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Italian Pages [47] Year 2020
Erio Castellucci Tomáš Halík Ghislain Lafont
Cambiamenti d’epoca La Chiesa nell’abbraccio dello Spirito
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02/07/20 14:53
Erio Castellucci, Tomáš Halík, Ghislain Lafont
CAMBIAMENTI D’EPOCA LA CHIESA NELL’ABBRACCIO DELLO SPIRITO
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
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Indice
Il «Credo» alla prova del Coronavirus Erio Castellucci5 In cammino verso la maturità Tomáš Halík18 La Chiesa che verrà Ghislain Lafont31 A proposito di questo volume
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Gli autori
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Il «Credo» alla prova del Coronavirus Erio Castellucci
La sera del Sabato santo 2020, mentre cercavo su Internet gli aggiornamenti sulle condizioni di un amico vescovo in terapia intensiva a causa del Coronavirus, ho ricevuto un videoclip girato quella mattina stessa all’interno del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Ero andato in Terra Santa nell’agosto scorso, insieme a 230 pellegrini della diocesi, e come tutti avevo pazientato alcune ore in fila, per poter sostare pochi secondi in ginocchio davanti alla tomba di Gesù. Quel videoclip era desolante: il Sepolcro assolutamente vuoto, percorso dall’operatore in meno di due minuti, senza un’anima viva. Molto evocativo, questo vuoto assoluto: è il vuoto della morte o quello della risurrezione? O l’uno e l’altro insieme? Si sono allora presentate alla mente altre immagini-choc di questo tempo surreale: Piazza 5
San Pietro vuota, bagnata da una pioggia insistente e percorsa da un papa Francesco affaticato, la sera del 27 marzo; le 31 bare trasportate una settimana prima, dai camion dell’esercito, da Bergamo a Modena, perché in Lombardia i crematori scoppiavano. Nessun dubbio: il vuoto del Sepolcro è il vuoto della morte. Possibile? Non sono io tra quelli che dovrebbero sostenere la fede delle comunità, invitare alla proclamazione di un Credo che comincia con Dio onnipotente e termina con la vita eterna? Dove è andata a finire l’alba della domenica? Ho pensato, allora, che il vuoto del Sepolcro è soprattutto lo spazio della risurrezione. Ma non una risurrezione cantata disinvoltamente come liberatorio happy end di uno spettacolo drammatico. Piuttosto la risurrezione di chi si è attardato nel Sepolcro e ha portato poi nella sua carne trasfigurata i segni della croce. È una lente attraverso la quale leggere teologicamente il tempo del Coronavirus: la Pasqua del Signore, il kerygma dei Tre giorni: morte, sepoltura, risurrezione. Senza la fretta di uscire dal Sepolcro, che non dovrebbe essere una parentesi, ma una parenesi, una scuola. Forse noi predicatori e pastori, per il tempo che ci attende prima della definitiva sconfitta del virus, dovremmo collocare idealmente la 6
nostra cattedra dentro al Sepolcro vuoto, nel suo doppio richiamo alla morte e alla risurrezione. E da lì, dal Sepolcro, che è la sagoma assunta dall’intero pianeta in questo tempo, pronunciare di nuovo, a bassa voce, lentamente, il Simbolo della fede. Provo dunque a suggerire e balbettare qualche tratto del Credo degli apostoli, perché incida ancora più a fondo nei cuori le parole della fede.
Credo in Dio, Padre onnipotente «Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra». «Io credo in Dio», mi affido, gli lancio un’invocazione di senso. «Credo», non: «conosco», perché non comprendo tutto – anzi, quasi nulla – ma so di avere un Padre che guida le vicende della storia. Padre, non padrone che alla maniera mitologica scagli le sue condanne contro i servi, batta i flagelli per punirli. È stato detto a più voci, in questi mesi, che la pandemia è una punizione per i peccati degli uomini. Ritorna così la tesi degli amici di Giobbe che, volendo costruire un teorema sul dolore, per scagionare Dio (teodicea) e quindi incolpare l’uomo, avevano 7
finito per offenderlo; e poco mancò che Dio non punisse davvero… i tre amici di Giobbe (cf. Gb 42,7-8). I goffi difensori di Dio sono i suoi peggiori accusatori. La sofferenza non si presta ad equazioni o bilanci in pareggio, ma apre piuttosto alla grande domanda sul senso della vita, orientando la risposta umana verso l’assurdo e il nulla oppure verso il mistero e l’eterno. Sarà opportuno, con calma, pensare a una teologia dopo il Coronavirus, analogamente alla teologia dopo Auschwitz, perché il Credo esprima la sua forza profetica racchiusa nella formula dottrinale. A questo ripensamento appartiene l’aggettivo onnipotente, che non sfugge – se male inteso – alla famosa alternativa di Epicuro aggiornata da Jonas: Dio è onnipotente oppure è buono. Uno sforzo ulteriore per incrociare onnipotenza e bontà va compiuto: non mancano le teologie, ma sembra porsi un diaframma tra la riflessione e la catechesi; o forse, più radicalmente, tra la concezione greca del Divino, autarchico e perfetto nella sua immobilità, e la concezione biblica del Dio che custodisce e ama le creature, fino a soffrire con loro. Dio si è legato al mondo, perché è «Creatore del cielo e della terra». Il vincolo creaturale è dunque reciproco: è dipendenza del creato 8
dal Creatore, ma anche auto-limitazione di Dio rispetto al mondo; è legame vicendevole, rapporto, relazione. Nei mesi della pandemia l’umanità, specialmente nella sua componente benestante e spensierata, ha sbattuto la testa contro il limite creaturale. Non era previsto, doveva andare tutto liscio. Ci illudevamo di poter vivere sani in un mondo malato, come ha detto papa Francesco in Piazza San Pietro. Anch’io appartengo a questo emisfero evoluto, nel quale il limite non era previsto; a un’umanità prometeica, alla quale nessuna conquista sembrava vietata. Il virus ha svelato, se ce ne fosse stato bisogno, la scandalosa ingiustizia, l’inequità che avvolge il mondo; ha tolto il velo universale che copre e nasconde violenze, guerre, povertà e miserie, malattie e lutti. Il «Nord del mondo», per usare una categoria generalista ma efficace, si è trovato a vivere eccezionalmente una condizione che è norma per il «Sud del mondo». Un amico africano mi ha scritto a metà marzo, esprimendo solidarietà all’Italia, e aggiungendo alla fine un post scriptum: «So cosa state provando, perché da noi è così sempre». Una pugnalata: non ce ne eravamo accorti? Dove scivolavano le informazioni sugli oltre 800 milioni di affamati, un miliardo di assetati, milioni di migranti e profughi, decine 9
di guerre, paesi interi incapaci di curare i loro malati, zone del mondo prive di libertà religiose e civili? Non avevamo sentito predicare decine di volte che l’esame finale della vita verterà sull’assistenza all’affamato, all’assetato, al povero, al malato, allo straniero e al carcerato? (cf. Mt 25,31-46). Non abbiamo prestato orecchio, nonostante l’intensificarsi degli allarmi, alla grave crisi ecologica del pianeta, che trascina come in un castello di carte le crisi umanitarie, economiche e sociali? «Creatore del cielo e della terra»: se siamo onesti, gli dobbiamo chiedere perdono, perché siamo riusciti a inquinare il cielo – quella parte di cielo che ci dà ossigeno – e anche la terra. La pandemia ci costringe a rilanciare il rispetto per il creato, la «casa comune» in cui abitiamo (cf. l’enciclica di papa Francesco, Laudato si’).
