Aspetti di letteratura gnomica nel mondo antico 9788822264770


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Italian Pages 324 [318] Year 2003

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Table of contents :
AVVERTENZA
PRESENTAZIONE
1. LE ‘SENTENZE DI MENANDRO’
TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI: VECCHIE E NUOVE TESTIMONIANZE
ESTRAZIONE E RIELABORAZIONE DEI MONOSTICI PROBLEMI DI TESTO E DI METRICA
SENTENZE DI MENANDRO E «VITA AESOPI»
FONTI E RIELABORAZIONE POETICA NEI «CARMINA MORALIA» DI GREGORIO DI NAZIANZO
LA REDAZIONE COPTA DEI MONOSTICI E IL SUO AMBIENTE CULTURALE
DEI CASI DELLA VITA, DELLA PIETÀ E DEL BUON NOME INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO
LA VERSIONE SLAVA DELLE «GNOMAI» DI MENANDRO*
LA TRADIZIONE MANOSCRITTA DELLE «MENANDRI SENTENTIAE»: LINEE GENERALI
2. ASPETTI DI LETTERATURA GNOMICA
EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤΟΣ᾽
TESTI GNOMICI DI AMBITO SCOLASTICO
LA GNOMOLOGIA ELLENISTICA LE «GNOMAI» DI CARETE E DELLO PSEUDO EPICARMO
OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO FRA TRADIZIONE GNOMOLOGICA E MENANDRI SENTENTIAE
THEOGNIDEA
PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE GNOMOLOGICA
LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE. FONTI, MODELLI, ARCHITETTURE
ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI
UN ESEMPIO DI LUNGA DURATA DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE: CECAUMENO, SINADINOS, L’ANTICHITÀ, L’ETÀ MODERNA
INDICE
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Aspetti di letteratura gnomica nel mondo antico
 9788822264770

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ACCADEMIA TOSCANA DI SCIENZE E LETTERE «LA COLOMBARIA»

UNION ACADÉMIQUE INTERNATIONALE UNIONE ACCADEMICA NAZIONALE

ACCADEMIA

TOSCANA «LA

DI

SCIENZE

E

LETTERE

COLOMBARIA»

«STUDI»

CCXVIII

ASPETTI DI LETTERATURA GNOMICA

NEL MONDO ANTICO I A cura di MARIA SERENA FUNGHI

FIRENZE

LEO

S.

OLSCHKI MMIII

EDITORE

Volume pubblicato con il contributo dell’Unione Accademica Nazionale e del Ministero per l'Istruzione, l’Univeristà e la Ricerca per il Programma di ricerca di interesse nazionale «Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico». Il Programma è cofinanziato dal M.LU.R. e dagli Atenei di Milano, Firenze e Pisa; il finanziamento è amministrato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, dal Dipartimento di Scienze dell’Antichitä ‘G. Pasquali’ dell’Università degli Studi di Firenze e dal Dipartimento di Filologia Classica dell’Università degli Studi di Pisa. Il patrocinio e l’onere dell’impresa Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Testi e lessico sono stati assunti dall'Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria» di Firenze in collaborazione con l’Union Académique Internationale e l'Unione Accademica Nazionale.

ISBN 88 222 5215 2

AVVERTENZA Questa raccolta di studi è il frutto di un incontro a carattere se-

minariale dal titolo «Aspetti e forme di tradizione letteraria senten-

ziosa nel mondo antico», svoltosi presso la Scuola Normale Superiore

di Pisa il 9-11 maggio 2002 (di cui si riporta in calce l’intero programma). Un secondo incontro di studi, dal titolo «Aspetti di trasmissione di letteratura gnomologica e apoftegmatica» si terrà sempre a Pisa, presso la Scuola Normale Superiore, il 5-7 giugno 2003; la pubblicazione degli Atti è prevista per il 2004. Le giornate di studio sono state pensate per facilitare lo scambio di informazioni fra collaboratori del Corpus dei Papiri Filosofici Greci e Latini, cercando allo stesso tempo di prendere in esame — per allargare o approfondire il campo di indagine -- tematiche che sconfinano o si trovano al confine del complesso di testi che rappresentano l'oggetto di studio di un volume del CPF All’interno di questo progetto, la Parte II.2-3 raccoglierà due tipi di una letteratura che ha coloritura filosofica. La prima sezione (II.2) comprende il genere aneddotico che è attestato nei papiri sia sotto forma di syggrammata del III sec. a.C., che potrebbero addirittura essere raccolte ‘d’autore’ (come le chreiai di Diogene Cinico in PVindob G 29946 o quelle di Socrate testimoniate in PHibeh 182), sia sotto forma di esercitazioni scolastiche a varî livelli: dal detto, purtroppo non ricostruibile, di Anacarsi, fino all’ammonimento del filosofo Pitagora, declinato in tutti i casi, compreso il duale, che ritroviamo in una tavoletta lignea del IV sec. d.C. La seconda sezione (II.3) raccoglie la grozze, nei suoi due aspetti: il primo, come sentenza, precipuamente morale, che trova impiego nella prassi didattica scolastica, spesso come mero esercizio di copiatura. Quintiliano (Inst. I 1, 35) auspicava: zö quoque versus, qui ad imitationem scribendi proponentur, non otiosas velim sententias habeant, sed honestum aliquid monentes; è un bene che, come viene te-

stimoniato dai reperti, questo principio sia stato applicato, perché grazie ad esso disponiamo di un utile specchio di una morale, spicciola quanto si vuole, ma ancora viva in quanto è pervenuto dell’insegnamento greco in Egitto. Né si può ignorare che talora uno di questi versi può

essere importante

testimone per la ricostruzione o la tra-

—_V_

AVVERTENZA

smissione di versi della Commedia o della Tragedia. Dato il largo impiego di questi versi sentenziosi, non desterà meraviglia il fatto che la maggior parte dei testimoni che compariranno in questo volume

del Corpus sia costituita da prodotti scolastici. Non mancano tuttavia rappresentanti di raccolte di gromai, che assumono dunque una fisionomia di tipo letterario: secondo, importante aspetto di questo panorama di testi ‘gnomici’. Si tratta indiscutibilmente di una letteratura secondaria, ‘di consumo’, come spesso si evince dal tipo di prodotti

e dalle scelte bibliologiche e grafiche che la contraddistinguono. E stato interessante, a questo proposito, il confronto soprattutto per l’a-

spetto bibliologico, compiuto da Edda Bresciani nel suo intervento, con testi demotici che riportano massime di comportamento: analoga appare la prassi di evidenziare con opportuni spazi le singole mas-

sime, dettata forse anche dallo scopo di facilitare l'apprendimento. Mentre però nel caso dei testi sapienziali egiziani abbiamo più esemplari di un’opera, che consentono di constatarne la diffusione e di inserirli in un genere letterario, la gnomologia greca che recuperiamo dall’Egitto greco-romano si riduce spesso a un ‘testimone unico’,

frutto della selezione personale di un ignoto antologista operante per fini proprî, edonistici o professionali: in casi come questi solo una focalizzazione a tutto campo del reperto può aiutarci a comprendere di che tipo di testo si tratti e se si debba considerarlo un esemplare della circolazione libraria di raccolte. Recuperare testimoni di un filone gnomologico, come le Menandri Sententiae, che si rivela, con l’attestazione del titolo MENANAPOY TNOMAI, costituito nei primi secoli dell'era cristiana da ‘microtesti’ con formazioni spesso analoghe per scelta (ma con selezioni numericamente più limitate) alle raccolte bi-

zantine, è uno dei doni che dobbiamo alle scoperte papirologiche: un dono che arricchisce ulteriormente le nostre conoscenze, e che ci ob-

bliga anche ad una rilettura dei testi che queste sentenze hanno recepito, accolto e modificato o rimodellato, a ripensare ai rapporti intercorsi fra culture diverse e a tentare di ripercorrere le vie e i modi

di una letteratura ‘di raccolta’ che hanno consentito la loro trasmissione fino a noi. Preziosa, da questo punto di vista, è stata ad esem-

pio l’illustrazione, offertaci nell’intervento di Cristina D’Ancona, dell’ambiente culturale arabo, importantissimo tramite sia per la traduzione del testo delle Mezandri Sententiae, sia per la dossografia e l’apoftegmatica filosofica greca. Le giornate pisane di studio del 2002, e quelle che seguiranno nel 2003, cercano di mettere a fuoco varî aspetti e modi di trasmissione

di un ‘sapere’ dai percorsi complessi e dalle fisionomie multiple, nel tentativo di aprire qualche varco nel terreno già di per sé vasto e ac-

- νΙ--

AVVERTENZA

cidentato della tradizione testuale e dei modi di trasmissione della letteratura gnomica. Questo fine è stato perseguito con tecniche e approcci diversi, non sempre in egual misura condivisibili, ma sempre

fonte di stimolo alla riflessione. Come ha osservato Paolo Odorico nella relazione che ha concluso i lavori dell’incontro del 2002 «lo studioso che si rivolga all’esame degli gnomologi deve aver presente questi processi di trasmissione del sapere, perché essi danno il senso della loro utilizzazione durante tutto il periodo in cui circolarono. Questo utilizzo ha conseguenze anche sulla trasmissione del testo, perché il sentenziario è un prodotto aperto, suscettibile di accogliere o eliminare continuamente parte del materiale, per adattarsi alle esigenze del copista-elaboratore, del lettore, del riutilizzatore. Considerare un prodotto nella sua fissità di fonte scritta una volta per tutte, alla ricerca di una paternità spesso dubbiosa, significa ignorare tutto il processo di utilizzazione. Peccato mortale che la filologia classica ha troppo spesso commesso». Un testo come le Menandri Sententiae dal suo primo comparire nei reperti greco-egizi, quindi nelle rielaborazioni cristiane, e infine nelle selezioni più tarde, costituisce la prova più evidente della validità di queste assunzioni di metodo. Come

ultima nota, vorrei sottolineare

come

sia stato fruttuoso e

importante l’apporto che giovani dottori o dottorandi di ricerca della Scuola Normale Superiore hanno dato all’indagine nel suo complesso, offrendo con le loro ricerche un’eccellente messa a punto di problemi particolari che riguardano i temi trattati dai singoli collaboratori al volume del Corpus. Durante lo svolgimento del seminario e anche in seguito, al momento della preparazione di questo volume, è stato possibile operare con l’affiatamento di una squadra: mi è pertanto estremamente gradito esprimere il mio debito di riconoscenza nei confronti dell’amica e collega Maria Chiara Martinelli, che ha collaborato anche all’organizzazione del seminario, e di Carlo Pernigotti, e inoltre di Marco Fassino, Francesca Maltomini, Lucia Prauscello, Mario Telò. Doverosi, ma non formali, ringraziamenti vanno anche alla Scuola Normale Superiore -- in particolare al Direttore, prof. Salvatore Settis, e ai Presidi della Classe di Lettere che si sono avvicendati, i pro-

fessori Lina Bolzoni e Carmine Ampolo. La Scuola ha messo a disposizione le sue strutture per lo svolgimento dell’Incontro e ha contribuito a finanziarne l’organizzazione insieme agli Atenei di Firenze, Milano e Pisa, che lo hanno sostenuto nel quadro del Progetto

di ricerca di interesse nazionale (M.I.U.R.) Corpus dei Papiri Filosofici Greci e Latini. — VI —

AVVERTENZA

Si ringrazia l’Ashmolean Museum, e in particolare la dott.ssa Helen Whitehouse, per aver consentito alla riproduzione in questo volume degli ostraca Bodl. Gr. Inscr. 2942+2941 e 2943.

Pur nel rispetto dei criteri editoriali della collana, si è cercato di mantenere le peculiarità dei singoli contributi (ad es. nelle modalità dei riferimenti bibliografici). Sono state adottate le sigle papirologiche utilizzate nelle pubblicazioni del CPF; Monostici (maiuscolo tondo) indica, per comodità, le gnomai monostichoi tradite nel corpus delle Menandri sententiae. Maria Serena Funghi

Per completezza di riferimento, si riporta il programma originario dell’Incontro di Studio da cui si origina questo volume. I) Le ‘Sentenze di Menandro’

A - L’apporto ἀεὶ papiri alla tradizione dei Monostici: un bilancio e nuove prospettive:

M. SERENA FUNGHI (Scuola Normale Superiore), Tipologie delle raccolte papiracee dei Monostici: vecchie e nuove testimonianze; M. CHIARA MARTINELLI (Scuola Normale Superiore), Estrazione e rielaborazione dei Monostici: problemi di testo e di metrica. B - Influenze e contatti: M. JAGODA LUZZATTO (Università di Firenze), Sentenze di Menandro e Vita Aesopi; SILVIA AZZARA (Scuola Normale Superiore), Fonti e rielaborazione poetica nei Carmina moralia di Gregorio di Nazianzo. C - Le vie di trasmissione dei Monostici:

SERGIO PERNIGOTTI (Università di Bologna), La redazione copta dei Monostici e il suo ambiente culturale; PAOLO BETTIOLO (Università di Padova),

Il testo della versione siriaca; CRISTINA D’ANCONA (Università di Padova), L’ambiente culturale della versione araba; MORENO MORANI (Università di Genova), La versione slava; CARLO PERNIGOTTI (Scuola Normale Superiore), La tradizione manoscritta delle Mexandri Sententiae. II) Aspetti di letteratura gnomica GLENN MosT (Scuola Normale Superiore), Euripide 6 γνωμικώτατος; EDDA BRESCIANI (Università di Pisa), Insegnamenti morali e produzione scolastica nell’Egitto demotico; GUIDO BASTIANINI (Istituto Papirologico ‘G. Vitelli’/Universitä di Firenze), Testi gnomici di ambito scolastico; PAOLO CARRARA (Università di Arezzo), La gnomologia ellenistica: le gzomai di Carete e dello Pseudo Epicarmo; CARLO PERNIGOTTI (Scuola Normale Superiore),

— VII —

AVVERTENZA

Formazione e schemi delle antologie: le testimonianze papiracee; FRANCESCA MALTOMINI (Scuola Normale Superiore), Theognidea; CARLO MARTINO LUCARINI (Scuola Normale Superiore), Le gromai di Publilio Siro: questioni sulla genesi della raccolta; Rosa MARIA PICCIONE (Fr.-Schiller Universität, Jena), Stobeo, Orione e Sopatro: fonti, modelli, architetture; ELENA GIANNARELLI (Università di Firenze), Gli acrostici alfabetici cristiani; PAOLO ODoRICO (Ecole des hautes études en sciences sociales, Paris), Un esempio di lunga durata della trasmissione del sapere: Kekaumenos, l’antichità, l’etä moderna.

-1χΧ--.

