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Italian Pages 228 [117] Year 2019
La millenaria storia dell’impero di Bisanzio ha avuto continui punti di contatto con quella dell’Occidente, basti pensare alla presenza dei bizantini in Italia, dove restarono come dominatori dal VI all’XI secolo. I rapporti si fecero poi conflittuali fino a giungere nel 1204 alla quarta crociata, allorché veneziani e crociati si impossessarono di Costantinopoli. Nel Trecento l’atteggiamento dell’Occidente, e soprattutto di Venezia, fu più accondiscendente nei confronti di Bisanzio, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei Turchi ottomani. Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, ma le discordie fra gli stati europei e la potenza dei Turchi condussero fatalmente alla fine dell’impero nel 1453.
Giorgio Ravegnani insegna Storia medievale e Storia dell’Italia bizantina nell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Fra i suoi numerosi libri per il Mulino segnaliamo "Andare per l’Italia bizantina" (2016), "Galla Placidia" (2017), "Imperatori di Bisanzio" (nuova ed. 2017), "I bizantini in Italia" (nuova ed. 2018).
Giorgio Ravegnani
Bisanzio e l'Occidente medievale
Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2019 ISBN 9788815283160 Edizione e-book 2019, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 9788815352194
Indice Premessa Capitolo primo L’Età di Giustiniano Capitolo secondo L’Italia esarcale Capitolo terzo Bisanzio nell’Italia meridionale Capitolo quarto Venezia e Bisanzio Capitolo quinto L’Invadenza dell’Occidente Capitolo sesto La quarta crociata e l’impero latino Capitolo settimo
Il declino di Bisanzio Cronologia Nota bibliografica Indice dei nomi
Premessa La storia di Bisanzio a tutt’oggi non ha il posto di rilievo che meriterebbe nella vicenda del Medioevo. I Bizantini e l’impero bizantino in realtà non sono mai esistiti se non come categoria storiografica: si trattava infatti della metà orientale dell’impero romano, che di questo fu parte inscindibile fino a quando i destini delle due parti non iniziarono a separarsi, con un Occidente destinato a crollare sotto i barbari e un Oriente che al contrario sopravvisse per molti secoli ancora. Bisanzio non fu una realtà astratta e un cosmo a sé stante, inseritosi chi sa come nella storia; ereditò al contrario tutto quanto era romano, senza soluzione di continuità, e lo conservò gelosamente nel corso del tempo, sia pure con gli adattamenti che il trascorrere di questo talvolta richiedeva. I suoi sovrani si definivano imperatori romani e Romani erano chiamati i loro sudditi, che rifuggivano altre designazioni, come Greci o Elleni, considerate dispregiative, e men che mai utilizzarono quella per loro inesistente di Bizantini, valida al massimo per gli abitanti di Bisanzio, l’antica città greca che dal tempo di Costantino I prese il nome di Costantinopoli. Altro pregiudizio da sfatare è che Bisanzio sia stato un mondo chiuso, anche nella ripetitiva ritualità delle sue cerimonie, lontano dall’Occidente e refrattario a qualsiasi contatto con questo. In realtà la più che millenaria storia dell’impero di Bisanzio ha continui punti di contatto con quella dell’Occidente, di cui molto spesso è parte integrante. I Bizantini furono presenti come dominatori soprattutto in Italia, dove restarono per più di cinque secoli, dapprima in possesso dell’intera regione, poi di parte di questa a seguito dell’invasione longobarda della penisola e infine soltanto del Meridione, in cui diedero vita a una brillante civiltà, fino a quando nell’XI secolo i Normanni li cacciarono. La memoria della loro presenza in Italia non è certo ampia come quella di Roma; non mancano tuttavia testimonianze dirette o indirette, visibili soprattutto in campo artistico, come per esempio nei celebri mosaici di Ravenna, che ne sono l’attestazione più alta. Una volta terminato il dominio diretto, i rapporti con l’Occidente non vennero mai meno, anche se furono per lo più di natura conflittuale, come i ripetuti attacchi normanni all’impero o le crociate, che ebbero come corollario una sorda ostilità dell’Occidente nei confronti di Bisanzio. Diverso fu almeno in parte il caso di Venezia, città nata sotto il dominio di Costantinopoli e che con questa mantenne un rapporto particolare, per lo più di collaborazione, fino almeno al XII secolo, subendone fortemente l’influsso in diversi campi. Nel 1204, con la quarta crociata, si raggiunse l’apice dell’ostilità occidentale all’impero di Oriente: Veneziani e cavalieri crociati, anziché dirigersi in Terra Santa, si impossessarono infatti di Costantinopoli, che fu messa a sacco, e di parte del territorio da questa dipendente. Si formò così un impero latino con sede nella capitale e sorsero nello stesso tempo, in Grecia e altrove, altri stati latini che sostituirono la precedente dominazione; a questi si affiancò un dominio marittimo veneziano destinato almeno in parte a durare per parecchio tempo. Si trattò innegabilmente di un atto di dubbia moralità, poiché Bisanzio, ancorché scismatica, era pur sempre una città cristiana; ma era discutibile anche sotto il profilo politico, perché la spedizione crociata, benedetta dal papa per andare a liberare i luoghi santi, si rovesciò al contrario
su uno stato che con gli infedeli nulla aveva a che spartire. La città imperiale venne riconquistata nel 1261 dagli esuli bizantini, che ricostruirono così il loro impero sia pure fortemente diminuito nel territorio e minacciato dalle potenze occidentali in cerca di rivincita. Le due vicende storiche di Oriente e Occidente continuarono, come era avvenuto in precedenza, a interferire una con l’altra, mostrandosi una volta in più come inscindibili. Particolarmente attive in Levante divennero le repubbliche marinare di Genova e Venezia, che perseguivano le loro ambizioni di dominio per lo più ai danni di Costantinopoli, con cui erano sia alleate sia nemiche, a seconda delle contingenze del momento. L’atteggiamento ostile dimostrato a più riprese andò però esaurendosi nel Trecento quando l’Occidente, e soprattutto Venezia, divennero più accondiscendenti nei confronti di Costantinopoli, considerata un avamposto della cristianità contro la montante marea dei Turchi ottomani. Vennero di conseguenza forniti aiuti militari, sia pure insufficienti e sporadici, ma le discordie degli stati europei e la potenza dei Turchi condussero fatalmente alla caduta dell’impero, nonostante i disperati tentativi fatti dagli ultimi sovrani per tenerlo in vita, e questo alla fine cadde nel 1453 quando il sultano Maometto II si impossessò di Costantinopoli, mettendo così fine alla secolare successione di governanti romani.
Capitolo primo
L’Età di Giustiniano 1. La fine dell’Occidente romano La caduta dell’impero romano di Occidente, convenzionalmente datata al 476, è un avvenimento che ha impressionato più gli storici moderni di chi lo visse di persona. Non ne sappiamo in realtà molto, perché le fonti per l’epoca sono assenti o reticenti, ma vi sono buoni motivi per credere che l’evento abbia lasciato abbastanza indifferenti i contemporanei. Di quello che era stato l’impero di Roma era infatti rimasta la sola penisola italiana, insieme a qualche altro frammento di territorio, e da un ventennio i sovrani si succedevano senza di fatto governare quasi più nulla. Morto Valentiniano III nel 455, l’ultimo esponente della dinastia teodosiana, il trono era stato conteso infatti da avventurieri di varia origine, non all’altezza del ruolo e per di più condizionati dai reali detentori del potere, ossia i generali barbari. Subito dopo Valentiniano divenne imperatore un losco personaggio di nome Petronio Massimo, un senatore romano, che riuscì a comprare il favore dei soldati di stanza a Roma. Insediatosi il 17 marzo del 455, finì ingloriosamente la sua esistenza un mese e mezzo più tardi quando i Vandali provenienti dall’Africa, approfittando del vuoto di potere che si era creato, andarono ad assediare Roma. Di fronte al pericolo incombente, l’imperatore non seppe pensare di meglio che fuggire: salì a cavallo e tentò di allontanarsi, ma gli andò male perché fu riconosciuto e ucciso dalla folla inferocita, che ne fece a pezzi il cadavere gettandolo poi nel Tevere. Roma venne messa a sacco dai barbari (era la seconda volta dopo la conquista visigota del 410) e la confusione che seguì la vicenda fece sì che il trono restasse vacante per qualche settimana, finché ad Arles, in Gallia, fu eletto un generale di nome Flavio Eparchio Avito. Il suo nome venne proposto dalla nobiltà locale; la designazione fu però resa possibile dall’appoggio di Teodorico II, re dei Visigoti che ormai stabilmente governavano una regione un tempo appartenuta all’impero. Avito si diede da fare senza grande successo per ristabilire il prestigio di Roma e commise l’imprudenza di nominare generale dell’impero il barbaro Flavio Recimero, un illustre personaggio fra la sua gente, in quanto discendente di uno svevo e di una figlia del re visigoto Vallia. Recimero era animato da
un’ambizione smodata e subito si adoperò per togliere di mezzo il suo imperatore insieme al comes domesticorum Maggioriano, un altro aristocratico di origine gallica, che come tale comandava un reparto della guardia palatina. Il risultato fu una guerra civile combattuta in Italia: il 17 settembre del 456 il patrizio Remisto, fedele all’imperatore, venne tolto di mezzo a Classe e un mese più tardi fu la volta di Avito, sconfitto a Piacenza e costretto a divenirne vescovo. Erano tempi crudeli, ma stranamente gli fu risparmiata la vita; qualche tempo dopo, tuttavia, mentre cercava di ritornare in Gallia morì durante il viaggio, non si sa se di morte naturale o assassinato. Il trono fu quindi di Maggioriano, o piuttosto di Recimero, che per alcuni anni ebbe saldamente in mano il potere effettivo: essendo un barbaro, non poteva pretendere di diventare imperatore, secondo la mentalità del tempo, e si servì quindi di docili prestanome. Ottenne il rango di patrizio, tradizionalmente portato negli ultimi tempi dell’impero dai generali che lo dominavano, mentre Maggioriano fu proclamato imperatore dalle truppe ed eletto dal senato romano dopo diciotto mesi in cui non vi era stato alcun sovrano (il 28 dicembre del 457). Il nuovo imperatore, a dire il vero, cercò di essere all’altezza del suo ruolo: con alcune buone leggi si adoperò per ristabilire le fortune di Roma e in seguito ebbe l’idea di riconquistare l’Africa, sottratta alcuni anni prima dai Vandali. Mise insieme un grande esercito, composto come usava allora per lo più da mercenari barbarici, e dall’Italia raggiunse la Spagna dove, a Cartagena, doveva attenderlo la flotta. Il re vandalo Genserico, forse il più capace condottiero dell’epoca, fu comunque più abile di lui e fece naufragare i suoi sogni, sconfiggendolo. Maggioriano, impossibilitato a proseguire, rientrò quindi in Italia, ma trovò sul suo cammino Recimero, che non lo aveva seguito in campagna e che nell’agosto del 461 lo catturò all’altezza di Tortona per farlo uccidere subito dopo. Maggioriano evidentemente si era mostrato troppo attivo per i gusti del barbaro, che di conseguenza aveva pensato bene di sbarazzarsene. Questa serie di eventi sembrava abbastanza paradossale: l’impero, benché in agonia, era ancora in grado di riesumare energie imprevedibili, di lottare per la propria sopravvivenza e di emanare buone leggi, anche se è da ritenere che mai siano state messe in pratica. L’effettiva capacità di esercitare il potere si era però spostata dai Romani ai barbari e, se anche l’esercito di barbari del sovrano sembra essere stato fedele, non altrettanto lo fu il suo generale, assolutamente privo com’era di ogni senso dello stato e intenzionato soltanto a far valere la propria smisurata sete di dominio. Recimero era così diventato il padrone incontrastato di ciò che restava dell’Occidente e al posto del defunto imperatore il 19 novembre del 461 fece eleggere a Ravenna il senatore Libio Severo, un insulso fantoccio originario della Lucania, che morì di morte naturale il 14 novembre del 465 senza nulla aver fatto. Dopo di lui fu la volta del senatore Antemio, figlio di un illustre generale dell’Oriente, che Recimero dovette digerire nonostante lo detestasse. Fu proclamato imperatore in prossimità di Roma il 12 aprile del 467: le sue velleità di regnare non furono però durature e nel 471 si arrivò a una nuova guerra civile, conclusasi l’anno dopo con la sconfitta del sovrano in carica e la sua sostituzione con Olibrio, un’altra creatura del generale barbaro. Nel frangente Roma venne nuovamente messa a sacco dalle soldatesche di Recimero (luglio del 472) e Antemio, «eroico» come Petronio Massimo, fu ucciso dalla folla mentre cercava di fuggire dall’Urbe travestito da mendicante. Recimero e Olibrio ebbero il buon gusto di morire entrambi di lì a poco, anche se l’imperatore di cartapesta prima di andarsene nominò patrizio il principe burgundo Gundobad, nipote e successore di Recimero nel controllo dello stato. Gundobad fece innalzare al trono a Ravenna il comes domesticorum Glicerio (5 marzo del 473), spodestato nella primavera dell’anno seguente dal magister militum Dalmatiae Giulio Nepote che attaccò l’Italia con una flotta. Ma neanche questo sovrano riuscì a consolidare il proprio potere: il suo magister militum Oreste il 28 agosto del 475 si ribellò a Ravenna e lo costrinse a fuggire in Dalmazia. Anziché farsi proclamare imperatore, tuttavia, costui preferì che fosse incoronato il proprio figlio Romolo, il quale sul trono assunse anche il nome di «Augusto», storpiato però in Augustolo a motivo della sua giovane età. Oreste aveva il governo effettivo, ma si trovò presto a contendere con un generale barbaro, il comes domesticorum Odoacre, messosi a capo dei mercenari stranieri di stanza in Italia, che a quel tempo costituivano pressoché la totalità dell’esercito di Roma. Questi chiesero per sé un
terzo delle terre italiche e, di fronte al rifiuto di Oreste, si ammutinarono a Pavia il 23 agosto del 476 proclamando Odoacre loro re. Oreste si rifugiò a Pavia, ben presto assediata ed espugnata dai ribelli; riparò quindi a Piacenza, dove le sue poche truppe furono sbaragliate, e venne quindi messo a morte. In seguito Odoacre si impadronì di Ravenna uccidendo Paolo, il fratello di Oreste, da cui era difesa, e facendo prigioniero Romolo Augustolo, che fu deposto (il 4 settembre del 476); forse in ragione della giovane età, venne però risparmiato e relegato nel castellum Lucullanum in prossimità di Napoli. Ebbe un trattamento di favore: gli fu concessa una sostanziosa pensione annua e visse verosimilmente in una prigionia dorata. Era forse ancora in vita nel 511; di fatto però non si sente più parlare di lui e non si sa quale sia stata la sua fine. Odoacre era probabilmente uno sciro, ossia un germano orientale, e all’epoca in cui assunse il potere doveva avere all’incirca quarantatré anni. A differenza dei barbari suoi predecessori nel supremo comando militare, rinunciò alla farsa di fare eleggere un sovrano fantoccio e rimandò le insegne imperiali a Costantinopoli, chiedendo al titolare del trono di Bisanzio, Zenone, la dignità di patrizio e l’autorizzazione a governare per suo conto l’Italia. La richiesta era alquanto ambigua, ma non faceva una piega dal punto di vista giuridico. L’impero romano, malgrado la divisione delle due parti fosse divenuta permanente dall’anno 395, era ritenuto unico e, se mancava un titolare del trono in Occidente, il collega orientale era in teoria l’unico detentore del potere. I Romani di Oriente non erano stati a guardare di fronte all’agonia dell’altra metà dell’impero e nel corso del V secolo avevano in alcune occasioni fatto sentire la loro voce. Nel 409 un contingente di quattromila uomini era stato inviato a Ravenna per dare aiuto a Onorio minacciato dai Visigoti e, di nuovo, nel 425 truppe bizantine erano arrivate in Italia per deporre l’usurpatore Giovanni e portare al potere il giovane Valentiniano III, erede della dinastia teodosiana. Negli anni che seguirono i Bizantini non intervennero però con altrettanta decisione nelle faccende dell’Occidente, limitandosi a inviare rinforzi militari al patrizio Ezio, il generale a capo dell’Occidente romano, impegnato nel 452 a contrastare l’attacco di Attila in Italia. Durante la serie degli ultimi imperatori non presero altre iniziative così dirette, ma non di meno intervennero nella loro designazione, forti del potere di legittimazione che la titolarità del trono dava loro, per completare la scelta fatta in Occidente. Costantinopoli non riconobbe formalmente gli imperatori sgraditi o, come nel caso di Maggioriano nel 457, ne ritardò a lungo il riconoscimento. In due casi invece si intromise con maggiore determinazione: nel 465 fu imposto Antemio Procopio, che Recimero fu costretto a subire soltanto perché bisognoso dell’appoggio bizantino per far fronte ai Vandali, anche se l’operazione militare congiunta dell’Oriente e dell’Occidente tentata nel 468 contro questo popolo si risolse in un completo disastro. E ancora nel 474 Leone I da Costantinopoli designò imperatore Giulio Nepote in antagonismo a Glicerio, elevato al trono da Gundobad. Dopo la sconfitta di quest’ultimo Gundobad abbandonò il campo, recandosi in Gallia dove fu acclamato re di parte dei Burgundi, ma questa sua uscita di scena e la vittoria su Glicerio non risolsero i problemi dell’Occidente. Oreste a sua volta non ottenne l’assenso di Costantinopoli e, dopo aver atteso un paio di mesi, alla fine proclamò imperatore Romolo Augusto, che quindi dal punto di vista bizantino era un sovrano illegale. L’autorità di Zenone, che sedeva sul trono di Bisanzio quando l’Occidente crollò, era essa stessa alquanto traballante, visto che nel settembre del 476 aveva da poco recuperato il trono dopo esserne stato rimosso da un usurpatore l’anno precedente; non disponeva di conseguenza delle forze necessarie per poter cambiare il corso degli avvenimenti, ammesso che lo volesse fare, e si limitò a sollevare questioni di natura diplomatica. Rispose infatti all’ambasceria di Odoacre che la concessione era di competenza di Giulio Nepote, considerato da Costantinopoli quale imperatore legittimo. Odoacre, sostenuto tra l’altro dal senato di Roma, non si lasciò pregare, riconobbe formalmente l’autorità di Nepote e fece coniare monete in suo nome, guardandosi bene però dal farlo rientrare in Italia. Lo stesso Zenone si adeguò alla nuova situazione e, scrivendo a Odoacre, in una missiva privata lo chiamò con il titolo di patrizio, congratulandosi con lui per aver preservato lo stato romano.
La deposizione di Romolo Augustolo è comunemente ritenuta la fine dell’impero di Occidente, anche se questa da alcuni è posticipata al 480, quando Giulio Nepote venne assassinato in Dalmazia. Ma a ben guardare significò soltanto l’interruzione della successione imperiale: Odoacre, salito al potere con la forza come altri suoi predecessori, avrebbe potuto nominare un sovrano prestanome ma non lo fece, forse perché riteneva conclusa la vicenda imperiale o, più probabilmente, perché la presenza di un sovrano poteva suscitare come in passato guerre civili pericolose per il proprio personale potere. Per quanto a noi possa sembrare strano, inoltre, nella mentalità dei contemporanei l’impero continuava a esistere nella persona di Zenone, all’ombra della cui autorità il generale barbaro si limitava a esercitare un’autorità delegata. Gli stessi contemporanei non avvertirono la frattura e il cambio di governo passò sotto silenzio fino al secolo successivo quando, sull’onda della riconquista giustinianea, gli storici iniziarono a rimarcarla. Il comes Marcellino, autore di un Chronicon che giunge fino al 534, è per esempio molto preciso in merito: «l’impero romano – egli scrive infatti – perì con questo Augustolo e da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai Goti». Odoacre fu un buon governante e si adoperò per rispettare le tre principali istituzioni dell’epoca: l’impero di Costantinopoli, il senato di Roma e la chiesa cattolica. Finì però per mettersi in urto con Zenone, appoggiando a quanto pare anche il ribelle Illo che intendeva rimuoverlo dal trono. Fu l’inizio della sua fine: nel 488 il sovrano bizantino offrì a Teodorico l’Amalo, re degli Ostrogoti, di insediarsi in Italia se fosse riuscito a rimuovere Odoacre. Teodorico era a capo di genti germaniche insediate nell’impero di Oriente che a lungo avevano mantenuto un atteggiamento ora collaborativo e ora ostile verso Costantinopoli; nei periodi in cui l’alleanza con lui era stata solida, Zenone lo aveva insignito del rango di patrizio e della carica di generale (magister militum praesentalis), concedendogli perfino nel 484 l’elevatissima dignità di console. Teodorico e i suoi Goti erano comunque un peso per l’impero, che faticava a tenerli sotto controllo, e rappresentavano il colpo di coda dell’influenza germanica su Bisanzio contro cui i sovrani di Costantinopoli si erano battuti a più riprese nel V secolo. Con una notevole accortezza, tipica peraltro della diplomazia dell’Oriente romano, Zenone pensò quindi di sbarazzarsi in un colpo solo dell’incomodo alleato e di Odoacre. Nell’autunno del 488 lo spedì quindi in Italia con tutto il suo popolo, la cui consistenza viene valutata dagli storici fra le cento e le duecentomila anime. Teodorico, una volta in Italia, vinse Odoacre in battaglia e lo costrinse a chiudersi in Ravenna, dove si arrese nel 493 dopo tre anni di assedio: il vincitore gli aveva promesso di risparmiargli la vita, ma lo uccise subito dopo. Teodorico governò l’Italia come re degli Ostrogoti e questa sua qualifica fu riconosciuta da Costantinopoli: l’imperatore Anastasio I nel 497 gli trasmise le insegne imperiali che Odoacre aveva inviato a Zenone, ma ciò nonostante egli non pensò a fregiarsi del titolo di Augusto. Il suo lungo governo fu, a giudizio di molti storici, un periodo felice per l’Italia: si mantenne nei principi stabiliti da Odoacre di rispetto della romanità e attuò nello stesso tempo una proficua collaborazione con l’aristocrazia senatoria. Promosse inoltre importanti opere pubbliche, come il palazzo o la basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna e numerose altre ancora, che diedero lustro al suo governo. Ma l’idillio con i Romani era destinato a interrompersi bruscamente quando, dopo la morte di Anastasio I, nel 518 salì al trono Giustino I, un anziano generale illirico sotto il quale cominciò ad avvertirsi un nuovo orientamento politico. La conduzione della cosa pubblica, sotto Giustino I, di fatto faceva capo al nipote Flavio Sabbazio, che aveva assunto il nome di Giustiniano dopo essere stato adottato dallo zio. Giustino I, che a differenza del predecessore era un cristiano di fede ortodossa, prese provvedimenti contro il culto ariano professato da Teodorico e dai suoi Goti, come dalla maggior parte dei popoli germanici. Teodorico, già sospettoso dell’attivismo di Giustiniano e dell’aristocrazia senatoria, in cui vedeva potenziali alleati di Costantinopoli, perse letteralmente la testa, a causa forse anche dell’età ormai avanzata, e rovinò con errori madornali la politica di sostanziale moderazione seguita fino a quel momento. Il re adottò provvedimenti contro il culto cattolico e molti Romani eminenti vennero arrestati o uccisi.
I casi più noti della persecuzione furono quelli che riguardarono il papa Giovanni I e i due senatori Boezio e Simmaco. Nel 525 Teodorico inviò una legazione a Costantinopoli guidata da Giovanni I, ma al ritorno, insoddisfatto per come erano andate le cose e timoroso che il papa sostenesse i nazionalisti romani avversi ai Goti, lo fece incarcerare; il pontefice morì in prigionia nel maggio del 526. Nello stesso anno inoltre mise a morte il famoso filosofo Severino Boezio; dopo di lui, la stessa sorte toccò al suocero Quinto Aurelio Simmaco. L’accusa di tradimento era probabilmente falsa, ma l’errore politico fu notevole: Teodorico rovinava così la sua trentennale costruzione politica volta a rendere accettabile il dominio barbarico nell’Occidente romano e rafforzava, nello stesso tempo, le resistenze che a questo opponeva l’aristocrazia romana, la quale ora guardava a Giustiniano come al difensore della propria causa. Lasciò così un’eredità disastrosa ai suoi successori quando, il 30 agosto del 526, si spense a Ravenna a poco più di settant’anni di età.
2. La riconquista giustinianea Giustino I morì il 1o agosto del 527, quattro mesi dopo aver associato al trono Giustiniano il quale, investito da lui del rango di augusto, gli subentrò quindi automaticamente secondo la prassi costituzionale del tempo. Giustiniano come lo zio proveniva da una modesta famiglia dell’Illirico, ma diversamente da lui, che era analfabeta, aveva studiato, soprattutto diritto e religione, per prepararsi al governo dello stato. Era allora un uomo brillante di quarantacinque anni, già sposato con la famosa Teodora, nonostante lo scandalo che aveva suscitato a corte l’unione del principe ereditario con un’attrice. La figura di questo sovrano è una delle più controverse della storia e l’attività che esercitò al servizio dell’impero ebbe sicuramente del prodigioso. Giustiniano cercò di rinnovare e, nello stesso tempo, di rafforzare lo stato con una serie di provvedimenti e di riforme che datano per lo più ai primi anni del suo regno. Si impegnò inoltre in un ambizioso programma di riconquista dei territori appartenuti all’ex impero di Occidente, recuperandone circa un terzo con lunghi anni di guerre: portò così Bisanzio a un’estensione in seguito mai più raggiunta. A tale programma di restaurazione della potenza romana Giustiniano fu spinto dalla necessità di ricostruire l’unità del bacino mediterraneo, in parte sfuggito al controllo imperiale, ma anche da forti convinzioni ideologiche: nonostante le sue umili origini, si sentiva profondamente romano e considerava suo dovere la riconquista dei territori imperiali perché, secondo le concezioni mistico-politiche legate alla sovranità bizantina, era convinto che tale compito gli fosse stato affidato da Dio, dal quale riteneva come ogni sovrano di Bisanzio di aver ricevuto il potere. Quando divenne imperatore si trovò coinvolto in una fastidiosa guerra con i Persiani ereditata dallo zio. Non aveva intenzione di impegnarsi sul lontano e sterile fronte orientale e cercò di concluderla nel più breve tempo possibile, arrivando nel 532 a una «pace perpetua» (che di perpetuo avrebbe avuto solo il nome), anche se con un notevole esborso per l’erario. Non aveva velleità di misurarsi con un popolo così potente e, piuttosto, si preparava a dar vita al suo grande sogno di riconquista dell’Occidente romano. Il primo obiettivo fu l’Africa, che i Vandali avevano sottratto a Roma da più di un secolo: nonostante le difficoltà dell’impresa e il parere contrario dei suoi ministri, Giustiniano fu irremovibile e si lanciò nell’avventura affidando il comando di un’armata a Belisario, il migliore generale del tempo, che già aveva combattuto contro i Persiani. L’impresa era sicuramente da considerarsi a dir poco pazzesca: la regione non era raggiungibile via terra per l’impossibilità di rifornire un esercito in terreni desertici e, sul mare, i Vandali erano una potenza temibile. Unico popolo germanico ad avere acquisito ampie competenze marinare, i Vandali avevano infatti terrorizzato con le loro incursioni il morente impero di Roma: nel 455, come si è visto, avevano preso Roma e tredici anni più tardi erano riusciti a distruggere la poderosa flotta inviata contro di loro. Ma secondo il celebre detto per cui la fortuna premia gli audaci, le cose per i Bizantini
andarono al di là di ogni più rosea previsione: le navi nemiche non intervennero, perché impegnate altrove, e le forze di terra vennero facilmente sbaragliate da Belisario in due battaglie campali. La campagna africana iniziò nel 533 con la partenza di una grande flotta imperiale al comando di Belisario, che gettò le ancore sulla costa tunisina presso il promontorio di Caput Vada (oggi Rass Kaboudia). Nell’arco di un anno il corpo di spedizione bizantino ebbe ragione dei Vandali, il cui ultimo re Gelimero fu condotto in prigionia a Costantinopoli. Nel 534 Giustiniano riorganizzò l’amministrazione civile e militare della provincia che, però, soltanto in parte raggiungeva i confini dell’antica Africa romana. Il governo civile faceva capo a un prefetto del pretorio e la suprema autorità militare spettava a un magister militum con cinque duces ai suoi ordini, quattro in Africa e un quinto in Sardegna, che fu annessa al nuovo governatorato. Negli anni successivi l’Africa bizantina fu tuttavia agitata da sedizioni militari e da rivolte degli indigeni Mauri, che i generali di Giustiniano domarono faticosamente. Fu quindi la volta dell’Italia ostrogota, riconquistata con un sanguinoso conflitto, comunemente definito guerra gotica o greco-gotica, che durò dal 535 al 552, ma ebbe poi strascichi per un altro decennio. Qui, dopo la morte di Teodorico, il trono era passato al giovane nipote Atalarico, in nome del quale assunse la reggenza la madre Amalasunta. Atalarico era stato educato alla maniera romana, con grande disappunto dei Goti più nazionalisti che alla fine lo sottrassero alla madre per farlo diventare un guerriero. Atalarico non sopravvisse a lungo al cambiamento di vita, morendo a sua volta nel 534 e Amalasunta, per consolidare il suo potere, si associò al trono il cugino Teodato. Teodato però si accordò con i Goti avversi alla regina, che seguiva una politica filoromana, e nel 535 la depose facendola imprigionare in un’isola del lago di Bolsena, dove fu strangolata per suo ordine qualche tempo più tardi. Giustiniano era alleato di Amalasunta e la sua eliminazione gli fornì il casus belli per intervenire in Italia, subito dopo la riconquista dell’Africa vandalica. Nel giugno 535 una flotta imperiale ancora al comando di Belisario, investito dal suo sovrano come già in Africa del grado di «generalissimo», raggiunse la Sicilia sbarcando un piccolo corpo di spedizione di circa diecimila uomini in prossimità di Catania. Nello stesso tempo un altro esercito imperiale attaccò i possedimenti goti in Dalmazia. Gli Ostrogoti si fecero cogliere alla sprovvista e Belisario occupò la Sicilia incontrando soltanto una breve resistenza a Palermo. La maggior parte delle forze gotiche era infatti dislocata nell’Italia settentrionale e i generali imperiali ebbero buon gioco sfruttando il fattore sorpresa. Belisario si fermò in Sicilia per tutto l’anno 535, attendendo qui gli ordini del suo sovrano, che nel frattempo aveva avviato trattative diplomatiche con Teodato per convincerlo ad accordarsi con l’impero. Le trattative non andarono a buon fine e nel 536 Belisario superò lo stretto, proseguendo le operazioni militari. Risalì la penisola lungo la costa e non incontrò resistenza fino a Napoli, dove i cittadini e i Goti di presidio rifiutarono di arrendersi. La città venne tuttavia espugnata dopo una ventina di giorni di assedio e subì un feroce saccheggio da parte delle truppe imperiali. Questo fatto di sangue, cui Belisario aveva inutilmente tentato di porre freno, fece molta impressione in Italia e destò un forte malcontento nei confronti dei Bizantini che, come già in Africa, ambivano invece a presentarsi come i liberatori delle popolazioni romane dal dominio barbarico. Non fu comunque che l’anticipazione di quanto sarebbe avvenuto in seguito, in parallelo all’inasprirsi del conflitto. La caduta di Napoli portò anche alla fine del regno di Teodato: irritati per la sua inazione, che si sospettava dovuta al tradimento, i Goti si riunirono vicino a Terracina e lo deposero, nominando al suo posto un generale di nome Vitige. Teodato, che si trovava a Roma, cercò di fuggire a Ravenna, ma fu raggiunto e ucciso da un emissario del nuovo re. Vitige lasciò a Roma un presidio di quattromila uomini e, di qui, si recò a Ravenna per riorganizzare le forze gotiche. Belisario a sua volta raggiunse Roma e la occupò senza incontrare resistenza. Il 9 dicembre del 536 gli imperiali entrarono in città e subito dopo Belisario si preoccupò di consolidare le mura aureliane e di fare tutti i preparativi necessari a sostenere un assedio. Nel febbraio del 537 alcune migliaia di Ostrogoti (150 mila secondo uno storico del tempo, ma in pratica dovevano essere un quinto di quella cifra) calarono dal Nord e andarono a
mettere l’assedio a Roma. Belisario si trovò a mal partito: disponeva soltanto di cinquemila uomini, insufficienti per custodire una città così grande; le mura erano espugnabili in più punti e la popolazione mal si adattava ai disagi, con il rischio conseguente di un tradimento. Ciò malgrado, riuscì a difendere la città e, dopo un assedio durato un anno, ebbe ragione dei nemici. La battaglia per Roma è l’episodio bellico più significativo della prima fase del conflitto e segna anche il capolavoro di Belisario, che riuscì a vincere sfruttando le superiori capacità belliche dell’impero rispetto ai Goti, inesperti dell’arte degli assedi e inferiori sul campo agli arcieri a cavallo di Bisanzio. Nel marzo 538 i Goti abbandonarono l’assedio di Roma, stremati dalle sconfitte e dall’epidemia che aveva imperversato nel loro campo. I Bizantini, nel frattempo, avevano ricevuto rinforzi da Costantinopoli e alcune colonne avanzate, da Roma, si erano spostate a nord occupando posizioni strategiche. Uno dei generali di Belisario, Giovanni il Sanguinario, saccheggiò il Piceno e si spinse fino a Rimini, di cui prese possesso all’inizio del 538, minacciando così direttamente Ravenna, la capitale dell’Italia ostrogota. La battaglia per Roma aveva di fatto determinato l’esito della guerra, anche se le operazioni militari si prolungarono ancora per un paio di anni, nei quali il conflitto divenne particolarmente cruento. Il passaggio dei soldati, goti o imperiali, provocò notevoli devastazioni nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale e fu causa di carestia ed epidemie. Particolarmente colpite furono l’Emilia e il Piceno, dove morirono di fame molte migliaia di abitanti. Nel 539 la furia del conflitto raggiunse anche Milano, che venne distrutta. La città, occupata da qualche tempo dai Bizantini, fu assediata congiuntamente dai Goti e dai Burgundi che il re franco Teodeberto aveva inviato in Italia in loro aiuto. Dopo una lunga resistenza capitolò: i soldati di Bisanzio ebbero salva la vita, mentre la città fu rasa al suolo, gli abitanti maschi di qualunque età vennero uccisi e le donne furono tratte in schiavitù. Belisario uscì da Roma nel giugno 538 e iniziò a risalire lentamente la penisola espugnando i centri fortificati tenuti dai nemici. Verso la fine del 539 il generale arrivò ad assediare Ravenna. Benché la città fosse praticamente inespugnabile, grazie alla sua posizione naturale, nel maggio del 540 il presidio si arrese, dopo aver trattato con Belisario, che si disse disponibile a divenire imperatore di Occidente, e i soldati bizantini entrarono così nella capitale. Belisario non rispettò l’accordo preso con gli Ostrogoti, ma fu subito dopo richiamato a Costantinopoli da Giustiniano, comunque sospettoso di lui, per essere mandato in guerra contro i Persiani, dai quali era stata violata la pace del 532. Il generale partì alla volta della capitale portando con sé il tesoro degli Ostrogoti, il re Vitige con la moglie Matasunta e altri prigionieri. Al di là delle apparenze, la conquista di Ravenna non rappresentò la fine della guerra e i Goti rimasti in armi nell’Italia del Nord non occupata dai Bizantini elessero un nuovo re a Pavia, apprestandosi a proseguire la lotta. Nel corso del 540 i Bizantini subirono una grave sconfitta presso Treviso e l’anno successivo, quando fu eletto re Totila dopo i brevi regni di Ildibado ed Erarico, le fortune dei Goti cambiarono radicalmente. A differenza di Vitige, Totila si dimostrò infatti un generale capace e un politico accorto. Rinunciò all’ostinazione mostrata dal predecessore nell’assalire le città fortificate, con cui aveva inutilmente logorato le forze dei suoi, e preferì ottenerne la resa con trattative; una volta conquistata la piazzaforte, ne abbatteva le mura per evitare che gli imperiali potessero nuovamente servirsene. Cercò inoltre di ovviare a un altro punto debole dei Goti, che aveva ugualmente favorito il successo di Bisanzio, e mise in campo una flotta in grado di intercettare le navi nemiche e di condurre azioni di pirateria nelle zone costiere dell’impero: nella prima fase del conflitto, a parte un intervento in Dalmazia, la flotta ostrogota era stata infatti assente dal teatro operativo, consentendo a Bisanzio il dominio del mare e la conseguente sicurezza dei rifornimenti. Come politico, Totila si adoperò per dare un volto più rispettabile ai suoi e per dividere il campo avversario. Evitò il più possibile la brutalità, che di norma si accompagnava alle operazioni militari, e al contrario si sforzò di alleviare i disagi delle popolazioni civili. Rendendosi conto, inoltre, che i peggiori nemici dei Goti erano gli aristocratici romani, naturali alleati di Bisanzio, concepì un progetto per stroncarne il potere con una nuova politica agraria volta all’esproprio dei latifondi, che costituivano la principale base economica dell’aristocrazia. Nei territori riconquistati dai Goti, infatti, passarono al fisco regio non solo le imposte ordinarie ma
anche le rendite dei latifondi e, per di più, i servi vennero sistematicamente affrancati per entrare nell’esercito ostrogoto. Non furono, come spesso idealisticamente si è voluto credere, provvedimenti rivoluzionari sotto il profilo sociale, ma più probabilmente si trattò di un calcolo utilitaristico per rafforzare il suo esercito dissanguato. Totila sconfisse gli imperiali nel 542 a Faenza e, di nuovo, nella valle del Mugello. Le forze bizantine, mal guidate dopo la partenza di Belisario, si sbandarono e i superstiti si rifugiarono nelle città fortificate. Il re goto, nell’estate dello stesso anno, superò l’Appennino e si impossessò di Benevento, le cui mura furono abbattute. Di qui andò ad assediare Napoli, presidiata da un migliaio di soldati imperiali: l’assedio si protrasse per qualche mese, fino alla resa per fame nella primavera del 543, e nel frattempo i Goti costruirono la loro flotta e occuparono gran parte dell’Italia meridionale. Giustiniano non prese molto sul serio la rivolta dei Goti, forse perché distratto dalla nuova guerra sul fronte persiano, e si limitò a destinare nuovamente Belisario al comando supremo in Italia (estate del 544), ma senza concedergli i mezzi sufficienti per porre fine al conflitto, per cui il generale dovette limitarsi a operazioni di contenimento del nemico. Una flotta imperiale riuscì a liberare Otranto, assediata dai nemici, e verso la fine dell’anno Belisario si recò a Ravenna, che era rimasta saldamente in mano all’impero. Non fu in grado però di impedire ulteriori successi dei Goti e, a fine 545, Totila andò a mettere l’assedio a Roma, difesa dal magister militum Bessa con tremila uomini. Belisario andò in soccorso dell’Urbe, ma non riuscì a liberarla e, il 17 dicembre del 546, dopo un anno di assedio, la città cadde per il tradimento di alcuni soldati imperiali. Bessa e la maggior parte dei suoi fuggirono e, mentre gli abitanti cercavano scampo nelle chiese, la città venne messa a sacco dagli occupanti. A causa degli avvenimenti bellici erano rimaste a Roma circa cinquecento persone che, per ordine di Totila, vennero deportate in Campania, lasciando così la città deserta per alcune settimane. Totila aveva deciso in un primo tempo di distruggerla, ma poi si limitò ad abbatterne le porte e parte delle mura; si allontanò quindi dalla città per recarsi in Italia meridionale a combattere i Bizantini. L’assenza del re goto diede modo a Belisario di riprendere Roma (aprile 547), con un’azione a sorpresa che fu la sua operazione più brillante in questa fase della guerra. Ne rimise in sesto alla meglio le mura e, poco più tardi, fu in grado di sostenere l’assedio di Totila, che tentò di venirne di nuovo in possesso con la forza, abbandonando la prudenza con la quale aveva agito fino a quel momento. Non ebbe però successo e rinunciò presto all’impresa, recandosi a combattere su altri fronti. Le operazioni militari proseguirono fino all’anno successivo senza fatti di rilievo e, all’inizio del 549, Belisario abbandonò l’Italia per tornare a Costantinopoli, dove era stato richiamato da Giustiniano. La partenza del generalissimo causò il tracollo dell’armata italiana. Nel gennaio del 550, dopo alcuni mesi di assedio, Roma cadde di nuovo in mano ai Goti e, nel corso dello stesso anno, Totila invase la Sicilia. Giustiniano, a questo punto, avvertì tutta la gravità del pericolo che fino a quel momento aveva sottovalutato: la regione più fertile d’Italia cadeva in mano nemica e la presenza imperiale si era ridotta a poche piazzeforti isolate. L’esercito, privo da tempo della paga e senza alcuna voglia di combattere, era sul punto di dissolversi, compromettendo così definitivamente il suo progetto di riconquista. Affidò pertanto al cugino Germano il compito di costituire un’armata per farla finita con Totila e, questa volta, non lesinò sui mezzi come aveva fatto fino a quel momento. Germano morì durante i preparativi, nell’autunno del 550, e il comando della spedizione passò all’eunuco Narsete, già presente in Italia qualche anno prima ma poi richiamato a Costantinopoli per la sua rivalità con Belisario. Si trattava di una scelta rivoluzionaria, tipica d’altronde dell’indole di Giustiniano: Narsete era un eunuco e un dignitario di corte privo di esperienza militare, anche se affiancato da generali capaci. Metterlo a capo di un esercito rappresentava una grande novità, destinata in seguito a far scuola nel mondo bizantino; era però la migliore garanzia che il sovrano potesse avere per scongiurare tentativi autonomistici attraverso una restaurazione dell’impero di Occidente. Già Belisario sembrava essersi mosso in questa direzione, anche se la versione ufficiale riferiva di un suo espediente per ingannare i Goti; con Narsete però la cosa non sarebbe stata possibile in quanto, secondo la consolidata mentalità del tempo, un uomo comunque mutilato nel fisico non poteva aspirare alla somma carica dello stato.
Narsete ebbe i pieni poteri di generalissimo e un’ampia disponibilità di denaro, utile per approntare un esercito e per saldare gli arretrati della paga all’armata italiana; partì quindi da Salona nella primavera del 552, con circa trentamila uomini, dei quali una buona parte erano ausiliari barbarici. La condotta delle operazioni fu del tutto opposta a quella di Belisario, che si muoveva con grande prudenza, poiché Narsete puntò allo scontro risolutore con l’avversario. Raggiunse l’Italia via terra, non avendo una flotta sufficiente per le sue truppe, passò lungo la costa veneta e arrivò a Ravenna all’inizio di giugno; di qui, senza curarsi di assediare Rimini e altre piazze in mano ai Goti, proseguì incontro a Totila. Il re goto si mosse da Roma verso il nemico e lo scontro ebbe luogo a Busta Gallorum (o Tagina), in prossimità di Gualdo Tadino, terminando con la completa disfatta dei Goti. I barbari furono messi in fuga, con il loro stesso re, che venne raggiunto e ucciso da un ufficiale bizantino. La vittoria imperiale non comportò tuttavia la resa dei Goti e i superstiti elessero a Pavia un altro re nella persona di Teia, il quale scese a sud per combattere Narsete, che nel frattempo aveva ripreso Roma, ma venne sconfitto e ucciso nel corso dello stesso anno ai monti Lattari; con la sua morte ebbe fine il regno ostrogoto. Gli sconfitti si sottomisero e, a quanto pare, ebbero dai vincitori il permesso di tornare nelle loro sedi. La guerra che devastava l’Italia non terminò con la sconfitta di Teia. Nell’estate del 553 un forte esercito di Franchi e Alamanni calò in Italia raggiungendo la valle del Po e inoltrandosi poi nel Centro della penisola. Quando arrivarono nel Sannio si divisero in due gruppi: il primo, condotto da un capo di nome Butilin, si spinse fino allo stretto di Messina; l’altro, sotto il comando del fratello di questo, Leutharis, raggiunse Otranto e di qui prese di nuovo la via del Nord. Il loro passaggio era accompagnato da stragi e da saccheggi che sconvolsero ulteriormente le popolazioni italiane già duramente provate dai lunghi anni di guerra. I Bizantini in un primo momento si fecero cogliere alla sprovvista; poi Narsete affrontò Butilin in prossimità di Capua e nell’autunno del 554 ne distrusse completamente le forze. Sorte non migliore toccò alle truppe di Leutharis: la guarnigione imperiale di Pesaro le sconfisse recuperando gran parte del bottino. I barbari riuscirono a proseguire fino al Veneto, ma qui furono decimati da un’epidemia. Terminavano così le grandi operazioni della campagna italiana, ma Narsete dovette impiegare ancora qualche anno per riportare la pace. Conquistò le ultime fortezze in mano ai Goti, fra cui Cuma, e in seguito passò a operare al di sopra del Po, sloggiando i Franchi che avevano occupato ampie zone del Nord e costringendo alla resa gli Ostrogoti ancora in armi. Le ultime operazioni ebbero luogo nel 561 (o 562), con la conquista di Brescia e di Verona e la sottomissione della penisola fino alle Alpi. Nel 554, comunque, la guerra era di fatto terminata e il 13 agosto di quell’anno Giustiniano emanò la Prammatica Sanzione, con la quale ristabiliva legalmente il dominio imperiale in Italia. Con questo testo di legge, tra l’altro, venivano cancellati tutti i provvedimenti adottati dal «tiranno» Totila: i proprietari recuperarono i diritti di cui erano stati privati, gli schiavi tornarono ai loro padroni e i servi della gleba alle terre. Le terre della chiesa ariana dei Goti passarono alla chiesa cattolica; i pochi proprietari goti ancora in vita conservarono, a quanto pare, i loro beni fondiari e il resto di questi passò alla corona. Narsete restò in Italia con i poteri straordinari di cui era stato investito e si occupò della ricostruzione. L’amministrazione civile non subì sostanziali variazioni rispetto al periodo precedente: continuarono a esserci un prefetto del pretorio d’Italia, un prefetto e un vicario di Roma e probabilmente venne anche restaurato il vicariato che in epoca precedente aveva retto la diocesi italiana. Il territorio italiano fu però notevolmente ridotto, perché ne furono staccate la Sicilia, con un pretore dipendente da Costantinopoli, la Dalmazia, annessa alla prefettura di Illirico, la Sardegna e la Corsica, che passarono sotto l’Africa. Si trattò tuttavia di una restaurazione apparente, che in realtà segnava la fine dell’autonomia politica italiana: mentre infatti sotto i Goti il prefetto del pretorio era un romano, ora divenne regolarmente un funzionario bizantino; allo stesso modo, inoltre, la burocrazia statale venne formata per lo più con elementi di provenienza orientale. Per di più, l’autorità civile fu progressivamente messa in ombra dai militari, anticipando fin dal tempo di Giustiniano un fenomeno che, in seguito, sarebbe stato caratteristico
dell’esarcato ravennate. La riorganizzazione militare comportò la creazione di una linea di frontiera alpina, con una serie di comandi militari per proteggere le vie di invasione. A differenza di quanto era avvenuto in Africa, non fu istituito un comando generale dell’armata e l’incarico continuò a essere svolto dallo stesso Narsete. Il generalissimo bizantino provvide anche alla riedificazione delle città distrutte, ma sappiamo molto poco in proposito. Le grandi opere storiche sulla guerra gotica (di Procopio di Cesarea e del suo continuatore Agazia) terminano infatti con il 554 e gli avvenimenti successivi possono essere ricostruiti soltanto con poche e frammentarie notizie. La situazione italiana, comunque, era sicuramente miserevole dopo una guerra lunga e devastante come fu il conflitto grecogotico. Per molti anni dopo la riconquista Roma dovette apparire come una città spopolata e parzialmente in rovina: dei quattordici acquedotti esistenti prima del 537, e interrotti da Vitige durante l’assedio, ora doveva essere in funzione soltanto l’Aqua Traiana a seguito del restauro fattone da Belisario. Le dimore dell’aristocrazia senatoria erano in gran parte in rovina e spogliate degli arredi. Molti senatori, inoltre, mancavano all’appello, perché fuggiti in Oriente o caduti vittime della furia vendicatrice dei Goti, che a più riprese si era abbattuta su di loro. Alcuni edifici monumentali probabilmente cadevano in rovina e, come già accaduto in Africa, da questi erano verosimilmente prelevati i materiali per le costruzioni pubbliche o private. Il collasso demografico, a seguito di guerra, carestia ed epidemie, doveva infine avere assunto una dimensione massiccia e gli stessi Ostrogoti avevano subito un ridimensionamento tale che nell’arco di pochi anni scomparvero come componente demica. Il volto dell’Italia romana, mantenutosi brillante fino all’inizio della guerra soprattutto grazie all’opera di Teodorico, si era modificato irreparabilmente, annunciando i secoli bui che sarebbero seguiti fino alla ripresa in età comunale. L’Italia fu la tappa più sanguinosa e nello stesso tempo più ambiziosa della riconquista giustinianea; quando però stava ormai per concludersi, i Bizantini comparvero anche nella Spagna visigota, dove si impossessarono di una sia pur limitata porzione di territorio. Il re visigoto Agila nel 551 aveva infatti suscitato una ribellione dei suoi sudditi e contro di lui si era sollevato anche un pretendente al trono, Atanagildo, che aveva chiesto aiuto all’impero. Giustiniano non perse l’occasione e l’anno seguente inviò un esercito al comando dell’anziano patrizio romano Liberio, che era stato prefetto del pretorio d’Italia sotto il re Teodorico e in seguito aveva combattuto in Sicilia per conto dell’impero. Poco si conosce sullo svolgimento delle operazioni, ma è certo che gli imperiali occuparono senza fatica una parte della Spagna meridionale. La guerra civile terminò nel 555 con l’uccisione di Agila e la vittoria di Atanagildo, che divenne re dei Visigoti, ma i Bizantini non mostrarono alcuna intenzione di ritirarsi e il nuovo re riuscì soltanto a farsi cedere una parte del territorio occupato. In questo modo la dominazione imperiale fu estesa a una porzione della Spagna, che comprendeva le città di Cartagena, Malaga e Cordova. Il nuovo dominio, troppo esiguo per formare una prefettura autonoma, entrò senza dubbio a far parte della prefettura africana. Ebbe però con ogni probabilità un comando militare autonomo, con un magister militum, la cui istituzione dovrebbe risalire all’epoca di Giustiniano, anche se è attestato dopo la sua morte. A differenza dell’Italia (e dell’Africa), la dominazione imperiale in Spagna non fu molto duratura e già alla fine del VI secolo la parte della regione in mano ai Bizantini era molto diminuita, finché verso il 624 la controffensiva visigota non li espulse del tutto.
