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Italian Pages 560 [479] Year 2020
“La storia che state per leggere parla della voglia spasmodica di realizzare un sogno a tui i costi, anche senza soldi. Parla dell’arte di arrangiarsi, tirando la cinghia, improvvisando, sgomitando, inventandosi espedienti pur di realizzare un film e portarlo nelle sale, senza sapere da dove arriveranno i soldi per il prossimo giorno di paga – o il prossimo monsone, o il prossimo morso di scorpione. Parla della volontà di non darsi mai per vinto. Parla di bugie spudorate, lacrime e sudore, sopravvivenza. Parte da una magica infanzia newyorkese e, passando per il Vietnam e gli strascichi che quella guerra ha lasciato in me, arriva ai miei quarant’anni e a Platoon. Parla di crescita. Parla di fallimenti, sconforto. Di successi giovanili e arroganza. Parla di droga e dei tempi che abbiamo araversato dal punto di vista politico e sociale. Parla di fantasia, di un sogno di bambino e del fare di tuo pur di realizzarlo. E ovviamente è costellata di inganni, tradimenti, di farabui ed eroi, di persone che ti rinfrancano con la loro presenza e di persone che ti distruggono, se solo glielo permei.” L’autobiografia intima e avvincente di un maestro del cinema, un ritrao spietato dell’America, di Hollywood e della nostra storia, dei suoi sogni e dei suoi fantasmi.
Oliver Stone, regista, sceneggiatore e produore, è uno dei più grandi cineasti contemporanei. Nato da padre americano e madre francese, ha lavorato come insegnante, tassista, è stato imbarcato su navi mercantili e ha combauto in Vietnam. Ha completato gli studi alla New York University Film School, dove ha studiato con Martin Scorsese. Dopo il debuo nel 1973 con Seizure, ha realizzato, come regista e sceneggiatore, più di 50 film, tra cui Fuga di mezzanoe, Scarface, Salvador, Platoon, Wall Street, Nato il quaro luglio, JFK. Un caso ancora aperto, Gli intrighi del potere – Nixon, World Trade Center, Snowden. Ha vinto tre premi Oscar e cinque Golden Globe.
Oceani. 97
Oliver Stone Cercando la luce Autobiografia Traduzione di Carlo Prosperi La nave di Teseo
Titolo originale: Chasing the Light – Writing, Directing, and Surviving Platoon, Midnight Express, Scarface, Salvador, and the Movie Game © 2020 by Ixtlan Corporation Published by special arrangement with Houghton Mifflin Harcourt Publishing Company © 2020 La nave di Teseo editore, Milano Tranne dove diversamente indicato, le immagini sono pubblicate per gentile concessione dell’autore. ISBN 978-88-3460-470-0 Prima edizione digitale agosto 2020 est’opera è protea dalla Legge sul dirio d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Sommario
Introduzione Figlio del divorzio Strani giorni La terra al di là del mare L’espresso di mezzanoe La caduta Aspeando il miracolo A sud del confine Salvador, all’inferno e ritorno Ritorno nella giungla Sulla vea del mondo Ringraziamenti
Alla memoria di John Daly, per aver teso la mano di cui tui abbiamo bisogno.
Introduzione
Sto correndo come un pazzo lungo le strade accioolate di una ciadina messicana del Cinquecento, una vera gemma con le sue chiese, piazze, ponti di pietra geati sul sinuoso fiumiciaolo che la araversa. Centinaia di comparse e di tecnici, oltre agli aori, aspeano nella calura che io decida dove, quando, come. Siamo nella terra di Emiliano Zapata, lo stato di Morelos, due ore a sud di Cià del Messico. In una strada ho centocinquanta soldati messicani vestiti con la divisa dell’esercito salvadoregno del 1980 circa. In un’altra scalpitano e nitriscono seanta cavalli montati da altreanti cavalieri, scelti tra i migliori vaqueros della regione. Ho deciso che supereranno un ponte e invaderanno la plaza principale per sferrare un ultimo assalto alle forze governative soo assedio. Lungo la traieoria della carica ci saranno numerose esplosioni, che abbiamo già preparato. Tra i due schieramenti, parecchie decine di civili, abitanti del posto utilizzati come comparse, si disperderanno in tue le direzioni al momento stabilito. I miei due aori, che interpretano il ruolo di fotoreporter, si ritroveranno nel pieno della carica e osserveranno l’avanzata della cavalleria direa verso le macchine da presa. Io starò accanto al mio agitatissimo protagonista, terrorizzato di farsi male con questo pazzo regista che già diverse volte (a dea sua) gli ha fao rischiare la pelle e del quale non si fida per niente, ritenendomi un burbero reduce di un’altra guerra (il Vietnam) convinto che gli aori siano tui dei fighei. Lui, naturalmente, pensa solo alla sua faccia e alle bombe a gas che stanno per esplodere, una delle quali potrebbe sfigurarlo e rovinargli la carriera.
Il sole è a picco, cocente. Sono pronto per gridare: “Azione!” Dopo aver cercato per una quindicina di anni di dirigere un film come questo, oggi si avvera il sogno, la visione di un bambino di sei anni soo un albero di Natale circondato da soldatini giocaolo e trenini elerici – il mio mondo. Sono il burainaio e ho il potere di decidere chi muore e chi vive in questo teatrino interamente costruito da me. Tra le mani ho tuo quello che rendeva i film così appassionanti ai miei occhi di bambino: baaglie, gesti eroici, colpi di scena. Eppure, malgrado l’emozione di essere un dio per qualche giorno, dietro gli arezzi, le scenografie e le maestranze del nostro film si annida un minaccioso dilemma. Abbiamo finito i soldi. Siamo cinquanta, sessanta stranieri bloccati in Messico e costrei a sopravvivere a credito, con i giorni contati. Sei seimane fa abbiamo dato il via a un’impresa titanica che richiedeva novantatré ruoli parlanti in due lingue diverse, una seantina di set, carri armati, aerei ed elicoeri, con l’obieivo di girare un film di respiro epico sulla guerra civile che ha martoriato El Salvador nei primi anni Oanta. Stiamo lavorando in tre diversi Stati del Messico, in località separate da enormi distanze, per girare, tra le varie cose, un massacro davanti a una caedrale (quella di Cià del Messico fa le veci di San Salvador), squadroni della morte, lo stupro di un gruppo di suore e questa spaventosa carica di cavalleria – il tuo con un budget ridicolo e inverosimile, meno di tre milioni di dollari! Davvero, siamo stati dei pazzi a imbarcarci in questa avventura. E adesso i finanziatori stanno arrivando in macchina da Cià del Messico per sorarre di fao il controllo del film a me e al produore, perché abbiamo chiaramente sforato il budget – di quanto non lo sa ancora nessuno – quando mancano due seimane alla fine delle riprese. L’autorità va ristabilita. A Los Angeles stanno facendo ricorso alla cosiddea bond company (brrr! già al solo sentirla nominare, la maggior parte dei produori se la fa addosso), la società che garantisce il completamento del film con la stessa oica
con cui una compagnia assicuratrice valuta una vita umana fino alla sua morte, morte alla quale noi ci stiamo avvicinando a grandi passi. Malgrado l’euforia di essere arrivato fin qui, ho anche il morale soo i tacchi, temendo che questa possa essere l’ultima scena di un film sul quale abbiamo scommesso pesantemente, una scommessa che adesso sembra persa. “Azione!” grido, in modo che possano sentirmi a parecchie vie di distanza anche senza i walkie-talkie. “Carica!” L’ordine viene ripetuto in spagnolo dai miei aiuti regista muniti di megafono. Ed ecco salire il boato degli zoccoli che martellano queste vecchie pietre da lastrico: quaro ferri per cavallo, duecentoanta in tuo, che arrivano da lontano, direi verso la troupe. Prego che in queste stradine così anguste nessuno cada dal suo accidenti di cavallo; verrebbe di sicuro calpestato a morte. “Pronti!” grido, senza che ce ne sia bisogno, ai due aori che interpretano i reporter in procinto di immortalare la carica imminente con le loro macchine fotografiche 35 millimetri. Il mio protagonista è sulle spine. L’altro invece è calmo, deciso a dare il meglio, quando il primo dei cavalieri spunta da dietro un angolo e si precipita in avanti in un crepitio di fucili, immediatamente seguito da tui gli altri. Uomini coraggiosi. I primi cavalli si stanno ora involando sul ponte, un’esplosione rosso fuoco accanto a loro. Due o tre uomini cadono nei posti prestabiliti senza riportare danni. L’orda continua l’avanzata. L’impeto della carica è la cosa più importante, e so che l’abbiamo oenuto. Riesco a percepire la violenza del momento. È fin troppo credibile, fin troppo reale. Poi, con i seanta cavalli ormai al di là del ponte, il mio protagonista se la squaglia. Forse un po’ in anticipo – i cavalieri sono ancora a una cinquantina di metri – ma chi non si spaventerebbe? Il solo frastuono, come di un’onda gigantesca in procinto di travolgere una nave, basterebbe a terrorizzare anche l’animo più temprato. L’aore non protagonista, invece, motivato da un momento di grandezza,
resta saldo come una roccia per “fotografare” l’evento epocale. Ai trenta metri gli grido di scappare – “Levati da lì!” – perché, come io e il mio coraggioso direore della fotografia sappiamo, non avremo scampo se non fuggiamo adesso, togliendoci dalla traieoria dei cavalli. Via! Con i cavalli a venti metri di distanza, il mio intrepido e agile aore non protagonista si mee finalmente in salvo, appena in tempo. Una scena da brividi. Già solo il boato e le immagini mosse la faranno funzionare. Un momento speacolare da cogliere su pellicola. Peccato che il mio protagonista sia scappato un po’ troppo presto ma… è il suo caraere che sta emergendo nel film. Non esaamente quello di un eroe hollywoodiano. “Stop!” grido. Un’immensa energia si dissipa prima che i cavalli e la troupe si radunino, tui con il fiato grosso, i fianchi dei cavalli che tremano, tecnici che si scambiano istruzioni in spagnolo, apportano correzioni. Ora che abbiamo roo il ghiaccio chiedo un secondo ciak. Siamo carichi. Nel corso delle due ore successive ripetiamo la scena altre quaro volte, coprendo ogni possibile angolazione dell’assalto di cavalleria contro i soldati regolari (in gran parte stuntmen messicani), il momento in cui le sorti della baaglia si rovesciano a favore dei ribelli. Rovesciamento temporaneo, perché – nel film – l’ambasciata statunitense, allertata, interviene telefonicamente nello scontro decisivo della guerra civile autorizzando il dispiego dei più moderni armamenti americani in appoggio alle truppe governative. Con tre carri armati, copertura aerea e artiglieria, la potenza di fuoco è sufficiente a rintuzzare l’onda ribelle e a evitare la caduta del governo. Contiamo di filmare tuo questo nei prossimi due giorni nella speranza di completare la baaglia prima che la cima di salvataggio finanziaria ci venga tagliata, ma vedo il produore che si avvicina con la sua perenne smorfia preoccupata e mi irrigidisco. Lui, con understatement britannico, scherza: “Non ho una faccia troppo preoccupata, vero? Abbiamo trovato il milione.”
Wow! Vita! Aria! Un milione di dollari dal gruppo di investitori messicani in buoni rapporti con sua moglie, messicana anche lei. Hanno salvato il film dalla malvagia bond company, che nel fraempo è arrivata, nella persona di due suoi rappresentanti – il primo una versione del Tristo Mietitore, l’altro un cordiale scozzese con l’aria da agente delle tasse – che si aggiravano ai margini del set, facendo la conta di tuo. Poi per fortuna la telefonata di un pezzo grosso di Los Angeles li ha fermati. Il vero problema si presenta l’indomani, perché dei soldi messicani non c’è ancora traccia. Si susseguono decine di telefonate, bonifici dalla banca di Amsterdam a Los Angeles, a Cià del Messico e finalmente a noi, a Tlayacapan, il capolinea della traa. Finalmente arriva un po’ di contante. Da chi, di preciso, non mi è chiaro, ma sono troppo stanco per indagare. Perciò continuiamo le riprese della baaglia, un passo per volta. L’unica cosa che mi interessa sono i dieci centimetri davanti alla mia faccia – finire questo film. Ho rischiato tanto. ante volte mi hanno deo che non sapevo fare il regista? Sono reduce da due flop. Mi sto avvicinando ai quarant’anni. Cerco di realizzare un mio vero film da quando ne avevo ventitré. Ho già scrio oltre venti sceneggiature, ma questo è il momento dell’“o la va o la spacca”. Hollywood non mi ha certo sostenuto, non hanno creduto né in me né nella possibilità che un film su un “merdoso Paese” come El Salvador potesse interessare il pubblico americano, figurarsi un film con simpatie rivoluzionarie. Ai loro occhi, a quarant’anni sono ormai alla frua. E io ne sono consapevole. Grazie al mio caraeraccio mi sono fao troppi nemici, ho tagliato troppi ponti. Giriamo fino al quarantaduesimo giorno – seimane estenuanti, sei giorni di lavoro su see. Le maestranze messicane entrano più volte in sciopero. Hanno ragione, i soldi in genere arrivano in ritardo, l’intera produzione è stata caotica fin dall’inizio, al limite dell’impossibile, e allora, il quarantaduesimo e ultimo giorno, abbandoniamo il Messico il
più velocemente e furtivamente possibile, lasciandoci alle spalle una scia di creditori e di professionisti non pagati. Alla fine i debiti verranno onorati, ma per ora abbiamo un film – un gran film, secondo me – in centinaia di frammenti da montare. Ho sempre saputo che era una storia vibrante, scria da me e da un amico giornalista che aveva vissuto i fai in prima persona, ma ora ha il disperato bisogno di essere conclusa. Rientrati negli Stati Uniti, dobbiamo reperire ulteriori fondi per i preventivati oo giorni di riprese tra San Francisco e Las Vegas. Mi sono tenuto per ultimi l’inizio e il finale, contando sul fao che, se si voleva salvare il film portandolo a termine, da qualche parte i soldi sarebbero saltati fuori. Raggranelliamo ancora qualche centinaio di migliaia di dollari e portiamo a casa per un pelo l’ultimo imprescindibile ciak, alle 19.42, appena prima che la luce svanisca al di là della montagna che domina questo torrido deserto nei dintorni di Las Vegas. Ecco perché il titolo di questo libro, Cercando la luce. Per tua la vita mi sembra di aver fao proprio questo. Così si svolse la produzione di Salvador nel 1985, uscito nel 1986, il mio primo vero film realizzato dall’inizio alla fine senza l’appoggio di uno studio cinematografico né accordi di distribuzione: fruo della pura fiducia e del sostegno di due coraggiosi produori indipendenti britannici, la cui migliore descrizione sarebbe quella di giocatori d’azzardo – o, in termini più nobili, pirati alla ricerca del boino grosso e disposti a rischiare la morte per impiccagione. Ne scaturì un film dalla violenza sconvolgente e dall’erotismo scandaloso, sgargiante ed eccessivo, che nella sua limitata distribuzione nelle sale e soprauo in videocassea, un formato nuovo per l’epoca, finì per raggiungere un ampio pubblico di persone che lo apprezzavano e ne parlavano. Veniva così scoperto un “nuovo” regista, che a dea di tui ripudiava la precedente versione di sé. Il film oenne due nomination all’Oscar, per la miglior sceneggiatura originale e il migliore aore
protagonista (l’ansioso interprete che abbiamo visto durante la carica di cavalleria). E con quei due stessi giocatori d’azzardo, subito dopo aver portato a termine Salvador ci immergemmo nella giungla filippina per realizzare un altro film a basso budget ma dalle ambizioni spropositate che, dopo essere stato rifiutato dozzine di volte nell’arco di dieci anni, avrebbe miracolosamente interceato il clima che si respirava in America in quel 1986, nel bel mezzo di una presidenza conservatrice. Si intitolava Platoon e l’America – anzi il mondo – era pronta per questo crudo, realistico racconto di un incubo di guerra che avevo vissuto in prima persona. Come in una favola, nello stesso anno di Salvador questo film a basso budget fu sorprendentemente celebrato, nell’aprile 1987, con l’Oscar come miglior film e un altreanto inaeso, per me, primo Oscar per la regia. Da allora la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Avrei lavorato per veri studios, e con soldi veri. Avrei avuto, come la maggior parte di noi, una carriera di alti e bassi nella quale ogni film avrebbe ampliato la mia visione del mondo; anzi, direi che i miei film sono stati degli ammortizzatori che mi hanno permesso di percorrere decenni di un’intensa, quasi folle, esperienza americana. Alcuni hanno fao centro, altri no: successo e fallimento, come dice Kipling, sono entrambi “impostori”. La tensione costante che si respira in un’industria cinematografica rivolta al profio, in cui nessuno guarda in faccia a nessuno, può consumare qualsiasi anima buona fino all’osso. Il cinema dà e il cinema distrugge. Ma la storia che state per leggere non riguarda questo, né gli anni successivi della mia carriera. È una storia che parla della voglia spasmodica di realizzare un sogno a tui i costi, anche senza soldi. Parla dell’arte di arrangiarsi, tirando la cinghia, improvvisando, sgomitando, inventandosi espedienti pur di realizzare un film e portarlo nelle sale, senza sapere da dove arriveranno i soldi per il prossimo giorno di paga – o il prossimo monsone, o il prossimo morso di scorpione. Parla della volontà di non darsi mai per vinto. Parla di bugie spudorate, lacrime e sudore, sopravvivenza. Parte da una
magica infanzia newyorkese e, passando per il Vietnam e gli strascichi che quella guerra ha lasciato in me, arriva ai miei quarant’anni e a Platoon. Parla di crescita. Parla di fallimenti, sconforto. Di successi giovanili e arroganza. Parla di droga e dei tempi che abbiamo araversato dal punto di vista politico e sociale. Parla di fantasia, di un sogno di bambino e del fare di tuo pur di realizzarlo. E ovviamente è costellata di inganni, tradimenti, di farabui ed eroi, di persone che ti rinfrancano con la loro presenza e di persone che ti distruggono, se solo glielo permei. La verità è che, a prescindere dalle grandi soddisfazioni di cui ho goduto nella seconda metà della mia vita, non credo di aver conosciuto tanto entusiasmo e adrenalina come quando ero squarinato. “L’unica cosa che i soldi non possono comprare è la povertà,” mi ha deo una volta un amico inglese di umili origini. Chissà, forse intendeva “felicità”, ma di certo i soldi ti meono su un piedistallo senza il quale, che ti piaccia o no, diventi più umano. Vivere in ristreezze economiche è un po’ come essere in fanteria e osservare il mondo dalla prospeiva di un soldato semplice, quello che nel cinema si chiama worm’s eye, l’“occhio del verme”, l’inquadratura da terra: apprezzi molto di più le cose, che si trai di una doccia o di un pasto caldo. Spesso mi sento dire che il tempo è il bene più prezioso che abbiamo. Non so se sono d’accordo. Ognuno ha la sua storia e le storie non sono mai lineari. Nell’araversare la vita dalla giovinezza alla vecchiaia viviamo davvero fuori dal tempo. Ci sono alcuni momenti banali e poi ci sono i picchi che il ricordo custodisce gelosamente. Momenti belli e momenti terribili, ma comunque indelebili. E, per quanto mi riguarda, l’arco di tempo che va dalla culla alla tomba è troppo lungo, succedono troppe cose, troppi personaggi da rievocare, troppe cose dimenticate o ricordate in maniera inesaa. Ci vogliono passi da neonato per comprendere questi momenti fuori dal tempo e il loro significato. Proprio questo è il piacere più grande che ricavo dalla scriura – riapprezzare, amare tuo da capo. In questo senso, i diari che
tengo, in maniera discontinua, mi sono stati di grande aiuto nel ricostruire il mio pensiero in un determinato periodo. Oggi, per me, non esiste soddisfazione più grande di un paragrafo ben scrio in onore di qualcosa che, invecchiando, apprezzo sempre di più. Arrivato a quarant’anni, raggiunsi finalmente l’agognato successo nel campo di gioco che mi ero scelto. E capii che, a prescindere da quanta strada avessi fao da lì in poi, mi ero già conquistato ciò che avevo sognato immaginando i contorni futuri della mia vita. indi è di questo che parla il libro che avete tra le mani: di quel sogno, dei primi quarant’anni, gli anni “i cui confini sbiadiscono sempre e per sempre” via via che andiamo avanti. Da giovane non avevo mai compreso il significato di questa bellissima espressione di Tennyson. Era l’unico conceo della sua magnifica poesia Ulisse che continuava a sfuggirmi. Adesso so perché.
1 Figlio del divorzio
Mi stavo avvicinando ai trent’anni ed ero al verde, ma non volevo più pensarci. Insieme alle decine di migliaia di turisti arrivati dal New Jersey e da Long Island, stavo guardando a bocca aperta le cento, duecento navi di ogni forma e dimensione che solcavano in cerchio la baia di New York. Il sole era intenso, un refolo di brezza atlantica alleviava la calura agitando le suggestive vele bianche della decina di navi d’alto bordo al centro della scena. Era il 4 luglio 1976 e l’America, ubriaca di se stessa, celebrava il suo duecentesimo compleanno con, neanche a dirlo, uno spiegamento di telecamere televisive. Per gli americani, duecento anni erano tanta roba. Per civiltà più antiche come la Cina o l’Europa, solo un pezzeino dell’arazzo. Dico questo perché sono per metà americano e per metà francese e trent’anni prima, su quello stesso fiume – l’Hudson – con l’elegante Statua della Libertà ad accogliere profughi provenienti da ogni parte del mondo, era arrivata in America mia madre, da poco incinta di me. Era il rigido inverno del gennaio 1946 e mio padre, ufficiale dell’esercito, la accompagnava orgogliosamente verso una nuova casa in questa vasta nazione. Ora, a trent’anni di distanza, eravamo tui lì radunati, testimoni della Storia, una bestia da un milione di occhi, pigiati nelle strade e alle finestre di Lower Manhaan, arai dal ricordo della libertà che abbiamo nelle ossa, libertà e promessa di un mondo migliore. Promessa? Il mondo si regge sulle promesse. I democratici sarebbero arrivati a New York la seimana seguente per la convention presidenziale, e la cià era animata dalla febbre del denaro – negozi, bar, hotel, ristoranti. In ventimila circa,
al Madison Square Garden, avrebbero inneggiato a Jimmy Carter, il coltivatore di arachidi della Georgia con i denti da castoro e il sorriso timido. Carter aveva il vento in poppa; la sensazione era che sarebbe diventato presidente perché, nonostante alla Casa bianca sedesse Gerald Ford, la gente non ne poteva più di Nixon, dei suoi segreti, delle sue bugie. C’era aria di riforme. Il ritorno al potere dei democratici voleva dire denaro nelle tasche della gente. Denaro voleva dire libertà, e libertà voleva dire sesso. esto pazzo Paese era pronto a fare baldoria. La disco music di Barry White sarebbe stata il nostro dio, e Donna Summer la sua dea. “Yeah! Give me some… mmm, mmm!” Basta con i giri di vite. Basta con la paura alimentata dai discorsi su “ordine e legalità” mentre ci sorbivamo disordine sociale e crimini di Stato. Il Vietnam era finito. Fanculo questa storia della “guerra alla droga” voluta da Nixon! L’America si rimeeva in moto. Ci sballeremo. Come negli anni Sessanta, prima che il clima si incupisse. I tardi anni Seanta sarebbero stati spasso! spasso! spasso! Vagavo tra la calca per raggiungere l’estrema punta meridionale di quest’“isola da ventiquaro dollari”, come la chiama Robert Flaherty in un suo documentario, superando le famigliole che sventolavano bandierine in direzione delle navi, tirandosi dietro frigoriferi portatili e sedie pieghevoli per il picnic, e intanto i miei occhi individuavano le tante “ragazze dell’estate”, groesche caricature alla Robert Crumb di amazzoni del Midwest cresciute a mais, in pantaloncini corti e sandali. L’estate newyorkese è ad alto tasso erotico. Il caldo ti risale dai piedi fino ai lombi, i marciapiedi trasudano un’umidità che squarcia le difese di chiunque; la gente se ne va in giro seminuda come se stesse a casa propria e nessuno ci fa caso. Con un caldo simile non importa più chi sei, che lavoro fai; la tua identità, come cera di candela, si squaglia e cola in quella di qualcun altro. el giorno, venditori ambulanti segaligni, con il muso da topo, facevano soldi a palate insinuandosi nel carnaio, offrendo aranciate, hot-dog e souvenir destinati a finire in qualche mercatino. Notai il rotolo di banconote che un
albanese tirò fuori per cambiare un pezzo da cinque: dovevano essere già trecento, quarocento dollari che entro sera sarebbero diventati see-oocento. (Io ne avevo incassati trentacinque nel mio ultimo turno come tassista di noe.) La folla era araversata da gruppei di fanatici religiosi che annunciavano Gesù e la fine del mondo, da hare krishna con la testa rasata che intonavano i loro ritmi tribali. Grida di bambini e mamme ansiose che li inseguivano come piccioni affamati. C’erano sempre anche i papà in questi giorni di festa – affidabili uomini qualunque, umili e contenti di avere un paio di figli, una moglie e un lavoro, Cristo, un buon lavoro, che negli anni a venire magari avrebbero potuto scordarsi. Anche se non avevano niente da dirgli, per loro era bello passare un po’ di tempo con i propri figli, con il sangue del tuo sangue. Lo facevano già intorno alle caverne. E a me mancava. A me mancava una famiglia. Dalla baia, riuscivo a immaginare mia madre, reduce da una guerra terribile che aveva quasi annientato l’umanità, sul gelido ponte della nave, gli occhi fissi sulla gigantesca isola di fronte a lei. Doveva essere uno speacolo potente e, come Cleopatra al suo arrivo a Roma nel primo secolo avanti Cristo, probabilmente anche mia madre si era chiesta quali creature barbariche avessero costruito quelle torri di granito protese verso il cielo. O forse si era sentita come i marinai e i cacciatori di pellicce che tanto tempo prima avevano risalito il fiume per inoltrarsi nelle buie e insidiose foreste che lo contornavano, in cerca dei confini del mondo, di stupri e saccheggio, della libertà dai re e dalla povertà. i in America le persone non erano spaventate e indigenti come in Europa. Erano persone libere. Erano veri e propri dèi perché, secondo la storia scria dai vincitori, era stata l’America a vincere quella guerra mondiale, oggi nota come Seconda, che per sessanta milioni di anime trapassate e venti milioni di profughi in cerca di una nuova casa era stata un’apocalisse. L’America che aveva sancito la vioria sganciando su due cià giapponesi bombe atomiche mai immaginate prima. Mentre centomila persone morivano arrostite, noi avevamo ballato nelle strade di New York in preda alla gioia del
trionfo, sapendo che nessuno – niente – poteva tenere testa all’America. Eravamo il Paese più potente di sempre – e il migliore! Come molti francesi, mia madre era innamorata del cinema americano degli anni Trenta. Le donne di quei film – Joan Crawford, Katharine Hepburn, Norma Shearer, Greta Garbo, Bee Davis – erano i suoi modelli femminili. E dopo aver leo il clamoroso bestseller di Margaret Mitchell Via col vento (Autant en emporte le vent in francese), aveva sognato di poter vedere il film del 1939 di cui parlava tua l’America, una visione prebellica del Paese dal tempismo perfeo. Oh, essere la Rossella O’Hara impersonata da Vivien Leigh: appassionata e indipendente, una donna che scende all’inferno pur di salvare Tara, la piantagione di famiglia. Inizialmente innamorata del suo fidanzato, l’indeciso aristocratico del Sud Ashley, Rossella perde la testa per l’ospite che viene dal Nord, Rhe Butler, un uomo senza nemmeno una traccia di nobiltà, che la traa da bambina viziata quale lei è. A interpretare Rhe era l’aore preferito di mia madre, Clark Gable, con i baffei e il sorriso avvincente, l’uomo per eccellenza del cinema americano al suo culmine, quell’età dell’oro che cominciava a declinare proprio mentre la guerra invadeva l’Europa. Grande creatività e grande distruzione crescono a bracceo, l’una bisognosa dell’altra – in ogni ambito della vita. Di caraere ribelle, mia madre si era diplomata a dicioo anni al liceo parigino di Sainte-Marie de Neuilly. Dopo anni di sacrifici i suoi genitori erano riusciti a meere da parte il denaro sufficiente per acquistare un modesto vecchio hotel a cinque piani con quaranta camere in rue des atre-Fils, nel Marais, quartiere storico della cià ma all’epoca tu’altro che alla moda. Si chiamava “Hôtel d’Avers – Tout le comfort moderne”, comfort che consistevano in una vasca da bagno per ogni piano, acqua calda a richiesta, lavandino e bidet in camera. Le camere erano occupate per lunghi periodi da medio-borghesi del posto o in fuga da Paesi più poveri come la Polonia e la Romania. I miei nonni, “Mémé” e “Pépé” come
erano chiamati in famiglia, avevano messo a disposizione tuo il meglio possibile alla figlia femmina, molto più che al maschio. Aveva forza di volontà questa ragazza, ambiva a salire i gradini della scala sociale e in qualche modo era riuscita a oenere una tessera del Racing Club de France, prestigioso circolo sportivo del Bois de Boulogne che annoverava tra i propri soci il fior fiore della società parigina. Una volta ammessa al Racing, Jacqueline Goddet si dedicò all’ippica e al nuoto, al tennis, al painaggio su ghiaccio; stringeva amicizie con uomini, andava al cinema, frequentava i caè. Difficile sapere chi è davvero tua madre quando la conosci soltanto a partire da una certa età in poi, ma certi indizi in vecchi album fotografici lasciano intendere che fosse una coquee, come le chiamano affeuosamente i francesi, una giovane donna che godeva delle aenzioni di uomini raffinati, i cosiddei boulevardiers. Da lei stessa ho potuto ascoltare più volte il racconto della cocente umiliazione subita a diciassee anni quando, preparandosi a uscire, aveva messo per la prima volta il rosseo e Pépé, scioccato da tanta audacia, le aveva mollato un ceffone, costringendola a struccarsi e restare a casa. Sebbene nella Francia dell’epoca il ricorso a schiaffi e sculacciate da parte dei genitori fosse una cosa normale, mia madre non avrebbe mai dimenticato l’umiliazione di quella sera. Le origini montanare, della Savoia, facevano di lei una ragazza alta e di costituzione robusta, una bellezza sana e florida alla Ingrid Bergman, con un sorriso accaivante che per tua la vita le avrebbe airato numerosi amici. A volte un po’ troppi, sembrava a me, ma questa è un’altra storia. Come scrisse molti anni più tardi nell’album della nonna preparato per i miei figli: “Avevo l’ambizione di sposarmi. Ero stata allevata per essere una brava moglie – cucina, ricamo, lingue –, per gestire la casa eccetera. Come usava ai tempi. Dovevo aiutare mia madre, occuparmi dei cani, tenere in ordine la camera e i vestiti, rispeare i genitori, usare le buone maniere. Essere cortese e gentile con le persone umili, mostrare la stessa semplicità di fronte a un re come a un
domestico.” Dopo il diploma al lycée, si era iscria a una famosa scuola di cucina, Le Cordon Bleu, e inoltre seguiva un corso di puericultura, imparando ad accudire i bambini alla maniera francese, comme il faut. In quello stesso periodo si fidanzò con un fascinoso campione di tennis del Racing, rampollo di una buona famiglia di industriali; era un altro passo in direzione di una vita migliore e i suoi genitori ne erano particolarmente orgogliosi. Il suo aitante e avventuroso padre, Jacques Goddet, un omone alto un metro e novanta, si era trasferito a Parigi da giovane e ambizioso apprendista nel campo della ristorazione e dell’hôtellerie. Nel 1912 era approdato in America in qualità di sous-chef presso l’esclusivo Waldorf-Astoria di New York, ma era poi tornato in patria per prendere le armi contro les sales Boches (gli sporchi crucchi) in quella che fu chiamata la Grande guerra, iniziata come operea balcanica nel 1914 ma conclusa solo nel 1918 con metà dei francesi tra i dicioo e i trentacinque anni uccisi o feriti nella più efferata maanza che l’umanità avesse mai conosciuto. Pépé aveva preso servizio sulla Marne nel 1914 ed era rimasto nelle trincee continuativamente fino al 1918, cucinando per le truppe. Da piccolo, seduto in braccio a lui, ascoltavo i suoi racconti di quel periodo, impressionato in particolare dagli aacchi con i gas asfissianti. Dopo la guerra aveva sposato mia nonna, Adèle Pelet-Collet, anche lei savoiarda, ed erano stati inseparabili per il resto della vita. La generazione seguente di tedeschi si vendicò dell’esito della Prima guerra mondiale occupando Parigi nel maggio del 1940, proprio mentre mia madre compiva diciannove anni. Il rigido coprifuoco imposto dai nazisti soffocò qualsiasi parvenza di allegria e di vita nourna. I generi alimentari, specie la carne, furono razionati; gli incontri tra amici erano scoraggiati; le code divennero la norma e, aspeo forse peggiore di tui, era impedito l’arrivo di qualsiasi notizia dal mondo esterno. I tedeschi erano cortesi, freddi, svegli e soprauo metodici; i francesi ne erano terrorizzati. Passavano regolarmente dall’hotel dei Goddet per controllare
i documenti degli ospiti, fiutando quelli sospei, ossia i sangue misto e gli ebrei. I genitori ammonivano mia madre in continuazione: “Non parlare con i tedeschi, araversa la strada quando li incroci, non uscire mai senza carta d’identità.” Lei evitava di truccarsi, indossava abiti dimessi e orripilanti scarpe con la suola di sughero. Così per quaro lunghi anni. Mia madre schifava i tedeschi peggio della peste, e un giorno si sarebbe presa la rivincita per gli anni che le avevano fao perdere. Spassandosela. Spassandosela alla grande. Le sorti della guerra cominciarono a rovesciarsi nel 1943 con la sorprendente vioria sovietica a Stalingrado. Ma mentre l’Armata rossa ricacciava indietro i tedeschi, gli Alleati erano impantanati nell’Italia centromeridionale. Finalmente, nel giugno 1944, un nuovo contingente alleato sbarcò in Normandia e nel mese di agosto poté raggiungere e liberare Parigi. All’improvviso il mondo prese a girare in tu’altra direzione: sparivano tue le severe regole imposte dagli occupanti nazisti. Gli americani avevano denaro, collant e sigaree, le loro risate erano contagiose, e agli occhi degli squarinati francesi dovevano apparire come vere e proprie divinità. Ma la guerra sarebbe durata altri nove difficili mesi. Con gli Alleati che avanzavano da ovest e i russi che, da est, distruggevano la macchina da guerra tedesca a prezzo di gravi perdite, per poi conquistare Berlino quartiere dopo quartiere, l’impero nazista si disintegrò solo nel maggio 1945. ello stesso mese, in un giorno fragrante di primavera, mio padre, il tenente colonnello Louis Stone, notò mia madre che in biciclea si dirigeva al Racing Club in una cià ancora svuotata di automobili. Per istinto – che a mio avviso è sempre il metodo migliore – le andò dietro, anche lui in biciclea, e una volta nel Bois de Boulogne la speronò di proposito, scusandosi, fingendo di essersi perso, chiedendole indicazioni. anto mi sarebbe piaciuto essere lì per registrare le prime parole che si scambiarono. Come poteva una romantica ragazza francese di ventiquaro anni respingere un bel moro di uno e oanta, con un fisico da
torello, la divisa elegante e un’insolenza alla Clark Gable? Che peraltro, in quanto membro dello staff di Eisenhower allo SHEAF (il quartier generale supremo delle forze di spedizione alleate), godeva di un evidente vantaggio rispeo a qualsiasi parigino costreo a vivere con le tessere del razionamento. Certo, aveva trentacinque anni e mia madre lo trovava molto più vecchio rispeo al suo fidanzato coetaneo, ma lui, con il suo discreto francese, insistee perché si rivedessero e riuscì in qualche modo a farsi dare l’indirizzo di casa. Con grande sorpresa di mia madre, il pomeriggio seguente, in un’epoca in cui i telefoni non avevano ancora una diffusione capillare, l’ufficiale americano venne di persona – mossa degna di Rhe Butler – e si presentò agli increduli signori Goddet, infischiandosene di lei che protestava di essere già fidanzata. Poi arrivarono i regali acquistati allo spaccio militare, un prosciuo intero, caè, cioccolata, con i quali l’americano si conquistò quei “contadinoi” francesi particolarmente colpiti dal fao che fosse un ufficiale membro dello staff del général Eisenhower. Ed essendo l’inglese una lingua piuosto semplice da apprendere, la giovane Jacqueline lo parlava a sufficienza per comunicare l’essenziale, con un accento affascinante, ma non abbastanza per interessarsi alle altre idee che cauravano invece l’aenzione di mio padre, per esempio quella di portare a termine una guerra che a suo avviso non era davvero finita nel 1945. L’America stava diventando l’economia di gran lunga più forte del mondo, non danneggiata dai bombardamenti, ed era il chiaro vincitore morale del conflio, mentre i russi erano macchiati dalla loro strana lingua e dalle presunte violenze contro la popolazione femminile tedesca – oltre che da un consolidato sospeo nei confronti della rivoluzione bolscevica del 1917. Mio padre, che prima di essere assegnato al seore finanziario G-5 dello SHEAF aveva lavorato a Wall Street, dalla Francia fu spedito in Germania. Nel 1943 aveva simpatizzato con le difficoltà dei russi dovute alla loro condizione di inferiorità militare, russi che adesso
occupavano la Germania insieme a noi. Già nel 1945, tuavia, era tornato alla vecchia loa contro il comunismo. Per lui i russi erano “bastardi imbroglioni” che stavano probabilmente immeendo massicce quantità di dollari falsi in tua l’Europa occidentale; come mi raccontò in seguito, avevano rubato i cliché di stampa americani. Cominciò quindi a credere nella mai realizzata ambizione del generale Paon di proseguire l’avanzata verso est, contro il nostro alleato, così da conquistare Mosca e distruggere il comunismo una volta per tue. Molti, anche se non certo tui, condividevano questa linea di pensiero, pur sapendo che, se anche fosse stata praticabile, avrebbe richiesto grandi costi e perdite di vite umane. Il mondo stava chiaramente cominciando a dividersi, e mio padre intendeva naturalmente restare dalla parte giusta della barricata tra ricchi e poveri. In seguito mi raccontò che le francesi gli apparivano “diverse”. Aveva avuto fidanzate a New York, Washington e Londra, ma trovava les françaises più materne e dedite alla famiglia, con il loro accento, il loro savoir-faire, oltre al fao che sapevano bene quale potere seduivo il profumo e gli abiti possono dare a una donna. Sostanzialmente, si vestivano meglio delle ragazze inglesi che aveva conosciuto a Londra, per le quali l’austerità bellica era o una scusa o un impegno solenne. Una donna francese, viceversa, era sempre abbastanza vanitosa da trovare il modo di farsi desiderare e di avere un bell’aspeo. Tornato a Parigi dalla Germania, continuò a corteggiare mia madre con lo sguardo rivolto al futuro. Era risoluto; stando al racconto di mia madre, le disse senza peli sulla lingua: “Voglio che tu diventi mia moglie. Ho aspeato trentacinque anni per trovarti. Non voglio perderti.” E su quelle parole, dalla tasca dell’uniforme sbucò un diamante da dieci carati a forma di pera, avvolto nella carta velina. Per come la pensava mia madre, una rispeabile ragazza caolica, fidanzata con un giovane francese di buona famiglia, molto semplicemente non infrange la promessa di matrimonio per scappare in un Paese sconosciuto con un
altreanto sconosciuto soldato americano. In anni seguenti, quando ebbi modo di conoscere il suo fidanzato di allora, Claude, non ebbi mai l’impressione che lei lo avesse amato quanto lui aveva amato lei. E così, scartato il nobile Ashley, Rossella si promise a Rhe sei mesi dopo la fine della guerra, e nel dicembre del 1945. Jacqueline Pauline Cézarine Goddet e Louis Stone (nato Abraham Louis Silverstein) finirono per commeere probabilmente il più grande errore della loro vita – errore al quale io devo la mia esistenza – sposandosi nel municipio di Parigi. Mia madre vestiva interamente di rosso, con un abito di Jacques Fath, una giacca di lana foderata di taffetà e un cappello piumato. Alla cerimonia parteciparono i suoi familiari e alcuni ufficiali americani, oltre al fidanzato Claude che, a dire di mia madre, “venne nella speranza che cambiassi idea”. Sono sicuro che i genitori Goddet fossero preoccupati, visto che non conoscevano bene l’americano, ma conoscevano abbastanza bene la figlia da sapere che, se anche si fossero opposti, lei li avrebbe asfaltati come un rullo compressore. Ormai il suo inglese era migliorato notevolmente; non l’affascinante accento che, come io e la sua famiglia avremmo continuato a verificare negli anni, si sarebbe portata nella tomba, senza perderlo o aenuarlo. I novelli sposi trascorsero la loro magica prima noe al Ritz, nella suite royale interamente addobbata da fiori bianchi, legati alle tende, ai mobili, al lampadario; le lenzuola di seta bianca erano ricamate con le loro iniziali. Poi, godendo dei privilegi di un alto ufficiale dell’esercito americano, fecero la luna di miele nel Sud della Francia, prima di stabilirsi all’Hôtel San Régis di Parigi, dove fui probabilmente concepito, tra un caè e una brioche, in mezzo a raffinata, vaporosa biancheria francese. Nel gennaio del 1946, infine, si imbarcarono alla volta del Nuovo mondo con diciassee valigie, stando ai ricordi di mia madre, su una nave che riportava in patria ventimila soldati, e lei calata nel ruolo di unica donna a bordo, nonostante dicesse di aver affrontato il viaggio da clandestina. Sembra un film, ma mio padre, che non faceva certo mistero delle “esagerazioni” della moglie, confermava il racconto. Era un inverno gelido, uno dei più
freddi a memoria d’uomo in un’Europa desolata, e il viaggio fu tormentato dalle burrasche dell’Atlantico seentrionale. La sposa vomitò di continuo per circa dodici giorni, non rendendosi ancora conto di essere incinta. Se la nostra prima coscienza è violenta e tempestosa, sono sicuro che il suo ospite a sorpresa qualcosa percepisse già. Dalla balaustra del Baery Park, nel 1976, immaginavo le migliaia di festosi soldati americani a bordo della nave che sfilava oltre la statua, e altreanto bene riuscivo a vedere la mia giovane madre che, con una sorta di innocenza, si interrogava non solo sul futuro che la aendeva ma anche su chi fosse realmente l’uomo al suo fianco che aveva sposato e dal quale aspeava un figlio. In seguito mi disse che l’America le era sembrata un posto strano e travolgente, che la famiglia ebrea di mio padre era “fredda” e diversa dalle famiglie francesi nelle quali tui sapevano praticamente tuo gli uni degli altri, in primo luogo perché essendo più povere erano costree a condividere spazi più angusti, e poi perché i francesi sono di caraere aperto ed espansivo. I genitori di mio padre avevano “segreti”, mi disse, e giudicavano. Provenivano da una famiglia intelleuale: tra i loro antenati figuravano alcuni doi rabbini della Polonia, i cui discendenti erano emigrati a New York negli anni aranta dell’Oocento, mentre i genitori di mia nonna paterna erano originari di località imprecisate dell’Europa dell’Est. Gli Stone venivano in visita nell’East Side di Manhaan per vedere questa ragazza francese, Jacqueline, ma mantenevano le distanze e lasciavano malvolentieri l’adorato Upper West Side. este, insomma, le circostanze in cui ero venuto alla luce, nel seembre del 1946, in una tempesta di sangue e dolore. Fu, a quanto pare, un parto complicato, che richiese l’impiego del forcipe, la prima e ultima esperienza per mia madre. Io stesso, mi dicono, ce la feci a malapena. Mamma aveva una fotografia di me a sei mesi, raggiante tra le sue braccia con lo sguardo verso l’obieivo, come se stessi gridando “ba ba” o qualcosa del genere; in seguito lei si
inventò la bauta da farmi dire nella foto: Je suis fort! Ero un bambino felice, ebbe più volte occasione di ripetermi, nonostante sembrassi “un cinesino”. Essendo papà un ebreo non praticante e lei una caolica ribelle, fu in qualche modo giusto che venissi cresciuto nella tradizione della chiesa episcopale americana, frequentando il catechismo fino ai quaordici anni. Ero ricco, sano, adorato. Per mio padre, che imparai a conoscere molto più gradualmente rispeo a mia madre, perché spesso i padri aspeano prima di aprirsi con i figli maschi, la guerra era stata un periodo particolarmente inebriante; via via che gli anni passavano diceva con nostalgia che erano stati gli anni migliori della sua vita. L’esistenza da civile – i lunghi quarant’anni dopo la Seconda guerra mondiale – non avrebbe mai potuto essere alla stessa altezza. Nato nel 1910, era cresciuto negli anni Venti in una ricca famiglia industriale, nella nuova epoca dei bar clandestini, delle donne emancipate dalla Prima guerra mondiale, di Babe Ruth e Jack Dempsey, di Lindbergh e della sua trasvolata atlantica. I quaro fratelli, tre maschi e una femmina, decisero di cambiare il cognome da Silverstein a Stone, e furono ammessi, a dispeo delle quote di sbarramento previste per gli ebrei, a Princeton, Harvard, Yale (mio padre) e alla Wheaton (la sorella). Mio padre era intelligente, portato per la matematica, e scriveva molto bene. La sua tenebrosa bellezza senza dubbio lo aiutava. Il primo di tre grandi scossoni fece implodere la sua vita nell’oobre del 1929, quando si verificò il crollo di Wall Street. Suo padre, Joshua Silverstein, aveva venduto la propria azienda tessile, la Star Skirt Company, e investito il ricavato acquistando azioni, di modo tale che i suoi risparmi andarono rapidamente in fumo, fae salve alcune proprietà di Harlem affiate a prezzi irrisori. Mio padre si laureò dunque a Yale nel 1931 in piena Depressione e fu fortunato a trovare un lavoro, per venticinque dollari la seimana, come caporeparto di un grande magazzino. Mi raccontava spesso di quanto quell’improvviso rovescio lo avesse sconvolto; eppure
nell’arco di un anno riuscì a entrare in un ufficio di ricerca finanziaria a Wall Street e a oenere poi, nel 1935-36, la licenza di agente di borsa. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, i suoi contai gli valsero un posto nel seore finanziario nell’esercito, prima a Washington, poi a Londra nel 1943. In queste cià continuò a fare una beata vita da scapolo, senza legami stabili, come confermato da parecchie eloquenti fotografie che lo ritraggono in compagnia di donne araenti, nessuna delle quali evidentemente lo colpì in maniera particolare. Il suo amore più profondo, comunque, era riservato alla madre, una donna alta ed elegante che lui venerava quasi come una santa e che aveva dato alla luce cinque figli (uno era morto), ciascuno colmato di aenzioni e affeo. In quello che fu il secondo, inaspeato, scossone della sua vita, la madre morì improvvisamente di infarto, poco più che cinquantenne, nel 1941, quando lui aveva trentun anni. ali furono gli effei su mio padre posso immaginarlo solo dal modo in cui parlava di lei, vale a dire mai in deaglio. Considerato che imputiamo sempre qualche dolore ai nostri genitori, magari solo percepito, è sorprendente che su Matilda (“Tilly”) Michaelson non ci fosse una parola, un aneddoto, qualcosa di umano. alsiasi sofferenza che mio padre avesse potuto patire veniva sbrigativamente liquidata, immagino, come “autocommiserazione”, le sue emozioni soffocate a un livello profondo dove nessuno di noi sarebbe mai potuto arrivare. Credo proprio che una parte di lui fosse morta con la madre; il suo cuore era araversato da una certa freddezza, una distanza che percepivamo sia io sia mia madre. A quanto mamma ricordasse, suo marito non aveva mai pianto, mai una volta, per nessun motivo; sembrava sempre padrone della situazione, esempio di figura paterna, e sua madre qualcosa di sacro e lontano. Proprio per questa ragione, a mio avviso, mamma non decifrò mai fino in fondo l’uomo che aveva sposato. In una poesia scria nel 1932, mio padre esprimeva il desiderio di qualcosa di duraturo e la convinzione che il
destino della vita sia cupo e arbitrario. “E la Bellezza, sia essa immagine, suono o pensiero, non è mai destinata a durare. Va guardata di sfuggita, mai fissata a lungo o abbracciata. Troveremo noi il modo di troncarla.” E così facevano. La loro dorina è forse la più saggia. L’uomo ringrazia per quel briciolo di bellezza E prosegue per la sua strada, con un’immagine negli occhi. Ritengo che la guerra abbia salvato mio padre da questa sua cupezza, permeendogli di sfuggire al proprio passato – per un po’. Tuavia, i timori economici figli della Depressione lo avrebbero avvelenato per sempre. A conflio concluso, mentre al Congresso, dopo una campagna eleorale basata sulla paura, i repubblicani oenevano la maggioranza nelle elezioni di metà mandato del 1946 e iniziava la Guerra fredda, papà respinse le precedenti simpatie verso l’Unione Sovietica scontrandosi con molti amici ebrei progressisti che difendevano Roosevelt, il quale aveva auspicato per il dopoguerra una pace imposta dalle Nazioni Unite e dai cosiddei “quaro polizioi” (America, Unione Sovietica, Gran Bretagna e, se unita, Cina). Mio padre detestava profondamente Roosevelt, convinto che il New Deal avesse corroo la nostra società senza risolvere il problema della disoccupazione – solo la guerra ci era riuscita. E che se volevamo evitare un’altra Grande depressione, dovevamo continuare ad alimentare il complesso militare-industriale che tanto era cresciuto tra il 1941 e il 1945. All’epoca della guerra di Corea del 1950-53, la sua posizione era ormai quella prevalente nel Paese; e l’America non si guardò più indietro dopo che nel 1953 si insediò come presidente Eisenhower, l’ex capo di mio padre, e le cifre destinate all’esercito divennero ancora più colossali e irreversibili. Eravamo passati da una guerra calda a una Guerra fredda senza nemmeno un momento di riflessione. I timori per la disoccupazione che
avevano araversato gli anni della Depressione erano ormai un lontano ricordo e qualsiasi opposizione fu sepolta da J. Edgar Hoover, Joseph McCarthy, i giuramenti di fedeltà di Truman e la stampa filonazionalista. Nel ventennio seguente, fino alla fine della guerra del Vietnam, mio padre non si rilassò mai, nonostante guadagnasse bene. Si rifiutava di possedere qualsiasi cosa si potesse prendere in affio: un appartamento, una casa a New York, un terreno, un quadro, addiriura l’automobile quando si diffuse la pratica del leasing. “Sono solo di passaggio, figliolo,” o “Huckleberry,” come mi chiamava, in onore della più grande creazione del suo scriore preferito, Mark Twain. Di quel libro amava in particolare le scene con il padre ubriacone di Huck, forse per il fao che il personaggio del padre è totalmente privo di responsabilità; la foto di sé da giovane che preferiva era quella che gli avevano scaato dopo che era sparito per alcuni giorni ed era ricomparso trasandato e con la barba lunga come un vagabondo. Forse era per questo che non voleva possedere niente; nel possesso s’annida l’orgoglio, che a sua volta precede la caduta. “Con niente sono venuto al mondo, e con niente dal mondo… eccetera eccetera” – massima che ovviamente si estendeva anche a me, il suo unico erede. “Nessuno se ne andrà vivo da qui” e “la vita non è tua rose e fiori” erano le cupe massime che sentii per tua la mia giovinezza. Non vorrei dare un’impressione sbagliata. Mio padre aveva un umorismo ebraico tagliente e autoironico, apprezzato da molti; sapeva anche raccontare meravigliose favole della buonanoe, che avevano per protagonista un personaggio scaturito dal suo lato oscuro, il Malvagio Simon – una specie di Lemony Snicket ante lieram –, il quale mi inseguiva assumendo innumerevoli forme e travestimenti e certe volte riusciva a rapirmi; il Malvagio Simon mi terrorizzava non meno dei russi. A ogni modo, mio padre mi spiegò fin da piccolo che non avrei dovuto contare su niente, così come lui probabilmente aveva dovuto fare prima della crisi del 1929. Mi avrebbe mandato all’università, come suo
padre aveva fao con lui, e basta. Nonostante fosse convintamente laico e prendesse in giro lo stile di vita degli ebrei ultraortodossi di Williamsburg – “Perché non si comportano da americani⁈” –, in lui c’era una vena da Antico Testamento più radicata di quanto fosse disposto ad ammeere. Se fin da subito, e spesso, mi inculcò il senso della precarietà di questa vita – unita ovviamente al terrore che i russi potessero infiltrarsi nel Paese – fu in parte perché, credo, temeva che potessi adoare la sfarzosa, megalomane mentalità francese di mia madre. Perché allora aveva sposato il proprio opposto? In quanto ebreo riservato e votato al sacrificio in una società controllata dai bianchi anglosassoni, e uomo quasi sempre razionale, avrebbe dovuto sapere che sposare una “contadinoa” francese era un rischio. O forse riteneva che un matrimonio al di fuori della tribù potesse paradossalmente rivitalizzare un patrimonio genetico infiacchito? Sua moglie non portava in questa unione né ricchezza di famiglia, né lignaggio, né cultura, né agganci nel mondo dell’economia. Era al di fuori di quella struura di potere sull’asse Washington-New York che sarebbe arrivata a dominare il mondo e nella quale, pur essendo ebreo, lui sarebbe potuto entrare grazie alla laurea a Yale e all’esperienza nell’esercito. Mamma era una reiea, un’illustre sconosciuta per le donne di potere che sorvegliavano gli accessi alla cerchia. ando gli domandai il perché, papà mi rispose candidamente che l’aveva sposata “perché sarebbe stata una brava madre”, negando implicitamente la possibilità che lui l’amasse, tanto che, messo alle stree, confessava con inquietante sincerità: “L’unica donna che ho mai amato era mamma” – la sua. Era il sesso, e non i soldi, a farlo deragliare. Il sesso, in effei, era la bestia nera di tua quella generazione reduce dalla Seconda guerra mondiale. Le ipocrisie della vita moderna venivano messe in scena nelle innovative opere teatrali di Arthur Miller, Tennessee Williams, William Inge e in seguito di Edward Albee, così come nei romanzi di Salinger, Mailer, Bellow, Roth, Updike, James Jones e altri. Nel
mondo newyorkese dei tardi anni Sessanta che avrei conosciuto di prima mano, il divorzio divenne un “secondo ao” acceabile se non addiriura inevitabile persino nei matrimoni più longevi e tradizionalisti. Mia madre mi disse in seguito di essere a conoscenza delle infedeltà subite e di averle ignorate, ma già nel 1949, più o meno all’epoca in cui i sovietici infrangevano l’illusione americana di essere gli unici possessori della bomba atomica, l’equilibrio di potere era cambiato improvvisamente e radicalmente anche in casa nostra, dopo che mio padre era stato colto in flagrante. Lei sosteneva di avergli roo una scopa sulla schiena, e che c’era stata una litigata tremenda. Furono pronunciate parole sgradevoli ed eccessive ma la mamma, ripetendo negli anni la storia della scopa, dava sacralità alla propria rivolta: una rivoluzionaria francese che proclamava il fao che il marito aveva tradito lei e il loro matrimonio – e che, se le meeva le corna tanto maldestramente, di sicuro dovevano saperlo anche altre persone e, adesso che la sua umiliazione era pubblica per entrambi, le cose non potevano più essere come prima: “Il re è morto…” Si sentiva rifiutata. Ne soffrì profondamente, il suo sogno americano in frantumi. Ma di tuo questo all’epoca non sapevo niente. Come spesso succede, mia madre provò a migliorare la situazione con un secondo figlio, che tanto io quanto mio padre volevamo. Ma la mia gravidanza aveva imposto un prezzo pesante al suo organismo, tanto che una sera, mentre eravamo ospiti in una casa di East Hampton, sentii trambusto dal piano di soo. Araverso la balaustra delle scale, vidi degli infermieri che portavano mia madre in ospedale e poi, credo, un sanguinolento feto abortito di cinque o sei mesi trasportato fuori avvolto in una copertina – non ne sono del tuo sicuro, ma mi sembrò una scena da film horror. Con mio padre che andava avanti con le sue tresche in maniera più discreta, mia madre assunse il ruolo dell’impavida eroina – non era forse stata rifiutata da Rhe anche Rossella? – sfruando al meglio la situazione. In estate si trasferiva armi e bagagli in Francia, a volte insieme a me
quando non venivo spedito in qualche campo estivo dal nome indiano su un lago ghiacciato del Maine o dello Stato di New York. Nella Francia degli anni Cinquanta mia madre veniva traata come una diva del cinema. Arrivava con articoli che lì erano ancora di difficile reperibilità – blue jeans, cosmetici, apparecchi elerici – e mi lasciava dai suoi genitori nella campagna rurale a est di Parigi, dopodiché partiva per le ville di campagna dei suoi amici più ricchi nei dintorni di Parigi o nella Francia meridionale, dove assaporava quella vita di sensualità europea che nel tempo, coniugata con le comodità moderne americane, si sarebbe trasformata nel nuovo jet set internazionale. I miei nonni francesi erano agli antipodi dei miei genitori. Con loro trascorsi numerose estati. Mémé era l’immagine stessa della nonna, corpulenta e affeuosa come lo erano le donne cresciute a cavallo dei due secoli, una persona semplice, il fazzoleo spesso premuto su un orzaiolo sopra l’occhio cadente e umido che le indeboliva la vista. Era sempre preoccupata per qualcosa – la cena imminente, il cibo a disposizione, i soldi – e, quando il motivo di preoccupazione non era sua figlia o suo figlio o uno dei pensionanti, eravamo noi: i nipoti. “el souci!” era il suo corrispeivo dell’ebraico “Oy vey! Come facciamo adesso!”. O, in alternativa, un cantilenante “Oh la la! ’est ce qu’on va faire!”. Eppure aveva sempre da parte qualcosa di speciale per noi, un p’tit bonbon nascosto da qualche parte nell’enorme comò, una scatolina di caramelle o di cioccolatini speciali, a volte una piccola mazzea di fruscianti franchi di carta con la colorata immagine di uno scriore o di un militare – grosse, oimiste banconote del dopoguerra con le quali potevamo allegramente andare al cinema o al negozio di fumei. Poiché nel loro piccolo hotel parigino lo spazio non era sufficiente, io, in quanto nipote preferito, l’américain, dormivo nel leo di Mémé insieme a Pépé, e la nonna mi raccontava le storie del lupo caivo che si aggirava per i tei di Parigi e, calandosi di noe dal camino, poteva portare via un bambino dal suo leo senza che i genitori si accorgessero
di nulla! La Francia aveva un ricco folklore legato ai lupi; pare che nel Medioevo vagassero a branchi e talvolta ne venivano avvistati ancora, nelle grandi foreste. Immancabilmente io rabbrividivo e mi aggrappavo a lei, come nella favola di Cappucceo rosso. Avete presente cosa scopre la bambina quando arriva a casa della nonna? Allora guardavo Mémé con più aenzione. Al buio non si vedeva molto, ma la sua bocca di certo non era un lungo muso peloso con una fila di terrificanti denti aguzzi. Era solo Mémé, che con il suo dolce sorriso mi rassicurava ogni volta, stringendomi al seno. Riuscivo a volerle bene in un modo più tradizionale rispeo al bene che volevo a mia madre. Molto semplicemente, Mémé c’era sempre mentre mamma era… be’, entusiasmante, sì, ma anche tempestosa e inaffidabile. Pépé, da buon francese, non si era mai fao pregare a sculacciare i bambini indisciplinati, ma ormai, a sessant’anni suonati, in genere si limitava a brontolare come un vecchio cane, senza alzarsi dalla comoda poltrona accanto al fuoco. Era un uomo affeuoso che, come dicevo, mi raccontava aneddoti della Grande guerra. I miei nonni materni erano persone che acceavano stoicamente la natura della vita, un aeggiamento che notavo nella maggior parte dei francesi; ne avevano abbastanza di conflii. ello che ho imparato ad amare negli anziani è la loro indifferenza al trascorrere del tempo, al susseguirsi delle mode e delle idee. È questa la forza interiore che ci offre la vecchiaia. Pépé era un uomo migliore grazie a Mémé, che gli restò sempre accanto, fedele fino alla fine dei loro giorni. Insieme erano una roccia. Solo molto più avanti nella vita ho compreso il senso di una frase che mi era stata dea da bambino, ossia che un uomo può essere farfallone, mentre la donna dev’essere salda nella sua fedeltà. Senza un nucleo morale – e basta una sola anima salda, tra marito e moglie – non ci può essere una famiglia forte. E senza la famiglia, soffriamo tui. Avrei imparato queste dolorose lezioni dai miei genitori, cui volevo un bene profondo.
Da piccolo avevo l’impressione che i figli delle famiglie facoltose venissero parcheggiati insieme agli altri bambini: a scuola, in chiesa, nei campi estivi, seduti a mangiare in tavoli e momenti diversi rispeo agli adulti, abituati con la disciplina a restare a portata di sguardo ma senza fare chiasso. E mia madre, con il suo temperamento nervoso, a volte era dura come il padre era stato con lei, un’educazione ferrea che secondo me ne aveva plasmato il caraere energico e ribelle. Era la maniera francese: une bonne gifle, un bel ceffone sulla guancia o sul sedere con la mano aperta e forte, elerizzata dalla rabbia, poteva meere a posto le cose molto in frea quando un bambino faceva una marachella. In quei frangenti potevano essere urlate parole forti e accalorate, ma in questo modo la questione si risolveva rapidamente senza far ristagnare la colpa né sull’una né sull’altra parte. Parecchie volte, negli anni, mia madre mi inseguì per tuo l’appartamento furente di rabbia, a volte con un frustino da cavallo, per farmi capire chi comandava. Mio padre, invece, era incapace di alzare le mani su di me, ma mi sgridava aspramente ogni volta che vedeva un misero sei in pagella. Molti anni più tardi, mamma raccontò a mio figlio che quando avevo oo anni andai da lei in lacrime e le dissi: “Tu non mi vuoi più bene!” “Perché dici così, tesoro?” mi chiese. “Perché non mi sculacci più.” E disse a mio figlio: “Vedi, ai bambini piace essere correi, e che gli si spieghi la differenza tra il giusto e lo sbagliato. Ricordatelo quando avrai figli anche tu.” Mia madre era come una droga, e quando non c’era sentivo la sua mancanza e le volevo bene ancora di più, in aesa del suo ritorno, E se ero abbastanza fortunato da passare un po’ di tempo con lei, i momenti più belli erano quando tornava all’una o alle due del maino, dopo una festa, e veniva a darmi il bacio della buona noe. Avvolta dal fascino prepotente del suo profumo misto all’alcol che aveva bevuto, mi coccolava dandomi la calda buonanoe che si vede così spesso nei vecchi film europei, e
che ormai è quasi scomparsa. Il ritrao di una Madonna col bambino. Mia madre aveva un modo di fare sano, disinvolto e naturale, nel sesso e in ogni altro ambito della vita. Girava nuda nella sua camera e io da bambino la vedevo spesso soo la doccia o seduta sul water senza alcun bisogno di provare vergogna. Del resto, la Francia si era talmente impoverita negli anni della guerra – il sapone era difficile da trovare, e le docce erano di certo un lusso americano, insieme ai meravigliosi water con lo sciacquone – che l’intimità in tue le cose era diventata un’abitudine. Mia madre mi fece dunque capire molto presto che le donne sono creature terrene, e non dee peorute la cui immagine molti uomini distorcono finendo per caderne preda. Il suo sembrava un aeggiamento di gran lunga più sano rispeo alla repressione dei sentimenti tipica delle culture anglosassoni. Sì, è vero, i suoi modi sensuali possono avermi instillato un desiderio nascosto verso di lei, ma hanno forse traviato i miei valori? Forse l’adoravo troppo, ma preferisco comunque questo destino rispeo alla fredda, malsana sfiducia verso le donne, se non addiriura il disprezzo, che riscontro in tanti uomini. Né lei è mai stata la bisbetica delle opere di Tennessee Williams – castrante, autoritaria, chiassosa. Egoista e melodrammatica sì, a volte eccessiva e punitiva, ma sempre con un fondo di affeo. “Ti sto castigando ma ti voglio bene” è un aeggiamento umano ai miei occhi. “Ti sto castigando perché ti voglio bene” no. Sono convinto che mio padre fosse schifato dall’intimità che legava me e la mamma, lui che dubito avesse mai visto sua madre nuda. Mio padre non voleva conoscere di più delle donne, le preferiva come fantasie in calze di nylon nere, pur apprezzando la loro compagnia nelle situazioni di convivialità. E alle donne, come potei capire in seguito, di certo piaceva lui. Per i primi quindici anni della mia vita mi furono risparmiate le dinamiche in corso tra i miei genitori. antomeno nella mia mente, noi tre eravamo una cosa sola – e il mondo era al di fuori. Ero amato da genitori che chiaramente si amavano e
che, a rendere la situazione ancora più rosea, erano adulti araenti, responsabili e facoltosi. Alle elementari traboccavo di orgoglio quando mia madre trovava il tempo per venire a scuola con i suoi abiti alla moda e si informava di me facendo domande alle maestre con quell’accento, le altre madri più dimesse affascinate di poter rivolgerle la parola e al tempo stesso mostruosamente invidiose del suo stile. Seconda elementare, terza media, non importava. ando arrivava mia madre, gli altri bambini la notavano, la notavano tui. Jacqueline Stone non passava certo inosservata. In un film, sarebbe stata Jeanne Moreau, con quel calore animale che dispensava a chiunque. Sì, lei c’era sempre, per me, eppure non c’era; sarebbe più correo dire che era “in mostra”. In anni successivi, ho usato una metafora cinematografica per descrivere il nostro rapporto, dicendo che era o un primo piano o un campo lungo, raramente un piano medio. Ma se sono ingiusto è a causa di ciò che avvenne dopo. In quei primi quindici anni, a parte un intervento chirurgico che mi spaventò molto, ebbi una vita felice; adoravo con tuo il cuore la mia affascinante madre e nutrivo fiducia e stima, a volte paura, per mio padre, affeuoso e gran lavoratore. Ebbi accesso completo a due culture e a due lingue, in entrambe le quali sapevo parlare e pensare. Leggevo tuo ciò che volevo, divoravo tuo quanto potevo di quella cosa nuova che era la televisione, e spesso mia madre mi portava via da scuola per andare al cinema, che lei adorava, per poi coprirmi con una giustificazione scria; insomma, non ero costreo a scegliere tra il gelato e i soldatini. Mai sarei riuscito a superare gli ostacoli che ho affrontato in seguito senza quel fondamentale senso di oimismo che mia madre aveva instillato nel mio caraere. E che divenne uno strumento essenziale per affrontare la vita stessa. Andava ancora tuo bene persino quando, a quaordici anni, mi mandarono alle superiori in collegio, in una sperduta ciadina della Pennsylvania dalla quale ci era permesso tornare a casa solo per il giorno del Ringraziamento, per Natale e per le vacanze di primavera, oltre ovviamente alla
lunga pausa estiva. Era il gradino successivo della scala che avrei dovuto salire per raggiungere i livelli “giusti” della buona società della costa orientale. La Trinity, la mia prima scuola all’incrocio tra la Novantunesima Strada e Columbus Avenue a New York, era stata adeguata solo fino alla terza media, anche se la maggior parte dei miei compagni di classe vi sarebbe rimasta fino al momento di andare all’università. La Hill School in Pennsylvania, invece, con cinquecento maschi alle prese con le tempeste ormonali, era all’improvviso una scuola “seria”, tua rigida disciplina, senza alcunché di confortevole, di sensuale o di francese. Era improntata alla mentalità americana, seguiva un approccio degno dei Marines tanto nella didaica quanto nello sport, in particolare nei suoi famosi programmi di loa libera e nuoto. Il moo dell’istituto era “Tuo quello che è vero”; diversamente dalla scuola primaria che avevo frequentato, copiare era punito con severità e nel corso dei miei quaro anni una percentuale significativa della mia classe sarebbe stata espulsa per un motivo o per l’altro. Ci alzavamo alle see, gelando nei mesi invernali, avevamo orari fissi per la chiesa e i pasti, cibo da mensa dei poveri, cinque ore di lezione ogni giorno fino al primo pomeriggio, aività sportive obbligatorie, cena presto, poi tre, quaro ore di studio e luci spente alle 22 (22.30 per i più grandi). Nulla di quello che avevo studiato nella mia scuola precedente sembrava all’altezza. New York mi aveva rammollito e, se volevo entrare a Yale come mio padre, dovevo crescere in frea. Così vissi quaro anni nell’ansia dell’inadeguatezza. Nonostante la generale afflizione che provavo, stavo cominciando a capirci qualcosa a metà del secondo anno quando, nell’inverno del 1962, subii il più grande shock della mia vita. Cominciò tuo con un criptico messaggio nella casella di posta da parte del preside: “Mi ha telefonato tuo padre. Vorrei vederti oggi stesso alle 14.30.” Seguiva la firma “Ed Hall”. Nel nostro mondo il preside era una figura di spicco, stimatissimo come guida risoluta e con entrature a Yale, oltre che per l’immagine di macho dovuta al fao di essere anche allenatore della squadra di hockey. Hall
mi terrorizzava e non avevo la minima voglia di presentarmi. Lui non sapeva nemmeno chi fossi. I miei voti erano buoni, le note di demerito trascurabili, eppure evidentemente c’era qualcosa che non andava. Perché mai mio padre aveva telefonato? Era forse successo qualcosa a mia madre? Un incidente? Poteva essere morta! All’epoca le comunicazioni a distanza erano tu’altro che agevoli. Da una delle due cabine telefoniche nell’atrio della scuola chiamai l’ufficio di mio padre. Mary, la sua fedele segretaria, era agitata, lo sentivo; al telefono riesco sempre a capire se c’è qualcosa che non va. Mio padre in quel momento non poteva venire all’apparecchio. Era impegnato in “un’importante riunione” e mi avrebbe chiamato quella sera “dal suo hotel”. Che ci faceva in un hotel? Campanelli d’allarme cominciarono a suonare da tue le parti. Mary sapeva che papà aveva parlato con il preside e mi chiese se lo avessi già incontrato. La situazione peggiorava di minuto in minuto. Non avevo alcuna intenzione di andare da Ed Hall. Non volevo che il preside sapesse niente della mia vita privata, a maggior ragione se in essa si era aperta una falla. Ma mia madre stava bene, altrimenti Mary me l’avrebbe deo. Doveva essere qualcos’altro. Le 14.30 arrivarono e passarono. Adesso ero ufficialmente nei guai perché non mi ero presentato dal preside come richiesto. Neanche a dirlo, la mia testa era un turbine di pensieri. Nel giro di un paio d’ore contaai la mia madrina a New York, Susanne, anche lei francese. Susanne conosceva i miei fin dai tempi della guerra ed era sempre stata simpatica a entrambi. Non mi disse granché, ma abbastanza da farmi capire che era qualcosa di grave, come sospeavo. Si stavano “separando”. Che cosa significava separarsi? Non era qualcosa di definitivo, dunque? Era temporaneo? Susanne non volle dirmi di più, perché davvero non sapeva altro. Mi avrebbe spiegato tuo mio padre. Le chiesi dove fosse mia madre, visto che avevo chiamato a casa e non aveva risposto nessuno. Susanne mi rassicurò dicendo che la mamma stava bene; non sapeva però dove fosse adesso. Era quell’“adesso”
che mi turbava. Sì, qualcosa era cambiato, e la sensazione era che fosse cambiato per sempre. Col tempo ho imparato che tue le cose cambiano. E che in genere, se sono già gravi, cambiano in peggio. Finalmente quella sera parlai con mio padre, nella sua camera d’albergo. Fu, come sospeavo, una conversazione che avrebbe cambiato la mia vita. A posteriori, oggi la vedo come il terzo e ultimo grande scossone della sua vita: prima la perdita della sicurezza economica nel 1929, poi la morte della madre nel 1941 e ora questa separazione nel 1962. Papà era triste, frastornato, affranto, completamente diverso dal solito: era solo in parte, in piccola parte, padrone della situazione. Mi chiese se ero stato dal preside. “No,” gli risposi. Lui rimase in silenzio. “Oliver, io e tua madre stiamo divorziando.” Bastava quello. Non so bene in che ordine ascoltai il resto. “Da parecchio tempo ormai non è più lei.” “Piange tue le maine.” “È innamorata di un altro.” “Non ce la faccio più.” “Non so dove sia adesso, ma credo che se ne andrà in Francia per qualche tempo. Ti chiamerà, ne sono certo” – ma non ne era certo affao. “Chi… Chi è quest’altro uomo?” “Un parrucchiere che conosce. Miles Gabel.” esta aveva dell’incredibile! Miles era un amico di mia madre. Avevo trascorso con lui parte dell’estate precedente. Papà aveva preso in affio una moderna casa a West Hampton, con piscina, campo da tennis, un grande prato. Miles prima faceva il parrucchiere ma adesso, con l’aiuto di mamma, aveva messo su un piccolo studio fotografico. Era un uomo di trentacinque anni che mi era diventato pure simpatico: bello come un aore, moro, pericoloso, occhi verdi da gao siamese, schieo accento da ebreo del eens,
amava la vita, le donne, i cani, la sua MG e l’adorata macchina fotografica. Per me era diventato come un fratello maggiore, l’anello di congiunzione tra la mia generazione e quella dei miei genitori. Visto che quell’estate mio padre era rimasto spesso in cià, Miles era venuto più volte a stare da noi per qualche giorno come “ospite”, con mamma che furtivamente mi diceva di non farne parola perché “a tuo padre Miles non piace”; una giustificazione che mi pareva plausibile, perché spesso alla mamma piacevano persone che invece a papà non andavano a genio. Era stata un’estate entusiasmante; Miles, che in passato aveva anche fao il bagnino, era il padre fisico che non avevo mai avuto, mi aveva fao crescere come uomo, mi aveva insegnato a fare ginnastica e pesi, a traare con le ragazze – ma che si portasse a leo mia madre? Non mi era nemmeno passato per la mente; loro erano amici! “È un pezzente!” si alzò accalorata la voce di mio padre. Disse che Miles aveva un caraere violento e imprevedibile, che picchiava la mamma. In effei, una volta avevo notato un livido sul suo viso. Papà proseguì. La mamma passava dei soldi a Miles – soldi di mio padre. Miles era un “gigolò”. La cosa andava avanti da quasi due anni! La mamma ormai era fuori controllo, piangeva tue le maine perché era “innamorata di quello lì”. Papà non poteva farci più niente e questo lo faceva stare male. Le aveva dato tante occasioni per cancellare Miles dalla sua vita ma lei non ci riusciva. Era come se, per la prima volta, papà si rendesse conto di aver perso il cuore di mia madre, e stentava a crederci, non acceando che potesse essere dipeso da una propria negligenza. Ma ormai la decisione era presa, e tuo quello che io avevo dato per certo della vita – che tra due persone possono esserci sicurezza, amore e felicità – si rivelava una menzogna. In papà non c’era più amore per la mamma, lo capii da quella telefonata. Aveva deciso. Voleva me ma non voleva più lei. Avrebbe tenuto in piedi l’idea di famiglia solo per me – il loro unico figlio. Adesso che avevo raggiunto “l’età della ragione” ero presumibilmente abbastanza grande da capire certe cose. Forse proprio per questo mi avevano mandato in collegio: sentivano ciò che stava per accadere.
Mi spiegò che la nostra casa newyorkese era già stata subaffiata al fondatore di una grossa dia di cosmetici, che lui conosceva di persona; tue le mie cose, gli oggei personali, le foto, le figurine di baseball, i vecchi fumei, i soldatini che avevo in camera mia erano stati impaccheati dentro degli scatoloni. Scoprii in seguito che mia madre era stata chiusa fuori, le sue carte di credito annullate. L’accordo di divorzio fu raggiunto nell’arco di qualche mese mentre io ero ancora in collegio; la mia custodia fu assegnata a mio padre in quanto parte forte, visto che mia madre non aveva mezzi di sostentamento, ma anche perché, ed era stato il faore decisivo, ne era stato tracciato un profilo psicologico da lei stessa controfirmato. In seguito mio padre mi disse che lo psicologo la descriveva come “un soggeo infantile che vive in un mondo di fantasia, del tuo incapace di funzionare in quanto adulto con un figlio”. Mamma non mi parlò mai di questo psicologo. In seguito mi raccontò invece quanto mio padre si fosse dato da fare per oenere il divorzio, arrivando persino a ingaggiare un investigatore privato che la pedinasse a Los Angeles, dove lui l’aveva spedita a “recuperare il senno”. Le aveva prenotato una camera al Beverly Hills Hotel, e proprio lì un fotografo a sua volta ingaggiato dal detective l’aveva immortalata in compagnia di Miles. Il ricao aveva funzionato e mia madre aveva acceato l’accordo che papà le proponeva. Per lei, la fantasia di se stessa nei panni di Rossella O’Hara si era avverata come mai avrebbe potuto immaginare. La sua casa – la sua Tara – era in macerie. Ma per quanto lei stessa fosse distrua, si sarebbe rialzata e l’avrebbe riconquistata! Non subito però. Eppure… possibile che nessuno dei due si fosse sentito di venire a dirmi tuo questo di persona? Era bizzarro ascoltare quelle notizie in interurbana. Mio padre non avrebbe potuto prendersi uno o due giorni di ferie per venire a trovarmi? O magari portarmi a New York di persona? Il preside glielo aveva sconsigliato, con i carichi di studio che la scuola imponeva, perché sarei rimasto troppo indietro con il
programma, o qualcosa del genere. Mi disse che era preoccupato per me, certo, ma che tempo tre mesi, durante le vacanze di primavera, mi avrebbe spiegato tuo nei minimi particolari; aveva organizzato una gita noi due soli in Florida, dove avremmo giocato a tennis e fao vita da scapoli, parlando e stabilendo un nuovo legame. E mia madre pian piano sarebbe scivolata ai margini della mia vita – una semiadulta messa da parte. Ma dov’era mia madre? Non mi aveva nemmeno fao una telefonata. In seguito mi avrebbe deo che era soo shock; tuo il suo mondo era crollato così, all’improvviso. Si sentiva “in imbarazzo”. Non aveva soldi e aveva dovuto farsi prestare mille dollari da un caro amico. Come avevo visto nei film con Lana Turner o Joan Crawford, mamma adesso era una donna che viveva nel disonore. In un altro secolo avrebbe portato una leera scarlaa sul peo. La maggior parte degli amici dei miei genitori, rispeabili newyorkesi del mondo della finanza, la abbandonarono. E via via, lei li sostituì con amici tui suoi, reiei della società: artisti, gente della moda, all’epoca “checche” e oggi gay, divorziati, libertini, amici europei che non la giudicavano secondo gli standard americani. Finì per tornare in Francia sei mesi l’anno pur di stare in loro compagnia – e anche, immagino, per evitare parte delle tasse americane che altrimenti avrebbe dovuto pagare mio padre. A lui conveniva tenerla all’estero. In realtà era tua una menzogna. Scoprii che papà aveva avuto relazioni extraconiugali fin dall’inizio: modelle, le mogli di diversi loro amici, prostitute, persino la nostra corpulenta domestica e babysier svizzera, quando io avevo circa see anni… relazioni di cui mia madre diceva di essere al corrente; alla fine mi raccontò alcune storie a proposito di tue quelle “amiche” che venivano a casa nostra per una cena elegante o una partita a canasta o a bridge, o si trovavano nelle case di campagna dove eravamo ospiti, o erano vecchie conoscenze dei tempi della guerra – se le era scopate tue, evidentemente! Era un assatanato. Ciononostante, mia madre era “tollerante”, non una baccheona. Era francese, e i
francesi capiscono l’amour. Gli uomini hanno quella sete dentro, e contrastarla o farne uno scandalo pubblico è assurdo – oltre che “contro natura”. In seguito venni a sapere dai suoi partner che nel sesso mia madre era naturalmente curiosa, che tra le varie avventure aveva esplorato anche i rapporti saffici. Per mio padre invece, a parte qualche esperienza a tre (due donne e un uomo) a cui le aveva chiesto di partecipare, il sesso con la moglie si era sbiadito, come succede solitamente, e allora lui era tornato all’archetipo preferito degli anni aranta, la modella alta, fredda, dalle gambe lunghe. Lui non voleva un sesso troppo realistico e terreno; preferiva fantasie cerebrali, un altro modo, a mio avviso, per dire che non aveva mai lasciato entrare mia madre nel suo cuore. Erano gli anni dell’Appartamento (1960), il film premio Oscar di Billy Wilder che meeva a nudo ciniche verità che gli americani non erano ancora pronti ad ammeere. Mamma, dall’altro lato dell’equazione, anziché farsi una storia clandestina con un uomo o una donna più giovane, come facevano alcune delle sue amiche sposate, si era proprio innamorata di questo giovane aspirante fotografo che addiriura sosteneva economicamente. Aveva un’emotività troppo sincera per nascondere i propri sentimenti – e di conseguenza adesso, a quarantun anni, la sua vita stava andando in pezzi più velocemente di quanto potesse controllare. Perché, mi chiedo tuora, mia madre non aveva messo a fruo prima il proprio gusto e il proprio talento? In giovane età aveva nutrito l’ambizione di migliorarsi continuamente. Da contadinoa della Savoia era diventata una sofisticata donna di mondo – a Manhaan, nientemeno. Organizzava eventi benefici ed era anche un’oima cuoca, un’ospite e padrona di casa meravigliosa, che sapeva come fare le cose per le quali si serviva di altri. Aveva senso pratico, sapeva fare le riparazioni ed era in grado di ritrovare una palla da baseball persa nella boscaglia. All’inizio degli anni Cinquanta aveva frequentato una scuola di arredamento, ma dopo due
anni di studi aveva abbandonato quel campo. “Mi dispiace non essere andata fino in fondo,” mi disse un giorno. “Avevo talento.” Eppure, più di una volta aveva aiutato qualche amica ad arredare la casa senza chiedere alcun compenso. Si interessava anche di moda, tanto da dispensare consigli preziosi a diversi stilisti affermati. Tra i suoi migliori amici figuravano piori, aori, scriori; aveva gusto in tuo – arte, feste, case, cucina, design – ma evidentemente non in amore. Eppure aveva provato, ne sono convinto. Come scrisse nel già citato album della nonna, aveva sempre voluto “essere una brava moglie, gestire la casa, come usava una volta”. E sono convinto che lo sarebbe stata, se mio padre fosse stato come suo padre – fosse stato reo e sincero nel cuore, cosa che non era. Ma papà aveva qualcosa di bacato. La verità è che Rossella aveva cercato di stare ai pai mentre Rhe, per ragioni sue, alla fine l’aveva delusa. E quando lei cercò di far funzionare le cose con uomini più giovani e araenti trovò solo porte chiuse. Nel bel mezzo di una tempesta nessuno guarda mai il quadro generale, ma se lo avessi fao avrei visto la distruzione di una famiglia. Non avevo fratelli o sorelle con cui condividere la mazzata. All’improvviso eravamo tre persone diverse in tre posti diversi e, se i miei genitori non avevano nemmeno sentito il bisogno di vedermi o di portarmi via dalla scuola, quanto ero importante davvero per loro? Be’, allora quell’importanza dovevo darmela da me, in qualche modo. Dovevo farmi venire la scorza dura, cavarmela da solo, non cedere al dolore, alla debolezza o all’autocommiserazione. Provavo anche una profonda vergogna. C’era qualcosa di sbagliato in me visto e considerato che la maggior parte dei miei compagni di classe avevano famiglie solide; al di fuori delle grandi cià della costa est, i divorzi erano rari e in genere riguardavano gli studenti “problematici” che spesso venivano espulsi dal collegio. Proprio il giorno seguente, un ulteriore motivo di vergogna fu la ramanzina che mi fece il preside Hall per non essere andato all’appuntamento. Come unica consolazione,
mi invitò a trovare il mio “caraere” e superare queste avversità. Tre seimane più tardi, in Florida, subii un altro shock tremendo. Mio padre, rivivendo lo scossone della Grande depressione, mi disse in tono piao e disgustato che era “al verde” e aveva centomila dollari di debiti, una somma ingente all’epoca – e ne dava la colpa alla mamma, che si era data a spese pazze, “fingendo di essere ricca, fingendo sempre di essere qualcosa che non era”. Glielo aveva fao notare tantissime volte, in tantissime discussioni, ma non era servito a niente. Io però non dovevo preoccuparmi. Mio padre avrebbe continuato a lavorare, a guadagnarsi da vivere, avrebbe saldato i suoi debiti e gli sarebbe rimasto abbastanza denaro da mandarmi all’università. Mamma in seguito si sarebbe difesa dicendo: “Tuo padre era piccino. Io lo facevo pensare in grande. Con me Lou fece più soldi di quanti ne avesse mai guadagnati. Lo presentai a gente ricca; persone che era necessario traare bene, per dimostrare che potevano fidarsi di tuo padre.” esto era vero solo in parte, perché papà aveva già i suoi clienti, alcuni molto facoltosi. Mamma cominciò a vedere il loro matrimonio come un esperimento fallito che papà non aveva avuto il coraggio di portare avanti. “Se solo Lou avesse rischiato e avesse comprato le cose anziché limitarsi a prenderle in affio,” diceva sconfortata, “avrebbe potuto conquistarsi un posto nell’alta società newyorkese”. Io però non so se papà avrebbe davvero potuto riuscirci, né se sarebbe stato felice in quel ruolo; molti anni più tardi lui stesso fece eco alla convinzione di mia madre: “Sono uno piccino, figliolo, mai stato un grand’uomo.” ella frase mi segnò nel profondo, perché mio padre aveva ormai superato l’età delle ristreezze, e vedeva le cose diversamente. Perciò mamma aveva ragione in un certo senso, e lui era terrorizzato in un altro. E se non ero stato capace di accorgermi che un giovane si scopava mia madre mentre io dormivo nella stanza accanto, sordo a qualsiasi segnale, come potevo fidarmi della mia capacità di intendere?
L’ingenuità dei miei quindici anni mi lascia allibito. È una storia che ho impiegato molto tempo a elaborare, sempre che l’abbia elaborata davvero. La maggior parte dei figli di genitori divorziati condivide la consapevolezza che la nostra vita, il nostro stesso essere sono il fruo di una serie di menzogne. Se i miei genitori si fossero davvero conosciuti l’un l’altra prima di sposarsi, non si sarebbero mai uniti e io non sarei esistito. Tanti figli come me nascono da quella menzogna originaria: viviamo una facciata falsa e quando ce ne rendiamo conto sentiamo con sofferenza che non potremo mai più fidarci di niente e di nessuno. Gli adulti diventano pericolosi. La realtà diventa solitudine. L’amore o non esiste o non può durare. E il mio passato, i miei quindici anni sulla terra, erano a questo punto un passato finto – un’illusione. Nel novembre del 1963, il mio ultimo anno alla Hill School, fu assassinato il presidente Kennedy. Tui noi, guardando esterrefai i televisori in bianco e nero, non capivamo altro che la superficie delle cose, le spiegazioni che ci venivano somministrate dai sommi sacerdoti. Né avevamo coscienza dei cambiamenti in ao nella politica estera americana mentre ci avvicinavamo sempre di più a una guerra in Asia. Dopo quaro lunghi anni mi sentivo come un impiegato oberato di lavoro, con l’obbligo costante di fare quello che mi veniva assegnato anziché avere un’autentica curiosità per le varie materie. Ero più robot che essere umano, con voti eccellenti e monogrammi di merito guadagnati in autunno nella sfiancante corsa campestre e in primavera nell’aristocratico tennis. E così, con più sollievo che gioia, fui ammesso a Yale, la stessa università dove si era laureato mio padre. Cominciai a frequentare le lezioni nell’autunno del 1964 e… oh, è difficile spiegare perché si arriva a un arresto assoluto. Da me si aspeavano grandi risultati, me lo portavo dietro nelle ossa. La vita americana è tarata sul movimento costante verso l’alto; l’unica risposta alle avversità che conoscevo era: “Non mollare mai. Mai. Mai.” Invece, all’improvviso, mollai – perché ero esaurito, senza nemmeno esserne consapevole. Come potevo esserlo, in un’epoca in cui gli aspei psicologici dello stress non erano riconosciuti?
Non avevo nessuno con cui parlare, nessuno di cui fidarmi. Mio padre l’avrebbe preso semplicemente per uno sbandamento che si poteva correggere. E mia madre…? Allora avevo davvero bisogno di lei, non avendo un posto dove posare il mio cuore ed essendo spaventato più di quanto fossi mai stato. E solo. Ma in quel particolare momento ero indurito nei suoi confronti, la vedevo come una pusillanime che aveva tradito la famiglia. Mi accordai con il preside di Yale per prendermi un anno sabbatico, cosa piuosto rara a quei tempi. Su una bacheca dell’università lessi l’offerta di un’associazione caolica di Taiwan, fortemente anticomunista, che aveva una scuola in Vietnam carente di insegnanti. A pao che fossi riuscito ad arrivare fin là, lo stipendio era basso ma sufficiente per vivere. Mio padre, devastato, assecondò comunque il mio desiderio di partire, dando per scontato che sarei tornato a Yale l’anno successivo. Così, nel giugno del 1965 cominciai a insegnare in diverse classi di scuola superiore a Cholon, un sovraffollato sobborgo cinese di Saigon. Non avevo mai visto tante persone in vita mia, ogni centimetro di spazio occupato, conteso, prezioso. Facce, odori, sesso e mentalità completamente diversi rispeo all’America. Nel fraempo, le truppe statunitensi arrivavano in cià a gruppi sempre più nutriti man mano che la guerra si allargava. Gli aacchi terroristici erano in aumento, ma in generale la vita era piacevole: la sera montavo sul mio motorino e visitavo strani posti di ogni genere senza alcuna paura. Mi feci crescere la barba e mi allontanai quanto più possibile dalla persona che ero stato fino ad allora. Dopo sei mesi e due trimestri scolastici, diedi le dimissioni e viaggiai da solo tra Cambogia, ailandia e Laos, per poi tornare a Saigon e arruolarmi nella marina mercantile americana. I libri mi avevano sempre trasmesso il fascino del mare e in quel periodo nei porti dei Paesi stranieri veniva reclutato anche personale non appartenente ai sindacati di categoria, in sostituzione dei membri dell’equipaggio che sparivano nelle zone di guerra in cerca di una donna, di una
paga migliore nelle compagnie militari private o di chissà cos’altro. La mia mansione era quella di addeo alla pulizie: la più umile a bordo di una nave nonché la più sporca, giù in sala macchine, dove bisognava spurgare le caldaie due volte al giorno e ripulirle da tue le schifezze che le incrostavano. Arrivammo negli Stati Uniti dopo una dura, tempestosa traversata di trentasee giorni che mi fece passare qualsiasi voglia di riprendere il mare. E una volta sulla terra ferma, in Oregon, con i risparmi che avevo raggranellato partii per il Messico, dove mi rintanai in una modesta pensione di Guadalajara. Lì, con mio grande stupore, cominciai a scrivere giorno e noe, a penna, di tue quelle mie nuove esperienze. In realtà riversavo sulle pagine i miei sentimenti più intimi, avevo questa urgenza. Sgorgavano, tumultuose come lacrime, frasi lunghe e bellissime, ricche, arrotondate, che puntavano i rifleori su me stesso – io! Per la prima volta nella mia vita, esistevo non come proiezione altrui ma come persona che era lì, presente – quantomeno sulla carta. Fu uno sfogo magnifico, non avevo mai provato emozioni così forti. Lasciando solo di rado la mia cellea da frate, con un balconcino fiorito affacciato su una chiesa, su un vicolo e su un cane latrante, trascorsi quaro seimane a vomitare un crudo, semiautobiografico grido nella noe di duecento pagine, scrio dal punto di vista di un giovane. Lo intitolai A Child’s Night Dream, un romanzo palpitante, febbrile come un sogno; di certo pretenzioso in alcune parti, ma la conferma di un’esistenza autonoma. Dopo aver leo molti dei libri che mi ero perso da adolescente, tornai a Yale nel seembre del 1966. Ma il mio cuore era altrove. L’interesse per questo universo parallelo al di fuori di New Haven non aveva fao che accentuarsi, e così continuai a dedicarmi al romanzo con lo stesso fervore provato in Messico. L’impegno dei sei corsi sembrava svanire, dato che ero occupato per la maggior parte del tempo a plasmare in una più organizzata seconda stesura ciò che avevo scrio col sangue.
ando arrivarono gli esami di metà semestre, un altro preside mi convocò per sapere se c’era qualcosa che non andava. In aula nessuno mi aveva mai visto. Il preside mi porse un documento e ricordo che mi trovai davanti agli occhi una lunga sfilza di insufficienze, delle F, degli zero, non so. Ero arrivato a un altro punto di roura, a una decisione improcrastinabile che mi faceva tremare le vene. Sento ancora il ticcheio dell’orologio sulla parete del suo ufficio in quell’uggioso pomeriggio autunnale, le grida di un gruppo di studenti che giocavano a touch football in lontananza. Avrei potuto meermi subito soo e recuperare, disse il preside, oppure ritirarmi da Yale per una seconda e ultima volta; in questo caso non avrei più potuto tornarci. Immaginai l’ira di mio padre, tanto per i soldi della rea universitaria andati in fumo quanto per il mio difeo di volontà nel laurearmi ed entrare nel mondo degli adulti. È un momento che non dimenticherò mai. Con voce rassegnata annuii e dissi: “Abbandono.” Il preside parve sorpreso e quando mi domandò se fossi sicuro mi limitai a ripetere ciò che avevo deo. Non potevo sprecare parole. Ero intorpidito, abbacchiato. Più che sapere cosa volevo fare, sapevo cosa non volevo fare – ossia diventare come mio padre, a cui pure volevo bene; ma il destino non è mai chiaro quando bussa alla porta. A volte, semplicemente, smeiamo di fare quello che non ci mee più a nostro agio. Sono frangenti misteriosi della vita, ma sappiamo che cambierà tuo. Con il riluante consenso di papà (che altro avrebbe potuto fare?), tornai a New York e, nella mia camera nell’appartamento del suo residence, continuai a scrivere febbrilmente, pregando in cuor mio che un editore disposto ad acceare il romanzo mi portasse via dall’inferno in cui mi ero relegato. Avevo appena vent’anni, lavoravo incessantemente e con senso di colpa per dimostrare a papà la mia determinazione, e nell’arco di altri tre penosi mesi il mio libro si allungò di duecento pagine. Passeggiando per le strade di Midtown mi intristivo nel vedere le persone
affannarsi a destra e a sinistra, fare soldi a palate in una nuova epoca di prosperità, mentre io ero chiuso nel mio solitario narcisismo. Per questo mi odiavo. Eppure sentivo di inseguire qualcosa di diverso e di importante – ma cosa? Grazie a un amico di mio padre il romanzo fu inviato, credo, a due potenziali case editrici. Una rispose subito di no mentre, con mia enorme sorpresa, l’illustre Robert Golieb di Simon & Schuster lo valutò aentamente per diverse seimane, o così mi risulta. Dalla sua decisione, pensai, dipendeva il corso della mia vita; se avesse deo di sì, sarei felicemente diventato uno scriore e rimasto a New York. Alla fine Golieb disse di no. Un po’ me l’aspeavo ma la presi malissimo, come un segno della mia mediocrità. Avevo fao il passo più lungo della gamba, avevo volato troppo vicino al sole, come Icaro, continuando egocentricamente a scrivere di me stesso. Ero pieno di esagerata vergogna e disprezzo di me. Persi fiducia nelle mie capacità, immaginando romanticamente di avere il cuore “spezzato”, qualunque cosa voglia dire; ero preda di pensieri molto cupi, qualcosa di più forte di me. Chi di voi ricorda cosa significhi avere diciannove, vent’anni sa benissimo che è un periodo pericoloso, anche se in quell’epoca gli adulti non prendevano sul serio l’adolescenza. Se non avessi avuto il coraggio di togliermi la vita, pensavo, forse Dio, nel quale ero stato educato a credere, me l’avrebbe tolta al posto mio, per farmi pagare il mio peccato di hybris. Ecco perché tornai in Vietnam, come soldato di fanteria, per partecipare a quella guerra della mia generazione. Che fosse Dio a decidere. Nell’aprile del 1967 mi offrii “volontario all’arruolamento”, un modo per entrare nell’esercito da coscrio e starci due anni al posto dei tre richiesti ai militari di professione. E non volendo alcun traamento di favore, chiesi espressamente il livello più basso possibile della fanteria, il soldato semplice, rifiutando il corso allievi ufficiali che avrebbe ritardato di parecchi mesi la mia partenza. Io invece avevo frea di arrivare al fronte prima che la guerra finisse, cosa imminente stando a quanto diceva la stampa.
Volevo essere come tui gli altri, un anonimo soldato di fanteria, carne da cannone, strisciare nel fango insieme alle masse di cui avevo leo nelle pagine di Dos Passos. Mio padre e mia madre erano perplessi ma non eccessivamente preoccupati poiché, dato ciò che avevano vissuto, ai loro occhi il Vietnam non sembrava nemmeno una vera guerra. Dopo sei mesi di addestramento, prima di base e poi avanzato, a Fort Jackson, in South Carolina, il 14 seembre 1967, vigilia del mio ventunesimo compleanno, fui spedito di nuovo in Vietnam… a cercare le mie risposte. Per ironia del destino, il compleanno si perse nelle acque azzurre del Pacifico quando, sulla linea internazionale del cambio di data, l’orologio saltò direamente al 16 seembre. Sarebbe stato un lungo viaggio prima del ritorno negli Stati Uniti. Nessuno di noi, al momento di partire, aveva fao i conti con il dopo. Ulisse era convinto di tornare a casa, quando partì da Troia. Io non ero sicuro di niente… Dopo una giornata lunga ed estenuante il sole stava ormai tramontando sulle lande desolate del New Jersey, mentre un mormorio di eccitazione araversava la folla, e la temperatura si abbassava giusto di quel tanto da lasciare l’umidità appiccicosa e sexy. I primi fuochi d’artificio si alzarono sui moli salutati dagli “oooh” delle mamme e dei papà, con i bambini che li sovrastavano con le loro grida. BUM! BAM! TA-TA-TA-TA ! Che cosa vedevano? L’America in guerra. Che infligge batoste. Duecento anni di età! Nel bagliore rosso, verde, blu, bianco e viola dei fuochi, le navi d’alto bordo veleggiavano sulle spalle del passato, con al centro la grande dea pagana della libertà che teneva strea in pugno la sua fiaccola. Uno speacolo meraviglioso. La gente in estasi per il crepitio dei colossali fiori pirotecnici che esplodevano in ogni forma e dimensione, dita gloriosamente protese dal cielo. Avrei voluto credere come il milione di persone intorno a me, ma non ci riuscivo. Provavo sì meraviglia, ma anche un profondo terrore. Perché era qualcosa che avevo già vissuto. In una noe uguale a questa, avevo visto i fuochi d’artificio
più speacolari di tui – quelli veri. Una baaglia durata tua la noe in cui l’artiglieria, gli elicoeri d’assalto, i traccianti, le bombe non avevano dato tregua – non un istante – da mezzanoe all’alba. E nei lampi delle esplosioni avevo visto corpi talmente tesi dal rigor mortis da sembrare sculture michelangiolesche. Così tanta potenza, così tanta morte in uno stesso luogo e nello stesso momento. Impossibile da dimenticare.
2 Strani giorni
Il 1968 fu un anno memorabile per la maggior parte di coloro che appartengono alla mia generazione. Per noi iniziò col boo proprio il primo gennaio. Stavamo paugliando il confine cambogiano da quasi due seimane, andando a caccia di vietcong senza troppa fortuna. Non ne vedevamo mai più di due contemporaneamente. Li chiamavamo “musi gialli” o perché li temevamo o perché li odiavamo, a scatola chiusa. Eppure sapevamo che erano lì, visto che trovavamo depositi di armi, riso, mappe, documenti militari con gli ordini di baaglia – loro invece mai. Stavamo meendo in sicurezza un perimetro capace di ospitare due baaglioni, mille, milleduecento soldati aivi, un numero considerevole; ma la zona era calda e avevamo il compito di contrastare l’afflusso delle truppe nordvietnamite che arrivavano dal Laos araverso la Cambogia diree verso Saigon, la capitale, centocinquanta chilometri da noi in direzione sudest; a nostra insaputa eravamo nel mirino del nemico. Scavavamo le nostre buche per la noe ai margini della giungla, intorno a un ampio spiazzo che ospitava una pista di aerraggio per gli elicoeri e un centro di comando fortificato, con i suoi grovigli di cavi elerici e antenne, interamente circondato da postazioni di mortaio e pesanti barriere di sacchi di sabbia. La cosa strana era che i veicoli trasporto truppe (VTT) e i potenti carri armati M24 fossero disposti solo lungo metà del perimetro, al di qua della linea degli alberi, e la fanteria sull’altra metà. Non capivo il senso di quella strategia, ma nell’esercito è meglio non interrogarsi troppo su certe cose, altrimenti finisci nei guai. Diamine, perché non distribuire i VTT uniformemente su tui i
trecentosessanta gradi del perimetro in modo che potessero dare supporto alla fanteria? Ma io non ero stato a West Point e probabilmente avevamo a disposizione una tale potenza di fuoco da rendere inutili queste precauzioni. Era in corso una specie di tregua per il Capodanno. Io e altri tre avevamo passato la sera precedente in una buca a gonfiarci di whiskey e birra, evento raro sul campo delle operazioni. E adesso, con i postumi della sbronza, ci aspeava un servizio di pauglia all’interno del perimetro – in pratica una passeggiata. All’imbrunire il nostro gruppeo di dieci, dodici uomini partì per la perlustrazione nourna; eravamo tranquilli, la tregua era ancora in vigore. Il calar della sera era sempre un momento di pace, cibo, riposo, i compiti quasi tui svolti, le buche scavate e i sacchi riempiti di sabbia; era il momento per rileggere le leere da casa, che ci erano state appena recapitate per le feste. Tuo cominciò poco dopo il rancio serale, un pasto caldo al posto delle solite razioni C. L’inconfondibile crepitio di spari proveniente dalla stessa direzione nella quale era partita la pauglia, ormai a circa cinquecento metri di distanza, ci fece capire all’istante che doveva esserci un problema: qualcuno stava sparando, qualcuno non era stato informato della tregua. E visto che la sparatoria continuava, capimmo che si traava di un problema serio. Tuavia non riuscivamo a sentire le parole, sommerse dai disturbi radio, e in breve gli spari si diradarono, fino al silenzio assoluto. Le informazioni venivano trasmesse al centro di comando, di rado arrivavano fino a noi. Circa quindici minuti dopo, dai lati sud ed est del perimetro fu avvistato qualcosa che veniva verso di noi. “Tango due in avvicinamento,” bisbigliò una voce non identificata alla radio. “C’è del movimento là fuori.” Poi più niente. Un misterioso fruscio elerostatico. Del resto, quella era la giungla. Ma dov’erano loro? Il nemico non sferrava mai aacchi frontali, men che meno di noe; avevamo troppa potenza di fuoco lungo il perimetro. Non era nel loro stile. Ciononostante cominciammo a innervosirci, nel timore di
essere circondati; la mente è lesta a immaginare certe cose. Poi, all’improvviso, da una distanza di trenta e passa chilometri provenne il sibilo dei proieili da 155 millimetri vomitati dai nostri obici, che sorvolarono fischiando le nostre teste per colpire appena oltre le nostre postazioni ed esplodere non molto lontano. Eppure, di loro ancora nessun segno. Da alcuni punti del perimetro veniva segnalato sempre più spesso fuoco di armi leggere, ma ci era difficile capire se era un fuoco in entrata o in uscita – se eravamo noi o loro a sparare. Un’informazione cruciale. Dalla parte diametralmente opposta del perimetro, duetrecento metri alle nostre spalle, il fragoroso latrato di una mitragliatrice calibro 50 montata su un VTT ci fece sobbalzare. Avevano visto o sentito qualcosa? Poi altri spari da un altro seore. Voci che si diffondevano alla radio – “Movimento avvistato nel perimetro! Due! Tre… Victor Charlie tra le compagnie Bravo e Charlie, li vedete? Passo…” Dove? Il pensiero che potessero essere all’interno delle nostre linee era angoscioso. Una forma umana si avvicinava alla nostra postazione. Non riuscivo a vederla in faccia. Una sagoma scura, che avanzava con cautela. Troppo alta per essere uno di loro – o forse no? Gridò qualcosa… il suo plotone, il suo nome e grado. Lo guidammo verso l’interno. Un sergente. Cercava di mostrarsi calmo ma non lo era. “Se vedete qualcuno venire da questa parte, la parola d’ordine è…” Non ricordo più quale fosse. Prima di passare alla postazione successiva disse: “Spareremo qualche beehive, state giù,” o qualcosa del genere. Poi, in modo inquietante, aggiunse: “Ho sentito che sono arrivati al corpo a corpo, giù alla compagnia Charlie. State allerta.” Guardammo da quella parte. La compagnia Charlie distava circa trecento metri sul nostro fianco, una distanza considerevole al buio. Il sergente riprese la sua corsa. “Corpo a corpo” significava vicini, vicini abbastanza da vederli: spari, granate, vanghee. Occhio a occhio. Cristo. I proieili beehive servivano a fermare i cosiddei aacchi a ondate. ando venivano esplosi, mille minuscoli pallini si
allargavano come i colpi di un fucile da caccia, e sparati da un carro armato avevano il fragore e la potenza di una bombola pressurizzata capace di sollevare un uomo da terra. Che cazzo stava succedendo? Non ce lo diceva nessuno. Gli spari si intensificavano altrove lungo il perimetro ma non intorno a noi. Un’ora, forse quarantacinque minuti trascorsero lentamente, poi arrivò “Puff il drago magico”. Il gigantesco elicoero CH-47, armato di razzi e mitragliatrici calibro 50, volò sopra di noi sputando fuoco rosso di traccianti. Il frastuono che produceva era assordante, irreale, come il ruggito di un mostro preistorico. Non ricordo con chiarezza l’ordine degli avvenimenti ma a un certo punto ricevemmo l’ordine di andare a rinforzare un’altra postazione. A comando un gruppeo di noi si radunò e cominciammo a scarpinare all’interno del perimetro. Con i bengala che ormai illuminavano il cielo a giorno, eravamo facili bersagli. Le esplosioni si intensificavano in ogni direzione; era quasi impossibile sentire qualcosa. Ma proprio in quel momento sentii la detonazione, assordante, e poi percepii il beehive sparato da un carro armato alle nostre spalle, a un centinaio di metri di distanza. Perché? Non importava il perché – qualcuno aveva fao una cazzata. Fummo sommersi come da un cavallone gigantesco che ci scaraventò più in là di dieci o venti metri, forse di più. Ricaddi non so dove e persi i sensi, non so per quanto tempo. alche minuto dopo – forse cinque, dieci, forse di più, non lo saprò mai – mi risvegliai come dentro un sogno. Probabilmente avevo una commozione cerebrale, ma nemmeno di questo potevo essere sicuro. Mi rialzai a fatica, senza riuscire a vedere nessuno del mio gruppo. Riuscivo invece a camminare senza vedere sangue su di me, non avevo niente di roo. Mi sembrava di essere incolume ma proprio una seimana prima avevo visto un soldato del mio stesso plotone salire a bordo di un elicoero medico, ferito all’addome, contento di essere portato via dalla giungla, e poi l’indomani avevamo saputo che era morto per un’emorragia
interna, un tipo di morte che non avevo mai immaginato. E il poveraccio credeva di aver avuto fortuna. Fucile in mano, correvo verso una zona che mi sembrava di riconoscere. Il tintinnio dell’equipaggiamento mi martellava le orecchie. Le esplosioni intanto si susseguivano in lontananza, una dopo l’altra. Chi sapeva quello che stava succedendo? Credo nessuno. A un certo punto incrociai un tizio della mia compagnia che urlava ma a malapena riuscivo a sentirlo, probabilmente perché mi fischiavano ancora le orecchie per il beehive. Ricevei l’ordine di inoltrarmi nella giungla insieme ad altri due o tre e andare a rafforzare un altro seore del perimetro. Lì trovammo un soldato nella buca, da solo, senza elmeo, spaventatissimo, forse soo shock, che urlava, indicando: “Li ho visti! Sono qui!” Ma dove? Che ora era? alcuno disse: “Le due” – piena noe. Solo qualche minuto prima sembrava che fossero le dieci. Poi un terribile boato, simile a quello che immagino accompagnerebbe la fine del mondo. Fulmineo come uno squalo, un caccia F-4 Phantom sbucò a bassa quota dal cielo nourno tuo illuminato. Così basso, e con quel frastuono da giorno del giudizio… saremmo morti tui. Da non credersi, stavano per bombardare noi! Mi tuffai nella buca del soldato terrorizzato e mi seppellii più a fondo che potei nel terreno, che cominciò a tremare quando da qualche parte poco lontano fu sganciata una bomba da duecento chili. alcuno era stato fao a brandelli, mio Dio! Nulla è terrificante quanto una bomba da duecento chili. L’unica cosa che potevo fare era cercare di restare vivo. La nostra paura più grande era di imbaerci in un RPG nordvietnamita, un lanciagranate portatile in grado di spazzare via uno qualsiasi dei nostri bunker a venti, persino cinquanta metri di distanza. Mi era già capitato di vedere corpi dilaniati dagli RPG; ne avevamo paura tui, anche perché non disponevamo di lanciagranate portatili altreanto efficaci, per non parlare del fao che i loro AK47 erano molto meglio dei nostri M16 giocaolo. Adesso la giungla era tempestata dai
proieili al fosforo della nostra artiglieria, fuoco bianco incandescente che inceneriva gli alberi, gli arbusti, qualsiasi cosa incontrasse sul proprio cammino. Il puzzo chimico era orrendo. Ancora nessuno. Poi, all’improvviso, il frastuono si placò. Un’atmosfera sinistra. Il silenzio si prolungò, interroo solo dall’eco di qualche occasionale, lontano colpo di fucile o di mitragliatrice, sempre più flebile. Che ora era? Le quaro? Come poteva essere? Poco fa erano solo le due. L’ora successiva rimase sospesa nel torpore, nel sudore della giungla. Niente. Nessuno che si muovesse. a e là appariva qualche soldato, intontito. alcuno parlava a bassa voce. La luce del giorno si reinsediò lentamente, come incerta. C’era stata davvero una baaglia. Loro erano stati qui, poco ma sicuro, eppure non ne avevo visto nemmeno uno. E poi, credo, ci stavamo portando verso il nostro comando di plotone appena all’interno del perimetro. Elicoeri in arrivo per evacuare i feriti, il cui numero era molto maggiore di quanto avessi immaginato – centocinquanta minimo, più o meno gravi – così come quello dei morti, venticinque circa, dissero, anche se io non li vidi. Nonostante fossi ancora stordito, credo, dalla commozione cerebrale, mi fu assegnato il compito di fare ricognizione lungo il perimetro e seppellire i “musi gialli”, che stavano cominciando ad appestare la giungla con quella loro sgradevole puzza che chiunque di noi sapeva riconoscere benissimo. La luce del giorno rivelò corpi carbonizzati, residui di napalm, alberi grigi. Uomini che erano morti con un ghigno di dolore, pietrificati, alcuni ancora in piedi o inginocchiati nel rigor mortis, sul volto una chimica morte bianca. Morti, completamente morti. Alcuni ricoperti di cenere candida, altri neri come il carbone. Le loro espressioni, quelle ancora riconoscibili, erano sopraffae dall’orrore e dall’angoscia. Come si muore in questo modo? Andando alla carica incontro a queste bombe e a questa artiglieria. Perché? Eri terrorizzato o invasato? Che genere di morte oenevi? Era spaventoso, eppure non ero spaventato. Era elerizzante. Era
come se fossi trapassato e mi trovassi in un luogo dove ci veniva mostrata in anteprima la luce di un’altra vita. I soldati possono chiamarlo inferno, io invece lo vedevo come una cosa divina; osservare e sopravvivere a quella grande energia distruiva era quanto di più vicino l’uomo potesse arrivare allo Spirito Santo. Nelle ore seguenti compresi la portata di quanto era successo. La maggior parte delle viime erano soldati dell’esercito regolare nordvietnamita, in uniforme e ben armati. Correva voce che si traasse di truppe cinesi camuffate da vietcong ma io ritenevo di no; dall’aspeo sembravano proprio vietnamiti. I corpi relativamente intai li portavamo dentro distesi su barelle, spingendoci fino a cinquanta, cento metri fuori dal perimetro per andare a cercare ciò che restava di loro. Un elicoero trasportò una ruspa con cui scavare grandi fosse comuni. Fui tra coloro che gearono i corpi enfiati nelle fosse fino al tardo pomeriggio. La puzza di gas era talmente nauseante che anche coprirci il naso e la bocca con una bandana serviva a poco. I loro morti erano circa quarocento. Lavoravamo a turni di due, tre uomini, lanciando i cadaveri come si fa con il boino della pesca. Poi versammo sopra della benzina e infine la ruspa li ricoprì di cumuli di terra, cancellandoli per sempre. Nessuno dovrebbe mai vedere tanta morte. Ero davvero troppo giovane per capire, e così rimossi quasi tuo, ricordandolo solo in questo strano modo, come una noe stupendamente bella piena di fuochi d’artificio, nella quale non avevo visto un solo nemico, nessuno mi aveva sparato e io non avevo sparato a nessuno. Era stato come un sogno che avevo araversato incolume, ovviamente essendone grato, eppure stordito e confuso. Mi ricordava i brani di Omero in cui gli dèi e le dee scendono dall’Olimpo e intervengono nelle sanguinose baaglie di Troia per aiutare i loro favoriti, avvolgendoli con un mantello o una cortina di nebbia e trasportandoli verso la salvezza. asi un anno più tardi, nel novembre del 1968, lasciai il Vietnam, dopo aver prestato servizio in tre diverse unità di
combaimento del 25° fanteria nel seore sud del Paese e della 1ª divisione cavalleria nel seore nord. Ero stato ferito ed evacuato due volte, la prima per una scheggia (o forse un proieile) che mi aveva araversato il collo, quasi troncandomi la giugulare, durante un paugliamento nourno; la seconda, un’imboscata nemica diurna durante la quale la scheggia di una carica satchel nascosta su un albero mi aveva colpito tra la gamba e il gluteo. Dopo un altro scontro a fuoco mi era stata conferita la stella di bronzo per ai di eroismo, ma ne parlo più avanti. Avevo partecipato a venticinque o più aacchi con elicoeri, ero stato promosso a specialista di quarta classe e, nonostante l’esperienza accumulata, avevo cercato di evitare responsabilità di livello superiore, come essere a capo di una squadra. Avevo prolungato di tre mesi il periodo di servizio al fronte nel 1° cavalleria, in modo da essere congedato tre mesi prima della scadenza dei due anni, vale a dire che mi sarei risparmiato sei mesi di servizio sul territorio degli Stati Uniti. Secondo qualcuno del mio plotone era stato un rischio sconsiderato, ma odiavo a tal punto le regole e la disciplina dell’esercito da preferire il pericolo e la libertà della giungla. Ero inoltre diventato un affezionato consumatore della potente erba vietnamita che avevo scoperto lì e che fumavo soprauo con commilitoni neri, i quali tennero in qualche modo a baesimo un mio nuovo modo di intendere e di vedere; ma anche su questo tornerò in seguito. Alla fine oenni il congedo a Fort Lewis, nello Stato di Washington, e trasformato di nuovo in civile pensai davvero che tornare a casa sarebbe stata la fine di tuo, l’inizio di qualcos’altro. Che cosa avrei fao adesso? Avrei ripreso l’università? Nell’esercito avevo seguito alcuni corsi per corrispondenza. Con un commilitone del Tennessee avevamo parlato di meere su una dia di edilizia, dandoci più che altro delle arie. Ma per prima cosa mi sarei rilassato un po’. Tuo a un trao da solo, nella mia uniforme kaki, presi il Greyhound in direzione sud con un borsone a tracolla e un bel mucchieo di soldi, e vagai senza una meta per le strade
di San Francisco, come se vedessi ogni cosa per la prima volta. Improvvisamente sentivo la mancanza dei miei commilitoni. Credo che nessuno di noi avesse fao i conti con il ritorno a casa. Mi feci un LSD a Santa Cruz, raggiunsi in autobus Los Angeles e, dopo parecchi giorni trasognati e strafai, passai il confine a Tijuana, già terrorizzato dal Paese in cui avevo fao ritorno. Ero assolutamente solo e completamente allo sbando. Non avevo chiamato né mio padre né mia madre, nessuno. Ero contento di sparire. Nessuno avrebbe potuto rintracciarmi. Non volevo pensare. Volevo soltanto sballarmi, bere e trovarmi una messicana, come qualsiasi marinaio o giovane recluta. Con il mezz’eo di erba vietnamita che portavo con me non sentivo dolore, mi sembrava di essere padrone del mondo, senza nessuno stronzo di ufficiale o sergente che mi dicesse cosa fare, mai più – libero! E stupido. Una sera, dopo mezzanoe, scoprendomi depresso e stanco delle beole di Tijuana, raccolsi le mie poche cose e mi avviai a piedi verso il confine con gli Stati Uniti. Che mi era saltato in mente? Avevo le rotelle fuori posto? Sì. Avevo solo ventitré anni. Al valico di frontiera quasi deserto, un vecchio e nervoso agente mi chiese di entrare nella stazione di dogana. Dovee essere facile: il mio aspeo diceva tuo. Avevo esagerato con la birra? Avevo forse dimenticato che ci sono regole, persino nella vita da civili? Nel giro di un’ora mi ritrovai ammaneato a una sedia e interrogato da due agenti dell’FBI che si erano appena messi alle costole dei miei complici nel traffico di stupefacenti che, a dea loro, stavo gestendo dal Messico. Chiaramente avrei dovuto lasciare l’erba vietnamita in qualche deposito bagagli in America. Ma ripeto, era un periodo in cui non rifleevo granché, a malapena sapevo che cosa avrei fao da un giorno all’altro. Magari avrei proseguito verso il Sud del Messico. Non lo sapevo. Loro invece sì. Tempo un paio di giorni, mi ritrovai nel carcere di contea di San Diego, che aveva una capienza di circa duemila lei ma al momento era occupato da quaro, cinquemila detenuti, per lo più minacciosi neri e
ispanoamericani, molti appartenenti alle gang giovanili, stipati in condizioni di estremo sovraffollamento; molti in aesa di processo persino da sei mesi. Niente soldi, niente rilascio su cauzione, niente. Pochi giorni dopo fui incatenato ad altri oo, nove ragazzi, costreo a marciare con la divisa del carcere per il centro di San Diego, con gli occhi bassi per evitare gli sguardi dei civili sui marciapiedi, pieno di vergogna, condoo in un’aula di tribunale dove mi fu notificata l’accusa di traffico di droga, reato federale che avrebbe potuto costarmi dai cinque ai venti anni di reclusione. Mi sembrava di essere tornato ai miei primi tempi in Vietnam, nessuno ti diceva un cazzo. Ma venni a sapere qualcosa dagli altri detenuti. I giudici erano due: lunedìmercoledì-venerdì avevo la possibilità di beccarmi solo tre anni e, grazie al servizio militare prestato in Vietnam, oenere il rilascio sulla parola e non farmi nemmeno un giorno di galera. Martedì-giovedì mi sarei beccato cinque anni, vale a dire che sarei potuto uscire sulla parola dopo tre. Era una situazione di merda e per giunta il mio difensore d’ufficio, dopo ormai sei, see giorni, non si faceva ancora vedere. A malapena avevo oenuto un materasso in una cella costruita per due persone e che invece ne ospitava cinque. I bagni non funzionavano bene. I secondini erano glaciali. Non avevo nemmeno potuto fare la mia unica telefonata. Scrissi un messaggio ai miei aguzzini, implorando: “Reduce del Vietnam. Appena tornato. Sono stato via quindici mesi. La mia famiglia non sa nemmeno che sono qui. Per favore fatemi fare la mia telefonata.” Ripiegai il biglieo e lo infilai nella casseina appesa alle sbarre; i secondini le svuotavano a fine giornata; una faccia diversa a ogni turno ma non succedeva niente. Prigione. Un’esperienza senza volto. Potevi toccare con mano quella che la nuova stampa underground chiamava “Amerika” con la K. Nixon non si era ancora insediato e dunque la “guerra alla droga” non aveva ancora avuto ufficialmente inizio, ma capivo che molti dei miei giovani
compagni di cella, ognuno dei quali avrebbe potuto essere un mio commilitone, del Vietnam se ne fregavano altamente: “Merda, non è un problema mio. È qui che me lo meono nel culo!” Pur essendo bianco, percepivo la loro stessa rabbia, contagiosa; ma ero anche spaventato. Sarei riuscito a fare quella benedea telefonata? In capo a sei mesi mi sarei ritrovato ancora rinchiuso lì dentro. Scrissi un altro biglieo. Intanto cominciavo a trovare una routine quotidiana: come lavarmi, fare un po’ di yoga in un angolino, non rompere le palle al tizio sbagliato, non usare la saponea di un altro per errore, non fare domande che possono ritorcersi su di te, non dire troppo di te a nessuno e non cercare compassione, perché lì nessuno è colpevole. E in ogni caso la droga era roba da niente. I veri stronzi stavano fuori, a Washington, e ammazzavano centinaia di persone ogni giorno, bombardandole a tappeto, e adesso addiriura sbaevano in galera chiunque osasse ribellarsi e potesse guidare la rivolta contro di loro. Era davvero un’altra guerra quella in cui ero finito – una cazzuta “guerra civile” in patria – corollario di quella che stavamo combaendo oltre confine: “I nodi stanno venendo al peine,” come aveva previsto Malcolm X dopo l’assassinio di Kennedy. Finalmente i secondini mi lasciarono fare la telefonata. C’era un solo numero che conoscevo a memoria, quello di mio padre. Grazie a Dio rispose, perché se non l’avesse fao sarebbero potuti passare giorni prima che mi lasciassero di nuovo usare il telefono. La centralinista gli spiegò che aveva una chiamata a carico del destinatario da San Diego, “da un certo William Stone” (era il nome con cui mi ero arruolato). “Intende acceare l’addebito della chiamata?” Stavo pensando al racconto di O. Henry preferito da papà, Il riscao di Capo Rosso, nel quale due scalcagnati delinquenti rapiscono un ragazzino viziato per il quale nessuno vuole pagare il riscao. Chissà se la cocciutaggine lo avrebbe spinto a rispondere di no… “Prego,” disse la centralinista e mi mise in comunicazione. “…Papà?”