PRESENTAZIONE La pubblicazione di un volume di Affi a meno di un anno dalla celebrazione del convegno di studi che li ha generati è un evento che si saluta con piacere, perché le varie relazioni vengono fatte conoscere a coloro che hanno potuto partecipare direttamente alla discussione e alla comunità degli studiosi nella loro freschezza, alimentando efficacemente il dibattito. Questo vale tanto più, visto che proprio a distanza di un anno, nel giugno 2003, è previsto a Pisa un secondo incontro di studio che riaprirà ed allargherà la discussione su tematiche affini. Gli «Studi» della Colombaria appaiono una buona sede per accogliere questa ricca serie di riflessioni sulla letteratura sentenziosa nel mondo antico. Il convegno è stato organizzato nell’ambito degli studi preparatori al Corpus dei papiri filosofici greci e latini che già conta tre grossi volumi (l’ultimo in due tomi), contenenti i frammenti su papiro delle opere (conservate dai codici medievali o perdute) dei filosofi noti dalla tradizione e un quarto volume con i frammenti papiracei dei Commentari antichi e tardoantichi a opere filosofiche. La prima cosa che vorrei sottolineare è proprio il carattere dinamico che ha assunto questa impresa del Corpus dei papiri filosofici: quando è nata nel lontano 1982 aveva l’obiettivo già ambizioso di registrare criticamente l’esistente, di raccogliere e ripresentare in veste critica, con i dovuti aggiornamenti, quanto dai papiri era stato recuperato del patrimonio fi-

losofico. Ma ci si è presto resi conto che non era sufficiente affidarsi alle ‘edizioni principi’ e agli studi particolari sui papiri dipendenti da quelle edizioni, che era necessario in particolare in certi ambiti pro-

muovere nuove ricerche e procedere a complete revisioni, per tentare di dare una sistemazione organica al materiale, pubblicato in tempi

diversi e con criteri diversi (spesso poco soddisfacenti). Per citare solo due casi di questi effetti ‘dinamici’: nei volumi già pubblicati hanno trovato collocazione edizioni completamente rinnovate, con nuova e fruttuosa ispezione degli originali, con ricco commento filologico e filosofico, di due papiri importanti risalenti alla prima fase della storia delle scoperte papirologiche, prima sempre citati sulla base delle ‘edizioni principi’: gli Elementa moralia dello stoico Ierocle e il Commento —

XI —

PRESENTAZIONE

al Teeteto di Platone curati entrambi per la parte papirologica da

Guido thony Ma che la

Bastianini e per il versante filosofico rispettivamente da AnLong e David Sedley. il Corpus dei papiri filosofici prevede nella seconda parte anpubblicazione, in più volumi, dei Frammenti filosofici adespoti

e delle Sentenze. E apparso allora necessario approfondire l’analisi

della trasmissione della letteratura gnomica, in particolare dei Monostici di Menandro, che hanno una collocazione indubbiamente di rilievo, perché si tratta di uno gnomologio antico che, pur nelle sue varie redazioni, è stato ininterrottamente trasmesso dal I sec. d.C all’età

bizantina avanzata e quindi offre validi elementi di confronto per indagare altre tradizioni gnomologiche; questo voleva dire procedere da un lato a ulteriori ‘scavi’ nelle biblioteche europee alla ricerca di fonti testuali non segnalate, riprendere dall’altro l’esame analitico di tutte le testimonianze note, associando strettamente l’analisi fisica dei ma-

nufatti in tutti gli aspetti tecnico-bibliologici con l’esame critico del contenuto testuale, senza trascurare naturalmente i fattori culturali che promuovono la diffusione di particolari testi in determinati ambienti. Il lavoro di ‘scavo’ in biblioteca è stato premiato e ha prodotto anche un’espansione della base documentale, grazie al felice reperimento di nuove fonti testuali: da Maria Serena Funghi il Convegno ha avuto notizia e una prima interessante illustrazione di una serie consistente di frammenti di ostraca, alcuni ricomponibili, conservati nel Petrie Museum

di Londra,

finora non

considerati, che

contengono

anche

Monostici di Menandro. L'edizione di questi nuovi testi, che presentano elementi di novità interessanti, è ormai vicina al compimento.

Ma per inserire una nuova testimonianza in un quadro di riferimento plausibile bisogna prima aver analizzato il materiale papiraceo conosciuto in modo accorto, seguendo l’aureo principio — è stato giustamente ribadito — «distingue frequenter»: si devono tenere ben distinti frammenti papiracei che sono resti di veri esemplari librari, destinati a una più o meno ampia circolazione, frammenti che sono resti di gnomologi tematici, frammenti che invece si configurano come prodotti d’occasione, destinati magari a rapido consumo nella pratica scolastica. Anche l’espressione ‘ambito scolastico’ è stata spesso usata indistintamente, mentre proprio per i documenti con contenuto gnomico

riferibili alla scuola si impone, nei limiti del possibile, una più precisa definizione del carattere specifico. Guido Bastianini ha offerto alcune indicazioni orientative che integrano opportunamente i risultati già raggiunti da Raffaella Cribiore nella sua ricerca complessiva sui papiri ‘scolastici’. —

XI —

PRESENTAZIONE

Proprio l’ininterrotta, se pur tormentata, tradizione dei Monostici

obbliga a un impegno severo di analisi prosodica e metrica del trimetro che a partire dall’età ellenistica presenta sempre nuovi e diversi fenomeni. Contro le conclusioni pessimistiche di chi vede l’analisi metrica troppo esposta a giudizi soggettivi, si possono invece mettere in

luce, come ha mostrato Maria Chiara Martinelli, alcuni elementi oggettivi, che aiutano sia a capire l’origine del testo, sia a stabilire se le varianti che si registrano rispetto alle fonti note (comiche o tragiche) dei Monostici sono dovute semplicemente ai meccanismi della trasmissione o, ben diversamente, sono frutto di consapevole rielabora-

zione. L’abbandono della ricerca della Ursammlung dei Monostici, del tentativo di ricostruzione di un perduto capostipite da cui tutti i testimoni a noi noti dovrebbero in ultima analisi dipendere (che ha caratterizzato l’opera pur meritoria di Jäkel) ha aperto la strada invece all’individuazione e sempre più precisa caratterizzazione di ‘redazioni’ diverse che, nate in tempi diversi e in ambienti diversi, non possono essere mescolate (anche se si deve prendere atto di ampi fenomeni di contaminazione e conflazione), ma vanno analizzate (nei limiti del possibile) nella loro singolarità e autonomia, nelle loro particolari fisionomie. Su questa via si è impegnato a fondo Carlo Pernigotti che ha fatto fruttuose ispezioni dirette su tutti i filoni tradizionali. Elementi per preziose messe a punto nella ricostruzione dei vari ‘stati’ del testo dei Monostici dà certamente lo studio delle versioni antiche in altra lingua. Il confronto di esperienze metodiche e di lavoro sul campo tra classicisti e orientalisti si è rivelato molto fruttuoso. Sull’ambiente culturale di produzione e ricezione del ‘Menandro’ siriaco ha fatto penetranti osservazioni Paolo Bettiolo che invita a pensare alle élites ecclesiastiche e cittadine che nei primi decenni

del V sec. ‘fabbricano’, con larga apertura alla cultura greca, la storia di un’Edessa cristiana. I testimoni superstiti della redazione copta sono stati indagati da Sergio Pernigotti: resta l’ipotesi che la redazione greco-copta sia stata legata fin dall’origine all’insegnamento scolastico, ma è ben possibile che i Monostici abbiano avuto una circo-

lazione anche al di fuori della scuola, in ambienti di cultura medio-alti. Per la ricostruzione del testo è soprattutto utile la versione slava che si rivela ‘testimone’ importante ed affidabile, anche perché mostra caratteri marcatamente conservativi (come ha mostrato Moreno Morani),

rispetto a redazioni greche più esposte a subire processi di innovazione.

Nel campo più proprio della tradizione ‘indiretta’ si colloca la presenza già da tempo rilevata e analizzata di sequenze di monostici me— XII —

PRESENTAZIONE

nandrei nella redazione W del Romanzo di Esopo. Maria Jagoda Luzzatto ha fatto notare però che anche nella redazione G ci sono «frammenti metrici di identica matrice (cioè trimetri del tipo dei Mono-

stici)» e questo prova «che la prosa degli Insegnamenti di Esopo/Ahigar era fin dall'origine intercalata da gnomzai in trimetro giambico». Un

buon deposito di sentenze monostiche menandree si trova anche nelle opere in prosa e nei Carmina moralia di Gregorio di Nazianzo: Silvia Azzarà ha fatto vedere come il Cappadoce riusa accortamente e adatta creativamente gnomai accolte dalla tradizione. Ad un tipo speciale di sequenze gnomiche, gli acrostici alfabetici cristiani tematici, ha dato la sua attenzione critica Elena Giannarelli. È stato commentato

ovviamente il carme I 2, 30 attribuito a Grego-

rio di Nazianzo, ma interessante è stata anche l’illustrazione del nuovo materiale papiraceo, da tempo acquisito, ma da poco reso fruibile con la pubblicazione dei Papiri Bodmeriani XXX-XXXVII che sono parte

del cosiddetto Codex Visionum. Nel secondo giorno del convegno pisano si è risaliti alle sorgenti

della corrente gnomologica antica, alla produzione poetica dell’età ‘ classica, in particolare euripidea, da cui viene gran parte delle sentenze poetiche che hanno alimentato le grandi raccolte gnomologiche delle età successive. Glenn Most si è interrogato sul ruolo e la funzione delle gromzai in Euripide. Hanno avuto largo credito le tesi interpretative di alcuni studiosi secondo cui Euripide presterebbe ad alcuni personaggi i suoi convincimenti filosofici (esempi molto noti: Fedra, nei vv. 373-90 dell’Ippolito confuterebbe l’intellettualismo etico di Socrate, Medea, in Medea, vv. 230-358 pronuncerebbe considerazioni generali sulla condizione della donna); ma le riflessioni sentenziose dei personaggi euripidei non possono essere isolate dal contesto poetico e dalle situazioni drammatiche che le generano, se non a prezzo di uno svigorimento dei valori scenico-espressivi. Anche Teognide ha alimentato le grandi raccolte di excerpta sentenziosi, ma la silloge elegiaca, conservata dal Parisinus Suppl. Gr. 388 e da altri manoscritti, che porta in fronte il nome del poeta di Megara, in realtà mostra di essere stata completamente risucchiata dalla tradizione gnomologica. Dall’esame dei papiri (che rendono molto probabile l’esistenza già nel sec. IV/III della silloge come noi l’abbiamo) e dei testimoni indiretti che sembrano richiamarsi non a un’unica fonte, ma a più canali tradizionali nascono serie obiezioni, come ha argomentato Francesca Maltomini, alla teoria monogenetica che

vedeva la silloge teognidea, Stobeo, Orione e gli altri antologisti tutti immessi in un’unica corrente gnomologica. La conoscenza di autori gnomici ellenistici come Carete e Ps.Epi—

XIV —

PRESENTAZIONE

carmo si deve, a parte qualche frammento di tradizione indiretta, ai

papiri e a papiri di alta età, cronologicamente non molto lontani dal tempo in cui le opere sono state prodotte e diffuse. L'analisi fatta da Paolo Carrara (che curerà la riedizione con commento di questi testi

per il Corpus dei papiri filosofici) ha messo in luce contatti con Me-

nandro e la tragedia attica, soprattutto Euripide. Ma ci si dovrà chiedere se, oltre a queste riprese e rielaborazioni di materiale tragico e comico, nei due autori non ci siano veri e propri excerpta da altre opere antiche, non escludendo per il secondo excerpta dello stesso Epicarmo. . Precise assonanze tematiche rispetto ai Monostici, tracce di criteri ordinatori del materiale sentenzioso tipici delle gnomologie si rinvengono anche nella raccolta di sentenze di Publilio Siro (Carlo Martino Lucarini) e questo rende vani i tentativi di cogliere l'orientamento etico che avrebbe ispirato l’autore. Resta il sospetto che nelle Sentenze siano presenti versi di più poeti. L’Antologio di Giovanni Stobeo, presente in posizione d’evidenza nell’apparato dei zestimonia nelle edizioni critiche di poeti e prosatori dell’età classica, è da tempo nel fuoco dell’attenzione critica di Rosa Maria Piccione che ha ribadito, associando nell’analisi anche l’Antolognomico di Orione, la necessità di studiare queste opere secondo

una nuova

prospettiva critica, non

come

mere

testimonianze

dell’antico, ma come prodotti di un particolare genere letterario, la letteratura ‘di raccolta’. Questo comporta un riesame del ruolo autonomo e in certa misura ‘creativo’ degli antologisti dell’età tardoantica (non va dimenticato Sopatro di Apamea, conosciuto solo dal cod. 161 della Biblioteca di Fozio) che impongono ordine e misura alla gran massa di materiale, proveniente da una molteplicità di rivoli gnomologici, che hanno davanti. Anche la relazione conclusiva di Paolo Odorico ha presentato riflessioni sulla ‘cultura della συλλογή᾽ (il cui ambito non va limitato alle raccolte sentenziose, ma è ben più esteso). Il modo di operare dei classicisti che si misurano soprattutto nella ricerca dell’origine di una sentenza rischia di essere unilaterale e del tutto insufficiente, se non si accompagna al tentativo di cogliere la fisionomia complessiva di un sentenziario, il suo contributo nel senso più ampio alla produzione e trasmissione del sapere. L'esempio proposto, che ci ha portato in ambiti cronologici diversi, è quello dello Strategikon di Cecaumeno messo in rapporto con la Cronaca di Serres di Sinadinos. Il lavoro sui papiri, amava ripetere Vittorio Bartoletti, si può concepire solo sotto il profilo della collaborazione, del συμφιλολογεῖν. Aggiungeva che il lavoro sui papiri promuove una collaborazione ‘larga’

_ XV _

PRESENTAZIONE

che abbatte facilmente i confini disciplinari. Il Convegno pisano ha

fatto vivere felicemente questa collaborazione ‘larga’ tra papirologi, filologi classici, paleografi, metricologi,

orientalisti, cristianisti, bi-

zantinisti.

Antonio Carlini



XVI —

PARTE I

LE ‘SENTENZE DI MENANDRO’

MARIA

SERENA

FUNGHI

TIPOLOGIE

DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI: VECCHIE E NUOVE TESTIMONIANZE

Se per un testo come le Menandri Sententiae con una tradizione così fluida ed eterogenea non è certo possibile operare una distinzione tra ‘frammenti testuali’ e ‘testimonia’ — criterio secondo il quale sono stati strutturati i volumi del Corpus dei Papiri Filosofici per gli Autori noti --ἰ non sembra però neppure accettabile mettere sullo stesso piano tutti i prodotti provenienti dall’Egitto greco-romano che

riportano monostici.

Negli ultimi anni questo ambito si è arricchito di nuove, impor-

tanti testimonianze e di recenti studi a carattere generale, ma di indubbia pertinenza. Fra questi; l’analisi di carattere paleografico e contenutistico di Raffaella Cribiore sui prodotti scolastici e sul tipo di cultura di ambito scolastico dell’Egitto greco-romano,? quella di tipo tematico di Teresa Morgan, le significative caratterizzazioni delle tipologie grafiche in stretto legame coi contenuti letterari offerte a più riprese da Guglielmo Cavallo, solo per citare alcuni nomi, hanno contribuito, e non poco, a far riflettere su quanto sia importante interrogare a fondo ogni singolo reperto nella sua duplice veste di ‘contenitore e contenuto’. In ogni caso non mi pare si potesse accettare, neppure in passato, il criterio adottato da Jäkel:* quello di premet-

1 Queste pagine sono state pensate in funzione del lavoro preparatorio all’edizione della parte II.2-3 del CPF (recentemente ristrutturata in due sezioni distinte: 2. Aneddoti; 3. Sentenze e gnomologi). Ringrazio l’amica Gabriella Messeri per aver verificato con me le tesi qui discusse. 2 R. CRIBIORE, Writing, Teachers, and Students in Graeco-Roman Egypt, Atlanta, Scholars Press 1996 («American Studies in Papyrology», 36); Gymmnastic of the Mind. Greek Education in Hellenistic and Roman Egypt, Princeton-Oxford, Princeton Univ. Press 2001. 3 T. MORGAN,

Literate Education

in the Hellenistic and Roman

Worlds, Cambridge,

Cambridge University Press 1998, ch. 4: Literature ii: maxims and morals, pp. 120-145. 4 S. JAKEL, Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»).

- 3.

MARIA SERENA FUNGHI

tere, senza alcuna distinzione, al testo della tradizione medievale la

congerie dei vari prodotti grafici dell’antichità, semplicemente come ‘fragmenta nuper reperta’, indicando soltanto cursoriamente come prodotti scolastici i papiri I (ma probabilmente II), IV, V, come si legge nella sua introduzione a p. XVII.

Già al momento dell’edizione critica delle Menandri sententiae era

possibile operare una distinzione fra i vari tipi di prodotti grafici che riportano gnomai monostichoi al fine di una loro valutazione per la tradizione testuale. Sarebbe stato opportuno distinguere fra prodotti che presentavano una selezione di Monostici che presupponeva una circolazione libraria di raccolte analoghe alle selezioni dei codici, e prodotti estemporanei, prevalentemente ad usum scholae, come anche, per altro verso, fra prodotti che avevano una fisionomia diversa come gli gnomologi tematici.° Dovrebbero cioè esser classificate, dal punto di vista della critica testuale, come testimoni di raccolte prebizantine di quelle che si definiscono Μενάνδρου Γνῶμαι,7 quelle raccolte di gnomai monostichoi in trimetri giambici, ordinate alfabeticamente, con più sentenze per lettera, e che presentano una rilevante preponderanza di sentenze che compaiono nella tradizione manoscritta.® Ai fini 5 In questa affermazione vi è un’evidente confusione solo in parte ricostruibile nella sua dinamica: infatti il pap. I (PStrasb 1016) non può esser definito un ‘prodotto scolastico’ e non offre sentenze ordinate alfabeticamente; si tratta di una raccolta di distici sul tema delle donne con rielaborazione poetica personale; è probabile che Jäkel sia incorso in un lapsus volendo in realtà riferirsi al pap. II (PBour 1), e difatti nella sua dissertazione MENANAPOY ΓΝΩΜΑΙ MONOZTIXOI, Die Menandersentenzen gesammelt und neu berausgegeben, Diss. Hamburg 1957, pp. 3 e 52, classifica quest’ultimo papiro come quaderno scolastico; in questo caso, però, si tratta di un prodotto tardo (in genere datato al IV sec., ma a ragione assegnato da Bastianini, in CPF 1.1** 48 17, ad epoca ancora più tarda, VI sec.) e non dei primi secoli dell’era cristiana. 6 Cfr., in questo volume, l'articolo di C. PERNIGOTTI, Osservazioni sul rapporto fra tra-

dizione gnomologica e «Menandri Sententiae», pp. 187-202. ? Il titolo presente in Pland V 77 (= Pap. III J.), papiro risalente al IV/III sec., testimonia l’antichità dell’attribuzione, anche se certamente il titolo più indicato per l’intera raccolta sarebbe quello della tradizione planudea Γνῶμαι μονόστιχοι κατὰ κεφάλαια συντεταγμέναι (relativamente alla prima parte).

