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Italian Pages 192 [198] Year 2021
Avanti popolo!
Il Partito comunista italiano raccontato dai giornali di tutto il mondo
n secolo dalla nascita del Partito U comunista italiano e trent’anni dalla sua fine. In questo 2021 sono due le ricorrenze legate alla storia del comunismo italiano. La prima è il centenario del congresso di Livorno del gennaio 1921, che segnò la spaccatura del movimento socialista e la nascita del Partito comunista d’Italia. La seconda ha per oggetto un altro congresso, quello che trent’anni fa, a Rimini, sancì la fine dell’esperienza del Pci: l’anno era il 1991, lo stesso della dissoluzione dell’Unione Sovietica. In mezzo, sette decenni, il cuore del novecento. Il Pci li ha attraversati tutti. Andrea Pipino, pagina 5
In copertina: una militante durante la campagna elettorale per le elezioni politiche. Italia, 1953. Mondadori Portfolio
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Il Partito comunista italiano raccontato dai giornali di tutto il mondo
Sommario Internazionale storia, numero 2, aprile 2021 4
Editoriale
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Cronologia 1919–1991
10
FONDAZIONE, CLANDESTINITÀ, RESISTENZA
42
La Russia detta la linea Le Populaire
44 Sulle barricate in doppiopetto Time
14
L’ora della scissione L’Humanité
54
Alla guida dell’opposizione The Observer
98 Dimenticare Stalin The Times
23
Verso la rivoluzione El Tiempo
58
Washington ha paura New York Herald Tribune
25
Coraggioso e intransigente Die Neue Welt
100 In ricordo del compagno Togliatti Rudé Právo
62
Umberto Terracini prigioniero politico The Manchester Guardian
Tre proiettili contro il Migliore Franc-Tireur
104 Sulla strada già battuta Der Spiegel
65
Parole di rabbia Pravda
Fumetto. L’eroe della montagna Il Moschettiere
106 DAL COMPROMESSO STORICO AL CROLLO DEL MURO
69 Portfolio Ufficio propaganda
27
31
Il nodo di Trieste Combat
94 Gli Sputnik a Roma The Economist
108 La malattia cecoslovacca Die Zeit
75
A piccoli passi Le Monde
82
L’Italia infestata dai rossi The New York Times
86 Unità e moderazione The Spectator 90 Dopo il XX congresso Journal de Genève
MONDADORI PORTFOLIO
ALDO SAVINA (BETTMANN/GETTY)
12
40 L’ECCEZIONE DEL PARTITO NUOVO E LA GUERRA FREDDA
112 Socialismo all’italiana Politika 117 Il partito giraffa The Observer 123 Risultati straordinari Neues Deutschland 126 Un documento prezioso Népszabadság 129 Perché Gramsci Cuadernos de Pasado y Presente
Orgosolo, Sardegna, 1975. In alto: Roma, 1958
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133 L’amicizia ritrovata Renmin Ribao 136 Sull’altra sponda del Mediterraneo Al tariq al jadid 138 Compagni che sbagliano Kommunist 143 Portfolio. Luigi Ghirri 154 L’ultimo leader Marxism Today 162 Marx, rock e bancarelle Folha de S.Paulo 166 Per un governo di programma La Vanguardia
SANDRO VESPASIANI (FONDAZIONE GRAMSCI/ARCHIVIO FOTOGRAFICO DEL PCI)
168 Femministe prima di tutto Journal of women’s studies 174 La pioniera senza paura The Guardian 176 Alla prova del futuro El País 179 Ripensare la sinistra Australian Left Review 187 Un nuovo inizio Die Tageszeitung 190 Le avventure di Cipollino Raul Verdini e Gianni Rodari
La festa dell’Unità a Roma, 1948
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Editoriale Andrea Pipino, Internazionale Un secolo dalla nascita del Partito comunista italiano e trent’anni dalla sua fine. In questo 2021 sono due le ricorrenze legate alla storia del comunismo italiano. La prima è il centenario del congresso di Livorno del gennaio 1921, che segnò la spaccatura del movimento socialista e la nascita del Partito comunista d’Italia. La seconda ha per oggetto un altro congresso, quello che trent’anni fa, a Rimini, sancì la fine dell’esperienza del Pci: l’anno era il 1991, lo stesso della dissoluzione dell’Unione Sovietica. In mezzo, sette decenni, il cuore del novecento. Il Pci li ha attraversati tutti. E se si osserva oggi la sua storia si ha l’impressione che nel partito di Togliatti e Berlinguer si siano in qualche modo specchiate le vicende del secolo breve, epoca di speranze e orrori, di progresso e barbarie infinita. Il Pci è stato un importante strumento di liberazione e di emancipazione collettiva, artefice di un grande progetto di pedagogia civile e democratica. Una forza politica di uomini e donne che hanno dedicato la vita all’idea di migliorare la società in cui vivevano. Ma è anche stato il partito il cui segretario generale votò a favore della condanna a morte di Imre Nagy, il leader della rivoluzione ungherese del 1956, chiedendo però che l’esecuzione fosse rimandata a dopo il voto italiano del maggio 1958 per evitare che la vicenda influisse sulla campagna elettorale. O
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quello delle espulsioni dei dirigenti che avevano fatto la coraggiosa scelta dell’antistalinismo. Forza rivoluzionaria e massimalista, eppure democratica e prudente nella strategia; coraggiosa nel rivendicare l’autonomia da Mosca, eppure reticente a tagliare radicalmente i ponti con l’esperienza sovietica. Un partito unico, che è stato protagonista della vita democratica italiana, la cui specificità è inevitabilmente intrecciata alle peculiarità della storia del paese, contraddistinta dal peso della chiesa cattolica, dalla presenza di un ampio e poverissimo proletariato rurale e da profonde differenze di sviluppo tra nord e sud. Per illustrare un’esperienza così complessa abbiamo cercato di selezionare lo spettro più ampio possibile di fonti, punti di vista e linguaggi: dalle analisi dei grandi giornali anglosassoni – che osservano l’anomalia comunista italiana con un misto di stupore, ammirazione e paura – alla lingua di legno dei dispacci degli organi di partito d’oltrecortina; dalle disquisizioni ideologiche delle riviste teoriche ai vibranti commenti della stampa militante europea durante gli anni del fascismo. Il risultato non ha la pretesa di essere il racconto definitivo dell’epopea dei comunisti italiani, ma è un omaggio e allo stesso tempo una riflessione critica su un grande partito di massa che ha contribuito a scrivere la storia della repubblica.
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Cronologia 1919–1991
1919
1922
1929–1931
Il Partito socialista italiano aderisce all’Internazionale comunista, appena fondata, chiamata anche Comintern o Terza internazionale. Dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917 la Russia è ormai la guida del movimento rivoluzionario globale.
Marzo Il secondo congresso del Pcd’I ratifica la linea bordighiana di contrasto a ogni alleanza con i riformisti. 29 ottobre Con la marcia su Roma il fascismo prende il potere (nella foto).
Il partito espelle uno dei suoi fondatori, Angelo Tasca (nel 1929), e lo scrittore Ignazio Silone (nel 1931) per le loro posizioni antistaliniste. Il quarto congresso, nel 1931, segna l’allineamento allo stalinismo.
1920
1924
Agosto La Terza internazionale fissa un pacchetto di 21 condizioni, ispirate alle teorie di Lenin (nella foto), per i partiti che vogliono farne parte. È prevista l’espulsione dei dirigenti e degli esponenti riformisti.
12 febbraio Il quotidiano comunista L’Unità comincia le sue pubblicazioni a Milano. Agosto Il comitato centrale elegge Antonio Gramsci segretario del partito.
1934
1921
1926
21 gennaio Al diciassettesimo congresso del Partito socialista italiano a Livorno, la frazione comunista, in minoranza sulla questione dell’espulsione dei riformisti, dà vita a una scissione guidata da Amadeo Bordiga. Nasce il Partito comunista d’Italia (Pcd’I), sezione italiana della Terza internazionale.
20-26 gennaio Al terzo congresso del Pcd’I, Gramsci è confermato segretario. Le divergenze nell’analisi del fascismo portano alla rottura con Bordiga. Novembre Le leggi speciali fasciste mettono al bando i partiti politici. Gramsci è arrestato insieme ad altri dirigenti comunisti.
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Dopo l’ascesa al potere del nazismo, si afferma la politica dei fronti popolari, basata sulla collaborazione tra socialisti e comunisti.
1936–1939 La guerra di Spagna è una tappa fondamentale per cementare il partito clandestino e tracciare i rapporti di forza nel campo dell’antifascismo. Il conflitto è la prova generale della seconda guerra mondiale.
1937 27 aprile Muore Antonio Gramsci (nella foto).
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ARCHIVIO/A3/CONTRASTO
MONDADORI PORTFOLIO/FOTOTECA GILARDI
Agosto I ministri degli esteri dell’Unione Sovietica e della Germania nazista, Vjačeslav Molotov e Joachim von Ribbentrop, firmano un patto di non aggressione. Crisi del fronte antifascista.
zione di forze per un governo antifascista. È la cosiddetta svolta di Salerno. Prendono forma i concetti di partito nuovo e democrazia progressiva, centrali nella costruzione dell’identità repubblicana del Pci. Fino al 1947 il Pci partecipa a diversi governi di unità nazionale.
1943
1945
15 maggio Il Pcd’I cambia il nome in Partito comunista italiano (Pci). Giugno Si scioglie la Terza internazionale. 25 luglio Arresto di Benito Mussolini. È la fine del regime fascista. 8 settembre Firma dell’armistizio con le forze alleate. Nasce a Roma il Comitato di liberazione nazionale (Cln). Ne fanno parte il Pci, il Partito d’Azione, la Democrazia cristiana, il Partito socialista, il Partito liberale e il Partito democratico del lavoro. Comincia la guerra di liberazione.
25 aprile Con la liberazione di Milano finisce in Italia la seconda guerra mondiale. (Nella foto: Venezia)
1944
Il mondo è diviso in due blocchi, dominati da Unione Sovietica e Stati Uniti. È l’inizio della guerra fredda.
1939
Aprile Il leader del Pci, Palmiro Togliatti, si fa promotore di una coali-
1946 2 giugno Al referendum istituzionale prevalgono i voti per la repubblica. Lo stesso giorno si tengono le elezioni per l’assemblea costituente. Il Pci si afferma come terzo partito del paese dopo Dc e Psi.
1947
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L’Italia aderisce al blocco occidentale, i comunisti e i socialisti sono estromessi dal governo.
1948 Gennaio Al sesto congresso del Pci Togliatti parla di via italiana al socialismo. Alle elezioni del 18 aprile i comunisti e i socialisti presentano liste comuni. Il voto premia la Dc, con il 48,5 per cento dei voti, seguita dal Fronte democratico popolare (Pci e Psi), con il 30,9 per cento. 14 luglio Togliatti (nella foto) sopravvive a un attentato. In tutta Italia la notizia provoca scioperi e manifestazioni.
1949 Il Pci si oppone all’adesione dell’Italia al patto atlantico (Nato). Il Santo uffizio stabilisce che l’iscrizione al Pci è apostasia della fede.
1953 5 marzo Muore Iosif Stalin.
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ROMANO GENTILE (A3/CONTRASTO)
LEONARD MCCOMBE (LIFE /GETTY IMAGES)
Cronologia 1919–1991
1956
1966
1972
Febbraio Al ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Chruščëv (nella foto) denuncia i crimini staliniani e avvia la cosiddetta destalinizzazione. Novembre L’invasione dell’Ungheria e la repressione della rivoluzione ungherese scavano una frattura profonda nel Pci.
Gennaio All’undicesimo congresso del Pci si parla di lotta per la pace, disarmo, guerra in Vietnam. Emerge la figura di Enrico Berlinguer.
Marzo Al tredicesimo congresso è eletto segretario Enrico Berlinguer, fautore di un comunismo dai caratteri originali e autonomi.
1968
1973
Agosto Il Pci condanna l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che mette fine all’esperimento della primavera di Praga. In Italia si estendono le manifestazioni studentesche e operaie. (Nella foto: Roma, 1968)
11 settembre Il presidente cileno Salvador Allende muore durante il colpo di stato militare del generale Augusto Pinochet. Sulla rivista Rinascita Berlinguer propone la politica del “compromesso storico” con la Democrazia cristiana.
1969
1975
Febbraio Il 12° congresso del Pci espelle dal partito la componente organizzata intorno al progetto della rivista Il Manifesto. Berlinguer, eletto vicesegretario, riafferma l’autonomia nei confronti dell’Urss. 12 dicembre Un attentato dell’estrema destra a Milano causa 17 morti. È la strage di piazza Fontana, che segna l’inizio della strategia della tensione.
Alle elezioni amministrative e regionali di giugno il partito supera il 33 per cento dei voti.
1963 Dicembre Nasce in Italia il primo governo del “centrosinistra organico”, con la partecipazione attiva del Psi.
1964 21 agosto Muore a Jalta, in Unione Sovietica, Palmiro Togliatti. Nel memoriale scritto poco prima della morte rivendica la scelta della via italiana al socialismo. Luigi Longo è eletto segretario generale del Pci.
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CORBIS/GETTY IMAGES
ROBERTO KOCH (CONTRASTO)
GETTY IMAGES
1976
1980
Giugno Alle elezioni politiche il Pci ottiene il 34,4 per cento dei voti alla camera e il 33,8 per cento al senato. Grazie all’astensione in parlamento del Pci, nasce il governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti.
Berlinguer condanna l’invasione dell’Afghanistan, difende la Comunità europea e la Nato.
1978 16 marzo Le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro, il principale fautore nella Dc dell’alleanza con i comunisti. Sarà ritrovato morto il 9 maggio, dopo una prigionia di 55 giorni. (Nella foto: Roma, 16 marzo 1978)
1979 Si chiude la stagione della solidarietà nazionale, sono rilanciati i concetti dell’alternativa democratica e dell’eurocomunismo. 24 gennaio Le Brigate rosse uccidono il sindacalista Guido Rossa. Dicembre L’Unione Sovietica invade l’Afghanistan.
1981 Luglio In un’intervista all’Unità, Berlinguer rivendica la diversità del Pci, solidarizza con il movimento Solidarność, che in Polonia si batte contro il regime comunista, e dichiara esaurita la “spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”.
1984 11 giugno Muore Enrico Berlinguer. Per la prima volta il Pci supera la Democrazia cristiana e alle elezioni europee prende il 33,3 per cento dei voti. Alessandro Natta diventa segretario del partito. (Nella foto: Roma, 13 giugno 1984)
1988
ve il Pci perde voti in favore del Psi. Alessandro Natta si dimette, al suo posto è scelto Achille Occhetto.
1989 12 novembre Dopo il crollo del muro di Berlino (nella foto), Occhetto invita il partito italiano a voltare pagina. È l’inizio della cosiddetta svolta della Bolognina.
1990 Marzo Al diciannovesimo congresso del Pci, la mozione più votata, con il 67 per cento dei consensi, è quella presentata da Occhetto, che propone di dar vita a una fase costituente di una nuova forza politica.
1991 Febbraio Il ventesimo congresso del Pci, che si tiene a Rimini, sancisce la fine del Partito comunista italiano e la nascita del Partito democratico della sinistra (Pds).
Maggio Alle elezioni amministrati-
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Fondazione, clandestinità, resistenza
1920–1945
All’ingresso del XVII congresso nazionale socialista. Livorno, 1921. Armando Bruni (Archivi Alinari)
La Russia detta la linea Nel luglio 1920 Mosca stabilisce un pacchetto di 21 condizioni per aderire all’internazionale comunista. La decisione lacera i partiti socialisti europei. In particolare quello italiano André Pierre, Le Populaire, Francia, 17 dicembre 1920
La scissione degli indipendenti tedeschi ad Halle, in Germania, e quella del Partito socialista svizzero serviranno da monito alla classe operaia francese e italiana? Si tratta purtroppo di un pio desiderio. I fatti di Berna e di Halle sono un triste preludio a quello che succederà inevitabilmente nei congressi di Tours e Firenze. Lasciando ad altri il compito di parlare del caso francese, mi soffermerò sulla tragica situazione in cui si trova il partito italiano in seguito alle ripetute ingiunzioni di Mosca. Questo partito – che ha ottenuto grandi successi alle elezioni politiche e amministrative, che ha più di 150 seggi al parlamento e la maggioranza in 2.200 comuni, che era orgoglioso della sua unità e della sua forza – si sta dividendo in fazioni rivali. Analizziamole da vicino. In primo luogo si distinguono tre grandi gruppi. Il gruppo della Concentrazione socialista con Filippo Turati, Claudio Treves e Giuseppe Emanuele Modigliani, che ha tenuto il suo congresso a Reggio Emilia il 10 ottobre.
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Il gruppo dei Comunisti unitari di Giacinto Menotti Serrati, Adelchi Baratono, Arturo Vella, che si è riunito il 20 novembre a Firenze. La frazione comunista di Antonio Graziadei, Egidio Gennari, Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, che ha inaugurato il suo congresso il 29 novembre a Imola. Tre gruppi sono già molti, potremmo dire anche troppi, ma quando li esaminiamo più da vicino scopriamo che in ognuno di essi ci sono delle tendenze diverse. Nella Concentrazione socialista, per esempio, così come nei Comunisti unitari, esistono una destra e una sinistra. Al congresso di Firenze dei serratisti, che costituiscono il nucleo del partito, è stata decisa una svolta a sinistra con il voto della mozione Baratono, che accetta le 21 condizioni poste da Mosca, riservandosi però il diritto di “interpretarle”, e si propone di cambiare il nome del partito in Partito socialista comunista italiano, sezione della Terza internazionale. Il congresso di Imola, invece, ha rivelato
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che quell’unità, quell’omogeneità a cui i comunisti puri sognano di dar vita al livello nazionale e internazionale in realtà non esiste. A ben vedere, una mozione è stata votata all’unanimità, ma era il risultato di un compromesso che nasconde tendenze molto divergenti. Di fatto, quindi, non c’è una frazione comunista di estrema sinistra, ce ne sono ben tre: i comunisti vicini a Bombacci; i comunisti vicini a Graziadei e Anselmo Marabini, detti “comunisti bolognesi”; e i comunisti astensionisti vicini a Bordiga. Le divergenze non riguardano i princìpi di fondo, dato che le tre frazioni accettano le tesi e le condizioni di Mosca, ma la tattica e l’atteggiamento da adottare al prossimo congresso nazionale. E mentre alcuni, come Graziadei, sono a disagio di fronte all’ipotesi di una rottura con Serrati, altri, come il napoletano Bordiga, non esitano a definire i serratisti come dei “traditori”. Questa è la situazione in cui si trova il socialismo italiano. Ovviamente Mosca, secondo un metodo ben sperimentato, getta benzina sul fuoco. Sul Bullettin communiste del 9 si può leggere il duro attacco di Lenin contro Serrati, la cui politica unitaria è definita “criminale”. Sull’Avanti! di Torino dell’11 dicembre si trova invece il nuovo appello del comitato esecutivo della Terza internazionale alla classe operaia italiana, in cui Grigorij Zinovev si pronuncia in modo deciso contro “gli unionisti di ogni sorta” apparsi negli ultimi tempi in Italia, definiti “agenti del capitale” (si osservi bene: Serrati, nominato rappresentante del Psi al comitato esecutivo nello scorso agosto, solo tre mesi dopo è definito agente del capitale!). L’appello ordina agli operai italiani di rompere con i riformisti (Turati) e con i quasi riformisti (Serrati) per sostenere l’unica vera frazione comunista, quella di Imola. “L’organo principale di questa frazione è l’Avanti!, edizione piemontese, oltre al periodico Il Comunista, di Bologna. Abbiamo chiesto a tutti gli amici dell’Interna-
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zionale comunista di sostenere questa frazione e solo questa. A tutte le altre diciamo: chi non è con noi è contro di noi”. Il messaggio non poteva essere più chiaro. Mosca dice agli italiani: cacciate Serrati e Turati! Solo la frazione comunista sarà degna di rimanere nella Terza internazionale! E se, come si dice, Zinovev verrà a Firenze [inizialmente il XVII congresso socialista doveva tenersi nel capoluogo toscano dal 29 dicembre 1920 al 3 gennaio 1921, poi fu spostato a Livorno] lo vedremo lanciare contro Modigliani e Serrati gli stessi anatemi che ad Halle ha rivolto ai socialdemocratici Arthur Crispien e Wilhelm Dittmann. La cosa più grave è che Mosca considera le scissioni in tutti partiti come necessarie e utili. Nell’appello citato in precedenza il comitato esecutivo cerca di dimostrarlo con un “esempio semplice” (forse sarebbe meglio dire semplicistico): se da un reggimento di mille uomini si cacciano cento soldati vigliacchi e dieci traditori, il reggimento sarà ridotto solo di un decimo ma sarà dieci volte più forte. D’accordo, ma questo paragone può valere anche per Halle, dove gli indipendenti cosiddetti di destra rappresentavano più di un terzo delle truppe del partito e i tre quarti dei dirigenti? E varrà anche per il congresso di Firenze, considerato che Turati e Serrati hanno un seguito molto ampio e che, se sarà deciso di seguire le condizioni di Mosca, il partito si spaccherà in due? Un reggimento di mille uomini che ne perde 500 è un reggimento dimezzato. Quest’elementare calcolo aritmetico vale per tutti gli argomenti speciosi di Zinovev. Nulla potrà cambiare l’evidenza: la politica scissionista di Mosca distrugge i blocchi socialisti occidentali e porta a due tragici risultati: rende i partiti incapaci di aiutare la rivoluzione russa e dà alla borghesia il tempo di riorganizzarsi dopo il trauma della guerra. u adr Le Populaire è stato un quotidiano socialista francese, pubblicato dal 1918 al 1970.
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L’ora della scissione
FOTOTECA GILARDI/GETTY IMAGES
Il 15 gennaio a Livorno si apre il diciassettesimo congresso dei socialisti italiani. La cronaca dei sette giorni di assemblee e dibattiti che porteranno alla rottura con la frazione comunista e alla nascita del Pci L’Humanité, Francia, 15–21 gennaio 1921
Il teatro Goldoni a Livorno, 15 gennaio 1921
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Livorno, 15 gennaio, 23.30. Il congresso si è aperto alle 15 al teatro Goldoni, dove si affollavano duemila persone. Giovanni Bacci, presidente provvisorio, con un applaudito discorso ricorda che oggi è l’anniversario dell’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. L’intera assemblea si alza in piedi. Segue un discorso del presidente effettivo, Umberto Mondolfi, sindaco socialista di Livorno, che annuncia la presenza di due delegati degli Indipendenti tedeschi – Kurt Rosenfeld e Wilhelm Dittmann – e del comunista tedesco Paul Levi. Ma solo i membri dei partiti appartenenti alla Terza internazionale sono autorizzati a parlare. Levi, con voce stentorea, porta il saluto dei comunisti tedeschi. L’insegnamento che si può trarre dalla rivoluzione tedesca, dice, è la necessità di una separazione tra riformisti e rivoluzionari e della creazione di un partito comunista capace di portare il proletariato alla vittoria. Dopo aver deciso di invertire i punti all’ordine del giorno, il congresso dà la parola ad Antonio Graziadei, che pronuncia un discorso di tre ore in nome della frazione che si sforza di fare da collegamento tra i comunisti puri e i comunisti unitari. Graziadei afferma che la scissione nazionale è preferibile alla scissione internazionale. È quindi assolutamente necessario separarsi dagli elementi riformisti per rimanere nella Terza internazionale. Continua dimostrando che le tesi di Mosca sono in perfetto accordo con il marxismo e che è necessario un comitato centrale che unisca tutti i partiti in una disciplina rigorosa. Poiché gli italiani hanno rimproverato al comitato esecutivo di Mosca le concessioni fatte ai compagni francesi, Graziadei esamina a lungo la posizione dei francesi, e afferma che il comitato esecutivo ha fatto tutto il possibile per attirare nella Terza internazionale la parte più sana del socialismo francese, nell’interesse del movimento internazionale. Mosca si è mostrata invece inesorabile contro Jean Lon-
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guet perché è caduto nell’illusione dei democratici alla Woodrow Wilson. Riguardo ai massoni, Graziadei pensa che costituiscano un pericolo internazionale e spera che il prossimo congresso di Mosca, grazie alle insistenze degli italiani, approverà la mozione contro di loro. Del resto il congresso ha già approvato all’unanimità la mozione di Giacinto Menotti Serrati contro la massoneria. Il fatto che numerosi socialisti francesi siano massoni non significa che il comitato esecutivo abbia dimostrato un atteggiamento più accomodante nei loro confronti. E anche se il Partito socialista francese ha chiesto di entrare nella Terza internazionale, il comitato esecutivo non lo ha ancora ammesso. Graziadei, che dedica gran parte del suo discorso ai socialisti francesi, ricorda ancora la concessione fatta a Daniel Renoult da Grigorij Zinovev, il presidente del comitato esecutivo dell’Internazionale comunista, e la dichiarazione in cui Zinovev ha detto di non riferirsi a una persona in particolare ma a tutti coloro che professano le idee di Longuet. Se un domani, ha aggiunto Zinovev, Longuet accetterà le tesi e la loro applicazione, sarà ammesso nella Terza internazionale. Un discorso simile vale per i centristi unitari italiani, ma la loro accettazione dev’essere libera, sincera, assoluta e dev’essere il preludio a un’azione comune e unitaria, perché è impossibile che in un partito esistano due dottrine. Graziadei termina il suo discorso invitando gli unitari a smettere di voler salvaguardare un’unità che non esiste. Il secondo giorno Livorno, 16 gennaio, 11.45. Più ci si avvicina alla scissione, più gli unitari avvertono quanto sia tragico il momento. Hanno fatto numerosi sforzi, dichiarandosi disposti a nuovi negoziati. Ma Paul Levi e il bulgaro Christo Kabakčiev, rappresentante della Terza internazionale, hanno ripetuto con forza che l’unica condizione per rimanere nell’Internazionale comuni-
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sta era accettare le tesi di Mosca, procedere all’espulsione immediata dei riformisti e unirsi al gruppo comunista. Gli unitari hanno rifiutato e di conseguenza la scissione sembra ormai inevitabile. Hanno dichiarato di voler rimanere fedeli ai princìpi della Terza internazionale e di non aver nulla a che fare con l’Internazionale di Berna e di Vienna. Eccoci quindi alla vigilia di una scissione ineluttabile. Ma almeno per oggi sembra che la rottura sarà evitata. I riformisti si mostrano disposti ad accettare la disciplina imposta dagli unitari. Così, oltre al Partito comunista, avremo un partito che comprenderà tutti gli altri gruppi e conserverà il nome di Partito socialista italiano. La seduta del pomeriggio Il compagno bulgaro Kabakčiev, in nome del comitato esecutivo di Mosca, dà lettura di un lungo memorandum, che è stato accolto con una certa insofferenza dalle frazioni ostili a Mosca e ha provocato violente interruzioni. Il memorandum espone la storia dell’evoluzione economica degli ultimi anni, contiene un’illuminante illustrazione dell’attuale momento rivoluzionario, e invita i socialisti italiani a sbarazzarsi degli elementi che impediscono la rivoluzione e la creazione di un partito comunista veramente rivoluzionario. La critica della condotta tenuta dai socialisti unitari solleva al tempo stesso violente proteste e applausi. Segue un vero e proprio tumulto. Dopo Kabakčiev, la cittadina Rosa Bloch porta il saluto dell’ala sinistra dei socialisti svizzeri. Adelchi Baratono, membro della direzione del Partito socialista, comincia a spiegare la posizione del gruppo dei socialisti unitari, ma anche lui è continuamente interrotto, e la situazione si fa di nuovo agitata. Il terzo giorno Livorno, 17 gennaio, 12.12. Il compagno Baratono, oratore degli unitari, spesso interrotto all’inizio del discorso, ha potuto infine conti-
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nuare tra l’attenzione generale, destando nuove speranze di unità. Baratono ha fatto un’approfondita analisi degli attuali problemi politici, economici e rivoluzionari, inserendo il gruppo unitario nel campo della Terza internazionale. L’attenzione dei congressisti ha raggiunto l’apice quando l’oratore ha illustrato le conseguenze dell’applicazione dei princìpi internazionalisti e delle condizioni di Mosca. Dopo le parole di Baratono, gli unitari sembravano disposti a fare un nuovo passo verso sinistra e nuove concessioni ai comunisti. Ma queste speranze sono state di breve durata. Nella risoluzione degli unitari, Baratono e altri compagni avrebbero voluto modificare, o addirittura sopprimere, le parole che subordinano l’applicazione delle tesi di Mosca alle condizioni dell’ambiente sociale. Riunita in un’assemblea a parte, la frazione degli unitari ha deciso però di non cancellare nulla. Tuttavia ha riconosciuto la necessità di un’azione internazionale disciplinata. L’assemblea ha aggiunto alla risoluzione un nuovo paragrafo che inasprisce le sanzioni disciplinari e che vieta ai compagni qualunque discussione polemica contro i princìpi di azione approvati dal partito. Questa nuova disposizione solleverà probabilmente una nuova opposizione da parte del gruppo di destra o “concentrazionisti”. Ma di fatto questi ultimi hanno già dichiarato di accettare le tesi di Mosca secondo l’interpretazione del gruppo serratista. Anche Turati ha già annunciato che si sottometterà alla disciplina del suo gruppo. E mentre ormai esiste un certo consenso tra unitari e concentrazionisti, l’accordo è praticamente impossibile tra unitari e comunisti. I comunisti si dicono pronti a rinunciare all’espulsione dei centristi unitari, ma vorrebbero adottare prima della chiusura del congresso delle disposizioni statutarie di efficacia immediata. Tra l’altro, secondo i comunisti Serrati è un ostacolo all’unità e di conseguenza ne vorrebbero ridurre il potere. Sono pronti
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FOTOTECA GILARDI/MONDADORI PORTFOLIO (4)
Costantino Lazzari, Umberto Terracini, Amadeo Bordiga, Emanuele Modigliani, 1921
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a lasciare la direzione dell’Avanti! a Milano, ma chiedono un comunista alla direzione dell’Avanti! di Roma. Queste due condizioni saranno accettate dagli unitari? I discorsi di Lazzari e Terracini Livorno, 17 gennaio, 18.10. Due magnifici discorsi sono stati pronunciati dal compagno Costantino Lazzari, a nome del gruppo degli intransigenti rivoluzionari, e dal compagno Umberto Terracini di Torino, leader comunista. L’anziano Lazzari rappresenta il glorioso Partito socialista pronto a modificare la sua tattica, mentre il giovane Terracini incarna il partito giovane che entra nella lotta mondiale con forze e metodi nuovi. La frazione dei rivoluzionari intransigenti occupa una posizione intermedia tra i riformisti e i comunisti unitari. Lazzari, il loro leader, ha suscitato momenti di grande emozione e ha dichiarato che avrebbe aderito alla Terza internazionale, ma che si sarebbe opposto all’uso di metodi brutali nei confronti dei compagni socialisti. Con toni accorati ha poi supplicato il Partito socialista di rimanere unito e compatto. Con grande eloquenza Terracini ha criticato severamente la tattica della destra. Ha mostrato che la destra non può rimanere nello stesso partito di chi aderisce alla Terza internazionale. Di conseguenza ha sostenuto la necessità per i veri comunisti di sbarazzarsi degli elementi riformisti. Fine del terzo giorno Livorno, 18 gennaio. Una delle questioni che più preoccupano il proletariato italiano è il futuro della Confederazione generale del lavoro (Cgl) in caso di scissione del partito. Questa preoccupazione è particolarmente viva in quanto i comunisti sono in maggioranza nelle organizzazioni operaie delle grandi città. Sul tema Terracini ha rassicurato il congresso. Non ci saranno, ha detto Terracini, divisioni nelle organizzazioni sindacali. I comu-
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nisti non credono che ci possa essere una scissione perché queste organizzazioni hanno un programma economico e non politico, e di conseguenza non subiranno le divisioni delle organizzazioni politiche. Del resto i comunisti non vogliono dividere la Cgl, ma cercheranno di conquistarla creando delle sezioni comuniste in ogni federazione. Rimane da risolvere il problema dell’atteggiamento dei comunisti nei 2.500 consigli comunali conquistati di recente dal Partito socialista. A questo proposito Terracini ha dichiarato che i comunisti non compiranno mai alcun atto che possa far cadere i comuni oggi guidati dai socialisti nelle mani degli avversari di classe, e che formeranno un fronte unito con i socialisti. Questa dichiarazione ha provocato grande agitazione. L’atteggiamento dei riformisti Livorno, 17 gennaio, 17.30. Il compagno Gino Baldesi, segretario della Confederazione generale del lavoro, ha risposto agli attacchi contro i riformisti difendendo la loro azione nella recente mobilitazione dei metalmeccanici, che considera una vittoria degli operai organizzati. Baldesi ha rifiutato la tattica della violenza raccomandata dai comunisti, dichiarandola accettabile solo nel momento storico finale. Poi ha detto che i riformisti accettano le tesi di Mosca secondo l’interpretazione di Serrati, cioè con un certo livello di autonomia. E ha aggiunto che i riformisti accettano anche la disciplina imposta dagli unitari. Baldesi ha terminato dicendo che i riformisti rispetteranno queste condizioni. La situazione è ormai chiara. I massimalisti unitari rimarranno nel Partito socialista con i riformisti, mentre i comunisti formeranno un nuovo partito. Dopo l’oratore riformista ha parlato il deputato Vincenzo Vacirca a nome del gruppo dei rivoluzionari intransigenti, respingendo qualunque ipotesi di usare la violenza e difendendo l’unità del partito. Il suo intervento è
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stato continuamente interrotto da aspri tumulti. A un certo punto il deputato comunista Nicola Bombacci ha mostrato addirittura una pistola, provocando viva emozione. Ma è stato un equivoco: Vacirca aveva accusato Bombacci di essere un “rivoluzionario da temperino”, e Bombacci per tutta risposta gli ha fatto vedere che aveva una pistola. Una volta chiarito il malinteso, l’incidente è stato considerato chiuso. Il quinto giorno Livorno, 19 gennaio, 13.20. Oggi hanno parlato Amadeo Bordiga a nome dei comunisti e Serrati per i comunisti unitari. Bordiga, con la sua focosa eloquenza, ha criticato l’opportunismo di alcuni socialisti e ha denunciato il loro fallimento politico, così come quello dei socialdemocratici di tutti i paesi. I vecchi partiti sono incapaci di guidare il proletariato alla conquista rivoluzionaria del potere politico. A quanti affermano di accettare le 21 condizioni per l’ingresso nella Terza internazionale, ma al tempo stesso dicono di voler decidere come applicarle, Bordiga risponde che i socialisti sono opportunisti e non applicheranno mai le tesi di Mosca. Si dice convinto che i comunisti non potranno camminare a fianco di questi gruppi, ma dovranno dedicare le loro forze alla lotta contro tutti gli avversari della rivoluzione e per il trionfo della Repubblica italiana dei soviet. I comunisti hanno salutato il discorso di Bordiga con calorosi applausi e cantando l’Internazionale. Una volta tornata la calma, Serrati, direttore dell’Avanti!, è salito in tribuna tra gli applausi dei suoi sostenitori. Ha cominciato respingendo l’accusa di opportunismo lanciata contro gli unitari e, voltandosi verso il compagno bulgaro Kabakčiev, da cui l’accusa era partita, ha rimproverato ai “socialisti stretti” bulgari la loro unione con i “socialisti larghi” che hanno collaborato con un governo che fucila
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gli operai [in Bulgaria il movimento socialista era diviso tra le fazioni rivali degli “stretti”, più intransigenti, e dei “larghi”]. E poiché Kabakčiev ha parlato a nome del comitato esecutivo della Terza internazionale, Serrati ha visto nelle sue parole la prova dell’opportunismo dello stesso comitato. Basandosi su questa tesi, Serrati ha elencato le concessioni fatte dal comitato esecutivo ai socialisti francesi, che hanno accettato le 21 condizioni ma con riserve sulla loro applicazione. Il comitato esecutivo, ha aggiunto Serrati, è irremovibile con gli italiani ma è molto tollerante con i partiti di altri paesi. Serrati ha esaminato la situazione del socialismo italiano, evocando le sue posizioni durante la guerra e le polemiche contro i socialisti interventisti. Ha riconosciuto la presenza nel Partito socialista italiano di elementi riformisti. Poi si è rivolto direttamente a loro, chiarendo che chiunque vorrà rimanere nel partito dovrà osservare rigorosamente la disciplina. Serrati ha dichiarato che i massimalisti unitari vogliono rimanere nella Terza internazionale. Accettano i 21 punti e vogliono lottare al fianco di Mosca, applicando però le sue condizioni solo quando lo riterranno opportuno. Quando è sceso dalla tribuna, Serrati è stato salutato da un’ovazione. In un breve discorso, Filippo Turati ha affermato che il partito si deve impegnare in un lavoro di educazione proletaria che porti il popolo alla maturità politica, un lavoro che è anche azione rivoluzionaria. Ha anche aggiunto che la sua frazione, che è stata la prima in Italia a parlare della conquista del potere politico, vuole spiegare al proletariato la necessità di questa azione preparatoria. Contrario alla violenza, Turati ha però dichiarato che il suo gruppo accetta di entrare nella Terza internazionale e che si piegherà alla nuova disciplina per lottare insieme per il trionfo del socialismo. Il congresso si avvicina alla fine; questa se-
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Giacinto Menotti Serrati, Filippo Turati, Antonio Gramsci, Pietro Ciuffo, autore dei disegni, 1921
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ra ci saranno altre dichiarazioni. Domani si procederà alle votazioni. L’ultimo giorno Livorno, 20 gennaio. La votazione non si è tenuta questa mattina, come invece era stato annunciato. Humbert-Droz ha portato i saluti dei comunisti svizzeri. Al suo intervento è seguita una dichiarazione di Kabakčiev. In risposta a Serrati e a nome del comitato esecutivo, Kabakčiev ha dichiarato che non è vero che Mosca abbia espresso una preferenza per i socialisti francesi. Il fatto è che Marcel Cachin e Ludovic-Oscar Frossard hanno abbandonato definitivamente il riformismo centrista, mentre Serrati vuole rimanere in questo campo. Infine Kabakčiev ha letto una dichiarazione ufficiale del comitato esecutivo. I riformisti devono essere esclusi e poiché gli unitari rifiutano l’esclusione, la Terza internazionale riconosce solo i comunisti. Le mozioni in discussione Livorno, 20 gennaio. I comunisti hanno deciso di partecipare allo scrutinio e dunque è cominciata la votazione. La frazione dei rivoluzionari intransigenti ha dichiarato di rinunciare alla sua mozione per unirsi agli unitari. Di conseguenza i compagni italiani hanno dovuto pronunciarsi su tre mozioni: quella dei comunisti, quella degli unitari e quella dei riformisti. La mozione comunista dice che l’esperienza storica conferma i princìpi marxisti e gli insegnamenti di Marx sulla lotta rivoluzionaria. Questa mozione comporta la decisione di aderire alla Terza internazionale adottando le tesi, le condizioni di ammissione e l’adozione del nome Partito comunista d’Italia, sezione della Terza internazionale. La mozione prevede l’esclusione di tutti quelli che si oppongono ai princìpi e alle condizioni della Terza internazionale; inoltre afferma che alla base dell’organizzazione del partito ci deve essere
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una disciplina rigorosa, in conformità alle risoluzioni di Mosca. Il compito principale del nuovo partito sarà la formazione materiale e morale necessaria ad assicurare il successo dell’azione rivoluzionaria. Infine, la mozione comunista prevede la rottura dell’alleanza con la Confederazione generale del lavoro, ordinando a tutti i comunisti di entrare nel sindacato per poi ottenere la rottura con l’Internazionale sindacale di Amsterdam e l’adesione all’Internazionale sindacale rossa. Dal punto di vista elettorale, i comunisti parteciperanno alle elezioni politiche e amministrative con l’obiettivo di alimentare l’agitazione rivoluzionaria. La mozione unitaria riconosce la necessità dell’unità del partito, nella fedeltà più assoluta al principio della lotta di classe. L’obiettivo dev’essere la rivoluzione comunista, da realizzare con azioni legali e non. La mozione conferma inoltre l’adesione completa e spontanea alla Terza internazionale, l’accettazione delle deliberazioni del congresso internazionale e delle ventuno condizioni, con l’aggiunta dell’esclusione dei massoni, e riservandosi il diritto di applicarle in base alle necessità e al percorso storico del paese, in accordo con il comitato esecutivo della Terza internazionale. Gli unitari propongono al comitato esecutivo di lasciare ai socialisti italiani la facoltà di conservare il glorioso nome di Partito socialista. Affermano che per consolidare l’unità del partito ogni aderente deve subordinare la sua attività alle leggi dell’interesse generale, disciplinarla in vista del risultato finale e accettare tutte le azioni organizzate in campo intellettuale e sul terreno della propaganda. La mozione riformista prevede il mantenimento del nome di Partito socialista; afferma la necessità dell’unità, che sarà meglio garantita se si lascerà ai militanti la massima libertà di pensiero nelle deliberazioni, insieme a una rigida disciplina per quanto riguarda l’azione. I riformisti confermano l’adesione alla Terza
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internazionale e intendono applicare le ventuno condizioni tenendo conto della situazione contingente; chiedono anche l’esclusione dei gruppi sindacali anarchici e massoni. Non negano il valore della dittatura del proletariato, ma dichiarano che non può essere realizzata attraverso un modello unico. La mozione di destra non condanna l’uso della violenza, ma la considera come l’ultima risorsa contro la resistenza della borghesia. I socialisti di destra dichiarano che sosterranno qualunque tentativo di trasformazione sociale parziale senza rinunciare all’obiettivo della conquista del potere politico, in base a quello che permetteranno di fare le circostanze e la situazione internazionale. La votazione Livorno, 21 gennaio. Il risultato della votazione sulle diverse mozioni è il seguente [i delegati hanno votato su mandato e in rappresentanza dei congressi provinciali, ndr]: — mozione comunista 58.786; — mozione unitaria 98.026; — mozione riformista 14.695. Ci sono state 981 astensioni. Luigi Polano, segretario della Federazione della gioventù socialista, annuncia che la sua organizzazione abbandona il Partito socialista per aderire al Partito comunista. A nome dei comunisti, Bordiga dichiara che il Partito socialista è ormai fuori dalla Terza internazionale e invita i comunisti ad abbandonare i lavori per riunirsi due ore dopo
per il congresso fondativo del Partito comunista sezione italiana della Terza internazionale. I comunisti escono dalla sala cantando l’Internazionale. Il congresso del Partito socialista continua i lavori e decide di rinviare i restanti punti dell’ordine del giorno a un nuovo congresso che dovrà essere convocato il più presto possibile. Il congresso socialista contesta l’esclusione dalla Terza internazionale e si riserva di portare le ragioni del Partito socialista davanti al suo prossimo congresso. Prima della chiusura dei lavori, alla direzione dell’Avanti! è confermato Serrati. Gli unitari chiudono il congresso cantando gli stessi inni rivoluzionari che i comunisti intonano mentre si muovono numerosi in corteo per andare a fondare il loro nuovo partito. Il congresso si apre sotto la presidenza del compagno bulgaro Kabakčiev, che saluta il nuovo partito comunista italiano a nome della Terza internazionale. Anche i delegati di Svizzera, Norvegia e Inghilterra salutano il nuovo partito. Poi comincia la discussione sul nuovo statuto, un regolamento provvisorio valido fino al nuovo congresso, che sarà convocato il mese prossimo. Dopo l’approvazione dello statuto, il congresso comunista nomina i quattro membri del comitato esecutivo: Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari e Umberto Terracini. In attesa della fondazione di un quotidiano, l’organo ufficiale del partito sarà il settimanale Il comunista, pubblicato a Imola. Il congresso si chiude sulle note dell’Internazionale. u adr
Fondato nel 1904 dal leader socialista Jean Jaurès, l’Humanité è stato il quotidiano del Partito comunista francese (Pcf ) dal 1920 al 1994. Oggi è ancora un giornale di sinistra, aperto ad altre anime del progressismo, ma sempre vicino al Pcf.