“Figliolo, santo cielo, ma dove sei stato? Mi hanno deo che ti hanno congedato a Fort Lewis due seimane fa, giusto?” Nel sentire la sua voce, quel suono solido e familiare, provai un’ondata di calde emozioni. Fu un immenso sollievo sapere che c’era davvero. Era la sua voce. Non c’era modo di scusarmi per non aver chiamato prima. Avrei potuto sproloquiare di voli disponibili, di fusi orari, di disposizioni ricevute, e invece dissi soltanto: “Papà, senti – sono nei guai.” Silenzio. Stava aspeando, pensando al peggio. Anni più tardi avrei cercato di caurare questo momento nella scena di Fuga di mezzanoe in cui il padre inonda Billy di rassicurazioni, garantendogli che, ora che è arrivato in Turchia, ci penseranno lui e quel cialtrone dell’avvocato turco a tirarlo fuori dalla prigione in cui è rinchiuso. (Purtroppo, l’aore che impersonava il padre era un gigione ed esagerò nell’interpretazione, cercando di riversare tuo il pathos del mondo in quei pochi minuti di pellicola che gli erano stati assegnati.) Dovevo sbrigarmi. In quella topaia la linea poteva cadere da un momento all’altro. Gli spiegai dov’ero e perché, e cosa sarebbe potuto succedermi, e che mi sarebbe stato d’aiuto se avesse potuto meersi in contao con questo difensore d’ufficio di cui gli diedi nome e numero di telefono di modo che potesse parlargli, perché io di certo non potevo, e magari mi avrebbe fao uscire su cauzione, perché più fossi rimasto in quel buco, mi dicevano gli altri, più la mia situazione si sarebbe aggravata. Mio padre tirò un sospiro, dal quale riuscii a visualizzare l’espressione del suo volto: tu’altro che sorpreso, perché probabilmente aveva sempre sospeato che avrei fao questa fine. Che cosa avrebbe deo adesso? Pare che sia l’espressione più abusata nella lingua inglese, la prima che ti viene quando vedi una macchina che sta per investirti e capisci che sei sul punto di lasciarci le penne: “Oh merda!”
Il mio avvocato, un tipo allegro e ben disposto che si beccò millecinquecento dollari subito e altri seimila a cose fae, finalmente si materializzò e mi fece uscire nel giro di un giorno. Dovei restare “pulito” e non lasciare San Diego, che all’epoca era sostanzialmente una cià militare, per una seimana circa, mentre le accuse nei miei confronti venivano misteriosamente esaminate e infine “ritirate nell’interesse della giustizia”. Ah, il potere dei soldi. Avevo avuto una gran fortuna, e quando tornai a New York, in dicembre, ero teso e carico come una molla, un animale della giungla, sempre vigile, con le antenne drie persino durante il sonno. Mi ero fao una corazza, ero più duro di quanto fossi mai stato, talmente intorpidito da non accorgermene neanche, quasi che mi fossi svegliato ancora soo anestesia dopo un intervento chirurgico. Un intervento durato quindici mesi. Che cosa era successo realmente in Vietnam? A New York, dove non conoscevo nemmeno un reduce, mi ritrovai nell’acqua alta in un mare di civili che correvano di qua e di là, completamente presi dal denaro, dal successo, dal lavoro, da interessi personali di ogni genere che invece a me sembravano robea di poco conto rispeo al sopravvivere. ando la stampa cominciò a parlare di PTSD – “disturbo post traumatico da stress” – non me la bevvi. Lo ritenevo una stronzata, perché se fosse stato vero allora c’erano milioni di civili che correvano in giro affei da PTSD. Erano fuori di testa, stressati per nulla, eppure soffrivano allo stesso modo in cui soffrivo io. Io però non volevo compassione, non volevo una giustificazione patetica come l’aver combauto in Vietnam per chiedere soldi pubblici e piangermi addosso, come tanti che avevo conosciuto nell’esercito. Ero confuso, non in condizione di andare da nessuna parte – né all’università né meere su una dia di edilizia o chissà cos’altro insieme a un ex commilitone. Mi imbufalivo all’istante quando sentivo parlare di proteste contro la guerra e contro Nixon, che era appena stato eleo e aveva intenzione di proseguire il conflio. Leggevo di questi oppositori sui giornali, o li vedevo blaterare in televisione, e mi incazzavo di bruo per l’inutilità della loro protesta, mi
veniva la bava alla bocca e la voglia di dirgli: “Chiudete il becco e andate a far fuori Nixon! Ammazzate quel maledeo figlio di puana. Procuratevi delle armi e andate all’assalto di tua la cricca, di tuo il palazzo. Sono tui porci!” Ma nessuno mi capiva. Era la rabbia a parlarmi, più veloce della mia mente. Ero squinternato e gli altri lo percepivano; mi evitavano. Divenni ancora più isolato, più paranoico. Non volevo tornare all’università, le porte di Yale erano chiuse per sempre e comunque chi se ne fregava! Mentre ero ancora soo le armi, avevo presentato domanda di iscrizione alla University of California, sede di Santa Cruz, ma solo perché era una ciadina tranquilla e bellissima, con ragazze a piedi nudi che strigliavano i cavalli e roba del genere, ma avevo già ricevuto il loro no in quanto avevo mollato l’università in un altro Stato. Fu una vera fortuna: se fossi andato a studiare a Santa Cruz sarei diventato tu’altro tipo di uomo, forse addiriura un disinvolto californiano con l’abbronzatura e la macchina sportiva, il classico laureato alla UC, per capirci, distaccato dalle passioni del suo tempo. Tra le indennità percepite per la partecipazione alle operazioni sul fronte di guerra e i tre mesi extra passati in Vietnam, avevo messo da parte un discreto gruzzolo, che non intaccai più di tanto per pagarmi l’affio degli squallidi appartamenti di Downtown dove vissi in quel periodo, tra cui una topaia sulla Nona Strada Est tra le Avenue B e C, all’epoca zona di tossici. Tinteggiai le pareti di un intenso rossopericolo – e, per buona misura, anche il soffio. Rosso come il sangue, rosso come la creatività. Era stata la guerra a rendermi così? Per curiosità acquistai alcuni testi sulla sceneggiatura. Sentivo l’urgenza, quasi un riflesso condizionato, di tornare a scrivere; in effei era l’unico modo in cui sapessi esprimermi (non certo araverso la musica o il disegno, due discipline per le quali da piccolo non avevo dimostrato alcun talento particolare). Di sicuro aleggiava ancora in me il ricordo di aver scrio quel maledeo libro che mi era costato la carriera a Yale, accompagnato dall’onta della sconfia. Ma scrivere sceneggiature era qualcosa di
nuovo, più elerizzante, ben diverso dal guardarsi l’ombelico mentre si scrive un romanzo. Così riversai in una sceneggiatura i sentimenti che avevo dentro. La intitolai Break: parlava di Vietnam e si adaava perfeamente all’atmosfera del mio bizzarro appartamento. Non riguardava affao la realtà di ciò che avevo vissuto, che mi sembrava poco interessante, troppo specifica. Chi vuoi che se ne freghi, c’erano già abbastanza storie di guerra in televisione e sui giornali. No, la mia storia era qualcosa di mitico, la verità di ciò che stava succedendo nella nostra cultura. Parlava di un tipo alla Jim Morrison. Il titolo lo avevo preso proprio dalla canzone Break on rough (to the Other Side). Parlava del ragazzo che immaginavo come il protagonista di altre due canzoni dei Doors, Unknown Soldier e e End, che si ribella contro i genitori della New York bene, divorziati e assenti, impalpabili. “Il Tempo è il Futuro. Il Mondo Bianco si è spaccato, molti dei suoi giovani sono partiti per le Foreste dell’Est, dove vivono riuniti in tribù. Il reazionario Mondo Bianco, come in passato, ha invaso l’Est per distruggere queste razze bianche fuorilegge…” Così iniziava l’introduzione alla prima scena, nella quale Anthony, il protagonista, brucia libri e quaderni e abbandona l’università. Affronta il padre, un “intelleuale progressista che ha perso il contao con il mondo concreto”. PADRE:
Ho cresciuto un figlio piromane.
ANTHONY PADRE:
Significa che sei malato.
ANTHONY: PADRE:
Ti ho deluso?
Sì.
ANTHONY PADRE:
(addolorato): Che significa?
(facendo spallucce): Mi spiace.
Anthony, io ti voglio bene, sei il mio figliolo.
ANTHONY:
este sono parole, papà, come la tua parola “piromane”.
Arrestato e spedito come soldato all’Est, Anthony partecipa a una baaglia nella quale gli invasori americani, malgrado la loro tecnologia, vengono massacrati a colpi di
lance, sassi e frecce; Anthony, ferito e preso prigioniero, passa dall’altra parte della barricata. Si unisce alla guerriglia nella giungla, guidata dall’avvenente Naomi, con la quale si accoppia alla presenza di serpenti. NAOMI:
Non hai paura dei serpenti, vero, bellissimo?
ANTHONY: NAOMI:
E non hai paura di me, vero, bellissimo?
ANTHONY: NAOMI:
Non più. I miei occhi ti hanno vista… sognata… sogni.
Spogliati, sognatore… le creature bellissime corrono libere. Chi sei?
ANTHONY:
Anthony.
Dialogo pomposo, ma carico di significato per me all’epoca. Grazie a Naomi, Anthony acquista una sua coscienza, diventa un leader dionisiaco che resta ucciso nel successivo scontro con le preponderanti forze di invasione. Ma non muore nel senso comune del termine, finisce in una specie di oltretomba egizio dal quale riemerge, a sorpresa, in una prigione della California, piena di neri, ispanoamericani e bianchi ribelli. Lì, spinto dal suo anelito di libertà, guida con successo un’evasione! In quegli anni le persone volevano a tui i costi essere “libere”. Jim Morrison infrangeva tabù, scavalcava ogni genere di barriera – fino alla morte, nel 1971. Mio Dio, cantava di uccidere il padre e scopare la madre. Nulla era sacro, tuo era possibile, e ognuno di noi avrebbe sfondato il muro per passare dall’altra parte – break on through to the other side! Fu davvero così? I critici che presidiano la cultura popolare liquidano gli anni Sessanta con aria di sufficienza; non puoi crederci troppo altrimenti fai la figura del fesso con i colleghi. Ma si sbagliano. Gli anni Sessanta furono davvero un passaggio cruciale, e lo sono ancora. Non è un caso che nel 2009 Avatar – basato su un conceo quasi mistico, e molto anni Sessanta, come il cambiamento del modo di intendere la nostra civiltà – sia diventato il film campione d’incassi di tui i tempi. Jim Cameron, che di Avatar è autore e regista, pur dichiarando che il suo antagonista non è l’impero americano, tocca un tema nevralgico: quello di un mondo iperindustrializzato e votato alla guerra che
regredisce verso una natura primigenia. L’uomo comune protagonista del film, come il personaggio principale del mio Break, sperimenta una presa di coscienza e passa a combaere il vecchio mondo che vuole sfruare e, se necessario, distruggere la popolazione di questo mondo nuovo. Era dura scrivere in quella topaia dalle parti della Avenue B. Spesso venivano avvistati agili ladruncoli, per lo più tossici disperati, che si calavano dal teo e, araverso le scale antincendio, entravano dalle mie finestre; più di una volta mi svuotarono l’appartamento, che comunque non conteneva nulla di valore, nemmeno una radio. Poi un giovane rapinatore cercò di derubarmi nell’androne del palazzo, ma io fissai il coltello che aveva in mano come se stessi avendo un traumatico flashback di guerra e indietreggiai, in silenzio, inorridito. ello non sapeva cosa fare, c’era qualcosa di strano nel tizio che stava cercando di rapinare. L’ennesimo newyorkese psicopatico? Alla fine imprecò e se ne andò a mani vuote (una cosa che nei film non succede mai). Ero strambo, vagamente in guardia come mi aspeassi la morte. Mi trasferii in un appartamento tra Mo Street e Houston Street, in un palazzo con la scala esterna e problemi all’impianto di riscaldamento. Non che mi importasse granché, perché ero abituato a soffrire il freddo, ma a volte, se lasciavo la finestra aperta, soo il tavolino della cucina si accumulavano fino a quindici centimetri di neve. Intanto continuavo a scrivere Break e iniziai anche un’altra sceneggiatura, intitolata Dreams of Dominique, con l’intenzione di ricreare il mondo di mia madre come Fellini aveva fao con la moglie in Giuliea degli spiriti. La storia si apriva con il suo arrivo a New York nel 1946, per poi seguire la sua caduta in disgrazia e infine la riconciliazione con il figlio. Mi era mancata tanto a quindici anni, in collegio, e poi dopo mentre vivevo la mia vita da scapolo insieme a mio padre, con il cuore inaridito, come il giovane Holden di Salinger – dov’era l’amore che invocavo a gran voce? Avrei
capito tardivamente che mia madre era stata la mia vera ancora di salvezza ma in quel momento… un velo ci divideva. Ormai vicina ai cinquant’anni, mia madre stava recuperando la verve e viveva in un bell’appartamentino dell’East Side, una versione più anziana della Holly Golightly di Colazione da Tiffany. Per quasi un anno aveva lavorato per una nuova e fortunata linea di cosmetici di un amico omosessuale, ma girare per i grandi magazzini d’America e vendere profumi all’ingrosso non faceva per lei. Il grande distruore della sua vita, il tenebroso e pericoloso Miles, era esploso fuori campo da qualche parte – troppo furore, calore, il divorzio, tuo aveva cospirato per far crollare qualcosa che probabilmente non poteva stare in piedi fin dall’inizio: una storia d’amore basata sulla passione carnale. Ora lei si divideva tra Parigi e New York vivendo dell’assegno di mantenimento in un mondo nuovo, quello degli anni Sessanta, popolato da stilisti e modelle, artisti e festaioli incalliti. Un uomo più giovane si era trasferito da lei, un animo più gentile rispeo a Miles, un italoamericano di Harlem che cercava di sbarcare il lunario facendo il piore e poi l’arredatore di interni, bisognoso della forza e del sostegno economico di mia madre. Lei, anche dopo essere passata ad altri uomini – tui più giovani, mori, in genere mediterranei –, gli sarebbe rimasta amica, essendo l’affeuosità un trao essenziale del suo caraere. Le consigliai di sposare uno dei rari ricchi scapoli eterosessuali che frequentavano le sue stesse feste, ma mamma non riusciva a provare per loro la stima che aveva avuto per mio padre. Alcuni si erano anche proposti, ma si traava o di ubriaconi che vivevano di patrimoni ereditati o semplicemente di persone prive del nerbo del suo ex marito. Mia madre non avrebbe mai potuto sposarsi per denaro come aveva fao Jackie Kennedy, che pure ammirava molto. Non che il denaro non le piacesse, ma aveva un suo orgoglio: mai inseguire il denaro, mai abbassarsi tanto da averne bisogno. Il denaro doveva essere “messo a disposizione”; ai suoi tempi, l’uomo si prendeva cura della donna, alla quale speava il compito di essere desiderata. Negli anni, gli orizzonti si restrinsero e le sue serate, alla maniera francese, divennero
dedicate più che altro a meersi in ghingheri, frequentare cene e feste, ballare e fare sesso – o trascorse banalmente in casa davanti al televisore, insieme all’uomo del momento. E poi c’era il telefono. In tua la sua vita, mia madre deve aver passato un terzo delle sue giornate al telefono, prestando ascolto alle orde di persone che incontrava ma che in realtà non conosceva davvero. O rispondendo ai bisogni impellenti di amici nei guai, che sapevano di poter sempre contare sulla disponibile e comprensiva Jacqueline. Che io sappia, mia madre non disse mai di no a nessuno e, negli anni successivi, durante l’emergenza AIDS, dedicava molte ore e giorni a coloro che ne avevano bisogno. Io facevo ancora fatica a oenere la sua aenzione e a volte mi sentivo uno qualunque degli ospiti delle sue feste – ma che feste! Rispeo a quando ero più giovane, adesso comprendevo meglio i suoi limiti intelleuali. A lei, per esempio, non interessavano minimamente la storia, l’arte, la leeratura, gli argomenti con i quali ero alle prese; le interessavano le persone, l’amicizia, la pancia della vita vera. L’interazione era ciò che la entusiasmava all’infinito, e per questo era un fuoco d’artificio che accendeva molte scintille nelle vite degli altri. E nella mia. Ma essere figlio di una persona del genere non è facile e io non avrei mai potuto soddisfarla come figlio o come motore della sua vita. Certe madri cercano proprio questo, talmente innamorate dei figli maschi, iperproteive fino al punto della distruività, da aspirare a essere “l’unica”, il punto di riferimento nella vita del figlio. Mia madre invece aveva una vita troppo piena per limitarsi a quel ruolo, perciò io acceavo la mia condizione godendomi i momenti in cui eravamo soltanto noi due, oppure, troppo spesso, la rimproveravo di essere la persona che era. I suoi raffinati amici gay, alcuni davvero dissoluti, mi divoravano con gli occhi e con le parole in occasione delle feste alle quali mi portava. C’era la possibilità – si diceva in giro – che io potessi avere quella tendenza; d’altronde, mi si vedeva di rado con una ragazza e, se succedeva, difficilmente due volte con la stessa; ogni tanto finivo per portarmi a leo
una donna europea o sudamericana quasi coetanea di mia madre, conosciuta alle sue soirées. Avevo voglia di superare i miei precedenti parametri di timido adolescente e queste donne più grandi erano esperte in fao di sesso e mi insegnavano come essere a mio agio – per quanto riuscissi a ricordare quando non ero fao. Farmi era la migliore difesa; potevo sgravarmi di qualsiasi responsabilità, nascondermi dietro lo sballo. Ma c’era un pensiero cupo che non mi abbandonava mai: il Vietnam. “Che ci sei andato a fare?” mi chiedevano i suoi amici. Era una domanda alla quale non sapevo rispondere a cuor leggero. “Seriamente, in Vietnam?” Uno sguardo deluso. “Che stanno combinando in quella stupida guerra!” Sì, tui nel mondo, o almeno a New York, sapevano che era una guerra stupida, tranne quei testoni di generali che la stavano combaendo, usciti direamente dal Door Stranamore di Kubrick. O uguali agli alti papaveri francesi che durante la Grande guerra mandavano i propri uomini al macello in Orizzonti di gloria. Il trucco, le acconciature, gli abiti da pavone dei gay, le facce di tue le amiche di mia madre alle feste, sorridenti, sballate, erano le maschere stilizzate di quello che adesso era il mio universo kubrickiano-felliniano. Anni più tardi riversai un po’ di quell’atmosfera in e Doors, per esprimere il mio disorientamento in uno strano mondo nuovo. Dopo la laurea mio padre avrebbe voluto scrivere opere teatrali, come Arthur Miller. Ora i suoi testi, mai messi in scena, languivano in un casseo della scrivania. Lì dentro c’era un pezzo del suo cuore. Con il lavoro, che lo impegnava praticamente tui i giorni, prima nella buia e deprimente Wall Street, poi nei graacieli vetrati di Midtown, tra scale mobili e gente sempre di corsa, mio padre si procurava i soldi per sopravvivere, non per possedere ma per prendere le cose in affio, in una società che non guardava in faccia a nessuno. Le sue capacità di scriura erano riversate nella “Lou Stone’s Monthly Investment Leer”, un apprezzato notiziario mensile con i suoi consigli di investimento che
all’apice della diffusione veniva tradoo in oltre una decina di lingue. In un numero del 1966 parlava anche del Vietnam: La guerra è sempre una tragedia per coloro che perdono la vita. […] Da un freddo punto di vista militare, tuavia, la guerra del Vietnam non è tua negativa e anzi offre diversi benefici. […] Ogni volta che una nave, un aereo, un fucile entrano in azione, si accresce il bagaglio della nostra competenza militare, che permeerà di salvare vite in futuro e condurrà allo sviluppo di materiali bellici nuovi e più efficienti. […] Le vite che stiamo perdendo in Vietnam non sono perse invano; sono il prezzo richiesto per il contenimento del comunismo, e i reduci addestrati in baaglia saranno i futuri ufficiali di un esercito che potrebbe rivelarsi decisivo negli anni a venire. […] Noi non siamo lì per vincere, perché non c’è niente da vincere. […] Se non fosse per questa politica di resistenza, di contenimento, la cospirazione comunista, ben organizzata e altamente disciplinata, si allargherebbe a qualsiasi Paese dove ci sia debolezza economica o vuoto politico, vale a dire alla stragrande maggioranza del mondo.
Nell’ultima parte del bolleino, mio padre consigliava una serie di titoli difensivi da acquistare. Nel maggio del 1967, sempre nel suo bolleino scriveva: “Una filosofia di protesta individuale non può sostituire una politica estera; Joan Baez e Bob Dylan non possono sostituire McGeorge Bundy” – il consigliere di Lyndon Johnson per la sicurezza nazionale. E aggiungeva: “Teniamo gli hippy fuori dal Congresso.” Ovviamente era un’amara ironia che nel 1969 il suo saloo di casa ospitasse quella bomba a orologeria che era il figlio capellone, agghindato con collanine e amuleti, amante dello slang da gheo nero che lui invece detestava: “Yo… Pace… Che si dice? Come bua?” oltre all’onnipresente “fratello” e ai segni con le mani. “Ti sei trasformato in un nero!” mi disse una volta. Naturalmente detestavo il suo modo di pensare. Io avevo combauto sul campo, a differenza sua, e nonostante questo lui non aveva mai mostrato interesse per i particolari della mia esperienza, né io avevo molta voglia di raccontarglieli (non era qualcosa di cui andassi fiero). Per mio padre la guerra del Vietnam era una semplice “azione di polizia”, così come l’amministrazione Truman aveva ufficialmente classificato in precedenza la guerra di Corea. In fondo, cos’erano i 34.000 morti americani della Corea o i 58.000 del Vietnam rispeo ai 417.000 della
Seconda guerra mondiale? Per giunta, non c’era alcuno sviluppo in questa guerra, il Vietnam era un pantano, “un casino”, e implicitamente io ero parte di quel casino. Ero in procinto di trasformarmi in ciò che lui aveva sempre temuto: “uno straccione”. Come poteva capirmi anche solo lontanamente? Lui che era stato un ufficiale nel quartier generale della “generazione più grande di sempre”, dove aveva potuto vedere solo un “quadro complessivo” pieno di mappe e statistiche, dove la guerra aveva un senso, se si può affermare una cosa del genere. Ai miei occhi, invece, la guerra era pioggia, incidenti, confusione, natura umana, un fucile che faceva cilecca e il fao che in baaglia nulla andava mai come ti aspeavi. O, per parafrasare le parole di Mike Tyson, il fao che tui avevano un piano, finché non si beccavano un pugno in faccia. Mio padre non aveva gli strumenti per capire che in un certo senso ero impazzito. Ero stato un bravo soldato, affidabile, uno che in baaglia non si perdeva mai d’animo. Avevo imparato a odiare il nemico in modo freddo e professionale, ed ero stato capace di affrontarlo senza esitazione. Ero preparato, e quando si scatenavano le piogge monsoniche sapevo prenderla con il sorriso e prosperare nel fradiciume insieme agli altri esseri viventi della foresta – più pioveva e meglio era. Di noe, nell’umido della giungla si diffondevano orribili, gonfi insei simili a lumache. Le sanguisughe ingrassavano nel cavo del mio inguine e delle mie ascelle; amavano i posti caldi e a me piaceva bruciarle con la punta della sigarea accesa. Avevo ventidue anni, cagavo fango, riuscivo a sopravvivere in un anfrao qualsiasi. Perché ero PRONTO A QUALSIASI COSA in quella giungla del cazzo, in questa vita. Dormire con un occhio aperto. Reagire. Nervi tesi ventiquar’ore su ventiquaro. Persino durante il sonno. esto è un uomo – un uomo dalla scorza dura, mica il fasullo protagonista di un film! C’erano soldati migliori di me, senza dubbio – ma, quando cominciava a piovere merda, io non mi tiravo mai indietro.
È questo il motivo per cui, come molti ragazzi laggiù, mi facevo una canna ogni volta che potevo. Avevo bisogno di rilassarmi. Senza, sarei scaato, avrei fao qualche stupidaggine. Impossibile sopportare la pressione ogni momento. Avevo bisogno di un po’ di spazio fuori dalla giungla, ritagliarmi del tempo con la musica, il fumo e le risate di quei pazzi soldati neri che sapevano ballare in gruppo come una tribù, schioccare le dita a tempo con Smokey Robinson, Sam Cooke, i Temptations, il jazz, qualsiasi musica. Certo, sembravano effeminati, con quelle voci in falseo, ma sapevano come raffreddare la situazione. Mai avevo interagito con neri prima di allora. Di tanto in tanto a scuola c’era l’atleta garbato che aveva oenuto una borsa di studio, ma il Vietnam era stato una full immersion in un mondo nuovo, la scoperta di ragazzi che arrivavano dal Sud più povero e analfabeta o da cià come Chicago, e che vedevano il mondo in modo completamente diverso. Alcuni li trovavo alienati e alienanti, mossi dall’odio per i bianchi che chiamavano spregiativamente honkies, ma la maggior parte diventavano amichevoli se ti aprivi a loro, e condividevano praticamente tuo in una situazione così compressa. Con il passare del tempo, avevo scoperto che erano queste le persone con cui volevo trascorrere il mio tempo, perché capivo la loro sfiducia e il loro aeggiamento ribelle nei confronti del “sistema”, dell’esercito, di “questa guerra merdosa”, che sopportavano come sopportavano quasi tuo nel loro patrimonio genetico. Era stata la musica la scintilla di tuo – e alla musica, ovviamente, era seguita l’erba. E per quanto possa sembrare folle, questi uomini, queste “teste” come li chiamavamo – in contrapposizione ai “regolari”, sempre sobri, e alle “spugne”, che andavano di alcool –, mi avevano insegnato la passione per l’amore vero, l’amore che esiste tra esseri umani, ed è proprio questa la cosa più importante che un soldato possa conservare in guerra: la sua umanità. Senza, siamo bestie; in Vietnam avevo visto molte volte la Bestia in azione. E adesso stavo imparando che la Bestia può prendere un aspeo più raffinato nella vita da civile, ma che ciononostante potevo
riconoscerla ovunque. E la mente di mio padre faceva parte della Bestia, quando elogiava questo complesso militareindustriale che lui stesso aveva contribuito a costruire. Sì, certe volte avrei voluto ucciderlo. Avrei voluto cancellare quella mente che giustificava la guerra come una necessità. E in effei un giorno, a Long Island, feci scivolare nel suo scotch con ghiaccio una buona dose di LSD Orange Sunshine con l’intento di farla esplodere, quella mente. Fu nel corso di una cena elegante alla quale mi aveva invitato, ed essendoci altri dodici ospiti oltre a me non potevo essere scoperto. Ma dopo l’iniziale imbarazzo nel rendersi conto che era “fao di qualcosa”, a sorpresa mio padre annunciò ai sospei riuniti intorno al tavolo che, chiunque fosse stato a drogarlo, si stava godendo “il viaggio”; del resto aveva bevuto un sacco di whisky in vita sua e ci vuole più di un trip per cambiare una mente ostinata. Da questo punto di vista, io ero più acerbo quando avevo cominciato ad assumere LSD, erba, funghi allucinogeni. Nel tempo riuscii a rivalutare e a meere in discussione quasi tuo della mia vita, ogni percezione e sensazione mentale. Essendo stato tanto a lungo soo la forte influenza di mio padre, lo trovai un cambiamento di coscienza non da poco. A dire la verità, mio padre era tanto carnefice quanto viima; a sessant’anni, da vicepresidente della Shearson Lehman Brothers faceva fatica a tenere il passo di un’economia dinamica e mutevole. Il suo obieivo era “stare a galla” poiché, come ripeteva spesso, il divorzio nel 1962, causato dalla prodigalità di mia madre, lo aveva messo in ginocchio – e oo anni più tardi aveva ancora gli stessi centomila dollari di debiti sul groppone. Era un incubo. Oggi centomila dollari possono non sembrare un peso insostenibile; ci sono studenti che accendono prestiti di questa entità, mentre i moderni imprenditori accumulano regolarmente debiti per milioni di dollari. Per mio padre, però, che veniva dalla Grande depressione, la paura di acquistare qualsiasi cosa a credito era una spina conficcata nel destino, e – tra il macigno di Sisifo delle tasse e degli
assegni di mantenimento, gli investimenti prudenti di una clientela sempre più anziana e la riduzione delle provvigioni consentita dalla borsa – il mio povero padre, come nelle più tristi pagine di Dickens, si era consumato senza riuscire nemmeno a limare quegli scoanti centomila dollari. Solo nel 1983, quasi quaordici anni più tardi e non molto prima della sua morte, un giorno mi disse senza particolare soddisfazione: “Ho ripagato tuo.” Sembrava un uomo che usciva di galera dopo vent’anni, troppo vecchio per ricominciare da capo. Il capitalismo, in effei, aveva masticato mio padre per poi sputarlo. Nonostante lui avesse guadagnato milioni di dollari dopo quarant’anni di lavoro, il sistema capitalista, fao di guerre, profii sempre maggiori con cui soddisfare le esigenze degli azionisti e sfruamento dei pesci piccoli, lo aveva lasciato svuotato, avvilito. Finalmente si rese conto della inutilità di una Guerra fredda che richiedeva un accumulo illimitato di armamenti quando, in realtà, ne sarebbe bastata una minima parte. Papà cominciò a cambiare opinione verso i sessantacinque anni. Ricordo che una sera, di punto in bianco, mi disse: “Che senso ha tuo questo ammassare armamenti se un soomarino nucleare russo può arrivare a due passi dalle nostre coste?” Poi, all’inizio degli anni Oanta, mentre il presidente Reagan aizzava di nuovo il Paese verso una rinnovata Guerra fredda contro l’“impero del male”, mio padre lo liquidò definendolo “un imbecille” che aveva rovinato il suo amato Partito repubblicano. Allo stesso modo, non riusciva a comprendere la nuova Wall Street e il proliferare di fusioni conglomerate che stava rivoluzionando il volto della finanza. Il suo nuovo capo, il magnate Sandy Weill, era il capofila di questa tendenza, responsabile di operazioni di accorpamento tra istituti finanziari, compagnie assicuratrici, agenzie di viaggio e società di intermediazione che davano vita a entità economiche sempre più grandi, con la conseguenza che nessuna azienda e nessun posto di lavoro era più al sicuro. La vecchia Wall Street stava sicuramente morendo, e anche mio
padre soffriva gli spasmi dell’agonia. Fu per lui una vera rivoluzione; molto più pericolosa di quella provocata da Roosevelt, che lui aveva tanto temuto. La sua nemesi si rivelò proprio quell’eccesso di capitalismo che secondo mio padre avrebbe potuto essere contenuto. Invece no, non si poteva, e la conseguenza furono crisi struurali via via più profonde che portarono al 2008 e oltre. Eppure credo che a deprimerlo di più non fosse tanto la distruzione del suo ordinato mondo della finanza quanto il fallimento del matrimonio, perché papà, malgrado il sarcasmo se non addiriura il disprezzo per l’istituto della famiglia, avrebbe davvero voluto una salda unità familiare, e in questo aveva fallito. Aveva fallito nel rapporto con sua moglie, mia madre. O forse, come talvolta lasciava intendere, non era tagliato per fare il padre di famiglia. Per alcuni uomini è così. Ma chi ero io per puntare il dito e giudicare? Che cosa avevo realizzato nella vita? Avevo un’istruzione a macchia di leopardo che non stava ripagando l’investimento. Certo, le esperienze di vita erano interessanti, ma le mie competenze consistevano nello spurgare le caldaie di una nave, maneggiare armi, accamparmi in una giungla, rollare canne, sballarmi marcio – che altro? In precedenza avevo deciso che avrei aspeato fino ai trent’anni per provare a combinare qualcosa: per quel tempo avrei dovuto essere sistemato, aver avviato una carriera, essere in grado di mantenermi da solo. Adesso non ero più così sicuro di potercela fare. Avevo lasciato l’esercito ormai da un anno e mi sentivo perso in una spirale di sentimenti contrastanti, sceneggiature sgangherate, erba, acidi e polvere d’angelo, e sesso, molto sesso, party newyorkesi, rapporti occasionali con donne giovani e non più giovani. Ero alla deriva. Per papà ero il figlio idiota che non avrebbe mai concluso granché, ma mi voleva bene lo stesso, perché si era sposato nella convinzione che mia madre avrebbe cresciuto figli forti. Ai suoi occhi quella scommessa era persa, ma il congenito pessimismo ebraico gli permeeva di accearlo. Tanto per fare un confronto, Jimmy, il figlio maggiore di suo fratello,
avrebbe insegnato economia a Harvard a venticinque anni per poi diventare, durante la presidenza Carter, il più giovane presidente di sempre dalla Commodity Futures Trading Commission, l’agenzia federale che regola gli scambi di futures; e dopo quell’incarico, avrebbe lavorato in una grande compagnia assicurativa del Massachuses. Rispeo a lui, sembravo una nullità. Fu proprio il padre di Jimmy, lo zio Henry, a chiedermi che progei avessi. Senza rifleerci realmente risposi che pensavo di recitare, e la notizia suscitò in lui un’espressione afflia. Nel vorticoso mondo di New York c’erano molti “aori”. In una cià dalla pretenziosità dilagante quello dell’aore era uno stile di vita acceabile. Iniziai a frequentare due diverse scuole di recitazione, una che insegnava il più rigoroso metodo Stanislavskij, l’altra più orientata ai workshop e alla pratica, lo studio HB di Bank Street, dove lavoravano molti insegnanti interessanti: tra gli altri Uta Hagen, Bill Hickey e Aaron Frankel. Io però avevo un problema con la recitazione. Essere aore, riversare me stesso intensamente, completamente, nell’animo di un’altra persona era qualcosa che sentivo di poter realizzare con maggiore profondità in veste di autore. In un certo senso gli aori mi ricordavano Houdini, il famoso illusionista, che ogni volta sfidava la morte e le sfuggiva solo in extremis. Interpretando la vita di un altro trascendi te stesso. Frank Langella, con il quale lavorai anni più tardi, mi raccontò che una volta avevano chiesto a Laurence Olivier quale fosse la motivazione che lo spingeva a recitare. Il grande aore inglese aveva spazzato via qualsiasi banalità e tuonando aveva risposto: “Voi guardate me. Guardate me – ecco la mia motivazione!” Intendendo che in fondo c’è una sorta di vanità infantile nella recitazione, e “se guardate l’altro aore, vuol dire che io ho fallito”. Non male come risposta, davvero, ma a me in sostanza non piaceva affidarmi alle mie espressioni o alla mia faccia. Volevo essere la mia faccia, avere le mie idee, vivere nel mio corpo, non darlo in affio. Avevo personalità ma, diversamente da un
bravo aore, non sapevo localizzarla. Non sapevo chi diavolo ero, e quel mistero mi airava verso l’interno, verso lo scavo interiore. Forse unendo i miei puntini avrei potuto aiutare non solo me stesso ma anche altri a vedere cose che non avevano mai visto prima. Avrei potuto, come drammaturgo o regista, portare gli aori a consapevolezze che da soli non avrebbero saputo raggiungere. L’autore può diventare colui che tiene per mano i sogni dell’aore; l’autore lo indorina al punto da convincerlo che le parole del copione sono i suoi sentimenti. Forse ero arrogante, eppure sentivo una forza che mi trascinava verso quegli obieivi con una fiducia cieca e appassionata. La mia recitazione, a ogni modo, era ovaata e cerebrale. Non riuscivo a uscire da me stesso – a volare come un uccello, essere libero! Una volta mi fu affibbiato il pomposo ruolo di Tommaso Becket e, visto che la mia insegnante, una donna di origini russe, mi sgridava in continuazione, una sera mi presentai al corso dopo aver preso dell’LSD e recitai la parte del vecchio arcivescovo alla stragrande. L’insegnante mi applaudì calorosamente, mi disse che ero arrivato a cogliere il senso del ruolo, ma soo l’effeo dell’LSD non avevo idea di cosa avessi fao. L’avevo fao e basta. Come replicare quell’interpretazione? Non lo sapevo proprio. In quella fase della mia vita studiare Čechov, affrontare ed evocare temi domestici mi sembrava noioso e borghese. Io volevo azione. Azione alla Jim Morrison, ragazze, sesso. Sam Peckinpah era il modello. Mentre in Francia, per altro verso, il mio altro punto di riferimento era Jean-Luc Godard, perché sapeva cogliere, senza pruderie, l’erotismo e la violenza del cinema. Nel Bandito delle 11, del 1965, Godard giustapponeva oo, dieci immagini diverse, un fiammifero acceso, una pistola, un ubriaco, una ragazza francese con un cappello di paglia viet-namita, uno stendardo vietcong e quant’altro, accompagnandole con una voce narrante e il crepitio dell’artiglieria americana in soofondo, e tu speatore facevi un metaforico balzo fino in Vietnam – stupefacente. ello
che Ejzenštejn aveva fao per il cinema muto, Godard lo stava facendo con il cinema moderno. Luis Buñuel, nello stesso solco, poteva prendere una banale cena elegante nel Fascino discreto della borghesia (1972) e rivoltarla come un calzino – così che, da osservatore e partecipante allo stesso tempo, vedevi con la chiarezza di un trip la follia e l’irrazionalità della vita, che per quanto ci sforziamo sembra sempre interrompere i nostri piani. E nel caso tu non ci sia ancora arrivato, ecco che il sipario si alza e di là c’è un pubblico che ride della tua cena elegante. esto era il genere di sceneggiature che stavo scrivendo. Non riuscivo ad apprezzare il realismo e la razionalità di Čechov, Arthur Miller, Tennessee Williams o Edward Albee (che pure ammiravo, e sul quale avevo scrio una tesina in collegio). Non volevo il loro realismo. Ero appena tornato dal Vietnam, un’esperienza così intensa, così lontana dai normali rapporti sociali, che per me la vita da civile era davvero più piccola, una farsa, con le persone che correvano di qua e di là preoccupate per la carriera, i soldi, gli amori – chi se ne frega! Ero davvero anarchico in quel periodo. Nonostante incontrassi molte ragazze della mia età, e con qualcuna andassi anche a leo, ero comunque un corpo estraneo e alcune di loro mi sembravano psicopatiche, completamente fuori di testa con le loro nevrosi, e per questo preferivo le donne meno giovani. Esempio: ti sei appartato con una ragazza, entrambi state mandando i segnali giusti, e anche se non vi conoscete davvero sta a te prendere l’iniziativa perché sei il maschio, e allora cominci ad abbracciarla, a baciarla, quando lei, di punto in bianco, accende l’interruore e non vuole andare oltre, magari solo perché si sta chiedendo: “Davvero voglio stare con questo tizio?” Ma tu, senza quasi accorgertene, percepisci questa sensazione di dubbio che molte donne trasmeono, e allora ti senti in colpa: “Ehi, sto correndo troppo? Avrà paura che voglia violentarla?” E lei, intanto: “Chi è questo tizio? Non mi sento a mio agio.”
E così via, in un ping pong di paranoie. Se poi lei è persino più sballata di te, magari corre in strada gridando: “Vaene! Lasciami stare!” e per poco non finisce soo una macchina. Una volta una ragazza si mise a urlare: “No, no, no! Non voglio più vivere! Non voglio più vivere!” Dialoghi folli ed esagerati o, come scrive Jim Morrison, “scene bizzarre nella miniera d’oro”. Già, si incontra strana gente a New York. People are strange when you’re a stranger Faces look ugly when you’re alone.* Un ex compagno di scuola mi disse che potevo prendermi una laurea in una scuola di cinema. Una laurea per cosa, per aver visto qualche film? Mi sembrava assurdo perché, come la maggior parte degli americani, non mi ero mai fao pregare per andare al cinema. Così, quasi un anno dopo il mio ritorno dal Vietnam, nell’autunno del 1969 mi iscrissi alla School of the Arts della New York University: una laurea breve, senza un obieivo ben definito, solo perché – chissà – poteva scaturirne qualcosa di buono. Inoltre l’80 per cento della rea era coperto dal cosiddeo G.I. Bill, una legge che riconosceva ai reduci di guerra tua una serie di benefici. Alla NYU ebbi modo di vedere numerosi film e seguii un corso di produzione cinematografica nel quale ci alternavamo nei vari ruoli di regista-sceneggiatore, cameraman, montatore e aore, realizzando cortometraggi 16 mm in bianco e nero della durata da uno a cinque minuti. Gli insegnanti erano seri, impegnati. Il loro punto di riferimento era Haig Manoogian, uno spiritoso e benevolo intelleuale di strada newyorkese sulla cinquantina, sempre con l’immancabile cappello pork-pie in testa; c’era poi il preside, David Oppenheim, un gigante della cultura; Charlie Milne, un eccentrico cultore dello zen che rispeava un giorno di silenzio assoluto ogni seimana, si occupava del prezioso magazzino arezzature, garantendo a tui gli allievi un equo accesso ai materiali; e infine Martin Scorsese, l’astro nascente uscito proprio alla NYU, all’epoca sui venticinque anni, già autore di alcuni apprezzati cortometraggi e alle prese con le varie fasi di un film a basso budget, Chi sta bussando alla mia
porta? Di lì a poco avrebbe girato Mean Streets, il film che gli avrebbe aperto le porte di Hollywood. Marty sfoggiava una zazzera di capelli unti lunghi fino alle spalle e una parlata fia e nervosa, in uno stridulo accento newyorkese. Alle lezioni della maina di solito era uno straccio perché tirava tardi, a volte fino all’alba, per guardare film alla televisione, dato che all’epoca, prima delle videocassee, in cià i cinema d’essai non erano molti. Non dimenticherò mai una sua estemporanea lezione sulla grandezza della follia espressionistica di Josef von Sternberg nell’Imperatrice Caterina (1934) con Marlene Dietrich. Marty chiaramente adorava il cinema con la stessa intensità con cui il giovane protagonista del Diario di un curato di campagna (1951) di Robert Bresson adorava Dio. Le sue lezioni erano uno spasso, scandite da boa e risposta fulminanti e irriverenza per tuo e tui; ma al tempo stesso Marty conosceva la sacralità della posta per la quale stavamo giocando e sapeva che pochissimi di noi avrebbero avuto successo. So che io avevo questa consapevolezza, forse perché ero di qualche anno più grande rispeo alla maggior parte dei miei colleghi. Alla NYU si percepiva un istintivo, diffuso sospeo verso coloro che erano stati soo le armi ed erano andati “laggiù”. Di rado dicevo di mia spontanea iniziativa che ero un reduce, ma qualcuno lo intuiva. Per noi non c’era nessun bentornato, lo annusavi nell’aria. Dal modo in cui mi guardavano, capivo che ero un emarginato. Avevo ucciso in Vietnam? Nutrivo il vago terrore di dover rispondere prima o poi a questa domanda. La maggior parte degli studenti erano di estrema sinistra, marxisti, anarchici – e alcuni speravano semplicemente di fare soldi nella pubblicità, o in qualsiasi altro ambito. Eravamo a New York, e le reazioni dei miei compagni di corso scaturivano per lo più da quello che in seguito sarebbe stato chiamato il “politicamente correo”, una diffidenza nei miei confronti espressa senza nemmeno sapere che cosa avessi passato davvero in Vietnam. Najwa Sarkis era una stupenda donna libanese dalla carnagione olivastra e dall’accento britannico raffinato e
piuosto altezzoso. Nonostante l’educazione cristiana, il suo viso apparteneva a un vaso fenicio del IV secolo a.C., perciò non badavo più di tanto all’accento. Sballato, insolente, con i miei jeans strappati e un finto disinteresse, la conobbi a una festa alla quale mia madre mi aveva invitato. Lei era incuriosita da me, diverso com’ero dalle persone civilizzate che frequentava di solito. Soprauo, Najwa fu capace di accearmi per quello che ero, un animale della giungla pericoloso per me stesso e potenzialmente anche per lei. Tuo quello che volevo era il suo caldo, bruno corpo mediterraneo. Anch’io avevo quel mare nei geni, araverso la Francia, araverso Ulisse. La prima volta che facemmo l’amore, tua la patina di pretenziosità newyorkese svanì, mentre ci strappavamo gli abiti di dosso come due cagnacci che si azzuffano. Lei aveva ventoo anni rispeo ai miei ventitré ed era una donna razionale, integrata nel mondo, con un lavoro di assistente capo dell’ambasciatore marocchino presso le Nazioni Unite, uno stipendio di tuo rispeo e un appartamento a equo canone nelle East Fiies. Non aveva nulla a che fare con me, mio padre, mia madre, la NYU, con la mia vita fino ad allora, e dunque era una forza tua nuova, una persona che pian piano – fidandosi di me, amandomi – mi permise di fingere ancora una volta che potessi credere nelle consuetudini della società newyorkese, in quegli anni tra il 1969 e il 1975. A un certo punto, su suo invito, lasciai il mio tugurio a Downtown per trasferirmi da lei. Le stranezze restavano. Un giorno, mentre passeggiavamo per Manhaan, un’automobile ebbe un improvviso ritorno di fiamma. Istintivamente mi geai a terra. Najwa ebbe una reazione lenta rispeo alla mia e, dopo essersi guardata aorno per individuare l’origine del rumore, si voltò di nuovo verso di me chiedendosi dove fossi finito. Le ci volle un po’ per capire fino a che punto fossi dominato dalla paura e dall’istinto. Cosa che in realtà mi fu d’aiuto alla scuola di cinema, dove cominciavo a imparare un mestiere, un vero mestiere. Non la scriura, però, quella era già parte di me da sempre, fin da
quando, verso i see anni, mio padre aveva cominciato ad assegnarmi piccoli temi seimanali che mi pagava venticinque centesimi di dollaro. Mica male come idea; non che mi facesse venire voglia di scrivere ma, poiché ci tenevo a quei soldi, avevo acceato, a poco a poco, lo stimolo leerario che mio padre mi stava inculcando. Solo molto più tardi mi accorsi che la scriura era una dote che avrei potuto usare per fare più soldi di quanto sia io sia mio padre ci saremmo mai sognati. “Ti do un quarto di dollaro, figliolo,” mi diceva mio padre. “Parla di un argomento a piacere. Due, tre pagine, racconta semplicemente una storia. Facciamo entro sabato?” Papà era sempre stato bravissimo a raccontare le favole della buonanoe quando ero piccolo. E venticinque centesimi all’inizio degli anni Cinquanta bastavano a comprare un hamburger o un classico a fumei: Rob Roy, Il conte di Montecristo, Ivanhoe, l’Odissea, Le due cià, storie che eccitavano la mia fantasia come solo i romanzi classici sapevano fare. Non ricordo versioni illustrate di Jane Austen o di Henry James. Parecchi dei temini che scrivevo erano basati su film di indiani che avevo visto, pieni di uccisioni, ovviamente, ammesse nella cultura americana. Uccidere era acceabile. I massacri erano ancora meglio. esti e i soldi. I soldi erano potere. È questo che i bambini americani imparano più velocemente: il significato del potere. A volte, anche se di rado, papà mi portava anche a vedere un buon film, almeno quelli che interessavano a lui, come Orizzonti di gloria (1957) di Kubrick o il suo preferito, Il ponte sul fiume Kwai (1957) di David Lean. Aveva da ridire su Fronte del porto (1954) di Elia Kazan, a causa del continuo “bofonchiare” di Marlon Brando, che all’epoca era ormai raro; Brando non lo faceva quasi più. Io invece, nonostante i miei nove anni, mi rendevo conto che quel film era diverso, stabiliva un nuovo modello di realismo che svelava il caraere crudo e spaventoso della vita nella mia cià. Usciti dal cinema, papà mi chiedeva sempre: “Allora, figliolo, che cosa pensi del film?” “Mi è piaciuto molto,” rispondevo, e lui: “Ma hai notato che la tal cosa era sbagliata e che, siccome succedeva questo, l’altra cosa non aveva senso?” Al che gli
chiedevo: “Perché?” E così cominciavamo una sorta di partita a scacchi a proposito di cosa avesse senso in un film. Mio padre, persona profondamente razionale, di solito concludeva sorridendo: “Sai, io e te lo avremmo fao meglio.” All’insaputa di entrambi, mi stava dando il primo sprone a fare lo sceneggiatore. Frequentare la scuola di cinema fu un’esperienza diversa, grazie a una nuova brutalità che avevo acquisito toccandola con mano in Vietnam, a un istinto che avevo imparato – e intuivo a pelle che questa brutalità era necessaria per vedere. Per percepire. Per sentire. Tuo! E soprauo i dieci centimetri davanti alla mia faccia. Adesso i miei sensi si agganciavano a questo nuovo aggeggio – una macchina da presa 16 millimetri, una Bolex, una Arriflex, una Eclair, qualsiasi cosa riuscissimo a procurarci dal magazzino delle arezzature – che si sarebbe trasformato nei miei occhi e nelle mie orecchie, per registrare le cose intorno a me. Nella giungla i miei occhi erano diventati nervosi e onnipresenti. Avevano preso una visione a trecentosessanta gradi, le orecchie si erano sintonizzate sul minimo cambiamento di rumore. Devi mescolarti alla giungla, puzzare come la giungla, vederla dall’interno; sei il serpente che striscia tra il fogliame o il ragno gigantesco che tesse la sua tela di dieci metri tra alberi secolari. Eserciti un’aenzione costante, per sopravvivere nel senso più viscerale del termine. In altre parole, sei una macchina da presa e con quella macchina afferri un’unità di tempo e di luogo, per quanto banale possa essere, e la fai a pezzi come se stessi scopando, penetrando la realtà con tui i sensi ma soprauo con gli occhi – e creando su pellicola, araverso il puro istinto, qualcosa di nuovo e originale. Era questo che mi elerizzava. Allo stesso modo, non abbandonai mai, né diedi mai per scontato il mio interesse per la scriura; anzi, ero uno dei pochi studenti impegnati nella produzione che nei due anni di corso parteciparono assiduamente anche alle lezioni di sceneggiatura, che stranamente alla NYU non erano obbligatorie. La Nouvelle Vague aveva declassato la figura
dello sceneggiatore; scrivere e dirigere erano considerate due professioni distinte. Gli sceneggiatori erano animali da retroboega, cupi secchioni ingobbiti sulla macchina da scrivere; i registi invece erano i creativi da prima fila, audaci, spumeggianti; inventavano il giorno stesso delle riprese insieme agli aori, e consideravano la sceneggiatura alla stregua di un semplice soggeo, un canovaccio. Feci qualche tentativo di lavorare in questo modo ma non ne fui mai veramente convinto. Negli anni, tra l’altro, la sceneggiatura è tornata in auge come componente alla pari, se non dominante, di un film. Nei due anni alla NYU guardai molti film con questo nuovo occhio e imparai quanto più possibile sul lavoro del regista. Una delle primissime lezioni di cinematografia è la necessità di cercare la luce. Senza la luce non vai da nessuna parte, non si vede niente; anche ciò che vedi a occhio nudo ha bisogno di essere plasmato e potenziato dalla luce. In inverno a New York le giornate sono brevi e quando il sole cominciava a calare acceleravi le operazioni per oenere le ultime riprese necessarie, perché non ti potevi permeere un giorno in più per completarle né tanto meno le costose luci artificiali. È una condizione che mi ha accompagnato in tua la mia carriera, persino nei film a più alto budget: sapere ogni giorno che stavo inseguendo il sole e correre dai primi ciak fino alla pausa pranzo, evitando, se possibile, la sgradevole luce di mezzogiorno, provando le scene e cercando di fare tuo il possibile per portare a casa la giornata tra le quaro e le sei, le see del pomeriggio. Fin da quei primi esperimenti, era fondamentale il ritmo da tenere in modo da girare le immagini di cui avevo bisogno. Mi capitava, per esempio, di stilare un elenco di dicioo ciak per un certo giorno, e scoprire magari alle tre del pomeriggio che in realtà me ne sarebbero bastati dodici, o nove. Sta di fao che parte del lavoro migliore, o quantomeno del lavoro necessario, mi veniva in quell’ultima ora o due. “Di cosa hai davvero bisogno per capire la scena? Non che cosa vuoi, di cosa hai bisogno!” questo era il mantra. Marty invitò a lezione John Cassavetes, che aveva girato Ombre e poi Mariti con gli stessi budget
limitati tipici della NYU. John era una persona calorosa e aperta che ammiravamo profondamente per la sua indipendenza. Ci incoraggiò a cercare le nostre ragioni – il nostro bisogno – per fare film e, come dimostrazione pratica, condusse alcuni esercizi di recitazione con noi studenti assegnandoci diversi ruoli che improvvisavamo tui insieme. “Da aori non perdete tempo – andate al punto. Cosa vi serve davvero dalla persona con cui state condividendo la scena? Approvazione? Soldi? Sesso? Amore? Cosa?” anto al coinvolgimento personale, avevamo davanti un uomo che avrebbe leeralmente sacrificato la propria salute per produrre i suoi film. Verso la fine del primo anno realizzai un corto intitolato Last Year in Vietnam. Privo di dialoghi, lo girai in un crudo bianco e nero 16 millimetri con alcuni inserti a colori in 8 millimetri, che dovevano rappresentare la giungla vietnamita messa in contrapposizione con il freddo bianco e nero del cemento delle strade newyorkesi in inverno. È il ritrao di un giovane reduce che vive da solo a New York, alle prese con le difficoltà di reinserimento nella vita da civile. Interpretato da me senza particolare espressività, il personaggio trasmee un’aura di incertezza e di perdita. Una maina di cielo velato, il ragazzo si sveglia e di colpo infila in una borsa tui i suoi cimeli personali – medaglie, fotografie –, segno del conflio che ha con il proprio passato. Le fotografie del Vietnam che usai erano state i miei primi passi nel cinema. Negli ultimi mesi di servizio avevo comprato nello spaccio militare una Pentax che custodivo in un saccheo di plastica per proteggerla dall’acqua; la carta era inutilizzabile nell’umidità della giungla, e l’unico modo di tenere un diario era scaare fotografie. Il giovane reduce prende la metropolitana fino a Downtown, il suo passo scandito dal ritmo di un bastone, la gamba danneggiata dalle schegge di proieile che mi avevano messo al tappeto la seconda volta. Si imbarca sul tragheo per Staten Island e una volta al largo nella baia, con la mente invasa dalle note di Nelle steppe dell’Asia centrale di Borodin,
gea la borsa piena di ricordi nella schiuma sollevata dal motore del tragheo, abbandonandoli per sempre, mondandosi del proprio passato. Per accrescere l’intensità emotiva, aggiunsi in soofondo la raffinata voce di Najwa che leggeva aseicamente in francese alcuni brani dal Viaggio al termine della noe di Céline, una sorta di aspro esorcismo dei dolori del giovane. Last Year in Vietnam aveva ben poco senso, in realtà, ma possedeva anche una sua strana forza. ando il corto giunse al termine dopo undici tesi minuti e il proieore venne spento, mi preparai al consueto sarcasmo coerente con l’“autocritica” maoista che improntava la nostra classe e alla quale nessuno era immune. Che cosa avrebbero deo del film i miei compagni di corso? Il silenzio si prolungò. In momenti del genere le parole diventano cruciali. Fu Scorsese a saltare a piè pari il dibaito dicendo: “Be’, questo è un regista.” Non lo dimenticherò mai. “Perché? Perché è un’opera personale,” aggiunse. “Si sente che la persona che lo sta realizzando lo sta anche vivendo. Un film deve parlare di qualcosa che vi è vicino, dovete farlo vostro.” Nessuno sollevò obiezioni, nemmeno per soolineare il mio bizzarro mixaggio, i problemi di sonoro, niente. In un certo senso, fu il mio debuo. Era la prima affermazione che oenevo… da anni. Sarebbe stato il mio diploma di laurea. In Marty Scorsese, il senso del “personale” si coniugava con una vibrante subcultura italoamericana faa di violenza e di quel senso di fratellanza che si vive nelle gang malavitose. Il mio, invece, risiedeva fino ad allora nell’arito tra l’essere cresciuto in una protea America conservatrice e l’avere sperimentato la distruiva, folle violenza del Vietnam. Ma ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che la mia visione maturasse e potesse emergere. Realizzai altri due film di durata più lunga, né l’uno né l’altro memorabili. Bianco e nero, simbolismi forzati, narrazione ridondante, omaggi in stile gangster a Welles, Godard e Resnais. Pur avendo dimostrato a me stesso di saper gestire la tecnologia di riprese più complesse e del suono in presa direa, e trascorso lunghe noi nelle sale di montaggio,
tirate le somme il contenuto non c’era. Imparai la lezione che non bisogna forzare il racconto, che non puoi prendere un tassello quadrato, infilarlo in un buco rotondo e dire: “Funziona!” ei film non colpirono nessuno quando furono proieati in aula. Nell’aprile del 1970, quando Nixon invase la Cambogia dicioo mesi dopo essere stato eleo con il supposto mandato di porre invece fine alla guerra, tra gli studenti e l’opinione pubblica si scatenò una furia mai vista in quella generazione. Compai cortei sfilavano lungo le strade, una volta proprio soo le finestre al secondo piano dell’appartamento di Najwa, inneggiando, tenendo sollevate le candele. Erano manifestazioni solenni, bellissime, ma io non ero con loro. Né contro di loro. “Fanculo! Io laggiù ci sono stato e ho fao il mio lavoro, non devo scusarmi con nessuno!” Era così che ragionavo, e non ricordo nemmeno di aver condiviso la rabbia colleiva provocata dalla sparatoria alla Kent State University in maggio, quando le forze dell’ordine persero la testa e uccisero quaro studenti ferendone altri nove. Adesso toccava ai loro genitori medioborghesi essere indignati. Nixon si era spinto troppo avanti per rifiutare qualsiasi passo indietro. Il clima era elerico, si respirava davvero aria di rivoluzione. Girai alcune immagini per il colleivo che formammo soo la supervisione di Scorsese (Street Scenes, 1970) ma mi persi l’aggressione, in Wall Street, da parte di un gruppo di operai edili, apparentemente organizzati dagli sgherri di Nixon, ai danni di una delle nostre troupe, alla quale furono distrue due costose macchine da presa e gran parte dell’arezzatura. Nel caos nazionale che ne scaturì, molti professori furono scacciati dalle università, come durante la rivoluzione culturale cinese; gli studenti strapparono la scuola di cinema agli adulti, “liberarono” i magazzini con le arezzature, formarono comitati rivoluzionari dominati da membri delle Pantere nere, maschi e femmine, che, in seguito a numerose assemblee e gran dispendio di retorica, dichiararono i bagni unisex. Dopo una seimana di occupazione, l’intero oavo
piano dell’istituto era praticamente distruo, effeo che mi parve il triste risultato di una viziata idea americana di rivoluzione, priva di disciplina; ognuno voleva essere un generale. Ci vollero diverso tempo e notevoli investimenti prima che la scuola di cinema si riprendesse dai danni subiti. Da quella follia non era scaturito nulla di realmente positivo, solo rabbia. Io avrei dovuto stare dalla parte degli studenti ma non lo ero. Li trovavo dei cani sciolti impreparati, e ritenevo che, quando combai quei bastardi, devi azzannare alla gola. Essere spietato. D’altro canto, per quanto le Pantere nere cercassero di essere organizzate, molti di loro erano razzisti e non sarebbero mai andati da nessuna parte se avessero tagliato fuori i bianchi. ando finii la scuola di cinema, nel maggio del 1971, ci fu ben poco da festeggiare. Non c’erano posti di lavoro ad aspearci, men che meno interesse per i nostri lavori. Una laurea in cinematografia non era altro che un pezzo di carta da appendere al muro accanto alla stella di bronzo. Non mi facevo illusioni. Molti di noi si trasformarono in tassisti, che per me fu il lavoro più stabile che riuscii a trovare; fare il turno dalle dicioo fino alle due, alle tre del maino mi permeeva di continuare a scrivere sceneggiature di giorno. Mance comprese, guadagnavo trenta, quaranta dollari a noe, che all’epoca erano una somma discreta. Con lo stipendio di Najwa e l’affio a equo canone, riuscivamo a tirare avanti. Non dimenticherò mai la desolazione che provavo tornando a casa a piedi dalla rimessa dei taxi alle due, tre di noe, quando ormai gli autobus erano pochi e non passavano mai, vestito leggero rispeo al freddo che faceva, felpa, giaccone militare e jeans insufficienti a proteggermi dalle feroci raffiche di vento che dall’Hudson soffiavano lungo i vertiginosi canyon newyorkesi. Avresti potuto morire assiderato, in quelle strade deserte, e non se ne sarebbe accorto nessuno, non a quell’ora. Baendo i denti, contavo gli incroci che mi separavano dall’appartamento di Najwa, il mio piccolo rifugio nel mondo. Dopo tre quarti d’ora di scarpinata controvento, arrivavo a casa intirizzito e continuavo a
tremare per diversi minuti. In silenzio mi infilavo nel leo e abbracciavo il suo corpo, caldo come un tostapane. Io ero il pane. Lei si risvegliava e a volte facevamo l’amore in silenzio. Najwa stava trovando la strada per amarmi. ando tra noi il rapporto cominciò a consolidarsi, il suo ginecologo le consigliò di farmi visitare da un medico. Il verdeo del NYU Medical Center fu quanto di più brusco e doloroso potessi aspearmi. Il doore disse che non avrei mai avuto figli; il mio numero di spermatozoi era talmente inferiore alla norma da persuaderlo dell’inutilità di ulteriori esami. Era come se mi fossi rivolto a un manicomio degli anni Cinquanta, avessi parlato di depressione e mi fossi sentito rispondere che era necessaria una lobotomia. C’erano rimedi? Niente di niente. Faccio ancora fatica a credere a quanto fosse perentorio quel verdeo, comunque lo acceai, certamente depresso: “Non avrà mai figli” sembrava una frase da 1984. Avevo la sensazione che le sventure di mia madre, che aveva avuto un solo figlio e a prezzo di gravi complicazioni, dovessero perpetuarsi anche nella generazione seguente. Aribuii il mio deficit al burrascoso parto col forcipe, oppure all’operazione subita a sei anni, che mi era stata venduta per “appendicectomia” ma in realtà era stata l’asportazione di un testicolo ritenuto. C’era però anche un’altra possibilità: il Vietnam. Per la prima volta ricollegai la guerra chimica ai racconti della Prima guerra mondiale che avevo ascoltato da mio nonno Pépé, gli aacchi con i gas asfissianti. In Vietnam avevamo fao massiccio uso del cosiddeo agente arancio prodoo dalla Dow Chemical, che aveva gravemente danneggiato il patrimonio genetico dei civili vietnamiti e inquinato gran parte delle loro terre. Avevamo paugliato spesso quelle aree, senza mai preoccuparci. Giusto adesso l’agente arancio cominciava a essere indagato come nocivo effeo collaterale di quella guerra. Che strano barao, se davvero era così, non aver perso la vita in guerra ma avere forse perso il mio futuro… Mi rivolsi a un altro doore per un secondo parere, ma la sua prognosi non fu diversa. Mio padre accolse la
notizia con stoicismo mentre mia madre le considerava tue sciocchezze e mi garantì che un giorno avrei avuto un figlio – come era prevedibile da parte di una donna superstiziosa e che mi aveva sempre sostenuto. Ma la cosa più eclatante era l’apparente indifferenza di Najwa. Voleva davvero un figlio? Non che potessimo permeercene uno, per il momento; comunque si adaò rapidamente alla notizia e di figli non parlammo quasi più. Ne dedussi che Najwa ricavava le soddisfazioni maggiori dal lavoro in ambasciata e dal forte legame con la sua numerosa famiglia in Libano, come zia e sorella affeuosa. ello che Najwa voleva senz’altro, dopo quasi un anno di convivenza, era sposarsi: altrimenti, disse candidamente, era meglio lasciarsi subito. Non poteva andare avanti nella precarietà. Io, che non avevo prospeive reali e mi sentivo come un samurai senza padrone in un film di Kurosawa, acceai di sposarmi, pur essendo ancora troppo giovane per rendermi conto delle conseguenze di quella decisione. Al matrimonio, celebrato con una piccola cerimonia civile al municipio di New York, parteciparono l’amato capo di Najwa, l’ambasciatore, con la moglie, mia madre, speranzosa, e mio padre, sceico. Pur trovandola simpatica, mia madre non considerò mai Najwa “quella giusta”, mentre papà, be’, era sicuro che fosse solo una fermata sulla strada che portava al mio inferno, quale esso fosse. Col tempo cominciai a sentirmi più a mio agio. I miei spigoli si smussavano, stavo perdendo gli artigli. Non posso dire, per quanto mi riguarda, che il matrimonio fosse basato sull’amore; piuosto si traava di comodità e accudimento reciproco. E per gran parte del tempo che durò fui davvero felice con quella donna raffinata che era concreta e più matura di me. Najwa inoltre apprezzava la mia dedizione al lavoro; riuscivo a produrre quasi due sceneggiature originali all’anno e qualche traamento. Oltre a fare il tassista, trovavo lavori saltuari anche come assistente di produzione. L’occasione più ghioa arrivò dalla Cannon Films, la principale casa di produzione indipendente di New York (vedi
La guerra del ciadino Joe, 1970) che stava organizzando una costosa commedia affidata al loro regista di punta, John Avildsen (che in seguito avrebbe realizzato Rocky). Il primo giorno ricevei un incarico banale, accompagnare in macchina un aore alla prova costume. Nessun problema. Passai a prenderlo e, mentre eravamo imboigliati nel traffico di New York, lui fece diverse baute sarcastiche a proposito del film; ne dedussi che il suo numero da stand-up comedian fosse quello di interpretare il classico newyorkese saccente. Probabilmente lui era abituato a suscitare l’ilarità, io invece non lo trovai particolarmente spiritoso, anzi piuosto detestabile. A fine giornata lo riportai a casa e, nel giro di un’ora, fui licenziato. Che cosa avevo sbagliato? Il produore mi informò che colui che avevo scorrazzato era la star del film, Jackie Mason, il quale se l’era presa a morte che non l’avessi riconosciuto e addiriura non sapessi chi fosse. Fu per me una crudele prima esperienza nel mondo del cinema. Ma non mi stupii quando, in seguito, venni a sapere che il film, e Stoolie (1972), primo ruolo da protagonista per Mason, aveva abbondantemente sforato il budget, pare soprauo per i capricci del protagonista, e di fao non era nemmeno stato distribuito; per una Cannon Films già in caive acque fu una grossa perdita di denaro. Alla fine, con l’aiuto di un amico di Najwa che aveva una grossa dia di trasporti, organizzai insieme a due giovani produori le riprese per un film a basso costo dalle parti di Montréal. Seizure, intitolato originariamente e een of Evil, era basato su un vivido incubo che avevo avuto e che avevo trasformato in sceneggiatura. Nell’incubo, ero un autore e illustratore di storie soprannaturali, e vivevo in una grande vecchia casa di campagna insieme a una moglie e a un figlio piccolo. I miei ospiti quel weekend erano di vario stile ed estrazione sociale, un’ecleica compagnia con la quale mi sentivo a mio agio; non c’era niente di forzato nel sogno. Poi però cominciavano ad accadere fai sinistri. Una finestra che andava in frantumi. La governante che spariva. Gli spiriti maligni cominciavano a mostrarsi in modi sempre più inquietanti e i miei ospiti scomparivano uno dopo l’altro.
Senza che potessi farci niente. Nelle grinfie di una misteriosa forza malvagia, che nei sogni sembrava sempre ridurti all’impotenza assoluta, vedevo una gigantesca figura di nano in abiti medievali, dalle mani grandi e callose, che entrava in casa sfondando una finestra. A indirizzare gli eventi era una bellissima donna dai capelli neri, in apparenza cordiale e perfeamente inserita tra il resto degli ospiti… finché smeeva di esserlo. Continuavano a svolgersi, per lo più fuori campo, eventi orribili e inspiegabili, e alla fine restavo l’unico vivo insieme al mio figlioleo; tui gli altri, compresa mia moglie, erano presumibilmente morti. A quel punto andava faa una scelta: la donna pretendeva una risposta. La mia vita o quella di mio figlio. Non potete capire la mia vergogna per il fao che nel sogno abbandonassi mio figlio ai mostri e fuggissi nella foresta per salvarmi la pelle! Peccato che quella donna demoniaca non mantenesse la parola data. Il suo nano gigantesco, infai, mi inseguiva nella foresta, mi abbrancava, e con la sua strea tremenda mi strangolava a morte in una palude. Io farfugliavo, protestavo e un “arghhh” soffocato sfiatò a malapena dalla mia gola quando mi risvegliai terrorizzato nella nostra casa di New York, alle quaro del maino. Najwa era una sagoma nera al mio fianco – o era lei? Era lei la donna dai capelli neri! Trasalii per lo spavento, dal mio lato del leo. Sì, ero sveglio ma ancora prigioniero dell’incubo! E lei era qui – la donna malvagia del sogno! La een of Evil, la regina del male in persona. Non potevo averne la certezza. Controllai piano piano. Adesso, a quanto pareva, ero nella vita reale. E grazie a Dio era Najwa la donna accanto a me, non l’altra. Mi resi conto che era stato tuo un incubo. Ma da dove veniva questa mia codardia? Che cosa mi spaventava? Nel sogno, è lo scriore a scatenare questo orrendo destino su se stesso, sulla sua famiglia, sui suoi amici. Confida addiriura a uno degli amici che sta solo sognando quegli eventi ma che non può arrestarli: mmmh, puzza di tragedia familiare greca, Oreste che racconta della persecuzione subita dalle Erinni.
Fu entusiasmante realizzare il film, anche se feci il passo più lungo della gamba. Najwa aiutò me e i due inesperti produori a reperire alcuni finanziamenti, ma dopo un esasperante anno di ricerca i soldi trovati non erano nemmeno lontanamente sufficienti, e da questo piccolo problema ne scaturirono diversi altri. Imparai molto, tuavia: per esempio che è meglio non pretendere che alcuni degli aori vivano nella stessa casa dove si sta girando. In altre parole, come evitare il caos su un set cinematografico. Fu in ogni caso una memorabile prima esperienza, vissuta con un meraviglioso potpourri di aori, alcuni di estrazione teatrale – Jonathan Frid (famoso per il ruolo del vampiro Barnabas Collins nella fortunata serie TV Dark Shadows), Annie Meacham, Roger De Koven, Louis Zorich – altri di estrazione pop, come la conturbante Martine Beswick, lo stravagante nano francese lanciatore di coltelli Hervé Villechaize, Mary Woronov della Factory di Warhol, Troy Donahue (un nome da spendere al boeghino) e l’egocentrico Joe Sirola. Cambiai il titolo in un meno pacchiano Seizure (“colpo apopleico”), perché al protagonista viene un colpo quando, dopo tuo quello che ha passato nel sogno, scopre che è davvero la regina del male quella distesa nel suo leo. Ma il titolo rimanda anche a un’altra accezione della parola seizure. Durante la caotica fase di postproduzione fummo infai costrei a “confiscare” il film con un’irruzione spalleggiata da un ufficiale giudiziario, in modo da strapparlo al direore della fotografia francocanadese, proprietario della casa di produzione. Riuscimmo per il roo della cuffia a varcare il confine con la pellicola. Alla fine, nel 1974, la Cinerama distribuì Seizure, in doppio speacolo, nel circuito delle grindhouses, le sale cinematografiche dedicate ai film di exploitation. La pellicola incassò poco o niente e, nonostante tue le speranze e l’impegno, non fece avanzare di un centimetro la mia carriera di regista. Grazie a un altro amico di Najwa, un pezzo grosso della pubblicità, trovai un lavoro ben pagato presso una compagnia di riprese sportive che si stava proponendo come casa di produzione alle grandi agenzie pubblicitarie di Madison
Avenue. Ma come venditore ero uno strazio, mi mancava la passione per il mondo della pubblicità e per la vita in agenzia, e non ne ricavai molto se non che potei continuare a scrivere, furtivamente, in un ufficeo della compagnia, sentendomi in colpa per il fao di percepire uno stipendio. E quando alla fine mi misero cortesemente alla porta, dopo meno di un anno, fu un sollievo ritrovarmi di nuovo in coda per il sussidio di disoccupazione, libero da responsabilità. Il sussidio, in quegli anni, divenne la mia fonte di sostentamento ogni volta che rientravo nei parametri per oenerlo. Dopo una coda di un’ora e passa, in un tetro, fatiscente edificio pubblico di Wall Street illuminato da tristissimi neon, gli stanchi impiegati dello Stato di New York ci riservavano il più impersonale dei traamenti; nulla che non avessi già visto soo le armi, specie le code per qualsiasi cosa e l’indifferenza altrui, ma di certo non volevo farci troppo l’abitudine. Le mie paure sul fronte economico erano esacerbate dalla leura di Senza un soldo a Parigi e Londra, il memoir di George Orwell sulle avversità patite dall’autore nel corso degli anni Trenta, quando cercava di scrivere e intanto sbarcava il lunario facendo il cameriere, il lavapiai, il vagabondo; da realista qual era, Orwell lanciava il duro e deprimente messaggio che i “lavoratori di tuo il mondo” erano impelagati in questo spietato sistema economico e mai avrebbero potuto sorarsi alle loro catene, finendo così per comportarsi in modo ancora più meschino ed egoistico. Roba forte. Orwell stesso era scampato a quel destino di miseria solo grazie a un vecchio amico della sua stessa estrazione sociale. Non fosse stato per questo deus ex machina, lasciava intendere Orwell, la sua vita non avrebbe avuto speranza. Come qualsiasi scriore può confermare, il problema di questo stile di vita è che non esiste un modo correo per misurare il tempo e l’impegno dedicati a un tale folle sogno se non araverso i rifiuti ricevuti; e vi assicuro che in quegli anni dovei ingoiarne parecchi. Raccolsi le decine, forse centinaia di leere di rifiuto in un faldone, un vero dossier
dell’ignominia dal quale ricavavo sofferenza ma anche un perverso orgoglio per la mia capacità di incassatore. Eppure, il mio ego ferito mi impediva di comprendere le ragioni di quei rifiuti. A volte è fin troppo semplice incolpare l’acquirente anziché fare autocritica su ciò che stai vendendo. Oltre all’universo cartaceo dei rifiuti, c’era poi la ferita del sentirsi dire di no di persona, durante incontri o pranzi di lavoro così difficili da fissare, o ancora araverso i messaggi che lasciavo in segreteria senza che nessuno mi richiamasse. La speranza spuntava come una gramigna da ogni parola o piccolo fremito di voce, da un occhio che, in un ascensore o in un atrio, si animava appena sulla faccia di qualcuno che forse conoscevi, perché cercavi indizi ovunque, in ogni cosa – ma senza darlo troppo a vedere. Nel complesso era una trafila umiliante, le notizie solitamente deprimenti, eppure le fantasie di futuri successi mi aiutavano a tirare avanti un giorno dopo l’altro. Finché all’improvviso non comparve anche per me un deus ex machina. Uno dei miei traamenti, quaranta pagine intitolate e Cover-Up, fu opzionato dal produore italiano Fernando Ghia, all’epoca legato sentimentalmente a una modella australiana che conoscevo. Era stata proprio lei, senza nemmeno averlo leo, a suggerirgli di dargli un’occhiata – il fato? Fernando, fine intelleuale, lavorava con il celebre sceneggiatore inglese Robert Bolt, uno dei più ammirati drammaturghi della sua generazione, autore sia del testo teatrale sia dell’adaamento cinematografico di Un uomo per tue le stagioni, e poi delle sceneggiature di Lawrence d’Arabia e Il door Živago, entrambi direi da David Lean. La storia che avevo scrio era imperniata sul recente rapimento di Pay Hearst, nel 1974, e focalizzava l’aenzione su un aspeo della vicenda ben poco analizzato, ossia il fao che il capo dei rapitori, l’ex detenuto nero Donald DeFreeze, aveva precedenti penali e si diceva fosse un informatore dell’FBI, dal che discendeva tua una serie di inquietanti interrogativi. In genere le mie sceneggiature non sostenevano tesi politiche, ma questo era un buon gancio per una storia: era possibile che ci fosse il governo dietro tue queste azioni illegali?
Certo, mio padre era stato la mia più grande influenza politica, ma ormai mi stavo allontanando dalle sue posizioni. Da studente di cinema nel 1969 avevo amato Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras, che pure parlava della Grecia. Tui, alla scuola di cinema, adoravamo La baaglia di Algeri (1966), sebbene non la collegassimo ancora al nostro ombelico americano. Nel 1974, Hearts and Minds di Peter Davis fu un pugno nello stomaco, ma si traava di un documentario streamente focalizzato sul Vietnam, che per molti era qualcosa di molto lontano. Emile de Antonio, che aveva realizzato uno straordinario documentario sul maccartismo, era la mina vagante che si occupava delle malefae del governo americano. Anche le donne si facevano sentire, e forte, ma la maggior parte delle progressiste dell’epoca – Gloria Steinem, Bella Abzug, Bey Friedan – erano legate ai temi dell’emancipazione femminile, non alla mendacia del governo a stelle e strisce negli affari esteri e interni. In questo caso, la voce fuori dal coro era quella di Jane Fonda, che io in segreto ammiravo per il coraggio con cui sfidava il governo ai massimi livelli, ma che all’epoca mi sembrava comunque troppo estremista. Una novità di quegli anni erano i film sulle cospirazioni politiche: Perché un assassinio (1974) e l’imminente Tui gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula, I tre giorni del Condor (1975) di Sydney Pollack. Per una volta, il mio tempismo era giusto. Il soggeo fu opzionato per 5000 dollari a fronte di 40.000 in caso di realizzazione del film, e fui chiamato a Los Angeles per discutere lo sviluppo della sceneggiatura. Bolt, da uomo di sinistra, probabilmente vedeva con più chiarezza di me il senso del mio testo – l’avvento delle “esigenze di sicurezza nazionale” ben prima dell’11 seembre – e l’idea che la politica potesse servirsi di una strategia del terrore per rafforzare e finanziare la macchina statale lo elerizzava. Diede priorità al progeo e mi esortò a rimpolpare il soggeo fino a farlo diventare una sceneggiatura completa.
Nonostante fosse inebriante lavorare a questo livello, e la mia conoscenza della scriura cinematografica si stesse ampliando a ritmo crescente, scrivere per Bolt divenne un baesimo del fuoco, un fuoco che veniva continuamente smorzato. Con lui il mio pendolo tornava dalla forma libera del cinema com’era inteso alla NYU alla rigorosa arte della sceneggiatura nella quale il film viene esposto in un certo deaglio su carta, così da permeere ai finanziatori di controllare più da vicino i propri investimenti. Più che scrivere un film proponi un progeo architeonico. Man mano che scrivevo consegnavo le mie pagine a Bolt il quale, essendo stato un insegnante di scuola per molti anni, soolineava con la penna rossa gran parte di esse, spiegando, approfondendo, spesso aggiungendo propri interventi tra una riga e l’altra. Trovava il lavoro “un po’ superficiale” ma aggiungeva: “Una volta a Londra lo ribaerò a macchina per gli stronzi che devono leggerlo. Non sarà ancora uno shooting script.” Il lavoro divenne ancora più tormentoso con Robert che dall’Inghilterra mi chiedeva sempre più riscriure e mi sooponeva sempre più interrogativi. Nei tre mesi successivi le mie pagine fecero in continuazione la spola araverso l’Atlantico, ma avevo la sensazione che non sarei mai riuscito a soddisfare le aspeative di Robert. Dall’Inghilterra non arrivavano che dubbi. Del resto, lo sapevano tui che a volte Robert Bolt impiegava anni a scrivere una sceneggiatura; quella di Mission, per esempio, alla quale si dedicò per quasi un decennio. Per me divenne una lezione sull’eccesso di scriura. Non stiamo scrivendo un testo teatrale ma facendo un film. Abbiamo bisogno di velocità e azione, niente di troppo cerebrale. Mission uscì finalmente nel 1986: un film notevole, senza dubbio, sofisticato, impegnato, eppure fu un flop al boeghino perché mancava di quell’elemento di puro coinvolgimento che volevo invece per il nostro film. E così e Cover-Up si trovò impantanato nel lento, tedioso trascorrere del tempo dal quale capisci che non ci sarà nessun film, e che anzi parteciperemo al funerale di un sogno che non abbiamo mai vissuto. Nella sua forma finale era un thriller politico di buona qualità, metà Bolt e metà
Stone, ben scrio, raccomandato presso gli studios ma spento dalla sua stessa levigatezza; e con un finale cupo le sue prospeive commerciali erano tu’altro che alleanti per i finanziatori. Una serie di aori e registi lo rifiutarono. La mia ultima speranza era Robert Shaw, che dopo Lo squalo si stava guadagnando lo status di star, ma disse di no anche lui. Avevo il cuore infranto ma ero abituato; nella vita, avversità e fallimento tendono a seguire uno schema ricorrente. Sapevo che un’analoga sincerità era necessaria anche nella mia vita di coppia. Dovevamo meere fine alla menzogna che il nostro matrimonio era diventato. Stavo perdendo lo spirito, e questo non si poteva nascondere. Tornai da Los Angeles dopo quello che si prospeava come il mio ultimo viaggio a proposito di e Cover-Up, filai drio da Najwa e le dissi che non potevo andare avanti in quel modo. Litigammo, alzammo la voce, recitando entrambi i nostri ruoli di persone profondamente ferite. Sì, Najwa si ingelosiva ferocemente di qualsiasi donna con cui parlassi alle feste, ma sapeva anche che non avevo mai inseguito una storia con nessun’altra; c’era stata una tumultuosa parentesi, in Canada, con la protagonista del mio Seizure, ma era durata appena un mese e, come nei melodrammi, si era dissolta da sé. L’amore e la passione della mia vita, se mai fossero destinati ad arrivare… erano ancora chissà dove nell’universo. E Najwa questo lo percepiva. Eppure pensava che fosse stata Los Angeles a traviarmi, che la delusione per e Cover-Up mi avesse ferito nel profondo. Se non avessi mollato, era sicura che la mia carriera si sarebbe messa in moto e sarei arrivato al successo. Najwa adorava il mio talento. Aveva finito per crederci. E aveva finito per amarmi in quanto marito. Se mi guardavo intorno, era così comodo quell’appartamento, con le mie cose sistemate in ordine, la mia scrivania, la mia libreria, guardare la TV assieme, il calore di un altro corpo con cui dormire la noe o con cui parlare dopo aver fao l’amore. “Comodo” era la parola killer. Ancora qualche anno e Najwa ne avrebbe avuti quaranta, io trentacinque, avremmo
continuato a vivere in quell’appartamento a equo canone, senza figli, ogni tanto un weekend a Fire Island o agli Hamptons; magari avremmo condiviso una casa per l’estate con altre coppie. Ogni tanto vacanze e soggiorni in Libano. E io magari avrei venduto una sceneggiatura o un soggeo qua e là. In caso contrario… be’, con tua la gente che veniva a New York da tuo il mondo e chiedeva favori economici al Marocco, Najwa avrebbe potuto trovare un posto per noi due in una di quelle imprese commerciali. Affidandomi all’istinto libanese con cui guidava la barca, avrei potuto via via affinare il mio senso degli affari. E un giorno, con coraggio e pazienza, forse saremmo addiriura diventati ricchi. Comodo, non c’è che dire. Ma chi ero io in tuo questo? Non lo sapevo ancora. Sapevo però che è così che le persone smeono di credere nei propri sogni. Los Angeles, che vedevo sempre di più come roa della speranza, Najwa non la prendeva nemmeno in considerazione come cià dove vivere. La sua vera casa era New York e, sebbene fosse nel fiore degli anni e avrebbe senz’altro potuto ararre un uomo di livello che provvedesse a lei molto meglio di quanto potessi fare io, Najwa non era venuta a New York a caccia di un “paparino” da cui farsi mantenere. Francamente, credo che amasse il suo lavoro più di quanto avrebbe mai amato un uomo. Sembra un’affermazione drastica, ma ho conosciuto tante donne forti che, facendo un lavoro così a lungo – per trenta e passa anni –, hanno superato il bisogno di un marito. Siccome Najwa era più grande di me, c’era chi diceva che avevo sposato mia madre, il che mi feriva. Nessuno ovviamente lo diceva ad alta voce, ma lo percepivo. E c’era un fondo di verità in quelle illazioni. Mia madre doveva averlo pensato immediatamente e sono sicuro che ne fosse lusingata – “Oliver ha bisogno di una donna come me… L’ho tirato su io e so cosa gli piace! Ovviamente Najwa non mi somiglia affao, ma lo rende felice. Lo ama come io amavo Lou. Gli fa bene.”
Non c’è niente di categoricamente sbagliato negli uomini innamorati della mamma, assolutamente no. Anzi, è un segno positivo. Ma la verità è che negli anni del Vietnam avevo cominciato a liberarmi del desiderio per mia madre. Adesso venivo accudito da una moglie più grande di me, e dal punto di vista di mia madre non c’era niente di male. Il guaio era che non ero ancora diventato un uomo. Lo sentivo a pelle: non avevo ancora sfondato come autore perché non ero riuscito a completare il viaggio iniziato con la partenza per il Vietnam. Anziché combaere quella baaglia da solo, mi ero adagiato nella comodità di un matrimonio borghese con una brava donna in grado di offrirmi una casa, darmi sesso, condividere le sue amicizie, cucinare bene il pesce. Najwa mi amava, a modo suo, ma chi ero io davvero? Andando avanti così non lo avrei mai saputo. ella noe lasciai l’appartamento con due valigie e mi resi conto che non l’avevo mai considerato casa mia, nonostante vi avessi dormito per quasi cinque anni. Dissi a Najwa che sarei tornato a prendere il resto delle mie cose e le diedi un bacio sulla guancia aggiungendo, con tua la dolcezza possibile: “Stammi bene. Ci sentiamo.” Era un sollievo potermene andare prima che succedesse qualcosa di peggio, magari una tempesta emotiva. Poi però, quasi sapesse che stavolta non sarei tornato, Najwa disse con un filo di voce: “Restiamo amici…?” La domanda rimase sospesa nell’aria; il tremore della sua voce mi fece fermare di colpo. Era straziante, perché Najwa aveva bisogno della mia energia, delle mie vibrazioni. Aveva bisogno di me. Mi amava profondamente. Come potevo essere semplicemente “un amico”? Cosa potevo essere se non un bastardo? Cosa potevo fare se non spezzare cuori? No, ma quali amici? D’altro canto ero figlio di genitori divorziati, che c’è di strano, è così che va il mondo. Non hai forse conosciuto i miei? Non te l’aspeavi? Sapendo del grande errore che avevano commesso sposandosi e meendo al mondo me? Le asciugai una lacrima e la lasciai senza l’amore che non potevo darle. La porta si richiuse sulla sua espressione addolorata, e
con una sensazione di gelo nel cuore imboccai il corridoio, scesi le scale e arrivai in strada, dove inspirai la prima boccata di aria fresca… da anni. Avevo amato Najwa fin dove avevo potuto, ma in quella maniera indistinta e forzata dalla quale capiamo che non siamo sinceri con noi stessi; si potrebbe dire che all’epoca non sapessi cos’è l’amore, questa parola inflazionata, melodrammatica, e tuavia la più potente spiegazione dell’universo che abbiamo a disposizione. Una volta in un testo orientale ho leo che l’amore si può conoscere soltanto “araverso la sua assenza”. Togli, sorai, riduci… e finalmente eccolo. Nella sua semplicità, ami. Niente fronzoli, solo il sano vecchio amore, come un vecchio maglione di lana… Non sapevo ancora dove – ma un giorno l’avrei incontrato. Non mi sorprende che, a quarant’anni di distanza, Najwa viva ancora nel suo grazioso appartamento a equo canone e ami ancora il lavoro che fa. Nel fraempo si sono succeduti see, oo ambasciatori ma non importa. Najwa è al servizio del regno del Marocco. Persino il re è cambiato, ma Najwa no, Dio la benedica. Resta molto legata alla sua famiglia, ama le sorelle e i nipoti. Ogni tanto vado ancora a trovarla, non senza tristezza, e rievochiamo per quanto possibile i ricordi che abbiamo in comune. Ormai passata la mezzanoe, i fuochi d’artificio del 4 luglio stavano scemando. Erano passate ore quasi senza che me ne accorgessi. Le onde lambivano in silenzio l’isoloo della Statua della Libertà, con il suo volto delicato ancora visibile nella luce delle ultime girandole. “Il tempo è il fuoco nel quale bruciamo,” ha scrio il poeta Delmore Schwartz. Le cose erano andate male per mio padre e mia madre, non erano fai l’uno per l’altra, e anch’io, in quanto prodoo dei loro caraeri, ero destinato al divorzio. Era stata una menzogna. Così come il Vietnam. Così come gran parte della mia vita. La menzogna aveva infeato ogni cosa, e io ne ero ancora intorpidito. Perché in sostanza non mi ero mai svegliato. Mi sentivo totalmente smarrito. Non
avevo certezze. Dov’era per me un filo come quello che Teseo aveva seguito per uscire dal labirinto di Cnosso? Con un muto cenno di speranza mista a sconforto, salutai la mia dea e mi incamminai verso la metropolitana. Così si concludeva il mio 4 luglio 1976. Sono versi di People Are Strange dei Doors: “La gente è strana quando sei estraneo / Le facce ti sembrano brue quando sei solo.” (N.d.T.) *
3 La terra al di là del mare
Cercando, immagino, un filo che mi portasse da qualche parte, cominciai ad abbozzare una storia basata sui miei ricordi del primo gennaio 1968. Che cosa ricordavo davvero di quella baaglia, a parte i cadaveri e i fuochi d’artificio? Oo anni erano tanti: i particolari e le facce si confondevano. Dieci sceneggiature, forse cinque anni effeivi passati con il culo aaccato a una sedia e cosa mi ritrovavo in mano? Solo un pugno di mosche. esta storia avrebbe forse potuto raccontare qualche verità del nostro fiasco in Vietnam, perché sarebbe stata più ampia della semplice rievocazione di un triste passato personale. Avrei dovuto sfornare una prima versione in tempi brevi, altrimenti sarei finito, come un invasato Robert Bolt, a studiare, documentarmi, scrivere per anni. La strategia migliore è limitare le perdite. Per come intendevo le indicazioni di Norman Mailer sulla scriura, siamo governati dal pao segreto di farlo tui i giorni, meere da parte il residuo del giorno prima e trasferirlo nel nostro inconscio, dormirci sopra ed estendere quell’abito mentale al giorno successivo. È un ritmo che non devi spezzare, e se lo fai sprechi la tua preparazione, che non recuperi più allo stesso modo. Dopo la roura con Najwa, vissi per quasi un anno a casa di un amico, un appartamento al terzo piano di un edificio con la scala esterna. Era come stare all’YMCA: una squallida stanzea affacciata sulla Seconda Avenue dove i camion rombavano giorno e noe. Eppure ci stavo bene, senza obblighi, senza l’affio da pagare. Il mio amico, Danny Jones – inglese sulla quarantina, divorziato, ironia pungente e cuore generoso –, aveva un lavoro stabile e creativo come art
director di un’importante agenzia pubblicitaria di New York, ma anche un enorme appetito per droghe e alcolici e, come molti newyorkesi, viveva alla giornata contando sulla sua paga biseimanale. Essere di nuovo scapolo con un eccentrico padrone di casa contribuì a dissipare la cupezza orwelliana di un possibile destino di miseria e mi fece scoprire un lato di New York che nessun tassista avrebbe mai trovato sui propri itinerari, il mondo della Parigi anni Trenta di Henry Miller trasportato nella New York degli anni Seanta: un soobosco di aspiranti musicisti, filmmaker, arici e modelle, fotografi, artisti di ogni genere, prostitute di Wall Street, ereditiere di Park Avenue, divorziate, vedove, insegnanti, infermiere, medici che vendevano speed, spacciatori, immigrati, tui nuovi, tui a caccia di qualcosa. Ogni noe si trasformava in un’avventura; mi svegliavo in posti sempre diversi e non credo di essermi mai divertito tanto in vita mia, forse perché essere giovane e single è molto più divertente se sei squarinato, e forse perché l’unica cosa che i soldi non possono comprare è davvero la povertà, come diceva quel mio vecchio amico. Apprezzi ogni regalo, ogni gentilezza tanto quanto apprezzi ogni dollaro. A volte trascorrevo la maggior parte del giorno a passeggiare da solo per le strade, esplorando o sognando. C’erano i soldi del sussidio, che però a un certo punto finivano. E non provavo alcun senso di colpa a essere uno straccione, senza responsabilità né verso mio padre, né verso Robert Bolt, nessuno. Sentivo ancora di avere ambizioni più alte, ma mi godevo, giorno per giorno, il rifugio gratuito che un Falstaff con qualche anno più di me mi aveva offerto in cambio della mia collaborazione su due promeenti sceneggiature. Lasciatemi aggiungere che, grazie alla sua robusta costituzione celtica, Danny andava al lavoro ogni maina assolutamente sobrio, mentre io meevo nero su bianco le nostre idee seduto al tavolineo della cucina. Ma non vale la pena descrivere nuovamente questo viaggio di speranza e delusione, se non per dire che adesso ero totalmente responsabile di me stesso; e giacché mi ero imbarcato in questo irripetibile viaggio, sapevo che sarei
andato fino al fondo del mio talento – sempre che ne avessi uno. Dopo sei mesi, però, le nostre sceneggiature a quaro mani languivano in purgatorio e io avevo la sensazione che non ne sarebbe venuto fuori niente – anche stavolta. “Niente” è la sensazione più esasperante al mondo. Niente. Dopo quella noe del 4 luglio, ricominciai a scrivere da solo, rapidamente, a penna, tre pagine qua, quaro pagine là, esercitando il muscolo di una memoria mescolata a un po’ di fantasia. La intitolai semplicemente Platoon – “il plotone”. Nella realtà la guerra è tediosa. Tanta noia e tempi morti. Morte dello spirito, anche. Un resoconto realistico del tempo che avevo trascorso in quaro diverse unità, tre delle quali plotoni da combaimento, non avrebbe prodoo un film interessante e io ormai ero uno sceneggiatore, anche se senza successo; mi era ben chiaro, quantomeno, quale forma e risonanza dovesse avere una sceneggiatura. Negli anni Seanta, sulla scorta del successo di Un uomo da marciapiede e di Easy Rider, entrambi del 1969, la cultura cinematografica stava prendendo una direzione antieroica e neorealista. Dustin Hoffman, Jack Nicholson, Robert De Niro, Al Pacino e il femminismo stavano meendo in discussione il ruolo tradizionale che i protagonisti e le protagoniste dei film avevano sempre interpretato. Ciononostante, ai miei occhi i film avevano sempre rappresentato azione, speacolo, emozione; e soprauo, la sensazione che la vita avesse un senso. Persino il fallimento aveva un senso. Adesso, se volevo farne un film, stava a me trovare un senso in quella piccola guerra merdosa. Non volevo che fosse un’allegoria come Break, la sceneggiatura con cui nel 1969 avevo tentato di affrontare il tema del Vietnam. Platoon non avrebbe parlato di me ma di tui noi che eravamo partiti per quel viaggio senza finale. I suoi protagonisti non erano hippy o studenti universitari ma miseri uomini della classe operaia il cui futuro nell’America di quel tempo stava diventando sempre più fosco. E io sarei stato l’osservatore, se possibile. Il mio alter ego nella
sceneggiatura sarebbe stato Chris Taylor – un aseico nome da bianco protestante per un giovane che si era arruolato volontario e che laggiù voleva solo essere anonimo. In fondo, soo le armi avevo fao ricorso al mio nome di baesimo ufficiale, William, come in collegio e nella marina mercantile. Il secondo nome, con il quale i miei mi avevano sempre chiamato – Oliver – era troppo frou frou ed europeo per i più rudi accenti americani. Chris perciò non avrebbe avuto una storia familiare a tormentargli le carni, ci sarebbe stata solo una nonna, lontana ma evidentemente importante, a cui avrebbe scrio le sue leere dal fronte: Be’, eccomi qui – anonimo, questo è sicuro, con della gente di cui non importa niente a nessuno. La maggior parte di loro è di origine povera, dei ceti più bassi, di paeselli che non hai mai sentito nominare – Pulaski, Tennessee; Brandon, Mississippi; Pork Bend, Utah… Al massimo due anni alle superiori, forse con un po’ di fortuna hanno anche un lavoro che li aspea in una fabbrica, ma molti di loro non hanno niente, sono poveri… sono i migliori che abbia mai conosciuto, nonna, loro sono il cuore e l’anima dell’America… Forse ho finalmente trovato la risposta, quaggiù, nel fango. E può darsi che da quaggiù possa ricominciare a salire, essere qualcosa di cui andare fiero senza dover fingere.
Sarebbe stato un film di giovani che dimostravano più dei loro anni, non uomini di trenta, quarant’anni scelti per interpretare giovani soldati come in molti film di guerra hollywoodiani. Sarebbe stata una guerra sporca, come era stata nella realtà: uomini che dormivano di rado, i nervi tesi all’inverosimile, irascibili, incaiviti, pronti a sfogare i più bassi istinti razzisti – bianchi, neri e gialli. E nei suoi momenti più crudi, avrebbe mostrato uccisioni efferate, come nella tragedia greca. I volti, però, sarebbero stati quelli dell’America rurale o dei ghei metropolitani. Sarebbe stato un film modesto, sudicio, terra terra, ma con un pungiglione velenoso. Vedere le manifestazioni pacifiste a New York scatenava in me una furia e un’ostilità contro qualcosa che si respirava nell’aria dell’America e che era profondamente ipocrita; marciavamo per la pace ma in qualche modo volevamo la guerra, volevamo sfogare l’aggressività di questo Paese. In fondo, io stesso avevo voluto andarci, no? E di nuovo percepivo l’assoluta inutilità di quella mia marcia, insieme a
quella del nostro esercito. Mi sembrava di essere nell’Iliade in compagnia dei greci accampati sulla spiaggia fuori dalle mura di Troia, divisi da litigi e baibecchi. Come i greci, anche gli americani avevano una grande hybris, un’ingiustificata tracotanza, residuo della Seconda guerra mondiale. Henry Kissinger, il nostro door Stranamore, aveva ben sintetizzato il punto: “Mi rifiuto di credere che una piccola potenza di quart’ordine come il Vietnam non abbia un punto di roura.” Eravamo stati così orgogliosi e poi, visto che non riuscivamo a conquistare la vioria, avevamo dovuto mentire come facciamo tui quando neghiamo la verità a noi stessi, ossia che avevamo perso, e perso di bruo, e che tui quei guerrieri del Pentagono innamorati della tecnologia militare alla fine si erano rivelati degli incapaci, mentre i piccoli, determinati vietnamiti ce le avevano suonate di santa ragione. Perciò l’America si era inventata la campagna della “Pace con onore”, successivamente ribadita dalla missione “Riportiamo a casa i nostri prigionieri di guerra dispersi”, per mascherare il fao che i vietnamiti erano stati più forti della nostra volontà di vioria. Mai dichiararsi sconfii, mai. La stessa megalomania impregnava la tracotanza di un film come Paon, generale d’acciaio, grande successo cinematografico del 1970 con protagonista George C. Sco. L’orribile verità era che gli americani amavano tanto il film quanto il generale, un uomo orribile che aveva passato il limite. Amavamo gli assassini. Perché ero cresciuto guardando assassini in quasi tui i telefilm? Non è forse questo il motivo per cui, in seguito, avrei girato Natural Born Killers? Mostrare questa follia che è al cuore della nostra cultura? Nella sceneggiatura di Platoon mi sarei ispirato, per il mio alter ego, alla figura di Ulisse, il viaggiatore che fatica a trovare la strada di casa. Un giovane senza segni identificativi particolari se non una vaga appartenenza al ceto istruito, che scende all’inferno da innocente e ne esce uomo, indurito dalla propria esperienza. Avevo leo gli studi di Edith Hamilton e Robert Graves, e amavo le gesta e i destini dei molteplici personaggi della mitologia greca, di fao spariti dalla nostra
cultura. Ecco perché il professor Tim Leahy della NYU, di cui avevo seguito il corso in parallelo alla scuola di cinema, mi aveva particolarmente colpito, un giorno, durante una lezione sulla tragedia classica, infervorandosi sul destino di Ulisse. “Perché,” aveva tuonato, “solo Ulisse torna da Penelope dopo quasi vent’anni? Perché proprio lui tra tui gli eroi partiti per combaere la guerra di Troia?” Aveva aeso prima di rispondere – silenzio. “Nove anni sulle spiagge di Troia! E altri nove per tornare a Itaca. Nessun altro dell’equipaggio torna a casa. Perché? Perché proprio Ulisse?” “Coscienza!” aveva scrio baendo il pugno contro la lavagna, con la voce che riecheggiava nell’aula. “Perché ha una coscienza,” aveva ripetuto. “È questo, signori, che lo tiene in vita! E che fa la differenza tra ciascuno di noi – quanto riusciamo a restare coscienti in questo mondo difficile? anto spesso dimentichiamo, perché…? Perché vogliamo.” Aveva picchiato sulla lavagna là dove aveva scrio la parola “LETE” a grandi leere maiuscole. “Vogliamo dormire! Lete. Oblio.” Nel silenzio che era calato, sentivo che diversi studenti stavano già praticando la loro forma di “lete” nell’aula semivuota. “Che cosa rappresentano i lotofagi? Perché Circe trasforma gli uomini in porci? Perché hanno dimenticato di essere uomini. Sono diventati delle bestie. Ulisse invece no. Perché Ulisse ordina ai suoi uomini di legarlo all’albero maestro e di non liberarlo a prescindere da quanto li avesse in seguito implorati? Perché, mentre i suoi uomini si tappano le orecchie con la cera, lui vuole sentire le voci delle sirene! La conoscenza – è questo che Ulisse insegue.” Leahy era sceso nelle pieghe più recondite della mente dell’eroe viaggiatore. Nessuno tra gli studenti replicava, la maggior parte terrorizzati di interrompere quell’uomo così appassionato. La sua voce era talmente vibrante che immagino lo sentissero anche i passanti in Washington Square, oo piani soo la nostra finestra aperta.
