Cervantes e l'Italia: il «Don Chisciotte» del 1615 8890789778, 9788890789779


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Cervantes e l'Italia: il «Don Chisciotte» del 1615
 8890789778, 9788890789779

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CERVANTES E L’ITALIA: IL DON CHISCIOTTE DEL 1615 a cura di Felice Gambin

AISPI Edizioni, 2018 Roma Asociazione Ispanisti Italiani c/o Instituto Cervantes Via di Villa Albani 14/16 00198 - Roma www.aispi.it Design e impaginazione Departamento de Comunicación Digital Instituto Cervantes C/ Alcalá, 49 28014 - Madrid https://cvc.cervantes.es/ © 2018 Associazione Ispanisti Italiani ISBN: 9788890789748 NIPO: 110-18-003-8

CERVANTES E L’ITALIA: IL DON CHISCIOTTE DEL 1615 a cura di Felice Gambin

AISPI Edizioni, 2018 Roma

Comitato scientifico • Alberto Blecua • Maria Vittoria Calvi • Federica Cappelli • Maria Teresa Cattaneo • Felice Gambin • José Manuel Martín Morán • Veronica Orazi • Maria Rosso • Aldo Ruffinatto

Impaginazione • Marta Jiménez Serrano

Design • Jorge García Valcárcel

INDICE Felice Gambin – pp. 7-10 Sulle orme del secondo Chisciotte (1615-2015) Antonio Gargano – pp. 15-22 Cervantes, Auerbach e la “formazione di compromesso” Donatella Pini – pp. 23-31 L’emergenza dell’attualità nel secondo Quijote Giulia Poggi – pp. 33-42 La rottura dell’incantesimo (Quijote, II, 22-24) Caterina Ruta – pp. 43-50 Il numero 5 dei Cuadernos: l’omaggio dell’AISPI a Cervantes Patrizia Botta – pp. 51-57 La nuova traduzione italiana del Don Quijote

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Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615, 2018 pp. 7-10

Sulle orme del secondo Chisciotte (1615-2015)

Felice Gambin Università degli Studi di Verona

Questo testo nasce nel quadro delle celebrazioni mondiali per il quarto centenario della pubblicazione della seconda parte del Don Chisciotte di Cervantes. I lavori sono il risultato della Tavola rotonda, intitolata “Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615”, che chiudeva il XXIX Congresso dell’Associazione Ispanisti italiani, organizzato a Milano tra il 15 e il 28 novembre del 2015. Gli interventi testimoniano un momento di fattivo incontro e dialogo tra alcuni degli studiosi italiani di Cervantes e confermano la varietà e la quantità di sollecitazioni e di possibili continue rivisitazioni che il capolavoro cervantino è tuttora in grado di offrire. Sono intervenuti Patrizia Botta, Antonio Gargano, José Manuel Martín Morán, Donatella Pini, Giulia Poggi, Caterina Ruta. Alla Tavola rotonda hanno partecipato anche Mariateresa Cattaneo e Alessandro Cassol che hanno ricordato i densi ed appassionati studi sull’opera di Cervantes della compianta Mariarosa Scaramuzza Vidoni, prematuramente scomparsa. Ai partecipanti, visto l’interesse e la vivacità dell’incontro, è stato poi chiesto di trasformare il proprio intervento in un contributo vero e proprio, senza tuttavia snaturarne il carattere conciso ed essenziale che i presenti avevano apprezzato in quell’occasione. Con dispiacere José Manuel Martín Morán non ha potuto consegnare la sua comunicazione sul ruolo dei lettori nel secondo Chisciotte. SS

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Sulle possibili continue riflessioni e sulle infinite letture che consente il testo cervantino è emblematico il contributo che apre il volume. Antonio Gargano rivisita e ripensa in modo efficace una questione notissima e assai studiata: quella legata all’inserimento nell’edizione messicana del 1950 di Mimesis di Erich Auerbach di un capitolo in più dell’edizione tedesca del 1946. Si tratta del capitolo intitolato “La Dulcinea encantada”, dedicato al Chisciotte di Cervantes, un’aggiunta che, come si sa, accompagnerà il volto definitivo del fortunato libro del filologo tedesco. Eppure, vi è qualcosa di più di quello che ha visto Auerbach nell’episodio delle tre contadine che ritrae Dulcinea inghiottita in un crescendo di bassezza. Vi è, secondo Gargano, riprendendo alcune indicazioni di Francesco Orlando, qualcosa di più nell’episodio di un mero orizzonte comico. Con poche e fulminanti battute il contributo riesce ad evidenziare che la vicenda delle tre contadine è tutt’altro che esclusivamente comica in quanto l’episodio effettivamente lascia tra le mani del desocupado lector, ad un tempo, sviluppi tragici di questa scena così centrale dell’opera. Il lavoro di Donatella Pini illustra le grandi differenze tra la prima e la seconda parte del Chisciotte. Nel libro del 1605 le avventure, i personaggi e gli snodi diegetici hanno uno scarso o quasi assente radicamento nell’attualità del tempo, privilegiando la loro appartenenza al mondo della letteratura, anche dove ad una prima lettura sembrerebbero emergere aspetti e temi della realtà, come nel caso dei galeotti o della storia del capitán cautivo. Radicalmente diverso il libro del 1615: esso si apre all’attualità, al cosiddetto mondo reale dell’epoca, da quello, ad esempio, relativo all’espulsione dei moriscos al banditismo catalano. Una fortissima inversione propiziata dalla presenza ingombrante di Avellaneda, lettore e autore concorrente della prima parte, che costringe Cervantes a muovere e a fare interagire in maniera geniale il suo personaggio con gli avvenimenti, i temi e i problemi incalzanti della sua epoca. Giulia Poggi fa il punto su un episodio centrale della seconda parte del Chisciotte: l’avventura della caverna di Montesinos. La complessa storia critica sull’episodio, sul quale ritornano più volte gli stessi personaggi dell’opera e che in qualche modo la alimentano, intriso di una molteplicità di fonti letterarie e dagli evidenti elementi mitici ed archetipi dai numerosi significati, rivela sia un progressivo insinuarsi nelle pagine della seconda parte di

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un eros sempre meno idealizzato sia il prepotente riferimento a situazioni contaminate dalla realtà materiale e da quella, soprattutto, che rinvia alla mercificazione del corpo, alla quantificazione di ogni oggetto reale (e ideale), alle insidie del denaro. Insomma: don Chisciotte è sì un personaggio intriso di letteratura, che vive resuscitando le imprese dei cavalieri erranti e che sa a memoria i romanzi cavallereschi, ma la seconda parte è, soprattutto, anche altro. Questi tre contributi e i due successivi, quelli di Caterina Ruta e di Patrizia Botta, manifestano la bontà e l’efficacia dell’espressione con la quale molti anni fa Cesare Segre definì il libro “una nebulosa in espansione”. Caterina Ruta considera nel loro complesso le tematiche di maggiore interesse che emergono o che sembrano occupare con maggiore enfasi la scena che si sviluppa all’insegna dei centenari di argomento cervantino. In attesa di toccare con mano anche gli studi e i lavori relativi alle celebrazioni dell’anniversario della pubblicazione postuma de Los trabajos de Persiles y Sigismunda, le linee di forza che Caterina Ruta individua –anche alla luce della cura del numero monografico di Cuadernos AISPI, coordinato nel 2015 con il contributo di A. Robert Lauer, dedicato a Cervantes e che ha visto la partecipazione di numerosi studiosi italiani ma anche stranieri– sono la vitalità e la constante potenzialità di letture e di approcci metodologici che sa offrire nel suo complesso l’opera dello scrittore spagnolo. Ma ancora: ciò che irrompe è la grande attenzione per la vita del personaggio Cervantes che ha spinto e sta tuttora spingendo diverse ricerche verso una più rigorosa e ordinata lettura dei documenti cervantini. Nel panorama delle celebrazioni che si sono svolte in tutto il mondo nell’arco di cinque densi e proficui anni, quello relativo al centenario delle Novelas ejemplares (2013), al Viaje del Parnaso (2014), alle Ocho comedias y ocho entremeses e alla Segunda parte del Quijote (2015), a Los trabajos de Persiles y Sigismunda (2017), passando per l’anniversario dei quattrocento anni dalla morte di Cervantes (2016), va inscritta l’iniziativa promossa da Patrizia Botta: una nuova traduzione italiana del Chisciotte. Se nel 2005 era apparsa la traduzione della Prima parte dell’opera, da lei stessa coordinata e realizzata da 5 allievi, a distanza di 10 anni il Chisciotte del 1615 è stato tradotto da ben 55 ispanisti, quasi tutti italiani, tutti universitari, molti di essi cervantisti. L’esito è un omaggio corale e plurale dell’ispanismo italiano

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all’autore del Chisciotte, un omaggio che rivela, nel ventaglio delle scelte stilistiche e nelle soluzioni proposte da ciascun traduttore, l’incontenibile ricchezza e le infinite possibilità custodite nell’opera. C’è di più: la nuova traduzione del Chisciotte affida al tempo e ai lettori delle future generazioni il rapporto sempre più solido e profondo che negli anni l’ispanismo e il cervantismo italiano ha saputo costruire con Cervantes, misurandosi in un piacevole ed intimo corpo a corpo con la sua scrittura.

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Un particolare ringraziamento a nome di tutta l’Associazione Ispanisti Italiani al Centro Virtual Cervantes, che ha permesso di mettere a disposizione degli studiosi questa pubblicazione, la terza della collezione Biblioteca AISPI de Lengua y Literaturas Hispánicas.

Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615, 2018 pp. 15-22

Cervantes, Auerbach e la “formazione di compromesso”*

Antonio Gargano Università di Napoli Federico II

1. 1

Sebbene Carlo Donà abbia di recente e con ragione sostenuto che “la riflessione critica e erudita su Mimesis non ha mai avuto sosta” (2009: 40)1, è innegabile, tuttavia, che negli ultimi anni, soprattutto a partire dal cinquantenario della prima pubblicazione di Mimesis (1946), e, poi, da quello della morte dell’autore (1957), l’intera opera dello studioso e, in particolare, il suo capolavoro critico abbiano conosciuto, sia in Italia che all’estero, un rinnovato interesse, di cui ha inevitabilmente goduto anche il capitolo cervantino dedicato al celebre episodio di “La Dulcinea incantata”; un capitolo assente nell’originaria edizione tedesca, che il grande critico aveva avuto cura di aggiungere, come cap. XIV, in occasione dell’uscita della traduzione spagnola, pubblicata in Messico nel 1950 (Auerbach 1950)2, e che successivamente sarebbe apparso in tutte le edizioni posteriori del libro, in tedesco come in traduzione. Tra i risultati di questa rinnovata attenzione per Mimesis e il Quijote è da segnalare, senz’altro, il lungo e interessante lavoro pronunciato a due Il presente scritto riproduce fedelmente l’intervento orale pronunciato in occasione della Tavola rotonda, “Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615”, coordinata da Felice Gambin, che si celebrò a conclusione del XXIX Congreso AISPI (Milano, 25-28 novembre 2015). 1 Al contributo di Donà si rimanda anche per un panorama della ricezione di Mimesis. 2 Il capitolo fu pubblicato autonomamente in tedesco in Auerbach (1951). Sul capitolo possono vedersi Hart (1989); Neuschäfer (1997); Brandalise (2009) e Renzi, Pini (2013: 7-13). *

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voci e scritto a quattro mani, quelle degli accademici padovani Lorenzo Renzi e Donatella Pini (2013). I problemi che pone l’inserimento del cap. XIV sul romanzo cervantino nell’insieme di Mimesis, un libro assai fortemente strutturato, sono numerosi e parecchio complessi. Non essendo concepibile che possa affrontarli, e neppure elencarli, nel breve tempo di cui dispongo, per molti di essi rimando al citato scritto di Lorenzo Renzi e di Donatella Pini. Qui vorrei limitarmi a fare riferimento a una sola questione che reputo centrale per la lettura auerbachiana del Chisciotte e, più in generale, per l’intera tradizione letteraria di cui il romanzo spagnolo fa parte. È arcinoto che uno degli ingredienti fondamentali della concezione auerbachiana è costituito dalla critica stilistica. Così Renzi ha sinteticamente descritto la struttura di Mimesis: Ognuno dei venti capitoli è dedicato a trattare una parte del seguente tema: quali sono gli aspetti della realtà che vengono rappresentati nei vari periodi della letteratura occidentale dall’antichità latina fino agli inizi del Novecento? E come vengono rappresentati? Il come non è meno importante del cosa, e a trattare il come è adibita una particolare forma di critica stilistica (13-14).