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Verso la rivoluzione Al congresso di Livorno tutte le frazioni del Partito socialista volevano aderire alla Terza internazionale. Ma solo a parole. Per questo la spaccatura con i comunisti è stata inevitabile José Carlos Mariátegui, El Tiempo, Perú, 12 giugno 1921
La scisssione dei socialisti italiani ha presupposti simili a quelli delle scissioni avvenute in altri paesi, ma non ha la stessa fisionomia. Le sue modalità sono peculiari. In Italia non ci sono due partiti – uno favorevole alla Terza internazionale e l’altro alla Seconda. E non c’è neanche un partito che sostiene una nuova Internazionale, in altre parole i “ricostruttori” che hanno appena tenuto il loro primo congresso a Vienna. Qui c’è un partito che segue la Terza internazionale e altri che, secondo le loro stesse dichiarazioni, vogliono seguirla. I sostenitori della Seconda internazionale sono da tempo fuori del socialismo ufficiale italiano. Si autoproclamano socialisti riformisti, socialisti nazionali. Si chiamano Ivanoe Bonomi, Arturo Labriola. Sono ministri del re, collaboratori dei presidenti del consiglio Francesco Saverio Nitti o Giovanni Giolitti. In apparenza, quindi, la scissione avvenuta al congresso di Livorno non è una divisione logica. È, piuttosto, una divisione inspiegabi-
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le. Perché è una divisione tra socialisti che hanno la stessa fede programmatica e lo stesso orientamento tattico. Ma non è che l’apparenza. In realtà esiste solo un partito davvero massimalista – quello di Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga e Antonio Graziadei. Il partito che al congresso di Livorno si è separato dal socialismo ufficiale perché la maggioranza del socialismo ufficiale voleva sottoscrivere il programma di Mosca con molte riserve scritte e troppe riserve mentali. L’altro partito, quello maggioritario, non segue l’Internazionale di Mosca, ma neppure l’Internazionale di Berna o quella di Vienna. È un partito che, nonostante i suoi proclami di fedeltà all’Internazionale di Mosca, è fuori da tutte le Internazionali. All’interno del socialismo esprime le sue posizioni con la tendenza di destra rappresentata da Filippo Turati; con quella centrista di Giacinto Menotti Serrati; e con quella di sinistra di Nicola Bombacci. Fino alla vigilia del congresso di Livorno, la frazio-
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ne centrista non si era praticamente fatta sentire. Aveva preferito confondersi con la sinistra nella lotta contro Turati. Appena prima del congresso si è allontanata dalla frazione comunista, sventolando la bandiera dell’unità del partito. Bandiera puramente formale, dato che ha portato i centristi a rompere con sessantamila comunisti per evitare la rottura con ventimila socialdemocratici. La frazione di destra, a differenza di altre simili in Europa, non era favorevole alla Seconda internazionale. A parole, come quella centrista, era schierata con l’Internazionale di Mosca. Ma in realtà l’adesione di entrambe al massimalismo era puramente teorica: più che una vera vicinanza alla Terza internazionale, era distanza dalla Seconda. Nelle sue polemiche con i centristi, Grigorij Zinovev ha illustrato le peculiarità della crisi del socialismo italiano. Ha detto che i socialisti di destra e di centro sembrano più a sinistra dei socialisti di destra e di centro di altri partiti europei perché l’Italia si trova a uno stadio rivoluzionario più avanzato. Ma ha aggiunto che la Terza internazionale non può reputare questi socialisti meno di destra o meno di centro dei loro colleghi francesi, inglesi o tedeschi. La scissione è stata, perciò, inevitabile e necessaria. La Terza internazionale ha mantenuto la sua intransigenza con le frazioni di maggioranza. Ha fatto suoi i punti di vista della frazione minoritaria di Bombacci, che di conseguenza, non avendo accettato la maggioranza dei punti di vista, ha dovuto costituire un partito indipendente. La maggioranza si trovava in condizioni vantaggiose al momento della scissione, grazie alla suggestione sentimentale della bandiera dell’unità sventolata dalla frazione di Serrati che si faceva chiamare “comunista unitaria”, che rivendicava la fedeltà al massimalismo e che attirava a sé, per questi motivi, molti comunisti sedotti dall’Avanti! e legati a Serrati. Nel Partito socialista oggi sono pro-
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prio questi soggetti a fare da contrappeso all’influenza della frazione di destra. Ma la loro azione non può evitare che il partito, dopo il congresso di Livorno, viri a destra ogni giorno di più, né che il pensiero di Turati riacquisti la sua antica influenza. D’altro canto si tratta di un fenomeno inevitabile, dato che Serrati, il leader unitario, non ha gli strumenti necessari per dare al partito una direzione e un programma. Serrati non è altro che un buon propagandista, agitatore e oratore da comizio, a cui la direzione dell’Avanti! e un lungo e onesto certificato di servizio hanno conferito, nell’ultima crisi, un’autorità superiore alla sua statura intellettuale. Nel frattempo, il Partito comunista ha fatto suo il programma massimalista adottato dalla maggioranza socialista due anni fa al congresso di Bologna, e abbandonato ieri al congresso di Livorno. In osservanza di quel programma, il Partito comunista lavora esclusivamente per la rivoluzione. Questa preparazione alla rivoluzione non è, comprensibilmente, una preparazione materiale. È una preparazione soprattutto spirituale. Per questa ragione i suoi dirigenti sono intellettuali. Sono l’avvocato Umberto Terracini dell’Ordine Nuovo di Torino, il professor Antonio Graziadei, l’ingegnere Amadeo Bordiga. La figura di Nicola Bombacci – barba evangelica, occhi luminosi, romantico cappello – passa quasi in secondo piano. Proprio come succede al direttore dell’Avanti! all’interno della frazione maggioritaria. u fr
José Carlos Mariátegui è stato un intellettuale e politico peruviano, tra i massimi teorici marxisti dell’America Latina. Tra il 1920 e il 1922 visse a Roma e fu corrispondente
del quotidiano di Lima El Tiempo. Il suo testo più importante pubblicato in italiano è Sette saggi sulla realtà peruviana (Einaudi 1972).
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Coraggioso e intransigente
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Amadeo Bordiga è stato il primo segretario del Pci. Rigido e inflessibile, ha criticato le direttive del Comintern ed è stato avversario dello stalinismo. Il racconto della sua espulsione dal partito per simpatie trotskiste Die Neue Welt, Francia, 22 maggio 1930
San Pietroburgo, novembre 1922. Bordiga è il primo da sinistra nella fila centrale
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Il comitato centrale del Partito comunista d’Italia ha espulso il compagno Amadeo Bordiga per simpatie trotskiste e, in secondo luogo, per comportamenti non degni di un comunista. Durante la guerra il compagno Bordiga ha fatto parte dell’ala sinistra del Partito socialista. Nel 1918 ha fondato a Napoli la “frazione astensionista” che – al contrario dell’altra frazione di sinistra del partito, fondata a Torino da Antonio Gramsci – auspicava il boicottaggio del parlamento. Dopo la scissione del Partito socialista al congresso di Livorno del 1921 le due frazioni – Ordine Nuovo, che prendeva il nome dal foglio pubblicato da Gramsci, e quella bordighista, che pubblicava il giornale Il Soviet – hanno dato vita al Partito comunista, di cui Bordiga è stato il capo riconosciuto. Il suo carattere di ferro e il suo incorruttibile spirito rivoluzionario lo hanno innalzato alla guida di un partito che, fuorilegge fin dall’istante in cui ha visto la luce, è stato obbligato a una dura lotta per la sopravvivenza, non solo contro i fascisti ma anche contro riformisti e massimalisti (socialisti di destra e sinistra). Quando però è stato necessario conquistare gli operai al partito attraverso un vero programma politico, e non solo impressionarli con il coraggio rivoluzionario, Bordiga ha fallito. E a fallire era destinato: fin dal principio la sua è stata una posizione estremista, perché scaturita dalla rigidità della dottrina e non dalla situazione concreta e perché egli giudica riformista la partecipazione alla lotta quotidiana degli operai. Bordiga nega la necessità di un partito di massa che, in base alla sua visione, rischierebbe di contaminare la “purezza” dell’idea comunista. Partendo da tale errata concezione, Bordiga ha sviluppato una linea politica altrettanto errata: il rifiuto del fronte unico (pur essendo lui stesso a favore di un fronte unico sindacale, in contrasto con la linea attualmente seguita dal Comintern) e il rifiuto di soluzioni transitorie e rivendicazioni parziali.
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In seguito al quinto congresso della Terza internazionale, Bordiga è stato privato di ogni carica nel partito. Da allora si colloca stabilmente all’opposizione rispetto al Comintern e al Partito comunista d’Italia. Bordiga ha sempre avuto posizioni di estrema sinistra. Su molte questioni, per esempio, si è trovato d’accordo con la linea seguita da Ruth Fischer in Germania. Bordiga, inoltre, si è sempre opposto alla bolscevizzazione introdotta nel Comintern nel fatale periodo in cui Fischer era a capo del partito tedesco, e durante il sesto plenum del Comitato esecutivo dell’internazionale comunista si è pronunciato per attaccare aspramente questo sistema. In quella sede ha criticato duramente anche il ruolo nel Comintern del Partito comunista sovietico, accusato di non tenere in debito conto l’esperienza dell’Europa occidentale. Alla fine del 1926 Bordiga è stato arrestato e mandato al confino; e alla fine del 1929, proprio mentre nel partito italiano il bordighismo rialzava la testa, è tornato in libertà. Ma per le sue deviazioni di estrema sinistra e trotskiste è stato subito espulso, proprio quando avrebbe potuto reinserirsi al meglio nel partito. Per quanto riguarda invece l’accusa di aver avuto un comportamento non degno di un comunista, manteniamo un certo scetticismo. Non sappiamo di cosa si tratti, ma sappiamo che tra i dirigenti del Comintern regna una certa confusione a proposito di concetti quali dignità, indegnità e altre qualità morali. Come sarebbe possibile altrimenti avere dirigenti simili a quelli che, grazie a Stalin, governano oggi la quasi totalità delle sezioni? u sk
Die Neue Welt è stato il giornale in lingua tedesca della sezione dell’Alsazia Lorena del Partito comunista francese. Fondato nel 1921, fu assorbito dall’Humanité nel 1923. Tornato nelle edicole nel 1929, fu pubblicato fino al 1939.
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Umberto Terracini prigioniero politico Negli anni trenta centinaia di oppositori sono rinchiusi nelle carceri fasciste. Il caso di Terracini, tra i fondatori del Pci, denunciato da una lettera di un ex detenuto e militante comunista svizzero The Manchester Guardian, Regno Unito, 23 maggio 1935
Al direttore del Manchester Guardian Signore, l’autore di queste righe è stato arrestato in Italia nel 1927 e condannato dal Tribunale speciale a quindici anni e nove mesi di galera per “reati politici”. Avendo risieduto come prigioniero politico in diversi penitenziari per oltre sette anni, fino all’ottobre del 1934, l’autore considera suo dovere, nei confronti dei numerosi prigionieri politici che ancora si trovano nelle carceri fasciste, far conoscere al popolo del Regno Unito l’intollerabile situazione dei “criminali” politici in Italia. Questo chiarimento è tanto più necessario se si considera che di recente la stampa fascista ha protestato contro la barbarie dei nazisti tedeschi, fingendo che il fascismo italiano non sia colpevole delle stesse crudeltà. Un esempio particolarmente emblematico delle sofferenze inflitte agli oppositori in Italia è il caso dell’avvocato Umberto Terracini, arrestato nel 1925 e tenuto in “isolamento preventivo” fino all’estate del 1928. Il Tribunale
speciale per la difesa dello stato è nato alla fine del 1926, dopo l’arresto di Terracini. Eppure nel 1928 l’avvocato è stato portato davanti a questo tribunale fascista (insieme al noto professor Antonio Gramsci, al dottor Mauro Scoccimarro e ad altri) e condannato a una lunga pena detentiva. Il dottor Terracini e il dottor Scoccimarro sono stati successivamente trasferiti nel penitenziario situato sull’isola di Santo Stefano. L’autore di queste righe, che per due anni (1929-31) ha vissuto nello stesso penitenziario, può testimoniare come il regime inumano e spietato del carcere abbia compromesso la salute del dottor Terracini. Una grande campagna internazionale di protesta è riuscita a convincere i fascisti a trasferire Terracini. Tuttavia dal 1932 l’avvocato si trova nuovamente in un centro di detenzione a Civitavecchia, in una sezione speciale destinata ai prigionieri politici. Nella stessa sezione ci sono anche il dottor Scoccimarro, il dottor Li Causi, il dottor CONTINUA A PAGINA 30 >>
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The Guardian, noto come The Manchester Guardian fino al 1959, è un quotidiano britannico. Fondato a Manchester nel 1821, ha sede a Londra dal 1961.
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L’isola di Santo Stefano e il suo carcere, 2012. Alessandra Benedetti (Corbis/Getty Images)
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A proposito di un antifascista perseguitato L’Ère Nouvelle, Francia, 5 gennaio 1929 L’inesorabile odio di Mussolini contro chiunque non si genufletta davanti al fascismo perseguita gli italiani anche all’estero. Abbiamo appreso che l’antifascista Luigi Longo è stato arrestato a Zurigo. Era fuggito dall’Italia per sottrarsi alla vendetta delle “camicie nere”. Il duce ovviamente ne reclama l’estradizione. Ma saremmo molto sorpresi se il governo federale gli desse soddisfazione. La patria di Guglielmo Tell è la patria degli uomini liberi e qui abbiamo ancora il diritto di non
riverire il tiranno. Consegnare l’esule alla “giustizia” di Mussolini significa consegnarlo al carnefice. Pensiamo che il nobile popolo elvetico non tollererà mai che, per una causa così abietta, si vada contro una tradizione secolare di ospitalità, e che si minacci la sua indipendenza. Su queste pagine possiamo leggere la vibrante protesta del comitato di difesa delle vittime del fascismo, e alla loro generosità oggi uniamo il nostro appello. Dobbiamo chiederci, però, se in un’epoca come la nostra, durante la quale ha visto la luce la Società delle Nazioni, in un’epoca cui la parola “umanità” è così spesso richiamata nei discorsi ufficiali, non sia
Sereni, i lavoratori Parodi, Secchia, Bagnolatti e Gigante e molti altri. Sia il ministero della giustizia sia il signor Mussolini in persona conoscono bene le condizioni nel carcere di Civitavecchia. I prigionieri politici, tra cui l’autore di queste righe, hanno ripetutamente inviato informazioni al ministero della giustizia chiedendo l’apertura di un’inchiesta. La richiesta è stata ignorata. Lo scorso dicembre il governo italiano si è rifiutato di far entrare nel penitenziario una delegazione speciale che si era recata a Roma per visitare i prigionieri politici a Civitavecchia. I prigionieri politici di Civitavecchia soffrono la fame, dato che le autorità carcerarie distribuiscono appena 60 grammi di pane al giorno oltre a una zuppa annacquata a pranzo. I detenuti non hanno il permesso di lavorare e non possono guadagnare denaro per comprarsi da mangiare. Inoltre sono chiusi per tutto il giorno in celle anguste che ospitano fino a quattro persone. L’aria è pesante e nauseabon-
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possibile riportare alla ragione l’imperatore di palazzo Chigi. In questo modo si renderebbe un grande servizio alla civiltà e all’Italia stessa e si farebbe capire a Benito Mussolini che al di sopra degli interessi del fascismo ci sono delle leggi internazionali, e che nessuno in Europa, neanche per evitare un semplice malumore al dittatore, acconsentirà a certe compiacenze, che in pieno ventesimo secolo rappresentano solo una mancanza di umanità. u adr L’Ère Nouvelle è stato un quotidiano socialista francese, pubblicato tra il 1919 e il 1940.
da. La lettura di qualsiasi giornale politico (compresi quelli fascisti) è proibita, così come quella dei libri scientifici. Il fisico del dottor Terracini è stato profondamente minato. L’avvocato soffre di gravi disturbi digestivi e di arteriosclerosi. Se rimarrà ancora a lungo in queste condizioni non vivrà fino alla fine della pena, nel 1938. Perfino l’ispettore del ministero della giustizia ha confermato il suo allarmante stato di salute. Eppure gli è stata negata l’assistenza medica, e non è autorizzato nemmeno a farsi curare a sue spese. Di recente il detenuto è stato trasferito in una “cella punitiva” e per un mese intero ha ricevuto solo pane e acqua. L’autore di queste righe si rivolge all’opinione pubblica britannica affinché faccia sentire la sua voce contro le persecuzioni, e in particolare quelle contro il dottor Terracini, nel penitenziario di Civitavecchia. Vostro, Hofmaier. Basilea, Svizzera, 20 maggio 1935. u as
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L’eroe della montagna
Il Moschettiere, 1947 Nell’immediato dopoguerra, tra il 1946 e il 1947, fu pubblicato a Roma Il Moschettiere, un giornale per ragazzi con fumetti italiani e francesi. Un filone importante di queste storie era quello resistenziale, strisce settimanali che raccontavano di giovanissimi partigiani in lotta contro il nazifascismo. Il partigiano Marco è il protagonista dell’avventura presentata nelle pagine che seguono, pensate per rendere partecipi dei valori della resistenza anche i lettori più giovani. Dal giugno del 1947 Il Moschettiere cambiò nome e diventò Il Pioniere dei ragazzi, e più tardi solo Il Pioniere, un giornale sempre più espressamente rivolto ai figli di genitori comunisti, come alternativa al Corriere dei Piccoli e al Vittorioso. Comitato ricerche associazione pionieri (Crap), ilpioniere.org
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L’eccezione del partito nuovo e la guerra fredda
1946–1971
Italia, 1963. René Burri (Magnum/Contrasto)
Il nodo di Trieste
Mentre a Parigi si discutono i trattati di pace che ridisegneranno gli equilibri europei del dopoguerra, i comunisti italiani puntano il dito contro l’imperialismo di Londra e Washington Neuvecelle, Combat, Francia, 22 agosto 1946
Il ritorno a Roma di Togliatti e le dichiarazioni rese al giornale comunista l’Unità costituiscono l’epilogo provvisorio dell’azione dei comunisti italiani a margine della conferenza al palazzo del Lussemburgo di Parigi. E permettono di analizzare una serie di insolite peripezie. Tutto è cominciato con l’esclusione di Togliatti dal governo che dovrà discutere ed eventualmente firmare la pace. Quando si è saputo che la coalizione tra democristiani, socialisti e comunisti non avrebbe più compreso il leader comunista – che alcuni italiani non esitano a definire “l’uomo di fiducia di Mosca” – si è avuta la certezza che De Gasperi sarebbe stato presto attaccato dai comunisti. D’altra parte Togliatti aveva da poco nuovamente rivendicato “il diritto e il dovere di criticare l’azione governativa”. A Parigi questo diritto e questo dovere sono stati ampiamente esercitati sotto gli occhi di tutto il mondo. Per i comunisti italiani i problemi interni e il ruolo internazionale del paese sono strettamente
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legati e ciò fa capire perché il palazzo del Lussemburgo sia diventato la miglior tribuna per lanciare una violenta campagna contro la politica di De Gasperi, proprio mentre il presidente del consiglio italiano è impegnato nella difesa degli interessi del suo paese. Le critiche provenienti da Parigi, e riprese a Roma, riguardano il tono, giudicato non abbastanza antifascista, delle dichiarazioni di De Gasperi sulla sua proposta di rinviare la soluzione del problema della Venezia Giulia, sulla debolezza delle sue proteste contro le clausole economiche introdotte nel trattato dagli anglo-americani e sull’insieme delle trattative condotte a Parigi. A Roma una presa di posizione così netta ha provocato reazioni stupite e scandalizzate. L’Italia si trova tra due sistemi di alleanze e si ritiene che la sua situazione sul piano internazionale sarà fortemente influenzata dall’orientamento politico che adotterà nei prossimi mesi. Prima di tutto l’azione dei democristiani è
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ispirata dal timore della minaccia comunista, argomento al quale i loro giornali fanno spesso allusione (con l’eccezione di quelli dell’ala sinistra del partito). Questi giornali raccomandano una politica di intesa con l’Inghilterra e con gli Stati Uniti, nella speranza di ricevere consistenti aiuti per risollevare l’economia e smorzare le tensioni presenti nel paese. Per i democristiani i paragrafi del trattato di pace che riguardano l’economia – formulati in maniera talmente vaga da mettere per lungo tempo le finanze italiane di fatto sotto il controllo delle potenze alleate – rappresentano soprattutto un’assicurazione contro il rischio di rivolte sociali e disastri economici. In ogni modo potranno essere modificati da accordi ulteriori. Comprensibilmente, però, è proprio contro il controllo occidentale che si è scagliato Togliatti, sulla scia del ministro degli esteri sovietico Vjačeslav Molotov. La veemenza con cui ha agito dimostra che il pericolo gli sembra del tutto reale e che è ormai urgente tornare a una situazione di equilibrio. I principali motivi dell’azione di Togliatti si possono quindi riassumere in poche righe. Prima di tutto si tratta di dimostrare che la durezza del trattato di pace non è imputabile alla perdita di Trieste, ma alle sue clausole economiche. I principali responsabili sono quindi
gli Stati Uniti e l’Inghilterra, non l’Unione Sovietica. Di conseguenza bisogna indebolire la posizione di De Gasperi a Parigi e bloccare la proposta di rimandare la soluzione della questione giuliana, perché è urgente eliminare – o quanto meno ridurre al minimo – il contingente di truppe alleate in Italia, la cui presenza ostacola qualunque azione diretta dei comunisti. Bisogna inoltre preparare fin da adesso un alibi in modo da non assumersi alcuna responsabilità per la firma di un trattato di pace che sarà senza dubbio impopolare. E bisogna essere pronti fin da subito a prendere la testa di un movimento patriottico contro gli alleati (tutti gli ultimi discorsi di Togliatti contengono attacchi contro le truppe di occupazione e l’imperialismo capitalista). I comunisti sono perfettamente consapevoli che l’Italia potrà riprendersi economicamente senza il sostegno dei capitali americani solo se diventerà un paese fortemente statalizzato. Non sorprende quindi di trovare nell’intervista rilasciata da Togliatti al suo ritorno da Parigi delle accuse violente contro gli intrighi dei “reazionari” e le “mire imperialistiche dell’Inghilterra, che vuole fare di Trieste una nuova Malta o una nuova Gibilterra”. u adr
Combat è stato un quotidiano francese. Fondato in clandestinità nel 1941 come giornale della resistenza, è stato pubblicato fino al 1974.
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Sulle barricate in doppiopetto Dalla fine della guerra fino alla vigilia delle elezioni amministrative del 1947. Il più diffuso settimanale statunitense racconta – in tono allarmato e allo stesso tempo ammirato – la strategia, l’organizzazione e i successi del partito di Togliatti Time, Stati Uniti, 5 maggio 1947
L’occupazione delle terre a Castel Gandolfo, 1946. Federico Patellani (Archivio Federico Patellani, Regione Lombardia/Museo di fotografia contemporanea Milano, Cinisello Balsamo)
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Nel giorno di Marx, all’inizio del mese di Maria, il glicine celeste pallido sbuca da tutti i muri di Roma e gli iris sollevano le loro teste azzurre. Ma a fiorire davvero sono la lussureggiante cineraria rossa e le austere bandiere rosse. Il 1 maggio 1947 il movimento comunista mondiale ha avuto molto da celebrare. La sua più recente e per certi versi più notevole vittoria l’ha ottenuta alle elezioni in Sicilia, dove la settimana prima il Pci è diventato il partito più votato dell’isola, consolidando così la sua posizione di prima forza politica d’Italia. Nei 99 anni trascorsi dalla pubblicazione del Manifesto comunista, come avrà fatto la garbata dialettica di Marx, distillata dalle nebbie accademiche del nord, a conquistare un tale seguito in una terra dove la lotta è sempre stata così reale e urgente da non aver bisogno di nessuna motivazione teorica? Come avrà fatto l’influenza comunista a penetrare così profondamente nel cuore della civiltà che cercava di distruggere? La risposta sta in parte nei risultati di vent’anni di fascismo e in parte nello straordinario genio politico di Palmiro Togliatti, il comunista più importante al di fuori della Russia, e forse il più grande dai tempi di Lenin. Ma va anche ricercata nell’incapacità della civiltà occidentale, dentro e fuori l’Italia, di essere all’altezza della sua fede in se stessa e nel suo Dio. Questa malattia, non necessariamente fatale, ha mostrato sintomi precisi, osservabili e identificabili. Se l’occidente non li avesse affrontati, oggi sarebbe più morto del Rienzi di Wagner. Declino e caduta Nella tarda primavera del 1947 l’Italia sembra un paese in felice convalescenza. Dal Po a Palermo, i campi sono verdi e fertili e la gente lavora sodo. Al nord le fabbriche marciano a pieno ritmo e i visitatori stranieri si meravigliano (come in passato) dei treni fatiscenti che arrivano in orario. I mercati cittadini sono pieni di frutta, verdura e carne. Ma sono mercati neri. Questa immagine di prosperità è falsa, e
i suoi colori vivaci nascondono sporcizia, putrefazione e tensioni pericolose. L’inflazione è fuori controllo. I disoccupati si avvicinano alla soglia dei due milioni e mezzo. A Roma il ministro degli esteri, Carlo Sforza, si stava recando al ministero quando la folla ha circondato la sua auto e l’ha malmenato. Sforza ha gridato: “Lo so che volete pane! Io lavoro 16 ore al giorno per farvelo avere”. L’amara risposta è stata: “Tu lavori, ma noi no”. L’esecutivo, una coalizione tra democristiani, comunisti e socialisti, è impantanato in litigi interni. E in troppi dicono: “Siamo stanchi di questo governo”. A Roma, nei caffè di via Veneto, gli uomini in tweed e le donne in chiffon di una delle aristocrazie più antiche, più belle e più marce d’Europa si abbuffano di bignè. Da Rosati sorseggiano i loro Martini sotto gli occhi di una minacciosa statua di Cesare Augusto, il primo imperatore e tiranno di Roma. A pochi chilometri di distanza sorgono quartieri poveri e sporchi, brulicanti di esseri umani. Il peggiore è soprannominato “Shanghai”, che per gli italiani è sinonimo di totale degrado. Lì vivono quindicimila persone in baracche di una stanza, dove i segni dell’acqua sui muri, oltre il livello dei letti, raccontano di allagamenti, piogge e fango. La scorsa settimana un abitante di Shanghai ha detto: “Questa è Roma, l’eterna, la bella. Siamo unici. Emigrati che non hanno mai lasciato l’Italia”. Poi ha aggiunto tossendo: “Comunisti? Democristiani? Socialisti? Non so cosa siamo. Seguiremo chi verrà per primo e ci porterà via da qui”. E i comunisti stanno arrivando per primi. Sembrano essere gli unici a sapere cosa vogliono e come ottenerlo. E così, mentre il mondo a malapena se ne accorgeva, l’incredibile è accaduto: il comunismo ha quasi conquistato l’Italia. Gli ostacoli sembravano enormi. C’è il Vaticano, nella sua inamovibile maestà al di sopra degli uomini e delle nazioni, vicino all’eternità. C’è l’antica terra che ha visto le opere della ragione romana e della fede cristiana.
Operaio in un cantiere navale in Sicilia, 1952. Federico Patellani (Archivio Federico Patellani, Regione Lombardia/Museo di fotografia contemporanea Milano, Cinisello Balsamo)
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C’è l’eco pietrificata dei più grandi spiriti del mondo, che rende anche i semplici contadini in qualche modo contemporanei e parenti di Da Vinci e Michelangelo. Eppure una banda di congiurati, la cui fede è infinitamente più giovane della più semplice croce di pietra in una chiesa di paese, è riuscita a incarnare quelle opere e quei valori, a incarnare la prova stessa che l’uomo, per sempre macchiato di sangue e fango, può comunque essere umile, libero e grande. L’occidente ha aiutato il comunismo a dimenticare princìpi e valori e a parlare di pane al popolo. Questo è successo nella Sicilia tradizionalmente conservatrice. Nel referendum sulla monarchia del 1946, il 68 per cento dei contadini siciliani aveva votato per il re. Nelle elezioni regionali della scorsa settimana, il 34,5 per cento degli elettori ha scelto la sinistra. La Democrazia cristiana si è piazzata al secondo posto con il 20 per cento, al terzo è arrivato il blocco monarchico qualunquista con il 14 per cento; il resto dei voti è andato ai partiti minori. Il risultato fa prevedere una maggioranza comunista-socialista alle elezioni nazionali del prossimo ottobre. Uno dei motivi del successo comunista è stato illustrato dal conte Ernesto Perrier, capo della coalizione di destra siciliana. Ammettendo di non essersi preoccupato degli urgenti bisogni economici della popolazione, Perrier ha detto in tono cupo: “Il nostro simbolo sarebbe dovuto essere un piatto di spaghetti con la corona”. Una spiegazione ancora più interessante (anche se poco sincera) l’ha fornita il comunista Girolamo Licausi: “Il Partito comunista non è interessato a fare la rivoluzione mondiale, ma a sfamare e democratizzare il popolo. Non stiamo progettando nessun soviet. Vogliamo ridistribuire le grandi proprietà terriere, ma non toccheremo quelle al di sotto dei cento ettari, che è già una discreta dimensione. Vogliamo l’industria. Vogliamo far lavorare i disoccupati. Il capitale avrà tutte le garan-
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zie di cui ha bisogno”. Questa è l’attuale linea del partito, e l’arma non molto segreta del comunismo italiano. Non sono stati solo i contadini siciliani a cascarci. La settimana scorsa, una debuttante milanese cinguettava: “Il comunismo non ci impedisce di ascoltare musica, sorseggiare tè o mangiare pasticcini”. Questa ragazza della buona società con un cervello da gallina, compagna di viaggio dei comunisti come tanti altri nobili italiani, pensa esattamente quello che Palmiro Togliatti, alias Ercole Ercoli, alias Mario Correnti, vuole che pensi. Togliatti intende conquistare un popolo essenzialmente anticomunista con mezzi democratici e incruenti. In soli tre anni ha compiuto un miracolo politico. Plasmare la storia Il mese di marzo del 1944 ha segnato l’inizio dell’esperimento togliattiano di una rivoluzione “rispettabile”. Il regime di Mussolini era caduto e il popolo italiano usciva di nuovo alla luce, stordito, vagamente esultante, e applaudiva i liberatori statunitensi. Era un’opportunità unica per l’occidente di stabilire una sana democrazia in Italia. Ma era un’opportunità anche per i comunisti. Molti di loro volevano scatenare subito la rivoluzione. Sotto le piogge di marzo, il fango italiano sembrava l’argilla stessa con cui si plasma la storia. Ma a quel punto, dal cielo grigio è spuntato Togliatti, arrivato in aereo da Algeri dopo 18 anni di esilio. E ha cominciato a modellare quell’argilla. Ha annunciato che non dovevano esserci manifestazioni antimonarchiche. Per un po’ era anche consigliabile arrotolare le bandiere rosse e sventolare il tricolore nazionale. Mosca aveva riconosciuto il governo monarchico del maresciallo Badoglio, e Togliatti era entrato a farne parte come ministro senza portafoglio. I comunisti meno duttili, intenzionati a salire sulle barricate, sono stati espulsi dal partito, spesso grazie a un “rispettabile” espediente: gli è stato negato il sostegno della macchina organizzativa comunista alle elezio-
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ni locali. Lo scontro, per il momento, si sarebbe combattuto sulle barricate della burocrazia. Il dinoccolato e trasandato Mauro Scoccimarro, noto per i suoi capelli lunghi non lavati, le camicie sporche e la caparbietà dottrinale, ricopriva la carica di ministro delle finanze, ma quando il presidente del consiglio De Gasperi l’ha scaricato, Togliatti non ha mosso un dito per difenderlo. Non era quello il momento per i compagni che non si lavano. Togliatti stesso ha dato l’esempio di ciò che deve indossare un comunista: un elegante doppiopetto blu. Il programma economico del partito sembra scritto dall’associazione degli imprenditori statunitensi. Chiede stabilità monetaria, fine delle restrizioni del tempo di guerra, costo del lavoro più basso e maggiore produttività per favorire “la rinascita delle imprese”. Il culmine di questa rassicurante campagna è stato toccato quando padre Palmiro e i suoi curati hanno votato per il rinnovo dei patti lateranensi, privando così i democristiani della loro arma più efficace: l’accusa che i comunisti siano un pericolo per il cristianesimo. Come ha detto un osservatore: “Si potrebbe dire che Togliatti abbia deciso per il momento di rinunciare alla falce a favore del fioretto. E invece del martello, troviamo più efficace il martelletto parlamentare del presidente della costituente Terracini”. Nel nome del Signore Una domenica di 54 anni fa le chiese di Genova (come quelle di tutto il mondo) traboccavano di gioia e spiritualità per la celebrazione dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme. I sacerdoti lessero il Vangelo: “Osanna al Figlio di Davide. Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Poi i fedeli presero i rametti d’olivo. Nello stesso momento, nella grigia strada dell’Albergo dei Poveri, nasceva il figlio di un contabile statale. Era la domenica delle palme, il bambino si sarebbe chiamato Palmiro. Oggi l’ateo Togliatti stringe saldamente in mano un rametto d’olivo. Di recente, in parla-
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mento, un dirigente democristiano ha concluso il suo roboante discorso con un appello alla Beata Vergine, seguito da un altro oratore che ha invocato lo Spirito Santo. Il comunista Togliatti non ha risposto con le armi del materialismo dialettico, ma con voce ferma ha citato il primo comandamento: “Io sono il Signore tuo Dio ...”. E i deputati hanno applaudito. Il giovane Palmiro ha imparato l’arte della disputa teologica all’università di Torino, dove si è iscritto a giurisprudenza grazie a una borsa di studio. Successivamente si è dedicato al giornalismo e al socialismo. Nel 1921 è stato tra i responsabili della scissione del Partito socialista e della fondazione del Partito comunista d’Italia. Cinque anni dopo, quando i rapporti con la polizia di Mussolini hanno cominciato a farsi complicati, è fuggito in Francia. “Fino ad allora non aveva accettato imposizioni troppo rigide da Mosca”, dice una persona che all’epoca lo conosceva bene. “Ma a quel punto ha abbandonato ogni scrupolo”. Più tardi Togliatti ha dovuto affrontare una crisi che ha messo alla prova, una volta per tutte, la sua vera natura. Da Mosca era arrivato un semplice ordine: i socialisti italiani, anche se stavano combattendo il fascismo, stavano “sabotando” la rivoluzione mondiale e dovevano essere liquidati; i comunisti dovevano consegnare l’elenco segreto dei leader socialisti alla polizia fascista. Togliatti e il suo amico Ignazio Silone, comunista, scrittore e filosofo, passarono giornate intere a discutere. Silone si rifiutò di assecondare la richiesta e lasciò il partito. Oggi guida con Giuseppe Saragat una dignitosa e minoritaria forza anticomunista di socialisti dissidenti. Togliatti, invece, si inchinò a Mosca e consegnò i nomi. Sul suo doppiopetto blu c’è del sangue. Dopo quella prova Togliatti ha scalato rapidamente la gerarchia comunista internazionale. Tra un incarico e l’altro all’estero, ha vissuto a Mosca. “È uno dei pochi comunisti occidentali che possono vantare la fiducia e l’amicizia
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personale di Stalin”, ha detto un suo amico. Nel 1943 è stato tra i 17 dirigenti che hanno firmato il decreto di scioglimento del Comintern, primo passo verso il comunismo “rispettabile” del dopoguerra. Un anno dopo era pronto per il suo incarico più importante: il diplomatico sovietico Andrej Vyšinskij aveva convinto gli alleati ad accettare il suo ritorno in Italia. Passatempi borghesi Togliatti non è una tigre di carta. Ha modi disinvolti. Dietro agli occhiali di corno si nasconde uno sguardo da studioso, e dal suo viso trapela solo una traccia vaga e ironica dei problemi che ha vissuto o che sta causando. Come il francese Maurice Thorez, è uno dei pochi comunisti che sorridono, anche se con un pizzico di sarcasmo. Togliatti è sposato con Rita Montagnana, un’ex sarta, che guida le comuniste italiane ed è una fedelissima del partito. È una donna alta, bella, con i capelli bianchi e gli occhi marroni. La coppia vive nella sontuosa residenza di un ex ministro fascista, di cui usa però solo poche stanze. Togliatti dorme appena cinque o sei ore a notte. Alle sette del mattino è già alla sua scrivania nell’ufficio della sede del partito. Coltiva semplici piaceri borghesi. Ama leggere, spesso cercando citazioni per i suoi discorsi (fonti preferite: Dante, Lincoln, la Bibbia). Ama il calcio e si dice che occasionalmente scriva articoli di sport con uno pseudonimo. A volte va in una semplice pizzeria chiamata La Carbonara, frequentata principalmente da tassisti. Ha rotto con l’oscura tradizione dei rivoluzionari comunisti e non gioca a scacchi. Preferisce le bocce e lo scopone. Ai suoi compagni di partito piace. Lo chiamano il Migliore. Lo stato ombra Sul colle del Campidoglio il senato romano cercò per secoli di mantenere in vita la repubblica. Poi arrivarono i Cesari. Oggi, ai piedi del Campidoglio, in via delle Botteghe Oscure sor-
ge un elegante edificio di mattoni rossi. È qui che regna, brandendo un ramoscello d’olivo, l’affabile Cesare del comunismo italiano. Il suo Partito comunista è (come in tutti i paesi) uno stato nello stato. E oggi, in Italia, sembra perfino più solido del suo debole corrispettivo reale. Il partito ha le sue scuole, i suoi tribunali, il suo sistema di tassazione, che raccoglie le quote associative e si occupa di altre faccende, dalle feste da ballo del sabato sera ai ricatti politici. Il Migliore è assistito da una squadra di abili capi dipartimento. Umberto Terracini – il “cervello” – è il suo braccio destro, magro e affascinante. È la pignoleria fatta persona. Lo scorso febbraio ha sostituito Saragat alla presidenza della costituente. Mentre si preparava a prendere in consegna la residenza ufficiale, tra i due c’è stata una conversazione che lascerebbe di stucco i comunisti meno sofisticati. Terracini: “Dove sono i domestici?”. Saragat: “Delle faccende domestiche si occupavano mia moglie e mia figlia”. Terracini (indignato): “Ma noi siamo in cinque: io, mia moglie e tre gatti siamesi”. Eugenio Reale, sottosegretario agli esteri, si occupa dei rapporti con l’estero anche per il partito. Medico, brillante conversatore e gaudente, ha l’aspetto paffuto e imbronciato di un bambino costipato. Luigi Longo, il “gallo” , che tiene i conti del partito per le attività di guerra, è un comunista più tradizionale, un uomo cupo con profondi occhi infossati e la bocca serrata e contorta. Ha comandato i partigiani comunisti italiani durante la guerra. L’intelligence alleata e i militari italiani stimano che il suo potenziale esercito clandestino (dotato di armi sequestrate ai tedeschi) conti almeno 150mila persone. Pietro Secchia si occupa dell’organizzazione e del reclutamento dei nuovi militanti. È un gigante dalle spalle larghe con una faccia da monaco, curiosamente luminosa sotto un ciuffo di capelli scuri. Quando parla, i suoi candidi denti falsi luccicano. Gli manca la brillan-
San Vincenzo, Lipari, 1952. Federico Patellani (Archivio Federico Patellani, Regione Lombardia/ Museo di fotografia contemporanea Milano, Cinisello Balsamo)
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tezza intellettuale dei colleghi, ai quali è però superiore per tenacia e genio organizzativo. Si è dato un obiettivo preciso: “Una sezione comunista per ogni campanile d’Italia”. L’Italia ha innumerevoli campanili. E oggi ha anche 8.635 sezioni del Pci, a loro volta suddivise in 34.540 cellule sparse in ogni angolo del paese. I loro metodi sono semplici. “I comunisti hanno liberato questo paese. Non sono stati i socialisti né i preti. Io sono comunista”, mi ha detto la scorsa settimana un militante in un paesino nei pressi di Milano. Far del bene è importante: un paio di settimane fa un treno ha trasportato in Emilia duecento bambini di Napoli. Lì, nelle fattorie comuniste, sotto la cura delle donne di Rita Togliatti, avranno quattro mesi di sole e cibo a spese del partito. Anche gli attivisti del partito commettono però qualche errore. Recentemente il quotidiano comunista bresciano La Verità ha dedicato parecchio spazio a una storia completamente inventata su “Gary Cooper che parla ai comunisti di Filadelfia”. Poi c’è da dire che i testi delle loro canzoni sono spesso involontariamente comici: “Stalin è meglio del pane. Basta vedere la sua faccia per volerlo baciare”. Queste occasionali idiozie non impediscono però al messaggio comunista di raggiungere la mente di migliaia di persone come una rivelazione messianica. Nel paesino di Arsoli un’anziana contadina dai capelli bianchi ci ha raccontato come ha ricevuto il messaggio: “Penso che si nasca comunisti, proprio come si nasce poeti. Ricordo la prima guerra d’Abissinia, con la nostra terribile sconfitta, e ricordo di aver visto le prime rondini arrivare dall’Africa proprio quell’anno. Ricordo anche che da giovane ero preoccupata per le persone come i falegnami, che costruivano mobili raffinati ma erano costretti a dormire per terra. Il comunismo metterà fine a queste cose”. Né la chiesa, né la democrazia, né il capitalismo, né qualsiasi altra forza anticomunista, hanno ancora dissipato risentimenti così semplici e profondi.
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Per capire in che direzione sta andando la storia basta elencare le città che i comunisti hanno conquistato con il voto comunale. Agli americani, luoghi come Sofia, Bucarest e Belgrado sono sempre sembrati dall’altra parte del mondo. Ma oggi la bandiera rossa sventola anche sulle città che custodiscono i ricordi più antichi dell’occidente: la Mantova di Virgilio, la Milano di sant’Ambrogio, la Ferrara di Lucrezia Borgia, una donna che i comunisti avrebbero sicuramente apprezzato, la dotta e turbolenta Bologna, la morbida e simmetrica Firenze di Dante, la Venezia capitalista di Dandolo. I comunisti amministrano Livorno, dove il poeta Percy Bysshe Shelley trascorse i suoi ultimi giorni, la Pisa di Galileo, e Parma, famosa per le violette e per Toscanini. I loro abitanti non sono subordinati ai comunisti come in Europa orientale; sono governati dai comunisti perché li hanno votati. Per molti anticomunisti è troppo. La sconfitta per mano di un nemico la cui potenza era chiaramente visibile, e al tempo stesso sfuggente come un’ombra, ha messo a dura prova i nemici del comunismo. Non tutti, però, sono arrivati fino a dove si è spinto Giuseppe Rapelli, il democristano che ha cercato di spezzare la ferrea morsa del comunista Giuseppe Di Vittorio sul sindacato, e oggi è ricoverato in ospedale con un esaurimento nervoso. Ma tutti sembrano paralizzati, in preda alla paura e al dubbio. La battaglia dei partiti Alle elezioni politiche del giugno 1946 la Democrazia cristiana, il primo avversario del comunismo, ha preso più di otto milioni di voti. Ma ha lentamente dissipato questo tesoro non riuscendo a portare avanti nessuna delle riforme sociali promesse e lasciando che i comunisti avessero la meglio su tutte le questioni importanti (come i patti lateranensi). I socialisti italiani sono frustrati per altri motivi. Il demagogico Pietro Nenni, segretario del partito, continua a dirsi indipendente, ma rimane fedele alla linea dei comunisti. La scor-
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sa settimana ha spiegato a un giornalista statunitense che “i comunisti ci sono. Sarei molto felice se non ci fossero, o se avessimo un Partito comunista delle dimensioni di quello degli Stati Uniti. Ma non è questa la situazione, quindi dobbiamo lavorare insieme a loro”. I suoi stessi sostenitori hanno cominciato a definirsi “i comunisti di Nenni”. Dopo la scissione di gennaio, i socialisti dissidenti e anticomunisti di Giuseppe Saragat non hanno fatto grandi progressi. L’unico partito anticomunista che se l’è cavata bene è il neofascista Fronte dell’uomo qualunque di Guglielmo Giannini, che attira molti democristiani delusi e non nasconde la prevedibile ma disastrosa tendenza (la stessa che aiutò Hitler e Mussolini a prendere il potere) a combattere il comunismo con metodi totalitari. Che dire, invece, della forza anticomunista più potente del mondo, gli Stati Uniti? Il loro timido sostegno alla destra e al centro italiani ha dato gli strumenti ai comunisti (la cui propaganda mette sullo stesso piano fascisti e borghesi) per accusare Washington di voler rafforzare i reazionari italiani. A oggi, l’unico risultato significativo dei cento milioni di dollari dati in credito all’Italia per la ripresa, l’inverno scorso, è stato un accordo commerciale da cinque milioni sul tabacco. Gli italiani che, oltre al pane, si preoccupano di questioni come la dottrina Truman, non riescono a capire gli Stati Uniti: da una parte, Washington si oppone alle esose riparazioni di guerra imposte dalla Russia ai tedeschi e ha un atteggiamento deciso in Medio Oriente; dall’altra non sembra voler cambiare idea sul trattato di pace italiano, che rende l’Adriatico praticamente un lago jugoslavo e, su insistenza di Mosca, danneggia ulteriormente l’economia italiana.
Dunque l’unica speranza per l’Italia è il comunismo? Molti democratici italiani si rifiutano di accettarlo. Ritengono che gli Stati Uniti potrebbero aiutarli con prestiti più generosi, ammorbidendo i termini del trattato di pace e smettendo di appoggiare i reazionari italiani. Oltre a ciò, quello che oggi serve è il tipo di impegno morale attribuito a san Domenico da un suo biografo. Che le abbia pronunciate o meno, le parole del santo si possono leggere come un appello agli uomini di tutto il mondo che oggi devono affrontare la minaccia comunista. Quando – racconta la storia – i legati papali arrivarono in Francia, esibendo splendori e ricchezza, per aiutarlo a combattere gli eretici albigesi, san Domenico li ammonì: “Non è con la dimostrazione di potere e di sfarzo, cortei di servitori e destrieri riccamente addobbati, né con gli abiti sontuosi che gli eretici fanno proseliti. È con il fervore della predicazione, l’umiltà apostolica, l’austerità. Al fervore bisogna rispondere con il fervore, all’umiltà con l’umiltà, alla falsa santità con la vera santità, alla predicazione della falsità con la predicazione della verità. Bisogna seminare il buon seme mentre gli eretici seminano quello cattivo, gettare via quelle vesti sontuose, liberarsi di quei destrieri dalle gualdrappe colorate. Andare a piedi nudi, senza borsa né bisaccia, come gli apostoli. Superare per impegno e disciplina questi falsi maestri”. Oggi a Roma arde l’austero fuoco di san Domenico? La scorsa settimana, al Ristorante 57 di via Veneto, i camerieri tagliavano con sollecitudine i bordi duri delle omelette prima di servirle, mentre un concessionario di automobili raccontava di aver venduto 26 Alfa Romeo in una mattina, incassando 260mila dollari. u bt
Time è uno dei più autorevoli settimanali d’informazione statunitensi, pubblicato dal 1923.