“Perché Ulisse vuole conoscere! Vuole ascoltare – conoscere ogni cosa. Andare al fondo delle cose. Coscienza, signori, coscienza. esta è la differenza tra la vita e la morte. È questo che fa l’uomo moderno. Prestate aenzione, vi supplico!” Mi aveva raristato, vedere quel grandissimo insegnante usare tuo il respiro della sua vita per versare il miele della mitologia greca nelle menti intasate di quegli stanchi, insensibili studenti della NYU. Chi era disposto ad ascoltare? esta è la domanda. Ora capisco che fui fortunato a trovarmi lì, perché riconobbi, anche se non ancora appieno, l’importanza di ciò che Leahy stava dicendo, e che la parola e il ricordo sono ciò che ci unisce araverso il tempo; e un giovane solitario che aveva ascoltato Leahy in quell’aula poteva portare quel ricordo fino alla fine della sua vita, come se fosse una fiaccola trasmessa da Omero stesso – e magari, passandola a mia volta ad altri, nobilitare il senso dei miti greci. Dopo l’enorme problema di sopravvivere alla guerra di Troia e altri nove anni di travagli, una volta tornato a casa Ulisse si trova per giunta ad affrontare decine di uomini presuntuosi di una generazione più giovane che, avendolo dato per morto, ne insidiano le ricchezze e la bellissima moglie. Il fao che, malgrado la fatica delle sue peregrinazioni, Ulisse riesca in quest’ultima impresa, spacciandosi per un mendicante, uccidendo gli aggressori e riconquistando la moglie e il figlio, e l’isola stessa, rappresenta la più gloriosa delle sue gesta – nonché un finale straordinario per una delle più grandi storie di sempre. Tenete presente che molti degli eroi più famosi – Eracle, spinto alla pazzia; Aiace, suicida; Agamennone, ucciso dalla moglie e dall’amante di lei – non riescono a risolvere questo abisso al termine delle loro vite straordinarie. Ulisse, malgrado le enormi sofferenze, sì. Nella sua celebre poesia, Tennyson lo descrive come un uomo anziano che ha ancora la volontà di “cercare, trovare, e di non cedere”, tributando il supremo omaggio vioriano alla capacità umana di vincere le circostanze avverse. Ai miei occhi, Ulisse è un eroe
occidentale analogo a quello che è il Gautama Buddha per la tradizione orientale. Significativo, in questo senso, che per la mentalità occidentale uccidere i rivali e riconquistare moglie e possedimenti abbia una risonanza di gran lunga maggiore rispeo alla vicenda del Buddha, improntata alla non violenza. Proprio per questo, nella mia vita, continuavo a tornare a Ulisse come esempio di comportamento consapevole. Ne traevo sostegno. Se lui era riuscito a tenere duro, potevo farcela anch’io. E poiché in ciascuno di noi il mitico è nascosto dietro l’ordinario, mi misi alla ricerca dei miei corrispeivi di Achille, Eore e Ulisse. Leahy mi aveva fao capire che le persone con cui avevo condiviso l’esperienza del Vietnam avevano più sostanza di quanto avessi percepito all’epoca: parecchi di loro eroici, alcuni vigliacchi, la maggior parte una via di mezzo. Ricordavo in particolare due soldati, entrambi sergenti, che avevo incontrato in due diverse unità della 1ª divisione cavalleria. Il sergente Barnes, come lo ribaezzai nella mia sceneggiatura, aveva la fierezza di Achille ed era la personificazione stessa della guerra, taciturno e minaccioso, di una tenebrosa bellezza segnata da una vistosa cicatrice che gli araversava metà della faccia, dalla fronte e dall’occhio fino al profilo della mascella. Di corporatura compaa con il suo metro e seanta, era quanto di più vicino a un leader noi della fanteria avessimo mai visto. Con i suoi quaro galloni – tre V capovolte sopra una striscia ad arco – era in realtà un soufficiale di stato maggiore che fungeva da sergente di plotone solo perché eravamo sempre a corto di uomini. Per un periodo avevo avuto l’incarico di trasportare la sua radio, camminavo subito dietro di lui quando araversavamo la boscaglia, tenendomi in contao con il posto di comando del plotone e quello della compagnia. Era mancino, tiratore nato, fluido nei movimenti. Mi sembrava appropriato che venisse da una zona sperduta del Montana, una specie di cacciatore di pellicce dell’Oocento con gli occhi neri e un folto paio di
baffi dello stesso colore, apparentemente impavido di fronte a tuo. ando lui parlava, tu obbedivi. Una maina verso le see, durante un paugliamento non previsto, si fermò di scao facendoci cenno di tacere. Aspeammo. Dalla boscaglia arrivava un flebile aroma di pesce arrostito. Rapidamente, silenziosamente, il sergente si portò in avanti facendoci cenno di non muoverci. Non voleva distrazioni. Seguì un lungo silenzio, poi alcuni spari improvvisi, poi più nulla. Barnes tornò indietro, senza la minima espressione sul volto, e mi ordinò di far avvicinare il resto della pauglia. Aveva ucciso due vietcong, giovani uomini che stavano facendo colazione distraamente, mai potendo sospeare che gli americani fossero già in giro così presto. Avevano pagato con la vita la loro leggerezza. Per la maggior parte di noi le rare volte in cui avvistavamo il nemico erano un evento, figurarsi ucciderne uno. Barnes invece era calmo, calmissimo, non aveva mai reazioni esagerate. Dopo aver fao rapporto e spogliato i due morti, ci ordinò di rimeerci immediatamente in marcia, senza prendersi alcun merito, in cerca di nuovi scontri; considerato che c’era già stato un contao, era nell’aria che ne avremmo avuti altri nel corso della giornata. E se noi altri non avevamo alcuna voglia di incrociare di nuovo il nemico, per Barnes la prospeiva era entusiasmante. Era un oimo soldato, probabilmente al suo secondo o terzo servizio in Vietnam – ma perché? Perché ci era tornato dopo aver subito una ferita come quella che gli deturpava il volto? Io non glielo chiesi mai e lui mai ce lo spiegò. Nell’esercito, come in qualsiasi gruppo sociale, vieni a sapere frammenti di informazioni e notizie dalle quali alla fine emerge una narrazione complessiva; in questo caso la storia era che Barnes fosse stato colpito da un’arma da fuoco, o si fosse quantomeno beccato delle schegge di proieile, al volto e alla testa, trauma che aveva richiesto un complesso intervento di ricostruzione: la cicatrice si ramificava profondamente tra occhio, naso e guancia; persino le labbra erano rimaste interessate. E poiché doveva essere stato un
uomo di bell’aspeo, le cicatrici accentuavano curiosamente il fascino del suo viso trasformandolo nell’eco di un Fantasma dell’Opera – un uomo incaivito forse dalla rabbia o dalla vendea, o più semplicemente un mistero. Che cosa gli passava per la mente? In tuo il tempo che gli rimasi accanto, Barnes non lo lasciò mai trapelare. Io lo osservavo con curiosità e insieme trepidazione; dopo che avevamo passato una seimana e più in perlustrazione nella giungla, tornava nelle retrovie e si rilassava con alcol, poker, sigaree, a volte un sigaro. Si diceva che fosse stato circa oo mesi in un ospedale giapponese, per ristabilirsi dalla ferita, e che lì avesse “sposato una signorina giapponese”. E adesso era tornato. Una specie di Achab in cerca della sua Balena bianca. Io, nei panni di Ismaele, camminavo cinque o dieci passi dietro di lui, aspeandomi sempre che stesse per succedere qualcosa perché Barnes, come una mosca, fiutava il sangue della guerra. Per quanto fosse un oimo soldato, fu un sollievo quando mi tolse l’incarico di operatore radio. Non so quale sgarro avessi commesso ai suoi occhi, visto che non diceva mai niente; magari semplicemente non gli andava a genio la mia faccia, forse pensavo troppo, e non è il caso di pensare troppo quando il gioco si fa duro. So solo che ero contento di tornare a fare la “punta” o il “fianco” come un soldato semplice qualsiasi. Perché? Perché chiunque conosca la fanteria sa che deve tenere il becco chiuso, svolgere gli incarichi che gli vengono assegnati, lentamente se possibile, non offrirsi mai volontario per niente e non farsi notare in mezzo al resto della truppa. Barnes si portava appresso i guai, era una calamita per gli scontri – e camminare dietro di lui era decisamente pericoloso. Io ero in Vietnam già da see mesi e, con due ferite subite, qualche lezione l’avevo imparata. In realtà, a causa delle ferite riportate ero stato esonerato da ulteriori aività di combaimento ed ero stato inizialmente trasferito dal 25° fanteria nel Sud del Paese a un reparto ausiliario di polizia militare a Saigon, dove facevo la guardia ad alloggi ed edifici tua la noe – un compito
estremamente noioso che poteva diventare mortale in un istante. I sergenti capo (sei galloni e un diamante al centro) erano i veri dèi dell’esercito, quanto di più vicino ai generali avremmo mai visto. Erano militari di carriera, gente di quaranta-cinquant’anni con venti, trent’anni di servizio nella Seconda guerra mondiale e in Corea, molti di loro scassapalle che si guardavano bene dallo scendere in campo e rischiare la vita proprio adesso che erano a un passo da una bella pensione; perciò quasi tui se ne stavano nelle retrovie a svolgere comodi lavori amministrativi, e quando anche tu tornavi alla base ti rompevano il cazzo a seconda del loro livello di stronzaggine. A volte per l’uniforme, per il fucile o per come avevi rifao il leo, a volte il pretesto era la roba, l’alcol o l’aeggiamento. Ma di qualsiasi cosa si traasse, erano prepotenze gratuite. Il mio sergente capo mi aveva pizzicato per come avevo fao lo sbuffo dei pantaloni, non ricordo se dentro o fuori dagli scarponi, per giunta sporchi, e inoltre per avergli risposto. Mi accusò di “infrazione all’articolo 15”, un modo frequente per punire i soldati indisciplinati senza mandarli soo la corte marziale. Immaginando che avrei perso il dibaimento, mi ero quindi offerto volontario per tornare sul campo. Il sergente era stato più che contento di liberarsi di me e in quaro e quar’oo mi avevano spedito a nord nel 1° cavalleria, non lontano dalla zona demilitarizzata tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud, per il resto dei miei quindici mesi di servizio. Il mio rapporto con la razza dei sergenti capo rimase precario fino alla fine. Degli ufficiali non parlo nemmeno perché non li vedevamo quasi mai. I più vicini a noi soldati semplici erano i tenenti di plotone, alcuni buoni, altri caivi, la maggior parte decenti e insignificanti. Il vero boss era il sergente di plotone, come Barnes. A volte avvistavamo un capitano di compagnia, sì, ma la maggior parte degli ufficiali non avevano nulla a che fare con la bolla in cui vivevamo noi. ando la truppa è sparpagliata nella giungla, o magari in una risaia, immaginatevi il tenente o il capitano che sparisce tra il fogliame alla velocità della luce. I maggiori erano rari, distanti, nessuno rivolgeva loro la parola; li vidi soltanto nelle
operazioni in grande stile che coinvolgevano l’intero baaglione, mentre al di sopra del loro grado scorsi forse una o due volte un tenente colonnello o, raro come l’avvistamento di un orso polare o di un’aquila, un generale. Tra l’altro non incrociai mai neanche i tanto favoleggiati corrispondenti di guerra, che preferivano bazzicare i Marines, i quali amavano molto finire sui giornali e se li lavoravano consapevolmente. Il nostro esercito regolare aveva ben poco di fascinoso e raramente era protagonista di articoli che riscuotevano aenzione nel cosiddeo mondo civile. Se il sergente Barnes era un mitico Achille, il sergente Elias era Eore, nobile ma dal destino segnato. Lo avevo conosciuto nella mia unità precedente, la pauglia di ricognizione a lungo raggio (LRRP, i cui componenti erano chiamati lurps). Elias era sergente di squadra, tre V capovolte, niente arco; a un civile sembrerà cosa da poco, ma tra i soufficiali ogni gallone significava differenze di paga e privilegi, e determinava la vita o la morte. Già solo per esperienza, Elias avrebbe dovuto essere uno da quaro galloni, sergente di plotone come Barnes, ma chiaramente era stato pizzicato per chissà quale infrazione. Ce n’erano diversi, di veterani del fronte che erano stati retrocessi di grado. Lo capivi dall’orgoglio di Elias per la sua uniforme sdrucita, le maniche arrotolate e i risvolti, il braccialeo d’argento di faura indiana che portava sul liscio avambraccio, il medaglione buddista indossato sul peo glabro. Come Barnes, era di corporatura compaa e agile, sul metro e seantacinque, con occhi neri intensi e danzanti, pieno di vita come il Jim Morrison raffigurato sulla copertina del primo album dei Doors; di solito non si usa la parola “affascinante” per un uomo ma lui lo era – un affascinante apache proveniente da qualche posto sperduto dell’Arizona, mischiato con sangue spagnolo. Di lui si diceva che nel mondo civile fosse stato dentro, e probabilmente la decisione di arruolarsi era stata fruo di un compromesso con il giudice; era al suo secondo periodo di servizio. Tenete presente che uno come lui poteva meere da parte un bel gruzzolo con la paga da soldato combaente, soldi di cui
aveva senz’altro bisogno: mi era infai arrivata voce che in America avesse un matrimonio fallito e una figlia piccola. Con un passato così tormentato, senza dubbio il futuro di Elias sarebbe stato quello del militare di carriera, sempre che fosse riuscito a resistere per tui e venti gli anni richiesti. Allora sì che avrebbe fao i soldi. Stando a ciò che ho leo, gli apache del Far West erano capaci di cavalcare in cerchio intorno alle giacche blu senza essere visti. Ma la vita nella riserva li aveva sfiancati, come un sistema di oppressione graduale finisce sempre per fare. Nessuno poteva resistere al sistema dell’uomo bianco – al suo scaltro uso del denaro come ricompensa ed esca, tanto da intrappolarci tui dentro un gigantesco disegno di corruzione. Elias adorava uscire in ricognizione. Per i lurps, il rischio era il loro mestiere. I lurps erano quelli che si addentravano nella giungla a piccoli gruppi, dai cinque ai dodici uomini, e tornavano con la notizia che doveva fare la differenza. A volte raggiungevano la valle di A Sâu e si appostavano lungo una pista o su un cocuzzolo da cui osservare i movimenti delle truppe regolari nordvietnamite che scendevano dal Laos o dal Vietnam del Nord lungo il cosiddeo sentiero di Hô Chí Minh. Ma non stava a loro ingaggiare baaglia, i lurps dovevano solo osservare e segnalare, magari chiamare l’artiglieria oppure semplicemente ritirarsi alla chetichella. Alcune delle situazioni da incubo di cui si parlava erano più leggende che eventi realmente accaduti. “Nessuno ne esce vivo,” di solito, era un’affermazione esagerata; il più delle volte non succedeva niente. A ogni modo, come potete immaginare, una volta aggregato al 1° cavalleria nel Nord del Paese ero stato espulso dai lurps per un “problema di aeggiamento”, decisione presa da un altro stronzo sergente capo con un paio di baffi a manubrio troppo grandi per la sua esile, tatuata, brizzolata figura da ubriacone, l’ennesimo pluridecorato da sei galloni che aveva tracannato più whiskey di un malridoo cowboy cinquantenne; lo capivi dalla pancia da spirito affamato che spuntava da una corporatura altrimenti snella, quando ormai
un cervello fradicio di whiskey non è più in grado di digerire né cibo né pensieri. esti erano i tizi che la maina, dopo una sbornia, amavano sfogarsi su un CNA, un “coglione nuovo arrivato”. Avevo avuto modo di conoscere un po’ Elias ed era divertente stargli vicino; sembrava benvoluto da tui, nessuno aveva ariti con lui. Fumava hascisc durante i turni di riposo nelle retrovie, era appassionato di musica e parlava in slang. Se Barnes era duro e concreto, Elias era un divo del cinema. Di Barnes sapevi che sarebbe uscito vivo da quella guerra; del resto, chi poteva ammazzarlo se non ci era riuscito nemmeno un proieile in faccia? Elias invece… tu’altro tipo, tu’altro destino. Molto più vulnerabile, femminile. Mentre con Barnes stavo sulle mie, desideravo essere assegnato alla squadra di Elias, volevo fare bella figura e meermi in mostra ai suoi occhi. Volevo, soprauo, essergli simpatico. Ma a causa di quel sergente capo non ne ebbi la possibilità. Dopo essere stato scaricato dai lurps mi spostai poco lontano, in una squadra del 1° baaglione, 9° reggimento cavalleria, dove conobbi appunto il sergente Barnes, che della squadra era il boss assoluto. E proprio lì, circa un mese dopo, venni a saperlo. La notizia arrivò senza clamore, come sentire alla radio il punteggio di una partita di baseball: il sergente Elias dei lurps era rimasto ucciso durante una ricognizione. Gli era successo qualcosa di stupido, persino di umiliante. Una granata esplosa accidentalmente. La dinamica non era chiara ma era stato uno dei nostri, nemmeno un’imboscata o uno scontro a fuoco. alcosa di ridicolmente stupido. Un brav’uomo come Elias “seccato” per errore. Mio Dio, arrivai addiriura a immaginare che l’errore fosse stato commesso da quello stronzo di sergente capo che ce l’aveva con me: magari aveva approfiato di una missione semplice per raggiungere la quota di azione sul campo che gli era richiesta, e aveva fao detonare una granata per sbaglio. Ma che cosa sapevo in realtà dell’accaduto, al di là dei pregiudizi contro i sergenti capo? Cercai di scoprirlo, ma oenere la verità in
una guerra è quasi impossibile. E decifrare i rapporti ufficiali, se mai riesci a meerci sopra le mani, è impossibile. Scoppia una sparatoria nella giungla, e all’inizio non sai chi stia sparando, se i tuoi o il nemico, né da dove arrivino gli spari, e per la mancanza di punti di riferimento non sai nemmeno dove si trovino i tuoi commilitoni, ci sono solo gli spari, il fumo e le grida alla radio; ciononostante, in numerose di queste occasioni ti rendi conto di essere sulla traieoria dei proieili che i tuoi stanno sparando verso il presunto nemico. Non è una sensazione divertente. La morte arriva a trecentosessanta gradi, da tue le direzioni. Nessuno nella mia nuova unità, compreso Barnes, conosceva il sergente Elias. Solo io, e questo accentuava il mio dolore. Conoscevo lo spessore umano di Elias ma non avevo nessuno con cui condividerlo. E con il tempo, con l’accavallarsi degli eventi, la storia di Elias divenne uno dei tanti ramei in un nido di ricordi. Altreanto ingiusto era il fao che nelle varie unità gli spostamenti e le sostituzioni con i nuovi arrivi fossero frequenti, così che finivamo per perderci di vista. Forse far sì che i rapporti tra commilitoni restassero anonimi e superficiali era una strategia ben precisa, per mitigare gli effei negativi che una morte avrebbe avuto sul morale della truppa, ma in qualche modo le notizie circolavano grazie alla cosiddea radio anfibio. Io non credei mai alla negligenza di cui si parlava a proposito della morte di Elias. Fin dall’inizio ebbi la sensazione che dovesse essere successo qualcosa di più grave. Visto che eravamo vicini, cercai di raggiungere la mia vecchia unità dei lurps per fare qualche domanda, ma occasioni del genere erano rare quando eravamo in un campo base. Diciassee anni dopo, nel 1985, visitai il muro dei caduti del Vietnam appena ereo a Washington e lì ritrovai Elias. Esisteva davvero, non ero pazzo. Il nome inciso nella pietra era Juan Angel Elias, Stato dell’Arizona. Poi, dopo aver usato il suo vero nome nel mio Platoon per rendergli onore e averlo citato in diverse interviste, un’ulteriore conferma fu la leera che mi scrisse sua figlia: venne addiriura a trovarmi a Los
Angeles, per tentar di scoprire chi fosse stato suo padre, perché lei di certo non lo sapeva. Non lo sapevo neanch’io e non le fui di grande aiuto. Aveva perso il padre quando era ancora una bambina e adesso era una persona fragile, che faceva fatica ad affrontare la vita. Lui era così giovane, come tui noi all’epoca. E sì, erano moltissimi i reduci o le famiglie di reduci con le sue stesse difficoltà. È la guerra che genera questi problemi. Pare che sua madre avesse avuto un matrimonio tempestoso con Elias, al quale erano capitati un mucchio di guai – la legge, sempre “la legge” in America. Essendo cresciuto a New York, un tempo detestavo la profusione di telefilm polizieschi trasmessi in televisione, ma oggi mi rendo conto che la legge, lo sceriffo, il senso di una giustizia di frontiera sono congeniti allo spirito americano, tanto fondamentali per la nostra mentalità quanto il bisogno di possedere un’arma. Lasciate perdere il conceo di classe sociale: la maggior parte degli americani conoscono che cos’è la galera e che cos’è “la legge” meglio di quanto conoscano la scuola. La gente in America si caccia nei guai; è così che va, poi diventa una canzone alla chitarra. Elias aveva sfidato la sorte fin dall’inizio – troppo spirito libero in lui. E Barnes, a modo suo, era lo sceriffo che avrebbe dispensato quella giustizia di frontiera. E se Barnes ed Elias fossero stati nello stesso plotone? L’ipotesi stuzzicava la mia fantasia. Sarebbero stati i due animali alfa di questo plotone immaginario; entrambi, come nella vita vera, erano calamite sessuali che cauravano lo sguardo. La storia avrebbe avuto un forte dualismo di fondo nel quale io, nei panni del nuovo arrivato Chris Taylor, mi sarei sentito airare verso i due poli opposti del mio caraere: il forte, realistico aeggiamento mascolino di mio padre rappresentato da Barnes, in conflio con lo spirito ribelle di mia madre rappresentato da Elias. La prospeiva mi incuriosiva. E se fosse finita con uno dei due che annientava l’altro, come Achille aveva fao con Eore? Con il procedere della scriura, i ricordi si ampliavano e cominciai a comprendere la mia esperienza in Vietnam a un
livello più profondo. La nostra era stata la baaglia tra l’uomo e il proprio degrado in un sistema che imponeva a ogni soldato di mentire – ossia, in un certo senso, di disonorarsi. La guerra del Vietnam era stata una delle tante manifestazioni di quella Menzogna che avevo toccato con mano per la prima volta durante il divorzio dei miei genitori. Erano tre le menzogne che vedevo nel Vietnam. La prima era il cosiddeo fuoco amico, che aveva ucciso un uomo che avevo ammirato e trovato piacevole: il sergente Elias. Per come le regole lo definivano, il fuoco amico era la morte provocata dalle nostre stesse armi: bombe, proieili di artiglieria, fucili, e lanciagranate M79 negli scontri ravvicinati. Includeva anche “incidenti” all’ordine del giorno: elicoeri d’assalto che aprivano il fuoco contro di noi; coordinate di artiglieria sbagliate di pochi gradi nel fio della giungla; un F4 Phantom che volava a bassa quota e a grande velocità seguendo coordinate in continua variazione; addiriura qualcuno che non distingueva la destra dalla sinistra e direzionava la sua mina Claymore verso l’interno anziché l’esterno col risultato che non faceva saltare in aria qualche vietcong ma riduceva in poltiglia se stesso quando gli esplodeva in faccia. Il Pentagono, che anni dopo avrebbe rifiutato l’assistenza tecnica da noi richiesta per le riprese di Platoon (definendo la sceneggiatura una falsificazione e distorsione della vita soo le armi), non ne parla molto, ma secondo me è possibile che il fuoco amico abbia ucciso e ferito almeno il 15 per cento dei nostri ragazzi in Vietnam, probabilmente di più. L’esercito lo ha eliminato il più possibile dai dati ufficiali e dai film di Hollywood, per evitare che migliaia di poveri genitori o mogli restino turbati dal fao che ai loro cari sia toccata in sorte una morte così stupida. Immaginate: il 15 per cento dei morti sul campo in Vietnam corrisponde a quasi novemila persone; senza contare i trecentomila feriti, seantacinquemila dei quali gravemente invalidi. Nell’appassionato memoir di Ron Kovic, Nato il quaro luglio, un toccante capitolo è dedicato all’episodio in cui Kovic uccide per errore uno dei suoi commilitoni. L’ufficiale dei
Marines rifiuta la sua dichiarazione di colpevolezza e l’episodio si trasforma per Ron in un gigantesco senso di colpa, che sostanzialmente lo spingerà a immolarsi in sacrificio, tanto da finire prigioniero di una sedia a rotelle per il resto della sua tormentata vita. Non ne ho la certezza neanch’io, ma sono sicuro al 75 per cento che all’inizio del mio periodo di servizio un ineo sergente di squadra del 25° fanteria rischiò di uccidermi nella mia prima imboscata nourna, quando sbadatamente lanciò la sua granata vicino alla mia postazione, e lo scoppio mi fece perdere i sensi. Posso dirmi molto fortunato ad averla scampata. Pochi centimetri più vicino e i frammenti mi avrebbero trapassato il cervello. Sono episodi, ripeto, all’ordine del giorno, a mio avviso uno dei grandi temi tenuti segreti della guerra moderna. La seconda menzogna riguardava le morti provocate tra la popolazione civile, soprauo con artiglieria e bombardamenti, ma anche in seguito ad azioni di fanteria. Eravamo incuranti. Il massacro di My˜ Lai nel marzo del 1968 aveva decimato diversi villaggi provocando la morte di oltre cinquecento civili – senza che fosse stato sparato un solo proieile nemico. Venimmo a saperlo, e sapevamo che la strage era fruo della frustrazione per la continua perdita di uomini sui campi minati e la sensazione di combaere un nemico invisibile. Nemico che, nella mente di molti soldati, era quindi sostituito dagli abitanti dei villaggi. Nel corso dell’estate del ’68 la situazione si fece via via più grave. Tra una missione e l’altra nella fia vegetazione della valle di A Sâu, conducevamo anche ricognizioni e missioni “stana e distruggi” ai danni dei villaggi disseminati lungo la costa, nelle province di aảng Trị e ùa iên-Huê. Eravamo quasi sempre arrabbiati, perché i sergenti ci ordinavano di cercare i vietcong nelle buche, nei pozzi, nei rifugi, e non sapevi mai cosa cazzo poteva esserci là soo, se ti sarebbe esploso in faccia qualcosa. “Fuori! Uscite fuori, cazzo!” gridavi in quegli anfrai, e a volte ne sbucavano uno o due contadini, terrorizzati. Poi in tuo il villaggio trovavi armi, anche da fuoco, e scorte di riso. Perciò odiavi i civili, perché
sentivi che stavano dalla parte degli altri, del nemico. Io provavo anche pena per quei contadini, conoscendo le pressioni che subivano dai vietcong. Non sapevo, invece, quali fossero le loro reali simpatie politiche; non credo che ne avessero, la maggior parte di loro. Erano interessati soltanto alla sopravvivenza, come noi. Una volta, nei dintorni di un villaggio, notammo un’anziana signora che si allontanava lungo il sentiero. Un soldato, di caivo umore e solo per il gusto di romperle le scatole, si mise a urlare: “Ehi, muso giallo, vieni qua. Ehi, tu – didi, nonna! Porta qua il tuo culo!” La donna forse non aveva sentito, oppure non voleva girarsi perché era spaventata. Perciò continuò a camminare, per pochi passi. Pochi perché il soldato non aveva intenzione di chiederglielo un’altra volta: puntò l’M16 e… bang, bang, bang. Senza tanti complimenti. La donna non aveva obbedito all’ordine. Con un ufficiale nei paraggi, o anche solo il suo sergente, non lo avrebbe fao. Eppure successe. Una volta anch’io andai vicino a perdere la testa. Era un giorno di sole torrido e accecante e non ne potevo più di contadini vietnamiti che protestavano, negavano, piagnucolavano, ci mentivano, ci nascondevano le cose. Ero stufo di tuo: del ruolo che giocavamo noi, della loro lingua, del loro odore, della loro rabbia nei nostri confronti… e in me si mescolarono collera e paura. ando un vecchio contadino ostinato cominciò a inveire contro di me in segno di accusa, scaai. Sparai diversi colpi intorno ai suoi piedi, urlandogli: “Zio e balla, figlio di puana! Chiudi quella boccaccia!” Avrei voluto ucciderlo, e avrei potuto farlo senza pagarne le conseguenze. Eravamo sparpagliati a gruppei, con me c’erano altri due o tre commilitoni, nessun sergente. Gli altri erano impegnati a perlustrare il resto del villaggio. Ma non lo uccisi; fu il più soile dei confini a impedirmelo, il più esile filo di umanità in me a non spezzarsi. In un altro villaggio mi capitò di separare tre soldati dalle due ragazzine vietnamite che stavano molestando; la tensione stava per sfociare in un goffo stupro. Alcuni uomini del
plotone mi rimproverarono per il mio intervento. Un’altra volta, un dicioenne brufoloso del nostro gruppo si vantò a bassa voce di aver ucciso qualcuno; aveva sfondato la testa a una vecchia con il calcio dell’M16, poi ne aveva bruciato la capanna per cancellare le tracce del delio. Non lo aveva visto nessuno perché le casupole del villaggio erano distanti una dall’altra; il ragazzo era uno stupido arrogante e nessuno lo prese sul serio, ma chissà cosa aveva fao davvero? Vedete, era una specie di gioco riuscire a far loro la festa senza essere beccati; alcuni dei soldati erano come bambini dispeosi armati di fucile che combinavano marachelle sperando di passarla liscia – fino a questo punto arrivava la follia. Era un continuo spintonarli, malmenarli, traarli come esseri inferiori, come bestie. Ci comportavamo da bulli. Tanto, in un villaggio sparso su un raggio di diverse centinaia di metri non c’era modo di sapere cosa succedesse. Un giorno di quella stessa estate divenni ufficialmente un assassino quando cademmo in un piccolo, feroce agguato nei dintorni di un villaggio, in una zona litoranea a due passi dall’oceano; perdemmo un tenente e un sergente oltre al nostro cane esploratore, un pastore tedesco al quale mi ero molto affezionato. Fu uno di quegli strani scontri a fuoco che nascevano con qualche colpo a casaccio e si trasformavano in una tempesta di palloole. Gli uomini di due plotoni stavano coprendo una distanza di un centinaio di metri, disorientati dalle indicazioni che arrivavano via radio, quando all’improvviso ci furono altri spari dall’interno delle nostre posizioni, motivo di ulteriore disorientamento. Era una situazione di grave pericolo e sarebbe stata una catastrofe se avessimo cominciato a spararci fra di noi; sapevamo che il nemico a volte studiava le imboscate in modo da oenere proprio questo. Io non avevo l’obbligo di fare niente se non tenere la testa giù e aspeare che la situazione si risolvesse da sola, eppure sentivo di dover affrontare l’impasse in prima persona, altrimenti non lo avrebbe fao nessuno e sarebbe stato un disastro. Forse ero molto arrabbiato per la morte di quel cane polizioo, o per l’inutilità di tuo quanto, o forse, come scrive Camus, avevo solo un po’ di mal di testa e il
riflesso del sole mi stava bruciando gli occhi. Chi cazzo le sa, certe cose? Una cosa sola sapevo: che era il mio momento per agire, e che se non l’avessi fao… Uscendo allo scoperto, corsi verso una piccola buca da appostamento al riparo della quale sentivo che qualcuno aveva sparato. Senza pensarci due volte, da una quindicina di metri lanciai la mia granata nella fenditura. Una scelta rischiosa, perché se avessi lanciato troppo lungo avrei potuto facilmente ferire o uccidere qualcuno dei nostri appiaati dieci metri al di là della buca, indecisi sul da farsi. Ma la mia parabola fu perfea e la granata finì nella fenditura come il lancio di un giocatore di baseball drio nel guantone del ricevitore – subito seguita dal boo autito dell’esplosione. Wow. Ce l’avevo faa! Mi avvicinai con cautela, pensando che l’altro potesse essere ancora vivo, ma quando guardai nella fenditura vidi l’uomo maciullato, dilaniato, morto stecchito. Mi sentii soddisfao. Avevo addiriura visto con i miei occhi l’uomo che avevo ucciso, cosa rara in quella guerra nella giungla. Ero orgoglioso. Anche Barnes sarebbe stato orgoglioso di me, se fosse stato presente. La sua efficienza militare adesso era anche mia. La decina di soldati che avevano assistito alla scena erano sbalorditi e riconoscenti. In un modo o nell’altro la voce si sparse e una seimana dopo rimasi di stucco quando il tenente mi disse che avrei ricevuto la stella di bronzo. Per cosa? Per aver fao quello che era solo il mio dovere – e che in verità, nella concitazione della baaglia, molti non facevano. A ogni modo, avevo evitato una possibile carneficina. La mia descrizione dell’episodio può apparire fredda ma non lo è affao: mi porterò dietro quel momento fino all’ultimo dei miei giorni, lo rivedo in continuazione davanti a me. Perché? Non lo so. Non provo senso di colpa. Lui è morto. Io sono vivo. È così che funziona. Tui siamo interscambiabili; se non in questa vita, in un altro tempo e in un altro luogo. Puoi farla franca con le viime del fuoco amico, puoi farla franca con le uccisioni di civili, ma la terza menzogna – affermare che stai vincendo una guerra che invece stai
perdendo – era troppo grossa per poterla nascondere. Ripenso all’aacco nemico la noe del primo gennaio 1968. Persino dal nostro livello di soldati semplici, ci rendevamo conto di aver subìto, a pochi chilometri dal confine cambogiano, un “sondaggio esplorativo” da parte di un reggimento (due-tremila uomini) dell’esercito nordvietnamita in marcia verso Saigon. Il “sondaggio”, secondo il rapporto ufficiale del Pentagono, era arrivato apparentemente in tre ondate: dopo un primo aacco di mortaio alle 23.30, un’ondata successiva all’una di noe aveva penetrato il perimetro e una terza si era conclusa alle 5.15. Ripeto, in fanteria non ti dicono mai un cazzo, ma questa la vidi con i miei occhi. Contammo circa quarocento morti fra le truppe nordvietnamite, che seppellimmo in fosse comuni. Bisognava farsi qualche domanda: perché prima di allora l’esercito nordvietnamita non avesse mai sprecato uomini in aacchi frontali di quell’entità contro un baaglione americano armato fino ai denti. Ormai da seimane, le nostre pauglie trovavano scorte di riso, armi, persino mappe con piani da cui si poteva dedurre che fosse in corso un’operazione in grande stile. este informazioni furono trasmesse dagli agenti segreti americani al comando per l’assistenza militare di Saigon, direo allora dal generale Westmoreland. Chi si occupò di esaminare questo tesoro di notizie? Interpreti? Traduori? Chi aveva la capacità di vedere il quadro complessivo? Di certo non la CIA, che di fao era quella che deava la linea ai nostri generali. Anziché prepararci per tempo a fronteggiare quello che si rivelò un gigantesco aacco a tue le maggiori cià del Sud del Paese, che cosa facemmo? Be’, si sparse la voce che Westmoreland fosse venuto di persona a visitare il campo della nostra baaglia di Capodanno, un paio di giorni dopo che la mia compagnia era stata riportata al campo base. Westmoreland era un militare dall’aspeo solenne, un metro e novanta di altezza, uniforme impeccabile, capelli brizzolati tagliati a spazzola; probabilmente avrebbe potuto candidarsi alla presidenza del Paese. Ma buon Dio, aveva lo
sguardo più stupido del mondo, lo stesso che avevo visto negli occhi di tanti altri ufficiali da sei o see galloni. Era imponente, non c’è dubbio, sapeva parlare meglio di altri, ma cosa disse quando venne sul campo? Ouso quanto i generali francesi della Prima guerra mondiale, Westmoreland non sembrava interessato alle conclusioni che si sarebbero potute trarre dalla baaglia di quella noe, e invece si concentrò sulla trasandatezza delle uniformi e sui capelli troppo lunghi della truppa. Il 25°, in quel periodo, si portava appresso una dubbia reputazione dovuta al gran numero di matricole appena arrivate in sostituzione di soldati più esperti, per esempio nel 4° e nel 1° fanteria. Ma la verità era che stavamo in mezzo alla boscaglia da un mucchio di tempo, molti di noi quasi di continuo dal seembre precedente, e avevamo constatato una costante crescita dei movimenti di truppe nemiche in direzione sud ed est. Perché Westmoreland non prestava maggiore aenzione a questo? Perché i rifleori della stampa erano tui concentrati sui Marines più a nord, impegnati a difendersi dall’assedio della base di Khe Sanh che, per quanto tragico, era in realtà solo un diversivo (l’esercito nordvietnamita non portò nemmeno un aacco frontale)? Il vero colpo del KO arrivò invece a Saigon, nel Sud del Paese. Azione classica: finta col sinistro, colpisci col destro; questo fecero i vietnamiti, come in seguito avrebbe confermato il loro brillante comandante, il generale Giáp, il cui obieivo era quello di dividere il Paese in due all’altezza della capitale del Vietnam del Sud. A ogni modo, quando intere divisioni di truppe nordvietnamite si materializzarono per la cosiddea offensiva del Têt alla fine di gennaio, in numero molto maggiore di quanto avessimo stimato, e poi di nuovo per una seconda, ridoa offensiva in aprile, tui avemmo la certezza che gli alti papaveri ci stavano raccontando grandi balle. Era tua una comunicazione farlocca: il numero degli uccisi gonfiato; la fiducia incrollabile nel fao che il nostro strapotere tecnologico avrebbe trionfato, solo stronzate. Tui quei bombardamenti… per niente! Stavamo perdendo perché non stavamo vincendo; come puoi pensare di trasferire un’intera
popolazione contadina su nuove terre in villaggi artificiali senza il minimo rispeo per la storia e la tradizione? Così come era impensabile far arrivare basi militari grandi quanto Las Vegas, con gli spacci pieni dei più recenti prodoi materiali e tui i dollari che essi rappresentavano, in un Paese estremamente povero senza distruggere i valori dei nostri cosiddei collaboratori vietnamiti. Come potevano, loro, non fingere di amare gli americani e i loro soldi – “Viva gli yankee! Abbasso i vietcong!” ante prostitute conobbi che mi dissero queste panzane, ma dentro di te sapevi che persino la più sordida puana da mercato nero, egoista, meschina, piena di odio vendicativo verso i maschi, aveva comunque un sussulto nel cuore per il proprio Paese e per Hô Chí Minh in quanto combaente per l’indipendenza. Sì, molte di loro andavano a caccia del soldo facile o di un matrimonio con un americano, ma tue sapevano che gli yankee non sarebbero rimasti in Vietnam per sempre; erano i vietnamiti che sarebbero rimasti in Vietnam. La resa dei conti si avvicinava e gli americani non sarebbero stati lì a salvarle. La stessa cosa che sarebbe successa in Iraq, in Afghanistan, ovunque abbiamo occupato un Paese. Non c’era fiducia in noi, e perché mai avrebbe dovuto esserci? A ogni modo, in quel 1968 la guerra di Westmoreland stava andando a rotoli. Già in marzo il presidente Lyndon Johnson l’aveva azzoppata annunciando che non si sarebbe ripresentato alle elezioni. Pensate che i soldati siano talmente stupidi da rischiare la vita quando il comandante in capo se la dà a gambe? E poi in aprile, meno di un mese dopo, Martin Luther King fu assassinato a Memphis e i neri riversarono la loro rabbia sui bianchi tanto in patria quanto nei plotoni sui campi di baaglia. Meno di due mesi più tardi, Robert Kennedy fu assassinato in un altro assurdo scenario di protezione inadeguata e insabbiamenti di Stato, e l’America andò davvero a fuoco. In estate scoppiarono rivolte, polizioi che prendevano a manganellate neri e ragazzi, l’invocazione di ordine e legalità – il Paese che si spaccava. Contemporaneamente, il disgusto per le nuove libertà abbracciate dalla generazione anni Sessanta generava una
reazione conservatrice, la mentalità “se non ti piace, vaene” della cultura redneck. Echi di Barnes contro Elias. Ci stavamo portando in casa quella stessa guerra civile che avevamo contribuito a scatenare in Vietnam. La radice del fallimento era la menzogna insita nella nostra cultura. O forse il gusto americano per l’esagerazione. Nei rapporti di guerra come nei film, rendevamo tuo più grande di quello che era – contando, per esempio, i civili come soldati per gonfiare i dati sui nemici uccisi, o stilando rapporti di baaglia che rendevano epiche operazioni assolutamente ordinarie. Non dico che in Vietnam non ci furono ai di eroismo fuori dal comune, ma erano ben più rari di quanto i piazzisti della stampa e del Pentagono avrebbero voluto farci credere. Non avendo patito nella Seconda guerra mondiale un numero di morti paragonabile a quello dei tedeschi, dei russi e dei giapponesi, noi americani non abbiamo idea dell’ordine di grandezza di un vero disastro. La maggior parte dei generali che hanno scalato le gerarchie del Pentagono sono tipi duri, certo, dalla personalità competitiva, ma anche espressione di una mentalità convenzionale, priva di originalità; è molto più facile seguire la corrente che meere in discussione ciò che stiamo facendo e perché. esti professionisti, affamati come sono di promozioni, di “azione”, non vedono l’ora di gonfiare e strombazzare qualsiasi rischio trasformandolo in una “grave minaccia” alla nazione. Chi non esagera la propria importanza, specie se ne deriva un vantaggio per il portafogli? Ma da questa megalomania individuale discende poi la follia della “sicurezza nazionale” per cui si stanziano oltre seecento miliardi di dollari per l’esercito, così da evitare che ci succeda qualcosa di bruo. Eppure ciascuno di noi sa, dalla propria esperienza di vita, che non funziona così. Non puoi assicurarti contro un timore, perché più cerchi di farlo, più diventi timoroso e insicuro. Il risultato è una forma di pazzia, la ricerca della sicurezza assoluta in un mondo dove la sicurezza non può mai, per nessun individuo, essere garantita. L’ipocrisia – e con essa il degrado morale – mi disgustava allora come mi disgusta oggi, il che è una delle
ragioni per le quali sono finito in così tanti guai, negli anni, per aver criticato il nostro stile di vita. Perché mentendo a noi stessi abbiamo finito per disorientare l’uomo della strada, che teme di ritrovarsi i terroristi annidati soo la graticola del barbecue, o che la Russia aenti alla nostra “democrazia” con subdole forme di guerra ibrida, o che l’economia cinese ci rubi il pane di bocca con le sue bacchee. Nei miei oltre seant’anni di vita dal 1946 a oggi, il coro delle stronzate usate per alimentare la paura non è mai cessato – semmai si è fao più assordante. Siamo noi a fare la parte dei fessi. Siamo noi i pagliacci. Ahahah. Mi resi conto di avere una storia da raccontare. Io non ero affao un eroe. Avevo messo a dormire la mia coscienza. Lo aveva fao tuo il mio Paese, la nostra società. Ma se almeno fossi riuscito a riferire la verità di ciò che avevo visto, sarebbe stato meglio di… di cosa? Meglio di niente, meglio del vuoto di una guerra e di un insensato spreco di vite umane mentre la nostra società si riempiva di cera le orecchie. Ulisse si era fao legare all’albero della nave per preservare la sanità di mente, perché voleva a tui i costi sentire il canto delle sirene, e ricordarlo. Io, che ero stato onorato per il servizio reso al mio Paese, in verità mi ero insudiciato quando invece avrei potuto resistere, esiliarmi, andare in carcere come avevano fao i Berrigan, gli Spock e duecentomila altri pacifisti. Ero giovane, certo, e oggi posso dire di essere stato uno sprovveduto, di aver partecipato anch’io all’incoscienza dell’America. Aprii gli occhi solo a trent’anni, nel 1976. Non ero il ragazzo che pensavo di essere. In realtà ero figlio di due padri, Barnes ed Elias, che rappresentavano i due poli opposti di una guerra che aveva spaccato gli Stati Uniti. Ero incupito. Laggiù una parte di me si era intorpidita… era morta in Vietnam, assassinata. La mia storia avrebbe parlato delle menzogne e dei crimini di guerra, commessi non da un particolare plotone ma, in spirito, da ogni singola unità. Nello specifico della mia sceneggiatura, il crimine si sarebbe svolto in un villaggio dove il sergente responsabile, Barnes, uccideva
una donna convinto che tui gli abitanti stessero dando man forte al nemico per annientare i suoi uomini. L’altro sergente, Elias, inferiore in grado, gli si sarebbe scagliato addosso e avrebbe opposto resistenza. est’uomo sarebbe rimasto fedele al proprio onore e alla propria integrità, all’imperativo di non ammazzare i civili coinvolti loro malgrado nel conflio. Avrebbe preso l’altra strada e avrebbe deciso di accusare Barnes di crimini di guerra. In un momento intimo e personale, Elias avrebbe rivelato i propri sentimenti a Chris Taylor nella buca scavata per la noe. “L’America le ha suonate a tanta di quella gente che secondo me è arrivato il momento che le suonino a noi. Tuo qui.” Avrebbe parlato di “politici che ci vendono l’ennesima guerra di seconda mano” e avrebbe deo che stava ai reduci, a quelli come noi, ricordare e non dimenticare mai: “Ecco perché i sopravvissuti ricordano. Perché i morti gli impediscono di dimenticare.” Ed ecco perché Elias, nella mia idea, sarebbe stato fra quelli che morivano. Lo avremmo sacrificato perché era ciò che rimaneva di un’America buona. L’America somigliava più a Barnes che a Elias e, con la sua subdola astuzia e il suo istinto animale per la sopravvivenza, Barnes avrebbe ucciso il suo nemico mortale nascondendosi dietro un incidente, dietro il fuoco amico. Se non l’avesse ucciso sarebbe andato a processo, sarebbe stato espulso dall’esercito, la sua carriera militare distrua dalle accuse di Elias. Credo che, a dire la verità, molti speatori americani sarebbero stati d’accordo con Barnes. Ammazziamo gli spioni! Sono traditori, minano la nostra causa. Nella baaglia realmente accaduta, come ho deo, avevo marciato per tua quell’incredibile noe senza mai vedere il nemico. Nel film, facevo fare al mio alter ego Chris Taylor una cosa orribile ma onorevole. Avrebbe visto Barnes uccidere Elias e ne avrebbe sofferto amaramente. Approfiando della baaglia nourna come copertura, avrebbe vendicato il fantasma tradito di Elias uccidendo un Barnes già gravemente ferito che, ridoo al suo più basso stato animale, striscia nel fango insanguinato della giungla
implorando la morte. Taylor avrebbe premuto il grilleo e, ponendo fine alle sue sofferenze, avrebbe fao alla Bestia un ultimo, grande favore. O forse non lo avrebbe finito? Non doveva farlo? Chris Taylor non doveva uccidere Barnes? Doveva allontanarsi e lasciare nei tormenti la sua anima turpe? In un film il buono non deve mai abbassarsi al livello del caivo, mai. È una regola insita nella drammaturgia teatrale e, più visceralmente, nel sangue del cinema. A ogni modo, nella sceneggiatura mi lasciai aperte entrambe le scelte. E quando, dieci anni più tardi, arrivò il momento di girare il film e montarlo, feci quello che mi imponeva la brutalità dentro di me. Lo uccisi. Uccisi quel bastardo perché volevo così. Perché? Perché, come ho già deo, quella guerra aveva avvelenato anche me. Perché in me c’era anche un pezzo di Barnes. Credo che la mia decisione sconvolse più di uno speatore, quando il film vide finalmente la luce nel 1986. Furono scrie leere che chiedevano la mia imputazione come criminale di guerra. La verità, anche se pochi di coloro che avevano combauto erano disposti ad ammeerla, era che il Vietnam ci aveva corroi tui. Che avessimo ucciso o no, avevamo fao parte di una macchina talmente immorale da bombardare, avvelenare, distruggere con il napalm quel Paese da cima a fondo, pur sapendo tui che non era una vera guerra per difendere la nostra patria. Nessun americano intelleualmente onesto avrebbe più potuto guardarsi allo specchio e affermare che era stata una guerra paragonabile a quella contro il nazifascismo tedesco e l’imperialismo giapponese nella Seconda guerra mondiale. Volevo che il pubblico provasse la stessa vergogna che provavo io, e che avrebbero dovuto provare tui – gli autieri, il personale amministrativo delle retrovie e, sì, anche i civili in quanto contribuenti – per aver partecipato a quella guerra come Paese. Aver lasciato il Vietnam, il Laos e la Cambogia in rovina, con mine e sostanze tossiche ovunque, quaro o cinque milioni di morti, centinaia di migliaia di invalidi e intossicati, un numero incalcolabile di profughi, non
configurava forse un vero e proprio olocausto perpetrato grazie alla potenza di fuoco americana? Nonostante i grandi successi oenuti dal mio Paese – spirito di iniziativa, progresso, una relativa integrazione sociale e razziale, e potrei ovviamente continuare – e nonostante gli americani si siano più e più volte convinti di tale grandezza, c’è un’ombra sinistra che si aggira ancora ai margini della cià, nelle noi insonni. Finii la prima versione della sceneggiatura in poche seimane. Sapevo che era un buon testo, solido, forse tra le cose migliori che avevo scrio fino ad allora. Forse era addiriura il mitico fiore di loto spuntato dal fango e dalla merda di quella orribile guerra. Ma ormai ero abbastanza realista da sapere che non sarebbe stato facile piazzarla. Non c’erano precedenti di film sul Vietnam girati dal punto di vista del soldato di fanteria, e per giunta quella del Vietnam era una guerra estremamente impopolare, una spina nel fianco per l’immaginario americano. Nessuno, ero stato indoo a credere, voleva approfondire l’argomento. Non ero affao oimista. Poco dopo aver finito la bozza, mia madre telefonò dalla Francia per dirmi che la mia adorata nonna, Mémé, alla quale avevo indirizzato le mie leere dal Vietnam, era morta tra le sue braccia, a Parigi, all’età di oantaquaro anni. Potevo venire subito per il funerale? Il viaggio me lo avrebbe pagato mio padre. Al funerale mancavano solo tre giorni quando, un livido pomeriggio in una strada tranquilla dei sobborghi di Parigi, mi avvicinai al palazzo di inizio novecento dove Mémé si era trasferita dopo essere rimasta vedova. Che strana sensazione. I morti mi chiamavano dal passato – prima dal Vietnam, ora dalla Francia. Mi venne in mente Ulisse che discende nell’Ade per ricevere da Tiresia la profezia sul suo ritorno a Itaca e lì riconosce la madre Anticlea che, come le altre ombre, si avvicina per bere il sangue degli animali sacrificati dallo stesso Ulisse per raggiungere il regno dei morti.
Salii le più cigolanti delle scale e scambiai poche parole con una lugubre vicina con i baffi che si era presa l’incarico di soprintendere alle visite dei parenti. el pomeriggio c’ero solo io. L’appartamento puzzava di chiuso, pieno di cianfrusaglie e foto di una vita che risaliva alla fine dell’Oocento. Imboccai l’angusto e buio corridoio che conduceva alla sobria camera da leo. Un crocifisso era appeso alla parete sopra il leo dove era distesa. Fu ugualmente uno shock; i morti che avevo visto avevano espressioni violente, Mémé invece era in pace, come se ascoltasse e osservasse; era una presenza nella stanza, senza dubbio, immobile come un oracolo, la sua aenzione palpabile nell’aria come se ci fosse qualcun altro, oltre a me, ad ascoltare il ticcheio dell’orologio sulla mensola del camino. Ai morti chiudono gli occhi, ma tu ti aspei quasi che dopo un po’ li riaprano; di una persona in vita ricordi sempre gli occhi. Ripensai a quella scena di Ultimo tango a Parigi in cui Marlon Brando, seduto accanto al leo di morte della moglie, si adira con lei, insultando il suo ricordo. I film a volte sono d’aiuto, ma non in questo caso. Avvicinai la sedia per starle più vicino, come quando ero piccolo, coccolato nel suo grande leo mentre ascoltavo le storie dei lupi di Parigi che si calavano dai camini per portare via i bambini caivi. Tra tui i nipoti, mi aveva sempre predileo perché ero l’américain, e allora di nascosto mi dava qualche franco o qualche cioccolatino in più dalla scorta del suo enorme comò. Sapevo che Mémé mi perdonava praticamente tuo e che i miei cugini erano invidiosi della nostra intimità. arant’anni con il suo adorato Pépé, sposati dal 1918 fino alla morte di lui nel 1958, due guerre atroci vissute da entrambi: eppure mia nonna non si lamentava mai né si aspeava dalla vita più dell’essenziale – e un po’ d’amore. La Grande guerra aveva falcidiato tanti uomini di quella generazione che stare alla presenza della vecchia Francia di Mémé e Pépé ti faceva venire i brividi. Per mia madre, il primo dopoguerra aveva preso il significato del divertimento
a tui i costi, mentre Mémé era sempre rimasta aaccata al senso del dovere. Eppure le veniva naturale perdonare la figlia, come perdonava me. Per Mémé, la famiglia era tuo. Rimasi a lungo in quella camera. Calò il silenzio della morte, poi la luce oobrina cominciò a declinare. Nessun altro bussò o venne in visita. C’ero solo io. E tu, Mémé – e quel qualcosa in mezzo a noi, che ascoltava. Non erano passati molti anni da quando ne avevo ventitré. Eri stata così contenta quando ero tornato sano e salvo dal Vietnam. Avevo cercato di pagare il mio debito verso la società. Tui ne abbiamo uno, non viviamo solo per noi stessi. Eppure mi sentivo ancora a disagio, e Mémé anche. Che c’entrava il Vietnam col salvare la nostra civiltà se quella guerra non aveva fao altro che rendere il mondo ancora più insensibile? Non mi avevi mai chiesto una spiegazione. Tre guerre nella tua vita… E l’esperimento americano? Era iniziato così bene. Che cosa è andato storto con questa generazione? Tu e Pépé siete rimasti sempre uniti. Adesso invece il mondo impazzisce per il troppo – sesso, automobili, TV, soldi; le persone sono viziate, infelici, come topi che affogano insieme alla nave dei loro desideri. Non ci sono più scuse, è troppo tardi. Tua figlia, ormai divorziata, che vive in balia delle onde, senza un compagno vero e proprio, ha davvero raggiunto, alla fine, l’agognata indipendenza? E il suo unico figlio? Io sono sopravvissuto al Vietnam, sì, ma sto annaspando. Ormai ho trent’anni. Sono tornato a casa da see e vedo la mia vita araverso gli occhi di mio padre – che sono ancora i miei occhi – e non ho combinato niente, non ho realizzato niente. Perciò sono niente. Nell’ultimo decennio ho streo diversi pai con il tempo – come se il tempo stringesse davvero pai con qualcuno. E adesso, a trent’anni, tui quei cumuli di dialogo interiore stanno andando a schiantarsi contro il fondo di un vicolo cieco, perché non ho mai ascoltato e non sono mai cambiato – da studente ho lasciato due volte l’università, ho rinunciato a diversi lavori, al mio matrimonio, continuamente ai ferri corti con il mio io idealizzato, sempre
a perdere amici che non si rivelano all’altezza… e a cercare conforto in romantiche idee di suicidio, Vietnam e cinema. Hai passato tuo in rassegna, come il conto di un ristorante, e il risultato è sconfortante. Sto piangendo, ma me ne rendo conto solo quando sento scorrere le lacrime. Non piangevo da tanti anni – ero un bambino tosto. Dovevo esserlo, per sopravvivere. Mi hanno insegnato che gli uomini non piangono. Ma stavolta sono lacrime fresche, come una pioggia. Per chi sto piangendo? Non per te, Mémé, non sei tu che mi stai giudicando. Non lo hai mai fao. È per il mio io che sto piangendo? Ma io chi, dato che non riesco a vedermi? Sono orrendo, nascosto. Potrei finire le lacrime a forza di piangermi addosso. Tuo questo dolore, un dolore immenso. Sì, adesso lo sento – sono dispiaciuto per me, e va bene – così scoperte, tue le mie menzogne, il mio imbarazzo nudo perché i morti possano vederlo, nudo di fronte al mondo intero! Nessuno mi ama, nessuno mi amerà mai. Perché io non so amare nessuno; tranne te, Mémé, e tu adesso non ci sei più. Saprò… saprò imparare ad amare? Da dove si comincia? Essendo semplicemente gentile, magari, come eri tu? Saprò essere gentile… con me stesso? Saprò imparare ad amare me stesso? Nella mia mente sentii Mémé che rispondeva. Provaci. Adesso sei un uomo. Non hai più diciassee anni, seduto in panchina, ai margini della vita, a giudicare. Hai visto il mondo, ne hai assaggiato le lacrime. È arrivato il momento di rendertene conto. Oliver, Oliver, Oliver… Il mio nome, invocato tre volte per ridestarmi, per svegliarmi da quel lungo torpore. Fa’ qualcosa nella vita, ordinai a me stesso, con tua questa energia tenuta compressa per anni, con questo sognare e questo scrivere senza speranza, non ci sono scuse, puoi fare di meglio. Smeila di gingillarti. Mémé continuava a parlarmi delicatamente, con la sua voce sommessa. Mio caro, mio piccolo Oliver, non farti problemi per niente… Tue le mie preoccupazioni, i miei problemi, a che mi sono serviti? Guardami, come sono adesso.
Guardai e vidi. Nient’altro che il suo silenzio. In esso c’era la risposta di Mémé. Fai la tua vita. Fa’ quello che ti va di fare. Non c’è altro. Ti abbraccio, ti adoro. Le altre ombre si stavano avvicinando, fiutando l’odore del sangue, tantissimi giovani gementi. Mi invidiavano. Mi sembrò di scorgere Elias in mezzo a loro ma non ne ero sicuro; altri li riconoscevo appena, membra e visi distorti nella morte. C’era un bisbiglio, di molte voci. Stone, ehi fratello, non mi dimenticare! Dove vai? Danne un po’ anche a me! Ehi, di’ alla mia ragazza che mi hai visto, okay? Ricordati di me, okay?… Hai per caso uno spino? Mémé voleva che me ne andassi. Subito, prima che fosse troppo tardi. Non sentivo ma era chiaro ciò che stavano dicendo le ombre. Noi, i morti, ti diciamo che la tua vita è breve. Sfruala al massimo. Prima che anche tu ci raggiunga. Mi alzai e baciai il viso di Mémé un’ultima volta, cercando di assorbire il suo odore, ricordando il profumo che usava e la sensazione che mi dava appoggiare la guancia sul suo seno ricoperto di cachemire quando ero bambino. Au revoir, ma belle Mémé. E mi allontanai – mentre lei abbassava lo sguardo e cominciava a bere insieme agli altri. Prima di chiudere a chiave la porta dell’appartamento, la lugubre vicina con i baffi mi rivolse a malapena un cenno di saluto mentre uscivo; era l’ultimo giorno di visite. Nella sua scrollata di spalle era implicito uno stoicismo tuo francese, come a dire: Eh, era una brava persona, tua nonna. Che altro possiamo dire del prossimo? Percorsi in silenzio le strade fino al metrò. Come in un sogno, non c’erano persone viventi. Forse è per questo che moriamo. Morire ci fa venire voglia di vivere di nuovo. Tornai a New York sapendo esaamente che cosa fare. Nel corso del mese successivo preparai relativamente in frea una nuova versione di Platoon e la spedii ai soliti noti. Dissi a Danny, il mio padrone di casa e coinquilino, che mi sarei trasferito definitivamente a Los Angeles per un ultimo
tentativo. Danny riconobbe che la nostra collaborazione non aveva funzionato, ma del resto sono ben poche le cose che funzionano; sapeva anche che tra i due sarebbe stato lui a soffrire di più la solitudine. La giovinezza aveva ancora le gambe della speranza. Non c’erano molti altri addii da scambiare. Ci fu un incontro piuosto freddo e imbarazzato con Najwa; la pratica di divorzio era stata inoltrata secondo l’iter più economico possibile, e in base alle leggi dello Stato di New York ci sarebbe voluto un anno prima che fosse ufficiale. Mia madre non c’era. Buffo come fosse sparita dalla scena in un momento come quello, la protagonista femminile che disertava il secondo ao. Lei che, a differenza di mio padre, aveva sempre creduto che sarei stato qualcuno nella vita, convinzione ovviamente molto importante per me, nonostante fosse una fiducia del tuo istintiva. New York versava in uno stato comatoso, schiacciata dal peso del debito pubblico, i servizi tagliati, la spazzatura che si ammucchiava sui marciapiedi. Nello scellerato titolo di un tabloid, il presidente Ford diceva ai newyorkesi “DROP DEAD!” [“Schiaate!”]. E per qualche anno successe quasi, prima che la cià rinascesse come la Grande mela, trasformata nella mecca del turismo mondiale da una brillante campagna di comunicazione creata da accorti imprenditori edili. La New York di sempre, ma riscoperta. Ossa vecchie, carne nuova. Ogni cosa rinvigorita. Mai me lo sarei aspeato. Papà sperava che finalmente trovassi un lavoro dentro il sistema: presso uno studio cinematografico, come leore di sceneggiature, su un set… qualsiasi cosa. Lesse Platoon e non gli piacque. Lo trovò orribile. Chi avrebbe avuto voglia di vederlo? “Perché non puoi dare speranza alla gente?” si lamentò. “Ma la speranza c’è,” risposi. “Nel raccontare la verità di quello che è successo. Nell’essere sinceri.” “La gente non vuole sapere la verità,” ribaé lui. “La realtà è troppo dura. La gente va al cinema proprio per evadere dalla realtà.”
Come potevo discutere con lui? Aveva ragione, in un certo senso. “Figliolo, non dire mai la verità,” mi aveva ammonito fin da quando ero piccolo. “Serve solo a cacciarsi nei guai.” L’avrei scoperto a mie spese, più avanti. Adesso però era giusto che andassi a ovest per cominciare una nuova vita. Come cantava Jim Morrison, “the West is the best”. Mi imbarcai su un volo in economy con due valigie, le aspeative ridoe al minimo, rassegnato a qualsiasi destino. ando sei un neonato, mani che non conosci ti sorreggono, ti guidano, qualcuno ti dà da mangiare, ti avvicina a una tea… poi compare il volto di una donna, fa qualche moina e ti dice… succhia, piccolo mio, succhia.
4 L’espresso di mezzanoe
“Cane mangia cane, Hayes. Tu foi altro, sennò lui foe te. Ma tu deve foere ultimo.” Un detenuto turco in Fuga di mezzanoe Midnight express, l’espresso di mezzanoe, era il modo di dire con cui i detenuti stranieri indicavano il sogno della fuga da una galera turca; secondo Billy Hayes, l’autore di un memoir intitolato appunto Midnight Express, ogni noe c’era un treno che passava fischiando al di là dei muri del carcere in cui era stato ingiustamente condannato a trascorrere trent’anni della sua vita. Un senso di prigionia con il quale, in quegli anni, mi identificavo profondamente. Poi all’improvviso, da una cella dove tuo va al rallentatore, salti su questo treno e sai solo che stai andando da qualche parte! Un film non è esaamente così? All’ora stabilita, parte. Se non succede nulla, addio film; torni a casa, torni in galera… Ma questa volta no, stavo andando da qualche parte. Hollywood, altrimenti nota come Los Angeles, era una distesa piaa, informe e sgradevole vista dall’aereo che si apprestava all’aerraggio in un’aspra luce pomeridiana offuscata dallo smog. Un giorno come tanti là soo. L’urbanistica di seconda mano faa di superstrade e alloggi a buon mercato ricordava più il quartiere di Flushing, nel eens, che il paradiso; eppure il mare, le montagne e il clima la rendevano speciale. E lontanissima da tuo, dalla costa est, dall’Europa, dall’Asia. Non aveva alcun legame palpabile con altre culture, anzi nemmeno con il passato. Tui venivano qui per rinascere.
A un esame più aento, Los Angeles somigliava a una baona di seant’anni, le cui cosce avevano inghioito tue le sceneggiature sepolte nei suoi cassei, ormai dimenticate, vite perdute sperperate nel sogno – autori, aori, registi, produori ammazzati dai rifiuti, suicidi per disperazione, o che semplicemente continuavano a vivere come zombi in un piccolo appartamento, con alle spalle trenta, magari cinquant’anni di speranze sempre più flebili, senza aver mai venduto un soggeo o una sceneggiatura, nemmeno un’opzione. Eppure andavano avanti imperterriti e a chiunque glielo chiedeva rispondevano sempre: “Sto lavorano a una sceneggiatura.” Conobbi un paio di queste anime in pena, e ognuno di loro era ancora convinto di essere lì lì per sfondare. Erano tantissimi gli aspiranti pronti a meere la faccia tra le cosce della vecchia signora, semplicemente perché lei era lì, così aperta, così generosa. Di certo allora ce n’era abbastanza per mille lingue frementi che guizzavano contemporaneamente. La gorgone poteva avere la faccia di una comparsa seantenne, ma tanto tu non la vedevi, una volta che chiudevi gli occhi e cominciavi a ciucciare il succo di quell’arancia californiana. Dopo aver noleggiato una Oldsmobile bianca del ’68 vagamente affidabile per circa centocinquanta dollari al mese, presi alloggio ai Montecito Apartments di East Hollywood, un hotel di dieci piani costruito negli anni Trenta dove molti aori, alcuni ormai piuosto anziani, vivevano sborsando dai trecentocinquanta ai cinquecento dollari mensili. Io avevo soldi a sufficienza per un mese, poi ne avrei avuti ancora abbastanza per andare avanti di seimana in seimana, per un totale di sei; mi fu mostrato un appartamento abbastanza pulito con i soffii alti e un mobilio semplice e solido. Lì avrei potuto scrivere, godendo di un ampio panorama dell’Hollywood Boulevard e delle superstrade che serpeggiavano in direzione sud. Erano gli anni Seanta e ogni noe squadre delle unità speciali di polizia, le SWAT da poco istituite, entravano in azione con i loro elicoeri, fotoeleriche e altoparlanti, a caccia per lo più di criminali neri liberi per le selvagge strade di Los Angeles. Da qualche
parte sulle colline della cià, intanto, si annidavano due spaventosi uomini bianchi ribaezzati, come fossero una sola persona, l’“Hillside Strangler”: fermavano ragazze al volante spacciandosi per polizioi e, dopo averle a lungo torturate nel loro garage, le lasciavano, in segno di sfida, nude, strangolate, a braccia e gambe divaricate, in qualche zona desolata nei dintorni di Hollywood. Una volta finiti i soldi, avrei finalmente fao quello che temevo da sempre: diventare un cameriere. Era una cosa plausibile, il lavoro c’era, e se fossi riuscito a oenere il turno serale avrei potuto scrivere durante il giorno. E se fossi arrivato a mille, millecinquecento dollari al mese, avrei potuto tirare avanti. Vedete, stavo già contraando con me stesso per spuntare un altro paio di anni di scriura – dopodiché? Una paura mi aanagliava la bocca dello stomaco, quella di diventare l’anziano cameriere che avete visto in chissà quanti ristoranti e che ancora riusciva a sorridere alla vita; chi era a trent’anni? Che sogni, aspeative aveva? E poi a quaranta… a cinquanta? Com’è che i sogni si rapprendono, muoiono, o semplicemente arrugginiscono? Forse ti limiti a fare spallucce, a dimenticarli e andare avanti? Ehi, è pur sempre un lavoro che mi dà da vivere. Ogni anno guadagno un po’ di più. E se lo fai bene, con amore, la gente se ne accorge e ti apprezza sempre di più. E se lavoro, poi, vuol dire che non spendo e non bevo. E la noe mi piace. Mi piace la gente. A mia madre è sempre piaciuta. Potrebbe essere la mia vocazione. Non sono fao per il mondo della finanza come mio padre. Non andò così. Los Angeles fu inaspeatamente generosa con me – la fortuna del principiante al casinò. Un momento memorabile. Ero lì da due seimane quando nella mia camera squillò il telefono. Era giorno. Stavo scrivendo. Era Ron Mardigian, il mio nuovo e solerte agente della William Morris, che mi rappresentava grazie alla forte raccomandazione di Robert Bolt presso Stan Kamen, all’epoca il più potente agente di Hollywood. Per William Morris erano gli ultimi anni in veste di potenza suprema. Ron, un
americano di origini armene, pragmatico e schieo, con moglie stilista e tre figli, viveva a Pasadena e aveva sempre la voce allegra. “Ehi, Oliver, indovina un po’?” Oh-oh. No, preferivo non tirare a indovinare. “Marty Bregman ha leo Platoon. Gli è piaciuto molto. Vorrebbe opzionarlo, diecimila dollari d’anticipo in contanti. Centocinquantamila se il film andrà in porto e il 5 per cento degli incassi nei. Che te ne pare?” Secondo voi? “Vuole che torni immediatamente a New York per incontrare Al Pacino e Sidney Lumet. Vuole che questo sia il loro prossimo film.” Immaginate i fuochi d’artificio provocati da quelle parole. “Pacino e Lumet,” due istituzioni newyorkesi, hanno apprezzato la tua sceneggiatura. elle parole, a prescindere da come sarebbe andata a finire, mi cambiarono la vita. ante miglia nel deserto un autore è disposto a strisciare, airato dal miraggio, pur di sentire parole del genere? E con ogni probabilità si traa davvero solo di un miraggio, ma in quel momento non lo sai, perché certe parole non le hai mai sentite prima. Sì, una volta, con Robert Bolt e e Cover-Up c’era stata qualche prospeiva, ma adesso la situazione mi sembrava più concreta perché questa era gente di New York. Improvvisamente avevo una destinazione. L’“espresso di mezzanoe” chiamava e io saltai su alla disperata. Martin Bregman, affermatosi come manager di Pacino, era uno stimato produore indipendente che si occupava dei film dello stesso Pacino e di Alan Alda, anche lui suo cliente. Aveva un ricco contrao con la Universal. Mi pagò il volo di prima classe da Los Angeles e mi sistemò in un moderno residence aziendale vicino al suo ufficio sulle Fiies dalla parte di Lexington Avenue, non lontano da dove avevo passato gli ultimi deludenti anni con Najwa. Rimasi colpito dall’alacrità di segretarie e contabili (necessari per la sua aività parallela di gestione finanziaria e fiscale per conto dei clienti) e dall’enorme porta elerica del suo ufficio privato, che si apriva solo dall’interno. ando si alzò vidi che
indossava i tutori alle gambe; nonostante gli effei della poliomielite infantile non fossero gravi quanto quelli di Roosevelt, di certo non si muoveva con agio. Emanava un’aura di potere unita a una imponente, pragmatica sensibilità newyorkese. Da una stanzea riservata fece entrare Al Pacino che, come il personaggio che aveva interpretato nel Padrino, era inquieto, nervoso, susceibile, difficile da capire; non mi guardava negli occhi e mi faceva sentire sulle spine. Non parlò molto. Mi stava valutando come avrebbe fao con un pugile durante l’allenamento. Tuo quello che importava era la parte, “la recitazione”. Il resto erano “chiacchiere”. Marty mi invitò a pranzo da Elaine, un famoso ristorante di Uptown, dove mi presentò convintamente come giovane autore emergente. La conversazione con i suoi amici VIP mi impressionò. Marty intendeva davvero realizzare Platoon ma la strada si rivelò in salita fin dall’inizio. Sidney Lumet, che aveva direo Pacino in Serpico e el pomeriggio di un giorno da cani, entrambi prodoi dallo stesso Bregman, aveva ricevuto la sceneggiatura e l’aveva trovata buona, ma aveva anche aggiunto di sentirsi troppo vecchio per inseguire gli aori nella giungla come aveva fao da giovane. In realtà non l’aveva mai fao: Lumet era in tuo e per tuo un uomo da quartieri di New York, da scene in interno e dialoghi tesi; La parola ai giurati (1957) era stato il suo film d’esordio. anto ad Al, era ormai sui trentacinque anni, non così vicino ai ventuno del protagonista di Platoon. Marty, fin dal primo colloquio telefonico avuto con me, aveva fao bene il suo lavoro di produore; aveva creato entusiasmo, elemento imprescindibile quando si dà il via a un progeo. In quel caso, però, ci saremmo fermati all’entusiasmo. Platoon veniva leo. Senza dubbio colpiva. “Frankenheimer vuole vederti.” “Ti stiamo organizzando un appuntamento con Clint Eastwood.” “Fred Zinnemann vuole te per una cosa che intende sviluppare – sono trent’anni che aspea questo progeo!” E così via. La mia testa era un turbine di possibilità e, per la prima volta, avevo una scelta,
una vera possibilità di scelta. Alcuni autori, ho purtroppo scoperto, non hanno questa fortuna nella loro vita, sono destinati a fare soltanto una certa cosa – un’esperienza personale, un solo libro, una sola vita e poi basta; il resto è tirare a campare. Nonostante l’interesse suscitato dalla mia sceneggiatura, nessuno studio cinematografico si propose concretamente di acquistarla. Per loro la mia vita, la mia storia personale, era una leura, un assaggio tramite cui valutare il mio talento. Non c’era alcuna volontà di meere Platoon in produzione. Era “troppo deprimente, troppo reale. Ma Stone ha qualcosa – è giovane, frizzante”. Il mio testo circolava ampiamente presso produori di prima, seconda e persino terza categoria. Sembrava arrivare ovunque. Essere così nudo mi imbarazzava. Cercai di sviluppare una scorza proteiva più dura; adesso la gente parlava di me anche in mia assenza. Il treno andava veloce e subito dopo la delusione con Bregman fui ingaggiato da un dinamico trentacinquenne alla Irving alberg: Peter Guber, giovane pezzo grosso della Columbia con un partner musicale nella Casablanca Records, che all’epoca aveva soo contrao il re e la regina della disco, Barry White e Donna Summer, oltre al mago dell’eleronica musicale Giorgio Moroder. Peter aveva appena sfornato un successo da cinquanta milioni di dollari, Abissi, con Nick Nolte e Jacqueline Bisset. Avrebbe in seguito continuato a fare milioni con la mastodontica serie dei Batman e con numerosi altri film, per poi diventare presidente della Sony Pictures Entertainment, dopo che la società giapponese avrebbe acquisito la Columbia. Una volta saziatosi di cinema sarebbe diventato comproprietario di ben quaro squadre sportive, tra cui i campioni NBA dei Golden State Warriors. Diverse persone mi avevano deo: “Peter è uno che le cose le realizza!” Entrai nel suo ufficio ai Burbank Studios, addobbato di palme finte in stile Casablanca. Peter, uomo di estrazione operaia con l’accento bostoniano, mi mise immediatamente a parte del suo entusiasmo per un ragazzo che aveva visto in TV
– Billy Hayes. “Vedi questo giovane di Long Island? Era al telegiornale, è aerrato al Kennedy, mamma e papà in lacrime, chi più ne ha più ne mea. Insomma, questo ragazzo scappa da una cimiciosa prigione turca dove stava scontando trent’anni di carcere per aver cercato di contrabbandare negli Stati Uniti un quantitativo irrisorio di hascisc.” (In realtà erano due chili.) “Voleva meere da parte un po’ di soldi per l’università. Un bravo ragazzo, tuo sommato, sprovveduto, primo viaggio all’estero, capisci? Be’, gli fanno un culo così! Di tuo, gli capita – finché non riesce a scappare da questa isola penitenziario usando una barca a remi… Proprio così! Una barca a remi, che tu ci creda o no. Raggiunge la terra ferma, araversa di corsa un campo minato al confine tra Turchia e Grecia – capisci? Incredibile! Una storia fantastica! Tensione – come in Platoon. Ogni secondo vuoi sentire questa tensione!” Guber mi guardava drio negli occhi, per infondermi la sua forza di volontà. Sapeva che potevo farcela. Mi mise in mano un libro. “Tirami fuori una sceneggiatura. È mio” (intendendo che ne aveva acquistato i dirii). Indicò il libro, scrio da Hayes e da un ghost writer di professione, William Hoffer. “Torna a casa e leggilo, dimmi che ti va di farlo – hai lo stile di cui ha bisogno questa storia. Dev’essere cupa, dura!” Pausa. Fece un respiro. “Poi voglio che ti incontri con il regista che ho in mente per il film. Arriva dopodomani. Dall’Inghilterra. Alan Parker. Ha fao Piccoli gangster. Gran talento. Okay?” Non avevo visto il film di Parker ma ero senz’altro d’accordo con lui. “Poi andrai a trovare Billy a New York, passerai un po’ di tempo a tu per tu con lui, dopodiché andrai in Inghilterra e scriverai la sceneggiatura là.” Fu entusiasmante condividere la stessa stanza con Peter, anche se non avevo potuto dire nemmeno due parole; quindici minuti ed ero già fuori dalla porta, lui già impegnato con l’appuntamento successivo. Lessi il libro. Una storia molto interessante per come la raccontava Hayes. Negli studi della Columbia, mi feci proieare alcuni celebri film carcerari per analizzarne la struura: Nick mano fredda, Papillon, La grande fuga, Forza
bruta… Un paio di giorni dopo fui accompagnato in una stanza, sempre alla Columbia, dove trovai la squadra inglese: Alan Parker, il suo produore Alan Marshall e il produore che Peter aveva assegnato da parte sua al film, David Punam, affascinante, garbato, un politico alla Tony Blair. A Peter piaceva la sua classe. Ebbi l’impressione che agli inglesi fosse già stata faa ingoiare la pillola amara della mia presenza e che tui esibissero un cauto oimismo, pur nei loro gelidi modi britannici. Più tardi, Parker, Marshall e lo stesso Punam tirarono un sospiro di sollievo per essere finalmente usciti dall’ufficio di quel pazzo iperaivo, ben contenti di proseguire il lavoro a Londra, il più lontano possibile da Hollywood. Parker era uno dei maggiori registi pubblicitari inglesi, salito alla ribalta nel 1976 con Piccoli gangster, un curioso film con protagonista una giovane Jodie Foster, nel quale tui i personaggi, gangster degli anni Trenta, sono interpretati da aori bambini; Parker aveva anche contribuito alla sceneggiatura, e dunque ritenevo che sarebbe stato in grado di darmi una mano, se fosse stato necessario. Ci demmo appuntamento in Inghilterra. Nel fraempo fu firmato un contrao e io tornai in aereo a New York, al Regency Hotel. Per tre, quaro giorni discussi approfonditamente i particolari della storia con Billy Hayes. Avendo sperimentato in prima persona, dopo essere tornato dal Vietnam, il terrore di essere seppellito in una galera senza alcun aiuto dall’esterno, provavo grande empatia per Billy e per la sua storia di innocenza perduta. Nel tentativo di fare un po’ di soldi extra per l’università e per la presunta fidanzata, Billy aveva commesso un grosso errore e ne era dispiaciuto, ma aveva imparato la lezione. La sua esperienza in carcere era stata orribile e al tempo stesso stranamente umoristica. I turchi, all’epoca, erano famigerati nei dossier di Amnesty International per la corruzione del loro sistema carcerario. Se avevi soldi o conoscenze, dietro le sbarre potevi fare vita da re; altrimenti, finivi per marcirci. E Billy era uno straniero senza soldi che aveva toccato il fondo quando si era visto commutare la sentenza da quaro a trent’anni per due chili di
hascisc. Io ero naturalmente portato a schierarmi in sua difesa, ma in realtà non sooposi mai a un esame più aento le cose che Billy mi raccontò, dandole per vere alla luce di tue le sofferenze che il ragazzo aveva patito. Volevo che fossero vere. Partii per l’Inghilterra, affiai un appartamento a Kensington e, senza troppo clamore, mi misi al lavoro nell’ufficio di Alan Parker in Great Marlborough Street, a Soho, un tetro ospizio dickensiano con enormi finestre rivolte su un sudicio cortile dove spesso pioveva. Parker era un uomo freddo come quel rigido inverno inglese di scioperi sindacali e malcontento generale, in cui vidi il sole molto di rado. Essendo cresciuto in una società divisa in classi, sembrava perennemente incazzato, detestava le classi privilegiate e al tempo stesso desiderava che lo riconoscessero. Ai suoi occhi gli americani erano chiassosi, volgari ed eccessivamente emotivi. Nelle brevi conversazioni che scambiammo, credo che avesse preso immediatamente in antipatia il mio fisico imponente, i miei lunghi capelli neri, il mio ampio sorriso e il mio passato nel Vietnam. (Trovo che nei rapporti in un seore tormentato dall’ego come il cinema sia davvero utile essere bassi, a meno che uno non faccia l’aore. Chi nutre tale pregiudizio crede che le persone dal fisico imponente abbiano un vantaggio su di lui.) Penso inoltre che gli fossi ulteriormente antipatico perché parlavo correntemente il francese; è solo una sensazione a pelle ma ho spesso potuto constatare che gli inglesi snobbano i francesi in quanto “eccessivi”, mentre loro si fanno un vanto di nascondere i propri sentimenti. ali che fossero le ragioni di quella freddezza, fu chiaro fin dall’inizio che ero lì solo per lavorare. Cominciavo di buon maino, nel suo studio, e, dopo un’ora di pausa per un sandwich in Wardour Street, mi rimeevo alla macchina da scrivere fino alle oo, le nove di sera. A volte, per andare a teatro, uscivo un po’ prima e Parker mi guardava male araverso il divisorio di vetro. Mi era stata riconosciuta la somma principesca di trentamila dollari (cinquantamila se il
film fosse stato realizzato), oltre alla ciliegina sulla torta di una diaria di cento dollari in contanti, che all’epoca, in una Londra poco costosa, erano una piccola fortuna; per la prima volta avevo soldi da buare e non mi feci pregare per buarli: vestiti, cibo, teatro, serate, cene con donne bellissime quando riuscivo a trovare il tempo (e lo trovavo). A un certo punto feci persino coppia fissa con un’inglese a cui, pensate un po’, il sesso piaceva davvero. All’epoca non me ne rendevo conto ma credo che il piano di Parker fosse di assecondare il desiderio di Guber di imbarcare nel progeo questo sceneggiatore americano, oenere una prima versione in circa sei seimane e liberarsi di me, dopodiché lui stesso o qualche altro sceneggiatore inglese avrebbe trasformato il film nella produzione tua britannica che aveva come obieivo. L’unico ostacolo era il materiale in sé, una storia intrinsecamente americana: Billy Hayes era un ragazzo di Long Island e io ero quello che ero. Affrontando il gelido inverno di quella depressa Inghilterra prethatcheriana, lavorai per lunghe ore solitarie, entusiasmato dal testo, fino a produrre in cinque seimane una prima stesura che mi piaceva. La consegnai al professor Parker un venerdì, poi uscii e mi presi una sbronza al pub con la loro birra ad alto tasso alcolico. Avevo fao del mio meglio, ma se avessi saputo quanto era precaria la mia situazione ci sarei rimasto malissimo. Per fortuna non lo sapevo. Anzi Alan Marshall, uomo dello Yorkshire dai lineamenti duri e produore di Parker fin dai tempi delle regie pubblicitarie, mi parlò diverse volte da essere umano; anche lui veniva dalla classe operaia ma aveva un calore diverso rispeo al suo regista. Persino la storica segretaria, che conosceva Alan molto bene, a volte mi dava informazioni utili. E speranza. Tui, a ogni modo, avvicinavano il boss con i piedi di piombo. ando mi presentai il lunedì successivo per la temuta strigliata, Parker mi venne subito incontro, mi guardò drio negli occhi, cosa rara da parte sua, e disse con un accenno di contentezza: “È buona.” Che nella sua comunicazione
stenografica significava: “Funziona.” Concordavano in pieno anche Punam e Marshall, sorpresi dal fao che ci fossi riuscito. Con Parker ora più coinvolto, mi rimisi al lavoro per altre tre, quaro seimane di revisioni, che portarono il copione a un corposo totale di centoquaranta pagine, sulle quali Parker era raggiante di orgoglio. “Hai fao il tuo lavoro,” fu più o meno quello che mi disse. “Ci hai dato una sceneggiatura che possiamo produrre. Hai finito.” el weekend Alan mi invitò addiriura a pranzo nella sua villa di campagna, poco fuori Londra, con la moglie, i figli e i cani – un mondo da sogno; fu più gentile con me e una volta tanto mi sembrò autenticamente felice. Lo rividi a Los Angeles nell’imminenza del “semaforo verde” da parte della Columbia, e mi chiese di revisionare di nuovo il testo in un paio di seimane in modo da ridurlo a centodieci pagine circa, una lunghezza più gestibile in fase di produzione. Il budget era risicato, intorno ai due milioni e trecentomila dollari, il più basso della Columbia per quell’anno. Non era chiaramente tra i cavalli su cui puntavano, ma Danny Melnick, il nuovo presidente, amava le scommesse rischiose. La cifra fu approvata e si stabilì che il film sarebbe stato girato a Malta. Purtroppo si dovee eliminare il complesso finale, un inseguimento per mare e per terra fino al confine greco, per sostituirlo con uno meno interessante in cui Billy uccideva per legiima difesa e in modo quasi fortuito lo spregevole secondino che lo aveva angariato fin dall’inizio, ne indossava l’uniforme e varcava tranquillamente le porte del carcere ritrovandosi libero per le strade di Istanbul. Nella realtà Hayes non aveva ucciso nessuno, ma un finale del genere forniva la classica vendea cinematografica contro i soprusi patiti dal protagonista. Nonostante preferissi di gran lunga l’originale, cedei alle pressioni pur di vedere il film realizzato. Tanto, se non lo avessi riscrio io, lo avrebbe fao Parker stesso. In tua Hollywood non si faceva che parlare di Guber, della sceneggiatura e del talento di “questo giovane Parker”. Le stelle si erano allineate. L’espresso di mezzanoe sferragliava a tua velocità!
Non fui invitato né sul set maltese né alla speacolare prima internazionale del film al festival di Cannes l’anno seguente. Parker voleva i rifleori per sé e di certo li oenne. In seguito gli sarebbero stati offerti progei ben più ricchi. Lo sceneggiatore invece deve imparare l’arte del distacco, cosa difficile quando ci sono in ballo emozioni e sentimenti forti. Mi seppellii velocemente in un altro progeo, che mi era stato proposto subito dopo aver finito la sceneggiatura di Fuga di mezzanoe, della quale si diceva fosse “buona”. Mi cercavano. Ero una sicurezza, una carta che “non può non uscire”, come si sarebbe deo a Las Vegas. Per uno come me, cresciuto con l’insicurezza del figlio unico e i dubbi sulla mia vita familiare, era una svolta non da poco, un’affermazione, assolutamente necessaria per controbilanciare gli effei deleteri dei continui rifiuti. Da Marty Bregman mi giunse immediatamente l’offerta di scrivere Nato il quaro luglio. Pur non avendo realizzato Platoon, Bregman era sicuro che Nato il quaro luglio fosse un film perfeo per Pacino e io la persona giusta per scriverlo. Marty era un grande venditore, un ebreo cresciuto nel Bronx degli anni Trenta che trascinava dentro un paio di tutori le gambe indebolite dalla polio e brandiva il bastone come un’arma da guerra. La sua forza era evidente, intensificata dall’accento newyorkese e da una vena collerica: “Non farmi incazzare, figliolo, o ti rovino.” Inoltre era un bel tenebroso alla Bugsy Siegel, il gangster della mafia ebraica: nel complesso, un personaggio difficile da dimenticare. Sarebbe diventato una figura importante nella mia vita, nel bene e nel male, ma al momento ero “il suo ragazzo”. Riteneva di essere stato lui a scoprirmi, con Platoon, e ora avrebbe messo alla frusta il mio talento con Nato il quaro luglio. Marty aveva opzionato l’omonimo libro di Kovic nel 1976, bicentenario della dichiarazione d’indipendenza, dopo che il memoir aveva ricevuto una entusiastica recensione sulla prima pagina della “New York Times Book Review”. Il libro seguiva la straziante storia dell’autore, un ragazzo di Long
Island, un tipico americano cresciuto in una famiglia numerosa e allevato al patrioismo cieco, che si arruola nei Marines e resta orrendamente ferito in Vietnam. Il vero cuore del libro era la fatica del protagonista nel tornare a una vita improvvisamente capovolta. Un precedente adaamento cinematografico, scrio da un giovane e rampante sceneggiatore che non aveva mai vissuto nulla di simile, soffriva di tue le distorsioni dovute al modo in cui gli intelleuali pensano la guerra. Io sapevo di poterne ricavare una sceneggiatura ma opponevo resistenza. Avevo paura. Temevo di immedesimarmi troppo nelle sofferenze del protagonista. Inoltre la stesura sarebbe stata traumatica e difficile da portare a termine – immaginavo già riscriure su riscriure su richiesta dall’incontentabile Bregman. Un produore del genere ti fa soffrire troppo, anche se talvolta – non sempre – raggiungi vee superiori. Altre volte invece ti riduci a un affranto, masochistico grumo di disperazione. Marty era bravo con i copioni, senza ombra di dubbio, ma era anche, come avrei scoperto sulla mia pelle, un maniaco del controllo. ella di Kovic era una storia epica che spaziava dalle periferie americane degli anni Cinquanta fino al Vietnam e al ritorno a casa: vent’anni di vita americana. Per la verità a cavallo tra il 1969 e il 1970 avevo scrio anch’io una storia di ritorno dal Vietnam, su un giovane reduce rimasto monco di un braccio che si caccia nei guai con la legge. La sceneggiatura si intitolava Once Too Much ed era un racconto morale intriso di una violenza alla Peckinpah. Ma non funzionava, era troppo melodrammatica; la verità era meglio. ando lo incontrai per la prima volta sulla sua sedia a rotelle, il giorno del suo trentunesimo compleanno, il 4 luglio 1977, al Sidewalk Café di Venice, in California, Ron Kovic mi sembrò tale e quale al suo libro: dolorosamente, poeticamente schieo, le parole addolcite dalla voce gentile e dagli occhi premurosi. Era un bell’uomo con un paio di folti baffi come quelli di mio nonno Pépé, penetranti occhi neri pieni di sensibilità e perspicacia, la mente lucidissima. Alla sua compassione era mescolata una rabbia profonda. Mi resi
conto che lì c’era la storia: avevo davanti un essere umano trasformato in sofferto monumento simbolico, un personaggio ideale per l’interpretazione di Al Pacino. Parlammo per un paio d’ore e capii che Ron sarebbe stato l’ancora per la mia sceneggiatura, che con lui potevo sentirmi al sicuro e non avrei fallito. Per una coincidenza, quando ero arrivato, Ron stava parlando davanti a un gruppo di reduci sull’affollata terrazza del bar; tra di loro c’era un giornalista di origini irlandesi che era stato in Vietnam e che mi parlò un po’ della propria vita avventurosa. Richard Boyle era una personalità fuori dall’ordinario al pari di Ron; avrei tenuto da parte la sua vicenda per riprenderla qualche anno dopo, basando su di essa il film che sarebbe diventato Salvador. In quel fausto giorno furono dunque geati i semi di ben due film. Con William Friedkin designato come regista del film di Kovic, il puzzle era completo. Insieme a Francis Coppola, Friedkin era la punta di diamante tra i nuovi registi hollywoodiani. Tolti i grandi registi più anziani come Kazan, Jewison, Pollack, Lumet, George Roy Hill, Mike Nichols, che qualsiasi produore avrebbe voluto accaparrarsi, si andava affermando la nuova generazione degli Spielberg e dei Lucas – ma Friedkin e Coppola stavano lavorando ad altezze più elevate e senza rete. Dopo aver centrato due mostruosi successi con Il braccio violento della legge e L’esorcista, Friedkin aveva improvvisamente fallito al boeghino nel 1977 con il costoso Il salario della paura, e a mio avviso Nato il quaro luglio era l’occasione ideale di riscao. Bregman mi spedì a Parigi dove Friedkin, insieme alla moglie, la grande arice francese Jeanne Moreau, si stava leccando le ferite, valutando nel fraempo le numerose offerte che gli pervenivano. Friedkin venne nella nostra suite presso l’elegante Plaza Athénée, la base preferita dei registi americani a Parigi. Sembrava un giocatore adolescente di basket, molto americano con il suo accento di Chicago, determinato e concentrato. Era la stessa famosa concentrazione che
percepivo nei suoi film. La mente di un regista puoi scoprirla seguendo lo svolgersi di un suo film, il ritmo, il ragionamento, l’emozione… In due lunghe sedute Billy tenne fede alla sua reputazione di fine analista, cogliendo il nocciolo drammatico della storia già il secondo giorno. Il libro di Kovic era scrio in uno stile onirico, impressionistico, fao di sfasamenti temporali, un po’ come Maatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, magnifico su carta e molto commovente ma probabilmente disorientante per un pubblico che debba seguire una storia per immagini; gli speatori, infai, non conoscono mai bene la vicenda quanto la conoscono i realizzatori del film, ed è facile per loro perdere il filo se sono costrei a chiedersi “esto chi è? Dove siamo? Cos’è successo a quell’altro personaggio?” cercando nel fraempo di seguire la trama. “Oliver,” sboò Friedkin, “lascia perdere tui questi andirivieni temporali. Racconta la storia in ordine cronologico. Fanne un buon film americano senza tanti fronzoli.” Il suggerimento risolse di fao il mio dilemma. Mi fece fare marcia indietro e ripartire dall’inizio – da Massapequa, Long Island, dal ragazzino che giocava a basket nel cortile di casa nei lunghi giorni d’estate degli anni Cinquanta. Tornai nel mio nuovo bilocale con terrazzino al ventiquaresimo piano di un palazzo affacciato su West Hollywood e sul Sunset Boulevard in tua la sua rilassata decadenza. Era pulito, moderno, aseico – ma era mio. Per Nato il quaro luglio avevo ricevuto cinquantamila dollari a fronte di centomila in caso di realizzazione del film, oltre a una piccola percentuale sugli utili. Mi preparai dunque alla scriura prenotando sale proiezioni (non esistevano ancora le videocassee) e guardando classici come Fronte del porto di Kazan e I migliori anni della nostra vita di Wyler. Nel fraempo, nel seembre del 1977, l’inizio delle riprese di Fuga di mezzanoe mi portò ulteriori introiti e, per la prima volta, ero subissato di offerte, materiale di qualità da scrivere per registi come Richard Lester e Fred Zinnemann. Sei
proposte interessanti nei primi dieci giorni dal mio ritorno a Los Angeles. Ben presto trovai in Steve Pines un manager finanziario per la vita, il quale mi guidò nella gestione di una quantità di denaro mai vista prima. C’era motivo di essere oimista. Il mio reddito, che nel 1976 era stato di quaordicimila dollari, schizzò a centoquindicimila nel 1977. Che anno! esto treno stava andando davvero veloce. Per mesi lavorai fiduciosamente insieme a Kovic, ripercorrendo le montagne russe della sua vita. Per lui a volte era durissima; riviveva mentalmente intere scene a mio beneficio, talvolta abbandonandosi a un pianto sommesso nel ricordo di tanto dolore. Gli anni della giovinezza a Long Island, l’isolamento nell’ospedale per i reduci di guerra, l’alienazione del ritorno a casa, la mancanza di contao con il proprio passato, con i vecchi compagni di scuola, il desiderio di fuggire in Messico. Una scena con i poveri genitori, la madre polacca caolica, il padre operaio; la confessione di aver ucciso un proprio commilitone. Ron tornava lì con gli occhi e io lo seguivo. Era difficile guardare e raccontare. Ogni momento ancorato a quella sedia a rotelle era per Ron una camera dell’eco, ogni suono e ogni sensazione esistevano “da qui all’eternità”. Era ossessionato; fin troppo, mi sembrava all’epoca, perché per la mia educazione americana le emozioni forti vanno tenute a bada. In un film non tuo può essere sopra le righe, è necessario un equilibrio. Ma che altro poteva essere, Ron, con una ferita alla spina dorsale che gli aveva paralizzato metà del corpo per il resto della vita? ando in seguito studiai il buddhismo e sentii parlare di sati – la “consapevolezza”, ma anche il “tenere a mente” – come virtù suprema in questa vita, pensai proprio a Ron e al bisogno di aggrapparsi alla propria mente per non morire. Moltissimi reduci costrei in carrozzina morivano prematuramente per la voglia disperata di uscire dal quel confino araverso l’alcol, la droga, gli eccessi. Nei loro panni avrei fao lo stesso. Sarei morto anch’io. Ron, con la sua forza, la sua integrità morale, esercitò una profonda influenza su di me. Aveva una maturità maggiore, al
mio confronto, e non poteva che essere così, dopo mille noi trascorse nel leo di un ospedale del Bronx. Nonostante i gravi problemi che aveva dovuto affrontare, era rimasto sano di mente durante tuo il calvario ed era diventato l’essere umano più compassionevole che avessi mai conosciuto. Non sempre, se non quando cominciò a conoscermi meglio, coglieva il lato sarcastico che avevo ereditato da mio padre. La prima volta che andammo nella sua cià natale, Massapequa, e vidi la stanzea in cui era cresciuto, rimasi sconvolto da quegli alloggi a basso costo realizzati negli anni Cinquanta, costruiti su metrature alle quali non ero abituato. Bonariamente presi in giro il suo ristorante preferito della cià, la traoria Tony’s con le sue tovaglie rosse e la cera che colava dalle candele. A New York avevo mangiato in ristoranti italiani migliori di quello e, ogni volta che portavo Ronnie – come avevo cominciato a chiamarlo per affeo – in uno di quei posti, lui ci teneva a farmi notare che preferiva comunque il Tony’s di Massapequa. Ron era tuo quello che io non ero stato, crescendo nella New York degli anni Cinquanta: boy scout, campione di baseball, wrestler. Aveva diversi fratelli e sorelle, il padre dirigeva un supermercato della catena A&P, la madre frequentava la chiesa e appendeva crocifissi alle pareti di casa. Lui era un patriota, e la chiamata a servire il Paese da parte del presidente Kennedy nel discorso di insediamento del 1961, lo aveva commosso profondamente. Al punto che, dopo il diploma di scuola superiore, si era arruolato volontario nei Marines per andare in Vietnam. Io al contrario ammiravo Barry Goldwater, il candidato conservatore alle elezioni del 1964, per i suoi discorsi senza peli sulla lingua. Era un effeo collaterale dell’influenza esercitata su di me da mio padre, che nel 1960 aveva votato Nixon e considerava Kennedy l’ennesimo inaffidabile democratico “testa d’uovo”, privo di una solida esperienza. Ron fu tra coloro che contribuirono a cambiarmi. La sua, a differenza della mia, era la storia di un americano medio e avrebbe potuto toccare il mondo intero, se esisteva davvero
un cuore universale. Ron mi fece conoscere una rete di reduci che vivevano a Los Angeles e si aiutavano tra loro. C’era una disperazione solitaria in quegli uomini. Io avevo sempre evitato i miei ex commilitoni; l’idea della rimpatriata mi raggelava, insieme al pensiero di ritrovarsi per piangersi addosso. Invece, con mio stupore, quegli incontri schiei, autentici mi permisero di percepire davvero l’esperienza colleiva che avevamo vissuto. Servirono a placarmi, tanto che negli anni successivi mi sforzai di partecipare alle rimpatriate scolastiche e di riprendere i contai con diversi reduci in vari stati d’America. Stavo, a modo mio, esorcizzando il Vietnam parlandone con altri, anziché ignorarlo come avevo fao per anni. Anche i film che avrei realizzato facilitarono questo processo; col passare del tempo, avrei partecipato a incontri con reduci di guerra, e non solo, appartenenti a gruppi politici nazionali, parlando apertamente della follia di quel conflio. A quell’epoca, negli anni Seanta, c’era speranza, sembrava che non ci sarebbero stati altri Vietnam. Era addiriura possibile che da quella guerra imparassimo qualcosa. Nessun leader politico ne avrebbe difeso la causa, almeno fino a Reagan nel 1980. Nel fraempo, in Europa si intensificava il passaparola su Fuga di mezzanoe. Il film oenne un’accoglienza elerica a Cannes, dove fece scalpore e il pubblico venne scioccato dalla sua intensa e imprevedibile violenza. Il governo turco inoltrò una vibrante protesta ufficiale per la descrizione che il film dava del Paese. (In Turchia, in effei, si registrò un neo calo del turismo.) I critici erano divisi, ma coloro che lo avevano amato gli dedicarono recensioni entusiastiche. Mi sarebbe piaciuto essere invitato a Cannes ma era evidente che Parker non mi voleva. Anche da lontano, tuavia, fu la mia prima esperienza di successo – e la valanga andava molto più veloce di quanto avessi immaginato. Dal momento in cui fu presentato a Cannes, e poi nelle salee di proiezione di tue le cià dove esistevano laboratori di stampa, del film si cominciò a parlare, magari a mezza bocca: e comunque restava impresso. Esercenti e distributori cinematografici alimentavano l’eco: “Hai già visto Fuga di mezzanoe?” E
senza aspeare la risposta, l’interlocutore sa che, bruo o bello, è qualcosa da vedere. È la regola numero uno, ho imparato, e non ha una logica. Non ce l’ha mai. Ogni regista lo sa se l’ha vissuto e, al tempo stesso, ognuno di noi sa che, a prescindere dall’impegno che ci ha messo, non fa alcuna differenza se il film sia piaciuto o no – l’importante è che sia stato visto e se ne parli. E non stiamo parlando di un magnifico film d’autore che poi raccoglie una manciata di speatori. La gente voleva vedere Fuga di mezzanoe semplicemente perché era il film del momento. Negli Stati Uniti intanto, nonostante queste notizie confortanti dall’estero, fui colto di sorpresa dalle difficoltà che stava incontrando Nato il quaro luglio. Pacino e Friedkin professavano entrambi di amare la sceneggiatura, che tuavia si impantanò mentre veniva lea nella casa di produzione. “Potenzialità commerciali? Un film su un tizio in sedia a rotelle? Non basta neanche Al Pacino…” C’era un altro film sul Vietnam in fase di sviluppo, Tornando a casa con Jane Fonda, che a dea di molti raccontava una storia simile, anche perché gli autori avevano parlato a lungo con Ron Kovic ancora prima che uscisse il suo libro. Ma Tornando a casa era un film sui rapporti personali, con Jane Fonda nei panni della disorientata, addolorata moglie di Bruce Dern che torna dal fronte talmente alienato da essere irriconoscibile e alla fine si suicida; parallela a questa vicenda c’è quella della crescente arazione che la protagonista prova verso il personaggio di Jon Voight, un arrabbiato reduce di guerra paralizzato che è ricoverato nell’ospedale dove lei lavora come infermiera volontaria. Era un oimo film direo da Hal Ashby, che valse un Oscar a Voight e a Jane Fonda come miglior aore e arice protagonista, eppure non incassò granché. esta è la crudele morale della favola a Hollywood, e lo è sempre stata. Puoi parlare quanto vuoi di un film, ma si traa solo di parole e non di soldi. Chi aveva voglia di vedere un reduce paraplegico che non riesce a scoparsi Jane Fonda e grida la sua rabbia a un mondo che lo ha tradito?
Friedkin rinunciò quasi subito a dirigere Nato il quaro luglio. Forse sapeva qualcosa che io non sapevo, magari che Marty Bregman non sarebbe riuscito a oenere i finanziamenti necessari. Scelse invece di dirigere Pollice da scasso per Dino De Laurentiis, un film su una rapina a un portavalori che si rivelò del tuo trascurabile. Ero furioso con Billy per avere rinunciato ed essersi venduto, tanto da scrivergli una leera appassionata in cui gli chiedevo di ripensarci. Ahimè, non sarebbe più tornato alle vee dei suoi primi successi. Riversai allora le mie residue speranze su Daniel Petrie, il regista che Al e Marty avevano individuato come suo rimpiazzo. Petrie era una scelta di compromesso: un veterano del mestiere che aveva lavorato soprauo per la televisione e che avrebbe in seguito girato l’eccellente Bronx 41° distreo di polizia (1981) con Paul Newman. Peccato avesse il caraere pacioso di un manager assicurativo, sempre impegnato a spegnere incendi e a evitare i conflii. Ma con il sì di Petrie, Bregman si era dato da fare ed era riuscito a reperire in Germania un finanziamento di circa sei milioni di dollari in regime di tax shelter, sulla base del quale la Universal acceò di distribuire il film. Per due lunghe seimane ci dedicammo anima e corpo alle prove, in stile teatrale, con Al e il cast al completo, in uno studio nei dintorni di Broadway. Come mi era successo con Robert Bolt, per me fu come ripartire dall’abc del lavoro di sceneggiatore; mi imposi di riesaminare ogni parola, ogni sfumatura, ogni scena, a volte imbarazzato da quello che avevo scrio, revisionando in continuazione pur di assecondare Dan e gli aori. Ma la cosa più bella fu vedere un Pacino al calor bianco interpretare la versione moderna di un Riccardo III in carrozzina, che faceva a pezzi il mondo per avergli rubato tuo ciò che gli era più caro. Al era davvero un aore straordinario e Lindsay Crouse potente e credibile nei panni della sua fidanzata; Lindsay faceva risaltare le parole dalla pagina in modi che stupivano persino me (“L’ho scrio io questo?”). Idem per Lois Smith nel ruolo della madre e
Steven Hill nel ruolo del padre. Ero orgoglioso, euforico, eppure sapevo, senza ammeerlo, che Al aveva ormai trentoo anni. In verità era una versione teatrale di Ron Kovic. Avrebbe senz’altro funzionato per la seconda parte del film, ma non avrebbe mai più avuto diciassee o ventun anni, non avrebbe potuto evocare quell’atmosfera da America ingenua e innocente. Eravamo vicinissimi – ancora una o due seimane e avremmo iniziato le riprese in esterni a Massapequa – quando il finanziamento tedesco andò in fumo. Spesso succede così con i film, non si può mai dormire tranquilli, ma veder crollare e sparire tuo in un giorno dopo mesi di intenso lavoro è devastante. All’improvviso, tui noi che vi eravamo coinvolti vagavamo come soo shock, aspeandoci che in qualche modo Bregman avrebbe trovato una fonte di denaro alternativa. Invece non stava andando così. Io la presi malissimo, mi vergognavo profondamente. Nessuno voleva questo film, nemmeno con il magnifico Al Pacino. Nessuno aveva visto ciò che avevamo fao in quella sala prove, con quale intensità la luce della vera grandezza aveva brillato in Al, il quale non si sentiva affao troppo vecchio per il ruolo. Correva voce che Al avesse perso fiducia in Dan come regista; all’epoca Al era estremamente sospeoso e duro verso i registi con i quali non aveva mai lavorato, fidandosi più che altro del proprio istinto. Ben presto smeemmo tui di andare alle prove e la seimana di preparativi per iniziare gli allestimenti a Long Island fu annullata. Al nella parte di un diciasseenne che andava al ballo della scuola sarebbe stato comunque un problema. La compagnia, fino ad allora così unita, si sciolse come neve al sole. Niente da fare, nessun posto dove andare la maina, niente film. L’ufficio di Marty era una tomba. Marty stesso era molto invecchiato in quelle seimane. Si sparse la voce che Al avesse acceato …e giustizia per tui (1979) di Norman Jewison come suo prossimo film. Non rispondeva al telefono né a me né a Ron. E nemmeno a Marty. Era tuo finito.
Ron ne fu devastato per seimane, anzi per mesi, e non poté che riversare parte di quella rabbia su di me per aver alimentato le sue speranze. A dirla tua, le prospeive hollywoodiane gli avevano dato un po’ alla testa e io talvolta mi irritavo con lui per aver venduto la pelle dell’orso prima che fosse ucciso. Una sera, a Los Angeles, litigammo furiosamente. Incazzato, mi alzai e me ne andai. Ron inveì contro di me come un indemoniato, inseguendomi in carrozzina lungo la passeggiata di Venice. Mi fece paura. alche giorno dopo, quando si fu calmato, gli feci una promessa: “Ron, se mai sfonderò nel cinema, riprenderò questo progeo e lo porterò a termine!” Ron non dimenticò mai quelle parole e me le ricordò anni dopo. Per lui divennero profetiche. Per me, invece, erano l’ennesimo carico da portarsi dietro. Il mio cuore, già spezzato dal triste destino di Platoon, era come un figlio nato morto. Odiavo questa cià, questi vigliacchi! Non amano i miei film, non li vogliono! Non vogliono il vero Vietnam! Ma il bruco diventa farfalla e l’anno 1978, senza che me ne rendessi conto, stava in realtà segnalando l’inizio di un rinnovato interesse per il Vietnam. Tornando a casa fu seguito da Il cacciatore, un film direo da un nome relativamente nuovo, Michael Cimino, che sbucò dal nulla surclassando Fuga di mezzanoe con la sua violenza e il suo messaggio all’America. Divenne il film dell’anno. L’anno dopo sarebbe stata la volta di Apocalypse Now, presentato a Cannes; dopodiché sarebbero arrivati Sylvester Stallone, nei panni del reduce del Vietnam nei due Rambo (1982 e 1985), e Chuck Norris, che va alla ricerca dei soldati americani dati per dispersi in Rombo di tuono (1984) e nei Missing in Action successivi, tui campioni di incasso. A me, tuavia, l’entusiasmo per il Vietnam sembrava un fenomeno intermiente e temevo che Platoon, così come Nato il quaro luglio, non fosse destinato a essere il film giusto al momento giusto. La prendevo con filosofia; “il mio Vietnam” si era consumato come una fiammella. Niente autocommiserazione. Ma la sceneggiatura di Platoon mi aveva aperto tante porte, ero contento per questo e avevo molto lavoro.
A differenza di Ron, io almeno avevo Fuga di mezzanoe ad alleviare la delusione. Il film uscì nell’oobre 1978 facendo registrare incassi lusinghieri tanto negli Stati Uniti quanto in Asia e in Europa. Alla Columbia furono tui sorpresi e soddisfai quando il film alla fine incassò una cifra complessiva vicina ai cento milioni di dollari. I Golden Globe furono la prima tappa lungo la strada verso gli Oscar, cui eravamo chiaramente destinati e nei quali avremmo sfidato come miglior film Il cacciatore, Il paradiso può aendere, Tornando a casa e Una donna tua sola. Alcuni critici furono feroci, al punto da buarla sul personale. Pauline Kael massacrò tanto Parker quanto me accusandoci di aver realizzato “una pornografica fantasia sadomasochistica, meschina e fintamente viscerale”; e il suo odio non si fermava a questo. Io mi sentivo incompreso, ma riguardando il film ad anni di distanza riconobbi il crudele senso di violenza che all’epoca albergava anzituo in me stesso. Sì, perché l’avevo vissuto in prima persona: in guerra, in galera, nella marina mercantile, in vari momenti della vita da civile avevo visto alcuni degli aspei peggiori della razza umana. Perché non mostrarli? Non c’era nulla di finto. Anch’io ero in parte una bestia, perché in Vietnam ero stato al servizio della Bestia con la B maiuscola. Avevo ucciso a suo nome. Perché negarlo? Non era una giustificazione, ma sapevo che, se fossi stato oppresso quanto lo era stato Billy Hayes in quel carcere, avrei usato qualsiasi arma a disposizione pur di uscirne. Al processo avrei urlato anch’io contro i giudici fasulli che mi avevano condannato a trent’anni. E anch’io avrei strappato a morsi la lingua di colui che mi aveva tradito! Dopo il Vietnam, mi ero tenuto dentro talmente tante cose da sentirmi giustificato nello sfogare la mia rabbia inesplorata, la mia “ira funesta”. Nel film, dopo che la sentenza è stata arbitrariamente commutata da quaro a trent’anni, Billy Hayes esplode nell’aula di tribunale: Tu! Vorrei che tu fossi qui dove mi trovo io adesso, e sentissi quello che sto sentendo io adesso, perché allora capiresti che c’è bisogno di una cosa al mondo. Della pietà. Capiresti che il conceo di ogni società è basato sulla capacità di comprensione che possiede, e sulla sua generosità, e sul suo senso di giustizia… ma sarebbe come chiedere a un orso di cacare nel cesso. Un
popolo di porci è strano che non mangi il maiale. Gesù Cristo ha deo di perdonare, ma io non posso. Io odio. Io odio voi. Odio la vostra nazione, e odio il vostro popolo! Che siano maledei i vostri figli per sempre, perché sono porci! Tu sei un porco! Siete tui porci!
Eccessivo? Sopra le righe? Assolutamente sì, figurarsi poi usare certe parole in aula, chi ne avrebbe il coraggio? A dea sua, il vero Billy li aveva “perdonati per ciò che avevano fao”, una rivelazione faa a posteriori, molto tempo dopo l’uscita del film, e che sembra un po’ troppo evangelica. Ma il punto è che i miei dialoghi avevano scioccato gli speatori in un modo insolito. Al cinema, il protagonista condannato ingiustamente non può aaccare, deve acceare l’ingiustizia di questo mondo. L’acceazione serve a renderlo vulnerabile, umano. Io invece, con il benestare del regista, avevo sfidato le convenzioni. Avevo voluto che il mio personaggio fosse umano, vulnerabile e crudo, che perdesse la calma, si arrabbiasse, si arrabbiasse davvero. Al diavolo il buon gusto! anto a Billy, aveva voluto a tui i costi che il film venisse realizzato e non aveva espresso alcuna riserva sul copione, almeno che io sappia. L’istinto mi diceva che il pubblico si sarebbe immedesimato in quei sentimenti perché tui abbiamo subito ingiustizie. Tui in un modo o nell’altro siamo stati Jean Valjean – e anche l’ispeore Javert. Di certo, quella scena in tribunale e diverse altre del film vengono ricordate tuora, anche solo per il loro valore provocatorio. Le immagini e i sentimenti espressi in Fuga di mezzanoe non lasciano indifferenti. La competizione per gli Oscar comporta un immancabile strazio per tui i partecipanti. All’epoca un Oscar era importante, ma niente in confronto a quello che sarebbe diventato negli anni Novanta, quando Harvey Weinstein e la Miramax avrebbero portato l’arte della promozione a nuove vee. C’era sempre l’infondata diceria dei voti comprati, in quanto si arrivava agli Oscar dopo una successione di eventi che iniziava con i Golden Globe a gennaio. I Globe sono assegnati da una cerchia ristrea di giornalisti stranieri di stanza a Hollywood, un gruppo piuosto insignificante di scribacchini privi di un vero pubblico di leori nei rispeivi
Paesi di origine, ma che ciononostante possedevano un prestigio che faceva gola a qualsiasi produore in quanto segno di popolarità, un po’ come essere elei rappresentanti degli studenti alle superiori. C’erano poi i premi della critica a New York e a Los Angeles. Anch’essi avevano una loro valenza, per lo più circoscria e autoreferenziale, credo, finché in questa cerchia non penetrò Harvey, come Weinstein è sempre stato chiamato. Si traava di critici che spesso prediligevano i film meno commerciali o, deo in altri termini, film non necessariamente destinati a essere visti da un vero pubblico. Fuga di mezzanoe era troppo volgare e popolare per la loro considerazione. Il cacciatore fu, come ho deo, la grande sorpresa del 1978, con la sua caraerizzazione mitica e immaginifica dei prigionieri di guerra americani torturati da malvagi vietnamiti che non smeono un momento di blaterare con stridule esclamazioni guurali. La cosa irritò Alan Parker e David Punam, convinti di arrivare in cià come l’avanguardia di una nuova ondata di registi britannici: Ridley Sco (I duellanti), Hugh Hudson (Momenti di gloria), Franc Roddam (adrophenia), Adrian Lyne (Flashdance), Roland Joffé (Urla del silenzio). Tui provenienti dalla pubblicità, gli inglesi erano oimi registi, capaci di muovere la macchina da presa in modo ammaliante e suggestivo, forti di aori magnifici e in grado di fare cinema a costi più bassi. Con Fuga di mezzanoe, Parker e Punam avevano tirato fuori qualcosa di esotico, con inedite atmosfere mediorientali e la tesa, lamentosa musica di Moroder a stimolare ulteriormente i sensi dello speatore. E invece ecco che con Il cacciatore c’erano di nuovo gli americani, presi dalla loro maledea sindrome del Vietnam. Non abbiamo forse già sofferto abbastanza, pensavano Parker e Punam, a causa dell’ego ipertrofico del megaboss Peter Guber o di quello sceneggiatore con il suo maledeo copione di Platoon? Basta! Dentro di loro si radicò un disprezzo per tuo ciò che era americano (tranne i soldi, ovviamente); e in seguito la carriera dello stesso Punam venne azzoppata a causa delle sue critiche rivolte al sistema hollywoodiano.