Ebbene, nel capitolo di Mimesis dedicato all’episodio di Dulcinea incantata, il particolare tipo di critica stilistica che presiede all’impianto dell’intero libro trova un fertilissimo terreno d’applicazione, dal momento che la struttura e il significato del celebre episodio si fondano, in larga misura, sul contrasto degli stili a cui ricorrono i tre personaggi nel dialogo irresistibilmente comico che intercorre tra di loro: Sancho, sorpreso nell’inedito ruolo di rappresentante dello stile cavalleresco, che maneggia –in verità– in modo non sempre impeccabile; don Chisciotte, colto nell’atteggiamento a lui più congeniale di “continuatore e […] perfezionatore della grande tradizione epico-retorica” (Auerbach 1964: II, 95); la contadina-Dulcinea, ritratta in un crescendo di bassezza che compromette il suo modo di esprimersi, non meno che il suo comportamento: “Soltanto il contrasto nello stile dei discorsi e il grottesco movimento alla fine (Dulcinea cade e si rialza) ci dànno il pieno godimento dell’episodio” (93): è l’esordio della magistrale analisi stilistica di Auerbach, che è tale specie nella parte dedicata alla frase che il cavaliere rivolge alla contadina; una frase che Auerbach giudica “meravigliosa” (94), nello stesso stile di cui don Chisciotte ha già fatto 16

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sfoggio nella famosa lettera del cap. 25 della prima parte: “ma qui –nella frase rivolta a Dulcinea incantata– il discorso è incomparabilmente più bello e, con tutta la sua arte, non ha il preziosismo meschino della lettera” (95), con queste parole il critico conclude la sua analisi del frammento selezionato. Ma, più in generale, Auerbach manifesta la sua fervida ammirazione per ciò che egli definisce “carattere proprio del Cervantes”, ossia per ciò che è propriamente cervantino, che viene definito come “qualcosa di spontaneamente sensuoso [o sensoriale]” e subito dopo descritto nei seguenti termini: una potente capacità di rappresentare al vivo uomini diversissimi in diversissime situazioni, di far penetrare nei loro pensieri e nei loro sentimenti, di farci udire le loro parole. Questa capacità è in lui tanto immediata e forte e a un tempo tanto libera di ogni altra mira, che quasi tutto il realismo dei tempi anteriori accanto al suo diventa limitato, convenzionale e tendenzioso (111).

Eppure, nonostante la magistrale analisi del contrasto stilistico contenuto nell’episodio di Dulcinea incantata, e malgrado l’infinito rispetto e ammirazione che, più in generale, il critico tedesco manifesta per il romanzo e il suo autore, sappiamo che Cervantes e il Quijote non furono “particolarmente prediletti da Auerbach” (Orlando 2007: 40). A tale proposito, Francesco Orlando ha sostenuto che “il capitolo su di lui [su Cervantes, cioè] –pur splendido e pieno di osservazioni intelligenti– lascia, a lettura finita, una perplessità e un sospetto: che in Cervantes vi sia qualche cosa di più di quanto Auerbach non veda” (48). Non credo che in questa sede sia il caso di insistere sulle manifestazioni d’infinito rispetto e ammirazione che Auerbach tributa allo scrittore spagnolo, né sulle numerose osservazioni intelligenti che si leggono nel capitolo dedicato al Chisciotte. Molto più opportuno è, invece, soffermarsi –anche se con la brevità richiesta dal contesto– sui motivi per cui Cervantes e il Chisciotte non furono “particolarmente prediletti da Auerbach”, nonché sulla natura della perplessità e del sospetto a cui alludeva Orlando e, ovviamente, sull’esistenza di “qualche cosa di più [sul romanzo di Cervantes] di quanto Auerbach non veda”. Non so se il tempo che mi resta mi consentirà di accennare a questo “qualche cosa di più”. In ogni caso, per quel che riguarda le prime due questioni, è presto detto che il nostro Cervantes si trova in ottima compagnia, 17

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poiché egli fa parte di un gruppo di autori che, oltre al geniale scrittore spagnolo, annovera altrettante pietre miliari della letteratura occidentale, trattandosi di autori come Petronio, Boccaccio, Rabelais, Molière, Voltaire. Ebbene, cosa accomuna gli autori menzionati che “rischia[no] di render lo studioso [tedesco] meno integralmente e genuinamente obiettivo” (Orlando 2009: 57)3 ? Lo stesso Orlando aveva suggerito che “la serie degli autori ai quali si può dire che Auerbach va però meno a fondo è spesso formata da autori comici e ironici” (Orlando 2007: 48). Concentriamoci sul caso di Cervantes, tornando rapidamente sul capitolo di Mimesis a lui dedicato. Ebbene, dopo aver ricordato che “nel mostro libro cerchiamo la rappresentazione della vita quotidiana, in cui di questa vengano esposti con serietà i problemi umani e sociali o perfino gli sviluppi tragici”, Auerbach riconosce sì che “non v’ha dubbio che la nostra scena [ossia, l’episodio di Dulcinea incantata] sia realistica” (96), ma presto aggiunge che “molto più difficile è stabilire il livello della scena e del romanzo tra il tragico e il comico. Così com’è la storia delle tre contadine non è nient’altro che comica” (97). Insomma, di fronte alla “possibilità di un trapasso al tragico e al problematico”, nella scena di Dulcinea incantata “questo trapasso –sostiene Auerbach– sarà completamente evitato” (97), a favore della soluzione comica. In effetti, che l’episodio e il romanzo in genere siano fortemente comici, non c’è ragione di dubitarne –ed è un gran merito di Auerbach l’averlo rivendicato dopo secoli di fraintendimenti–, ma mi chiedo se sia anche possibile condividere l’affermazione per la quale “la storia delle tre contadine non è nient’altro che comica–; e non, invece, come preferisco pensare, che l’episodio contenga qualcosa di serio o problematico, perfino tragico, veicolato dalla comicità. Naturalmente, perché una simile interpretazione possa darsi o, almeno, congetturarsi, è necessario confidare in quel prezioso strumento ermeneutico che è la “formazione di compromesso”, teorizzato in ambito letterario da Orlando, e consistente nell’“idea che uno stesso elemento di un’opera d’arte, una stessa manifestazione di linguaggio possa esprimere contemporaneamente due opposti, due cose che fra loro sembrerebbero incompatibili e invece si pigiano, per così dire, in una sola ed unica 3 Lo studio di Francesco Orlando è stato pubblicato in francese col titolo di “Codes littéraires et référents chez Auerbach”, in Tortonese (2009: 211-262).

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manifestazione di linguaggio” (Orlando 2007: 48)4. Sono convinto che un tale strumento apra scenari inediti per l’interpretazione dell’episodio di Dulcinea incantata e, forse, dell’intero romanzo cervantino.

2.

Malgrado l’estrema difficoltà di sbrigare l’argomento in poche fulminanti battute, tenterò ugualmente di utilizzare il poco tempo che mi resta per alludere a cosa ci sia di più, nell’episodio di Dulcinea incantata, che Auerbach non veda. Lo farò, partendo dalla caratterizzazione comica dell’episodio, messa in risalto dalla stupenda analisi stilistica di Auerbach, a cui affiancherò l’impiego del concetto orlandiano di “formazione di compromesso”, in base al quale –come si ricorderà– in una sola ed unica manifestazione di linguaggio possono esprimersi contemporaneamente due opposti, due cose che fra loro sembrerebbero incompatibili. Ebbene, impostate così le cose, la questione è presto definita, perché si tratta di partire dalla conclusione di Auerbach: “la storia delle tre contadine non è nient’altro che comica”, per trasformarla in qualcosa di abbastanza diverso, sostenendo, cioè, che “la storia delle tre contadine è tutt’altro che esclusivamente comica”. Si tratta, insomma, di difendere una lettura dell’episodio, nella quale possano coesistere, resi compatibili, due opposti: da un lato, l’esilarante comicità della scena rappresentata, il cui effetto risibile è indubbio, e, d’altro lato, “la rappresentazione della vita quotidiana, in cui di questa vengano esposti con serietà i problemi umani e sociali e perfino gli sviluppi tragici”, per riprendere le parole dello stesso Auerbach (96). Se, dunque, per la ricostruzione della comicità della scena è sufficiente rimandare alle insuperate pagine del capitolo di Mimesis, sugli sviluppi seri e perfino tragici a cui la medesima scena rimanda, il discorso sarebbe assai lungo, per cui posso solo limitarmi ad esporre il risultato, in maniera assai sintetica. Sappiamo che, sebbene Dulcinea del Toboso sia un figura puramente immaginaria, essendo stata ritagliata da don Chisciotte sul personaggio delle eroine dei romanzi di cavalleria, tuttavia la sua natura immaginaria non manca, sin dall’origine, di un saldo rapporto con la realtà effettuale, dal momento che l’immaginaria Dulcinea ha il suo corrispettivo nella reale Aldonza, una 4

Per una più ampia formulazione di tale concetto teorico, cfr. Orlando (1987: 210-218).

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persona reale, dotata di una precisa identità. Si tratta, com’è evidente, della ripresa in chiave comica di un’antica e assai prestigiosa concezione dell’amore, il cui nucleo era costituito da un identico rapporto tra creatura femminile reale e immagine o fantasma come oggetto d’amore. Ora, come tutti ricordano, la seconda parte del Chisciotte e il racconto della terza uscita del cavaliere introducono il motivo del congedo che il folle cavaliere aveva intenzione di prendere dalla sua signora, Dulcinea del Toboso. Il che comporta la presenza di un nuovo tema che, non solo occupa i capitoli VIII-X col viaggio al Toboso, ma che è al centro di tutta la seconda parte del romanzo; un tema, quello di ‘vedere Dulcinea’, che era stato assente nella prima parte: “con todo eso, vamos allá, Sancho –replicò don Quijote–, que como yo la vea…”, Cervantes, 2015: 749). Aldonza, come creatura reale, e Dulcinea, come immagine o fantasma amoroso, se nella prima parte del romanzo si mantengono separate, nel senso che ciò che più importa è il processo per il quale dalla creatura reale don Chisciotte giunge alla formazione dell’immagine dell’amata; nella seconda parte e, in particolare, nell’episodio dell’incontro del capitolo X, le cose sembrano presentarsi in termini rovesciati, trattandosi, cioè, di un processo che dall’immagine e dalla sua contemplazione nella memoria intende pervenire alla visione della creatura reale. All’inizio della frase sublime rivolta a Dulcinea incantata, don Chisciotte deplora l’avversa fortuna che gli nega ogni occasione di letizia che possa rallegrare “esta ánima mezquina”, con ripresa letterale dell’espressione di patimento del Salicio garcilasiano, prostrato dal dolore del lutto. Nelle parole di don Chisciotte c’è tutto il senso dell’accorata sconfitta di colui a cui è negata ogni possibilità di ‘vedere’ –ossia, di percepire coi sensi– il fantasma interiore. Emerge così, pur nella situazione estremamente comica, un contenuto serio, doloroso e, perfino, tragico, che, coincidendo con la netta separazione, sino all’inconciliabilità, di realtà e immaginazione, denuncia l’impossibilità che la realtà possa far posto al nostro oggetto d’amore e di desiderio. Nel comico contrasto degli stili adottati dai personaggi si cifra l’insuperabile distanza, dalle tragiche conseguenze, che separa e rende irriducibili creatura reale e fantasma del desiderio.

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Bibliografia citata Auerbach, Erich (1946), Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern, Francke. — (1950), Mímesis. La Representación de la realidad en la literatura occidental, trad. di Ignacio Villanueva e Eugenio Imaz, México, Fondo de Cultura Económica. — (1951), “Die verzauberte Dulcinea”, Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 25: 294-316. — (1964), Mimesis. Il Realismo nella letteratura occidentale, trad. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhaüser, prefazione di Aurelio Roncaglia, Torino, Einaudi. Brandalise, Adone (2009), “Il canone di Don Chisciotte”, Mimesis. L’eredità di Auerbach, edd. Ivano Pacagnella; Elisa Gregori, Padova, Esedra Editrice: 355-63. Cervantes, Miguel de (2015), Don Quijote de la Mancha, ed. diretta da Francisco Rico, Madrid, Real Academia Española. Donà, Carlo (2009), “Universalismo e filologia. Auerbach e le reazioni a Mimesis”, Mimesis. L’eredità di Auerbach, Padova, Esedra Editrice: 3555. Hart, Thomas R. (1989), “Erich Auerbach’s Don Quixote”, Cervantes and Ariosto. Renewing Fiction, Princeton New Jersey, Princeton University Press: 6-15. Neuschäfer, Hans-Jörg (1997), “Die verzauberte Dulcinea: zur Wirklichkeitsauffassung in Mimesis und im Don Quijote”, Sinn und Sinnverständnis: Festschrift für Ludwig Schrader zum 65. Geburtstag, Berlin, Erich Schmidt: 44-51. Orlando, Francesco (1987), “Il repertorio dei modelli freudiani praticabili”, Per una teoria freudiana della letteratura, Nuova edizione ampliata, Torino, Einaudi: 159-218. — (2007), “I realismi di Auerbach” (intervista a cura di Giuseppe Tinè), Allegoria, 19, 56: 36-51. — (2009), “Codes littéraires et référents chez Auerbach”, Erich Auerbach. La littérature en perspective, ed. Paolo Tortonese, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle: 211-62. 21

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Renzi, Lorenzo; Pini, Donatella (2013), “Mimesis, il realismo e il Chisciotte. Osservazioni su Auerbach e la letteratura spagnola”, Orillas. Rivista d’ispanistica, 2: 1-53. Tortonese, Paolo, ed. (2009), La littérature en perspective, ed. Paolo Tortonese, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle.