E in Gesù Cristo, suo unico Figlio «E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito da Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, 10
siede alla destra di Dio Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti». Perché non è risorto subito salendo al Padre dalla croce, ma solo «il terzo giorno»? Questo indugio sembra inutile, ma è in realtà la conseguenza di ciò che precede: nacque da Maria, patì, fu crocifisso. Il Verbo si è davvero «fatto carne» (cf. Gv 1,14). Non ha finto di diventare uomo. Il secondo giorno, quello del Sepolcro, compie il processo dell’incarnazione. Più in basso di così non poteva scendere. Il Sepolcro è l’appendice del Golgota, ne è la conferma. Sulla croce il Figlio si è «fatto maledizione per noi», come scrive Paolo (cf. Gal 3,13) richiamando l’orrore ebraico per quella assurda pena di morte; e gli amici di Giobbe, sempre loro, avrebbero detto che se Dio stesso lo ha abbandonato così, allora doveva avere commesso terribili peccati. Alla prova del Calvario ogni teodicea si frantuma. Quel condannato è lì non perché sia punito per una colpa; è lì perché è rimasto fedele alla «carne», ha amato fino alla fine (cf. Gv 13,3). È lì perché il Figlio di Dio ha disceso tutti i gradini dell’umano, «fino alla morte e alla morte di croce» (cf. Fil 2,8); è lì perché il figlio di Maria ha risalito tutte le esperienze del divino, imparando «l’obbedienza dalle cose che patì» 11
(Eb 5,8). Solidarietà con i fratelli e obbedienza al Padre: questa è la croce di Gesù. Il mondo intero si è mutato per mesi in un grande Calvario. E purtroppo l’ombra della croce continuerà a stendersi sulla terra, con sofferenze diffuse e radicate. Ma nella croce si cela sempre un germe di vita, una risorsa di amore, una solidarietà possibile. Purché il Calvario non sia bypassato. Il bene autentico passa attraverso il dolore, non lo sorpassa da un lato e non lo sorvola dall’alto. Il nome evangelico dell’amore è: condivisione. Insieme a grandi mali, la pandemia ha svelato anche un incredibile senso di dedizione e di solidarietà. Certo, il lato oscuro e violento della croce è emerso non solo nei milioni di malati e morti, ma anche nelle ingiustizie, nello sciacallaggio, nella strumentalizzazione politica per guadagnare consenso al proprio partito. Ma è emerso meglio il lato solidale della croce: la generosità portata fino all’eroismo e al dono della vita da parte di coloro che si sono impegnati in prima linea, negli ospedali, nelle famiglie, nelle comunità, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni e nel volontariato; la cura con la quale sono stati seguiti gli ammalati e la pietas esercitata verso coloro che non ce l’hanno fatta, cercando di colmare in quel momento 12
supremo l’assenza dei familiari; la creatività con la quale molti si sono fatti prossimi dei più fragili ed esposti, dal punto di vista materiale, psicologico, affettivo e spirituale. Sostare nel Sepolcro significa raccogliere il peso del Golgota, nei suoi aspetti violenti e in quelli solidali; lasciar decantare le emozioni e «pensare» con calma al senso dell’accaduto; cercare di imparare, tentare una volta di più quell’arduo processo che è la conversione. Colui che è deposto nel Sepolcro non aveva svelato le ragioni del dolore, ma – rifiutando di ricondurlo al peccato di chi lo patisce (cf. Gv 9,3) – l’aveva finalizzato alla conversione: credete che quei galilei uccisi da Pilato e quelle diciotto vittime del crollo della torre fossero più peccatori di voi? «No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3.5). Il sabato del Sepolcro è il tempo della conversione. Se non ne usciremo sanificati nel cuore, avremo sofferto invano. Se ne usciremo convertiti il vuoto del Sepolcro sarà non più solo di morte, ma di risurrezione.