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Alla guida dell’opposizione In Italia il partito di Togliatti ha scelto la linea della prudenza. Segue le regole della democrazia e aspetta gli eventi. Ma è difficile prevedere cosa farà se riuscirà ad arrivare al potere Hugh Trevor-Roper, The Observer, Regno Unito, 14 settembre 1947 L’aumento del potere russo è stato accompagnato in tutto il continente europeo dalla crescita del peso dei partiti comunisti. I comunisti dominano in Europa orientale, mentre in quella occidentale sono i partiti più grandi e hanno avuto accesso al potere, anche se non l’hanno mai monopolizzato. Qual è la loro forza, la loro organizzazione, la loro politica? Un’analisi della situazione in Francia e in Italia può fornire una risposta a queste domande. Le carceri sulle isole Il Partito comunista italiano ha avviato la sua storia postbellica con ottime credenziali antifasciste. Mentre troppi socialisti avevano seguito Mussolini, il nucleo del Partito comunista ha sempre preservato i suoi ideali, rafforzando le convinzioni e la dottrina durante il confino nelle carceri sulle isole. Là sono cresciute le cellule da cui sono emersi molti dei suoi leader attuali ed è lì che Antonio Gramsci
ha scritto le sue Lettere dal carcere, che sono diventate il vangelo del partito. Perciò, quando il potere di Mussolini ha cominciato a vacillare, i comunisti hanno fornito un nucleo organizzato della rivolta, pronto a dirigere un movimento molto più ampio. La resistenza italiana è stata un movimento nazionale, al quale hanno partecipato tutte le classi sociali. Ma i comunisti erano l’unico gruppo organizzato e sono stati loro a dirigerla. La loro funzione è stata riconosciuta dagli alleati e dagli altri partecipanti al conflitto, e in quel periodo molti idealisti si sono avvicinati al partito. Adesso che la fase della resistenza è finita e i suoi partigiani si sono dispersi, l’organizzazione comunista rivendica e sfrutta l’intera eredità di quel movimento. Sotto la guida di Palmiro Togliatti, tornato dalla Russia nel 1943 passando per l’Algeria, hanno costruito una macchina caratterizzata da una grande coesione ed efficienza interna. Togliatti è un uomo molto abile, forse il più
Italia, 1947. Alfred Eisenstaedt (The Life Picture Collection via Getty Images)
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abile dei comunisti dell’Europa occidentale. In Russia aveva preso il posto di Georgi Dimitrov come segretario del Comintern. Tornato in Bulgaria, Dimitrov è diventato il primo ministro del suo paese. Togliatti intende fare lo stesso in Italia. I contadini Il partito ha già due milioni e trecentomila iscritti e il suo quotidiano, l’Unità, ha una tiratura di mezzo milione di copie (che mira a portare a un milione). Il Partito comunista italiano si è rivolto alla gente. Anche nel paesino più sperduto, il parroco ha perso il monopolio politico, mentre la sede del partito, i suoi slogan, i suoi simboli chiedono a gran voce e con maggior successo il voto dei contadini. Per controllare l’Italia, il Partito comunista ha cercato e ottenuto il controllo di due componenti fondamentali della società: i sindacati e i contadini. La sua “colonizzazione” dei sindacati può essere paragonata a quella della resistenza: partendo da una cooperazione non politica, ha finito per dominarli completamente. Per convincere i contadini, i comunisti hanno dovuto cambiare tecnica. Nell’Italia meridionale e in Sicilia c’è un proletariato agrario affamato di terra che sembrerebbe maturo per abbracciare il comunismo, ma quei contadini analfabeti e superstiziosi sono difficili da conquistare. I comunisti hanno quindi rivolto la loro attenzione non tanto a questi poverissimi proletari quanto ai più agiati mezzadri [in italiano nel testo] dell’Italia centrale e della valle del Po. E lì le cose sono andate molto bene. Come spiegare questo successo? La risposta è semplice. Arruolare i mezzadri era importante, e per riuscirci il partito ha pagato un prezzo. Ha rinunciato alla dottrina della collettivizzazione (così come i russi l’hanno abbandonata nei territori della Prussia) e gli ha promesso una percentuale più alta del raccolto a spese dei proprietari terrieri. Può essere
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una politica antieconomica, ma è facile da promettere. E ha fatto guadagnare voti ai comunisti. Basando la sua forza sui sindacati e sui contadini, il Partito comunista ha cercato di indebolire i suoi avversari. I più pericolosi sono i socialisti, che potrebbero sedurre gli operai, e i democristiani, che gli contendono invece il sostegno dei contadini e della piccola borghesia. I socialisti sono stati già sconfitti. Con la stessa tecnica usata in Germania Orientale e altrove. Il loro partito si è spaccato e la sinistra, guidata da Pietro Nenni, oggi vota insieme ai comunisti, mentre la destra di Giuseppe Saragat è ridotta a una minoranza senza potere. Con i democristiani, invece, i comunisti non hanno ancora avuto successo. Da aprile il partito di Alcide De Gasperi governa con successo, riscuotendo le simpatie di tutto l’occidente. Dato che entrambi i partiti hanno fatto appello alle stesse classi sociali, è difficile che si dichiarino apertamente guerra. Questo emerge chiaramente dai discorsi di Togliatti. Quando i comunisti sono stati esclusi dal governo, qualcuno ha profetizzato che sarebbero saliti sulle barricate. Ma Togliatti l’ha smentito con sdegno. Il suo partito non ha bisogno di suicidarsi, ha detto, è abbastanza forte da aspettare. Raccoglierà i voti dei contadini, degli operai e degli elementi più “democratici” della borghesia e andrà al potere legalmente. Togliatti non attacca neanche la Democrazia cristiana: ci sono molti militanti “democratici” di quel partito che potrebbero essere conquistati al comunismo, mentre i suoi leader stanno diventando sempre più “reazionari” e si stanno vendendo all’occidente capitalista. La stessa vaghezza caratterizza l’atteggiamento dei comunisti nei confronti della chiesa. Gli italiani non sono un popolo inflessibile e dogmatico, la loro mente può abbracciare con facilità (e senza intima convinzione) idee diverse e incompatibili tra loro. Perciò il co-
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munismo italiano non è apertamente anticlericale, e Togliatti è sempre ben attento a sottolineare che non c’è nessun bisogno di scegliere tra il partito e la chiesa. Un gioco d’attesa Per il momento, quindi, i comunisti italiani sono tranquilli. Non possono attaccare la politica estera del governo senza smentire la loro tanto vantata “indipendenza”, e non possono augurarsi apertamente una crisi economica che potrebbe portarli al potere a spese del paese. Di conseguenza devono giocare d’attesa e sperare che la loro tattica funzioni. Ma una volta arrivati al potere, cosa farebbero? Ed è qui che chi prova a indagare rimane più sorpreso. Il Partito comunista, nonostante tutto il suo dinamismo, non ha una politica, solo slogan e promesse impossibili da mantenere. La divisione delle grandi proprietà terriere in Sicilia non ha senso senza un programma di opere pubbliche che nessuno ha ancora concepito. L’aumento dei guadagni dei mezzadri sarebbe economicamente disastroso senza una riforma della burocrazia che non è stata ancora contemplata. Il partito non ha tecnici esperti né un ufficio statistico né progetti per
Hugh Trevor-Roper (1914-2003) è stato uno storico britannico, specializzato nello studio del cinquecento e della Germania nazista.
quanto riguarda la valuta e la finanza. Queste cose, spiega, si risolveranno da sole quando saremo al potere. A quel punto, senza dubbio, i comunisti italiani aspetteranno ordini. E quali potrebbero essere questi ordini? L’analogia con l’Europa orientale potrebbe non essere del tutto corretta, ma è significativa. Lì i partiti comunisti sono andati al potere, promettendo “democrazia”, come partner di maggioranza di coalizioni aperte e poi hanno finito per schiacciare prima i partiti contadini loro rivali e poi i socialisti che non si sono lasciati assorbire. Non è detto che i comunisti italiani arrivino al potere, questo dipenderà in larga misura dalle condizioni economiche del paese e dal successo o dal fallimento del piano Marshall. In Italia i comunisti non hanno alle spalle un esercito, come succede nei paesi dell’est. Ma se riusciranno a conquistare il governo, si capirà che oltre alle promesse non hanno un programma politico. Quello che faranno non può essere dimostrato, ma solo dedotto. E quello che si deduce è incompatibile con le promesse del partito e con le convinzioni dei suoi ideologi. Chi crede nelle loro promesse rischia di rimanere deluso. u bt
The Observer è un periodico domenicale britannico. È stato fondato a Londra nel 1791.
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Washington ha paura Alla vigilia delle prime elezioni repubblicane, gli Stati Uniti temono che una vittoria dei comunisti possa consegnare l’Italia ai sovietici. Ma i rischi sono elevati anche per Mosca Joseph e Stewart Alsop, New York Herald Tribune, Stati Uniti, 30 marzo 1948 Per il segretario di stato americano George C. Marshall e i suoi collaboratori l’attuale crisi è “molto, molto seria”. Questa valutazione deriva anche dalla convinzione che il leader sovietico Iosif Stalin possa aver messo in moto delle forze che non è più in grado di controllare. Gli esperti sono convinti quasi all’unanimità che Stalin non abbia alcun desiderio di scatenare una guerra contro gli Stati Uniti. Eppure, dopo la fine del conflitto mondiale, l’aggressiva politica stalinista in un certo senso ha spinto lo stesso leader sovietico (e con lui il mondo intero) in una trappola. La natura di questa trappola è illustrata da ciò che sta accadendo e da ciò che potrebbe accadere in Italia. Marshall ha messo in chiaro che il paese non riceverà ulteriori aiuti se i comunisti arriveranno al governo. Questo significa che se il leader comunista Palmiro Togliatti dovesse salire al potere sarebbe immediatamente costretto ad affrontare una catastrofe economica. Per gestire la si-
tuazione Togliatti avrebbe un’unica possibilità: istituire una spietata dittatura. Come ha sottolineato un osservatore, Togliatti “avrà molte più bocche da sfamare di quante ne possa effettivamente nutrire. E l’unica cosa che potrà fare sarà chiuderle”. Togliatti è perfettamente consapevole della situazione, tanto da aver ammesso con un giornalista che se gli Stati Uniti tagliassero gli aiuti all’Italia una dittatura sarebbe inevitabile. Tuttavia, una dittatura abbastanza brutale da “tappare” milioni di bocche affamate sarebbe impossibile da realizzare senza una guerra civile. E come ha già sottolineato questo giornale, una guerra civile in Italia potrebbe facilmente allargarsi fino a diventare una guerra totale tra oriente e occidente. Secondo un osservatore affidabile appena rientrato dall’Italia, Togliatti ha un piano per affrontare questo rischio. Se il fronte controllato dai comunisti dovesse ottenere più del 40 per cento dei voti, probabilmente renderebbe
Roma, 1948. Walter Sanders (The Life Picture Collection via Getty Images)
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impossibile il funzionamento di un governo non comunista. Si aprirebbe, a quel punto, un periodo di caos. E questo spingerebbe l’affabile ma debole presidente italiano, Enrico De Nicola, ad affidare a Togliatti l’incarico di formare un esecutivo. Togliatti, secondo il piano, sorprenderebbe il mondo con la sua apparente moderazione, e potrebbe non chiedere neanche un ministero per i comunisti. Il governo sarebbe invece composto da anziani “intellettuali” antifascisti come Francesco Saverio Nitti. Per i comunisti Togliatti chiederebbe solo posti di secondo piano, magari i sottosegretariati all’interno, alla giustizia e alla guerra. Questi incarichi apparentemente irrilevanti sarebbero affidati a giovani ed entusiasti comunisti che naturalmente finirebbero per conquistare il vero potere all’interno dei ministeri. La scelta americana È ovvio che questa manovra di facciata non ingannerebbe i politici statunitensi, che si troverebbero però davanti a una scelta difficile: sospendere subito gli aiuti all’economia italiana, in base all’idea che i sussidi serviranno solo a ingrassare il paese fino a quando Togliatti non deciderà di prendere in mano la situazione? Oppure continuare a versarli, nella convinzione che la semplice minaccia di cancellarli possa servire da garanzia per evitare un golpe come quello cecoslovacco? Entrambe le scelte presentano un rischio spaventoso: quello di una sconfitta strategica del mondo occidentale nella sfida con i sovietici. La caduta dell’Italia significherebbe la caduta di tutta l’Europa e del Medio Oriente. I rischi, tuttavia, sono altrettanto elevati per Stalin. Dopo il discorso pronunciato dal presidente Harry Truman davanti al congres-
Joseph (1910-1989) e Stewart (1914-1974) Alsop sono stati due giornalisti statunitensi.
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Dal 1945 al 1958 hanno tenuto insieme una column sul New York Herald Tribune.
so statunitense, il Cremlino deve capire che l’allargamento del dominio sovietico all’Italia porterebbe con sé il pericolo di una guerra. Nessuno può sapere cosa ci sia nella mente degli uomini che siedono al Cremlino, ma le persone più competenti per esprimere un giudizio credono che gli obiettivi di Mosca in Europa siano principalmente due. Il primo è il consolidamento del potere nell’Europa orientale, in modo che il piano Marshall non possa fungere da magnete per attirare la regione fuori dalla morsa sovietica. Il secondo è la demolizione del piano al punto tale che l’Europa occidentale non possa riprendersi abbastanza da liberarsi dalla minaccia del dominio sovietico, attraverso quella che Truman chiama “aggressione interna”. Stalin preferirebbe raggiungere questi obiettivi senza una guerra. Non c’è dubbio sul fatto che il leader sovietico apprezzerebbe l’ingresso dell’Italia nella sfera di Mosca, ma è improbabile che possa consapevolmente rischiare una guerra per ottenere il risultato. Cosa può fare quindi Stalin? L’aggressione politica che ha scatenato in Europa non è semplice quanto un’aggressione militare. Non si tratta di ordinare ai soldati di avanzare o ritirarsi. E anche se Stalin potesse ordinare a Togliatti di fermarsi, farlo significherebbe danneggiare i comunisti e di conseguenza il potere sovietico nel mondo non-sovietico. A sua volta questo indebolimento comprometterebbe la capacità dei sovietici di colpire il piano Marshall. E un successo del programma di rilancio dell’Europa minaccerebbe l’intero impero sovietico in Europa orientale. Questa è la tragica trappola in cui l’aggressiva politica stalinista del dopoguerra ha spinto l’anziano dittatore del Cremlino. u as
Il New York Herald Tribune è stato un quotidiano statunitense, fondato nel 1924 dalla
fusione tra il New York Tribune e il New York Herald. È uscito fino al 1966.
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KURT HUTTON (PICTURE POST/HULTON ARCHIVE/GETTY IMAGES)
Nella borgata di Pietralata, Roma, 1948
Operai, 1948
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HULTON-DEUTSCH COLLECTION/CORBIS VIA GETTY IMAGES
Tre proiettili contro il Migliore
KEYSTONE/HULTON ARCHIVE/GETTY IMAGES
Il 14 luglio 1948 a Roma uno studente siciliano spara a Palmiro Togliatti. Il leader comunista si salva. Ma nelle città italiane scoppiano proteste e violenze. E molti puntano il dito contro il clima d’odio che si respira nel paese Franc-Tireur, Francia, 15 luglio 1948
La polizia ferma manifestanti comunisti, Italia, 19 luglio 1948
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L’odioso attentato di Roma ha suscitato in Italia e in tutto il mondo una viva emozione che non accenna a scemare. Togliatti è ormai fuori pericolo. E ora questa è la cosa più importante. Ma c’è un altro pericolo, quello rappresentato da un anticomunismo trasformato in arma da guerra civile e da guerra tout court. Indipendentemente dal fatto che il giovane fascista siciliano arrivato a Roma per uccidere il leader comunista sia un pazzo o una mente lucida, il suo gesto sarebbe stato impossibile senza una campagna di esaltazione dell’opinione pubblica. L’indignazione manifestata dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi e dal ministro dell’interno Mario Scelba non può far dimenticare ai lavoratori italiani che alla vigilia dell’attentato la polizia e l’esercito erano mobilitati per impedirgli di gridare tutta la loro disperazione e la loro fame. E quando gli operai comunisti sono trattati come “separatisti” e si “discute” con loro usando i manganelli e i blindati, allora è inevitabile che partano i colpi di pistola. A Parigi e a Roma si farebbe bene a meditare su questa tragica lezione. Charles Ronsac Il popolo reagisce Per telefono dal nostro corrispondente Georges Barrère. Roma , 14 luglio. La notizia dell’attentato a Togliatti si è diffusa a Roma con una rapidità incredibile. Già nelle prime ore dopo l’attentato, sono cominciati gli incidenti nelle vie del centro. Davanti alla Galleria Colonna i manifestanti fermavano gli autobus e le auto mettendole di traverso su via del Corso in modo da bloccare il traffico. Poco dopo è arrivata la “celere” e gli agenti hanno cominciato a smantellare le barricate. Il clima è molto teso perché, con l’attentato a Togliatti, l’intero Partito comunista sente confusamente di essere preso di mira. E tutte le discussioni ruotano intorno a questa idea. Questo pomeriggio la reazione popolare è
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stata ancora più massiccia. Piazza Colonna, nel centro di Roma, era invasa da migliaia di lavoratori, mentre le jeep della polizia si schieravano davanti a Montecitorio, sede del parlamento, difeso anche dall’esercito in armi. Lo sciopero generale, decretato dai sindacati, ha richiamato un gran numero di persone. Le vie che portano a piazza Colonna sono bloccate da una vera e propria barriera umana: operai sdraiati sull’asfalto, migliaia di biciclette a formare barricate improvvisate, sanpietrini divelti e ammucchiati per le strade. Fa molto caldo, è la prima giornata afosa di un’estate arrivata tardi. Operai e impiegati in maniche di camicia sono all’erta in mezzo alla strada. Dalla fontana ai piedi della famosa colonna Traiana, dove si possono ammirare in spirale le gesta dell’omonimo imperatore romano, ragazzi mezzi nudi gettano acqua sulla piazza per rinfrescare la gente e portano acqua da bere alla folla. Ma in questa moltitudine non ci sono solo i comunisti. Anche i socialisti e i repubblicani mostrano cartelli con su scritto “Dimissioni! Dimissioni!”, “Ecco quello che ci ha portato il 18 aprile!”, “Basta!”. “Il governo ha alimentato l’odio!”, dice un tranviere. “Ecco dove ci ha portato un’accanita campagna anticomunista durata mesi!”. Nel pomeriggio, al senato, nel corso di una seduta appassionata, tra le grida di “Assassini! Assassini!” lanciate dalla sinistra contro la destra, il ministro dell’interno Scelba, spesso bersaglio della rabbia del Fronte popolare, è oggetto di un attacco molto violento. I commessi faticano a impedire ai senatori di sinistra di scagliarsi contro di lui. Il senatore socialista Sandro Pertini gli grida: “Voi siete complici!”. L’attentato è stato compiuto da un giovane fascista esaltato, su questo non c’è dubbio, ma in un clima propizio a questo tipo di azioni. Dopo le elezioni del 18 aprile nell’opinione pubblica italiana si è verificata una rottura netta: la situazione internazionale, che tende
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sempre più a dividere il mondo in due blocchi ostili, ha favorito la spaccatura anche in Italia. Dopo il 18 aprile una campagna anticomunista con caratteristiche fasciste ha spesso oltrepassato i limiti del blocco democristiano, e si è sviluppata una psicosi da stato d’assedio, accompagnata da aspre polemiche. La stampa borghese ha cominciato a gridare vittoria e a chiedere, in modo più o meno velato, la messa al bando del comunismo; l’odio è cresciuto e negli ultimi giorni ha trovato un combustibile efficacissimo nelle discussioni avviate in parlamento sui prigionieri di guerra italiani non ancora rientrati dalla Russia. La questione jugoslava, infine, ha contribuito a gettare benzina sul fuoco, eccitando gli uni e inquietando gli altri. Tra discorsi e articoli di giornale, un dibattito già molto acceso, in cui si sono sentite perfino minacce di morte, si è fatto sempre più duro. E dalle parole si è passati ai fatti di sangue. Questa potrebbe essere una delle spiegazioni dell’attentato. Bisogna riconoscere, però, che il governo De Gasperi ha cercato di riportare la calma, affermando la sua volontà democratica di garantire la pace nel paese. È evidente che il partito democristiano farà di tutto per respingere le accuse lanciate dall’estrema sinistra. Il leader socialista Pietro Nenni ha riconosciuto la buona fede di De Gasperi, ma ha attribuito al suo governo la responsabilità politica e morale dell’attentato. Responsabilità politica e morale, provocazione: questi sono i capi di accusa che lancerà il Partito comunista in tutto il paese.
Manifestazioni e incidenti Roma 14 luglio. Questa sera la Cgil ha convocato uno sciopero generale in tutto il paese per protestare contro l’attentato di cui è stato vittima il segretario generale del Pci Palmiro Togliatti. Nel pomeriggio, nella capitale i trasporti erano bloccati, i negozi chiusi e la stampa dei giornali sospesa. I ferrovieri di Roma si sono uniti al movimento, anticipando lo sciopero nazionale già indetto per il giorno successivo per rivendicazioni salariali. Lo sciopero sta avendo particolare successo a Milano, Genova e Torino. In quest’ultima città gli operai hanno occupato le fabbriche più importanti. Anche la Camera del lavoro di Milano ha dato l’ordine di occupare tutte le industrie della città e della provincia. Ovunque sono in corso grandi manifestazioni, ufficialmente vietate dal governo. Per questo sono scoppiati incidenti e ci sono già morti e feriti. A Livorno la folla avrebbe disarmato la polizia e si contano un morto e due feriti. La vicina città di Piombino è nelle mani dei comunisti, che avrebbero deciso di istituire un “comitato di emergenza”. Si segnalano degli incidenti anche a Prato e a Firenze. Secondo un primo bilancio i morti sarebbero cinque: due a Napoli (un comunista e uno studente universitario), un comunista a Taranto, un fascista a Pisa e un poliziotto a Livorno. Le manifestazioni a Roma hanno fatto una decina di feriti . In tutto il paese i feriti sarebbero circa una cinquantina. I gruppi parlamentari comunista e socialista hanno presentato una mozione di sfiducia e chiesto le dimissioni del governo e l’immediata sostituzione del ministro Scelba. u adr
Fondato nel 1941, Franc-Tireur è stato uno dei più importanti giornali della resistenza francese, pubblicato anche dopo la liberazione. L’ultimo numero è uscito nel 1957.
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Parole di rabbia
MONDADORI PORTFOLIO
Sulla stampa sovietica l’attentato a Togliatti solleva un’ondata d’indignazione e solidarietà. La reazione degli operai della fabbrica Dinamo di Mosca e un commento da Kiev Pravda, Unione Sovietica, 16–17 luglio 1948
Una manifestazione dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, Roma, 15 luglio 1948
Boris Polevoj (vero nome Boris Kampov, 1908– 1981) è stato uno scrittore e giornalista sovietico.
Mikola Bažan (1904–1983) è stato un poeta, scrittore e politico sovietico, di nazionalità ucraina.
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Boris Polevoj, 16 luglio 1948, Mosca Fin dal primo mattino, molto prima dell’arrivo dei giornali freschi di stampa, la fabbrica moscovita Dinamo era già stata sconvolta dalla grave notizia arrivata dall’Italia e trasmessa alla radio durante la notte. Nei corridoi, negli spogliatoi, sulle porte dei reparti invece delle consuete battute tra gli operai rimbalzava la stessa domanda – “Avete sentito? Una canaglia ha sparato al compagno Togliatti!” – immancabilmente seguita da una risposta densa di rabbia, non priva di espressioni colorite rivolte agli agenti fascisti. L’attentato compiuto da un criminale fascista contro uno dei più amati condottieri comunisti è stato il tema principale delle conversazioni tra gli operai in tutta la giornata di ieri. Gli agitatori hanno dato lettura del telegramma di Stalin diretto al comitato centrale del Partito comunista italiano, del messaggio da Roma, del bollettino sulle condizioni di salute del compagno Togliatti. Nell’infermeria della fabbrica per tutta la giornata è stato un viavai di persone che cercavano di informarsi presso le infermiere e i medici sull’entità e sulla gravità delle ferite riportate da Togliatti. Qui, in una delle fabbriche più antiche di Mosca, in queste ore abbiamo potuto vedere un grandioso esempio dell’inestinguibile forza della solidarietà internazionale del proletariato: ogni operaio esternava la rabbia che gli colmava il cuore, pronunciava parole di partecipazione nei confronti degli operai italiani, e sferzanti parole d’odio e disprezzo contro le forze reazionarie. Al suono delle campanelle per la pausa pranzo gli operai si univano in gruppi. Gli oratori prendevano la parola da soli e, salendo su tavoli o sgabelli, manifestavano i propri sentimenti, provocati dal mostruoso delitto degli agenti reazionari. Ha parlato anche Ivan Dmitrevič Machovskij, caporeparto anziano, rispettato da tutti e capace di far superare al suo reparto gli indici di produttività settimana dopo settimana. Commosso e con la voce bassa ha dichiarato: “Non so trovare le
parole adatte, poiché non ce ne sono, per far sentire tutta la nostra indignazione causata dall’attentato al compagno Togliatti. Chi ieri ha sentito la notizia alla radio non ha dormito tutta la notte, tanto forte è stata l’emozione. Dico bene?”. Poi, tacendo, ha abbracciato con gli occhi il suo auditorio. Da ogni lato echeggiava la risposta: “Il nemico ha puntato al cuore del partito comunista”. Al che il caporeparto ha continuato: “Dite bene, ha puntato proprio al cuore del partito comunista, ha puntato al movimento operaio, ha puntato alla libertà e alla democrazia. Ma ha fatto male i conti, vile furfante. Il suo sparo non indebolisce il Partito comunista italiano, non intimorisce la classe operaia italiana. In risposta allo sparo di questo mostro a due gambe tutte le persone oneste d’Italia si stringono intorno al partito comunista. Propongo, compagni, di unire anche la nostra voce di partecipazione a quella degli operai italiani e di gridare insieme a loro la nostra indignazione contro la scelleratezza fascista, già espressa nel telegramma del comitato centrale del Partito bolscevico, firmato dal compagno Stalin”. Gli operai della fabbrica Dinamo hanno caldamente appoggiato la proposta del caporeparto. Un vecchio funzionario della fabbrica, Sergej Vasilevič Frantov, alla Dinamo da 33 anni, conversava con i giovani arrivati da poco nel reparto. “La nostra fabbrica porta il nome di Sergej Mironovič Kirov”, ha detto. “Decidemmo di chiamarci così quando questo straordinario bolscevico fu colpito a morte dalla pallottola di un traditore della patria, agente delle forze reazionarie mondiali. Ricordo che in quei giorni tutti gli operai sovietici si strinsero con ancor più forza intorno ai bolscevichi. Noi prendemmo il nome di Kirov e ci ripromettemmo di lavorare ancora di più. Iniziammo a dare ancora più forze alla nostra patria. Io penso che, in risposta agli spari di quel mostro, agiranno così anche i comunisti italiani e tutti gli italiani onesti. Non c’è niente che gli assassini fascisti possano fare per intimidire un cuo-
Nella pagina accanto: la sede del Pci a Milano, luglio 1948. (Keystone-France/Gamma-Rapho via Getty Images)
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re comunista forgiato dalla lotta. E come noi ci stringemmo nel 1934, impegnandoci nell’edificazione del socialismo, così, oggi, gli operai italiani si stringeranno intorno al partito comunista per lottare contro i resti del fascismo, per il bene della democrazia”. Dopodiché ha preso la parola la migliore stacanovista dell’officina, Tatjana Nikolaevna Rodnova: operaia straordinaria, i cui indici di produttività sono del 250-300 per cento. “Adesso vorrei stringere la mano a tutti i comunisti italiani, stringerla e dire: siate vigili, compagni, seguite con circospezione gli intrighi delle forze reazionarie, circondate i vostri condottieri come l’occhio fa con la pupilla”. Tali sentite parole si potevano udire in tutti i reparti della fabbrica. Sul tavolo del segretario del comitato del partito c’è una grossa pila di carte scritte da mani diverse. Sono le risoluzioni prese nei diversi reparti e settori. Esse contengono parole di rabbia sgorgate dal cuore e dall’anima degli operai della fabbrica più vecchia di Mosca. Il collettivo della fabbrica Dinamo unisce la propria indignata voce al telegramma del comitato centrale del Partito bolscevico, esprime la sua fraterna solidarietà ai lavoratori italiani e s’impegna a rafforzare con le imprese stacanoviste il baluardo dell’umanità avanzata: l’Unione Sovietica. Sono uscito dalla fabbrica a mezzanotte. I dibattiti sono andati avanti anche nel turno della notte. La pila di lettere sul tavolo del segretario del partito continuava a crescere. Mikola Bažan, 17 luglio 1948, Kiev L’efferato attentato alla vita del condottiero della classe operaia e di tutti i lavoratori d’Italia, il compagno Palmiro Togliatti, ha riempito di rabbia il cuore dei lavoratori di tutti i paesi, di tutte le nazioni. Questa efferatezza è il frutto della politica criminale del governo reazio-
nario di De Gasperi, il cui scopo è soffocare nel sangue la lotta per la libertà, per l’indipendenza, per i diritti, per la vera democrazia del popolo operaio italiano. Questa efferatezza è il frutto della politica criminale dei reazionari anglo-americani, del loro sfacciato e sanguinoso intervento nella vita del popolo italiano, dei tentativi delle forze fasciste di schiacciare e intimidire la classe operaia italiana. Ma non ce l’hanno fatta! Gli spari al compagno Togliatti hanno infuocato di una sacrosanta rabbia i cuori di tutta l’umanità avanzata. Gli amici di Togliatti, purtroppo, non hanno potuto evitare che il vile attentato avesse luogo. Ciò significa che è necessario essere ancor più vigili, ancor più uniti, pronti a respingere i vili e sleali attacchi del nemico, sferrati contro i combattenti per la libertà, per la pace, per la nuova democrazia, sul campo di battaglia di tutta l’umanità progredita e lavoratrice, guidata dai migliori figli e figlie di tutti i popoli, dalle menti luminose e dai cuori audaci di tutti i popoli: i comunisti. L’imperialismo ricorre ai metodi più vili per impedire l’ineluttabile vittoria della classe operaia. Ma il fronte democratico è sempre più attivo. E la classe operaia di tutto il mondo si stringe con ancor più forza intorno all’invincibile bandiera del comunismo. Il popolo italiano vendicherà l’attentato alla vita del suo condottiero più amato, Palmiro Togliatti. Con ancor più decisione intraprenderà la strada su cui il compagno Togliatti l’ha condotto e lo condurrà: la strada della felicità, dell’indipendenza e della libertà. Salutiamo il nostro amato compagno Palmiro Togliatti! I lavoratori del mondo gli augurano di tornare presto in salute e in forze per vincere la battaglia contro i nemici dell’umanità: la cricca degli imperialisti e dei reazionari, con i loro servi e mercenari. u ab
La Pravda è un quotidiano russo. Fondato nel 1912, fino al 1992 è stato l’organo del Pcus. Oggi è legato al Partito comunista della Federazione Russa.
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Portfolio Ufficio propaganda Testo di Andrea Rauch Fino alla caduta del fascismo le attività del Pci, anche quelle comunicative e propagandistiche, si erano mosse in clandestinità, con le ovvie difficoltà di reperire carta, inchiostri, macchinari di stampa, ma anche con la consapevolezza che le urgenze erano altre. Dopo il 1945 il partito opera alla luce del sole e la strategia di comunicazione, anche grafica, diventa essenziale per capire e farsi capire. Ci si lega strettamente al contesto, a ogni contesto, e i “grafici compagni”, come ebbe a dire Gianni Trozzi, si trovano in equilibrio tra la socialità e la “cultura del progetto”, tra politica e pratica professionale. Il Pci non opera mai una scelta precisa di linguaggio stilistico ma resta sempre legato, anche in presenza di fior di professionisti come Albe Steiner, Luigi Veronesi, Remo Muratore, ma poi anche Giulio Cesare Italiani, Luciano Prati e Bruno Magno, all’hic et nunc, a una, cento, mille idee della grafica, capaci di parlare alla collettività e di interpretarne le esigenze. La complessità delle proposte, e anche una certa caoticità, ci dicono delle singole diversità locali e dei modi in cui, nell’Italia dei mille comuni, si interpretava la lotta politica anche quando la “linea” arrivava dal centro e tendeva a uniformare il linguaggio, rendendo “tutti i gatti bigi”.
Andrea Rauch è un designer e illustratore. Ha curato la grafica di istituzioni come la
Biennale di Venezia, il Centre Georges Pompidou e l’Unione dei Teatri d’Europa, e di
movimenti politici e d’opinione, tra cui Greenpeace e Unicef.
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Campagna per la stampa comunista, 1954, V. Landi
Non mangiate questa zuppa, 1956–1958
Iscrivetevi al Pci, 1958
Fanfani: “Perdinci, in 40 anni sono arrivati alle stelle!”, 1957
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
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FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA) FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
Per cambiare le cose diventa comunista, 1960–1979, Giulio Cesare Italiani Johnson è ora di lasciare il Vietnam, 1967–1968
Auguri di pace, 1963, Albe Steiner Giovani, il Pci è l’avvenire della Sicilia, 1971, Renato Guttuso
Con i comunisti, 1966, Albe Steiner
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
Spettacoli, 1980, Marco Caroli
Le immagini sono state concesse dal sito manifestipolitici.it, banca dati open access della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (Bologna)
1921–1981, 60 anni di lotte, 1981, Marco Caroli
L’eroina non cade dal cielo, 1982, Claudio Gualandi
Senza la legge, 1981
1945-1985. Resistenza e liberazione, 1985, Bruno Magno
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
FONDAZIONE GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA (BOLOGNA)
A piccoli passi I comunisti sono usciti dalla guerra e dal fascismo come una delle principali forze politiche del paese. Ma nonostante il loro programma radicale, hanno scelto una tattica gradualista e molto cauta Pierre Frédérix, Le Monde, Francia, 7 dicembre 1951
Gli italiani dicono spesso che quando il fascismo è crollato, le due uniche forze pronte a emergere dal caos del paese erano il cattolicesimo e il comunismo. Una semplificazione intrigante, ma pur sempre una semplificazione. E infatti alle elezioni del giugno 1946 i comunisti erano il terzo partito italiano (con 4,3 milioni di voti, cioè il 19 per cento del totale). Davanti a loro non c’erano solo i democristiani (otto milioni, 35 per cento) ma anche i socialisti (4,7 milioni, 20 per cento). Aggiungiamo inoltre che gli iscritti al Partito comunista al momento della caduta di Mussolini erano solo cinque o seimila. Il Partito comunista italiano ha approfittato più degli altri della reazione antifascista del paese, diventando, con 2,5 milioni di tesserati, la più grande forza comunista dell’occidente. Sulla base dei risultati delle ultime elezioni provinciali i comunisti rappresentano almeno il 23 per cento dell’elettorato nazionale, probabilmente anche di più.
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Due ragioni impediscono però di avere dati più precisi. La prima è che i risultati delle elezioni provinciali (parziali, poiché non hanno interessato l’Italia meridionale) non ricalcano esattamente quelli del voto politico. La seconda – molto più importante – è l’incertezza di buona parte dell’elettorato socialista. La posizione di Nenni Nel Partito socialista italiano che si è presentato alle elezioni del giugno 1946 l’ala destra era guidata da Giuseppe Saragat e la sinistra da Pietro Nenni. La rottura ha avuto luogo nel dicembre successivo. Dei 4,7 milioni di socialisti, quasi 1,9 milioni hanno seguito Saragat e hanno formato un nuovo partito, che dopo aver cambiato diversi nomi è diventato l’equivalente italiano della Sfio (Sezione francese dell’Internazionale operaia) e del Labour party. L’ala nenniana, invece, non si è fusa con il Partito comunista – come sarebbe successo in qualunque altro paese occidentale – ma ha
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Pietro Nenni al Palatino, Roma, 1944. John Phillips (The Life Picture Collection via Getty Images)
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mantenuto il vecchio nome di Partito socialista italiano, presentandosi però in liste comuni con il Pci. Questo spiega l’esistenza in Italia di una massa di circa tre milioni di elettori che, tra l’internazionale stalinista e quella laburista, occupano uno spazio politico che in paesi come Francia, Belgio o Regno Unito è vuoto o occupato al massimo da un piccolo gruppo di intellettuali. Perché i nenniani non si sono uniti ai comunisti? Tra le ragioni proposte, una sola mi sembra plausibile: il desiderio di non essere trascinati in una guerra al servizio della Russia. E perché, allora, sono contro i saragattiani? La risposta è semplice: da un lato il motivo sta nell’ingombrante personalità di Nenni, “vecchio rivoluzionario” e grande oratore popolare, che non può sopportare l’idea di non trovarsi all’estrema sinistra; dall’altro le circostanze in cui si trova l’Italia. Di fatto molti socialisti italiani che sostengono Nenni considerano ancora come un tradimento qualsiasi partecipazione ai governi borghesi. Ma questa posizione potrà continuare a essere sostenuta a lungo? Ne dubito. I nenniani hanno a loro volta un’ala destra che due anni fa, sotto la guida di Riccardo Lombardi, ha rischiato di provocare una defezione di massa verso il partito di Saragat. Alle elezioni del 1953 probabilmente la maggioranza dei nenniani si rifiuterà di fare lista comune con gli stalinisti. In caso di una grave crisi internazionale è difficile pensare che il Psi possa resistere. Quanti nenniani entrerebbero nel Pci? Un milione? In ogni modo il numero degli elettori comunisti aumenterebbe. Il papa e il re Per il momento i comunisti non vogliono mettere in difficoltà un partito che sono riusciti a infiltrare e il cui leader proclama che l’unità di azione con il comunismo è “la condizione principale della lotta per la democrazia”. La corrente dissidente di Cucchi e Magnani – una sorta di titoismo italiano a cui la stampa stra-
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niera ha dato grande risalto – ha sottratto al comunismo ortodosso solo pochi iscritti. Il Partito comunista è solido e beneficia delle difficoltà nelle quali si dibatte l’Italia. Inoltre sa destreggiarsi bene tra i pericoli che minacciano di dividerlo. Palmiro Togliatti non sarebbe uno dei principali leader comunisti europei se non denunciasse di tanto in tanto le debolezze ideologiche del suo partito e se non seguisse, almeno in linea generale, le direttive di Mosca. Sembra, tuttavia, che abbia sempre abbastanza autorità per far capire ai capi supremi della sua internazionale che la situazione e la psicologia italiane richiedono alcuni compromessi. Nel 1945, mentre diversi partiti italiani chiedevano l’abdicazione del re (anche i democristiani erano piuttosto favorevoli alla repubblica), il leader comunista sembrava disposto ad accettare un regime monarchico. Il Pci si è pronunciato per la repubblica solo dopo che le elezioni amministrative del 1946 ne avevano preannunciato il successo: una presa di posizione che ha rischiato di compromettere tutto. Da qui deriva anche la nuova manovra di Togliatti, che ha fatto votare l’amnistia ottenendo così il sostegno di un buon numero di ex fascisti al progetto repubblicano adottato dai comunisti. Un altro aspetto curioso riguarda la religione. Se infatti il cattolicesimo apostolico romano rimane l’unica religione di stato in Italia, lo deve proprio al Partito comunista italiano. Sono stati i comunisti che, sostenendo i democristiani contro i socialisti, i repubblicani e gli altri partiti laici, hanno permesso di integrare i patti lateranensi nella costituzione della repubblica italiana. L’articolo in questione è stato votato nel marzo 1947 con la benedizione del Pci. Alcune settimane dopo i ministri comunisti erano fuori dal governo. Si può pensare che Togliatti sia stato “ingannato” dal Vaticano, tuttavia non se n’è mai lamentato apertamente. Per i comunisti italiani il Vaticano è una
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“potenza straniera”. Per il Vaticano i comunisti sono i “nemici della fede”. Come sappiamo, il sant’uffizio, dopo aver esitato a lungo, ha deciso nel luglio 1949 di condannare il comunismo ateo. Ma basta farsi un giro nelle città e nei paesi d’Italia per convincersi che questa battaglia verbale non ha cambiato nulla nei fatti e nella mentalità delle persone. Centinaia di preti sono stati massacrati durante la guerra civile in Spagna. Al contrario se i partigiani italiani ne hanno ucciso qualcuno tra il 1944 e il 1945, si tratta di casi isolati. Il clero italiano si era schierato contro il fascismo abbastanza presto, così da trovarsi dalla parte giusta durante la liberazione. In Italia il prete fa parte del paesaggio. Possiamo forse criticarlo per questo? E poi, dove sono gli atei italiani? Nessuno lo sa né vuole saperlo. E gli anticlericali? Molto più numerosi tra i repubblicani e i socialisti che tra gli stalinisti. Un operaio muore “vittima del capitalismo”, e i comunisti del posto mettono il suo ritratto sul catafalco tra due crocefissi. Nei quartieri rossi è impossibile vedere un solo lumino spento davanti a un’immagine sacra. Tutt’al più capita che un militante di estrema sinistra si sposi civilmente. Un’eccezione che peraltro continua a stupire. Nella mentalità degli italiani le due chiese coesistono. E si trattano con rispetto, perché sanno che non possono annientarsi. “Non voler amare l’errore nell’uomo, ma l’uomo”, diceva sant’Agostino. E questo vale ancora oggi. Sedurre e convincere Ma qual è ufficialmente il primo obiettivo del comunismo italiano? La “democrazia progressiva”. E cos’è la democrazia progressiva? “Un regime fondato su riforme economiche strutturali e sulla partecipazione delle masse operaie e contadine alla gestione della vita politica”. Durante la spettacolare campagna elettorale – la cosiddetta battaglia dei manifesti – che ha preceduto le ultime elezioni politiche nel 1948, si è parlato soprattutto del futuro
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di Trieste, sospeso tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e molto meno di politica interna. Togliatti e i suoi collaboratori hanno accuratamente evitato – ed evitano ancora oggi – di esibire la falce e il martello. Il fronte democratico popolare (Togliatti-Nenni) aveva monopolizzato la figura di Garibaldi: nelle parrocchie la sua barba è diventata la barba di san Giuseppe. Non si tratta di votare comunista, ma di “votare per la sinistra e per l’indipendenza nazionale”. Sì alla riforma agraria e alla difesa del livello di vita delle masse. Ma al tempo stesso sì alla difesa della piccola e media proprietà. Questa tattica è rimasta costante nel tempo. Prima regola: agire attraverso la base nei comitati agricoli e nei consigli di fabbrica e non ripetere l’errore dei fronti popolari del 1936, gestiti in maniera verticistica. Seconda regola: tendere la mano a chi la vuole prendere, unire tutte le persone disposte a partecipare al piano del lavoro lanciato nell’inverno 1949-50 sotto la direzione social-comunista della Confederazione generale del lavoro. “Questo piano è destinato a realizzarsi nel quadro del regime sociale in cui ci troviamo oggi. Non pretende di pianificare l’intera economia nazionale. Sappiamo molto bene che sarebbe illusorio volere una cosa del genere, che non è possibile pianificare l’economia capitalista. Tutto quello che vogliamo è definire un programma che permetta di risollevare la produzione del paese”. Si tratta dunque di sedurre, di convincere il maggior numero di persone possibile che si vuole solo combattere la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze più eclatanti. Le nazionalizzazioni? Sono state chieste solo quelle dell’energia elettrica e della Montecatini. Quando si chiede ai comunisti italiani perché su questo punto sembrano “meno di sinistra” del laburista britannico Aneurin Bevan, del socialdemocratico francese Guy Mollet e del socialista belga Paul-Henri Spaak, loro rispondono: “Non scherziamo, in un paese come il nostro bisogna partire con le riven-
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Durante un comizio di Pietro Nenni alla basilica di Massenzio, Roma, 11 marzo 1948. David Seymour (Magnum/Contrasto)
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Durante un comizio di Pietro Nenni alla basilica di Massenzio, Roma, 11 marzo 1948. David Seymour (Magnum/Contrasto)
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dicazioni più elementari e correggere quello che tutti i partiti sono concordi nel ritenere intollerabile”. In altre parole non bisogna fare discorsi “gratuitamente radicali”. Ogni tanto, però, il pugno si chiude di nuovo: “Non siamo un’accademia. Lotteremo. Le armi che aspettate dall’America potrebbero cadere in altre mani”. Il giorno in cui Togliatti è stato vittima di un attentato, nel luglio 1948, sono scoppiate proteste in tutta Italia: i manifestanti hanno bloccato le strade, interrotto le linee telefoniche e telegrafiche e i collegamenti ferroviari. Per più di dodici ore il governo di Roma ha avuto la sensazione di aver perso il controllo su diverse città del paese. Una volta passato l’allarme è stato inevitabile porsi certe domande. Il “responsabile dell’ordine” in Italia è Mario Scelba, siciliano d’origine e “uomo forte” del governo. In qualità di ministro dell’interno, Scelba decide le sorti dei prefetti; e in quanto capo della polizia segue una linea che sarebbe piaciuta molto a Stendhal. “Se avesse un temperamento fascista”, dicono i suoi amici, “potrebbe essere pericoloso”. Ma non lo è. Lo riconoscono i suoi stessi avversari e lo testimonia il suo passato. A vent’anni era iscrit-
Pierre Frédérix (1897–1970) è stato un giornalista e romanziere francese, grand reporter di Le Monde dal 1951 al 1954.
to al Partito popolare; tre anni dopo, quando i fascisti marciarono su Roma, il giovane Scelba faticava a trattenere la rabbia, pensando ai timori del re e all’incapacità del suo primo ministro. Durante il ventennio si è seppellito in provincia a fare l’avvocato. Ma è stato segnato per sempre. “Una democrazia va difesa, se necessario con la forza”. Negli ultimi tre anni Scelba ha lavorato molto. Non dispone solo di una polizia considerevole, affiancata da 75mila carabinieri, ha dalla sua anche un corpo militare di finanzieri e un corpo di sicurezza pubblica che controlla tutte le comunicazioni interne. Non conosco ovviamente i segreti del “Robespierre” della Repubblica italiana, ma quello che posso dire è che molti dei suoi connazionali che nel 1948 consideravano Scelba perdente in un eventuale confronto con Togliatti, oggi lo danno vincente. Questo scontro avrà luogo? In caso di guerra sicuramente sì. In tale circostanza la decisione, almeno provvisoria, spetterebbe all’esercito. In tempo di pace, invece, per quanto considerevoli possano essere stati i progressi del comunismo al sud, sembra che nemmeno Togliatti creda nella possibilità di un colpo di mano. u adr
Le Monde è uno dei principali quotidiani francesi. È stato fondato nel 1944.
