Bertolt Brecht. Tre dispositivi 8893140772, 9788893140775

Brecht assegna al teatro epico un compito rigorosamente filosofico. Il metodo dello straniamento è infatti un dispositiv

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Italian Pages 140 [76] Year 2017

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Indice
Uno Il dispositivo teatrale
Perché Brecht?
La postura del filosofo (Brecht e Platone)
La comunicazione assoluta (Brecht, la pragmatica e il materialismo storico)
La struttura dell’enunciato (Brecht e la filosofia del linguaggio)
Verfremdungseffekt (Brecht, Wittgenstein, Bachtin)
Contraddizione performativa
Non così, ma così. Tecnica della recitazione e filosofia
Due Il dispositivo prospettico
Tre Il dispositivo fotografico
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Bertolt Brecht. Tre dispositivi
 8893140772, 9788893140775

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SILLABARIO

c o l l a n a di r e t t a da F e de r i c o L e o n i Volume III

SILLABARIO

Ogni libro della collana presenta un grande autore, un classico. Della filosofia, della letteratura, della storia dell’arte. Ma lo presenta in modo tutt’altro che classico. Ne parla per tentare un esperimento con la verità, come diceva Nietzsche. Un filosofo parla di uno scrittore, un narratore di uno storico dell’arte, uno psicoanalista di uno scultore. Ciascuno racconta una sua passione segreta. Una sua ossessione. Non è tempo di storicizzare, di collocare autori e testi nel cielo bianco dell’eternità. È tempo di dichiarare amore e guerra. Non per un autore o un’opera, ma per il suo presente. E cioè per il nostro.

Rocco Ronchi Bertolt Brecht Tre dispositivi

Tutti i diritti riservati Prima edizione: maggio 2017 Copyright © 2017 Orthotes, Napoli-Salerno ISBN 978-88-9314-099-7 (e-book)

Orthotes Editrice www.orthotes.com

INDICE BERTOLT BRECHT Uno Il dispositivo teatrale Perché Brecht? La postura del filosofo (Brecht e Platone), La comunicazione assoluta (Brecht, la pragmatica e il materialismo storico), La struttura dell’enunciato (Brecht e la filosofia del linguaggio), Verfremdungseffekt (Brecht, Wittgenstein, Bachtin), Contraddizione performativa, Non così, ma così. Tecnica della recitazione e filosofia, Due Il dispositivo prospettico Tre Il dispositivo fotografico

Uno IL DISPOSITIVO TEATRALE

Perché Brecht?

P

erché Brecht? Perché tramite il suo “metodo” ad essere in questione è la filosofia. Non sono dunque ragioni d’ordine estetico quelle che mi portano a frequentare il testo brechtiano, tantomeno teatrologiche, per le quali non ho le competenze necessarie. Sono ragioni filosofiche. Brecht, per me, è il nome di un problema che concerne il presente e il futuro prossimo di quella pratica discorsiva nella quale sono preso e che, quali che siano i suoi mediocri esiti mondani, costituisce il senso della mia esistenza. La parola “senso” va però immediatamente deauraticizzata, proprio come voleva il materialista Brecht, questo ostinato nemico dell’enfasi, nella quale sentiva sempre puzza di fascismo. Senso vuole dire soltanto direzione, una direzione che, ad un certo punto, diventa irreversibile e si confonde con l’inerzia naturale di una vita. Almeno una volta, scrivevano Deleuze e Guattari nel 1991, la domanda che cosa è la filosofia, che cosa deve fare oggi la filosofia, deve pur essere posta in tutta la sua crudezza. “Forse, continuano, è una domanda che ci si può porre soltanto tardi, quando viene la vecchiaia, e l’ora di parlare concretamente (…) La domanda è posta con un’agitazione discreta, a mezzanotte, quando non c’è più altro da chiedere”1. Curioso che tale domanda sia avvertita come eccezionale, curioso che il fatto stesso di porla susciti quasi un imbarazzo nel

locutore, come se egli rendesse pubblico quanto dovrebbe rimanere pudicamente occultato nel cono d’ombra della vita privata. Tale imbarazzo (“un’agitazione discreta”) la dice lunga sullo stato della filosofia nel secolo da poco concluso. Di tale condizione si fa esperienza, ancora oggi, proprio nei luoghi riservati alla filosofia (atenei, colloqui scientifici, festival…) dove il fatto stesso di fare filosofia è visto con sospetto, se non addirittura osteggiato. A imbarazzare, sia chiaro, non è la filosofia come disciplina, la quale, anzi, è più che mai vezzeggiata, incentivata e fatta circolare come merce preziosa dall’industria culturale. È invece il gesto filosofico ad apparire indiscreto. Intollerabili non sono i contenuti filosofici ma la pretesa performativa del dire filosofico. Insomma, i filosofi vanno benissimo purché esprimano delle tesi, delle opinioni e si facciano paladini di visioni del mondo, ma guai se pretendono ancora di parlare da filosofi. Per me riflettere su Brecht, o meglio, a partire da Brecht, significa interrogarmi, a mezzanotte, quando non c’è più altro da chiedere, sulla postura del filosofo, sul come fare quello che si sta facendo in quanto filosofo, sul come farlo ancora, su come continuare a farlo oggi, nonostante tutto. Qual è, insomma, il gesto filosofico? Brecht presentando il suo metodo parlava di “nuova tecnica dell’arte drammatica”. “Drammatico”, in questo testo del 1940, non indicava quella forma “drammatica” del teatro alla quale Brecht, come è noto, contrapponeva il proprio teatro “epico”. Con tale espressione Brecht intendeva “il metodo che venne usato in alcuni teatri per «straniare» lo spettatore rispetto ai fatti rappresentati”2. Ebbene, tramite Brecht, il filosofo può fare chiarezza sul come della sua pratica, sulla tecnica dell’arte filosofica. Scoprirà allora che essa non è affatto “nuova”, se non per contrasto con un presente filosoficamente arido (come si è detto, l’inflazione del significante “filosofia” nella sfera del discorso pubblico non deve trarre in inganno; è solo sintomo di un deficit reale). Egli sarà rinviato all’origine stessa della filosofia, al suo sempre perdurante cominciamento, a quel “sempre di nuovo” che costituisce il suo grido di guerra e che fa eco, sul piano della pratica discorsiva filosofica, a quel “non così – ma così” con il quale Brecht, rivolgendosi

ai propri attori, sintetizzava il procedimento denominato, come è noto, Verfremdungseffekt.

La postura del filosofo (Brecht e Platone)

M

a cosa ci autorizza a trasferire alla filosofia il procedimento brechtiano? Innanzitutto va detto che Brecht utilizzava frequentemente il significante “filosofia”. Lo faceva con piacere. La parola gli evocava infatti quei “classici” che erano per lui numi tutelari. Il suo alter-ego, il signor Keuner, è un “pensatore” ed al pensiero in quanto tale, Brecht, proprio lui che più di tutto diceva di apprezzare l’“utile”, riconosceva un valore intrinseco, se non addirittura un primato.“Chi detiene il sapere non deve combattere; né dire la verità; né rendere servigi; né non mangiare; né rifiutare onori; né essere riconoscibile. Chi detiene il sapere di tutte le virtù ne ha una sola: quella di detenere il sapere, disse il signor Keuner”3. Brecht si rallegrava del fatto che grazie al suo teatro epico il teatro fosse finalmente diventato “accessibile ai filosofi, beninteso ai filosofi che si proponessero non solo di spiegare il mondo, ma anche di cambiarlo. Perciò si parlava di filosofia; perciò s’insegnava”4. Il teatro epico, infatti, è un teatro filosofico. Non è, però, un teatro dei concetti, sebbene i concetti, ed il marxismo in particolare, vi giochino un grande ruolo. Esso è un teatro di forma filosofica. Tutte le altre caratterizzazioni del teatro epico, la sua natura didattica e scientifica, le modalità della recitazione, il tipo di pubblico che tale teatro richiede ecc., derivano da questa forma presupposta: sono, per così dire, il contenuto di quella forma. Brecht fissa il punto di partenza del suo celebre metodo nella problematizzazione dell’ovvio e nella conseguente riduzione dell’“atteggiamento naturale”, vale a dire nella sospensione preliminare di ogni ingenua credenza nella pretesa naturalezza dell’ordine dato. Di cosa sta qui parlando, Brecht, se non dell’originario thaumazein che i “classici” indicavano in modo concorde come causa della filosofia? Non intende Brecht quanto la fenomenologia a lui contemporanea e da lui per nulla frequentata chiamava epoché? Fin troppo evidente è

dunque l’appartenenza del Verfremdungseffekt ad una famiglia filosofica antica e illustre per dover essere ulteriormente sottolineata. La critica brechtiana del teatro “gastronomico”, del suo naturalismo illusionistico (la “quarta parete”), dei processi di immedesimazione di cui si avvale e degli effetti di ebrietà indotti nel pubblico, non è poi, forse, la ripresa della critica della mimesis contenuta nel X libro della Repubblica di Platone? Una ripresa talvolta così puntuale da lasciare sconcertato un lettore non sprovveduto in storia della filosofia, soprattutto perché sappiamo che quando scriveva i suoi saggi teorici Brecht non pensava affatto alla gigantomachia che, all’inizio della filosofia occidentale, nelle pagine della Repubblica, ma non solo, aveva contrapposto ai “poeti maestri di verità” la nuova figura del filosofo. Quale sia per Platone il limite strutturale della presunta sapienza poetica appare chiaramente in un dialogo “minore”, lo Ione. A Ione, un rapsodo itinerante specialista nella recitazione di Omero, Socrate spiega come la poesia sia il frutto di un invasamento divino che mimeticamente si comunica dalla dea al poeta, al rapsodo e infine al pubblico ipnotizzato (è la cosiddetta tesi della “pietra di Eraclea”, la calamita). La poesia è un contagio estatico e irrazionale che esclude a priori la possibilità del giudizio critico. Si deve tener presente, a questo proposito, che il senso arcaico della mimesis è appunto l’identificazione con il Dio, è l’“entusiasmo” del “fanatico” al quale, de sempre, il filosofo ha sentito il dovere morale di opporsi. Il “fare” del poietes, come il recitare dell’hypocrites, è un fare delirante, tant’è che Platone ne conclude che “chi possegga intelletto è incapace di poetare o vaticinare”5. Quando Brecht rivolge i suoi strali polemici alla Poetica di Aristotele, di fatto le contesta la sua infedeltà al dettato platonico. Aristotele, come è noto, separava l’effetto di purificazione indotto dall’opera (katharsis) da ogni residua contaminazione con la mathesis, con il sapere. Per lui, a teatro, non è la conoscenza che libera l’uomo, non è essa che lo “purga”. La catarsi degli eccessi passionali, la restaurazione della symmetria si opera piuttosto grazie alla mimesis di quegli stessi stati passionali (grazie alla sympatheia, grazie alla Einfühlung). Per Aristotele, l’arte è autonoma dalla filosofia e l’estetica

è autonoma dalla politica (da questo punto di vista la Poetica dell’antiplatonico Aristotele è veramente la prima “moderna” teoria dell’arte). Ben diverso l’atteggiamento dell’arcaico Platone, per il quale, invece, la via della salvezza passava attraverso la mathesis ed era sempre una faccenda “politica”. Ora, l’antiaristoteli- smo dichiarato di Brecht consisteva nel restituire al teatro la sua dimensione scientifica e, direi, la sua natura matematica (da mathema: scienza, studio, cognizione). Azzardiamo un anacronismo: la contrapposizione secca di forma drammatica e di forma epica del teatro 6 riapre nell’agitata Germania della fine degli anni Venti la querelle che, nell’Atene del IV secolo – un’Atene molto simile alla Germania weimariana, per instabilità politica e crisi delle istituzioni democratiche –, aveva posto in rotta di collisione due ipotesi pedagogiche tra loro inconciliabili: quella “poetica” fondata sul principio della mimesis e della Einfühlung e quella filosofica fondata sul principio della critica e del “distanziamento”, altra possibile traduzione di Verfremdungseffekt. Nella Grecia di Socrate e Platone la presa di distanza, che è alla base dello stupore filosofico, era stata resa materialmente possibile, come ormai è generalmente accettato, dalla diffusione della tecnologia alfabetica. Essa permetteva infatti un processo di oggettivazione della memoria condivisa (vale a dire dei nomoi kai ethea, delle leggi e costumi tramandati oralmente, secondo il summenzionato principio della “pietra di Eraclea”) senza la quale non vi sarebbe giudizio critico. Di questa potenza straniante della scrittura Brecht si rende perfettamente conto. Un tratto essenziale del teatro epico consiste infatti nella letterarizzazione in senso lato della scena (cartellonistica, titolatura, songs che interrompono la continuità della diegesi, intervento di altri media a scopo di documentazione ecc.) atta a sospendere i processi di identificazione e a favorire la riflessione da parte del pubblico. Quegli spettatori che dimentichi di sé e del mondo, dismettendo ogni capacità riflessiva, inebetiti e golosi di forti emozioni si precipitano nei botteghini dei teatri borghesi ansiosi di lasciarsi narcotizzare dal virtuosismo illusionistico degli attori, non sono allora la replica, anch’essa puntuale quasi fino al plagio (indubbiamente

involontario, ma proprio per questo straordinariamente significativo), di quegli “amanti di spettacoli” e di quegli “amanti di audizioni” che “con le orecchie quasi prese a soldo, van correndo in giro ad ascoltare tutti i cori delle Dionisie, senza mai mancare né a quelle urbane né a quelle rurali”7? Non sono, quegli spettatori, i “filodossi” stigmatizzati da Socrate in conclusione del V libro della Repubblica? Vale la pena, a questo proposito, citare il folgorante passo brechtiano: “Precipitatasi fuori da tranvie e ferrovie sotterranee, avida di trasformarsi in cera tra le mani dei maghi, gente adulta, temprata e resa inesorabile dalla lotta quotidiana per l’esistenza, prende d’assalto i botteghini dei teatri. Nel guardaroba, assieme al cappello, abbandonano il loro contegno abituale, il loro modo di comportarsi «nella vita»; e usciti dal guardaroba prendono il loro posto in atto di regnanti”8. Si tenga presente che il lemma “filosofia” venne coniato dal Socrate platonico, per la prima volta nella storia del pensiero, proprio in opposizione alla filodossia di quel pubblico invasato e privo di capacità critica. “Fai dunque in questo senso una divisione, dice infatti Socrate a Glaucone, ponendo da un lato gli amanti degli spettacoli e delle arti e i pratici di cui ora parlavi, e dall’altro quelli su cui verte il discorso, che soli giustamente potrebbero essere chiamati filosofi”9. Da un lato i poeti, dall’altra i filosofi, mythos e logos. La filosofia si genera agonisticamente, confrontandosi con il suo avversario eterno: il poeta. E se i poeti dovranno alla fine esser cacciati dalla Città è perché essi compiacciono la parte di minor valore dell’anima umana, quella “patetica”, a scapito di quella migliore, la “logistica”, la sola che andrebbe veramente onorata e coltivata se si vuole tenere in buona salute la Città10. La conclusione dell’arringa socratica contro i poeti imitatori lascia ancora una volta di stucco il lettore del Brecht teorico. In quel luogo così arcaico, viene infatti praticamente esposto il programma del teatro epico: da un lato, osserva Socrate, c’è l’elemento patetico, “l’elemento che si agita”, il quale per sua natura comporta una ricca mimesis, si presta cioè meravigliosamente al teatro illusionistico e induce effetti ipnotici sul pubblico, dall’altro c’è “l’abito saggio e tranquillo”, vale a dire l’elemento logistico, l’atteggiamento del filosofo-scienziato. Esso,

continua Socrate-Platone, “non è facile da imitare davanti al pubblico di un teatro. Il poeta imitatore è chiaro che non è fatto per tal partedell’anima, e la sua bravura non è fatta per piacere a questa, se vorrà acquistare fama tra la folla, ma piuttosto per l’abito vario e agitato, per l’essere esso facilmente imitabile”11. Per l’elemento logistico, quello che giudica e che prende partito nei confronti dello stato di cose presente, occorrerà pertanto una nuova tecnica drammatica. Platone chiama questo nuovo atteggiamento e questo nuovo teatro “filosofia”, Brecht “teatro epico”. In entrambi i casi si pensa il medesimo: si pensa ad una nuova postura per chi il mondo lo abita in modo critico al fine di trasformarlo razionalmente. Dalla forma filosofica del teatro epico discende anche la sua capacità di divertire e di ricreare. La pedagogia è infatti noiosa. A Brecht invece sta a cuore che ci si diverta. Ed è la forma filosofica ad assicurare il godimento. La pedagogia infatti si dice in due modi. Da un lato essa è trasmissione di un sapere presupposto. Come tale, quale che sia il sapere in questione, essa tratta da analfabeti i propri discenti, i quali non potranno certo divertirsi. Dall’altro, però, c’è anche una pedagogia di forma filosofica. Essa non presuppone una verità già data a priori, ma la fa accadere in corso d’opera. La didattica da trasmissione si fa allora sperimentazione. Il teatro diventa il luogo in cui, attraverso lo straniamento sistematico, si produce incessantemente del nuovo sapere: sulla scena non vengono dimostrati dei teoremi (teatro ideologico) ma posti problemi e azzardate ipotesi per la loro soluzione. Il metodo dello straniamento è perciò l’opposto del metodo della trascendenza. E qui Brecht cessa di essere un filosofo platonico. Non c’è infatti nessuna verità eterna, fuori dal tempo, alla quale ci si debba soltanto adeguare. C’è solo una verità immanente – Brecht la chiama “storica” – che non cessa di farsi e di disfarsi; c’è solo del divenire e fare filosofia (a teatro o altrove) significa assumere il cambiamento come assoluto. La gioia ne consegue, perché c’è sempre gioia dove c’è sperimentazione. Parlando di tecnica drammatica, Brecht partecipa perciò indirettamente al secolare dibattito concernente la natura della filosofia. Da sempre i filosofi si sono interrogati sulla postura adeguata.