Per me la serata dei Golden Globe prese una piega particolare. Nei vari party organizzati alla vigilia della cerimonia avevo finalmente potuto incontrare Brad Davis, la nuova stella protagonista di Fuga di mezzanoe; mi sembrò un giovane arrabbiato e volubile che si era via via calato nel ruolo. Era molto legato al vero Billy Hayes, e tui e tre finimmo per condividere alcolici, aalude e qualche striscia di cocaina. est’ultima stava facendo la ricomparsa a Hollywood come droga ricreativa, credo, per la prima volta dagli anni Venti. I singoli consumatori c’erano sempre stati, ma ora stava diventando qualcosa di popolare, a malapena nascosta nelle situazioni pubbliche, con gli aori più giovani che cominciavano a farne grande uso nei party. La cocaina era fascinosa, sufficientemente innocua e divertente. Stimolava grande energia e risate e per me non era nulla più di questo – all’inizio. Una stupenda esplosione di “fuoco amico”, sì, ma io una grande energia ce l’avevo già. Perciò la usavo sporadicamente, come appunto successe al party dei Golden Globe, noto per essere scatenato e privo di controlli, a differenza di quello degli Oscar. Così, mentre gli interventi e i premi per la televisione si trascinavano per le canoniche tre ore prima dell’ultima mezz’ora dedicata ai grandi premi per i film, io, Billy e Brad tirammo cocaina nel bagno degli uomini della sala di ricevimento del Beverly Hilton, in un via vai di altri gruppei di ospiti che facevano la stessa cosa. Poi al tavolo, prima fila centrale – grazie a Dio la cerimonia non veniva ancora trasmessa in direa TV – continuammo a ridere tra di noi e a divertirci da mai mentre Parker ci guardava male. Parker, come ho deo, non era un uomo felice, e immagino che la prospeiva di starsene lì ad aspeare che Cimino vincesse il premio come miglior regista per Il cacciatore rendesse ancora più cupa la sua visione del mondo. Fu perciò dopo qualche tiro di coca, una o due pillole di aalude e parecchi bicchieri di vino nel corso di quelle tre ore, che fu infine annunciato il mio nome per la miglior sceneggiatura non originale. Non che fossi sorpreso, perché
in molti mi avevano deo che avrei vinto. Mi sentivo come un cavallo da corsa sul quale tanti stavano scommeendo. L’applauso risuonò assordante nelle mie orecchie, il salone cominciò a ondeggiare nella pura gioia del momento. Il mio lato ribelle aveva morso il freno per tua la sera, o forse da quando avevo visto la faccia lugubre di Alan Parker e mi ero ricordato di tue le umiliazioni che mi aveva inflio. Chissà? Forse il diavolo era in me quella sera. Stavo partecipando a una cerimonia insieme a tui coloro che avevano rifiutato Platoon e Nato il quaro luglio, e che avevano appena subissato di applausi la manciata di telefilm polizieschi candidati ai vari premi. Erano telefilm che avevo visto e non me n’era piaciuto quasi nessuno; rappresentavano il trionfo del mondo nixoniano basato su “ordine e legalità”, con gli sbirri che sbaevano in galera gli ultimi della società, i neri e gli ispanoamericani, in quanto “caivi”, spacciatori, emarginati. Tui questi aori e produori lodati per aver leccato i piedi alla polizia. ell’atmosfera di autocompiacimento mi faceva schifo. Ma c’era anche qualcos’altro che stava montando in me, anche se non riuscivo a capire cosa di preciso. L’avevo visto in Vietnam. Gli Stati Uniti sono sempre prontissimi a dare lezioni di comportamento agli altri, che si trai di droga o dirii umani, ignorando invece la nostra enorme fame di droga in patria. Avevo sempre detestato i bulli, a scuola, in guerra, e adesso li stavo scoprendo anche qui, nella mia cià dei sogni – Hollywood. Ma in maniera più subdola. I bulli peggiori controllano silenziosamente l’etere, i contenuti, la mentalità, e così finiamo per pensare tui allo stesso modo. Così, quando salii sul palco per ricevere il Golden Globe e avere il mio momento, cominciai a spiegare al pubblico ciò che mi stava davvero passando per la mente. Non che fosse necessario, ma di certo le facce di Brad e Billy mi spronavano ad andare avanti. Stavo cercando di dire qualcosa del genere, che probabilmente è molto più chiaro di quello che dissi davvero: “Il nostro film non parla solo della Turchia… ma della nostra società. Vedete, noi arrestiamo la gente per
droga, la sbaiamo in galera… e consideriamo eroi quelli che lo fanno… e…” Il discorso andava avanti. Parecchi secondi. Non era abbastanza chiaro. Avevo la lingua secca e pesante, e mi stavo sforzando di spiegare il conceo, ossia che condanniamo le persone al carcere senza renderci conto di cosa stiamo facendo a noi stessi come nazione. Ma mi ingarbugliai perché non me l’ero scrio in anticipo e perché ero più sballato di quanto pensassi. Stavo perdendo gli ascoltatori. Un silenzio di tomba calò sulla sala… e poi partirono i fischi, sempre più forti. La cosa successiva di cui mi resi conto fu la musichea che accompagnava la mia uscita, mentre i presentatori, Chevy Chase e Richard Harris, entrambi a loro volta formidabili animali da party, entravano da destra e da sinistra per portarmi via, o meglio “accompagnarmi” giù dal palco il più velocemente e garbatamente possibile – mentre il coro di fischi e mugugni si faceva sempre più assordante. Il messaggio che avrei voluto mandare era andato evidentemente perduto. Tornai imbarazzato al nostro tavolo che, come ho deo, era al centro della prima fila. Non ero a disagio per quello che avevo cercato di trasmeere, e forse qualcuno dei presenti mi aveva capito, ma nessuno disse niente mentre la cerimonia si avviava alla conclusione. Parker, paonazzo di vino rosso, mi guardava in cagnesco, mentre Punam e Guber evitavano il mio sguardo. Brad e Billy si limitarono a un sorriso neutro prima di passare all’applauso successivo. Cimino venne effeivamente premiato come miglior regista per Il cacciatore. Poi Il paradiso può aendere ricevee il premio per la migliore commedia, facendo salire sul palco Warren Beay al culmine dello splendore in veste di produore, coregista, cosceneggiatore e aore. E poi, a sorpresa, Fuga di mezzanoe sconfisse Il cacciatore come miglior film drammatico. L’annuncio ci lasciò di stucco. A turno, Peter Guber, David e i due Alan, Parker e Marshall, salirono sul palco. Infine partì la musica che accompagnava la
loro uscita e, dopo tre lunghe ore, la folla in smoking si alzò per lasciare la sala. Parker non perse molto tempo con me, confermato nelle sue opinioni. “Ti sei dato la zappa sui piedi, Oliver. Avevi già l’Oscar in mano. Pensi che ne vincerai mai uno, adesso? Ma la cosa peggiore è che hai danneggiato il film.” Era chiaramente in collera, voleva punirmi; Tom Courtenay lo avrebbe interpretato alla perfezione, come aveva fao con il commissario politico comunista intriso di odio di classe nel Door Živago, o con il dispotico prigioniero di guerra inglese in alcuno da odiare – stessa voce, caraeristiche, espressione, e con tuo l’astio di un sistema scolastico e sociale britannico che gli aveva roso l’anima. Punam rincarò la dose dicendo “esto ci danneggerà sicuramente,” o qualcosa del genere, e persino Peter Guber, al quale mi sentivo più legato rispeo agli altri, mi si avvicinò e, malgrado la soddisfazione per la vioria, si lamentò senza buarla sul personale: “Era meglio se stavi zio. Complimenti comunque.” Il salone si svuotò, senza che nessuno venisse a cercarmi. Tornai a casa triste e ancora pieno di vergogna. Mancavano due mesi e mezzo agli Oscar, ma mi ero dato davvero la zappa sui piedi. Forse avevo affossato il film, di certo avevo azzerato le mie possibilità di vioria. Ma il problema non era quello: non ero certo salito sul palco, come aveva pensato Parker, per supplicare un Oscar. Avevo solo voluto esternare i miei sentimenti, ed era stato un grosso errore. I sentimenti. Esprimerli è pericolosissimo. La maina dopo il mio agente sminuì l’episodio. Della serata era stato realizzata una registrazione che vidi venticinque anni più tardi su YouTube, anche se ormai è stata rimossa. Mi fece ridere. Che babbeo ero stato. Non per quello che avevo deo, ma per averlo deo così male. Ma Hollywood ai tempi era molto meno isterica e più tollerante rispeo a oggi. L’episodio si meritò solo un accenno su “Variety” e su “e Hollywood Reporter”. Si parlava di me – “Stone doveva essere strafao!” – ma in termini divertiti, in
un’atmosfera generale che andava rilassandosi grazie alla nuova generazione di registi che stava affermandosi sul finire degli anni Seanta, i “giovani turchi”, come ci eticheò Jane Fonda. E senza le telecamere della televisione, in fondo ero stato visto solo dal migliaio di presenti in quella sala – non avevo rimediato una figuraccia in mondovisione. Inoltre continuavo a ricevere offerte di soldi veri. Venivo inseguito. Produori che un tempo mi consideravano con l’aenzione riservata a una mosca adesso mi guardavano negli occhi, per cercare di cogliere i miei ragionamenti. Il glamour e la velocità di Hollywood erano inebrianti. Durante la festa organizzata nella loro villea newyorkese da Arthur Krim, presidente della Orion Pictures, e da sua moglie Mathilde, pioniera della ricerca sull’AIDS, rimasi sconvolto dal fao che potessero essere presenti, in carne e ossa, nello stesso momento, tui quei volti noti: Yul Brinner, Dustin Hoffman, Faye Dunaway, Barbra Streisand, Rex Harrison, Julie Andrews, Liza Minnelli, William Holden, Natalie Wood eccetera eccetera eccetera. Per quanto mi riguarda, le stelle del cinema che vedi in cinemascope non sono davvero reali. Dovrebbero scendere sulla terra solo di rado, restare nascoste, fuori dalla realtà. Perciò andavo a presentarmi intimidito, in soggezione, e bevendo ancora di più per distendere i nervi probabilmente feci figuracce a ripetizione, nel tentativo di essere arguto o provocatorio e non passare per noioso. Poi loro si allontanavano. Chissà cosa pensavano. C’è qualcuno che ascolta davvero in circostanze del genere? Ne dubito. Ma le prime impressioni, spesso sbagliate, lasciano il segno, e già questo è assurdo. Tui abbiamo bisogno di almeno qualche ciak. Ora che sono più anziano, quando incontro qualcuno a una festa gli dico sinceramente: “No, non mi ricordo di te, ma questo è positivo. Ci dà la possibilità di riprovare da capo. Io sono Oliver, e tu?” I party sono davvero dei campi minati. Arthur Krim e i suoi soci erano stati, a partire dai primi anni Cinquanta, gli stimatissimi proprietari della United Artists, che avevano poi venduto a un’enorme compagnia
assicurativa (la Transamerica) per fondare nel 1978 la Orion Pictures, assurta ben presto al ruolo di principale distributore indipendente nel mondo del cinema, grazie anche all’accesso alla rete di sale cinematografiche della Warner Bros. La Orion fu la prima a propormi di scrivere e insieme dirigere un mio film. Ero in paradiso. Un gruppo di investitori armeni mi stava inoltre offrendo una piccola fortuna per scrivere un film ad alto budget sul genocidio del loro popolo perpetrato durante la Prima guerra mondiale; la strage di milioni di armeni era una tragedia terribile e poco nota, ma le intenzioni cinematografiche degli investitori erano minate dall’odio verso i turchi – vero motivo per il quale mi apprezzavano, a torto, in relazione a Fuga di mezzanoe. Non me la sentivo di meere mano a un’altra orrenda storia turca. Oenni appuntamenti con personaggi del calibro di Jane Fonda, uno dei miei idoli per la sua schieezza sul Vietnam. Jane aveva sfidato ogni convenzione dell’epoca e interroo il suo esilio con Una squillo per l’ispeore Klute, Giulia e più di recente Tornando a casa. Aveva un suo modo deciso di fare le cose, e aveva fondato una compagnia di produzione gestita per lo più da donne con idee affini alle sue. Mi sarebbe piaciuto lavorare con lei; anzi, quando ci incontrammo, probabilmente mi scintillavano gli occhi, rapito com’ero dalla forza del suo volto e della sua voce, specchio dell’iconico carisma del padre Henry. Jane intendeva adaare per il cinema e Crash of ’79, un saggio dell’economista Paul Erdman sulla fine del nostro sistema finanziario, e voleva proprio me, “espressamente”; quantomeno, questa era l’impressione che ti dava una grande arice. Io morivo dalla voglia di abbracciare un progeo che mi permeesse di frequentarla, ma quando lessi il libro di Erdman capii che non sarei mai riuscito a dargli il taglio giusto; era un testo affascinante, ricco di informazioni, ma privo di una drammaturgia. Come potevo commeere questa forma di suicidio per Jane? Che oltretuo era sposata, con Tom Hayden. A malincuore rinunciai e Jane, neanche a dirlo,
proseguì a testa bassa con la sua straordinaria forza di volontà, traendone infine un film costoso e confuso, Il volto dei potenti (1981), con Kris Kristofferson nel ruolo del protagonista. Negli anni continuai a osservarla da lontano via via che esprimeva il proprio pensiero su svariati temi e abbracciava stili di vita alternativi, una vera icona del nostro tempo. Rispeo a lei, mi sentivo un conservatore; i miei veri sentimenti erano ancora sovversivi e lenti ad acquistare fiducia, ma mi stavo preparando a esplodere contro le leggi di quell’epoca. Barbra Streisand, la regina di Hollywood in termini di ricchezza e prestigio guadagnati con la musica e il cinema, mi invitò una domenica nel suo sterminato ranch di Malibu, dove viveva con il fidanzato Jon Peters, scalpitante e vagamente a disagio nel ruolo di secondo violino; impossibile non notarlo. Ex parrucchiere delle dive, Jon aveva prodoo con Barbra il fortunato remake di È nata una stella (1976) e si era fao ingolosire dal successo cinematografico. Con mio stupore, di lì a poco avremmo finito per lavorare insieme. Barbra era chiaramente una donna scaltra e dall’occhio acuto, eppure rimasi piuosto sorpreso dal suo piacere nel mostrare la proprietà, fuori e all’interno, alla mezza dozzina di ospiti che aveva invitato quel giorno, specie nell’esibire i pezzi d’antiquariato e ancora di più i gioielli, che tirò fuori da vari scrigni. Aveva il piacere tipico delle mamme ebree nel fare acquisti e nel magnificare gli oggei che era riuscita a scovare a prezzi vantaggiosi. Non che ne avesse bisogno, ce l’aveva semplicemente nel sangue. All’insaputa di alcuni di noi, aveva ambizioni da regista che sarebbero ben presto emerse, e con successo. Come Jane e altre arici hollywoodiane, Barbra possedeva la caraeristica di essere potente e, magari, pericolosa per la tua anima, motivo per cui trovavo eccitante e conturbante starle accanto. John Frankenheimer, un uomo tempestoso, innovativo ed estremamente passionale, la cui carriera araversava all’epoca un momento difficile, aveva direo alcuni dei miei film preferiti di tui i tempi, in particolare Va’ e uccidi (1962)
e See giorni a maggio (1964). Fui invitato nel suo studio e quando, provocatoriamente, criticai la sua recente scelta di dirigere un pessimo film horror lui andò su tue le furie e mi cacciò in malo modo. Fu imbarazzante, ovviamente, e ci rimasi malissimo. Anni più tardi, dopo che avevamo avuto modo di conoscerci meglio e lui aveva molto apprezzato alcuni dei miei film, chiese umilmente che fossi io a consegnargli il premio alla carriera conferitogli in occasione dell’annuale bancheo dei montatori cinematografici. Per l’occasione pronunciai un sentito discorso che commosse tanto lui quanto la moglie. Credevo a ogni singola parola che dissi. John morì non molto tempo dopo. Il meticoloso e paziente regista austriaco Fred Zinnemann (Mezzogiorno di fuoco, 1952; Giulia, 1977) voleva me per il suo sogno di realizzare un film sull’alpinismo, che era il suo hobby predileo. Snello e in perfea forma fisica nonostante avesse passato i sessant’anni, Zinnemann era puntiglioso e metodico nel suo lavoro, come se realizzare un film equivalesse a scalare una montagna, passo dopo passo. Ma la sua storia, traa dal romanzo Solo Faces di James Salter, non avrebbe mai potuto funzionare dal punto di vista cinematografico, mancando di quella tensione primaria di cui un film, a differenza di un libro, ha assolutamente bisogno. Fui costreo a dirgli di no e, quando Zinnemann riuscì finalmente a realizzarlo, con Sean Connery come protagonista (Cinque giorni una estate, 1982), il film si rivelò un flop. Si rivolse di nuovo a me in seguito per un altro progeo che cullava da una trentina d’anni, l’adaamento della Condizione umana di Malraux, ma anche questo sembrava più sogno che realtà. Credo in effei che anche Cimino fosse interessato a farne un film, tanto da assicurarsi i dirii del libro. Ma a causa del fiasco clamoroso dei Cancelli del cielo (1980), il costosissimo film che aveva girato dopo Il cacciatore, Michael non riuscì a concretizzare il progeo. Le strade di Hollywood sono lastricate di sogni infranti. Adesso ero un bene richiestissimo. Persino il mio nome, il suono stesso – O-L-I-V-E-R S-T-O-N-E – tornava alle mie orecchie
come un’eco. È pazzesco come le parole possano assumere un significato nuovo. A volte mi veniva da chiedermi: sono ancora in questo corpo, sono in trip? Erano i flash dell’LSD? Ero diventato, senza pensare agli aspei finanziari, uno dei nomi nuovi che tui volevano nella propria sceneggiatura per poterla davvero trasformare in film. Intorno a me sentivo le parole “brillante”, “genio”, ed era una soddisfazione che accresceva la fiducia in me stesso. Per la prima volta nella vita mi presentavo a un party hollywoodiano e immediatamente venivo riconosciuto. Un successo non da poco, per uno che aveva fao il tassista di noe ed era stato carne da cannone nel Vietnam, far fermare un party – anche solo per un istante. “Chi è quello? Ah, sì! È Herman Melville. Ha scrio Moby Dick. È un genio. E ora cosa sta scrivendo? L’Odissea, mi pare.” Fiuuuu! “Massimo rispeo, amico,” come avrebbe deo Tony Montana. Non si compra con i soldi? Fanculo i milionari! Noi eravamo i creativi. La stima dovevi guadagnartela, e meno gli altri sapevano di te, più eri un nome nuovo, e più diventavi grande. Fu un ingresso “favoloso” (e uso questo aggeivo in tua la sua sincera e superficiale valenza adulatoria) in un nuovo ao della mia vita. Mi sono sempre chiesto come ci si doveva sentire a essere presentati alla corte di Versailles ai tempi del Re Sole. Be’, la Hollywood di fine anni Seanta era la mia Versailles. Nulla sarebbe mai stato paragonabile a quella sensazione. Fu una sorta di acme della mia vita pubblica. Fino ad allora ero vissuto nella speranza e nella povertà, ma anche nella vergogna e vicino alla morte. Perdonatemi dunque, se mi sballavo e volavo alto come un aquilone, per usare una metafora che esprime con precisione il mio stato d’animo di quel periodo. I party potevano essere pacchiani eventi ufficiali o festicciole intime e piccanti. Ricordo in particolare una piccola cena innaffiata da alcol e droghe durante la quale vidi il brillante, arguto Gore Vidal tentare di sedurre Mick Jagger, che il primo avrebbe voluto come protagonista del film trao
dal suo nuovo romanzo, Kalki, che ovviamente voleva far adaare a me – suggerendo che avremmo potuto fare una cosa a tre. Avrei potuto scrivere la sceneggiatura nella sua villa di Ravello. Certo, perché no? La cocaina scorreva a fiumi. Era arrivata con la disco music di Barry White e Donna Summer, era veloce e brillante come l’industria discografica; il cinema, semmai, era troppo serioso, fuori moda. La cocaina scatenava grandi energie e risate, e non sembrava lasciare veri e propri strascichi negativi. Non allora. Eravamo giovani e avevamo soldi da buare. Era la vita che mia madre aveva sempre sognato. E che senz’altro aveva vissuto, dopo il divorzio. Ma da persona perennemente insoddisfaa qual era, negli anni successivi sarebbe venuta alle feste insieme a me. C’era una parte di me a cui lo stile e l’effervescenza di quella vita piaceva davvero. Argute conversazioni con addei ai lavori, la possibilità di un contrao, l’euforia dei soldi, la seduzione di un nuovo soggeo senza il lavoro che poi sarà necessario. Donne soilmente pericolose che ti sorridono, che sbucano sculeando dallo sfondo; erano tantissime le belle ragazze che migravano continuamente verso Hollywood come nuovi stormi di uccelli, in cerca di un po’ di tepore invernale. Ciò che era affascinante di noe poteva facilmente diventare triste al maino. Di baldoria e avventure non mi saziavo mai, come mia madre. Il lato paterno invece mi richiamava al dovere, al lavoro che a volte era duro dopo una lunga noe. Ma in genere riuscivo a rispeare la quotidiana tabella di marcia dello scriore, sei giorni alla seimana, da solo nel mio appartamento. Le feste organizzate da Sue Mengers erano veri e propri esperimenti sociali. Nel suo schieo stile newyorkese, Sue – la superagente cinematografica dell’epoca – era talmente scandalosa da provocare reazioni divertite nei suoi ospiti preferiti e negli occasionali estranei, come me, che ammeeva in casa, per poi studiarne le reazioni come fossero pesci in una vaschea. Intorno ai suoi tavoli trovavi Barbra Streisand, Jon Peters, Ryan O’Neal, Candice Bergen, Ali MacGraw, Goldie Hawn e Kurt Russell, Ray e Wendy Stark,
un giovane Robin Williams, Neil Simon, Walter Mahau, Gore Vidal e chi più ne ha più ne mea; molti erano suoi assistiti. Sue avrebbe fao in modo che uno di loro, Michael Caine, recitasse nella mia prima regia hollywoodiana, La mano, lavoro per il quale Caine fu pagato profumatamente – per usare le sue stesse parole anni dopo: “Avevo bisogno di meere un altro paio di stanze sopra il mio garage.” Nonostante Caine fosse uno dei migliori raconteurs che avessi mai ascoltato, il migliore era Mahau, che aggiungeva una punta di aceto a ogni suo commento. Tenere in pugno un tavolo con stelle di quel calibro e far sì che tui ridano, credetemi, è un’arte di conversazione suprema che va ammirata. Stranamente Neil Simon, forse il commediografo di maggiore successo dell’epoca, non parlava quasi mai e non aveva reazioni facciali: una persona noiosa come poche altre. Robin Williams invece, forse per nervosismo, saltava la conversazione e snocciolava lunghi, esilaranti monologhi. Da questo punto di vista, Mahau e Caine si sarebbero trovati a meraviglia nei saloi della Londra del Seecento messi in scena nella Scuola della maldicenza di Richard Brinsley Sheridan, probabilmente il banco di prova più duro quanto ad arguzie e umorismo tagliente. Sue era, per sua stessa ammissione, una peegola spietata la cui lingua poteva distruggere qualsiasi reputazione – ma la gente amava la sua caiveria e temeva lei proprio per questo. La vidi più volte negli anni fino alla sua morte nel 2011, commeendo senz’altro più di una gaffe con la mia schieezza. Ma erano gaffe che Sue tollerava, perché continuava a corteggiarmi per avermi come cliente. Non lo divenni mai. In un certo senso mi spaventava. Nell’Inghilterra del Seecento non sarei durato molto; sicuramente sarei finito trapassato in un duello all’ultimo sangue. Durante la seimana degli Oscar nell’aprile del 1979, Barry Diller, il gelido amministratore delegato della Paramount, diede un party scintillante. Io era ancora agitato e insicuro, quando Diane Keaton, un’altra delle maggiori dive dell’epoca, mi diede un caloroso benvenuto, con un aeggiamento gentile e alla buona. Ed ecco, ovviamente,
arrivare il suo compagno di allora, l’uomo che conosceva la forza delle espressioni facciali, che ne era anzi il padrone assoluto. Con la sua straordinaria bellezza, l’uno e oantoo di statura e quegli occhi lucenti, Warren Beay sapeva di avere su di sé gli sguardi di tua la sala e ci giocava alla grande nonostante la credibile, adorabilmente finta timidezza che meeva nelle sue interpretazioni. All’epoca aveva ancora i capelli vaporosi del film Shampoo prodoo da Jon Peters – oggi farebbero ridere, ai tempi erano stupendi – ed era prossimo a vincere l’Oscar per Il paradiso può aendere. Le stelle si erano allineate e Beay, con la benedizione di Barry Diller, stava per dirigere e interpretare Reds, epico film di ambientazione storica che avrebbe quasi mandato in fallimento la Paramount. Dalla sua bocca provenne un freddo, superficiale “ciao”, rivolto a un possibile concorrente con Fuga di mezzanoe, dopodiché mi ritrovai davanti agli occhi il suo amicone Jack… semplicemente, ineffabilmente Jack, come un vicino di casa. Tui conoscevano Jack del New Jersey, o pensavano di conoscerlo. Da parte mia, ogni volta che lo incontrai e gli parlai, restandone affascinato, mai mi sarei azzardato a pensare che lo conoscevo, o che comprendevo il significato dei suoi dialoghi beat, alla Kerouac. Leeralmente. Per quanto mi sforzassi di seguirli, non capivo mai quei suoi lunghi, tortuosi discorsi. E nonostante vedessi gli altri che ascoltavano e ridevano, sono sicuro che anche la maggior parte di loro non avevano idea di cosa stesse dicendo. È questa la forza dell’alone leggendario che circonda Jack Nicholson. Finalmente arrivò la cerimonia degli Oscar, quella domenica sera di aprile, e per me fu un nuovo picco. Ero sull’Olimpo, agitato perché tui, malgrado la figuraccia ai Golden Globe, mi dicevano che avrei vinto. Accaldato, sudato soo lo smoking, continuavo ad alzarmi dalla poltrona per scendere nella toilee e guardarmi allo specchio, mentre la cerimonia si trascinava verso la terza ora. Avevo trentatré anni ed ero a disagio. Cristo era morto a trentatré anni,
un’età che dunque, nella mia testa, era una linea di demarcazione, oltre la quale iniziava inesorabile la vecchiaia. Fu il trionfo del glamour dall’inizio alla fine: prima il tragio a bordo della limousine che era venuta a prendermi, poi il maestoso tappeto rosso all’aperto, le interviste con le televisioni, i fan che acclamavano festanti, la sigla musicale, l’inizio della cinquantunesima edizione degli Academy Awards! La serata mi sembrò un punto di svolta, un cambio della guardia. Era un sogno, vedere Cary Grant, Laurence Olivier e John Wayne tui insieme. Grant, impeccabile nella vita vera come sullo schermo, mi rivolse un sorriso caloroso, come se mi conoscesse. Olivier, con le sue lunghe ciglia, ricevee un Oscar alla carriera e, nel tentativo di essere più shakespeariano di Shakespeare, per una volta si rovinò facendone una fiorita, esagerata, mal scria imitazione. Ma che importa – lui era Laurence Olivier. Nel gran finale, invece, per la consegna del premio al miglior film, arrivò il suo opposto, John Wayne, caracollando da solo fino al centro del palco. Era ancora un omone, un metro e novantatré. Nonostante stesse morendo di cancro e indossasse una brua parrucca, nonostante i polmoni che ansimavano faticosamente, restava un monumento; tui i presenti ne erano consapevoli. Ormai erano svanite persino le resistenze alle sue deplorevoli idee politiche. Big John pronunciò malamente quasi tui i nomi e i titoli dei film candidati – in particolare storpiò il cognome “Cimino” trasformandolo in qualcosa tipo “Simoncio”, un immigrato siciliano appena sbarcato in America – prima di annunciare l’Oscar al cupo Il cacciatore e scatenare un applauso. Io mi sentivo stranamente combauto. Fu un momento di tripudio, una scena perfea. E per quanto mi riguardava, la versione hollywoodiana del Vietnam – con Jane Fonda e Jon Voight che avevano vinto l’Oscar come migliore arice e miglior aore per Tornando a casa, e Apocalypse Now che sarebbe uscito l’anno successivo – era ormai completa. Né Platoon né Nato il quaro luglio sarebbero mai stati realizzati, anzi realizzarli non sembrava più necessario, e lo acceavo. Il Vietnam era sepolto, me
n’ero faa una ragione. el capitolo della mia vita aveva appena avuto un finale glorioso. Il mio turno era arrivato in precedenza. Lauren Bacall, accompagnata da Jon Voight, era entrata con incedere elegante per consegnare i premi per la sceneggiatura originale e il miglior adaamento. Mi aveva fao tornare agli anni aranta di Bogart e Huston: era ancora una lince, con quegli occhi felini e la voce roca da fumatrice. Il mio nervosismo era all’apice. Dio mi aiuti adesso. Ricorda, il pubblico non vuole lezioncine sulla guerra alla droga; e comunque, la maggior parte dei presenti non era nemmeno d’accordo con me, volevano un giro di vite contro gli stupefacenti oppure non volevano pensarci affao. Anzi, gli Stati Uniti stavano chiaramente scivolando verso un ampliamento del sistema carcerario, e la loa alla criminalità e al terrorismo era un tema di grande presa popolare. Perciò sta’ calmo, vecchio mio, di’ in frea quello che devi dire e smamma. Stavolta c’era la televisione, centinaia di milioni di speatori in tuo il mondo stavano guardando la cerimonia. Non fare casini, Oliver. Fuga di mezzanoe, per il momento, aveva vinto un solo Oscar, per la tesa e trascinante colonna sonora di Giorgio Moroder. Seduto non lontano da me c’era Neil Simon, il drammaturgo dal maggiore successo economico della sua epoca, mio concorrente per l’adaamento della sua stessa commedia, California Suite; seduti lontani uno dall’altra c’erano anche Elaine May e Warren Beay, in corsa per la loro riscriura del testo teatrale di Harry Segall. “And the winner is…” – quel grandioso tormentone della pausa mentre Bacall apriva la busta – “OLIVER STONE!” Wow. Un boato di applausi. Capii che il momento era speciale. Lo impressi nella memoria. Me lo piantai nel cuore – come un albero destinato a crescere. Mi avviai verso il palco. Non inventarti niente di strano. Devi solo arrivare fin lì senza inciampare nei gradini. Mia madre era allo Studio 54 a New York, a fare baldoria con una banda di scatenati amici gay. Mi aveva
fiduciosamente portato al cinema per tua la mia infanzia, la giovane francese che sognava ancora i film americani. Adesso suo figlio aveva raggiunto questo apice di successo. Se lo godee molto più di me, cosa che all’epoca mi irritava ma oggi mi rende felice. Papà era rimasto a casa a guardare la cerimonia in televisione, ma si era addormentato e aveva perso il momento della mia premiazione; era troppo tardi per le sue abitudini, poverino. Stavolta il mio discorso fu pronunciato molto meglio rispeo alla serata dei Globe, ma di nuovo il senso profondo non fu abbastanza chiaro, quando ingenuamente mi augurai “un po’ di considerazione per tui gli uomini e le donne che sono in carcere stasera in tuo il mondo”. Inutile stare a precisare che di quella popolazione fanno parte psicopatici e assassini a sangue freddo, perché tanto chi ascolta o se ne frega qualcosa? Ero semplicemente l’ennesimo autore che perorava una causa da un podio, con i capelli disordinatamente lunghi fino alle spalle e un’espressione vagamente sballata e persa. Ma ero abbastanza giovane da toccare una corda sensibile ed essere brevemente ricordato in un mondo nel quale, come avrei scoperto, gli autori sono estremamente intercambiabili. Ringraziai i miei colleghi e lasciai il palco. Lauren e Jon rimasero per consegnare il premio per la migliore sceneggiatura originale a Waldo Salt, Nancy Dowd e Robert Jones per Tornando a casa. Il backstage fu una bolgia infernale che non mi aspeavo assolutamente. Lauren mi abbandonò, c’erano star che correvano di qua e di là preparandosi al numero successivo. Cary Grant mi sorrise di nuovo. Oh, ecco Audrey Hepburn! E Gregory Peck! James Stewart che mi faceva i complimenti, con il suo straordinario calore. Cinquanta fotografi mi stavano sparando i loro flash in faccia, prima in una salea, poi in un’altra, e altreanti giornalisti mi lanciavano, come fossero granate, domande impegnative. Feci del mio meglio e, fradicio di sudore come una spugna, potei tornare al mio posto per il gran finale con John Wayne.
Dopo la cerimonia proseguii con l’Academy Ball e altre feste, intontito dall’alcol, e finii per ritrovarmi alquanto fao e ubriaco in una villa sulle Hollywood Hills dove ricevei i complimenti da così tante persone che tuo divenne un turbine indistinto. A un certo punto, durante la noe, comparve la faccia di Alan Parker. Congratulazioni a denti strei. Non ci fu più niente da dire tra noi – per anni. Ricordo la chiacchierata con un cerebrale Richard Dreyfuss, che l’anno prima aveva vinto l’Oscar come migliore aore protagonista per Goodbye amore mio!, e poi l’abbraccio affeuoso ricevuto da Sammy Davis Jr, che aveva amore per tui. Poi, verso le tre del maino, dal fumo e dalla musica sbucò una dea, ormai un po’ in là con gli anni ma ancora desiderabile, la voce tirata e roca abbastanza da sedurre qualsiasi Ulisse naufragato sulla sua isola. Kim Novak era la maga Circe, in grado di trasformare gli uomini in porci; ma ahimè, preferiva i suoi cani e i suoi cavalli nel ranch della California del Nord dove viveva in una reclusione dorata. Mentre conversavamo a bassa voce seduti su un divano, mi diede l’impressione di una donna che, mai soddisfaa degli uomini, avesse finalmente trovato la sua isola solitaria. La desideravo in silenzio e percepivo la sua chiusura. Kim era divertita dagli uomini, avvezza a essere desiderata, ma non poteva essere una comune mortale. Preferiva il suo sogno. Appena tre anni prima ero nel fango. Adesso ero su una vea che mai mi ero sognato di poter raggiungere. Ancora tre anni, e nel fango sarei tornato.
5 La caduta
Nel 2017, a quasi quarant’anni dall’uscita di Fuga di mezzanoe, è successa una cosa straordinaria. In un documentario a lui dedicato, Billy Hayes, il vero protagonista della storia e autore del libro da cui il film è trao, si mostrava divertito, persino orgoglioso di essere stato arrestato, ai tempi, solo al quarto dei viaggi con cui aveva cominciato a contrabbandare droga dalla Turchia agli Stati Uniti. Si vedeva come un antesignano della loa contro la guerra alla droga lanciata da Nixon negli anni Seanta. Sono rimasto di stucco. ando lo avevo incontrato a New York tanti anni prima, dopo aver leo il suo libro, avevo immaginato che quello per Billy fosse stato il primo viaggio come corriere della droga e in tue le nostre chiacchierate lui non aveva mai lasciato intendere il contrario. Billy aveva trasmesso la stessa aura di innocenza anche al produore Peter Guber, al coautore americano del suo libro e al team inglese che aveva realizzato il film. In un’intervista con il “Los Angeles Times” dopo l’uscita di questo documentario, Hayes ha di nuovo giocato la carta della viima, affermando che il film distorceva alcuni aspei chiave della sua vita. La cosa mi ha fao imbufalire, tanto da scrivere una leera al giornale, nel luglio del 2017, nella quale sollevavo la questione dei suoi tre precedenti viaggi. Hayes ha risposto a sua volta con una leera, affermando che “citare tali viaggi sarebbe stata un’ammissione di reato” e dunque “mi fu consigliato dal mio legale di non parlarne né di scriverlo nel mio libro”. Ah. Ce lo dice adesso. Considerato però che all’epoca della realizzazione del film era passato diverso tempo dalla sua fuga dalla Turchia, dubito fortemente che
Billy avesse intenzione di tornarci e affrontare la giustizia turca. La sua argomentazione serviva solo a nascondere la verità: Billy sapeva che il film non sarebbe stato girato se fosse stata nota la realtà dei fai. C’era un secondo tema, relativo alla sua sessualità. Io avevo immaginato che Billy fosse eterosessuale, dato che il memoir dava grande importanza alla figura della fidanzata, alla nostalgia che provava per lei; in una scena del film, il suo personaggio rifiuta le avance di un bel detenuto svedese. Adesso invece Billy affermava il contrario, abbracciando in pieno la propria omosessualità. Di conseguenza, il film è stato accusato di edulcorazione, oltre al fao di aver distorto la verità riguardo al contrabbando di droga. ando ti ritrovi in un labirinto costruito da un imbroglione, non c’è via d’uscita. Prodoo per un costo ufficioso di due milioni e trecentomila dollari, il film ne incassò circa cento in tuo il mondo e a tu’oggi viene regolarmente trasmesso in televisione, instillando nei genitori la paura per la sorte dei figli quando viaggiano in Paesi stranieri. A tui gli effei il trafficante di droga la fa franca, evade dal carcere e convince con l’inganno il proprio Paese a guardare un film nel quale recita la parte del ragazzo innocente che ha soltanto commesso un errore. E si fa una vita grazie all’essere Billy Hayes, qualsiasi cosa ciò significhi. Ancora oggi, a seant’anni suonati, Billy porta in giro uno speacolo basato sui suoi cinque anni di traversie. Come fai a non avere rimorsi? Non ho problemi a credere che Billy ci riesca. Ormai si è autoassolto. Ma pensa davvero che avrei potuto scrivere la sceneggiatura come la scrissi se avessi saputo queste cose sul suo conto? O che Peter Guber, colui che più di tui credeva in lui, e men che meno la Columbia avrebbero prodoo il film? Eppure, quando la verità è venuta a galla, non se n’è interessato nessuno tranne i critici ai quali il film non era piaciuto. Per me è stata l’ennesima lezione sul tema della menzogna. Contano qualcosa le menzogne? Evidentemente si può dire “chi se ne
frega della verità, questo è cinema”, e riceverne addiriura un beneficio. Io però sono ancora convinto che ciò significhi sorarsi alla responsabilità, che in quanto drammaturghi dobbiamo sforzarci di rispecchiare lo spirito della verità, se siamo in grado di conoscerla; fondamentale è una scrupolosa aività di documentazione. Ma un’ombra lunga grava ancora su questa impresa che è il cinema: tu puoi portare avanti le tue ricerche e arrivare a una verità ma, se questa verità non è memorabile, o è troppo complessa, alla maggior parte della gente non interesserà, non verranno a vedere il tuo speacolo. “Il pubblico vuole credere,” avrebbe deo Barnum. Su questo sasso, la mia carriera sarebbe incespicata più di una volta. Per il momento la vita era fantastica. Volavo alto. Ero stato appassionato di fumei fin da bambino e quando un produore indipendente del calibro di Ed Pressman mi offrì un contrao per scrivere e dirigere Conan il barbaro, ispirato al protagonista di dodici romanzi pulp degli anni Trenta scrii da Robert E. Howard, colsi l’occasione al volo. Pressman, erede di un’azienda produrice di giocaoli e noto per aver prodoo i primi film di Brian De Palma e Terrence Malick, mi dava fiducia, ma forse il progeo era troppo grosso e troppo prematuro. Avevo trentatré anni, ero single, i miei occhi andavano dove li indirizzava il testosterone; la mia fame e la mia ambizione non conoscevano confini quando erano concimate dalle erotiche atmosfere fantasy di Conan. Pressman mi propose come coregista l’esperto scenografo Joe Alves, che aveva fao Lo squalo e Incontri ravvicinati del terzo tipo, perché mi aiutasse a gestire i complessi elementi visivi del film. Acceai. Pressman offriva anche una cifra consistente nel caso il film fosse stato prodoo. Mi misi al lavoro su una tela di dimensioni gigantesche, immaginando un ciclo analogo al Tarzan di Edgar Rice Burroughs, uno dei più fortunati franchise (un termine nuovo, all’epoca) mai creati. Anche il successo della serie dei James Bond alimentava le mie ambizioni. Perché no? Era un’epoca
nuova per il cinema. Il fantasy era dietro l’angolo, pronto a esplodere. Robert E. Howard era un talento naturale e un po’ sfigato, recluso con la madre in una piccola cià del Texas, morto giovane senza mai raggiungere il successo di vendite ma avendo sognato sempre in grande. Il suo protagonista era un nuovo tipo di eroe, di non facile comprensione – proprio quello che faceva per me. Nel fraempo, il lungimirante Pressman aveva messo soo contrao il culturista più famoso del mondo, il magnetico Arnold Schwarzenegger, che all’epoca aveva al suo aivo solo un film e un documentario, per fargli interpretare il personaggio di Conan. L’accento di Arnold era surreale e, per dare il giusto ritmo alle sue baute, lo invitai nel mio appartamento per registrare su nastro la leura di un brano del fumeo scelto da me, splendidamente illustrato all’epoca dal disegnatore inglese Barry WindsorSmith (di cui mi sarei servito in seguito per La mano). Io leggevo la parte del suo alter ego, la sanguigna Valeria che arriva a salvarlo. VALERIA: CONAN:
Così mi tocca salvarti nuovamente il culo, eh bamboloo?
Sapevo che saresti tornata.
VALERIA:
Figurati, nemmeno all’inferno… Aento!
Un lurido mostro compare dal nulla… Valeria poi sbae a terra un maiale mutante con il muso ispido e spaventose zanne d’avorio, bloccandolo tra le sue snelle cosce dorate. (gli occhi accesi dall’arazione, mentre combae): Non mi viene in mente nessun’altra con cui andrei persino all’inferno.
CONAN
VALERIA: CONAN:
Sei un bugiardo!
E tu sei bellissima.
Arnold parlava in modo davvero buffo ma era abbastanza acuto da apprezzare il personaggio di Conan. Soprauo, possedeva quella singolare dote che il cinema adora: il carisma, emanato dal suo sorriso pronto e dal suo senso dell’umorismo; persino gli sconosciuti provavano un’immediata arazione. Una domenica andammo alla spiaggia di Santa Monica per passare un po’ di tempo insieme; arrivammo come due bagnanti qualunque e nel giro di un’ora venti, trenta persone avevano già steso i teli intorno al suo, come piccoli pianeti intorno al sole. Dopo due ore
erano diventati una cinquantina e più, tui orgogliosi di orbitare intorno all’eroe popolare uscito dalla palestra Gold’s Gym di Venice. Da furbo contadino austriaco, Arnold sapeva sempre capire le aspeative altrui. Che lo soovalutassero pure, ma lui il suo Conan lo conosceva. Pur non essendo certo un Al Pacino, chi poteva immaginare che un giorno sarebbe diventato governatore della California? Nella diabolica fantasia del suo autore, Conan era un vero pagano, un personaggio più cupo rispeo al Tarzan partorito dalla visione darwinista di Burroughs. Howard aveva esplorato, in anticipo sulla leeratura pulp, il lato amorale dell’uomo; il suo personaggio esprimeva apertamente l’esuberanza e i pericoli della carne, era sensibile al fascino del denaro e dei gioielli. E non era certo uno che si rincretiniva per una donna: Conan avvertiva sì il richiamo dell’altro sesso, ma se la donna si trasformava in una strega o in qualche altro mostro non si faceva remore a ucciderla. Ogni nuova avventura lo portava ad araversare le sconfinate foreste e le impervie montagne del Nord e dell’Ovest o i deserti del Sud e dell’Est, a confrontarsi di volta in volta con differenti tribù, costumi, intrighi, navi, oceani. Era un mondo crudele e indifferente, quello inventato da Howard, ma un ex schiavo con sufficiente spirito di iniziativa poteva arrivare a dominarlo (in questo senso Conan è molto più capitalista rispeo al Tarzan di Burroughs, puro, appartato dal resto del mondo). La bellezza di Conan, accentuata dai lunghi capelli neri ma, soprauo, da un aeggiamento sprezzante alla Jim Morrison, risiedeva proprio nella sua immagine di uomo libero per antonomasia. Nella prima sceneggiatura che scrissi, cucendo varie parti delle storie di Howard, Conan si trasforma da schiavo in ladro, mercenario e killer. Le sue uccisioni, tuavia, non sono mai gratuite: se lo lasci in pace, lui lascia in pace te; e se gli affidi un incarico, come fa la bella principessa Yasmina, lui lo porta a termine, specie se di mezzo c’è un tesoro, che
ovviamente la principessa cerca di sorarre al malvagio stregone che ha detronizzato il re suo padre. Conan trionfa, annientando lo stregone e restituendo alla principessa il legiimo ruolo di regina, ma poi rifiuta l’offerta di matrimonio di quest’ultima, non ancora pronto a essere il suo re. Anzi, in cerca di ulteriori orizzonti, le chiede di seguirlo: CONAN:
Yasmina, vieni con me – nel mondo! Tu hai spirito. Non sprecarlo rinchiusa in una reggia nella Civiltà, dove tui mangiano lo stesso cibo, si vestono allo stesso modo, parlano la stessa lingua, pensano le stesse cose. Cavalca con me! Un buon cavallo, una banda di uomini liberi, oro, avventura, saccheggi… anche una donna può avere tuo questo.
YASMINA:
E se io ti seguo, Conan, resterai con me per sempre?
CONAN:
Per sempre? Ogni momento? Principessa, qualsiasi uomo che promea questo è un mentitore. Io ti offro libertà – e l’occasione di vagare per il mondo insieme a me finché non decideremo di separarci. Che cosa dici?
YASMINA:
Non sono audace quanto vorrei, né così sciocca da traenerti qui. Vai, mio leone. Vai.
E Conan va, alla ricerca di un regno tuo suo, ma non araverso il matrimonio. Ancora una volta la sua strada incrocia quella di Valeria. In groppa al cavallo, Conan la afferra e la solleva tra le proprie braccia. CONAN:
Per volere del fuoco, del sangue e dell’acciaio – tu sei mia!
La bacia, mentre i suoi predoni si avvicinano festanti. Valeria, come un’indomita leonessa, si sorae alla strea delle sue labbra, gli occhi accesi dal fuoco. VALERIA:
Non so per quanto durerà, cane di un mercenario – forse un giorno, forse un mese, ma non mi importa un accidente!
Lo stritola in un bacio appassionato che porta tui i predoni ad accalcarsi festanti insieme alle loro donne. Con una risata, Conan fa girare il cavallo su se stesso. CONAN:
Ai cavalli, maiali pelandroni! Basta con l’Est e le sue maledee stregonerie! I morti sono morti, il passato è passato. Cavalchiamo verso l’Ovest, dove i mercanti sono grassi e i porti traboccano di donne, vino e boino.
Un boato, gli uomini si lanciano verso i cavalli. Fine.
Per come immaginavo la saga, nel decimo, dodicesimo film della serie, dopo tante tormentose avventure contro ogni genere di nemico e donne formidabili, tra cui Red Sonja, Conan avrebbe finalmente scoperto il regno dei suoi sogni. E
con esso la sua regina. Una grande serie e, nel mondo di Howard, un finale tuo al maschile. In fondo, molti degli scapoli più ambiti di Hollywood aspeavano, come re, di raggiungere la tarda età prima di sposarsi o avere figli. La mia sceneggiatura, in un’estasi di passione, era arrivata a centoquaranta pagine; quanto di più sfrenato avessi mai scrio. Spaventosi eserciti mutanti usciti da un Armageddon medievale si davano baaglia in un’epoca in cui gli effei speciali digitali non esistevano ancora. Dalla foresta arriva, al suono dei tamburi, l’ESERCITO INFERNALE, in uno scintillio di punte d’acciaio baciate dal sole. Per primi i mutanti della fanteria pesante, con zanne ricurve fino agli zigomi, vividi caschi dalle corna verdi, piccoli scudi di ferro impugnati dalle loro forti braccia pelose. I PORCI MUTANTI,
corpi di uomini dal lurido, irsuto muso rosa dei cinghiali e dei maiali selvatici, grugno bulboso e piccoli occhi inieati di sangue soo l’elmeo da nazisti – armati di mazzafrusto e spada a tre lame. GLI INSETTI MUTANTI,
una variegata massa di becchi, artigli, gusci, ali di pipistrello, occhi sporgenti, musi allungati, orecchie dentellate, alcuni con corna e code serpentine. arrivano sui loro coriacei e veloci pony armati di fruste e lazo – cavalcano, completamente nudi senza sella e briglie, agili e flessuosi, involandosi verso il cielo sopra questa massa di invasati. LE TESTE DI IENA
Una legione di MOSCHE e INSETTI RONZANTI forma una nera nuvola avvelenata – che oscura il sole, opprimendo i sensi e l’anima stessa. (lo sguardo rivolto al cielo verso la luce): Conan, è la fine! La fine del mondo.
MURILLO
Conan guarda Murillo con il fatalismo del vero barbaro. CONAN:
Forse lo è, forse no. Ma cerchiamo di portare con noi quanti più possibile di questi maledei…
La baaglia che si scatenava era un vero e proprio caos apocaliico. Il regista Ralph Bakshi (Wizards, Il Signore degli Anelli, Fritz il gao), che fu coinvolto nel progeo dopo che avevo rinunciato all’idea di dirigere il film io stesso, avrebbe potuto coglierne in parte le atmosfere grazie alle sue brillanti capacità di animatore, ma come avremmo potuto, senza ricorrere al disegno, oenere un immaginario degno di Hieronymus Bosch? Dopo diverse riunioni tecniche con alcuni dei migliori professionisti fu chiaro che il film non sarebbe costato meno di cento milioni di dollari e sarebbe
comunque stato problematico. Nessuno nel 1979 era disposto a correre certi rischi. Riposi le mie principali speranze in un nuovo regista inglese proveniente dal mondo della pubblicità, Ridley Sco, che nell’oimo I duellanti ci aveva mostrato la terrificante, autentica forza della sciabola. Sco al momento era impegnato in Inghilterra nella regia di un film intitolato Alien, basato sull’oima sceneggiatura di Dan O’Bannon e sulla macabra visione del mondo di H.R. Giger. Ci incontrammo a Londra e, sebbene Sco ci avesse più che incoraggiati nelle precedenti riunioni, fu assolutamente schieo nel suo impersonale rifiuto: “Spiacente, ragazzi, ma voglio finire Alien e poi ho qualcos’altro in progeo” (si traava di Blade Runner). “Conan mi piace molto ma non posso prendere impegni. Si traa di uno speacolo gigantesco.” Ancora una volta, come con Friedkin, mi ritrovai con le mie false speranze calpestate e, per una reazione istintiva, dissi a Pressman che avremmo dovuto invece affidarci a John Milius, che in più di un’occasione ci aveva espresso il suo entusiasmo per il progeo. John aveva girato Un mercoledì da leoni, un film del 1978 sul surf, ed era un simpatico egocentrico. Parlava in maniera colorita e grandiosa di sé e del suo amore per le armi, la caccia, la sensazione della spada e l’odore del cuoio, dell’amicizia con Coppola e Spielberg, per i quali aveva scrio varie parti di Apocalypse Now e Lo squalo – in particolare il “racconto della Indianapolis” di Robert Shaw, sulla ferocia con cui gli squali avevano divorato molti dei naufraghi della corazzata, silurata dai giapponesi nelle acque del Pacifico sudoccidentale. John sbavava per l’immaginario di Conan, con tuo quel sangue e rumore di ossa spezzate; adorava lo spadone con l’ascetismo di un samurai. Inserì poi questa bauta nella sceneggiatura: IL PADRE:
Perché di nessuno, di nessuno al mondo ti puoi fidare. Né uomini, né donne, né bestie… (Estrae lo spadone.) Di questo solo ti puoi fidare. Lascia che siano gli sciamani e gli stolti a meditare su Crom. Lui se ne infischia. Dolore e sofferenza lo divertono. Risolvi l’enigma dell’acciaio… e la tua spada sarà la tua anima.
Non condividevo con John questa filosofia, ritenendo l’anima di Conan più flessibile rispeo all’acciaio. Per lui, invece, Conan era il portatore di morte. (“Chi sei?” “Sono un uccisore di uomini.”) Il tema della “guerra eterna” era centrale nel mondo di Milius e io non ero mai del tuo sicuro che fosse serio quando affermava di ammirare il generale Curtis LeMay, fautore delle armi nucleari, oppure Gengis Khan, per i motivi sbagliati – “Non vedo altro che pascoli per i miei cavalli. Gli esseri umani sono orribili. I cani sono buoni.” John aveva stima di me perché avevo combauto, ma non credo che abbia mai compreso il mio conseguente amore per la pace. John parlò del nostro primo incontro con James Riordan, autore di una biografia di Jim Morrison (Jim Morrison. L’autostrada alla fine della noe, 1991) e in seguito di una dedicata alla mia vita (Stone, 1995). “Avevo una mina Claymore sulla scrivania, rivolta in modo da esplodere verso la porta. Durante le riunioni con un agente o con il dirigente di uno studio cinematografico non facevo che schiacciare il detonatore, senza che l’interlocutore avesse la minima idea di cosa fosse. Oliver invece si avvicinò alla scrivania e mi disse: ‘Ehi! Hai una Claymore! Ci ho quasi lasciato le penne per una di queste.’” John mi vedeva come un “pazzo progressista” con la testa inquinata, troppo tenero e arrendevole. E forse aveva ragione. Per lui io ero un moscerino rispeo a Spielberg, che invece ammirava moltissimo. Mi spiegò il perché: “Non lo sa nessuno, ma Steve è Stalin… acciaio. Farebbe di tuo pur di vincere una guerra!” John adorava il potere in tua la sua nudità. La sera stessa dopo il no di Ridley, organizzammo una riunione con Dino De Laurentiis nel suo appartamento londinese. Dino, il leggendario produore italiano (La strada, Guerra e pace, Ulisse, La Bibbia), stava vivendo un “terzo ao” americano della sua carriera e inseguiva Conan già da qualche tempo. Sfoderò tue le sue arti di venditore e dopo nemmeno un’ora commeemmo il fatale errore di cedergli i dirii sulla realizzazione del film. In base all’accordo, Ed
Pressman avrebbe recuperato i ragguardevoli investimenti già richiesti dal progeo oltre a un congruo margine di profii, mentre io avrei oenuto per il mio lavoro un compenso generoso, seppure limitato. Dino, da parte sua, aveva già Milius soo contrao e ci giurò che avrebbe limato i costi di produzione nel rispeo della sceneggiatura. Tuo si incastrava a meraviglia. Acceammo senza riserve. Più tardi però, mentre tornavamo indietro araversando Hyde Park, io e Ed provammo entrambi l’inquietante sensazione di aver preso una decisione affreata. E lo avevamo fao davvero. Dal momento della firma del contrao, fu chiaro a tui che John Milius non aveva alcun reale interesse alla collaborazione. Prese dalla mia sceneggiatura quello che gli parve, personaggi e ambientazioni, e la trasformò in uno strano ibrido tra uno spaghei western e un peplum, ricorrendo agli stessi metodi di contenimento dei costi impiegati da Dino ai tempi di Cinecià. Il film avrebbe fao a meno di uno scenografo, di un direore della fotografia e di un compositore di alto livello. Il cast sarebbe stato una strana miscela di surfisti amici di John, stuntmen e aori sopra le righe che avrebbero vagato senza molta direzione. Le riprese si sarebbero effeuate nella provincia di Almería, in Spagna, dove per pochi soldi erano stati girati parecchi finti western. Persino le rocce mi sembravano di cartapesta. Milius aveva tra i suoi idoli John Huston, per il quale aveva scrio la sceneggiatura dell’Uomo dai 7 capestri e di cui imitava il modo di parlare ansimante e melodrammatico. ando passavo dalla Universal, mi convocava nel suo ufficio per farmi ascoltare quello che aveva appena scrio, rigorosamente a penna. A volte si traava solo di una paginea, ma John era talmente innamorato delle sue parole da ruggire di piacere durante la leura, dopodiché mi guardava per avere la mia approvazione. (“Hai ucciso il mio serpente… Avevamo allevato quel serpente sin dalla nascita. Aveva quasi vent’anni. Perché? Perché mi hai fao tuo questo?” Oppure, quando Valeria muore: “Abbracciami!
Stringimi forte, così che le mie ferite possano sanguinare nelle tue… Baciami… Lasciami esalare l’ultimo respiro nella tua bocca. Ho freddo. Ho tanto freddo. Tienimi… tienimi… calda.”) Io mi sforzavo di sorridere e godermi l’esperienza; quantomeno, pensavo, un film di Conan si farà. Il caivo di John era in sostanza il leader di una sea tipo Charles Manson, al quale piace ipnotizzare e darsi arie, deciso a dimostrare che l’acciaio nulla può contro la forza della sua mente. Ovviamente si sbaglia di grosso e lo scopre direamente da Conan dopo un lungo e noioso sproloquio misticheggiante. Credo che, nella visione di John, quasi tui i mali del mondo fossero da ascrivere agli hippy e alle droghe degli anni Sessanta. Alla fine Conan il barbaro (uscito nelle sale nel 1982) fu in tuo e per tuo una produzione di Dino De Laurentiis, anche per quanto riguardava il suo destino. Gli incassi furono discreti in tuo il mondo, e il film impose Arnold nei panni del protagonista, ma io e molti altri restammo delusi. Era sciocco e lontanissimo da come era stato inizialmente concepito. Dino ne realizzò un seguito ancora più insulso, Conan il distruore (1984), con il suo regista preferito degli anni Cinquanta, Richard Fleischer (di cui Barabba, del 1961, era stato il film migliore); pur avendo Arnold come indiscusso protagonista, naufragò al boeghino. Dopo appena due film, la serie dei Conan era ufficialmente al capolinea, cannibalizzata da Dino. Fu un colpo al cuore. I romanzi di Robert Howard racchiudevano almeno dieci oime avventure. Avrebbe potuto essere una saga magica, in anticipo sui tempi, predigitale prima dell’avvento del Signore degli Anelli. Fu triste veder morire un progeo così pieno di vita e di potenzialità, ma a Hollywood quella era la norma e io, dopo il mio magico ingresso in quel mondo, lo stavo imparando sulla mia pelle. In quel periodo scrissi per Ed Pressman un’altra sceneggiatura, Demolished Man, basata su un classico della fantascienza, L’uomo disintegrato di Alfred Bester. A mio avviso era la cosa migliore che avessi fao dopo Conan ma si
rivelò altreanto difficile da trasformare in film. Era una storia di telepati capaci di comunicare a seconda della forza dei propri poteri, ma anche una sorta di giallo edipico. Cambiai il personaggio principale del detective, trasformandolo da uomo a donna, ma la mole di complicazioni tecniche avrebbe richiesto una mano registica salda e una tecnologia audio tua nuova. Nonostante gli apprezzamenti ricevuti, la sceneggiatura andò incontro alla solita lenta agonia dei film mai passati in produzione. Sempre nello stesso periodo scrissi e Clerk, rivisitando un film francese di Michel Deville, Il montone infuriato: una caustica vivisezione della borghesia francese, che tuavia in inglese non funzionava; l’ironia era intraducibile. Ora vivevo in un rutilante mondo di fantasia con una garçonnière affacciata sul Sunset Boulevard e un Oscar sulla mensola; all’improvviso avevo più “amici” di quanti ne avessi mai avuti in vita mia e le serate erano un susseguirsi di party, ragazze, proiezioni, prime cinematografiche, funghi allucinogeni, droghe e alcol. Ero passato da nessuno a qualcuno, il che non significava che mi pavoneggiassi più di tanto. La mia era più una sensazione di meraviglia – “Wow, sto vivendo a un livello mai conosciuto prima. Davvero la vita può essere così?” –, meraviglia mista a ingenuità, con i miei occhi che seguivano quelle donne da sogno, senza vedere la realtà, fino a cacciarmi nell’ennesimo pasticcio. Jim Morrison citava un aforisma di William Blake, “La via dell’eccesso conduce al palazzo della sapienza”, per giustificare la necessità di fare le esperienze più varie. Anch’io sentivo l’esigenza di sorarmi a limiti e leggi; stavo “testando i confini”, come diceva lo stesso Jim. “Hollywood è bizzarra,” dichiarò a Riordan il mio agente Ron Mardigian, un professionista con trent’anni di esperienza nel seore, “e la gente del cinema all’epoca era il massimo in fao di bizzarrie. Oliver frequentava gli ambienti più estremi e all’avanguardia, dove bisognava usare quella determinata droga, quel determinato linguaggio, quella determinata pratica. Ogni tanto gli dicevo: ‘Credo che tu stia
frequentando gente svalvolata,’ e non mi addentravo oltre nell’argomento. Non riuscivo a dirgli più di questo.” Ron era davvero una “persona a modo di Pasadena” e non poteva assolutamente capire quanti e quali gironi di fantasie e sfrenatezze ci fossero in quella terra dei loti che abitavamo, le diverse cerchie dedite ciascuna alle pazzie più strane, tui giovani, tui che inseguivano un sogno di fama e ricchezza. Ciononostante, malgrado le altalenanti assunzioni di alcol e droghe, conservavo un lato sobrio e, a prescindere da quanto fosse stata pesante la sera prima, l’indomani scrivevo sempre, come un metronomo – sei giorni alla seimana. Nel fraempo, continuavo a cercare la donna che mi avrebbe salvato o, sinceramente, condannato all’inferno – salvezza o tormento. Nella sua autobiografia A Life (1988), Elia Kazan parla diffusamente del lungo matrimonio con Molly, descria come il tipico prodoo di una cultura bianca anglosassone, e di come il proprio senso di inferiorità in quanto immigrato proveniente da una minoranza greca della Turchia avesse alimentato in lui la convinzione che fosse la donna giusta per fargli trovare the American way, oltre che essere la madre dei suoi figli. L’amava davvero? viene da chiedersi leggendo le pagine del libro. O stava soltanto inseguendo la sua approvazione? Trascorrono trenta, quarant’anni in questo modo, poi un giorno lei muore all’improvviso per un aneurisma. Da allora Kazan condurrà una vita profondamente contemplativa, nel tentativo di elaborare il senso del proprio vuoto. Capire che cosa significhi l’amore sembra un processo che può svolgersi solo nell’assenza della persona amata. Ne parlo perché in quel tumultuoso periodo conobbi e sposai la mia seconda moglie. Se la prima, Najwa, era stata un’esotica libanese dalla pelle color caè, Elizabeth Cox era ugualmente “altra” rispeo a me: una bionda dea americana alla quale io, outsider come Kazan, non avrei mai potuto ambire. Ci conoscemmo mentre frequentavo una giovane donna anche lei di nome Elizabeth – una bellissima texana dai capelli neri – la quale mi aveva invitato a una festa nella
casa dove viveva insieme ad altre cinque texane in una specie di atmosfera da pensionato universitario; tue e sei avevano aspirazioni hollywoodiane di qualche genere ma, a mio avviso, non si stavano meendo alla prova troppo seriamente. ando vidi la migliore amica della mia fidanzata Elizabeth (Elizabeth II, la chiamerò), mi mancò leeralmente il respiro. Molti ricordano un momento del genere nella propria vita. Davvero smei di respirare? Sì, davvero. È lei quella giusta! Ricordo che mi voltai verso un altro ospite e dissi: “esta sì che è una bellezza classica!” Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Il suo sorriso. La sua dolcezza angelica. Una bontà di fondo. Una luce in lei. Era anche tuo ciò che avevo sognato nelle mie fantasie legate al mondo di Conan. Uno stupendo volto texano, un velo di lentiggini, occhi azzurri di stirpe tedesca e biondi capelli color frumento che le ricadevano lungo la schiena – un ampio, gioioso sorriso smagliante e un fisico perfeo nonostante l’ingessatura alla gamba, fruo di una caduta sui paini. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso e l’altra Elizabeth se ne accorse, piuosto irritata. Lo sapeva anche Elizabeth II. Lo sapevo anch’io. Colsi l’evidente delusione sul suo volto quando la mora Elizabeth I mi condusse in un’altra stanza. I miei pensieri non smeevano di vorticare. Elizabeth II ricordava quel momento con la mia stessa emozione. Nel libro di Riordan dice di essersi sentita immediatamente araa dai miei “occhi da Gengis Khan” e di aver notato che “vestivo molto di nero; persino in spiaggia”, dove andavo in giacca, pantaloni e scarpe nere. E che avevo “una disposizione mentale molto nera, dovuta al fao di aver scrio Fuga di mezzanoe”. Era una donna che avrebbe potuto essere la mia psicanalista poiché, forse a causa della sua grande bellezza, mi aveva dato l’immediata sensazione che sapesse capirmi, malgrado un caraere tormentato e complesso come il mio. Vidi la mora Elizabeth I ancora una volta prima che, di fao, avvenisse la sostituzione. Le due ragazze erano amiche
del cuore, avevo saputo, eppure da parte mia l’avvicendamento fu agevole, quasi predestinato. Con una parrucca Elizabeth I avrebbe potuto somigliare alla bionda Elizabeth II, e non era affao disposta a dichiararsi bauta; in privato rimase furente con la sua “migliore amica” e, a quanto so, le due non si rividero mai più. Ma in quel periodo a volte ero crudele. Ero una star. Era il 1980 in una Hollywood elerica di cocaina. Fuga di mezzanoe aveva reso Oliver Stone uno dei nomi più ricercati. Io volevo quello che volevo; quasi subito cominciai a uscire regolarmente con Elizabeth II, e dopo poco in maniera esclusiva. Aveva ventinove anni, aveva fao l’assistente di un avvocato e la segretaria, aveva avuto alcune relazioni ma non era mai stata sposata. Cosa ancora più sorprendente, quando in seguito, secondo il Freedom of Information Act, chiedemmo di visionare le reciproche informazioni personali in possesso della pubblica amministrazione, il mio nome uscì pulito mentre su di lei c’era un nutrito dossier dell’FBI, che l’aveva seguita in quanto estremista. Si scoprì che a San Francisco era stata iscria al Partito socialista e aveva partecipato a numerosi raduni di protesta; Ron Kovic l’aveva incontrata durante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Si era anche candidata a non so quale carica pubblica ciadina ma non era stata elea. Mi ricordava Jane Fonda che, all’epoca, era la mia personificazione dell’eroina femminile. In quello stesso periodo venne a trovarmi mio padre. Gli diedi la mia camera da leo e io dormii sul divano in soggiorno. Papà stava subendo un lento tracollo fisico, si stancava a camminare eppure, dopo quasi quarant’anni, non voleva assolutamente smeere di fumare. Gli presentai alcune delle belle ragazze di Hollywood che conoscevo e tue ne furono entusiaste. Era come quella curiosa scena della Dolce vita in cui il padre di Mastroianni si sente male dopo un’allegra serata al night. Mio padre fu particolarmente colpito da Elizabeth perché era carina, bionda come Grace Kelly, e lo faceva ridere. Ma con lo spirito sardonico che lo contraddistingueva, mi ricordò prima di ripartire: “Oliver, prima di sposare una donna, fai presentare la madre perché
un giorno diventerà come lei.” Un consiglio che disaesi. Aggiunse però, rifleendo: “Sai, mi sbagliavo. Penso che potrai guadagnarti da vivere in questa industria. Il cinema ha un futuro… Figliolo, sono felice per te,” parole che per me furono di enorme importanza. In seguito, seppi dal mio professionale cugino Jimmy Stone che papà, dopo l’iniziale sceicismo, era stato molto orgoglioso di Fuga di mezzanoe. Lo aveva preso per un filmeo di quart’ordine, finché un giorno non aveva aperto il giornale e aveva visto che il film era pubblicizzato. Il fao poi che fossi un autore e che potessi guadagnare scrivendo rovesciò l’opinione che aveva di me; per la prima volta sentiva che non doveva più preoccuparsi di lasciarmi in eredità dei soldi che non aveva. Gli feci capire che avrei anche potuto aiutarlo economicamente, ma mio padre era un uomo orgoglioso e non volle saperne. All’epoca i suoi guadagni si erano ridoi drasticamente e la sua leera di investimento mensile, la grande soddisfazione della sua vita, stava per cessare le pubblicazioni a causa di una diffusione sempre più ridoa. La sua visita a Los Angeles fu una specie di intensa scena alla Saul Bellow, intrisa di ironia e calore ma, al tempo stesso, anche della consapevolezza di un baratro che non poteva essere colmato. Tornò a New York e continuò tue le maine ad andare al lavoro a Midtown, là dove era più felice, fin quasi alla fine dei suoi giorni. Papà aveva ragione. Sul finire del secolo scorso l’industria del cinema stava per decollare verso altezze stratosferiche che in pochi avrebbero potuto immaginare. La Orion Pictures, sodalizio formato da Arthur Krim, Bob Benjamin, Mike Medavoy, Bill Bernstein ed Eric Pleskow, voleva davvero affidarmi sceneggiatura e regia del mio prossimo lavoro – a pao di tenere soo controllo i costi, ossia di non scrivere un Conan ma qualcosa di più gestibile. Scelsi, pensate un po’, un romanzo comico, perché era qualcosa di diverso, con echi sorprendenti di Un uomo da marciapiede di dieci anni prima. Ambientato nel profondo Sud, Baby Boy (1973) di Jess Gregg racconta la storia di un semplicioo di umili origini che si ritrova catapultato nel mondo reale dopo aver scontato una condanna ai lavori forzati. Fuori dal carcere l’uomo fallisce
miseramente e decide perciò di commeere un reato per farsi caurare dalla polizia e tornare nell’unica casa che conosce e dall’unico amico che ha, un altro adorabile analfabeta – naturalmente con risultati tragicomici. Dopo aver chiesto a Ed Pressman di coprodurre il film insieme a me, così che potesse proteggermi e farmi da mentore, visitammo numerose carceri del Sud degli Stati Uniti, sconvolti dalle medievali condizioni di vita nei penitenziari di Mississippi, Louisiana, Alabama, Georgia, e dalle rigidissime norme di comportamento adoate in quelli dell’Arkansas, talmente severe da fiaccare lo spirito di chiunque. Mentre lavoravo alla prima stesura cominciai a chiedermi se sarei riuscito a scrivere una buona sceneggiatura. Come spesso succede, il materiale di partenza non corrispondeva alla realtà delle carceri che avevo visto. Il libro, scrio come favola comica sulla falsariga di Uomini e topi, era il prodoo di un’altra epoca, più degli anni Cinquanta o magari dei Sessanta; ma dopo gli arresti in larga scala fruo della guerra alla droga voluta da Nixon e la crescente crudeltà dovuta alla militarizzazione di penitenziari e forze di polizia, non era più adao ai tempi. Il libro, inoltre, dipendeva così profondamente dallo stravagante rapporto tra i due detenuti che la sceneggiatura sembrava fin troppo fragile, facile a spezzarsi. Se volevo realizzare il mio primo vero film hollywoodiano, avevo bisogno di qualcosa che incollasse gli occhi degli speatori allo schermo per la tensione, come in Fuga di mezzanoe. ando leggevo ciò che avevo scrio, mi torturavo di dubbi. Riconoscevo e detestavo quella voce interiore, il super-io che mi diceva: “Non funziona!” – eppure sapevo che era la verità. Mortificato e senza nemmeno sooporre loro il copione, dissi schieamente ai miei colleghi della Orion: “Per me questo film non ha potenziale commerciale” – una frase che ho scoperto essere un’acceabile via di uscita nel sistema hollywoodiano. Chiesi che l’impegno che avevo preso venisse trasferito, senza costi aggiuntivi a loro carico, su e Lizard’s Tail (1979), un thriller psicologico di Marc Brandel basato in parte sulle
recenti vicende del divorzio dello stesso autore. La trama ruotava intorno al disegnatore di un fumeo di successo che perde la mano in un incidente automobilistico causato da un sorpasso azzardato della moglie (fruo di un litigio tra loro); l’uomo ne esce traumatizzato e, geloso di natura, diventa sempre più possessivo, fino all’eccesso, nei confronti della giovane sposa, un’appassionata di yoga che si sta via via allontanando da lui. La donna infai vorrebbe andarsene dal Vermont per tornare a New York. Lui intanto, non potendo più disegnare, viene rimpiazzato da un fumeista più giovane, e gradualmente si crea un mostro nella mente: il fantasma della sua stessa mano che torna dall’aldilà per distruggere, poco per volta, tue le persone che lo circondano e, infine, il disegnatore stesso. Tra le viime della “mano”, la sua giovane amante, conosciuta in un piccolo college di campagna della California dove il protagonista va a insegnare, e un professore che lo ha psicanalizzato fin troppo acutamente. La vendea della mano ai danni della moglie dà il via all’efferato crescendo finale, con il nostro protagonista che, ormai completamente pazzo, finisce in una clinica psichiatrica dove vede la propria mano sbucare da una bocchea di aerazione e scendere lungo il muro, mentre una psichiatra gli spiega con calma che la mano esiste solo nella sua mente. Fine della storia. Piuosto macabra e tetra, ma potente. Era però un materiale insidioso, sulla falsariga di Repulsion di Polanski. Nelle mie intenzioni, volevo rendere il film il più realistico possibile, malgrado il dubbio di fondo: fin dove spingersi, con la mano? Ritenendolo di maggiore presa e drammaticità, scelsi un titolo diverso – La mano, appunto – e così facendo mi incatenai all’aspeativa che il protagonista sarebbe stato a tui gli effei la mano, più che il personaggio del disegnatore, mentre nel libro di Brandel la mano compariva solo poche volte. E per creare la mano, che doveva essere subliminale, spaventosa ma reale, fu necessario spendere sempre più denaro e aenzione. Su suggerimento della Orion meemmo soo contrao Carlo Rambaldi (King Kong, Alien, E.T. – L’extra-terrestre), il mago degli effei
speciali dell’epoca e vincitore di due premi Oscar, incaricandolo di costruire quelle che si rivelarono parecchie mani diverse, per lo più radiocomandate, con la capacità di strisciare, arrampicarsi, stringere, zampeare via eccetera, oltre ad alcune “mani marionea” che Carlo avrebbe controllato manualmente. Artigiano straordinario, una sorta di mastro Geppeo, Carlo ci spiegò che in King Kong aveva avuto tuo lo spazio necessario per costruire i meccanismi interni del gorilla, mentre le nostre mani, al confronto, erano minuscole e offrivano poco spazio per i suoi congegni; inoltre, continuava a ripetere che il direore della fotografia da me scelto, il giovane King Baggot, non illuminava le sue mani nella maniera giusta. Tra i due ci furono numerosi ariti. Nonostante Ed Pressman fosse il mio produore, scelto in parte per difendere un regista alla prima prova, la Orion non lo vedeva in quel ruolo. Ed, che sembrava uno dei maghi di Conan, aveva un fisico dimesso, e con la sua voce pacata e cerebrale era incapace di imporre la propria volontà in una stanza piena di vecchi volponi. Mike Medavoy, il dinamico boss della Orion sulla costa ovest, voleva anzituo proteggere il proprio investimento – quaro, cinque milioni di dollari circa – e non fidandosi di Ed coinvolse nel progeo anche Jon Peters, descrivendolo sibillinamente come una di quelle persone che “fanno succedere le cose”. La relazione con Barbra Streisand, inoltre, accresceva il peso di Jon che, come ho già ricordato, aveva prodoo insieme a lei È nata una stella (1976), film tribolato e costoso ma anche di grande successo al boeghino; non a caso, correva voce che il regista fosse stato esautorato in fase di montaggio. Jon si era fao le ossa lavorando fin da piccolo nel salone da parrucchiere della sua famiglia, si diceva avesse ispirato il personaggio di Warren Beay in Shampoo; dopo la separazione da Barbra, avrebbe fao una fortuna insieme a Peter Guber con Batman e altri film, e in seguito come copresidente (sempre insieme a Guber) della Sony Pictures. Era la perfea incarnazione dell’americano rozzo, arricchito e
potentissimo, e io lo acceai come secondo produore perché ritenevo che la sua presenza avrebbe solo contribuito a rendere più confortevole il viaggio con la Orion. Mi sbagliavo, così come mi sbagliavo a proposito del montatore, anche lui consigliatomi da Mike; quest’uomo, che era stato candidato all’Oscar per Apocalypse Now e proveniva dalla costa est, si rivelò impaziente e arrogante, e in sostanza si servì del nostro film per trasferire alla costa ovest la sua iscrizione al sindacato montatori. Non ci fu mai intesa tra noi, e imparai in frea a guardarmi aentamente le spalle in sala di montaggio, senza al tempo stesso pressare o sovraccaricare il montatore. Era un equilibrio delicato, come quasi tuo in questo piccolo film; Medavoy mi suggerì anche un giovane, precoce James Horner, che si sarebbe poi conquistato grande notorietà come compositore (Titanic, Braveheart). Purtroppo, anche con James non mi sentii mai in sintonia. In seguito, avrei scelto per le mie troupe soltanto persone con cui ci fosse un vero legame personale. Diversi aori rinunciarono al ruolo di protagonista: Jon Voight, Christopher Walken, Alan Bates. Non ricordo chi altri ma ho ben presente l’incontro più infelice che avessi avuto fino ad allora, una colazione alle see e mezzo del maino all’hotel Westwood Marquis con Dustin Hoffman. Gli appuntamenti a colazione sono come svegliarsi insieme a una persona sconosciuta. Di che cosa parli? In quel caso, cominciai a sudare mentre andavo nervosamente avanti a blaterare, illustrando fino alla noia il caraere del mio protagonista e, peggio ancora, il motivo per cui sarebbe stato alleante per Dustin interpretare un disegnatore mutilato, frustrato, possessivo e rancoroso che ammazza la gente araverso la mano che non ha più. Alle see e mezzo di maina? Argomenti più adai al crepuscolo. Fu imbarazzante, sinceramente. ando lo incontrai di nuovo, anni dopo, non credo che Dustin mi ricollegò a quel triste, sudato regista neofita conosciuto nel 1980. In preparazione al film, tornai a studiare recitazione con Martin Landau, brillante insegnante e grande caraerista
(Intrigo internazionale, Missione impossibile) felicemente riscoperto negli anni Novanta dopo il successo di Crimini e misfai di Woody Allen. Da Marty, nel corso di un anno, imparai molto su come parlare con gli aori e affrontare i problemi dal loro punto di vista. Il suo approccio era assolutamente pragmatico, ma basato su una profonda comprensione dei risvolti umani al cuore dello sviluppo drammatico, nonché delle tensioni soese a ogni comportamento. Marty rafforzò la mia fiducia in me stesso e, sebbene ne avessimo parlato, ho il rimpianto di non aver mai lavorato con lui come aore; sono tuora convinto che sarebbe stato un’oima scelta per il ruolo di mio padre, se mai avessi affrontato in un film quel viaggio personale. Michael Caine acceò il ruolo di protagonista per un sostanzioso cachet di un milione di dollari e potemmo dunque cominciare le riprese in estate, presso i gloriosi stabilimenti di Culver City dove erano stati girati arto potere e alcune parti di Via col vento. La presenza di Caine dava ulteriori assicurazioni alla Orion. Sono sicuro che Michael a volte si sentisse messo in ombra dalla mano, eppure a mio avviso fu straordinario, soile, persino credibile nella loa finale con il mostriciaolo. Anzi, lo trovai convincente in tuo il film; quando finisce al manicomio fa venire i brividi. Mi restava, tuavia, un dilemma originario. Io volevo che il film fosse un thriller psicologico, mentre Jon Peters e la Orion volevano meere una fifa blu addosso agli speatori; puntavano più sull’horror e a volte Jon veniva sul set, o in ufficio, per parlarmi di possibili impieghi delle nostre mani speciali o per suggerirmi nuovi approcci narrativi. Ero sooposto a un’enorme pressione. Come coniugare due generi completamente diversi? Come si imposta una discussione sulla maniera di “meere una fifa blu” addosso a qualcuno? È frustrante. Nel romanzo di Brandel c’erano tensione e paura ma, con tui i soldi della produzione riversati sugli effei speciali, il mio sguardo perdeva lucidità. Stavo cercando di inserire a forza queste situazioni da brivido, cosa che maestri come Hitchcock o Polanski, o anche
De Palma, non avrebbero mai fao. Peggio ancora, stavo perdendo la fiducia in me stesso. Nella sua eccellente autobiografia, Frank Capra, per il quale nutrivo un’ammirazione profonda, parla della propria innata capacità di ingegnarsi e di ideare e costruire aggeggi con cui risolvere al volo problemi tecnici presentatisi sul set, aggeggi che si erano spesso rivelati vere e proprie innovazioni nella Hollywood degli anni Trenta. Sebbene a scuola io non avessi mai avuto una propensione naturale per le scienze o l’educazione tecnica, mi impegnai al massimo per comprendere gli aspei tecnici legati alle riprese di un film così complesso. Non volevo essere uno dei tanti sceneggiatori-registi che si disinteressano a quel lato del lavoro cinematografico: certo, sei in grado di scrivere problemi complessi, ma sai anche risolverli in tempo reale? Mi riempiva di orgoglio già il solo provarci, cosa che ho continuato a fare in tui i miei film successivi, ciascuno dei quali sembrava sempre presentare un problema tecnico mai affrontato prima. Ma oggi posso dire che La mano, per essere il mio primo film per uno studio hollywoodiano, fu il più difficile e autolesionista che potessi girare, e che con esso mi ero cacciato, senza rendermene conto, in un ginepraio. Usammo uno strumento di recente introduzione, la poco maneggevole snorkel camera, una sorta di obieivo a periscopio capace di raggiungere posti difficilmente accessibili e seguire il nostro mostriciaolo praticamente ovunque. Scavammo trincee nel pavimento per riprendere ad altezza terra. Fummo costrei a programmare riprese aggiuntive per alcuni dei momenti più complessi che non eravamo riusciti a far funzionare, dopo che i quaranta giorni di riprese previsti, con una seconda unità a New York, avevano già messo a dura prova i nervi di tui. In effei chiedevamo alla mano di fare cose sempre più difficili, per esempio essere ferocemente pugnalata e reagire come un animale vivente. Rambaldi si impegnava al massimo ma, nonostante l’indubbio talento, scaava subito sulla difensiva se qualcosa non gli riusciva e cominciava a lamentarsi delle
luci, provocando così le ire del direore della fotografia, esasperato a sua volta. Io facevo di tuo per appianare i contrasti ma ero deluso da me stesso: sentivo che stavo diventando più un mestierante alla Daniel Petrie, uno che meeva una pezza qua e una là, anziché un regista visionario alla Friedkin. La sofferenza ti insegna molto, specie a posteriori. A volte, quando mi ritrovavo sprofondato nelle preoccupazioni, nel dubbio, negli ariti sul set, dimenticavo i miei princìpi e sgaaiolavo dietro le quinte insieme a un membro fidato della troupe per farmi un tiro di coca; era rassicurante. Più spesso, però, prendevo una pillola di aalude con cui distendere i nervi. Finché, via via che il ritmo delle riprese si intensificava, non cominciai a prendere un aalude tue le maine prima di andare sul set. Anche se non ancora particolarmente grave, fu l’inizio di una dipendenza in cui sprofondai senza neanche rendermene conto – l’inizio di un bisogno: quello di assumere una sostanza per poter lavorare. Michael Caine, che pure non vedeva l’ora di finire, non si lamentava mai, limitandosi a qualche stoccata di pungente ironia. Un giorno, prima di un nuovo ciak, gli chiesi di provare a trasmeere una certa sensazione; Michael rispose acidamente che lo aveva già fao e che guardando il girato l’avrei visto anch’io, intendendo cioè che avrei dovuto guardare i giornalieri con maggiore aenzione. La sua reazione mi infastidì, ma riguardando i giornalieri mi accorsi che aveva ragione. In effei mi aveva già dato ciò che gli avevo chiesto, solo non nel modo che mi aspeavo io. Era davvero questa la prima regola della recitazione per come l’aveva espressa Laurence Olivier con quel “Voi guardate me.” Caine era parco in ogni suo gesto, mentre io a volte parlavo troppo; spesso i registi sentono il bisogno di spiegare quando invece farebbero meglio a dire il meno possibile. Ci sono molti modi di approcciare il dialogo con i vari tipi di aori. È una vera arte della comunicazione quella di raggiungere una giusta via di mezzo, un equilibrio. ando si viaggia all’estero ci si comporta in un certo modo per
comunicare con la gente del posto. I film sono proprio così: un altro Paese, un’altra lingua, facce e situazioni nuove. Non c’è un unico modo di riuscirci, a parte la regola aurea di non parlare troppo. Nel corso degli anni ho visto registi rinunciare del tuo a parlare con i loro aori, come se il dialogo fosse una palude senza via d’uscita. In alcuni casi ritengo sia assolutamente giusto – spesso gli aori sanno cosa stanno facendo e ti basta un cenno per portarli a segno; a volte però vanno fuori strada, o in confusione, e allora il regista deve avere la sicurezza per intervenire. Molti non danno indicazioni concise e secondo me fanno così tante riprese di una stessa scena che l’aore a un certo punto si sfinisce. Al Pacino e Anthony Hopkins sono due esempi di aori di altissimo livello che non hanno mai obieato alle mie correzioni, sempre disposti a provare qualche altra soluzione. ando un aore sa che lo stai vedendo sul serio, finisce per stimarti molto più profondamente, e spesso ho l’impressione che sia questa la vera anima del processo di realizzazione di un film. Michael Caine si stava certamente calando nel personaggio del disegnatore, il quale trasferisce la furia che ha dato al proprio personaggio (una specie di Conan) nella rabbia che cova nei confronti della moglie, interpretata da un’oima Andrea Marcovicci, e delle due persone che ammazza, l’eccentrica Annie McEnroe nei panni della giovane amante e il collega professore nello scalcinato college dove va a insegnare, interpretato da un eccellente caraerista come Bruce McGill. A completare un fantastico e credibile cast di grandi professionisti erano Rosemary McMurphy, l’agente del personaggio di Caine, e Viveca Lindfors nei panni della psichiatra. Il film mi piace tuora. Nelle parti recitate procede sicuro, mentre quando si avventura nel regno della mano si perde un po’ diventando troppo assurdo. Pur traandosi di un film, l’idea di una mano mozzata provvista di una sua autonomia va oltre il bizzarro, e all’epoca fu giustamente sbertucciata. Uno dei pochi effei positivi del film fu che il timido Ed Pressman conobbe Annie
McEnroe, un incontro dal quale sono scaturiti quarant’anni di felice matrimonio e un figlio davvero in gamba. A ogni modo mi confondeva e mi pesava il perché avessi fao questo film. Perché, dopo il doloroso fallimento del mio primo horror, Seizure, ero tornato a girare un film tuo sommato simile a see anni di distanza? Sperando di fare qualcosa di meglio, lo avevo basato su un thriller psicologico di tenore realistico. Il motore del film doveva essere la latente gelosia che trasforma il marito in un mostro, reso assolutamente credibile dall’interpretazione di Caine. Eppure, quella che stavo raccontando era una storia di autodistruzione. Che cosa c’era in me di così turpe da voler distruggere il mio protagonista? Tanto in Seizure quanto nella Mano avevo percepito subito che il grande pubblico non avrebbe potuto immedesimarsi in due protagonisti troppo complicati e negativi, due uomini dai pensieri contorti con una vena di me dentro il loro caraere. Il successo di Fuga di mezzanoe avrebbe dovuto insegnarmi a cercare un protagonista tormentato che susciti empatia. Perché allora provavo arazione per questi protagonisti deboli, in entrambi i film? Avevo avuto la possibilità di dirigere un film diverso dal budget analogo. Perché invece avevo scelto questo? Era forse lo stesso impulso che mi aveva allontanato dal fare l’aore? Che cosa c’era in me di nascosto? Oppure, non avendo raggiunto una mia maturazione personale, potevo parlare soltanto in veste di sceneggiatore e non ancora di regista? Nei giorni in cui La mano usciva nelle sale rilasciai un’intervista al “New York Times” nella quale parlavo del film e, a proposito della mia esperienza in Vietnam, dicevo: “A volte ho l’impressione che prima o poi la sfortuna ti raggiungerà. Non fai che guardarti alle spalle. È di questo che parla La mano. Di questo stato inconscio. Del momento in cui arrivi a fare una cosa senza nemmeno esserne consapevole. Chissà che un giorno tu non prenda una pistola e ti faccia saltare le cervella, senza alcuna avvisaglia.” Dichiarazione interessante, che allude non solo a molti dei problemi
psicologici che affliggevano i reduci del Vietnam, ma anche al tentativo di sfuggire a qualcosa di impalpabile, di indistinto. Come faceva Michael Caine in questo incubo di film. In quel periodo commisi un altro errore, che diventò evidente (come succede sempre in questi casi) solo molto tempo dopo. Lasciai il mio leale e affidabile agente Ron Mardigian, della William Morris, per seguire le sirene del presidente dell’agenzia rivale, la ICM. Jeff Berg era giovane e innovativo, un ragazzo prodigio che con me usò l’alleante mantra “devi dirigere quello che scrivi – e io posso far sì che succeda”. Del resto, Berg rappresentava alcuni tra i migliori registi di Hollywood. Inoltre mi sentivo frustrato dal fao che il mio vecchio agente dovesse occuparsi solo di sceneggiatori e non mi fosse stato d’aiuto nei difficili rapporti con Jon Peters e la Orion. Prima di lasciare la William Morris, fui convocato nell’ufficio del responsabile della divisione cinema, il potente Stan Kamen, il quale mi fece a pezzeini in un doloroso faccia a faccia, ricordandomi come William Morris avesse avuto fiducia in me fin dai tempi di Robert Bolt. In effei, mi avevano aiutato a diventare regista. Fu imbarazzante, ma ormai la decisione era presa e non potevo più rimangiarmela. Gli assicurai che non c’era niente di personale ma per Stan era tua aria fria. Non c’è mai niente di personale, vero? Stan in vita sua doveva aver sentito ogni scusa possibile e immaginabile. Negli anni seguenti, ovviamente, non oenni nulla da Jeff Berg. La ICM era una strana landa desolata. Nonostante fossi in fondo al suo elenco di registi famosi, mi richiamava sempre quando lasciavo un messaggio per lui, mi ascoltava con comprensione, mi rassicurava a non finire, mi lasciava sempre una sensazione di oimismo… Poi però, come pian piano scoprii, nonostante la sua intelligenza, la sua conoscenza della leeratura, i suoi contai, la sua cultura, l’amore per l’arte della conversazione, di risultati concreti non ce n’erano. Tuo sembrava sabbia che scivolava araverso le mie dita.
Elizabeth era l’unica costante della mia esistenza. L’avevo separata dalle sue cinque loquaci amiche prendendole in affio un appartamento a pochi isolati dal mio; preferivo le donne solitarie. Dopo che si era tolta il gesso le avevo assegnato una particina nella Mano, che passò del tuo inosservata. Pur bellissima, Elizabeth non era un’arice. Lo avevo capito subito e nemmeno un corso intensivo di recitazione avrebbe cambiato quella realtà. Nonostante avesse fao svariati lavori, la impiegai principalmente come mia dailografa (a novanta parole al minuto) ma anche come banco di prova per le mie idee. Jon Peters, che si considerava un esperto di donne per aver fao tanti anni il parrucchiere, mi mise in guardia dall’idea del matrimonio quando un giorno, en passant, mi disse: “Lascia perdere, quella è anni Cinquanta” – intendendo che era retrograda, antiquata. Un giudizio tranchant, che non aumentò di certo le mie simpatie nei suoi confronti, ma che mi rimase impresso per anni. Poi però mi chiesi chi fosse Elizabeth in realtà. Aveva studiato psicologia e aveva interesse per la terapia; la sua voce riusciva facilmente a placare le mie fiamme interiori. Sembrava un po’ la Jane Wya della serie TV Papà ha ragione, la moglie che lenisce, e sentivo che sarebbe stata una buona madre, come mio padre aveva pensato della mia. O era invece la testa calda estremista, la Jane Fonda in incognito che l’FBI aveva messo soo sorveglianza? Di questo suo lato non avevo ancora visto alcun segno, ma la sua rabbia era sepolta in profondità, forse evitava di mostrarla per non spaventarmi. Andai a trovare i suoi che vivevano a San Antonio, una cià di tradizione militare. La famiglia di Elizabeth era infai legata all’esercito. Il nonno aveva prestato servizio in cavalleria nelle Filippine e all’Ovest mentre il padre, a giudicare dalle foto un ufficiale affascinante e slanciato, era rimasto ucciso in Corea quando Elizabeth era troppo piccola per conservarne il ricordo, a quanto pare nel tentativo di evadere da un campo di prigionia. La madre, Pat, lampadata, capello corto, aspeo da giocatrice di golf, era a suo modo araente ma mancava di calore. Acida e piuosto cinica, mi
ricordava Mercedes McCambridge nel Gigante, una che aveva visto abbastanza della vita del Texas per ritirarsi, limitandosi a bere, giocare a golf e non pensare troppo. In fondo Pat, che era caolica, aveva messo al mondo un figlio e una figlia con il defunto marito e altri cinque figli con il patrigno di Elizabeth, un banchiere ricco e taciturno di nome Barney. Il suo dovere ormai l’aveva fao. Non conoscevo bene il Texas, ero solo innamorato della sua leggenda, ma quella famiglia numerosa mi dava una sensazione di impersonalità. A tavola la conversazione era laconica e banale o addiriura inesistente. Dopo il pranzo del giorno del Ringraziamento, Barney si ritirò nella sala TV a guardare la partita di football con i maschi. Pat, intanto, beveva. Durante una delle nostre prime cene, in un ristorante del posto, mi aveva chiesto del mio passato: “Sei ebreo, vero? I tuoi vengono dalla Russia?” lasciando vagamente intendere che non fossi del tuo americano. Le avevo spiegato che solo mio padre era ebreo, che i suoi antenati erano arrivati dalla Polonia negli anni aranta dell’Oocento, che mia madre era francese ed era arrivata subito dopo la guerra. “Oh,” aveva deo lei scambiandosi un’occhiata con Barney, al quale non piaceva l’idea di fare troppe domande su cose o persone – una parsimonia molto apprezzata in uno Stato dove parlare può diventare facilmente pericoloso. Ma il dubbio nella voce di Pat mi aveva turbato. Che ci faceva sua figlia, un’americana purosangue, con questo sceneggiatore? Non posso dire che con gli anni la mia conversazione con la madre e il patrigno di Elizabeth migliorò granché. Sembravano davvero esserci due famiglie soo quello stesso teo, da una parte Elizabeth e il fratello maggiore, dall’altra il resto dei ragazzi con il padre biologico – e la madre neutrale al centro, sfiancata dall’aver dato altri figli al nuovo marito; a giudicare dallo spartano taglio di capelli e dagli abiti che indossava, fare altro sesso con un uomo doveva essere l’ultimo dei suoi pensieri. Il fao che non mi parlasse mai del primo marito mi spingeva a rifleere sull’infanzia di Elizabeth, su come fosse cresciuta. Stando a quello che mi
aveva raccontato, era stato Barney, uomo soo soo di destra, a dare il la alle indagini dell’FBI sulle tendenze socialiste della figliastra. Mai mi sarei imbarcato in una discussione di politica con lui, sapendo che era solo fiato sprecato. Mentre con la madre era proprio impossibile parlare, visto che già all’ora di pranzo aveva fao il pieno di alcol. Tranne qualche raro momento, non mi sentii mai a mio agio a San Antonio. L’inutilità dell’Alamo, piazzato al centro della cià, non faceva che accentuare il mio imbarazzo, perché lo vedevo all’esao contrario rispeo alla maggioranza degli americani: il simbolo di un furto perpetrato dai coloni ai danni dei messicani. Non affrontai mai l’argomento con i genitori di Elizabeth. Il 1980 segnò un cambiamento radicale nella cultura americana. Deluso dalle promesse e poi dall’inefficacia dell’amministrazione Carter, anch’io votai per Ronald Reagan, la carismatica stella del cinema ed ex governatore conservatore della California. ando Reagan divenne presidente, i suoi modi gentili e rilassati, il suo humour mi rinfrancarono lo spirito; ero convinto che la sua elezione segnasse un ritorno a quel confortante senso di rassicurazione che avevamo assorbito da bambini negli anni Cinquanta, guardando programmi televisivi come Papà ha ragione. La sua campagna eleorale aveva promesso oimismo come in seguito Obama avrebbe promesso speranza. E di certo era un presidente che ispirava simpatia, malgrado tue le bruure che stavano accadendo dietro le quinte. Ci cascai, come molti. Ma non avevamo leo le clausole scrie in piccolo, e all’improvviso ecco tornare le vecchie regole. Il Vietnam era stato “una nobile causa” e Reagan ammoniva che “siamo più in pericolo oggi che all’indomani di Pearl Harbor… Il nostro esercito è assolutamente incapace di difendere il Paese”. La Guerra fredda, l’Unione Sovietica, l’anticomunismo tornarono a essere i temi dominanti, e ben presto si profilò all’orizzonte la possibilità di una guerra nucleare. “esto Paese si sta spostando talmente a destra che non riuscirete nemmeno a riconoscerlo”: questo aveva deo John Mitchell, ministro
della giustizia di Nixon, prima di finire in galera nel 1975. Chi avrebbe mai potuto sospeare che aveva ragione? Da parte mia, avevo altre preoccupazioni. Tornato a Los Angeles, completai finalmente La mano dopo aver rigirato alcune scene tecnicamente complesse. Testammo il film a Los Angeles, in una proiezione di prova, oenendo riscontri deludenti, appena soo la media – l’equivalente di un 7- o di un 6+. Mi resi conto che era necessario lavorarci ancora, soprauo riducendo le apparizioni dell’arto mozzato. Subito dopo, durante una riunione urgente convocata a mezzanoe negli uffici della Orion di fronte a una decina di esponenti chiave dello studio, Jon Peters traò il film come un sicuro disastro che andava salvato, spiegandoci come rimontarlo: aveva bisogno di più terrore, di più apparizioni della mano. Io ero contrario e litigai con lui, la discussione trascese e Jon, sentendosi punto nell’orgoglio, con una tipica scenata se ne andò su due piedi, ritirando il proprio nome dal film e con questo affibbiandoci un marchio di infamia agli occhi di tua Hollywood. Il resto del gruppo continuò a lavorare sul film, a migliorarlo costantemente, ma la Orion aveva l’abitudine di seppellire in un casseo i film in cui non credeva, per evitare almeno i costi di distribuzione. Dopo seimane di tensione, senza sapere come sarebbe andata a finire, fu un enorme sollievo scoprire che Krim e gli altri avevano deciso di lanciare il film araverso la potente rete di distribuzione della Warner Bros., nell’aprile del 1981 – purtroppo nel fine seimana del passaggio all’ora legale, il che spinse il pubblico potenziale a restare in giro più a lungo e ridusse fatalmente il numero di speatori. Ma fu un deaglio ininfluente, perché il film non sarebbe decollato comunque. Non era né carne né pesce, come si suol dire, né un thriller né un horror. Era costato oltre quaro milioni di dollari e in quel fine seimana ne incassò due milioni e quarocentomila negli Stati Uniti, cifra che lo faceva considerare già morto e sepolto. Ciononostante, inseguii il film promuovendolo in varie cià, talvolta arrivando persino ad acquistare bigliei per le proiezioni, come se servisse a influire sugli incassi. Più che altro era scaramanzia. Ed era anche patetico.
Provai un senso di fallimento assoluto: cocente, nudo, impossibile da nascondere. Un fallimento sembra sempre più grave di quello che è. Pensi che lo vedano tui nello stesso momento, e che tui ne ricavino la stessa impressione, invece non è così. I soci della Orion erano piuosto abituati ai fallimenti, in quanto misuravano ogni loro film rispeo ai grandi successi oenuti ai tempi della United Artists con gli Oscar per alcuno volò sul nido del cuculo, Io e Annie, Rocky. Alla Orion avevano 10, Palla da golf e Arturo. Si limitarono a scuotere la testa e a meere una croce sulla Mano già dopo il primo weekend, il che voleva dire interrompere qualsiasi aività promozionale. Per giunta, la Warner Bros. Foreign decise di non distribuirlo affao all’estero, una scelta categorica e irrispeosa. I rapporti tra me e Mike Medavoy si raffreddarono rapidamente. Il fuoco non c’era più. Era anche l’anno dopo che la United Artists aveva distribuito Toro scatenato del mio ex insegnante Marty Scorsese, un film che aveva lasciato di stucco per il suo virtuosismo stilistico. Che cosa avevo realizzato io al confronto? La comunità di Hollywood sembrava bearsi del fallimento della Mano. O almeno così sembrava a me. In fondo, avevo vinto un Oscar per Fuga di mezzanoe da illustre sconosciuto. Dov’era scrio che mi meritassi un film tuo mio? A Hollywood c’erano talmente tanti aspiranti registi che i cinici si rallegravano nel vedere qualcuno che aveva già avuto successo subire il giusto contrappasso del fallimento. Tuavia, riuscii a ricavare un minimo di conforto dalle poche recensioni eccellenti, tra cui quella di Vincent Canby per il “New York Times”: Un horror-thriller di rara arguzia e intelligenza psicologica. Oliver Stone ha costruito una sceneggiatura che lascia spazio a due diverse leure, entrambe godibili. Nel senso più ovvio, La mano è un film dell’orrore, nel quale una “cosa” non facilmente descrivibile terrorizza la campagna. Ma è anche un film che parla di una rabbia così profonda che passa inosservata, acceata come uno dei tanti aspei di un comportamento che potrebbe definirsi “normale”, finché non esplode incontrollata […]. C’è un metodo folle all’opera, insieme a uno humour nerissimo. L’interpretazione di Michael Caine […] è terrorizzante proprio nel suo essere del tuo plausibile. La mano lascia intendere che [Stone] non sia solo uno sceneggiatore ma anche un regista di sicuro talento.
Molte recensioni, invece, meevano in ridicolo l’idea che qualcuno potesse anche solo prendere il film sul serio. E pensare che quello stesso anno Lawrence Kasdan, reduce dalla sceneggiatura dei Predatori dell’arca perduta, aveva direo il suo primo film, un noir torbido e misterioso intitolato Brivido caldo. Un film d’esordio ha bisogno di aenzione immediata. Non c’è pietà in giudizi come “discreto” o “non male”. L’occasione è una sola. Io l’avevo fallita e mi bruciava. La verità era che non ero pronto per il successo. Contrariamente al luogo comune, dal successo si può imparare. Tra le altre cose, ti insegna come comportarti in un’industria cinematografica fortemente basata sulle pubbliche relazioni e come gestire il denaro, i rapporti, le interviste. Inoltre ti dà la capacità e il desiderio di crescere come artista e come persona. Se non avessi avuto successo, non sarei mai stato in grado di ampliare la mia conoscenza del mondo. E a un certo punto, ho imparato anche come fare i film in modo migliore e più efficace. Il fallimento, invece, mi ha insegnato ad affrontare il dolore, la ferita aperta della rabbia e della sofferenza; mi ha insegnato anche l’amarezza, il desiderio di rivalsa e la sua inutilità, e alla fine mi ha insegnato la resilienza, la forza, il distacco. Il fallimento è doloroso, oltretuo amplificato dalle tribolazioni di un’industria perennemente esposta al giudizio, nella quale i fallimenti in serie ti lacerano l’anima finché non impazzisci, tenti il suicidio, perdi la forza di volontà o rinunci al tuo stile. Oppure ti insegnano il compromesso in un altro modo: asportandoti corde vocali e coscienza fino a renderti un cane che non sa più abbaiare. E a quel punto i macellai del maatoio ti squartano e ti geano sul cumulo delle altre carcasse – ormai inutile. Io adesso ero il tizio che aveva scrio Fuga di mezzanoe e avuto un raggio di sole puntato in faccia. Che aveva avuto il suo momento. Un momento di gloria coinciso con la vioria di un Oscar all’età di trentatré anni. E lì sarebbe finita.
Nel buddhismo si dice che la prima freccia è sì dolorosa, ma sono la seconda, la terza e tue le altre che scagliamo nella stessa ferita a provocare la sofferenza maggiore. Più di qualsiasi altra cosa, notavo che la mia spinta si era esaurita. Intorno a me era calata una strana inerzia. La percepivo. Nelle agenzie di management o da come mi guardavano le persone al ristorante. Depresso, spiritato, cercai rifugio in alcuni amici, quasi tui europei, che mi facevano ridere e traavano la débacle come una delle tante baute d’arresto della vita. Forse avevano ragione loro. Erano sofisticati e amanti della coca e di altre droghe, a volte dell’eroina. Per alleviare il dolore cominciai a sniffare più spesso. Elizabeth mi faceva compagnia. Ci eravamo trasferiti in una villea in affio sul litorale di Venice. Ogni giorno rumore di onde che si infrangevano sulla spiaggia – quell’oceano sempre uguale cominciava a darmi sui nervi, come nel Cuore rivelatore di Poe. Acquistai delle tende speciali e oscurai il sole. Un aalude per iniziare la giornata di lavoro e cocaina per prolungare le energie lungo le ore di luce. Giù e poi su; poi di nuovo giù. Di sera in realtà, a meno che non ci fosse una festa, mi drogavo di meno perché dovevo fare rifornimento di energia per ricominciare a scrivere l’indomani. Diventa una spirale distruiva che non vedi, perché ti sembra che tuo vada bene, con le droghe legate alla tabella di marcia del lavoro. Non ero un cocainomane perso, ogni giorno sfornavo le mie pagine, eppure ciò di cui avevo più bisogno era lo sballo, una combinazione di su e giù, movimenti contraddiori nella testa. Il tranquillante e lo stimolante creano arito, che è eccitazione e, a volte, idee geniali (o così mi sembrava). Ti svegli al maino, colazione, tiri le tende e ti immergi nella caverna. Pausa a mezzogiorno per una corsea, poi di nuovo nella caverna. Vedo la disciplina di mio padre mescolarsi alla sregolatezza di mia madre. I due estremi avevano trovato una sintesi in questo dilaniato essere umano, che si sforzava di essere soo controllo nella sua contraddiorietà.
In quel periodo stavo adaando, con grande piacere, Wilderness, del giallista Robert Parker, una storia sulla mafia del New England con atmosfere analoghe a quelle di Un tranquillo weekend di paura e che si concludeva con un sanguinoso inseguimento tra le lande desolate del Massachuses. ando finii una prima versione, il mio produore Michael Phillips, celebre per aver coprodoo fra gli altri La stangata (1973) e Taxi Driver (1976), non sembrò del tuo soddisfao dal risultato. Io non ero d’accordo. Vedevo Michael troppo intelleuale per un film crudo come quello. In seguito, rileggendo la sceneggiatura più oggeivamente possibile, sentii la “voce” che gli autori non vorrebbero mai sentire. Avete presente il soliloquio di Humphrey Bogart nel Tesoro della Sierra Madre? “Coscienza… Chi crede di averla ne è seccato a morte!” Potremmo anche chiamarla la voce di Māra, che perseguita il Buddha per tua la vita sollevando dubbi. E questa voce mi sussurrava: “Non è all’altezza. Puoi fare di meglio.” E poi, il colpo di grazia: “Non stai scrivendo con la solita… cosa? Intensità di sentimenti, passione? Manca qualcosa! Ma cosa?” E infine il pensiero più terrificante di tui: “Il motivo è la cocaina! La cocaina mi ounde la mente. Si sta impossessando del mio cervello!” Fu una consapevolezza sommessa ma devastante perché… perché io amavo la mia droga come un bambino ama un giocaolo, o un adulto ama il gelato, e non volevo rinunciarci. Ero schiavo della coca. Sei schiavo quando ne hai bisogno per lavorare, per funzionare – questa è la dipendenza, quando sei controllato da qualcosa di estraneo alla tua volontà. Non sei più un essere umano. Ecco perché se incrocio per strada un tossico o un pazzo me ne tengo alla larga. Mi fanno paura. ando si avvicinano, con quegli occhi da zombi, ti rendi conto all’improvviso che nulla di ciò che farai o dirai arriverà alla loro mente. Sono uno specchio della tua paura di perdere il controllo. Per la prima volta in vita mia ero diventato schiavo di qualcosa, ne avevo bisogno a ogni costo, in ogni momento. E in effei la mia sceneggiatura di Wilderness non era all’altezza e soprauo non ero in grado di migliorarla. La mia mente aveva perso
qualcosa. Un po’ di neuroni, forse? Era una consapevolezza talmente viscerale che, senza nemmeno apportare modifiche, consegnai in frea e furia il copione e presi le distanze dal film, che non fu mai prodoo. Più che un film, credo che Wilderness, la landa desolata, fosse il luogo dove mi trovavo. Ne aveva cantato anche Jim Morrison: Lost in a Roman wilderness of pain And all the children are insane.** Elizabeth ormai tirava di coca tanto quanto me. Vedeva i mostri. Si alzava nel cuore della noe, insonne, e per un paio d’ore spariva al piano di soo, a sniffare e sognare, disegnare, scrivere brandelli di storie che chiamava idee per un copione. Il maino era particolarmente deprimente. Io piangevo dentro. Avevo l’impressione che dappertuo, a Los Angeles, una consistente minoranza della popolazione di aori e creativi, oltre a molti agenti e giovani dirigenti degli studios, usasse la cocaina. O era una mia paranoia? Nel 1980 uno sconvolgente articolo del “Los Angeles Times” aveva stimato che una percentuale compresa tra il 40 per cento e il 75 per cento dei giocatori NBA facesse uso di coca. Sul Sunset Boulevard c’era un ristorante di alto livello, il Roy’s, famoso per la sua cucina fusion cinese-italiana, dove la cocaina veniva sniffata nei bagni o addiriura sui tavoli. Era tuo un grande spasso, banconote da cento dollari utilizzate per pippare o come mance. Due dei miei amici europei c’erano dentro molto più di quanto immaginassi, come scoprii quando, con mio assoluto stupore, furono arrestati entrambi. Uno fu ingiustamente condannato a dieci anni di carcere, l’altro se ne fece circa tre. Ma nell’armadio mi avevano lasciato mezzo chilo di eroina da custodire… fino a quando? Io ero sì schiavo della coca ma non ancora dell’eroina, pur essendo senz’altro pronto. L’avevo sniffata diverse volte in quegli ultimi due anni e mi era piaciuta troppo; ti rilassava che era un piacere e se a seguire ti facevi una striscia di coca prendevi subito l’altra direzione – facile come una salita in ascensore.
Era il diavolo quello che avevo nell’armadio. Un vaso di Pandora che mi fissava tui i giorni. Non aprire. In un film diventerebbe una donna, poi un serpente o qualcos’altro, mutevole nella forma. Era proprio questo che stava succedendo nella mia vita dissipata. Sia come scriore sia come tossicodipendente, stavo mutando forma. Sbirciai per due seimane quel mezzo chilo di eroina, avvolto in una bellissima confezione di carta oleata marrone, chiusa con uno spago, pronta a essere aperta. Ma non la aprii mai, resistendo alla tentazione. Poi un altro dei miei amici passò a prenderla e se la portò via per sempre. Sapevo a pelle che io ed Elizabeth avevamo un solo modo per spezzare quella catena: andarcene da una cià dove la maggior parte delle persone che amavo frequentare si faceva di coca, aalude e altre sostanze. Non è possibile liberarsi di una dipendenza senza sorarsi alle abitudini quotidiane, alle facce di conoscenti e amici, alle pressioni costanti di un’industria ossessionata dal denaro. Più in generale, stavo contemplando un esilio forzato dalla mia nuova casa in paradiso. Appena tre anni prima avevo pensato che Los Angeles fosse il massimo. Adesso invece mi faceva paura; anzi la odiavo, odiavo il sole, il mare, tuo! Secondo alcuni esperti, la dipendenza affonda la propria radice nel sentimento della vergogna. Forse è vero; senz’altro c’entra il disprezzo di sé, così evidente nei miei due primi horror, Seizure e La mano. Avevo cominciato a fare uso di droga in Vietnam, con la marijuana, per rilassare la pressione interiore, e in quel caso sentivo di essere giustificato dalle tensioni insite nell’esperienza che stavo vivendo. Adesso, analogamente, avrei potuto sostenere che fosse la pressione di Hollywood a spingermi verso la droga. Eppure c’era un’ombra più profonda. Vergogna e paura, sì, ma anche il desiderio di qualcosa che non riuscivo a raggiungere nel mio cuore. Ci sarebbero voluti anni per elaborarlo. Per il momento ero all’inferno. Curiosamente, il fondo di questa spirale distruiva coincise con il mio matrimonio con Elizabeth Cox a San Antonio, nel
giugno 1981, appena due mesi dopo l’uscita della Mano nelle sale. Indossavo un vistoso smoking bianco che non era nel mio stile e mi faceva sembrare un cantante di pianobar degno del Padrino. Ma era il mio secondo matrimonio e, dopo la dimessa cerimonia civile della volta precedente, adesso avevo voglia di esagerare. Mi stavo legando al cuore profondo dell’America, alla facoltosa buona società bianca dei circoli del golf nella quale non mi ero mai sentito a mio agio. Era il giorno della mia acceazione, come era successo all’immigrato greco Elia Kazan quando aveva sposato la moglie. Eppure, se devo dire la verità, non ricordo nemmeno il momento in cui ci scambiammo le promesse nuziali, in giardino soo un pergolato fiorito. el semplice “sì”. el giorno avevo fumato erba, preso un aalude, sniffato cocaina, e molto semplicemente non ricordo nulla perché il vero sposalizio iniziò solo più tardi, con la grande festa in una villa che avevamo affiato fuori cià, tra automobili di lusso, orchestrina mariachi, uno splendido porticato, file di lanterne appese, persone giovani e allegre. Nonostante ci stessi dando dentro con lo sballo, mi chiedevo come io ed Elizabeth avremmo potuto fare sesso a festa finita. Dovevamo farlo a tui i costi la prima noe di nozze, rientra nella mitologia. Ma la cocaina mi lasciava con un orgasmo semiparalizzato, spesso tardivo, ammesso che lo raggiungessi, e alla fin fine insoddisfacente. Elizabeth volle tirare tardi con le amiche e quella noe non ricordo nemmeno di essere andato a leo. Elizabeth era distrua quanto me. Di conseguenza, fu una cerimonia priva di qualsiasi significato. Altreanto poco ricordo della luna di miele a Bora Bora, tranne che soggiornammo in un resort di gran lusso. Stavo leggendo, pensate un po’, Resurrezione di Tolstoj, ero insopportabilmente irrequieto e, come qualsiasi tossicodipendente, detestavo anche questa sensazione. Mi chiudevo in camera a scrivere mentre la mia novella sposa esplorava l’isola in biciclea per conto suo. Ci ritrovavamo poi a fine giornata in quella che mi piaceva chiamare “la luce da vino” e andavamo a fare una lunga nuotata. Persino in quei momenti, però, il mio pensiero non poteva evitare di
proiearsi ai test nucleari che l’America aveva condoo non lontano da lì negli anni Cinquanta, a quanto fossero inquinate quelle acque, il pesce che mangiavamo. Fu questo l’epilogo di quei tre anni così incostanti. Erano trascorsi veloci ma anche avvolti da una sorta di torpore, lo stesso che avevo provato al ritorno dal Vietnam. Forse non ero del tuo presente. Forse era questo il senso profondo della Mano? Ero mozzato da me stesso e non me ne rendevo conto. Dal punto di vista materiale ero soddisfao di me, della mia posizione nel mondo, di avere sposato una donna stupenda, ma nel profondo dell’animo mi sentivo un roame. Sono versi di e End dei Doors: “Persi in una landa romana di dolore / e tui i bambini sono pazzi.” (N.d.T.) **
6 Aspeando il miracolo
But I was waiting For the miracle, for the miracle to come. Leonard Cohen, Waiting for the Miracle Un giorno ricevei un’inaesa telefonata da Marty Bregman. Aveva un nuovo lavoro da propormi. Con il suo sorriso incantatore Marty avrebbe potuto dare filo da torcere persino a Elmer Gantry, l’artista del raggiro protagonista del Figlio di Giuda. Ai tempi di Nato il quaro luglio, aveva cominciato così: “Oliver, ho acquistato i dirii di un libro, sul Vietnam. È sensazionale.” (Il suo aggeivo preferito.) “Oima recensione sulla prima pagina del ‘New York Times’. Ne hai sentito parlare?” esta volta invece disse: “Oliver, hai mai visto Scarface con Paul Muni? Al l’ha visto l’altra sera e lo trova sensazionale! Lo trova un ruolo adao a lui. Lo sai quanto è esigente… ma questo lo sente proprio suo. Ci serve solo una sceneggiatura…” eccetera eccetera. Era la stessa cosa che aveva deo a proposito di Nato ma adesso, a quanto pareva, il signor Pacino aveva visto Muni nello Scarface del 1932, scrio da Ben Hecht e direo da Howard Hawks, e gli era venuta voglia di interpretare lui il personaggio liberamente ispirato alla figura di Al Capone. Mi dava l’idea di un film commerciale e di grande richiamo, ma fasullo – non mi interessava. Non avevo dimenticato il comportamento di Al ai tempi di Nato il quaro luglio e inoltre, dopo Il padrino 1 e 2 e le varie imitazioni, non avevo voglia di meermi in lizza con l’ennesimo film sulla mafia italiana. Marty ci rimase male ma, poiché non acceava mai di sentirsi dire di no, mi richiamò alcune seimane più tardi.
“Ehi, Oliver. Sidney [Lumet] ha un’idea interessante per questa cosa di Scarface. Sai che lui e Al sono amici – un’accoppiata sensazionale… Vuole farne una versione moderna, nell’ambiente dei marielitos cubani.” In effei era una novità, qualcosa di diverso. All’America l’indipendenza cubana non andava proprio giù. Le avevamo provate tue: omicidi, terrorismo, un’invasione, un pesante embargo commerciale; offrivamo ogni forma di irregolare asilo politico ai sequestratori, ai criminali, persino ai terroristi che riuscivano a scappare da Cuba e raggiungere le coste americane. Nel più recente episodio, in risposta alle pressioni americane per la libertà e i dirii umani, un Fidel Castro in difficoltà economica era stato ben contento di liberarsi di circa venticinquemila dissidenti, che dal porto di Mariel avevano raggiunto Miami via mare. Tra loro erano nascosti circa duemilacinquecento tra criminali e indesiderati la cui presenza, una volta scoperta, aveva indignato l’opinione pubblica americana, come se Castro ci avesse beffati per l’ennesima volta. I tempi erano giusti e il progeo mi dava un motivo per allontanarmi da Los Angeles. Miami era un mondo nuovo e, tuo sommato, sapevo due o tre cose sulla cocaina, che nel film sarebbe stata ciò che gli alcolici erano stati per Al Capone. Per di più, mi venivano offerti quasi duecentocinquantamila dollari se il film fosse stato realizzato, una somma che per quei tempi era tra le più alte mai pagate per un adaamento, basato in questo caso su un film precedente. Acceai, e insieme a Elizabeth lasciai Los Angeles per quello che sarebbe diventato un lungo esilio. Nella pellicola originale, l’italiano Tony Camonte (interpretato da Paul Muni) è un giovane e ambizioso mafioso (“Fallo per primo, fallo da te e continua a farlo”) che pesta i piedi alle gang irlandesi della zona nord di Chicago. Nella guerra che ne scaturisce, Tony sbaraglia i rivali e conquista il loro territorio. Nel fraempo, continua a provarci con la donna del suo boss italiano, il quale cerca perciò di ucciderlo. Invece è Tony ad ammazzarlo, diventando il boss indiscusso
della cià. Intanto l’adorata sorella (Ann Dvorak) si innamora del principale sicario e braccio destro di Tony, Gino Rinaldo (George Ra). Possessivo e geloso, Tony uccide Gino. La sorella progea di vendicarsi, ma la polizia piomba loro addosso ed entrambi finiscono uccisi. Una nota stonata, imposta dal codice di produzione dell’epoca, vuole che Tony debba morire da miserabile vigliacco, mentre spara con la sua mitragliatrice ompson ultimo modello soo un gigantesco cartellone pubblicitario illuminato con la scria e World Is Yours [Il mondo è tuo]. L’allusione a un rapporto incestuoso tra Tony e la sorella, ispirato ai Borgia del Rinascimento italiano, è uno dei motivi per cui Scarface era stato messo al bando in diversi Stati e cià degli Stati Uniti per poi essere ritirato dalla circolazione dal produore, Howard Hughes, fino a dopo la sua morte nel 1976. Pur essendo stato vituperato all’epoca per i suoi eccessi, era una vera pietra miliare del cinema, uno dei film che avevano dato l’avvio al genere gangster. Lumet, che incontrai a New York, mi spiegò che nel film voleva realismo contemporaneo, i temi dell’immigrazione e delle guerre di droga, delle infiltrazioni malavitose fino ai livelli più alti della politica. A Miami erano i colombiani, noti per la loro crudeltà, che si stavano impossessando del traffico di droga, soraendolo alle gang cubane di epoca precastrista. Giamaicani e dominicani, con i loro legami a New York e nel New Jersey, ne stavano addentando una fea; molto sangue veniva versato, con la mafia italiana tagliata fuori dal giro; era un new deal nel mondo del narcotraffico, con facce nuove e regole nuove. Sulla base delle indicazioni fornitemi da Bregman, entrai in contao con agenti di polizia a livello ciadino e di contea, sia onesti sia corroi. La cià era un caleidoscopio, le varie giurisdizioni un vero e proprio ginepraio: c’era Miami, c’era Miami Beach, c’era la Miami-Dade County, che a loro volta si accavallavano con la divisione criminalità organizzata dell’ufficio dello sceriffo della Broward County (che copriva il lucroso mercato di Fort Lauderdale). A tue queste autorità si
aggiungevano i procuratori federali del dipartimento di giustizia, l’FBI e, giusto per complicare ulteriormente lo scenario, la DEA (Drug Enforcement Administration), con la sua giungla organizzativa. Tuo questo per controllare un vastissimo territorio fao di paludi di mangrovie, con centinaia di insenature ideali per nascondere gli innumerevoli aracchi e piste di aerraggio utilizzati dai trafficanti. Era un remake del Vietnam: marina, esercito, aviazione e Marines – e credete che si parlassero tra loro? Macché. Ogni agenzia andava per la sua strada (un po’ come succederà al nostro apparato di sicurezza prima e dopo l’11 seembre). Come l’America aveva scoperto già negli anni Venti, quando aveva cercato di proibire l’alcol, è impossibile interrompere il flusso di una sostanza di cui c’è forte richiesta, e i profii del mercato nero creano una nuova classe criminale. Dopo un lungo periodo di crisi nel quale i vecchi megahotel come il Fontaineblau e l’Eden Roc erano morti soo il peso di un glamour ormai sfiorito, Miami adesso stava risorgendo grazie al denaro fresco del comparto immobiliare: lungo Brickell Avenue e a nord della baia di Biscayne era tuo uno sveare di enormi gru e imponenti graacieli, sui cui vetri a specchio si rifleeva il cielo azzurro della Florida striato di nuvole bianchissime. South Beach, che di giorno era una comunità di modesti pensionati ebrei, uno shtetl con le palme, di noe si trasformava in un quadro vivente composto da esotici stuoli di abbronzate ragazze latinoamericane, agghindate in gioielli e vestiti succinti, che sciamavano verso i locali richiamate dalla disco music di Celebration o Get Down Tonight, e dalla lenta processione, lungo Ocean Drive, di fiammanti Bugai, Lamborghini, addiriura Rolls-Royce Corniche, che strombazzavano a tuo spiano per farsi notare. Ovviamente erano in aumento anche gli omicidi, e certi tipi alla Scarface cominciavano a essere tenuti d’occhio dalle forze di polizia, ancora impegnate a capire chi fosse chi nel giro, tra nomi spagnoli difficili da decifrare e sicari pronti a tuo, a volte semplici disperati in gita di piacere dalla Colombia, che per poche centinaia di dollari sparavano da
una motociclea in corsa a qualcuno che nemmeno conoscevano per poi riprendere l’aereo in giornata. I famigliari degli spacciatori erano i bersagli preferiti: sei, see persone ammazzate in una casa di Coral Gables, quaro morti in una tragica sparatoria in pieno giorno in un centro commerciale… Nel novembre 1981 la rivista “Time” uscì con una copertina su Miami dal titolo Paradiso perduto? L’articolo era profondamente sensazionalistico, scandalismo della peggior specie, ma gli americani amano la propria violenza e l’America era di nuovo in guerra, il suo tema preferito. Le aenzioni mediatiche piacevano anche alla polizia e ai federali, che esageravano la minaccia del nemico come fosse una nuova Chicago degli anni Trenta. Tua l’America sembrava bramosa di essere di nuovo dentro un film, o almeno dentro la sua particolare versione di un reality show. Per due o tre seimane, passando le serate in una mezza dozzina di locali, tra cui il Mutiny Club and Hotel di Coconut Grove, scoprii quanto più possibile, ma non mi addentrai abbastanza negli ambienti criminali. Un avvocato famoso e ricchissimo era stato da poco assassinato nel suo ufficio, dopo la chiusura, da uno dei suoi clienti, che evidentemente gli rimproverava di averlo fregato in una delle tante indecifrabili relazioni fra avvocati e trafficanti di droga. esti legali non poterono rivelarmi più di tanto ma mi consigliarono di fare un giro a Bimini, nelle Bahamas, circa sessanta miglia al largo della costa di Miami, il porto più vicino da cui partivano i veloci motoscafi (le cosiddee cigaree boats) che noetempo, filando fino a novanta, cento miglia orarie, sfuggivano alle motovedee della guardia costiera per poi rallentare bruscamente e, come silenziosi sussurri nella noe, depositare la merce nelle calee intorno a Miami. Gli avvocati lasciavano intendere che a Bimini i loro clienti avrebbero potuto ammorbidirsi e parlare, poiché correva voce che il governo bahamense fosse a libro paga del cartello e chiudesse un occhio sulle aività di narcotraffico.