Lo Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica «Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione 13
dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna». «Lo Spirito e la Sposa dicono: vieni!» (Ap 22,17): l’ultima pagina biblica è un inno a due voci, lo Spirito e la Chiesa, perché Gesù si presenti (parusia). L’invocazione occupa l’intero spazio della storia, il tempo tra la Pasqua del Signore e il suo ritorno: segno che la vicenda umana rimane incompleta. Incompleta, ma non vuota: la storia è kairos, tempo opportuno, occasione, nascosta nel chronos, tempo cosmico. È la presenza dello Spirito a far cantare la Sposa, che saprebbe altrimenti intonare solo il lamento funebre della vedova. La Chiesa è Sposa che attende il ritorno dello Sposo, ma non da sola: in compagnia dell’altro Paraclito (cf. Gv 14,16), che riempie il mondo con il suo «frutto», nascosto tra le pieghe del quotidiano: l’agape (cf. Gal 5,22). La Chiesa ha vissuto in questi mesi, pur fra tante polemiche, una bella creatività. La maggior parte delle comunità è stata capace di prossimità, con proposte di annuncio, celebrazione, fraternità e preghiera (cf. At 2,42). Questa fioritura straordinaria è un segno eloquente dello Spirito. Nei numerosissimi incontri di queste settimane, sia «da remoto» sia di persona, ho avvertito come questo canto a due voci abbia 14
raggiunto case, ospedali, ricoveri, carceri; come sia arrivato agli orecchi delle persone più fragili, visitate dalla malattia o dal lutto, frastornate dalla grandine di cattive notizie, ansiose per la situazione dei loro cari, preoccupate per la precarietà del lavoro, indebolite dalle tensioni esplose in famiglia, attraversate da crisi di fede. Molti ministri nelle comunità sono stati all’altezza della situazione, anziché scoraggiarsi di fronte agli ostacoli. La Chiesa però non trattiene gelosamente per sé questo canto, ma lo comunica e lo riconosce al mondo. Dovunque l’agape pianta un seme, lì opera lo Spirito. È «frutto dello Spirito» la dedizione di chi si è speso in prima linea: uomini e donne «di buona volontà» sono stati strumenti della premura del Signore, quasi una carezza dello Spirito nella durezza della pandemia. Lo Spirito ha soffiato poi sulle iniziative ecumeniche e interreligiose. All’invito alla recita del Padre nostro il giorno dell’Annunciazione, papa Francesco ha ricevuto adesioni da tante confessioni cristiane; comunità musulmane si sono unite, con le preghiere della loro tradizione, alla celebrazione di venerdì 27 marzo da Piazza San Pietro. Scambi fraterni tra le religioni e occasioni di incontro nelle singole Diocesi si sono moltiplicati. Nel suo diario la giovane ebrea olandese Etty Hillesum, 15
uccisa ad Auschwitz nel 1944, annotò: «Non ci sono confini tra gli uomini sofferenti» (3 luglio 1942). Il dolore è un aratro che, dissodando il terreno, travolge gli steccati lungo il percorso; e lo Spirito pianta nei solchi arati il seme dell’agape.
Una ricchezza da non perdere Il terzo articolo del Credo ingloba la Chiesa nell’abbraccio dello Spirito. E della Chiesa è rispuntata in questi mesi la dimensione domestica. Piuttosto trascurata, l’esperienza della Chiesa domestica si è rivelata uno spazio praticabile. Le fatiche delle relazioni in alcune famiglie non hanno impedito che molte case diventassero veri e propri «centri pastorali», dove si leggeva il Vangelo, si pregava, si viveva la prossimità, si celebrava una liturgia. Le messe in video, pur discusse e criticate, per molti sono state occasioni di riconoscimento della propria comunità; ma sono state bene integrate con proposte di liturgie domestiche, in grado di recuperare qualcosa delle originarie Domus Ecclesiae. Annuncio, liturgia e carità hanno quindi ritrovato l’habitat loro proprio nei primi secoli dell’era cristiana. Anche il sacerdozio comune e 16
il culto spirituale hanno preso forma concreta nelle case. La sfida sarà di mantenere questa ricchezza, evitando di tornare a delegare l’intera vita cristiana al «centro parrocchiale». La celebrazione eucaristica, reclamata qualche volta in questi mesi con toni sguaiati contrari al suo stesso significato – comunione, condivisione, prossimità – è «fonte e culmine» della vita e attività ecclesiale; ma tra la fonte e il culmine abita la vita quotidiana, la cui cifra simbolica è proprio la casa. La cattedra posta nel Sepolcro si mette in ascolto della paura della morte e dell’esperienza del lutto, sperimentate intensamente durante la pandemia, per ringiovanire l’annuncio della risurrezione della carne e della vita eterna. Non come appendici a un’esistenza terrena che deve trovare in se stessa il proprio spessore, ma come pienezza di quell’amore che nella vita mortale si vive attraverso il corpo, la relazione, il dono di sé. L’orizzonte della risurrezione, aperto da Gesù come «primizia» (cf. 1Cor 15,20), dà vigore al cammino terreno, offrendogli un traguardo sensato. L’eternità cristiana non è alienazione o illusione, ma pienezza: la tensione al compimento è la colonna vertebrale della speranza cristiana. 17
In cammino verso la maturità Tomáš Halík
Scrivo queste righe mentre l’epidemia globale provocata dal Coronavirus sta probabilmente per culminare. La sua fine tuttavia non è ancora giunta, ed è necessario prendere in considerazione diversi scenari di sviluppo futuro. Le previsioni degli esperti variano radicalmente, dalle previsioni apocalittiche alle assicurazioni ottimistiche che l’economia mondiale si riprenderà in tempi brevi e tornerà alla normalità. Oltre a chiederci se tale aspettativa sia del tutto realistica, si pone anche un’altra domanda: la condizione della società in cui vivevamo prima di questa scossa globale era davvero «normale»? È desiderabile ritornarci? Il teologo protestante ceco del XVII secolo, Jan Amos Komenský, intitolò la sua opera maggiore Consultatio catholica (De rerum humanarum emendatione consultatio catholica). Non 18
è forse questo tempo l’occasione per fermarsi e provare una «consultazione generale»? Se la pandemia dovesse continuare ancora a lungo, un notevole peso psicologico e morale finirà per gravare su diverse sfere della società. Le manifestazioni iniziali di solidarietà e impegno eroico resisteranno, oppure lo stress e la paura provocheranno crescenti manifestazioni di disordini psicologici e sociali, aggressività e violenza? La vita spirituale della società non è solo un riflesso meccanico dell’economia, come sostenevano i dogmatici marxisti, ma non è governata nemmeno dalla «mano invisibile del mercato», nella cui onnipotenza confidano i fautori del neoliberismo. Il clima morale della società, al contrario, è una «biosfera» in cui avviene il cambiamento sociale. Tale «biosfera» influenza in modo significativo il movimento complessivo della società. Il «come» le persone comprendono queste situazioni e le interpretano plasma in modo rilevante la dinamica dell’azione umana nelle diverse situazioni sociali e storiche. A decidere quale «aspetto» avrà il mondo dopo il Coronavirus sarà anzitutto l’interpretazione che ci aprirà alla comprensione di quanto abbiamo vissuto. 19