ἐκ διαφόρων ποιητῶν

8 Con questo non intendo dire che vi fossero nell’antichità raccolte di monostici che presentassero un numero di sentenze equivalente a quello che ora risulta a seguito dell'aggregazione prodotta da Jäkel nel suo testo, ma che ne presentassero un numero analogo a quello che si ritrova nei singoli manoscritti,

o magari anche inferiore, come ha giu-

stamente sottolineato Carlo Pernigotti, sia in questo volume (La tradizione manoscritta delle «Menandri Sententiae»: linee generali, pp. 121-137), sia nei suoi studi precedenti (Appunti per una nuova edizione dei Monostici di Menandro, in Papiri filosofici. Miscellanea di studi I, Firenze, Olschki 1997 («STCPF», 8), pp. 71-84; Raccolte e varietà redazionali nei papiri dei «Monostici di Menandro», in Papiri filosofici. Miscellanea di studi III, Firenze, Olschki 2000 («STCPF», 10), pp. 171-228), sulla base di quanto rileviamo dai testimoni papiracei a nostra disposizione.

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TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI

di un’edizione critica, dunque, avrebbero dovuto figurare come testimoni antichi solo PIand V 77 (= PGissLit 3.4), OPetrie 405 e 449, OMonEpiph 615 e PVat(Sarti), ovvero il testimone allora noto di quella che poi sarà la redazione greco-copta. Tutti gli altri prodotti sono

soltanto

‘testimoni

della circolazione

di monostici’,

senza per

questo perdere, naturalmente, il loro valore di testimoni e il loro interesse come prodotti in sé: penso ad es. agli acrostici alfabetici con una sentenza per lettera, un genere a sé, che per la sua utilità didattica ebbe una immensa e duratura fortuna.? Questa distinzione si rende ancor più necessaria dal momento che, dopo l’edizione di Jakel, si sono aggiunti altri testimoni importanti della diffusione di tipo librario delle raccolte di gromai monostichoi: oltre a PInnsbrCopt 7, l’altra parte di codice che si unisce a PVat(Sarti), e a PLond VIII f. 1a+3b (i quali hanno dato luogo alla riedizione complessiva dei testimoni greco/copti ad opera di Hagedorn e Weber!° e hanno reso possibile parlare di una recensione), POxy 3006 e PMilVogliano 1241v. Si aggiunge ora anche un gruppo di ostraca inediti del Petrie Museum

di Londra, a cui accenneremo in seguito.

Proprio in vista della riedizione di questi testi nel Corpus dei Papiri Filosofici, e riprendendo gli studi di Carlo Pernigotti che hanno già delineato criteri ecdotici e percorsi di indagine, si rende necessaria un’analisi più mirata dei reperti che riportano gnomai monostichoi per tentare di ricondurli nel loro ambito originario e vedere se possano indicarci la destinazione e il tipo di diffusione, ovvero se si tratta di esemplari destinati al commercio librario, di copie private, di copie approntate per l’insegnamento. Quanto segue non è certo un’analisi esaustiva sull'argomento, né pretende di dare risposte definitive alle problematiche di vario tipo offerte dai testi, numerosi, che compariranno nel CPF; si è voluto illustrare qualche esemplare utile per mettere a fuoco le varie tipologie che i prodotti antichi ci offrono, avanzando o riformulando in qualche caso alcune ipotesi. Che le gnomai monostichoi siano state ampiamente utilizzate nell’ambito scolastico è un fatto che ci era già noto dalle testimonianze letterarie!! e che si è via via arricchito nella documentazione in seguito ai reperti greco-egizi. Recentemente, i già citati studi della Mor-

? Per gli acrostici alfabetici cristiani si veda, in questo volume, l’articolo di Elena Giannarelli, pp. 263-282, con la bibliografia da lei citata. 10 D. HAGEDORN - M. WEBER, Die griechisch-koptische Rezension der Menandersentenzen, «ZPE», III, 1968, pp. 15-50. 1! Si veda CRIBIORE, Writing, cit., pp. 44-45.

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MARIA SERENA FUNGHI

gan e della Cribiore hanno contribuito a far luce sull'ambiente in cui circolavano le groma:: la prima inquadrando contenutisticamente le

gnomai, soprattutto quelle menandree, in relazione all'ambiente scolastico, mettendo in rilievo come poco fossero cambiati i temi durante

i secoli, e soprattutto come le stesse gromai circolassero sia nei villaggi greco-egizi dell’età ellenistico-romana sia nei monasteri cristiani del V-VI sec. mantenendo la loro valenza educativa (anche se l’ottica interpretativa variava ovviamente secondo l’ambiente culturale); la seconda, analizzando secondo precisi criteri grafici tutti i testi di ambito scolastico,'? distinguendo con maggiore precisione rispetto al pas-

sato tra i prodotti con caratteristiche di chiara appartenenza a tale ambito: ostraca e tavolette in cui si riconosce fase di apprendimento, oppure in cui si può nea copia del maestro e dello scolaro, oppure si riconosce la mano dello studente avanzato

una scrittura ancora in vedere la contemporaancora lo scritto in cui negli studi o del mae-

stro stesso. Su questa linea, tentiamo qualche ulteriore precisazione in merito a prodotti che testimoniano l’utilizzo di monostici, o di testi che hanno costituito la fonte di alcuni di essi, che sono appunto l’oggetto del

nostro esame. In numerosi casi troviamo nello stesso supporto scrittorio il testo

che serviva da modello, vergato dal maestro, e quello che lo scolarocercava di riprodurre, come ad es. in PLitLond 253,15 una tavoletta

12 CRIBIORE, Writing, cit.; si veda anche l’utile aggiunta, con l’elenco di tutti gli autori e i passi citati nei vari esercizi offerta dalla stessa Cribiore in Literary School Exercises, «ZPE», CXVI,

1997, pp. 53-60.

3 BrLibr Add Ms 34186(1) = Pap. ΧΙ]. = Cribiore 383. Ed. pr.: D.C. HESSELING, Or Waxen Tablets with Fables of Babrius, «JHS», XIII, 1893, p. 296; Pack? 2713; CGPF, p. 335, nr. 330 (ulteriore bibliografia in Cribiore); successivamente l’altra tavoletta dello stesso dittico, contenente sillabazioni di parole e tavole di moltiplicazione, è stata edita

da W. BRASHEAR, «ZPE», LKXXVI, 1991, pp. 231-232. La tavola riporta il Mon. 705: coφοῦ παρ᾽ ἀνδρὸς προσδέχου συμβουλίαν, e uno affine al Mon. 460: μὴ πάντα πειρῶ πᾶσι

πιστεύειν dei, tenendo presente la lezione di Ε φίλοις al posto di ἀεί, ovvero: μὴ πᾶσιν εἰκῆ τοῖς φίλοις πιστεύεται

(lege πιστεύετε), scritto dal maestro in una grafia tesa a ri-

spettare il bilinearismo ad eccezione che per è e solo nell’ultima parola per ı. Lo scolaro deve ripetere i due versi due volte all’interno del rigo delineato dal rigo di base superiore e inferiore; ma le ripartizioni delle rigature non sono omogenee: uguali le prime due, più ridotta la terza, angusta la quarta: evidentemente il maestro desiderava che lo scolaro si esercitasse con moduli di scrittura diversi (così anche CRIBIORE, Writing, cit., p. 105). Questa tavoletta è stata oggetto di numerose menzioni,

partendo soprattutto dall’inter-

pretazione di E.G. TURNER, «BICS», XIII, 1966, pp. 67-69, della testimonianza di Plat. Prot. 326d, per la quale lo studioso porta appunto a sostegno questa tavoletta, e dalla quale emerge che i maestri tracciavano le righe di scrittura che gli scolari erano poi costretti a seguire

distribuendo

le lettere come

all’interno di binari

- .--

(cfr. anche Quint.

I 1, 27).

TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI

del II sec., e dunque è immediatamente percepibile il tipo di destinazione e di uso del testo; ma, in altre circostanze, ad es. nel caso di ostraca gemelli, che riportano cioè lo stesso testo, come quelli Milne 3A e 3B,! o quelli del Mons Claudianus 184-187,” anch’essi del II secolo, può essere più difficile pronunciarsi. Nel caso degli ostraca Milne si può effettivamente pensare ad un esercizio di copiatura in cui troviamo un testo con errori fonetici, salto ‘da simile a simile’, errori diversi in entrambi gli elaborati. In 3A sono conservati 15 righi di testo contenenti trimetri giambici sul tema della misoginia, versi riecheggiati anche in vari Monostici (342, 860, 823), non divisi stichicamente, in 3B sono conservati 10 righi di scrittura

Si vedano, sempre in questo senso, gli studi.di F.D. HARVEY, I Greci e i Romani impa-

rano a scrivere, in Arte e comunicazione nel mondo antico (a cura di E.A. HAVELOCK - J.P. HERSHBELL), trad. it., Bari, Laterza 1981 («UL», 590), pp. 89-111 e M. ERLER, «Hermes»,

CXI, 1983, pp. 221-226. Questa tavoletta si dimostra interessante anche per il tipo di errori presenti; da una parte l’errore dello studente, che omette la prima lettera del primo monostico, ovvero invece di cogov scrive tutte e due le volte odov, errore che è chiaramente dovuto ad un principiante (anche se la scrittura non è fra le più stentate), che non capiva quello che scriveva, ed era ancora al secondo livello, cioè quello di sillabare le parole, e infatti è lo stesso tipo di errore che ritroviamo nell’esercizio della tav. 2 (cfr. W. BRASHEAR, «ZPE», LXXXVI, 1991, 232; un errore simile anche in PPetaus 121, cfr. oltre, nota 21); dall’altra, il tipo di errore fonetico commesso dal maestro (grafia itacistica

di πιστεύετε) nella stesura del modello, cfr. CRIBIORE, Writing, cit., p. 92 (in partic. nota 164), che però non menziona questo testo. Soprattutto in virtù di questo e di qualche altro testimone la Cribiore fa rilevare che uno dei metodi di insegnamento nell’antichità prevedeva che si insegnasse a scrivere delle massime quando ancora lo scolaro non si rendeva conto di ciò che scriveva (si vedano su questo punto le note critiche di K. VOSSING, Schreiben lernen, ohne lesen zu können? Zur Methode des antiken Elementarunterrichts, «ZPE», CXXILU, 1998, pp. 121-125, Gymnastic, cit., pp. 169-178).

e l’ulteriore ripresa di questo tema

in CRIBIORE,

1 Benché in CGPF e nel catalogo del Pack i due ostraca siano considerati sotto un unico numero, ai fini dell'edizione nel CPF dobbiamo rubricarli sotto due numeri diversi,

come fa anche la Cribiore (nrr. 267-268) e ora Kassel - Austin (frr. Ad. 1047 e 1048). È d’uopo segnalare che, contrariamente a quanto registra la Cribiore, entrambi gli ostraca sono conservati presso l’Ashmolean Museum, sotto due diversi numeri, 3A: Bodl, Gr. Inscr. 2942+2941, 3B: Bodl. Gr. Inscr. 2943; entrambi furono editi da J.G. MILNE, Relics

of Graeco-Egyptian Schools, «JHS», XXVIII, 1908, nr. VIII, pp. 130-131, nr. XV; Ip., More Relics of Graeco-Egyptian Schools,

«[ 5», XLIII, 1923, pp. 40-42; CGPF, 323-324, nr. 296

(= Pack? 2721). Il primo, A, è un ostracon completo (è presente il margine superiore e l’inferiore), spezzato in due già nell’antichità. L’ostracon, originariamente edito da Milne in due pezzi separati (nrr. VIH e XV), fu da lui ricostruito nella sua interezza in seguito all'acquisto di un ulteriore ostracon proveniente dallo stesso mucchio di cocci che riportava lo stesso testo [B]. Da qui l’ipotesi che gli ostraca avessero avuto un utilizzo scolastico e una comune fine nella stessa discarica. 15 Mons Claudianus, Ostraca Graeca et Latina, I (O. Claud. 1 ἃ 190), DFIFAO XXIX, Le Caire 1992, cap. IX (Writing and reading exercises) a cura di W.E.H. COCKLE, pp. 172174 (Tavv. XXXII e XXXIII).

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MARIA SERENA FUNGHI

con lo stesso testo di A, ed anche in questo caso il testo non viene diviso stichicamente.!6 Il tipo di errori condivisi da entrambi i testi, i modi in cui sono state effettuate le correzioni, la presenza di errori propri avevano indotto all’ipotesi che due scolari stessero copiando contemporaneamente lo stesso testo, dal momento che non pareva possibile pensare né ad un modello del maestro ed alla relativa copia, visto che la scrittura è quella di uno studente in fase di apprendimento, né alla rielaborazione da parte della stessa persona di una bella copia, visti gli errori peculiari: ma la somiglianza impressionante della scrittura non può considerarsi solo una conseguenza dell’insegnamento calligrafico. Visto il tratteggio particolare di alcune lettere e l'impostazione generale della scrittura, è molto più semplice pensare che si tratti di un esercizio del medesimo studente! che copia, forse più volte, lo stesso

testo cercando di migliorare la scrittura e di correggere gli errori, ma

allo stesso tempo, poiché forse non comprendeva completamente il testo che scriveva, introducendone di nuovi. Penso che un’analisi de-

gli errori non smentisca l’evidenza fornita dall’identitä di mano.'® Quello che induce a ritenere che si tratti di un’esercitazione di am16 Il testo tratta del mito della creazione dei viventi da parte di Prometeo: un argomento che aveva fortuna nella scuola, come dimostrano varie attestazioni (cfr. PCairo inv. 56226 = Cribiore 184 e PLugdBat XXV 16 = Cribiore 305 e l’introduzione a PLugdBat XXV 16). Si tratta di versi della commedia che Fränkel attribuiva a Filemone, notando paralleli con Euripide e Menandro. Il testo pare formato dalla giustapposizione di due estratti. In particolare, per quanto riguarda il primo, che si dispone sui primi due righi, offrendo un testo non completo, sembra riecheggiato il fr. 93 K.-A. di Filemone per quanto riguarda Prometeo e i θηρία (cito i primi tre versi del fr. che sono testimoniati anche in PStrasb G 306: τί ποθ’ è Προμηθεύς, ὃν λέγουσ᾽ ἡμᾶς πλάσαι / καὶ τἄλλα πάντα ζῷα, τοῖς μὲν θηρίοις / ἔδωχ᾽ ἑκάστῳ κατὰ γένη φύσιν μίαν), mentre per il tema di Prome-

teo e le donne, il fr. 508 K.-A. di Menandro: εἶτ᾽ οὐ δικαίως προσπεπατταλευμένον / γράφουσι τὸν Προμηθέα πρὸς ταῖς πέτραις, / καὶ γίνετ᾽ αὐτῷ λαμπάς, ἄλλο δ᾽ οὐδὲ Ev 7 ἀγαθόν; ὃ μισεῖν οἶμ᾽ ἅπαντας τοὺς θεούς, / γυναῖκας ἔπλασεν, ὦ πολυτίμητοι θεοί, 7 ἔθνος μιαρόν. γαμεῖ τις ἀνθρώπων; γαμεῖ; 7 λάθριοι «τὸ» λοιπὸν ἄρ᾽ ἐπιθυμίαι «κα»καί, / γαμηλίῳ λέχει τε μοιχὸς ἐντρυφῶν, / (εἶτ᾽ ἐπιβουλαὶ)}) καὶ φαρμακεῖαι, καὶ νόσων

χαλεπώτατος 7 φθόνος, μεθ᾽ οὗ ζῇ πάντα τὸν χρόνον γυνή. Mi sembra possibile, data la presenza nei due frammenti ora citati del verbo πλάττω (v. 1 del papiro πλάσσων), che nel distico sia da vedere la rielaborazione di un maestro che si sarebbe servito di questa parola guida nella sua composizione prendendo spunto dai due comici, piuttosto che un vero e proprio frammento attribuibile ad un comico. Particolarmente interessante sembra il primo rigo, che si trova in A, a fronte del Mon. 664 πάσας Προμηθεὺς τὰς γυναῖκας ἔπλασεν | κακάς, che è frutto di un emendamento di Snell, in quanto è tradito solo da K in forma ametrica: πάσας γυναῖκας Προμηθεὺς ἔπλασε κακάς.