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Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615, 2018 pp. 23-31

L’emergenza dell’attualità nel secondo Quijote

Donatella Pini Università di Padova

Dal secondo Quijote, ossia dalla continuazione (o Seconda Parte) del Quijote, che Cervantes dette alle stampe nel 1615, sprigionano elementi di sicura novità rispetto al primo, che era uscito dieci anni prima e che aveva avuto un successo tanto enorme quanto inatteso. Tra questi c’è l’attualità –politica, sociale e starei per dire cronachistica– che in questo libro emerge con forza, a differenza del primo Quijote (detto anche Prima Parte). Ciò che interessa in questo breve intervento è considerare la modalità per dir così “fenomenologica” con cui avvenimenti, aspetti e problemi della realtà contemporanea entrano nell’orizzonte e nel tessuto del romanzo. Pensiamo alle avventure, cioè ai nodi diegetici che maggiormente rivelano la natura astratta e cerebrale del protagonista. Ebbene, nel primo Quijote abbondano le avventure sognate, come quella dei mulini a vento, della polvareda, degli otri di vino… che sono poi quelle dove Don Chisciotte agisce maggiormente in linea con il suo progetto cavalleresco, malgrado l’esito costantemente fallimentare. E pensiamo soprattutto ai personaggi. Quelli che cavaliere e scudiero incontrano nel primo Quijote sono per lo più indeterminati, come conferma anche l’economia onomastica: spesso non hanno nome, oppure hanno solo il nome ma non il cognome. Non solo i mercanti toledani, i caprai, fabbricanti di panni, il biscaglino, diversi rappresentanti del clero, ma anche i più individualizzati come gli osti, il curato, il barbiere sono personaggi stereotipati oppure rappresentativi di categorie estremamente vaste, trasversali, AISPI Edizioni, 2018 ISBN: 9788890789748

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estese spazialmente nell’intera penisola e potenzialmente senza tempo, nel senso che il lettore di sempre ha l’impressione di conoscerli già. Non parliamo poi delle figurine variopinte (servi, mulattieri, sguattere, prostitute) che fanno comparse fuggevoli nel libro, ma che lo popolano fittamente senza lasciare un segno “forte” negli scambi che la coppia ha nel suo peregrinare. Quelli infine che assumono un ruolo attanziale rilevante sono per lo più tratti dal mondo letterario; e a quello devono la loro esistenza e le loro iniziative, anche quando prendono esplicitamente le distanze dal genere da cui provengono. Cardenio, Luscinda, Fernando, Dorotea hanno scarso radicamento nel cosiddetto reale; anche se il testo ne riferisce la provenienza e la classe sociale, essi sono eroi da novella amorosa e cortigiana. E la pastora Marcela conferma la sua appartenenza al genere pastorale proprio nel momento in cui sostiene di volersi distaccare dalla convenzionale passività dei suoi modelli. Anselmo, Lotario e Camilla mostrano di appartenere con evidenza ancor maggiore al canone letterario già per il fatto che non s’incrociano né con Don Chisciotte né con Sancio; la loro letterarietà emerge con forza dall’appartenenza ad un universo di secondo grado: quello di una storia narrata da un personaggio di primo grado (il curato) davanti al variegato uditorio formato da personaggi appartenenti allo stesso grado di finzione, che, con i loro giudizi e apprezzamenti, confermano la (meta)letterarietà che li contraddistingue (Cabani-Poggi; Günter). I galeotti, invece, incontrano direttamente Don Chisciotte e Sancio e scambiano con loro informazioni e pareri; si direbbe che il loro esprimersi in gerghi furbeschi e la loro appartenenza alla società emarginata li renda vicini alla realtà attuale spagnola: quella dei maledetti destinati a morire al remo, quella reietta dei criminali. Però, dopo tanta acribia spesa dalla critica a proposito di questo episodio e dell’irrealismo del romanzo picaresco (Guillén; Riley; Ruffinatto), sembra indiscutibile l’appartenenza di questi degenerati al canone letterario: sono picari né più né meno di Guzmán de Alfarache, alluso in modo incontrovertibile per accenni a passi del libro; e uno di loro, per di più (Ginés de Pasamonte), parla dell’autobiografia che sta scrivendo e che confronta con il Lazarillo e il genere letterario da quello derivato proprio sul piano della (impossibile) rispondenza al reale. Si tratta dunque, come nel caso di Marcela, di personaggi che confermano la loro appartenenza a un canone letterario malgrado lo contestino, non tanto

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come attori o attanti, ma come autori potenziali o effettivi, e quindi con la sicurezza che il ruolo autoriale conferisce loro. Pure nel caso dei galeotti, dunque, l’attualità risulta essere abbastanza lontana, anche se uno di loro ha un nome e un cognome che sembra adombrare (ma senza corrispondenza letterale) un personaggio effettivamente vissuto e conosciuto da Cervantes: Ginés de Pasamonte, ombra incerta di un tal Gerónimo de Pasamonte incontrato non dal personaggio ma dall’autore nella prigionia di Algeri. Se l’identificazione è incerta, perché cercar di tirar fuori il personaggio da quell’evanescenza in cui Cervantes lo ha relegato? Sarebbe un’operazione (che la critica positivistica, ma non solo quella, ha spesso attuato) opposta a quella realizzata dall’autore, e per questo a mio avviso impropria. Però, mi si dirà, la storia del capitán cautivo è tremendamente attuale. Lo dimostra il tema della prigionia di un cristiano ad Algeri, lo dimostrano i personaggi che portano i nomi di Uchalí, Hasán Agá, Agi Morato (corrispondenti a personaggi storici e incontrati in vario modo da Cervantes); lo dimostra quel nome Saavedra che un prigioniero elogiato per il suo valore ha in comune con Miguel de Cervantes. In effetti, concordo: la storia del capitán cautivo è, fra tutte le storie narrate nel primo Quijote, quella più carica di “realtà”: una realtà attuale (il fenomeno massiccio della schiavitù e del commercio dei cristiani rapiti dai pirati e deportati ad Algeri) e, per di più, una realtà autobiografica. Però mi permetto di osservare che si tratta di una realtà lontana, esotica e già molto rappresentata nella letteratura moresca: lo dimostra la storia d’amore e di fede tra il capitano e la bella Zoraida che c’entra molto con la novela morisca e nulla –almeno così sembra– con il vissuto di Cervantes. In ogni caso, sì, fra tutte le storie narrate nel primo Quijote, questa è la più vicina all’attualità. Però questa attualità, richiamata nel libro del 1605 da un personaggio della finzione di primo grado mediante una narrazione analettica, ininterrotta, e situata in tre capitoli consecutivi facilmente estrapolabili (come è stato ripetutamente affermato) senza che l’escissione possa avere grandi conseguenze sulla narrazione principale, non ha la forza compulsiva e cogente di altre storie che invece faranno emergere l’attualità in vari modi e con ben altra forza nel libro del 1615. Oltre tutto, la sua appartenenza al livello di secondo grado al pari della storia del Curioso impertinente, la colloca nell’ambito delle storie finite, concluse, con cui i protagonisti non fanno i conti.

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Ben altro impatto, invece, ha il personaggio di Sansón Carrasco (nome e cognome precisati) che, nel secondo Quijote, si aggiunge al curato e al barbiere nell’innominato paese di Don Chisciotte (Avalle-Arce). Sansón Carrasco è un uomo tornato dall’Università di Salamanca dove ha preso il baccellierato e dove ha avuto echi ravvicinati dell’accoglienza del primo Quijote tra il pubblico dei lettori, ed ora è in grado di comunicarla ai protagonisti destando in loro nel contempo interesse e apprensione, perché ne va di mezzo la loro immagine. Insomma rappresenta per loro il testimone dell’ “eco della stampa”, con tutto quello che significa quanto a collocazione sociale e inserimento nel mondo sia per i personaggi (che rabbrividiscono all’idea di fare brutta figura) sia per l’autore che c’è dietro di loro. C’è il sospetto che Sansón Carrasco, essendo portatore fin dalle prime pagine del secondo Quijote dell’opinione non proprio benevola sul primo Quijote da parte di alcuni lettori invidiosi, anticipi nel secondo quell’Avellaneda che si è frapposto con una sua continuazione nel 1614 fra il primo e il secondo Quijote, e che tanto male ha parlato di Cervantes e del suo libro sia nel prologo sia all’interno del suo Quijote (impropriamente definito “apocrifo”) facendosi eco di un’opinione diffusa fra diversi letterati del momento egemonizzati –a quanto pare– da Lope de Vega, una star che mal sopportava di venire oscurata nel suo fulgido e duraturo successo. Ma Sansón Carrasco non è solo quell’impertinente studente universitario che trasmette a Don Chisciotte il giudizio dei lettori su di lui e sul libro, e si propone come scudiero al posto di Sancio inquietando e destabilizzando così in una volta sola cavaliere e scudiero. Sansón Carrasco è anche colui che, travestito da Cavaliere degli Specchi (e del Bosco) e in compagnia di uno scudiero omologo a Sancio (Tomé Cecial: nome e cognome precisati), incarnerà la figura del doppio mostruoso (Girard; Molho) che minaccerà di distruggerlo e poi sarà, di nuovo travestito, quel Cavaliere della Bianca Luna (i simboli della luna e dello specchio si equivalgono), che ce la farà a vincerlo definitivamente proprio sul terreno del duello (il più consono a lui, che è cavaliere), e a costringerlo a tornare a casa: cioè a rinunciare ad essere ciò che lo ha fatto esistere artisticamente, come personaggio appunto. Sansón Carrasco anticipa e assorbe la funzione che avrà Avellaneda nei capitoli finali del Quijote (precisamente dal II,59 in poi). E l’attualità sprigionata da questa funzione dilaga: anzi apre sullo sfondo dei due personaggi tutta un’eco,

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appunto, un insieme corale di risonanze, riscontri di lettura e di critica sia individuale che collettiva. Quei lettori che nel primo Quijote erano stati prefigurati nel piccolo crocchio inoffensivo radunato nell’osteria in ascolto della storia del Curioso impertinente letta dal curato, ora invece sono sparsi in vari luoghi, dominano le accademie e le cerchie letterarie cittadine, fanno sentire i loro commenti –più ostili che favorevoli perché segnati dalla rivalità– attraverso Sansón Carrasco, il loquace portatore di novità moleste. Attraverso di lui ha luogo l’artificio dell’incastonamento del primo Quijote nel secondo (Pini) che farà percepire un po’ dolorosamente ai protagonisti di essere non solo dei soggetti attivi ma dei personaggi di carta, finti, eterodiretti. Percezione che si scontra con quell’aspirazione alla libertà estrema che aveva spinto Don Chisciotte fuori di casa, nel Quijote del 1605, e che ora fa uscire dall’ombra la figura dell’autore. Figura che, come sappiamo, era messa nel primo Quijote timidamente e prudentemente in secondo piano e quasi nascosta, ma che poi, nel titolo del secondo (Segunda parte del Ingenioso Caballero don Quijote de la Mancha, por Miguel de Cervantes autor de la primera parte) e poi alla fine (cfr. l’affermazione della péñola: “para mí sola nació don Quijote, y yo para él”) verrà fuori in modo energico e sicuro di sé contrapponendo la propria presenza e nominazione alla figura assente e intenzionalmente non nominata di Avellaneda, insieme a quella promozione del personaggio da idalgo a cavaliere di cui proprio Sansón Carrasco aveva messo in dubbio la legittimità (Molho). La modalità aggressiva che contraddistingue i discorsi di Sansón Carrasco a Don Chisciotte sarà anche quella con cui cavaliere e scudiero saranno subissati da altri personaggi che hanno letto il primo Quijote: fra questi essenzialmente i duchi, che li utilizzeranno come buffoni o giullari cercando di perpetuare nel loro teatro fatto in casa quei ruoli semplificati di graciosos che hanno estrapolato dalla lettura del primo Quijote, minacciando seriamente di immobilizzarli già prima che Sansón Carrasco realizzi definitivamente la sua impresa distruttrice. I duchi non trasmettono, ma rappresentano l’eco della stampa. La manipolazione dei personaggi che loro cercano di attuare è più statica e ripetitiva di quella di Sansón Carrasco: requisiscono cavaliere e scudiero, li risucchiano in un universo imitativo che diverte solo loro e, così facendo, minacciano di annientarli. Sansón Carrasco, almeno, fa la fatica di rincorrerli in modo compulsivo e a più riprese nei vari luoghi che