Capitolo secondo
L’Italia esarcale 1. L’invasione longobarda
Giustiniano morì nel 565. Fu sicuramente un uomo straordinario, di quelli che, come Cesare, Napoleone o altri, hanno lasciato un’impronta duratura della propria attività. Ancora oggi il Corpus Iuris Civilis resta alla base della nostra cultura giuridica e allo stesso modo la chiesa di Santa Sofia a Istanbul, anche se danneggiata dal tempo e dagli uomini, è un monumento imperituro alla sua grandezza. Ma per chi dovette subentrargli al governo le cose furono meno semplici. I suoi sogni di gloria avevano sì portato alla riconquista più o meno di un terzo dell’ex impero di Occidente, ma le devastazioni nei paesi riportati all’impero erano state imponenti e, soprattutto, la forza militare di Bisanzio, perennemente in crisi, si rivelava insufficiente a coprire un territorio così ampliato. I nemici erano in agguato e gli attacchi all’impero furono concentrici. La prima grande guerra si accese con i Persiani a causa della politica sconsiderata del successore di Giustiniano, il nipote Giustino II, che nel 572 li attaccò infrangendo la pace faticosamente stipulata dieci anni prima. L’esito, dopo qualche successo iniziale, fu disastroso e il conflitto si trascinò per un ventennio, sottraendo da altri fronti le migliori energie dell’impero. Altrove furono invece i Bizantini a essere attaccati e a doversi difendere. In Spagna la controffensiva visigota mise in difficoltà l’impero, che continuò a perdere terreno finché negli anni Venti del VII secolo dovette abbandonare la regione. L’Africa, cronicamente agitata da rivolte indigene, andò interamente perduta con l’irruzione degli Arabi e la conquista islamica di Cartagine nel 698. Ancora peggio, subito dopo Giustiniano, andarono le cose nella penisola balcanica, già lasciata sotto il suo regno con poche difese e saccheggiata a più riprese dai barbari che vivevano al di là del Danubio. Alle occasionali incursioni di età giustinianea, quando di norma gli invasori si ritiravano nei loro territori dopo i saccheggi, nella seconda metà del VI secolo si sostituì l’occupazione permanente da parte degli Slavi. A partire dal 581 la penisola venne ripetutamente devastata da incursioni di Avari e di Slavi, che raggiunsero l’apice nei primi anni del VII secolo, quando gli invasori si addentrarono fino al Peloponneso. Gli Avari – una popolazione mongolica affine agli Unni – si erano creati nella seconda metà del VI secolo un vasto impero, retto da un khan, con epicentro nella pianura ungherese, sottomettendo popolazioni bulgare, gepide e slave. La loro spinta aggressiva contro Bisanzio fu particolarmente intensa per circa sessant’anni, ma si esaurì con la sconfitta subita all’assedio di Costantinopoli nel 626. Gli Slavi – in parte sottomessi agli Avari – costituivano un popolo con organizzazione tribale venuto a contatto per la prima volta con Bisanzio nei primi decenni del VI secolo; in seguito, sotto la spinta degli Avari o in alleanza con questi, avevano iniziato il vasto movimento migratorio che li portò a insediarsi all’interno dell’impero. La loro espansione, a differenza di quella degli Avari, fu contraddistinta dalla tendenza a stabilirsi nelle regioni conquistate e a formare qui i propri domini. La conquista slava diede origine a un fenomeno storico del tutto nuovo, che ebbe come aspetti caratteristici l’insediamento stabile di popolazioni nemiche in territorio imperiale, e la slavizzazione della penisola balcanica, dove le popolazioni autoctone scomparvero o si ritirarono nelle montagne più inaccessibili, sulle coste e nelle isole. Molti territori vennero sottratti al dominio imperiale, formando zone di dominazione slava (le cosiddette «slavinie») che Bisanzio avrebbe faticosamente recuperato con un’azione secolare di riconquista. La situazione creatasi a seguito di queste invasioni non è del tutto chiara, data la scarsità di testimonianze, e può essere ricostruita soltanto nelle linee generali. Le regioni settentrionali e centrali dei Balcani furono occupate pressoché integralmente dagli Slavi: restarono sotto l’autorità bizantina le città costiere dell’Adriatico e del mar Nero nonché Tessalonica e la stessa Costantinopoli, sebbene la prima fosse interamente circondata da territori slavi e la seconda esercitasse soltanto un dominio precario sulla circostante Tracia fino almeno alla fine del VII secolo. Nella parte meridionale della penisola balcanica la Tessaglia, l’Epiro e le regioni occidentali del Peloponneso furono profondamente slavizzate e l’impero continuò a controllare soltanto le città che potevano essere raggiunte via mare. In Italia il disastro fu completo. Dopo la conclusione del conflitto con i Goti, Narsete restò a capo dell’amministrazione bizantina fino al 568, quando fu richiamato a Bisanzio da Giustino II. Non ubbidì tuttavia all’ordine, per dissensi con la corte, e rimase in Italia, dove morì qualche tempo più tardi. Narsete non venne
sostituito da un funzionario munito del suo stesso potere e il governo della penisola passò al prefetto del pretorio Longino, il più alto funzionario civile allora presente in Italia. Nello stesso anno in cui Narsete venne rimosso, il popolo germanico dei Longobardi si mosse dalla Pannonia sotto la guida del re Alboino per dirigersi in Italia, dove entrò dai valichi delle Alpi Giulie nel corso del 568 o, forse, nel 569. I Longobardi erano un popolo già noto nell’antichità, entrato nell’ottica del mondo romano a partire dal I secolo dell’era cristiana, come abitanti della Germania settentrionale. Nel 489 si stanziarono a nord del Danubio e alcuni anni più tardi si spostarono a oriente insediandosi nell’antica Pannonia romana, cioè nei territori dell’attuale Ungheria. Erano una gente guerriera, che si distingueva per la natura selvaggia dalle altre stirpi germaniche, tanto che già lo storico romano Velleio Patercolo li aveva definiti «più feroci della ferocia germanica». Un secolo più tardi, nella sua celebre Germania, Tacito aggiunge che erano pochi di numero ma molto bellicosi, per cui riuscivano a sopravvivere ai pur agguerriti nemici che li circondavano. Durante la guerra gotica 2.500 guerrieri longobardi, con il loro seguito, avevano militato in Italia agli ordini di Narsete, ma erano stati rimandati in patria dal generalissimo a causa degli eccessi ai quali si abbandonavano nei confronti dei civili. I rapporti con Narsete e la coincidenza fra la sua rimozione e l’invasione longobarda hanno fatto sorgere nel Medioevo la cosiddetta «leggenda di Narsete», secondo la quale gli invasori sarebbero stati chiamati in Italia dall’eunuco che voleva così vendicarsi dei torti subiti da Costantinopoli. La leggenda, peraltro assai tarda rispetto agli avvenimenti, potrebbe tra l’altro spiegare la mancata reazione degli imperiali che, almeno apparentemente, vennero travolti dai Longobardi senza opporre resistenza. In realtà l’inerzia dei Bizantini, malgrado la scarsità di fonti storiche, può essere spiegata diversamente e attribuita a cause concomitanti, come lo spopolamento dovuto a una pestilenza che aveva imperversato in alta Italia poco prima dell’invasione longobarda, l’impegno delle truppe mobili di Bisanzio su altri fronti, l’assenza di un comando militare centralizzato a seguito della rimozione di Narsete, che potrebbe aver paralizzato la risposta degli imperiali, o anche un possibile accordo iniziale con le autorità bizantine per utilizzare i nuovi arrivati contro i Franchi, accordo reso poi nullo dall’aggressività longobarda. Non va infine sottovalutata la tradizionale strategia difensiva dei Bizantini per cui, data la scarsità di soldati normalmente disponibili, si preferiva evitare lo scontro campale con gli invasori, attendendo che si ritirassero spontaneamente dal territorio imperiale o che fosse possibile allontanarli in altro modo. L’ingresso dei Longobardi in Italia fu un fatto epocale, su cui purtroppo non molto si può sapere, data la cronica scarsità di fonti che accompagna per due secoli abbondanti le vicende della penisola, fino a quando cioè verso il 787 fu redatta l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono: l’unità territoriale della regione italiana, rimasta tale sotto gli ultimi imperatori e i re barbari, ne fu infatti irreversibilmente infranta, determinando una situazione nuova che poi si sarebbe mantenuta fino all’epoca moderna. Né possiamo dire quale sia stato il rapporto di forze fra i due contendenti: i Bizantini dopo la conclusione della guerra avevano lasciato in Italia un esercito verosimilmente consistente; quanti soldati però vi fossero è impossibile dirlo, come naturalmente è impossibile determinare quanti siano stati gli invasori. Di questi ultimi sappiamo soltanto che al loro esercito si erano aggregati 20 mila Sassoni fatti affluire con le loro famiglie dal bacino dell’Elba, dove poi sarebbero tornati, e che ne facevano parte anche numerosi contingenti di barbari da loro sottomessi, fino a contare ragionevolmente un totale di 100-150 mila anime. I Bizantini non disponevano con ogni probabilità di un esercito campale pronto per affrontare gli invasori e, come peraltro era loro consuetudine, è verosimile che abbiano frammentato i reparti, più o meno consistenti, a protezione dei singoli punti fortificati. Lungo il primo itinerario degli invasori dovevano quindi esistere presidi militari di diversa rilevanza, anche se non ci risulta che questi si siano raggruppati per tentare una battaglia di arresto, ma piuttosto che, almeno in alcuni casi, si siano limitati a difendere i centri in cui erano dislocati. Alboino entrò senza essere disturbato nella Venetia e si impossessò di Forum Iulii (Cividale del Friuli), sede di un comando militare bizantino; di qui proseguì alla volta di Aquileia, che cadde apparentemente senza combattere, quindi di Treviso, il
cui vescovo fece atto di sottomissione, e successivamente, deviando verso ovest lungo la via Postumia, di Vicenza, Verona e dei maggiori centri dell’Italia settentrionale, fra cui Milano, che cadde il 3 settembre del 569. Agli inizi del 570 quasi tutta la regione padana compresa fra le Alpi e il Po era stata conquistata, a eccezione di Pavia, che resistette all’assedio longobardo fino al 572, e di altri centri isolati come Susa o l’insula Comacina nel lago di Como, mantenuti ancora per alcuni anni dall’impero. La conquista di Pavia fu l’ultima impresa di Alboino, che fu assassinato nel 572 a seguito di un complotto al quale non fu estraneo il prefetto Longino. La disposizione delle forze militari di Bisanzio che fronteggiarono l’invasione longobarda è ricostruibile nelle linee essenziali, sia pure nella frammentarietà delle fonti. Si ritiene comunemente che, una volta raggiunto il confine alpino dopo la conclusione delle operazioni militari, i Bizantini abbiano istituito almeno quattro ducati di frontiera retti da magistri militum del seguito di Narsete. I primi due ebbero come centro rispettivamente Forum Iulii e Tridentum (Trento), il terzo fu creato nella regione dei laghi Maggiore e di Como, e l’ultimo più a ovest, per proteggere i valichi delle Alpi Graie e Cozie. Per la guardia del confine vennero forse istituiti reparti di milites limitanei, come si era fatto in Africa alcuni anni prima, e i soldati dell’esercito mobile furono acquartierati all’interno del territorio, rispettando la consueta tipologia della difesa territoriale bizantina, che affiancava all’armata confinaria l’esercito di manovra destinato a intervenire nei punti minacciati. A differenza dell’Africa, non venne però creato un magister militum per Italiam, con autorità sull’intera provincia, ma il comando supremo restò nelle mani del generalissimo Narsete, che continuò a esercitare i poteri eccezionali di cui era stato titolare durante il conflitto. Nella provincia di Venetia et Histria, dove è ricordato un magister militum nel 559, forse di stanza ad Aquileia, erano presenti truppe bizantine nel limes già ostrogoto che si estendeva a ridosso della pianura friulana e che aveva come centro Forum Iulii. La ricerca archeologica, in particolare, ne ha attestato l’esistenza nella rocca di Invillino (Ibligo), che sorgeva sulla sponda sinistra del Tagliamento, presso l’odierna località di Villa Santina. Tutti questi presidi, a quanto pare, non opposero alcuna resistenza all’invasore e si arresero senza combattere, a giudicare almeno da quanto scrive Paolo Diacono, secondo il quale Alboino superò i confini della Venetia senza incontrare alcun ostacolo («sine aliquo obstaculo»), conquistando Forum Iulii. Più all’interno della stessa provincia erano inoltre in attività almeno tre reggimenti dell’esercito imperiale, i Persoiustiniani, i Cadisiani e i Tarvisiani. Si tratta in questo caso di numeri – come erano per lo più definite nel VI secolo le unità – appartenenti verosimilmente all’esercito mobile, che risultano acquartierati a Grado nel 579. Il primo ci è noto da un’epigrafe musiva sul pavimento della chiesa di Santa Eufemia (inaugurata nel 579) che ricorda l’oblazione di un soldato de numero equitum persoiustiniani di nome Giovanni; la seconda da un’analoga offerta di un altro soldato di nome Giovanni e della moglie Severina; la terza da tre epigrafi dello stesso genere, la prima a Santa Eufemia per ricordare la dedicazione di venticinque piedi di pavimento fatta da un miles de numero Tarvisiano di nome Laurentius, e le altre due nella chiesa di Santa Maria, a opera di Zimarco, primicerius dei Tarvisiani, e di Stefano, soldato dello stesso reparto. L’esistenza di queste tre unità è una testimonianza importante, sia sotto il profilo della storia militare sia, forse, per gettare luce sulla fase oscura dell’invasione longobarda. L’organico completo di un numerus doveva comprendere una forza intorno ai cinquecento uomini e si può quindi ipotizzare a Grado la presenza di una guarnigione consistente. Oltre a ciò possiamo identificarne l’origine. I Persoiustiniani erano infatti in origine prigionieri di guerra persiani arruolati nell’esercito imperiale e lo stesso dovrebbe valere per i Cadisiani, il cui nome richiama i Cadusii o Cadiseni, una popolazione soggetta ai Persiani, quindi probabilmente anch’essi prigionieri incorporati nelle forze bizantine. I Tarvisiani richiamano al contrario la città di Treviso, dove con ogni probabilità erano stati costituiti qualche anno prima, quando Narsete aveva provveduto alla riorganizzazione politico-militare dell’Italia riconquistata. La loro presenza a Grado pare integrare il racconto fatto da Paolo Diacono, secondo cui il vescovo della città presentò la resa ad Alboino senza menzionare un presidio, che forse ottenne dai vincitori il
permesso di ripiegare. E ancora, in prossimità di Aquileia poteva essere presente anche un numerus Saliorum, ricordato probabilmente da un’epigrafe di cronologia e di lettura incerta. L’esistenza di altri soldati di Bisanzio a Oderzo e nei centri vicini della terraferma veneta non trova attestazioni per quest’epoca, ma pare ipotizzabile dal fatto che questi sopravvissero alla prima ondata longobarda, forse perché Alboino rinunciò ad assediarli. In epoca più tarda, inoltre, al territorio di Concordia fa riferimento una discussa testimonianza relativa a una schola armaturae, forse un reparto della guardia palatina trasferito da Costantinopoli, ricordata da un’epigrafe greca conservata in una chiesetta di Lison di Portogruaro che riporta il nome di un certo Stefano senator, datata normalmente al VI-VII secolo. La fonte non è tuttavia di sicura provenienza locale, ma al contrario l’arcata marmorea su cui si legge potrebbe arrivare dall’Oriente nel quadro del mercato di opere d’arte in età rinascimentale. Incerta è anche l’esistenza di soldati a Padova, che risulta chiaramente attestata soltanto nel 601 al momento della conquista longobarda operata dal re Agilulfo. Sicura è al contrario la dislocazione di presidi confinari nella val Belluna e, in particolare, nei castelli di Arten e Castelvint, dove venne nascosto un tesoretto, verosimilmente all’avvicinarsi dei Longobardi. Più a ovest, in prossimità di Trento, dovevano essere acquartierati gli Eruli che avevano seguito la spedizione in Italia di Narsete. Si trattava in origine di circa tremila soldati a cavallo il cui ultimo comandante, Sindual, aveva ottenuto il grado di magister militum verso il 553-554 e successivamente era stato posto al governo della provincia confinaria che si ritiene facesse capo a Trento. Verso il 566, tuttavia, Sindual guidò una rivolta, probabilmente di ampie proporzioni, anche se venne repressa nell’arco di poco tempo, terminando con la sottomissione degli Eruli e l’uccisione del loro capo. Il ducato passò di conseguenza a un nuovo titolare, ma ignoriamo chi sia stato e quale nuovo assetto abbia avuto il comando militare che da lui dipendeva, una volta sconfitti i ribelli. A Verona, che fu investita dall’avanzata di Alboino verso ovest, si può infine collegare il numerus Veronensium, attestato più tardi a Ravenna. Anche in questo caso, come per i Tarvisiani, è lecito ipotizzare che si sia trattato di un reggimento reclutato localmente a seguito della conquista imperiale della città, nel 561-562, e quindi riparato a Ravenna. Altre informazioni sulla dislocazione dei reparti imperiali, ma in misura minore, ci provengono per le province di Liguria e Alpes Cottiae. A Milano, sicuramente in mano imperiale nel 559, si connette il numerus Mediolanensium, presente a Ravenna verso l’anno 600, che può avere preso la via della capitale dell’esarcato quando la città fu conquistata da Alboino il 3 settembre del 569. Forze militari bizantine sono poi attestate a Ticinum (Pavia), a giudicare dalla presenza del magister militum Asbado che vi morì probabilmente nel 566-567. Era questi un gepida, che aveva preso parte alla campagna di Narsete alla guida di quattrocento suoi connazionali, forse acquartierati successivamente nella stessa Pavia. Come altri capi di milizie barbariche, ottenne il rango di magister militum nell’esercito regolare e svolse un ruolo importante nella sottomissione del Nord dell’Italia e nell’opera di ricostruzione dopo la fine del conflitto. Pavia fu conquistata da Alboino dopo un assedio durato tre anni, ma non si hanno notizie di alcun genere sull’attività della guarnigione bizantina, che potrebbe anche essere stata integrata o addirittura sostituita dalle milizie civiche, come era nella prassi del tempo. Alla zona di Como si riferisce la testimonianza relativa al magister militum Francio, un altro ufficiale di Narsete e, a quanto si può ritenere, il titolare del ducato dei laghi. Si ha notizia di lui verso il 588-589 quando, dopo essere stato per venti anni al comando del presidio imperiale dell’insula Comacina, ubicata all’interno del lago, sostenne un assedio longobardo di sei mesi per poi arrendersi e riparare a Ravenna. La notizia sull’attività di questo generale è isolata e non ci offre molti particolari; può anche darsi che la sede originaria del suo comando sia stata a Como e, di qui, all’arrivo dei nemici si sia rifugiato sull’isola fortificata, facilmente difendibile dagli aggressori. Si tratta a ogni modo di una testimonianza importante sulla sopravvivenza di domini militari bizantini all’interno di territori longobardi, dovuta soprattutto alla scarsa dimestichezza di questi ultimi con l’arte degli assedi, per cui le posizioni ben difese potevano resistere anche a lungo. La relativa sicurezza offerta dall’isola è d’altronde testimoniata dal fatto che vi erano state ammassate molte
ricchezze provenienti dai centri vicini. Un fenomeno analogo ebbe luogo a Segusium (Susa) dove nel 574-575 era di stanza il magister militum imperiale Sisinnio, che potrebbe essere stato anch’egli un ufficiale di Narsete e il titolare del ducato a protezione dei valichi occidentali delle Alpi. All’età giustinianea è inoltre da attribuire il presidio di Albingaunum (Albenga), ricordato dall’epigrafe funeraria di Onorata, morta nel 568, moglie del comes et tribunus Tzittane, che doveva esserne il comandante. Doveva trattarsi in questo caso di un numerus, che era normalmente l’unità alle dipendenze del tribuno. Più incerta è l’esistenza a quest’epoca dei felices Laeti, un reparto di stanza a Genova nel 591 e passato quindi a Ravenna, verosimilmente a seguito della caduta della Liguria bizantina in mano longobarda. In un caso e nell’altro, tuttavia, non è da escludere che si sia trattato di numeri costituiti in età giustinianea e sospinti verso la costa ligure al momento dell’invasione longobarda, che – secondo Paolo Diacono – dopo la caduta di Milano risparmiò soltanto le città poste sul litorale. La morte di Alboino fu seguita dall’elezione del re Clefi e, dopo l’assassinio di questo nel 574, da un decennio di anarchia in cui i Longobardi non elessero re, ma furono governati dai loro duchi che risiedevano nelle città conquistate. L’anarchia non rallentò tuttavia la conquista, che si svolse in più direzioni e penetrò in profondità al Centro e al Sud. L’impero tentò una controffensiva in grande stile verso il 575 a opera di Baduario, genero dell’imperatore Giustino II, che affrontò sul campo gli invasori, ma il generale bizantino fu sconfitto e morì poco più tardi, forse a seguito delle ferite riportate in battaglia. L’informazione ci viene da una cronachetta del tempo ed è di una desolante laconicità: «Baduario, genero dell’imperatore Giustino, è vinto in battaglia dai Longobardi in Italia e qui non molto tempo dopo arrivò alla fine della vita». La sua spedizione sfortunata mise fine alle possibilità di contrastare sul campo i Longobardi e l’impero riuscì soltanto a resistere nelle fortezze più imprendibili, in particolare nelle città costiere che potevano essere rifornite dalla flotta. La situazione dell’Italia era disastrosa dopo l’invasione e lo stato di guerra pressoché continuo. La timida ripresa succeduta alla fine della guerra gotica era stata cancellata. Già Clefi si era reso responsabile della falcidia di ciò che restava del ceto dirigente romano e i duchi, che governavano in una sostanziale anarchia, si mostrarono rapaci nei confronti dei vinti: secondo Paolo Diacono, essi uccisero molti nobili romani per cupidigia e resero tributaria l’intera popolazione. Là dove si estendeva la loro conquista (che continuava a procedere sempre più avanti) le chiese erano spogliate, i sacerdoti uccisi, le città rovinate e le popolazioni decimate. Il terrore che incutevano era determinato dalla loro ferocia e dall’incompatibilità religiosa con i Romani: erano infatti pagani o al massimo cristiani di fede ariana, furiosamente avversi quindi ai cattolici. I Bizantini erano presi da altri problemi più immediati, in particolare la guerra con la Persia, e stavano a guardare impotenti o al massimo prendevano iniziative di modesto spessore, per lo più a carattere diplomatico. Del prefetto Longino, ancora in carica tra 574 e 575, si ricorda sul piano militare soltanto un rafforzamento delle fortificazioni di Classe, mentre più efficace fu la sua partecipazione all’assassinio di Alboino e, forse, anche di Clefi. Il fallimento della campagna di Baduario fu poi seguito dal disastro. I duchi ripresero vigore e di fronte a loro dovevano esistere soltanto sparute guarnigioni imperiali, demoralizzate dalle sconfitte subite. Dalla pianura padana alcuni di loro aggredirono i territori imperiali del Veneto e dell’Emilia, impadronendosi di Altino e probabilmente anche di Concordia, longobarda nel 591 e in seguito tornata per qualche tempo ai Bizantini. La conquista fu poi estesa a Mantova, alle città lungo la via Emilia da Piacenza a Modena, a parte della Tuscia e si spinse fino al Centro e al Sud, dove vennero costituiti i grandi ducati di Spoleto e di Benevento, forse a opera di capi longobardi inizialmente al servizio dell’impero che si ribellarono. Sotto il regno di Tiberio I, cioè tra il 578 e il 582, il primo duca di Spoleto, Faroaldo, riuscì anche a occupare Classe, il porto militare di Ravenna, e «lasciò la florida città nuda, spogliata di ogni ricchezza». Le popolazioni continuavano a subire la violenza dei conquistatori: all’espansione longobarda di quegli anni si dovrebbero connettere la fuga nell’isola d’Elba del vescovo di Populonia e le crudeltà perpetrate contro i monaci
nella provincia di Valeria, di cui si ha un ricordo negli scritti di san Gregorio Magno. Il duca di Benevento, Zotto, si impadronì di Aquino forse nel 577 e tutti gli abitanti perirono o per mano dei nemici o per le epidemie, tanto che a qualche anno di distanza per la città desolata non era possibile trovare un vescovo, né un popolo per un vescovo. Nel 581 fu poi la volta di Napoli, assediata per qualche tempo dai Longobardi di Benevento. Ai tempi di papa Benedetto I (575-579) le devastazioni raggiunsero il territorio romano e il suo biografo ricorda desolato come «il popolo dei Longobardi invase tutta l’Italia e, nello stesso tempo, vi fu una grande fame in modo che anche un gran numero di castelli si consegnò ai Longobardi per poter sopperire alla mancanza di cibo». Roma, stretta dai nemici, soffriva una volta in più per la carestia, con la conseguente mortalità; così il sovrano di Costantinopoli inviò navi dall’Egitto per rifornirla di frumento. La situazione continuava tuttavia a peggiorare e il nuovo papa, Pelagio II, venne consacrato il 26 novembre del 579 senza ricevere la tradizionale ratifica imperiale, perché la città eterna era sotto assedio, probabilmente dalla metà dello stesso anno. Roma non fu presa e i nemici finirono non si sa quando per togliere l’assedio, ma la minaccia longobarda aveva rappresentato un pericolo gravissimo. Mentre si svolgeva l’assedio, osserva il biografo del papa, i Longobardi operavano grandi devastazioni in Italia; gli fa eco anche un’altra fonte, che con immediata efficacia osserva come la gens Langobardorum invadesse tutta la penisola portandosi dietro fame e mortalità. Lo stesso Pelagio II, scrivendo l’anno successivo al vescovo di Auxerre, sottolineava con toni drammatici i tormenti del suo popolo e il pericolo che sovrastava la chiesa: «mentre tanto sangue di innocenti viene sparso, allo stesso modo sono violati i sacri altari e la fede cattolica è insultata dagli idolatri». La sconfitta di Baduario sembra aver avuto come conseguenza anche una crisi dell’autorità centrale in Italia, almeno a giudicare dal fatto che per alcuni anni non sono ricordati nuovi governatori imperiali. Il probabile vuoto di potere pare comunque essere stato almeno in parte colmato dal senato romano e dalla chiesa, e ciò dà un’idea chiara dello stato di abbandono in cui doveva trovarsi la provincia dopo che i Bizantini rinunciarono a esercitarvi un controllo diretto. Nel 578 il senato inviò a Costantinopoli in cerca di aiuto un’ambasceria guidata dal patrizio Panfronio, che doveva essere il caput senatus. Panfronio, un aristocratico illustre, forse discendente di un omonimo attivo sotto Teodorico, aveva probabilmente assolto l’ufficio di praefectus urbis Romae sotto Narsete, per il quale era stato anche in missione diplomatica al tempo della conquista del Nord dell’Italia. Non sappiamo se all’epoca avesse una funzione ufficiale nel governo italiano, ma certamente doveva essere una personalità eminente, tanto da venire scelto per una missione così importante. Panfronio portò con sé tremila libbre d’oro da consegnare all’imperatore, come tradizionale contributo per celebrarne l’incoronazione, e gli chiese i rinforzi necessari per far fronte alla minaccia nemica. L’impegno preminente sul fronte persiano, dove la guerra era ripresa, impedì al sovrano di esaudire la richiesta romana. Tiberio I, di conseguenza, non poté fare altro che restituire il denaro perché fosse usato per corrompere i duchi longobardi e farli passare al servizio dell’impero oppure, se rifiutavano, per comprare contro di loro l’aiuto dei Franchi. L’anno successivo, prima che iniziasse l’assedio di Roma, una nuova legazione romana composta da senatori e sacerdoti prese la via di Costantinopoli. Questa volta l’imperatore fu in grado di inviare un piccolo rinforzo, utilizzando le truppe che aveva a immediata disposizione, e rinnovò nello stesso tempo l’invito a far conto sulla diplomazia per acquisire con l’oro i capi longobardi alla causa bizantina. Qualche dux longobardo passò al servizio di Bisanzio, ma i risultati non furono decisivi, così come senza risultati pratici fu anche la richiesta fatta da Pelagio II al vescovo di Auxerre di adoperarsi per un intervento franco in Italia. I Longobardi continuarono a fare progressi e nel 580 attaccarono il Piceno impossessandosi di Fermo e probabilmente anche di Osimo; in quegli stessi anni fu presa e distrutta Monte Cassino, i cui monaci ripararono a Roma portando con sé il codice della Regola di san Benedetto. Le stragi indiscriminate proseguivano e di queste si ha una significativa memoria nei Dialoghi di san Gregorio Magno, con il ricordo dell’uccisione di decine di contadini, fatti prigionieri in una località sconosciuta, che
non avevano voluto prestarsi ai riti pagani dei loro carcerieri.
2. L’esarcato d’Italia I Bizantini non avevano alcuna intenzione di lasciare l’Italia al proprio destino, ma nello stesso tempo non disponevano delle forze necessarie per affrontare e vincere i Longobardi. Il nuovo imperatore Maurizio, subentrato a Tiberio nel 582, era tuttavia un organizzatore capace e pensò alle due soluzioni possibili per tamponare almeno provvisoriamente la situazione: la prima consisteva nel rafforzare la struttura amministrativa della lontana provincia, così da poter tenere testa ai nemici con le proprie forze; la seconda nel ricorrere all’alleanza militare con i Franchi in modo da supplire alla debolezza dello schieramento militare in Italia. La riforma amministrativa fu attuata attraverso l’introduzione di un nuovo funzionario, con sede a Ravenna, che aveva il titolo di esarca. Su questa innovazione, tradizionalmente attribuita a Maurizio, a dire il vero i pareri degli storici non sono concordi: è vista infatti sia come una intenzionale trasformazione dell’assetto preesistente, sia come una semplice riproposizione del «generalissimo con pieni poteri, già esistente con un nome diverso». L’esarca ripristinava infatti la figura dello strategos autokrator (così definito nelle fonti erudite) creata nel 535 da Giustiniano al fine di conferire a Belisario la suprema autorità per la riconquista dell’Italia; la novità consisteva semmai nel fatto che la carica diveniva permanente, da provvisoria quale era nata, e che l’esarca si trovava ora in una situazione ben diversa, con i nemici insediati stabilmente in Italia e l’impossibilità già ampiamente provata di cacciarli. L’esarca era essenzialmente un governatore militare che esercitava nello stesso tempo un potere molto ampio anche nelle competenze civili, per cui si disse di lui che aveva il regno e il principato dell’Italia intera (regnum et principatus totius Italiae). Come già nell’epoca precedente, l’autorità civile non fu abolita, ma nella pratica quanto ne restava assunse un ruolo sempre più secondario di fronte all’elemento militare, la cui importanza andò crescendo nel corso del tempo fino a divenire predominante. Il prefetto d’Italia, in particolare, si mantenne fino almeno alla metà del VII secolo e, accanto a lui, si hanno isolate testimonianze sul funzionamento delle vecchie strutture dell’amministrazione civile. La preminenza delle necessità difensive, in un’Italia che di fatto si era trasformata in una cittadella assediata, rovesciò tuttavia le tradizionali divisioni di competenze, in linea d’altronde con un generale processo di militarizzazione che in seguito si sarebbe esteso a tutto l’impero, ma che per il momento trovò espressione nell’esarcato d’Italia e in quello costituito negli stessi anni in Africa. Le autorità civili si trovarono in una posizione subordinata rispetto ai capi militari, che esercitavano il loro potere più o meno legittimo in tutti i rami dell’amministrazione pubblica. I nuovi governatori ravennati furono per circa centosettanta anni le figure più eminenti dell’Italia bizantina. Sebbene avessero in primo luogo la suprema autorità militare, non erano necessariamente gente di guerra e, anzi, spesso si trattava di eunuchi che, come già Narsete, godevano della fiducia del loro sovrano senza poter aspirare, in quanto tali, a sostituirlo. Venivano scelti direttamente fra i più alti dignitari palatini e al titolo di funzione univano regolarmente la dignità di patrizio, che li collocava ai vertici della gerarchia nobiliare e al di sopra degli altri magistrati imperiali presenti in Italia. La denominazione ufficiale della carica doveva essere patricius et exarchus Italiae, ma nelle fonti si incontrano anche altre varianti più o meno formali come exarchus, exarchus Italiae, exarchus per Italiam residens Ravennae, patricius Romanorum o anche soltanto patricius. Erano loro riservati gli epiteti di excellentia o excellentissimus e, nell’ampolloso formulario della cancelleria pontificia, il governatore imperiale veniva definito come dominus excellentissimus atque precellentissimus et a Deo nobis longeviter in principalibus ministeriis feliciter conservandus ill. exconsul patricius et exarchus Italiae. Le nostre informazioni sui governatori della provincia imperiale sono assai scarse, malgrado l’importanza che
ebbero nella storia dell’alto Medioevo italiano: allo stato attuale della ricerca non è possibile stabilire una lista sicura né fissarne con esattezza la cronologia. Non abbiamo neppure la certezza del numero: potrebbero essere stati ventiquattro, compresi coloro che rinnovarono l’ufficio, distribuiti cronologicamente tra il 584 e il 751. In alcuni casi, come per i misteriosi Anastasio e Stefano, noti soltanto attraverso due sigilli, non si può neppure dire quando abbiano governato. Secondo alcuni storici il primo esarca ravennate fu il patrizio Decio, in carica nel 584. Il suo nome compare nella lettera scritta da papa Pelagio II al diacono Gregorio, suo rappresentante a Costantinopoli e futuro pontefice, in cui lamentava la situazione tragica di Roma minacciata dai Longobardi e lo invitava a chiedere l’aiuto dell’imperatore Maurizio prima che «l’esercito dei nefandissimi barbari» riuscisse a occupare le località ancora libere. Nella stessa lettera si menziona un «gloriosissimus domnus patricius» di nome Decio e compare per la prima volta il termine esarca riferito al supremo funzionario presente a Ravenna. Il papa si era rivolto a lui perché venisse in soccorso di Roma, ma questi gli aveva risposto di essere a malapena in grado di difendere la sua regione. Non sappiamo chi sia stato il Decio ricordato nella lettera, di cui si ha soltanto questa isolata menzione: il nome suggerisce un’appartenenza alla famiglia senatoriale romana dei Decii, mentre la sua presenza nella lettera papale e il titolo di patricius hanno fatto supporre che sia stato primo esarca ravennate, ma si tratta di una semplice ipotesi. A questa interpretazione pare opporsi il fatto che dal testo sembra piuttosto risultare l’invio in missione a Ravenna di Decio insieme a un diacono di nome Onorato e, di conseguenza, che si tratti di una persona differente dall’exarchus, di cui non viene fatto il nome. Agli ordini dell’esarca si venne progressivamente costituendo una serie di nuovi comandi regionali, retti da duces o magistri militum, che sostituirono i precedenti ducati travolti dall’invasione longobarda. La continua minaccia nemica obbligò poi il governo esarcale a stabilire presidi nelle singole città o nei castelli più importanti, agli ordini di tribuni o comites, gli ufficiali subalterni che finirono ugualmente per far proprie le competenze civili, trasformandosi così, assieme ai vescovi, nelle vere autorità locali. Lo sforzo militare di Bisanzio fu poi rivolto a coinvolgere le popolazioni nella difesa, obbligandole a far parte di milizie locali per rafforzare l’esercito professionale, cronicamente carente di effettivi. La presenza di soldati regolari di Bisanzio, sia pure in modo frammentario, è ricordata dai nomi di una ventina di reparti presenti in Italia e stanziati nelle principali città, che potrebbero dare l’idea di un totale di diecimila uomini. Alcuni numeri, come i già ricordati Persoiustiniani o i Cadisiani di Grado, provenivano dall’Oriente e restarono acquartierati in Italia; altri al contrario erano stati direttamente costituiti in Italia e fra questi ultimi sono da collocare i Tarvisiani, i Veronenses e i Mediolanenses di Grado e Ravenna. La progressiva erosione del territorio italiano aveva portato i Longobardi a incunearsi nei domini imperiali e, di fatto, a trasformare tutta la penisola in una zona di frontiera: dopo la fase caotica della prima conquista, i Bizantini finirono per attestarsi su confini relativamente stabili, per lo più gravitanti sulle città costiere, organizzando un complesso sistema di difesa che garantì la sopravvivenza dei loro residui possedimenti. A Rimini, nel 591, vi era a quanto pare un dux permanente, la cui autorità doveva estendersi alla regione compresa fra Rimini e Ancona, inclusiva dei centri di Urbino, Fossombrone, Iesi, Cagli e Gubbio, che in seguito si trova indicata nelle fonti come Pentapoli. Nel 599 compare per la prima volta un magister militum responsabile dell’Istria, mentre a Roma, nel 584, mancava ancora un comando stabile, ma è probabile che sia stato istituito di lì a poco. Nel 592 papa Gregorio I chiese all’esarca di nominare un dux a Napoli e inviò provvisoriamente un ufficiale inferiore per assumere il comando; nel 598 vi si trovava però in carica già un magister militum, e un dux due anni più tardi. Un ducato dovette essere poi costituito a Perugia, dove nel 592 era attivo un magister militum e, sebbene non si abbiano testimonianze dirette per quest’epoca, è da ritenersi che altre circoscrizioni militari siano state istituite in Liguria e nelle regioni del Meridione. A questi comandi si sarebbero poi aggiunti nel VII secolo i ducati di Ferrara, Venezia e Calabria, il primo dei quali fu legato alla fondazione della nuova città, mentre la regione della Venetia ebbe almeno
occasionalmente un comando separato da quello dell’Istria: forse attestato come tale nel 639, con ogni probabilità questo comando divenne permanente nel 697 con l’istituzione del primo dux nelle isole della laguna. Sempre per i primi anni dell’esarcato abbiamo inoltre qualche notizia sulla presenza di tribuni o comites al comando dei numeri. Li troviamo in attività in diversi centri, fra cui Civitavecchia, con un comes e quindi un tribunus nel 590; nel castello di Miseno, retto da un comes, Napoli, Siponto e Otranto, con i relativi tribuni, Teramo e Terracina alle dipendenze di comites. All’epoca in cui venne costituito, l’esarcato comprendeva più o meno un terzo dell’Italia peninsulare, con possedimenti talvolta staccati gli uni dagli altri e raggiungibili via mare o con un fragile sistema di comunicazione terrestre. Nelle regioni investite dalla prima ondata longobarda la dominazione imperiale era stata infatti in gran parte travolta e si limitava a qualche centro isolato. Nel Nord-Est della penisola restavano a Bisanzio le zone residue dell’antica provincia di Venetia et Histria, con i centri principali di Trieste e Grado in Istria e, in Veneto, le località della costa assieme a un modesto entroterra. Bizantina era anche la Liguria costiera, protetta sui valichi appenninici da una serie di castelli, e tali erano anche buona parte dei territori che gravitavano sull’attuale Emilia-Romagna (che costituivano l’esarcato in senso stretto). La regione sotto il controllo esarcale, dopo Rimini, proseguiva senza soluzione di continuità lungo la costa fino a poco più a sud di Ancona per riprendere poi in una parte della costa e dell’entroterra abruzzesi. Il tratto appenninico fra Marche, Umbria e Lazio, diviso dal punto di vista amministrativo fra i ducati della Pentapoli e di Perugia, era contrassegnato dall’itinerario fortificato che in parte seguiva la Flaminia e, all’altezza del castrum Luceolis, in prossimità di Cagli, imboccava la via Amerina per proseguire fino a Perugia e di qui a Orte e a Roma. Questo percorso alternativo alla Flaminia, resa impraticabile dai Longobardi di Spoleto, formava il cosiddetto «corridoio bizantino», da cui venivano garantite le comunicazioni terrestri fra Roma e la capitale dell’esarcato, separando nello stesso tempo i domini longobardi del Nord da quelli di Spoleto. La sua conservazione risultava di vitale importanza per l’impero e, per questo motivo, era stato fortificato con cura, tanto da far estendere alla parte interna della Pentapoli il nome significativo di «provincia castellorum». Alla presenza bizantina in gran parte del Lazio si contrapponeva nel Sud una dominazione assai ridotta in Campania, nella fascia costiera fra il Volturno e la penisola amalfitana, con i centri principali di Cuma, Miseno, Pozzuoli, Napoli, il castrum Lucullanum, Sorrento, Amalfi e Salerno, ai quali si aggiungevano le isole di Ischia, Procida e Capri. Senza alcun collegamento terrestre con le altre regioni erano infine i residui possedimenti in Puglia, Calabria e Basilicata, dove i Bizantini continuarono a restare presenti malgrado la continua minaccia dei duchi longobardi di Benevento.
3. La contesa per l’Italia Dopo la disastrosa spedizione di Baduario, i Bizantini non affrontarono più i loro nemici in campo aperto. Lo stato di guerra fu pressoché continuo, salvo occasionali remissioni, ma sembra più che altro essersi risolto in operazioni locali di non grande respiro; sta di fatto comunque che, con una lenta azione di logoramento, i Longobardi sottrassero all’impero sempre più territori fino a portarlo al collasso nell’VIII secolo. Alle carenze dell’apparato militare supplivano un’attività diplomatica efficace, spesso coronata da successo, volta a cercare alleanze esterne o a corrompere i duchi longobardi, nonché la militarizzazione delle strutture amministrative, che bene o male permise la sopravvivenza dell’esarcato per più di un secolo e mezzo. I Longobardi, per parte loro, attuarono per lo più una guerra per bande, volta a conquistare singoli punti e a praticare un saccheggio sfrenato. Dopo il 575 l’impero aveva appreso la lezione e considerava i Longobardi come nemici temibili, anche se ancora per un quindicennio furono fatti tentativi per cacciarli dal suolo italiano. L’opinione che se ne aveva dal punto di vista militare risulta chiaramente da quanto si legge nello Strategikon di Maurizio, uno dei tanti trattati di strategia
prodotti a Bisanzio. L’opera venne composta a cavallo fra VI e VII secolo da un generale dell’impero, che alcuni identificano con l’imperatore dallo stesso nome. L’opera appartiene a un filone caratteristico della letteratura bizantina, la trattatistica militare, che è rappresentato fin dalla prima epoca e trova un antecedente significativo nell’opera di un anonimo scrittore di epoca giustinianea. A differenza di quest’ultima, la cui redazione è di poco anteriore, lo Strategikon si distingue però per l’ampiezza e i contenuti, raffigurando un quadro realistico e nello stesso tempo dettagliato dell’arte della guerra, di cui l’autore doveva essere un esperto conoscitore. Particolarmente suggestivo è infine il lungo excursus sui popoli con i quali i Bizantini dovevano misurarsi, a cui è dedicato il libro XI dell’opera, con un’attenta valutazione delle rispettive capacità belliche e una serie di consigli per colpirli nei punti più deboli, come per esempio si propone di fare con i «popoli dai capelli biondi come i Franchi, i Longobardi e altri simili a loro», combattenti eroici ma insofferenti alle privazioni e alle attese troppo lunghe per le battaglie, così che era buona regola evitare di affrontarli cercando piuttosto di logorarli con operazioni di guerriglia: I popoli dai capelli biondi danno grande importanza ai valori della libertà, e sono coraggiosi e intrepidi in battaglia; poiché sono spavaldi e impetuosi, e considerano qualsiasi paura, e perfino una breve ritirata, come una vergogna, disprezzano facilmente la morte. Combattono con furore nel corpo a corpo, sia a cavallo sia a piedi, e se vengono messi in difficoltà in un’azione di cavalleria, smontano a un segnale convenuto e si schierano a piedi; non si ritirano dal combattimento anche se si trovano in pochi ad affrontare molti cavalieri. Sono armati con scudi, lance e spade corte appese alle spalle. Amano combattere a piedi ed effettuare violente cariche. Per la battaglia, sia a piedi sia a cavallo, essi non si schierano secondo uno schema o una formazione prestabilita, o in moire o meros, ma per tribù, riunite secondo le rispettive parentele e affinità, per cui spesso, quando capita che i loro amici vengano uccisi, essi rischiano la vita combattendo per vendicarli. In combattimento formano il fronte della loro linea di battaglia in modo compatto e uniforme. Sia a cavallo sia a piedi sono impetuosi e irrefrenabili nella carica, come se fossero gli unici al mondo a disprezzare la paura. Non obbediscono ai loro capi, sono oziosi, privi di qualsiasi astuzia, saggezza e capacità di capire ciò che è utile, e disprezzano le tattiche, specialmente quando sono a cavallo. Essendo avidi, sono facilmente corruttibili col denaro. Non tollerano la sofferenza e la depressione; per quanto i loro spiriti siano audaci e temerari, i loro corpi sono deboli e molli, e non sono capaci di sopportare facilmente la fatica. Vengono inoltre messi in difficoltà dal caldo, dal freddo, dalla pioggia, dalla mancanza di provviste, specie di vino, e dal rinvio della battaglia. Nel caso di una battaglia di cavalleria essi sono ostacolati da terreni irregolari o boscosi. Possono essere facilmente attaccati a sorpresa sui fianchi e alle spalle dello schieramento, poiché non si preoccupano affatto di usare esploratori o altre misure di sicurezza. Le loro linee vengono facilmente spezzate con una finta fuga e un successivo improvviso contrattacco. Gli attacchi notturni condotti da arcieri infliggono spesso dei danni, dal momento che si accampano in modo disordinato. Nei combattimenti contro di loro bisogna evitare soprattutto di impegnarli in battaglia campale, specialmente nelle fasi iniziali, ma si deve puntare piuttosto a imboscate ben organizzate, manovre furtive e stratagemmi, a prendere tempo e rinviare il momento opportuno, e a fingere accordi con loro, in modo che la mancanza di approvvigionamenti o il disagio del caldo o del freddo raffreddi la loro audacia e il loro ardore. Questo si può ottenere se il nostro esercito si è accampato su un terreno difficile e irregolare, dove il nemico non può attaccare con successo perché fa uso di lance. Se invece si presenta l’opportunità di una battaglia regolare, si deve
schierare l’esercito come è stato indicato prima nel libro delle formazioni. Era naturalmente teoria. Nella pratica, per i soliti motivi di carenza di informazioni, sappiamo poco di quanto effettivamente succedesse, ma a giudicare dai fatti è da ritenersi che per lo più i Bizantini avessero la peggio, cosa che li costringeva spesso a cedere centri fortificati o ad assistere passivamente ai saccheggi del territorio italiano. La già ricordata lettera di papa Pelagio II è illuminante sullo stato di abbandono in cui si trovava l’Italia: «la maggior parte del territorio romano è privo di presidio e l’esarca ci scrive che non ci può dare alcun aiuto, dato che afferma di non essere neppure in grado di custodire le parti in cui risiede». Senza un intervento imperiale «l’esercito della gente nefandissima» avrebbe occupato le località che ancora restavano a Bisanzio. L’imperatore Maurizio era molto attento alla situazione italiana. Proseguì l’azione diplomatica volta a corrompere i nemici, con risultati positivi, a giudicare dal fatto che alcuni duchi inviarono un’ambasceria a Costantinopoli per chiedere la pace e la protezione dell’impero. Il tentativo più importante fu comunque compiuto per far entrare in guerra i Franchi contro i loro nemici longobardi. Nel 583 ambasciatori bizantini raggiunsero in Gallia il merovingio Childeberto II e ne comprarono al prezzo enorme di cinquantamila solidi d’oro (si pensi che il solidus conteneva 4,55 grammi di oro) l’alleanza contro i Longobardi. L’anno seguente un esercito franco al comando dello stesso re scese in Italia, senza tuttavia combinare niente di buono per l’impero. I Longobardi in difficoltà trattarono con gli invasori impegnandosi a riconoscerne la sovranità e a pagare loro un tributo e i Franchi, tradizionalmente molto disinvolti in fatto di alleanze, accettarono ritirandosi nei loro territori. Scampato il pericolo, i Longobardi decisero di abbandonare l’anarchia in cui erano vissuti nell’ultimo decennio, forse anche perché intimoriti dalla presenza di un esarca, e si diedero un nuovo re nella persona di Autari figlio di Clefi. Erano soliti eleggere un re in caso di guerra e, in questo caso, i duchi per rafforzarlo si tassarono per metà delle rispettive sostanze che confluirono nel patrimonio regio. Non tutti furono d’accordo, però, e un duca omonimo del re passò con i suoi al servizio di Bisanzio. Autari cercò di dare al suo potere un aspetto più presentabile agli occhi degli Italici vinti, superando la brutalità della prima fase della conquista. Non rinunciò comunque alla politica espansionista e continuò ad assalire i territori imperiali: attaccò Brescello, sulla riva destra del Po, costringendola a capitolare nonostante la strenua resistenza del presidio. Non sappiamo quale esarca fosse in carica in questo momento e, se si esclude il misterioso Decio, è possibile che l’incarico fosse svolto da Smaragdo, un dignitario eunuco di corte, la cui presenza in Italia è sicura dal 585-586 e che vi restò fino al 588-589, per poi tornarvi nella stessa veste dal 603 al 608. Improbabile a ogni modo che abbia preso parte alle operazioni militari, in cui non risulta esservi stata una presenza bizantina. L’imperatore reagì in malo modo al voltafaccia franco e scrisse a Childeberto II una lettera con la quale lo ammoniva a rispettare i patti, pretendendo la restituzione del denaro che gli era stato dato. Il re franco non si degnò neppure di rispondere, ma alla fine le forti pressioni imperiali lo convinsero nel 585 a intervenire di nuovo in Italia e, a quanto pare, sulla sua decisione pesò la notizia, peraltro falsa, che la sorella fosse tenuta prigioniera a Costantinopoli. Questa volta Childeberto II restò in patria e affidò il comando dell’impresa ad alcuni suoi duchi, destinandola così al fallimento: gelosi l’uno dell’altro, i comandanti franchi altro non fecero che litigare fra loro e alla fine tornarono indietro a mani vuote. Autari, soddisfatto per l’esito, riprese a sua volta l’offensiva contro i Bizantini sottraendo loro altri territori e Smaragdo alla fine fu costretto a concludere una tregua triennale, la prima dopo l’invasione, a decorrere dallo stesso anno o dall’inizio del successivo. La tregua era quanto mai fragile e la guerra riprese alla scadenza. Questa volta l’iniziativa partì dai Franchi: con uno dei soliti voltafaccia, ora però in direzione inversa, Childeberto II mise fine ai buoni rapporti che aveva stabilito con Autari e assunse un atteggiamento ostile nei confronti del Longobardi. Verso l’estate del 588 un esercito franco arrivò di nuovo in Italia, ma venne sconfitto da Autari e costretto a rientrare in patria. Nei primi mesi del 590, infine,
i Bizantini concordarono un’azione congiunta con i Franchi e nel corso dell’anno il re franco inviò in Italia un esercito al comando di venti duchi che si divisero in tre colonne; nello stesso tempo scesero in campo gli imperiali, guidati dal nuovo esarca Romano, un militare di carriera da poco entrato in carica. All’inizio andò tutto bene per gli alleati, da cui i Longobardi vennero costretti a porsi sulla difensiva, ma all’inizio dell’estate i Franchi, che erano arrivati fino a Verona, furono colpiti dalla dissenteria e rientrarono precipitosamente in patria. L’esarca ravennate, che aveva riconquistato alcuni centri del Nord e da altri aveva ottenuto la sottomissione, non condivise però questa versione dei fatti: scrivendo al re poco più tardi sostenne che il duca franco accampato in prossimità di Verona aveva tradito accordandosi con Autari ed era quindi mancato al previsto ricongiungimento con gli imperiali. Diversamente, a suo giudizio, la vittoria sarebbe stata a portata di mano e avrebbe liberato l’Italia «dalla nefandissima gente dei Longobardi». Chiedeva quindi un nuovo intervento prima dell’autunno e nello stesso tempo di liberare i prigionieri italici che i Franchi, in spregio ai patti, si erano portati via nel loro devastante intervento nella penisola. L’appello rimase inascoltato e, di fronte al quarto fallimento, i Bizantini rinunciarono definitivamente all’inutile collaborazione militare, attestandosi sulla difensiva. Il 590 e il successivo furono anni di svolta per la storia dell’Italia bizantina. L’impero rinunciò alle velleità aggressive, mentre il re Autari, morto il 3 settembre del 590, venne sostituito dal duca di Torino Agilulfo, che ne sposò la vedova Teodolinda e ottenne nel maggio del 591 l’investitura dai capi longobardi. Morì anche papa Pelagio II e il papato passò al più energico Gregorio I (3 settembre 590), destinato a lasciare una forte impronta di sé. I grandi ducati longobardi di Spoleto e di Benevento infine passarono in mano a forti personalità: Ariulfo a Spoleto e, probabilmente nel 591, Arichis a Benevento. L’avvento di papa Gregorio Magno coincise con l’accentuarsi della pressione longobarda sui territori dell’Italia centrale e meridionale. Di fronte all’inerzia delle autorità imperiali, in più occasioni il pontefice si assunse personalmente l’onere di soccorrere le popolazioni vessate dai nemici; a volte si spinse anche più in là, svolgendo funzioni di pertinenza dell’autorità pubblica, come la disposizione delle forze militari, la nomina di comandanti nelle città o anche la conclusione della pace con i nemici, anticipando così nella sostanza l’acquisizione del potere temporale da parte dei papi. Tra 590 e 591 i Longobardi saccheggiarono Fano, Minturno e Tauriana in Calabria, insieme ad altri centri minori; dal punto di vista del pontefice la minaccia peggiore pesava però su Roma, esposta all’attacco di Ariulfo e difesa da modeste forze imperiali. Gregorio I diede istruzioni ai generali bizantini che operavano fuori dall’Urbe, ma non poté evitare la catastrofe nell’estate del 592, quando Roma venne assediata dal duca di Spoleto. La richiesta di aiuto a Ravenna cadde nel vuoto e il papa trattò direttamente con Ariulfo. Questi, seguendo l’esempio di due suoi guerrieri, tornati poi a combattere con i Longobardi dato che i loro compensi non venivano pagati, sarebbe passato volentieri al servizio di Bisanzio, ma non se ne fece nulla e Gregorio I riuscì a mettere fine all’assedio pagando una somma di denaro attinta al tesoro papale. Lo scampato pericolo per Roma non alleggerì la pressione longobarda e nel 592 fu la volta di Tres Tabernae, in prossimità di Velletri, e poi di Fondi e di altre località. San Gregorio Magno si rendeva conto dell’impossibilità di contenere la guerra per bande dei Longobardi con le esigue forze dell’impero e aspirava a concludere una pace duratura con i nemici. Di tutt’altra opinione era l’esarca Romano, per il quale il papa aveva una decisa antipatia, che ragionava come un militare ed era intenzionato a mantenere le posizioni strategiche in Italia. Verso la fine del 592, senza avvertire il papa, Romano partì da Ravenna con le sue forze, raggiunse via mare Roma e di qui, prelevando i soldati che vi trovò, andò a sbloccare il corridoio viario interrotto dai Longobardi di Spoleto. Il suo intervento sospese le trattative avviate da Gregorio I e provocò a tal punto i nemici che nel 593 il re Agilulfo in persona si mosse da Pavia per riprendere Perugia, il cui duca era passato dalla parte dell’impero, e andare ad assediare Roma. Romano non si mosse da Ravenna e la città fu difesa alla meglio dalle poche forze presenti; ancora una volta però l’onere maggiore ricadde sul papa, che convinse il re a
ritirarsi al prezzo di cinquecento libbre d’oro per mettere fine alle devastazioni. Perugia tornò all’impero, ma verso il 594 fu la volta di Capua, presa dai Longobardi meridionali, il cui clero riparò a Napoli. Era troppo per il papa e questi si adoperò con tutte le sue forze per arrivare a un accomodamento con gli invasori. L’esarca Romano venne a più miti consigli chiedendo nel 595 un armistizio ad Agilulfo e le trattative andarono avanti nonostante i nuovi attacchi che colpirono la Campania e la Calabria, dove fu presa Crotone. Romano morì mentre era in carica nel 596 o 597 e il suo successore, Callinico, si mostrò più disponibile: si arrivò quindi a concludere un armistizio biennale, in vigore probabilmente dall’inizio del 599, dovuto soprattutto agli sforzi del papa e della regina Teodolinda, che aveva influito sul marito. I Bizantini nel frattempo (nel 598) avevano messo in atto una delle rare controffensive nel Piceno longobardo riconquistando una porzione di territorio che si estendeva fino a Osimo. Alla scadenza dell’accordo Callinico cercò forse di approfittare dell’insurrezione dei duchi del Friuli e di Torino e, per assicurarsi una posizione di forza nel rinnovo delle trattative, catturò a Parma la figlia di Agilulfo insieme al marito, ai figli e a tutti i loro beni, portandoli a Ravenna. Fu un errore: Agilulfo portò l’assedio a Padova, conquistata e almeno in parte distrutta nel 601 insieme al castello di Monselice, che cadde l’anno successivo. Callinico venne rimosso dall’incarico e sostituito da Smaragdo, in carica per la seconda volta, che nulla poté fare per opporsi all’attacco longobardo: il 21 agosto 603 cadde Cremona e meno di un mese più tardi fu la volta di Mantova e quindi del castello di Vulturina in prossimità di Mantova, la cui guarnigione in fuga diede fuoco alla vicina Brescello. Smaragdo dovette cedere: restituì i prigionieri illustri e concluse una breve tregua destinata a durare dal settembre del 603 all’aprile del 605, durante la quale il papa morì (il 12 marzo 604). Si infrangevano così i suoi sogni di arrivare a una pace duratura e la situazione tornava a farsi critica. Nell’estate del 605 i Longobardi occuparono Orvieto e Bagnoregio, e in novembre Smaragdo concluse una nuova tregua di un anno al prezzo di dodicimila solidi; la tregua fu rinnovata poi per altri tre anni e di nuovo verso il 609, per durare quindi con altri rinnovi fino al 616. Alla relativa tranquillità esterna fece riscontro una forte instabilità interna, indice del crescente allentamento dell’autorità bizantina in Italia in un’epoca in cui, anche a Costantinopoli, il governo centrale era fortemente indebolito. Verso il 615 infatti l’esarca Giovanni venne ucciso a Ravenna insieme ai suoi funzionari a seguito di una ribellione da ritenersi legata all’ambiente militare e, più o meno nello stesso periodo, un certo Giovanni di Conza s’impadronì di Napoli, di cui si proclamò signore. L’imperatore allora in carica, Eraclio, reagì inviando come nuovo esarca d’Italia l’eunuco Eleuterio, che tolse di mezzo Giovanni di Conza e proseguì per Ravenna, dove pagò il soldo alla truppa che si era forse ribellata per il cronico ritardo della paga. Approfittando poi della morte di Agilulfo, nel maggio 616, e della debolezza del successore, Eleuterio attaccò i nemici uscendone però ripetutamente sconfitto. A questo punto gli passò per la mente una strana idea e pensò di farsi proclamare imperatore di Occidente, nonostante fosse un eunuco: il disegno però fallì ed Eleuterio venne ucciso dai soldati lealisti mentre si recava a Roma per essere incoronato dal papa. I Longobardi ripresero l’espansione su larga scala con l’avvento al trono del re Rotari nel 636, di fronte al quale per alcuni anni si trovò l’esarca Isacio, un valoroso soldato originario dell’Armenia. Come prima mossa Rotari liquidò gli ultimi possedimenti bizantini nella terraferma veneta, che caddero intorno al 639 costringendo gli imperiali a ripiegare verso le lagune. Nel 643 inoltre Rotari lanciò un attacco a fondo all’esarcato al fine di impossessarsi di Ravenna per essere però arrestato, pare, lungo le rive del Panaro in uno scontro sanguinoso in cui potrebbe essere caduto anche l’esarca: successione dei fatti e cronologia sono comunque molto incerti, anche se è sicuro che Isacio morì in quell’anno. Fu quindi la volta della Liguria, sottomessa interamente dal confine occidentale con il regno dei Franchi fino a Luni. Caddero così in mano longobarda Genova, Albenga, Varigotti, Savona e la stessa Luni, che furono tutte – a quanto si tramanda – distrutte fino alle fondamenta. Più o meno nello stesso periodo, inoltre, i Longobardi di Benevento si impossessarono di Salerno e devastarono la vicina Nocera.