17 Si veda la riproduzione dei due ostraca nella tavola alla fine dell’articolo. Gli errori di tipo contenutistico non corretti in nessuna delle due copie inducono all’ipotesi che fossero derivati dal modello: si tratta dell’incomprensibile omissione del secondo emistichio nel secondo verso che rende anche la frase incompleta, che la Cribiore

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TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI

bito scolastico non è tanto la grafia quanto il tipo di errori, sia di copiatura, sia di distrazione, e il modo in cui sono effettuate le correzioni. Analoga scrittura è presente ad es. nel dossier di ostraca di Patrembathes del Mons Claudianus (II 270-273, tavv. XXII-XXIII della metà del II sec. d.C.):'” ma qui abbiamo la certezza che si tratta di un adulto. D’altra parte le realtà grafiche che sono presupposte da

prodotti di questo tipo sono molteplici: fermandosi ancora sulla ca-

sistica offerta dai reperti del Mons Claudianus, si può ‘constatare che in questo praesidium romano, la cui vita sociale si incentrava sull’attività delle cave di granito, la ‘scuola’ e i suoi prodotti non sono da intendere soltanto come rivolti ai vari stadi dell’apprendimento da parte di fanciulli.?° Se per alcuni, egiziani, come Patrembathes, era sufficiente apprendere il greco che gli serviva per la sua attività pratica, e dunque la sua abilità grafica poteva arrestarsi allo stesso stadio di uno scolaro in via di apprendimento,” nel caso di un egiziano (267), probabilmente a ragione, imputa alla citazione a memoria del maestro, e di μεγίστη al posto di μέγιστον al v. 5. Alcuni errori presenti in A si trovano corretti in B: al v. 3

Εὐρειπίδης; l’omissione in A di ενανθρωποιοκακῶν, da porsi al r. 7, è stata riparata in A riscrivendo le lettere, ma capovolte, nel margine inferiore, mentre una seconda mano ha scritto ἀανθρωποιο[κ]ακώνεαν alla fine del r. 15 e al r. 16. In B invece evav@porore si trova correttamente nel testo, ma è chiaro che lo scriba ha avuto un’esitazione e forse

aveva già scritto eav, come in A, per cui sopra l’e è stato probabilmente apposto un trattino supra litteram per indicare il v. Errori che paiono indipendenti sono evrv' χείιν in A e evtuye in B per εὐτυχεῖ, πομῶν in A e ποῶν in B per πόνων. In B viene invece introdotto un nuovo errore al v. 6: elavtuyn per ἂν μὲν γὰρ ἐπιτύχῃ. Per quanto riguarda gli errori e le distrazioni dei maestri, di cui anche qui avremmo una riprova, se l’omissione dell’emistichio è da imputare al modello fornito dal maestro stesso, si vedano le testimo-

nianze addotte dalla Cribiore, Writing, cit., p. 92, ma si tengano soprattutto presenti le considerazioni espresse da H. MAEHLER, Die griechische Schule im ptolemäischen Ägypten, in Egypt and the Hellenistic World. Proceed. of the Intern. Colloquium Leuven 24-26 may 1982, Leuven, Imprim. Orientaliste 1983 («Studia Hellenistica», 27), pp. 191-203 sul fatto che in epoca romana gli stessi esercizi scolastici mostrano come non si avesse più la pa-

dronanza della lingua greca. 1? Edito da 7. BINGEN in Mons

Claudianus, Ostraca Graeca et Latina, II (O. Claud.

191 ἃ 416), DFIFAO XXXII, Le Caire 1997. 20 Walter Cockle, vol. I, p. 169 nota infatti che il maestro dava lezione a fanciulli e adulti. 2! Si potrà notare comunque quanta differenza ci sia fra il livello a cui è giunta la sua scrittura che si accompagna alla capacità di leggere e scrivere in lingua greca e quella di un βραδέως γράφων, come ad es., dopo molto esercizio, può esser diventato l’analfabeta

Petaus, il noto scriba di villaggio, che costituisce un esempio illuminante, grazie alla documentazione dei suoi sforzi grafici (in particolare PPetaus

121, tav. XIXa e

introd., p.

36). Su di lui in particolare, sui βραδέως γράφοντες e sull’analfabetismo in generale, si vedano gli studi di Herbert Youtie, Pétaus, fils de Pétaus, ou le scribe qui ne savait pas écrire «CE», XLI, 1966, pp. 127-143 (= Scriptiunculae, Amsterdam, Hakkert 1973, II, pp. 677-695); In., ΑΓΡΑΜΜΑΤΟΣ: An Aspect of Greek Society in Egypt, «HSCPh», LXXV, 1971, pp. 161-176 (= ibid., 611-628); ID., Βραδέως γράφων: Between Literacy and Illiter-

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9...

MARIA SERENA FUNGHI

ellenizzato, come Dioscoro,? la grafia aveva progredito nella fluidità e nell'esperienza (ibid., ad es., tav. VII e nr. 225), mentre la padronanza della lingua greca restava a scarsi livelli.

Questo discorso a proposito dell’eventuale correlazione fra abilità scrittoria e livelli di apprendimento ci introduce anche ad un altro aspetto di applicazione scolastica che verrebbe documentata in testi del Mons Claudianus che, questa volta, ci interessano più da vicino. Come classificare il set di ostraca 184-187 in rapporto alla loro utilizzazione, tanto più trattandosi di ostraca mutili? Nell’ostracon 185 pare fosse stata scritta soltanto la gnome ὦ Pavia, μὴ πρόσεχε διαβολῆς [μάτην, costituita dal verso menandreo ricostruibile sulla base

del primo verso tradito in PVindob 19999A che vedremo fra poco, ὦ Pavia, μὴ πρόσεχε διαβολαῖς μάτῃγ: il verso è scritto in una bella grafia di tipo cancelleresco, che quindi ha rappresentato il modello. Nel 184 leggiamo la grorze, scritta solo fino a διαβολῆς, come si evince

dal fatto che la distribuzione nei righi è completa e il testo che si intravede al rigo successivo,

cancellato,

apparteneva,

come

dice l’edi-

tore, ad un testo vergato precedentemente: la grafia imita quella del 185 anche nella ripartizione del testo. Nel 186, in una grafia esperta e più corsiva, compare di nuovo la massima, non si può dire se completa o troncata anch’essa, ma il testo certamente proseguiva, forse addirittura fino al rigo successivo in cui si intravede una lettera finale.?? Per il 187, che potrebbe esser l’unico a garantire la completezza della sentenza, la mancanza della tavola e di un’ulteriore descrizione impedisce considerazioni più precise. Per gli altri ostraca vale comunque la constatazione che il tipo di scrittura non si concilia con il semplice esercizio di copia di una grorze, come si riscontra

acy, «GRBS», XII, 1971, pp. 239-261 (= ibid., 629-651). Sull'argomento, dopo lo studio complessivo di W.U. HARRIS, Ancient Literacy, 1989 (= trad. it. Lettura e istruzione nel mondo antico, Bari, Laterza 1991) è tornata anche A.E. HANSON, Axcient Illiteracy, in Lit-

eracy în the Roman World, Ann Arbor 1991, «JRA», Suppl. 3, pp. 159-197; cfr. anche ‘CRIBIORE, Writing, cit. pp. 150-152. 2 Probabilmente un soldato: se ne veda la caratterizzazione, in base ai documenti, of-

ferta da A. Bülow-Jacobsen, op. cit. (a nota 19), p. 43 sgg. 2 Nell’edizione, purtroppo, nessun. allineamento dei righi di questi ostraca è riprodotto in modo giusto: se si allinea correttamente il v che si scorge dopo la lacuna si vedrä che, se il coccio era regolare, il secondo rigo si sarebbe trovato in un’eisthesis troppo pronunciata (e bisogna tener conto che nel 184 che copia il 185 si rispetta perfettamente anche lo stesso ‘tipo di ezsthesis), quindi non è detto né che in quel punto il v fosse quello di ματην né che quest’ultima parola vi fosse realmente: la lettura è alquanto dubbia, forse Ivetag. La lettera del terzo rigo poteva essere il tratto terminale di un e o un o. Quindi

poteva trattarsi o di un’altra sentenza o di un distico.



10—-

TIPOLOGIE

DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI

spesso ad un livello scolastico meno avanzato. Ha dunque un’ottima probabilità di aver colto nel segno la Cribiore caratterizzando questi testi come prodotti di ‘apprendisti scribi’, ovvero come un prodotto di addestramento professionale, in cui però il termine ‘scolastico’ va inteso in senso lato, corrispondente ad una situazione di apprendimento che può riferirsi anche ad individui adulti già esperti in altre grafie, come si verifica per egiziani che imparano a redigere documenti in greco, oppure forse, in questo caso, per dei romani. Anche a proposito dell’utilizzo di raccolte di gnomai monostichoi all’interno di quaderni scolastici sembra possibile pronunciarsi con maggior precisione: abbiamo due sicuri esempi di età diverse, PVindob G 19999A-B (= Pap. IV e V J.) del sec. I d.C. e PBour 1 (= Pap. II J.) del sec. VI d.C. Si tratta di due redazioni complete in acrostico alfabetico con una gnorze per lettera, quella di PVindob in ordine inverso: coincidono fra loro solo per la grome in p (= Mon. 698) e in y (= Mon. 845) ed anche in queste con una differenza che rispecchia la diversità generale del prodotto. :

Nel primo caso si tratta di una selezione/rielaborazione persona24 Numeri 194-197 Cribiore, e si vedano i riferimenti per le scuole all’addestramento professionale sempre in Writing, cit., pp. 28-29 e Gymnastic, cit., pp. 20, 51, con la bi-

bliografia da lei citata. Per esempi di pratica scolastica di scuole di cancelleria, H. HARRAUER - P. SIJPESTEIJN, Neue Texte aus dem antiken Unterricht, MPER NS XV 1985, pp. 10-11, 96 sgg. Anche se in tempi più recenti una maggiore attenzione viene riservata al-

l’individuazione di questo tipo di testi (cfr. E.G. TURNER, A Writing Exercise from Oxyrbynchus, «MH», XIII, 1956, pp. 236-238 e Half a Line of Virgil from Egypt, in Studi in onore A. Calderini e R. Paribeni, Milano, Ceschina 1957, pp. 157-161), mancano ancora in questo settore studi di insieme e dunque il terreno su cui ci si muove è scivoloso; d’altro

canto spesso è molto difficile giudicare se alcuni frammenti possano esser ritenuti esercitazioni o modelli preparatorî di scrittura, si pensi ad es., in campo letterario, al famoso prologo del Fedro, POxy 1016. Un buon esempio sono gli ostraca di Narmuthis, che forniscono una ricca documentazione e per i quali si vedano gli studi di P. GALLO, Ostraca demotici e ieratici dall'archivio bilingue di Narmouthis II (nn. 34-99), Pisa, ETS 1997 e R. PINTAUDI - P.J. SUPESTEYJN, Ostraka di contenuto scolastico provenienti da Narmuthis «ZPE»,

LXXVI, 1989, pp. 85-92; un chiaro esempio di addestramento professionale si può riscontrare in un altro ostracon sempre di Medinet Madi ora edito da G. MESSERI - R. PIN-

TAUDI, in «CE», LXXVII, 2002, pp. 227-229.

2 Mon. 698: ῥάθυμος ἐὰν ἧς πλούσιος, πένης ἔσῃ.

In PVindob ῥάθυμος ἐὰν ἧς,

Φανία, πένης ἔσει, in PBour ῥᾷάθυμος ἐὰν ἧς πλούσιος, πένης ἔσῃ. Mon. 845: in PVindob ψευδὴς γὰρ ἀκοὴ τὸν βίον χυμαίνη (corrotto per λυμαίνεται) in PBour ψευδὴς δια-

βολὴ τὸν βίον λυμαίνεται. La prima sentenza doveva godere di una certa fortuna se si ritrova in ambito scolastico, ma questa volta come detto di Talete, nella tavoletta del Louvre MND 552 L, B 15-16 (B. BOYAVAL, Le cahier scolaire d’Aurelios Papnouthion, «ZPE»,

XVII, 1975, 231) nella forma ῥάθυμος dv ἧς πλούσιος, γίνῃ πένης. Il Monostico è tradito anche in uno degli ostraca Petrie inediti, probabilmente nella forma di PBour 1.

MARIA SERENA FUNGHI

lizzata: i primi 4 versi della parte A, che esordiscono con il verso già citato, con l’apostrofe a un personaggio menandreo, Fania, e subito dopo con una forma del Mon. 845, costituiscono infatti un’unità,?

ma la ripresa nell’ultimo rigo dello stesso nome, come giustamente

aveva letto Jäkel,?’ indica il valore parenetico specifico che si intendeva dare a tutto l’insieme rivolgendosi al giovane studente sotto il

nome fittizio di Fania. La funzione dei monostici è qui fortemente caratterizzata in senso didascalico e finalizzata ad un apprendimento di massime etiche, come mostra il testo che segue alla colonna successiva, pap. V (bisogna no-

tare infatti che non solo i due papiri fanno parte dello stesso rotolo ma che le colonne si susseguono immediatamente?®), in cui la parenesi viene sviluppata in pericopi più tematiche. La prima sezione, che è anche strutturata come dialogo fra padre e figlio, comprende dapprima l’ammaestramento per il comportamento del giovane nella vita in relazione alle ricchezze; al quale il giovane replica dicendo di aver ottemperato ai suoi doveri di studente e di dover riconoscenza al padre; segue l’ammaestramento in relazione alla divinità, seguono poi delle massime che probabilmente contrappongono i valori della scuola a quelli che invece insegnerà la scuola quotidiana della vita. Segue quindi un brano in prosa, sempre di carattere etico, pressoché illeggibile: non si può escludere inoltre che di questo quaderno facessero parte altri testi di carattere scolastico. Ci si colloca cioè nella linea di quei prodotti scolastici, come POxy 3004, in cui si rilevano rielaborazioni a chiaro fine parenetico.??

26 d Davia, μὴ πρόσεχε διαβολαῖς μάτῃγ᾽ / ψευδὴς«ς;» γὰρ ἀκοὴ τὸν βίον Aunaive. / χάριν διαβολῆς Ἱππόλυτος ὁ Θησέως / φονεύεθ᾽ ὑπὸ τοῦ πατρὸς ἀκρισίᾳ φίρ]εγῷγ. 27 S. JAKEL, Menandersentenzen: neue Lesungen der Papyri aus der Österreichischen Na-

tionalbibliothek, «Eos», LXXII, 1985, pp. 247-250. 28 Furono pubblicati separati ma, seppur dubitativamente, si allude più volte al fatto che potessero far parte dello stesso rotolo, cfr. anche MPER NS IV, p. 136; da ultimo H. HARRAUER - K.WORP, Literarische Papyri aus Soknopaiu Nesos, «Tyche», VIII, 1993, p. 36, nota 6 lo affermano; lo studio del testo documentario del recto che sta conducendo Ga-

briella Messeri dimostra che i testi si congiungono direttamente. Si deve comunque notare che anche altri testi sono stati scritti dalla stessa mano: MPER III 27, 28, 30, 31. Di questi, scritti tutti sul verso, solo MPER III 28 conserva un testo documentario sul recto,

ancora in corso di analisi, che potrebbe forse essere analogo a quello di MPER 24 e 25. In ogni caso, tutti questi testi provengono senz’altro da un ambito scolastico unitario, anche se non è dimostrabile che appartenessero ad un unico quaderno scolastico, e dunque, data la loro provenienza comune, andrebbero inseriti tutti nella lista di Harrauer - Worp a p. 36. 29 Come è già stato notato, cfr. anche M.S. FUNGHI - M.C. MARTINELLI, In margine a

P.Oxy. 3004 e 3005, «SCO», XLVI.2, 1997, pp. 431-437; PERNIGOTTI, Raccolte, cit., pp.

