sotto forma di capsule.

O H2N

N N

CH3

CH3

N HN C O +

N

O

Azoderivato

Acido isocianico

N-Metil-N-nitrosourea

OH

N

N CH3 Ione metildiazonio

Figura 42.11 Degradazione delle nitrosouree.

dazione di questi farmaci, sono in grado di carbamoilare re­ sidui nucleofili degli enzimi riparatori del DNA inattivandoli e potenziando conseguentemente l’attività dei farmaci. La carmustina viene somministrata per via endovenosa (commercializzata negli USA) e, data l’elevata instabilità, su­ bisce degradazione in pochi minuti; in Italia è invece com­ mercializzata sotto forma di impianti intracavità (costituiti da un copolimero che si degrada entro 3 settimane per idro­ lisi dei legami dell’anidride). In questa forma farmaceutica è indicata nei pazienti con recente diagnosi di glioma ad alto grado di malignità, in aggiunta all’intervento chirurgico e alla radioterapia. La carmustina viene utilizzata come im­ pianto nella terapia di numerosi tumori cerebrali (glioma,

A)

R

O Cl

N H

HO

OH

N

O N

N

CH3

Streptozocina

H3C

Cl

N O

OH

HN O

O N H

O

OH

Cl

N O

Streptozocina La streptozocina – 2-deossi-2-{[(metilnitrosoamino)carbo­ nil]amino}glucosio – è un antibiotico antitumorale naturale ed è chimicamente una nitrosourea glicosilata; la presenza della porzione zuccherina glucopiranosidica (in entrambe le forme anomeriche) conferisce alla struttura una buona solu­ bilità in acqua rispetto alle altre nitrosouree antineoplastiche lipofiliche.

O

O

CH3

P

N H

O

N

O Cl

N O

N

CH3 Lomustina: R = H Semustina: R = CH3, agente cancerogeno classe I

Carmustina

N N Cl Ione cloroetildiazonio

Cl

N

Cl

CH2

Carbocatione 2-cloroetilico

C

Fotemustina

O

N

C

O

Cicloesilisocianato

-Cloroetilisocianato

B)

N

Cl

N

O

O

HN H2N

N

N

DNA

N

N

DNA

N N

O

O

Cl HN

O

N

HN H2N

N

H2N

NH N

N

N

N

N

N

DNA DNA

NH2

DNA

Figura 42.12 Struttura di carmustina, lomustina, semustina e fotemustina e dei loro prodotti metabolici (A) e meccanismo di alchilazione del DNA (B).

NH N

NH2

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La componente zuccherina rende inoltre la molecola seletti­ va per le cellule di Langherans, perché permette l’utilizzo dei trasportatori del glucosio che concentrano il composto nelle cellule β del pancreas (Scheda 42.4).

42.3.6 Complessi organoplatino I farmaci antitumorali organoplatino descritti in Figura 42.13 si possono definire dal punto di vista chimico come complessi di coordinazione contenenti al loro interno un atomo di platino (Pt) nello stato di ossidazione II. L’atomo di platino, elettronpovero, forma complessi planari quadrati con carica totale pari a 0 grazie alla coordinazione con ligandi elet­ trondonatori; nel cisplatino, il complesso più semplice, questa funzione viene svolta dal cloro. Fa eccezione il satraplatino (Scheda 42.5), un agente attualmente in sperimentazione, che contiene un atomo di platino con stato di ossidazione IV. La scoperta di questi agenti alchilanti negli anni ’60 è un eccellente esempio di serendipity ed è attribuita al Dr. Bar­ nett Rosenberg che, mentre investigava l’influenza dei campi elettrici sullo sviluppo cellulare, notò che i batteri analizza­ ti smettevano di dividersi ma crescevano fino a costituire lunghi filamenti. Il blocco della divisione batterica venne attribuito alla formazione in situ di complessi del platino, tra questi il complesso più attivo risultò essere appunto il cis-diaminodicloroplatino(II), chiamato in seguito comune­ mente cisplatino, prodotto negli esperimenti di Rosemberg dalla presenza dell’elettrolita ammoniocloruro e degli elet­ trodi di platino. Solo la struttura cis risultò attiva come anti­ tumorale, il trans non è invece citotossico. Dal punto di vista chimico, la coordinazione del platino con il DNA non può essere considerata una classica reazione di alchilazione, ma i complessi organoplatino vengono co­ munemente inseriti tra gli agenti alchilanti (il meccanismo d’azione è descritto nel Box 42.5). I complessi organoplatino possiedono inoltre un mecca­ nismo d’azione addizionale, che previene la trascrizione del DNA. Si è visto infatti che il platino si sostituisce all’atomo di zinco presente nelle regioni proteiche definite zinc finger, domini caratteristici di alcuni fattori di trascrizione, alteran­ done le funzioni.

Cisplatino L’impiego clinico del cisplatino – cis-diaminodiclo­ropla­ tino(II) – (Fig. 42.13), il più semplice dei complessi organo­ metallici, è stato approvato nel 1978 negli USA e più tardi in Giappone ed Europa. Viene utilizzato per via endovenosa nel trattamento dei carcinomi (anche in stadio avanzato e metastatici) ovarico, della vescica e di testa e collo. Risulta particolarmente efficace, anche in chemioterapia combinata, O H3N H3N

Cl

H3N

Cl

H3N

Pt

Cisplatino

O Pt O

O Carboplatino

NH2 O Pt N O H2 Oxaliplatino

Figura 42.13 Cisplatino, carboplatino e oxaliplatino.

O

O

nel cancro dei testicoli, dove raggiunge il 90% di efficacia se il tumore è scoperto ai primi stadi. A causa dei numerosi effetti collaterali (Scheda 42.5) sono stati preparati alcuni analoghi del cisplatino caratterizzati da maggiore selettività e più ampio indice terapeutico. Lo svi­ luppo degli analoghi ha permesso di ottenere importanti in­ formazioni sui requisiti strutturali importanti per l’attività antitumorale dei complessi del platino. Più precisamente: 1. è necessaria la presenza di almeno 2 gruppi uscenti, pre­ feribilmente in cis l’uno all’altro, necessari per generare in vivo la forma attiva; 2. la neutralità del complesso, che facilita il processo di tra­ sporto attraverso le membrane cellulari; 3. la presenza di un carrier inerte che rende l’addotto al DNA più stabile per interazione con le basi eterocicliche vicine.

Carboplatino Il carboplatino – diamino-(1,1-ciclobutanodicarbossilato) platino(II) – (Fig. 42.13) è un complesso organoplatino di se­ conda generazione approvato dalla FDA nel 1990 (Scheda 42.5). Il meccanismo di attivazione porta allo stesso intermedio idrato citotossico del cisplatino ma il processo è molto più lento. Oxaliplatino L’oxaliplatino – (1R,2R)-1,2-diaminocicloesan(etandioatoO,O')platino(II) – (Fig. 42.13) è un complesso organoplatino di terza generazione autorizzato in Europa dal 1999. Questo complesso, in seguito ad attivazione, perde l’anione dell’aci­ do ossalico e genera l’analogo idrato del complesso platino diaminocicloesano (DACH). Il ligando inerte funge da car­ rier e una volta formato il complesso con il DNA, median­ te estensione nel solco maggiore, lo rende più stabile, con­ tribuendo così all’azione citotossica. Rispetto al cisplatino, l’addotto che si forma è riconosciuto meno facilmente dal sistema di riparazione del DNA e questo spiega la mancanza dei meccanismi di resistenza riscontrati per cisplatino e car­ boplatino (Scheda 42.5).

42.4 F  armaci antitumorali antimetaboliti Il mantenimento di una rapida moltiplicazione cellulare, ca­ ratteristica delle patologie neoplastiche, comporta la dispo­ nibilità di un’elevata quantità di precursori (metaboliti) per la formazione di nuovo materiale genetico. L’acquisizione dall’esterno, o la biosintesi di nuovi desossiribonucleotidi, sono pertanto fattori essenziali per la crescita delle cellule tu­ morali. È evidente che ostacolare questi processi può costi­ tuire una strategia importante per il contrasto delle patologie neoplastiche. I farmaci antimetaboliti sono strutturalmente simili ai metaboliti naturali (basi puriniche e pirimidiniche, loro nucleosidi e nucleotidi, analoghi dell’acido folico) e pos­ sono essere scambiati con questi producendo alterazioni me­ taboliche che rendono impossibile la vita cellulare. Alcuni dei farmaci antimetaboliti utilizzati in terapia sono effettivamente in grado di bloccare o rallentare il processo bio­ sintetico di nucleotidi interferendo con uno o più enzimi. Altri

905

906

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BOX 42.5 ■ Meccanismo di attivazione del cisplatino Tutti i complessi del platino devono subire attivazione intracellulare per esplicare la propria attività alchilante. In particolare, se si prende come esempio il cisplatino, i due atomi di cloro, oltre a essere elettrondonatori, sono più labili (“leganti uscenti”) rispetto alle molecole di ammoniaca e vengono facilmente sostituiti dall’acqua cellulare mediante sostituzione nucleofila. Per la minore concen-

trazione di ioni cloruro nel citoplasma cellulare rispetto al plasma, la sostituzione dei due atomi di cloro avviene preferibilmente all’interno della cellula. Si forma in questo modo la molecola di organoplatino idrata e la carica positiva netta assunta rende il nuovo complesso particolarmente elettrofilo e facilmente attaccabile dai nucleofili del DNA (in particolare N7 di residui guaninici adiacenti).

Il complesso idrato entra nel nucleo, dove viene attratto dal DNA carico negativamente per la presenza dei gruppi fosfato; l’interazione elettrostatica è poi seguita dalla coordinazione delle basi del DNA con il platino e dalla perdita delle due molecole d’acqua. Essendo un agente bifunzionale può legare due differenti siti attigui del

DNA, deformandone così la struttura terziaria e portando a erronei accoppiamenti tra le basi eterocicliche. I due gruppi aminici del complesso formano legami molto forti con il platino: non possono quindi essere sostituiti da altri nucleofili, ma stabilizzano il complesso mediante interazioni con i residui fosforici del DNA.

si comportano come falsi nucleotidi per essere incorporati in un DNA alterato e non funzionale. Generalmente il risultato è il blocco del processo di replicazione cellulare in fase G1/S. Resta comunque difficile circoscrivere l’inibizione alle sole cellule cancerose, e da ciò deriva l’elevata tossicità che spesso accompagna il trattamento con antimetaboliti. I farmaci antitumorali antimetaboliti possono essere schematicamente suddivisi in: • inibitori dell’acido folico; • analoghi delle basi pirimidiniche; • analoghi delle basi puriniche. In aggiunta a questi farmaci possiamo ricordare anche l’i­ drossiurea, un farmaco antimetabolita che sfugge a questa suddivisione.

42.4.1 Analoghi dell’acido folico L’acido folico (FA, Cap. 36), o pteroilglutamico, è un cofat­ tore fondamentale per la replicazione in vivo del materiale genetico, in quanto ricopre un ruolo chiave nella biosinte­ si di purine e pirimidine (costituenti del DNA e dell’RNA), oltre che di aminoacidi. Viene obbligatoriamente introdotto con la dieta ed è classificato come vitamina B9. La molecola realmente coinvolta nel processo biosintetico di purine e pi­

rimidine è la forma ridotta ad acido tetraidrofolico (THF), ottenuta dall’acido folico attraverso l’enzima diidrofolato re­ duttasi (DHFR). Nella sintesi della desossitimidina 5'-monofosfato a partire dalla desossiuridina 5'-monofosfato, il THF ha il compito di trasportare un’unità carboniosa mediante la sua trasformazione a N5,N10-metilenetetraidrofolato (Fig. 42.14). La reazione è catalizzata dalla timidilato sintetasi (TS). Dopo la cessione del metilene, si libera l’acido 7,8 diidrofolico (DHF), riconvertito nuovamente in THF per azione della DHFR. La DHFR ha quindi un ruolo estrema­ mente importante nel riciclo del cofattore, che altrimenti verrebbe ad accumularsi rapidamente e stabilmente in una forma inattiva.

Metotressato e aminopterina Il metotressato – acido (2S)-2-[(4-{[(2,4-diaminopteri­ din-6-il)metil]metilamino}benzoil)amino]pentandioico – (MTX, ametopterina) e l’aminopterina – acido (2S)-2-({4[(2,4-diaminopteridin-6-il)metilamino]benzoil}amino)pen­ tandioico – (Fig. 42.15) sono analoghi strutturali dell’acido folico, da cui si differenziano per la presenza di un gruppo aminico al posto dell’ossidrile della pterina. Il MTX presenta anche la metilazione all’amina N10 nella porzione p-amino­ benzoica (PABA).

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H2N

H N

N N

N OH

H2N H N

N

O N 5-N10-metilene-THF

N

R

H N

HO O HO P O

R Glicina

Leucovorina

N

O

N

OH

CHO

HN

N

O

dUMP

Serina

OH

COOH O R=

H N

H2N

N N

COOH

OH

H N H N

N H

TS

R

O

THF

N N

HO O HO P O

H N H N

N OH

N

O

DHFR

H2N

CH3

HN

dTMP

O

OH R

DHF

Figura 42.14 Acido folico e suo utilizzo nella sintesi della 2’-desossitimidina monofosfato. THF, acido tetraidrofolico; DHF, acido diidrofolico; DHFR, diidrofolato reduttasi; TS, timidilato sintetasi; dUMP, desossiuridina 5’-monofosfato; dTMP, desossitimidina 5’monofosfato.

Entrambi questi analoghi sono caratterizzati dall’abili­ tà di inibire l’enzima DHFR, impedendo così la formazio­ ne di THF a partire da acido folico o diidrofolico. L’attività citotossica di questi composti è particolarmente evidente in tutte le cellule a rapida divisione. Il MTX, meno tossico, ha sostituito nel tempo l’uso clinico dell’aminopterina (Scheda 42.6). Quando la tossicità del MTX induce nei pazienti ane­ mia a livelli troppo elevati, si somministra in associazione leucovorina (sale calcico dell’acido folinico, o 5-formiltetrai­ drofolico), un vitamero dell’acido tetraidrofolico, che può funzionare indipendentemente dalla presenza di DHFR. La sintesi di MTX è descritta nel Box 42.6.

Pemetrexed Il pemetrexed – acido (2S)-2-({4-[2-(2-amino-4-osso-1,7diidropirrolo[2,3-d]pirimidin-5-il)etil]benzoil}amino)pen­ tandioico – (Fig. 42.15) è un analogo strutturale dell’acido folico di recente sviluppo. Le differenze con l’acido folico sono più marcate e coinvolgono la modifica dell’anello pteri­ nico e la mancanza dell’N10, sostituito con un CH2. Questa evoluzione strutturale ha generato una molecola in grado di interferire non solo con DHFR, ma anche con altri enzimi importanti per la sintesi di pirimidine e purine che richiedono l’utilizzo di N5,N10-metilenetetraidrofolato: la timidilato sintasi (TS) e la glicinamide ribonucleotide for­ miltransferasi (GARFT, Scheda 42.9). A causa degli impor­ tanti effetti tossici a carico del sistema emopoietico causati dall’assunzione di pemetrexed, è consigliato un trattamento preventivo a base di acido folico e vitamina B12. Il peme­

H2 N

N

N

N

H N

N

H N

NH2 Aminopterina H2N

N

N N

COOH

O

COOH

CH3 N

N

H N

NH2 Metotressato

COOH

O

COOH

O HN H3C

N

N H

H N O

COOH COOH

Pemetrexed

Figura 42.15 Analoghi dell’acido folico.

trexed è utilizzato in associazione con cisplatino per il trat­ tamento di mesotelioma pleurico maligno (MPM) e tumore polmonare non a piccole cellule e non squamoso.

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BOX 42.6 ■ Sintesi del metotressato La preparazione del metotressato prevede la reazione del 4-nitrobenzoilcloruro (1) con l’acido l-glutamico (2) per dare l’acido N-(4-nitrobenzoil)glutamico (3). La successiva riduzione con nichel Raney porta alla formazione dell’acido N-(4-aminobenzoil)glutamico (4) che subisce una metilazione riduttiva con formaldeide per dare l’acido N-(4-metilaminobenzoil)glutamico (5). La 2,4-dia-

mino-6-bromometilpteridina (8) è ottenuta a sua volta dalla reazione della 2,4,5,6-tetraaminopirimidina (6) con l’aldeide 2,3-dibromopropionica (7). Infine, l’alchilazione dell’acido N-(4-metilaminobenzoil)glutamico (5) con il derivato bromometilenpteridinico (8) porta a ottenere il metotressato. O

O

COOH +

O2N Cl

H2N

NaOH

N H

COOH

1

O2N

2 O

H2/Raney-Ni

O COOH

CH2O/Zn-NaOH

H3CHN

NH2 N H2N

N

6

NH2

COOH

5

NH2

O +

COOH N H

4

NH2

COOH

3

COOH N H

H2N

COOH

Br H

Br

N

N N

H2N

7

CH2Br

N

8

O

NH2 N

N H2N

Sia il MTX sia il pemetrexed sono molecole che presen­ tano una scarsa lipofilia: per entrare nelle cellule utilizzano lo stesso sistema di trasporto dei folati. All’interno della cel­ lula vengono poliglutamati grazie all’azione della folilpoli­ glutamato sintasi (FPGS), un enzima in grado di legare alla porzione di acido glutamico diversi altri residui di glutama­ to. La poliglutamazione potenzia l’attività dei farmaci, ren­ dendoli contemporaneamente più resistenti ai meccanismi in grado di espellerli dalla cellula. Nella Scheda 42.6 sono riportati altri due farmaci strutturalmente correlati al MTX, il raltitrexed e il trimetressato.

42.4.2 Analoghi delle basi pirimidiniche Analoghi dell’uracile Tra gli analoghi delle basi pirimidiniche, il 5-fluorouracile (5-FU) – 5-fluoro-1H-pirimidin-2,4-dione – è uno dei più lar­ gamente usati. Il modo in cui agisce dipende dalla forte somi­ glianza strutturale con l’uracile, precursore naturale del nucleo­ tide desossitimidina 5'-monofosfato (dTMP) attraverso l’inter­ medio desossiuridina 5'-monofosfato (dUMP) (Box 42.7). Il 5-FU è usato principalmente per i tumori solidi dell’ap­ parato gastrointestinale, della mammella e dell’apparato ge­ nitale femminile. Non è invece efficace nei confronti di leu­ cemie e linfomi.

N

N

COOH N H

COOH

N CH3

La via di somministrazione migliore è l’infusione endo­ venosa continua, a causa dell’erratica biodisponibilità orale e della rapida metabolizzazione, con un tempo di emivita di circa 16 minuti. Al fine di ovviare ad alcune caratteristi­ che farmacocinetiche poco favorevoli, sono stati introdotti in terapia alcuni profarmaci del 5-FU che ne permettono anche la somministrazione orale, mantenendone inaltera­ ta l’efficacia e le indicazioni terapeutiche. La somministra­ zione endovenosa di 5-fluoro-2'-desossiuridina, chiamata anche floxuridina – 5-fluoro-1-[(2R,4S,5R)-4-idrossi5-(idrossimetil)ossolan-2-il]pirimidin-2,4-dione – (Fig. 42.16), garantisce una migliore solubilità in acqua rispetto al 5-FU, in cui viene rapidamente convertita per il distacco metabolico della parte 2-desossiribosio. Alternativamente, la floxuridina può anche essere fosforilata per dare diret­ tamente 5-fluoro-2'-desossiuridina monofosfato (FdUMP), metabolita attivo della 5-FU. Un profarmaco del 5-FU è rappresentato dalla capecitabina – pentil N-{1-[(2R,3R,4S,5R)-3,4-diidrossi-5-metilos­ solan-2-il]-5-fluoro-2-oxopirimidin-4-il}carbamato – (Fig. 42.17). I vantaggi rispetto alla somministrazione diretta di 5-FU sono un rapido assorbimento per via orale e una len­ ta elaborazione metabolica, suddivisa in tre stadi, che libera 5-FU in concentrazione bassa e prolungata. Mentre i primi due stadi metabolici sono promossi da enzimi che si trovano

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BOX 42.7 ■ Meccanismo d’azione del 5-FU Il nucleotide dTMP (desossitimidina 5'-monofosfato) viene biosintetizzato a partire da dUMP per intervento della timidilato sintetasi (TS), che catalizza il trasferimento di un metilene dall’N5,N10-metilenetetraidrofolato a dUMP per dare dTMP. Passaggio chiave del percorso biosintetico è la capacità di TS di liberarsi dal complesso di reazione attraverso rottura del legame carbonio-idrogeno C–X(H) alla fine del processo biosintetico. Dopo somministrazione, il 5-FU viene convertito metabolicamente nel 5-fluoro-2’-desossiuridina monofosfato (FdUMP), in grado di sostituirsi al dUMP come substrato dell’enzima TS. La presenza del fluoro al posto dell’idrogeno impedisce però la liberazione dell’enzima dall’intermedio di metilazione dell’uridina, bloccandolo irreversibilmente. Essendo l’attività enzimatica possibile solo in presenza di N5,N10-metilenetetraidrofolato, la sommi-

nistrazione combinata del suo analogo leucovorina rende il 5-FU maggiormente efficace. Un meccanismo d’azione aggiuntivo all’inibizione della TS è la partecipazione diretta del 5-fluoro-2’-desossiuridina trifosfato (FdUTP) e del 5-fluorouridina trifosfato (FUTP) nella sintesi di nuove catene di DNA e RNA, rispettivamente. I filamenti di DNA e RNA così prodotti, contenenti le pirimidine fluorurate, presentano caratteristiche funzionali decisamente anomale e inadatte a mantenere in vita le cellule che li contengono. Uno dei processi metabolici che inattivano il 5-FU è promosso dalla diidropirimidina deidrogenasi (DPD), che trasforma il 5-FU in un derivato diidrouracilico inattivo; questo processo di inattivazione può essere inibito attraverso la somministrazione concomitante di 5-etiniluracile (Scheda 42.7). H2N

H N

N

N5,N10-Metilene-THF

N O

O X

HN O HN

O

-H+

OH

Uracile: X = H 5-FU: X = F

OH

dUMP: X = H FdUMP: X = F H2N O

N

N

HN O

O HN

H N

N

oppure

N OH

O

H2N H

N

O

+H +

H N

N N

CH3

HN

P

TS O

N H

O

R

S

O

TS

O

N

O

P

HS

N

X

HN

N

O

P

X

N OH

HN

OH R

O

CH2 H

HN

R CH2 F

dTMP P

OH H2N

+

S TS

O

H N

N

N

O O

P

N

O O

TS O

DHF N

OH

N HN

OH

R

+ TS

SH

S

OH

Composto stabile

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O F

HN O HO

F

HN

N

O

P

O

N

O

O

O

O

OH

OH

O

FdUMP

OH

F

HN

HO

N H

O

Floxuridina

5-FU

Figura 42.16 Attivazione della floxuridina.

O HN

CH3

CH3

N

O CH3

O

F

N Esterasi epatiche

N

O

NH2

F

N O

O

F

HN Citidina deaminasi

CH3

O

Timidina fosforilasi

N

O

5-FU

O

Capecitabina OH

OH

OH

OH

OH

OH

Figura 42.17 Attivazione metabolica della capecitabina.

anche nel fegato, il terzo e ultimo è catalizzato dalla timidina fosforilasi, la quale è espressa nei tessuti di diverse linee tu­ morali in quantità più elevate rispetto ai tessuti sani. Questa selettività permette la liberazione del farmaco attivo (5-FU) soprattutto nel tessuto da colpire; ne consegue che, rispet­ to al 5-FU, vi è una riduzione degli effetti tossici, oltre alla necessità di una minore frequenza di somministrazione. È attualmente utilizzato nelle fasi metastatiche del carcinoma della mammella e del colon-retto. Altri analoghi dell’uracile (tegafur, carmofur e 5-etiniluracile) sono decritti nella Scheda 42.7.

Analoghi della citosina La citarabina o arabino-citosina (Ara-C) – 4-amino1-[(2R,3S,4S,5R)-3,4-diidrossi-5-(idrossimetil)ossolan2-il]pirimidin-2-one – è un analogo della citosina ed è il farmaco più utilizzato nella terapia della leucemia mieloide acuta e dei linfomi. È un antimetabolita che sfrutta la so­ miglianza dello zucchero arabinosio con il desossiribosio per interagire con gli enzimi deputati alla biosintesi degli acidi nucleici. La citarabina viene convertita in nucleotide trifosfato in grado di inibire la DNA polimerasi; il nucleo­ tide trifosfato può essere anche incorporato nel DNA, al­ terandone le caratteristiche funzionali e portando a morte cellulare (Scheda 42.7).

NH2

NH2

N N

HO

N O

N

HO

O

O

HO

F

OH

OH

Citarabina (Ara-C)

F

Gemcitabina NH2 N

N N

HO O

OH

OH

Azacitidina

O

O

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Un altro importante analogo della citosina è la gemcitabina – 4-amino-1-[(2R,4R,5R)-3,3-difluoro-4-idrossi5-(idrossimetil)ossolan-2-il]pirimidin-2-one – in cui la componente zuccherina è rappresentata dal 2-desossi-2,2difluororibosio. Similmente ad Ara-C, la gemcitabina viene introdotta nella cellula attraverso un trasportatore di nucleo­ sidi e in seguito enzimaticamente mono- (dFdCMP), di(dFdCDP) e trifosforilata. Il di- e trifosfato sono i metaboliti attivi del farmaco. L’attività citotossica principale, come per Ara-C, è dovuta all’inibizione della sintesi di DNA, ma con importanti differenze sia nel meccanismo di incorporazione nel DNA, sia nell’utilizzo di ulteriori bersagli biologici. Ciò rende la gemcitabina attiva con uno spettro d’azione più am­ pio rispetto ad Ara-C (Scheda 42.7). L’azacitidina – 4-amino-1-[(2R,3R,4S,5R)-3,4-diidrossi5-(idrossimetil)ossolan-2-il]-1,3,5-triazin-2-one – è un nu­ cleoside analogo alla citidina, in cui la componente pirimidi­ nica è sostituita da un eterociclo triazinico. Il farmaco viene incorporato nel DNA e nell’RNA producendo tossicità per le cellule a rapida moltiplicazione, in particolare quelle emo­ poietiche. La particolare struttura chimica dell’azacitidina la porta, dopo l’incorporazione nel DNA, a legare stabilmente la DNA-metiltransferasi, inibendola. Questo enzima è im­ portante per la metilazione delle citosine, un meccanismo fondamentale nella regolazione della trascrizione genica. In alcune patologie tumorali è ben conosciuto il fenomeno di una metilazione eccessiva di citosine che inibisce l’espressio­ ne di geni fondamentali per la regolazione del normale ciclo cellulare, il differenziamento e i meccanismi di morte cellu­ lare. In questi casi, l’inibizione della DNA metiltransferasi da parte della azacitidina può riequilibrare l’ipermetilazione HO

42.4.3 A  naloghi delle basi puriniche Come per i derivati pirimidinici, l’incorporazione nel DNA rappresenta un meccanismo comune per giustificare parte dell’attività citotossica degli antimetaboliti purinici. A essa si associano però altre interazioni con enzimi particolarmente importanti per la sopravvivenza e la replicazione cellulare, infatti molto spesso sono anche inibitori della ribonucleoti­ dil reduttasi (RR).

Pentostatina La pentostatina – 2'-desossicoformicina o (8R)-3[(2R,4S,5R)-4-idrossi-5-(idrossimetil)ossolan-2-il]-7,8-dii­ dro-4H-imidazo[4,5-d][1,3]diazepin-8-olo – è un antimeta­ bolita naturale isolato da Streptomyces antibioticus, analogo dell’adenosina (Fig. 42.18). Ha una struttura peculiare, con un anello eterociclico a 7 atomi di tipo diazepinico che sosti­ tuisce la porzione pirimidinica dell’adenosina. È un potente inibitore dell’enzima adenosinadeaminasi (ADA, Fig. 42.19) e il suo meccanismo d’azione è imputabile alla somiglianza allo stato di transizione della reazione catalizzata dall’enzi­ ma. L’ADA è un enzima importante per la degradazione di adenosina e desossiadenosina, regolandone la concentrazio­ NH2

N

N NH N

HO

del DNA, causando il ripristino nelle cellule della normale capacità apoptotica. Conseguentemente, il farmaco può es­ sere utilizzato nel trattamento delle leucemie, ma è di parti­ colare efficacia per le sindromi mielodisplasiche, patologie delle cellule ematopoietiche potenzialmente preleucemiche, caratterizzate da ipermetilazione del DNA, in cui prolunga l’aspettativa di vita dei pazienti.

N

O HO

N

P OH

O

N

O

N

S

S N1

6

H N

5

7 9

2 3 4

F

O HO

8

N

N H

H2N

N H Tioguanina

6-Mercaptopurina

OH

OH Pentostatina

Fludarabina

Figura 42.18 Derivati purinici.

NH2 N HO

P OH

N

O

N

N

R

NH

O ADA H2 O

O

OH

O

N

O

Adenosina: R = OH Desossiadenosina: R = H monofosfato

HO

P OH

N

O

OH

Figura 42.19 Metabolizzazione delle purine da parte dell’adenosina deaminasi (ADA).

N + NH3

O

R

H N

N

Inosina: R = OH Desossiinosina: R = H monofosfato

N

911

912

FARMACI ANTITUMORALI

ne intracellulare. Come inibitore dell’ADA, la pentostatina determina accumulo intracellulare di adenosina e desossia­ denosina e conseguente blocco della sintesi del DNA attra­ verso l’inibizione della ribonucleotide reduttasi. La ADA è molto più attiva in linee cellulari linfoidi T rispetto a linee B; conseguentemente, anche la pentostatina agisce molto più efficacemente contro linee tumorali deri­ vanti da linfociti T rispetto a linee derivanti da linfociti B. È particolarmente usata contro la leucemia a cellule capellute (reticoloendoteliosi leucemica) che non risponde a terapia con interferoni. La pentostatina può causare comunemente neurotossici­ tà centrale dose-dipendente e mielosoppressione. Si verifica­ no spesso effetti collaterali quali nausea, vomito e anoressia.

Fludarabina La fludarabina fosfato – [(2R,3S,4S,5R)-5-(6-amino-2-fluo­ ropurin-9-il)-3,4-diidrossiossolan-2-il]metil diidrogeno fosfa­ to (Fig. 42.18) è un analogo fluorurato dell’adenosina, in cui la componente zuccherina è rappresentata dall’arabinosio. Dopo trasformazione nel corrispondente trifosfato diventa un potente inibitore della ribonucleotidil reduttasi. Rispetto alla Ara-A (Scheda 42.8) è maggiormente resistente alla de­ gradazione da parte dell’adenosina deaminasi. La fludarabina fosfato viene utilizzata nel trattamento della leucemia linfatica cronica a cellule B, nelle leucemie acute e nel linfoma non Hodgkin. Si può utilizzare da sola o in associazione con altri farmaci chemioterapici. Mercaptopurina (6-MP) e tioguanina (6-TG) La mercaptopurina (6-MP) – 3,7-diidropurina-6-tione – e la tioguanina (6-TG) – 2-amino-3,7-diidropurina-6-tione – sono analoghi purinici caratterizzati dalla presenza di uno zolfo al posto dell’ossigeno carbonilico in 6 (Fig. 42.18). Sono farmaci antimetaboliti molto importanti utilizzati in diverse patologie tumorali. Entrambi i farmaci vengono convertiti nei rispettivi ribonucleotidi monofosfato per intervento dell’en­ zima ipoxantina-guanina fosforibosiltrasferasi (HGPRT) per dare 6-tioinosina-5-monofosfato e 6-tioguanosina-5'-mono­ fosfato. I due ribonucleotidi monofosfato si accumulano nelle cellule inibendo diversi sistemi enzimatici coinvolti nella bio­ sintesi della fosforibosilamina e dei nucleosidi purinici, acido guanilico e adenilico, a partire dall’intermedio comune acido inosinico (Scheda 42.9). Mercaptopurina e tioguanina possono essere in parte fo­ sforilate a trifosfati ed essere incorporate nel DNA. La sommi­ nistrazione di questi analoghi purinici è in genere orale, l’as­ sorbimento non è elevato e può variare tra diversi individui. 6-MP è usata in combinazioni terapeutiche con altri chemioterapici contro la leucemia linfoide acuta (ALL): la risposta terapeutica dipende molto dal sottotipo di leucemia e dall’età del paziente. Non è invece attiva contro leucemia mieloide acuta, leucemia linfatica cronica, linfomi e tumori solidi. 6-TG è indicata per le leucemie acute non linfocitiche. La 6-MP trova anche utilizzo in policitemie e, come immu­ nosoppressivo, in malattie quali artrite psoriasica e morbo di Crohn resistente all’azatioprina, un’altra tiopurina. Gli effetti collaterali più importanti sono la tossicità mi­ dollare ossea, l’immunosoppressione, l’epatotossicità e la tossicità gastrointestinale.

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Altri AraA, cladribina e clofarabina sono analoghi purinici e, in­ sieme all’idrossiurea, sono trattati nella Scheda 42.8.

42.5 Terapia antitumorale ormonale Il principio sul quale si basa la terapia ormonale è quello se­ condo cui la crescita delle cellule neoplastiche di un organo sensibile all’azione di un particolare ormone, in un qualche stadio di sviluppo del tumore, può essere influenzata da un controllo ormonale che ne blocchi l’aumento o, nella mi­ gliore delle ipotesi, porti alla remissione del tumore stesso. I farmaci utilizzati in terapia possono essere indirizzati sia su un target recettoriale ormonale, modificandone l’attiva­ zione (Cap. 6), sia sui sistemi enzimatici della cascata bio­ sintetica o di regolazione che portano alla formazione delle molecole ormonali (Cap. 28). Molti farmaci attualmente in terapia agiscono sul complesso sistema biosintetico degli or­ moni sessuali con un meccanismo di tipo antiestrogenico e antiandrogenico e hanno come target patologici principali il tumore al seno e alla prostata. I farmaci appartenenti a questo gruppo possono essere suddivisi come segue: • farmaci antiestrogeni (Scheda 42.10); • farmaci antiandrogeni (Scheda 42.11); • farmaci agonisti e antagonisti del fattore di rilascio delle gonadotropine GnRH. I farmaci antiestrogeni e antiandrogeni sono trattati nel Ca­ pitolo 28.

42.5.1 A  gonisti e antagonisti del fattore di rilascio delle gonadotropine GnRH Questo gruppo di farmaci blocca a monte il rilascio degli or­ moni sessuali maschili e femminili e trova impiego sia nel trattamento del tumore alla prostata sia nel trattamento del carcinoma mammario. Il fattore di rilascio ipotalamico delle gonadotropine GnRH è un decapeptide che proviene dalla scissione di un precursore di 92 aminoacidi, in grado di stimolare il rilascio di LH e di FSH a livello dell’adenoipofisi (Scheda 42.12). L’LH, nelle cellule di Leydig testicolari, stimola la sintesi di testosterone, mentre nelle ovaie l’FSH stimola a livello folli­ colare la produzione di estrogeni; in entrambi i casi l’aumen­ to della concentrazione plasmatica dei due ormoni esercita un feedback negativo sull’asse ipotalamo-ipofisi portando a un blocco prolungato della sintesi di ormoni androgeni o estrogeni.

Agonisti del fattore di rilascio del GnRH Gli agonisti del GnRH, triptorelina, leuprorelina, buserelina e goserelina, sono piccoli peptidi sintetici più potenti della mole­ cola endogena (Fig. 42.20). La somministrazione di questi far­ maci nel trattamento del tumore alla prostata o nel carcinoma mammario conduce a un blocco prolungato della produzione di ormoni androgeni ed estrogeni, con conseguente drastica di­ minuzione dei livelli ematici sia di testosterone sia di estradiolo

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pyro Glu His Trp Ser Tyr Gly Leu Arg Pro Gly NH2

Fattore GnRH

pyro Glu His Trp Ser Tyr

D-Ser(t-C4H9)

Leu Arg Pro NHCH2CH3

Buserelina

pyro Glu His Trp Ser Tyr

D-Ser(t-C4H9)

Leu Arg Pro NHNHCONH2

Goserelina

pyro Glu His Trp Ser Tyr

D-Leu

Leu Arg Pro NHCH2CH3

Leuprorelina

pyro Glu His Trp Ser Tyr

D-Trp

Leu Arg Pro Gly NH2

Triptorelina

Figura 42.20 Sequenze primarie per GnRH e per suoi agonisti.

NH2

O Cl

NH2

O

NH

NH

OH O AcHN

O

H N

N H

N H

O

O

H N

N H

O

O

H N

N

N H

O

O

CH3 H3C

N

NH

O

O

H3C

NH2

OH Cetrorelix H3C NH2

O

Cl

CH3

HN

NH OH O AcHN

N H

H N

O N H

O

H N

O N H

O

O

H N

N H

O

CH3

N O

H3C

N NH

H N

O

NH

O H3C

O NH2

O NH

O

Degarelix

H3C

H2N

OH O AcHN

N H

H N

CH3

HN

Cl

O

O

O CH3

N H

O

N O

N H

N H

O

CH3 H3C

N OH

Abarelix

Figura 42.21 Antagonisti dell’ormone GnRH.

O

H N

N O

O H3C

NH

O NH2

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FARMACI ANTITUMORALI

(si raggiungono concentrazioni da castrazione chimica in circa 4 settimane). Gli effetti secondari indesiderati più importanti si manifestano nelle prime 2 settimane di trattamento, quan­ do a un aumento dei livelli plasmatici di LH e FSH consegue un’aumentata produzione di testosterone e DHT (diidrotesto­ sterone) nell’uomo ed estrone ed estradiolo nella donna. La si­ tuazione che si viene a creare può condurre a un aggravamen­ to temporaneo del quadro clinico del paziente e condizionare questo tipo di approccio terapeutico (Scheda 42.12).

Antagonisti del fattore di rilascio GnRH Gli antagonisti del GnRH legano i recettori dell’ormone a li­ vello dell’ipofisi, arrestando la sintesi di LH e FSH. Quando utilizzati nel carcinoma prostatico sono in grado di bloccare immediatamente la produzione di testosterone; a differenza dei farmaci agonisti, l’utilizzo dei farmaci antagonisti evita una riacutizzazione dei sintomi oncologici, rendendo così inapproriata la contemporanea somministrazione di farmaci antiandrogeni. Cetrorelix, degarelix e abarelix (Fig. 42.21)

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sono i farmaci in terapia, utilizzati per il trattamento del tu­ more alla prostata ormone-dipendente in stadio avanzato, strutturalmente simili al ligando endogeno, gonadorelina. Sono tutti decapeptidi che presentano un maggior numero di aminoacidi della serie d e numerose catene laterali variamen­ te modificate rispetto agli agonisti. La porzione N-terminale dell’ormone endogeno GnRH, regione fondamentale per l’at­ tivazione recettoriale e inalterata negli agonisti, in questa ca­ tegoria di farmaci presenta il residuo piroglutamato sostituito dall’N-acetile e l’istidina in posizione 2 modificata in maniera da interagire con il recettore, ma non da indurre la sua atti­ vazione. All’estremità C-terminale tutti i farmaci hanno un’a­ laninamide in sostituzione della glicinamide presente nell’or­ mone naturale. Sono formulati come sali per la presenza in tutte le molecole di un aminoacido fortemente basico. Le più comuni manifestazioni collaterali sono le vampate di calore. Sono soggetti alla normale degradazione delle protei­ ne durante il passaggio nel sistema epatobiliare, generando frammenti che non hanno mostrato attività.

Parte II - Antonello Mai

42.6 F  armaci intercalanti del DNA e attivi sulle topoisomerasi Come già descritto, il DNA rappresenta un ottimo bersaglio per l’identificazione di farmaci anticancro: pur essendo pre­ sente sia nelle cellule sane sia in quelle tumorali, in queste ultime, grazie alla loro caratteristica aberrante attività proli­ ferativa, è sede di una più intensa azione di replicazione, tra­ scrizione e traduzione del materiale genetico. Con il blocco di queste specifiche funzioni del DNA, si impedisce la prolifera­ zione cellulare arrestando la crescita tumorale. I farmaci anticancro che agiscono a livello del DNA si di­ stinguono nei già descritti farmaci alchilanti (Par. 42.3), in grado di alchilare le basi azotate del DNA portando ad ap­ paiamenti errati di basi e rottura dei loro anelli purinici e/o pirimidinici che possono causare la morte cellulare, farmaci intercalanti e veleni delle topoisomerasi, che impediscono il processo di traduzione del DNA con blocco della sintesi di RNA messaggero. I farmaci intercalanti nel DNA sono composti che con­ tengono una struttura aromatica o eteroaromatica, in genere policiclica planare, che si inserisce tra gli strati di coppie di basi della doppia elica del DNA stabilendo con esse legami di van der Waals. Spesso alla struttura planare sono asso­ ciati gruppi aminici carichi positivamente a pH fisiologico, che possono rafforzare il legame dei farmaci con il DNA grazie alla formazione di ponti salini con i gruppi fosfato di quest’ultimo. Una volta stabilita l’interazione generalmente non covalente tra farmaco e DNA, viene bloccata sia la repli­ cazione sia la trascrizione dello stesso, innescando una serie di processi che conduce in ultima analisi alla morte cellulare.

Il DNA è una molecola molto lunga, che necessita di una compattezza particolare per poter essere impacchettata nel piccolo nucleo della cellula: necessita cioè di superavvolgi­ menti, assicurati da una famiglia di enzimi chiamati topoisomerasi. Le topoisomerasi catalizzano anche il processo con­ trario, ossia lo spacchettamento e lo svolgimento del DNA, così da permettere ad altri enzimi, denominate elicasi, di provvedere allo srotolamento del DNA svolto e dare inizio alla fase di trascrizione genica. La compattazione del DNA avrà infatti generato tutta una serie di nodi e di intrecci, tali da rendere impossibile questo processo senza l’azione delle topoisomerasi. Esse pertanto catalizzano la rottura di uno o di due filamenti di DNA (rispettivamente operate dalla to­ poisomerasi I e dalla topoisomerasi II), permettono il passag­ gio di un’elica di DNA attraverso un altro segmento, e poi ricuciono il filamento stesso. Le topoisomerasi utilizzano dei residui di tirosina per tagliare i filamenti di DNA, legandosi covalentemente a essi tramite l’ossidrile fenolico, che forma un legame fosfodiestereo con un residuo in 5' (topoisomerasi II) o in 3' (topoisomerasi I) del nucleotide del filamento nella zona da tagliare (Fig. 42.22). Molecole che agiscono da veleni delle topoisomerasi interrompono questi processi impeden­ do la replicazione e la trascrizione del DNA e portando, in definitiva, a morte cellulare. Tra gli agenti antitumorali, alcuni farmaci intercalanti nel DNA funzionano da veleni delle topoisomerasi, altri bloc­ cano le topoisomerasi senza intercalazione. La resistenza a questi farmaci si può instaurare per la diminuzione dei livelli o dell’affinità di legame delle topoisomerasi nei tessuti, per mutazioni negli stessi enzimi, per un aumento delle capacità di riparo del DNA o a causa delle pompe di efflusso, tra cui le

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Figura 42.22 Schema del processo catalizzato dalla topoisomerasi II (topo II). A destra è rappresentato il complesso covalente tra la tirosina dell’enzima (OH fenolico) e un nucleotide del DNA (estremità 5’ dello zucchero).

più diffuse sono quelle connesse con la glicoproteina P, che estrudono il farmaco dall’ambiente cellulare verso l’esterno.

42.6.1 F  armaci che si intercalano nel DNA La dactinomicina (Fig. 42.23), anche nota come actinomi­ cina D, è stata isolata per la prima volta nel 1953 da colture di Streptomyces parvullis. Dal punto di vista chimico è carat­ terizzata da una struttura fenossazinonica aromatica plana­ re legata a due lattoni pentapeptidici tramite doppio legame amidico. La fenossazina permette l’intercalazione del far­ maco tra le coppie di basi del DNA, con una preferenza per i residui citosinici e guaninici su un singolo filamento. Le due porzioni di pentapeptidi ciclici sono identiche e formate da residui di l-treonina, d-valina, l-prolina, sarcosina e l-Nmetilvalina, in cui l’ossidrile della l-treonina forma un lega­ me estereo con il carbossile della l-N-metilvalina, generan­ do così la struttura ciclica. Il legame tra i lattoni pentapep­ tidici e l’anello fenossazinico è generato tra i gruppi carbos­ silici in posizione C1 e C9 dell’anello e l’amino gruppo della l-treonina. Una volta intercalato l’anello planare tra residui di citosina e guanina, i peptidi si sistemano nel solco minore dell’elica del DNA e instaurano interazioni aggiuntive con gli zuccheri dell’acido nucleico, con un legame che è coo­ perativo: ciò significa che il legame di una prima moleco­ la di farmaco al DNA facilita i legami di ulteriori molecole al target. I carbonili amidici sono anche responsabili di un legame addizionale del farmaco con il gruppo aminico in posizione C2 della guanina del DNA. Questo rende il le­ game tra la dactinomicina e il DNA particolarmente for­ te, pur non essendo covalente: il farmaco si dissocia infat­ ti molto lentamente dal complesso, mostrando un’emivita molto lunga (36 ore). L’intercalazione della dactinomicina nel DNA provoca inibizione della RNA polimerasi DNA-

Pentapeptide ciclico

Sar N-CH3-L-Val

L-Pro D-Val

O

H3C O

8

9

L-Pro D-Val

O

O

H3C H HN

Fenossazinone

Sar N-CH3-L-Val

NH H

O 1

N

O

NH2 2 3

7

O

6

CH3

5

4

O

CH3

Dactinomicina

Figura 42.23 Struttura della dactinomicina.

dipendente e blocco della sintesi di RNA messaggero, con blocco del ciclo cellulare in fase G1/S e in definitiva morte cellulare. La dactinomicina è in uso clinico dal 1964 per il trattamento di vari tumori solidi e rabdomiosarcoma. I suoi principali effetti collaterali sono mielosoppressione, doselimitante, nausea e vomito, tali da dover costringere talvolta a sospenderne l’uso, extravasazione con azione irritante sui tessuti. La resistenza è dovuta a una diminuita capacità del farmaco di legare il DNA o alle pompe di efflusso legate alla glicoproteina P. La bleomicina disponibile in commercio è una miscela di vari glicopeptidi di origine naturale, estratti da ceppi di Streptomyces verticillus, ricchi soprattutto di bleomicina A2 e B2 (Fig. 42.24), i composti più attivi come antitumorali. La bleomicina chela il Fe2+ mediante gli anelli imidazolico e pirimidinico, grazie anche ai sostituenti aminici e amidi­

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FARMACI ANTITUMORALI

O

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NH2

NH2

H N N

O

N O

H2N

O

CH3 HN HO

OH O

HO

Porzione bersaglio della bleomicina idrolasi

NH2

CH3 HO

O

N NH

O CH3 HO

N H N

S

N

CH3

N H

O

HO

R

S

Porzione ditiazolica

O

OH OH O

Bleomicina A2: R =

NH2 Bleomicina B2: R =

O

BLEO

O

O

H N

-O PO 3 Fe3+ OOH

5'

O H

base

-O

4' 3'

5'

3PO

O

4+

S+

CH3 NH N H

NH2

base

O

O

BLEO

H N

CH3

4' 3'

Fe

O

H N

Radicale del DNA OHC S

R + DNA danneggiato

base

OHC

R-SH

S

R

OHC

base

DNA-propenale

Figura 42.24 Struttura delle bleomicine. In basso, il meccanismo d’azione delle bleomicine.

ci di quest’ultimo, e quindi si intercala nel DNA tra coppie di citosine e guanine grazie alla sua porzione ditiazolica. I sostituenti dimetilsolfonio (per la bleomicina A2) e guani­ dinico (per la bleomicina B2) si incanalano quindi nel solco minore della doppia elica del DNA, stabilendo legami addi­ zionali. Una volta legato il farmaco, il Fe2+ si ossida a Fe3+ trasferendo un elettrone all’ossigeno molecolare: si forma così il complesso citotossico HOO-Fe3+-BLEO, che è rite­ nuto la specie attivata dell’antibiotico. Questo idroperossido sottrae un atomo di idrogeno dal desossiribosio in posizione 4', generando un radicale del DNA che si decompone con rottura dello zucchero e formazione al suo posto di un’unità propenale, legata alla base azotata del DNA, che quindi effet­ tuerà un attacco elettrofilo su residui di cisteine di proteine cellulari essenziali, disattivandole. Infine il DNA così dan­ neggiato si separerà dalla struttura di addizione e non potrà essere riparato, poiché sembra che la bleomicina sia in grado anche di inibire la DNA ligasi, l’enzima deputato appunto al riparo del DNA (Fig. 42.24). La bleomicina è in uso dal 1969 per il trattamento del linfoma di Hodgkin e non Hodgkin, di vari carcinomi a cellule squamose e del cancro testicolare. Differentemente da tutte le altre sostanze naturali ad attività antitumorale, la bleomicina non presenta mielosoppressione

come effetto collaterale; in questo caso la tossicità più impor­ tante è a livello dei polmoni: si può verificare infatti fibrosi polmonare, irreversibile e tale da richiedere sospensione del trattamento. Questo si spiega poiché i polmoni, a differenza di quasi tutti gli altri distretti dell’organismo, contengono bassissime quantità di bleomicina idrolasi, un enzima che idrolizza l’amide terminale del farmaco ad acido carbossili­ co, disattivandolo e rendendolo non più adatto al legame con il DNA (Fig. 42.24), e quindi subiscono alti livelli di farmaco non metabolizzato. L’effetto collaterale più osservato è dato da eruzioni cutanee, eritemi e iperpigmentazione della pelle.

42.6.2 F  armaci che si intercalano nel DNA come veleni della topoisomerasi II Le antracicline (Fig. 42.25) sono antibiotici ad attività anti­ tumorale isolati da ceppi di Streptomyces peucetius. Hanno una porzione agliconica (ossia non zuccherina) formata da un anello antracenico fuso con un cicloesano sostituito (porzio­ ne antraciclinonica), e un aminozucchero legato al cicloesa­ no stesso denominato l-daunosamina. La struttura triciclica aromatica planare permette a questi antibiotici di intercalarsi

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A O 1

Porzione antraciclinonica

O

OH

13

2 3

9 7

R

OH H

O

14

OH 8

6

5

4

R1

10

11

12

Doxorubicina: R = OCH3, R1 = OH, R2 = OH, R3 = H, R4 = H Daunorubicina: R = OCH3, R1 = H, R2 = H, R3 = OH, R4 = H Epirubicina: R = OCH3, R1 = OH, R2 = OH, R3 = OH, R4 = H Idarubicina: R = H, R1 = H, R2 = H, R3 = OH, R4 = H Valrubicina: R = OCH 3, R1 = OCOn-C4H9, R2 = H, R3 = OH, R4 = COCF3

O

A R3 Daunosamina

O CH3

A = siti di complessazione del Fe2+ B = aminogruppo che può dare legame covalente con il DNA

R2 R4

NH

B

Antracicline

O R-NH2 + CH2O Formaldeide

R-N=CH2 +

HN H2N

O N

N

R

N

O

O O

DNA

N

HN N H

N H

N

N

O

O O

DNA

DNA

DNA

Addotto covalente antraciclina-DNA

Figura 42.25 Struttura della doxorubicina e di altre antracicline.

nel DNA, tra residui di citosina e guanina, mentre l’aminozuc­ chero si inserisce nel solco minore del DNA stabilendo legami addizionali. In particolare, l’aminogruppo dello zucchero, ol­ tre alla formazione di un ponte salino con i gruppi fosfato del DNA carichi negativamente, può reagire con una molecola di formaldeide proveniente da componenti cellulari e formare un’imina, che subisce poi l’attacco dell’NH2 in posizione C2 di una guanina del DNA, stabilendo così un legame covalente tra farmaco e DNA (Fig. 42.25). L’anello cicloesanico sostitui­ to e la duanosamina sono responsabili dell’interazione della maggior parte delle antracicline con la topoisomerasi II. Oltre a intercalarsi nel DNA, infatti, questi antibiotici funzionano come veleni della topoisomerasi II, stabilizzando il comples­ so ternario antraciclina-topoisomerasi-DNA che si forma. In particolare, le antracicline permettono la rottura del filamento di DNA da parte della topoisomerasi II e la formazione del legame covalente enzima-DNA, ma impediscono la ricucitura del filamento stesso, determinando blocco della replicazione e trascrizione del DNA e morte cellulare. Le antracicline possono essere anche soggette a un ciclo ossidoriduttivo (redox), con produzione di specie reatti­ ve dell’ossigeno (ROS, reactive oxygen species) che possono contribuire al loro effetto antitumorale, anche se alle dosi te­ rapeutiche questo non è stato osservato. Esse però sono sicu­ ramente responsabili della severa cardiotossicità acuta che si accompagna all’utilizzo di questi farmaci. I dettagli sono descritti nella Scheda 42.13.

La doxurubicina (Fig. 42.25) è l’antraciclina più utiliz­ zata in terapia ed è in uso dagli anni ’60 per il trattamen­ to di una vasta gamma di tumori ematologici e di tumori solidi. Possiede in C13 un idrossimetile, che sfavorisce e rallenta la riduzione del chetone in C13 ad alcol con una riduzione corrispondente di cardiotossicità cronica. Risul­ ta meno tossica quindi della daunorubicina (Fig. 42.25), l’antibiotico più abbondante in natura, che presenta in C13 un metile ed è usata fondamentalmente nelle leucemie. La doxorubicina è formulata anche in liposomi, che proteg­ gono il farmaco dall’azione degli enzimi ad attività redox e quindi fanno diminuire la cardiotossicità della molecola. Altri effetti collaterali associati all’uso di doxorubicina sono mielosoppressione, nausea, vomito, alopecia. L’elevata co­ niugazione elettronica della sua struttura molecolare fa sì che il composto sia colorato in rosso (da cui il nome, ana­ logamente a tutte le antracicline), e questo colore si ritrova anche nelle urine dei pazienti in trattamento. L’epirubicina è l’epimero (β anziché il più naturale α) della doxorubicina a livello dell’ossidrile in 4' nella daunosamina (Fig. 42.25). Questa piccola variazione chimica provoca grandi cambia­ menti nelle caratteristiche farmacologiche dell’antibiotico, che risulta meno prono alla riduzione a idrochinone, con conseguente minore generazione di ROS tossici, meno in­ cline alla riduzione in C13 a epirubicinolo, più veloce nella coniugazione glicuronica rispetto alla doxorubicina, con una diminuzione complessiva della cardiotossicità del 30%.

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Tuttavia, l’epirubicina mostra una tendenza ad accumularsi nel miocardio, per cui parte di questo guadagno in minore cardiotossicità viene vanificato. L’epirubicina è usata per il trattamento del cancro al seno. L’idarubicina (Fig. 42.25) è il 4-demetossi analogo della daunorubicina. La mancan­ za del gruppo metossi nella struttura antracenica aumen­ ta la lipofilia del farmaco e fa sì che la struttura planare si intecali meglio del farmaco madre nelle basi della doppia elica del DNA, e che la sua daunosamina sia orientata più efficacemente nel solco minore. Ciò la rende più efficiente nella stabilizzazione del complesso antraciclina-topoisome­ rasi II-DNA e quindi più potente come antitumorale. Tra le varie antracicline, è l’unica a mostrare una buona biodi­ sponibilità per via orale ed è l’unica il cui rubicinolo (ida­ rubicinolo) mostra la stessa potenza antitumorale del com­ posto chetonico di provenienza. È utilizzata nella leucemia mieloide acuta. La valrubicina (Fig. 42.25) è un derivato della doxorubicina in cui l’OH in C14 è esterificato con un residuo di acido valerico, e l’NH2 in 4' della daunosamina è trasformato in una trifluoroacetamide. Questi cambiamenti strutturali fanno sì che il farmaco sia molto più lipofilo del farmaco madre e prontamente assorbito dalle cellule tumo­ rali. Il meccanismo però differisce dalle altre antracicline, perché la valrubicina si intercala nel DNA senza inibire la topoisomerasi II: inibisce invece l’incorporazione di nucle­ osidi negli acidi nucleici, provocando arresto della prolife­ razione cellulare. Viene impiegata per via essenzialmente topica nei tumori alla vescica, per somministrazione diretta intravescicale per 2 ore di una sua soluzione veicolata con Cremophor EL, un olio di ricino polietossilato causa di ir­ ritazioni locali e reazioni allergiche, ed etanolo. In questo modo, sia l’estere sia l’amide non vengono idrolizzati, la valrubicina agisce come tale e non è substrato per gli enzimi redox né per l’aldochetoreduttasi, risultando così provvista di cardiotossicità assai scarsa. Gli effetti collaterali di questa particolare somministrazione sono irritazione alla vescica e colorazione rossa delle urine. Il mitoxantrone è un antracenedione sintetico che espli­ ca lo stesso meccanismo d’azione della doxorubicina e delle antracicline.

H3C

OH O O O O

O O HO

OH HN

O

6

7

O

HN

Rispetto agli antibiotici naturali, possiede una struttura trici­ clica anziché tetraciclica e manca dell’aminozucchero; sono presenti però sulla struttura antracenedionica due catene 2-(2-idrossietilamino)etilaminiche, in grado comunque di formare ponti salini con i gruppi fosfato carichi negativa­ mente del DNA. La struttura triciclica è molto stabile grazie alla possibilità di formazione di legami idrogeno intramole­ colari ed è in grado pertanto di resistere all’ossidazione della NADPH/CYP450 reduttasi, evitando la formazione dei ROS. Inoltre, non possiede chetoni che possano essere ridotti dal­ la aldochetoreduttasi e quindi la sua cardiotossicità è molto inferiore a quella degli antibiotici naturali. Viene impiegato per il trattamento di leucemie e carcinoma della prostata. Gli effetti tossici (mielosoppressione, nausea, vomito, alopecia) sono meno gravi rispetto a quelli osservati con le antracicline.

42.6.3 V  eleni della topoisomerasi II non intercalanti La podofillotossina (Fig. 42.26) è un composto naturale isolato dalla pianta mandragora (Podophyllum peltatum), in grado di legare la tubulina, una proteina strutturale im­ portante, tra l’altro, per la divisione cellulare, impedendone la polimerizzazione a microtubuli. I suoi epimeri semisin­ tetici al carbonio C4, le epipodofillotossine, sono invece veleni della topoisomerasi II: si legano dapprima all’enzi­ ma, quindi il complesso farmaco-enzima si lega al DNA

S

O 5

3

4 1

11

2'

O O HO

O HO

O

O O

12

O

2

8

OCH3

OH

OH

O

O 13

1'

H3CO

HN

Mitoxantrone

O O

O

HN

O HO

OH

6'

3'

OCH3

H3CO

4'

O

Podofillotossina

5'

OCH3

R

Etoposide: R = H Etoposide fosfato: R = PO(OH) 2

Figura 42.26 Struttura delle epipodofillotossine.