Si potrebbe anzi dire che il filosofo si definisce a partire dalla posizione che decide di tenere nei confronti del mondo. Più rilevante ancora della domanda che chiede che cosa è filosofia è allora la domanda che chiede chi è il filosofo, vale a dire da quale atteggiamento lo si riconosca. Gli oggetti della filosofia, le idee, ad esempio, sono gli effetti di questa preliminare presa di posizione nei confronti dell’ente nella sua totalità. Platone raccomandava al filosofo l’esercizio di morte. Per giudicare correttamente il mondo, diceva, il filosofo deve porsi ad una distanza siderale da esso, non aderire più alla vita che vive, in un certo senso morire alla vita. Allora, spenti gli occhi ingannevoli della carne, lo “vedrà” con il logos nel suo essere oggettivo (è la celebre “seconda navigazione”). La contemplazione dell’ultrasensibile (le idee) che fa da fondamento al sensibile è così guadagnata al prezzo di una sospensione radicale dell’azione. Inutile ricordare come Platone abbia segnato l’intera tradizione filosofica. Nella storia della metafisica occidentale la postura di colui che sa resta comunque la postura del morto. Anche i sovvertitori del platonismo, come Heidegger, dovranno riconoscere che se l’uomo è in grado di trascendere l’ente in totalità e, quindi, di rapportarsi ad esso, comprendendolo nel suo senso, se è insomma intrinsecamente meta-fisico, ciò lo deve alla sua finitezza essenziale, al suo essere-per-la-morte. La posizione di Brecht è invece semiplatonica. Da un lato, contro Platone e contro tutto l’idealismo, assegna al filosofo la postura del vivente e non quella del morto: il filosofo è vita che vive, egli è una forza in campo, con interessi determinati. La sua presa di posizione rispetto al mondo ha il senso materialissimo di una “presa di partito”. Dall’altro, platonicamente, riconosce che non ci può essere filosofia se non mantenendosi da vivi ad una certa distanza dalla vita che si vive. Solo così la sua azione potrà essere efficace, solo così potrà vedere e far vedere il mondo e potrà trasformarlo sulla base del proprio interesse materiale. Il metodo dello straniamento è l’articolazione di questa distanza, una distanza indispensabile al filosofo per essere tale. Ne consegue che il filosofo non è né dentro né fuori dal mondo. Piuttosto se ne sta in bilico sulla soglia che divide il dentro dal fuori. Il filosofo non è uno sciamano, non è un incantatore di serpenti, non è un poeta maestro di verità, non è un “sapiente” custode di chissà quale

verità trascendente. Non se ne sta separato. Il filosofo non è “santo” (essere “santi” significa ontologicamente “non essere del mondo”). Il suo luogo è la piazza e la strada, fianco a fianco con i mercanti e con il popolino, con i padroni e con gli schiavi, con i benpensanti e con le puttane. La filosofia è la verità scesa in piazza, esposta alla prova della confutazione, una verità completamente deauraticizzata, che per difendersi deve contare solo sulle proprie forze, sul proprio logos, sulla propria parola. Questa non si distingue materialmente dal brusio indistinto dei vicoli. Non gode di nessun privilegio. Tuttavia il filosofo non se ne sta nemmeno semplicemente dentro il mondo. Con il suo metodo Brecht ci rammenta allora quale sia la differenza specifica del filosofo. In questo mondo prosaico egli deve assumere un particolare atteggiamento, che riguarda proprio il suo rapporto con il linguaggio quotidiano della piazza, degli affari, dei tribunali. Le raccomandazioni all’attore contenute nel Breviario di estetica teatrale (scritto nel 1948) possono allora essere lette come precise indicazioni sul come fare filosofia: “Quello che importa – scrive Brecht – è che non «afferri» troppo in fretta (…) eviti tuttavia di trovar naturale l’enunciazione stessa, esiti sul senso di essa e consulti le sue opinioni generali, prenda in esame altre enunciazioni possibili, assuma in breve l’atteggiamento di chi si stupisce”12. Piuttosto che “santo”, il filosofo è “stupido”: non “afferra” al volo, come fa chi è ben “ingranato” nel mondo, ma è “traumatizzato”, colpito dalle concatenazioni di enunciati che come onde impetuose si abbattano sulla pubblica piazza. Non “afferrare” frettolosamente (comprendere è begreifen, da greifen, prendere, afferrare), lasciare la presa del concetto (Begriff), esitare, stupirsi di fronte alle più ovvie apparenze, problematizzare gli enunciati del linguaggio ordinario… Pare di rileggere il Teeteto di Platone. La filosofia, si diceva in quel dialogo, si genera dallo stupore. Ma lo stupore in questione non è, come generalmente si crede, soprattutto sulla base della vulgata heideggeriana, stupore causato dall’essere dell’ente. Non è lo stupore di fronte al che c’è dell’ente, non è lo stupore generato dal suo disvelarsi. È uno stupore molto meno sublime. La confutazione dialettica ha portato il discorso in aporia. Quello che doveva essere un vetro attraverso il quale guardare la natura

delle cose – il discorso, appunto – si è rivelato uno specchio opaco e deformante. Il mondo preso nelle pieghe del discorso comincia a vacillare, non è più immediatamente riconoscibile. Di qui lo stupore di Teeteto che agli occhi di Socrate è segno di una natura veramente filosofica. La confutazione dialettica è infatti purificazione ed il confutato, proprio grazie all’imbarazzo in cui si trova, è rigenerato. Come l’attore brechtiano, il filosofo è un mimo che strania gli enunciati del linguaggio ordinario, che manda in folle la macchina della parola. A differenza del sofista, però, il quale è anch’egli un mimo – anche lui è il prodotto della crisi di senso che ha investito la Città e le sue tradizioni –, il filosofo confida negli effetti perturbanti prodotti dallo straniamento. Non si limita a sfruttarli in modo magicoincantatorio ai fini di un accrescimento del potere personale. Il filosofo non è insomma un nichilista anche se gli assomiglia, proprio come Brecht per tanti aspetti, soprattutto in gioventù, assomigliava ai suoi numerosi colleghi poeti anarco-nichilisti dell’avanguardia espressionista. Il filosofo è un purificatore. Si affida al perturbamento per far vedere e per trasformare il mondo (per renderlo, come scrive Brecht, più “maneggevole”). Per questo la postura corretta del “pensatore” è quella dell’ospite estraneo (il signor Keuner). Il metodo brechtiano è allora ironico? Lo si potrebbe definire tale, come si fa con Socrate, se questa parola non avesse assunto un significato marcatamente soggettivistico. L’ironia romantica proietta infatti il soggetto fuori dal mondo, ne sancisce la differenza insuperabile. L’ironista mira alla santità. La libertà guadagnata nell’esitazione è, per lui, una libertà assoluta, anzi è la libertà dell’assoluto stesso. Nell’ironia e grazie all’ironia il soggetto dell’enunciazione si emancipa dal mondo, si fa irraggiungibile, lascia gli altri uomini ai loro affari meschini e li contempla con sguardo quasi sprezzante. Non è certo questo l’atteggiamento di Brecht – come non era quello di Socrate, almeno del Socrate non completamente ristrutturato dal platonismo di maniera. Brecht ama appassionatamente il mondo. Della vita è un devoto. Il suo materialismo e il suo immanentismo sono fuori discussione (tanto in Brecht quanto in Socrate c’è una predilezione per gli aspetti più triviali e bassi dell’esistenza, ad esempio: per il saporito boccone di carne di maiale).

La riduzione a cui sottopone gli enunciati ordinari non ha quindi niente di ironico nel senso “romantico” del termine. Essa ha piuttosto un carattere comico e procede nella direzione di un materialismo radicale. “Comico” nomina qui quell’alternanza di illusione e delusione, di attesa e frustrazione della stessa, che già Kant fissava all’origine del riso. Sull’onda delle concatenazioni collettive di enunciazione, ci aspettiamo che il mondo funzioni in un certo modo e invece, improvvisamente, con un effetto di choc, scopriamo che le cose non vanno affatto così. E allora ne ridiamo. Il comico, scrive Kant, si genera da “un’affezione che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve nel nulla”13. Ma come potrebbe dare diletto un’attesa frustrata? Eppure, se il teatro epico “diverte”, lo deve proprio a questo dispositivo “demoniaco” (in senso socratico). Bergson, un filosofo poco apprezzato da Brecht, lo aveva spiegato: la reversione ha luogo perché sulla scena – e solo sulla scena, quale che sia la sua consistenza, non necessariamente quella teatrale: anche il dialogo filosofico funge, infatti, da simile cornice – il perturbante è messo alla giusta distanza (Verfremdungseffekt) e fatto oggetto di un “giudizio”. Se lo incontrassimo alla prima persona non potremmo che rabbrividire (come avviene in quel microfenomeno di straniamento che è il déjà-vu), ma proiettato in altro, ha un effetto dilettevole e liberatorio (Brecht direbbe “emancipatorio”). Il riso, conclude allora Bergson, è un “gesto sociale” che stigmatizza i meccanismi che, sulla pubblica piazza, si spacciavano per viventi 14. Il materialista storico Brecht cala nella concretezza della “guerra civile” in corso (da lui identificata alla marxiana lotta di classe) quel “gesto sociale” e ne fa il senso del suo teatro epico.

La comunicazione assoluta (Brecht, la pragmatica e il materialismo storico) del pensatore è un evitare. Egli deve evitare di L’atteggiamento trovar naturale l’enunciazione. Per comprendere il metodo

brechtiano bisogna pertanto prendere le mosse da una chiarificazione della natura dell’enunciato: che cosa è, come funziona, in che differisce dal semplice messaggio. Quest’ultimo punto è, poi, particolarmente rilevante perché permette di fissare il criterio di distinzione tra un teatro di forma filosofica ed un teatro di contenuto filosofico come era, ad esempio, il teatro ideologico di Piscator. A tale scopo bisogna impegnarsi in un confronto con la linguistica, soprattutto con quella di indirizzo pragmatico (dalla teoria austiniana degli speech-acts alla linguistica dell’enunciazione di Benveniste fino alla translinguistica di Bachtin). Al tempo stesso bisogna confrontarsi con la filosofia della comunicazione che di quella linguistica si è alimentata. È, questo, un compito immenso e di fatto impraticabile, almeno nei limiti di un breve saggio. Prenderemo perciò di mira la questione “teoretica” comune a tutti questi diversi approcci, e cioè la natura della comunicazione: l’atto enunciativo. Ora, qual è l’eredità teorica della pragmatica? Cosa può trasmettere ai filosofi della comunicazione15? Innanzitutto un insegnamento negativo. Comunicazione e linguaggio non vanno confusi. La comunicazione non è un uso del linguaggio. La prassi comunicativa è originaria e non rimanda alla pretesa trascendenza di un “linguaggio” già dato di cui sarebbe l’applicazione in un contesto dato. Quanto i moderni hanno onorato come un vero e proprio idolo, il “linguaggio”, per la pragmatica ha un’esistenza solo ideale. È un concetto limite, un oggetto teorico prodotto, come ogni altra oggettività ideale, da una ristrutturazione del campo dell’esperienza. Non c’è insomma “linguaggio”. C’è piuttosto comunicazione, da intendersi verbalmente, come l’atto sempre in corso del comunicare. Positivamente, la pragmatica insegna, dunque, che il comunicare è il dato immediato. Non ha cominciamento. La comunicazione è il fundamentum inconcussum. Sul piano filosofico questo significa affermare che l’atto del comunicare è un assoluto, della stessa natura del cogito della Meditazione seconda di Descartes. La comunicazione non ha un fuori, non ha un opposto. Di essa non si può tracciare una genesi né si può tentare di circoscriverla con un sapere (con un cosiddetto

metalinguaggio) perché l’atto del comunicare si replica ironicamente alle spalle di chiunque voglia trasformarlo in fatto ed analizzarlo. Non c’è metalinguaggio perché, come subito vedremo, ogni comunicazione è già da sempre riflessivamente la sua metacomunicazione. La pragmatica della comunicazione riconosce tale assolutezza quando afferma, senza forse intendere veramente il valore speculativo del proprio dire, che “non si può non comunicare”. Una noncomunicazione è infatti ancora comunicazione allo stesso modo in cui un non-comportamento è un assurdo logico. Comportarsi e comunicare sono infatti il medesimo. Va dunque liquidata ogni concezione strumentale della comunicazione ed ogni declinazione del linguaggio in termini di facoltà perché non c’è un “prima” della comunicazione. Soltanto se si potesse declinare il rapporto tra il parlante e la parola sul modello del rapporto potenza/atto, si potrebbe parlare di una “facoltà”, ma il soggetto dell’enunciazione non è un soggetto che può parlare, non è un io-sostanza che si dota tecnicamente di una protesi. Se il comunicare fosse nella sua disponibilità, lo sarebbe anche il non comunicare, dal momento che ogni potenza è, secondo la lezione aristotelica, anche potenza del non. Il che, come abbiamo appena visto, è un assurdo. Il soggetto dell’enunciazione è invece lo stesso atto del dire e nient’altro, un atto discreto e ogni volta unico, come scrive Benveniste (il quale, però, ricade nell’illusione della potenza, e dunque di fatto in una concezione strumentale del linguaggio, perché intende tale atto nel senso dell’attualizzazione della langue in parole)16. L’io va perciò radicalmente desostanzializzato: esso si risolve senza residui nell’istanza del discorso o nell’evento della parola. Come il Dio di Aristotele, anche il pronome personale “io” rinvia ad una sostanza che è integralmente atto, atto puro scevro di ogni potenzialità. L’“io” non è una res. L’io è l’io che dice io, è la pura forza illocutiva del dire, è l’istanza del discorso. Non si ha dunque la “potenza” di comunicare, si è già da sempre comunicazione in atto, altrimenti come si spiegherebbe l’apprendimento infantile del linguaggio? Per apprendere non bisogna forse già essere in relazione? Non bisogna, forse, già comunicare in atto?

Il dato immediato è, insomma, la prassi e la prassi non è potenza di, ma atto in atto. Per descrivere tale atto in atto propongo il termine conversazione, avendo cura di spogliarlo da ogni irenismo ed enfatizzandone, piuttosto, la radice agonistica e polemica. Conversazione in atto significa infatti alternanza dei turni conversazionali. L’alternanza è un “dissidio”. La conversazione è perciò una durata creatrice che si alimenta con la differenza. Essa è il luogo comune prodotto dalla differenza polemica. Non possiamo individuare un accesso a questo ambito ed una via d’uscita da esso perché, come dicevamo, la comunicazione non ha opposto. Della comunicazione-conversazione dobbiamo perciò coerentemente predicare la stessa eternità che Aristotele assegnava al movimento dei cieli e per gli stessi motivi. È quello che è di fatto accaduto ai filosofi e ai linguisti che hanno provato a pensare la prassi comunicativa (penso, ad esempio a Peirce, a Bachtin o a Deleuze). Le immagini alle quali sono stati costretti a ricorrere sono quelle della catena illimitata degli enunciati, della semiosi infinita, del tessuto che va ripiegandosi indefinitamente senza che sia mai possibile supporre un termine primo o ultimo (e nemmeno un indifferenziato di partenza). La conversazione è un infinito privativo (privo di termine massimo/minimo). La comunicazione è poi caratterizzata dalla più inflessibile necessità, sebbene non si tratti di necessità logica, ma del “non poter non” teorizzato dei filosofi megarici. Non possiamo infatti sottrarci all’alternanza che essa implica. Non possiamo non rispondere, dal momento che la non risposta è ancora una risposta dalle conseguenze spesso incalcolabili. Lo stigma della follia, ad esempio, sarà gettato su chi sta dentro alla conversazione pubblica, escludendosene, rispondendo non “a tono” o non “rispondendo” affatto (il catatonico). La presa di parola, nel turno conversazionale, non nasce infatti da una iniziativa libera del soggetto, quasi che questi potesse sussistere fuori e prima della conversazione in corso. Sono chiamato a rispondere già da sempre e tale chiamata mi costituisce nel mio essere. Non essendoci alcun “fuori” rispetto alla conversazione già da sempre in atto, la risposta è obbligatoria e presuppone una domanda alla quale, per esistere, cioè per essere riconosciuto, non posso sottrarmi. Emmanuel Lévinas ha ben colto questo vincolo che mi costituisce quando

all’origine della soggettività ha posto non la sovranità di un ego cogito, libero di iniziare quando vuole, ma una “elezione” da parte dell’Altro. La “responsabilità” levinassiana è un siffatto “non potere non rispondere” ad una domanda trascendentale e solo in modo derivato è la risposta effettivamente data alla domanda empirica dell’Altro 17. Il soggetto nella sua materialità (vale a dire il soggetto empirico, psicologico) si costituisce, quindi, nell’alternanza dei turni conversazionali in cui è preso come soggetto trascendentale dell’enunciazione (il soggetto dell’enunciazione, lo abbiamo visto, è “l’io che dice io”, è la presa di parola, la presa del “turno”). “Io”, scriveva Sartre, sono ciò che gli altri hanno fatto e continuano a fare di me e la mia residua libertà si risolve nel fare qualcosa di quanto gli altri hanno fatto di me, vale a dire nel proseguire la conversazione con la mia presa di parola, con il mio comportamento. Non ho alternative al comportamento. A dispetto di ogni idealismo, io sono interamente fatto di mondo, sono preso nelle sue pieghe come una delle sue pieghe, sono “un corpo all’opera”18. Tuttavia, tra i vari modi di comportarsi c’è anche quello del signor Keuner ed è quello che mi interessa. Keuner è infatti un “pensatore”. Egli, lo sappiamo, eviterà metodicamente di trovare naturale l’enunciazione e, nel luogo comune definito dallo spazio comunicativo, assumerà la postura dell’ospite estraneo. Non è affatto senza importanza il fatto che Brecht-Keuner sia anche un profugo, un esiliato. Il profugo, se non altro per questioni di lingua e per mancanza di familiarità con le forme di vita del paese che lo ospita, si trova oggettivamente nella condizione di chi non trova naturale l’enunciazione, di chi esita, di chi si stupisce e non risponde a tono. In Dialoghi di profughi, Brecht farà dire a Kalle che la miglior scuola di dialettica è l’emigrazione e la parola “dialettica” per Brecht significa, lo vedremo, un particolare tipo di contraddizione che mette in stallo l’enunciazione e che rende “citabile” il comportamento 19. La pragmatica insegna dunque che la comunicazione è la praxis originaria. Ad essa deve sempre tornare un materialismo che si voglia veramente “storico”, che, cioè, seguendo le indicazioni del Marx delle Tesi su Feuerbach, abbia compreso che “tutta la vita sociale è

essenzialmente pratica”. Rispetto a tale praxis il linguaggio, inteso come sistema di segni regolato da una sintassi, è invece il prodotto di una comunicazione riflessa o di una oggettivazione della comunicazione in atto sulla cui genesi molto si è interrogata la filosofia della comunicazione novecentesca e l’antropologia culturale. Per lo più si è ritenuto che essa sia stata resa possibile dalla tecnologia alfabetica. Il “linguaggio” sarebbe insomma il prodotto di una grammaticalizzazione della comunicazione in atto. In ogni caso, quale che ne sia la genesi, pensare la comunicazione strumentalmente come facoltà dell’uomo, è un caso evidente di fallacia della concretezza malposta. Per dirla ancora con Marx, la comunicazione sarebbe concepita “solo sotto forma dell’oggetto, ma non come attività umana sensibile, prassi, non soggettivamente”. Il teatro epico brechtiano vuole essere una siffatta comprensione soggettiva della prassi. Chiediamoci allora dove sta la concretezza. Essa sta dalla parte dell’enunciato, che è la vera attività umana sensibile. Noi comunichiamo per enunciati. Spogliamo, però, questa parola, “enunciato”, da ogni valenza esclusivamente linguistica. Anche il comportamento, a qualsiasi livello si dia, ha infatti la struttura dell’enunciato. Per questo esso è sempre significativo. Enucleare da un comportamento un gesto, come Brecht-Keuner insegna a fare, significa allora mostrare l’immanente forza enunciativa di un comportamento. Un enunciato non è un messaggio, non è il mobile di quel movimento di traslazione che secondo la teoria della comunicazione standard sarebbe la comunicazione. Se la comunicazione fosse realmente quanto ci viene abitualmente insegnato, e cioè trasmissione di messaggi da una fonte ad un ricevente, codifica, decodifica ecc., allora bisognerebbe affermare che la vita non ha niente a che fare con essa. La vita infatti è azione, la vita è creazione e sperimentazione. Di questa vita era un devoto Brecht. Lungi dall’essere messaggi trasportati sul nastro neutro di un medium, gli enunciati sono atti, più precisamente sono atti sociali. Sono atti della vita. La loro caratteristica saliente non è quella di constatare uno stato di cose, ma quella di affermare, o meglio di instaurare uno stato di cose. Essi hanno una forza materiale che la linguistica austiniana ha chiamato “forza illocutiva”.

