280 41 345KB
Italian Pages 48 [43] Year 2016
Una domanda attraversa queste pagi ne: è legittimo il disinteresse di molti scienziati verso la filosofia, quando i concetti fondamentali della scienza hanQO per lo più una genesi filosofi ca? E il caso delle categorie cervello, mente, anima, pensiero. Categorie che, nella loro stessa origine, sono at traversate da tensioni che si eviden ziano, ad esempio, nelle riflessioni delle neuroscienze. Tensioni che un approccio riduzionista a questi con cetti - oggi divenuto senso comu ne - sembra occultare.
EMANUELE SEVERINO, fra i maggiori fi losofi contemporanei, insegna Filosofia teoretica all'Università San Raffaele di Milano. Per Morcelliana ha pubblicato: Democrazia,
tecnica,
capitalismo (201 02);
Istituzioni di filosofia (201 O); Piazza della Loggia. Una strage politica (2015) e ha cura
to, con Vincenzo Vitiello, Inquieto pensare. Scritti in onore di Massimo Cacciari (2015).
ISBN 978-88-372-2951-1
€
7,00
Il Il � 1 1 1111
9 788837 229511
z
Piccoli Fuochi 3
a cura di Ilario Bertoletti
Emanuele Severino
CERVELLO, MENTE, ANIMA
MORCELLIANA
© 2016 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia
Prima edizione: maggio 2016
www .morcelliana.com
l diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere ef fettuale nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIA E del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dell'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS, SLSI e l"NA, l"ONFARTIGIANATO, CASARTIGIANI, CLAAI e LEGACOOP
il 17 novembre 2005. Le riproduzioni ad uso ditTerenle da quello personale
potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autori1zazione rilasciata da Al DRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, telefax 02.809506, e-mail aidro�iol.it
ISBN 978-88-3 72-2951-1 Litos s.r.l. - Via Pasture, 3 - 25040 Gianico (BS)
PREMESSA
Davanti alla filosofia molti scienziati al zano le spalle. Dato il modo in cui essa, per lo più, è a loro presente, hanno ragione. So prattutto se essa non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza o ha la pretesa di insegnarle che cosa debba fare. Ma i concetti fondamentali della scienza hanno per lo più una genesi filosofica. È il caso dei concetti richiamati in queste pagine- cervel lo, mente, anima, pensiero - che tanta parte hanno nelle riflessioni delle neuroscienze. Pagine che ricostruiscono a grandi tratti l'o rigine di questi concetti e le tensioni e con traddizioni che li attraversano, mostrando insieme l'inadeguatezza del riduzionismo in cui viene occultato il loro peso filosofico.
5
Cervello, mente, anima
l
IL CERVELLO, LA MENTE
Sono esistiti ed esistono scienziati con interessi, competenze e attitudini filosofi che rilevanti. D'altra parte non pochi scien ziati dicono che in genere i filosofi non co noscono la scienza e che questa loro ignoranza rende inconsistente e superfluo il loro lavoro. E questi scienziati hanno spes so ragione. Ma, per quanto la domanda pos sa sembrare inutile, che significato ha l'e spressione "conoscere la scienza"? Vi sono soprattutto due modi di rispondere. Fermo restando che ormai nemmeno gli scienziati possono riconoscere l'intero contenuto del le proprie discipline, conoscere la scienza questo, il primo modo di rispondere - signi fica conoscere per lo meno i metodi secondo i quali essa procede, i principali risultati ai quali è pervenuta, la sua genesi, i suoi rap9
porti con le altre forme di sapere e con la società, i problemi che sorgono dai rapporti tra le singole discipline scientifiche e all'in temo della stessa disciplina. Se è in questo modo che i filosofi non conoscono la scien za, allora è come se essi non conoscessero l'esistenza del cielo, delle stelle, degli ani mali, delle piante. Non solo non sono filo sofi, ma nemmeno uomini. Ma si può ri spondere anche (ed è la risposta che molto spesso gli scienziati si danno) dicendo che oramai la filosofia deve porre alla propria base il sapere scientifico. Questa volta sono gli scienziati a mostrarsi ingenui. Perché questa loro risposta non esprime una pro spettiva scientifica, ma filosofica, e inge nuamente filosofica. Quale disciplina scien tifica, infatti, contiene la strumentazione concettuale che le consenta di affermare che la filosofia deve porre alla propria base la scienza? Nessuna. Anzi, accade qui che sia proprio la scienza a porre alla propria base una cattiva filosofia (oggi peraltro adottata lO