Seguì un ventennio di calma finché, nel 663, l’imperatore Costante II sbarcò a sorpresa a Taranto con un grande esercito proveniente dall’Oriente. Non è del tutto chiaro quale scopo avesse; sta di fatto che andò ad aggredire il ducato di Benevento, attaccò senza successo Acerenza, prese Lucera e si recò ad assediare la capitale. Il duca Romualdo resistette coraggiosamente e nello stesso tempo chiese aiuto al padre, il re Grimoaldo. Costante II preferì evitare lo scontro e, venuto a patti con Romualdo, ripiegò su Napoli: durante la marcia, a quanto sembra, il suo esercito subì una sconfitta a opera dei Longobardi di Capua e, qualche tempo più tardi, una parte delle forze imperiali uscite da Napoli furono messe in fuga da Romualdo a Forino, in prossimità di Avellino. A questo punto l’imperatore rinunciò ad affrontare di nuovo i nemici: visitò Roma, dove si trattenne per alcuni giorni, tornò quindi a Napoli e infine prese la via di Siracusa in cui stabilì la propria residenza per restarvi fino al 668, quando venne assassinato. Il re longobardo per parte sua riprese la via del ritorno e durante il cammino distrusse Forlimpopoli, rea di aver ostacolato la sua marcia verso sud. Lo stesso trattamento toccò a Oderzo, tornata probabilmente nell’area imperiale dopo essere stata presa da Rotari, il cui territorio fu spartito fra le città vicine. Non si registrano altri fatti militari negli anni seguenti, anche se è verosimile che – soprattutto nelle zone di confine – la tensione fra le due parti fosse sempre alta. Verso il 680 intervenne un fatto nuovo: un trattato di pace fra Bisanzio e il regno longobardo, con il quale per la prima volta l’impero riconosceva ai Longobardi il possesso del territorio conquistato al fine di stabilire una pacifica convivenza sulla base delle rispettive giurisdizioni. Si realizzava così, dopo parecchi decenni, il sogno di san Gregorio Magno, ma il rovescio della medaglia per i Bizantini fu un passo avanti nell’erosione del loro potere nella penisola, messo in difficoltà dalle tendenze autonomistiche dei capi militari locali. I Longobardi già dal tempo di Agilulfo si erano avvicinati alla civiltà romana e nello stesso tempo il forte impulso alle conversioni al cattolicesimo nella seconda metà del VII secolo a opera del re Pertarito, sul trono dal 671 al 688, ne facevano ora una potenza rispettabile e non più i persecutori violenti delle origini. A guadagnarne era soprattutto la chiesa romana, la cui strisciante ostilità al dominio bizantino in Italia non era venuta mai meno e che ora ne era la più forte antagonista. A parte una furiosa repressione ordinata a Ravenna da Giustiniano II nel 710, non si ebbero grandi fatti di sangue. Il potere degli esarchi però si indeboliva di continuo e il controllo dell’Italia imperiale sfuggiva sempre più dalle loro mani, mentre i capi dei grandi ducati longobardi, tradizionalmente riottosi al potere del re, non perdevano occasione per allargare i loro domini anche durante il periodo di pace. Verso il 687 il duca Romualdo attaccò i possedimenti imperiali in Puglia impossessandosi di Taranto e Brindisi con la regione circostante. Restavano ai Bizantini soltanto l’estremità della penisola salentina, con Otranto e Gallipoli, e la Calabria meridionale (che probabilmente a quel tempo prese il nome portato tuttora, abbandonando quello romano di Bruzio). E ancora attorno al 702 Gisulfo I duca di Benevento investì il ducato romano prendendo Sora, Arpino e Arce, spingendosi poi, in una successiva incursione, fino a poca distanza da Roma. Il papa terrorizzato gli inviò sacerdoti con ricchi doni per riscattare i prigionieri e convincerlo a rientrare nelle sue terre: Roma così fu salva, ma le tre località restarono in mano longobarda. Infine, approfittando della confusione che regnava in Italia dopo la morte di Giustiniano II, nel 711, il duca di Spoleto Faroaldo II fra 712 e 713 fece la sua parte conquistando Classe e mettendo così in pericolo la stessa sopravvivenza della capitale dell’esarcato. L’esarca ravennate (forse si trattava dell’eunuco Scolasticio) a quanto pare non fece nulla; intervenne però il re Liutprando, che ingiunse al duca di restituire la città all’esarcato. I tempi non erano ancora maturi per un attacco a fondo ai possedimenti bizantini e Liutprando non intendeva guastare i buoni rapporti fra il regno e l’impero. L’occasione arrivò nel 717. Il nuovo sovrano di Bisanzio, Leone III, era impegnato a fondo con gli Arabi e lasciò abbandonata a sé stessa la provincia italiana; Liutprando non rimase a guardare e concordò con i titolari dei due principali ducati un’azione iniziata probabilmente nel 717 con la presa del castello di Cuma da parte del duca di Benevento. Papa Gregorio II, pesantemente coinvolto nelle vicende politiche per la latitanza del potere imperiale,
fece pressione sui Beneventani perché lo restituissero ma, non avendo raggiunto lo scopo, ottenne l’aiuto del duca di Napoli che, assieme a truppe da lui inviate, recuperò Cuma. L’operazione gli costò cento libbre d’oro, ma la sua soddisfazione fu attenuata dalla più o meno contemporanea presa di Narni a opera del duca di Spoleto. Il re Liutprando fece la sua parte sferrando un attacco al cuore dell’esarcato: assediò per un po’ Ravenna e prese Classe. Si ritirò dopo poco tempo, ma era suonato per Bisanzio un pericoloso campanello di allarme che annunciava la disgregazione dei domini italiani. Le popolazioni italiane, almeno del Centro e del Nord, erano in gran parte insofferenti al dominio di Bisanzio e la goccia che fece traboccare il vaso fu l’introduzione della nuova dottrina iconoclasta, che vietava il culto delle immagini. Probabilmente nel 727 gli eserciti (ossia le popolazioni militarizzate) della Pentapoli e della Venezia insorsero contro Bisanzio in nome dell’ortodossia religiosa e qualche tempo dopo a Ravenna fu ucciso l’esarca Paolo in circostanze che ignoriamo. Per vendicare la sua morte, a quanto pare, i Bizantini inviarono una spedizione punitiva dalla Sicilia, ma questa venne intercettata e distrutta dai Ravennati in prossimità di Classe. Nel 727 entrò in carica l’ultimo esarca di Ravenna, l’eunuco Eutichio, che a differenza di tutti i suoi predecessori fu lasciato al governo dell’Italia per un lungo periodo. Di fatto Eutichio non aveva però nulla da governare: il potere reale era passato ai papi e ai capi dell’aristocrazia, da cui dipendevano le milizie locali. Fin dal VI-VII secolo, infatti, il reclutamento dei soldati era stato fatto in Italia e questi soldati si riconoscevano nei loro comandanti, la cui fedeltà a Bisanzio era molto labile. Ai papi, per parte loro, premeva soprattutto difendere Roma, ma né Gregorio II né i suoi immediati successori ebbero intenzione di accettare come nuovi padroni i Longobardi e cercarono con ogni mezzo di mantenere in vita il dominio imperiale, nonostante i contrasti dottrinali con Bisanzio, anche quando questo era ridotto a una pura apparenza. Si ebbe così una situazione di estrema confusione, durata per ventiquattro anni, in cui tutti i protagonisti si muovevano sulla scena senza che vi fosse più un controllo centrale. Eutichio fu un capo senza eserciti e senza potere. I padroni della scena erano ormai i Longobardi, con Liutprando che aspirava a tenere a bada i suoi duchi riottosi e a sottomettere l’intera Italia, e il ducato di Roma, ossia il papa, che divenne un soggetto politico e non una semplice circoscrizione dell’Italia imperiale. Nella confusione generale si formarono anche alleanze innaturali, come quella fra l’esarca e il re longobardo, che permise al re di riportare all’obbedienza Spoleto e Benevento e all’altro di entrare in Roma, da cui il papa lo escludeva. La situazione militare continuava però a precipitare. Nel 727 i Longobardi si annessero alcuni castelli a ovest di Bologna e una parte della Pentapoli con la città di Osimo; poco dopo, o forse allo stesso momento, fu presa anche Bologna. Ancora in quell’anno o nel successivo fu poi la volta del castello di Sutri, appartenente al ducato romano. Gregorio II scrisse più volte a Liutprando esortandolo a restituirlo e, dopo centoquaranta giorni di occupazione, a prezzo di un consistente riscatto il re lo rese, non senza averlo prima depredato di ogni ricchezza, donandolo «agli apostoli Pietro e Paolo» con una formula di concessione che pare configurare il trasferimento di diritti sovrani al papa. Eutichio con l’aiuto di truppe romane domò nella Tuscia romana la ribellione di un certo Tiberio Petasio, poi si insediò a Ravenna, che a sua volta finì nell’occhio del ciclone. In una data non certa, ma che potrebbe essere il 732, mentre il re era impegnato nel ducato di Benevento, suo nipote Ildeprando, insieme al duca di Vicenza Peredeo, si impadronì infatti di Ravenna, in modi e circostanze a noi sconosciute, costringendo l’esarca a fuggire nelle lagune veneziane e a chiedere l’aiuto militare del duca Orso. Il nuovo papa Gregorio III, a sua volta scrisse allo stesso duca e al patriarca di Grado, Antonino, perché appoggiassero l’esarca; una flotta veneta mosse così alla volta della città, riprendendola con una dura lotta, nel corso della quale Peredeo fu ucciso, mentre Ildeprando cadde prigioniero per essere rilasciato qualche tempo più tardi. Probabilmente a seguito di questa vittoria i Bizantini tentarono un contrattacco per riconquistare Bologna, ma l’esercito condotto dal duca di Perugia Agatone fu affrontato e sconfitto dai tre comandanti longobardi che la presidiavano. Nel 739 Liutprando assediò senza successo Roma, rea ai suoi occhi di aver sostenuto il duca ribelle di Spoleto,
che aveva costretto a fuggire, e ritornando verso Pavia prese i centri di Amelia, Orte, Polimarzo e Blera, interrompendo così di nuovo il corridoio bizantino. Eutichio non era in grado di intervenire e l’onere di chiedere la restituzione dei centri laziali ricadde sul papa: Gregorio III, seguendo un piano concordato con Ravenna, offrì aiuto militare al duca di Spoleto per farlo rientrare nella sua città e nello stesso tempo sostenne a Benevento una fazione autonomista nemica del re che aveva finito per prevalere. Liutprando non restò a guardare e nel 740 aggredì di nuovo la regione ravennate e fece i preparativi per un attacco a Roma. Il successore di Gregorio III, Zaccaria, di fronte al pericolo imminente cambiò partito abbandonando l’alleanza con il duca di Spoleto, che nonostante l’impegno preso non aveva restituito le quattro cittadine, e rinnovò le trattative con il re. Nel 742 Liutprando riprese il controllo di Spoleto e di Benevento e restituì i quattro centri insieme al patrimonio della chiesa passato sotto il controllo longobardo. Per arrivare allo scopo papa Zaccaria lo aveva incontrato a Terni stipulando una pace ventennale con il ducato romano, che prevedeva anche la restituzione dei prigionieri. Nel 744 Liutprando si sentì abbastanza forte per dare il colpo definitivo all’esarcato: ne superò i confini occupando Cesena e apprestandosi ad assediare Ravenna. Eutichio, impotente a fermarlo, chiese aiuto al papa e Zaccaria, dopo il fallimento della legazione inviata, andò personalmente a incontrare il re a Pavia, ottenendo di far cessare le ostilità in attesa che l’intera questione fosse trattata a Costantinopoli. Ma era solo una breve tregua: il successore di Liutprando, Ratchis, nonostante la pace conclusa con il papa, nel 749 attaccò la Pentapoli. Il papa intervenne e Ratchis, che era un buon cristiano, lo ascoltò; il fratello e successore Astolfo ebbe però meno scrupoli e nel 750 si impadronì di Ferrara, di Comacchio e dell’Istria. Nell’estate del 751, se non prima, si ebbe l’epilogo, anche se non si sa in che modo avvenne. Sappiamo soltanto che il 4 luglio di quell’anno nel palazzo di Ravenna, che già era stato dell’esarca, il re vincitore emise un diploma a favore dell’abbazia laziale di Farfa. Era così finito in sordina l’esarcato d’Italia e neppure si sa che fine abbia fatto Eutichio, di cui le fonti non fanno più menzione.
4. I contrasti con la chiesa di Roma L’antagonismo fra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, e di conseguenza gli imperatori, che della loro chiesa erano il braccio armato, aveva radici profonde e si manifestò in tutta la sua virulenza durante il dominio bizantino. Nelle grandi controversie teologiche del V secolo Roma si era schierata contro Costantinopoli sulla questione del nestorianesimo, la dottrina secondo cui in Cristo vi sarebbe stata solo la natura umana, e lo stesso fece poco più tardi sul monofisismo, per cui al contrario in Cristo sarebbe esistita soltanto la natura divina. Nestorianesimo e monofisismo vennero sconfitti rispettivamente al concilio di Efeso nel 431 e a quello di Calcedonia del 451 e la cosa per il momento finì lì. Si trattava comunque di contrasti dottrinali, mentre nel 484 la situazione assunse una piega più preoccupante. L’imperatore Zenone pubblicò l’Henotikon, un editto in materia di fede, che cercava una conciliazione fra ortodossi ed eretici, ma Roma si oppose e si arrivò a uno scisma fra le due sedi episcopali che fu detto scisma di Acacio, dal nome del patriarca di Costantinopoli, e che durò fino al 519, quando venne ricomposto da Giustino I; ma con l’arrivo dei Bizantini in Italia le cose andarono ancora peggio. Nel 537 papa Silverio venne deposto con l’accusa di essere dalla parte degli Ostrogoti che assediavano Roma. Il successore, Vigilio, messo sul trono da Belisario, si trovò suo malgrado impelagato nelle controversie dogmatiche e ne fece pesantemente le spese. Nel 543-544 Giustiniano pubblicò infatti un editto in tre capitoli per cercare un accordo con i monofisiti, il cui potere era forte soprattutto in Egitto e rappresentava un problema per l’autorità centrale, poiché si identificava con le tendenze autonomistiche locali: in esso si condannavano le opere dei tre teologi orientali Teodoreto di Ciro, Iba di Edessa e Teodoro di Mopsuestia, accolte dal concilio di Calcedonia nel 451 ma rigettate dai monofisiti in quanto sospette di nestorianesimo. Questa sua iniziativa venne accolta dai
patriarchi orientali, ma fu respinta in Occidente e papa Vigilio evitò prudentemente di pronunciarsi. Giustiniano non era comunque persona da accontentarsi di un ambiguo silenzio e, bisognoso dell’approvazione papale, passò alle vie di fatto facendo prelevare il papa a Roma il 22 novembre del 545 da un distaccamento della guardia imperiale per condurlo a forza a Costantinopoli. Vigilio arrivò nella capitale dell’Oriente soltanto nel 547 e qui resistette per qualche tempo alle pressioni che gli venivano fatte; da ultimo finì per cedere e, nel 548, condannò sia pure con riserve i Tre Capitoli, come ora si chiamavano le opere messe al bando dall’editto imperiale. Il documento di condanna (Iudicatum) venne respinto dai vescovi occidentali, suscitando tali proteste che il papa cambiò idea: fece pressioni sull’imperatore per il ritiro e ottenne da lui la promessa di convocare un concilio ecumenico. Nel 551 Giustiniano pubblicò un nuovo editto contro i Tre Capitoli e, questa volta, il papa si oppose. Temendo l’ira del sovrano, si rifugiò con il suo seguito in una chiesa, dove fu maltrattato dalla polizia imperiale che cercò di arrestarlo, senza però riuscirvi. Dopo l’incidente, Giustiniano passò a più miti consigli e convinse il papa a tornare nel palazzo in cui era ospitato più o meno da prigioniero. Si ebbero in seguito altri motivi di contrasto fra Vigilio e i suoi avversari e trascorsero altri due anni finché, nel 553, venne finalmente convocato nella capitale il quinto concilio ecumenico, ai lavori del quale il papa rifiutò di partecipare. Il concilio sancì la condanna dei Tre Capitoli ma Vigilio, con il suo Constitutum del 553, si limitò ad assumere una posizione intermedia, con una condanna soltanto parziale degli scritti. L’anno successivo finì tuttavia per capitolare assecondando la volontà di Giustiniano e ottenne il permesso di rientrare in patria, morendo durante il viaggio, a Siracusa, il 7 giugno del 555. Il successore, Pelagio I, non ebbe grande libertà di movimento di fronte al potere imperiale e accettò di sostenere la politica religiosa di Costantinopoli. La sua stessa elezione era stata fortemente contrastata da una fazione ecclesiastica avversa e, alla fine, era riuscito a imporsi soltanto a seguito di un deciso intervento di Narsete. Giustiniano aveva ottenuto ciò che voleva, anche se a conti fatti i risultati furono deludenti soprattutto in Occidente, dove i metropoliti di Milano e di Aquileia rifiutarono di entrare in comunione con Pelagio I, dando l’avvio a uno scisma, chiamato appunto lo «scisma dei Tre Capitoli», che sarebbe sopravvissuto allo stesso imperatore fino a durare per più di un secolo. Gli esarchi, in quanto esecutori della volontà imperiale, continuarono in seguito a ingerirsi nelle questioni religiose, a cui i sovrani di Costantinopoli erano tradizionalmente attenti e che, spesso, risolvevano secondo il loro tornaconto politico. Smaragdo, in accordo con papa Pelagio II, si adoperò per mettere fine allo scisma tricapitolino e verso il 587, non si sa se di propria iniziativa o in base a un ordine ricevuto, andò a Grado per arrestarvi il patriarca Severo, insieme ad altri membri del suo clero, e portarlo a Ravenna. Qui lo costrinse a rinnegare il credo scismatico e lo tenne prigioniero per un anno per poi rimandarlo a Grado, dove Severo si affrettò a rigettare la riconciliazione con Roma. La questione era scottante perché l’area veneta si presentava ormai come terra di confine e vi era il rischio che i vescovi locali passassero ai Longobardi, interessati protettori degli eretici. Smaragdo si trovò contro molti oppositori e le proteste suscitate dalla sua brutalità gli costarono il richiamo a Costantinopoli. L’esarca Romano fu invece insensibile alle questioni religiose e, nonostante le pressioni del papa, non si curò degli eretici, mentre Smaragdo nel corso del secondo incarico fu probabilmente più intransigente, tanto da inasprire gli animi al punto che nel 606 finirono per esserci due patriarchi rivali: uno eletto dagli scismatici ad Aquileia e l’altro dagli ortodossi a Grado. Lo scisma alla fine venne ricomposto verso la fine del VII secolo, ma i due patriarchi antagonisti restarono. Al tempo di Isacio le controversie ripresero vigore e la repressione imperiale si fece avvertire in tutta la sua forza. La minaccia araba sulle province periferiche spinse l’imperatore Eraclio a cercare un accordo con i monofisiti per evitare che questi favorissero gli invasori, più tolleranti in materia di fede rispetto al governo centrale bizantino. Eraclio e i suoi collaboratori ecclesiastici giunsero perciò a elaborare una dottrina tanto complessa quanto futile, il monoenergismo, secondo cui nel Cristo vi sarebbero state due nature ma un’unica forza agente. Agli effetti pratici, tuttavia, non vennero ottenuti i risultati voluti e, a qualche anno di distanza, il patriarca di Costantinopoli Sergio
propose una variazione sul tema, con il monotelismo, che attribuiva al Cristo due nature e un’unica volontà. In questo modo si pensava di accontentare sia i monofisiti sia i duofisiti, sostenitori dell’esistenza delle due nature in Cristo, e l’imperatore avallò la nuova formulazione ufficializzandola nel 638 con un editto dal titolo di Ekthesis. L’esito fu però del tutto negativo, una volta in più: l’Ekthesis venne respinta tanto dagli uni quanto dagli altri, in particolare da Roma, dove fu decisamente ripudiata dai successori di papa Onorio, morto nel 638, che inizialmente si era mostrato propenso a sostenere il monoenergismo. L’idea dell’autonomia religiosa dei papi non era naturalmente nell’ottica dei sovrani di Bisanzio, tanto di Eraclio quanto a suo tempo di Giustiniano, e Isacio ebbe l’ordine di soffocare l’opposizione, senza tuttavia agire troppo apertamente per non rivelare il vero intento della sua missione. L’occasione gli fu offerta dal ritardo della paga della guarnigione romana. Il chartularius Maurizio, che doveva essere il governatore militare di Roma, nel 640 aizzò i soldati contro il nuovo pontefice Severino accusandolo di avere occultato le paghe venute da Costantinopoli e questi, al colmo dell’ira, assalirono l’episcopio lateranense dove si conservava il tesoro papale. Il clero fece resistenza, ma dopo qualche giorno i Bizantini riuscirono a entrare, seguiti da Maurizio con i suoi funzionari che fecero un inventario di tutto quanto vi trovarono. Il chartularius scrisse quindi a Isacio a Ravenna e l’esarca si recò a Roma, esiliando come prima cosa i primates ecclesiae in diverse città; fece quindi il suo ingresso in Laterano e per otto giorni consecutivi provvide ad asportare ogni ricchezza, inviandone parte al suo sovrano. Dopo l’ordinazione di Severino, infine, tornò a Ravenna. Il biografo di papa Teodoro osserva con malcelata soddisfazione che Isacio morì colpito dalla collera divina, ma questo non sposta i termini della vicenda, in cui erano risultate evidenti la forza dell’impero e la debolezza del papato. Il peggio per Roma comunque doveva ancora arrivare: nel 648 Costante II emanò il Typos, un editto in materia di fede che aboliva l’Ekthesis di Eraclio e, nello stesso tempo, vietava ogni discussione sulla controversa questione religiosa. La sede romana non lo accettò e nell’ottobre del 649 papa Martino I convocò un sinodo in Laterano il cui esito fu la condanna dei due editti religiosi emessi da Eraclio e da Costante II. La reazione di Costantinopoli come d’uso fu brutale: il nuovo esarca Olimpio venne inviato in Italia con l’ordine di far accettare il Typos al clero italiano e, se gli eserciti fossero stati dalla sua parte, di arrestare il papa oppure di temporeggiare in attesa del momento propizio. Quando però arrivò in Italia, Olimpio trovò un clima ostile e, dopo aver cercato di eseguire l’odine, organizzando anche un complotto per uccidere il papa, si schierò prudentemente con il più forte e si proclamò indipendente da Costantinopoli. Olimpio morì nel 652 e la provincia ribelle tornò all’obbedienza. L’esarca Teodoro Calliopa, suo successore, nel giugno dell’anno successivo portò a termine l’incarico affidatogli di arrestare il papa, che fu imbarcato a forza su una nave imperiale e portato a Costantinopoli. Qui venne giudicato davanti al senato come reo di aver appoggiato la ribellione di Olimpio, mentre non si fece cenno, come il papa avrebbe voluto, alla questione religiosa. La condanna, già scritta d’altronde prima del processo, fu terribile: la morte preceduta da un corteo infamante per le strade della città imperiale con pochi brandelli di abito addosso. All’ultimo momento, però, venne commutata nell’esilio: così, dopo altri ottantacinque giorni di carcere, Martino I prese la via di Cherson, in Crimea, dove morì qualche tempo più tardi. L’arresto di Martino I riuscì a stroncare ogni opposizione da parte del papato e i suoi immediati successori mostrarono una sostanziale sottomissione alla volontà imperiale. Ma il fuoco covava sotto le ceneri: nel 691-692 si tenne a Costantinopoli un nuovo concilio, chiamato Quinisesto o Trullano, le cui decisioni furono parzialmente in contrasto con la linea dottrinale seguita da Roma. Papa Sergio I si oppose e l’imperatore Giustiniano II spedì subito a Roma un suo funzionario, il protospatario Zaccaria, con il compito di arrestare il papa e tradurlo a Costantinopoli, usando le stesse maniere sbrigative messe in atto da suo nonno nei confronti di Martino I. La situazione generale era però notevolmente cambiata rispetto a quaranta anni prima e, quando l’inviato dell’imperatore arrivò a Roma, gli eserciti della regione ravennate, della Pentapoli e di altre circoscrizioni insorsero marciando sulla città. Si toccava
così con mano, per la prima volta, il completo sfaldamento dell’autorità bizantina in Italia, con una caduta ampia, se non generale, della disciplina militare che rendeva ormai impossibile il raggiungimento di obiettivi politici attraverso l’uso della forza. Il seguito della vicenda è raccontato dal biografo di Sergio, con toni di evidente compiacimento dettati da una forte ostilità verso i Bizantini, che sottolinea gli aspetti involontariamente farseschi con cui si concluse la missione di Zaccaria. Il protospatario imperiale, temendo di essere ucciso dai soldati, chiese al pontefice che fossero chiuse e custodite le porte cittadine; alla fine, in preda allo sconforto si rifugiò nella sua stanza implorandolo fra le lacrime di avere pietà di lui. Non vi fu alcun tentativo di resistere e le milizie provenienti dal Nord entrarono in Roma dirigendosi verso il palazzo lateranense, essendosi sparsa la voce che il papa era stato portato via nel cuore della notte. Minacciarono quindi di abbatterne le porte mentre Zaccaria, al culmine del terrore, si nascose sotto il letto del papa, il quale altro non poté fare se non confortarlo e presentarsi ai soldati per cercare di calmarli. Ottenne ciò che voleva, ma i rivoltosi non se ne andarono dal palazzo finché l’inviato di Giustiniano II non fu allontanato da Roma «con ingiurie e contumelie». Nel secolo successivo i papi una volta in più si opposero a Bisanzio e i sovrani misero vanamente in atto i loro tradizionali metodi brutali. Verso il 724-725 Gregorio II si oppose alla politica fiscale di Leone III, che cercò due volte di farlo uccidere, ma senza riuscirvi. Quando poi sorse la controversia iconoclasta, lo stesso tentativo fu fatto nel 726 dal duca di Campania ed Eutichio ebbe dall’imperatore il medesimo incarico nel momento in cui partì da Costantinopoli per assumere l’esarcato in Italia. Da Napoli, dove si era fermato, Eutichio inviò a Roma un suo agente, latore di una lettera con cui si ordinava l’assassinio del pontefice e dei maggiorenti della città. Il piano non andò a effetto: l’inviato dell’esarca, scoperto verosimilmente insieme ai suoi complici, fu condannato a morte dai Romani e salvato all’ultimo momento dall’intervento del papa. Gli ottimati e il popolo di Roma si obbligarono con un giuramento solenne a difendere il loro vescovo e, se necessario, a morire per la sua salvezza, ma Eutichio non si diede per vinto e prese contatto con il re e i duchi longobardi perché desistessero dall’aiutare il papa, senza nulla ottenere. Dopo il suo insediamento a Ravenna assunse tuttavia un atteggiamento più morbido e, come si è visto, nell’agonia dell’esarcato furono i papi a tenerlo provvisoriamente in vita. Il potere effettivo era ormai passato alla sede romana e, una volta scomparso il dominio bizantino a Ravenna, papa Stefano II con grande spregiudicatezza ricorse all’alleanza con i Franchi contro i Longobardi che minacciavano i suoi domini. Nel 752 arrivò a Roma un’ambasceria imperiale per intimare al papa e al re Astolfo di restituire i territori usurpati. Stefano II, forse stupito da tanta mancanza di realismo, fece proseguire l’ambasciatore fino a Ravenna. Astolfo a sua volta non aderì, come è ovvio, alla sua richiesta e lo rimandò a Costantinopoli insieme a un proprio inviato, cui si aggiunsero poi messi papali, per portare proposte di cui ignoriamo il contenuto. Il papa supplicò Costantino V di liberare Roma e l’Italia, ma di fronte all’inerzia di Costantinopoli maturò un progetto rivoluzionario, prendendo contatto con il re dei Franchi Pipino il Breve e chiedendo il suo aiuto contro i Longobardi che premevano su Roma. La sua determinazione fu rafforzata dal ritorno dell’ambasceria di Costantinopoli con l’ordine per il papa di recarsi presso il re longobardo e ottenere la restituzione di Ravenna e delle città da questa dipendenti. Il papa si prestò a eseguire la richiesta alquanto bizzarra del sovrano ma, dopo il fallimento dell’incontro con Astolfo, proseguì per la Francia, dove all’inizio del 754 ebbe con Pipino il famoso incontro di Ponthion, in cui riconobbe il regno da lui stabilito in Francia in cambio dell’impegno del re a intervenire in Italia e a consegnare ampi territori alla sede romana.
Capitolo terzo
Bisanzio nell’Italia meridionale
1. La dissoluzione dei domini imperiali La fine dell’esarcato ebbe come conseguenza la dissoluzione di gran parte dei domini bizantini in Italia, anche se il tracollo non fu immediato. Nel Nord l’impero manteneva almeno nominalmente il controllo su Venezia, mentre l’Istria caduta in mano longobarda fu recuperata nel 774 per poi essere perduta di nuovo a vantaggio dei Franchi alcuni anni dopo. Scendendo al Centro-Sud, il ducato di Roma di fatto già da tempo era passato sotto il dominio dei papi, a differenza di quello di Napoli che restò ancora a lungo nell’orbita dell’impero. Al momento della caduta di Ravenna era al potere un duca lealista e tali furono anche i suoi immediati successori. Il processo di diversificazione da Costantinopoli era comunque in atto e anche qui, come sarebbe accaduto a Venezia, il distacco fu graduale e senza scosse violente. Dopo l’827, quando gli Arabi invasero la Sicilia, e di conseguenza il governatore dell’isola non ebbe più la possibilità di intervenire negli affari locali, la città si emancipò sempre più adottando anche una propria politica estera, talvolta in contrasto con l’impero. In quegli stessi anni, inoltre, si svincolarono progressivamente dal ducato napoletano, di cui erano stati parte integrante, i centri di Amalfi e di Gaeta, che si diedero governi autonomi. In questi stessi anni prese corpo lo stato della chiesa creato territorialmente sulle rovine di ciò che era stato bizantino e con il braccio armato dei re franchi che sconfissero i Longobardi. L’accordo di Ponthion fra papa Stefano II e il re Pipino aveva segnato di fatto l’inizio della fine del regno longobardo ed ebbe ripercussioni anche sul residuo dominio bizantino. Nel corso dello stesso anno Pipino intervenne in Italia costringendo Astolfo a venire a patti ma, di fronte all’inaffidabilità dei Longobardi, due anni più tardi il re scese di nuovo in Italia sconfiggendo il rivale e imponendogli più dure condizioni di pace, fra cui la cessione «a San Pietro e alla chiesa romana» di numerose città già bizantine, probabilmente le conquiste fatte da Astolfo al momento della liquidazione dell’esarcato. Il tutto fu fatto a dispetto dei Bizantini, che non fecero mistero della loro rabbia peraltro impotente. Quando il re franco era già in marcia per l’Italia arrivarono a Roma due ambasciatori di Costantinopoli, uno dei quali raggiunse in seguito Pipino presso Pavia per ricordargli i diritti del suo impero e promettendo un consistente donativo se il re avesse restituito Ravenna e altre città. Pipino non si lasciò convincere e la missione diplomatica fallì così il proprio scopo. L’epilogo della vicenda, di cui ormai i Bizantini erano divenuti spettatori, si ebbe nel 774 allorché Carlo Magno, rispondendo all’appello di papa Adriano, scese in Italia per combattere i Longobardi che di nuovo si erano fatti minacciosi in spregio ai trattati sottoscritti. I Longobardi furono sconfitti e il re Desiderio fu fatto prigioniero, mentre il figlio Adelchi fuggiva a Costantinopoli. Finiva così il loro regno, che venne aggregato a quello franco. Nel 774, a Roma, Carlo Magno depose solennemente sulla tomba di san Pietro un diploma di donazione di località italiane, che ampliava quella già fatta da suo padre Pipino: anche se nella pratica parte dei territori concessi non finì sotto il dominio dei papi, ciò che era stato bizantino nel Centro e nel Nord della penisola passava definitivamente sotto il controllo della chiesa romana. Il dominio imperiale sull’estremo Sud della penisola, a seguito delle conquiste longobarde, si era ridotto verso il 751 alla regione montana del centro e del sud della Calabria e a un residuo territorio in terra d’Otranto ristretto soltanto a Gallipoli, cui però nel 758 si aggiunse Otranto. Diversa fu la sorte delle isole maggiori. L’emancipazione progressiva e indolore da Bisanzio fu un fenomeno presente anche in Sardegna. L’isola aveva avuto una duplice amministrazione civile e militare, con un praeses a Cagliari e un dux di stanza a Forum Traiani, l’attuale Fordongianus, da dove poteva facilmente controllare i Barbaricini, le popolazioni ribelli che vivevano sui monti. L’istituzione dell’esarcato africano aveva portato come nella provincia italiana a una progressiva affermazione dell’autorità militare, senza però far scomparire le istituzioni civili, e per un certo periodo l’isola fu oggetto delle
mire dei Longobardi, che nel 599 saccheggiarono la costa cagliaritana. Dopo la caduta dell’esarcato d’Africa, nel 698, la Sardegna fu probabilmente aggregata assieme alla Corsica all’amministrazione italiana e, negli anni successivi, si trovò a fronteggiare ripetute incursioni arabe, iniziate verso il 703-704 e proseguite poi con frequenza crescente. In seguito al manifestarsi del nuovo pericolo arabo, per meglio garantire la difesa fu operata una modifica nel sistema di governo con l’adozione di un comando unico rappresentato dallo iudex provinciae, che aveva sede probabilmente a Cagliari e che divenne la più alta autorità isolana. La riforma ebbe luogo nell’ambito del dominio bizantino, ma nel corso del secolo successivo maturò come altrove un processo strisciante di indipendenza, di fatto se non di diritto, dal governo di Costantinopoli che non era in grado di garantire la sicurezza della lontana provincia. Tale processo era arrivato a compimento nella seconda metà del IX secolo, quando in Sardegna si erano costituiti stati locali autonomi, i giudicati, senza più alcun vincolo con l’impero. La Sicilia ebbe una sorte del tutto differente. L’isola, già sede sotto Giustiniano di un governo autonomo, come si è detto, sotto Giustiniano II fu elevata al rango di tema comandato da uno stratego con sede a Siracusa. Si definivano con questo termine le nuove circoscrizioni amministrative, introdotte in tutto l’impero a partire dal VII secolo, in cui autorità civile e militare erano riunificate nelle mani di un capo militare, lo stratego nominato dal governo centrale. Questa riforma, derivata almeno in parte dall’organizzazione degli esarcati, aveva messo fine alla tradizionale divisione fra potere militare e civile tipica della tarda romanità, in ragione delle preminenti esigenze difensive. Al nuovo sistema dei temi, il cui inizio è comunemente attribuito a Eraclio, si legava poi l’istituzione dei soldati-coloni, tenuti a prestare servizio militare in cambio della concessione di terre demaniali da coltivare. Dallo stratego di Sicilia, un alto funzionario con il rango di patrizio, al momento della caduta di Ravenna dipendevano l’intera isola e residui possedimenti in Puglia e in Calabria. La Sicilia imperiale non ebbe particolari problemi per parecchi anni; nell’827 però entrò nell’occhio del ciclone quando gli Arabi provenienti dalla Tunisia sbarcarono in giugno a Mazara. L’isola a partire dalla metà del VII secolo aveva già subito incursioni islamiche, ma questa volta si trattava di un’invasione vera e propria. L’emiro Ziyadat Allàh aveva dato seguito alle richieste di un losco ufficiale bizantino, il turmarca Eufemio, che mirava a costituirsi un dominio personale con l’appoggio degli Arabi, e aveva inviato un corpo di spedizione di circa diecimila uomini nonostante i trattati di pace che legavano gli Aghlabiti a Bisanzio. Un mese più tardi gli invasori si scontrarono con i Bizantini probabilmente a ovest di Corleone e li misero in fuga. Nonostante questo successo, tuttavia, la loro conquista si rivelò molto lenta e difficile. Dopo un fallito assedio a Siracusa, gli Arabi si riversarono all’interno conquistando numerosi centri; andarono poi ad assediare Palermo che capitolò nel settembre dell’831 e divenne la loro capitale. Dopo alcuni anni di relativa inattività, ripresero l’offensiva in grande stile, arrivando nell’839 a dominare l’intera parte occidentale dell’isola. Le operazioni proseguirono quindi con l’assedio e la conquista di Messina, fra 842 e 843, di Modica nell’845, l’anno successivo di Lentini, i cui difensori vennero sterminati, e di Ragusa che si arrese senza combattere nell’848. Fu quindi la volta di Enna che fu presa nell’859 dopo più di venticinque anni di tentativi andati a vuoto. I Bizantini reagirono all’invasione dell’isola inviando a più riprese corpi di spedizione senza però ottenere i risultati sperati. La macchina bellica degli Arabi, dopo il superamento di discordie interne, si rimise in moto nell’864 con la conquista di Noto e di Scicli, e nell’877 fu la volta di Siracusa, costretta a capitolare il 21 maggio dell’878 dopo nove mesi di assedio e quindi oggetto di uno spietato saccheggio da parte dei vincitori. A questo punto tre quarti dell’isola erano in mano agli islamici, anche se i Bizantini continuavano a fare grandi sforzi per ricacciarli. L’imperatore Basilio I mise in campo una grande flotta affidandone il comando all’ammiraglio Nasar e questi nell’880 ottenne un grande successo sugli Arabi siciliani nelle acque di Milazzo, reso però vano da un’altrettanto catastrofica sconfitta della flotta imperiale in quelle stesse acque otto anni dopo. Le operazioni terrestri ripresero nei primi anni Ottanta senza grandi risultati per un decennio. Nel 901 però il comandante arabo Abu Ishàq Ibrahìm II
ottenne un vistoso successo impossessandosi di Reggio, per ritirarsi quindi in Sicilia e qui disperdere una flotta imperiale giunta a Messina. Il destino dell’isola a questo punto era ormai segnato e si consumò con la presa di Taormina nel 902, che segnò anche il destino dei pochi centri ancora rimasti in mano all’impero.
2. Bisanzio nel Sud della penisola Una volta liquidato il regno longobardo, le ambizioni di Carlo Magno si estesero anche al ducato di Benevento sino ad allora rimasto indenne. Il duca Arechi II, che dopo la caduta del regno longobardo aveva assunto il titolo di principe, cercò di destreggiarsi fra i Bizantini, i Franchi e la chiesa: così, quando Carlo Magno gli impose la propria sovranità, si rivolse a Bisanzio in cerca di aiuto. A Costantinopoli regnava allora il giovane Costantino VI, ma di fatto il governo reale era nelle mani della madre Irene, che alcuni anni più tardi si sarebbe sbarazzata del figlio facendolo accecare e diventando così la prima delle tre imperatrici bizantine. Irene aveva seguito inizialmente una politica di amicizia con i Franchi acconsentendo al fidanzamento di Costantino VI con Rotrude, figlia di Carlo Magno, ma in seguito si risolse a intervenire in favore di Arechi II avviando le trattative per un accordo che prevedeva di riportare con le armi sul trono di Pavia Adelchi, figlio di Desiderio e cognato dello stesso Arechi, in cambio del riconoscimento della sovranità imperiale: per parte sua Arechi avrebbe ottenuto la dignità di patrizio e il ducato di Napoli, verso il quale da tempo i Longobardi avevano mire espansionistiche. Quando però nel 787 giunse a Benevento un’ambasceria imperiale per consegnargli le insegne della dignità, Arechi II era già morto e, malgrado la tendenza filoimperiale della vedova Adelperga, il figlio e successore Grimoaldo III dovette adeguarsi alla politica di Carlo Magno, del quale era stato ostaggio. Di conseguenza la spedizione promessa da Irene, arrivata troppo tardi in Calabria, non poté più contare sull’appoggio dei Longobardi di Benevento. Le forze imperiali, al comando del sacellario e logoteta dello stratiotikon Giovanni e di Adelchi, che a Bisanzio aveva assunto il nome greco di Teodoto, pur rinforzate dai contingenti messi a disposizione dallo stratego di Sicilia, furono affrontate nel 788 da Longobardi e Franchi coalizzati e subirono una grave sconfitta perdendo in battaglia anche il loro comandante. Sebbene fosse stato costretto al vincolo di vassallaggio, Grimoaldo III si affrancò presto dalla soggezione a Carlo Magno riuscendo a mantenere l’indipendenza del principato, malgrado i tentativi del figlio di Carlo per sottometterlo. I Bizantini furono invece paralizzati dalla sconfitta subita e non ebbero la forza di riprendere l’iniziativa. Carlo Magno, nell’802, tentò un’impossibile riconciliazione con Bisanzio chiedendo in sposa l’imperatrice Irene, ma le trattative si arenarono per l’improvvisa destituzione di questa e il successore Niceforo I adottò una linea politica di chiusura ai Franchi, il cui esito fu il conflitto combattuto nelle lagune veneziane. La pace di Aquisgrana, conclusa nell’812 durante il regno di Michele I, e il riconoscimento sia pure parziale del nuovo impero franco allentarono tuttavia le tensioni e le conseguenze si fecero avvertire anche in Meridione con un breve periodo di stabilità. Il Sud della penisola cominciò però a essere minacciato dalle incursioni degli Arabi, forti della testa di ponte che avevano in Sicilia e spesso coinvolti nelle vicende italiane dalla disinvoltura dei signori locali, da cui erano utilizzati come mercenari nelle guerre che li contrapponevano gli uni agli altri. Gli Arabi colsero al volo l’opportunità che si offriva e ne approfittarono per devastare i territori di chi li aveva presi a servizio e crearsi domini territoriali propri nelle regioni contese dai belligeranti. Si insediarono così nei principali centri costieri dell’Adriatico o del Tirreno, da cui facevano partire ripetute azioni di pirateria. Fecero la loro comparsa nell’835 al servizio del duca di Napoli, in lotta con Benevento, poi di nuovo nella guerra civile che insanguinò il principato di Benevento e, qualche tempo più tardi, dopo aver saccheggiato Brindisi, si insediarono a Taranto. La loro aggressività preoccupò anche l’imperatore Teofilo, salito al trono nell’829: non avendo egli forze sufficienti per contrastarli, inviò un’ambasceria al sovrano di
Occidente Ludovico il Pio per concordare un intervento comune, senza però ottenere alcun risultato. Si rivolse quindi al califfo omayyade di Cordova, andando incontro a un nuovo fallimento, e nell’840 inviò una missione diplomatica a Venezia per chiedere aiuto al doge Pietro Tradonico. I Veneziani, ai quali la libertà dei transiti marittimi premeva come ai Bizantini, fecero partire una flotta di sessanta navi, che furono intercettate dagli Arabi e distrutte pressoché interamente. La vittoria offrì a questi ultimi l’opportunità per un’audace azione di pirateria, che li condusse a mettere a ferro e fuoco la costa dalmata, saccheggiando quindi Ancona e spingendosi fino alla foce del Po. Al ritorno sorpresero le navi superstiti della flotta veneziana, al rientro dalla Sicilia o da altri porti in cui si erano riunite, e le catturarono tutte. Nell’841 un capo berbero di nome Khalfun, al servizio del gastaldo longobardo di Bari, si impossessò con i suoi della città costringendo in seguito il principe di Benevento, impotente ad allontanarlo, a trattare per farsene un alleato; qui sarebbe poi stato costituito un emirato indipendente, destinato a durare per circa un quarto di secolo. Teofilo nell’842 spedì una nuova ambasceria in Occidente, questa volta presso Lotario I, ma le difficoltà interne dell’impero carolingio resero impossibile ogni azione comune. Nel frattempo la penetrazione islamica si estendeva alla costa occidentale: gli Arabi raggiunsero il golfo di Salerno, occupando l’isola di Ponza e, più a nord, la punta di Miseno nel golfo di Napoli, mentre altre scorrerie avevano luogo in terraferma. Nell’agosto dell’846 la loro audacia si spinse fino a un attacco a Roma, quando una flotta venuta dall’Africa risalì il Tevere mettendo a sacco le basiliche di San Pietro e San Paolo. Il ducato napoletano abbandonò dopo l’840 la politica filoaraba seguita fino a quel momento, schierandosi apertamente in difesa della cristianità, ma l’anarchia ancora imperante nel principato di Benevento e la sostanziale impotenza dell’impero bizantino impedivano ogni serio tentativo di riscossa. L’assalto condotto a Roma, che aveva suscitato orrore fra i cristiani, convinse l’imperatore Lotario I della necessità di intervenire e, nell’848, questi inviò al Sud il figlio e re d’Italia Ludovico II per combattere i Saraceni e far valere fino in fondo i suoi diritti sovrani sulle regioni longobarde. Ludovico II liberò Benevento dalla guarnigione saracena che vi si era insediata, facendone decapitare i capi in sua presenza, e costrinse nell’849 i due contendenti per la signoria sul principato a venire a patti spartendosi il dominio. Anziché mettere fine alle contese, il trattato dell’849 suscitò tuttavia nuove divisioni fra i Longobardi, facendo emergere accanto ai due principati riconosciuti (di Salerno e di Benevento) altri domini più o meno indipendenti, fra cui la contea di Capua, il cui potere si era andato affermando in quegli stessi anni. L’intervento franco non aveva risolto neppure il problema arabo e nell’866 Ludovico II, nel frattempo divenuto imperatore, decise di intervenire nuovamente nell’Italia meridionale. La campagna si trascinò per alcuni anni senza risultati definitivi e, mentre era in corso, il carolingio chiese a Costantinopoli l’aiuto di Basilio I per avere ragione di Bari, attaccandola per terra e per mare. Concluso l’accordo, una flotta di quattrocento navi orientali comparve nell’869 dinanzi alla città, ma i Bizantini ebbero la sorpresa di accorgersi che nel frattempo i loro alleati avevano abbandonato l’assedio, per cui presero la via del ritorno. Aveva così trovato realizzazione l’azione congiunta fortemente auspicata da Teofilo, che si era però risolta in un clamoroso fallimento, forse dovuto anche alla sotterranea rivalità fra le due potenze. A ogni modo il 3 febbraio dell’871 Bari finì per arrendersi a Ludovico II, anche se il successo ottenuto fu reso vano dal tradimento dei principi longobardi che mise in serie difficoltà il sovrano, costretto a ripiegare lasciando via libera a nuove incursioni arabe nelle province meridionali, nelle quali non ebbe più modo di intervenire, poiché morì a Brescia nell’875. I Bizantini fino a quel momento non avevano fatto grandi cose per riaffermare i loro diritti sul Meridione d’Italia, ma con l’avvento al trono di Basilio I, fondatore della brillante dinastia macedone, il vento cambiò. L’impero di Bisanzio era stato in crisi per più di un secolo, essendo costretto sulla difensiva e agitato dai contrasti religiosi dovuti all’iconoclastia. Quando questa venne definitivamente abbandonata, nell’843, iniziò a farsi avvertire un risveglio politico di ampia portata, i cui primi segni già si videro con Michele III, ma che sarebbe poi stato
consolidato dai sovrani macedoni fino all’inizio dell’XI secolo. Basilio I si adoperò con successo per riaffermare la potenza bizantina e la sua attenzione, dopo un lungo periodo di disinteresse, fu rivolta anche al Sud della penisola italiana. Il sovrano decise di abbandonare la politica rinunciataria dei suoi predecessori, dando l’avvio a un deciso contrattacco che investì dapprima la Sicilia, andando incontro però a un fallimento, mentre ottenne risultati brillanti nelle altre regioni dell’Italia imperiale. Il fenomeno della pirateria araba non fu eliminato, e anzi avrebbe finito per diventare endemico, ma ne furono progressivamente contenuti gli effetti più devastanti. La riaffermazione della potenza bizantina, che si inserì nel vuoto lasciato dall’impero carolingio in disgregazione, tolse inoltre agli Arabi ogni velleità di procedere alla conquista del Meridione sull’onda del crollo siciliano. La controffensiva iniziò nell’876, quando il governatore imperiale di Otranto si impossessò di Bari, e proseguì decisamente nell’880 quando i Bizantini sbarcarono in Calabria un consistente esercito. L’armata imperiale, muovendosi di conserva con la flotta, che sconfisse in prossimità di Punta Stilo le navi saracene, marciò lungo la costa della Calabria orientale per raggiungere la valle del Crati e proseguire alla volta di Taranto, riconquistando quasi tutte le fortezze in mano al nemico in Calabria e nella Puglia meridionale. Si scontrò poi con gli Arabi vicino a Taranto, subendo una parziale sconfitta con la morte di uno dei generali, ma ciò non impedì la conquista della città e la cattura della guarnigione musulmana. L’offensiva riprese nell’882 o 883 con l’invio di un nuovo esercito dall’Oriente, che non ottenne grandi risultati, e ancora nell’885 facendo affluire altri rinforzi. Il comando dell’esercito imperiale in questa circostanza fu assunto da Niceforo Foca, esponente dell’aristocrazia militare che si andava affermando a quell’epoca e uno dei più valenti generali del tempo. Niceforo Foca eliminò le ultime sacche di resistenza araba in Calabria e, più con la diplomazia che con la forza, arrivò anche all’obiettivo di ricongiungere i domini in Calabria alle conquiste pugliesi sottomettendo i Longobardi che vi erano stanziati. L’accorta politica del generale imperiale e la moderazione da lui dimostrata gli valsero la riconoscenza delle popolazioni locali, da lui liberate dal dominio arabo, al punto che edificarono una chiesa dedicata a san Foca in ricordo dei suoi meriti. Niceforo Foca rientrò a Costantinopoli nell’886 lasciando l’Italia meridionale al culmine di una rinnovata potenza, in vivace contrasto con la contemporanea disgregazione dell’impero carolingio; di conseguenza i dinasti locali ebbero come unico punto di riferimento credibile l’impero di Oriente e, almeno in linea di principio, ne riconobbero la sovranità. Il programma di riconquista andò poi avanti negli anni che seguirono con altri successi, di cui il più importante fu la sottomissione della longobarda Benevento, passata sotto il diretto controllo bizantino nell’891: un fatto molto significativo, anche se a dire il vero non fu duratura, dato che nell’895 la città tornò di nuovo in mano longobarda. Nell’888-889 inoltre venne bloccata un’incursione saracena in Calabria, il che evitò per qualche anno alla regione di essere molestata. Negli anni seguenti però la pirateria riprese vigore. Nel 901 gli Arabi saccheggiarono Reggio facendo poi un’incursione sulle coste italiane. L’anno successivo l’emiro aghlabita di Sicilia Abd Allàh, dopo aver preso Taormina, passò in Calabria con l’intenzione di sottomettere il territorio italiano, suscitando un generale terrore: si sparse la voce che fosse intenzionato ad arrivare a Roma per distruggere «la città del vecchio Pietruzzo», ma si spinse soltanto fino a Cosenza. Infatti la morte lo colse in ottobre e i suoi si ritirarono, risparmiando così altre tragedie alle popolazioni locali. Una nuova incursione araba in Calabria ebbe luogo nel 914, ma l’anno dopo la sorte si rovesciò e le potenze cristiane, una volta tanto coalizzate, ottennero un clamoroso successo, costringendo i musulmani a sloggiare dalla colonia che avevano costituito alla foce del Garigliano e da cui partivano feroci incursioni nelle regioni vicine. L’iniziativa fu presa da Atenolfo I, il principe che aveva riunificato i domini di Capua e Benevento, il quale si rivolse all’unica potenza in grado di opporsi ai Saraceni inviando a Costantinopoli verso il 909 il figlio maggiore e coreggente Landolfo I per chiedere aiuto militare; qui raggiunse un accordo con l’imperatore Leone VI, da cui fu chiesto e ottenuto che il principe di Capua e Benevento si dichiarasse vassallo dell’impero. Le cose andarono tuttavia per le lunghe, ma qualche anno più tardi il progetto fu ripreso per iniziativa
del papa Giovanni X, che si mise in contatto con Landolfo I inviando a sua volta un’ambasceria a Bisanzio. L’energia del papa condusse rapidamente alla formazione di una lega cristiana, in cui la parte più rilevante fu svolta dai Bizantini; lo stratego Nicola Picingli convinse poi anche i filosaraceni duchi di Napoli e di Gaeta a entrarvi. Così un esercito alleato composto da Romani guidati dal papa, da Longobardi di Capua e di Salerno, da truppe di Spoleto e Bizantini dei temi d’Italia, rafforzati da contingenti venuti da Costantinopoli, si mosse per attaccare gli Arabi del Garigliano. Dopo un assedio di tre mesi, reso particolarmente efficace dal blocco della foce del fiume operato dalla flotta imperiale, i Saraceni nell’estate del 915 vennero dispersi e in gran parte massacrati, perdendo così l’ultimo rifugio sulla costa tirrenica. L’annientamento della colonia del Garigliano mise fine alle incursioni in Campania e in Italia centrale, portando anche un certo vantaggio alle regioni imperiali; ma ne guadagnò soprattutto il prestigio di Bisanzio, che giunse all’apice coronando così idealmente tutta l’opera di riconquista del Meridione. L’impero riorganizzò le regioni conquistate istituendo verso l’892, al posto del precedente ducato di Otranto, un tema di Longobardia (o Langobardia) che comprendeva i territori sottratti ai nemici in Puglia e in Calabria ed era retto da uno stratego, dotato di autorità sia militare sia civile, dapprima con sede a Benevento e poi a Bari. A questo si aggiungeva come secondo distretto amministrativo un tema di Sicilia, così denominato anche dopo la perdita dell’isola, quando lo stratego si spostò verosimilmente a Reggio, per poi assumere nella prima metà del X secolo il nome di tema di Calabria. I due temi furono occasionalmente riuniti sotto un unico stratego, ma in linea di principio restarono unità territoriali separate. Verso il 970 inoltre venne introdotto un nuovo governatore con il nome suggestivo di «catepano d’Italia», con sede a Bari e un rango superiore allo stratego di Calabria. Nonostante i precedenti temi siano sopravvissuti anche in seguito, questo funzionario finì per diventare il supremo rappresentante dell’autorità militare in Italia quale capo militare e civile nello stesso tempo. Un’ultima modifica al sistema amministrativo fu infine apportata verso il 1042 con l’istituzione del tema di Lucania, che però sparì dopo pochi anni. I Bizantini davano grande importanza al dominio sull’Italia meridionale; l’impegno militare messo in campo fino a quel momento iniziò tuttavia ad affievolirsi sotto i successori di Basilio I, a motivo soprattutto dell’impegno bellico preminente su altri fronti. Le regioni del Sud dovettero così per lo più contare sulle forze militari locali e andarono soggette a nuove e ripetute incursioni arabe e a ribellioni dei Longobardi riottosi alla sottomissione. Ai nemici tradizionali si aggiunsero poi i pirati slavi che nel 926 saccheggiarono Siponto, disperdendo in prossimità di Termoli una flottiglia imperiale, e, nel 947, una scorreria degli Ungari, che già qualche anno prima avevano devastato la Campania. I territori del Meridione in sostanza furono come una cittadella assediata da più parti: nonostante le numerose sconfitte subite da Arabi o da Longobardi, i Bizantini riuscirono però a mantenere intatto il proprio dominio. L’evento nuovo nel panorama piuttosto monotono di incursioni e ribellioni nel Sud fu determinato dall’invadenza dell’impero di Occidente. Ottone I di Sassonia, re di Germania, fu incoronato imperatore nel 962 e si adoperò con successo per rafforzare il Sacro romano impero dopo un lungo periodo di anarchia feudale. Dopo aver consolidato il proprio potere nell’Italia centro-settentrionale, le sue attenzioni si rivolsero al Sud, da lui ritenuto parte integrante del regno italico nonostante la presenza dei Bizantini: ma si trovò di fronte l’energico imperatore Niceforo II Foca, nipote del conquistatore italiano e a sua volta grande generale, per nulla intenzionato a venirgli incontro. I fragili vincoli che legavano a Bisanzio gli staterelli longobardi del Sud si allentarono e Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e Benevento, passò al servizio di Ottone I, mentre Gisulfo I principe di Salerno, pur riconoscendo la sovranità germanica, restò sostanzialmente a guardare conservando la propria indipendenza. Lo stesso fecero i duchi di Amalfi e di Napoli, che nominalmente restavano vassalli di Bisanzio. A seguito di inutili trattative diplomatiche, nel marzo del 968 Ottone I ruppe gli indugi e passò all’azione: penetrò in Puglia e portò l’assedio a Bari. Aveva però fatto male i suoi calcoli, perché le mura di quella città si rivelarono un ostacolo insormontabile; privo di una flotta che
potesse bloccarne gli accessi e con poche forze a disposizione, altro non poté fare che togliere l’assedio e ritirarsi verso nord. Venne quindi a più miti consigli e spedì a Costantinopoli come suo ambasciatore il vescovo di Cremona Liutprando, con l’incarico di combinare un matrimonio fra il figlio Ottone e una principessa imperiale, cosa che secondo lui avrebbe risolto la questione. Liutprando non ottenne i risultati sperati e qualche mese dopo rientrò in Italia. Nel frattempo Ottone I, che evidentemente non si faceva illusioni sull’esito dell’ambasceria, aveva ripreso le ostilità: il 2 ottobre era a Ravenna e di qui scese a sud per attaccare di nuovo i possedimenti bizantini. Arrivò in Puglia e proseguì alla volta della Lucania, devastando e incendiando la regione, poi raggiunse la Calabria andando ad accamparsi in prossimità di Cassano. La città si guardò bene dall’aprirgli le porte e quindi, dopo altre operazioni militari inconcludenti, nella primavera del 969 l’imperatore si ritirò verso nord: affidò il compito di proseguire la campagna a Pandolfo Capodiferro, ma questi fu fatto prigioniero dai Bizantini in una sortita fuori dalle mura di Bovino che stava assediando. Quando poi i Bizantini fecero una rapida puntata in territorio nemico arrivando ad assediare Capua, Ottone I reagì inviando verso fine anno un nuovo esercito al Sud che li sconfisse a due riprese in prossimità di Benevento. Nella primavera del 970 tornò sul teatro operativo anche lo stesso Ottone I, che devastò il territorio napoletano per poi ricongiungersi ai suoi in Puglia e andare ad assediare Bovino. La guerra fra Bizantini e Tedeschi proseguiva così senza un risultato definitivo, a causa soprattutto della tenace difesa da parte dei Bizantini dei loro centri fortificati e dell’impossibilità di Ottone I di averne ragione, nonostante la superiorità sul campo delle sue forze. Dopo la morte di Niceforo II Foca, però, il suo successore Giovanni I Zimisce si mostrò più disponibile a trattare del predecessore. In segno di benevolenza rimise in libertà Pandolfo Capodiferro, che fece da mediatore, convincendo il suo sovrano a lasciare l’assedio di Bovino e a ritirarsi nuovamente al Nord. Le trattative diplomatiche andarono a buon fine e nell’agosto del 972 ebbe luogo l’agognato matrimonio fra Ottone il giovane e la bizantina Teofano, anche se questa non pare essere stata un’appartenente alla famiglia imperiale, come inizialmente era stato chiesto, bensì una parente dell’usurpatore Giovanni Zimisce, cosa che agli occhi dei Bizantini, tradizionalmente avversi ai matrimoni con gli Occidentali, riduceva un po’ la portata della concessione. Sul piano politico inoltre si stabilì che Capua e Benevento sarebbero rimaste nell’orbita dell’impero di Occidente, mentre per parte sua Ottone I rinunciava a ogni pretesa sul Meridione d’Italia. A conti fatti quindi il vero vincitore era il sovrano di Costantinopoli, che era riuscito a tener testa alle forze militari del collega occidentale, obbligandolo alla fine a rinunciare ai suoi ambiziosi progetti di conquista. Negli anni che seguirono, dopo lo scampato pericolo, il Meridione continuò a subire le ormai tradizionali incursioni arabe, ma un nuovo e più grave pericolo si stava di nuovo profilando da parte dell’impero germanico, quando nel 982 Ottone II, seguendo l’esempio del padre, attaccò le regioni bizantine con il pretesto di difendere dagli Arabi le terre cristiane. I Bizantini fecero resistenza passiva chiudendosi nelle loro imprendibili città fortificate e lo lasciarono scendere fino in Calabria dove in prossimità di Crotone, il 12 luglio 982, subì una rovinosa sconfitta perdendo gran parte del suo esercito e i migliori comandanti. Lo stesso imperatore riuscì a mettersi faticosamente in salvo e fu preso a bordo di una nave bizantina che lo condusse a Rossano. I marinai, a quanto pare, volevano portarlo a Costantinopoli, forse perché non lo avevano riconosciuto e intendevano chiedere un riscatto, ma con uno stratagemma l’imperatore sfuggì dalle loro mani gettandosi in mare in prossimità della spiaggia e raggiungendo a nuoto la riva. Qui ritrovò la moglie, il vescovo di Metz e altri nobili che vi aveva lasciato e con questi abbandonò rapidamente l’Italia meridionale per morire ancora giovane a Roma alcuni mesi più tardi. La disfatta di Ottone II avvantaggiò il governo bizantino nel secolare confronto con gli Arabi. La morte dell’emiro nella stessa battaglia in cui fu sconfitto l’imperatore germanico, e il conseguente ritiro in Sicilia delle forze arabe, concessero infatti qualche anno di respiro ai temi italiani. Fu comunque una tregua di breve durata e già nel 986 ripresero le incursioni, la più clamorosa delle quali si ebbe nel 1002 con l’assedio di Bari per terra e per mare da parte di un consistente esercito musulmano. L’assedio durò dai primi giorni di maggio al 20 settembre, quando
arrivò una flotta veneziana comandata dal doge Pietro II Orseolo, che rifornì la popolazione affamata e in pochi giorni contribuì a liberare la città. L’intervento a Bari offrì al doge Orseolo una buona occasione per un salto di qualità nei rapporti con la corte imperiale: oltre ai vantaggi politici che Venezia ricavò dalla sconfitta degli Arabi, infatti, la città lagunare venne ricompensata con un importante matrimonio diplomatico e la dignità nobiliare di patrizio per Giovanni Orseolo, figlio del doge in carica e da lui associato al potere. Anche questa vittoria non mise tuttavia fine agli attacchi saraceni, che ebbero ritorni offensivi in grande stile. A questi si aggiunsero le usuali turbolenze dei sudditi, derivanti per lo più da contrasti interni alle aristocrazie locali, spesso degenerate in atti di violenza contro i rappresentanti del governo, o addirittura in aperti tentativi di ribellione. La più grave di queste ebbe luogo nel 1009, sotto la reggenza del catepano Giovanni Kurkuas, a opera di un nobile barese di nome Melo. Quest’episodio, di indubbio rilievo, è spesso stato mitizzato dalla storiografia moderna, perché si è voluto vedere in Melo un campione dell’indipendenza italiana contro l’oppressore, ma in realtà la portata dei fatti deve con ogni probabilità essere piuttosto circoscritta a un ambito di interessi locali. La rivolta di Melo ebbe a ogni modo una conseguenza di grande rilievo, sia per gli sconvolgimenti che portò sia, e soprattutto, perché il nobile barese introdusse in Italia meridionale i Normanni, come mercenari al suo soldo: proprio costoro, infatti, sarebbero in seguito arrivati in numero sempre maggiore fino a cacciarne i Bizantini. Bari si sollevò sotto la guida di Melo e la rivolta si propagò fino a Trani; fu domata a fatica dagli imperiali e si trascinò fino all’ottobre del 1018, quando il catepano Basilio Boioannes, arrivato in Italia con numerosi rinforzi, riuscì a decimare i nemici in una battaglia combattuta presso Canne. I Normanni che componevano i contingenti mercenari del ribelle si sbandarono in varie direzioni e Melo riuscì a fuggire per raggiungere la Germania, con l’intenzione di spingere l’imperatore Enrico II a intervenire in Italia meridionale. Il sovrano germanico lo accolse e gli concesse il titolo di duca di Puglia, riconoscendo così le sue pretese di dominio, ma la cosa non ebbe seguito perché poco dopo il suo arrivo, nell’aprile del 1020, Melo morì a Bamberga. La fine della rivolta di Melo portò a un consolidamento dell’autorità imperiale nell’Italia meridionale, a opera soprattutto del catepano Basilio Boioannes, il vincitore dei Normanni e una delle principali figure tra i governatori italiani. Sulla scia dei risultati ottenuti con la vittoria di Canne, Boioannes riuscì a riportare ancora una volta nell’orbita bizantina i principati longobardi e, nello stesso tempo, a spostare il confine settentrionale fino al fiume Fortore, nella regione che sarà poi detta Capitanata, estendendo leggermente anche quello occidentale. Per proteggere il territorio imperiale vennero poi costruiti o restaurati alcuni centri fortificati, di cui il più importante fu la cittadina di Troia, edificata su un colle non lontano dall’antico municipio romano di Aeca, dove venne probabilmente insediata una colonia di Normanni. Il successo maggiore ottenuto dal catepano, anche se effimero, fu comunque l’estensione della sovranità sul principato di Capua, che portò i Bizantini fino alle soglie dello stato pontificio. Il prestigio dell’impero in Italia ne guadagnò notevolmente, ma nello stesso tempo si ebbe una reazione contraria da parte delle potenze minacciate dall’espansione bizantina, il papato e l’imperatore germanico, che non tardò a tradursi in azioni militari. Enrico II, sostenuto da papa Benedetto VIII, scese in Italia verso la fine del 1021 con un esercito forte di sessantamila uomini, che divise in tre colonne, e attaccò l’anno successivo il Sud; ma alla fine dovette ritirarsi a seguito di un sostanziale fallimento dell’operazione programmata. Il fatto d’armi più notevole fu un inutile assedio di Troia, nell’estate del 1022, i cui abitanti resistettero eroicamente ai Tedeschi per tre mesi. In quegli anni l’impero di Bisanzio era arrivato con Basilio II al massimo della potenza e le ripercussioni favorevoli si avvertivano anche in terra italiana. Questo stesso sovrano, che già nel 992 pensava di servirsi dell’aiuto navale veneziano per condurre truppe in Italia, era seriamente intenzionato a intraprendere in grande stile la lotta contro gli Arabi di Sicilia intervenendo di persona sul teatro operativo. A tal fine, nel 1025, un ciambellano eunuco di nome Oreste fu inviato in Italia con un forte esercito composto da truppe del tema di Macedonia e da mercenari stranieri per attaccare la Sicilia con il concorso del catepano Boioannes. L’operazione si risolse in un ennesimo
fallimento ma, forse, le cose sarebbero cambiate se l’imperatore soldato fosse arrivato in persona sul campo di battaglia. La morte, però, lo colse all’improvviso nello stesso anno e il successore, il fratello Costantino VIII, non si curò di proseguirne l’opera con la stessa energia. Nel 1028 il catepano Boioannes lasciò il governo e con la sua uscita di scena iniziò una irreversibile decadenza, che in poco più di quarant’anni avrebbe portato al collasso l’Italia meridionale bizantina. Il clima era cambiato anche a Costantinopoli e, dopo la morte di Basilio II, ebbe inizio una strisciante decadenza dell’autorità centrale che si andò sempre più accentuando. Gli Arabi tornarono all’attacco nel 1029, ma nel 1035, dopo un accordo fra l’emiro siciliano e l’imperatore Michele IV, le loro incursioni cessarono definitivamente. La confusione in cui versava la Sicilia araba, dilaniata dalla guerra civile, spinse inoltre i Bizantini a tentare l’ultima azione di forza contro l’isola inviandovi un brillante generale, Giorgio Maniace, a cui come già a Belisario secoli prima fu conferito il grado di generalissimo. Maniace si impossessò di Messina, trovando però una resistenza da parte degli Arabi superiore al previsto e, due anni più tardi, soltanto la parte orientale dell’isola era nelle sue mani. Caduto in disgrazia a corte, venne portato come prigioniero a Costantinopoli lasciando un successore non all’altezza: così gli imperiali si fecero cacciare dall’isola, con la sola eccezione di Messina, rimasta in loro mano fino all’inizio del 1042. Una nuova e più grave tempesta si stava addensando sui domini bizantini, dovuta all’arrivo in forze dei Normanni. Come già gli Arabi, questi formidabili guerrieri erano calati dal Nord in numero sempre più consistente per prestare la loro opera di mercenari, attratti dalle prospettive di guadagno nelle infinite contese fra gli staterelli del Meridione, la cui debolezza seppero sfruttare a proprio vantaggio. Nel 1030 erano riusciti anche a ottenere un primo insediamento stabile con la concessione della contea di Aversa da parte del duca di Napoli: la formazione di tale contea richiamò in Italia altri Normanni, che finirono presto per sfuggire a ogni controllo. La loro insaziabile fame di bottino ne faceva una mina vagante e, in effetti, in pochi anni tutto il Meridione d’Italia ne avrebbe fatto le spese. L’attacco ai possedimenti bizantini divenne inevitabile e l’occasione venne fornita dall’ennesima ribellione scoppiata in Puglia. Un avventuriero milanese, Arduino, che aveva servito nell’esercito di Maniace e al momento era governatore di Melfi, pensò bene di servirsi del loro aiuto per realizzare un vantaggio personale. Si recò quindi ad Aversa, dove prese contatto con i Normanni che gli fornirono un contingente di trecento uomini. Nel 1040 l’accordo andò a buon fine e nottetempo gli alleati entrarono in Melfi, prendendone possesso. I cittadini fecero buon viso a cattivo gioco, ma gli abitanti delle località vicine, spaventati dai saccheggi operati dai nuovi venuti, chiesero aiuto al catepano d’Italia, il protospatario Michele Dokeianos, che lasciò la Sicilia, dove si trovava, per accorrere in Puglia. Il catepano arrivò con un grosso esercito e il 17 marzo 1041 affrontò i nemici presso Venosa: era talmente sicuro della vittoria da intimare loro di andarsene per evitargli un trionfo senza gloria, ma la sua presunzione fu punita e in prossimità del fiume Olivento le forze imperiali vennero travolte dalla furia guerresca dei Normanni. Michele Dokeianos trovò scampo nelle montagne vicine, dove riorganizzò le sue forze per tentare un nuovo attacco il 4 maggio, subendo però una nuova disfatta presso Montemaggiore sulle rive dell’Ofanto. Costantinopoli lo rimosse dall’incarico, trasferendolo in Sicilia, e il comando venne affidato al successore, un altro Boioannes, parente del governatore, che fu a sua volta sconfitto e fatto prigioniero nella pianura fra Montepeloso (Irsina) e Monteserico. Queste tre disfatte consecutive – giunte del tutto inaspettate, data la disparità di forze fra i contendenti – segnarono l’inizio della fine per l’Italia bizantina, nonostante i tentativi fatti ancora per una trentina di anni allo scopo di arrestare l’invasione. Il governo imperiale tentò una carta disperata liberando Giorgio Maniace e inviandolo in Italia, dove sbarcò nell’aprile del 1042. I Normanni nel frattempo avevano preso le loro contromisure politiche avvicinandosi al barese Argiro, figlio di Melo, con la proposta di riconoscerlo come loro signore: questi accettò. Era una mossa astuta, perché Argiro rappresentava una tradizione di indipendenza locale a cui l’aristocrazia pugliese era sensibile. Maniace a sua volta poco riuscì a fare se non chiudersi a Taranto per non affrontare sul campo i nemici e,
quando questi ripiegarono rinunciando all’assedio, esercitare feroci rappresaglie sulla popolazione rea di essere venuta a patti con gli invasori. Di lì a poco cambiò anche il clima politico a Costantinopoli e il nuovo sovrano, Costantino IX Monomaco, abbandonò l’aggressività dei predecessori per adottare una politica estera rinunciataria, richiamando Maniace e cercando nello stesso tempo un accordo con i ribelli. Gli inviati dell’imperatore raggiunsero di conseguenza Argiro e gli proposero di tornare all’obbedienza, con l’impegno di usare i Normanni come mercenari al servizio dell’imperatore. Argiro accettò, ma Maniace non ne volle sapere e si ribellò facendosi proclamare imperatore dalle sue truppe; la sua iniziativa tuttavia non ebbe grande successo perché i Baresi, sotto la guida di Argiro, restarono fedeli all’imperatore legittimo. Messo alle strette, salpò da Otranto con il suo esercito per andare a finire i propri giorni in Macedonia nel corso di una battaglia con le truppe lealiste. La politica conciliante di Costantinopoli non fermò i Normanni, che mantennero le conquiste fatte e iniziarono a espandersi sistematicamente in Puglia e in Lucania, avvicinandosi alla Calabria dove, a nord della valle del Crati, si stanziò con il suo seguito uno dei numerosi figli di Tancredi d’Altavilla, quel Roberto il Guiscardo che negli anni a venire sarebbe divenuto il capo riconosciuto della sua gente. Argiro, che era stato chiamato nel 1045 a Costantinopoli e qui era rimasto per alcuni anni, fu rimandato in patria dal governo bizantino con l’ordine di usare ogni mezzo diplomatico a disposizione per risollevare le sorti dell’impero. Sbarcò quindi a Otranto nel 1051, prendendo poi possesso di Bari, con fatica per l’ostilità della fazione cittadina filonormanna, ma non arrivò ad alcun risultato e si decise quindi a giocare la carta estrema inviando un’ambasceria a papa Leone al fine di concordare un’azione contro il nemico comune. Leone IX già da tempo era stato chiamato in causa dalle popolazioni dell’Italia meridionale in cerca di aiuto contro le selvagge devastazioni operate dagli invasori e aderì senza riserve all’invito. Riuscì a mettere insieme un esercito consistente, rafforzato da contingenti tedeschi forniti dall’imperatore Enrico III, anche se piuttosto eterogeneo e disorganizzato, e nei primi mesi del 1053 si mosse di persona verso sud con l’intenzione di raggiungere Argiro. Il ricongiungimento venne però reso impossibile dai Normanni, che sconfissero le forze bizantine in prossimità di Siponto costringendo Argiro a fuggire a Vieste; di conseguenza il 23 giugno del 1053 l’esercito del papa incontrò da solo i nemici in prossimità di Civitate, sulle rive del Fortore, andando incontro a una completa disfatta. Le truppe italiane della coalizione furono colte dal panico e si sbandarono subito, mentre i Tedeschi resistettero eroicamente per ore, finché vennero in gran parte massacrati. Il papa si chiuse in città, ma dovette di lì a poco consegnarsi ai vincitori, che lo trattarono con grande rispetto, anche se di fatto lo tennero prigioniero per rilasciarlo soltanto dopo la conclusione di un accordo di cui ignoriamo il contenuto. La sconfitta di Civitate segnò anche la fine del progetto politico di Argiro, che uscì progressivamente di scena. I papi abbandonarono Bisanzio, tanto più che nel 1054 intervenne lo scisma fra le chiese, e i vincitori continuarono a rafforzare le proprie posizioni: buona parte della Puglia passò sotto il loro controllo e nello stesso tempo Roberto il Guiscardo si impossessò della Calabria, terminando la conquista nel 1059 con la presa di Reggio. L’ascesa del Guiscardo, che si stava affermando fra i capi normanni, divenne poi irresistibile quando nel 1059, con un trattato concluso a Melfi, ottenne da papa Niccolò II l’investitura a duca di Puglia, Calabria e Sicilia in cambio del giuramento di fedeltà alla chiesa romana. Si stava infatti profilando lo scontro fra il papato e l’impero germanico e, con la consueta spregiudicatezza, la politica papale si orientò verso l’unica potenza in grado di sostenere le proprie aspirazioni, abbandonando al suo destino il Meridione imperiale. I Bizantini fecero sforzi tanto disperati quanto inutili per mantenere il controllo della Puglia, tentando di nuovo senza successo l’opzione militare e alleandosi con l’imperatore tedesco Enrico IV e l’antipapa Onorio II. La forza dei Normanni era comunque irresistibile e Roberto il Guiscardo decise di dare il colpo finale al nemico eliminando i pochi centri che ancora restavano nelle sue mani. Nel 1068 andò ad assediare Bari che, nonostante la difesa dei cittadini e l’invio di rinforzi da Bisanzio, capitolò nell’aprile del 1071. L’ultimo governatore dell’Italia imperiale, il
catepano Stefano Paterano, cadde nelle sue mani: fu risparmiato e qualche tempo più tardi poté tornare a Costantinopoli assieme ad altri prigionieri. Finiva così, dopo quasi cinque secoli e mezzo, la storia del dominio di Costantinopoli nella penisola italiana. Nel secolo successivo, sotto il regno di Manuele I Comneno, i Bizantini avrebbero fatto un ultimo tentativo per riprendersi l’Italia. Ancora in guerra con i Normanni, nel 1155, le truppe imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo fino alle porte di Taranto. La controffensiva normanna li mise però in serie difficoltà e nella primavera del 1158 furono costretti a venire a patti e a evacuare la penisola, dove non sarebbero più tornati da conquistatori.