Ad un’analisi rigorosamente materialistica la comunicazione si presenta come un campo di battaglia percorso da forze in conflitto tra loro. Non essendoci un opposto del comunicare, non è possibile sottrarsi alla lotta. Non si può non lottare. Non c’è angolino appartato nel quale trovare rifugio e dal quale magari contemplare disinteressatamente la battaglia (tale era l’illusione di Bergson nel saggio sul Riso). La “presa di partito”, che ancora recentemente è stata rimproverata a Brecht come un retaggio del suo dogmatismo marxista20, non è in realtà nient’altro che vita che sta vivendo in atto. Ma la vita non è nulla di pacifico, essa è piuttosto “guerra civile”. In pagine memorabili, risalenti alla metà degli anni ‘70, scritte in contemporanea all’avvento del neo-liberalismo in Inghilterra e negli Stati Uniti, Michel Foucault aveva smontato una ad una tutte le nostre illusioni “trascendenti” sulla democrazia, le stesse che la sinistrasinistra continua, a distanza di quarant’anni, a coltivare imperterrita. La sua tesi è radicale ed è una tesi brechtiana: la guerra civile, scrive, è l’orizzonte di comprensione dell’agire politico, anche e soprattutto di una politica “democratica”. Nel formidabile corso tenuto al Collège de France nel 1976, Bisogna difendere la società, Foucault sosteneva che “una sorta di combattimento ininterrotto travaglia la pace (…) l’ordine civile – al fondo nella sua essenza, nei suoi meccanismi essenziali – non è che un ordine di battaglia (…) Dunque: la politica (anche e soprattutto in un contesto “democratico”, nota mia) è la guerra (civile, nota mia) continuata con altri mezzi”21. Che la politica sia un campo di battaglia è affermazione per lo più intesa metaforicamente, che l’agire politico sia, in ultima analisi, riducibile alla diade amiconemico, e che tale diade ricomprenda in sé, subordinandole, tutte le altre antitesi economiche, religiose, ideologiche ecc., è tesi che si attribuisce ai teorici dello stato totalitario (Carl Schmitt, ad esempio) e che si ritiene estranea alle magnifiche sorti della democrazia occidentale. Anzi questa si sarebbe generata come in una enorme pagina facebook “dando l’amicizia” a tutti e trasformando il conflitto in amena differenza di opinioni. Qui la battaglia sarebbe solo verbale e la violenza un corpo estraneo importato da micidiali batteri allogeni per i quali non si ha ancora la

terapia adeguata. Eppure, ieri come oggi, il dilagare del populismo fascista dovrebbe smentire questo irenismo e verificare l’ipotesi foucauldiana. La “conversazione” in corso, come sempre del resto, è la guerra civile. Brecht avrebbe detto lotta di classe, ma, se la nostra analisi ha una qualche pertinenza, è una lotta che non ha opposto, nemmeno nel comunismo. Semmai, una sua possibile interruzione è data nella “poesia”, che, perciò, diventa la sola forma di comunismo “reale”. Per il Brecht “cinese” degli ultimi anni, la poesia è infatti la pace. Impossibile sottrarsi alla sensazione di quiete che danno alcuni dei suoi componimenti poetici. Qui tutto appare pacificato. Per godere della grazia del mondo – grazia che, in Brecht ha il senso eckhartiano della “gentilezza” delle cose –, è sufficiente “la prima occhiata dalla finestra al mattino”. Ma ciò non si deve ad una qualche immunità del “poetico”, tesi che riconsegnerebbe Brecht alla più vieta ideologia dell’arte. Il fatto è che la poesia va alla radice della guerra infinita. Penetra nell’occhio del ciclone dove tutto è pace. L’infinito si dice infatti in due modi che sono tra loro rigorosamente distinti e necessariamente implicati. Da un lato l’infinito della guerra civile che siamo e non non possiamo non essere, l’infinito della lotta di classe, dall’altro l’infinito che è causa di quella conversazione infinita. L’infinitocausa, dai mistici battezzato con il nome convenzionale di Dio, è in atto tutti quei possibili che nel reale divergono e confliggono, consegnandoci, appunto, al “non poter non” della lotta. Esso non è però il luogo della loro sintesi, come credono gli ideologi della storia, bensì della loro identità presupposta, incomprensibile alla ragione dialettica (Cusano, un conterraneo di Marx, faceva della “coincidenza degli opposti” il muro di cinta del Paradiso). La poesia attinge a quell’infinito-causa, senza entrare nell’indefinita alternanza dei turni, e fa la pace con tutto. “La prima occhiata dalla finestra al mattino / il vecchio libro ritrovato / visi entusiasti / neve, il mutamento delle stagioni / il giornale / il cane / la dialettica /docce, nuotare / vecchia musica / scarpe comode / comprendere / nuova musica /scrivere, piantare /viaggiare, cantare /essere cortesi”22.

La struttura dell’enunciato (Brecht e la filosofia del linguaggio) ha una struttura ben precisa che può trovare L’enunciato un’adeguata raffigurazione in una specie di algoritmo: P/S, dove P sta per “proposizione”. P indica quanto la linguistica standard individua come il livello più elementare della comunicazione. P è la parole, P è il messaggio. P è l’attualizzazione in parole della langue. Potremmo anche dire che P è la Bedeutung, il voler dire, il significato, se non fosse che per significare veramente qualcosa a qualcuno, una proposizione deve anche avere, o meglio, mostrare un senso che ne orienti la comprensione. Nessuna intelligenza del codice sarà mai sufficiente per comprendere il voler-dire del più ordinario degli enunciati (ad esempio “come stai?” detto dal medico che ci ha in cura o da un conoscente al bar ha sensi diversi e risposte diverse). Solo avendone colto il senso si potrà infatti rispondere ad una proposizione, la quale, di per se stessa, non agganciata alla situazione, resta a fluttuare nell’indeterminazione. Nel nostro algoritmo, S, che si situa sotto P, indica allora il “senso” di P. Di quel che cosa mostra il come, un come senza il quale il che cosa non sarebbe nemmeno un che cosa, non significherebbe affatto. S rinvia all’atto singolare del dire qui e ora quello che si sta dicendo, S rimanda alla forza illocutiva che deve accompagnare a priori ogni detto (P) per dargli appunto il carattere di detto efficace, facendo del detto una espressione dotata di senso compiuto alla quale si potrà e si dovrà rispondere. Ricordo, una volta di più, che si stanno qui usando le espressioni “dire” e “detto” solo per ragioni di comodità esplicativa, senza voler privilegiare la forma verbale della comunicazione. Un qualsiasi comportamento ha infatti la forma S/P. Se P è il quid, S è il quod di tale quid, è il che c’è di ciò che c’è, è l’atto del fatto direbbe Giovanni Gentile, l’evento del significato direbbe Carlo Sini. Se P è il type caratterizzato da una generalità di principio, S è il token, l’occasione singolare di quel type, occasione che lo radica in un contesto irripetibile (ogni enunciato è in realtà un hapax legomenon). Tutto il peso della realtà, intesa come effettività (Wirklichkeit), come capacità di produrre effetti (wirken), riposa sulle

spalle di quell’atto, un atto eminentemente instaurativo. Se l’enunciato è sempre performativo (e lo è anche quando è constatativo dal momento che quando constatiamo facciamo comunque qualcosa: affermiamo che le cose stanno così e ci assumiamo la responsabilità di tale affermazione) lo deve a quello che tra i suoi due piedi (S e P) poggia nell’invisibile perché, come il nostro algoritmo mostra, il senso si trova al di sotto o al di là della barra, nell’extra-proposizionale. In che rapporto stanno allora proposizione e senso nell’enunciato? Certamente essi si implicano reciprocamente, e non possono sussistere al di fuori della loro relazione. Non esiste proposizione generale non aureolata da un senso assolutamente singolare e non si dà senso se non incarnato in un significato universale. Per loro vale la legge fondamentale della percezione: nessuna figura senza sfondo e, d’altro canto, nessuno sfondo che non sia sfondo di una figura. D’altronde P e S differiscono per natura. La filosofia del linguaggio ordinario ha dato un contributo essenziale alla chiarificazione della struttura dell’enunciato distinguendo in esso il piano del dire (P) e il piano del mostrare (S). Ogni enunciato, sostengono i filosofi del linguaggio, dice e mostra. Ma bisogna fare attenzione alla congiunzione. Dire e mostrare si implicano reciprocamente. L’enunciato infatti dice quello che dice perché mostra un senso che non dice e al tempo stesso mostra il senso che non dice dicendo quello che dice. Dal punto di vista proposizionale il senso è un blank, un vuoto, ma è un vuoto o un nulla attivo che dà una direzione, un “senso” appunto, alla comprensione della proposizione. Dal punto di vista del senso la proposizione è solo un sintomo di altro, sta sempre per qualcosa che “manca al suo posto” (Lacan). Se la psicoanalisi potrà trattare il comportamento come sintomo è proprio perché ogni comportamento, non solo quello nevrotico, ha la struttura anfibologica del dire e del mostrare.

Verfremdungseffekt (Brecht, Wittgenstein, Bachtin)

a tali premesse si possono ricavare alcune conseguenze che si riveleranno particolarmente preziose per la comprensione del metodo brechtiano. La prima concerne il carattere riflessivo di ogni enunciato. Esso presenta sempre un aspetto di contenuto ed uno, inscindibilmente connesso con il primo, di relazione. Ogni comunicazione in atto è sempre, una metacomunicazione. Se stiamo alla struttura dell’enunciato, quale l’abbiamo chiarita, dobbiamo infatti concludere che il dire è, nello stesso tempo, sempre anche un mostrare come deve essere preso quello che di fatto si sta dicendo. Vi è in ogni atto enunciativo un costante ritorno riflessivo dell’enunciato su se stesso. S è, insomma, la cornice di P, tant’è che invece di P/S potrei scrivere anche P S. J.O.Urmson, l’editore di Austin, paragonava i performativi (da lui definiti parenthetical verbs) a delle indicazioni sceniche del genere “detto con accento malinconico” o “detto con convinzione”23. È un’indicazione preziosa. Chiediamoci, infatti, di che cosa si sta occupando il regista che fa vedere al suo attore come deve muoversi sulla scena o come deve dire quello che deve dire. Non del detto, evidentemente, questo è infatti “scritto”. Ciò che lo preoccupa è il senso del detto, la forza illocutiva del detto, la relazione presupposta a quel contenuto (il “gesto”). Riflessività significa poi storicità dell’atto enunciativo. Se infatti ogni comunicazione per poter funzionare come comunicazione è già da sempre il metalinguaggio di se stessa, ne deriva che ogni enunciato, anche quello apparentemente più astratto e avulso dal fluire del tempo, porterà inscritto sulla sua fronte, come l’eroina di Hawthorne, la lettera che lo inchioda ad un tempo e ad una situazione assolutamente determinata. Nessun uomo, quando si comporta così e così, è l’Uomo in generale, nessun amore è l’eterno Amore, ma si danno sempre uomini storicamente determinati e amori storicamente determinati. La relazione incornicia sempre riflessivamente il contenuto facendone il contenuto di quella relazione assolutamente singolare. Chi fa teatro epico e non teatro drammatico dovrebbe, secondo Brecht, tenerlo sempre presente (“l’uomo come processo” vs “l’uomo come dato fisso”24). “Il teatro borghese tende ad enucleare dalla propria materia il suo contenuto extratemporale. La rappresentazione dell’uomo si limita

D

a ciò che nell’uomo è eterno. Nello svolgimento della trama vengono create certe situazioni «di portata generale», tali cioè che attraverso ad esse si esprima l’essenza dell’umanità, dell’uomo di tutti i tempi e di ogni razza. Tutti gli avvenimenti non sono che un grande spunto, una battuta d’obbligo, alla quale non può seguire che l’«eterna» risposta: la risposta inevitabile, consueta, naturale, insomma umana”25. Ma come la relazione incornicia il contenuto? Che tipo di riflessività è l’immanente riflessività dell’enunciato? La questione è di capitale importanza. La riflessività dell’enunciato non può essere tematica. Il senso non può farsi oggetto. Non può essere oggetto, almeno, se l’enunciato deve essere efficace, se deve produrre effetti nell’ambito polemico della conversazione in corso. La riflessione quando si fa tematica – quando diventa relazione a qualcosa che sta di fronte nella luce –, paralizza l’azione. Amleto ne sa qualcosa. Riflette e non agisce. Se la storicità che caratterizza l’enunciato si facesse sensibile allora sarebbero guai grossi per l’agire vitale. Questa era la tesi sostenuta da Nietzsche nella celebre Inattuale sulla storia. Come posso infatti fare qualcosa di grande se la determinatezza dell’atto si fa sensibile? E infatti, nell’enunciazione ordinaria il senso è agito in modo pressoché automatico, senza farsi fenomeno. È significativo il fatto che alla paralisi dell’azione corrisponda il trasformarsi del mondo-ambiente in scena. Se l’Amleto di Shakespeare è per noi moderni inaggirabile è proprio perché racconta questa strana metamorfosi: il “mondo”, metaforizzato dalla Danimarca, viene inghiottito dalla scena e la vita viene soppiantata dai suo simulacri. Sulle mura di Elsinor i padri sono spettri, nella reggia i re sembrano re ma sono forse assassini e le madri sembrano madri ma sono forse puttane. Intorno ad Amleto, che mette in scena la follia, lasciando nel dubbio sul suo stato re regine e cortigiani, ci sono amici che mettono in scena la loro amicizia perché i regnanti possano finalmente decidersi sulla natura della follia di Amleto. E poi ci sono attori che, istruiti dal metteur en scène Amleto, recitano, senza rendersene conto, la stessa vicenda narrata dallo spettro; e via cosi, in un proliferare metastatico di simulacri che proietta il dramma in una dimensione onirica al limite dell’allucinazione. È allora stupefacente che Amleto non agisca, che

non si vendichi, che non ristabilisca l’ordine, che non risponda all’enunciato paterno? Ma come si può agire sulla scena? Sulla scena si recita, non si agisce. Nel recinto sacro del tempio non c’è azione, c’è ripetizione, c’è rito. A meno che la non-azione della scena non diventi essa stessa un altro modo di agire, a meno che la non-azione non diventi prassi teorica, teatro epico che rende il fondamento del mondo (il “gesto”) visibile. L’immanente riflessività dell’enunciato è dunque di altra natura rispetto alla riflessione tematica e oggettivante. Per usare la terminologia di Sartre deve essere un “atto irriflesso di riflessione”26. L’espressione è volutamente contraddittoria, proprio perché deve denotare la possibilità per il senso di apparire sulla scena dell’enunciazione senza farsi visibile. In altre parole, la relazione che incornicia il contenuto deve restarsene pudicamente in un cono d’ombra. Non deve trasformarsi in sapere. La barra presente nell’algoritmo S/P segnala appunto questa extra-proposizionalità del senso, vale a dire il carattere strutturalmente “inconscio” della relazione presupposta e mostrata nel “detto”. La potenza instaurativa dell’enunciato dipende da questa cecità di principio. Ludwig Wittgenstein l’ha mostrato magistralmente nell’ultimo dei suoi scritti, Della certezza. Una qualsiasi argomentazione, egli scrive, riposa su di un tessuto di credenze (Wittgenstein dice “una specie di mitologia”27) che le fa da sfondo e che l’incornicia. Tali credenze non sono tematiche e quindi si trovano in una zona che non è semplicemente resistente al dubbio, ma addirittura anteriore alla stessa possibilità del dubbio. Esse sono così ovvie, scrive il filosofo austriaco, da giacere “al di là del giustificato e dell’ingiustificato, dunque per così dire come un che di animale”28. Non possono quindi nemmeno dirsi “credenze” dal momento che una credenza lascia sempre aperta la porta al dubbio (si crede solo a ciò di cui è possibile dubitare). Sono piuttosto “forme di vita”, una sorta di dotazione organica trasmessa di generazione in generazione tramite una specie di addestramento behaviouristico. È tale sfondo (S) a garantire alla figura (P) il suo risalto. Ma ciò che rende uno sfondo così performativo (Wittgenstein lo definisce “l’elemento vitale dell’argomentazione”29) è proprio la sua

impercettibilità di principio. Senza tale ritrarsi niente sarebbe veramente dato in primo piano come questo o come quello. Niente potrebbe essere oggetto di un sapere e quindi anche di un possibile dubbio – dal momento che si può dubitare solo di ciò che ci sta di fronte come oggetto – se non si impiantasse nella “roccia dura” di una certezza impermeabile ad ogni riflessività (almeno se diamo alla parola riflessione il senso ristretto di tematizzazione). Negli enunciati naturali il senso fa dunque il suo lavoro venendo meno, dissimulando la sua essenziale storicità. Il pathos mistico di Wittgenstein diventa pathos sociologico in Bachtin. La questione che la translinguistica bachtiniana solleva è tuttavia sostanzialmente la stessa. Un enunciato, sostiene Bachtin, è riducibile alla dimensione proposizionale ed è spiegabile con una combinatoria di elementi astratti desunti da un codice, solo se si fa astrazione dal suo contesto d’uso, vale a dire dalla “attività umana sensibile, dalla prassi” (Marx). La linguistica standard è perciò sfrenatamente idealistica e lo sarà anche la semiotica che si costruirà su quel modello. Un enunciato è invece una forma di vita e ha esattamente la struttura anfibia P/S. Bachtin però corregge Wittgenstein (in senso metaforico: i due non si conoscono affatto) su di un punto essenziale, molto rilevante per la definizione del metodo brechtiano (il quale, a sua volta, ovviamente ignorava l’esistenza su questo pianeta dei suoi due colleghi; il rapporto con Bachtin è però indirettamente mediato dal formalismo russo da cui, come è noto, Brecht riceve la parola e il concetto di straniamento). Bachtin è russo e il clima nel quale il suo pensiero si forma è segnato dal materialismo marxista, con il quale non cesserà di fatto di confrontarsi per tutta la sua (difficile) vita. Tale presenza del marxismo, soprattutto nel primo Bachtin si fa sensibile nel modo in cui egli caratterizza il senso sotteso alla proposizione nell’enunciato. Per lui, la forza illocutiva dell’enunciato è una forza materiale che sitrova in conflitto con altre forze materiali. Un enunciato è una forma di vita ma è una forma di vita immediatamente sociale. E la società non è niente di organico, niente di armonico: essa è il luogo del polemos. La società è una conversazione in corso, cioè “guerra civile”. Quando parliamo, siccome parliamo per enunciati, prendiamo sempre partito. Non cessiamo mai di valutare la situazione

