Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979) 8889969407, 9788889969403

La testata dice "Rosso". Cinque lettere che sembrano di vernice fresca. "Rosso" dell'estraneità

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Italian Pages 109 [111] Year 2007

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Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979)
 8889969407, 9788889969403

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Biblioteca dell'operaismo

Gli autori e l'editore ringraziano Paolo Pozzi per il suo impegno alla realizzaziQne del DVD a Ilegato a q uesto I ibro La collana Biblioteca dell'operaismo è diretta da Sergio Bianchi I edizione: febbraio 2008

© 2008 DeriveApprodi srl Tutti i diritti riservati DeriveApprod i srl piazza Regina Margherita 27 00198 Roma tel 06-85358977 fax 06-97251992 [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico di Andrea Wbhr ISBN 88-89969-40-3

Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita

Avete pagato caro non avete pagato tutto La rivista «Rosso)) (1973-1979)

In appendice contributi di Chicco Funaro, Toni Negri, Paolo Pozzi DVD con la raccolta completa della rivista

a Barbara e agli altri

Il proletariato nella sua lotta per il potere ha soltanto un'arma: l'organizzazione Lenin «Cos'è, una sparatoria?» «No, è una televisio­ ne troppo alta» The Getaway

Via Disciplini è una strettoia ai margini del Ticinese. Viuzza buia e angusta, piantata tra largo Carrobbio e corso Italia. Sputata, in principio, sul bordo d'una leggenda ottocentesca - enfia di «cial­ troni, aborrenti il lavoro, e industriantisi a camparsela di contrab­ bando, di rapina e di scrocco» - che di nuovo comincia recitando:

C'era una volta, a Milano ... «C'erano le puttane, i contrabbandieri, i ladri. Ora arrivavano i sovversivi», racconta Primo Moroni, il bardo della libreria Calu­ sca, nell'imbastire un brano di memoria del territorio liberato. Scippato alla città del gran Teatro. Sottratto - per un istante ancora - alla metropoli della vita amara, magra, agra. Iniziano i Settanta, Mille e Novecento, quando - nelfantica contrada di misfatti, misteri e gherminelle - giunge farrembante torma di diversi agitatori sediziosi rossi. Il quartiere, vertiginoso «moltiplicatore della diversità», è destinato a registrare - continua Moroni - «la più alta concentrazione di sedi politiche d' Europa». Primato di cui solo lo spirito del luogo rende conto. Anima spessa d'una liaison urbana che raccordava - e ricordava - il passato al pre­ sente, la periferia al centro.

Via Disciplini 2. È dietro un portone in legno che trè' decenni or sono si componevano le colonne della più dissacrante e audace rivi­ sta dell'estrema eresia di un'eresia. Autonomia operaia. Bestemmia imperdonabile per quei chierici ortodossi - custodi della fede folgo­ rati su una strada per Santiago - che andavano predicando austerità, sacrifici e compromessi. Azzardo ed errore per chi, già dal I967, re­ clamava un diverso ruolo del «politico», puntando alla «divisione» tra capitale e Stato, e all'identificazione della classe operaia con il po­ tere a mezzo del Partito comunista italiano. Errore e azzardo anche per quelli che, sul volgere di Potere operaio, guarderanno con diffi­ denza - in nome della continuità d'organizzazione e di un' opzione centralistico-insurrezionalistica - alla scommessa sugli organismi operai autonomi. Più tardi, alla fine di tutto, il 7 aprile '79, associa­ zione sowersiva, banda annata, insurrezione contro i poteri dello Stato, per il procuratore della Repubblica, dottor Pietro Calogero. La testata dice «Rosso» . Cinque lettere che sembrano di verni­ ce fresca. «Rosso» dell' «estraneità operaia», delle lotte in fabbrica e poi della produzione che si rovescia sul territorio. «Rosso» delle occu­ pazioni, delle autoriduzioni, dell'illegalità di massa. «Rosso» del «perché a Lenin non piaceva Frank Zappa». «Rosso» di Pat Garrett e Billy Kid. «Rosso» delle pellicole crepuscolari di Sam Peckinpah, nell'aurora del proletariato giovanile. «Rosso» della fabbrica diffu­ sa e dell' operaio sociale. «Rosso» che sulle gradinate dello stadio Meazza, Milano , San Siro, intravede «guerriglieri» e non più «foche ammaestrate». «Rosso» di nuvole e chine, caustiche come vetriolo. «Rosso» delle foto in bianco e nero di Aldo Bonasia: nien­ te distanza di sicurezza, prego, e sempre a un metro dal cordone più duro del corteo. «Rosso» del «Riceviamo e pubblichiamo». «Rosso» dell' Avete pagato caro. E anche del Non avete pagato tutto. Secondo Lea Melandri, «" Rosso» giornale dentro la confusione». «Rosso» contro la metropoli, alla ricerca d'un altro Che fare ? «Rosso» dimenticato, seppellito da quintali d'incartamenti giudi­ ziari, cancellato da anni di galera e decenni d'esilio. «Rosso» ritrovato . . . L e bandiere rosse sulla Fiat c i sono state altre volte

Eppure, non è ai Disciplini che comincia questa storia. E nem­ meno in via Maroncelli, dove si tenevano le riunioni milanesi di Potere operaio. Può apparire strano che la nascita della più celebre rivista dell'Autonomia non sia da attribuire a nessun segmento di quella dirompente costellazione teorico-politica che si è soliti chia8

mare «operaismo» italiano. Tanto più che , proprio a leggendarie pubblicazioni periodiche, le molteplici traiettorie del marxismo operaista hanno legato, da «Quaderni rossi» a «Contropiano», la loro travagliata fortuna. Imprevedibili diversivi del caso? Bizzarrie della Storia? Oppu­ re segni indicativi che prefigurano ciò che sarà? Difficile da dire. Di sicuro, sulla copertina del primo numero - recante la data del 19 marzo 1 973 - si legge: «Rosso quindicinale politico-culturale del Gruppo Gramsci». Agli albori, dunque, c'è un'altra eterodossia: quella deviazione dal formalismo dogmatico della tradizione emme-elle, praticata da un'area in rotta con il Partito comunista d' Italia (marxista-leninista) e facente capo a Romano Madera. Se l'intera vicenda di «Rosso» è av­ volta dalle nebbie della rimozione, pedaggio pagato al pennanere d'una riserva inquisitoria in campo storiografico, altrettanto arduo risulta ricostruire il profilo della realtà che ne promosse la fondazio­ ne. Delle ragioni di questa difficoltà si è scritto di recente, alludendo - da un lato - ai velenosi frutti della stagione repressiva e, dall'altro, a quella naturale assimilazione del «prima» al «dopo» che si generò, nella percezione di molti protagonisti, al momento dello sciogli­ mento del Gruppo, ufficializzato nel dicembre del '73 . Radicato in prevalenza tra Varese e Milano, il «Gramsci» esercita, nei primissimi Settanta, la funzione di polo attrattivo, capace di coa­ gulare - in virtù d'una singolare alchimia teorica - soggetti e indivi­ dualità di provenienza differente. [eterogeneità della struttura, in cui militavano - oltre a una vivace componente impegnata nell'agita­ zione culturale - generosi quadri operai e intellettuali di valore come Giovanni Arrighi, si riflette in un programma innovativo, che tradi­ sce un livello di consapevolezza largamente superiore al resto delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. Nel corso del 1970, una frazione del Movimento studentesco, guidata da Pasquale Saracino, lascia la Statale - in conflitto con le posizioni di Mario Capanna e Sal­ vatore Toscano - per confluire nel Gruppo. Le fonti ordinarie tendo­ no a far coincidere questo passaggio con l'origine del «Gramsci». La riflessione del «Quindicinale politico-culturale» è caratteriz­ zata da un ampio spettro tematico, in cui rivestono un ruolo detenni­ nante i motivi della liberazione individuale e della produzione di nuovi linguaggi. [intento di stabilire un legame tra processo rivolu­ zionario e pratiche di liberazione rappresenta una peculiarità di que­ sta fase iniziale e un prezioso lascito per l'evoluzione del periodico: Vogliamo anche parlare di come sono organizzati i nostri rapporti 9

personali, la nostra vita, la nostra cultura. Di come sono organizza­ ti per noi dal capitale e di come noi sentiamo il bisogno di organiz­ zarli. Non è più il tempo in cui il «pane» e la «libertà» potevano co­ stituire un programma. Oggi è tempo di rivoluzione comunista, di rivoluzione culturale a livello di capitalismo avanzato.

La dichiarazione di progetto evidenzia fintenzione di non con­ figurare il giornale come semplice organo di struttura, bensì di renderlo «attrezzo» utile a interpretare una complessità che si va articolando su diversi bisogni, lotte sociali emergenti, eluse con­ traddizioni uomo-donna e inedite forme d'espressione. La stessa relazione istituita tra luoghi della produzione industriale e ambiti del sistema formativo pare distanziarsi dal liturgico invito a una meccanica alleanza studenti-operai. È nella scuola, considerata una «fabbrica di qualifiche e di divisione», che agisce il dispositivo di frazionamento della classe applicato al ciclo produttivo. Ed è proprio «nel rapporto della classe operaia col capitale, nel rappor­ to degli studenti con la scuola» che occorre cercare f «estraneità», la politica, f «autonomia». Il palesarsi dei comportamenti autonomi procede dalf «aspetto qualitativamente decisivo» dello sviluppo capitalistico: ovvero dalla rottura del legame professionale e dalfestinguersi dell'identifica­ zione tra lavoratore e processo lavorativo. Nella «fabbrica automa», f operaio finisce per percepirsi come mero «accessorio» inchiodato a un lavoro di merda: a otto ore di monotonia e ripetitività. Non c'è più niente che projùmi nel sudore alla catena: nessun sapere arti­ giano, nessuna capacità di controllo. Soprattutto: niente per cui valga dawero la pena faticare. In ciò che i riformisti considerano una «distorsione» dello sviluppo e in ciò che i gruppi tendono a de­ mandare al livello sindacale o a tacciare di «spontaneismo», i teori­ ci del «Gramsci» individuano il punto da cui «ripartire»: Perché è qui che nasce la politica, il programma e la costituzione dell'organizzazione. E perciò anche dall'assenteismo, dalla disaf­ fezione, dal modo con cui gli operai hanno occupato la Fiat (senza minimamente richiedere quella gestione dello sviluppo che stava al centro dell' esperienza dei Consigli e del programma politico degli operai professionalizzati che ancora costituivano il centro della classe operaia dei tempi di Gramsci) .

Alf occupazione del marzo '73 è dedicato uno degli editoriali più belli ed efficaci del quindicinale, il cui titolo eloquentemente IO

recita: Un fatto politico, un fatto storico. Il paragone con gli accadi­ menti del 1920, gioco di ripetizioni e differenze consumato sul filo del tempo, è la formula impiegata per ribadire l'estraneità ope­ raia e il fine delle lotte autonome. Le bandiere rosse sventolano su Mirafiori. Era già successo. Ma questa volta a gonfiarle non è la forza dell'operaio professionale, impegnato a dimostrare la propria capacità d'organizzazione e di direzione del lavoro. Questa volta, non si tratta di produrre meglio per rispondere alla paralisi provocata dal capitale. Adesso, di marzo, non si lavora: [occupazione della Fiat «contro il lavoro salariato e alienato» (nessu­ no si riconosce in questa vita di lavoro) è il punto più alto che riassu­ me cinque anni di lotta nazionale e internazionale contro l'organiz­ zazione e la divisione capitalistica del lavoro sociale. La classe operaia vuole vivere per esprimere tutte le sue capacità creative, vuole un'atti­ vità libera, non un lavoro assurdo per accumulare profitti.

Nello sghembo ricorrere della Storia, un'altra discontinuità ri­ guarda il Consiglio di fabbrica (Cdf) , paragonato a un «braccio le­ gato al corpo delle masse in movimento (al corteo, all'assemblea, al picchetto)>>. Tuttavia, è proprio in rapporto ai consigli che il «Gramsci» marca una posizione originale, destinata a fruttargli non poche critiche «da sinistra», riassumibili nell'accusa di «op­ portunismo sindacale». La relazione tra organo dei delegati e forme organizzative dell'autonomia non coincide con un compiu­ to superamento del primo a vantaggio delle seconde. Loccupazio­ ne avrebbe piuttosto agito da «filtro», da criterio di verifica agente: «I delegati attivi e di lotta sono stati riconosciuti, gli altri sono stati "emarginati» dai momenti di direzione dell'agitazione» . A partire dalla forza «interna, strutturale» dell'operaio dequali­ ficato, si muovono i Collettivi politici operai (Cpo) , cui corrispon­ dono - nelle scuole - i Collettivi politici studenteschi (Cps) . En­ trambe le realtà svolgono lavoro d'avanguardia, favorendo la co­ struzione dell'organizzazione politica complessiva. Nel caso dei collettivi operai, questo tipo d'intervento si compie all'interno del Consiglio di fabbrica, ritenuto l' «organizzazione di massa della classe». I.:azione nei consigli persegue un doppio obiettivo: in primo luogo, si volge alla difesa d'un certo livello di «democrazia operaia»; al contempo, però, si fa denuncia dell'uso degli organi­ smi consiliari promosso dalla linea riformistica. La rivendicazio­ ne di questa prospettiva, spinta fino a comprendere lo stesso sinII

dacato, è palese in un documento redatto dal Cpo deIrAlfa Romeo e parzialmente pubblicato sul numero del 7 maggio '7J: Noi lavoriamo nel Cdf per sviluppare la capacità delle masse stes­ se a dirigere la lotta, ad attaccare i progetti riformisti d'integrazio­ ne: bisogna cioè saper condurre dentro gli organismi di massa un'azione comunista di egemonia. È per questo che diciamo e sot­ tolineiamo che non siamo organismo alternativo al sindacato e tanto meno al consiglio.

Neppure la denuncia del contenimento sindacale della conflit­ tualità in fabbrica - condotto attraverso la limitazione della con­ trattazione integrativa aziendale e lo spostamento delle rivendica­ zioni sul terreno delle riforme - porta a un cambiamento di linea. Al contrario, r opzione viene confermata perfino nel numero che annuncia lo scioglimento del «Gramsci»: I..: importanza della nostra proposta sta proprio nel capovolgere questa situazione: noi vogliamo partire dalla fabbrica, organizzar­ ci politicamente, e quindi portare fra gli operai, nei Cdf, nei diret­ tivi, nel sindacato un punto di vista che è operaio perché nasce dalle contraddizioni che gli operai vivono alfinterno del processo produttivo e che, proprio per questo, è unitario.