3. Memorie dell’Italia bizantina Nelle regioni del Nord e del Centro Italia i Bizantini hanno lasciato scarsi ricordi della loro presenza, mentre al Sud questi sono in numero di gran lunga maggiore. I motivi della diversità sono essenzialmente due: la maggiore permanenza in termini di tempo dei dominatori al Sud e le condizioni degradate di vita in cui si trovò l’esarcato, stretto in una situazione di assedio permanente, che non consentì il dispiegarsi di forme evolute di civiltà. Bisogna inoltre distinguere, quando si parla di testimonianze bizantine in Italia, fra la presenza nei nostri istituti culturali di numerosissimi oggetti arrivati dall’impero (come monete, sigilli, miniature, marmi, icone o altri ancora), di cui spesso si ignorano la provenienza esatta e le modalità di acquisizione, e i manufatti direttamente prodotti dai Bizantini in Italia, che sono in quantità di gran lunga inferiore. Lo stesso poi vale per le altrettanto numerose opere d’arte di imitazione bizantina, di cui il patrimonio culturale italiano è molto ricco. Un percorso anche se rapido fra le memorie di Costantinopoli in Italia rende subito ragione di un simile assunto. Nell’area veneta le testimonianze archeologiche sono irrisorie; la più importante è forse rappresentata dai reperti trovati nel sito dell’antico castello di Arten in val Belluna, che probabilmente insieme al vicino castello di Castelvint tenne testa ai Longobardi almeno fino al 570-571. Nel sito di Arten, di cui non restano strutture, sono emersi due piatti d’argento, ora alla Bibliothèque Nationale di Parigi, di cui uno porta l’iscrizione «Geilamir rex Vandalorum et Alanorum» ed è quindi probabile sia appartenuto a un ufficiale imperiale venuto dall’Africa dopo la vittoria sui Vandali, di cui Gelimero fu l’ultimo re. Poco è emerso sulla diretta presenza bizantina dagli scavi altrove condotti, e in particolare nell’area urbana e periferica di Venezia (San Pietro di Castello, San Lorenzo di Ammiana e Torcello, anche se in quest’ultima località gli scavi sono tuttora in corso), mentre qualcosa in più viene dalle indagini compiute in tempi più recenti a Eraclea, la città fatta edificare da Eraclio nel VII secolo, in cui oltre alle fondamenta di edifici è stato trovato un sigillo appartenuto a un dignitario imperiale. Le epigrafi di Grado, di cui si è parlato a proposito dei numeri ivi dislocati, offrono una testimonianza importante e lo stesso vale per l’iscrizione di Torcello del VII secolo, di cui si dirà, relativa all’edificazione della chiesa locale e alla presenza di un magister militum bizantino. Lo stesso vale per Lison di Portogruaro, ammesso che non si tratti di un pezzo di importazione, come si è visto, e che quindi il soldato di Bisanzio nulla abbia a che fare con quella località. Più sicura al contrario è l’appartenenza all’Oriente di Anastasio patrizio, del quale è stato rinvenuto in una tomba a inumazione del territorio di Eraclea un sigillo in piombo del VII secolo, ora al Museo provinciale di Torcello, con una scritta in greco («madre di Dio proteggi il patrizio Anastasio») che suggerisce la presenza di un alto dignitario, dello stesso rango dell’esarca, nella cittadina veneta. A Iesolo infine un’iscrizione di produzione locale, incisa nella fronte superstite di un sarcofago, ricorda un Antonino tribuno sepolto insieme alla moglie. La datazione del manufatto risale al VII-VIII secolo e, dal nostro punto di vista, è significativa in quanto documenta il ruolo locale dei tribuni, ossia gli ufficiali dell’esercito trasformatisi, nel quadro della militarizzazione esarcale, in governatori dei centri in cui erano insediati. Nella Venezia dei tempi più antichi, in particolare, formarono un ceto
costitutivo della prima nobiltà, che spesso ritorna come parte attiva della vita pubblica nelle cronache delle origini. La Liguria, a differenza di altri territori del Nord, ha conservato qualche testimonianza, sia pure modesta, degli insediamenti militari destinati a proteggere le zone costiere. Sono stati infatti effettuati scavi nel sito di Sant’Antonino di Pertice (castrum Pertice), a nord di Finale Ligure, che hanno consentito di individuare una cerchia muraria databile a fine VI-inizio VII secolo, con tracce di insediamento umano che sembrano rimandare a quell’epoca. Dentro la cinta muraria, in particolare, le indagini hanno messo in luce almeno tre costruzioni con il basamento in pietra, pareti in legno e il tetto in legno e paglia, contenenti numerosi reperti archeologici tra cui monete bizantine. La prima costruzione si suppone abbia avuto funzione di deposito di riserve alimentari: ciò è confermato dal ritrovamento di numerose anfore, molte delle quali di provenienza nordafricana. Il secondo edificio si pensa che sia stato utilizzato come deposito di attrezzi, poiché all’interno vi erano pesi da pesca di piombo. Di minor dimensione era invece la terza struttura di cui non si riconosce con certezza l’utilizzo. Numerosi i ritrovamenti di ceramica pregiata (anteriore al VII sec.) proveniente anche dall’area cartaginese e tunisina, utilizzata per consumare e conservare cibi, oltre a oggetti di abbigliamento femminile quali fibule e placchette ora conservate nel Museo Archeologico del Finale. Nella Liguria orientale, in Lunigiana, sono stati scavati i ruderi di Monte Castello, posto a 800 metri di altitudine a controllo della strada che da Filattiera andava nel parmense, databili all’incirca dalla metà del VI a quella del VII secolo. In questo caso sono emerse un’ampia cinta muraria conservata in un lato per una lunghezza di 100 metri circa e, all’interno, fondazioni in pietra di un edificio rettangolare diviso in tre grandi vani. Gli scarsi reperti trovati sono compatibili con il periodo della presenza bizantina ed è probabile che il sito sia stato abbandonato a seguito della conquista longobarda, non essendovi altre tracce di insediamento fino al X-XI secolo. A Zignago, lungo il corso superiore del Vara, in provincia di La Spezia, venne inoltre allestito probabilmente a cavallo fra VI e VII secolo un piccolo impianto difensivo costituito da una torre isolata, con alcuni annessi, trasformata in seguito nel campanile della chiesa della frazione di Sasseta.
FIG. 1. Giustiniano I e la sua corte. Mosaico, VI secolo (540-548). Ravenna, chiesa di San Vitale. A Ravenna, oltre ai famosi mosaici della chiesa di San Vitale, eseguiti durante la dominazione bizantina da maestranze sconosciute (tra 540 e 547 o 548; fig. 1), o a quello più tardo a soggetto imperiale di Sant’Apollinare in
Classe, la presenza diretta dei Romani d’Oriente è ricordata dall’iscrizione funeraria dell’esarca Isacio e da quella di suo nipote, di nome probabilmente Gregorio. La prima si trova ancora a San Vitale, sul coperchio del sarcofago in cui venne sepolto nel 643; l’originale è in greco, nonostante vi compaia anche una più tarda traduzione latina, e fu fatto incidere dalla vedova Susanna in elegante scrittura capitale. Il testo consente di determinare sia pure in breve alcuni passaggi della vita di Isacio: ci dice infatti che era un nobile armeno, aveva comandato eserciti in Oriente e in Occidente e retto la provincia italiana per diciotto anni (fig. 2). L’altra, in origine nella chiesa di San Mauro a Comacchio e ora al Museo arcivescovile di Ravenna, presenta ugualmente un elegante testo greco e ricorda la morte prematura del nipotino dell’esarca, che con ogni probabilità era stato affidato ai monaci locali perché lo educassero.
FIG. 2. Sarcofago dell’esarca Isacio, VII secolo (643). Ravenna, chiesa di San Vitale. Nel Centro Italia viene segnalato come risorsa turistica delle regioni che ne furono attraversate (Marche, Umbria e Lazio) il corridoio bizantino, ma lungo il probabile itinerario nulla resta di bizantino. Meglio vanno le cose a Terracina, dove è anche visibile una torre delle mura di fattura bizantina e dove, nella parte alta di una delle colonne del portico della cattedrale di San Cesareo, si trovano due iscrizioni, una greca e l’altra latina, riferibili all’arrivo nella città il 29 giugno 663 dell’imperatore Costante II in viaggio verso Roma. La sua visita implicò infatti un restauro del foro per ordine del consul e dux Giorgio, ossia del duca di Roma, ricordata appunto da un testo essenziale in cui si legge: «Numerosi anni agli imperatori ortodossi e vittoriosi» e «Questo foro è stato restaurato al tempo del signore Giorgio console e duca» (fig. 3). A Roma nel foro si erge tuttora la colonna dedicata all’imperatore Foca, che portava in origine una sua statua dorata alla sommità e che venne inaugurata il 1o agosto del 608 alla presenza di Smaragdo, «ex preposito del sacro Palazzo patrizio ed esarca d’Italia», come ricorda l’iscrizione latina alla base (fig. 4).
FIG. 3. Iscrizioni per l’imperatore Costante II, VII secolo (663). Terracina, portico della cattedrale di San Cesareo. Nel Meridione e nelle isole le testimonianze, lo si è visto, sono più ampie e varie: ne basta un breve panorama per rendere l’idea. Il dominio bizantino nelle regioni del Sud, si è detto, fu più solido e duraturo di quanto non sia stato nelle altre parti della penisola; più forte fu inoltre il legame culturale che, se si eccettua il caso anomalo di Venezia, si mantenne spesso anche al di là dell’effettivo controllo sul territorio. Il rapporto particolare che soprattutto la Puglia e la Calabria ebbero con Bisanzio è determinato, in termini di memoria visiva, in primo luogo dai numerosi edifici di culto ancora esistenti, ma anche dalla sopravvivenza di minoranze linguistiche greche, legate probabilmente in gran parte all’immigrazione di popolazioni ellenofone provenienti da Bisanzio. Attualmente esistono infatti isole linguistiche greche, riconosciute dallo stato italiano con le disposizioni a tutela delle minoranze linguistiche, ubicate in Puglia (nove comuni), in Calabria (quindici comuni) e in Sicilia (uno soltanto). Vi si parla un idioma che ha forti caratteri di affinità con il neogreco e viene comunemente definito grecanico per l’area calabrese e griko o grico per quella salentina, mentre dai Greci è chiamato katoitaliotika, ovvero «italiano meridionale». A Bari, nella basilica di San Nicola, sono presenti due sigilli appartenuti a catepani d’Italia. Il primo (che è anche in assoluto il primo che sia stato conservato) è del 1032 e appartenne al catepano Yriakon: è attaccato a una
pergamena, con testo latino e greco, contenente l’atto di donazione di alcuni beni alla chiesa di Sant’Eustazio, abbattuta nel 1087 per costruire la basilica di San Nicola. Il secondo, del catepano Eustazio Palatino, era in origine parte di una pergamena con la concessione al giudice barese Bisanzio del villaggio di Foliniano e risale al dicembre 1046 (da intendersi come 1045, tenendo conto del computo bizantino, che faceva iniziare l’anno dal mese di settembre). A differenza di quello precedente, che porta sia sul verso sia sul recto un’iscrizione, presenta sul recto un’immagine della Vergine con il Bambino, mentre sul verso si legge «Eustazio spatario catepano d’Italia Palatino». Ancora a Bari si può leggere inoltre l’iscrizione metrica del catepano d’Italia Basilio Mesardonite, relativa all’edificazione di opere pubbliche nella città, che si trova attualmente all’interno della basilica di San Nicola nella parete della navata di sinistra. È scolpita su una lastra di marmo bianco: il testo è mutilo nella parte destra e sinistra e l’ultima riga risulta illeggibile, ma il senso del corpo del testo risulta comunque chiaro.
FIG. 4. Colonna di Foca, VII secolo (inaugurata nel 608). Roma, Foro romano. La presenza di Costantinopoli trovò espressione per secoli nelle numerose chiese dell’Italia meridionale, in
particolare nel Salento, edificate per lo più a opera dei monaci orientali che popolarono la regione. Il ricordo di Bisanzio in questo caso è ora rimasto soprattutto nelle cripte e negli ipogei, poiché nel corso dei secoli le chiese sono state modificate o sostituite da altre soluzioni che ne hanno alterato l’aspetto iniziale. Un esempio tangibile di sopravvivenza della forma originaria è dato dalla chiesa di San Pietro di Otranto, databile a quanto sembra al IX-X secolo, che si presenta nei caratteri dell’architettura religiosa dell’impero d’Oriente e nelle tre absidi mostra affreschi in stile bizantino. A Carpignano Salentino (provincia di Lecce) si ha un caso particolare con la cripta di Santa Cristina (o della Madonna delle Grazie) ubicata in piazza Madonna delle Grazie e scavata nella roccia. Santa Cristina risale al X secolo e fu probabilmente la chiesa più importante dell’antico centro. La cripta conserva gli affreschi più antichi del Salento (fig. 5) e, cosa singolare, le iscrizioni ivi presenti tramandano i nomi dei committenti, dei pittori e le date di esecuzione. Nell’intero ciclo pittorico, uno dei più cospicui e dei meglio conservati del Salento, spiccano per importanza l’Annunciazione e il Cristo Pantokrator del pittore Teofilatto, che data al mese di maggio del 959; il trittico del pittore Eustazio, del mese di maggio del 1020; l’affresco del pittore Costantino, del 1054-1055; i dipinti della tomba ad arcosolio (datati tra il 1055 e il 1075, quindi agli ultimi tempi della dominazione bizantina in Puglia), in cui si conserva un epitaffio in versi dodecasillabi, noto come iscrizione di Stratigulis, fatto eseguire dal padre del giovane defunto.
FIG. 5. San Teodoro, San Nicola e Santa Cristina, fine X-inizio XI secolo. Carpignano Salentino, cripta di Santa Cristina. La Calabria ebbe un rapporto molto stretto con il mondo bizantino e ortodosso. In questa regione non solo fu determinante la componente demografica di lingua e di cultura greca, ma vi si radicò anche un’intensa spiritualità, alimentata da monasteri e chiese sparsi nel suo territorio. Tra queste ultime merita una menzione particolare per la sua singolarità la Cattolica di Stilo (ubicata sulle falde del monte Consolino), così chiamata secondo la nomenclatura bizantina perché appartenente al rango delle chiese munite di battistero. La Cattolica, destinata al culto greco e convertita nel 1577 a quello latino, presenta un’architettura tipica del periodo medio bizantino, con pianta a croce
greca inscritta in un quadrato, e mostra una caratteristica forma cubica con all’interno tre absidi destinate alla preparazione e alla realizzazione della liturgia (fig. 6). I muri dell’edificio erano ricoperti interamente di affreschi, di cui restano avanzi. Assai simile alla Cattolica di Stilo, per forma e per la presenza di tre absidi, è la chiesa di San Marco che sorge all’interno della città di Rossano, edificata intorno al X secolo per servire come luogo di culto a uso dei monaci che vivevano nelle sottostanti grotte di tufo. Presenta lo schema tipicamente bizantino della croce greca inscritta in un quadrato e sormontata da cinque cupole; all’interno è particolarmente rilevante un affresco superstite dell’originaria decorazione con la Vergine e il Bambino.
FIG. 6. La Cattolica (IX-X sec.). Stilo (prov. di Reggio Calabria). Il fenomeno dell’insediamento rupestre legato alla presenza bizantina, attestato in Puglia e in Basilicata, si verifica anche nella Sicilia sud-orientale e il riferimento più importante in questo caso è a Pantalica (in provincia di Siracusa), dove la presenza di abitati è attestata da gruppi di villaggi scavati nella roccia e dove si trovano i santuari di San Micidiario, San Nicolicchio e del Crocifisso. Il primo, parte di un villaggio bizantino di circa centocinquanta abitazioni, mostra all’interno tracce di affreschi e iscrizioni, fra cui meglio visibili un Pantokrator fiancheggiato da due angeli e un’altra figura che dovrebbe essere san Mercurio. San Nicolicchio è un villaggio più piccolo che ha al suo centro l’oratorio, anch’esso con tracce di affreschi in cui si riconoscono sant’Elena e santo Stefano, databili pare al VII secolo. La grotta del Crocifisso, utilizzata come chiesa, mostra i resti di una Crocifissione e le figure di san Nicola e santa Barbara. A questi si aggiungono la grotta di San Pietro presso Buscemi, il cui primo utilizzo potrebbe
datare al V-VII secolo, le rovine del monastero rupestre di San Marco a Noto e l’oratorio delle catacombe di Santa Lucia a Siracusa, quest’ultimo fondamentale per la conoscenza della pittura bizantina in Sicilia. La chiesa di Santa Lucia extra moenia, nel cui portico è collocato l’accesso alle catacombe, venne infatti edificata in età bizantina sul luogo del martirio della santa, ma fu poi ricostruita al tempo dei Normanni e completamente rifatta a fine Seicento. Gli affreschi dell’VIII secolo a loro volta furono coperti da malta nel Quattrocento allorché gran parte dell’oratorio venne distrutta per far posto a una cisterna: grazie però a un recente intervento di restauro oggi sono ancora visibili nella volta, nella parete sud-est e nell’abside. La Sicilia orientale offre ugualmente numerose testimonianze di epoca bizantina. A Cava d’Ispica, la vallata fluviale nell’altopiano ibleo fra Modica e Ispica, sono presenti testimonianze di civiltà rupestre, tra cui la grotta dei Santi, in cui si vedono tracce di pitture di trentasei santi e di iscrizioni greche (con una santa abbigliata da imperatrice); il santuario di San Nicola, detto anche della Madonna, con altri affreschi; i ruderi della chiesa di San Pancrati, l’unico esempio di costruzione non rupestre della Cava; il complesso di Santa Alessandra, comunemente ritenuto un monastero, e altri minori, in parte anche franati, utilizzati dagli asceti d’epoca bizantina. A Kaukana, località del comune di Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, l’area archeologica mostra i ruderi dell’abitato di epoca tardo romana e bizantina, mentre la Cittadella dei Maccari, località a sud dell’area naturalistica di Vendicari presso Noto, è un villaggio bizantino sorto nel VI secolo, dove si trovano fra l’altro le rovine di una grande basilica detta «Trigona», perché possiede tre absidi, che si presenta come un caseggiato agricolo; vicino a questa sorgono diverse catacombe dello stesso periodo, resti di abitazioni e altri edifici, segno anche della vitalità dell’antico centro commerciale. Nell’altra grande isola infine l’archeologia ha conseguito rilevanti risultati nell’esplorazione del passato bizantino, ancorché in genere piuttosto specialistici: si segnala a questo proposito il recupero di un’ottantina di sigilli nel sito di San Giorgio (comune di Cabras), dove sorgeva una chiesa dedicata al santo, pertinenti a cancellerie ecclesiastiche e non, con scritte sia greche sia latine. Tra i sigilli di ambito non ecclesiastico se ne trova uno di Anastasia, coreggente l’impero con Costante II e Costantino IV, sul trono dal 654 al 668; vi sono poi una bulla di un tal Giorgio cubicolario imperiale nel VII secolo, un sigillo di Pantaleone, mandatario imperiale vissuto nel VII-VIII secolo, e sigilli di altri dignitari, fra cui consoli, ex prefetti e generali. L’epigrafia ci offre infine due testimonianze interessanti per la storia imperiale dell’isola. La prima iscrizione, oggi conservata nella basilica di San Saturno o Saturnino a Cagliari e riportabile al VI secolo, presenta un testo latino di difficile lettura, ma che può essere ricomposto riconducendolo alla tomba di un tal Gaudiosus, sottufficiale del reparto dei dromonarii, ossia della marina da guerra imperiale. La seconda, latina anch’essa e databile a epoca più tarda (VII od VIII secolo), fa invece riferimento alle vittorie sui Longobardi e altri barbari di un imperatore di nome Costantino (quindi Costantino IV o Costantino V) e fu fatta apporre da un altro Costantino, di cui nulla si sa, ypatos e dux di Sardegna, cioè governatore imperiale dell’isola.
Capitolo quarto
Venezia e Bisanzio 1. Le origini di Venezia
Venezia è ancora oggi una città sotto molti aspetti complicata e tale è anche la storia delle sue origini. Il motivo è essenzialmente tecnico: le testimonianze materiali che consentono di ricostruirle sono poche, le fonti documentarie assai scarse e gli storici locali scrivono molto tardi rispetto agli avvenimenti. La più antica fonte narrativa di cui disponiamo, l’Istoria Veneticorum di Giovanni Diacono, risale infatti a poco dopo il Mille, mentre la composizione del testo cronachistico noto come Origo civitatum Italiae seu Venetiarum si data fra XI e XII secolo. Più tarda ancora è inoltre la Chronica extensa del doge Andrea Dandolo, composta nel Trecento, che rappresenta la prima storia ufficiale di Venezia e, di conseguenza, è uno strumento indispensabile per le vicende dei secoli delle origini. Le opere storiche di provenienza veneziana presentano inoltre una caratteristica del tutto peculiare che consiste nella mitizzazione dell’origine della città, legandola a eventi leggendari e in particolare tacendo sulla dipendenza da Bisanzio, che feriva l’orgoglio civico al tempo in cui vennero scritte. A ciò si aggiunge infine un ulteriore problema costituito dalla difficoltà di utilizzare l’Origo, in cui non solo si ha mescolanza di realtà e leggenda, ma anche un incredibile disordine espositivo, con continue confusioni cronologiche e, almeno in apparenza, la mancanza di un qualsiasi filo logico nella narrazione. L’unica cosa certa è che Venezia nacque bizantina e tale si mantenne per alcuni secoli. I Veneziani (o «Venetici» come li chiamavano i Bizantini) elaborarono già nel X secolo una leggenda, di cui si ha notizia nell’opera di Costantino VII Porfirogenito (l’imperatore erudito sul trono di Bisanzio dal 913 al 959), secondo cui la loro città sarebbe stata fondata in «un luogo deserto, disabitato e paludoso» al tempo dell’invasione di Attila, quando cioè nel 452 il re unno devastò la terraferma veneta distruggendo Aquileia e altri centri minori. Il racconto era destinato a nobilitare l’origine della città lagunare facendola derivare da un avvenimento drammatico che colpiva fortemente l’immaginario collettivo. Ma la realtà era più modesta: i Veneziani non si insediarono in territori deserti e la migrazione ebbe luogo in un lungo arco di tempo. Le isole in cui si sarebbe formata Venezia erano infatti abitate già in epoca romana, anche se non siamo in grado di dire se si sia trattato di insediamenti di una certa importanza o più semplicemente di poche case isolate o al massimo di piccoli villaggi. Significativa è in proposito una lettera di Flavio Aurelio Cassiodoro, il romano che fu ministro dei re ostrogoti e a cui si deve una descrizione della laguna in una lettera del 537-538: in essa si ordinava il trasporto per nave di rifornimenti alimentari dall’Istria a Ravenna, passando attraverso la rotta interna (i cosiddetti «Septem Maria» da Ravenna ad Altino e, di qui, ad Aquileia) sotto il controllo dei «tribuni marittimi» delle Venezie, e la circostanza offre a Cassiodoro lo spunto per descrivere l’ambiente lagunare in cui si poteva navigare anche quando le condizioni atmosferiche non consentivano di avventurarsi in mare. Gli abitanti, egli aggiunge, vi avevano le proprie case «alla maniera degli uccelli acquatici», con le barche legate fuori come se si trattasse di animali, e la loro unica ricchezza consisteva nella pesca e nella produzione del sale. Un ambiente, a quanto pare, con una struttura sociale ancora primitiva, ma possiamo anche chiederci fino a che punto la retorica dell’autore può avere deformato la realtà dei fatti. L’incursione di Attila causò notevoli devastazioni e probabilmente anche un temporaneo spostamento in laguna di parte degli abitanti della terraferma, come deve essere avvenuto a quei tempi anche nel corso di altre invasioni, ma nulla di tutto ciò ebbe a che fare con la nascita di Venezia. Questa fu infatti un processo lento, iniziato nella seconda metà del VI secolo e protrattosi per una settantina di anni o ancora più avanti, fino almeno al IX secolo, se si considera la formazione di quel complesso urbano che oggi è la città di Venezia. Anche se erano abitate, le lagune continuavano a restare un elemento secondario rispetto alle vicine città della terraferma che avevano raggiunto una particolare fioritura in epoca romana. Tra queste la principale era Aquileia; venivano poi Oderzo, Concordia, Altino, Padova e Treviso, la cui importanza era cresciuta quale centro militare all’epoca della dominazione ostrogota. Tutti questi abitati, che in misura diversa concorsero alla nascita di Venezia, avevano come caratteristica comune la presenza di collegamenti fluviali con il mare, attraverso i quali fin dai tempi più antichi venivano esercitati i commerci. Le grandi invasioni barbariche, in alcuni casi almeno, ne avevano causato una netta decadenza: Aquileia,
per esempio, non si risollevò dalla distruzione operata dagli Unni, ma nel secolo successivo la terraferma restava ancora preminente sulla laguna. Le città legate alla nascita di Venezia facevano tutte parte dell’ampia provincia di Venetia et Histria, costituita come decima regione dell’Italia romana al tempo dell’imperatore Augusto e divenuta provincia quando Diocleziano nel III secolo aveva riformato l’ordinamento amministrativo. La regione era così chiamata dalle due popolazioni preminenti, i Veneti e gli Histri, e si estendeva su un ampio territorio che dall’Istria giungeva a comprendere gran parte delle Tre Venezie fino al fiume Adda nell’attuale Lombardia. «La Venezia – scrive Paolo Diacono – non è costituita solo da quelle poche isole che ora chiamiamo Venezia, ma il suo territorio si estende dai confini della Pannonia al fiume Adda, come provano gli Annali in cui Bergamo è detta città delle Venezie»; più avanti fornisce inoltre una spiegazione etimologica: «il nome Veneti – anche se in latino ha una lettera in più – in greco significa “degni di lode”». La storia di Venezia bizantina inizia al tempo della guerra gotica: la Venetia et Histria – dove i Bizantini comparvero nel 539 – fu un fronte secondario, ma non di meno ebbe a risentire le conseguenze devastanti della guerra. Verso il 540 fu sottomessa dagli imperiali; poi durante la controffensiva ostrogota degli anni Quaranta venne spartita fra questi, i Goti e i Franchi, per tornare infine sotto l’impero verso il 556 quando il generalissimo Narsete riuscì a riportare il confine alle Alpi. L’invasione longobarda spezzò l’unità territoriale della regione veneta dove, nella parte orientale, restarono per qualche tempo ai Bizantini soltanto Padova con il vicino castello di Monselice, Oderzo, Altino e Concordia. Fu anche la causa dell’inizio di un progressivo spostamento delle popolazioni della terraferma: di fronte ai nuovi venuti, la cui ferocia era proverbiale, le lagune offrivano un rifugio sicuro a causa dell’incapacità degli invasori di condurre operazioni che richiedessero l’uso delle flotte. Le autorità ecclesiastiche temevano inoltre queste genti, ancora in gran parte pagane o al massimo di fede ariana: così il primo a dare l’esempio fu proprio il patriarca di Aquileia, Paolino, che con il tesoro della chiesa si spostò in laguna nel vicino castello di Grado. I fuggiaschi pensavano sicuramente a un rifugio temporaneo, così come doveva essere accaduto in altre circostanze, ma questa volta gli avvenimenti presero un corso diverso che andava al di là delle aspettative dei protagonisti. I Longobardi si insediarono stabilmente in Italia e la loro progressiva espansione territoriale finì per aumentare gli spostamenti verso la costa delle popolazioni non intenzionate a restare sotto il loro dominio. Si trattò in ultima analisi di un avvenimento epocale, destinato cioè a cambiare il corso della storia: da un lato generò la frammentazione politica del territorio italiano, durata poi per secoli, dall’altro fu la causa determinante dell’origine di Venezia, che forse in condizioni diverse mai sarebbe esistita. Il nuovo assetto amministrativo conseguente alla creazione dell’esarcato investì anche l’area veneto-istriana, anche se non è del tutto chiaro quando la Venetia venne divisa dall’Istria e se il comando regionale restò unificato o piuttosto diviso in due. In linea di massima si tende tuttavia a ritenere che l’area veneta abbia avuto almeno a partire dal VII secolo un proprio duca con sede a Oderzo, il quale in seguito si sarebbe trasferito in territorio lagunare. Si tratta ancora una volta delle difficoltà derivanti dall’estrema penuria di fonti storiche, ma il problema è tutto sommato secondario rispetto al successivo svolgersi degli avvenimenti. La regione veneta, sebbene agitata dallo scisma dei Tre Capitoli che portò a un forte contrasto fra Roma e la sede ecclesiastica di Grado-Aquileia, restò un fronte di guerra relativamente secondario per una trentina di anni, se si eccettua la spedizione dell’esarca Romano che nel 590 condusse alla riconquista di Altino, finita non si sa quando nella sfera di influenza longobarda. Le cose però precipitarono nel 601, quando il re Agilulfo si impossessò di Padova e, poco più tardi, di Monselice. La presenza imperiale si riduceva così ai soli capisaldi di Concordia, Altino e Oderzo, ugualmente però destinati a cadere. Nel 616 Concordia era longobarda e verso il 639, quando Rotari condusse l’attacco a fondo contro l’esarcato, fu la volta di Altino e di Oderzo. Buona parte delle popolazioni prese quindi la via delle lagune e, seguendo gli itinerari fluviali che in epoca più antica avevano segnato i loro rapporti con il mare, si insediarono in
un’ampia fascia costiera che andava dai lidi di Grado fino a quelli di Chioggia. Non siamo in grado di avere idee chiare su questi spostamenti, su cui le fonti veneziane sono piuttosto confuse, ma possiamo affermare che il più importante riguardò il trasferimento dei quadri amministrativi da Oderzo verso la nuova città di Eraclea o Eracliana, fondata in quegli anni al margine della terraferma per volontà dell’imperatore Eraclio al fine di dare un nuovo centro a ciò che restava della provincia veneta. Era questo dunque l’esito di un processo storico iniziato con l’invasione longobarda, che si concludeva con la nascita di una nuova realtà lagunare, costituita da un’amministrazione bizantina al governo di una specie di federazione di isole ormai nettamente divise dalla terraferma e destinate a dar vita alla futura città di Venezia. La fase della storia di Venezia relativa al trasferimento dalla terraferma alle lagune è senza dubbio la più oscura. Uno dei passaggi più critici, quello da Altino all’isola di Torcello, viene per esempio sintetizzato in poche righe da Giovanni Diacono: «il vescovo di Altino, Mauro, non sopportando il furore dei Longobardi, con l’assenso di papa Severino, andò nell’isola di Torcello e decise di stabilirvi la sua sede e di restarci in futuro» e sulla stessa linea è la cronaca del Dandolo, cui si devono soltanto alcuni particolari in più sul trasferimento di reliquie nell’isola. Assai più ampia, ma non più utile, è la descrizione dell’Origo, in cui lo spostamento a Torcello viene presentato in una chiave leggendaria e confusa. La «ferocissima moltitudine dei pagani» (gli Unni secondo l’autore), che aveva distrutto molte città, si dirige verso Altino, ma la trova vuota, perché gli abitanti erano fuggiti, e la rade al suolo dopo averla saccheggiata. I profughi si dividono in tre gruppi, due diretti verso l’Istria e Ravenna e il terzo alla volta delle lagune, dove i fuggitivi vivono a lungo «nelle paludi e nelle isole» finché vengono raggiunti da un prete di nome Geminiano e dal tribuno Aurio assieme al figlio Aratore. Geminiano annuncia loro che la «pessima moltitudine» dei pagani era stata distrutta: così, sotto la guida di Aurio e del figlio, gli ex altinati cominciano a insediarsi nelle isole della laguna costruendovi chiese e case. Una di queste isole, in particolare, fu da loro chiamata «Torcello» dal nome di una torre della città di Altino. Geminiano, un prete di Modena, costituisce una figura ricorrente nel racconto cronachistico, così come Aurio e Aratore, che sono ugualmente da ritenere due personaggi mitici. Il suo grado di tribuno ha fatto pensare che egli possa essere in un certo modo il simbolo del ceto dei tribuni da cui nella Venezia delle origini venne costituito il primo nucleo dell’aristocrazia civica. A parte queste possibili identificazioni, è evidente l’impossibilità di separare il vero dal fantastico, ma con altrettanta evidenza risalta uno dei temi più cari alla leggenda delle origini: la colonizzazione delle isole deserte in assenza di ogni autorità esterna. L’isola di Torcello era destinata ad avere un grande sviluppo nella prima storia di Venezia e non a caso Costantino Porfirogenito la definì un «grande emporio», una condizione che contrasta notevolmente con il suo aspetto attuale. Per le origini di Torcello come centro bizantino disponiamo anche di una delle poche fonti materiali sulla prima storia veneziana, costituita dall’epigrafe scoperta nel 1895 nel sito dell’attuale basilica di Santa Maria Assunta, che completa e in parte conferma la tradizione storiografica. Essa ricorda l’edificazione della chiesa, allora di Santa Maria Madre di Dio, che ebbe luogo nel 639, al momento della fuga da Altino (fig. 7). Il testo è assai lacunoso, dato che l’epigrafe è andata in pezzi al momento della scoperta, ma la ricostruzione che ne è stata fatta consente di ripristinarlo nella sua probabile integrità. Vi si legge che la chiesa venne edificata nel ventinovesimo anno di Eraclio, indizione tredicesima (quindi tra settembre e ottobre del 639) per ordine del patrizio Isacio – l’esarca d’Italia – e fu quindi dedicata «per i suoi meriti e per il suo esercito». La costruzione fu eseguita a opera di un magister militum di nome Maurizio, proprietario del terreno su cui sorse, e la consacrazione fu fatta dal «santo e reverendissimo Mauro vescovo di questa chiesa». Le conclusioni che se ne possono trarre sono di un notevole interesse. In primo luogo si ha una informazione precisa sul trasferimento a Torcello delle gerarchie ecclesiastiche e politiche. La menzione di Isacio e dei suoi eserciti sembra riferirsi a un’ultima difesa della terraferma e alla protezione fornita alle popolazioni in fuga, quindi a una ritirata ordinata sotto la protezione dell’esercito imperiale. Il magister militum Maurizio, probabilmente un orientale a giudicare dal nome, potrebbe infine essere il governatore
militare della Venezia, se almeno così si vuole interpretare il frammento «AR» dell’epigrafe che è stato sciolto in Venetiarum. Si tratterebbe in sostanza della prima menzione sicura dell’esistenza di un comandante militare bizantino in area lagunare, una sorta di «doge prima dei dogi» che precede la serie dei reggitori dello stato veneziano.
FIG. 7. Epigrafe di Torcello, VII secolo (639). Torcello, chiesa di Santa Maria Assunta. La nuova realtà politica formatasi nelle lagune veneziane continuò a essere parte integrante della storia dell’impero di Bisanzio per ancora un paio di secoli. Verso il 715 (o secondo un’altra cronologia nel 697) le isole lagunari ebbero un proprio duca che diede inizio alla lunga serie dei dogi veneziani. Secondo la tradizione locale, il primo a essere promosso alla carica fu un cittadino di Eraclea, di nome Paulicio, seguito da un secondo duca Marcello e da un terzo di nome Orso, ma la critica moderna è piuttosto diffidente su questa interpretazione e tende piuttosto a considerare Orso il primo vero duca veneziano, collocando la sua elezione verso il 726, nel momento in cui parte delle popolazioni italiane (e fra queste i Venetici) si ribellarono ai decreti iconoclasti dell’imperatore Leone III. Si tratterebbe, in altre parole, di un governatore locale eletto in contrapposizione a Bisanzio nel momento in cui – come si legge nella Vita di papa Gregorio II – i sudditi in rivolta, «senza tenere conto dell’ordinazione dell’esarca, in ogni parte d’Italia elessero propri duchi»; ma, anche se questa ribellione vi fu, ebbe breve durata e già nel 727 in un documento ufficiale Leone III e Costantino V si riferivano a Venezia come «la nostra provincia da Dio conservata». Poco più tardi, inoltre, l’esarca Eutichio in fuga da Ravenna, temporaneamente occupata dai Longobardi, trovò rifugio nelle lagune – come si è detto – e poté riconquistare la sua città con l’aiuto della flotta venetica. Le isole veneziane restarono sotto il dominio imperiale anche dopo che i Longobardi misero fine all’esarcato, ma i rapporti con Costantinopoli cominciarono ad allentarsi, al punto che nell’804 andò al potere a Malamocco (dove nel 742 era stata spostata la capitale) il doge Obelerio, rappresentante del partito filofranco e, quindi, avverso a
Bisanzio. La situazione territoriale in terraferma si era infatti profondamente modificata: Carlo Magno nel 774 aveva messo fine al regno dei Longobardi conquistando dopo qualche tempo anche l’Istria. Nell’800 si era inoltre fatto proclamare imperatore, contrapponendo così a Bisanzio una nuova potenza con una decisa volontà di supremazia in Occidente. In questo modo Venezia passava di fatto nell’orbita carolingia senza un’apparente reazione da parte di Bisanzio; quando però nell’806 Carlo Magno assegnò Venezia, l’Istria e la Dalmazia al figlio Pipino, nella sua qualità di re d’Italia, l’imperatore Niceforo I, per riaffermare i diritti di Bisanzio, inviò una flotta che andò a gettare le ancore nella laguna veneta. Ne seguì una guerra bizantino-franco-venetica, con l’arrivo di un’altra flotta bizantina a Venezia, un tentativo apparentemente fallito da parte di Pipino di conquistare le isole e, infine, una pace conclusa ad Aquisgrana nell’812 con cui Costantinopoli riconosceva a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia. L’inviato imperiale che aveva trattato con Carlo Magno, lo spatario Arsafio, nell’811 a nome del suo signore dichiarò deposti il doge filofranco Obelerio e i due suoi fratelli associati al trono, sostituendoli con il duca lealista Agnello Partecipazio e riportando così decisamente il governo cittadino sotto l’influenza di Costantinopoli. Questi avvenimenti segnarono l’ultimo intervento diretto di Bisanzio nella vita veneziana: il ducato, anche se formalmente soggetto a Bisanzio, si avviò in realtà verso una progressiva indipendenza, pur mantenendo per secoli un forte legame con l’impero. Difficile dire quando Venezia sia divenuta indipendente, tenendo conto che il fatto avvenne senza scosse violente, ma soltanto come un processo naturale di evoluzione. La dottrina storica ha avanzato molte ipotesi in proposito, collocando in momenti diversi l’effettiva indipendenza fra IX e XI secolo. Al proposito si può dire soltanto che già nel corso della prima metà del IX secolo vennero fatti passi notevoli in questa direzione: Agnello Partecipazio trasferì la capitale a Rialto, dando così una nuova fisionomia al ducato, e nell’828 sotto il suo successore Giustiniano il corpo di san Marco venne portato da Alessandria a Venezia, dove costituì il simbolo della nuova città, sostituendo il culto bizantino di san Teodoro. E ancora, alcuni anni più tardi, i Veneziani siglarono con i Franchi un trattato (il Pactum Lotharii dell’840), mostrando così di comportarsi né più né meno come uno stato autonomo. Ciò non significava l’indipendenza da Bisanzio, almeno come siamo soliti intenderla nei nostri schemi storici: da parte bizantina si seguitava a guardare a Venezia come una lontana provincia mentre da parte veneziana, non si sa se più per comodità che per convinzione, si continuò a lungo ad accettare una supremazia ideale di Bisanzio.