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L’Italia infestata dai rossi
VACCARO/MONDADORI PORTFOLIO
Il Pci ha infiltrato i suoi uomini ovunque: nel partito socialista, in tutti i settori della società e perfino in Vaticano. Negli anni del maccartismo, il quotidiano di New York cavalca la paura del comunismo Cyrus Leo Sulzberger, The New York Times, Stati Uniti, 17 marzo 1954
Roma, 1948
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Il Partito comunista italiano è sapientemente riuscito a infiltrarsi in importanti segmenti della società: le forze armate, il Partito socialista, di sinistra e teoricamente indipendente, e perfino l’apparato amministrativo del Vaticano. Da oltre sei anni, tuttavia, il governo centrale sta cercando di recidere i tentacoli di questa pericolosa piovra politica. Per questo motivo, nonostante la sua popolarità si avvicini ai picchi postbellici, oggi il comunismo è una minaccia meno grave di qualche anno fa. I comunisti mantengono un controllo serrato sulla macchina organizzativa del Partito socialista di Pietro Nenni, fattore che aumenta decisamente il rischio per la democrazia italiana. Tanti dei sostenitori di Nenni pensano liberamente e non sono in nessun modo dei burattini di Mosca, ma il partito è segretamente guidato dai comunisti. Aldo Cucchi, ex dirigente comunista, deputato ed eroe della resistenza, era al corrente dei segreti del Partito comunista prima di uscirne, tre anni fa. Cucchi ha dichiarato a Bologna che “l’intero apparato guidato da Nenni è controllato dai comunisti. A guerra finita, i comunisti si sono infiltrati nel Partito socialista e hanno messo i loro agenti in tutti i posti di responsabilità”. Da più parti si dice che i comunisti paghino ai socialisti di Nenni le spese organizzative e saldino i buchi di bilancio della stampa di partito. Alcuni importanti esponenti socialisti sono ritenuti agenti al soldo del Partito comunista. Spionaggio e sabotaggio Secondo alcune indiscrezioni lo stesso Nenni sarebbe vittima di ricatti segreti, anche se le accuse non sono mai state confermate. Nenni ha difeso la sua posizione con argomentazioni logiche. Alcuni dei suoi conoscenti sostengono che sia emotivamente filosovietico più che intellettualmente filocomunista. Paradossalmente Nenni è stato da subito un sostenitore del fascismo, e tra i fondatori delle prime organizzazioni fasciste di Bologna. Se-
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guendo la linea di Mussolini, il 18 aprile 1919 aveva scritto sul Giornale del Mattino di Bologna: “La verità è che il proletariato italiano non è bolscevico, e che in qualsiasi progetto leninista i socialisti troverebbero schierati contro di loro non solo la borghesia e il magnifico fronte dei veterani di guerra, non solo le masse contadine, ma anche i lavoratori delle fabbriche”. Al cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, è stato chiesto se il Partito comunista abbia mai tentato d’infiltrare agenti in Vaticano. Questi ha risposto affermativamente, citando il caso di Alighiero Tondi, un ex gesuita della Pontificia università gregoriana di Roma. Il signor Tondi è stato ordinato sacerdote nel 1936, e nel 1952 è uscito dalla compagnia di Gesù per entrare nel Partito comunista. Spiegando che Tondi era stato assegnato alla sezione politica del Vaticano, il cardinal Lercaro ha dichiarato che ci sono prove che abbia passato materiali riservati ai comunisti per lungo tempo e che sia stato un loro agente segreto. Fino alla metà del 1947 i comunisti hanno ricoperto incarichi importanti nel governo italiano. I loro agenti erano dispiegati in tutti i settori. Nonostante gli sforzi fatti in questi sette anni per smascherarli, si ritiene che il partito abbia ancora accesso agli ordini segreti del ministero dell’interno. I comunisti hanno costruito un efficiente sistema di spionaggio e sabotaggio. Sono state create cellule nelle forze armate, oltre che nella rete nazionale delle comunicazioni. Gli agenti segreti infiltrati nell’esercito hanno ricevuto istruzioni su come redigere rapporti e riprodurre le mappe delle strutture militari. A soldati comunisti è stato insegnato come intercettare e decodificare i messaggi. Secondo Randolfo Pacciardi, a lungo ministro della difesa, la situazione è progressivamente migliorata dal maggio 1947. Duemila capi di cellule comuniste sono stati allontanati dalle forze armate e sono stati messi a punto piani per contrastare il tentativo dei comunisti
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di prendere il controllo dei centri strategici del paese in caso di guerra. Il generale Sergio Lalatta, dell’aeronautica militare italiana, ha dichiarato che non ci sono stati casi di sabotaggio nelle forze armate. L’affermazione è stata confermata dal quartier generale del comando alleato per l’Europa meridionale, a Napoli. L’apparato militare comunista guidato da Luigi Longo, leader delle Brigate internazionali nella guerra civile spagnola, dispone di depositi segreti di armi in tutta Italia. Grazie ai costanti sforzi della polizia, tuttavia, molti sono stati scoperti. A differenza degli altri partiti politici, che si attivano per reclutare militanti solo in periodo elettorale, i comunisti non abbassano mai la guardia. Affermano di avere più di due milioni d’iscritti, di cui le donne sono circa un quarto. Uomini di mondo La dirigenza è efficiente. Al vertice c’è il segretario generale Palmiro Togliatti, che durante la guerra parlava all’Italia dalla radio La voce della Russia ed è diventato cittadino sovietico. È stato l’esperto del Comintern per il Mediterraneo, amico di Stalin e suo rappresentante personale durante la guerra civile spagnola. Incarcerato nel 1939 dai falangisti, è stato poi liberato da un commando speciale. I dirigenti comunisti sono esperti e navigati. Chi scrive ha parlato con funzionari del partito di alto livello a Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma e nel sud, e ha ascoltato argomentazioni mature esposte in modo garbato. Ignazio Silone, scrittore ed ex comunista, ha detto che tutti i dirigenti comunisti hanno ricevuto addestramento all’estero in attività clandestine, giornalismo, organizzazione del lavoro e perfino falsificazione dei passaporti. Le scuole di partito coprono tutti i livelli: dalla
propaganda più elementare fino alla formazione dei dirigenti più alti in grado. Il partito, che è finanziato da varie fonti, ha goduto di un buon capitale iniziale dopo la seconda guerra mondiale, impadronendosi della fortuna privata di Mussolini e di molte proprietà immobiliari fasciste. I comunisti hanno guadagnato milioni con estorsioni ai danni di ricchi fascisti o industriali, disposti a pagare mazzette per evitare gli scioperi. Il partito fa anche affidamento sugli iscritti per finanziarsi: di recente 66 militanti sono usciti dal Pci sostenendo che farne parte era troppo costoso. Il partito ha anche ricevuto fondi segreti da Mosca. E ottiene denaro dai sindacati e dalle cooperative. I militanti comunisti hanno messo in piedi una serie di aziende commerciali che monopolizzano il commercio tra l’Italia e l’impero sovietico e versano una quota dei profitti al partito. Per quanto riguarda la propaganda, il Pci ha ereditato la tecnica e la postura del fascismo. Si promette tutto a tutti: meno tensioni internazionali; azioni a favore delle masse popolari, dei piccoli e medi produttori, della popolazione rurale; ampliamento del mercato immobiliare, crescita degli investimenti di capitale, aumento dell’attività produttiva. Come ha detto Adriano Olivetti, l’imprenditore di Ivrea delle macchine da ufficio, “il principale vantaggio dei comunisti è che possono dire ai lavoratori: ‘Tutti gli altri vi hanno tradito. Dateci una possibilità’. I lavoratori non si rendono conto che sarebbe l’ultima possibilità”. Il comunismo in Italia, in altre parole, è una macchina efficiente. “Le sue ramificazioni si estendono in ogni settore”, ha osservato il cardinal Lercaro. “Per fermarlo, bisogna ostacolarlo in ogni campo. La lotta è totale”. u ff
The New York Times è uno dei maggiori quotidiani statunitensi, fondato nel 1851 come New-York Daily Times.
dall’estero del New York Times negli anni quaranta e cinquanta. Faceva parte della famiglia che controlla il quotidiano dal 1896.
Cyrus Leo Sulzberger (1912–1993) è stato un giornalista e scrittore statunitense, corrispondente
Bologna, 1953. (Mondadori Portfolio)
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Unità e moderazione Alla conferenza di Roma del 1954 nel partito c’è aria di fronda. I militanti vogliono fare la rivoluzione, ma Togliatti punta a rafforzare la presenza in parlamento. E la sua linea è sostenuta dal Cremlino Jenny Nicholson, The Spectator, Regno Unito, 28 gennaio 1955 Palmiro Togliatti, forse il più abile leader di partito nella storia del movimento comunista al di fuori della Russia, ha confermato ancora una volta di avere in pugno il Partito comunista italiano, il più grande dell’occidente. La dimostrazione si è avuta alla conferenza nazionale del partito, che si è svolta in un teatro romano in un clima di fervore quasi religioso. È stato come assistere a una messa infinita, durante la quale la congregazione dei 1.142 delegati provenienti da tutta Italia osservava con rapita concentrazione l’altare (un tavolo alle spalle del quale era esposto il cupo stendardo con la falce e il martello, quasi oscurato da allegri nastri tricolori) e reagiva meccanicamente battendo le mani a tempo ogni volta che un “sommo sacerdote” intonava le parole Pace, Libertà, Lavoro, Pane, Masse o Mao Tse-tung. Togliatti (l’amato capo dei due milioni e mezzo di iscritti al partito) ha fatto capire alla platea (e al resto dell’Italia) che non esiste nes-
suna seria minaccia alla sua leadership, che la sua leadership significa obbedienza a Mosca e che l’obbedienza a Mosca significa abbandonare ogni velleità di azione rivoluzionaria almeno per il futuro prossimo. Per molti militanti è stata una grande delusione. I dirigenti del Pci sapevano che mantenere viva la speranza di un’azione diretta avrebbe reso molto più facile tenere unito il partito. La conferenza nazionale è stata preceduta e accompagnata da grande fermento sulla stampa non comunista, a causa di alcune voci su una possibile fronda contro Togliatti. Si diceva che la rivolta stesse montando nelle fabbriche del nord, dove il comunismo ha raggiunto il punto di saturazione e potrebbe presto cominciare ad arretrare. I leader del partito al nord e i loro seguaci – si diceva – erano preoccupati che se il Pci non avesse abbandonato la linea conservatrice di Togliatti, moderata e costituzionale, per abbracciare la rivoluzione, gli iscritti, rimasti fedeli al segretario
La festa dell’Unità a Roma, 1948. Sandro Vespasiani (Fondazione Gramsci/Archivio fotografico del Pci)
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per anni, avrebbero mostrato presto segni di stanchezza e frustrazione. L’eminenza rossa di questa presunta rivolta sarebbe Bruno Fortichiari, tra i fondatori nel 1921 insieme a Gramsci e ad Amadeo Bordiga. Gramsci e Bordiga sono morti. Fortichiari ha 62 anni e non ha nessun incarico al livello nazionale, ma gode di grande prestigio nella zona a maggioranza comunista di Reggio Emilia, dove vive. I giornalisti non comunisti non sono mai riusciti a intervistarlo. Durante la conferenza è stato distribuito a tutti i delegati e alla stampa un volantino con stampato il programma del gruppo Azione comunista, in cui si denunciava la linea di Togliatti come “rinuncia all’azione rivoluzionaria di classe a favore della collaborazione con le forze politiche borghesi, con la conseguenza di nuovi e continui segnali di riformismo e illusioni parlamentaristiche”. In parole più semplici: Togliatti è accusato di essersi alleato con le forze borghesi per fare le riforme con gli strumenti parlamentari, anziché incitare le masse a una sollevazione violenta per spazzare via i borghesi e il loro parlamento. Non si cambia Gli osservatori hanno cercato di cogliere ogni possibile segno di tensione tra i delegati. C’è stata la solita autocritica – una valvola di sicurezza necessaria in un’organizzazione di massa di cui la leadership non cambia mai – ma non c’è stata nessuna critica aperta alla linea di Togliatti. In sintesi, Togliatti è riuscito a consolidare la sua strategia, pur riconoscendo che le politiche di base del partito potrebbero essere attuate in modo più efficiente. Si è rivolto ai delegati, eletti dalle novemila sezioni comuniste di tutta Italia, come un professore di teologia, scrutandoli severamente da dietro gli occhiali: “L’essenziale oggi abbiamo detto qual è. Lo sottolineo ancora una volta. L’essenziale oggi è la lotta contro i provocatori di guerra imperialisti, contro la minaccia di guerra atomica, contro le decisioni che
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tendono al riarmo di una Germania militarista ed espansionista, contro tutta la politica di guerra che oggi viene fatta. Questo è l’essenziale e questo deve essere il primo tema di lavoro del nostro partito a cominciare da domani, e in modo tale che il lavoro abbia la più grande efficacia. Oggi non esiste nessuna questione che possa essere posta separatamente da questa”. Che delusione dev’essere stata per i militanti che speravano nella promessa di un futuro più eccitante! I loro sogni di un’azione corroborante sono stati vanificati. Dovranno continuare a impegnarsi nel faticoso lavoro intellettuale e organizzativo a cui si sono dedicati negli ultimi dieci anni. Il capo ha recitato il vecchio copione: il Partito comunista deve rappresentare la leadership di tutte le istanze progressiste in Italia; deve mostrare moderazione e comprensione per attirare a sé tutti coloro che sono respinti dallo “stato clericofascista”; dev’essere il paladino della costituzione italiana postbellica (prendendosi gran parte del merito per la repubblica e per la sua costituzione); dev’essere malleabile; e deve affascinare e attirare, anziché spaventare e sopraffare con il pugno di ferro e la violenza. In vena di autocritica, Togliatti ha accusato il partito di non aver cercato un terreno comune con i cattolici di sinistra come egli stesso aveva suggerito – anzi, ordinato – due anni fa. Ha invitato i compagni a ignorare i leader delle masse non comuniste e a concentrarsi solo sulle masse stesse. Pietro Nenni, il leader socialista che alle elezioni politiche del 1953 ha allineato i suoi tre milioni di voti ai sei milioni conquistati dai comunisti, ha dato subito la sua approvazione: “La conferma della linea che i comunisti hanno seguito negli ultimi dieci anni è un fatto significativo”. Nella dichiarazione c’era un avvertimento: l’alleanza tra comunisti e socialisti si basa sulla linea attuale. “È importante”, ha continuato Nenni, “perché una brusca svolta in direzione dell’estremismo, dell’in-
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transigenza o del settarismo avrebbe irrimediabilmente danneggiato la politica di unità che è nata e si è sviluppata nella lotta per la democrazia e che continua a essere subordinata a questa lotta”. L’alleanza con i socialisti è uno dei punti che spiegano la linea di Togliatti. Alle ultime elezioni (giugno del 1953) i due partiti, insieme ai loro alleati minori, hanno inflitto un duro colpo ai partiti di centro che governano l’Italia dal dopoguerra. L’alleanza ha impedito che le forze democratiche ottenessero il 50,1 per cento dei voti totali, risultato che – in base a una legge successivamente abrogata – avrebbe garantito loro i due terzi dei seggi alla camera dei deputati. La grande forza del Partito comunista italiano continuerà quindi a essere usata per la costruzione graduale di una consistente presenza in parlamento (che, però, potrebbe già essere arrivata al limite). E sarà così finché Mosca non cambierà avviso. Togliatti ha però dato ai compagni l’occasione di rifarsi. Alla fine del mese, infatti, il senato si riunirà per la ratifica degli accordi di Parigi sulla difesa dell’Europa occidentale. Il mese scorso i comunisti hanno opposto stranamente poca resistenza alla ratifica alla camera. Da allora la posizione di Mosca, che
Jenny Nicholson è stata una giornalista britannica. Ballerina, attrice, ufficiale delle forze aeree ausiliarie
femminili britanniche, ha poi lavorato come reporter di guerra e corrispondente dall’Italia per lo Spectator.
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probabilmente si è resa conto di non potersi aspettare troppo dal primo ministro francese Pierre Mendès-France, si è fatta più intransigente. Lanciare qualche calamaio e rovesciare qualche scrivania in senato interromperà sicuramente la monotonia parlamentare e farà sentire tutti molto meglio. I compagni hanno applaudito spontaneamente per la prima volta dall’inizio della conferenza. Togliatti li ha congedati con aria professorale, salutando a pugno chiuso. I delegati si sono allontanati tutti seri, come bravi soldatini di partito insieme alle commesse nei loro golfini rossi. Togliatti, tuttavia, è stato costretto a prendere una precauzione importante. Tre giorni dopo la fine della conferenza nazionale ha annunciato di aver estromesso dal comitato centrale del partito uno dei suoi luogotenenti più importanti. Pietro Secchia, l’“uomo della linea dura” del comunismo italiano, è stato retrocesso da vicesegretario e responsabile dell’organizzazione a segretario regionale della Lombardia. Qui, nella grande zona industriale di Sesto San Giovanni e tra le migliaia di piccole fabbriche intorno a Milano, guiderà la battaglia contro l’immobilismo delle masse comuniste: un lavoro faticoso e ingrato. Ma starà alla larga da Togliatti e non potrà organizzare una nuova corrente eretica. u fas
The Spectator è un settimanale britannico di orientamento conservatore, fondato a Londra nel 1828.
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Dopo il XX congresso
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Prima il rapporto di Chruščëv sui crimini di Stalin, poi la rivoluzione ungherese. Per i comunisti italiani il 1956 è un anno critico. Che insinua dubbi e scava fratture profonde René Payot, Journal de Genève, Svizzera, 20 giugno 1956
La distruzione di una statua di Stalin a Budapest, Ungheria, 1956
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La sistematica demolizione dell’opera e della persona di Stalin, che i suoi successori hanno avviato per placare il malcontento diffuso tra il popolo sovietico e per consolidare la loro posizione, ha suscitato un’inquietudine crescente nei partiti comunisti di tutti i paesi. Il rapporto del segretario del Pcus Nikita Chruščëv ha scoperchiato il vaso di Pandora. La sottomissione cieca dei militanti a una disciplina ferrea ha cominciato a essere messa in discussione, e la loro fiducia nell’infallibilità del capo, accuratamente alimentata da una falsa propaganda, ha subìto un duro colpo. Il dubbio si è insinuato nell’animo di molti: alcuni hanno l’impressione di essere stati ingannati, altri non capiscono come l’Unione Sovietica abbia potuto svilupparsi economicamente sotto una feroce dittatura che ha violato anche le leggi socialiste. E non accettano la condanna totale dell’uomo che ha avviato l’industrializzazione del paese e che godeva di un forte consenso in tutta l’Urss. Le diverse tendenze che si manifestano nelle varie organizzazioni comuniste mettono i loro dirigenti in grave imbarazzo. Che atteggiamento adottare? Come rispondere al disorientamento delle truppe, che si chiedono – è la domanda fondamentale – come una tale oppressione abbia potuto manifestarsi in un regime considerato ideale? In effetti i dirigenti comunisti, quanto meno nei paesi occidentali, fanno fatica ad affermare che la responsabilità sia di un solo uomo. Questo, però, significa mettere in crisi la fiducia delle masse in un modello di stato per la cui realizzazione sono state chiamate a lavorare. Anche Togliatti, il leader dei comunisti italiani, ha cercato di trovare una spiegazione che potesse essere accettata dai militanti. Il leader Il Journal de Genève è stato un quotidiano svizzero di orientamento liberale. Fondato nel 1826, è stato pubblicato fino al 1998.
italiano ritiene infatti che i dirigenti sovietici abbiano avuto ragione a rivelare le colpe di Stalin, ma gli rimprovera di aver precedentemente contribuito alla sua glorificazione. Sono stati loro i principali sostenitori del culto della personalità che oggi denunciano. Togliatti non accetta l’argomento di Chruščëv secondo cui qualunque opposizione sarebbe stata impossibile. Se all’inizio Stalin fosse stato frenato, è probabile che non avrebbe potuto forgiare quei temibili strumenti che gli hanno permesso di agire da tiranno. In altri termini, Togliatti ritiene che gli uomini che hanno ereditato i poteri del dittatore dopo la sua morte abbiano mancato di lucidità e di coraggio. Criticando Stalin, continua Togliatti, gli attuali dirigenti dell’Unione Sovietica che ne hanno condiviso le responsabilità, perdono parte della loro credibilità. È la prima volta che un comunista straniero si permette di attaccare i capi dell’Unione Sovietica e di negare la loro infallibilità in quanto depositari della dottrina. Per molti militanti sarà sorprendente scoprire che Mosca non è più considerata la Mecca del comunismo. Come dice Togliatti, “il modello sovietico non è più obbligatorio per i partiti fuori dell’Unione Sovietica. D’ora in poi saremo padroni del nostro destino”. Siamo quindi agli albori di un’evoluzione che porterà i partiti comunisti occidentali ad adottare un atteggiamento più indipendente nei confronti di quell’Unione Sovietica di cui finora sono stati i docili strumenti? È possibile. Ma questi stessi partiti avranno il coraggio di riconoscere che è stato il regime totalitario a permettere, attraverso la sua stessa struttura, l’instaurazione della tirannia staliniana? È lecito dubitarne. u adr
René Payot (1894–1970) è stato un giornalista svizzero, direttore del Journal de Genève dal 1933 al 1949.
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Le conseguenze dei fatti d’Ungheria M. I. Cory, Journal de Genève, Svizzera, 6 novembre 1956 Roma vive un periodo di grande agitazione. La rivolta operaia di Poznan, in Polonia, e soprattutto i fatti ungheresi hanno avuto una vasta eco in Italia. In un paese in cui i comunisti, i socialisti e i loro simpatizzanti sono più di otto milioni, una prova irrefutabile che l’applicazione del “marxismo sovietico” produce nelle masse solo miseria e disperazione non poteva certo passare inosservata. Si è solidarizzato con gli ungheresi e si è ammirato il loro coraggio, ci si è indignati contro l’Unione Sovietica e, nel fondo della coscienza, ci si è stupiti che dieci anni di oppressione, di propaganda e di indottrinamento comunista non abbiano prodotto effetti ancora peggiori. Le manifestazioni e le dichiarazioni di solidarietà con i “ribelli magiari” sono state molteplici. Per citare solo un esempio, a Milano in tre giorni settecento volontari hanno donato il sangue per i feriti di Budapest. I comunisti sono isolati. Quando il ministro degli esteri Gaetano Martino, parlando dell’intervento sovietico, ha detto che “il parlamento e il governo italiani hanno non solo il diritto ma anche il dovere di affermare la loro commossa solidarietà alle vittime di un’aggressione brutale e cinica”, tutti i deputati, compresi i socialisti di Nenni, si sono alzati
per applaudire. Tutti tranne i comunisti. Perché la direzione del partito non ha mai smesso di difendere le decisioni di Mosca. Tuttavia, alcuni importanti leader comunisti – come il segretario generale della Confederazione generale del lavoro (Cgil), Giuseppe Di Vittorio – hanno assunto un atteggiamento diverso, aggravando la crisi della sinistra italiana. Per anni Togliatti e i suo collaboratori avevano affermato che nei paesi marxisti l’opposizione non esisteva, perché i popoli erano pienamente soddisfatti dei loro governanti, che assicurano alle masse un benessere impossibile da raggiungere nei paesi capitalisti. Queste masse erano quindi profondamente riconoscenti ai loro dirigenti e all’Unione Sovietica. Le rivolte e i massacri oltrecortina hanno mostrato la bassezza di queste falsità e hanno messo i comunisti italiani in una situazione di grave imbarazzo. Questo ha rafforzato le posizioni dei partiti democratici e soprattutto dei sindacati liberi. Inoltre per la prima volta il socialista Nenni ha avuto il coraggio di assumere un atteggiamento realmente indipendente da Togliatti, rafforzando così la prospettiva futura di una possibile riunificazione tra le due anime del socialismo italiano. u adr
Budapest, Ungheria, 1956. (Hulton-Deutsch Collection/Corbis via Getty Images)
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Gli Sputnik a Roma
ALDO SAVINA (BETTMANN/GETTY IMAGES)
Dopo la crisi innescata dalla rivoluzione ungherese, il successo della missione spaziale di Mosca ha restituito prestigio e credibilità ai sovietici. Ma in Italia il Partito comunista deve affrontare diversi problemi interni The Economist, Regno Unito, 23 novembre 1957
Roma, 1958
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Chi aveva dei dubbi sul fatto che il Partito comunista italiano potesse beneficiare della gloria riflessa dello Sputnik li avrà sicuramente dissipati in occasione del ricevimento organizzato dall’ambasciata sovietica per i quarant’anni della rivoluzione d’ottobre. L’anno scorso l’evento si era svolto con la tragedia ungherese ancora fresca nella mente di tutti. Gli ospiti erano furtivi e imbarazzati o sfrontati e baldanzosi. Molti habitué avevano trovato una scusa per non andare. Quest’anno, invece, c’era una tale folla che perfino l’ospitalità sovietica è andata in difficoltà sotto l’assalto alla vodka e al caviale. Diplomatici, scrittori, attori, artisti ed esponenti della Democrazia cristiana facevano a gara per intrattenersi con l’intellighenzia comunista. Tutti volevano scoprire chi c’era e far capire che quando si parla di scienza bisogna abbandonare i pregiudizi e ammettere che i russi sono i migliori. Il pericolo degli Sputnik – sostiene la stampa italiana – è che le persone semplici, dai contadini ai meccanici, possano vedere solo le conquiste della tecnica sovietica senza comprendere il sacrificio in termini di felicità umana su cui si basano queste conquiste. La luna rossa, in ogni caso, proietta una luce curiosa sull’elettorato italiano, e viene da chiedersi se sia davvero l’elettore non istruito il più colpito dai suoi raggi. Giù dal piedistallo Non è facile stabilire quanti dei voti persi dal Partito comunista italiano a causa della vicenda ungherese saranno riconquistati grazie agli Sputnik. Forse non molti. Il voto per i comunisti, in Italia, non è particolarmente influenzato dagli eventi esterni e dalla crisi nel partito, che è di certo profonda tra gli intellettuali e la piccola élite operaia ma è quasi inavvertita tra la base militante. I leader del partito ritengono di aver perso due o trecentomila voti a causa degli eventi successivi alla morte di Stalin. Secondo le previsioni, alle elezioni dell’anno prossimo il Pci prenderà circa 5,8 milioni di
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voti. Il fattore principale a favore del voto comunista, il cui peso è quasi costante nel tempo, oltre alla cronica disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, è la capacità della Democrazia cristiana di neutralizzare o indebolire qualsiasi altra forma di opposizione. Considerati gli equilibri internazionali, molti italiani ritengono che un voto per i comunisti non metterà a repentaglio le istituzioni della democrazia e pensano invece che il vero pericolo sia rappresentato dall’ingerenza della chiesa nello stato. Di conseguenza molti voteranno il Pci per una sorta di protesta anticlericale, nell’illusione che il partito sia un efficace baluardo contro la gerarchia cattolica. In realtà ciascuno dei due partiti, la Democrazia cristiana e i comunisti, trae la propria forza dalla paura che l’opinione pubblica nutre verso l’altro. Entrambe le forze politiche hanno un interesse comune: evitare la nascita di una “alternativa democratica”, come sarebbe potuta essere una forza socialista unitaria. Di conseguenza, mentre diversi intellettuali abbandonano il Partito comunista, e continua ad allargarsi la frattura creata da Giolitti, Diaz e gli altri, le nuove reclute arrivano soprattutto dalla borghesia anticlericale. È dunque sbagliato immaginare che la grave crisi nei quadri del partito si tradurrà in una perdita di voti. Allo stesso tempo gli Sputnik, pur permettendo ai leader comunisti di sorridere al mondo, non possono risolvere le difficoltà interne del partito, che nascono dalla perdita di autorità e controllo di Togliatti e dalla sua incapacità di tenere il passo con il Cremlino. Quando Stalin è stato buttato già dal piedistallo, Togliatti ha perso il suo equilibrio e ha dovuto cimentarsi in difficili acrobazie ideologiche per rimanere al suo posto. Anche se la figura di Stalin fosse riabilitata e il culto della personalità ripristinato, è comunque difficile pensare che Togliatti possa ritrovare l’influenza di un tempo. I suoi sforzi per percorrere la via sovietica e allo stesso tempo trovare un approccio policentrico al socialismo lo hanno portato
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alla situazione attuale. Oggi Togliatti è un politico comunista come gli altri, e la sua posizione di leader del partito dipende dalla capacità di mantenere l’equilibrio tra le fazioni rivali: alla sinistra i comunisti duri e puri di Longo e alla destra i moderati, o gomulkiani, di Amendola. Resta il fatto che gli Sputnik gli hanno regalato un importante vantaggio. Per tutti i comunisti è evidente che un paese in grado di mandare satelliti nello spazio è perfettamente qualificato per essere una guida spirituale. Oggi è Mosca, e non Varsavia o Budapest, a occupare il palcoscenico. Strade diverse Un altro vantaggio per Togliatti deriva dalla recente scomparsa di Giuseppe Di Vittorio, l’universalmente rispettato leader della Cgil. I dubbi di Di Vittorio in merito alla rivolta ungherese lo avevano messo in rotta con Togliatti. Alla fine il sindacalista aveva ceduto, ma la consapevolezza che un uomo del temperamento di Di Vittorio si sia dovuto piegare al rispetto della disciplina di partito non ha certamente aumentato la popolarità di Togliatti. Ora la Cgil si trova senza un leader, e con ogni probabilità le dispute interne tra socialisti e comunisti si approfondiranno. La coabitazione tra le due realtà all’interno della stessa federazione sindacale è causa di contrasti, ed è anche il principale motivo per cui i socialisti vorrebbero seguire un percorso separato. La Cgil ha perso parte della sua in-
fluenza nel paese e in molte industrie è stata superata dalla federazione sindacale democristiana, la Cisl. Ma si ritiene che la cosa abbia un impatto minimo sulla forza elettorale dei comunisti. Un altro aspetto che favorisce i comunisti è il fatto che la fusione tra i socialisti non abbia funzionato. Non è ancora il momento di escludere un esito positivo, anche se la scorsa settimana Nenni ha ribadito la necessità di un legame più forte con i comunisti, ma se qualcosa succederà, di sicuro non sarà prima delle elezioni. I socialisti si presenteranno da soli alle elezioni per la camera dei deputati. Tuttavia all’interno della Democrazia cristiana c’è chi si sta muovendo per fare in modo che il senato sia sciolto nello stesso giorno della camera (costituzionalmente dovrebbe rimanere in carica un anno in più). Se questo accadrà, e ci sono buone ragioni per crederlo, il Partito socialista sarà virtualmente costretto a presentarsi con i comunisti, perché la soglia di sbarramento al senato è più alta della percentuale di voti che i socialisti potrebbero ottenere senza compromettere la loro forza. Presentarsi al senato insieme ai comunisti screditerà il partito di Nenni agli occhi dell’Internazionale socialista, rafforzando gli oppositori dell’unità socialista all’interno e all’esterno del partito. Questo elemento è stato attentamente valutato dai senatori democristiani e comunisti che voteranno per lo scioglimento del senato. u as
The Economist è un settimanale economico britannico di orientamento liberale. È stato fondato a Londra nel 1843.
Lo stilista Angelo Litrico confeziona una giacca per Nikita Chruščëv, Roma, 1957. Carlo Bavagnoli (Mondadori Portfolio)
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Dimenticare Stalin Avviato nel 1956, il processo di destalinizzazione nel Pci si fa più intenso all’inizio degli anni sessanta. Uno sbocco possibile è la democratizzazione della vita del partito The Times, Regno Unito, 29 novembre 1961
Un notevole contributo al dibattito aperto all’interno del Partito comunista italiano dal rapporto di Togliatti sul ventiduesimo congresso del Partito comunista sovietico arriva oggi da un documento ideologico di novemila parole realizzato dalla segreteria stessa del partito e pubblicato sul quotidiano l’Unità. La formulazione del documento e le circostanze della sua pubblicazione segnano una netta vittoria dei giovani dirigenti antistalinisti contro i tentativi della vecchia guardia, guidata da Togliatti, di impedire una discussione approfondita sulle responsabilità e sulle implicazioni degli errori e dei crimini dell’era staliniana. Il documento contiene alcune ammissioni che non erano mai state fatte pubblicamente: la denuncia delle colpe e degli errori di Stalin, unita al riconoscimento dei suoi indiscutibili meriti, è considerata insufficiente. La massa dei lavoratori chiede spiegazioni più esaurienti. E solleva anche la questione più ampia e più
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complessa di come certi errori e certe distorsioni possano verificarsi nel processo di costruzione di una società socialista e di come evitarli in futuro. I crimini e gli orrori dell’era staliniana, sostiene il documento, non devono essere scambiati per l’inevitabile e necessaria durezza di un’epoca rivoluzionaria, “al contrario, hanno ostacolato lo sviluppo della rivoluzione” (questo è un totale capovolgimento della tesi, sostenuta in precedenza da Togliatti, secondo cui i progressi della rivoluzione sotto Stalin erano la prova che non c’era nulla di intrinsecamente sbagliato nel regime). Inoltre, per evitare il ripetersi di errori e per garantire un ulteriore progresso della rivoluzione, è necessario che “all’interno di una società socialista la democrazia sia istituzionalizzata”, anche se in forme diverse da quelle di una democrazia capitalista. Il Partito comunista italiano, afferma il documento, ha avuto la sua parte di responsabi-
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lità negli errori del passato. I comunisti italiani erano al corrente della maggior parte dei fatti spiacevoli che accadevano all’epoca di Stalin, ma non si erano resi conto che le sue crudeltà non avevano nulla a che fare con la necessità di difendere la rivoluzione, bensì erano la conseguenza delle sue aberrazioni e deviazioni. Avevano commesso due errori fondamentali: accettare acriticamente la tesi di Stalin sulla crescente asperità della lotta di classe e del parallelo progresso della costruzione socialista; e seguire i comunisti sovietici nel sottolineare esclusivamente i successi dello stalinismo, rendendogli illimitato omaggio. E poi avevano anche mostrato una certa indulgenza verso le forme di una propaganda superficiale e retorica incompatibili con la realtà socialista. Sebbene la faziosità e la formazione di correnti all’interno del partito debbano essere evitate, il libero dibattito pubblico dev’essere incoraggiato, come anche “il libero confronto delle opinioni e la manifestazione aperta dell’eventuale dissenso, sia nelle discussioni sia col voto” . Inoltre, nei rapporti tra i partiti comunisti di diversi paesi il mantenimento di un’unità di fondo non è incompatibile con divergenze di opinione sui vari problemi, né con la scelta da parte di ciascun partito di una “via
nazionale al socialismo”, tenendo conto della diversità delle condizioni oggettive prevalenti nei diversi paesi. Incoraggiare il dibattito Con la pubblicazione di questo documento, il dibattito sulla destalinizzazione avrà nuovo impulso a tutti i livelli nel Partito comunista italiano. Dopo la sua relazione di ritorno da Mosca e la discussione che ne è seguita, il 14 novembre – senza consultare i colleghi della segreteria – Togliatti ha inviato all’Unità una breve dichiarazione in cui elogiava il ventiduesimo congresso del Pcus e lo considerava la dimostrazione che il regime comunista è sano e capace di correggere i propri errori. Inoltre non azzardava nessuna autocritica e invitava ad aprire una discussione concentrata sui problemi italiani e sulla lotta contro il capitalismo per il trionfo del socialismo. La segreteria ha protestato per non essere stata consultata e il 18 novembre è stata incaricata di redigere un nuovo e più elaborato documento (quello appena pubblicato) che servisse da guida per la discussione interna. Il modo in cui questo documento è nato potrebbe essere di per sé indicativo di una tendenza verso la democratizzazione interna e una leadership più collettiva, idee che il partito ha sempre sostenuto. u bt
The Times è uno dei principali quotidiani britannici, di orientamento liberal-conservatore. È stato fondato a Londra nel 1785.
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In ricordo del compagno Togliatti
GINO BEGOTTI (CAMERA PRESS/CONTRASTO)
Il 21 agosto 1964 a Jalta, in Crimea, muore Palmiro Togliatti, “geniale guida del movimento comunista internazionale”. L’omaggio del giornale del Partito comunista cecoslovacco Rudé Právo, Cecoslovacchia, 22 agosto 1964
Palmiro Togliatti a Chiareggio, in Valtellina, 1958
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Come annunciato in un comunicato della segreteria del Partito comunista italiano, venerdì a Jalta è morto il segretario generale del Pci, il compagno Palmiro Togliatti. Il referto medico firmato da sei accademici e professori sovietici e dal medico personale di Togliatti indica come causa del decesso un’emorragia cerebrale. Venerdì il presidente del consiglio dei ministri dell’Urss, Nikita Chruščev, si è recato a Jalta e ha reso omaggio al defunto. Poco dopo avere appreso la triste notizia, il comitato centrale del Pcus ha inviato un telegramma di cordoglio al Partito comunista italiano. Stando alle informazioni pervenute da Roma, parole di cordoglio sono state inviate dalla dirigenza dei partiti comunisti e dei lavoratori di tutto il mondo. Secondo quanto comunicato dalla segreteria del Pci, la salma del compagno Togliatti sarà trasportata a Roma sabato pomeriggio con un volo speciale messo a disposizione dal paese sovietico. La segreteria ha inoltre annunciato che i funerali avranno luogo martedì pomeriggio alle 18.30. Come si legge nella dichiarazione rilasciata dalla dirigenza del Partito comunista italiano, se n’è andato un grande figlio del popolo italiano, una geniale guida del movimento comunista, che aveva votato la propria vita all’instancabile lotta per il consolidamento del socialismo, della democrazia e della pace. La sua vita è stata inestricabilmente legata alla storia italiana recente, si legge nella dichiarazione, il cui contenuto celebra l’attività di Togliatti negli ultimi due decenni. Togliatti è stato uno dei maggiori rappresentanti e ispiratori della resistenza italiana, da cui è nata la repubblica. Grande è stato il suo contributo al consolidamento dell’unità del paese e alla soluzione del conflitto contro l’occupante tedesco. In qualità di rappresentante del popolo nell’assemblea costituente è stato uno dei padri della costituzione italiana, la quale ha consolidato le libertà conquistate dalla resistenza. Con il suo pensiero, con la
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sua iniziativa, con il suo sapere ha partecipato alle più importanti battaglie antifasciste e democratiche d’Italia, a tutte le lotte che in questi decenni le masse oppresse hanno condotto contro lo sfruttamento, si sottolinea nella nota del Pci. Esilio e ideologia Il rapporto profondo con il nostro paese era pienamente coerente con lo spirito internazionalista di Togliatti e con la sua capacità di comprendere i problemi del mondo. Questo lo aveva reso una delle guide trainanti del comunismo internazionale, uno dei principali esponenti della lotta per la difesa della repubblica spagnola, sostenitore e difensore dell’unità del movimento operaio mondiale, migliore amico del primo paese socialista del mondo. Togliatti è stato tra le personalità di questo secolo che non solo sono riuscite a cogliere il ribaltamento storico rappresentato dalla rivoluzione d’ottobre e dal sorgere del mondo socialista, ma che hanno anche cercato valori nuovi, il cui obiettivo fosse il progresso dell’umanità, la realizzazione di una società libera ed egualitaria. È stato uno dei primi a riconoscere e a tracciare il pericolo rappresentato per l’umanità dalla catastrofe atomica, e a individuare i problemi più impellenti e attuali condivisi da tutte le forze ideologiche e politiche di massa. Per raggiungere questi elevati traguardi, Togliatti ha vissuto senza timore un’esistenza tumultuosa, ha conosciuto l’esilio e la prigionia, e ha rischiato di morire, nell’attentato del 1948. Esposto ad attacchi e persecuzioni, ha sempre serbato una profonda fiducia nella forza delle persone e del socialismo. Il comunicato del Pci si conclude così: “Togliatti non è più. Ma restano l’opera sua, il suo insegnamento, tutto ciò che il suo ingegno e la sua volontà hanno contribuito in maniera decisiva a costruire. Resta il nostro grande partito, la sua forza, l’unità delle nostre file attorno alla politica a cui egli ha dato l’impronta della sua ricerca e della sua passione rivoluzionaria
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di comunista e di italiano. Resta il vigore e la ricchezza del movimento popolare e di classe che egli ha potentemente contribuito a creare. Resta l’esempio di audace iniziativa, di combattività ferma dinanzi a tutte le tempeste, di spirito internazionalista, di profondo legame con la vita e con la storia della classe operaia e di tutto il nostro popolo, che egli ha dato. Questa grande eredità ci deve essere di conforto e di stimolo nell’ora di lutto e di angoscia che viviamo. Questa eredità di libertà, di patriottismo, di amore alla causa del socialismo, sarà salvaguardata e portata avanti. Si stringano le file del partito. Si rafforzi il movimento popolare. Si estenda l’unità di tutti i democratici. Inchiniamo le nostre bandiere dinanzi al combattente che scompare. Rendiamo onore al maestro, al compagno, all’amico. Chiamiamo il popolo a ricordarlo e a piangerlo con noi. Nel suo nome prepariamoci a future battaglie e a nuove vittorie”. Una guida esperta Instancabile combattente rivoluzionario, guida della classe operaia italiana, tra i più straordinari militanti del movimento comunista internazionale, pensatore marxista e rivoluzionario creativo: questo era il segretario generale del Partito comunista italiano, il compagno Palmiro Togliatti. Togliatti nacque nel 1893 a Genova nella modesta famiglia di un impiegato pubblico. Compì gli studi nella città di Torino dove, già nel 1911, diventò membro del Partito socialista. Alle primissime notizie della rivoluzione d’ottobre fu entusiasta divulgatore del suo messaggio. Seguendo la concezione marxista nel contesto rivoluzionario del tempo, organizzò consigli operai e movimenti per l’occupazione delle fabbriche. L’esperienza della pratica rivoluzionaria lo condusse all’incontro con Antonio Gramsci, con cui fondò la rivista marxista Ordine nuovo. Intorno alla rivista si riunirono i marxisti che in seguito, nel 1921, avrebbero costituito il nucleo di un nuovo par-
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tito marxista rivoluzionario: il Partito comunista d’Italia. Al congresso di Livorno, nel gennaio del 1921, c’erano Palmiro Togliatti, Gramsci e altri marxisti intransigenti. Le forze reazionarie fasciste si scagliarono contro il giovane partito con brutali rappresaglie. Nonostante la gravità della situazione e il dilagare del terrore fascista, il Pci, grazie alle capacità organizzative e al corretto orientamento ideologico di Gramsci e Togliatti, divenne un punto di riferimento per la classe operaia italiana. Dopo l’arresto di Antonio Gramsci nel 1926, Togliatti diventò il segretario generale del Pci. La sua attività si spinse ben oltre i confini italiani. Dal 1926 il compagno Togliatti lavorò nel comitato esecutivo dell’Internazionale comunista e fu uno dei suoi segretari. La sua esperienza nella lotta contro il fascismo fu di portata universale e arricchì tutto il movimento comunista internazionale. Al nome del compagno Togliatti è legata anche l’eroica lotta dei comunisti italiani nella seconda guerra mondiale. Alla fine del 1942 a Torino l’iniziativa comunista portò alla formazione del Comitato di fronte nazionale, primo germe dei successivi comitati di liberazione nazionale. Nell’aprile del 1944 il compagno Togliatti tornò in Italia dall’Urss e subito si unì alla lotta per la liberazione dal fascismo e per dare al paese una forma di governo repubblicana. Una grande vittoria per il partito arrivò quando, il 2 giugno 1946, gli italiani scelsero la repubblica. Le forze reazionarie italiane sapevano bene che il partito dei lavoratori aveva in Palmiro Togliatti una guida esperta, in grado di delineare la tattica della lotta rivoluzionaria. Questo fu uno dei motivi dell’attentato del 14 luglio 1948 che causò al compagno Togliatti gravi ferite. Quel medesimo giorno il partito operaio e l’Italia intera risposero alle forze reazionarie con uno sciopero generale di tre giorni. Alle manifestazioni la folla immensa di lavo-
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ratori dimostrò con forza il proprio amore verso il compagno Togliatti e con pari intensità l’odio verso la borghesia reazionaria, mandante dell’attentato. Il compagno Togliatti, guarito dalle ferite, riprese subito, con lo stesso spirito di abnegazione, l’attività rivoluzionaria. Fu suo merito se, sulla base di una profonda analisi del contesto italiano e mondiale dell’epoca, il Partito comunista italiano poté correttamente riconoscere la reale possibilità per la classe operaia italiana di ottenere, unita nella lotta, ulteriori progressi democratici e cambiamenti strutturali tali da innescare trasformazioni radicali nella struttura del potere e da portare la classe lavoratrice al governo. Tali questioni furono analizzate dal compagno Togliatti nel nono e nel decimo congresso del Pci a Roma.