da molti filosofi). Sin dal suo inizio, invece, la filosofia intende essere la forma assoluta mente radicale del sapere. E per mostrare in che cosa consista il sapere radicalmente in controvertibile si porta alle spalle di ogni altro sapere (mitico, artistico, economico, politico, tecnico, scientifico) e quindi esclu de di porlo alla propria base. Inconsistente e superflua, dunque, è la filosofia che si fonda sulla scienza - giacché se, così fondandosi, è inconsistente e superflua, allora non è filo sofia, ma scienza. Uno degli aspetti più im portanti di quel «portarsi alle spalle» di ogni altro sapere riguarda l'esperienza umana del mondo. Non esisterebbe infatti alcun sape re, quindi nemmeno quello scientifico, se il mondo non fosse manifesto, cioè non si mo strasse, non apparisse: non se ne facesse, appunto, esperienza. Certo, la scienza è una continua critica dell'esperienza. Afferma ad esempio che il sole non si muove, come sembra. Ma è necessario che questo sem brare appaia, perché la scienza possa afferll
mare che è illusorio. La scienza però non si interessa di quel fondo che è appunto l'e sperienza da cui la scienza pur parte. Su di esso la scienza fa luce con le proprie lampa de, tendendo però a dimenticare che sono sempre costruite con materiali che da quel fondo sono tratti. A quel fondo la filosofia si è invece sempre rivolta: per stabilire se, al di là delle apparenze che esso contiene, esso non custodisca in sè anche un nucleo inne gabile, incontrovertibile, che stia al fonda mento di ogni sapere e di ogni agire. (E qui non dirò nulla sull'esito di questo tentativo, che sin dali 'inizio concepisce la manifesta zione del mondo come manifestazione della sua caducità.) La filosofia «si porta alle spalle» di ogni sapere e agire dell'uomo an che in uno dei campi oggi più frequentati nel campo della neurofisiologia e dell'intel ligenza artificiale: quello del rapporto tra mente e cervello. Carl Sagan, uno dei mag giori astrofisici e astrobiologi del xx secolo (e tra i più importanti consulenti e collabo12
ratori della Nasa), scriveva nel suo libro I draghi dell'Eden: «La mia premessa fonda mentale riguardo al cervello è che le sue at tività - ciò che talora chiamiamo "mente" - sono una conseguenza della sua anatomia e della sua fisiologia e nulla più». Tesi sot toscritta da una nutrita schiera di scienziati à la Francis Crick o à la Richard Dawkins, ma antichissima (risale alla filosofia greca). Si ricorda che neli 'Ottocento era già soste nuta da Emil Du Bois-Reymond, ma si ignora che Giacomo Leopardi aveva scritto: «Che la materia pensi è un fatto», chiarendo il significato di questo asserto in modo da far invidia a scienziati e filosofi. Ma la «pre messa fondamentale riguardo al cervello» di Sagan può essere avanzata dopo aver fat to molta strada. Infatti, come si fa a sapere che esistono cervelli e quelle «attività» «che talora chiamiamo "mente"»? E che quindi esistono corpi in cui i cervelli si trovano e lo spazio dove tali corpi vivono e stanno in rapporto con altre cose? Non si può rispon13
dere che così: si sa che tutto questo esiste, perché appartiene al mondo che si mostra, si manifesta, appare, al mondo che sperimen tiamo: all'esperienza. A questo punto va detto che, per un insieme di motivi che qui non possono esser richiamati, si è prodotto, non solo negli scienziati, una sorta di obnu bilamento, per il quale non ci si rende conto che l'esperienza è la forma originaria della mente ed è soltanto sulla base di questa for ma che ci si può mettere in cammino per conoscere e agire e dunque per cercare e trovare l'origine della «mente». Chi pensa come Sagan è come se, in pieno giorno, alla luce del sole, tenesse in mano una lampada accesa e, convinto che l'unica luce sia il chiarore diffuso dalla lampada, sostenesse che esso è «conseguenza» dell'«anatomia» e della «fisiologia» della mano che regge la lampada, «e nulla più». La «mente» di cui si occupa la scienza non è cioè l'esperienza, che include tutto ciò a cui il sapere e l'agire umano possono rivolgersi, ma è soltanto 14