Non è questa la sede per sviluppare un confronto tra le proposte del Gruppo Gramsci e quelle di Potop. Peraltro, in virtù di evidenti ragioni cronologiche, tale raffronto non può essere svolto a partire dalle pagine di «Rosso». È sufficiente notare come il «Gramsci» abbia prefigurato l' «altro movimento operaio» sulla base d'uno schema che non prevedeva separatezza, sovrapposizione o precon­ cetta conflittualità con le strutture del movimento ufficiale. Arren­ devolezza di una linea compromissoria? O, al contrario, ricchezza d'una prassi che si sviluppa all'altezza del contrattacco riformistico? Al riguardo è opportuno individuare alcuni aspetti che continueran­ no a qualificare l'attività di redazione e il dib�ttito politico per buona parte dell'anno successivo. Il rapporto tra Cpo e Assemblee autono­ me o la questione della presenza nei Cdf rimangono, infatti, impor­ tanti temi di confronto anche nel periodo in cui prende forma la co­ siddetta «area dell'autonomia». In un contributo firmato dal Coordi­ namento nazionale dei collettivi operai e risalente ai primi mesi del '74, il giudizio sui Cdf è presentato ancora come elemento di diver­ genza tra gli stessi Cpo e le Assemblee autonome. In vista d'una ri12

composizione tra i due principali settori del!' «area», la sollecitazione del Coordinamento pare ispirata a una disponibilità costruttiva che, tuttavia, non sembra cedere sulla valutazione di sostanza: Su questo punto da chiarire tra i Cpo e le Assemblee, va evitata qualsiasi discussione ideologica sul passato, presente e futuro dei Cdf. Va invece portato avanti un serio confronto su quello che fac­ ciamo ora nei Cdf soprattutto in merito al livello di coscienza della massa operaia nelle fabbriche ove operiamo e ai tentativi sempre più pressanti del sindacato di ridurre i consigli a sue appendici di trasmissione della linea riformistica in fabbrica.

Lindicazione si dimostra corretta. La controversia è destinata a risolversi nella concreta unità dei soggetti di base e nella definizione delle fonnule organizzative di quella realtà che, sui numeri del '74, comincia a essere chiamata «Autonomia operaia». Ma a sciogliere davvero la querelle ci penserà Monsieur le Capitai con una gigantesca destrutturazione della concentrazione operaia in fabbrica. Il resoconto della chiusura della vertenza all'Alfa Romeo (nume­ ro IO, maggio 1974) attesta il consumarsi d'una cesura. La contrap­ posizione tra proposta sindacale ed esplosione della forza operaia è frontale. I rari riferimenti al Cdf descrivono una realtà subaltema, completamente scavalcata dalla «convocazione di assemblee deci­ sionali». Il testo porta la finna congiunta dell'Assemblea autonoma e del Collettivo politico operaio dell'Alfa Romeo. È passato poco meno di un anno da quando quello stesso Cpo affennava di non porsi su un piano di alterità rispetto al sindacato e al Consiglio, au­ spicando lo sviluppo di un «azione comunista di egemonia». Anche la posizione dei Collettivi politici operai di Milano suona come presa d'atto d'un mutamento. C'è stato un tempo in cui Pat Garrett e Billy Kid combattevano i proprietari fondiari. Il primo lo faceva secondo la legge, finendo per diventare sceriffo. [altro, della legge, se ne sbatteva e rispondeva colpo su colpo. Poi, Garrett si allea con i proprietari e spara a Billy. Come per ogni epo­ pea libertaria, anche in questo caso gli oppressi si augurano che il Kid rinasca per trionfare sul traditore. Ma è bene precisare che il vecchio Pat ha un paio di fratelli rispondenti ai nomi di Enrico B. e Luciano L. È in questa chiave provocatoria che i Cpo milanesi pre­ sentano le posizioni del Partito comunista e delle Confederazioni rispetto ai consigli. Il testo è un perfetto esempio dello stile di «Rosso», ben riassunto dallo stesso titolo: Pat Garrett e Billy Kid ov­

vero i consigli del sindacato e l'autonomia operaia.

Non sono questi gli unici elementi che pennangononel passag­ gio dalla prima alla seconda serie. [analisi delle trasfonnazioni del sistema fonnativo, la contestazione dei progetti di rifonna dell'uni­ versità e fattenzione per le fonne di auto-organizzazione nelle scuo­ le seguitano a rappresentare irrinunciabili piani di riflessione e in­ tervento. Anche finteresse per i temi economici e internazionali, at­ tribuibile in origine all'influenza di Arrighi, si mantiene costante. Nel «Quindicinale politico-culturale» quest'attitudine s'era espressa in uno sforzo di maturità teorica volto a cogliere il legame tra gli ele­ menti del conflitto di classe in Italia e la congiuntura complessiva dell'economia capitalistica. CosÌ, fin dal marzo del '73, uno sguardo vigile si era allungato Dietro le quinte della crisi monetaria, volendo ci­ tare un contributo sulla svalutazione del dollaro e il «nuovo corso». Un anno più tardi, questa capacità di lettura è confennata da una re­ lazione presentata al Coordinamento dei collettivi operai. Ancora una volta si sceglie d'impiegare una figura a effetto: faumento del prezzo del petrolio da parte dei paesi Opec viene paragonato a uno strumento d'offesa impugnato dai gruppi finanziari e industriali imperialistici per «ridimensionare i salari e riallargare i profitti ma­ novrando sui prezzi». [anna in questione è . . una bomba molotov nelle mani del padrone. Crisi e petrolio colpisce per la profondità del­ fanalisi. I conflitti agiti nel punto più avanzato dello sviluppo sono collegati alle lotte nel Terzo mondo e riferiti alla controffensiva capi­ talistica che va sostanziandosi nella fase recessiva, prodromo d'una «generale e nuova spartizione del mercato mondiale». Si comincia a parlare di «ristrutturazione» e «crisi», e di come quest'ultima serva al sindacato e al Pci per favorire la «ripresa produttiva» e giustificare «una politica di compromesso che unisca tutti i settori di "popolo» progressisti». Il principale obiettivo di lotta è individuato nella ga­ ranzia del salario e del posto di lavoro, al fine di bloccare il ricatto avanzato attraverso f «uso della crisi». A partire dal '74, la rilevanza attribuita a questi motivi trova una ratifica nella struttura del format editoriale. «Rosso Interna­ zionale» diventa una delle quattro sezioni del periodico, laborato­ rio in cui si affina il ragionamento sugli assetti economici com­ plessivi. Il ruolo delf Italia nella catena del dominio delle multina­ zionali, la centralità del fronte mediterraneo dispiegato tra il Portogallo e il Medio Oriente, le lotte dell'operaio multinazionale in Germania o la crisi di bilancio del comune di N ew York sono al­ cuni temi d'una ricerca che procederà intrecciata alla ben più cele­ bre esplorazione della nuova composizione di classe. Eppure, indipendentemente dal permanere di determinati .

contenuti, è un preciso registro espressivo che la transizione dal «Quindicinale politico-culturale» al «Giornale dentro il movimen­ to» salvaguarda e potenzia. [obiettivo è modellare la rivista sull'ar­ co d'espressione dell'insubordinazione operaia, così da cogliere gli aspetti microfisici del conflitto, afferrare una nuova tonalità del comportamento politico e ricalcare un nascente tessuto d'espe­ rienze che sta eccedendo la fabbrica. La perlustrazione dei feno­ meni «sottoculturali», l'interpretazione di esigenze emergenti o la definizione di uno stile della comunicazione più caldo, coinvol­ gente, spiazzante e meno didattico, non sono opzioni formali, bensì caratteristiche immediatamente politiche. Il soggetto ope­ raio è meno rude, ma più irriverentemente pagano. Controcultura hippy e lotte operaie, cortei che spazzano i reparti e beat generation, ripensamento dell'arte e rifiuto del lavoro . . È in quest'altro oriz­ zonte che «Rosso» si muove criticamente, proponendo il tratto espressionista di vignette acide e insolenti, impiegando il nonsense più estremo o il più spiazzante ribaltamento di significato, anco­ rando il processo rivoluzionario alla rivoluzione culturale: .

E se qualcuno ci viene a dire che siamo poco seri, gli ricorderemo che la rivoluzione, oggi, in Occidente, con queste lotte operaie, sarà qualcosa di un pd nuovo, diverso dalle rivoluzioni operaie del passato: qualcosa di più vicino, finalmente, al comunismo.

Dicembre arrivò così, al tennine dell'anno che aveva conosciuto la rivolta antiproduttivista dei giovani operai di Mirafiori con i fazzo­ letti rossi intorno alla fronte. E proprio a dicembre, il «Quindicinale politico-culturale» esce in fascicolo doppio. Sulla copertina campeg­ gia un nuovo sottotitolo. In Una proposta per un diverso modo di fare politica, lo scioglimento del «Gramsci» è ritenuto un passaggio indi­ spensabile per evitare le derive gruppettare e valorizzare i comporta­ menti autonomi della classe. [analisi di fase fa riferimento all'inizio d'un periodo socialdemocratico, di cui il compromesso storico è la proposta più avanzata sul piano politico e la ristrutturazione il prin­ cipale aspetto sul terreno della produzione. Il documento riaffenna l'impossibilità di scindere «condizioni di lavoro» e «condizioni di vita», proponendo una lotta generale contro tutto il «mondo del ca­ pitale». La centralità del movimento, o - meglio - dei movimenti, è evidente, come pure evidente è l'urgenza di rovesciare, in una di­ mensione sociale, il patrimonio accumulato in cinque anni di lotta. Al binomio fabbrica-scuola, si aggiungono i movimenti di liberazio­ ne. Lo strumento minimo di questo «salto qualitativo» è una rivista,

capace di «mantenere un livello organizzativo, di infonnazione, di elaborazione del programma», che apra la sua redazione a quanti si riconoscono nel nuovo progetto. È cominciata la sta gione di «Rosso giornale dentro il movimento». Ma erano accadute altre cose in quel rocambolesco 1973 . Tra la fine di maggio e finizio di giugno, s'era tenuta, in una località della provincia di Rovigo, la quarta conferenza d'organizzazione di Po­ tere operaio. Una parte della componente veneta aveva rigettato la linea di Franco Piperno sul partito e la continuità organizzativa, sancendo - di fatto - la fine delf esperienza. A Rosolina, Toni Negri è già altrove. Dentro il movimento, oltre il Novecento La seconda serie di «Rosso» nasce dall'incontro tra il Gruppo Gramsci in via di scioglimento e fala negriana del disciolto Potere operaio. A Milano, Potop era sempre stato debole, privo d'una rile­ vante presenza nelle scuole, contenuto nelle fabbriche e complessi­ vamente schiacciato dal Movimento studentesco e dagli altri gruppi. Inoltre, i dissidi che porteranno alla rottura s'erano già manifestati nel corso del '72, indebolendo ulteriormente forganizzazione mila­ nese. Già durante il convegno di Firenze, infatti, era emersa foppo­ sizione tra findirizzo di Negri, fautore d'un decisivo approfondi­ mento del rapporto con le assemblee di fabbrica, e la prospettiva di Piperno e Scalzone, orientata a un certo «agire da partito» e a una qualche direzione sulla spontaneità delle realtà di base. A un esame attento, però, queste distinzioni paiono poco adatte a restituire la complessità dello scontro. Non a caso, si tende a insistere su aspetti ben più rilevanti, facendo riferimento all'uscita del capitalismo dal «paradigma fordista» e alla discordanza di letture prodottasi intorno alla natura di questo mutamento epocale. Altre differenze andreb­ bero rintracciate in una divergenza di posizioni rispetto ad alcuni li­ velli soggettivi: ovvero in un contrasto circa fuso della forza e la tito­ larità delle cosiddette «funzioni di rottura». Ma la ricostruzione più interessante la fornisce lo stesso Negri menzionando il «dualismo» di Potere operaio, «fondato sul diver­ so peso che viene dato agli elementi della soggettività rispetto ai momenti della lotta di massa come tale». Suddetta duplicità si co­ glie nella relazione tra proposta generale e comportamenti d'insu­ bordinazione diffusa. Alla «linea di massa» va riconosciuto il me­ rito d'aver sciolto fimpasse, azzardando una temeraria riteorizza­ zione riguardo ai soggetti sociali di riferimento e proponendo un'integrale adesione alle forme della conflittualità emergente. Si

tratta d'un tema complesso, su cui s'allungano le ombre dei nuovi ingranaggi dell'accumulazione e si stagliano le incipienti pratiche del contropotere. Molti temi anticipati da questo dibattito ricorre­ ranno allorché si tornerà a ragionare sulle necessità organizzative del processo espansivo dell'Autonomia. Lo strenuo corpo a corpo ingaggiato con il leninismo, lo sforzo di cercare un Lenin oltre Lenin, e l'urgenza di non sottrarsi al confronto con la grande poli­ tica novecentesca rappresentano il controverso patrimonio di quell'esperienza. Vedremo più avanti come questa rischiosa speri­ mentazione costituirà l'ultima, vera risposta al superamento dei modelli giuridici, economici e politici dei «Trent'anni Gloriosi» . Per adesso torniamo a Milano, dove - intorno ad alcune realtà di fabbrica e al progetto di un «giornale dentro il movimento» - si sta consumando l'intreccio tra ex-Potop e Gruppo Gramsci. Carat­ teristiche e ragioni di quest'incrocio virtuoso , presto segnato dal ripensamento di alcuni esponenti del «Gramsci», sono molteplici. Occorre seni altro registrare un'esigenza tattica, il tentativo - cioè - di supplire a reciproche carenze in vista d'un risultato che fosse, comunque, qualitativamente superiore al prodotto d'una somma. È probabile che, sulla base d'un reciproco riconoscimento teorico, il «Gramsci» cercasse, nella frazione potopista, un valore aggiun­ to di natura politico-militare, mentre quest'ultima puntasse sul ra­ dicamento dell'altra organizzazione. È altrettanto probabile che il Gruppo avesse sopravvalutato le capacità operative dell'interlocu­ tore e sovrastimato alcune forzature di piazza che Potop aveva cer­ cato d'imporre, peraltro non sempre brillantemente, nell'Inter­ gruppi ambrosiano. La svolta, però, non va considerata al pari d'una manovra «utile» o furba. Il carattere innovativo dell'intreccio risiede nella capacità di combinare le intuizioni del primo «Rosso» con i contenuti della lezione operaista. Gli strumenti di conoscenza diretta della sog­ gettività subiscono - in tal modo - una trasformazione profonda, al punto da perdere i connotati primigeni. Non più la tradizionale declinazione dell' «inchiesta operaia» e della «conricerca» , bensì una narrazione frattale, sincopata, «sporca», dei nuovi modi di vi­ vere e configgere. Negri parla d'una «documentazione pratica» , in cui la «registrazione fenomenologica del fatto» si traduce imme­ diatamente in «potenzialità di linea politica, in tendenza, in iden­ tificazione di soggetto». La descrizione è calzante e restituisce lo sforzo di aderire alla composizione che va delineandosi col decli­ no dell' operaio massa. È con una nuova classe operaia che la rivista sceglie di misurarsi: oltre la catena, di là dai muri della fabbrica, 17