H3CO

OCH3 OH

Teniposide

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come fosfato, un profarmaco più solubile che rilascia eto­ poside per azione di una fosfatasi. L’etoposide si differenzia dal teniposide per un sostituente metilico anziché 2-tienilβ-d-glucopiranosidico nell’OH in C4. Il teniposide, grazie alla presenza del ciclo tienilico anziché del semplice metile, è pertanto più lipofilo dell’etoposide e quindi diffonde più ef­ ficacemente nelle membrane biologiche, risultando 10 volte più potente come antitumorale. L’etoposide possiede anche una buona biodisponibilità se somministrato per via orale, mentre il teniposide si somministra solo per via endovenosa, veicolato con Cremophor EL. L’idrolisi del lattone a idros­ siacido diminuisce molto la potenza di questi farmaci, ma il loro legame alle proteine plasmatiche (albumina, 99% nel caso del teniposide, il più lipofilo) li preserva da questa cata­ bolizzazione, costituendo quindi una riserva di farmaco atti­ vo. Le tossicità includono mielosoppressione dose-limitante, nausea, vomito, anoressia, alopecia, reazioni di ipersensibi­ lità se veicolati con Cremophor, e insorgenza di leucemie farmaco-indotte nei bambini.

generando rotture a singolo e a doppio filamento che non possono venire risaldate per effetto di una stabilizzazione del complesso scissile. L’accumulo dei filamenti tagliati del DNA genera apoptosi e impedisce la proliferazione tumo­ rale, bloccando il ciclo cellulare in fase S. Un secondo mec­ canismo con cui le epipodofillotossine provocano rottura dei filamenti di DNA è la generazione di ROS conseguenti all’ossidazione in questi farmaci del gruppo fenolico in C4' e alla produzione di un radicale libero semichinonico. Ciò è testimoniato anche dal fatto che i composti che presen­ tano un metossile in C4' (ad es. la stessa podofillotossina) sono inattivi come veleni della topoisomerasi. La porzione glicosidica legata all’OH in C4, non presente nella podofil­ lotossina, pur non essendo indispensabile per l’inibizione dell’enzima, aumenta la capacità di indurre rotture al DNA. La rottura di filamenti del DNA può portare nelle cellule normali a mutazioni o traslocazioni di geni, come quella del gene della leucemia a fenotipo misto (MLL, mixed lineage leukemia) che trasloca sulla banda cromosomica 11q23 dando origine, dopo trascrizione e traduzione di questo DNA alterato, a proteine chimeriche aberranti che origina­ no una leucemia farmaco-indotta nei bambini. Dal punto di vista del metabolismo, le epipodofillotossine possono andare incontro a idrolisi del lattone, con formazione dei corrispondenti idrossiacidi inattivi, e/o a demetilazione del gruppo metossilico in C3', che genera un derivato catecolico successivamente ossidabile a idrochinone, entrambi ancora attivi sulla topoisomerasi. L’etoposide e il teniposide (Fig. 42.26) sono le due epi­ podofillotossine usate in terapia, il primo per cancro testico­ lare e ai polmoni a piccole cellule, il secondo per la leucemia linfoblastica acuta. L’etoposide è presente in clinica anche

9 10

8

12

13

La camptotecina (Fig. 42.27) è un alcaloide naturale pen­ taciclico estratto dalla Camptotheca acuminata, un alberello cinese, e dotato di spiccate proprietà antitumorali. Tuttavia la sua idrosolubilità estremamente bassa, unita alla caduta di attività farmacologica in seguito all’idrolisi del lattone contenuto nella struttura a idrossiacido e alla presenza di ef­ fetti tossici inaccettabili, ne precludono l’utilizzo clinico. Le camptotecine usate in terapia sono l’irinotecan (Fig. 42.27), approvato nel 1998 per la cura del cancro colorettale, pol­ monare, cervicale, esofageo e gastrico, e il topotecan (Fig. 42.27), entrato in terapia nel 1996 per il trattamento del can­

CH3

7

5

6

4

N 11

42.6.4 Camptotecine

N

2

1

3

H3C 18

14 19

O

H3C

16a 16 15 20

OH

N 9

HO

17

10

O

N

O

N

21

O

O

H3C OH

Camptotecina

O

Topotecan N H3C

H3C N

7

O O

10

N

7

HO

O Carbossiesterasi

10

N

O

N

N O

H3C Irinotecan

Figura 42.27 Struttura delle camptotecine.

OH

O

O

H3C

SN-38

OH

O

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cro ovarico e nel 2007 per quello del cancro al polmone a pic­ cole cellule. Le camptotecine sono veleni della topoisomerasi I anziché della topoisomerasi II: stabilizzano il complesso scissile farmaco-enzima-DNA, provocando rotture a singolo filamento del DNA che non riescono a risaldarsi e, quando accumulate, mandano la cellula in apoptosi. Le camptoteci­ ne si legano al complesso DNA-topoisomerasi I già formato: infatti il loro sito di legame si rivela nel DNA già tagliato, un sito in cui questi farmaci si intercalano mimando una coppia di basi del DNA con la loro struttura pentaciclica. La loro presenza nel sito di scissione comporta quindi, per effetto sterico, l’allontanamento dal sito catalitico dell’enzima di un residuo di lisina (Lys532), importante per la ricucitura del filamento del DNA, che pertanto rimane non riparato. L’irinotecan è un profarmaco contenente, nella struttura base della camptotecina, un etile in C7 e l’ossidrile in C10 trasfor­ mato in 4-piperidinopiperidilcarbamato per aumentarne la solubilità in acqua. La funzione carbamica viene poi idroliz­ zata da una carbossilesterasi chiamata enzima di conversio­ ne dell’irinotecan, che lo converte in SN-38, il vero farmaco attivo, 1000 volte più potente del composto madre. Gli effetti tossici principali dell’irinotecan sono la mielosoppressione e la diarrea, così severa da risultare talvolta anche fatale. La diarrea sembra sia dovuta a un’attività di inibizione dell’ace­ tilcolinesterasi da parte dell’irinotecan, che aumenterebbe la quantità di acetilcolina circolante con aumento della motilità intestinale, tanto da consigliare un pretrattamento con an­ ticolinergici. Il topotecan mostra, nello scheletro base della camptotecina, ancora un ossidrile in C10 e un gruppo N,Ndimetilaminometilico in C9, salificabile come cloridrato per ottenere una forma più solubile del farmaco. La mielosop­ pressione rappresenta il più importante effetto collaterale.

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42.7 F  armaci attivi sul sistema tubulina/microtubuli La tubulina è una proteina strutturale importante per mol­ ti processi cellulari. Due isotipi di tubulina, α e β, simili ma non identici, associandosi danno vita a eterodimeri che a loro volta si assemblano per formare dei piccoli nuclei; questi suc­ cessivamente si dispongono alternati attorno a un asse vuoto per formare i microtubuli (Fig. 42.28). I microtubuli hanno diversi ruoli nella cellula, tra cui la costituzione del citosche­ letro, la conservazione della forma cellulare, la motilità, il ri­ lascio di neurotrasmettitori e la divisione cellulare. In parti­ colare in quest’ultimo processo, i microtubuli hanno un ruolo fondamentale, e sono soggetti a processi continui di lenta po­ limerizzazione (allungamento) o di rapida depolimerizzazio­ ne (accorciamento) della tubulina che li costituisce (fase di “instabilità dinamica”, Fig. 42.28). Un’altra fase importante dei microtubuli è il cosiddetto treadmilling (mulinello), in cui gli stessi si sfaldano e si riassemblano con segmenti di micro­ tubuli della stessa entità, lasciandone inalterata la loro lun­ ghezza (Fig. 42.28). Quando la cellula si prepara per la mitosi, i microtubuli che formano il citoscheletro vengono depoli­ merizzati per poi riassemblarsi, per formare il fuso mitotico (Scheda 42.14). Quindi dovranno connettersi ai cromosomi, per permettere a questi ultimi di dirigersi verso i poli del fuso mitotico per la fase che precede la citodieresi. Il comporta­ mento dei microtubuli, con la continua polimerizzazione e depolimerizzazione della tubulina, è regolato in parte dalle proteine associate ai microtubuli (MAP, microtubule-associated proteins), che possono legarsi alla tubulina solubile o agli stessi microtubuli. I farmaci che agiscono a livello del sistema tubulina/microtubuli possono legarsi alla tubulina, impeden­

Figura 42.28 Formazione dei microtubuli a partire dagli eterodimeri di - e -tubulina, instabilità dinamica e treadmilling.

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done la polimerizzazione, o ai microtubuli, stabilizzandoli e impedendone la depolimerizzazione per formare di nuovo tubulina. In entrambi i casi il sistema tubulina/microtubuli risulta inibito e il risultato per la cellula è un arresto mitotico e l’induzione di apoptosi, utili per una terapia antitumorale.

42.7.1 Inibitori della polimerizzazione della tubulina Dalla pianta di pervinca del Madagascar (Catharanthus roseus) sono stati isolati due alcaloidi, vincristina e vinblastina (Fig. 42.29), a potente attività antimitotica e antitumo­ rale. Un terzo alcaloide semisintetico, la vinorelbina (Fig. 42.29), si è aggiunto a questi farmaci inizialmente studiati come ipoglicemizzanti e poi, una volta scoperta l’azione mie­ losoppressiva, impiegati nel trattamento di leucemie e quin­ di anche di tumori solidi. Dal punto di vista chimico, i tre al­ caloidi sono formati da una porzione tetraciclica contenente un nucleo indolico fuso con un anello metano-azaciclounde­ cinico o metano-azecinico chiamata unità catarantinica, e una porzione pentaciclica a struttura octaidro-carbazolo-in­ dolizinica detta vindolina, connesse da un legame carboniocarbonio. Le differenze sono a livello di: (a) sostituzione in N1 all’azoto carbazolico della porzione vindolinica, che è un

N

8'

Unità catarantinica

11' 12'

5'

13'

9

N

10 14

H3CO

16

17

1

6

H

2

N H CHO

3

4

N H

CH3

5 12

13

7

8

11

15

Unità vindolinica

CH3

1'

COOCH3

N H

14'

N

3'

18' 15'

OH CH3

4'

2'

9'

10'

OH

6'

7'

formile nella vincristina e un metile in vinblastina e vinorel­ bina; (b) contrazione di un’unità carboniosa nella porzione catarantinica tra le posizioni C6' e C9', per cui vincristina e vinblastina mostrano un ciclo a 11 termini (azacicloundeci­ nico) e la vinorelbina un ciclo a 10 termini (azecinico) fusi con l’anello indolico; (c) presenza di un doppio legame nel­ le posizioni 3' e 4' della porzione piperidinica sempre nella subunità catarantinica, che distingue la vinorelbina da vin­ cristina e vinblastina che mancano di quel doppio legame e mostrano invece un gruppo ossidrilico in posizione 4'. La presenza e la stereoisomeria del sostituente metossicarboni­ lico in posizione C18' della porzione catarantinica sono fon­ damentali per l’attività farmacologica dei composti, mentre la saturazione del doppio legame nella porzione vindolinica o l’acetilazione dei gruppi ossidrilici comporta una marcata riduzione fino alla perdita di attività. Gli alcaloidi della vinca si legano agli eterodimeri di α- e β-tubulina in siti ad alta affinità, portando a una stabilizza­ zione dei protofilamenti e impedendo l’allungamento e l’ac­ corciamento dei microtubuli. In questo modo il fuso mitoti­ co, con un arresto sia della fase di instabilità dinamica sia del treadmilling, risulta bloccato e non più funzionante. Ad alte dosi, gli alcaloidi della vinca si legano anche a siti a bassa af­

COOCH3 CH3

N

OCOCH3

OCOCH3

H

COOCH3 OH

COOCH3 N H OH CH3

1

H3CO

Vinblastina

Vincristina

OH N

4'

CH3

N

N

CH3

3'

3'

N H

COOCH3 CH3

N H

N H

COOCH3

OCOCH3

COOCH3 N H OH CH3

Vinorelbina

CH3

N H 3

F

Vindesina

CH3

N H

OCOCH3

COOCH3 N H OH CH3

1

H3CO

F

COOCH3

OCOCH3

CONH2 N H OH CH3

1

H3CO

N H

CH3

4'

H3CO

Vinflunina

Figura 42.29 Struttura degli alcaloidi della vinca. Le differenze strutturali degli alcaloidi della vinca rispetto alla vincristina sono indicate in arancione.

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finità, portando a rottura dei microtubuli e del fuso mitotico, e a riorganizzazione dei cromosomi in forme innaturali che conducono in ultima analisi a morte cellulare. Poiché i mi­ crotubuli sono coinvolti anche nella struttura delle fibre ner­ vose e nel rilascio di neurotrasmettitori, si ritiene che le neu­ ropatie osservate come effetto collaterale di questi farmaci siano dovute a una tossicità non mitotica degli alcaloidi della vinca sempre a carico dei microtubuli. Un’altra complicanza connessa con l’uso di questi alcaloidi è l’extravasazione, da trattare con iniezioni locali di ialuronidasi e calore, dovuta al fatto che essi sono vescicanti e possono indurre necrosi e tromboflebiti. La resistenza agli alcaloidi della vinca, come per molti altri farmaci, è collegata alla glicoproteina P, una glicoproteina di permeabilità che funziona da pompa di ef­ flusso. La vincristina è stata approvata nel 1963 per l’utilizzo clinico in linfomi di Hodking e non Hodking e altre leu­ cemie, rabdomiosarcoma, sarcoma di Ewing e altri tumori solidi. È usata come solfato per via endovenosa. I principali effetti collaterali sono neuropatia periferica (il più grave con questo farmaco, tanto da dover diminuire la dose in caso di tossicità), costipazione intestinale e alopecia. La vinblastina, molto costosa da ottenere per via estrattiva anche a causa della bassa resa (10%), oggi viene prodotta per sintesi totale (resa globale 22%). È anch’essa usata per via endove­ nosa come solfato, ha le stesse indicazioni della vincristina e in più è usata per il trattamento di carcinoma testicolare avanzato, sarcoma di Kaposi e micosi fungoide. Gli effetti collaterali neurologici sono meno spiccati che con la vin­ cristina, ma, a differenza di questa, la vinblastina provoca mielosoppressione dose-limitante. La vinorelbina, il primo alcaloide della vinca ottenuto per semisintesi dalla vinblasti­ na, è stata approvata nel 1989 per il trattamento del tumore al polmone non a piccole cellule, e nel 1991 per il cancro metastatico al seno. È anche usata nel rabdomiosarcoma. Viene utilizzata per via orale e endovenosa (sotto forma di ditartrato). L’effetto collaterale dose-limitante è la mie­ losoppressione con granulocitopenia, che richiede il moni­ toraggio della conta dei granulociti durante il trattamento; altri effetti indesiderati sono la neurotossicità, presente in misura minore rispetto alla vincristina, costipazione, nau­ sea, vomito, diarrea e astenia. Altri alcaloidi di semisintesi impiegati in terapia sono la vindesina (Fig. 42.29), l’analo­ go carbossiamidico in posizione C3 della vinblastina, usata

O

per leucemie, linfomi, melanoma e cancro al polmone, e la vinflunina (Fig. 42.29), analogo della vinorelbina privo del doppio legame in C3'-C4' e con un gruppo 1,1-difluoroeti­ lico al posto dell’etile in C4', usata per il cancro alla vescica.

42.7.2 Combretastatine Le combretastatine sono una classe di fenoli naturali a strut­ tura stilbenica estratti dal cespuglio del salice africano (Combretum caffrum). Chimicamente sono caratterizzati dalla presenza di un anello A contenente tre gruppi metossilici, un anello B normalmente sostituito con altri gruppi ossidrilici e metossilici, e un ponte etenico di connessione. Molto im­ portante è la geometria del doppio legame etenico: l’orienta­ zione cis garantisce il legame del composto alla tubulina nel sito della colchicina, pertanto questa è l’unica forma attiva. Le combrestatine legano la tubulina delle cellule dell’endo­ telio vascolare, bloccando la formazione dei microtubuli a questo livello e portando a un cambiamento della forma di queste cellule che conduce a morte cellulare e necrosi del tu­ more. La più attiva tra questi composti naturali è la combretastatina-A4 (Fig. 42.30), in fase di sperimentazione clinica come profarmaco fosfato. Un suo derivato, l’ombrabulina (Fig. 42.30), è in Fase III di studio clinico per il trattamento di sarcomi dei tessuti molli in stadio avanzato.

42.7.3 C  olchicina e altri composti naturali inibitori della polimerizzazione della tubulina La colchicina è un composto naturale a struttura tropolo­ nica (Fig. 42.31) che si ottiene da piante del genere Colchicum, quale ad esempio il Colchicum autumnale, una pianta descritta già nel 1500 a.C. nel papiro egiziano di Ebers come utile per i reumatismi. L’estratto di Colchicum lo troviamo citato nel 70 d.C. da Dioscoride nel suo De Materia Medica: la colchicina è dunque una molecola usata fin dall’antichità, ma solo nel XX secolo è stato chiarito il suo meccanismo d’a­ zione di inibitore della polimerizzazione della tubulina. È un farmaco impiegato per la gotta e altre patologie infiammato­ rie. Bloccando la formazione dei microtubuli, riduce la mo­ bilità dei linfociti neutrofili impedendo loro di raggiungere le zone interessate dal processo infiammatorio e bloccando la loro attività fagocitaria. La colchicina è un composto mol­

H N

R

O OCH3

OCH3 H3CO

OCH3 OCH3

Combretastatina-A4: R = H Combretastatina-A4 fosfato: R = PO(OH)2

Figura 42.30 Struttura delle combretastatine.

H3CO

OCH3 OCH3 Ombrabulina

NH2 OH

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HN

CH3 O

HN

O

O

O P

OCH3 H3CO

OCH3 OCH3 Colchicina

CH3

HO H3CO

OH O

OCH3 OCH3 ZD6126

Figura 42.31 Struttura della colchicina e di ZD6126.

to tossico, dal ristretto indice terapeutico, per cui non è stata impiegata nelle patologie tumorali. È invece in fase di studi clinici un composto a essa correlato, lo ZD6126 (Fig. 42.31), un profarmaco dell’N-acetilcolchinolo, per il trattamento di carcinoma renale metastatico e carcinoma colorettale. Altri composti naturali inibitori della polimerizzazione della tubulina sono descritti nella Scheda 42.15.

42.7.4 Inibitori della depolimerizzazione dei microtubuli Il paclitaxel (taxolo) (Fig. 42.32) fu isolato dalla corteccia del tasso del Pacifico (Taxus brevifolia) e identificato nel 1967 come composto con una promettente attività anticancro. Tuttavia, il suo uso ebbe in un primo tempo una battuta d’ar­ resto sia perché dalla corteccia di tasso se ne poteva estrarre un quantitativo molto esiguo, sia per problemi di formula­ zione dovuti alla scarsissima idrosolubilità della molecola. Fu descritta nel 1994 una sintesi totale del paclitaxel, ma di nuovo con una resa totale molto bassa dovuta ai molti pas­ saggi necessari (30 passaggi di sintesi!) . Tuttavia, successiva­ mente fu possibile ottenere il paclitaxel e altri suoi analoghi per semisintesi, con soli 4 passaggi, a partire da un composto precursore inattivo, la 10-deacetilbaccatina III, estratto dagli aghi dell’albero di tasso europeo (Taxus baccata), una risorsa rinnovabile. I problemi di formulazione furono risolti con l’impiego di Cremophor EL, un olio di ricino poliossietila­ to, ed etanolo come veicoli. L’uso di Cremophor EL tuttavia non è scevro da inconvenienti: induce rilascio di istamina nell’organismo, per cui si possono avere nei pazienti trattati fenomeni di ipersensibilità come reazioni allergiche, bron­ cospasmo e ipotensione; la somministrazione di paclitaxel deve essere preceduta, quindi, da quella di antistaminici e corticosteroidi, in grado di sopprimere l’insorgenza di questi dannosi effetti. Risolti comunque questi problemi di approv­ vigionamento e formulazione, il paclitaxel è diventato il far­ maco antitumorale più venduto della storia. Il paclitaxel e i suoi analoghi, detti taxani, esercitano la loro attività antitumorale legandosi alla β-tubulina in un ap­ posito sito posto nel lato luminale dei microtubuli, e distinto dal sito di legame degli alcaloidi della vinca e da quello della colchicina. Tramite il legame con la β-tubulina, i taxani sti­ molano la polimerizzazione della tubulina, stabilizzandola e inibendo nel contempo la sua depolimerizzazione: in questo modo i microtubuli possono solo allungarsi, fino a forma­

re degli aggregati anomali e abnormi al posto del normale fuso mitotico, con blocco della mitosi e della divisione cel­ lulare e arresto del ciclo cellulare in fase G2/M. Il paclitaxel si è mostrato anche in grado di inattivare, via fosforilazione, Bcl-2, una proteina antiapoptotica, e di stimolare le protei­ ne proapoptotiche Bad e Bax, con conseguente induzione di apoptosi. Come nel caso degli alcaloidi della vinca, anche il trattamento con taxani può essere soggetto a resistenza do­ vuta a sovraespressione di glicoproteina P, una pompa di efflusso che estrude il farmaco dalle cellule, o ad alterazioni nella struttura della tubulina, che ne rendono più difficile il legame con il farmaco. Dal punto di vista chimico, i taxani sono caratterizza­ ti da una struttura tetraciclica a 17 termini formata da un anello triciclico a 15 termini, il triciclo[9.3.1.0]pentadecano, fuso con un anello ossetanico. Se si considera una parte su­ periore e una inferiore della molecola, nella parte inferiore vi sono i residui più importanti per il legame con la tubulina, ossia il residuo ossibenzoico in C2 e il gruppo benzamidico in C3', apparentemente distanti ma invece molto vicini nel­ la conformazione di legame della molecola, che assume una struttura a T ripiegata. Anche l’ossetano, che deve rimanere intatto perché sia conservata l’attività del composto, svolge un ruolo importante nel legame con la tubulina per orien­ tare correttamente il gruppo acetossi in C4 in un’apposita tasca di legame. Nella parte superiore della molecola, di ri­ lievo sono gli ossidrili in C7 e C10 che, se esterificati o eteri­ ficati conferiscono alle molecole, oltre all’abilità di inibire la depolimerizzazione dei microtubuli, anche quella di inibire la glicoproteina P, con conseguente vantaggio in termini di ridotta capacità di indurre resistenza. Il paclitaxel è in uso dal 1992 per il trattamento di can­ cro esofageo, ovarico, al seno, al polmone, alla prostata, alla vescica, melanoma e altri tipi di tumori solidi incluso il sar­ coma di Kaposi. Il principale effetto indesiderato, dose-li­ mitante, è la mielosoppressione, che richiede un monitorag­ gio della conta dei neutrofili. Dal 2012 è anche disponibile legato all’albumina in nanoparticelle per sospensione iniet­ tabile, per il trattamento di cancro al polmone non a piccole cellule: in questo caso si evita l’uso del Cremophor e i suoi effetti allergizzanti. Il docetaxel (Fig. 42.32), approvato nel 1996 per il cancro al seno, possiede una struttura simile al paclitaxel, di cui rappresenta un intermedio di semisintesi, ma manca della porzione acetica nell’ossidrile in C10 e pre­ senta un residuo pivaloilaminico anziché benzamidico in

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H3C O

3'

OH H3C O 2'

HN

1'

O

O

O

10

O

CH3 4

1

H

2

HO

6

O

O

O

O

3'

O

OH H3C O

O

H3C

HO

CH3 CH3

Paclitaxel

7

CH3 H

2

O

CH3

OH

CH3 CH3

O

HN

O

10

7

CH3 CH3

13

HO

OH

9

O

O O

O CH3

Docetaxel H3CO

3'

HN

OH H3C O

7

HO

CH3 CH3

CH3 H

2

O H3C

OCH3

CH3 CH3

O O

O

10

O

O O

O CH3

Cabazitaxel

Figura 42.32 Struttura del paclitaxel, docetaxel e cabazitaxel. Le differenze strutturali rispetto al paclitaxel sono indicate in arancione.

C3'. Avendo l’ossidrile libero in C10, il docetaxel risulta più idrosolubile del paclitaxel, per cui non viene veicolato con il Cremophor ma con il polisorbato 80, cosicché sono diminu­ iti i rischi di reazioni di ipersensibilità, anche se un pretrat­ tamento con corticosteroidi è sempre consigliato. Le appli­ cazioni in terapia del docetaxel sono le stesse del paclitaxel, tranne che per il cancro ovarico. Anche per il docetaxel si stanno studiando formulazioni con proteine legate in nano­ particelle. Il cabazitaxel (Fig. 42.32) è un taxano semisinte­ tico che rappresenta il 7,10-dimetiletere del docetaxel. Pur non avendo più gli ossidrili liberi in C7 e C10, il cabazitaxel ha un’idrosolubilità simile a quella del docetaxel, per cui non richiede l’uso del Cremophor come veicolo. Sempre la presenza dei due sostituenti metileterei in C7 e C10 rende il farmaco molto meno affine verso la glicoproteina P e quindi molto meno sensibile alle pompe di efflusso, per cui la sua efficacia è aumentata rispetto agli altri taxani, così come la sua capacità di penetrare la barriera ematoencefalica. Il ca­ bazitaxel è stato approvato nel 2010 per il trattamento del cancro alla prostata, è somministrabile per via orale e pre­ senta gli stessi effetti collaterali degli altri taxani, in primis neutropenia.

42.7.5 E  potiloni e altri composti naturali inibitori della polimerizzazione dei microtubuli Gli epotiloni sono dei macrolattoni ottenuti da metaboli­ smo batterico, capaci di legarsi alla β-tubulina nello stesso sito di legame dei taxani. Pur avendo infatti una struttura alquanto diversa, formano con i microtubuli legami simili

a quelli stabiliti dai taxani (Scheda 42.16). Rispetto a questi ultimi, presentano i vantaggi di una maggiore idrosolubilità, di non essere substrati per il sistema di efflusso legato alla glicoproteina P, di essere in grado di legarsi anche alle forme di β-tubulina mutata, con la quale i taxani non riescono più a legarsi. L’epotilone B (Fig. 42.33), prodotto dal metaboli­ smo del mixobatterio Sorangium cellulosum, riassume in sé tutti questi vantaggi ma presenta il problema di un’instabilità in vivo dovuta alla funzione lattonica. È stato quindi sintetiz­ zato il corrispondente derivato amidico (lattamico), l’ixabepilone (Fig. 42.33), più stabile in vivo, che è stato approvato nel 2007 per il cancro al seno. Altri composti naturali inibitori della depolimerizzazio­ ne dei microtubuli sono descritti nella Scheda 42.17.

42.8 Inibitori delle protein chinasi Le protein chinasi sono enzimi che catalizzano la fosforila­ zione di specifici residui aminoacilici all’interno di substrati proteici, facilitando il trasferimento di un gruppo fosfato da una molecola di adenosina trifosfato (ATP) a un ossidrile di un residuo di tirosina (tirosina chinasi) o di serina o treo­ nina (serina/treonina chinasi) o anche, come recentemente scoperto, a un azoto di un residuo di istidina (istidina china­ si). Esistono oltre 500 tipi diversi di chinasi e possono essere localizzate nel citoplasma delle cellule o inserite all’interno delle membrane cellulari, giocando in questo caso un dop­ pio ruolo di recettori di membrana e di enzimi. Infatti, nelle membrane biologiche, oltre ai noti recettori canale e ai recet­ tori accoppiati alle proteine G, vi sono anche importanti re­

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S

O

H3C

CH3

S H3C

CH3

N

O

H3C

H

H3C

O

OH CH3 CH3

O

OH

O

Epotilone B

CH3

CH3

N

H 3C

H

H3C

HN

OH CH3 CH3

O

OH

O

Ixabepilone

Figura 42.33 Struttura dell’epotilone B e dell’ixabepilone.

cettori associati a chinasi, in cui la proteina recettoriale con­ tiene un’unità di connessione centrale, inserita nella mem­ brana cellulare, che collega la porzione N-terminale esterna della proteina con quella C-terminale interna alla cellula. La porzione esterna del recettore chinasi contiene il sito di lega­ me per il messaggero chimico, tipicamente un ormone poli­ peptidico o un fattore di crescita o una citochina; quella in­ terna è sede del sito attivo catalitico chinasico, che in assenza di legame porzione esterna-ligando (stato di riposo del recet­ tore chinasi) è chiuso, e si attiva in seguito all’instaurarsi del suddetto legame, stimolando a sua volta l’attività di chinasi citoplasmatiche e avviando così una cascata di segnali che conduce alla trascrizione di specifici geni del DNA coinvolti nella proliferazione e divisione cellulare (Scheda 42.18). La ricerca scientifica è stata ed è tuttora molto attiva nel tentare di comprendere gli innumerevoli processi cellulari regolati dalle protein chinasi e il loro ruolo in diverse patologie. È noto che molte protein chinasi si comportano da oncogeni, e dato il loro coinvolgimento nel controllo della crescita e proliferazione cellulare, è facile comprendere come un’aber­ rante e/o mutata attività delle protein chinasi possa determi­ nare l’insorgenza e lo sviluppo di malattie tumorali: è quindi ovvio quanto esse possano rappresentare un valido target da inibire per contrastare e tentare di risolvere queste patologie. In effetti, l’uso di inibitori chinasici ha rivoluzionato la chemioterapia antitumorale del XXI secolo, fornendo stru­ menti nuovi per combattere queste patologie, non basati più su una tossicità più o meno aspecifica, ma disegnati e progettati per interagire con un target molecolare ben pre­ ciso, la cui disregolazione ha portato alla malattia. Questo ha permesso i primi approcci verso una terapia antitumorale personalizzata, focalizzata sulla specifica aberrazione presen­ tata dalla patologia del singolo paziente, ora solo agli inizi ma, date le eccezionali potenzialità, di grande promessa per i trattamenti futuri.

42.8.1 V  ari tipi di protein chinasi come bersagli per una chemioterapia antitumorale La maggior parte delle protein chinasi coinvolte nell’insor­ genza di una patologia tumorale appartiene al gruppo delle tirosin chinasi. Tra queste, la chinasi BCR-ABL (break point cluster-Abelson, gene di fusione dovuto alla traslocazione del gene ABL dal cromosoma 9 al 22 con successiva fusione

con il gene BRC, noto anche come cromosoma Filadelfia), il protooncogene SRC (sarcoma), la chinasi EGFR (epidermic growth factor receptor, recettore del fattore di crescita epider­ mico), la VEGFR (vascular endothelial growth factor receptor, recettore del fattore di crescita endoteliale vascolare), la HER2 (human epidermal growth factor receptor 2, recettore per il fattore di crescita epidermico 2) e la PDGFR (platelet-derived growth factor receptor, recettore per il fattore di crescita derivante dalle piastrine) sono quelle maggiormen­ te responsabili dell’instaurarsi della patologia tumorale. Tra queste, BCR-ABL e SRC sono tirosina chinasi citoplasma­ tiche prive di funzione recettoriale, mentre EGFR, VEGFR, HER2 e PDGFR sono recettori tirosina chinasi. Tutte le protein chinasi, sia quelle citoplasmatiche sia quelle associate a recettori di membrana, si avvalgono dell’ATP come donatore di gruppi fosfato da trasferire su opportuni substrati (OH di tirosine, serine, treonine). Per­ tanto, tutte le chinasi contengono (a) un sito per il legame con l’ATP, costituito da una tasca situata in una zona a “cer­ niera” tra le estremità N- e C-terminale del dominio catali­ tico dell’enzima, atta ad accogliere e trattenere mediante le­ gami idrogeno la porzione 6-aminopurinica dell’ATP; (b) un sito idrofilo contenente ioni metallici per allocare il ribosio e il residuo trifosfato dell’ATP; (c) un sito per il substrato; (d) una tasca idrofobica di fronte al sito di legame del ribo­ sio, contenente un residuo cosiddetto “guardiano” diverso tra chinasi e chinasi, che con il suo minore o maggiore in­ gombro sterico permette o blocca l’accesso alla tasca stessa da parte di molecole esterne; (e) diversi altri siti accessori. Nonostante queste peculiarità generali comuni a tutte le chinasi, vi sono molte differenze nei residui aminoacilici presenti nei vari siti di legame dei diversi enzimi, e anche il residuo “guardiano” costituisce un elemento importante di discriminazione per l’ingresso di farmaci all’interno della tasca idrofobica delle diverse chinasi; è stato quindi possibile progettare e realizzare degli inibitori piuttosto selettivi per una o per un gruppo limitato di chinasi. Il sito catalitico delle chinasi può essere accessibile ad ATP e substrato (conformazione attiva dell’enzima), o esse­ re inaccessibile a essi (conformazione inattiva): la differenza la fa un’ansa di attivazione, che nello stato di riposo giace all’interno del sito catalitico dell’enzima (forma inattiva) ed è caratterizzata da residui idrofobici esposti all’esterno e resi­ dui idrofilici posti all’interno del sito catalitico stesso. Questi residui idrofilici, se fosforilati, si spostano verso l’esterno del

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sito catalitico (forma attiva dell’enzima), facendo dirigere i residui idrofobici all’interno e generando un’apertura di det­ ta ansa che ripristina l’accessibilità del sito attivo per ATP e substrato (forma attiva). Gli inibitori di protein chinasi si distinguono in inibitori di tipo I, che interagiscono con la forma attiva dell’enzima legandosi al sito catalitico e impe­ dendo il legame dello stesso con ATP e/o substrato, e ini­ bitori di tipo II, che stabilizzano la forma inattiva dell’enzi­ ma impedendone la riattivazione. Le differenze più marcate tra i siti attivi delle differenti chinasi si rinvengono più tra le forme inattive che tra quelle attive degli enzimi; inoltre le forme inattive sono caratterizzate dall’esposizione all’esterno dei siti catalitici da residui idrofobici dell’ansa di attivazione, che potrebbero stabilire facilmente interazioni con i farmaci; pertanto gli inibitori di tipo II sembrano essere quelli mag­ giormente destinati a fornire inibitori selettivi per una speci­ fica chinasi o un piccolo gruppo di esse.

42.8.2 Inibitori BCR-ABL e BCR-ABL/SRC L’imatinib (Fig. 42.34 e Box 42.8) è stato il primo farmaco inibitore di protein (tirosina) chinasi a essere approvato nel

H N

N

2001 per l’uso clinico contro la leucemia mieloide cronica (CML, chronic myeloid leukemia), grazie alla sua capaci­ tà di inibire la chinasi BCR-ABL, e rappresenta una pietra miliare nella rivoluzione della chemioterapia antitumorale mediante uso di farmaci specifici a meccanismo molecolare. Successivamente alla scoperta della capacità dell’imatinib di inibire anche altre due tirosina chinasi, la c-KIT e il PDGFR, l’imatinib è stato anche approvato per il trattamento dei tumori stromali gastrointestinali (gastrointestinal stromal tumors, GIST). L’imatinib è un inibitore chinasi di tipo II, che stabilizza la forma inattiva dell’enzima. Il suo sviluppo dal punto di vista chimico farmaceutico (Fig. 42.34) è partito dall’identificazione di un farmacoforo, la 2-anilinopirimidi­ na, per l’inibizione della protein chinasi C (PKC), una se­ rina/treonina chinasi. L’introduzione di un residuo di 3-pi­ ridile nella posizione 4 della 2-anilinopirimidina ha fornito un composto con aumentata potenza contro PKC a livello cellulare, mentre l’inserimento di un sostituente amidico in meta nell’anello fenilico ha esteso l’inibizione anche a tiro­ sina chinasi. La successiva addizione di un metile in posi­ zione C6 della porzione anilinica, responsabile di un blocco

N

H N

N H3C

N

CH3

O Imatinib

N

Sviluppo dell’imatinib: H N

N

H N

N

N

N

N

N

N

Farmacoforo identificato per l’inibizione di PKC Struttura anti-PKC con aumentata attività cellulare H N

N

N H3C

H N

R O

N Il metile impedisce la coplanarità tra pirimidina e benzene e annulla l’attività anti-PKC

H N

N

H N

N

N H3C

R O

Struttura con attività inibente sia PKC sia tirosina chinasi N

H N

N O

N La piperazina aumenta la biodisponibilità e la solubilità della molecola

Figura 42.34 Sviluppo chimico farmaceutico dell’imatinib.

H N

CH3

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BOX 42.8 ■ Sintesi dell’imatinib La sintesi dell’imatinib si effettua a partire dalla 3-acetilpiridina (1), che viene messa a reagire con la N,N-dimetilformamide dimetilacetale per fornire il 3-(dimetilamino)1-(piridin-3-il)prop-2-en-1-one (2). Quindi, il composto (2) si tratta con la 1-(2-metil-5-nitrofenil)guanidina (3) per sintetizzare la pirimidina (4) sostituita in posizione 2

con un’anilina sostituita e in posizione 6 con il 3-piridile. La successiva riduzione del nitrogruppo di (4) ad amino derivato (5) con idrogenazione catalitica, e ulteriore acilazione di quest’ultimo con l’appropriato benzoil cloruro sostituito in posizione 4 con un N-metilpiperazinametile dà luogo all’imatinib. H2N

O CH3

H

H3CO +

N

O

HN

OCH3

N

N

H3C

CH3

1

NH

CH3

N H3C

CH3

N

NO2

NO2

3

N

NH2

HN N

N N

N H

N Imatinib

N CH3

4

N

2

O

H3C

N

N

O

N H

CH3

H2, Pd/C

N

Cl

N N

N H 5

CH3

CH3

conformazionale di impedimento alla coplanarità degli anel­ li aromatici, ha abolito totalmente l’attività del composto contro le serina/treonina chinasi (PKC), aumentando nel contempo quella contro le tirosina chinasi. L’ulteriore ag­ giunta della porzione metilpiperazinometilica al sostituente amidico, introdotta per aumentare la solubilità in acqua e la biodisponibilità del composto, ha aggiunto anche interazio­ ni addizionali nella tasca di legame dell’enzima. Come visto sopra, l’imatinib è attivo contro il dominio chinasi ABL del­ la chinasi BCR-ABL, originatasi dall’espressione di un gene BCR-ABL (cromosoma Filadelfia) formatosi dalla fusione del gene ABL, traslocato dal gene 9 al gene 22, e il gene BCR, residente nel cromosoma 22, ed è stato trovato attivo anche contro il protooncogene c-KIT e contro PDGFR, altre due tirosina chinasi. Le interazioni di legame dell’imatinib nel sito di legame per l’ATP della tirosin chinasi BCR-ABL sono discusse nella Scheda 42.19. La mutazione del residuo guardiano Tyr315 a isoleucina (T315I) abolisce l’attività dell’imatinib, e rappresenta la muta­ zione più grave contro cui neanche gli analoghi dell’imatinib entrati in terapia successivamente, il dasatinib, il nilotinib e il bosutinib, approvati per l’utilizzo clinico rispettivamente nel 2006, nel 2007 e nel 2012 per le forme di CML Filadelfiapositive (Ph+) resistenti all’imatinib, sono risultati efficaci. Solo il ponatinib, approvato in terapia alla fine del 2012, si è mostrato capace di inibire la proliferazione di cellule di CML che esprimono il mutante T315I di ABL, con problemi però di tossicità a livello dei vasi sanguigni che ne hanno limitato l’uso clinico. Il dasatinib (Fig. 42.35) ha una struttura piutto­ sto diversa dall’imatinib, manca della porzione metilpiperazi­

nometilica e per questo perde un poco in selettività, essendo attivo anche contro il protooncogene SRC, contro cui l’ima­ tinib è inefficace. Le interazioni col sito catalitico dell’enzima sono discusse nella Scheda 42.20. Il nilotinib (Fig. 42.35) tor­ na ad avere una struttura più simile all’imatinib, mantenendo il motivo 4-(3-piridil)-2-(3-carbossiamido-6-metilanilino) pirimidinico (con una funzione di amide inversa rispetto a quella presente nel farmaco madre) che esercita la stesse in­ terazioni osservate per l’imatinib nel sito di legame dell’ATP (Scheda 42.19). Il bosutinib (Fig. 42.35) possiede una struttu­ ra caratterizzata da uno scheletro 3-ciano-4-anilinochinazoli­ nico che lo rende simile agli inibitori EGFR (Par. 42.8.3) piut­ tosto che agli inibitori di BCR-ABL. È stato scoperto durante una ricerca di composti attivi contro il protooncogene SRC, e questa è la sua prima attività farmacologica identificata. In seguito è stato caratterizzato anche come inibitore BCR-ABL e approvato in terapia per le forme di CML Ph+ resistenti all’i­ matinib e farmaci correlati. Più recentemente, il bosutinib è stato trovato attivo anche contro un’ampia gamma di tirosi­ na e serina/treonina chinasi, tanto da essere considerato in realtà un inibitore multichinasi (Par. 42.8.4). Il ponatinib (Fig. 42.35 e Scheda 42.20) è il più recente inibitore BCR-ABL entrato in terapia per le CML Ph+, in particolare per le forme che esprimono la mutazione T315I, contro cui imatinib e suc­ cedanei sono inattivi. Il ponatinib è un farmaco molto costo­ so, uno dei più costosi esistenti al mondo, e la sua vendita è stata sospesa per un periodo negli USA, nel dicembre 2013, a causa di problemi rilevati nei vasi sanguigni di alcuni pazienti dopo il trattamento, e poi ripresa, ma con severe limitazioni per l’uso clinico.

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H3C H3C

HN

O

N O Cl

S

HN

N N

N N

N

N

HN N

Nilotinib

N

+

CH3

Cl

CH3

N H

Dasatinib

HO

CF3

HN

O

Cl

CF3

H3C HN NC

+

OCH3 N

H N

O

H

HN

OCH3

N +

Bosutinib

+

N H CH3

N +

Ponatinib

N

N

H CH3

N

Figura 42.35 Strutture di dasatinib, nilotinib, bosutinib e ponatinib.

42.8.3 Inibitori EGFR ed EGFR/HER2 Il recettore per il fattore di crescita epidermico (EGFR), an­ che chiamato ErbB-1, insieme ai recettori HER2 (ErbB-2), HER3 (ErbB-3) e HER4 (ErbB-4), costituisce una famiglia di recettori tirosina chinasi, la ErbB, che ha come ligandi proteine extracellulari della famiglia dei fattori di crescita epidermici (EGF-family), e nella porzione intracellulare il dominio chinasico. Aberrazioni dovute a mutazioni o ad alterata attività di questi recettori sono correlati con l’insor­ genza e sviluppo di diversi tumori. Il gefitinib e l’erlotinib (Fig. 42.36) sono inibitori selettivi di EGFR approvati in te­ rapia, rispettivamente nel 2003 e nel 2004, per il trattamento del tumore polmonare a non piccole cellule (non small cell lung cancer, NSCLC). Lo sviluppo del gefitinib (Fig. 42.36) parte da un composto guida a struttura 4-anilinochinazo­ linica, un motivo strutturale comune a tutti gli inibitori EGFR, che permette l’ancoraggio e la stabilizzazione del farmaco nella tasca per il legame dell’ATP dell’enzima. Tale composto guida aveva mostrato una potenza nanomolare nell’inibire selettivamente EGFR, grazie all’introduzione di un metile in posizione meta nella porzione anilinica e due gruppi metossilici nelle posizioni 6 e 7 della chinazolina; il gruppo metilico responsabile di potenza e selettività era anche il motivo di una rapida metabolizzazione del compo­ sto dovuta a metabolismo ossidativo. Un altro punto debole della molecola era la posizione para della porzione anilini­ ca, soggetta anch’essa a ossidazione metabolica. Pertanto si è pensato di modificare il composto guida inserendo nella porzione anilinica un atomo di cloro, più stabile del metile al metabolismo, in posizione meta, e un atomo di fluoro in posizione para, per prevenire l’ossidazione metabolica an­

che in questo punto della molecola. Inserendo poi un grup­ po alchilmorfolinico salificabile in C6 nella chinazolina, si è aumentata la solubilità in acqua e la biodisponibilità del far­ maco e si è giunti al gefitinib. La sintesi del gefitinib è mo­ strata nel Box 42.9. Il gefitinib si inserisce nel sito per l’ATP dell’EGFR (Fig. 42.36), istaurando due legami idrogeno con la porzione chinazolinica, l’N1 con la Met769 e l’N3 con la Thr830 grazie all’intervento di una molecola d’acqua. La porzione 3-cloro-4-fluoroanilinica contrae rapporti con la tasca lipofila dell’enzima, protetta dal residuo “guardiano” Thr790. In caso di mutazione di questo residuo di tirosina con un residuo più ingombrante, ad esempio una metioni­ na (mutazione T790M), la porzione anilinica non è più in grado di inserirsi in questa tasca lipofila e l’enzima mutato diventa resistente al farmaco. L’erlotinib (Fig. 42.37 e Box 42.10) recepisce le lezioni di progettazione del gefitinib, da cui si distingue per la pre­ senza nell’anello anilinico di un residuo di acetilene in posi­ zione meta al posto dell’atomo di cloro e la mancanza di un sostituente in posizione para. Questo in realtà, se presente, sfavorisce il legame del farmaco con l’enzima, tanto che solo il piccolo atomo di fluoro, molto simile all’idrogeno dal pun­ to di vista sterico, è tollerato. L’erlotinib mostra lo stesso tipo di legame all’EGFR del gefitinib (e lo stesso tipo di problema in presenza di mutazione T790M): entrambi sono inibitori di tipo I, legandosi alla forma attiva (aperta) dell’enzima. Il lapatinib (Fig. 42.37) è un inibitore duale EGFR/HER2 im­ messo in commercio nel 2007 per il trattamento del cancro alla mammella. Anch’esso presenta una porzione 4-(3-cloro­ anilino)chinazolinica come il gefitinib, ma in posizione para dell’anilina mostra un gruppo 3-fluorbenzilossi, sostituente molto più ingombrante del fluoro: questo fa sì che il lapati­

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Interazioni di legame del gefitinib nel sito dell’EGFR: Residuo “guardiano”

Cl F

Thr790

Cl

H2O HN

O O

N N

F

HN Thr830

N

Zona “cerniera”

OCH3

Sito lipofilo 2

N O

N

+

Gefitinib

Met769

O

N

OCH3 H

Sito allosterico

Sviluppo del gefitinib: Cl Punti di ossidazione metabolica HN

HN

N Farmacoforo identificato per l’inibizione di EGFR

N

HN OCH3

N N

OCH3

L’introduzione di un metile in meta aumenta potenza e selettività contro EGFR

F

HN

CH3 OCH3

N

N

Cl F

OCH3

Composto molto potente contro EGFR e stabile metabolicamente

O O

N N

N

OCH3 Maggiore idrosolubilità e migliore biodisponibilità

Figura 42.36 Struttura del gefitinib, interazioni nel sito per l’ATP dell’EGFR, e suo sviluppo dal punto di vista chimico farmaceutico.

nib non possa più interagire con la forma aperta dell’enzima, data la mancata possibilità di introdursi nella tasca lipofila, ma è capace di stabilizzarne la forma chiusa, inattiva: è per­ tanto un inibitore EGFR chinasi di tipo II. Le interazioni di erlotinib e lapatinib con il sito per l’ATP dell’EGFR sono descritte nella Scheda 42.21. La presenza del residuo 3-fluo­ robenzilossi nella posizione para dell’anello anilinico amplia poi lo spettro d’azione del lapatinib, rendendolo efficace an­ che contro HER2, un altro recettore chinasico correlato con EGFR, mentre la catena metilsolfonilalchilaminica è esposta al solvente, salificabile, e serve per aumentare la solubilità in acqua del composto. Un approccio diverso è stato seguito per la progetta­ zione di afatinib (Fig. 42.38), approvato nel 2013 per il trattamento di tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC), e neratinib (Fig. 42.38), attualmente ancora in fase di studio per il trattamento di cancro al seno e altri tumori solidi. Afatinib e neratinib sono due inibitori irreversibili di EGFR/HER2, capaci di legare covalentemente per addizione di Michael un residuo di Cys797 dell’EGFR, tramite il doppio legame coniugato presente nella catena laterale in posizione C6 della chinazolina (afatinib) o della chinolina (neratinib).

42.8.4 Inibitori VEGFR, inibitori multichinasi Il recettore per il fattore di crescita dell’epitelio vascolare (VEGFR, vascular epithelial growth factor receptor) è una chi­ nasi con un ruolo chiave nell’angiogenesi e pertanto, se inibito, ostacola la vascolarizzazione in particolar modo dei tumori, che per sopravvivere e svilupparsi hanno bisogno di un’intensa atti­ vità di produzione e formazione di nuovi vasi e capillari sangui­ gni, necessari per assicurare alle cellule trasformate nutrimento e ossigeno. Il dominio chinasico del VEGFR è però condiviso con quello di altre chinasi strettamente correlate, come il pro­ tooncogene c-KIT e il recettore per il fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR, platelet-derived growth factor receptor), pertanto gli inibitori VEGFR saranno in realtà inibitori multi­ chinasi, talvolta più specifici per qualche forma di VEGFR (ad es. VEGFR2), ma in ogni caso in grado di inibire anche le al­ tre chinasi correlate. Sorafenib e sunitinib (Fig. 42.39) sono i primi due inibitori multichinasi approvati rispettivamente nel 2005 e nel 2006 per il trattamento di carcinoma delle cellule renali (entrambi), un tumore molto vascolarizzato, per il car­ cinoma epatocellulare (sorafenib), per tumori pancreatici neu­ roendocrini e per tumori stromali gastrointestinali (sunitinib).

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FARMACI ANTITUMORALI

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BOX 42.9 ■ Sintesi del gefitinib La sintesi del gefitinib è stata effettuata a partire dal 6,7-dimetossichinazolin-4(3H)-one (1), che subisce una demetilazione selettiva con un largo eccesso di acido metansolfonico e l-metionina per convertirsi in 6-idrossi7-metossichinazolin-4(3H)-one (2). La funzione fenolica viene quindi protetta con un largo eccesso di anidride acetica, dando luogo al composto (3), che viene a sua O

O H3CO

NH

H3CO

volta trattato con cloruro di tionile per fornire il corrispondente 4-cloroderivato (4). Questo viene quindi addizionato di 3-cloro-4-fluoroanilina per dare luogo alla 4-anilinochinazolina (5), che viene quindi deprotetta con metanolo e ammoniaca (6) e quindi trattata con la N-(3cloropropil)morfolina per fornire il gefitinib.

HO

CH3SO3H L-Met

N

NH (CH3CO)2O

H3CO

O

H3C

N

O

NH

O H3CO

SOCl2

N

2

1

Cl

H3C

O

N

O H3CO

N 4

3 Cl F NH2

Cl

Cl

Cl

F

F

O

N

NH N

NH

O

O

F

HO

N

CH3OH

N

H3C

N

H3CO

N 6

Gefitinib

NH

O

N

O H3CO

NH4OH

H3CO

Cl

N 5

CH Cl O HN

HN O

N N

F

O

O O

CH3 N CH3

Erlotinib

O

HN SO2CH3

N Lapatinib

Figura 42.37 Strutture di erlotinib e lapatinib.

La sintesi del sorafenib è descritta nel Box 42.11. Il so­ rafenib (Scheda 42.22) inibisce VEGFR2, c-KIT, PDGFR e la serina/treonina protein chinasi BRAF mutata, coinvolta nella proliferazione cellulare. Altri inibitori multichinasi sono descritti nella Scheda 42.23. Inibitori di altre proteine chinasi quali BRAF, MEK, ALK, CDK, mTOR e la Bruton tirosina chinasi sono descrit­ te nella Scheda 42.24.

42.9 F  armaci attivi su altre vie di segnale 42.9.1 Inibitori della farnesiltrasferasi I primi inibitori della farnesiltrasferasi di RAS L739750 e FTI 276 (il cui meccanismo è descritto nella Scheda 42.25) furono disegnati sullo schema dei 4 aminoacidi carbossi­ terminali della proteina (Cys-Val-Ile-Met-COOH), con al­

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BOX 42.10 ■ Sintesi dell’erlotinib Per la preparazione dell’erlotinib, una sintesi alternativa a quella vista per il gefitinib impiega come materiale di partenza il 4,5-bis(2-metossietossi)-2-nitrobenzonitrile (1), che viene ridotto con sodio ditionito a 50 °C al corrispondente 2-aminoderivato (2). Questo viene trattato H3C H3C

O O

O

CN

O

NO2

1

con N,N-dimetilformamide dimetilacetale e acido acetico in toluene a 105 °C, per dar luogo al formamidino derivato (3), che reagisce quindi con 3-etinilanilina per dare, tramite riarrangiamento di Dimroth, l’erlotinib.

Na2S2O4/H2O

H3C H3C

O O

O

CN

O

NH2

2

CH

OCH3 H3C

CH3COOH

CH

N

OCH3

CH3

NH H3C H3C

O

O O

O

H3C

H2N

N

H3C

N

O O

O

CN

O

N

N

CH3

3

Erlotinib

Cl

CH3

Cl F

HN

O HN

H N

N N

O

N O

CH3

CH3

N

H N

NC N

O

N O

CH3

CH3

CH3 O

Afatinib

Neratinib

EGFR

EGFR Cys797

Cys797

SH

CH3

S N

H N O

N O

CH3

CH3

Figura 42.38 Strutture degli inibitori covalenti di EGFR afatinib e neratinib.

CH3 HN O O

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H N

H N O

O H N

N

CH3

CF3

O H3C

Cl

F

CH3

CH3

N H

CH3

N

N H

O N H

O Sorafenib

Sunitinib

Figura 42.39 Strutture di sorafenib e sunitinib.

BOX 42.11 ■ Sintesi del sorafenib Per la sintesi del sorafenib, l’acido 2-piridincarbossilico (1) viene trattato secondo le condizioni di Vilsmeier con cloruro di tionile e N,N-dimetilformamide (DMF) per fornire il 4-cloro-2-piridincarbonil cloruro cloridrato (2). Questo, addizionato di metilamina in metanolo, dà luogo alla Nmetil-4-cloro-2-piridilcarbossiamide (3). Questa viene messa

a reagire con 4-aminofenolo in presenza di 1 equivalente di potassio t-butossido e 0,5 equivalenti di potassio carbonato (quest’ultimo per accelerare la reazione) in DMF anidra. Si ottiene il derivato anilinico (4) che, addizionato di 4-cloro3-trifluorometilfenil isocianato in diclorometano (DCM), fornisce il derivato ureidico sorafenib.

Cl

Cl .

SOCl2

N 1

COOH

HCl

CH3NH2 CH3OH

DMF

N

COCl

N

2

DMF

CF3

Cl

H N

H N O

N

O

NH2

t-C4H9OK, K2CO3

Cl

F3C

CONHCH3

3 OH

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H2N C

O

O

Sorafenib N

CONHCH3

N

CONHCH3

4

cuni accorgimenti atti a migliorarne le labilità metaboliche (Scheda 42.25). In particolare, lo pseudopeptide AZD-3409 (Fig. 42.40) ha mostrato in vitro potenza subnanomolare nell’inibizione della farnesiltrasferasi, e la capacità di inibi­ re anche la geranilgeraniltrasferasi, un enzima che cataliz­ za una reazione simile ma attaccando unità di 20 atomi di carbonio (unità geranilgeranile) anziché 15, e che supplisce alle funzioni della farnesiltrasferasi quando questa è inibita. Tra gli inibitori della farnesiltrasferasi non peptidici citia­ mo il lonafarnib (Fig. 42.40), dotato di attività anticancro ma ora in fase di studi clinici per il trattamento di patologie di invecchiamento precoce come la progeria o sindrome di Hutchinson-Gilford, e il tipifarnib (Fig. 42.40), potente a

livello subnanomolare, indicato per la leucemia mieloide acuta, il cancro al seno e certi neurofibromi.

42.9.2 Inibitori della proteina HSP90 La proteina di shock termico 90 (heat shock protein 90, HSP90) è uno “chaperone” molecolare che regola gli stadi tardivi di maturazione, l’attivazione e la stabilità di alcune proteine, dette proteine “clienti”, molte delle quali sono coin­ volte nella trasduzione del segnale e in vie che svolgono un ruolo chiave per lo sviluppo di tumori. Nelle cellule normali, HSP90 aiuta a mantenere l’omeostasi proteica e garantisce la sopravvivenza cellulare. Nelle cellule tumorali, HSP90 si tro­

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O Tioestere profarmaco

S

CH3

S O

H N

N H

O

N H

O

CH3 CH3

Estere profarmaco

Porzioni non idrolizzabili F

Mimetico residuo Phe

AZD-3409 Cl Br

Cl

Cl N Br N

N

O N

NH2

N H N 2 CH3

N

O Lonafarnib

O

CH3 Tipifarnib

Figura 42.40 Struttura dell’inibitore peptidomimetico di farnesilazione di Ras AZD-3409 e dei non peptidici lonafarnib e tipifarnib.

va spesso sovraespressa e agisce attraverso due meccanismi, entrambi tesi alla protezione e alla sopravvivenza della cellula tumorale: da un lato, supporta forme attivate metastabili o comunque labili di oncoproteine, tra cui molte chinasi e fat­ tori di trascrizione, che sono mutati, traslocati o sovraespressi in molte forme tumorali, e in secondo luogo tampona e con­ trasta gli eventi di stress per le cellule indotti dalla patologia tumorale, cercando quindi di salvare in ogni modo la cellula trasformata dalla distruzione. Nonostante un’iniziale scetti­ cismo, dovuto al fatto che si tratta di una proteina presente anche nelle cellule normali, HSP90 in questi ultimi anni si è rivelata un bersaglio molto attraente per lo sviluppo di nuovi composti ad azione antitumorale, grazie anche ai primi test clinici effettuati su due sostanze naturali, la geldanamicina e il radicicolo (Fig. 42.41). Queste infatti si sono rivelate in grado di mimare l’insolita conformazione adottata dall’ATP nella sua tasca di legame nell’estremità N-terminale della proteina, causando un blocco potente e selettivo del legame e dell’idrolisi dell’ATP; inoltre bloccano le funzioni di cha­ perone di HSP90, portando all’eliminazione delle proteine clienti e in definitiva a un effetto antitumorale. In particolare un derivato della geldanamicina, la 17-allilamino-17-desme­ tossigeldanamicina (17-AAG) o tanespimicina (Fig. 42.41), si è mostrato efficace nel cancro al seno HER2+ (una protei­ na cliente particolarmente sensibile agli inibitori di HSP90). Altri derivati della geldanamicina di interesse clinico sono la 17-dimetilaminoetilamino-17-desmetossigeldanamicina (17-

DMAG, alvespimicina, Fig. 42.41), per il cancro alla prostata e al rene, e la retaspimicina (Fig. 42.41), che rappresenta la forma idrochinonica della 17-AAG, per il cancro al polmo­ ne a non piccole cellule positivo alla chinasi ALK (un’altra proteina cliente di HSP90 molto sensibile agli inibitori). Par­ tendo dallo scheletro del radicicolo, sono state disegnate e sintetizzate molte piccole molecole come inibitori di HSP90, contenenti la porzione 2,4-diidrossifenilica tipica del compo­ sto naturale, ulteriormente sostituita in posizione C5 da un nucleo pentaciclico eteroaromatico. Esempi sono il ganetespib, l’AUY922 e l’AT13387 (Fig. 42.41), attualmente in fase di studio clinico per il trattamento di diversi tipi di tumori.