da un punto di vista parziale. Parliamo sempre in veste di, nella cornice di un genere del discorso, presupponendo (e mostrando) determinati rapporti di potere. La relazione che incornicia riflessivamente il contenuto è dunque sostanzialmente una relazione sociale, quasi sempre, data la natura specifica del polemos capitalistico, una relazione di classe. L’ideologia passa dunque attraverso la comunicazione perché la comunicazione-conversazione è ideologica nella sua struttura. Ma si tratta della più insidiosa delle ideologie perché per le ragioni sopra esposte la sua impercettibilità nella comunicazione ordinaria è di principio. Tant’è che essa, come dicevamo, può apparire come una sorta di dotazione organica del corpo vivente. La natura dell’enunciato è da Bachtin assimilata ad una particolare forma di sillogismo caratteristico, secondo Aristotele, dell’argomentazione retorica: l’entimema. Bachtin definisce l’enunciato entimema sociale oggettivo30. Ora, l’entimema è un sillogismo dialettico. Le sue premesse non sono universalmente vere ma solo probabili. Sono degli endoxa che possono fungere da premesse perché hanno il consenso della maggioranza o dei più saggi. La specificità di questo sillogismo consiste nel funzionare in assenza della premessa maggiore, la quale è taciuta perché data in qualche modo per scontata. L’esempio classico di entimema è quello che troviamo nella logica di Port Royal e suona così: “è inglese, è coraggioso”. La premessa taciuta è naturalmente quella (solo probabile) che afferma che “tutti gli inglesi sono coraggiosi”. La “mitologia”, che fa da sfondo al giudizio, è individuata da Bachtin in questa premessa assente e, proprio perché assente, dotata di una straordinaria potenza performativa. A funzionare come cornice della proposizione non è nulla di psicologico né di biologico. È piuttosto qualcosa di sociologico e di ideologico. Il senso che agisce automaticamente restando impercettibile è un sapere di sfondo che accomuna i parlanti in una determinata situazione conversativa. È ciò su cui essi convengono irriflessivamente senza che tale accomunamento dipenda da una libera iniziativa. In realtà non si può definirlo nemmeno un sapere di sfondo perché non è un sapere, semmai è un non sapere di sapere (ancora un “non poter non”) che è il rovescio dogmatico dell’ironico sapere di non

sapere di Socrate (un “potere di non”). Parlare per enunciati, nella comunicazione naturale, vuol quindi dire non sapere quello che non si può non fare. Era quanto Socrate stigmatizzava nei suoi interlocutori, incapaci di rendere ragione di ciò che, per altro, così dottamente affermavano. L’oggettività dell’entimema è data da questa necessità d’ordine pragmatico. L’argomentazione implica un senso “antepredicativo”. Viene, cioè, prima del giudizio nel senso che lo rende possibile, secondo la dinamica figura/ sfondo. Ogni enunciazione naturale ha il suo magico pivot in questa specie di valutazione sociale della situazione che è condivisa nel silenzio, in un implicito non discorsivo che è il motore immobile di ogni azione enunciativa (perché ne è la premessa taciuta). È allora del senso comune che stiamo parlando? Sì, a patto di distinguere nel cosiddetto senso comune due livelli, quello formale e quello materiale. Dal punto di vista della forma il senso comune è quanto in un entimema occupa il posto (vuoto) della premessa universale mancante. Dal punto di vista materiale il senso comune di una data epoca è costituito dall’insieme, per natura indeterminato e fluido, di quelle proposizioni che si ricavano quando gli entimemi sono ricondotti alla loro forma sillogistica completa. Evidentemente un senso comune così esplicitato ha però perduto la capacita performativa che era connessa alla sua dimensione di implicito non discorsivo. Entimema significa nella lingua ordinaria greca “ciò che si trova sotto”, sottointeso. Ebbene, scrive Bachtin vi sono sottointesi che valgono per una famiglia, una tribù, una nazione, una classe, per giorni, per anni, per intere epoche. Se restano impliciti e si situano nello sfondo inapparente della comunicazione è perché sono entrati nella carne e nel sangue di tutti i rappresentanti di quel gruppo, ne organizzano gli atti e le azioni, sono come saldati alle cose e alle azioni e perciò non richiedono particolari formulazioni verbali. Non si poteva dire meglio la natura ideologica della comunicazione.

Contraddizione performativa anca un ultimo elemento utile alla chiarificazione del metodo brechtiano. Anch’esso si ricava dalla struttura dell’enunciazione. Si

M

tratta della nuova figura che prende la contraddizione nell’orizzonte della praxis comunicativa. Ricordo che Brecht amava appassionatamente la dialettica. Negli ultimi anni della sua esistenza, nella poesia che abbiamo già citato, la pone nell’elenco delle cose la cui presenza, al mattino, assicura all’uomo un risveglio felice (nonostante la vecchiaia, il disincanto, le difficoltà della vita). Non so quanto Brecht avesse veramente assimilato la lezione speculativa di Hegel. Sta di fatto, però, che per lui la contraddizione posta al cuore del processo reale aveva un senso irresistibilmente comico. Hegel, dice Ziffel a Kalle, in Dialoghi di Profughi, “aveva la stoffa per essere il più grande umorista tra i filosofi, pari solo a Socrate, che usava un metodo simile”31. Socrate, lo abbiamo visto, è il purificatore. Non incanta con i suoi discorsi, non cerca come invece fanno i retori un ipnotico consenso presso il suo pubblico. Socrate confuta e confutando rovescia il senso comune (dal non sapere di sapere al sapere di non sapere). Confutare significa porre l’interlocutore di fronte all’evidenza di una contraddizione. Tralasciando la questione della correttezza o meno del paragone brechtiano, mi preme sottolineare come per Brecht ci sia dialettica dove emerge una contraddizione che paralizza il dire, che arresta la teleologia naturale di una enunciazione, costringendola a ritornare riflessivamente su se stessa (la riflessività, che, come abbiamo appena visto, caratterizza ogni enunciato, funziona, per così dire, “automaticamente”, in modo immediato). Di che genere di contraddizione stiamo allora parlando? Non della contraddizione logica, non della contraddizione che ha luogo tra le proposizioni (P e non P). Troppo realista, troppo prosaico, il nostro Brecht per poter ammettere questa contraddizione nel cuore della realtà. La contraddizione in questione è piuttosto una contraddizione performativa. Essa ha luogo quando c’è conflitto tra il piano della proposizione e quello del senso (P versus S), quando ciò che l’enunciato mostra smentisce quello che l’enunciato dice o viceversa. L’esempio più classico di una simile contraddizione pragmatica è quella presente nell’enunciato “io non sono”, “io non penso”. Come Descartes ha ben mostrato – radicando in tal modo la certezza del suo cogito in una necessità di ordine pragmatico e nient’affatto logico – una

simile proposizione è contraddetta dal fatto stesso della sua enunciazione. Essa è in conflitto con l’atto illocutivo (S) che (P) suppone a suo fondamento. Descartes lo sottolinea prendendo in considerazione la proposizione affermativa opposta. Ego sum, ego existo, scrive, è necessariamente vera a me profertur vel mente concipitur, tutte le volte che la pronuncio o che la concepisco (concepire è ancora pronunciare nel pensiero). La sua “necessità” è d’ordine pragmatico. Dal punto di vista logico resta una proposizione contingente, dal punto di vista pragmatico è certa (non logicamente necessaria). Allo stesso modo dobbiamo dire che la proposizione negativa non è falsa in assoluto, come lo è la contraddizione logica, ma falsa relativamente alle condizioni della sua enunciazione. Essa è dunque falsa non necessariamente (nel senso logico della necessità) ma in modo storico.

Non così – ma così Tecnica della recitazione e filosofia

R

icapitoliamo il cammino fin qui percorso: la comunicazioneconversazione è il piano della praxis materiale. La praxis è il polemos sovrano rispetto al quale non c’è via d’uscita. La comunicazione-conversazione non ha infatti un opposto. Essa è scandita da enunciati che sono turni conversazionali. L’enunciato ha una struttura anfibia (P/S) che lo dota di un’immanente riflessività e di una storicità intrinseca. Brecht-Keuner è il “pensatore”, vale a dire colui che nel campo della comunicazione-conversazione assume la postura dell’ospite estraneo. All’inizio di questo saggio si era posta la domanda più difficile, quella che chiede (“quando non c’è più altro da chiedere”): che cosa è filosofia? L’inciso “quando non c’è più altro da chiedere” evidenzia la differenza che sussiste tra la domanda del sapere e la domanda propriamente teoretica. La prima chiede conto del mondo e dei suoi oggetti. Essa è, per così dire, estroversa. La seconda chiede invece della filosofia stessa, in quanto forma del sapere. Essa è, per così dire, introversa. Quando non c’è più altro da chiedere intorno al mondo, non perché lo si sia esaurito ma perché si è compreso che non era quello il domandare veramente filosofico, la domanda si

rivolge a se stessa, diventa “domanda sulla domanda”. Si tocca allora quel vertice della riflessività immanente del gesto filosofico che agli occhi del non filosofo appare come un disperato tentativo di saltare al di là della propria ombra, ma che per il filosofo è il punto di non ritorno in cui la volontà di verità diviene, come voleva Nietzsche, essa stessa problema. La filosofia è un sapere o è riducibile a sapere, magari a sapere arcontico, a sapere fondativo di tutti gli altri saperi? Oppure, la filosofia, prima di essere un sapere e per poter essere sapere, è un gesto, è un atteggiamento determinato? La domanda corretta è quella che chiede che cos’è filosofia o non è piuttosto quella pragmatica che chiede come fare filosofia? Nella seconda ipotesi la questione della natura del filosofare sarebbe etica e solo derivatamente teorematica. Qual è, insomma, la postura del filosofo? Ebbene, un détour nella tecnica brechtiana dell’arte drammatica permette di abbozzare una risposta che non ha nessuna pretesa di originalità (e perché mai dovrebbe essere originale?). Essa è infatti così poco originale da riportarci all’origine della prassi teorica stessa. Al tempo stesso ci mostrerà in che senso può darsi un nuovo atteggiamento filosofico. Che deve fare l’attore che calca il “podio” del teatro epico (“poiché è in un podio che la scena si è mutata con il teatro epico”32)? Come deve atteggiarsi? È ben nota la scrupolosa precisione, al limite della maniacalità, che caratterizzava il lavoro di Brecht con i suoi attori. È altrettanto noto come la fedeltà al suo metodo risultasse nei fatti pressoché impossibile. Essere dei buoni attori brechtiani è difficile quasi come essere filosofi... Brecht, infatti, non vuole recitazione, ma citazione del personaggio. Non vuole attori che si immedesimino, ma attori che mostrino e dimostrino. Piuttosto che declamare, l’attore deve leggere e leggere proprio come fa chi studia, con la penna in mano, prendendo note a margine del testo. Mentre agisce su una scena, senza quarta parete, deve “guardarsi guardare” e, così facendo, deve dare a vedere quello che mostra a se stesso allo spettatore che giudica e al quale si rivolge, rompendo l’incantesimo della Einfühlung. L’insistenza brechtiana sul verbo “mostrare” (zeigen) è rivelativa. Esso va inteso proprio nel senso che gli dà la filosofia del

linguaggio. Il fine “scientifico” della tecnica della recitazione, ciò che giustifica l’esistenza stessa del teatro epico, è infatti “straniare il «gesto sociale» sotteso ad ogni vicenda”33. La riflessività immanente all’enunciato deve essere portata alla luce, esibita, data a vedere, mostrata: non più agita in modo inconscio e automatico. La scena è perciò l’ambito di una Aufklärung. Abbiamo allora a che fare con un semplice passaggio dal non tematico al tematico? Dall’atto irriflesso di riflessione alla riflessione oggettivante? La scena è uno smascheramento dell’ideologia ed una sua denuncia? Segna il passaggio al sapere? La mathesis assicurata dal teatro didattico è declinabile nella forma della relazione soggetto-oggetto? L’illuminismo di Brecht non è così ingenuo. Differisce sostanzialmente da quello di un certo freudismo di maniera, al quale per certi aspetti sembrerebbe invece avvicinarsi. Per una psicanalisi incentrata sul primato dell’Io, il senso dell’analisi era portare l’Io dove era Es. L’obiettivo della terapia era “la presa di coscienza”. Quel mostro teorico che si chiama freudomarxismo – e che tanto successo ha avuto – faceva incontrare Marx e Freud nel primato della autocoscienza. In qualche modo il senso sotteso in ogni entimema sociale oggettivo doveva risalire al di sopra della barra e farsi infine proposizionale. Allora, grazie al sapere (un sapere che cosa) si sarebbe finalmente guariti a livello individuale (il lupo del sogno era il babbo, ecco la soluzione del rebus onirico…) o a livello storico (il proletariato disperso si sarebbe fatto, hegelianamente, classe “per sé”, sarebbe divenuto Soggetto, proletariato rivoluzionario). La fiducia brechtiana nel Partito discendeva probabilmente proprio dall’adesione ad una simile interpretazione della dialettica della storia, che Brecht aveva incontrato nel Lukács di Storia e coscienza di classe e che trovava ribadita nell’opera dell’amico Karl Korsch. Tuttavia, a dispetto della grossolanità teorica che alcuni gli rinfacciano, il Brecht teorico dello straniamento procedeva invece in modo infinitamente più accorto e più interessante. Con il suo metodo di recitazione, Brecht avanza una soluzione “bastarda” nel senso che Platone attribuisce a questa parola in un famoso passo del Timeo34. La chora, notava Timeo, è “ciò in cui” ogni

cosa sensibile è generata, essa è “il ricettacolo (ypodoche) di tutto ciò che si genera, quasi una nutrice (tithene) di tutto”35. In quel grande enunciato che è il cosmo fisico, la chora svolge la stessa funzione che in un qualsiasi enunciato ordinario compete a S posto al di sotto della proposizione P. Tuttavia, sebbene costituisca il materiale di base, non può essere pensata come tale, perché pensare è sempre determinare qualcosa come qualcosa. Il pensiero, insomma, è proposizionale, mentre la chora come tale è extra-proposizionale. Dunque non resta che pensarla indirettamente mediante “una specie di ragionamento bastardo” (loghismos tis nothos). Non si può dirla. Accadrebbe infatti quello che pare avvenga a certe immagini arcaiche dipinte in fondo alle caverne, le quali, se investite dalla insolenza della luce, svanirebbero immediatamente. Impossibile da tematizzare, la chora può essere solo mostrata attraverso un “procedimento” tecnico in grado di produrre immagini ambigue, che Platone chiama “bastarde” perché si situano al di là dell’opposizione idea/cosa sensibile. Tali immagini sono l’effetto di una perversione dell’enunciato, che, grazie al procedimento tecnico, è sospeso nella sua “naturalezza” e problematizzato. Ebbene, il teatro epico di Brecht è un dispositivo tecnico siffatto. Esso permette di regredire al fondamento dell’enunciazione senza annullarne la differenza specifica dalla figura. Immette il senso nella luce senza farlo diventare tema (e senza perderlo come senso). Opera una riflessione di secondo grado – il primo è quello dell’enunciato come “atto irriflesso di riflessione” – che non è tematizzazione, ma che è, se mi si consente al tortuosità espressiva, riflessione dell’irriflesso in quanto irriflesso della riflessione (genitivo soggettivo). Il senso potrà essere ora radicalmente “storicizzato” senza essere detto. Non si può immaginare una maggiore distanza da un teatro ideologico! Un teatro ideologico non lo si riconosce, forse, proprio dal tratto opposto? Non riduce brutalmente il senso a significato, a messaggio, a idea chiara e distinta, che deve essere appresa attraverso una didattica “noiosa” e autoritaria? Per evitare questa cattiva pedagogia, la tecnica della recitazione viene investita da Brecht di responsabilità e di compiti che probabilmente vanno al di là delle possibilità umane. Lo sguardo teorico è una hybris dello sguardo. È veggenza oltreumana. L’attore,

scrive, dovrà “leggere la sua parte nell’atteggiamento di chi prova stupore, di chi contraddice”36. Dovendo esibire il senso storico del suo enunciato dovrà mostrare con i suoi atti che vanno in una determinata direzione (ad esempio egli si muove verso destra invece che a sinistra) che le cose sarebbero potute anche andare in modo opposto (egli non si è mosso verso sinistra): “Prima ancora di mandare a memoria la parte – scrive Brecht –, egli deve mandare a memoria ciò che ha provocato la sua meraviglia e a cui ha avuto motivo di contraddire: poiché questi momenti devono costituire dei punti fermi della sua interpretazione. Quando poi sarà sulla scena, in tutti i momenti importanti, accanto a quello che fa, permetterà di scoprire, metterà in rilievo, renderà intuibili anche le cose che non fa; in altre parole reciterà in modo da dare la più chiara evidenza all’alternativa, da far sì che la sua prestazione lasci intravedere anche le altre possibilità, mentre quella che ha luogo sulla scena è solo una delle varianti possibili (…) Possiamo formulare tecnicamente questo procedimento come la fissazione del «non così – ma così»”37. Non è, come sembrerebbe, la contingenza di tutte le cose ad essere esibita, ma qualcosa di altro, di assai più “drammatico”. Sulla scena del teatro epico l’enunciato (un comportamento) è straniato al punto tale da esibire una contraddizione performativa tra il suo senso (singolare, storico, virtuale) e il suo contenuto proposizionale (universale). La scena è l’ambito in cui la contraddizione acquisisce una figura. Sottoposta all’opera dello straniamento la potenza performativa dell’enunciato sarà gravemente compromessa. È ciò che capita alla prassi quando è investita dallo sguardo teorico. Ricordo di nuovo come per Nietzsche storicizzazione significasse, in ultima analisi, paralisi incipiente. Walter Benjamin, che per anni ha seguito passo a passo il lavoro dell’amico Brecht, ha fatto di questa inversione dell’azione l’essenza del teatro epico (e la sua differenza dalla forma “drammatica”). Lo scrive a più riprese nei suoi interventi brechtiani: “quanto più interrompiamo qualcuno che sta agendo tanto più otteniamo dei gesti. Per il teatro epico l’interruzione dell’azione è di primaria importanza (…) È il ritardo dovuto all’interruzione e la

divisione in episodi dovuta all’inquadratura che fanno del teatro gestuale un teatro epico”38. Straniare, interrompere, incorniciare, significa trasformare un enunciato – normalmente proteso verso il futuro della risposta – in un gesto. Il gesto non è altro che l’atto illocutivo del dire, il quale non si dà mai fuori dalla sua imbricazione con il detto, ma che non è nemmeno mai rintracciabile sul piano del detto se non come “ciò che manca al suo posto”. Del detto, del comportamento, il gesto è il rovescio, l’ombra che sempre lo accompagna e che, proprio come sostenevano gli antichi di quell’ombra chiamata psyché, non si fa mai visibile se non nei momenti di crisi, nella catastrofe del significato. La tecnica brechtiana della recitazione deve mirare ad affrettare una simile catastrofe. Nessun cupio dissolvi nichilista, al contrario un’immensa gioia: perché l’interruzione, liberando il gesto, attinge la dimensione del senso, cioè il cuore del divenire. L’interruzione interrompe le cose divenute, arresta il loro naturale scorrere in direzioni obbligate e prestabilite dallo stato di cose esistenti. Ciò che arrestando lascia emergere è l’atto del fatto, il divenire di ciò che è divenuto, S di P. La catastrofe è la rivoluzione. Si interrogava il metodo brechtiano per saperne qualcosa di più su come fare o, meglio, su come continuare a fare filosofia oggi. Ebbene, che la filosofia sia un’opera della distanza, che sia stupore e problematizzazione dell’ovvio, non è certo una novità dell’ultima ora. Che la postura filosofica sia quella di Keuner, quella dell’ospite estraneo, anche questo dopo duemila anni di platonismo e di gnosticismi vari non è poi una scoperta da far tremare i polsi. Ma la “recitazione senza immedesimazione totale” di Brecht ci dice quale distanza e quale estraneità siano date in dote al filosofo nuovo. Nuovo è il filosofo che ha fatto del divenire, del cambiamento, della trasformazione, l’assoluto. La distanza raccomandata dalla metafisica per vedere correttamente il mondo era, lo abbiamo visto, la distanza siderale che separa la morte dalla vita. Gli occhi logici del filosofo dovevano essere gli occhi spenti del morto o, più realisticamente, quelli prossimi allo spegnersi di un moribondo. Heidegger in pieno Novecento lo ribadisce

con quell’enfasi un po’ kitsch che Brecht tanto detestava. Egli riformula così il cogito cartesiano: “nella misura in cui io sono, sono moribundus. Il termine moribundus dona al sum appunto il suo senso”39. Heidegger mostra qui tutto il suo debito nei confronti della tradizione metafisica della quale solo apparentemente è un sovvertitore. Nell’orizzonte della distanza assoluta della morte il filosofo platonico vedeva il fondamento del mondo come idea eterna ultrasensibile, quello heideggeriano (o wittgensteiniano) lo vede come essere dell’ente o come mistico evento. In ogni caso, che sia percepito come idea, come essere, come totalità delimitata, il mondo è intuito come qualcosa di dato una volta per tutte ad uno spettatore disinteressato che non inerisce più ad esso. Che interesse può avere, dopotutto, un moribundus? Il filosofo nuovo è invece quello chiamato in causa dall’ultima delle tesi di Marx su Feuerbach, la più cara a Brecht. La distanza dalla quale giudicare correttamente il mondo è ora la distanza di un vivente dalla vita che sta vivendo in atto e alla quale non si può sottrarre, perché la vita non ha opposto (il suo “interesse” è dunque inestinguibile). È la distanza che deve prendere chi si trova nella necessità di saltare oltre un ostacolo, una distanza mirata all’obiettivo della trasformazione dello stato di cose presenti. Tenendosi a questa distanza pragmatica e affatto “interessata” il filosofo non vede allora più delle Idee, non si pone nemmeno in ascolto dell’essere, né cade nel silenzio del mistico. Piuttosto mostra e fa vedere ad un pubblico altrettanto interessato dei “gesti”. Come la scena del teatro epico, la filosofia, per dirla con Benjamin lettore di Brecht, rende il gesto dell’essere “citabile”. Sotto la realtà solidificata e apparentemente eterna delle cose, fa emergere l’atto illocutivo del divenire, il motore immobile di ogni trasformazione pratica. 1