una parte dell'esperienza, ossia della mente originaria che sta alle spalle di ogni ricerca scientifica. E parlando della «scienza» mi riferisco sia agli scienziati «riduzionisti», per i quali la mente non è altro che l'attività del cervello (così come la digestione non è altro che l'attività dello stomaco), sia agli scienziati che invece intendono difendere l'autonomia (o addirittura la «spiritualità») della mente rispetto al cervello e alla mate ria. Non solo: mi riferisco, oltre che a molte posizioni filosofiche del passato, anche a quella filosofia che ormai si è lasciata con vincere della necessità di avere alla propria base il sapere scientifico. Certo, la parola «esperienza» può essere intesa in modi del tutto inadeguati rispetto a quanto stiamo di cendo. Qui importa ribadire che al fondo della conoscenza e dell'agire non sta sem plicemente il mondo, ma la manifestazione del mondo, il suo esser noto; ed è innanzi tutto a questa manifestazione e notizia che spetta di esser qualificata come «mente». La 15
quale, peraltro, in qualche modo contiene tutti gli spazi e tutti i tempi, altrimenti come potrebbe la scienza parlare deli 'infinita mente piccolo e deli 'infinitamente grande e degli infiniti universi e del big bang e degli stati che avrebbero potuto precederlo? Que sta mente è la luce che illumina uno spetta colo immenso, ma alla quale gli uomini non volgono quasi mai lo sguardo, e quando si rivolgono alla propria mente considerano soltanto la dimensione «psichica», che è soltanto una parte dello spettacolo che in quella luce si mostra. Considerando tale li mitata dimensione, lo scienziato «riduzioni sta» si serve del «principio di causalità»: il cervello è la «causa» e la «mente» è l'«ef fetto». Il neodarwinismo, che intende la «mente» come effetto di una evoluzione estremamente complessa, ha ridato vigore ali 'uso di quel principio. Ma la meccanica quantistica - si pensi al «principio di inde terminazione» di Heisenberg, in qualche modo anticipato dalla critica di Hume al 16
preteso valore assoluto del «princtpto di causalità» - mostra che nessuna legge scien tifica, quindi nemmeno il «principio di cau salità», può avere un valore assoluto: ha un carattere statistico-probabilistico, ossia è una regolarità empirica che si ha avuto modo di constatare, ma che è sempre smen tibile. Che a certe funzioni cerebrali corri spondano certi eventi psichici è pertanto una regolarità empirica che non autorizza ad affermare che il cervello sia la causa del la mente. Per di più, in questo suo conferire valore assoluto al «principio di causalità», lo scienziato riduzionista smentisce la pro pria vocazione (o filosofia) di fondo, che consiste nella volontà di eliminare ogni illu sione di sopravvivenza dell'uomo: il corpo umano e il cervello- sostiene - sono desti nati alla corruzione e alla morte, e quindi anche alla mente, che non è altro che l'atti vità del cervello. Tuttavia per lo scienziato riduzionista il «principio di causalità» pre senta un valore assoluto, è cioè una verità 17
eterna e non qualcosa di corruttibile e di mortale. Ma allora come può accadere che il corruttibile e mortale cervello dell'uomo sia legato alla mente da un vincolo incorruttibi le e immortale? Le considerazioni qui sopra svolte non intendono sostenere che la ragio ne stia dalla parte degli antiriduzionisti. Qui non si tratta di stabilire chi abbia «ragione», ma chi ha maggiore capacità di trasformare la mente e il comportamento dell'uomo conformemente a certi progetti.