42.9.3 Inibitori del proteasoma Il proteasoma è l’insieme di grandi complessi proteolitici ATP-dipendenti che hanno la funzione di distruggere pro­ teine danneggiate, proteine disaggregate o aggregate male, e proteine regolatorie che hanno concluso il loro compito. Ad esempio, le cicline e le chinasi ciclina-dipendenti (CDK) van­ no ciclicamente degradate per assicurare un regolare ciclo cellulare, altrimenti le cellule, all’accumularsi di queste e altre proteine regolatorie, vanno rapidamente in apoptosi. Il segna­ le applicato dalle cellule alle proteine da distruggere è uno spe­ ciale marcatore, l’ubiquitina, che indica che quella particolare proteina va degradata: il proteasoma a questo punto compirà il suo lavoro, tanto che più correttamente si parla di sistema

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O R

19

16

O

20

15 14

H3C

1

21

O

H3CO

2 3

13 12

N H

OH

11

7

8

9

5

OH

H3CO NH2

N H3C

HO

H Ganetespib

O

O

Radicicolo

H3C

CH3

N

N

CH3

HO

HN

O N

OH

O

CH3

N N

O

O NH2

HO

OH

H H3C

CH3

Retaspimicina

N

H

O

HO

H3CO

O

H 3C CH3

Cl

H3C

O

O Geldanamicina: R = OCH3 Tanespimicina (17-AAG): R = NHCH2CH=CH2 Alvespimicina (17-DMAG): R = NHCH2CH2N(CH3)2

H3C

CH3

N H

OH

H3C

6

10

H3C

4

H3CO CH3

H 2C

CH3

OH

H N

18

17

OH

O N AUY922

N

CH3 OH

O

O AT13387

Figura 42.41 Strutture degli inibitori di HSP90. In arancione è indicata la porzione 2,4-diidrofenilica comune al radicicolo e ai suoi derivati.

ubiquitina-proteasoma. Un inibitore del proteasoma in cellule tumorali porterà quindi un accumulo di proteine di scarto e di proteine regolatorie che avrebbero dovuto essere distrutte, scatenando i processi apoptotici. Il primo inibitore del pro­ teasoma, approvato nel 2003 per il trattamento del mieloma multiplo, è stato il bortezomib (Fig. 42.42), un composto contenente un’insolita funzione boronica, essenziale per la sua attività, che agisce da inibitore covalente intrappolando l’ossidrile di un residuo di treonina, importante per l’attività ATPasica e presente nei siti attivi delle proteine del proteaso­ ma. Come effetti collaterali induce mielosoppressione e neu­ ropatia periferica. Nel 2012 è entrato nell’uso clinico, sempre per il mieloma multiplo, il carfilzomib (Fig. 42.42), un tripep­ tide-epossichetone anch’esso attivo come inibitore covalente. In fase di studio clinico vi sono, tra gli altri, due derivati bo­ ronici, l’ixazomib e il delanzomib, il β-lattone marizomib e l’epossichetone oprozomib (Fig. 42.42).

42.9.4 Inibitori delle istone deacetilasi (histone deacetylases, HDAC) La cromatina è la struttura altamente organizzata in cui il DNA si avvolge su proteine in gran parte basiche, dette isto-

ni, dando vita a una serie di unità ripetute chiamate nucleo­ somi. Ogni nucleosoma è formato da un nucleo centrale, detto ottamero istonico e contenente 4 coppie di protei­ ne istoniche (chiamate H2A, H2B, H3 e H4), su cui viene avvolto un segmento di DNA lungo circa 146 paia di basi. L’istone H1 fissa dall’esterno il DNA sul nucleo centrale del nucleosoma. Dall’ottamero istonico si dipartono delle lun­ ghe catene, particolarmente ricche in residui di lisina, dette code istoniche. Queste sono sede di modifiche chimiche co­ valenti, soprattutto acetilazione, metilazione, fosforilazione, ADP-ribosilazione e ubiquitinazione, che determinano lo stato della cromatina (Fig. 42.43). Questa può assumere una forma aperta o rilassata, detta eucromatina, accessibile ai fattori di trascrizione e quindi sede di attività di trascrizione genica, oppure una forma chiusa, compatta, detta eterocromatina e inaccessibile ai fattori di trascrizione, che genera silenzio trascrizionale (Fig. 42.43). L’acetilazione e la reazione inversa, la deacetilazione, rappresentano modifiche chiave che avvengono a carico dei residui di lisina degli istoni, in particolare H3 e H4, e che determinano la transizione della cromatina da una for­ ma all’altra. In particolare, l’acetilazione dei gruppi amini­ ci primari delle lisine ad opera degli enzimi HAT (histone

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H3C

O N

H N

N H

B

N OH

O

N

H N

OH O

H3C CH3

O

H N

N H

O

CH3

O

O N H

O

CH3 O

CH3 CH3

Bortezomib Cl

O

H N

N H

Carfilzomib OH B

O

H3C O

OH N

CH3

Cl

N H

CH3 Ixazomib

OH H N

OH B

O

OH CH3

CH3

Delanzomib

CH3 O

O

O

Cl H

NH

N OH

O O

S H3C

Marizomib

N H

H N O

O

O N H

O

CH3 O

CH3 Oprozomib

Figura 42.42 Strutture degli inibitori del proteasoma.

acetyltransferases), in presenza di acetilcoenzima A come donatore di gruppi acetilici attivati, distrugge i ponti salini che normalmente si formano tra residui di lisina delle code istoniche, cariche positivamente a pH fisiologico, e i gruppi fosfato del DNA, carichi negativamente, determinando lo stato di cromatina aperta, attiva per la trascrizione. Le istone deacetilasi (histone deacetylases, HDAC) sono invece enzi­ mi che catalizzano la deacetilazione delle code istoniche, ri­ pristinandone la carica positiva e favorendo di nuovo la for­ mazione dei legami salini con il DNA, la forma chiusa della cromatina e il blocco della trascrizione. Se in particolare con questo meccanismo viene bloccata la trascrizione dei geni soppressori del tumore, si avrà una suscettibilità più spicca­ ta dell’individuo allo sviluppo del cancro. Composti in gra­ do di inibire le HDAC sono pertanto in grado di riattivare i geni silenziati, ristabilendo nelle cellule tumorali program­ mi selettivi per arresto della crescita cellulare, differenzia­ mento e/o apoptosi. La ricerca in questo settore negli ultimi 10 anni ha prodotto un enorme numero di molecole, molte delle quali in fase di studio clinico per il trattamento di sva­ riate forme di tumori, da sole o in combinazione con altri farmaci, e tre di esse sono state approvate per l’uso clinico, il vorinostat (nel 2006), il romidepsin (nel 2009) e il belino-

stat (nel 2014) (Fig. 42.44). Tutte e tre sono state approvati per l’utilizzo nelle forme refrattarie di linfoma cutaneo delle cellule T, una patologia molto rara, ma sono efficaci in un gran numero di tumori, sia ematologici sia solidi. Le tossici­ tà osservate sono problemi cardiocircolatori e gastrointesti­ nali, affaticamento, febbre; la mielosoppressione è rara. Dal punto di vista strutturale, il vorinostat e il belinostat sono due acidi idrossamici, che utilizzano appunto questa fun­ zione chimica per complessare lo ione zinco contenuto nelle HDAC e cruciale per la loro attività catalitica. Il romidepsin è invece un peptide ciclico che viene attivato in vivo per ri­ duzione di un ponte disolfuro nella sua struttura, rivelando così un braccio insaturo contenente il gruppo SH utile per la complessazione dello ione zinco. Un altro gruppo di inibi­ tori HDAC in fase di sviluppo clinico è rappresentato dalle benzamidi, tipo entinostat e mocetinostat (Fig. 42.44), che presentano come complessante dello ione zinco un gruppo 2'-aminobenzanilidico. Dal gran numero di inibitori HDAC descritti in letteratura è stato possibile desumere una strut­ tura farmacoforica, utile per la progettazione di nuovi com­ posti: tale modello contiene una porzione a “cappuccio”, detto CAP, che si sistema all’ingresso del tunnel catalitico delle HDAC, interagisce con residui anche esterni al sito ca­

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FARMACI ANTITUMORALI

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A)

B)

C)

Figura 42.43 (A) Struttura del nucleosoma, con le code istoniche sedi di modifiche covalenti (A, acetilazione; M, metilazione; P, fosforilazione; U, ubiquitinazione); (B) eterocromatina; (C) eucromatina.

O

H N

N H

O

CH3

OH

H N

O

H3C O

HN

Vorinostat

S

CH3

O

O N H

NH

S

O O

O

O

S

N H

NH

O

OH

H3C

O

CH3

Belinostat

Romidepsin

O

N N H

H N

N

NH2

N

N H

H N

N O Entinostat

Figura 42.44 Struttura degli inibitori HDAC.

O Mocetinostat

NH2

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BOX 42.12 ■ Sintesi del vorinostat Uno dei metodi utilizzati per la sintesi del vorinostat impiega l’acido suberico (1), un acido dicarbossilico a 8 atomi di carbonio, che messo a bollire in anidride acetica fornisce la corrispondente anidride (2). Questa, trattata con anilina, dà origine all’acido 8-osso-8-(fenilamino)ottanoi-

co (3) che, messo a reagire con la O-(tetraidro-2H-piran2-il)idrossilamina in presenza di N-etil-N’-dimetilaminopropilcarbodiimide cloridrato (EDCI) come attivatore del carbossile, fornisce l’idrossamato protetto (4). Da questo, per idrolisi acida, si ottiene quindi il vorinostat. NH2

O HOOC

COOH

(CH3CO)2O

O

O

1

+ N H

O

COOH 3

2 EDCI

O

H N

N H Vorinostat

O OH

O

talitico, e come tale può essere rappresentato da strutture anche molto diverse tra loro; un’unità di connessione X, in genere un chetone, amide, sulfonamide o carbamato, colle­ gato con uno spaziatore (linker) lipofilo costituito da 4 a 6 atomi di carbonio, che permette alla molecola di distendersi nel tunnel catalitico, e un gruppo inibente l’enzima (EIG, enzyme inhibiting group), capace di complessare lo ione zin­ co nel fondo della tasca catalitica (Scheda 42.26). La sintesi del vorinostat è mostrata nel Box 42.12.

42.9.5 Inibitori delle metalloproteinasi di matrice (matrix metalloproteinases, MMP) Le MMP sono enzimi contenenti zinco responsabili del ri­ modellamento e del ricambio della matrice extracellulare. Sono implicate nell’angiogenesi e nella formazione dinami­ ca del tessuto connettivo e, per quanto riguarda le patologie tumorali, favoriscono la crescita, l’invasività e la metastatiz­ zazione del tumore. L’inibizione delle MMP nei tumori po­ trebbe quindi bloccare la rottura della matrice extracellulare, lasciando intrappolate nel suo interno le cellule tumorali, che non potrebbero in queste condizioni indurre metastasi. Un altro vantaggio potrebbe essere l’inibizione dell’angiogenesi, molto utile in un trattamento antitumorale. Le MMP cata­ lizzano la rottura di legami peptidici tra residui di glicina e residui di leucina o isoleucina, e su questa base sono stati progettati piccoli peptidi come inibitori. Il marimastat (Fig. 42.45), ad esempio, ha una struttura simil-tripeptidica che termina con un acido idrossamico, ottimo complessante de­ gli ioni zinco, e mostra nel sito che corrisponde al CONH d’idrolisi del substrato un residuo carbossi-idrossimetilico, non scindibile per idrolisi. Lo sviluppo del marimastat tutta­ via è stato interrotto, poiché il farmaco ha dato scarsi risultati

H N

N H 4

O

O

O

NH2

O

O

nelle prove cliniche. Un inibitore non peptidico di MMP in clinica è il prinomastat (Fig. 42.45), sempre contenente un residuo idrossamico, in Fase III di studi clinici per il tratta­ mento di cancro al polmone non a piccole cellule.

42.10 Farmaci vari La talidomide (Fig. 42.46), l’agente ipnotico-sedativo e an­ tiemetico tristamente famoso per aver provocato uno dei più vasti disastri del nostro tempo, provocando con la sua tera­ togenicità la nascita negli anni ’60 di migliaia bambini foco­ melici e malformati, ha mostrato attività antinfiammatoria e immunosoppressiva, ed è stata reintrodotta in commercio nel 1998 per il trattamento della lebbra, grazie alla sua capa­ cità di inibire il fattore di necrosi tumorale TNF-α (tumor necrosis factor α), presente in livelli particolarmente alti in quella patologia. Dopo la scoperta delle sue proprietà antiangiogenetiche e della sua capacità di modulare i livelli di citochine e interferone-γ, così come dell’abilità di inattivare il fattore nucleare κB (nuclear factor κB, NF-κB) e le COX-2, un altro bersaglio molto promettente per un’azione antitu­ morale, la talidomide è stata studiata anche come farmaco anticancro. Nel 2006 il suo uso è stato approvato anche per il trattamento del mieloma multiplo in combinazione con de­ sametasone. Tra i suoi analoghi, la lenidomide e la pomalidomide (Fig. 42.46) sono stati approvati rispettivamente nel 2006 e nel 2013 per il mieloma multiplo. Dal punto di vista chimico, la talidomide mostra un centro chirale nella sua struttura, e la forma (R) è quella responsabile degli effetti te­ rapeutici, mentre la (S) lo è degli effetti teratogeni. Tuttavia, gli enantiomeri puri si interconvertono in vivo, generando la miscela racemica a causa della presenza di un idrogeno acido sul centro chirale, per cui la somministrazione del solo enantiomero (R) non risolve il problema della tossicità. Al

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FARMACI ANTITUMORALI

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Gly

Leu

Ala

CH3 CH3

O

H N

H N

N H

O

O

CH3

N H

Legame scisso dalle MMP nei loro substrati

Porzione non idrolizzabile CH3 CH3

O HO

N H

O

H N OH

Idrossamato complessante lo ione Zn2+

O H3C

O HO

CH3

N H

O

N

S N

N H H3C

Più lipofilo del metile, maggiore interazione con enzima

CH3 CH3

O

O

S

H 3C

Marimastat

Prinomastat

Figura 42.45 Struttura degli inibitori di MMP.

H 2N

H2N O

O N

O

N H

O

N

N O

Talidomide

O

N H

O

O

Lenalidomide

O

N H

O

O

Pomalidomide

Figura 42.46 Struttura della talidomide, lenalidomide e pomalidomide.

contrario, i due analoghi citati sopra sono più attivi e meno tossici del farmaco madre. L’arsenico triossido (As2O3), in formulazione iniettabile, è stato introdotto in clinica nel 2000 per il trattamento della leucemia promielocitica acuta (acute promyelocytic leuke-

mia, APL) refrattaria ai retinoidi, in cui è presente il gene PML-RARα, proveniente dalla traslocazione reciproca dei cromosomi 15 e 17 con conseguente formazione di una pro­ teina di fusione tra il gene promielocitico e il recettore per l’acido retinoico.

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Farmaci biotecnologici Paolo Rovero

43.1  Le proteine terapeutiche 43.1.1 V  antaggi e problemi delle proteine terapeutiche 43.1.2 Tecniche di produzione 43.1.3 P  roteine terapeutiche di seconda e terza generazione

43.2 Classificazione delle proteine terapeutiche 43.2.1 43.2.2 43.2.3 43.2.4

G  ruppo G  ruppo Gruppo G  ruppo

I: proteine terapeutiche con attività regolatoria o enzimatica II: proteine terapeutiche con attività rivolta a bersagli specifici III: vaccini proteici IV: proteine di uso diagnostico

43.3  Insulina 43.4 Attivatore tissutale del plasminogeno 43.5  Pegilazione

43.1 Le proteine terapeutiche Come abbiamo visto fin dal primo capitolo, le proteine sono le macromolecole biologiche che hanno le più diverse e importanti funzioni. Infatti, oltre a giocare un ruolo fondamentale come bersagli di farmaci (enzimi e recettori), alcune proteine sono utilizzate già da molti decenni come farmaci. Storicamente, quando la causa o i sintomi di una malattia risultavano collegati alla carenza o al malfunzionamento di una proteina, veniva proposto l’uso terapeutico della proteina stessa, tipicamente ottenuta per estrazione da tessuti animali o addirittura da tessuti o fluidi biologici umani. Sono esempi di questo tipo, rispettivamente, l’insulina estratta da pancreas porcino, l’ormone della crescita da ipofisi umana di provenienza autoptica e la gonadotropina purificata da urina di donne in menopausa. Non di rado, però, le proteine di fonte estrattiva erano ottenute in forma non sufficientemente pura e causavano effetti tossici anche importanti che ne imponevano il ritiro dal commercio, come ad esempio la sindrome di Creutzfeldt-Jakob (o malattia prionica) che si è manifestata

in pazienti trattati da bambini con ormone della crescita di origine umana. Questo scenario è cambiato radicalmente negli anni ’80 del secolo scorso con l’avvento della tecnologia del DNA ricombinante, che ha permesso di ottenere proteine ricombinanti da utilizzare come agenti terapeutici, detti perciò farmaci biotecnologici. Oggigiorno sono presenti sul mercato oltre 200 prodotti biotecnologici, prevalentemente farmaci, ma anche diagnostici e vaccini, e molte altre decine si trovano nelle varie fasi dello sviluppo clinico. La definizione farmaci biotecnologici è stata progressivamente sostituita dalla più corretta dizione proteine terapeutiche e la classificazione tradizionale per classi farmacologiche (ormoni, enzimi, citochine, fattori di crescita ecc.) sta lasciando il posto a una classificazione funzionale, riportata nella Tabella 43.1. Prima di descrivere le caratteristiche generali delle quattro classi proposte dalla nuova classificazione e trattare in dettaglio alcuni dei farmaci che ne fanno parte, passeremo in rassegna la lista dei pro e dei contro delle proteine terapeutiche e descriveremo brevemente i principi delle loro tecniche di produzione.

CAPITOLO 43 • Farmaci biotecnologici

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Tabella 43.1 Classificazione funzionale delle proteine terapeutiche. Gruppo I: proteine terapeutiche con attività regolatoria o enzimatica Ia

Sostituiscono una proteina deficiente o anormale

Ib

Stimolano una funzione esistente

Ic

Forniscono una nuova funzione o attività

Gruppo II: proteine terapeutiche con attività rivolta a bersagli specifici

IIa

Interferiscono con una molecola o una cellula

IIb

Veicolano altri composti o proteine

Gruppo III: vaccini proteici IIIa

Proteggono contro un agente esterno nocivo

IIIb

Trattano una malattia autoimmune

IIIc

Trattano il cancro

Gruppo IV: proteine di uso diagnostico

43.1.1 V  antaggi e problemi delle proteine terapeutiche Le proteine terapeutiche offrono molteplici vantaggi rispetto ai farmaci tradizionali costituiti da piccole molecole. Infatti, le proteine generalmente svolgono funzioni biologiche altamente specifiche e complesse, che difficilmente possono essere mimate efficacemente da molecole semplici. Inoltre, l’elevata specificità di azione delle proteine fisiologiche limita la possibilità di incorrere in effetti secondari avversi dovuti a interazioni non desiderate con bersagli secondari. Infine, l’uso terapeutico di proteine normalmente prodotte dall’organismo garantisce una buona tollerabilità e minori (ma non nulle) possibilità di suscitare una risposte immunitaria. D’altra parte, sebbene siano ormai molte decine le proteine terapeutiche inserite con successo nella pratica clinica, diversi problemi restano ancora aperti. Infatti, le proteine sono macromolecole ad alto peso molecolare e possono presentare un’alternanza di regioni idrofiliche e idrofobiche. Queste proprietà si riflettono negativamente sulla capacità delle proteine terapeutiche di attraversare le membrane biologiche e quindi sulle caratteristiche di assorbimento e distribuzione. Inoltre, la stabilità enzimatica e chimica delle proteine è, nella maggior parte dei casi, piuttosto limitata e questo implica un tempo di emivita tendenzialmente basso. Ovviamente queste caratteristiche si ripercuotono negativamente sulla scelta della via di somministrazione, ristretta nella maggior parte dei casi alla via parenterale. Un altro importante problema aperto è legato alla possibilità che alcuni pazienti possano montare una risposta immunitaria contro una specifica proteina terapeutica. Questo evento è particolarmente deleterio se implica una risposta allergica nociva per il paziente o se la risposta immunitaria del paziente neutralizza la proteina terapeutica somministrata, annullandone o riducendone notevolmente l’efficacia. Si parla in questo caso di anticorpi antifarmaco (anti-drug antibodies, ADA). Questo fenomeno si può verificare nel caso di uso terapeutico di proteine fisiologiche (quindi teoricamente non immunogeniche), ma anche e soprattutto nel caso di proteine non umane, quali ad esempio gli anticorpi monoclonali murini.

Una terza caratteristica delle proteine terapeutiche, non ancora completamente ottimizzata, riguarda le modificazioni post-traduzionali (glicosilazioni, lipidazioni, fosforilazioni ecc.) che possono svolgere un ruolo fondamentale per l’attività biologica o anche soltanto per la stabilità o l’immunogenicità di una proteina di interesse terapeutico, ma che difficilmente, a oggi, possono essere correttamente ottenute su proteine prodotte con le tecniche della biologia molecolare. Infine, con riferimento ai metodi di produzione e purificazione delle proteine terapeutiche, che vedremo rapidamente nel prossimo paragrafo, dobbiamo ricordare che il costo per lo sviluppo e la produzione di queste molecole resta ancora molto elevato. Vedremo più avanti come si sta cercando di porre rimedio a questi problemi attraverso lo sviluppo di proteine terapeutiche di seconda e terza generazione.

43.1.2 Tecniche di produzione Come abbiamo accennato, l’ingresso sul mercato delle proteine terapeutiche è una conseguenza della diffusione di alcune fondamentali tecnologie abilitanti, note come biotecnologie, che permettono di selezionare, modificare, replicare ed esprimere in opportune cellule ospite, sequenze di DNA codificanti per specifiche proteine di interesse. Pur non avendo lo spazio per trattare in questa sede i dettagli delle varie tecniche utilizzate dalle biotecnologie farmaceutiche (per i quali si rimanda ai testi di biologia molecolare), è opportuno ricordare almeno le principali piattaforme di produzione di proteine terapeutiche. Storicamente, le prime proteine ricombinanti approvate per uso farmaceutico, l’insulina e l’ormone della crescita, sono state espresse in cellule di Escherichia coli, in quanto la genetica di questo batterio è ampiamente nota e le tecniche di manipolazione e di coltura sono ben consolidate. L’espressione di proteine con questo sistema risulta pertanto relativamente semplice, rapida e poco costosa. D’altra parte, due problemi maggiori devono essere considerati: le proteine espresse in E. coli non vengono secrete, ma si accumulano nel citoplasma in forma altamente denaturata all’interno dei “corpi d’inclusione” e inoltre il batterio non è in grado di produrre proteine glicosilate, in quanto non è dotato

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FARMACI BIOTECNOLOGICI

del necessario corredo enzimatico. Per risolvere il primo problema è necessario ricorrere a un accurato processo di rinaturazione della proteina bersaglio, la cui resa può essere bassa, mentre per ottenere proteine glicosilate è necessario utilizzare cellule eucariotiche. Sono stati quindi sviluppati specifici sistemi di espressione basati su lieviti o su cellule di mammifero. Infatti, le cellule dei lieviti sono in grado di effettuare glicosilazioni post-traduzionali, sebbene il prodotto finale sia diverso da quello ottenuto da cellule di mammiferi, nelle quali invece i sistemi di glicosilazione sono altamente conservati. Tra i lieviti utilizzati nell’ambito delle biotecnologie farmaceutiche, ricordiamo il Saccharomyces cerevisiae, mentre la linea di cellule di mammifero più comunemente impiegata per la produzione industriale di proteine terapeutiche per uso umano è la CHO (chinese hamster ovary), derivante da ovaio di criceto cinese. La ricerca di nuove e migliori piattaforme di espressione è molto attiva e ha portato tra l’altro all’uso di sistemi vegetali (ad es. il tabacco), anche pensando alla possibilità di produrre in modo economico farmaci biotecnologici nei Paesi in via di sviluppo. Infine, è opportuno ricordare il ruolo fondamentale giocato dai processi di isolamento e purificazione delle proteine ricombinanti che, essendo prodotte all’interno di sistemi biologici complessi, devono essere accuratamente purificate prima di poter essere approvate per uso umano. Nell’ambito di questi processi si ricorre prevalentemente a tecniche cromatografiche, con particolare riferimento alla cromatografia di affinità. Vale la pena sottolineare il fatto che le biotecnologie hanno contribuito anche all’avanzamento tecnologico di questo processo, rendendo accessibile la produzione di anticorpi monoclonali, ampiamente utilizzati per la messa a punto di processi cromatografici di immunoaffinità, basati appunto su anticorpi monoclonali immobilizzati su supporti cromatografici.

43.1.3 P  roteine terapeutiche di seconda e terza generazione Come abbiamo precedentemente accennato, le prime applicazioni farmaceutiche delle tecnologie del DNA ricombinante, all’inizio degli anni ’80, hanno portato alla produzione biotecnologica di proteine terapeutiche identiche alla loro controparte fisiologica e utilizzate nei casi, già ricordati, di malattie legate alla carenza o al malfunzionamento di proteine endogene, nelle quali l’uso terapeutico di proteine estrattive era già stato sperimentato e in alcuni casi approvato (insulina e ormone della crescita). D’altra parte, le biotecnologie permettono di modificare a piacimento la sequenza della proteina bersaglio, eliminando o sostituendo singoli aminoacidi o loro sequenze, influendo così sulle proprietà farmacologiche del prodotto finale. È possibile quindi intervenire sulla proteina candidato farmaco per cercare di porre rimedio agli aspetti problematici legati al suo uso terapeutico, accennati nel paragrafo precedente, e di migliorarne la farmacologia. In pratica, è interessante osservare come, da un punto di vista molecolare, il biotecnologo farmaceutico possa utilizzare le tecnologie del DNA ricombinante per sviluppare veri e propri studi di “correlazione struttura-funzione” della proteina di interesse, con l’obiettivo di migliorarne le proprietà farmacocinetiche e/o farmacodinamiche, ottenendo infine proteine terapeutiche ottimizzate

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che possiamo definire di “seconda generazione”. Vedremo più avanti esempi significativi di questo tipo tra gli analoghi dell’insulina e dell’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA). Un’espansione delle opportunità di modifica e quindi di miglioramento delle caratteristiche delle proteine terapeutiche è fornita dall’accoppiamento delle biotecnologie a tecniche chimiche sintetiche, che permettono un’ulteriore modificazione chimica della proteina ricombinante, dopo la sua espressione. L’esempio più comune di modificazione chimica di proteine ricombinanti per migliorarne le proprietà farmaceutiche è l’addizione di unità di glicole polietilenico (PEG), detta pegilazione. Il glicole, opportunamente funzionalizzato, può essere legato covalentemente alla proteina bersaglio su funzioni carbossiliche (in C-terminale o sulle catene laterali di residui di acido aspartico o glutamico), o aminiche (in N-terminale o su catene laterali di residui di lisina), con l’obiettivo di incrementare la solubilità, migliorare le proprietà farmacocinetiche o diminuire l’immunogenicità della proteina terapeutica. Infatti, la pegilazione è la più diffusa tra le strategie utilizzate per cercare di riprodurre o almeno mimare le modificazioni post-traduzionali della proteina nativa che, come accennato nel paragrafo precedente, pur svolgendo spesso un ruolo fisiologico importante, non possono essere correttamente riprodotte con un approccio puramente biotecnologico. Vedremo più avanti l’esempio degli analoghi pegilati dell’interferone, già introdotti sul mercato.

43.2 C  lassificazione delle proteine terapeutiche Come accennato nell’introduzione, faremo riferimento a una classificazione funzionale delle proteine terapeutiche, recentemente introdotta, ma ormai largamente accettata, schematizzata nella Tabella 43.1.

43.2.1 G  ruppo I: proteine terapeutiche con attività regolatoria o enzimatica Appartengono a questo gruppo la maggior parte delle proteine terapeutiche già utilizzate prima dell’avvento delle biotecnologie, per trattare patologie caratterizzate dalla deficienza di una specifica proteina. Il gruppo è ulteriormente suddiviso in tre sottogruppi; il primo (proteine che sostituiscono una proteina deficiente o anormale) è dominato da proteine utilizzate per il trattamento di disordini endocrini o metabolici con chiara eziologia molecolare, ad esempio l’insulina per il trattamento del diabete mellito o i fattori VIII e IX per i pazienti emofilici. In Tabella 43.2 sono elencati e brevemente descritti i principali farmaci approvati appartenenti a questo sottogruppo, alcuni dei quali saranno trattati in modo più dettagliato nei paragrafi successivi. Il sottogruppo Ib (proteine che stimolano una funzione esistente; Tab. 43.3) è costituito da farmaci utilizzati quando è auspicabile intensificare o prolungare l’azione di proteine normalmente presenti e funzionanti nell’organismo. Appartengono a questo ampio sottogruppo gli interferoni e le interleuchine, vari fattori di crescita e diversi ormoni, alcuni dei quali sono ottenuti per via sintetica, essendo molecole

CAPITOLO 43 • Farmaci biotecnologici

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Tabella 43.2 Proteine terapeutiche che sostituiscono una proteina deficiente o anormale (sottogruppo Ia). Proteina (nome commerciale)

Funzione

Uso clinico

Insulina e analoghi (Humulin, Novolin e altri)

Regolazione glucosio ematico

Diabete mellito

Pramlintidea (Symlin)

Analogo sintetico dell’amilina, ormone peptidico rilasciato dal pancreas dopo i pasti insieme all’insulina

Diabete mellito, in combinazione con insulina

Ormone della crescita (GH) o somatotropina e analoghi (Humatrope e altri)

Ormone anabolico adenoipofisario, promuove l’accrescimento e la divisione mitotica delle cellule di quasi tutti i tessuti

Deficit della crescita dovuto a carenza di ormone della crescita, sindrome di Turner

Fattore di crescita insulino-simile (IGF-1) o mecasermina (Increlex, Iplex)

Ormone peptidico dalle proprietà anaboliche, prodotto dal fegato sotto lo stimolo dell’ormone della crescita, del quale è mediatore

Deficit della crescita in bambini con grave carenza di IGF-1 o delezione del gene GH (trattamento a lungo termine)

Ormoni

Fattori plasmatici Fattore VIII (Recombinate e altri)

Fattore della coagulazione

Emofilia di tipo A

Fattore IX (Benefix)

Fattore della coagulazione

Emofilia di tipo B

Antitrombina III (Atryn)b

Glicoproteina prodotta dal fegato, inibitore della trombina

Deficit ereditario di antitrombina III

β-Glucocerebrosidasi (Cerezyme)

Enzima che idrolizza il glucocerebroside in glucosio e ceramide, evitandone l’accumulo nei lisosomi dei macrofagi

Malattia di Gaucher

Glucosidasi acida α (Myozyme)

Enzima che idrolizza il glicogeno, evitandone l’accumulo nei lisosomi delle cellule muscolari

Glicogenosi di tipo II o malattia di Pompe

α-Galattosidasi A (Fabrazyme)

Enzima che idrolizza il globotriaosilceramide (GL-3), evitandone l’accumulo nei tessuti viscerali e nell’endotelio vascolare

Malattia di Fabry

α-l-Iduronidasi (Aldurazyme), iduronato-2-solfatasi (Elaprase), N-acetilgalattosamina-4-solfatasi (Naglazyme)

Enzimi che idrolizzano i glicosaminoglicani, evitandone l’accumulo nei lisosomi

Mucopolisaccaridosi di tipo I, di tipo II o sindrome di Hunter, di tipo VI o sindrome di Maroteaux-Lamy

Enzimi

a b

Prodotto sintetico. Prodotto da latte di capre transgeniche.

peptidiche di sequenza relativamente corta. Sono esempi di questo tipo la calcitonina, un ormone peptidico di 32 aminoacidi, coinvolto nella regolazione dell’omeostasi del calcio e utilizzato nel trattamento dell’osteoporosi postmenopausa. L’octreotide, invece, è un analogo sintetico ottapeptidico della somatostatina, inibitore dell’ormone della crescita, del glucagone e dell’insulina, utilizzato nel trattamento di tumori secernenti tali peptidi. Tra i prodotti ottenuti invece come proteine ricombinanti ricordiamo l’eritropoietina, un ormone che stimola la produzione di eritrociti in pazienti con anemia indotta da chemioterapia, e l’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA), un farmaco salvavita utilizzato per favorire la dissoluzione di coaguli in eventi cardiovascolari acuti quali l’infarto del miocardio, l’ictus e l’embolia polmonare. Infine, può essere utile per il trattamento di certe patologie ricorrere a proteine con un’attività biologica che normalmente non si manifesta nell’organismo. Abbiamo così il sottogruppo Ic (Proteine che forniscono una nuova funzione o attività; Tab. 43.4), che comprende proteine endogene che agiscono in condizioni non fisiologiche e proteine esogene. Un esempio del primo tipo è la desossiribonucleasi umana ricombinante di tipo I (DNasi I), un enzima normalmente presente all’interno delle cellule con funzione di

degradazione del DNA, utilizzato invece in ambiente extracellulare nei pazienti affetti da fibrosi cistica per rendere più fluido il muco che altrimenti può ostruire il tratto respiratorio, conducendo a polmonite e fibrosi polmonare. Le tossine botuliniche di tipo A e B sono invece proteine di origine batterica utilizzate per correggere distonie muscolari, particolarmente a livello cervicale. Sono un esempio di proteine esogene che offrono interessanti opportunità di applicazione terapeutica e anche, come è ben noto, una possibilità di uso – e forse anche di abuso – in ambito cosmetico, che non approfondiremo in questa sede. Vale la pena invece segnalare che le tossine botuliniche sono anche un esempio di proteine terapeutiche non ricombinanti, ma preparate per via estrattiva, trattandosi di proteine di origine batterica.

43.2.2 G  ruppo II: proteine terapeutiche con attività rivolta a bersagli specifici Questo gruppo, in costante crescita, raccoglie proteine caratterizzate da un’elevata specificità di legame verso un bersaglio molecolare specifico e comprende l’ampia famiglia degli anticorpi monoclonali (immunoglobuline), oltre a proteine

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Tabella 43.3 Proteine terapeutiche che stimolano una funzione esistente (sottogruppo Ib). Proteina (nome commerciale)

Funzione

Uso clinico

Ormone follicolo stimolante (FSH) (Follistim, Puregon e altri); gonadotropina corionica (GC) (Ovitrelle)

Stimolazione controllata dell’ovulazione

Infertilità, riproduzione assistita

Ormone leutinizzante (LH) (Luveris)

Stimola la secrezione di estradiolo

Infertilità associata a deficienza di LH

Calcitoninaa (Fortical, Miacalcin)

Ormone peptidico coinvolto nella regolazione dell’omeostasi del calcio

Osteoporosi postmenopausa

Teriparatide (hPTH 1-34) (Forteo)

Porzione N-terminale dell’ormone paratiroideo (residui 1-34), ormone peptidico che incrementa la concentrazione ematica del calcio

Alcune forme di osteoporosi postmenopausa

Exenatidea (Byetta)

Peptide sintetico analogo di GLP-1 (Glucagonlike peptide 1), appartenente alla famiglia dei mimetici delle incretine, coinvolto nel controllo del metabolismo del glucosio e nel rilascio di insulina

Diabete di tipo 2, in pazienti resistenti al trattamento con metformina e sulfanilurea

Octreotidea (Sandostatin)

Analogo sintetico ottapeptidico della somatostatina, inibitore dell’ormone della crescita, del glucagone e dell’insulina

Trattamento di tumori secernenti GH (acromegalia) o peptide intestinale vasoattivo (VIP), sindrome carcinoide

Triptorelina (Diphereline, Gonapeptyl), buserelina (Suprefact), goserelina (Zoladex), histrelina (Vantas, Supprelin), leuprolidea (Viadur, Lupron)

Peptidi sintetici, agonisti potenti e selettivi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH), ottenuti con specifiche modificazioni aminoacidiche rispetto alla sequenza decapeptidica dell’agonista fisiologico GnRH

Carcinoma prostatico, pubertà precoce

Attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA) (Alteplase, Reteplase e Tenecteplase)

Converte il plasminogeno in plasmina, promuovendo la fibrinolisi

Infarto acuto del miocardio

Proteina C attivata (Xigris)

Inibitore dei fattori della coagulazione Va e VIIIa

Sepsi severa

Eritropoietina (Epogen e altri)

Stimola l’eritropoiesi

Anemia associata a malattie croniche del rene o del fegato

Fattore stimolante le colonie granulocitarie (G-CSF; filgrastim) (Neupogen e altri)

Stimola la proliferazione, la differenziazione e la migrazione dei neutrofili

Neutropenia indotta da chemioterapia

Fattore stimolante le colonie granulocitariemacrofagiche (GM-CSF; sargramostim) (Leukine)

Stimola la proliferazione e la differenziazione di neutrofili, eosinofili e monociti

Ricostituzione del midollo dopo trapianto

Proteine morfogenetiche dell’osso (BMP-2, BMP-7) (Infuse, Opgenra e altri)

Fattori di crescita coinvolti nel controllo della formazione di osso e cartilagine

Interventi ortopedici, quali fusione spinale, complicazione di fratture e chirurgia orale

Fattore di crescita dei cheratinociti (KGF; palifermin) (Kepivance)

Stimola la crescita dei cheratinociti di pelle, bocca e stomaco

Stomatiti severe da chemioterapia

Fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF; becaplermin) (Regranex)

Promuove la cicatrizzazione delle ferite stimolando la differenziazione e la proliferazione dei fibroblasti

Ulcere diabetiche neuropatiche

Interferoni α (2a, 2b) (Roferon, Pegasys e altri)

Citochine immunoregolatorie ad azione antivirale

Epatite C cronica, alcune forme di cancro

Ormoni

Agenti trombolitici e anticoagulanti

Fattori di crescita, interferoni e interleuchine

a

Interferone β (Betaseron, Avonex e altri)

Citochina del sistema immunitario

Sclerosi multipla

Interleuchina 2 (IL-2) (Proleukin)

Citochina del sistema immunitario, regola l’attività dei linfociti

Carcinoma renale

Interleuchina 11 (IL-11; oprelvekin) (Neumega)

Fattore di crescita trombopoietico, stimola la proliferazione delle cellule staminali ematopoietiche

Trombocitopenia severa indotta da chemioterapia

Prodotto sintetico.

provenienti dal dominio di legame di specifici recettori e alcuni loro derivati chimerici. Nel sottogruppo IIa (proteine che interferiscono con una molecola o una cellula; Tab. 43.5) si trovano proteine

utilizzate in terapia per dirigere la risposta del sistema immunitario verso uno specifico bersaglio, che può essere una molecola solubile oppure una cellula, tumorale o batterica, portante sulla propria superficie il bersaglio molecolare rico-

CAPITOLO 43 • Farmaci biotecnologici

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Tabella 43.4 Proteine terapeutiche che forniscono una nuova funzione o attività (sottogruppo Ic).

a b

Proteina (nome commerciale)

Funzione

Uso clinico

Desossiribonucleasi I (DNAsi; dornase-α) (Pulmozyme)

Degradazione del DNA

Fibrosi cistica

Tossina botulinica di tipo Aa (Botox) e di tipo Ba (Myobloc)

Interferiscono con i meccanismi di rilascio dell’acetilcolina a livello delle sinapsi neuromuscolari, causando paralisi flaccida

Vari tipi di distonia cervicale

Irudina (lepirudina) (Refludan, Revasc)

Inibitore della trombina, isolato nelle ghiandole salivari della sanguisuga Hirudo medicinalis

Terapia anticoagulante, trombocitopenia indotta da eparina

Bivalirudinab (Angiomax)

Peptide sintetico di venti residui, analogo dell’irudina, inibitore specifico e reversibile della trombina

Proteina non ricombinante. Prodotto sintetico.

nosciuto dalla proteina terapeutica. Questa funzione è svolta in modo fisiologico dagli anticorpi, che riconoscono il bersaglio tramite la specifica regione ipervariabile e attivano il sistema immunitario per mezzo della frazione costante Fc. Alternativamente, le proteine terapeutiche del gruppo IIa possono agire da “agenti neutralizzanti”, capaci di occupare fisicamente una porzione funzionalmente importante della molecola bersaglio, bloccandone l’attività. Grazie al continuo sviluppo della biologia molecolare e delle tecnologie abilitanti a essa connesse, la famiglia degli anticorpi monoclonali ha avuto un grande impulso nell’ultimo decennio. Il problema dell’immunogenicità degli anticorpi monoclonali murini, inizialmente utilizzati in terapia, è stato sostanzialmente risolto tramite il processo di umanizzazione, che consiste nella progressiva sostituzione di tutte le porzioni dell’anticorpo che non sono fondamentali per il riconoscimento dell’antigene con le corrispondenti porzioni di immunoglobuline umane, in modo da ottenere nuove immunoglobuline chimeriche stabili e biologicamente attive, ma che non provochino una risposta immunitaria nel paziente. Si è passati quindi da anticorpi murini, altamente immunogenici, ad anticorpi chimerici che combinano l’intero dominio variabile murino di riconoscimento dell’antigene con il dominio costante umano (definiti chimere uomo-topo), fino agli anticorpi umanizzati, nei quali è rimasta solo la regione ipervariabile murina, mentre il restante 95% della sequenza appartiene all’immunoglobulina umana. Recentemente sono stati introdotti sul mercato anticorpi monoclonali terapeutici completamente umani, cioè non più derivanti da modificazione di un monoclonale murino originario, ma ottenuti in topi transgenici (portanti i geni delle immunoglobuline umane) o tramite la tecnica delle librerie fagiche. La convenzione per la nomenclatura degli anticorpi, illustrata nel Box 43.1, indica la loro origine e il loro bersaglio. Grazie anche a questi miglioramenti tecnologici che hanno permesso di limitare molto nei pazienti la risposta immune contro le proteine terapeutiche, contribuendo ad aumentare l’efficacia e diminuire gli effetti avversi, oggi abbiamo farmaci basati su anticorpi monoclonali in molte classi terapeutiche, come si può vedere dalla Tabella 43.5. Diversi anticorpi monoclonali sono indicati nel trattamento di specifici tumori. Ad esempio il cetuximab è un anticorpo monoclonale chimerico (uomo/topo) che lega il recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR), bloccandolo. È efficace nel trattamento di tumori metastatici del colon-retto che

sovraesprimono EGFR. Per questo, è stato il primo farmaco approvato dalla FDA nel 2012 in associazione a un test diagnostico (companion diagnostic) che permette di preselezionare i pazienti potenzialmente “rispondenti”, realizzando così uno dei paradigmi della medicina personalizzata. Gli anticorpi monoclonali hanno trovato largo impiego anche nel settore delle malattie autoimmuni. Nel caso ad esempio dell’artrite reumatoide sono stati recentemente lanciati sul mercato diversi anticorpi monoclonali sia umani (golimumab, adalimumab) sia chimerici (infliximab), che esplicano un’attività di immunosoppressione bloccando una citochina solubile, il fattore di necrosi tumorale di tipo α (TNFα). È interessante notare che il meccanismo d’azione di questi farmaci ricalca l’attività fisiologica di regolazione della concentrazione di TNF circolante svolta dal recettore solubile di questa citochina. Infatti, un’altra proteina terapeutica indicata nell’artrite reumatoide è l’etanercept, una proteina di fusione che combina appunto due unità del recettore solubile del TNF con la regione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1. Il farmaco, che appartiene al sottogruppo IIa pur non essendo un anticorpo, riproduce e rinforza l’azione di immunoregolazione del recettore solubile, con la frazione immunoglobulinica che mantiene la corretta conformazione delle due subunità del recettore, aumentando la stabilità della chimera. Appartengono formalmente al sottogruppo IIa anche alcuni antagonisti recettoriali competitivi classici, che agiscono sul recettore dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) bloccando la secrezione di ormone leutinizzante (LH) e trovano impiego clinico nella riproduzione assistita e in alcune forme di tumore della prostata (cetrorelix, ganirelix, degarelix e altri). Si tratta di decapeptidi, disegnati apportando specifiche modificazioni aminoacidiche sulla sequenza dell’agonista fisiologico GnRH. Trattandosi di sequenze corte e contenenti talvolta anche aminoacidi non geneticamente codificati, sono ottenuti per via sintetica. Lo stesso vale anche per un importante farmaco antiretrovirale, enfuvirtide. Si tratta di un peptide sintetico di 36 aminoacidi, sequenza parziale della proteina gp41 del virus HIV, responsabile del processo di fusione delle membrane nella fase di entrata del virus nella cellula ospite. Il farmaco si lega alla stessa proteina gp41, impedendo il cambiamento conformazionale che porta alla fusione e bloccando così il processo di internalizzazione del virus. Al momento della sua approvazione da parte dell’FDA nel 2003, l’enfuvirtide è

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Tabella 43.5 Proteine terapeutiche che interferiscono con una molecola o una cellula (sottogruppo IIa). Proteina (nome commerciale)

Funzione

Uso clinico

Muromomab CD3 (Orthoclone, OKT3)

Anticorpo monoclonale murino che lega l’antigene di superfice CD3 dei linfociti T, bloccandone le funzioni

Profilassi del rigetto nel trapianto del fegato

Abciximab (ReoPro)

Frammento Fab di anticorpo monoclonale chimerico (uomo/topo) che lega il recettore delle integrine GPIIb/ IIIa, inibendo l’aggregazione piastrinica

Antitrombotico utilizzato nelle procedure di angioplastica

Rituximab (Rituxan, mabthera)

Anticorpo monoclonale chimerico (uomo/topo) che lega l’antigene di superficie CD3 presente nel 90% dei linfociti B dei pazienti affetti da linfoma non Hodgkin

Linfoma non Hodgkin

Daclizumab (Zenapax)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega la catena α del recettore dell’interleuchina 2, bloccando l’attivazione dei linfociti

Profilassi del rigetto nel trapianto del fegato

Basiliximab (Simulect)

Anticorpo monoclonale chimerico (uomo/topo) che lega la catena α del recettore dell’interleuchina 2, bloccando l’attivazione dei linfociti

Profilassi del rigetto nel trapianto del fegato

Palivizumab (Synagis)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega un epitopo di superficie del virus respiratorio sinciziale (RSV)

Profilassi di infezioni respiratorie causate da RSV in pazienti pediatrici

Infliximab (Remicade)

Anticorpo monoclonale chimerico che lega e neutralizza il fattore di necrosi tumorale α (TNFα), bloccando la produzione di citochine proinfiammatorie

Malattia di Crohn, psoriasi, spondilite anchilosante, colite ulcerativa, artrite reumatoide

Trastuzumab (Herceptin)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega il recettore del fattore di crescita epidermico (HER2)

Trattamento del carcinoma mammario recidivante o secondario che sovraesprime la proteina HER2

Alemtuzumab (Mabcampath)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega l’antigene di superficie CD52 dei linfociti B

Leucemia linfatica cronica

Adalimumab (Humira)

Anticorpo monoclonale umano che lega e neutralizza il fattore di necrosi tumorale α (TNFα), agendo da immunosoppressore

Malattia di Crohn, spondilite anchilosante, colite ulcerativa, artrite reumatoide, artrite psoriasica, artrite giovanile idiopatica

Natalizumab (Tysabri)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega le integrine α4β1 e α4β7, bloccandole

Sclerosi multipla recidivante

Bevacizumab (Avastin)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega il fattore di crescita dell’endotelio vascolare di tipo A (VEGF-A), agendo da inibitore dell’angiogenesi

Tumore metastatico del colon-retto, glioblastoma, carcinoma renale

Efalizumab (Raptiva)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega l’antigene di superficie CD11 (l’integrina LFA-1), agendo da immunosoppressore

Psoriasi (ritirato dal mercato nel 2009)

Cetuximab (Erbitux)

Anticorpo monoclonale chimerico (uomo/topo) che lega il recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR), bloccandolo

Tumori del colon-retto che esprimono il recettore EGF, tumori di testa e collo

Omalizumab (Xolair)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega le IgE circolanti, bloccandone il legame al recettore FcεR1 su mastociti e basofili

Asma persistente moderata o severa in adulti e adolescenti

Panitumumab (Vectibix)

Anticorpo monoclonale umano che lega il recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR), bloccandolo

Tumori del colon-retto che esprimono il recettore EGF

Eculizumab (Soliris)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega la proteina C5, agendo da inibitore della cascata del complemento

Emoglobinuria parossistica notturna

Ranibizumab (Lucentis)

Frammento Fab di anticorpo monoclonale umanizzato che lega il fattore di crescita dell’endotelio vascolare di tipo A (VEGF-A), agendo da inibitore dell’angiogenesi

Degenerazione maculare legata all’età (AMD)

Ustekinumab (Stelara)

Anticorpo monoclonale umano che lega la subunità p40 di IL-12 e IL-23, bloccandole

Psoriasi a placche moderata o severa

Golimumab (Simponi)

Anticorpo monoclonale umano che lega e neutralizza il fattore di necrosi tumorale α (TNFα), agendo da immunosoppressore

Artrite reumatoide, artrite psoriasica e spondilite anchilosante

Catumaxomab (Removab)

Anticorpo monoclonale chimerico (ratto/topo) bispecifico che lega sia l’antigene di superficie CD3 sia EpCAM (molecola di adesione delle cellule epiteliali), attivando la risposta immunitaria contro la cellula tumorale portante EpCAM

Ascite maligna in pazienti con tumore metastatizzato EpCAM positivo

Anticorpi monoclonali

(segue)

CAPITOLO 43 • Farmaci biotecnologici

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Tabella 43.5 Proteine terapeutiche che interferiscono con una molecola o una cellula (sottogruppo IIa). (continua) Proteina (nome commerciale)

Funzione

Uso clinico

Canakinumab (Ilaris)

Anticorpo monoclonale umano che lega e neutralizza IL-1β, agendo da immunosoppressore

Sindromi periodiche associate alla criopirina (CAPS), una sindrome autoinfiammatoria

Certolizumab pegol (Cimzia)

Frammento Fab pegilato di anticorpo monoclonale umanizzato che lega e neutralizza il fattore di necrosi tumorale α (TNFα), agendo da immunosoppressore

Malattia di Crohn, artrite reumatoide

Ofatumumab (Arzerra)

Anticorpo monoclonale umano che lega l’antigene di superficie CD20 sui linfociti B, bloccandone l’attivazione

Leucemia linfatica cronica

Tocilizumab (RoActemra)

Anticorpo monoclonale umano che lega il recettore di IL-6, agendo da immunosoppressore

Artrite reumatoide, artrite giovanile idiopatica

Denosumab (Prolia)

Anticorpo monoclonale umano che lega RANKL, ligando del recettore RANK (Receptor Activator of Nuclear Factor κ) presente sugli osteociti e agendo da inibitore

Osteoporosi post-menopausa

Anakirna (Kineret)

Antagonista recettoriale di IL-1 (IL-1Ra), ligando fisiologico del recettore IL-1R che compete con i due agonisti fisiologici (IL-1α e IL-1β), modulandone l’attività

Artrite reumatoide

Pegvisomant (Somavert)

Analogo pegilato dell’ormone della crescita (hGH), che agisce da antagonista recettoriale grazie a specifiche modificazioni della sequenza nelle regioni di legame al recettore

Acromegalia

Etanercept (Enbrel)

Proteina di fusione che combina due unità del recettore solubile del fattore di necrosi tumorale (TNF) con la regione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1. Agisce da inibitore del TNF, con meccanismo analogo a quello fisiologico del recettore solubile del TNF. La frazione immunoglobulinica mantiene la corretta conformazione delle due subunità di recettore e aumenta la stabilità del costrutto

Artrite reumatoide, psoriasi a placche, artrite psoriasica, spondilite anchilosante, artrite giovanile idiopatica

Alefacept (Amevive)

Proteina di fusione dimerica che combina la porzione di legame dell’adesina LFA-3, in grado di legare l’antigene di superficie CD2 sui lifociti T, con la regione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1. Agisce con meccanismo duale: inibisce l’attivazione dei linfociti T e ne induce l’apoptosi

Psoriasi a placche moderata o severa

Abatacept (Orencia)

Proteina di fusione dimerica che combina la porzione extracellulare dell’antigene CTLA4 (cytotoxic T-lymphocyte antigen 4) con la regione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1. Agisce impedendo alle cellule presentanti l’antigene (ACP) di trasmettere ai linfociti T il segnale costimolatorio, bloccandone l’attivazione

Artrite reumatoide, soprattutto se refrattaria al trattamento con inibitori del TNF

Romiplostim (Nplate)

Proteina di fusione che combina due porzioni della trombopoietina (dominio di legame al recettore) con la regione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1, agendo da agonista del recettore della trombopoietina

Porpora trombocitopenica idiopatica (PTI)

Rilonacept (Arcalyst)

Proteina di fusione dimerica che combina il dominio extracellulare di legame dell’agonista del recettore dell’interleuchina 1 (IL-1R1) e la proteina accessoria del recettore dell’IL-1 (IL-1RAcP), legate sequenzialmente sulla regione Fc dell’immunoglobulina umana IgG1. Agisce da inibitore dell’IL-1

Sindromi periodiche associate alla criopirina (CAPS), una sindrome autoinfiammatoria

Cetrorelixa (Cetrotide), Ganirelixa (Antagon), Degarelixa (Firmagon)

Peptidi sintetici, antagonisti selettivi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH), ottenuti con specifiche modificazioni aminoacidiche rispetto alla sequenza decapeptidica dell’agonista fisiologico GnRH, bloccano la secrezione prematura di ormone leutinizzante (LH)

Riproduzione assistita, carcinoma prostatico

Enfuvirtidea (Fuzeon)

Peptide sintetico di 36 aminoacidi, sequenza parziale della proteina gp41 del virus HIV, responsabile del processo di fusione delle membrane nella fase di entrata del virus nella cellula ospite. Primo farmaco antiretrovirale della classe degli inibitori della fusione

Infezioni da HIV

Altre proteine

a

Prodotto sintetico.

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BOX 43.1 ■ Nomenclatura degli anticorpi monoclonali La nomenclatura degli anticorpi monoclonali è stata razionalizzata in modo da dare indicazioni sull’origine e sul bersaglio del farmaco. Infatti, il suffisso -mab, che indica un anticorpo monoclonale, è preceduto da alcune lettere che indicano se si tratta di un anticorpo di origine umana (-u-), murina (-o-), o altro, come indicato nella terza colonna della tabella sotto riportata. Un ulteriore gruppo di lettere specifica il bersaglio: -tu-, tumore generico, -pr-, tumore prostata ecc., come indicato nelle

prime due colonne della tabella. Ad esempio, il tras-tuzu-mab è un anticorpo monoclonale (-mab) umanizzato (-zu-), diretto verso un tumore generico (-tu-): infatti il suo target molecolare è il fattore di crescita epidermico HER2, sovraespresso da alcuni tumori (Tab. 43.5), mentre basi-li-xi-mab è un anticorpo monoclonale (-mab) chimerico (-xi-) diretto contro un target del sistema immunitario (-li-), il recettore dell’interleuchina 2.

Prefissi in base al bersaglio

Prefissi in base all’origine

o(s)

osso

me(l)

melanoma

u

umano

vi(r)

virale

ma(r)

tumore mammario

o

topo

ba(c)

batterico

go(t)

tumore testicolo

a

ratto

li(m)

sistema immunitario

go(v)

tumore ovarico

e

criceto

le(s)

lesioni

pr(o)

tumore prostata

i

primate

ci(r)

cardiovascolare

tu(m)

tumore generico

xi

chimerico

mu(l)

muscolo

neu(r)

sistema nervoso

zu

umanizzato

ki(n)

interleuchine

tox(a)

tossina

axo

ratto/topo

co(l)

tumore colonico

fu(ng)

fungo

stato il primo farmaco antiretrovirale della classe degli inibitori della fusione e ha inoltre rappresentato una pietra miliare nel campo della produzione di farmaci peptidici in quanto la decisione da parte della Roche di produrlo per via sintetica ha dato un forte impulso allo sviluppo di metodi di sintesi e purificazione di peptidi su scala industriale, che ha poi aperto le porte allo sviluppo di molte altre molecole peptidiche. Questo specifico peptide, della considerevole lunghezza di 36 aminoacidi, è sintetizzato ricorrendo a un accoppiamento di frammenti (Fig. 43.1): le sequenze parziali 1-16, 17-26 e 27-36 sono sintetizzate in forma protetta ricorrendo alle tecniche della sintesi peptidica in fase solida e sono successivamente accoppiate tra di loro in soluzione, prima della deprotezione finale delle catene laterali. Il sottogruppo IIb (proteine terapeutiche che veicolano altri composti o proteine; Tab. 43.6) è composto da proteine sviluppate allo scopo di veicolare selettivamente altre proteine oppure piccole molecole verso uno specifico bersaglio cellulare. Anche in questo caso il vettore può essere un anticorpo monoclonale o una diversa proteina. Un esempio del primo tipo è l’ibritumomab tiuxetan, farmaco costituito da un anticorpo monoclonale murino diretto verso l’antigene di superficie CD20, marcatore dei linfociti B, coniugato con un agente chelante (tiuxetan) portante un radionuclide, utilizzato nel trattamento del linfoma di Hodgkin positivo a CD20. Appartiene invece al secondo tipo la proteina di fusione denileukin diftitox, che combina l’interleuchina 2 (IL2) con la tossina difterica, dirigendo l’azione citotossica della tossina verso le cellule che esprimono il recettore dell’IL-2. È utilizzata nel trattamento del linfoma cutaneo a cellule T.

43.2.3 Gruppo III: vaccini proteici Lo sviluppo delle tecnologie del DNA ricombinante ha portato notevoli innovazioni anche nel campo dei vaccini. Come è noto, i vaccini servono a ottenere una protezione preventiva contro le malattie infettive, attivando il sistema immunitario tramite somministrazione di forme opportune dell’agente patogeno che mantengono l’immunogenicità, cioè la capacità di suscitare una risposta immunologica a lungo termine, ma non la patogenicità. Tradizionalmente, come nel caso del vaccino antipolio, questo risultato può essere ottenuto somministrando al paziente forme attenuate o disattivate del patogeno stesso. Evidentemente questa procedura non è priva di rischi e può portare a effetti avversi indesiderati anche gravi. Una conoscenza dettagliata della struttura cellulare e molecolare del patogeno permette, in linea teorica, di individuare componenti proteiche del patogeno stesso dotate di caratteristiche immunogeniche, ma non patogene. In tal caso è possibile formulare un vaccino utilizzando soltanto le opportune subunità del patogeno, che possono essere isolate e purificate da colture cellulari del patogeno stesso oppure, molto più efficacemente, prodotte come proteine ricombinanti, dando quindi origine alla classe dei vaccini biotecnologici. Indubbiamente questo filone di ricerca è stato ampiamente sviluppato da varie aziende biotecnologiche specializzate, spesso poi incorporate da grandi società farmaceutiche, e oggi sono disponibili molti vaccini biotecnologici basati su proteine ricombinanti. Inoltre, accanto al settore tradizionale dei vaccini utilizzati per la prevenzione delle malattie infettive, ha trovato recentemente uno sbocco sul mercato anche

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Figura 43.1 Sequenza aminoacidica e schema di sintesi dell’enfuvirtide. SPPS, sintesi peptidica in fase solida; Fmoc, gruppo protettore fluorenil-metil-ossicarbonile.

l’importante filone di ricerca che da molti anni persegue l’ipotesi di combattere alcuni tumori attraverso una specifica stimolazione del sistema immunitario del paziente, ricorrendo all’uso dei cosiddetti vaccini terapeutici, le cui prime approvazioni si sono avute, sia in Europa sia negli Stati Uniti, nel 2006. Poiché una trattazione dettagliata delle proteine terapeutiche utilizzate come vaccini esula dagli obiettivi di questo capitolo, ci limiteremo a citare brevemente alcuni esempi significativi. Le proteine terapeutiche classificate nel sottogruppo IIIa sono sostanzialmente vaccini che conferiscono protezione contro le malattie infettive (proteggono contro un agente esterno nocivo). Tra questi, un esempio rilevante è il vaccino per l’epatite B, ottenuto preparando per via ri-

combinante una proteina non infettiva del virus dell’epatite B, l’antigene di superficie HBsAg. Questa proteina può essere formulata individualmente, per ottenere un vaccino specifico per l’epatite B, oppure in combinazione con il virus dell’epatite A inattivato, per preparare un vaccino bivalente. Per quanto riguarda invece i vaccini antitumorali (sottogruppo IIIc), possiamo ricordare gardasil e cervarix, due farmaci che conferiscono protezione contro i tipi di papillomavirus (HPV) ritenuti responsabili del cancro della cervice, una delle principali cause di mortalità per cancro tra la popolazione femminile nei Paesi sviluppati. Entrambi contengono forme ricombinanti della proteina maggiore del capside di papillomavirus di tipo 16 e 18.