G. DELEUZE – F. G UATTARI , Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996, p. IX. 2

B. BRECH T, Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1962, p. 77. B. BRECH T, Storie del signor Keuner, Einaudi, Torino 2008, p. 35. 4 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., p. 47. 5 Ione 534 b. 6 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., pp. 13-14. 3

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Rep. V, 475 d. 8 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., p. 16. 9 Rep. V, 476 a-b. 10 Cfr. Rep. X, 602 c e sgg. 11 Rep. X, 604 e. 12 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., p. 119. 13 I. K ANT, Critica del giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 155. 14 H. BERGSON, Le rire, in I D., Œuvres, Puf, Paris 1959, pp. 383 sgg. 15 Cfr. P. V IRNO, Quando il verbo si fa carne, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 16 Cfr. La natura dei pronomi, in É. BENVENISTE, Essere di parola, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 138. 17 E. LÉVINAS , Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, pp. 165 sgg. 18 F. CAMBRIA , Corpi all’opera. Teatro e scrittura in Antonin Artaud, Jaca Book, Milano 2001. 19 B. BRECH T, Dialoghi di profughi, Einaudi, Torino 1962, p. 102. 20 Cfr. G. DIDI -HUBERMAN, Quand les images prennent position. L’oeil de l’histoire, I, Minuit, Paris 2009. 21 M. F OUCAULT, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009, p. 47. 22 B. BRECH T, Vergnügungen, in I D., Poesie, t. 2, Einaudi, Torino 2005, pp. 1362-1363. 23 J.O. URMSON, Philosophy and ordinary language, University of Illinois Press, Urbana 1963. 24 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., p. 14. 25 Ivi, p. 62. 26 Cfr. J.P. S ARTRE, La trascendenza dell’Ego, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011. 27 L. W ITTGENSTEIN, Della certezza, Einaudi, Torino 1978, p. 19. 28 Ivi, p. 57. 29 Ivi, p. 20.

30

M. BACH TIN, La parola nella vita e nella poesia. Introduzione ai problemi di una poetica sociologica, in I D., Linguaggio e scrittura, Meltemi, Roma 2003, p. 43. 31 B. BRECH T, Dialoghi di profughi, cit., p. 99. 32 W. BENJAMIN, Che cosa è il teatro epico. Prima versione, cito dalla traduzione francese Essais sur Brecht, La fabrique éditions, Paris 2003, p. 19. 33 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., p. 82. 34 Timaeus 52 b1-5. 35 Timaeus 49 a 6. 36 B. BRECH T, Scritti teatrali, cit., pp. 78-79. 37 Ivi, p. 79. 38 W. BENJAMIN, op. cit., p. 21. 39 M. HEIDEGGER , Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova 1991, p. 393.

Due IL DISPOSITIVO PROSPETTICO

L

a prospettiva lineare non è una tecnica innocente. In essa c’è qualcosa di intrinsecamente colpevole. In quel meccanismo proiettivo, di cui erano stato i primi inventori, i pittori hanno sempre fiutato una minaccia portata alla loro stessa “arte”. Una minaccia e, al tempo stesso, una fascinazione alla quale, per essere “artisti”, sentono di dover resistere, facendone, semmai, un uso prudente. Non è improprio, parlando della prospettiva, ricorrere al linguaggio della teologia morale. Ogni storico dell’arte lo sa: fin dall’inizio, per fare della grande pittura, era scontato che si dovesse deviare dalla norma prospettica. Nella grande arte rinascimentale l’eresia era la regola mentre l’ortodossia rappresentava l’eccezione. Vasari mostrerà ben poca stima per gli “effetti speciali” di un Paolo Uccello troppo obbediente a un principio rigidamente proiettivo. L’inflessibile ossequio alla norma prospettica assume così il senso di una trasgressione che svia il pittore dal retto cammino, compromettendolo tanto sul piano artistico quanto, anche se la cosa è meno evidente, su quello morale. La sua integrità è intaccata da una eccessiva fedeltà al dettato della macchina. La macchina può infatti insidiare la libertà dell’uomo come nelle più scontate trame di science fiction. Nell’opinione di un Vasari l’ortodossia prospettica comportava una pericolosa ricaduta nel tecnicismo, vale a dire in quella dimensione “meccanica” del fare, che era dominante nel mondo medievale. Il

Medioevo di “arte” nel senso moderno e romantico del termine poco o nulla sapeva1. Da quel mondo arcaico, in cui arte, artigianato e tecnica si confondevano in un solo magma di “immagini” sprovviste di “autore”, Vasari voleva emancipare la pittura, dandole, finalmente, la dignità di arte liberale. La pittura ambiva, insomma, al rango della poesia. Ai fini della sua trasvalutazione poetica, la tecnica prospettica, con tutto il suo bagaglio di conoscenze pratiche e di saperi empirici, costituiva più un ostacolo che una risorsa. Sul piano morale e religioso, poi, tale tecnicismo aveva il senso quasi di una rivalutazione anticristiana e antipaolina della “lettera” nei confronti della potenza dello “spirito” e, seppure non apertamente denunciato, implicava un’inclinazione psicologica di cui si avvertiva il carattere perversamente voyeuristico. Fin da subito, il “vedere attraverso” (perspicere) della prospettiva lineare sarà vissuto come un vedere profano che desacralizza il proprio sublime oggetto. Per questo, ben presto, emigrerà al Nord dove otterrà i risultati più eclatanti. Lì potrà coniugarsi con l’emergenza di una nuova sensibilità borghese, che, incrociandosi con la critica protestante dell’idolatria cattolica, libererà il soggetto della pittura da ogni riferimento al trascendente. Si dice, non senza ragione, che tale naturalismo profano abbia a che fare con un umanesimo radicale. In verità, insieme al soddisfatto decoro borghese dei coniugi Arnolfini, la tecnica prospettica rimette in gioco, come vedremo, forze demoniche, non umane, se non apertamente antiumane. Chi, in fin dei conti, non ha scorto nell’ostentata soddisfazione dei due sposi l’annunciarsi di qualcosa di letteralmente “mostruoso”? La critica novecentesca del procedimento prospettico darà a tale antica ostilità la sua adeguata cornice teorica. Basta rileggere le pagine conclusive del celeberrimo saggio del 1927 di Erwin Panofsky. Nel limpido stile di una filosofia dell’arte ispirata al neokantismo di Cassirer, vi si trova infatti enunciata la tesi secondo cui la concezione prospettica sbarrerebbe “ogni accesso per l’arte veramente religiosa alla regione del visionario”2. Trasformando la superficie in piano figurativo, sul quale si proietta uno spazio unitario visto attraverso di esso e comprendente tutte le cose, la sostanza (ousia), dice Panofsky, si

fa, senza residui, fenomeno (phainomenon). Il mondo diviene integralmente immagine. La distanza tra umano e divino è ridotta, se non cancellata, e siamo dislocati su di un piano che al suo centro ha soltanto l’uomo. Il divino fenomenologicamente “ridotto” diventa, secondo Panofsky, semplice contenuto della coscienza umana: il cogitatum del suo infinito cogitare. La prospettiva, cioè la cartesiana metafisica della soggettività! Ma tale antropocentrismo è solo apparente, dal momento che l’annullamento della trascendenza comporta anche la liquidazione della sostanzialità dell’umano. Dalla tecnica prospettica il soggetto è ormai ridotto a un punto: semplice punto di fuga inscritto nel piano di immanenza del quadro. Come tale ce lo presenta Brunelleschi con il suo celebre dispositivo descritto da Antonio di Tuccio Manetti nella sua Vita di Filippo Brunelleschi (1475 ca). Qui a raffigurare il soggetto in modo “bastardo” (uso l’espressione nel suo senso platonico, come sinonimo di indiretto) è un minuscolo buco che si apre nel punto all’infinito in cui convergono le linee di fuga perpendicolari al piano del quadro. Da questo non-luogo bisogna guardare per vedere nello specchio posto di fronte all’immagine l’effetto prodotto dalla costruzione prospettica. Ben strano effetto è però quello che verrà così a prodursi! Guardando da questo strano buco della serratura – siamo infatti dietro al pannello – si sarà testimoni di uno sguardo senza soggetto, uno sguardo anonimo che non si riflette in se stesso e che non ha la forma del videre videor, che non è il cartesiano cogito me cogitare. Il dispositivo brunelleschiano produce piuttosto il risultato contrario. Come osserva Hubert Damisch, nel suo bellissimo saggio sull’Origine della prospettiva, esso risolve, per così dire, il paradosso rappresentato da un occhio che posto di fronte ad uno specchio volesse guardare senza vedersi 3. Invece dell’atto riflessivo, che pone un soggetto certo di sé, abbiamo allora un atto irriflesso o preriflessivo! Dal buco del dispositivo di Brunelleschi possiamo sbirciare un fuori senza relazione con la soggettività vivente: un fuori assoluto, dunque, che preesiste ad ogni intenzionalità e che la tecnica prospettica ci permette di incontrare in barba al principio della correlazione universale di mondo e di coscienza del mondo. La “tecnica” ce lo fa ritrovare come

immagine, ma come immagine pura, completamente desoggettivizzata. Nei termini della Critica kantiana, l’ergon della tecnica prospettica è una “intuizione cieca”, senza concetto 4. Come Panofsky, anche Pavel Florenskij nella prospettiva vede agente la tecnica diabolica che liquida il sacro dalla dimensione dell’esperienza umana e che insieme ad esso liquida anche l’uomo che di Dio è immagine e luogotenente terreno 5. Nel nuovo spazio infinito, omogeneo, isotropo, inaugurato dalla prospettiva, non c’è infatti letteralmente luogo per la trascendenza di Dio ma non ce n’è nemmeno per la differenza dell’umano. Nel suo spazio sistematico non ci sono più, in realtà, dei luoghi come ve n’erano nell’antica concezione aristotelica e scolastica dello spazio. Le sole differenze sono oramai solo differenze di posizione, di scala, ma non differenze di valore. L’assiologia ha lasciato definitivamente il posto alla geometria. Ben nota, perché ampiamente ripresa e sviluppata dalla fenomenologia, è la critica formulata agli effetti alienanti della costruzione prospettica. Essa si incrocia con la più generale critica fenomenologica dell’obiettivismo scientifico. In entrambi i casi e per le medesime ragioni l’esperienza vivente sarebbe stata sostituita da una sua ardita trascrizione simbolico-concettuale. Impossibile – o, almeno, “ingenuo” – chiamare ancora “uomo” o “coscienza” o “soggettività vivente e incarnata” quel punto che la tecnica prospettica deve presupporre a fondamento della “costruzione legittima”. Come confondere, infatti, quell’occhio solitario immobile, mondato di ogni vita e di ogni storia, con lo sguardo di un essere vivente brancolante nella penombra dell’esperienza? C’è tutto un Novecento filosofico che, riprendendo le obiezioni che alla prospettiva erano già state mosse al momento della sua nascita, si è chiesto se questo punto geometrico privo di sostanza (i punti non hanno infatti dimensione, sono pure astrazioni limite), da cui si dovrebbe guardare il mondo, fosse veramente fatto, come pretendeva Filarete (nel suo Trattato d’Architettura, 1460-1464 ca.), “a similitudine dell’occhio”. Era, insomma, ancora un occhio umano o non prefigurava un altro occhio, questa volta non più umano, che con il nostro ha solo un rapporto di omonimia? La relazione di omonimia, ricordo, non è

una relazione di similitudine, ma una differenza di natura nell’apparente analogia. Aristotele diceva, ad esempio, che la mano tagliata del cadavere è soltanto “omonima” alla mano del vivente come il cane costellazione rispetto al cane abbaiante. Esse non hanno in realtà nulla in comune. La risposta che Panofsky, Florenskij, MerleauPonty e tanti altri hanno dato è che quell’occhio artificiale non è per nulla “simile” all’occhio naturale. Il punto-occhio sembra l’occhio di un uomo, è presentato come tale dagli apologeti del metodo, ma non lo è. Potrebbe semmai essere l’occhio di un ciclope, ma non è nemmeno quello, perché quel mostro lo dovremmo poi immaginare assolutamente immobile e disincarnato, senza tempo né memoria, un puro occhio destro aperto su uno spettacolo che non può comprendere (infatti non ha memoria e, quindi, non può ri-conoscere niente). Quell’occhio, poi, nemmeno può dirsi un occhio, perché l’occhio, dopotutto, è uno sfero, mentre la piramide visiva ha bisogno solo di un punto da cui tracciare delle rette... Per provare allora a immaginare di che razza di occhio si tratti, si è costretti a ricorrere a degli anacronismi. Bisogna retrodatare alla tecnica prospettica un altro prodotto della tecnica. Quell’occhio, dirà ad esempio Florenskij, è piuttosto la lente di vetro di una camera oscura, oppure è l’occhio di un obiettivo fotografico. Quell’occhio è, insomma, già cinema. Lungi dall’essere il cartesiano video videor, il suo video è già il video del video, ben prima dell’arrivo della video-arte6. Quell’occhio-punto funziona infatti come dispositivo automatico di registrazione, del tutto indipendente dallo sguardo. Il concreto atto del vedere funge semmai da detonatore di un processo, oppure da fonte, tra le altre, di alimentazione del meccanismo. Ora, cosa fa il dispositivo “acceso” dallo sguardo? Il dispositivo preleva meccanicamente dal mondo circostante una pellicola superficiale che viene chiamata “immagine”. Anche in questo caso la relazione tra questa immagine e l’immagine psichica è solo di omonimia. A differenza delle immagini psichiche, le quali sono sempre immagini che mi presuppongono come loro soggetto – sono, cioè, immagini di qualcosa che mi è dato –, l’immagine catturata dal dispositivo non è l’immagine di nessuno. Essa è un’immagine anonima, un’immagine senza ego immaginante e, quindi,

anche senza mondo-oggetto: immagine di niente e di nessuno. Tale doveva apparire la porta del Battistero di Santa Croce a chi guardava dal forellino del dispositivo brunelleschiano. La fessura era stata aperta sul retro del pannello perché si ristabilisse, grazie allo specchio, un contatto visivo con quanto la macchina aveva registrato senza atto intenzionale di sintesi visiva (“intuizione cieca”). Se tale è la natura del dispositivo prospettico, era del tutto naturale che, fin dall’inizio, si percepisse la sua indifferenza alla misura dell’uomo e, infine, la sua diabolicità, vale a dire la sua capacità di pervertire la buona natura. Inoltre, fin dall’inizio, non poteva non essere avvertito il carattere profondamente antiartistico del procedimento. Proprio perché “procedimento”, la tecnica esautora infatti la demiurgia, mette in mora il prestigio della mano sostituendole l’efficacia di un algoritmo. Le grandi mitologie umanistiche dell’opera d’arte non devono perciò attendere la riproducibilità tecnica per essere messe in questione. Già il dispositivo prospettico mostrava la possibilità di immagini generate automaticamente con quella “democraticità esecutiva” che avrebbe fatto inorridire il Baudelaire testimone sgomento dell’avvento della fotografia (Dio mio! Adesso tutti possono produrre delle immagini!). Il nuovo metodo, che avrebbe dovuto consacrare la ritrovata centralità dell’uomo-creatore, dopo secoli di buio medioevo, rimetteva in circolo vecchi fantasmi. Primo fra tutti, una concezione “non liberale” della pittura, che rischiava di decadere nuovamente alla condizione di tecnica esecutiva con grave pregiudizio del principio della “autorialità”. Possiamo allora riformulare la domanda di partenza. Dove ci porta, ci chiedevamo, quella particolare eresia che consiste nella ortodossia prospettica? O, dal momento che la prospettiva, come si usa dire, trasforma il quadro in “finestra”, su che si apre veramente questa famosa finestra? Sul “mondo”, si è soliti dire, ma è veramente ancora “mondo” quello che, come voyeur, spiamo attraverso la fessura del congegno brunelleschiano? Per provare a rispondere prendiamo in considerazione un caso limite di costruzione prospettica. Mi riferisco alle cosiddette “prospettive urbinati” che sono tra le più rigorose e perturbanti applicazioni dei principi della prospettiva. La loro storia è misteriosa. Esse resistono ad ogni tentativo di decifrazione. La storia