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loro percorrono dalla Mancia, attraverso i boschi, su su fino alla spiaggia di Barcellona. Invece i duchi si comportano da lettori meccanici e superficiali, oltre che da veri parassiti che aspettano che la preda si avvicini per immobilizzarla. E la percezione che Don Chisciotte e Sancio ne hanno è proprio questa anche se la loro ospitalità è dettata dall’ammirazione, se non per i personaggi, per il libro in cui campeggiano e che hanno letto con gusto; perciò, sia pure con difficoltà, cavaliere e scudiero se ne allontaneranno. Se le cose stanno così, ci troviamo davanti alla persecuzione del personaggio (e in modo sotteso dell’autore) da parte del lettore! Rapporto contrastato e financo violento che si replicherà, si varierà e perfino si rovescerà, sempre nel secondo Quijote, negli incontri con lettori e personaggi del Quijote di Avellaneda. Ma l’attualità che emerge nel secondo Quijote non è solo questa, che comunque coinvolge fino al parossismo l’affermazione dello scrittore nel mondo dei lettori: essa viene fuori soprattutto a partire dal momento in cui la figura di Sancio emerge, prima per burla (ma non troppo) e poi decisamente sul serio, con la sua dignità di soggetto politico e sociale: prima come governatore dell’isola Barataria, poi come cittadino consapevole dei problemi sociali che agitano il suo tempo, nell’incontro con un morisco e con la sua famiglia disastrata dall’espulsione del 1609-12. Come governatore Sancio incarnerà la figura del giudice equilibrato, prudente e incorruttibile, inverando l’utopia americana (Scaramuzza); come amico di Ricote e suddito fedele incarnerà la figura del giusto, che non si lascerà coinvolgere nel recupero del tesoro lasciato in patria dal morisco, ma che non denuncerà, anzi coprirà il suo ritorno clandestino. La novella che si svilupperà attorno a Ricote ampliandosi alla figlia Ana Félix e al suo innamorato, questa volta risentirà dell’attualità in modo molto più impattante di quanto non avvenga nella storia del cautivo. Pur facendo comunque i conti con il genere letterario di riferimento, la novela morisca, qui si tratta di prendere delle decisioni difficili: se tornare o no in Africa per riscattare l’innamorato, se usare o no i soldi del ricco morisco per finanziare l’impresa (cosa disdicevole per dei cristianos viejos), se coinvolgere dei notabili catalani in una storia d’amore, sì, ma anche di matrimoni misti fra persone dell’establishment e conversi che non dovrebbero essere presenti in Spagna perché appena espulsi (Martinengo); e di decidere se utilizzare o no Don Chisciotte che si è

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proposto cavallerescamente per accompagnare i partenti per l’Africa, etc., etc. I moriscos che compaiono nel secondo Quijote non sono personaggi appartenenti alla finzione di secondo grado, bensì si muovono nella finzione di primo grado: si misurano con Sancio, con Don Chisciotte e i loro ospiti barcellonesi (fra cui lo stesso viceré) e i loro rapporti sono fortemente determinati dalle questioni sociopolitiche e confessionali che agitano la società spagnola e internazionale del tempo. Questioni controverse e intricate al cui dibattito Cervantes partecipò ai massimi livelli essendo entrato nella cerchia di consiglieri di cui si circondò Bernardo de Sandoval y Rojas, a sua volta consigliere di Filippo III (Gómez Canseco) e che si riflettono nella complessa argomentazione che trovano nel secondo Quijote. Una situazione simile, anche se meno drammatica, si produrrà quando i nostri eroi si troveranno alle prese con i bandoleros barcellonesi. Il fenomeno del banditismo catalano (Riquer) è qualcosa di molto attuale e grave all’altezza del 1615; e mettere in contatto con banditi che stanno infestando la Catalogna un pazzo che vagheggia il mondo immaginario e arcaico della cavalleria errante significa confrontare in modo profondamente, anche se bonariamente, critico due modelli etico-politici che sono senz’altro diversi (anche qui la profferta di aiuto da parte di Don Chisciotte non viene neppure considerata da Roque Guinart) ma hanno pur sempre molto in comune: la generosità effettiva verso i deboli realizzata da Roque Guinart, nuovo Robin Hood, non è così lontana da quella teorizzata di Don Chisciotte! Gli episodi a cui ho accennato finora non sono che le punte più emergenti di quell’attualità che entra nel secondo Quijote. Da cosa dipenda questo fenomeno non è facile dire, anche perché ogni semplificazione è dannosa. Credo però che l’assedio da parte del lettore che agisce fino dalle prime battute nel Quijote del 1615 abbia molto a che fare con la presenza crescente dell’attualità. Il lettore, rappresentativo di un insieme di lettori (certo non di tutti visto l’enorme plauso riscosso dall’opera), è il più stretto e temibile contemporaneo che personaggio e autore possano avere. Il lettore è colui che condiziona il “riorientamento” che la narrazione subisce a più riprese, e che si realizza per esempio nella scelta esplicitamente determinata da lui di non interpolare più nel libro novelle troppo lunghe, ma di inserire invece “episodios… nacidos de los mismos sucesos que la verdad ofrece” (II, 44). Il lettore più temuto, benché non qualificato come tale ma presentato

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come autore concorrente, è Avellaneda. È dall’incombere di questo lettore innominato, ma terribilmente ingombrante, e dal fatto di sentirsi “situato” per causa sua davanti al mondo ben definito e identificabile dei lettori più sofisticati del suo tempo, che l’autore trae lo stimolo nel 1615 per dare una nuova incisività al suo personaggio e al suo rapporto col mondo esterno, e ad assumere, lui stesso, coram populo, la propria responsabilità autoriale: a dimostrare che la figura del pazzo attorno a cui gravita la sua opera, vagheggiatore di un mondo antico e finto, non ne limita affatto la portata costringendola nello spazio chiuso della sua mente perturbata, ma è anzi in grado di esaltare per confronto, contrasto e similarità, la capacità di “tratar del universo todo” (II, 44): narrando non più solo scontri con atemporali mulini a vento ma estendendo il campo di azione ai problemi e ai conflitti del mondo attuale. E la recente ricerca biografica su Cervantes dà conferme in questo senso. Nel notare la fortissima virata che il libro subisce soprattutto a partire dall’incontro di Don Chisciotte e Sancio con due lettori del Quijote di Avellaneda, Jordi Gracia scrive che, nell’impatto col suo lettore-emulatore, Cervantes ha encontrado un estímulo imprevisto para alterar los planes de la novela y hacerla pivotar invisiblemente en la enemistad y antipatía hacia el burdo imitador de sus personajes. El resultado es una vertiginosa instalación de Cervantes en la realidad física o histórica de su tiempo, como si la intromisión del libro de Avellaneda hubiese propiciado en Cervantes la genialidad definitiva de situar a su personaje de ficción en plena refriega con la realidad histórica y empírica (Jordi Gracia 2016: 412).

Bibliografia citata Avalle-Arce, Juan Bautista (1991), “El bachiller Sansón Carrasco”, in Actas del II Coloquio Internacional de la Asociación de Cervantistas, Alcalá de Henares, 6-9 noviembre 1989, Barcelona, Anthropos: 17-25. Cabani, Maria Cristina; POGGI, Giulia (2006), “Peccati di curiosità (Furioso XLII-XLIII-Quijote I, 33-35”), Studi Mediolatini e Volgari, LII: 5-31. Eco, Umberto (1979), Lector in fabula: la cooperazione interpretativa nei 30

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testi narrativi, Milano, Bompiani. Girard, Réné (1980) [1972], La violenza e il sacro, Milano, Adelphi. Gómez Canseco, Luis (2017), Don Bernanrdo de Sandoval y Rojas. Dichos, escritos y una vida en verso, Huelva: uhu.es publicaciones. Gracia, Jordi (2016): Miguel de Cervantes. La conquista de la ironía, Barcelona, Penguin Random House. Guillén, Claudio (1988) [1966], “Luis Sánchez, Ginés de Passamonte y el descubrimiento del género picaresco”, in El primer siglo de oro. Estudios sobre géneros y modelos, Barcelona, Crítica: 197-211. Günter, Georges (2015), “El curioso impertinente: nuevas perspectivas críticas”, Anales Cervantinos, 47: 183-208. Martinengo, Alessandro (2016), “L’espulsione dei moreschi nel Quijote. L’utopia negata”, Orillas. Rivista d’ispanistica, 5: 1-9. Molho, Maurice (2005) [1991], “El sujeto apócrifo y el arte de manipular al otro”, in De Cervantes, Paris, Editions Hispaniques: 505-514. Pini, Donatella (1994): “Il Quijote e i doppi” [1990], in Mariarosa Scaramuzza Vidoni (ed.), Rileggere Cervantes, Milano, LED: 279-292. Riley, Edward C. (2000), “Sepa que yo soy Ginés de Pasamonte”, in Lecturas del Quijote, Barcelona, Crítica. Riquer, Martín de (1988): Cervantes, Passamonte y Avellaneda, Barcelona, Sirmio. Ruffinatto, Aldo (2000), Las dos caras del Lazarillo: texto y mensaje, Madrid, Castalia. Scaramuzza, Mariarosa (1998), Deseo, imaginación, utopía en Cervantes, Milano, Bulzoni.

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La rottura dell’incantesimo (Quijote, II, 22-24)

Giulia Poggi Università di Pisa

Come tutti sanno, l’episodio della caverna di Montesinos rappresenta un punto centrale nel Quijote, un nucleo attorno a cui ruota la continua oscillazione tra verità e finzione che lo caratterizza. Non è un caso che l’episodio venga rammentato più volte dai due protagonisti del romanzo, la prima delle quali appena un capitolo dopo quando, imbattutisi i due in Maese Pedro, Sancho vorrebbe sfruttare le doti divinatorie del mono adivino chiedendogli se quanto è successo al suo padrone nella caverna è vero o falso: Con todo eso, querría –dijo Sancho– que vuesa merced dijese a maese Pedro preguntase a su mono si es verdad lo que le pasó en la cueva de Montesinos; que yo para mí tengo, con perdón de vuesa merced, que todo fue embeleco y mentira, o per lo menos cosas soñadas (Cervantes 1998: II, 26, 844).

Scetticismo, questo di Sancho, che don Quijote sembra voler ricambiare quando, dopo il fantastico resoconto del suo scudiero a proposito del viaggio su Clavileño, gli chiede:

AISPI Edizioni, 2018 ISBN: 9788890789748

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AISPI Edizioni Sancho, pues vos queréis que os crea lo que habéis visto en el cielo, yo quiero que vos creais a mí lo que vi en la Cueva de Montesinos. Y no os digo más (II, 41, 966).

L’episodio verrà ancora rammentato, più di dieci capitoli dopo quando, fra le varie domande rivolte alla cabeza encantada di don Antonio, anche Don Quijote formula la sua: Llegóse luego don Quijote, y dijo: –Dime tú, el que respondes: ¿fue verdad, o fue sueño lo que yo cuento que me pasó en la cueva de Montesinos? ¿Serán ciertos los azotes de Sancho mi escudero? ¿Tendrá efecto el desencantamiento de Dulcinea? (II, 62, 1140).

Insomma, la visione della cueva di Montesinos e il sogno che la suggella innescano un meccanismo di encantos e relativi desencantos che si autoalimenta in maniera direi quasi entropica, strutturando tutto il secondo Quijote come un’affannosa ricerca di qualcosa che non avverrà mai. La crescente frustrazione di don Quijote, che invano cerca di liberare dall’incantesimo Dulcinea, arrivando perfino a sconvolgere il suo rapporto con Sancho, tingerà di una crescente malinconia il suo carattere, dotandolo di una pensosità che gli era estranea nella prima parte del romanzo. Processo che, si può dire, abbia inizio, immediatamente dopo il celebre capitolo decimo della seconda parte (“Pensativo además iba don Quijote por su camino adelante, considerando la mala burla que le habían hecho los encantadores volviendo a su señora Dulcinea por la mala figura de la aldeana, y no imaginaba que remedio tendría para volverla a su ser primero; y estos pensamientos le llevaban tan fuera de sí, que sin sentirlo soltó las riendas a Rocinante…”, recita l’incipit di II, 11) per terminare nel penultimo (II, 73) quando, tornato al suo paese, l’hidalgo si rifiuta di credere quello che vorrebbe fargli credere Sancho, ossia che Dulcinea gli si presenti, ancora una volta incantata, sotto forma di lepre. Eppure, nonostante la crescente frustrazione di don Quijote e la sua progressiva sfiducia nei confronti del desencantamiento di Dulcinea, esiste un luogo nel romanzo in cui l’incantesimo che avvolge la sua figura inizia a rompersi, e questo luogo è appunto, a seconda di come la si legga, la cueva de Montesinos. Da quest’ipotesi vorrei partire per aggiungere un tassello, sia pure minimo, alla complessa storia critica sull’episodio. Esiste infatti, attorno ad esso, una densa bibliografia che può grosso modo sintetizzarsi

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in due filoni. Il primo, per cui rimando all’ampia dissertazione di Aurora Egido (1994: 179-223), teso a ricostruire le molteplici fonti letterarie che vi sottostanno, e che vanno dai libri ai romances cavallereschi (da ricordare, a questo proposito, come il trattamento burlesco del ciclo di Belerma e Durandarte sia già presente in un romance giovanile di Góngora), dalle novelas pastoriles, quasi sempre incentrate attorno a una cueva, all’epica classica con la sua immancabile discesa agli inferi. Il secondo propenso a interpretare il viaggio onirico dell’hidalgo nelle viscere della terra in chiave mitica e archetipica. E qui è d’obbligo citare Maurice Molho, il quale legge nella discesa di don Quijote nella cueva un viaggio iniziatico e nella cueva stessa uno spazio dal duplice significato: l’Ade e il labirinto (Molho 2005: 361-428). Un labirinto in cui il filo di Arianna è sostituito dalla corda che Sancho fornisce a don Quijote, e al cui centro sta, non il Minotauro, ma Dulcinea. Non solo, ma se, sostiene Molho, per riscattare il Minotauro c’era bisogno di pagare un tributo in sangue e in carne umana, per riscattare Dulcinea, occorre, più simbolicamente, pagare in denaro. Motivo, questo del riscatto, ripreso anche da Redondo, il quale assimila la richiesta che Dulcinea rivolge a don Quijote al pegno (consistente in un oggetto magico o, appunto, in una moneta) che l’aiutante offre nelle fiabe per liberare l’eroe o l’eroina (Redondo 1997: 403-420). Anche Riley legge l’episodio in chiave mitica affermando che proprio attraverso l’esperienza del suo hidalgo nella cueva di Montesinos Cervantes avrebbe riportato il mito al luogo da cui originariamente era partito, e cioè la psiche. E sarà proprio in base a questo legame fra mito e psiche che Riley si chiede perché mai né Freud né Jung abbiano pensato a interpretare il sogno rappresentato nella cueva di Montesinos1. Lungi dal proporre una mia personale interpretazione (se non l’hanno fatto né il padre della psicanalisi né il suo “delfino”, non vedo come potrei farlo io!) vorrei solo indicare come, se da un lato l’esperienza di don Quijote nella cueva si configura come una Riley (1982: 105-119). Fra i tanti studi sull’episodio, particolarmente utili per l’analisi che propongo anche quelli di G. Hughes (1977: 107-113), di L. Osterc (1985: 47-68) e di C. Schwalb (1993: 239-246); sul motivo del denaro nel Quijote, e in particolare sulla trattativa che ha luogo nelle profondità della cueva di Montesinos, si veda D. Pini (2016: 1-22), ricco di spunti sull’argomento. Non si sofferma sull’episodio l’ampia e articolata monografia di C. B. Johnson (2000), centrata su una lettura in chiave capitalistica, oltre che del Quijote, delle Novelas ejemplares. 1