Così, usando mia moglie come conferma della mia identità di sceneggiatore intenzionato a realizzare un non meglio precisato film hollywoodiano, presi una camera vista mare nel più elegante hotel di Bimini, che tra l’altro era stata luogo di pesca predileo per Hemingway ai tempi del malinconico Avere e non avere. Io ed Elizabeth ci facevamo ancora di coca, perciò da quel punto di vista eravamo autentici, e nell’arco di nemmeno un’ora ero già in fia conversazione, davanti all’affollato bancone, con tre colombiani che chiamerei quadri intermedi – non erano, infai, né i boss, che si tenevano in disparte, né i cosiddei muli che si occupavano materialmente del trasporto. esti uomini, vestiti con abiti di sartoria, sovrintendevano al correo svolgimento delle operazioni. Il flusso di cocaina era ormai talmente grande che vedersi confiscato qualche carico ogni tanto non gli faceva né caldo né freddo. Lì a Bimini le cose erano più allo scoperto rispeo a Miami. Erano tipi tranquilli i tre che avevo incontrato; bevemmo e girammo intorno all’argomento. Erano interessati a Hollywood e di conseguenza a me. Ci demmo appuntamento in una delle loro stanze, nel nostro stesso hotel. Alle undici di quella sera eravamo sballati e su di giri, tra cocaina e cuba libre. Parlando del mio soggiorno a Miami feci per caso il nome di un avvocato difensore che avevo bazzicato. Il nome generò elericità. Il capo dei tre cambiò espressione. Si alzò, si diresse verso il bagno facendo furtivamente segno al numero due di seguirlo, lasciando me ed Elizabeth con il meno sveglio del terzeo. La situazione non mi piaceva, per niente. Avevo fao un passo falso e lo sapevo. In Vietnam avevo scoperto che quando i guai sono vicini generalmente arrivano in silenzio, maldestramente, persino stupidamente, quando meno te li aspei, quando ti comporti con superficialità. Non arrivano mai accompagnati dalla fanfara. Giusto uno sparo, sordo, un proieile che ti trapassa e, quasi senza che te ne renda conto, si spengono le luci. È semplice, e io ero stato superficiale. Cosa stavano combinando in quel bagno? Stavano parlando dell’avvocato di cui avevo fao il nome. Pur sballato com’ero, compresi il
mio errore. Il mio gancio aveva ovviamente iniziato la carriera nell’ufficio del procuratore generale degli Stati Uniti prima di diventare un avvocato difensore, lavoro con cui guadagnava di più, anche se questi tizi non lo sapevano. Ed era stato proprio questo avvocato, quando era ancora procuratore, a sbaere in galera il tizio che adesso era nel bagno e stava dicendo al suo scagnozzo che ero senz’altro un federale soo copertura. Cristo! Elizabeth non si stava rendendo conto di niente, ormai era completamente andata. Invece la situazione era seria. Potevano uscire dal bagno da un momento all’altro con le pistole spianate e portarci da qualche parte per torturarci. Poi, dopo aver carpito eventuali informazioni in mio possesso, ci avrebbero ammazzati e geati in una palude, per essere divorati da granchi e altre bestie. Assassinati a Bimini sceneggiatore premio Oscar e sua moglie, sarebbe stato il titolo del trafileo. C’era ben poco da fare. Il terzo colombiano non si capacitava del mio disagio. Be’, quando la porta alla fine si aprì e gli altri due sbucarono dal bagno, i miei occhi penetrarono i loro in cerca del verdeo. Non era molto chiaro, tranne che non avevano le pistole in pugno, il che fu un sollievo. In ogni caso, non diedi nulla per scontato. I tizi adesso si comportavano in maniera decisamente diversa – fredda, né amichevole né ostile, più orientata a tagliare corto. Dovevano andare. Io acconsentii, naturalmente, e mantenendo un’espressione cordiale sul volto accompagnai la mia ignara moglieina fuori dalla camera. Non significava che fossimo in salvo. Nervosamente, la condussi fino alla nostra camera con vista sul porto; i tre sapevano qual era e avrebbero potuto farci visita in qualsiasi momento. Spiegai la situazione a Elizabeth e restammo svegli tua la noe, ad ascoltare le barche dei trafficanti che accendevano il motore e partivano, tra dialoghi in spagnolo. Fu una lunghissima noe, tesa, appiccicosa, specialmente soo l’effeo della coca e con nessuna voglia di scopare. Se non fossi stato così paranoico avrei capito che sarebbe stato
imbarazzante per i governanti bahamensi se due americani bianchi fossero stati assassinati e fai sparire in qualche palude della loro bella isola. La posta in ballo era troppo alta per rischiare di compromeere un traffico redditizio come quello. ando arrivò l’“aurora dalle rosee dita”, come a Omero piaceva chiamarla, mi sembrò la più bella di sempre. Prima di mezzogiorno avevamo già tolto le tende. Ma l’assoluta tensione e la paura di incontrare quelle persone mi rimasero impresse, tanto da diventare l’ispirazione per la famigerata scena della sega elerica nella camera del motel all’inizio di Scarface, quando Pacino rischia di essere fao a pezzi. Trasferirmi a Parigi, la cià di mia madre, alla fine dell’autunno 1981 e restarci tuo l’inverno fu la migliore decisione che presi riguardo alla mia dipendenza dalle droghe. Il freddo, il cibo eccellente, i ricordi della mia infanzia e della mia famiglia, oltre al sostegno degli amici, furono un toccasana. Ma soprauo, nessuno dei miei conoscenti francesi usava la coca, che in Francia non ha mai davvero preso piede. In realtà me ne stancai da solo: non ne avevo più voglia. Mi resi conto che per me la cocaina era soprauo una sensazione, e fondamentalmente una sensazione che diventava ripetitiva, come l’alcol, come il sesso, come il gioco d’azzardo, come qualsiasi cosa. Le idee sono più durature delle sensazioni. Dal momento in cui lasciai Miami smisi di colpo, e per quasi tre mesi non toccai né coca né altre sostanze, a parte l’erba. Elizabeth fece lo stesso. Non è che stessi chiudendo definitivamente, no, ma smisi di esserne schiavo. Col senno di poi, posso dire di non aver mai fao un consumo esagerato di cocaina, ma la mischiavo con alcol e tranquillanti per raggiungere il massimo sballo possibile. Il mio medico in seguito mi rivelò che avevo una carenza di dopamina (la cosiddea molecola del piacere) e che quindi tendevo a sovracompensare. Ma rispeo ai cocainomani che conoscevo, ero arrivato al massimo a un livello di cinque o sei su una scala di dieci. Dopo Parigi avrei usato di nuovo la coca in
situazioni conviviali, ma per scelta, non più per bisogno – una distinzione molto importante. Cominciai a scrivere la mia sceneggiatura in un elegante trilocale non lontano dal Bois de Boulogne, dove andavo a correre cinque o sei giorni alla seimana. Facevo una seduta di lavoro all’incirca dalle dieci alle tredici, poi una corsea dopo pranzo, poi una seduta più intensa dalle sedici alle venti o alle ventuno; quello era il clou della giornata lavorativa, forse perché meevo a fruo le energie accumulate nelle ore precedenti e anche perché sarei stato assalito dai sensi di colpa se non avessi prodoo, dopo essere stato seduto lì tuo il giorno. Mi piaceva tornare a quel genere di vita irreggimentata, come quella che mi era stata imposta, con mio grande fastidio, nei quaro anni alla Hill School di Postown, Pennsylvania – compagni di scuola competitivi e inverni gelidi, ore e ore di studio, sport impegnativi e orrendo cibo dickensiano –, dove ero stato plasmato e trasformato in un giovane infelice da una ferrea disciplina che adesso mi stava salvando dal mio lato sregolato. La mia nuova versione di Scarface avrebbe avuto per protagonista Tony Montana (in omaggio a Joe Montana, il grande quarterback dei San Francisco 49ers dell’epoca), un ex galeoo arrivato a Miami con l’esodo di Mariel; sarebbe stato un personaggio sfrontato e scandaloso, sopra le righe nella sua fame di tuo. Ben presto ci prova sulla pista da ballo del Babylon con la donna del suo boss, Elvira (Michelle Pfeiffer), che lo ha sempre traato con sufficienza. TONY:
… Di’ un po’, perché ce l’hai col mondo? Sei una bella ragazza, bellissime gambe, vestiti eleganti, e invece negli occhi hai l’aria di una che da un sacco di tempo non se la scopa nessuno. Che problema hai, pupa? (ride, stizzita): Sai, sei ancora più stupido di come sembri. Lascia che ti faccia un corso accelerato, José o come cavolo ti chiami, così capisci come ti devi comportare da queste parti…
ELVIRA
TONY:
Ah, adesso sì che mi piaci! Vai avanti così, pupa!
ELVIRA:
Prima cosa: chi, quando e come scopo io non sono affari tuoi. Secondo: non mi chiamare “pupa”! Io non sono affao la tua pupa. E infine, anche se fossi cieca dalla nascita, se fossi disperata e avessi la bava alla bocca dalla voglia, su un’isola deserta, tu saresti l’ultimo con cui scoperei. E adesso che hai il quadro generale… vaffanculo, okay?
Si allontana dalla pista da ballo. Stacco alla scena successiva, in macchina verso casa, Manny al volante e Tony che fuma il sigaro. TONY:
ella lì… è già innamorata.
MANNY TONY:
(guidando): Certo, certo. E tu come lo sai?
Dagli occhi, Manny. Gli occhi non mentono mai.
MANNY:
Ma che, fai sul serio? No, dico, è la donna di Lopez. ello ci fa secchi tui e due.
TONY:
Ma va’, è un rammollito. Gliel’ho visto in faccia. ello vede solo il whiskey e la coca.
Come promesso, Tony porta via al suo boss il traffico di droga e anche la donna. Resta in conflio con la madre, che disapprova il suo stile di vita, e follemente possessivo nei confronti della sorella (Mary Elizabeth Mastrantonio) che invece lo adora ed è tentata dalle sirene del lusso americano. Il suo amico e braccio destro, Manolo (Steven Bauer), è invaghito della sorella ma Tony gli ordina di starle alla larga. Più diventa ricco e potente, più Tony va sopra le righe, contravvenendo alla prima regola imparata dalla donna del boss: “Non sniffare la roba che devi spacciare.” Pensate forse che le dia rea? C’è qualcuno di noi che dà mai rea? Certo che no. La scria e World Is Yours, come nel film originale, compare sopra lo skyline di Miami, scorrendo sulla pancia di un grande dirigibile pubblicitario. Nonostante Tony sia ormai circondato da temibili nemici – gang rivali, il trafficante boliviano che lo rifornisce di droga, i propri avvocati e banchieri, la polizia – il vero problema sta nella sua natura confliuale. L’FBI lo incastra finalmente per riciclaggio di denaro sporco, accusa da cui Tony è convinto di potersi salvare con qualche bustarella. La pressione aumenta, e Tony sembra destinato al carcere per evasione fiscale quando il trafficante boliviano Suárez, che di fao governa il proprio Paese e ha legami politici con la CIA, gli offre una via d’uscita con un pao: le accuse ai suoi danni verranno ritirate se Tony eliminerà a New York uno scomodo diplomatico che sta cercando di dimostrare il controllo occulto che il signore della droga ha sulla Bolivia. Non è un problema per Tony, se non che, il giorno stabilito
per l’aentato (ispirato a quello che a Washington nel 1979 aveva provocato la morte del cileno Orlando Letelier, ucciso da una bomba nascosta nella sua auto), il diplomatico non è solo, come previsto, ma ha con sé in macchina la moglie e le figlie. Tony si impietosisce (per motivi suoi personali: il desiderio di una famiglia, di una donna, di una sorella, tui avviluppati in una mente confusa) e non riesce a uccidere l’obieivo e la sua famiglia, e anzi fa saltare le cervella al capo del commando assassino. È paradossale che Tony si condanni alla rovina proprio nel momento in cui cerca di fare la cosa giusta, ossia evitare di uccidere una madre e le sue figlie; ha commesso uno sgarro con i boliviani e lo sa. Da questo momento Tony incrementa sempre di più il proprio consumo di coca, innescando una vorticosa spirale autodistruiva. Tornato a Miami, trova la sorella con Manolo e perde la testa, uccidendo il suo migliore amico prima che la sorella riesca a dirgli che si erano appena sposati. Lei a sua volta cercherà di uccidere Tony. Lo scontro a fuoco finale, con il trafficante boliviano che manda i suoi sicari a Miami, è sanguinoso: Tony fa ricorso persino a un lanciarazzi (“Salutate il mio amicheo!”) prima di essere massacrato, insieme alla sorella, in un culmine degno di un’opera lirica. Sì, era ipertrofico, troppo lungo, troppo aggrovigliato, ma sapevo che poteva funzionare. Perché era pieno di vita, conservava lo spirito anni Trenta della Grande depressione, con i suoi gangster nati dalla povertà e dalla disperazione. In questo spirito, lo Scarface di quei primi anni Oanta presentava un antieroe che si abbuffava senza mezze misure del suo materialistico sogno americano. Il film, in un certo senso, sarebbe stato una satira sociale, avrebbe imitato e preso in giro il desiderio americano di ricchezza a tui i costi. Anticipava quello che avrei fao con Wall Street e, più tardi, con Nato il quaro luglio, due film che descrivono il fruo deforme del capitalismo fuori controllo. Buai nella sceneggiatura tua l’energia, la crudezza, la rabbia trasgressiva, i dialoghi sboccati che mi riuscì di inventare:
esta cià è come una grossa figa che aspea solo di essere scopata. Io tuo quello che ho a questo mondo sono due cose, le palle e la mia parola, e le ho sempre onorate, tue e due. Io un comunista lo ammazzo anche gratis, ma per una green card posso farlo anche a feine. Lo sai che significa “capitalismo”? Fregare la gente. In questo Paese devi fare la grana, prima. E quando hai fao la grana, hai anche il potere. E quando hai il potere, allora hai pure le donne.
La mia intenzione era di superare gli anni Trenta quanto a disprezzo e ribellione contro ogni autorità, perché adesso lo si poteva fare impunemente; i codici di produzione cinematografica stavano diventando molto meno severi. Il mio linguaggio era estremamente provocatorio. Secondo un appassionato del film, la parola fuck vi compare centoantatré volte e Joan Collins, arice celebre per la sua arguzia, scherzò: “Ho sentito che nel film ci sono centoantatré fuck, più di quelli che la maggior parte delle persone si becca in tua la vita.” In realtà, i fuck che avevo inserito nella sceneggiatura (non so quanti) erano collocati secondo un ritmo ben preciso ma Pacino, prendendosi le sue libertà, ne aumentò considerevolmente il numero, cosa che non mi infastidì perché si accordava con il suo ritmo. In una delle mie scene preferite riuscii a creare il più completo, direo rifiuto di quella società civile che ormai disprezzavo profondamente per la sua ipocrisia. In un raffinato ristorante di Miami Beach ispirato al Forge, Tony riflee ad alta voce, a portata d’orecchio dei ricchi clienti seduti ai tavoli vicini, con Manolo e la strafaa Elvira, da poco diventata sua moglie: È tuo qui? Si riduce tuo a questo, Manny? Mangiare, bere, scopare, fumare, sniffare? E dopo? Arrivi a cinquant’anni e ti ritrovi una pancia come un barile, ti vengono due tee flaccide piene di peli, ti ritrovi il fegato mezzo disintegrato a forza di mangiare questa roba di merda, e diventi come queste mummie del cazzo che stanno qua dentro. Si riduce tuo a questo? (Si gira verso Elvira.) Guardala. Una tossica. Mi ritrovo per moglie una tossica. Non mangia niente, dorme tuo il giorno con gli occhiali da sole. Appena si sveglia si fa un aalude. E non vuole scopare con me perché è sempre in coma! È così che va a finire? E io che pensavo di essere un vincente! Fanculo, non posso neanche fare un figlio con lei, Manny. Ha l’utero talmente intossicato che non ci posso neanche fare un figlio, con questa!
Elvira, ferita, gli sbae il piao in faccia e se ne va. Tony, ricoperto di poltiglia, segue lentamente Manny verso l’uscita,
ma non può fare a meno di fermarsi sulla porta per rivolgersi agli aoniti clienti: Siete solo una manica di coglioni. Sapete perché? Non avete il fegato per essere quelli che vorreste essere. Voi avete bisogno di gente come me. Vi serve la gente come me, così potete puntare il vostro dito del cazzo e dire: “Eccolo, è lui il caivo!” Basta forse questo a fare di voi i buoni? Ma per favore! Non ve la raccontate. Voi non siete migliori di me. Sapete solo nascondervi. Solo dire bugie. Io non ce l’ho questo problema. Io dico sempre la verità, anche quando dico le bugie. (Fa per uscire, barcolla.) Coraggio, augurate la buonanoe al caivo! Coraggio È l’ultima volta che lo vedete, un caivo come me, ve lo dico io.
este baute ricalcavano i sentimenti che avevo provato durante la disastrosa premiazione ai Golden Globe del 1978. ando avevo avuto la nea sensazione che molti tra i presenti, quella sera, fossero ipocriti assoluti riguardo alla guerra alla droga, per non parlare della guerra del Vietnam. Di qualsiasi guerra ci trovassimo a combaere. Riusciremo mai a dire la verità? In un’altra scena Tony si rivolgeva a Manny: “Ecco il problema di questo Paese. Nessuno dice mai la cazzo di verità!” Mio padre, come ho già ricordato, mi aveva sempre messo in guardia al proposito: “Figliolo, non dire mai la verità. Serve solo a cacciarsi nei guai.” Da mia madre invece avevo sempre ricevuto un consiglio leggermente diverso, ossia che “le bugie bianche non sono brue. Tui abbiamo bisogno di bugie bianche”. Forse è davvero così, ma guardate dove le bugie bianche avevano portato i miei genitori: non certo più vicini alla felicità. Anzi, li avevano condoi al divorzio. C’è un’altra scena che mi sta nel cuore. Tony è a New York, pronto per l’aentato ai danni del diplomatico. Con lui c’è uno dei suoi uomini, Chi Chi. CHI CHI: TONY:
A proposito, che ha di così importante questo tizio? È un comunista?
No, non è un comunista. È una specie di simbolo, ecco cos’è.
CHI CHI:
Che cazzo significa sim-polo?
TONY:
Tipo che quando muori la tua vita ha significato qualcosa per qualcuno. Non è che hai semplicemente vissuto per te stesso, ma hai fao qualcosa per il resto dell’umanità… (Tony sniffa un’altra riga.)
CHI CHI:
(annuisce gravemente) Ah sì?
TONY:
Io voglio morire presto. Avere il mio nome scrio con le luci nel cielo. Tony Montana. Morto mentre lo faceva.
CHI CHI:
Che vai dicendo, Tony? Tu non morirai.
TONY:
(non lo sente nemmeno) …Finirò in una bara. E allora? Lo scarafaggio che avrà sparato finirà in una bara proprio come me. Ma io avrò vissuto meglio su questa terra. È solo questo che conta.
In tuo quel periodo la mia rabbia era assolutamente inconscia ed emergeva soprauo nelle sedute di scriura. In generale ero contento di passarmela bene e di essere rientrato nel giro. Avevo un lavoro, ero ben pagato e avevo trentacinque anni. L’istinto mi diceva che prima o poi sarei tornato a dirigere un film. Dopo oo, nove seimane spedii a New York la prima stesura di Scarface. A Marty e Al piacque moltissimo, senza riserve. Sidney Lumet, invece, disse a Marty che era violenta e gratuita. Bregman la difese e, con mia grande mortificazione, Sidney rinunciò alla regia. Credo che Marty se lo aspeasse, perché se ne infischiava delle leure politiche che a Sidney piacevano tanto. Si rivolse subito a Brian De Palma, che era reduce da un grosso flop con Blow Out e vedeva Scarface, al pari di Marty, come un film dalle oime potenzialità commerciali. Pare che De Palma avesse già tentato in precedenza di raggiungere un accordo con Marty sulla base di un’altra sceneggiatura (scria da David Rabe) ispirata alla versione del 1932, ma poi non se n’era fao niente. Tornai con Elizabeth a New York agli inizi del 1982, riprendendo i contai con la cià che avevo abbandonato sei anni prima. Evitammo cautamente le stesse insidiose tentazioni di Los Angeles: acquistammo un appartamento ai piani alti di un palazzo affacciato su Madison Avenue nelle East Nineties, che ci permeeva di portare i nostri due nuovi labrador a correre intorno al bacino idrico di Central Park. Per fortuna, anche Liz aveva smesso con la coca ed era tornata a uno stile di vita salubre. Volevamo un figlio. Il doore che consultammo non riusciva a credere a ciò che quell’idiota del suo collega mi aveva deo dieci anni prima a proposito della mia infertilità, facendomi venire mille paranoie per gli agenti chimici cui ero stato esposto in
Vietnam. Mi inieò gli ultimi ritrovati, sicuro che io ed Elizabeth ce l’avremmo faa. ella prospeiva risollevò il mio umore enormemente. Nel fraempo, con Bregman rivedevamo meticolosamente la sceneggiatura, mentre Pacino, per conto suo, forniva i suoi acuti suggerimenti. Non parlammo mai di ciò che era successo ai tempi di Nato il quaro luglio, ma via via che lo conoscevo meglio lo trovavo sorprendentemente spiritoso, con quelle perfee baute fulminanti che si inventava per Tony Montana, nel quale intanto si calava prendendo persino un marcato accento cubano. Mi sorprese che Al non avesse mai sniffato cocaina e non sapesse niente di droghe. Secondo Marty, da giovane aveva avuto seri problemi di alcol ma adesso era completamente sobrio. Eppure non si faceva remore a comportarsi sul grande schermo come il re dei cocainomani. Al apparteneva decisamente alla scuola del Metodo, aveva una vera adorazione per l’appartato Lee Strasberg, che insieme alla moglie sembrava guadagnare bene insegnando il teatro a una nuova generazione di aori. Al, inoltre, si fidava molto di uno stimato coach di recitazione, Charlie Laughton, cosa che irritava parecchio Marty, che invece avrebbe voluto gestirlo in tuo e per tuo. A mio avviso, Al aveva sempre un solo obieivo in testa: la recitazione. Per lui non sembrava esistere altro. Continuai a limare la sceneggiatura e in tempi brevi Ned Tanen della Universal, la casa di produzione cui Bregman era legato, approvò la realizzazione del film stanziando un budget tra i quaordici e i quindici milioni di dollari, una cifra di tuo rispeo per un violento film di gangster che già sulla carta si stava facendo la reputazione di essere sopra le righe – un’altra stramberia di Oliver Stone dopo Fuga di mezzanoe, stavolta accoppiata per giunta all’eccessivo e violento De Palma, il regista di Vestito per uccidere e Carrie – Lo sguardo di Satana. Bregman mi chiese di accompagnare De Palma a fare i sopralluoghi e a conoscere le persone con cui avevo preso contao durante le mie ricerche in Florida. Brian era un
uomo freddo, come Alan Parker – che strano, eh? – ma non mi percepiva come una minaccia e sembrava gradire la mia presenza accanto a lui. Idem per Bregman, che manteneva uno streo controllo sul film, affiancando Brian durante il casting. In una seduta alla quale partecipai anch’io, mi baei perché a interpretare il ruolo della donna di Al fosse Glenn Close, che mi aveva fao un’oima impressione durante la prova di leura del copione. Avevo scrio il ruolo originario di Elvira immaginandola una ragazza dell’alta società newyorkese catapultata in un ambiente non consono al suo, come South Beach. Marty mi prese per mao – “Ha la faccia da cavallo!” Lui era sposato con una bellissima arice, la bionda Cornelia Sharpe, e in genere aveva un debole per le bionde. Alla fine Marty e De Palma scelsero un volto nuovo, la ventiquarenne Michelle Pfeiffer, che con Scarface salì per la prima volta alla ribalta. A malincuore, tuavia, dovei abbassare il personaggio di Elvira, per renderla una materialista ochea di South Beach. Pacino chiese a Marty che restassi sul set in modo da poterlo aiutare, probabilmente non sentendosi del tuo sicuro rispeo alla regia. Lì per lì fui contento di questa decisione: venivo pagato solo con una diaria a rimborso delle spese, ma la vedevo come un’esperienza istruiva, un’occasione di crescita. Al, in quegli anni, era ancora mercuriale, pronto a cambiare direzione di punto in bianco, molto sensibile all’ambiente, occhi, orecchie e pelle perennemente all’erta. Se vedeva una faccia nuova sul set, reagiva all’istante. Era fao così. ando recitava facevo di tuo per evitare il suo sguardo, per timore che la mia concentrazione compromeesse la sua – un po’ come nel dualismo onda-particella. Billy Wilder descrive proprio questa estrema sensibilità quando racconta l’episodio in cui Greta Garbo lo bandì dal set di Ninotchka perché le aveva invaso il campo visivo. Non sarebbe stato facile dirigere Al Pacino, ma De Palma non sembrava porsi il problema, non essendo mai stato un “regista di aori” come Lumet, che Pacino avrebbe voluto per Scarface. La mia impressione era che De Palma fosse più interessato al quadro generale, un
approccio nel quale gli aori sono solo un pezzo, più o meno importante, del paesaggio. ando finalmente iniziarono le riprese, a South Beach nel novembre del 1982, i problemi non tardarono a emergere. Nei primissimi giornalieri, la cicatrice di Tony Montana cambiava forma e posizione, spostandosi sulla faccia di Al come un lombrico. L’inconveniente creò non poca agitazione, perché nessuno sembrava in grado di risolverlo, almeno finché non saltò fuori un nuovo truccatore capace di fissarla; ma se guardate con aenzione alcune delle prime scene, vedrete che la cicatrice vive di vita propria. Inoltre, la nostra presenza a Miami giunse al termine prima del previsto. Stando ai miei ricordi, eravamo lì da neanche due seimane quando i leader della comunità cubana in esilio riuscirono a farci cacciare dalla cià. Per prima cosa diffusero l’assurda diceria che il film fosse finanziato da Fidel Castro. ando poi entrarono in possesso di una copia della sceneggiatura, pretesero che il personaggio di Tony Montana fosse riscrio come spia comunista che Castro aveva infiltrato negli Stati Uniti come marielito. Soprauo, continuavano a ripetere che stavamo offrendo un’immagine distorta dei loro cosiddei contributi alla società americana, che per come la vedevo io consistevano in un radicalismo anticastrista fortemente politicizzato, al punto da sostenere varie organizzazioni terroriste, una delle quali aveva fao esplodere in volo un aereo di linea cubano provocando la morte di un’oantina di persone. Non bastavano le molte baute di dialogo in cui Tony esprimeva tuo il proprio odio verso Castro a smuovere questa rigida organizzazione di destra, completamente priva di senso dell’umorismo. La nostra precipitosa fuga da Miami aggravò la nomea di film scellerato che Scarface si era già fao, ma Bregman e la Universal furono risoluti nel presentarla alla stampa come una ritirata programmata da tempo. Negli stabilimenti di Burbank, tuavia, il film si impantanò. Un teatro di posa a volte produce questo effeo. Stare ogni giorno rinchiusi nello stesso posto, con un caldo
asfissiante, tende a impigrire le persone coinvolte nella realizzazione di un film, che pian piano si assuefanno all’agio di tornare nel proprio camerino e, la sera, nella propria casa. Non si è più una compagnia itinerante, che tende invece a essere più compaa; si torna alla “vita da civile”. Con La mano avevo dovuto affrontare un problema analogo: come riuscire a tenere alta la tensione, il livello di energia. Stavolta però era diverso, era Napoleone che cercava di ritirarsi dalla Russia. L’umore della produzione cominciò a risentirne, faa salva una breve, rigenerante escursione a Santa Barbara per girare gli esterni della villa boliviana e di quella di Tony a Coral Gables. Con un cast e una troupe di dimensioni ciclopiche, stavamo lentamente scivolando dalle dodici seimane inizialmente previste per le riprese a venti, tra il novembre del 1982 e il maggio del 1983. Tanto per cominciare, De Palma non era esaamente il ritrao della vigoria fisica. Sovrappeso, lento fisicamente, indossò per tua la produzione la stessa uniforme kaki ben stirata, come un tecnico qualunque. Si trovava inoltre, da quanto mi risulta, alle prese con il divorzio dall’arice Nancy Allen, cosa che di certo non contribuiva a rallegrare il suo umore. Era comunque un regista brillante, senza ombra di dubbio; aveva una sua visione e preparava scene elaborate che rendevano omaggio a questa estetica, ma che portavano via molto tempo al lavoro del direore della fotografia John Alonzo. Suo braccio destro era il testardo production designer Ferdinando Scarfioi, un uomo stravagante e raffinato che aveva lavorato con registi del calibro di Bertolucci e Visconti e che sarebbe morto di AIDS qualche anno più tardi. Anche a lui si deve quell’immaginario eccessivo e barocco della Miami anni Oanta che poi prese piede. Giorgio Moroder aggiunse poi una levigata colonna sonora disco eleronica che dà al film vivacità e tensione soerranea, così come aveva fao con Fuga di mezzanoe. Anche la violenza era stilosa ed elaborata con meticolosità hitchcockiana; Brian, con il suo ghigno macabro, si divertiva un mondo a girare le scene di violenza di cui la sceneggiatura era infarcita: sparatorie, accoltellamenti e tui gli altri pandemoni che eravamo
riusciti a inventarci, da un night totalmente devastato a colpi di mitragliatrice, con specchi in frantumi dappertuo, alla villa di Tony che viene rasa al suolo nel finale. All’epoca c’erano ben pochi effei digitali a disposizione, e la necessità di ricorrere ai cosiddei squibs, che imitavano l’effeo audiovisivo delle armi da fuoco, rallentava il ritmo della produzione; ogni squib infai andava rimpiazzato se, come spesso succedeva, il ciak doveva essere ripetuto; e se in una scena violenta c’erano dai venti ai cinquanta spari, il lavoro era notevole e spezzava i ritmi. Gli aori erano costrei a girarsi i pollici in camerino o nella rouloe per ore e ore. E c’era anche un altro problema, più difficile da cogliere ma dalle vaste ramificazioni. Al aveva preso l’abitudine di scaldarsi non prima del seimo ciak, più o meno. A volte una scena ne richiedeva dodici, quaordici, persino venti. Ma in genere erano quei primi sei a lasciarmi perplesso: per quanto velocemente una troupe riesca a muoversi, significa perdere almeno una o due ore di oima energia prima di oenere un ciak acceabile. Se a dirigere fosse stato Frank Capra, per esempio, o John Ford, i ciak sarebbero stati soltanto uno, due, tre; magari qualcuno in più, ma sempre rispeando una certa cadenza nelle riprese. Nel nostro caso invece imperavano la letargia e i rallentamenti e, poiché all’epoca Pacino era una star di primissimo piano, sostanzialmente non potevamo passare alla scena successiva se prima lui non aveva approvato quella che aveva appena interpretato. E poiché Al meeva in discussione tuo – a volte a ragione, ma a volte senza che ce ne fosse necessità, solo per una questione di insicurezza – non c’era la benché minima possibilità che il film restasse entro il suo già elevato budget. Considerato anche il metodico ma pachidermico procedere di Brian, riuscivamo a completare solo tre, quaro, massimo cinque scene al giorno. (Per fare un paragone, nei miei film successivi avremmo portato a casa dalle see alle quindici scene per ogni giorno di lavoro.) Bregman sollecitava De Palma ad accelerare il ritmo ma invano. Brian spariva del tuo nelle quarantoo ore del weekend, tanto che
Marty non riusciva nemmeno a parlargli al telefono. Il motivo addoo dallo staff della villa che aveva preso in affio era: “Il signor De Palma sta riposando e ha chiesto di non essere svegliato. A qualsiasi ora.” Brian non reagiva nemmeno quando il numero due della Universal bussava alla porta della sua rouloe durante gli interminabili intervalli tra un allestimento e l’altro. Alla porta di Al non bussava mai nessuno. Tanto non sarebbe servito a farlo uscire prima; Pacino manteneva imperterrito il suo ritmo. Con lui persino Bregman stava sulle uova. Era troppo pericoloso da prendere di peo. Le cose sarebbero cambiate con gli anni, come ho potuto constatare lavorando con lui in modo positivo e relativamente veloce in Ogni maledea domenica, nel 1991. All’epoca invece non c’era verso e non me ne capacitavo; in fondo nel teatro, che Al tanto amava e spesso faceva, il sipario si alza ed è sempre “un solo ciak”, dall’inizio alla fine. Niente ripetizioni, sulle tavole del palcoscenico. Mentre il budget si impennava dai quindici ai venticinque milioni, la testa dell’aiuto regista fu la prima a cadere, come sempre succede, ma nemmeno il suo sostituto, un vero fuoriclasse, riuscì ad accelerare i ritmi di Brian. Preoccupato di proteggere le mie scene, per me era una tortura cercare di apportare tagli a una sceneggiatura scria con una tessitura fia e intricata. Francamente, Brian non sembrava altreanto sensibile all’argomento. A lui interessava il lato operistico della storia, alla Sergio Leone; del resto stava girando un film di gangster, un genere che ai suoi occhi evocava grandiosità (e devo ammeere che oggi apprezzo questa visione più di quanto facessi all’epoca). Perciò a volte mi rinchiudevo nel mio studiolo alla Universal o nella mia camera di hotel a Santa Monica, dove io ed Elizabeth eravamo accampati, e lavoravo alle modifiche della sceneggiatura o mi dedicavo alla mia nuova storia russa (ne parlerò tra poco) o, ancora, facevo riunioni su altri progei. Alla fine, però, il set di Scarface mi riairava sempre, come un magnete. E Los Angeles cominciava a risucchiarmi nella sua orbita.
Il nostro film sembrava trasudare stile a scapito della credibilità, tanto che sooposi a Brian diversi problemi di verosimiglianza delle sparatorie, viste con lo sguardo di un reduce del Vietnam. Ma quello che stavamo girando era tu’altro. Non ci aveva mica ordinato il medico di essere razionali, no? Un esempio lampante era la scena finale, nella quale Brian faceva invadere la villa di Tony da una cinquantina e più di uomini, come mai sarebbe successo in una realtà come Miami. Io avevo immaginato che a far fuori Tony avrebbero potuto essere pochi sicari, ma fu Brian a spuntarla e devo ammeere che la soluzione è coerente con lo stile esagerato del film. Su altre questioni Brian acceò le mie osservazioni, ma per me non era affao facile interpretare il ruolo dell’arbitro sul set; anzi, è penoso se sei uno sceneggiatore che in cuor suo è anche regista. Mi sentivo come un mendicante che viene invitato al bancheo ma continua a tenere d’occhio l’ingresso secondario. In altre parole, non capivo bene quale fosse il mio ruolo. C’erano occasioni, anche se rare, in cui Brian si indispeiva per i miei interventi e mi chiedeva di allontanarmi. Nessun problema. Mai ho provato una tale sensazione di insofferenza come durante la produzione di Scarface. ando finalmente arrivò l’ultimo giorno di riprese, era previsto per quella stessa sera il tradizionale party di chiusura. Dopo sei mesi estenuanti, pensavo che sarebbe stato un’occasione meravigliosa per fare festa ma, quando gli chiesi se sarebbe venuto, Brian mi diede una risposta a sorpresa, ghignando come faceva spesso. “Col cazzo. Pensi che abbia voglia di stare un minuto di più in mezzo a questa gente? Me la squaglio!” Aveva davvero le valigie già pronte e filò drio all’aeroporto un minuto dopo l’ultimo ciak. Non lo rividi più per mesi. Era stato un uomo misterioso fin dall’inizio e lo sarebbe rimasto. Prima che iniziasse la produzione di Scarface, nel 1982, avevo scrio una sceneggiatura originale su un immaginario compositore e direore d’orchestra sovietico, vagamente
ispirato alla figura di Dmitrij Šostakovič, il quale sacrifica la sua promeente carriera pur di portare avanti un’esasperante loa contro il sistema comunista, all’epoca già al tramonto. Insieme a Elizabeth, avevo soggiornato per oltre un mese in Unione Sovietica, visitando diverse cià dove avevo incontrato in segreto i veri dissidenti, quelli che erano stati rinchiusi nei gulag o negli ospedali psichiatrici. Era stato un viaggio che avrebbe cambiato il mio modo di pensare soo vari punti di vista. Bregman, la cui famiglia era emigrata dalla Russia, era il mio maggiore sostenitore e aveva fao in modo che la Universal finanziasse tanto il viaggio quanto la sceneggiatura, che presumibilmente avrei direo io stesso soo la sua bandiera. Ci avevo messo tua la forza e tuo il cuore e, dopo che Marty aveva definito “merda” la prima stesura, mi ero rimesso al lavoro, tenendo conto delle sue osservazioni e continuando a consultarmi con lui. Il testo rivisto era molto migliorato. La terza versione l’avrei scria da solo – senza Marty. Mentre lavoravo alla sceneggiatura russa, nell’estate del 1983, Bregman mi invitò a visionare un montaggio provvisorio di Scarface, avvertendomi però che avrei dovuto condividere le mie reazioni anzituo con lui, subito dopo la proiezione. Era chiaramente preoccupato che ne parlassi con Pacino, al quale mi sapeva vicino dal punto di vista creativo. Disse che se avessi esposto le mie riserve a Pacino avrei solo peggiorato le cose: “Lo sai com’è Al. Andrà fuori di testa.” Io conoscevo gli stratagemmi di Marty, ovviamente, e sapevo che puntava a censurare le mie reazioni già in anticipo. Anche Al mi aveva telefonato. Aveva visto il montaggio, era preoccupato e voleva parlarmi subito dopo che l’avessi visto anch’io. Doveva esserci qualche tensione tra loro due, e all’improvviso mi ci ritrovai in mezzo. ando vidi il rough cut una maina, in una classica, claustrofobica salea di proiezione a New York, mi cascarono le braccia. Tuo il nostro lavoro sembrava essere andato in fumo. Certo, non avevo grande esperienza nel visionare i montaggi provvisori degli altri, ma con le sue due ore e
quarantanove minuti di durata quello era tu’altro che provvisorio (sarebbe dovuto durare all’incirca quaro ore per esserlo davvero). Il film era evidentemente già stato portato a uno stadio avanzato con l’aggiunta di effei, musica e così via, ma era un vero disastro. L’inizio e il finale funzionavano, ma la parte centrale aveva bisogno di una grande mole di lavoro. Come sceneggiatore, me ne rendevo conto, non puoi legarti emotivamente al risultato finale di un film, ma in che altro modo avrei potuto scriverlo? La lentezza generale del ritmo, l’incoerenza e la mancanza di compaezza mi lasciarono allibito. Marty, all’improvviso e in maniera sospea, si diede malato per tre giorni. Era irraggiungibile. Probabilmente sapeva che avrei avuto problemi con il rough cut e che Al si sarebbe schierato dalla mia parte. Al in effei mi chiamò immediatamente invitandomi nel suo appartamento nell’Upper East Side. Era turbato e il fao che avessi visto la copia di lavorazione solo adesso lo agitava ancora di più. Mi disse che Marty e Brian avevano sparlato di noi, dicendo: “Oliver non sa niente di cinema” e “Al è un pazzoide.” In realtà, Pacino era perspicace e riusciva a capire cosa funzionava o no dal punto di vista drammaturgico; ascoltare le sue osservazioni era sempre istruivo. Ad Al le buone idee non mancavano, e a volte, come succede a molti di noi, quando fiutava una resistenza prima ancora che il suo suggerimento fosse valutato a fondo, si indispeiva. Altre volte, a dirla tua, si impuntava, chiuso nella sua ostinazione. Decisi di provare a dare il mio contributo sooponendo alcune osservazioni scrie a tue le parti coinvolte. Era esaamente ciò che Marty non voleva che facessi. Scrissi cinque o sei pagine di note, più o meno su tue le scene, e le feci arrivare ad Al e contemporaneamente a Marty e Brian. Si rivelò un grave errore. Marty, alzandosi troppo di scao dal leo della convalescenza, montò su tue le furie e mi fece una ramanzina, prima al telefono e poi di persona. Ero un “traditore”, stavo capeggiando una rivolta contro la sua autorità, avevo messo a repentaglio il film stesso eccetera
eccetera, e Brian era pienamente d’accordo con lui, oltre che molto arrabbiato con me. Per Marty era più facile prendersela con me che con Al. E col senno di poi, se fossi stato il regista, anch’io mi sarei imbufalito con lo sceneggiatore che parlava direamente con l’aore protagonista, minando la mia autorità. Ma la dinamica in ao allora era diversa. In quel caso avevo lavorato alla sceneggiatura molto più streamente con Marty e Al che con Brian. Ed era stato lo stesso Pacino a chiedermi di intervenire nella diatriba e dire la mia. Solo che Al non mi difese quando Marty mi accusò di averlo tradito. Ero sicuro che l’avrebbe fao e avevo avuto torto. Al fu debole ed evasivo al proposito, e io probabilmente non avrei dovuto meere il dito tra moglie e marito, perché alla fine, come spesso succede, mi ritrovai nei panni dell’amico tagliato fuori dalla coppia. Al, nel corso degli anni, avrebbe mantenuto il suo rapporto di amore-odio con Marty, che per lui era mentore e figura paterna, mentre il mio profondo rapporto con Marty si chiuse malamente, e con esso qualsiasi possibilità di realizzare il mio film sul dissidente russo. Non vidi Bregman per sei anni, né gli parlai, fino a quando, a sorpresa, tornò in ballo Nato il quaro luglio. E a quel punto le carte in tavola furono completamente diverse. Alla fine, su insistenza di Pacino, alcune delle mie osservazioni furono acceate, altre no. Nei mesi successivi ricevei qualche ulteriore notizia sul film, in particolare la X (“solo per adulti”) che la commissione per la classificazione dei film gli assegnò nell’oobre dell’83: significava la rovina commerciale della pellicola. Marty e Brian apportarono diversi tagli, specie alla scena con la motosega, e quando Brian, a quanto si dice, protestò dicendo che non sarebbe intervenuto oltre, la commissione acceò di passare da X a R.*** Furono organizzate campagne di lancio, anteprime stampa eccetera, ma io non avevo più contai con loro né Al si degnò mai di chiamarmi. Ero stato tagliato fuori come era successo con Fuga di mezzanoe, tipico destino di uno sceneggiatore che ci tiene troppo.
Il film uscì nelle sale il 9 dicembre 1983 e rispeo alle aspeative economiche fu più un flop che un successo: negli Stati Uniti fece sessantasei milioni di dollari. Nel tempo però, tra incassi esteri e pay TV, oltre ai vari dirii ancillari, fruò un introito ben maggiore sia alla Universal sia a Bregman, Pacino e De Palma, cui andava una percentuale degli introiti lordi. Io, speandomi invece una percentuale sugli utili, ricevei solo i “residui”, royalty prestabilite sulle vendite dei dirii televisivi e video, una somma discreta ma ben lontana dai malloppi che nell’industria del cinema erano dei scherzosamente “giorno di paga”. Per quanto ne so, le reazioni del pubblico all’anteprima furono contrastanti. Per molti il film era “eccessivo”. Recensori come Roger Ebert di Chicago, la firma più influente per quanto riguardava la TV e il grande pubblico, e l’eccentrico Vincent Canby del “New York Times” lo accolsero molto positivamente, ma i più ne scrissero in termini negativi e in alcuni casi spietati, separando la devozione cieca per De Palma, che aveva presso di loro una reputazione da novello Hitchcock, da Pacino e da me – “quello sceneggiatore violento”. Un film di De Palma per chi non ama i film di De Palma, si intitolava la recensione di Pauline Kael per il “New Yorker”. De Palma è spogliato del proprio talento. La sua originalità non funziona in questo melodramma crudo e ritualizzato; il regista sembra quasi andare contro se stesso. […] un lungo speacolo lisergico – convulso e al tempo stesso esausto, con De Palma che finisce travolto dal caos nel tentativo di tirare fuori qualcosa di eroico dalla vuotaggine e dalla dissolutezza di Tony.
La recensione di Kael ben rappresentava un nuovo tipo autoreferenziale di critica cinematografica che ai miei occhi rischiava di guastare una vita intera passata a vedere film: una specie di fanatismo al quadrato nel quale il critico, ponendosi tra l’opera e il pubblico, si crogiolava nella propria soggeiva e specialistica conoscenza del regista anziché limitarsi a guardare e giudicare un film magari senza nemmeno sapere chi lo avesse girato – proprio come quando eravamo piccoli. Il pubblico cinematografico, nella grande maggioranza dei casi, non sa chi è il regista, e questo
deaglio dovrebbe essere ininfluente. Un film cammina sulle sue gambe, al di là di qualsiasi doping (recensioni, soldi spesi, promozione…). Vidi per la prima volta Scarface in una gremita sala di Broadway, in mezzo al pubblico pagante composto in gran parte da neri e latinos, a testimonianza della credibilità che il film aveva tra la gente comune, e mi resi immediatamente conto che era migliore di quanto ritenessero gli addei ai lavori. E che sarebbe durato. Lo capivo prendendo la metropolitana a New York. Lo capivo sentendo la gente parlare per strada. Lo capivo dagli speatori che al cinema interagivano con i personaggi sullo schermo, da chi ne ripeteva le baute spanciandosi dalle risate nei campei e nei parchi. elle persone lo sapevano a pelle: la guerra alla droga era una stronzata bella e buona, un imbroglio che le spediva in galera a froe. elle persone sapevano che Tony Montana aveva un suo codice d’onore e che, pur strafao marcio com’era, restava fedele alla propria natura fino alla fine. Era un uomo libero. A Pablo Escobar, allora emergente re della cocaina colombiano, il film era piaciuto da mai e lo aveva visto molte volte: lo seppi anni dopo dai suoi famigliari. E nel giro di un paio d’anni cominciarono ad apprezzarlo anche i bianchi che conoscevano il mondo della droga. Michael Mann colse la palla al balzo realizzando la serie di telefilm Miami Vice (1984). Aveva riconosciuto la forza di Scarface, come mi confermò di persona, e ne ricavò benefici economici molto maggiori dei nostri. Nel 1987, all’epoca di Wall Street, i giovani bianchi di quel mondo me ne citavano a memoria le baute durante le proiezioni di gruppo. Scarface sarebbe rimasto curiosamente legato alla mia vita, un memorabile goal da quaranta metri, un biglieo d’accesso a un seore pericoloso e trasgressivo della nostra società. Per anni, avrei sentito qualcuno che mi faceva i complimenti per Scarface o me ne citava qualche bauta. Mi sarei visto offrire cocktail e champagne da gangster o da altri malavitosi in Paesi lontani come l’Egio, la Russia, la Cambogia. Avrei
potuto intascare un mucchio di soldi acceando di scrivere un sequel, ma il mio interesse per i gangster era pronto a esplodere in un ambiente diverso, quello di Wall Street. Scarface non era Il padrino. Gli mancavano i rapporti famigliari e il senso di una tragica saga. Ma era l’affresco crudo e sgargiante della vita di un trafficante di droga sullo sfondo dello schifoso materialismo americano che stava dilagando nella Florida del Sud, la follia di un sogno che vuole sempre di più… di più… e ancora di più. Erano arrivati gli anni Oanta. Per gran parte di quell’anno, tuavia, Scarface e l’accoglienza che aveva ricevuto a Hollywood mi lasciarono affranto. La mia carriera era a uno strano punto morto. Con il compenso per la sceneggiatura di Scarface, io ed Elizabeth avevamo acquistato a Sagaponack, Long Island, un modesto ex deposito di patate ristruurato, con annesso mezzo earo di terreno, dove ci rifugiavamo nel weekend facendo avanti e indietro con la Volvo dall’appartamento di Manhaan, come newyorkesi d’altri tempi. I due labrador, fedeli compagni che ci ansimavano nelle orecchie dal sedile posteriore, non vedevano l’ora di correre nel verde e raggiungere l’oceano poco distante, nelle cui acque fredde ci tuffavamo tui quanti. Ci si sente davvero soli da quelle parti, con l’arrivo dell’autunno. Ispirato dalla solitudine, mi dedicavo alla leura di libri su Jackson Pollock, Robert Rauschenberg, Lee Krasner, i romanzieri e i piori astraisti degli anni Cinquanta, resistendo al lungo inverno quando la costa orientale di Long Island si svuotava. Mi sembrava il posto perfeo dove riscrivere la mia sceneggiatura russa, che parlava appunto di coraggio e isolamento: ci voleva proprio quello stesso coraggio, per scriverla come andava scria. Se fossi riuscito a fare un buon lavoro, ne sarebbe scaturito un film potente con cui riprendermi dalla delusione della Mano. Al tempo stesso, vedevo anche la follia di quel sogno. Se da una parte avevo bisogno della speranza di poter tornare a dirigere un film, dall’altra il mio più influente sostenitore mi aveva
abbandonato. Marty Bregman non era uno che andava per il soile e se la sarebbe di certo legata al dito, affibbiandomi la nomea di piantagrane negli ambienti di Hollywood. Defiance [Sfida], come avevo intitolato la mia storia russa, era impantanata, sapevo che non sarebbe stata realizzata – almeno nella fase della mia vita nella quale stavo entrando. Ciononostante andai avanti a scrivere, pensando che se fossi riuscito a fare un buon lavoro sarebbe in qualche modo andata in porto, nonostante le avversità. L’avrei scria con la stessa tenacia e la stessa concentrazione dei protagonisti che avevo conosciuto in Russia, nei cui occhi si rispecchiava la disperazione degli ospedali e delle prigioni, il crudo dolore dell’esistenza malgrado il quale erano ancora in grado, ogni tanto, di ridere. ei dissidenti mi davano una forza interiore che non avevo mai provato prima. La terza stesura di Defiance divenne cruciale per il mio sviluppo quanto lo erano state le sceneggiature di Platoon e Nato il quaro luglio e il mio lavoro con Robert Bolt per il mai realizzato e Cover-Up. Era una potente, straziante affermazione di rivolta contro qualsiasi potere autoritario – peccato che i tempi fossero completamente sballati. ando finii la sceneggiatura e la proposi, non ricevei commenti da nessuno, neanche un cenno. Bregman non mi chiamò nemmeno per dirmi che l’aveva ricevuta, e il testo finì negli scantinati della Universal. Di lì a pochi anni Gorbačëv sarebbe salito al potere relegando il mio testo nel passato. Il movimento dissidente avrebbe cambiato forma, anche in America, e in un certo senso sarei diventato un dissidente anch’io. Ero preparato a essere da solo, a essere emarginato per le mie convinzioni. Ma, come molti scriori in esilio, cominciai anche a credere il peggio riguardo a me stesso. Stanley Weiser, che era nel mio stesso corso alla scuola di cinema della NYU e che scrisse con me la sceneggiatura di Wall Street, un giorno mi disse che per lui, giovane sceneggiatore hollywoodiano, avevo rappresentato un modello di ribellione, l’esempio di come infrangere le regole senza pagare dazio. Stanley aveva sentito parecchie storie,
spesso esagerate, sul fao che tenessi alla larga i dirigenti degli studios troppo impiccioni, che rifiutassi le offerte eccetera. Già – e anche che Hollywood mi aveva ubriacato, che avevo fao uso di droghe in pubblico, tenuto un comportamento stupido e immaturo. Che avevo flirtato con donne bellissime, a volte alla presenza di mariti gelosi. Che talvolta ero sgarbato, arrogante, ma anche pioresco – una persona imprevedibile, di cui nessuno sapeva mai cosa stava per fare. E in effei qualcosa facevo sempre, per combaere la noia del momento: nulla di violento o di intenzionalmente nocivo per il prossimo, ma spesso scandaloso, sì. È questa l’inclinazione del drammaturgo: far succedere nella vita vera la scena che ha in testa, scegliere la bauta di dialogo che più colpirà, senza badare alle conseguenze per coloro che ascoltano. Circolavano in effei parecchie storie su di me, che venivo a sapere e che spesso avevano un finale inverosimile. Ma c’era anche una parte di verità. Una sera a cena Gore Vidal si era girato verso di me e con il suo inimitabile, spietato snobismo aveva sibilato: “Che problema hai, Stone? Di nuovo quella piastra metallica nella testa?” alludendo a un ipotetico danno cerebrale che avrei riportato in Vietnam. Solo Gore sapeva essere così caivo e schieo ma al tempo stesso deciso; era una delle sue virtù – meere in discussione qualsiasi cosa, compreso il nostro governo. Tuo adesso sembrava addensarsi in un nuvolone di paranoia sopra la mia testa, che tuonava in continuazione: “Troppo, troppo.” Ero colpevole. Ero solo e in esilio, con un agente freddo e senz’anima, sperduto in Russia senza amici, con la neve e gli alberi che si stringevano intorno a me, ancora nessun bambino nel ventre di mia moglie, mesi e mesi di silenzio. E ogni volta che Elizabeth aveva il ciclo era come sentire una campana a morto. I nostri costosi traamenti non stavano funzionando, per lei o per me, ed era deprimente l’incertezza di non sapere in quale dei due apparati riproduivi si annidasse il problema. Anche la medicina era un gioco in cui bisognava tirare a indovinare, ma ci amavamo ancora e nessuno accusava l’altro. Il senso di colpa era
reciproco ma inespresso. Shining (1980) di Kubrick, con il suo scriore pazzo, ci toccava fin troppo da vicino. Per ironia del destino, l’unico a cui interessava che scrivessi una sceneggiatura era il produore Don Simpson, famigerato “ragazzaccio” diventato ormai un pezzo grosso di Hollywood grazie al recente Flashdance e all’imminente Beverly Hills Cop. Di Simpson erano risapute la passione per la coca, le grandi idee e gli aeggiamenti da macho. A causa della mia esperienza in Vietnam vedeva in me un compagno di viaggio, e lo spunto per la storia che mi proponeva veniva, guarda caso, da un articolo giornalistico sull’addestramento di una squadra di piloti dell’aviazione navale nei pressi di San Diego – una storia che, dopo molte stesure, sarebbe diventata Top Gun. La somma che mi offriva era considerevole, e il mio agente mi suggerì di valutare la proposta molto sul serio. A frenarmi era il contenuto. Conoscendo Simpson e il suo istinto, sentivo che sarebbe stato un grosso film commerciale sui nostri coraggiosi, fenomenali piloti di caccia. Il giovane Tom Cruise sarebbe stato perfeo per il ruolo di protagonista. Dopo aver scrio Nato il quaro luglio, però, nutrivo forti dubbi sui militari e così decisi di rifiutare. Per Simpson e il suo socio, Jerry Bruckheimer, il film era un potenziale campione d’incassi e quando alla fine, dopo una serie di costose sceneggiature, lo realizzarono per la regia di Tony Sco, non badarono che finisse con questi rudi piloti che partivano tui contenti per andare a fare la guerra contro i russi – in pratica una terza guerra mondiale, che avrebbe probabilmente segnato la fine della nostra civiltà. Capito, Don? Niente più campioni di incasso, niente più soldi, sesso, coca, solo un lungo inverno nucleare – sai che divertimento. Nel clima di questo 2020 mi chiedo se è davvero cambiato qualcosa nel caraere americano del giovane eroe. “È solo un film – giusto?” Mentre scrivo queste pagine è in preparazione Top Gun II e mi è estremamente chiaro come il successo renda ciechi rispeo al contenuto. Il patrioismo vende. La sconfia, come quella del Vietnam, no. E neanche a dirlo, Top Gun fu il film campione di incassi del 1986 (centoseantasee
milioni di dollari al boeghino nazionale). Purtroppo, Don Simpson morì prematuramente per arresto cardiaco a cinquantadue anni, nel 1996; i giornali scrissero che al momento dell’aacco era seduto sul water nella sua villa, da solo, a leggere la mia biografia scria da Riordan l’anno prima. Spero davvero che almeno si stesse divertendo. Nei suoi occhi danzanti avevo sempre avvertito una certa affinità, un analogo modo di guardare la follia di questa vita. Un terso, gelido giorno d’inverno acquistai un agnello coo allo spiedo e, come bislacco omaggio a Ulisse e agli altri personaggi della mitologia greca, ne sparpagliai le varie parti sul mio prato, offrendole agli dèi insieme a fuoco, incenso e preghiere, così da cancellare qualsiasi cosa avessi fao per offenderli. Implorai perdono, in particolare ad Atena, la dea della sapienza. Fu una strana cerimonia solitaria, cui assisteero soltanto i miei due voraci labrador. Credevo a tue le parole che pronunciai, scegliendole con cura, il cuore desideroso di porre fine alla sofferenza autoinflia che provavo come scriore, drammaturgo, sceneggiatore frustrato. Alla fine, lasciai che i cani divorassero l’offerta. Del resto, cosa facevano i greci con tue quelle succulente pecore e cosce di buoi sacrificate sulle pire? Forse Atena mi aveva ascoltato. Pochi giorni dopo, senza alcun preavviso, Michael Cimino mi telefonò e mi chiese di raggiungerlo a Manhaan. Lo avevo conosciuto solo di sfuggita, e appena mi vide manifestò un’enorme passione per la mia sceneggiatura parcheggiata in un casseo, Platoon, che a suo avviso avrei dovuto dirigere io stesso. Mi ero illuso talmente tante volte, riguardo a Platoon, che cercai subito di cambiare discorso. Michael invece insisteva che il Vietnam sarebbe tornato in auge, che Kubrick stava preparando un film sul Vietnam basato su un libro di Gustav Hasford, Nato per uccidere (sarebbe uscito nel 1987 con il titolo di Full Metal Jacket). Per me quella di Michael era una voce nel deserto, flebile ma incoraggiante. Aveva firmato un contrao con Dino De Laurentiis, il produore che aveva massacrato Conan, ma Michael ci tenne a precisare che era
lui al timone, non il furfante che temevo fosse Dino, e che avrebbe prodoo lui personalmente il mio film. Nonostante il clamoroso flop dei Cancelli del cielo, il cui budget era schizzato da dodici a quaranta milioni di dollari e il cui fallimento aveva pesantemente contribuito al giro di vite imposto all’indipendenza dei registi anni Seanta, tra cui Friedkin, Coppola, Bogdanovich e Scorsese, Dino voleva a tui i costi che Michael dirigesse un adaamento del romanzo L’anno del drago, scrio dall’ex reporter del “New York Times” Robert Daley. Dino lo vedeva come un altro possibile poliziesco di successo ambientato a New York, come Il braccio violento della legge o il suo Serpico, che aveva coprodoo con Bregman. In questo caso però i temi sarebbero stati l’eroina e la malavita di Chinatown. Michael mi chiese di scrivere la sceneggiatura a quaro mani insieme a lui; Scarface gli era piaciuto molto e voleva che quella stessa sfrontatezza stradaiola permeasse le vicende, storicamente documentate, delle triadi di Hong Kong che, senza fare rumore, stavano accumulando soldi a palate con il traffico di oppio e di eroina. Il libro di Daley era imperniato sul personaggio di un detective e la sua lunga, infruuosa caccia a un mafioso cinese. L’idea mi piaceva, sì, ed ero senz’altro lusingato che una persona come Michael volesse lavorare con me. Dino, dal canto suo, fu di nuovo l’incantatore che sapeva essere quando voleva qualcosa, organizzando una magnifica festa di Capodanno in Costa Azzurra alla quale parteciparono la futura moglie Martha, Michael e la sua partner e produrice Joan Carelli, io ed Elizabeth, Frank Yablans, allora presidente della MGM, e la sua compagna, la scririce Tracie Hotchner. Dino ci portò nel suo casinò preferito, dove vinse cinquantamila dollari al primo giro di roulee, per perderli poi al secondo. esto era Dino, il consumato giocatore d’azzardo. Con il suo pesante accento guurale mi disse: “Oliver, il tuo ultimo film la Warner Bros. lo ha ammazzato in fase di distribuzione. Lo so che sai girare un film. Ma ti serve un produore. È molto importante che stavolta tu faccia un
film di successo.” Era molto convincente, ma avendo rileo Platoon mi ammonì di togliere le parolacce – “Non voglio un altro Scarface.” Mi proponeva di sceneggiare L’anno del dragone per una cifra pari alla metà di quanto avevo incassato per Scarface, mentre lui si impegnava a produrre Platoon, insieme a Michael, senza aori di primo piano e con me alla regia, per un budget di non oltre see milioni di dollari. Festeggiammo l’accordo a Le Pirate, un famoso ristorante sulle colline di Cap-Martin, vicino al confine con l’Italia, dove, in stile Zorba il greco, rompemmo trecento piai e duecento bicchieri e mangiammo lenticchie come auspicio di buona fortuna per l’anno nuovo. Ballammo sui tavoli e facemmo il trenino, scagliando piai e boiglie dappertuo, stappando magnum di champagne con la spada, comportandoci come bambini scalmanati che correvano in spiaggia per assistere ai fuochi di mezzanoe. Si preannunciava un 1984 meraviglioso, a dispeo della profezia di Orwell. Finalmente sarei riuscito a dirigere un film che amavo e inoltre che cosa poteva essere peggio del 1983 con le sue tensioni intorno a Scarface e Defiance? Guardavo al futuro con fiducia. Piai impilati negli angoli insieme alle magnum vuote: era quasi troppo bello per essere vero, e in un certo senso sapevo che era così. Ma dovevo crederci, non avevo alternative. Adesso c’era da realizzare L’anno del dragone. Michael, che aveva già direo Il cacciatore, insisteva sul Vietnam e, rispeo all’originale di Daley, voleva dare al nostro detective un passato in quella guerra, che presumibilmente avrei potuto scrivere io. Cimino voleva una combinazione tra Ispeore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! e Il braccio violento della legge, una specie di polizioo-vigilante che infrangesse ogni regola come Tony Montana e portasse fuoco e distruzione su Chinatown. Seguì un periodo di intensi confronti nel suo enorme ufficio di produzione a Union Square, poi sedute di scriura solitaria nel mio appartamento di Manhaan o a Sagaponack, basate sulla mole di appunti che avevo preso. Michael era posseduto dal lavoro, orgoglioso del suo monachesimo un po’ come il nostro detective, che chiamai
Stanley White dal nome di un pioresco polizioo di origine polacca della omicidi di Los Angeles con il quale avevo fao amicizia. Michael rimase rapito dal vero Stanley, che era un autentico ex Marine reduce del Vietnam e, come molti polizioi losangelini, a volte un grande contaballe; ma aveva il cuore al posto giusto. Nonostante avesse lavorato nella narcotici come infiltrato, capiva un tipo come me che stava dall’altra parte della barricata, che fumava hascisc e in genere diffidava dei polizioi, specie quelli della narcotici. Era piacevole dibaere le nostre opposte visioni del mondo. Michael, invece, sembrava privo di senso dell’umorismo tanta era la sua concentrazione, che a me pareva persino esagerata. Alle tre di noe chiamava il nostro giovane coordinatore di produzione cinese, Alex Ho, per dirgli: “Ci vediamo a Staten Island nel tal posto alle cinque,” oppure “Fammi avere una relazione completa sulla tale location,” “una cronologia degli eventi,” “la storia di un certo capo di abbigliamento” o qualsiasi altra cosa gli passasse per la mente in quel momento; infinite folli richieste di informazioni che alla fine non avrebbe usato, ma che aveva assoluto bisogno di conoscere. Aveva anche preteso, dopo I cancelli del cielo, di poter ugualmente continuare a comandare eserciti di persone al lavoro per lui – una sorta di caricatura di Napoleone che lui, con il suo metro e sessanta aumentato dagli immancabili stivali neri con il rialzo, un po’ ricordava. Ma era il nostro leader e sembrava padrone del proprio destino. Se volevo davvero dirigere Platoon, Michael avrebbe potuto essere il contrappeso necessario per arginare le idee di Dino. Lavorai sodo per dargli ciò che voleva. E come molti sceneggiatori che si trovano a lavorare per un regista esigente, mi convincevo che aveva ragione. Con l’aiuto di Alex, incontrammo tue le persone di potere di Chinatown disposte a parlare con noi. I cinesi sono cortesi all’eccesso, ma non ci fu alcuna ammissione di reati o di aività illecite. Mi trovai ad affrontare un problema diverso rispeo a Scarface, quando le forze di polizia di Miami e di Lauderdale mi avevano fao un quadro chiaro del nemico. In questo caso,
invece, nessuno nel dipartimento di polizia di New York, nell’ufficio del procuratore distreuale, alla DEA o all’FBI sapeva niente di niente. Circostanza sorprendente e anche esasperante. In cerca della pur minima informazione, partecipammo a diverse noiose cene di tre ore nei palazzi sede delle triadi, a Chinatown, dove i numerosi aderenti lì riuniti per l’occasione continuavano a fare un brindisi dopo l’altro, mentre io ingrassavo con tuo quel pesante cibo cinese senza riuscire a scoprire un bel niente da quegli astuti boss. Ci era precluso persino avvicinare le famigerate gang di strada, che si occupavano di gran parte del lavoro sporco. Idem per le fabbriche di “schiavi”, gli operai a salario minimo, i camerieri – niente. Prendevamo i famosi autobus nourni per Atlantic City in modo da mescolarci ai lavoratori cinesi nel loro tempo libero, i quali si giocavano lì la paga per poi tornare prima dell’alba e iniziare il turno del pranzo nei ristoranti dove lavoravano. Era straziante vedere quanto fosse difficile tirare avanti se eri un cinese qualunque, senza gli agganci giusti. Ma Michael era un segugio instancabile e continuava la caccia, nonostante il gioco non valesse la candela. Nessun deaglio era troppo insignificante per la sua aenzione. Andava fiero di riuscire a dormire pochissimo, gli bastava giusto un pisolino. Io non sentivo di dover emulare i suoi ritmi, né lo facevo, ma tui i componenti della nostra sempre più nutrita squadra di lavoro erano reperibili a orario continuato see giorni su see, mentre Michael iniziava a costruire una gigantesca, minuziosissima riproduzione di una strada di Chinatown negli studios che Dino, grazie a un finanziamento pubblico, aveva da poco realizzato a Wilmington, nel North Carolina. I costi erano alti ma Michael voleva sempre di più e meglio; era fao così. Altreanto sicuramente, il parsimonioso Dino ridimensionava le sue pretese; Michael, per esempio, chiedeva millecinquecento comparse quando, disponendole accortamente, ne sarebbero bastate oocento. A volte finiva per irritare tua la squadra con la sua arroganza o, diciamo, mancanza di apprezzamento,
caraeristica che trovavo comune a molti registi dell’epoca. Per dirne una, gli era talmente piaciuta la scena degli specchi in frantumi nel night girata da De Palma in Scarface che per una sparatoria dell’Anno del dragone volle ricostruire un locale nourno e mandare in pezzi un numero di specchi ancora maggiore. Spendeva una barca di soldi per filmare una riunione tra grossi trafficanti di droga thailandesi tra le vere montagne della ailandia e provava per ore i gesti autentici che i cinesi compiono nel fumare una pipa d’oppio. Erano cose che invece a De Palma non interessavano affao, a meno che non fossero strumentali alla creazione di un effeo alla Hitchcock. ello di Michael era un approccio da documentarista che punta tuo sul realismo, ovviamente dispendioso. Finalmente riuscimmo a raccogliere qualche informazione sullo stile di questi pezzi grossi cinesi. Eddie Chan, che era stato sergente di polizia a Hong Kong e rispondeva al profilo di un grande importatore di eroina, possedeva ora una delle maggiori banche di Chinatown e ci invitò nel suo lussuoso ufficio. Un nuovo status symbol all’epoca era avere come guardie del corpo marcantoni neri con la testa calva e la fondina soo l’ascella, una moda credo ispirata dai film di blaxploitation anni Seanta. Perciò due guardie del corpo accompagnavano Eddie ovunque andassimo per strada, uno venti metri più avanti, l’altro dietro. Anche Eddie girava con la pistola, in una ben nascosta fondina alla caviglia, caraeristica di certo poco in linea con l’immagine di un ricco banchiere di Manhaan. Ma fu assolutamente cordiale e sembrava avere amici e conoscenti in ogni negozio, ristorante, cinema che oltrepassavamo. E tui parevano conoscere Eddie. A Chinatown tui dovevano qualcosa a qualcuno. Chi però ci fece scoprire di più fu il mite Herbert Liu, un dissidente originario di Fort Lee, New Jersey; aveva roo con il giro ed era abbastanza rancoroso da rivelarci alcune cosee che confermarono i nostri sospei sulle aività realmente in corso. All’epoca non c’erano retate vere e proprie, se non rari
blitz ai danni dei giovani picchiatori delle gang che ogni tanto si spingevano fino all’omicidio – pesci piccoli ma pericolosi. Tuo era sootraccia, come la maggior parte delle cose a Chinatown. ando chiesi a Herbert da dove venisse quel nome stridente e tipicamente inglese, al pari di un “Clive” o di un “Terence”, lui fece spallucce e nel suo duro accento cinese rispose: “Dall’elenco del telefono.” Risi, rendendomi conto che probabilmente molti cinesi dai nomi indecifrabili facevano proprio così quando arrivavano nel Nuovo mondo. Avevano una scaltrezza innata e sospeavano che la verità non sarebbe mai stata loro amica, né nel Nuovo né nel Vecchio mondo. È proprio questo un punto chiave nel clou del film. Nel libro di Daley, il detective americano trova finalmente il modo per arrestare il suo arcinemico scoprendo che, come molti cinesi, è ancora legalmente sposato con la moglie che aveva a Hong Kong. Non avendo molto riguardo per i costumi o le leggi occidentali, ne aveva semplicemente sposata un’altra, una volta arrivato in America. Niente di che; una scelta che fa risparmiare denaro e, soprauo, salva la faccia – segno di rispeo per la prima moglie. Dopo tua la violenza e il gioco del gao col topo, l’epilogo del libro mi sembrava fornire una soluzione brillante. Il nostro detective, Mickey Rourke, avrebbe finalmente messo le grinfie su Joey ai (John Lone) con l’accusa di bigamia. In fondo, Capone era caduto non per gli omicidi ma per evasione fiscale. A Michael piaceva. A Dino faceva schifo. “Che roba è? Bigamia? No no, non va bene! Non è roba per il pubblico americano!” Per quanto potesse sembrare spietato, Dino era un vero caolico italiano, formalmente fedele alle promesse matrimoniali. A suo avviso, il pubblico del film avrebbe voluto un finale con uno scontro tra i due antagonisti, un piacere che non doveva essere offuscato da questioni matrimoniali. Perciò ripresi la storia insieme a Michael e inserii verso la fine una furibonda sparatoria.
Cosa posso dire di questa sceneggiatura? Che mi impegnai, ma forzando alcuni aspei. Gli sproloqui del personaggio di Stanley White, alcuni parecchio razzisti verso gli asiatici, seppur mitigati da dialoghi che elogiavano il contributo offerto dai cinesi all’America nel corso dell’Oocento, non avevano lo stesso effeo pronunciati da Mickey Rourke rispeo a come avrebbero potuto suonare in bocca ad Al Pacino. Perché? Credo che Michael fosse un regista amante dell’eccesso al pari di De Palma, solo che qui, a differenza di Scarface, gli sproloqui del protagonista risultavano piai e bigoi, privi della necessaria ironia. Dipendeva dalla sceneggiatura? In parte. Ma di nuovo, come con Alan Parker, dopo aver consegnato il copione fui lasciato in disparte; Cimino era un maniaco del controllo come Bregman, senza dubbio, ma le sue richieste di autenticità a ogni ora della noe, a qualsiasi costo, in fondo erano solo superficie, non contenuto. Avrebbe dovuto quantomeno avere lo sceneggiatore presente alle prove di leura, con tuo il cast riunito nella stessa stanza, e costringerci ad affrontare il copione alla vecchia maniera, ossia leggere le baute, sentirle, provarle, modificarle se necessario. Così funziona. E a mio avviso, è assurdo che nella produzione di un film si riversino cifre considerevoli senza un minimo di prove e revisioni, fossero anche dell’ultimo minuto. Sono sicuro che avrei potuto migliorare il copione se fossi stato invitato sul set e avessi potuto confrontarmi con gli aori. Ma Michael non me lo avrebbe mai permesso. Né lo avrebbe permesso Mickey Rourke che, a differenza di Pacino, non mi avrebbe nemmeno considerato. Michael era l’unico dio che lui serviva. O meglio, l’unico guru. Non credo di aver mai visto una fedeltà come quella che legava Mickey a Michael. Figurarsi poi se Dino, tirchio com’era, mi avrebbe pagato una diaria per essere presente durante le riprese; io, dal canto mio, dopo l’impegnativa esperienza del set di Scarface non ero certo intenzionato a farlo gratis. Ma anche se fossi stato presente, dubito che Michael avrebbe acceato i miei servizi. In fondo era uno sceneggiatore anche lui.
“Rimeiti al lavoro su Platoon,” mi disse. “Voglio che sia pronto.” E così feci. Alex Ho, che avevo promosso da coordinatore di produzione a produore esecutivo, era stato nel fraempo licenziato da Michael, dopo che il budget del film aveva sfondato quota venti milioni, all’epoca una cifra piuosto allarmante. Dino chiese allora ad Alex di lavorare con me e volle anche una revisione della sceneggiatura di Platoon. Dopo avervi apportato qualche modifica, opponendo resistenza alle banalità che Dino avrebbe voluto inserirvi, ingaggiammo un direore di casting. Insieme ad Alex partii per le Filippine: era la prima volta che rimeevo piede in Asia dal 1968. Fu una sorta di ritorno a casa. La carezza dei suoi tenui venti, i suoi mari verdastri mi fecero venire nostalgia del passato. Marinaio, soldato, insegnante, viaggiatore, lì avevo trovato una nuova casa dopo che la mia prima famiglia era andata in pezzi e, sebbene non mi fosse dovuto in alcun modo, sentivo di essere benvenuto. Nel sorriso delle persone c’era una felicità autentica; esisteva davvero la gioia nella vita, e si poteva raggiungere, qui e ora, senza il bisogno di rinviarla. Mi immersi nelle foreste pluviali intorno a Manila con una piccola troupe filippina soo la direzione del produore locale, Jun Juban. Sapevamo che con il nostro budget avremmo dovuto essere una versione guerrigliera di Apocalypse Now, che nelle Filippine aveva affrontato problemi ben noti, tra cui cercare di girare durante la stagione degli uragani. Ma la giungla in sé era pura e io già mi immaginavo ad aprire sentieri nel suo folto, guidando i miei aori giù verso il leo di un fiume, su per una vallata. Mi innamorai del paesaggio e delle persone. L’umore era alto quando tornai a New York, dove provinai e scelsi una ventina di giovani aori senza però scriurarli. Emilio Estevez, figlio maggiore di Martin Sheen, un ragazzo taciturno e anticonformista, fu la mia scelta per il ruolo di protagonista. Dal nostro ufficio passarono giovani aori come Bruce Willis, Willem Dafoe, Woody Harrelson e John Turturro, e in occasionali riunioni con Dino discutemmo di
sceneggiatura e questioni finanziarie. Ma di solito i suoi pensieri erano altrove, quasi sempre sull’Anno del dragone, e i suoi modi erano bruschi. In aesa del semaforo verde per Platoon, il senso di indipendenza che avevo appreso alla NYU – rimboccati le maniche perché non ti aiuterà nessuno – mi spinse a opzionare un libro di tasca mia, Oo milioni di modi per morire di Lawrence Block, la storia di un investigatore privato ex alcolizzato, Ma Scudder, profondo conoscitore di New York e dei suoi angoli più bui. Ogni volta che potevo scrivere, sentivo le mie ansie placarsi. Grazie a gente del giro, entrai in contao con le gang di spacciatori del Lower East Side che si stavano affermando in quel periodo; Brooklyn era piena di cosiddee “case del crack”. La cià era animata da una febbre nuova, un aspeo che cercai di evidenziare nella trama e nei personaggi. La voce fuori campo di Scudder che scrissi per la sequenza dei titoli di testa cominciava così: D’estate New York somiglia a un porto tropicale – Saigon, Rangoon, Hong Kong. Brulica e ribolle, a volte penso che ci vorrebbero le palme lungo i marciapiedi – sarebbero perfee insieme alle puane e ai papponi. Certe noi mi sembra che in cià ci sia l’Africa, indigene in pantaloncini corti e spalle scoperte, carne in vendita nella terra di Ugladu.
Inoltre, deciso a dare una svolta alla mia vita, divorziai da Jeff Berg della ICM. Il nostro rapporto era semplicemente falso; senza fiducia nulla può durare. Non gli feci visita di persona ma preferii scrivergli una lunga leera, dal tono impersonale come era stato il nostro rapporto. Jeff mi telefonò due volte l’indomani ma non lo richiamai. Parlargli era superfluo. Dopo un sodalizio freddo, adesso una fredda separazione. Come in politica, è l’interesse personale a comandare. Passati alcuni giorni, Jeff mi rispose con un succinto messaggio nel quale mi ricordava il contrao in essere, ancora vincolante per un anno, periodo nel quale lui avrebbe continuato a intascare il 10 per cento dei miei introiti. Benissimo. Firmai, per un breve periodo, con il mio terzo agente, appartenente a un’agenzia di management più piccola. Era una brava persona ma tra di noi non c’era intesa e così lo
lasciai dopo pochi mesi per tornare alla ICM di Berg (tanto gli stavo ancora versando una percentuale), ma stavolta con un agente più giovane e aivo. Non funzionò nemmeno con lui. Ero davvero confuso. Mio padre, intanto, continuava ad andare in ufficio tue le maine, malgrado la clientela sempre più scarsa, ancora fiero, ancora sprezzantemente dedito al fumo e allo scotch. Ma sempre più spesso era costreo ad andare dal doore o in ospedale, per il cuore e altri interventi; non c’erano dubbi che stesse cedendo. Il punto era: quanto velocemente? Mamma, che trascorreva ancora sei mesi l’anno a Parigi, si trasferì nella camera degli ospiti dell’appartamento di mio padre per aiutarlo ad affrontare quel periodo difficile, portando con sé un senso di spensieratezza francese insieme a uno stuolo di ospiti e amici, mescolando la propria vita con quella di papà come negli anni Cinquanta. Fu una specie di rinascita del rapporto, la dimostrazione che lei ci teneva davvero malgrado tue le sofferenze patite. E papà, in genere, apprezzava di più la sua compagnia, nonostante la azzannasse appena sentiva invadere la propria privacy. Mamma parlò addiriura di risposarsi dopo tui quegli anni, non foss’altro perché in questo modo avrebbe potuto intestarsi l’appartamento a equo canone di papà, con il suo grande terrazzo affacciato sulla Terza Avenue. A me sembrava giusto, la ricomposizione di una famiglia spezzata, un filo che si riannodava da quel lontano 1945, dopo trentanove anni di vita in qualche modo insieme. Il 1984 si stava rivelando proprio l’anno speciale che avevo chiesto in grazia agli dèi. Con l’aiuto di un nuovo doore, il cui oimismo fu essenziale per convincere me ed Elizabeth che stavolta sarebbe finalmente andata bene, in aprile mia moglie mi telefonò per annunciare trionfalmente: “Sono incinta!” Fu stupendo, la notizia più bella che desiderassi, più reale di quanto Platoon sarebbe mai stato. Con il passare dei mesi, fu entusiasmante vedere crescere la sua pancia. Preferimmo non conoscere il sesso del nascituro, volevamo goderci il mistero. ando vidi l’ecografia, un minuscolo
girino di un centimetro con il cuore che pulsava a duecento baiti al minuto, mi sentii in un paradiso mai conosciuto prima. Tuavia la gravidanza rimase delicata di mese in mese, e ci prendemmo cura di Elizabeth in ogni modo pur di evitare un aborto spontaneo. Le iniezioni di prednisone le diedero un aspeo molto più materno rispeo al maschiaccio biondo che avevo sempre avuto accanto durante i miei viaggi. Papà, che voleva a tui costi vedere un nipotino, mi disse che avrebbe streo i denti. E poi, proprio mentre tuo sembrava quagliare – Elizabeth incinta, Platoon che stava per nascere, 8 milioni di modi per morire che si prospeava come ulteriore possibile film, mamma e papà semiriconciliati – la situazione precipitò nuovamente. A dea del suo socio Fred Sidewater, Dino stava incontrando resistenze sul fronte Platoon. Più di quante ne avesse previste. All’inizio stentai a crederci. Dino aveva gli agganci migliori alla MGM, che aveva appena acceato di distribuire l’imminente Anno del dragone. Ci chiese di ridurre il budget, cosa che io e Alex, a malincuore, facemmo. Poi, a distanza di un mese, ci chiese di tagliarlo ancora. alcosa era andato chiaramente storto. Tornammo una seconda volta nelle Filippine per affinare i nostri piani ma ogni giorno per me era un patema, dopo che nel cuore della noe Alex aveva avuto la solita, tesa telefonata con Sidewater a New York. In sintesi, i termini erano questi: Dino si offriva di coprire l’intero budget del film – originariamente di see milioni di dollari, ora di quaro e mezzo e in continua riduzione – solo se la MGM si fosse impegnata a stanziare un minimo di tre milioni per le copie della pellicola e la pubblicità. Con il mercato delle videocassee in grande crescita, all’epoca c’era una formula matematica che garantiva un ritorno sul capitale di rischio a fronte di una certa spesa minima in pubblicità. In seguito quella formula andò in fumo, come succede sempre quando in tanti cominciano ad abusare di qualcosa. Nel nostro caso, comunque, la risposta della MGM fu: “No.” Dino, che non si arrendeva facilmente, abbassò un po’ le proprie
richieste, credo, ma la risposta restava la stessa. Non avevo mai sentito la parola “no” così di frequente come in quegli anni. Una parola che detestavo e che detesto tuora. Frank Yablans, l’“amico” di Dino – nel nostro mondo “amico” è sempre un eufemismo –, l’uomo che secondo tui era il vero capo della MGM e con il quale avevamo cenato e spaccato piai in quel pazzesco veglione di Capodanno, diceva senza dirlo che in realtà si traava di un problema politico. Tanto Alexander Haig, ex segretario di Stato durante l’amministrazione Reagan, quanto Henry Kissinger, l’alter ego di Nixon in Vietnam, erano nel consiglio di amministrazione della MGM e non volevano assolutamente che il loro studio realizzasse un film come Platoon. “Che balla!” protestai. Secondo me non ne avevano discusso nemmeno: ero sicuro che, come spesso succede, fosse stato lo stesso cosiddeo proponente – in questo caso Yablans – a rinunciare senza provarci neanche, nel timore di finire soo una più strea supervisione. elli come lui, a mio giudizio, non vogliono arrivare ai ferri corti con il consiglio di amministrazione se ritengono di sapere già quale sarà la risposta finale, e quindi evitano di sprecare il proprio capitale politico su una causa persa in partenza. Ma da quando in qua era necessaria l’approvazione di un consiglio di amministrazione per realizzare un film di cui Dino era disposto ad accollarsi tuo il rischio? Non avevo mai sentito una cosa del genere ed ero esasperato. Che altro potevo fare? Tagliare ancora il budget per girarlo a Central Park? Devo ammeere che anche Dino rimase sorpreso. Si rese improvvisamente conto che con Platoon aveva in mano una patata bollente della quale non sapeva che fare. Era una situazione inedita per lui, che stava già correndo un rischio finanziando un film violentemente erotico come Velluto blu di Lynch per circa sei milioni di dollari. Ma il mercato era inondato dai soldi freschi provenienti dalla vendita delle videocassee, soldi che facevano da rete di salvataggio per Velluto blu, con la MGM disposta a distribuirlo. Il mio film invece? Niente. La questione videocassee non valeva. Nulla
valeva. Eravamo in un vicolo cieco. A Platoon stava succedendo la stessa cosa successa a Nato il quaro luglio e, ancora prima, al Platoon delle origini. Non c’era spazio per film realistici sul Vietnam, mentre quelli inverosimili come Rambo (1982) e Rambo 2 – La vendea (1985) con Sylvester Stallone, mietevano grandi successi al pari di Rombo di tuono (1985), con Chuck Norris che salvava i nostri soldati dispersi durante la guerra. L’America, con Reagan presidente dal 1981, araversava un’epoca di riarmo. Mentre riportava in auge la Guerra fredda con l’Unione Sovietica, l’“impero del male”, Reagan diceva a proposito del Vietnam: “È giunto il momento di riconoscere che la nostra è stata, in verità, una nobile causa.” anto a Cimino e alla promessa di produrre personalmente Platoon, be’, Michael aveva già le sue gae da pelare con L’anno del dragone e nel momento del bisogno sparì per dedicarsi alla preproduzione del suo film negli stabilimenti di Dino a Wilmington. Tanto valgono le promesse nel mondo del cinema. Vedere sbriciolarsi il cast fu per me un colpo al cuore, così come vedere andare in fumo i nostri meticolosi progei su come girare nelle Filippine nel modo più economico possibile. Dopo la delusione di Nato il quaro luglio mi ero ripromesso di non affrontare più l’argomento Vietnam e invece mi ero lasciato sedurre da Cimino, andando a ripescare Platoon dal casseo dove era sepolto. Nel lungo termine, la profezia di Cimino sul ritorno in auge del tema Vietnam si sarebbe rivelata correa, ma in quel momento provavo solo rabbia e furore. Dino aveva davvero provato a realizzare il film, non potevo rimproverargli niente. Ma con il passare di un mese, poi due, poi tre, mi resi conto che c’era un altro problema, per giunta grosso: la sceneggiatura di Platoon adesso apparteneva a lui. E quando chiesi alla sua compagnia di averne indietro i dirii, l’affare si rivelò complicato. “esto è un business,” mi ripetevano gli avvocati, “Dino ci ha speso dei soldi…” eccetera eccetera. Dino aveva un suo fascino ma era anche un bandito, puro e
semplice, un brigante italiano. Per lui non esisteva legge. “Tieniti streo quello che hai preso. Non restituire mai niente.” Le leggi della giungla cinematografica. Per aggiungere al danno la beffa, Dino stava traenendo l’ultimo pagamento relativo alla sceneggiatura dell’Anno del dragone che avevo consegnato, compenso tra l’altro già dimezzato in partenza. Così, con le mie limitate risorse finanziarie, dovei affrontare un produore che, come Donald Trump, traava le cause legali come se fossero multe per divieto di sosta. Non potei ricorrere al mio avvocato, Tom Pollock, poiché rappresentava anche Dino, e ovviamente Dino era un cliente più grosso di me. Così mi rivolsi allo studio legale Greenberg Glusker, in particolare a Bert Fields, noto come il miglior avvocato del mondo del cinema. Fields mi rinviò a un omone di uno e novanta, un pistolero dal nome appropriato, Bob Marshall, che dall’aspeo sembrava proprio uno stritolatore di palle. Le palle di Dino, speravo io. Ma la nostra, come la maggior parte delle cause, era una questione ingarbugliata che si sarebbe trascinata per le lunghe. Mio padre, intanto, stava morendo. Era ricoverato in ospedale, intubato, una sfilza di flebo collegate alle braccia, un catetere tra le gambe. ell’uomo un tempo bello e imponente, che tornava a casa ogni giorno alle 17.30, accolto dalla nostra grossa, nera, scodinzolante barboncina Jenny, pronta ad afferrargli il giornale della sera dalla mano, era uno shock per i miei occhi. Lo avevano aaccato a una macchina per la dialisi, i reni ormai non funzionavano più, e sul volto aveva l’espressione triste della rassegnazione. Gli venne in soccorso il senso dell’umorismo quando riuscì a dirmi: “Ehi, figliolo, pensi che mi stia divertendo? Vedrai quando ci sarai tu al mio posto!” Pesava meno di sessanta chili, rispeo agli oanta di un tempo; era pelle e ossa, senza più muscoli. esto era l’uomo che chiamavo papà, che un tempo era così forte. Fu un incubo, come se stessi vedendo me stesso nel futuro.
Le infermiere gli tolsero la cannula e potemmo parlare un po’. Era intontito dai farmaci e si sforzava di seguire il filo del discorso. Felice di vedermi, più o meno… Era quello il punto, vero? Non so se posso dire che mio padre fosse mai stato davvero contento di vedermi, ai suoi occhi non ero mai all’altezza. Ma questa era anche una mia paranoia. Forse lo ero, no? Eppure, nonostante l’Oscar, non mi sentivo un uomo di successo. Figurarsi adesso, impelagato in una causa legale nientemeno che con Dino De Laurentiis. Ero ancora una volta una viima, impotente – conciato come mio padre che, a differenza di me, stava morendo. Dovei momentaneamente interrompere la visita per una chiamata importante fissata a una certa ora con Bob Marshall a Los Angeles. Da una cabina telefonica in fondo al corridoio dell’ospedale, parlammo accaloratamente. Dino, per quanto gli era possibile, aveva la brua abitudine di pagare con mesi di ritardo, pratica diffusa nel mondo del cinema con cui si lucrava qualche interesse in più dalla banca, ma stavolta aveva commesso un errore non pagandomi per intero il compenso dell’Anno del dragone. Di conseguenza il mio avvocato, lo sceriffo di frontiera, mi spiegò che avremmo richiesto un’ingiunzione contro il film, visto che il mio contrao con Dino era legato a Platoon. Se fossimo riusciti a spaventarlo meendo in pericolo l’uscita del film di Cimino, lo avremmo costreo a restituire la sceneggiatura di Platoon. Una mossa coraggiosa, che avrebbe fao drizzare le antenne non solo a Dino ma, soprauo, al distributore, la MGM. Non avendo più nulla da perdere, dato che non avrei mai potuto obbligare Dino a produrre Platoon, diedi il mio okay. Ora sì che sarebbe scoppiato il casino. Tornai da mio padre. Cristo, in che ginepraio ero finito. La preoccupazione mi si leggeva in faccia. A trentatré anni avevo avuto tuo – fama, un futuro, denaro – e adesso, che di anni ne avevo appena trentoo, ero praticamente finito. Guardai papà. Era così inerme. Era questa la fine, la fine vera. Che cosa contavano i miei problemi rispeo ai suoi? Ma almeno lui aveva avuto una vita e, per quanto lo si possa mai
essere, era preparato alla morte. Provai pena per lui. Più di qualsiasi altra cosa avrebbe voluto andarsene da lì e tornare a casa, farsi uno scotch, fumare una sigarea, ricevere la visita di un’amica, possibilmente in collant e tacchi alti. Continuai a dirgli di avere fiducia nel doore e di riguardarsi, in modo che di lì a qualche mese avrebbe potuto vedere il nipotino. Gliene fregava qualcosa? Non voleva più vivere. Sentiva il richiamo del suicidio e forse un giorno lo avrei capito. “Invece no, figliolo,” mi disse. “Tu non puoi capirmi, perché non hai vissuto la mia vita.” Nonostante le sue condizioni, il vecchio ribelle che era in lui si ridestava, alitava le sue fiamme. “Ho avuto una bella vita, figliolo. Mi sono speso tuo. Non aspearti niente da me… e di’ a tua madre che ha la polizza assicurativa e basta. Se crede che la sposi un’altra volta, dille che è pazza.” Parole dure, sulla bocca di un padre. Davvero memorabili. Ricordo che lasciai l’ospedale risentito, addiriura furioso con lui. Perché era sempre così egoista? Già dovevo avere a che fare con Dino, cosa che non avrei augurato al mio peggior nemico, ed ecco che papà si meeva a fare la guerra a me e a mia madre – sui soldi, sul testamento, sul lasciarle l’appartamento… E presto sarebbe venuto al mondo il sangue del suo sangue, del mio. Ma è vero, mi aveva avvertito. Aveva spazzolato la maggior parte del patrimonio familiare. Aveva vissuto bene, non aveva rimpianti e si era bruciato i suoi soldi. Mi aveva pagato gli studi, come promesso, e adesso dovevo cavarmela da me; tra l’altro, a meno che non si fosse risposata, non sapevo nemmeno se mia madre sarebbe riuscita a tirare avanti con i proventi limitati dell’assicurazione. E poi? Avrebbe chiesto aiuto a me. Non avevo fratelli o sorelle che potessero darle una mano economicamente. Tui i progei e le speranze di quel favoloso Capodanno con Dino in Costa Azzurra erano naufragati. Le persone che avevano partecipato al veglione, che si erano scambiate baci e abbracci, ormai non si parlavano nemmeno più fra loro. La rivista “Time” uscì con una copertina in cui si proclamava il
mancato avveramento della profezia di 1984, sointendendo che Orwell fosse un falso profeta. A me pareva l’esao contrario, ossia che come Paese, manipolati dai media, ci stessimo arrampicando dentro una scatola dalla quale nessuno sarebbe più potuto uscire. Che razza di mondo era per un bambino appena nato? Platoon era andato a monte e mio padre stava per morire senza aver visto nostro figlio. Era stato un anno difficile; forse, a conti fai, terribile. Mentre aspeavo impaziente al capezzale di Elizabeth in un ospedale di Los Angeles, dove eravamo tornati per far nascere il bambino, uscii a prendere una pizza e la mangiai nella sua camera guardando i miei amati 49ers che, guidati da Joe Montana, affrontavano i New York Giants in un playoff del dicembre 1984. L’odore della pizza le era talmente nauseabondo che Elizabeth si mise improvvisamente a urlare, con una voce raccapricciante come quella di Linda Blair nell’Esorcista: “Vaene! Esci fuori di qui! Immediatamente!” Obbedii. La partita era combauta e divenne palpitante quando fui riaccompagnato nella camera. Una delle infermiere stava parlando con calma ma insistentemente. “Sei a dieci centimetri. Pronta a spingere, Elizabeth! Forza, spingi!” L’altra, una paciosa donna più anziana, mi disse che mia moglie era passata “in un’ora da quaro a dieci centimetri. Ha saltato la fase di transizione.” Mi sembrava una cosa importantissima, come se la terra si stesse preparando a un’eruzione vulcanica. Elizabeth spingeva sollevandosi con difficoltà sulle ginocchia, in preda a un dolore lancinante, respirando da una maschera di ossigeno mentre le due infermiere continuavano dolcemente a incoraggiarla: “Spingi, Elizabeth, spingi. Dài, dài!” Io ero il terzo incomodo che guardava, cercando di rendermi utile, stringendole la mano con tue le forze. Nessun evento sportivo poteva essere violento quanto lo sforzo di questa donna per togliersi quella cosa da dentro prima di morire dal dolore! Una testa schiacciata fece improvvisamente capolino dalle labbra gonfie della vagina. Non sembrava nemmeno umana,
quasi un’illusione oica. “Ci siamo! Forza, Elizabeth!” stava dicendo l’infermiera più giovane e poi, con un’ultima spinta, il bambino scivolò fuori, braccia all’aria, in un flusso di sangue e placenta, poltiglia e paura, insieme al fragoroso ruggito di una frana di sassi: il suono della nascita di Zeus (solo nella mia testa, ne sono certo). Il nostro bambino era lungo quarantoo centimetri e pesava tre chili e tre, un piccolo Buddha paffuto; piangeva a squarciagola ed era sano come un cucciolo di orso. Temevo che stesse morendo, con tui quegli strepiti, e invece no! Si rotolò sul tappetino come un loatore di aikido, svelando il cordone ombelicale e il piccolo pene. “È un maschio!” le stavo gridando quando Elizabeth tornò improvvisamente in sé. Era di nuovo se stessa, vigile, sobria. Bloccammo il cordone con la pinza e il bambino, che sembrava senza occhi, uno splendore rosso acceso, prese subito un colorito normale. Che zazzera di capelli neri, una corona da re! Così fu quel momento importantissimo nella vita di chiunque. La nascita del primo figlio! Che cosa significhi, be’, una giovane coppia come noi non lo sapeva minimamente. Non lo sa nessuno. In quella splendida incertezza si concluse il 1984. *** I film con la “R” di restricted possono essere visti anche dagli adolescenti, ma solo se accompagnati da un adulto. (N.d.T.)
7 A sud del confine
Il primo dell’anno del 1985 fu la perfea rappresentazione delle montagne russe che la mia vita stava cavalcando. Sul tappeto bianco del soggiorno era disteso un frugoleo di quaro giorni che guardava mia madre con gli occhi spalancati. Lo avevamo chiamato Sean, in onore dell’affascinante aore scozzese famoso per aver vestito i panni di James Bond. Perché no? Un nome semplice e direo, facile da ricordare ma non banale come “John” – un bambino che avrebbe ispirato simpatia. Araverso la porta-finestra, i due labrador facevano avanti e indietro dal giardino della casa che avevamo da poco preso in affio a Brentwood, tra i canyon di Santa Monica. Elizabeth stava riposando in camera da leo, stanca e depressa dal parto, motivo per cui avevamo subito assunto una tata, una diciannovenne svedese senza molta esperienza, il che avrebbe teoricamente permesso a mia madre, arrivata in aereo per vedere il suo primo nipotino, di prendere in mano la situazione. Almeno così pensava lei, ma a sessantaquaro anni era ancora troppo irrequieta e giovane nel cuore per fare la nonna a tempo pieno. ando mi avvicinai gaonando, Sean mi guardò drio negli occhi, chiedendosi di chi fosse questa faccia enorme, poi si sciolse in un grande sorriso abbandonandosi agli strani versi dei neonati. “Sì,” gli risposi con le stesse moine, “sono tuo papà!” mentre il frugoleo tendeva fiduciosamente la mano e le sue piccole dita mi tastavano il viso sprizzando meraviglia per la nuova scoperta: “Umh…” Se esiste una dimostrazione che nasciamo con un’indole buona, ce l’avevo davanti; i guasti arrivano dopo. Sean mi sembrava fortissimo, robusto come un piccolo Ercole, che secondo la fervida
fantasia degli antichi greci aveva strangolato due minacciosi serpenti quando era ancora nella culla. Non ero mai stato così felice, nonostante a New York papà fosse in fin di vita. La mamma mi fornì gli ultimi, penosi aggiornamenti. Era stato dimesso dall’ospedale, dopo aver cominciato a rifiutare le terapie, e a casa, trasgredendo agli ordini dei medici, aveva ripreso a bere e a fumare. Come se non bastasse, aveva chiesto a una “vecchia amica”, Laura, un’avvenente trentenne di origini sudamericane che gli era molto legata, di venire a trovarlo tui i giorni per un paio d’ore; probabilmente la pagava per farlo, ma il cuore di Laura era davvero grande e con lei papà rideva, godendosi quegli ultimi scampoli di vita. Mamma era ovviamente indispeita. ello stesso giorno lo chiamammo al telefono, ma era annebbiato o gonfio di scotch, e non si ricordava se il bambino fosse già nato. Da quaro giorni, gli rammentammo. Non si ricordava il nome. Era una femmina? Gli assicurammo che presto avremmo portato Sean a New York. Poi sentimmo che iniziava il suo telefilm preferito, Magnum P.I. con Tom Selleck, e allora lo salutammo. Pochi minuti dopo, rombando con un’auto a noleggio, arrivò l’altro ospite che avevamo in casa, trafelato come al solito, graandosi dappertuo per via delle allergie di cui soffriva. Avevo gradualmente approfondito il mio rapporto con Richard Boyle da quando lo avevo conosciuto insieme a Ron Kovic sul lungomare di Venice nel lontano luglio del 1977. Richard aveva partecipato a molte delle manifestazioni contro il Vietnam organizzate da Ron e all’inizio degli anni Oanta lo aveva accompagnato in uno spericolato viaggio in macchina tra Vietnam e Cambogia, concluso con Ron che fuggiva in aeroporto per tornare negli Stati Uniti. Nonostante la sua vita fosse un disastro, Richard era una di quelle persone che non riconoscono mai i propri limiti e tirano drio fino a perdere tuo: beni materiali, incarichi giornalistici, carte di credito, patenti contraffae, fidanzate, persino una moglie e un figlio. Il denaro per Richard era cosa rara che gli sfuggiva ostinatamente, e quando era necessario
mi meevo la mano in tasca e gli davo un aiuto, sapendo comunque che era una persona piena di risorse. Poche seimane prima che nascesse Sean, con la testa piena di pensieri foschi per la mia carriera, ero andato a San Francisco per sostenere la sua candidatura a consigliere della contea. Con un programma basato su riforme e socialismo, Richard arrivò poi tredicesimo su quaordici candidati, ma con grande entusiasmo avevamo girato in lungo e in largo la cià, percorrendone i saliscendi a bordo della sua scalcinata MG, il vano portaoggei pieno di multe non pagate, e ci eravamo intraenuti con i suoi coloriti sostenitori, studiando una marea di progei futuri e ovviamente bevendo birra e raccaando eleori. Nel 1969 il governo vietnamita aveva cacciato Richard dal Paese a causa delle aività pacifiste da lui organizzate per conto del leader religioso buddhista deo “Monaco del cocco”. Richard però vi era rientrato clandestinamente e aveva seguito da fotoreporter l’insubordinazione delle truppe americane a Firebase Pace, esperienza poi riversata in un oimo libro, Flower of the Dragon, nel 1972. In seguito era stato uno degli ultimi giornalisti aivi a Phnom Penh prima che gli khmer rossi chiudessero la cià al resto del mondo. Era stato in Nicaragua durante la rivoluzione sandinista del 1979, poco prima di essere testimone della guerra civile nel Salvador. Era anche riuscito a bazzicare gli ambienti dell’IRA prima di spostarsi a Beirut con l’OLP durante la sconsiderata missione di interposizione voluta da Reagan tra 1982 e 1983, conclusasi con un aentato che aveva provocato la morte di oltre duecento Marines. Adesso anche lui, come me, aveva bisogno di una spinta. Pochi mesi prima la moglie era scappata dal loro piccolo appartamento nel quartiere di Tenderloin per tornarsene in Italia con il figlio appena nato, visto che i mezzi di sostentamento si erano ridoi al lumicino; in seguito i due avrebbero divorziato. Molti avrebbero considerato Richard un piantagrane, un ubriacone, uno scroccone, e si sarebbero chiesti come mai lo frequentassi. Per me invece era uno scrigno pieno di
sorprese: spassoso, a trai irriverente, scaltro, con una meravigliosa passione per la politica e la bontà d’animo di un irlandese scalcagnato. Si era da poco invaghito di una ragazza che eravamo andati a trovare dalle parti di Santa Cruz, dove viveva in una derelia rouloe. Probabilmente era quella la vita vera. Esther, tua il contrario di come me l’ero immaginata, aveva la televisione accesa in pieno giorno, sintonizzata su qualche quiz che la figliolea di sei anni seguiva con lo sguardo perso non avendo di meglio da fare; un’istruzione scolastica, evidentemente, era quasi impossibile in quelle condizioni, sebbene Esther non mi desse l’idea di essere particolarmente desiderosa di cambiare le cose. Richard comunque le voleva un bene pazzo, che io non vedevo granché ricambiato. Del resto lui era così, si costruiva nella fantasia ciò in cui credeva. ando mi aveva accompagnato in aeroporto, il giorno della mia partenza, avevo adocchiato sul piccolo sedile posteriore della MG, soo un mucchio di vestiti sporchi, un dailoscrio tuo coperto di patacche. Gli avevo chiesto cosa stesse scrivendo, contento di vedere qualche segno di lavoro, al di là delle bisbocce e dell’aività politica. “Ah, quelle sono le mie storie dal Salvador,” aveva risposto Richard con un sorriso. “Dovresti leggerle, amico. È roba forte!” Si traava di una serie di bozzei che aveva tentato di vendere a qualche rivista qua e là, anche per cifre irrisorie, ma all’epoca l’interesse per la situazione del Salvador era pressoché inesistente. Incuriosito, mi ero portato il malloppo a Los Angeles e lo avevo leo. Immediatamente, dal guizzo del mio entusiasmo, avevo capito che era il materiale giusto. In un modo o nell’altro sarebbe diventato un film. Era esaamente la carica di energia di cui avevo bisogno per uscire da me stesso e riprendere in mano la mia vita. Stando a quanto scriveva Boyle, nel Salvador c’erano leader sindacali, insegnanti, suore irlandesi e sacerdoti seguaci della teologia della liberazione in loa con i proprietari terrieri, la chiesa, il “sistema”. Molte di queste persone venivano torturate e uccise; la violenza era efferata,
davvero barbarica, ma la storia di Richard aveva al suo cuore una specie di buffonaggine, come se l’avesse scria un reporter nel solco del gonzo journalism di Hunter S. ompson: egocentrico, menzognero, interessato, sempre impelagato tra sesso e droga ma accanito sostenitore delle riforme e della giustizia. La sgangherata energia di Richard e il suo umorismo irlandese ne avrebbero fao un film più scoppieante rispeo, per esempio, a Soo tiro (1985) con Nick Nolte, storia dei coraggiosi giornalisti americani inviati nei teatri di guerra dell’America Centrale. Sarebbe stato più divertente di qualsiasi cosa avessi mai scrio, soprauo grazie agli infiniti aneddoti che Boyle avrebbe potuto fornirmi. Non sapevo ancora come produrlo ma, dopo la mia deludente puntata nel cinema di cassea, sapevo che l’avrei girato e realizzato io stesso, riducendo al massimo i costi. Avrei ipotecato la mia casa di Long Island e i due appartamenti di New York e Los Angeles, avrei chiesto un prestito alla mia banca tramite Steve Pines, il mio manager finanziario. anto? Trecentomila? Cinquecentomila dollari? In qualche modo ce l’avrei faa, come avevo imparato alla NYU, come avevo realizzato il mio primo horror, Seizure, nel 1973, costato centosessantamiladollari in tuo. “O la va o la spacca!” era il mio mantra. Date queste premesse, avevo fao immediatamente venire Boyle a Los Angeles a mie spese, gli avevo esposto il progeo e ovviamente lui ne era rimasto entusiasta. Tanto, cos’altro avevamo in ballo? Ci eravamo messi al lavoro come ossessi, diverse ore al giorno, Richard che parlava e descriveva, io che scrivevo e struuravo: due, a volte tre scene al giorno, un po’ come avevo fao con Kovic ma a ritmi più serrati, molto più serrati. Se Ron aveva una memoria chirurgica, Richard tendeva a lavorare di fantasia, ma sempre su un fondo di verità, con lo spirito di chi quegli episodi li aveva vissuti di persona. La storia che stava prendendo forma nella mia testa avrebbe avuto per protagonista uno scalcinato fotoreporter che nella scena di apertura viene lasciato dalla moglie e dal figlio. Lui allora scrocca il denaro necessario per tornare nel Salvador dove è in corso una guerra sanguinosa e dove
potrebbe guadagnare un po’ di soldi grazie ai suoi agganci. Nel Salvador riprende contao con una ragazza del posto alla quale si lega di un affeo sempre più profondo, ritrovandosi nel fraempo in situazioni pericolose e imbaendosi in vecchi nemici – finché non rischia di lasciarci le penne. Ce la farà Boyle, insieme alla sua donna e alla figliolea di lei, a lasciare indenne il Paese? Una cosa del genere. Nel 1980 Boyle aveva scrio un pezzo sullo stupro e il conseguente assassinio di tre suore americane appartenenti all’ordine delle domenicane di Maryknoll, prima minacciate e poi uccise da membri degli squadroni della morte per le loro aività a favore dei poveri; lui le conosceva e aveva pianto in particolare una quarta viima, la giovane cooperante laica Jeannie Donovan, uccisa insieme alle tre religiose. Aveva inoltre incontrato il maggiore Roberto d’Aubuisson, leader del partito fascista ARENA e presunto comandante di un potente squadrone della morte. Richard aveva anche conosciuto l’ambasciatore americano, lo stimato Robert White, e diceva di essere stato presente alla baaglia di Santa Ana, nella quale i ribelli avrebbero quasi sicuramente rovesciato le sorti del conflio se non fosse stato per l’intervento in extremis degli Stati Uniti a sostegno delle forze governative di Duarte. Affermava anche di aver assistito all’assassinio dell’arcivescovo Romero, ucciso nel 1980 mentre diceva messa nella caedrale di San Salvador. Più leggevo (per esempio il controverso Weakness and Deceit: U.S. Policy and El Salvador, scrio dal giornalista del “New York Times” Ray Bonner) e più immagini vedevo, più mi rendevo conto di quanto fosse sporca e sconosciuta quella guerra. Avendo sentito, prima di allora, soltanto i reportage antirivoluzionari degli inviati americani in America Centrale, non avevo ancora le idee chiare; così Boyle mi propose di fare un viaggio di due seimane nella regione. Acceai, ma solo dopo aver riordinato i nostri primi spunti in un canovaccio. Mancavano pochi giorni alla nostra partenza per El Salvador. Secondo Elizabeth e mia madre ero un pazzo ad andare in giro insieme a questo inaffidabile irlandese. Ma, con
grandi speranze, avevo convinto anche Alex Ho a raggiungerci nel Salvador, così da stilare un primo budget di massima, soo il milione di dollari. Ovviamente stavo prendendo questa iniziativa con estrema temerarietà. La mia situazione finanziaria e le prospeive di carriera erano a dir poco fragili e fumose. Era il dicembre del 1984, avevo un figlio appena nato, una moglie e una madre, e sentivo che il tempo a mia disposizione stesse per scadere. Sono pochi i registi che arrivano al successo dopo i quarant’anni. Io avevo direo Seizure a ventisee ed ero sparito, La mano a trentatré ed ero stato spernacchiato. Ora o mai più. La NYU mi aveva trasmesso questo principio: rendere “personale” il cinema, cioè far sì che sia qualcosa di importante per te e per la tua passione. Perché se sei a contao con le tue emozioni, ne riconosci la forza anche se ti conducono giù da un dirupo; devi avere dentro di te la follia per seguirle fino alla fine. Con questo stesso spirito ero andato in Vietnam, avevo mollato Yale e mi ero messo a scrivere il mio romanzo. Non che nulla di tuo questo fosse stato coronato dal successo, ma erano state la passione e l’istinto a guidarmi ed ero ancora abbastanza giovane per scommeere un’altra volta su quell’istinto. E se avessi fallito ancora… pace. Mi sarei adaato a un altro stile di vita. Ma quanto tempo mi restava? ella prima sera di gennaio prese i contorni di un sinistro presagio quando Stanley White, il detective della omicidi che aveva ispirato in larga parte il protagonista dell’Anno del dragone, venne da noi a cena. Stanley ci fece ascoltare una registrazione audio di venti minuti relativa a un caso sul quale stava lavorando – un vero omicidio che due serial killer avevano registrato, la voce di una ragazza nel loro furgone che implorava pietà per la propria vita; le sue urla andavano avanti, avanti, più strazianti di qualsiasi cosa avessi mai sentito. Elizabeth uscì dalla stanza disgustata. Poi, mentre aprivamo i contenitori del takeaway cinese, sentimmo gridare mia madre dal soggiorno: un enorme scorpione nero di oo, dieci centimetri era entrato dal giardino e spiccava sul tappeto bianco a breve distanza dal bambino, che intanto lo guardava senza paura. Restammo immobili di fronte alle
dimensioni dell’animale, che sembrava uscito da un film horror. Gridai a mia madre di non muoversi mentre Boyle, sempre pronto nelle situazioni di pericolo, meeva in fuga il mostriciaolo che, altreanto spaventato da noi, oltrepassò la porta-finestra del patio sparendo nella noe. Mamma prese Sean in braccio e lo portò via di corsa. La cena divenne ancora più terrificante quando Stanley, che con l’aiuto dell’alcol stava diventando sempre più enfatico nel raccontare le sue avventure alla omicidi, scatenò la rioosità di Boyle e, suppongo, la sua viscerale diffidenza verso tui i polizioi; di certo era stato in carcere abbastanza volte per nutrirla. Spinto dall’abbondante quantitativo di whiskey, birra e vino che aveva tracannato, e deciso tra l’altro a far colpo sulla nostra tata – la quale ormai doveva aver concluso che tui i maschi americani erano dei pazzi omicidi – Boyle sfidò Stanley a “nocche”, un gioco da bar in cui il bevitore sbae le nocche il più forte possibile contro quelle dell’avversario finché uno dei due non si arrende. Una sfida senza molto senso, residuo della cultura celtica, ma le nocche di Richard erano piuosto grosse e testate e Stanley si guardò bene dall’affrontare l’avversario sul suo terreno. ando la conversazione si spostò sui coltelli, Richard sfoderò dallo stivale un pugnale da caccia e si tagliò sull’avambraccio per far vedere quanta poca paura avesse del dolore. Stavolta Stanley lo seguì, infliggendosi un taglio più profondo del suo. Elizabeth, che era tornata per mangiare, a quel punto ne ebbe abbastanza e lasciò definitivamente la tavola. Mia madre badava al bambino, mentre io e la tata guardavamo il sangue che cominciava a scorrere. Ero ubriaco anch’io e quindi non so bene come andò a finire, ma ovviamente non fu risolto nulla; come sempre, del resto. Stanley a un certo punto tornò a casa, ubriaco fradicio, dalla moglie, che faceva il suo stesso mestiere e probabilmente lo prese a sberle; poco tempo dopo lo avrebbe lasciato, giudicandolo troppo pazzo per i suoi gusti. Richard, invece, continuò a bere finché non lo abbandonai su una sedia a dondolo davanti alla TV con le luci tue accese, una
boiglia di birra in mano. Venni a sapere che ci aveva provato, senza troppa convinzione, con la tata, la quale aveva risposto che le faceva schifo e se n’era andata a leo. La maina seguente Elizabeth, imbufalita, mi svegliò con una vigorosa scrollata. “Lo voglio fuori di casa!” riuscii a malapena a sentire. “Oggi stesso! Sistemalo in un motel, dove cazzo ti pare, ma non lo voglio vicino a Sean!” Pare che si fosse svegliata verso le sei per allaare il bambino e avesse trovato Richard ancora svenuto sulla sedia a dondolo, una distesa di boiglie vuote per terra, la bocca aperta, la faccia di un colorito verdastro. Aprendo il frigorifero si era accorta che il lae artificiale di Sean era sparito, e dopo aver notato il biberon vuoto sul pavimento del soggiorno aveva capito che Richard si era scolato anche quello insieme a una dozzina di birre. Era stata la goccia che aveva fao traboccare il vaso. Di fronte a quella aggressività da serpente a sonagli texano, cedei rapidamente e accompagnai il traballante Richard in un vicino motel, dove avremmo continuato il nostro lavoro. Perciò adesso la situazione era aggravata dal profondo disgusto di Elizabeth nei confronti di Richard, mentre, con un figlio appena nato, mi apprestavo a ipotecare tui gli immobili che possedevamo come coppia pur di portare avanti questo strampalato progeo di film. E stavo addiriura per partire per l’America Centrale insieme a un irlandese che tirava avanti con una dieta sostanzialmente liquida. alche giorno più tardi, completato il canovaccio della sceneggiatura, Boyle partì per primo, in avanscoperta. Io e Alex Ho lo seguimmo a ruota, prendendo un gremito low cost di mezzanoe per San Salvador. Elizabeth si comportava come se fosse l’ultima volta che vedevo lei e Sean. Trovammo Boyle che ci aspeava all’aeroporto di San Salvador, perfeamente a suo agio: “Amo questo cazzo di Paese. Niente yuppie, niente schedari computerizzati, non serve nemmeno la patente. Odio i Paesi efficienti!” Ciononostante, secondo lui lì avremmo avuto a disposizione tue le infrastruure necessarie per realizzare il film. Prendemmo alloggio in un economico ma pulito Ramada Inn
che nulla aveva a che fare con la catena omonima. Come vicini di camera avevamo una delegazione militare cilena, sei uomini in uniforme, torturatori dall’aria efficiente arrivati senz’altro per insegnare ai loro corrispeivi salvadoregni una o due cosee imparate soo Pinochet. Boyle, con i suoi bizzarri, ruffiani modi irlandesi, aaccava boone con loro, anzi con chiunque fosse disposto a parlargli. Era un adulatore nato e all’inizio ispirava sempre simpatia. Aveva preparato due pagine in spagnolo, un finto soggeo per il nostro film, volutamente sbilanciato a favore dell’esercito salvadoregno, con i ribelli descrii come spietati comunisti, uno stratagemma che doveva servire ad assicurarci la collaborazione del governo alle riprese del film. Boyle andò a trovare un suo vecchio amico, il colonnello Ricardo Cienfuegos del ministero della difesa, uno che curava molto le pubbliche relazioni ed era noto tra i giornalisti stranieri con il nomignolo di Ricky. Cienfuegos lesse il soggeo di fronte a noi e gli piacque; disse che ci avrebbe fai incontrare con il generale Blandon, il capo di Stato maggiore, dal quale avremmo avuto una risposta in tempi rapidi. Wow. Boyle, che ci stava davvero stupendo, garantì che il governo civile si sarebbe piegato al volere dei militari, veri detentori del potere nel Paese. Ovviamente c’era un enorme paradosso nel fao che nel film, in realtà, i caivi fossero proprio i militari, in combua con i famigerati squadroni della morte di estrema destra e con il governo anticomunista di Reagan negli Stati Uniti. Il nostro piano era di oenere i mezzi necessari alla produzione e girare le scene di combaimento, dopodiché correggere il tiro spostandoci in Messico dove avremmo mostrato gli eventi dalla parte dei guerriglieri, rappresentati come i veri agenti del cambiamento. Era un piano audace, molto rischioso, ma se avesse funzionato sarebbe stato geniale. esto per dire fin dove si spingesse la forza del mio desiderio: dovevo essere proprio pazzo a pensare che la cosa potesse andare in porto. ando Blandon ci ricevee, rimase particolarmente colpito da Gloria, la nostra avvenente segretaria bilingue scaltramente ingaggiata da Boyle per pochi dollari. Blandon,
che aveva fama di duro, lesse il soggeo su due piedi, o finse di leggerlo, e disse che gli piaceva, ma anche che era necessaria la firma di approvazione del generale Vides Casanova, del ministero della difesa. Vides era il vero boss. Nessuno citava José Napoleón Duarte, il presidente, ma per un ghiribizzo gli facemmo un’improvvisata a palazzo dove fummo bloccati dagli scagnozzi e spintonati verso il ministero del turismo e del commercio. Boyle rimise Gloria al lavoro, dal telefono del nostro hotel, e la ragazza riuscì a fissarci un appuntamento con il ministro del turismo, una figura chiave vicina a Duarte; il soggeo piacque anche a lui. “alsiasi cosa vogliate, noi la vogliamo per voi,” ci disse. “Sarebbe positivo per il turismo del nostro Paese.” ale turismo? La cià era sporca, le strade dissestate. Nelle campagne, poi, infuriava la guerra. Ma con un esercito forte al potere, ci spiegò il ministro, il Paese era di nuovo sicuro. Ci rivolgemmo perciò alla principale compagnia assicuratrice del Salvador il cui presidente, un piccoleo baffuto in completo viola e cravaa, già allertato dal ministero del turismo, ci garantì – pur non essendosi mai occupato di film – che era assolutamente possibile stipulare una polizza a copertura della nostra impresa. Forse era tua una grande illusione, pensai al termine dell’incontro, mentre in strada si svolgeva una grande manifestazione organizzata da una cooperativa agricola; le facce arrabbiate e determinate degli scioperanti sembravano uscite da Viva Zapata! di Kazan. Boyle, che promeeva parcelle di consulenza a destra e a manca e si aeggiava a pezzo grosso, si teneva per lo più in contao con giornalisti di destra, i quali ci passavano le loro informazioni, e di tanto in tanto con un preoccupato giovane giornalista di sinistra che occupava una posizione precaria all’interno di un quotidiano minacciato dalle autorità. Gli americani che operavano nel Paese per varie ONG ci confermarono le misere prospeive che El Salvador aveva davanti, malgrado Reagan sulla poltrona di presidente. Boyle tornò a trovare Cienfuegos, che ora voleva farci parlare con il generale dell’aviazione circa la possibilità di noleggiare alcuni
dei loro elicoeri. Era tuo faibile, ci riferì Boyle, ne era sicuro. “Dobbiamo solo orientarci nell’industria cinematografica locale. Per meno di cinquantamila dollari potremmo tirare fuori un aacco di elicoeri contro i guerriglieri degno di Apocalypse Now!” Tuo questo all’interno di un budget previsto di mezzo milione di dollari, ossia il prestito bancario che presumibilmente avrei potuto oenere. Perché no? Alex Ho soo soo era sceico, ma annuì intendendo che ci si poteva fare un pensierino; io immaginavo già una troupe da documentario, oo uomini che avrebbero girato per le campagne del Salvador a bordo di un paio di furgoni. La sceneggiatura che avevamo iniziato in dicembre – meno di un mese prima – stava davvero per essere realizzata! A volte, se davvero vuoi fare un film, parti e basta, e può succedere che il film ti venga dietro. Intanto la notizia della nostra presenza si diffondeva. Facemmo visita alla sede del partito fascista ARENA in un cuartel (una ciadella militare) molto ben proteo, circondato di filo spinato. Fummo calorosamente accolti dal braccio destro di d’Aubisson, Francisco Mena Sandoval, i cui magnetici occhi da assassino mi affascinarono – così come lui, a suo modo, era affascinato da me, l’autore di Caracortada, ossia Scarface. Finalmente quel film, se non a Hollywood, mi tornava utile in qualche modo. Mena organizzò la nostra visita all’assemblea nazionale per l’indomani e ci invitò addiriura al raduno del partito, previsto di lì a cinque giorni. Avrei ricevuto l’onore più grande di tui, conoscere il maggiore Bob, il leader di ARENA Roberto d’Aubisson. el pomeriggio facemmo incea di simboli e distintivi del partito, corrispeivi centroamericani degli emblemi nazisti, e bevemmo tequila insieme a hombres dall’aria dura armati di pistola e cinturone che, dandomi grandi pacche sulla schiena, citavano le loro scene preferite di Scarface e brindavano alla salute di Tony Montana – “Mucho coliandes!” (Due coglioni grossi così!) “Raa-ta-ta-ta! Morte ai comunisti!” Io ero “muy macho”!