2. Il legame con Bisanzio Venezia fu nel Medioevo la città più legata a Bisanzio e, anche al di là della sua indipendenza, mantenne un vincolo di sostanziale alleanza con l’impero fino al XII secolo, quando sotto i sovrani Comneni i rapporti cominciarono a incrinarsi. La coincidenza di interessi nel far sì che le rotte adriatiche e le regioni che su queste si affacciano fossero sgombre da nemici comuni spinse infatti a più riprese il governo veneziano a intervenire in favore dei Bizantini. Oltre alle strette relazioni politiche, si ebbe un rapporto culturale nel senso più ampio, in forza del quale Costantinopoli continuò a essere un modello, al di là della subordinazione al dominio imperiale, tanto che si può parlare di una Venezia bizantina anche quando era venuta meno una effettiva dipendenza. Questo rapporto si manifestò ampiamente in campo artistico (ed è sufficiente ricordare la chiesa di San Marco eseguita sul modello dei Santi Apostoli di Costantinopoli, o la Pala d’Oro ordinata nella capitale orientale, in cui ancora si vede lo smalto dell’imperatrice Irene Ducas), ma soprattutto nell’influsso esercitato dalla corte bizantina su quella ducale. Dal punto di vista istituzionale, per esempio, possiamo ravvisare una chiara influenza bizantina nel sistema della
coreggenza, che in alcune occasioni consentì la successione dei dogi veneziani al potere. Era consuetudine a Bisanzio, infatti, che il sovrano in carica si associasse uno o più colleghi formalmente di pari grado. Questo sistema da un lato poneva rimedio alla tradizionale instabilità del potere supremo, dall’altro consentiva il formarsi di dinastie più o meno durature. A Venezia la coreggenza venne introdotta da Maurizio Galbaio, doge dal 764 al 787, che si associò al potere il figlio, e venne conservata fino all’abolizione del 1032. Il doge del primo periodo aveva un’autorità di tipo regale, che venne limitata molto più tardi fino a trasformarlo in un semplice magistrato cittadino. Al di là dei meccanismi istituzionali, inoltre, anche il rituale della corte bizantina influenzò la Venezia delle origini. La trasmissione del potere comportava, alla maniera bizantina, una consegna delle insegne da parte del collega più anziano, di cui si ha notizia per la prima volta a Venezia nell’887 al momento del passaggio dei poteri fra Giovanni Partecipazio e Pietro I Candiano. La cerimonia avvenne con la consegna di tre emblemi, la «spada, il bastone e il seggio», che erano forse antiche insegne in qualche modo venute da Bisanzio. I legami con la corte di Costantinopoli non si fermano qui e si devono tenere presenti altri due importanti aspetti: i vincoli matrimoniali e il conferimento di dignità imperiali ai reggitori del governo veneziano. Conosciamo tre casi di dogaresse bizantine, anche se non sempre le notizie in proposito sono affidabili. Orso I Partecipazio, doge dall’864 all’881, sembra aver preso in moglie una nipote di Basilio I, alla quale si lega in qualche modo la leggenda del bocolo veneziano, ossia l’offerta alle donne di un bocciolo di rosa rossa, che ancora oggi si pratica il giorno della festa di san Marco. Più di un secolo dopo, Giovanni, figlio di Pietro II Orseolo, sposò a Costantinopoli una nipote di Basilio II e Costantino VIII di nome Maria. In questo caso siamo meglio informati, perché l’episodio è ricordato con molti particolari da Giovanni Diacono, che si dilunga sulla cerimonia nuziale officiata dal patriarca di Costantinopoli alla presenza dei due sovrani. Gli sposi, in seguito, si trattennero per qualche tempo ancora nella città imperiale; presero quindi la via di Venezia, ma qui la dogaressa morì poco dopo di peste assieme probabilmente al figlio avuto dall’Orseolo, al quale era stato dato il nome di Basilio. Questa donna, a quanto pare, diede scandalo a Venezia per il suo amore del lusso e fu severamente ripresa da san Pier Damiani con toni assai critici che, al di là del moralismo ascetico, danno l’idea di costumi ancora rustici nella Venezia di quell’epoca, in contrasto con la raffinata Bisanzio, a giudicare almeno dal fatto che i «peccati» rimproverati alla bizantina consistevano nel lavarsi, profumarsi e non mangiare con le mani. La peccatrice, conclude il santo, venne punita da Dio e morì in preda a una malattia che le corrompeva le carni spargendo un fetore intollerabile. Un altro matrimonio con una donna di Costantinopoli si ebbe infine nell’XI secolo con le nozze fra Domenico Selvo e la bizantina Teodora Ducas, figlia probabilmente dell’imperatore Costantino X. L’attribuzione di titoli imperiali, in Italia, fu un privilegio condiviso dai duchi di Venezia, Napoli, Amalfi e Gaeta – tutti in origine dipendenti da Bisanzio – e in ogni caso andò al di là dei vincoli di subordinazione politica. Era consuetudine, per gli imperatori di Bisanzio, concedere dignità palatine a governanti stranieri, per gratificarli e ribadire un vincolo di alleanza o di subordinazione. I beneficiati, per parte loro, potevano rafforzare il loro peso politico e il prestigio personale, dato che il titolo li inseriva nei diversi gradi della gerarchia nobiliare dell’impero, sullo stesso piano dei dignitari bizantini. Il peso specifico dell’impero di Bisanzio nell’immaginario collettivo era ancora notevole nei secoli centrali del Medioevo e a questo fascino non si sottraevano certo i governanti veneziani. I titoli nobiliari bizantini furono conferiti ai dogi veneziani dall’VIII all’XI secolo, da quando cioè il ducato era ancora soggetto all’impero fino a quando aveva ormai raggiunto l’indipendenza. La corte di Bisanzio fu infatti un punto di riferimento obbligato per i dogi, che da essa ricevevano dignità palatine o vi inviavano i propri eredi in cerca di legittimazione. Si ebbe così a partire dal terzo doge della lista tradizionale, Orso, un’ampia serie di concessioni di dignità conferite ai dogi o ai loro figli, che comprese i titoli di ypatos (nell’VIII secolo e nel successivo), spatharios e protospatharios (nel IX, X e forse nel successivo), di patrizio (nel 1004 a Giovanni Orseolo figlio del doge Pietro II), di patrizio e anthypatos e di magistros concessi a Domenico Contarini in carica dal 1043 al 1071, di
protoproedros e infine di protosevastos a Domenico Selvo. Quest’ultimo titolo venne ai dogi dal privilegio con cui, nel 1082, Alessio I Comneno ricompensò la repubblica per l’aiuto nella guerra contro i Normanni ed era il più elevato di tutti gli altri concessi in precedenza, dato che poneva il duca veneziano sullo stesso piano dei membri della famiglia imperiale cui era stato conferito. Da occasionale, come era stata fino a quel momento, la dignità divenne inoltre ereditaria, trasmissibile cioè da un doge all’altro, e a essa si aggiunse uno stipendio, o roga, che sembra sostituire le occasionali donazioni fatte fino a quel momento. Domenico Selvo fu deposto nel 1084 e, di conseguenza, il titolo passò al successore Vitale Falier. Il Selvo, che visse ancora per qualche anno, continuò però a fregiarsi della dignità imperiale. Seguiva così l’usanza bizantina, in forza della quale i titoli non erano revocabili se non dall’imperatore e si estinguevano solo con la morte del detentore. La dignità di protosevastos venne poi riconfermata ai dogi veneziani da trattati successivi, del 1126 e del 1147, ma questi dopo Ordelaffo Falier, in carica dal 1101 al 1118, non usarono più i gradi di nobiltà bizantina. I rapporti con Costantinopoli, infatti, erano diventati difficili e i governanti di Venezia, ormai di fatto e di diritto indipendenti, non ritenevano più opportuno mantenere legami così appariscenti con la corte imperiale. L’evoluzione di Venezia verso il comune e, di conseguenza, verso una gestione più trasparente della carica suprema, rendeva inoltre superflua una caratteristica monarchica. Il privilegio concesso ai Veneziani nel 1082 segnò l’inizio della loro straordinaria fortuna in Levante. Venne attribuito attraverso l’emissione di una «crisobolla» (chrysoboullos logos, come si chiamava tecnicamente l’atto imperiale), ossia un documento all’apparenza unilaterale con cui veniva accordata una concessione sovrana, espressa come tale nella forma solenne dell’editto munito di sigillo aureo, ma che in realtà, in questo come in altri casi, era piuttosto il risultato di un accordo bilaterale concluso a seguito di trattative. Nel maggio del 1082, durante il soggiorno a Costantinopoli, Alessio Comneno emise infatti una crisobolla con la quale concedeva ampi privilegi alla città alleata in cambio dell’aiuto prestato e dell’impegno a mantenere l’alleanza anche in futuro, sulla base di quanto concordato qualche tempo prima nelle trattative svolte dai suoi ambasciatori a Venezia. L’aiuto era quanto mai necessario per far fronte all’aggressione dei Normanni e l’imperatore largheggiò in concessioni, come d’altronde si era impegnato a fare chiamando in soccorso i Veneziani. Concesse loro pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale. Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti, perché le esenzioni attribuite fecero ottenere una posizione di preminenza nel commercio orientale. I Veneziani avevano già ottenuto vantaggi di questo genere nel 992, con una crisobolla di Basilio II, ma si era trattato di una semplice riduzione di imposte per le navi che arrivavano a Costantinopoli. Ora al contrario furono autorizzati a commerciare in pressoché tutto l’impero senza pagare tasse né andare soggetti a controlli. Un notevole salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia, che sarebbe stato gravido di conseguenze negative per Bisanzio. Al momento, tuttavia, non se ne valutò appieno la pericolosità, sia per lo stato di necessità sia perché, probabilmente, il volume dei traffici veneziani non era tale da destare preoccupazioni. L’importanza dell’avvenimento non sfuggì però a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa di Alessio I, che dopo aver riassunto i termini della crisobolla osserva: La maggior [concessione] fu l’aver reso il loro commercio esente da imposte in tutte le regioni soggette all’impero dei Romani, così che essi poterono liberamente esercitarlo a loro piacimento senza dare neppure un soldo per la dogana o per qualsiasi altra tassa imposta dal tesoro, in modo da essere al di fuori da ogni autorità romana. La forma del privilegio in termini diplomatici voleva sottolineare la pretesa bizantina alla supremazia, più nominale che reale, sugli stati che come il ducato veneziano si erano venuti costituendo da un’originaria condizione di sudditanza. Non per nulla, infatti, i Veneziani nel testo sono definiti «sudditi», quando ormai non esisteva più un
reale vincolo di subordinazione. Com’era nella prassi, il documento venne emesso in originale greco e traduzione latina dalla cancelleria imperiale; il primo è però andato perduto e possediamo soltanto due traduzioni latine inserite in crisobolle posteriori. All’originale doveva poi essere annessa una sezione relativa agli obblighi di Venezia, ma di questa non vi è più traccia e se ne può soltanto ipotizzare l’esistenza. Il testo del privilegio imperiale al contrario ci è giunto integralmente con la serie dei benefici concessi a Venezia. Il doge come si è detto otteneva a titolo perpetuo la dignità aulica di «protosevasto» con il relativo stipendio, mentre ai patriarchi di Grado veniva concesso alle stesse condizioni quello di «ypertimos». Il primo di questi era stato creato dallo stesso Alessio I, che operò una riforma radicale dei gradi di nobiltà bizantini; il secondo era ugualmente di origine recente e veniva conferito agli ecclesiastici che il sovrano voleva onorare in modo particolare: nel caso specifico Alessio Comneno intendeva alimentare la rivalità fra il patriarca di Grado e papa Gregorio VII, amico dei Normanni. Le elargizioni in denaro comprendevano un versamento annuale di venti libbre d’oro, che i Veneziani potevano distribuire a piacimento nelle loro chiese. Veniva poi imposto a ogni amalfitano proprietario di una bottega a Costantinopoli o in altri territori dell’impero di versare annualmente tre monete d’oro alla chiesa di San Marco a Venezia. Seguivano quindi le assegnazioni immobiliari: a Costantinopoli i Veneziani ottennero un quartiere lungo il Corno d’Oro comprensivo di tre scali marittimi e un forno adiacente alla chiesa di Sant’Acindino, che già doveva essere di loro proprietà, con la rendita relativa; a Durazzo la chiesa di Sant’Andrea con le pertinenze di questa, a eccezione del materiale immagazzinato a uso della flotta imperiale. I privilegi commerciali, infine, riguardavano la facoltà di vendere o acquistare «ogni genere di merce» senza pagare alcuna tassa, né essere sottoposti a requisizioni e alla giurisdizione dei funzionari marittimi. Erano esattamente indicati, a tal fine, i tributi da cui i Veneziani dovevano essere esentati, i funzionari marittimi al cui controllo non sarebbero stati più soggetti e, da ultimo, i centri in cui potevano esercitare liberamente il commercio. Questo diritto in teoria era valido per tutto il territorio bizantino, dato che il concetto è riaffermato per due volte nel documento; nella pratica però doveva essere limitato alle località espressamente elencate, che andavano dalla Siria alle estreme province occidentali ed erano i principali centri commerciali dell’impero. Non vi erano compresi i porti del mar Nero, di cui Bisanzio intendeva riservarsi il monopolio, e le isole di Creta e di Cipro, che vennero aperte al commercio veneziano soltanto qualche anno più tardi. Le località indicate erano in tutto trentadue; entravano però nell’elenco anche alcuni centri non più sotto il diretto controllo di Bisanzio, come Antiochia o Durazzo, al momento occupata dai Normanni, ma evidentemente in questo caso si teneva conto della transitorietà delle situazioni politiche.
Capitolo quinto
L’Invadenza dell’Occidente 1. Due mondi lontani Il secolare dissidio con la chiesa di Roma si avvicinò allo scisma nel IX secolo con l’avvento al trono patriarcale di Costantinopoli dell’erudito Fozio. Imparentato con la famiglia imperiale e nato a Costantinopoli verso l’820, fu un uomo di grande erudizione e scrittore fecondo: la sua opera principale, preziosa fonte di informazione per i moderni, è la Biblioteca, una serie di epitomi, riassunti o commenti di duecentosettantanove testi greci di vario argomento, che in alcuni casi ci dà notizie su scritti oggi scomparsi. Nell’858, dopo la deposizione di Ignazio, Fozio
fu scelto come nuovo patriarca di Costantinopoli da Teodora, reggente dell’impero per conto del minore Michele III, nonostante fosse un laico: un fatto peraltro non insolito a Bisanzio. L’ex patriarca Ignazio andò a Roma per lamentare il trattamento subito: papa Niccolò I gli diede ascolto e convocò un sinodo che non riconobbe l’elezione di Fozio dichiarandola illegittima, dato che era stato di fatto imposto da Barda, l’onnipotente zio dell’imperatore, che aveva costretto alla rinuncia il precedente patriarca. Fozio, con l’appoggio di Barda e del suo sovrano, entrò in conflitto con il papa Niccolò I e convinse gli ambasciatori a lui inviati da Roma a ritenere legittima la sua elezione. Il papa dichiarò deposto Fozio nell’863, ma Michele III si schierò a favore del patriarca, respingendo la pretesa romana al primato religioso. Fozio a sua volta attaccò la chiesa di Roma sul piano dottrinale: un sinodo riunito a Costantinopoli nell’867 scomunicò il papa, condannò come eretica la dottrina romana della duplice processione dello Spirito Santo e respinse come illegali le intrusioni romane nelle questioni della chiesa bizantina. Si sarebbe probabilmente arrivati allo scisma, ma improvvisamente Michele III fu deposto e il nuovo imperatore Basilio I cambiò politica religiosa. Il sovrano fece rinchiudere Fozio in un monastero e richiamò Ignazio, rappacificandosi così con Roma. In seguito tuttavia, deluso dalla sua precedente politica ecclesiastica, Basilio I fece tornare a corte Fozio che nell’877, alla morte di Ignazio, salì di nuovo sul trono patriarcale e questa volta venne anche riconosciuto da Roma. La partita comunque era soltanto rimandata, anche se dovettero trascorrere quasi due secoli perché si arrivasse alla divisione definitiva fra le due sedi episcopali. Lo scisma infatti ebbe luogo nel 1054, segnando il punto di arrivo del contrasto fra Roma e Costantinopoli. Sul soglio di Pietro si trovava allora papa Leone IX, esponente del monachesimo riformato di Cluny, sostenuto dal cardinale Umberto (Umberto di Silvacandida), fiero avversario di Bisanzio, mentre a Costantinopoli era patriarca Michele Cerulario, un’altra forte personalità, e sul trono sedeva il debole Costantino IX Monomaco. La contesa iniziò in Italia meridionale per cause occasionali e si trasferì poi a Costantinopoli, dove le divergenze si spostarono sul piano dogmatico-liturgico e investirono i tradizionali punti di dissidio, come la dottrina della duplice processione dello Spirito Santo, il digiuno del sabato, il matrimonio dei preti e l’uso di diversi tipi di pane nella comunione. Nel 1054 arrivò a Costantinopoli un’ambasceria romana guidata dal cardinale Umberto con la scomunica per Michele Cerulario e i suoi seguaci: questi, però, con l’appoggio del suo sovrano, convocò un sinodo che scomunicò i legati romani. La rottura era così arrivata al punto di non ritorno, anche se non fece molta impressione sui contemporanei, e se ne valutò il peso soltanto in seguito, quando non fu più possibile ricomporla. A parte i contrasti religiosi, l’impero di Bisanzio restava per lo più agli occhi dell’Occidente un mondo lontano, misterioso e fantastico, ma sostanzialmente diverso e ostile nella percezione dei governanti dell’Europa feudale. Quando era all’apice della potenza, all’epoca dei Macedoni, tra IX e XI secolo, nessuna potenza occidentale ebbe l’ardire di assalirlo direttamente e non avrebbe, anche volendo, avuto i mezzi per farlo: i conflitti semmai si svolgevano nella periferia, come quello con i Tedeschi o quello più devastante con i Normanni invasori in Italia meridionale. Vi era al contrario un’intensa attività diplomatica tra Oriente e Occidente, di cui troviamo una preziosa testimonianza nell’opera di Liutprando di Cremona, per almeno due volte ambasciatore a Costantinopoli. Liutprando, vescovo di Cremona dal 961, una delle più brillanti penne del Medioevo, ci ha lasciato infatti la descrizione di due ambascerie a Costantinopoli. La prima ebbe luogo nel 949 per conto di Berengario II, allora marchese di Ivrea, e la seconda nel 968, allorché si recò da Niceforo II Foca come inviato dell’imperatore Ottone I. I due racconti sono profondamente diversi uno dall’altro nel contenuto e negli scopi. Nel primo caso Liutprando scrive della corte bizantina con toni di meravigliato stupore, lasciandoci informazioni sul ricevimento solenne degli ambasciatori al palazzo imperiale; nel secondo, al contrario, la raffigura con accenti volutamente caricaturali. Il motivo di tale diversità è da connettere alla ragione stessa dell’ambasceria: nel 968 Liutprando fu inviato – come si è visto – presso il sovrano bizantino in un momento di attrito fra i due imperi, nel tentativo di comporre i contrasti con
un matrimonio diplomatico fra una principessa imperiale e il futuro Ottone II. Ma la sua missione fallì completamente: il messo dell’imperatore germanico non solo si vide rifiutare quanto chiedeva, ma venne accusato di spionaggio e per qualche mese fu tenuto in semiprigionia a Costantinopoli. Al ritorno sfogò la propria acredine e, nel contempo, si giustificò presso il suo signore con una relazione (Relatio de legatione constantinopolitana) che è un impietoso atto di accusa contro Bisanzio. Il cerimoniale di corte, in particolare, è oggetto di critiche sarcastiche, che ne ridicolizzano la sostanza presentandolo come puro culto di vuote apparenze. Il racconto della prima ambasceria presenta un testo di grande interesse per lo studio della corte di Bisanzio, proprio al tempo di Costantino VII Porfirogenito, il sovrano che ne teorizzò il cerimoniale. Alla visione in negativo del secondo racconto si contrappone infatti una tensione descrittiva priva di toni polemici, che agli intenti celebrativi affianca caratteri tali da renderla di per sé un testo di grande interesse. A ciò si unisce poi una singolare possibilità di utilizzo, perché quanto scrive Liutprando può essere confrontato con il Libro delle cerimonie di Costantino VII, l’opera che l’imperatore erudito andava redigendo in quegli anni per fissare un canone del cerimoniale di corte. L’operazione si rivela senza dubbio proficua, almeno parzialmente, in quanto offre un percorso parallelo che consente di integrare il racconto storico inserendolo nelle informazioni sul cerimoniale che provengono dalla letteratura bizantina. La descrizione dell’ambasceria a Costantinopoli è contenuta nel sesto e ultimo libro dell’Antapodosis, o Restituzione, una storia di re e di imperatori del IX e X secolo. L’interesse per Bisanzio nell’opera, scritta fra il 958 e il 962, non è tuttavia limitato a questo episodio, perché in più occasioni l’autore si mostra attento alle vicende orientali e, in particolare, alle usanze della corte. Oltre alle notizie sugli imperatori, da Basilio I a Costantino VII Porfirogenito, si colgono infatti frequenti accenni al Gran Palazzo e ad alcuni aspetti caratteristici del cerimoniale. Quest’attenzione aveva solide motivazioni personali e di tradizione familiare: tanto il padre quanto il patrigno dello storico, infatti, erano stati ambasciatori a Costantinopoli. Il primo vi si recò nel 927 come inviato di Ugo di Provenza presso Romano I Lecapeno e, tornato in patria, morì pochi giorni più tardi. Il secondo vi andò nel 942 per combinare le nozze tra la figlia di re Ugo di Provenza e Romano, figlio di Costantino VII. Liutprando, a sua volta, avvertiva il fascino della cultura greca e, di conseguenza, si sentiva naturalmente attratto verso Bisanzio. A ciò si aggiungeva l’esperienza maturata durante l’ambasceria a Costantinopoli, dove si era recato soprattutto per potervi apprendere il greco. Quando Liutprando andò per la prima volta nella capitale dell’Oriente romano aveva circa ventinove anni, era un diacono e prestava la sua opera a Pavia alla corte del re d’Italia, che formalmente era allora Lotario II, figlio di Ugo di Provenza, il quale però di fatto si trovava sotto la tutela di Berengario II, destinato a essere a sua volta incoronato nel 950, dopo la morte di Lotario. Nello stesso tempo, a Costantinopoli, il potere era detenuto da Costantino VII Porfirogenito, che nel 944 con un colpo di stato si era liberato degli usurpatori della famiglia dei Lecapeni. In polemica con Berengario, Liutprando gli rimprovera di aver approfittato del suo desiderio di imparare il greco per spedirlo gratis a Costantinopoli. Le spese di viaggio, infatti, sarebbero state pagate dal patrigno dello storico e Berengario non avrebbe provveduto neppure ai doni per l’imperatore; è però noto che Liutprando è polemico nei confronti di Berengario, al quale rinfaccia la disgrazia in cui incorse qualche anno più tardi, e quanto afferma va forse accolto con un certo beneficio di inventario. Comunque siano andate le cose, Liutprando partì da Pavia il 1o agosto 949 e raggiunse Venezia tre giorni più tardi. Qui incontrò l’eunuco Salemone, di ritorno da una ambasceria in Spagna e Sassonia, e Liutifredo, un mercante di Magonza che si recava a Bisanzio come legato di Ottone, allora re di Germania. Lasciò Venezia il 25 agosto e il 17 di settembre raggiunse Costantinopoli, dove fu solennemente ricevuto a corte in modo «inaudito e meraviglioso». Assieme a Liutifredo e agli ambasciatori spagnoli, che erano arrivati nel frattempo, egli venne introdotto nella Magnaura, un edificio «di meravigliosa grandezza e bellezza» che faceva parte del complesso del Gran Palazzo degli imperatori. Lo stupore che provò traspare nettamente dal racconto
che fece in seguito: Dinanzi al seggio dell’imperatore v’era un albero di bronzo dorato i cui rami erano pieni di uccelli, anch’essi di bronzo dorato, di diverso genere, che emettevano suoni differenti secondo le diverse specie. Il trono dell’imperatore era stato fabbricato in maniera tale che a un momento sembrava basso, poi più alto e a un tratto altissimo. Esso era custodito, per così dire, da due leoni di immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno, ma ricoperti d’oro, che percuotevano il suolo con la coda e dalla bocca aperta, muovendo la lingua, emettevano ruggiti. Qui fu ricevuto secondo il protocollo con una complessa messinscena, che veniva adoperata per impressionare gli stranieri: Appoggiato sulle spalle di due eunuchi fui portato in questa casa alla presenza dell’imperatore. E sebbene, al mio arrivo, i leoni ruggissero e gli uccelli cantassero ciascuno in conformità alla propria specie, non fui scosso da alcun timore, da alcuna meraviglia, perché ero stato informato di tutto da quanti ne erano bene a conoscenza. Dopo aver adorato per tre volte l’imperatore con la faccia a terra sollevai il capo e, improvvisamente, vidi seduto quasi presso il soffitto della sala e vestito di altri abiti l’uomo che avevo visto in trono appena sollevato da terra. Come ciò fosse avvenuto non riuscii a capirlo: forse lo tirarono su con un argano di quelli con i quali si sollevano gli alberi dei torchi. Direttamente non parlò mai dato che, anche se lo avesse voluto, la distanza avrebbe reso ciò indecoroso e si informò per mezzo del logoteta sulle condizioni di vita e la salute di Berengario. Dopo aver risposto a tono, uscii a un cenno dell’interprete e venni subito accolto nell’alloggio assegnatomi. Lo storico prosegue quindi enumerando i doni che consegnò al sovrano di Bisanzio: nove corazze, sette scudi con borchie dorate, due coppe d’argento dorato, spade, lance, spiedi e quattro schiavi karzimasi, cioè un tipo particolare di eunuchi «che per l’imperatore risultarono più preziosi di tutti i doni ricordati». Tre giorni più tardi fu chiamato a palazzo da Costantino VII che lo invitò di persona a un banchetto, alla fine del quale insieme al suo seguito ricevette un dono dall’imperatore. Questo banchetto, come è precisato più avanti, si svolse ancora a palazzo nel Triclinos dei XIX letti, così detto per l’esistenza di diciannove tavole intorno alle quali i convitati si distendevano alla maniera romana per mangiare: Vicino all’ippodromo, a settentrione, si trova una casa di mirabile altezza e bellezza, che si chiama Decaenneacubita. Fu così chiamata non per un fatto preciso ma per cause apparenti: in greco infatti il dieci latino si dice «deca», il nove «ennea» e possiamo tradurre cubita da «cubare» come inclinata o curvata. Ciò perché in essa vengono disposte diciannove mense nel giorno della nascita carnale di nostro signore Gesù Cristo. L’imperatore e i convitati vi banchettano non seduti, come negli altri giorni, ma rimanendo sdraiati. In quei giorni non ci si serve di vasellame d’argento ma soltanto d’oro. Non si hanno molti particolari sullo svolgimento di questo banchetto ufficiale. Dopo il passo citato, Liutprando si limita infatti a ricordare il modo in cui la frutta fu portata sulla mensa, per mezzo di vasi d’oro sollevati con funi, e un gioco acrobatico che allietò i commensali. Subito dopo passa a descrivere un’altra usanza di corte della quale fu spettatore: la distribuzione di monete d’oro a militari e dignitari palatini che ebbe luogo nella settimana precedente la domenica delle Palme, cioè tra il 24 e il 30 marzo del 950, quando evidentemente il messo di Berengario II si trovava ancora a Bisanzio. Liutprando fu invitato a palazzo dall’imperatore per assistere alla distribuzione e poté notare che le monete erano state poste su una tavola in contenitori numerati nelle quantità dovute a ognuno. I
beneficiati venivano ammessi in ordine dinanzi all’imperatore e ricevevano un numero di monete e di indumenti (scaramangae) in proporzione alla dignità ricoperta. Costantino VII iniziò la distribuzione il giovedì e andò avanti fino al sabato. L’operazione riprese poi la settimana seguente, ma questa volta per mano di un dignitario, il parakoimomenos, al quale spettava il compito di erogare le somme inferiori a una libbra d’oro. Lo stesso Liutprando, pur non avendone titolo, ebbe in dono da Costantino VII una libbra di monete d’oro. Le distribuzioni di gratifiche ai dignitari erano abituali a corte, ma non si ha notizia dal Libro delle cerimonie dell’usanza ricordata nell’Antapodosis nelle due settimane che precedevano la Pasqua. Il tema dei banchetti solenni, detti kletoria, è al contrario ampiamente documentato, soprattutto attraverso il Kletorologion dell’atriklines Filoteo, ossia del funzionario addetto ai banchetti imperiali, un’opera scritta nell’899 allo scopo di illustrare compiutamente la materia. Tali banchetti avevano grande importanza nel cerimoniale ed erano offerti di frequente, sia in occasioni straordinarie sia a cadenze fisse, nella celebrazione delle principali feste civili e religiose. Il sovrano manifestava così la propria magnanimità nei confronti dei dignitari e in genere di tutti i sudditi, che erano variamente invitati a parteciparvi. Gli atriklinai come Filoteo avevano il compito di organizzarli secondo il protocollo e di introdurre gli invitati nelle sale in cui si svolgevano rispettando rigidamente l’ordine di precedenza, che attribuiva posti e prerogative differenti in funzione del rango. Quando Liutprando tornò a Bisanzio nel 968, vi restò per circa quattro mesi di difficili trattative e, a suo dire, di sgradevole trattamento e si sfogò in seguito scrivendo a Ottone I una relazione in cui la corte di Bisanzio è dipinta in toni caricaturali. Questa volta trovò tutto sgradevole e, in particolare, i banchetti e i cibi che venivano serviti. In primo luogo gli parve imbevibile il vino «miscelato con pece, resina e gesso»; poi fu particolarmente infastidito dal banchetto solenne al quale partecipò nel giorno della Pentecoste. Ebbe da ridire per una questione di precedenze, essendo stato collocato al quindicesimo posto, sebbene ambasciatore imperiale, e si lamentò di una cena «turpe e stomachevole, secondo le usanze degli ubriachi, unta d’olio e aspersa di un certo pessimo liquido di pesci». E ancora, in un’altra occasione, abbandonò la mensa per essere stato posposto all’ambasciatore dei Bulgari. Gli fu spiegato che i Bulgari avevano la precedenza per motivi protocollari, ma la cosa non pare averlo convinto. In un successivo banchetto Niceforo Foca in segno di benevolenza gli inviò dalla sua tavola uno dei cibi più raffinati, «un grasso capretto, di cui egli stesso aveva gustato, lautamente farcito di aglio, cipolla e porri, irrorato di salsa di pesci marinati» che trovò di pessimo gusto. La «salsa di pesci marinati» o il «pessimo liquido di pesci» che disgustò Liutprando durante i suoi pranzi a Bisanzio era il garum, un condimento già noto a Greci e Romani, che in Oriente godette di una straordinaria fortuna per tutto il Medioevo e anche oltre. Il garum era ottenuto dalla fermentazione del pesce (aringhe, alici, sarde, pezzi di sgombri e tonni) unito a erbe aromatiche e sale (in quantità pari alla metà del pesce) in modo da impedirne la putrefazione. Una volta fermentato, l’impasto era pressato e filtrato: questa salsa, per noi quanto meno discutibile, aveva un sapore acre ed emanava un forte odore di pesce, eppure era ricercatissima per insaporire non solo il pesce ma anche la carne. A più riprese infine Liutprando mette l’accento su uno dei principali temi di polemica fra Oriente e Occidente, che sarebbe durato anche in seguito, ossia la pretesa dei sovrani di Bisanzio di essere gli unici ad aver diritto al titolo di imperatore, basileus in lingua greca, e di essere considerati gli unici eredi diretti dei cesari romani. «Voi non siete Romani ma Longobardi», sembra aver esclamato alla presenza dell’ambasciatore d’Occidente Niceforo Foca, che considerava il sovrano, Ottone I, nient’altro che un re; a sua volta Liutprando definisce con disprezzo i Bizantini semplicemente «Greci», cosa che ai loro orecchi suonava alquanto offensiva. Non si trattava d’altronde di una novità: nell’812 i Bizantini con la pace di Aquisgrana avevano riconosciuto senza entusiasmo a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma non di imperatore dei Romani, che riservavano al loro sovrano. Questa condiscendenza non era comunque durata molto: dodici anni più tardi Michele I scrivendo a Ludovico il Pio lo qualificava come «glorioso re dei Franchi e dei Longobardi e chiamato loro imperatore». Allo stesso modo Basilio I rifiutava a
Ludovico II il titolo di imperatore dei Romani, concedendogli soltanto quello di imperatore dei Franchi. Durante l’ambasceria di Liutprando, con la tensione generata dalla guerra in corso, si ebbe poi un incidente diplomatico che andava al di là del semplice conflitto protocollare: arrivarono infatti a Costantinopoli legati di papa Giovanni XIII con lettere in cui Niceforo Foca veniva definito «imperatore dei Greci» mentre Ottone I era «imperatore augusto dei Romani», e vennero incarcerati per l’intollerabile oltraggio.
2. I Normanni all’attacco Nella seconda metà dell’XI secolo le distanze fra Oriente e Occidente iniziarono ad accorciarsi e quest’ultimo divenne sempre più aggressivo. Entrarono in gioco infatti due fattori nuovi: la generale rinascita dell’Europa occidentale dopo il Mille, con le effervescenze sociali e politiche che essa comportò, e la progressiva crisi dell’impero di Bisanzio. Nel generale quadro di rinnovati movimenti delle persone, l’impero iniziò a presentarsi come una meta appetibile per chi era attirato dalle prospettive di guadagno o anche per gli stati che avevano intenzioni aggressive. I Bizantini stessi, dopo secoli di un sostanziale isolamento, si aprirono sempre più all’Occidente e questo fenomeno si fece avvertire soprattutto sotto la dinastia dei Comneni, sul trono dal 1081 al 1185. Manuele I Comneno, il terzo sovrano della dinastia, amava le usanze occidentali e le introdusse a corte modificando la mentalità e le tradizioni della sua gente. Si fecero strada così i tornei cavallereschi accanto alle tradizionali corse di carri, per secoli il divertimento preferito dai Bizantini, e anche nella scelta dell’imperatrice si fece avvertire il cambiamento: mentre per secoli i sovrani avevano sposato le loro suddite, salvo rare eccezioni, ora iniziano a preferire le straniere, e la prassi in seguito sarebbe divenuta la regola. L’afflusso massiccio di Occidentali fece tuttavia maturare, come naturale evoluzione, anche un processo di ostilità crescente, rivolta a contenerne sia la pressione militare sia la presenza ingombrante nella vita sociale ed economica dell’impero. Il progressivo indebolimento di Bisanzio si fece particolarmente avvertire con la successione di sovrani di poco spessore e scarsamente attenti a mantenere un apparato militare all’altezza della situazione. Per più di cinquant’anni dopo il 1028 furono al governo quasi sempre esponenti dell’aristocrazia civile, pregiudizialmente avversi al mondo militare: quando salì al potere Alessio I Comneno, un rappresentante della fazione avversa, la situazione era ormai compromessa, con la sparizione dell’esercito nazionale e il disfacimento della flotta. A ciò si aggiungevano le catastrofiche sconfitte in Italia e in Asia Minore, passata pressoché interamente in mano ai Turchi Selgiuchidi, che avevano minato l’integrità territoriale dello stato. Roberto il Guiscardo fu il primo ad approfittarne, portando il suo attacco direttamente al cuore di Bisanzio e dando così inizio a ripetute aggressioni occidentali, sempre più frequenti a partire dal XII secolo. Nella primavera del 1081, a dieci anni dalla conquista del Meridione italiano, Roberto il Guiscardo assalì la costa orientale dell’Adriatico, con l’intento di conquistare Durazzo e di qui aprirsi la via per Costantinopoli; dopo aver preso Corfù portò quindi l’assedio alla città. Alessio Comneno si trovò in grosse difficoltà: essendo un soldato, aveva ben chiara la situazione strategica e prese di conseguenza le uniche contromisure che al momento poteva adottare. Scrisse perciò al sultano selgiuchide di Asia Minore, con il quale aveva appena sottoscritto un trattato di pace, perché gli inviasse mercenari e, contemporaneamente, fece una richiesta di aiuto navale a Venezia, la cui forza, come si è osservato, era indispensabile per far fronte al nemico. Da parte veneziana, come in altri casi precedenti, vi era una sostanziale coincidenza di interessi, poiché l’eventuale insediamento dei Normanni su entrambe le coste dell’Adriatico era visto come un pericolo alla libertà di navigazione. Esisteva inoltre a Durazzo una consistente colonia veneziana, i cui interessi premevano alla madrepatria. Il governo veneziano di conseguenza non si fece pregare e fu rapidamente concluso un accordo quando la legazione imperiale raggiunse Venezia: le
proposte di Alessio I erano molto allettanti per Venezia e rese ancora più attraenti dal fatto che le concessioni promesse sarebbero state fatte in caso tanto di vittoria quanto di sconfitta degli alleati. La flotta veneziana, al comando del doge Domenico Selvo, fece quindi vela alla volta di Durazzo, dove arrivò probabilmente verso la metà di luglio, e subito si accese una violenta battaglia navale con i Normanni, in cui i Veneziani ebbero la meglio. La vittoria non fu risolutiva, ma consentì di interrompere il blocco marittimo di Durazzo. L’euforia del momento venne però raffreddata dalla determinazione con la quale il Guiscardo continuava ad assediare Durazzo, senza curarsi dell’accerchiamento navale e, ancor più, dalla sonora sconfitta che le forze arrivate da Costantinopoli al comando del sovrano subirono alla metà di ottobre. Alessio Comneno si salvò con la fuga e la disfatta segnò il destino di Durazzo, che si arrese l’8 febbraio del 1082, forse per il tradimento di un veneziano. Quanto restava della flotta veneziana abbandonò la città e prese definitivamente il largo, terminando così con un disastroso fallimento la prima fase della guerra. Il risultato non era tuttavia decisivo e Alessio Comneno, dopo la fuga, non rimase inattivo: raggiunse Tessalonica, dove si fermò per qualche tempo prima di rientrare a Costantinopoli, e qui si adoperò per ricostruire un esercito; nello stesso tempo inviò un’ambasceria all’imperatore germanico Enrico IV per esortarlo ad attaccare l’Italia normanna, a seguito dell’accordo già concluso all’inizio del conflitto, schierandosi insieme a lui contro il papa Gregorio VII, che al contrario appoggiava il Guiscardo, suo alleato nella lotta per le investiture. La missione diplomatica non ebbe l’effetto sperato e in primavera il Guiscardo riprese l’offensiva, deciso ad aprirsi la via per Costantinopoli, conquistando Castoria in Tessaglia. La situazione dell’impero sembrava disperata, ma intervenne un fatto nuovo a modificarla: nei domini italiani del Guiscardo era infatti scoppiata una rivolta, sobillata dai partigiani di Alessio I, ed Enrico IV, comparso dinanzi alle mura di Roma, si apprestava a scendere al Sud in aiuto dei ribelli. Il normanno fu costretto a rientrare in Italia, in aprile o maggio del 1082, lasciando il comando al figlio Boemondo. La sua partenza non capovolse l’andamento della guerra, impose soltanto una battuta di arresto alla marcia su Costantinopoli, che fornì ai Bizantini il tempo per riorganizzarsi. Boemondo si mostrò non meno attivo del padre: estese le conquiste normanne e sconfisse sul campo per due volte l’imperatore nel corso dello stesso anno. La campagna si svolse fra l’estate e l’autunno del 1082; al termine di questa, Boemondo andò a porre l’assedio a Larissa in Tessaglia. Si concludeva così il secondo anno di guerra, ancora una volta in pesante passivo per Bisanzio. I Veneziani non presero parte alle operazioni del 1082, non essendo state condotte sul mare. La capitolazione di Durazzo non guastò i buoni rapporti con Alessio I, che al contrario rafforzò i vincoli con gli alleati concedendo loro i privilegi promessi l’anno precedente. L’aiuto veneziano, d’altronde, era indispensabile per condurre un’azione sistematica contro gli aggressori e l’imperatore non andò tanto per il sottile su questi dettagli. Con tenacia pari a quella dimostrata dal Guiscardo, Alessio Comneno preparò una controffensiva per il 1083. In primavera le truppe imperiali cacciarono i nemici da Larissa, liberando la città dopo sei mesi di assedio; Boemondo ripiegò a Castoria e di qui raggiunse Valona, con l’intenzione di recarsi in Italia in cerca di aiuto e di denaro. Fra i suoi uomini cominciava a serpeggiare il malcontento e l’imperatore ne approfittò per cercare di indurre i comandanti dei Normanni alla diserzione. Mentre Boemondo era a Valona, comparve nuovamente una squadra navale veneziana, che attaccò Durazzo ed entrò senza incontrare resistenza nella città abbandonata dagli abitanti. I Veneziani non riuscirono però a prendere la rocca, in cui si erano asserragliati i Normanni. Vi restarono per quindici giorni, impossessandosi di tutto quanto poteva essere utile, poi tornarono sulle navi alla notizia che i nemici muovevano da Valona in aiuto degli assediati. Nella seconda metà dell’anno, infine, Alessio Comneno riprese l’offensiva e in novembre costrinse alla resa il presidio normanno di Castoria. Alla notizia della caduta di questa piazza Boemondo si imbarcò per l’Italia, dove raggiunse il padre. Qualche tempo dopo la sua partenza anche Valona cadde in mano agli imperiali. La situazione si era rovesciata a favore dell’impero e i Normanni di fatto erano stati ricacciati fino al mare. Nella
primavera del 1084 le navi veneziane abbandonarono Durazzo e raggiunsero Corfù congiungendosi a una flotta imperiale che aveva riconquistato l’isola e, probabilmente, la vicina Butrinto. Non si ebbero comunque operazioni comuni, perché molti Veneziani preferirono rientrare in patria, dato il prolungarsi delle operazioni militari e il danno che per loro ne derivava. Avevano però sottovalutato l’energia di Roberto il Guiscardo, che nella seconda metà del 1084 diede il via alla controffensiva. Mandò in avanscoperta Boemondo, da cui furono riconquistate Valona e Butrinto, e in ottobre partì a sua volta da Otranto con una flotta di centoventi navi. Si impossessò di Corfù, lasciando un presidio nel castello, e proseguì per ricongiungersi con Boemondo. Alessio Comneno ricorse ancora ai Veneziani chiedendo il loro aiuto e di nuovo una flotta veneziana, al comando del figlio del doge Selvo, raggiunse Corfù, dove venne assediato il castello, e qui si ricongiunse alla squadra imperiale inviata da Costantinopoli. Roberto il Guiscardo, trattenuto fino al mese successivo dal cattivo tempo, fece vela alla volta di Corfù per affrontare gli alleati dai quali fu sconfitto in due successivi scontri navali. Ma quando ormai questi ritenevano di essere vincitori, li assalì di nuovo a sorpresa e li sconfisse rovinosamente nonostante la loro superiorità numerica. I Bizantini fuggirono, lasciando sguarnite le altre navi che vennero travolte: sette navi veneziane delle nove impiegate in combattimento colarono a picco e le altre due furono catturate; circa tredicimila uomini perirono, vennero prese inoltre sette navi imperiali in fuga e caddero in mano normanna duemilacinquecento prigionieri veneziani, molti dei quali subirono torture e mutilazioni da parte del vincitore. Il Guiscardo propose ai congiunti il riscatto dei prigionieri sui quali non aveva esercitato la propria vendetta e fece contemporaneamente a Venezia un’offerta di pace, che venne respinta. La sconfitta fu di tale portata che il doge Selvo fu costretto a dimettersi e venne sostituito da Vitale Falier. Il successo questa volta era stato completo ma i Normanni non ebbero modo di rallegrarsene a lungo, perché durante la sosta invernale delle operazioni un’epidemia si diffuse fra loro facendone strage. Si ammalò anche Boemondo e fu costretto a rientrare in Italia per esservi curato. Ciò malgrado, nell’estate del 1085 il Guiscardo rimise in mare le navi che aveva ormeggiato in Epiro e mosse alla conquista di Cefalonia, dove spedì in avanscoperta il figlio Ruggero per assediarne il castello. Non si sa bene cosa gli alleati abbiano fatto nel frattempo per contrastarlo ma, comunque siano andate le cose, Roberto raggiunse Cefalonia. Qui però venne colto da febbre e il 17 luglio del 1085 morì. La sua morte condusse alla rapida disgregazione di ciò che restava dell’apparato bellico normanno e, di fatto, mise fine alla guerra. Si arresero senza combattere anche i difensori di Durazzo e l’esercito costituito dall’invasore si disgregò: finiva così il sogno di conquista di Roberto il Guiscardo, anche se la minaccia normanna si sarebbe ripresentata ai sovrani di Bisanzio per ancora un secolo. Nonostante le difficoltà incontrate, il successo veneziano era completo e anche Alessio I alla fine dei conti ne aveva guadagnato essendo riuscito, con la vittoria sui Normanni e altri successi militari, a consolidare notevolmente il suo impero. L’alleanza con Venezia, al di là dei contrasti occasionali, era stata mantenuta e così i privilegi commerciali concessi nel 1082, che non vennero messi in discussione. Nella situazione che si era creata, Venezia continuava a non avere antagonisti, rispetto sia ai commercianti indigeni sia alle altre città marinare italiane (che ugualmente aspiravano ai mercati del Levante), e la sua posizione di forza non venne scossa neppure dal trattato con Pisa dell’ottobre 1111. Alessio I aveva emesso una crisobolla a favore di questa città, per dissuaderla dal prestare aiuto ai suoi nemici, concedendo privilegi commerciali, ma le condizioni di favore accordate restavano di gran lunga al di sotto di quelle di cui godeva Venezia. I Pisani ottennero infatti un quartiere a Costantinopoli, con un annesso pontile di sbarco, e una semplice riduzione dei dazi doganali al quattro per cento rispetto al normale dieci. I Genovesi inoltre restavano per il momento esclusi da questi benefici e il loro momento sarebbe venuto soltanto più tardi.
3. La prima crociata
Le crociate risvegliarono gli entusiasmi e i desideri di conquista degli Occidentali e segnarono nello stesso tempo l’inizio di una crisi irreversibile per Bisanzio. Il movimento crociatistico – come è noto – ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano II al concilio di Clermont fece appello ai fedeli per condurre la «guerra santa», e divenne in seguito un aspetto caratteristico della cristianità occidentale. La definizione di crociata si adattò progressivamente a ogni guerra contro i nemici della fede, ivi compresi gli eretici, ma come crociate più importanti sono in genere ricordate sette od otto spedizioni, che ebbero luogo fra XI e XIII secolo. Di queste, le prime quattro coinvolsero direttamente l’impero d’Oriente, generandovi riflessi pesanti e del tutto negativi. L’appello di papa Urbano II suscitò un grande entusiasmo nella cristianità occidentale: l’adesione all’impresa andò al di là delle aspettative e l’idea di combattere per la fede colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei. Il richiamo mistico di Gerusalemme e il miraggio di grandi avventure infiammarono i cuori dell’uomo medievale eccitando gli animi di tutti, dai grandi signori feudali agli umili popolani. L’entusiasmo suscitato dall’invito a liberare i luoghi santi, al famoso grido di «Dio lo vuole!», non venne però condiviso in eguale misura da tutto il mondo cristiano. Se da un lato, infatti, migliaia di persone in Occidente si misero in movimento per la guerra santa, dall’altro lato l’arrivo dei pellegrini fu visto con stupore e preoccupazione nel mondo bizantino. L’idea di crociata, così come venne concepita in Occidente, era quanto mai lontana dalla mentalità dell’Oriente imperiale: per secoli Bisanzio aveva combattuto l’Islam e i suoi sovrani ritenevano che la lotta contro gli infedeli fosse uno dei loro doveri, senza bisogno che altri se ne prendessero cura. Al di là degli entusiasmi popolari, lo spostamento di una grande quantità di armati dall’Occidente destava inoltre un comprensibile allarme in termini materiali, dato che non si poteva prevedere quale atteggiamento queste forze avrebbero assunto. A Bisanzio gli Occidentali erano guardati con sospetto, a motivo soprattutto dell’arroganza, della sete di denaro e della potenza militare, che ne facevano concorrenti pericolosi e imprevedibili. E ora un numero enorme di uomini in armi si apprestava a muoversi verso il cuore dell’impero, dato che papa Urbano II aveva indicato Costantinopoli come luogo di raduno dei partecipanti, ritenendo che l’imperatore bizantino sarebbe stato lieto di associarsi alla spedizione. Al tempo della prima crociata, sul trono di Bisanzio sedeva ancora Alessio I Comneno, che dopo le vittorie riportate era sul punto di prendere l’offensiva contro i Turchi in Asia Minore. Questo suo progetto venne reso vano dall’arrivo dei crociati, che lo obbligò a dedicarsi interamente al nuovo e imprevisto problema di politica estera. Naturalmente non li aveva chiamati, anche se la propaganda dei crociati fantasticò in questo senso, e al massimo si può credere che avesse sollecitato l’invio di mercenari occidentali per le sue guerre; fu comunque costretto a subirli e a fare buon viso a cattivo gioco, dato che non aveva forze sufficienti per rispedirli indietro. «Quando ancora non si era riposato un poco – scrive Anna Comnena – gli giunse voce dell’arrivo di un numero sterminato di eserciti franchi». L’arrivo degli Occidentali (che la Comnena da raffinata purista chiama Franchi, Celti o anche Latini) suscitava in lui notevoli preoccupazioni: secondo quanto scrive la figlia, egli li temeva poiché conosceva «il loro slancio irresistibile», il carattere instabile e volubile e gli altri difetti caratteristici, tra cui l’avidità e l’assoluta mancanza di scrupoli con la quale violavano i trattati. La stessa principessa bizantina si addentra poi in una spiegazione dei motivi della crociata, che ha un carattere fortemente riduttivo, indice dell’impossibilità per i Bizantini di comprendere in pieno il fenomeno. A suo giudizio, infatti, il movimento era nato per opera di Pietro l’Eremita, il predicatore di cui si dirà più avanti. Recatosi a visitare il santo sepolcro, Pietro sarebbe stato maltrattato in ogni modo dagli infedeli in Asia Minore; per questo motivo avrebbe pensato di spingere le genti dell’Occidente a recarsi in massa ai luoghi santi, sostenendo che ciò gli veniva ordinato da una voce divina. Sempre Anna Comnena distingue poi fra i pellegrini in buona fede, animati da un sincero desiderio di raggiungere Gerusalemme, e alcuni perfidi aristocratici, tra cui soprattutto i Normanni, il cui principale scopo consisteva nell’impossessarsi dell’impero. La prima crociata nacque con un’unica anima, ma due corpi distinti. Accanto alla spedizione ufficiale dei signori
feudali, che raccolsero l’appello del papa, si costituì infatti una crociata autonoma di pellegrini, la cosiddetta «crociata popolare», che la precedette di qualche mese. La crociata popolare si organizzò spontaneamente dopo il concilio di Clermont, grazie all’attività di numerosi predicatori, fra i quali ebbe un posto di primo piano il monaco itinerante Pietro l’Eremita: originario di Amiens, iniziò a predicare la crociata in Francia, dove raccolse circa 15 mila seguaci e passò quindi in Germania, continuandovi la predicazione e reclutando nuovi discepoli. Al seguito del monaco affluì una moltitudine eterogenea di persone, comprendente anche donne e bambini, infiammata dalla sua predicazione appassionata, ma indisciplinata e armata nei modi più sommari; il grosso era formato da contadini che volevano abbandonare le ristrettezze della loro vita quotidiana, ma non mancavano anche nobili diseredati, avventurieri e delinquenti. Pietro l’Eremita raggiunse Colonia con i suoi il 12 aprile 1096 e ne ripartì alcuni giorni più tardi con l’intenzione di dirigersi a Costantinopoli via terra. Dal grosso della spedizione si staccarono alcune migliaia di Francesi, al comando di Gualtieri Sans-Avoir, che andarono in avanscoperta lasciando Colonia verso il 15 aprile, seguiti pochi giorni dopo dalle genti di Pietro l’Eremita. Il primo gruppo di pellegrini attraversò l’Ungheria e raggiunse il confine bizantino a Belgrado; il viaggio fu segnato da devastazioni e saccheggi che colpirono soprattutto il territorio imperiale. Le autorità bizantine, prese alla sprovvista, temporeggiarono in attesa di ordini e le truppe di Gualtieri, in cerca di cibo, saccheggiarono i dintorni di Belgrado, scontrandosi con i reparti imperiali. Alla fine i comandanti bizantini ebbero disposizioni di rifornirle e di scortarle fino a Costantinopoli dove arrivarono senza altri incidenti verso la metà di luglio; qui i crociati vennero prudentemente alloggiati fuori dalle mura, come d’altronde tutti gli altri che li seguirono. Con la gente di Pietro, poi, le cose andarono ancora peggio. I Latini misero a sacco una città ungherese; superarono a forza la Sava, devastarono Belgrado e vennero alle mani con i Bizantini marciando disordinatamente fino a Sofia. Furono quindi ricevuti dagli inviati di Alessio I, che si occuparono del vettovagliamento e li condussero sotto scorta fino alla capitale in cui giunsero il 1o agosto. L’imperatore cercò di tenerli sotto controllo, ma questi devastarono i dintorni della città, così che dopo una settimana fu costretto a traghettarli al di là del Bosforo. In quei giorni aveva ricevuto a palazzo Pietro l’Eremita e lo aveva saggiamente consigliato di attendere il grosso della spedizione prima di avventurarsi a combattere i Turchi, che facilmente avrebbero messo in fuga le sue schiere indisciplinate. Pietro rimase colpito da queste parole, ma la sua autorità si era notevolmente indebolita e non riuscì a farsi ascoltare. La crociata popolare avanzò in disordine in Asia Minore e, dopo alcuni successi iniziali, il 21 ottobre venne pressoché annientata dai Turchi in una battaglia campale. Fra le vittime vi fu anche Gualtieri Sans-Avoir, mentre Pietro l’Eremita riuscì a salvarsi perché al momento della disfatta si trovava a Costantinopoli, dove si era recato per chiedere aiuto ad Alessio Comneno. I signori feudali affluirono a Costantinopoli in diverse ondate a partire dagli ultimi mesi del 1096; in totale, le loro forze sembrano essere state di circa centomila uomini. La maggior parte di questi attraversò il mare da Bari per raggiungere Durazzo e di qui, via terra, proseguire per Costantinopoli; alcuni però, come Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena, o Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, preferirono l’itinerario terrestre. Il primo ad arrivare a Costantinopoli fu Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia Filippo I; gli ultimi furono Roberto duca di Normandia e suo cognato Stefano conte di Blois, che vi giunsero ai primi di maggio del 1097. Anche con il passaggio dei baroni si ebbero saccheggi e incidenti con i Bizantini, alcuni dei quali di una certa gravità; Alessio I evitò comunque di assumere un atteggiamento ostile, limitandosi ad agire con diplomazia per ridurre al minimo i danni. Seguì infatti nei loro confronti una duplice linea di condotta, volta a raggiungere un accordo operativo e nello stesso tempo ad allontanarli al più presto possibile da Costantinopoli. Man mano che arrivarono nella capitale con i rispettivi seguiti, infatti, i capi latini vennero obbligati a prestare giuramento di fedeltà al sovrano, secondo l’usanza occidentale, con l’impegno a restituirgli tutte le città appartenute all’impero quando fossero state riconquistate; subito dopo il giuramento dei capi le truppe venivano traghettate al di là del Bosforo, per concentrarsi in una località
sulla via di Nicomedia ed evitare così la riunione di più contingenti in armi sotto le mura della capitale. Alessio I, in cambio, promise di prendere a sua volta la croce, di fornire aiuto logistico alla spedizione e un corpo di truppe ausiliario. L’accordo fu tutto sommato soddisfacente per l’imperatore, costretto evidentemente a scegliere il male minore, anche se alla prova dei fatti si sarebbe rivelato quanto mai fragile, basato come era più sulla diffidenza reciproca che sulla reale volontà di collaborare. Basta pensare, in proposito, che uno dei firmatari fu il normanno Boemondo di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo, che soltanto quindici anni prima con il padre aveva mosso guerra all’impero e che era stato sconfitto dallo stesso Alessio I. Boemondo era tuttavia un abile mentitore e nascose quelli che, in seguito, si sarebbero manifestati come i suoi veri progetti, mostrandosi particolarmente zelante nei confronti dell’imperatore; Alessio I, per parte sua, si prestò al gioco pur non facendosi particolari illusioni su di lui. La richiesta di giuramento, a ogni modo, venne per lo più accolta, malgrado le resistenze di alcuni baroni, con le sole eccezioni del normanno Tancredi, nipote di Boemondo, arrivato in Asia Minore senza passare da Costantinopoli, e Raimondo di Saint-Gilles, che non ne volle sapere e accettò unicamente di prestare un giuramento che lo impegnava a rispettare la persona di Alessio I. Verso la fine di aprile del 1097 il grosso delle forze crociate abbandonò gli accampamenti, senza attendere gli ultimi contingenti in arrivo, per addentrarsi in Asia Minore. Inizialmente tutto andò per il meglio: l’imperatore fornì l’appoggio promesso e ottenne la restituzione di Nicea e di altre località minori; le sue truppe, a loro volta, s’impossessarono di parte dell’Anatolia occidentale contribuendo a rendere sicure le retrovie della spedizione latina. Il rapporto di collaborazione cominciò tuttavia a incrinarsi con la formazione, nel marzo 1098, della contea di Edessa, che non fu consegnata all’impero e, qualche mese più tardi, ad Antiochia si arrivò alla rottura definitiva. La città, conquistata dopo un assedio durato più di otto mesi, passò infatti a Boemondo di Taranto, che vi costituì un proprio principato rifiutandosi di riconsegnarla all’imperatore, sebbene questo l’avesse espressamente richiesta. Il campo crociato si divise: a favore di Alessio I si schierò Raimondo di Tolosa, rivale di Boemondo e legato al Comneno, mentre i più difesero i diritti del normanno, che abilmente insinuava il sospetto di un tradimento del sovrano, e proseguirono la marcia verso Gerusalemme, senza curarsi più degli impegni contratti con Bisanzio. Alessio Comneno non poté tuttavia fare buon viso a cattivo gioco: la presenza di un principato normanno ad Antiochia rappresentava un pericolo gravissimo e, ben presto, passò a una guerra aperta con Boemondo che si trascinò con alterne vicende fino al 1108, concludendosi in Albania con la sconfitta del normanno. Boemondo di Taranto dovette proclamarsi vassallo di Alessio I, ma il principato di Antiochia restò nelle mani di Tancredi, che a sua volta ne rifiutò la consegna a Bisanzio, per poi tornare a essere vassallo di Bisanzio nel XII secolo. Nonostante questi contrasti, la prima crociata andò comunque avanti e, a differenza delle tre successive, ottenne lo scopo prefissato, con la conquista di Gerusalemme. A seguito della spedizione si costituirono tra Palestina e Siria quattro importanti stati crociati: il regno di Gerusalemme, la contea di Edessa, affidata a Baldovino di Fiandra, la contea di Tripoli, sotto Raimondo di Tolosa, e il principato di Antiochia. Per l’Occidente fu un grande successo, anche se abbastanza effimero, ma per Bisanzio si rivelò un’esperienza del tutto negativa. Lungi dal riunificare i cristiani nel nome della fede, come forse pensava papa Urbano II, aveva approfondito il contrasto secolare tra Oriente e Occidente, creando sospetti e rivalità reciproche.