Conflitto di prospettive Dalla rivoluzione industriale del XIX secolo, il nostro mondo occidentale è stato dominato dal sistema industriale e dal pensiero economico. L’economia ha gradualmente assorbito, gestito e cambiato molti altri sistemi della società, in particolare la politica, ma anche la ricerca scientifica e le attività culturali. Lo stesso pensiero ha anche tentato di dominare la religione. In modo forse più evidente ciò è accaduto negli Stati Uniti, ma non solo, prendendo la forma di un blasfemo «vangelo della prosperità». Anche stavolta le conseguenze economiche della pandemia avranno un peso determinante. È probabile che l’umanità sarà più povera a livello globale, che molti paesi e molti settori della società passeranno dalla prosperità alla povertà e altri dalla povertà alla miseria. Le conseguenze sociali cambieranno la scena politica internazionale, i rapporti tra gli stati e le rappresentanze al potere nelle singole società: alcune saranno spazzate via, altre prenderanno la scena. Possiamo attenderci un «duello di prospettive», ovvero uno scontro tra interpretazioni diverse della situazione attuale, delle sue cause e delle proposte di soluzione. Forti tendenze 20
politico-ideologiche hanno accresciuto la loro influenza su entrambe le sponde dell’Atlantico, in particolare negli ultimi dieci anni, in relazione alla crisi del processo di globalizzazione: il populismo, un misto di radicalismo di destra e di sinistra, il nazionalismo e il fondamentalismo religioso. Ai sostenitori del populismo piace utilizzare la retorica e i simboli religiosi per difendere l’identità collettiva (della nazione o della «civiltà»), minacciata a loro dire dalla democrazia liberale. In Occidente, dunque, i populisti utilizzano un «cattolicesimo senza cristianesimo» per difendere la «civiltà cristiana» contro i liberali, gli immigrati e il mondo islamico; nel mondo arabo, per contro, gli islamisti strumentalizzano allo stesso modo la retorica e i simboli dell’islam per mobilitare l’odio verso l’Occidente liberale e i «crociati». Sia la Russia che la Cina stanno sfruttando l’attuale crisi e il senso di disorientamento che ne deriva per indebolire l’Occidente, in particolare l’Unione Europea, e per rafforzare la propria posizione, specialmente nei paesi postcomunisti. Nel mondo post-comunista – con il sostegno delle fake news della propaganda russa – si assiste a un grande sforzo per prolungare le misure eccezionali e lo «stato di emergenza» della pandemia, al fine di limitare le libertà 21
civili e spostare la società dalla democrazia alla «democrazia illiberale» (denominazione dietro la quale si maschera, nella Russia di Putin e nell’Ungheria di Orbán, uno stato autoritario non democratico). In che modo oggi la Chiesa e la teologia possono contribuire all’auspicabile «consultazione generale» sulle grandi questioni che toccano l’umanità? La Chiesa cattolica versa attualmente in una grave condizione di handicap. La sua credibilità è stata notevolmente indebolita negli ultimi anni da casi a lungo tenuti nascosti e non risolti di abusi sessuali e di coscienza da parte del clero. Le grandi speranze associate agli sforzi di riforma di papa Francesco sono in qualche modo paralizzate dalla consapevolezza che questo pontificato sta affrontando una dura opposizione all’interno della Chiesa. La discrepanza tra le conclusioni del recente Sinodo sull’Amazzonia e l’esortazione papale successiva ha sollevato delusione e dubbi sul fatto che la Chiesa abbia il coraggio e la forza per riformarsi.
Dio, catastrofi e pandemie In passato, l’interpretazione teologica di catastrofi naturali e pandemie è stata associata 22
all’idea di un Dio punitore. Questo tipo di teodicea è ormai del tutto inaccettabile non solo agli occhi del mondo secolare, ma anche per la maggior parte dei credenti. L’idea che Dio, assiso su una comoda poltrona al di là dell’orizzonte della natura e della storia, esponga i suoi figli a delle crudeli punizioni, per le quali qualsiasi genitore verrebbe giudicato disumano, è ormai stata smascherata come una proiezione sadomasochista di predicatori che hanno reso Dio uno strumento di intimidazione e disciplina. Il crudele Dio punitore era solo un fittizio prolungamento della loro sete di vendetta contro coloro che odiavano e contro ciò che loro stessi rifiutavano o temevano. Ma anche l’idea opposta di Dio come sovrano potente e benevolo ha da tempo perso credibilità. Dall’esperienza della Prima guerra mondiale – l’esperienza di sacerdoti e pastori che erano loro stessi in prima linea, o che si sono resi conto che parlavano a uomini che avevano attraversato l’inferno della guerra – è nata la «teologia dialettica», o «teologia della crisi», associata in particolare al nome di Karl Barth. Da questa corrente si è formata la «Chiesa confessante» (Bekennende Kirche) come contrappeso al movimento dei «cristiani tedeschi» (Deutsche Christen), i quali abusavano di alcuni 23
motivi presenti negli insegnamenti di Lutero per sostenere il nazionalismo e l’antisemitismo nazista. Dietrich Bonhoeffer, martire della resistenza antinazista, ha tracciato nelle sue lettere dalla cella della morte una teologia del «cristianesimo non-religioso», ovvero l’orizzonte di una fede che rinuncia all’idea di un Dio potente, posto da qualche parte al di sopra di noi, e scopre la vera trascendenza nella kenosi, nell’umano che – sull’esempio di Gesù – si dona senza riserve agli altri. La tragedia dell’Olocausto ha spinto molti teologi ebrei e cristiani a «destituire» anche il classico concetto metafisico di Dio. Tra tutti citiamo J.B. Metz, recentemente scomparso, e la sua idea della Chiesa come «comunità di memoria». Secondo un vecchio adagio «la storia è scritta dai vincitori», i quali adorano i propri eroi e compagni caduti in armi ma zittiscono i lamenti delle vittime. Metz avverte i predicatori cristiani: se non si ode alcun grido del Crocifisso nella predicazione della risurrezione, allora si sta producendo una mitologia del vincitore, e non una vera teologia cristiana. Secondo Metz, la croce di Gesù e il suo grido sulla croce obbligano a mostrare solidarietà con tutte le vittime della violenza e dell’ingiustizia; non solo con coloro che indossavano la croce sul petto, 24
ma anche con coloro che dovevano indossare la stella di David sui loro cappotti. Mentre le mitologie delle nazioni circostanti fornivano spiegazioni davanti al male del mondo, Israele, a giudizio di Metz, rimane la «terra del grido». Il pensiero di Barth, Bonhoeffer e Metz può dunque essere la base per l’elaborazione di una teologia che cercherà di accompagnarci dall’esperienza della pandemia fino alla soglia di un nuovo capitolo della storia del cristianesimo. Potremmo senza dubbio «invitare» altri grandi pensatori a comporre questa sinfonia di idee. Dall’esperienza della Prima guerra mondiale, ad esempio, è scaturita la teologia di Teilhard de Chardin, una mistica dello sviluppo dinamico del cosmo visto come processo di costante unificazione in cui anche le tragedie della storia sono solo le doglie che annunciano la nascita della futura unità di tutto in Cristo.