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visione letteraria su cui si innesta un sogno dai tratti fortemente realistici, dall’altra questo sogno è governato da due dei meccanismi –lo spostamento e la condensazione– individuati da Freud nel suo celebre trattato2. Dopo aver riferito del triangolo Montesinos-Belerma-Durandarte attraverso l’apparizione di questi tre personaggi nel luogo più profondo della cueva, don Quijote passa a raccontare a Sancho di aver visto, fra le altre cose meravigliose in essa contenute, le tre labradoras del capitolo decimo e di aver riconosciuto in una di esse la “sin par” Dulcinea del Toboso. E quando Sancho gli chiede come ha fatto a riconoscerla così risponde: –Conocíla [...]– en que trae los mesmos vestidos que traía cuando tú me la mostraste. Habléla, pero no me respondió palabra, antes me volvió las espaldas y se fue huyendo con tanta priesa que no la alcanzara una jara (II, 23, 826-27).

Un’apparizione tanto fugace quanto inutile è il tentativo di fermarla da parte di don Quijote (“Quise seguirla, y lo hiciera, si no me aconsejara Montesinos que no me cansase en ello, porque sería en balde, y más porque se llegaba la hora donde me convenía volver a salir de la sima”, ibidem) il quale, proprio mentre sta parlando con Montesinos, viene così abbordato: se llegó a mí por un lado, sin que yo la viese venir, una de las dos compañeras de la sin ventura Dulcinea, y llenos los ojos de lágrimas, con turbada y baja voz, me dijo: “–Mi señora Dulcinea del Toboso besa a vuestra merced las manos y suplica a vuestra merced se la haga de hacerla saber cómo está, y que, por estar en una gran necesidad, asimismo suplica a vuestra merced cuan encarecidamente puede sea servido de prestarle sobre este faldellín que aquí traigo, de cotonia nuevo, media docena de reales, o lo que vuestra merced tuviere; que ella da su palabra de volvérselos con mucha brevedad” (ibidem).

Da notare come, non solo il rapido apparire e sparire di Dulcinea rimandi alla natura labile del sogno, ma anche come la sua richiesta non sia diretta ma affidata, secondo appunto il meccanismo dello spostamento, a una delle sue accompagnatrici, la cui presenza si materializza, proprio come succede nei sogni, in maniera improvvisa e inaspettata. Tutta la scena è del resto improntata a una promiscua temporalità, dovuta al sovrapporsi su un pas2

Freud (1973), in particolare le pagine 268-295 del capitolo “Il lavoro onirico”.

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sato epico (rappresentato dagli eroi carolingi che emergono dal fondo della cueva) di uno assai più prossimo al protagonista, in quanto relazionato con la sua recente esperienza: un passato che, a sua volta, viene minacciato e incalzato dall’urgenza del suo imminente risveglio. Insomma, per tornare a Freud, così come ogni sogno costituisce la risposta a quanto è stato vissuto nella veglia del giorno prima, quello di don Quijote nella caverna di Montesinos risponde a quanto, pochi capitoli prima, era accaduto nel romanzo. Ma se da un lato la natura labile del sogno permette ai personaggi della cueva di scomparire con la stessa rapidità con cui appaiono, dall’altro la richiesta da essi formulata rimanda a un contenuto corporeo che mette in atto l’altro meccanismo onirico contemplato da Freud: la condensazione. Infatti, come nota Molho, il faldellín su cui Dulcinea chiede un prestito non è un capo di vestiario qualunque, ma un indumento intimo: particolare, quest’ultimo che, mentre coniuga sesso e denaro, infrange l’ideale sublimato di cui don Quijote aveva circonfuso, almeno fino all’apparizione delle tre contadine, la “sin par” Dulcinea del Toboso. Inoltre, così come la richiesta di soldi non proveniva direttamente da Dulcinea, ma da una delle sue compagne (che possono essere viste in dialettica con le donzelle che scortano Belerma nel suo avanzare con il cuore di Durandarte “seco y amojamado”) anche la sua soddisfazione viene spostata dall’hidalgo al suo scudiero. Così infatti prosegue don Quijote nel suo resoconto a Sancho di quanto accaduto nel sogno: “Prenda no la tomaré yo –le respondí– ni menos le daré lo que pide, porque no tengo sino solos cuatro reales”. Los cuales le di, que fueron los que tu Sancho me diste el otro día para dar limosna a los pobres que topase por el camino (ibidem).

Da notare come, non solo don Quijote lesini la cifra richiesta da Dulcinea (solo quattro reali invece di sei), ma anche tenti di giustificarsi con un’offerta spropositata rispetto alle sue possibilità (“Decid, amiga mía a vuestra señora –egli dice alla messaggera di Dulcinea– que a mí me pesa en el alma de sus trabajos y que quisiera ser un Fúcar para remediarlo”, ibidem). E se è vero che, come già aveva affermato Celestina sulla base di una sentenza delle Familiares di Petrarca, “ofrecer mucho a quien pide poco es como negar”3, è 3

Sono le parole con cui, nel sesto atto, la mezzana rintuzza le offerte di Calisto (“O por Dios,

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vero anche che, in contraddizione con gli slanci eroici della prima parte del romanzo, don Quijote si dimostra, nella seconda, un amante sempre più avaro e sempre meno disposto a confrontarsi con la sua libido. Si può dire insomma che, per quanto sistematicamente allontanati da don Quijote nella prima parte del romanzo, sia l’eros che il denaro entrino di prepotenza nella seconda attraverso il meccanismo psichico della condensazione suggerito dal sogno-visione della cueva. Ciò che dà luogo a un duplice processo consistente, da un lato nel progressivo affermarsi di particolari economici e finanziari, e dall’altro in un impercettibile svuotarsi della fede amorosa dell’hidalgo sempre più esposto, quasi a ribadire il divario fra il suo delirio e le occasioni che concretamente gli si offrono, alle sollecitazioni del fascino femminile. Significativo, per quanto riguarda il primo motivo, l’insistente misurarsi di don Quijote con somme di denaro sempre più reali e quantificate. Come quando, nel già citato episodio del titerero, tratta con lui, per ogni figurante distrutto, una cifra proporzionata al suo valore. Non solo, ma, di fronte alle sue crescenti richieste (“pidió Maese Pedro dos reales por el trabajo de tomar el mono”) si lascia andare alla stessa (falsa) liberalità con cui aveva congedato la compagna di Dulcinea (“Dáselos, Sancho –dijo don Quijote– no para tomar el mono, sino la mona; y doscientas diera yo en albricias a quien me dijera con certidumbre que la señora doña Melisendra y el señor don Gaiferos estaban ya en Francia…”, II, 26, 854). Per non parlare di Sancho il quale, a partire dalla richiesta di salario già avanzata nella prima parte, diventa sempre più, nella seconda, una sorta di ragioniere delle sostanze male amministrate del suo padrone (pensiamo a quando, costretto a pagare cinquanta reali per il passaggio del barco encantado, non si dà pace vedendo sempre più assottigliato il loro caudal)4. Siamo lontani dall’ideale di vita incontaminato dalla realtà che aveva fatto affermare a don Quijote, sollecitato dall’oste della prima osteria (I, 3), toma toda esta casa y cuanto en ella ay…”), spropositate di fronte alla sua modesta richiesta di un manto in cambio del cordón di Melibea (Rojas 1993: 184-85). 4 Sono le battute finali di II, 29: “En diciendo esto, [don Quijote] se concertó con los pescadores y pagó por el barco cincuenta reales, que los dio Sancho de muy mala gana diciendo: –A dos barcadas como estas, daremos con todo el caudal al fondo” (874).

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di non aver mai letto che i cavalieri erranti portassero con sé del denaro! Se già nella seconda uscita la coppia era venuta a patti con la materialità del denaro (tanto che al curato, approdato alla locanda di Palomeque, toccherà di rifondere al barbiere i danni provocati al bacía/yelmo, e a don Fernando tutto il vino versato, nel suo assalto agli otri, da don Quijote), nella terza esso sembra prendere il sopravvento, non solo nei rapporti fra padrone e scudiero, ma anche nel loro relazionarsi con il mondo esterno. Basti pensare all’incontro di Sancho con Ricote e al profilarsi, dietro a questo personaggio, delle implicazioni economiche che stanno dietro alla cacciata dei moriscos. Parallelo a questo progressivo insinuarsi del fattore denaro nelle avventure in cui di volta in volta incappano l’hidalgo e il suo scudiero, quello di un eros sempre meno idealizzato e sempre più contiguo a circostanze e situazioni del tutto verosimili. Lontane ormai dalle mozas del partido che sostavano sulla soglia della prima locanda, così come dalla sgraziata e carnale Maritornes della seconda, le figure femminili con cui don Quijote viene a contatto nella seconda parte del romanzo sono caratterizzate da una crescente bellezza e maliziosità. A partire dall’incontro con la bella cacciatrice (ossia la duchessa che li condurrà al castello), cavaliere e scudiero diventeranno oggetto di una serie di attenzioni muliebri spesso sconfinanti in vere e proprie avances. Ma mentre Sancho, con il suo buon senso da contadino, riesce a riconoscere la loro ingannevolezza, don Quijote rischia di rimanervi impigliato, fino al punto da far vacillare la sua devozione per Dulcinea. Ripetutamente, approfittando del suo delirio amoroso, gli si offrirà la bella e desenvuelta Altisidora, la quale arriverà al punto di calunniarlo, insinuando, attraverso la falsa denuncia di alcune ligas scomparse (altro indumento intimo che non può non richiamare quello esibito da Dulcinea nella cueva), di essere stata sedotta da lui. Altro il rapporto che la dueña Rodríguez, dama di compagnia della contessa, intrattiene con l’hidalgo. Subito inquadrata come donna matura dal disincantato Sancho (gustoso lo scambio di battute che i due imbastiscono attorno al termine higa in II, 31), essa viene, dapprima difesa strenuamente da don Quijote, ma poi temuta come pericolosa concorrente di Dulcinea. Di fatto la scena di II, 48 in cui l’hidalgo, troppo tardi precipitatosi dal letto per chiudere a chiave la porta, si trova a contenere le (supposte) avances della dueña che lo guarda spaventata alla luce di

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una candela, rappresenta uno dei momenti più umoristici del romanzo, ma anche, al tempo stesso, il punto più basso delle resistenze opposte dal suo protagonista alle profferte femminili: ni yo soy de mármol, ni vos de bronce –controbatte don Quijote alle scandalizzate proteste della dama di fronte al suo abbigliamento notturno– ni ahora son las diez del día, sino media noche, y aun un poco más, según imagino, y en una estancia más cerrada y secreta que le debió de ser la cueva donde el traidor y atrevido Eneas gozó a la hermosa y piadosa Dido (I, 48, 1017).

Insomma, sembra proprio che il desamoramiento di Dulcinea, che Avellaneda aveva imputato al suo don Quijote contraffatto (e di cui uno degli ospiti della locanda incontrata dai due sulla via di Saragozza chiede ragione), percorra la seconda parte del romanzo inversamente a quanto succedeva nella prima fondata, invece, sulla crescente esaltazione amorosa del suo protagonista. Un desamoramiento che coincide, a mio parere, con il processo di desencantamiento innescato dall’episodio della cueva di Montesinos. Vani, infatti, come dicevo, sono i tentativi che, istigato dal cinismo e dalle messinscena organizzate dai duchi, don Quijote mette in atto per sciogliere Dulcinea dall’incantesimo che la rievocava, nel sogno-visione, nei panni di una rustica aldeana. Culminanti in quella mercificazione delle frustate sulle chiappe sanchesche che ripropone l’appaiamento fra corpo e denaro già stabilito dallo strano sogno dell’hidalgo, essi finiscono per stemperarsi nel suo comportamento sempre più dubbioso e tentennante. E se nella prima parte del romanzo la sua follia veniva agita, nella seconda essa sembra venire sempre di più a patti con la realtà. Una realtà filtrata, non più attraverso le illusioni della letteratura, ma attraverso quelle, psichiche, del sogno: una realtà, in altri termini, introspettiva che introduce, in un romanzo nato dalle ceneri del meraviglioso cavalleresco, la dimensione soggettiva propria del novel. Si tratta, tuttavia, di una soggettività ancora embrionale, come dimostra la natura ibrida dell’episodio della cueva di Montesinos, in cui il sogno si innesta sulla visione, la nuova eroina (la Dulcinea del romanzo di don Quijote) su quella (Belerma) della stratificata tradizione cavalleresca, la psiche individuale su quella collettiva, il tempo del sogno su quello della realtà. Per cui, se ha ragione Molho quando afferma che la Dulcinea sognata da don Quijote

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Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615 pertenece no a la caballería de los orígenes, sino a la caballería moderna. No es la dama de un héroe de Roncesvalles, sino de un paladín del presente, héroe actual, portador de su propia mitología y al mismo tiempo de su presencia en la historia real (Molho 2005: 57),

ha ragione anche Riley quando così conclude la sua lettura dell’episodio: The marvellous events and beings of Montesinos Cave were truly alive and real. But not in the Cave. They are alive and real within Don Quijote. Don Quijote is not in the marvellous world of the Cave; he was asleep, alone, down a hole in the ground. The Cave of Montesinos was inside him (Riley 1982: 19).