lungo le dorsali d'una produzione che s'innerva sul territorio, sgu­ scia nel terziario e sussume la società. Ora più di prima, la scelta delle parole, finvenzione lessicale, la definizione d'altre «grammatiche» diventano strumenti specifica­ mente politici. [agitazione culturale occupa un posto imprescin­ dibile nelle lotte del proletariato metropolitano. [importanza delle idee sviluppate su questo terreno è innegabile e - ancora oggi - riesce difficile non apprezzare fampiezza del punto di vista. la­ scia stupiti il modo con cui il giornale affronta alcuni nodi proble­ matici intorno ai quali il movimento italiano si misurerà - e si di­ viderà - ancora a lungo. Colpisce la maturità con cui la soddisfa­ zione dei bisogni, legati all'autonomia d'una certa produzione, s'intreccia alle incursioni nel mercato della cultura. Lo sviluppo di pratiche sperimentali nell'underground procede, senza imbarazzi di sorta, insieme alla riappropriazione di porzioni d'immaginario trasmesso dai circuiti ufficiali. [estraneità del lavoro allo sviluppo determina una coerente ne­ gazione di qualsiasi «autonomia» residuale del piano culturale. Fin dai primi numeri del '74 , nella sezione «Rosso tutto il resto», si parla di «produttori di cultura» in contrasto con le usuali attri­ buzioni dell' Intellettuale. [opposizione alforientamento «stru­ mentale» del Pci non si limita a rigettare il ritardo di un trito popu­ lismo. Piuttosto, si traduce in una concezione della cultura di massa incompatibile con una proposta ancora invischiata nei eli­ chés d'un realismo promozionale o modulata su immagini stuc­ chevolmente nazional-popolari. Anche il giudizio sull'azione dei gruppi non lascia spazio a fraintendimenti: « È un criterio classico, molto simile alla linea del Pci che "allarga» questo discorso fino al recupero dei cantanti di San Remo, del Disco per festate, ecc ... ». La piattaforma Per un'iniziativa autonoma in campo culturale fissa i passaggi organizzativi utili a sostenere un intervento su vasta scala. Nella promozione d'una rete di «centri o circoli con ca­ rattere permanente», volti a supportare la diffusione di saperi o ca­ pacità tecniche, non è difficile individuare i presupposti che con­ correranno all'espansione dei Circoli del proletariato giovanile e, più tardi , al diffondersi delle dinamiche, auto-produttive e aggre­ gative, dei Centri sociali. Questa tensione «originaria» si dimostra assai più avanzata delle dispute che affliggeranno, per decenni, il ragionamento su «irrecuperabile diversità» o «debole differenza». La lungimiranza delfapproccio pare addirittura precorrere alcune «rivoluzioni copernicane» consumatesi, in anni recenti, in merito alla critica degli spazi occupati e a una condotta d'interazione con18

flittuale da assumere nel rapporto con i canali mainstream. La pro­ posta di «Rosso» non vuole esaurirsi nel «potenziamento dei pochi centri alternativi esistenti» ed esclude ogni «paternalistica tolleranza» nei riguardi di «chi invece ha la possibilità di utilizzare le strutture della distribuzione e della produzione culturale bor­ ghese (dalla Rai Tv al cinema, ai giornali, al teatro)>>. Lindicazione è contraria a quelle ipotesi di «separata autenticità» controcultura­ le che non tarderanno ad affiorare. In questa fase, l'orientamento è condiviso e così, in calce al testo, figura l'adesione di «Re nudo», che - più avanti - preferirà guidare la processione lungo la via per i «ghetti» e le «riserve indiane». Il rifiuto delle condizioni lavorative nel ciclo produttivo della musica pop o la denuncia della rapacità dei «padroncini del disco» diventano - a tutti gli effetti - priorità politiche. I.:agitazione cultu­ rale si dispiega su due livelli: da un lato, c'è la necessità di conqui­ stare il diritto d'accesso a prodotti altrimenti preclusi; dall'altro, si palesa il desiderio d'inventare una differente gestione della musica: «Il momento della lotta e il momento della pace, il momento della rabbia e il momento della serenità. Lotte ai concerti e spazi alterna­ tivi non sono quindi in contraddizione, ma sono al contrario com­ plementari uno all'altro» . Il lessico parafrasa, nel diversivo d'un lu­ dico spiazzamento, il gergo del ragionamento teorico, e poco ci manca che la partecipazione «attiva» a un concerto venga equipara­ ta a un processo di soggettivazione. In un brusco slitta mento dei si­ gnificati, si percepisce la stessa enfasi epica e il medesimo coinvol­ gimento che increspano i resoconti delle lotte in fabbrica. Ormai, Mirafiori è ovunque: Non a caso nelle città dove più che altrove si è organizzata la lotta contro i padroncini tradizionali della musica, che speculano con i prezzi sempre più alle stelle, il livello di coscienza della maggio­ ranza è altissimo. Non a caso boati e ovazioni e centinaia di pugni chiusi accolgono i giovani proletari quando entrano nei palazzetti sfondando i cordoni dei mastini di guardia ai cancelli.

Il disco che «gira» sulle pagine del '74 diffonde una calda misce­ la di blues, rock, jazz. Oppure, rimbomba come «musica elettrica, fatta con strumenti amplificati a volumi molto alti» . S'inneggia a un frastuono che «deve fare più "rumore» del vero rumore». Se il suono è messaggio, il «modo» si è fatto senso. La rilevanza attribui­ ta alla maniera di cantare, alle inflessioni e agli strumenti, è deter­ minante per rigettare le inclinazioni pedagogiche di un' arte, la cui

utilità - per troppo tempo è stata valutata sulla base delf ossequio­ sa «giustezza» del messaggio: «I Beatles si sono fatti capire perfet­ tamente anche da chi non sapeva una parola d'inglese e non aveva la minima idea di cosa dicessero le parole. Il tipo di messaggio era nel mezzo usato, non esisteva in termini razionali, di discorso». La voce di Lennon, gli accordi di Satisfaction, lo strascicare sgra­ ziato di Dylan, ma anche il boogie, i fianchi di Elvis, il city blues e perfi­ no il cooljazz . . . : ogni rottura è vagliata sulla base di plastiche ambiva­ lenze. La musica nera che arriva in Italia è un prodotto elitario, «de­ purato» da un doppio filtro: «quello della cultura bianca amerikana e quello della cultura della colonia americana chiamata Italia». Il jazz bianco dei Quaranta e Cinquanta ha saputo esprimere finsofferenza dell' artista bohémien respinto dagli apparati della cultura massifican­ te. Il rock è rivoluzione di giovani che devastano i teatri: però, è una ri­ voluzione a metà, che inciampa nei «sospiri allacciati» di Loving you e si consuma a spese della donna. Keith Richards declama il manife­ sto dell'estraneità giovanile. In Italia, forse, non si comprendono le parole, ma non importa: fimpatto è ugualmente forte, perché vive nell'aggressività del suono. I.:orizzonte è il movimento, senza il quale riemergono le promesse ingannevoli del «socialismo in un disco solo» e del «comunismo da concerto». I.:arte s'immerge nei rapporti di forza, si situa nel cuore dell'espressività antagonistica della classe e ricade sul terreno dell'organizzazione. Tra il '74 e il '76, nel periodo più produttivo e vitale della rivista, fattenzione per fintervento politi­ co-culturale si traduce in un affresco compreso tra le spiagge del Pa­ cifico e f Europa, tra fanalisi della fase carsica del movement califor­ niano e fosservazione deglijugenzentertedeschi. Sotto lo slogan «Ri­ prendiamoci la vita», a metà del '75, appare un resoconto delle lotte del proletariato giovanile e metropolitano nella Repubblica Federale. Il movimento delle occupazioni, la liberazione degli spazi, la resi­ stenza alla repressione socialdemocratica sono elementi d'un conte­ sto in cui la «controcultura» è sempre un equivalente della politica e un sinonimo di «organizzazione autonoma». In ottobre, quando il giornale ha già cambiato profilo editoria­ le, inaugurando il formato lenzuolo, la descrizione della «nuova fi­ gura operaia antagonista» rimarca due precisi caratteri: il «rifiuto del lavoro», ovvero la necessità di «appropriarsi dei nessi di ri­ strutturazione in atto», e la «rivalutazione della creatività» per cornbattere il capitale fuori dalla fabbrica: -

La lotta per l'appropriazione del tempo libero e il tempo libero stesso diventano terreno fertile di organizzazione proletaria. LO20

biettivo fondamentale è di rovesciare la logica dell'articolazione territoriale del potere padronale in termini di attacco, di scontro duro contro di esso.

Se è vero che «non si vive di solo pane», come recita il resocon­ to d'uno «sfondamento» al Vigorelli, allora «prendersi lo spettaco­ lo» è un diritto legittimo. La rinuncia a un'inadeguata teoria dei bi­ sogni, basata sulla primitiva esclusività delle impellenze primarie, assume i toni dell'irrisione: Andate calmi compagni, prima ci sono i bisogni proletari, uno per uno, in fila prego; prima il pane, poi la pasta, poi un pd d'olio, per il burro si vedrà. Solito capellone urla che conosce un suo amico che c'aveva un amico che diceva che un amico (operaio!) rideva, mangiava due volte al giorno e voleva fare l'amore e altre cose simili. La distanza con i gruppi s'è trasformata in un baratro, di cui un articolo del gennaio '75 misura la profondità. A Lenin non piaceva Frank Zappa restituisce - già nell'icastico sberleffo deIrintestazione - la caricatura sferzante del conformismo militante. Si rinnovano le accuse a un'arte colma di «personaggi popolari, con abiti stracciati e occhi buoni, pieni di volontà e di speranza». I.:elenco di giudizi ottu­ si e liquidatori, attribuiti all' «Engagé» della sinistra rivoluzionaria, esprime il disprezzo per le figurazioni educative, eroiche, ottimisti­ che. Ai cascami della «vecchia cultura», si contrappongono i we­ stern della crisi, i fumetti di Crepax e Pratt, la musica rock, il teatro­ provocazione di Dario Fo, la recitazione di Carmelo Bene. Soprattut­ to, la ricombinazione degli elementi, l' incessante processo di risignificazione dei materiali, la tensione a sciogliere la ricerca d'a­ vanguardia nei flussi della creatività orizzontale per rendere ciascu­ no protagonista dello spettacolo più sconcertante: il processo di libe­ razione hic et nunc. È questa modificazione delle rappresentazioni collettive, delle sintesi culturali diffuse, delle forme di vita, dei modi di svolgere le relazioni, pensare il corpo, rendere operativa l'intelli­ genza, che il Partito comunista non riuscirà né a rappresentare, né ­ ancora prima, e tanto meno - a comprendere. Dopo, preferirà rele­ gare la ricchezza del processo di produzione sociale nei sordidi quar­ tieri d'una «seconda società», versione imbellettata del Lumpen. Supposto esorcizzabile monito d'un collasso della politica, le cui cause andavano cercate altrove: in quella disintegrazione dei sogget­ ti sociali e delle istituzioni del Secolo XX che l'astuzia del capitale e 21

fequanime brutalità della Storia rovesceranno - più tardi - anche su via delle Botteghe Oscure. Ma f originalità di «Rosso» è guardata con sospetto perfino da altre componenti del movimento: ad esempio, dagli operaisti «puri» di «Senza tregua». E non solo. Nel dicembre del '76 , in un celebre numero intitolato Per l'organizzazione operaia, si ufficializza la frat­ tura con farea dei Volsci. Nelle dimissioni della redazione romana, le perplessità riguardo a certi registri della comunicazione si mescola­ no a divergenze concernenti fanalisi di fase. I Comitati autonomi della capitale denunciano le asserzioni enfatiche, le astrazioni avven­ turose, il codice d'organizzazione e la valanga di verbalismi. Conte­ stano lo «stile da giornalismo d'assalto», le «affrettate teorizzazioni», la «"feroce» e autosoddisfatta terminologia» e il «sociologismo» d'e­ quivoca origine. La critica del «post» o «neo-operaismo», scoperto nel laboratorio-rivista, si compie nella riaffermazione della centralità dell'operaio dequalificato. Si rilevano, infine, due colpevoli rotture. La prima è «vistosa», perpetrata nei riguardi della «tradizione teorica e pratica operai sta» a opera d'un «pensiero politico spesso volgare e approssimativo in parte derivante dall'esperienza del Gruppo Gram­ sci». La seconda concerne un presunto allontanamento dalla fabbri­ ca. Se i romani sono disposti a riconoscere la ripresa del controllo riformistico nei grandi stabilimenti industriali, negano che a questa restaurazione corrisponda un atteggiamento di «passività operaia». Benché connotato dall'asprezza polemica, il giudizio esplicita quel congedo politico dal «Partito di Mirafiori», cioè dal protagonista del precedente ciclo di lotte, che una porzione dell'Autonomia ha scelto di consumare. La risposta della redazione milanese conferma i ter­ mini della rottura ed esprime la novità che contraddistingue finter­ pretazione della «situazione di classe». Se fobiettivo di urianalisi marxista è superare il «dogma», allora occorre fare chiarezza sulle modificazioni strutturali determinatesi nella «composizione di clas­ se del soggetto antagonistico». Alfinsorgenza dell'operaio massa e al suo «impatto distruttivo contro la struttura della fabbrica», seguono la «proiezione delle lotte operaie dalla fabbrica al sociale» e r «emer­ genza di nuovi strati proletari che non solo si affiancano ali'operaio massa ma ne ereditano e portano al massimo grado» il potenziale conflittuale. Si tratta d'un processo di proletarizzazione della società e di socializzazionejterziarizzazione del capitale. Uriorganizzazio­ ne politica deve cogliere il nuovo e non cercare «conforto nella gran­ de classe operaia». Se i romani parlano di «pensiero politico volgare e approssimativo», i milanesi tacciano i Volsci di «"operaismo da strapazzo» degno della peggiore tradizione terzinternazionalista». 22