Poco prima di partire per un periodo di riposo in Crimea, il compagno Togliatti aveva espresso alla camera dei deputati una dura critica al programma della nuova coalizione di governo del cosiddetto centrosinistra. Con tale critica puntava il dito direttamente contro le forze di governo, impegnate a scaricare il peso della crisi economica sulle spalle dei lavoratori. Togliatti aveva inoltre individuato le caratteristiche dei radicali cambiamenti strutturali che sono necessari all’Italia per avviarsi verso uno stabile e reale sviluppo economico. Con la sua morte, il popolo italiano, il Partito comunista italiano e tutto il movimento comunista internazionale hanno perso uno straordinario rivoluzionario e pensatore marxista, fedele alle immortali idee del fondatore del marxismo-leninismo. u ab
Rudé Právo è stato il quotidiano ufficiale del Partito comunista di Cecoslovacchia. È uscito tra il 1920 e il 1990.
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Sulla strada già battuta Luigi Longo, che ha preso il posto di Togliatti alla guida del partito, conferma di voler seguire la linea della via italiana al socialismo: meno zelo rivoluzionario, apertura alla borghesia e dialogo con il Vaticano Der Spiegel, Repubblica Federale Tedesca, 7 febbraio 1966
I ritratti di Marx, Engels e Lenin sono rimasti in cantina. All’undicesimo congresso del Pci al Palazzo dei Congressi di Roma non c’era posto per i padri nobili stranieri: il più grande partito comunista d’occidente ha proclamato “la via italiana al socialismo”. Lungo questa via, “accanto alle bandiere rosse sventola anche il vessillo giallo e bianco del Vaticano”, scrive il Corriere della sera. Nemmeno il busto di Lenin, inviato dall’ideologo di Mosca Michail Suslov per omaggiare il concilio comunista romano, è riuscito a cancellare questa immagine. Fedele al motto del suo defunto predecessore Palmiro Togliatti, secondo il quale bisogna liquidare le “vecchie formule che non corrispondono più alla realtà di oggi”, il segretario Luigi Longo, 65 anni, ha teso la mano al Vaticano. Davanti ai compagni, Longo ha citato più encicliche papali che massime marxiste. Si è impegnato “all’assoluto rispetto della libertà religiosa”, condannando “l’ateismo di
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stato” e scoprendo in diversi documenti ecclesiastici della più recente fase conciliare “obiettivi che animano anche la nostra lotta”. A tener buona l’ortodossia comunista è la speranza che presto il Vaticano volti le spalle al capitalismo. La scoperta del benessere Longo si è spinto ad abbracciare non solo il Vaticano, della cui benevolenza il Pci ha assoluto bisogno per entrare a far parte di un qualsivoglia governo, ma anche tutti i partiti e le classi sociali, incluse amplissime fasce della borghesia. Pur di arrivare a una nuova maggioranza di governo che comprenda anche i comunisti, il capo del Pci è disposto ad accettare nel fronte popolare ogni tipo di alleato. “Non dimentichiamo”, ha detto “che la nuova società socialista sarà non solo quale la vogliamo noi comunisti, ma anche quale la vorranno quanti contribuiranno alla sua edificazione.” Invano Pietro Ingrao, capogruppo del Pci
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alla camera, si è opposto al nuovo corso imposto da Longo; invano ha implorato i compagni di tornare alla “strategia rivoluzionaria in senso leniniano”. Durante la votazione finale di lunedì, Ingrao è stato più volte richiamato all’ordine e spinto ad accettare le tesi del segretario. Secondo il deputato Enrico Berlinguer, al momento non c’è bisogno di alcuna “ginnastica rivoluzionaria.” La concezione di Longo riflette l’atteggiamento dei suoi elettori, che da un pezzo hanno smesso di sognare la marcia rossa su Roma e di compiacersi del loro ruolo di spauracchio della borghesia. I giovani comunisti, in particolare, sono più interessati all’automobile, alla casa al mare e ai viaggi estivi che alla scuola di partito, tanto che Giorgio Amendola, membro del comitato centrale, ha detto che ormai “i compiti rivoluzionari vengono dimenticati.” La mentalità del benessere si è impossessata perfino degli esponenti di punta del partito. Su esempio del segretario, che oltre all’appartamento romano ha anche una confortevole casa in campagna a sud di Roma, la maggior parte dei dirigenti predilige abitazioni eleganti nei quartieri borghesi, dove colleziona dipinti, mobili antichi oppure libri rari, come fa Giancarlo Pajetta, esponente del comitato centrale. Un riflesso di questo desiderio di benessere dei comunisti si trova quotidianamente sul giornale di partito: con le sue pagine dedicate a viaggi, moda e tempo libero l’Unità praticamente non è da meno del Corriere della sera, il quotidiano degli imprenditori. Ultimamente le pagine dell’Unità hanno ospitato perfino i pettegolezzi dell’alta società. È vero che un
italiano su quattro continua a votare comunista “per protesta contro qualcosa” (come scrive Il Messaggero), ma la tessera del partito è ormai fuori moda. Negli ultimi dieci anni il numero degli iscritti al Pci è sceso da 2,1 a 1,6 milioni e le iscrizioni alla Federazione giovanile sono calate a sole 173mila, contro le 431mila del 1955. Nello stesso lasso di tempo, tuttavia, il numero degli elettori del Pci è passato da sei a quasi otto milioni, un chiaro segno del successo del proselitismo comunista nei confronti della borghesia. Luciano Barca, esponente di punta del partito, ha ammesso che ormai solo il 5,7 per cento degli operai italiani è iscritto al Pci, mentre nelle grandi fabbriche del nord, dove gli stipendi sono buoni, si parla addirittura del 2 per cento. Nel 1950, alle elezioni del consiglio di fabbrica della Fiat di Torino i comunisti raccoglievano quasi il 70 per cento dei voti, ma già nel 1965 per i delegati del sindacato comunista Cgil ha votato appena il 21,6 per cento. Per non scontentare nessuno dei suoi nuovi elettori, già prima del congresso di Roma il segretario Longo si era dichiarato disposto a cancellare l’aggettivo “comunista” dal nome del partito e, come altri i socialdemocratici occidentali prima di lui, aveva assicurato che il Pci non vuole “un generale passaggio di tutti i mezzi di produzione in mano pubblica”. Lo stato socialista del futuro sarà più libertario e democratico di qualsiasi paese occidentale. Su un dettaglio, però, Longo non vuole esagerare con la democrazia: ha infatti respinto al mittente la richiesta del ribelle Ingrao di un maggior confronto nel partito. Perché il Pci non va ridotto a un circolo di discussione. u sk
Der Spiegel è uno dei principali settimanali tedeschi. È stato fondato ad Amburgo nel 1947.
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Dal compromesso storico al crollo del muro
1972–1991
Piazza San Giovanni, Roma, 17 giugno 1975. Angelo Palma (A3/Contrasto)
La malattia cecoslovacca
VEZIO SABATINI (FONDAZIONE GRAMSCI/ARCHIVIO FOTOGRAFICO DEL PCI)
La repressione sovietica della Primavera di Praga ha creato tensioni tra le diverse anime del comunismo italiano. E la risposta della dirigenza del Pci è stata troppo timida Hansjakob Stehle, Die Zeit, Repubblica Federale Tedesca, 6 ottobre 1972
Il XIII congresso nazionale del Pci al Palalido, Milano, marzo 1972
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Lo scorso fine settimana quasi mezzo milione di comunisti italiani, riuniti a Roma per la festa del loro quotidiano di partito, hanno dato mostra di gioiose certezze. Lo show del festival dell’Unità è quasi riuscito a far dimenticare fino a che punto esso fosse necessario per dare coraggio al Pci. Nonostante i nove milioni di voti raccolti alle ultime elezioni, al momento il partito manifesta una strana apatia, che si potrebbe perfino definire una paralisi. È da tempo ormai che l’impegno militante è tenuto a freno dal senso del bene dello stato. Oggi, però, c’è qualcos’altro: l’impossibilità, in tempi brevi, di partecipare al governo. In altri momenti, tale partecipazione era sembrata a portata di mano. Adesso, invece, i democristiani (sinistra inclusa) sono meno propensi che mai ad accettare un esperimento del genere, anche se il segretario Enrico Berlinguer continua imperterrito a corteggiare i cattolici, con grande scorno di molti suoi elettori. Per superare l’ostacolo principale sarebbe necessario procedere a una rischiosa ridefinizione della collocazione politica del partito. Solo così si arriverebbe al nocciolo del morbo di cui soffre il Pci: “la malattia cecoslovacca”. Nel 1968, la Primavera di Praga ha dato ai comunisti italiani l’occasione di esprimere le loro posizioni non ortodosse. Ma da quando quell’esempio di socialismo libertario è caduto sotto la scure della ragion di stato dell’impero sovietico, il Pci non riesce più a cavarsi d’impaccio. Anche se ha sistematicamente rifiutato di dare la sua benedizione all’intervento sovietico e alla “normalizzazione”, negli ultimi quattro anni la sua critica alla liquidazione del nuovo corso di Alexander Dubček è stata tanto prudente e misurata quanto in passato era stato chiassoso e quasi smodato l’entusiasmo per l’esperimento praghese. “Riprovazione” è stata la parola più dura usata. Il 13 aprile 1972 i comunisti cecoslovacchi, attraverso un canale viennese, hanno inviato una lettera (non firmata) a Sergio Segre, responsabile della sezione esteri del Pci. Strana-
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mente la lettera non è mai arrivata al suo destinatario, ma è stata pubblicata più di tre mesi dopo dal Manifesto, il giornale degli scissionisti di sinistra. Vi si leggeva che a Praga il gruppo filosovietico guidato da Vasil’ Bil’ak e Alois Indra sosteneva che i comunisti italiani avessero ormai “compreso perfettamente” le ragioni dell’intervento di Mosca e fossero decisi a mettersi alle spalle il “malinteso” sul 1968: “Convinti che si tratti di calunnie, riteniamo fondamentale che il Pci smentisca pubblicamente e con decisione”. Amici o traditori A Praga stavano per cominciare i primi processi politici. Il 22 luglio l’Unità, quotidiano del Pci, in un commento nascosto, quasi con pudore, all’ultima pagina, lamentava che ricorrere ai processi “non risolve, ma aggrava le cose”. Inoltre, scriveva l’Unità, la posizione del Pci sulla Cecoslovacchia “è nota”. “No, non è noto nulla”, si indignava il giorno dopo il Manifesto, scrivendo: “L’invasione della Cecoslovacchia è stata accolta con riprovazione, ma qual è oggi il giudizio politico (non storico) su questo processo e sulle sue conseguenze? Dubček era un compagno – cos’è oggi per Berlinguer e il Pci? Un rinnegato? E se per il Pci il nuovo corso (del 1968) era socialista, cos’è allora il regime di Husák? Una variante? La molteplicità delle vie al socialismo è forse tale che alcune di esse conducono dal potere alla galera?”. Irritata dall’amara ironia degli amici sleali del Manifesto, il 24 luglio l’Unità s’indignava a sua volta: pura calunnia insinuare che il Pci abbia rivisto il suo “atteggiamento critico” nei confronti degli sviluppi cecoslovacchi; la critica non può però mai portare a “dichiarare che i paesi in cui si è iniziata una costruzione socialista sono da condannare e da respingere in blocco. La tragica rottura che s’è avuta per quanto riguarda l’interno della Cecoslovacchia è una rottura tra comunisti”. Neppure l’inizio del processo contro Milan
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Hübl, vecchio amico del Pci, ha smosso l’Unità dal suo salomonico Olimpo. Con i processi “vediamo dolorosamente e nuovamente confermata la nostra radicata opinione secondo cui solo un’aperta battaglia politica e ideale condotta dinanzi alle masse e con la partecipazione di tutti i cittadini è lo strumento per imboccare e seguire la giusta strada”. Dieci giorni dopo, l’8 agosto, in seguito a un acceso dibattito, l’ufficio politico del Pci ha prodotto una dichiarazione (pubblicata finalmente sulla prima pagina dell’Unità) in cui si condannava la persecuzione giudiziaria dei protagonisti della Primavera di Praga. Confrontato con le infuocate proteste rivolte ai processi politici dell’occidente, anche questo documento appare contorto e artificioso. Se è vero – come ha constatato l’ufficio politico di Berlinguer – che alle forze anticomuniste “manca qualsiasi titolo politico e morale per ergersi a tutori dei princìpi democratici e a censori delle dolorose esperienze dei paesi socialisti”, cosa impedisce ai comunisti italiani quantomeno di esaminare con lucidità queste “tormentate esperienze” e le loro cause? Il motivo sta soprattutto nel timore di non riuscire a sorvolare sul ruolo dell’Unione Sovietica. Il Pci non può permettersi di smascherare del tutto la politica di alleanze di Mosca, non solo in ragione di un certo sentimentalismo – particolarmente radicato tra i funzionari più anziani – ma anche per semplice calcolo politico: significherebbe ammettere che in ultima analisi le vie autonome al socialismo sono percorribili esclusivamente laddove non arriva il pugno di ferro degli eredi di Lenin e Stalin, come del resto hanno sempre sostenuto i socialdemocratici. Al Pci non converrebbe superare le proprie remore sulla questione. Certo, guadagnerebbe la fiducia di quei partiti democratici con cui
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potrebbe coalizzarsi in futuro, ma allo stesso tempo perderebbe molti dei suoi vecchi elettori senza guadagnarne altrettanti di nuovi: a conti fatti, insomma, ne uscirebbe indebolito. Fin qui l’esperienza – in particolare la devastante sconfitta del gruppo del Manifesto alle elezioni di maggio – dimostra che le critiche a Mosca e alle degenerazioni del comunismo mondiale, anche quelle più argomentate, al livello nazionale non portano alcun vantaggio ai comunisti. Il Pci incassa milioni di voti di protesta da elettori a cui le sottigliezze ideologiche in politica estera non interessano affatto: a tanti di loro preme piuttosto bastonare la “classe dominante” con la falce e con il martello, nella certezza, però, che in fondo non si arriverà mai alla resa dei conti. Il peso della base fa del Pci un rispettabile partito di massa, come ebbe a definirlo perfino il presidente del consiglio democristiano Giulio Andreotti. Tuttavia, la maggioranza democratica del paese continua a ritenere che, sulla bilancia del potere, tale peso sia troppo leggero, almeno finché il Pci non riuscirà a dar prova dell’effettiva praticabilità della sua pretesa autonomia. Se ci riuscisse – e la questione cecoslovacca potrebbe dargliene l’opportunità – ad approfittarne sarebbe soprattutto la sinistra democratica socialista, che allo stesso traguardo è arrivata per prima. Questo dilemma fa sì che i comunisti italiani non riescano mai davvero a gioire della propria forza. In questa situazione, nonostante la sua debolezza in parlamento, il presidente Andreotti si è lasciato andare a una delle sue famose battute: i comunisti italiani possono anche credere a un socialismo dal volto umano, ma cosa succederebbe se gli fosse sottratto contro la loro volontà? “Può darsi che allora ci rivedremmo in galera. Ma non è una consolazione. Preferisco passare qualche altra legislatura a discutere con voi qui in parlamento”. u sk
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VEZIO SABATINI (FONDAZIONE GRAMSCI/ARCHIVIO FOTOGRAFICO DEL PCI) (2)
Dirigenti al XIII congresso nazionale del Pci al Palalido, Milano, marzo 1972
Delegati al XIII congresso nazionale del Pci al Palalido, Milano, marzo 1972
Die Zeit è un settimanale tedesco di orientamento progressista, pubblicato ad Amburgo dal 1946.
Hansjakob Stehle (1927–2015) è stato un giornalista e storico tedesco, corrispondente
dall’estero per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, Die Zeit e la radio pubblica Wdr.
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Socialismo all’italiana La strategia del compromesso storico elaborata da Berlinguer non è in contraddizione con la natura e gli obiettivi del Pci. Ed è il compimento del progetto politico immaginato da Togliatti Zoran Žujović, Politika, Jugoslavia, 23 marzo 1975
Al tempo della crescente pervasività dei mezzi di informazione, con un pubblico sempre più avido dei particolari della vita privata di chi occupa le prime pagine dei giornali, Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, sembra avere trovato un rimedio a questa aggressività. Anche se come politico è al centro dell’attenzione pubblica e sono pochi i dettagli della sua vita che non conosciamo, si è tenuto comunque alla larga da certi meccanismi pubblicitari. In questo senso, ma non solo, si può parlare di lui come di una originale “antipersonalità”. Enrico Berlinguer, nato a Sassari il 25 maggio 1922, nel 1943 era abbastanza adulto per iscriversi al partito, nella fase più critica della guerra, e per passare qualche mese nelle prigioni fasciste; ma per il ruolo che occupa da anni all’interno del movimento comunista è in effetti piuttosto giovane. Le particolari condizioni del contesto italiano hanno fatto sì che a 47 anni diventasse vicesegretario, e a cin-
quant’anni segretario del partito comunista di gran lunga più potente del mondo capitalista. Forti resistenze In un articolo pubblicato su Rinascita, il settimanale del Pci, subito dopo il colpo di stato fascista in Cile nell’autunno del 1973, Berlinguer ha cominciato a illustrare la strategia che ha chiamato “compromesso storico”. Concepita come orientamento a lungo termine del partito, allora come oggi quella strategia ha lasciato interdetti molti e ha incontrato, tra gli avversari e tra i comunisti, fortissime resistenze. A prima vista sembra paradossale, perché nel compromesso storico c’è davvero molto di una certa tradizione del Pci: in primis, la necessità di un costante autoesame e della conferma sia della strada percorsa sia di quella che si sta ancora cercando, che dev’essere determinata in modo affidabile unicamente attraverso l’indagine sperimentale nella pratica della lotta. Senza svalutare il vero motore della
Enrico Berlinguer a Roma, 1974. Romano Gentile (A3/Contrasto)
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storia – la lotta delle masse negli scontri sociali – e senza confondere Berlinguer con le persone che, in qualche modo, hanno risolto il problema che la storia gli ha messo davanti, non possiamo dimenticare che il capo del Pci è il soggetto finale della catena Gramsci-Togliatti- Longo. Gli attenti lettori contemporanei devono tenere presente che precursore dell’attuale compromesso storico fu già Antonio Gramsci, nonostante l’idea incompiuta delle larghe alleanze nel “blocco storico”, sorta sulla base dei conflitti iniziali con il fascismo. Dopo essersi lasciato alle spalle il difficile periodo del fascismo, e scontrandosi con l’insostenibile monolitismo del movimento comunista, il Pci con Togliatti aveva proclamato già nel 1956 “la via italiana al socialismo”. Dopo la difficile esperienza jugoslava del 1948, nei paesi capitalisti occidentali questa è stata la prima conferma di un’idea oggi molto chiara e di una pratica ormai ampiamente accettata: cioè che la politica di ogni partito comunista deve poggiare sulle condizioni e gli interessi specifici che le hanno dato vita. Il peso delle tradizioni Detto in poche e semplici parole, sono queste le tradizioni del Partito comunista italiano. Ma ce ne sono anche altre. Come l’esperienza della lotta antifascista. A giudicare dai fatti più recenti, nel paese ci sono ancora residui del fascismo e la terra su cui esso cresce sembra più fertile in Italia che nelle altre nazioni sviluppate, rispetto alle quali il paese di Berlinguer oggi è ancora un passo indietro, gravemente colpito da una profonda crisi sociale. In Italia ogni partito deve fare quotidianamente i conti con la chiesa cattolica. Si potrebbe dire che oggi il cattolicesimo in Italia è sia attivismo politico sia visione etico-confessionale della realtà. Fra le tradizioni del partito ce n’è anche una familiare. Il padre del segretario comunista, l’avvocato Mario Berlinguer, ha seguito
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un suo percorso politico: da repubblicano è diventato socialista e, nei primi giorni del dopoguerra, dopo la sconfitta del fascismo, è stato senatore e commissario governativo all’epurazione. Ma il figlio si è spinto oltre: avvocato come il padre, Enrico Berlinguer è diventato comunista, dedicandosi fin da giovanissimo all’attività e alle lotte del partito. Nel 1948 era già nel comitato centrale del Pci e a soli trentotto anni è entrato nell’apparato direttivo. È sulla base di una simile tradizione, considerate anche le circostanze dell’epoca e le esperienze di lotta politica che lo avevano formato, che Berlinguer ha formulato la strategia del compromesso storico. “L’unità, la forza politica ed elettorale delle sinistre e la sempre più solida intesa tra le loro diverse e autonome espressioni, sono la condizione indispensabile per mantenere nel paese una crescente pressione per il cambiamento e per determinarlo. Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia) questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento”, ha scritto nel 1973. “Ecco perché noi parliamo non di una ‘alternativa di sinistra’ ma di una ‘alternativa democratica’ e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica”. Il senso del compromesso storico risiede prima di tutto proprio nell’inesistenza delle condizioni per un blocco, un fronte comunista con i partiti politici come sono strutturati oggi. Allo stesso tempo, le masse popolari e i lavoratori, indipendentemente dalle loro idee politiche e dal partito di appartenenza, si trovano a fronteggiare difficili problemi sociali ed economici, ai quali cercano una soluzione. Non
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ROMANO GENTILE (A3/CONTRASTO) FAUSTO GIACCONE (CONTRASTO)
Enrico Berlinguer e Antonio Tatò a Roma, 1974
Un corteo dei metalmeccanici al Circo Massimo, Roma, 28 novembre 1969
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sono pronti – in primo luogo i cattolici – ad accettare una scissione del partito a cui appartengono o, come ha detto Berlinguer, una divisione verticale dell’Italia. Per questo i comunisti invitano a un’azione comune, a coinvolgere altri partiti senza però cercare di dividerli, ma aspettandosi che la logica delle azioni, le quali possono e devono essere condivise, rendano possibili i cambiamenti. Il discorso riguarda il nuovo vertice di un’alleanza che deve essere democratica a tutti i livelli o che, altrimenti, non sarà affatto. Difendendo questa strategia – spesso anche dalle resistenze all’interno dello stesso Pci, derivanti dall’inerzia o dall’incomprensione dei cambiamenti al livello mondiale, o ancora risultato di certi dogmi profondamente radicati – il segretario del Pci sottolinea esattamente la portata e la natura democratica del compromesso storico come alternativa all’incapacità delle attuali strutture di potere di risolvere i problemi economico-sociali. Da marxista, Berlinguer è convinto che la prospettiva democratica dello sviluppo del pa-
ese rimuoverà anche gli ostacoli sul suo cammino verso il socialismo. Per Enrico Berlinguer non ci sono dilemmi: o i comunisti otterranno il potere o non ci sarà nessun cambiamento nella struttura economico-sociale della società. Questa sua convinzione deriva dal rifiuto dell’idea secondo cui il Pci – che più volte ha dichiarato di essere pronto a farsi carico della propria parte di responsabilità nell’amministrare il paese – desidera prendere il comando come condizione per collaborare con gli altri. Berlinguer è evidentemente convinto che la sua visione e la sua influenza saranno proporzionate alla bontà della sua politica, in cui crede fermamente. Egli rifiuta anche un’altra alternativa, quella tra rivoluzione e ritorno del fascismo, aggiungendo che una caratteristica fondamentale dell’attuale contesto italiano è il fatto che una profonda crisi economico-sociale non potrà essere evitata senza “l’immediata partecipazione della classe operaia e delle classi lavoratrici” al processo decisionale circa le sorti del paese. u ab
Politika è il principale quotidiano della Serbia. È stato fondato nel 1904 a Belgrado, all’epoca nel Regno di Serbia, poi capitale del Regno dei serbi, croati e sloveni, e in seguito della Jugoslavia.
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Il partito giraffa
ROMANO GENTILE (A3/CONTRASTO)
Rispetto della democrazia. Critiche al capitalismo. Buona amministrazione. Autonomia nei confronti di Mosca. Il Pci è una forza unica. E la sua stessa esistenza è una minaccia alla logica dei blocchi Mark Frankland, The Observer, Regno Unito, 19 ottobre 1975
Gli attori Ludovica Modugno, Duilio Del Prete ed Edmonda Aldini alla festa per la vittoria del Pci alle elezioni amministrative a piazza San Giovanni, Roma, 17 giugno 1975
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Nel cimitero inglese di Roma, nella sezione opposta a quella in cui si trova la tomba di John Keats e a ridosso della siepe che nasconde i bidoni della spazzatura e i capanni degli attrezzi dei giardinieri, c’è una lapide spoglia con sopra l’iscrizione “GRAMSCI Ales 1891 Roma 1937”. Molti visitatori non se ne accorgono nemmeno, perché la tomba non è segnalata, a differenza di quelle di Keats e Shelley. Chi ci passa accanto e legge di sfuggita il nome e il luogo di nascita del defunto probabilmente la scambia per la sepoltura di qualche sconosciuto morto per caso a Roma, degno compagno dei nobili italofili russi, americani e inglesi che riposano nel cimitero. Eppure questo signor Gramsci, nato in Sardegna da madre sarda e da padre napoletano di origini albanesi, è stato il fondatore, ed è tuttora la fonte d’ispirazione intellettuale, del più grande partito comunista del mondo occidentale. Alle elezioni amministrative dell’11 giugno i comunisti italiani hanno preso undici milioni di voti, oltre il 33 per cento del totale, appena due punti in meno della Democrazia cristiana, che governa il paese da quasi trent’anni. I comunisti (in coalizione con il più piccolo Partito socialista italiano) oggi governano quasi tutte le principali città a nord di Roma e le cinque regioni del nord dov’è concentrata buona parte dell’industria del paese. Ma il Partito comunista italiano è molto più di un peso massimo della politica italiana. Nella pratica come nella teoria (quest’ultima in gran parte elaborata da Gramsci durante i dieci anni trascorsi nelle carceri di Mussolini) il Pci si vanta di offrire ai paesi del mondo capitalista avanzato una via umana e democratica al socialismo, una via che (ammesso che esista davvero) sembra più che mai allettante in questi tempi di crisi politica ed economica. Molti, anche in Italia, obietteranno che un partito comunista del genere non può esistere. L’evidenza dei paesi comunisti è che, per quante conquiste possano essere state fatte al livello economico e sociale, c’è stata ben poca
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attenzione alla democrazia per com’è intesa in occidente e, almeno in Russia e in Europa dell’est, spesso anche scarso rispetto per l’essere umano. Una lettera scritta recentemente a un quotidiano di Torino riassume bene questo scetticismo: “Il Pci si sta travestendo da agnello. Ma il giorno in cui si mostrerà per il lupo che è, l’Italia diventerà un paese sottosviluppato alla mercé dei burocrati”. Tra il marxismo e la realtà I leader del Pci sanno bene che ciò che dicono sembra troppo bello per essere vero. Palmiro Togliatti, segretario del partito dalla fine della guerra fino alla sua morte nel 1964, ci scherzava spesso su. Il Pci, diceva, è come una giraffa: la gente ne ha sentito parlare da chi ha viaggiato, ma non riesce a credere che un animale così strano esista davvero. E in effetti, almeno per gli standard di quasi tutti gli altri partiti comunisti, il Pci è così strano che quest’incertezza si avverte perfino tra i suoi iscritti, che a volte sembrano non capire bene la natura dell’animale politico a cui appartengono. Il mese scorso, per esempio, nel quartiere romano di Trastevere c’è stata la festa dell’Unità, il giornale di partito. Per un osservatore esterno la cosa più strana era vedere quanto gli organizzatori ci tenessero a sottolineare i legami con Mosca. C’era una bancarella dell’associazione Italia-Urss che vendeva vodka e matrioske, e il primo premio della lotteria era una vacanza di due settimane in Unione Sovietica (il secondo era una lavatrice). Di certo tutto questo avrà fatto piacere ai militanti che, come ha osservato un noto uomo politico, “se non sono stalinisti, sono quantomeno brezneviani”. Ma allora come spiegare la bancarella che, oltre ai testi di Lenin, vendeva un libro su Kandinskij, uno dei padri della pittura moderna le cui opere sono anatema a Mosca, e una traduzione della Storia della guerra civile spagnola di Hugh Thomas, che racconta nel dettaglio il cinismo mostrato da Stalin in Spagna?
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Gli uomini che guidano il partito, in particolare il segretario generale Enrico Berlinguer e i suoi fedelissimi, sembrano aggirare questa ambiguità concentrandosi sulle specificità di ogni situazione. Il marxismo, per loro, non è un sistema pronto all’uso né tantomeno una dottrina messa a punto a Mosca o altrove, ma il metodo più efficace per affrontare la realtà politica. Ecco perché la Russia viene omaggiata in quanto pioniera del comunismo e, nonostante tutti gli errori commessi, è ancora ammirata da molti lavoratori comunisti italiani. Il carattere peculiare del comunismo italiano risale ai tempi di Gramsci, le cui idee avevano una specifica connotazione “nazional-popolare” (parole di Gramsci stesso). I suoi successori hanno continuato a definire le posizioni del partito in base a quello che chiamerebbero un confronto dialettico tra il marxismo e la realtà dell’Italia moderna. Dopo la seconda guerra mondiale Togliatti si era reso conto che il partito sarebbe stato annientato se avesse imboccato la strada della rivoluzione violenta (com’è successo ai comunisti greci). Anche per questo ha evitato lo scontro con istituzioni come la chiesa e ha cercato di collaborare con i partiti democratici che avevano combattuto al fianco dei comunisti durante la resistenza. Grazie a questa pazienza e al rispetto delle regole democratiche – e anche per la debolezza degli altri partiti di sinistra – il Pci ha monopolizzato l’opposizione, un traguardo mai raggiunto da nessun altro partito comunista europeo. Questa stretegia è stata recentemente sintetizzata nella formula “compromesso storico” dall’erede di Togliatti, Enrico Berlinguer, un uomo magro e di bella presenza proveniente da una ricca famiglia sarda. Per comprendere la formula, che ormai ricorre in ogni conversazione sulla politica italiana, va ricordato che Berlinguer l’ha introdotta per la prima volta nel 1973, dopo la caduta del governo di Salvador Allende in Cile. In Europa, il golpe contro Allende è stato vissuto
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come un trauma molto più di quanto non sia successo nel Regno Unito. Per gli italiani “fascismo” non è una parola qualsiasi, e nessuno degli osservatori con cui ho avuto modo di parlare ha escluso la possibilità di un colpo di stato di destra in Italia. La lezione che Berlinguer ha tratto dall’esperienza cilena è che, anche se i comunisti e i socialisti dovessero raggiungere il 50 per cento più uno dei voti alle elezioni, provare a formare un governo sarebbe pericoloso. L’attacco della Pravda Un ipotetico governo di sinistra, ha scritto Berlinguer, rischierebbe di spaventare il centro e la destra, provocando la saldatura di “un largo fronte clerico-fascista” e una reazione violenta che potrebbe essere appoggiata da istituzioni come i carabinieri – il ramo militare della polizia – e i servizi segreti italiani. L’alternativa proposta da Berlinguer è basata sul tentativo di aprire una collaborazione fra le tre grandi forze popolari in Italia: i comunisti, i socialisti e i cattolici. In futuro, il Pci potrebbe anche entrare a far parte di un governo espressione di queste tre forze; per il momento, invece, si accontenterà di essere riconosciuto come forza di opposizione responsabile e di dare il suo contributo all’azione di governo per cercare di risolvere i problemi dell’Italia. “Noi comunisti non vediamo l’opposizione come un governo alternativo, nel senso britannico, ma come una sorta di elemento di pressione in grado di condizionare il governo in carica”, ci ha detto Sergio Segre, che dirige la sezione esteri del Pci Questa linea di prudenza si basa non solo su una valutazione molto ragionevole dell’equilibrio di forze nell’Italia di oggi, ma è riconducibile alla teoria, elaborata in prima battuta proprio da Gramsci, secondo cui le società capitalistiche moderne possono trasformarsi in sistemi socialisti. Gramsci esclude il ricorso alla violenza come strumento politico, poiché sostiene che le società moderne, anche quelle
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capitaliste, si basano tanto sul consenso quanto sulla forza. Per cambiare una società la prima cosa da fare è quindi costruire il consenso intorno all’idea stessa di cambiamento. Se, come fanno i comunisti italiani, si parte dal presupposto che la rivoluzione socialista debba necessariamente avere il sostegno della maggioranza della popolazione e non solo del proletariato, allora la democrazia non va più considerata un ostacolo, com’è stato finora in tutti i paesi retti da regimi comunisti. A luglio, in un momento critico della rivoluzione portoghese, quando sembrava che i comunisti stessero per prendere il potere con i classici metodi della cospirazione, i partiti comunisti italiano e spagnolo hanno diffuso una dichiarazione congiunta per riaffermare la loro fedeltà alla democrazia: il socialismo, hanno dichiarato, può essere costruito nei nostri paesi solo attraverso lo sviluppo e la piena realizzazione della democrazia. Alla base di questo c’è il pieno riconoscimento del valore delle libertà individuali e collettive, il principio della natura laica dello stato e della sua organizzazione democratica, il pluralismo partitico in un sistema di libera dialettica, l’autonomia dei sindacati, la libertà di culto, di parola, dell’arte, della cultura e della scienza. Belle parole, certamente, ma che sembrano figlie della tradizione del comunismo italiano più che moscovita. Dai tempi di Togliatti, del resto, il Pci è sempre stato pronto a scontrarsi con gli altri partiti comunisti, a cominciare da quello russo, per difendere le sue idee. Lo scontro con Mosca oggi somiglia più che altro a una guerra di posizione, in cui periodi di calma apparente si alternano a schermaglie inconcludenti quanto drammatiche. Da poco Mosca ha sferrato una di queste offensive. Alla luce delle divergenze esistenti nel mondo comunista sulla strategia dei comunisti portoghesi, ad agosto la Pravda ha pubblicato un articolo firmato da un certo Zarodov, un alto funzionario del partito specializzato in politica estera. L’articolo era un palese atto di sfida nei
confronti degli italiani. Zarodov ha scritto che Mosca è ancora il centro di comando del comunismo mondiale, come se Togliatti, protagonista di una lunga battaglia per affermare l’autonomia dei partiti comunisti europei, non fosse mai esistito. Basando la sua tesi su un testo di Lenin del 1905 (dettaglio che gli italiani considerano di per sé espressione di un approccio dogmatico) Zarodov ha spiegato che è un errore affermare che i comunisti debbano aspettare di conquistare la maggioranza dei consensi prima di andare al potere. L’articolo della Pravda ha preso di mira esplicitamente anche i partiti spagnolo, francese e britannico, ma è stato accolto con particolare irritazione dagli italiani. Da Bologna a Torino Dalle elezioni di giugno, il Pci è impegnato a governare democraticamente (proprio la pratica irrisa da Zarodov) alcune delle regioni più importanti del paese. Si è ritrovato in questa posizione in parte per meriti suoi, ma anche per la situazione disastrosa in cui si trova l’Italia. Qualche mese fa, Berlinguer aveva dichiarato che “tra le cose che funzionano in Italia – e purtroppo non ce ne sono molte – c’è e continuerà a esserci il Partito comunista italiano”. In quelle parole risuonava la stessa amara ironia con cui molti italiani, non solo di sinistra, guardano al governo del paese. È proprio attraverso la sua capacità amministrativa al livello locale che il partito spera di convincere chi ancora dubita delle sue credenziali democratiche. I comunisti hanno già raggiunto dei buoni risultati a Bologna, dove il loro lavoro è stato generalmente apprezzato: il traffico è meno congestionato, i trasporti pubblici sono migliorati, i palazzi storici sono stati restaurati. Bologna, però, non rappresenta una sfida particolarmente difficile per i comunisti, considerato che ha un elettorato di sinistra e non ha gravi problemi economici o sociali. Le città che il Pci ha conquistato a giugno saranno una prova più impegnativa. Per vede-
La festa per la vittoria elettorale del Pci a piazza San Giovanni, Roma, 17 giugno 1975. Angelo Palma (A3/Contrasto)
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re come stanno le cose sono andato a Torino, sede di molte delle più grandi industrie del paese, tra cui il colosso Fiat. Nel capoluogo piemontese la popolazione è raddoppiata nell’arco di vent’anni, soprattutto per effetto dell’immigrazione dal sud, ma né gli alloggi né le scuole né gli ospedali sono aumentati in proporzione. Il problema più immediato è la disoccupazione, ma anche garantire che le fabbriche locali, il motore del miracolo economico italiano del dopoguerra, restino all’avanguardia dell’industria mondiale. Diego Novelli, il nuovo sindaco comunista di Torino, è un giornalista di poco più di quarant’anni dal naso aquilino e l’aria un po’ triste. Si è già guadagnato le simpatie della gente perché va al lavoro con il suo maggiolino Volkswagen ed è considerato una persona onesta (contrariamente, a quanto pare, ai suoi predecessori conservatori). Novelli spiega che la prima cosa da fare è “ricucire il tessuto sociale di Torino”, mettendo in contatto le varie anime della città attraverso una serie d’incontri da cui dovrebbero emergere le priorità della cittadinanza. Lo scopo, spiega, è ricreare lo spirito di ricostruzione nazionale che aveva contraddistinto il dopoguerra. Durante la nostra conversazione, Novelli non ha mai usato toni polemici contro i conservatori o le grandi imprese. La stessa impressione l’ho avuta parlando con Alberto Minucci, segretario regionale del partito in Piemonte. I comunisti italiani credono nella coesistenza tra industria pubblica e privata (di fatto un terzo della finanza e dell’industria italiana è controllata dallo stato) e Minucci ha parlato della Fiat e di altre imprese locali come di un
Mark Frankland (1934-2012) è stato un giornalista e scrittore britannico. Reclutato giovanissmo dai servizi d’intelligence di Londra,
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patrimonio da valorizzare, non da ostacolare. Sia Novelli sia Minucci sembrano possedere le due doti che raccomandava Gramsci: il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. E avranno bisogno di entrambe, perché molto probabilmente il Pci è più lontano dal potere di quanto non facciano pensare i suoi recenti successi. La Democrazia cristiana può rilanciarsi. E i socialisti, che oggi collaborano con i comunisti nelle amministrazioni locali, hanno paura di condividere con loro il potere al livello nazionale. In più c’è il timore che un esperimento comunista in Italia sarebbe inaccettabile per gli americani, proprio come il “socialismo dal volto umano” di Dubček lo è stato per i russi in Cecoslovacchia. Berlinguer ha ripetuto più volte che un’Italia a guida comunista resterebbe nella Nato. Gli americani rispondono “neanche per sogno” e parlano apertamente delle rappresaglie politiche ed economiche che Washington scatenerebbe contro un governo comunista a Roma. La verità è che per il Pci non c’è posto né nello schema americano né in quello russo: il partito minaccia l’idea stessa di un’Europa saldamente divisa tra comunismo e capitalismo e, sul lungo periodo, perfino gli attuali sistemi politici delle due grandi potenze. Nonostante Mosca e Washington, il Pci ha già un’enorme influenza sugli affari italiani in quanto principale partito di opposizione. Ma i successori di Gramsci, che si sono sforzati di dar vita un programma nazionale per conciliare le conquiste dello stato borghese con gli aspetti più flessibili del marxismo, si troveranno presto la strada sbarrata dai guardiani del comunismo ortodosso e del capitalismo tradizionale. u fas
nel 1965 lasciò l’MI6 per fare il reporter. Fu corrispondente dell’Observer da Vietnam, Russia e Stati Uniti.
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Risultati straordinari Dopo le amministrative del 1975, le elezioni politiche del giugno 1976 segnano un nuovo successo elettorale per il Pci. Il voto raccontato da un quotidiano della Germania Est Gerhard Feldbauer, Neues Deutschland, Repubblica Democratica Tedesca, 23 giugno 1976 Tra domenica e lunedì il 93 per cento circa degli oltre quaranta milioni di italiani aventi diritto al voto è andato alle urne per rinnovare la camera dei deputati e il senato. Per il senato gli elettori sono stati poco meno di 35 milioni, dato che il diritto di voto spetta esclusivamente ai maggiori di 25 anni. Per quanto riguarda la camera, invece, per la prima volta è stato consentito ai diciottenni anche di candidarsi, oltre che di votare, risultato che le forze democratiche hanno ottenuto dopo decenni di lotte. Gli elettori con meno di 25 anni sono stati cinque milioni, e tre milioni di loro votavano per la prima volta. L’opinione pubblica ritiene che questo abbia contribuito in modo determinante al grande successo elettorale del Pci: i giovani italiani sembrano in gran parte orientati a sinistra. Le elezioni si sono svolte un anno prima del termine naturale della legislatura. Dopo le due crisi di governo che si sono susseguite dall’inizio dell’anno, il presidente della repub-
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blica Giovanni Leone, appurato che la Democrazia cristiana non era più in grado di trovare una maggioranza che la sostenesse, ha sciolto le camere e indetto elezioni anticipate. Gli italiani, e con loro gli osservatori stranieri, si sono chiesti innanzitutto se il Partito comunista avrebbe confermato il successo ottenuto alle amministrative del giugno 1975, quando si è votato per regioni, province, capoluoghi e comuni e il consenso elettorale raggiunto dal Pci su base nazionale è stato del 33,4 per cento. Lunedì sera – con i seggi chiusi dalle 14 e lo spoglio già cominciato – le prime proiezioni degli istituti demoscopici già indicavano un risultato simile a quello dello scorso anno. Il successo del Pci si annunciava perfino maggiore, con il 33,8 per cento dei consensi al senato e il 34,4 alla camera. Rispetto alle precedenti politiche del 1972 i voti comunisti sono aumentati del 6,2 per cento al senato e del 7,3 per cento alla camera. Si registrano inoltre una sostanziale tenuta del Partito socialista e
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un leggero incremento della Democrazia cristiana, a fronte di un calo di quasi tutti gli altri partiti laici. I consensi dei liberali si sono ridotti all’1,4 per cento, mentre quelli dei socialdemocratici, il cui segretario Giuseppe Saragat nel frattempo ha annunciato le dimissioni, hanno superato di poco il 3 per cento. Una batosta importante l’ha subìta il partito neofascista Msi, che ha perso più o meno il 3 per cento dei suoi elettori fermandosi all’incirca al 6 per cento. In cinque regioni – Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Liguria – il Pci è il primo partito, con un risultato che oscilla tra il 40 e il 50 per cento. In altre nove delle 21 regioni italiane ha superato il 30 per cento, affermandosi come seconda forza. Il Pci è primo anche in numerose grandi città, come Torino, una metropoli operaia, e poi Bologna, Firenze, Genova e Livorno, dove ha raccolto tra il 30 e il 50 per cento. Rispetto alle politiche del 1972 il partito ha quindi visto una crescita dei consensi con punte del 10 per cento, com’è successo a Torino. Per quanto riguarda l’elezione della camera dei deputati, per la prima volta il Pci è il primo partito anche nella capitale, con il 35,8 per cento dei consensi. Merita di essere riportato anche il risultato
Neues Deutschland è un quotidiano tedesco. Fondato nel 1946, fino al 1989 è stato il giornale del Partito socialista unitario di Germania, la forza marxista che guidava la Repubblica Democratica Tedesca.
di Sezze, un comune a sud di Roma dove durante la campagna elettorale si è verificata una violenta provocazione fascista contro le forze democratiche, nel corso della quale un giovane comunista è stato ucciso a tradimento. Il 63,2 per cento degli elettori della cittadina ha votato per i candidati del Pci, che hanno ottenuto il 4 per cento in più rispetto al 1972. La crescita del Pci è stata rilevante anche nelle regioni del sud, socialmente ed economicamente più arretrate. “Nettamente spostati a sinistra i rapporti di forza nel Parlamento uscito dalle elezioni del 20 giugno”, ha scritto il 22 giugno l’Unità. “La sinistra raggiunge una forza mai registrata nonostante un leggero cedimento socialista”, aggiunge l’organo del Pci. Il quotidiano borghese di Roma Il Messaggero sottolinea invece che “l’elettorato ha dato vita ad una nuova realtà”. Il giornale conferma quello che nella notte di lunedì il compagno Enrico Berlinguer gridava alle migliaia di romani assiepati in via delle Botteghe Oscure, davanti all’edificio della sede del Pci, per celebrare il grande successo elettorale del partito della classe operaia e dei lavoratori. “La Democrazia cristiana non può più fare i conti senza il Partito comunista. C’è un elettorato popolare che non si può ignorare”. u sk
Gerhard Feldbauer (1933) è un giornalista, storico ed ex diplomatico tedesco. È stato corrispondente di Neues Deutschland in Vietnam e in Italia.