Bibliografia citata Cervantes, Miguel de (1998), Don Quijote de la Mancha, edición del Instituto Cervantes dirigida por Francisco Rico, Barcelona, Crítica. Egido, Aurora (1994), “La de Montesinos y otras cuevas”, in EAD., Cervantes y las puertas del sueño, Barcelona, PPU: 179-223. Freud, Sigmund (1973), L’interpretazione dei sogni, trad. italiana di E. Fachinelli e H. Trettl, Torino, Bollati Boringhieri. Hughes, Gethin (1977), “The Cave of Montesinos: Don Quixote’s interpretation and Dulcinea’s disenchantment”, Bulletin of Hispanic Studies, LIV: 107-113. Johnson, Carroll B. (2000), Cervantes and the Material World, University of Illinois Press, Urbana and Chicago. Molho, Maurice (2005), La paradoja de la cueva (Quijote II, 22, 23, 24), in ID., De Cervantes, Paris, Editiones Hispaniques: 361-428. Osterc, Ludovic (1985), “Dulcinea y sus metamorfosis”, Anales Cervantinos, XXIII: 47-68. Pini, Donatella (2016), “Cervantes, il Quijote e il denaro”, Orillas. Rivista d’ispanistica, 5: 1-22. Redondo, Agustín (1997), La cueva de Montesinos (II, 22-23), in ID., Otra manera de leer al Quijote, Madrid, Castalia: 403-420. Riley, Edward C. (1982), Metamorphosis, Myth and Dream in the Cueva of Montesinos, in Essays on Narrative Fiction in the Iberian Peninsula in

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Honour of Frank Pierce, ed. R. B. Tate, The Dolphin Books, Oxford: 105-119. Rojas, Fernando de (1993), La Celestina, ed. D. S. Severin, Madrid, Cátedra. Schwalb, Carlos (1993), “La cueva de Montesinos: condensación onírica de dos textos disímiles”, Anales Cervantinos, XXXI: 239-246.

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Il numero 5 dei Cuadernos: l’omaggio dell’AISPI a Cervantes

Maria Caterina Ruta Università di Palermo

Il mio breve intervento è finalizzato a rappresentare all’attenzione degli ascoltatori e, ora, dei lettori la genesi del numero 5 della rivista, fondata dalla nostra Associazione e brillantemente portata avanti dal precedente e dall’attuale direttivo con una serie di volumi di alto profilo scientifico. I Cuadernos, che hanno già visto la luce o che sono in preparazione, hanno individuato tematiche di notevole interesse e attualità e, nel confermare il prestigio degli studiosi già affermati, permettono ai più giovani di presentarsi sulla scena del dibattito culturale contemporaneo. Il quinquennio 2013-2017 si sviluppa all’insegna di più di cinque centenari di argomento cervantino. Abbiamo già celebrato nel 2013 i quattrocento anni delle Novelas ejemplares e nel 2014 quelli del Viaje del Parnaso e della Seconda parte del Quijote apocrifa. Nel 2015 si sono ricordate la raccolta delle Ocho comedias y ocho entremeses e la pubblicazione della Seconda Parte autentica del Quijote (1615). Nel 2016 sarà celebrata con particolare enfasi la scomparsa di Miguel de Cervantes per passare nell’anno successivo all’aggiornamento sulla pubblicazione postuma de Los trabajos de Persiles y Sigismunda. Fare il punto su ognuna di queste ricorrenze era impresa veramente chisciottesca e, quindi, chimerica. Con A. Robert Lauer, che ha svolto un prezioso lavoro di coordinamento e revisione dei testi, mi sono resa conto che l’ipotesi più praticabile fosse quella di organizzare un numero monografico che riunisse nello spazio controllato di un volume i riferimenti a

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ogni centenario (Ruta; Lauer). L’invito a partecipare alla realizzazione del volume è stato accolto da diversi studiosi, appartenenti a scuole e paesi differenti, a testimonianza della vitalità del cervantismo internazionale che, aspetto particolarmente interessante, si sta diffondendo anche fra le generazioni più giovani. I colleghi stranieri interpellati hanno aderito con entusiasmo, sottolineando come un privilegio la loro partecipazione a una pubblicazione di iniziativa italiana. Le presenze dei nostri soci non sono numerose, riescono a coprire, tuttavia, ambiti di ricerca differenziati e significativi. Alcuni dei nostri specialisti non hanno potuto aderire fin dall’inizio per precedenti impegni irrinunciabili, altri colleghi, dopo aver già scelto l’argomento, hanno dovuto rinunciare alla collaborazione per il sopraggiungere di nuovi compiti, scientifici e didattici, assai gravosi. Avrebbe sicuramente partecipato la nostra cara Mariarosa Scaramuzza, che qui abbiamo ricordato e la cui memoria ci accompagnerà costantemente per l’importanza dei suoi contributi scientifici e per le sue squisite doti umane. Anche alcuni colleghi stranieri, dopo aver mandato un titolo che avrebbe coperto aree tematiche che sono rimaste solo parzialmente trattate, per motivi accademici o di salute hanno dovuto ritirare la loro partecipazione. Se vogliamo riunire i lavori secondo le opere prese in considerazione Aldo Ruffinatto (“Entre asaduras y salpicones, Joyce y Cervantes”), Veronica Orazi (“Reescrituras cervantinas en el teatro español contemporáneo: Els Joglars y el Quijote”), Agapita Jurado (“El Quijote prerromántico en la Europa occidental: catálogo y propuesta de estudio”) e Adela Presas (“Recreación del Quijote en la ópera italiana: condicionantes y convenciones del género receptor”) hanno trattato temi inerenti al Quijote sia pure da punti di vista differenti fra loro. José Manuel Martín Morán (“El peso de la voz. La autoridad del narrador en las Novelas ejemplares”) si occupa di alcuni aspetti strutturali delle Novelas ejemplares, novelle che ritornano nel lavoro di Susan Byrne (“Coloquio, murmurar, canes muti: Cervantes y los jesuitas”), anche in questo caso in una diversa chiave di lettura. Fausta Antonucci, ricollegandosi al lavoro svolto dal sempre compianto Stefano Arata, partecipa al dibattito sull’attribuzione a Cervantes di alcuni fra i testi teatrali che sono stati ritenuti smarriti (“La estructura dramática del teatro cervantino de la ‘primera época’: una propuesta de análisis”). Ma il teatro, nella variante

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degli Entremeses, è presente anche grazie al contributo di Aurelio González (“El espacio y la representación en los entremeses de Cervantes”) e al lavoro tematico di Ruth Fine (“En torno a la representación de la mujer judía en la obra de Cervantes en el contexto de la literatura del Siglo de Oro español”), in cui si esamina il personaggio di Salomé/Herodías dell’intermezzo El retablo de las maravillas. In quest’ultimo saggio si sfiora il complesso mondo del Persiles attraverso il personaggio di Julia, moglie di Zabulón, ciò permette di ricordare, sebbene in modo molto parziale, l’opera postuma di don Miguel, che certamente nel 2017 riceverà a livello internazionale particolare attenzione da parte degli esperti. Non mancano i riferimenti alla poesia del Nostro. Con l’analisi di Mariapia Lamberti (“‘Un quidam Caporal italiano’. Relaciones del Viaje del Parnaso de Cervantes con los antecedentes italianos”) si ricorda il centenario del poema del 1614, anno che si recupera in relazione alla pubblicazione del Quijote apocrifo nel lavoro di José Montero Reguera (“Los tres Quijotes ante la poesía: una propuesta sobre el discurso poético de Cervantes sobre la poesía”), che da anni è impegnato insieme con Fernando Romo e Macarena Cuiñas nella elaborazione della più completa edizione della poesia cervantina. Il 2016, anno in cui si commemora la morte dello scrittore, è anticipato dall’intervento di José Manuel Lucía Megías (“Un personaje llamado Miguel de Cervantes: una lectura crítica de la documentación conservada”) che dà un saggio del metodo che intende seguire nella redazione della nuova biografia di Cervantes, di cui ha già pubblicato la prima e la seconda parte (Lucía Megías 2016a e 2016b). Se vogliamo considerare la distribuzione tematica dei contributi, quale appare nel risultato finale, si nota che un casuale equilibrio si è venuto a creare fra gli articoli dedicati al Quijote e quelli riferiti al teatro cervantino, forse perché i centenari della loro pubblicazione erano più immediati quando è partita la preparazione del nostro monografico, mentre quello delle Novelas ejemplares aveva già impegnato gli specialisti in anni precedenti. La poesia di Cervantes, da parte sua, si sa, ha sempre interessato un minor numero di studiosi. Ma sono solo congetture, la programmazione iniziale del Cuaderno aveva previsto l’equilibrata trattazione di tutte le opere celebrate nel quinquennio esaminato.

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Tutti i lavori apportano nuovi dati e aprono percorsi di lettura innovativi, diversificandosi fra quelli impegnati esclusivamente nell’esame delle opere o della vita dello scrittore e quelli che si collocano sul versante delle linee di ricerca che attualmente godono di notevole diffusione nell’ambito della critica internazionale e non solo del cervantismo: l’approccio intertestuale e l’Estetica della ricezione (Byrne; Lamberti; Jurado; Presas). Il concetto di “intertestualità” (Segre 1984: 103-118), così come ci è stato consegnato nella seconda metà del secolo scorso, ha modificato proficuamente alcuni paradigmi utilizzati dalla critica del passato. L’intertestualità, intesa non solo in senso linguistico, ma anche letterario e artistico, considera operazione ordinaria e fertile l’accumulo e l’intreccio di riferimenti e risonanze provenienti da altri testi nell’elaborazione di nuove composizioni. Va osservato, tuttavia, che in qualsiasi epoca il fruitore contemporaneo, addestrato alla conoscenza della cultura del suo tempo, avrà saputo cogliere nell’oggetto fruito queste suggestioni, interpretandole come espressione di appartenenza a una tradizione che in ogni opera si ripropone e si rinnova. Nel nostro volume le ricerche di Susan Byrne, volte a verificare la presenza del modello dell’esame di coscienza dei Gesuiti nell’intreccio del Coloquio de los perros, e quelle di Mariapia Lamberti, che esamina le relazioni esistenti fra il Viaje del Parnaso e alcuni autori italiani antecedenti, esplicitano, accanto alle somiglianze con i modelli ricordati, anche le differenze apportate da Cervantes, che nell’utilizzo di quelle reminiscenze si colloca in una diversa prospettiva. Dal confronto delle due parti del Quijote cervantino con la continuazione del plagiario Avellaneda Montero Reguera rintraccia nell’apocrifo i segni che testimoniano il rapporto intertestuale fra il volume del 1605 e quello del 1614, soffermandosi sull’inserzione di versi nella caratterizzazione del personaggio del falso cavaliere, evidentemente improntata al testo cervantino. Prolungando il gioco intertestuale, per rispondere all’avversario il ‘Manco de Lepanto’ nel libro del 1615, non solo continua a disseminare versi, ma aggiunge quel discorso sulla poesia (II, 16-18) che non aveva inserito nella conversazione fra il Curato e il Canonico di Toledo (I, 47-48), orientata a disquisire sulle poetiche del romanzo e del teatro. Si chiariscono in tal modo le due diverse concezioni della poesia professate da Avellaneda e da Cervantes, che riflettono le differenti personalità dei due scrittori.