Il futuro attende persone spirituali Uno dei miei maestri, il filosofo ceco Jan Patočka, ha scritto a proposito della «solidarietà degli scossi» (e lo ha fatto poco prima di morire a seguito degli interrogatori della polizia segreta comunista nel 1977). Egli sosteneva 25
che la via d’uscita dalle crisi del nostro tempo non sarebbe stata aperta da «intellettuali» ma da «persone spirituali» – ovvero da coloro in cui si sarebbe risvegliata, dentro le grandi crisi del XX secolo, la voce della coscienza. Tutti ci attendiamo che la pandemia del Coronavirus sarà fermata dalla medicina e che le sue conseguenze economiche saranno risolte da economisti e politici. Resterà in ogni caso uno choc profondo per l’autostima dell’uomo moderno, uno choc che nasce dall’esperienza della vulnerabilità del nostro mondo e dei limiti del potere umano. Tutti dovremo affrontarlo e la soluzione non ci verrà dall’esterno. La richiesta di una religione fondamentalista, che offre risposte semplici a domande complesse ed è disposta a stringere alleanze con i populisti nella vita politica, è destinata ad aumentare. Molte forme antiche e nuove di magia appariranno sul mercato religioso, promettendo la miracolosa trasformazione delle pietre in pane e offrendo le armi affidabili degli angeli a tutte le persone fragili, l’oppio economico per gli insicuri e una cura infallibile per tutti i dolori. Spero che i discepoli di Gesù riusciranno a respingere queste tentazioni. Le chiese vuote durante la Pasqua del 2020 sono a mio giudizio 26
un segno profetico di avvertimento: così potrebbe apparire la Chiesa se dovesse proseguire nel suo «stato normale». Il cardinale Martini, grande precursore di papa Francesco, non concepiva affatto la forma del cristianesimo alla soglia del terzo millennio come «normale». Non aveva esitato a dire, in un’intervista, che la Chiesa cattolica era in ritardo di due secoli nel suo sviluppo e richiamava i cristiani al compito difficile ma decisivo di non smettere di ripensare tutte le cose. Egli scriveva, infatti: «Non ho paura di quelli che non credono, ma di quelli che non pensano». Continuare a pensare non significa voler stare «al passo con la storia» attraverso la modernizzazione tecnologica e la conformità con lo «spirito dei tempi». La via da seguire, se non vogliamo cadere in una variante ecclesiastica dell’ingenua fiducia dell’Illuminismo nel progresso, deve essere una via verso la profondità delle cose. La Chiesa e la teologia del futuro devono attingere dalla contemplazione, per offrire una parola che nasce dalla profondità del silenzio. È necessario al contempo riflettere sulla metafora che papa Francesco ci ha suggerito: la Chiesa come «ospedale da campo». Il compito dell’ospedale consiste nella diagnostica, ovvero 27
nell’ermeneutica teologica della società e della sua cultura e nella «lettura dei segni dei tempi». L’ospedale, inoltre, deve occuparsi della prevenzione e del rafforzamento dell’immunità. Proprio perché stiamo assistendo ancora una volta alla compromissione di coloro che guidano le Chiese in molti paesi a causa di infelici alleanze con i regimi autoritari, dovremmo rafforzare il coraggio dei cristiani in modo che maturino un rapporto profetico e critico con il potere.
Un nuovo «ecumenismo» La Chiesa «ospedale da campo» non è una struttura interna, rivolta soltanto ai suoi membri. Essa deve esserci per aiutare tutti coloro che ne hanno bisogno. L’«ecumenismo della sofferenza» e il dolore condiviso richiedono l’«ecumenismo della compassione» e l’unità di tutti coloro che vogliono e possono aiutare. Uno dei grandi doni della pandemia di Coronavirus è la caduta dei muri di separazione non solo tra le singole Chiese, ma anche tra credenti e non credenti. Non credo che una fede che non tremi di fronte a una tale sofferenza e che non si ponga le domande che Giobbe si è fatto e che hanno scandalizzato i 28
suoi amici devoti, possa davvero essere viva e veramente umana. Chesterton – alludendo al grido di Gesù sulla croce – consigliò agli atei di scegliere come loro religione il cristianesimo, perché «in Cristo, Dio stesso divenne per un momento ateo». Non credo che un ateo, se è veramente onesto, di fronte a una tale sofferenza non si ponga la domanda se cercare la fonte di forza e di speranza ancora più in profondità rispetto a ciò che questo mondo ha da offrire. Penso che anch’egli con la sua ricerca di una risposta ai propri perché possa giungere alla fine a un mistero per il quale «questo mondo» non ha una risposta sufficiente. Se il non credente vicino a noi porta una pesante croce a motivo dei dubbi causati dalla sua sensibilità ai dolori del mondo, noi credenti cristiani non dovremo fargli prediche piene di speculazioni religiose, come fanno gli amici di Giobbe. Dovremo piuttosto essere come Simone di Cirene e aiutarlo a portare la croce in segno di solidarietà. Dubito che sia veramente cristiana la fede di colui che non ha mai vissuto la notte oscura del Getsemani, perché si è costruito una stabile dimora con «tre tende» alla luce del monte Tabor. L’oscurità del dolore che ha avvolto il nostro pianeta in questi mesi 29
invoca una nuova dimensione dell’ecumenismo: l’ecumenismo «del porsi domande e del mettersi in ricerca». Ci sollecita inoltre a muoverci nella direzione di una comunità della quale si può fare parte senza avere necessariamente un certificato di battesimo, e nella quale è possibile comunque stare con Cristo. Bisognerà prendere coscienza del fatto che il mondo in cui vivremo dopo la pandemia sarà più vulnerabile, instabile e complesso. Noi cristiani dovremo abitarlo portandovi la testimonianza di una fede vissuta come fiducia che è proprio questo il mondo che ci è stato affidato come dono e compito, e che la nostra fede sarà fonte di forza per accogliere e adempiere tale responsabilità.