Tabella 43.6 Proteine terapeutiche che veicolano altri composti o proteine (sottogruppo IIb). Proteina (nome commerciale)

Funzione

Uso clinico

Denileukin diftitox (Ontak)

Proteina di fusione che combina interleuchina 2 (IL-2) con tossina difterica, dirigendo l’azione citotossica della tossina verso le cellule che esprimono il recettore dell’IL-2

Linfoma cutaneo a cellule T (CTCL)

Gemtuzumab zogamicin (Mylotarg)

Anticorpo monoclonale umanizzato che lega l’antigene di superficie CD33 sui linfoblasti, coniugato all’agente citotossico calicheamicina

Leucemia mieloide acuta, ritirato dal mercato nel 2010

Tositumomab (Bexxar)

Anticorpo monoclonale che lega l’antigene di superficie CD20 dei linfociti B, coniugato con 131I radioattivo

Linfoma non Hodgkin positivo a CD20

Ibritumomab tiuxetan (Zevalin)

Anticorpo monoclonale che lega l’antigene di superficie CD20 dei linfociti B, coniugato con un chelante (tiuxetan) portante un radionuclide (90Y o 131I)

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43.2.4 G  ruppo IV: proteine di uso diagnostico Il settore della diagnostica, in vitro e in vivo, sta assumendo crescente importanza in un’ottica di medicina personalizzata, come abbiamo già sottolineato nel paragrafo relativo agli anticorpi monoclonali, definendo il concetto di “companion diagnostic”. Per questo, pur senza entrare in dettagli, è utile ricordare il contributo delle proteine ricombinanti anche in questo settore. Troviamo infatti varie proteine ricombinanti utilizzate nel campo della diagnostica in vivo, quali agenti per imaging. Si tratta prevalentemente di anticorpi monoclonali murini oppure umani, diretti contro specifici marcatori cellulari, coniugati con opportuni radionuclidi. Infine, la disponibilità di proteine ricombinanti che riproducono specifici antigeni di virus e batteri o autoantigeni di malattie autoimmuni ha permesso di sviluppare test diagnostici in vitro molto più specifici e sensibili di quelli basati su antigeni estrattivi o su preparati biologici.

43.3 Insulina L’insulina è stata scoperta nel 1921 e subito dopo sono stati sviluppati processi di estrazione e purificazione da pancreas di suini e bovini al fine di produrre preparati da utilizzare per il controllo della glicemia in pazienti affetti da diabete mellito. Infatti, il primo preparato insulinico è stato messo in commercio già nel 1923 dalla società statunitense Lilly, anche se la struttura della molecola è stata determinata solo nel 1960. Nel 1982 l’insulina è stata la prima proteina terapeutica ricombinante approvata dalla FDA. L’insulina è una proteina di 51 aminoacidi, prodotta nel pancreas sotto forma del precursore proinsulina, successivamente processato per assumere la corretta struttura, caratterizzata da tre ponti disolfuro, e scisso enzimaticamente. Il prodotto finale è costituito da due catene, la catena A, di 21 residui aminoacidici, e la catena B, composta da 30 aminoacidi, collegate dai ponti disolfuro A7-B7 e A20-B19. Un terzo ponte disolfuro intracatena collega i residui di cisteina A6 e A11 (Fig. 43.2). La proteina è ricca di residui ionizzabi-

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li (acido glutamico, tirosina, lisina, arginina e istidina, oltre ai quattro gruppi terminali), che determinano la carica netta della molecola, un punto isoelettrico di 5,3. Un’altra importante proprietà chimico-fisica dell’insulina è la sua capacità di associarsi in dimeri o stati di associazione superiori, determinati principalmente da interazioni idrofobiche dell’estremità C-terminale della catena B e da interazioni con cationi metallici bivalenti. Infatti, in condizioni fisiologiche l’insulina è conservata nelle cellule β del pancreas sotto forma di esameri contenenti Zn2+. Poiché solo l’insulina in forma monomerica è in grado di attivare il suo recettore, il controllo dell’equilibrio reversibile di formazione di dimeri ed esameri è fondamentale per mettere a punto formulazioni o addirittura analoghi modificati dell’insulina, utili in terapia. Si introduce infatti a questo punto il concetto di analoghi di seconda generazione delle proteine terapeutiche ottenute per via biotecnologica. Abbiamo visto che il primo obiettivo nell’applicazione in campo farmaceutico delle tecnologie del DNA ricombinante è stato quello di riprodurre esattamente la proteina umana di interesse terapeutico, tipicamente per realizzare una terapia di sostituzione. Infatti, i farmaci a base di insulina ricombinante lanciati sul mercato negli anni ’80 del secolo scorso, Humulin e Novolin, contengono una proteina ricombinante avente la stessa sequenza aminoacidica dell’ormone nativo e quindi anche la stessa tendenza a formare dimeri ed esameri, che influenza la biodisponibilità del farmaco. È stata quindi studiata la possibilità di modificare la sequenza aminoacidica della proteina, in modo da diminuire o annullare la tendenza a dare associazione, senza ovviamente influenzare l’interazione con il recettore. Si tratta dunque di modificare gli aminoacidi responsabili della formazione di dimeri ed esameri, senza toccare i residui “farmacoforici” necessari per l’attivazione del recettore, progettando degli analoghi non naturali: questi possono essere prodotti per via ricombinante, costruendo un opportuno vettore di espressione modificato. I prodotti di seconda generazione così progettati raggiungono l’obiettivo di migliorare le proprietà farmacocinetiche della proteina terapeutica e quindi, rispondendo meglio a specifiche esigenze terapeutiche, risultano farmaci migliori rispetto alla proteina naturale di “prima generazione”. Nel caso in esame, il pri-

Figura 43.2 Struttura della proinsulina. Gli aminoacidi sono indicati utilizzando la convenzione a una lettera.

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CAPITOLO 43 • Farmaci biotecnologici

Figura 43.3 Analoghi di seconda generazione dell’insulina.

mo analogo monomero dell’insulina, caratterizzato quindi, rispetto all’insulina umana esogena, da azione a insorgenza rapida, ma di minore durata, è stato l’insulina lispro. Questo analogo, che rappresenta il primo esempio di “insulina rapida”, differisce dall’insulina umana per lo scambio tra Pro28 e Lys29 nella catena B (Fig. 43.3). L’insulina lispro mostra un picco di attività a un’ora dalla somministrazione, mentre le insuline regolari raggiungono l’attività di picco tra le 2 e le 3 ore. Lo stesso risultato è stato ottenuto con gli analoghi insulina aspart, nel quale il residuo di Pro28 nella catena B è sostituito con acido aspartico, e insulina glulisine, nel quale il residuo di asparagina in posizione B3 è sostituito da lisina e la lisina in posizione B29 è sostituita da acido glutammico. Un altro gruppo di analoghi dell’insulina di seconda generazione è stato progettato per avere, al contrario dei precedenti, un effetto a insorgenza più lenta e una durata d’azione prolungata (Fig. 43.3). L’insulina glargine è ottenuta modificando 3 aminoacidi: due residui di arginina sono aggiunti al C-terminale della catena B, spostando così il punto isoelettrico della proteina da 5,4 a 6,7. Di conseguenza, l’insulina glargine è solubile a pH leggermente acido e quindi nel sito di iniezione, a pH fisiologico, precipita formando microcristalli che si depositano e si risolubilizzano lentamente, producendo un profilo farmacocinetico costante per circa 24 ore. Poiché il prodotto è formulato a pH 4, si è posto il problema di stabilizzare il residuo di asparagina in posizione A21, che in

ambiente acido subisce deaminazione e successiva dimerizzazione. Pertanto, trattandosi di un residuo non necessario per l’interazione con il recettore, è stato sostituito con un residuo di glicina. Infine, l’insulina detemir è stata ottenuta per amidazione con acido miristico della catena laterale del residuo di lisina in posizione B29. Tale modifica promuove il legame reversibile dell’insulina detemir all’albumina plasmatica, ritardandone la distribuzione. È interessante osservare che in questo caso la modifica dell’ormone naturale non è ottenuta a livello di espressione, cioè modificando il DNA, ma tramite una reazione chimica realizzata sulla sequenza nativa della proteina ricombinante dopo l’espressione.

43.4 A  ttivatore tissutale del plasminogeno L’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA) è uno degli enzimi fisiologici in grado di trasformare lo zimogeno inattivo plasminogeno nella porzione attiva, plasmina, che a sua volta idrolizza la matrice insolubile di fibrina dei coaguli sanguinei o trombi nel processo fibrinolitico. Nell’equilibrio compensativo tra coagulazione e fibrinolisi, il t-PA gioca un ruolo fondamentale nell’attivare la fibrinolisi specifica dei trombi, in quanto attiva il plasminogeno solo in presenza di fibrina, evitando così un’attivazione sistemica che potrebbe produr-

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FARMACI BIOTECNOLOGICI

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Figura 43.4 Struttura dell’attivatore tissutale del plasminogeno (t-PA). Gli aminoacidi sono indicati utilizzando la convenzione a una lettera. La freccia indica il sito di taglio che porta alla separazione delle catene A e B.

re fenomeni emorragici indesiderati. In ambito farmaceutico il t-PA è utilizzato per la terapia trombolitica precoce, che si è dimostrata in grado di far diminuire la mortalità e di migliorare la pervietà delle arterie coronarie nei pazienti colpiti da infarto acuto del miocardio. Il t-PA è una serin proteasi composta da 527 aminoacidi, sintetizzata e secreta dalle cellule endoteliali in forma di catena singola. La plasmina può idrolizzare il legame peptidico tra Arg275 e Ile276, con formazione di t-PA a due catene, denominate A e B e collegate da un ponte disolfuro (Cys264-Cys395). La struttura del t-PA è stabilizzata da 17 ponti disolfuro e caratterizzata da 5 domini funzionali: partendo dall’N-terminale troviamo un dominio omologo al dominio finger della fibronectina (finger domain), un dominio simile all’epidermal growth factor, due strutture di tipo kringle, caratterizzate da anse con tre ponti disolfuro, e infine il sito catalitico omologo al dominio proteasico della tripsina (Fig. 43.4). Sono secrete due varianti di t-PA, che differiscono per un residuo glicosidico: il tipo I porta N-glicosilazioni sui residui di asparagina nelle posizioni 117, 184 e 448, mentre il tipo II ha solo le due N-glicosilazioni su Asn117 e Asn448. In entrambe le varianti è presente anche una Oglicosilazione, rappresentata da un residuo di fucosio legato al residuo di treonina in posizione 61.

La possibilità di utilizzare questa proteina fisiologica come agente trombolitico da somministrare a pazienti infartuati nelle ore immediatamente successive all’evento trombotico per solubilizzare il trombo e ripristinare la pervietà delle coronarie prima che l’infarto produca danni permanenti, con esito anche fatale, ha portato alla sua produzione per via ricombinante e alla sua approvazione per il trattamento dell’infarto acuto del miocardio già nel 1987. Anche in questo caso, la proteina terapeutica di prima generazione, denominata alteplase, riproduce esattamente la complessa sequenza dell’enzima fisiologico. La proteina ricombinante è prodotta in cellule CHO e pertanto è glicosilata. Il paziente colpito da infarto deve essere trattato al più presto, comunque entro le prime 3 ore, dopo aver escluso tramite tomografia la presenza di emorragia cerebrale. Il farmaco è somministrato per via i.v. in forma di bolo, seguito da un’infusione di un’ora alla dose di 0,9 mg/kg. Da un punto di vista farmaceutico, il maggior problema di questa proteina terapeutica è la sua breve emivita, inferiore a 5 minuti, con clearance epatica mediata dai recettori del mannosio. Al fine di migliorare le proprietà farmacocinetiche dell’alteplase sono state anche in questo caso progettate molecole di seconda generazione, frutto di “ingegneria molecolare”, oltre che di ingegneria genetica. Nel 1996 è stato introdotto

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CAPITOLO 43 • Farmaci biotecnologici

Figura 43.5 Struttura e modificazioni aminoacidiche di tenecteplase. La freccia indica il sito di taglio che porta alla separazione delle catene A e B.

sul mercato il reteplase, un mutante deleto e non glicosilato del t-PA contenente solo il secondo dominio kringle e il dominio proteasico C-terminale. La proteina ricombinante contiene perciò 355 dei 527 residui aminoacidici dell’enzima fisiologico e inoltre, essendo prodotta in E. coli, risulta non glicosilata. L’emivita è triplicata (circa 15 minuti), ma l’assenza dei domini N-terminali, coinvolti insieme al kringle 2 nell’interazione di riconoscimento con la fibrina, ne diminuisce l’affinità. Particolarmente interessante risulta la successiva progettazione del tenecteplase, introdotto sul mercato nel 2000. In questo caso il processo di ingegneria molecolare ha operato in modo molto più specifico, sulla base di un’accurata correlazione struttura-attività, cercando di aumentare l’emivita del prodotto, senza influenzare negativamente le sue proprietà farmacodinamiche. È stata quindi realizzata una proteina ricombinante di 574 residui (come quella fisiologica), ma portante le sostituzioni aminoacidiche specifiche mostrate in Figura 43.5: sul dominio kringle 1 il residuo di treonina in posizione 103 è sostituito con asparagina, in modo da aggiungere un sito di glicosilazione non nativo, mentre il residuo di asparagina 117 è sostituito con glutamina, rimuovendo così uno dei siti di glicosilazione nativi. Questo riarrangiamento delle glicosilazioni, che come abbiamo visto sono importanti per la clearance epatica recettore-mediata, portano a una consistente diminuzione della velocità di eliminazione. Particolarmente significativa in termini di progettazione razionale di una proteina con proprietà terapeutiche ottimizzate risulta poi la sostituzione degli aminoacidi nelle posizioni 296-299 del dominio pro-

teasico (Lys-His-Arg-Arg) con quattro residui di alanina. Infatti, il segmento fortemente basico rimosso è il sito di legame dell’inibitore fisiologico dell’attivatore del plasminogeno di tipo 1 (PAI-1) e pertanto la mutazione comporta l’insorgere di una significativa resistenza al PAI-1 e un aumento della specificità per la fibrina. Complessivamente, la proteina ingegnerizzata mostra un’emivita di 20 minuti, quindi 4 volte maggiore rispetto alla proteina terapeutica non modificata di prima generazione, a fronte di un incremento di 14 volte della specificità per la fibrina e di una diminuzione di 80 volte della suscettibilità all’inibitore fisiologico PAI-1.

43.5 Pegilazione Come abbiamo visto, le proprietà di interesse farmaceutico delle proteine terapeutiche possono essere migliorate non solo ricorrendo a delezioni o sostituzioni di aminoacidi, ottenute con tecniche di biologia molecolare, ma anche per successiva modificazione chimica della molecola proteica ricombinante. La più comune di tali modificazioni è l’aggiunta di unità di polietilenglicole (pegilazione), con l’obiettivo primario di migliorare il tempo di emivita del farmaco. Abbiamo vari esempi di proteine terapeutiche pegilate: un analogo mutato dell’ormone della crescita (GH) che agisce da antagonista recettoriale (pegvisomant), alcuni anticorpi monoclonali, quali certolizumab pegol (Tab. 43.5), e gli analoghi dell’interferone α2a e α2b, indicati per il trattamento dell’epatite C cronica.

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Radiofarmaci Marcello Leopoldo

44.1  Radiofarmaci diagnostici 44.1.1 Radiofarmaci per la SPECT 44.1.2 Radiofarmaci PET

44.2  Radiofarmaci terapeutici 44.2.1 Radiofarmaci -emittenti 44.2.2 Radiofarmaci -emittenti

44.3  Conclusioni e prospettive

Secondo la legislazione corrente, con il termine radiofarmaco è indicato “qualsiasi medicinale che, quando è pronto per l’uso, include uno o più radionuclidi incorporati a scopo sanitario”. Gli scopi sanitari ai quali fa riferimento il legislatore sono quello diagnostico e quello terapeutico. I radiofarmaci a scopo diagnostico incorporano radionuclidi che permettono il rilevamento della presenza o dell’assenza del radiofarmaco in un determinato distretto anatomico, in relazione a uno stato patologico. I radiofarmaci a uso terapeutico, invece, incorporano radionuclidi che emettono radiazioni con effetto letale solo per le cellule con cui vengono a contatto; in questo modo il radiofarmaco veicola il radionuclide in modo specifico nella sede di malattia, esplicando la sua azione terapeutica. Queste funzioni avvengono attraverso una contenuta esposizione alle radiazioni. Un radiofarmaco può essere costituito da: •

il semplice radionuclide in forma ionica o molecolare;



il radionuclide in forma ionica opportunamente legato a un agente complessante;



il radionuclide incorporato covalentemente nella struttura di una molecola.

Per la produzione di radiofarmaci si utilizzano: •

radionuclidi in grado di emettere positroni che si impiegano nella tomografia a emissione di positroni (positron emission tomography, PET);

• •

radionuclidi che emettono particelle γ utilizzati nella tomografia computerizzata a emissione singola di fotoni (single photon emission computed tomography, SPECT); radionuclidi che emettono particelle a medio-alto trasferimento lineare di energia (linear energy transfer, LET) quali emettitori di particelle α, di elettroni β– o di elettroni Auger, che si utilizzano nella radioterapia metabolica.

Il radionuclide di un particolare elemento, sia esso naturale o artificiale, presenta un nucleo instabile che tende a raggiungere la stabilità emettendo radiazioni (decadimento). Ogni radioisotopo è caratterizzato da: • modalità di decadimento; • tipo ed energia di emissione (particelle o fotoni); • emivita fisica (t1/2) definita come l’intervallo di tempo impiegato da una determinata quantità di un radionuclide per dimezzarsi per effetto del suo decadimento.

44.1 Radiofarmaci diagnostici La PET e la SPECT sono tecniche di molecular imaging. Con questa espressione si intende la rappresentazione, la caratterizzazione e la quantificazione visiva di processi biologici all’interno di organismi viventi fino al livello subcellulare. I radiofarmaci diagnostici PET e SPECT funzionano in pratica come fonte di contrasto per generare immagini. Que-

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sto permette sia lo studio di processi fisiologici sia l’individuazione e la caratterizzazione di patologie prima che esse abbiano causato alterazioni anatomiche macroscopicamente evidenti. Inoltre, il molecular imaging offre la possibilità di studiare eventi fisiopatologici in modo dinamico e di seguirne l’evoluzione nel tempo e nello spazio. Queste informazioni permettono di fare una diagnosi precoce, di determinare accuratamente lo stadio di una malattia e di monitorare l’efficacia di una terapia. Un esempio delle immagini che si ottengono utilizzando radiofarmaci diagnostici è riportato in Figura 44.1. Caratteristiche generali dei radiofarmaci PET e SPECT sono: • interazione specifica con il sistema biologico; • elevato rapporto target/non target o background; • stabilità in vivo; • rapida clearance sanguigna; • biodistribuzione stabile durante il tempo di acquisizione; • facilità di produzione; • costi contenuti; • bassa dosimetria (esposizione del paziente alle radiazioni). Un radiofarmaco deve interagire in modo specifico con un ben determinato processo biologico che sia rilevante in termini diagnostici. L’interazione può riguardare un fenome-

CAPITOLO 44 • Radiofarmaci

no chimico-fisico direttamente correlato con una funzione cellulare normale oppure anomala a causa di una patologia, oppure riguardare un bersaglio biologico come una proteina recettoriale, un sistema di trasporto o un enzima. I radiofarmaci possono essere classificati in base al principale meccanismo responsabile della specifica proprietà di distribuzione: • radiofarmaci non diffusibili: hanno dimensioni tali che, dopo somministrazione per via endovenosa, restano intrappolati meccanicamente nel letto capillare di alcuni organi, permettendo la visualizzazione selettiva delle regioni anatomiche soggette a normale perfusione; • radiofarmaci che sfruttano il meccanismo del chemioadsorbimento: si accumulano in un distretto corporeo in conseguenza a specifici stimoli chemiotattici; • radiofarmaci che si accumulano nelle cellule dopo attraversamento della membrana cellulare e successiva trasformazione metabolica intracellulare: superano la membrana cellulare (per diffusione passiva, trasporto facilitato o trasporto attivo), quindi subiscono una trasformazione metabolica che impedisce la loro uscita dalla cellula; • radiofarmaci che interagiscono con recettori presenti sulla membrana cellulare: si accumulano con un meccanismo recettore-mediato entrando in competizione con il ligando endogeno specifico;

Figura 44.1 Simulazione di immagini che si ottengono utilizzando un radiofarmaco diagnostico. A sinistra un individuo sano; a destra è evidente l’accumulo del radiofarmaco in tessuti tumorali.

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RADIOFARMACI

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• radiofarmaci che interagiscono con proteine presenti sulla superficie cellulare durante la trasformazione patologica mediante un meccanismo immunologico o di affinità non recettoriale. Un radiofarmaco non deve dar luogo ad accumulo non specifico: l’interazione del radiofarmaco in modo aspecifico con tessuti non target causa un abbassamento del rapporto segnale/rumore e conseguente perdita del contrasto nell’immagine e del potere di quantificare la massa del tessuto da monitorare. Inoltre, il radiofarmaco deve essere eliminato rapidamente dal torrente circolatorio.

44.1.1 Radiofarmaci per la SPECT I radiofarmaci per la SPECT contengono un radionuclide che, decadendo, emette una radiazione elettromagnetica sotto forma di un raggio γ. Quando il decadimento avviene all’interno di un organismo vivente i raggi γ, grazie alla loro elevata energia, possono attraversare i tessuti ed essere rilevati all’esterno mediante un’apparecchiatura chiamata γ-camera. La concentrazione locale del radiofarmaco viene determinata attraverso la misura dell’intensità della radiazione γ emessa nel decadimento del radiofarmaco. Tramite una tomografia è possibile rilevare la distribuzione del radiofarmaco in tre dimensioni, cioè visualizzare la distribuzione su singole sezioni, partendo, quindi, da un insieme di proiezioni planari. In Tabella 44.1 sono elencati alcuni radionuclidi γ-emittenti.

Radiofarmaci a base di Tecnezio-99 metastabile (99mTc) I radiofarmaci marcati con 99mTc rappresentano l’85% delle indagini diagnostiche di un reparto di medicina nucleare. Questo radionuclide è molto utilizzato per vari motivi: • anche se il suo t1/2 (circa 6 ore) potrebbe limitarne l’uso, 99m Tc è prodotto da un generatore disponibile in commercio (il generatore Molibdeno-99/Tecnezio-99m, 99 Mo/99mTc) che viene facilmente gestito nel laboratorio di radiofarmacia dei reparti di medicina nucleare; • il tecnezio è caratterizzato da una chimica versatile e standardizzata che permette la produzione di radiofarmaci in modo veloce e stabile nel tempo; • possiede una energia di emissione ottimale per la rivelazione mediante γ-camera.

Tabella 44.1 Radionuclidi emettitori di particelle g e relativi tempi di dimezzamento. Radionuclide

t1/2

Energia massima (keV)

Tecnezio-99m (99mTc)

6,0 ore

140

67,4 ore

171; 245

73 ore

70-80; 135; 167

78 ore

93; 184; 296

13,3 ore

159; 285

Indio-111 (

111

In)

Tallio-201 (

201

Tl)

Gallio-67 (67Ga) Iodio-123 (

123

Iodio-131 (

131

I) I)

Samario-153 (153Sm)

8,2 giorni

284; 364

46,3 ore

103

Il generatore 99Mo/99mTc è costituito da una colonna cromatografica di allumina sulla quale è adsorbito il radionuclide padre 99Mo (t1/2 = 67,7 ore) sotto forma di anione molibdato (99MoO42–), che decade nel nuclide figlio 99mTcO4–, anch’esso radioattivo ma con emivita minore. L’isotopo figlio può essere separato dal padre facendo passare attraverso la colonna una soluzione fisiologica di NaCl (eluente): gli ioni cloruro si scambiano con gli ioni pertecnetato e la soluzione salina così ottenuta può essere utilizzata per la preparazione dei radiofarmaci. Il molibdato è invece insolubile in soluzione fisiologica e rimane dunque adsorbito sulla colonna. Immediatamente dopo l’eluizione, la colonna contiene solo 99Mo; tuttavia il suo decadimento continua, formando di nuovo 99m Tc. Il processo di rigenerazione procede con andamento esponenziale: in circa un’emivita (6 ore) si rigenera il 50% di 99m Tc, dopo 12 ore il 75% e dopo 18 ore il 90% circa. Dopo 4 emivite (pari a 24 ore) 99Mo e 99mTc sono di nuovo in equilibrio e il generatore può essere di nuovo eluito. Poiché nel frattempo 99Mo è decaduto, non si otterrà più la stessa quantità di 99mTc del giorno precedente, ma circa il 70%. Uno schema del generatore è riportato nella Scheda 44.1. La chimica del tecnezio, che è un elemento di transizione, è essenzialmente chimica di coordinazione. Gruppi donatori tipici per questo metallo sono: amine, amidi, tioli, fosfine, ossime, isonitrili. I gruppi donatori sono presenti in composti definiti leganti (monodentati, bidentati, polidentati o chelanti). Il numero di ossidazione del tecnezio varia da –1 a +7: i numeri di ossidazione più bassi sono più idonei per la coordinazione (+1, +3, +5) e sono quelli più comuni. Il Tc(V) predilige complessi in cui 1 o 2 atomi di ossigeno sono direttamente legati a esso e ha 4 o 5 siti disponibili per la coordinazione. I vari possibili stati di ossidazione del tecnezio permettono un’ampia varietà di funzionalizzazione/trasformazione, che consente di veicolare in modo specifico il radionuclide nei vari tessuti. Il 99mTc si ottiene dal generatore 99Mo/99mTc sotto forma di anione pertecnetato, nel quale Tc ha numero di ossidazione +7 e rappresenta la specie chimica del Tc più stabile in soluzione acquosa. Tuttavia, per la preparazione dei vari radiofarmaci dal pertecnetato è necessario ridurre il 99mTc e coordinare il metallo con l’opportuno legante. Come specie riducente è generalmente utilizzato lo ione stannoso (in genere si utilizza una soluzione acquosa di SnCl2). Il legante deve presentare un’elevata capacità coordinante nei confronti del tecnezio, in modo da stabilizzarlo. Lo ione [99mTc]pertecnetato (99mTcO4–) si ottiene, come detto, in soluzione fisiologica dal generatore 99Mo/99mTc e come tale può essere utilizzato come radiofarmaco. Dopo somministrazione endovena gli ioni 99mTcO4– diffondono liberamente nel torrente circolatorio, dove si legano alle proteine plasmatiche. Dal compartimento vascolare questi ioni diffondono nei liquidi interstiziali e da qui vengono rimossi per accumularsi nello stomaco, nella tiroide, nelle ghiandole salivari, nell’intestino, nei plessi corioidei e nelle mucose in generale. Questo radiofarmaco si utilizza per la scintigrafia tiroidea. Lo ione 99mTcO4– è in qualche misura analogo allo ione I– per massa, dimensioni e densità di carica. Per questo motivo, 99mTcO4– viene captato all’interno delle cellule della tiroide attraverso un meccanismo di cotrasporto attivo (so-

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dio/iodio symporter) che normalmente permette l’entrata di I– all’interno della cellula contro gradiente di concentrazione, sfruttando l’energia del gradiente elettrochimico del sodio. Tuttavia, 99mTcO4– non segue lo stesso destino metabolico di I– e si accumula nelle cellule tiroidee divenendo un marcatore della loro attività. Inoltre, 99mTcO4– viene utilizzato per la scintigrafia delle ghiandole salivari e per la ricerca di mucosa gastrica ectopica (diverticolo di Meckel), perché viene captato al pari dello ione carbonato. I macroaggregati di albumina marcati con 99mTc – [99mTc] macroaggregated albumin, [99mTc]MAA – sono costituiti da particelle di albumina di dimensioni pari a 10-90 μm. La radiomarcatura di queste particelle con 99mTc è possibile perché l’albumina serica è una proteina in grado di legare un gran numero di molecole poco idrosolubili, ioni e xenobiotici. Questo radiofarmaco è utilizzato principalmente per la scintigrafia di perfusione polmonare per evidenziare la presenza di emboli. Questo è possibile perché, a causa delle sue dimensioni, il radiofarmaco rimane intrappolato all’interno del letto capillare polmonare, poiché è il primo incontrato dopo la somministrazione endovena. [99mTc]Dietilentriaminopentaacetato – [99mTc]DTPA – (Fig. 44.2) è un radiofarmaco in cui si ritiene che il tecnezio abbia stato di ossidazione +3 o +5. È caratterizzato da elevata solubilità in acqua, anche dovuta alla presenza di una carica negativa. Questo gli consente di diffondere con grande facilità nei liquidi interstiziali, mostrando un legame molto basso alle proteine plasmatiche. [99mTc]DTPA è soggetto a filtrazione attraverso il glomerulo renale in misura analoga alla quota di filtrazione del plasma nella formazione della pre-urina. Per questa caratteristica è utilizzato nella pratica clinica per studi renali di perfusione, funzione e pervietà delle vie escretrici. La sua eliminazione dal torrente circolatorio avviene esclusivamente per filtrazione glomerulare e non è soggetto ad alcuna secrezione e riassorbimento tubulare. [99mTc]DTPA viene anche utilizzato in forma di aerosol per la scintigrafia di ventilazione polmonare. [99mTc]Mertiatide – [99mTc]mercaptoacetiltriglicina, [99mTc]MAG3 – (Fig. 44.2) è un radiofarmaco idrofilo (stato di ossidazione del tecnezio +5) che dopo somministrazione endovenosa viene eliminato rapidamente dal torrente circolatorio, soprattutto attraverso secrezione tubulare (90% circa), con un meccanismo di secrezione attiva e, per la restante parte, filtrazione glomerulare. Questo radiofarmaco non subisce processi di assorbimento tubulare, consentendo di calcolare il flusso plasmatico renale per ogni singolo rene mediante scintigrafia renale dinamica. [99mTc]Dimercaptosuccinato – [99mTc]pentavalent dimercaptosuccinic acid, [99mTc]DMSA – (Fig. 44.2) si utilizza per la scintigrafia renale statica, che fornisce informazioni sulla morfologia e alla vascolarizzazione renale. In questo radiofarmaco si ritiene che il tecnezio abbia stato di ossidazione +3 o +5. Dopo somministrazione endovena, il 90% si lega alle proteine plasmatiche: questo ne impedisce l’eliminazione per filtrazione glomerulare. Dopo un’ora, il 50% della dose somministrata è fissato nei tubuli contorti prossimali, con un elevato rapporto di fissazione tra corticale e midollare (22:1). A distanza di 24 ore dalla somministrazione, il 50% della dose iniettata è ancora legato ai tubuli.

[99mTc]Medronato – [99mTc]methylene diphosphonate, Tc-MDP – (Fig. 44.2) è un radiofarmaco a base di tecnezio +7 appartenente alla classe dei bisfosfonati, analoghi sintetici del pirofosfato, che hanno un’elevatissima affinità per l’idrossiapatite che costituisce la matrice inorganica delle ossa: questo è il meccanismo di chemioassorbimento responsabile dell’accumulo di [99mTc]MDP nei principali siti di rimaneggiamento osseo. [99mTc]MDP rappresenta uno dei radiofarmaci più utilizzati per studi di scintigrafia ossea. Il radiofarmaco [99mTc]esametazima – [99mTc]hexamethylpropyleneamine oxime, [99mTc]HMPAO – (Fig. 44.2) è un complesso lipofilo neutro (stato di ossidazione del tecnezio +5) e per questa proprietà è in grado di attraversare la barriera ematoencefalica (BEE) e distribuirsi nel tessuto cerebrale. HMPAO non complessato possiede due centri chirali e quindi può essere ottenuto sia nella forma meso- che in quella d,l. Nella preparazione del radiofarmaco si ottiene dunque una miscela di meso-[99mTc]HMPAO e d,l-[99mTc] HMPAO. Questi stereoisomeri hanno un differente comportamento in vivo: solo la forma d,l-[99mTc]HMPAO è in grado di accumularsi nel tessuto cerebrale. È stato osservato in vitro che, dopo la preparazione, d,l-[99mTc]HMPAO si trasforma in un composto secondario la cui lipofilia è notevolmente diminuita. Sebbene la natura di questo complesso idrofilico non sia stata determinata, questa osservazione ha permesso di formulare un’ipotesi sulla distribuzione di questo radiofarmaco. È stato proposto che d,l-[99mTc]HMPAO venga convertito anche in vivo in una specie idrofilica per azione del glutatione presente nei tessuti. Una volta trasformato nel composto idrofilico, il radiofarmaco non sarebbe più in grado di riattraversare la BEE, restando quindi intrappolato nel cervello. Con [99mTc]HMPAO si esegue la scintigrafia cerebrale di perfusione per valutare alterazioni di flusso ematico cerebrale regionale, tipiche di alcune malattie neurodegenerative (malattia di Alzheimer) e, più in generale, di patologie cerebrovascolari. Questo radiofarmaco è anche utilizzato per marcare in vitro leucociti autologhi (cioè isolati dal sangue dello stesso paziente) per l’imaging di fenomeni infiammatori. [99mTc]Bicisato – [99mTc]etilcisteinato-dimero, [99mTc] EDC – (Fig. 44.2) è un complesso neutro (stato di ossidazione del tecnezio +5) che viene utilizzato per lo studio di anomalie della perfusione cerebrale regionale, poiché attraversa la BEE per diffusione passiva. All’interno dei neuroni subisce un processo di idrolisi enzimatica che porta alla formazione del corrispondente acido carbossilico. In questo modo si forma un composto idrofilo che resta intrappolato all’interno dei neuroni. L’eliminazione di questo radiofarmaco è molto lenta: ciò permette la realizzazione della scintigrafia fino ad almeno 6 ore dopo la somministrazione. [99mTc]Sestamibi – [99mTc]metossiisobutilisonitrile – e 99m [ Tc]-tetrofosmina sono due radiofarmaci cationici lipofili (Fig. 44.2) la cui captazione e ritenzione nei tessuti dipende dal flusso ematico locale, dalla vitalità cellulare, dal potenziale di membrana delle cellule e dall’attività mitocondriale. Nel primo farmaco il tecnezio ha stato di ossidazione +1, nel secondo +5. Entrambi i radiofarmaci, dopo somministrazione endovenosa, diffondono negli spazi interstiziali extracellulari e attraversano le membrane cellulari mediante 99m

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RADIOFARMACI

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O

+

N

N

Tc

+

O

N

+

O

O

-1

HOOC

O N

N

Tc N

S

O

[99mTc]MAG3

H3C

O

HO O

O P

OH Tc O

O O P O OH

N

O

CH3

+

O

H

CH3

O

N

CH3

O-

N

N

H3C O

O

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Tc

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+

CH3

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H3C

O

O

H3C

O

POP Tc POP

CH3

N

H3C

CH3

[99mTc]ECD

+

CH3 N

N

O

CH3

N CH3

Tc

O N

H 3C

O CH3

O S S

[99mTc]HMPAO

H3C

+

O

H

O

H3C

O Tc

N N

H3C

CH3

O

[99mTc](DMSA) 2

CH3

+

OH

[99mTc]MDP

H3C

N

H3C

P

OH

OH

H3C

COOH

COOH

[99mTc]DTPA

P

S

S

HOOC

O

O

O

COOH

O S

S

Tc

O

O

O

O

O-

O

CH3

O

CH3

CH3 O

O CH3

O

CH3

O

CH3

[99mTc]Sestamibi

CH3

[99mTc]Tetrofosmina

NH2 H2N

NH

NH2 O

H N

N H HO

HN

O N H

CH3

O O

O

CH3

O

O

NH

CH3 N

O S

O N H

O

[99mTc]Depreotide

Figura 44.2 Formule di struttura di radiofarmaci tecneziati.

N O N Tc N H2

S

N H

NH2 O

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diffusione passiva, grazie alla loro lipofilia, sfruttando la differenza di potenziale transmembrana a livello citoplasmatico che dipende dalla vitalità cellulare. Successivamente, essi passano irreversibilmente nei mitocondri a causa della presenza di un gradiente elettrico generato dal più elevato potenziale elettrico negativo situato all’interno del mitocondrio. Il [99mTc]sestamibi è impiegato nella pratica clinica anche per gli studi di perfusione miocardica (miocardioscintigrafia dopo stress e a riposo). [99mTc]-Depreotide (Fig. 44.2) è un radiofarmaco targetspecifico nel quale il tecnezio ha stato di ossidazione +5. Esso è in grado di legarsi ai recettori della somatostatina (SST) che sono iperespressi nei tumori neuroendocrini. Il peptide depreotide presenta una regione esapeptidica ciclica che contiene la sequenza aminoacidica responsabile dell’interazione con i recettori della SST e una sequenza lineare tetrapeptidica che venne progettata per formare il complesso di coordinazione con 99mTc. Gli studi iniziali misero in evidenza che questo radiofarmaco è efficace nell’imaging dei tumori neuroendocrini. Successivamente è stata osservata una forte interazione con il sottotipo 3 dei recettori della SST, che sono iperespressi nel carcinoma polmonare a piccole cellule. [99mTc]Arcitumomab ([99mTc]IMMU-4) è un radiofarmaco che si ottiene dalla coniugazione del 99mTc con l’anticorpo monoclonale diretto contro l’antigene carcinoembrionale. Questo antigene è tipicamente espresso dal carcinoma del colon-retto e da altre neoplasie dell’apparato digerente (esofago, stomaco, pancreas, vie biliari). [99mTc] Arcitumomab è un esempio di radiofarmaci che hanno come target proteine presenti sulla superficie cellulare durante una trasformazione patologica. Il legame con il target avviene con un meccanismo immunologico o di affinità non recettoriale. La marcatura di anticorpi con 99mTc viene effettuata mediante ligandi diamide-ditiolato, che formano complessi tetradentati molto stabili con Tc(V), e coniugazione di questi con residui di lisina presenti nella sequenza peptidica degli anticorpi. Lo schema per la radiomarcatura degli anticorpi è riportato nella Scheda 44.2.

Radiofarmaci SPECT basati su radioisotopi dello iodio I radioisotopi iodio-123 e iodio-131 (123I e 131I), sotto forma di sali sodici, sono comunemente utilizzati come radiofarmaci per la diagnosi e la terapia di patologie della tiroide. Questi anioni radioattivi vengono captati all’interno delle

cellule della tiroide attraverso un meccanismo di cotrasporto attivo (sodio/iodio symporter) che permette l’entrata dello ioduro all’interno della cellula contro gradiente di concentrazione, sfruttando l’energia del gradiente elettrochimico del sodio. L’accumulo intracellulare dello ioduro è regolato dai livelli sierici dell’ormone tireotropo (TSH). Gli ormoni tiroidei tiroxina e triiodotironina sono sintetizzati a partire dalla tirosina (Cap. 25): lo ione ioduro intracellulare subisce un processo di ossidazione da parte dell’enzima tireoperossidasi che consente la trasformazione dell’aminoacido in monoiodotirosina e diiodotirosina. Da queste sostanze hanno poi origine gli ormoni tiroidei (Cap. 25). Attualmente, 131I è impiegato a scopo diagnostico unicamente per quantificare la captazione di I– nelle fasi preliminari della radioterapia metabolica e per la scintigrafia corporea in pazienti già sottoposti a terapia primaria per tumore tiroideo differenziato (asportazione chirurgica e ablazione con 131I– del residuo tiroideo post-chirurgico). Il radiofarmaco 123I– possiede in linea di principio caratteristiche ideali per la scintigrafia tiroidea, grazie al suo breve t1/2 (12,8 ore), ma il suo uso nella scintigrafia tiroidea è stato rimpiazzato con 99mTcO4– a causa della limitata disponibilità e dell’elevato costo. La meta-iodiobenzilguanidina (MIBG) (Fig. 44.3) radiomarcata con isotopi dello iodio, venne introdotta intorno al 1980 per la diagnosi dei tumori della midollare del surrene, se marcata con 123I, o anche per la radioterapia, se marcata con 131I. MIBG è un analogo strutturale delle catecolamine e per questo motivo è captata dalle cellule cromaffini seguendo la stessa via metabolica della noradrenalina, attraverso un processo attivo ATPasi-dipendente. Il radiofarmaco viene inizialmente immagazzinato nei granuli citoplasmatici di secrezione e successivamente secreto per esocitosi. Pertanto MIBG radiomarcata si accumula fisiologicamente nelle vescicole secretorie localizzate a livello dei gangli del sistema simpatico, della midollare del surrene e di quei tessuti a elevata innervazione adrenergica come le ghiandole salivari e il miocardio. Questo radiofarmaco si accumula nei tumori neuroendocrini, i quali esprimono recettori adrenergici. Le principali applicazioni cliniche della scintigrafia con questo radiofarmaco sono l’individuazione, la localizzazione, la stadiazione e il follow-up dei tumori neuroendocrini e delle loro metastasi (feocromocitoma, neuroblastoma, paraganglioma, carcinoma midollare tiroideo). Inoltre, scintigrafie con MIBG radiomarcata vengono utilizzate in studi funzionali

F NH

N

O

HN

O

NH2 123

CH3

123

I [123I]MIBG

Figura 44.3 Formule di struttura di radiofarmaci marcati con iodio-123.

[123I]FP-CIT

I

961

962

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per la valutazione dell’iperplasia midollare surrenalica e per stimare il livello di innervazione simpatica del miocardio, delle ghiandole salivari e del polmone. Il radiofarmaco [123I]ioflupan – N-(3-fluoropropil)-2βcarbometossi-3β-(4-[123I]iodofenil)nortropane, [123I]FP-CIT – (Fig. 44.3) è un analogo della cocaina in grado di legarsi al sistema di trasporto della dopamina (dopamine transporter, DAT) che è presente nelle terminazioni pre-sinaptiche dei neuroni dopaminergici e in particolare di quelli del sistema nigro-striatale. La scintigrafia con [123I]FP-CIT permette di valutare l’integrità del sistema dopaminergico nigro-striatale e rappresenta un marker biologico di degenerazione di questo sistema. Le principali indicazioni cliniche della scintigrafia con questo radiofarmaco sono la diagnosi differenziale fra le sindromi parkinsoniane (correlate alla malattia di Parkinson idiopatica, all’atrofia plurisistemica e alla paralisi sopranucleare progressiva) e il tremore essenziale. Infatti, nella malattia di Parkinson la perdita dei neuroni dopaminergici è associata a quella del DAT e la scintigrafia con [123I] FP-CIT evidenzia un deficit di captazione a livello dei nuclei della base. Inoltre, essa è indicata per la diagnosi differenziale fra demenza a corpi di Lewy e malattia di Alzheimer. Poiché [123I]FP-CIT interagisce in modo specifico con il DAT, è necessario evitare interferenze con agenti psicotropi che interagiscono con esso (ad es. amfetamine, benzatropina, bupropirone, cocaina, sertralina).

anche uscirne dopo un lasso di tempo, fino al raggiungimento di uno stato di equilibrio con i fluidi extracellulari (redistribuzione). Infatti, a livello cardiaco dapprima si osserverà accumulo del radiofarmaco in tutte le aree irrorate (le aree necrotiche, senza vascolarizzazione significativa, non capteranno nulla), mentre successivamente il fenomeno della redistribuzione sopra descritto farà in modo che nei tessuti ben irrorati il radiofarmaco venga allontanato, lasciando captanti le aree con stenosi in cui questo processo è più lento. Questo radiofarmaco è anche utilizzato nell’imaging tumorale e in particolare nella differenziazione del tessuto vitale da quello fibro-cicatriziale dopo radioterapia e chemioterapia. Indio-111 è un radionuclide γ-emittente utilizzato per la preparazione del radiofarmaco target-specifico [111In]penteotride (Fig. 44.4). Questo radiofarmaco interagisce con i recettori della SST che sono iperespressi nei tumori neuroendocrini, enterogastropancreatici e carcinoidi. Questo radiofarmaco è costituito da una porzione in grado di legare in modo specifico i sottotipi recettoriali SST2 e SST5, e da un gruppo chelante dell’acido dietilenetriaminopentaacetico (DTPA) che permette il legame con indio-111, radionuclide metallico che emette particelle γ con t1/2 = 2,38 giorni. La porzione di questo radiofarmaco in grado di legare i recettori della SST è il peptide octreotide, analogo sintetico della SST, formato da 8 aminoacidi e caratterizzato da maggiore stabilità metabolica rispetto al peptide endogeno SST. All’octreotide è legato, attraverso un legame amidico dell’azoto N-terminale, il DTPA che è necessario per chelare lo ione 111In3+. È da notare che l’inserimento del gruppo DTPA che chela 111In3+ non ha influenza sull’attività biologica del peptide, nonostante il notevole ingombro sterico. La scintigrafia con questo radiofarmaco è indicata principalmente nella diagnosi, stadiazione e follow-up dei tumori primitivi e metastatici che esprimono i recettori della SST. Seppure in misura minore, un aumento di espressione dei recettori della SST si verifica anche nei paragangliomi, carcinomi midollari, neuroblastomi, feocromocitomi e anche nei tumori dell’ipofisi e nei meningiomi. Gradi diversi di espressione dei

Altri radiofarmaci SPECT Il tallio-201 come 201TlCl2 è un radiofarmaco utilizzato per la scintigrafia miocardica e per differenziare sistemi cellulari metabolicamente attivi, come i tumori. Lo ione talloso (Tl+) è un catione monovalente con caratteristiche simili a quelle dello ione K+. Pertanto, si ritiene che il 201Tl+ entri attivamente nel citosol tramite la pompa Na+-K+, sostituendosi allo ione potassio. La captazione è influenzata sia dal flusso ematico regionale sia dalla vitalità tissutale, poiché la pompa Na+-K+ richiede ATP per funzionare. Comportandosi come K+, 201Tl+, una volta trasportato nella cellula, può

N

O O

N

In O O O O O

O N

O

H N

N H

H N

N H

O

S

O

HO HO

H N O CH3

[111In]Penteotride

Figura 44.4 Formula di struttura di [111In]penteotride.

NH

HN

S O

O

O

O N H H3C

HN

O CH3

NH2

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recettori della SST si osservano anche in tumori non-neuroendocrini (carcinoma della mammella, linfomi Hodgkin e non Hodgkin). Il gallio-64, sotto forma di citrato di 67Ga2+, è un radiofarmaco SPECT il cui meccanismo di accumulo nei tessuti è abbastanza complesso e non del tutto chiarito. Dopo somministrazione per via endovenosa lo ione 67Ga2+ si lega alle proteine plasmatiche per il 90% e in particolar modo alla transferrina in stretta analogia con lo ione Fe2+ e per questo motivo la sua clearance è piuttosto lenta. Il principale meccanismo di accumulo nei tessuti tumorali e infiammatori sarebbe in relazione al complesso formato con la transferrina, per la quale esistono recettori di membrana iperespressi sulle membrane delle cellule di questo tipo di tessuti. L’iperespressione dei recettori per la transferrina sulle cellule in attiva proliferazione e in attivazione metabolica si verifica per rispondere alle aumentate esigenze metaboliche, poiché lo ione Fe2+ è un componente indispensabile in alcuni processi enzimatici coinvolti nella produzione di energia. La scintigrafia con [67Ga]citrato è stata in larga parte sostituita dall’impiego di radiofarmaci SPECT e PET sviluppati di recente. Tuttavia, questo radiofarmaco trova ancora delle indicazioni di elezione, in particolare per valutare il grado di attività dei linfomi Hodgkin e non Hodgkin, nelle sarcoidosi e per la visualizzazione di focolai infettivi in alcuni distretti particolari, come nel caso delle osteomieliti vertebrali. Lo xenon-133 è un gas nobile, dunque inerte, che emette particelle γ (t1/2 = 5,3 giorni). Questo radiofarmaco è utilizzato per indagini scintigrafiche di ventilazione polmonare. Tuttavia, il suo uso è limitato dalla contemporanea emissione di particelle β– che ne impedisce la somministrazione di elevate quantità, per mantenere la radioesposizione del paziente entro limiti accettabili.

44.1.2 Radiofarmaci PET La PET è una tecnica di molecular imaging che impiega radiofarmaci marcati con un radionuclide in grado di emettere positroni. Dopo somministrazione per via endovenosa, il

radiofarmaco raggiunge in modo altamente specifico il proprio bersaglio biologico, dove si accumula. In seguito al decadimento radioattivo, il radionuclide emette un positrone β+ (particella con la stessa massa dell’elettrone ma con carica positiva) che, avendo bassa energia, percorre una breve distanza dal punto in cui è avvenuto il decadimento, incontra un elettrone (β–) della matrice biologica e origina l’evento di annichilazione. Questo evento comporta l’emissione di una coppia di particelle γ ad alta energia (511 keV) che si dipartono dal punto di annichilazione formando un angolo di circa 180° (Fig. 44.5). L’energia di queste particelle γ consente loro di uscire dall’organismo e colpire uno scanner: questo registra solo la presenza di particelle γ che collidono contemporaneamente formando tra di loro un angolo di 180°. Un opportuno algoritmo permette di localizzare in modo molto accurato il punto dell’organismo nel quale è avvenuto l’evento di annichilazione, dando informazioni molto dettagliate sulla localizzazione e l’accumulo del radiofarmaco nell’organismo. I radionuclidi emettitori di positroni più utilizzati sono riportati nella Tabella 44.2. A causa del loro breve t1/2, ossigeno-15 (15O) e azoto-13 (13N) non vengono incorporati in biomolecole, ma vengono utilizzati per la produzione di molecole semplici quali H215O, 15 O2, C15O ed 13NH3. I gas 15O2 e C15O sono impiegati nella valutazione del consumo di ossigeno, invece con H215O si studia il flusso ematico. L’ammoniaca 13NH3 viene utilizzata come tracciante di flusso per la valutazione dell’ischemia del miocardio. Gli altri radionuclidi emettitori di positroni, invece, hanno un t1/2 sufficientemente lungo da permettere la loro incorporazione in molecole bioattive. Fluoro-18 (18F) e carbonio-11 (11C) ricoprono un ruolo centrale in ambito di ricerca e di diagnostica nella routine ospedaliera, perché la loro chimica è molto versatile e offre la possibilità di sintetizzare un gran numero di molecole bioattive che incorporano questi radionuclidi. 18 F è prodotto prevalentemente mediante bombardamento con protoni di acqua contenente l’elemento stabile ossigeno-18 (H218O). In questo modo si genera l’anione

Radionuclide che emette positroni

 (511 keV)

+ e-

180°

Figura 44.5 Rappresentazione schematica del principio sul quale si basa la PET.

 (511 keV)

963

964

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Tabella 44.2 Radionuclidi emettitori di positroni e relativi tempi di dimezzamento. Radionuclide

t1/2

Energia massima (MeV)

Fluoro-18 (18F)

110 min

0,64

Carbonio-11 ( C)

20,3 min

0,97

Azoto-13 (13N)

10 min

1,20

2 min

1,74

11

15

Ossigeno-15 ( O) 76

Bromo-76 ( Br)

16,2 ore

4,0

Iodio-124 (124I)

4,18 giorni

2,14

Gallio-68 (68Ga)

68,1 min

1,90

Rame-64 (64Cu)

12,7 ore

0,655

F che viene utilizzato in reazioni di sostituzione nucleofila bimolecolare (SN2) o aromatica. Si deve notare che lo ione F– è un pessimo nucleofilo, specialmente in soluzione acquosa dove la solvatazione ad opera di H2O ne reprime la reattività nucleofila. Per ovviare a questo inconveniente la reazione di sostituzione nucleofila con 18F– viene condotta in ambiente anidro e in presenza di un etere corona tridimensionale (Kriptofix®) che forma un complesso con K+, il controione di F–, lasciando quest’ultimo disponibile alla reazione di sostituzione nucleofila. L’irraggiamento del neon-20 o di 18O2 con deuteroni (D+, isotopo di H+) permette la produzione del gas 18F2 che viene utilizzato per reazioni di sostituzione elettrofila. 18 –

2-Desossi-2-18F-α-d-glucopiranosio ([18F]FDG) [18F]FDG (Fig. 44.6) è il radiofarmaco PET di maggiore impiego in clinica, dove è utilizzato in campo oncologico, cardiologico e neurologico come tracciante di metabolismo. Dopo la somministrazione endovena, [18F]FDG entra nelle cellule attraverso la membrana tramite trasporto facilitato e, seguendo la stessa via metabolica del glucosio, viene fosforilato a [18F]FDG-6-fosfato per azione di un’esochinasi. Tuttavia, [18F]FDG-6-fosfato è metabolizzato solo in piccola parte (a differenza del glucosio-6-fosfato) ed è quindi captato in notevole quantità a livello tissutale, permettendo la visualizzazione della sede d’accumulo (Fig. 44.7). La velocità di accumulo di [18F]FDG-6-fosfato è proporzionale alla velocità di fosforilazione del glucosio esogeno e all’impiego del glucosio da parte dei tessuti. Per questo motivo, il maggiore accumulo si osserva nei tessuti con intensa attività glicolitica, quali cuore e cervello, ma anche nei tessuti

H OH HO HO

H

H2N O

H H [18F]FDG

H

F OH

tumorali. Questi ultimi sono caratterizzati da aumentata captazione di glucosio causata dalla maggior richiesta di energia. Questo permette di differenziare il tessuto tumorale da quello sano. [18F]FDG è il radiofarmaco PET di gran lunga più utilizzato in clinica e in ambito di ricerca. In oncologia [18F]FDG trova impiego nella diagnosi, nella stadiazione e nel followup del tumore del polmone non a piccole cellule, carcinoma del colon-retto, melanoma maligno, linfoma di Hodgkin e non Hodgkin, carcinoma esofageo, tumore della testa e del collo, tumore alla mammella, tumore alla tiroide. Per quanto riguarda il sistema nervoso centrale, le applicazioni cliniche sono malattia di Alzheimer, demenza, epilessia, trauma cranico, malattia di Huntington, disturbi cerebrovascolari, tumori al cervello. Per quanto riguarda i disturbi cardiovascolari, [18F]FDG è utilizzato per lo studio della vitalità miocardica e nell’aterosclerosi. Infine, questo radiofarmaco può essere impiegato nella diagnostica PET dei processi flogistico-infettivi, dove il meccanismo di accumulo è legato all’iperemia associata al processo flogistico acuto. Lo schema della radiosintesi di [18F]FDG è riportato nel Box 44.1.

l-6-[18F]Fluorodiidrossifenilalanina (6-[18F]DOPA) Il primo radiofarmaco utilizzato nello studio della funzione dopaminergica nigro-striatale è stato la 6-[18F]DOPA (Fig. 44.6). Questa molecola è un analogo della diidrossifenilalanina (DOPA), aminoacido precursore della dopamina, da cui si differenzia per la presenza in posizione 2 dell’anello catecolico di un atomo di 18F. Dopo somministrazione endovenosa, eseguita bloccando contemporaneamente l’enzima DOPA decarbossilasi periferica con carbidopa, questo radiofarmaco attraversa la BEE, sfruttando la presenza di sistemi di trasporto di l-aminoacidi, e penetra nei neuroni dopaminergici dove si accumula nelle terminazioni presinaptiche nigrostriatali. Qui la 6-[18F]DOPA è convertita a 6-[18F]dopamina dall’enzima l-aminoacidi-aromatici decarbossilasi. Questa quindi viene immagazzinata nelle vescicole sinaptiche, dalle quali viene successivamente rilasciata nello spazio sinaptico. In condizioni normali, a 60-90 minuti dalla somministrazione, la captazione striatale della 6-[18F] DOPA riflette l’attività dell’enzima l-aminoacidi-aromatici decarbossilasi e il trasporto del radiofarmaco nelle vescicole delle terminazioni pre-sinaptiche. Nei casi in cui la trasmissione dopaminergica è compromessa (ad es. nella malattia di Parkinson) si nota diminuzione o assenza di accumulo. Questo radiofarmaco è attualmente poco utilizzato, soprattutto H

COOH H311C

HO

S

H

COOH

NH2 HO

18F

6-[18F]DOPA

Figura 44.6 Formule di struttura di radiofarmaci emettitori di positroni.

[11C]Metionina

CAPITOLO 44 • Radiofarmaci

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H OH H O

HO HO

H

Esochinasi

OH OH

H

GLU-6-P

H

Altri prodotti

D-Glucosio

(GLU)

H OH H O

HO HO

H

Esochinasi

F

H

[18F]FDG-6-P

H OH

[18F]-2-Desossi-2-fluoroglucosio [18F]FDG Esterno

Interno

Membrana cellulare

Figura 44.7 Rappresentazione schematica del meccanismo di accumulo endocellulare di [18F]FDG.

BOX 44.1 ■ Radiosintesi di [18F]FDG La radiosintesi di [18F]FDG avviene come descritto nello schema sotto riportato. Il composto di partenza è il 1,3,4,6-tetra-O-acetil-b-D-mannopiranosio triflato (1) che viene sottoposto a una reazione SN2 ad opera del nucleofilo 18F– che porta, procedendo con inversione di configurazione al C2, a 18F-1,3,4,6-tetra-O-acetil-2-desossi-2-fluoro-a-d-glucopiranosio (2). Successivamente, (2) subisce idrolisi alcalina per dare [18F]FDG. Per motivi H OAc AcO AcO

H H

H OAc

OTf O H

di radioprotezione e per minimizzare i tempi necessari alla sintesi del radiofarmaco, la sintesi di [18F]FDG viene effettuata in modo automatizzato con l’ausilio di apparecchiature dedicate (moduli di sintesi) che permettono di avere una soluzione di [18F]FDG idonea alla somministrazione endovenosa in meno di 30 minuti a partire dal momento di inizio di produzione di 18F–.

18F-/K

2CO3

H

Kryptofix 2.2.2.

AcO AcO

H

H

1

O

18F

H

OAc

H OH NaOH

HO HO

H

H

H

O

H

OAc

H

18F

OH

[18F]FDG

2 N Ac = COCH3 Tf = CF3SO2

O Kryptofix 2.2.2. = O

O O

O O

N

perché costoso e di difficile sintesi. Inoltre, si ritiene che non offra particolari vantaggi diagnostici rispetto alla scintigrafia con [125I]FP-CIT. Di recente, è stato proposto l’uso della 6-[18F]DOPA per la diagnosi dei tumori neuroendocrini, nei

quali si verifica una notevole captazione di questo radiofarmaco. Lo schema della radiosintesi di 6-[18F]DOPA è riportato nel Box 44.2.

965

966

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BOX 44.2 ■ Sintesi della 6-[18F]DOPA La 6-[18F]DOPA viene sintetizzata, come descritto nello schema sotto riportato, a partire dal derivato 6-stannilico (1) che permette la fluorurazione regioselettiva in posizione 6 dell’anello aromatico; seguono le reazioni di deprotezione del composto (2) e di separazione degli enantiomeri attraverso HPLC semipreparativa. Nella raHOCHN (H3C)3C-OOC (H3C)3C-OOC

H

COOC2H5

O

H

HOCHN 18F 2

O

diosintesi della 6-[18F]DOPA l’inserimento dell’atomo di 18 F avviene per reazione del substrato con 18F2 attraverso un meccanismo di sostituzione elettrofila: questo è uno dei motivi che causa una resa complessiva della reazione molto bassa.