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Ad una intertestualità interna si riferisce Fausta Antonucci quando studia gli aspetti tecnici e metrici della pièce anonima La conquista de Jerusalén in rapporto alle due commedie di Cervantes El trato de Argel e La Numancia, pubblicate nel 1615. Il rilievo di modalità comuni alle tre commedie permette di avanzare, con concretezza di dati, nel cammino dell’attribuzione della prima a Cervantes. Riportato alla letteratura dei nostri giorni, il processo intertestuale ha modificato i suoi parametri. In uno dei frammenti che compongono il libro Fame di realtà di David Shields (2010), nel capitolo dal titolo Collage, si asserisce “Lo slancio, nel mosaico letterario, non viene dalla narrazione, ma dal sottile progressivo accumulo di risonanze tematiche” (141). Uno dei brani successivi recita “Incorporando i materiali che sono inestricabilmente legati alla realtà della vita quotidiana, l’artista del collage stabilisce un’identificazione immediata, sia reale che immaginata, tra il fruitore e l’opera d’arte” (149). Nell’originale elaborazione teorica dello scrittore e saggista americano, quindi, si sottolinea che l’essenza del romanzo o dell’opera d’arte contemporanei è data dall’accumulo delle più diverse risonanze tematiche e di materiali provenienti dalla realtà in cui vive l’autore, elementi che il fruitore coevo non ha difficoltà a percepire, anche se non necessariamente a individuare nei dettagli. Questa riflessione si può applicare all’interrelazione fra testi di diversa natura, quali il romanzo dello scrittore alcalaino e la riproposta attuata nell’operazione del gruppo teatrale Els Joglars, che ci viene descritta da Veronica Orazi. La costruzione metateatrale, che avvolge i riferimenti diretti e indiretti al Quijote nella sua trasposizione realizzata nello spettacolo En un lugar de Manhattan, salva gli elementi universali dell’opera di Cervantes, ma riporta con energia lo spettatore alla realtà del suo tempo. La rappresentazione del mondo del palcoscenico, con la regista, gli attori e gli occasionali personaggi che l’attraversano, richiama da vicino la concezione di collage difesa da Shields. Lo spettatore contemporaneo riesce ad entrare in contatto con Cervantes attraverso la prepotente irruzione dell’attualità nell’universo semantico di un’opera del Secolo d’Oro, che in questo modo perde l’alone di vetustà che inevitabilmente un classico rivisitato, oggi, riveste agli occhi del giovane fruitore. Anche il titolo del lavoro di Aldo Ruffinatto potrebbe suggerire di classificarlo a prima vista nell’ampio panorama dei riferimenti al Quijote che costellano la storia della letteratura universale. In realtà Ruffinatto, confrontando le

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abitudini alimentari dell’idalgo e di Mr. Bloom, il protagonista dell’Ulisse di Joyce, individua e analizza processi paralleli e divergenze fra i due libri a partire dall’opposizione semiotica “interno/esterno”. Gli elementi rilevati sul piano del discorso, trasferiti sul piano narratologico, sono applicabili a diversi livelli della costruzione della storia e ne fanno emergere le implicazioni simboliche. Per quanto riguarda l’‘Estetica della ricezione’, colgo l’occasione per riferirmi a una mia lettura relativamente recente. Nell’ampio resoconto sui venticinque anni della Asociación de Cervantistas, pubblicato sul numero 46 della rivista Anales cervantinos (Lucía Megías, Montero Reguera, López Navia, Abreu, Lozano-Renieblas, Bernat Vistarini, Cuevas Cervera 2014: 299-392), sulla base della rassegna critica delle più recenti pubblicazioni intorno alla materia Cervantes, l’autore di quella sezione del Dossier lamentava una flessione nello studio dei testi dello scrittore, aggiungendo che, per altro, detti studi affrontano aspetti parziali delle sue opere a danno della loro totalità. Osservava, inoltre, che negli Atti dei Congressi più recenti e nei volumi monografici ha guadagnato sempre più terreno la ricerca sulla ricezione delle opere di Cervantes, articolata nel tempo, nello spazio e nei generi artistico-letterari. Nel nostro volume i contributi di Agapita Jurado e di Adela Presas, pur collocandosi in questo ambito di ricerca, propongono due ipotesi di lavoro innovative. La proposta della prima mira alla creazione di un corpus diacronico, europeo e pluridisciplinare, di opere scritte nei secoli XVII e XVIII e dichiaratamente ispirate al capolavoro cervantino nel titolo. Uno studio comparatistico, condotto da prospettive diverse, nella linea di ricerca indicata da Claudio Guillén (2005), favorirebbe la definizione della storia della ricezione del capolavoro di Cervantes e della sua rigenerazione in un panorama transnazionale. Sappiamo che nel volume, pubblicato nel 2015, la studiosa ha presentato i risultati della sua indagine, che può ritenersi il più possibile completa in rapporto alle attuali conoscenze in questo ambito e che consegna nelle mani di quegli studiosi che ne vorranno sfruttare la messe di dati da lei raccolta (Jurado 2015). Sul versante che da alcuni anni ha ricevuto l’attenzione di gruppi di esperti musicologi, e cioè il rapporto fra i testi di Cervantes e la riscrittura musicale, nel suo lavoro, incluso nel Cuaderno n. 5, Adela Presas, specialista dell’opera italiana, propone una nuova ottica rispetto alle analisi che si sono occupate

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fondamentalmente di individuare affinità e differenze fra i libretti e il Quijote cervantino. Considerando innanzitutto le difficoltà dovute sia al passaggio da un testo narrativo a uno teatrale, e sia alla vastità e complessità della materia narrata nel Quijote, nella sua ricezione in musica agiscono, assieme ai codici epocali, i condizionamenti del genere operistico che, nel corso dei secoli, evolve dal dramma per musica seicentesco alla sperimentazione dell’opera novecentesca. Tali condizionamenti impongono norme e limitazioni, ma allo stesso tempo, come accade per qualsiasi genere di ricezione di questo, come di altri classici della letteratura universale, arricchiscono di nuove interpretazioni il capolavoro di Cervantes e possono scoprire potenzialità e significati del testo che la lettura passiva del lettore comune non scorge. Infine, guardando alla produzione critica e letteraria che si è diffusa in particolar modo in Spagna nell’occasione dei suddetti centenari, penso di poter affermare con motivata convinzione che, accanto alla ripresa del mito del protagonista del Quijote, si stia completando un’operazione, iniziata a partire dalla settecentesca ricostruzione della vita dello scrittore fatta da Gregorio Mayans I Siscar nel 1738 (2006), e cioè l’elaborazione in tono agiografico, come lo definisce Lucía Megías, del personaggio Cervantes. Ben venga a questo proposito il monito che Lucía Megías lancia dall’articolo del Monografico in questione in direzione di una più rigorosa e ordinata lettura dei documenti cervantini che le puntigliose ricerche di alcuni studiosi, nel corso dei secoli, hanno estratto dagli archivi. Non si tratta, ancora, di grandi novità, ma di punti fermi, che, collocati al giusto posto, danno informazioni corrette e, là dove i vuoti e i silenzi non si possono ancora colmare, permettono la formulazione di congetture ragionevoli.

Bibliografia citata Cervantes, Miguel de (2016), Viaje del Parnaso y poesías sueltas, ed. de José Montero Reguera y Fernando Romo Feito, con la colaboración de Macarena Cuiñas Gómez, Madrid, Biblioteca Clásica de la Real Academia Española. Guillén, Claudio (2005) [1985], Entre lo uno y lo diverso: introducción a la literatura comparada (ayer y hoy), Barcelona, Tusquets.

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Jurado Santos, Agapita (2015), Recorridos del Quijote por Europa (siglos XVII y XVIII). Hacia una bibliografía, Kassel, Reichenberger. Lucía Megías, José Manuel; Montero Reguera, José; López Navia, Santiago A.; Abreu, María Fernanda; Lozano-Renieblas, IsabeL; Bernat Vistarini, Antonio; Cuevas Cervera, Francisco (2014), “La Asociación de Cervantistas, 25 años”, Anales cervantinos, 46: 299-392. Lucía Megías, José Manuel (2016a), La juventud de Cervantes. una vida en construcción. Retazos de una biografía en el siglo de oro, Parte I, Madrid-México-Buenos Aires-San Juan-Santiago, EDAF. Lucía Megías, José Manuel (2016b), La madurez de Cervantes. una vida en la corte. Retazos de una biografía en el siglo de oro, Parte II, Madrid-México-Buenos Aires-San Juan-Santiago, EDAF. Mayans i Siscar, Gregorio (2006), Vida de Cervantes, València, Consell Valencia de Cultura. Ruta, Maria Caterina; Lauer, A. Robert eds. (2015), Un paseo por los centenarios cervantinos, Cuadernos AISPI, 5. Segre, Cesare (1984), “Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia”, Teatro e romanzo, Torino, Einaudi: 103-118. Shields, David (2010), Fame di realtà, Roma, Fazi.

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La nuova traduzione italiana del Don Quijote

Patrizia Botta Università di Roma “La Sapienza”

Nel mio intervento, presento brevemente una nuova traduzione italiana collettiva del Don Quijote [=DQ] da poco uscita presso l’editore Mucchi di Modena, in due tomi di quasi mille pagine (Botta 2015). È a firma plurima, perché i capitoli sono stati tradotti da una sessantina di persone, ispanisti di rilievo, mentre mio è il coordinamento generale come pure la curatela del volume. Che bisogno c’era di una nuova traduzione italiana del DQ? Sappiamo bene che, pur se non sono molte, non mancano le traduzioni italiane precedenti, dal ’600 in qua, alcune di esse egregie e a firma di nomi celebri, e persino recentissime (come una con testo a fronte del 2012)1. Non abbiamo in Italia una grande abbondanza di traduzioni del DQ. Si dispone di poco più di una quindicina: due traduzioni antiche, una del ’600 di Franciosini (1622) e un’altra dell’800 di Gamba (1818-1819), poi tre della prima metà del ’900, quelle di Hochkofler (1921), di Giannini (1923-1925) e di Carlesi (1933), e otto della seconda metà, quelle di Curzio (1950), di Marone (1954), di Bodini (1957), di Vian-Cozzi (1960), di Buttafava et al. (1967), di Meregalli (1971), di Falzone (1974) e di La Gioia (1997). Il XXI secolo è stato inaugurato con la nostra traduzione della Prima Parte (Botta 2005) e sono seguite altre due, quelle di Troiano-Di Dio (2007) e di Valastro Canale (2012) che è l’unica bilingue con testo spagnolo a fronte, mentre l’ultima di questo secolo, per il momento, è ancora una volta la nostra (Botta 2015). Un totale di 17 traduzioni dell’opera, o meglio 16 se consideriamo che la nostra è una sola in due tappe, 2005 e 2015, e che quella del 2005 è incompleta (solo Prima Parte). A queste si aggiungono traduzioni parziali, persino manoscritte antiche, e versioni infantili (che non menziono). Pur se alcune di queste sono state più volte ristampate, specie per i due Centenari del 2005 e del 2015, sono comunque poche 16 in totale: c’è chi, come

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Tuttavia, ho voluto intraprendere un’iniziativa come questa sostanzialmente per due ragioni: la prima, per festeggiare, anche da noi in Italia, il IV Centenario della pubblicazione della Seconda Parte del DQ (16152015), per far sentire anche la nostra voce nel panorama delle celebrazioni che si sono avute e si stanno avendo in tutto il mondo, visto oltretutto che in Italia non mi risultava si stesse promuovendo nulla di simile per la circostanza2. La seconda ragione è stata quella di portare a termine una mia precedente esperienza di 10 anni fa, quando ho dato alle stampe a Pescara nel 2005, per il medesimo motivo dell’allora IV Centenario della Prima Parte (1605-2005), una nuova traduzione italiana a nome di cinque allievi di un Master in Traduzione che avevo coordinato alla Sapienza (Botta 2005). Il volume di Pescara era uscito sciolto, la sola Prima Parte, e si aspettava il 2015 per completare l’opera e corredarla della sua continuazione. Quindi, a distanza di 10 anni, anche per la Seconda Parte che si festeggia nel 2015, ho voluto promuovere una nuova traduzione italiana del DQ, continuativa dell’esperienza del 2005, ma questa volta con una formula diversa, affidando cioè i capitoli da tradurre a ispanisti italiani, tutti universitari e di grosso calibro, molti di essi cervantisti o comunque conoscitori della lingua spagnola antica. Per lo più hanno tradotto ognuno un singolo capitolo, ma qualcuno ne ha tradotti anche di più. Sono tutti soci della Ruffinatto (2011) ha parlato di ‘penuria’ di traduzioni italiane del DQ a fronte delle centinaia di traduzioni inglesi, francesi e tedesche dell’opera. Dunque in Italia il DQ si è tradotto poco, e soprattutto poco nell’ambito dell’università: tranne Bodini (1957) e Meregalli (1971), che le hanno portate a termine nelle loro sedi di Bari e Venezia rispettivamente, le altre sono state incaricate a traduttori professionali. 2 Nel quadro dei plurimi festeggiamenti mondiali del IV Centenario del DQ del 2015, in Italia sono state promosse iniziative d’altro tipo, come ad esempio quella di Ruta-Lauer (2015) che hanno coordinato un numero speciale di Cuadernos de AISPI che conta con la presenza di numerosi cervantisti, non solo italiani. Inoltre, Ruffinatto (2015) ha riunito in volume diversi suoi articoli precedenti ed è altresì apparsa la monografia di un’ispanista di Firenze (Jurado 2015). E da ultimo, nel congresso AISPI di Milano (25-27 novembre 2015), è stata promossa una Tavola Rotonda coordinata da Felice Gambin su “Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615” cui hanno partecipato alcuni cervantisti della AISPI (Caterina Ruta, Donatella Pini, José Manuel Martín Morán, Antonio Gargano, Giulia Poggi e chi scrive) oltre a Maria Teresa Cattaneo che ha commemorato il lavoro cervantino di Mariarosa Scaramuzza. Gli interventi di detta Tavola Rotonda confluiscono ora in queste pagine (Gambin 2018).