Cosenza, maggio 1976. Hervé Gloaguen (Gamma-Rapho via Getty Images)
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Un documento prezioso
ALBUM/ORONOZ/MONDADORI PORTFOLIO
Il quotidiano del partito ungherese ripercorre le vicende del comunismo italiano, dalla fondazione del Pci alla resistenza, in una recensione del libro Tra reazione e rivoluzione di Luigi Longo e Carlo Salinari János Jemnitz, Népszabadság, Ungheria, 15 settembre 1977
Luigi Longo in Spagna, 1936
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Un libro singolare, nel genere e nei contenuti. Da noi, in lingua ungherese, i libriintervista sono pressoché sconosciuti. Attraverso un informale scambio di opinioni davanti a un registratore, in questi volumi i personaggi politici offrono le loro annotazioni a margine di determinati eventi e tracciano la propria biografia. C’è però da notare subito che questa forma letteraria, e dunque anche il volume di Luigi Longo, permette di “lasciare aperte” alcune questioni. Gli interlocutori protagonisti di Tra reazione e rivoluzione (Teti 1976), Longo e Carlo Salinari – professore comunista dell’università di Roma, che da giovane ebbe anche un ruolo importante nella resistenza – non mancano di segnalarlo a più riprese. Anzi, per alcune questioni particolarmente “spinose” entrambi sottolineano che ci sarebbe – ci sarà – bisogno di ulteriori ricerche e verifiche. Di Longo sono già usciti in lingua ungherese diversi scritti che sono un intreccio di memorie storiche e ricordi personali. L’autore vi descrive tanto la guerra civile spagnola, quanto gli anni della seconda guerra mondiale e del movimento italiano di resistenza, rievocando così la propria giovinezza e la storia della sua maturazione socialista e comunista. Al centro del presente volume ci sono invece la nascita del Partito comunista italiano, il suo rapporto con il partito socialista, nonché la condanna del fascismo e la lotta antifascista. Avvincenti sono la freschezza di pensiero di Longo, il suo coraggio, il modo in cui solleva domande “delicatissime”. Dai tempi di Togliatti è difficile trovare in Italia un dirigente comunista altrettanto scrupoloso che, alla guida del partito, abbia ripercorso con occhio critico il passato del partito stesso, con tutto ciò che la cosa comporta. Anche da questo punto di vista il volume di Longo è esemplare, non solo “lettura obbligatoria” per quanti vogliano approfondire le questioni del movimento operaio e del fascismo italiani, ma strumento utile per chi desideri farsi un’idea reale di cosa fosse
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il movimento operaio internazionale all’inizio degli anni venti e di come siano nate l’Internazionale comunista e le relazioni tra i singoli partiti comunisti nazionali. Di tutto questo Longo parla, discute, argomenta e riflette, in molti casi affidando a Salinari, o agli studiosi più giovani, il compito di chiarire ulteriormente certi dettagli. Prima di entrare nel merito delle problematiche trattate, ancora un’osservazione preliminare sul modo di “tracciare i personaggi”. È facile scrivere che le personalità politiche vanno presentate nel ruolo che hanno realmente svolto in una determinata epoca. Eppure, è un requisito che spesso si fatica a ritrovare nei lavori storiografici. Anche in questo caso, Longo si offre come esempio. Egli ritrae in maniera sfaccettata (mostrandone cioè le preoccupazioni e perfino, horribile dictu, gli errori) non solo i due “giganti” del partito italiano, nonché suoi amici personali e compagni di lotte, cioè Gramsci e Togliatti, ma anche figure come quelle di Bordiga, che ricoprì un ruolo importante agli albori del Pcd’I, o di Bombacci, in seguito diventato fascista. L’elenco potrebbe continuare. L’importanza di testimoniare In tutti i paesi, la nascita dei partiti comunisti e la spaccatura con i socialisti sono stati fenomeni complessi e burrascosi. Così è stato anche in Italia, tanto più perché alla testa del Partito socialista vi era Serrati, una personalità assimilabile, se si vuole, al nostro Zsigmond Kunfi, di cui nessuno negava l’onestà, il coraggio (finì più volte in prigione sotto diversi governi) e lo stretto legame con la classe operaia. Secondo Longo, anzi, nel processo di rottura che tra il 1919 e il 1921 portò alla formazione del partito comunista, il settarismo e l’impazienza di Bordiga (e di altri militanti) finirono per spingere troppo a sinistra la linea di demarcazione, così da lasciare fuori dal neonato Pcd’I molte personalità con cui si sarebbe potuto intraprendere un cammino comune.
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Contemporaneamente alla fondazione del partito, si compiva quella che fu all’epoca la più grande azione di massa degli operai italiani: l’occupazione delle fabbriche. Una forma di mobilitazione completamente nuova per l’epoca, che da quel momento sarebbe stata impiegata spesso dal movimento operaio internazionale. Allora si dibatté molto, e se ne discute ancora oggi, sul fatto che gli operai italiani avrebbero potuto ottenere di più, vale a dire raggiungere un successo più duraturo. Anche a tal riguardo Longo fornisce diverse considerazioni parziali, ma una sua completa risposta rimane in sordina; in ogni modo egli stesso aveva immaginato un successo maggiore, e spiega anche in che termini. Oltre alla ricostruzione dell’ascesa rivoluzionaria, tuttavia, su tutte le pagine del volume si allunga un’ombra nera: quella del fascismo. Un tema che torna con grande frequenza. Longo e Salinari sottolineano che i dirigenti comunisti italiani non riconobbero per tempo il pericolo, che non compresero subito l’essenza del fascismo. Bordiga e gli altri dirigenti inclini al settarismo – nonostante i ripetuti ammonimenti del Comintern e di Zinovev – ritennero che fosse prioritaria la lotta contro i socialisti, anzi contro Serrati, e furono quindi colti di sorpresa dall’ascesa al potere di Mussolini. Tuttavia, il trauma fece pas-
Népszabadság è stato il quotidiano del Partito socialista operaio ungherese. Fondato nel
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novembre del 1956, durante la rivoluzione ungherese, ha cessato le pubblicazioni nel 2016.
sare la sbornia in gran fretta; fu allora che Gramsci, Togliatti e Scoccimarro presero la guida del partito. Anche in questo caso Longo e Salinari rifiutano le soluzioni romanzate e riferiscono dei dibattiti che ebbero luogo anche con la nuova dirigenza e degli errori che furono commessi. Nel far ciò, i due interlocutori ricostruiscono anche in che modo, nel contesto del fascismo, il neonato Partito comunista finì per diventare la guida del movimento di resistenza. Il volume non termina con questa svolta, come con essa non terminò la vita reale o la parabola del movimento operaio. Le discussioni non s’interruppero, e Longo ci spiega come lui stesso abbia rimuginato a lungo sulle diverse posizioni in gioco. Nel frattempo, la vita politica italiana veniva scossa da una nuova bufera: l’omicidio di Matteotti, segretario del Partito socialista italiano, con la crisi politica che ne seguì; la questione dell’alleanza con l’opposizione antifascista e della condotta che i comunisti avrebbero dovuto tenere. Su tali argomenti il dibattito è recentemente tornato a infiammarsi, ma nemmeno in questo caso Longo pretende di pronunciare sentenze inappellabili. A conti fatti, il suo libro si può considerare senza dubbio una delle fonti più importanti nella letteratura sul movimento operaio dell’epoca. u ct
János Jemnitz (1930-2014) è stato uno storico ungherese.
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Perché Gramsci Per la sinistra dell’America Latina il pensiero del filosofo sardo è fondamentale. La sua analisi si adatta bene alle condizioni sociali, politiche ed economiche dei paesi della regione Juan Carlos Portantiero, Cuadernos de Pasado y Presente, Messico, 1977 Il riscatto del pensiero gramsciano, in quanto discorso teorico enunciato a difesa di una concreta strategia politica, richiede una giustificazione particolare. Se ci limitassimo a valutare l’apporto di Gramsci come quello di un precursore dello sviluppo della scienza politica marxista, la domanda aperta da questo contributo sarebbe meno valida. Ma questo non sarebbe il vero Gramsci. Per noi, la sua opera contiene una proposta che va oltre l’ambito della teoria generale per offrirci uno stimolo sul terreno della pratica politica. Le sue domande somigliano alle nostre domande, le sue risposte seguono strade che riteniamo utile percorrere. Nei suoi testi, che parlano dell’Italia di cinquant’anni fa, riconosciamo un respiro che è il nostro, anche se viviamo in un’altra epoca e all’altro capo del mondo. Educati alla consuetudine “consumista” così ricorrente nelle sinistre latinoamericane, i riferimenti all’attualità del pensiero di Gramsci potrebbero essere considerati un
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esempio di quei ciclici innamoramenti nei confronti di modelli lontani, adottati senza spirito critico per poi essere sostituiti da altri. E quindi: perché Gramsci, quando proprio lui segnala che la strategia proposta “si pone per gli stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove vigono ancora le forme che nei primi sono superate e divenute anacronistiche”? La valutazione che egli stesso fornisce del suo pensiero sembra dare ragione a chi sostiene che i concetti proposti dal filosofo italiano siano pertinenti solo nelle società capitalistiche avanzate, nel centro del mondo, nell’“occidente” imperialista. Eppure il suo approccio, come abbiamo detto, trascende quei limiti e ci parla direttamente. C’è di più: in uno dei suoi ultimi scritti prima della prigione, per distinguere le società Gramsci propone un criterio diverso che offre maggiori sfumature della dicotomia tra “oriente” e “occidente”. Analizzando la situazione internazionale e le pro-
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spettive rivoluzionarie, Gramsci distingue due tipi di paesi: quelli a capitalismo avanzato e quelli del “capitalismo periferico”. Nei primi, “la classe dominante possiede delle riserve politiche ed organizzative che non possedeva per esempio in Russia […]. L’apparato statale è molto più resistente di quanto non si può credere e riesce ad organizzare nei momenti di crisi forze fedeli al regime”. Nei secondi (e Gramsci porta gli esempi di Italia, Spagna, Polonia e Portogallo), sebbene lo stato sia meno consolidato e le sue forze meno efficienti, tra il proletariato e il capitalismo si dispiega un ampio ventaglio di classi intermedie in grado di portare avanti una loro politica e di incidere sul resto delle classi popolari. “Anche la Francia, nonostante che occupi una posizione eminente nel primo gruppo degli stati capitalistici, partecipa per alcune sue caratteristiche alla situazione degli stati periferici”, scrive. A partire da queste indicazioni, è possibile pensare all’esistenza di due grandi tipi di società “occidentali”, definite principalmente sulla base dell’articolazione tra la società e lo stato, una dimensione che nell’opera di Gramsci ha un ruolo determinante per identificare differenze all’interno dell’unità tipica di un “modo di produzione”. Categorie di capitalismo L’“occidente”, nel senso classico, sarebbe quella situazione in cui l’articolazione tra economia, struttura di classe e stato acquisisce una forma equilibrata, come anelli concatenati facenti parte di un tutto. Si tratta di un modello fortemente sociale di sviluppo politico, in cui una classe dominante nazionale integra il mercato, consolida il suo predominio nell’economia come frazione più moderna e crea lo stato. La politica prende la forma di uno scenario regolamentato in cui le classi articolano i propri interessi, in un processo di costituzione della sua cittadinanza attraverso espressioni organiche che culminano in un sistema nazionale di rappresentanza, il quale trova il suo
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punto di equilibrio in un ordine considerato legittimo grazie all’intersezione di una pluralità di apparati egemonici. Questo sarebbe l’“occidente” puro (almeno dopo il passaggio “impuro” dell’accumulazione iniziale), la cui manifestazione ideologica sarebbe il liberalismo di ceppo sassone, tipico del capitalismo “precoce”. Ma Gramsci permette di pensare a un altro tipo di situazione “occidentale”: quella in cui, a differenza di quanto succede a “oriente”, si può parlare di forme sviluppate di articolazione organica degli interessi di classe che circondano, come una specie di anello istituzionale, lo stato, ma in cui la società civile così formata, seppur complessa, è disarticolata come sistema di rappresentanza, per cui la società politica ha ancora di fronte a essa una capacità di iniziativa maggiore rispetto al modello classico. Si tratta di sistemi, insomma, in cui la politica ha un’influenza enorme nella configurazione dei conflitti, modellando la società in un movimento schematizzabile come l’opposto del caso precedente. In questo caso la relazione tra economia, struttura di classe e politica non è lineare, ma discontinua. In realtà la proposta analitica gramsciana è pensata molto di più a partire dalla seconda prospettiva che non dalla prima: basta ripassare le caratteristiche dell’Italia degli anni venti e trenta, su cui Gramsci lavorò, per notare come questa ovvietà non sia sempre rilevata dai commentatori che lo indicano come teorico dell’“occidente” più sviluppato. Come fa giustamente notare Colletti, l’opera di Gramsci “consiste davvero in uno studio sociologico della società italiana”. Ecco perché la sua metodologia e la sua ricerca sono pertinenti soprattutto per lo studio di società il cui sviluppo gira attorno allo stato e alle sue crisi, come quelle di “capitalismo tardivo” (Italia, Germania, Spagna: quelle che nel testo gramsciano citato appaiono come società di “capitalismo periferico”). Società ancora non “mature”, rese dinamiche dallo stato e dalla politica, ma in
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Orgosolo, Sardegna, 1975
Pasado y Presente è stata una rivista di teoria marxista argentina, fondata a Buenos Aires nel 1963. Dal 1968 al 1983 ha curato la pubblicazione dei Cuadernos, numeri
dedicati a questioni specifiche, usciti in gran parte in Messico, dove i fondatori della rivista si erano rifugiati dopo il golpe militare del 1976 in Argentina.
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Juan Carlos Portantiero (1934-2007) è stato un sociologo argentino, specializzato nello studio del pensiero gramsciano. Il testo qui riprodotto è un brano del saggio Los usos
de Gramsci, uscito sul numero 54 dei Cuadernos.
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cui lo stato è più “bonapartista” che “dispotico-orientale”. Il modello che Gramsci propone nei suoi quaderni per analizzare il “bonapartismo”, esempio classico di discontinuità tra economia e politica, tra classe e stato, dimostra la plasticità della sua metodologia per affrontare situazioni politiche scarsamente probabili nei paesi classici dell’“occidente” e però tipiche nel capitalismo tardivo e in quello dipendente, sulle cui crisi (frattura tra classi e stato, crisi di rappresentanza, insomma) si centra la sua riflessione. Il brano fa parte di una nota critica contro l’economicismo, ma per noi il suo metodo ha una concreta risonanza empirica. Un universo sconosciuto Dopo aver refutato la possibilità di analizzare i movimenti “bonapartisti” come espressione immediata di una classe, scrive: “Quando un movimento di tipo boulangista si produce, l’analisi dovrebbe realisticamente essere condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2) questa massa che funzione aveva nell’equilibrio di forze che va trasformandosi come il nuovo movimento dimostra col suo stesso nascere?; 3) le rivendicazioni che i dirigenti presentano e che trovano consenso quale significato hanno politicamente e socialmente? a quali esigenze effettive corrispondono?; 4) esame della conformità dei mezzi al fine proposto; 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non moralistica si prospetta l’ipotesi che tale movimento necessariamente verrà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci se ne attendono. Invece questa ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (che cioè appaia tale con l’evidenza del senso comune e non per un’analisi ‘scientifica’ esoterica) esiste ancora per suffragarla, così che essa appare come un’accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di poca furberia, di stupidaggine (per i seguaci). La lotta politica
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così diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell’ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine”. Il testo sembra un ritratto esatto di tutta quella lettura “classista” dei movimenti populisti che si è fatta (e si fa) in America Latina. Ho cercato di applicare le possibilità del metodo gramsciano ai casi di capitalismo tardivo, allontanandomi dall’indicazione più abituale che tende a confinarlo come teorico della porzione “matura” del sistema internazionale. Ma dove collocare l’America Latina, un continente segnato da una secolare situazione di dipendenza in cui né una classe dominante autonoma, né un forte stato si sono assunti il compito dello sviluppo nazionale? Non sarebbe legittimo includerla nell’“oriente”, vederla come esempio di una società semplice in cui “lo stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa”? Le società latinoamericane – con più di un secolo e mezzo di autonomia pubblica, con una struttura sociale complessa, con movimenti politici nazionalisti e populisti di una certa portata e in cui esiste una storia di organizzazione delle classi subalterne di lunga data – non entrano se non per comodità di classificazione nella categoria generale di “terzo mondo”, una categoria residuale che forse descrive meglio alcune società agrarie dell’Asia e dell’Africa. Bisogna fare delle distinzioni all’interno della generalità che può essere l’America Latina: ogni società del continente riflette una particolare articolazione nel mercato mondiale e uno specifico intreccio tra economia, società e politica. Non parlerò in questa sede di un argomento già noto, ovvero della categorizzazione tipologica di quest’universo confuso e indifferenziato che per l’osservatore europeo o statunitense è l’America Latina: questa zona del mondo non costituisce un’unità. O meglio, per usare una frase tipica, è una diversità all’interno di una unità. u fr
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L’amicizia ritrovata
FABIAN CEVALLOS (SYGMA VIA GETTY IMAGES)
Nell’aprile del 1980 Enrico Berlinguer guida la missione del Pci a Pechino. La normalizzazione dei rapporti con il partito cinese e l’ultimo banchetto del viaggio nel racconto del quotidiano del Pcc Renmin Ribao, Repubblica Popolare Cinese, 23 aprile 1980
Enrico Berlinguer in visita ufficiale a Pechino, Cina, aprile 1980
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Pechino, 22 aprile 1980. Si è tenuta oggi pomeriggio a Pechino la quinta e ultima riunione tra la delegazione del comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc), guidata dal segretario generale Hu Yaobang, e la delegazione del comitato centrale del Partito comunista italiano, guidata da Enrico Berlinguer. Finiti i colloqui entrambe le parti hanno espresso l’unanime convinzione che questo paritario scambio d’opinioni su questioni d’interesse comune in uno spirito da compagni abbia rafforzato la comprensione tra le due parti e intensificato la fiducia reciproca. I colloqui tra i due partiti sono stati positivi e proficui. Entrambe le parti ritengono che, anche se su alcune questioni le divergenze permangono, questo non sarà un ostacolo all’istituzione e allo sviluppo di relazioni reciproche. Durante i colloqui tra il partito cinese e quello italiano, cominciati il 15 aprile, entrambe le parti hanno presentato la rispettiva linea politica sui temi nazionali e internazionali, sull’orientamento generale e sulle misure politiche specifiche. Si sono scambiate opinioni su importanti questioni internazionali di attualità e hanno analizzato le prospettive di sviluppo delle relazioni tra i due partiti. Entrambe le parti ritengono che ripristinare e sviluppare le relazioni tra i due partiti sulla base di una completa uguaglianza, indipendenza e autonomia e nel rispetto reciproco non solo è nell’interesse dei due partiti e della popolazione dei due paesi, ma contribuisce anche a salvaguardare la pace e a promuovere il progresso dell’umanità. Pechino, 22 aprile 1980 – Il segretario generale del comitato centrale del Pcc, Hu Yaobang, ha tenuto questa sera un banchetto di commiato per salutare la delegazione del comitato centrale del Pci, guidata dal segretario generale Enrico Berlinguer. Dopo otto giorni densi di colloqui, incontri e impegni di lavoro, i membri della delegazione dei due partiti si sono riuniti questa sera
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con uno stato d’animo felice e rilassato. Al banchetto Hu Yaobang e Berlinguer hanno brindato al completo successo della visita in Cina dalla delegazione del comitato centrale del Pci e ai risultati positivi ottenuti dai colloqui tra i due partiti. Al banchetto erano presenti anche Feng Wenbin, vicedirettore dell’ufficio generale del comitato centrale del Pcc, e Zhan Zhixiang, viceministro del dipartimento di coordinamento internazionale del comitato centrale del Pcc. Questa mattina la delegazione italiana del Pci, accompagnata da Zhan Zhixiang, ha visitato la grande muraglia. Al banchetto di commiato per la delegazione del comitato centrale del Pci, il compagno Hu Yaobang ha sottolineato l’importanza storica dei colloqui tra i due partiti. Il discorso del segretario generale del comitato centrale del Pcc, Hu Yaobang, al banchetto di commiato per la delegazione del comitato centrale del Pci. Il testo integrale: “Caro compagno Berlinguer, compagno Pajetta e compagni della delegazione, la vostra visita sta per concludersi in modo assai soddisfacente, domani dovrete lasciare il nostro paese. Adesso noi vi salutiamo con un profondo sentimento d’amicizia e in uno spirito da compagni. Negli ultimi otto giorni i nostri due partiti hanno avuto sette incontri in uno spirito sincero e da compagni, grazie al quale abbiamo approfondito la comprensione reciproca e rafforzato la fiducia su questioni importanti. Tutto questo ha un’importanza storica e segna l’inizio di una nuova fase nelle relazioni tra i nostri paesi. Allo stesso tempo aggiunge una nuova pagina alla storia delle relazioni amichevoli tra i nostri popoli. I nostri sforzi altamente fruttuosi hanno ricevuto il caloroso sostegno di tutti i militanti dei due partiti e dei popoli di entrambi i paesi. I nostri due partiti non rinunceranno mai ai
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grandi ideali e agli obiettivi comuni. Questa è la base ideologica che ci permetterà di collaborare e di restare uniti per lungo tempo. Siamo determinati a rispettare scrupolosamente e con rigore i princìpi essenziali di completa eguaglianza, indipendenza, autonomia e rispetto reciproco nel rapporto tra i due partiti. Le divergenze e le differenze nella comprensione e nel giudizio di alcune questioni possono solo incoraggiarci a trovare ispirazione nelle posizioni reciproche e spingerci a cercare di ottenere progressi e miglioramenti comuni sulla base del marxismo e attraverso continue prove pratiche. Il nostro partito, forte di questo atteggiamento, salvaguarderà con fermezza e svilupperà l’amicizia tra i nostri due partiti appena riconquistata. In questi brevi giorni avete dato la vostra più alta valutazione sulla rivoluzione nel nostro paese e sul processo rivoluzionario in atto nel partito e tra la popolazione. Verso il partito e la popolazione avete espresso profonda simpatia e sinceri sentimenti d’amicizia. Per questo vogliamo esprimere i nostri più profondi ringraziamenti. Vorrei concentrarmi su questo: siamo rimasti profondamente colpiti dal vostro atteggiamento serio, equilibrato e rigoroso nel la-
voro, dal pensiero indipendente e dallo spirito scientifico dell’esplorazione. Queste sono le virtuose tradizioni coltivate dal vostro partito nella sua lunga lotta. Un partito che ha questo tipo di forza e di vigorosa vitalità può superare tutte le difficoltà. Noi crediamo fermamente che il vostro partito avrà un ruolo sempre maggiore, e otterrà risultati gloriosi, nella vita politica nazionale dell’Italia, nell’attività internazionale per la sicurezza, la stabilità e la pace in Europa e nel mondo, oltre che nella causa del progresso dell’umanità e del socialismo. In linea con queste convinzioni, vi chiedo di portare nel vostro paese i migliori auguri al comitato centrale del Pci, ai membri del partito e al popolo italiano da parte del comitato centrale del nostro partito, del presidente Hua, di tutti i vicepresidenti, dell’intero partito e di tutti i gruppi etnici dell’intera nazione. Cari compagni! Considerato che state per volare verso l’eroica Repubblica Popolare Democratica di Corea voglio alzare il calice: vi auguro di poter godere del nuovo viaggio sia materialmente sia intellettualmente, auguro al vostro partito rinnovati successi nel primo anno del nuovo decennio e spero che l’amicizia continui a crescere tra i nostri partiti, i nostri paesi e i nostri popoli. u nc
Renmin Ribao (Il quotidiano del popolo) è il giornale ufficiale del comitato centrale del Partito comunista cinese. È stato fondato nel 1948 a Pechino.
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Sull’altra sponda del Mediterraneo Al Tariq al Jadid, Tunisia, 12 giugno 1982 Il compagno Pajetta, figura storica del co munismo italiano, è in visita a Tunisi insieme alla compagna Nadia Spano, su invito del Par tito comunista tunisino. Il compagno Pajetta è attualmente mem bro della direzione nazionale del Pci e re sponsabile della commissione esteri del par tito. Durante la sua breve visita in Tunisia ha avuto numerosi incontri, ed è stato ricevuto dal ministro per l’informazione e dal ministro degli esteri tunisini. Ha anche incontrato al cuni rappresentati dei partiti di opposizione: il Movimento dei democratici socialisti (Mds) e il Movimento dell’unione popolare (Mup). Le attività e gli incontri con i comunisti tu nisini sono stati intensi e produttivi, inoltre Pajetta ha avuto colloqui con i dirigenti del Pct che hanno portato all’elaborazione di un comunicato comune. Alla fine della sua visita il compagno Pajetta ha incontrato alcuni qua dri del Pct della regione di Tunisi con i quali ha avuto delle discussioni costruttive sull’e sperienza politica del Pci, sui movimenti di liberazione in tutto il mondo e sulla questione della solidarietà internazionale nella lotta contro l’imperialismo. Al Tariq al Jadid ha intervistato il compa gno Pajetta al termine della sua visita in Tu nisia. Al Tariq al Jadid Quali sono le sue impressioni in merito agli incontri con le personalità tunisine, del regime come dell’opposizione?
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Giancarlo Pajetta In Tunisia ho incontrato rappresentanti di tutte le tendenze politiche, compresi i membri del governo tunisino. In primo luogo ho potuto constatare che nel pae se il Pct gode della stima di tutti i partiti, indi pendentemente dalle divergenze politiche. Ho ovviamente incontrato i compagni del Pct: è stata un’occasione per valutare i progressi fatti dal partito e i mezzi per consolidare i suoi sforzi e la sua presenza sulla scena politica nel paese, in particolare con il nuovo processo po litico che apre inediti orizzonti di progresso democratico. Tutto questo permetterà al Pct di avere un ruolo più importante nella politica nazionale tunisina. A mio parere i comunisti italiani hanno svolto un peso rilevante nella costruzione di buone relazioni tra Italia e Tu nisia, di relazioni di cooperazione per un nuo vo ordine globale e per la pace nel mondo. Qui a Tunisi ha potuto incontrare i leader del Partito comunista tunisino. Quali sono state le principali questioni discusse e quali sono le opportunità per consolidare le relazioni tra Pci e Pct? Il Pct ha vissuto delle esperienze simili alle no stre, ha passato un periodo in clandestinità e gli è stata vietata ogni partecipazione attiva nella vita politica e sociale. Tuttavia è riuscito a superare queste difficoltà e a imporsi nella politica tunisina. Questo partito dimostra la sua volontà di essere indipendente, capace di elaborare una politica che gli permetta di esse
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re un attore in grado di partecipare efficacemente al progresso democratico e sociale. Di conseguenza è legittimo che si trovi un accordo su questi princìpi. Abbiamo anche discusso di numerose questioni internazionali: non dimentichiamo che la nostra visita coincide con le aggressioni israeliane che minacciano la pace internazionale e l’intera regione mediterranea [l’operazione Pace in Galilea, con l’invasione israeliana del Libano, è cominciata il 6 giugno 1982, ndr]. Abbiamo rinnovato il nostro appello al rispetto totale della sovranità territoriale del Libano e a una soluzione equa per la causa palestinese. Per quanto riguarda la dichiarazione dei paesi del G7 che chiede la riduzione degli scambi con l’Unione Sovietica e la solidarietà dei paesi europei con gli aggressori dell’Argentina [il riferimento è alla guerra delle Falkland, tra Argentina e Regno Unito, combattuta tra il 2 aprile e il 14 giugno 1982, ndr] riteniamo che queste due posizioni siano ulteriori prove della parzialità dimostrata nei confronti degli Stati Uniti. Il governo italiano è diviso tra una lealtà assoluta verso gli Stati Uniti e le esigenze di pace e il riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese. A mio parere quest’ambivalenza nasconde una posizione negativa del governo italiano. In quanto dirigente di uno dei due grandi partiti italiani, qual è la sua posizione di fronte alla situazione attuale nel vostro paese? E quale sarà secondo lei, l’esito della crisi profonda che oggi attraversano la società e lo stato italiani? Le nostre critiche al governo non si limitano agli aspetti negativi delle sue scelte politiche, ma vanno oltre il blocco attuale e l’incapacità dell’esecutivo. Queste critiche riguardano tanto la politica militare filoamericana, quanto la politica economica globale dei paesi del Mercato comune europeo. Le nostre critiche al governo italiano riguardano anche la disinvoltura dimostrata di fronte agli attacchi ricorrenti del mondo imprenditoriale contro la classe
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operaia. Vogliamo un governo forte, e senza la partecipazione del Pci è impossibile formare un esecutivo capace di guidare il paese. Oggi la nostra parola d’ordine è “alternativa democratica”. Non bisogna però confondere questo slogan politico con la proposta del compromesso storico, che si colloca nel quadro della ricerca di una forma di compromesso tra i movimenti popolari tradizionali in Italia (comunisti, socialisti e cattolici). La scelta dell’alternativa democratica è un programma di governo che comporta il riconoscimento del ruolo centrale del Pci. Inoltre siamo convinti della necessità di continuare la nostra politica unitaria; ogni partito deve difendere le sue scelte e il suo ruolo, ma, nonostante le divergenze che ci separano, abbiamo continuato a collaborare con il Partito socialista sulle questioni sindacali ed economiche. Considerate le attuali tensioni internazionali e i pericoli che minacciano la regione mediterranea, quale ruolo devono svolgere le forze progressiste in Italia e in Tunisia per garantire la pace e la solidarietà tra i paesi della regione? Durante la mia visita in Tunisia ho ripetuto a tutte le persone che ho avuto occasione d’incontrare che la base missilistica installata in Sicilia è più vicina a Tunisi che a Napoli. Si tratta di un esempio significativo, non ci sono iniziative specifiche da prendere tra i nostri due popoli per il mantenimento della pace. Oggi il disarmo nucleare è il problema principale, e qualunque manovra militare rappresenta un pericolo comune. Le ultime minacce contro la Libia ne sono un esempio evidente. u adr
Al Tariq al Jadid (La via nuova) è un giornale di sinistra tunisino. È stato fondato nel 1981 come organo del Partito
comunista tunisino, che pochi mesi prima aveva potuto riprendere l’attività politica, sospesa nel 1963.
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Compagni che sbagliano
BRUNO BARBEY (MAGNUM/CONTRASTO)
I comunisti italiani criticano il sistema sovietico perché hanno dimenticato il loro vero obiettivo politico: la trasformazione della società in senso socialista. Alcuni brani dell’articolo della rivista teorica del Pcus che attacca la linea di Berlinguer Kommunist, Unione Sovietica, ottobre 1982
Toruń, Polonia, 1981
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Dopo la pubblicazione in Unione Sovietica di due articoli in risposta alla polemica avviata dalla direzione del Partito comunista italiano, la Pravda ha fatto uscire una breve replica che illustrava l’atteggiamento del Pcus, ribadendo che il partito non è interessato a ulteriori polemiche. Poco dopo, tuttavia, Enrico Berlinguer è nuovamente intervenuto con due interviste, confermando le critiche al Pcus e all’ordinamento socialista esistente. La rivista Rinascita – ahimè non sulla base dei fatti della realtà dell’Urss, che da tempo i comunisti italiani hanno la possibilità di conoscere direttamente, bensì sulla scorta di triti luoghi comuni e di pettegolezzi della “sovietologia” occidentale – ha pubblicato una critica pretestuosa dello sviluppo della società sovietica negli ultimi vent’anni. Da più di due mesi il Pci mobilita tutte le sue risorse per orientare il fronte della lotta ideologica contro il Pcus e la comunità socialista. Ciò avviene proprio mentre il movimento operaio italiano affronta problemi interni sempre più gravi, in una situazione in cui la reazione imperialista, guidata dagli Stati Uniti, alimenta l’isteria militarista contro l’Urss, la Polonia e altri paesi del socialismo, e compie passi sempre più pericolosi verso una nuova tornata della corsa agli armamenti. Per tali ragioni il Pcus ritiene impossibile non reagire a questo flusso di interventi. Checché ne dica il Pci, tutta la sua attività ideologica degli ultimi tempi dimostra che si sta allontanando sempre più dal comunismo scientifico e che il suo attivismo punta a negare l’immenso ruolo progressista del socialismo vittorioso, l’esperienza della sua edificazione e il suo significato internazionale. In politica estera ci si sforza perfino di mettere in dubbio la natura pacifica degli stati socialisti. Quale democrazia? Cos’ha dato ai popoli il socialismo reale? Ha cancellato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. I compagni italiani sembrano averlo ac-
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cettato solo dopo le nostre risposte nel corso della polemica da loro iniziata. E invece è proprio questa la questione fondamentale, epocale, il fatto storico universale che dimostra come, nei paesi che hanno costruito il socialismo, la tormentatissima contraddizione tra il lavoro e il capitale sia stata risolta a favore del lavoro. L’elaborazione di “nuove proposte innovative e concrete” di cui parlano i dirigenti del Pci non parte dalla necessità di cercare una soluzione a questo problema. Il socialismo ha creato le condizioni affinché le masse lavoratrici vivano nella sicurezza del domani. Ci è riuscito organizzando uno sviluppo pianificato dell’economia, subordinata al compito maestro di soddisfare le esigenze materiali e spirituali del popolo. L’alfa e l’omega della politica del Pcus è l’attenzione al bene del lavoratore. È risaputo che in Urss non c’è disoccupazione mentre nei paesi del Mercato comune europeo le persone senza lavoro sono dieci milioni. Perché i dirigenti del Pci dimenticano che il socialismo reale ha garantito assistenza medica gratuita alla popolazione dell’Urss? In Urss non ci sono senzatetto, non ci sono quartieri poveri, non ci sono appartamenti vuoti perché troppo cari, nessuno rischia di finire sul lastrico. Sarebbero state possibili queste conquiste se i lavoratori non avessero preso in mano i mezzi di produzione? Quale socialismo serve invece all’Italia, secondo il Pci? Sul tema si sono spese molte parole, spesso incentrate su questioni di carattere secondario e sovrastrutturale, da affrontare mediante riforme nell’ambito del regime democratico-borghese, con interventi di facciata che non intacchino le basi del sistema. Una domanda, però, sorge spontanea: è pensabile il socialismo senza l’emancipazione del lavoro? E chi avrà il potere? A giudicare dall’intervista di Berlinguer all’Unità del 21 febbraio, il potere rimarrà nelle mani del capitale monopolistico. In questo “nuovo socialismo” non si fa parola dell’eliminazione della proprietà dei mezzi di produzione, della distri-
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buzione e dello scambio, caratteristica essenziale di ogni vera rivoluzione socialista. Tenacemente, documento dopo documento, i compagni italiani insistono sulla necessità di conciliare il socialismo con la democrazia, facendo finta che i marxisti la vogliano mettere in discussione. In realtà la democrazia è il principio basilare senza il quale il socialismo non sarebbe nemmeno potuto nascere. La fondazione, in seguito alla rivoluzione d’ottobre, del primo stato al mondo degli operai e dei contadini significò un gigantesco passo avanti verso l’autentico potere del popolo. Oggi, però, la democrazia socialista popolare è sottoposta agli attacchi più violenti. Che tali attacchi arrivino da chi difende lo strapotere dei monopoli non stupisce. Ma come giustificare i sostenitori del socialismo che li appoggiano? Polemizzando con la Pravda, l’Unità pone un’obiezione dal suo punto di vista imbattibile: “In Urss, in quale riunione di partito, in quale assemblea sindacale o di produzione un comunista o un cittadino che non è d’accordo con la linea politica generale può esprimere il suo dissenso?”. Per avere una risposta chiara basta semplicemente conoscere la nostra stampa e seguirla quotidianamente: quello che chiede l’Unità qui si fa costantemente e sistematicamente. Cosa desiderano allora i compagni dell’Unità? Una critica di stampo “dissidente” e la libertà di sfrenata diffamazione dell’ordine socialista da parte di singoli individui rinnegati? A tale proposito va fatta la massima chiarezza: non tollereremo mai che simili interventi abbiano visibilità. Nessuno obbliga i comunisti italiani a imitare dei sistemi già esistenti. Al contrario, il loro dovere è elaborare una strada verso il socialismo che tenga conto delle condizioni e delle tradizioni italiane. È probabile che in Italia un futuro diverso sarà costruito con maggiore facilità e minori sacrifici, ma se ciò avverrà sarà proprio perché già esiste una potente comunità mondiale di paesi socialisti. Le forme sociali non possono essere trapiantate
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meccanicamente da uno stato all’altro. È difficile, tuttavia, non pensare che il Pci oggi si stia, come diceva Lenin, “allontanando” dalla verità sul socialismo e sui suoi successi. Denigrando la realtà dei paesi socialisti, i dirigenti del Pci rinchiudono i lavoratori italiani dentro la casa del capitalismo, invitandoli ad accontentarsi dei suoi “valori” e promettendo solo qualche miglioria di facciata. Che visione gretta e pessimista, senza nessuna prospettiva di un passaggio al socialismo! I limiti della terza via Negli anni postbellici il pensiero teorico del movimento comunista dell’Europa occidentale ha cercato pervicacemente una risposta alla domanda su quale debba essere la via verso il socialismo nei paesi del capitalismo avanzato. Quest’attività teorica asseconda l’idea leniniana della molteplicità delle forme di passaggio al socialismo. Tuttavia, alcune tesi avanzate necessitano di verifica e argomentazioni più profonde. Da queste posizioni oggi muoviamo per valutare il concetto di “terza via”. Siamo costretti a constatare che non si tratta di una continuazione della ricerca teorica avviata da Gramsci e Togliatti, ma del suo opposto. Al cuore della “terza via” – esattamente come nel giudizio sul socialismo reale – c’è l’idea di un’unione organica tra democrazia e socialismo. Torniamo a ripetere che di per sé l’idea non è nuova, i marxisti la considerano da tempo un assioma. Ma c’è un’altra domanda: a quale tipo di democrazia ci si riferisce? In una società divisa in classi la democrazia assume sempre un carattere classista. Democrazia per chi? Per un pugno di privilegiati oppure per la maggioranza della popolazione, dei lavoratori? Nella concezione dei dirigenti del Pci la democrazia non è classista, ma nazionale. Nei documenti del Pci si parla anche della lotta della classe operaia, ma la verità è che l’idea del “consenso nazionale” contraddice le leggi della lotta di classe. Quanto più vicino e realistico è il passaggio al socialismo, tanto più la
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logica degli interessi di classe indurrà i ceti dominanti a contrastare le trasformazioni rivoluzionarie. Le speranze di un cambiamento socialista sulla base del consenso e della giustizia universali, la sottovalutazione delle radici profonde e degli inevitabili inasprimenti della lotta di classe nella società borghese contemporanea sono un cedimento alla concezione liberale della rivoluzione e del socialismo. Il pensiero teorico del movimento comunista nei paesi del capitalismo avanzato ha davanti a sé quesiti davvero complessi. In che modo le trasformazioni democratiche nel regime capitalistico possono condurre a trasformazioni radicali in senso socialista? In quali tappe e in quali forme economico-politiche si snoderà questo percorso? Tali questioni possono trovare soluzione solo attraverso l’analisi marxista dei nuovi processi della società borghese, la verifica e la correzione delle conclusioni teoriche nella battaglia politica. Per quest’opera non serviranno schemi artificiali o astratti e cervellotici costrutti intellettuali. Quanti dibattiti si sono svolti intorno al concetto del “compromesso storico”! E ora esso è sparito dai documenti del Pci. I tentativi di una sua attuazione pratica hanno comportato – come ha fatto notare lo stesso Pci – un indebolimento del carattere rivoluzionario del partito e una diminuzione della sua influenza, soprattutto tra i giovani. Con ogni probabilità la stessa sorte toccherà anche al concetto delle “tre fasi” e della “terza via”, tanto più che tali idee sono assai vaghe e piene di buchi. Polonia e Afghanistan I dirigenti del Pci riconoscono l’inasprimento delle tensioni internazionali. Ma ne addossano la colpa tanto agli Stati Uniti quanto all’Unione Sovietica, alla Nato come al patto di Varsavia. Oltre a rivolgere critiche meschine e irresponsabili all’Urss e ad altri paesi socialisti, la direzione del Pci ha preso l’abitudine di travisare, e quindi di compromettere, la politica estera sovietica, nel suo insieme e nelle sue
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singole manifestazioni. Mentre tutte le forze che hanno a cuore la pace e le persone obiettive riconoscono e appoggiano il decisivo contributo dell’Unione Sovietica alla distensione e alla lotta contro il pericolo militare, il Pci nega questa realtà evidente. È inconcepibile che dei comunisti si esprimano in tal modo sul paese che sta facendo tutto il possibile per scongiurare una nuova guerra mondiale. Le posizioni politiche dell’Unione Sovietica sullo scacchiere internazionale sono determinate da un semplice principio: respingere nella maniera più risoluta ogni “dottrina” che consideri ammissibile qualsivoglia genere di guerra nucleare. L’Urss dimostra con i fatti la sua volontà di fermare la folle corsa agli armamenti, di invertirne la rotta. Non minaccia nessuno né cerca la contrapposizione con nessuno stato, dell’ovest come dell’est. Non sta cercando, né ha mai cercato, la superiorità militare. Non è mai stata né sarà mai promotrice della corsa al riarmo. Non c’è tipo di armamenti che essa non accetti di limitare o di mettere al bando d’intesa con altri stati. L’Urss è un paese socialista e socialismo significa edificazione, costruzione. Noi non abbiamo classi e gruppi sociali interessati a lucrare sulla guerra e sulla corsa agli armamenti. Abbiamo pagato un prezzo mostruoso per la guerra passata, venti milioni di vite umane. Eppure qualcuno dice che la nostra politica “non favorisce il processo di distensione”. L’argomento principale è l’Afghanistan. Ma è un argomento del tutto infondato. Siamo costretti a ripeterlo per l’ennesima volta: le truppe sovietiche, un contingente limitato, sono state inviate su richiesta del governo afgano, è stato un gesto di solidarietà internazionalista con un popolo amico sottoposto all’attacco dell’imperialismo, accorso in aiuto della controrivoluzione. Quando l’esportazione della controrivoluzione in Afghanistan sarà finita, appena sarà fermata la guerra non dichiarata contro il nostro pacifico vicino, le truppe sovietiche se ne andranno.
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Il secondo argomento – ancora più stupefacente – è la Polonia. Ci sono molte prove inconfutabili del fatto che gli Stati Uniti sono interessati a fomentare la crisi polacca. La conferma arriva dalle sanzioni e dalle misure prese contro Varsavia. In questa situazione, si ha la netta impressione che i dirigenti del Pci, chiedendo l’abolizione della legge marziale (la quale, come dimostra il miglioramento della situazione nel paese, è stata l’unico mezzo possibile per prevenire una catastrofe e grandi spargimenti di sangue), stiano effettivamente facendo il gioco dell’imperialismo. Non è un caso se numerosi politici borghesi di diversi paesi, oltre a giornali ed esponenti di destra nella stessa Italia, hanno elogiato la direzione del Pci per come ha affrontato la questione. Il partito italiano ha sposato la versione interamente falsa spacciata da Reagan e dalla Nato sulla “responsabilità” sovietica per le misure adottate in Polonia. Il Pci non si stanca di ribadire che la fonte di tutti i mali dell’odierna politica internazionale sono i “blocchi”, quindi la Nato e il patto di Varsavia in egual misura. I dirigenti comunisti italiani discutono molto della “logica dei blocchi”, cioè – secondo loro – della volontà delle grandi potenze di conservare e ampliare con la forza le proprie sfere di influenza. È strano e pericoloso quando dei comunisti non vedono le radicali differenze di sostanza tra la Nato e il patto di Varsavia, il loro ruolo diametralmente opposto nei rapporti internazionali. È venuto il momento di tirare le somme. Parlando degli interventi critici pubblicati dalla Pravda e da Kommunist, la stampa comunista italiana ha usato termini di grande carica emotiva, come “sentenza”, “anatema”, “scomunica”. In realtà non c’è stato nulla di Kommunist è stata la rivista del comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Fondata nel 1924 con il nome di
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tutto ciò. E comunque sarebbe impossibile “scomunicare” qualcuno dal movimento comunista internazionale. L’appartenenza di un partito al movimento comunista non è determinata dalle decisioni di qualcuno, né tantomeno dalle opinioni di altri partiti, ma dal carattere delle singole forze politiche, dal loro programma e dal modo di agire, dalla fedeltà agli ideali della classe operaia e alla scienza rivoluzionaria fondata da Marx, Engels e Lenin. Abbandonare il movimento, porsi al di fuori di esso può farlo solo il partito stesso. Negli anni settanta le posizioni teoriche del Pci hanno subìto notevoli cambiamenti. I dirigenti raccontano che il Pci ha smesso di essere un “partito d’ideologia” e propugnano il “pluralismo ideologico”. In altre parole il Pci è un partito comunista senza ideologia, cioè senza un sistema di concetti che esprima gli interessi fondamentali della classe operaia. L’esperienza storica insegna che la rinuncia alla teoria rivoluzionaria conduce prima o poi alla perdita dei punti di riferimento in politica. È una scelta gravida di pericoli per la classe operaia e per il popolo. Concludendo, va detto ancora una volta che la difesa della pace e la sicurezza dei popoli esigono categoricamente la coesione di tutte le forze del movimento operaio, comunista e di liberazione, e di coloro che hanno a cuore la pace sulla Terra. È in questa direzione, contro gli atti e gli intenti aggressivi dell’imperialismo, che occorre incanalare i pensieri e le azioni delle masse. Il Pcus non è interessato alla polemica con la direzione del Pci. Ma respingerà senza dubbio le affermazioni ingiuste, non obiettive e denigratorie sull’ordinamento sociale dell’Unione Sovietica e sulla politica interna ed estera del Pcus. u pk
Bolševik, ha assunto la denominazione Kommunist nel 1952. Dal 1991 è pubblicata con il nome Svobodnaja Mysl (Libero pensiero).