Sn(CH3)3

(H3C)3C-OOC (H3C)3C-OOC

1

[11C]Metionina Diversi aminoacidi radiomarcati con nuclidi emettitori di positroni sono stati studiati come possibili radiofarmaci per la diagnosi tumorale, perché nelle cellule neoplastiche è stato osservato un significativo aumento del metabolismo delle proteine. La [11C]metionina (Fig. 44.6) è un radiofarmaco approvato per uso umano per la diagnosi di diverse forme tumorali come quelle del cervello, della mammella e della testa e del collo. Tuttavia, l’indicazione principale è quella delle neoplasie cerebrali poiché, in questo contesto, la [11C]metionina presenta un certo vantaggio rispetto a [18F]FDG. Infatti, la [11C] metionina ha un modesto o pressoché nullo accumulo nel tessuto cerebrale normale, a differenza di [18F]FDG che viene significativamente fissato dal cervello. Va ricordato che la [11C]metionina, essendo un aminoacido naturale, supera senza difficoltà la BEE e le membrane cellulari. A causa del breve t1/2 di 11C, l’utilizzo di questo radiofarmaco è limitato a quei centri ospedalieri che abbiano il ciclotrone che produce 11CO2, il laboratorio di radiochimica che sintetizza la [11C]metionina e il reparto di medicina nucleare situati a brevissima distanza e coordinati tra loro. Lo schema della radiosintesi della [11C]metionina è riportato nella Scheda 44.3.

44.2 Radiofarmaci terapeutici I radionuclidi utilizzati per la terapia medico-nucleare (o radioterapia metabolica) decadono emettendo particelle α (nuclei di He) o particelle β– (elettroni in senso classico). Questi, inoltre, includono gli elettroni di Auger, una sottocategoria di elettroni caratterizzati da energia relativamente bassa (da 450 eV fino a circa 2 keV). Per quanto molto promettenti dal punto di vista teorico, proprio perché la bassa energia renderebbe altamente focalizzata l’irradiazione dei tessuti, i radionuclidi che emettono elettroni Auger sono per ora utilizzati solo a livello di ricerca di base. In Tabella 44.3 sono elencati i radionuclidi impiegati nella radioterapia metabolica. L’effetto citotossico delle radiazioni ionizzanti si verifica principalmente per azione diretta sulle macromolecole che hanno un ruolo critico per la vita cellulare, mediante ionizzazione

COOC2H5

O

1. HBr 2. HPLC

18

O

F

2

H

H2N

COOH

HO 18

HO

F

6-[18F]DOPA

e conseguente frammentazione e ricomposizione anomala. Inoltre esiste un’azione indiretta delle radiazioni ionizzanti che si esercita sulle strutture cellulari critiche (essenzialmente il DNA). L’azione indiretta è dovuta alla produzione, per effetto primario della radiazione ionizzante, di radicali liberi dell’ossigeno, specie altamente reattive che inducono la formazione di legami incrociati anomali tra catene di DNA adiacenti. Le lesioni critiche prodotte da questi eventi sono difficilmente riparabili. Il danno indotto sulle cellule dalle radiazioni ionizzanti durante la replicazione si traduce prevalentemente in un blocco in una determinata fase del ciclo cellulare.

44.2.1 Radiofarmaci -emittenti Le particelle α trasferiscono la loro energia dopo un brevissimo percorso nella materia, non a causa di bassa energia, ma perché la loro massa è relativamente grande (si tratta di nuclei di He aventi massa pari a 4 Da). Infatti, il loro percorso è frenato dalle numerose interazioni con i nuclei della materia che attraversano. Questo fenomeno si traduce in un elevato LET, parametro che esprime la quantità di energia media depositata per unità di percorso (espressa in keV/ mm). Diversamente da quanto si verifica con le particelle γ, caratterizzate da un basso LET, la cellula ha limitate capacità di riparare danni apportati al proprio DNA dalle particelle α, che sono quindi notevolmente citotossiche. Per essere efTabella 44.3 Radionuclidi utilizzati nei radiofarmaci terapeutici. Radionuclide

t1/2

Emissione

11,4 giorni

Particelle α

8 giorni

Elettroni β– ad alta energia

90

Ittrio-90 ( Y)

64 ore

Elettroni β– ad alta energia

Samario-153 (153Sm)

1,9 ore

Elettroni β– ad alta energia

Stronzio-89 (89Sr)

50,5 ore

Elettroni β– ad alta energia

6,7 giorni

Elettroni β– ad alta energia

Radio-223 (

223

Ra)

Iodio-131 (131I)

Lutezio-177 (

177

Lu)

CAPITOLO 44 • Radiofarmaci

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5N

O O

153

P O

O P O

Sm

N P

O O

O P O

O

[153Sm]EDTMP

O

HO P

O

OH

O

O P

Re HO OH O HO O OH P P O OH OH O

[ 186Re]HEDP

Figura 44.8 Formule di struttura dei radiofarmaci [153Sm]EDTMP e [186Re]HEDP utilizzati nella radioterapia metabolica.

ficaci a fini terapeutici, le particelle α devono essere emesse nell’interno del tessuto bersaglio, dove è pertanto necessario che il radiofarmaco terapeutico si concentri in modo specifico e uniforme. Il radio-223 (somministrato come 223RaCl2) è l’unico radiofarmaco approvato per uso umano che emetta particelle α. Lo ione 223Ra2+ appartiene al gruppo dei metalli alcalino-terrosi come il Ca2+ e per questo possiede spiccate caratteristiche osteotrope. Per questo motivo 223RaCl2 è utilizzato per la terapia palliativa del dolore da metastasi scheletriche. Si ritiene che l’azione delle radiazioni ionizzanti a livello delle lesioni neoplastiche provochi una riduzione della liberazione di sostanze algogene (prostaglandine, interleuchine e altre citochine).

44.2.2 Radiofarmaci -emittenti La radioterapia metabolica si basa quasi esclusivamente sull’uso di radionuclidi che emettono particelle β– (intese in senso classico), con uno spettro continuo di energia di 0,055-2,3 MeV e con un LET di circa 0,2 keV/mm. Anche se le particelle β– posseggono una capacità di penetrazione tissutale superiore a quella delle particelle α, è comunque indispensabile che il radiofarmaco raggiunga un’elevata concentrazione nel tessuto bersaglio per esplicitare efficacia citotossica paragonabile a quella delle particelle α. Nella maggior parte dei casi, l’unica differenza tra i radiofarmaci diagnostici e i corrispondenti radiofarmaci per terapia è la sostituzione del radionuclide γ-emittente con il radionuclide che emette particelle β–. Ovviamente questa variazione non modifica il destino metabolico del radiofarmaco. In alcuni casi, addirittura, il radiofarmaco a uso terapeutico è identico a quello per uso diagnostico (come nel caso di 131I– e [131I]MIBG): l’unico parametro che cambia tra le due applicazioni è solo la dose radioattiva somministrata (molto maggiore nel caso di uso terapeutico). Molti radionuclidi incorporati nei radiofarmaci terapeutici, come 131I, samario-153 (153Sm), renio-186 (186Re), renio-188 (188Re) e lutezio-177 (177Lu) emettono anche particelle γ, le quali non contribuiscono all’efficacia terapeutica dell’emissione β–, ma vengono sfruttate per ottenere immagini scintigrafiche per determinare la localizzazione in vivo del radiofarmaco.

Lo iodio-131, come sale sodico (Na131I), è utilizzato nella terapia della malattia di Basedow-Graves. Questa malattia è causata dalla presenza di autoanticorpi del recettore dell’ormone tireostimolante i quali, stimolando il recettore, determinano un aumento della sintesi e della secrezione degli ormoni tiroidei e iperplasia tiroidea diffusa. In queste condizioni, il parenchima tiroideo mostra una ipercaptazione diffusa del radiofarmaco. L’obiettivo della terapia con 131I è la distruzione completa del parenchima tiroideo e quindi l’induzione di ipotiroidismo iatrogeno, condizione che viene trattata con una terapia ormonale sostitutiva. Il samario-153-etilendiamino-tetrametilene-fosfonato – [153Sm]EDTMP – (Fig. 44.8), il renio-186-idrossi-etilidene-bifosfonato – [186Re]HEDP – (Fig. 44.8) e lo stronzio-89 (come cloruro, 89SrCl2) sono dei radiofarmaci osteotropi che trovano impiego nella palliazione del dolore da metastasi caratterizzate da aumentata attività osteoblastica, e da sclerosi causate da reazione ossea alla lesione metastatica (ad es. le metastasi da carcinoma prostatico e lesioni metastatiche da altre neoplasie, come il carcinoma mammario, caratterizzate da un quadro osteoblastico/osteolitico). Come già evidenziato sopra, l’esatto meccanismo d’azione dei radiofarmaci osteotropi nel determinare la palliazione del dolore non è completamente chiarito. [153Sm]EDTMP possiede spiccato osteotropismo, del tutto analogo a quello di altri difosfonati marcati, come [99mTc] MDP, utilizzati per la scintigrafia ossea. Dopo somministrazione endovena il [153Sm]EDTMP è rapidamente rimosso dal torrente circolatorio con emivita plasmatica di 5,5 minuti; circa il 60% dell’attività iniettata si localizza nelle strutture ossee. Anche [186Re]HEDP è un radiofarmaco osteotropo, con caratteristiche analoghe a quelle di [153Sm]EDTMP. Questo radiofarmaco si lega alla matrice inorganica dello scheletro con una cinetica del tutto simile a quella di altri difosfonati. Lo stronzio appartiene al gruppo dei metalli alcalinoterrosi, di cui fa parte il calcio. Pertanto, lo ione 89Sr2+ segue nell’organismo lo stesso destino metabolico del Ca2+, accumulandosi nei cristalli di idrossiapatite della matrice minerale ossea. Quindi, questo radiofarmaco si accumula nelle sedi di aumentato turnover osseo, come le metastasi osteoblasti-

967

968

RADIOFARMACI

che o miste, raggiungendo concentrazioni 2-20 volte più elevate rispetto al tessuto osseo normale. [90Y]Ibritumomab tiuxetan è un radiofarmaco che contiene il radioisotopo ittrio-90 utilizzato per il trattamento dei linfomi non Hodgkin di tipo follicolare. È un immunoconiugato dell’anticorpo monoclonale di topo anti-CD20 chelato con 90 Y. L’antigene CD20 è una fosfoproteina idrofobica non glicosilata presente sulla superficie delle cellule dei linfomi non Hodgkin a cellule B a basso grado. La farmacocinetica di [90Y] ibritumomab tiuxetan è caratterizzata da una emivita plasmatica di 28 ore. Poiché 90Y non emette raggi γ, la biodistribuzione del radiofarmaco è generalmente valutata mediante immagini acquisite con [111In]ibritumomab tiuxetan. Va sottolineato che, quando si utilizzano anticorpi come molecole carrier, è necessaria un’elevata attività specifica del radioisotopo, per limitare al massimo la quantità di radiofarmaco somministrato, senza saturare i siti di legame sulla cellula tumorale. [131I]MIBG è un radiofarmaco utilizzato nel trattamento delle neoplasie di derivazione neuro-ectodermica, quali neuroblastoma, feocromocitoma, paraganglioma, carcinoma midollare della tiroide e carcinoidi. Il meccanismo di accumulo di questo radiofarmaco è identico a quello di [123I] MIBG, già discusso in precedenza, che viene utilizzato per la scintigrafia.

44.3 Conclusioni e prospettive In questo capitolo sono stati illustrati i principi alla base del funzionamento dei radiofarmaci diagnostici e di quelli tera-

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peutici. I radiofarmaci diagnostici sono dei potenti strumenti a disposizione per la diagnosi di svariate patologie. Essi vengono impiegati principalmente in campo oncologico, ma il loro uso si estende anche a disturbi del sistema nervoso centrale e del sistema cardiocircolatorio. La diagnosi effettuata con i radiofarmaci è altamente complementare con quella realizzata con altri metodi di imaging quali la tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica (RM) poiché, mentre questi ultimi metodi danno informazioni sull’anatomia dei tessuti, le tecniche di molecular imaging SPECT e PET forniscono informazioni sulla funzionalità tissutale. Questo è di particolare importanza perché con i radiofarmaci diagnostici è possibile avere informazioni sul progresso di una patologia prima ancora che siano evidenti anomalie anatomiche. Le potenzialità dei radiofarmaci diagnostici non sono state ancora del tutto esplorate: la ricerca in questo ambito è particolarmente attiva ed è orientata all’identificazione di nuovi target biologici che siano indicatori precoci di uno stato patologico. Strumenti con queste caratteristiche sono particolarmente necessari in quelle patologie per le quali non è stata ancora individuata una valida terapia: si pensi alla malattia di Alzheimer, per la quale sono a disposizione farmaci che possono solo rallentare il decorso della malattia. Un intervento tempestivo acquisterebbe particolare valore. Altrettanto si può dire per tutte quelle forme tumorali per le quali un intervento immediato porterebbe un notevole aumento delle probabilità di successo della terapia, inclusa quella con i radiofarmaci terapeutici che già ora affianca con successo altri farmaci in oncologia.

Materiali online

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CAPITOLO 3 • Caratteristiche strutturali e attività biologica online

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Scheda 3.1  Nomenclatura degli isomeri configurazionali Gli enantiomeri vengono indicati con i simboli (+) e (–) a seconda che il piano della luce polarizzata che li attraversa sia ruotato rispettivamente verso destra o verso sinistra; al racemo viene assegnato il simbolo (±). Successivamente con lo stesso significato si sono usate le lettere d per l’enantiomero destrorotatorio, l per quello levorotatorio e dl per il racemo. È importante, in riferimento a un particolare enantiomero, poter indicare la configurazione senza doverne ogni volta scrivere la struttura. Poiché non esiste alcuna ovvia correlazione tra la configurazione assoluta degli enantiomeri e il senso di rotazione del piano della luce polarizzata, per attribuire la loro configurazione esistono alcune convenzioni come il sistema d-l o di Fischer-Rosanoff e il sistema (R-S) o di Cahn-Ingold-Prelog. Il primo sistema di designazione risale alla fine dell’800, quando Fischer e Rosanoff assegnarono all’enantiomero destrogiro della gliceraldeide il prefisso d-(+) e al levogiro l-(–). CHO H

HO

CH2OH

H2N

NH2 CH2OH

D-(+)-Serina

H

H R

1

CHO

H

2

OH

3

CH2OH

D-(+)-Gliceraldeide

L-(–)-Treonina

H

H

C

C

C

C

R

L-(–)-Gliceraldeide

1

H

H OH

le Regole di Sequenza ed è stato presentato nel 1956 da Cahn, Ingold e Prelog. Secondo tale convenzione, i quattro sostituenti legati al carbonio asimmetrico vengono ordinati dal più alto al più basso numero atomico. Nel caso di connessione con atomi aventi lo stesso numero atomico si prendono in considerazione gli atomi successivi fino a stabilire la priorità. In presenza di isotopi, la priorità va a quello con massa atomica maggiore. I doppi e tripli legami vengono considerati come se ogni atomo legato in questo modo fosse raddoppiato o triplicato.

H

Ponendo arbitrariamente in alto il gruppo aldeidico (CHO), che corrisponde all’atomo di carbonio col numero di ossidazione più elevato, è stata assegnata la configurazione d quando il gruppo ossidrilico è a destra rispetto all’osservatore e l quando invece è a sinistra. Tutti i composti che per sostituzione di uno o più gruppi possono essere ricondotti a una delle due forme della gliceraldeide vengono indicati con la stessa simbologia. Tale sistema è tuttora in uso, soprattutto per i carboidrati e gli aminoacidi. Nel caso dei carboidrati contenenti nella propria molecola più di uno stereocentro, tale convenzione stabilisce che la configurazione correlabile alla gliceraldeide sia quella dell’atomo di carbonio asimmetrico con il numero di posizione più alto. Un esempio di tale convenzione è offerto dal d-(+)-glucosio e dal d(–)-fruttosio.

CHO

H

L-(–)-Serina

R

O

1

H2N

CH2OH

CH2OH

D-(+)-Gliceraldeide

COOH

H

CH3

CHO

OH

COOH

COOH H

2

CH2OH

2

OH

HO

3

H

H

4

H

5

O

HO

3

H

OH

H

4

OH

OH

H

5

OH

6

CH2OH

D-(+)-Glucosio

6

CH2OH

D-(–)-Fruttosio

Per quanto riguarda gli aminoacidi, l’atomo in α al carbossile viene correlato alla d-(+)- o l-(–)-serina, prese come riferimento; un esempio è fornito dalla l-(–)-treonina. L’altro metodo di determinazione della configurazione assoluta dei centri stereogenici è noto come Sistema del-

R

C

O

O

C

R

H

C

H H

R H

C

C

C

C

C

C

H C

C

C H

C

R

C C C

H

C

C R

C H

C

Il doppietto elettronico, se presente, ha la priorità più bassa. A questo punto, osservando il centro stereogenico dal lato opposto rispetto al gruppo con minore priorità, la sequenza dei sostituenti secondo l’ordine decrescente può seguire un andamento orario o antiorario. Nel primo caso si assegna al centro stereogenico la configurazione assoluta (R) (rectus), nel secondo quella (S) (sinister). Pertanto, la noradrenalina, indicata secondo il precedente sistema di Fischer con la lettera d, corrisponde all’enantiomero (R). Trattandosi di un metodo assoluto di assegnazione della configurazione non è raro il caso in cui composti aventi la medesima orientazione dei gruppi attivi siano indicati con lettere opposte. Un esempio è fornito dai β-bloccanti (Cap. 19), per i quali le posizioni nello spazio dei quattro gruppi legati al carbonio asimmetrico nei derivati ariletanolaminici di configurazione (R) (ad es. pronetalolo) sono le stesse di quelle degli enantiomeri (S) dei deriva-

2

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H HO

CH2NH2

1 OH

OH NH2

HO

HO

H NH2 2

HO

OH

= OH

3 OH

(–)-Noradrenalina

(R)

1 OH R

H N

2

D

1 OH

2 O

CH3

S

CH3

(R)-Pronetalolo

H N

CH3

3

CH3

(S)-Propranololo

ti arilossipropanolaminici (ad es. propranololo). Infatti, la presenza in questi ultimi di un atomo di ossigeno nel ponte modifica le priorità dei gruppi usati per l’assegnazione della configurazione assoluta. In presenza di diversi centri stereogenici nella medesima molecola il numero degli enantiomeri è pari a 2n, dove n indica il numero di elementi di asimmetria presenti. Pertanto nel caso dell’antibiotico cloramfenicolo, ad esempio, contenente due atomi di carbonio asimmetrici, sono possibili 4 stereoisomeri raggruppabili nelle due coppie enantiomeriche (1R,2R/1S,2S) e (1R,2S/1S,2R). La configurazione 1R,2R corrisponde a quella dell’antibiotico naturale e rappresenta l’unica forma ad attività antibatterica. Nella morfina sono presenti 5 centri stereogenici e quin-

di sono teoricamente possibili 32 isomeri. Tuttavia, le restrizioni di tipo geometrico limitano le possibilità a 16 stereoisomeri, poiché il ponte C9-C13 nella molecola può essere esclusivamente cis. L’enantiomero attivo come analgesico è il (–)-(5R,6S,9R,13S,14R). Nel caso del colesterolo, contenente 8 stereocentri, sono possibili 256 stereoisomeri; tuttavia solo uno di essi è quello che interviene nel metabolismo umano. Quando si vuole descrivere soltanto la configurazione relativa di una molecola, i diversi sostituenti, sempre rispettando le regole di sequenza, possono essere indicati con i termini cis e trans (abbreviati in c e t) rispetto al gruppo di massima priorità preso come riferimento e indicato con la lettera r. Un esempio di applicazione di tale convenzione è fornito dall’analgesico alfaprodina, dove

HO

2

3

1 11

4

OH 1

R

H N

R

Cl

2

OH

H3C

OH

Cl

O

S

S

(1R,2R) Attività antibatterica

H N OH

H3 C

Cl

13

5

Cl O

HO

R

S

H N OH

H3C

OH

O

S

R

(1S,2R) Cloramfenicolo

CH3

(5R,6S,9R,13S,14R)

Cl

H N OH

H3 C

(1R,2S)

N

7

21

Cl

H

D-(–)-Morfina

(1S,2S)

Cl

9

14 8

6

H3C OH

10

12

O

18 12 CH3 17 19 13 1 CH3 9 H 14 11

2

Cl

10

O

3

HO

20

4

5

H

8

22

23

24

H 16 15

H

7 6

Colesterolo (3S,8S,9S,10R,13R,14S,17R,20R)

27

25

CH3

26 CH3

3

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il metile in posizione 3 si trova in cis rispetto alla funzione esterea in posizione 4 (OCOCH2CH3 = r e 3-CH3 = c). CH3

O O 5 6

4 1

CH3

O O

CH3 5 6

3 2

4 1

CH3 3 2

N

N

CH3

CH3 Alfaprodina c 3-CH3, r 4-OCOCH2CH3

Condizione necessaria per la chiralità è la mancanza di elementi di simmetria (punti, assi o piani) nella molecola. Un centro stereogenico rende la molecola asimmetrica e perciò chirale. Tuttavia, una molecola contenente 2 o più centri stereogenici può, in alcuni casi, non essere chirale. Questo si verifica, ad esempio, per l’acido tartarico: oltre

a una coppia di enantiomeri, esiste una forma meso achirale, a causa della presenza di un piano di simmetria che divide la molecola in due parti uguali, l’una immagine speculare dell’altra. In questo caso la regola 2n non è rispettata, in quanto le forme (2S,3R) e (2R,3S) rappresentano la stessa molecola. Piano di simmetria

COOH

COOH

COOH

HO

C

H

H

C

OH

H

C

OH

HO

HO

C

H

HO

COOH

C

H

H

C

OH

C

H

H

C

OH

COOH

COOH

COOH

Acido (2S,3S)-tartarico

Acido (2R,3R)-tartarico

Acido (2S,3R)-tartarico

Enantiomeri

metabolica di uno dei due anelli fenilici, diviene chirale in C5. L’enantiomero (S) prevale su quello (R) (rapporto dell’ordine di 9 a 1), come dimostrato dall’analisi di campioni di urina di soggetti epilettici dopo trattamento con vari tipi di glucuronidasi.

4 5 1 2 NH

O Fenitoina

OH

OH

O

HN 3

Acido (2R,3S)-tartarico

Identiche (forma meso)

Un altro termine usato in chimica farmaceutica è quello di prochirale, col quale si definisce un substrato privo di potere ottico (achirale) che può divenire chirale a seguito di specifiche manipolazioni chimiche. Tale è, ad esempio, l’anticonvulsivante fenitoina che, per ossidrilazione

O

COOH

HN

NH

O +

HN

NH

O

O

(R)

(S)

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Scheda 3.2  Crescente sviluppo di farmaci enantiopuri L’interesse nei confronti delle possibili relazioni tra l’isomeria ottica e l’attività biologica è fortemente cresciuto a partire dalla seconda metà del secolo scorso al punto che sono state fondate riviste come Chirality o Tetrahedron: Asymmetry dedicate esclusivamente allo studio degli aspetti chimici, farmacologici e biologici dell’asimmetria molecolare. Del resto uno studio del 2002 riguardante la stereochimica dei 730 farmaci maggiormente usati nel mondo ha messo in evidenza che più della metà è costituita da enantiomeri puri. Limitando l’esame ai nuovi farmaci prodotti in tutto il mondo e approvati nel periodo 19832002, quelli enantiomerici sono cresciuti in modo costante, al punto da divenire negli ultimi anni le forme farmaceutiche prevalenti. Questa intensa ricerca ha fatto maturare tra gli studiosi varie opinioni come quella definibile stereomania, una

Percentuale di farmaci approvati

4

58

60 50

43

32

40 25

42

39

36

41 25

41 24

35

30

18

34

20

8

specie di idiosincrasia secondo cui non avrebbero significato scientifico i risultati ottenuti in studi in cui sia stata trascurata la stereochimica. All’opposto è l’opinione definibile stereofobia, secondo cui è preferibile orientarsi verso composti non chirali anche per evitare i costosi e a volte complessi processi di sintesi e sviluppo di farmaci chirali. Ovviamente tale giudizio disconosce il grande contributo fornito dai fenomeni stereoselettivi nella comprensione dei processi biologici e farmacologici. Infine un atteggiamento intermedio più equilibrato è quello definibile stereofilia che sostiene, sia pure per particolari questioni scientifiche, la ricerca e lo sviluppo di farmaci chirali. I farmaci di estrazione naturale sono quasi sempre costituiti da forme enantiomericamente pure, in quanto il processo biosintetico che porta alla loro formazione è altamente stereoselettivo. Per i farmaci di sintesi la purezza ottica ha acquisito grande importanza dopo la direttiva della Food and Drug Administration del 1992 che ha imposto più stringenti controlli per la registrazione e la commercializzazione di nuovi medicamenti chirali. La giustificazione di tale direttiva sta nel fatto che gli enantiomeri mostrano frequentemente proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche diverse, e talvolta uno dei due che può provocare effetti collaterali indesiderati. Da un studio di inizio anni 2000 è stato rilevato che delle 1398 molecole di interesse farmaceutico in commercio, ben 785 contengono almeno un elemento stereogenico.

10 0

Farmaci achirali

Enantiomeri

Racemati

Farmaci (1398)

Naturali semisintetici (398)

Achirali (3)

Sintetici (1000)

Chirali (395)

Achirali (610)

Chirali (390)

Enantiomeri singoli (391)

Enantiomeri singoli (158)

Racemati (4)

Racemati (232)

5

CAPITOLO 3 • Caratteristiche strutturali e attività biologica online

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Scheda 3.3  Risoluzione di una miscela racemica di un alcol Un alcol può essere funzionalizzato con un reattivo come l’anidride ftalica. La successiva salificazione del gruppo carbossilico libero con un agente risolvente basico permette di ottenere i corrispondenti sali diastereomerici O R

OH

O

O O

+

che possono essere separati mediante cristallizzazione frazionata. Il processo di rimozione della base chirale avviene insieme a quello dell’agente funzionalizzante.

O

R

O

(S)-B

OH

R

O BH

(R) + (S) O

(R) + (S) O

O (R,S) + (S,S)

O

O O

R

O

O BH

O BH O

(R,S)

R

OH (R)

R

(S,S)

R

O

OH (S)

6

CAPITOLO 3 • Caratteristiche strutturali e attività biologica online

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Scheda 3.4  Sintesi industriale di (R)-4-p-idrossifenilglicina La preparazione dell’(R)-4-p-idrossifenilglicina può essere realizzata ad opera dell’enzima d-idantoinasi che catalizza l’apertura dell’anello idantoinico del solo enan-

tiomero (R) del 5-(4-idrossifenil)imidazolidin-2,4-dione. La successiva idrolisi catalizzata dalla d-N-carbamoilasi conduce al prodotto desiderato. OH

HO

O

* HN

O

D-Idantoinasi

NH

HO

R

H2N

N H

OH

S

+ HN

NH

O

O

O

5-(4-Idrossifenil)imidazolidin-2,4-dione

D-N-carbamoilasi

OH

R

H2N

OH

O (R)-4-p-idrossifenilglicina

O

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CAPITOLO 5 • Enzimi e farmaci online

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Scheda 5.1  S  elezione di enzimi di interesse fisiopatologico e di loro inibitori Classe enzima

Enzima

Attività biologica

Farmaco

Aldeide deidrogenasi

Inibitore

Disulfiram

Inibitore MAO-A

Moclobemide

Inibitore MAO-B

Selegilina

Inibitore COX-1 Inibitore COX-2

Acido acetilsalicilico, profeni, acetaminofene, dipirone

Vitamina K epossido reduttasi

Inibitore

Warfarin, fenprocumone

Aromatasi

Inibitore

Exemestano

Inibitore

Antifungini azolici

Inibitore

Mesalazina

Inibitore 5-lipossigenasi

Zileuton

Perossidasi tiroidea

Inibitore

Tiouracile

Iodotironina-5’ deiodinasi

Inibitore

Propiltiouracile

HMG-CoA reduttasi

Inibitore

Statine

5α-testosterone reduttasi

Inibitore

Finasteride, dutasteride

Diidrofolato reduttasi (batterica)

Inibitore

Trimetoprim

Diidrofolato reduttasi (umana)

Inibitore

Metotrexato, pemetrexed

Diidrofolato reduttasi (parassiti)

Inibitore

Proguanil

Enoil reduttasi (micobatteri)

Inibitore

Isoniazide

Squalene epossidasi (funghi)

Inibitore

Terbinafina

Xantina ossidasi

Inibitore

Allopurinolo

4-idrossifenilpiruvato diossigenasi

Inibitore

Nitisinone

Ribonucleoside difosfato reduttasi

Inibitore

Idrossiurea

Proteina chinasi C

Inibitore

Miltefosina

Peptidil transferasi batterica

Inibitore

Cloramfenicolo

Catecolamina-O-metil transferasi

Inibitore

Entacapone

RNA polimerasi (batterica)

Inibitore

Ansamicine

Inibitore competitivo

Zidovudina

Inibitore allosterico

Efavirenz

DNA polimerasi

Inibitore

Aciclovir, suramina

GABA transaminasi

Inibitore

Acido valproico, vigabatrina

Inibitore PDGFR/ABL/KIT

Imatinib

Inibitore EGFR

Erlotinib

Inibitore VEGFR2/pdgfrβ/KIT/FLT3

Sunitinib

Inibitore VEGFR2/pdgfrβ/RAF

Sorafenib

UDP-N-acetilglucosamina enolpiruvil transferasi batterica (MurA)

Inibitore

Fosfomicina

Aminotransferasi citosolica umana branched chain (hBCATc)

Inibitore

Gabapentina

Aspartil proteasi (virali)

Inibitore HIV proteasi

Saquinavir, indinavir

Non-specifiche

Inibitore non-specifico

Apronitina

Inibitore diretto

β-lattami

Inibitore indiretto

Glicopeptidi

Lattamasi batteriche

Inibitore diretto

Sulbactam

Antitrombina umana

Attivatore

Eparine

Plasminogeno umano

Attivatore

Streptochinasi

Fattore di coagulazione umano

Attivatore

Complesso Fattore IX, Fattore VIII

Fattore umano Xa

Inibitore

Fondaparinux

Monoaminossidasi Ciclossigenasi

Lipossigenasi

Ossidoreduttasi

Transcrittasi inversa (virale)

Transferasi

Tirosina chinasi

Idrolasi (proteasi)

Proteasi seriniche (batteri) Idrolasi (proteasi seriniche)

2

CAPITOLO 5 • Enzimi e farmaci online

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Classe enzima

Idrolasi (metallo proteinasi)

Enzima

Attività biologica

Farmaco

ACE umana

Inibitore

Captopril

HRD umana

Inibitore

Cilastatina

Carbossipeptidasi umana A (Zn)

Inibitore

Penicillamina

Encefalinasi umana

Inibitore

Racecadotril

Proteasoma 26S

Inibitore

Bortezomib

Inibitore AchE

Fisostigmina

Riattivatore AchE

Obidossima, pralidossima

Inibitore PDE

Caffeina

Inibitore PDE-3

Amrinone, milrinone

Inibitore PDE-4

Papaverina

Inibitore PDE-5

Sildenafil

Inibitore HDAC

Acido valproico

Inibitore HDAC3/7

Carbamazepina

Glicosidasi (virale)

Inibitore α-glicosidasi

Zanamivir, oseltamivir

Glicosidasi (umana)

Inibitore α-glicosidasi

Acarbosio

Lipasi

Inibitore lipasi gastrointestinale

Orlistat

Inibitore calcineurina

Ciclosporina

Fosfatasi

Inibitore inositolo polifosfato fosfatasi

Li+

GTPasi

Inibitore Rac1

6-tio-GTP

Fosforilasi

Inibitore C55-lipido fosfato defosforilasi batterica

Bacitracina

DOPA decarbossilasi

Inibitore

Carbidopa

Anidrasi carbonica

Inibitore

Acetazolamide

Istidina decarbossilasi

Inibitore

Tritoqualina

Ornitina decarbossilasi

Inibitore

Eflornitina

Esterasi

Altre idrolasi

Liasi

Isomerasi

Ligasi (sintasi)

Guanil ciclasi solubile

Attivatore

Esteri acido nitrico, molsidomina

Alanina racemasi

Inibitore

d-Cicloserina

DNA girasi batterica

Inibitore

Fluorichinoloni

Inibitore topoisomerasi 1

Irinotecan

Inibitore topoisomerasi 2

Etoposide

Topoisomerasi Δ7,8 isomerasi (funghi)

Inibitore

Amorolfina

Diidropteroato sintasi

Inibitore

Sulfamidici

Timidilato sintasi (funghi, umana)

Inibitore

Fluorouracile

Timidilato sintasi (umana)

Inibitore

5-fluoruracile

Fosfofruttochinasi

Inibitore

Antimoniali

mTOR

Inibitore

Rapamicina

Eme polimerasi (Plasmodium)

Inibitore

Antimalarici chinolinici

1,3-β-d-glucanosintasi (funghi)

Inibitore

Capsofungina

Glucosilceramide sintasi

Inibitore

Miglustat

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Scheda 5.2  Nomenclatura e classificazione degli enzimi Nel 1958, Malcom Dixon e Edwin Webb decisero di porre fine alla caotica situazione nella quale versava la nomenclatura degli enzimi, proponendo una classificazione basata sulle reazioni catalizzate e non più sulla struttura. La loro proposta è stata successivamente adottata e integrata dall’International Union of Biochemistry and Molecular Biology (IUBMB), sentito il comitato IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry), nella lista di enzimi compresi nella Enzyme Nomenclature. La versione più recente di questa nomenclatura ufficiale risale ormai al 1992, benché annualmente integrata e aggiornata con supplementi che introducono nuovi enzimi e correggono eventuali errori (http://www.chem.qmul. ac.uk/iubmb/enzyme/). Regole dettagliate permettono quindi da anni di assegnare, con relativa semplicità e ragionevole specificità, una determinata classificazione a un enzima e formulare un nome sulla base di quel che esso fa. Ad esempio, se un enzima ossida riducendo NAD(P), questi è una deidrogenasi classificata come EC 1.x.1.-, dove il numero x si riferisce al gruppo ossidato: 1 per –CHOH–, 2 per aldeide o chetone ecc.; se tuttavia l’enzima trasferisce un fosfato, un difosfato, o altro gruppo contenente fosfato attraverso il proprio gruppo fosfato o altro substrato, questi è una fosfotransferasi e quindi classificato come EC 2.7.z.-, in cui z si riferisce alla natura del gruppo accettore. Struttura generale della classificazione EC: il numero di classificazione è formato da quattro cifre e identifica la specifica reazione catalizzata. Nome: il nome proposto per un enzima deve essere quello generalmente usato e scevro da qualsiasi ambiguità. Termini generici riferiti a tipi di reazioni possono essere usati nell’ambito di nomi raccomandati, ad es. deidrogenasi, reduttasi, ossidasi, perossidasi, chinasi, tautomerasi, deaminasi, deidratasi ecc. Laddove ci sia bisogno di ulteriori informazioni, può rivelarsi utile aggiungere una frase riferita alla reazione o a un prodotto, preferibilmente in parentesi dopo la seconda parte del nome, ad es. (ADPformazione), (dimerizzazione), (CoA-acetilazione). Reazione: la reazione catalizzata dovrebbe essere scritta, se possibile, in forma di equazione biochimica: A+B=P+Q Questa formulazione non fornisce naturalmente indicazioni sull’equilibrio preferito della reazione o se essa sia facilmente reversibile. In questo caso infatti la direzione scelta per la reazione e il nome sistematico è il medesimo per tutti gli enzimi di una data classe, anche nel caso in cui la direzione non fosse stata dimostrata in tutti i casi. Spesso queste reazioni biochimiche non sono bilanciate in cariche o in massa. Altri nomi: qualsiasi altro nome che possa aiutare la ricerca di uno specifico enzima. Benché non incoraggiata, questa possibilità dovrà, in ogni caso, evidenziare possibili ambiguità con altri enzimi. Nome sistematico: i nomi sistematici si compongono abitualmente di due parti: la prima comprende il nome del substrato o, nel caso di reazione bimolecolare, di due substrati separati da due punti. La seconda parte termina in -asi e indica la natura della reazione.

Classi enzimatiche e definizioni Classe 1.-.-.- Ossidoreduttasi Questa classe comprende enzimi che catalizzano reazioni di ossidazione. Poiché l’ossidazione di un gruppo deve essere accompagnata dalla riduzione di un altro, questi enzimi sono riuniti in un’unica classe come ossidoreduttasi. Il nome sistematico è nella forma donatore:accettore ossidoreduttasi. Il substrato ossidabile è definito come idrogeno donatore e il relativo nome raccomandato è comunemente donatore deidrogenasi. Benché il termine reduttasi sia talvolta usato in alternativa a deidrogenasi, è utile ricordare che il nome raccomandato non definisce la posizione di equilibrio della reazione o la direzione netta del flusso attraverso l’enzima in vivo. In alcuni casi, tuttavia, un enzima può catalizzare una reazione, in un definito processo metabolico, in direzione termodinamicamente favorevole se sussiste l’effettivo consumo di uno dei reagenti. Il termine ossidasi donatore è usato solo nel caso in cui l’O2 è accettore. La seconda cifra nel codice numerico di un’ossidoreduttasi definisce il tipo di funzione che, nel substrato idrogeno donatore, è ossidata o ridotta. La terza cifra definisce l’accettore di idrogeno: 1 indica NAD(P), 2 un citocromo, 3 ossigeno molecolare, 4 un disolfuro, 5 un chinone o funzioni simili, 6 una funzione azotata, 7 una proteina Fe-S e 8 una flavina, mentre il numero 99 è usato per tutti gli altri accettori. Questo gruppo comprende un numero di enzimi che hanno funzione catalitica nota operante con accettori sintetici come per il 2,6-dicloroindofenolo o fenazina metosolfato, ma per i quali l’accettore fisiologico è ancora sconosciuto. Nel momento in cui questi dovessero essere identificati, gli enzimi saranno più propriamente trasferiti in una sottoclasse più adeguatamente descrittiva. Le sottoclassi 1.13 e 1.14 sono invece oggetto di una differente classificazione, poiché questi enzimi catalizzano l’incorporazione di ossigeno nel substrato. I nomi raccomandati sono generalmente monossigenasi e diossigenasi, in funzione dell’incorporazione di 1 o 2 atomi di ossigeno nella specie ossidata. Le sottoclassi sono numerate da 11 in poi. Esempi EC1.1.1.14 Nome raccomandato: l-iditolo 2-deidrogenasi Reazione: l-iditolo + NAD = l-sorbosio + NADH2 Altri nomi: poliol deidrogenasi; sorbitolo deidrogenasi Nome sistematico: l-iditolo: NAD 2-oxoreduttasi Commenti: enzima attivo anche verso d-glucitolo (per dare fruttosio) e altri carboidrati correlati. EC 1.14.13.59 Nome raccomandato: l-lisina 6-monossigenasi (NADPH2) Reazione: l-lisina + NADPH2 + O2 = N6-idrossi-l-lisina + NADP + H2O Altri nomi: lisina N6-idrossilasi Nome sistematico: l-lisina, NADPH2:ossigeno ossidoreduttasi (6-idrossilante) Commenti: flavoproteina (FAD). Prodotto dal ceppo EN222 di E. coli, è specifico per l-lisina; l-ornitina ed l-omolisina non sono, ad esempio, substrati. Una lisina monossigenasi (EC 1.1.3.12.10) ha mostrato capacità di catalizzare la stessa reazione senza partecipazione di NAD(P)H2.

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EC 1.14.99.1 Nome raccomandato: prostaglandina-endoperossido sintasi Reazione: acido arachidonico + AH2 + 2O2 = prostaglandina H2 + A + H2O Altri nomi: prostaglandina sintasi; prostaglandina G/H sintasi; (PG)H sintasi; PG sintetasi; prostaglandina sintetasi; acido grasso ciclossigenasi; ciclossigenasi; prostaglandina endoperossido sintetasi. Nome sistematico: (5Z,8Z,11Z,14Z)-icosa-5,8,11,14-tetraen-oato, idrogeno-donatore:ossigeno ossidoreduttasi Commento: questo enzima agisce sia come diossigenasi sia come perossidasi. Classe 2.-.-.- Transferasi Questi enzimi trasferiscono un gruppo da un substrato (donatore) a un altro (accettore) come descritto dalla seguente reazione: X-Y + Z = X + Y-Z Il nome sistematico è nella forma donatore:accettore gruppo-transferasi mentre i nomi raccomandati sono normalmente nella forma di accettore gruppo transferasi o donatore gruppo transferasi. Talvolta le reazioni di trasferimento possono essere definite in modi diversi come nel caso della reazione sopra indicata, che può indicare il trasferimento del gruppo Y da X a Z e per questo classificabile come Y-transferasi. Diversamente si potrebbe anche rilevare una rottura del legame X-Y dovuta all’introduzione di Z; quando Z rappresenta un fosfato il processo è spesso riferito a una fosforolisi e il relativo enzima fosforilasi da cui la classificazione sistematica, fosfotransferasi. Le reazioni di aminotransferasi (transaminasi) sono riferite al trasferimento di un gruppo –NH2 e un H a un composto contenente una funzione carbonilica. R1-CHNH2-R2 + R3-CO-R4 = R1-CO-R2 + R3-CHNH2-R4 La reazione può essere classificata anche come deaminazione ossidativa del donatore (ad es. un aminoacido) concomitante con l’aminazione riduttiva dell’accettore (ad es. ossiacido); ne consegue che questi enzimi potrebbero anche essere classificati come ossidoreduttasi, se non fosse per la specificità della reazione di trasferimento di un gruppo aminico (aminotransferasi, sottoclasse 2.6.1.). La seconda cifra nel codice numerico delle transferasi identifica la natura generale del gruppo trasferito (2.1 unità monocarboniosa, 2.2 gruppo aldeidico o chetonico, 2.3 gruppo acile ecc.), mentre la terza cifra è dedicata a un’ulteriore specificazione del gruppo (2.1.1 metiltransferasi, 2.1.2 formiltransferasi ecc.). La sola eccezione è nel caso del trasferimento di gruppi contenenti fosforo (sottoclasse 2.7) in cui la terza cifra specifica la natura del gruppo accettore. Esempio EC 2.1.1114 Nome raccomandato: esaprenil diidrossibenzoato metiltransferasi Reazione: S-adenosil-l-metionina + 3-esaprenil-4,5-diidrossibenzoato = S-adenosil-l-omocisteina + 3-esaprenil4-idrossi-5-metossibenzoato Altri nomi: 3,4-diidrossi-5-esaprenilbenzoato metiltransferasi; diidrossiesaprenilbenzoato metiltransferasi Nome sistematico: S-adenosil-l-metionina:3-esaprenil-4,5diidrossilato O-metiltransferasi

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Commenti: enzima attivo nel processo di sintesi dell’ubichinone. Questo enzima, classificato come EC 2.1.1.64 in altri database era tuttavia riferito ad altra reazione. Classe 3.-.-.- Idrolasi Questi enzimi catalizzano la scissione idrolitica di legami come C–O, C–N, C–C e altri, inclusi anidridi fosforiche. La sovrapposizione di molte specificità di questi enzimi ha reso complessa la formulazione di regole generali applicabili a tutti i membri di questa classe. Il nome sistematico generalmente assume la forma di substrato-X-idrolasi, dove X identifica il gruppo rimosso per idrolisi, mentre il nome raccomandato è, in molti casi, formato dal nome del substrato con il suffisso -asi. Gli enzimi idrolitici possono essere classificati come transferasi, poiché l’idrolisi in sé è rappresentabile come un trasferimento di un gruppo specifico all’acqua come accettore. In molti casi, infatti, la scoperta della reazione con acqua accettore ha preceduto la definizione sistematica ed è considerata la principale funzione fisiologica dell’enzima che giustifica la classificazione come idrolasi piuttosto che transferasi. La seconda cifra nel codice numerico indica la natura del legame idrolizzato, mentre la terza cifra tipicamente specifica la natura del substrato: nel caso di esterasi si avrà estere carbossilico idrolasi (3.1.1), tioestere idrolasi (3.1.2), monoestere fosforico idrolasi (3.1.3); nelle glicosilasi si avrà O-glicosilasi (3.2.1), N-glicosilasi (3.2.) e così via. Le peptidasi, in precedenza indicate come peptide idrolasi, (classe 3.4.-) non possono trovare adeguata collocazione in questo schema generale anche a causa dell’ambiguità di nomi sistematici derivati da variabili specificità e grande similarità tra diverse peptidasi. Gli enzimi sono disposti in due set di sottoclassi, le endopeptidasi (3.4.21-24 e 3.4.99) e le esopeptidasi (3.4.1119) per le quali la terza cifra è funzione del meccanismo catalitico; una lista completa di peptidasi (The MEROPS Peptidase List) è disponibile on-line (http://merops.sanger.ac.uk/cgi-bin/peplist_index). Esempi EC 3.1.2.23 Nome raccomandato: 4-idrossibenzoil-CoA tioesterasi Reazione: 4-idrossibenzoil-CoA + H2O = 4-idrossiben­ zoato + CoA Nome sistematico: 4-idrossibenzoil-CoA idrolasi Commenti: enzima attivo nel processo di sintesi dell’ubichinone. Questo enzima è parte del processo di degradazione del 2,4-diclorobenzoato batterico. EC 3.4.22.38 Nome raccomandato: catepsina K Reazione: ampia attività proteolitica, con piccole molecole substrato e inibitore, il principale determinante della specificità è P2, preferibilmente Leu, Met > Phe. Altri nomi: catepsina O e catepsina X sono fuorvianti e usati per altri enzimi; catepsina O2 Commenti: maggiormente espresso negli osteoclasti dei mammiferi e accreditato di un ruolo nel riassorbimento osseo. La specificità delle peptidasi può essere descritta anche in termini di sequenza di residui di aminoacidi vicinali al legame scissile (vedi Scheda 5.3). N-terminale-P3-P2-P1-legame scissile-P1’-P2’-P3’-Cterminale

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Classe 4.-.-.- Liasi Questi enzimi scindono legami C–C, C–O, C–N e altri per mezzo di idrolisi od ossidazione e differiscono da altri enzimi per l’unicità della direzione di reazione che coinvolge due substrati. Nel caso di singolo substrato la molecola eliminata è caratterizzata da doppi legami o anelli. Il nome sistematico assume la forma di gruppo substratoliasi, dove il tratto d’unione è un segno d’interpunzione importante nel nome e non dovrebbe essere omesso per evitare confusione (ad es. idro-liasi e non idrolasi). Le espressioni come decarbossilasi o aldolasi (eliminazione di CO2 e aldeide rispettivamente) sono usate nei nomi raccomandati, mentre deidratasi è usato per quegli enzimi che eliminano acqua. Nei casi in cui la reazione inversa è molto più importante o è la sola a essere stata provata, può essere usato il termine sintasi, ma non sintetasi che genererebbe confusione con gli enzimi della classe 6. Varie sottoclassi delle liasi comprendono enzimi, con cofattore piridossalfosfato, che catalizzano l’eliminazione di un sostituente in β- o γ- da un aminoacido, seguita da una sostituzione con altro gruppo. Nella reazione complessiva di sostituzione, poiché non si formano sottoprodotti insaturi, gli enzimi possono essere formalmente classificati come alchiltransferasi (EC 2.5.1.-). La sostituzione sembra in realtà essere una reazione a due stadi con la formazione di una specie transiente enzima-aminoacido α,β- (o β,γ-) insaturo e, in accordo con la regola secondo la quale la prima reazione è indicativa per la classificazione, questi enzimi correttamente sono liasi. Esempi sono la triptofano sintasi (EC 4.2.1.20) e cistationina β-liasi (EC 4.2.1.22). La seconda cifra nel codice numerico indica il legame scisso: 4.1 carbonio-carbonio liasi, 4.2 carbonio-ossigeno liasi e così via. La terza cifra è dedicata a informazioni sul gruppo eliminato (ad es. CO2 in 4.1.1 e H2O in 4.2.1). Esempio EC 4.1.2.39 Nome raccomandato: idrossinitrilasi Reazione: 2-idrossibutirronitrile = cianuro + acetone Altri nomi: idrossinitrile liasi; ossinitrilasi Nome sistematico: 2-idrossibutirronitrile acetone-liasi Commenti: enzima presente in Hevea (albero della gomma) e delle specie di Manihot. Classe 5.-.-.- Isomerasi Questi enzimi catalizzano trasformazioni geometriche o strutturali intramolecolari e in funzione del tipo di isomeria prodotta possono definirsi racemasi, epimerasi, cis-trans-isomerasi, isomerasi, tautomerasi, mutasi o cicloisomerasi. La seconda cifra del codice numerico identifica il tipo di isomeria implicato, mentre la terza cifra identifica il substrato. In alcuni casi la reazione comprende un’ossidoriduzione intermolecolare, ma poiché gruppo donatore e accettore giacciono nella medesima molecola è corretta la classificazione isomerasi in luogo di ossidoreduttasi, benché contengano NAD o NADP tenacemente legato. Esempio EC 5.1.99.4 Nome raccomandato: α-metilacil-CoA racemasi

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Reazione: (2S)-2-metilacil-CoA = (2R)-2-metilacil-CoA Nome sistematico: 2-metilacil-CoA 2-epimerasi Commenti: α-metil-derivati di acil-CoA di lunghezza maggior di C10 sono tipici substrati; altri substrati sono alcuni acidi aromatici (ad es. ibuprofene) e intermedi della biosintesi di acidi biliari come triidrossicoprostanoil-CoA. Non sono substrati acidi liberi. Classe 6.-.-.- Ligasi Questi enzimi catalizzano l’unione di due molecole (formazione di legame) con concomitante idrolisi di un legame di fosfato in ATP o simili specie trifosfato. Il nome sistematico assume la forma A:B ligasi (XDP- o XMP-formazione). Il nome raccomandato spesso prende la forma di A-B ligasi, mentre il termine sintasi (o anche sintetasi in questa classe) si usa come raccomandato per esaltare la natura sintetica della reazione, specie nei casi di particolare complessità. La seconda cifra del codice numerico indica il legame formato: 6.1 per legami C–O (enzimi acilanti tRNA), 6.2 per legami C–S (derivati acil-CoA) ecc. Nel caso di legami C–N (6.3), sottoclassi includono le amido sintasi (6.3.1), le peptido sintasi (6.3.2), gli enzimi che formano eterocicli (6.3.3) ecc. Esempio EC 6.2.1.33 Nome raccomandato: 4-clorobenzoato-CoA ligasi Reazione: 4-clorobenzoato + CoA + ATP = 4-clorobenzoil-CoA + AMP + difosfato Nome sistematico: 4-clorobenzoato:CoA ligasi Commenti: richiede Mg2+ ed è parte integrante del processo di degradazione del 2,4-diclobenzoato batterico. Limiti dell’attuale nomenclatura Gli isoenzimi, in genere, non possono essere adeguatamente collocati in un sistema di classificazione basandosi semplicemente sulla reazione catalizzata. Ad esempio, le 20 differenti isoforme dell’alcol deidrogenasi nel fegato umano sono state precedentemente organizzate in ampie classi sulla base della relativa mobilità elettroforetica, sequenza e origine genetica. Ognuna di queste classi ha mostrato differenti specificità, in funzione della lunghezza di catena, verso alcoli alifatici primari; ciononostante essi ossidano tutti gli alcoli primari usando come cofattore NAD e, per questo, ricollocati nella classe EC 1.1.1.1. Questa classificazione, tuttavia, non consente di distinguere tra differenze di specie che, nel caso dell’alcol deidrogenasi-NAD dipendente di mammiferi e lieviti, mostrano attese e profonde differenze sia in termini strutturali sia di reattività. Solo nel caso di isoenzimi con rilevante specificità di substrato si è legittimati a una classificazione più compiuta. La glucochinasi epatica, ad esempio, è oggi identificata come membro della famiglia di isoenzimi delle esochinasi (esochinasi tipo IV) e coerentemente classificata come esochinasi EC 2.7.1.1, mentre il termine glucochinasi è specificatamente raccomandato per gli enzimi di invertebrati e microrganismi con alta specificità vero il glucosio. La continua ricerca di nuovi enzimi e nuove funzioni di enzimi noti integra e arricchisce i database internazionali che custodiscono, rivisitano e correggono informazioni ormai rapidamente disponibili ai ricercatori.

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Scheda 5.3  Nomenclatura di Schechter e Berger La nomenclatura attualmente in uso per descrivere l’interazione di un substrato (inibitore) con una proteasi, è stata introdotta da Schechter e Berger nel 1967. In un sistema modello si considerano le interazioni dei residui aminoacidici del substrato polipeptidico in corrispondenti subsiti del sito catalitico. Per convenzione questi subsiti della proteasi sono definiti dalla lettera S (dal termine subsito) e i corrispondenti residui aminoacidici sono definiti dalla lettera P (dal termine peptide). I residui aminoacidici del segmento N-terminale rispetto al legame scissile sono numerati P3, P2, P1 mentre i residui del segmento C-terminale sono numerati P1’, P2’, P3’. I residui P1 o P1’ sono i più vicini al legame scissile,

mentre gli altri man mano più distanti sono numerati fino a P8. I subsiti della proteasi cui corrispondono i residui di binding del substrato sono numerati S3, S2, S1, e S1’, S2’, S3’. P4

P3

P2

P1

P1

P2

P3

P4

N

C S4

S3

S2

Substrato peptidasi

S1

S1

S2

Legame scissile

S3

S4

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Scheda 5.4  Cinetica di reazione di inibitori allosterici Gli enzimi allosterici mostrano una relazione caratteristica tra V0 e [S] nella quale l’effetto di saturazione a concentrazioni di substrato sufficientemente alte è descritto da una curva sigmoide piuttosto che una tipica iperbole. Di seguito è rappresentata una curva sigmoide di un enzima omotropico in cui la modulazione positiva (stimolazione) è prodotta da un substrato attivatore.

invece, una curva di saturazione dal profilo sigmoidale (nella figura, curva inferiore). Nella figura seguente sono rappresentati gli effetti dell’attività di un modulatore positivo (+) e di uno negativo (–) su un enzima allosterico in cui K0,5 varia senza che si modifichi Vmax. La curva centrale mostra l’attività del substrato senza modulatore.

Vmax

1/

2

Vmax

Vmax

V0 (µM/min)

V0 (µM/min)

K0,5

1/

2

K0,5+

K0,5

Dalla curva di saturazione è possibile ricavare graficamente il valore di [S], (½ Vmax), che corrisponde al 50% della velocità massima (Vmax) che è definibile come Km poiché l’enzima non descrive una relazione iperbolica tipo Michaelis-Menten. Il profilo cinetico sigmoidale riflette, generalmente, la presenza di interazioni, non covalenti, trasferibili tra interfacce di subunità proteiche e tali da generare modificazioni strutturali/conformazionali, come nel caso del binding di O2 all’emoglobina. Gli enzimi allosterici omotropici sono proteine con diverse subunità nelle quali un medesimo sito di binding è sia sito attivo sia di regolazione. Generalmente, il substrato è modulatore positivo per le subunità in relazione cooperativa: il binding di una molecola a un sito di binding altera la conformazione dell’enzima che esalterà l’affinità di altre molecole di substrato e la conseguente variazione iperbolica di V0 all’aumentare di [S] (vedi il grafico sopra riportato). Nel caso di enzimi allosterici eterotropici, per i quali sono modulatori anche metaboliti oltre che i normali substrati, non è possibile rilevare una curva di saturazione di validità generale; un attivatore può generare una curva quasi-iperbolica con riduzione di K0,5, invarianza di Vmax e aumento della velocità di reazione, a concentrazione fissa di substrato (nella figura, curva superiore). Un modulatore negativo, di fatto un inibitore, può produrre,

Vmax

K0,5--

([S], nM)

([S], nM)

Infine, altri enzimi allosterici eterotropi rispondono all’azione di un attivatore con un aumento di Vmax cui corrisponde una modesta variazione di K0,5. Di seguito sono rappresentati gli effetti dell’attività di un modulatore nella quale Vmax varia significativamente mentre K0,5 è pressoché costante.

Vmax

V0 (µM/min)

7

Vmax Vmax 1/

2

K0,5+

Vmax

K0,5

K0,5-([S], nM)

Ulteriori dettagli sui meccanismi di inibizione allosterica sono forniti nel Paragrafo 5.5 di questo capitolo.

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Scheda 5.5  Inibizione da prodotto finale L’interazione allosterica del prodotto finale determina una variazione conformazionale al sito attivo che non consente più il legame di una nuova molecola di substra-

to all’enzima. Enzina 1, enzima 2 ed enzima 3 sono complessi enzima-substrato.

Enzima 1

Substrato intermedio A

Enzima 2

Substrato

Inibizione del processo

Prodotto finale

Enzima 3

Substrato intermedio B

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Scheda 5.6  Meccanismo d’azione dell’aromatasi Vengono mostrati diverse possibili vie di trasformazione di un intermedio transiente comune che convergono ver-

so la formazione dell’estrogeno finale.

O

H3C

O

O

(Fe3+)

O

H

O

OH

O

(Fe3+)

O

O

OH

O

(Fe3+)

O

O

H

O

OH

(Fe3+)

O

HO

Nu-Enz

H

O

O Nu-Enz

HO

H

O

OH

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Scheda 5.7  M  eccanismo di inibizione suicida dell’aromatasi (CYP19) da parte dell’exemestano Per attacco di un gruppo nucleofilo Nu dell’enzima su un intermedio transiente (vedi anche Scheda 5.6) si forma

un derivato di struttura estrogena 4-sostituito stabile.

CH3 O

H

CH3

O

(Fe3+)

O

O

OH

CYP19

O

O CH2

Exemestano

O CH2

HO CH2 Nu-Enz

CH2 Nu-Enz

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Scheda 5.8  Diversità molecolare di inibitori di CYP450. Cl N N

N

H3C N

N

N NC

CN

N

N

Letrozolo, CYP19

N

Vorozolo, CYP19

Cl N Cl

Cl

N

N

N

N Cl

O

O

N

Cl

O

CH3 N O

Clotrimazolo, CYP51

N

O

Cl

Ketoconazolo, CYP51

Miconazolo, CYP51

N CH3 CH3 CH3

CH3

HO

N Abiraterone, CYP17

N

O

Metirapone, CYP11B1

Cl

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Scheda 5.9  Struttura cristallografica della AChE La struttura tridimensionale dell’AChE ricombinante umana (apoenzima) è stata determinata solo nel 2012, mentre quella in complesso con alcuni inibitori reversibili, quali la fasciculina II, una tossina del veleno di serpenti, è stata risolta nei primi anni 2000. La struttura del

sito catalitico dell’AChE umana è risultata molto simile a quella determinata in precedenza per altre specie animali. In figura viene mostrata la struttura dimerica tridimensionale dell’AChE della Torpedo californica.

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Scheda 5.10  S  truttura cristallografica del complesso della Tc AChE (Torpedo californica) con il decametonio In figura sono rappresentate le modalità di legame del decametonio, in colore arancione, con i principali siti di legame della Tc AChE. Le interazioni principali π-catione

si instaurano con il Trp84 (sito catalitico) e con Phe290, Trp279 e Tyr70 nel sito anionico periferico.

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Scheda 5.11  Meccanismo di catalisi delle monoaminossidasi Il ciclo catalitico delle MAO si articola in due fasi separate. Nella prima reazione l’amina (nella forma neutra) è ossidata a imina protonata, con formazione della flavina ridotta (idrochinonica). La seconda reazione, che avviene prima della dissociazione del complesso imina-enzima, rigenera la forma ossidata del FAD per riduzione di una molecola di ossigeno a perossido di idrogeno. Infine, l’imina protonata rilasciata dall’enzima subisce un’idrolisi non catalizzata formando la corrispondente aldeide e lo ione NH4+, nel caso di un’amina primaria di partenza, oppure un’amina primaria nel caso di un’amina secondaria di partenza. Il meccanismo di ossidazione, tappa limitante del ciclo catalitico, prevede la rottura del legame Cα-H dell’amina secondo tre possibili diversi meccanismi: eterolitico a trasferimento di idruro, eterolitico a trasfe-

S

rimento di idrogeno (che comprende il meccanismo a trasferimento di singoli elettroni e il meccanismo nucleo­ filo polare, e omolitico a trasferimento di idrogeno. Sia la MAO-A sia la MAO-B agiscono stereospecificamente, estraendo l’idrogeno pro-R del gruppo metilenico prochirale del substrato aminico. Di seguito è rappresentato lo schema di rigenerazione del FAD ossidato. La flavina ridotta trasferisce un elettrone all’ossigeno formando l’anione superossido e trasformandosi in una struttura radicalica semichinonica. Quindi, l’anione superossido si addiziona alla forma semichinonica della flavina per dare un addotto idroperossidico che rigenera la flavina ossidata liberando perossido di idrogeno.