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AISPI, molti sono presenti al convegno di Milano, vari siedono a questa Tavola Rotonda e cinque sono del Direttivo. Sono 55 i traduttori italiani della Seconda Parte che menziono di seguito, in ordine alfabetico, con la specifica dell’università d’appartenenza: Roberta Alviti (Univ. Cassino e Lazio Meridionale), Mariacristina Assumma (Univ. Milano IULM), Andrea Baldissera (Univ. Piemonte Orientale), Lorenzo Blini (Roma, Univ. Studi Internazionali), Anna Bognolo (Univ. Verona), Patrizia Botta (Univ. Roma “La Sapienza”), Carla Buonomi (Univ. Chieti e Univ. Roma LUMSA), Enrica Cancelliere (Univ. Palermo), Maria Vittoria Calvi (Univ. Milano), Federica Cappelli (Univ. Pisa), Alessandro Cassol (Univ. Milano), Paolo Cherchi (Univ. Ferrara e Univ. Chicago), Daniele Crivellari (Univ. Salerno), Alfonso D’Agostino (Univ. Milano), Francesca De Santis (Univ. Roma “La Sapienza” e Luther College USA), Claudia Demattè (Univ. Trento), Enrico Di Pastena (Univ. Pisa), Giuseppe Di Stefano (Univ. Pisa), Laura Dolfi (Univ. Parma), Paola Elia (Univ. L’Aquila), Felice Gambin (Univ. Verona), Antonio Gargano (Univ. Napoli Federico II), Aviva Garribba (Univ. Roma LUMSA), Luciana Gentilli (Univ. Macerata), Flavia Gherardi (Univ. Napoli Federico II), Aurelio González (Colegio de México), Giuseppe Grilli (Univ. Roma TRE), Mariapia Lamberti (Univ. Autónoma de México), Paola Laskaris (Univ. Bari), Matteo Lefèvre (Univ. Roma Tor Vergata), Elena Liverani (Univ. Trento), Renata Londero (Univ. Udine), Eugenio Maggi (Univ. Bologna), Massimo Marini (Univ. Roma “La Sapienza”), José Manuel Martín Morán (Univ. Piemonte Orientale), Alessandro Martinengo (Univ. Pisa), Giuseppe Mazzocchi (Univ. Pavia), Silvia Monti (Univ. Verona), Valentina Nider (Univ. Trento), Veronica Orazi (Univ. Torino), Blanca Periñán (Univ. Pisa), Donatella Pini (Univ. Padova), Paolo Pintacuda (Univ. Pavia), Pina Rosa Piras (Univ. Roma TRE), Giulia Poggi (Univ. Pisa), Norbert von Prellwitz (Univ. Roma “La Sapienza”), Maria Grazia Profeti (Univ. Firenze), Maria Rosso (Univ. Milano), Aldo Ruffinatto (Univ. Torino), Caterina Ruta (Univ. Palermo), Elisabetta Sarmati (Univ. Roma “La Sapienza”), Chiara Sinatra (Univ. Roma Tor Vergata), Pietro Taravacci (Univ.Trento), Marcella Trambaioli (Univ. Piemonte Orientale), e Debora Vaccari (Univ. Roma “La Sapienza”).

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A questi Traduttori va aggiunto Carlos Alvar (Univ. Ginevra) che ha firmato il Preliminare. E si giunge così a 56 collaboratori complessivi del Secondo tomo (cui si sommano i 5 allievi di Master del Primo). Come si vede dall’elenco, sono i nomi più noti dell’ispanismo nostrano e tutti attivi in università italiane, tranne due che lavorano in Messico (Aurelio González, cervantista, e la moglie Mariapia Lamberti, italianista) e un terzo, Carlos Alvar, anche lui cervantista, che invece lavora in Svizzera. Vi sono nomi italiani che mancano, che pure sono stati invitati, ma hanno rinunciato per impegni vari3. E manca soprattutto un nome milanese, altrettanto invitato a partecipare proprio perché nota cervantista, Mariarosa Scaramuzza, che era entusiasta dell’idea e aveva accettato con slancio, e che di certo sarebbe stata qui con noi ma ci ha lasciato, come sappiamo, prematuramente. E a lei, e alla sua memoria, proprio in questa sede di presentazione del DQ –e nella sua Milano–, dedico un pensiero molto affettuoso (credo anche a nome di molti dei presenti). Insomma, è questo un Chisciotte di tutti noi, “nostro”, più plurale che mai, un omaggio che l’ispanismo italiano, corale, ha voluto rendere al massimo Autore della Letteratura Spagnola in occasione di questo IV Centenario. Il risultato è una traduzione sostanzialmente unitaria, pur nella diversità della penna di ciascuno. Certo, un lavoro di unificazione è stato fatto da noi della Redazione. Mi sono avvalsa di un’eccellente équipe di collaboratori romani (Aviva Garribba, Debora Vaccari e Massimo Marini) che con grande attenzione mi ha aiutato a rilevare le divergenze da livellare nel volume affinché il lettore italiano non percepisse troppe discordanze (specie nei nomi dei personaggi) –e approfitto per ringraziare i Traduttori per l’estrema disponibilità dimostrata nell’accogliere prontamente, e con grande pazienza, tutti i suggerimenti (anche minuti) della Redazione–. Ma la diversità stilistica di ognuno è stata rigorosamente rispettata ed è così che il lettore si troverà capitoli in cui si toscaneggia4 o altri in cui si adotta un dialetto veneto per le parlate rustiche5, o altri ancora in cui si tenta di ricreare la lingua del ’600 a emulazione Fausta Antonucci, Giovanni Caravaggi, Maria Grazia Ciccarello, Marcella Ciceri, Loretta Frattale, José Luis Gotor, Augusto Guarino, Elide Pittarello, Marco Presotto, Laura Silvestri. 4 Ad esempio, nei due capitoli tradotti da Maria Grazia Profeti (II, 52-53), si trovano voci come ruzzare, le materasse, o verbi come vo (anziché vado) e fo (anziché faccio). 5 Si tratta dei quattro capitoli tradotti da Donatella Pini (II, 8-11) che ha scelto di ricorrere 3

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dei discorsi ‘antichi’ dell’idalgo6. E siamo certi che proprio in questo ventaglio di singole soluzioni, puntualmente rispettate, risieda la ricchezza della presente traduzione, dall’impronta fortemente peculiare. È la prima volta, in Italia, che il DQ si traduce a livello universitario da un numero così alto di collaboratori, per lo più professori ordinari di lungo corso, e cervantisti. I criteri di traduzione adottati, di stampo filologico, sono gli stessi già seguiti nella Prima Parte, come pure il testo-base è ancora una volta l’edizione critica di Sevilla Arroyo (1999). In questa nuova edizione, ristampiamo come Primo Volume la traduzione della Prima Parte del DQ pubblicata a Pescara nel 2005, che è stata corretta nei refusi e unificata in vari punti del testo, mentre come Secondo Volume pubblichiamo per la prima volta la traduzione collettiva dei 55 ispanisti italiani menzionati. Nel Secondo Volume corrediamo l’Introduzione delle parole preliminari (intitolate Portico) di Carlos Alvar, direttore del Centro de Estudios Cervantinos (ora Centro de Investigación “Miguel de Cervantes” dell’Università di Alcalá de Henares) che patrocina la nostra pubblicazione. Forniamo altresì un Aggiornamento bibliografico sui lavori apparsi sul DQ essenziali e funzionali alla traduzione e, come preziosa novità, offriamo, tutta riunita, la bibliografia cervantina completa dei nostri 56 Collaboratori, molto ricca e densa (occupa più di 20 pagine, tutte fitte e in corpo minore), a dimostrazione di quanto cervantismo italiano sia presente in questa nuova versione del DQ e abbia potuto illuminare le scelte traduttive con la luce di chi è dentro, da anni, al testo chisciottesco. Entrambi i volumi hanno in copertina la riproduzione di un quadro di Don Chisciotte e Sancio erranti per la Spagna ad opera di Alexandre Gabriel Decamps, pittore francese dell’800 (conservato a Londra, alla Natiosistematicamente al dialetto pavano per le parlate rustiche, come ad esempio per Sancho: “Oh prencepessa e signora universale del Toboso! Come il vostro magnanimo core no se comove vedendo inzenocià davanti ala vostra sublimada presenza el cormeo e sostegno della errante cavalleria?”. 6 Gli arcaismi sono un po’ ovunque nei due tomi: infatti sono molti i traduttori che si sono cimentati a ricreare la lingua italiana antica in corrispondenza dei discorsi di Don Chisciotte, con parole come periglio, periglioso, acciocché, perciocché, financo, fintantoché, meriggio, senza cagione, in tal guisa, dove più le talenti, cotal, beltà, beltade, desio, favellare, talvolta presi a prestito dalla versione secentesca di Franciosini.

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nal Gallery). Ambedue i tomi sono corredati da un segnalibro che è centimetrato da una rigatura, numerata di 5 in 5, che si riferisce allo specchio di scrittura della pagina per potere localizzare i passi o citare con pagina e riga. In entrambi i volumi abbiamo offerto un’antologia di illustrazioni in bianco e nero tratte da edizioni italiane antiche (Roma 1677, Venezia 1818-1819, Roma 1834, Milano 1892), a dimostrazione di quella che è stata la ricezione italiana del DQ anche sul versante iconografico. Le immagini sono state gentilmente concesse dal Quijote Banco de Imágenes (1605-1915) del Centro de Estudios Cervantinos di Alcalá de Henares, e in particolare da José Manuel Lucía Megías, che ringraziamo. I ringraziamenti più sentiti, tuttavia, vanno a chi ha voluto patrocinare questa pubblicazione e dare un generoso contributo finanziario per renderla possibile: è il caso del già citato Centro de Investigación “Miguel de Cervantes” dell’Università di Alcalá de Henares diretto da Carlos Alvar, poi dell’Ambasciata di Spagna (Roma) per il tramite dell’attivissimo addetto culturale Juan María Alzina de Aguilar, e ancora della Escuela Española de Historia y Arqueología del CSIC in Roma, diretta da Fernando García Sanz, ai quali va la nostra più sincera riconoscenza. Altri patrocini illustri, cui siamo altrettanto grati, sono, in Spagna, quello della “Sociedad Quijote IV Centenario” della Junta de Castilla La Mancha e quello del CiLengua (Centro Internacional de la Lengua Castellana) - Instituto de Literatura y Traducción (San Millán de la Cogolla), mentre, in Italia, quello della AISPI, quello della Real Academia de España (Roma) e quello del Dipartimento di Scienze Documentarie, Linguistico-filologiche e Geografiche dell’Università di Roma “La Sapienza”. E ringraziamo anche l’editore Mucchi di Modena per la fiducia accordataci e per aver accettato con slancio la sfida editoriale di una iniziativa come questa.

Bibliografia citata Bodini, Vittorio (1957), [trad. it. DQ], Torino, Einaudi. Botta, Patrizia (2005), [trad. it. DQ], Prima Parte, Pescara, Libreria dell’Università Editrice. — (2015), [trad. it. DQ], Prima e Seconda Parte, Modena, Mucchi, 2 voll.

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Buttafava, Gianni et al. (1967), [trad. it. DQ], Milano, Bietti. Carlesi, Ferdinando (1933), [trad. it. DQ], Milano, Mondadori. Curzio, Pietro (1950), [trad. it. DQ], Roma, Curcio. Falzone, Letizia (1974), [trad. it. DQ], Milano, Garzanti. Franciosini, Lorenzo (1622), [trad. it. DQ], Venezia, Andrea Baba. Gamba, Bartolomeo (1818-1819), [trad. it. DQ], Venezia, Alvisopoli. Gambin, Felice (2018) (a cura di), Cervantes e l’Italia: il Don Chisciotte del 1615, Roma, AISPI edizioni. Giannini, Alfredo (1923-1925), [trad. it. DQ], Firenze, Sansoni. Hochkofler, Mary de (1921), [trad. it. DQ], Firenze, Salani. Jurado, Agapita (2015), Recorridos del Quijote por Europa (siglos XVII y XVIII). Hacia una bibliografía, Kassel, Reichenberger. La Gioia, Vincenzo (1997), [trad. it. DQ], Milano, Frassinelli. Marone, Gherardo (1954), [trad. it. DQ], Torino, UTET. Meregalli, Franco (1971), [trad. it. DQ], Milano, Mursia. Ruta, Caterina; Lauer, Robert (eds.) (2015), Un paseo entre los centenarios cervantinos, número especial de Cuadernos de AISPI, 5. Ruffinatto, Aldo (2011), voz Italia en Gran Enciclopedia Cervantina (dir. Carlos Alvar), Madrid, Castalia-Centro de Estudios Cervantinos, vol. VII, Ínsula Firme - Luterano. — (2015), Dedicado a Cervantes, Madrid, Editorial Sial. Sevilla Arroyo, Florencio (1999), ed. DQ in Todo Cervantes en un volumen, Madrid, Castalia. Troiano, Barbara; Di Dio, Giorgio (2007), [trad. it. DQ], Milano, Newton Compton. Valastro Canale, Angelo (2012), [trad. it. DQ], Milano, Bompiani. Vian, Cesco; Cozzi, Paola (1960), [trad. it. DQ], Novara, Istituto Geografico De Agostini.

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