_

12 --

TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE

PAPIRACEE DEI MONOSTICI

Nel PBour 1, un quaderno scolastico in forma di codice, di ambito cristiano, probabilmente il sussidiario scritto per un allievo (da un maestro?), la sezione di gromzzîi menandree è inserita all’interno di altri testi scolastici, posti in ordine di difficoltà (esercizi di sillabazione, le chreiai di Diogene e successivamente, il prologo alle favole di Babrio), ma vale la pena di notare che i Monostici scelti sono per la gran parte attestati dalla tradizione medievale o, in ogni caso, ricorrendo in altri papiri, mostrano di aver avuto una circolazione letteraria e di non essere copia di elaborazioni scolastiche, come sembra per più versi il caso di PVindob. Si consideri invece come, al fine della ricostruzione della fonte del singolo Monostico, in questo caso il 698, e della critica testuale relativa, proprio il PVindob, a cui si affiancheranno anche gli ostraca del Mons Claudianus per l’altra gzoze in cui compare Fania, testimoni il verso nella sua originaria forma menandrea, con l’apostrofe al personaggio della commedia, sparito poi nell’oggettivazione della gore: Fania era già caratterizzato come ricco

nella commedia, per rendere universale la massima è bastato sostituire al nome il termine generico πλούσιος, Passando ad altra tipologia, due testimoni di Monostici, preziosi per il loro interesse dal punto di vista testuale, devono in ogni caso considerarsi al di fuori dei prodotti che ho designato come ‘testimoni primari’ di raccolte di Menandri sententiae: si tratta di PSchubart 29 e POxy 2661 che non adottano il criterio di ordinamento alfabetico. L’analisi di questi due testi è già stata fatta da Pernigotti?! e a lui rimando; basti qui dire che l’affinità che si può riscontrare fra i due gnomologi risiede nel fatto che entrambi possono definirsi copie d’uso privato, mostrando, dal punto di vista grafico, «mani aduse a scrivere documenti privati o di uffici [...] pubblici oppure [...] di individui

215-216. Un interessante confronto è costituito dalla selezione di monostici operata in ambito cristiano che introduce e chiude il Carmen morale I 2, 30 di Gregorio riportata dal cod. Laur 57, 50 (= App. 12 J.); si veda anche l’inno acrostico alfabetico riportato nel cod. greco/copto di PMonEpiph 592 che inizia col nome della persona a cui è rivolto. Per un’apostofe di tipo parenetico che introduce a monostici, si veda quella in prosa, introduttiva alle massime ‘menandree’ all’interno della Vita Aesopi (App. 13 J.), per la quale si può leggere in questo stesso volume l’articolo di M. JAGODA LUZZATTO, Sentenze di Menandro e «Vita Aesopi», pp. 35-52. 30 Già proposto dal Körte come relativo al Citarista. Per la contestualizzazione dei monostici e dei frammenti 1971, pp. 374-375.

all’interno della commedia,

3 Raccolte, cit., pp. 218 e 210.

-- 13 --

cfr. A. BORGOGNO,

«Hermes»,

IC,

MARIA SERENA FUNGHI

saldamente alfabetizzati che talora scrivevano da se stessi i loro libri»,

come dice Cavallo caratterizzando alcuni prodotti di letteratura di consumo, descrizione che, nel caso di PSchubart, si attaglia in modo più evidente, trattandosi di un testo scritto sul verso, mentre, nel caso di POxy 2661, ne determinano la pertinenza sia il modo ‘personale’ di estrazione delle massime sia la scrittura?’

Sempre nell’ambito della copia d’uso si colloca un rappresentante che, invece, rispecchia la tipologia ‘canonica’ delle raccolte di gromai

monostichoi e che quindi può essere considerato testimone della circolazione libraria di una di queste sillogi: si tratta di PMilVogliano 1241v, da me edito diversi anni fa,” che riporta 22 monostici in a. Ancora in questa categoria, a causa del tipo di manufatto scrittorio, sono da collocare sia la tavola calcarea ritrovata nella cella di un mo-

naco del Monastero di Epifanio a Tebe, sia gli ostraca Petrie 405 e 449 di cui parlerò in seguito. Unico testimone diretto di un libro contenente una raccolta di Menandri Sententiae pare dunque POxy 3006. La scrittura è fluida, e accoglie l’influenza della cancelleresca nelle lettere iniziali di rigo ingrandite, che consentono anche una più agevole individuazione del monostico, sebbene qui la disposizione alfabetica sia già stichica.?6 Im-

32 G. CAVALLO, Veicoli materiali della letteratura di consumo. Maniere di scrivere e ma-

niere di leggere, in La letteratura di consumo nel mondo greco-latino (a cura di. O. PECERE, A. STRAMAGLIA), Cassino, Università di Cassino 1996, pp. 11-46: 36.

3 Per quanto riguarda l’aspetto paleografico, si potrà vedere la riproduzione di POxy 2661 in POxy XXXIII, tav. V. Per quanto riguarda PSchubart, si tenga presente che contrariamente a quanto viene registrato in LDAB nr. 2448, non si tratta assolutamente dello stesso papiro di LDAB 2446 (= PVindob 19999 A+B, riprodotto in MPER IM). 3 M.S. FUNGHI, PMi/Vogliano inv. 1241v.: γνῶμαι μονόστιχοι, in Miscellanea Papyrologica, in occasione del bicentenario dell'edizione della Charta Borgiana, a cura di M. CAPasso, G. MESSERI SAVORELLI, R. PINTAUDI, Firenze, Gonnelli 1990 («Papyrologica Flo-

rentina», XIX), I, pp. 181-188. PMilVogliano offre una serie non completamente aderente alla tradizione medievale: su 22 monostici, solo 10 compaiono fra le sentenze menandree

tramandate; 2 rientrano nel corpo dei paremiografi; altri sono ricostruibili presupponendo varianti, inversioni di parole o adattamenti, spesso solo in via ipotetica, data la lacunosità del testo. 35 OMonEpiph II 615: per il ritrovamento nella Cella A del monaco Mosè che aveva scritto numerosi testi sia greci sia copti, cfr. W.E. CRUM - H.G. EVELYN WHITE, The Monastery of Epiphanius at Thebes, New York, The Metropolitan Museum of Art Egyptian Expedition 1926, I, p. 42; per la sua funzione di scriba, si veda la lettera copta PMonEpiph 386. Per un’analisi dei testi si veda CRIBIORE, Gymnastic, cit., p. 24.

36 Cfr. The Oxyrbynchus Papyri, vol. XLII (1974), tav. IV, edito da P. Parsons. Si vedano anche le considerazioni su questo papiro espresse in questo stesso volume da M. Jagoda Luzzatto, pp. 42-43.

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TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI

.pressionanti in questo papiro dell’inizio del III secolo sia la convergenza con le grorzai tradite nei codici medievali (22 su 26) sia l’ampia selezione attestata, in quanto provengono tutte dalla sezione in a. A stretto confronto con PMilVogliano, testimone coevo o di poco precedente, in cui si notava una maggiore attestazione di gromai non presenti nella tradizione medievale, pare di rilievo anche l’accordo maggiore che si rileva in questo papiro con la classe prima: 9 Monostici ‘esclusivi di questa classe,” accordo che non pare verificarsi in altri

papiri se non, in parte, per le sentenze della recensione greco-copta con la classe seconda.

Per ultimo tratterò di Pland V 77 (= PGissLit 3.4),?® il testimone forse più interessante, perché conserva anche il titolo della raccolta, inspiegabilmente trascurato da Jäkel nella sua edizione. Ma il suo interesse risiede anche nell’anomala tipologia che testimonia: la scrittura formalmente accurata, la selezione testuale, 10 Monostici in ὦ, che trovano riscontro, anche nella successione, con la traduzione slava,

e il titolo finale ne avrebbero fatto un indubbio frammento di libro, ma la nota apposta da una seconda mano sotto il titolo, κ[ε]χάρισται, ‘placet’, ne rivelava l’appartenenza all’ambito scolastico.? Tuttavia è indubbio che, sebbene possa trattarsi di un esercizio di copia, lo è di un esemplare librario. La recente pubblicazione di un altro testo scritto molto probabilmente dalla stessa mano credo possa servire a rafforzare l’intuizione dell’editore, Karl Kalbfleisch, sul tipo di testo qui rappresentato: «das ‘Gesellenstiick’ eines Berufsschreiber» che ha ricevuto il beneplacito dal ‘Schönschreiblehrer’. In PBerol 21166, una striscia di papiro contenente quattro righi di sentenze, due delle quali attestate nella Coparatio I 59-60, William Brashear*° riconobbe infatti la mano del papiro Janda. Anche questo prodotto solleva comunque non pochi interrogativi sulle modalità di copia: le lettere infatti paiono esser state tracciate prima con tratti leggeri e fini e poi ripassate sopra con un calamo più spesso; si riconoscono due scritture, che tuttavia non sem-

37 Cfr. PERNIGOTTI, Raccolte, cit., p. 225. 38 = Pap. III J. Ed. pr.: K. KALBFLEISCH, Menandersprüche, «Hermes», LXIII, 1928, pp. 100-103; ora riedito in P.A. KUHLMANN, Die Giessener Literarischen Papyri, Giessen,

Universitätsbibliothek 1994 («Berichte und Arbeiten aus der Universitätsbibliothek und dem Universitätsarchiv Giessen», 46), pp. 72-76. 39 Forse la Cribiore, sulla base dei criteri di redazione del catalogo degli esercizi scolastici espressi in Writing, cit., che prevedono l’esclusione degli esercizi degli scribi di professione (pp. 28-29), non prende in considerazione questo papiro. 4 W. BRASHEAR, Gromology, «YCISt», XXVIII,

- [15--

1985, pp. 9-12.

MARIA SERENA FUNGHI

brano differire gran che fra loro. Poiché la scrittura è esperta, ma non è pratica attestata che uno scriba antico vergasse in precedenza la traccia del lavoro, Brashear si domandava

se non fosse la traccia del

maestro, della cui grafia possediamo un modello nella nota citata apposta in Pland V 77, alla quale lo scolaro si sovrapponeva. Questa è sì pratica attestata, ma, per quanto ne sappiamo e troviamo nella documentazione scolastica,*! soprattutto in relazione ad una prima fase

dell’apprendimento. È difficile poter giudicare senza un’analisi diretta del manufatto, che al momento non ho ancora potuto compiere, ma l'ipotesi che si tratti per entrambi i papiri dell’esercizio di un apprendista scriba di professione mi pare del tutto condivisibile. Se così è, bisogna prendere in considerazione anche ipotesi diverse da quella che Pland sia l’ultima colonna di un rotolo: dato il tipo di prodotto, la sua estensione poteva esser limitata a qualche colonna di prova, o addirittura a un foglio singolo, a imitazione della ‘mise en page’ libraria di qualche esemplare, in cui si dispongono un certo numero di

sentenze ponendo soprattutto riguardo all’ornamentazione del titolo finale. Questo papiro potrebbe essere dunque proprio un esempio dell’uso dei monostici per l'addestramento calligrafico e in certo modo

confermerebbe quanto diceva Kock,* sulle raccolte dei Monostici originatesi dalla pratica calligrafica nelle scuole dei monasteri bizantini.

Per concludere, un breve accenno ad un gruppo di ostraca, ancora inediti e in corso di studio, della collezione Petrie,# che costituiscono

un probabile esempio di ampia raccolta di Menandri Sententiae, destinata forse all'insegnamento, ma priva di massime peculiari dell’ambito scolastico, a differenza dei testimoni della redazione Greco/Copta; di ambito cristiano, ma senza massime caratteristiche di quest'ambito, come OMonEpiph 615; veicolo di selezione libraria delle Gromai, ma scritto su materiale ‘effimero’, quale l’ostracon.*

41 Brashear citava a sostegno Sen. Ep. 94, 51; Quint. Irst. I 1, 27, testimonianze che

sono state generalmente interpretate come riferentesi ad uno stadio di educazione primaria (cfr. ad es. S.E. BONNER, Education in Ancient Rome, Berkeley-Los Angeles, Univ. of

California Press 1977, Part III): è comunque possibile che un principio analogo fosse applicato anche nell’insegnamento professionale dei vari tipi di scrittura su cui esercitarsi. 4 TH. Kock, Die Sammlungen Menandrischer Spruchverse, «RhM», XLI, 1886, p. 116.

4 L’analisi dettagliata di questo gruppo di testimoni sarà offerta nell’editio princeps a cura della scrivente e di Maria Chiara Martinelli per le Menandri Sententiae e di Cornelia Römer per i testi cristiani che apparirà in uno dei prossimi volumi della «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik». 4 ‘Effimero’ è forse il concetto principale e dominante che caratterizza l’impiego di un ostracon come veicolo di scritti, sia rispetto al ‘contenitore’: materiale di nessun

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TIPOLOGIE DELLE RACCOLTE PAPIRACEE DEI MONOSTICI

Nel Petrie Museum di Londra, fra gli ostraca ancora inediti della collezione Flinders Petrie,* si trovano una serie di pezzi scritti dalla

stessa mano, e un altro gruppo, in una scrittura coeva, che riportano un cospicuo numero di Menandri Sententiae. Un ostracon, appartenente ad uno di questi gruppi, OPetrie 449 (U.C. 31898), fu edito nel 1930 da John Gavin Tait,* ma solo relativamente alla superficie convessa, mentre la superficie concava fu letta molti anni dopo da Emidio Spinelli.” Nel corso della revisione dei due ostraca Petrie editi contenenti Menandri Sententiae, il 449 e il 405,4 ho potuto constatare che un ulteriore frammento si affiancava al 449 nella ricostruzione del testo dell’ostracon originario. Oltre ad esso, altri 16 frammenti di varie dimensioni, che in alcuni casi possono essere ricomposti,

contengono sentenze: sono quasi tutti scritti su entrambe le superfici e riportano una media di circa sei sentenze per lettera; sono conservate le lettere A, O, M, N, &, O, II, P, Y, Φ, X, Ψὶ Ω forse H, T, con

una netta preponderanza della lettera O. Al gruppo, nel quale rientra

conto, sia rispetto al ‘contenuto’: testi di poco pregio; ma non bisogna mai trascurare la compresenza di altri fattori: archivi di ambito privato, che conservano un numero cospicuo di esemplari, mostrano testi che forse si intendeva destinare anche ad una certa durata nel tempo (cfr. ad es. l’archivio di BGU VII 1500-1562, Philadelphia III a.C.; un caso

particolare, l'archivio catalogato degli ostraca demotici di Narmuthis: si vedano le ipotesi di GALLO, ODN II, cit., pp. XLI-LM); per le considerazioni sull'uso scolastico basti rimandare alle osservazioni di CRIBIORE, Gyrmnastic, cit., pp. 147-153. Si tenga poi presente che alcuni prodotti, specie di età tolemaica, si presentano di buon livello grafico (OBerol inv. 12310, 12311,

12318, 12319 = Cribiore 233-236, e 12309, dallo stesso ritrovamento

degli ostraca sopra citati di BGU VII: si veda anche l’articolo di G. BASTIANINI, Testi gnomici di ambito scolastico, in questo volume, pp. 167-175) ed indicano, per il contenuto, un'attività di raccolta di testi per uso personale, non soltanto ad usum scholae. In un caso come questo, ad es., forse dovremo pensare che proprio il tipo di testi selezionati dallo scriba, e l’influenza dell’xsus scrittorio scolastico, abbiano indotto alla scelta del mate-

riale. Altro fattore certamente determinante è stato la scarsità di papiro ma, relativamente all'Egitto, riguarda soprattutto l'Alto Egitto, e in particolar modo in epoca tarda (non mancano testimonianze in questo senso; le scuse che vengono rivolte in apertura di lettera per il fatto di inviare un ostracon al corrispondente, adducendo proprio questo motivo, costituiscono quasi un topos epistolare in molte lettere copte del Monastero di Epifanio: vd. W.E. CRUM, The Monastery of Epiphanius at Thebes, cit. (a nota 35), I, pp. 188-190; cfr. anche CRUM, CO, nr. 97, p. 49).

45 Un Catalogo degli Ostraca Greci di tale collezione verrà realizzato a cura di M.S. Funghi, G. Messeri Savorelli, R. Pintaudi, C.E. Rémer, per la serie «Papyrologica Florentina».

4 Nel volume Greek Ostraca in the Bodleian Library at Oxford and Various Other Collections, London, The Egypt Exploration Society, p. 150. 4 E. SPINELLI, Sentenze menandree. OPetrie 449: letture nuove ed inedite, in Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta philosophica, Firenze, Olschki 1988 («STCPF», 3), pp. 49-

57, con riproduzione fotografica. 48 Purtroppo questo pezzo risulta definitivamente perduto.