18
Il
"ANIMA" E RIDUZIONISMO
«L'anima è in certo modo gli enti»: He psyché ta onta pos estin. Questo afferma Aristotele nel De anima, VIII, 23 1 b, 2 1. «Gli enti» (ta onta) non significa «una certa parte degli enti, ma non le altre parti». Significa: «tutti gli enti»: panta ta onta. L'anima è «in certo modm> (pos) la totalità degli enti. L'e spressione «In certo modo» dalla tradizio ne aristotelico-scolastica a Brentano e alla fenomenologia è intesa come già Aristotele sostanzialmente la intende: l'anima «è» gli enti, ma non nel senso che essa sia simplici ter («fisicamente» dicono gli scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel senso che essa è la loro rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si inter preta: l'anima è «intenzionalmente» tutti gli 19
enti; è il riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l'apparire, il manifestarsi degli enti. E il pensiero greco chiama phainesthai tale apparire. D'altra parte, la totalità de gli enti non appare tutta insieme, compiu tamente, e quindi Aristotele non intende affermare che l'anima sia onnisciente, ma che essa è tutti gli enti che vanno via via manifestandosi, cioè di cui essa è la mani festazione; e insieme: che essa è sì la mani festazione della totalità degli enti, ma che la totalità si manifesta come processo, svi luppo, «generazione» degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della totalità degli enti (via via manifestantisi) l'anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non significa che l'anima non possa apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull'anima rimane implicito; ma la stessa affermazione che l'anima è in certo modo gli enti è proprio l'apparire di questa forma di identità dell'anima e della 20
totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l'apparire in cui l'anima ha come contenuto se stessa. Ma, si sta dicendo, ha come contenuto se stessa non come uno tra gli enti particolari che appaiono, ma come l'apparire della loro totalità. L'apparire de gli enti è il fondamento di ogni ricerca, pro blema, conoscenza, scienza, opinione, fede, e di ogni progetto, deliberazione, decisione, azione: è il fondamento di ogni aspetto della vita dell'uomo: anche di quelle convinzio ni e indagini che si rivolgono all'«anima» («coscienza», «mente», «spirito»), intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero aristote lico), religione, scienza, arte hanno imboc cato questa strada, dove l'anima è uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per millenni - e, dopo la parentesi idealisti ca, tuttora - quelle forme culturali (guidate da un sapere filosofico, che a sua volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano 21
in se stessi, cioè indipendentemente dal loro apparire e dunque dali 'anima in quanto sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa creden za possono farsi innanzi teorie come quel la evoluzionistica, che concepisce i fatti mentali come risultato di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quel la in cui consiste la «psichiatria», dove la psiche, intesa come oggetto di una iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al mondo intero. In questo modo, si perde però di vista che queste e ogni altra teoria che considerano l'anima come parte - e innanzitutto quella credenza deli' indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano - debbono peraltro da ultimo fondare ogni loro pretesa di verità proprio suli 'apparire degli enti, cioè su quell'«anima» che lun go la storia del pensiero occidentale è so22
pravvissuta ed è stata pensata come phaine stai, cogito, «lo penso», «Spirito come atto puro», «esperienza» (in quanto esperienza della totalità degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di espe rienza, si osservi che il «metodo sperimen tale» è, per la scienza stessa, l'indagine che pone a proprio fondamento l'esperienza; sennonché dell'esperienza in quanto tale la scienza non si interessa: volta le spalle al senso fondamentale dell'«anima» per dedi care ogni sua attenzione all'«anima» come ente particolare. E se oggi si rivendica il ca rattere linguistico dell'esperienza, va detto che anche con questo carattere l'esperien za è il fondamento di ogni attività teorica e pratica dell'uomo. Ma anche Aristotele, oltre a intendere l'anima come apparire della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per Aristotele l'iden tità del conoscente in atto e del conosciuto 23