Prendemmo la macchina e raggiungemmo la Puerta del Diablo, una formazione rocciosa a strapiombo poco distante dalla capitale dove una volta si davano appuntamento gli innamorati. Adesso era da lì che gli squadroni della morte facevano precipitare le loro viime, un sinistro promemoria della realtà celata dietro tui quei sorrisi. Mi chiesi come mai i salvadoregni fossero così crudeli nel loro modo di ammazzare e Boyle, facendo confusione tra le diverse culture mesoamericane, ipotizzò: “È come con gli aztechi, hai presente, che si facevano a feine l’un l’altro e così si ritrovavano la cena già pronta.” In uno squallido bordello noto con il nome della proprietaria, Gloria, e dove qualsiasi nostra indagine era accompagnata da abbondanti libagioni, incontrammo diversi stranieri: consiglieri militari, tipi con l’aria da agenti della CIA, gentaglia assortita, giornalisti. Era il ritrovo preferito di Boyle, che per tre sere di seguito sparì con qualcuna delle novanta ragazze che ci lavoravano. A trenta dollari a noe, riuscì a volatilizzare i trecento dollari che gli avevamo affidato per cercare informazioni. E che lui spese in donne e popper o qualsiasi altra sostanza riuscisse a procurarsi. Le tre noi consecutive al bordello resero più paonazza la sua faccia e più irascibili i suoi modi. Litigammo. Boyle mi mandò a farmi foere, disse che avrebbe girato il film in video senza di me, che la storia era sua! Era un irlandese orgoglioso e insofferente agli ordini. ando gli ricordai, per l’ennesima volta, che il capo ero io e che o lavoravamo tui insieme o non avremmo lavorato affao, si diede una calmata. Alex Ho, che gli aveva affibbiato l’etichea di “lestofante” fin dall’inizio, nutriva sempre più dubbi sulla capacità di Boyle di interpretare se stesso nel film, figurarsi organizzare qualcosa. Io, a mia volta, ero infastidito dallo sceicismo di Alex e continuavo a ripetergli che il Salvador era come un paese delle meraviglie dove nulla era come sembrava, e che doveva fidarsi di me – oltre a dare a Boyle almeno il “b.d.d.” – una sigla che si usava molto all’epoca al posto di “beneficio del dubbio”. Rifornii Boyle di altro denaro e con la nostra automobile a noleggio ci dirigemmo verso nord, avvicinandoci alle zone
dove i ribelli erano tuora aivi. Al Puente de Oro, presidiato da soldati governativi, ci inoltrammo a piedi lungo l’enorme ponte sospeso che i guerriglieri avevano fao saltare in aria, tra cavi contorti che giacevano inutili, il vento che soffiava in un silenzio sinistro, l’eco lontana dell’artiglieria governativa che rievocava in me sensazioni di guerra. Riprendemmo il viaggio e, dopo aver araversato un traballante ponte che scavalcava la linea ferroviaria, raggiungemmo San Vicente, dove era stanziata la 5ª divisione fanteria. Un vecchio amico di Boyle addestrato nell’aviazione americana, il capitano Nuñez, comandante di baaglioni di quarocento uomini scelti – i cosiddei cazadores (cacciatori) –, ci disse che il giorno prima, durante un paugliamento, erano stati uccisi dieci soldati; in Vietnam sarebbe stato un fao rilevante, ma qui la vita sembrava avere meno valore. Aggiunse inoltre che più a nord trenta civili erano morti nell’aentato ai danni di un treno e che nella zona i combaimenti erano intensi. Nel 1985 la guerra civile era tu’altro che conclusa. Raggiungemmo poi una base dell’aviazione dove trovammo un certo colonnello Novoa, che non ricordava affao di aver conosciuto Boyle e anzi detestava i giornalisti. Richard passò immediatamente in modalità “odio anch’io i giornalisti” e tirò fuori il ritaglio ingiallito di un articolo che aveva scrio anni prima, rievocando ancora una volta il ruolo eroico svolto da Novoa nella “grande guerra del calcio” contro l’Honduras, nel 1969. A prescindere da quanto Boyle sembrasse pazzo, c’era metodo nella sua follia perché improvvisamente Novoa lo prese a ben volere, tanto da invitarci tui a cena, intraenendoci con una serie di aneddoti coloriti e probabilmente esagerati. Stavamo ancora aspeando l’okay dai vertici dell’esercito nella capitale ma, secondo Boyle, andava tuo benissimo. Ci spostammo infine a La Libertad, una spiaggia per surfisti nota anche negli Stati Uniti, dove Boyle aveva conosciuto la donna dei suoi sogni, María, che nel fraempo si era rifugiata in Guatemala; spesso i salvadoregni senza cedulas (documenti di identità) avevano problemi con le autorità e, per timore di essere uccisi dalle forze paramilitari
di estrema destra, scappavano dal Paese non appena ne avevano l’occasione. La Libertad era un posto da sogno: le onde, le piccole baracche sulla spiaggia dove ci stendevamo su amache prese a noleggio, il pesce, i deliranti mostri che giravano per le strade come zombi, con il cervello fuso dall’economico torcibudella nazionale, noto come tic-tack; visitammo anche un orfanotrofio che ospitava duecento bambini, gestito da energiche suore irlandesi che ricordavano con affeo il cuore generoso di Richard. Ma Boyle adesso beveva anche di giorno. Comparve con una trasandata prostituta che aveva conosciuto la sera prima e che ci presentò come sua “segretaria” oltre che “interprete”. Alex mi mise nuovamente in guardia: “Boyle sarà un problema, Ollie!” Gli occhi di Boyle erano costantemente vitrei e umidi. Lo sgridai ancora una volta. Lui rispose che dipendeva dal cortisone che aveva preso per l’eritema alla pelle, che in effei era piena di chiazze, oltre a tui gli altri medicinali di cui faceva incea ogni volta che incontrava una farmacia. Chissà cosa assumeva? Io mi meravigliavo che avesse ancora un fegato. Ci rimeemmo in macchina e Boyle spaccò il paraurti sfrecciando a centocinquanta all’ora su strade piene di buche, tormentando la leva del cambio, imprecando contro la “macchina di merda”, di pessimo umore per il fao che María fosse sparita – “niente figa, niente di niente, un mortorio!” Ero preoccupato: nessuna notizia da Gloria, nessun concreto passo avanti. Le zanzare mi perseguitarono tua la noe nella mia sudicia stanza dove non avevo alcuna voglia di affidare il mio corpo alle fetide lenzuola. All’alba andai in cerca di Boyle e lo trovai con la “segretaria”, un’altra prostituta e una boiglia di rum da quaro soldi. Non dissi niente, i miei occhi parlavano già abbastanza. Mentre sorseggiavamo caè forte nella sudicia piazza di quel buco di cià, con gli avvoltoi che ingurgitavano tuo ciò che riuscivano a trovare, gli diedi un’altra chance. Una specie di prova di autocontrollo. Tre giorni. Dimostrami che puoi stare tre giorni senza bere. Altrimenti niente film! Lui me lo
promise, ma per Richard le parole non avevano lo stesso significato che avevano per me. Per qualche giorno rimase relativamente sobrio ma, come diceva mio padre, un uomo può deviare un po’ a destra o un po’ a sinistra, ma prima o poi torna alla sua vera natura. E la natura di Richard era quella di un generoso, benintenzionato irlandese-alcolizzatotossico e quant’altro. Potevo tollerarlo pur di vedere realizzato il film? Alex Ho, che ormai non ne poteva più di Boyle e dubitava che il film sarebbe mai andato in porto, tornò a New York promeendomi comunque un budget di massima. In aesa di aggiornamenti dai militari salvadoregni, io e Richard pensammo di visitare la Costa Rica, l’Honduras e il Belize come possibili alternative, e poi il Messico tornando verso nord. San José, la capitale della Costa Rica, si rivelò assolutamente inadaa: niente armamenti e troppo civilizzata per rappresentare una cià come San Salvador, e con un mucchio di spie americane in borghese che facevano pressioni sul governo di sinistra di Óscar Arias affinché stroncasse qualsiasi movimento di riforma. L’Honduras invece era un altro mondo. Il palazzo presidenziale di Tegucigalpa era una bomboniera rosa fenicoero che sembrava uscita dai libri di García Márquez. Non lontano era in corso una manifestazione di contadini, i cui leader erano tenuti soo streo controllo da forze di polizia diffidenti e arcigne. Finimmo per ritrovarci davanti alla caedrale dove i braccianti si misero in coda per ricevere le scorte alimentari distribuite dagli organizzatori, i quali ci spiegarono la realtà della vita da quelle parti: in sostanza dovevano guadagnarsi ogni centimetro della loro libertà. Rispeo al Salvador, in Honduras era più evidente il contrasto fra ricchi e poveri, in un clima da repubblica delle banane degno di un romanzo di Graham Greene. Nell’orribile hotel Hilton, con la sua squallida atmosfera alla Casablanca, tui gli stranieri – mercanti, spie, imbroglioni – vagavano, come Richard, in cerca di notizie fresche. Chi era chi? Era un gioco che tui loro amavano giocare; mi tornarono alla mente i preparativi segreti a Saigon all’inizio di quell’altra guerra, quando ero lì
come insegnante. Durante un incontro con due tipi folkloristici in sgargianti camicie hawaiane, che sostenevano di essere appena tornati da qualche giorno di escursione in canoa sui fiumi più a nord, mi toccò coprire Boyle e tue le balle che diede loro a bere. “Di cosa vi occupate?” chiese Richard. “Cacciamo pappagalli. Ci occupiamo di pappagalli. Li vendiamo negli Stati Uniti. Voi invece cosa state facendo?” “Noi?” rispose lui. “Stiamo realizzando un documentario sulla natura,” il che ovviamente diede la stura a tua una serie di ulteriori domande alle quali risposi io al posto suo. Da quelle parti chiunque poteva indossare la maschera che preferiva. Non eravamo lontani dal confine con il Nicaragua, dove gli Stati Uniti si stavano preparando a rovesciare il governo e magari a intervenire militarmente. Lo si sentiva nell’aria. Le strade di “Tegu” brulicavano di uniformi americane, oltre allo stuolo di yuppie bianchi al seguito dell’ambasciata americana; tra questi le donne, con le loro lunghe gambe e le paffute guance rosee, spiccavano accanto ai poveri dalla pelle scura. Al bar dell’hotel frequentato dai nostri soldati in uniforme chiesi a una sergente dell’Oklahoma che Boyle stava cercando di rimorchiare cosa pensasse del Vietnam. “Signore,” rispose meccanicamente, “non ho alcuna opinione in proposito,” come se qualcuno le avesse raccomandato di dire così. Avevano chiaramente imparato la lezione tramite il Pentagono e ce l’avevano a morte con la stampa o con chiunque ritenevano potesse avere a che fare con la stampa – come noi. Diventava sempre più chiaro ai miei occhi perché avessi quella gran voglia di realizzare Salvador. Perché avrebbe potuto parlare di me a ventun anni, partito ingenuamente per il Vietnam, spinto da curiosità e un senso di importanza a meere becco nella guerra civile di un altro popolo, cosa che non si era rivelata una grande idea. Ci spostammo nel Belize, un’altra situazione bizzarra; il Paese, in base a un antico traato, era difeso da truppe professionistiche britanniche che credevano sul serio di
essere lì per impedire una possibile invasione guatemalteca da ovest. Tui hanno bisogno di un nemico. Facemmo il giro del loro impeccabile accampamento e delle relative aree di addestramento; chissà, magari avremmo potuto girarci Platoon? Di certo non somigliava al Salvador. Tramite Boyle, incontrammo un uomo di cui si diceva fosse il prossimo primo ministro, anche se il fao che il nostro incontro si svolgesse alle nove del maino nel retroboega di un negozio mi faceva ritenere quell’indiscrezione alquanto inaendibile. Una stanzea con una sola lampadina, ombre. Chiunque fosse questo tizio, dissi a me stesso, forse aveva abbastanza agganci da poterci aiutare. Il suo assistente dalla faccia sveglia lo fece entrare dopo che ci eravamo seduti. Era un omone nero come la noe, dai lineamenti marcati. “Che cosa volete?” chiese in un melodioso accento caraibico. Glielo spiegai, ma le mie parole lo misero in allarme. Boyle ci sarebbe riuscito senz’altro meglio. “Non vorrete mica girare un film su una rivoluzione in Centroamerica e meere in agitazione il mio popolo? Siamo appena saliti al potere. Vorremmo tenercelo per un po’. Volete forse far venire strane idee a questa gente?” Per mia esperienza, nessun uomo politico era mai stato più schieo. Lo rassicurammo: “Non parla di rivoluzione ma di una guerra civile in un altro Paese molto diverso dal vostro.” “Okay, e allora noi cosa c’entriamo?” chiese lui. Boyle gli spiegò che intendevamo girarne una parte lì in Belize, che vedevamo questo bellissimo Paese come un’oasi felice rispeo a tue le guerre che dilaniavano la regione; inoltre avremmo creato occasioni di lavoro. esto aspeo lo interessava. Non si parlò esplicitamente di passaggi di denaro ma era chiaro che, se avevamo intenzioni serie, lui avrebbe voluto la sua fea. “Scrivete una leera,” concluse dopo aver esposto ciò che gli premeva. Prese nota dei nostri nomi e indirizzi, senza bigliei da visita, e uscì. Molto tempo dopo, quando feci qualche ricerca su di lui, mi resi conto che quell’uomo non somigliava minimamente a nessun primo ministro del Belize.
Boyle intanto stava combaendo con il dipartimento di Stato per un problema con il suo passaporto, fruo di qualche illecito commesso in uno dei molti sperduti Paesi in cui era stato come corrispondente di guerra. Dopo aver cercato di oenere dal consolato americano un nuovo passaporto valido cinque anni, si accontentò alla fine di un documento temporaneo che gli permise di passare il confine con il Messico, Paese che, dopo il caos dell’America Centrale, era un paradiso per yuppie, con comodità e struure simili a quelle americane. A Cià del Messico fummo ospiti di Gerald Green, proprietario di un service cinematografico. Gerald era un affascinante e raffinato professionista con la faccia cadente e l’espressione perennemente corrucciata. Ricordava molto Alec Guinness in Il nostro agente all’Avana. Sorprendentemente, sarebbe diventato una figura chiave nella mia vita ma, a differenza di Boyle, Gerald aveva l’aspeo da gran signore, con i suoi ascot e l’accento britannico (era originario del Sud Africa); e pur gonfiandosi di Martini e altri cocktail insieme a Boyle, non arrivava mai alla sbronza evidente. Dopo una carriera nella pubblicità in Inghilterra, pare fortunata, aveva prodoo diversi film a basso costo in Messico e, grazie alla moglie Patricia, una donna d’affari messicana, beneficiava di sussidi pubblici e condizioni bancarie di favore. Per De Laurentiis aveva coordinato le riprese di Dune, e per la Carolco, una nuova e dinamica società di produzione indipendente direa da Mario Kassar e Andrew Vajna, quelle di Rambo 2 – La vendea, con il Messico che sostituiva il Vietnam. Gerald era entusiasta della mia sceneggiatura di Platoon, che in qualche modo era arrivata tra le sue mani; voleva a tui i costi che gli concedessi un’opzione gratuita, con la promessa che il film sarebbe stato prodoo. Inoltre apprezzava le idee che avevo per Salvador, candidato naturale a essere girato in Messico dove avremmo potuto contare sui suoi stabilimenti di Churubusco – il che significava noleggio di arezzature, generatori di corrente funzionanti, tecnici, direori casting e aori esperti – oltre alla possibilità di trovare comparse tra i
soldati di un esercito collaborativo come quello messicano, non impegnato a sedare rivolte: in altre parole, una vera infrastruura organizzativa. anto ai soldi, Gerald ne era sprovvisto. Con la sigarea sempre tra le labbra, non faceva che dare la caccia al prossimo “affare”, come qualsiasi produore indipendente. Aveva la tipica faccia da cane bastonato, come se chiunque facesse affari con lui lo strozzasse. Naturalmente non era così, poiché Gerald curava i propri interessi con grande sagacia (a dirla tua, sviluppai una vera e profonda ammirazione per lui nel corso dell’infernale anno seguente). Mi chiese se potevo inviare la sceneggiatura di Platoon a un suo amico di Los Angeles, Arnold Kopelson, un ricco avvocato che traava anche i dirii esteri dei film. Certo che sì, che cosa avevo da perdere? Galvanizzato da queste nuove prospeive, rientrai a Los Angeles per scrivere la sceneggiatura mentre Boyle tornava nel Salvador per sollecitare i militari sul nostro progeo. Dopo aver respirato l’inebriante atmosfera del Centroamerica, mi tuffai nella storia con rinnovata energia e ben presto, con il ritorno di Boyle, potei contare anche sul suo aiuto per completare una prima versione. Stavo tuavia vivendo al di sopra delle mie possibilità. Adesso non dovevo soltanto mantenere me stesso e la mia famiglia ma anche Boyle, fintanto che non fossimo arrivati al testo definitivo. L’ingiunzione intentata l’anno prima contro L’anno del dragone di De Laurentiis era andata a buon fine e Dino e la MGM mi avevano rapidamente saldato il resto del compenso e restituito la sceneggiatura di Platoon, priva di oneri e debiti (le spese per i viaggi nelle Filippine, le aività di scouting e casting eccetera). Era comunque improbabile che sarei riuscito a cavarne soldi freschi cedendone l’opzione un’altra volta. Ero invece riuscito a raggranellare qualcosa vendendo a un esuberante quarantenne di Beverly Hills, produore ed ex agente di grande successo, un’opzione di sei mesi sulla sceneggiatura di 8 milioni di modi per morire. Dopo diversi ostacoli, adesso il film sembrava in procinto di essere
realizzato, con la regia di Hal Ashby (Harold e Maude, Shampoo, Tornando a casa). Ashby era vicino alla fine della carriera e, purtroppo, della sua vita; sebbene non ci avesse rivelato di essere malato di cancro, rimasi stupito dalla sua mancanza di un vero entusiasmo per il progeo. Il suo production designer – colui che sovrintende all’aspeo esteriore di un film, che costruisce i set, si occupa dell’arredamento e della scelta dei costumi, oltre a una decina di altri deagli – era anche un suo buon amico; come Hal, anche lui era un beatnik da California anni Cinquanta ma, incredibilmente, non era mai stato a New York in tua la vita, nemmeno per curiosità, e oltretuo non aveva alcuna voglia di venire a fare un sopralluogo insieme a me nelle strade del Lower East Side dove avevo ambientato la storia. Potevo forse obieare? Erano soldi e mi servivano. Il produore che mi aveva convinto a cedergli la sceneggiatura era l’uomo più folle che avessi mai incontrato, un indecifrabile schizofrenico che dopo un mio messaggio mi richiamava a distanza di giorni, a volte gridando, a volte dolce e pacato, e che mentiva su quasi tuo perché proprio non poteva farne a meno; era la sua indole. Elizabeth aveva notato che aveva due voci: una con il naturale accento ebraico, l’altra da affeato residente di Beverly Hills; possedeva una casa immacolata dove sembrava non vivesse nessuno e una terrorizzata moglie-trofeo bionda, due figlie perfee e una schiera sempre diversa di tate e domestici. Malgrado la vita da cartolina e le conoscenze altolocate, era anche un grosso cocainomane indebitato fino al collo. Finalmente, un giorno sgomberò la casa, divorziò dalla moglie e sparì per diverso tempo. Nel fraempo, il film che avevo scrio originariamente pensando a una produzione da due, tre milioni di dollari che avrei direo io stesso, procedeva grazie al finanziamento della PSO, una nuova società di vendite internazionali, per la favolosa cifra di dicioo milioni e con Jeff Bridges nel ruolo di protagonista. E la storia sarebbe diventata ancora più strana.
Steve Pines, il manager al quale versavo il 5 per cento dei miei introiti, aveva anche lui i suoi problemi. Stranamente, era rimasto schiavo della cocaina come era successo a me, e il suo principale cliente, stella del cinema e altro grave cocainomane, lo aveva appena lasciato, lanciandogli accuse di sorazione di fondi che in seguito si sarebbero rivelate false, ma che sul momento misero Steve in pessima luce, tanto che Bob Marshall, mio avvocato e all’epoca mio agente, mi consigliò di mollarlo. Ma Steve aveva ancora la mente lucida e io mi fidavo di lui. Era assolutamente professionale al telefono e padrone della situazione in ufficio, ma c’erano periodi in cui spariva e non riuscivo a parlargli. La cosa non compromise mai davvero il nostro rapporto ma, date le mie passate difficoltà con la cocaina, ero preoccupato. Del resto Steve non doveva fare l’autore ma solo i conti, gestire i soldi e tenere d’occhio la situazione, cosa di cui sembrava capace anche nel sonno. In tuo questo, quando gli sooposi l’idea di chiedere un prestito con cui finanziare Salvador, Steve venne a casa mia e mi parlò senza peli sulla lingua: secondo lui la banca non mi avrebbe mai erogato mezzo milione di dollari, per la difficoltà di usare i miei immobili newyorkesi come garanzia in un altro Stato. Avrei potuto chiedere un prestito alla American Express ma per realizzare il film mi sarebbe servito del liquido. Steve avrebbe forse potuto spremere alla banca trecentomila dollari, che però non bastavano. “Inoltre,” mi fece notare, “meiamo che il film si faccia, Oliver. E poi? Se è un flop? Ti ritrovi debitore della banca per la somma iniziale più gli interessi a un tasso di quanto? Del 14 o del 15 per cento? Sarai costreo a lavorare su progei che non ti piacciono per i prossimi cinque, see anni. Hai una moglie e un figlio piccolo. La tua idea non ha senso. Troveremo i soldi da qualche altra parte.” Mi ricordò che, tra affii e mutui, ogni mese mi uscivano circa ventimila dollari, duecentoquarantamila dollari annui, più ovviamente le spese che stavo sostenendo per il motel e la macchina a noleggio di Boyle. Per essere un cocainomane, erano ragionamenti maledeamente lucidi; Steve sapeva separare i clienti dai
propri vizi e io lo ammiravo per questo. Gli ci vollero alcuni anni per allontanarsi da quei clienti che lo rifornivano anche di droga, ma alla fine ci riuscì e a tu’oggi è ancora il mio manager e un amico, per quanto possa esserlo una persona priva di interesse critico per il cinema – cosa che me lo fa adorare ancora di più. In ogni caso avevo bisogno di sognare. Non potevo fallire, Salvador doveva essere realizzato. Le notizie che arrivavano da El Salvador, però, non erano buone. Gloria ci informò che l’esercito pretendeva un contrao che desse loro il dirio di approvazione sul film finito. Boyle tornò nel Paese (approfiando dei voli delle due di noe a prezzi stracciati della inimitabile TACA Airlines) e convinse il colonnello Cienfuegos a rinunciare al contrao nel caso avessimo oenuto l’okay direamente dal governo di Duarte. Boyle era oimista, io invece cominciai seriamente a prendere in considerazione il Messico: secondo le stime di Gerald Green, avremmo potuto effeuare lì le riprese per seecentocinquantamila dollari, una cifra assolutamente ragionevole, che pensava di poter reperire lui stesso. Nel fraempo, io e Richard continuavamo a lavorare alla sceneggiatura, godendoci febbrilmente la follia dell’intero progeo. Senza la concentrazione sulla scriura mi sarei fao travolgere dai dubbi. Mio padre peggiorava, al telefono era sempre più stralunato, tanto che dovee tornare in ospedale. Di risposarsi con la mamma non si parlava più. Promeemmo di portare Sean a New York per farglielo vedere non appena avessi finito la sceneggiatura. Le cose non divennero certo più facili quando Boyle portò a Los Angeles Esther, la sua nullafacente fidanzata, e la figlia di lei, così da vivere insieme a loro. Per risparmiare cercò di piazzarla da noi nella nostra camera degli ospiti, ma Elizabeth, inorridita al solo pensiero, fu irremovibile. Tra l’altro sospeava che una noe, nel bagno di servizio, Boyle si fosse scopato la nostra tata. ando gliene parlai in privato, Boyle lasciò intendere che la ragazza lo aveva provocato; ma con Richard non sapevi mai qual era la verità. Come se non bastasse, era invischiato in
una richiesta di quindicimila dollari di risarcimento dall’assicurazione per un infortunio alla schiena patito in un presunto incidente d’auto a San Francisco. Per duecento dollari alla seimana li sistemai tui e tre in un motel vicino, dove continuammo a lavorare, euforici. Salvador era il mio nuovo bambino, oltre a Sean naturalmente. Mi svegliavo agitato, alle quaro di noe, e leggevo per due ore. Sean, a cui piaceva la sensazione della mia pelle, se ne stava accoccolato in silenzio sul mio peo. Non avevo mai avuto un contao così ravvicinato con un bambino. Poi gli rimboccavo il lenzuolino, mi giravo sul fianco e dolcemente facevo l’amore con Elizabeth, morbida, bellissima, disponibile in quelle ore della noe. Ancora in preda ai postumi della depressione post partum, durante il giorno a volte diventava scontrosa, asociale, disgustata dalle persone come Boyle che adesso facevano parte della mia vita. Avrebbe voluto che mi dedicassi a Platoon anziché a Salvador, una storia che trovava amorale e schifosa, come il suo personaggio principale. Dovevo assolutamente riportarla dalla mia parte, non avrei mai potuto realizzare questo film con una famiglia spaccata. Prenotai una cenea per noi due soli, e cercammo di discutere delle differenze sempre più evidenti nella coppia – da una parte il suo rampantismo yuppie, dall’altra il mio caraere forte, la mia aggressività e irrequietezza – arrivando infine a un compromesso: io mi sarei sforzato di essere più comprensivo soo ogni punto di vista, lei avrebbe cercato di capire il sogno che Salvador rappresentava per me e addiriura aiutarmi, non solo baendo a macchina la sceneggiatura ma anche nello spirito. Era questa la cosa che consideravo più importante. Arnold Kopelson, l’amico di Gerald Green e venditore di dirii esteri, venne a casa mia per convincermi di quanto Platoon gli fosse piaciuto, arrivando persino a parlarne come di un film da Oscar. Io detestavo quel genere di untuoso imbonimento tipicamente hollywoodiano e lo trovai sopra le righe. Ovviamente mi chiese un’opzione gratuita. Sapevo che i soldi non gli mancavano, ma stee zio. Era chiaro che
voleva fare il furbo, e cercai di capire come avrebbe potuto essermi d’aiuto. Mi disse che avevo la fama di essere intraabile e ostinato, di uno che voleva sempre averla vinta. Be’, visto e considerato come la maggior parte dei registi venivano sviliti nel mondo del cinema, non credo che difendere la propria integrità fosse una cosa negativa. Alla fine gli concessi una finestra di novanta giorni per provare a piazzare la sceneggiatura. Tenete presente che a quel punto Platoon aveva già oenuto una serie di rifiuti, prima nel 1976, poi da parte di De Laurentiis nel 1983, e adesso da parte dei produori indipendenti di film a basso costo. Ero convinto che Cimino mi avesse illuso, inducendomi a tirarlo fuori dal casseo; era solo un modo per fare un po’ di soldi e non mi aspeavo che ne sarebbe scaturito nulla di concreto. Nel fraempo, Gerald Green ci presentò un altro tipo nella sede della sua società, una villea a due piani dalle parti del Sunset Boulevard. Si traava di un londinese dal tipico nome britannico, John Daly, che a quanto pareva era stato uno degli organizzatori dell’incontro di boxe tra Muhammad Ali e George Foreman in Zaire. Gerald non mi disse che dopo il match John era finito in carcere per il mancato versamento di non meglio precisate tasse. Particolare più importante ai miei occhi, John aveva una piccola società di produzione indipendente, la Hemdale, che stava cominciando a farsi notare. Era stato produore esecutivo per il Terminator originale di James Cameron, stava realizzando Il gioco del falco, per la regia di John Schlesinger con Sean Penn nei panni del protagonista, ed era in cerca di altri progei con cui espandere la propria aività in America. John aveva iniziato come autista dell’aore David Hemmings e, come in una parabola pinteriana, aveva finito per formare una società con lo stesso Hemmings per poi addiriura rilevarne le intere quote. Di John mi piacquero subito la semplicità e il modo direo di parlare; negli occhi aveva lo scintillio alla Long John Silver di chi non prende la vita troppo sul serio e, anche se poteva essere un pirata di natura, mi sembrava più civile di tanti
brutali produori in cui mi ero imbauto nella mia vita. Gli spiegai quanto ci tenevo a realizzare Salvador, mentre Gerald gli aveva già passato la sceneggiatura di Platoon. Mi congedai da lui con una sensazione di euforia; sentivo che tra noi era scaato qualcosa. Ai primi di marzo, la nostra sceneggiatura di Salvador, centoquaranta pagine traboccanti di energia, violenza esplosiva, sesso e sprezzo di ogni limite, era finita. La lessero sia Gerald Green sia John Daly e, quando tornai a incontrarli nella villea di West Hollywood, John, con i suoi modi distaccati, disse leeralmente (parole che non dimenticherò mai perché a un regista capita di sentirle una volta nella vita): “È maledeamente buona, Oliver, una storia che adoro…” (Pausa.) “Allora, cosa vuoi fare per primo, Salvador o Platoon?” Non credevo alle mie orecchie! Potevo scegliere, addiriura? Considerati gli inferni che avevo dovuto araversare per avere un’altra chance di regia, mi sembrava incredibile. “Salvador!” risposi senza esitazioni, perché temevo che Platoon, già morto due volte, fosse ormai condannato, e che se avessi provato a realizzarlo sarebbe andato in fumo un’altra volta. Salvador invece era pieno di vita come il mio Sean. Lasciai l’ufficio di John con le ali ai piedi. Mi aspeava un provino filmato con Boyle. Nelle prove di leura che avevamo fao avevo cercato di renderlo naturale, lui come il suo amico di San Francisco, tale Doctor Rock: un disinvolto, loquace saputello ebreo, nonché presunto DJ underground, che raccontava di essere o essere stato professore di rock a Stanford, dove sosteneva anche di aver conosciuto un mucchio di ragazze. Doctor Rock non era mai stato in Salvador, come la sceneggiatura stessa specificava, ma era decisamente un fifone e nella nostra costruzione drammatica sarebbe stato una spalla comica strippata quanto Boyle, tanto da irritarlo continuamente nel corso del loro viaggio. Pensereste forse che fosse impossibile irritare uno come Boyle, che di solito era quello che faceva perdere la pazienza agli altri. Eppure Doctor Rock ci riusciva.
Caricati questi due bei tipi sulla mia Mustang decappoabile insieme a Jim Glennon, un giovane operatore che aveva lavorato in un film indipendente di buon successo come El Norte, girammo per le strade di Brentwood riprendendo Boyle e Rock che recitavano alcune baute di dialogo. Mi sembrava che funzionasse, o cominciasse a funzionare. A “venire fuori dalla pagina”, come si dice. Glennon li trovava esilaranti e Boyle era raggiante. La sua ragazza era con lui e lo amava di nuovo; Doctor Rock si beava della propria bravura. C’era stato, ovviamente, qualche problemino. Richard, che la sera prima aveva litigato con la fidanzata, aveva una serie di morsi sul braccio e un paio di graffi sulla faccia, e nonostante avessimo ristampato il provino per dargli un colore migliore e più realistico, la tonalità della sua pelle cambiava a seconda del momento, rossa lungo una certa strada dove la colpiva il sole, verde in un’altra dove la luce arrivava da un’angolazione diversa. La sera prima aveva bevuto, probabilmente per l’agitazione, ma la realtà che cercavo di nascondere a me stesso era la mancanza di spessore di entrambi. Mancavano della spontaneità e del carisma che trasmee un aore professionista, e grazie ai quali la vita quotidiana viene in qualche modo amplificata davanti alla macchina da presa. Ma in questa fase andava valutato il potenziale e io sentivo che avrebbero potuto farcela perché volevo crederci a tui i costi. Invitai Daly e Green a casa mia per visionare il provino. John, rilassato come suo solito, rise dell’interpretazione di Boyle: conosceva il tipo umano e amava quel suo folle andare allo sbaraglio tuo irlandese. Gerald era meno colpito: “Per seecentocinquantamila dollari hai bisogno di un aore vero,” mi ammonì. Gli occhi di John scivolarono sulla tata, che passava per caso dalla stanza; gliela presentai e fu divertente vedere Daly sfoderare il suo diabolico fascino da pirata. “esto Boyle è un vero personaggio, Oliver,” riprese Gerald. “Potrebbe funzionare, ma anche no. Non farti illusioni, sarai più soddisfao con un aore che interpreti il ruolo di Boyle.” Non aggiunse altro ma mi diede la sensazione che i soldi necessari sarebbero saltati fuori. Poi buò lì: “La
sceneggiatura è oima ma secondo me è troppo lunga, va accorciata. E credo che il film costerà più di seecentocinquantamila dollari.” esti due concei, che al momento non mi turbarono affao, avrebbero giocato un ruolo via via più grande nello svolgersi degli eventi. Uscendo, John mi fece l’occhiolino, tagliente come un rasoio, e disse: “Spero che ti dimostrerai all’altezza della tua fama.” Intendendo: sii quello che sei, il “pazzo” di cui evidentemente aveva sentito parlare ai tempi del mio soggiorno londinese per Fuga di mezzanoe. Alan Parker e David Punam di certo non mi avevano dipinto in maniera favorevole. Ma John mi stava dicendo: “Voglio quell’Oliver, non il loro Oliver.” Elizabeth e io stavamo aspeando in una stanzea adiacente l’atrio, con Sean, che ormai aveva due mesi, addormentato sulle mie ginocchia; i bambini non potevano salire ai piani di quella piccola clinica con l’atmosfera e l’arredamento da New York anni Trenta (oggi è il Beth Israel dell’Oantaseesima Strada, all’altezza di East End Avenue). Lì ero nato, lì mio padre mi aveva accolto nel mondo. Adesso era comparso sulla porta e ci guardava. Rimasi scioccato. Era come se nella stanza fosse entrata la Morte stessa: la faccia di papà era ormai completamente scavata, l’aspeo scheletrico da campo di concentramento, gli occhi sporgenti, le orecchie che spiccavano dal profilo del cranio. Sembrava felice di poter vedere Sean. Lo svegliai. Nonno e nipote si guardarono, entrambi con la lingua penzoloni. Si fecero un po’ di versi a vicenda ma papà non ce la faceva a tenere Sean in braccio, riusciva solo ad accarezzarlo. “Dov’è l’altro?” sussurrò, probabilmente avendo in mente i fratelli della sua infanzia. Nonostante in genere fosse lucido, sembrava non riconoscere mia moglie. Il giorno dopo, insieme alla mamma, salii nella sua camera e lo trovai a leo con una maschera di ossigeno a portata di mano. Era di umore migliore, chiamava ancora la ex moglie “stupida gallina” come ai vecchi tempi; in effei lei sembrava un po’ una gallina quando si agitava. Che c’era da fare
adesso? Niente. Potei solo dargli un bacio affeuoso sulle sue vecchie, fredde guance, prima di andarmene. Mi venne da rifleere che la morte è un processo dentro il quale sprofondi, o ti sciogli; non ti accorgi nemmeno che stai morendo. Ti avvicini a piccoli passi, in silenzio, a volte con grande dolore, ma a un certo punto diventi insensibile. Dopo tui i pensieri che dedichiamo alla morte, sembra quasi un finale in sordina, che ti fa dire: “Vabbe’, niente di nuovo.” Un déjà vu, tu’altro che eclatante. Sinceramente, speravo che arrivasse presto; tenere duro non aveva più senso. Anche mio padre la vedeva così. Nessun sentimentalismo. L’indomani maina, nell’appartamento di papà dove mia madre ci stava ospitando, mi colpì vedere sulla prima pagina del “New York Times” la cruda fotografia di una bandiera dei ribelli salvadoregni che copriva un cadavere su un campo da tennis di San Salvador. Intuii immediatamente che aveva a che fare con noi, e in effei era così. Il morto era il nostro intermediario, il colonnello “Ricky” Cienfuegos, freddato a bruciapelo da un commando di ribelli riuscito chissà come a penetrare nel circolo sportivo. Addio al nostro accordo. Boyle era partito da poco proprio per incontrare nuovamente Cienfuegos: cercai di parlargli ma aveva già lasciato il suo hotel. ando finalmente rintracciai Gloria, la nostra coordinatrice non pagata, venni a sapere che Boyle era stato cacciato dal Ramada Inn, dopo che la sera prima era stato visto, ubriaco e in compagnia di due prostitute, che si graava dappertuo (per il problema dell’allergia), con gli altri ospiti imbufaliti tanto per la sua malaia della pelle quanto per i suoi comportamenti. Da allora era sparito, senza nemmeno pagare il conto dell’albergo. Un disastro completo. Chiamai John Daly a casa e pensai di avere sbagliato numero sentendo l’accento della nostra tata svedese. “Sì, è casa Daly.” Ne aveva combinata un’altra! Fu un momento decisamente imbarazzante ma affrontato con pragmatismo, senza alcun superfluo commento. ando venne al telefono, John liquidò in frea la questione della tata. Nemmeno l’assassinio di Cienfuegos sembrava preoccuparlo più di
tanto, a differenza della cifra che i suoi collaboratori avevano calcolato come budget di Salvador: tre milioni e mezzo di dollari! Molto più alta di quanto mi aspeassi. Gerald Green aveva ricalcolato il budget per conto suo oenendo un totale di due milioni. E io che ero rimasto agli oocentomila dollari stimati da Alex Ho! Ma John preferì rinviare qualsiasi approfondimento in segno di rispeo per le condizioni di mio padre. Più tardi tornai in ospedale da solo, pensando che sarebbe stata l’ultima volta. Mio padre era in terapia intensiva. “Dov’è il signor Stone?” chiesi a un’infermiera. “Eccolo lì.” Aveva il viso gonfio soo il respiratore, occhi enormi che tentavano di muoversi, sbaendo le palpebre, ma che forse non mi riconoscevano nemmeno. Avvicinai una sedia e gli parlai dolcemente, di cose intime. Gli dissi che lo avevo sempre stimato per la sua integrità, la dedizione al lavoro, l’intelligenza e, infine, che gli volevo tanto bene nonostante fosse un bastardo figlio di puana. “So quanto stai soffrendo, papà. Vorrei poterti aiutare, ma presto sarà finito.” E gli diedi un bacio sulla fronte. Fuori, al Carl Schurz Park che costeggia l’East River, dove spesso avevo giocato da bambino, piansi: per lui, per il passato, per la marcia inesorabile del tempo. Io, Elizabeth e Sean partimmo per Sagaponack, dove il clima era ancora freddo e invernale. Avevo provato una tale solitudine in quella casa, mentre scrivevo la sceneggiatura russa, che ormai la associavo automaticamente alla sensazione di lavorare senza speranze a un progeo che non sarebbe mai stato realizzato. In più, adesso papà se ne stava andando, e mia madre avrebbe perso il deludente amore della sua vita. Come non provare una sensazione agrodolce? Colui che da see anni era il mio manager finanziario, la mia roccia, era ancora schiavo della cocaina; 8 milioni di modi per morire non aveva la piena certezza di essere prodoo; e, con Boyle disperso in Salvador e il budget del film troppo alto, anch’io rischiavo grosso. Dovevo tornare immediatamente a Los Angeles per cercare di salvare il salvabile.
Mi fermai un’ultima volta a salutare papà; anzi no, sarebbe più correo dire “vedere” un’ultima volta. Fu un incontro del tuo impersonale. Dopo la lavanda gastrica che gli avevano praticato per svuotarlo completamente, aveva ripreso un aspeo migliore ma di fao non reagiva a quello che gli dicevo. Mi annoiai un po’. Chissà se aveva sentito qualcosa di ciò che gli avevo deo la volta precedente. Dentro di me stavo già pensando al testo del necrologio, alla cerimonia funebre da organizzare, alle incombenze burocratiche, al fao che il corpo fosse troppo malato per donarlo alla scienza come un tempo lui aveva desiderato. Lo avremmo cremato. Forse avremmo potuto salvare il cervello, farlo studiare. Era un oimo cervello. Il cuore, invece? Era sempre stato duro, mio padre, e pur ammirandolo per questo, lo odiavo anche, eppure lo amavo – ma cazzo, non aveva cuore! O forse ce l’aveva, ma non riusciva a mostrarlo. Papà era stato un uomo freddo e duro, taccagno, egoista con me e la mamma, e lo sapeva. Era sempre stato inflessibile con me, il conceo era più o meno: “O mangi questa minestra, o salti la finestra!” Era il lato ribelle del suo caraere, persino alla fine. Eppure lo ammiravo per questa libertà di spirito. Uno strano codice. Louis Stone, 1910-1985. Per me era la fine di un’epoca. I finali non sono come quelli dei film. Non cambia niente, non c’è perdono o riscao, solo la fine. Nonostante papà fosse ancora vivo, presi l’aereo per Los Angeles insieme a Elizabeth e Sean, lo stesso giorno in cui Gorbačëv diventava segretario generale del PCUS. Stavano per accadere cambiamenti epocali, enormi e positivi. Alcuni giorni dopo, alle sei del maino squillò il telefono. Fu Elizabeth, da mainiera qual era, a rispondere, con prontezza. Mi porse la cornea e disse: “È morto tuo padre… alle 7.45 ora di New York. Il cuore ha smesso di baere.” Sentii la voce di mamma all’altro capo del telefono, aonita. Non ricordo le parole che ci scambiammo. Stanco, e grato che per papà fosse finita, tornai a dormire fino alle nove. Ne avevo bisogno.
Nonostante i problemi di budget, Salvador stava gradualmente ingranando. La Creative Artists (CAA) era un’agenzia di speacolo relativamente nuova, fondata nel 1976, e due dei suoi giovani agenti – Paula Wagner, energica, dura, fascinosa, e Mike Menschel, pelato, gentile e schivo – volevano portarmi via dalla ICM. Mi proposero alcuni aori per Salvador mentre alla ICM dormivano. Ormai avevo capito che non avrei potuto realizzare il film con Boyle nei panni del protagonista; sarebbe stato un suicidio. Galvanizzato, mi incontrai con Martin Sheen, il pacato, quasi ritroso protagonista di Apocalypse Now. La nostra sceneggiatura gli piaceva e acceò il ruolo. Poi andai a cena con James Woods per la parte secondaria di Doctor Rock. Il ruolo non gli si confaceva. Jimmy era una personalità dominante, aveva fascino e parlantina, tanto da ammaliare Elizabeth con le sue aenzioni al tavolo del ristorante. Era anche intensamente reale e aveva fama di non annacquare in alcun modo le sue interpretazioni (Il campo di cipolle, 1979; C’era una volta in America, 1984). La biografia che Jim Riordan mi ha dedicato nel 1995 contiene una sua citazione: Ritengo Martin un grande aore, senza dubbio, ma diamine, questo era un ruolo per me, ero pronto a tagliargli le gambe in ogni modo, a fare di tuo per averlo. Allora dico a Oliver: “Martin Sheen, eh? Oh, è un oimo, oimo aore. Molto religioso, vero?” E lui mi fa: “Be’, sì, in effei…” E io: “Caspita, strano che non abbia avuto da ridire sul linguaggio. È parecchio forte.” E Oliver conferma: “Sì, c’erano un paio di cosee che gli davano fastidio.” A quel punto colgo la palla al balzo: “Oh… capisco. Sai, pensavo che questo film volessi renderlo reale… senza freno a mano tirato. Se invece vuoi fare l’ennesimo film hollywoodiano tuo fasullo…”
Woods aveva toccato un nervo scoperto. In effei avevo già i miei dubbi sulla scelta di Sheen per il ruolo di Richard Boyle, che doveva essere un personaggio abrasivo, volgare, sempre sul filo dell’incazzatura, caraeristiche che sinceramente non potevano ritrovarsi in Sheen. Boyle era il buffone che scendeva all’inferno a caccia di soldi facili, ma di cui alla fine, in circostanze critiche, emergeva l’animo più nobile, quello di un essere umano che è anche un eroe. Almeno, così lo vedevo io.
Sheen, caolico devoto, stava tra l’altro prendendo tempo. Prima mi disse che doveva discutere della cosa con la moglie, poi che avrebbe voluto al suo fianco Alan Arkin, non solo nei panni di Doctor Rock ma anche come suo “guru spirituale” per il film. Mi confidò la preoccupazione di “scivolare di nuovo nelle tenebre”, riferendosi ai demoni che aveva dovuto affrontare durante le riprese di Apocalypse Now. Per lui fu dunque un sollievo quando, con delicatezza, gli suggerii di farsi da parte, una decisione indolore per entrambi. Gary Busey venne a pranzo a casa nostra per discutere del ruolo di Rock. Gary era un’affascinante montagna di energia, ma continuava ad andare in bagno a distanza di pochi minuti – all’epoca un segno inequivocabile. Mike Menschel mi consigliò di guardare il suo cliente Jim Belushi, fratello minore del povero John, in uno sketch del Saturday Night Live: la sua esilarante parodia del rap di un bianco mi colpì parecchio. Jim aveva lo stesso umorismo goffamente dinoccolato di suo fratello. Certo, non corrispondeva all’immagine che avevo io di Doctor Rock, essendo Jim più robusto e animalesco, ma avrebbe contrastato alla grande il mingherlino e indisponente Woods, che adesso mi pareva perfeo per il ruolo di Boyle. L’idea mi piaceva. E piaceva anche a Daly. Menschel portò nel cast l’adorabile Cindy Gibb, perfea per interpretare una yuppie di Westport, Connecticut, che lavora come cooperante laica in Salvador dove viene trucidata da uno squadrone della morte; la sua dolcezza avrebbe reso l’episodio ancora più scioccante. Per il ruolo ispirato al mite fotografo di guerra John Hoagland, anche lui ucciso in quella guerra civile, Woods propose il suo amico John Savage, che aveva recitato nel Cacciatore. Salvador cominciava a prendere uno slancio autonomo, grazie al numero crescente di soggei interessati al suo successo. Non ero più solo a portarne il peso sulle spalle. Alla fine avevamo deciso di girarlo in Messico, approfiando delle struure professionali che Gerald ci avrebbe messo a disposizione. Il budget continuava a cambiare – due milioni e
due, due milioni e cinque, poi quasi tre – e più di una volta fui messo soo torchio da Richard Soames, il duro, impassibile presidente della Film Finances, una delle tre principali bond companies; all’epoca era impossibile realizzare un film indipendente se non riuscivi a oenere un completion bond che coprisse un eventuale sforamento del budget garantendo il completamento del film. Il ricorso alla bond company aveva una serie di ripercussioni e nel nostro caso, alla fine, Daly avrebbe aggirato le severe contestazioni della Film Finances immeendo altro denaro nel budget ed evitando così di meere altri in mezzo. Soames, che portava una benda nera sull’occhio e mi sembrava l’incarnazione vivente del Tristo Mietitore, non aveva alcun senso dell’umorismo ed era il preside nel cui ufficio non vorresti mai essere convocato. Il suo verdeo iniziale fu cristallino. “O tagli la sceneggiatura o il film non si fa.” Aggiunse poi che il copione da centoventi pagine che gli avevo sooposto conteneva trucchi tipografici per farlo sembrare più corto: lui di pagine ne aveva contate centoquarantuno. Accidenti. E questo era niente rispeo a ciò che stava per arrivare. Green, ovviamente, mi aveva deo di mentire. “Sei intelligente. Fallo contento e vedrai che oerremo i soldi dalla banca.” Be’, io mentii a più non posso e continuai a sfrondare la sceneggiatura, cosa che detestavo fare in base al principio per cui preferivo sempre girare qualcosa in più e vedere poi se funzionava, piuosto che tagliare a priori. Una ventina di pagine erano già sparite quando a forza di panzane io e Boyle oenemmo la polizza E&O, che nel gergo cinematografico sta per “errori e omissioni”; in sostanza la polizza dice questo: “In questo film niente ha a che fare con la realtà e non possiamo quindi essere denunciati da persone reali.” Ma chi poteva esserne certo? Boyle era completamente inaffidabile e io non avevo idea di quanti cadaveri fossero sepolti nel nostro testo. “Menti e basta,” dissi a Boyle riecheggiando quello che mi aveva raccomandato Green. Per Richard mentire era l’ultimo dei problemi.
ando Boyle e Woods finalmente si incontrarono, a casa mia, fu un disastro, due maschi alfa che continuavano a cozzare. Il primo problema, naturalmente, era il fao che Jimmy stesse prendendo il posto di Richard nel film. Oltre a questo, Jimmy all’epoca era una vera calamita sessuale; nelle situazioni conviviali le donne impazzivano per la sua arguzia e per i suoi aeggiamenti direi e virili. E quando Jimmy lanciò qualche occhiata alla nostra tata svedese, ammiccamenti ai quali lei rispose in maniera evidente (vi sorprendete, forse?), Boyle, che ci provava ancora nonostante la presenza della fidanzata, fu preso da un aacco di gelosia irlandese. A complicare ulteriormente le cose, Jimmy riteneva che il vero Boyle fosse troppo “sciaone” per fargli da modello per il proprio personaggio. “Oliver, questo tizio risulterà antipatico. Deve possedere una certa nobiltà, in lui dev’esserci qualcosa di buono. Va in Salvador per fare un po’ di soldi facili, d’accordo, ma strada facendo deve scoprire una verità più importante dei soldi.” Cominciavo a preoccuparmi che Jimmy, secondo cui Martin Sheen avrebbe reso Salvador “un film hollywoodiano”, potesse normalizzare il personaggio di Boyle. E Boyle era pienamente d’accordo con me. Dovevamo continuare a spronare Woods, a incalzarlo. Tra parentesi, alcune seimane più tardi, a riprese già iniziate, Jimmy mi disse che gli era piaciuto molto sbaersi la nostra tata sul divano mentre noi eravamo fuori cià. Risparmiai a Elizabeth quell’informazione. ando invece la riferii a Richard (per ripicca durante una delle nostre discussioni), lui rimase allibito dal fao che la ragazza, per usare un’espressione shakespeariana, avesse potuto abbassarsi a “grufolare in questo immondezzaio”. Oppure, per usare le parole di Richard: “Come cazzo ha potuto scoparsi quello là⁉” In seguito, durante un’altra discussione, stavolta con Woods, pur non avendo la certezza che fosse vero gli dissi che anche Boyle si era fao la tata, prima di lui. Credo che punsi Jimmy nel vivo, proprio come volevo. Mio Dio, questo film mi avrebbe mostrato così tanti lati della natura umana che da
allora non sarei più stato la persona perbene che avevo promesso di essere agli dèi del cinema. Salvador aveva novantatré ruoli parlanti, tra inglese e spagnolo, e migliaia di comparse (non si usava ancora il digitale in postproduzione); avevamo una carica di cavalleria, carri armati, aeroplani, elicoeri e oo seimane per girare tuo quanto in due Paesi diversi. Gerald Green gestiva la produzione messicana nel modo più strano e clandestino, sempre con la calcolatrice in mano nel tentativo di trasformare 7 in 9. Poi c’erano Soames e la Film Finances che mi tenevano il fiato sul collo, visitando il set, controllando le mie mosse, contando quanti figuranti e quanti ciak impiegavamo, cercando di valutare le mie condizioni mentali eccetera. Era come vivere soo sorveglianza. La terza fonte di stress era Daly a Los Angeles con i suoi finanziamenti internazionali, che arrivavano dal Crédit Lyonnais, banca francese con un fondo cinematografico autonomo in Olanda, gestito dal suo amico Frans Afman, grande esperto di finanza ma anche un po’ briccone. Afman sostenne per anni diverse società di produzione indipendenti, finché non fu raggirato da un avido uomo d’affari italiano e si fece alcuni anni di galera. Dopo la scarcerazione, tornò sulla rea via, mentre l’avventuriero italiano finì per mandare in fallimento la MGM. Col tempo ho sviluppato una grande simpatia per Frans, grazie al quale ho potuto realizzare prima Platoon e poi e Doors. Le varie contraazioni e maneggi tra la cordata messicana di Green, la bond company di Soames e i finanziatori internazionali legati a Daly erano ai miei occhi un ginepraio inestricabile, che comportava oltretuo un grande spreco di tempo ed energie; a posteriori, mi viene il dubbio che fosse tua una pantomima per tenermi in riga e indurmi a ridurre la sceneggiatura alle solite centoquindici-centoventi pagine. Da regista, mi crogiolavo al pensiero di essere colui che teneva il film in vita tra tui quei soggei apparentemente in guerra, ma in realtà ero sempre l’ultimo a sapere le cose, compresa l’entità del budget effeivo che, come un
termometro, andava su e giù ogni seimana, terrorizzandomi con la prospeiva della cancellazione e della morte. “Taglia tre giorni. Siamo fuori di duecentoventimila dollari”… poi “fuori di oocentomila”… poi “fuori di un milione e due. Bisogna tagliare!” este erano le affermazioni di cui ebbi per mesi il terrore quotidiano; Salvador mi fece invecchiare precocemente, poco ma sicuro. Un po’ di capelli li stavo già perdendo ma l’avanzata della calvizie senz’altro accelerò – proprio mentre stavo per oenere ciò che volevo da anni. Il sacrificio, mi resi conto, sarebbe stato pesante. Avevamo pianificato di girare prima in Messico dove, nonostante il rigido inquadramento sindacale, i costi di aori e maestranze erano minori rispeo agli Stati Uniti; infine avremmo fao le location americane a San Francisco e Las Vegas, alle solite tariffe. Avevamo scovato decine di location straordinarie intorno ad Acapulco, nello stato di Guerrero, e nei pressi di Cuernavaca, in quello di Morelos, oltre che a Cià del Messico con la sua maestosa caedrale (dove con l’impiego di un migliaio di comparse avremmo ricreato l’assassinio dell’arcivescovo Romero). Grazie allo squisito aiuto della direrice della film commission del Guerrero, Katy Jurado, l’esotica stella del cinema messicano anni Cinquanta, protagonista anche di western americani come Mezzogiorno di fuoco e I due volti della vendea, scoprimmo vere e proprie miniere d’oro: antiche cià come Tepoztlán e strade lastricate che sembravano uscite dalle avventure del Don Juan di Carlos Castañeda. Era il Messico selvaggio dell’entroterra. Un giorno ci saremmo imbauti in una mucca appena investita da un’auto, circondata da uomini muniti di machete che ne stavano già smembrando la carcassa per procurarsi carne da mangiare. L’indomani, ripassando nello stesso luogo, vi avremmo trovato solo uno scheletro con la testa intaa e cani selvatici che le leccavano le interiora ridoe a poltiglia. Dappertuo lungo le strade giacevano cani morti. Nascosto nella giungla alle pendici di una montagna sperduta, con l’euforia di esploratori trovammo il nostro accampamento ribelle nel villaggio di Santo Domingo. Come
una visione dello Shangri-La in Orizzonte perduto, il villaggio era rigorosamente off limits per i Federales e persino per la polizia locale; c’erano armi dappertuo e l’accesso era vietato a chiunque. Il popolo messicano è araversato da una profonda vena ribelle, risalente ai tempi della rivoluzione. E proprio per questa ragione, dovemmo abbandonare l’idea di usarlo come set perché il villaggio ufficialmente non esisteva nemmeno e le rigide norme della burocrazia ci avrebbero impedito di oenere il visto di esportazione per il nostro negativo. Il programma prevedeva due seimane di riprese ad Acapulco, quaro a Cuernavaca e una a Cià del Messico – un totale di see – e poi una seimana conclusiva negli Stati Uniti. Gerald, da catastrofista qual era, pronosticava che ce ne sarebbe servita una in più in Messico, che però non avevamo nel budget. E aveva ragione. Era infai già alle prese con molteplici problemi; per il gran finale, la baaglia di Santa Ana, avrei voluto duecento soldati mentre lui diceva che, considerato il costo per realizzare le uniformi, seantacinque era il massimo che potevamo permeerci. L’esercito messicano, inoltre, stava alzando il prezzo per il supporto logistico, da sessantacinque a centoquindici dollari al giorno pro capite, e non ci avrebbero più noleggiato gli aerei e gli elicoeri a tariffa scontata. (In seguito scoprimmo che l’amministrazione del presidente salvadoregno Duarte aveva chiesto al governo messicano di non collaborare con il film, che a dea loro dava un’immagine negativa del Paese. Evidentemente qualcuno dall’interno ci aveva traditi.) Gerald mi chiese di accompagnarlo in un sopralluogo a Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana e possibile alternativa economica rispeo al Messico. Mi bastò una ricognizione veloce ma completa per bocciare l’idea. Non c’era niente di adao. L’invasione americana dell’isola nel 1965, durante la presidenza Johnson, aveva minato qualsiasi possibilità concreta di riforme e vera democrazia, trasformando il Paese in una cloaca di ricchissimi e poverissimi. Nel fraempo, a Los Angeles, la Orion Pictures
rifiutò definitivamente la sceneggiatura di Salvador in quanto “eccessiva”. Lo stesso avevano fao tui i principali distributori, non sapevamo se più per la violenza o per il contenuto politico del film. Ad accentuare le mie paranoie, anche le vendite estere affidate ad Arnold Kopelson si stavano rivelando un buco nell’acqua: “troppa violenza, troppo sesso.” Kopelson non poteva più garantire due milioni e mezzo di dollari in vendite di dirii esteri. Nonostante Daly tenesse duro, ci sentivamo completamente in balia della Film Finances che divenne a tui gli effei il nostro supervisore. Fui convocato per un’altra straziante riunione di tre ore con il lugubre Richard Soames, al quale promisi di fare ulteriori tagli e sooporgli altri storyboard per la sequenza della baaglia finale, il cui costo lo preoccupava. Promisi anche uno stile di regia “documentaristico”: all’epoca, significava un approccio più sbrigativo, con macchina da presa a spalla, che precludeva la possibilità di fare molti ciak di una stessa scena, con buona pace della raffinatezza. Green mi sostenne e li rabbonì con garanzie inverosimili su tuo quello che l’esercito messicano avrebbe fao per noi a prezzo di favore. Eravamo sul filo del rasoio. La situazione si fece ancora più confusa. Mike Medavoy, a quanto pare, disse a Daly che la Orion era disposta ad “affiancarlo” su Platoon, prima che il ciclo dei film sul Vietnam si esaurisse, ma a condizione che abbandonassi Salvador. Era un pao col diavolo se mai ce n’era stato uno, oltretuo senza alcuna garanzia che la Orion lo avrebbe rispeato. Andassero a quel paese, pensai. Poi chiamò la casa di produzione del magnate della musica David Geffen, dicendo che Salvador era la migliore sceneggiatura che “David” avesse leo “da anni” – espressione che nel tempo avrei scoperto essere la tipica, fasulla frase di esordio di chi non ha vergogna o memoria; in seguito Daly mi confidò che Geffen voleva sbarazzarsi di me e far dirigere il film a CostaGavras. Che bel mondo. Ma Daly era fao di pasta più dura – non a caso era stato, come me, un marinaio della marina mercantile – e in mezzo a
tui questi doppi giochi non si piegò alla pressione e rimase al mio fianco. Secondo me era davvero convinto che stessimo realizzando un potenziale successo a sorpresa come Urla del silenzio (1985), film candidato all’Oscar sul genocidio cambogiano, con la differenza che il nostro approccio era molto più groesco. Ciononostante, continuava a chiedermi di “rivalutare la violenza e la lunghezza”. La mia obiezione restava: “Realtà… realtà… realtà.” “Cambia almeno il finale,” ribaeva Daly; poteva essere la scelta decisiva. Dopo aver affrontato tue quelle traversie, il fao che Boyle tornasse negli Stati Uniti solo per scoprire che la sua María era stata deportata di nuovo in Salvador era “deprimente”. Su questo Elizabeth era totalmente d’accordo. Dissi che ci avrei rifleuto, immaginando che nella peggiore delle ipotesi avremmo potuto girare due finali diversi. Intanto ero impegnato nella composizione della squadra. A New York Marion Billings, quotatissima addea stampa di Scorsese, di Robert Benton e di altri registi di ambito newyorkese, apprezzò molto la sceneggiatura e acceò di seguire il film insieme ad Andrea Jaffe, sua nuova socia che si occupava della costa ovest. Fu una grande spinta per il mio morale sapere che importanti addei ai lavori vedevano qualcosa in me e nel film. Tramite Marion, acquistai una certa credibilità presso una stampa che aveva sempre storto il naso davanti alla violenza delle mie sceneggiature. Dopo il no da parte di giovani direori della fotografia come Jim Glennon, Barry Sonnenfeld e Juan Ruiz Anchía, mi rivolsi a un cameraman documentaristico, giovane, bello e dai capelli argento. Robert Richardson, di Cape Cod, era già stato in Salvador per filmare i documentari della serie Frontline della PBS e conosceva quindi il terreno. Mi piacque la sua fiducia, e l’idea di scoprire quel mondo insieme; sarebbe stato come avere con me un fratello minore. Saremmo cresciuti insieme nella lealtà o andati a fondo come un’unica entità. Lo scenografo era lo stesso tipo di persona: Bruno Rubeo, art director italiano che viveva a Cià del Messico. Green me lo presentò come un vero talento nel lavorare con budget
risicati. Al pari di Richardson, non aveva mai lavorato in grandi produzioni ma mi risultò simpatico a pelle durante le ricerche delle location. Mi legai molto a entrambi e quando le riprese entrarono nella fase più critica capii di aver trovato due veri alleati: avremmo percorso quella strada tui e tre insieme – e a lungo, con grande sorpresa reciproca. L’industria cinematografica messicana era un tesoro di volti straordinari – i migliori caivi che potessi trovare per i miei squadroni della morte, tolti quelli dei film di Huston e di Peckinpah. Erano ormai espertissimi nell’airare l’aenzione su di sé, ma in questo caso non era un grosso problema, perché stavamo realizzando un film esagerato su un personaggio esagerato come Boyle, e solo di rado fui costreo a moderare la loro naturale gigioneria. Decine di oimi professionisti accearono ruoli secondari, anche a causa della crisi che affliggeva da anni il cinema messicano. La nostra María sarebbe stata interpretata da Elpidia Carrillo, una ventiquarenne acqua e sapone del Michoacán; cresciuta nella povertà, Elpidia covava dentro di sé un risentimento di classe per il traamento che le veniva riservato a causa della sua etnia. Elia Kazan sosteneva che un regista non dovesse porsi limiti nell’esplorare i propri rapporti personali con le arici, e io avevo una gran voglia di approfondire la sua conoscenza. Elpidia era più che disposta, a giudicare dai segnali che mi lanciava quando eravamo da soli, a volte salutandomi con quegli abbracci prolungati che non vorresti mai interrompere. Mi convinsi però che l’autocontrollo, in questo caso, avrebbe reso migliore il film. E comunque Boyle, che ufficialmente era il nostro consulente capo, passava spesso a trovarla, vigile come un cane con il proprio osso. A me stava bene, perché Elpidia contribuiva a distrarlo e a tenerlo lontano dai guai. Un giorno io e Richard avemmo una lite tremenda. Tua la sua frustrazione esplose quando si presentò con diversi tagli in faccia dovuti, a suo dire, a “una caduta”. La mia ramanzina lo punse nell’orgoglio. Mi accusò di non avergli pagato il dovuto né come coautore né tanto meno come consulente. Woods prendeva
centocinquantamila dollari e il budget del film aveva raggiunto una cifra inimmaginabile all’inizio. Boyle in effei aveva ragione, ma soldi veri non ce n’erano. Woods non era stato pagato, io non ero stato pagato. Lui almeno aveva ricevuto i rimborsi spese. Avevamo bisogno di ogni centesimo finché la produzione non fosse iniziata; a quel punto, sosteneva Gerald, Richard avrebbe oenuto il compenso pauito. Stizzito, Boyle sparì in Salvador per una seimana senza avvertirmi. Al suo ritorno ci rappacificammo e lui continuò ad aiutarmi come meglio poteva. Poi, però, tuo sembrò andare nuovamente in fumo quando John Daly, stranamente nervoso, telefonò per dirmi che Woods rinunciava al film. Fu il primo di molti analoghi shock che si sarebbero susseguiti. Dopo tua la fatica, la defezione di Jimmy sembrava inverosimile e invece era proprio così. All’inizio delle riprese mancavano ancora alcune seimane. Tornai precipitosamente a Los Angeles per convincerlo a rientrare nel cast. Jimmy aveva appena smesso di fumare, cosa che secondo il suo agente ne peggiorava il caraere. Capita di frequente che gli aori si innervosiscano prima di entrare appieno nella parte, e adesso ci trovavamo proprio in quella fase delicata. Nel corso della mia carriera avrei assistito a molti casi del genere. Lo rabbonii nel corso di un pranzo diplomatico nel quale ebbi l’impressione di camminare su tazze di porcellana, implorando Jimmy che, da parte sua, amava vedermi così supplichevole; voleva, mi disse, soltanto essere “apprezzato” di più. Durante il pranzo scoprii che era germofobico e che il pensiero del Messico lo terrorizzava. Ecco perché si era rifiutato di accompagnare me e Boyle in un precedente sopralluogo in Salvador! Gli spiegai che, al confronto, il Messico era una passeggiata di salute ma l’approccio era sbagliato. Jimmy, tra l’altro, non sentiva nemmeno il bisogno di chissà quante prove, anzi le riteneva superflue, perché lui era “un professionista, non un segaiolo da metodo Strasberg che deve sentire le proprie emozioni”. La cosa mi mise in ulteriore apprensione: come avrei dovuto gestirlo?
Tornai in Messico per il conto alla rovescia finale senza il mio aore protagonista, che aveva acceato di raggiungerci all’ultimo secondo utile. Elizabeth fu una manna dal cielo che mi risollevò il morale, allora ai minimi storici, quando arrivò per l’inizio delle riprese insieme a Sean e alla tata. In un precedente viaggio in Messico, Elizabeth si era ammalata di una dissenteria amebica che l’aveva afflia per seimane, tanto che si era ristabilita solo a Los Angeles (questo però lo tenemmo nascosto a Jimmy il più possibile). Elizabeth notò quasi subito come le donne messicane gestissero i figli piccoli quando andavano in giro, trasportandoli sulla schiena in una sorta di zaineo formato da uno scialle deo rebozo, e in breve tempo trovammo una tranquilla donna del posto in grado di darci una mano con Sean, che all’epoca aveva sei mesi ed era parecchio irrequieto. La nostra indimenticabile tata svedese mi sembrò alquanto sollevata di potersene tornare nella civile Los Angeles, con le nostre referenze, e proseguire le sue avventure americane. Non ne avremmo avuto più notizie. Da qualche tempo, sia a Los Angeles sia in Messico, mi svegliavo la maina con una nausea dovuta al terrore. Da questo punto di vista la preproduzione è di gran lunga la fase di lavorazione peggiore, quando non hai ancora girato praticamente nulla e tuo è nel futuro. Era dunque il momento di assumere la prospeiva del soldato di fanteria, meere la testa giù e badare solo ai dieci centimetri davanti alla mia faccia. Basta con i lambiccamenti! Lascia perdere il quadro generale e mei un piede davanti all’altro, prendi le cose come vengono. All’improvviso mio padre mi mancava più che mai. La sua intelligenza, il suo modo di parlare; non la sua rabbia o la sua tirchieria, ma il sussurro del suo intelleo e del suo umorismo. Mi sentivo come se volessi ancora fare bella figura ai suoi occhi, far funzionare in qualche modo quella macchina gigantesca e intricata. Mamma era in difficoltà economiche, aveva tasse da versare e i soldi della polizza non le erano ancora arrivati. Io sapevo che non avrei avuto
introiti prima di sei mesi e le diedi quello che potevo, mentre lei, con astuzie tue sue, riallacciò i contai con un vecchio fidanzato, un uomo d’affari di una certa età che la aiutò a superare il momento di magra. Pur essendo sposato e oltre la seantina, mamma diceva che era ancora gagliardo. Tuo molto francese. E poi, naturalmente, scoppiò un altro disastro. A due seimane dall’inizio delle riprese ad Acapulco, il peso messicano subì una inaesa svalutazione nei confronti del dollaro. Gerald era distruo, tui i suoi legami con le banche locali buati nel cesso, inutili. In un colpo solo se n’era andato il 20 per cento del nostro budget, proprio come la polvere d’oro dispersa dal vento nel Tesoro della Sierra Madre. Daly era furibondo con Green per aver trasferito prima del tempo tui i fondi in una banca messicana. Avevamo bisogno di risorse di emergenza e Daly era la nostra unica speranza. In seguito arrivai a sospeare, su allusione dello stesso Daly, che Gerald avesse qualche accordo soobanco con la moglie e la banca, ossia che avesse usato la riserva di contanti originaria per finanziare in segreto un secondo e meno costoso film messicano. Di certo era una mossa da Gerald, ma non ci fu modo di dimostrarla e in sostanza non si capì mai davvero come fossero andate le cose. John venne a trovarci in Messico e, ogni volta che gli chiedevo di Gerald, un altro di quei suoi sorrisi da pirata gli araversava il viso. “Sta’ a vedere che una volta tanto quel furfante è rimasto viima dei propri intrallazzi,” si limitava a commentare. Alla fine John riuscì a reperire del denaro in Europa, probabilmente dal fondo olandese, e la sua società aggiunse alla cassa – come impegno, non in contanti – quasi un altro milione di dollari con cui meere una pezza al danno causato dalla svalutazione. Intanto mi ero preso un febbrone, temperatura a trentanove e in salita, ma non potevo permeermi di stare a leo, se non per cercare di dormire. Di me si occupava un medico messicano che ne approfiò anche per soopormi all’esame di routine necessario per l’assicurazione. Dopo
avermi misurato la pressione, mi dichiarò non assicurabile perché i valori, 160/120, erano troppo alti. La mia solita fortuna! Non avevo mai preventivato un infarto, chi ci pensa mai? Figurarsi, a trentanove anni? Ultimamente mangiavo troppo, ero ingrassato per il nervosismo e per mancanza di esercizio fisico. Pensai a Martin Sheen che nelle Filippine aveva avuto un infarto mentre girava Apocalypse Now. Se fosse successo a me, magari non sarei morto ma mi avrebbe di certo rallentato o invalidato. Ero esausto. John ebbe il buon senso e la gentilezza di telefonare per rassicurarmi e dirmi di non preoccuparmi. “Se doveste finire i soldi,” mi promise, “ci saremo noi”. Fu un gesto di grande bontà da parte sua. John si era trovato tante volte povero in canna e sapeva cosa si prova. Gli ho sempre voluto bene per questo. Credo che la morale del mio rapporto con quest’uomo è che un po’ di gentilezza e di empatia oengono molto di più di una sfuriata. Senza fare troppo rumore, Gerald sganciò una bustarella al medico che mi aveva misurato la pressione – che sorpresa, eh? – e il problema, come sarebbe successo per molti altri, sparì. Pian piano ripresi le forze. Mi torna in mente un famoso aneddoto che ho sempre amato su Franklin Delano Roosevelt. Nel suo penultimo giorno di vita, Roosevelt spedì un cablogramma al preoccupato Winston Churchill a proposito del loro alleato di guerra, la Russia: “Minimizzerei il più possibile il problema dell’Unione Sovietica, perché problemi del genere, in una forma o nell’altra, si presentano praticamente tui i giorni, e la maggior parte di essi si risolvono da soli.” Riflessione particolarmente adaa a John Daly, per come affrontava la vita con fiducia. John creava intorno a sé un’atmosfera che permeeva a lui e agli altri di avere successo; e infai, nel corso di molti anni, ho scoperto l’importanza di preoccuparmi meno rispeo a quanto facessi in passato, evitando così di crearmi problemi che in realtà non si presentavano nemmeno. Vorrei che i leader politici e i media americani, sempre a caccia di problemi, capissero la saggezza di tale strategia.
Finalmente arrivò il giorno fatidico, quello delle prove a cast completo; ci aveva raggiunti persino Woods. Andò tuo bene, a parte la delusione di Belushi quando conobbe il vero Doctor Rock, che avevo invitato da San Francisco per amore di autenticità. Dopo una caotica cena in un rumoroso, orribile ristorante turistico di Acapulco, con Doctor Rock seduto dall’altra parte del tavolo rispeo a Boyle e Woods, Belushi venne da me furente e sboò: “Non vorrai mica farmi interpretare quello stronzo svalvolato, vero?” “No, Jim,” risposi. “Allora non voglio vederlo sul set!” “D’accordo, Jim.” Doctor Rock, invece, trovava delizioso Belushi e percepiva una grande affinità nei suoi confronti. Rassicurato Belushi, rispedii elegantemente Doctor Rock a San Francisco, dopo avergli sganciato un po’ di soldi. Finalmente ero arrivato all’inizio. Giovedì 24 giugno 1985 ci fu il primo ciak della prima scena del film. Ma non poteva mancare l’ennesimo disguido: sulla tavolea del ciak, come titolo c’era scrio “OUTPOST” [Avamposto]. “Nessun problema,” mi rassicurò Gerald. “Avrei dovuto dirtelo ma…” Si strinse nelle spalle, a indicare che c’erano cento altre cose di cui preoccuparsi. In seguito mi spiegò che faceva “semplicemente parte del nostro accordo fiscale con la banca olandese”. Ah, okay. Ormai le “bugie bianche” erano all’ordine del giorno, a pao che restassero “bianche”. In seguito però scoprii che Gerald aveva lavorato a un film d’azione con protagonista Arnold Schwarzenegger. Il film aveva oenuto un finanziamento parziale, ma quando Arnold si era tirato indietro, mandando a monte la produzione, Gerald, senz’altro in maniera illegale, aveva trasferito l’impegno finanziario su di noi. Da qui il nostro titolo. Restammo quindi con Outpost in tui i documenti e sulle riviste specializzate finché, a distanza di qualche mese, in fase di montaggio, il titolo del film non tornò Salvador. Non fare domande, Oliver, vai avanti e basta.
Anni dopo, quando in un’intervista mi fu chiesto dei miei ricordi del film, risposi, con una chiarezza che all’epoca non avevo certo avuto: “Lo consideravo come la mia unica chance, l’unica che avrei mai avuto […] e allora intendevo prendere quel film, come un sasso, e scagliarlo il più lontano possibile.” Con questo spirito da Davide contro Golia, si partì.
8 Salvador, all’inferno e ritorno
Per tuo il Giorno Uno, la mia prima esperienza di regia da cinque anni a quella parte, corsi come una lepre braccata dai cani, girando trentatré campi e sedici controcampi per una scena ambientata in un ristorante sul mare, che introduceva diversi personaggi principali e alcuni brui ceffi degli squadroni della morte. Dodici ore in cui praticamente non mi fermai un aimo. Bob Richardson e la sua troupe erano scioccati, costrei a volare di qua e di là; nessuno lavorava così veloce. Avevo qualcosa da dimostrare, ma per farlo affreai alcune riprese che non funzionarono e che in seguito dovei tagliare. Terremo questo ritmo tui i giorni? si chiedeva la troupe messicana. Non erano abituati allo stile “americano”. Non lo era nessuno. La boa di realtà arrivò nella location del giorno 2, una ciadina sperduta dove Woods fa un’improvvisata a Elpidia Carrillo (María) che, secondo un rituale d’altri tempi, sta facendo il bucato al fiume insieme ad altre donne. Poco distante, avvolta in una coperta, c’è la figliolea appena nata, lasciata incustodita. Dopo un affeuoso dialogo, finalmente riuniti, i due si allontanano. “Stop!” gridai soddisfao. Il mite segretario di edizione messicano corse da me tuo trafelato, non sapendo bene cosa volesse dalla scena questo regista gringo: “Mi scusi, señor Stone, ma Elpidia non ha dimenticato la bambina?” Oh merda. Aveva ragione. La piccola era rimasta lì. Che razza di madre… Ovviamente nella coperta c’era un bamboloo; era forse per questo che Elpidia se n’era dimenticata? Ridemmo, ma l’episodio la dice lunga su Elpidia, che a volte si assentava completamente nella sua recitazione, una tendenza che mi sarei trovato a dover
contrastare per tua la durata delle riprese. Era abituata agli usi del cinema messicano, cioè a sentirsi dire per filo e per segno quello che avrebbe dovuto fare in un determinato ciak, senza azzardarsi a prendere iniziative personali. Nonostante filmassimo in media due, tre scene al giorno in diverse location a ritmi frenetici, stavamo già accumulando ritardo. Un giorno si scatenò un’alluvione che allagò completamente le strade sterrate dove passavano le nostre auto e i nostri furgoni. I problemi di comunicazione erano costanti. Il mio secondo aiuto regista, Ramón Menéndez (che ben presto divenne il primo quando licenziammo quello originario), era bilingue e sveglio; aveva studiato all’American Film Institute ma era nativo di Cuba e, quando cominciò a dare ordini ai tecnici messicani per accelerare i tempi, questi si ribellarono – non disposti a farsi comandare a bacchea da un cubano. Menéndez era un puntiglioso idealista che più di una volta, in preproduzione, mi aveva irritato dicendo che si sentiva regista e che un giorno lo sarebbe diventato, ma il suo cervello era troppo prezioso per sbarazzarmene. Pochi anni dopo, in effei, avrebbe direo l’oimo La forza della volontà (1988) e per le riprese di Salvador fu impareggiabile. Il terzo giorno, mentre finivamo una scena di Elpidia nella baracca sulla spiaggia, lo scenografo Bruno Rubeo, come da prassi, ci precedee nell’ultima location di giornata, che si trovava a qualche chilometro di distanza e avrebbe ospitato una scena in nourna. Avevamo deciso di fare riprese diurne e nourne nello stesso giorno, poiché per mia esperienza nei turni esclusivamente in nourna, ossia dalle sei di sera alle sei del maino, dopo la mezzanoe il lavoro procede a rilento e con costi elevati. Cominciare la giornata (se è possibile) alle tredici e chiuderla dodici ore dopo, all’una di noe, permee un migliore adaamento del bioritmo, e dopo due o tre giorni così organizzati è più facile passare alle riprese solo nourne, che ti costringono a dormire nella prima parte della maina. Ma torniamo a Bruno, che aveva una certa tendenza alla distrazione. Era partito da solo ma aveva dimenticato di dirci
dove fosse di preciso questa location nourna; in quelle zone impervie i telefoni satellitari non funzionavano bene e ci volle diverso tempo per rintracciarlo e fargli la ramanzina. Ma ormai era tardi e la troupe si rifiutò di trasferirsi nella nuova location perché troppo lontana. Non fu uno sciopero ma un evidente avvertimento rivolto ai gringos: “Ehi, qui siamo in Messico. Le cose si fanno a modo nostro.” Avvisaglie di tempesta di cui presi nota. Un’altra sera, la corpulenta signora che la censura governativa ci aveva assegnato come revisore rimase fortemente turbata dalla finta testa mozzata di bambino che gli squadroni della morte esponevano sul municipio in segno di avvertimento. La donna, già infastidita dalla quantità di immondizia che avevamo disseminato per strada, riteneva “eccessivo” il modo in cui avevamo sistemato e ripreso quella testa. Obieai che stavamo descrivendo la realtà del Salvador, non del Messico, ma lei vedeva in quella rappresentazione un problema più ampio, un’offesa all’intera America Latina. Woods non contribuì a distendere i rapporti quando, nel bel mezzo di una scena di sesso nella baracca di María, provocò gratuitamente la funzionaria: “Perché deve stare sul set anche adesso?”, rincarando la dose con ulteriori frecciatine: “Che cosa pensa del suo lavoro? La rende felice?” Parole che sentirono tui. Gerald mi aveva avvertito di essere particolarmente gentile con il revisore della censura, perché senza la sua approvazione non avremmo oenuto la licenza di esportazione necessaria per trasferire il negativo negli Stati Uniti. Mi rivolsi allora a Bob Morones, il nostro direore casting ispanoamericano, uno che si vantava di saper traare le donne, e gli chiesi di dedicare un po’ delle sue premurose aenzioni alla signora. Chissà, magari l’avrebbe rabbonita. Bob acceò controvoglia ma fece comunque del suo meglio per allontanare il segugio dalle nostre tracce. Alla fine riducemmo la quantità di immondizia per strada, ma il revisore firmò ugualmente diversi rapporti negativi; il
momento peggiore, seimane più tardi.
tuavia,
sarebbe
arrivato
alcune
Jimmy Woods divenne un’ulteriore fonte di problemi. Problemi grossi come una casa. asi da subito Jimmy aveva cominciato non solo a sovrapporsi alle baute di Belushi ma anche a prenderlo da parte per spiegargli come doveva recitarle (e invitarlo a “tagliare il cazzeggio”). All’inizio Belushi si era piegato alle indicazioni di Jimmy, aore con maggiore esperienza di lui, ma ben presto divenne più autonomo e duro. In breve, i due cominciarono a insultarsi sul set. Woods: “Ma che dici? Sto solo cercando di aiutarti, Cristo santo!” Belushi: “Fanculo, amico, l’ho capito che stai cercando di impallarmi! Ho visto la tua cazzo di nuca invadere il mio primo piano” (un’inquadratura di Jim da dietro la spalla di Jimmy). Lasciali litigare, lascia che la tensione giochi a favore della scena, mi dicevo; in fondo, Boyle aveva trascinato Doctor Rock fino al Salvador airandolo con bugie e promesse, e aveva senso che Belushi fosse risentito in tuo quel casino. E il risultato di quella tensione veniva in effei caurato sulla pellicola, ma la situazione non era piacevole. Tuavia avvertivo un problema ancora più grave, e riguardava il rapporto tra me e Jimmy. Anzituo, Jimmy era arrivato da San Francisco con la sua nuova fidanzata, Sarah, della quale amava pavoneggiarsi, dicendo a tui quanto fosse altolocata, quanto cavalcasse bene. Jimmy era profondamente insicuro ma era anche la star del film, quello con più esperienza alle spalle; di certo non perdeva occasione per ricordarci che noi altri eravamo tui dileanti e lui il professionista. Dovevo affrontarlo perché, se Jimmy percepiva debolezza nell’interlocutore, se lo mangiava in un solo boccone. In lui c’era il paradosso di essere il cane che abbaia quando può e che invece corre a nascondersi quando non può, e a me toccava quindi essere abbastanza gentile da dargli i suoi croccantini e tenerlo buono. Aveva un senso di superiorità, come se nessuno conoscesse il cinema meglio di
lui. E inevitabilmente finii per meermi di mezzo tra lui e il suo riflesso, esasperandolo; e una volta che in lui scaava l’insicurezza (“Che cosa vuole davvero Stone? Mi sta facendo sentire una merda!”) Jimmy diventata o completamente pazzo o stranamente vulnerabile, e a volte, grazie a Dio, la cosa veniva fuori davanti all’obieivo. Ma non sempre. La situazione precipitò nella noata di riprese del venerdì della prima seimana. Jim Belushi, nella prima scena da solo senza Woods, esce da una beola completamente ubriaco e affronta per strada cinque duri degli squadroni della morte. Frustrato dal fao che Woods lo meesse in ombra nelle scene a due, per interpretare la scena aveva bevuto fino a farsi venire un torpore incaivito – chiamiamola, se vogliamo, “sbronza Strasberg” – e cominciò a inveire contro i caivi strappandosi la camicia di dosso, sudato e a piedi nudi, un’interpretazione sopra le righe in cui perdeva l’umorismo dell’essere viima e diventava invece il carnefice. I perplessi aori messicani, che non parlavano una parola di inglese, si ritrassero confusi mentre Jim avanzava minaccioso, inveendo contro quei marcantoni che avrebbero potuto facilmente farlo a pezzi. Alzando disperato gli occhi al cielo, con l’alba che increspava il cielo, capii che erano riprese inutilizzabili. Stavamo accumulando un’altra mezza giornata di ritardo. Il set nel fraempo era stato invaso da locuste gigantesche che si trasformarono in un ricco bancheo per i gracidanti rospi dei dintorni. I forti mangiano i deboli a qualsiasi ora. Il giorno seguente Jim mi chiese scusa in lacrime, lamentandosi delle angherie di Woods, dicendomi che con me voleva stabilire un vero rapporto, “da uomo a uomo”. È doloroso parlare di certe cose con un aore in difficoltà. Cercai di aiutarlo come meglio potevo, ma Jim doveva capire che davvero la sceneggiatura gli imponeva di essere disperato, e che a me la sua frustrazione piaceva. Volevo soltanto che non bevesse più. Alla fine della seconda seimana la produzione procedeva già a rilento. Eravamo tui nervosi per la scena dello stupro e dell’uccisione delle domenicane di Maryknoll ma, grazie alla
loro fervida immaginazione aoriale, Cindy Gibb e le arici più anziane che interpretavano le suore riuscirono a essere assolutamente convincenti nel mostrarsi terrorizzate e al tempo stesso fedeli al loro Dio, aggrappate alla speranza. La noe era breve e fredda e dovevamo girare in frea. Non ero soddisfao di alcuni dei primissimi piani in cui i bravacci sbavavano sul volto angelico di Cindy Gibb. Dopo lo stupro cala il silenzio, araversato dai versi degli insei e, mentre le suore si riabboonano le camicee, per un aimo pensiamo che le lasceranno andare. Invece il loro è un destino atroce e, come accadde realmente, vengono uccise una dopo l’altra con un colpo in faccia a bruciapelo e geate in una fossa comune. Pur non essendo del tuo soddisfao di come l’avevo girata, troppo freolosamente, la scena si rivelò di grande intensità. Dopo due seimane nella zona di Acapulco avevamo assolutamente bisogno di tornare a Cià del Messico per controllare l’efficienza delle macchine da presa e riorganizzarci. Dal laboratorio di stampa di Churubusco ci avevano segnalato qualche problema di messa a fuoco nelle riprese in esterni. Woods naturalmente sbroccò quando vide alcuni dei giornalieri che, visionati usando i nostri vecchi proieori e delle lenzuola come schermo improvvisato, sembravano molto peggio di quanto fossero. Il nostro laboratorio, di fao, non era dei più affidabili, spesso stampava la luce troppo verde o troppo blu; e il tipo stagionato che si occupava della nostra pellicola stava avendo problemi di comunicazione con Richardson, che era giovane e perdeva facilmente le staffe. ando finalmente potemmo visionare il girato su veri e propri schermi nello studio di Cià del Messico, tirammo un grosso sospiro di sollievo nel constatare che per un pelo potevamo evitare di dover rigirare le scene. Comunque dovemmo licenziare l’assistente operatore messicano e ne facemmo arrivare da Los Angeles uno nuovo e ben pagato. Ma i miei problemi non finivano qui: ne avevo anche con la montatrice. Si traava di una novellina che, come gran parte dei miei più strei collaboratori, avevo ingaggiato basandomi sull’istinto. Purtroppo però non eravamo in sintonia su quasi niente, e
dovei perciò ordinarle di seguire le mie indicazioni finché non fossi stato del tuo soddisfao. Ne scaturirono parecchi contrasti, ma non ero disposto a mostrare i giornalieri finché non mi fossi sentito pronto. Senza badare alla stanchezza, facevo gli straordinari in sala montaggio nel tentativo di districarmi in quel caos e fare le cose per bene. Dopo l’esperienza con La mano, non volevo assolutamente che il film sfuggisse al mio controllo. Obieivo ovviamente sempre più difficile via via che il cappio dei soldi si stringeva. Da Cià del Messico, una domenica, ci spostammo nella splendida Cuernavaca, che per quaro seimane sarebbe stata la nostra nuova base. Purtroppo all’epoca in Messico nessuno lavorava di domenica e quindi dal punto di vista logistico il trasferimento fu un disastro, ci vollero ore per sistemarci, trovare il personale, fissare le camere per gli aori eccetera. La mia energia se ne andò in rabbia e irritazione. Mi infuriai con Gerald per l’organizzazione e scoprii che per giunta, senza dirmi niente, aveva licenziato quindici membri della troupe, compresi gli stand-in, sostenendo che al loro posto, quando c’era da preparare le luci, avremmo potuto usare qualche membro della troupe libero da impegni. Perché? estione di soldi, naturalmente. Inoltre Woods continuava a chiamare il suo agente alla CAA per lamentarsi del fao che Belushi, con “quei suoi modi alla Jackie Gleason”, stava oenendo tue le aenzioni della stampa, quando in realtà il 75 per cento degli articoli erano dedicati a Woods. Ora il suo agente stava arrivando per meerci in riga, come già faceva la Film Finances che controllava il numero dei ciak e delle comparse, misurava il tempo dedicato alle prove, prevedeva un premontato di oltre quaro ore e così via. Io nel fraempo tagliavo dal copione tuo il tagliabile, rinunciando a girare alcune scene che avrei voluto ma che, vista l’emergenza, non mi sembravano più imprescindibili. Venne a osservarci anche una società americana di distribuzione video; idem il nostro venditore di dirii esteri, Arnold Kopelson, con la moglie Anne, e Marion Billings, la
nostra addea stampa; infine comparve anche John Daly (con una nuova fidanzata). Mi sentivo soo il microscopio, sorvegliato a vista, ma ormai ero in un’altra dimensione, completamente posseduto dal bisogno di portare a casa una scena dopo l’altra, a qualsiasi costo. Non provavo alcun tipo di vergogna. Cominciai a spazientirmi con il fonico messicano che secondo Green aveva lavorato in “quarocento film” e che mi accusava di non dargli abbastanza tempo per le prove. Alla fine se ne andò. Lo stesso fece l’isterico “genio messicano della scenografia” che aveva fao “duecento film”. Poco mi importava; all’epoca, i film messicani non erano certo famosi per la qualità sonora o altre caraeristiche tecniche. In seguito, il fonico tornò e ci rappacificammo. “Sarai un grande regista,” mi disse. “Lo so per certo.” E poi ripeté esaamente quello che aveva deo quando se n’era andato: “Sono quarant’anni che faccio questo mestiere. Certe cose le capisco.” A John avevo venduto il film come una specie di “Hunter ompson e il suo compare vanno in Salvador”, un’avventura che nel suo svolgersi diventava via via più drammatica. E in quello spirito anarchico, un momento clou della storia sarebbe stato l’incontro tra Boyle e il colonnello Figueroa, che si rivedevano a distanza di anni in un cuartel nei pressi del territorio ribelle. Boyle e Doctor Rock, arrestati in quanto periodistas (giornalisti) e quasi ammazzati, vengono portati, sudici e mezzo spogliati, dal minaccioso Figueroa. Ma la fortuna non abbandona mai gli irlandesi: Boyle in passato aveva glorificato il colonnello in un suo articolo e l’ufficiale si ricorda di lui! Ed ecco allora che si ritrovano a bancheare tui insieme, a ubriacarsi nell’appartamento di Figueroa insieme a diverse procaci e colorite prostitute. Come ho raccontato a Riordan per la sua biografia, “Doctor Rock riceve un pompino soo il tavolo. Boyle si scopa una ragazza mentre cerca di carpire informazioni al colonnello e il colonnello è talmente sbronzo da tirare fuori un saccheo pieno di orecchie (un ricordo dei trofei di guerra in Vietnam) e gearle sul tavolo dicendo: ‘Orecchie di comunisti, orecchie di fascisti, chi se ne frega!’ Lancia un’orecchia in una coppa
di champagne, propone un brindisi al Salvador e si beve lo champagne con l’orecchia dentro!” Poi, improvvisando, l’aore che interpretava Figueroa infilava un’altra orecchia mozzata nella bocca aperta di una puana! Be’, questo era davvero troppo. L’addea alla censura corse inorridita da Green, il quale rimase a sua volta terrorizzato: addio alla nostra licenza di esportazione! Nei due giorni successivi ci adoperammo per rabbonire la signora, cercando di non alzare polveroni, e posso immaginare che Gerald ricorse a qualsiasi stratagemma possibile pur di tenere a galla la barca. In seguito, su pressione stavolta americana riguardo ai contenuti sessuali, tua la scena fu tagliuzzata al montaggio e perse il suo impao. Sono convinto che il pubblico europeo e sudamericano avrebbe compreso la follia insita in essa, ma quando la proieammo di fronte a speatori americani ci rendemmo conto che non faceva lo stesso effeo. Perché? Perché il pubblico – questa almeno era la convinzione di allora, forse oggi un po’ più aenuata – si basa sulle etichee. Ride se il film gli viene venduto come commedia, resta col fiato sospeso se ha il bollino di avventura, piange se il film è classificato come drammatico. Salvador, al pari della Mano, non era né carne né pesce e, nella laboriosa fase delle proiezioni di prova in cui fu testato, avrei scoperto che se una cosa è nuova o inaesa la scala di giudizio del pubblico la registra come “sconvolgente”, “caotica”, “disturbante” eccetera. Né bella né brua, semplicemente nuova e quindi da prendere con le molle. Col senno di poi, Salvador non avrebbe mai potuto essere un film “acceabile”, men che meno un film hollywoodiano, ma all’epoca non lo sapevo. Pensavo che anche qualcosa di nuovo potesse comunque avere successo. Nel fraempo, dopo tue le urla e le imprecazioni rivolte alla troupe messicana, Jimmy era stato improvvisamente e ufficialmente “ammonito” dalle autorità messicane: il suo comportamento “in quanto ospite del Paese” era “inammissibile”, e se avesse insistito gli sarebbe stato chiesto
di lasciare il Messico – il che significava addio film. Gerald era molto cupo. elli facevano sul serio; non c’erano dubbi che il film si stesse trascinando verso il caos più totale. In un giorno di caldo torrido, girammo la scena in cui Woods, lamentandosi tuo il tempo, e il personaggio di John Savage si inerpicano su un pendio per fotografare le viime degli squadroni della morte, cento e più comparse riverse tra avvoltoi e immondizia. L’aria era impregnata del fumo di copertoni dati alle fiamme, cosa che in Messico era permessa, e tui avevamo la gola congestionata. L’acqua era pochissima e la giornata fu molto, molto lunga e impegnativa. Avrei dovuto impuntarmi per avere l’acqua necessaria ma ero io stesso al limite delle forze; tenersi in piedi per ore su un terreno inclinato, e per giunta cedevole, è faticosissimo. Nella versione definitiva del film si sentono lamenti in soofondo e si vedono diversi “morti” che si agitano per il disagio; un’anziana donna, sul punto di svenire per la disidratazione, si alzò nel bel mezzo di un ciak, particolare che decisi di tenere; in fondo, non necessariamente tue le viime del massacro erano morte. Ci spostammo a Cià del Messico per girare gli interni e gli esterni della gigantesca caedrale, impiegando un migliaio di comparse. La scena segna il punto di svolta per il personaggio di Boyle; spesso se l’è cavata per il roo della cuffia e adesso sembra deciso a meere la testa a posto e rimediare al suo dubbio passato sposando María, che però lo stupisce con il suo no, perché, spiega, lui dice le bugie e imbroglia la gente. Lui allora la implora e la porta in chiesa per dimostrarle di aver riscoperto la propria moralità; riceverà la comunione dall’arcivescovo Romero in persona. Il giorno prima di girare questa lunga e complessa scena, stufo del suo comportamento, avevo suggerito a Woods che, oltre a quanto previsto dal copione, Boyle avrebbe anche potuto confessarsi, per la prima volta da trent’anni. La vedevo come una chance per Jimmy di pentirsi. Jimmy, che aveva ricevuto un’educazione caolica, la racconta così a Riordan: “Ah sì? Be’, anzituo voglio dirti una cosa, Oliver. Non ci si confessa la maina prima della messa.”
E lui ribaé: “Nessuno ci farà caso, tra gli speatori.” “Certo, certo. Ci sono oanta milioni di caolici negli Stati Uniti e secondo te non se ne accorgeranno? Come no!” La cosa buffa è che davvero nessuno ci fece caso. Aveva ragione lui, è questa la cosa irritante di Oliver! Allora gli chiesi le baute, e lui: “Non voglio dartele. Voglio solo che guardi in quella tua anima torbida e buia, in quella tua anima subdola, e dica quello che ti viene da dire…” Ciò che si vede nel film è ciò che mi sgorgò dalla bocca al primo ciak, un’improvvisazione assoluta. Approfiai della scena della confessione per rimproverare a Oliver alcune cose successe durante il film. A un certo punto mi aveva dato del subdolo e dell’infame, e volli ricordarglielo.
Più di qualsiasi altro momento del film, quella scena improvvisata fece sbellicare il pubblico dalle risate, segnando il vertice dell’interpretazione con cui Woods oenne una nomination all’Oscar. Purtroppo, proprio mentre María e Boyle sono inginocchiati una accanto all’altro presso l’altare per ricevere l’ostia dalle mani di monsignor Romero, un killer spara all’arcivescovo e nella caedrale si scatena il panico. Al povero Boyle la vita non riserva nulla di facile. A questo punto ci aspeava la scena più complicata di tuo il film, la sanguinosa baaglia di Santa Ana. La girammo nella pioresca ciadina cinquecentesca di Tlayacapan, che allestimmo con una profusione di copertoni incendiati e fumo nero, bombe, squibs, aori che scappavano e cadevano colpiti – il tuo soo lo sguardo affascinato di centinaia di abitanti radunati per assistere alle riprese. Per me fu davvero un sogno che diventava realtà, ero il generale di quel gioco, muovevo la macchina da presa e gli aori come un bambino con i suoi soldatini. Il señor Gómez, il rude sindaco di Tlayacapan, mi aveva offerto tuo il suo sostegno; si ispirava alla figura di Al Capone e aveva molto apprezzato Scarface. Grazie a lui avevamo potuto costruire nelle vie principali della cià finte facciate a piano terra e struure al primo piano da far esplodere durante la baaglia. Inoltre, Gómez ci aveva dato l’okay per trasformare il suo ufficio al municipio in un bordello pieno di soffici divanei rossi (un arredamento che gli piacque a tal punto da conservarlo quando i locali tornarono a essere il suo ufficio da sindaco).
Ormai eravamo chiaramente fuori rispeo ai tempi e al budget. La bond company faceva pressioni a Gerald per oenere “tagli… tagli… e ancora tagli”. el giorno sarebbe arrivato il più duro tra i loro uomini da campo, in sostituzione del precedente emissario giudicato troppo accondiscendente con Green – che da parte sua era un maestro nel nascondere la verità, confondendo le cifre in modo a mio avviso degno di quanto avrebbe fao la Enron qualche anno più tardi. Come sinistro presagio, il giorno precedente avevo avuto il primo vero scontro con Daly, il quale adesso voleva costringere la Film Finances a coprire con i suoi soldi uno sforamento del budget che John dava ormai per certo; dopodiché la bond company avrebbe avuto a tui gli effei il controllo del film. Ero scosso, e al telefono, con la voce più ferma possibile, gli dissi: “John, se la Film Finances prende in mano il pallino e dovesse in qualsiasi modo compromeere l’integrità di ciò che noi” (soolineai volutamente il “noi”) “ci siamo riproposti di fare, io e te sciogliamo il sodalizio su questo film e su qualsiasi altro progeo. Io me ne vado.” John, solitamente calmo, mi rispose alzando la voce: “Non sono disposto a farmi minacciare così!” Da parte mia, non avevo nulla a cui aggrapparmi se non il lavoro svolto, ma almeno gli avevo fao capire che ci tenevo, se ero disposto a rinunciare tanto al film quanto a Platoon. Ovviamente, se Daly avesse staccato la spina, qualsiasi possibilità di un nuovo inizio per me sarebbe andata in fumo. Così come sarebbe andato in fumo Salvador – e con esso, l’investimento di John; eravamo a bracceo in una condizione di rovina reciprocamente assicurata. Con gli uomini della Film Finances in viaggio e Gerald che al telefono mi diceva che avrebbe oenuto i soldi da una cordata messicana in buoni rapporti con suo suocero, gridai “Azione!” e la carica di cavalleria prese il via. Seanta cavalli, che avevamo radunato con grande difficoltà, erano lanciati al galoppo lungo le strade lastricate della cià, montati dai ribelli. I cavalieri erano i discendenti di Zapata, originario proprio dello stato di Morelos, sebbene gli zapatisti ai loro tempi non avessero quasi mai usato i cavalli, così come i
ribelli salvadoregni non avevano mai effeuato una carica di cavalleria. Ma chi se ne fregava! Se dovevo colare a picco – e questo sarebbe stato probabilmente il mio ultimo film – fanculo la bond company, volevo la mia carica di cavalleria. Mi offrii addiriura di pagarla di tasca mia, con il compenso da regista del quale tra l’altro non avevo ancora visto un centesimo, ma la proposta fu rifiutata perché in quel momento non c’erano nemmeno i soldi per il regista; sarei colato a picco con stile. Girammo la carica di cavalleria altre quaro volte e il risultato fu fantastico! Non stavo nella pelle. Una sequenza complessa portata a termine, per giunta con la spada di Damocle di un disastro imminente. Stavamo passando alla scena successiva quando Green sgaaiolò zio zio verso di me. I nostri sguardi si incrociarono tesi. “Non ho una faccia troppo preoccupata, vero?” scherzò lui con un sorriso furbeo. “Ho firmato un accordo.” Un milione di dollari da una cordata di investitori messicani. Niente resa alla bond company. Un giorno di vita in più. Proseguimmo a testa bassa. L’indomani, i carri armati che l’esercito ci aveva noleggiato erano in ritardo di qualche ora. Un’esplosione troppo realistica raggiunse per errore una postazione fortificata con sacchi di sabbia e due stuntmen rimasero ustionati e doveero essere evacuati, senza per fortuna aver subito danni gravi. (ando seppe dell’incidente, Woods inscenò ovviamente un altro melodramma.) Ci fu un intoppo con un bazooka su un teo. Poi una macchina da presa ebbe un guasto. Cinquanta dei soldati messicani che avevamo ingaggiato continuavano a sorridere verso l’obieivo. Al terzo ciak li riportai alla realtà con un bella peinata. Avevamo noleggiato un piccolo aereo, ridipinto con le insegne dell’esercito salvadoregno, che avrebbe dovuto mitragliare a fuoco radente la strada dalla quale Woods e John Savage stanno fotografando la baaglia. Jimmy era alquanto nervoso per gli effei esplosivi, avendo degli squibs su una gamba in modo da simulare di essere ferito. Un pilota messicano, che non parlava inglese, avrebbe guidato un monomotore a bassissima quota fin sopra la testa
di Jimmy, che per calmare i nervi a fior di pelle non smeeva un momento di parlare. All’improvviso sentii una raffica di insulti uscire dalla bocca di Savage, uno che non perdeva mai le staffe. Ce l’aveva con Woods che a quanto pare gli stava dando chissà quale consiglio o indicazione. “Non mi rivolgere la parola! Non mi rivolgere la parola, hai capito!” urlava John. Al che Woods montò su tue le furie, geò a terra lo zaino con l’arezzatura da fotoreporter e urlò: “Ne ho le palle piene!” Il nostro aereo intanto roteava in cielo, consumando carburante, poi sentii Ramón, l’aiuto regista, gridare via radio: “Woods ha abbandonato il set!” “Impeditegli di prendere una macchina!” dissi leggendo i suoi folli pensieri. alche minuto più tardi seppi che aveva già percorso un bel pezzo di strada lasciandosi alle spalle la cià. Ramón gli camminava accanto implorandolo: “Jimmy, Jimmy, non te ne andare! Dài, amico, abbiamo bisogno di te. Non farlo. È un bel film. Troveremo una soluzione. Non correrai rischi.” Niente da fare. Diedi istruzioni a tui gli uomini della produzione e allo stesso Ramón di vietare a chiunque si trovasse a passare su quella strada sperduta di fermarsi e dargli un passaggio. Jimmy aveva una pistola scenica nella cintura. “Dite che è un gringo pazzoide che sta facendo l’autostop armato di una calibro quarantacinque.” Alla fine Ramón lo tranquillizzò. L’aereo dovee tornare a fare rifornimento, facendoci perdere un’altra ora di luce. Riportammo Woods sul set e John Savage gli fece signorilmente le scuse. Jimmy le acceò e si mise a sproloquiare con me. Avrei voluto ucciderlo – strangolarlo, per la precisione – con le mie stesse mani. Raramente un essere umano ha scatenato in me un tale desiderio di violenza. Repressi l’istinto, l’aereo tornò e riuscimmo a girare la scena senza infortuni per nessuno. Il tuo soo gli occhi di dieci imprenditori messicani portati da Gerald: chissà quale idea si fecero dell’industria cinematografica. Alle sei del pomeriggio, con il sole che si avviava al tramonto, oenemmo l’ultima ripresa aerea da un elicoero
privato equipaggiato con una mitragliatrice americana M60, che entrava nella nostra inquadratura e colpiva Jimmy ferendolo; fu un miracolo. Sebbene l’elicoero fosse passato dieci metri sopra la sua testa, Woods sostenne che gli avesse sfiorato i capelli. Ce l’avevamo faa. O forse no? Il giorno dopo, di buon maino, la troupe messicana indisse solennemente uno sciopero. Gerald lasciò intendere che ci fosse qualche intoppo con la sua cordata. Scrollai le spalle. Per la prima volta non me ne fregava davvero un accidente. Mi avviai verso la carcassa di un’automobile piazzata nel cimitero e mi addormentai placidamente sul sedile posteriore. Circa due ore dopo fui svegliato da Ramón. “Siamo tornati operativi.” Davvero? Ormai non avevo più bisogno di sapere perché. Ero pronto ad acceare tuo e, tra l’altro, non mi sentivo di biasimare la troupe. Ci meemmo al lavoro come automi e portammo a termine la giornata. Ma non c’era dubbio che la produzione fosse perseguitata dalle Erinni, lo sentivi nell’aria. Dovemmo annullare la prevista giornata di riprese a Ciudad Juárez e spostarla al di là del confine in territorio americano. “Stiamo per chiudere,” era la voce che si stava diffondendo tra il personale amministrativo e le maestranze. Il Messico si era trasformato in un esercito assediante di creditori, con gente non pagata dappertuo, inviperita, e noi eravamo Fort Alamo. Per giunta avevamo perso quaro rulli di girato della baaglia quando il secondo assistente operatore, senz’altro per stanchezza, aveva erroneamente riutilizzato due rulli già fai. Il giorno seguente – il quarantaduesimo in Messico – era l’ultimo. La tensione non ci diede un momento di tregua. Dovevamo girare la scena in cui Boyle, mentre cerca di varcare il confine con il Guatemala insieme a María, viene caurato dagli sgherri degli squadroni e scampa alla morte solo all’ultimo momento, grazie a una telefonata da parte dell’ambasciatore americano – una sorta di “arrivano i nostri”. Naturalmente, prima di girarla Woods si sfogò con me sostenendo di aver trovato un proieile vero nel
caricatore di un fucile di scena. Naturalmente era tua una balla (anche se, senz’altro, parecchi componenti della troupe avrebbero voluto meercelo davvero), l’ennesimo aneddoto da raccontare in cui l’eroico Jimmy salvava la situazione dall’incompetenza dei babbei che lo circondavano. Finimmo ancora una volta con una scena in esterni, di fronte a una cantina, inseguendo il sole alle see e mezza di sera e riuscendo a completarla appena una trentina di secondi prima del tramonto. Era faa, avevamo finito, basta con il Messico! E io acceai la sconfia. Era una conclusione ignobile della nostra avventura messicana, ma avevo la nea sensazione che dovessimo svignarcela prima che fosse troppo tardi, e dire adiós a tui. Non mi sembrava affao di aver messo il film nel carniere. Erano tui depressi, rassegnati. Mancavano ancora cinque giorni di riprese a San Francisco per le scene di apertura e tre a Las Vegas e nel deserto circostante per il finale. Daly ci fece sapere che avremmo anzituo dovuto portare il negativo, la copia di lavorazione e il sonoro via dal laboratorio e dal Messico. La Film Finances, che pure aveva pagato il laboratorio, non voleva nemmeno sentir parlare di inizio e di finale; erano furibondi con Green e gli avevano deo: “Ci hai raccontato solo balle! Adesso consegnaci il film come da contrao!” ando chiamai John per discutere di come avremmo potuto completare il film, gli ricordai che l’inizio e il finale non erano ancora stati girati. Certo, avevamo la parte centrale, ma… “Oh, cazzo,” mi interruppe Daly con il suo distaccato accento londinese. “Be’, senti, non puoi eliminarlo, l’inizio?” Agitato, lo implorai: “Sei pazzo? Ti era piaciuto un casino, ricordi?” A malincuore, John dovee ammeere di sì. L’indomani, nella sala montaggio di Cià del Messico, mentre facevamo i bagagli, Gerald mi disse con i suoi occhi da cane bastonato che era “nella merda”, quasi fossi l’unico al mondo, a parte sua moglie, a credere ancora in lui. “Sono rimasto in brache di tela, Oliver.” Sul suo volto si leggeva lo shock. “Devo un mucchio di soldi a un mucchio di persone. Mio suocero mi considera un truffatore… i rischio la pelle.