Lo scontro mostra tutta la consistenza della scommessa e la radica­ lità di reazioni che una simile frattura suscita nel movimento. Nel maggio del '75 , il giornale era uscito con un supplemento che funge da manifesto di questo travolgente sovvertimento del modo d'intendere la politica e agganciare il mutamento della com­ posizione di classe. Sulla copertina campeggia una frase che rias­ sume fieramente il senso della sperimentazione: «Il comunismo è giovane e nuovo, è la totalità della liberazione!». Il contributo d'a­ pertura tratteggia la geografia del continente politico, sociale, umano, scoperto oltre le Colonne d' Ercole della società del lavoro e della democrazia rappresentativa: La composizione di classe che ha tirato le lotte e che è il soggetto po­

litico della nuova fase storica sganciando il salario dalla produttività e dal lavoro, tende ad agganciarlo solo al livello di forza che questa composizione possiede; i senza -lavoro chiedono salario, le donne vogliono reddito e servizi e meno lavoro [ . . . ]; gli studenti sganciano il loro reddito dal merito che li lega alla produzione scolastica [ . . . ]. Cosa vuoI dire questo? La stessa lotta rivendicativa è lotta di potere, la lotta di potere è lotta per affennare la totalità dei bisogni.

Queste righe condensano Yimperdonabile «blasfemia» d'una teoria-prassi che disloca il conflitto di classe in una fase nuova, de­ strutturando i miti dell'ortodossia marxista e compiendo un vistoso scarto rispetto alla stessa tradizione operaista. Se il lavoro non è più misura del valore e neppure fulcro d'un sistema inclusivo di garan­ zie, epicentro d'una sfera della cittadinanza, il dispiegamento della «forza» diventa Yunica via percorribile per accedere al reddito, utiliz­ zare i servizi, produrre ulteriore diritto. In troppe occasioni, la que­ stione è stata ricondotta, con evidente, moralistica ipocrisia, a un in­ distinto uso della violenza. In tal modo, si è scelto di procedere a un sistematico occultamento delle cause, delle condizioni e dei proces­ si che posero la ricchezza di un universo nell'anonimato e nella mar­ ginalità. Così, si perpetuano i vuoti interrogativi sull' «anomalia» ita­ liana, su un «Sessantotto durato dieci anni» e su una fosca istanta­ nea virata dal grigio del piombo. Nonostante i grandi eventi del periodo siano universalmente riconosciuti, si continua a negare le­ gittimità alla ribellione che si espresse alYaltezza della ristrutturazio­ ne capitalistica. Al campo della storiografia vengono affidate le lotte dell' operaio massa e le soluzioni elaborate dal capitale per cancellare la presenza operaia. Al diritto penale e alla logica emergenziale si consegna Yantagonismo dei soggetti posti al centro d'un differente

paradigma. Come se al raffinato ampliamento dei meccanismi d'e­ strazione del plusvalore non dovesse corrispondere alcuna risposta. O come se Yunica risposta accettabile dovesse rimanere quella del movimento operaio ufficiale, impegnato nell'impossibile insegui­ mento del capitale lungo le linee in trasformazione. Quest'ambi­ guità continua a funestare la riflessione sugli anni Settanta e sul mo­ mento critico in cui si ruppero gli equilibri della prima Repubblica. Si trattò d'una svolta storica, coincidente con la fine di quella sta­ gione che i teorici della scuola regolazionista definiranno i «Trent'anni Gloriosi». La crisi energetica che spense YOccidente e la celebre dichiarazione di Richard Nixon sulla convertibilità del dollaro sono le premesse della controffensiva agita dal capitale. Un'«era geologica» delfeconomia internazionale sta tramontando per sempre: un periodo che sembrava eterno e che aveva visto il tay­ lorismo come modello d'organizzazione produttiva, il fordismo come meccanismo delle relazioni industriali e il keynesismo come orizzonte delle politiche economiche. In molti Yavevano denomi­ nato «capitalismo maturo», per rimarcarne il senso conclusivo. Tuttavia, gli ingranaggi delYaccumulazione si sono inceppati. A metterne in crisi il funzionamento è stata una gigantesca se­ quenza di lotte promosse dalYoperaio fordista. Da Detroit alla Ger­ mania, da Parigi a Mirafiori i conflitti della classe operaia hanno trasformato la catena di montaggio in una fucina d'incompatibi­ lità. È a questo punto che il capitale opta per una soluzione offen­ siva, attuando quella che può essere considerata una «rivoluzio­ ne»: senza dubbio passiva, ma comunque capace di modificare profondamente le condizioni produttive. Lo strumento d'attacco è la ristrutturazione , ovvero la combinazione di massicci investi­ menti tecnologici, decentramento della produzione e riduzione del lavoro vivo diretto. In pochi anni, il volto delle società occiden­ tali si trasforma irrimediabilmente. Il processo non è neutrale, bensì è un effetto politico, provocato dal durissimo scontro tra il capitale e la rigidità dell' operaio massa. A distanza di tre decenni, il quadro generale risulta chiaro. Le sue determinazioni operative sono descritte dettagliatamente sulle pagine di «Rosso». Fin dai primi mesi del '74 , il giornale pubblica numerosi inter­ venti su «ristrutturazione e composizione di classe». Dalla Fiat al Petrolchimico, dalla Fatme alY I talsider, si delinea il «programma del capitale»: «Imporre maggiore produttività, mobilità a fisarmo­ nica delYorario di lavoro, mobilità degli operai stessi per favorire la ristrutturazione; divisione tra i proletari senza salario e gli operai col salario, divisione tra fabbrica e società».

Alla Lanerossi, la chiusura dell'accordo e il salto tecnologico ge­ nerano due figure distinte: da un lato, l' «operaio di controllo», ca­ ratterizzato da «un altissimo rapporto capitale-addetto»; dall'altro, l' «operaio di servizio», presente in reparti altamente automatizza­ ti e incapace di controllo sulle macchine. La divisione si consuma rispetto alla «comprensione del ciclo produttivo» e «vive anche dentro ai livelli di quelle che erano le categorie degli impiegati». Anche a Marghera si procede al frazionamento della classe con l'attacco ai livelli occupazionali: «Questo processo di espropriazio­ ne della composizione di classe mira a colpire, attraverso una serie di operazioni di alleggerimento, il cuore della struttura di classe». La ristrutturazione si estende all'intero mercato della forza lavoro, al fine di spaccare in due strati sociali concorrenti la «struttura del salario operaio». È la fine dell'esercito industriale di riserva classi­ camente inteso, mediante il suo coinvolgimento nel processo pro­ duttivo e in una strumentale contrapposizione tra il «reddito ga­ rantito» di chi rimane in fabbrica e il reddito precario dei sottoccu­ pati, dei lavoratori a domicilio, dei proletari in cerca di nuovo lavoro e dei disoccupati cronici. Il «territorio» , sede d'una produ­ zione diffusa e reticolare, diventa un piano centrale dello scontro. L«USO capitalistico della crisi» rappresenta il tentativo di piegare ai livelli più bassi le aree di classe che hanno espresso le punte più alte di conflitto. Il compromesso storico è presentato come un pas­ saggio complementare alla riorganizzazione produttiva. Si parla di «ultimo round» nella socialdemocratizzazione del Pci e si co­ mincia a definire quello «Stato del lavoro» in cui s'integrerebbero gli interessi delle multinazionali, i corrispondenti assetti del capi­ talismo nazionale, le confederazioni sindacali e il Partito comuni­ sta. Più avanti, il ruolo del sindacato e del Pci nello «Stato socialde­ mocratico delle multinazionali» diventerà sinonimo di «compar­ tecipazione operaia allo sfruttamento operaio» e di puro esercizio repressivo. È in questo contesto di trasfonnazioni strutturali che vanno ma­ nifestandosi i comportamenti d'insubordinazione proletaria. Ren­ dere conto della varietà delle lotte autonome significa misurarsi con una complessità che comprende assenteismo e autoriduzioni, occu­ pazioni e sabotaggio, la rivendicazione delle 35 ore pagate 40 e la ri­ chiesta di reddito garantito. Al centro di questa molteplicità si collo­ ca la fabbrica diffusa. In altre parole, l'intervento ristrutturante avrebbe detenninato una dissoluzione del «concetto secondintema­ zionalista di classe operaia» e trasfonnato l'operaio di fabbrica in operaio terziario: in proletario. Le principali obiezioni mosse a que-

sta teoria, che assumerà una definizione compiuta coil"fintroduzio­ ne del concetto di operaio sociale, riguardano la supposta «evane­ scenza» del soggetto in questione. Tuttavia, la comparsa d'un attore fino allora ignoto è lampante se si osserva la vastità dell' antagonismo espresso contro il dominio del capitale. In Quale scintilla può incendiare la prateria?, editoriale delYotto­ bre '74, fintensità del conflitto è palpabile e tutt'altro che rarefatta. Il punto di partenza va cercato ancora in fabbrica e «si chiama sa­ lario garantito contro la cassa integrazione e i licenziamenti». Ma la difesa dei livelli salariali assume una connotazione nuova: «non soltanto garanzia di salario ma sviluppo del salario e del potere sul territorio». La lotta rivendicativa si trasforma in una lotta per il po­ tere, mentre il fronte dello scontro travalica la fabbrica. La consa­ pevolezza e Yorganizzazione crescono in un conflitto che coinvol­ ge finterezza della composizione di classe. Bollette, trasporti, af­ fitti, prezzi sono gli obiettivi della pratica di appropriazione, intesa come riconoscimento delf estensione del processo produttivo e «iniziativa politica per il comunismo». Si rigettano, contestual­ mente, le pretese di sacrifici e le richieste di aumenti produttivi, dichiarando Yassoluta indisponibilità a farsi carico dei costi della crisi. AlYopposto, Yappropriazione è considerata un terreno strate­ gico di risposta, una leva per ribaltare Yattacco capitalistico in una controffensiva. Le lotte per la casa e nel terziario, Yautoriduzione delle bollette elettriche, il ripensamento dei rapporti uomo-donna, la diffusione epidemica delle pratiche di appropriazione concorro­ no a indicare la «nuova dimensione dell'autonomia operaia». Si esalta Y«azione diretta» espressa a Torino, Milano, Napoli, Caserta e - in più occasioni - si citano gli scontri nella borgata romana di San Basilio. [articolo si chiude con un accenno alla «violenza pro­ letaria» e alfattacco armato che ha colpito rItt a Fizzonasco. Cosa accadde all'inizio d'ottobre in una località del comune di Pieve Emanuele è presto detto. Più difficile è stabilire il significato simbolico e le profonde implicazioni di quegli eventi rispetto al le­ game tra «azioni d'avanguardia» e «illegalità di massa». Domenica 6 ottobre. Un commando irrompe nel magazzino d'un impianto della Face Standard situato nell'hinterland di Mila­ no. Viene data alle fiamme e completamente distrutta la mole di prodotto finito, pronto per la spedizione. Danni per miliardi di lire e nessuna ripercussione sugli operai. Al contrario, si dovrà au­ mentare la produzione per riparare alle commesse perdute, crean­ do - così - ulteriori situazioni di lotta. La rivendicazione non pre­ senta sigle d'organizzazione. Solo uno slogan: «Mai più senza fu26

cile , dunque: senza tregua per il comunismo». Nel testo del comu­ nicato si fa riferimento alla Face Standard, la multinazionale sta­ tunitense delle comunicazioni Itt, indicata tra i finanziatori del gol pe in Cile del generale Augusto Pinochet. L azione ha grande eco nel movimento, raccogliendo un consenso ampio e provocan­ do le rabbiose reazioni di sindacati e gruppi. La condivisione del gesto è testimoniata dalla diffusione del volantino di rivendicazio­ ne, che - a Milano - prosegue per tutta la settimana. Se il Colletti­ vo operaio della Face rifiuta di condannare l'accaduto, denuncian­ do le minacce di cassa integrazione dell'azienda e la linea compro­ missoria del Consiglio di fabbrica, quest'ultimo risponde con un documento che, attraverso un gioco di parole, tanto buffo quanto grottesco, tira in ballo la rivista dei Disciplini: Ancora una volta di fronte alla ripresa dell'iniziativa sindacale e democratica nel paese, rispunta puntuale la provocazione ma­ scherata di colore (ROSSO), che altro non nasconde se non il ten­ tativo di creare caos e confusione, che nulla hanno a che spartire con il movimento dei lavoratori e le tradizioni di lotta . . .