in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo che conduce a questo risultato è, da un lato, la «capacità» dell'anima di conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»), dali'altro lato è la «capacità» degli enti di essere conosciuti (ossia il loro esser conosciuti «in potenza»). Queste due capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L'identità di conoscente e conosciuto si produce quando i due sono in atto ed essa è appunto il risultato del pro cesso che conduce dalla potenza ali'atto. Ma quando l'anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di «intelletto passivo») e differisce dal conosciuto in po tenza - ossia dagli enti che hanno la capa cità di apparire-, l'anima è una parte della totalità degli enti. L'anima diventa parte anche quando l'apparire della totalità degli enti è inteso come atto di un «io» («persona», «sog getto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il «pensare» è innanzitut24
to quell'apparire. Anche qui, e nonostante tutti i dubbi che si nutrono in proposito, è la filosofia greca, e dunque lo stesso Ari stotele, ad aprire questa prospettiva. Si ri tiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un «io», una «per sona», un «soggetto». (Variante di questa convinzione è la tesi, oggi centrale soprat tutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) «E manifesto che è quest'uomo singolo a pensare»- manifestum est quod hic homo singularis intelligit, si afferma nel De uni fate intellectus contra averroistas di san Tommaso. Quest'uomo singolo è l'io. Che quest'uomo singolo sia il pensante (Tomma so) e che il cogitare sia il cogitare di un ego (Cartesio) appartengono alla stessa prospet tiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo filosofica - peraltro con notevoli eccezioni (ad esempio Nietzsche, Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l'io, la per'
25
sona, il soggetto (ma anche il corpo, la ma teria, il cervello) sono parti della totalità che appare. L'intelligere di «quest'uomo singolo» è il campo di ciò che è manifestum e «quest'uomo singolo» è una parte di que sto campo- ossia dell'apparire della totalità degli enti. A questo punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a un'indicaz10ne sommana. Se in quella prospettiva «io penso» si gnifica «io sono produttore del pensiero», il pensiero non è d'altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all'io. L'io ha noti zia del pensiero da lui prodotto. Ma l'aver notizia è l'apparire. E a sua volta il «pensiero» è innanzitutto l'apparire degli enti. L'«io penso» viene infatti quasi sempre unito (in modo più o meno espli cito) a «gli enti appaiono a me»: io, che penso, sono appunto l'io a cui appaiono gli enti. L' «a cui» è la notizia che l'io ha di essi. Dire quindi che gli enti appaiono a .
26
.
me significa dire che l'apparire degli enti appare a me appunto perché «a me» non può non significare, in questa prospettiva, «apparire a me»; sì che dire che l'appari re degli enti appare a me significa dire che l'apparire degli enti appare all'apparire a me et sic in indefinitum. In altri termini, che gli enti appaiano «a me» non significa, in quella prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè a un ap parire; e se si intende tener fermo che l'appanre e sempre un appanre «a un IO», «a una coscienza», allora l'apparire «a me» è l'apparire all'apparire a me, dove l' «a me» determina un progressus in indefinitum. Con la conseguenza che, se ciò a cui ap paiono gli enti viene indefinitamente spo stato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l'apparire possa essere solo un apparire a qualcuno è costretto a concludere che non appare alcun ente. E questa è la contraddizione della pro-
. . .
.
'
.
.
27
spettiva per la quale «io penso» e «gli enti appaiono a me». Nella variante riduzionistica di tale pro spettiva, «il cervello pensa» (o «il corpo pensa»). Ma in questa variante non si inten de sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono- è il loro apparire «al cervel lo», e quindi in tale variante non è presente la contraddizione che invece compete alla prospettiva di cui il riduzionismo è, appun to, una variante. Al riduzionismo compete un'altra con traddizione, che ho considerato in altre oc casioni e che è cioè l' analogon del riduzio nismo teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè l'analogon mondano della riduzione teologica del mondo a Dio. Infatti, se il mondo è totalmente riducibile a Dio, non c'è mondo; e se la mente è total mente riducibile al cervello, non c'è men te. In entrambi i casi, se la riduzione non è totale c'è un residuo irriducibile. Ma se la riduzione è totale, essa nega ciò che essa .
28
stessa afferma: nega quella mente e quel mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamen te, al cervello e a Dio.