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La Chiesa che verrà Ghislain Lafont1
Dopo la pandemia, vale a dire, si spera, entro la fine di questo 2020, la Chiesa riprenderà il percorso che ha iniziato dopo la fine della Seconda guerra mondiale (1945) e che ha proseguito grazie al Concilio Vaticano II, attraverso strade non sempre lineari. Forse questa pandemia avrà l’effetto di rafforzare tale cammino, magari donandogli anche un nuovo slancio lungo la via tracciata negli ultimi tre quarti di secolo. Vorrei proporre una definizione della Chiesa che esprima l’essenziale del cammino sin qui percorso. Mostrerò quindi come, a partire dal fatto che la pandemia tocca tutti gli esseri umani, provoca nella coscienza dell’intera umanità un sussulto di fraternità. Tale esperienza porta a Il testo di Ghislain Lafont è ripreso dalla rivista Munera 2/2020, 25-32. La traduzione dal francese è di Emanuele Bordello e Calogero Miccichè. 1
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collocare la Chiesa nel concerto degli sforzi che le religioni fanno per salvare l’uomo. Conseguentemente, ciò cambia la coscienza e l’azione della Chiesa nella sua opera di evangelizzazione e nell’equilibrio delle sue istituzioni.
La Chiesa, cioè vangelo e dono dello Spirito Santo Per molto tempo, la Chiesa latina è stata definita con una formula: Ecclesia, id est fides et sacramenta, la Chiesa, cioè la fede e i sacramenti. Oggi, una formula più ampia e più intensa, che riassume i passi già fatti e guida quelli ancora da compiere, sarebbe: Ecclesia, id est Evangelium et donum Spiritus Sancti, la Chiesa, cioè il vangelo e il dono dello Spirito. «Vangelo»: questa parola va presa nel senso di san Francesco d’Assisi o di Charles de Foucauld: Evangelium sine glossa, il vangelo senza commenti. Non nel senso che non debbano esserci più commenti, il che è impossibile, quanto piuttosto che questi ultimi valgono solo se conducono oltre loro stessi, verso l’essenziale: oltre le formule anche corrette che hanno cercato di esprimerlo: giustificazione per fede, dogmi di Nicea o Calcedonia, catechismi dal 32
Concilio di Trento ai nostri giorni. Il vangelo è tutto questo, ma molto di più, è questo ma diversamente. Il vangelo è quanto Gesù è venuto a rivelare agli uomini, ciò che essi ricevono costantemente da lui, ma senza mai essere in grado di esaurirne il contenuto e il senso ultimo. «Vangelo», un messaggio aperto. Lo «Spirito» è il dono del Cristo risorto, che permette di comprendere intimamente il vangelo e di metterlo concretamente in pratica, per mezzo dei doni santificanti della grazia, i gesti liturgici che fanno memoria, i carismi che organizzano la comunità. Lo Spirito è l’intelligenza, il desiderio, il discernimento. È allo stesso tempo sia il passato su cui si costruisce, sia il futuro che ci spinge in avanti. «Vangelo e Spirito». Questo certamente non esclude «fede e sacramenti», ma li ingloba e soprattutto ne muta il significato. In effetti, la formula fides et sacramenta corrispondeva a una percezione un po’ negativa della rivelazione che oggi avvertiamo inadatta a onorare pienamente l’immensità del dono di Dio. Essa fu stabilita nella prospettiva del difficile trionfo del bene sul male. Affinché questa vittoria possa avvenire, occorre la totale linearità della verità rivelata – assicurata dal dogma – e la purezza dei costumi, che i sacramenti ripristi33
nano costantemente negli uomini peccatori. La formula suppone altresì il ruolo centrale di un’autorità che dica il vero e amministri il perdono. Tutto ciò deve rimanere, ma oggi lo percepiamo all’interno di una visione più ampia, più evangelica.
Pandemia e fratellanza Cosa stiamo vivendo in questo momento, se non un’esperienza sproporzionata di fraternità innanzi e dentro una dimensione ineluttabile dell’uomo, di ogni uomo, ossia alla morte? Più precisamente la solitudine nella morte: la minaccia dell’epidemia porta al confinamento, cioè all’isolamento. Non dobbiamo avvicinarci l’uno all’altro, toccarci l’un l’altro, dobbiamo lasciare che l’altro muoia a una certa distanza... Non possiamo nemmeno più praticare un minimo di quel rituale con cui la società accompagna le esequie. Dove sta dunque la fraternità? Nel fatto che non ci rassegniamo a tutto questo. Il senso ultimo dell’isolamento, ma anche delle misure di profilassi imposte, testimonia il rispetto spontaneo che nutriamo per la vita degli altri: non permettere a noi stessi di essere contaminati, 34
ma per non contaminare gli altri. Proteggendo il più possibile sé stessi, prendersi cura degli altri. Il personale medico e paramedico si dona al massimo, fino allo stremo, per servire i malati e i moribondi, e i volontari accorrono per aiutare a vivere o a morire altri uomini e donne che non conoscono, pur nei limiti delle proprie capacità. Coloro che non possono intervenire concretamente sono comunque dominati dalla convinzione che ogni uomo è un fratello al quale non va trasmessa la morte e per il quale, se è in pericolo, tutto deve essere tentato a spese della propria tranquillità e della propria sicurezza. Evidentemente questo servizio di fraternità è profondamente costoso: è necessario dedicare il proprio tempo, la propria fatica, la propria competenza. Tutto ciò avviene in modo relativamente semplice, perché è condiviso. Ma è anche necessario affrontare le disfunzioni di quel servizio: le politiche scelte non godono sempre dell’unanimità, gli approvvigionamenti necessari sono carenti o non sufficienti, le persone possono scontrarsi, alcuni pazienti non sono facili. L’esperienza della fraternità presenta quindi una doppia faccia: quella del dono di sé e quella del sostegno nelle difficoltà. 35
In definitiva, ci preoccupiamo di essere umani di fronte agli esseri umani. Forse in ciò consiste la fraternità: una sorta di convinzione radicata nel cuore di ogni uomo prima ancora che abbia le parole per esprimerla, vale a dire che l’uomo è importante, che è oggetto di rispetto, o ancora che è una storia sacra. Ne discende una legge, anch’essa immanente: «Ama l’altro come te stesso», con il suo reciproco, come diceva Paul Ricœur: «Ama te stesso come un altro». Che cosa si dovrà fare allora dopo la pandemia? Lavorare per stabilire, per ristabilire, la fraternità. Mantenerla come obiettivo nella ricostruzione della società: non come essa è stata prima perché, appunto, non era fraterna, ma come potrà diventare se i popoli capiranno la lezione.