[irruzione alla Face può apparire qualitativamente diversa dalle altre forme del conflitto metropolitano. Le stesse modalità dell'azione presuppongono l'esistenza di competenze, saperi tec­ nici e capacità logistiche. In realtà, è utile precisare che il fatto fu condiviso e rivendicato dal movimento. In questa fase, una certa interpretazione delle «funzioni di rottura» è strettamente connes­ sa alle pratiche dell'illegalità di massa, e la relazione tra «azione esemplare» e «campagna politica» si traduce costantemente in un'espansione delle lotte. Quando e come suddetto nesso finirà per produrre esiti differenti è un problema intricato, comunque ri­ feribile a divergenze successive e a passaggi ulteriori. Intanto la prateria milanese ha preso fuoco. [incendio divam­ pa il 16 aprile del '75, quando l'uccisione di Claudio Varalli, mili­ tante del Movimento studentesco, per mano di un neofascista di Avanguardia nazionale, innesca violenti scontri che si protraggo­ no per quattro giorni. La lettura che «Rosso» dà delle «giornate d'aprile» si spinge oltre la celebrazione dell'antifascismo militante e la denuncia delle responsabilità repressive del potere: «Queste giornate rappresentano un primo punto di arrivo, vittorioso, del movimento autonomo di classe». [aprile '75 assume la medesima valenza del marzo '73 o del luglio ' 60, testimoniando il protagoni­ smo d'una nuova generazione di militanti: «Sono quelli che non

avevano fatto il '68, che hanno appreso la gioia della lotta attraver­ so le battaglie di questi anni: sono i compagni per i quali la lotta di appropriazione e per il comunismo è una parola d'ordine imme­ diatamente attiva». Il tentativo d'ingabbiare le lotte operaie e i bi­ sogni proletari è fallito: almeno nell'immediato. Tuttavia, si an­ nuncia un potenziamento delfazione repressiva «sotto la guida della Dc, con la connivenza del Pci». La previsione è corretta e, in­ fatti, lo scontro è destinato a intensificarsi in un crescendo che cul­ minerà quattro anni più tardi. E sempre d'aprile. Ma nel '75, è tutta f Europa mediterranea a essere investita da una profonda crisi politica. La caduta del regime di Salazar in Por­ togallo e le mobilitazioni del proletariato iberico lasciano pensare alla possibilità d'uno sbocco rivoluzionario in Occidente. L Italia, per la particolare posizione che occupa nella divisione internazio­ nale del lavoro, sembra il «punto medio» di questo processo, peni­ sola collocata a metà strada tra il centro delf lmpero e i paesi del Terzo mondo. Se a questa congiuntura complessiva si aggiungono determinate caratteristiche, come fendemica insubordinazione di ampi strati sociali, non è difficile intuire la concretezza della proposta avanzata dall'Autonomia e da «Rosso». Sono anni in cui f emersione di nuove figure sociali, portatrici di stili di vita scono­ sciuti, materializza quotidianamente il rifiuto del lavoro. Davanti a questa mutazione, la stessa «scolastica» operai sta appare insuf­ ficiente. Loperaismo aveva scoperto un Marx disconosciuto, ri­ vendicato la centralità del soggetto, collocato le lotte nel cuore dello sviluppo del capitale e riferito finnovazione capitalistica agli esiti di queste lotte. Ma rispetto ai cambiamenti del modo di pro­ durre, alla «carnascialesca» apparizione di nuove soggettività , fo­ peraismo stesso non basta più. Questa frattura culturale e politica trova articolazioni differenti. In Francia, il vento soffia nelle pagine di Gilles Deleuze e Michel Foucault. Nel mondo anglosassone prenderà le forme delle culture di strada. In Germania darà vita a un radicale movimento anti -autoritario. Solo in Italia il fenomeno assume una veste capace di connettere femersione di nuovi biso­ gni, d'inedite forme d'esistenza, di coraggiose sperimentazioni teoriche, all'estensione della domanda politica. Insieme alla classe operaia di fabbrica, entra in crisi il modello della rappresentanza e a ruolo dei partiti di massa. La costituzione materiale del Paese sta mutando. «Rosso» intuisce la portata della svolta e opera un vero e proprio tradimento concettuale, nel tentativo di ricercare una forma della politica oltre la crisi del movimento operaio ufficiale. Al pericolo incombente, lo Stato risponderà con findividuazio-

ne d'un nemico pubblico da perseguire a ogni costo. Così, le logi­ che dell'emergenza innescheranno un processo, permanente e in­ quisitorio, alla generazione che tentò di animare un altro movi­ mento operaio nel crepuscolo del secolo Ventesimo. Per forganizzazione operaia, contro il Novecento

Sono trascors i trenta quattro anni dalla pubblicazione del primo numero di «Rosso» . E ne sono passati ventotto da quando le rotative della tipografia Coge stamparono, per l'ultima volta, il giornale di via Disciplini. Era il maggio del I979 , un mese dopo l'i­ nizio della vicenda giudiziaria chiamata «7 aprile». A distanza di tre decenni, la rivista torna leggibile, strappata alla polvere degli archivi, sottratta alla dannazione che ne marchiò la memoria. Le motivazioni di questa riscoperta non si esaurisco­ no nei pur legittimi intenti della ricerca storiografica. Definire l'«attualità» di una teoria-prassi significa misurarsi con la dialettica che regola il rapporto tra elementi di persistenza e momenti di rottura . Evidenziare la lungimiranza d'una proposta non basta. Nessuna interpretazione della tendenza, neanche la più esatta, vince davvero la partita col tempo. E non ci sono capar­ bie rivendicazioni in grado di compensare la misura delle sconfit­ te. In troppe occasioni ci siamo avvalsi della metafora di un filo rosso, dipanato attraverso il desolante alternarsi delle stagioni. In autunni sempre meno caldi e in inverni sempre più lunghi. Di pri­ mavere, invece, non ce ne furono più. Troppo spesso quel filo s'è trasformato in un cappio a cui appendere le possibilità di «tradi­ menti» virtuosi e la fecondità dei gesti «infedeli» . Quella di «Rosso» è stata un'avventura segnata da eclatanti ce­ sure, consumate nei riguardi di un'epoca e del protagonista che l'a­ veva dominata. Né il secolo del 'I7, né l'osservanza dei presupposti teorici dell' operaismo e nemmeno la forza dell' operaio massa limi­ tarono la portata d'una scommessa avanzata contro i simulacri del Novecento. Sullo sfondo di quest'esperienza, si staglia - una volta ancora - l' «enigma» del politico. Per paradosso, si potrebbe affermare che non è mai esistita una concezione operai sta del potere e che non s'è mai definita una cor­ rispondente teoria dell'organizzazione. Questo perché l'operai­ smo è - probabilmente - l'esperienza militante del marxismo ita­ liano che ha prodotto il maggior numero di soluzioni rispetto al suddetto problema. Non a caso, diaspore e polemiche si spiegano a partire dalle divergenze maturate intorno all'analisi delle forme politiche. La stessa fondazione di Potop implica il contrasto, esplo29

so sulle pagine di «Classe operaia», tra i sostenitori della «linea en­ trista» e gli assertori della necessità d'una svolta organizzativa. Chi sostenne fimpossibilità d'uno scioglimento immediato del rapporto classe-sviluppo indicò i limiti dell'autonomia operaia, pun­ tando al terreno della «mediazione» e alle leve delle «grandi politi­ che» novecentesche. Lo strumento adeguato tornò a essere il «parti­ to esterno», il Partito comunista italiano, cui spettava il compito di trasferire alla classe i vantaggi dello sviluppo, nel quadro di «una nuova grande Nep politica» capace di «mettere in mani operaie il filo delfiniziativa storica». Di nuovo per paradosso, è possibile rilevare come, anche per gli operaisti confluiti nel Pci, il «maledetto proble­ ma del politico» (così fha chiamato Mario Tronti, evidenziandone la valenza tragica) non è altro che il problema del potere operaio. La risposta «entrista» si modulò sui malinconici toni d'un pessi­ mismo «crepuscolare», ipotizzò il raggiungimento di un tetto nell'e­ spressione delfautonomia, percepì con largo anticipo favvento d'una mutazione vissuta come accerchiamento e disfatta, e affrontò il dilemma rivolgendosi al cuore della «modernità». A distanza di anni, ne La politica al tramonto, Tronti ribadirà con forza la natura eminentemente «moderna» della «Politica (maiuscola)), capace di farsi «scandalo per la normalità borghese», d'inglobare la Storia, di «produrre eventi eccezionali» e collegare, nel movimento operaio, la pazienza delle riforme all'obiettivo del programma massimo. «Nel movimento operaio»: ovvero, nelfunico movimento della classe, la cui origine si pianta nella modernità e le cui lotte si dispongono al centro dello sviluppo del capitale. In questo senso, «la politica non contrasta il moderno, ma il suo compimento». E ancora: «Il movi­ mento operaio non ha combattuto contro il moderno, ha combattu­ to dentro le contraddizioni del moderno». Ciò che si contrappose alf «autonomia del politico», fornendo una diversa rappresentazione dello Stato, elaborando un'opposta concezione del potere, cercando differenti assetti organizzativi, individuando la centralità di altri soggetti sociali, tutto ciò - dice­ vamo - si configurò come guerra alfetà moderna e al suo culmi­ nante tramonto: il secolo Ventesimo. E fu ripudio dei miti fondativi di un'epoca. Rigetto d'una tempo­ ralità impostata su legami non rapidamente scindibili e su lunghe marce attraverso i meccanismi del potere. Fu rifiuto del comunismo come mediazione tra classe e politica, del Partito come mediazione tra masse e Stato. Divenne riaffermazione del legame tra il sociale e il politico. Negazione del gioco delle autonomie: «del sociale dal poli­ tico, del politico dal sociale, dell'economico da tutti e due, delfistitu-

zionale dal giuridico, di questo da quello». Delineò un'altra geografia del potere e ne svelò i dimenticati attributi. Prima d'ogni altra cosa, si trattò di «contropotere», o - più precisamente - di «potere costituen­ te». E se per gli uni la fonna comunista d'organizzazione era il punto più alto della politica moderna, gli altri inseguirono una diversa fonna della politica, oltre e contro il Novecento. Dove l'Ottobre era l'e­ vento d'eccezione nelle contraddizioni della modernità, altrove l'età moderna si presentò come il più crudele dei «mesi»: «Tennidoro», archetipo di tutte le repressioni subite dal potere costituente. Dietro e dentro l'Autonomia operaia ha covato una feroce criti­ ca del moderno, avvertito come prigione secolare in cui la Politica recluse la «potenza» del lavoro vivo. Sul piano della percezione collettiva, quest'ostilità si svolse in attacco frontale a icone, istitu­ zioni, organizzazioni e promesse - quindi alla dinamica dei diffe­ rimenti temporali - del movimento operaio ufficiale. La densità mitica, che Tronti ha riconosciuto al moderno, assume - per le fi­ gure sociali emerse dalla ristrutturazione - significati minacciosi e oppressivi. Per il proletariato metropolitano non esistono «sol dell'avvenire, i domani che cantano, il sogno di una cosa» . Il Pci finirà, così, per diventare il nemico: attore della repressio­ ne, bastione del collaborazionismo di classe e garante delle «condi­ zioni materiali dello sviluppo della produttività sociale». Nel giugno del '76, «Rosso» esprimerà una critica risolutiva del compromesso storico. Lungi dal presentarsi come intreccio di forze popolari, la linea berlingueriana è giudicata una proposta di «incrocio strutturale fra organizzazione dello Stato (Democrazia cristiana [ . . . ] in quanto forza del capitale e della struttura burocratica di Stato) e organizza­ zione interna del lavoro (sindacati, prima di tutto, e in generale la conflittualità organizzata a livello popolare)>>. Posto su questo incro­ cio, il Partito comunista si presenta come un' «efficiente struttura aziendale moderna», nel momento in cui lo Stato ingloba i mecca­ nismi d'estrazione del plusvalore e pianifica le condizioni della pro­ duzione. È l'inizio della fine d'un mondo: Il compromesso storico determina, sul piano dei rapporti politici esterni, sul piano dei rapporti istituzionali, fultima possibile evo­ luzione del controllo capitalistico delfautonomia di classe operaia e proletaria. Un mondo e una tradizione interi si estinguono su questo limite di significatività storica: un mondo di contraddizio­ ni difficilmente trattenute nelfideologia si infrange contro la realtà dei rapporti di classe. I picisti sono alternativamente gram­ sciani o tecnocratici nella pianificazione e nella gestione del con -

trollo sociale, sono alternativamente socialdemocratici-o stalinisti nella gestione dei rapporti produttivi diretti.

In opposizione alfaggiornamento della forma politica dei rap­ porti di sfruttamento, si sviluppa firriducibile alterità d'un sogget­ to moltitudinario, articolato lungo finvisibile catena della fabbrica diffusa. 1.: orizzonte sta diventando quello di un forzoso conflitto contro lo Stato e il lavoro. Contro un lavoro disseminato, discono­ sciuto, irregolare, nero, domestico, giovanile, femminile, non re­ tribuito, sottoretribuito, in via di formazione, sospeso tra sussun­ zione formale e sussunzione reale. E contro lo «Stato-piano» che riassume la totalità dei modi di produzione, organizza la distribu­ zione delle possibilità produttive e sul cui terreno il capitale va consolidandosi contemporaneamente alfarticolazione degli inte­ ressi delle multinazionali. Al livello di questo «Stato padrone», «detentore del processo di accumulazione», interprete della scis­ sione celebrata dal costituzionalismo moderno (quella del sociale dal politico) , garante delfincomunicabilità delle lotte in fabbrica e della separatezza dei conflitti sociali, il socialismo stesso sarebbe un «crisma della produttività del capitale». La cesura tra le due anime della galassia operaista, e tra una di queste anime e foperaismo stesso, fu totale. Eppure, non è forse vero che entrambe le traiettorie erano accomunate dalla consape­ volezza della conclusione di un' era? Ma il rosso degli uni fu la tenue luce d'un tramonto, mentre quello degli altri divenne il colore del­ falba. Comuni premesse. Esiti contrapposti. E che si tratti della più importante delle differenze lo si avverte chiaramente dal tono con cui, alfinizio del '76 , «Rosso» comincia a confrontarsi con il motivo delle forme politiche e con il tema delf organizzazione. U no spettro ha cominciato ad aggirarsi nelle piazze. A Milano, Roma, Padova, Genova e in «mille altre situazioni». È lo spettro dell'Autonomia operaia. A chi pretende di ricondurlo al già visto dei gruppi, si oppone una dichiarazione perentoria: «Il gruppo dell'Autonomia operaia non c'è», perché essa è la «concentrazione del potenziale politico delfinsubordinazione esistente». 1.:Autono­ mia pretende d'esistere come «vero e proprio modello d'organiz­ zazione [ . . . ], capacità di raccogliere e concentrare finsubordinazio­ ne proletaria in forme di potere che si scatena contro favversario». Sono poste, così, due questivni imprescindibili. Prima di tutto, si fa riferimento a un' «inedita» espressione del potere. Poi, s'indica la necessità di «organizzare» un'area reticolare, dispersa tra fab­ briche e scuole, quartieri e terziario, prigioni e periferie.