O2

Enz

H3C

R

H

N

N

H

O

H3C

O

R N

Trasferimento di 1 e–

NH

N

Enz

S

N NH

N O

H

H+

O

O2

H+

S

Enz

R N

H3C

N

S

O

R N

NH

N

Enz

H3C

O H2O2

N H H

N

O NH

O O

O

15

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A seguire sono illustrati i possibili meccanismi per la rottura del legame Cα-H del substrato aminico. In alto il meccanismo a trasferimento eterolitico di idruro (HT, S

Enz

hydride transfer) e in basso il meccanismo a trasferimento omolitico di idrogeno (HAT, hydrogen atom transfer).

R N

N

Enz

S

O

R N

Meccanismo HT

H3C

+ H 3C

O

S

R1

NH

N

NH2

O

H

H

R1

O

NH

N H

N

NH2

Enz

R N

H3C

N

S

O

N H3C

O H R1

R N

O

Meccanismo HAT

NH

N

Enz

NH

N

+

R1

NH

O

H

H NH2

Nello schema a seguire è rappresentato il meccanismo a trasferimento di singoli elettroni. Il trasferimento iniziale di un elettrone dall’azoto aminico del substrato all’azoto N5 del FAD origina un radicale-catione aminico e la specie semichinonica del FAD. Il secondo traS

Enz

R

S N

N H3C

sferimento di un elettrone può procedere attraverso la perdita del protone in α seguita dal trasferimento del singolo elettrone, oppure mediante la perdita diretta di un radicale idrogeno portando immediatamente alla specie iminica.

O H3C

S

H3C

Enz

H R1

NH2

R

H

N

N

Enz

H3C

O

R

H R1

NH

N

NH2

O NH

N

O

O

NH2

N

O NH

N H

S

N

N

O R1

R N

NH

N

Enz

O R1

NH2

16

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Nello schema seguente è rappresentato il meccanismo nucleofilo. L’azoto aminico del substrato attacca il carbonio C4a del FAD, l’idrogeno in α è trasferito all’azoto S

Enz

R N

H3C

S N

N O H

R1

R N

O NH

Enz

H3C

N H

H NH2

N5 del FAD. Infine la frammentazione dell’addotto covalente porta alla formazione dello ione iminio e del FAD ridotto.

R1

S N

O NH

NH2 O

H3C

Enz

R

H

N

N

NH

N H

O

O

+

R1

NH2

17

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Scheda 5.12  Strutture cristallografiche di complessi di inibitori delle MAO Sono qui rappresentate le strutture di inibitori selettivi e reversibili della MAO-B (NW-1772 e safinamide) e della

MAO-A (armina) e irreversibili della MAO-B (rasagilina).

H3C NH

Cl

O

O

O

NW-1772

F

N H O

O NH2

Safinamide

CH H N H3C

N

O N H

CH3

Armina

Di seguito è rappresentato il complesso della MAO-B umana con la safinamide (codice PDB: 2V5Z), in verde e l’NW-1772 (codice PDB: 2V61) in rosa. Gli atomi di carbonio sono riportati in giallo per il FAD e in grigio per gli

Rasagilina

aminoacidi. Gli atomi di ossigeno sono riportati in rosso e quelli di azoto in blu; i legami idrogeno sono indicati con linee tratteggiate rosse.

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A seguire è rappresentato il complesso della MAO-A umana con l’armina (codice PDB: 2Z5X), in celeste. Gli atomi di carbonio sono riportati in giallo per il FAD e in

grigio per gli aminoacidi. Gli atomi di ossigeno sono riportati in rosso e quelli di azoto in blu. I legami idrogeno con le con linee tratteggiate rosse.

Infine è rappresentato il complesso covalente della MAOB umana con la rasagilina (codice PDB: 1S2Q), in celeste.

I codici di colore sono quelli indicati sopra.

19

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Scheda 5.13  Ruolo delle MAO nella produzione di specie reattive ossigenate (ROS) Alcune alterazioni cellulari in patologie neurodegenerative potrebbero essere ascritte all’attività enzimatica e al peculiare meccanismo d’azione delle MAO. Come già visto, la deaminazione ossidativa catalizzata dalla MAO di neurotrasmettitori e xenobiotici aminici porta alla formazione di perossido di idrogeno che oltre a essere un forte ossidante potenzialmente tossico, è anche precursore di specie reattive (radicaliche) dell’ossigeno (ROS, reactive oxygen species), che possono promuovere diversi danni cellulari. Il perossido di idrogeno generato attraverso il ciclo catalitico delle MAO può reagire con lo ione Fe2+ (reazione di Fenton), innescando la produzione di ROS e quindi stress ossidativo neuronale. Pertanto l’attività MAO è ritenuta corresponsabile, almeno in parte, dell’insorgenza e del mantenimento dello stress

Biosintesi della dopamina

ossidativo. In condizioni fisiologiche i ROS come il radicale anionico superossido (·O2–), il radicale ossidrilico (·OH) e il perossido di idrogeno sono prodotti attraverso diversi processi come la respirazione mitocondriale, il metabolismo cellulare e la degradazione di componenti introdotti con la dieta. I livelli di ROS cellulari sono tuttavia bilanciati dall’azione detossificante di sistemi endogeni come il glutatione (GSH) e diversi enzimi come la glutatione reduttasi (GRD), la glutatione perossidasi (GPX), la catalasi (CAT) e la superossido dismutasi (SOD). Questi sistemi redox sono responsabili della trasformazione di ROS in composti non tossici (vedi Figura). Quando i livelli di ROS sono molto elevati, viene compromessa l’efficienza di questi sistemi protettivi e le specie reattive ossigenate prodotte diventano molto tossiche.

Ossidazione MAO OH Fe3+ Fe2+ Reazione di Fenton

Autossidazione della dopamina

H2O2

GRD

GSH

SOD

GPX

CAT

O2 Respirazione

GSSG

H2O O2

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Scheda 5.14  Principali interazioni ioniche e di legame idrogeno dell’acido sialico nel sito attivo della NA Glu276

Arg292 H2N

Arg371

NH3

O

O

NH2 NH2

OH HO O

Arg118

O

O

NH2

OH H

HO

NH2

OH OH

CH3

N H O

NH3

H2O H2N

Tyr406

O

O

O

O

Asp152 Glu119

O

O

Glu227

Arg152

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Scheda 5.15  Principali interazioni polari dell’oseltamivir, nella sua forma attiva acida GS-4071, con la neuraminidasi Le principali interazioni del GS-4071 con gli aminoacidi del sito di legame della NA H1N1 nativa (pandemia influenzale del 2009) sono illustrate nella struttura cristallografica del complesso riportato in Figura. Con l’eccezione di un solo aminoacido, il Glu276, i 12 aminoacidi del sito attivo e una molecola di acqua strutturale che legano l’inibitore sono strettamente conservati. Le cavità enzimatiche di legame sono indicate con il codice Cx e delineano le regioni dell’enzima che interagiscono con il

sostituente sul carbonio Cx dell’anello cicloesenico. Nella figura sono rappresentate le interazioni intermolecolari del complesso GS-4071:NAH1N1 (codice PDB: 2HU4). Gli atomi di carbonio dell’inibitore e degli aminoacidi sono indicati rispettivamente in celeste e in grigio. Gli atomi di ossigeno e di azoto sono indicati, rispettivamente, in rosso e in blu. I legami idrogeno sono riportati con linee tratteggiate rosse.

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Scheda 5.16  Principali interazioni di legame idrogeno del complesso ADA-RDHR La struttura dell’ADA presenta una tasca profonda al termine della quale si trova la porzione C-terminale dell’enzima. All’interno di questa tasca è localizzato lo ione zinco legato a tre istidine (His15, His17 e His214) e a un aspartato (Asp259). Al momento della determinazione della struttura ai raggi X di questo complesso, il meccanismo di catalisi proposto per l’ADA non prevedeva come cofattore lo ione zinco. L’inibitore è ancorato all’enzima attraverso un cluster esteso di legami idrogeno, e solo nella configurazione (R) l’OH in 6 può legarsi fortemente

allo ione zinco, a una molecola di acqua e ad altre catene laterali. In Figura è rappresentata la struttura cristallografica del complesso ADA-RDHR. Gli atomi di carbonio sono indicati in giallo per l’inibitore e in grigio per gli aminoacidi, mentre gli atomi di azoto e di ossigeno sono riportati in blu e in rosso rispettivamente. I legami idrogeno sono indicati con linee rosse tratteggiate. Le piccole sfere, di colore rosso e nero, indicano molecole di acqua.

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Scheda 5.17  Modulazione allosterica della protein chinasi A: aspetti meccanicistici e termodinamici La modulazione allosterica della protein chinasi A (PKA) è rappresentata in maniera schematica nelle Figure A e B. La reazione di fosforilazione avviene dopo il legame della PKA al cofattore ATP e al substrato di natura polipeptidica, indicati in rosso e verde rispettivamente nelle Figure A e B. Lungo la coordinata di reazione la PKA assume tre conformazioni distinte: aperta, intermedia e chiusa. La conformazione intermedia deriva dal legame della PKA all’ATP o al substrato, mentre quella chiusa si forma quando la PKA è legata a entrambi. La cinetica di reazione che porta dall’apoenzima alla conformazione chiusa, che vede legati l’ATP e il substrato, comporta il passaggio attraverso quattro stadi regolati dalle costanti A)

B)

Cooperatività allosterica Chinasi attiva prima del trasferimento del fosfato

di legame Kd1-4. L’effetto allosterico (legame cooperativo) è evidente quando si confrontano i valori di Kd1 e Kd4, e di Kd2 e Kd3. In effetti nel legame del secondo ligando (stadio 3 o stadio 4) si nota un aumento dell’affinità di legame di 3-4 volte rispetto all’affinità di legame dello stesso ligando alla PKA in conformazione aperta (stadi 1 e 2). Questo legame più forte deriva da una transizione conformazionale dallo stato aperto allo stato intermedio, evidentemente più favorevole al legame del secondo ligando. La figura A illustra il profilo energetico della cooperatività del legame allosterico per le tre conformazioni proteiche.

Apo-chinasi

Kd(1) = 39 µM

Kd(2) = 980 µM

Kd(3) = 292 µM

Kd(4) = 12 µM

ATP-chinasi

Substrato-chinasi Kd(2) Kd(1) Kd(3) Kd(4)

Aperta

Intermedia

Chiusa

ATP-substratochinasi

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CAPITOLO 5 • Enzimi e farmaci online

Scheda 5.18  Struttura cristallografica dell’imatinib e del dasatinib in complesso con la BCR-ABL È rappresentata la struttura cristallografica dell’imatinib (in giallo) legato alla BCR-ABL nella conformazione inat-

tiva. Gli aminoacidi della sequenza DFG, colorati in verde, sono nella conformazione out.

Di seguito è rappresentata la struttura cristallografica del dasatinib (in arancione) legato alla BCR-ABL nella confor-

mazione attiva. Gli aminoacidi della sequenza DFG, colorati in verde, sono nella conformazione in.

CAPITOLO 6 • Recettori e farmaci online

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SCHEDA 6.1  Metodo di Schild Un antagonista competitivo compete con l’agonista per l’occupazione del recettore mediante interazione con lo stesso sito. Le interazioni dell’agonista e dell’antagonista competitivo, in condizioni di equilibrio, dipendono dalle rispettive costanti di dissociazione e concentrazioni e sono governate dalla legge di azione di massa: 

A+B+R KA

KB

RA + B

RB + A

Pertanto, le concentrazioni relative di agonista e antagonista competitivo sono di fondamentale importanza per l’equilibrio ed è evidente che, aumentando la concentrazione di agonista, si può superare l’occupazione da parte dell’antagonista. Schild ha ipotizzato che le curve concentrazione-risposta dell’agonista risultino spostate parallelamente verso destra in presenza di un antagonista (vedi figura). Pertanto, il livello di risposta di un agonista in assenza e in presenza di un antagonista competitivo può essere lo stesso, solo quando l’agonista occuperà lo stesso numero di recettori. Nella figura seguente è rappresentato l’effetto di concentrazioni crescenti di antagonista competitivo (Y) sulle curve concentrazione-risposta di un agonista (A). Lo spostamento verso destra delle curve è parallelo e linearmente proporzionale alla concentrazione di Y. 100

Effetto massimo (%)

1

(2)

dove [A] è la concentrazione dell’agonista in presenza dell’antagonista B. L’equazione 2 quantifica la frazione di recettori occupata dall’agonista ([RA]/[RT]) per una qualsiasi concentrazione di agonista e antagonista competitivo. In presenza di un antagonista, la frazione recettoriale occupata dall’agonista sarà inferiore a quella occupata in sua assenza. La concentrazione e la costante di dissociazione dell’antagonista competitivo sono indicate rispettivamente con [B] e KB. In assenza di antagonista, cioè per [B] = 0, si può facilmente verificare che l’equazione 2 si semplifica in:



(3)

In presenza dell’antagonista B, l’agonista darà la stessa risposta che si otterrebbe in assenza di B, solo quando occuperà lo stesso numero di recettori e ciò si verificherà per una certa concentrazione [A’]: 

+Y +Y +Y +Y

(4)

Uguagliando i secondi membri delle equazioni 3 e 4, si ha:

50

e risolvendo rispetto a [A’]/[A] si ha: 0

log[A] (M)

La frazione recettoriale [RA]/[RT] occupata da un agonista in presenza di un antagonista può essere ricavata nel modo seguente. Il numero totale di recettori è dato da: [RT] = [R] + [RA] + [RB]

(1)

Considerando i valori per [R] e [RB], che si ricavano dai rispettivi equilibri e sostituendoli nell’equazione 1, si ha:

Ponendo [A’]/[A], il rapporto tra le concentrazioni di agonista necessarie per ottenere la stessa risposta in presenza ([A’]) e in assenza ([A]) dell’antagonista B, uguale a x, si ha:

x – 1 = [B]/KB; da cui: log(x – 1) = log[B] – logKB(5)

Riportando in grafico, detto di Schild, log(x – 1) rispetto a –log[B], si ottiene una retta, che ha pendenza uguale a 1 quando l’antagonismo è competitivo (vedi figura sottostante). Il valore di log [B] per x = 2 è uguale al logaritmo negativo della costante di dissociazione dell’antagonista competitivo. L’intercetta è il pA2 e rappresenta il logaritmo negativo della concentrazione di antagonista competitivo, che provoca il raddoppiamento della concentrazione di agonista necessaria per raggiungere lo stesso effetto che si ottiene in assenza dell’antagonista. Questa

2

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definizione risulta più chiara ricordando che x = [A’]/[A] per x = 2, si ha: log(2 - 1) = log[B] - logKB = 0 da cui: log[B] = logKB; pA2 = –log KB Di seguito è rappresentato il diagramma di Schild per la determinazione della costante di dissociazione di un antagonista competitivo secondo l’equazione 5. log (x – 1)

re la costante di dissociazione apparente KB, seguito da un successivo tratto curvilineo (vedi figura seguente). Ne deriva che lo studio di un ampio intervallo di concentrazioni dell’antagonista in esame è essenziale per mettere in evidenza un antagonismo non aderente a quello competitivo. Nei casi più semplici, comunque, la deviazione della pendenza dall’unità si osserva anche a basse concentrazioni e quindi l’antagonismo non competitivo è subito evidente. Di seguito, la schematizzazione di un ipotetico diagramma di Schild per un antagonista allosterico B. Si ottiene una linea che non può essere rappresentata da una retta. A un tratto iniziale rettilineo, la cui pendenza potrebbe anche non essere significativamente diversa dall’unità, segue un andamento curvilineo che evidenzia una risposta non proporzionale alla concentrazione. log (x – 1)

Pendenza (n) = 1

log KB = –pA2

log [B]

Il grafico di Schild è impiegato anche per evidenziare un antagonismo allosterico non competitivo. Si può evidenziare un tratto iniziale lineare, che permette di deriva-

log KB

log [B]

3

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SCHEDA 6.2  Metodo di Scatchard Le curve di saturazione possono essere analizzate con il metodo di Scatchard, trasformando l’equazione

Indicando con B (bound) la concentrazione di ligando legato ([RL]), con Bmax la quantità massima di ligando legato, ovvero la concentrazione massima di recettori ([RT]) espressa in fmoli/mg di proteina, e con F (free) la quantità di ligando libero [L] si ha:

come di seguito riportato:

Questo e un modo di rendere lineare una curva di binding ponendo sull’asse delle ascisse il valore di B e sull’asse delle ordinate B/F. Si ottiene quindi una retta con pendenza uguale a –1/KD da cui e possibile ricavare la costante di dissociazione KD, mentre l’intercetta sull’asse delle ascisse (B/F = 0) permette di ricavare Bmax.

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SCHEDA 6.3  Metodo di Hill La costante di dissociazione KD può essere determinata in maniera diversa, utilizzando i dati degli esperimenti di saturazione secondo il metodo di Hill. A tale scopo, l’equazione: [RL] [L] + [RL] KD = [L] [RT]; può essere riscritta come segue:

Se il ligando L interagisce con più siti (n), nL + R (Ý) RLn, detta equazione diventa:

passando ai logaritmi si ha:

dove n è il coefficiente di Hill (nH). Se c’è un solo sito di interazione per il recettore (n = 1), riportando sulle ordinate log[B/(Bmax – B)] e sulle ascisse log[L], si ha una

retta con coefficiente angolare uguale a 1. Il valore KD può essere ottenuto per log[B/(Bmax – B)] = 0. Se n è significativamente diverso dall’unità, c’è una deviazione dalla legge di azione di massa che necessita di essere spiegata. Di seguito è rappresentato il diagramma di Hill nella sua forma classica di esperimenti di saturazione: il grafico in forma logaritmica di B/Bmax – B rispetto alla concentrazione di ligando libero [L] permette di ricavare il coefficiente di Hill (nH) e KD. KD è una funzione del coefficiente di Hill. Quando nH  200 µM Pim-1 IC50 ~ 100 µM Pim-1 LE < 2,35 kJmol–1N–1 Pim-1 LE ~ 1,43 kJmol–1N–1 9 atomi pesanti 16 atomi pesanti

CH3

3 B-RafV600E IC50 0,013 µM B-RafV600E LE 1,67 kJmol–1N–1 27 atomi pesanti

F

Cl

Vemurafenib B-RafV600E IC50 0,031 µM B-RafV600E LE 1,59 kJmol–1N–1 27 atomi pesanti

O2S

O NH

F O N

N H

S O

CH3

3

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Scheda 7.3  Navitoclax: esempio di strategia di unione di frammenti La strategia seguita nello sviluppo del navitoclax (6, ABT263) è quella dell’unione di più frammenti che si legano in siti distinti ma vicini. La tecnica usata è la risonanza magnetica nucleare (NMR) attraverso un approccio sviluppato alla Abbott detto “SAR by NMR” (relazioni struttura-attività attraverso NMR). In questo esempio, il bersaglio molecolare è la proteina Bcl-xL, che fa parte della famiglia di proteine dette Bcl (B-cell lymphoma), implicate nei meccanismi di apoptosi cellulare (via intrinseca). La Bcl-xL è una proteina antiapoptotica, la cui azione consiste nel sequestrare altre proteine, caratterizzate dal dominio BH3, che hanno una funzione pro-apoptotica; prevenendo questo tipo d’interazione si porta la cellula a morte programmata. La proteina Bcl-xL è sovraespressa in diverse forme di cancro, determinando così la sopravvivenza di queste cellule. All’inizio del progetto, una libreria di circa 10 000 composti di peso molecolare medio di 210 Da fu saggiata sulla KD 300 µM LE 1,26 kJmol–1N–1 16 atomi pesanti

Bcl-xL, rilevando le possibili interazioni analizzando cambiamenti degli spettri bidimensionali (15N-HSQC), in assenza e in presenza dei vari frammenti. A questo scopo, la proteina era stata marcata con 15N. Il primo frammento individuato fu l’acido 4'-fluorobifenil-4-carbossilico (1), che si legava nella stessa tasca idrofobica d’interazione delle proteine pro-apoptotiche; la libreria conteneva diversi acidi carbossilici a struttura biarilica, permettendo così, attraverso l’analisi della loro interazione, di derivare delle RSA preliminari su questo tipo di frammento. Il progetto proseguì attraverso lo screening, sulla proteina cui era legato (1), di una seconda libreria di circa 3500 molecole più piccole (peso molecolare medio di 125 Da), identificando un secondo sito di legame al quale si legavano diversi fenoli tra cui (2) e (3). Anche questa volta fu possibile derivare interessanti, ancorché limitate, RSA per questo secondo gruppo di molecole. Non è sempre facile trovare un’opportuna strategia di unione dei framO

COOH

OH

1

4 OH

OH

F

KD 6000 µM 2 LE 0,38 kJmol–1N–1 13 atomi pesanti

KD 1,4 µM LE 0,27 kcalmol–1N–1 30 atomi pesanti

F

3 KD 4300 µM LE 1,23 kJmol–1N–1 11 atomi pesanti O

O N H

O S

SO2CF3

N Cl

NH

N

S 5 (ABT 737) KD 0,8 nM LE 0,87 kJmol–1N–1 60 atomi pesanti

O

O N H

O S

SO2CF3

N Cl

N

NH S N

CH3 CH3

O

6 (ABT 263) KD < 0,5 nM LE 0,82 kJmol–1N–1 65 atomi pesanti

H3C

N CH3

4

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menti; infatti, in un primo momento i frammenti furono uniti attraverso un ponte olefinico, ottenendo (4): anche se l’affinità era migliorata di circa 200 volte, l’interazione nei due siti non era quella ottimale. Un gruppo acilsulfonamidico, bioisosterico con il gruppo carbossilico, si dimostrò migliore, portando a nuove molecole la cui ottimizzazione condusse prima a (5, ABT737), scartato per mancanza di biodisponibilità orale, e poi a (6, ABT263, Navitoclax), che è attualmente in sperimentazione per il trattamento di tumori solidi ed ematologici. Questo esempio dimostra come, dalle iniziali piccole molecole, il processo di ottimizzazione possa portare a so-

CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci online

stanze molto più complicate, e alle quali non avremmo assegnato proprietà drug-like: la molecola (6), ad esempio, viola 3 dei 4 descrittori della regola di Lipinski, pur avendo una buona biodisponibilità orale. Tuttavia, in questo caso occorre considerare anche la particolare natura dell’interazione che si vuole inibire: nelle interazioni tra proteine, i due partner si associano attraverso superfici di contatto molto grandi, difficilmente raggiungibili da una piccola molecola, e generalmente caratterizzate da mancanza di tasche di dimensioni appropriate per far entrare, appunto, composti di dimensioni limitate.

5

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Scheda 7.4  Strategie applicate nello scaffold hopping In figura sono illustrati in modo schematico i diversi approcci concettuali mediante i quali, con l’impiego di protocolli computazionali dedicati, è stata messa a punto la strategia globale dello scaffold hopping. Sono inoltre disponibili software che consentono un’indagine a più ampio raggio, ad esempio combinando la ricerca del farmacoforo con “filtri” che definiscono la forma dei ligandi. Se è nota un’unica struttura 3D di un ligando attivo, si possono ricercare composti che ne mimino esattamente la struttura, ma non si possono distinguere le caratteristiche essenziali per il binding da altri requisiti molecolari variabili. Tale differenziazione diviene possibile nel caso sia invece nota una serie di ligandi. Se questi ultimi sono diversi dal punto di vista strutturale ma condividono elementi comuni e possono assumere la medesima forma, si può costruire un farmacoforo 3D, cioè stabilire un insieme minimo di proprietà spaziali che un composto deve possedere per essere attivo su quel bersaglio biologico. Gli esperti di modellistica molecolare hanno messo a punto una serie di metodi teorici per il calcolo della somiglianza molecolare, tentando di svincolarla il più possibile dai dettagli della struttura chimica. Indipendentemente dal metodo adottato per la misura della somiglianza molecolare, esiste un compromesso tra il grado di “novità” di una struttura alternativa proposta e la probabilità di ottenere un composto provvisto dell’attività desiderata. Successivamente alla generazione del farmacoforo 3D, costruito manualmente oppure mediante procedura semi-automatica, si ricercano nei database le strutture in grado di soddisfare i requisiti definiti per quello specifico farmacoforo. Quando è invece nota la struttura di un determinato target molecolare, ad esempio un sottotipo recettoriale, è vantaggioso mettere a punto uno scree-

ning virtuale basato sul docking molecolare. Nel caso delle strategie basate sull’identità della forma e della ricerca del farmacoforo è quindi indispensabile la conoscenza delle coordinate tridimensionali, mentre l’approccio basato sulla sostituzione o ricombinazione dei frammenti del ligando può essere condotto anche su strutture chimiche planari. La discussione relativa ai protocolli computazionali utilizzati per lo scaffold hopping è complessa e non rientra negli scopi del testo; tuttavia, per ognuna delle metodologie vale la pena sottolineare i principali pro e i contro. L’approccio basato sull’identità della forma ha un’elevata probabilità di successo per composti relativamente piccoli e rigidi. Come detto, richiede tuttavia la conoscenza della conformazione attiva e non è in grado di discriminare l’importanza relativa dei gruppi funzionali. La ricerca del farmacoforo è un approccio razionale, che fornisce risposte piuttosto precise, poiché è basato su un numero elevato di informazioni. Per contro, richiede la conoscenza sia della conformazione bioattiva sia dell’allineamento dei ligandi. La sostituzione o ricombinazione dei frammenti può essere condotta sia su strutture 3D sia 2D e ha una buona percentuale di successo, ma i calcoli possono portare a risultati difficili da classificare. Inoltre il carattere innovativo del metodo dipende dalla scelta dei frammenti della molecola di partenza oggetto della variazione strutturale. La ricerca per similitudine è veloce e sempre applicabile, ma possiede un’incertezza intrinseca, perché dipende in misura notevole dalla combinazione dei descrittori molecolari scelti per definire la somiglianza strutturale. Quest’ultimo approccio può essere utilmente interfacciato con quello della sostituzione bioisosterica.

Identità della forma

Ricerca del farmacoforo

Sostituzione o ricombinazione dei frammenti

1

0

0

0

1

0

1

0

0

1

1

0

Ricerca per similitudine

Rappresentazione schematica delle principali strategie computazionali sulle quali si basa l’approccio dello scaffold hopping. Modificato da H-J Böhm et al Drug Discov. Today: Technol. 2004, 1, 217–224.

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CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci online

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Scheda 7.5  La genesi della cimetidina Un esempio particolarmente interessante di complicazione molecolare è costituito della cimetidina, il primo farmaco antiulcera antagonista dei recettori H2-istaminergici, che fu commercializzato a partire dalla metà degli anni ‘80 nel Regno Unito e la cui scoperta è stata il frutto dalla progettazione razionale dei ricercatori della Smith, Kline and French (SK&F). In figura è delineato il percorso che, tramite alcuni intermedi significativi, collega l’istamina, il mediatore naturale che media la secrezione acida gastrica, alla cimetidina, il primo farmaco in grado di contrastare selettivamente tale azione in condizioni

H

S

H N

NH2 H

N N

N

N

NH

NH2

H

N

NH

NHCH3

N

N-Guanilistamina

Istamina

H3 C H

patologiche. Una spiegazione più dettagliata della genesi della cimetidina sarà fornita nel Capitolo 30. In questo capitolo preme sottolineare il passaggio graduale dall’agonista endogeno a un farmaco che blocca in modo selettivo parte degli effetti dovuti all’attivazione dell’istamina, un processo realizzato attraverso una sequenza di complicazioni, omologazioni e ottimizzazioni strutturali. Di seguito è rappresentata la caratterizzazione in vitro e in vivo di un gruppo di inibitori della FAAH a struttura O-arilcarbamica.

N

N S N Cimetidina

Burimamide

H3C

CN

S

NH NHCH3

H

N

S

NH

N Metiamide

NHCH3

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CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci online

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Scheda 7.6  L’acido obeticolico, un acido biliare modificato Gli acidi biliari sono stati recentemente riscoperti quali elementi chiave delle funzioni paracrine ed endocrine collegate all’omeostasi dei livelli di colesterolo, al controllo del metabolismo dei lipidi e dei carboidrati, alla regolazione del sistema immunitario. Tali effetti sono mediati da due distinti percorsi di segnalazione cellulare: uno genomico, cioè l’attivazione del controllo trascrizionale, regolato dal recettore nucleare farnesoide X (FXR), e uno non genomico, dovuto all’attivazione del recettore TGR5 che appartiene alla classe A dei GPCR. Un’indagine degli aspetti chimici degli acidi biliari ha consentito di valutare più a fondo le caratteristiche strutturali e conformazionali alla base dell’attivazione degli effetti genomico e non genomico, consentendo la progettazione e la sintesi di nuovi analoghi strutturali in grado di differenziare gli effetti farmacologici (vedi figura).

Tali studi, condotti da R. Pellicciari e collaboratori, sono culminati nella scoperta dell’acido obeticolico, l’agonista più potente e selettivo del FXR (EC50 = 99 nM), un analogo dell’acido chenodesossicolico (CDCA), l’agonista endogeno del FXR, che si lega a tale recettore con valori di EC50 compresi tra 10 e 50 μM. Questo risultato è nato dall’osservazione che l’attività FXR-agonista di CDCA poteva essere modulata positivamente dall’introduzione di sostituenti alchilici nella posizione 6α, in particolare il gruppo etilico (6-ECDCA) possedeva le caratteristiche steriche ottimali. L’acido obeticolico ha dimostrato risultati promettenti di fase II sia in pazienti diabetici di tipo 2 affetti da steatosi epatica non alcolica sia in pazienti colpiti da cirrosi biliare primitiva refrattaria. Tale composto si configura pertanto come un nuovo agente protettivo ad ampio spettro d’azione per la cura di patologie epatiche croniche.

H3C CH3

H3C OH CH3

CO2H

CH3

HO

H

H 3C

CH3

OH CH3

Acido obeticolico (6-ECDCA, INT-747) FXR: EC50 = 99 nM TGR5: EC50 = 0,75 M

HO

H

CO2H

OH CH3

(S)-EMCA (INT-777) FXR: EC50 = 0,82 M TGR5: EC50 > 100 M

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CAPITOLO 7 • Ricerca e sviluppo dei farmaci online

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Scheda 7.7  U  RB937, un attivatore del sistema endocannabinoide ad azione periferica Un caso interessante, riportato da D. Piomelli e collaboratori, è rappresentato dal composto URB937 e da un gruppo di analoghi strutturali. URB937 è un inibitore dell’amide idrolasi degli acidi grassi (fatty acid amide hydrolase, FAAH), un enzima responsabile della degradazione dell’endocannabinoide anandamide. Nel topo, a differenza dei composti correlati, URB937 mostra un valore di ED50 per l’inibizione dell’attività della FAAH nel cervello circa 200 volte superiore a quello dell’inibizione della FAAH a livello epatico: il composto viene escluso in modo attivo dal SNC poiché è substrato dell’inibitore di membrana ABCG2. URB937 incrementa quindi i livelli

di anandamide al di fuori del SNC e, nonostante l’azione ristretta a livello periferico, esercita marcati effetti antinocicettivi in modelli murini di dolore acuto e persistente, effetti che sono annullati dal blocco dei recettori cannabinoidi CB1. Questi risultati suggeriscono che l’inibizione dell’attività della FAAH periferica sia in grado di potenziare il meccanismo analgesico endogeno mediato dall’anandamide. In tabella è mostrata la caratterizzazione in vitro e in vivo di un gruppo di inibitori della FAAH a struttura Oarilcarbamica. O

H N

O O

a b

NH2

R

R

IC50 (nM)a

Inibizione della FAAH nel fegato (%)b

Inibizione della FAAH nel cervello (%)b

(URB597) H

7,7 ± 1,5

Non determinata

96,2 ± 0,4

(URB937) OH

26,8 ± 4,9

91,7 ± 0,7

–3,0 ± 8,0

OCH3

45,3 ± 14,1

94,6 ± 0,7

86,4 ± 2,1

CH3

20,5 ± 0,6

93,0 ± 1,1

91,9 ± 1,5

F

49,7 ± 5,8

90,7 ± 1,2

89,7 ± 1,3

NH2

42,5 ± 4,2

92,2 ± 0,6

23,2 ± 2,1

IC50 misurata in preparazioni di membrane di cervello di ratti. Inibizione della FAAH misurata ex vivo a 1 ora dall’iniezione intraperitoneale (1 mg/kg) nei topi.

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CAPITOLO 9 • Anestetici generali online

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Scheda 9.1 ■ Cenni storici sull’anestesia Fino a circa due secoli fa venivano utilizzati soltanto dei metodi rudimentali volti a ridurre la sensazione di dolore nel paziente sottoposto a interventi chirurgici oppure odontoiatrici. Questi consistevano in metodi “fisici” (dalla classica botta in testa all’insensibilizzazione locale indotta dal raffreddamento), oppure “chimici” (somministrazione di bevande a elevato grado alcolico, nonché di estratti naturali stupefacenti quali oppio e hashish), con scarsi risultati. Nella prima metà del 1800 iniziarono a diffondersi nel Regno Unito e nel Nord America degli spettacoli che consistevano nel dimostrare al pubblico l’effetto esilarante causato dal protossido d’azoto (N2O), altresì noto come “gas esilarante”. In particolare nel 1844 un dentista del Connecticut, Horace Wells, assistette a uno di questi spettacoli in cui un volontario sotto l’effetto del gas subì accidentalmente un infortunio a una gamba senza provare alcun dolore. Fu così che Wells ipotizzò un possibile nuovo ruolo per il protossido d’azoto, iniziando a impiegarlo nel suo studio dentistico. Nello stesso periodo un altro medico, Crawford Williamson Long, aveva iniziato a utilizzare un liquido volatile, l’etere dietilico – (C2H5)2O – come agente in grado di indurre anestesia. Queste prime intuizioni sugli anestetici gassosi furono poi portate all’attenzione della comunità scientifica da altri due medici, William Green Morton e Charles Thomas Jackson, che organizzarono una pubblica dimostrazione dell’effetto anestetico dell’etere dietilico nel 1846, aprendo di fatto la strada a una delle più importanti rivoluzioni nella storia della medicina. Contemporaneamente, da quest’altra parte dell’oceano, il medico scozzese James Young Simpson aveva introdotto l’utilizzo in ostetricia del cloroformio, un altro anestetico volatile considerato all’epoca innovativo in quanto, a differenza dell’etere dietilico, non era infiammabile. Purtroppo la sorte di molti di questi pionieri dell’anestesia non fu felice. Ad esempio Wells divenne uno sniffatore abituale di anestetici volatili, soprattutto di cloroformio, e dopo varie traversie si suicidò a soli 33 anni. Inoltre la prolungata esposizione del dottor Morton ai vapori di anestetici, che utilizzava nella sua attività medica, probabilmente contribuì a causargli l’attacco cardiaco fatale che lo colse a 48 anni, mentre Jackson trascorse l’ultima parte della sua esistenza in un manicomio. Questi casi emblematici costituiscono le prime evidenze del problema dell’intossicazione, più o meno volontaria, che affligge tuttora in modo prevalente la classe medica degli anestesisti (Box 9.1). La possibilità di utilizzare nuove vie di somministrazione, a seguito dell’introduzione nelle pratiche mediche della

siringa ipodermica nella seconda metà del 1800, ha portato alla scoperta degli anestetici iniettabili (Par. 9.3), che sono tuttora utilizzati da soli o in combinazione con quelli per inalazione. I primi anestetici iniettabili riportati erano dei derivati solfonici, in particolare il solfonal – 2,2-bis(etilsulfonil)propano –, un sedativo a lunga durata d’azione sintetizzato dal famoso chimico tedesco Eugene Baumann e utilizzato in anestesia dal conterraneo Alfred Kast verso la fine del 1800. Successivamente, nei primi anni del 1900 la florida comunità chimica tedesca aveva già iniziato a produrre derivati barbiturici dotati di azione ipnotico-sedativa, a partire dal semplice acido barbiturico sintetizzato da Adolf von Baeyer nel 1864. Il primo barbiturico a essere impiegato in medicina (1903) fu il barbital o veronal – acido 5,5-dietilbarbiturico –, sintetizzato da Emil Fischer presso i laboratori della Bayer. Questo farmaco si mostrò utile principalmente come induttore dell’anestesia e fu successivamente sostituito dal tiopentale o pentotal – acido 5-etil-5-(2-n-pentil)-2-tiobarbiturico –, un farmaco in grado d’indurre l’anestesia in modo molto rapido, scoperto dal chimico americano Ernest Henry Volwiler nei laboratori della Abbott e introdotto nella pratica anestetica nel 1934 dal medico John Silas Lundy, attualmente considerato il vero padre dell’anestesia endovenosa. Un’ulteriore pietra miliare in anestesia è costituita dall’introduzione degli agenti miorilassanti (Par. 9.4), grazie all’intuizione di Harold Randall Griffith, un anestesista canadese il quale, insieme al suo collaboratore Enid Johnson, il 23 gennaio 1942 utilizzò per la prima volta un alcaloide del curaro, la d-tubocurarina (Par. 9.4.1), per indurre il rilassamento muscolare durante un intervento chirurgico condotto in anestesia generale. In Europa Thomas Cecil Gray e John Halton, due anestesisti di Liverpool, dimostrarono che era possibile ridurre notevolmente le dosi di anestetici per inalazione durante gli interventi chirurgici (e quindi di aumentare la percentuale di sopravvivenza dei pazienti sottoposti all’anestesia) semplicemente incrementando le dosi di tubocurarina, in modo da ottenere un rilassamento muscolare più efficace, a patto di fornire al paziente una respirazione assistita, poiché a queste dosi anche i muscoli respiratori subiscono una paralisi. I loro risultati furono pubblicati nel 1947 e costituirono il protocollo di riferimento definito “La tecnica di Liverpool”, che si basa sul bilanciamento ottimale della “triade dell’anestesia generale” (perdita di coscienza o ipnosi, analgesia, rilassamento muscolare), che ha portato a una marcata riduzione dell’incidenza di complicazioni dovute agli anestetici inalatori. Da questo momento in poi le basi per lo sviluppo delle moderne tecniche di anestesia generale erano state poste.

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CAPITOLO 9 • Anestetici generali online

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Scheda 9.2 ■ Stadi dell’anestesia Una delle più diffuse classificazioni dei vari stadi dell’anestesia che vengono raggiunti man mano che la quantità di anestetico aumenta è quella proposta dall’anestesista statunitense Arthur Ernest Guedel nel 1937, sulla base Respirazione Intercostale

Stadio 1: analgesia

Diaframm.

Normale

delle sue osservazioni su cambiamenti apportati dalla somministrazione di concentrazioni crescenti di etere dietilico a pazienti sottoposti a interventi chirurgici.

Movimenti oculari

Diametro pupillare

Controllo volontario

Normale

Livello 1

Tono muscol.

Reazione respiratoria a incisioni

Normali Palpebra

Stadio 2: iperattività

Stadio 3: anestesia chirurgica

Riflessi oculari

Muscoli in tensione

Cornea Nessun movimento

Livello 2

Nessuna reazione a incisioni

Pupilla (luce)

Livello 3 Livello 4

Stadio 4: morte imminente

Apnea

La classificazione di Guedel prevede l’osservazione di vari segnali fisici per stabilire i diversi stadi dell’anestesia, come: (a) il tipo di respirazione; (b) la dilatazione delle pupille e la loro reazione alla luce; (c) il livello di perdita di coscienza; (d) il grado di perdita dei riflessi; (e) l’entità del rilassamento muscolare. Sulla base dell’osservazione di questi parametri è possibile definire i seguenti stadi di anestesia. Stadio 1: analgesia. Il paziente è conscio, ma disorientato a causa di un’iniziale depressione dei neuroni corticali (prima parte dell’induzione). Stadio 2: iperattività e delirio. Sopraggiungono effetti eccitatori paradossali a causa dell’inibizione dei neuroni inibitori (seconda parte dell’induzione), la respirazione è frenetica e la pupilla è dilatata. Stadio 3: anestesia chirurgica. È lo stadio in cui è possibile eseguire interventi chirurgici poiché si è ottenuta la condizione della “triade dell’anestesia” (incoscienza, analgesia, soppressione dei riflessi). Questo stadio è ulteriormente suddiviso in quattro livelli: Livello 1. La respirazione e la pupilla tornano a essere normali, ma permane un certo tono muscolare, pertanto è adatta esclusivamente alla chirurgia superficiale che riguarda la pelle fino alla fascia superficiale di tessuto connettivo. Livello 2. Si nota una riduzione della respirazione e una marcata miosi pupillare, i riflessi cominciano a ridursi così come il tono muscolare. L’intervento può andare più in profondità, fino allo strato muscolare, ad esempio nell’erniorrafia, purché non sia richiesto un totale rilassamento muscolare. Livello 3. La respirazione intercostale tende a ridursi fino

Flaccidità

ad annullarsi, mentre si mantiene quella diaframmatica. La pupilla torna a dilatarsi fino a livelli normali, ma si rallenta progressivamente il riflesso fotomotore. Il tono muscolare è notevolmente ridotto e non ci sono riflessi causati dall’incisione della pelle. Questo stadio è adatto a praticamente tutti i tipi di chirurgia, compresi quelli a carico delle cavità più profonde dell’organismo (laparotomie e laparoscopie). Livello 4. La depressione respiratoria si estende anche a quella diaframmatica, associata a una progressiva midriasi pupillare e a un’assenza del riflesso fotomotore; il tono muscolare tende ad annullarsi e si ha un collasso cardiovascolare. Il paziente necessita di supporto sia respiratorio sia cardiovascolare. Questo livello è dovuto a un sovraddosaggio di anestetico e non dovrebbe mai essere raggiunto per nessun tipo di intervento. Stadio 4: morte imminente. Questo livello è estremamente rischioso ed è molto vicino al decesso. Si ha un blocco respiratorio completo (apnea) insieme a una dilatazione massima della pupilla e a una paralisi bulbare. Risulta quindi evidente che il paziente non deve mai essere spinto fino a questa pericolosissima condizione. Oltre ai segni descritti nella classificazione di Guedel, attualmente si procede con il monitoraggio anche di altri parametri come, ad esempio, pressione arteriosa, frequenza cardiaca, movimenti spontanei, sudorazione, lacrimazione, conduttanza cutanea, elettromiogramma di superficie ed elettroencefalogramma. Quindi l’anestesia chirurgica dev’essere mantenuta fra il primo e il terzo livello dello stadio 3 e può variare a seconda del tipo d’intervento, ma anche nelle varie fasi dello stesso intervento.

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CAPITOLO 9 • Anestetici generali online

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Scheda 9.3 ■ Anestetici inalatori di uso storico Ciclopropano Il ciclopropano, chiamato anche trimetilene, è un gas incolore e dall’odore dolciastro. Rappresenta uno degli idrocarburi alifatici più efficaci (MAC = 9,2%) fra quelli impiegati in anestesia, sebbene non venga più utilizzato da diversi decenni a causa della sua infiammabilità ed esplosività in presenza di ossigeno o di gas ossidanti come il protossido d’azoto (tipicamente presenti nelle miscele gassose di anestetico). Questo composto sul cuore esercita un’azione sensibilizzante alle catecolamine, con possibile insorgenza di aritmie gravi. Inizialmente il ciclopropano sembrava aver risolto molti dei problemi dell’N2O, soprattutto quello della sua scarsa efficacia, che costringeva gli anestesisti a usarne concentrazioni molto elevate con il conseguente rischio di ipossia. Inoltre produce una rapida induzione dell’anestesia, anche grazie al suo basso coefficiente di partizione sangue/gas (λ = 0,55). Tuttavia il ciclopropano si è reso protagonista di numerose tragedie avvenute nelle sale operatorie di tutto il mondo, in cui hanno perso la vita pazienti, anestesisti, chirurghi e altro personale presente al momento dell’esplosione. Infatti, nonostante il ciclopropano sia sicuro per il paziente anche a concentrazioni elevate (fino al 50%), purtroppo diventa infiammabile a valori ben più bassi (2% che corrispondono a 0,2 MAC). Inutili sono stati i vari tentativi di dotare le sale operatorie di dispositivi volti a prevenire la formazione di scariche elettrostatiche. Il rischio di esplosioni ha portato all’abbandono definitivo di questo anestetico, spinto anche dall’avvento degli idrocarburi alogenati, altrettanto efficaci, ma molto più sicuri. Etere dietilico L’etere dietilico – (C2H5)2O – è un liquido incolore molto volatile, che presenta una temperatura di ebollizione di circa 35 °C. È stato uno dei primi anestetici volatili utilizzati, insieme al protossido di azoto, ma non viene più impiegato in anestesia perché, come nel caso del ciclopropano, risulta altamente infiammabile ed esplosivo,

soprattutto se presente in miscele contenenti ossigeno o N2O. È un anestetico molto efficace (MAC = 1,9%), ma presenta una notevole tossicità, soprattutto a livello cardiaco. Inoltre è irritante per le mucose, provocandone un’ipersecrezione. A causa della sua elevata solubilità nel sangue (λ = 12,1), ha dei periodi d’induzione piuttosto lunghi. Anche questo composto è stato attualmente superato da agenti più efficaci, come gli anestetici alogenati. Cloroformio L’uso del cloroformio (CHCl3) si è diffuso poco dopo quello dell’etere dietilico e inizialmente fu impiegato soprattutto in ostetricia. Si presenta come liquido incolore dotato di un’elevata tensione superficiale a temperatura ambiente, con una temperatura di ebollizione di 61 °C e un caratteristico odore dolciastro. Il vantaggio principale che presenta rispetto agli idrocarburi ed eteri non alogenati è costituito dalla ridotta infiammabilità, grazie alla predominante presenza di atomi di cloro in questo composto. La sua potenza è molto elevata (MAC = 0,5%), ma purtroppo anche la sua tossicità nei confronti di fegato e reni. Inoltre esercita una profonda ipotensione a livello cardiovascolare e può generare aritmie cardiache. Il cloroformio viene metabolizzato prevalentemente per via ossidativa (Fig. 9.3), producendo il triclorometanolo. La successiva perdita spontanea di HCl porta alla formazione di fosgene, una specie elettrofila altamente reattiva che si lega covalentemente a molte componenti cellulari contenenti gruppi nucleofili come, ad esempio, proteine, acidi nucleici e glutatione ridotto. Questo può provocare delle gravi intossicazioni, soprattutto epatiche, fino a determinare un vero e proprio effetto cancerogeno. Per tutti questi motivi il suo uso è stato abbandonato, ma costituisce il precursore di tutti i più moderni anestetici alogenati che sono attualmente utilizzati e che sono stati sviluppati sfruttando le caratteristiche positive del cloroformio (elevata potenza, scarsa infiammabilità), ma correggendone i molteplici lati negativi.

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CAPITOLO 10 • Ipnotici, sedativi e tranquillanti online

Scheda 10.1  Disturbi d’ansia: classificazione, sintomi ed eziologia I disturbi d’ansia sono suddivisi secondo la seguente classificazione. 1. Disordine generalizzato dell’ansia (DAG): è un disordine cronico caratterizzato da un’ansia eccessiva e duratura e da preoccupazione relative a eventi, oggetti e situazioni non specifiche della vita. I malati di DAG sono spesso spaventati e preoccupati della salute, dei soldi, della famiglia, del lavoro o della scuola, ma hanno difficoltà sia nell’identificare la specifica paura sia nel controllare le preoccupazioni. Questa paura è spesso irreale o sproporzionata rispetto a quanto ci si può aspettare per quella situazione. I malati sono talmente ossessionati da possibili fallimenti e disastri che tale ossessione interferisce con le normali funzioni quotidiane come il lavoro, la scuola, le attività e le relazioni sociali. 2. Panico, con o senza agorafobia (DP): è un tipo di ansia caratterizzata da brevi e improvvisi attacchi di terrore intenso e preoccupazione che porta a tremore, confusione, capogiri, nausea e difficoltà di respirazione. Gli attacchi di panico tendono a sorgere improvvisamente e a raggiungere un picco dopo 10 minuti, ma possono anche durare per ore. I disordini di panico generalmente compaiono dopo esperienze terribili o stress prolungato, ma possono anche essere spontanei. Inoltre, gli attacchi di panico portano il malato ad aspettarsi attacchi futuri, situazione che può causare drastici cambiamenti di comportamento nel tentativo di evitare tali attacchi. 3. Fobie specifiche: la fobia è una paura irrazionale di un oggetto o una situazione. Le fobie sono differenti dai disordini di ansia generalizzata, perché una fobia è una paura identificabile con una specifica causa. La paura può essere riconosciuta come irrazionale o non necessaria, ma la persona è ancora incapace di controllare l’ansia che ne risulta. Gli stimoli per una fobia possono essere molteplici come situazioni, animali, o oggetti quotidiani. Ad esempio, l’agorafobia si ha quando una persona evita un posto o una situazione per sfuggire a un possibile attacco di ansia o di panico. Questi malati cercano sempre di porsi in modo tale che la fuga non sia difficile o imbarazzante ed essi muteranno il loro comportamento per ridurre l’ansia di essere capaci di fuggire. 4. Fobia sociale: è una fobia caratterizzata dalla paura di essere negativamente giudicati dagli altri o dalla paura di sentirsi imbarazzati a causa di azioni impulsive. Questo include sensazioni tipo la paura del palco, la paura dell’intimità e la paura dell’umiliazione. Questo disordine può portare le persone a evitare le situazioni pubbliche e il contatto con gli altri a un punto tale che la vita stessa è resa impossibile. 5. Disordine ossessivo-compulsivo (DOC): è un disordine d’ansia caratterizzato da azioni o pensieri che sono ripetitivi, stressanti e invadenti. I malati di DOC normalmente sono consci che le loro compulsioni sono irragionevoli o irrazionali, ma gli servono per alleviare la loro ansia. Spesso, i malati di DOC possono ossessivamente pulire oggetti personali o le mani, possono continuamente controllare lucchetti, la stufa o gli in-

terruttori della luce. 6. Disordine da stress post-traumatico (DPTS): è un’ansia che deriva da precedenti traumi come combattimenti militari, rapimenti, o incidenti drammatici. DPTS spesso porta a flashback e a cambiamento di comportamento al fine di evitare certi stimoli. I malati di DPTS hanno spesso pensieri e ricordi ricorrenti e terrorizzanti di un evento e tendono a essere emozionalmente paralizzati. I segni somatici sono riconducibili a un’iperattività del sistema nervoso autonomo e in generale a una classica risposta del sistema simpatico di tipo “combatti o fuggi”. Ovviamente i sintomi variano a seconda del tipo di disordine d’ansia, ma generalmente includono: • sensazione di panico, paura e apprensione; • pensieri incontrollabili e ossessivi; • pensieri ricorrenti o flashback di esperienze traumatiche; • comportamenti ritualistici, come il lavarsi le mani ripetutamente; • insonnia; • mani e/o piedi freddi o sudati; • palpitazioni; • incapacità di stare fermi e calmi; • secchezza delle fauci; • mani o piedi paralizzati o informicoliti; • nausea; • tensione muscolare; • vertigini. L’ansia è associabile a svariati fattori: vediamoli nel dettaglio. Fattori ambientali L’ansia è associabile ad alcuni fattori ambientali: • traumi derivanti da eventi quali abuso, vittimizzazione, o la morte di una persona cara; • stress dovuto a matrimonio, divorzio, amicizia o relazione personale; • stress al lavoro; • stress a scuola; • stress dovuto al denaro o alla situazione finanziaria; • stress dovuto a una calamità naturale; • mancanza di ossigeno alle alte quote. Malattie L’ansia è associabile a malattie quali l’anemia, l’asma, le infezioni e diverse patologie del cuore. Alcune cause mediche includono: • stress dovuto a una malattia importante; • effetti collaterali di farmaci; • sintomi di una malattia; • mancanza di ossigeno dovuto a un enfisema o embolia polmonare.

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Uso e abuso di sostanze Si è stimato che circa la metà dei pazienti che utilizzano i servizi psichiatrici per il trattamento di disturbi quali DAG, DP o fobie sociali, lo fanno a causa della dipendenza da alcol o benzodiazepine. Più in generale, l’ansia è causata da: • intossicazione da farmaci illeciti, come cocaina o amfetamine; • interruzione dell’assunzione di farmaci illeciti, quali eroina, utilizzo di farmaci quali vicodin, benzodiazepine o barbiturici; • utilizzo di farmaci quali vicodin, benzodiazepine o barbiturici. Fattori genetici È stato suggerito che una storia familiare di ansia aumenta la probabilità che una persona ne soffra. Quindi alcune persone possono avere una predisposizione genetica a soffrire di disordini d’ansia.

CAPITOLO 10 • Ipnotici, sedativi e tranquillanti online

Neurobiologia La ricerca sull’eziologia dei disordini d’ansia è entrata nel vivo di recente. Studi neurobiologici hanno infatti identificato alcune alterazioni neurotrasmettitoriali comuni alla maggior parte dei disordini d’ansia: la più evidente e ricorrente è la perturbazione del sistema gabaergico. L’acido γ-aminobutirrico (GABA), il più importante neurotrasmettitore a carattere inibitorio del sistema nervoso centrale (SNC), gioca un ruolo fondamentale nella modulazione del segnale neuronale attivante, impedendo una continua sovrastimolazione dei neuroni e determinando quindi una minore eccitabilità della stessa cellula neuronale. Tale neurotrasmettitore è pertanto un target importante per gli agenti terapeutici già in commercio o in via di sviluppo: basti pensare alle benzodiazepine, farmaci d’elezione nel trattamento dell’ansia.

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CAPITOLO 10 • Ipnotici, sedativi e tranquillanti online

Scheda 10.2  Sviluppo di nuovi ansiolitici Sebbene le Bz siano farmaci efficaci e sicuri, e quindi ampiamente utilizzate in terapia quali agenti ipnotici, ansiolitici, anticonvulsivanti e miorilassanti, presentano vari effetti collaterali quali sedazione, atassia, rilassamento muscolare, riduzione dell’apprendimento e della memoria, potenziale d’abuso. I ricercatori hanno quindi focalizzato la loro attenzione all’identificazione dell’“ansiolitico ideale”, cioè di un composto capace di produrre ansiolisi e l’induzione del sonno senza determinare gli effetti indesiderati tipici delle Bz. Le Bz agiscono andando a interagire con uno specifico sito di legame presente sul complesso recettoriale GABAA, chiamato recettore delle Bz (BzR). L’esistenza del sito di riconoscimento per le Bz sul complesso GABAA fa pensare all’esistenza di un ligando endogeno per il BzR implicato con gli stati d’ansia fisiologici e patologici. Così l’ansia potrebbe essere dovuta sia a un deficit dell’agonista endogeno, sia a un eccesso di antagonista endogeno. In effetti è stato identificato un neuropeptide endogeno, il DBI (diazepam binding inhibitor), capace di spiazzare il diazepam dal proprio recettore. Occorre evidenziare che molte altre molecole strutturalmente diverse dalle Bz possono legarsi a questo sito recettoriale con alta affinità, mostrando profili farmacologici molto interessanti. Si possono infatti avere: composti agonisti, che potenziano l’azione del GABA e hanno gli stessi effetti farmacologici delle Bz (sedazione, attività anticonvulsivante); composti agonisti inversi, che inducono un effetto inverso a quello del GABA (inducono cioè ansia, aumento del tono muscolare, convulsioni); composti antagonisti, che non hanno attività intrinseca ma che possono spiazzare dal sito recettoriale sia agonisti sia agonisti inversi. Sono state inoltre sviluppate serie di ligandi strutturalmente collegati, i cui profili farmacologici variano in modo continuo da un effetto di pieno agonista a uno di pieno agonista inverso: gli agonisti parziali (mostrano attività ansiolitica/anticonvulsivante senza produrre sedazione/ipnosi e miorilassamento) e gli agonisti inversi parziali (aumentano l’attività neuronale del SNC senza avere effetto proconvulsivante o convulsivante, risultando quindi utili nel trattamento terapeutico dei danni alla memoria associati all’età). Moltissimi composti a struttura non benzodiazepinica sono stati preparati e saggiati in vitro per la loro affinità al BzR e in vivo per una definizione del loro profilo farmacologico, con lo scopo di definire meglio i requisiti strutturali necessari a un ligando per avere un’azione agonista, agonista inversa o antagonista. La maggior parte dei ricercatori sono comunque concordi nell’affermare che il BzR è unico e che le diverse azioni farmacologiche, determinate dai diversi ligandi, originano dal legame di questi in regioni leggermente differenti, spesso sovrapposte, dello stesso sito recettoriale. Uno dei modelli recettoriali più accreditati è il modello inclusivo di Cook, secondo il quale il recettore è unico, tutti i ligandi si legano alla stessa zona del sito recettoriale e le diverse azioni farmacologiche derivano dal legame di questi in regioni leggermente differenti, parzialmente sovrapposte.