Sono alla bancaroa.” Provavo un dispiacere sincero per aver contribuito ad aggravare il suo sconforto, ma Gerald aveva un’espressione talmente da sfigato che dovei reprimere una risata, chiedendomi se avesse ancora un ultimo asso nella manica. Non ho mai capito in che modo il nostro film fu pagato; era stata una silenziosa partita a poker a tre che si era giocata al di sopra della mia testa. Anni dopo chiesi a Daly come fossero andate davvero le cose, e ricordo ancora il suo sorriso da Stregao quando rispose, scuotendo per l’ennesima volta la testa: “el Gerald… mio Dio, che lestofante!” E così resta tuora un vero mistero. Tagliammo la corda in frea, contenti di varcare il confine e tornare sul suolo americano, dove ci riposammo e ci preparammo per il gran finale a San Francisco e Las Vegas. Il ricovero di Bob Richardson in ospedale, per una grave infezione da salmonella, riaccese l’ipocondria di Woods, che ora immaginava il parassita nel proprio intestino, grosso come un Alien. Boyle, che aveva ripreso a bere troppo e sembrava di nuovo un rospo gonfio e rosso, avrebbe voluto continuare a collaborare con me a un nuovo film che avremmo intitolato Beirut, oppure Boyle Goes to Beirut, sulle sue precedenti avventure in Medio Oriente. Ovviamente, nella storia lui araversa ogni genere di confini e si innamora di una bellezza locale, poi riesce a finire nel bel mezzo dell’aentato terroristico che provoca la morte di duecentodiciassee Marines. John ci avrebbe finanziati senz’altro. Sì, Richard era una vera piaola, ma il gioco valeva la candela e io mi ritrovai di nuovo a sognare un altro film con lui. Prima però dovevo finire di girare questo cavolo di Salvador e controllare da vicino la fase di montaggio. Al momento avevo le mani legate e Daly ribadì che voleva fare Platoon all’inizio dell’anno nuovo. Avremmo addiriura usato lo stesso metodo di Salvador, con o senza contrao di distribuzione. Daly voleva produrre anche la sceneggiatura russa, Defiance, che era stata messa in un casseo con Marty Bregman; ne avrebbe riacquistato i dirii dalla Universal. Io
avevo i miei dubbi su ognuno di quei progei. Ed ero ancora soo dei trentamila dollari che avevo tirato fuori di tasca mia per coprire vari costi di produzione di Salvador, fra cui quello di foraggiare Boyle. L’anno del dragone aveva finalmente debuato nell’agosto di quel 1985 e, a fronte di un costo di ventiquaro milioni di dollari, ne avrebbe incassati diciannove negli Stati Uniti, cifra tu’altro che soddisfacente. Al cinema, dove vidi il film due volte, la mia reazione fu entusiasta ma ambivalente; era un film che polarizzava il pubblico. Aveva per protagonista un gradasso e Mickey Rourke, pur a suo modo magnetico, mancava di simpatia. Era un film dalle venature razziste? Certo, aveva elementi offensivi. Marion Billings, a New York, segnalò una reazione negativa da parte della sua cerchia. Il giorno del mio trentanovesimo compleanno Pauline Kael sul “New Yorker” aaccò tanto me quanto Cimino scrivendo che vivevamo “ancora nelle caverne […] uno è uno zotico insolente […] entrambi xenofobi, tirano fuori il peggio l’uno dall’altro […] così che nessuno dei due si rende conto di essere diventato una pubblica vergogna”. Un’altra medaglia sul mio peo. Sul “New York Magazine” David Denby invece ci separava, risparmiando la sua bacchea a Michael e castigando invece “l’orrendo Oliver Stone”. In ogni caso, L’anno del dragone non sarebbe mai stato, come avevamo invece sperato, il film del riscao per Michael, che si sarebbe trascinato per anni, esigente, difficile da traare e costoso da finanziare. Cimino sarebbe rimasto un enigma non solo per me ma anche per i suoi compari macho come Mickey Rourke o per il mio amico detective Stanley White, che Michael adorava frequentare; nemmeno loro saprebbero spiegare chi era. Michael amava ammantarsi di mistero e, dopo essersi “trasformato”, o quello che era, morì relativamente giovane senza mai davvero diventare qualcosa di più dell’artista che era già all’epoca del Cacciatore. Credo che abbia corso a testa bassa contro i propri demoni – la hybris, un peccato dell’antica Grecia – quando fece schizzare alle stelle i costi dei Cancelli del cielo, provocando un
insuccesso che lo ferì a morte. Anch’io, di lì a pochi anni, avrei dovuto affrontare un’analoga resa dei conti. Ci trascinammo a San Francisco per girare l’inizio del film: Boyle e Doctor Rock che sfrecciano sul Golden Gate a bordo della loro Mustang scassata in un giorno di cielo terso, blaterando dei rispeivi guai con le donne. Nelle immagini di apertura ambientate nel fatiscente appartamento di Boyle a Tenderloin, il bimbo che piange è mio figlio Sean. Mentre giravamo, Elizabeth piombò sul set e vedendo il piccolo set appestato dal fumo della sigarea di Bob Richardson cominciò a inveire contro di me. “Niente fumo! Mi hai mentito! Basta! È il suo ultimo ciak!” Sembrava che urlassero tui, mentre giravamo il nostro mitico incipit. Probabilmente il mio era lo stesso destino di Richard, andare sempre di corsa e beccarmi insulti; ma al diavolo, per una buona causa mio figlio poteva anche ingoiare un po’ di fumo. Per il gran finale ci accampammo al Dunes Hotel di Las Vegas. Gli ultimi tre giorni di riprese cominciarono sabato 31 agosto, con la temperatura che nel deserto toccava i quarantacinque gradi. E nell’ultimissimo giorno di questo pazzo film, guarda caso aprivo proprio io la carovana di quindici, venti veicoli, con un centinaio di persone a bordo – senza la minima idea di dove stessimo andando; ero un generale orbo che guidava un esercito di morti di fame. I due giorni precedenti erano stati lunghi ed estenuanti e adesso ci aspeava l’ultima, cruciale scena del film: Elpidia, Jimmy e i loro figli su un Greyhound direo a nord oltre il confine dell’Arizona, al sicuro negli Stati Uniti. Al sicuro finché all’improvviso i polizioi dell’immigrazione non fanno accostare il pullman per un controllo a sorpresa che diventa un incubo. Io non avevo fao sopralluoghi sulla statale 95, dove comunque era tuo piao e desertico, senza alcun riparo dal sole. Dopo venti minuti di viaggio, scortati da macchine della polizia con i lampeggianti accesi, feci fermare la carovana quando e dove mi suggerì quell’istinto di cui mi ero fidato fino ad allora. Avevo tre pagine e mezza di copione da girare,
in gran parte all’interno di un pullman gremito che intanto si stava trasformando in sauna. Prove. Luci. Riprese. Trova la soluzione. Stabilisci i movimenti. Correggi. Aggiungi una bauta di dialogo qua, togline una là, poi alzati, muoviti, girati, parla adesso, no, meglio di no… e così via, dalle venti alle cinquanta interruzioni per ogni scena. All’interno del pullman faceva così caldo che aori e comparse avevano costantemente bisogno di bere. L’impressione era che non avremmo fao in tempo, ma tra le quindici e le diciannove prendemmo finalmente l’onda, un’immagine marinaresca o da surf: c’è il vento che ti spinge e allora vai, sapendo che il vento può cambiare da un momento all’altro. Davvero, fare un film è come navigare in mare aperto, la sorpresa è sempre dietro l’angolo. Chris Lombardi, il nostro bravo assistente operatore di Los Angeles, svenne all’improvviso per un colpo di calore. Non era una situazione da prendere alla leggera, il suo pallore mi ricordava i soldati nella giungla, in pericolo. Nessun altro era in grado di mantenere il fuoco della macchina da presa a mano che Bob utilizzava negli angusti spazi del pullman. Adesso sì che eravamo fouti. Lo implorai di provare a tenersi in piedi. “Chris, ce la puoi fare! Lo so che ce la fai. Succedeva spesso anche in Vietnam ma ce la facevamo sempre… Dài, pensa ai soldati della legione straniera, a quante ne passavano! Ce la puoi fare, Chris, lo so che hai le palle!” Richardson, più tardi, non riusciva a credere avessi tirato in ballo persino la legione straniera, ma per me era davvero una questione di vita o di morte; non ci sarebbe stato un giorno dopo! Chris era un omone con gli occhi da cerbiao abbagliato dai fari di una macchina, ma, Dio lo benedica, mandò un grugnito, forse per allontanarmi dalla sua faccia, e si tirò su, arrivando alla fine di quella massacrante giornata. I due polizioi dell’immigrazione capiscono subito che Elpidia e i due figli sono clandestini e li trascinano giù dal pullman, sordi alle accorate suppliche di Jimmy. È la separazione più atroce, quella tra cari su un confine. E per
giunta queste tre sventurate persone sarebbero tornate in una zona di guerra del Salvador, dove avrebbero rischiato la vita se a qualcuno fossero tornati in mente i loro legami con Boyle. Mancava un minuto prima che il sole andasse a nascondersi dietro una montagna all’orizzonte quando facemmo l’ultima ripresa, da una gru montata sul teuccio del Greyhound: Elpidia e i due bambini che vengono condoi verso l’auto della polizia per essere trasferiti in un centro di detenzione, mentre Jimmy, in primo piano, li osserva desolato. Era questo il finale che Elizabeth e John volevano farmi cambiare, per sostituirlo con qualcosa di più oimista. Ma la vita vera di Boyle non era forse faa di disastri e sconfie? In cuor mio, era il finale più giusto, a prescindere da quanto mi sarebbe costato. alsiasi altra conclusione avrebbe edulcorato ciò che il nostro governo stava realmente facendo nel Centroamerica. Adesso il film era davvero finito. Stentando ancora a crederci, mi sedei sul ciglio della strada nel deserto, stravolto dalla fatica. Jimmy venne a sedersi accanto a me e nel mio diario c’è scrio che mi disse questo: “Sai, potrebbe essere la mia interpretazione migliore. Mi hai tenuto sulla corda, mi hai confuso abbastanza da lasciar succedere cose che di solito traengo. Mi hai reso vulnerabile. In genere ho il controllo totale… Non ci crederai, ma ti voglio molto bene e credo che tu abbia fao un grande film. Voglio che sia citato questo sulle nostre lapidi. Il film di cui andremo più orgogliosi.” Anche se mi ci sarebbe voluto del tempo per tornare a fidarmi di lui, le parole di Jimmy erano importanti, e rifleevano una delle sue due personalità: questa volta, senza dubbio, era stato il door Jekyll a parlare. Sono convinto che in tue quelle avversità avessimo cominciato davvero a volerci bene. La vita a volte regala queste impossibili inversioni di roa, se solo lasci che ti succedano, se rinunci al controllo totale. Negli anni successivi il nostro rapporto si sviluppò fino a diventare una matura amicizia nella quale ciascuno
conosceva il caraere dell’altro, avendo toccato con mano il meglio e il peggio che avevamo da offrire. In seguito produssi L’asilo maledeo (1995), vincitore dell’Emmy come migliore film per la TV, con Jimmy nel ruolo di protagonista, e nello stesso anno Killer – Diario di un assassino, sempre con Woods. E a dieci anni di distanza da Salvador gli affidai il ruolo dell’orrendo capo di Gabineo H.R. Haldeman in Gli intrighi del potere – Nixon (1995), seguito da quello di un corroo medico sportivo in Ogni maledea domenica (1999). A tu’oggi Jimmy resta uno scapolo impenitente che sembra divertirsi al massimo quando gioca partite di poker dall’altissima posta; mi dice di essere “uno dei migliori cinque d’America”. Ovviamente. Jimmy è Jimmy, sempre fuori dall’ordinario – come potremo mai sapere la verità? Le baaglie della produzione non vanno confuse con il completamento del film e la vioria nella guerra. Le due fasi più insidiose a questo punto sono 1) il montaggio e 2) il marketing e la distribuzione del film. Con il tempo avrei imparato che proprio nel marketing e nella distribuzione il gioco si fa ancora più duro, perché lì stanno i soldi. E noi registi, aori, autori, produori estranei al controllo degli studios saremo anche i variopinti bucanieri d’altri tempi che sono al comando delle navi e rubano i tesori, ma sono pur sempre i grandi imperi – e le banche – a controllare i mari e le roe dei traffici. Ed è lì che si decide il destino di un film. Montare Salvador nel corso dei quaro mesi seguenti sarebbe stato tedioso e al tempo stesso terrificante, nel senso che mi sentivo sempre sul punto di perderne il controllo, streo fra le esigenze di distribuzione di Daly e la subdola forza delle convenzioni. Un caso per tui: il finale, sul quale mi impuntai, resistendo alle assidue pressioni di chi voleva cambiarlo a favore di una conclusione più confortante. Avrei potuto chiudere il film con una cavalcata incontro al tramonto, con Jimmy e la sua nuova famiglia a bordo del Greyhound, senza brue sorprese da parte della polizia di frontiera americana. Fra l’altro non sarebbe stato nemmeno necessario girare altre scene. Un altro esempio eloquente
furono i controversi cinque minuti di una conversazione ambientata nel giardino di un esclusivo circolo del golf di Cuernavaca. La scena è tua dialogo, con Boyle che ne dice di tui i colori a un analista del dipartimento di Stato, in realtà agente della CIA, e a un colonnello del Pentagono, i quali stanno cercando di convincerlo a sfruare il suo ruolo di giornalista per raccogliere informazioni sui ribelli. ella di Boyle è una posizione antinterventista, mentre i due tecnocrati ritengono di combaere il comunismo. “Voi avete raccontato balle fin dal principio,” dice Boyle. “E non avete presentato un briciolo di prova, nemmeno una, all’opinione pubblica americana che questa non sia un’autentica rivoluzione contadina. Per cui non mi faccia prediche sulla santità dei servizi di informazione, dopo il Cile, dopo il Vietnam.” I due ribaono ma Boyle non demorde: “Gli squadroni della morte sono usciti armati dal cervello della CIA […] ma voi marciate al loro fianco perché sono anticomunisti. Gli avete fao chiudere le università e spazzar via i migliori cervelli del Paese, gli fate accoppare chi vogliono, gli fate smantellare la chiesa, gli lasciate fare di tuo solo perché non sono comunisti. E queste, colonnello, sono le vere stronzate. Avete creato un mostro come Frankenstein.” La scena terminava in crescendo. “È per questo che siete venuti qua? Cos’è questo, un dopo Vietnam, una specie di ‘Provaci ancora, Sam’? Voi buate centoventi milioni di dollari in questo Paese, lo fate dichiarare zona militare, così ci potete far scorrazzare i vostri elicoeri. E non fate altro che martirizzare queste popolazioni. […] Cristo santo, Jack, bisogna pensare alla gente prima di tuo, nel nome della dignità umana nella quale dovremmo credere noi americani. Dobbiamo almeno tentare di meere su una società giusta, qui!” Il tuo reso in maniera relativamente veloce, grazie alla recitazione serrata di Jimmy, un po’ come avrei fao con i sedici minuti del pressoché ininterroo monologo di Donald Sutherland in JFK – Un caso ancora aperto. Ma siccome era verboso e “didascalico”, incontrava resistenza. Io però mi baei per conservare la scena nella sua interezza, ritenendo che potesse essere la mia ultima occasione per dire quello che
pensavo del nostro governo, del Vietnam, del Centroamerica. Sarebbe stato una sorta di testamento morale che mi avrebbe separato una volta per tue dalle mie precedenti sceneggiature i cui sentimenti progressisti, in mano ad altri registi, erano rimasti confusi, nascosti soo la superficie. Se questo fosse stato il mio ultimo film, come ormai mi aspeavo, non volevo che ci fossero i soliti fraintendimenti. Fu questo stesso spirito combaente a farmi decidere di lasciare la ICM dopo quaro anni insoddisfacenti e provare con la CAA. Avrei continuato a pagare la ICM ancora per un anno ma Paula Wagner e Mike Menschel, acceando quel compromesso, erano già stati sul set in Messico, mentre nessuno della ICM mi aveva nemmeno chiesto di poterci fare un salto. Mi recai alla sede della CAA per la decisione definitiva, che sarebbe dipesa da un incontro con il famigerato Mike Ovitz, di cui cresceva a vista d’occhio la reputazione di nuovo pistolero in cià. Mike mi fece l’impressione di un maestro. Di psicologia sicuramente. Sicuro di sé, aggressivo fin dall’inizio, ti teneva costantemente in sospeso: chissà cosa dirà adesso? Era lui, e non tu potenziale cliente, a creare la suspense via via che la riunione andava avanti, ecco il suo segreto. “Oliver,” esordì, “tu e la tua carriera siete un mistero per me… Sei un talento che sta qui…” (con la mano indicò un’asticella alta) “al top, al livello di Robert Towne, di Elaine May, eppure fai film che stanno qui…” (con un altro gesto indicò un’asticella più bassa) “a tu’altro livello. Sai, ci siamo incontrati anni fa” – cosa che io non ricordavo – “e ti trovo molto cambiato, più calmo.” L’osservazione mi instillò mille dubbi. Cristo, che brua impressione dovevo avergli fao? ando accennai al mio rapporto con John Daly, Mike rispose che non era un problema, ma che loro credevano in Daly “solo a metà” (John del resto era fuori dall’ecosistema della CAA, non certo un pesce grosso) – e comunque potevano propormi diverse alternative. Uomo dalla sicurezza pacata e dal linguaggio del corpo incisivo, Mike uscì dalla stanza avvolto dallo stesso mistero con il quale era entrato, lasciandomi l’impressione che avrebbe potuto essere un leader in qualsiasi campo della
vita. Il suo vero punto debole, arrivai a convincermi nel tempo, era il fao che suscitasse invidia in troppe persone. È forse uno degli ostacoli più duri e subdoli che chiunque si trovi ad affrontare, in particolare nel mondo del cinema ma in qualsiasi ambito. L’invidia è un’emozione soovalutata, in realtà è un campo minato invisibile, una barriera di energia negativa che avrebbe fao lo sgambeo anche a me in parecchie occasioni. Non vedevo l’ora di andare a Malibu e visitare il set di 8 milioni di modi per morire, le cui riprese erano finalmente iniziate. Concentrato sui miei problemi in Messico, avevo perso di vista il suo avanzamento, anche perché non mi speavano ulteriori compensi dopo che un collega, Lance Hill, aveva oenuto il ruolo di cosceneggiatore. Un terzo autore, Robert Towne, che sarebbe rimasto non accreditato, mi chiamò e, con i suoi modi garbati, mi informò di aver fao una riscriura di quaro seimane, “soltanto una questione di risparmio economico” – su richiesta di Ashby e della casa di produzione, aveva trasferito l’ambientazione della storia da New York a Los Angeles. Fu comprensivo con me perché conosceva bene la sensazione di essere derubati della propria sceneggiatura. In base alle regole della Writers Guild, il sindacato sceneggiatori, fu una gentilezza non dovuta da parte sua, visto che né Ashby né i produori si erano degnati di notificarmi il fao che il mio testo era stato riscrio. ando presi visione del nuovo copione, stentai a rintracciarvi qualcosa di quanto avevo scrio originariamente. Avrei dovuto cancellare il mio nome ma c’erano ancora residui da incassare e forse anche possibili profii. Con Salvador profondamente in rosso, non ero in condizione di ribellarmi. Mi diede una strana sensazione visitare il set a Malibu, così diverso rispeo all’esperienza appena vissuta con Salvador. A bordo di una funicolare raggiunsi una villa abbarbicata al versante di un’altura e illuminata da enormi lampade ad arco, simile a una scatola di caramelle; già la sola illuminazione nourna costava una fortuna. Sceso dalla
funicolare, trovai il parcheggio pieno di Porsche, Maserati, motociclee, ogni genere di mezzo di trasporto consono a tecnici ben pagati come quelli di Los Angeles. La convocazione era per le 17.30 eppure in giro non sembrava esserci nessuno, e quei pochi che c’erano non avevano alcuna frea. In cucina stavano preparando una cena (in questo caso chiamata “pranzo”) luculliana: gamberei, pasta, bistecche, tuo un ben di Dio servito all’aperto su tovaglie bianche. “Dov’è Hal?” domandai. “Nella rouloe con Jeff.” ando chiesi a fare che, tuo quello che mi seppero dire fu che stava “provando” e/o “parlando”. “È chiuso lì dentro da un’ora.” Non volevo interromperli. Venni a sapere che il produore esecutivo si era incazzato con Ashby e aveva abbandonato il set. A quanto pareva, queste “prove” andavano avanti da parecchio e Ashby non era del tuo convinto del piano di riprese stabilito. A ogni modo, mi godei la cena chiacchierando con l’intelligente e deliziosa Rosanna Arquee e il garbato Andy García, al suo primo ruolo cinematografico. Andy mi descrisse un film in cui non c’erano più puane, non c’era più New York, niente più densità e tensione urbana. Era un film completamente diverso rispeo a quello che avevo scrio, e culminava con una sparatoria piuosto inverosimile tra García e Bridges sulla stessa funicolare che avevo usato per arrivare. I sessanta giorni di riprese previsti stavano diventando seanta e il costo, per il momento, era lievitato a dodici milioni e mezzo. Con quella cifra avrei potuto girare tre Salvador. Eppure non percepivo alcuna frenesia o urgenza. Ashby arrivò insieme a Bridges per il primo ciak solo alle undici di sera, a malapena sapendo chi fossi. Bridges fu cortese e schivo. Tornai a casa annoiato ed esausto. Addio, 8 milioni di modi per morire. Circa nove mesi più tardi, andai al Criterion eatre di New York e ne uscii disgustato mezz’ora dopo, non riuscendo a capacitarmi di ciò che avevano fao al mio copione e al mio
protagonista. Non c’è mai limite al peggio, davvero. Le recensioni erano state fredde. Un film che finì nel dimenticatoio, come tanti altri, e non danneggiò né favorì la mia carriera. Mi chiedevo solo come fosse possibile che due professionisti del calibro di Ashby e Towne avessero tolto alla sceneggiatura qualsiasi elemento di interesse. Era offensivo, come vedere il tuo bambino abortito e ridoo a un feto sanguinolento davanti ai tuoi occhi. ando il film era uscito nelle sale, io mi trovavo all’estero ma se fossi stato in grado di visionarlo in anticipo, cosa che non mi era stata nemmeno proposta, avrei chiesto di comparire nei titoli soo pseudonimo, come Huckleberry Twist o qualcosa del genere. In seguito rividi il film in videocassea, dall’inizio alla fine, e lo trovai semplicemente insulso e noioso. Sedici, dicioo milioni di dollari buati al vento… La PSO, che lo aveva prodoo, sarebbe ben presto andata gambe all’aria. Tua quell’apprensione, quello psicopatico di produore con i due accenti diversi, la famiglia trofeo e i grandiosi sogni alla cocaina, l’incazzatura che mi ero preso… non c’era più nulla, un’eredità di cenere. Non provavo alcun rancore, anzi alcun sentimento in assoluto. Ma ero stato pagato bene – e credo che in molti, a Hollywood, si accontentino di questo, lungo la strada che li porta a una tomba nel cimitero di Forest Lawn. Nonostante avessimo finito Salvador a Las Vegas l’ultimo giorno di agosto, John Daly voleva il film già pronto per Natale. Sarebbe uscito per la sua compagnia di distribuzione, la Hemdale, che tramite il suo nuovo presidente, Peter Myers, aveva un accordo di distribuzione con la MGM del presunto valore di quaro milioni di dollari in copie della pellicola e pubblicità. La MGM, in traballante situazione economica fin dalla metà degli anni Seanta, era diventata una specie di distributore a noleggio. Sempre meglio di niente. Perciò c’era qualche speranza. Fui costreo a procedere in frea, troppo in frea. Il premontaggio durava tre ore e quarantacinque minuti, ma sapevo che avrebbe potuto funzionare, perché il personaggio di Woods era entusiasmante e magnetico, pur essendo a trai
respingente. La sua interpretazione era magnifica. Lavorando a spron bauto lo riducemmo a due ore e mezzo. Poi, con grande fatica, a due ore e diciannove. Poi, con dolore sempre più profondo, a due ore e undici e, infine, a due ore e cinque minuti. Per tenere il ritmo delle mie idee, studiai un metodo di lavoro con più montatori, ciascuno con una propria postazione. Feci arrivare dal Messico il secondo montatore, che avevamo usato fin dall’inizio; il terzo era un assistente montatore che però seguiva meglio il mio istinto rispeo alla montatrice ufficiale con la quale facevo ancora fatica a comunicare (avevamo qualcosa di reciprocamente allergico nei nostri caraeri, eravamo davvero cane e gao). Fu un processo doloroso e lacerante, come tagliarmi via la mia stessa carne. Ma ero deciso ad andare fino in fondo. Daly passava in sala di montaggio tue le seimane, osservando da dietro la mia spalla, e fummo protagonisti di diversi scontri a proposito dello stupro delle suore, delle scene di sesso e di violenza, del finale. Venni a sapere che John aveva la fama di produore che interveniva pesantemente nel montaggio dei suoi film, tanto che alcune di queste baaglie erano diventate di dominio pubblico, in particolare quelle per Terminator, A distanza ravvicinata e Colpo vincente. Nei suoi confronti avevo un certo potere contrauale perché ero rientrato in possesso dei dirii di Platoon, essendo scaduta l’opzione che avevo concesso a titolo gratuito ad Arnold Kopelson, senza che questi fosse riuscito a trovare i finanziamenti necessari. D’altro canto, Daly non era obbligato a realizzare Platoon, pur essendo ancora interessato. Inoltre, poiché il compenso per Salvador non mi era stato ancora pagato, in linea teorica i dirii erano ancora miei. Tuo, però, si riduceva a una traativa per vedermi riconosciuto il dirio di montare come volevo io il film che avevo girato. A proposito della mia ostinazione in fase di montaggio, John scherzò con il mio avvocato, Bob Marshall, dicendo: “Oliver deve avere un proieile conficcato in testa, dev’essersi perso lì dentro, da qualche parte. Lo capisci da quegli occhi furiosi che ha.” Reminiscenze della “piastra metallica” di cui parlava Gore Vidal. Credo che soo
soo John mi stimasse per il coraggio con cui mi baevo, nonostante temesse che il film fosse una causa persa. Una volta mi raccontò che suo padre, un ex pugile, accoglieva in casa gli animali randagi, cani, gai e così via. A John questo era sempre rimasto impresso e credo che in un certo senso mi considerasse il suo randagio. Agli inizi di novembre organizzammo a Los Angeles una proiezione per un focus group composto da centosessanta speatori. Ci furono poche risate, un punteggio soo la media; il film era troppo volgare e respingente, inadao ai gusti del pubblico medio. Una donna del gruppo, alla fine, si mise a urlare ai quaro venti il proprio odio per il film e la cosa mi impressionò. Joe Farrell, da molti anni proiezionista di professione e ricercatore di mercato per conto degli studios, e del cui giudizio imparai ben presto a fidarmi, parlò di un “pubblico incerto” che si era “sforzato di farselo piacere”. Io ci vedevo un barlume di speranza; ero convinto anch’io che gli speatori volessero farsi piacere un film come Salvador, ed era compito mio aggiustarlo. Continuai perciò a limare, spremere, spostare, migliorare. La mazzata arrivò a metà novembre quando Mike Medavoy e la Orion organizzarono una proiezione per un gruppo selezionato di venti speatori, tra cui alcuni registi. Non fui invitato. Era invece presente Daly, e andò peggio di quanto avessi potuto immaginare. A quanto pare Medavoy interruppe la proiezione a metà film e tui si alzarono e uscirono! Come mi raccontò Daly, lo avevano detestato per la mancanza di immedesimazione con i personaggi e per l’eccesso di sangue e violenza. La Orion non solo non voleva il film ma ritirò l’accordo di massima per la distribuzione di Platoon. Rimasi soo shock, profondamente ferito, in preda alla paranoia: mi vedevo circondato da nemici, convinto che Medavoy, in base alla sua visione neoliberista del mondo, considerasse Salvador un film “comunista, rivoluzionario”, eccessivamente critico verso la politica statunitense nei Paesi del Sud e Centroamerica. Proprio in quel periodo, tra l’altro, l’amministrazione Reagan moltiplicava gli sforzi per
legiimare le barbariche aività dei contras nei confronti del governo di sinistra del Nicaragua. E non giovò al film nemmeno la leera nella quale le domenicane di Maryknoll esprimevano riserve sulla rappresentazione dello stupro e dell’omicidio delle loro consorelle; le suore minacciavano azioni legali a meno che dal film non emergesse con chiarezza che le viime “non avevano alcun coinvolgimento politico”, che il loro impegno era “unicamente religioso” e in quanto tale andava descrio. Per la cronaca, era stato Alexander Haig, il fumantino segretario di Stato di Reagan, a parlare di suore “armate di pistola”, quasi a giustificare le motivazioni degli assassini. In ogni caso, per prudenza eliminai dalle baute di Cindy Gibb qualsiasi riferimento esplicito al loro ordine. Seguì una serie di dure leere indirizzate da Daly al mio avvocato per ribadire il suo dirio di rimontare il film date le circostanze. John indicava dodici tagli, affermando: “Gli speatori vorrebbero farsi piacere il film, ma tu glielo impedisci e li costringi a odiarlo.” Alcune delle sue idee erano condivisibili. John e il mio avvocato Bob Marshall intavolarono una traativa, con Kopelson che si adoperò per arrivare a un accordo in base al quale io acceavo un certo numero di tagli; Jimmy Woods, figurarsi, sarebbe stato l’arbitro imparziale. È vero, la mia visione della violenza all’epoca poteva essere estrema. Kopelson mi raccontò che alcuni potenziali acquirenti esteri, ai quali aveva proposto la visione del film, erano insorti alla scena in cui i ribelli giustiziavano un soldato dell’esercito regolare sparandogli in faccia. Pensare che per me era un punto cruciale della storia, una fredda vendea consumata con un’esecuzione a bruciapelo. Mentre accadeva tuo questo, nella mia vita ricomparve Alex Ho. Insieme partimmo di nuovo per le Filippine per pianificare le riprese all’inizio del nuovo anno. Il sopralluogo era finanziato da John perché, ripeto, Platoon gli piaceva in quanto tale, a prescindere da Salvador. Il mio vecchio “amico” Dino aveva cercato di influenzarlo, chiedendogli nel suo
inglese guurale: “Ma chi te lo fa fare di imbarcarti con Platoon?” Come se John avesse bisogno di qualcuno che controllasse la sua sanità di mente. E perché, non potevo evitare di chiedermi, questa gente continuava a perseguitarmi? Buona parte delle ansie della mia vita sono derivate dal tentativo di sfuggire ai miei fantasmi. Giocò senz’altro a mio favore, e contribuì a placarmi, il fao che stessero per iniziare le riprese (che poi si sarebbero protrae per un intero anno) di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, e che fosse in preparazione anche l’ultrapatrioico Hamburger Hill – Collina 937 di John Irvin. La competizione faceva bene a tui. Alex calcolò un budget di cinque milioni e seicentomila dollari per nove seimane di riprese e la Film Finances, che mai e poi mai avrebbe fao ancora da garante per Gerald Green ma si fidava di Alex Ho, stabilì quasi subito che Platoon sarebbe partito, il 23 febbraio 1986. Perbacco! Diversamente da Salvador, le cose stavano andando fin troppo lisce per poterci credere, e nelle seimane successive presi ogni giorno come veniva, uno dopo l’altro, senza dare niente per scontato. Sebbene volessi lavorare di nuovo con Gerald, non avevo interesse a girare Platoon in Messico, dove lui aveva i suoi finanziatori. Con straordinaria generosità di spirito, John mi chiese se ero disposto a riprendere a bordo Kopelson come produore del film. Senza dubbio Arnold era ben visto dalla Film Finances e le sue vendite estere avrebbero potuto giovare alla struura complessiva del film. Perciò risposi di sì, ma la cosa sarebbe finita male per John, nei cui confronti Arnold avrebbe in seguito intentato un’aspra causa legale. E immediatamente Arnold fece sentire tuo il proprio peso rifiutando di acceare Alex Ho come suo pari, assicurandosi che Alex prendesse lo status di coproduore – un deaglio da cui sarebbero scaturiti parecchi imprevisti. John chiarì anche che avrebbe sostenuto Platoon a spada traa, con o senza il contrao di distribuzione con la Orion – che intanto aveva rifiutato Salvador –, e che, se non avessi
acceato gli eventuali tagli proposti dalla Hemdale e questa si fosse quindi rifiutata di distribuire il film, avrei potuto venderlo io stesso. Era un rischio che ero disposto ad accollarmi pur di preservare la mia idea del film, quali che fossero le conseguenze. Avanti tua. Pur non credendo ancora che Platoon sarebbe stato realizzato, la fiducia di John mi fu di grande conforto e in quei quaro mesi mi aiutò ad affrontare le incertezze che gravavano su Salvador. Anzi, fu un periodo da sogno. Come mai? Come mai John credeva ancora in me malgrado tuo quel patema per Salvador? “In un film, Oliver mee il cento per cento di se stesso,” avrebbe dichiarato a Riordan nel 1995. “Tuo finisce sullo schermo. Per Salvador ha rinunciato ai soldi, al rimborso spese. Penso che avrebbe rinunciato anche alla casa. Per lui ciò che conta è il film. Ed ecco perché, a prescindere dalla riuscita della pellicola, sullo schermo c’è un’intensità che può provenire soltanto da un uomo dalla passione incondizionata.” Dio lo benedica, lo spirito da boxeur di suo padre sopravviveva in lui e, nonostante le voci negative che circolavano sul suo conto, io ho sempre conosciuto John come uomo di cuore che teneva tantissimo alle cose che abbiamo fao insieme. Purtroppo, Gerald Green non avrebbe più lavorato con la Film Finances. Platoon, che lui aveva scoperto per primo portandolo all’aenzione sia di Kopelson sia di Daly, gli cambiò la vita ma fu costreo a rinunciarvi. In seguito avrebbe prodoo altri film, nessuno particolarmente degno di nota, e per anni mi avrebbe ripetuto che Salvador era il film di cui andava più orgoglioso, nonostante gli fosse costato la reputazione e la sua rete di investitori messicani. Alcuni anni dopo, sulla base di certe particolari leggi americane, fu accusato di aver corroo alcuni funzionari del governo thailandese e, dopo un periodo di galera, finì ai domiciliari insieme alla moglie, con il braccialeo alla caviglia. Gli feci visita durante questa reclusione e, nonostante la solita fronte corrucciata alla Graham Greene, lo trovai il gentleman di sempre. Malgrado tue le preoccupazioni, quali altre disgrazie potevano capitargli? Magari a casa si sarebbe rilassato un po’ di più. E forse lo fece. Io lo spero. Gerald rese
le spoglie mortali nel 2015 all’età di oantatré anni, non molto tempo prima che ci lasciasse il grande Richard Boyle, ormai logoro, a seantaquaro anni. Due furfanti senza i quali Salvador non avrebbe mai visto la luce. Intanto continuavo a lavorare al montaggio di Salvador, rendendo il film più compao, più divertente, con la solita ansia che tocca alla maggior parte dei registi quando si lasciano prendere troppo dai dubbi, finendo per meere in discussione la propria sanità mentale – e poi ricominciando da capo. La riscriura è qualcosa che ho imparato grazie agli insegnamenti altrui, da Robert Bolt a Marty Bregman a mio padre. E a pensarci bene, un film è un mezzo espressivo così elastico che il montaggio diventa una forma diversa di riscriura. Prima scrivi da solo, il film è nella tua testa. Poi quando lo dirigi lo porti fuori, lo condividi, lo mei in scena. La fase di montaggio è l’ultima occasione di essere da solo, di ripensare e riscrivere. asi ogni dialogo, con qualche truccheo, può essere inserito o eliminato; si possono scrivere nuove baute, fuori campo, o meerle in bocca a un aore con il doppiaggio. Si possono fare tagli significativi, oppure stabilire connessioni di cui ti accorgi solo durante le riprese, mentre cose che in sceneggiatura ritenevi fondamentali da dire diventano superflue o ridondanti. Il montaggio diventa sconfinato quanto la tua immaginazione. Ma a un certo punto torni nella dimensione pubblica, con i collaboratori che ti guardano mentre provi determinate soluzioni, alcune delle quali non funzionano affao, e allora sanguini davanti agli altri. Montare significa soffrire perché è sempre difficile chiudere un libro. Ripassai il film con John rullo dopo rullo, lentamente, penosamente – all’inizio con Jimmy nel ruolo dell’arbitro, poi solo io e John. E sinceramente, più John guardava il film con aenzione, più trovava difficile tagliare questo o quello a cuor leggero. Tui siamo pronti a giudicare un comportamento altrui, ma più vediamo una certa cosa, più la comprendiamo; meno la vediamo, più possiamo essere crudeli nel volerla tagliare. L’empatia nasce dalla comprensione, eppure a volte
l’empatia ci porta fuori strada. Mi azzardo a dire che, se proprio dobbiamo sbagliare, è meglio salvare troppo di qualcosa che ti piace anziché eliminarne troppo. Perché se tagli una cosa, a distanza di anni ne sentirai la mancanza. Piuosto trova il modo di farla funzionare. Devo dire, a suo onore, che tagliammo meno di quanto John avesse in mente. Georges Delerue, che per anni aveva composto le colonne sonore dei film di Truffaut, si era trasferito negli Stati Uniti. Budd Carr, un discografico acuto e di buon gusto che sarebbe diventato supervisore musicale di tui i miei film, ci presentò. Io e Georges condividevamo la lingua francese e l’umorismo che la contraddistingue. ello stesso novembre, per un compenso irrisorio, Georges scrisse una magnifica, romantica colonna sonora che migliorò Salvador almeno del 25 per cento. Peccato fosse arrivata troppo tardi per le persone che lo avevano rifiutato – tra le quali, ahimè, figuravano ormai anche i dirigenti della MGM, che si stava ritirando dal suo vago accordo di distribuzione con la Hemdale di Daly. aro milioni in promozione e pubblicità che se ne andavano in fumo. Portammo il film alla sua massacrante conclusione appena in tempo per permeere a Daly di usufruire del tax shelter per l’anno 1985, sussidio fiscale cui avrebbe avuto dirio a pao che Salvador fosse stato proieato in una sala cinematografica americana entro il 31 dicembre. In ogni caso non potevo più toccarlo: avevamo finito i soldi. Tra tui i posti possibili, la Hemdale scelse la cià natale di Elizabeth, San Antonio, e lo fece debuare, solo per i suddei motivi fiscali, con un impegno pubblicitario ridoo all’osso. Per la vera uscita, la Hemdale prevedeva una distribuzione in sei cià a partire da tre cinema di New York nel marzo del 1986, per poi passare ad altre cià in base alle prenotazioni, e infine a Los Angeles a metà aprile. Non certo il genere di uscita coraggiosa che avevo avuto con La mano. Così io, Elizabeth e Sean partimmo per San Antonio – ma non ci sarebbe stato alcun lieto fine natalizio. La matinée delle dieci in un’importante multisala airò sì e no una
decina di persone mentre la sala aigua, con Il colore viola di Spielberg, era gremita, così come quella dove si proieava La mia Africa di Pollack. Come posso descrivere il nodo alla gola o allo stomaco che ti prende quando entri in un cinema e trovi solo una manciata di persone sparpagliate qua e là? Continuavo a ripetermi che non era l’uscita vera e propria, né un test con cui valutare l’affluenza potenziale; ciononostante, per essere Natale, fu una grossa delusione. Tra l’altro, diventava sempre più chiaro che l’uscita ufficiale, di lì a qualche mese, sarebbe passata praticamente inosservata. Alcuni brani del film non mi soddisfacevano; era grezzo e, sì, a trai disarmonico. I suoi punti di forza, invece, erano la potenza, la vitalità, l’originalità, e una cosa che non si vede spesso nel cinema americano (alcuni critici l’avrebbero notata): un marcato, radicale impegno politico che ricordava alcuni giovani drammaturghi degli anni Trenta e aranta, un Clifford Odets o un Arthur Miller, che fremevano per raccontare una verità in modo schieo e dinamico. Rilevai anche altri due aspei, entrambi dolorosi: 1) nonostante il Salvador come Paese mi avesse profondamente assorbito per un anno intero, negli Stati Uniti non molti mostravano interesse per questa piccola nazione, questo “merdoso Paese” che stavamo contribuendo a rovinare; 2) avevo sopravvalutato il mio film. Salvador era elerizzante, fresco, realizzato a dispeo di tuo, ma non era un grande film, e questa consapevolezza mi piombò sulle spalle con tuo il suo peso. Eppure ne ero orgoglioso. Avevo fao quello che Scorsese ci aveva chiesto alla scuola di cinema: “Rendetelo personale.” Avevo fao mia questa storia salvadoregna e sapevo che nel film c’era un innegabile valore che lo avrebbe portato a durare nel tempo. Dentro di me non mi sentivo più solo uno sceneggiatore. Ero finalmente cresciuto e, superando la prova del fuoco, ero diventato regista. “Non credo che Oliver voglia dirigere,” aveva dichiarato Michael Cimino alla stampa. “Preferisce scrivere.” Forse non aveva visto in me quella fusione tra i due genitori che si stava finalmente compiendo: tra un padre che
era uno scriore e una madre che era regista, una organizzatrice di party, una che meeva insieme elementi disparati. Perché no? Gli aori portano all’esterno i nostri copioni. E lo stesso fanno i registi. Da dentro noi stessi a fuori. Ma forse perché mamma e papà, Francia e America, erano agli antipodi, questa contraddizione era cresciuta così intensamente dentro di me che adesso ero diventato di “multiforme ingegno”, come dice Omero del suo eroe più autocosciente, Ulisse. Dedicai Salvador a mio padre, rammaricato che non fosse vissuto abbastanza per poterlo vedere. Di sicuro avrebbe riso della follia di Richard Boyle. E forse si sarebbe convinto che quel suo “idiota di figlio” tuo sommato non si era trasformato in uno “straccione”.
9 Ritorno nella giungla
Il regalo di Natale del 1985 me lo portò Steve Pines, quando mi informò che ero al verde. Sospeando che fosse ancora preda del vizio della cocaina, all’inizio mi infuriai, poi caddi nella frustrazione: come era possibile che le mie ultime riserve di contante fossero svanite così in frea mentre realizzavo l’unico film che avessi mai voluto girare davvero? Era ingiusto. Agli inizi degli anni Seanta, quando non avevo un soldo ed ero sposato, ero comunque riuscito a prendere in prestito da una finanziaria cinquemila dollari a un tasso, se non ricordo male, del 23 per cento, per pagare i debiti accumulati con le scommesse sul football. Dopo la separazione da Najwa, però, ero stato davvero al verde. Nelle giornate buone meevo in tasca venti dollari, a volte non avevo nemmeno i soldi per il biglieo dell’autobus e di noe tornavo a casa a piedi per infilarmi tra lenzuola fredde e ruvide, la mente piena di fantasie. Adesso invece ero proprietario di immobili ma, come mi spiegò Steve, non avevo contanti, solo passività – la differenza è grossa, come sanno molti degli americani che vivono a credito. Perciò Steve riuscì a farmi oenere un piccolo anticipo dalla banca, così da avere a disposizione un po’ di liquidi, e fortunatamente, nel gennaio del 1986, cominciarono ad arrivare i soldi per la produzione di Platoon reperiti da Alex Ho. Bisognava che i set fossero pronti per l’inizio delle riprese, fissato per fine febbraio nelle Filippine: a quanto pareva c’erano altri che avevano una gran frea. Ogni film risponde a una sua logica, e per una volta era il film a trascinare me anziché viceversa. Sensazione bizzarra. Non era
mai successo niente di tuo ciò nelle mie tre precedenti esperienze, nelle quali mi ero abituato a convivere giorno per giorno con la paura e l’incertezza. Dopo che la Orion aveva prima acceato e poi rifiutato Platoon, Mike Medavoy mi convocò nel suo ufficio per “appianare le cose” a proposito di Salvador. Medavoy si scusò per aver rifiutato il film nel bel mezzo delle riprese, ma geò la croce addosso a John Daly che, a suo dire, gli aveva spacciato per completo quello che era solo un work in progress – una balla, ovviamente, tesa solo a giustificare il proprio comportamento. Forse il clima intorno al Vietnam stava mutando a nostro favore. Non so assolutamente perché, ma Medavoy mi ammonì di fare Platoon “meglio di Salvador… niente di gratuito… non sbaerci la violenza in faccia; fa’ che ogni personaggio sia un essere umano coinvolgente per il pubblico”. Citò come modello Orizzonti di gloria, il film antimilitarista di Kubrick del 1956. Medavoy aveva un certo fascino, era un animale politico in tuo e per tuo. Era un po’ come Bill Clinton: di bell’aspeo, progressista solo di facciata, evasivo, convinto di non essere così. Per lui si traava soltanto di “pragmatismo”. Nel suo mondo, l’inganno e la prevaricazione erano necessari per sopravvivere, e lui in effei sopravviveva, con sagacia e astuzia. Cominciavo a rendermi conto che, se volevo andare avanti nel cinema, secondo gli standard di questa industria Mike era davvero uno dei buoni mentre io, in base a quegli stessi standard, ero un estremista. Ma potevo essere un estremista con un lavoro, a pao che comprendessi le esigenze di Medavoy – le esigenze della Orion. Credo che quella riunione fu un provino per capire se il cocciuto, incontrollabile Stone, colui che aveva realizzato il famigerato e grandguignolesco La mano, un film che aveva fao perdere soldi alla Orion (il massimo dell’ignominia a Hollywood), era disposto a fare gioco di squadra; nel qual caso, la Orion sarebbe improvvisamente tornata in ballo in veste di distributore estero e, potenzialmente, nazionale di Platoon. Acceai di buon grado di collaborare con loro, in libertà vigilata.
Charlie Sheen – fratello minore della mia prima scelta di tre anni prima, Emilio Estevez – con le sue sopracciglia scure mi ricordava il giovane Montgomery Cli in Un posto al sole (1951); quella specie di sguardo perso, poi, era lo stesso che avevo anch’io da giovane soldato appena arrivato in Vietnam. Charlie aveva offerto un’interpretazione interessante nei Ragazzi della porta accanto di Penelope Spheeris e, sebbene stessi seriamente valutando John Cusack, che aveva maggiore esperienza e trasmeeva ambiguità, decisi che quest’ultimo sembrava troppo maturo. Volevo l’innocenza che proieava Charlie, pur non possedendola. Daly approvò la mia scelta ma all’ultimo momento, prima della firma del contrao, Arnold Kopelson e il grifagno Richard Soames mi chiesero di incontrare Keanu Reeves, un’altra star emergente, visto che di Charlie si diceva facesse uso di sostanze e non fosse del tuo affidabile. Reeves era entusiasmante, sexy, e sembrava perfeo. Forse troppo perfeo. Gli facemmo un’offerta che lui rifiutò, dicendo al suo agente che aveva “detestato la violenza della sceneggiatura”. Vedendo ciò che ha fao in seguito nel cinema, quella decisione lascia ancora più perplessi, ma Keanu all’epoca sembrava in cerca di se stesso; e c’è chi dice che lo sia tuora. Per il ruolo del cinico sergente Barnes incassai il rifiuto di Jimmy Woods, al quale lo avevo proposto nonostante le mie frustrazioni e i miei timori. “Una giungla nelle Filippine con Oliver? Ahi ahi ahi! Ancora dissenteria e insei per rivivere il suo incubo? No, grazie!” A giustificazione del no, il suo agente ci disse che Jimmy non voleva più interpretare ruoli da antagonista, vale a dire: “Vuole un ruolo da protagonista, preferibilmente un buono” – e Barnes non lo era proprio. Tra gli altri rifiuti ricevemmo quelli di un giovane Kevin Costner, di Bruce Willis e di Jeff Fahey (che poi sarebbe apparso in Cacciatore bianco, cuore nero di Clint Eastwood). Rifiutò anche Sco Glenn. Che cosa non andava in questo ruolo? Il povero Chris Penn, fratello minore di Sean, lo avrebbe voluto, con il suo entusiasmo animalesco, proponendosi di perdere dieci chili e minacciando di “terrorizzare gli altri aori”. Adoravo il suo coraggio, ma purtroppo Chris dovee
rinunciare all’improvviso a causa di un’ernia che gli impose un periodo di assoluto riposo. È a questo punto che intervenne il fato. Tom Berenger era disponibile, lo era sempre stato, modesto, cortese, ma non elerico com’era il vero Barnes. “Sono nato per interpretare questo ruolo,” mi disse Tom, che tuavia secondo gli standard hollywoodiani era ancora un belloccio adao a ruoli romantici. Ma quella non era la sua vera personalità. Percepivo in lui una ruvidezza, un’inquietudine che poteva incutere paura, e su suggerimento della nostra comune agente, Paula Wagner, lo presi a bordo, seppur con titubanza. Tom invece crebbe giorno dopo giorno e, con l’aiuto delle realistiche protesi e delle cicatrici create dal truccatore Gordon Smith, divenne un’oima approssimazione del personaggio reale. Non sapevo se il vero sergente Barnes fosse sopravvissuto alla guerra, ma mi sono sempre chiesto se vedendo il film si sarebbe riconosciuto in Berenger. Nel 1983-84 e poi di nuovo nel 1985-86 avevo visionato molti aori nativi americani senza riuscire a trovare un apache ispanoamericano per il sergente Elias, che come aspeo ricordava il giovane Jim Morrison (al quale nel 1969 avevo spedito la primissima versione di Platoon – allora intitolata Break, senza avere risposta). Profondamente deluso, cambiai prospeiva riguardo al ruolo e, quando vidi Vivere e morire a Los Angeles (1985) di Friedkin, rimasi affascinato dal suo caivo, Willem Dafoe, con quegli zigomi sporgenti e quella voce strana e suadente. Willem aveva origini europee miste e una piaa intonazione del Wisconsin, ma in lui c’era un’anima, una gentilezza che emanava dagli occhi. Era solo una suggestione ma, come Berenger, mi trasmeeva qualcosa. Forse, in un certo senso, non fui io a scegliere, ma venni scelto; comunque, con l’andare del tempo, mi convinsi sempre di più di entrambi. Pat Golden, un agente di casting indipendente di New York, ci propose facce nuove come Kevin Dillon, Paul Sanchez, Richard Edson e Mark Moses; e tra gli aori afroamericani trovammo Keith David, Forrest Whitaker, Tony
Todd, Reggie Johnson, Corey Glover e Corkey Ford. Poiché i tre plotoni da combaimento di cui avevo fao parte erano composti per il 15 per cento circa da afroamericani, individuammo, per il ruolo di comparse, altri giovani tra i nigeriani che studiavano nelle Filippine. A Los Angeles scegliemmo per un piccolo ruolo un bellissimo volto nuovo che aveva tue le stimmate del divo ma era ancora acerbo: Johnny Depp, dal Kentucky. In generale, volevo volti da America di provincia, del Sud, oltre a qualche ispanoamericano, e di conseguenza i casting su entrambe le coste videro sfilare diversi esordienti: Francesco inn (figlio di Anthony), Chris Pederson, David Einhorn, una decina di altri. In tuo, scriurammo venticinque, trenta ragazzi pronti a lavorare all’estero per la prima volta in vita loro. Fu elerizzante, come reclutare una ciurma pirata con cui prendere il mare, direi chissà dove. All’entusiasmo si intrecciava però anche l’apprensione. Potevo farcela dopo tuo quel tempo, sarei riuscito a ricordare gli innumerevoli deagli e portare a termine questo film? Lo avevo forse girato troppe volte nella mia testa, avevo scrio troppe versioni della sceneggiatura? “Non lasciare la partita nello spogliatoio,” mi aveva ammonito una volta Cimino, intendendo che un regista può eccedere nella preparazione di un film, soffocarlo ancora prima di iniziare le riprese. Inoltre ero stanco, l’impegno di girare e montare Salvador mi aveva lasciato sì e no qualche giorno di riposo ogni tanto. A dire la verità, dopo tue le montagne russe emotive del passato, approcciai le riprese di Platoon con distacco e una certa freddezza, da mestierante, cercando solo di mantenere la barra dria. Forse perché c’erano stati troppi tormenti per Salvador. Il vicedireore del seore media e speacolo del Pentagono aveva rifiutato qualsiasi ausilio al film, definendo “del tuo inverosimile” la sceneggiatura, con particolare riferimento al linguaggio, al traamento riservato ai civili vietnamiti e al cosiddeo fragging (l’omicidio premeditato di un commilitone). Non era possibile alcuna collaborazione;
anzi, il Pentagono fece esporre un avviso nelle basi filippine di Clark e Subic Bay affinché le truppe americane si astenessero dal partecipare alle riprese. Pur essendo un reduce decorato, non mi ero mai illuso di avere quel genere di appoggio. Avevo visto i film di guerra pseudopatrioici ai quali il Pentagono forniva arezzature e milioni di dollari. Ingaggiai invece un parsimonioso ex Marine con una ventina d’anni di esperienza, Dale Dye. Anzi, fu lui a scovarmi: aveva leo del film nelle riviste specializzate e aveva voluto a tui i costi venire a conoscermi nella sala montaggio di Salvador, presentandosi in mimetica, ricordo, con tanto di pugnale e pistola alla cintura. Ero rimasto profondamente colpito dalla sua tenacia – “inarca la schiena come un mulo soo la grandine”, si diceva tra i cowboy del Missouri – e dalla sua voglia di “dire finalmente le cose come stanno a proposito del Vietnam!”. Dale, con la sua chioma argentata, era un uomo forte e pronto ad assumersi le sue responsabilità, convintamente di destra e in conflio con le mie opinioni. Io però sapevo cosa volevo e non mi sarei lasciato condizionare dalle sue teorie sul modo giusto di organizzare una scena di baaglia. Mi importava che fosse un maniaco dei deagli, perché proprio di questo avevo bisogno. Avrebbe addestrato il cast con il pugno di ferro, mantenuto la disciplina durante tuo il periodo delle riprese e fao fruare al massimo ogni dollaro che avevamo a disposizione. Dale imbarcò anche tre giovani militari che gli dessero una mano e io, da parte mia, aggiunsi alla squadra anche il mio amico Stanley White, il polizioo di Los Angeles conosciuto ai tempi dell’Anno del dragone, anche lui un ex Marine che aveva combauto in Vietnam. Ai primi di febbraio, dopo elezioni movimentate e fraudolente, nelle Filippine le cose stavano cambiando in maniera imprevedibile e tuo a un trao i nostri progei di produzione erano a rischio. Verso la metà del mese, il Paese era ormai sull’orlo della guerra civile. Il diatore, Fernando Marcos, e sua moglie, la presenzialista Imelda, al potere da vent’anni, erano stati sconfii da Cory Aquino, vedova di un riformista politico assassinato, ma non erano disposti a
cedere. Stando a quello che si diceva, l’esercito era spaccato in due. Chiaramente era il momento che Marcos, malato come un cane a causa di un’infezione ai reni, se ne andasse. Ma l’avrebbe fao? Kopelson e Soames erano preoccupati. Gli agenti degli aori non facevano che telefonare. Diversi di loro avevano già avuto da ridire per la clausola contrauale, non prevista dalla Screen Actors Guild, che richiedeva ai loro clienti di seguire un corso di addestramento di due seimane, a tempo pieno, con il capitano Dye. Negli Stati Uniti, infai, il contrao colleivo della SAG garantiva agli aori una giornata da dodici ore con un periodo di riposo di altre dodici prima della convocazione successiva, spostamenti compresi – una condizione impossibile da rispeare se volevamo realizzare un realistico film di guerra nei cinquanta giorni a nostra disposizione. Ricevevamo anche telefonate dai genitori degli aori, che volevano notizie dei loro bambini in procinto di partire per un’isola dimenticata da Dio dove per giunta era in corso chissà quale rivoluzione. Eravamo tra l’incudine e il martello. Trasferire le riprese altrove sarebbe costato una fortuna e avrebbe probabilmente tagliato le gambe al film. La soluzione migliore era restare pronti senza farsi prendere dal panico. L’incertezza politica ci indusse a rimandare di circa tre seimane la data di inizio delle riprese, spostandola al 20 marzo. Ci avremmo rimesso una discreta somma ma, per una volta, a tenerci a galla avevamo un vero fondo rischi del 10 per cento. Ciononostante, diversi aori rinunciarono, obbligandomi a riassegnare i ruoli aingendo al nutrito elenco di alternative accumulate nel corso degli anni. Con apprensione, seguivamo quotidianamente lo sviluppo della situazione nel Paese. Molti, tra cui Bob Richardson e Willem Dafoe, erano già sul posto e ci raccontavano del caos che scoppiava di tanto in tanto nelle strade. Le voci si rincorrevano: alcuni sussurravano che Marcos fosse già scappato, cosa non vera, altri che stesse preparando un colpo di Stato. Ancora una volta mi sentivo impotente, tuo era fuori dal mio controllo. Salvador, che stavo promuovendo in vista dell’uscita newyorkese del 7 marzo, non stava andando come avevo
sperato e ora Platoon sembrava sbriciolarsi per l’ennesima volta: due film a me così cari che morivano negli stessi giorni. Era come se, con quella rovinosa catastrofe, il destino volesse prendersi gioco delle mie speranze. Il 22 febbraio, con i media americani che invitavano a gran voce Marcos a lasciare il potere, il presidente Reagan stava ormai silenziosamente soraendo al diatore il sostegno degli Stati Uniti. Il 24, finalmente, Marcos abbandonò la nave con circa quindici milioni in gioielli, oro e contanti, rifugiandosi in una base sicura delle Hawaii per non tornare mai più nel Paese. Si venne a sapere in seguito che, dopo anni di corruzione, dalle casse del tesoro delle Filippine erano spariti miliardi di dollari. Nel palazzo presidenziale, invaso dai manifestanti della “rivoluzione del rosario”, erano state trovate tremila paia di scarpe appartenute a Imelda, una collezione che finì su tui i giornali del mondo e sarebbe andata ad arricchire un museo. La tensione dell’aesa mi stava uccidendo. A febbraio, l’aria di New York era frizzante e il cielo terso, nonostante i venti centimetri di neve accumulati sui marciapiedi. Un altro colpo basso fu la notizia che il festival di Cannes aveva rifiutato Salvador in quanto troppo “pieno di azione”, che per loro significava “commerciale” – anche se il film non era né l’uno né l’altro. Cascava un po’ a metà. Per me sarebbe stato il primo di una serie di rifiuti da parte di Gilles Jacob, il mandarino francese per molti anni a capo del festival. Jacob, che sembrava sempre trovare volgari i miei film, rappresenta per me uno di quei sommi sacerdoti che cercano di controllare la cultura perseguitando chiunque di noi cerchi di ribellarsi. Come potevano voltare le spalle a un film che puntava i rifleori sulle violazioni dei dirii umani durante un’efferata guerra civile? A Cannes erano passati film profondamente critici nei confronti del sistema, in particolare La baaglia di Algeri e Z – L’orgia del potere, ma alla metà degli anni Oanta l’intellighenzia francese stava subendo una soile trasformazione, diventando sempre più sistema essa stessa. Fu una curiosa concatenazione di eventi. Il
distributore francese di Salvador, una piccola società direa in spirito da Annie François, credeva ancora fermamente nel film, ma “Libération”, uno dei maggiori giornali di sinistra del Paese, lo aveva stroncato – senza nemmeno averlo visto – già a dicembre, definendo me “un pazzo destrorso” e liquidando Fuga di mezzanoe (che a Parigi aveva riscosso grandissimo successo) come semplice merde. Salvador, osservava “Libération”, sarebbe stato senz’altro “l’occasione per Stone di uccidere delle suore”. A volte la baaglia sul fronte della stampa diventa davvero cruenta. Ma c’era un fenomeno di più ampia portata in corso nei media occidentali, iniziato alla fine degli anni Seanta e consolidatosi intorno a Reagan e a Margaret atcher in Inghilterra. Ossia una specie di posticcio neoliberismo, riverente verso il capitalismo, che poteva essere identificato con l’impero, la NATO e l’alleanza militare occidentale, fortemente legato ai controllori economici della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Tale neoliberismo non si limitava a braccare il morente impero sovietico ma cominciava ad aaccare qualsiasi presunto germoglio di rivoluzione in America Latina e nel resto del mondo. Credo che con quel prefisso “neo” si intendesse che non somigliava in alcun modo al vero liberismo. Il ribelle che è in me inveiva contro questi ideologi: “Fanculo! La gente vedrà il film malgrado voi!” Arnold Kopelson, per esempio, stava oenendo buoni successi nelle vendite estere di Salvador – 250.000 dollari in Italia, 200.000 in Spagna, 55.000 in Indonesia –, segno che non ero solo e che anche altri credevano nel film. Eppure la Germania e il Giappone, due dei maggiori mercati cinematografici al mondo, tentennavano ancora. Di conseguenza, le mie interviste diventavano sempre più arrabbiate, arroccate e politiche. “Il Centroamerica ha il dirio di essere ciò che vuole essere. Se un soomarino nucleare russo può arrivare a quindici miglia dalla baia di New York, che differenza fa se in Nicaragua ci sono i russi?” (Un’altra falsa diceria dell’epoca.) “ando tuo figlio muore di dissenteria non è più una
questione di capitalismo o comunismo. I politici americani non si rendono conto che la rivoluzione è una risposta alle condizioni economiche e sociali, non un gioco da Guerra fredda. È un conflio nord-sud, non est-ovest.” Persino mio padre sarebbe stato d’accordo con queste parole. Il “Los Angeles Weekly”, apprezzato seimanale alternativo con un grosso seguito di appassionati di cinema, dedicò a Salvador una copertina e un articolo (Oliver Stone: il Lord Jim squarinato del cinema) sostanzialmente positivo, nel quale Ginger Varney si interrogava sulla mia presunta evoluzione da conservatore anni Sessanta a progressista anni Oanta (“Hollywood non sa ancora dove collocare Oliver Stone”). La rivista “American Film”, diffusissima negli ambienti del cinema, scrisse che Woods era “brillante” e che Stone aveva firmato un’altra “sceneggiatura da pugno nello stomaco”. Tui si schieravano, il film polarizzava i giudizi. Alcuni progressisti americani erano disgustati dal personaggio di Boyle; altri ritenevano improbabile che durante la baaglia di Santa Ana i guerriglieri dell’FMLN potessero aver ucciso a sangue freddo i membri della guardia nazionale caurati, oltre a notare che non c’era mai stata una carica di cavalleria. Tuo vero (soprauo per quanto riguarda la cavalleria), ma mostrando l’esecuzione degli uomini della guardia nazionale avevo voluto riequilibrare in qualche modo il film, che sospeavo sarebbe stato bollato come “comunista” e prorivoluzionario. Boyle mi aveva deo che l’uccisione di prigionieri – specie ufficiali noti per i loro legami con gli squadroni della morte – da parte di alcune unità ribelli era un fao ben documentato, sebbene nella stragrande maggioranza dei casi i prigionieri non subissero danni e a volte venissero addiriura rilasciati. Sapere che se la sarebbero cavata indenni aveva infai il potente effeo propagandistico di rendere le truppe governative più disposte ad arrendersi. Oggi, a ogni modo, ritengo che cercare questo equilibrio fu un errore da parte mia. Jack Kroll, il decano della critica del “Newsweek”, prese sul serio il film, lo vide due volte, ne parlammo a lungo e
scrisse una recensione ponderata, che tuavia non incise sul boeghino. Janet Maslin, la nuova seconda firma del “New York Times”, disse a Marion Billings che, sebbene le fosse piaciuto molto, purtroppo sarebbe entrata in maternità proprio la seimana dell’uscita del film e ci avvertì inoltre che, soo la direzione di Arthur Gelb e Abe Rosenthal, il quotidiano stava prendendo una piega neocon. Nonostante il film stesse per debuare a New York il 7 marzo, non c’erano materiali promozionali pronti: trailer, manifesti, cartelloni pubblicitari, spot televisivi, niente. Una situazione incresciosa, a dea di Marion Billings e del signorile Arthur Manson, che all’ultimo momento si era unito alla nostra squadra nel ruolo di consulente di marketing indipendente; Manson era nel seore fin dagli anni Cinquanta e conosceva tui gli esercenti, ma ormai i giochi erano fai. Tui i segnali lasciavano prevedere un disastro commerciale tra marzo e aprile, più o meno la stessa stagione in cui avevamo fao uscire La mano nel 1981, un sinistro parallelo che continuava a riecheggiare nella mia mente. La mia rabbia a lungo compressa esplose nel corso di un’intervista con l’importante giornalista di sinistra Alexander Cockburn, un uomo che amava essere provocatorio con gli intervistati e al quale dichiarai: Sono disgustato dal potere che pochi stronzi ignoranti hanno nel determinare il corso del dibaito politico sul Centroamerica: Jesse Helms, Robert Dole, Reagan, Bush, tua questa mafia di propugnatori della Guerra fredda che esiste fin da quando sono nato. Comincio a pensare che l’unica soluzione sia una guerra che tocchi da vicino gli americani, perché solo così questo Paese potrà aprire gli occhi sulla realtà di ciò che sta succedendo in quei Paesi. Credo che l’America debba sanguinare. Credo che i cadaveri debbano ammucchiarsi. Credo che i ragazzi americani debbano tornare a morire. Che le madri piangano a luo. Che le madri si accorgano, cazzo, di quello che sta succedendo. Perché a loro non gliene importa un cazzo dei centomila guatemaltechi uccisi grazie alla nostra tecnologia ma, quando in Honduras morirà un americano, allora sì che resteranno turbate. Te lo dico chiaro e tondo, non lascerò mai partire mio figlio. Infrangerò la legge, me ne andrò in Canada. Lo porterò via dal Paese. L’unico problema sarebbe se lui volesse andare.
Sono parole dure e di certo indispeii un mucchio di persone che mai sarebbero andate a vedere un film realizzato dal promotore di una tale rivolta, qualcosa di inconcepibile
per la mentalità americana. Ma combaevo una causa persa, affrontare interviste televisive parlando di politica, di storia, di qualsiasi cosa pur di sensibilizzare la nostra sonnolenta opinione pubblica sul tema del Centroamerica. Gli antichi greci avevano una parola meravigliosa, idiōtēs, per descrivere l’uomo privato, completamente avulso dalle questioni politiche, mentre nella loro cultura era l’uomo pubblico a godere di ammirazione. Ma era il momento sbagliato per certi discorsi, con Reagan che tornava alla carica per rianimare e sostenere la ribellione dei contras nei confronti del governo di sinistra del Nicaragua. Elizabeth, un tempo soo sorveglianza dell’FBI per le sue aività di estremista, era furiosa con me. “Non puoi continuare a combaere questa guerra, Oliver. Non puoi andare in TV a sostenere dibaiti politici. Non servirà ad airare la gente. Hai fao il film! Basta. È stato deo tuo… Ora porta a termine Platoon e vedrai che le analogie riaccenderanno l’interesse anche per Salvador.” Aveva ragione lei. Io invece ero troppo coinvolto emotivamente per essere lucido ed efficace, e con il mio solito aeggiamento sprezzante sprecavo inutilmente energie nel combaere, sperare, disperare e ancora combaere. È un perenne tormento dell’animo, perché quello è il tuo demone, e affrontandolo peggiori solo le cose. Ma a volte un pugile non può essere razionale, deve solo incassare stoicamente. Negli anni Cinquanta, sul mio televisore in bianco e nero, avevo visto Carmine Basilio beccarsi un sacco di boe dal grande Sugar Ray Robinson al Madison Square Garden. Guardate gli occhi di Carmine e immaginate la pena che sta patendo. In cuor mio, mi rendevo conto dell’inutilità della crociata che combaevo. ando mamma mi disse che sarebbe venuta a Los Angeles – “Ma lo so che sei impegnato, non ti ruberò tempo” – capii che voleva solo vedere Sean ed Elizabeth. “Che cosa sono diventato?” scrissi nel mio diario. “Un Macbeth degli stakanovisti. Ho lavorato diciassee anni di fila, due sceneggiature l’anno eccetera, e che cosa ho oenuto? Non
sono mai riuscito a rilassarmi ma devo farlo. Continuo a correre come un coniglio impazzito giù per una tana da Paese delle meraviglie, divento ora più grande ora più piccolo senza mai sapere che cosa mi riserverà il domani.” A due seimane dalla prima newyorkese, e a tre dall’inizio delle riprese di Platoon, volai a Manila su un aereo pieno di esuli che facevano ritorno nelle Filippine, alcuni dei quali avevano trascorso interi decenni lontano dalla loro patria, a loro modo riecheggiando il mio lungo viaggio dal Vietnam nel 1968. Gli esuli furono accolti al gate da un trionfante e chiassoso manipolo di giornalisti. Ero contento per loro, ma a me la situazione politica aveva creato numerosi problemi. Nell’avvicendamento di potere, per esempio, l’esercito filippino aveva annullato tui i nostri contrai. Fortunatamente, la nostra risolviguai sul campo, la temibile Nguyen Win, sposata con un ex ufficiale della CIA, riuscì in tre seimane a stabilire nuove relazioni, cosa che senza dubbio comportò spese extra. Per il momento, comunque, i trenta giovani aori che componevano il cast erano bloccati in un hotel di quello strano Paese straniero, con ben poco da fare se non meersi nei pasticci con le donne del posto, finché Dale Dye non avesse allestito il suo campo di addestramento all’interno di una base militare nella giungla. Avevamo anche un problema con Bruno Rubeo, lo scenografo, che era in ritardo sulla tabella di marcia. Mancavano tre seimane e le ruspe non avevano ancora finito di spianare i tre chilometri di strada che ci avrebbero permesso di raggiungere un determinato trao di giungla montana. Avevamo una chiesa e un villaggio da erigere e un complesso di cunicoli da costruire (per comodità li stavamo realizzando sopra il livello del suolo). Per giunta, prima del mio arrivo c’era stato un crollo nella struura delle gallerie e un giovane operaio filippino aveva perso la vita. Fu straziante: il dolore dei familiari, una cerimonia ufficiale di scuse, i risarcimenti e Bruno che, in maniera imbarazzante, cercava di addossare la responsabilità al coordinatore filippino dei lavori. Alex Ho lo contraddisse aspramente su
diversi punti, e proprio quel tentativo di scaricabarile da parte di Bruno mi induceva a credere ad Alex. Di Bruno amavo il calore umano e la tempra dimostrata in condizioni di emergenza durante la produzione di Salvador, ma in questo caso non si era certo conquistato la stima della sua squadra di costruori. Lieto di tornare a lavorare su qualcosa di concreto, mi tuffai nella giungla, addentrandomi fra gole e montagne dove usare una macchina da presa era quasi impossibile, alla ricerca di posti sperduti che fornissero un’atmosfera esotica, pur sapendo quanta fatica ci sarebbe costata trascinare i nostri pesanti macchinari così lontano dagli accampamenti sicuri che le troupe cinematografiche normalmente preferiscono. Vedere la faccia contrariata di Alex Ho mi procurava un piacere particolare. Non volevo essere il classico regista che si accontenta di ciò che è più comodo. Volevo realizzare qualcosa di diverso, come Apocalypse Now, anche se con un budget minore, ed ero fiducioso che saremmo riusciti a sopportare lo sforzo, perché Salvador era stato un addestramento spietato e Bob Richardson, di nuovo nostro direore della fotografia, era prontissimo alla sfida. Dopo le nostre peripezie messicane, cosa poteva esserci di peggio? Intanto cercavo di prendere con filosofia l’imminente debuo di Salvador dall’altra parte dell’oceano. La sconfia però era annunciata. Oltre alla misera pubblicità, le prime recensioni furono, in genere, distaccate e poco stimolanti; la terza firma del “New York Times”, Walter Goodman, politicamente vicino alle posizioni neocon, firmò una stroncatura nascosta dietro un finto elogio; descrisse il film come una minestra riscaldata, una fantasia propagandistica alla Costa-Gavras, rimproverandomi di confondere fai e immaginazione. Il “Daily News” e il “New York Post” lo liquidarono in quaro e quar’oo. E quando chiamai Elizabeth per conoscere il suo parere, mi disse: “Be’, ci sono il buono, il bruo e il caivo,” e mi lesse il pezzo uscito sul “Village Voice” a firma di David Edelstein, il quale,
nonostante avesse deo a Marion che il film gli era piaciuto, adesso scriveva: “Di primo acchito ho apprezzato il film, poi però ci ho pensato su e ho capito che mi ero fao fregare.” Salvador, a suo avviso, era “offensivo dall’inizio alla fine”. “È la peggiore recensione che abbia mai leo,” concluse Elizabeth. Ma c’erano anche opinioni positive. Roger Ebert, a Chicago, gli dava tre stelle e mezzo su quaro, anche se Gene Siskel, insieme al quale Ebert conduceva un programma sul cinema, gli dava “pollice verso”. Al “Newsday” di Long Island, al gruppo Ganne e alla condurice Kiy Kelley (“Abbagliante!”) era piaciuto. Il critico dell’“Hollywood Reporter” scrisse: “Anche se è troppo presto per dirlo, potrebbe essere il film dell’anno”; e “Variety” lo definì “diverso in modo inquietante dai soliti film, crudo come il suo protagonista”. Ma senza il “New York Times” (perché, perché Janet Maslin aveva dovuto meersi in maternità proprio quella seimana⁉) e un minimo di promozione, nella Grande mela eravamo già morti. Tuo quel lavoro, in fumo in un solo weekend. Ero scoraggiato. Oscar Wilde, quasi un secolo prima, aveva offerto un’immortale descrizione di un simile momento: “La mia commedia è stata un successo. È il pubblico che è stato un fallimento.” Ma adesso dovevo andare avanti. Pensai ai dissidenti russi che avevo conosciuto, alle memorie di alcuni prigionieri di guerra del Vietnam che avevo leo. Non ci si può piangere addosso. Devi essere più forte dei tuoi aguzzini – o dei tuoi critici. Le paure su Platoon cominciavano a spuntare come funghi. Il loro peso avrebbe potuto schiacciarmi. Che pubblico femminile poteva esserci per un film del genere? Daly di certo aveva i medesimi dubbi. Il mio senso della violenza era troppo realistico e aspro per la maggior parte degli americani. Forse ero semplicemente troppo diverso, il Vietnam mi aveva sbalestrato per sempre. La mia natura profonda era inacceabile nell’immaginario del pubblico cinematografico. Senza rivelare nulla delle mie ansie alla troupe, mi trasferii al campo di addestramento degli aori e dormii in mezzo alla
giungla, lontano da tuo e da tui, come in Vietnam – solo io e le stelle. Ma il pensiero di Salvador era sempre lì, un fuoco nel cervello. Gli sforzi di un anno intero. Boyle, per fortuna, era lì con me e insieme ridemmo a crepapelle della strada faa, come due vecchi cercatori d’oro sopravvissuti – lui “la vergogna del giornalismo”, io l’“autore di fumeoni” – mentre la polvere d’oro svaniva tra le nostre dita. In fondo, avevamo cominciato con niente solo quaordici mesi prima, ed era stato un vero inferno trascinare i nostri muli su e giù per le montagne del Messico. Ma alla fine ne eravamo usciti vivi, questo era l’importante. Anche se non c’era pace per me lassù tra quelle stelle, stavo rientrando in contao con il mondo reale. Non ero più un giovane, susceibile soldato con la vita (e la morte) di fronte a sé, senza nobili scopi se non quello di sopravvivere alla missione successiva e tornare al campo base, farsi una doccia, consumare un pasto caldo. Adesso ero un tormentato, frustrato sceneggiatore-regista-marito-padre-uomo d’affari che cercava di sopravvivere in una strana giungla appartenente al proprio passato, con l’impressione che Salvador mi avesse bloccato in terza base. L’unico modo per meere punti a tabellone era sparare un fuoricampo con Platoon. Gli aori, grazie all’addestramento, si stavano compaando come un vero plotone. All’inizio prendevano in giro Charlie Sheen per i pacchi di roba che la madre gli spediva da Malibu e che loro gli requisivano per dividerseli. Ogni volta che sentiva un “Oh cacchio, devo chiamare il mio agente”, Dale Dye urlava: “Sai che ti dico, stronzeo? Sin loi.” (Un’espressione vietnamita che potremmo tradurre con “Peccato!” o “anto mi dispiace!”) “Non c’è un cazzo di telefono nel raggio di trenta chilometri dal tuo culo!” Ma ben presto si dimenticarono di tuo, presi com’erano dalla fatica delle marce, le vesciche sulle mani e sui piedi, i tagli di machete, i morsi delle formiche, le ustioni al collo, le storte alle caviglie e persino i denti roi. Durante la mia seconda visita partecipai anch’io all’appostamento nourno che Dale
aveva fissato per le tre di noe. Io e lui, nei panni dei soldati nordvietnamiti, terrorizzammo gli aori facendo partire esplosioni tuo intorno al perimetro. Di nuovo “giochi di guerra”. Ma all’insaputa degli aori e della mia troupe io stavo combaendo una guerra diversa, più disperata, nel tentativo di sopravvivere come civile. Ero arrivato a un punto di svolta. Tuo adesso dipendeva dai risultati di Platoon. Provavo in tui i modi a risollevarmi l’umore, ma invano. Ogni giorno c’era una nuova e sconfortante notizia da affrontare. Le cifre del boeghino che arrivavano da New York non erano soddisfacenti. Un piccolo film inglese dalle velleità artistiche, My Beautiful Laundree, aveva fao il boo e ci aveva spazzati via. E proprio mentre il mio film usciva a Washington, Reagan stava finalmente convincendo il Congresso sulla questione Nicaragua. Non me ne andava dria una. Una commedia scria da John Hughes, Bella in rosa con Molly Ringwald, all’improvviso era su tui i giornali. Su Salvador invece non usciva più mezza riga. E io non potevo farci niente. Eppure, con mio stupore, la Hemdale non dava segno di voler cancellare Platoon. Arnold Kopelson accompagnò sul set il lugubre Soames, che con il suo unico occhio d’aquila passò al setaccio le nostre operazioni ritenendosi stranamente soddisfao di come Alex Ho le stava conducendo – tu’altra cosa rispeo al losco e chiacchierato Gerald Green in Messico. I genitori di Alex venivano dal Guangdong e lui era un vero cantonese quanto a disciplina, pragmatismo, aenzione al denaro, durezza: sapeva bene cosa significa sanguinare per qualcosa di valore. Alex non era particolarmente interessato alla cultura, il suo stentato americano con l’accento del eens spesso mi faceva ridere per il fervore e la veemenza che sembrava aggiungere alle sue parole; nessun dialogo cinematografico avrebbe potuto rendergli giustizia. Vestiva piuosto elegantemente, con abiti comprati da Barneys a New York e un sigaro che spuntava dal viso puntuto, dominato da un paio di occhiali con la montatura nera, e si
era presentato sul set con una splendida fidanzata, una bionda americana che per lui era anche una questione di prestigio. Mi sentivo molto proteivo nei suoi confronti e lo difendevo sempre quando qualcun altro lo criticava, perché lo avevo scoperto io, e il film fu il suggello al nostro rapporto. Alex, da parte sua, si portava dietro molto risentimento nascosto, dai tempi del film di Cimino, quando veniva mandato a sbrigare le commissioni – un traamento da faorino che non gli era mai andato giù. Alex si prendeva spesso a cornate con Bruno, ora per le location che non erano mai pronte, ora per i costi che sembravano lievitare continuamente. Testammo gli esplosivi, i bengala e le luci per le molte scene nourne nella giungla che avevamo in programma, e anche la polvere rossa che avevo voluto a tui i costi far venire a sacchi dal Vietnam per riprodurre la realtà dei luoghi. (Luoghi che avrebbero impressionato profondamente i reduci per la loro credibilità.) Ci accorgemmo che l’esposizione alla luce solare nelle zone più fie della giungla diminuiva notevolmente a partire dalle quaro del pomeriggio, il che ci avrebbe creato problemi. Tuavia Bob Richardson stava diventando una vera forza della natura, sempre affidabile quando tui gli altri sembravano titubanti, oltre che un amico dalla risata facile e dall’umorismo pungente. Con le sue competenze di illustratore formato alla prestigiosa Rhode Island School of Design, mi fu anche di grandissimo aiuto con gli storyboard, così da economizzare in anticipo sul numero di inquadrature necessarie. Un regista e il suo direore della fotografia possono anche meersi a valutare ogni scena a tavolino, eliminare il superfluo e rifinire ogni cosa, ma poi tuo dipende dal giorno delle riprese. Che sia il giorno 23 o il giorno 54, sarà quello il momento della verità. Dopo anni di preparativi e bozze di sceneggiatura, il risultato finale è il fruo del giorno delle riprese, che assume un’aura tipo duello all’OK Corral: elerizzante, definitivo, senza appello. Imprimi le immagini sulla pellicola e… niente, passi al giorno di riprese successivo senza chissà quale stacco o tempo per
rifleere, e di rado la possibilità di rifare la scena che hai approvato. Per Platoon mi affidai alla stessa montatrice irlandese di Salvador, Claire Simpson, che nel fraempo sembrava aver imparato a capirmi meglio, e al suo principale assistente, David Brenner, che in seguito sarebbe diventato il mio montatore capo. Il fonico, i maestri d’armi, il secondo aiuto regista e i tecnici degli effei speciali venivano tui dall’Inghilterra, perché costavano meno rispeo ai loro corrispeivi hollywoodiani, ma si traava comunque di professionisti di prim’ordine, specie se paragonati ai semidileanti con cui avevo lavorato su Salvador. Il canadese Gordon Smith, il nostro giovane truccatore, risolse per esempio il problema della cicatrice sul volto di Berenger. Creare una deturpazione del genere avrebbe normalmente richiesto due o tre ore di trucco ogni maina, con effei nefasti sulla tabella di marcia ma, usando un colloide da lui stesso studiato affinché tenesse nel clima umido della giungla senza bruciare la faccia di Berenger o provocare effei indesiderati, Gordon riuscì a ridurre il tempo necessario a una ventina minuti di trucco al giorno – e il risultato era speacolare. Ciononostante, dopo qualche seimana Berenger cominciò a sentire bruciore, eppure si lamentava di rado. Mi colpì molto: grazie all’addestramento con Dale era diventato la roccia al centro del plotone, proprio ciò di cui avevamo bisogno. Osservavo da vicino anche l’evoluzione di Charlie Sheen; come un vero soldato appena arrivato al fronte, all’inizio non riusciva a fare bene quasi niente, portandosi a spasso il pesante equipaggiamento con la stessa espressione che probabilmente avevo anch’io ai tempi. ando però cominciammo a girare, di seimana in seimana lo vedevo adaarsi, senza mai lamentarsi, fino a muoversi leggero ed elegante grazie al suo passato di giocatore di baseball, capace di resistere anche alle lunghe distanze. E diventava, inoltre, più duro e caivo, tanto da indurmi a rifleere su me stesso. Ero cambiato anch’io così, in Vietnam? Ero diventato anch’io
più insensibile, arrabbiato, cupo? Che cosa non sarei stato disposto a fare? Avrei scoperto se avevo ancora un po’ di senso della bontà, del decoro, del bene e del male – oppure se la calura e il dolore mi avevano fao marcire. Nella persona di Charlie, il Vietnam stava diventando uno specchio della mia anima. Tui gli aori stavano crescendo, imparando con un rispeo nuovo che cosa significa essere soldati. Più cose Dale chiedeva loro, più loro sembravano contenti; non avevano mai vissuto una situazione simile, né l’avrebbero vissuta in futuro. Dall’inizio alla fine Dale fu un grande insegnante e la vera spina dorsale del gruppo, il primo ad alzarsi e l’ultimo a coricarsi, senza mai una lamentela, esercitando le proprie doti di leadership – un soldato al suo meglio. Tranne quando si trasformava in un regista sui generis con gli aori. “Che succede quando guardate il vostro compagno steso a terra e vedete che è morto? Che cosa provate? Ve lo dico io cosa provate” – e glielo spiegava. Oppure quando vedeva sul set qualche “muso giallo”, tra cui la nostra risolviguai vietnamita Nguyen, o qualcuno dei connazionali che si era portata dietro; Dale aveva chiaramente un problema con i vietnamiti, ma con il tempo sembrò superarlo. Il 20 marzo, un giovedì, alle oo del maino Dale fece marciare questa unità di trenta “soldati” dal bivacco nourno fino al nostro primo set nei pressi di un fiume, con alle spalle una gola e una fia giungla illuminata in controluce. Era un’ambientazione straordinaria per la sequenza di apertura. Continuammo a spostarci lungo il fiume. Gli uomini non si comportavano da aori ma da soldati, scaando sull’aenti ai latrati fuori campo di Dye. Li aveva addestrati bene. Ormai si era radicato nel loro sistema nervoso, nonostante adesso andassero a dormire tue le sere nel nostro hotel e a volte, il fine seimana, a Manila, che distava un’ora e mezza dalla base. Elizabeth e Sean, che aveva quindici mesi, mi avevano appena raggiunto per le riprese, sollevandomi l’umore come avevano fao ai tempi di Salvador. Elizabeth rimase scioccata quando vide per la prima volta gli aori sbucare dalla
giungla. Non li riconosceva nemmeno, vedeva solo uomini truci, sporchi, sfiniti dalla mancanza di sonno. Era quello il nostro obieivo: quella stanchezza reale li avrebbe portati a capire la brutalità che all’improvviso si impadroniva di noi soldati, la nostra indifferenza di fronte alla morte. Finalmente eravamo partiti. In quella giungla, il primo giorno, facemmo ventiquaro ciak. Nelle due seimane seguenti riuscimmo a stabilire un ritmo serrato di lavoro, senza dare nulla per scontato; da parte mia, ero più scaltro con la macchina da presa rispeo a Salvador, evitando di ammucchiare troppe riprese e andando invece più chirurgicamente su quello che volevo. Gli spostamenti erano continui. La temperatura, che nel pomeriggio sfiorava quasi sempre i quaranta gradi con alti tassi di umidità, rischiava di friggerci il cervello. Mi beccai un febbrone da cavallo ma rimasi in piedi, perché ogni giorno era prezioso. A quarant’anni, adesso ero più vulnerabile oltre che sovrappeso; mangiavo intere teste d’aglio e avvertivo molto di più, rispeo a quando ero soldato, le articolazioni indolenzite e il fiato che mi mancava. Non volevo frignare ma ero ben lontano dalla forma fisica dei miei ventun anni. Nella giungla i turni di riprese nourni erano massacranti. Stavamo con le mani in mano fino a tre ore, in aesa che venissero spostate la gru e le luci, regolate le torri per l’effeo pioggia, o che i pompieri della locale caserma arrivassero con le autocisterne d’acqua, spesso in ritardo. Lavoravamo fino alle cinque del maino con le formiche rosse e le zanzare che ci mordevano collo e caviglie. Le operazioni andavano a rilento. Il tempo si trascinava. Le persone si innervosivano. E giunti alla terza seimana gli ariti all’interno della troupe cominciavano a inasprirsi, con il capo macchinista, un esperto irlandese del eens, che abbandonò il set indispeendo ovviamente Richardson, a sua volta debilitato da un’infezione all’orecchio. Due filippini una noe si presero a pistoleate. Elizabeth, che amava i cani, rimase profondamente turbata quando vide una testa di cane coa alla griglia; i filippini se la gustavano come una prelibatezza,
lei invece immaginava che avrebbe potuto essere uno dei suoi adorati labrador. Per mia esperienza, sono i problemi imprevisti a provocare gli incubi peggiori. Senza che ne sapessi niente, l’antagonismo tra Arnold Kopelson e Alex Ho si stava incancrenendo fin da Los Angeles, con Arnold che scavava più a fondo nei libri contabili, meendo in discussione ogni scelta di Alex in quanto produore. Coinvolse anche Soames che, da Los Angeles, ci spedì un telegramma dicendosi “furioso per gli aggravi di costo imprevisti”. Io all’epoca non vedevo alcun problema. Ritenevo anzi che stessimo rispeando il budget e che Soames fosse semplicemente lo stesso odioso ragioniere che era stato su Salvador. All’inizio, sì, eravamo rimasti indietro rispeo alla tabella di marcia, ma poi avevamo preso un buon ritmo, tuo era soo controllo e, sinceramente, con il nostro fondo rischi potevamo anche permeerci cinquantaquaro giorni di riprese anziché i cinquanta previsti. Ciononostante, Kopelson e Soames erano uniti sull’altare del denaro, e di conseguenza cominciai a non fidarmi più di Arnold. Stavo sprecando pellicola, a dea di Soames. “Al momento è imperativo aenersi ai previsti cinquanta giorni,” era la sua mentalità da capitano Bligh, quello del Bounty. In quanto primo ufficiale della nave, ero insofferente alla sua autorità, dentro di me stava crescendo un Fletcher Christian e acquistavo sempre maggiore sicurezza nel difendere i miei dirii di regista. Dopo essere stato costreo a chinare la testa di fronte al tema soldi in tui i miei film precedenti, adesso volevo un maggiore controllo sul mio destino. Alex, orgoglioso com’era, non traava Kopelson nella maniera dovuta, liquidandolo come “una palla al piede” che avrebbe finito solo per far lievitare i costi di produzione. Alex e Nguyen, infai, avevano già riscrio i contrai con l’esercito a condizioni favorevoli, e Kopelson stava meendo becco in un affare già concluso. “Nelle Filippine non si fa così, che cazzo gli è saltato in mente? Manderà tuo a catafascio, ritirando di nuovo in ballo i militari. Per fare cosa? Per
svegliare il can che dorme, ecco cosa! Che pensa di dirgli? ‘Vogliamo rinegoziare’?” bofonchiava un imbufalito Alex macinando insulti nel suo esilarante inglese cinesizzato. Sì, forse Alex stava nascondendo qualcosa a livello di conti ma, anche se fosse stato così, si traava di noccioline rispeo a ciò che stavamo oenendo nel complesso. Arnold, a mio avviso, faceva il pignolo solo per meere in riga un coproduore giovane e ambizioso. I due arrivavano persino a meerla sull’“ebreo contro cinese”, ognuno cercava di far pesare all’altro la superiorità della propria antica cultura. “Non preoccuparti,” mi disse Alex come a chiudere la questione, “Arnold è uno schmuck che non distingue un ragno da un elefante. Abbiamo tue le carte buone in mano. Dirigi pure il tuo film come vuoi.” Mi piaceva la sua sicurezza, ma al tempo stesso sapevo che ci aspeavano guai. Caso volle che, mentre le fortune di Platoon erano minacciate, quelle di Salvador si stessero miracolosamente risollevando. Mi era stato riferito di un caloroso applauso da parte di un folto pubblico all’Academy di Los Angeles, dove gli speatori avevano adorato l’interpretazione di Woods e riso di gusto anziché essere schifati dal suo personaggio. Inoltre, Salvador teneva boa in quaordici sale a New York, aveva oenuto quaro stelle a Boston, stava andando benino a San Francisco e a Washington, grazie a recensioni positive, ed era ancora in programmazione in cinque sale a Los Angeles dove andava a gonfie vele! Entusiasta, Woods mi spedì un fax per dirmi che avrei dovuto essere lì per vedere l’esultanza che Salvador aveva scatenato al Westwood. Sembrava sinceramente contento e orgoglioso del film. Il recensore del “Los Angeles Times” scrisse: “Un film che canta e urla […] è vivo, bollente.” Io, naturalmente, ero strabiliato ma anche confuso. Reduce dal traumatico viaggio affrontato per realizzarlo, avevo deciso di adoare un distacco e un aeggiamento da giocatore d’azzardo professionista. La costa ovest si stava rivelando il nostro mercato migliore, più sensibile alle traversie del Salvador, da dove era già arrivato un gran numero di profughi. Al Westwood
incassammo ventunmila dollari in appena tre giorni e di lì a una seimana saremmo usciti in altre see, dieci cià, per arrivare pian piano anche a Toronto, in giugno. Poi, dal nulla, sul “New York Magazine” uscì una recensione entusiastica di David Denby, che parlava di “elerizzante viaggio nell’inferno del Centroamerica”. Il film “aggiunge una nuova profondità morale e drammatica al già noto talento di Stone per l’azione travolgente, a volte al limite del pacchiano”. Parole del critico che una volta mi aveva definito “l’orrendo Oliver Stone”. Adesso invece mi chiamava “il macho man della sinistra” che aveva realizzato “la pellicola cult dell’anno – laida ma entusiasmante e sfacciata”. Una bella inversione a U. Già da un po’ Elizabeth continuava a dirmi che, al di là degli incassi, Salvador era un successo perché stava riscuotendo aestati di stima. Io non le avevo dato rea, ma adesso questi riconoscimenti da parte di recensori difficili da soddisfare mi diedero una grossa spinta emotiva e mi aiutarono ad affrontare quella che sarebbe stata la parte più difficile di Platoon: le lunghe e massacranti riprese nourne. Se a Los Angeles Salvador si fosse rivelato un fiasco, non credo che avrei avuto lo spirito di cui ora avevo più che mai bisogno. La verità è che durante le riprese fui talmente oberato dalle difficoltà logistiche che dirigere gli aori si ridusse a puro pragmatismo, senza andare troppo per il soile. Chi vive? Chi muore? Chi ha paura? Chi è arrabbiato? Chi vuole farsi e ballare? Vuoi ubriacarti e sproloquiare a ruota libera? Be’, tui i miei aori sapevano cosa si provava; anzi, i più giovani avrebbero avuto parecchie cosee da insegnarmi. Si divertirono da mai; per quasi tui loro, giocare alla guerra fu un’esperienza che non avrebbero dimenticato negli anni. anto alla recitazione, fu scarna e in gran parte già scria nella sceneggiatura; al resto pensarono gli aori stessi, ormai addestrati da mamma Dale a ragionare da soldati. Il mio obieivo era di aiutarli a rendere la recitazione più naturalistica possibile. Nel prosieguo della mia carriera questi parametri sarebbero cambiati, ma non in quel frangente.
Intanto avevamo iniziato a lavorare con gli elicoeri messi a disposizione dall’esercito filippino. Il frastuono, il sibilo quotidiano, le ventate prodoe dai rotori mi rimbambivano e, quando ci andava bene, in un giorno giravamo quaro o cinque scene. I limiti di denaro e di disponibilità dei mezzi ci costringevano a correre qualche rischio, per esempio decollando dai canyon nella giungla malgrado correnti d’aria pericolose, e a girare il più rapidamente possibile. Per me fu la seimana più spaventosa dai tempi del Vietnam, eppure mi sentivo rinvigorito; la sensazione di terrore mi toglieva gli anni uno dopo l’altro. Un giorno stavamo filmando l’evacuazione di morti e feriti condoa da diversi elicoeri. Nel tardo pomeriggio il vento si stava alzando quando Sheen, Tom Berenger, Forest Whitaker, Keith David, Bob Richardson con il suo assistente operatore, Dale Dye, io, tre soldati “morti” e i due piloti dello Huey decollammo dal fondo del canyon. Troppe persone, con troppo peso, che cercavano di fare troppo. L’elicoero, che aveva già compiuto diversi viaggi ed era ormai a fine turno, si staccò da terra e a mala pena evitò le cime degli alberi. Poi, ecco che la parete del canyon ci stava improvvisamente venendo incontro come in un gigantesco primo piano, fin troppo ravvicinato! Avendo partecipato a oltre trenta aerraggi in Vietnam, sapevo che poteva essere la fine, e sapevo che Dale, sull’altro portello dello Huey, aveva la mia stessa consapevolezza. Il pallore del suo volto diceva tuo. È bizzarra, la facilità con cui riesci ad acceare la morte quando la vedi così vicina. Provi una calma assoluta. L’addio è banale, privo di qualsiasi sentimentalismo. Non credo che nessun altro a bordo dell’elicoero se ne rese conto, ma evitammo la parete di roccia per una questione di centimetri. ando tornammo a terra, il mio bambino in braccio alla madre mi stava salutando con la manina, raggiante nel rivedere il papà. Se solo avesse saputo. In quel momento mi resi conto di quanto fossi contento, e grato, di poter tornare da entrambi. Abbiamo bisogno di questo sentimento per vivere, di una scossa in più, che ci ricordi perché viviamo, per quale scopo. Forse per essere legati a qualcun altro? O per
sacrificare noi stessi, come ero disposto a fare? Perché so che avrei continuato a farlo ancora, giorno dopo giorno, a sollevarmi di nuovo verso le pareti di quel canyon. Altrimenti il film ne avrebbe sofferto. La soluzione ragionevole, ovviamente, sarebbe stata di oenere quelle riprese spendendoci più soldi, ma i soldi in più non c’erano e i piloti, per quanto bravi, erano consapevoli di dover arrangiarsi e correre rischi che in condizioni ideali non gli sarebbero speati. Tui (tranne il Pentagono) devono essere oculati con il denaro, e il denaro diventa una specie di divinità che ci spinge al sacrificio. Tanto che, meno di un anno dopo, accadde l’inevitabile e proprio uno di quegli elicoeri precipitò con il suo equipaggio filippino durante le riprese di un film con Chuck Norris, Braddock – Missing in Action III. Diverse persone rimasero uccise. Era un buon film? Ne era valsa la pena? Per noi, per il nostro film, sì, valeva la pena. Il gladiatore nell’arena accea la situazione per quella che è, muore perché è necessario. Analogamente, a noi è dato vivere solo se lo vuole il destino. Oggi posso dire di non essere più d’accordo con questo aeggiamento fatalista, ma mi rendo conto che un tale estremismo è fruo della fame e della disperazione. Con tue le difficoltà nel girare, accumulammo un altro giorno di ritardo. Stavo inoltre avendo problemi di montaggio. Ogni giorno prolungavo le mie ore di lavoro visionando i giornalieri e poi, con la mia montatrice, facendo un assemblaggio provvisorio delle riprese degli ultimi giorni; ciò richiedeva prendere decisioni, selezionare solo alcuni ciak, per evitare la noia di giornalieri troppo lunghi. In altre parole, stavamo creando una sorta di showreel seimanale a uso del cast e della troupe – e anche della Hemdale a Los Angeles. Di solito, in quegli anni, i giornalieri venivano mostrati quotidianamente al regista e alla troupe; a volte si visionava tuo ciò che era stato girato nei giorni precedenti, vale a dire molti ciak della stessa scena. Nei nostri showreels, invece, montavo il materiale di qualche giorno, riducendo, che so, due ore di immagini a ventiquaro minuti, con transizioni più fluide tra una scena e l’altra e un minor
numero di ripetizioni. esto metodo, però, mi imponeva di cominciare già a montare una versione di massima del film nelle ore libere, con un notevole aggravio di lavoro per me e per Claire Simpson. Nei miei film successivi avrei fao del tuo a meno dei giornalieri, perché quando si gira in esterni la troupe è molto stanca. In caso di problemi che richiedessero un’aenzione immediata, avrei convocato in sala montaggio determinati componenti della troupe, che fossero il costumista, il direore della fotografia o il fonico. esto metodo funziona meglio e risparmia a tui gli altri energie preziose, di cui c’è grande bisogno durante riprese così sfiancanti. Lo avrei adoato per tui i miei film dopo Platoon, convinto che l’intero processo dei giornalieri fosse una perdita di tempo. Dopo trentadue giorni di riprese, persi le staffe quando il nostro direore di produzione filippino, di cui già mi fidavo poco a causa delle sue continue giustificazioni per il ritardo con cui le autocisterne d’acqua arrivavano nelle location, spostò la gigantesca gru a cestello che stavamo usando, per piazzare al suo posto una grossa lampada ad arco per l’illuminazione della giungla, per giunta dopo che, proprio la sera prima, gli avevo raccomandato di lasciarla dov’era. Ora avremmo dovuto perdere due ore per cercare di rimeerla dove doveva stare. Due ore di riprese erano un tempo inestimabile, e alla fin fine sapevo che avrei dovuto recuperarle dalla mia sceneggiatura. Tra me che vedevo rosso e il suo sguardo vuoto e inebetito, sbroccai e gli mollai un calcio nel sedere mentre si allontanava. Due minuti dopo, lui tornò e mi sferrò un colpo al peo con il borsello e urlò: “Io soldato. Tu non mi dà calci!” In seguito qualcuno mi disse che in quel borsello il tizio portava una pistola. I tecnici si schierarono dalla sua parte, sostenendo che fossi già stato violento in altre occasioni: una volta avevo piantato un dito sul peo di un altro di loro, sovrastandolo in altezza, e adesso questo. Sentii mormori minacciosi – “Stone è finito!” – e che avevano pagato qualcuno per uccidermi. Ma il tuo era fruo della fatica e del superlavoro; avevamo assolutamente bisogno di una pausa. ando perciò le maestranze filippine
proclamarono uno sciopero in solidarietà con il direore di produzione, lo stop forzato non mi turbò più di tanto. Perdemmo dunque il giorno 33 dei cinquantuno che ora avevamo, e Jun Juban, il nostro paziente ed esperto coordinatore di produzione, arrivò direamente da Manila per riportare la calma. In effei era vero, stavo perdendo le staffe troppo spesso. La fatica mi stava sfinendo. Elizabeth mi strigliò per bene, perché secondo lei mi stavo alienando anche la stima della troupe internazionale. Ero diventato duro, duro alla Bogart, mi sentivo Fred C. Dobbs nel Tesoro della Sierra Madre. Jun risolse l’impasse. Come ricorda Kopelson, molto enfaticamente, nel libro di Riordan: “A quanto ne so, il direore di produzione aveva con sé un’arma e stava seriamente contemplando l’idea di sparare a Oliver. Nessuno avrebbe ripreso a lavorare finché la situazione non fosse stata appianata. Alla fine, Oliver acconsentì a un gesto di scuse, permeendo all’uomo di dargli uno schiaffo davanti alla propria squadra. E così andò. Sembrava di essere in un vecchio film di Tarzan… conquistarsi la collaborazione della tribù.” Gli uomini di cinema, e quindi anche i produori, amano più una bella storia inventata che una banale realtà. Gli chiesi scusa, sì, ma a parole, e il direore di produzione acceò, anche se per la verità non cambiò quasi niente. Proprio il giorno dopo ci fu l’ennesimo disguido con un’autocisterna, un pulmino che trasportava una quindicina di tecnici rischiò un incidente e perdemmo ulteriore tempo quando uno degli autisti, che girava in infradito, fu morso a un piede da una vipera. L’uomo, che rischiava la vita, fu portato via e noi dovemmo farne a meno per due giorni. Aori e tecnici, inoltre, cadevano viime della febbre. Di nuovo il capo macchinista scomparve misteriosamente per un giorno intero nella sua perdurante baaglia con Richardson; probabilmente era andato a sbronzarsi da qualche parte. E poi la diga crollò. Kopelson, a due seimane circa dalla fine delle riprese, decise di licenziare la coordinatrice di produzione di Alex. Fu, da parte di Arnold, una mossa di
potere, un modo per esercitare la propria autorità, e comunque un errore. Molti tra i tecnici internazionali, fedeli ad Alex, minacciarono di abbandonare se la coordinatrice non fosse stata reinsediata, e Alex aggiunse la condizione che Kopelson lasciasse il set e, ancora meglio, il Paese. Era una richiesta pesante, ma Alex era furioso. “La pazienza dei cinesi ha un limite,” disse, “e io sono cinese… Amo questo film ma non me ne frega più un cazzo. Basta, stacco la spina!” Se ne sarebbe andato portandosi via buona parte della troupe. La situazione era critica e ci fece perdere un pezzo di un’altra giornata. Era in corso un ammutinamento ma le coalizioni non erano ancora del tuo delineate. Venimmo a sapere che Kopelson, spulciando i conti, si era convinto che Alex avesse abusato della propria posizione, per esempio pagando bustarelle spropositate ad alcuni filippini. Ma perché Arnold scavava così a fondo? Anche ammesso che fossero state pagate delle bustarelle, a chi importava arrivati a quel punto? Il film lo stavamo portando a termine e dovevamo andare avanti. Non potevamo meerci a litigare fra di noi. “Tu stanne fuori, cazzo!” mi disse Arnold quando cercai di fare da paciere. Grazie al cielo l’indomani era giorno libero e quindi non avremmo perso ulteriore tempo, ma il caos stava salendo. Dal mio punto di vista, era stato un errore da parte di Alex abbandonare con tale veemenza, meendo in discussione l’autorità di Arnold. Ma era stato un errore ancora più grande da parte di Arnold traare Alex come se fosse un direore di produzione anziché un coproduore. Kopelson, in presenza di diverse persone, disse che avrebbe reo lui il fortino finché non fosse arrivato “un nuovo direore di produzione”. Non potevi fare un affronto simile a un uomo orgoglioso come Alex; nella cultura asiatica salvare la faccia è un conceo basilare che spesso gli americani non capiscono (come non l’avevo capito io prendendo a calci e umiliando il nostro direore di produzione filippino). Alex e Arnold avevano entrambi travalicato ed entrambi erano uomini tracotanti; come dicevo sopra, un cinese e un ebreo, due antiche culture in guerra.
Per cercare di risolvere la situazione telefonai a John Daly negli Stati Uniti e gli dissi che non avrei ricominciato le riprese finché Alex non fosse stato rimesso al suo posto insieme alla sua coordinatrice di produzione. Ci vollero ancora alcune ore di tira e molla. Arnold, dopo aver parlato anche lui con Daly, disse che la Hemdale lo appoggiava in pieno ma era evidente che era agitato e stava tentando un bluff da giocatore di poker, con quel labbro imperlato di sudore. Credo che Daly gli avesse deo qualcosa tipo: “Fa’ come ti pare, Arnold, ma, se perdi questa troupe, sei pronto a risarcire la nostra perdita?” Soames sbraitò a sostegno di Arnold ma non aveva alcun reale potere di influenza se non su Daly. Richardson mi disse che avrebbe continuato a lavorare con me; si sentiva leale anzituo verso il film. Il suo sleale capo macchinista, invece, annunciò che se ne sarebbe andato insieme ad Alex, mentre la maggior parte dei tecnici filippini, che rispondevano a Jun Juban, sarebbero rimasti. Alcuni membri della troupe ritenevano che Alex stesse ricaando la produzione. Di certo era pronto a sacrificare il film, e me, sull’altare del proprio orgoglio. In precedenza Alex aveva erroneamente messo in discussione la mia lealtà nei suoi confronti sul caso della coordinatrice, ritenendomi d’accordo con la decisione di Kopelson di licenziarla. Non lo ero e mi sarei bauto se fossi stato coinvolto (e probabilmente avrei perso) ma, quando Alex mollò, tuo l’edificio crollò rovinosamente. Arnold, sentendomi così legato ad Alex, capì che la cosa sarebbe finita male, a discapito del film. Così mi telefonò a tarda sera per dirmi che toglieva le tende, che sarebbe andato a Cannes e sarebbe rimasto in Francia fino alla fine delle riprese, che la coordinatrice di Alex era di nuovo al suo posto, che si traava di una dimostrazione di maturità da parte sua ma che in ogni caso avrebbe licenziato Alex Ho non appena la produzione si fosse conclusa, ossia di lì a due seimane. Lo ringraziai, riconoscente per la sua “saggia decisione”, ansioso di rimeermi al lavoro l’indomani. Da Cannes avrebbe continuato a occuparsi delle vendite estere. Alex avrebbe portato a termine le riprese ma fu ufficialmente fao fuori
subito dopo, anche se continuò poi a lavorare segretamente al mio fianco nella fase di postproduzione. Tuo questo per salvare la faccia. Con la pioggia torrenziale che si riversò per l’intera noe, non avevamo certo bisogno di ammutinamenti. Dopo le piogge, da quelle parti, sbucavano gli insei più spaventosi che avessi mai visto. Rischiai anch’io di calpestare un serpente, a pochi centimetri dal mio piede, ma per fortuna Richardson fece in tempo a meermi in guardia. La nostra diligenza aveva lasciato la stazione di posta e si preparava ad affrontare l’ultimo folle trao del suo percorso. Le seantadue ore di lavoro seimanali cominciavano a farsi sentire. La troupe era allo stremo, come del resto anch’io. Bob si buscò la febbre e Charlie Sheen aveva i timpani perforati per tue le esplosioni. A un certo punto, dopo quaranta giorni di lavoro, avevo il 40 per cento della compagnia ammalato. L’inizio della stagione delle piogge, che significava possibili monsoni, era aeso da un giorno all’altro. Ci aspeavano oo giorni consecutivi di lavoro con lunghe ore di straordinario e con la fatica che riduceva la produività. Dovevamo uscire da lì se volevamo evitare un disastro come quello patito da Coppola durante le riprese di Apocalypse Now: un’intera produzione spazzata via da un tifone tropicale. In alcune circostanze devi bere l’amaro calice, e allora scegli di tagliare drasticamente il numero delle inquadrature. Dopo aver portato il pesante impianto luci nella giungla di noe, scoprimmo che era impossibile girare perché i microfoni non registravano altro che il furibondo tempestio degli insei contro le fonti luminose. Ancora peggio, gli sciami facevano sfarfallare le luci, compromeendo l’uniformità di esposizione. Bob decise allora di rinunciare alle luci grandi e di girare praticamente tuo con i rifleori, i farei e i bengala al magnesio, che gli davano una luce d’ambiente, soffusa. Accelerammo il ritmo recuperando tempo; buona parte della baaglia finale fu illuminata con la
luce dei bengala, in maniera raffazzonata ma efficacissima. Il bisogno aguzza l’ingegno. In quel periodo io e Richardson avemmo diversi dissidi su alcune questioni pratiche. Secondo Bob, era avventato che mi occupassi personalmente delle esplosioni per la scena finale della baaglia, ma il capo degli effei speciali e la sua squadra erano a corto di uomini oltre che esausti per l’enorme mole di lavoro. Così, dando indicazioni agli aori su come muoversi, feci esplodere io stesso le bombe, diverse decine nel corso delle noi seguenti. Per fortuna nessuno rimase ferito. Una cosa del genere non sarebbe ammessa nel cinema di oggi, invaso da supervisori e specialisti della sicurezza; ma allora era il 1986 e stavamo girando un film a basso costo nelle Filippine. A nessuno interessava quello che facevi al prezzo a cui lo facevamo noi. Accanto a noi in quella stessa giungla venivano girati film filippini a costi di gran lunga inferiori; di giorno, a poca distanza dal nostro set, vedevamo dei ninja che saltavano sui tappeti elastici fin oltre le cime degli alberi. Era un vero zoo. Ma come con gli elicoeri, quando sei disperato fai anche questo. Alcune delle ultime riprese, quelle in cui Charlie spara a Berenger per vendicare l’uccisione di Dafoe, le oenni appena prima dell’alba. Berenger è riverso a terra, stordito dalla bomba americana che è stata sganciata nei pressi del perimetro e ha inebetito tui. Charlie va a cercarlo, lo trova, esita. A questo punto, nel copione, avevo scrio un finale alternativo nel quale Charlie non uccide il personaggio di Berenger; sembrava la soluzione più correa e cinematografica: il buono non deve mai sparare al caivo a sangue freddo. Ma io ormai mi stavo ribellando a tuo, anche a queste convenzioni. Nella scena scria originariamente, oltre dieci anni prima, il giovane soldato, reso brutale dalla guerra, ammazza il proprio sergente. Così mi aveva deo la pancia allora e adesso, in quella noe, decisi di restare fedele a quanto avevo scrio. Charlie-Chris preme il grilleo. Berenger-Barnes se lo merita per aver fao fuori Dafoe-Elias. Potevamo odiare fino a quel punto. Potevamo commeere un
omicidio e chiamarlo normale scontro a fuoco. esto è ciò che la guerra poteva fare a chiunque: renderti furibondo, temporaneamente fuori di te, pazzo. E così la girammo. Concludemmo l’ultima ripresa alle 4.30 del maino, con il sole che stava per spuntare, venti o trenta di noi sparsi qua e là, rintronati. Era finita davvero? Eh sì. Poche stanche parole da parte mia. “E con questa abbiamo chiuso… Grazie a tui, siete stati tosti… Difficilmente dimenticheremo questa avventura. Grazie.” Un piccolo applauso esausto. C’era qualcuno nel mondo a cui fregava qualcosa di tuo questo? Be’, fregava a noi. Ci abbracciammo sorridenti – Bob e Bruno, Dale Dye, Yves De Bono, Simon Kaye, Susan Malerstein, il mio infaticabile primo assistente alla regia Gordon Boos e gli altri ancora in piedi; ormai ci sentivamo come fratelli. Jun Juban, il capo della troupe filippina, e la sua brigata di duri dalla pelle scura, dopo aver sopportato tue le avversità senza lamentarsi, adesso avevano grandi sorrisi stampati in volto, contenti di essere arrivati in fondo. Strinsi la mano a ognuno con gratitudine; ricordavo solo alcuni dei loro nomi, ma gli occhi erano più importanti. In seguito, parlai di quell’ultimo giorno di riprese su “American Film”: Dopo qualche compromesso su alcune inquadrature, finiamo al giorno 54. […] Alex Ho, il direore di produzione cinese che lavora con me dai tempi di Dino De Laurentiis, viene soffocato dall’abbraccio del cast e della troupe. Poi si avvicina e mi dice, non senza ironia: “Complimenti, Ollie, sono stati due lunghi anni.” “No, venti lunghi anni,” mormoro io, triste perché, pur sapendo che ho finito il film, una parte di esso mancherà sempre, così come mancano le facce di quei goffi ragazzoi che ci siamo lasciati dietro nella polvere. Per quanto mi sia legato a Charlie Sheen, lui non sarà mai me e Platoon non sarà mai quello che ho visto con l’occhio della mente mentre lo scrivevo, e che a sua volta è solo un frammento di quanto è successo anni fa. Anche questo manca nel film. Noi intanto voltiamo pagina. Preferisco non festeggiare con il cast e la troupe – si stanno divertendo troppo e non voglio che la mia consapevolezza di regista offuschi il momento – così torno a casa da solo con l’autista, mentre la luce si accende sopra le risaie e i bufali, e i contadini, come sempre, escono per lavorare nei campi in quella prima rosea luce dell’alba asiatica. È solo un altro giorno di tarda primavera nel “Mondo” (come lo chiamavamo in Vietnam) e a nessuno interessa che noi abbiamo finito questa piccola cosa nella giungla. Perché mai dovrebbe interessare a qualcuno? Eppure, mentre appoggio il viso contro il finestrino della silenziosa automobile, nella mia anima percepisco il momento e so che mi sosterrà per
sempre – perché è il momento più dolce che ho conosciuto dal giorno in cui lasciai il Vietnam.