4. La crisi del XII secolo La prima crociata era stata soltanto un’anticipazione dell’invadenza occidentale, che nel corso del XII secolo si fece sempre più aggressiva. I primi a creare problemi all’impero furono questa volta i Veneziani. Morto Alessio I il 15 agosto del 1118, il figlio e successore Giovanni II cambiò infatti idea sulle concessioni fatte alla repubblica:
un’ambasceria veneziana giunse a Costantinopoli nel 1119 per ottenere il rinnovo del precedente trattato, ma si vide opporre un rifiuto dall’imperatore. La cosa può sembrare strana perché, in linea teorica, una crisobolla aveva valore perpetuo; nella pratica, essendo i poteri del sovrano assoluti, essa andava soggetta a ratifica in caso di successione al trono. Sui motivi di tale decisione la storiografia moderna ha formulato diverse ipotesi, che la pongono in dipendenza dai cambiamenti intervenuti nella situazione generale dell’impero, mentre per i Bizantini la spiegazione è molto più semplice. Giovanni Cinnamo, storico di una generazione posteriore, la mette in correlazione con il comportamento dei Veneziani residenti nell’impero. L’immensa ricchezza accumulata a seguito delle concessioni di Alessio I li aveva condotti a insuperbirsi; di conseguenza «trattavano alla stessa maniera un cittadino e un servo» e non si limitavano a farlo con le persone qualunque ma anche con i dignitari di corte: di qui la decisione di Giovanni II, «sdegnato con loro», di espellerli dall’impero. La valutazione di Cinnamo è da ritenersi sostanzialmente esatta anche se probabilmente limitata a un solo aspetto della questione; errate sono semmai le conclusioni, perché Giovanni Comneno non espulse i Veneziani dall’impero, e si limitò piuttosto a privarli dei privilegi di cui godevano, come provano al di là di ogni dubbio alcuni documenti che attestano la presenza di mercanti veneziani fra il 1119 e il 1121. I Veneziani non rispettavano gli obblighi di alleanza e per di più si rendevano odiosi ai sudditi dell’impero. Il loro comportamento doveva essere causa di scandalo e di proteste, come quando, alcuni anni prima, affamati di reliquie, avevano trafugato il corpo di santo Stefano protomartire da una chiesa di Costantinopoli. L’azione fu condotta dal priore della locale chiesa veneziana di San Marco, d’intesa con il greco che custodiva le reliquie. Fu aperta la cassa che le conteneva e le spoglie vennero portate nell’edificio veneziano; la popolazione però diede visibili segni di ostilità e soltanto in seguito, quando si calmarono le acque, fu possibile inviarle a Venezia, dove furono accolte con grandi onori e deposte nel monastero benedettino di San Giorgio Maggiore. La decisione di Giovanni Comneno fu un colpo durissimo per Venezia, anche se il governo in un primo momento non reagì. L’anno successivo, però, si decise per un’azione armata: l’occasione per intervenire fu offerta dalla richiesta di aiuto proveniente dalla Terra Santa. Baldovino II, re di Gerusalemme, dopo la sconfitta cristiana del «campo di sangue» nel 1119, dove le truppe del principato di Antiochia furono sbaragliate dall’atabeg di Aleppo, si era infatti rivolto all’Occidente: i Veneziani ne raccolsero l’appello allestendo una grande flotta, su cui imbarcarono circa quindicimila uomini. Venne emanato un ordine di rientro in patria per i Veneziani entro la Pasqua del 1121 e, nell’agosto del 1122, la flotta salpò da Venezia al comando del doge Domenico Michiel; ma anziché dirigersi in zona operativa, si fermò a Corfù, dove venne assediata la cittadella. La guarnigione imperiale non si arrese e l’assedio si protrasse inutilmente fino alla primavera 1123, quando il doge, sollecitato dai cristiani di Oriente, decise finalmente di procedere alla volta della Palestina. La flotta veneziana ottenne importanti successi contro i musulmani e, al rientro, nella seconda metà del 1124, attaccò nuovamente l’impero. L’armata veneziana fece scalo a Rodi per rifornirsi; i Bizantini rifiutarono di concedere i viveri richiesti e i soldati del doge, di conseguenza, sbarcarono prendendo d’assalto la città, che venne saccheggiata. Subito dopo fu la volta di Chio, dove i Veneziani fissarono la loro base operativa fra gli ultimi giorni del 1124 e i primi mesi dell’anno successivo. Da Chio vennero fatte incursioni piratesche contro Samo, Lesbo, Andro e altri centri minori e, in primavera, la flotta riprese la via di Venezia portando, fra l’altro, le reliquie di sant’Isidoro trafugate a Chio. Durante il viaggio venne saccheggiata Modone e analoga sorte toccò ad alcune località della costa dalmata. Giovanni Comneno, dopo l’assedio di Corfù, aveva ordinato di trattare i Veneziani come nemici e l’atmosfera per loro doveva essersi fatta pesante anche a Costantinopoli, come prova il caso del chierico Cerbano. Era questi un veneziano che aveva servito alla corte di Alessio I e successivamente a quella del figlio; a un certo momento, però, aveva chiesto licenza di andarsene per raggiungere Gerusalemme. Erano tre i motivi che lo spingevano ad abbandonare la corte bizantina: il desiderio di visitare la Terra Santa, la nostalgia della patria e il timore di trovarsi in terra nemica in caso di ostilità fra Venezia e l’impero. L’autorizzazione tardò tuttavia a giungere, malgrado le
numerose richieste, e alla fine Cerbano decise di fuggire; si imbarcò su una nave, ma fu intercettato presso l’isola di Nicaria da una squadra bizantina. Venne riconosciuto e, trovandosi privo della lettera di congedo, fu portato a Chio e di qui nuovamente a Costantinopoli, dove subì la condanna al carcere come reo di offese alla persona del sovrano. Sfuggì però di mano ai soldati che lo conducevano in prigione; si travestì e raggiunse Crisopoli, dove si imbarcò su una nave bizantina fingendosi un siciliano. La nave raggiunse Tenedo e fu sbattuta da una tempesta all’isola di Chio; riprese quindi la navigazione e fece scalo a Rodi. A questo punto ebbero fine le peregrinazioni di Cerbano, perché a Rodi trovò due navi veneziane sulle quali raggiunse Chio incontrandovi la flotta della sua città quando gettò le ancore nell’isola per trascorrere l’inverno. Cerbano fu parte in causa nella sottrazione delle reliquie di sant’Isidoro e raccontò più tardi le sue vicissitudini in un’opera in parte autobiografica (Translatio mirificis martyris Isidori a Chio insula in civitatem Venetam), in cui fornisce una versione piuttosto addomesticata degli avvenimenti, trascurando lo scontro che lo vide contrapposto al doge Domenico Michiel quando, di sua iniziativa, trafugò il corpo del santo. Diversa è al contrario la sequenza dei fatti nel ciclo musivo realizzato nel Trecento all’interno della cappella di Sant’Isidoro, nella chiesa di San Marco a Venezia, dove in uno dei quattro pannelli si vede il rimprovero fattogli dal doge, con ogni probabilità per aver asportato il corpo senza il suo permesso. Nel 1126 ripresero le ostilità e una nuova spedizione veneziana attaccò l’isola di Cefalonia, dove fu sottratto il corpo di san Donato vescovo per portarlo a Venezia. La flotta imperiale non era in grado di far fronte agli attacchi e, nel corso di quattro anni, i Veneziani agirono indisturbati ottenendo una serie di successi, a dire il vero più dimostrativi che reali, ma comunque sufficienti a spingere alla capitolazione l’imperatore. Giovanni Comneno fece sapere al doge che era pronto a rinnovare il trattato e un’ambasceria veneziana raggiunse Costantinopoli. Nell’agosto 1126 si arrivò a un accordo sancito dall’emissione di una nuova crisobolla, completata da una sezione, oggi perduta, relativa agli obblighi di Venezia. Giovanni Comneno perdonava i Veneziani in considerazione dei precedenti meriti e perché di nuovo promettevano di combattere per l’impero. I loro ambasciatori avevano sottoscritto e giurato un documento nel quale venivano dettagliatamente fissati i doveri di Venezia nei confronti di Bisanzio; a loro volta avevano chiesto la conferma e la parziale modifica della crisobolla di Alessio I e Giovanni II la rinnovò ufficialmente riportandone il testo nella sua crisobolla. Aggiungeva poi la modifica chiesta da Venezia, riguardante un’interpretazione autentica del testo alessiano: nell’applicazione delle norme stabilite dal documento, i funzionari del fisco bizantino ritenevano infatti esentati dal pagamento delle tasse i Veneziani, ma non i sudditi dell’impero che con loro trattavano. Ascoltate le rimostranze, l’imperatore accoglieva la richiesta, disponendo che l’esenzione si estendesse anche ai suoi sudditi sia quando acquistavano dai Veneziani sia quando vendevano a loro. Al contrasto con Venezia, che aveva messo bruscamente fine a un’intesa secolare, seguì in modo ancora più devastante il passaggio della seconda crociata. Partita nel 1147, dopo la riconquista musulmana di Edessa, sotto la guida di Corrado III re di Germania e di Luigi VII re di Francia, questa spedizione terminò due anni più tardi in un totale fallimento. Corrado III mosse dalla Germania verso la fine di maggio del 1147, attraversò l’Ungheria e superò il confine bizantino un paio di mesi più tardi. Sul trono di Bisanzio era ora Manuele I Comneno, nipote di Alessio I, uno dei sovrani più brillanti di Bisanzio, che si trovò fra le mani un impero notevolmente più solido rispetto ai tempi del nonno e si adoperò a sua volta per ristabilire ovunque possibile la sovranità bizantina; la sua azione politica segna l’ultimo serio tentativo di dare a Bisanzio una dimensione di potenza egemone, cosa che in parte gli riuscì, ma che fu poi vanificata drammaticamente negli ultimi anni di regno. Sconfitto dai Turchi a Miriocefalo nel 1176, l’imperatore vide infatti crollare come un castello di carte l’edificio che aveva faticosamente costruito e di lì a quattro anni morì lasciando una situazione disastrosa. La pretesa del Comneno all’egemonia finì inoltre per scontrarsi inevitabilmente con l’esuberante potenza veneziana, le cui aspirazioni non sempre coincidevano con quelle del sovrano di Costantinopoli. Manuele I fu assalito dalle stesse preoccupazioni del nonno, quando la crociata si avvicinò. I delegati bizantini
raggiunsero il re tedesco in territorio ungherese e gli chiesero di giurare di non agire contro l’imperatore, cosa alla quale Corrado III si prestò, ottenendo in cambio la promessa di appoggio logistico. Come già cinquant’anni prima, tuttavia, la marcia attraverso il territorio imperiale fu tutt’altro che indolore. A Sofia e Filippopoli si ebbero incidenti con le popolazioni e Manuele Comneno inviò truppe per scortare i crociati; il rimedio fu tuttavia peggiore del male, perché i due contingenti vennero spesso sanguinosamente alle mani. Manuele Comneno, seriamente allarmato, ordinò ai Tedeschi di non raggiungere Costantinopoli e di effettuare la traversata a Sesto sull’Ellesponto, ma Corrado III proseguì per la sua strada arrivando nella capitale il 10 settembre. I Tedeschi saccheggiarono i dintorni di Costantinopoli e la situazione rischiò di degenerare in scontro aperto; all’ultimo momento venne comunque ristabilita un’apparente concordia e i crociati passarono il Bosforo. I Francesi arrivarono il mese successivo, seguendo ugualmente l’itinerario terrestre; la loro marcia causò meno problemi ai Bizantini perché venne condotta con maggiore disciplina. Lo stesso re, dopo un rifiuto iniziale, aderì alla richiesta di impegnarsi con il giuramento a restituire i territori ex imperiali, come avevano fatto i suoi predecessori. La spedizione prese quindi la via dell’Asia Minore, con l’aiuto dei Bizantini, ma senza alcuna collaborazione fra Tedeschi e Francesi. I primi vennero pesantemente sconfitti dai Turchi in prossimità di Dorileo il 25 ottobre e, poco più tardi, re Luigi si ricongiunse ai resti del loro esercito avanzando, sotto la continua pressione dei Turchi, fino ad Attalia, dove lasciò i suoi uomini per imbarcarsi alla volta di Antiochia. Corrado III, a sua volta, abbandonò la spedizione a Efeso per tornare a Costantinopoli: di qui, in seguito, si recò in Palestina. Le operazioni proseguirono quindi in Siria, al di fuori dell’orbita bizantina, senza alcun risultato concreto. Anche in questo caso il bilancio della crociata fu del tutto negativo per Bisanzio e il danno per l’impero non venne limitato al semplice passaggio degli eserciti occidentali. Approfittando dell’allontanamento di forze per controllare i crociati, infatti, i Normanni di re Ruggero II si impadronirono di Corfù nel 1147. Di qui la loro flotta attaccò la Grecia continentale, devastandone molte località: questa incursione si svolse nella seconda metà del 1147, prolungandosi probabilmente fino ai primi mesi dell’anno successivo, e condusse alla presa di Tebe e Corinto dove i Normanni razziarono un enorme bottino. Dopo di che si ritirarono e la loro flotta riprese la via della Sicilia portando le ricchezze depredate e un gran numero di prigionieri: le navi da guerra normanne, secondo uno storico bizantino, erano così cariche di preda da sembrare pesanti vascelli mercantili. Corfù restava però in mano nemica e, messo alle strette, Manuele Comneno fu costretto a concludere due trattati con Venezia per assicurarsene l’appoggio navale e attaccare l’isola, riconquistandola soltanto nell’estate del 1149. Venezia tornava così alla ribalta dopo la crisi degli anni Venti e, in questa occasione, il vantaggio che acquisì fu ancora più grande di prima: nel 1147 Manuele Comneno con un primo trattato riconfermò formalmente i vecchi privilegi, compresa la facoltà di commerciare a Creta e Cipro che era stata disattesa, e l’anno successivo ampliò notevolmente il quartiere già concesso ai Veneziani da Alessio I a Costantinopoli. Il fallimento delle operazioni in Asia Minore, di cui i maggiori responsabili furono i capi della spedizione, venne propagandisticamente attribuito ai Bizantini: come già al tempo della prima crociata si era parlato di un tradimento bizantino, ora Luigi VII lamentò lo stesso motivo fra le cause della sconfitta. Il cronista ufficiale della spedizione, Oddone di Deuil, fu ancora più esplicito e rimproverò all’impero l’insufficiente appoggio logistico, il costo eccessivo delle vettovaglie, l’inefficienza delle guide e, cosa ancor più grave, un’alleanza con i Turchi contro i cristiani. Vere o false che fossero le accuse, contribuirono a inasprire i rapporti fra Oriente e Occidente, che negli anni successivi si fecero sempre più tesi. Da parte occidentale si guardava con sospetto crescente all’impero, visto come una potenza inaffidabile e pericolosa e, viceversa, a Bisanzio cresceva di giorno in giorno l’animosità contro i Latini. Manuele Comneno non aveva concepito la campagna contro Corfù come una semplice operazione difensiva, bensì quale parte di un progetto più ambizioso di riconquista del territorio italiano. Una volta eliminata la testa di
ponte di Corfù, aveva infatti intenzione di portare direttamente la guerra nel regno normanno per farla finita con i nemici di sempre; a tal fine iniziò a mettere insieme una grande armata di terra e di mare della quale intendeva prendere personalmente il comando. L’inizio delle operazioni era previsto per la primavera del 1148 e l’imperatore doveva essere sicuro di risolvere la questione in poco tempo, a giudicare dal fatto che si era assicurato l’aiuto veneziano soltanto per sei mesi. I suoi progetti vennero però ritardati da fatti imprevisti e nell’inverno del 1150 la flotta approntata per l’invasione, che si trovava all’ancora a Valona, rientrò a Costantinopoli. Fra le circostanze avverse che causarono il ritardo vi fu anche l’azione della diplomazia veneziana, scarsamente propensa, in prospettiva inversa rispetto ai motivi per cui la città era scesa in guerra con i Normanni, ad accettare l’insediamento dei Bizantini su entrambe le coste dell’Adriatico. L’intesa con il re di Germania non venne tuttavia meno e l’inizio della campagna in Italia fu fissato per il 1152, ma Corrado III morì il 15 febbraio di quell’anno senza che nulla fosse stato fatto. Il nuovo sovrano tedesco, Federico I Barbarossa, si mostrò molto più tiepido di fronte a un accordo con i Bizantini, da cui li divideva la sua pretesa all’egemonia, e il progetto di guerra comune sfumò. Ciò malgrado, nel giugno del 1155, quando il Barbarossa si trovava in Italia, le forze imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo alle porte di Taranto. Fu però una vittoria di Pirro: l’anno successivo il nuovo re di Sicilia, Guglielmo I, sconfisse i Bizantini in prossimità di Brindisi, procedendo quindi alla riconquista del territorio che gli era stato sottratto. Nella primavera del 1158, infine, con la mediazione di papa Adriano IV, venne concluso un trattato in forza del quale i Bizantini abbandonarono la penisola. L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche pesanti conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega germanico, e segnò l’inizio di una progressiva frattura nelle relazioni con Venezia. Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo I nel 1154, così che al momento delle ostilità Venezia restò neutrale. Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno nel 1155 si rivolse a Genova, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera ottenendo che anche questa città restasse neutrale. L’invadenza non solo militare dell’Occidente suscitò, come succede in casi del genere, un forte sentimento xenofobo fra i Bizantini, che si manifestò apertamente attraverso due episodi significativi: i provvedimenti adottati contro i Veneziani nel 1171 e la strage di Occidentali a Costantinopoli nel 1182. I provvedimenti furono l’esito inevitabile del peso enorme assunto dai Veneziani nell’impero, a seguito dei privilegi commerciali di cui godevano, e vennero messi in atto, per ordine di Manuele Comneno, attraverso l’arresto e la confisca dei beni. La strage fu invece conseguenza diretta della politica nazionalistica dell’ultimo Comneno, Andronico, che eccitò le folle contro i Latini spingendole a farne un massacro. Dopo la morte di Manuele I Comneno nel 1180, il governo era passato al giovane figlio Alessio e alla reggente Maria di Antiochia, seconda moglie del defunto imperatore. La debolezza del potere centrale diede però l’avvio a un tentativo di usurpazione da parte di Andronico, cugino di Manuele, che si pose a capo di una rivolta antigovernativa. I rivoltosi erano animati soprattutto dall’ostilità nei confronti degli Occidentali, da tempo insediatisi in gran numero nell’impero: la mancata integrazione fra le diverse etnie, le differenze religiose e i privilegi di cui spesso godevano avevano suscitato una vasta opposizione in nome del nazionalismo bizantino. Andronico Comneno, dalla provincia di cui era governatore, marciò su Costantinopoli ed ebbe facilmente ragione delle forze governative. Il suo ingresso nella città, nel 1182, fu preceduto da un massacro di Latini da parte della folla aizzata dagli agenti imperiali: si ebbero migliaia di vittime e i sopravvissuti vennero venduti come schiavi ai Turchi. La testimonianza in proposito di Eustazio metropolita di Tessalonica è quanto mai drammatica: Raccontare i guai che allora videro i Latini, il fuoco che divorò i loro beni, senza tener conto dei saccheggi che subirono, gli incendi in mare dovuti alla pioggia di fuoco da parte dei Romei contro quelli che tentavano di
fuggire colle navi, e gli accidenti occorsi sulle spiagge e per le strade, sarebbe impresa difficile. Né solo i Latini armati erano presi di mira dagli uomini di Andronico, ma anche gente che, per non essere in grado di difendersi, suscitava pietà. Infatti anche donne e infanti venivano abbattuti dalle loro spade. Ma lo spettacolo più orribile si aveva quando il ferro nemico, aprendo il grembo di donne incinte, ne estraeva il feto, che, dopo aver visto prima del tempo la luce del sole, veniva accolto dalle tenebre dell’Ade, morendo prima ancora di essere perfettamente vivo. E ciò invero era bestiale e non paragonabile ad altre forme di pazzia. Cadde anche un sacerdote latino, non so se venuto in ambasciata dall’antica Roma o dalla Sicilia, comunque Romano o Siciliano. E cadde per di più con tutti i paramenti sacri che egli aveva indossato a schermo delle armi, con la speranza che i malvagi lo rispettassero. Andronico Comneno si liberò di Alessio II e Maria di Antiochia mettendoli a morte e intraprese una riforma dello stato, volta a eliminare decisamente le forme di degenerazione della vita pubblica, che sostenne con metodi di feroce brutalità. Riuscì a far venir meno alcune forme tradizionali di corruzione, ma rese assai debole la propria posizione e minò l’apparato militare togliendo di mezzo i signori feudali che, a Bisanzio come in Occidente, ne erano i capi; finì perciò col subire ripetute sconfitte da parte dei nemici tradizionali dell’impero: il colpo più grave venne dai Normanni, che nel 1185 rinnovarono l’aggressione all’Oriente e presero Durazzo, impadronendosi in seguito di Tessalonica, mentre la loro flotta conquistava Corfù, Cefalonia e Zacinto. Tessalonica fu brutalmente saccheggiata e di qui i vincitori presero in parte la via di Costantinopoli. La gravità della disfatta e la minaccia sulla capitale causarono la caduta di Andronico Comneno, che a Costantinopoli venne linciato dalla folla inferocita. Con la sua caduta finì anche la dinastia comnena, sostituita da quella debolissima degli Angeli. Isacco II Angelo riuscì comunque a liberarsi dei Normanni, che furono sconfitti da un suo generale e costretti a ritirarsi, mantenendo il controllo di Cefalonia e di Zacinto, da quel momento definitivamente perdute da Bisanzio. Pochi anni più tardi arrivò una nuova disgrazia con la terza crociata, iniziata nel 1189 dopo la conquista di Gerusalemme a opera del Saladino. Anche questa spedizione, al cui comando vi erano l’imperatore Federico I Barbarossa e i re Filippo Augusto di Francia e Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra, ebbe un esito modesto e, per di più, si rinnovarono i consueti episodi di avversione a Bisanzio. Federico Barbarossa, nemico dichiarato dell’impero, percorse l’itinerario attraverso i Balcani e si alleò con Serbi e Bulgari in funzione antibizantina. A Costantinopoli si sparse il panico e venne concluso un trattato con il Saladino per impedire il passaggio dei crociati. Federico Barbarossa occupò Filippopoli come una città nemica e si apprestò ad assalire Costantinopoli, ordinando al figlio Enrico di allestire una flotta e di ottenere la benedizione papale per la campagna contro l’impero bizantino. Alla fine, però, Isacco II si arrese e, nel febbraio 1190, venne concluso un trattato, in forza del quale il sovrano tedesco otteneva il permesso di effettuare la traversata e il rifornimento di viveri e un certo numero di ostaggi. Il Barbarossa non raggiunse tuttavia la Terra Santa, perché morì poco più tardi; fallì ugualmente la spedizione dei re di Francia e di Inghilterra, ma quest’ultimo sottrasse ai Bizantini Cipro, che già da alcuni anni si era resa indipendente da Costantinopoli. I rapporti fra Bisanzio e l’Occidente peggiorarono ancora negli anni successivi, per l’ostilità dell’imperatore Enrico VI, figlio e successore del Barbarossa, che minacciava di impossessarsi di Costantinopoli, raccogliendo l’eredità dei Normanni di cui era divenuto sovrano. La debolezza di Bisanzio, in continua decadenza sotto i successori dei Comneni, ne faceva sempre più una preda a portata delle potenze egemoni in Occidente, convinte di potersene impossessare senza grandi sforzi. I Bizantini cercarono di placare il sovrano germanico impegnandosi a pagare un forte tributo annuo, per cui venne introdotta una speciale «tassa tedesca». Le risorse finanziarie non furono tuttavia sufficienti e il sovrano del momento, Alessio III Angelo, fu costretto ad asportare gli ornamenti delle tombe imperiali per raggiungere la somma necessaria. La minaccia tedesca su Bisanzio si fece sempre più pressante,
ma Enrico VI morì nel 1197 prima di riuscire ad attuarla; in ogni modo fu soltanto una tregua perché di lì a poco l’Occidente avrebbe sferrato il colpo mortale.
5. La rottura con Venezia Le divergenze politiche fra Bisanzio e Venezia al tempo della spedizione in Italia meridionale non interruppero i rapporti commerciali e i traffici veneziani in Levante restarono pienamente operativi. Nel 1162 la colonia veneziana passò indenne attraverso la bufera che si abbatté su Pisani e Genovesi. Questi ultimi si erano insediati in buon numero a Costantinopoli dopo il 1155, destando la gelosia dei Pisani che li attaccarono in forze: furono respinti, ma alcuni giorni dopo rinnovarono l’attacco assieme a Bizantini e Veneziani, danneggiando notevolmente le proprietà genovesi e uccidendo un uomo. A seguito di ciò, Manuele Comneno espulse Genovesi e Pisani, senza prendere alcun provvedimento nei confronti dei Veneziani, che quindi trassero indirettamente profitto dalla situazione. Nel 1165 si ebbe anche un riavvicinamento politico. Dopo la presa di Milano, infatti, Venezia chiese aiuto a Manuele Comneno contro il Barbarossa, promettendogli che – in caso di intervento – tutte le città dell’Italia del Nord si sarebbero sottomesse a lui. L’imperatore raccolse l’invito e inviò una missione segreta in Italia per elargire denaro allo scopo di procurarsi alleati. Il dignitario bizantino che ne fu incaricato raggiunse Venezia: si arrivò rapidamente a un accordo e il comune si impegnò a collaborare con l’imperatore e a mettere a sua disposizione una flotta di cento navi. I negoziati furono poi estesi ad altre città con esiti favorevoli per il sovrano di Costantinopoli: da queste trattative scaturì la lega di Verona, per opporsi al Barbarossa, della quale Manuele Comneno si assunse inizialmente l’onere finanziario. L’intesa con Venezia era tuttavia assai fragile e la tempesta si stava addensando. Nell’estate del 1167 Manuele Comneno riportò infatti una vittoria decisiva contro il re ungherese Stefano III, a seguito della quale la Dalmazia, la Croazia, la Bosnia e il territorio di Sirmio passarono sotto il suo controllo. Questa nuova situazione era gravemente dannosa per gli interessi di Venezia, che si trovava ad avere l’impero come vicino nell’Adriatico settentrionale, in territori che da tempo rivendicava alla propria sovranità. Le mire di Manuele Comneno verso l’Occidente continuavano inoltre a estendersi anche all’altra costa dell’Adriatico attraverso una rinnovata influenza su Ancona, che era nell’orbita imperiale. La sua politica rischiava dunque di vanificare la posizione di privilegio faticosamente ottenuta da Venezia e il governo cittadino non mancò di mostrare il proprio disappunto. Il 10 dicembre 1167 giunsero a Venezia tre ambasciatori imperiali per chiedere il «solito aiuto» in caso di guerra con i Normanni: Manuele Comneno aveva infatti deciso di dare in sposa la propria figlia Maria al re Guglielmo I, ma le trattative si erano interrotte e si profilava un nuovo rischio di guerra. Questa volta, però, il comune veneziano non fu disponibile e il doge Vitale Michiel oppose un rifiuto per non turbare i buoni rapporti con la corte siciliana. Qualche tempo più tardi, inoltre, vennero concluse le nozze fra due figli del doge e due principesse ungheresi, in funzione chiaramente antibizantina. I Veneziani tendevano insomma la mano ai nemici di sempre nel momento in cui erano stati sconfitti dall’imperatore di Bisanzio, verso il quale non avvertivano più il vincolo di alleanza che fino ad allora aveva segnato la loro azione politica. Che cosa sia accaduto in seguito per portare alla rottura non è del tutto chiaro. Secondo le fonti veneziane, subito dopo questi fatti il doge ordinò ai compatrioti di non recarsi più nell’impero. Circa tre anni più tardi, tuttavia, Manuele I inviò due ambasciatori a Venezia per chiedere il ripristino delle relazioni, invitando i vecchi alleati a tornare tranquillamente a Bisanzio e promettendo loro un monopolio commerciale. Allettati da queste promesse, i governanti veneziani permisero ai loro concittadini di recarsi nell’impero e, perciò, ne partirono circa ventimila portando con sé una grande quantità di denaro, armi e navi. Insieme a loro presero la via di Costantinopoli due
ambasciatori, i futuri dogi Sebastiano Ziani e Orio Mastropietro. L’imperatore accolse i nuovi arrivati con grande cordialità, ma era pronto a ingannarli malgrado i giuramenti fatti per dissipare i sospetti suscitati da alcuni informatori. Il 12 marzo 1171, infatti, egli ordinò l’arresto di tutti i Veneziani presenti nell’impero e la confisca dei loro beni. Questa versione dei fatti ha suscitato dubbi fra gli storici moderni, tuttavia non è da escludere che almeno in parte sia attendibile, anche se i documenti del tempo attestano che non vi fu una completa interruzione dell’attività commerciale dei Veneziani nell’impero. Le fonti greche, al contrario, non accennano in alcun modo a una prima rottura delle relazioni: non vi sarebbe stato di conseguenza alcun ritorno dei Veneziani e la decisione di Manuele sarebbe maturata a seguito dei disordini di cui questi furono responsabili a Costantinopoli. Nel maggio del 1170, infatti, l’imperatore sottoscrisse una crisobolla con la quale concedeva ai Genovesi privilegi commerciali e un quartiere a Costantinopoli e lo stesso fece con i Pisani nel luglio dello stesso anno. I Veneziani, furibondi per la presenza dei concorrenti, devastarono il quartiere genovese appena costituito nella capitale, abbattendone le case e infliggendo gravissimi danni. Il Comneno ordinò loro di rifondere i danni ed essi non solo si rifiutarono, ma minacciarono anche una ritorsione come ai tempi di suo padre. Per questo motivo Manuele Comneno decise di intervenire e diede il via all’operazione di polizia del marzo 1171. Le opinioni sono discordanti anche sulle motivazioni del gesto di Manuele Comneno. Secondo i Veneziani, vi sarebbe stata una relazione di causa-effetto fra il rifiuto di prestare aiuto a Bisanzio nel 1167 e l’arresto dei compatrioti: l’imperatore avrebbe agito con premeditazione per vendicarsi dell’affronto subito e, nello stesso tempo, sarebbe stato spinto dall’avidità di denaro vedendo che abbondavano di ricchezze. Si giustificano così il richiamo dopo la rottura dei rapporti e il miraggio di concessioni particolari, per farli tornare in gran numero e con grandi disponibilità. La versione dei Bizantini è al contrario più articolata e apparentemente più logica. Secondo Giovanni Cinnamo, si tratterebbe dell’evolversi della situazione esistente al momento del provvedimento restrittivo di Giovanni Comneno. A seguito della rappacificazione, i Veneziani mostravano ancor più superbia e arroganza di prima, tanto da esercitare violenze su persone di alto rango e su molti altri. L’assalto al quartiere genovese e il rifiuto di rifondere i danni avevano fatto traboccare il vaso, perciò Manuele I si era deciso a ordinarne l’arresto. Niceta Coniate, storico contemporaneo agli avvenimenti, insiste sullo stesso tema: la ricchezza aveva reso arroganti i Veneziani ed essi non solo esercitavano violenze sui Bizantini, ma rifiutavano anche di eseguire gli ordini dell’imperatore. La sua benevolenza si era perciò mutata in ostilità. Manuele Comneno non aveva scordato l’affronto subito all’assedio di Corfù, dove era stato messo alla berlina dagli alleati; a questo si aggiungevano un’offesa più grave ancora, forse il rifiuto di prestargli aiuto contro i Normanni, e un altro crimine più recente, che era verosimilmente l’attacco al quartiere genovese. Di conseguenza, dato che i loro misfatti erano divenuti intollerabili, ne aveva ordinato la punizione. È impossibile dire, naturalmente, come siano andati davvero i fatti, dato che siamo in presenza di versioni di parte dello stesso avvenimento. Al di là dell’esatta definizione di questi, tuttavia, si possono individuare alcuni dati oggettivi, che sono avvalorati anche da altre fonti: la presenza massiccia di Veneziani nell’impero, la loro ricchezza e la loro difficoltà di convivere con l’elemento bizantino. Quanti siano stati i Veneziani presenti nell’impero non lo sappiamo; abbiamo soltanto generici dati numerici, di dubbia attendibilità, che ne ricordano i ventimila partiti per Bisanzio o, più tardi, i diecimila che vennero arrestati nella sola Costantinopoli. Le loro colonie erano stabilite nella capitale e nelle altre principali città, e i mercanti della repubblica vi risiedevano in pianta stabile o le visitavano occasionalmente per i loro traffici. Al tempo di Manuele Comneno costituivano la più importante presenza straniera a Bisanzio; avevano la facoltà di commerciare liberamente, con la sola eccezione dei porti del mar Nero, che vennero aperti all’Occidente soltanto dopo la quarta crociata. A Costantinopoli possedevano un intero quartiere, con abitazioni, chiese, magazzini e quattro punti di attracco, ma alcuni vivevano anche all’esterno di esso, avendo sposato donne bizantine. Avevano ugualmente proprietà in altri centri dell’impero e il volume dei loro traffici
doveva essere notevolmente aumentato a partire dagli anni Trenta del XII secolo, da quando cioè la crisobolla di Giovanni II aveva esteso i privilegi fiscali anche a chi commerciava con i Veneziani, come attestano i sia pur pochi documenti superstiti. La loro ricchezza suscitava l’invidia dei Bizantini e il loro comportamento arrogante altro non faceva che peggiorare la situazione. Giovanni Cinnamo e Niceta Coniate, interpreti dell’opinione dei ceti colti della capitale, si mostrano notevolmente critici nei confronti di questi alleati riottosi e insolenti. Secondo Cinnamo i Veneziani erano gente corrotta e illiberale, piena di marinaresca rozzezza, e lo stesso giudizio ricorre in Niceta Coniate, che li definisce «uomini nutriti dal mare, errabondi alla maniera dei Fenici, rotti a tutte le astuzie». Essi, aggiunge lo storico, erano venuti a contatto con Bisanzio perché serviva il loro aiuto navale e in seguito «a sciami e a tribù» avevano cambiato la loro città per Costantinopoli, disseminandosi poi in tutto l’impero e finendo per mescolarsi con i sudditi di questo. Avevano conservato solo il nome quale ricordo della loro origine, ma per il resto si erano integrati nella società bizantina; la mancanza di riconoscenza aveva però compromesso una simile situazione di favore, con le conseguenze ben note. Lo stesso Manuele Comneno, in una lettera al doge, rimproverava ai Veneziani di essersi comportati stupidamente, perché si erano mostrati insolenti e nemici degli imperatori, che dal nulla li avevano resi ricchi e potenti. L’anomalia del comportamento veneziano, d’altronde, non era soltanto un’opinione degli intellettuali bizantini e trova riscontro anche in un episodio significativo, l’oltraggio subito a Corfù di cui si è detto. Al tempo dell’assedio del 1148-1149, gli accampamenti degli alleati erano stati divisi per evitare incidenti. Ciò malgrado, sorse una zuffa sanguinosa al mercato che divideva i due campi. Gli ufficiali veneziani cercarono di sedarla senza risultato e, alla fine, il comandante imperiale fece intervenire la sua guardia del corpo costringendo i Veneziani a fuggire sulle navi. Questi ultimi, per vendicarsi, presero il largo e attaccarono alcune navi da carico bizantine incendiandole; dopo di che si impossessarono della nave imperiale, la addobbarono con drappi e tappeti e portarono a bordo un uomo di colore, al quale resero in modo grottesco gli onori dovuti all’imperatore. In questo modo si presero gioco dei riti del cerimoniale aulico bizantino e dello stesso Manuele Comneno, la cui carnagione aveva un colorito molto scuro. L’imperatore, che aveva bisogno del loro aiuto, passò sopra l’insulto, ma non se lo scordò mai. L’operazione del marzo 1171 venne programmata con cura e prese il via simultaneamente. I Veneziani, colti di sorpresa malgrado i sospetti di qualche tempo prima, vennero imprigionati e i loro beni confiscati. Il numero di prigionieri era così elevato che le prigioni non furono sufficienti; vennero perciò dirottati nei monasteri e, un po’ più tardi, alcuni riacquistarono la libertà sulla parola. Alcuni, pochi all’apparenza, riuscirono a fuggire: la fuga fu tentata soprattutto dai celibi, che non avevano evidentemente affetti da conservare, e che si imbarcarono sulla grande nave di un mercante di nome Romano Mairano. La flotta imperiale inseguì i fuggitivi raggiungendoli in prossimità di Abido: cercò di incendiare la loro nave con il fuoco greco, senza però riuscire nell’intento, e i Veneziani si allontanarono raggiungendo Acri. Malgrado la scarsità di testimonianze, è da ritenere che anche nelle province pochi siano sfuggiti alla cattura. Sappiamo di Veneziani incarcerati a Sparta e di una nave in viaggio da Corinto a Costantinopoli che venne catturata dalla marina imperiale: gli occupanti furono tratti in prigione a Rodosto con i soli abiti che avevano addosso e il loro carico fu confiscato. Più fortuna ebbero i residenti ad Almiro, nel golfo di Volo: venti navi veneziane elusero la sorveglianza e riuscirono a tornare in patria. Il governo veneziano in un primo momento reagì con moderazione e pensò di inviare un’ambasceria a Costantinopoli per chiedere spiegazioni. L’arrivo dei profughi di Almiro fece però prevalere il partito della guerra e l’idea di negoziare venne abbandonata: nell’arco di quattro mesi fu approntata una flotta di cento imbarcazioni da guerra e venti da carico, che in settembre fece vela alla volta del Levante agli ordini del doge Michiel, per essere raggiunta durante il tragitto da altre dieci galee fornite da Istriani e Dalmati. Vennero prese Traù e Ragusa, e di qui la flotta raggiunse l’Eubea di cui fu assediata la capitale. L’astuzia bizantina entrò a questo punto in scena: il
comandante del presidio imperiale avviò trattative con il doge e promise la restituzione dei beni confiscati se fosse stata inviata un’ambasceria a Costantinopoli, cosa che il Michiel fece. Gli ambasciatori non riuscirono a vedere Manuele Comneno e furono richiamati; essi avevano avuto comunque assicurazioni sulle possibilità di far pace e tornarono con un legato bizantino, che però sembra essere stato inviato soltanto per guadagnare tempo e informarsi sulla consistenza delle forze avversarie. L’inviato imperiale sollecitò una nuova ambasceria e i due precedenti ambasciatori, assieme a un terzo, presero la via della capitale dell’Oriente. Nel frattempo l’armata veneziana si era trasferita a Chio, sottomettendo tutta l’isola, dove passò l’inverno, effettuando intanto numerose incursioni punitive contro le città costiere dell’impero. Mentre si svolgeva la seconda legazione però le forze veneziane vennero colpite da un’epidemia ed ebbero in poco tempo un migliaio di morti: pieni di sospetti e di rancore verso l’imperatore, essi pensarono – non si sa con quanta cognizione di causa – che avesse fatto avvelenare i pozzi e il vino. Nel frattempo si avvicinava una flotta imperiale e, ai primi di aprile, gli occupanti lasciarono Chio, asportandone tesori e reliquie, e raggiunsero l’isola di Panagia. Anche qui però il morbo continuò a imperversare e a fare vittime. A Panagia furono raggiunti dai loro legati che, come i predecessori, tornarono senza un accordo, portandosi dietro un incaricato dell’imperatore: su consiglio di costui, come già in precedenza, Enrico Dandolo e Filippo Greco presero la via di Costantinopoli. L’epidemia continuava intanto a mietere vittime e i Veneziani si spostarono a Lesbo con l’intenzione di raggiungere poi l’isola di Lemno, ma il cattivo tempo li costrinse ad approdare a Sciro, dove trascorsero la Pasqua (il 16 aprile) «nel lutto e nell’afflizione a motivo degli uomini che ogni giorno morivano». Si trovarono così alle strette: poco dopo, l’insofferenza ormai generalizzata spinse il doge a ordinare la ritirata e la sua flotta fece vela per Venezia, inseguita e attaccata dalle navi bizantine. La campagna si era risolta così in un totale disastro e la grande armata messa in campo l’anno precedente rientrò in patria umiliata e di fatto sconfitta, portandosi dietro per di più l’epidemia che ne aveva fatto strage. Lo scontento fu così grande che pochi giorni dopo il doge venne assassinato. La terza ambasceria terminò ugualmente in un fallimento e i due legati veneziani vennero insultati da Manuele; fu in questa occasione che, secondo una falsa tradizione, il futuro doge Enrico Dandolo venne fatto accecare dall’imperatore. L’uso della forza questa volta nulla aveva risolto e al commercio veneziano era venuto un colpo gravissimo, anche se alcuni audaci continuarono a loro rischio a praticare i mercati bizantini. Migliaia di Veneziani erano imprigionati a Bisanzio, i loro beni passati al fisco o a chi se ne era impossessato a diverso titolo, i contatti diplomatici a nulla era serviti e il doge era stato assassinato. Il nuovo doge Sebastiano Ziani abbandonò la politica del predecessore e cercò di premere su Bisanzio per altre vie, fomentando la ribellione dei Serbi e fornendo navi al Barbarossa, che nel 1173 assediò Ancona, rimasta fedele all’impero. La via diplomatica non venne tuttavia trascurata, anche se i risultati furono nulli perché l’imperatore continuò a servirsi della consueta tattica dilatoria. Visto che a nulla portavano i negoziati, a Venezia si decise di dare un segnale più forte e nel 1175 fu concluso un trattato con il re di Sicilia, quindi con uno dei peggiori nemici di Bisanzio: venne stipulata una pace ventennale e in cambio la repubblica ottenne concessioni commerciali. Questo fatto nuovo, a quanto pare, spinse Manuele I a rivedere la propria posizione. Si diede l’avvio a nuovi negoziati, segnati da almeno un’altra ambasceria a Costantinopoli, e nel 1179 si giunse alla liberazione di parte dei prigionieri. Secondo Niceta Coniate, Manuele Comneno in questa circostanza reintegrò i Veneziani nei loro privilegi, restituì i beni sottratti e si impegnò a pagare ratealmente un indennizzo di quindici centenari, pari a millecinquecento libbre di iperperi d’oro; secondo le fonti veneziane, al contrario, non si giunse a un accordo del genere se non alcuni anni dopo. Non tutti i prigionieri inoltre vennero liberati e, nel 1182, il quartiere veneziano a Costantinopoli non era stato ancora ricostituito. Se ne deve quindi dedurre che, più che di un accordo in senso stretto, si sia trattato di un gesto di buona volontà del sovrano in vista dell’esito favorevole delle trattative. Manuele I non arrivò comunque alla conclusione di queste perché morì il 24 settembre 1180. Dopo l’eliminazione
del suo successore, l’usurpatore Andronico I Comneno, isolato sul piano internazionale per il massacro degli Occidentali, riprese le trattative con i Veneziani, che non erano stati toccati dalla strage non essendo ancora tornati a popolare il loro quartiere di Costantinopoli, e nel 1183 in segno di benevolenza rilasciò gli ultimi prigionieri. I negoziati procedettero spediti e, fra l’estate e l’autunno 1183, fu concluso un accordo che contemplava la restituzione del quartiere di Costantinopoli, il risarcimento in rate annuali dei danni subiti nel 1171 e il rinnovo dei privilegi. Venne probabilmente emessa una crisobolla, oggi perduta, e i Veneziani ricominciarono a tornare in buon numero nell’impero, esercitandovi i loro traffici e riprendendo possesso del quartiere nella capitale. L’imperatore inviò a Venezia cento libbre d’oro, che vennero distribuite fra i danneggiati; furono qui nominati funzionari appositi per esaminare le richieste di risarcimento e la suddivisione del denaro venne affidata ai capi delle contrade. La somma disponibile, relativamente irrisoria, risultò tuttavia di gran lunga al di sotto delle necessità e i richiedenti si dovettero accontentare di una frazione di quanto reclamavano. Il pagamento di cento libbre d’oro non ebbe altro seguito nell’immediato: nel settembre del 1185 Andronico Comneno venne tolto di mezzo e la situazione tornò in alto mare. Isacco II Angelo proseguì nella linea favorevole a Venezia avviando trattative per assicurarsene l’alleanza e allontanarla dalle potenze occidentali ostili a Bisanzio, e i legati del doge Orio Mastropietro raggiunsero Costantinopoli per mettersi all’opera. Si arrivò in breve tempo a un accordo parziale: il primo e il secondo punto vennero definiti con l’emissione di tre crisobolle del febbraio 1187, mentre per la questione del risarcimento dei danni l’imperatore ottenne un rinvio. La prima crisobolla rinnovava i privilegi ottenuti dal tempo di Alessio I, la seconda il diritto al quartiere di Costantinopoli così come era stato concesso da Manuele Comneno; la terza introduceva, al contrario, un elemento di novità con un trattato di alleanza militare fra Venezia e l’impero, che non fu mai messo in pratica e di cui non è neppure chiaro lo scopo. I punti espressi con diplomatica minuzia, a dire il vero, rendono piuttosto l’idea dell’assurdità di un’alleanza fra un morto vivente, qual era ormai l’impero di Bisanzio, e una rigogliosa realtà politica quale al contrario era la giovane repubblica. Isacco Angelo, ossessionato dai nemici esterni che miravano ai territori del suo impero, aveva disperatamente bisogno di alleati e ancora una volta cercò di rendersi amica Venezia, a favore della quale nel giugno 1189 emise una quarta crisobolla per definire le questioni della riconsegna dei beni e del risarcimento dei danni. Due anni prima, ordinando la restituzione dei beni confiscati ai Veneziani, aveva istituito una commissione per recuperare quanto non fosse immediatamente reperibile. La commissione non aveva però ottenuto grandi risultati, malgrado la buona volontà imperiale, a motivo delle difficoltà tecniche che comportava l’identificazione di ciò che era stato di proprietà veneziana, finito nelle mani più disparate. Il governo cittadino aveva protestato per il ritardo e il sovrano aveva deciso di mettere fine alla controversia accettando la proposta degli ambasciatori veneziani di ampliare il loro quartiere a Costantinopoli, fino a raggiungere una rendita annuale di cinquanta libbre d’oro, a scapito degli adiacenti quartieri dei Tedeschi e dei Francesi. L’imperatore, sebbene in linea di principio si dicesse contrario all’estensione della presenza straniera nella capitale, decise di accondiscendere alla richiesta. La sua disponibilità venne formalmente giustificata dal fatto che anche i Veneziani dovevano essere considerati Romani, esattamente come i Bizantini ritenevano di essere, ma in realtà – al di là dei voli pindarici della retorica – Isacco II doveva scendere a qualsiasi compromesso pur di mantenere l’amicizia veneziana nel momento del bisogno. A giustificazione del suo operato, inoltre, addusse il fatto che i quartieri francese e tedesco erano poco usati dai titolari e, più che alle rispettive nazioni, appartenevano ai pochi commercianti di passaggio, i quali rendevano uno scarso servizio all’impero, per cui si riteneva più conveniente assegnarli ai Veneziani per l’utile che essi arrecavano. I quartieri vennero trasferiti ai nuovi assegnatari con i relativi punti di approdo e il verbale di consegna fu messo in mano agli ambasciatori alla presenza dello stesso Isacco II. Il passaggio di proprietà comportava anche il trasferimento delle rendite, che erano pari appunto a cinquanta libbre d’oro. Il trattato del giugno 1189 riguardò inoltre l’annosa
questione del risarcimento dei danni, che si trovava ancora al punto di partenza dopo il primo pagamento di Andronico Comneno. Isacco II accettò di pagare l’intera somma e, sebbene un centenario fosse già stato versato, decise ugualmente di corrispondere tutti i quindici centenari chiesti da Venezia. Questa decisione è presentata nel testo della crisobolla come un atto di benevolenza, ma non è da escludere che egli volesse così evitare di riconoscere un atto politico dell’odiato predecessore. Una prima quota di duecentocinquanta libbre venne data agli ambasciatori del doge e l’imperatore si impegnò a far avere il resto in rate uguali nell’arco di sei anni. Anche questo impegno, troppo oneroso rispetto alla generale bancarotta di Bisanzio, non fu tuttavia mantenuto: dopo l’arrivo della prima rata si ebbero ulteriori pagamenti nel 1191 e nel 1193, ma quando, nel 1195, Isacco II perse il trono il debito non era stato ancora saldato. Il perdurare delle appropriazioni indebite nel 1189, malgrado l’obbligo di restituire tutto ai Veneziani, rende chiaramente l’idea della precarietà della rinnovata intesa con l’impero, in cui la parte soccombente, Bisanzio, giocava le ultime carte a disposizione per uscirne indenne. I ritardi nel risarcimento, intenzionali o meno che fossero, rendevano inoltre assai fragile la nuova amicizia, che era molto più formale che sostanziale. L’aiuto veneziano era sì necessario all’impero come lo era stato in precedenza, ma ora andava prestato a un corpo in agonia più per farlo sopravvivere che per definirne un nuovo ruolo di potenza internazionale. A ciò si aggiungeva l’instabilità della situazione interna, che non doveva promettere nulla di buono ai governanti veneziani, i quali non erano ovviamente così superficiali da fidarsi a occhi chiusi dei Bizantini e delle oscillazioni ormai fuori controllo della loro politica. Una prova evidente si ebbe dopo la deposizione di Isacco II, quando il potere passò al fratello Alessio III Angelo, che mutò la linea politica del predecessore e assunse un atteggiamento ostile nei confronti di Venezia, favorendo sistematicamente Genovesi, Pisani e Ragusei ai danni di questa. I rapporti veneto-bizantini si fecero nuovamente tesi e furono necessarie lunghe trattative per ristabilire un accordo. Il doge Enrico Dandolo inviò un’ambasceria al nuovo imperatore allo scopo di ottenere il rinnovo della crisobolla di Isacco II e il risarcimento promesso, ma questa non ottenne risultati e fu seguita da una legazione bizantina a Venezia. Si ebbe un altro fallimento e ricominciò il solito andirivieni di ambasciatori. I Veneziani inviarono di nuovo loro legati a Costantinopoli, ma anche questi non ebbero successo e tornarono in patria insieme a un inviato bizantino che, per ordine dell’imperatore, condusse le trattative per le lunghe. Il doge Dandolo, però, non intendeva trascinare la cosa all’infinito e inviò altri ambasciatori a Bisanzio che, il 27 settembre 1198, arrivarono finalmente a un accordo, confermato due mesi più tardi da una lunghissima crisobolla. La questione centrale del disaccordo fra Venezia e Bisanzio, cioè il risarcimento dei danni, non venne ufficialmente definita, sebbene gli ambasciatori fossero stati incaricati di farlo, ma è possibile che essa sia stata comunque regolata. In compenso furono determinati altri punti essenziali: il rinnovo dell’accordo di cooperazione militare, la riconferma dei privilegi commerciali e una serie di provvedimenti relativi allo stato giuridico dei Veneziani che vivevano a Bisanzio. Il testo dell’accordo del 1187 venne integralmente riproposto nella nuova crisobolla, sia pure con le modifiche dovute alla mutata situazione politica, che identificavano nuovi amici e nuovi avversari. Alessio III riconfermò i privilegi commerciali sanciti dalle crisobolle dei suoi predecessori e a sua volta dichiarò solennemente la completa libertà di commercio per i Veneziani con l’esenzione da tutte le imposte. Per sgombrare il campo da possibili equivoci, inoltre, fece elencare nella crisobolla tutte le città o regioni in cui essi avrebbero potuto esercitare il commercio. Erano infatti sorte controversie a motivo dell’incompletezza delle precedenti concessioni, che non indicavano esattamente tutte le zone aperte ai traffici veneziani; gli ambasciatori se ne erano lamentati con il sovrano ed egli volle così definire una volta per tutte la questione. La lista comprendeva pressoché tutto l’impero, come si configurava a quel tempo, e anche alcune località che non ne facevano più parte, come Antiochia o Laodicea in Siria. Ne restavano però escluse le zone costiere del mar Nero, mantenendo la decisione già adottata al tempo di Alessio I Comneno. Su richiesta degli ambasciatori venne infine definita la
condizione dei Veneziani residenti a Bisanzio, ai quali furono date alcune garanzie giurisdizionali per meglio tutelarli. Questo accordo solenne concludeva la serie dei patti fra Venezia e l’impero iniziata oltre un secolo prima. Fu l’ultimo tentativo di definire su base pacifica un rapporto divenuto sempre più difficile: agli umori oscillanti dei sovrani di Bisanzio corrispondeva da tempo il desiderio veneziano di una sicurezza che salvaguardasse i loro interessi in Oriente. Bisanzio, minacciata da ogni parte e senza più una politica coerente, non offriva le necessarie garanzie al comune veneziano, per il quale il mantenimento della regolarità dei traffici in Levante era di capitale importanza.