Una Chiesa con gli uomini «Vangelo e Spirito». La formula consente di capire che la Chiesa, così percepita, ha un suo ruolo nel lavoro per stabilire la fraternità. In questo compito ci aspettiamo allora da essa (ma anche dalle religioni in generale) una sorta di conversione o spostamento della scala dei valori. Da rimedio per il peccato fondato su 36
un’istituzione forte, opponibile a tutte le altre, dobbiamo passare a una capacità positiva di costruire la fraternità umana. Da un atteggiamento esclusivo e ostile, giungere a un’apertura, a una comunicazione o persino a una collaborazione tra tutte le istituzioni. Passare dal denunciare l’errore (interno o esterno) a un incontro attivo per il bene. Non si tratta di rinunciare a ciò che caratterizza una religione, ma di trovare un modo per orientarlo verso un’umanità riconciliata. In questo senso, c’è qualcosa di provvidenziale (visto dal lato di Dio) e di profetico (dal lato dell’uomo) nelle due recenti iniziative in cui le religioni si sono incontrate. Assisi, 1986. Le religioni, nella persona dei loro responsabili, si sono incontrate per pregare. Hanno risposto all’invito di uno di loro per chiedere la pace. Erano insieme davanti alla Divinità. Lo hanno fatto, ciascuno secondo l’idea che aveva e i riti che praticava. Senza confusione né separazione, si sono rivolti a Dio. Ora, per queste religioni, il semplice fatto di venire ad Assisi implicava una sorta di impegno nel verificare che la loro azione è un percorso che promuove il cammino verso la pace. Abu Dhabi, 2019. Il grande imam Ahmadal-Tayyeb e papa Francesco hanno lanciato un 37
appello congiunto sulla «Fratellanza umana». Questi due uomini vi testimoniano insieme la loro fede in Dio creatore; ci vedono il fondamento della loro speranza per gli uomini. Poiché credono in Dio, possono prendersi cura insieme degli uomini e invocare una fratellanza universale, vale a dire affinché sia semplicemente consentito agli uomini di vivere o, detto in negativo, in modo che siano sradicate le pandemie sociali, politiche e culturali che ostacolano la vita e diffondono le culture della morte. Il fatto che l’invito di Assisi sia venuto dal vescovo di Roma e che la dichiarazione di Abu Dhabi implichi questo stesso vescovo, d’accordo con un grande imam, suggerisce che la Chiesa cattolica ha avviato un cambio considerevole di sguardo su se stessa. In realtà, ciò non sarebbe stato possibile senza il Concilio Vaticano II; di converso queste due prime iniziative ci consentono di capire meglio fino a che punto è andato il Vaticano II. Senza rinunciare alla sua fede nella salvezza universale in Gesù Cristo, la Chiesa rinuncia all’esclusività. Essa accetta di essere un mezzo, con altre Chiese, religioni, istituzioni non confessionali, di questa cultura attiva della fraternità. Essa vi vede la figura giusta del cammino dell’umanità verso il Regno 38
di Dio, che è precisamente la figura perfetta dello scambio fraterno tra tutti gli uomini, che sono tutti figli di Dio. Ma che ne è, allora, della salvezza in Gesù Cristo? La svolta non danneggia la convinzione che Dio salva tutti gli uomini per mezzo del mistero di Cristo, non conduce a minimizzare il dovere di evangelizzazione?
Evangelizzazione Evangelizzazione: questa parola impregna il vocabolario cristiano da almeno mezzo secolo. Qual è la sua vera natura?2 Nel passato si parlava più volentieri di missione. Questa aveva innanzi tutto come obiettivo quello di strappare gli uomini al peccato originale, e alla dannazione che ne consegue, annunciando loro direttamente il Credo cristiano e battezzandoli: essa era soprattutto dottrinale e sacramentale. Il mondo è perduto, in questo tempo e per sempre. La Chiesa è la nuova arca di Noè nella quale bisogna assolutamente entrare. La missione è la Quanto segue s’ispira al discorso di papa Francesco rivolto a un uditorio cattolico ed ecumenico, pronunciato nella cattedrale di Rabat (Marocco) il 31 marzo 2019. 2
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procedura d’urgenza: predicazione del Credo e battesimo. In seguito ci si dedicherà a favorire la perseveranza di coloro che si trovano dentro, attraverso l’osservanza dei comandamenti di Dio e di quelli della Chiesa. Oggi si pone come principio l’universalità effettiva della salvezza. Essa è già data, poiché il peccato è perdonato. Questo perdono, totale e definitivo, è tutto intero nella passione e resurrezione di Gesù, e nel dono dello Spirito inviato sul mondo dal Risorto. Tale mistero è compiuto una volta per tutte; è espressione della pura grazia di Dio. L’accesso a Dio e di conseguenza la reciprocità tra gli uomini sono già là. Non c’è più spazio per la coscienza infelice. L’evangelizzazione comporterà dunque tre risvolti, inseparabili, la cui gestione concreta dipende da un discernimento spirituale da mettere delicatamente in opera. Il primo risvolto è la vita nello Spirito della comunità cristiana. Innanzi tutto la preghiera, che rende una testimonianza comune della relazione a Dio, fondatrice di ogni sviluppo. In seguito, e al tempo stesso, l’amore per gli altri, la carità effettiva delle persone e delle comunità che si organizzano per questo, privilegiando i poveri. Poi tutte le forme di lavoro in vista della costituzione di un mondo in cui 40
gli uomini agiscano da fratelli, condividano le risorse della terra e i progressi della cultura, rendano semplicemente testimonianza ai valori che li fanno vivere in profondità: costruzione della fraternità concreta. Il secondo risvolto, di cui testimoniano gli eventi di Assisi e di Abu Dhabi, ma anche molti altri di minore portata nello spazio e nel tempo: la Chiesa ha smesso, in linea di principio, di essere sola. Essa non può né pensarsi né agire se non con le persone e le comunità. Vi era questa percezione già nei grandi documenti conciliari. Ad esempio, Lumen gentium aveva progressivamente incluso tutti gli uomini nel «popolo di Dio», a partire dalla sua pienezza nella comunità cattolica (14), poi nelle altre forme cristiane (15), infine negli altri uomini (16). Non c’è nessuno che sfugga alla Chiesa. Il decreto Nostra aetate fa un passo in più: considera positivamente la realtà delle religioni non cristiane e il loro diritto all’esistenza. Ma si tratta sempre di un ordine, le cui forme sono pensate a partire dalla forma perfetta, quella cattolica. Oggi si privilegia l’aspetto dinamico: ognuna delle componenti di questo ordine articolato è ormai considerata nella sua capacità di costruire la fraternità umana. Non si va a cercare prima un accordo dottrinale e liturgico, 41
ma un impegno comune sul cammino della fraternità da costruire. Dietro di ciò si trova il postulato per cui, se una comunità s’impegna sul terreno della fraternità, essa troverà sempre più il cammino della luce. Il terzo risvolto è la testimonianza esplicita resa al vangelo, la diffusione del Nome: quello del Padre, quello di Gesù nella sua persona e nella sua opera, quello dello Spirito all’opera nel mondo. Questa testimonianza è tanto più ricevuta, quanto più dà una figura e un volto personali alla fraternità messa in opera.