17 -

MARIA SERENA FUNGHI

l’ostracon Petrie 449, oltre a testi cristiani (Atti degli Apostoli, Epi-

stole) e ad alcuni frammenti dell’Iliade, appartengono altri 5 pezzi contenenti Monostici,

due dei quali sono scritti solo sul recto. Gli

ostraca che appartengono a questo gruppo presentano una superficie scrittoria di dimensioni maggiori. Nella ricostruzione dell’ostracon Petrie 449 si doveva presupporre una larghezza di circa 30 cm, ovvero, rapportato ai nostri giorni, più o meno un foglio formato A4 girato di 90°. Le dimensioni potrebbero essere indicative per quanto ne riguarda la funzione: la Cribiore classifica lo stesso ostracon Petrie 449

e prodotti analoghi, come la tavola di calcare del Monastero di Epifanio nr. 615, prodotti scolastici che rimanevano nella classe e veni-

vano usati da alunni e maestro alla stregua di libri di consultazione per la copia di Omero o testi gnomici.” Bisogna però mettere in rilievo anche un’altra caratteristica, ossia il fatto che, per la maggior parte, si tratta di testi continui scritti sulla parte esterna e interna, fenomeno non molto comune specie per i testi letterari.?® Questo significa che venivano intesi come ‘libri di ostraca’ come Van Haelst?! definisce un altro ostracon sempre della collezione Petrie. Poiché questo non corrispondeva certo a criteri di maneggevolezza, utili per la copia scolastica, o di facilità di conservazione, nel caso si trattasse di selezioni di testi effettuate per uso proprio o per l’insegnamento, è senz'altro probabile che il fattore primario di scelta del materiale sia stato proprio la mancanza di papiro, il quale, in ogni caso, veniva riservato a testi ritenuti di maggiore importanza. L'ipotesi dell'impiego di questi testi per l’insegnamento in un monastero del distretto tebano? è certo la più plausibile, tanto più che la selezione dei testi cristiani e omerici indirizza in questo ambito: diventa dunque meno probabile l’ipotesi, avanzata dallo Spinelli, di una raccolta di gzomai

4 CRIBIORE, Writing, cit., p. 64; Gymnastic, cit., p. 135: si noterà comunque che tutti

i prodotti citati dalla studiosa provengono dall’Alto Egitto e sono di epoca bizantina; un ostracon di grandi dimensioni (cm 26x29) trovato intero è OMonEpiph 9, scritto dal monaco Mosè

(cfr. sopra, nota 35), che riporta una selezione di testi cristiani in copto: an-

ch’esso forse usato per l’insegnamento? Per l’elenco di tutti i testi considerati dalla Cribiore ‘teachers models”, si veda Writing, cit. pp. 132-136. 50 Si cfr., tuttavia, l’ostracon con due brani delle Fenicie di Euripide del II sec. a.C.

(OBrLibr inv. 18711) = Cribiore 241. 51 OPetrie 415 (= 833 van Haelst); cfr. J. VAN HAELST,

Une ancienne prière d’inter-

cession de la liturgie de Saint Marc (O. Tait-Petrie 415), «AncSoc», I, 1970, pp. 95-114, con altri riferimenti in proposito. 52 Da lì infatti provengono le due raccolte principali di ostraca della collezione Petrie di età tarda, come afferma CRUM, CO, p. rx. Ed è comunque da esso che proviene la maggior parte degli ostraca letterari di età tardo antica, cfr. P. MERTENS, Les ostraca littéraires grecs, «Orientalia Lovaniensia Periodica», VI-VII, 1975/1976, pp. 397-409.

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TIPOLOGIE

DELLE RACCOLTE

PAPIRACEE DEI MONOSTICI

compilata da un retore per uso proprio, anche se appare pienamente

giustificata dal punto di vista della qualità testuale del prodotto. Infatti, come l’ampia selezione dei Monostici mostra, e soprattutto come

mostrano

i contatti con particolari raccolte della tradizione mano-

scritta, come i codd.

U, P, K, questa selezione proveniva quasi cer-

tamente da una raccolta con una circolazione di tipo librario, che ha trovato la sua via di diffusione probabilmente nei testi copiati all’interno dei monasteri. Pensando al monaco-scriba Mosè del Monastero di Epifanio che aveva copiato e conservato nella sua cella numerosi testi su papiro e ostraca sia in greco sia in copto, prevalentemente cri-

stiani, ma anche ‘Sentenze di Menandro’, pare verisimile che anche chi ha scritto gli ostraca Petrie potesse appartenere ad un ambiente analogo.

5 Su questo tema si consulteranno utilmente non solo le belle pagine introduttive di H.E. Winlock sulla parte archeologica e soprattutto di W.E. Crum per la parte storicoletteraria, che costituiscono il vol. I del già citato The Monastery of Epiphanius at Thebes, ma anche, specificamente per il Monastero di Epifanio, di recente, l’articolo di L.S.B. MacCouLL, Propbethood, Texts, and Artifacts: The Monastery of Epiphanius, «GRBS»,

XXXIX, 1998, pp. 307-324; più in generale si vedranno gli interessanti studi di Ewa Wipszycka riuniti nel volume Eiudes sur le christianisme dans l’Égypte de Pantiquite tardive, Roma,

Institutum Patristicum Augustinianum

1996 («Studia Ephemeridis Augusti-

nianum», 52), in particolare Le degré d’alphabetisation en Egypte byzantine, pp. 107-126; S. BUcKING, Christian Educational Texts from Egypt: A Preliminary Inventory, in Akten des 21. Intern. Papyrologenkongr. (Berlin, 13.-19.8.1995), Stuttgart-Leipzig, Teubner 1997 («APF» Beih., 3), I, pp. 132-138; di recente R. CRIBIORE, Greek and Coptic Education in

Late Antique Egypt, in Ägypten und Nubien in spätantiker und christlicher Zeit, Akten der 6. Internationalen Koptologenkongresses, hrsg. von 5. EMMEL, M. KRAUSE, S.G. RICHTER, S. SCHATEN, Wiesbaden, Reichert 1999 («Sprachen und Kulturen des christlichen Orients»,

6.2), pp. 279-286.

—19 —

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MARIA

CHIARA

MARTINELLI

ESTRAZIONE E RIELABORAZIONE DEI MONOSTICI PROBLEMI DI TESTO E DI METRICA Fra i non pochi problemi che la storia del testo dei Monostici di Menandro pone è particolarmente interessante la questione dei rapporti delle sentenze con il materiale poetico da esse presupposto: se di volta in volta abbiamo a che fare con riprese pure e semplici di testi tragici o comici, e quando e dove è possibile parlare di adattamenti o rielaborazioni, magari anche da una sentenza all’altra. La letteratura critica in proposito, non molto ricca in realtà, aveva suggerito

alcune prospettive

quando

ancora i Monostici

erano

noti

pressoché esclusivamente dalla tradizione medioevale.! Non poche di queste prospettive, e anche alcune delle conclusioni già proposte, sono state confermate dalla scoperta di un buon numero di papiri, alcuni anche successivi all’edizione di Jäkel,? che a loro volta, proprio nella diversità delle loro tipologie, hanno corretto alcune impostazioni (a partire, naturalmente, dalla collocazione storica dell’origine della selezione ‘menandrea’, che dopo la testimonianza esplicita di PGissLit

3.4, del IV/III sec. d.C. (= pap. II J.), con il suo titolo MENANAPOY

TNQMAI, non può essere più posta in epoca bizantina) e ne hanno favorito altre. Particolarmente significativi, ad esempio, i testimoni, di chiaro ambito scolastico, in cui una serie di sentenze risulta arrangiata in modo da formare una sezione testuale più estesa, come PVindob G 19999A-B (= pap. IV e V J.) e POxy 3004. Nell'ambito di un lavoro che sto conducendo sulla valutazione dell'aspetto testuale e metrico delle Sentenze nei diversi canali tradizio-

! Si tratta soprattutto dei lavori di W. Meyer e Th. Kock: cfr. W. MEYER, Die Urbinatische Sammlung von Spruchversen des Menander, Euripides und Anderer, «ABAW», XV.2, 1880, pp. 399-449; TH. ΚΟΟΚ, Die Sammlungen Menandrischer Spruchverse, «RhM»,

XLI, 1886, pp. 85-117.

2 Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, ed. 5, JAKEL, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»).

—21 —

MARIA CHIARA MARTINELLI

nali, intendo qui fare alcune considerazioni sull’apporto dei papiri a questa problematica, proponendo una riflessione sulle principali linee di ricerca che questi nuovi testimoni inducono a seguire e una di-

scussione su alcuni casi particolari. Mi sembra giusto prendere le mosse da uno dei principali contributi sull’argomento, quello di Theodor Kock: è significativo come molte proposte dello studioso siano state, insieme a quelle di Meyer,

confermate dal materiale più recente. Kock era partito, sulla base della raccolta di Meineke? e dei testi recentemente allora pubblicati da Meyer (le sentenze del codice Vat. Urb. gr. 95), dalla definizione del materiale riconducibile direttamente, per espressa testimonianza delle fonti, a Menandro e ad altri autori comici e tragici, passando quindi alla segnalazione di una quarantina di sentenze da togliere alla Commedia per motivi linguistici e di una ventina da assegnare ad epoca cristiana per il loro contenuto — alle quali a suo parere andavano aggiunti i versi con le più accese invet-

tive contro le donne — e anche di una decina di sentenze fortemente sospette di essere prosastiche. Non molto spazio era dedicato dallo studioso alla segnalazione di una serie di monostici che presentano, secondo le sue parole, violazioni dell’uso metrico della Commedia (soprattutto casi di mancata attuazione di correptio Attica, e sequenze in-

terpretabili come veri e propri versi politici). L'assenza di una discussione in questo campo dipende dal fatto che Kock considerava la problematica metrica come una materia troppo aperta a scelte soggettive. To credo invece che, come in generale questa parte del lavoro dello studioso tedesco vada ulteriormente sviluppata alla luce dell’analisi lessicale, linguistica e contenutistica, così pure non sia il caso di lasciarsi scoraggiare dalla presunta soggettività della metrica. In particolare, sia nella valutazione

dell’origine del testo, sia nel cercare di

stabilire se eventuali divergenze da fonti note siano varianti di trasmissione o frutto di rielaborazione (che, come si è visto, ci è direttamente documentata dai papiri), bisognerà tenere conto dei diversi fenomeni, prosodici e metrici, che il trimetro presenta a partire dall’età ellenistica, in coincidenza con cambiamenti di gusto e soprattutto con la mutata sensibilità prosodica che avrà come risultato la formazione del dodecasillabo bizantino.

3 Fragmenta Comicorum

Graecorum, ed. A. MEINEKE, vol. IV, Berolini, Reimer 1841,

pp. 340-374 (ed. mai.); Fragmenta Comicorum Graecorum, ed. A. MEINEKE, vol. II, Berolini, Reimer 1847, pp. 1041-1066 (ed. min.). 4 Cfr. Kock, Sammlungen,

cit., p. 99.

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ESTRAZIONE E RIELABORAZIONE

DEI MONOSTICI

Considerazioni contenutistiche, linguistiche e metriche devono guidare nella valutazione, proposta da Kock, sulle orme di Meyer,’ delle rielaborazioni, sicure o presunte, di testi noti (o anche solo ipotizzabili come tali) dovute alla necessità di ottenere la forma del monostico (anche se non manca qualche distico) partendo da testi più lunghi (ad esempio serie di più trimetri, o singoli tetrametri trocaici) o più brevi (ad esempio espressioni proverbiali). Considerazioni analoghe entrano anche nella valutazione dei monostici che sembrano presentarsi come veri e propri doppioni (cioè casi, talvolta conservati anche da un medesimo codice, di sentenze simili con singole parti diverse). Kock® e Meyer” avevano a questo proposito già segnalato il problema della corretta valutazione di quali siano vere e proprie varianti della tradizione da inserire solo in apparato e quali costituiscano un momento autonomo della storia delle singole sentenze corrispondente alla volontà da parte dei rielaboratori di proporre cambiamenti di origine più complessa. A questo proposito bisogna anche confrontarsi con la proposta di Kock® che molte sentenze,

che si presentano

come doppioni, nascano

dalla necessità,

imposta dalla presentazione dei monostici in ordine alfabetico, di avere un numero accettabile di sentenze per ogni lettera (di qui, ad esempio, sostituzioni della parola iniziale o cambiamenti nell’ordine delle parole, che sembrano ricevere nuove conferme dai papiri), o, più in generale, dall’esigenza di aumentare il numero di versi di una singola raccolta. Per quanto riguarda il modo di lavorare dei rielaboratori (sia nei confronti dell’ ‘originale’ tragico o comico, sia nei confronti di altre sentenze), i papiri hanno fornito ulteriori esempi del procedimento, particolarmente messo in rilievo da Kock a proposito dei ‘doppioni’, in cui lo stesso verso appare riutilizzato modificando la sua parte iniziale, e anche di quello ‘opposto’ (riutilizzazione dello stesso inizio).!° In molti casi questi procedimenti sembrano da mettere in relazione con la schiacciante preponderanza, nei Monostici, di versi dotati di una delle due regolari cesure, di contro

5 Cfr. Kock, Sammlungen,

all’uso molto libero dei co-

cit., pp. 104 sg., 107 sg.; MEYER, Urbinatische, cit., pp.

406 sg.; 410 sg.

6 Cfr. Kock, Sammlungen, cit., p. 109 sgg. ? Cfr. MEYER, Urbinatische, cit., p. 412 sgg. 8 Cfr. Kock, Sammlungen, cit., p. 113. ? Cfr. Kock, Sammlungen, cit., p. 114. 10 Vari esempi di entrambi i procedimenti si trovano in KOCK, Sammlungen,

104 sgg.; MEYER, Urbinatische, cit., p. 415 sgg.

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cit., p.

MARIA CHIARA MARTINELLI

mici del V sec. a.C. La scelta, anche da modelli più antichi, di versi con cesura, cioè, oltre a inserirsi in quello che sembra essere, anche

per il trimetro di tipo comico, il gusto dell’epoca imperiale,!! ha certo a che fare con la facilità di memorizzare tali versi nelle loro parti più significative e poter quindi anche riutilizzarli per rielaborazioni. Altra questione da valutare è la nascita di nuove sentenze per semplificazione metrica. Era già stata segnalata,'? a proposito della tradi-

zione medioevale, la possibile presenza di trasformazioni volte a eliminare soluzioni o di corruzioni che comportano lo stesso risultato, dato che veniva messo in diretto collegamento con il nuovo modo di

comporre bizantino per dodecasillabi: alcune volte la testimonianza dei papiri sembra offrire esempi dello stato di una sentenza prece-

dente la semplificazione metrica; ma bisognerà considerare con attenzione se anche nei papiri si possa rinvenire la tendenza ad una tale semplificazione. È poi da valutare attentamente il problema delle vere e proprie sentenze ametriche attestate dalla tradizione medioevale, distinguendo, come ha suggerito Grilli, quelle che possono essere riportate alla misura del trimetro con semplici interventi e quelle che sembrano inevitabilmente prosastiche,!4 e, aggiungerei, quelle che potrebbero essere rielaborazioni ametriche o difettose di altro materiale poetico, col verificare anche nei papiri la possibilità di inserimenti nel contesto dei monostici di sentenze in prosa o di sentenze con difetti prosodici e metrici. A questo proposito va verificato il vario grado di metricità dei testi offerti dai papiri e dai codici, alla ricerca della fonte dei vari tipi di errore o peculiarità metriche (in particolare le già segnalate notevole regolarità dodecasillabica e altissima frequenza di incisione regolare) e prosodiche (tra le quali emerge il ricorrere di quelle che sembrano false quantità o scansioni ‘dicrone’” e inoltre la presenza di mancata correptio Attica in posizioni estranee non solo al trimetro

1! Cfr. M.L. WEST, Greek Metre, Oxford, Oxford University Press 1982, p. 183.

12 Cfr. MEYER, Urbinatische, cit., p. 420 sgg. 3 Cfr. A. GRILLI, Sulle Sententiae Menandri, «Paideia», XXIV, 1969, pp. 185-194: 191.