Sembra quasi d'inciampare in malintesi e ossimori. Errori che trasformano l'antagonismo di donne e studenti, detenuti e disoc­ cupati, operai e proletari, in lotte politiche. Abbagli che confondo­ no i conflitti per il reddito e il salario indiretto con l'esercizio d' un potere. Inconcepibili ossimori che pretendono d' «ingabbiare» , in forme organizzate, un sociale molteplice apparentemente indi­ sponibile a ogni concentrazione di potenziale politico. Invece, è proprio sul terreno di questo duplice tema (potere-or­ ganizzazione) che risiedono la specificità dell'Autonomia e l'origi­ nalità di «Rosso», e che va accentuandosi la rottura con il moder­ no. Gli ultimi fuochi del Novecento stanno smettendo di ardere. Contropotere è articolazione d'una nuova temporalità nel senso della soddisfazione diretta del «bisogno di comunismo» . La negazione dei processi costituzionali, della politica moderna, del movimento operaio, si esprime in «un'accelerazione del tempo». Il potere costituente concentra la Storia in un «presente» che si sviluppa con irruenza. Il suo manifestarsi non è accadimento straordinario, mantenimento d'una promessa o verificarsi d'una «profezia». Esso è sempre esistito come potenza produttiva, «po­ tere costitutivo», del lavoro vivo, fatto oggetto d'una sistematica li­ mitazione a opera della razionalità strumentale e della scienza giuridica. I.:«eccezionalità» conferitagli nel corso dell'età moderna non è altro che la forma d'un esproprio. Tra le maglie di quest'al­ ternativa strategica alla modernità, si dipana una narrazione filoso­ fica, incentrata sul rigetto del «pensiero totalizzante» che da De­ scartes, attraverso la tradizione dell'assolutismo, giunge a Hegel. I termini del discorso sono noti. Nota è anche la rappresentazione di questa potenza per come Toni Negri l'ha tratteggiata attraverso la rilettura del pensiero spinoziano. I.:individuazione d'una soggettività moltitudinaria - irriducibi­ le al concetto di popolo e nemica del potere costituito - s'è conser­ vata come tratto costituivo dei movimenti, rintracciabile anche nell'ultimo ciclo di mobilitazioni, inaugurato - nel dicembre del 1 9 9 9 con la «battaglia di Seattle». Multitudo è la parola in scritta nelle trasformazioni del soggetto: nell'immaterialità del lavoro e nel lavoro intellettuale massificato. Al contropotere, concepito anche come insieme di pratiche volte alla scomposizione dei nessi dello Stato, sono seguite nuove figure dell'autovalorizzazione e del rifiuto della dialettica : l' «esodo», la «sottrazione intraprendente», l'autogoverno comuni­ tario e perfino il mito d'una guerra «senza» nemico da vincere gra­ zie all'egemonia e alI' «ubiquità» polisemica del simbolico. Questa -

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storia è stata una vicenda di prolifiche infedeltà. Questa è stata la storia di ciò che è venuto dopo. Dopo lafine dell'inverno. Certamen­ te c'è stato delYaltro: Yurgenza di «resistere», il filo fattosi cappio, il cristallizzarsi delle divisioni, la necessità di preservare alcune forme di vita, Yesoso prezzo corrisposto per la difesa delYidentità durante il gelo degli Ottanta. Ma rispetto al «prima», occorre insistere sulla specificità d'una proposta che, dall'auto-organizzazione delle lotte, passò alla ricerca di una formula organizzativa oltre il declino dell' operaio massa, al di là del fordismo e dopo la crisi del welfare state. La definizione di que­ sta soluzione è Yanomalia che contraddistingue gli orientamenti del­ YAutonomia in rapporto al cambiamento delle società occidentali. E fu così che i suoli diventarono friabili. I margini si disposero ad attaccare il centro. E la percezione del tempo cambiò. Il rifiuto delYattesa, Yindisponibilità a coltivare la speranza d'una promes­ sa, Yostilità ad accettare gli intervalli della trasformazione diven­ nero sentimenti di massa. Le «sottoculture» manifestarono fim­ manenza dell'istante. Il no future e il don't care furono i nuovi proiettili esplosi contro gli ultimi orologi della modernità. Nello stesso periodo, Michel Foucault mostra Yemersione d'una «proliferante criticabilità delle cose, delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi» . Il definirsi di questa «stupefacente efficacia delle criti­ che discontinue» implica una differente concezione del potere, la de­ capitazione del sovrano - e della sovranità - sul terreno della teoria politica, la «socializzazione reale del XXI secolo» che emana dalle «esperienze» e si contrappone all'Utopia del moderno. Il potere stes­ so non è più solo esercizio giuridico-negativo, semplice espressione d'interdizioni. Esso, al contrario, diventa una rete produttiva estesa nel sociale, un insieme di meccanismi positivi che «attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere ». È la ricchezza del mutamento che «Rosso» riesce a cogliere, esprimendo Y efficacia delle «critiche discontinue» e raccontando la concretezza d'un altro presente. Ma la rivista compirà uno scarto, inseguendo una forma politica adeguata alle originali rivendicazio­ ni e alle pratiche specifiche dei nuovi soggetti. La «stabilizzazione» e la «diffusione» di strutture territoriali di contropotere diventano le prime determinazioni di questo processo organizzativo. S'inizia a ragionare su «coordinamenti metropolitani» e «strutture aperte» in cui raccogliere le varie istanze. In Rompiamo il ghetto del quartiere, articolo di proposta pubblica­ to sul numero 8 delYaprile '76, Yarticolazione del programma di lotta intreccia la questione delYorganizzazione, nel segno d'una 34

«stabilizzazione decentrata delle strutture», in grado di aggredire gli strati di classe emergenti e rovesciarli sul centro delle metropoli. [organizzazione è interpretata - per il momento - come un fluido susseguirsi di passaggi che, aumentando la circolazione del pro­ gramma e raccogliendo la generalità dei bisogni, producono la riu­ nificazione «delfoperaio, del proletario, delfemarginato in unica soggettività d'iniziativa». [analisi procede dalla composizione di classe. Gli operai della media e grande fabbrica sono descritti come «portatori delle tematiche del rifiuto del lavoro salariato e interpre­ ti della lotta contro la ristrutturazione». Tuttavia, questo segmento della classe non è più un soggetto centrale, bensì una figura sostan­ zialmente inetta a «dirigere il salto di qualità della lotta». Gli operai delle piccole fabbriche, invece, oscillano «tra un disperato tentativo di difesa del posto di lavoro» e la capacità di far circolare le lotte con­ tro faumento dello sfruttamento. Ma la vera novità sta accanto a queste «stratificazioni produttive» , nell'apparizione di «aggregati sociali» caratterizzati da «rivendicazioni del tutto originali». Il mo­ vimento femminista e quello del proletariato giovanile costituisco­ no specificità d'indubbia rilevanza. Le donne, infatti, non solo sono riuscite a unificarsi sul piano concreto «della loro repressione» , ma si sono imposte come «soggetto sociale, omogeneo per i bisogni, che si fa soggetto politico in lotta». Al tempo stesso, il proletariato giovanile calca la scena in quanto portatore «di esigenze conse­ guenti, ma qualitativamente nuove rispetto a quelle emerse dalle lotte delf operaio massa». Movimenti differenti, ma accomunati dalla capacità di produrre ricomposizione, esprimere pratiche di li­ berazione ed esercitare iniziativa politica contro lo Stato. In parallelo alla descrizione di questo processo, comincia a svi­ lupparsi il confronto con fOttobre e il leninismo. Si tratta d'un con­ troverso sforzo di reinvenzione che segnerà, con esiti ambigui, lo sviluppo delfanalisi nelfultimo periodo della rivista. In un docu­ mento della Segreteria dei Cpo milanesi, intitolato Per un program­ ma di massa, le premesse del «modello soviettista» vengono sotto­ poste al vaglio d'una confutazione sistematica. In primo luogo, si nega fesistenza di quella particolare struttura del capitalismo su cui dovrebbe svilupparsi la «ricomposizione molecolare di punti di potere operaio, gerarchicamente svolgentisi dalla base al vertice, fino a ricostruire il potere complessivo della dittatura di classe». Secondariamente, viene posto il problema dell'organizzazione degli interessi sul terreno sociale. [impossibilità di marcare un passaggio organizzativo su questo livello è causata dalla pianifica­ zione capitalistica. Dopo aver ristrutturato la fabbrica ed essersi 35

consolidato sul terreno dello Stato, il capitale ha distrutto anche Y «entità omogenea» sul territorio. La conseguente risposta del proletariato è stata di portare la lotta sul piano generale: «Yarticola­ zione e le stratificazioni del mercato del lavoro non passano più , nella metropoli contemporanea socialdemocratica, attraverso il quartiere ma sono state (insieme, dalla repressione capitalistica e dalla mobilità operaia) metropolizzate». Infine, oltre lo «Stato-piano», ecco apparire lo Stato-crisi eretto sul rovesciamento della relazione classica in virtù della quale fim­ presa accumulava e lo Stato legittimava lo sfruttamento: Oggi siamo già nel mezzo di una fase nella quale è lo Stato che accu­ mula mentre fimpresa legittima (sulla base dei tassi di produttività industriale diretta) . Tutte le condizioni delfaccumulazione sono nelle mani dello Stato, il capitale è direttamente Stato, la produttività sociale del sistema è comandata, regolata, articolata dallo Stato.

Anche rispetto alle funzioni statuali, il modello soviettista ri­ sulta «assolutamente irrealistico». Nonostante ciò, ha il pregio di esprimere «Yassoluta rivendicazione del carattere diretto, inaliena­ bile, di base del potere proletario». Il comunismo stesso coincide con Yaffermazione di ciò che Marx ha chiamato «godimento del potere». Lattualità del modello va colta in termini discontinui, se­ condo un tipico approccio che caratterizzerà la rielaborazione del leninismo. Lo schema soviettista non è attuale «nella sua defini­ zione storica ma nelfistanza di liberazione che produce». È un Lenin oltre Lenin, che avversa la miseria delle «ripetizioni» e si raffronta - per così dire - alla microfisica foucaultiana e al post­ strutturalismo francese. La successiva ammissione autocritica è utile per controbattere alle interpretazioni che insistono sulla natura anarchicheggiante dell'Autonomia: «Di fatto siamo grandi organizzatori di base dove spesso la spontaneità potrebbe essere sufficiente, mentre verso r"altd' , contro r"altd', siamo spontaneisti di merda». Se un limite fu raggiunto, riguardò ratteggiamento inverso: il continuo richiamo a uno specifico leninismo e alle urgenze del processo organizzativo. Mettere in discussione questa prospettiva è un esercizio legitti­ mo. Si può riflettere, ad esempio, sull'effettiva realtà di questo mo­ dernissimo Leviatano, in cui si sarebbero concentrate repressione e accumulazione, e in cui le funzioni del Gendarme si sarebbero in­ trecciate a quelle del Pianificatore. Si possono nutrire delle per­ plessità riguardo alla natura - più o meno compiuta - del processo

di socialdemocratizzazione che avrebbe segnato il definitivo in­ globamento delle organizzazioni del movimento operaio nel corpo dello Stato-piano. Si possono sollevare dubbi sull'opportu­ nità di liquidare qualsiasi terreno della mediazione. È addirittura lecito ricorrere alla ragione, ovvia e scontata, del senno più volga­ re: quello del «poi». Chiedersi, cioè, se - dopo il compromesso sto­ rico e un attimo prima della recrudescenza del partito armato non fosse possibile immaginare uno sbocco differente, praticare una qualche comunicazione tra lotte e trattative, sottrarsi al ruolo di «nemico costituzionale» del «regime politico» , concorrere alla definizione d'una nuova forma istituzionale e rinunciare a portare l'«organizzazione proletaria sul terreno della guerra civile». Alcu­ ne di queste domande possono perfino aiutare la comprensione dell'originalità di «Rosso» e dell'Autonomia operaia organizzata. In ogni caso, al di là delle risposte che si possono dare, ritenia­ mo che non si trattò neppure di «paranoico organizzativismo del­ l'iniziativa d'avanguardia». Piuttosto, fu l'arduo tentativo di affron­ tare il tema del potere e misurarsi con quel «maledetto problema». D'altronde, le ipotesi alternative - impostate sul cosiddetto «tra­ sversalismo» - si limitarono a rigettare le funzioni d'avanguardia e a intendere l'estraneità del lavoro come radicale indisponibilità a rappresentarsi in termini politici. L«autonomia desiderante» ha avuto il merito d'indagare le possibilità dell'agire comunicativo, di comprendere la natura - virale ed epidemica - di determinate pra­ tiche, di sottolineare l' im prescindibile centralità dell' immaginario e dei fenomeni culturali di massa. Questo patrimonio è tornato utile in periodi recenti, quando i movimenti contro il neo-liberi­ smo e la guerra permanente del capitale globale si sono nutriti d'una prospettiva mitica, simbolica, comunicativa, per scartare dalla dialettica delle antinomie. Tuttavia , senza voler trarre alcuna miserabile consolazione dal fallimento comune, è bene rimarcare come proprio l'annosa questione del potere e delle forme politiche sia tornata d'attualità nel momento in cui la Storia ha ripreso la sua irrefrenabile corsa verso la barbarie, la guerra ha saturato la profondità dell'orizzonte e la rottura del nesso classe-sviluppo ha iniziato a compiersi sul versante del capitale: come rinuncia all'in­ novazione, dismissione degli elementi schumpeteriani e annien­ tamento del lavoro vivo. È cominciato il tempo della catastrofe pla­ netaria, quotidiana, generalizzata. Ed è persino possibile che, in quest' epoca, non basti neppure una nuova, creativa manifestazio­ ne della potenza moltitudinaria. Di sicuro, è inutile eludere il pro­ blema. Farlo non è servito. Il Novecento è tornato, una volta di 37