Capitolo sesto
La quarta crociata e l’impero latino 1. La conquista di Costantinopoli La quarta crociata, benché nata con un intento preciso, com’era nello spirito delle crociate, si trasformò in un atto di pirateria internazionale: i due artefici principali di questa anomalia furono il doge di Venezia Enrico Dandolo e il marchese Bonifacio di Monferrato. Disattese del tutto infatti gli scopi istituzionali per cui era stata bandita e per i quali il papa l’aveva benedetta, ossia la liberazione della Terra Santa, e senza un motivo reale si rovesciò su una città cristiana, ancorché eretica, devastandola con una furia ferina che nulla aveva a che fare con sia pure ipocriti aneliti di religiosità. La quarta crociata venne bandita nel 1198 da papa Innocenzo III e il suo invito fu raccolto dapprima dalla feudalità francese e fiamminga, alla quale si unirono in seguito i signori tedeschi e dell’Italia settentrionale. Questa volta non presero parte alla spedizione i sovrani, ma soltanto feudatari di diversa importanza; capo riconosciuto ne fu il conte Tibaldo di Champagne, che però morì nel 1201 e venne sostituito al comando dal marchese Bonifacio di Monferrato. I partecipanti elaborarono un piano strategico diverso rispetto alle precedenti crociate, decidendo di raggiungere via mare l’Egitto e di qui attaccare la Terra Santa: un progetto ardito ma probabilmente efficace, la cui realizzazione richiedeva però una flotta adeguata. L’unica che poteva dare garanzie in tal senso era la repubblica di Venezia e, di conseguenza, a questa ci si rivolse. Furono avviate trattative e, nell’aprile del 1201, venne concluso un trattato in forza del quale Venezia avrebbe preso parte all’impresa offrendo le navi e i viveri necessari per un anno, contro il pagamento di una forte somma di denaro. In più i Veneziani avrebbero fornito una scorta di cinquanta galere, a condizione di ricevere in cambio metà delle conquiste future. Come data del raduno a Venezia in vista della partenza fu stabilito il 29 giugno del 1202. I crociati iniziarono ad affluire in città fra aprile e giugno 1202 ma, quando si contarono, si accorsero di non poter raccogliere tutta la somma necessaria per pagare il trasporto. Il doge Enrico Dandolo fece allora una proposta tanto strana quanto insolita e suggerì loro di conquistare per conto della repubblica la città di Zara, che a questa si era ribellata, e di ottenere così una dilazione nel pagamento. L’idea suscitò molte perplessità: Zara era città cristiana e al momento si era data al re di Ungheria, che a sua volta aveva preso la croce anche se si mostrava scarsamente attivo; inoltre la sua conquista nulla aveva a che fare con gli scopi della spedizione. Si trattava in sostanza di un vero e proprio ricatto operato dai Veneziani, tale da suscitare il disappunto di chi a loro era tendenzialmente avverso, come risulta con chiarezza da un passo dell’opera storica di Gunther di Pairis, un monaco cistercense autore di una delle numerose relazioni del tempo sulla quarta crociata:
Il proposito molto lodevole dei nostri capi era però ostacolato dalla frode e dalla malvagità dei Veneziani che, con il pretesto di essere i padroni delle navi e i signori del mare Adriatico, si rifiutavano categoricamente di imbarcarli se prima non avessero espugnato insieme a loro Zara, una nota e trafficata città della Dalmazia, che era però sotto la giurisdizione del re ungherese. Dicevano infatti che quella città aveva sempre contrastato i loro interessi, a tal punto che spesso i suoi abitanti avevano depredato con razzie di pirati le loro navi cariche di merci. Tutto ciò pareva tuttavia ai nostri capi, poiché erano timorati di Dio, crudele e ingiusto, sia perché la città era abitata da genti cristiane, sia perché apparteneva di diritto al re di Ungheria che, avendo preso il segno della croce, aveva come vuole la tradizione posto sé stesso e tutto quanto gli apparteneva sotto la protezione del sommo pontefice. I crociati, alle strette, altro non poterono fare che acconsentire nonostante l’opposizione di molti. L’avvenimento fu solennizzato con una cerimonia nella chiesa di San Marco e, prima dell’inizio della messa, il doge Dandolo parlò ai presenti annunciando la sua intenzione di prendere la croce; si recò quindi dinanzi all’altare pregando a lungo in ginocchio, poi gli venne cucita una croce sul copricapo in modo che tutti la vedessero. L’8 novembre 1202, la flotta prese finalmente il largo: doveva essere composta, secondo i calcoli più accreditati, da duecentodue navi di diverso genere, che imbarcavano circa diciassettemila veneziani e più di trentaduemila crociati. Prese parte alla spedizione anche l’anziano doge Dandolo, che doveva avere superato i novant’anni ed era quasi cieco, a seguito di un incidente capitatogli circa tre decenni prima quando si era recato in ambasceria a Costantinopoli. L’età e la menomazione, però, nulla avevano tolto alla sua naturale energia, che il Dandolo mostrò nella fase organizzativa della crociata e, in seguito, nei momenti più difficili di tale impresa. Zara venne conquistata senza fatica dopo pochi giorni di assedio e le truppe vi si fermarono per passare l’inverno. La conquista di questa città cristiana, che per di più venne messa a sacco, fu il primo avvenimento anomalo della quarta crociata e lasciò intravvedere un esito assai lontano dagli scopi ufficiali, anticipando gli avvenimenti futuri. Molti partecipanti, disgustati da quanto era avvenuto, abbandonarono la spedizione e papa Innocenzo III, quando lo seppe, andò su tutte le furie scomunicando i responsabili. Bonifacio di Monferrato (che, trovandosi a Roma, non aveva preso parte all’impresa ed era arrivato a Zara a cose fatte) e gli altri capi della crociata nel febbraio del 1203 si risolsero allora a inviare una delegazione al pontefice di cui facevano parte due ecclesiastici e due cavalieri. Innocenzo III alla fine fece buon viso a cattivo gioco rendendosi conto dello stato di necessità in cui avevano operato i cavalieri, pressati dal ricatto veneziano e costretti ad adeguarsi per evitare, in caso contrario, la spaccatura dell’esercito e il conseguente fallimento della spedizione. Il papa dunque non si spinse troppo in là, «poiché sapeva bene che senza quell’esercito il servizio di Dio non poteva essere compiuto», e tornò in parte sui propri passi, ponendo delle condizioni perché i crociati – ma non i Veneziani, per i quali nutriva scarsa simpatia – fossero assolti dalla scomunica, senza tuttavia vietare ai pellegrini di continuare a servirsi della flotta della città lagunare. Il papa, già consapevole della piega che stavano prendendo gli avvenimenti, confermò poi il divieto già espresso di attaccare terre cristiane, con particolare allusione a Costantinopoli, verso la quale doveva essere già nell’aria un’intenzione aggressiva: «nessuno di voi – avrebbe scritto più tardi ai crociati – ritenga avventatamente che gli sia lecito occupare o predare la terra dei Greci… non è per questo motivo che avete assunto la croce». Qualche tempo prima infatti era comparso in cerca di appoggio il principe Alessio Angelo, figlio dell’ex imperatore Isacco II, deposto e fatto accecare nel 1195 dal fratello Alessio III e, al momento, incarcerato a Costantinopoli. Alessio il giovane era stato imprigionato assieme al padre, ma era riuscito a fuggire negli ultimi mesi del 1201 recandosi in Germania alla corte del cognato Filippo di Svevia, che però non era in grado di offrirgli l’aiuto richiesto per recuperare il trono. All’inizio della primavera dell’anno seguente l’Angelo si era recato da Innocenzo III, al quale aveva fatto una pessima impressione; sulla via del ritorno in Germania aveva poi incontrato a Verona
alcuni crociati che si dirigevano a Venezia. Questo incontro, a quanto pare, gli aveva fatto nascere l’idea di utilizzare la spedizione cristiana per far recuperare il trono al padre, e di conseguenza inviò messi a Bonifacio di Monferrato e ad altri baroni. Gli fu risposto che, se li avesse aiutati a recuperare la Terra Santa, in qualche modo la sua proposta poteva essere presa in considerazione. Alessio Angelo aveva continuato a coltivare il progetto di servirsi dei crociati e, durante la sosta invernale a Zara, arrivarono suoi ambasciatori per chiedere di aiutarlo a tornare sul trono. Offriva in cambio condizioni vantaggiosissime: una somma enorme di denaro (pari a più del doppio di quanto richiesto dai Veneziani per il trasporto), rifornimenti per la spedizione e un aiuto militare per la conquista dell’Egitto, il mantenimento di un corpo di cinquecento cavalieri in Terra Santa e, infine, la sottomissione della chiesa bizantina a quella romana. La sua proposta venne accolta con particolare favore dal doge e da Bonifacio di Monferrato e trovò molti consensi tra i capi della spedizione. Fu raggiunta rapidamente un’intesa e, nella primavera dell’anno successivo, arrivò anche lo stesso Alessio, che raggiunse la flotta crociata a Corfù e qui sottoscrisse un trattato con i suoi nuovi alleati. Da Corfù, il 25 maggio, le navi presero la rotta di Costantinopoli dove arrivarono il 23 giugno. La bellezza e la grandezza della città imperiale impressionarono fortemente i crociati, abituati al mondo più semplice dell’Occidente, ma le loro probabili velleità di essere accolti come liberatori restarono deluse. Alessio Angelo si attendeva forse un’accoglienza entusiasta da parte dei suoi compatrioti: le mura cittadine restarono però chiuse e, quando il pretendente fece una parata dimostrativa sull’imbarcazione del doge, fu guardato in silenzio dall’alto di queste. A ogni modo la situazione militare, almeno sulla carta, era fortemente squilibrata a vantaggio degli Occidentali: le truppe che Alessio III schierava a difesa della città erano scarsamente combattive e lo stesso imperatore mancava assolutamente di energia per fronteggiare l’attacco nemico. Restavano soltanto le mura fortissime contro le quali si erano infranti per secoli i sogni aggressivi di diversi assedianti. I crociati non si lasciarono comunque scoraggiare e, alcuni giorni dopo l’arrivo, entrarono con le navi nel Corno d’Oro da dove, il 17 luglio, si lanciarono all’attacco della cortina. I Veneziani riuscirono a impadronirsi facilmente di un tratto della cinta marittima e, durante la pausa notturna delle operazioni, Alessio III abbandonò la città in preda al panico. L’abilità dei suoi cortigiani impedì tuttavia che il giorno successivo si consumasse la tragedia: nel corso della notte, infatti, essi liberarono dal carcere il vecchio Isacco II riportandolo in trono e, in questo modo, fu evitato l’assalto definitivo alla città. I crociati riconobbero il fatto compiuto, verosimilmente con scarso entusiasmo, e sotto la loro protezione Isacco II e Alessio IV occuparono il trono. Alessio IV Angelo si trovò subito in difficoltà per far fronte agli impegni contratti e fu in grado di pagare soltanto metà della cifra promessa; chiese e ottenne pertanto una dilazione, che prolungò la permanenza degli Occidentali a Costantinopoli fino a marzo dell’anno successivo. I soldati si accamparono a Galata, all’esterno delle mura cittadine, ma non mancarono di esercitare violenze, perseguitando tra l’altro gli Ebrei locali e saccheggiando una moschea. I rapporti fra Bizantini e Occidentali si fecero sempre più tesi e lo stesso Alessio IV, dopo l’entusiasmo iniziale, cambiò politica nei loro confronti, desiderando allontanare da Costantinopoli una presenza divenuta ormai ingombrante. Il 1o gennaio del 1204 la situazione precipitò e si ebbe un tentativo di incendiare la flotta veneziana andato a vuoto. La stessa posizione di Alessio IV si faceva assai difficile: da un lato era pressato dai crociati, di cui non sapeva come liberarsi, dall’altro si appuntavano su di lui gli odi dei nazionalisti, che lo vedevano come un traditore. Il contrasto fra le fazioni esplose nel corso dello stesso mese di gennaio e Alessio IV fu deposto da un colpo di stato, che portò al potere un esponente della fazione nazionalista, Alessio V Ducas Murzuflo. Alessio IV venne incarcerato per essere strangolato alcuni giorni più tardi, pagando così per la propria sconsideratezza; Isacco II morì a sua volta nell’arco di pochi giorni per il dolore e i maltrattamenti subiti. Alessio V cercò di far partire i crociati ma, visto il fallimento delle trattative, si preparò alla guerra rafforzando gli apprestamenti difensivi. I crociati, per parte loro, dopo il disorientamento iniziale, si risolsero a tentare l’attacco a Costantinopoli e, in marzo, si vincolarono con un trattato a costruire un nuovo impero qualora la
conquista fosse andata a buon fine. L’imperatore bizantino sarebbe stato sostituito con un sovrano latino e lo stesso sarebbe avvenuto per il patriarca greco di Costantinopoli; la capitale e le province bizantine, una volta conquistate, sarebbero state divise fra i vincitori, che vi avrebbero istituito un ordinamento feudale. I Veneziani, in particolare, avrebbero ottenuto una posizione di rilievo, con la riconferma dei privilegi di cui da tempo godevano a Bisanzio, l’assegnazione di tre ottavi del territorio, l’esclusione dei nemici di Venezia dall’impero e l’esenzione per il doge dal giuramento di fedeltà all’imperatore latino. Vennero inoltre fissati i criteri di divisione del bottino, che doveva essere utilizzato in primo luogo per saldare il residuo debito di Alessio IV. Il 9 aprile furono di nuovo attaccate le mura marittime dalla parte del Corno d’Oro, incontrando una resistenza accanita. Tre giorni più tardi, tuttavia, una coppia di navi riuscì ad accostarsi a una torre, sulla quale misero piede per primi un veneziano e due francesi. Rincuorati dal successo, i cavalieri scesero dalle navi e salirono sulle mura con le scale, conquistando rapidamente quattro torri. Vennero anche prese due porte e, attraverso queste, alcuni soldati riuscirono a entrare in città, occupando il quartiere prospiciente il Corno d’Oro, dove si attestarono per passare la notte. Alessio V, che aveva guidato di persona le operazioni difensive, cercò inutilmente di organizzare una resistenza e, alla fine, si allontanò da Costantinopoli. Durante la notte, si ebbero tentativi convulsi di nominare un nuovo imperatore, senza però ottenere alcun risultato concreto. Molti membri del ceto dirigente presero la fuga abbandonando senza scrupoli la capitale che, forse, avrebbero potuto ancora difendere con successo, dato che almeno i due terzi di questa sfuggivano ancora al controllo degli Occidentali. Il giorno successivo i crociati si misero in ordine di battaglia ma, con loro grande sorpresa, non trovarono nessuno che si opponesse; furono raggiunti soltanto da una delegazione di ecclesiastici e di membri della guardia imperiale che li informò dell’accaduto. Cadeva così la capitale dell’impero romano di Oriente, dopo essere rimasta inviolata per secoli. I vincitori dilagarono indisturbati e, per tre giorni, Costantinopoli fu abbandonata a un saccheggio indiscriminato che aggiunse altre devastazioni a quelle causate dagli incendi sviluppatisi nel corso dell’assedio. Vennero profanate le chiese, per asportarne i tesori e le reliquie, furono violati palazzi e dimore private; la furia dei conquistatori si abbatté indiscriminatamente sulle persone e sulle cose, distruggendo fra l’altro una grande quantità di opere d’arte. Non si risparmiarono neppure le tombe imperiali, che furono aperte per prelevare gli ornamenti dei cadaveri. I crociati distrussero per lo più senza alcun criterio, per impossessarsi delle ricchezze, mentre da parte veneziana si ebbe maggiore discernimento e le principali opere d’arte furono salvate per essere trasferite a Venezia, dove ancora sono in gran parte visibili. Niceta Coniate, lo storico bizantino dell’avvenimento, avverso agli Occidentali non meno che agli Angeli, li definisce con disprezzo e senza mezzi termini come il popolo più avido di denaro, più parassita e più scialacquatore. La feroce e insensata profanazione della sua città lo addolora profondamente: Accadde così di vedere non solo le immagini di Cristo frantumate dalle scuri e gettate a terra, gli ornamenti preziosi di queste staccati empiamente e senza criterio e buttati nel fuoco per essere fusi, ma anche i venerabilissimi e santi arredi strappati senza scrupolo dalle chiese e in seguito fusi e offerti agli eserciti nemici sotto forma di semplice oro e argento. A lui si deve inoltre un opuscolo intitolato Sulle statue di Costantinopoli, probabilmente parte integrante della sua ampia opera storica, in cui viene descritto con altrettanta tensione emotiva lo scempio che i crociati fecero delle innumerevoli opere d’arte presenti a Costantinopoli soltanto allo scopo di ricavarne il metallo, un’operazione alla quale – come si è detto – i Veneziani per fortuna non si associarono, a motivo della loro maggiore lungimiranza e della sensibilità acquisita nei secolari rapporti con Bisanzio. Naturalmente la storiografia moderna si è interrogata in proposito: ma è difficile dire quali siano state le cause della diversione su Costantinopoli, se si sia trattato cioè di un fatto casuale o di un disegno preordinato. Vi sono
molti elementi infatti che lasciano credere all’esistenza di una macchinazione preordinata, se non addirittura una sceneggiata, per dare alla spedizione una destinazione non prevista; gli artefici principali sarebbero stati il marchese di Monferrato e il doge di Venezia, il primo in cerca di conquiste in Oriente, l’altro desideroso di sistemare una volta per tutte i traballanti rapporti con l’impero di Bisanzio. Le trattative con Alessio Angelo erano nell’aria da tempo e non gli si era risposto con una chiusura, al contrario gli era stata data la possibilità di proseguirle. I Veneziani, poi, avevano relazioni cordiali con l’Egitto e l’idea che davvero intendessero arrivarvi come nemici suona piuttosto strana. Sul versante di Costantinopoli, al contrario, la precaria situazione politica e il rischio concreto che l’impero passasse in mano a una potenza ostile, come era stato sul punto di accadere negli anni precedenti, non lasciavano presagire nulla di buono al governo veneziano. Impossibile dire, se non in via puramente ipotetica, come siano realmente andate le cose; nessun dubbio in proposito vi era, al contrario, per Niceta Coniate: E una disgrazia non minore fu anche il duca veneziano di quel tempo, Enrico Dandolo, uomo cieco e vecchio decrepito, ma estremamente insidioso e ostile ai Romani. Era pieno di rancore e invidia nei loro confronti, un ciarlatano di grande astuzia, che non esitava a proclamarsi il più saggio dei saggi ed era avido di gloria come nessun altro. Egli, ogni volta che si soffermava a riflettere e prendeva in considerazione quante sofferenze i Veneziani avessero patito durante il regno dei fratelli Angeli e al tempo in cui, prima di costoro, Andronico e ancor prima Manuele tennero in mano lo scettro del potere dell’impero romano, riteneva di meritare la morte per non aver ancora punito i Romani per l’oltraggioso comportamento tenuto contro la sua gente. Tuttavia, rendendosi conto che, se avesse tentato di vendicarsi dei Romani soltanto con l’aiuto dei suoi concittadini, non avrebbe fatto altro che nuocere a sé stesso, considerò l’opportunità di procurarsi altri alleati e di informare di questi suoi piani segreti coloro che, per quanto ne sapeva, nutrivano un implacabile odio contro i Romani e guardavano con invidia e avidità tutte le loro ricchezze. Presentatasi, pertanto, inaspettatamente l’occasione propizia con alcuni nobili che avevano progettato di compiere una spedizione in Palestina, strinse con questi un accordo e li spinse ad allearsi con lui nella guerra contro l’impero romano. Costoro erano il marchese di Monferrato, Bonifacio, il conte di Fiandra Baldovino, Enrico conte di San Paolo [Ugo di Saint-Pol], Ludovico conte di Plea [Ludovico conte di Blois e di Chartres] e numerosi altri coraggiosi guerrieri di cui si può dire che la statura eguagliasse la lunghezza delle loro lance.
2. L’impero latino Il trattato del marzo 1204 rappresentò una sorta di carta costituzionale dell’impero latino e, quando la città fu presa, servì per la formazione del nuovo organismo statale istituito dai vincitori. Venne costituito uno stato di carattere eminentemente feudale e in primo luogo fu eletto un imperatore latino: a questo scopo si riunì una commissione formata da sei veneziani e altrettanti crociati, che scelse il conte Baldovino di Fiandra, sul quale fecero convergere i voti i Veneziani verosimilmente per evitare che si imponesse la forte personalità di Bonifacio di Monferrato. Subito dopo fu istituito un patriarca latino di Costantinopoli, nella persona del veneziano Tommaso Morosini: il trattato di marzo prevedeva infatti di affidare il patriarcato alla parte dalla quale non fosse stato scelto l’imperatore. Si mise mano infine alla spartizione dell’impero: il sovrano latino ne ottenne un quarto (costituito dalla sua porzione di Costantinopoli, dalla Tracia, da parte dell’Asia Minore e da alcune isole egee) e il resto andò diviso in parti uguali in ragione di un quarto e mezzo per ciascuno fra Veneziani e cavalieri crociati. La spartizione aveva tuttavia un valore in gran parte teorico dato che, quando fu completata (nel settembre dello stesso 1204), la provincia bizantina doveva ancora essere sottomessa, a eccezione dei territori di Macedonia e di Tracia conquistati da
Baldovino di Fiandra con una breve campagna estiva. Anche quando, in seguito, l’assoggettamento ebbe luogo, non sempre le assegnazioni fatte sulla carta coincisero con le acquisizioni effettive, sia a causa degli accordi occasionalmente intervenuti fra i vincitori, che modificarono in alcuni casi le zone di influenza, sia anche a motivo della resistenza dell’elemento greco che spesso impedì ai Latini di sottomettere alcune regioni. La conquista della provincia bizantina iniziò verso la fine del 1204 e il grosso si svolse fra 1204 e 1205, portando alla costituzione di alcuni stati feudali più o meno ampi e semindipendenti nel corpo dell’impero latino. Bonifacio di Monferrato, deluso per la mancata elezione a imperatore, conquistò per sé il regno di Tessalonica, con giurisdizione su Macedonia e Tessaglia, in contrasto con il sovrano latino e con l’appoggio dei Veneziani, che in cambio ottennero da lui la cessione di Creta, di cui avrebbero preso possesso qualche tempo più tardi. I Francesi si gettarono sulla Grecia e nel 1205 il borgognone Ottone de la Roche, con l’appoggio del re di Tessalonica, formò il ducato di Atene, comprendente Attica e Beozia, con capitale Tebe. Nel Peloponneso sorse inoltre il principato di Acaia o Morea, costituito nello stesso anno dai cavalieri crociati Guglielmo di Champlitte e Goffredo di Villehardouin. I Veneziani trassero i maggiori vantaggi dalla conquista e si assicurarono una serie di scali commerciali per garantire le rotte del Levante. Rinunciarono ai territori della Grecia continentale loro assegnati nella spartizione, il cui dominio avrebbe comportato una trasformazione di Venezia in potenza terrestre, ma si impossessarono di Durazzo, Corfù, Corone e Modone nel Peloponneso, Creta e parte dell’Eubea (allora chiamata Negroponte). A queste acquisizioni, passate sotto il controllo diretto della repubblica, si aggiunsero le isole dell’Arcipelago, conquistate in maniera autonoma – a eccezione di Andro – da alcuni nobili partiti da Costantinopoli e guidati da Marco Sanudo, che vi costituirono proprie signorie. Il numero di queste aumentò nel corso del tempo, ma al momento della prima conquista (nel 1207) dovevano essere Nasso, Paro, Milo e Santorini (occupate da Marco Sanudo e dai suoi compagni), Andro presa da Marino Dandolo, Tino, Micone, Sciro, Scopelo e Sciato finite in mano ai fratelli Andrea e Geremia Ghisi, e Lemno sottomessa da Filocalo Navigaioso. Erano inoltre compresi nella parte assegnata a Venezia i principali porti dell’Ellesponto e del mar di Marmara, nonché altri possedimenti in Tracia, fra cui Adrianopoli. A Costantinopoli i Veneziani ebbero infine parte della città e vennero reintegrati nel quartiere posseduto fino ai tempi di Manuele Comneno. Il doge dal 1206 si chiamò «signore della quarta parte e mezzo dell’impero di Romània», titolo che ricordava il suo dominio sulla porzione dell’impero bizantino assegnata a Venezia nella spartizione. A partire dal 1205, dopo la morte del doge Dandolo, venne inoltre istituito a Costantinopoli un podestà veneziano per governare parte dei territori coloniali e questo per qualche tempo mostrò tendenze autonomistiche, per essere però di lì a breve riportato sotto il controllo della madrepatria. Con la formazione dell’impero latino, in sostanza, Venezia si garantì un impero commerciale e la sicurezza dei transiti fino a Costantinopoli, mettendo fine una volta per tutte alla precarietà dei rapporti con Bisanzio. La posizione dei Veneziani nell’impero fu di gran lunga più solida di quella dei crociati: mentre infatti questi ultimi erano costretti a giurare fedeltà all’imperatore, il doge, in forza del trattato del 1204, venne esentato dall’obbligo. La politica veneziana, inoltre, si dimostrò più coerente di quella dei crociati e anche in seguito Venezia si contrappose come potenza unitaria alla frammentazione dell’impero latino, che fin dall’inizio mostrò i difetti tipici dei regimi feudali, con un debole potere centrale e l’affermazione nella periferia di forze più o meno autonome o addirittura antagoniste a questo. La conquista latina all’inizio si rivelò molto facile. La maggior parte dei grandi proprietari fondiari bizantini (i pronoiari), infatti, si sottomise ai nuovi signori quando ottenne l’assicurazione di poter conservare i propri possedimenti. Si spiega così la mancata resistenza da parte dell’elemento indigeno, controllato dai signori greci. L’acquisizione veneziana dei territori assegnati, al contrario, non fu del tutto indolore. La prima spedizione di conquista partì da Venezia dopo la metà di maggio del 1205 e si impossessò senza sforzo di Durazzo; poco più tardi fu raggiunta da altre navi e l’intera flotta si diresse a Corfù, divenuta sede del corsaro genovese Leone Vetrano, che
venne conquistata in luglio. Un anno più tardi fu però necessaria una nuova operazione militare, essendo l’isola sfuggita di mano ai conquistatori: questa volta partirono dalla madrepatria trentun galere e, dopo un accanito combattimento, ne fu preso il castello. L’occupazione avrebbe poi trovato un completamento un anno dopo con la cattura del Vetrano e della sua flotta: portato a Corfù, il corsaro venne impiccato. La stessa flotta che aveva preso Corfù arrivò quindi a Corone e Modone, divenute ugualmente nidi di pirati, che caddero a seguito di una lotta armata. La tappa successiva fu Creta, la cui conquista iniziò nel 1207 e si protrasse per alcuni anni a causa della presenza di pirati sostenuti da Genova e dell’aristocrazia locale, mal disposta verso i nuovi dominatori. I Bizantini, di fronte allo sfacelo del loro mondo, non rimasero sempre a guardare e alcuni aristocratici fuggirono in regioni non ancora raggiunte dai Latini, dando vita a governi indipendenti che reclamarono la continuità con il precedente impero. Il primo di questi fu l’impero di Nicea, in Asia Minore, fondato nel 1204 da Teodoro Lascaris, genero di Alessio III, fuggito da Costantinopoli al momento della conquista latina, che nel 1208 si fece incoronare imperatore da Michele Autoriano, da lui stesso creato patriarca. Qualche tempo più tardi si aggiunse il despotato di Epiro, con capitale Arta, nella Grecia nord-occidentale, che venne costituito nel 1205 da Michele Angelo Duca, cugino di Isacco II e Alessio III. Tra gli stati più ampi sfuggiti ai Latini si annovera poi l’impero di Trebisonda, sul mar Nero, già formatosi nell’aprile 1204 sotto i due fratelli Comneni Alessio e Davide, nipoti di Andronico I, che si diedero la qualifica di imperatori. Trebisonda ebbe vita autonoma, con propri sovrani, fino alla conquista turca nel Quattrocento. In Asia Minore presero vita infine altri principati greci indipendenti, retti da magnati, ma di minore estensione e di scarsa importanza dal punto di vista politico. L’impero di Nicea fu inutilmente contrastato dai Latini, che intendevano conquistarlo e liberarsi così da una potenziale minaccia di restaurazione bizantina. Alla fine del 1204 i Latini attaccarono l’Asia Minore per sottometterlo, ma la loro avanzata si arrestò bruscamente quando, nel febbraio 1205, i Bizantini di Tracia si ribellarono chiamando in aiuto lo zar bulgaro Kalojan. L’imperatore latino richiamò le truppe dall’Asia Minore e, da Costantinopoli, mosse contro i nemici. Il 14 aprile 1205 si giunse allo scontro e Baldovino fu sanguinosamente sconfitto dai Bulgari in prossimità di Adrianopoli. Nella battaglia perì il fiore della cavalleria crociata e scomparve lo stesso imperatore, fatto prigioniero e mai più restituito. I superstiti, guidati dal doge Dandolo e da Goffredo di Villehardouin – lo storico della crociata, omonimo nipote del principe di Acaia –, raggiunsero a fatica Costantinopoli, dove il Dandolo morì; molti in preda al panico abbandonarono l’Oriente per tornare in patria. La battaglia di Adrianopoli salvò Nicea dalla probabile sottomissione e gli Occidentali dovettero temporaneamente evacuare l’Asia Minore, permettendo così al nuovo impero di consolidarsi e raccogliere l’eredità di Costantinopoli. Teodoro Lascaris organizzò il nuovo stato sul modello di Bisanzio facendovi rivivere sia l’impero sia il patriarcato. Egli e i suoi successori entrano nella storia dei sovrani di Costantinopoli come una sorta di governo imperiale in esilio: si considera infatti la serie dei sovrani di Nicea quale legittima successione di Alessio V dopo la presa della capitale. All’impero latino e al patriarca latino si vennero perciò contrapponendo un patriarca ortodosso e un imperatore greco a Nicea. Nicea rappresentava un pericolo per l’impero latino e il nuovo titolare di questo, Enrico di Fiandra, fratello di Baldovino, riprese il progetto di sottometterla dopo aver arrestato l’espansione dei Bulgari. La guerra si trascinò per alcuni anni senza risultati notevoli, finché, nel 1214, venne concluso il trattato di Ninfeo che definì i confini dei due imperi: allo stato latino sarebbe rimasta la costa nord-occidentale dell’Asia Minore, mentre il resto fino alla frontiera con i Selgiuchidi sarebbe andato a Nicea. I Latini riconoscevano così l’esistenza dell’impero greco in Asia Minore, non essendo riusciti a eliminarlo con le armi. Il despotato di Epiro a sua volta giunse rapidamente a una potenza considerevole, estendendosi su Epiro, Acarnania ed Etolia; come Nicea, assunse una posizione politica fortemente antilatina. Il successo più spettacolare a danno dei Latini fu ottenuto dal despota Teodoro Angelo nel 1217, quando le sue forze fecero prigioniero Pietro di Courtenay, l’imperatore designato di Costantinopoli che si stava recando ad assumere la carica. Nel 1224 inoltre
Teodoro Angelo riconquistò Tessalonica, mettendo fine al regno che si era mantenuto con i successori di Bonifacio di Monferrato, ucciso dai Bulgari nel 1207, e ne fece la capitale dei suoi possedimenti, assicurandosi così il dominio sulla Tessaglia e gran parte della Macedonia. Dopo questi successi, si fece a propria volta proclamare imperatore dei Romani, rivendicando il diritto di rappresentare la continuità del governo bizantino in antagonismo a Nicea, con cui l’Epiro ebbe un costante rapporto di rivalità. Fu un nuovo colpo per l’impero latino, il cui centro nel 1225 si era ridotto alla sola Costantinopoli e ai sobborghi, senza collegamenti diretti con la periferia; sembrava a quel punto in procinto di cadere in mano al nuovo sovrano greco, anche se poi riuscì a sopravvivere ancora per qualche anno, più per gli errori e i contrasti dei suoi nemici che per le proprie capacità. L’impero di Nicea si rafforzò con Giovanni III Ducas Vatatze, salito al trono nel 1225 e vissuto fino al 1254, che nei primi anni di regno sottomise quasi tutta l’Asia Minore latina ed entrò in Tracia, dove fu presa Adrianopoli. La caduta di questa importante città apriva anche per Nicea la via di Costantinopoli, ma la fase successiva della conquista venne ritardata dall’intervento degli Epiroti, che miravano allo stesso obiettivo dei loro rivali di Nicea. Le truppe dell’Epiro si opposero ai Niceni senza però riuscire nell’intento, dato che i loro piani furono resi vani dallo zar bulgaro Ivan II Asen, ugualmente intenzionato a impossessarsi della città imperiale. Ivan II intendeva infatti formare un impero bizantino-bulgaro con capitale a Costantinopoli e i suoi progetti erano stati inizialmente favoriti dai Latini che, dopo la morte dell’imperatore Roberto di Courtenay nel 1228, avevano pensato di affidargli la reggenza per il giovane successore Baldovino II. Lo zar si trovò così inevitabilmente in rotta di collisione con l’Epiro: nel 1230, quando era pronto per l’attacco a Costantinopoli, Teodoro Angelo fu sanguinosamente sconfitto e fatto prigioniero dai Bulgari a Klokotnica sulla Marizza. La sua disfatta causò l’eclissi della potenza epirota, prontamente sostituita da Nicea, e non si rivelò del tutto proficua per la Bulgaria, dato che gli Occidentali cambiarono idea e nel 1231 elessero imperatore l’anziano Giovanni di Brienne per governare insieme a Baldovino II. Il sovrano bulgaro fu così spinto ad allearsi nel 1235 con Nicea contro i Latini; all’alleanza aderì, sia pure in subordine, l’impero di Tessalonica, rappresentato ora da Manuele fratello di Teodoro. Subito dopo gli alleati portarono l’assedio a Costantinopoli per terra e per mare (nel 1235 e di nuovo nel 1236), ma presto Ivan II cambiò di nuovo parere, dapprima tornando ad accordarsi con i Latini contro Nicea, poi abbandonando definitivamente la scena nel 1237. La sua defezione lasciò Nicea libera di continuare il programma di espansione verso la città imperiale, anche se Giovanni Vatatze non riuscì a raggiungere l’agognato obiettivo di ricostruire l’impero. La sua azione venne ritardata da vari fattori, fra cui l’invasione mongola che nel 1242 sconvolse l’Europa orientale e che costrinse Nicea ad allearsi con i Turchi per garantire la propria sopravvivenza. I Mongoli si spinsero fino alla costa adriatica, ma la loro incursione fu di breve durata e, alla fine, si rivelò vantaggiosa per i Greci di Asia Minore, perché indebolì notevolmente i vicini e potenziali antagonisti orientali, l’impero di Trebisonda e il sultanato turco di Iconio, che furono resi vassalli dai conquistatori. Passata la tempesta, Vatatze riprese l’espansione in direzione dei Balcani e nel 1246 conseguì un successo decisivo conquistando Tessalonica. L’impero latino aveva subito un colpo terribile con la disfatta di Adrianopoli e negli anni che seguirono si trasformò sempre più in un morto vivente, privo di ogni energia, e mantenuto in vita soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziana, con la quale le forze nicene non erano in grado di confrontarsi a motivo della sua superiorità tecnica. Lo stato di cronica debolezza dell’impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria. Baldovino II, sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente nella disperata quanto inutile ricerca di sostegno, vendendo i possedimenti aviti e rivolgendosi in varie direzioni per far sopravvivere la dominazione latina a Costantinopoli: una dopo l’altra vennero anche cedute le reliquie più preziose in possesso dell’impero latino, e giunsero così a Parigi la corona di spine e altre reliquie della Passione, per accogliere le quali re Luigi il Santo fece costruire la SainteChapelle. A causa del continuo bisogno di denaro, infine, Baldovino II finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e per vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi. Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente
abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei Veneziani, che fino all’ultimo cercarono di preservarla per il loro tornaconto. Nel 1258, a causa della minorità del sovrano legittimo Giovanni IV Lascaris, il potere reale a Nicea passò a un valente generale, Michele Paleologo, che divenne reggente e poco più tardi ottenne anche la corona di coimperatore, per poi sbarazzarsi del Lascaris nel 1261, facendolo accecare. La sua ascesa era stata favorita dalla difficile situazione in cui si trovava Nicea, contro la quale si formò una coalizione fra Manfredi re di Sicilia, il despota di Epiro Michele II e il principe francese di Acaia Guglielmo di Villehardouin. Gli alleati vennero sconfitti dal Paleologo a Pelagonia, in Macedonia (1259): i quattrocento cavalieri inviati da Manfredi perirono sul campo, il principe di Acaia fu fatto prigioniero e l’Epiro subì un duro colpo. Michele Paleologo era l’unico trionfatore e, di fatto, non esisteva più una potenza in grado di opporsi a Nicea, se non la repubblica di Venezia, che continuava a essere il solo ostacolo serio per la restaurazione dell’impero bizantino. Per far fronte a questa situazione Michele Paleologo entrò in trattative con Genova e il 13 marzo 1261 venne firmato a Ninfeo un trattato che poneva le basi della potenza genovese nell’impero. I Genovesi si impegnarono a fornire a Nicea fino a cinquanta navi, equipaggiate a spese del sovrano, ottenendo in cambio una serie di privilegi, tra i quali l’esenzione dalle imposte sul commercio e la concessione di scali nei porti più importanti, ivi compresa Costantinopoli dopo la riconquista. I mercati greci sarebbero stati preclusi ai nemici dei Genovesi e, una volta ripresa Costantinopoli, essi avrebbero recuperato tutti i loro possedimenti in città, aggiungendo anche alcune proprietà veneziane, se avessero contribuito alla conquista della capitale. I Genovesi inviarono qualche nave in Oriente, ma il loro aiuto non fu necessario, perché Costantinopoli cadde in modo imprevisto. La città venne infatti occupata quasi per caso da un generale di Nicea di nome Alessio Strategopulo, che era stato inviato in missione in Tracia con circa ottocento uomini e l’ordine di passare vicino alla capitale per spaventare i Latini. Quando egli giunse in prossimità di Costantinopoli, venne a sapere che era pressoché priva di difensori e decise di approfittarne. L’intera flotta, costituita da trenta navi veneziane e una siciliana, era infatti partita al comando del podestà Marco Gradenigo per attaccare un’isola del mar Nero appartenente a Nicea; su di essa si era inoltre imbarcata quasi tutta la guarnigione latina, lasciando in città soltanto l’imperatore Baldovino II con il suo seguito. Con l’aiuto di alcuni residenti, i Niceni entrarono in Costantinopoli nella notte fra il 24 e il 25 luglio: al mattino seguente i Latini cercarono di resistere, ma vennero dispersi e Baldovino II, vista inutile ogni difesa, si preparò a fuggire. Nel corso della stessa giornata fece ritorno la flotta veneziana e Alessio Strategopulo ordinò di dare fuoco alle case dei Latini lungo la riva, cominciando da quelle veneziane, in modo che questi pensassero alle loro famiglie e non al contrattacco. Lo stratagemma fu efficace e gli Occidentali non poterono far altro che provvedere all’evacuazione, ammassandosi sulle loro navi in numero di circa tremila. Fuggirono anche l’imperatore, ferito nell’ultima battaglia, il podestà veneziano e il patriarca latino Pantaleone Giustiniani. I profughi raggiunsero la veneziana Negroponte, ma molti morirono di fame e di stenti durante il viaggio. Finì così quella brutta pagina di storia che fu l’impero latino di Costantinopoli e l’impero di Bisanzio venne restaurato, anche se nella pratica era divenuto l’ombra di sé stesso; si affermava inoltre la nuova dinastia dei Paleologi, la più duratura di Bisanzio, che sarebbe stata sul trono fino alla fine.
Capitolo settimo
Il declino di Bisanzio
1. L’ultimo orgoglio L’epoca dei Paleologi rappresenta l’ultima fase della storia di Bisanzio. L’impero, ricostruito nel 1261, riuscì a sopravvivere per circa due secoli, anche se riducendosi progressivamente nell’estensione e in preda a un continuo processo di disfacimento. L’opera di erosione del territorio residuo venne attuata dai tradizionali nemici balcanici e orientali, che approfittarono della debolezza di Bisanzio per espandersi, nonché dalle repubbliche marinare di Genova e di Venezia, la cui ipoteca sul secondo impero si fece sempre più pesante. Il colpo definitivo fu tuttavia assestato dai Turchi ottomani, la stirpe guerriera che iniziò a imporsi nel XIV secolo, la cui incontenibile potenza finì per travolgere ciò che restava di Bisanzio e gran parte dei possedimenti occidentali costituitisi dopo la quarta crociata, espandendosi anche ai danni degli stati balcanici tradizionalmente nemici dell’impero. La crisi politica dell’epoca paleologa ebbe anche pesanti ripercussioni sul piano interno, che si fecero drammaticamente avvertire nel corso del Trecento, con un generale impoverimento della popolazione, eccezion fatta per una classe ristretta di grandi proprietari terrieri, una forte contrazione delle attività economiche e la perdita del controllo dei mercati, passato in gran parte in mano alle repubbliche marinare italiane. In stridente contrasto con la decadenza di Bisanzio, tuttavia, la cultura letteraria e la produzione artistica ebbero un periodo di rigogliosa fioritura. L’impero ricostruito a seguito della riconquista di Costantinopoli presentava un’estensione di gran lunga inferiore a quella precedente alla quarta crociata: sebbene molti territori fossero andati perduti durante l’agonia dell’impero latino, restavano ancora in mano veneziana Corone, Modone, Creta e alcune isole dell’Arcipelago greco; l’Eubea era divisa fra Veneziani e signori occidentali; la Grecia sotto il dominio franco, l’Epiro e la Tessaglia retti da un governo greco non sottomesso a Bisanzio. La parte settentrionale della penisola balcanica era dominata da Serbia e Bulgaria, il cui territorio si era ampliato a spese di Costantinopoli. L’Asia Minore, infine, ricadeva in gran parte sotto il dominio turco. La presenza di nemici aggressivi e la sostanziale debolezza dello stato, tuttavia, non impedirono a Michele VIII di seguire una politica di potenza volta essenzialmente all’obiettivo ambizioso di restaurare il suo dominio nei territori già appartenuti a Bisanzio tanto con la forza delle armi quanto con la diplomazia. Nei primi anni di regno la politica di Michele VIII fu coronata da successo anche nei confronti degli odiati Occidentali. Nel 1261 ottenne dal principe di Acaia Guglielmo di Villehardouin, in cambio della sua liberazione dalla prigionia, il giuramento di fedeltà e la restituzione delle fortezze di Mistrà, Monemvasia, Maina e Hierakion nel Peloponneso, che consentirono ai Bizantini di costituire una testa di ponte nella Grecia meridionale, da cui in seguito cercarono di espandersi verso nord. Meno fortunata fu al contrario la successiva campagna avviata nella regione, dopo che il principe di Acaia ebbe rinnegato l’accordo sottoscritto: iniziata con l’avanzata bizantina, si concluse però nel 1264 con una cocente sconfitta campale degli imperiali. Nei confronti delle due grandi repubbliche marinare, il vero tarlo roditore che veniva dall’Occidente, Michele VIII attuò poi una saggia politica di equilibrio volta a impedire il predominio dell’una o dell’altra, con un sostanziale vantaggio per la causa imperiale. Fino al 1265 il sovrano di Bisanzio si mantenne alleato di Genova, escludendo Venezia dai mercati del Levante e cercando anche, sia pure senza fortuna, di riconquistare Creta; ma poi, deluso dall’atteggiamento genovese, ruppe l’alleanza e per un breve periodo tentò di avvicinarsi a Venezia, con cui concluse nel 1265 un preliminare di accordo non ratificato, però, dal governo cittadino. Nel 1266, di conseguenza, tornò all’alleanza con Genova: in cambio di aiuto militare i Genovesi ottennero di nuovo la libertà di commercio e la base di Galata sul Corno d’Oro, divenuta in seguito una fiorente città commerciale. La conclusione dell’accordo con Genova suscitò le gelosie di Venezia che, malgrado lo smacco subito, antepose il realismo politico all’antagonismo con Bisanzio, a cui si riavvicinò allo scopo di non perdere posizioni a vantaggio della rivale. Fu così concluso con Venezia un nuovo trattato nel 1268 con cui le parti si obbligarono a una tregua di cinque anni: Michele VIII concesse i consueti privilegi commerciali, ma non più
i quartieri nell’impero, sostituiti dalla facoltà di affittare tutto quanto fosse utile all’attività commerciale. Venivano poi definiti i rapporti di forza per le località oggetto di contesa fra le parti e, per quanto riguardava i Genovesi, era imposta la convivenza forzosa nell’impero e l’obbligo di non farsi guerra in territorio bizantino. Si inaugurava così una lunga serie di trattati con Venezia, che vertevano su questioni specifiche e non avevano più la forma e la sostanza delle antiche crisobolle; erano piuttosto tregue, di durata più o meno lunga, frutto di accordi alla pari, con cui i Veneziani si garantivano la loro posizione commerciale in Levante. L’Occidente, brutalmente cacciato da Costantinopoli, non stava intanto a guardare. I Veneziani attuarono velleitari tentativi per promuovere una coalizione antibizantina all’indomani della caduta di Costantinopoli, ma qualche cosa di concreto si ebbe soltanto quando sulla scena politica si affermò Carlo d’Angiò. L’eliminazione del dominio svevo in Italia meridionale (nel 1266) e l’avvento al trono di Sicilia di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, diedero infatti un nuovo impulso ai piani espansionistici ai danni di Bisanzio. Intenzionato a conquistare l’impero, Carlo d’Angiò si assicurò l’appoggio papale e, in forza di accordi diplomatici che ne facevano l’alleato del deposto sovrano latino, rivendicò il diritto alla sovranità su Costantinopoli, iniziando nello stesso tempo i preparativi per una grande spedizione militare. Privo delle forze necessarie per contrastarlo, Michele VIII cercò di ritardare l’impresa e, nello stesso tempo, di giocare la carta diplomatica dell’unione religiosa con Roma, che avrebbe tolto la spinta propagandistica per l’attacco alla scismatica Bisanzio. La sua diplomazia convinse il re di Francia, Luigi IX, a portare con sé il fratello nella crociata di Tunisi nel 1270 e l’anno successivo vennero avviati i contatti con Roma, resi possibili dall’elezione del papa italiano Gregorio X, ben disposto nei confronti di Costantinopoli e nello stesso tempo avverso alla politica angioina. Le trattative andarono a buon fine: nel 1274 fu convocato un concilio a Lione, dove il dissidio fra le due chiese venne formalmente ricomposto con la proclamazione dell’unione religiosa e i delegati bizantini giurarono di accettare la fede romana nonché il primato di Roma. I vantaggi politici furono immediati: Carlo d’Angiò dovette rinunciare ai piani di conquista e Michele VIII poté avviare una controffensiva su vari fronti. L’unione ebbe però gravi contraccolpi interni a Bisanzio per l’opposizione pressoché compatta del clero, del monachesimo e di buona parte della popolazione, così da spingere Michele VIII a mettere in atto pesanti persecuzioni dei dissidenti. L’unione inoltre non fu duratura e con l’avvento al seggio papale nel 1281 del francese Martino IV, strumento di Carlo d’Angiò, si tornò alla rottura aperta: il papa condannò Michele VIII come scismatico e l’Angiò (che già nel 1280 aveva attaccato senza successo l’Albania imperiale) poté riprendere i suoi piani di conquista, promuovendo una coalizione antibizantina formata dall’erede al trono latino Filippo di Courtenay, Venezia, Tessaglia (che nel 1271 si era staccata dall’Epiro), Serbia e Bulgaria. I Serbi e il despota di Tessaglia irruppero in Macedonia nel 1282 e l’Angiò, con l’aiuto navale di Venezia, si apprestò a dare il colpo definitivo al nemico; la situazione fu però salvata all’ultimo momento dalla rivolta dei Vespri siciliani, scoppiata a Palermo nel marzo del 1282, alla quale non fu estranea la diplomazia di Costantinopoli. A seguito di questa rivolta, infatti, la Sicilia si liberò dal dominio francese e il tentativo dell’Angiò di rientrarne in possesso fu ostacolato dalla potenza rivale degli Aragonesi, con cui si accese un violento conflitto (destinato a trascinarsi fino al 1302, oltrepassando la vita stessa dei primi protagonisti) a seguito del quale naufragò ogni progetto di spedizione in Oriente. L’ingresso di Venezia nella coalizione antibizantina era stato motivato dal timore delle mire espansionistiche di Michele VIII Paleologo ai danni della repubblica. Il riavvicinamento del 1268, confermato da un nuovo trattato di durata biennale nel 1277, non aveva fatto venir meno i progetti di riconquista dell’imperatore, rivolti in particolare contro le isole veneziane dell’Egeo e, verso l’estate del 1277, prese il via un’ampia controffensiva a opera del pirata Licario, un italiano al servizio di Bisanzio, che portò alla sottomissione di numerose isole minori. Licario attaccò l’isola di Scopelo, caduta facilmente nelle sue mani per esaurimento della scorta di acqua: assieme a questa venne presa anche Sciro e verosimilmente nella stessa occasione caddero anche Sciato e le altre isole che formavano il
dominio del veneziano Filippo Ghisi; quest’ultimo fu catturato e condotto a Costantinopoli, dove restò a lungo prigioniero. La stessa sorte, ma forse qualche tempo prima, toccò ad Amorgo, ugualmente nelle mani dei Ghisi. Licario andò quindi a conquistare Lemno, retta in signoria dai veneziani Foscari, Gradenigo e Navigaioso e, nonostante la forte resistenza incontrata, dopo tre anni se ne impossessò. L’obiettivo successivo non poteva che essere l’Eubea e, in vista di una simile eventualità, il governo veneziano adottò i provvedimenti del caso. Non fu rinnovata la tregua con il Paleologo, scaduta nel marzo 1279, e all’inizio dell’estate un’ambasceria veneziana raggiunse la corte angioina per chiedere aiuto al re che, dopo la morte di Guglielmo di Villehardouin, era divenuto principe di Acaia e, di conseguenza, titolare dei diritti feudali sull’Eubea. Il 30 marzo 1280 venne quindi stipulata a Capua una convenzione fra Filippo di Courtenay, titolare del trono latino di Costantinopoli, Carlo d’Angiò e Venezia per un intervento armato in difesa di Negroponte. Licario non si fece però intimorire e di lì a poco attaccò l’Eubea sbaragliando le forze occidentali; rinunciò comunque all’assedio della capitale limitandosi a sottomettere la restante parte dell’isola. Di qui compì le ultime imprese che di lui ci sono note, prendendo castelli nella Grecia latina e altre isole in parte veneziane. Di fronte a una situazione del genere, il governo della città lagunare perse interesse per quanto stabilito a Capua, che neppure fu messo in pratica, e pensò piuttosto a un accordo di più ampia portata: ciò ebbe come esito, il 3 luglio del 1281, il trattato concluso a Orvieto, dove papa Martino IV aveva messo la propria residenza. L’alleanza fu presentata come una crociata antiscismatica «a esaltazione della fede ortodossa» ma, al di là delle motivazioni di principio, lo scopo consisteva nell’insediare sul trono di Costantinopoli Filippo di Courtenay e restituire a Venezia tutti i privilegi di cui aveva goduto nell’impero latino. L’inizio delle operazioni era previsto entro l’aprile del 1283 e doveva essere preceduto da un’azione preliminare probabilmente contro Negroponte. Vennero iniziati i preparativi, ma i Vespri siciliani tutto sconvolsero: a parte una breve puntata degli alleati a Negroponte, che a nulla servì, Venezia si defilò abbandonando l’Angiò al proprio destino e riprese le trattative con Bisanzio, con cui nel 1285 avrebbe concluso un nuovo trattato.