4 Su cui, come si è detto sopra, si era già espresso KOCK, Sammlungen, cit., pp. 90-91. 15 Sulla problematica della perdita della distinzione quantitativa nello sviluppo della lingua greca cfr. in generale SCHWYZER, GG, I, p. 392 sgg. Per esempi di ‘false quantità’ in vari generi poetici di età imperiale cfr. WEST, Metre, cit., pp. 166, 169, 174, 184; ID., Tragica V, «BICS», XXVIII, 1981, pp. 61-78: 75 e 78 nota 45. Per esempi in un poeta

colto come Gregorio di Nazianzo si veda, con particolare riferimento alla sua produzione giambica, C.U. CrIMI, I problema delle «false quantities» di Gregorio Nazianzeno alla luce della tradizione manoscritta di un carme: I, 2, 10 «De Virtute», «SicGymn», XXV,

1972,

pp. 1-26; Gregor von Nazianz, De vita sua. Einleitung, Text, Ubersetzung, Kommentar, herausgegeben, eingeleitet und erklärt von CHR. JUNGCK, Heidelberg, Winter 1974

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ESTRAZIONE E RIELABORAZIONE DEI MONOSTICI

comico ma anche a quello tragico), e di una loro possibile interpretazione e collocazione cronologica. Vorrei ora trattare due problemi legati in vario modo alle tematiche sopra proposte. 1. OPetrie 449! in r 4 ha: θεον μεν nyov πρί La tradizione medioevale conosce una sentenza dallo stesso inizio: Mon. 352 (6, secondo Jäkel: in realtà la sentenza è presente solo in K e U)” θεὸν μὲν ἡγοῦ, δεύτερον δὲ τὴν τύχην. Co Questo monostico potrebbe essere, come già suggerito, una rielaborazione di un testo euripideo, Εἰ, 890,19 che conviene vedere nel suo contesto:

{«Wissenschaftliche Kommentare zu griechischen und lateinischen Schriftstellern»),p. 34 sgg.; Gregor von Nazianz, Über die Bischöfe (Carmen 2, 1, 12). Einleitung, Text, Über. setzung, Kommentar von B. MEIER, Paderborn-München-Wien-Zürich, Schöningh 1989 («Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums, Neue Folge 2. Reihe: Forschungen zu Gregor von Nazianz», 7), p. 18 sgg.; C. CRIMI, in Gregorio Nazianzeno, Sulla virtà. Carme giambico [I, 2, 10]. Introduzione, testo critico e traduzione di C. CRIMI, commento

di M. KERTSCH, appendici a cura di C. CRIMI e J. GUIRAU, Pisa, ETS 1995 («Poeti cristiani», 1), p. 104 sgg. 16 Si tratta di un documento,

databile al V/VI sec., la cui superficie convessa (recto)

era stata edita nel 1930 da J.G. Ταῖς (Greek Ostraca in the Bodleian Library at Oxford and Various Other Collections, I, London, The Egypt Exploration Society, p. 150), mentre la superficie concava fu letta molti anni dopo da E. Spinelli (cfr. E. SPINELLI, Sentenze menandree. OPetrie 449: letture nuove ed inedite, in AA.VV., Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta Philosophica, Firenze, Olschki 1988 («STCPF», 3), pp. 49-57 e tav. II). Sulla re-

cente rilettura e integrazione del documento con un altro frammento di ostracon conservato al Petrie Museum ad opera di M.S. Funghi, si veda intanto il contributo della medesima in questo volume, pp. 3-19 e soprattutto il lavoro di M.S. FUNGHI, M.C. MARTINELLI, C. RÖMER di prossima pubblicazione su «ZPE» 2003, con la riedizione di OPetrie 449 insieme all’ed. pr. di altri ostraca dello stesso museo. Per ulteriore bibliografia sul pezzo cfr. C. PERNIGOTTI, Raccolte e varietà redazionali nei papiri dei «Monostici di Menandro», in Papiri filosofici. Miscellanea di Studi III, Firenze, Olschki 2000 («STCPF», 10), pp. 171228: 174 nota 11. 17 Devo questa informazione, come le altre relative ai manoscritti medioevali, a Carlo

Pernigotti, che ha esaminato lo stato della tradizione manoscritta nella sua dissertazione di dottorato Tradizione gnomologica, morfologie e storia del testo delle «Menandri Sententiae». Con l’edizione critica della classe v, Tesi di Perfezionamento in Filologia Greca della Scuola Normale Superiore, Pisa, Anno Accademico 2001-2002.

18 Il confronto fra il Monostico medioevale e il testo di OPetrie 449 era stato proposto già da Jäkel (che stampa la parte allora nota dell’ostracon come Pap. X) negli apparati dei due passi. 19 Cfr. GRILLI, Sententiae, cit., p. 193; il confronto fra il verso euripideo e il testo di

Mon. 352 e anche di OPetrie 449r, 4, era stato già segnalato da Jäkel.

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MARIA CHIARA MARTINELLI

θεοὺς μὲν ἡγοῦ πρῶτον, Ἠλέκτρα, τύχης ἀρχηγέτας τῆσδ᾽, εἶτα κἄμ᾽ ἐπαίνεσον τὸν τῶν θεῶν τε τῆς τύχης θ᾽ ὑπηρέτην.

(890)

È molto probabile che anche l’ostracon Petrie conservasse un inizio θεὸν μὲν ἡγοῦ rp[@rov. Sembrerebbe dunque trattarsi di una rielaborazione ancora vicina al testo euripideo, con la sostituzione, non inconsueta, e presente già nel Mon. 352, del singolare al plurale per il nome della divinità. Ad un inizio simile aveva già pensato Spinelli,?° che in tal caso ipotizzava e.g. una integrazione del tipo θεὸν μὲν ἡγοῦ πρ[ῶτον, δεύτερον τύχην, o altra espressione simile, notando come però una ricostruzione del genere fosse «purtroppo impropo-

nibile [...] per motivi di spazio». Bisogna ora dire, a questo propo-

sito, che l’esatta determinazione dello spazio a disposizione risulta problematica, vista la presenza di vari fattori, quali la discontinuità

dell’area di scrittura dovuta al tipo di materiale utilizzato, l'ampiezza della lacuna, il tipo di scrittura, che fa riscontrare oscillazioni nella realizzazione delle lettere, e la difficoltà di ricostruire l’ampiezza dei righi precedenti, dove il testo a disposizione non permette di riconoscere sentenze note,?! anche se elementi di riferimento sono dati dalla presenza di testo sul verso e dalla necessità di avere un numero di sillabe sufficiente per la ricostruzione di un trimetro giambico. In questa situazione un testo dell’estensione di quello ipotizzato da Spinelli non può dunque dirsi troppo lungo. Suscita semmai perplessità il fatto che un trimetro come θεὸν μὲν ἡγοῦ πρῶτον, δεύτερον τύχην sia me-

tricamente difettoso, con una lunga a realizzare il settimo elemento: anche se casi del genere (la cui interpretazione è discussa: spondei in sede pari o casi di falsa quantità consistente nella scansione breve di sillaba chiusa con vocale breve) non sono assenti nella poesia tarda, anche colta,’ mi sembra poco prudente introdurne uno per congettura.

20 Cfr. SPINELLI, Sentenze, cit., p. 54.

21 Per ulteriori considerazioni riguardo alle caratteristiche di carattere papirologico rimando

alla nuova edizione, citata a nota 16.

2 Si vedano, ad esempio, i casi segnalati per Gregorio di Nazianzo da JUNGCK, De vita sua, cit., p. 35 sg. e nota 15; MEIER, Über die Bischöfe, cit., p. 20; CRIMI, Sulla Virtà, cit., p. 106; e, d’altra parte GDK XLII (Dioscoro di Afroditopoli, del VI sec.), 9, 12 (=

10, 12 Fournet). Per un caso del genere nei papiri dei Monostici si veda PCopt (per cui vd. oltre, nota 26), 67-68, dove si trova γαμεῖν o crevdov εἰς petavorav epyn, da intendere γαμεῖν ὁ σπεύδων εἰς μετάνοιαν ἔρχεται, a fronte del testo di Mon. 147 come riportato dalla tradizione medioevale (AKWA Γ) γαμεῖν ὁ μέλλων εἰς μετάνοιαν ἔρχεται;

il verso è citato anche da Stob. IV 22b, 51, come appartenente a Filemone (= fr. 167 K.A.), nella forma difettosa γαμεῖν ὃς ἐθέλει (M: θέλει A) εἰς μετάνοιαν ἔρχεται. Non

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ESTRAZIONE

E RIELABORAZIONE

DEI MONOSTICI

Metricamente corretto e ancora più vicino al testo euripideo sarebbe invece: θεὸν μὲν ἡγοῦ πρῶτον, εἶτα τὴν τύχην che presupporrebbe, fra l’altro, un tipo di rielaborazione in cui sarebbe riutilizzato anche 1’ eita? di El. 891. D’altra parte, trattandosi di una lacuna così ampia, non si può del tutto escludere una integrazione che rimanderebbe ad un altro filone

gnomico assai diffuso in cui alla venerazione per la divinità si fa seguire quella per i genitori: si vedano ad esempio Ps. Phocyl. 8 Derron (πρῶτα θεὸν τιμᾶν, μετέπειτα δὲ σεῖο yovfiac), Greg. Naz. Carr.

Mor. 32, 15 (= PG XXXVII

917, 6) Θεὸν φοβοῦ πρώτιστα καὶ γο-

veîg τίμα, e in particolare il Mon.

322

θεὸν προτίμα,

δεύτερον

δὲ

τοὺς γονεῖς, riportato anche nella tavola del Monastero di Epifanio” ar. 17? (e forse anche in PCopt?6 a rr. 170-171: 0]eov]| [ Selvrepov δῖ, dove però è possibile che fosse invece presente il Mon. 352 precedentemente

discusso).?

sembrano mancare, del resto, nello stesso ostracon Petrie sentenze che si presentano come

metricamente o prosodicamente difettose: cfr. in particolare v 5 sg., che discuterò più avanti; per altri casi rimando alla discussione nella nuova edizione citata a nota 16.

2 Per la costruzione πρῶτον μὲν ... εἶτα cfr. K.-G., II, p. 271 sg. e DENNISTON, GP, p. 376 sg. 24 Cfr. H.G. EVELYN WHITE in W.E. CRUM - H.G. EVELYN WHITE, The Monastery of Epiphanius at Thebes, II, New York, The Metropolitan Museum of Art Egyptian Expedition 1926 (rist. an. Milano, Cisalpino Goliardica 1977), pp. 135 e 320-321, nr. 615. Si

tratta di una tavola calcarea del VI/VII sec. d.C. Nell’edizione di Jäkel compare come Pap. XIII; nel catalogo di testi scolastici di R. Cribiore — cfr. Writing, Teachers, and Students in Graeco-Roman Egypt, Atlanta, Scholars Press 1996 («American Studies in Papyrology», 36) — ha il nr. 319. Per ulteriore bibliografia sul pezzo si veda PERNIGOTTI, Raccolte, cit., p. 174 nota 12. 25 Questo testimone è l’unico a riportare per il Monostico una forma metricamente corretta, di fronte a quelle dei manoscritti medioevali che attestano la sentenza nelle forme: θεὸν προτίμα, δεύτερον τοὺς γονεῖς AC, : θεὸν προτίμα, καὶ δεύτερον τοὺς γονεῖς BVP (θεὸν πρῶτον τίμα καὶ δεύτερον τοὺς γονεῖς Κ) : θεὸν προτίμα, δεύτερον δὲ τοὺς πατέ-

ρας R. La presenza del δέ sembra nota alla traduzione araba e forse a quella slava della sentenza: cfr. M. MORANI, La traduzione slava delle «Gnomai» di Menandro, Alessandria,

Edizioni dell'Orso 1996, p. 56 sg. (nr. 153). 26 Con questa sigla intendo il più esteso dei due testimoni che permettono di ricostruire la recensione greco-copta dei monostici, edita da D. HAGEDORN - M. WEBER, Die griechisch-koptische Rezension der Menandersentenzen, «ZPE», III, 1968, pp. 15-50: PVat(Sarti) + PInnsbrCopt 7, databile al VII sec. (l’altro è PLond VIII fol.la + 3b, per

il quale Hagedorn - Weber, Menandersentenzen, cit., p. 47, pensano ad una datazione precedente, VI o anche V sec.). Il testo greco di PVat(Sarti) era stampato da Jäkel come Pap. XIV. Per ulteriore bibliografia su questi documenti cfr. PERNIGOTTI, Raccolte, cit., p. 176 nota 15. 27 Cfr. HAGEDORN

i - WEBER, Menandersentenzen, cit., p. 41 sg.; manca in questo caso

la traduzione copta.



27 —

MARIA CHIARA MARTINELLI

In un filone di questo genere, potrebbe allora essere proponibile una ricostruzione del tipo: θεὸν μὲν ἡγοῦ πρῶτον εἶτα τοὺς γονεῖς, che tuttavia si discosterebbe maggiormente dal possibile modello euripideo. 2. Come testo del Mon. 455 (tramandato da KPV) Jakel scrive: λάλει tà μέτρια, μὴ λάλει «δ᾽», ἃ μή σε δεῖ,

segnalando in apparato solo di aver espunto un καί prima di μή e attribuendo a Thierfelder l’inserzione di δ᾽,

La situazione della tradizione manoscritta è in realtà la seguente: K P hanno il testo (metricamente scorretto) da cui Jäkel parte λάλει tà μέτρια καὶ μὴ λάλει ἃ μή σε δεῖ, V ha λάλει μέτρια καὶ μὴ λάλει ἃ un σε δεῖ, stampato da Meineke

come Mon. 328 e segnalato da Kock? come problematico: ha infatti un inopportuno iato. Alla testimonianza dei codici si aggiunge quella di diversi testimoni più antichi, che ha dato modo di riprendere la discussione. La tavola del Monastero di Epifanio (rr. 19-20) ha: λαλει ta nel con un inizio quindi uguale a quello di K e P. Il suo editore ricostruiva il testo come λάλει

{τὰ} μέτρια καὶ μὴ λάλει ἃ μή σε δεῖ

(dunque espungendo il τά, e ponendo lo iato), ed era in questo seguito da Lanowski;?? Jakel invece scrive il testo da lui accettato per il Mon. 455.

Discutendo le scelte di Jäkel, Grilli?° suggeriva, per la tabula Epiphania e per il Mon. 455, di conservare λάλει τὰ μέτρια καὶ μὴ λάλει ἃ μή σε (l’omissione di σε nel testo proposto dallo studioso deve essere una svista) δεῖ, con un improbabile «pirrichio in iato» (AdAei ἃ), e dunque dattilo in quarta sede. L’alabastro del Museo del Périgord inv. 2382,?! 1-2 ha: λαλεξι ta μετρα καὶ | un λαλει a μὴ ce 6,

28 Cfr. Kock, Sammlungen, cit., p. 99. 29 Cfr. G. LANOWSKI, De monostichis Menandri q. d. quaestiones selectae, «Eos», XLIV, 1950, pp. 35-74: 57.

30 Cfr. GRILLI, Sententiae, cit., p. 188. 31 Cfr. G. NACHTERGAEL, Une sentence de Ménandre. Exercice scolaire sur un fragment d’albätre provenant d’Hermoupolis, «CE», LXVI, fasc. 131-132, 1991, pp. 221-225; J.L.