troppo, a bussare a tutte le porte. E non ne ha risparmiata nessuna. La sfida, però, è rimasta la stessa: quella d'immaginare una poli­ tica forte e nuova, capace di articolare una critica della democrazia reale, più in là della piccola politica, delfamministrazione delfesi­ stente, delle oziose e strumentali petizioni di principio (violenza­ nonviolenza) , delle caricature d'organizzazione, degli equivoci di­ scriminanti su cui vivono presunte radicalità. La forza di «Rosso» risiede nella sua attualità-inattualità, in una linearità discontinua che ha lasciato tracce vitali nel sottosuolo della Storia. La capacità della rivista di consumare rotture e produrre innovazione, di creare immaginario e ragionare sulle forme della politica, d'intrecciare linguaggi e connettere f «alto» al «basso», rimane un esempio di stile teorico-pratico. Quella mutazione che sconvolse fOccidente a metà degli anni Settanta rendeva residuale e superfluo ogni arroc­ co. [adulterio perpetrato nei riguardi del patrimonio teorico delfo­ peraismo fu la mossa vincente, in un contesto in cui si consumava la crisi della legge del valore-lavoro, si rompevano i limiti del mer­ cato nazionale, feconomia della conoscenza cominciava a sostitui­ re quella delle braccia e andava emergendo una forza lavoro ricca di saperi e articolata in molteplici figure sociali. Oggi, viviamo - in qualche misura - una stagione simile. Non si tratta d'una «rivolu­ zione passiva» del capitale, ma - comunque - d'un salto di paradig­ ma segnato dal disastro diffuso e dalfoffensiva scatenata contro il lavoro vivo. Dell'esperienza di «Rosso» conviene preservare la ca­ pacità del tradimento, perché solo nel segno d'una «leale slealtà» si può rimanere fedeli a una storia. Intorno al '76, la relazione tra agitazione culturale e forme d'organizzazione, presente nelle pagine del giornale fin dalle ori­ gini, diventa un elemento di contestazione radicale dell'imprigio­ namento dei bisogni proletari nella logica delle «riserve indiane». Abbiamo visto come il rovesciamento dell'antagonismo sul centro urbano, «massima rappresentazione del comando e del controllo capitalistico sulla città», sia diventato una priorità. È da questa pre­ messa che deriva una lettura positiva dei fatti del Parco Lambro, dove diverse migliaia di giovani proletari «hanno decretato la morte del Festival- Pop di Re Nudo». Nel contributo Il festival è morto, facciamo la festa alla metropoli, apparso sul supplemento delfestate '76, fattacco al «divertimento» ghettizzato assume toni di estrema durezza. Contro fisolamento in «luridi parchi», si riaf­ ferma la necessità di svolgere le pratiche d'appropriazione nello spazio metropolitano. Le accuse rivolte a formule e significati del­ fevento (pretesa di svolgersi come «festa americana», connivenza

formale con la politica della «giunta riformista» e rifiuto sostan­ ziale della politica) evidenziano uno scarto espressivo. Dall'irrive­ renza del sarcasmo si passa a un linguaggio più robusto, a mala pena smorzato dai richiami alla festa diffusa del proletariato. La critica del «Lamber-ghetto-park» manifesta il cambiamento dei tempi e la volontà d'affermare, senza troppi spiazzamenti lingui­ stici, la specificità della proposta politica: Appropriazione per noi significa costruire con la lotta quotidiana, la propaganda, l'organizzazione, la forza armata di massa capace di spezzare la catena dell'ordine capitalistico e imporre il potere proletario. VuoI dire essere in grado di colpire le istituzioni dello Stato, le organizzazioni delle grandi imprese e amplificare questa indicazione nella crescita del movimento, nella estensione della rete di organizzazione militante all'interno delle metropoli, delle fabbriche, dei paesi.

S'intuisce come, in assenza di relazioni dialettiche con gli asset­ ti costituzionali, il tema della «forza» sia profondamente intreccia­ to al manifestarsi del potere costituente. Precisiamo che questo motivo, su cui si è esercitato - e continua a esercitarsi - il gioco della mistificazione, nulla ha avuto a che fare col tipo d'intervento che ca­ ratterizzerà il partito armato. La «forza» è un elemento costitutivo della politica moderna. Non a caso, il movimento operaio ne ha fatto un uso sistematico lungo tutto farco della sua storia. Peraltro, è molto probabile che la morte della sinistra riformista sia attribui­ bile, tra le altre cose, alfimbarazzata rimozione di questo fattore e alla sua oscena riduzione ad «atto di violenza». La forza, in quanto caratteristica di determinati rapporti, ha ri­ sposto alle regole d'una specifica «ragione», incarnata dalle orga­ nizzazioni di massa, espressa in determinati momenti e in precisi punti, provvista della capacità di tradursi - sul terreno del diritto e delle grandi politiche - in una temporalità progressiva. Non è dif­ ficile comprendere come f assunzione di quesf elemento oltre la sua «ragione» classica, in termini antagonistici rispetto alle orga­ nizzazioni del movimento operaio e contro uno Stato rappresen­ tato nelle vesti di mostruoso accumulatore, abbia rappresentato una minaccia temibile per gli istituti del potere costituito. La stessa interpretazione del leninismo al livello della società-fab­ brica e dello Stato-piano esigeva farticolazione dello scontro in una dimensione rizomatica. Ed è in questa dimensione che si collocano le ronde proletarie contro il lavoro nero e le occupazioni, gli espropri 39

nei supennercati e gli attacchi in risposta alla militarizzazione del territorio, gli interventi contro lo spaccio d'eroina e le azioni a soste­ gno delle lotte dei detenuti. Intorno a «Rosso» e in aperta contrappo­ sizione al principio della «delega proletaria» che ispirerà la linea delle Br, comincia a sostanziarsi il concetto di «illegalità di massa». Illegalità è affennazione d'una costituzione materiale già dete�ina­ ta oltre la società del lavoro e la democrazia rappresentativa. La decli­ nazione della forza, non come offensiva rivolta a un inesistente «cuore dello Stato», bensì come tentativo di spostare in avanti i con­ fini della legalità, ha costituito un'ulteriore specificità della rivista. [illegalità viene presentata come «fonte di diritto», strumento indi­ spensabile per «legalizzare i comportamenti illegali del proletaria­ to». Anche le Brigate comuniste, i cui comunicati di rivendicazione compaiono nella rubrica «Riceviamo e pubblichiamo», gestivano ­ nonostante il nome roboante - un livello di forza perfettamente com­ plementare all'antagonismo dei soggetti sociali. Rispetto ai mille piani del conflitto, la definizione dei passaggi organizzativi non implicherà mai la realizzazione di apparati cen­ tralizzati, deputati alla pianificazione delfazione illegale. Senza dub­ bio c'erano competenze, affinate nella temperie dello scontro, ma quest'insieme di cognizioni non è mai stato proprietà d'una realtà clandestina, impegnata nella costruzione d'una separatezza annata. Nulla a che spartire, dunque, con le paranoie giudiziarie su presun­ te «segreterie soggettive» e oscure direzioni della lotta annata. Piut­ tosto, il tentativo di costruire fonne politiche nell'epoca in cui il con­ flitto andava ricalcando il moltiplicarsi dei centri del potere. Fu la natura molecolare di queste pratiche a scatenare la furio­ sa repressione che si sostanziò in un teorema impostato sulfos­ sessiva ricerca d'una direzione univoca. C'è una cosa che la storio­ grafia dei vincitori non avrebbe mai dovuto occultare: la critica, ri­ gorosa e consequenziale, del «partito armato» sviluppata da «Rosso» e dall'Autonomia, prima e dopo il sequestro Moro. Inol­ tre, anche senza voler ricorrere a una grottesca contabilità delle morti, occorre ricordare come, a partire dal dicembre '69, fu lo Stato a evocare, col tritolo e il piombo, ben oltre gli equilibri costi­ tuzionali e gli schemi dei rapporti di forza, il fantasma della vio­ lenza più infame. Gli stessi eventi cileni avevano contributo a se­ gnare profondamente, anche se in modi e forme differenti, rim­ maginario della sinistra italiana. Tuttavia, la capacità d'immaginare una politica oltre il Nove­ cento e delineare un uso della forza interno ai soggetti sociali entra in crisi in questo momento. Tra il '76 e il '77, la percezione d'un

crescente generalizzarsi dello scontro non trova una risposta all'al­ tezza. Si tratta d'un cortocircuito tra la capacità di leggere il futuro e una teoria organizzativa non compiuta e, forse, ancora incagliata in secche novecentesche. «Rosso» sembra morire su questa im­ passe. Altri proveranno non a sciogliere, bensì a recidere il nodo gordiano del rapporto forza-politica. La storia delle formazioni ar­ mate è pienamente interna a quella generazione, ma è un'altra sto­ ria. Non si darà continuità organizzativa e politica. Una continuità esisterà solo negli incubi degli inquisitori. «E credo fuom gioco d'iniqua sorte » Il 7 dicembre del ' 7 6 , giorno di sant'Ambrogio, a Milano fa freddo. La colonnina di mercurio è inchiodata sullo zero. Gelo e nebbia. Tempo da lupi. Tempaccio buono per paltò e pellicce. Ma anche per tolette e smoking. Alla Scala, infatti, è fissato l' Otello di Verdi, che apre la stagione lirica e di balletto. È l'immancabile ap­ puntamento dell'alta borghesia meneghina: la celebre «prima», divenuta leggenda rossa dal giorno in cui Mario Capanna orga­ nizzò la contestazione del movimento studentesco ai signori di Milano. Correva l'anno 1968. Lo stesso luogo. Un altro tempo. Regia, scene e costumi portano la firma di Franco Zeffirelli. Placido Domingo interpreta Otello. Mirella Freni è Desdemona. A Piero Cappuccilli tocca l'infido Jago: «Credo che il giusto è un istrion beffardo» . . . La televisione trasmette in bianco e nero. Ancora per poco. I.:anno dopo finirà l'età di Carosello e il chiodo di Fonzie spunterà dal piccolo schermo. Happy Days. . . Non a dicernbre, però. E non all'ombra della Madonnina. Per l'occasione cultural-mondana, il primo canale ha sostituito i programmi ordinari con le riprese della struggente follia del con­ dottiero moro. Il «Corsera» non ha perso tempo e ha rilanciato le rendez-vous très chic. Imperdibile. Eccezionalmente spettacolare. «Una schiera di telecamere mobili e fisse, sistemate nei punti più disparati secondo un preciso disegno strategico, entrerà in azione stasera alle 2 0.45 alla Scala, per riprendere a colori, in di­ retta, l' Otello di Verdi». Se la strategia televisiva pare impeccabile, qualcosa - in strada - difetta sul piano della tattica. Piazza della Scala. Manca meziora all'inizio della diretta. Un anziano milanese biascica una domanda: «Ma cosa l'è, tuta ' sta pu­ . . .

lisia?». Triplice cordone in antisommossa. Elmetti. Scudi. Manganelli. In fondo a largo Santa Margherita, balugina - intermittente il blu di -

«gazzelle» e «pantere». Alle spalle del teatro, in via Filodrammatici, i carabinieri aspettano con le casse dei lacrimogeni aperte. Da via Cu­ sani, corso Porta Nuova, piazza Cavour, arriva il lamento stridulo delle sirene. Brandelli di notizie volano di bocca in bocca. Nell'etere, Radio popolare è impegnata in una diretta tachicardica. Domingo riscalda la voce. Crepitio sulle trasmittenti d'ordinan­ za. Do di petto e «Un bacio . . . un bacio ancora . . . un altro bacio . . . ». Altrove, altre voci provano altri versi. Gli slogan raschiano la gola e svuotano i polmoni. Le parole - intinte nella rabbia di Bag­ gio, Turbigo, Bollate, Abbiategrasso - condensano nell'aria gelida: «Avete pagato centomila lire per l'Otello / Ma noi ve lo roviniamo sul più bello». Dal pomeriggio fino a sera inoltrata, il centro di Milano è lo sce­ nario di scontri violentissimi, che culminano - intorno alle 20.00 - in via Carducci. Mattanza generale. Tonnara d'uomini. «Spettacolo terrificante», scrive Paolo Pozzi nelle pagine di Insurrezione. «Tra i lacrimogeni e lo scuro non c'è mica spazio per riflettere [ . . . ] - un disastro [ ... ] qual­ cuno ha pensato bene di fare una specie di barricata di fiamme con le molotov - un altro massacro - c'è gente che scivola sulla benzina infuocata - prendono fuoco come torce umane . . . » - racconta An­ drea Bellini - il Pike Bishop del wild bunch - là su al Casoretto. La mattina dopo, i giornali parleranno di «clima d'assedio» e della città trasformata in un «bunker». In un «fortilizio medioevale». Posti di blocco dappertutto tra via Verdi, via Manzoni e largo Santa Margherita. Tram fermati e ispezionati. Blindati proiettati a velocità folle nelle vie che videro morire Giannino Zibecchi. Cari­ che a oltranza. Inseguimenti nei palazzi. Pestaggi. Arresti. Spez­ zoni irnbottigliati, e massacrati. Reazioni scomposte. Bottiglie lan­ ciate male o - peggio - esplose addosso a chi le impugna. Un ma­ nifestante precipita nel lucernario del civico I I di via Carducci. Otto metri di volo e frattura delle gambe. 11 bilancio è pesantissimo: duecentocinquanta fermi, undici fe­ riti (tra cui una ragazza con ustioni gravi) e trentasette arrestati, prevalentemente giovani tra i diciotto e i ventiquattro anni. Cos'è accaduto? La risposta langue sui muri di Milano. Misto d'inchiostro, carta e colla. 11 manifesto gioca un collage aggressivo. C'è l'interno della Scala con un'ascia conficcata, a md di tomahawk, all'altezza dei pal­ chi. Subito sotto, nove righe - caustiche come calce viva - chiama­ no alla mobilitazione: -

UNO STI PEN DIO PER U NA PO LTRONA CON LA PRIMA ALLA SCALA LA BORGH ESIA M I LAN ESE I NAUGURA U N NUOVO ANNO DI SACR I F ICI PER I PROLETARI L' I N CASSO D E LLA PRIMA AGLI ORGAN ISM I D I BAS E A C H I C I N EGA I L D I RITTO ALLA VITA NOI N E G H E RE M O LA P R I MA D E LLA SCALA I GIOVANI R I F I UTANO I SAC R I F ICI

[appuntamento è per Martedì 7 dicembre alle ore 18.00. Fir­ mano i Circoli proletari giovanili dell'hinterland, che nulla hanno in comune con gli studenti sessantottini. La contestazione è la me­ desima, ma stavolta non si tratta dei figli de les bourgeoises, preoc­ cupati di rifiutare il proprio privilegio. Sembrano vicini, finanche nei luoghi, quel '68 e questo '76 . Eppure, fimmagine di un anno formidabile, «durato un decennio», confonde. Non aiuta a capire. Tra i due eventi si sono consumate cesure epocali. La fase politica è profondamente diversa. Radicalmente differenti sono i bisogni che covano in periferie disintegrate dalla «pianificazione capitali­ stica» e dimentiche delf omogeneità operaia dei quartieri torinesi. Anche il paradigma produttivo è mutato . Stanno emergendo nuovi strati sociali. Soggettività complesse, generate dalla crisi, che oscillano tra «ribellismo anarchicheggiante, ideologia contro­ culturale» e capacità di generare ricomposizione. Precari, operai, donne, disoccupati, studenti... Hanno liberato spazi per farne Centri del proletariato giovanile. Traducono il «vogliamo tuttO» della Fiat nel «prendiamo tutto». Dove? Ovunque. Al cinemato­ grafo come ai concerti. Nel deserto delfhinterland e nelle strade di lusso. Al supermercato o nei bei negozi. Sulle colonne di «Rosso» del 12 dicembre '76 , in un numero quasi certamente preparato prima dei fatti del 7, la descrizione della conflittualità diffusa coglie i segnali, tanto preziosi quanto controversi, che vengono dal nuovo soggetto: Ronde operaie, autoriduzioni nei cinema, appropriazioni, conte­ stazioni a divi e divetti, bottiglie a Cl, sabotaggio delle macchine «obliteratrici» delfAtm, occupazioni di case, così è esploso il «pro­ letariato giovanile» in soli quindici giorni, con tante contraddizio­ ni, ma con enorme entusiasmo e ricchissime indicazioni d'orga­ nizzazione e di potere.