dell’arte va in folle quando si imbatte in esse. Che cosa rappresentano, quel è il loro soggetto, quale la loro funzione, quale il loro significato? Sono tutte domande che restano sostanzialmente senza risposta. Financo quella più semplice, quella che chiede chi mai fosse il loro autore. C’è da riflettere, credo, su questo mutismo ostinato. Sembra quasi che il mondo a cui abbiamo accesso attraverso la tecnica prospettica non sia più un mondo umano, non appartenga alla storia, la quale è evidentemente una teleologia del senso. A dispetto della luce che le illumina, rendendo gli angoli degli edifici così nitidi, le prospettive urbinati sono opache, non vogliono dire nulla. Se allora non hanno un “autore” non è, forse, solo perché ne abbiamo perso memoria, ma perché ne contestano con la loro mera esistenza la funzione. L’autore è infatti un padre premuroso che accompagna la sua opera spiegandola, illustrandola, completandola con una parola ulteriore. Gli autori non si stancano mai di parlare. La loro verbosità è proverbiale. Le prospettive urbinati, invece, nascono orfane, proprio come è orfano l’inconscio secondo L’anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari 7. Non hanno padre-autore: la loro generazione è spontanea come le icone acheropite che ossessionano gli spiriti mistici. Se il cosiddetto autore fosse scovato da qualche parte e se con una ingegnosa macchina del tempo fosse possibile intervistarlo, credo non avrebbe nulla da dire su quello che ha mirabilmente fatto. Tale mutismo tenace è consustanziale alle prospettive urbinati. Esso è anzi sfacciatamente esibito ne La città ideale della Galleria Nazionale delle Marche, dove le iscrizione sui frontoni dei palazzi di destra e di sinistra presentano caratteri inventati, quasi ad irridere anticipatamente ogni pretesa decifratoria. La scena è liberata dalla tirannia del testo: è il rovescio del principio umanistico ut pictura poesis. A proposito dell’effetto indotto dalle prospettive urbinati, Jean Cocteau (che ne trovava un’eco in De Chirico) ha usato il verbo francese “méduser” che normalmente viene tradotto con sbalordire, stupire, ma che ha anche il senso di catturare, quasi pietrificando, nel proprio incanto. Cocteau intendeva dire che in quelle città ideali, come nello specchio della Medusa, era all’opera un effetto paralizzante di stordimento, un’attrazione fatale in uno spazio astratto, nel quale tanto

lo spettatore quanto il cosiddetto autore si sarebbero immancabilmente perduti. Si sarebbero perduti non senza, però, uno specifico “godimento”, che si situa certamente al di là del principio del piacere, fuori dal dominio della Legge (cioè di Dio e dell’Uomo). Hubert Damisch spiega questo effetto con un paragone efficace. Come spesso capita nei testi che trattano la prospettiva lineare – quasi sempre per denunciarne l’artificialità – anche Damisch, che invece apprezza la prospettiva, tira in ballo la fotografia e, più precisamente, il suo “obiettivo”: “Un obiettivo, però, dietro il quale non è necessario che si nasconda un occhio. Potrebbe – aggiunge –, sostituirlo un computer: si vedano le fotografie dei pianeti che ci inviano le sonde spaziali della NASA e che a ogni tappa del loro viaggio aprono nuove prospettive sull’universo disabitato. Médusées, ces sondes, et nous avec elles”8. La natura del godimento assicurato dal dispositivo prospettico comincia a chiarirsi. Esso è assai prossimo a quello provato dal voyuer perverso che nella relazione alla cosa ha di mira la cosa assolta dalla relazione: la vuole vedere come non vista. Perspicere significa sorprendere, grazie al dispositivo, il mondo prima dell’uomo o dopo l’uomo: “pura visione di un occhio non-umano, di un occhio che sarebbe nelle cose”, scrive Deleuze9. Non c’è poi nulla di stupefacente, continua il filosofo francese, nel fatto che questo occhio sia un artificio – la prospettiva è infatti costruzione – poiché il mondo prima dell’uomo “è dato solo all’occhio che non abbiamo”10. Il terzo occhio ce lo dobbiamo inventare tecnicamente. Due sono le tesi che vanno evidenziate nel citato passo di Damisch. 1) Dietro al dispositivo prospettico assunto nella sua purezza ideal-tipica non c’è occhio umano o c’è solo accidentalmente. La tecnica prospettica esautora lo sguardo. La sua utopia è la macchina che vede o, come meglio sarebbe dire, la macchina che registra, che scrive, che traccia, senza nessun fantasma dotato di occhi nascosto in essa a dirigerla. La sua utopia (nel senso letterale del termine) è un campo di immanenza assoluta che non si incurva su di un soggetto che lo vede. È piuttosto il campo ad essere in quanto tale già in ogni suo punto una visione assoluta, che solo per omonimia si può riferire alla nostra visione umana. “In altri termini, l’occhio è nelle cose”11 e se c’è

fotografia “è già presa, già scattata, all’interno stesso delle cose e per tutti i punti dello spazio”12. 2) Il “mondo” sui cui si apre la famosa finestra non è più il nostro mondo. Anch’esso è “mondo” solo per omonimia. In realtà quanto “si vede attraverso” è un universo disabitato dall’uomo, dal senso umano del mondo, anche quando materialmente, come di fatto accade nelle prospettive urbinati, è fatto dagli edifici, dalle chiese e dalle piazze che incontriamo nella vita quotidiana. Non si può non essere colpiti dal vuoto della scena che le prospettive “pure” sempre presentano. Non c’è mai nessuno in quelle città. Nella Piccola storia della fotografia, Walter Benjamin, parlando della fotografia di Atget, diceva che le nuove forme di veggenza – fotografia e cinema – dopo aver declassato la mano, dopo aver messo alla berlina “le grandi vedute e i cosiddetti simboli rivelatori”, avevano stretto una laica alleanza con le città disabitate. “Ma curiosamente – scrive – quasi tutte queste immagini sono vuote. Vuota la Porte d’Arcueil, vuoti gli scaloni d’onore, vuoti i cortili, vuote le terrazze dei caffè, vuota, come si conviene, la Place du Tertre. Tutti questi luoghi non sono solitari, bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi. Sono queste le opere in cui si prefigura quella provvidenziale estraneazione tra il mondo circostante e l’uomo, che sarà il risultato della fotografia surrealista. Essa libera il campo per l’occhio politicamente educato, un campo in cui tutte le intimità scompaiono a favore del rischiaramento del particolare”13. Michelangelo Antonioni , trent’anni dopo, fornirà una strabiliante verifica della intuizione di Benjamin sulla natura non umana della fotografia nella sequenza conclusiva de L’Eclisse. Il dispositivo prospettico è, dunque, all’origine dell’obiettivo cine-fotografico, soprattutto quando questo cessa di piegarsi alle esigenza narrative, alla letteratura, al teatro, alla storia, per farsi promotore di una immagine ottico-sonora pura. Non si deve però intendere questa filiazione in senso empirico ma solo relativamente all’ontologia dell’immagine (uso l’espressione “ontologia dell’immagine” nell’accezione che ad essa è data da André Bazin nel

saggio Ontologia dell’immagine fotografica14). Non è in questione la genesi dell’obiettivo fotografico in quanto medium dalla camera oscura15, ma il nuovo statuto dell’immagine reso possibile dal dispositivo prospettico. La continuità tra i due dispositivi è rappresentata dal “non-mondo” che essi ci costringono a “disabitare” e di cui le Prospettive urbinati sono forse il manifesto. È il non-mondo incessantemente battuto dai veggenti, che non sono artisti, se non per comodità di classificazione, quanto piuttosto “occhi politicamente educati”. Benjamin, scrivendo quelle righe, pensava a Brecht e al suo metodo. Il teatro epico brechtiano è, per Benjamin, una siffatta macchina registratrice del “reale”, una sonda sensibilissima capace di prelevare un po’ di reale allo stato puro, isolandolo dal mondoambiente e facendolo finalmente apparire nella sua estraneità (il “gesto” reso citabile). Médusées, ces sondes, et nous avec elles. A questo anacronismo – il dispositivo prospettico come obiettivo fotografico – siamo autorizzati proprio dai critici della artificialità della costruzione prospettica. Si rilegga un testo per tanti versi mirabile come La prospettiva rovesciata di Pavel Florenskij. Che cosa racconta il grande prete russo? Che la prospettiva nasce come un esorcismo contro una concezione naturale del mondo. È un’astrazione che grazie ad un duro tirocinio si è sovrapposta abusivamente alla percezione concreta, mutilandola e perfino accecandola. Costruisce una quadro fittizio del mondo “che bisogna vedere, ma che, nonostante l’addestramento, l’occhio umano non riesce assolutamente a vedere”16. I congegni splendidamente rappresentati da Dürer nelle xilografie della sua Unterweisung der Messung ne sono la prova. “Per quanto siano belle quelle incisioni, con il loro spazio ristretto, in sé conchiuso – commenta Florenskij – altrettanto anti-artistico è il senso delle istruzioni che vengono date in esse”17. Lo scopo di quei disegni è infatti quello di illustrare un procedimento semimeccanico che può aiutare anche il più maldestro dei disegnatori a diventare un provetto pittore di prospettive. Sono vere e proprie macchine che guidano la mano senza essere preordinate ad un atto di sintesi visiva e, in un caso, il quarto (Il disegnatore del liuto, 1525), perfino senza il ricorso all’occhio.

Cercavamo l’autore delle prospettive urbinati? Eccolo! È una macchina per “vedere”. Le virgolette sono d’obbligo. Qui vedere non è coscienza, non è intenzionalità, ma traccia, scrittura, forse dovremmo dire trauma, intendendo con tale espressione l’avvenimento, quasi sempre annunciato dallo choc, di una impressione. Nel celeberrimo saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità, Benjamin chiamava con grande precisione “inconscio ottico” questo sistema di registrazione semiautomatico di quanto la nostra percezione naturale non coglie né è interessata a cogliere. L’inconscio freudiano è un dispositivo, un sistema di registrazione delle tracce, che procede per choc, per traumi. Florenskij di fronte a tutto questo trattiene a malapena il suo sdegno. Congedare lo sguardo gli appare una vera e propria bestemmia nei confronti di Dio e dell’uomo, costruito a sua immagine come signore del creato. Il suo disappunto per i congegni dureriani, diciamolo francamente, non è dissimile da quello che aveva spinto un noto pittore accademico francese ad abbandonare l’aula dell’Institut de France dove, il 18 Agosto 1839, François Arago aveva resa pubblica l’invenzione della fotografia. Tutti, da questo momento, si sarebbero infatti potuti arrogare il diritto di autoproclamarsi pittori! Nessuno lo sarebbe più veramente stato! Addio all’Accademia. Addio alle amate gerarchie. Addio all’ordine “cosmico”. Lo sdegno del prete russo traduce in termini teorici raffinatissimi il più comune spaesamento dei tanti che aggirandosi da ormai un secolo nei padiglioni delle esposizioni di “arte” contemporanea vi trovano solo procedimenti meccanici, oggetti “belli e fatti”, rifiuti del mondo quotidiano. Gli studi di Rosalind Krauss hanno mostrato come sia stato proprio il paradigma fotografico a determinare il modernismo in arte18. Quello di cui i frastornati visitatori avvertono la mancanza è, dopotutto, l’“arte”, così come accadeva a Florenskij al cospetto degli effetti democratici indotti dalla tecnica prospettica. In un certo senso hanno ragione. Essi vi fiutano la catastrofe non solo di un mondo ma del “mondo”. Tale latitanza di arte, tale assenza d’opera, fa segno infatti ad altre assenze, ben più inquietanti: la fine dell’Uomo, quella della Storia e, infine, quella di Dio. Vi fiutano “l’anarchia incoronata” di Artaud, il chaosmos di Deleuze-Guattari, la Comune di Parigi che

brucia il Louvre (come, mentendo, raccontavano i giornali borghesi per aizzare al massacro indiscriminato dei rivoluzionari). Ma quanto essi percepiscono sotto il profilo della perdita immedicabile fa segno anche ad un Grande Fuori che, troppo impegnati a rimpiangere il mondo evaporato, non possono nemmeno intravedere. Sentono infatti che attingendolo perderebbero anche se stessi. Florenskij, da genio qual è, comprende perfettamente in cosa consista la potenza eversiva della tecnica prospettica. Essa, scrive, renderebbe accessoria la funzione dello sguardo fino a eliderla. Al limite non c’è nemmeno bisogno di supporre un occhio dietro l’obiettivo, come avviene nella macchina raffigurata nella xilografia di Dürer. Diderot, nel XVIII secolo, nelle Lettres sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient, si era già reso conto di questa esautorazione. Il dispositivo prospettico non ha bisogno di occhi che vedano. Un cieco dalla nascita lo può apprendere efficacemente. Il mondo messo in prospettiva non è infatti un mondo visto da qualcuno, non si radica nell’esperienza visiva del soggetto. È un mondo costruito artificialmente. A poco più di un secolo dalla sua nascita artistica sarà infatti assorbito negli schemi della geometria proiettiva. Non è nemmeno un mondo perché non c’è mondo quando viene meno il correlato trascendentale del mondo, vale a dire il soggetto che lo abita e che lo costituisce con i suoi atti. È piuttosto “un dominio senza sguardo” (la formula è di Michel Foucault) che trova nella fotografia e nel cine-occhio il suo perfetto medium. La prospettiva “pienamente realizzata” è la fotografia, scrive Florenskij19. Florenskij è un metafisico di razza. Per lui “realizzata” significa attualizzata, portata al suo compimento. Il dispositivo fotografico è perciò la forma di cui il dispositivo prospettico, illustrato dai congegni di Dürer, era ancora la privazione e il desiderio. Il cine-occhio del suo contemporaneo comunista Dziga Vertov è, per parlare la lingua di Aristotele, il telos di quella tecnica. È il congegno perfetto che permette di registrare senza atto di sintesi visiva. Certo, si guarda nell’obiettivo, (quando lo si guarda: Florenskij non poteva conoscere le sonde spaziali né gli enormi apparati di controllo presenti nelle nostre città), ma lo sguardo funziona solo

come detonatore di un’esplosione. Esso è parte della macchina. Ne è l’operatore. La conclusione che ne trae il prete russo è sconsolata: il dispositivo fotografico mostra cosa è sempre stato il dispositivo prospettico, anche quando si autointerpretava come celebrazione della grande cultura umanistica. Nient’altro che astrazione generalizzata che si sostituisce abusivamente all’esperienza vivente. Finge di esserne il supplente, quando invece, come le macchine nella distopia di Samuel Butler, Erewhon, ne esautora la funzione (per Butler, la creatività umana era soltanto la genitalità delle macchine20). Se la piramide visiva albertiana è una finestra, è una finestra che non si apre sul mondo, semmai è un battente che si chiude, separandoci definitivamente da esso e chiudendoci in un soggettivismo sfrenato e claustrofobico al limite del narcisismo patologico. La tesi che ritorna più frequentemente nei suoi magnifici testi è che il vero oggetto della grande “arte” moderna non sia altro che l’“artista” come colui che mette in scena, proprio come un regista, il rifiuto dell’ontologia (a differenza del pittore di “icone”). Dunque niente “arte”, niente “artista”, ma solo l’affermazione di una immanenza assoluta senza punti salienti di trascendenza, senza varchi da cui la differenza del divino possa interpellare la differenza dell’umano, senza differenza ontico-ontologica. Una conclusione impeccabile, che accomuna il pensiero teologico del russo alla riflessione heideggeriana sulla tecnica, ma che è incapace di cogliere la portata straordinaria della rivoluzione inaugurata dal dispositivo prospettico. La “finestra” prospettica è in realtà una finestra aperta. Ma a chi accetti di incollare il proprio occhio destro al buco scavato nel punto in cui le linee di fuga convergono all’infinito – tale, ricordiamolo, è la postura del soggetto nell’archi-dispositivo brunelleschiano – non mostra più un “mondo”. I critici dell’innaturalezza della prospettiva artificiale hanno qui perfettamente ragione. La prospettiva come la fotografia non si apre sulla nostra esperienza. Il dispositivo, una volta che è stato fatto detonare da uno sguardo, cattura piuttosto, come una trappola lasciata nella selva, un pezzo di reale, “bello e fatto” (readymade). Il reale catturato, secondo l’autorevole opinione di Jacques

Lacan – al quale dobbiamo la più adeguata presentazione del “realismo” nel pensiero contemporaneo – è esattamente quanto inizia quando il mondo tramonta, quando l’ordine simbolico-linguistico cessa di organizzare lo spazio dell’esperienza umana, quando Dio e l’uomo vengono meno. “Ciò che funziona è il mondo. Il reale è, invece, ciò che non funziona”21. Solo così si può poi spiegare il nesso profondo che esiste tra rivoluzione “prospettica” e rivoluzione “scientifica” universalmente rilevato da chiunque abbia anche solo un poco meditato sulla questione. Solo così si comprende perché fosse nella direzione della verità scientifica che i grandi del Rinascimento intendessero la prospettiva e perché, a distanza di più di un secolo, la prospettiva dei pittori potesse essere riassorbita nella geometria proiettiva di Girard Desargues ed essere ricollocata all’interno di un dibattito formidabile che in tutti gli ambiti del sapere reintroduceva l’infinito in atto (quell’energheia apeiron che il punto di fuga esibiva sulla superficie del quadro 22). Ciò che hanno in comune le due rivoluzioni è stato colto dal prete ortodosso Florenskij come dal neokantiano Panofsky e, seppur indirettamente, dallo Heidegger del saggio su L’Epoca della immagine del mondo23. Tutti costoro interpretano questo carattere comune nel senso della “metafisica della soggettività”. Il dispositivo prospettico avrebbe trasformato il mondo in un Grande Oggetto posto a distanza infinita e dato in spettacolo ad un soggetto in sorvolo assoluto senza inerenza al piano. Insomma, Brunelleschi come Cartesio. Ecco tutto! E non è poco, lo riconosco, ma così si manca lo specifico di quelle due rivoluzioni, vale a dire il rapporto che entrambe intrattengono con il reale nel venir meno di ogni mondo; e si dimentica il nesso altrettanto profondo che la ricerca estetica contemporanea, proprio nelle sue forme più radicali, mantiene con l’impresa scientifica e con il grande passato rinascimentale. Non a caso chi si nutre di questi autori e della loro interpretazione negativa del moderno indulge normalmente in ambito estetico ad atteggiamenti conservatori se non apertamente reazionari. Altra è la strada da percorrere. “La rivoluzione scientifica moderna – scrive Gilles Deleuze – è consistita nel ricondurre il

movimento, non più a degli istanti privilegiati, ma all’istante qualunque. Anche a costo di ricomporre il movimento, non lo si ricomponeva più a partire da elementi formali trascendentali (pose), ma a partire da elementi materiali immanenti (sezioni)”24. Quello che vale per la rivoluzione scientifica moderna vale anche per il cine-occhio e vale, a maggior ragione, per il dispositivo prospettico in quanto dispositivo di cattura del reale. In tutti questi casi è confutata la pretesa metafisica di ricomporre un movimento – ad esempio la corsa di un cavallo – a partire da quello che Florenskij chiamava il suo “punto di fioritura” o il suo “acme”. Il cavallo non se ne sta più, insomma, in posa. Il che, tradotto nella lingua della filosofia, significa che il cavallo scende dal treppiede dell’idea dove se ne rimaneva impettito a esibire la sua incorruttibile “cavallinità”. Il filosofo scolastico come il pittore accademico avrebbe dovuto rappresentarlo proprio in questo istante privilegiato, che esce dal flusso del tempo per ricongiungersi all’eterno. Avrebbe dovuto cioè scegliere la via del “simbolo”, che è il segno nel quale l’Idea si comunica. Il dispositivo prospettico e la scienza dei moderni hanno invece battuto un’altra via. Provano ad attingere il reale a partire dall’istante qualunque, al di fuori di ogni gerarchia assiologia, quando “il mondo non funziona”. Quando Étienne Jules-Marey, alla fine del secolo XIX, “scansiona” la corsa del cavallo con uno dei suoi strumenti protocinematografici dal nome buffo (zootropio) cattura un pezzo di reale “allo stato puro”. Proprio come aveva fatto Galilei, Marey assume il movimento – l’istante qualunque – come assoluto e non più come degradazione dell’Idea. E lo stesso farà il suo quasi contemporaneo Proust con il tempo. La “memoria involontaria” è infatti il formidabile dispositivo fotografico inventato da Proust per catturare un atomo di tempo “allo stato puro”. Per la metafisica tutto ciò non può che suonare scandaloso, dal momento che la metafisica si definisce proprio come sistematica confutazione di questa ipotesi anarchica. Posto di fronte al proto-fotogramma di Étienne Jules-Marey, Florenskij ne vede tutta la mancanza di grazia, tutta l’innaturalezza, soprattutto se comparato ai meravigliosi cavalli del fregio del Partenone, e insorge indignato contro l’astrazione dal movimento reale operata dal dispositivo

fotografico e, più in generale, prospettico. Per lui il movimento reale può essere solo quello che prende a modello l’azione demiurgica dell’uomo, vale a dire il movimento orientato alla manifestazione di un senso, quel senso che solo il grande simbolo è in grado di esprimere compiutamente. È un momento, quello raggelato dal fotogramma, “strappato al processo e preso in sé, senza passato e senza futuro, nella sua contrapposizione a tutti gli altri”. Benjamin lo intenderà come lo specifico dell’“allegoria” e lo contrapporrà alla vocazione “simbolica” dell’arte auratica. “(L’istantanea), continua Florenskij nella sua requisitoria, afferra un solo momento con tutte le sue situazioni immanenti, comprese quelle che non ci interessano affatto e di cui non saremmo altrimenti coscienti; ma per questo ciascun momento viene preso al di fuori della sua relazione con quello successivo”25. In quel ready-made prodotto dall’inconscio ottico del dispositivo non c’è effettivamente più mondo. Non ci può infatti essere perché lì c’è del reale. Lì c’è l’immagine pura, desoggettivizzata ed estranea al senso. C’è il “gesto” sotteso all’enunciato che “tenta” il pittore, invitandolo a dismettere i suoi panni di artista per diventare veggente, cioè operatore della macchina. 1