29
III
PENSIERO, SCIENZA, VOLONT À DI POTENZA
In una lettera inviata a Max Born alla fine del 1926, Albert Einstein scrive: «Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà di mostrare che ho sbagliato». Da dieci anni aveva incominciato a render nota la teoria della relatività generale, in cui viene dedotta l'esistenza delle «onde gravitazionali», ora finalmente osservate da un laser di altissima tecnologia. L' «osservazione» è un «esperi mento». In esso viene constatato un «fat to», ossia una certo evento - ad esempio un punto luminoso (interpretato come «stella») che in un telescopio opportunamente predi sposto coincide con una lineetta nera del re ticolato. Ma, dice Einstein, «nessuna quan tità di esperimenti potrà dimostrare che ho 31
ragione» - e che quindi egli aveva ragione nel prevedere, ad esempio, l'esistenza delle «onde gravitazionali». Si può dire che in so stanza l'affermazione di Einstein si muova nell'ambito del concetto aristotelico di «in duzione» (epagoghé): si può osservare per un numero di volte alto quanto si vuole che le cose di una certa specie hanno una certa proprietà ma da queste osservazioni non si può concludere che tutte le cose di quella specie abbiano questa proprietà e che quindi mostreranno, nelle osservazioni successive, di avere tale proprietà. Non si può infatti escludere che, dopo un gran numero di con ferme, il laser che ha consentito di speri mentare le «onde gravitazionali» non abbia più a mostrame l'esistenza. E improbabile quanto si vuole ma non impossibile. Queste considerazioni non scalfiscono minimamente l'enorme importanza del la sperimentazione di quelle onde. Anche perché la seconda parte dell'affermazione di Einstein - «un unico esperimento potrà '
32
dimostrare che ho sbagliato» - non è così fuori discussione come può sembrare (so prattutto dopo gli sviluppi che essa ha avuto nell'epistemologia di Karl Popper). Infatti, se è possibile che il laser di cui si sta par lando, abbia a mostrare l'opposto di quel che ha mostrato, è anche possibile che in seguito tomi a mostrare quel che in primo tempo ha mostrato. Se per «aver ragione» intorno a una tesi si intende che nessun esperimento potrà far osservare qualcosa di opposto a essa, allora, certamente, un unico esperimento può mostrare che questa tesi è sbagliata. Ma che dire di un laser che nel la maggior parte dei casi abbia a mostrare l'esistenza delle onde gravitazionali e solo in uno o in pochi altri casi non abbia a mo strarla? Che dire di un motore che una volta o poche volte non ha funzionato ma che per lo più funziona bene? Lo si butterà via? La scienza ha imparato a non buttar via le cono scenze che funzionano come questo motore. Anzi, quando riesce a guardare se stessa, si 33
rende conto che nessuno dei suoi principi «ha ragione» nel senso qui sopra indicato: nessuno è universalmente valido e defini tivamente vero. L'estrema potenza che la scienza e la tecnica sanno oggi produrre è proprio dovuta al rifiuto di conoscenze che abbiano la pretesa di essere universali e de finitive. La potenza si è tolta la maschera della verità ed è diventata il valore supremo. Il valere non è forse l'avere potenza? E i supremi principi della tradizione filo sofico-scientifica? Ad esempio il «principio di non contraddizione»? Per essa non può venire smentito dai «fatti». Tale principio afferma: è impossibile che, nel medesimo tempo, una cosa abbia e non abbia una cer ta proprietà. La tradizione ha creduto che come non può essere smentito dai «fatti», così non è affermato in base alla loro osser vazione. Che un segmento di retta- crede la tradizione - non possa essere nel medesimo tempo maggiore e minore di un altro seg mento non lo si afferma perché finora non 34