Istituzione Il problema che l’istituzione della Chiesa oggi pone è che, anche se essenzialmente risale all’iniziativa di Gesù Cristo, essa è stata costruita e si è sviluppata nel quadro che ho descritto sopra, dell’uscita dal peccato e della difficile perseveranza nella giustizia. Questo (insieme ad altri fattori) ha portato a mettere l’accento sulla necessaria verità3 delle parole e Ho cercato (insieme a molti altri) di riflettere su tali questioni in due volumetti pubblicati di recente: Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, EDB, Bologna 2017, e Un cattolicesimo diverso, EDB, Bologna 2019. 3
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dei comportamenti e sulla trascendenza della rivelazione e, d’altro canto, sull’ordine gerarchico di preferenza che deve presiedere all’azione. In altri termini, l’istituzione ecclesiale è stata formata e riformata all’insegna del principio «Chiesa, cioè fede e sacramenti». Ora, se si vuole onorare il principio «Chiesa, cioè vangelo e dono dello Spirito», bisogna accettare un nuovo modo di fare e di comprendere: il modo di dire la fede, quello di celebrare e di pensare la liturgia, quello di assicurare il governo. Le resistenze su questi punti sono così forti che esse rischiano di indebolire la potenza del vangelo e le spinte dello Spirito. Chissà se il trauma della pandemia non vincerà queste resistenze?
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A proposito di questo volume
L’esperienza della pandemia tra crisi e opportunità. Tre pastori e teologi – un vescovo, un professore e un monaco – rileggono il tempo sospeso della recente crisi mondiale attraverso la lente del mistero pasquale, dalla «cattedra del sepolcro» di Gesù illuminato dalla novità della risurrezione. Non c’è dubbio che la Chiesa abbia vissuto in questi mesi, fra contraddizioni e polemiche, una vera creatività. La maggior parte delle comunità è stata capace di prossimità, ha formulato proposte di annuncio, celebrazione, fraternità e preghiera; l’esperienza della Chiesa domestica si è rivelata nuovamente uno spazio praticabile. Questa fioritura straordinaria è una ricchezza da riconoscere e da non disperdere. Perché è un segno eloquente dell’opera dello Spirito, che spinge la Chiesa a proseguire il rinnovamento della sua teologia, dei suoi linguaggi e delle sue prassi avviato con il Concilio Vaticano II, donandole a ogni tornante della storia un nuovo e profetico slancio. 44
Gli autori
Erio Castellucci, arcivescovo di ModenaNonantola, ha insegnato Teologia sistematica alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, della quale è stato anche preside. Si è occupato come parroco a Forlì di animazione vocazionale e giovanile, e di formazione dei diaconi. Attualmente è Presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi. Con EDB ha pubblicato di recente La tua Parola mi fa vivere (2017), Il sale e la luce (2018), Lettera di un vescovo a don Milani (2019). «Con timore e gioia grande». Commento ai Vangeli festivi. Anno A (2019), Don Milani e il Concilio (2019), Il dono senza misura. Via Crucis (2020), e ha curato La cera di Ulisse e la cetra di Orfeo. Un adolescente alla scoperta dell’amore (2020). Tomáš Halík, sacerdote ceco, nato a Praga nel 1948, ha studiato filosofia, sociologia e psi45
cologia prima di essere espulso dall’università e perseguitato come nemico del regime comunista cecoslovacco. Ordinato clandestinamente prete, è stato collaboratore e consigliere del presidente Vaclav Havel. Insegna filosofia e sociologia della religione all’Università Carlo di Praga. Tra le sue opere recenti tradotte in italiano: La notte del confessore. La fede cristiana in un tempo di incertezza (Paoline 2013); Voglio che tu sia. L’amore dell’altro e il Dio cristiano (Vita e Pensiero 2017); Pazienza con Dio (Vita e Pensiero 2020) e l’e-book Il segno delle chiese vuote (Vita e Pensiero 2020). Ghislain Lafont, monaco benedettino francese del monastero La Pierre-qui-Vire, ha insegnato alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Tra le sue opere recenti: La teologia tra rivelazione e storia. Introduzione alla teologia sistematica (con R. Fisichella e G. Pozzo, EDB 1999); Eucaristia. Il pasto e la parola (Elledici 2002); Che cosa possiamo sperare? (EDB 2011); La Chiesa: il travaglio delle riforme. Immaginare la Chiesa cattolica (San Paolo 2012), Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco (EDB 2017), Un cattolicesimo diverso (EDB 2019). 46