2. La decadenza Michele VIII Paleologo morì l’11 dicembre del 1282 dopo aver speso l’intera esistenza a cercare di ricostruire la potenza del suo impero. Lo sforzo da lui compiuto a conti fatti si rivelò un sostanziale fallimento, con successi di portata tutto sommato modesta e in ogni caso sproporzionati ai costi. La sua politica ambiziosa fu abbandonata dal figlio e successore Andronico II, che in primo luogo ripudiò l’inutile unione religiosa con Roma, cercando di riportare la pace nella chiesa bizantina dopo le persecuzioni attuate dal padre. Al fine di ridurre le enormi spese pubbliche, divenute ormai insostenibili per le casse dello stato, avviò poi un programma di risanamento economico volto essenzialmente alla contrazione delle spese militari, che fu attuato attraverso la riduzione dell’esercito e lo smantellamento della marina, in sostituzione della quale il nuovo sovrano ritenne di poter fare affidamento sull’alleanza con Genova. La politica estera si fece di conseguenza meno aggressiva e Andronico II cercò di risolvere mediante i rapporti diplomatici i conflitti con le potenze antagoniste. La rinuncia al mantenimento di una forza militare e la nuova linea politica ebbero un pesante contraccolpo sull’impero. La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo stato incapace di esprimere una propria politica estera e in preda a una sempre più accentuata disgregazione interna. La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e nello stesso tempo si diffuse in modo sempre più massiccio la grande proprietà fondiaria, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale per i ricchi. Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane,
portando come conseguenza un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento, da cui si salvava soltanto la ricca classe dei proprietari fondiari. Analogamente disastrose furono le ripercussioni interne della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò ulteriormente sull’erario imperiale con una serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia. Con Andronico II si accentuò la dipendenza di Bisanzio dalle grandi repubbliche marinare, destinata a divenire il cardine della successiva politica estera. L’amicizia con Genova fu alla base della sua azione di governo, ma il sovrano non tralasciò di ristabilire normali rapporti anche con Venezia, dopo che questa ebbe abbandonato l’alleanza con l’Angiò, rivelatasi un disastroso errore di prospettiva. Nel 1283 il governo veneziano decise di avviare contatti con il nuovo imperatore per concludere una tregua alla quale si giunse due anni più tardi, dopo lunghe e faticose trattative. Venne stipulato questa volta un accordo decennale, che impegnava ciascuna parte a non allearsi con potenze ostili all’altra e concedeva ai Veneziani un consistente risarcimento per i danni subiti dalla prima tregua in avanti. Restava tuttavia aperto il contenzioso risalente al tempo di Michele VIII sulle isole egee, riconquistate progressivamente da Venezia, rientrata nel 1296 anche nel pieno possesso dell’Eubea. La mancanza di un effettivo potere contrattuale nei confronti sia di Genova sia di Venezia fece sì che negli ultimi anni del secolo Andronico II fosse coinvolto suo malgrado nella guerra veneto-genovese, combattuta in Oriente a partire dal 1294. L’imperatore, ancora alleato con i Genovesi, offrì loro riparo dentro le mura della capitale e, per rappresaglia, i Veneziani inviarono una flotta che ne saccheggiò i dintorni, malgrado le sue proteste. Genova per parte sua si ritirò dalla guerra nel 1299, abbandonando l’alleato al proprio destino, e nel 1302 l’impero dovette concludere un armistizio oneroso con la città rivale. Diveniva così evidente la decisa dipendenza di Bisanzio dalle città marinare italiane, che metteva fine alla politica di sia pur relativa supremazia perseguita da Michele VIII e, di fatto, poneva il sovrano nella condizione di ostaggio dei propri alleati. Anche la tregua faticosamente raggiunta con Venezia era molto fragile e questa, nel 1306, si associò al progetto di crociata contro Bisanzio di Carlo di Valois, fratello di Filippo IV di Francia, che aveva ereditato i diritti sul trono latino e godeva dell’appoggio di papa Clemente V, da cui Andronico II era stato scomunicato. La spedizione comunque non ebbe mai luogo e, nel 1310, la città lagunare cambiò rotta accordandosi con il sovrano di Costantinopoli, con cui concluse un nuovo trattato. Negli anni che seguirono Andronico II si servì della forza militare dell’Occidente ricorrendo ai servigi della Compagnia Catalana, una banda di mercenari che già aveva combattuto in Sicilia durante il conflitto angioinoaragonese da poco terminato, e che fu da lui spedita a far guerra ai Turchi in Asia Minore, dove la presenza bizantina si era ridotta al possesso di pochi centri. Ma anche in questo caso l’imperatore non fece una scelta felice. Dopo i successi iniziali, infatti, i rapporti con i Catalani si fecero difficili a causa del ritardo nel pagamento del soldo e il rimedio adottato da Costantinopoli per tenerli a freno finì per rivelarsi peggiore del male. Andronico II li trasferì a Gallipoli per passare l’inverno 1304-1305 e qui, in aprile, il coimperatore Michele IX fece assassinare il loro capo Ruggero di Flor, ma non ottenne con ciò il risultato sperato di ridurli all’obbedienza: i Catalani anzi entrarono in guerra aperta con Bisanzio, sconfiggendo le truppe di Michele IX. Per due anni, in seguito, devastarono la Tracia imperiale, poi si spostarono a nord saccheggiando nel 1308 anche i monasteri dell’Athos; raggiunsero quindi la Tessaglia governata dal despota bizantino e, nel 1310, passarono al servizio del duca franco di Atene, Gualtieri di Brienne, con il quale ruppero i rapporti l’anno successivo. Ne conseguì una guerra franco-catalana, terminata con la vittoria della compagnia di ventura: il duca venne ucciso e si costituì un principato catalano di Atene, destinato a sostituire la precedente dominazione francese e a durare più di settant’anni. L’arruolamento dei Catalani comportò costi gravissimi sia per le devastazioni subite sia per la necessità di imporre nuove tasse ai sudditi ormai allo stremo. La situazione subì poi un ulteriore aggravamento negli ultimi anni di Andronico II con lo scoppio di una guerra civile di ampie proporzioni – un fenomeno relativamente nuovo per Bisanzio, ma destinato a ripetersi nel corso del Trecento – fra l’imperatore e il nipote omonimo che si era visto
privare dei diritti di successione. Alla fine vinse il giovane Andronico, che depose il nonno, ma lo stato che prese in mano era ancora più indebolito e ancora più devastato dagli avvenimenti bellici. Sotto Andronico III, salito al potere nel 1328, l’impero ebbe un momentaneo rafforzamento dovuto in buona parte all’appoggio di Giovanni Cantacuzeno, un giovane e ricco aristocratico, che di fatto dirigeva lo stato. Il nuovo sovrano tentò una controffensiva contro i Turchi in Asia Minore, rivelatasi fallimentare e, come ormai era divenuta prassi, dovette destreggiarsi fra le due repubbliche marinare. A differenza del predecessore, mantenne rapporti stabili con Venezia e adottò nello stesso tempo una politica ostile nei confronti dei Genovesi, ai quali poté contrapporre una nuova forza navale, ricostruita con denaro pubblico e degli aristocratici che lo sostenevano. Nel 1329 riuscì a riprendere l’isola di Chio, passata alcuni anni prima sotto il dominio della famiglia genovese degli Zaccaria, alleandosi con i Turchi Selgiuchidi degli emirati costieri dell’Asia Minore. Proseguendo nella stessa linea, poi, costrinse alla sottomissione la città di Focea, ugualmente sotto il controllo dei Genovesi, e scongiurò un loro tentativo di riconquistare Chio e di appropriarsi di Lesbo; al fine di punire i Genovesi di Galata (l’antica Pera nella periferia di Costantinopoli), in quanto complici degli aggressori, ordinò inoltre lo smantellamento delle fortificazioni costruite per proteggere l’insediamento. Il sia pur limitato ritorno di vitalità dell’impero finì bruscamente quando nel 1341 Andronico III morì e il passaggio del trono all’erede Giovanni V fece scoppiare una nuova guerra civile, che vanificò tutti i precedenti successi. La contesa intestina si accese questa volta per la reggenza in nome di Giovanni V, divenuto imperatore all’età di nove anni, fra il partito aristocratico guidato dal megas domestikos Giovanni Cantacuzeno, al comando dell’esercito, e una fazione avversa sostenuta dall’imperatrice madre Anna di Savoia. Questo secondo partito, appoggiato anche dal patriarca di Costantinopoli Giovanni Caleca, trovò un capo nel megaduca (il comandante della flotta) Alessio Apocauco, un ex collaboratore di Cantacuzeno, che diede un carattere popolare al suo schieramento in antagonismo ai sostenitori aristocratici del rivale. La guerra civile fu combattuta dal 1341 al 1347 e produsse uno sconvolgimento di enorme portata, da cui Bisanzio non riuscì più a risollevarsi: a differenza di quella degli anni Venti, da cui era venuto soltanto un notevole indebolimento, causò infatti il tracollo definitivo dell’impero. Le potenze straniere (Serbi, Turchi e Bulgari) intervennero in modo massiccio e alla fine divennero arbitre dell’esito finale; nella contesa politica si inserirono poi contrasti religiosi e sociali che resero il clima ancora più torbido. Cantacuzeno si fece proclamare imperatore, sia pure rispettando il principio di legittimità con l’osservanza formale dei diritti del Paleologo, e alla fine ebbe la meglio sui rivali assumendo la reggenza e, di fatto, il potere assoluto. Mantenne quindi sul trono il Paleologo nonostante la diffidenza e l’ostilità reciproca. L’impero uscì stremato dal nuovo conflitto civile e subì ulteriori perdite territoriali. Le potenze occidentali non restarono a guardare, una volta in più: i Genovesi ripresero Chio e Focea, che non sarebbero state più restituite, e i Veneziani per parte loro fecero un buon bottino, pur senza intervenire direttamente nel conflitto, accaparrandosi i gioielli della corona bizantina. Nel 1343 infatti Anna di Savoia chiese a Venezia un prestito di trentamila ducati da rimborsare in tre anni, con i relativi interessi del 5% annuo, a garanzia del quale furono dati in pegno i gioielli della corona. La richiesta sollevò un dibattito in Senato e, malgrado le perplessità sorte, alla fine si giunse alla decisione di concederlo. I «sapienti», ossia i membri della commissione incaricata di valutare la questione, osservarono con molta lucidità che l’impero era allo stremo e che, se si fosse disintegrato, il dominio veneziano in Levante ne avrebbe subito un danno notevole, «considerando quanto vantaggio conseguiranno i nostri mercanti se l’impero continuerà a prosperare». Il pegno (consistente in pietre preziose, perle e oro) fu quindi consegnato al bailo veneziano di Costantinopoli per essere trasportato a Venezia dove – possiamo aggiungere – sarebbe rimasto, perché i Bizantini non avrebbero più avuto la possibilità di riscattarlo. Nei numerosi trattati commerciali fra Venezia e Bisanzio che ancora seguirono (fino all’ultimo del 1448) si ebbero infatti come punti centrali la duplice trattativa sul risarcimento dei danni e la restituzione del prestito, cui nel 1352 si sarebbero aggiunti altri cinquemila ducati
concessi a Giovanni V contro il pegno di una pietra preziosa. I sovrani di Bisanzio si obbligarono regolarmente a restituire il tutto; a parte però occasionali pagamenti di cifre modeste, non riuscirono mai a saldare il debito e quando Costantinopoli cadde in mano turca, nel 1453, i gioielli della corona si trovavano ancora depositati a Venezia. Giovanni VI Cantacuzeno si illuse di poter restaurare almeno in parte la potenza del suo impero di fronte alla rapacità occidentale, ma fu un breve sogno, reso vano dalla situazione ormai disperata in cui esso versava. In teoria i suoi progetti erano validi e l’usurpatore adottò una politica estera antigenovese, cercando di contrastare l’egemonia ottenuta da Genova nel controllo del commercio marittimo con Costantinopoli (attraverso il pagamento a Galata di più di due terzi degli introiti doganali) e, nello stesso tempo, di rimettere in campo una propria flotta per non dipendere dalle repubbliche marinare. Questo tentativo si rivelò un completo fallimento: i Genovesi (che avevano di nuovo fortificato Galata malgrado il divieto imperiale) si sentirono defraudati dei loro privilegi e, nel 1349, attaccarono i cantieri di Costantinopoli incendiando le navi che trovarono all’ancora. Poco più tardi, nel 1350, Giovanni Cantacuzeno si trovò inoltre coinvolto nella guerra veneto-genovese per il controllo del commercio nel mar Nero. L’imperatore si alleò con Venezia e Pietro IV d’Aragona, partecipando con quattordici navi alla battaglia combattuta nel febbraio del 1352 nelle acque del Bosforo. Lo scontro ebbe esito incerto e, quando i Veneziani abbandonarono il campo, Cantacuzeno dovette concludere la pace con Genova. A questa Venezia rispose alleandosi con Giovanni V Paleologo contro di lui. Nel 1352 si era aperta, infatti, una nuova guerra civile fra Giovanni VI e Giovanni V, risolta con l’intervento dei Turchi ottomani (l’etnia emergente nella galassia di tribù turche dell’Asia Minore) a vantaggio del reggente. L’amicizia con i Turchi – che fu un cardine della politica di Giovanni VI – alla lunga finì tuttavia per rivelarsi un’arma a doppio taglio e ne causò la caduta. Gli Ottomani nel 1354 penetrarono infatti in territorio europeo, impossessandosi di Gallipoli, che non abbandonarono malgrado le pressanti richieste dell’imperatore. Per Cantacuzeno fu uno scacco di ampie dimensioni, perché Gallipoli era una testa di ponte per la conquista dell’Europa, e su di lui ricadde la responsabilità di aver aperto la via del continente ai nuovi invasori. La sua posizione si indebolì, a vantaggio di una congiura promossa da Giovanni V con l’appoggio del corsaro genovese Francesco Gattilusio, cui fu promessa come ricompensa l’isola di Lesbo. Questa ebbe successo e l’usurpatore fu deposto nel novembre del 1354 e costretto a divenire monaco; visse ancora per un trentennio, partecipando alla vita pubblica e attendendo alla composizione di opere letterarie, fra cui una monumentale storia degli avvenimenti del tempo che ancora si conserva. Il governo dei Cantacuzeno sopravvisse tuttavia in Morea, dove nel 1348 era stato istituito un despotato, retto fino al 1380 dal figlio dell’ex imperatore per poi passare ai Paleologi. La caduta di Cantacuzeno, nel 1354, restituì il potere al legittimo sovrano Giovanni V Paleologo. Giovanni V, nonostante il suo lungo regno (durato fino al 1391), non fu in grado di risollevare le sorti dell’impero e si limitò a reggere alla meglio uno stato in completo disfacimento, che continuava a subire mutilazioni dello scarso territorio rimasto. Gli Ottomani, insediatisi in Europa, raggiunsero rapidamente una considerevole potenza, minacciando Costantinopoli e gli altri stati balcanici, cioè Serbia, Bulgaria, principato valacco e Ungheria. La seconda metà del Trecento fu segnata dalla travolgente conquista della penisola balcanica dove, dopo la morte dello zar serbo Stefano Dušan (20 dicembre 1355) e la conseguente frantumazione del suo impero, non esisteva più una potenza capace di contrastare l’avanzata turca. Subito dopo la presa di Gallipoli, gli Ottomani iniziarono a sottomettere la Tracia, comparendo per la prima volta sotto le mura di Costantinopoli nel 1359; di qui passarono in Bulgaria, occupando Filippopoli nel 1363. Poco più tardi, verso il 1365, il sultano Murad I fissò la propria capitale ad Adrianopoli di Tracia, con la chiara intenzione di radicare il suo nuovo stato nella penisola balcanica. Il pericolo rappresentato dall’espansione ottomana cominciò a essere seriamente avvertito anche in Occidente (dove già dagli anni Trenta Venezia si era adoperata per promuovere alleanze antiturche), ma le continue rivalità fra le potenze rendevano assai problematica un’azione comune. Il tradizionale antagonismo fra Venezia e Genova, in particolare, rendeva improponibile un progetto politico indipendente dagli interessi particolari delle due repubbliche,
sebbene la conservazione delle posizioni in Levante fosse preminente per entrambe. L’atteggiamento nei confronti di Bisanzio, a ogni modo, cominciò a modificarsi al tempo di Giovanni V e, dalla consueta ostilità, si passò a una sempre maggiore consapevolezza del ruolo di frontiera cristiana svolto da Bisanzio, valutando le ricadute negative che la sua scomparsa avrebbe prodotto anche in Occidente. Giovanni V Paleologo rinunciò realisticamente a ogni tentativo velleitario di ricostruire una potenza bizantina e puntò tutte le sue carte sull’aiuto dell’Occidente. Per opporsi alla travolgente avanzata nemica, non avendo forze a disposizione, cercò inutilmente aiuto in Serbia e riprese il progetto di riunificazione religiosa con la chiesa romana, già seguito dai suoi predecessori senza risultati concreti, come condizione necessaria per promuovere una crociata contro i Turchi. Nel 1355 fece promesse di ampia portata a papa Innocenzo VI circa la sottomissione della chiesa greca al primato romano, ma il suo appello sembrò essere raccolto soltanto dieci anni più tardi da Urbano V, che da Avignone promosse la crociata. Le speranze dell’imperatore andarono però deluse perché la spedizione che ne seguì, condotta dal re di Cipro Pietro di Lusignano, si diresse in Egitto, dove fu saccheggiata Alessandria. Giovanni V decise di recarsi di persona a Buda per chiedere aiuto al re Luigi d’Angiò, alla guida del più potente stato balcanico del momento. Era la prima volta che un sovrano di Bisanzio usciva dai propri confini non da conquistatore, come nei secoli passati, ma per un umiliante pellegrinaggio in cerca di una salvezza che non poté ottenere. Anche queste sue speranze andarono infatti deluse e l’Ungheria non si mosse in soccorso di Bisanzio. Le uniche operazioni militari proficue per l’impero furono condotte da Amedeo VI, conte di Savoia e cugino dello stesso Giovanni V, arrivato in Oriente con forze crociate per riconquistarvi Gallipoli nel 1366 e ottenere altri successi a spese di Turchi e Bulgari, fra cui la liberazione del sovrano bizantino che era stato fatto prigioniero da questi ultimi sulla via del ritorno dall’Ungheria. La riconquista di Gallipoli fu un episodio isolato che non risolveva la questione della minaccia turca e Giovanni Paleologo, per non lasciar morire il suo impero, decise di giocare la carta più realistica per ottenere aiuto, andando fino in fondo nella politica di riavvicinamento a Roma. Nell’aprile del 1369 abbandonò nuovamente Costantinopoli partendo in direzione dell’Italia. A Roma, qualche mese più tardi, abiurò solennemente alla religione ortodossa, ma anche questa sua conversione non portò ad alcun vantaggio pratico. Era stata fatta tra l’altro a titolo puramente individuale dal sovrano e in questa occasione, come sarebbe avvenuto anche in seguito, il clero bizantino si mostrò per lo più ostile all’accordo con Roma. L’imperatore raggiunse quindi Venezia dove propose la cessione dell’isola di Tenedo, all’ingresso dei Dardanelli, alla quale la repubblica aspirava da anni, in cambio di aiuto; anche questo tentativo, però, non ottenne gli esiti sperati e nel 1371 il sovrano tornò in patria senza aver conseguito alcun risultato. Pochi anni più tardi l’impero di Bisanzio subì un’altra crisi dinastica, che lo indebolì ulteriormente, e nella quale si inserirono una volta in più le potenze straniere come arbitre degli avvenimenti. Andronico IV, figlio primogenito di Giovanni V, aveva infatti organizzato una congiura assieme a un principe ottomano contro i rispettivi padri, l’imperatore di Costantinopoli e il sultano Murad I. La scoperta del complotto era stata seguita dall’accecamento dei rei, eseguito da Giovanni V su ordine del sultano, ma in forma mitigata su Andronico IV, che venne anche imprigionato. Nel 1376 Andronico Paleologo fuggì dal carcere e, con l’appoggio genovese e turco, riuscì a impadronirsi del potere. Entrato in Costantinopoli, fece prigionieri il padre e il fratello Manuele e, per sdebitarsi con chi gli era stato di aiuto, ordinò l’arresto dei Veneziani, cedette l’isola di Tenedo ai Genovesi e restituì Gallipoli ai Turchi. L’oggetto principale della contesa fra Genova e Venezia (e quindi il motivo dell’appoggio genovese ad Andronico IV) era costituito in quel momento dal possesso di Tenedo, la cui effettiva cessione a Venezia prima dell’usurpazione aveva suscitato le gelosie della città rivale. Genova non riuscì a impadronirsi di Tenedo e la lotta per il dominio sull’isola finì per suscitare una guerra veneto-genovese, che si sarebbe poi spostata in acque occidentali fino a concludersi, dopo la penetrazione genovese fino a Chioggia, con la pace di Torino del 1381. Il
governo di Andronico Paleologo non fu duraturo e, nel 1379, Giovanni V e il secondogenito Manuele riuscirono a deporlo con l’aiuto di Veneziani e Turchi, il cui appoggio fu determinante per la liberazione del sovrano e del figlio dal carcere in cui erano stati rinchiusi, e per il loro successivo rientro a Costantinopoli.
3. La caduta dell’impero Giovanni V Paleologo terminò la sua lunga vita travagliata nel 1391, lasciando il trono al figlio Manuele. Sotto Manuele II Paleologo l’espansione dei Turchi proseguì inesorabilmente e, verso la fine del Trecento, il territorio di Bisanzio in terraferma si era ridotto alla sola capitale e alla Morea, tornata ai Paleologi dopo il dominio dei Cantacuzeno e retta da un despota vassallo dei Turchi. Nel 1394 gli Ottomani (che già avevano sottomesso la Serbia nel 1389, completato la conquista della Bulgaria nel 1393 e occupato la Tessaglia, rendendosi poi vassalla la Valacchia, nel 1395) misero il blocco intorno a Costantinopoli e la capitale isolata poté ricevere soltanto sporadici rifornimenti inviati da Venezia. La loro inarrestabile avanzata fece suonare un campanello di allarme in Occidente e per la prima volta si ebbe un tentativo di organizzare una crociata di ampie proporzioni, ma le forze cristiane vennero sanguinosamente sconfitte nel 1396 a Nicopoli, in Bulgaria. La crociata di Nicopoli venne promossa essenzialmente per la difesa dell’Ungheria cattolica e l’iniziativa fu presa dal re Sigismondo, alla guida dell’unico stato balcanico che ancora disponeva delle risorse necessarie per poter condurre operazioni militari di ampio respiro. Sigismondo fece appello a tutti i sovrani d’Europa per un’impresa destinata a salvare la cristianità e il suo invito fu raccolto: si mossero due papi (Bonifacio IX a Roma e Benedetto XIII ad Avignone) e venne costituita una grande armata di circa centomila uomini, il cui grosso era formato dagli Ungheresi, ma che comprendeva anche migliaia di uomini variamente affluiti da Francia, Germania, Valacchia, Italia, Spagna, Inghilterra, Polonia e Boemia. I Genovesi di Lesbo e di Chio e i cavalieri di Rodi si assunsero il compito di presidiare la foce del Danubio e le coste del mar Nero, mentre Venezia finì per superare le esitazioni iniziali (determinate dal proposito di avviare una trattativa bizantino-turca) inviando una piccola flotta nei Dardanelli da cui fu infranto il blocco navale dei Turchi. L’esercito crociato si concentrò a Buda per ricongiungersi ai Veneziani nella capitale e, nell’estate del 1396, superò il Danubio proseguendo verso Nicopoli, a cui fu posto l’assedio. Il 25 settembre però le forze cristiane furono disastrosamente sconfitte dal sultano Bayazid. Il re Sigismondo riuscì a mettersi in salvo con la fuga, ma molti combattenti occidentali perirono sul campo o furono fatti prigionieri. Gli Ottomani, forti del successo ottenuto e incontrastati, nel 1397 aggredirono la Grecia, occupando provvisoriamente Atene, e si spinsero fino alla costa meridionale espugnando tra l’altro la veneziana Argo. La situazione per la capitale stretta da assedio si fece disperata e Manuele II chiese aiuto in Occidente senza ottenere da Venezia e dagli altri stati italiani altro che non fossero vaghe promesse. Il suo ambasciatore fu però ascoltato dal re di Francia Carlo VI, che inviò a Costantinopoli una piccola squadra navale con un migliaio di uomini condotti da Jean le Mengre, noto come maresciallo Boucicaut. Il francese vi arrivò verso la fine dell’estate 1399 e, con l’aiuto del sovrano, riuscì a rompere il blocco turco della città. Convinto che soltanto una crociata potesse salvare l’impero, Boucicaut indusse Manuele II a recarsi personalmente in Occidente in cerca di soccorso. Nel dicembre dello stesso anno, in compagnia del Boucicaut, Manuele II prese la via dell’Occidente: fece tappa a Venezia, visitando poi altre città italiane, e andò a Parigi e a Londra. Il suo viaggio fu culturalmente proficuo, per gli scambi fra eruditi greci e occidentali, ma ebbe scarsi risultati pratici. Le nazioni occidentali si trovavano infatti paralizzate dalle questioni interne o dai contrasti reciproci e nessuna era disposta a impegnarsi seriamente per il lontano impero di Bisanzio. Di fronte all’inerzia delle potenze europee, Costantinopoli sembrava essere alla fine; avvenne però un fatto imprevisto e nel luglio del 1402 l’esercito ottomano fu annientato ad Angora dal capo mongolo Timurlenk
(Tamerlano), la cui fulminea espansione in quegli anni travolgeva l’Oriente. Bayazid fu fatto prigioniero e, anche dopo il ritiro dei Mongoli dall’Asia Minore (nel 1403), la sua successione diede origine a lotte violente fra i figli destinate a terminare nel 1413 con l’ascesa al potere di Maometto I, che fino alla sua morte (nel 1421) mantenne buoni rapporti con l’impero. La pressione nemica di conseguenza si alleggerì e Manuele II, tornato in patria nel 1403, poté ottenere qualche modesto vantaggio territoriale, tra cui la riacquisizione di Tessalonica e del monte Athos. Fu tolto il blocco a Costantinopoli e nello stesso tempo vennero meno lo stato di vassallaggio e il tributo annuo da pagare agli Ottomani, che erano stati imposti al tempo di Giovanni V. Trascorsero così alcuni anni di calma, segnati anche dalla fioritura culturale di Mistrà, capitale del despotato di Morea, a opera del despota Teodoro Paleologo e dell’umanista Giorgio Gemisto Pletone, dove si ebbe una paradossale rinascita dell’ellenismo, in aperto contrasto con lo sfascio generale del mondo bizantino. La Morea, nella prima metà del Quattrocento, divenne il vivaio della grecità e mostrò anche una considerevole vitalità politica, riuscendo a sottomettere tutto il Peloponneso a eccezione delle colonie veneziane di Corone, Modone, Argo e Nauplia. Nel 1430, infatti, venne assoggettato il principato latino di Acaia e terminò così la contesa franco-bizantina per il possesso del Peloponneso, che era iniziata al tempo di Michele VIII. Fu comunque una breve tregua: la potenza ottomana tornò a essere aggressiva con il sultano Murad II, che revocò i privilegi ottenuti dai Bizantini e nel 1422 assediò per qualche tempo Costantinopoli ripristinando lo stato di vassallaggio dell’impero nei confronti dei Turchi. A fare le spese della rinnovata aggressività turca fu anche Tessalonica, nel cui destino si era inserita Venezia. La città, vista l’impossibilità per i Bizantini di difenderla, era stata ceduta nel 1423 ai Veneziani, ma questi finirono per soccombere sette anni dopo e Tessalonica fu presa dagli Ottomani. Manuele II morì nel 1425 lasciando il trono al figlio: Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore di Bisanzio, fu il terzo sovrano a recarsi in cerca di aiuto in Occidente, dove già per conto del padre era stato alcuni anni prima con lo stesso scopo. A differenza di Manuele II, mostratosi piuttosto scettico in merito, decise di giocare la carta estrema della riunificazione religiosa, che avrebbe tolto ogni pretesto per non soccorrere Bisanzio, e nel 1438 raggiunse l’Italia con il proposito di convertirsi alla fede romana per poi convincere il suo popolo a fare altrettanto. Dopo accurati negoziati con il papa Eugenio IV, il sovrano e il suo seguito di dignitari laici ed ecclesiastici, guidati dal patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, si imbarcarono su galere papali verso la fine del 1437 con destinazione Ferrara, dove era stato indetto il concilio. La folta delegazione greca, che contava circa settecento persone, arrivò a Venezia nei primi giorni di febbraio. Ne facevano parte alcune delle maggiori personalità del tempo, come Bessarione, metropolita di Nicea, e Isidoro di Kiev, i futuri cardinali, Giorgio Scolario professore e capo della cancelleria privata dell’imperatore, divenuto in seguito patriarca di Costantinopoli, il noto filosofo Giorgio Gemisto Pletone e l’alto dignitario ecclesiastico Silvestro Siropulo, a cui si deve una particolareggiata descrizione degli avvenimenti. L’imperatore e i suoi furono ospitati nel monastero di San Nicolò del Lido, mentre gli ecclesiastici presero alloggio al monastero benedettino di San Giorgio Maggiore. Il giorno successivo all’arrivo (il 9 febbraio 1438) il doge Foscari andò incontro a Giovanni VIII con il bucintoro; dal Lido, un corteo solenne di barche lo accompagnò fino in città dove fu sistemato nel palazzo del marchese di Ferrara, sul canal Grande, in cui già aveva preso dimora il padre. I Bizantini si trattennero per una ventina di giorni a Venezia, durante i quali gli ecclesiastici visitarono il Tesoro di San Marco, riconoscendo tristemente nella Pala d’Oro gli smalti a suo tempo trafugati dalla città imperiale. Il 27 febbraio la maggior parte della delegazione si mise in viaggio alla volta di Ferrara per l’apertura dei lavori conciliari. Il concilio seguì il corso previsto e, nel 1439, si spostò a Firenze, dove venne solennemente proclamata l’unione religiosa. La via del ritorno in patria condusse nuovamente i Bizantini a Venezia verso la fine dell’estate e il doge offrì loro la chiesa di San Marco perché vi celebrassero una messa solenne. Il 19 ottobre le navi destinate a ricondurli in Levante presero il largo e nel febbraio dell’anno seguente raggiunsero Costantinopoli.
Fu un nuovo fallimento. Come già nel 1274, la riunificazione trovò forti resistenze nella chiesa e nella popolazione bizantine, a parte alcune significative eccezioni nell’alto clero. Il motivo dell’insuccesso non fu comunque la riluttanza ad accettare la riunificazione, quanto piuttosto la mala sorte che fece fallire i buoni propositi dell’Occidente, una volta tanto in buona fede nei confronti di Bisanzio. L’esito politico della riconciliazione fu infatti una crociata promossa da Eugenio IV, comunemente conosciuta come crociata di Varna. La spedizione, svoltasi fra 1443 e 1444, nacque sotto i migliori auspici e sembrava destinata a un travolgente successo: l’appello del papa trovò un’accoglienza favorevole fra le genti più bellicose e nella parte meridionale dell’Ungheria si raccolse un esercito di circa venticinquemila uomini, guidato dal re di Ungheria Ladislao III, dal voivoda di Transilvania Giovanni Corvino Hunyadi, dal despota serbo Giorgio Branković, che era stato cacciato dal suo paese dai Turchi, cui si aggiunsero poi altri rinforzi guidati dal legato papale, il cardinale Giuliano Cesarini. L’esercito crociato, cui si unirono durante la strada più di ottomila Serbi, superò il Danubio all’inizio dell’ottobre 1443, si addentrò fino in Bulgaria e di qui in Tracia, ottenendo una serie di brillanti vittorie sui nemici. Le operazioni militari vennero sospese nell’inverno mantenendo la situazione favorevole ai crociati: Murad II, impegnato a domare una rivolta in Asia Minore, si trovò in difficoltà, anche perché contemporaneamente l’Albania era insorta e le truppe del despota bizantino di Morea, Costantino Paleologo, erano passate all’offensiva nella Grecia centrale. Il sultano fece proposte di tregua e nel giugno 1444 si accordò per un armistizio di dieci anni che alla fine venne respinto dai cristiani, con l’eccezione del despota di Serbia, ritiratosi dall’impresa. Le forze crociate ripresero la marcia in direzione del mar Nero dove prevedevano di imbarcarsi sulle navi della flotta veneziana a Varna e raggiungere Costantinopoli. Le operazioni navali e terrestri, però, furono male coordinate: i Veneziani ritardarono il loro arrivo e, nello stesso tempo, non riuscirono a impedire a Murad II di traghettare al di là del Bosforo un forte contingente di truppe asiatiche. Il 10 novembre 1444 le forze turche, pari a circa il triplo di quelle nemiche, affrontarono i crociati in prossimità di Varna, sulla costa del mar Nero. I cristiani combatterono con eroica determinazione, ma alla fine furono sbaragliati, lasciando fra i morti il re Ladislao e il cardinal Cesarini; i superstiti si sbandarono e soltanto pochi riuscirono a salvarsi. Nel 1448 morì Giovanni VIII e, in assenza di eredi diretti, il suo posto fu preso dal fratello e despota di Morea, Costantino XI Paleologo, che fu incoronato a Mistrà e qualche tempo più tardi raggiunse Costantinopoli su una nave veneziana. Le operazioni militari condotte in Grecia da Costantino Paleologo erano proseguite anche dopo la sconfitta dei crociati, ma nel 1446 Murad II troncò ogni velleità di rivincita irrompendo nella regione; superò le difese dell’istmo ricostruite dal despota e si addentrò in Morea devastandola completamente, per poi ritirarsi con sessantamila prigionieri dopo aver imposto il riconoscimento della sua sovranità. La potenza ottomana era ormai incontenibile e, dopo la sconfitta di Hunyadi, era rimasto in armi nei Balcani soltanto l’albanese Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, che si era ritirato sulle montagne dell’Albania per proseguire la lotta. La sorte di ciò che restava dell’impero era ormai segnata, anche se l’epilogo si sarebbe avuto soltanto con l’avvento al potere nel 1451 del giovane ed energico sultano Maometto II, che diede un forte impulso all’espansionismo turco portando il suo stato a una potenza non ancora raggiunta dai predecessori. Maometto II il Conquistatore (come fu chiamato dai contemporanei) decise in primo luogo di farla finita con quanto restava dell’impero. Le residue sopravvivenze bizantine rappresentavano un ostacolo per i suoi piani di dominio e Costantinopoli, in particolare, era un assurdo ricordo di una potenza ormai scomparsa, pericolosamente incuneata però nell’impero ottomano. Maometto II preparò con cura l’accerchiamento della città imperiale, che con le sue forti mura rappresentava ancora un ostacolo formidabile. Prese dapprima una serie di iniziative volte a intercettare l’arrivo di qualsiasi aiuto esterno alla città, poi fece costruire nel punto più stretto del Bosforo la fortezza di Rumeli Hisari, aggiungendola a quella di Anadolu Hisari fatta edificare da Bayazid sulla sponda asiatica, e dotandola di un imponente spiegamento di artiglieria in grado di impedire a chiunque la navigazione. Quando l’accerchiamento fu completato, ebbe inizio l’assedio vero e
proprio. Maometto II schierò di fronte a Costantinopoli un’armata imponente, forte a quanto pare di circa centocinquantamila uomini, e soprattutto ricorse in modo massiccio all’artiglieria, che si sarebbe rivelata determinante per la caduta della città. Alla grande quantità di combattenti turchi e ai mezzi tecnologicamente all’avanguardia si contrapponevano un’artiglieria antiquata e un nucleo di difensori di circa settemila uomini, composto da Bizantini e Occidentali, fra cui un buon numero di Veneziani residenti in Costantinopoli e settecento mercenari genovesi guidati da Giovanni Giustiniani Longo, cui venne affidato dal sovrano il comando delle operazioni difensive. L’assedio ebbe inizio il 2 aprile del 1453 e terminò il 29 maggio allorché i Turchi riuscirono a entrare in città. Il Longo, ferito, abbandonò la posizione gettando il panico fra i difensori, che si sbandarono: quando i nemici irruppero dentro le mura Costantino XI morì combattendo nella disperata difesa della sua capitale ormai invasa dai nemici e il suo corpo neppure venne ritrovato. Alcuni superstiti riuscirono a fuggire facendo salpare fortunosamente dal porto un certo numero di navi veneziane, cretesi e genovesi, che raggiunsero il Bosforo e di qui proseguirono verso la salvezza, mentre Costantinopoli venne brutalmente messa a sacco dai vincitori per tre giorni. Una volta in più le potenze occidentali non erano accorse in difesa di Costantinopoli, malgrado gli appelli disperati di Costantino XI e i pericoli connessi alla perdita della città, che avrebbe offerto ai Turchi una posizione strategica di prim’ordine per proseguire il loro attacco al mondo cristiano. La flotta veneziana inviata in aiuto degli assediati partì con incredibile ritardo e non arrivò mai sul teatro operativo, perché fu preceduta dalla notizia della caduta di Costantinopoli in mano turca. Nell’inutile tentativo di ottenere l’aiuto dell’Occidente, l’imperatore bizantino aveva fatto proclamare di nuovo l’unione religiosa in Santa Sofia (12 dicembre 1452), suscitando l’indignata reazione dei suoi sudditi, in grande maggioranza determinati a sopportare il dominio turco piuttosto che la soggezione a Roma. I Turchi vincitori proseguirono negli anni immediatamente seguenti l’assoggettamento di ciò che restava dell’impero di Bisanzio: la Morea nel 1460 e Trebisonda l’anno successivo. Molti Bizantini fuggirono riparando soprattutto in Italia e, fra questi, un buon numero di eruditi che contribuirono alla diffusione in Occidente della cultura greca. Il ducato di Atene, residuo della conquista latina, fu ugualmente travolto nel 1456, mentre alcune delle colonie genovesi e veneziane costituite nel corpo dell’impero avrebbero resistito più o meno a lungo alla marea turca. Con la conquista di Costantinopoli, a ogni modo, finiva la storia di Bisanzio, ma la sua tradizione fu continuata attraverso la cultura greca, che nel corso del XV secolo si affermò decisamente in Occidente, e attraverso la chiesa ortodossa che ne raccolse l’eredità. L’Occidente, che per secoli aveva avuto un rapporto travagliato con Bisanzio, era rimasto politicamente a guardare senza essere in grado di elaborare un progetto comune per soccorrere l’impero, nonostante il vantaggio che ne avrebbe ricavato. In questo quadro desolante fecero eccezione i Veneziani residenti a Costantinopoli, che contribuirono valorosamente alla difesa. Il bailo Gerolamo Minotto, eroe della battaglia per Costantinopoli, pagò con la vita assieme ad altri nobili la sua dedizione. Fu catturato dai Turchi e il giorno successivo, il 30 maggio 1453, venne decapitato per ordine del sultano insieme a uno dei suoi figli e ad altri sette nobili veneziani, mentre la moglie andò incontro alla prigionia e un altro figlio riuscì probabilmente a fuggire. Venezia infine fece da ponte per molti eruditi greci fuggiti in Occidente e ospitò una folta comunità greca, alla quale nel Cinquecento sarebbe stato dato anche il riconoscimento ufficiale.
Cronologia 535
I Bizantini sbarcano in Sicilia. 552 Fine del regno ostrogoto in Italia. 552 Intervento bizantino in Spagna. 568 Invasione dei Longobardi. 584 ca. Istituzione dell’esarcato d’Italia. 751 Caduta dell’esarcato. 827 Inizio della conquista araba della Sicilia. 880 Inizio della controffensiva bizantina in Italia meridionale. 968 Ottone I invade l’Italia meridionale bizantina. 970 ca. Istituzione del catepano d’Italia. 1009 I Normanni compaiono in Italia meridionale. 1071 Aprile: Bari si arrende ai Normanni. 1082 Trattato fra Bisanzio e Venezia. 1082-1085
I Normanni invadono l’impero. 1095 Viene bandita la prima crociata. 1147-1149 Seconda crociata. 1155 I Bizantini sbarcano in Italia meridionale. 1171 12 marzo: arresto dei Veneziani nell’impero. 1182 Strage di Occidentali a Costantinopoli. 1189-1190 Terza crociata. 1195 L’imperatore Enrico VI minaccia Bisanzio. 1202-1204 Quarta crociata. 1204 Aprile: conquista latina di Costantinopoli. 1204 Formazione dell’impero latino di Oriente. 1261 I Bizantini riconquistano Costantinopoli. 1261-1282 Michele VIII Paleologo cerca di ricostruire l’impero. 1268
Inizio dei nuovi trattati fra Venezia e Bisanzio. 1274 Concilio di Lione. Unione religiosa con Roma. 1282 I Vespri siciliani mettono fine ai progetti di Carlo d’Angiò. 1294-1299 Guerra veneto-genovese combattuta in Oriente. 1306 Carlo di Valois organizza la crociata contro Bisanzio. 1352 Battaglia del Bosforo. Giovanni VI alleato di Venezia. 1366 Amedeo VI conte di Savoia riconquista Gallipoli. 1369 Giovanni V Paleologo si reca in Italia. 1396 I crociati sconfitti dai Turchi a Nicopoli. 1399-1403 Manuele II Paleologo in Occidente. 1438 Febbraio: Giovanni VIII Paleologo arriva a Venezia. 1438-1439 Concilio di Ferrara-Firenze. 1439 Viene proclamata la riunificazione religiosa. 1443-1444
Crociata di Varna e sconfitta cristiana. 1451 Maometto II sultano dei Turchi. 1453 Maometto II assedia Costantinopoli. 1453 29 maggio: caduta di Costantinopoli in mano turca. 1456 I Turchi sottomettono il ducato di Atene. 1460 Fine del despotato di Morea. 1461 Caduta di Trebisonda.
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Indice dei nomi Abd Allàh, emiro aghlabita, 80 Abu Ishàq Ibrahìm II, 75 Acacio, 63 Adelchi (Teodoto), principe longobardo, 72, 75, 76 Adelperga, 76 Adriano I, papa, 72 Adriano IV (Nicholas Breakspear), papa, 148 Agatone, duca di Perugia, 61 Agazia di Mirina, storico, 28 Agila, re dei Visigoti, 29 Agilulfo, re dei Longobardi, 43, 54-56, 58, 109 Agnello Partecipazio, duca, 113 Alboino, re dei Longobardi, 33, 35-41 Alessio I Comneno, imperatore bizantino, 117-119, 130-136, 138-141, 143-145, 147, 160, 163 Alessio II Comneno, imperatore bizantino, 149, 150 Alessio III Angelo, imperatore bizantino, 151, 162, 163, 168, 169, 177 Alessio IV Angelo, imperatore bizantino, 168-172 Alessio V Ducas detto Murzuflo, imperatore bizantino, 170, 171, 178 Alessio Comneno, imperatore di Trebisonda, 177 Amalasunta, regina degli Ostrogoti, 21 Amedeo VI, conte di Savoia, 196, 210 Anastasia, imperatrice bizantina, 103 Anastasio I, imperatore bizantino, 17, 18 Anastasio, esarca, 45
Anastasio, patrizio, 93 Andronico I Comneno, imperatore bizantino, 149, 150, 159-161, 173, 177 Andronico II Paleologo, imperatore bizantino, 188-191 Andronico III Paleologo, imperatore bizantino, 191, 192 Andronico IV Paleologo, imperatore bizantino, 197 Anna di Savoia, imperatrice bizantina, 192, 193 Anna Comnena, 118, 136, 137 Antemio Procopio, imperatore romano d’Occidente, 13, 15 Antonino, patriarca di Grado, 61 Antonino, tribuno, 93 Apocauco, Alessio, 192 Aratore, tribuno, 110 Arduino, 88 Arechi II, duca longobardo e principe di Salerno, 75, 76 Argiro, 89-91 Arichis, duca longobardo, 54 Ariulfo, duca longobardo, 54 Arsafio, spatario, 113 Asbado, magister militum, 38 Astolfo, re dei Longobardi, 62, 69, 72 Atalarico, re degli Ostrogoti, 21 Atanagildo, re dei Visigoti, 29, 30 Atenolfo I, principe di Capua e Benevento, 81 Attila, re degli Unni, 15, 106 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore romano, 107 Aurio, tribuno, 110 Autari, re dei Longobardi, 52-54 Avito Flavio Eparchio, imperatore romano d’Occidente, 12 Baduario, generale bizantino, 40-42, 49 Baldovino I di Fiandra, imperatore di Costantinolpoli, 173, 174, 177, 178 Baldovino II, imperatore di Costantinolpoli, 179-181 Baldovino I, re di Gerusalemme, 141 Baldovino II, re di Gerusalemme, 142 Barbara, santa, 102 Barda, 121 Basilio I il Macedone, imperatore bizantino, 75, 78, 79, 82, 115, 122, 124, 129 Basilio II detto Bulgaroctono, imperatore bizantino, 87, 115, 118 Basilio Boioannes, catepano, 86, 87 Basilio Mesardonites, catepano, 99 Basilio Orseolo (nipote del doge), 115 Bayazid, sultano ottomano, 198, 199, 203 Belisario, 20-26, 29, 44, 63, 87 Benedetto I (Benedetto Bonosio), papa, 41
Benedetto VIII (Teofilatto dei conti di Tuscolo), papa, 87 Benedetto XIII (Pedro Martínez de Luna), antipapa, 198 Benedetto da Norcia, 43 Berengario II d’Ivrea, re d’Italia, 123-127 Bessa, magister militum, 25 Bessarione, metropolita di Nicea, 200 Boemondo di Taranto vedi Boemondo I d’Altavilla Boemondo I d’Altavilla, principe di Antiochia, 132-134, 139, 140 Boezio, Manlio Anicio Torquato Severino, 18 Boioannes, Exaugusto, 89 Bonifacio IX (Pietro Tomacelli), papa, 198 Bonifacio I, marchese di Monferrato, 165, 167-169, 173, 174, 178 Butilin, 27 Callinico, esarca, 55, 56 Carlo Magno, re dei franchi e imperatore del Sacro romano impero, 72, 75, 76, 113, 129 Carlo VI, re di Francia, 199 Carlo II d’Angiò, re di Sicilia, 185-189, 210 Carlo di Valois, 190, 210 Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio, 106 Cerbano, 143 Cesare, Gaio Giulio, 31 Cesarini, Giuliano, 202 Childeberto II, re dei Franchi, 52, 53 Clefi, re dei Longobardi, 40, 41, 52 Clemente V (Bertrand de Got), papa, 190 Contarini, Domenico, doge di Venezia, 116 Corrado III, imperatore, 145, 146, 148 Costante II, imperatore bizantino, 57, 66, 97, 103 Costantino I, detto il Grande, imperatore, 7 Costantino IV, imperatore bizantino, 103, 104 Costantino V, imperatore bizantino, 69, 104, 112 Costantino VI, imperatore bizantino, 75 Costantino VII Porfirogenito, imperatore bizantino, 105, 110, 123-127 Costantino VIII, imperatore bizantino, 87, 115 Costantino IX Monomaco, imperatore bizantino, 89, 122 Costantino X Ducas, imperatore bizantino, 116 Costantino XI Paleologo, imperatore bizantino. 202, 204 Costantino, ypatos e dux di Sardegna, 104 Costantino, pittore, 100 Dandolo, Andrea, doge di Venezia, 105, 109 Dandolo, Enrico, doge di Venezia, 158, 162, 163, 165-167, 173, 175, 177 Dandolo, Marino, 175 Davide I Comneno, imperatore di Trebisonda, 177
Decio, esarca, 45, 46, 52 Desiderio, re dei Longobardi, 72, 75 Diocleziano, Gaio Aurelio Valerio, imperatore, 107 Domenico Michiel, doge di Venezia, 142, 144 Domenico Selvo, doge di Venezia, 116, 117, 131 Donato di Eurea, 144 Elena (Flavia Giulia Elena Augusta), 102 Eleuterio, esarca, 56 Enrico conte di San Paolo (Ugo di Saint-Pol), 173 Enrico II, detto il Santo, imperatore del Sacro romano impero, 86, 87 Enrico III, detto il Nero, imperatore del Sacro romano impero, 90 Enrico IV, imperatore del Sacro romano impero, 91, 131, 132 Enrico VI, imperatore del Sacro romano impero, 151, 209 Enrico di Fiandra, imperatore di Costantinopoli, 178 Eraclio, imperatore, 56, 65, 66, 73, 92, 109, 111 Erarico, re degli Ostrogoti, 23 Eufemio, 74 Eugenio IV (Gabriele Condulmer), papa, 200, 201 Eustazio Palatinos, catepano, 99 Eustazio, metropolita di Tessalonica, 149 Eustazio, pittore, 100 Eutichio, esarca, 60-62, 68, 112 Ezio, generale, 15 Faroaldo, duca longobardo, 41 Faroaldo II, duca longobardo, 59 Federico I Barbarossa, imperatore, 148, 150-152, 159 Filippo di Courtenay, imperatore titolare di Costantinopoli, 180, 186-188 Filippo I, re di Francia, 139 Filippo IV, detto il Bello, re di Francia, 190 Filippo di Svevia, re di Germania, 168 Filippo Greco, 158 Filippo Augusto, re di Francia, 150 Filocalo Navigaioso, 175 Filoteo, 127 Flavio Pietro Sabbazio vedi Giustiniano I Flavio Recimero, 12, 13, 15 Foscari, famiglia, 187 Fozio, patriarca di Costantinopoli, 121, 122 Francesco Foscari, doge di Venezia, 201 Francio, magister militum, 39 Gattilusio, Francesco, 194 Gaudiosus, militare bizantino, 103 Gelimero, re dei Vandali, 20, 92
Geminiano, 110 Gemisto Pletone, Giorgio, 199, 201 Genserico, re dei Vandali, 12 Germano, 26 Ghisi, Andrea, 175 Ghisi, Filippo, 187 Ghisi, Geremia, 175 Giorgio I Branković, despota di Serbia, 202 Giorgio, duca di Roma, 97 Giorgio, cubicolario imperiale, 103 Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, 203 Giorgio Maniace, generale bizantino, 87-89 Giorgio Scolario, 200 Giovanni I, papa, 18 Giovanni X, papa, 81 Giovanni XIII (Giovanni Crescenzi), papa, 129 Giovanni Primicerio, imperatore d’Occidente, 15 Giovanni I Zimisce, imperatore bizantino, 84 Giovanni II Comneno, imperatore bizantino, 141-144, 154, 155 Giovanni III Vatatze, imperatore bizantino, 179 Giovanni IV Lascaris, imperatore bizantino, 180 Giovanni V Paleologo, imperatore bizantino, 192-197, 199, 210 Giovanni VI Cantacuzeno, imperatore bizantino, 191-194, 210 Giovanni VIII Paleologo, imperatore bizantino, 200-202 Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme e imperatore di Costantinopoli, 179 Giovanni Partecipazio, doge di Venezia, 115 Giovanni Caleca, patriarca di Costantinopoli, 192 Giovanni Cinnamo, 141, 154, 155 Giovanni di Conza, 56 Giovanni Diacono, 105, 109, 115 Giovanni Hunyadi detto Corvino, 202, 203 Giovanni Kurkuas, catepano, 85 Giovanni Orseolo, 85, 116 Giovanni, detto il Sanguinario, comandante militare, 22 Giovanni, esarca, 56 Giovanni, logoteta dello stratiotikon, 76 Giovanni, soldato, 36 Gisulfo I, principe di Salerno, 83 Gisulfo I, duca di Benevento, 58 Giulio Nepote, imperatore romano d’Occidente, 14 Giuseppe II, patriarca di Costantinopoli, 200 Giustiniani Longo, Giovanni, 203, 204 Giustiniano I, imperatore bizantino, 18-21, 23, 25, 26, 28-32, 44, 63, 64, 66, 73
Giustiniano II Rinotmeto, imperatore bizantino, 58, 59, 67, 68, 73 Giustiniano Partecipazio, doge di Venezia, 113 Giustino I, imperatore bizantino, 18, 19, 63 Giustino II, imperatore bizantino, 31, 33, 40 Glicerio, imperatore romano d’Occidente, 14, 15 Goffredo di Villehardouin, principe di Acaia, 175 Goffredo di Villehardouin, storico, 177 Goffredo di Buglione, 139 Gradenico, famiglia, 187 Gradenigo, Marco, 181 Gregorio I Magno, papa, 41, 43, 47, 54, 58 Gregorio II, papa, 59, 60, 68, 112 Gregorio III, papa, 61 Gregorio VII (Ildebrando di Soana), papa, 119, 132 Gregorio X, (Tedaldo Visconti), papa, 186 Gregorio, diacono, 45 Gregorio (nipote dell’esarca Isacio), 95 Grimoaldo, re dei Longobardi, 57 Grimoaldo III re dei Longobardi, 76 Gualtieri di Brienne, duca di Atene, 191 Gualtieri Sans-Avoir, 137, 138 Guglielmo I, re di Sicilia, 148, 153 Guglielmo di Villehardouin, principe di Acaia, 180, 184, 187 Guglielmo di Champlitte, 175 Gundobad, re dei Burgundi, 13, 15 Gunther di Pairis, 166 Iba di Edessa, 63 Ignazio I, patriarca di Costantinopoli, 121, 122 Ildeprando, re dei Longobardi, 61 Ildibado, re dei Goti, 23 Illo, 17 Innocenzo III (Lotario), papa, 165, 167, 168 Innocenzo VI (Étienne Aubert), papa, 194 Irene, imperatrice bizantina, 75, 76 Irene Ducas, imperatrice bizantina, 114 Isacco II Angelo, imperatore bizantino, 150, 151, 160-162, 168-170, 177 Isacio, esarca, 57, 65, 66, 95, 111 Isidoro di Chio, 143, 144 Isidoro, metropolita di Kiev, 200 Ivan II Asen, zar di Bulgaria, 179 Jean le Mengre detto Boucicaut, 199 Kalojan, zar di Bulgaria, 177 Khalfun, 77
Ladislao III, re di Polonia e di Ungheria, 202 Landolfo I, principe di Capua e Benevento, 81 Laurentius, 36 Lecapeni, famiglia, 125 Leone I Magno, papa, 15 Leone IX (Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg), papa, 90, 122 Leone III l’Isaurico, imperatore bizantino, 59, 68, 112 Leone VI il Filosofo, imperatore bizantino, 81 Leone Vetrano, 176 Leutharis, 27 Liberio, 29 Liutifredo, 125 Liutprando, re dei Longobardi, 59-62 Liutprando, vescovo di Cremona, 83, 123-125, 127-129 Longino, prefetto del pretorio, 33, 35, 41 Lotario I, imperatore del Sacro romano impero, 77, 78 Lotario II, re d’Italia, 124, 125 Ludovico I il Pio, imperatore del Sacro romano impero, 77, 129 Ludovico II, imperatore del Sacro romano impero, 78, 129 Ludovico conte di Plea (Ludovico conte di Blois e di Chartres), 173 Luigi VII, re di Francia, 145-147 Luigi IX il Santo, re di Francia, 180, 186 Luigi I d’Angiò, re di Sicilia, 196 Maggioriano, imperatore romano d’Occidente, 12, 13, 15 Manfredi, re di Sicilia, 180, 181 Manuele I Comneno, imperatore bizantino, 91, 130, 145-149, 152-160, 173, 175 Manuele II Paleologo, imperatore bizantino, 197, 199, 200, 210 Manuele Angelo Comneno, imperatore di Tessalonica e despota di Epiro, 179 Maometto I, sultano ottomano, 199 Maometto II, sultano ottomano, 9, 203, 210 Marcellino, 16 Marcello, duca di Venezia, 112 Marco, evangelista, 113 Maria di Antiochia, imperatrice bizantina, 149, 150 Maria Comnena, 153 Maria, dogaressa veneziana, 115 Martino I, papa, 66, 67 Martino IV (Simon de Brion), papa, 186, 188 Matasunta, regina degli Ostrogoti, 23 Maurizio, imperatore bizantino, 43, 44, 46, 49, 51 Maurizio Galbaio, doge di Venezia, 115 Maurizio, chartularius, 66 Maurizio, magister militum, 111
Mauro, vescovo, 109, 111 Melo di Bari, duca di Puglia, 85, 86, 89 Michele I Rangabe, imperatore bizantino, 76, 129 Michele III, detto l’Ubriaco, imperatore bizantino, 79, 121, 122 Michele IV il Paflagone, imperatore bizantino, 87 Michele VIII Paleologo, imperatore bizantino, 180, 181, 184-190, 192, 200, 209 Michele IX Paleologo, imperatore bizantino, 190 Michele I Angelo Duca, despota d’Epiro, 177 Michele II, despota d’Epiro, 180 Michele Autoriano, patriarca di Costantinopoli, 177 Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, 122 Michele Dokeianos, catepano, 88, 89 Minotto, Gerolamo, 205 Morosini, Tommaso, 174 Murad I, sultano ottomano, 195, 197 Murad II, sultano ottomano, 200, 202 Napoleone I Bonaparte, imperatore dei francesi, 31 Narsete, 26-28, 33-39, 42, 45, 64, 108 Nasar, ammiraglio bizantino, 75 Navigaioso, famiglia, 187 Niccolò II (Gérard de Bourgogne), papa, 91, 121 Niceforo I il logoteta, imperatore bizantino, 76, 113 Niceforo II Foca, imperatore bizantino, 80, 83, 84, 123, 128, 129 Niceta Coniate, 154, 155, 159, 172, 173 Nicola, santo, 102 Nicola Picingli, stratego, 81 Obelerio, doge di Venezia, 112, 113 Oddone di Deuil, 147 Odoacre, re di Eruli, Rugi e Turcilingi, 14, 16, 17 Olibrio, Anicio, imperatore romano d’Occidente, 13 Olimpio, esarca, 66, 67 Onorata, 39 Onorato, diacono, 46 Onorio I, papa, 65 Onorio II (Pietro Cadalo), antipapa, 91 Onorio, Flavio, imperatore romano d’Occidente, 15 Ordelaffo Falier, doge di Venezia, 117 Oreste, Flavio, magister militum, 14, 15 Oreste, ciambellano, 87 Orio Mastropietro, doge di Venezia, 153, 160 Orso Ipato, doge di Venezia, 61, 112, 116 Orso I Partecipazio, doge di Venezia, 115 Ottone I di Sassonia, detto il Grande, imperatore del Sacro romano impero, 82-84, 123, 125, 128, 129, 209
Ottone II, imperatore del Sacro romano impero, 84, 85, 123 Ottone de la Roche, 174 Paleologi, famiglia, 182, 183, 194, 197 Pandolfo I, detto Capodiferro, principe longobardo di Capua e Benevento, 83, 84 Panfronio, 42 Pantaleone Giustiniani, patriarca di Costantinopoli, 182 Pantaleone, 103 Paolino, patriarca di Aquileia, 108 Paolo di Tarso, 61 Paolo Diacono (P. Varnefrido), 34, 36, 37, 40, 107 Paolo, esarca, 60 Paolo, militare dell’Impero romano d’Occidente, 14 Paulicio, duca di Venezia, 112 Pelagio I (Pelagio Vicariani), papa, 64 Pelagio II, papa, 42, 43, 45, 51, 54, 64 Peredeo, duca di Vicenza, 61 Pertarito, re dei Longobardi, 58 Petronio Massimo, imperatore romano, 11, 13 Pier Damiani, 116 Pietro, apostolo, 61, 72 Pietro II di Courtenay, imperatore latino di Costantinopoli, 178 Pietro IV, re d’Aragona, 194 Pietro di Lusignano, re di Cipro, 196 Pietro I Candiano, doge di Venezia, 115 Pietro II Orseolo, doge di Venezia, 85, 115, 116 Pietro Tradonico, doge di Venezia, 77 Pietro l’Eremita, 137, 138 Pipino III, detto il Breve, re dei Franchi, 69, 71, 72, 113 Pipino, re d’Italia, 113 Procopio di Cesarea, 28 Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, 139-141 Ratchis, re dei Longobardi, 62 Remisto, 12 Riccardo I, re d’Inghilterra, detto Cuor di Leone, 150 Roberto di Courtenay, imperatore latino di Costantinopoli, 179 Roberto I, detto il Guiscardo, duca di Puglia, 90, 91, 130, 133, 134, 139 Roberto II, duca di Normandia, 139 Romano I Lecapeno, imperatore bizantino, 124 Romano Mairano, 157 Romano, esarca, 53, 55, 65, 109 Romolo Augustolo, imperatore romano d’Occidente, 14-16 Romualdo, duca longobardo, 57, 58 Rotari, re dei Longobardi, 57, 58, 109
Rotrude (figlia di Carlo Magno), 75 Ruggero II, re di Sicilia, 146 Ruggero Borsa, duca di Puglia e Calabria, 134 Ruggero di Flor, 190 Saladino (Yūsuf ibn Ayyūb), sultano ayyūbita d’Egitto, 150 Salemone, 125 Sanudo di Nasso, Marco, 175 Scolasticio, esarca, 59 Sebastiano Ziani, doge di Venezia, 153, 159 Sergio I, papa, 67 Sergio, patriarca di Costantinopoli, 65 Severina, 36 Severino, papa, 66, 109 Severo, patriarca di Aquileia, 65 Severo, Libio, imperatore romano d’Occidente, 13 Sigismondo, imperatore del Sacro romano impero, 198 Silverio, papa, 63 Simmaco, Quinto Aurelio, 18 Sindual, magister militum, 38 Siropulo, Silvestro, 201 Sisinnio, magister militum, 39 Smaragdo, esarca, 52, 56, 64, 65, 97 Stefano II, papa, 69, 71 Stefano Uroš IV Dušan Nemanjić, zar di Serbia, 195 Stefano III, re d’Ungheria, 152 Stefano II, conte di Blois, 139 Stefano Paterano, 91 Stefano, esarca, 45 Stefano, apostolo, 102, 142 Stefano, senator, 37 Stefano, soldato, 37 Strategopulo, Alessio, generale bizantino, 181, 182 Susanna (moglie dell’esarca Isacio), 95 Tacito, Publio Cornelio, 33 Tancredi d’Altavilla, principe normanno, 90, 140 Teia, re degli Ostrogoti, 27 Teodato, re degli Ostrogoti, 21, 22 Teodeberto, re dei Franchi, 23 Teodolinda, regina dei Longobardi, 54, 55 Teodora, imperatrice bizantina, 19 Teodora II, imperatrice bizantina, 121 Teodora Ducas, 116 Teodoreto di Ciro, 63
Teodorico, re degli Ostrogoti, 17, 18, 21, 29, 42 Teodorico II, re dei Visigoti, 12 Teodoro I, papa, 66 Teodoro I Láscaris, imperatore bizantino, 176, 177 Teodoro I Angelo Duca Comneno, despota di Epiro e imperatore di Tessalonica, 178, 179 Teodoro I Paleologo, despota di Morea, 199 Teodoro Calliopa, esarca, 67 Teodoro di Amasea, 114 Teodoro di Mopsuestia, 63 Teofano, imperatrice del Sacro romano impero, 84 Teofilatto, pittore, 100 Teofilo, imperatore bizantino, 77, 78 Tibaldo di Champagne, 165 Tiberio I Costantino, imperatore bizantino, 41, 43 Tiberio Petasio, 61 Timurlenk (Tamerlano), 199 Totila (Baduila), re degli Ostrogoti, 23-28 Tzittane, comes et tribunus, 39 Ugo di Provenza, re d’Italia, 124 Ugo di Vermandois, 139 Umberto di Silvacandida, 122 Urbano II, (Ottone di Lager), papa, 135, 136, 141 Urbano V (Guillaume de Grimoard), papa, 196 Valentiniano III, imperatore romano d’Occidente, 11, 15 Vallia, re dei Visigoti, 12 Velleio Patercolo, 33 Vigilio, papa, 63, 64 Vitale Falier, doge di Venezia, 117, 134 Vitale Michiel, doge di Venezia, 153, 157 Vitige, re degli Ostrogoti, 22, 23, 29 Yriakon, capetano, 99 Zaccaria, famiglia, 191 Zaccaria, papa, 61, 62 Zaccaria, protospatario, 67, 68 Zenone, imperatore bizantino, 14, 16, 17, 63 Zimarco, primicerius, 36 Ziyadat Allàh, emiro aghlabita, 74 Zotto, duca di Benevento, 41