abbiamo osservato segmenti di retta che nello stesso tempo siano maggiori e minori di altri; ed è impossibile che lo si osservi in futuro. Certo, queste sono le intenzioni della tradizione. Negli ultimi due secoli è emer sa la tendenza a ritenere che quel principio non è una verità assoluta e definitiva ma ha un valore pratico (si pensi a Nietzsche o a Lukasiewicz). Se si vuol esser potenti, biso gna che, quando lo si è, non si sia contem poraneamente impotenti. E d'altra parte, se la contraddizione (per esempio il mentire) rende potenti, perché non contraddirsi? Ma la questione è estremamente complessa, e non può essere qui districata. Limitiamoci ad alcune osservazioni. I due contributi fondamentali della fisi ca contemporanea - teoria della relatività e fisica quantistica - mostrano, almeno si nora, di essere tra loro in contraddizione. Ma nessun fisico rinuncerebbe per questo a servirsi di entrambi. E se Kurt Godei ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo del 35
sapere matematico abbia a implicare del le contraddizioni, qualora ciò avvenisse i matematici non volterebbero le spalle alla matematica esistente. L'esperimento che ha fatto osservare l'esistenza delle onde gra vitazionali è stato salutato con legittima soddisfazione perché non smentisce la teo ria della relatività. Ma che cosa significa non smentirla? Significa che non l'ha con traddetta. Se l'avesse contraddetta, i fisici avrebbero incominciato a dubitare della sua validità ma non smetterebbero di praticarla. In questo modo la fisica mostra la volontà di non contraddirsi. La quale è insieme vo lontà che la realtà non sia contraddittoria: volontà, pertanto, che i «fatti» che smen tiscono il contenuto di una teoria e que sto contenuto non abbiano a coesistere. Si mette da parte, si pensa, il mito della verità assoluta e definitiva del «principio di non contraddizione»; ma è «meglio» - «oppor tuno», «conveniente», «utile», «fortifican te»- evitare la contraddizione. 36
Che nelle opere e nelle conoscenze sia «meglio», in molti casi, non contraddirsi è un precetto ampiamente seguito. D'altra parte i grandi principi della cultura occi dentale, come appunto il «principio di non contraddizione», si presentano come dog mi, miti che non riescono a mostrare la loro innegabilità. C'è oggi una certa propen sione ai «fatti», all'«esperienza», piuttosto che ai «princìpi»; perfino in campo mate matico. Tra la previsione teorica delle onde gravitazionali, operata dalla logica e dalla matematica della teoria della relatività, e l'esperimento che ha fatto osservare la loro esistenza, è questo secondo, tendenzialmen te, ad avere l'ultima parola. Una tendenza diffusa, ovunque si tratti di confrontare le teorie ai «fatti» - e, questo, anche se è a sua volta diffusa la convinzione che i «fatti» non siano puri fatti ma «carichi di teoria» (come si sostiene, sia pure in modi diversi, in un certo settore della filosofia del nostro tempo e nella fisica quantistica). 37
Presente, questa tendenza, anche negli ambiti apparentemente più distanti dalle questioni qui considerate. Ad esempio in ambito giuridico. In sede giudiziaria, la de duzione logica dell'esistenza di un «fatto» (la deduzione che propone una «teoria») non ha la stessa forza di convinzione di una te stimonianza affidabile. Il testimone è infatti colui che sperimenta un fatto. Se i giudici decidono che la sua testimonianza sia affi dabile, essa è da loro ritenuta più affidabile della teoria consistente nella deduzione lo gica che conduce all'affermazione o alla ne gazione dell'esistenza di quel fatto. Questo, anche se il decidere che una testimonianza sia affidabile è un enorme «carico» che vie ne messo sulle spalle del fatto testimoniato. Ho inteso mostrare alcuni aspetti del farsi largo, nel nostro tempo, della volontà di po tenza. Poi, la gran questione è il senso di tale volontà. Essa è presente sin dali'inizio della storia dell'uomo. E continua ad es serlo anche quando il popolo greco, dando 38
inizio alla storia deli 'Occidente, incomincia a pensare il senso della verità innegabile, cioè a credere nella differenza tra volontà e verità. Oggi la volontà di potenza si sta liberando della verità. Sta diventando estre mamente coerente. Ma siamo sicuri che non si tratti della coerenza della Follia?
39
SOMMARIO
Premessa .............................
5
I. Il cervello, la mente . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
II. "Anima" e riduzionismo . . . . . . . . . . . . .
19
III. Pensiero, scienza, volontà di potenza.. 31
41