S3

L2

S2 L3

Cl

H2/A3

L1 N N

LDi O A2

CH3

S1

H1

Il modello inclusivo di Cook prevede: (a) un sito accettore di legame idrogeno A2; (b) due siti donatori di legame idrogeno H1 e H2; (c) tre tasche lipofile L1. L2, e L3; (d) tre zone di impedimento sterico S1, S2, S3, che impedirebbero a ligandi che presentano ingombri sterici particolari di interagire con il recettore pur possedendo caratteristiche di densità elettronica e di lipofilia tali da far supporre una buona affinità. In ogni caso, solo ligandi planari o capaci di assumere una conformazione planare, possono interagire con questi siti di legame, grazie alla possibilità di penetrare sufficientemente all’interno della stretta fenditura lipofila del recettore. Nel caso di un agonista pieno come una Bz, l’interazione avverrebbe a livello dell’atomo di ossigeno carbonilico e l’azoto imminico che formano legami idrogeno con i siti donatori H1 e H2; l’area L1 viene occupata dall’anello benzenico fuso, mentre il sostituente in posizione 7 va a interagire con l’area L2 e il fenile in 5 si inserisce nell’area L3. Per un’attività di pieno agonista sembra necessaria l’occupazione delle tre aree lipofile L1, L2 e L3, mentre per un’attività di agonista parziale è sufficiente l’occupazione di L1 e L2, oltre all’interazione con i due siti H1 e H2. Nel caso di un agonista inverso, l’interazione avviene mediante l’interazione con i siti A2 e H1, oltre all’occupazione della tasca lipofila L1. Un ulteriore input alla ricerca nel campo dei ligandi al BzR è derivato da studi di genetica molecolare, che hanno indicato che la complessità degli effetti farmacologici delle Bz può essere ricondotta alla eterogeneità nella distribuzione regionale dei vari sottotipi del complesso recettoriale GABAA/BzR. Questo complesso recettoriale ha una struttura eteropentamerica composta da diverse subunità: α1-6, β1-3, γ1-3, δ, ε, π e θ. La maggioranza dei complessi sono costituiti da subunità α, β, γ, sistemate con una stechiometria di tipo 2α, 2β e 1γ, in un arrangiamento γβαβα, in senso antiorario dal lato sinaptico. Il BzR è situato all’interfaccia tra le subunità α e γ, nel dominio N-terminale extracellulare delle subunità α1, α2, α3, e α5; i due sottotipi α4βxγ2 e α6βxγ2 non rispondono alle Bz (e sono detti recettori benzodiazepine-insensitive). La composizione in subunità dei recettori ha una grande influenza sulla risposta del recettore alle Bz e agli altri ligandi. Studi farmacologici hanno dimostrato che le variazioni nella subunità α rappresentano il principale determinante per le proprietà farmacologiche delle Bz. Nello specifico, la molteplicità delle subunità crea una eterogeneità dei recettori GABAA, e l’eterogeneità nella distribuzione regionale dei vari sottotipi del complesso recettoriale GABAA/BzR potrebbe essere responsabile

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della molteplicità delle diverse proprietà farmacologiche delle Bz. In effetti, l’espressione delle diverse subunità e la conseguente composizione recettoriale varia in dipendenza delle diverse aree cerebrali e in concomitanza di certe patologie. Il sottotipo α1βxγ2 è il più rappresentato, presente sia nella corteccia sia nel cervelletto; i sottotipi α2βxγ2 e α3βxγ2 sono moderatamente abbondanti, soprattutto nella corteccia e nell’ippocampo; il sottotipo α5βxγ2 è il meno espresso e si ritrova solo nell’ippocampo. Questa distribuzione eterogenea dei sottotipi recettoriali del GABAA nelle diverse aree cerebrali suggerisce che proprio l’attivazione dei vari sottotipi potrebbe essere associata ai distinti effetti farmacologici delle Bz. Esperimenti di mutagenesi condotti sulle subunità α hanno contribuito a chiarire quali dei vari sottotipi recettoriali del GABAA sono associati con i particolari aspetti della risposta farmacologica prodotta dal diazepam, che non è sottotiposelettivo. Le proprietà ansiolitica, sedativa, miorilassante, ipnotica, anticonvulsivante e atassica, così come il rischio di tolleranza e abuso e gli effetti amnesici delle Bz di prima generazione, sono mediati dalla loro interazione non selettiva con recettori GABAA contenenti le subunità α1, α2, α3 e α5. La mutazione di un residuo di Arg in uno di His (His101) nella subunità α1 rende i corrispondenti recettori GABAA insensibili agli effetti ipnotici, sedativi, anticonvulsivanti e amnesici del diazepam. La stessa mutazione puntiforme realizzata nelle subunità α2 e α3 (rispettivamente His101Arg e His126Arg) evidenzia il loro ruolo negli effetti ansiolitico e miorilassante del diazepam. La mutazione puntiforme His105Arg nella subunità α5 evidenzia un ruolo importante di questi recettori nei processi cognitivi. In questo senso, agonisti inversi selettivi per il sottotipo α5 potrebbero risultare interessanti per lo sviluppo di agenti terapeutici in grado di promuovere l’apprendimento e la memoria. La distribuzione nelle varie regioni del SNC e i diversi effetti farmacologici esplicati dai vari sottotipi recettoriali del GABAA sono riassunti nella seguente Tabella. Sulla base di queste conoscenze, differenti approcci sono stati utilizzati per sviluppare farmaci ansiolitici con un miglior profilo farmacologico: (a) la sintesi di agonisti parziali per il BzR; (b) la sintesi di agenti selettivi per un determinato sottotipo recettoriale in termini di affinità o di efficacia. Per quanto riguarda il primo approccio, gli agonisti parziali potrebbero in effetti offrire dei vantaggi rispetto agli agonisti pieni e rappresentare quindi gli ansiolitici ideali. In particolare, se confrontati con le Bz, gli agonisti parziali dovrebbero presentare minori effetti collaterali, quali sedazione e atassia, nonché un più basso potenziale d’abuso. Negli anni 1980-1990, come primo tentativo

di migliorare l’efficacia clinica delle Bz, sono stati sviluppati alcuni agonisti parziali non selettivi come due derivati imidazobenzodiazepinici (imidazenil e bretazenil) e un derivato β-carbonilico (abecarnil). Composizione

Distribuzione

Effetti farmacologici

α1βxγ2

Corteccia Interneuroni dell’ippocampo Talamo Cervelletto

Sedativo Amnesico Anticonvulsivante

α2βxγ2 α3βxγ2

Bulbo olfattivo Ippocampo Amigdala Striato Motoneuroni del midollo spinale

Ansiolitico Anticonvulsivante

α5βxγ2

Ipotalamo Neuroni colinergici/ monoamminergici

Deficit cognitivo e di memoria

L’affinità intrinseca ridotta di questi composti, rispetto agli agonisti pieni come il diazepam, poteva risultare in un migliore profilo farmacologico preclinico, con una larga finestra tra le dosi ansiolitiche e sedative, e con minore potenziale di dipendenza e abuso. Purtroppo, l’ulteriore sviluppo di questi composti è stato ostacolato da una varietà di ragioni. Relativamente al secondo approccio, le differenti isoforme del recettore GABAA possono rappresentare un target cruciale per lo sviluppo di farmaci con un profilo farmacologico selettivo e ridotti effetti collaterali indesiderati acuti (sedazione) e cronici (astinenza). In questo contesto si può parlare di: (a) “selettività di affinità” quando un composto si lega con un’affinità maggiore a uno specifico sottotipo recettoriale rispetto agli altri sottotipi; (b) “selettività di efficacia” quando un composto, pur legandosi con efficacia paragonabile a più di un sottotipo, mostra profili di efficacia diversi (agonista, agonista inverso, antagonista) ai diversi sottotipi. In pratica, agonisti selettivi α1 potrebbero rappresentare i sedativi ideali e agenti ipnotici privi di effetti collaterali sui processi cognitivi e la memoria; agonisti che modulano selettivamente i recettori α2 e α3, ma non agiscono sul sottotipo α1, rappresenterebbero gli ideali ansiolitici non-sedativi; agonisti inversi che agiscono in modo selettivo sul recettore α5 potrebbero avere utilità terapeutica come agenti per il trattamento dei deficit cognitivi, mancando degli effetti collaterali indesiderati associati all’attività di agonista inverso agli altri sottotipi, tra cui l’effetto

N CONH2

N

N

H

O

Br

O Bretazenil

H3C O

N

N

Br

Imidazenil

O O

COOC(CH3)3

N

F

H3C

N

N H Abecarnil

CH3

5

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ansiogeno e l’attività convulsivante o proconvulsivante. Lo studio delle differenze fra i farmacofori recettoriali dei vari sottotipi di BzR può portare alla preparazione di agenti più selettivi per il trattamento di ansia, disordini del sonno, convulsioni e deficit della memoria con minori effetti collaterali. Negli ultimi anni le ricerche neurobiologiche sui disturbi mentali si sono focalizzate su alcune molecole endogene, prodotte ex novo a livello cerebrale, chiamate neurosteroidi, o steroidi neuroattivi. Vari studi hanno infatti evidenziato un’alterazione dei loro livelli in numerose psicopatologie, quali depressione, panico, disforia premestruale, Alzheimer, anoressia e bulimia, fobie, ansia generalizzata, disturbo post-traumatico da stress. I risultati di tali studi non sono stati del tutto inaspettati, poiché è nota la capacità dei neurosteroidi di modulare l’attività del recettore GABAA, con conseguenti effetti sui livelli di ansia, memoria e risposta allo stress. È quindi evidente l’importanza che un disequilibrio patologico nei livelli degli steroidi neuroattivi, dovuto probabilmente a una biosintesi alterata o a un difetto nel complesso pathway metabolico, può rivestire nei meccanismi fisiologici dei disturbi d’ansia.

Un ruolo fondamentale nella regolazione della sintesi degli steroidi è svolto da un traslocatore mitocondriale, detto recettore periferico delle benzodiazepine (translocatorprotein, TSPO o PBR). Distinto dal BzR, che è direttamente associato al recettore GABAA, il TSPO è localizzato sulla membrana esterna mitocondriale, dove media l’ingresso del colesterolo nella matrice del mitocondrio, sia a livello centrale (cellule gliali e neuroni) sia in organi periferici. La conversione del colesterolo a pregnenolone dà inizio al complesso catabolismo degli steroidi. È noto da alcuni recenti studi condotti su animali che la stimolazione del TSPO a livello centrale, ad opera di specifici ligandi, attiva la biosintesi dei neurosteroidi. Aumentando i livelli cerebrali di neurosteroidi si possono ottenere effetti ansiolitici, come è stato dimostrato in modelli animali d’ansia, grazie alla loro modulazione allosterica positiva sull’attività del recettore GABAA. Nella figura seguente è illustrata la modulazione allosterica del recettore GABAA da parte dei ligandi al TSPO mediata dai neurosteroidi (3β-HSD: 3β-idrossisteroide deidrogenasi; 5α-Red: 5α-Reduttasi; 3α-HSD: 3α-idrossisteroide deidrogenasi).

Cellula gliale

Mitocondrio

Colesterolo TSP

O

P450ssc

Pregnenolone

Ligandi TSPO

Neurone

3-HSD 5-Red

GA

BA AR

Cl

3-HSD Allopregnanolone

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Ligandi affini al TSPO, capaci di incrementare la produzione endogena dei neurosteroidi, possono pertanto esplicare un effetto ansiolitico indiretto. Dati di letteratura riportano che la somministrazione di tali moleco-

le di sintesi attive sul TSPO (clorodiazepam, FGIN-1 27, DAA1097, AC5216, etifoxine, MPIGA ecc.) può incrementare i livelli cerebrali di neurosteroidi in topi e ratti, o indurre un effetto ansiolitico in vivo.

CH3 H3C

CH3

CH3

CH3

O

N

O

N

O

N

N

Cl

O

Cl

O

CH3

N H Cl

F

Clorodiazepam

FGIN-1-27

DAA 1097 CH3

CH3 N

N

N

N O

AC5216

CH3

O

N

O

Cl

H3C

H N

N

O

CH3 N

O N CH3

H Etifoxine

Concludendo, alla luce delle sempre più approfondite conoscenze riguardo alle alterazioni neurochimiche riscontrate nei disordini d’ansia, di grande impatto risulterebbe lo sviluppo di nuove tipologie di farmaci, espressamente designate a modulare i livelli di molecole

CH3

MPIGA

endogene neuroattive. Questi studi chiaramente evidenziano l’importanza di considerare il meccanismo molecolare dei ligandi affini e selettivi al TSPO per lo sviluppo di nuove molecole con un alto potenziale d’applicazione nel trattamento dell’ansia.

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Scheda 10.3  Il sonno: approfondimento È possibile studiare il sonno e le sue caratteristiche attraverso tre misure psicofisiologiche: • elettroencefalogramma (EEG), che registra l’attività elettrica dei neuroni della corteccia cerebrale mediante elettrodi posti sul cuoio capelluto; • elettrooculogramma (EOG), che registra i movimenti oculari tramite elettrodi applicati intorno agli occhi; • elettromiogramma (EMG), che misura le scariche elettriche dei muscoli tramite l’applicazione di elettrodi in corrispondenza dei muscoli oggetto di studio. Durante una notte di sonno, l’EEG di un soggetto mostra 5 stadi differenti. • Stadio 0 (veglia): è la fase della veglia tranquilla. In una situazione di tranquillità e rilassamento, il tracciato EEG di un soggetto con le palpebre abbassate mostrerà onde a bassa ampiezza e alta frequenza, che denotano la veglia, che verranno interrotte dalle cosiddette “onde α”, più ampie e più lente. • Stadio 1: il soggetto si sta addormentando, è nella fase di dormiveglia. Le onde sono a bassa ampiezza e alta frequenza. Viene mantenuto il tono muscolare e gli occhi presentano movimenti lenti. • Stadio 2: questo stadio è detto anche sonno medio. È caratterizzato da un abbassamento della frequenza e da leggero incremento dell’ampiezza delle onde e dalla presenza dei cosiddetti “complessi K”. I complessi K presentano una deflessione (un cambiamento di direzione) verso l’alto seguita da una deflessione verso il basso dell’onda. Essi vengono anche chiamati per la loro forma “fusi del sonno”. • Stadio 3: questa fase del sonno si caratterizza per la presenza delle “onde δ”, le onde più lente. In questo stadio le onde δ sono presenti in una percentuale che varia dal 20% al 50%. È un sonno molto profondo dal quale è difficile risvegliarsi. • Stadio 4: questa è la fase più profonda del sonno. Le onde δ sono presenti in una percentuale che supera il 50%. Una più recente classificazione degli stadi del sonno ha abolito la distinzione tra stadio 3 e 4, accorpandoli in un unico stadio di sonno profondo, denominato N3. Il sonno REM viene definito anche “sonno paradosso”, in quanto in un organismo profondamente addormentato l’attività della corteccia cerebrale è molto vicina a quella della veglia. Il consumo di ossigeno nel cervello cresce, aumenta il ritmo respiratorio e la pressione cardiaca, il battito cardiaco è meno regolare. Nonostante la mancanza di tono muscolare possono esserci delle contrazioni a livello delle estremità del corpo. Tutte queste caratteristiche hanno fatto pensare al sonno REM come legato a eventi emozionali. Sistemi che controllano la veglia Diversi sono i sistemi che controllano e mantengono lo stato di veglia. • Un primo sistema è rappresentato dai nuclei aminergici del tronco encefalico, in particolare dai neuroni noradrenergici del locus coeruleus e dai neuroni sero-

toninergici dei nuclei del rafe. Tuttavia anche i neuroni dopaminergici della substantia nigra pare abbiano un ruolo nello stato di veglia. Questi neuroni proiettano diffusamente alla corteccia, al talamo, all’ipotalamo e all’ippocampo. Quando il soggetto è vigile, la frequenza di scarica dei neuroni di questi sistemi è massima, mentre si riduce notevolmente durante il sonno: questo ha fatto pensare che siano sistemi coinvolti nel mantenimento della veglia. Questi neuroni possono anche andare incontro a fenomeni di autoinibizione che favoriscono il sonno. Condizioni che ne stimolano l’attività promuovono la veglia; se invece questi sistemi vengono inibiti, viene promosso il sonno. Se però sembra vero che la stimolazione del sistema noradrenergico stimoli e mantenga la veglia, la serotonina, pur stimolando anch’essa la veglia, favorisce, nel tempo, la sintesi e il rilascio di sostanze che promuovono il sonno e inibisce i neuroni colinergici del prosencefalo basale, coinvolti nel mantenimento della veglia, svolgendo quindi un ruolo ambiguo. • I neuroni colinergici del prosencefalo basale rappresentano un secondo sistema che promuove la veglia. Questi neuroni proiettano alla corteccia, attivandola, all’ippocampo e all’amigdala, e, oltre che durante la veglia, sono attivi durante la fase REM e poco attivi in quella N-REM. Vengono inibiti dalla serotonina proveniente dalle terminazioni serotoninergiche dei nuclei del rafe. • I nuclei colinergici del tronco encefalico comprendono il nucleo laterodorsale del tegmento pontino e il nucleo del tegmento peduncolo-pontino, che sono costituiti da due popolazioni di neuroni. Una prima popolazione è caratterizzata da neuroni attivi durante il sonno REM, che scaricano a bassissima frequenza durante la veglia e il sonno N-REM e che proiettano ai nuclei aminergici del tronco encefalico. La seconda popolazione è costituita da neuroni la cui frequenza di scarica è massima durante la veglia e durante il sonno REM e che proiettano al talamo e all’ipotalamo, attivandoli. • Il nucleo tubero-mammillare contiene i neuroni istaminergici ipotalamici che proiettano diffusamente a quasi tutto il SNC, promuovendo il mantenimento della veglia e risultando altamente attivi in questa fase. L’inibizione di questi neuroni con antistaminici induce sonnolenza. • L’ipotalamo postero-laterale comprende un piccolo gruppo di neuroni orexinergici che mantengono la veglia e sono coinvolti anche nella regolazione dell’assunzione di cibo. Proiettano diffusamente alle strutture coinvolte nella regolazione del ciclo sonno-veglia nel SNC. Sistemi che controllano il sonno Il sonno è controllato dai seguenti sistemi. • Il nucleo preottico ventrolaterale dell’ipotalamo anteriore, altre aree ipotalamiche e del prosencefalo basale contengono neuroni GABAergici e neuroni rilascianti galanina che proiettano alle strutture coinvolte nel mantenimento della veglia e le inibiscono, favorendo il sonno, fase nella quale presentano la massima frequenza di scarica.

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• Il rilascio di adenosina da parte del metabolismo cerebrale si accompagna ai periodi di veglia. Questa sostanza, interagendo con i suoi recettori, inibisce i circuiti che promuovono la veglia e attiva quelli che promuovono il sonno, principalmente disinibendo i neuroni GABAergici del nucleo preottico ventrolaterale dell’ipotalamo

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anteriore. La caffeina e gli stimolanti correlati contrastano invece l’effetto dell’adenosina, essendo degli antagonisti dei suoi recettori. • L e citochine possono promuovere il sonno in condizioni fisiologiche o patologiche.

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SCHEDA 10.4  Sintesi di fenobarbitale, esobarbitale e tiopentale Per la sintesi del fenobarbitale si procede a partire dal cloruro di benzile, che viene trasformato in fenilacetato CH2Cl

CH2CN

di etile per reazione con cianuro di sodio e successiva alcolisi con etanolo in ambiente acido. COOC2H5

CH2 COOC2H5

NaCN

COOC2H5

C2H5OH

COOC2H5

H+

C2H5ONa

O

COOC2H5  (170 °C)

O HN

O

H3CH2C

CH2CH3

O

H2 N

HN

COOC2H5

CH3CH2Br

NH2

C2H5ONa

COOC2H5

C2H5ONa/C2H5OH

O

COOC2H5

COOC2H5

Fenobarbitale

La sintesi dell’esobarbitale prevede un’iniziale condensazione di Knoevenagel tra cianoacetato di metile e un eccesso di cicloesanone, in presenza di quantità catalitiche di dietilamina; il prodotto ottenuto è quindi metilato O

con dimetilsolfato in soluzione metanolica di metilato di sodio e successivamente condensato con diciandiamide. Un’ulteriore reazione di metilazione e un’idrolisi acida forniscono l’esobarbitale.

CN

CH2CN COOCH3

C2H5OH

CN

H3C

(CH3)2SO4

(C2H5)2NH

CH3ONa/CH3OH

COOCH3

COOCH3 NH H2N

NC

NC

O N

CH3

O

H2SO4 20%

NC CH3

HN H3C

O

NH N

(CH3)2SO4 CH3ONa/CH3OH

N

N H3C

NH N

NHCN

CH3

HN HN

O

O

Esobarbitale

La sintesi del tiopentale prevede l’iniziale condensazione di Knoevenagel tra cianoacetato di etile e metil-n-propilchetone, in presenza di piperidina. Dopo riduzione catalitica del doppio legame, l’alchilazione con etilbromuro, O CH2CN

H3C

COOC2H5

NC

HN

CH2CH2CH3

la condensazione con tiourea e l’idrolisi finale consentono di ottenere il tiopentale. Lo stesso schema sintetico può essere applicato per la preparazione del pentobarbitale, sostituendo la tiourea con urea.

C2H5OH

C2H5OOC

CH2CH2CH3

H2 Pd

CH3

NC C2H5OOC

CH2CH2CH3 CH3 C2H5Br C2H5ONa/C2H5OH

O HN S

CH3

HN O Tiopentale

S

NH CH2CH3

CH2CH2CH3

H2SO4 20%

HN

CH2CH3

S

CH3

HN O

CH2CH2CH3

H2 N

NH2

NC

CH2CH3

C2H5OOC

CH3 CH2CH2CH3

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SCHEDA 10.5  Metaboliti di alcune benzodiazepine I metaboliti del clordiazepossido sono di seguito rappresentati. NHCH3

N N

Cl

NH2

N N

Cl

O

N

Cl O

HO

HO

O

HO

Seguono i principali metaboliti del fluorazepam. HO CH2

H2C

H3C

O

N N

Cl

O

N N

Cl

F

F

Le vie metaboliche del diazepam portano all’ossazepam attraverso due diversi percorsi. H3C

O

N N

Cl

O

H N N

Cl

Nordiazepam

Diazepam

H3C

O

N

O

H N OH

Cl

N

Temazepam

OH Cl

N

Ossazepam

O

H N

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Il triazolam subisce reazione di ossidrilazione. H3C

N N

Cl

HO

N

N

N N

N

Cl Cl

H2C

N Cl

1-Idrossimetil derivato

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SCHEDA 10.6  Metabolismo dello zaleplon Di seguito è descritto il metabolismo dello zaleplon. CH3 H3C

N O

CYP3A4

N

N

CN Zaleplon

CH3 N O N N H

5-Ossozaleplon

N

CN

N

N CN N-Desetilzaleplon

Aldeide ossidasi

O

O

N

N

H3C

H N

H3C

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SCHEDA 10.7  Vie metaboliche del ramelteon OH

H N

H

CH3 O

OH

H N

H

CH3 O

O O

O

CYP1A2 (maggiore)

H N

H

CH3 O

Ramelteon

O

CYP3A4

H N

H

H N

H

CH3

Esterasi

O O O

CH3 O O

O OH H

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Scheda 10.8  Sintesi del ramelteon CH3 H3C

O +

H3C

O

P O

O

O

TiCl4, CH2Cl2

CH2Cl

O

O

O

O CH3

H3C

OHC

O

O 1. H2, Pd-C, C2H5OH 2. Br2, CH3COOH

H3C

O Br2, Fe, CH3COOH

O

Br

H3C

1. NaOH, THF, H2O 2. SOCl2

O

O

Br O

Br

NC O

O

O AlCl3

Cl

H2, Pd-C, CH3COOH

O

O

NaH, THF

O

O

NaH, THF

P

O

CH3

O

NC

CH3

O

Br O

Br

Br Br

H3C

H3C Cl

H3C

NH2

O

O

NH

O

NH

CH3

H2, Co-Raney C2H5OH, NH3

O

H3C

N

H2, Ru(OOCCH3)2 (S)-BINAP

CH3

O

O THF

Ramelteon

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CAPITOLO 11 • Anticonvulsivanti online

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Scheda 11.1  M  eccanismi d’azione e indicazioni terapeutiche dei farmaci anticonvulsivanti La seguente tabella riassume in maniera sintetica ma esaustiva i meccanismi d’azione dei farmaci anticonvulsivanti e le loro indicazioni terapeutiche. I meccanismi d’azione principali sono indicati con il simbolo ++, mentre i meccanismi secondari sono indicati con il simbolo

+. Inoltre per alcuni meccanismi d’azione viene riportato tra parentesi il recettore o l’enzima specifico con cui il farmaco interagisce: ad esempio (T) nel blocco dei canali del Ca2+ significa che il farmaco blocca specificatamente i canali del calcio a basso voltaggio o di tipo T.

Farmaco

Blocco Attivazione Blocco Neurotrasmissione Inibizione dei canali delle correnti dei canali SVA2 Indicazione terapeutica AC GABAergica Glutamatergica + + 2+ del Na del K del Ca

Fenobarbital

+

++ (GABAA)

Primidone

+

++ (GABAA)

Fenitoina (fosfenitoina)

++

+ (AMPA)

Crisi parziali e generalizzate

+

Crisi parziali e generalizzate (escluse le assenze), status epilepticus

Carbamazepina ++

Crisi parziali e generalizzate

Oxcarbazepina ++

+ (HVA)

Crisi parziali e generalizzate (spesso in associazione)

Eslicarbazepina ++ acetato Etosuccimide Acido valproico

Crisi parziali e tonicocloniche generalizzate (adiuvante) (status epilepticus in associazione)

Crisi parziali (adiuvante) +

++

++ (T) ++ (metabolismo del GABA)

Crisi parziali complesse, assenze complesse, crisi miste, disordini bipolari

Clonazepam

++ (GABAA)

Assenze e crisi miocloniche nei bambini, crisi parziali e generalizzate sia nei bambini sia negli adulti

Clorazepato

++ (GABAA)

Adiuvante nelle crisi parziali, disturbi dell’ansia e sindromi acute d’astinenza da alcol

Diazepam

++ (GABAA)

Status epilepticus (e.v.), disturbi dell’ansia, nervosismo e insonnia (per os)

Progabide

++ (GABAA,B)

Crisi parziali e generalizzate (autorizzato solo in Francia)

Vigabatrina

++ (GABA-T)

Crisi parziali complesse refrattarie al trattamento con altri anticonvulsivanti (adiuvante)

Lamotrigina

++

Felbamato

++

+ (T)

Assenze

+

+

+

++

Crisi parziali e generalizzate (anche in combinazione)

+ (NMDA)

Sindrome di LennoxGastaut refrattaria ad altri trattamenti e dai 4 anni di età (adiuvante)

2

CAPITOLO 11 • Anticonvulsivanti online

ISBN 978-88-08-18712-3

Farmaco

Blocco Attivazione Blocco Neurotrasmissione Inibizione dei canali delle correnti dei canali SVA2 Indicazione terapeutica AC GABAergica Glutamatergica del Na+ del K+ del Ca2+

Gabapentin

Pregabalin

+

++ (HVA, α2δ)

+ (GAD)

Crisi parziali non adeguatamente controllate con altri anticonvulsivanti, dolore neuropatico da neuropatie erpetiche o diabetiche

++ (HVA, α2δ)

+ (GAD)

Crisi parziali (adiuvante), dolore neuropatico da neuropatie erpetiche o diabetiche, disturbo d’ansia generalizzata

++ (GAT-1)

Crisi parziali (adiuvante)

Tiagabina Retigabina

++ (KCNQ)

Crisi parziali refrattarie al trattamento con altri anticonvulsivanti, quando altre associazioni risultino inefficaci o non tollerate (adiuvante) + (L)

+

Sopra i 6 anni: crisi parziali e tonico-cloniche. Come adiuvante sopra i 2 anni: crisi parziali e tonicocloniche, sindrome di Lennox-Gastaut. Negli adulti, in assenza di alternative terapeutiche, profilassi dell’emicrania

+

Crisi parziali: in monoterapia negli adulti con nuova diagnosi; come adiuvante sopra i 6 anni

++

Zonisamide

++

Rufinamide

++

Crisi epilettiche associate a sindrome di LennoxGastaut, in pazienti di età pari o superiore a 4 anni (adiuvante)

Lacosamide

++

Crisi parziali sopra i 16 anni (adiuvante)

++ (T)

Stiripentolo

Levetiracetam

Perampanel

++ (GABAA)

+ (AMPA/ Kainato)

Topiramato

Crisi tonico-cloniche refrattarie al trattamento con clobazam e valproato in pazienti con epilessia mioclonica severa dell’infanzia (in associazione con clobazam e valproato)

++ (GABA-T, GAT, GABAA)

+

+

++

++ (AMPA)

Crisi parziali di nuova diagnosi sopra i 16 anni oppure come adiuvante nelle crisi parziali degli adulti e nelle crisi tonicocloniche e miocloniche sopra i 12 anni di età Crisi parziali sopra i 12 anni (adiuvante)

α2δ, proteina α2δ; AMPA, recettore AMPA; GABAA, recettore GABAA; GABA-T, GABA transaminasi; GAD, decarbossilasi dell’acido glutamico; GAT-1, trasportatore del GABA; HVA, canali del Ca2+ attivati ad alto voltaggio; KCNQ, canali voltaggio-dipendenti del K+; L, canali del calcio voltaggio-dipendenti di tipo L; NMDA, acido N-metil-d-aspartico; T, canali del calcio voltaggio-dipendenti di tipo T.

3

CAPITOLO 11 • Anticonvulsivanti online

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Scheda 11.2  P  arametri farmacocinetici di alcuni farmaci anticonvulsivanti I parametri farmacocinetici di alcuni farmaci anticonvulsivanti sono riassunti nella seguente tabella. La biodisponibilità (espressa in %) e il picco plasmatico (espresso in ore)

si riferiscono alla via orale, se non diversamente indicato. Nel fenobarbital e nell’etosuccimide i valori tra parentesi si riferiscono alla somministrazione nel bambino.

Farmaco

Biodisponibilità (%)

Picco plasmatico (ore)

Legame alle proteine (%)

Emivita plasmatica (ore)

Fenobarbital

80

8 (4)

40-60

50-150 (40-70)

Primidone

80

3

20-25

10

Fenitoina (sodica)

70-100

1,5-3 (capsule) 4-12 (rilascio controllato)

90

7-42

Carbamazepina

~100

6 (compresse) 12 (rilascio controllato)

70-80

36 (16-24 nelle somministrazioni ripetute)

Oxcarbazepina

100

4 (licarbazepina)

40 (licarbazepina)

8-13 (licarbazepina)

Eslicarbazepina acetato

> 90

2-3 (eslicarbazepina)

< 40

20-24

Etosuccimide

93

3-7

-

60 (30)

Acido valproico (sodio valproato)

~100

4-24

90-95

14

Clonazepam

90 (93 i.m.)

1-2 (< 3 i.m.)

82-86

30-40

Diazepam

90-100 (i.m.)

1,5 (i.m.)

98

20-50

Lorazepam

90-100 (i.m.)

1-1,5 (i.m.)

90

14

Midazolam cloridrato

~100 (soluzione orale)

0,5 (soluzione orale)

96-98

3-4

Vigabatrina

~100

1

0

5-8

Lamotrigina

100

2-3

55

33

Felbamato

> 90

2-6

20-25

16-22

Gabapentin

varia con la dose

2-3

0

5-7

Pregabalin

> 90

1A ~ ~ 1D

N N F

NH O

O Spiperone

3

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.3  Sintesi del WB 4101 L’acido carbossilico (1) si prepara per reazione del catecolo con il 2,3-dibromopropanoato di etile e successiva idrolisi dell’estere intermedio in ambiente acido. L’amina (2) si ottiene per condensazione del 2,6-dimetossifenolo OH

Br O

Br

CH3

O

CH3

Cl

O

1

OCH3

K2CO3

NH2

OH

O

O

OCH3 +

H3O

O

O

OH

O

O

K2CO3

+ OH

con la 2-cloroacetamide, seguita dalla riduzione dell’amide intermedia con B2H6. La condensazione tra (1) e (2) in presenza di cloroformiato di etile e trietilamina, seguita dalla riduzione dell’amide con B2H6, conduce al WB 4101.

OCH3 B2H6

NH2

O

O

OCH3

OCH3

NH2

O

O

OCH3 2

O

O

1 + 2

Cl

O

(CH3CH2 )3N

H3CO H N

CH3

O O

O B2H6

O

O

H3CO H N

OCH3 WB 4101

O OCH3

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.4  P  rincipali interazioni del WB 4101 con il recettore 1A-adrenergico Nell’interazione del WB 4101 con il sottotipo α1A un ruolo primario è svolto dall’aspartato (Asp106 del TM3), che forma un legame ionico con il gruppo aminico protonato a pH fisiologico. Una fenilalanina del TM5 (Phe193) realizza con il sistema benzodiossanico una significativa interazione π-π, mentre una tasca lipofila aromatica formata da Phe288 e Phe289 (TM6), Phe308 e Phe312 (TM7)

accoglie l’anello ossifenilico. Una cisteina (Cys110 del TM3) forma un legame idrogeno con l’ossigeno in posizione 1 del benzodiossano, che è inserito in una regione idrofobica aromatica formata da Val107 (TM3), Phe193 (TM5) e da una isoleucina della seconda ansa extracellulare (Ile178 dell’EL2).

EL1

TM3 TM3

EL2

Asp106

TM4

TM2

Val107

TM1

3

Cys110

CH CH3

ILE 178

SH

C H3

4

O

CH3

1

4

O

2 3

COO–

+ NH 2

O

OCH

3

H3 CO

Phe193

TM5 Phe289 Phe288

TM6

Phe312

EL3

Phe308

TM7

5

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.5  Derivati piperazinici ottenuti mediante la strategia dell’ibridazione Alcuni ibridi contenenti frammenti molecolari della prazosina o del WB 4101 e dotati di significativa α1/5-HT1A selettività sono riportati di seguito. Frammento della prazosina

Frammento del WB 4101 O

O

O

O

N

N

N

N

N

Cl O

N

N

N

O

N 5

CH3

N

N

Cl

N

O

CH3

Ulteriori ibridi sono stati ottenuti utilizzando l’anello furossanico donatore di NO, che è implicato in molte attività dell’apparato genitourinario. Ciò consente ai compo-

CH3

sti risultanti di esercitare un vantaggioso miglioramento del rilassamento prostatico. Donatore di NO

O O N

O O

O

5

N H

H 3C O R = CONH2 R = CN

N

O N

N R

6

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.6  Alcaloidi dell’ergot O N

HO

O

HO R2

H

H3C

N

R2 H

HN

O

O

N

O

HO

R1 O

N

HN

CH3 H

N

N

O

O

R1 O HN N

CH3 H

H

CH3 H

N H Metilergometrina N H

N H

Diidroergotamina: R1 = CH3, R2 = H2C

Ergotamina: R1 = CH3, R2 = H2C Ergocristina: R1 = CH(CH3)2, R2 =

H2C

Ergocriptina: R1 = CH(CH3)2, R2 = CH2CH(CH3)2

Diidroergocristina: R1 = CH(CH3)2, R2 = H2C Diidroergocriptina: R1 = CH(CH3)2, R2 = CH2CH(CH3)2

7

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.7  Tetramine disolfuro Le tetramine disolfuro costituiscono una classe di α-bloccanti irreversibili che, a causa della loro tossicità, non sono utilizzati in terapia ma trovano impiego come

H N

S

N H

OCH3

mezzi farmacologici. Sono molecole strutturalmente correlate al prototipo benextramina.

S

H N

N H

OCH3

Benextramina

L’inibizione del recettore α1-adrenergico avviene tramite una reazione di interscambio tra il ponte disolfuro del ligando e una funzione –SH presente nel recettore. L’interazione della tetramina disolfuro col recettore induce un cambiamento della conformazione recettoriale, rendendo possibile la formazione di un legame disolfuro irreversibile.

SH

S

S SH

S

HS S

Lo studio delle relazioni struttura-attività ha permesso di mettere in evidenza le condizioni influenzanti l’attività della benextramina: 1. essenziale è la presenza del ponte disolfuro; la sostituzione isosterica con una catena carboniosa provoca la totale perdita dell’attività; 2. fondamentale è la presenza di quattro funzioni aminiche quaternizzabili in soluzione fisiologica; 3. critica è la distanza delle due funzioni aminiche inter-

ne; il residuo cistaminico –HN-CH2-CH2-S-S-CH2-CH2-NH– rappresenta il valore ottimale. L’allungamento di tale catena produce una forte caduta di attività; 4. la distanza tra gli atomi di azoto interni ed esterni è dipendente dalla particolare funzione terminale della molecola, nel senso che la presenza di 6 o 12 gruppi metilenici è favorevolmente associata a un terminale di tipo benzilico, mentre la presenza di 8 gruppi metilenici esige l’assenza di sostituenti al terminale azotato. H3CO

Benextramina: n = 6, R = R

H N

H N n

H3CO

S

n = 12, R = 2 n = 8, R = H

Inoltre in questo caso (n = 8) le funzioni aminiche interne possono essere di tipo terziario per introduzione di un gruppo metilico, mentre nei due casi precedenti (n = 6, 12) la funzione aminica deve restare secondaria. L’insieme di queste osservazioni ha permesso di ipotizzare un modello topografico del recettore, secondo cui

un gruppo –SH centrale, inaccessibile allo stato di riposo e portato in superficie a seguito dell’interazione con il ligando, è circondato da 8 siti anionici disposti a croce, separati da distanze ben definite. I siti terminali della benextramina sono in parte gli stessi riconosciuti dal ligando endogeno.

8

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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scheda 19.8  Metabolismo dei -bloccanti Il metabolismo dei b-bloccanti avviene soprattutto a livello epatico. La percentuale di farmaco metabolizzato e la natura dei metaboliti varia a seconda della struttura molecolare. I β-bloccanti idrosolubili, come il sotalolo, vengono escreti per lo più immodificati nelle urine. Quelli maggiormente liposolubili come il propranololo, il metoprololo e il timololo sono soggetti a un esteso me-

tabolismo epatico di primo passaggio. I metaboliti principali del propranololo sono l’acido 2-idrossi-3-((4-idrossinaftalen-1-il)ossi)propanoico e il 4-idrossipropranololo, che mantiene l’attività del precursore. L’esmololo è rapidamente metabolizzato dalle esterasi plasmatiche ed eritrocitarie, con formazione del corrispondente acido carbossilico inattivo. CH3 O

N H

OH

CH3 N H

O OH

CH3

CH3

OH 4-Idrossipropranololo O O

OH OH

Propranololo OH Acido 2-idrossi-3-((4-idrossinaftalen-1-il)ossi)propanoico

OH O H3C

H N

OH CH3 CH3

O O

O

CH3 CH3

HO O

Esmololo

H N

9

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.9  Metabolismo della clonidina La clonidina viene metabolizzata a livello epatico. Il principale metabolita inattivo è la 4-idrossiclonidina, che vie-

ne eliminata in seguito a coniugazione come glucuronato e/o solfato. Coniugato (glucuronide o solfato)

Cl

Cl

HN N H

N Cl

HO

HN N H

N Cl

N Cl

O

Cl

HN N H

N Cl

N

HN N H

Cl Metabolita principale

Clonidina

Cl

Cl

NH2 NH2

Coniugato (glucuronide)

10

CAPITOLO 19 • Simpaticolitici e vasodilatatori online

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Scheda 19.10  Ganglioplegici I ganglioplegici sono composti che bloccano la trasmissione nervosa a livello delle sinapsi gangliari sia del sistema simpatico sia di quello parasimpatico. I loro effetti si esercitano per antagonismo competitivo nei confronti del comune mediatore acetilcolina, con conseguente blocco dei recettori nicotinici gangliari e stabilizzazione delle membrane postsinaptiche. Tale azione è specifica, poiché non si manifesta in altre sinapsi nicotiniche come, ad esempio, a livello di placca motrice. Il blocco delle sinapsi gangliari riduce il flusso simpatico al cuore con conseguente decremento del ritmo e della contrattilità. L’effetto vasodilatatorio finale ha suggerito l’uso dei ganglioplegici come antipertensivi; tuttavia una serie di effetti indesiderati quali vertigini, sincope per ipoten-

sione ortostatica, impotenza, costipazione, ritenzione urinaria, difficoltà di accomodazione visiva ne riducono l’uso. L’impiego è limitato ad alcune emergenze ipertensive o alla chirurgia plastica per ridurre il pericolo di emorragie mediante la cosiddetta “ipotensione controllata”. Chimicamente i ganglioplegici appartengono a 4 gruppi fondamentali: • sali d’ammonio mono-quaternari come il tetraetilammonio, (CH3CH2)4N+; • sali d’ammonio bis-quaternari simmetrici (come il pentametonio e l’esametonio) o asimmetrici; • amine secondarie o terziarie come la mecamilamina; • composti diversi come il trimetafano camsilato.

H3C

H3C H3C

CH3 N n

CH3 CH3 N CH3

Pentametonio: n = 5 Esametonio: n = 6

HN

CH3 CH3 CH3

CH3 Mecamilamina

CH3 SO3

N S

O N

O

Trimetafano camsilato

1

CAPITOLO 20 • Ipolipidemizzanti online

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SCHEDA 20.1  Metabolismo dell’atorvastatina L’atorvastatina è metabolizzata dal citocromo P450 3A4 attraverso processi di ossidrilazione in metaboliti o- e possidrilati (nello schema è riportata la struttura di un metabolita) in aggiunta a diversi altri metaboliti derivanti da HO

processi di β-ossidazione. Il metabolita o-idrossilato viene successivamente trasformato nel corrispondente glucuronato.

COOH OH H

F

CH3

N

CH3 NH O

CYP3A4

HO

COOH OH H

F

CH3

N

CH3 NH

OH

O

UGT

HO

COOH OH H

F

CH3

N

CH3 NH O

O

O HO

COOH OH OH

2

CAPITOLO 20 • Ipolipidemizzanti online

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SCHEDA 20.2  Metabolismo del gemfibrozil Il 70% del farmaco assunto viene coniugato nel fegato con acido glucuronico e, sotto questa forma, viene rilasciato nelle urine. Il metabolismo del composto avviene principalmente a livello epatico tramite processi di ossidazione ad opera

degli enzimi microsomali epatici. Si formano due metaboliti idrossilati, uno che coinvolge il gruppo metilico (in posizione 2' o 5') e l’altro che interessa la posizione 3' o 4' del sistema aromatico.

CH3

H3C

CH3

O

OH O

CH3

Gemfibrozil

UGT

H3C

CH3

CH3

O

O

O

COOH OH OH

HO O

CH3 Gemfibrozil 1-O--glucuronato

CYP450

H3C

CH3

CH3 O

O HO

O HO

O CH3

Metabolita idrossilato

COOH OH OH

1

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.1 ■ Siti d’azione dei farmaci antitrombotici I farmaci in grado di controllare le manifestazioni tromboemboliche possono essere suddivisi in 3 classi: (a) anticoagulanti, come cumarine, eparine LMWH (low molecular weight heparins), fondaparinux, apixaban, rivaroxaban, bivalirudina, argatroban, dabigatran; (b) antiag-

greganti piastrinici, come aspirina, triflusal, indobufene, sulfinpirazone, picotamide, dipiridamolo, cilostazolo, ticlopidina, clopidogrel, prasugrel, cangrelor, ticagrelor, abciximab, tirofiban, eptifibatide; (c) trombolitici come alteplasi, reteplase, tenecteplase.

X VIIIa Cumarine Eparine LMWH Fondaparinux Apixaban Rivaroxaban

IXa Protrombina

TF/VII

Xa

Va

Eparina Bivalirudina Argatroban Dabigatran Cangrelor Ticagrelor Ticlopidina Clopidogrel Prasugrel

Trombina ADP TXA2

Fibrinogeno

Picotamide

Fibrina

Aspirina Triflusal Indobufene Sulfinpirazone Dipiridamolo Cilostazolo Abciximab Tirofiban Eptifibatide

PGI2 Inibitore tPA Plasmina AT III Plasminogeno

ADPasi Alteplasi Reteplase Tenecteplase

T/AT III

Trombomodulina

TXA2

Eparina

NO

2

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.2 ■ Attivazione della trombina Attivazione della trombina a partire dallo zimogeno protrombina attraverso due tagli proteolitici (Arg274-Thr275 e Arg323-Ile324 indicati con l’asterisco). In evidenza il

residuo γ-carbossiglutamato nella porzione N-terminale della protrombina. Le catene A e B della trombina sono unite da un ponte disolfuro (Cys1-Cys122).

Frammento rilasciato

Trombina A

1

-O C 2

274

CH2 CH

CO2

-Carbossiglutamato

B S

323

S

582

3

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.3 ■ Rodenticidi “superwarfarinici” Rodenticidi a struttura cumarinica (difenacoum, brodifacoum, bromadiolone) e a struttura indandionica (clorofacinone).

OH

OH

O

O

O

Difenacoum: R = H Brodifacoum: R = Br

OH

O Br

R Bromadiolone

O

Cl O

O Clorofacinone

4

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.4 ■ Interazione trombina/antitrombina/eparina L’antitrombina contiene due importanti domini funzionali. Il primo è il centro reattivo (A), localizzato sul loop alla superficie della molecola (Arg393-Ser394), che fornisce il sito di legame per le proteasi, quali la trombina; il secondo è un dominio di legame per glicosaminoglicano, responsabile dell’interazione con eparina e sostanze affini. È una regione ricca di aminoacidi carichi positivamente, in grado di legare ioni solfato e carbossilato presenti sulla sequenza pentasaccaridica specifica dell’eparina. L’eparina lega simultaneamente sia l’antitrombina sia il

A)

fattore della coagulazione serinoproteasico, fungendo da supporto catalitico, a cui si legano sia l’inibitore sia la proteasi. Il legame, inoltre, induce nell’antitrombina una modificazione conformazionale, che rende il sito reattivo più accessibile alla proteasi. Nella formazione del complesso ternario con la trombina (B), in particolare, l’eparina lega da una parte l’esosito 2 della trombina, dall’altra Arg e Lys protonate dell’antitrombina.

B)

5

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.5 ■ Selettività d’azione dell’eparina in funzione del PM La capacità dell’eparina di esporre i siti attivi dell’antitrombina al substrato, fattore IIa o Xa, è correlata alle dimensioni dell’eparina stessa.

Sequenza polisaccaridica

Fattore Xa

Eparina

Antitrombina Trombina

Eparina a basso peso molecolare

Sequenza polisaccaridica

Fattore Xa

Antitrombina

6

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.6 ■ P  eso molecolare e rapporto anti-Xa/anti-IIa delle eparine LMWH Le potenziali differenze riguardano il numero di siti di legame con l’antitrombina, il contenuto in glicosaminoglicani, l’affinità per le proteine circolanti e cellulari, l’effetto sulle piastrine e sull’angiogenesi. Le molecole ad alta affinità per l’antitrombina tendono ad avere un PM maggiore di quelle a bassa affinità ma, dopo somministrazione sottocutanea, vi è un effetto di filtraggio, in seguito al quale le molecole a più alto PM, che presentano la maggiore attività antitrombinica, sono molto poco assorbite. Come conseguenza, il PM e l’attività anticoagulante delle forme attive in circolo sono molto più simili di quanto possa apparire in base a considerazioni sulle loro proprietà in vitro.

Formulazioni commerciali Eparina UH

PM medio (kDa) 15

Rapporto anti-Xa/anti-IIa 1

Bemiparina

2,9

9,6

Dalteparina

5

2,5

Enoxaparina

3,2

3,9

Parnaparina

3,7

2,3

Revirapina

3,6

4,2

Nadroparina

3,6

3,3

Da Baglin T. et al., Guidelines on the use and monitoring of heparin, Br. J. Haematol, 133, p. 19-34 (2006).

7

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Scheda 21.7 ■ Idraparinux L’idraparinux è un derivato ipermetilato del fondaparinux, che presenta, rispetto al congenere, un più alto grado di solfatazione. La biodisponibilità è totale. La lunga emivita (circa 80 ore) consente una singola somministrazione settimanale. Analogamente al fondaparinux, l’idraparinux viene escreto, per lo più immodificato, per via renale. Non vi sono antidoti noti per contrastare l’atH3C O H3CO H3CO

H3CO O

O HOOC OSO3H

OCH3 O

tività anticoagulante dei due pentasaccaridi sintetici. Un approccio al problema è stato lo sviluppo di una versione biotinilata dell’idraparinux, che consente una rapida reversibilità dell’effetto anticoagulante. Dopo iniezione intravenosa di avidina, che forma un complesso stabile con l’idraparinux biotinilato, il farmaco viene escreto in pochi minuti per via renale.

OSO3H

HOOC

O

OO SO3H O

SO3H

O

HO3SO OCH3 O

O

OCH3

OSO3H OCH3 O OSO3H

8

CAPITOLO 21 • Antitrombotici online

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Scheda 21.8 ■ Interazione irudina/trombina Adattamento ottimale dell’irudina sul sito catalitico della trombina.

Ser

Asp Gly

Glu

Gly Leu

Lys Asn

Gin Asn Ile Lys Gly Cys Leu Ser Cys Leu Cys Glu Glu Thr Cys Gly Asp Thr

Gly

Gly

Asn Gin Glu

Cys Cys Val Ser Asn

Tyr Val Val -NH2

Sito di legame apolare

Gin

Val

Thr

Gly

r-Irudina Gly Thr Pro Lys

Pro

Gin

Ser His Asn Asp Gly Asp Pro

Glu Glu

Pro Ile

Glu

Glu

(Ser195, His57, Asp102) Sito di legame anionico

Sito catalitico

Trombina

Leu Tyr

Gin -COO

-

9

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Scheda 21.9 ■ M  eccanismo d’azione degli inibitori diretti della trombina in confronto con l’eparina Le eparine formano un complesso ternario con l’esosito 2 della trombina e l’antitrombina; inoltre, interagendo contemporaneamente con fibrina e trombina, l’eparina può agire da ponte: la formazione del complesso fibrina/ eparina/trombina (con entrambi gli esositi della trombina occupati) protegge, in parte, l’attività enzimatica della

trombina dall’inattivazione e, come conseguenza, riduce la capacità delle eparine di inibire la trombina legata alla fibrina. Gli IDT, invece, agiscono indipendentemente dall’antitrombina e sono pertanto in grado di inibire non solo la trombina solubile, ma anche quella legata alla fibrina o ai prodotti di degradazione del fibrinogeno.

Trombina solubile Eparina Antitrombina

Trombina Esosito 1

Inibitori diretti della trombina Trombina

Sito attivo Inibitori diretti della trombina monovalenti

Esosito 1 Sito attivo

Esosito 2

Eparina

Inibitori diretti della trombina bivalenti

Esosito 2

Trombina legata alla fibrina Eparina Antitrombina

Inibitori diretti della trombina

Trombina legata alla fibrina Inibitori diretti della trombina monovalenti

Eparina

Trombina legata alla fibrina

Fibrina

Fibrina Inibitori diretti della trombina bivalenti

Fibrina

10

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Scheda 21.10 ■ Bivalirudina: struttura e siti di legame con la trombina Il legame della bivalirudina con la trombina, e quindi la sua attività, è reversibile, poiché la trombina scinde lentamente il legame Arg3-Pro4 della bivalirudina, con conseguente ripresa della funzionalità del sito attivo delNH2 O

H N

O

N

O

N H HO

O

O O

HN

O

N

NH

N H

NH

O O

O

H N

O

O

HN

H N

N H

O

O

O

O

NH2

O

H N

OH

N H

O

HO

N H HN

O OH

O

N

O

H N

O N H

O O

NH2

N H

O

H N

HO

la trombina; la porzione C-terminale della bivalirudina si dissocia successivamente dall’esosito 1 della trombina, che viene rigenerata.

O

OH OH Lega l’esosito 1 della trombina

Lega il sito catalitico della trombina D -Phe–Pro–Arg–Pro–Gly–Gly–Gly–Gly–Asn–Gly–Asp–Phe–Glu–Glu–Ile–Pro–Glu–Glu–Try–Leu

Estremità N-terminale

Idrolisi catalizzata dalla trombina

Estremità C-terminale

Trombina Gly–Gly–Gly–Gly–Asn–Gly–Asp–Phe–Glu–Glu–Ile–Pro–Glu–Glu–Try–Leu

(porzione legata all’esosito 1 della trombina)

Trombina

+ Gly–Gly–Gly–Gly–Asn–Gly–Asp–Phe–Glu–Glu–Ile–Pro–Glu–Glu–Try–Leu

11

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Scheda 21.11 ■ Ximelagatran e melagatran Struttura del profarmaco ximelagatran – etil 2-({(1R)1-cicloesil-2-[(2S)-2-{[4-(N'-idrossicarbamidoil)fenil]metil-

carbamoil}azetidin-1-il]-2-osso-etil}amino)acetato – e del metabolita attivo melagatran. NH2

O R1O

H N

O

O

NH N

Ximelagatran: R1 = C2H5, R2 = OH Melagatran: R1 = H, R2 = H

N

R2

12

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Scheda 21.12 ■ Edoxaban Un nuovo inibitore diretto del fattore Xa, l’edoxaban – N'-(5-cloropiridin-2-il)-N-{(1S,2R,4S)-4-(dimetilcarbamoil)2-[(5-metil-6,7-diidro-4H-[1,3]tiazol[5,4-c]piridin-2-carbonil) amino]cicloesil}ossamide – è stato recentemente sottoposto all’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) per l’autorizzazione all’immissione in commercio per la prevenzione

della trombosi venosa profonda e dell’embolia polmonare, dopo interventi di chirurgia ortopedica maggiore. L’edoxaban in monosomministrazione giornaliera ha raggiunto l’endpoint primario di non inferiorità rispetto al warfarin per la prevenzione dell’ictus e degli eventi embolici sistemici, in pazienti con fibrillazione atriale non valvolare.

CH3 N

S N O

HN

O

HN O

N H3C

O HN

N

Cl Edoxaban

CH3

13

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Scheda 21.13 ■ Legame degli inibitori diretti del Xa nel sito attivo (A) Gli inibitori diretti del fattore Xa legano il sito attivo con una caratteristica conformazione a L. Nel sito di legame sono evidenziabili: in rosa, la tasca S1; in verde scuro, la tasca S4/aromatica; in verde chiaro, la cavità elettronegativa, nota come cation hole; in arancione, la tasca idrofobica adiacente a S1; in azzurro, la triade catalitica. (B) Struttura cristallina apixaban/fattoa)

re Xa: il gruppo p-metossi si lega alla tasca S1 ma non interagisce con residui specifici; l’N2 del pirazolo interagisce con Gln192 e il gruppo carbonilico dello scaffold con la Gly216; il gruppo NH2 della funzione carbossiamidica esociclica forma un legame idrogeno con il C=O del Glu146; il lattame si posiziona tra la Tyr99 e la Phe174 nella tasca S4. b)

14

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Scheda 21.14 ■ Sintesi dell’apixaban La sintesi dell’apixaban viene realizzata a partire dalla 4-nitroanilina, che viene trattata con il 5-cloropentanoil cloruro per dare in un unico stadio acilazione e ciclizzazione con formazione di un primo d-valerolattame. Successivamente la clorurazione con pentacloruro di fosforo, seguita da un processo di condensazione-eliminazione in seguito al trattamento con morfolina, porta al 5,6-diidro-3-morfolino-1-(4-nitrofenil)piridin-2(1H)-one.

La riduzione con solfito di sodio fornisce quindi il corrispondente derivato anilinico, il quale mediante reazione con una seconda molecola di 5-cloropentanoil cloruro fornisce un secondo d-valerolattame. Infine l’addizioneeliminazione del lattame con l’opportuno idrazone, via cicloaddizione [3+2], porta al derivato pirazolo-piridonico, il quale per aminolisi in soluzione ammoniacale fornisce l’apixaban.

O

H2N

Cl

Cl

NO2

1. (CH3CH2)3N 2. (CH3)3COK

O

NO2

HN

O

O Cl

O

O

1. (CH3CH2)3N 2. (CH3)3COK

O N H

N

Cl

NH2

N O

O

N

H3CO

N

2.

NO2

N

Na2SH2

O

1. PCl5

O

N

N O

N

N

OC2H5 Cl

1. (CH3CH2)3N 2. HCl aq.

OCH3 N O

OCH3 N

O N

NH3, H2O

N N COOC2H5

O

O N

Apixaban

N N COONH2

15

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Scheda 21.15 ■ Sintesi del clopidogrel La sintesi del clopidogrel è stata effettuata mediante condensazione dell’o-cloro benzaldeide con la 4,5,6,7-tetraidrotieno [3,2-c]piridina in presenza del cianuro di sodio, via sintesi di Strecker. L’intermedio ottenuto viene

convertito in situ ad amide e quest’ultima nel clopidogrel racemico. Infine la risoluzione del racemo viene effettuata mediante l’impiego di CSA (l-(–)-camphor sulfonic acid) per dare l’isomero desiderato del clopidogrel. CN

NH·HCl

CHO +

S

Cl

NaCN H2O

S

S

H2SO4

Cl

KOH

Cl

COOCH3

COOCH3

CONH2 N

(CH3)3COH

N

CH3OH

N S

N

CSA

Cl

S

Cl Clopidogrel

16

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Scheda 21.16 ■ Recettore GPIIb/IIIa: siti di interazione Il recettore GPIIb/IIIa, denominato anche integrina αIIbβ3, è un eterodimero in cui le subunità α e β sono tenute insieme da legami non covalenti. Tirofiban ed eptifibatide bloccano, rispettivamente, il sito di legame della sequenza RGD, o KGD, con un meccanismo competitivo e a bassa affinità per il recettore; il frammento anticorpale abciximab blocca il recettore interagendo, ad alta affini-

RGD GPIIIa Subunità 3

tà di legame, con siti differenti dal sito di legame RGD/ KGD (inibizione non competitiva); il legame di abciximab comporta un impedimento sterico e modifiche conformazionali a livello del recettore glicoproteico, responsabili del blocco dell’accesso al recettore del fibrinogeno e degli altri ligandi endogeni.

Sito di legame per il fibrinogeno GPIIb Subunità IIb

+ +

+ + +

KGD

+

N

-S-S-

N

N -S-S-

C

C

C

= Siti di legame cationici

17

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Scheda 21.17 ■ P  rodotti ricombinanti a base di t-PA approvati e commercializzati Il t-PA umano è una serinoproteasi sintetizzata dalle cellule endoteliali dei vasi, sotto forma di polipeptide a singola catena di 527 aminoacidi. Nel corso della fibrinolisi il polipeptide viene scisso dalla plasmina in corrispondenza dei residui Arg275-Ile276, fornendo t-PA a due catene: una catena pesante A e una leggera B. La catena A è costituita da un dominio finger (dominio a dito) all’estremità N-terminale, un dominio simile al fattore di crescita epidermico (dominio EGF, epidermal growth factor) e due strutture ad ansa (regioni kringle 1 e 2). Il finger e il kringle 2 sono responsabili del legame ad alta affinità tra il t-PA e la fibrina, nonché dell’attivazione del plasminogeno; il dominio EGF lega i recettori epatici e conseguentemente media la clearance del t-PA dal sangue; all’eliminazione dalle cellule endoteliali epatiche è associata anche la funzione del kringle 1. La catena B, all’estremità C-terminale, contiene il dominio serinoproteasico ad attività catalitica (His-Asp-Ser), che scinde il plasminogeno. L’alteplasi è la versione ricombinante del t-PA umano (rt-PA) ed è identico al t-PA endogeno. Alteplasi (tPA)

Il reteplase è un mutante delezionale del t-PA nativo. È costituito da 355 aminoacidi e contiene solo i domini kringle 2 e proteasico. Si produce con la tecnologia del DNA ricombinante (rDNA) in Escherichia coli e pertanto è espresso sotto forma non glicosilata. Nonostante manchi del dominio finger, considerato responsabile dell’interazione con la fibrina, conserva selettività per la fibrina, ma ridotta di circa 5 volte rispetto all’alteplasi. Ciò suggerisce che il finger sia molto più importante del kringle 2 per la stimolazione dell’attività proteasica in presenza di fibrina. La forma ricombinante di t-PA più recente è il tenecteplase, ottenuto attraverso 3 mutazioni sito-specifiche: nel dominio kringle 1, la Thr103 è stata sostituita con una Arg e l’Asn117 con una Gln. La terza mutazione è stata realizzata nel dominio serinoproteasico, in cui Lys-HisArg-Arg 296-299 sono stati sostituiti con quattro residui di Ala. Il tenecteplase è una proteina glicosilata, pertanto la produzione mediante tecnologia rDNA si realizza in cellule di mammifero.

Reteplase (tPA)

Peso molecolare 70 kDa

Tenecteplase (TNK-tPA)

Peso molecolare 39 kDa

Kringle 1

Peso molecolare ~75 kDa

Kringle 2

50

Thr103-Asn

EGF

50 87

4

Lys296+Ala His297+Ala Arg298+Ala Arg299+Ala

Asn117-Cyn

117

184

262

276

3 1

176

262

276

EGF 87

4

176

184

262

276

176

1

1

Finger della fibronectina

Finger della fibronectina

448

Serin proteasi 527

527

448

527

Serin Proteasi

1

CAPITOLO 23 • Antiallergici e decongestionanti nasali online

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SCHEDA 23.1  Manifestazioni allergiche e loro agenti eziologici Patologia

Mezzo portatore

Agente eziologico

Shock anafilattico

Imenotteri (api, vespe, calabroni)

Veleno da puntura

Iniezione di medicinale

Farmaco allergizzante (penicilline, cefalosporine, FANS ecc.)

Gatto, cane, cavallo, roditori da stabulario

Proteine epidermiche da peli e forfora

Polvere di casa, farina

Escrementi di acari (specie Dermatophagoides pteronyssinus, D. farinae ecc.)

Polline (parietaria, graminacee, composite, cipresso, ulivo, nocciolo, betulla ecc.)