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Portfolio Settembre di festa Foto di Luigi Ghirri “Come ci immaginiamo un Festival dell’Unità in fotografia?”. Ce lo chiede Arturo Carlo Quintavalle, storico dell’arte, nell’introduzione di Notte e dì, un esperimento collettivo nato come costola del più celebre Viaggio in Italia, entrambi concepiti da Luigi Ghirri per dare nuovi impulsi alla ricerca sul paesaggio. L’idea è di rielaborare l’iconografia di un evento del genere per sfuggire alle convenzioni e alle semplici alternanze tra folla, oratore, giostre e banchetti. Notte e dì coinvolge cinque autori di quel viaggio: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Mario Cresci e Luigi Ghirri. Insieme, ma ognuno a modo suo, documentano il festival dell’Unità di Reggio Emilia tra il 1 e il 18 settembre 1983. Ghirri racconta una collettività gioiosa, raccolta nell’enorme spazio erboso del Campovolo, smontando la retorica dell’evento politico. Si sofferma sui particolari, sceglie tagli insoliti per il volto del segretario del partito, che diventa secondario nel disegno generale, e lo fotografa di spalle, di lato o da lontano. La silhouette di Berlinguer è uno dei tanti segni che compongono le storie di Ghirri, come le bandiere rosse al vento, la folla che applaude e i distributori automatici incorniciati dal corpo e dallo sguardo della Valentina di Crepax. Per tutte le foto: Reggio Emilia, 1983. Luigi Ghirri (© Eredi Luigi Ghirri)
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L’ultimo leader L’11 giugno 1984 muore Enrico Berlinguer. Il suo grande merito è stato elaborare una strategia per sbloccare lo stallo politico italiano. Senza mai dimenticare l’importanza del contesto internazionale Donald Sassoon, Marxism Today, Regno Unito, luglio 1984 Un leader politico muore, pianto dai suoi amici e rispettato dai suoi avversari. Un milione di persone partecipa al suo funerale. Quando arriva l’annuncio della sua morte, tutti i lavoratori si fermano per due minuti di raccoglimento. È un nuovo caso di culto della personalità? Molto probabilmente no, perché lo stile di Enrico Berlinguer era insolito e perfino fuori posto in un’epoca volgare di politici da avanspettacolo e leader fabbricati dai mezzi d’informazione. Berlinguer si presentava e si comportava come un uomo che non ha mai cercato il potere personale. La leadership gli era stata buttata addosso e lui l’aveva accettata con quel senso del dovere che è stato uno dei tratti fondamentali del suo carattere austero e vagamente puritano. Un vecchio leader di partito ha detto una volta che la biografia ufficiale di Berlinguer dovrebbe cominciare così: “Enrico Berlinguer entra giovanissimo nel gruppo dirigente del Partito comunista italiano”. Non è solo una
battuta. Berlinguer entra nel Pci nel 1943, quando ha 21 anni. Nel 1945 è nel comitato centrale. Lavora a Milano, poi a Roma. Nel 1948 fa parte del comitato esecutivo. Un anno dopo è segretario generale della Federazione giovanile comunista (Fgci). Nel 1950, a 28 anni, diventa presidente della Federazione mondiale della gioventù democratica, il Comintern dei giovani comunisti. Dopo quest’esperienza torna a Roma, dove resterà per tutta la vita. Dirige la scuola di partito (1957), entra nella segreteria (1958), è incaricato dell’organizzazione del partito (1960), quindi dell’organizzazione regionale del Pci nel Lazio (un declassamento?). Nel 1968 è eletto in parlamento. Nel 1969 il malandato leader del Pci, Luigi Longo, gli chiede di diventare vicesegretario e suo erede designato. Longo spiegherà in seguito di essersi consultato con tutta la segreteria: la scelta di Berlinguer era stata unanime. Nel 1972 raggiunge il vertice: diventa segretario generale.
Enrico Berlinguer, 1976. Romano Gentile (A3/Contrasto)
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Berlinguer aveva svolto un ruolo molto limitato durante la Resistenza e non aveva alcuna esperienza nel Comintern, che era stato smantellato l’anno in cui lui era entrato nel partito. Era il rappresentante di una nuova generazione di leader comunisti. Il suo stalinismo – quando Stalin era vivo – era di facciata, dettato da necessità politiche e non da convinzioni profonde. Il suo leninismo era mediato da Togliatti. Il suo naturale habitat culturale era quello del pensiero gramsciano. Il successore di Bordiga, Gramsci, Togliatti e Longo non aveva un passato eroico, non era stato leader di uomini e donne, non aveva contributi da offrire al marxismo o alle sue dialettiche. Non aveva lavorato in fabbrica né guidato uno sciopero. Era un uomo della piccola aristocrazia e veniva, come Gramsci, dalla Sardegna. Più tardi, Longo disse che uno dei motivi per cui nel 1969 avevano scelto come segretario questo candidato improbabile, era che il partito aveva bisogno di qualcuno in grado di capire i giovani. Berlinguer era stato leader dei giovani comunisti ed era ancora abbastanza giovane. Sarebbe stato inevitabilmente paragonato a Togliatti, l’uomo che aveva plasmato il Partito comunista italiano. Togliatti era il prodotto della grande tradizione comunista internazionale. Dirigeva il partito sotto tutti i punti di vista. Curava gli aspetti organizzativi, decideva le strategie parlamentari, intratteneva le relazioni con i dirigenti comunisti stranieri, teneva il discorso d’apertura in tutte le riunioni del comitato centrale, redigeva i programmi, scriveva almeno due o tre editoriali alla settimana per l’Unità e quello del settimanale Rinascita. In più, riusciva a buttare giù un paio di recensioni di libri, polemizzava con vari intellettuali in fatto di teatro, musica o arte, e scriveva saggi su Labriola, Gramsci o il risorgimento. Uno stratega Berlinguer non ha fatto niente di tutto questo. Ha scritto poco e solo in occasioni particolari: una celebrazione, una riunione del comitato
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centrale, un discorso pubblico. Scriveva esclusivamente di politica. Prodotto dell’apparato, sembrava un burocrate. Ma come amministratore di partito non aveva nulla di straordinario, altri se ne occupavano per suo conto. Togliatti aveva un grande intuito nello scovare il talento politico tra i suoi giovani colleghi. Sostenne figure come Pietro Ingrao e Giorgio Amendola, dandogli incarichi e responsabilità e usandoli per lunghe guerre di logoramento con i vecchi dirigenti cresciuti all’ombra del Comintern. Berlinguer non aveva quest’abilità. O forse pensava che non fosse suo compito formare nuovi leader. Quanto alle strategie parlamentari, era meglio lasciarle a chi conosceva bene il parlamento. Quali traguardi ha raggiunto quindi? Perché un milione di persone, nel bel mezzo della settimana e di una campagna elettorale, è andato a Roma per rendergli omaggio? Qual è stato il suo contributo alla causa? Alcuni diranno che in un paese pieno di politici corrotti e d’intrighi, Berlinguer spiccava per la sua evidente onestà, confermata anche dai più convinti avversari; che in un paese la cui memoria porta ancora le cicatrici del carisma demagogico di Benito Mussolini l’austerità di questo piccolo sardo incuteva rispetto. Probabilmente è vero, ma non stiamo parlando di apparenza: in gioco c’è qualcosa di più importante, qualcosa per cui Berlinguer sarà ricordato anche quando quell’apparenza sarà ormai svanita. Questo “qualcosa in più” è la strategia politica. Il grande sforzo di Berlinguer, il compito a cui ha dedicato tutta la vita, è stato fornire al movimento della classe operaia italiana una strategia politica adatta all’Italia contemporanea e al ruolo del paese nel mondo contemporaneo. Naturalmente questa strategia, che ha preso il nome di “compromesso storico”, non è nata come la dea Minerva – già adulta – dalla testa di Giove. È stata costruita a partire dalle fondamenta gettate in trent’anni di lotte. Quel che ha fatto Berlinguer è stato trasformare l’i-
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dea delle “grandi alleanze”, promossa inizialmente da Togliatti, in una strategia concreta spiegando perché essa fosse necessaria. Lo ha fatto con coraggio politico e, quel che è più importante, con rigore politico. Il compromesso storico Nel 1973, nell’affrontare il colpo di stato in Cile, Berlinguer spiegò che il Pci e la sinistra, da soli, non potevano governare l’Italia. La Democrazia cristiana (Dc) non era un partito politico normale: una forza politica che guida un paese pluralista e democratico ininterrottamente per trent’anni non è un partito normale, diventa un regime. E un regime non si può rimuovere con una semplice maggioranza, nel paese o in parlamento: questo sarebbe – davvero – cretinismo parlamentare. La Dc aveva occupato tutte le poltrone, formali e informali, costruendo un solido consenso, un autentico blocco di potere. La base ideologica di questo consenso era l’anticomunismo, che nel contesto italiano significava quanto segue: nel paese esiste qualcosa di “speciale”, un grande partito comunista, e la sua presenza ostacola quello che avviene in tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale, cioè l’alternanza di governo. Questo perché, in altri paesi, l’alternativa ai conservatori è rappresentata da formazioni socialiste e socialdemocratiche, che non mettono in discussione il quadro politico di fondo ma agiscono al suo interno e sono accettate al livello internazionale. In Italia, invece, non ci può essere alternanza o bipolarismo. La Dc deve governare per sempre, o almeno finché ci sarà un partito comunista di tale forza e statura. È contro questo assunto che Berlinguer ha sviluppato la sua strategia politica. Il compromesso storico significava questo: dopo aver valutato la situazione nella sua realtà concreta, senza illusioni né concessioni all’ideologia, si esaminano i compromessi necessari a sbloccare le cose. Il vero punto era far uscire la democrazia italiana da un sistema a partito unico
e costruire una complessa rete di alleanze e relazioni così solide da poter elencare i termini del compromesso: noi comunisti sappiamo di non poter guidare l’Italia contro di voi, democristiani, e le masse che dirigete; voi, però, ammettete di non poter più guidare il paese senza di noi? Ammettete che i milioni di persone di tutte le classi che ci sostengono devono accedere al potere politico? Un percorso diverso La lezione fondamentale del compromesso storico è che per “vincere” non basta avere il sostegno e il consenso degli amici. È anche necessario far accettare agli avversari il proprio diritto alla vittoria. È questa l’egemonia: concepire un quadro di riferimento democratico, all’interno del quale sia possibile cominciare ad affrontare la questione della transizione verso il socialismo. Naturalmente un simile quadro non esiste ancora e non è mai stato delineato. Finora abbiamo avuto due strade. Una era fondata sull’annientamento dell’avversario, sulla distruzione del quadro di riferimento esistente, con tutto il suo potenziale democratico, e sulla conseguente creazione di un sistema sovietico che oggi, dopo i fatti della Polonia, “ha esaurito la sua spinta propulsiva” (Berlinguer, dicembre 1981). L’altra strada, quella cosiddetta socialdemocratica, ha accettato il quadro esistente e ha ottenuto importanti successi: più libertà, più democrazia e lo stato sociale. Ma non è ancora stata in grado di andare oltre un socialismo redistributivo. Quel che Berlinguer stava cercando di ottenere era la celebre “terza via”, l’idea che socialismo e libertà possano convivere. Per lungo tempo i comunisti italiani avevano chiamato questa “terza via” la “via italiana al socialismo”. Ora stava diventando chiaro che questo percorso non poteva essere solamente nazionale. Doveva trovare un punto di riferimento internazionale. Anche altri partiti comunisti dell’Europa occidentale erano arrivati, per motivi e in moCONTINUA A PAGINA 160 >>
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di diversi, a conclusioni simili: il primo passo importante era dichiarare la propria autonomia, il rifiuto dei vecchi modelli. È stata la stagione dell’eurocomunismo, con le dichiarazioni congiunte dei partiti comunisti in Italia e in Francia, a cui presto si erano aggiunti i partiti di Spagna, Regno Unito e altri paesi. In quella fase il Partito comunista francese condivideva il programma con i socialisti, gli spagnoli si affermavano come forza di primo piano e gli italiani ottenevano importanti successi elettorali, come nel 1975 e nel 1976. Il Pci amministrava tutte le principali città italiane e otteneva un voto su tre. Poi l’onda eurocomunista si è ritirata. I comunisti spagnoli sono stati indeboliti da lotte interne. Il partito francese non ha saputo sfruttare la situazione favorevole, litigando con i socialisti e subendo una grave sconfitta elettorale, e il Pci si è trovato invischiato nel difficile tentativo di sostenere un “governo d’unità nazionale” senza essere al governo. Con la morte di Aldo Moro, ucciso nel 1978 dalle Brigate rosse, i comunisti hanno perso l’uomo che avrebbe potuto convincere i democristiani ad accettare l’idea del compromesso storico. A quel punto l’eurocomunismo non era più un’opzione percorribile: doveva evolversi in una strategia più ampia, capace d’includere le altre anime della sinistra europea. Il contributo di Berlinguer allo sviluppo dell’eurocomunismo dimostra la sua grande attenzione al contesto internazionale in cui far agire il suo partito – tutti i partiti. Torniamo al suo articolo sul Cile. In un passaggio in cui ricorda l’invito di Togliatti a considerare la situazione internazionale il più freddamente possibile, Berlinguer si chiede: a quali condizioni internazionali è subordinata l’Italia? La risposta è semplice, tutti la conoscono ed è un elemento determinante: l’Italia appartiene a un blocco politico e militare che ne limita i movimenti. È la dura realtà, ma è la verità. Non deve portare all’inerzia o alla paralisi, e neanche a una retorica vuota, fatta di promesse im-
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possibili da mantenere. L’Italia non può abbandonare unilateralmente il blocco occidentale, non solo perché gli Stati Uniti non lo permetterebbero, ma perché non esiste un solo blocco. Ce ne sono due, e sono intrecciati in un sistema internazionale bipolare. È questo il senso della scelta del Pci di non mettere in discussione la Nato, di partecipare alle istituzioni della Comunità economica europea e d’insistere sulla cooperazione continentale. Bisogna fare ogni sforzo per sviluppare il multipolarismo del sistema internazionale. Per un partito europeo, l’Europa è il principale punto di riferimento, ma non si tratta di una posizione eurocentrica (anche se alcuni, nel Pci e altrove, la interpretano in questo modo). Non esiste una concezione di Europa come “terza forza” né un gollismo di sinistra. Il terreno su cui muoversi è l’Europa semplicemente per motivi geografici. Ma l’obiettivo è uscire dalla logica dei blocchi contrapposti. E questo pone i comunisti italiani al fianco di tutti coloro che, in ogni parte del mondo, lottano per gli stessi obiettivi. Il “nuovo internazionalismo” non si basa più su un sentimento generale di “solidarietà con gli oppressi”. Questo sentimento esiste, deve esistere, ma non costituisce una strategia politica. Il sistema bipolare Durante gli anni settanta il sistema bipolare è entrato in una grave crisi: gli Stati Uniti hanno perso la guerra del Vietnam, i paesi produttori di petrolio hanno ripreso il controllo delle loro risorse, la rivoluzione portoghese – causata da una lunga guerra coloniale – ha dato vita a tre nuovi stati indipendenti in Africa. A quella crisi le due superpotenze hanno reagito allo stesso modo: cercando di ripristinare il bipolarismo. Ma prima di questa reazione c’era stato un momento di pausa. Durante una riunione del comitato centrale del gennaio 1982, convocata per discutere della legge marziale in Polonia, Berlinguer spiegava che, tra le altre cose, la sconfitta militare in Viet-
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nam ha costretto l’amministrazione di Jimmy Carter a tentare una strada più prudente, meno propensa a interventi diretti. Ovviamente si è trattato di uno sforzo debole, di scarso seguito e azzerato quasi subito. Ma da chi? Non solo da forze interne agli Stati Uniti. Berlinguer non ha esitato a dire che l’Unione Sovietica condivideva una parte della responsabilità: “L’Unione Sovietica non aveva compreso che la sconfitta statunitense in Vietnam aveva creato un nuovo spazio di iniziativa politica”. E Mosca non ha capito “il valore del non allineamento e le possibilità concrete offerte dal dialogo nord-sud”. La distensione – aggiungeva Berlinguer – era diventata solo una questione di equilibri militari. L’Unione Sovietica ormai concepiva le relazioni internazionali esclusivamente in termini militari e di sicurezza: “Ha scelto la linea della politica di potenza per consolidare e allargare il suo blocco politico-militare, che ora considera come il suo principale strumento d’iniziativa internazionale”. Secondo Berlinguer, questo criterio è evidente in Afghanistan. Dall’opposizione L’elemento più rilevante che emerge dall’analisi di Berlinguer, e che rappresenta il terreno su cui la sinistra deve lavorare, è il seguente: qual è la causa dei (nuovi) “errori” dell’Unione Sovietica? Il leader italiano offre alcune indicazioni. L’Unione Sovietica dà risposte militari perché non ne ha altre. La crisi dell’imperialismo statunitense è diventata anche la crisi del blocco sovietico, perché Mosca ha poco da offrire al resto del mondo, a
parte un modello di società che questi paesi non possono o non vogliono seguire. Questo, e un arsenale di armi letali. Il messaggio della rivoluzione d’ottobre ha ispirato per lungo tempo le lotte per l’emancipazione di tanti popoli. Oggi, però, i successori di Lenin devono fare i conti con la loro incapacità di dare ai paesi ciò di cui hanno più bisogno: un sistema internazionale in cui essere protagonisti. Da questo deriva il ruolo che il Pci ha svolto nel movimento per la pace. Alcuni hanno ritenuto l’atteggiamento dei comunisti italiani troppo prudente, ma la posta in gioco è molto alta. E da qui deriva anche l’incessante flusso d’iniziative condivise con i partiti socialisti europei (tedeschi, greci, svedesi, francesi), con i movimenti di liberazione e con il resto del terzo mondo. Il fatto che i rappresentanti di paesi lontani abbiano reso omaggio alla salma di Berlinguer è un segno della statura internazionale dell’uomo e del suo partito. Berlinguer ha mostrato che è possibile fare molto anche restando all’opposizione. Berlinguer stava per andare a Mosca. Lì, ne sono certo, avrebbe fatto presente ai dirigenti sovietici quello di cui il movimento europeo per la pace oggi ha più bisogno: lo smantellamento di almeno alcuni dei missili Ss-20 puntati verso di noi, un gesto che ci aiuterebbe a liberarci di quei missili cruise che sono un simbolo mortale dello stato di subordinazione all’“altra parte”. Berlinguer non andrà a Mosca, ma altri lo faranno. Non lascia un modello da seguire. Non aveva sempre ragione. Non era un “eroe della rivoluzione”. Ma era sicuramente un rivoluzionario. u ff
Donald Sassoon, nato al Cairo nel 1946, è uno storico e saggista britannico. Tra i suoi libri tradotti in italiano,
Londra tra il 1957 e il 1991, è stato la rivista di teoria politica del Partito comunista di Gran Bretagna.
Togliatti e il partito di massa. Il Pci dal 1944 al 1964 (Castelvecchi 2014). Il mensile Marxism Today, pubblicato a
Nelle pagine precedenti: Berlinguer intervistato da giovani militanti a Roma, 1976. Hervé Gloaguen (Gamma-Rapho via Getty Images)
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Marx, rock e bancarelle
ROBERTO KOCH (CONTRASTO)
Negli anni ottanta le feste dell’Unità si aprono alle pratiche e ai simboli della cultura di massa. Perché i cambiamenti nel partito vanno di pari passo con quelli dell’intera società Sérgio Augusto, Folha de S.Paulo, Brasile, 15 ottobre 1984
Il concerto di Pino Daniele alla festa dell’Unità di Pisa, 1982
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Fra tranci di pizza, fette di salame e panini al prosciutto fanno capolino jeans Fiorucci, maglioni Benetton, videoclip new wave, marchingegni elettronici giapponesi e manuali Apple. Per non parlare dei poster di James Dean, John Lennon, Marilyn Monroe e Robert De Niro. Sullo sfondo, musica rock, tarantella e Pavarotti, innaffiati con Chianti, caffè espresso e cappuccino. No, non stiamo parlando della festa di san Gennaro e nemmeno di Little Italy a New York. Parliamo di una romanissima Big Italy di tarda estate, ai primi di settembre. Il patrono? San Togliatti. Non è certo la prima volta che i comunisti italiani riescono a sorprenderci ma stavolta, alla festa dell’Unità, il quotidiano del Pci, hanno proprio esagerato. Oltre alle bancarelle stile sagra parrocchiale, ad animare la manifestazione c’erano venti ristoranti, quindici bar e dodici osterie. Diciotto giorni per distrarre i convertiti, attirare i curiosi e stordire i turisti. Chi pensava che il lutto per la morte di san Berlinguer, lo scorso giugno, sarebbe durato più a lungo, di sicuro aveva sopravvalutato l’ascetismo degli eurocomunisti. Nonostante i loro recenti successi elettorali, manca ancora la cosa più importante: il potere. Hanno già provato di tutto, dal compromesso storico con i democristiani al disgelo con gli americani fino al gelo con i sovietici. Dicono che con Alessandro Natta, il successore di Berlinguer alla segreteria, puntano al sorpasso. Ma se pensate a quello di Vittorio Gassman state sbagliando. Sull’autostrada della politica, i comunisti italiani vogliono sorpassare a tutti i costi i loro avversari. A sinistra, si suppone. Intanto, mentre aspettano di realizzare il sogno che coltivano da quarant’anni, i comunisti si danno alla pazza gioia. Gli obiettivi di fondo sono sempre gli stessi: ampliare la platea degli abbonati all’Unità, rimpolpare le casse del partito, conquistare nuovi adepti e promuovere la solidarietà tra i vecchi iscritti. La festa diventa così il punto vendita del partito. Lo schema trae origine da un’idea del Partito
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comunista francese, che fin dagli anni trenta organizza una festa per il suo giornale, L’Humanité (quest’anno tra gli ospiti c’era la cantante Nina Hagen). A quei tempi l’Unità, messa fuori legge da Mussolini, doveva accontentarsi di piazzare un banchetto per gli abbonamenti alla festa del Pcf. Maurizio Tomassoni, attivista del Pci nella Repubblica di San Marino, è stato visto sventolare dalla sua bancarella le magliette con i colori e lo stemma dei confederati nella guerra civile americana. “I giovani adorano la bandiera dei confederati”, ha spiegato, “perché gli ricorda Elvis Presley”. Il banchetto della sovietica Intourist non ricordava nemmeno Nureev, ed è rimasto deserto. Gioia o rivoluzione Una vignetta pubblicata sul quotidiano la Repubblica mostra un giovane comunista, circondato dai loghi dell’Olivetti, della Fiat e dei salumi Fiorucci, mentre chiede a un compagno: “E il socialismo?”. Risposta del compagno: “Spiacenti, non s’è trovato lo sponsor... Salsiccina?”. In un’altra vignetta sullo stesso giornale Karl Marx fa sapere: “Quest’anno non ci vado alla Festa de l’Unità. Non ci conosco più nessuno”. Sempre la Repubblica, sette anni fa, pubblicò sulle sue pagine una vignetta dell’umorista Giorgio Forattini che per poco non fece saltare le fondamenta dell’alleanza tra eurocomunisti e socialisti. Ritraeva Berlinguer in giacca da camera e pantofole, pettinato come un modello di Armani, che leggeva annoiato l’Unità sotto gli occhi di un Marx visibilmente preoccupato per il rumore di una manifestazione sindacale proveniente dalla strada. Quella vignetta fu considerata da molti la più sintetica e graffiante rappresentazione del patto siglato dagli eurocomunisti con la borghesia. Da molti, ma non dagli stessi eurocomunisti. Furibondo, lo storico Paolo Spriano, della direzione del Pci, si lanciò in una catilinaria contro il giornale, a cui si accodarono altri compagni indigna-
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ANGELO PALMA (A3/CONTRASTO) (2)
La festa dell’Unità a Torino, 1981
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ti. Perfino il poeta Edoardo Sanguineti contribuì con qualche fulmine a quella tempesta in un bicchier d’acqua. La polemica che ne scaturì portò a concludere che in Italia i comunisti erano una congrega di musoni permalosi. Permalosi, passi, ma musoni era troppo, specialmente per uno spirito come quello italiano. Il vecchio slogan “Più forza al Pci” fu sostituito da “Più gioia nel Pci”. E così la gioia si impossessò del partitone. La tv e Sanremo Dopo quattro anni e molto relax, anche i gay sono usciti dall’armadio e, unendosi ai gioiosi comunisti, hanno inondato la redazione dell’Unità di rivelazioni e proposte che avrebbero fatto arrossire i dirigenti che all’inizio degli anni cinquanta avevano espulso dal partito il poeta e regista Pier Paolo Pasolini a causa della sua omosessualità. Seppur con riluttanza, a Milano il comitato centrale ha patrocinato un seminario sull’amore che è finito anche sulla copertina del settimanale L’Espresso e dove si è visto di tutto, compreso l’ormai abituale concerto rock. È probabile che a quel punto il vittoriano Marx si sentisse già un po’ a disagio in compagnia dei comunisti italiani. Alle feste dell’Unità di trentanove anni fa Marx troneggiava accanto a Lenin e Gramsci. La sua effigie è ancora in vendita sulle bancarelle del festival, come quelle del padre della rivoluzione sovietica, del grande filosofo italiano e di Berlinguer. Ma a un visitatore arrivato da Marte probabilmente bisognerebbe spiegare che Michael Jackson non è stato uno dei fondatori del Pci e non è nemmeno il suo attuale segretario. Il motto delle prime feste dell’Unità (la prima in assoluto fu organizzata il 4 settembre La Folha de S.Paulo è il più diffuso quotidiano brasiliano. È stato fondato a São Paulo nel 1921.
1945 a Mariano Comense) era “L’Italia cambia”. L’Italia, in effetti, continua a cambiare, ma il tanto agognato passaggio dalla barbarie fascista al rinascimento socialista sta ancora aspettando, mentre gli sfreccia davanti l’interminabile treno della società di massa capitalista. A quanto pare gli organizzatori della festa dell’Unità, stanchi dell’attesa, hanno deciso di correre il rischio e farsi dare un passaggio su uno dei suoi vagoni. Chissà cosa ne pensano Fernando Ferrara e Luigi Coppola, i due antropologi e semiologi autori di uno studio (Le feste e il potere, pubblicato sulla rivista Cultura & Società) che ha come oggetto proprio le feste dell’Unità, considerate a ragione uno dei fenomeni culturali più importanti dell’Italia contemporanea. Quando lo studio è stato concluso, nel 1983, non sembrava che la festa fosse ancora scesa ai compromessi a cui abbiamo assistito quest’anno. Compromessi con i simboli e le pratiche della cultura di massa, a cui aveva sempre cercato di contrapporre un modello alternativo fondato su rituali ricreativi comunitari dotati di inevitabili connotazioni civicoideologiche, senza però mai trascurare l’armonia tra spontaneità e programmazione, contemporaneità e tradizione, locale e nazionale. In qualche modo nelle considerazioni finali del saggio si insinuava una certa disillusione circa la promessa non mantenuta di un “nuovo spettacolo rituale”. O meglio, più che non mantenuta, frustrata dalla simbiosi con il suo opposto, una simbiosi già cominciata alla fine degli anni sessanta quando, grazie alla televisione e al festival di Sanremo, l’Italia era passata dalle processioni religiose al neopaganesimo, costringendo i comunisti a pensarla meno come Marx e più come McLuhan e il Vaticano. u sb
Sérgio Augusto è un giornalista e scrittore brasiliano. Ha lavorato per la Folha de S.Paulo tra il 1981 e il 1996.
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Per un governo di programma
ANGELO PALMA (A3/CONTRASTO)
Al congresso di Firenze le diverse correnti del partito trovano un accordo e confermano alla segreteria Alessandro Natta. Che promette di battersi per un’alternativa al pentapartito Fernando Serra, La Vanguardia, Spagna, 14 aprile 1986
Alessandro Natta al congresso del Pci a Firenze, 1986
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Il Pci è disposto ad assumersi la responsabilità di governo insieme ad altre forze, in particolare i socialisti e l’ala progressista della Democrazia cristiana; quest’alternativa si deve collocare nel quadro della sinistra europea; all’interno del partito dev’esserci libertà di pensiero. Sono questi i punti principali del discorso del segretario Alessandro Natta, che ieri ha chiuso i lavori del diciassettesimo congresso del Partito comunista italiano. In tali idee sono anche riassunte le conclusioni dell’assise comunista che si è tenuta a Firenze: cinque giornate di congresso che sono state un indiscusso successo per Natta. È sorprendente il largo consenso conquistato dal successore di Enrico Berlinguer, considerato che nel Pci convivono correnti diverse, a volte su posizioni quasi opposte. Questa mattina il nuovo comitato centrale ha confermato Natta alla guida del partito. “Dal congresso non escono né vinti né vincitori”, ha detto il leader comunista. “Da qui esce vincente la causa che tutti abbiamo abbracciato, la causa della pace, della libertà, degli ideali socialisti”. Nel suo discorso, Natta ha insistito sulla fase di rinnovamento che si sta aprendo e ha aggiunto: “Ci eravamo posti un obiettivo difficile e ambizioso: fare del nostro partito un moderno partito riformatore, una parte integrante ed essenziale della sinistra europea, una forza sempre più espressiva di capacità di governo e di alternativa. Solo la nostra opera quotidiana ci dirà se sapremo portare avanti questo compito con pieno rigore e piena coerenza”. Il segretario comunista ha ricordato Berlinguer come “il protagonista principale nel decennio trascorso” e ha definito la libertà di pensiero all’interno del Pci come un segno di forza e di ricchezza. Ha anche espresso parole di preoccupazione per la nuova crisi nel Mediterraneo centrale. Nel suo intervento, durato un’ora, Natta ha però insistito soprattutto sull’alternativa, parlando della possibilità di un “governo di programma”. Natta ha prima di tutto risposto alle
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critiche di chi la ritiene una soluzione ambigua e confusa. “Non è una formula vuota, ma un governo basato su un programma di riforme in cui deve confluire il ventaglio più ampio di forze progressiste”. Il leader comunista non ha però chiarito del tutto le due grandi incognite di quest’alternativa: quali partiti potrebbero entrare in questo “governo di programma”? E il Pci ne farebbe parte o si limiterebbe al sostegno esterno? Riguardo al primo problema, Natta ha spiegato che l’alleanza dovrà basarsi soprattutto su un accordo tra comunisti e socialisti, mentre nei confronti della destra è stato più ambiguo, parlando solamente di “forze cattoliche, laiche, movimenti che esprimono esigenze della società civile e correnti progressiste d’ispirazione religiosa”. Da quest’affermazione si deduce che un “governo di programma” abbraccerebbe anche la sinistra democristiana. Neanche sulla seconda questione Natta ha chiarito tutti i dubbi. Anche se un punto fermo del congresso è stata la disponibilità del Pci a partecipare a un futuro governo alternativo a quello del “pentapartito”, quando si è trattato di scendere nei dettagli il leader comunista si è limitato ad affermare che “non è da parte nostra che è mancato il senso di responsabilità verso il paese”. C’è inoltre da rilevare la confluenza di posizioni e correnti, che a Firenze si sono accordate sulla persona di Alessandro Natta. Oltre a un trionfo personale, grazie a cui il successore di Berlinguer consolida il suo incarico di segretario generale, questa convergenza è una vittoria dei centristi del Pci, che hanno unito le loro forze con la “destra moderata”. Questa corrente è guidata da Luciano Lama e Giorgio Napolitano, i più noti sostenitori della linea socialdemocratica. u fr La Vanguardia è un quotidiano spagnolo, pubblicato anche in lingua catalana. È stato fondato a Barcellona nel 1881.
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Femministe prima di tutto
ALBERTO ROVERI (MONDADORI PORTFOLIO)
In Italia tra gli anni sessanta e settanta il femminismo ha ottenuto risultati molto importanti. E il Pci non sempre è stato d’aiuto Judith Adler Hellman, Journal of women’s studiesLes cahiers de la femme, Canada, 1987
Una protesta contro uno stupro subìto da una donna a Bresso, Milano, 1976
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Quando all’estero si scopre che negli anni settanta in Italia si è sviluppato un vigoroso movimento delle donne, spesso ci si sorprende che il femminismo possa aver attecchito in un paese che s’immagina popolato di donne sofferenti avvolte in scialli neri e la cui vita pubblica si limita alla presenza in chiesa. Gli osservatori restano ancora più sbalorditi quando si rendono conto che il movimento femminista militante e originale emerso in Italia negli ultimi due decenni ha ottenuto risultati sensazionali. Forse la prova più lampante dell’impatto del movimento delle donne è arrivata nel maggio 1981, quando gli italiani, con un referendum nazionale che ha avuto un’affluenza del 70 per cento, hanno confermato una legge che garantisce il diritto all’aborto gratuito per le donne maggiorenni. Una volta a conoscenza del fatto che l’Italia è stata teatro di alcune tra le più interessanti azioni femministe degli ultimi anni, le persone poco avvezze alla politica e alla società italiane di solito si avventurano in supposizioni logiche ma errate, immaginando che il femminismo italiano sia nato dal rifiuto delle donne del ruolo limitato imposto dal Vaticano e dal suo modello di “famiglia cattolica”. Nel caso italiano esiste un altro fattore che ha plasmato lo sviluppo del femminismo quanto e forse più della presenza del Vaticano a Roma. Questo fattore è il peso dei partiti di sinistra, in modo particolare il Partito comunista italiano. L’Italia, infatti, non è solo un paese cattolico, ma possiede anche il più grande partito comunista al mondo tra quelli che non sono al governo. Un milione e mezzo di italiani è iscritto al partito, che all’apice del movimento femminista, negli anni settanta, aveva il voto di un terzo degli italiani e governava tutte le grandi città (Roma, Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Torino e in coalizione con i socialisti anche Genova e Milano). La politica italiana è stata modellata dalla presenza della chiesa, certo, ma anche dalla tradizione “rossa”.
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Paradossalmente, nel caso del femminismo italiano la forza della cultura di sinistra ha rappresentato, oltre che un aiuto, anche un freno alla mobilitazione femminile. Per questo motivo studiare i movimenti femministi italiani offre l’opportunità di considerare, in termini concreti, gli interrogativi teorici sulle potenziali contraddizioni tra femminismo e marxismo. Un legame forte Reggio Emilia è una delle città che costellano la via Emilia, la strada romana che segue il limite meridionale della valle del Po da Milano fino a Rimini, sulla costa Adriatica. Reggio si trova nella “cintura rossa”, la zona dell’Italia centrale in cui prima i socialisti e poi il Partito comunista hanno costruito la loro forza elettorale. Le regioni della Toscana, dell’Umbria e dell’Emilia-Romagna (dove si trova Reggio) formano una striscia che taglia trasversalmente lo stivale italiano dal Mediterraneo all’Adriatico, e forniscono al Partito comunista italiano più di un quarto dei suoi voti e la maggior parte dei suoi funzionari. Nel comune e nella provincia di Reggio Emilia il 55 per cento della popolazione vota regolarmente per il Pci, mentre un ulteriore 10 per cento sostiene i socialisti. Nessun’altra città italiana ha un legame più stretto con la sinistra. La “tradizione rossa” dell’Italia centrale affonda le sue radici nell’anticlericalismo del medioevo, quando le lotte dei comuni e delle repubbliche indipendenti contro lo stato pontificio alimentarono nei toscani, negli umbri, negli emiliani e nei romagnoli un profondo disprezzo per la chiesa in quanto istituzione. Questo sentimento è stato rafforzato dalla presenza di un clero che si è sempre schierato dalla parte dei proprietari terrieri nei conflitti con i contadini. Considerato questo profondo radicamento dei movimenti di sinistra nell’Italia centrale, è naturale che in quest’area il fascismo abbia mostrato il suo volto più bruta-
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le, ed è sempre qui che si è diffusa maggiormente la resistenza popolare nei confronti del regime di Mussolini. Oltre ai motivi storici all’origine della solida tradizione antifascista dell’Italia centrale, c’è anche un fattore geografico cruciale che ha reso questa zona l’epicentro della Resistenza durante la guerra. Nel 1943 e 1944 l’esercito tedesco in ritirata si trincerò nell’Italia centrale per affrontare l’avanzata degli alleati, in un’area dove il sostegno popolare per l’ideologia di sinistra era già radicato. Dunque i fattori storici e geografici si sono combinati per rendere le regioni “rosse” dell’Italia centrale un punto focale della resistenza al nazismo e al fascismo. In tutta la zona rossa gli sforzi della resistenza furono coordinati dai comunisti, molti dei quali tornati dalla guerra civile spagnola con una profonda conoscenza delle tattiche di guerriglia e un’esperienza nelle organizzazioni clandestine. A Reggio Emilia le attività della resistenza assunsero la forma soprattutto del sabotaggio e della distribuzione clandestina del quotidiano comunista l’Unità. Le donne partigiane, in particolare, erano coinvolte in pericolose operazioni di propaganda. Fin da subito il tema dello status delle donne è stato affrontato dalle cellule femminili della resistenza, i cosiddetti gruppi di difesa. Naturalmente la partecipazione alla resistenza ha politicizzato le donne ovunque siano state coinvolte, ma in Emilia-Romagna e soprattutto a Reggio la loro cospicua presenza ha fatto in modo che molte fossero pronte, una volta terminato il conflitto, a proseguire l’attività politica anziché tornare alla sfera domestica. Tra il partito e l’organizzazione In tutta Italia la fine del fascismo ha dato slancio alla mobilitazione delle donne, soprattutto nel Pci. Tra i tanti insegnamenti appresi dai comunisti durante il ventennio fascista c’era la consapevolezza del fatto che le donne casalinghe, relegate alla sfera privata della casa e del-
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la famiglia, avevano fornito la base di sostegno (per quanto passivo) alle organizzazioni del regime mussoliniano. Coscienti della capacità del fascismo di coinvolgere le casalinghe nelle grandi associazioni e consapevoli del successo della chiesa nel trasformare le istanze femministe borghesi in proposte reazionarie, i comunisti erano decisi a non permettere più che le donne non occupate fuori casa fossero escluse e abbandonate alla manipolazione dei preti e agli appelli reazionari. Ma in che modo era possibile attirarle verso l’attività politica? E come potevano diventare parte di un più ampio attivismo sociale, componente critica della sfida del Pci alla presenza dominante della chiesta cattolica nella società civile? Prima di tutto era necessario portare le donne all’interno delle organizzazioni di massa. Laddove possibile questo ha significato il reclutamento verso l’adesione attiva al Pci, ma per le donne che non erano ancora “pronte” per quel livello di attivismo politico – le cattoliche, le socialiste e altre già legate ad alcuni partiti politici – le veterane dei gruppi di difesa crearono l’Unione donne italiane (Udi). Fin dall’inizio le attività dell’Udi hanno rappresentato un’estensione delle iniziative messe in campo dai gruppi di difesa in tempo di guerra. Si trattava soprattutto di azioni utili alla ricostruzione del paese: aiutare veterani, orfani e bambini abbandonati, nutrire gli affamati e ospitare i senzatetto. Tutte queste iniziative sono state portate avanti dalle donne dell’Udi con grande entusiasmo e dedizione, a Reggio come altrove. Ma la funzione centrale dell’Udi, quella che ne avrebbe plasmato l’azione nei successivi vent’anni, era quella di organizzazione “affiancata” al Pci, progettata per portare l’influenza del partito alle persone che potevano condividerne gli obiettivi e la visione di un nuovo ordine sociale, ma che non erano ancora pronte a impegnarsi nella politica di partito. Abbastanza logicamente, in una città come
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Reggio, in cui la resistenza aveva costituito un movimento di massa, l’Udi era un’organizzazione di grande portata, con 27mila associate tra comune e provincia. Nei primi anni ha svolto il suo ruolo con grande cura, coinvolgendo le donne non comuniste nelle attività di ricostruzione postbellica e collaborando con l’organizzazione delle donne della Democrazia cristiana nella distribuzione di cibo, carburante e vestiti nell’ambito di iniziative comunali, come quelle del Comitato femminile cittadino per l’assistenza invernale ai bisognosi. In nessuna zona dell’Italia è possibile trovare un esempio migliore di ciò che il Pci avesse in mente per l’Udi. Tutte le grandi iniziative del periodo postbellico – le mobilitazioni per la pace, la richiesta di uguaglianza sul posto di lavoro, le campagne per gli asili e l’estensione dei servizi sociali – hanno ricevuto un grande sostegno da parte delle reggiane, in maggioranza affiliate o simpatizzanti del Partito comunista. Le donne dell’Udi si sono impegnate a fondo nel tentativo di coinvolgere le non comuniste nelle loro iniziative. Come racconta un’ex partigiana e attivista dell’Udi, “il mio ruolo era anche quello di convincere le donne non comuniste della validità dell’ideologia marxista. Quando bisognava manifestare per la pace ci presentavamo perfino dai preti per chiedere il loro sostegno”. Naturalmente il problema di definire una linea o un programma di iniziative distinte dalle attività dei comitati femminili del Partito comunista era particolarmente difficile in un luogo come Reggio, dove l’egemonia del Pci era totale. Nelle città della cintura rossa le attiviste dell’Udi faticavano a trovare una forma per la loro indipendenza, troppo immerse in una cultura comunista per essere capaci di determinare una linea autonoma per l’organizzazione. Le identità sovrapposte di esponenti o simpatizzanti del Pci, iscritte alle cooperative o alle associazioni partigiane, componenti della federazione dei braccianti gestita dai comunisti o della federazione dei picco-
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li produttori fornivano alle donne una visione del mondo in cui le persone come loro, di buona volontà, dovevano spontaneamente unire i loro sforzi per raggiungere obiettivi più vasti. Obiettivi che erano definiti e articolati dal Pci. Ciò significa che una donna reggiana poteva partecipare a una riunione femminile nella sezione di partito il lunedì sera, trascorrere buona parte del mercoledì animando da “residente preoccupata del quartiere” un’iniziativa di comunità per creare un asilo, e infine passare il venerdì insieme alle altre donne del circolo dell’Udi macinando pollo, formaggio e maiale e tirando la pasta per i tortellini da vendere in qualche raccolta fondi dell’organizzazione. Quando si avvicinava il momento dell’annuale festa dell’Unità, le donne potevano sospendere le loro attività con l’Udi per alcune settimane e dedicarsi a tempo pieno all’allestimento e alla preparazione del coniglio e di altre prelibatezze servite in occasione degli eventi organizzati per la raccolta fondi a beneficio del quotidiano comunista. A prescindere dagli sforzi imposti da queste richieste diverse, nei 116 circoli Udi nel comune e nella provincia di Reggio l’attivismo femminile ha seguito questa tendenza fino alla fine degli anni settanta. Negli anni settanta le femministe hanno cominciato a criticare, e spesso a ridicolizzare, queste attività, paragonandole a quelle delle donne al servizio dei preti. Ma la verità è che i ricavi della vendita di tortellini preparati dalle donne dell’Udi ogni venerdì pomeriggio nelle cucine di Reggio Emilia hanno permesso la costruzione di interi reparti ospedalieri nel Mozambico rivoluzionario. Nuove istanze Nel 1977, quando è cominciato questo studio, l’Udi di Reggio era già profondamente colpita dai cambiamenti in corso nell’organizzazione al livello nazionale, e soprattutto dalle trasfor-
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mazioni personali e collettive che avevano segnato la leadership dell’Unione a Roma nel corso degli anni settanta. Intervistate in questo periodo, le donne che avevano gestito l’Udi nei primi anni a Reggio Emilia hanno manifestato la consapevolezza del cambiamento, parlando francamente della precedente mancanza di autonomia dal Pci e rinnegando il ruolo di “cinghia di trasmissione” che l’Udi aveva ricoperto fino al 1956. Il problema centrale dell’Udi a Reggio Emilia era il seguente: un conto era rifiutare le forme obsolete del passato, un altro era far accettare alle vecchie compagne l’organizzazione femminista in cui l’Udi si stava rapidamente trasformando, tanto a Roma quanto in aree dell’Italia dove la tradizione rossa non era così forte e perfino nel sud del paese, dove piccoli rami dell’organizzazione prendevano vita in città e comuni storicamente privi di organizzazione femminile a eccezione dei comitati gestiti dai partiti. In questi luoghi si era sviluppata una “nuova” Udi , femminista e sostanzialmente irriconoscibile per molte attiviste storiche di Reggio. Queste ex partigiane, cresciute nella cultura delle zone rosse, non riuscivano ad accettare un modello di organizzazione che non solo era autonomo dal Pci sul piano finanziario e per l’individuazione degli obiettivi, ma poteva anche mantenere una posizione critica nei confronti del partito, considerandolo un impedimento al progresso delle donne. Naturalmente anche queste donne, in alcune situazioni, avevano provato rabbia nei confronti degli amministratori comunisti dei loro comuni o dei compagni negli uffici del partito, responsabili di non voler concedere la priorità alle rivendicazioni delle donne o sostenere attivamente le loro richieste, come la riforma della legge sull’aborto. Tuttavia la critica pubblica rivolta al partito, alla sua leadership o a figure di spicco nell’amministrazione pubblica era totalmente estranea all’esperienza di queste militanti del Pci. Nonostante diverse riserve iniziali (e persi-
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stenti) rispetto al femminismo, le donne più anziane – che avevano cominciato la loro vita politica all’interno di un movimento di resistenza che reclutava i partecipanti all’interno di classi sociali, fasce d’età, partiti politici e orientamenti religiosi diversi, e che avevano sempre insistito per coinvolgere le donne non comuniste – erano comunque contente di vedere un flusso di nuove iscritte. In effetti, sarebbe stato difficile per le ex partigiane non vedere nei volti nuovi ed entusiasti delle giovani compagne la realizzazione di molte delle loro speranze per una continuità nella lotta per l’emancipazione femminile. Di conseguenza molte delle risposte delle donne più anziane sono state positive e hanno espresso apprezzamento per il nuovo corso dell’organizzazione. Per la causa della pace Malgrado la progressiva accettazione della “nuova” Udi da parte delle compagne più anziane, restavano problemi critici. Le difficoltà erano di due tipi. Dopo il 1968 molte femministe erano entrate nell’Udi – a Reggio e altrove – perché volevano essere parte di un’organizzazione più strutturata. Le femministe dell’Udi volevano consentire a ogni donna di essere protagonista nella lotta. Ma per queste donne si era dimostrato impossibile risolvere la contraddizione tra i modelli partecipativi democratici del movimento femminista italiano e le dinamiche tradizionali tipiche delle organizzazioni di massa della sinistra come il Pci. L’undicesimo congresso nazionale dell’Udi, nel 1982, ha sancito le dimissioni in massa della dirigenza romana. Seguendo questa iniziativa, anche nelle sezioni delle regioni rosse, dove la leadership era rappresentata da funzionarie stipendiate, le dirigenti hanno rinunciato ai loro incarichi Nella maggior parte dei casi le ex funzionarie sono rimaste attive nel “movimento delle donne” in senso generico. Ma la loro coscien-
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za era stata trasformata al punto tale che non potevano più servire gli interessi di un’ampia massa di donne, in gran parte ancora passive. Le dimissioni del 1982 hanno segnato la fine dell’Udi come organizzazione di massa. Quasi quarant’anni di attivismo femminile – nella resistenza, nella ricostruzione postbellica, nelle battaglie legislative degli anni cinquanta e sessanta e nelle lotte per il divorzio, l’aborto e altre cause neofemministe degli anni settanta – si sono conclusi con le dimissioni collettiva della dirigenza dell’Udi. A quel punto è sostanzialmente scomparsa un’organizzazione fortemente strutturata, con una rete di contatti in ogni regione, provincia e comune d’Italia. Le donne che sono restate all’interno dell’Udi – a Reggio e altrove – hanno gestito l’organizzazione come fosse un piccolo collettivo femminista o un gruppo per la sensibilizzazione della cittadinanza. Ma attività come la raccolta di fondi, la vendita di abbonamenti e la presenza semiufficiale nell’arena politica nazionale e locale sono andate perdute. A Reggio la scomparsa dell’Udi come organizzazione formale ha lasciato alla deriva molte ex esponenti. Alcune donne più giovani, come sottolineato in precedenza, hanno continuato a esplorare e ad approfondire la propria co-
scienza femminista, portando avanti una serie di iniziative legate alle più moderne teorie del femminismo. Altre ragazze hanno abbandonato ogni forma di attivismo, “ritornando alla sfera privata” per loro stessa ammissione. Infine la maggior parte delle diecimila esponenti dell’Udi che avevano svolto una reale attività politica hanno trovato una piattaforma vecchia ma collaudata in cui riversare le loro energie ed esprimere le loro preoccupazioni sociali: semplicemente sono tornate a lavorare nel partito. In gran parte dei casi queste donne non avevano mai abbandonato l’impegno nel Pci, nemmeno nei giorni in cui l’Udi aveva formulato le sue critiche più incisive nei confronti della sinistra tradizionale. Con lo scioglimento dell’organizzazione in cui queste donne avevano investito così tanto, le attiviste hanno trovato una consolazione nel partecipare all’ultima iniziativa del Pci: la mobilitazione per la pace. Così, a metà degli anni ottanta, le donne più anziane che avevano formato la massa attiva dell’Udi a Reggio Emilia hanno ripreso a riunirsi nei quartieri del centro e nei nuovi quartieri delle periferie per preparare i tortellini e per sostenere la causa del disarmo e della pace. u as
Judith Adler Hellman è una storica e sociologa canadese. Questo articolo è un estratto del saggio Italian
Journal of women’s studies-Les cahiers de la femme è una rivista accademica canadese, femminista e bilingue,
feminism: women’s movements in the ‘red belt’ of Italy.