Cfr. L. SH INER , L’invenzione dell’arte. Una storia culturale, Einaudi, Torino 2010. 2

E. P ANOFSKY, La prospettiva come “forma simbolica”, Feltrinelli, Milano 1966, p. 69. 3 H. DAMISCH , L’origine de la perspective, Flammarion, Paris 1987, pp. 146-150. 4 Cfr. R. RONCH I , Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 100 sgg. 5 Cfr. P. F LORENSKIJ , La prospettiva rovesciata e altri scritti, Cangemi Editore, Roma 1990 e d.S., Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1993. Sono scritti che risalgono agli anni ’20 del secolo scorso. 6 Cfr. B. V IOLA , Reasons for Knocking at an Empty House. Writings 1973-1994, MIT Press, Cambridge (Mass.)1995, pp. 200 sgg. 7 G. DELEUZE – F. GUATTARI , L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 51.

8

H. DAMISCH , op. cit., p. 284. 9 G. DELEUZE, L’immagine-movimento. Cinema 1, ubulibri, Milano 1984, p. 102. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 79. 12 Ibidem. 13 W. BENJAMIN, Piccola storia della fotografia, in I D., L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 7071. 14 A. BAZIN, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, pp. 3 sgg. 15 Cfr. J. CRARY , Le tecniche dell’osservazione. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2013. 16 P. F LORENSKIJ , La prospettiva rovesciata e altri scritti, cit., p. 111. 17 Ibidem. 18 R. K RAUSS , Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996. 19 P. F LORENSKIJ , La prospettiva rovesciata e altri scritti, cit., p. 126. 20 S. BUTLER , Erewhon, Adelphi, Milano 2004, pp. 172-201. 21 J. LACAN, Dei Nomi-del-Padre, Einaudi, Torino 2006, pp. 96-97. 22 Cfr. G. LONGO, L’infinito matematico “in prospettiva” e gli spazi dei possibili, in “Dianoia. Rivista di Filosofia” (numero speciale, a cura di A. Angelini), n. 19 (2014). 23 M. HEIDEGGER , Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 171 ss. 24 G. DELEUZE, L’immagine-movimento. Cinema 1, cit., p. 16. Il primo corsivo è mio. 25 P. F LORENSKIJ , Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., pp. 176-177.

Tre IL DISPOSITIVO FOTOGRAFICO

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azza o savia? La Fotografia può essere l’una o l’altra cosa: è savia se il suo realismo resta relativo, temperato da abitudini estetiche o empiriche (sfogliare una rivista dal barbiere, dal dentista); è pazza se questo realismo è assoluto e, per così dire, originale, se riporta alla coscienza amorosa e spaventata la lettera stessa del Tempo: moto propriamente revulsivo, che inverte il corso della cosa, e che chiamerò per concludere l’estasi fotografica. Le due vie della Fotografia sono queste. Sta a me scegliere se aggiogare il suo spettacolo al codice civilizzato delle illusioni perfette, oppure se affrontare in essa il risveglio dell’intrattabile realtà”. Così si chiude il celeberrimo saggio di Roland Barthes sulla fotografia26. In questo testo, che la contingenza della vita (Barthes morrà per un incidente proprio nel 1980) trasformerà in una sorta di ultimo dettato, una sensibilità comune a tutto il “modernismo” pare trovare finalmente la propria cristallina dichiarazione di poetica. Le decisioni di Barthes sono infatti nette. Due, egli scrive, sono le vie della Fotografia. C’è innanzitutto una fotografia che dice e che si lascia leggere come un testo. È quel tipo di fotografia “banale” che si trova, ad esempio, sulle riviste che si sfogliano dal barbiere e nella sala d’attesa del dentista. All’inizio del saggio, Barthes, con un termine tratto dalla grammatica generativa, la chiama “unaria” per sottolinearne l’univocità. Questa foto è un segno che rinvia all’oggetto

che denota sul fondamento di una legge. Essa si presta perciò ad una riconoscibilità immediata sulla base di un codice condiviso. C’è però anche una fotografia-traccia o una fotografia-indice che, chiudendosi come un riccio al contatto con l’ansia ermeneutica dello spettatore, invece di dire pianamente che cosa è l’oggetto al quale rinvia ne attesta la presenza, il suo aver avuto luogo (l’“è stato”, la quodditas). Tale fotografia emancipa l’evento dal suo rapporto al significato, libera per un istante l’esistenza singolare dalla sua implicazione con l’essenza, con il risultato inquietante di mostrare nell’oggetto familiare (almeno secondo il “codice civilizzato delle illusioni perfette”) un estraneo improvvisamente irriconoscibile. Un’esistenza che sporge sull’essenza, un evento eccedente il suo significato, tale è l’oggetto della fotografia non unaria. Alla potenza dislocante del dettaglio (il punctum) Barthes affida il compito di operare questo sdoppiamento perturbante del reale27. C’è dunque una fotografia opaca per la sua eccessiva chiarezza e c’è una foto carica di senso perché lucida di follia. Ci sono quindi due “reali” correlati alle due tipologie di fotografia, due diversi possibili modi d’intendere il “realismo”. Per la fotografia “savia” il correlato è un reale relativo, “temperato dalle abitudini estetiche o empiriche”, inscritto nel “codice civilizzato delle illusioni perfette”. È il reale che riconosciamo in modo quasi automatico perché conforme alle nostre attese. La dimensione di questo “reale” senza sorprese è in verità assai “ideale”, dal momento che in esso non si incontra mai nulla che faccia resistenza all’ordine del discorso. Per la fotografia “pazza” il reale correlato è invece un reale assoluto, il quale, come il Dio della teologia apofatica od il sublime kantiano, si fa avanti al prezzo della sistematica catastrofe delle nostre rappresentazioni. Per Jacques Lacan, al quale Barthes sta forse qui pensando, solo questo impossibile posto al cuore del simbolico, come perenne smentita della sua onnipotenza, merita il nome di Reale. C’è una fotografia normalizzata, subordinata alle esigenze della civiltà, ed una fotografia barbara, che si sottrae al principio di prestazione, una fotografia che non “serve” più (nemmeno le buone cause) e che si pone sovranamente per sé, condividendo il destino di

rovina di tutto quanto nell’esistenza si situa dalla parte – una “parte maledetta” – di ciò che Georges Bataille chiamava la dépense improduttiva: “prodotti di escrezione del corpo umano e alcune materie analoghe (sporcizia parassiti ecc.); le parti del corpo, le persone, le parole dotate di una valore erotico suggestivo; i diversi processi inconsci come i sogni e le nevrosi”28. La fotografia è dunque erotico-perversa non per ragioni contingenti ma per una inclinazione essenziale della sua “natura”. C’è una fotografia che è progetto, opera, trascendenza verso il significato, e c’è una fotografia inoperosa che è invece adesione bruciante alla “lettera stessa del Tempo” (“lettera” ha qui il senso greco dello stoicheion, dell’elemento atomico), vale a dire ad un presente assolto dalla sua relazione al futuro, presente puro estraneo all’ordine diegetico della narrazione. C’è una fotografia che è sapere e che è conferma della nostra ontologia e c’è una fotografia che è invece docta ignorantia e trasgressione dell’ontologia. Come Eracle al bivio, siamo chiamati a scegliere quale via percorrere. La scelta non è faccenda estetica ma ha conseguenze dal punto di vista etico. Perché se si percorrerà la strada più impervia si abbandonerà il mondo “umano troppo umano” del lavoro e della storia, del progetto e del significato, per entrare in un territorio ambiguo e seducente dove si è in balia della fascinazione e si è preda di un desiderio senza nome. In questo mondo rovesciato le cose, invece di restarsene fisse al loro posto, manifestando la loro incrollabile identità al giudizio determinante che le scopre come questo o come quello, si mettono, grazie al punctum, a fluttuare. Non sono più quello che sono senza nemmeno diventare altre da quello che sono; se ne stanno in bilico, sulla soglia, in una condizione di sconcertante neutralità (o metastabilità, come direbbero i biologi). Per tale ingresso nel “non-mondo” Barthes usa una espressione carica di senso mistico-speculativo: estasi. L’estasi è il rovescio della coscienza se la coscienza è intenzionalità. La coscienza estatica non è coscienza di qualcosa, ma è la coscienza risvegliata, suo malgrado, da un reale “intrattabile”, un reale che eccede, slabbrandola, la forma che lo dovrebbe accogliere e contenere. Il modello speculativo di tale trauma ci è fornito dalla cartesiana idea dell’infinito. Nella terza delle sue

Meditazioni metafisiche, Cartesio voleva mostrare come fra le nostre idee ve ne fosse almeno una il cui ideatum non può essere farina del nostro sacco perché pensandolo pensiamo di più di quanto possiamo logicamente pensare29. Se l’idea dell’infinito è in me allora, ne conclude Cartesio, la rappresentazione deve avere un fondamento che non è, a sua volta, ancora rappresentazione. L’irrappresentabile è la causa della rappresentazione. Qualcuno, da fuori, deve avermela data e me la deve aver data come tale che, ricevendola, non possa non misurare la mia incapacità di accoglierla senza tuttavia che io possa liberarmi da essa. Come l’infinito in Cartesio, l’intrattabile realtà di Barthes, correlato della estasi fotografica, è il segnalarsi in forma di trauma di un fuori che incide in un punto (il punctum) il dentro della coscienza tematizzante, rovinandone l’autosufficienza. Per questo il realismo della fotografia dotata di punctum è detto da Barthes assoluto. Per questo la fotografia ha lo statuto ontologico dell’impressione. L’ossessione diviene allora la cifra emotiva della coscienza risvegliata (o traumatizzata). Che altro è infatti l’ossessione se non il non poter non accogliere quanto non si riesce a metabolizzare, a trasformare in significato? L’ossessivo ripete in modo compulsivo, proprio come fa il fotografo. La prima lettura che si può fare di tale ripetizione è quella fornita da Freud in Al di là del principio di piacere. Osservando il gioco del bambino che allontana da sé il rocchetto, Freud avanza l’ipotesi che si tratti di un tentativo di dominare una situazione angosciosa. L’assenza della madre sarebbe “metaforizzata” nel rocchetto scagliato lontano: il bambino da vittima passiva dell’abbandono ne diverrebbe, nel gioco, l’attivo soggetto. Ben presto però Freud si trova costretto a formulare l’ipotesi più cupa: un’ipotesi questa volta decisamente metafisica. La ripetizione è ora l’indice della presenza del fuori nel dentro, è la traccia del Reale (o di Dio, la differenza è solo terminologica) e del suo ritornare ritmico al cuore del simbolico come ciò che il simbolico (il linguaggio, la storia, il significato) non può contenere e che non può per altro evitare. L’ambito nel quale il reale si risveglia è una coscienza disastrata, costretta a ripetere indefinitamente quanto la intacca. La ripetizione, in questa seconda ipotesi, diviene così la modalità del “rapporto” con un irrelato

che si comunica alla coscienza ecce dendo ogni possibile relazione. Si ripete ciò che non si comprende, si ripete perché non si comprende e siccome la sproporzione del reale è infinita, infinita è anche la ripetizione che di quella intrattabilità è la conferma empirica: “moto propriamente revulsivo, che inverte il corso della cosa, e che chiamerò per concludere l’estasi fotografica”. Il saggio di Barthes è un saggio fondativo per l’estetica contemporanea dell’immagine. Le due vie della Fotografia sono due statuti dell’immagine e, più precisamente, due modalità di sentire l’immagine. In questo saggio dedicato ad un medium particolare e ad una regione (da molti giudicata minore) dell’estetico, Barthes fornisce alla contemporaneità la sua dichiarazione di poetica. Essere “moderni”, ora lo sappiamo, vuol dire trovarsi al bivio eleatico enunciato da Barthes alla fine del saggio e optare decisamente per il secondo corno dell’alternativa: affrontare nell’immagine il risveglio traumatico dell’intrattabile. Per l’immagine civilizzata l’estetica contemporanea dovrà coniare altre espressioni, che ne sottolineino la trivialità, il carattere illusorio, il realismo relativo e sostanzialmente nullo. Si parlerà di spettacoli, di simulacri, di fantasmi, vale a dire di immagini addomesticate che si presentano come immagini ma che della “vera” immagine non hanno il correlato essenziale, vale a dire il rapporto ossessivo con il reale. Non basta, ha scritto una volta Serge Daney, che qualcosa titilli il nostro nervo ottico perché ci sia immagine. Occorre quel rapporto costitutivo ed impossibile con il reale senza il quale non v’è immagine alcuna. Con ciò è detto tutto quello che la contemporaneità “sa” sul piano estetico dell’immagine e della sua indefettibile potenza “esotica”: l’immagine porta “fuori” (eso) dal mondo. Ma se è detto tutto sul piano estetico è forse adeguatamente compresa anche la ricaduta che tale esotismo ha sul piano della “vita”? Che cosa accade alla vita quando la vita si fa immagine? Posti di fronte al bivio, diceva Barthes, dobbiamo scegliere. Non è una scelta solo estetica. La scelta impegna la vita. L’estetico si rovescia nell’etico, concerne il nostro modo di abitare il mondo. Scegliere il secondo corno non vuol dire allora esprimere una preferenza tra diverse tipologie di immagini; significa accettare l’ipotesi di vivere nella

immagine e non semplicemente tra le immagini. Chiediamoci allora che cos’è una vita nell’immagine. Con quali potenze questa scelta ci mette in comunicazione? Sono ancora potenze “umane”? Questo “realismo assoluto e, per così dire, originale”, che “riporta alla coscienza amorosa e spaventata la lettera stessa del Tempo”, è ancora una potenza di vita? Oppure introducendoci nel “non-mondo” della fascinazione e del desiderio senza nome stabilisce un contatto con ciò che essendo “al di là del principio di piacere” è anche al di là della vita? La pulsione scopica che afferra il fotografo, costringendolo ad una ripetizione ossessiva, è forse una pulsione di morte? E che strana morte è questa morte che, nella pulsione, la vita incontra ancora vivendo? Per provare a rispondere bisogna partire dalla questione del “quando”. Non è chiaro quando, appunto, la vita si rovescia in immagine. Quando inizia “l’estasi fotografica”? Quando la coscienza da intenzionalità si rovescia in ossessione e coazione a ripetere? È inutile, a questo proposito, fornire cronologie (ad esempio, il 18 Agosto 1839, giorno in cui François Arago rese pubblico all’Institut de France l’invenzione della fotografia). I “materialisti culturali” alla McLuhan hanno certamente ragione a spiegare le trasformazioni della sfera estetica (nel senso della sensibilità) sulla base dell’avvento di determinati media che, estendendo alcuni sensi e atrofizzandone altri, ristrutturerebbero il “sensorio”. Hanno ragione sul piano della storia empirica, ma mancano la comprensione trascendetale del fenomeno. Il “fotografico”, infatti, per poter diventare una modalità condivisa dello sguardo sul mondo (uno sguardo che può prescindere dal ricorso al mezzo tecnico), deve essere, come Barthes lascia intendere, una possibilità a priori dello sguardo (un “trascendentale”) che la tecnologia si limita a trarre dalla sua latenza. La fotografia attualizza insomma una vita nell’immagine che, in quanto struttura dell’esperienza, non aveva bisogno della sua invenzione. L’estasi fotografica non doveva attendere la fotografia per iniziare. La porta che si apre “fuori” (esotismo) doveva essere già da sempre aperta per chi avesse avuto il coraggio di varcarla. Non si spiegherebbero altrimenti due tra le principali letture che, negli ultimi trent’anni, del fotografico inteso come eidos (come struttura trascendentale dello sguardo) sono state fatte dalla letteratura critica.

Mi riferisco in primo luogo alla diffusa convinzione che il fotografico costituisca il paradigma della modernità in arte. Enunciata da Walter Benjamin nel suo celebre saggio del 1936 sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, è stata rilanciata negli anni novanta del secolo scorso da Rosalind Krauss30. La fotografia come procedimento avrebbe definito il modello dell’operazione artistica contemporanea (o, come sarebbe meglio dire, anti-artistica). Dal punto di vista della loro “forma logica”, i ready made di Duchamp sarebbero delle “fotografie”, a riprova della autonomia dello sguardo fotografico dal medium tecnologico. In secondo luogo faccio riferimento alle tante pagine che sono state dedicate al nesso sotterraneo che, sul piano semiotico come su quello storico-artistico, lega la fotografia alla struttura dell’icona intesa nel suo senso religioso (una tesi, peraltro, già presente nel saggio di Barthes). Non il mimetismo, ma l’impronta è il fondamento classico della fotografia31. Già Charles Sanders Peirce, il fondatore della semiotica, aveva classificato la fotografia tra i segni che si originano dalla contiguità fisica con il referente denominati “indici”. Non è stato quindi difficile, per i più avvertiti storici dell’arte, spiccare un salto spericolato e ricollegare l’invenzione moderna per eccellenza alla forma espressiva pre-moderna dell’icona religiosa, la quale, stando alla sua accezione propriamente teologica, è da intendersi in senso antinaturalistico e anti-mimetico, come calco, impronta, typos, traccia lasciata dal passaggio del Dio-Uomo 32. La genealogia della fotografia è dunque illustre, dal momento che i suoi antenati sono i mantelli impregnati dal volto di Cristo, le icone fatte non da mano umano, i mandylion e i palladi che, come vere proprie figure di sostituzione, proteggevano le città. E va ricordato come le due vie della fotografia di Barthes siano quelle intorno alle quali si articola il dibattito millenario tra iconoclasti e iconoduli. Sarà infatti battendo la via dell’estasi fotografica che gli iconoduli potranno confutare gli iconoclasti, per i quali l’immagine è invece solo “spettacolo aggiogato al codice civilizzato delle illusioni perfette”, fantasma sacrilego prodotto dall’uomo e a sua esclusiva misura33.