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In realtà, gli eventi della Scala segnano un vistoso arretramen­ to e registrano una battuta d'arresto nello svolgimento d'un pro­ cesso che - fino a quel punto - è risultato espansivo. Si tratta d'un momento drammatico, in grado d'ipotecare ciò che accadrà da lì in avanti. È addirittura lecito parlare di grave sconfitta politica, inne­ sco di accelerazioni problematiche, fattore che disgrega livelli or­ ganizzativi costruiti con fatica nei mesi precedenti. Comunque, in via Solferino - salotto buono, termometro nel culo della borghesia - hanno fiutato il pericolo e compreso le diffe­ renze. La temperatura sta salendo. Mercoledì 8 dicembre. Il «Corriere della sera» pubblica in prima pagina un editoriale intitolato Jacquerie senza bandiere. Tra le pieghe di un'ostentata fermezza, nel rovescio di riferimenti allu­ sivi a un qualche «cervello» capace di «coordinare e collegare» la rivolta, s'avverte facre odore della paura, mescolato a un certo rim­ pianto per le insolenti, ma ignifughe uova di otto anni prima: Milano sta conoscendo l'insorgenza di una forma dijacquerie ur­

bana sterile, priva di obiettivi com erano, nei secoli antichi, lejac­

queries delle campagne.

Più inconsapevolmente nostalgici di un

passato senza ritorno che non desiderosi di conquiste civili, più primitivamente ostili, nell'euforia di sentirsi parte di bande o compartecipi di riti tribali, agli uomini, alle organizzazioni, alle manifestazioni che si trovano immediatamente di fronte che non

alla società e alle sue istituzioni, i protagonisti della jacquerie sono

cosa ben diversa e ben lontana dalla contestazione del '68. Né la politica, né il sistema delle leggi, né gli obiettivi e la strategia del­ l'azione interessano loro. Come le minuscole bande di contadini delle campagne francesi incendiano il castello, essi gridano «prendiamoci la città», che luccica, che ha i suoi splendori e le sue contraddizioni. Se anche l'istinto e la frustrazione spingono a qualcosa, sbagliano obiettivi e strategia: sono fuori da tutto, dai partiti, dai gruppuscoli, dalle stesse periferie da cui vengono.

Descritta in questi termini, la giornata del 7 somiglia all' ennesi­ mo tentativo di sacco, operato da bande di «lanzichenecchi» avvezze alle pratiche di un «irrazionale» e «incomprensibile» «diritto al lusso». Sembra fammutinamento metropolitano d'una torma cor­ sara, premoderna e primitiva, priva di vessilli, ostile all'organizza­ zione in quanto tale e avversa a ogni dinamica rivendicativa. E invece eccolo, il proletariato milanese, ghettizzato nella «me­ tropoli del capitale e del lavoro», inciampato nella corsa alla radi44

calizzazione, ripetutamente evocato da «Rosso» e già protagonista dell'estate di Parco Lambro. Da periferie remote, dimenticati sob­ borghi, i giovani si sono rovesciati sul centro della «capitale mora­ le». Vengono da quartieri come Quarto Oggiaro, distesa di caser­ moni senza respiro, popolata - per oltre l'ottanta per cento - da im­ migrati meridionali. Suburbio che, in meno di dieci anni, ha visto crescere il numero degli abitanti da tremila a trentamila. I pochi milanesi che ci vivono portano, appiccicata in faccia, un'altra storia amara. Sono gli abitanti delle vecchie case dell' «Isola» di porta Ga­ ribaldi. Hanno lasciato il brutto per il meglio. Sono precipitati nel peggiore degli inferni. Quarto Oggiaro. Un pezzo di nulla in mezzo al niente, vomitato tra i muraglioni di un'industria petroli­ fera, il nastro autostradale e la massicciata della ferrovia. Edilizia popolare pianificata a metratura di cemento armato. Non ci sono alberi. Né campi da gioco. Nemmeno un cinema. Soltanto cupi ca­ sermoni, all'ombra dei quali chiudere gli occhi. Qualche ora prima del lavoro. Una manciata di secondi dopo l'iniezione d'eroina. Eccolo, di nuovo, il proletariato giovanile, su cui il giornale di via Disciplini ha avanzato una rilevante puntata politica, nel quadro di un'offensiva generalizzata contro il «territorio metropolitano». Il 1976 rappresenta un momento cruciale, l'anno in cui si ap­ profondisce e - al tempo stesso - si complica il rapporto tra «Rosso» e i soggetti sociali. Tuttavia, questa crisi - che pare com­ piersi proprio la sera del 7 dicerrlbre - non è direttamente imputa­ bile all'area orbitante intorno alla rivista. Riguarda, piuttosto, la chiusura d'una fase, la conclusione di quel triennio ('73-'76) du­ rante il quale Milano ha assunto un ruolo imprescindibile rispetto alle nuove lotte di classe in Italia. La metropoli tentacolare, simbo­ lo del proletariato giovanile, spazio paradigmatico del movimento di appropriazione, emblema delle periferie che assediano il cen­ tro, vive - durante il '76 - quello che è stato opportunamente chia­ mato un «settantasette strisciante». Con la disfatta di dicembre, il potenziale sovversivo si rovescerà altrove, deflagrando - all'apice della sua intensità - nelle insurrezioni di Bologna e Roma. Se è vero che il capoluogo lombardo rappresenta - a metà dei Settanta - il principale laboratorio politico della penisola, è altrettanto vero che la sua crisi sarà precoce. Ma Milano assolve la sua funzione an­ ticipatrice perfino in negativo. I nodi che nel tardo autunno am­ brosiano affiorano intorno alle questioni dell'organizzazione, del­ l'uso della forza e degli indirizzi strategici, torneranno a palesarsi - a livello nazionale - alcuni mesi più tardi. Il '76 milanese è segnato dalla compresenza di elementi straor45

dinariamente vitali e aspetti dolorosamente contraddittori, che sembrano prospettare i limiti intrinseci dell'Autonomia operaia. È in questa fase che «Rosso» fissa la priorità dello scontro con la me­ tropoli, puntando sui conflitti diffusi dei giovani proletari. Rima­ ne indimenticabile la copertina del numero 8 (aprile '76) che ri­ trae uno scorcio urbano e - in primo piano - un autonomo, in posa da battaglia, sospeso sui tetti dei palazzi. Quattro parole chiosano Yimmagine: Operai contro la metropoli. Questo periodo attesta una brillante capacità di adombrare, e saggiare, soluzioni organizzative adeguate alla cangiante compo­ sizione di classe. Risulta evidente fintenzione di non calare «dal­ Yalto» , sul potenziale d'insubordinazione proletaria, uno schema rigido. CosÌ, fin da febbraio, «Rosso» parla di «processo organiz­ zativo», insistendo su una dimensione fluida e in divenire, rimar­ cando il rifiuto di modelli predeterminati, affermando Yindispen­ sabilità d'una verifica aperta e continua. Il mese successivo, un documento della Segreteria dei Collettivi politici di Milano formalizza Yapertura del dibattito sul tema dell'or­ ganizzazione. Agire collettivo e autonomo nellafase attuale è il contri­ buto che meglio esprime le potenti intuizioni di una parte della ga­ lassia autonoma in merito al problema del «politico». Il testo rap­ presenta il punto più avanzato d'una riflessione tesa a stabilire un virtuoso equilibrio tra epidemicità delle lotte ed esemplarità delle azioni d'avanguardia, tra obiettivi politici dell'Autonomia e prassi diffusa dei movimenti. Soprattutto, tra spontaneismo e leninismo. I Collettivi politici descrivono una tendenza generale domina­ ta dalla svolta verso il compromesso storico e Y «alternativa sociali­ sta» . Parallelamente a questo passaggio e - dunque - al riparo della copertura riformistica, si sviluppa Yattacco che rende operati­ vo il «ricatto delle multinazionali»: Non c'è prestito che non si accompagni a un richiamo sulle di­ mensioni della spesa pubblica e sui limiti del deficit del bilancio, non c'è decisione di investimento che non chieda garanzie sul piano dei rapporti industriali, non c'è intervento sul piano mone­ tario che non richiami le condizioni di fondo della stabilità econo­ mico - politica da noi.

Lobiettivo delYoffensiva è individuato nella limitazione della comunicabilità delle lotte, nell'isolamento della classe operaia in fabbrica e nella sanzione della sua «chiusura "aristocratica"». Va intensificandosi quel processo di spaccatura della «struttura del

salario» che ha caratterizzato l'inizio dell'azione ristrutturante. È in questo quadro che s'impone la «necessità di una risposta politi­ ca di fase» , capace di fronteggiare l'attacco del capitale e bloccare la tendenza riformistica. Occorre ripartire, pertanto , da quell'aggre­ gazione «di forze soggettive e funzioni del movimento» che è an­ data esprimendosi in termini sostanzialmente spontanei. L'ulte­ riore passaggio implica un' «accentuazione soggettiva della spon­ taneità» e un rafforzamento teorico e pratico del processo delle lotte: «Ancora una volta, dentro una fase fondamentale della lotta di classe, la tematica dell'organizzazione torna centrale». La proposta formulata in merito al «processo organizzativo» co­ stituisce un eccellente esempio di quella creativa ridefinizione del leninismo che caratterizza un pezzo dell'Autonomia. Il ragiona­ mento muove dalla triplice contraddizione che ha contraddistinto la fase di «accumulazione» della carica sovversiva. In primo luogo, viene categoricamente rigettata l'illusoria convinzione secondo cui l'azione esemplare determinerebbe una crescita meccanica del mo­ vimento. La contraddizione tra massificazione e avanguardia si ri­ solve nel rifiuto d'ogni delega dell' «iniziativa soggettiva» che deve rimanere commisurata «alla forza complessiva delle masse». Non deve darsi, quindi, agire d'avanguardia slegato da un rapporto di stretta corrispondenza con la forza del movimento. In un certo senso, si può sostenere che Fizzonasco rimane una positiva prova ante litteram di questo legame, momento in cui la «funzione di rot­ tura» è per cosÌ dire - ben «proporzionata» alle lotte operaie alla Face Standard e alla pressione complessiva esercitata a Milano. In secondo luogo, la relazione tra Autonomia operaia e movi­ mento viene sciolta nella «capacità di sintesi politica dei bisogni» che introduce fultima dicotomia: quella tra lotta di classe e lotta di liberazione. È intorno al suddetto nodo che si definisce una sorta di «leninismo della differenza», imbevuto nel proliferare delle «criti­ che discontinue» e della «discontinuità reale», cresciuto a debita di­ stanza dal Palazzo d' Inverno e dalla sua mitica conquista, maturato nelfabolizione del tempo della transizione, plasticamente rimodel­ lato sul mutamento della composizione di classe e - soprattutto ­ suIraffermazione della «medietà» del lavoro astratto sociale: -

Il leninismo è una concezione della centralizzazione dell'espansi­ vità del processo organizzativo deIrautonomia operaia. Non si può dare contraddizione tra centralizzazione ed espansività. Una centralizzazione non espansiva è immediatamente burocratica, un'espansività non centralizzata è puramente anarchica. 47

È la ricchezza della produzione sociale che lascia intravedere la possibilità di realizzare il «vecchio sogno del movimento operaio, un sogno interrotto e confuso, quello cioè di costruire uri organizzazio­ ne centralizzata ed espansiva». Il processo in questione dovrebbe svi­ lupparsi per passaggi aggregativi capaci di comporre un patchwork potente, una trama robusta di legami mobili, in cui «ogni elemento di lotta» trasmuta nella generalità d'un «elemento di programma». La critica della rigida «continuità» organizzativa procede tanto da fat­ tori soggettivi, quanto da elementi oggettivi: «troppo ricche sono le motivazioni comuniste del movimento» e «troppo articolato è il con­ trattacco capitalistico». Davanti a soggettività multifonni e innanzi a un potere esercitato su piani molteplici, le strutture molari non hanno ragion d'essere. Si percepiscono chiaramente il tentativo di ri­ fuggire da ogni rappresentazione minoritaria e lo sforzo di disinne­ scare ogni possibile semplificazione in rapporto all'esercizio della forza. Viene affennata - di conseguenza - fispirazione «maggiorita­ ria» deIrAutonomia, volta a interpretare «tutte le articolazioni» del sociale e a ricalcare le differenti curvature del movimento. L«orga­ nizzazione soggettiva» non è altro che un accumularsi della