10 Sulla vea del mondo
ando tornai a Los Angeles ai primi di giugno, avvertii subito che c’era qualcosa di diverso. Il passaparola sui miei due film si stava diffondendo più velocemente di quanto potessi immaginare; come un incendio, il passaparola scavalca mari e persino oceani, e lo fa in un baibaleno. E, come potei constatare all’epoca, non c’è molto che possa fermarlo. Era, che lo sapessi o no, il mio momento. Salvador era arrivato alla quarta seimana di programmazione in sei sale della cià. Non riuscendo ancora a crederci, passai in macchina davanti al trendy Los Feliz eater di Vermont Avenue e vidi code di speatori in aesa dello speacolo del weekend, il mio nome inspiegabilmente accanto al titolo sull’insegna: Salvador di Oliver Stone! Wow – perché non c’era quello di James Woods? Chi mi conosceva? Non avevo mai provato una soddisfazione simile; perché non mi fermai a godermela per qualche secondo? A Washington eravamo alla decima seimana, nel prestigioso cinema MacArthur; idem a Chicago, Detroit, Dallas e Austin, con incassi così così ma recensioni lusinghiere. Anche quando notavano i bordi scabri del film, gli speatori ne coglievano comunque il cuore. Alcune stelle di Hollywood organizzavano proiezioni private, sempre un buon segno: Dustin Hoffman, Redford, Streisand, Nicholson, Sydney Pollack. Mi arrivavano telefonate di complimenti, leere da personaggi del calibro di Francis Ford Coppola. Mi dicevano che ero “unico”, “originale”, “fieramente indipendente”. Il grande spartiacque è l’aspeativa. ando sei una figura consolidata nella comunità del cinema, loro, gli addei ai lavori, ritengono di sapere già cosa aspearsi, tanto che su di
te cala pian piano una certa indifferenza, ti accompagna una sensazione di déjà vu. In questo caso, invece, c’era solo stupore. Per quel breve anno io fui l’ignoto, l’inaeso. Anche se, evidentemente, non ignoto a Pauline Kael. La sua recensione, uscita a metà luglio, in ritardo rispeo alle altre, non solo mi assolse dai miei peccati passati ma diede l’impulso a un ritorno di fiamma newyorkese per il film, che nel fine seimana fece registrare il tuo esaurito. Marion Billings, che all’epoca dell’uscita originaria aveva evitato di mostrare il film a Kael conoscendone l’avversione per i miei lavori, era stupefaa. La critica, che coltivava i suoi gusti capricciosi e la sua spropositata influenza, stavolta scriveva invece sul “New Yorker”: “Stone sceneggia e dirige come se qualcuno gli tenesse puntata una pistola alla nuca e continuasse a urlargli ‘Vai!’ finché il film non è stato completato.” Non era andata molto lontano dalla realtà. Con lo stesso misterioso intuito aveva anche percepito il dualismo della mia posizione politica: “Non ricordo un film altreanto speacolare nel rivelare la sensibilità scissa di un filmmaker di talento. […] una visione machista di destra coniugata a una verve polemica di sinistra […]. Salvador possiede la depravata, riprovevole superficie hardboiled che ci aspeiamo da Oliver Stone, accompagnata però da un fondo di sentimento. […] L’Oliver Stone che ha realizzato questo film non è sostanzialmente diverso dal chiacchierato sceneggiatore di Fuga di mezzanoe e di Scarface. […] Pur lavorando al di fuori dell’industria, in piena libertà, il suo animo è incrostato di sedimento hollywoodiano.” Kael mi identificava chiaramente con il protagonista: “Ricorre a James Woods, forse il più ostile tra tui gli aori americani, come suo protagonista, che si chiama ‘Richard Boyle’ ma che dà voce alle convinzioni dello stesso Stone.” Su questo ero in disaccordo. Per quanto simpatizzassi con il mio protagonista, ciò non significava che fossi d’accordo con lui. Richard era politicamente avveduto e, in certa misura, un amico, ma non mi fidavo mai completamente di lui né
approvavo il suo rapporto con l’alcol. Con le donne in realtà era timido e impacciato, era stato Jimmy a renderlo molto più disinvolto e duro. Richard mi aveva fao ridere molte volte, sì, ma non lo consideravo certo un modello da emulare. A voler seguire la premessa di Kael, dovrei essere un po’ Boyle e un po’ tui gli altri miei protagonisti: Jim Morrison, Richard Nixon, Jim Garrison e così via. Ma che hanno da spartire il personaggio di Jim Morrison e quello di Nixon? E che cosa potevano avere in comune questi personaggi con i protagonisti autodistruivi dei miei precedenti lavori, Seizure e La mano? Mi sono sempre tenuto fuori dagli stereotipi, anzi è proprio questo il piacere che ho trao, e traggo tuora, dalla scriura drammaturgica: non avere un’identità fissa, essere libero come autore, sfuggente, sconosciuto. Eppure negli anni, via via che ti costruisci un’identità araverso opere diverse, questa libertà sembra diventare sempre più costosa e difficile da conservare, tanto che cercare di non perderla avrebbe finito per consumarmi. Per via di queste iniziali etichee da parte dei critici, “Oliver Stone” divenne per qualcuno il personaggio del reduce di guerra macho che vuole infrangere i tabù, privo di aenzione per i ruoli femminili… e ben presto un teorico della cospirazione. A ogni modo, la recensione di Pauline Kael innescò uno strano processo che rese Salvador più acceabile negli ambienti del cinema, oltre a dare una svolta agli incassi e alla risposta del pubblico. Il film adesso cominciava a fare capolino nelle top ten dell’anno e, con nostra grande sorpresa, a crescere nella considerazione della Academy. Il marito di Paula Wagner, l’agente Rick Nicita, cofondatore della CAA, sintetizzò il senso della mia rentrée hollywoodiana quando mi disse: “Salvador è un oimo film, ma in questo momento la gente non vuole affrontare certi temi.” E al contrario di quanto avrebbe potuto dirmi un agente più disilluso, aggiunse: “Continua a fare i tuoi film senza compromessi e vedrai che un giorno, per qualche motivo, interceeranno la sensibilità del pubblico e arriverai al vero
successo. L’unico modo è continuare a sfornarli. Non cambiarli, non annacquarli.” Un consiglio forte, difficile da meere in pratica, ma in quel 1986, senza rendermene conto, mi stavo già avvicinando al bersaglio. Provavo inoltre, per la prima volta, un legame più profondo con Los Angeles, perché finalmente stavo gustando i frui del suo giardino. L’essenza di Hollywood è la ricerca di un sogno, di una storia da raccontare. A Los Angeles non c’è una cià vera e propria: c’è un’industria, ci sono sobborghi residenziali, c’è una vivace cultura animata da persone di grande talento e intelligenza ma, diversamente da New York o Parigi, Los Angeles è estesa e sparpagliata, difficile da circoscrivere. A Hollywood si respira senz’altro un certo agio, una rilassatezza da vita in hacienda ma, senza una storia da raccontare o in procinto di essere raccontata, personalmente vi trovo ben poca sostanza o soddisfazione. Adesso arrivavano offerte non solo per scrivere ma anche per dirigere, e mi ritrovai all’improvviso a giocare in serie A quando la gloriosa Zanuck-Brown Company, la società di produzione hollywoodiana che aveva realizzato Butch Cassidy e La stangata per la regia di George Roy Hill, di punto in bianco mi propose un film intitolato Shaered Silence, la biografia affascinante e a quanto pare veritiera di una spia israeliana che aveva dato la vita in una pericolosa missione in Siria. Abby Mann, sceneggiatore di Vincitori e vinti (1961), aveva consegnato anni addietro una buona prima stesura che, come spesso succede negli studios, era via via peggiorata in seguito a vari interventi altrui. Dick Zanuck e David Brown, che avevano apprezzato molto Salvador in quanto “vero” e con “aori veri”, erano due persone garbate, gentiluomini di nascita che si erano sempre mossi con classe, produori che non avevano bisogno di usare la mano pesante. Da quelle porte le mie sceneggiature erano passate già diverse volte senza mai essere notate; adesso invece erano loro che inseguivano me. Ero a un punto della carriera in cui cercavo di essere cortese e non scontentare nessuno: rispondevo a ogni
telefonata, chiunque fosse, leggevo ogni copione che mi venisse sooposto, e se esprimevo interesse o addiriura entusiasmo ci tenevo a dimostrarlo con i fai. Non volevo essere come i tanti produori che mi avevano traato come uno straccio nei quindici anni precedenti. Sviluppare una sceneggiatura era un impegno sacro, riuscirci senza sprecare il denaro per lo sviluppo comportava uno sforzo notevole. Per l’educazione che mi aveva impartito mio padre, aborrivo l’idea di ricevere denaro senza prestare in cambio un servizio; ma capii che a Hollywood questo mi collocava in una minoranza. Così, in seguito, quando informai la ZanuckBrown che non potevo acceare il loro film come mio prossimo progeo, loro si tirarono indietro delusi. Una seimana dopo, però, con mia sorpresa, tornarono alla carica dicendosi disposti ad aspearmi. Ero a disagio con questa prospeiva e mi sentivo in colpa per averli indoi a credere che volessi comunque fare il film, cosa che invece non mi passava nemmeno per la mente. Mi ero infai convinto che il materiale non fosse così buono come mi era sembrato a una prima leura. Ho spesso potuto constatare che, approfondendo le ricerche, molte “storie vere” non sono poi così vere, o che semplicemente non c’è abbastanza sostanza da giustificare lo sforzo e il tempo necessari a realizzare un film. Mi sentivo una merda ma declinai ancora una volta e non ebbi più notizie da loro per diversi anni. Tra parentesi, quando la storia di Eli Cohen fu infine realizzata, trent’anni più tardi come miniserie televisiva in sei episodi, ebbi l’impressione che si fosse allontanata ancora di più dalla verità. Ricomparve anche il vulcanico Peter Guber, il produore esecutivo di Fuga di mezzanoe, per propormi la storia del fotografo di guerra Robert Capa, lungo un arco temporale che sarebbe andato dalla Seconda guerra mondiale al Vietnam. (“Sono molto contento per te, Oliver! Adesso però dovresti fare qualcosa di grosso… di enorme! Un film alla Lawrence d’Arabia.”) Ma potevo tornare a lavorare con il suo socio Jon Peters dopo La mano? Rifiutai, e Guber tornò in seguito con la proposta di Gorilla nella nebbia, trao dall’autobiografia di
Dian Fossey, che sarebbe stato realizzato nel 1988 con Sigourney Weaver nei panni della intelligente e affascinante protagonista. Il testo, a mio avviso, era rifinito e perfeo in superficie, ma al tempo stesso una trappola, perché non mi somigliava. Fu Elizabeth a farmelo notare. “Non impelagarti in un progeo femminile come questo.” Avevo bisogno di qualcosa di crudo, caotico e imperfeo come ero io. Ned Tanen, che era stato il presidente della Universal durante le turbolente vicende di Scarface (particolare che evitai di ricordare per non increspare la superficie dei buoni rapporti), mi invitò a pranzo insieme alla mia agente Paula. Tanen, che adesso era un produore indipendente presso la Paramount, mi propose di lavorare con lui, dimenticando che aveva rifiutato Platoon diverse volte già dai tempi dell’opzione di Marty Bregman nel 1976. Non rivangai nemmeno la sceneggiatura di Defiance, che Tanen non si era neanche dato la pena di leggere e giaceva abbandonata in un casseo, sicuro che questi deagli lo interessassero ben poco. Per quanto mi facesse piacere essere corteggiato da un pezzo grosso, Ned era molto amico di Marty e io avevo ancora troppa paura del caraere vendicativo di Bregman per approfondire il discorso. Facevo lo sceneggiatore da abbastanza tempo per sapere che lavorare direamente con una major aveva diversi lati negativi, per esempio quello di affrontare “l’inferno dello sviluppo”, come lo chiamavano, con i copioni che passavano continuamente da uno sceneggiatore all’altro per la revisione, finendo per andare leeralmente perduti in un sistema dove l’avvicendamento dei dirigenti era all’ordine del giorno; per non parlare delle spinose questioni relative ai cosiddei “accordi di turnaround” (ossia la possibilità, a determinate condizioni, di trasferire una sceneggiatura a un’altra casa di produzione): come rientrare in possesso di un testo, evitare di gonfiare i costi rispeo a quelli effeivamente sostenuti eccetera eccetera. Avevo ancora ben impressi nella mente i problemi incontrati con Dino De Laurentiis a proposito di Platoon. E soprauo c’era la mia precaria situazione finanziaria, tra le quaro case da mantenere – due a New York (Sagaponack e l’appartamento a
Manhaan) e due a Los Angeles (l’appartamento che avevamo acquistato e la casa presa in affio) – e i pagamenti di Platoon e Salvador non ancora completi. All’epoca spendevo circa trentacinquemila dollari al mese tra affii, mutui, mia madre, cibo, automobili, moglie e figlio, e una nuova tata (per fortuna una pia donna sposata). Pines mi informò che ero anche in debito di future tasse, federali e dello Stato di New York. Certe volte, nel cuore della noe, mi sentivo avvolto da un gigantesco pitone di debiti che cominciava a serrare le sue letali spire. Reminiscenze delle paure di mio padre. Dentro di me, John Daly restava il mio punto d’appoggio. Finora dovevo a lui la carriera. John voleva fortemente il mio prossimo progeo e rimase preda di un occasionale lampo di paranoia quando spuntò la possibilità che lavorassi con altre case di produzione. Come in un incontro di boxe, si aspeava che restassi con lui, e riteneva che potessimo realizzare Defiance, il mio progeo sul dissidente russo, al quale teneva sinceramente. L’oimo Kevin Kline era disponibile per il ruolo del compositore ma adesso ero io a nutrire dubbi sulla mia sceneggiatura: Defiance non era radicata in una realtà americana, era più un’esperienza esotica e, reduce da due film come quelli che avevo girato, mi rendevo conto di quanto fosse difficile azzeccare una storia ambientata in una cultura diversa dalla mia. A Daly piaceva anche la mia idea di continuare con il personaggio di Charlie Sheen in Platoon, riportarlo negli Stati Uniti e seguire le vicende del suo adaamento alla vita da civile. Lo vedevo come un film intitolato Second Life e avevo già scrio qualcosa del genere anni prima, Once Too Much, una versione cupa e melodrammatica del mio personale ritorno in patria, compresa l’esperienza del carcere vissuta al rientro dal Messico alla fine del 1968. Ma quella storia non era più auale, poiché adesso ero nel mondo della realtà contemporanea, non vivevo più in un film di Peckinpah. L’idea, inoltre, portava con sé anche alcuni ostacoli contrauali; con Sheen-Chris come protagonista, sarebbe
stato considerato un sequel, particolare che avrebbe comportato consistenti pagamenti ad Arnold Kopelson che già teneva il fiato sul collo di John riguardo ai soldi che gli erano dovuti per Platoon. Arnold, con il suo occhio svelto per i dollari, stava già energicamente tentando di vendere a qualche network un adaamento televisivo di Platoon, cosa che mi preoccupava non poco. Platoon non era certo materiale da China Beach, che sarebbe diventata la serie televisiva sul Vietnam per antonomasia e avrebbe fruato un mucchio di soldi grazie al suo essere inoffensiva praticamente per chiunque. John sembrava occupato dalle questioni relative all’espansione della propria compagnia, per la quale stava accarezzando l’idea di una quotazione in borsa; mi ventilò addiriura la possibilità di vendermi una quota di stock options della Hemdale. Lavorativamente si sentiva già fin troppo oberato, fra i troppi progei in fase di sviluppo e i nuovi produori pigiati nella sala d’aesa a pianterreno della sua villea sul Sunset Boulevard. Per lui Salvador apparteneva al passato, e cercò di placare i miei timori per gli scarsi incassi del film dicendomi: “Suvvia, Oliver, tui lo vedono come un successo, basta che tu non apra il becco e snoccioli le cifre. Sii positivo. Il film ha fao salire di molto la considerazione della Hemdale nel Bel Air Circuit,” vale a dire quel servizio di distribuzione rivolto a una selezionata cerchia di dirigenti cinematografici e aori, importantissimo per creare il clamore giusto intorno a un film. Salvador, proseguì John, aveva sofferto solo perché era stato percepito come film politico: “Ecco perché dobbiamo stare molto aenti nel maneggiare Platoon, allargarne l’orizzonte, non lasciare che diventi solo un film di guerra.” Nel fraempo, c’erano questioni più terra terra da affrontare, tipo: “Dove sono i miei soldi, John?” Boyle continuava a tampinare la nostra addea stampa sulla costa ovest, Andrea Jaffe, dicendo che aveva intenzione di denunciare la Hemdale alla Writers Guild per mancato rispeo degli obblighi minimi del contrao colleivo. John
mi tirò su di morale con i suoi modi ammalianti: “Ovviamente tu e Boyle verrete pagati. Di’ a Bob Marshall di firmare quelle stramaledee pagine.” E quando Bob, il mio avvocato, finalmente gli rispedì alcune pagine corree del contrao, John sorrise e mi disse: “Buon Dio, il tuo tizio doveva indossare una maschera quando ha scrio questa roba, tanto stava ridendo!” Pronunciate nel suo accento cockney, quelle parole mi disarmarono. Per le questioni di soldi, passavano seimane, a volte mesi, prima che si potesse risolvere qualcosa con John e il suo socio Derek Gibson, che insieme gestivano la piccola Hemdale come se fossero i titolari di un pub – cosa che a quanto pare erano stati davvero in passato. Lo avevo saputo da un produore inglese che li aveva conosciuti negli anni Sessanta quando avevano un locale nell’East End di Londra chiamato e Spoed Duck, o qualcosa del genere, frequentato da pugili, gangster e i rispeivi codazzi; e come veri gestori di pub, spesso si dimenticavano di pagare i fornitori. A un certo punto vendeero i dirii video di Platoon a due società di distribuzione diverse, creando un gran casino. Ma l’industria del cinema non è un pub e i due si ritrovarono a non poter più continuare con quell’andazzo: ben presto, con le denunce passate e presenti che si accumulavano come i conti di un bar, si ritrovarono sempre più nei guai fino a dover dichiarare fallimento nel 1995. Eppure, in mezzo a tuo quel caos, John tirava fuori gemme come Colpo vincente, con Gene Hackman in una delle sue migliori interpretazioni nei panni di un allenatore di basket in una piccola cià dell’Indiana, e Salvador, oltre a Platoon. E tra i numerosi progei che stava sviluppando c’era un film di Bernardo Bertolucci, esotico e di difficile finanziamento, ambientato in Cina: L’ultimo imperatore, che nel 1987 si sarebbe aggiudicato l’Oscar per il miglior film, il secondo consecutivo per John. Niente male per una casa di produzione a basso budget con sede in una villea affacciata sul Sunset Boulevard.
E davvero, non credo di essere mai stato più felice. Ero reduce da due buoni film. Avevo una moglie e un figlio che amavo e che mi erano stati accanto in entrambe le riprese. Un sabato, beatamente, scrissi nel mio diario: “Splendida giornata trascorsa in casa, nella serenità del mio giardino, libri, posta, Sean, Elizabeth che non è mai stata più bella, montaggio di un film, imminente partenza per la Germania e la Svezia per promuovere Salvador, proposta di un altro film da valutare – un bel momento, Oliver, sii riconoscente, amici, persone che amo, tornato in carreggiata con la CAA. E nel fraempo ti occupi del giardino e ti tuffi in piscina.” Eppure c’era un’altra immagine della mia vita in competizione con questa. Ormai avevo quarant’anni ma c’era da sempre. Ritengo che fosse la versione fanciullesca dell’avventura, di una vita vissuta al massimo. Era la stessa che mi aveva allontanato dall’università per mandarmi a insegnare in Estremo Oriente, e che poi mi aveva portato nella marina mercantile, poi a scrivere un romanzo, poi ad arruolarmi nella fanteria. Una spinta costante a esplorare il mondo esterno e quello interiore. Era una vita da pirata quella che romanticamente vedevo: come Burt Lancaster nel Corsaro dell’isola verde, uno dei miei film preferiti degli anni Cinquanta. Ero il capitano e con la mia caotica ciurma – Seizure, Salvador, Platoon – solcavo il mar dei Caraibi del Seecento, da Port Royal, in Giamaica, fino ai porti di Cartagena e dell’Avana, a caccia del prossimo vascello che per me era l’idea per una storia; e dopo averlo abbordato e saccheggiato, fuggivo prima che i cannoni delle navi dell’impero (Inghilterra, Spagna, Fox, Warner) potessero centrarmi. Ridevo filando via soo il loro naso, contando su rapidità, abilità di manovra e budget risicati. Dovevo però tenere d’occhio gli altri insidiosi filibustieri come Dino De Laurentiis, Bregman, Jon Peters, che ti avrebbero venduto per una scodella di fagioli. Uomini pericolosi, da cui stare alla larga. La mia era una vita da uomo libero, senza una vera casa se non le fanciulle in ogni porto, come lo Scaramouche di Rafael Sabatini, “nato con il dono della risata e la sensazione che il mondo fosse pazzo”. C’è tuora questa
spaccatura nella mia anima: la casa, il focolare domestico, e poi via nel vento con la tua ciurma. “Son diventato un nome,” come dice l’Ulisse di Tennyson. Poteva essere? Potevo vivere due vite diverse? Come gli uomini duri con i quali avevo lavorato in marina vent’anni prima: sei mesi sulla terraferma, sei in mare; uomini eccentrici e irrequieti che restavano liberi nell’animo, ma anche tormentati. Negli anni a seguire, avrei vissuto appieno questa mia duplice natura. Per una volta, con Platoon il montaggio stava filando relativamente liscio, senza le interferenze che avevo subìto su Salvador. In un mese avevo assemblato un premontato di due ore e quaranta minuti che però non aveva visto nessuno, tranne i miei montatori. Come per tui i montaggi provvisori, sprofondai nuovamente nella disperazione, totalmente deluso da me stesso. Nulla, al di fuori delle scene di combaimento, sembrava funzionare. Dov’erano i personaggi? Chris Taylor-Sheen era passivo, poco sviluppato; Barnes-Berenger andava benino mentre Elias-Dafoe parlava troppo di politica. Scorsi mentalmente un centinaio di cambiamenti che avrei voluto provare subito, ma proprio questo è il momento in cui bisogna rallentare e lavorare di lima. Ho imparato sulla mia pelle che apportare tagli troppo radicali è un grave errore, come rinunciare per stizza a qualcosa che hai scrio. È raro che i registi siano soddisfai da un premontato, di solito questi informi assemblaggi servono solo a ricordarci la nostra impotenza. Dovevo eliminare il mio grasso, togliermelo dal corpo, se necessario, ma lentamente. Flagellarmi. E così limammo, a poco a poco. Tre seimane dopo, mostrai un nuovo montato di due ore e venti alla mia cerchia più strea: John, il suo socio Derek Gibson, Charlie Sheen, Bob Richardson, Elizabeth e pochi altri. Come colonna sonora provvisoria avevamo messo l’Adagio per archi di Samuel Barber, giusto per dare a Georges Delerue, lo stesso compositore di Salvador, un’idea cui ispirarsi. La musica funzionava, era un colpo da KO fin dall’inizio, con il suo tragico senso di perdita. John si commosse, Elizabeth piangeva, e mi bastò quello; persino Derek Gibson, una faccia torva che non sorrideva mai, era
raggiante. Avevano la sensazione di un’esperienza reale. C’era ancora bisogno di lavoro, alcuni passaggi erano lenti, ma eravamo fiduciosi. Dopo qualche ulteriore cambiamento, avremmo sooposto il montato alla Orion West. Una seimana più tardi, entrammo dunque nella stessa sala di proiezione dove Mike Medavoy aveva bocciato Salvador dopo appena pochi rulli, deplorando il “truculento Mr. Stone”. Medavoy e il veterano Sal Lomita, che era stato supervisore di postproduzione alla United Artists fin dagli anni Cinquanta, erano presenti insieme ad altri dirigenti. Nervosamente, mi accomodai in un posto laterale. Il film sembrava ancora troppo lento, numerosi deagli da sistemare mi balzarono agli occhi. ando finì, Sal, che era stato testimone di tantissime baaglie all’interno degli studios, Dio lo benedica, fu il primo a dire: “Il più bel film di guerra che abbia mai visto!” Senza esitazioni. “È tuo quello che Apocalypse Now avrebbe dovuto essere.” Avevano distribuito proprio loro Apocalypse Now, ma non credo che il paragone fosse correo, perché i due film si ponevano obieivi diversi. Medavoy, un tipo freddo che non esagerava mai nel mostrare le proprie emozioni, mi disse a bassa voce: “Sei davvero un grande filmmaker… appartieni a una categoria tua tua,” quasi fosse meravigliato che potessi essere lo stesso che aveva girato La mano. Adesso John Daly e Mike Medavoy erano i miei più grandi alleati. Organizzarono per la seimana successiva una proiezione destinata ai loro soci sulla costa est. Diversamente dalle normali gerarchie piramidali degli altri studios, la Orion era davvero una squadra a cinque, tui soci alla pari legati alle sorti della compagnia dai propri investimenti. Oltre ad Arthur Krim sarebbe stato presente il suo chief production executive, il raffinato e solenne Eric Pleskow; e inoltre il direore finanziario Bill Bernstein, Bob Benjamin, vecchio associato dello studio legale di Arthur, e il gelido responsabile dei dirii internazionali Ernst Goldschmidt; oltre, presumibilmente, all’intera forza di vendita nazionale e internazionale, che era in cià per altri motivi. “Fa’ che ne valga la pena,” fu il monito che Pleskow rivolse a Sal.
Era il momento decisivo. Sfrondammo, ritoccammo e ci recammo a New York un umido giorno di inizio agosto. Facemmo ingresso in una minuscola sala di proiezione a Midtown alle quaro del pomeriggio. Krim e compagnia arrivarono a passo di marcia. Chissà quanti premontati Krim aveva visionato da quando era diventato presidente della United Artists nel 1951 e aveva poi fondato la Orion nel 1978. Tui quei grandi film della UA con Burt Lancaster e Kirk Douglas (Orizzonti di gloria, Piombo rovente), gli altri indipendenti: La regina d’Africa, Mezzogiorno di fuoco, West Side Story, Un uomo da marciapiede, alcuno volò sul nido del cuculo, Rocky, Io e Annie e adesso Hannah e le sue sorelle. Non potevano esserci sorprese per uno come lui. Krim rappresentava ciò che io avevo sempre amato dei film: l’indipendenza e l’intelligenza. Se non mi fossi dimostrato all’altezza della sua stima, voleva dire che non sarei mai diventato ciò che aspiravo a essere. Il suo proiezionista, tuavia, era un tipo scorbutico che mi innervosì fin da subito. Avevamo dodici rulli singoli, non avendoli ancora riuniti nella pellicola standard da quarocentocinquanta-seicento metri. E guarda caso, questo proiezionista “veterano” sbagliò ognuno dei passaggi, facendo sì che la pellicola e il sonoro saltassero alla scena seguente in modo sgraziato; ero depresso, furente, qualsiasi regista avrebbe protestato, ma ormai ero diventato fatalista. Il film giunse al termine. Non c’era un Sal Lomita a esaltarlo. Arthur Krim mi strinse la mano sorridendo. “Film potente,” disse, e si ritirò nel suo ufficio insieme agli altri. Mi ringraziarono tui garbatamente; sembravano emozionati, ma chi poteva dirlo con certezza? Mi diedero appuntamento per l’indomani. A Los Angeles, intanto, John era stranamente nervoso. Mi disse di non preoccuparmi, che avrebbe potuto ritirare il film dalla Orion e darlo alla Paramount, dove avrebbe anche spuntato un accordo più favorevole. Io e lui ci eravamo già trovati nella stessa situazione con la Orion per Salvador e il realismo ci diceva che avremmo dovuto sudarcela di nuovo. Il giorno seguente mostrai il film a Marion, Arthur, Alex Ho e
altri; sembrarono tui favorevolmente impressionati. Il film senza dubbio funzionava. Poi mi recai alla Orion e incontrai Pleskow, insieme ai responsabili vendite, marketing e promozione. Krim non era presente: un segnale? Eric era un austriaco abbastanza espansivo, con una bella zazzera di capelli argento e l’accento elegante. Ma sapeva anche essere molto freddo, se necessario. ando paragonò Platoon all’esperienza che aveva vissuto guardando All’ovest niente di nuovo, capii che era sensibile agli orrori della guerra e ai cambiamenti che i giovani araversano durante un conflio. Il film era “roba grossa”, a suo dire, “importante”, e sarebbe stato opportuno che uscisse nella finestra tra il 18 e il 21 dicembre, per poi lasciarlo consolidare tra gennaio e febbraio; altrimenti a novembre gli esercenti avrebbero potuto snobbarlo. Gli uomini del marketing, Charlie Glenn e Bob Kaiser, erano convinti che tui i principali programmi di aualità, da 60 Minutes a Nightline di Ted Koppel, sarebbero stati interessati a dedicargli un servizio. Ernst Goldschmidt, delle vendite estere, restava in silenzio, probabilmente incerto sull’accoglienza che il film avrebbe potuto avere fuori dagli Stati Uniti. Immaginai che Krim non ci fosse perché per lui non era una questione abbastanza importante. Probabilmente sarebbe rimasto alla finestra. Però lo aveva definito un “film potente”, e quindi stabilii di prendere le cose come sarebbero venute. Uscii dall’ufficio esaltato dalla riunione e nella mia ingenuità non mi chiesi, come invece avrebbe fao un regista esperto, quanto sarebbe stata ampia la distribuzione natalizia della Orion, quanto erano disposti a spendere in pubblicità e promozione. Somme consistenti avrebbero indicato una forte fiducia nelle potenzialità del film, mentre io ero già contento che fosse piaciuto e mi fidavo di quel giudizio. In seguito, un produore che aveva assistito alla proiezione losangelina e che era sceso in ascensore insieme a Medavoy e ad altri dirigenti della Orion mi avrebbe riferito i loro ragionamenti
ad alta voce: “Mah. Difficile da vendere. Che cosa ne facciamo?” In altre parole, alla Orion il film piaceva ma non avevano intenzione di investire molti soldi nelle sue possibilità al boeghino. Per cui avevano previsto un’uscita limitata in tre cià per un totale di sei sale il 18 dicembre e poi… si sarebbe visto. In quegli anni tuavia, un’uscita limitata significava qualità e non affibbiava necessariamente l’etichea di “film difficile, incassi scarsi”, come invece sarebbe successo in futuro. E quali che fossero state davvero le reazioni alle due proiezioni, si diffusero in frea. Le pulsazioni, che per me erano già abbastanza alte, accelerarono con il numero di telefonate che mi arrivavano in sala montaggio (che all’epoca fungeva anche da mio ufficio), soraendomi tempo per il lavoro – non avevo una segretaria che rispondesse ai messaggi, alle leere, alle richieste… La mia vita stava davvero diventando sempre più folle e i ritmi erano estenuanti. Nonostante la ragione mi dicesse il contrario, il mio cuore si innamorò di un altro progeo che Daly voleva affidarmi: Tom Mix and Pancho Villa, basato su un semimmaginario romanzo di avventura scrio dal famigerato Clifford Irving e sooposto all’aenzione di John da due produori indipendenti tedeschi. Parlo di innamoramento perché era profondamente romantico immaginare un giovane Tom Mix, futura stella dei western muti, che correva a dare man forte a Pancho Villa nella rivoluzione messicana; di certo c’era qualche analogia con la mia giovinezza e la scelta di partire per il Vietnam a diciannove anni. Mix rimane coinvolto in un mucchio di avventure e di scontri, cresce, si innamora di due diverse bellezze – una texana, l’altra messicana – in un arduo viaggio verso la maturità. Forse ero un fanatico delle cause perse. Non solo la rivoluzione messicana, ma il Vietnam stesso: cos’era se non una causa fallita e per giunta nemmeno giusta? Dedicai al mio Tom Mix circa oo seimane: un periodo frenetico fao di leura di copioni, riunioni con svariati
produori, valutazione di aori per il ruolo di Tom e Pancho… mentre proseguiva il montaggio di Platoon. Per ogni film che avrei realizzato in futuro, ne avrei trovati e sviluppati probabilmente altri cinque. La scriura era, dovrebbe essere – e non è più – un processo di ricerca e sviluppo che lascia spazio alla riflessione e anche alla possibilità di un esito negativo, tra l’altro molto frequente. Gli studios all’epoca erano in genere capaci di sostenere economicamente tale processo; oggi non più, a meno che non si trai di un franchise già affermato. La mia sceneggiatura di Tom Mix mi piaceva ma non mi faceva impazzire. In queste fasi un film è una fantasia meravigliosa. Lo sogni, senza dover ancora affrontare la dura quotidianità delle riprese. È, in un certo senso, una versione moderna dell’episodio dei Lotofagi nell’Odissea, un periodo di insidiosa tentazione in cui il fruo pende da un ramo basso, a portata di mano. Tra Tom Mix, il seguito di Platoon – Second Life – e potenzialmente anche Defiance, avevo tre progei con John Daly. Più che sufficienti. Mi era anche venuta in mente un’altra idea per Mike Medavoy intitolata Company Man, sulle spie che avevo incrociato in posti come l’Honduras e la Costa Rica durante le ricerche preparatorie per Salvador: ex militari che in alcuni casi lavoravano per la CIA e che cercavano di fare soldi comprando e vendendo di tuo. L’intera squadra della Orion mi diede l’okay – “purché non sia antiamericano, Oliver, non farci il predicozzo”. Insomma avevo un altro accordo di massima; la possibilità era entusiasmante ma fece imbufalire John Daly che era in acerrima competizione con la Orion. E per me, già così oberato, era un altro impegno. Che mi saltava in mente? Il punto è che adoravo le idee. Ne avevo buate giù tantissime, nel corso degli anni, in un gran numero di sceneggiature e soggei: ero una vera sorgente. Ma ognuna richiedeva tempo, immaginazione, sviluppo; mi servii di altri autori, perdendo comunque una notevole quantità di tempo in riunioni, necessarie per illustrare le mie intenzioni. Cominciai a vedere Hollywood come la confluenza di tanti
corsi d’acqua che si riversavano nel grande fiume del prodoo finito, spesso e volentieri opera di tanti creatori diversi – di una coscienza colleiva, per così dire. Tuavia questa organizzazione molto spesso non funzionava, perché le stesure appaltate ad altri non erano quasi mai all’altezza di ciò che avevo sognato. Ma ora che il mio pozzo di petrolio sgorgava, non era facile meerci un tappo. Così andai avanti. Fai film, Oliver. La tua chance è adesso. Persino Dino De Laurentiis mi voleva di nuovo con lui. Proprietario di tre, quarocento negativi di film risalenti persino agli anni aranta, si era di nuovo lanciato nella distribuzione e, con la solita faccia di bronzo, mi invitò nel suo ufficio in Wilshire Boulevard, grande quanto un campo da calcio. Ed eccolo lì, il piccolo diatore con il suo metro e sessanta di altezza, dietro un’enorme scrivania, grandi occhiali da sole con la montatura verde e la voce roca marcata da un pesante accento italiano: “Hai fao un buon film, questo Platoon. Mi sono sbagliato.” Si strinse nelle spalle, come a dire: è il destino. Il suo unico rimpianto erano gli introiti mancati, non certo il dolore che aveva provocato a me. “Ma sai, Olivèrre, sei di nuovo il benvenuto nella famiglia” – frase pronunciata come un vero padrino. Dino possedeva i dirii per un remake di Ventimila leghe soo i mari (1954): “Azione! Piovre so’acqua! Una grande storia! Jules Verne! Un genio!” L’originale era stato uno dei miei film preferiti da piccolo, senza dubbio, ma mi sembrava azzardato rifare qualcosa che era già venuta così bene la prima volta. Il vero brivido stava nel sondare terreni inesplorati. “Dino,” risposi, parlando con una fermezza che non ero riuscito a tirare fuori nei nostri precedenti incontri, “il passato è passato. Ma devi capire che ho girato due film con John” – in entrambi i casi Dino lo aveva chiamato per accertarsi che non fosse impazzito – “e sono fedele a lui. Adesso faccio parte della sua famiglia.” Non era tecnicamente vero, ma suonava come una frase che uno squalo come Dino avrebbe compreso. Tuavia servì a poco, perché Dino mi rassicurò prontamente: “Nessun problema! Faccio il film con
John – questo Tom Mix lo faccio io!” Il punto principale non era nemmeno come facesse a sapere di Tom Mix, quanto piuosto la presunzione di poterlo acquisire, come in effei gli riusciva quasi con tuo. Saremmo stati a vedere. Dino avrebbe incrociato di nuovo il mio cammino: un personaggio memorabile, con il suo insaziabile appetito per qualunque cosa fosse gigantesca come King Kong. Uscendo dall’ufficio mi resi conto che non era mai saltato fuori il nome di Michael Cimino; Dino doveva già essersi dimenticato degli incassi deludenti dell’Anno del dragone. Michael, tra l’altro, non mi aveva mai contaato per parlare di Platoon. Io lo ringraziai nei titoli di coda e nelle interviste, soolineando il suo sprone a riprendere in mano la mia vecchia sceneggiatura. Anni più tardi, cercai di aiutarlo a produrre una poetica favola solitaria su uno stallone bianco, una storia alla quale teneva molto. Riuscii a procurargli un impegno da quaordici milioni di dollari da parte del produore indipendente Mario Kassar, che nel fraempo aveva realizzato con me e Doors. Era un finanziamento consistente e Michael, dopo i flop del Siciliano e di Ore disperate, aveva bisogno di un’occasione per tornare sul ring. Ma Michael era pur sempre Michael e pretendeva un budget maggiore, ben oltre i quaordici milioni; e io, dopo un po’, geai la spugna. Fu poi la volta di Ed Pressman, il produore di Conan il barbaro e La mano, a presentarmi la generosa offerta di scrivere e dirigere qualcosa che avremmo potuto fare insieme sulla nostra cià natale, New York. Avevo sempre avuto un debole per Ed, un vero galantuomo, per quanto inefficace come mio produore ai tempi della Mano. Mi era comunque simpatico come amico. Gli scandali dei quiz televisivi anni Cinquanta, che nel 1994 Robert Redford avrebbe trasformato nell’eccellente iz Show, mi avevano sempre affascinato. Come avevano potuto quegli autori e quei concorrenti essere così disonesti verso i bambini come me, che in pigiama avevamo guardato somme enormi vinte in realtà con l’imbroglio? Era l’ennesima orrenda menzogna che ci aveva
ipnotizzati. Visto che ero impegnato con la sceneggiatura di Tom Mix, io e Pressman ingaggiammo come sceneggiatore un mio compagno di corso alla NYU, Stanley Weiser (aveva scrio Un camion in saloo nel 1980). Subito dopo, tuavia, abbandonai lo scandalo dei quiz televisivi per un’altra storia, rendendomi conto che nella mia cià adesso tuo ruotava intorno a Wall Street e all’alta finanza. Il mondo in fondo signorile di mio padre c’era ancora ma stava scomparendo rapidamente e io immaginavo il film come uno scontro tra vecchio e nuovo. I media davano sempre maggiore risalto agli arresti per insider trading di giovani operatori di borsa. Un mio amico trentenne che aveva già guadagnato una fortuna – nell’ordine di milioni di dollari, cosa che all’epoca sembrava impossibile per una persona della sua età – parlava del fare i soldi come se fosse sesso. alcosa di volgare, eccitante. Io e Stanley riguardammo Piombo rovente, il classico del 1957 scrio da Clifford Odets, e cominciammo a sviluppare le idee lavorando a streo contao. Nel nostro film il personaggio più anziano e più duro (il Burt Lancaster di Piombo rovente) sarebbe stato un pezzo grosso della finanza, Gekko, mentre il più giovane (il corrispeivo di Tony Curtis) sarebbe stato quello che andava a rimorchio – finché a un certo punto smeeva di farlo. Stanley, con tipica baldanza newyorkese, si mise al lavoro su una prima stesura in agosto. In precedenza avevo rifiutato la proposta di Ed Pressman di adaare un libro di Alan Dershowitz, Reversal of Fortune (basato sulla misteriosa storia vera della strana morte di un’ereditiera newyorkese, Sunny von Bülow), ma Ed mi convinse che avrei potuto fare un po’ di soldi, di cui avevo bisogno, coproducendo il film insieme a lui. Dopo una riunione con un affascinante agente della vecchia Europa, Paul Kohner, decidemmo di proporne la regia al suo cliente Billy Wilder, all’epoca oantenne e in pensione ma con l’energia mentale di un quarantenne. Di persona, trovai Wilder sardonico e pungente. Non aveva visto Salvador ma mi disse: “Tu dovresti essere l’uomo di punta, non ridurti a
questo lavoro masochistico,” dopodiché passò a demolire la storia di von Bülow che gli stavamo proponendo e che a suo avviso mancava degli elementi essenziali delle storie di un tempo, “colpi di scena, conflii, coinvolgimento emotivo… Ogni copione che mi portano è una donna bellissima, ma se non ho un’erezione non posso fare niente con lei.” Dopo aver rievocato con Kohner svariati aneddoti dell’Europa degli anni Venti, ci disse quello che gli sarebbe piaciuto realizzare, se davvero lo ritenevamo ancora in grado di dirigere un grande film. Ma certo, ne eravamo convinti! Da uno scaffale tirò giù una versione illustrata di Le Pétomane, un famoso libro di fine Oocento dedicato a un artista francese capace di emeere flatulenze a suo piacimento. Per fortuna, Wilder non avrebbe mai realizzato quel film. Io e Ed finimmo davvero per coprodurre nel 1990 Il mistero von Bulow, con Glenn Close e Jeremy Irons (che si aggiudicò un Oscar per il ruolo), ma per me la soddisfazione più grande fu consolidare l’amicizia con Wilder nel corso di molti pranzi e cene all’insegna dell’allegria. Salvador e Platoon – ammesso che Billy li abbia mai visti – erano probabilmente film un po’ troppo crudi per lui e, quando mi chiedeva: “A che cosa stai lavorando?” e io glielo dicevo, la sua reazione immancabile era: “Oh, no! Di nuovo le cervella di Kennedy spiaccicate dappertuo! Tre ore! Sei pazzo? Non farà un soldo.” ando in seguito gli dissi che stavo realizzando Gli intrighi del potere – Nixon (un film di tre ore e quindici minuti), avrei voluto avere una macchina fotografica per immortalare l’espressione della sua faccia: “Oh, santi numi! Suicidio professionale!” Non sapevo come Billy mi giudicasse realmente, ma credo che in me, come nel Petomane, amasse lo spirito da provocatore, il fao che portassi lo scompiglio. Come amava dire lui stesso: “Épater la bourgeoisie!” La musica di Platoon stentava a sbocciare. Avevamo usato, piuosto massicciamente, canzoni degli anni Sessanta molto popolari fra le truppe, da e Tracks of My Tears a White Rabbit, da (Siin’ On) e Dock of the Bay a When a Man
Loves a Woman a Groovin’. All’epoca l’uso di brani di successo era ancora accessibile ma negli anni, con l’aumentare della popolarità di questo genere di film, i costi sarebbero diventati via via più proibitivi. Per la colonna sonora originale, Georges Delerue si era ispirato a Ran di Kurosawa e stava componendo proprio i ritmi che cercavo: orientali, atonali e a volte sinistri. Il tema per pianoforte che avrebbe dovuto sostituire l’Adagio per archi, invece, era solo discreto, meno toccante rispeo all’originale di Samuel Barber. La composizione di Barber è sostanzialmente una melodia molto semplice; la versione di Delerue invece si muoveva di qua e di là e dava l’impressione di essere troppo manipolata. Sono questi i casi in cui le amicizie finiscono, nel mondo del cinema. Pur ferito, Georges continuò a lavorarci fino alla seduta di registrazione, organizzata a Vancouver per una questione di costi. Lì rifiutai la sua ultima versione e gli chiesi di limitarsi a dirigere lui stesso l’Adagio, cosa che Georges acceò e fece meravigliosamente, con il cuore. Avrebbe dovuto ritirare il suo nome dal film, disse, ma io insistei moltissimo per fargli cambiare idea, nella convinzione che gli altri suoi pezzi avessero molto contribuito a migliorarlo. Ciononostante, fu la fine del nostro caloroso rapporto, dopo appena due film. Benché avessimo ancora la stessa somma di denaro per la postproduzione, il montaggio di Platoon fu realizzato in uno dei più economici laboratori di Hollywood, il CFI (Consolidated Film Industries), ospitato all’interno di orrendi capannoni industriali. Perché, vista la quantità di tempo che i cineasti vi trascorrono, le sale di montaggio sono così tetre? Ridley Sco, la mia scelta originaria come regista di Conan il barbaro, aveva amato Salvador e ora anche Platoon. Fu lui a consigliare di evitare “un mixaggio troppo pulito”, riferendosi a quella tendenza hollywoodiana di allora a rendere il sonoro delicato, morbido per l’orecchio – troppo morbido. Tale scelta era una fortuna e insieme una disdea. Troppi mixaggi erano contraddistinti da un sonoro incapace di disturbare (ossia svegliare) davvero il pubblico, nel senso migliore del termine, oppure erano pensati per disturbarlo in maniera
convenzionale, posticcia. Il fao che il nostro fosse da realizzare in tempi strei, appena due seimane, rendeva la questione ancora più complessa. Hai tre fonici esperti che controllano la loro gigantesca console e, se l’ego del capo fonico è fragile, nello spazio buio e ristreo di un paio di frenetiche seimane la tensione può esplodere, specie se il regista cambia spesso idea in corso d’opera, come a volte è costreo a fare. Ed è fondamentale per un regista capire la necessità di conservare la propria autonomia, di non farsi trascinare dalla mandria imbizzarrita, mantenendo la capacità di dire molto semplicemente di no. Per esempio, insistei per usare, a scopo comparativo, la banda sonora provvisoria che avevamo realizzato al volo alcune seimane prima, composta di musica che ci piaceva, suoni caurati durante le riprese e qualsiasi cosa colpisse il nostro gusto; era la nostra traccia guida con cui facilitare il processo di montaggio, e di solito i fonici ne erano indispeiti. Nella versione finale, dopo ore di duro lavoro, in alcuni passaggi il risultato era talmente ben mixato da diventare noioso, aseico come musica da ascensori, incapace di trasmeere la potenza che avevo percepito nella copia di lavorazione. In altri casi le bombe, le granate e i colpi di fucile stancavano l’orecchio ed era necessaria una modifica, oppure preferivo il dialogo originale, magari difficile da sentire, rispeo alle baute più comprensibili ma meno autentiche doppiate dall’aore stesso. Sono centinaia i deagli come questi in ogni bobina da dodici-venti minuti, e decine le decisioni cruciali da prendere ogni giorno, che creano molta più tensione di quanto si possa immaginare; quasi paragonabile, direi, alla pressione che avevo dovuto sopportare durante la produzione stessa del film. Per un regista diventa un’esperienza estremamente personale, e i bravi registi, nonostante le obiezioni degli esperti con cui collaborano, devono rifarsi al proprio lato soggeivo, e fidarsene, nonostante sia costoso o “bislacco”, ossia in contraddizione con l’approccio convenzionale. Magari non sei in grado di spiegare precisamente allo specialista ciò che vuoi, ma riesci perfeamente a individuare quello che non
vuoi. E a quel punto sta a te dire “No!”, ai fonici, ai montatori o allo stesso compositore. Insisto su questo punto perché lo ritengo essenziale: non meere nel tuo film qualcosa che non ti piace, perché non ti piacerà né adesso né tra dieci anni quando lo riguarderai. Ti ossessionerà per il resto della vita. Impara a dire di no. Persino dopo aver deo i tuoi no, quando ti avvicini alla fine delle due risicate seimane che puoi permeerti con il budget a disposizione, sei senz’altro riuscito a ritagliarti un paio di giorni per vedere e sentire finalmente dall’inizio alla fine una buona copia dell’intero mixaggio e a quel punto… be’, noti difei dappertuo e ti viene voglia di fare cento, centocinquanta piccole modifiche. Addiriura, come mi è stato raccontato, ci sono registi di grande prestigio che a quel punto licenziano il fonico e ricominciano tuo da capo! Il mixaggio sonoro è una brua gaa da pelare, a prescindere. ello tra sonoro e immagini è un rapporto yin-yang, un matrimonio che arrivati a questo punto si gioca nel laboratorio di sviluppo e stampa araverso le correzioni di colore e la sincronizzazione, un processo che può durare una seimana o anche più di un mese, a seconda dell’occhio del regista, ma alla fine del quale – un giorno – ci sarà la fatidica “copia campione”, il matrimonio in cui sonoro e immagine copulano tra loro, la veste migliore in assoluto che il tuo film possa prendere. Ora sei pronto a stamparlo in serie e a raggiungere millecinquecento, duemila sale cinematografiche. Poi però scopri che il distributore intende realizzare solo cinque, quindici copie “perfee” (di prima generazione) destinate alle uscite più importanti, ai cinema dagli incassi migliori, e se non stai all’erta il laboratorio realizzerà stampe di qualità inferiore per i multiplex. Poi, dopo queste baaglie sul controllo di qualità, un regista perfezionista deve avere il coraggio di andarsi a guardare il film in una sala vera e propria, dove capita di constatare problemi su cui non ha il benché minimo controllo: l’esercente che riduce la luce di proiezione, scurendo il tuo film per risparmiare sulla bollea elerica, o un proiezionista pigro che, mandando sei, dieci
film contemporaneamente, non perde tempo a correggere l’immagine un po’ sfocata. O semplicemente tra il pubblico ci sono i soliti brontoloni che adorano lamentarsi del volume troppo alto e allora, a causa di quelle tre persone che protestano, il titolare e il proiezionista abbassano il mixaggio, sul quale hai sudato see camicie, fino a livelli appena percepibili, così che perdi il 30-40 per cento del tuo impao sonoro! Ho vissuto moltissimi di questi inferni in diverse sale cinematografiche, scrio decine di istruzioni, sorvegliato, controllato, implorato di presentare il film così come lo avevamo realizzato – guadagnandoci solo molta frustrazione e oenendo modesti risultati. Tuo questo è cambiato prima con il video, poi con lo streaming e i proieori digitali che hanno sostituito la pellicola; la conseguenza è una tecnologia più facile da controllare e una fruizione cinematografica semplificata. Mi piacerebbe poter recuperare tua la rabbiosa energia che ho speso invano per proteggere le copie dei miei film. Ma persino oggi, quando entro nella casa di uno sconosciuto, mi viene una fia di dolore nel vedere su un nuovissimo schermo intelligente da seanta o cento pollici (pensato più per l’aualità e lo sport) un film riprodoo a trenta fotogrammi al secondo anziché a ventiquaro, ossia la velocità alla quale i film vengono realizzati. Errore che si potrebbe facilmente correggere araverso il seaggio del televisore, cosa che invece nessuno fa mai. Se la pellicola sopravvivrà in qualche forma lo si dovrà ai collezionisti, persone motivate dalla stessa passione che si dedica ai dipinti antichi. Erano passati dieci anni dalle cupe riflessioni che avevo fao davanti alla Statua della Libertà durante i festeggiamenti per il 4 luglio nella baia di New York; ricordavo le promesse che avevo rivolto alla forza ancestrale che mi guidava araverso la vita. Tante cose erano cambiate da allora. anto ero più felice adesso, con mio figlio addormentato tra le mie braccia un sabato pomeriggio, la mia bellissima moglie che entrava nella stanza con il suo fare felino, i nostri due sorrisi che
dicevano la medesima cosa – che tesoro possedevamo insieme… Avevamo trovato una casa nuova a Santa Monica, su un doppio loo di terreno, cosa che ci permeeva di avere un giardino con piscina e una dépendance per gli ospiti. C’era anche un seminterrato di tre stanze, come nelle case della costa est e, respirando l’aria salmastra dell’oceano, distante neanche due chilometri, potevo serenamente portare a spasso i cani per quel quartiere fao di case in stile vioriano, dove alle dieci di sera sembravano già tui a leo. Di certo era un ambiente del tuo diverso da New York e forse mi stavo adagiando in quella calma suburbana tipica della mezza età di cui avevo sempre sentito parlare senza mai sperimentarla. Come potevo capirlo? I tempi stavano cambiando. Negli anni Oanta la disponibilità di denaro e linee di credito andava aumentando; avevamo comprato la casa alla cifra astronomica di un milione e duecentomila dollari, contraendo un mutuo da diecimila dollari al mese; in altre parole, io e Liz stavamo di nuovo vivendo al di sopra delle nostre possibilità. Scrivere una sceneggiatura comportava tempo e nella scriura cinematografica il rapporto tra impegno richiesto e ricompensa economica era tu’altro che vantaggioso. Con tempismo perfeo, una noe sognai mio padre. Seduto sul mio leo mentre dormivo, mi disse con il suo ghigno luciferino, un po’ voluto e un po’ no: “Eri l’ultima persona che pensavo potesse sfondare… stronzeo lunatico.” Mi fece venire i brividi e un senso di colpa, che mio padre era bravissimo a instillare. Proprio il senso di colpa mi aveva sospinto per gran parte della vita, nel tentativo di compiacere forze che erano al di fuori di me. Mi sembrava di averlo superato, o così speravo. Pensai che forse volevo davvero vivere la vita di Robert Young in Papà ha ragione, o quella di Fred MacMurray in Io e i miei tre figli, ma non ne ero del tuo sicuro. Dentro di me c’era sempre quel demone che non vedeva l’ora di riprendere il mare, che detestava lo stupido tran tran di dover continuamente incontrare persone, vendere loro qualcosa,
giustificarmi. Ovviamente, non tuo nella mia vita di allora era una serie televisiva anni Cinquanta o Sessanta. Nonostante sembrasse in salute, nelle Filippine Elizabeth aveva sofferto di una grave parassitosi. Adesso, fra lo stress di una nuova casa e quello per l’imminente uscita del film, le fu diagnosticata un’ulcera intestinale. Il doore disse che ci sarebbe voluto più o meno un anno per curarla. Mia madre venne a trovarci e una sera, al ristorante, bisticciò con Elizabeth. Profondamente influenzata dalle idee repubblicane di mio padre, mamma non aveva mai davvero amato Salvador, non riuscendo ad approvare nessuno dei sentimenti rivoluzionari che vi erano contenuti. Malgrado la sua natura affeuosa ed estremamente caritatevole, a volte mia madre si trasformava in una vecchia bacucca reazionaria e proprio quella sera, per elogiare Platoon, disse che la guerra è una cosa buona, capace di plasmare le specie secondo il principio darwiniano della sopravvivenza del più adao: “La guerra ha reso Oliver più forte.” “Mio padre è stato ucciso in Corea,” ribaé gelidamente Elizabeth, lasciando la tavola senza ulteriori discussioni. Mia madre è stata per me un paradosso fino al giorno della sua morte. Amava i reaganiani per la loro eleganza in società, ma il suo snobismo, acquisito in una Francia ancora divisa in classi, faceva a pugni con le sue origini contadine. Fino alla morte, mia madre ha creduto che il potere dovesse essere esercitato da una classe superiore. Elizabeth, l’ex estremista, mi fece capire che Jacqueline non era più benvenuta e io ne agevolai il sollecito ritorno a New York. Per il mio quarantesimo compleanno, a parte le gioie della famiglia nessun regalo avrebbe potuto farmi piacere più dell’uscita nei negozi della videocassea di Salvador. Adesso tui avrebbero potuto vederlo. Era come il tascabile che raggiunge finalmente coloro che non comprano le edizioni rilegate. In un’epoca in cui la videocassea era ancora un formato relativamente nuovo, ne furono vendute centodiecimila copie nell’arco di due seimane, oltre ai noleggi. Ciò significava all’incirca sei, see milioni di dollari
in ordini. Cominciavo a provare meno rimorsi per i soldi che la Hemdale aveva perso; anzi, potevo essere orgoglioso. Nei secondi sei mesi dall’uscita in America, Salvador continuò a raggiungere diversi Paesi esteri. Al festival di San Sebastián, nel Nord della Spagna, guardai il film in mezzo ai cinquemila giovani entusiasti che assiepavano il gigantesco velodromo ciadino. Sul finale del film, quando Elpidia e Jimmy vengono separati, la folla si alzò in piedi urlando, tifando per loro, esprimendo un sostegno come non mi era mai capitato di osservare. Ali magiche mi trasportavano ovunque. Il film stava andando a gonfie vele in Svezia, mentre all’Irish Film Festival il giovane regista emergente Neil Jordan (In compagnia dei lupi, Mona Lisa) paragonò la mia conversione, da ex autore di film “discutibili”, a quella di san Paolo sulla via di Damasco. È pazzesco come le parole possano tuo a un trao alleviare anni di dolore. L’Inghilterra avrebbe finalmente ceduto e in gennaio il film uscì in sala. A Londra fece addiriura oimi incassi, grazie anche a recensioni lusinghiere (ma non altrove nel Regno Unito). Il Giappone invece non avrebbe mai ceduto, a quanto ne so, mentre la Germania, altro grosso mercato cinematografico, si aprì sull’onda dell’entusiasmo per Platoon. “Meglio tardi che mai” è un luogo comune ma in questo caso azzeccato. Negli Stati Uniti si stava rapidamente avvicinando il dicembre del 1986, mese previsto per l’uscita di Platoon. Io facevo la spola tra Los Angeles e New York. L’adrenalina montava. Mi svegliavo alle quaro del maino in preda all’ansia, per il timore che qualcosa andasse storto all’ultimo momento. A Los Angeles, la proiezione all’Academy fece registrare il tuo esaurito, a dimostrazione di un grande interesse per questo film a basso costo di cui la gente aveva sentito parlare, e, a parte gli speatori più anziani per i quali risultò troppo violento, la risposta fu straordinaria. Era il primo segnale da parte di un pubblico. Non ricordo infai di aver partecipato a proiezioni di prova, probabilmente non ne furono organizzate. Telefonate e richieste di appuntamenti piovevano da tue le parti, comprese quelle di produori e giornalisti stranieri, sebbene non avessi ancora un ufficio
vero e proprio e lavorassi dalla nuova casa. Il film procedeva su ali tue sue, costruite tanti anni prima nel piccolo appartamento newyorkese del mio amico Danny, dove un sognatore squarinato aveva messo nero su bianco questo flusso di idee, fruo di un matrimonio tra esperienza personale e amore per la mitologia greca. Il fao che quella sceneggiatura fosse sopravvissuta al tempo era il filo di Arianna che mi aveva condoo fino alla luce del giorno. Non devo mai dimenticarlo. La Orion sembrava più gasata rispeo all’inizio. Parlava di nomination all’Oscar e della prospeiva che il film potesse incassare sessanta milioni di dollari. Io a questo non volevo pensare perché, come mi aveva insegnato mio padre, c’è sempre un 1929 che può far naufragare le tue speranze. Il padre di Charlie Sheen, Martin, che in passato era stato il papabile protagonista di Salvador, mi chiamò per farmi i complimenti ma mi chiese di riconsiderare il finale: “Non permeere che il ragazzo ammazzi quel sergente a sangue freddo.” Dal punto di vista morale aveva ragione. Ma non sarebbe stata una guerra, no? Charlie liquidò le preoccupazioni del padre come qualcosa di superato, lui che adesso cominciava a sentire cambiare il vento della propria carriera, annusando il denaro e il potere che con quella svolta sarebbero arrivati. Nelle mie infinite interviste i giornalisti cercavano di scoprire chi fosse davvero questa “bomba a orologeria uscita da una scuola privata”, di meere a nudo “il ragazzo che è andato in Vietnam di sua volontà” eccetera eccetera. Ma è una trafila che ti consuma. Tu cerchi di essere cortese e partecipativo, senti che devi fare contenti i giornalisti, e può essere un grave errore. I continui incontri, pranzi, giudizi per lo più elogiativi, cibo, tensione autoindoa, tui questi stimoli cuociono a fuoco lento in un’atmosfera generale di grande agio, e cominciavo a capire che cosa intendesse Tennessee Williams quando si lamentava che l’agio, e non la povertà, fosse il vero “lupo alla porta”. Specie nel caso del
cinema, l’agio diventa un vero e proprio mostro; il narcisismo corrode la purezza delle tue motivazioni originarie. Per mantenere la concentrazione, continuavo a lavorare con Stanley Weiser sulla sceneggiatura di Wall Street, che avevamo intitolato Greed [Avidità]. Incontrammo importanti personaggi dell’alta finanza, broker di più basso livello e funzionari della SEC, l’organo di vigilanza sulle operazioni di borsa, impegnati nelle indagini sui reati dei collei bianchi. Era un altro mondo. La venalità e la caiveria nascoste mi ricordavano il mondo della cocaina di Miami, tale era la violenza, la fame di soldi. In effei, molti agenti di successo che ebbi modo di conoscere, di trenta o quarant’anni, sniffavano cocaina. Un severo manager, che ingaggiammo come consulente, lavorava per la Drexel Burnham direa da Mike Milken, e il suo linguaggio rispecchiava perfeamente l’aeggiamento aribuito alla famigerata banca d’affari. Parlava infai di “strappare le budella” o “la gola” al tal dei tali, di pompini fai e ricevuti, e così via. Linguaggio da marciapiede ma eloquente, tanto che modificammo il tenore dei dialoghi. Un mio giovane amico guadagnava milioni di dollari, possedeva già una casa nell’Upper East Side, motociclee e automobili sportive, ed era abituale frequentatore degli Hamptons – oltre a sniffare cocaina con regolarità. “Non puoi nemmeno immaginare le palate di soldi che ho fao questa seimana,” si vantava. “Certo,” rispondevo io, “ma niente in confronto a quelli che ho visto ai tempi di Scarface…” “Sicuro?” se la rideva lui. “L’anno scorso ho guadagnato un milione e due. est’anno il mio socio prevede per la nostra società un faurato di oo-dieci milioni… e sono tui soldi puliti. Non hai gli sbirri aaccati al culo o tizi pronti a piantarti un coltello nella schiena mentre sei girato… Conosci Sammy? Te l’ho presentato alla festa in giardino da Jim, ricordi? Ha ricavato venticinque milioni dalla vendita della sua società. L’aveva tirata su in tre anni. E adesso andrà a lavorare in un’altra, una start-up ancora più grossa, con più soldi in ballo. Dice che punta a rivenderla per cento milioni.”
Gli occhi mi uscirono dalle orbite. “anti anni ha?” “Trentadue. Ed è anche un tipo alla mano. Uno con cui pippare, fumarti una delle sue canne e spassartela.” Era un business basato sul culto della personalità e, a sentire il mio amico, ancora più sinistro e corroo di qualsiasi cosa avessi visto in Vietnam o a Miami. Mi avvertì che un pezzo grosso che avevo appena incontrato stava cercando solo il modo di fregarmi. “Si farà tuo amico per meertela nel culo. Il succo è che quello vuole esplodere dentro di te.” Per questi giovani il denaro era analogo al sesso e un ao di seduzione andato a buon fine era uno stupro. Era l’uomo ridoo a bestia; questi giovani broker amavano il sangue e la violenza. Erano lontani mille chilometri dal mondo dei misurati, sobri investimenti di mio padre. Dove diavolo era finita la modestia associata alla ricchezza? Avevamo già delle offerte per una sceneggiatura che non aveva leo nessuno. Il giovane, brillante presidente della produzione della 20th Century Fox, Sco Rudin, voleva fare il film con me. Il vicepresidente della Warner Bros., Billy Gerber, si inserì con una sua proposta. Tuo questo fece infuriare John Daly. Voleva entrarci anche lui ma, quando dissi che il budget per girare a New York avrebbe superato i quindici milioni di dollari, mi diede del dissoluto e del pazzo. “Ma porca della miseria, questo film andrebbe realizzato con meno di dieci milioni,” disse, anche se non spiegò esaamente come. Io, da parte mia, sentivo che la sceneggiatura funzionava alla grande e che il film sarebbe andato in porto. Ero sempre più entusiasta, e il progeo divenne la mia seconda priorità dopo Platoon. A sei seimane dall’uscita di Platoon, partecipai a una riunione di marketing a New York che mi mise in allarme. Come per la campagna pubblicitaria a supporto di Salvador, non c’era ancora niente di pronto. Il film non aveva un trailer nazionale mentre la locandina solo grafica mi lasciava perplesso (di lì a poco l’avremmo infai cassata). Inoltre, trapelava che alcuni membri dell’Academy ritenessero il film troppo violento e preferissero Hannah e le sue sorelle di
Woody Allen o l’eccellente Camera con vista di James Ivory. I critici, nelle loro classifiche di fine anno, stavano premiando Hannah e Velluto blu di David Lynch, a mio avviso comprensibilmente. Platoon sarebbe comparso in alcune top ten, ma certo non in tue; non avrebbe potuto essere una scelta unanime da parte dei critici, come non lo era stata quella di Fuga di mezzanoe e di Scarface. Approfondendo la situazione, mi resi conto che Platoon era la viima innocente di una faida che covava da tempo: la Orion aveva il dente avvelenato con Daly e la Hemdale per il mancato versamento di seicentomila dollari in copie e pubblicità a sostegno di un precedente film di quell’anno, A distanza ravvicinata con Sean Penn, che era stato un flop; finché il debito non fosse stato saldato, la Orion non avrebbero approvato alcuna spesa su Platoon. Il pasticcio non fece che complicarsi, come sempre succede, quando si cominciò a vociferare che la Orion avesse pagamenti arretrati a favore di Daly per i dirii esteri di Terminator. Eppure quelli della Orion non sembravano particolarmente preoccupati: in fondo, il nostro film sarebbe uscito in sole tre cià, con un probabile ampliamento della distribuzione solo in un secondo momento. Daly, dal canto suo, da giocatore d’azzardo qual era, era pronto a ritirare Platoon e offrirlo al suo nuovo ipotetico alleato, la Paramount. esti passaggi da una major all’altra facevano parte del suo modus operandi di produore indipendente, ma avrebbero finito per portarlo in acque pericolose. Se John fosse stato un pirata di un altro secolo, cosa che in spirito era, sarebbe senz’altro finito impiccato al pennone più alto dell’albero di maestra. Senza che ce ne rendessimo conto, tuavia, le strategie politiche internazionali stavano pian piano cambiando a nostro favore. ando era uscito Salvador, quella primavera, Reagan stava ancora avendo buon gioco nel vendere all’opinione pubblica l’appoggio ai contras del Nicaragua e all’orizzonte si profilava addiriura la possibilità che le truppe americane trovassero una giustificazione per una circoscria invasione del Paese, come avevano fao a
Grenada nel 1983 e come sarebbero riusciti a fare a Panama nel 1989 per caurare il generale Noriega. Ma quando, in oobre, l’agente della CIA Eugene Hasenfus era stato abbauto e arrestato durante un volo per la consegna di armi nel Paese, il castello di carte pro contras aveva cominciato rapidamente a crollare. L’amministrazione Reagan era implicata fino al collo in un traffico illegale di armi con l’Iran per trenta milioni di dollari, almeno dicioo dei quali erano confluiti in un fondo nero con cui finanziare i contras nella loro loa contro il legiimo governo sandinista. La situazione era in realtà ancora più torbida di quanto emerso all’epoca, ma sarebbe bastata solo la superficie dello scandalo per azzoppare gli ultimi due anni della presidenza Reagan, tra inchieste e incriminazioni. Salvador, che condannava il sostegno americano agli squadroni della morte, adesso sembrava quanto mai auale, e Platoon, con la sua denuncia della follia del Vietnam, usciva nel momento più favorevole. Non solo poteva essere percepito come un omaggio agli uomini che avevano perso la vita in quella guerra, ma aveva abbastanza azione cruenta da soddisfare il bisogno di violenza che alberga nelle ossa degli americani. Sì, nel film soldati americani davano alle fiamme un villaggio vietnamita e uccidevano alcuni dei suoi abitanti ma, nel paradosso di quella guerra, mostravamo anche i commilitoni che portavano in salvo gli altri contadini, come nell’inquadratura di una bambina sulle spalle di un robusto soldato. E sì, gli americani si scagliavano uno contro l’altro e si uccidevano fra di loro, ma il pubblico avrebbe potuto considerare il mio plotone un’unità particolarmente indisciplinata, composta da militari di leva, non certo l’esempio di una unità d’élite come quelle aviotrasportate. E infine, nella nostra rappresentazione, l’uso di droghe tra i componenti del plotone non era esagerato né interferiva con la capacità di combaere – solo con l’aeggiamento mentale dei ragazzi – e poteva dunque passare quasi inosservato. In altre parole, nel film c’erano crudezza, violenza, comportamenti discutibili che però, date le condizioni della guerra, erano in qualche modo comprensibili. Il momento
dell’uscita, il dicembre 1986, non poteva essere più favorevole. Venerdì 19 dicembre Platoon uscì in sei sale di New York, Los Angeles e Toronto, e fin dalla prima proiezione, alle undici del maino al Loews Astor tra la arantaquaresima Strada e la Broadway, prese lo slancio di un treno in corsa. Arthur Manson, il nostro paterno consulente di marketing, ci parlò di una coda lungo tuo l’isolato, composta per lo più di uomini, reduci di guerra, che aspeavano quieti ma impazienti. Disse anche che la proiezione era stata seguita in religioso silenzio. Ma l’effeo provocato dal film fu chiaro alla fine, con gli speatori che rimasero seduti ai loro posti anche dopo che le luci si accesero, alcuni che piangevano sommessamente. Dall’altra parte della cià, l’elegante Loews sulla Sessantaseiesima Est accolse un altro tipo di platea ammutolita, anche questa in gran parte maschile ma airata dalle recensioni. Sembrava insomma che Platoon potesse essere sia un film d’azione sia un successo di critica. Le recensioni erano favolose, non solo positive ma addiriura infervorate. Con gli importantissimi critici televisivi facemmo quasi l’en plein: Roger Ebert lo definì “il migliore film dell’anno” mentre Gene Siskel, che aveva snobbato tui i miei film precedenti, si sperticava di elogi. Richard Corliss di “Time” ci dedicò un’intera pagina di amore-odio: “Un documento scrio con sangue che, a vent’anni di distanza, rifiuta di seccarsi.” Intendeva dire che Platoon avrebbe riaperto vecchie ferite, sarebbe stato controverso. Vincent Canby del “New York Times” parlò di “un oimo film, pieno tanto di passione quanto di feroce, salvifica ironia”. A proposito della sceneggiatura aggiungeva: “Più che di scriura, sembra fruo di una scoperta,” e definiva il film “straordinario”. Il critico del “Los Angeles Times” parlava di “un Goya con la macchina da presa […] che conficca un paleo nel cuore di qualsiasi clone di Rambo”. ello del “Washington Post” a gennaio scriveva: “L’anno scorso, con Salvador e Platoon, Stone è passato dall’essere uno sceneggiatore che tirava fuori il peggio dai registi dei suoi
copioni a uno dei cinque, sei registi americani più importanti.” E David Denby del “New York Magazine”, che in passato era stato brutale con i miei film, scrisse che Platoon “culmina con l’esplosione di quell’orrore surreale che Coppola ha cercato faticosamente di raggiungere con Apocalypse Now,” definendolo “il genere di film sul Vietnam che molti di noi aspeavano da tempo.” Denby coglieva l’ambiguità della scena ambientata nel villaggio vietnamita quando scriveva: “In realtà il massacro tipo My˜ Lai che ci si potrebbe aspeare non accade, ma non ce n’è bisogno. Stone ci ha mostrato il fondo, il peggio. Inorriditi, sappiamo che commeere un omicidio può farci sentire bene. […] Con questo film, Oliver Stone completa la sua straordinaria trasformazione da cialtrone a eroe.” Essere un eroe è il sogno di qualsiasi bambino, ma essere chiamato tale, mentre ero ancora a metà della mia vita, mi diede un’emozione immensa. Per tanti anni avevo pensato di essere in torto, mi avevano deo che non valevo niente… e, dopo tuo questo tempo, scoprivo forse che avevo ragione io? Erano queste le compiaciute riflessioni che facevo. Perché no? Ben presto avrei visto di nuovo l’altra faccia della medaglia, ma per adesso era importante godermela fino in fondo. Il giorno della prima di Platoon ebbi la sensazione di vivere un picco probabilmente irripetibile. Lavorare, oenere grandi recensioni, avere quarant’anni e godere di buona salute – tuo insieme era qualcosa di raro. ella sera stessa partecipai a Nightline insieme agli altri ospiti del conduore Ted Koppel: lo statuario, lincolnesco David Halberstam del “New York Times”, che era stato uno dei primi a criticare la guerra da inviato per il suo giornale (e che avrebbe scrio una lusinghiera recensione del film); e Jim Webb, allora assistente capo del segretario alla difesa, che aveva scrio un oimo romanzo sul Vietnam, Fields of Fire, ed era stato tenente di un plotone di Marines. Webb definì Platoon un’aberrazione. I soldati americani non si comportavano in quel modo. Ovviamente avevamo punti di vista diversi. Lui era stato un ufficiale mentre io, come ho già
deo, avevo avuto pochissimi contai con il loro mondo – o forse loro con il mio. ella puntata di Nightline si rivelò piuosto tiepida, come sono spesso i programmi di aualità americani, con le loro interruzioni pubblicitarie e i vincoli di tempo. Inoltre, anch’io rimasi piuosto in superficie, per evitare polemiche superflue, emozionato e semplicemente contento di aver potuto realizzare il film. Un esordiente, per così dire, soo i rifleori, molto distante dal lato radicale di me che era emerso durante la disastrosa campagna promozionale a sostegno di Salvador. Volavo ormai ad altezze siderali. Tom Cruise, già allora giovane superstar dopo Risky Business e dopo il campione di incassi dell’anno, Top Gun (che curiosamente, nel 1983, mi era stato proposto di scrivere), venne in cià con la futura moglie Mimi Rogers; videro Platoon e poi andammo a cena. La nostra comune agente, Paula Wagner, gli aveva parlato di Greed, che praticamente non aveva ancora leo nessuno (deaglio marginale; si dava infai per scontato che una sceneggiatura ci sarebbe stata). Buon Dio, queste cose non mi erano mai successe. Che svolta rispeo al passare inosservato. Essendosi già impegnato con Barry Levinson per iniziare le riprese di Rain Man con Dustin Hoffman, Cruise voleva sapere se ero disposto ad aspearlo fino all’estate o all’autunno successivo. Purtroppo, per il giugno seguente era previsto uno sciopero degli aori e l’annuncio stava condizionando i programmi di produzione di tui gli studios. Io avevo corteggiato Michael J. Fox, all’epoca una stella di prima grandezza, e Mahew Broderick, oltre ad aver preso un vago impegno nei confronti di Charlie Sheen (più che altro un “Ti andrebbe di fare questo film con me?”). Sco Rudin era categoricamente contrario all’ipotesi di aspeare Tom Cruise, perché Hoffman era “sempre in ritardo” (vero: Rain Man fu girato più di un anno più tardi). Ma dentro di me non avevo dubbi che Cruise fosse la scelta giusta per il mio film su Wall Street. Tom era perfeo per impersonare un personaggio sfrontato, risoluto, senza scrupoli e disposto a tuo, e a differenza di Charlie era presente al cento per cento, determinato a essere una star.
Per uno scherzo del destino, proprio quel giorno nella hall del Regency di Park Avenue avevo incrociato Warren Beay. “Ho sentito parlare benissimo del tuo film,” mi aveva deo. “Stai scrivendo qualcosa?” Era proprio un marpione. “Sì, per la primavera prossima.” “Su cosa?” “Finanza.” “Hai già il cast?” “No.” Le sue sopracciglia erano scaate in alto. “Tienimi presente.” “Ma con te,” lo avevo punzecchiato, “saranno necessari due anni di riscriure.” Warren aveva sorriso e, oltrepassate le porte girevoli, era uscito in strada. Insomma, quando mi incontrai con Cruise quella sera, non potevo immaginare una coppia migliore di quella formata da Tom nei panni del giovane broker e Warren nel ruolo della vecchia volpe. Beay e Cruise nella stessa inquadratura in quel momento della loro carriera. Avrebbe funzionato? Fao più incassi? L’immaginazione è un potente afrodisiaco. Platoon continuava a crescere al di là delle mie aspeative. Il “New York Post” gli dedicò un’intera pagina di foto e reazioni della gente comune: “Code come non se vedevano dai tempi del Padrino nel ’72!” La CBS realizzò uno special, facendo arrivare a New York tre membri di due diversi plotoni del 25° fanteria e della 1ª divisione cavalleria di cui avevo fao parte. Fu un incontro toccante, sensibile alle esigenze emotive di un Paese che adesso, come per senso di colpa, voleva scusarsi con gli incompresi reduci del Vietnam inondandoli di gratitudine. O forse era semplicemente l’ennesimo momento reaganiano in cui l’America tentava di compiacersi di se stessa.
Il seimanale “Time”, che a quei tempi esercitava ancora un impao rilevante sulla nostra cultura, aveva in progeo di dedicare al film la copertina e tenne Marion in sospeso fino all’ultimo: per il numero del 18 gennaio eravamo in ballo noi e la prostata di Reagan. Alla fine la spuntò Platoon. Adesso stavamo davvero raggiungendo ogni segmento della popolazione. A Los Angeles, in La Brea Avenue, vidi code di un isolato e mezzo composte da afroamericani, cinesi, alternativi, giovani, vecchi. Jane Pauley, tra le più amate condurici televisive d’America, aveva deo: “Non mi sono mai commossa così tanto.” Jane Fonda, una fervente pacifista, dichiarò di essere scoppiata in lacrime dopo aver visto i soldati che lasciavano il villaggio in fiamme con i bambini vietnamiti sulle spalle. Era un’esperienza unificante. Dopo essere stato ospite di una esaltante puntata dell’Oprah Winfrey Show, uno degli autori mi gridò: “Dovresti candidarti a presidente!” A rendere tuo quel periodo completamente diverso da qualsiasi cosa avrei vissuto in futuro era la lentezza nella distribuzione del film; a suo modo bizzarra, un caso. La Orion era nota per i suoi film non convenzionali realizzati a basso costo, che poi distribuiva in sordina e senza spendere troppi soldi. Con Platoon furono beccati, come si suol dire, con i pantaloni abbassati. Arthur Manson era indispeito perché la Orion non aveva i materiali pronti per allargare la distribuzione in vista del Capodanno. Gli esercenti avevano cominciato a telefonare già dal primo fine seimana di uscita nel tentativo, vano, di prenotare il film. Grazie alle sue conoscenze personali, Manson riuscì a farlo arrivare a Chicago e a San Francisco per il giorno di Capodanno, ma la distribuzione procedeva comunque a rilento. Stavamo “lasciando soldi sul tavolo,” disse, intendendo che l’entusiasmo tende a scemare se gli speatori non riescono a vedere il film quando tui ne parlano. Si potrebbe obieare che proprio grazie a quella distribuzione controllata Eric Pleskow riusciva a siglare accordi più vantaggiosi con le sale cinematografiche,
spuntando una percentuale maggiore sugli incassi. E che la Orion aveva oenuto grande successo distribuendo con questi criteri alcuno volò sul nido del cuculo nel 1975. Eppure sono sicuro che persino Pleskow e Krim rimasero sorpresi vedendo che Platoon continuava a macinare, seimana dopo seimana, per tuo gennaio, e poi febbraio, e poi, clamorosamente, fino a marzo e oltre. A partire dalla terza seimana il film cominciò ad airare anche un significativo pubblico femminile, acquistando così ulteriore slancio. Io, ingenuamente, mi stupivo: mai avrei immaginato che negli Stati Uniti, per non parlare del mondo, ci fossero tue quelle persone interessate, e a eccezione dei blockbuster dubito che un fenomeno simile potrà ripetersi in questo Paese, perché il pubblico non sarà più disposto ad avere tanta pazienza. Il 30 marzo, giorno degli Oscar, dopo circa quindici seimane dal debuo gli incassi nazionali avevano sfondato quota cento milioni, e avrebbero raggiunto i centotrenta in aprile. Sinceramente, per un film così realistico, con scene di violenza e privo di un pubblico di bambini, erano cifre miracolose, non solo negli Stati Uniti ma in tuo il mondo. Considerato che John Daly lo aveva realizzato con sei milioni, che ne deteneva tui i dirii e lo stava distribuendo con una spesa minima, i profii mondiali erano enormi per l’epoca, con incassi complessivi tra i duecento e i duecentocinquanta milioni, senza tenere conto della vendita dei dirii secondari per la distribuzione in videocassea, la televisione eccetera. Naturalmente c’erano anche i detraori. Pauline Kael, orgogliosa di vestire i panni della strega caiva, riversò il proprio fiele sul film definendolo “roboante”, con “troppa, troppa follia romanticamente idealizzata”. Soolineava inoltre come fossi “un pessimo autore” ma aggiungeva: “Per fortuna è meglio come regista che come sceneggiatore.” Kael si scagliava in particolare contro la “narrazione da liceale che esalta la nobiltà dell’uomo comune”, definendo quel racconto un’“impostura” e me un “provocatore fine a se stesso”,
negando così l’autenticità della mia esperienza in Vietnam in quanto privilegiato, uno che veniva dalla “scuola privata”. Alla fine di Platoon, mentre Sheen sorvola in elicoero la distesa di morti e feriti, lo si sente pronunciare le ultime parole: “elli che tra noi l’hanno scampata hanno l’obbligo di ricominciare a costruire, insegnare agli altri ciò che sappiamo, e tentare, con quel che rimane delle nostre vite, di cercare la bontà e un significato in questa esistenza.” Negli anni ho raccolto così tante testimonianze di persone, giovani e anziane, rimaste profondamente colpite da queste parole che è difficile conciliare la loro emozione con il disprezzo di Kael per la narrazione di Platoon. Be’, se davvero ero uno scriore così cialtrone, volevo essere un bravo scriore cialtrone. E volevo che gli speatori fossero toccati da questa scriura cialtrona. Le critiche di Kael avrebbero dato la stura a un aacco congiunto da parte dei suoi devoti, che costituivano una piccola colonia autoreferenziale all’interno del mondo del cinema. Adesso il loro faro era puntato su di me, qualsiasi cosa facessi, e ad accendere quel faro era stata proprio Kael – molto prima degli elogi spesi per Salvador – ai tempi di Fuga di mezzanoe. Negli anni si consolidò un altro tipo di giudizio sul mio cinema.Salvador era tra i miei film il più amato dagli esperti, di gran lunga rispeo a Platoon. E a me stava bene, purché amassero almeno uno dei film che avevo realizzato. Partecipai a un dibaito presso il gremito Harvard Club di Manhaan, con tui i ritrai dei solenni ex presidenti dell’università che ci guardavano dalle boiserie. Mi furono rivolte domande garbate e intelligenti sulla “moralità” del film, finché non alzò la mano un tizio vagamente alticcio, paonazzo in volto: “Apprezzo le sviolinate e tuo quanto; è un film ben fao, per carità, ma io sono stato a capo di una pauglia in Vietnam e la tua storia è una grande cazzata! I ragazzi laggiù erano sobri, non si faceva uso di droghe sul campo, erano oimi soldati. Il tuo film è un insulto nei loro riguardi.” L’uomo tremava dall’agitazione e, mentre ribaevo, continuava a interrompermi: “Non esiste, amico! Stupri? Non
c’erano rapporti sessuali durante le operazioni di combaimento!” E di nuovo, mentre accennavo a Salvador e alle paranoie di Reagan per l’eventualità che i comunisti varcassero il Rio Grande, il tizio intervenne di nuovo: “E i cinesi che calpestano il Tibet?” La domanda scatenò un grande applauso. Ancora una volta mi stavo sooponendo a una specie di baesimo del fuoco, ma stavolta ero pronto, ogni obiezione doveva essere smontata nel merito. Per me, il punto vero non era il comportamento tenuto in Vietnam dal singolo soldato o dalla singola unità, ma la corruzione di un sistema militare che si era alimentato di orribili menzogne. Al festival internazionale del cinema di Berlino, a febbraio, l’accoglienza fu piuosto controversa. Durante l’affollata proiezione per la stampa, con circa millequarocento giornalisti, sentii fischi e qualcuno che gridava “Scheisse!” [Merda]. Alla fine gli applausi prevalsero, ma l’insofferenza per la pesante presenza militare americana nel Paese e per la stessa politica estera a stelle e strisce era diffusa, come avrei scoperto, in vasti segmenti della popolazione della Germania Ovest; quelli che avevano fischiato erano oppositori a prescindere, ansiosi di demolire un “grosso” film americano che con la sua musica e le molte immagini suggestive poteva essere interpretato come una glorificazione della guerra. La successiva conferenza stampa fu movimentata. Centinaia di giornalisti stipati in una sala soffocante, flash davanti alla faccia, di nuovo applausi e bordate di fischi al momento dell’introduzione. Un’idealista partì subito all’aacco: “Perché Charlie Sheen uccide il sergente caivo?” – particolare dal quale la donna faceva discendere il caraere criminale dello sforzo bellico americano. “Perché non ci sono donne nel film?” mi chiese un’altra. Un uomo fece una dichiarazione: “Non è altro che un noioso vecchio film di guerra, che senso ha?” Un’alterata giornalista svizzera continuava a interrompere sgarbatamente, impedendomi di rispondere, tirando l’acqua al proprio mulino. Nelle cabine, intanto, erano in corso le traduzioni simultanee in italiano, francese, russo, giapponese. Che bolgia! Improvvisamente, io
che ero un dissidente rispeo alla guerra del Vietnam, venivo visto come il rappresentante degli Stati Uniti. Il film, in ogni caso, avrebbe riscosso grande successo ovunque all’estero, anche in Germania. Nel fraempo, i reduci delle guerre d’oltremare, insieme a icone dello speacolo conservatrici come Chuck Norris, aaccavano il film definendolo una vergogna per il combaente americano. Dale Dye, non certo amico dei pacifisti, rispose con veemenza a nome nostro. Il seimanale “Parade”, un supplemento domenicale molto diffuso a livello nazionale, era direo da Walter Anderson, ex ufficiale dei Marines, il quale confidò a un fotografo di guerra del Vietnam, da cui venni in seguito a saperlo, che la sua rivista non avrebbe mai dato un’unghia di spazio a Platoon perché era un film vergognoso. E in effei “Parade” non lo fece né si sarebbe mai occupata dei miei lavori successivi. Ci fu anche il tentativo in extremis di screditarmi come impostore che non aveva mai combauto in Vietnam. La storia, messa in giro da alcuni reduci, fu ripresa in un articolo di un’agenzia di stampa che Dale Dye, aentissimo a queste cose, prontamente interceò. Era preoccupato. “Oliver, che sta succedendo? Dicono che non esiste alcun fascicolo militare a nome di Oliver Stone!” Era ben strano. Mi ci volle qualche secondo per scoprire l’arcano. “Ma certo! Perché in Vietnam ero William Stone.” Poi il fascicolo fu trovato e la polemica si risolse in una bolla di sapone. In quell’anno e nel successivo, mi furono recapitate valanghe di leere, molte delle quali sentite, toccanti, e spesso dello stesso tenore. “Mio marito-figlio-padre è tornato dalla guerra taciturno, non è mai più stato lo stesso, non parlava mai del Vietnam, non ha mai voluto vedere un film sull’argomento… ma quando abbiamo visto il suo film ne abbiamo finalmente parlato / lui ha pianto / è tornato a vederlo più volte.” In più di un caso, tristemente, la leera raccontava di un suicidio commesso pochi giorni dopo la visione del film. E il parente che mi scriveva non ne dava la
colpa a Platoon, anzi mi ringraziava per aver aiutato il resto della famiglia a capire, forse, perché il loro caro si era tolto la vita. Feci parecchie telefonate a reduci ricoverati in ospedale, che stavano morendo per qualche forma di cancro o per una vecchia ferita di guerra. Alcune leere chiedevano che determinati brani del film venissero usati in processi penali dove la difesa invocava il disturbo da stress post traumatico. C’erano leere di infermiere che ci ringraziavano per aver mostrato il sangue e il prezzo dei combaimenti. L’autore afroamericano di un libro sul Vietnam era sul piede di guerra, sosteneva che avessimo dipinto i soldati neri come vigliacchi che si soraevano ai combaimenti, cosa assolutamente non vera; ogni soldato, bianco o nero, era un individuo trao dalla mia personale esperienza. Diverse leere, sorprendentemente deagliate, mi chiedevano se il sanguinoso aacco alla fine del film fosse ispirato alla baaglia che il 25° fanteria aveva combauto il primo gennaio 1968 a Firebase Burt, zona nota anche come Suôi Kút, sul confine cambogiano. In effei lo era, e al proposito mi furono forniti nuovi incredibili particolari, buca per buca, postazione per postazione. Il nostro comandante di compagnia, un capitano che a malapena avevo visto o conosciuto durante il periodo di servizio, mi contaò per fare alcune reifiche – in particolare, disse che non aveva mai ordinato un aacco aereo sul nostro perimetro. E tra le tante, c’erano persino leere che mi accusavano di aver partecipato a crimini di guerra e nelle quali si sosteneva che avrei dovuto essere processato o consegnarmi alle autorità. A Hollywood, nel fraempo, venivo subissato di elogi, molti di più rispeo a quelli ricevuti per Fuga di mezzanoe. “È più di un film,” mi scrisse Steven Spielberg. “È come essere in Vietnam.” Un virgoleato di Martin Scorsese recitava: “È bello vedere che il nostro Paese riesce ancora a produrre registi come lui. Ha uno stile unico ed è diventato un filmmaker davvero personale. Non c’è nessun altro che fa le cose che fa lui. Oliver Stone occupa un posto solo suo.” Elia Kazan disse a un mio conoscente che per lui Platoon era “il
film dell’anno”, un giudizio che mi fece immenso piacere. Persino Brian De Palma, normalmente un uomo freddo, dichiarò: “Ci rincuora vedere che il sistema hollywoodiano è in grado di produrre un film come Platoon.” Jackie Kennedy mi scrisse una bellissima leera: “Il suo film ha dato una sterzata all’aeggiamento dell’intero Paese. Rimarrà per sempre una pietra miliare, come Primavera silenziosa di Rachel Carson, come Senso comune di omas Paine.” Mi invitò a visitare la sua casa editrice a New York. Ero interessato a scrivere qualcosa per loro? In quel momento non avevo idea che di lì a qualche anno avrei scarpinato, con gli stivali infangati, nel suo giardino ben curato durante le riprese di un film sull’assassinio del suo adorato marito. La Casa bianca, secondo la Orion, aveva organizzato ben quaro proiezioni speciali di Platoon. I tassisti di Manhaan mi chiamavano per nome quando mi vedevano per strada: “Ehi, Oliver!” (oppure “Ollie!”) “Gran bel film. Di’ le cose come stanno, amico!” “Sono diventato un nome”: il magnifico verso dell’Ulisse di Tennyson riaffiorava nei miei ricordi. Durante una visita alla sala delle contraazioni della Borsa di New York, in previsione del mio film su Wall Street, fu piuosto imbarazzante sentire un improvviso annuncio dall’impianto audio: “Signore e signori! È qui con noi il regista di Platoon, che sta per realizzare un nuovo film!” Tui quei potenti, spavaldi newyorkesi si interruppero per un minuto circa scoppiando in un fragoroso applauso. Se solo mio padre avesse potuto vederlo. La prestigiosa agenzia pubblicitaria inglese Ogilvy & Mather, che all’inizio degli anni Seanta, quando cercavo di vendere un nostro filmato promozionale, non aveva mai voluto concedermi nemmeno un appuntamento, adesso mi offriva cinquantamila dollari per realizzare uno spot per la American Express. Ai miei occhi, non c’era aestato di stima maggiore, in America: campeggiare in tui gli aeroporti e su tui i rotocalchi. Eppure mi sembrava scorreo sfruare a livello commerciale tua quella dolorosa esperienza colleiva, e così rifiutai. Persino il movimento clandestino polacco che si baeva
contro il governo filosovietico del Paese mi contaò per avere il mio aiuto. i si cominciava a esagerare. Ai Golden Globe Awards di fine gennaio (dove nel 1978 avevo rimediato una memorabile figuraccia) persi, senza rimpianti, il premio per la migliore sceneggiatura a favore del mio vecchio mentore, Robert Bolt, autore di Mission. Il film, finalmente uscito dopo oltre dieci anni di ritardi, era una maestosa, cerebrale epopea prodoa da Fernando Ghia, ormai messo in ombra dal socio David Punam, colui che dopo Fuga di mezzanoe aveva realizzato Momenti di gloria e Urla del silenzio. Feci i complimenti a tui e tre, ritenendo Mission uno dei migliori film di quell’anno; purtroppo, le vicende di una missione gesuita in una foresta del Sud America agli inizi del Seecento non rappresentavano un tema congeniale per il pubblico di allora e il film andò in perdita. Finire in rosso non dipese dalla qualità cinematografica ma solo dall’argomento traato – un prezzo da pagare sempre, per coloro tra noi che sterzano improvvisamente dai margini. Più tardi, nel corso della cerimonia, quando Tony Curtis annunciò “Oliver Stone” come miglior regista, salii sul palco con spirito rilassato. Ormai i Golden Globe venivano ampiamente trasmessi in televisione e questa volta ero sobrio e preparato. Avevo in testa l’elenco dei nomi da ricordare, ringraziai e omaggiai i reduci del Vietnam, John Daly – “che mi ha offerto un’occasione quando non mi voleva nessuno” – ed Elizabeth – “mia moglie, il cui incrollabile amore mi ha permesso di sopravvivere agli anni bui”. Il convinto applauso dei presenti mi accompagnò per seimane avvolgendomi nella luce calda del riscao. ando a metà marzo arrivò il momento dei prestigiosi Directors Guild Awards, che la TV non trasmeeva, volli a tui i costi rendere omaggio ai grandi vincitori del passato. Elogiai Elia Kazan, che quella stessa sera avrebbe ricevuto il premio alla carriera, e il suo Viva Zapata! come fondamentale fonte di ispirazione per il mio Salvador. Parlai dei “giganti della mia giovinezza […] la cui luce risplende con la stessa forza di sempre in quanto esempio per tui noi, eredi della
tradizione di Wyler e Wellman, di Stevens e Ford, di Huston, Hawks, Billy Wilder e dei tanti altri che ci hanno lasciato in dono opere immortali”. Il vassoio d’oro dei DGA è enorme, e a tenerlo in mano provai un senso di concretezza. Ce l’avevo faa. Per la prima volta potevo dire, con sincerità, di essere un regista e sceneggiatore di successo. Sull’aereo per New York, dopo i Globe, vidi Al Pacino. Mi parve avvilito, invecchiato rispeo ai tempi della nostra strana collaborazione su Scarface, quando mi aveva chiesto il mio sostegno ma aveva mancato di darmi il suo. Sembrava vagamente contento per me. “Sei cresciuto e ti meriti questo successo,” mi disse. “Ti sei fao le ossa.” Lui invece era assolutamente stufo di vedersi “tagliare la testa” – in film come Revolution, Papà, sei una frana o Cruising, durante il quale aveva avuto screzi con Friedkin, il regista inizialmente scelto per girare Nato il quaro luglio. Al momento Pacino stava lavorando su un copione, giunto alla quinta revisione da parte di altreanti sceneggiatori, che non sarebbe mai stato realizzato e che sarebbe anzi diventato il simbolo di tue le sconfie che affrontiamo in un mestiere precario come il nostro. Ma per me Pacino era ancora il solito Amleto di strada; nulla sfuggiva a quei suoi grandi occhi luminosi, al radar da aore ferocemente istintivo che gli permeeva di cogliere sempre l’essenza del momento. Trovo che questo sia un aspeo fondamentale della recitazione: “Noi comunichiamo con gli occhi,” diceva Napoleone; i miei erano troppo piccoli per il cinema, ma non me la prendevo per la scelta di madre natura. Forse era per questo che avevo sempre preferito stare dietro una macchina da presa o dietro una penna. Ma le cose cominciavano a cambiare anche da questo punto di vista, ora che stavo diventando il volto pubblico di Platoon e, in un senso più ampio, della stessa guerra del Vietnam. Mi sentivo in dovere di lavorare sul mio personaggio pubblico, un aspeo con il quale avevo ben poca dimestichezza, essendomi sempre defilato dai dibaiti già ai tempi della scuola. Il mio fu perciò un addestramento sul campo. A Washington feci la
prima apparizione al National Press Club, esperienza che rispeo ad altre successive filò abbastanza liscia. Parlai, fra le altre cose, della necessità di ricordare quella guerra, lontana ormai quasi quindici anni. Parlai di “amnesia morale”. E difesi la violenza di Platoon in quanto realistica rispeo a quella inverosimile e aseica che di solito ci viene propinata dalla TV e dal cinema. “Il punto è che la violenza ti guasta, in un certo senso, per sempre. Ti toglie un pezzo dell’anima.” A giudicare da quella che si vede nel cinema di oggi, la violenza è diventata persino più realistica e raccapricciante rispeo al passato, ma se ne perde il senso profondo quando un solo soldato americano, su quel grande schermo, riesce ad ammazzare dieci, venti somali, libanesi, talebani prima di spirare. Perché gli americani non possono morire miseramente come tui gli altri? Poco tempo dopo ricevei la telefonata di cui avevo sentito sussurrare, la telefonata che arriva di punto in bianco, senza che tu l’abbia mai inseguita. O arriva o non arriva. L’aveva organizzata Mike Medavoy, che gestiva i suoi affari: “Ti chiamerà Marlon Brando,” mi annunciò. “Gli ho fao vedere Platoon…” “Ah, okay.” “È venuto con Michael Jackson e Liz Taylor.” “Ah, okay.” Grazie al cielo non ero presente in quella salea di proiezione. Mi sarebbe stato quasi impossibile rimanere lucido. “Ti racconterà lui stesso. Vedrai, ti piacerà, è simpatico.” Meno di mezz’ora dopo, quando alzai la cornea e sentii quella voce acuta, nasale, controllata… be’, non poteva che essere lui, anche se per un aimo mi venne il dubbio che fosse uno scherzo. Brando – “Chiamami Marlon” – aveva chiaramente colto la radice del film e del suo successo. “Si capisce che ti muovi al di fuori dei freni morali,” la spiegò in questi termini; Platoon era “un film spartiacque che farà il pieno di Oscar”. E comprendeva, inoltre, il dilemma che più mi affascinava: il mio protagonista, il mio alter ego, avrebbe
varcato il confine dell’immoralità? Arrivando magari fino al sadismo? Brando sembrava particolarmente colpito dalla scena in cui i soldati americani umiliano i contadini del villaggio. Io intanto continuavo a pensare: sembra proprio lui, è la stessa voce di Fronte del porto, ma… Fu una lunga telefonata, nella quale Brando arrivò al secondo punto prendendolo alla lontana. Voleva che lavorassi con lui su un progeo che gli stava a cuore, fruo della sua adesione alla causa dei nativi americani: un film sul turpe massacro di Sand Creek in Colorado nel 1864. Si lanciò in un affascinante monologo – viscerale quanto quello della scena del burro in Ultimo tango a Parigi – nel quale raccontò le atrocità compiute dai soldati americani sulle donne indiane: “Le mutilavano delle mammelle e dei genitali, che poi appendevano al pomolo della sella.” Da come parlava sembrava che lo stesse facendo lui stesso con un coltello da scuoio, la voce potente di rabbia, oscillando tra il proprio lato maschile e quello femminile nel suo immaginario di efferatezza, di pura crudeltà selvaggia. La rabbia di Brando era sincera, ma io questo film sul Sand Creek non volevo farlo; dopo Platoon e Salvador volevo fuggire dalla violenza. Lui lo percepì, immagino, tanto da chiedermi schieamente: “Dimmi subito sì o no. Meglio una pugnalata secca alla pancia che mille piccoli tagli sulla schiena.” Un poeta, la rassegnazione nella voce; l’aveva già capito. “Preferirei non farlo,” dissi non senza esitazione. Brando mi fece gli auguri per Greed, che di lì a poco sarebbe stato rititolato Wall Street: “È un’oima idea, ma farà soldi?” Chi poteva saperlo? Non volevo nemmeno pensarci. “La tua telefonata è stata un onore,” dissi. “Da piccolo eri uno dei miei idoli.” Lui rise, credo commosso, ma chissà quante volte si era già sentito dire quelle parole. Ci scambiammo vaghe promesse di ritrovarci. Una leggenda. Ero convinto che non gli avrei parlato mai più, cosa che invece sarebbe successa, in un commovente vis-à-vis. Insomma ero arrivato a questo momento della mia vita. Il successo era una dea incantevole, certo, ma ciò che mi stava
seducendo era forse la rivalsa, il fao di dimostrarmi finalmente all’altezza di fronte a mio padre? Era la consacrazione, o forse il potere? ali erano davvero le mie convinzioni? Il tema morale che avevo posto con Platoon era che in Vietnam noi americani ci eravamo realmente fai del male con le nostre divisioni fra contrari e favorevoli alla guerra, fra destra e sinistra, fra Barnes ed Elias. Ma stavo forse evitando un tema morale più ampio, l’indiscriminato massacro di tre, quaro milioni di viet-namiti, con tuo ciò che ne conseguiva? Che cosa era davvero successo all’America? La mia mente era ancora terrorizzata dal confronto con tali interrogativi; era una mente che avrebbe dovuto evolversi ulteriormente, correre rischi maggiori. Un passeino per volta. La serata degli Oscar era fissata per lunedì 30 marzo 1987. La mia prima volta era stata emozionante, avevo visto Cary Grant, Laurence Olivier, John Wayne, due dei quali nel fraempo ci avevano lasciato. Ora, nonostante fosse la seconda esperienza, ero agitato come nel 1979. Non vi partecipavo più in veste di sceneggiatore ma di regista. Il ruolo di outsider apparteneva al passato e sentivo, onestamente, che non potevamo perdere. Perché fingere sorpresa quando tui mi ripetevano la stessa cosa? Joe Hyams, veterano addeo stampa della Warner Bros., mi aveva informato: “Stanley [Kubrick] ha appena visto il film e gli è piaciuto tantissimo.” Joe era strasicuro: “Vincerai, figliolo.” Stavolta avrei tenuto i piedi per terra. Non avrei lasciato di nuovo che l’Oscar mi facesse perdere la testa o mi spingesse a un fatale peccato di tracotanza. Mi sarei aggrappato alla mia famiglia. Tornato a Los Angeles, quando avevo visto Sean corrermi incontro e abbracciarmi tuo contento, il mondo aveva assunto una pienezza che di rado avevo conosciuto. E qui stava la differenza tra il 1979 e il 1986: adesso ero felice. Ciononostante, prima della serata presi un tranquillante, perché mi aiutasse ad affrontare quelle tortuose tre ore e mezzo di viaggio. Anzituo il tappeto rosso, e la pedana dalla
quale l’impareggiabile Army Archerd di “Variety” annunciava ogni arrivo. Kathleen Turner, Jane Fonda, Sigourney Weaver, Sissy Spacek, una sfilata di abiti da sera, l’aristocrazia di un regno magico in parata davanti alle masse adoranti che gridavano i loro nomi – “Da questa parte! Da questa parte! Oliver! Oliver! Di qua, di qua!” Ragazze con la magliea di Platoon che saltavano su e giù. Poi io ed Elizabeth, accompagnati da mia madre e dal suo bel cavaliere gay, il produore e festaiolo Andy Kuehn, fummo condoi ai nostri posti in primissima fila, soo il bagliore accecante delle telecamere televisive. Platoon aveva ricevuto oo nomination, tra cui quella per la sceneggiatura originale, categoria in cui comparivo anche, insieme a Richard Boyle, per quella di Salvador – una rara circostanza in cui gareggi contro te stesso. Richard, seduto qualche fila più indietro insieme a Esther (ne aveva faa di strada, la ragazza, da quella rouloe a Santa Cruz), non vedeva l’ora di sfruare economicamente tua quella improvvisa notorietà, cosa che in effei gli riuscì quando oenne una caedra di cinema in un college dell’entroterra californiano, posto che sfruò per almeno vent’anni prima di tornarsene nelle Filippine dove la vita era meno cara. In un altro seore della platea, il suo ex rivale Jimmy Woods, nella cinquina per miglior aore, risplendeva accanto alla fidanzata cavallerizza che avrebbe sposato per poi divorziare quasi subito. Jimmy sapeva di avere una chance concreta alla corona. Ogni volta che le telecamere staccavano su di me alla ricerca delle mie reazioni, come se fossi destinato alla vioria, mi sembrava di subire una nuova forma di tortura pubblica. L’Oscar per il miglior aore non protagonista andò alla stella della Mano, Michael Caine, per Hannah e le sue sorelle; Dafoe e Berenger si erano eliminati a vicenda nella votazione. Nessuno dei miei due film si aggiudicò l’Oscar per la sceneggiatura, assegnato a Woody Allen, sempre per Hannah. Bob Richardson perse l’Oscar per la fotografia ma vincemmo quelli per il sonoro, con il nostro asso inglese Simon Kaye, e per il montaggio, con Claire Simpson.
Via via che si avvicinava il mio momento, cominciai a sentirmi nervoso e scappai due volte nel saloino dove Elizabeth mi fece calmare, accarezzandomi, e dove buai giù un’altra mezza pillola. Che mi stava succedendo? Non c’era nessuna risposta illuminante, era solo questione di nervi tesi. Mi ci sarebbero voluti anni per placare quei nervi; solo la ripetizione avrebbe giovato loro. Ce l’avrei faa stasera? Mi vedevo sciogliermi nel sudore davanti a milioni di telespeatori – a proposito di situazioni imbarazzanti. All’improvviso mi venne l’impulso di scappare. Liz mi prese per il braccio, mi calmò. L’Oscar come miglior film straniero andò all’olandese Assault – Profondo nero, il cui regista blaterò per un tempo che mi parve infinito. Poi quello per la miglior arice andò a Marlee Matlin per la commovente interpretazione al fianco di William Hurt in Figli di un dio minore, direo da una delle grandi registe dell’epoca, Randa Haines; Marlee è sorda, e il suo messaggio di acceazione conquistò i cuori di tui. ando Liz Taylor salì sul palco per premiare il miglior regista, sulla sala calò un silenzio di trepidazione. Liz era la numero uno, e lo capivi quando la vedevi. La mia ragazza dei sogni negli anni Cinquanta e Sessanta, ancora così fascinosa, il vero volto del cinema. David Lynch, regista di Velluto blu, era seduto poco lontano da me e, anni dopo, mi confidò quanto ci tenesse a vincere quella sera “solo per essere baciato da Elizabeth Taylor”. Liz cominciò leggendo la cinquina dei nomi: Lynch, Allen, Roland Joffé (per Mission), James Ivory e il mio. E improvvisamente, come quando dalla finestra arriva un’inaesa folata di vento che riporta alla normalità la tua temperatura corporea, mi sentii calmo, assolutamente calmo, godendomi quel grande momento per quello che era: un angolo di paradiso. “And the winner is…” La telecamera, chissà perché, era su Andy, l’accompagnatore di mia madre, che in effei mi assomigliava un po’, nonostante i baffei. E poi…
“Oliver Stone!” La telecamera finalmente mi trovò. Era un sogno? Eppure ero sveglio. “Dài due baci, a Liz,” mi stava dicendo mamma al di là delle ginocchia di mia moglie. A quale Liz si riferiva? Baciai la mia. Mamma intendeva l’altra. L’applauso mi sembrava assordante, gli dèi mi avevano regalato questo momento, e milioni di persone mi vedevano per la prima volta nella loro vita. Poi stavo araversando il palco e mi sentivo tranquillo, a mio agio, pronto a baciare entrambe le guance di Liz Taylor, come fanno i francesi. “Grazie per questo finale da favola, ma credo che con questo premio voi stiate rendendo omaggio al reduce del Vietnam, stiate dicendo che per la prima volta capite che cosa è successo davvero laggiù, e stiate dicendo che non deve succedere mai più nella nostra vita.” Ci fu uno scrosciante applauso di approvazione. Un momento esaltante. “USA Today” lo definì “un discorso evocativo, di gran classe”. E poi proseguii, quasi con sprezzo. Stavo esagerando? Avrei combinato un altro disastro? “Perché se dovesse succedere, allora quei ragazzi americani saranno morti invano, vorrà dire che l’America non ha imparato nulla dalla guerra che ha chiamato Vietnam.” Ancora applausi, ancora assenso ma, alla luce della futura invasione di Panama e della prima guerra del Golfo, quanto mi sbagliavo… Ma almeno ci provai. Conclusi ringraziando i miei colleghi e, guidato dietro le quinte dalla regina Elizabeth, tornai a sedermi per assistere alle due successive premiazioni ormai imminenti. L’Oscar come miglior aore fu consegnato con grande teatralità da una Bee Davis pur invecchiata e smunta: non a Jimmy Woods, che secondo molti lo avrebbe meritato – e quanto sarebbe stato bello –, ma, altreanto meritatamente, all’assente Paul Newman, che finalmente se lo aggiudicava alla seima nomination, per Il colore dei soldi. E poi arrivò Dustin Hoffman. “E il miglior film dell’anno è… Platoon!” So di essere ripetitivo, ma è giusto che lo sia,
perché ebbi poi bisogno di ricordare questo momento quando arrivarono le nuove tempeste: il bruo anatroccolo era appena stato trasformato in cigno. Platoon, all’inizio, era stato una scommessa da una probabilità su mille: tui i rifiuti, gli anni di indifferenza, gli uomini del Vietnam sparsi per l’intera nazione… Erano queste le emozioni che si accavallavano nel mio cuore. Arnold Kopelson salì sul palco da solo, come era stato deciso, negando a John Daly il suo premio, e anche ad Alex Ho, ma Arnold aveva voluto essere l’unico produore lassù. Io lo guardai dal mio posto e, nonostante il timore che potesse dilungarsi troppo e diventare retorico, Arnold pronunciò un ringraziamento semplice e toccante. Mentre la serata volgeva al termine, tornai dietro le quinte dove Liz mi accompagnò nella prima delle quaro sale dedicate alla stampa e mi augurò la buonanoe con il suo sorriso da dea del cinema. Il giorno dopo mi mandò un mazzo di rose rosse con un biglieo spiritoso: “Dall’altra Liz.” Sempre salace e provocante. Dopo un’infinita serie di fotografie scaate a Dustin, a Bee, a me e agli altri vincitori, passammo alle domande dei giornalisti. Ormai ero una foca ammaestrata e, quando mi chiesero cosa avessi da dire riguardo alle accuse rivolte a Platoon da alcuni conservatori e dall’associazione dei reduci delle guerre d’oltremare, risposi garbatamente senza alcuna animosità. Poi i party, i volti, la gioia, Dale Dye in divisa bianca da Marine che chiamava la “Bravo Due!” a meersi sull’aenti durante la festa della Hemdale al La Scala. Ero con mia madre, mia moglie e John Daly in compagnia di Arthur Krim e della moglie Mathilde. Mia madre, che aveva appena conosciuto Liz Taylor, Bee Davis e Jennifer Jones, tre delle sue arici preferite di tui i tempi, era al seimo cielo. Michael Douglas, in versione baffuta, mi abbracciava. Jimmy Woods, Charlie Sheen, Tom Berenger, Willem Dafoe, tui loro – Richard Boyle, Paula Wagner, Mike Menschel, Steve Pines, Bob Marshall, il nostro banchiere Frans Afman, Gerald Green, tui quelli che avevano svolto un ruolo – Bob
Richardson, Alex Ho – arrivavano persino telefonate dai membri della nostra troupe nelle Filippine. Non avrei potuto fare niente di sbagliato quella sera tranne vomitare sulla torta, ma mi traenni con dignità; volevo ricordarla, quella gioia. Cercavo la luce ormai da lungo tempo. Avevo sperimentato la sua forza. Ora avevo quarant’anni, ero giunto alla proverbiale mezza età. ei due film avevano rappresentato uno straordinario viaggio dalle stalle alle stelle, alla vea di quella montagna che è Hollywood. Con Salvador avevo scagliato il sasso forte e lontano, e avevo guadagnato un appiglio. Con Platoon, ero riuscito ad arrampicarmi fino alla cresta e vedere la luce. Denaro, fama, gloria e onori, era tuo lì nello stesso luogo e nello stesso momento. Adesso dovevo muovermi. Avevo aspeato troppi anni prima di fare film. Il tempo vola. Intendevo farne uno dopo l’altro come in una gara contro il tempo, che forse era solo una gara contro me stesso in una galleria di specchi da me stesso costruita. Oggi, dopo trent’anni, mi guardo indietro e capisco che allora non avevo idea della tempesta che mi aspeava, ma sentivo a pelle di aver raggiunto un momento della mia vita la cui gloria sarebbe durata per sempre.
Ringraziamenti
Il mio grazie va a David Rosenthal, per i consigli aenti e professionali che hanno contribuito a plasmare questa storia. A Cassandra Jaskulski per la dedizione e i lunghi giorni dedicati a decifrare la mia scriura e per essermi rimasta accanto araverso le numerose bozze e correzioni. E inoltre ai miei agenti Bryan Lourd, David Kopple e David Larabell per avermi trovato una casa alla Houghton Mifflin Harcourt, e per lo sprone continuo, in tui questi anni, a non smeere di scrivere. E senz’altro alla mia adorata madre e al mio adorato padre, che mi hanno nutrito, e alla mia famiglia che mi ha sempre sostenuto. E al mio medico, Chris Renna, per aver contribuito a conservarmi la salute e la memoria. Infine voglio ringraziare John Daly, che ci ha lasciato troppo presto nel 2008. Dopo la bancaroa, John era riuscito a rientrare nel mondo del cinema. Finanziato da entità a me sconosciute, ha direo diversi thriller destinati al mercato home video, che mi sembra di capire furono redditizi. A parte gli anni irripetibili di produore, sono convinto che John abbia ricavato da questa aività di regista le soddisfazioni maggiori. Per rubare una frase da Scaramouche: “Era nato con il dono della risata e la sensazione che il mondo fosse pazzo.”
Mio papà Louis nella Parigi appena liberata, 1944. el primo fiore della pace… e una conquista nell’aria.
Mia mamma Jacqueline, diplomanda al liceo alla vigilia dell’occupazione tedesca della Francia.
New York, 1946: l’alba di un mondo nuovo.
I genitori di mamma, per me Mémé e Pépé, con gli abiti buoni della domenica; Parigi, 1947.
Papà e suo padre Joshua sul lungofiume dell’Upper East Side; New York, 1948.
I barboncini all’epoca facevano furore, tanto che pensavo di essere un cucciolo di barboncino anch’io.
Adolescente, durante un viaggio in Europa con mia madre.
Annuario del mio collegio, 1964. Volevo integrarmi ed eccellere.
La squadra di tennis della Hill School, 1965. Un distinto giovane direo a Yale… almeno fino a un’inaesa deviazione.
i insegno in una scuola caolica a Saigon, 1965.
Due anni dopo di nuovo in Vietnam, come soldato, dal seembre 1967 al novembre 1968.
Con papà a Hong Kong durante la convalescenza, dopo essere stato ferito una seconda volta. Aspeavo con terrore di tornare sul campo di lì a cinque giorni.
Nella giungla, con la mitragliatrice M60 in spalla. In mezzo alla vegetazione si vedeva poco o niente.
La mia ultima missione, dopo che la pioggia ci aveva bloccati per dieci giorni nella valle di A Sâu. La foto mi ricorda una squadra di minatori di inizio Novecento.
Oh, happy day! Ritorno negli USA, novembre 1968. Pensavo di essere a casa.
Con mia moglie Najwa, nel 1971. Lei, libanese, lavorava all’ONU, mentre io frequentavo la scuola di cinema alla NYU grazie al G.I. Bill.
Il desiderio di essere Godard. i dirigo un corto durante la scuola di cinema.
Il mio primo film, un sogno trasformatosi in incubo. Finì in una grindhouse della 42a Strada.
Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Brad Davis, nel ruolo del giovane turista americano Billy Hayes, in Fuga di mezzanoe. Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Brad Davis (a sinistra) con il vero Billy Hayes (a destra) sul set di Fuga di mezzanoe a Malta. Due spiriti ribelli. Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Con Lauren Bacall nel 1979, quando, a trentatré anni, vinsi un Oscar per la sceneggiatura. Ero al seimo cielo. Foto: Walt Disney Television/© ABC/ Gey Images
Sul set del mio secondo film da regista, La mano, con Michael Caine.
Michael Caine viene visitato dalla mano che ha perso. Seguiranno ulteriori complicazioni. Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Io e Liz, il giorno delle nozze, San Antonio, giugno 1981.
John Milius dirige Conan il barbaro, epico omaggio alla spada e all’acciaio, 1981. Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Arnold, mai da soovalutare, non sarà stato un grande aore, ma sapeva cos’era lo speacolo. Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Rintanato in Francia a scrivere Scarface.
Al Pacino, Scarface, 1983. “Salutate il mio amicheo.” Foto: e Evere Collection/ Contrasto
De Palma e Spielberg se la ridono mentre io aspeo, aspeo… Sei mesi di apprendistato. Il set di Scarface, 1983.
Inverno solitario a East Hampton, Long Island, 1983-84, mentre scrivo Defiance e 8 milioni di modi per morire.
Michael Cimino, qui con Mickey Rourke sul set di L’anno del dragone, diede nuova vita alla mia sceneggiatura di Platoon. Foto: Benoît Gysembergh, Archivio Paris Match/ Gey Images
Il giornalista Richard Boyle, un uomo in continuo movimento, mia ispirazione creativa per Salvador… e un vero filibustiere.
Salvador fu il mio terzo film, ed ero convinto che fosse anche l’ultimo che avrei direo. In Messico, sul set del film, 1985, con James Woods (nel ruolo di Richard Boyle) e John Savage.
Prove con Elpidia Carrillo e James Woods, coppia in una situazione disperata.
Maneggi per raccaare qualche altro dollaro con cui tenere accese le macchine… i sul set di Salvador, da sinistra a destra: John Daly, Gerald Green, Derek Gibson.
Azione! Il sogno fanciullesco di girare un film. Mi divertii a far saltare in aria un’intera ciadina messicana.
Soddisfazione sudata. Con mio figlio a Parigi sugli Champs-Elysées, 1986.
Chris Taylor (Charlie Sheen) si ricongiunge con il suo plotone dopo il primo ferimento. Foto: Courtesy of Metro-Goldwyn-Mayer Studios
Filippine, 1986. Il conflio tra due Americhe che costituisce il nucleo drammatico di Platoon. Da sinistra a destra: Tom Berenger, Mark Moses, Willem Dafoe.
Foto: Courtesy of Metro-Goldwyn-Mayer Studios
Sentimenti contrastanti. Avevamo bruciato il loro villaggio ma scortavamo donne e bambini verso la “sicurezza”.
Foto: Courtesy of Metro-Goldwyn-Mayer Studios
Tradimento profondo. L’assassinio di Elias (Willem Dafoe) divenne l’immagine della nostra locandina. Foto: e Evere Collection/ Contrasto
Giungla delle Filippine: “Mi restano tre ore e devo ancora girare cinque inquadrature, ma forse posso farcela con quaro se…” È a questo punto che decidi cosa ti serve, non cosa vorresti.
Il plotone perdeva pezzi e buonumore via via che rimandavamo a casa gli aori, dopo che i loro personaggi erano stati uccisi o feriti. Da sinistra a destra: Arnold Kopelson, Charlie Sheen, Tom Berenger, Willem Dafoe, io e Dale Dye. Foto: Courtesy of Metro-Goldwyn-Mayer Studios
Chris Taylor (Charlie Sheen) saluta un amico (Keith David) che sta per tornare “nel mondo”. Foto: Courtesy of Metro-Goldwyn-Mayer Studios
Taylor/Sheen bracca il suo sergente. Una scelta di vita lo aende. Foto: e Evere Collection/Contrasto
Una noe da ricordare. Platoon, Oscar per il miglior film, 1986. Chi avrebbe mai sognato di essere qui?
Cosa c’è di più bello di questo? Da sinistra a destra: io, Arnold Kopelson, Tom Berenger, Mike Medavoy, Willem Dafoe, Arthur Krim, John Daly.