La domanda che chiede quando la vita si fa immagine non trova dunque risposta sul piano della storia empirica. Nessun fatto storicomateriale la spiega, sebbene molti fatti rilevanti descrivano questa trasformazione. In quanto trascendentale l’estasi fotografica deve fare parte della struttura della esperienza. L’esotismo deve essere una “potenza” inscritta nella sua natura (qui il lemma “potenza” è usato nel suo arcaico e prearistotelico senso: non significa “possibilità” ma “non poter non”. Bisognerebbe chiedersi, ma qui non possiamo farlo, se una possibilità “a priori” non dismetta la sua natura di possibile per rivestire i panni della ananke, del “non poter non”). Bisognerà capire se questa potenza è ancora una potenza vitale, se lavora effettivamente nella direzione della vita, o non ne costituisca piuttosto una specie di sincope e di momentaneo arresto, in grado di mettere in rapporto in un punctum altamente problematico (perché contraddittorio) la vita umana con il suo fondamento oscuro e pre-umano. In effetti alla domanda che chiede quando la vita si fa immagine, quando cioè l’estasi ha luogo, si potrebbe rispondere molto semplicemente, e, credo, correttamente, così: quando la vita s’inceppa. La vita è azione. Ora, se l’azione conosce un blocco (un martello, nell’esempio di Heidegger, smette di funzionare), il “mondo”, nel quale la vita è immersa in una sorta di immedesimazione pretematica, appare e appare come oggetto perturbante. Facendosi problematiche le ovvietà perdono il loro statuto di certezza, non vanno più da sé; improvvisamente le cose familiari ci rivolgono un’occhiata maligna e, invece di farsi riconoscere in modo pressoché automatico come le cose di sempre, ci presentano il loro volto ottuso, impermeabile al significato. La conversione del familiare nel perturbante, occasionata dal funzionare a vuoto della vita, segna il convertirsi dell’intenzionalità in estasi. Se ne può concludere, con un ulteriore anacronismo, che “fotografico” e “filosofico” hanno la stessa genesi. Forse sono addirittura la stessa cosa perché hanno entrambi il loro fondamento di possibilità nel trauma e entrambi richiedono una superficie sensibile che passivamente si lasci imprimere: una superficie che può essere fatta di alogenuri d’argento oppure coincidere con l’intelletto del filosofo-

testimone o, ancora, con il corpo del santo eremita esposto alla luce divina34. Gli antichi avevano ben chiaro il rapporto inversamente proporzionale che esiste tra azione e contemplazione. Il crescere della prima è misurato da un certo ottundimento della mente. Per agire e per agire in modo efficace bisogna avere orizzonti limitati. La contemplazione si paga invece al prezzo di una attività ridotta al lumicino. Al limite il saggio deve aspirare all’immobilità della pietra che è poi l’immobilità del Dio stesso, il quale è solo contemplazione in atto (una contemplazione che è però purissima azione dal momento che intuire ed essere sono per Dio il medesimo). Allora il realismo si fa assoluto, ma si è gettati fuori dalla storia, dal tempo e dal mondo condiviso degli uomini. I moderni non si sono discostati di molto da questa opinione. Un filosofo come Henri Bergson vedeva l’immagine sorgere al fondo della vita, in quei momenti critici in cui la vita, anche per ragioni contingenti, si disinteressa di se stessa e, pur vivendo ancora, cessa momentaneamente di vivere. Su di un letto di morte, ad esempio, quando effettivamente per il morente non c’è più niente da fare, la vita ritorna come immagine, pietrificata in una collana di sogni, che si dispongono a mo’ di panorama davanti al moribondo, ossessionandolo con la loro definitezza. La memoria, sganciata dal suo rapporto pratico con l’azione, diviene una specie di cinematografo che restituisce al morente l’intera sua vita come immagine compiuta. E se si nutrono dubbi su di una ipotesi che concerne, dopotutto, una situazione limite per la quale esistono ben poche testimonianze affidabili, si rivolga allora l’attenzione a quelle sincopi dell’esperienza che prendono il nome di déjà vu. Qui, spiega ancora Bergson, è il presente che stiamo vivendo che ritorna improvvisamente su se stesso, trasformando la vita in una scena di teatro, sulla quale il soggetto agente è attore del suo presente, un presente che si appiattisce sull’automatismo di una ripetizione, perdendo, così, il tratto del “vissuto”35. Normalmente trasceso nel suo futuro prossimo, il presente, nel déjàvécu, si cristallizza in immagine persecutoria (“immagine-cristallo”, la chiamerà Gilles Deleuze), si arresta e si rende sensibile nella sua consistenza materiale. Ad apparire, grazie a questa

sorta di ready-made psichico, è allora quella “lettera del Tempo” di cui parlerà Barthes a proposito del “fotografico”. Del resto, una definizione minimale della fotografia è quella che la fa consistere in un taglio operato nel continuum spazio-temporale dell’esperienza. Ed il taglio che cosa enfatizza, fissandolo in un modo senz’altro inquietante, se non ciò che per definizione dovrebbe invece passare? Il correlato della fotografia, spiegava Barthes, è l’“è-stato”, l’aver avuto luogo di qualcosa. Il fotografo (come il filosofo) è perciò un histor, un testimone, qualcuno che ha visto e che soprattutto non può chiudere gli occhi. La fotografia è l’effetto di una visione obbligata (“non poter non”). Divenendo passato, il presente smette di passare e resta come immagine estranea. La fotografia, si dice, arresta la vita fissandola. Basta correggere solo di poco questo luogo comune per ritrovarvi il “moto propriamente revulsivo, che inverte il corso della cosa”, dell’estasi fotografica. Tuttavia non è la fotografia che arresta la vita fissandola in un’immagine. È la vita che si arresta in un punto, inceppandosi e smettendo di funzionare, e che, grazie a tale sincope, diviene vita in immagine: quella immagine estranea, persecutoria e ossessiva, che un particolare dispositivo, la fotografia, un giorno, sarà in grado di catturare e di rendere tecnicamente riproducibile. L’altro al quale la vita si rapporta nell’immagine non è il niente della morte, dove non c’è ovviamente nulla da contemplare. È piuttosto la non-vita (umana) della vita (genitivo soggettivo), il suo fondamento oscuro e indistruttibile. Barthes non sembra concordare con la nostra ipotesi. “Ora, egli infatti scrive, è appunto questo stesso rapporto che io trovo nella Foto; per quanto viva ci si sforzi di immaginarla (e questa smania di «rendere vivo» non può essere che la negazione mitica di un’ansia di morte), la Foto è come un teatro primitivo, come un Quadro Vivente: la raffigurazione della faccia immobile e truccata sotto la quale noi vediamo i morti”36. I morti raffigurati sono, tuttavia, coloro che sono stati. Essi, è vero, sono “andati a fondo”, ma, proprio per questo loro regredire nel fondamento, permangono. Il loro essere è incrollabilmente attestato dall’interrompersi del flusso che trascina ogni presente verso il futuro. Intendiamoci: nella sincope della immagine è la vita, che arrestando il suo fluire in avanti (in direzione

dell’opera), si presenta a se stessa, è la vita, e non la morte, che si riflette e si specchia (“teatro primitivo”, “quadro vivente”). La vita si vede ma in questo specchio incantato si vede pietrificata in un presente che non passa e che non potrà più passare, un presente ossessivo che si può solo eternamente ripetere uguale a se stesso. La vita, insomma, si vede ma non si vede come vita umana. Si vede emancipata dal tempo, liberata dalla stessa condizione a priori della libertà, perché dove non c’è l’elaborazione del tempo, dove vengono meno il mutamento e l’oblio che ogni mutamento comporta, non ci può più essere libertà. Semmai vi è solo “non poter non”. “Estasi fotografica” vuol dire allora essere catturati per l’eternità dall’immagine, entrare in un sogno dal qual è impossibile svegliarsi (un piccolo film di animazione di Richard Linklater, Waking life, ben descrive questa vita intrappolata nella immagine). Così gli antichi intendevano del resto l’anima che del vivente è il principio. L’anima era per loro un eidolon affine appunto al sogno, fatto della sua stessa stoffa. Non una sostanza spirituale, non la “coscienza morale” – questo semmai lo diventerà con il platonismo – ma una specie di fotografia: un’immagine, un doppio, un simulacro del vivo che spicca il volo, esalando come un fumo, alla fine della vita. Le piccoli sincopi della vita – le “piccoli morti” che la maculano mentre vive (ad esempio, il déjà vu) – segnalano la presenza di questa larva eterna che accompagna il vivente, ma che, mentre si vive protesi verso il futuro, resta un passo indietro, inavvertita. Gli specchi, le superfici riflettenti, lo sguardo degli altri, invece la rivelano ed è per questo che, in molte culture, sono oggetti da maneggiare con cautela, spesso considerati portatori di sventura. Sono infatti oggetti perturbanti perché mostrano il nontempo che vige al fondo del tempo, il “non poter non” in cui si rovescia ogni contingenza, vale a dire quel “potere di non” che qualifica la vita propriamente umana. Verfremdungseffekt, estrangement, straniamento – tale è l’ultima parola dell’estetica dei moderni. È degno di nota che anche in un teorico marxista come Bertolt Brecht si ritrovino le due vie dell’immagine. Da un lato c’è una recitazione naturalistica fondata sul principio dell’immedesimazione, c’è l’immagine-spettacolo “aggiogata al codice civilizzato (per Brecht: borghese) delle illusioni perfette”,

dall’altro c’è l’immagine, c’è la vita sospesa e riflessa, c’è la sincope che trova nel celebre “metodo” brechtiano della recitazione “straniata” la sua realizzazione attoriale. Immagine normalizzata e immagine criticodialettica, filosofica. La prima copre il fondamento, la seconda lo mostra. Per Brecht il fondamento non vivente della vita sono i rapporti di classe, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Collegandosi al principio-utopia l’estasi fotografica si mette però, per Brecht, al servizio dell’emancipazione dell’uomo. Catturata nell’immagine estranea – come nell’esperienza del déjà vu di cui il teatro epico è una specie di amplificazione sistematica –, la vita incrocia finalmente il proprio fondamento e, soprattutto, lo mostra allo spettatore disincantato. Il teatro diventa così teatro filosofico. E poiché, secondo l’insegnamento platonico, il filosofo non potrebbe dirsi tale se, una volta uscito a contemplare la luce del vero, non se ne ridiscendesse tra gli uomini incatenati, il perturbamento indotto dal Verfremdungseffekt deve trasformarsi in pedagogia. Il teatro epico diviene dramma didattico. Il veggente è ora il maestro che guida le anime fuori dalla caverna della superstizione. L’immagine è così riscattata dalla sua naturale propensione per la “parte maledetta”. Essa, ora, “salva”. La sua fascinazione è utile alla causa degli uomini. Il passato che fissa è infatti pronto per essere stigmatizzato dal giudizio critico ed abbandonato in blocco (la “rivoluzione” è avvento del novum e liquidazione del passato in quanto tale). Ma questa metamorfosi non può realizzarsi senza una frequentazione della “parte maledetta”. Gyorgy Lukács, al quale non difettava certo la lucidità, se ne rende conto. La giusta lotta intentata dal marxista Brecht contro il principio della reificazione è, secondo lui, basata su di un principio pericolosamente “omeopatico”: la disalienazione dell’uomo procede infatti attraverso la pratica sistematica dell’estraneazione. Per Brecht occorrerebbe insomma un surplus di reificazione per portare la vita al cospetto del suo fondamento e per liberarla, ma in tutto questo Lukács sospetta, senza confessarlo, un rischio “modernista” di identificazione con l’aggressore e una implicita apologia di quelle stesse procedure che sono responsabili della disumanizzazione37. Sappiamo che per Lukács il vizio dei moderni tutti consiste nello “sperimentalismo”. In esso egli

intuisce la potenza “esotica” al lavoro. I moderni, e Brecht con loro, non sperimenterebbero semplicemente nuove forme di espressione – cosa, questa, che non si è mai cessato di fare in arte e che non costituisce affatto un problema per Lukács – ma si arrischierebbero sconsideratamente ai confini del mondo “umano”, là dove questo precipita in una “intrattabile realtà”. È per combattere questo realismo estremo che Lukács fa appello al suo “realismo” classico. Il suo “reale” è il reale di un “mondo” che ha l’uomo, il lavoratore, al suo centro. Non è un caso se Brecht, per rispondere a Lukács, farà ancora appello al diritto assoluto del reale, ma non gli sarà facile conciliare il reale perturbante della sua veggenza con il reale dialettico della storia (sebbene questa sia la sua intenzione)38.

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D

ue vie, due realismi, due modalità, quindi, della “fruizione” dell’immagine. Una volta che il fotografico è stato eletto a paradigma, l’estetica della ricezione deve essere riscritta. L’immagine “folle” stringe con il suo fruitore una relazione particolare e reclama uno sguardo divergente. Come qualsiasi atto genuino dotato di senso, chiede di essere compresa, ma la comprensione concerne ora un reale intrattabile che si sottrae alla traduzione in tema e oggetto. Una cosa è certa: la “comunicazione” non può più essere intesa come trasmissione, codificazione/ decodificazione, interpretazione o decifrazione di significati (definendo la fotografia “un messaggio senza codice” Barthes aveva già mandato a monte ogni futura possibilità per la semiotica di occupare in pianta stabile questo territorio). Al pari di qualsiasi enunciato, anche il fotografico implica la propria idea di destinatario. Si rivolge a qualcuno. La sua struttura è quella del “turno conversazionale”. Ma se l’immagine “civilizzata”, quale che sia il suo supporto materiale, implica all’altro termine della catena un lettore, l’immagine folle ha invece bisogno di un interlocutore differente, ben più coinvolto nell’intrigo comunicativo. Essa richiede, infatti, un complice. Di qui la sua difficoltà ad integrarsi nelle cornici istituzionali (musei, università, biblioteche…), le quali sono state tutte pensate sul modello del libro, della lettura e di quella verità pubblica (alla “terza

persona”) che la cultura fondata sul primato del “testo” ha prodotto. La complicità è invece una relazione che rifugge la luce della verità pubblica e che si realizza nell’intreccio di una correlazione di personalità (io-tu). Non è, tuttavia, riducibile alla semplice relazione basta sulla condivisione del segreto. Il segreto non è altro che un detto attualmente assente, che sarebbe perfettamente dicibile se solo qualcuno osasse prendere l’iniziativa. La complicità attiva ricercata dal fotografo con il suo spettatore – uno spettatore che non conosce ma di cui va alla ricerca emettendo “segnali”, i quali, come avviene in certi ambienti viziosi, fungono da criteri di selezione e di riconoscimento – è invece un desiderio di condivisione che trascende la dimensione del dicibile. È come se il fotografo aspirasse a mettere in comune un implicito che i linguisti definirebbero non discorsivo e non discorsivizzabile. Non un banale non-detto ma il non-detto del detto (genitivo soggettivo), vale a dire quell’ombra silenziosa e persecutoria che ogni parola, ogni enunciato, ogni segno, ogni immagine, porta con sé (mostra) come il suo fondamento eterno e impenetrabile: l’anima o la nonvita della vita che appare solo nell’incepparsi della vita “civile”. Søren Kierkegaard, che sentiva in tutto questo puzza di peccato, ha battezzato “demoniaco” il desiderio di condivisione di “ciò che è chiuso e che si rivela involontariamente”39. Pierre Klossowski, che era imbevuto di teologia non meno del filosofo danese, ha aggiunto che il “depravato” – ovvero il produttore di simulacri, il “fotografo” nell’accezione di Barthes – “non ha niente da dire in merito al suo gesto che sia intelligibile al livello della reciprocità tra individui”, secondo quello che egli chiama “il codice dei segni quotidiani”40. Ciò non toglie che l’intera esistenza di Octave, ne Le leggi dell’ospitalità, fosse interamente rivolta alla ricerca di quegli istanti fatali in cui la comunicazione era finalmente possibile. Il complice desiderato dal fotografo (e dal voyeur) è allora colui che sta al gioco dell’immagine “pazza”. Non la legge come se fosse un testo. Non ne decripta i significati alla ricerca di una chiarezza che dissolva ogni ambiguità. Non la assume come traccia (enigmistica) di un segreto che deve essere svelato e annullato. Piuttosto solleva gli occhi dall’immagine e rivolge

lo sguardo nella direzione indicata dall’immagine. Tale comunione nello sguardo, nella consapevolezza che niente di ciò che è attualmente visto è ciò che realmente si sta guardando, è tutta la felicità procurata dall’estasi fotografica al fotografo e a noi suoi complici. 26

R. B ARTHES, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, p. 119.

27

Cfr. R. rONCHI, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2001, pp. 256 sgg. 28 G. b ATAILLE, La structure psychologique du fascisme, in I D., Œuvres Complétes, vol. I, Premiers écrits 1922-1940, Gallimard, Paris 1970, p. 346. 29 Cfr. Terza meditazione, in CARTESIO, Discorso sul metodo. Meditazioni Metafisiche, t. I, Laterza, Bari 1975, pp. 87 sgg. 30 R. K RAUSS , Le Photographique, Macula, Paris 1990. 31 Cfr. P. DUBOIS , L’acte photographique, Nathan, Paris 1990; H. V AN LIER, L’image précaire. Du dispositif photographique, Seuil, Paris 1987; JL. S CHAEFFER, L’image précaire. Du dispositif photographique, Seuil, Paris 1987. 32 Cfr. H. BELTIN G, Bild und Kunst. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, C.H. Beck, Munich 1990; G. DIDI-HUBERMAN , L’empreinte, Centre Georges Pompidou, Paris 1997. 33 G. DAMASCENO, Difesa delle immagini sacre, Città Nuova Editrice, Firenze 1983. 34 Cfr. G. DIDI-HUBERMAN , Phasmes. Essais sur l’apparition, Minuit, Paris 1998. 35 Cfr. R. RONCHI, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, cit., pp. 142 sgg. 36 R. BARTHES , La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., p. 33. 37 G. LUKÁCS , Breve storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1965, p. 179. 38 Cfr. B. BRECHT, Popolarità e realismo, pubblicato in appendice al libro di P. CHIARINI, Brecht, Lukács e il realismo, Laterza, Bari 1970, pp. 143-45.

39

S. KIERKEGAARD, Briciole di filosofia, in ID., Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 175. 40 P. K LOSSOWSKI, Il filosofo scellerato (1967), in I D., Sade prossimo mio, Garzanti, Milano 1975, p. 27.

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