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di studi sulle donne. Fondata nel 1978, è pubblicata dalla York university con cadenza trimestrale.
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La pioniera senza paura
ARCHIVIO ANGELO PALMA/A3/CONTRASTO
Camilla Ravera ha partecipato alla fondazione del Pci, ha lottato per l’emancipazione delle donne, è stata la prima senatrice a vita della repubblica. Una figura centrale nella politica del paese George Armstrong, The Guardian, Regno Unito, 21 aprile 1988
Camilla Ravera, anni trenta
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Era il 1982 quando Sandro Pertini, allora presidente della repubblica italiana, nominò Camilla Ravera senatrice a vita. Ravera avrebbe presto compiuto 93 anni, tre in più di quanti ne ha oggi l’ex capo dello stato. “Questa donna appartiene alla storia più bella del paese”, aveva detto all’epoca Pertini. La settimana scorsa, in occasione del funerale della senatrice Ravera, l’orazione funebre è stata pronunciata da un’altra donna, anche lei comunista, Nilde Iotti. Nella sua carriera politica, Iotti è arrivata più in alto di tutte le altre donne italiane della sua generazione. È da nove anni presidente della camera dei deputati, terza carica dello stato. Ricordando le parole del presidente socialista, Iotti ha detto: “Potrebbe sembrare inappropriato definire ‘bella’ la vita di Camilla, perché è stata protagonista di alcune delle pagine più buie del nostro paese. Eppure bella lo è stata davvero”. Iotti si riferiva all’arresto di Ravera da parte dei fascisti, nel 1930, al processo davanti al tribunale speciale fascista, ai cinque anni di prigione (di cui una parte trascorsa in isolamento) e agli otto anni di esilio. Ravera era entrata nel Partito socialista nel 1918. Tre anni dopo, insieme ad Antonio Gramsci, era stata tra i fondatori del Partito comunista italiano. Era stata direttrice di una
delle riviste del partito, aveva fatto parte del comitato centrale nel 1923 (l’anno dopo la presa del potere dei fascisti) e nel 1928 era diventata delegata al Comintern. Poi l’arresto, nel 1930, per attività antifasciste. “Antonio Gramsci aveva grande fiducia in lei. Lenin leggeva i suoi articoli su Ordine Nuovo e li discutevano insieme”, ha ricordato Iotti. Ravera era stata vicina a Umberto Terracini e a Palmiro Togliatti durante i lunghi anni dell’esilio. All’epoca le dispute tra i rifugiati politici italiani erano piuttosto comuni, e nel 1939 Ravera e Terracini erano stati formalmente espulsi dal partito. Dal 1948 fino al 1958 Ravera era stata deputata per il Partito comunista, ma rimanendo sempre piuttosto indipendente dai vertici del partito. Negli ultimi vent’anni la sua immagine e il suo comportamento non erano stati quelli di una “bolscevica invecchiata”, ma di una donna gentile e dagli occhi luminosi, che sapeva preparare una cioccolata calda per offrirla a chi ne aveva bisogno. “Ormai fragile ma ancora coraggiosa e solida come una roccia, questa donna ha combattuto per quasi un secolo per l’emancipazione della classe operaia, per la democrazia e per dare un nuovo ruolo alle donne”, ha dichiarato Nilde Iotti. u as
George Armstrong (1924–2006) è stato un giornalista statunitense, corrispondente dall’Italia per il Guardian e altri giornali britannici.
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Alla prova del futuro
FONDAZIONE GRAMSCI/ARCHIVIO FOTOGRAFICO DEL PCI
Con il crollo del muro di Berlino, il Pci ha avviato un processo di trasformazione che conferma la sua identità pluralista e democratica. E che avrà conseguenze su tutta la sinistra europea Maurice Duverger, El País, Spagna, 30 ottobre 1990
Il XIX congresso nazionale del Pci al palazzo dello sport di Bologna, marzo 1990
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I partiti dell’Europa occidentale che hanno puntato sul collettivismo oggi non sanno più a che modello ispirarsi, considerato che né quello albanese né quello cubano sono presentabili. Anche i trotskisti, i maoisti e gli altri ultramarxisti nemici dello stalinismo sono in difficoltà. Lo stesso socialismo democratico vede la sua immagine offuscata dal prodigioso fallimento di quello che i sovietici chiamavano socialismo reale. Willy Brandt l’ha appena ammesso durante l’ultima riunione dell’Internazionale socialista. La socialdemocrazia è vittima del suo stesso successo. Dal 1945 ha stabilito in occidente il miglior regime politico della storia, ma adesso ha tutta l’aria di essere sprofondata in un nuovo centrismo. Nonostante tutto, per il socialismo le rivoluzioni del 1989 sono anche un’opportunità di riunificazione. La trasformazione intrapresa dal Pci potrebbe dare il via a un movimento in questo senso, perché il partito oggi funge da collegamento tra le due frazioni separate negli anni venti. Nato dal comunismo, che ha già contribuito a modificare profondamente, il Pci oggi abbraccia anche buona parte del mondo socialista: tra Cossutta e Napolitano (i leader delle due correnti più distanti) c’è la stessa differenza che in Francia separa Georges Marchais da Michel Rocard. Al parlamento europeo, il Pci è nel gruppo della sinistra unitaria, insieme ai comunisti riformatori di Spagna e Grecia, ma collabora anche con i socialisti. Ed è sorprendente che per il nuovo simbolo non abbia scelto la parola socialista, preferendole il più lungo Partito democratico della sinistra. Questo significa che la nuova formazione non solo si rivolge alle due famiglie socialiste che cerca di unire, ma anche a nuove forze che non accetterebbero un’etichetta di quel genere, anche se una simile etichetta in realtà le abbraccia già tutte: movimenti di liberazione femminile, cristiani progressisti, ambientalisti e via dicendo. Tutti i campi che Marx non ha decifrato dovranno essere decifrati, esami-
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nando nel frattempo il suo pensiero per capire da dove sia nata la deviazione che ha portato al dispotismo e all’inefficienza un progetto che doveva essere orientato alla libertà e alla produttività. Cambiare nome è la prima misura da prendere per un radicale rinnovamento della dottrina, e implica il fatto di non ergere più a Bibbia infallibile una particolare analisi delle società ottocentesche, per immaginare invece quello che il suo autore avrebbe detto delle società del ventunesimo secolo. Quest’immensa impresa sarà necessariamente comune a tutta la sinistra europea. Il Pci l’ha intrapresa fin dalla sua fondazione, per merito di Gramsci, ma solo adesso trova un terreno fertile che gli consentirà di portarla a termine. Alleanze e radici Diversamente da molte iniziative analoghe, il cambiamento di nome del partito non è un tentativo di mimetizzarsi, ma una rettificazione della propria identità, perché già da tempo i comunisti italiani sono diversi dagli altri comunisti del mondo, per il loro pluralismo e il loro spirito aperto. Questo nuovo battesimo non è una rottura, perché il simbolo che lo accompagna esprime l’immagine di stretta unità tra passato e futuro: quella di una catena radicata allo stesso tempo nella terra italiana e nel simbolo tradizionale della falce e del martello, uniti alla sigla del Pci. Una composizione verde e rossa, con al centro un albero che rappresenta la forza e sottolinea l’importanza dell’ecologia, che d’ora in avanti richiederà un approfondimento teorico e una strategia coordinata da parte di ogni forza politica. Radicata nell’antico simbolo, la catena potrebbe anche essere un’allusione al meraviglioso pensiero di Pablo Neruda: “La rivoluzione è lenta: come la vita, come gli alberi”. Le conseguenze della svolta del Pci in Italia saranno più dirette e più radicali. Ma riguarderanno anche tutta la Comunità europea, interessata al consolidamento del sistema politico della sua terza potenza economica. Norberto
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Bobbio ha sottolineato che il nuovo nome del partito ricorda che la politica si basa sempre su un confronto tra destra e sinistra, che grazie alla democrazia si può svolgere correttamente. In questo senso, il nuovo Pds dice di voler risvegliare una repubblica addormentata, aprendo la strada al cambiamento dopo 43 anni di governi dominati dalla Democrazia cristiana. In un certo senso è ciò che ha fatto François Mitterrand quando ha preso le redini del socialismo francese, consentendo l’alternanza dopo 23 anni di egemonia della destra. I meccanismi non saranno gli stessi, perché le tradizioni storiche sono diverse. Ai francesi sembrava quasi che l’ultrastalinista partito comunista avesse sede nell’est invece che sul territorio nazionale. Per questo il Pcf si è condannato a diventare una forza minoritaria all’interno di un’alleanza in cui il ricordo mitico del Fronte popolare e il prestigio del presidente della repubblica hanno dato preminenza al partito socialista. A Roma, il Pci ha scelto l’indipendenza e la democrazia molto prima del suo cambiamento di nome. Radicato nella società italiana fin dai tempi di Gramsci, coautore della costituzione con la Dc, a volte associato a quest’ultima su diversi fronti, con un’ottima reputazione per la buona gestione delle amministrazioni locali, ormai da tempo il Pci era considerano
un partito serio e affidabile. Ma il suo simbolo faceva paura in un mondo ancora dominato dalla guerra fredda. E questo permetteva ai suoi soci politici di tenerlo in quarantena, conservando per loro tutti i vantaggi del potere. In una situazione del genere, non è possibile un’alleanza di sinistra. Quando Bettino Craxi è arrivato alla guida del Psi, ha dedicato tutti i suoi sforzi al consolidamento dell’alleanza con la Dc. Era condannato a seguire la strategia di Guy Mollet, ma con il vigore di François Mitterrand. Tutto è cambiato quando la guerra fredda è finita con la capitolazione dell’Europa dell’est e il nuovo Pci ha finalmente scoperto il suo vero volto. Gli italiani sono troppo intelligenti per non rendersi conto di avere davanti a loro un vero partito democratico di sinistra. Craxi è troppo abile per non capire che, invece di fare il brillante luogotenente della Democrazia cristiana, d’ora in avanti potrà guidare un governo di sinistra in cui la sua posizione centrista compenserà l’inferiorità numerica del suo partito. Se l’Italia uscisse così dallo stallo politico e raggiungesse una stabilità degna del dinamismo della sua economia, l’Europa del sud potrebbe riacquistare una situazione di equilibrio all’interno di una Comunità europea che tende a essere dominata dalla Germania. u fr
El País è un quotidano spagnolo, fondato a Madrid nel 1976, dopo la fine della dittatura franchista.
del novecento. Tra il 1989 e il 1994 è stato parlamentare europeo, eletto come indipendente nelle liste del Pci.
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Maurice Duverger (1917–2014) è stato un sociologo, giurista e politico francese, tra i più importanti politologi
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Ripensare la sinistra Un nuovo nome. Nuove alleanze. E la nascita di una forza politica aperta e riformista. Lo storico britannico dialoga con il segretario Achille Occhetto sulle sfide del Pci dopo la caduta dei regimi comunisti Eric Hobsbawm, Australian Left Review, Australia, marzo 1990 Eric Hobsbawm Stiamo vivendo un momento d’importanza storica: i regimi dell’Europa orientale sono crollati, nell’Unione Sovietica la situazione è precaria, e ci siamo resi conto che un’intera tradizione, alla quale abbiamo dedicato parte della nostra vita, è giunta al termine: la tradizione scaturita dalla rivoluzione d’ottobre. È d’accordo sul fatto che siamo davanti a una profonda svolta storica? Achille Occhetto Sì, sento che siamo in uno di quei punti di svolta che richiedono un cambiamento totale, non solo nella pratica ma anche nella teoria. Direi che in un momento del genere non è più sufficiente trovare nuove risposte, dobbiamo porci nuove domande. Credo che il “comunismo reale”– e con questo non intendo l’insieme di ideali che mantengono chiaramente il loro valore, ma quel movimento comunista che è nato con una visione specifica del partito, dello stato, dell’organizzazione e della società – si trovi di fronte a una crisi
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storica di enormi proporzioni. Questo ha portato al collasso del sistema statale al quale aveva dato vita e che aveva erroneamente creato la convinzione che la lotta tra destra e sinistra, tra socialismo e capitalismo, potesse essere concentrata nello scontro tra i due blocchi. Identificarsi prima con “il socialismo in un solo paese”, e poi con la difesa del blocco nato dopo la seconda guerra mondiale intorno all’Unione Sovietica, ha prodotto la convinzione che questo fosse il futuro del socialismo. Questo ha provocato una tragedia storica, almeno in vaste aree del mondo, da cui sarà difficile riprendersi. Allora perché il Pci, a noi che siamo all’estero, sembra sulla difensiva? Perché si sente responsabile di cose di cui non ha nessuna colpa? Per il Pci la necessità di cambiamento non nasce da una corresponsabilità in quanto è accaduto nei paesi dell’Europa orientale. Tuttavia
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dobbiamo essere attenti. Abbiamo vissuto fondamentalmente tre fasi: all’inizio eravamo la componente più critica del movimento comunista internazionale, poi siamo stati in aperto disaccordo e infine abbiamo lasciato il movimento e ci siamo dichiarati parte integrante della sinistra europea. Penso che il vero problema di oggi sia legato alla sua prima domanda. Dal 1945 il mondo è radicalmente cambiato. In una certa fase abbiamo agito in modo critico all’interno di un mondo diviso in due blocchi. Oggi, in Italia, in Europa e nel mondo, la sinistra si deve ristrutturare.
che siamo più forti nelle due regioni del paese con la più solida tradizione riformista, ma a questo abbiamo aggiunto qualcosa di nuovo e originale, vale a dire la visione comunista non di un riformismo subalterno, ma di una classe lavoratrice autonoma e capace di farsi stato.
Questo significa tornare a prima del 1945. Oggi è in discussione l’intera prospettiva dei movimenti che sono stati segnati dall’esperienza della rivoluzione d’ottobre. Rimangono le tradizioni – e ce ne sono diverse – dei movimenti socialisti precedenti al 1917; ma anche l’esperienza di movimenti comunisti come quello italiano, che non sono mai stati identificati con la costruzione di uno stato totalitario. Cosa ne pensa?
Nel Pci hanno convissuto elementi di innovazione e posizioni ideologiche, motivo per cui non abbiamo saputo sfruttare appieno le potenzialità di una politica capace di presentare il partito come fulcro di un’alternativa all’attuale classe di governo. E non intendo a causa della svolta del 1989-90. Sfortunatamente, da circa dieci anni i nostri voti sono in continuo declino. La situazione tra i giovani è particolarmente preoccupante. Questo non è dovuto a una minore militanza, come alcuni sostengono. Credo che il nostro non sia tanto il problema del comunismo, quanto della funzione stessa dei partiti di sinistra. I nostri guai sono cominciati contemporaneamente a quelli del Partito laburista nel Regno Unito, del Partito socialdemocratico in Germania e soprattutto di quei partiti che non volevano solo gestire le politiche neoliberiste e neoconservatrici. Ci sono partiti socialisti che hanno fatto un’altra scelta. Quindi è necessario ridefinire la cultura di sinistra e il modo stesso di essere un partito. Dobbiamo trovare una nuova forma di partito che sia in grado di includere nell’azione e nella lotta i temi delle contraddizioni attuali, quelli dell’anno duemila, non del novecento. Per esempio, la nostra idea tradizionale di alleanza sociale tra operai e contadini oggi non ha più senso, anche se è ancora rappresentata dallo stemma con la falce e il martello. Oggi il problema più importante è il rapporto tra il
In primo luogo, anche la tradizione socialdemocratica è cambiata nel tempo. L’internazionale socialista di Willy Brandt non è più quella che nel 1914 si macchiò della colpa di votare i crediti di guerra né quella rinata dopo la guerra e molto legata all’allineamento dei blocchi. Negli anni cinquanta spesso sembrava addirittura uno strumento della politica americana. C’è stato un cambiamento importante in due aree significative: il riavvicinamento tedesco ai paesi del patto di Varsavia e le relazioni nord-sud. Questo lo dobbiamo a due uomini: Brandt e Olof Palme. Potremmo dire che l’intera prospettiva teorica del socialismo internazionale è in movimento. Il problema, per noi, non è passare da una tradizione a un’altra. Quello che proponiamo è partecipare a un movimento internazionale per ripensare la funzione della sinistra. Possiamo farlo perché siamo un partito comunista che incarna una grande tradizione riformista. Non è un caso
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Ma il Pci non ha preso già da tempo la strada del riformismo? Manca solo un riconoscimento formale dei cambiamenti in atto, non del tutto completati, perché nel partito sopravvivono ancora alcune delle vecchie tradizioni, che da qualche tempo però sono dominanti.
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mondo del lavoro nel suo insieme e temi trasversali come l’ecologia, la liberazione delle donne, e così via. Sentiamo di dover riconsiderare il modo di fare politica, il partito come entità, i programmi della sinistra. E non solo come italiani ma in un contesto internazionale, per dare il nostro contributo a una riorganizzazione della sinistra, a cominciare da quella europea.
rapporto tra gli elettori comunisti e quelli socialisti. Senza i socialisti non può esserci un’alternativa di sinistra. Ovviamente non c’è alternativa senza i socialisti, ma finché noi rimaniamo il partito che siamo, i socialisti non vogliono costruire un’alternativa insieme a noi. Perché?
D’accordo, quello del Pci è un aspetto nazionale di un problema più ampio: la crisi del socialismo e dei movimenti operai negli ultimi vent’anni. Ma non c’è una crisi anche del concetto di partito? Il partito come mezzo per consentire la libera associazione politica delle persone è un elemento basilare della democrazia. Ma non c’è dubbio che anche in Italia i partiti sono degenerati. C’è un tentativo di prendere tutte le decisioni tramite le segreterie dei partiti al governo. Anche in un sistema multipartitico come il nostro c’è quindi un elemento di supremazia partitica che soffoca la capacità reale, perfino la stessa attività imprenditoriale. La democrazia italiana, a differenza di quelle di altri paesi europei, ha un suo problema specifico. Dal 1945 la nostra democrazia è bloccata dal costante predominio della Democrazia cristiana e di altri suoi partiti satelliti, e il Partito comunista è stato sempre escluso dal potere. Ora, un partito politico non può andare avanti per secoli predicando solo ideali. Non siamo la chiesa cattolica. Siamo un partito politico e, come tale, la costituzione ci impone il dovere di competere per assumere la guida del paese. Quindi il problema principale è come creare le condizioni per un’alternativa. Abbiamo dato una grande scossa alla vita politica italiana per far emergere tutte quelle forze di sinistra che non stanno con Craxi né con la Democrazia cristiana, non sono nemmeno comuniste, ma sono aperte alla possibilità di un’alternativa. Ma il cuore di ogni alternativa dovrebbe essere il
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Lo considerano inaccettabile finché non saranno il partito di maggioranza, come ovunque in Europa. Questa è la posizione di Craxi, e purtroppo sta bloccando la vita politica del paese. Nella relazione presentata al congresso lei propone la nascita di una nuova formazione politica. Se un accordo con i socialisti per il momento è escluso, chi comporrà il nuovo raggruppamento? Un accordo con i socialisti non è del tutto escluso. Noi diciamo che la nuova formazione sfida i socialisti a prendere seriamente l’alternativa. E infatti, proprio nel momento in cui abbiamo annunciato questa opzione, per la prima volta da anni si è aperta una discussione all’interno del Partito socialista, sebbene per il momento sia stata interrotta perché i socialisti aspettano l’esito del nostro congresso. Supponiamo che il partito esca allo scoperto, che ci sia la possibilità di un governo e che la gente, l’opinione pubblica, vi chieda di rappresentare l’alternativa. Al di là di quanto condiviso da tutti gli uomini e le donne di buona volontà, il Pci e gli altri partiti socialisti hanno un progetto concreto, delle idee precise su ambiente, femminismo, sud, mafia? Scusi se la interrompo. Finché i problemi sono presi singolarmente, tutti sono d’accordo. Intendo dire che tutti vogliono difendere l’ambiente finché non si mettono in discussione i
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Le celebrazioni per l’anniversario della rivoluzione d’ottobre a Mosca, 7 novembre 1989. Carl De Keyzer (Magnum/Contrasto)
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metodi di produzione e di consumo. Tutti sono d’accordo sulla liberazione delle donne fintanto che non si mette in discussione il predominio maschile nel mondo del lavoro e nell’organizzazione della società. C’è molta ipocrisia sociale oggi. In effetti, tutto il mondo sostiene spesso gli stessi ideali: anche quelli che sono considerati valori comunisti sono tacitamente condivisi da qualsiasi democratico. Il problema è trovare un progetto politico e, allo stesso tempo, una forma di partito che può unire le diverse esigenze in un progetto alternativo credibile a livello di governo. Ma non dobbiamo dimenticare un fatto fondamentale. Da qualche anno il Partito comunista è in forte declino. Non tanto per i voti: il 27 per cento è ancora una bella cifra. È che la percentuale di elettori giovani continua a diminuire, e questo mi preoccupa. Dal 1945 i giovani hanno sempre votato in maggioranza per noi. Adesso siamo ben al di sotto della nostra media. Come possiamo parlare a questi giovani? Questo è un grande problema. Quali motivi ci sono per scegliere questo grande partito? Se le persone votano per i socialisti di Craxi, un motivo c’è: il partito gestisce un sistema clientelare e promuove un nuovo tipo di capitalismo. Forse non è molto etico, ma è un motivo. Sì, ma la ragione positiva è anche strettamente collegata alla situazione che sta cambiando. Nel corso del tempo si è verificata una sorta di stabilizzazione politica. I consumi e la sicurezza del lavoro sono aumentati per la maggior parte della popolazione. La minoranza è numerosa ma rimane una minoranza. In termini di voti, non è immediatamente disponibile per un’alternativa e può, infatti, essere condizionata dal clientelismo. Finché le sue contraddizioni interne non scoppieranno in modo più visibile, è un sistema che ha una sua forza inerziale. Neanche le iniziative politiche più vivaci, dinamiche e aperte potranno cambiare rapidamente la situazione. Ma è comunque una
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strategia efficace portare avanti alcune idee positive che, secondo noi, aprono prospettive su un altro modo di vivere nel nostro paese. Quindi non vogliamo più mercato, ma uno stato migliore per un mercato migliore. Servono regole più sicure nella società e per tutti i soggetti che vi operano, entità pubbliche, private e non profit. Questo significa che lo stato e gli enti pubblici dovrebbero interferire di meno e offrire a tutti la possibilità di esprimere le proprie potenzialità. Questo nuovo quadro di rapporti sociali è legato alla questione della moralità pubblica e della criminalità, che è uno dei nostri problemi principali. Penso che molte persone sarebbero a favore di un progetto positivo che non sia statalista ma intenda offrire maggiori opportunità di decidere alle persone, perché sono loro che devono mettere in moto ciò che c’è di vivo e creativo nella società italiana, e che purtroppo è soffocato dal sistema partitico. Anche il tipo di linguaggio che sto usando, che non è tradizionale, può attirare un consenso che in precedenza non avevamo. Quindi apriamo le porte a un sostegno più ampio, facciamo emergere le contraddizioni del Partito socialista, ma lanciamo anche un nuovo processo di unità con i socialisti. Facciamo venir fuori le contraddizioni del mondo cattolico e facilitiamo la collaborazione con alcuni suoi elementi. Insomma, vogliamo dare una scossa alla situazione politica italiana. Naturalmente, questo non si fa in un giorno. Questo mi porta a parlare delle prospettive dopo il crollo dei regimi dell’Europa orientale, compresa la situazione molto preoccupante in Unione Sovietica. Qual è la sua opinione in merito? La situazione è così dinamica che è difficile fare previsioni. È molto importante capire come intervenire. Penso che la sinistra europea abbia la responsabilità di controllare i processi democratici a est in accordo con Gorbacëv. Per quanto è possibile...
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Certo, ma fino a che punto è possibile? Non lo so. Di recente sono stato in Polonia e ho parlato con tutti: Solidarność, il primo ministro Tadeusz Mazowiecki, Bronisław Geremek, il cardinale Józef Glemp, il generale Jaruzelski. La cosa che mi ha colpito è stata che tutti avevano la stessa volontà di controllare il processo in corso. Tutti erano d’accordo – il primo ministro, i comunisti, Solidarność – sul fatto che anche l’unificazione tedesca dev’essere vista nel quadro di una più ampia integrazione europea. È questo l’unico modo per controllare la situazione. Ma loro mi dicono che, per esempio, in questo momento la Polonia ha più problemi territoriali con la Germania orientale che con quella occidentale, perché lì i nazisti sono più forti. A est il nazismo non è stato eliminato, ma semplicemente congelato.
Ho altre due domande. La prima riguarda il cambio di nome del partito. Come giustifica questa decisione?
Amendola hanno sollevato di nuovo la questione, anche se ovviamente in termini diversi rispetto a oggi. Adesso il tema è affrontato con un certo sentimentalismo, in particolare da quelli che si oppongono alle nuove proposte politiche. Certo, sotto il profilo emotivo dispiace anche a me. Ho cominciato a fare politica da comunista e non sono mai stato altro nella mia vita. Ho detto molte volte che affronto il problema di una nuova forza politica da una prospettiva comunista, non sono diventato improvvisamente qualcos’altro. Il punto è valutare la validità di questo allargamento e di questo diverso modo di fare politica. Potremmo prendere in considerazione, per esempio, un’unione democratica e popolare che rappresenti forze diverse, in cui il Partito comunista rimanga determinante, anche se la rappresentanza a livello di partecipazione elettorale – locale, nazionale o europea – è in capo all’unione stessa. O potrebbero esserci soluzioni diverse, che andranno discusse con gli altri partecipanti. È un’iniziativa politica che servirà a sbloccare la situazione italiana. Se questa iniziativa, che ci ha portato al centro dell’attenzione e ha aperto la discussione non solo tra i comunisti ma in tutte le famiglie italiane, sarà considerata una catastrofe, una svendita, un tradimento, allora di certo non funzionerà.
In realtà, all’inizio non avevamo intenzione di cambiare il nome del partito, anche se è così che la notizia è arrivata ai mezzi d’informazione. Non ci vergognamo del nostro nome. La proposta era organizzare un’assemblea costituente per dar vita a una formazione politica più ampia, con la partecipazione di altre forze, insieme alle quali avremmo discusso tutte le questioni: il programma e, se necessario, il nome. Questa non è la prima volta nella nostra storia che suggeriamo la nascita di una forza nuova. Togliatti lo fece prima che scoppiasse la guerra fredda, lo stesso Longo parlava di un partito dei lavoratori che avrebbe dovuto unire tutta la sinistra italiana. In seguito Longo e
Il problema non è il cambiamento di nome in sé. È un prezzo che si può pagare in circostanze simili? Certamente. Non ho nulla da dire, se riuscirete a formare un grande allineamento progressista. Ma ho l’impressione che siate sulla difensiva. E questo mi preoccupa. Molti diranno: “Oh, finalmente hanno riconosciuto che Craxi e gli altri avevano ragione. Il comunismo non esiste più, hanno ammesso il loro errore”. Ma il Pci ha una tradizione gloriosa, quella del Partito comunista dei lavoratori. Si giudica il contenuto della bottiglia, non la bottiglia stessa. In breve, che cosa succede se il congresso non accetta la sua relazione di maggioranza per questo motivo, che a mio parere è secondario?
Tuttavia, è un fatto positivo che in così tanti decenni le diverse nazionalità non si sono massacrate a vicenda. Da un lato hanno imposto il controllo, ma dall’altro hanno lasciato i problemi irrisolti.
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Il parco di Izmajlovo a Mosca, 1989. Carl De Keyzer (Magnum/Contrasto)
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Prima di tutto dobbiamo partire dal presupposto che c’era già motivo di preoccupazione. Eravamo sulla difensiva e in una situazione precaria. In alcune delle ultime elezioni amministrative abbiamo perso tra il 10 e il 20 per cento dei voti. La situazione è già abbastanza difficile, per non parlare di quello che ho già detto sul voto giovanile. Cosa significa tutto questo? Che manterremo un elettorato che queste cose già le conosce bene e non conquisteremo nuovi elettori. Tra i giovani i voti per il partito in alcune regioni sono al 12 per cento.
rendevano utile. Se la mia idea sarà sconfitta da qualche controproposta non sarà la fine del mondo, ma credo che guadagneremo un po’ di consensi. C’è un’intera parte dinamica della società italiana che potrebbe abbandonarci, o seguirci con difficoltà.
È molto preoccupante...
Penso che in realtà anche i socialisti debbano ricostruire la loro identità. Non è un compito che spetta solo ai comunisti. Sono molto fermo su questo, stiamo lanciando una sfida. Craxi non ha ragione. Ha torto. Ancora una volta noi siamo all’avanguardia. In questo modo dimostriamo che siamo di nuovo all’avanguardia. Sono i socialisti che sono rimasti nell’ottocento, che parlano di Proudhon mentre gestiscono il capitalismo italiano a un livello veramente modesto. Per quanto riguarda il socialismo in generale, dobbiamo riaprire il dibattito. Come ho detto prima, dobbiamo porci domande nuove e non cercare più solo risposte a quelle vecchie. Alla fine penso che il crollo dell’Europa orientale possa perfino riportare all’ordine del giorno la necessità di una sinistra europea più forte, perfino rilanciare la sinistra statunitense, che è stata danneggiata dalla divisione del mondo in blocchi. E questa può essere una nuova sfida per la sinistra. u bt
È motivo di grande preoccupazione da diversi anni. Abbiamo perso milioni di voti. Questa è la situazione. Bisogna cercare di cambiarla. Vedremo. La scelta di un rinnovamento non significa un miglioramento immediato. Bisogna avere il coraggio di scegliere il rinnovamento e accettare un periodo difficile per poi raccoglierne i frutti in seguito. Penso che i comunisti e i loro sostenitori siano molto più intelligenti di quanto si creda. Se ai vertici non fanno troppi drammi, l’idea politica di vincere, di non sentirsi isolati, di aprire una nuova fase, sarà accolta. Comunque io sostengo, e continuerò a sostenere, che la nostra proposta non è una ritirata. Durante le elezioni europee la questione del nome è venuta fuori e ho spiegato che non ci vergognavamo del nostro nome e che non lo avremmo cambiato, a meno che non avessimo deciso che gli eventi politici lo
Eric Hobsbawm (1917-2012) è stato uno storico britannico, tra i maggiori del novecento. Di formazione marxista,
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ha insegnato al Birkbeck college di Londra dal 1947 fino alla morte. Il suo libro più celebre è Il secolo breve (Rizzoli 1995).
Un’ultima cosa. Come vede le prospettive dei socialisti in senso ampio, cioè di tutti coloro che ancora si identificano in quel grande movimento, non in termini di organizzazione partitica, ma nel complesso?
L’Australian Left Review è stato il mensile del Partito comunista australiano. Fondato nel 1966, è uscito fino al 1993.
Un nuovo inizio Liquidare il vecchio Pci e ripartire da un partito che tenga insieme tutte le anime del progressismo. È l’obiettivo del leader Achille Occhetto. Ma il percorso è più complicato del previsto Werner Raith, Die Tageszeitung, Germania, 31 gennaio 1991 Nominato segretario del Partito comunista italiano due anni fa, dopo diverse catastrofiche sconfitte elettorali, Achille Occhetto, 54 anni, laureato in filosofia, sogna di compiere un miracolo: far risorgere la fenice dalle ceneri. In versione moderna ovviamente. Vorrebbe ridurre in cenere il caro vecchio Pci perché risorga come una “nuova formazione capace di attingere a un bacino elettorale più ampio di quello tradizionale del Partito comunista e di costituire un punto di aggregazione per tutte le forze di sinistra, progressiste e con un progetto ambizioso”. Una casa per i cattolici progressisti, ma anche per dirigenti e laici riformisti ed ex sessantottini. Dovrebbe chiamarsi Partito democratico della sinistra, in breve Pds, avere come simbolo una quercia al posto della falce e del martello e nascere nel congresso costituente che si apre oggi a Rimini. Ma cosa ne verrà fuori non è per niente chiaro. È dal novembre del 1989 che Occhetto coltiva il sogno della grande svolta: alla caduta
Die Tageszeitung è un quotidiano tedesco di sinistra, fondato nel 1978 a Berlino.
Werner Raith (1940–2001) è stato uno scrittore, giornalista e accademico tedesco.
del muro di Berlino il segretario ha avuto un’intuizione e l’ha resa nota senza indugiare e senza consultarsi con la dirigenza del partito. Ma si sa come vanno queste cose: nessuno è profeta in patria. La Süddeutsche Zeitung considerava Occhetto uno “scaltro stratega” e i socialdemocratici tedeschi osservano il Pci con un certo affetto già dai tempi del segretario Enrico Berlinguer, scomparso nel 1984; in patria, però, l’attuale segretario del Pci, non ancora leader del Pds, ha il suo bel da fare per portare a compimento quest’acrobazia: a parte il quotidiano di Monaco, non c’è nessuno che lo consideri così scaltro. Tra i 1.200 delegati al congresso la proposta di Occhetto avrà la maggioranza. Ma l’appoggio dei tre quarti dei delegati, registrato subito dopo che il segretario aveva annunciato il suo sogno, si è dissolto da tempo. Occhetto non riesce più a trovare una sintesi tra le diverse correnti. C’è la vecchia fazione fedele a Mosca, guidata dal sessantaquattrenne Armando Cos-
Esperto di mafia, è stato corrispondente dall’Italia per diversi giornali tedeschi.
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sutta, spesso tacciata di stalinismo dai suoi critici: benché non sia troppo numerosa, è piuttosto energica e non ne vuole sapere di uno scioglimento del Pci. Anzi, con quasi il 5 per cento circa di delegati minaccia di fondare un proprio partito appropriandosi del vecchio simbolo e del vecchio nome. La corrente di Pietro Ingrao (75 anni), ex presidente della camera e ultima figura carismatica del Pci, conta invece sul 25-30 per cento dei delegati. Lontani dall’Urss come dagli Stati Uniti, gli ingraiani sono anticapitalisti, ma anche decisamente ambientalisti. Poi ci sono quelli che oscillano tra la linea di Ingrao e quella di Occhetto, sempre che quest’ultima si possa definire una linea. Quando ha lanciato il suo progetto, Occhetto ha infatti cercato l’appoggio della corrente dei cosiddetti miglioristi di Giorgio Napolitano (65 anni), Chiaromonte e Macaluso (entrambi di 66 anni ed ex direttori dell’Unità), che, sulla scia della linea neoconservatrice del segretario socialista Bettino Craxi, non si definiscono nemmeno più riformisti, ma puntano esclusivamente a “migliorare” la società. Quando poi ha cominciato a incassare i rifiuti di chiunque avesse provato a corteggiare fuori dal Pci, dai cattolici ai verdi, si è riavvicinato non solo a Ingrao, ma anche al vecchio filosovietico Cossutta (per esempio decidendo, senza consultarsi con i miglioristi, di mettere la falce, il martello e la vecchia sigla Pci alla base della quercia, a mo’ di radici). In questo modo, però, ha fatto inferocire l’ala centrista del partito, prestando il fianco ai socialisti, i quali, pur avendo la metà dei consensi dei comunisti, vogliono assolutamente vedere Bettino Craxi a capo della sinistra unita. A quanto punto, con la sua proverbiale coerenza, lo scorso autunno Occhetto ha nuovamente cambiato rotta, alienandosi Ingrao con una retorica fin troppo filoamericana, salvo poi, vedendo avvicinarsi la
guerra del Golfo, esigere improvvisamente il rientro del contingente italiano, proprio come ha fatto Ingrao. Contro questa posizione è schierato oggi, appena prima del congresso, il migliorista Napolitano, da un anno ministro degli esteri del governo ombra, sostenuto da un manipolo di sostenitori, tra cui il direttore dell’Unità Renzo Foa. In cambio del loro appoggio, esigono che Occhetto esprima solidarietà ai soldati impegnati nel Golfo e che il partito appoggi lo sforzo bellico deciso dal governo. Ma Occhetto sta cercando di evitare quest’ultima acrobazia, che potrebbe farlo cadere definitivamente, con l’aiuto di un alleato insperato: il papa. Il quale sta lanciando imperterrito continui appelli di pace, strigliando senza riguardi non solo Saddam Hussein, ma anche gli statunitensi, al punto che il Pci è arrivato a far presenziare ai discorsi domenicali di Giovanni Paolo II i suoi uomini migliori, per poi sbattere in faccia agli avversari gli slogan papali. L’uomo di fiducia di Occhetto, il suo vice Massimo D’Alema (40 anni), ha più volte esibito la figlioletta davanti alle telecamere presenti in piazza San Pietro per l’Angelus. Ma per quanto Ingrao e i suoi accolgano con favore il nuovo corso pacifista di Occhetto, sanno benissimo che serve a mettere in secondo piano altre questioni programmatiche, che necessariamente torneranno alla ribalta dopo la guerra. E nella base c’è anche chi ritiene abominevole l’alleanza con il papa: troppo profonde sono infatti le ferite che la chiesa ha inflitto ai comunisti, profetizzando per loro l’inferno a scadenze regolari. Fatto sta che martedì, appena arrivati al congresso di Rimini, i volontari, basiti, si sono trovati davanti alcuni graffiti che rappresentavano Occhetto con la tiara papale in testa e la scritta: “E ora cominciamo il nostro congresso con una preghiera solenne”. u sk
Fiera di Rimini, 31 gennaio 1991. L’allestimento della sala per il XX Congresso del Pci/Pds. Marco Bruni e Paolo Cocco (Fondazione Gramsci/Archivio fotografico del Pci)
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Le avventure di Cipollino
Raul Verdini e Gianni Rodari, Il Pioniere, 18 settembre 1955 Quando lo scrittore Gianni Rodari (1920-1980) cominciò a dirigere Il Pioniere, rivista per la gioventù comunista, recuperò con l’illustratore Raul Verdini un suo vecchio personaggio chiamato Cipollino. Era il protagonista di racconti ambientati in una città abitata da vegetali tiranneggiati dai nobili locali, il principe Limone e il cavalier Pomodoro, un perfido latifondista. Cipollino, che viene da un’umile famiglia di cipolle, si fa carico di raddrizzare torti e ingiustizie sociali con le armi dello scherzo e della presa in giro e mai con la violenza. Nel 1951 le sue storie furono raccolte in un romanzo per bambini intitolato Le avventure di Cipollino, che ebbe un successo enorme in Unione Sovietica e in tutti i paesi socialisti. Comitato ricerche associazione pionieri (Crap), ilpioniere.org
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“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante se ne sognano nella vostra filosofia” William Shakespeare, Amleto A cura di Andrea Pipino con Daniele Cassandro Copy editor Giovanna Chioini Photo editor Giovanna D’Ascenzi Progetto grafico e art direction Mark Porter Associates (markporter.com) Impaginazione Pasquale Cavorsi Segreteria Gabriella Piscitelli Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Consulenza storica Vanessa Roghi Si ringraziano Gian Paolo Accardo, Cecilia Attanasio Ghezzi, Martin Cortes, Francesco Giasi, Ferenc Laczo, Daniela Melfa, Bartosz Panek, Maria Luisa Righi, Gregorio Sorgonà, Ugo Sposetti, Ermanno Taviani, Bogdan Zivkovic, Fondazione Gramsci Traduzioni Alessandra Bertuccelli, Sandra Biondo, Natasha Caragnano, Andrea De Ritis, Federico Ferrone, Susanna Karasz, Pavel Kozlov, Fabrizio Saulini, Francesca Rossetti, Andrea Sparacino, Claudia Tatasciore, Bruna Tortorella Le condizioni di utilizzo dei testi coperti da copyright sono concordati con i detentori prima della pubblicazione. Se ciò non è stato possibile l’editore si dichiara disposto a riconoscere il giusto compenso. Chiuso in redazione il 19 marzo 2021
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“A nome dei comunisti, Bordiga dichiara che il Partito socialista è ormai fuori dalla Terza internazionale e invita i comunisti ad abbandonare i lavori per riunirsi due ore dopo per il congresso fondativo del Partito comunista sezione italiana della Terza internazionale. I comunisti escono dalla sala cantando l’Internazionale””. L’Humanité, 1921, pagina 22
“Salutiamo il nostro amato compagno Palmiro Togliatti! I lavoratori del mondo gli augurano di tornare presto in salute e in forze per vincere la battaglia contro i nemici dell’umanità: la cricca degli imperialisti e dei reazionari, con i loro servi e mercenari”. Pravda, 1948, pagina 68
“Nella pratica come nella teoria il Pci si vanta di offrire ai paesi del mondo capitalista avanzato una via umana e democratica al socialismo, una via che sembra più che mai allettante in questi tempi di crisi politica ed economica”. The Observer, 1975, pagina 118
Avanti popolo! Democratico e rivoluzionario. Filosovietico e profondamente europeo. Il Partito comunista italiano, che nacque nel 1921 a Livorno, con tutte le sue contraddizioni è stato una forza politica unica, essenziale nella costruzione della democrazia in Italia. Internazionale racconta la sua storia con una selezione di commenti, reportage, analisi e cronache dalla stampa straniera del tempo. Con un portfolio di Luigi Ghirri, una raccolta di manifesti d’epoca e una storia a fumetti che, nel 1947, spiegava la resistenza ai ragazzi.
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