Proteine allergeniche del polline

Sottovasi d’appartamento, stanze umide

Spore di muffe (genere Aspergillus, Penicillium ecc.)

Peli di animali, polvere di casa, piante da polline

Come sopra

Alimenti (latte, uovo, crostacei ecc.)

Proteine allergeniche

Farmaci, prodotti chimici, cosmetici

Sostanze allergizzanti

Allergia esogena, asma bronchiale

Rinite allergica (febbre da fieno)

Orticaria, eczema allergico

1

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei online

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SCHEDA 25.1  Studio delle RSA di T3 Riguardo alla catena laterale, le porzioni che influenzano maggiormente l’attività sono il gruppo carbossilico e il numero di atomi di carbonio che separano tale gruppo acido dall’anello aromatico centrale; infatti, l’eliminazione del residuo carbossilico dalla T3 (4) porta a ottenere derivati etilaminici meno attivi. Inoltre, nella serie con il gruppo carbossilico, la distanza ottimale tra questo gruppo e l’anello aromatico centrale è pari a 2 unità metileniche: infatti, derivati con catena più corta (5, n = 1) o più lunga (6, n = 3) risultano meno attivi. L’eliminazione del gruppo aminico porta a una riduzione dell’attività (7). Riveste una notevole importanza la posizione della catena laterale sull’anello aromatico: l’attività maggiore si ottiene quando essa è legata in posizione 1 e qualsiasi spostamento porta a ottenere derivati meno potenti. Il gruppo OH in posizione 4' riveste un’importanza fondamentale ai fini dell’interazione con il recettore; il derivato in cui esso è sostituito con un atomo di H (8), nonostante la scarsa attività in vitro, mantiene una significativa attività in vivo a causa dell’ossidrilazione metabolica. Quando l’OH viene trasformato in metossile si ha un debole legame al recettore a causa della scomparsa della possibilità di instaurare un legame idrogeno (9); l’attività in vivo viene mantenuta a causa dell’attivazione metabolica (reazione di O-demetilazione). I due anelli aromatici sono entrambi fondamentali per l’attività e derivati con un solo anello o nei quali il secondo anello è so-

stituito da catene alifatiche sono inattivi. I sostituenti in posizione 3, 5, 3' e 5' interagiscono con residui idrofobici del recettore, per cui l’assenza di tali sostituenti porta a una riduzione dell’attività. Infatti, composti in cui i sostituenti in posizione 3 e 5 dell’anello aromatico centrale sono eliminati risultano completamente inattivi (10). La sostituzione dell’atomo di iodio in posizione 3' con un gruppo isopropilico (11) porta a una completa ritenzione dell’affinità, ma causa un aumento dell’efficacia in vivo perché viene impedita la degradazione metabolica causata dall’attività 3'-deiodinasica. Per quanto concerne l’atomo ponte, l’atomo di ossigeno può essere sostituito con successo con un metilene (12) o con atomo di zolfo (13). Per quanto riguarda le sostituzioni sull’anello aromatico centrale, la sostituzione degli atomi di iodio in 3 e 5 con atomi di bromo (14) causa una modesta riduzione dell’attività; la sostituzione con gruppi metilici (15) o isopropilici (16) è, invece, molto più deleteria. Il successo della sostituzione dell’atomo di iodio in 3' con il gruppo isopropilico ha aperto la strada a una nuova serie di analoghi. Tra i sostituenti alchilici (17-19) il gruppo isopropilico risulta essere il sostituente ottimale; la sostituzione dell’atomo di iodio in 3' con anelli aromatici (20) causa una riduzione dell’affinità di legame. Anche la sostituzione in 3' con gruppi polari (21-24) porta a una riduzione dell’affinità (Fig. 25.7).

R3 R'3 R'4

X

R2

R5

R1

R'5 Composto

R1

R3

R5

X

R'3

R'5

R'4

Attivitàa

T4 (1)

l-Ala

I

I

O

I

I

OH

10

T3 (2)

l-Ala

I

I

O

I

H

OH

55

d-Ala

I

I

O

I

H

OH

4,1

(4)

(CH2)2NH2

I

I

O

I

I

OH

0,06

(5)

CH2COOH

I

I

O

I

I

OH

5

(6)

(CH2)3COOH

I

I

O

I

I

OH

0,4

(7)

(CH2)2COOH

I

I

O

I

I

OH

(8)

dl-Ala

I

I

O

I

H

H

15 22,5

1,5

(9)

l-Ala

I

I

O

I

H

OCH3

(10)

l-Ala

H

H

O

I

H

OH

0

(11)

l-Ala

I

I

O

(CH3)2CH

H

OH

7,86

(12)

dl-Ala

I

I

CH2

I

H

OH

30

(13)

dl-Ala

I

I

S

I

H

OH

13,2

(14)

dl-Ala

Br

Br

O

I

H

OH

9,3

(15)

l-Ala

CH3

CH3

O

(CH3)2CH

H

OH

2

(16)

dl-Ala

(CH3)2CH

(CH3)2CH

O

I

H

OH

0

(17)

l-Ala

I

I

O

CH3

H

OH

8

2

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei online

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R3 R'3 R'4

X

R2

R5

R1

R'5

a

Composto

R1

R3

R5

X

R'3

R'5

R'4

Attivitàa

(18)

l-Ala

I

I

O

CH3CH2

H

OH

51,7

(19)

l-Ala

I

I

O

(CH3)2CH

H

OH

20

(20)

dl-Ala

I

I

O

C6H5

H

OH

1,1

(21)

l-Ala

I

I

O

OH

H

OH

0,15

(22)

l-Ala

I

I

O

NO2

H

OH

0,1

(23)

dl-Ala

I

I

O

F

H

OH

0,6

(24)

l-Ala

I

I

O

Cl

H

OH

2,7

Attività tiromimetica: determinata come l’abilità del composto in esame di sopprimere il rilascio di TSH e la formazione del gozzo indotto da farmaci antitiroidei; attività di T4 posta come 10.

3

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei online

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Scheda 25.2  Ligandi selettivi dei recettori steroidei Le posizioni indicate sono relative alla formula generale rappresentata nella Scheda 25.1.

più efficace nel ridurre i livelli plasmatici dei trigliceridi; a queste dosi GC-1 non aumenta la frequenza cardiaca ed è meno attivo di T3 nella modulazione di altri parametri cardiaci relativi alle cellule pacemaker HC2. Tra i vari gruppi che si possono inserire in posizione 1, quello che induce un maggiore aumento della selettività verso i TRβ è il residuo di acido acetico; KB-141 mostra un’aumentata affinità e selettività in saggi in vitro verso TRβ e una eccellente capacità di riduzione dei livelli di colesterolo plasmatici. Inoltre, è stato riportato che KB-141, grazie alla sua elevata selettività verso i TRβ, aumenta la sensibilità all’insulina e ha un potente effetto antidiabetico e di riduzione del peso in diversi modelli animali. Allo scopo di aumentare la selettività verso i TRβ, differenti accettori di legami idrogeno a struttura eterociclica sono stati inseriti in posizione 1. Tra questi molto promettenti, per quanto riguarda la potenza e la selettività, sono i ligandi che presentano in posizione 1 un gruppo 6-azauracile (1) o il gruppo tiazolidinedione (2); è molto interessante notare come l’eliminazione del doppio legame presente in (2) permette di ottenere (3) che risulta essere un potente agonista TRα1. Dato che, come si è visto, gli ormoni tiroidei presentano effetti utili dal punto di vista terapeutico, ma anche altri sfavorevoli, forse dovuti ad azioni off target, sono stati tentati numerosi approcci mirati a ottenere una modulazione selettiva dell’azione degli ormoni tiroidei. Uno dei metodi per conseguire tale selettività d’azione consiste nel progettare molecole in grado di legarsi selettivamente a un’isoforma rispetto a un’altra: data l’elevata similarità tra l’isoforme α e β è però estremamente difficile ottenere ciò. Una strategia alternativa consiste nel generare selettività nella distribuzione tissutale. Infatti, come

Modifiche posizione R1 Tra i vari possibili sostituenti in posizione 1 buoni risultati sono stati raggiunti con la sostituzione del residuo di l-Ala con un gruppo di acido oxamico. La presenza di questo sostituente modifica marcatamente l’ordine di affinità riguardo le posizioni R3 e R5 andando nell’ordine CH3 ~ I > Cl > Br. Due esempi di composti appartenenti a questo gruppo sono CGS-23425 e CGS-26214 (Axitirome): entrambi questi composti presentano dei sostituenti metilici in posizione 3 e 4 e differiscono per il sostituente in 3'. Queste due molecole inducono riduzione dei livelli di colesterolo plasmatici senza stimolare il cuore; ciò, però, non è dovuto a un legame selettivo con il TRβ ma a un uptake selettivo nel fegato rispetto al cuore. Un secondo gruppo di composti interessanti deriva dalla sostituzione del residuo di l-Ala con un gruppo acido ossiacetico: il composto più studiato di questa serie è GC-1, che presenta un gruppo metilenico al posto dell’atomo di ossigeno e due gruppi metilici in posizione 3 e 5 (Scheda 25.3). GC-1 si lega al TRβ con un’affinità comparabile a T3 ed è circa 10 volte più selettivo verso questa isoforma. Questa elevata affinità è molto interessante e dimostra che variando la natura del sostituente in posizione 1 si modificano gli effetti dei sostituenti sugli anelli aromatici: in T3 la sostituzione dell’atomo di iodio con un gruppo metilico in posizione 3 e 5 causa invece una riduzione di affinità di circa 100 volte rispetto a T3. Studi in vivo effettuati su topi dimostrano che GC-1 ha la stessa efficacia di T3 nel ridurre i livelli di colesterolo ed è O I

NH N

I

O

HO

I

Br O

HO

NH2

Br

CH3

OH O

H3C

COOH

H3C

HO

Triac

COOH

O N H

COOH

CGS-23425

SKF-94901

CH3

CH3

OH O

F

N H

HO

COOH

Cl

HO

COOH HO

N O

O

H3C

N N H

O

S

Cl O 2

I

CH3

O NH

HO

COOH

Cl KB-141

I

CH3

Cl 1

O

H3C GC-1

O

H3C

Cl O

H3C

CGS-26214 (Axitirome)

CH3

CH3

H3C

O

H3C

HO

CH3

O

H3C

O S NH

HO

Cl O 3

4

CAPITOLO 25 • Farmaci tiroidei online

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CH3

CH3

Cl

H3C

O HO

H3C

O

P O O

4

CYP3A4, O2, NADPH GSH

CH3

CH3

O

H3C HO

H3C

O

Cl

GS

O P O O

5

precedentemente discusso, mentre i TRα sono responsabili degli effetti sfavorevoli a livello cardiaco, ai TRβ localizzati a livello epatico sono attribuibili effetti terapeutici utili, in quanto influenzano i livelli di colesterolo plasmatici. Inoltre, va tenuto presente che effetti tossici possono anche derivare dall’attivazione dei TRβ localizzati a livello extraepatico. A tal proposito, una strategia molto interessante consiste nello sviluppare ligandi β-selettivi in grado di interagire quasi esclusivamente a livello epatico, sede specifica del metabolismo del colesterolo. Per ottenere ciò sono stati progettati dei profarmaci che vengono attivati specificamente nel fegato, come (4), il quale è un derivato di un acido fosfonico. Questi acidi hanno la caratteristica di essere ionizzati a pH fisiologico e di presentare una scarsa distribuzione tissutale al di fuori del fegato. Studi di farmacocinetica hanno dimostrato che (4) viene metabolizzato ad opera del citocromo P450 (CYP3A) a generare l’acido metilfosfonico (5) che non viene distribuito ai tessuti extraepatici. Il derivato (5), a causa della sostituzione del gruppo carbossilico con

un gruppo fosfato, risulta meno affine e selettivo verso le varie isoforme di TR, ma mostra un’elevata efficacia in modelli di topo ipercolesterolemici senza i concomitanti effetti collaterali dovuti all’attivazione dei TR extraepatici. Modifiche posizione R2 L’analisi della struttura ai raggi X del complesso T3-TRα1 dimostra l’esistenza di una vasta area non occupata vicino alla zona in cui si posiziona il sostituente in posizione 2 di T3, suggerendo che la fusione tra l’atomo di carbonio benzilico del sostituente in posizione 1 e la posizione 2 dell’anello aromatico può essere tollerata dal recettore: per questa ragione sono stati sviluppati degli analoghi in cui l’anello centrale è stato fuso con altri sistemi a generare composti indolici, chinolinici, indanici e benzofuranici. L’attività di questi derivati biciclici è fortemente dipendente dalla forma e dalle dimensioni del sistema ciclico e dall’orientazione del gruppo carbonilico. Tra i vari analoghi ottenuti (6-8) il composto (6) presenta la maggiore selettività nei confronti dell’isoforma TRβ1. CH3

Cl

H3C

COOH HO

O

HO

I

CH3 NH2 COOH

I

Cl 6

I I

N H CH3

H3C HO

H3C

N

COOH

7

T3 CH3

CH3 O

H3C HO

H3C 8

COOH

5

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Modifiche dell’atomo ponte La natura dell’atomo ponte risulta molto importante ai fini del legame al TR: data la particolare natura geometrica dei tiromimetici, qualsiasi atomo ponte che non sia l’ossigeno o un gruppo metilenico ha un impatto negativo sull’affinità di legame. L’eliminazione dell’atomo ponte, ottenendo i due anelli aromatici direttamente collegati, ha generato degli analoghi fenil-naftilici, come (9), altamente potenti e selettivi verso TRβ1.

sostituita con gruppi lipofili con il seguente ordine di affinità: C2H5 (11) > CF3 > (CH3)2CH > C6H5; la sostituzione in posizione orto o para porta invece a ottenere derivati scarsamente selettivi. L’introduzione di sostituenti idrofili sull’anello aromatico di (10) causa una generale perdita di affinità e selettività verso TRβ1. Sostituenti di dimensioni maggiori rispetto a un anello aromatico possono essere introdotti, come in (12), mantenendo una buona potenza e selettività verso TRβ1.

Modifiche posizione R'3 Studi di relazione struttura-attività hanno dimostrato che la porzione del recettore che interagisce con il sostituente in R3' è molto flessibile e può accogliere gruppi di grandi dimensioni, aumentando in questo modo la potenza e la selettività verso i TRβ. Alcuni esempi derivano da KB141, in cui la struttura base è mantenuta ma il gruppo isopropilico in 3' è sostituito con gruppi di dimensioni maggiori: la sostituzione di questo gruppo con un anello fenilico permette di ottenere il composto (10) che è altamente selettivo verso i TRβ1. Studi di RSA indicano che la posizione in meta dell’anello aromatico in 3' può essere

Modifiche posizione R'4 Il gruppo –OH in posizione 4' svolge un ruolo di fondamentale importanza in quanto stabilisce un legame idrogeno critico con un residuo di istidina. È stato osservato come questa funzione alcolica possa essere sostituita con un donatore di legami idrogeno alternativo, come il gruppo aminico (13), senza perdita di attività. Elevata affinità ma moderata selettività verso i TRβ1 è stata osservata sostituendo l’anello fenolico con sistemi eteroaromatici come indoli (14) e indazoli; l’introduzione di carbazoli o benzimidazoli porta invece a perdita dell’attività tiromimetica.

Cl

Cl

CH3

O

H3C

O HO

Cl

N H

COOH

HO

10

9

Cl H3C

O

N H

COOH

Cl

Cl

O

O HO

COOH

Cl

HO

11

12

Cl O H3C CH3

Br N H

COOH

Cl

H3 C

O

CH3

CH3 O

O

COOH

Cl

N H 13

H3C

N H 14

COOEt

6

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SCHEDA 25.3 ■ Interazioni tra GC-1 e GC-24 e i recettori tiroidei GC-1 si lega ai TRβ con una affinità comparabile a quella di T3 e con una certa selettività, in quanto è circa 10 volte meno affine verso i TRα. Dall’analisi delle strutture ai raggi X di GC-1 con entrambe le isoforme recettoriali, emergono chiare differenze nel suo binding mode. GC-1 stabilisce con entrambe le isoforme sia interazioni di tipo idrofobico (con la parte centrale del recettore) sia interazioni tipo legami idrogeno. In particolare, esso stabilisce un legame idrogeno tramite l’OH in 4′ con un residuo di istidina (His381 nell’isoforma α e His435 nell’isoforma β). Un secondo legame si stabilisce tra il residuo ossiacetico di GC-1 e una zona carica positivamente formata da tre residui di Arginina (Arg228, 262 e 266 nell’isoforma α e Arg282, 316 e 320 nell’isoforma β). In TRβ, il residuo ossiacetico di GC-1 interagisce con l’Arg282 (localizzata sull’elica 3) e con Arg316 e 320 localizzate sull’elica 6: il legame che si stabilisce è un legame idrogeno mediato dall’acqua. È importante notare che l’Arg282 è stabilizzata da un legame idrogeno con Ans331. Nell’isoforma α invece, GC-1, tramite l’atomo di ossigeno del gruppo ossiacetico, stabilisce un legame idrogeno con la Ser277; questa, però, non è in grado di interagire con l’Arg228, analogamente a quanto osservato invece tra l’Asn331 e l’Arg282. Questo fa sì che la catena latera-

le dell’Arg228 sia libera di adottare diverse conformazioni che, non sempre, permettono la corretta interazione con GC-1. Quindi, mentre nell’isoforma β Arg282 lega il ligando in una singola conformazione, nell’isoforma α l’Arg228 si può muovere dando vita a conformazioni in cui si ha perdita di interazioni importanti ai fini della stabilizzazione del ligando. GC-24 è un analogo di GC-1 in cui è presente un anello fenilico in posizione 3′; esso lega l’isoforma β con un’affinità leggermente inferiore rispetto a T3 ma con una selettività di circa 40 volte. L’analisi della struttura ai raggi X di TRβ-GC-24 confrontata con TRβ-GC-1 mostra che il LBD si espande per accomodare il ligando più grande. In particolare, GC-24 occupa uno spazio simile a quello occupato da GC-1 formato dalle eliche 3,5/6,8 e 1; il volume addizionale necessario per la presenza del sostituente benzilico in 3 è creato da un leggero spostamento delle eliche 3 e 11. È stato valutato che la tasca aumenta le proprie dimensioni di circa il 15%. Questa estensione benzilica in 3′ stabilisce delle interazioni con la Phe451 localizzata sull’elica 11 e la Phe455 localizzata sull’elica 12: è importante sottolineare che questi due aminoacidi non stabiliscono interazioni con T3 e GC-1. Arg282

N CH3

H2 N

CH3

O

NH

Asn331 NH2

H3C O H

H3C

O

O

H O

N

O

H2N

H HN

N H His435

NH2 HN NH Arg320

N H

Arg316

7

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SCHEDA 25.4  Ligandi selettivi per i recettori tiroidei mutati Diversi tipi di patologie genetiche sono dovute a mutazioni a livello dei recettori nucleari. Nel caso dei TR, queste mutazioni sono associate a resistenza nei confronti degli ormoni tiroidei, principalmente dovuta a mutazioni a carico del LBD dell’isoforma β. Manifestazioni cliniche a carico di questa sindrome comprendono gozzo, ritardi mentali, difficoltà di apprendimento, tumore papillifero della tiroide e dell’ipofisi. Nonostante la maggior parte dei recettori mutati mostri solo una debole affinità nei confronti di T3, è stato appurato che trattamenti con concentrazioni di T3 sovra-fisiologiche sono in grado di indurre un recupero dell’attività TRβ-mediata; dall’altro lato però questo porta a un’iperstimolazione dei TR che è implicata in una serie di effetti tossici come la tachicardia e l’aritmia cardiaca. Per superare questo problema sono stati progettati degli analoghi degli ormoni tiroidei in grado di legarsi selettivamente ai TRβ-mutati rispetto ai TRα. Nel corso degli anni numerose mutazioni sono state osservate nella sequenza aminoacidica del LBD, come ad esempio quella in cui l’arginina in posizione 320 è sostituita con una cisteina (TRβ(R320C)); T3 risulta essere circa 7 volte meno attivo nel recettore mutato TRβ(R320C) rispetto al recettore non mutato (wild-type). Sfruttando la struttura ai raggi X tra T3 e TRβ e la struttura del ligan-

do selettivo GC-1 si è sviluppato un ligando altamente selettivo per questo tipo di mutazione: HY1 risulta circa 5 volte più potente nei confronti del recettore mutato TRβ(R320C) rispetto ai TRβ e TRα non mutati. HY1 è stato preso come punto di partenza per lo sviluppo di nuovi derivati in grado di legarsi a recettori che presentano altre mutazioni a carico di residui aminoacidici localizzati nella porzione che interagisce con il gruppo carbossilico di T3, come ad esempio TRβ(R320H) e TRβ(R320C); in particolare, KG-8, un derivato di HY1, risulta molto attivo e selettivo nei confronti di questi tipi di recettore mutato. Altre mutazioni possono avvenire a livello dell’His435; questo aminoacido è critico in quando interagisce con il gruppo OH in 4′ di T3 tramite un legame idrogeno e con Phe459 dell’elica 12 tramite un’interazione di tipo π-π. Quando T3 si lega al TR, essa interagisce in maniera indiretta con l’elica 12 tramite l’interazione tra His e Phe (His-Phe switch). Mutazioni presenti a livello di questi residui distruggono lo switch His-Phe e, quindi, la normale trasduzione del segnale. Composti derivati da GC1 che presentano gruppi alchilici legati all’atomo di O in posizione 4′, come QH-2, attivano il recettore mutato TRβ(H320A), dove l’His435 è sostituita con un residuo di alanina.

CH3

CH3

CH3

CH3

H3C

H3C HO

H3C

OH

H3C

HO

OH

HY1

CH3

KG-8

CH3

CH3

CH3 H3C

H3 C H3C

O

O

H3 C

OH

O

N

H3C

O

O QH-2

OH

O

QH-13

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Purtroppo però questi analoghi non sono in grado di attivare altri recettori mutati a livello dell’His435 come il TRβ(H435Y) e il TRβ(H435L). Studi computazioni effettuati sul recettore TRβ(H435Y) suggeriscono che la tirosina in posizione 435 è ancora in grado di stabilire interazioni π-π con la fenilalanina in posizione 459; purtroppo, però, l’OH fenolico della tirosina non sembra essere orientato nella posizione corretta per stabilire un legame idrogeno con la T3. Questo recettore mutato può essere attivato da ligandi che sono in grado di attivare uno switch TyrPhe. Questi nuovi ligandi progettati devono essere in grado di stabilire un legame idrogeno con la tirosina ma devono essere sufficientemente piccoli, dato che la cateA)

na laterale della tirosina si proietta all’interno del LBD in misura maggiore rispetto all’istidina. Il capostipite di questa nuova classe di ligandi è QH13, in cui l’anello fenolico di GC-1 è stato sostituito da un anello piridinico: esso è circa 15 volte più attivo verso TRβ(H435Y) rispetto a TRβ wild-type. Nella figura seguente sono indicati: A) interazioni tra T3 e il TRβ non mutato; B) interazione tra lo scaffold di QH2 e il recettore TRβ(H320A); C) interazione tra lo scaffold di QH13 e il recettore TRβ(H435Y). (Modificata da Hassan A.Q et al. J. Am. Chem. Soc. 2006, (128), 8868-8874 e Hassan Q.A: et al. Angew. Chem. Int. Ed. 2008, 47, 72807283). B)

I I

H

O

O

CH3

NH2

T3 COOH

I

CH3

H3C H3C

X

Elica 11

His435 H N

Elica 11

N H

CH3 C Ala35 A

Phe459

Phe459

Elica

Elica

12

CH3

C) Tyr435

X O H

Elica 11

8

Phe459

Elica

12

H3C

O

COOH

12

O

COOH

9

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SCHEDA 25.5  A  ntagonisti dei recettori tiroidei Una serie di ligandi antagonisti dei TR è stata sviluppata per il trattamento dell’ipertiroidismo. Quando un agonista si lega al recettore viene indotta una modificazione conformazionale soprattutto a carico delle eliche H11 e H12, rendendo disponibile la superficie necessaria al legame del coattivatore. Un’eccellente strategia per sviluppare antagonisti dei recettori degli ormoni tiroidei consiste nel prevenire il corretto folding dell’elica H12 modificando la struttura di un agonista tramite l’introduzione di un sostituente ingombrante nella posizione che si localizza più vicino a tale elica. Analizzando la struttura ai raggi X dei recettori tiroidei con diversi agonisti, è stato notato che la posizione che si localizza nelle vicinanze dell’elica H12 è CH3

CH3

Br

HO

CH3

Br

HO

OH

Br

CH3

H3C

H3C

O

H3C

la 5': l’introduzione di sostituenti ingombranti in tale posizione è in grado di generare antagonismo. Un classico esempio di questo approccio è lo sviluppo dell’antagonista DIBRT, il quale deriva dal tiromimetico MIBRT per introduzione di un gruppo i-Pr in posizione 5'. La struttura di GC-1 è stata presa come punto di partenza per sviluppare nuovi antagonisti: l’introduzione di un gruppo 4-nitrofenilico ha permesso di ottenere un composto, GC-14, dotato di una buona attività antagonista. Simile a GC-14 è NH-3, il quale presenta un gruppo etinilico in posizione 5'. Antagonismo può essere ottenuto anche introducendo un atomo di azoto metilato come atomo ponte, come nel caso di (1). Un interessante approccio per ottenere antagonisti dei

H3C

O

OH

Br

HO

H3C

OH

O O

O

CH3

MIBRT DIBRT

GC-14 NO2

CH3

CH3 CH3

H3C HO

H3C

OH

O

CH3

O

N

H3C

O

CH3 S

NH HO

H3C 1

NH-3 NO2

recettori tiroidei è stato sviluppato in analogia con l’antagonista del recettore degli estrogeni ICI-164,384; questo ha una lunga catena alchilamidica che sporge dal LBD inducendo una perturbazione strutturale sulla superficie

del LBD, il quale interagisce con i fattori di regolazione inducendo antagonismo. L’introduzione di tale lunga catena alchilamidica sul metilene ponte di GC-1 produce l’antagonista competitivo (2).

CH3

(CH2)10

(CH)10 Br

N

CH3

HO

OH

Br O

CH3 ICI-164,384

CH3

H3C

O HO

H N

O

CH3 OH

2

10

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SCHEDA 25.6  Antagonisti indiretti Numerosi esempi di antagonisti recettori tiroidei sono stati sviluppati introducendo in posizione 5' gruppi di grandi dimensioni: in questo modo si ha lo spostamento dell’elica H12 da una conformazione che promuove il legame del coattivatore a una che promuove il legame del corepressore. Un approccio alternativo per ottenere antagonismo consiste nell’applicare il concetto cosiddetto dell’”antagonismo indiretto”. Questa nuova strategia di progettazione è stata sviluppata nel campo della ricerca di antagonisti per il recettore degli estrogeni; è stato visto che un ligando più piccolo rispetto all’agonista

endogeno è in grado di stabilizzare una conformazione non favorevole di residui aminoacidici chiave presenti nel LBD, portando quindi alla stabilizzazione di una conformazione recettoriale inattiva. Questa nuova serie di antagonisti è stata sviluppata sostituendo l’anello aromatico periferico con catene alchiliche e cicloalchiliche come in (1) e (2). In questo caso il composto (1) con il sostituente cicloesilico è circa 10 volte più potente del corrispondente con la catena aperta. La facilità di sintesi di questo tipo di composti ha permesso di ottenere numerosi analoghi: tra questi molto promettente si è dimostrato (3).

Br Br

O H3C Br

O

COOH Br

1

2

Br Br

O Br 3

COOH

COOH

1

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Scheda 26.1  B  iosintesi delle resolvine della serie E derivate dall’acido eicosapentaenoico (EPA) Nelle cellule endoteliali, la forma aspirino-acetilata della COX-2 converte l’EPA nel (18R)-idroperossi-EPA, il quale è ridotto al derivato (18R)-idrossi-EPA ad opera di una perossidasi. Una volta rilasciato dall’endotelio, questo composto è rapidamente convertito dai leucociti polimorfonucleati nel (5S)-idroperossido, che si trasforma in un composto intermedio 5,6-epossidico, il quale subisce idrolisi enzimatica da parte di una idrolasi per dare la resolvina E1 (RvE1). In alternativa, la riduzione del (5S)idroperossido ad opera di una perossidasi porta alla resolvina E2 (RvE2). Le risolvine promuovono la risoluzione del

processo infiammatorio, proteggono i tessuti dall’infiltrazione di leucociti e dalle lesioni determinate dai neutrofili, riducono l’afflusso e il numero dei leucociti negli essudati e ne contrastano l’attivazione, favoriscono la produzione di citochine antinfiammatorie (IL-10 e TGFβ1), inibiscono la secrezione di composti pro-infiammatori compresi IL12p40, TNF-α e l’interferone-γ, inibiscono l’attivazione del fattore nucleare-κB (NF-κB) coinvolto nella trascrizione di geni codificanti citochine e proteine pro-infiammatorie, bloccano in vivo la migrazione dei linfociti T e proteggono dalla distruzione ossea mediata dagli osteoclasti.

COOH

COOH

COX-2-acetilata (dopo aspirina) 18

CH3

CH3

O(O)H

Acido eicosapentaenoico (EPA)

(18R)-idro(pero)ssi-EPA Perossidasi

COOH

CH3 OH (18R)-idrossi-EPA 5-LOX

OOH

O

COOH

COOH 5(6)-epossi resolvin E sintasi

CH3

CH3

OH

OH

5,6-epossi-(18R)-idrossi-EPA

(5S)-idroperossi-(18R)-idrossi-EPA Perossidasi

Idrolasi

OH S

OH COOH

S

OH CH3

R

OH

CH3

R

RvE1

OH

RvE2

COOH

2

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Scheda 26.2  B  iosintesi delle resolvine della serie D derivate dall’acido docosaesaenoico (DHA) La conversione iniziale del DHA al (17S)-idroperossi-DHA ad opera della 15-LOX seguita da una seconda lipossigenazione da parte della 5-LOX nella posizione C7 fornisce un intermedio perossido che viene trasformato nel (7S,8S)-epossido. L’idrolisi enzimatica del derivato eposHO

sidico genera le risolvine triidrossilate RvD1 e RVD2. In alternativa, la lipossigenazione della 5-LO nella posizione C4 del (17S)-idroperossi-DHA forma un intermedio perossido che è similmente convertito nelle resolvine RvD3 e RvD4. HO

S

S

COOH

R

COOH OH

OH

R

HO

CH3

S

Idrolasi

Idrolasi

Resolvin D1 (RvD1)

HO

CH3

S

Resolvin D2 (RvD2)

O COOH

CH3 HO (7S,8S)-epossi-(17S)-idrossi-DHA HOO

Epossidasi

7

17

COOH

CH3

HO 5-LOX

COOH

(7S)-idroperossi-(17S)-idrossi-DHA

COOH

15-LOX

HOO CH3

5-LOX 4

CH3 (17S)-idro(perossi)-DHA

Acido docosaesaenoico (DHA)

COOH

OOH 17

HO CH3

Epossidasi

(4S)-idroperossi-(17S)-idrossi-DHA COOH

O

HO CH3 (4S,5S)-epossi-(17S)-idrossi-DHA Idrolasi

OH R

HO

HO

S

COOH

CH3 Resolvin D3 (RvD3)

COOH OH

HO

S

HO

Idrolasi

S

CH3 Resolvin D4 (RvD4)

3

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Scheda 26.3  Biosintesi delle resolvine della serie D indotte dall’aspirina Le cellule endoteliali trattate con aspirina convertono il DHA in (17R)-idroperossi-DHA per azione della COX2 acetilata. Quest’ultimo, quando è ossigenato al C7 e HO

C4 ad opera della 5-LOX conduce alla formazione degli epimeri delle resolvine, AT-RvD1, AT-RVD2, AT-RvD13 e AT-RVD4. HO

S

S

COOH

R

COOH OH

OH

R

HO

CH3

R

Idrolasi

Idrolasi

AT-RvD 1

HO

CH3

R

AT-RvD 2

O COOH

CH3 HO (7S,8S)-epossi-(17R)-idrossi-DHA HOO

Epossidasi

7

17

COOH

CH3

HO 5-LOX

COOH

(7S)-idroperossi-(17R)-idrossi-DHA

COOH

COX-2-acetilata (dopo aspirina)

HOO

5-LOX

CH3

4

CH3

Acido docosaesaenoico (DHA)

COOH

OOH

(17R)-idro(perossi)-DHA 17

HO CH3

Epossidasi

(4S)-idroperossi-(17R)-idrossi-DHA COOH

O

HO CH3 (4S,5S)-epossi-(17R)-idrossi-DHA OH R

HO

Idrolasi

HO

S

COOH

CH3 AT-RvD 3

COOH OH

HO

R

HO

Idrolasi

R

CH3 AT-RvD 4

4

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Scheda 26.4  Biosintesi delle protectine e delle maresine Il DHA è convertito ad opera della 15-LOX nell’intermedio (17S)-idroperossido, che viene trasformato dai leucociti nel derivato (16S,17S)-epossidico. Questo derivato epossidico viene aperto per via enzimatica nei leucociti per dare l’acido (10S,17S)-diidrossidocosaesaenoico, noto come protectina D1 a causa della sua potente azione protettiva nei sistemi infiammatori e neuronali. Quando viene prodotto dalle cellule nervose, si aggiunge il prefisso neuro- a significare la sua origine biosintetica. La protectina D1 inibisce il reclutamento dei neutrofili, regola la produzione di chemochine/citochine, promuove la rimozione linfatica dei fagociti, regola la migrazione di cellule T, riduce l’infiammazione e la ipereattività del-

le vie aeree, mitiga il danno renale da ischemia/riperfusione, blocca l’infiltrazione leucocitaria, inibisce l’NF-κB e l’induzione della COX-2 e protegge il cervello dal danno da ischemia/riperfusione. La 14-lipossigenazione di DHA da parte della 12- o 15LOX contenuta nei macrofagi umani porta alla formazione del (14S)-idroperossi-DHA, che viene trasformato nel derivato (13S,14S)-epossidico. Quest’ultimo è aperto per via enzimatica nei macrofagi umani per dare l’acido (7S,14S)-diidrossidocosaesaenoico, noto come maresina 1 (MaR1). Questo metabolita regola l’infiltrazione dei neutrofili e promuove la risoluzione dell’infiammazione.

COOH

COOH

R

O

Idrolasi

S

OH

HO

CH3

CH3

(16S,17R)-epossi-DHA

Protectina D1 (PD1)/Neuroprotectina D1 (NPD1)

Epossidasi

COOH

HOO CH3 (17S)-idro(perossi)-DHA COOH 15-LOX

CH3

12/15-LO X

COOH

Acido docosaesaenoico (DHA) H(O)O

CH3 (14S)-idro(perossi)-DHA Epossidasi

COOH O

COOH HO

S R

Idrolasi

CH3 (13S,14S)-epossi-DHA

OH

CH3 Maresina 1 (MaR1)

1

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CAPITOLO 27 • Farmaci antinfiammatori non steroidei, antireumatici, antigottosi online

Scheda 27.1 ■ Parametri farmacocinetici e posologia media di alcuni FANS Emivita plasmatica (ore)

Legame alle proteine (%)

Picco plasmatico (ore)

Biodisponibilità (%)

Posologia media (mg/die)

Acido acetilsalicilico

0,3

50-80

0,3

65-70

1000-4000 30-100d

Diflunisal

8-12a

98-99

2-3

90

500-1000

Nome generico FANS tradizionali Derivati salicilici

Derivati dell’acido antranilico Acido mefenamico

2-4

> 90

2-4

> 80

1000

Acido meclofenamico

2

99

0,5-2

100

200-400

2-3

10-25

0,5-3

85-98

1400-3000

Derivati dell’anilina Paracetamolo

Pirazolinoni e pirazolidindioni Fenazone

11-13

10

1-2

100

600-900

Aminofenazone

1-4

15

2

-

300-600

Fenilbutazone

50-100

87-99

2-3

50-100

300-600

Feprazone

20-30

90

6

-

600

Sulfinpirazone

3-6

98-99

1,6

95-98

200-800

Pirossicam

35-45

99

3-5

90-100

20-30

Tenossicam

72

99

0,5-2

80-100

20-40

Melossicam

50-60

99

5-6

90-100

7,5-15

Lornossicam

3-5

99

2,5

90-100

4-12

Ossicami

Acidi aril ed eteroaril propionici Ibuprofene

1,8-2,4

98

1-2

> 80

600-1600

Fenoprofene

2,5

99

0,5-2

80-85

600-2400

Flurbiprofene

3-4

99

0,8

92

150-300

Chetoprofene

2-4

99

0,5-2

90

100-300

Indobufene

8

99

2

80-100

200-800

Naprossene

12-15

99

2-4

99

500-1000

Acido tiaprofenico

1,5-2,8a

98

1,5-2

100

600

Chetorolac

4-6

97

0,5-1

80-100

30-120

Ossaprozina

40-60

99

3-4

95

600-1200

Acidi aril ed eteroaril acetici Indometacina

2-4

90

0,5-1,5

100

50-150

Tolmetina

1

95-98

0,5-1

100

600-1800

Diclofenac

1,0-1,2

99

1-2

52-56

75-150

Etodolac

6-7

93-99

1-2

80-100

200-800

Sulindacb

16-18

98

2

90

300-400c

Nabumetoneb

24

98-99

3-6

35

1000-2000c

2

ISBN 978-88-08-18712-3

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Emivita plasmatica (ore)

Legame alle proteine (%)

Picco plasmatico (ore)

Biodisponibilità (%)

Posologia media (mg/die)

2-3

90

1,2-3,3

80-100

100-400

Celecoxib

11-16

97

2-4

20-40

100-200

Rofecoxib

10-17

87

2-3

93

25-50

Valdecoxib

8-11

98

2-3

83

10-20

Etoricoxib

11

97

0,5-2

83

60

Lumiracoxib

5-8

98

2-3

74

100-400

Nome generico Altri Nimesulide COXIB

I dati provengono in larga parte da Micromedex (www.micromedexsolutions.com). a Dose-dipendente. b Dati riferiti al metabolita attivo. c Dati riferiti al farmaco. d Dose media nella profilassi dell’infarto.

3

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Scheda 27.2 ■ L’aspirina come antitrombotico La maggior parte dei tessuti è in grado di produrre la prostaglandina PGH2, ma l’entità della sua trasformazione nelle varie famiglie di prostanoidi varia da tessuto a tessuto. Ad esempio, milza e polmoni sono in grado di produrre l’intera gamma di prostanoidi, mentre l’endotelio, sotto l’azione della prostaciclina sintasi (PGI2 sintasi), produce principalmente la prostaciclina PGI2, che possiede potenti azioni vasodilatanti e antiaggreganti piastriniche. Le piastrine, che sono frammenti di megacariociti privi di nucleo ma che conservano varie attività enzimatiche, esprimono principalmente l’isoforma COX-1, sotto la cui azione l’AA genera PGH2 che per la massima parte viene trasformato dalla trombossano sintasi (TX-sintasi) in TXA2. Al contrario della PGI2, questo prostanoide possiede potenti azioni aggreganti e vasocostrittrici. L’attività antitrombotica dell’aspirina è direttamente dipendente dalla sua capacità di inibire l’aggregazione piastrinica attraverso la ridotta formazione di TXA2. L’inibizione irreversibile dell’attività della COX-1 piastrinica indotta dal farmaco avviene in larga misura nel circolo portale, prima che il farmaco stesso sia sottoposto al metabolismo di

primo passaggio nel fegato. Tale inibizione perdura per tutto il tempo di vita della piastrina (8-11 giorni), perché questa non è più in grado di sintetizzare altro enzima essendo priva di nucleo. La somministrazione giornaliera di piccole dosi di aspirina causa nelle piastrine un’inibizione della produzione di TXA2 che, dopo 4-5 giorni, è superiore al 95%. Nell’endotelio è presente soprattutto l’isoforma COX-2 in forma costitutiva e in minor quantità l’isoforma COX-1. La loro inibizione irreversibile da parte dell’aspirina, correlata in questo caso alla concentrazione plasmatica del farmaco, ha come effetto la riduzione della PGI2 a livello endoteliale, con conseguente vasocostrizione, aumento della funzionalità piastrinica e quindi predisposizione alla formazione di trombi. Le cellule endoteliali, possedendo un nucleo a differenza delle piastrine, possono sintetizzare proteine e perciò nel giro di poche ore sono in grado di rimpiazzare l’enzima COX inattivato irreversibilmente dall’acetilazione. Somministrando il farmaco ad adeguati intervalli di tempo diventa così possibile inibire la funzione piastrinica senza alterare significativamente quella endoteliale.

4

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Scheda 27.3 ■ Acido mefenamico: sintesi e metabolismo L’acido mefenamico viene sintetizzato industrialmente facendo reagire l’acido o-cloro o o-bromobenzoico con

la 2,3-dimetilanilina in presenza di polvere di rame (sintesi di Ullmann). O

O

OH

NH2 OH

Br

CH3

NH

Cu

+

CH3

CH3

CH3 Acido mefenamico

L’acido mefenamico viene metabolizzato prevalentemente a livello epatico, in parte attraverso la coniugazione diretta con acido glucuronico e in parte per ossidazione del gruppo metilico in posizione 3 dell’N-fenile, prima ad O

alcol e poi ad acido. I prodotti acidi sono eliminati principalmente come glucuronidi e l’acido 3-carbossilico anche in forma non coniugata. I metaboliti, così come il farmaco inalterato, sono escreti principalmente per via renale. O

O OH

OH

OH

NH

NH

NH CH3 CH3

CH3

CH3 OH

OH O

Acido mefenamico

O-acilglucuronidi

5

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Scheda 27.4 ■ Derivati pirazolonici: sintesi e metabolismo Il fenazone viene preparato industrialmente con il metodo di Knorr per azione della fenilidrazina sull’estere acetacetico e successiva metilazione con ioduro di metile del prodotto così ottenuto.

L’aminofenazone si prepara facilmente per nitrosazione del fenazone con nitrito sodico e acido solforico, seguita da riduzione con bisolfito di sodio ad amino derivato. Questo viene trasformato nel prodotto finale per trattamento a caldo con un eccesso di acido formico e formaldeide (sintesi di Eschweiler-Clarke).

CH3 HN

NH2 O O H3C

N

N

O O

CH3

CH3I

CH3 O

N

N

CH3

CH3

ON NaNO2 O H2SO4

N

N

CH3

NaHSO3

O

CH3

CH3

H2N

N

N

CH3

H3C

HCOOH

O

CH3

N

N

N CH 3

HCHO

Fenazone

Il metabolismo dell’aminofenazone è stato estensivamente studiato. Le reazioni metaboliche più importanti sono: N-demetilazione ossidativa alla posizione 4 con formazione del 4-metilaminoderivato e del 4-aminoderivato (4-aminofenazone), acetilazione del 4-metilaminoderivato, formilazione e in minor entità acetilazione del 4-aminoderivato. Metaboliti meno importanti sono il 4-idrossiderivato, prevalentemente escreto come glucuronide o solfato, l’ureidoderivato e gli acidi rubazonico e metilrubazonico. Non è chiaro se questi due ultimi prodotti, a cui si deve la colorazione rossa che il farmaco può a volte im-

Aminofenazone

partire all’urina, siano metaboliti o artefatti. Nelle urine è presente per circa il 10% l’aminofenazone inalterato. Il metabolismo del metamizolo è stato meno studiato e appare largamente simile a quello del fenazone: si formano almeno 7 metaboliti di cui 4 sono stati identificati. Attraverso uno schema ossidativo diretto si generano gli stessi 4-metilamino e 4-amino derivati che si ottengono dall’ossidazione dall’aminofenazone; dal 4-amino derivato per acetilazione o formilazione prendono origine i due dei restanti prodotti identificati.

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CH3 H3C O

CH3

HO3S

CH3

N

N CH 3

N

O

Aminofenazone

N

N CH 3

Metamizolo

CH3

CH3

H3C CH3

HN

CH3

N

CH3 CH3

N

CH3

HN

O O

O-glucuronide

N

N CH 3

O

N

N CH 3

NH

CH3

O

N

N CH 3

Solfato

H3C

CH3

HO

CH3

H2N

CH3

H2N

O O

N

N CH 3

O

N

N CH 3

O

N

N CH 3

O

N

N CH 3

H2N CH3

NH O

CH3 O

N

N CH 3

CH3

H

N

O

N

N

O

O

Acido metilrubazonico

CH3

CH3 N

N

HN N

O

CH3

NH

N

H3C N

O

N

Acido rubazonico

O

N

N CH 3

7

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Scheda 27.5 ■ Fenilbutazone: sintesi e metabolismo Il fenilbutazone può essere preparato facendo reagire il butilmalonato dietilico con l’idrazobenzene. H3C O

O HN

+

NH

H3C

O O

O

CH3

N

N

CH3

O

Fenilbutazone

Il fenilbutazone viene metabolizzato a livello epatico e viene escreto per via renale in parte come C-glucuronide e in parte sotto forma di prodotti ossidrilati, anch’essi eliminati per via renale come tali o sotto forma di O-glu-

curonidi e di C-glucuronidi. Alcuni di questi metaboliti come l’ossifenbutazone, il chebuzone (chetoderivato) e il g-idrossifenilbutazone sono prodotti attivi; i primi due sono stati anche riprodotti per sintesi e usati in terapia.

H3C Glu O H3C

O

O

O

N

N

N

N

C-glucuronide H3 C O

Fenilbutazone

O

N

N O-glucuronide

OH

Ossifenbutazone

OH

H3C O

O

N

OH

N

H3C Glu O O

N

N

-Idrossifenilbutazone C-glucuronide

O H3C

OH O

H3C O

O

N

N O

N

N

Chebuzone OH

8

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Scheda 27.6 ■ M  etabolismo di pirossicam, melossicam e sudossicam Il pirossicam è metabolizzato per oltre il 90% a livello epatico, dove viene trasformato principalmente nel metabolita attivo ossidrilato alla posizione 5 del nucleo piridinico e nel relativo coniugato con acido glucuronico, ambedue eliminati in larga parte per via renale. Metaboliti secondari sono rappresentati da prodotti ossidrilati all’anello benzenico, anch’essi eliminati come glucuronidi, dal derivato carbossilico derivante dall’idrolisi del legame amidico che, in piccola parte, viene decarbossilato e trasformato in saccarina. Incubando il melossicam in frazioni microsomiali di fegato umano il principale metabolita che si forma per OH

O N H

N

S O

OH

N

S O

OH

O

N

CH3

O

azione del citocromo P450 è il prodotto di ossidrilazione del gruppo metilico al nucleo tiazolico che per successiva ossidazione genera il corrispondente acido. I prodotti derivanti dalla scissione del nucleo tiazolico hanno marginale rilevanza. Nel caso del sudossicam un importante schema metabolico comporta invece la formazione di un epossido al nucleo tiazolico, da cui si generano sia un derivato tiazolo-4,5-diidrodiolico (per apertura dell’epossido), sia derivati aciltioureidici (per apertura del nucleo tiazolico) che sono dotati di notevole epatotossicità.

O

N H

OH

OGlu

O N H

N N

S

CH3

O

N

CH3

O

Pirossicam OH HO S O OH

O

OH N H

N

N

GluO

CH3

O

O

N H

N

S O

O N

CH3

O

O OH

S

N

O

O

OH

O

N

S O

O

CH3 O N

OH

CH3 Citocromo S

N H

NH S O

P450

CH3

N

S O

O

OH

N

O

OH

S

N H CH3

S O

N O

S

N H CH3

Melossicam OH OH

S O

N

O

N O

N H

S

OH

Citocromo P450

CH3

S O

N

O

N O

O

N H

OH

N

O

S

CH3

N

S O

O

N H CH3

Sudossicam O

OH

O S O

N O

OH

HO

S O

NH2

O N H CH3

NH2

O

N O

S

N H CH3

S

OH S

OH

N

O

O

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Scheda 27.7 ■ Chetoprofene: sintesi e metabolismo Il chetoprofene può essere preparato partendo dall’acido 2-(4-mercaptofenil)propionico, che viene trattato con l’acido o-iodobenzoico per dare un intermedio che cicliz-

za nelle condizioni di Friedel e Crafts a derivato tioxantonico; quest’ultimo, per riduzione con Ni-Raney, genera il prodotto voluto.

CH3

O

OH

OH

+ O

HS

I

CH3 COOH

O OH

CH3

AlCl3

O

S

O OH

OH

Ni Raney H2

O

S

CH3

O Chetoprofene

Il chetoprofene viene principalmente metabolizzato nel fegato a metaboliti inattivi che vengono eliminati con le urine e in piccola quantità con le feci. Il metabolita principale è il coniugato con l’acido glucuronico; una piccola

frazione del farmaco viene ossidrilata al residuo benzoilico e in catena laterale per essere escreta sotto forma di glucuronidi.

OH

COOH CH3

O HO COOH O

COOH

CH3

O

CH3

Chetoprofene OH

O-acilglucuronide

O

COOH CH3

O-acilglucuronidi O-glucuronidi

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Scheda 27.8 ■ Naprossene: sintesi e metabolismo Il racemo del naprossene si può preparare dal 6-metossi2-naftil metilchetone; sotto le condizioni della reazione di Willgerodt-Kindler questo prodotto viene trasforma-

to nel corrispondente acido, il quale dopo esterificazione, metilazione e saponificazione genera il prodotto finale. O

O HN

CH3

N

O

H3C

S

H3C

S

O

O

CH3COOH, H2SO4

O CH2CH3

OH

CH3CH2OH, H2SO4

H3C

O

O

H3C

O

O

CH3I, NaH

CH3

CH3 OCH2CH3 H3C

H3C

O

O

OH

CH3CH2OH, NaOH

O

O Naprossene

Lo streoisomero (S)-(+) del naprossene può essere direttamente preparato per idrogenazione stereoselettiva del corrispondente acido propenoico in presenza di (S)-(−)-

2,2’-p-tolil-fosfino)-1,1’-binaftile complessato con il diacetato di rutenio (Ru(OCOCH3)2 [(S)-Tol-BINAP]) (sintesi di Noyori). CH3

CH2

OH

OH Ru(OCOCH3)2[(S)-toIBINAP]

O

O

S

CH3

CH3

Il metabolismo del naprossene nell’uomo è relativamente semplice. Dopo somministrazione orale, nelle urine si ritrova un solo metabolita di fase I, il desmetilderivato, CH3

O

O

H2, MeOH

(S)-(+) Naprossene

accanto a una piccola percentuale di farmaco inalterato. Sono inoltre presenti metaboliti di fase II, cioè coniugati vari sia del naprossene sia del suo derivato desmetilato. O-acilglucuronide

OH CH3 H3C

O

O

Gly

Naprossene

H3C

O

O Gly = glicina

CH3 OH HO

O

O-acilglucuronide O-glucuronide Solfato

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Scheda 27.9 ■ Conformazione dell’indometacina al sito attivo della COX-2 Nella conformazione assunta dall’indometacina al sito attivo della COX-2 il raggruppamento p-clorofenilico è orientato verso il gruppo metossilico in 5 all’anello indolico e quindi in direzione opposta al metile in posizione 2. Il legame idrogeno che si forma tra l’Arg120 protona-

ta e il gruppo carbossilato dell’indometacina, rinforzato dall’interazione coulombiana di due cariche opposte (ponte salino), dà un importante contributo alla stabilizzazione del complesso.

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Scheda 27.10 ■ Sintesi del sulindac Il sulindac può essere ottenuto partendo dal p-fluorobenzilcloruro, che viene trattato con l’estere dietilico dell’acido metilmalonico in presenza di etilato sodico; l’estere che così si forma viene trasformato, a seguito di idrolisi acida e decarbossilazione, in acido 2-p-fluorobenzilpropionico, il quale per azione dell’acido polifosforico (PPA) ciclizza a derivato indanonico. Quest’ultimo, per

reazione con bromoacetato di etile e amalgama di zinco (reazione di Reformatsky), dà un carbinolo terziario che per disidratazione si trasforma in derivato indenico. La condensazione di questo intermedio con p-metiltiobenzaldeide seguita da idrolisi e ossidazione con periodato di sodio produce il solfossido finale.

CH3 O

F + Cl

CH3

O

C2H5ONa

O

H3C

F

O

CH3

O

O CH3 O

CH3

O H+ CO2

CH3

F

PPA

CH3

F

OH O O

BrCH2COOCH2CH3 Zn(Hg)

F

CH3

CH3

CH3

O

O

OH

O

F

O

H

S

O CH3

O

O

F CH3

CH3

CH3

H2O

H

H3C

S Idrolisi

OH

OH

O

F

O

F

CH3 H

H3C

NaIO4

H

H3C

S O

CH3

Sulindac

S

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Scheda 27.11 ■ Diclofenac: sintesi e metabolismo Il diclofenac può essere preparato dalla N-fenil-2,6-dicloroanilina e cloruro di ossalile; i due reagenti nelle condizioni proprie della reazione di Friedel e Crafts danno origine a un intermedio che ciclizza a derivato isatinico.

(COCl)2

NH Cl

Cl

Quest’ultimo, dopo riduzione con idrazina e trattamento con agenti alcalini a caldo (reazione di Wolff-Kishner), genera un derivato ossoindolico che per idrolisi si trasforma nel prodotto finale.

O

Cl

N

O

Cl

O AlCl3

N Cl

Cl

H2 O

O

O

N2

OH

H2 O

NH Cl

Diclofenac

Cl

Cl

1. NH2-NH2 2. OH- a caldo

N Cl

O Cl

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Il diclofenac viene metabolizzato principalmente nel fegato per N-solfoconiugazione e per ossidrilazione sia della sottostruttura diclorofenilica sia della sottostruttura fenilacetica. Il derivato 4-idrossi sostituito all’anello diclorofenilico è il metabolita principale e presenta una discreta attività. Incubando questo derivato e l’analogo metabolita 5-idrossi sostituito all’anello fenilacetico con O

microsomi di fegato umano in presenza di NADPH e glutatione (GSH) si sono identificati 3 addotti che derivano dalla probabile formazione di 2 intermedi benzochinoniminici (1) e (2) altamente reattivi. A questi intermedi sarebbero da attribuire gli occasionali ma gravi episodi di epatotossicità che si manifestano con l’uso del farmaco.

O

OH

SO3H

N Cl

OH

NH O

Cl

OH

Cl

Cl OH

NH O

Cl

OH

Cl

O

O

OH

OH

HO

HO Diclofenac Cl

NH

NH

NH Cl

Cl

Cl

Cl

Cl

OH

OH Frazioni microsomiali di fegato umano arricchite con GSH

Frazioni microsomiali di fegato umano arricchite con GSH

GS

O

OH

HO O

O

OH

O

OH

OH

NH Cl

O

Cl

N

NH

N Cl

Cl

Cl

Cl

Cl

SG O 1

OH

Cl

O

OH

HO 2 NH

GS Cl

Cl

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Scheda 27.12 ■ Sintesi e metabolismo della nimesulide La nimesulide si prepara facilmente partendo dalla o-cloroanilina che viene trattata con fenato di sodio per dare l’1-nitro-2-fenossibenzene; quest’ultimo dopo riduzione NO2 Cl

al corrispondente derivato anilinico viene trattato con anidride metansolfonica e quindi nitrato. NO2

O

C6H5OH NaOH

NH2 O

H2 Pd/C

(CH3SO2)2O

O HN

S

O

O

CH3 O

HN HNO3 CH3COOH glaciale

O

S

CH3 O

NO2 Nimesulide

Dall’analisi di plasma, urine e feci sono stati identificati 16 metaboliti derivanti da: (a) scissione del legame etere, (b) riduzione del gruppo NO2 a NH2, (c) ossidrilazione del gruppo fenossi seguita da reazioni di coniugazione. I 2 principali metaboliti sono (1), che si ritrova nel plasma e nelle urine e (4), presente nelle urine e nelle feci. Entrambi i metaboliti nelle urine sono prevalentemente nella forma coniugata. È stato ipotizzato che, a seguito dell’ossidazione catalizzata dal citocromo P450, i due

metaboliti 4-amino sostituiti (2) e (3) formino intermedi chinondiiminici altamente reattivi che sarebbero responsabili, come nel caso del diclofenac, del paracetamolo e del lumiracoxib, degli episodi di epatotossicità riscontrati con questo farmaco. Questa ipotesi è supportata dal fatto che incubando (2) e (3) con isoforme umane del citocromo P450 in presenza di glutatione (GSH) sono stati osservati i corrispondenti addotti.

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O

CH3

S

HN

O

O O-glucuronide

SG

R NH2

R = H, OH Solfato O HN

O-glucuronide

O

CH3

S

O

O

HO

GSH

HN

S

CH3

O

R

NO2

O

O

O

R = H, OH

CH3

S

N

NH

OH O HN

HN

O

O

Nimesulide

O

CH3

S

S

2

HO

O HN

O HN

S

O

CH3

O

S

1

3

NH2

O

CH3

HN

O O

S

CH3 O

O HO NHCOCH3

HO

O

O

NH2

CH3

S

HN

O

O

NO2

O

CH3

4

NHCOCH3

NO2 Solfato

O

Solfato

HN

O-glucuronide

S

O

CH3 O

Solfato

OH

HO

O-glucuronide NO2

O-glucuronide

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Scheda 27.13 ■ Celecoxib: sintesi e metabolismo Il celecoxib viene preparato per trattamento del 4-metilacetofenone con trifluoroacetato di etile in presenza di etossido di sodio. Il prodotto di condensazione così otte-

nuto viene scaldato a riflusso in etanolo in presenza di 4-idrazinofenilsolfonamide per dare il composto voluto.

O H3C

O

+

F F

F

O

O

F

C2H5ONa

F

F

O H3C CH3

NH2 O S O

H3C

C2H5OH, riflusso HN NH2

O

NH2

S

O

CH3

N N

F

F

F

Celecoxib

Il farmaco viene largamente metabolizzato e solo il 2,5% viene escreto inalterato con le feci e con l’urina. I principali metaboliti derivano da un processo ossidativo che coinvolge l’ossidrilazione del gruppo metilico seguita da O O

S

O

NH2

CH3

HO

NH2

F

Celecoxib

F

S

HO

NH2

O

O-acilglucuronide

N

N

F

O O

N

N N F

O

S

un’ulteriore ossidazione ad acido carbossilico. Quest’ultimo metabolita, che è il prodotto principale del processo ossidativo, viene eliminato in parte come glucuronide.

N

F

F

F

F

F

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ISBN 978-88-08-18712-3

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Scheda 27.14 ■ Valdecoxib e parecoxib: sintesi e metabolismo La sintesi del valdecoxib si realizza in modo diretto, trattando il fenil benzil chetone (desossibenzoino) con cloridrato di idrossilamina in presenza di acetato di sodio. L’ossima che così si ottiene viene deprotonata con 2 equivalenti di n-butillitio e quindi condensata con acetato di etile per dare un derivato isoossazolinico. Quest’ultimo,

fatto reagire con acido clorosolfonico e poi con idrossido d’ammonio, produce il composto voluto. Il parecoxib si ottiene per trattamento del valdecoxib con anidride propionica in presenza di trietilamina e successiva salificazione con idrossido di sodio. OH N

O

1. C4H9 Li 2. CH 3COOC2H5

NH2OH.HCl, CH 3COONa, aq. C2H5OH

N

OH O

CH3

1. ClSO3H 2. NH4OH

O

O S

O

N Na+

O

CH3

NH2 S

1. (CH3CH2CO)2O, (C2H5 )3N 2. NaOH

N

O

N

CH 3 Parecoxib

O

Valdecoxib

CH3

O

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Il parecoxib è rapidamente idrolizzato nel torrente circolatorio a valdecoxib (t1/2