FOURNET - M. PEZIN, Une inscription sur albätre ἃ Perigueux, «ZPE», XCI, 1992, pp. 103106. Si tratta di un frammento di alabastro in cui compare il testo del Mon. 455, vergato come modello da un maestro di scuola, a cui fa seguito, secondo un uso ben testimoniato

--28 —

ESTRAZIONE E RIELABORAZIONE

DEI MONOSTICI

Nachtergael stampa: λάλει τὰ μέτρα καὶ | μὴ λάλει ἃ μή σε δ[εῖ]. Fournet - Pezin scrivono, con una integrazione: λάλει tà μέτρ«ι»α Kali] | μὴ λάλει ἃ μή σε ὃς [1]. PCopt 186-187 ha: _ Jeqtpia” τοῦτο γα[ρ] | ίποιειν (vel λαλειν) ce δει].’ E verosimile che, come pensano i suoi editori, avesse anch’esso un

inizio λάλει tà μέτρια, e dopo la pentemimere inserisse quella che sembra essere una zeppa ‘didascalica’, anche se, data l’incertezza nella determinazione dell’estensione della lacuna, non si può escludere, sem-

pre con la stessa interpretazione, un inizio senza l’articolo, con misurazione lunga dello zota di μέτρια: per altre ‘false quantità’ nel pa-

piro si vedano i righi: 28-29 = Mon. 21 (ἀτυχής); 43-44 = Mon. 110 (τό); 104-105 = Mon. 207 (γεγωνός); 115-117 = Mon. 234 (Gviip? e ἀληθῆ); 139-140 = Mon. 255 (μεταβολάς). OPetrie 4497, 5 sg., secondo quanto aveva in parte letto Spinelli? e ha potuto recentemente verificare M. Serena Funghi, ha: τ Ia un λαλεῖ τ ul Anche se non si può escludere che l’ostracon, come il papiro copto, proseguisse in maniera diversa, l'ipotesi più economica è quella di supporre una fine del verso secondo il testo di Mon. 455. Spinelli? proponeva il testo (uguale a quello di V) λάλει μέτρια

nei testi scolastici (cfr. NACHTERGAEL, Sentence, cit., p. 223 nota 6; FOURNET - PEZIN, Ir-

scription, cit., p. 105 sg.), l'esortazione φιλοπόνει, inquadrata in una cornice. Sulla datazione del documento non c’è accordo tra gli studiosi: Nachtergael (cfr. Seztence, cit., p. 221 e nota 3) lo pone al IV sec. d.C. (nel catalogo dell’esposizione in cui era stato presentato per la prima volta — cfr. L’Egypte en Périgord. Dans les pas de Jean Clédat. Catalogue raisonné de l’exposition. Musée du Périgord, 16 mai-15 septembre 1991, Paris-Louvain 1991, p. 93, nr. 116 — si parlava di «époque copte»); R. Cribiore, nel cui catalogo (cfr. Writing, cit., p. 224) la tavola compare come nr. 220, ritiene più probabile una datazione più tarda; Fournet - Pezin (cfr. Inscription, cit., p. 103) hanno

proposto invece

una datazione al Il o al III secolo. La scrittura presenta in effetti delle caratteristiche di controversa interpretazione. 22 L’accento è, come altre volte nello stesso papiro (cfr. HAGEDORN nandersentenzen, cit., p. 25), collocato in maniera erronea.

3 La traduzione copta, secondo quanto riportano HAGEDORN

- WEBER,

Me-

- WEBER, Menander-

sentenzen, cit., p. 44, suona: «denn massvoll zu sprechen ist, was sich für dich ziemt»; a

proposito del testo greco i due studiosi notano: «die von uns angenommene Fassung des Pap. ist banal, doch kommt eine andere Rekonstruktion kaum in Frage». 34 Cfr. SPINELLI, Sentenze, cit., p. 55 sg. 3 Ad esempio con un finale τὰ μὴ καλά, per cui cfr. Eur. Hipp. 466, Hec. 1250, Or. 492, fr. 1128a, 1 N, in finale di trimetro. 36 Cfr. SPINELLI, Sentenze, cit., p. 56.

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MARIA CHIARA MARTINELLI

καὶ μὴ λάλει ἃ un σε δεῖ, espungendo il τ, in quanto — a meno di pensare, come si è detto, ad un diverso assetto testuale — privo di senso («non potendo essere inteso come prima lettera di un improponibile τά, né come τε enclitico, sottoposto ad elisione di fronte al relativo di»).

La testimonianza dell’ostracon Petrieè stata ritenuta da Fournet e Pezin particolarmente interessante per la storia di questa sentenza.

Secondo i due studiosi?” la presenza nell’ostracon (vero elemento di novità) del τ (a proposito del quale essi ribadiscono l’impossibilità di essere interpretato come te eliso o come prima lettera di un τά), po-

trebbe essere intesa come forma alterata di un è’, possibile spia, a sua volta, di un tentativo di ritrovare una coordinazione metricamente appropriata per il verso. Allora OPetrie 449 (che vede anche la presenza di καί) potrebbe essere un testimone ibrido di due stati del testo ‘venuti a collusione’: λάλει τὰ μέτρια καὶ μὴ λάλει ἃ μή σε δεῖ (testo già corrotto

in epoca antica e così giunto alla tradizione medioevale) e λάλει tà μέτρια, μὴ λάλει δ᾽ ἃ un σε δεῖ. Io credo che dall’esame del materiale elencato si possano fare ora le seguenti considerazioni: — la parte iniziale, con articolo, λάλει τὰ uérpra? è l’unica effettivamente attestata nella tradizione papiracea (in PCopt, anche ammettendo nella lacuna iniziale un testo quale λάλει μέτρια, esso sarebbe, comunque, metricamente equivalente a λάλει tà μέτρια: in ogni caso si arriverebbe infatti fino alla pentemimere); l’omissione dell’articolo è nota da V; - il testo della seconda parte καὶ μὴ λάλει ἃ μή σε δεῖ, l’unico conosciuto dalla tradizione medioevale, è testimoniato esplicitamente dall’alabastro perigordino e, per quanto riguarda il kai, da OPetrie 449.

Se dunque il verso si è trasmesso con l’inizio λάλει τὰ μέτρια (la presenza, all’inizio, dell’articolo τά sembra, fra l’altro, sintatticamente più ortodossa; quanto alla sua assenza in V, non sappiamo se essa sia da interpretare come un accidente di tradizione o come un tentativo di restituire un andamento metrico accettabile), si potrebbe pensare che il xai, pure unanimemente attestato, risalga ad una fase della tra-

37 Cfr. FOURNET - PEZIN, Inscription, cit., pp. 104-105.

38 La forma μέτρα dell’alabastro perigordino non si può interpretare, pace Nachtergael, Sentence, cit., p. 225, che come una alterazione di μέτρια.

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ESTRAZIONE E RIELABORAZIONE DEI MONOSTICI

smissione in cui un testo in forma trimetrica λάλει τὰ μέτρια, μὴ λά-

λει ἃ μή σε δεῖ sarebbe stato normalizzato sintatticamente, evitando l’asindeto, attraverso appunto l’inserzione di un kai, pur metricamente scorretta. Questa proposta presuppone dunque un monostico ‘metrico’, ma prosodicamente sciatto, visto lo iato di cui si è detto. Uno iato che forse nel testo offerto da OPetrie si è cercato di sanare sostituendo é con un dimostrativo td usato come pronome relativo, riprendendo forse, sia pure con una costruzione sintattica diversa, il testo dell’inizio del verso. Che il td fosse proprio di un originario testo da cui quello con & si sarebbe corrotto sembra poco verosimile: com'è noto l’uso, omerico, del dimostrativo per il relativo è attestato nella tragedia,’ dalla quale un testo come il nostro, sia per la presenza del verbo λαλεῖν, sia per la costruzione duramente asindetica, mi sembra difficile che derivi. Anche se il testo di cui ho appeno detto, λάλει tà μέτρια, μὴ λάλει ἃ μή σε δεῖ, potrebbe

derivare dalla corruzione di un λάλει τὰ

μέτρια, μὴ λάλει δ᾽ ἃ μή σε δεῖ, con caduta della particella connettiva, la storia particolare di queste sentenze e il confronto con alcuni altri Monostici mi induce a formulare un’altra possibilità. I Monostici in questione, variazioni dello stesso tema, presentano il finale ἢ λα-

λεῖν ἃ μὴ πρέπει. Si tratta: di Mon. 710 σιγᾶν ἄμεινον ἢ λαλεῖν ἃ μὴ πρέπει; di una sentenza che Jäkel presenta in apparato come variante di x del Mon. 306, ἡδὺ σιωπᾶν ἢ λαλεῖν è μὴ πρέπει; della sentenza che lo stesso editore presenta come variante di T del Mon. 409, κρεῖττον σιωπᾶν ἢ λαλεῖν ἃ μὴ πρέπει; ed infine della sentenza che nella stessa edizione teubneriana è presentata come variante,

39 Cfr. K.-G., I, p. 587 sg. 40 Questo testo, con un inizio difettoso sia dal punto di vista del senso che della me-

trica, è offerto da ACDFHBenVars

(B ha l’ulteriore variazione ἡδὺ σιωπᾶν ἢ λέγειν d-

μείνονα); Jikel per il Mon. 306 sceglie il testo di γ, ἢ δεῖ σιωπᾶν ἢ λέγειν ἀμείνονα e cita in apparato come ulteriore variante di IT’ οὐ δεῖ σιωπᾶν καὶ λαλεῖν ὅπου χρεών (in realtà I‘ presenta una sentenza di questa forma come distinta da ἢ δεῖ σιωπᾶν ἢ λέγειν ἀμείνονα).

4 Come testo di Mon. 409 Jäkel sceglie κρεῖττον σιωπᾶν ἐστιν ἢ λαλεῖν μάτην: questo verso viene citato da Stobeo (cfr. III 33, 7) come di Filonide (= Philon. II, fr. 2 K.-A.)

e in questa forma compare, nella tradizione dei Monostici, all’interno di'C, e dei manoscritti della seconda classe. Il testo di T potrebbe essere in realtà derivato, come aveva

suggerito L. STERNBACH, Menandrea, «Rozprawy i sprawozdania z posiedzen wydzialu filologicznego Akademii Umiejetnosci», XV, Krak6w 1891, p. 340 sg. nota 1, dalla conflazione del verso di Filonide con il testo, sopra riportato, di Mon. 710. Da notare come in

T il verso in questione faccia seguito a quello citato sopra a nota 40 (= Mon. 306 J.), ἢ δεῖ σιωπᾶν ἢ λέγειν ἀμείνονα,

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MARIA CHIARA MARTINELLI

metricamente difettosa all’inizio, del Mon. 521, νέον δεῖ σιγᾶν ἢ λαλεῖν ἃ μὴ πρέπει."

È possibile che, nell’ambito di una rielaborazione, un finale come

ἃ μή σε δεῖ (cfr. Eur. Ale. 63), adatto ad una sentenza espressa con

un imperativo λάλει che modificava un infinito λαλεῖν, sia stato ado-

perato a concludere un verso che allora nella sua nuova forma veniva a comportare uno iato. Come è stato fatto rilevare, lo iato compare più volte in «unskilled writers» a partire dall’età imperiale. Per quanto riguarda i monostici, i casi di iato non sono pochi e ce ne sono alcuni che mi sembrano particolarmente significativi. Per cominciare da quelli elencati da Fournet - Pezin,# vanno segnalati alcuni esempi non banali, in cui per evitare lo iato bisognerebbe inserire un γ᾽: Mon. 340 (A) θυσία μεγίστη τῷ θεῷ τὸ εὐσεβεῖν Mon. 336 (ABI) nella versione di ΑΒ, θνητὸς πεφυκὼς μὴ φρόνει ὑπέρθεα (il testo di F, μὴ dpovfig mi sembra frutto di un intervento _ correttivo), che potrebbe essere interpretata come una rielaborazione non del tutto riuscita di Demonax, TrGF 207 F 1 θνητοὶ γεγῶτες μὴ φρονεῖθ᾽ ὑπὲρ θεούς, e inoltre Mon. 498 (KU), derivato da Eur. Tro. 510 (μηδένα νομίζετ᾽ εὐτυχεῖν πρὶν dv θάνῃ), nella versione, difettosa anche dal punto di vista metrico, di K (μηδένα νόμιζε εὐτυχεῖν πρὶν θάνῃ), ma soprattutto nel testo di U (undéva κρῖνε εὐτυχῆ πρὶν ἢ θάνῃ), dove non credo si possa parlare di corruzione, ma di rielaborazione con ‘falsa quantità’ e con iato, forse tesa alla realizzazione di un verso di dodici sillabe. Oltre a tali casi si possono citare: Mon. 583 nel testo dei codici (A e T) ὃν γὰρ θεὸς φιλεῖ, ἀποθνήσκει νέος, ancora una rielaborazione, dodecasillabica e prosodi-

4 In questa forma il testo è riportato da ABC,DHVat (con δέ al posto di δεῖ in C, e Vat). A testo della sua edizione Jäkel stampa νέῳ δὲ σιγᾶν. μᾶλλον ἢ λαλεῖν πρέπει dir e 2 (che ha νέον), conosciuto nella forma νέῳ δὲ σιγᾶν ἢ λαλεῖν μᾶλλον πρέπει dalla

classe v e da BenVars (che hanno τό al posto di δέ). Per ulteriori varianti si veda l’apparato dell’edizione di v in PERNIGOTTI, Tradizione gnomologica, cit., sopra a nota 17, p. 251.

4 Cfr. WEST, Metre, cit., p. 164. Per non citare che qualche esempio di iato da composizioni in trimetri giambici, cfr. GVI 1374 («II Jh. n. Chr. oder später», Peek), 2 e 6;

GDK XLII (Dioscoro di Afroditopoli), 5, 56; 9, 10, 20; 10, 5 (= 18, 18; 10, 10, 20; 12, 5 Fournet). Lo iato, inoltre, non è estraneo in epoca tarda alle composizioni di poeti dotti quali, ad esempio, Gregorio di Nazianzo: per gli iati nelle sue composizioni giambiche cfr. JUNGCK, De vita sua, cit., p. 37 sg.; MEIER, Über die Bischöfe, cit., p. 22; CRIMI, Sulla virtà, cit., p. 103. 4 Cfr. FOURNET - PEZIN, Inscription, cit., p. 105 nota 9. 4 La sentenza compare anche in OPetrie 449», rr. 13-14, dove nel nuovo frammento

si legge una forma del verbo νομίζω, la cui parte finale si trova però in lacuna.

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32 —

ESTRAZIONE

E RIELABORAZIONE

DEI MONOSTICI

camente difettosa, di un testo drammatico, e precisamente del celebre verso che sappiamo essere dal Dis Exapaton menandreo: fr. 4 Sandbach ὃν oi θεοὶ φιλοῦσιν ἀποθνήσκει véoc;4 Mon. 179 (x Vat T) nel testo di x Vat, δίκαιος ἴσθι ἵνα δικαίων τύχῃς (forma dodecasillabica con ‘false quantitä’?) a fronte della forma δίκαιος ἴσθ᾽ iva kai δικαίων δὴ τύχῃς di F; Mon. 257 (£) εὑρεῖν τὸ δίκαιον πανταχοῦ οὐ ῥάδιον; e, particolarmente significativi, visto che lo iato della tradizione medioevale è condiviso da testimoni più antichi: Mon. 277 secondo il testo dei codici (ψ e T), ζῆν βουλόμενος μὴ πρᾶττε θανάτου ἄξια: il γ᾽ stampato senza ulteriori precisazioni da Jakel non compare nella tradizione medioevale e neppure in PCopt 149-150 e in-OMonEpiph 15-16; Mon. 212 (x ST Coll) ἐσθλῷ γὰρ ἀνδρὶ ἐσθλὰ καὶ διδοῖ θεός," così verosimilmente anche in PCopt 136-137 εοθλω yap avllöpı ecθλα] και SLıldoı 0 Hleo)c.*

Si può ricordare infine:

i

Mon. 517 νύμφη δ᾽ ἄπροικος οὐκ ἔχει παρρησίαν, dove PCopt 194-195 (νυμ[[φ]η anpoıkoc οὐκ [elxeı nappncıa) si accorda con AC,F KPV nell’omettere è’, conservato invece da BD WAT. Lo stesso iato è presente in OVindob Κ 674," 1-2 (la sentenza è presente anche in OMoneEpiph 21, ma la parte di testo interessata allo iato si trova in lacuna). i In conclusione, è interessante segnalare come nella storia di Mon. 455 (e anche di alcune altre fra le sentenze che abbiamo esaminato) sembrino operare due tendenze contrapposte, una verso la sciatteria metrico-prosodica, una verso il recupero della ‘correttezza’ in questo senso. Ed il caso è ugualmente interessante per la determinazione dei cri-

4 Non c’è ragione di restituire ai Monostici, come fa Jakel, il testo menandreo al plurale, visto che anche la traduzione slava attesta come propria della tradizione delle Menandri Sententiae la versione al singolare: cfr. MORANI, Traduzione, cit., p. 85 sg. (nr. 286).

41 Il testo è riportato in questa forma dalla maggior parte dei codici: γάρ è omesso da V e sostituito con δέ da K e Coll; καί è omesso da K, Coll e P; come finale di verso U presenta καὶ θεὸς νέμει, Β καὶ διδάγματα. 48 Cfr. HAGEDORN - WEBER, Menandersentenzen, cit., p. 40, che fanno notare la con-

gruenza dell’integrazione da loro proposta con lo spazio («die Lücke, in der ca. 10 Buchstaben gestanden haben können, reicht für die vorgeschlagene Ergänzung gerade aus»). Il testo del papiro presenta anche un ulteriore iato, forse seguito da sinizesi (o da un irregolare anapesto finale). 4 Si tratta di un altro testimone della tradizione greco-copta dei monostici risalente al VII sec. Per la bibliografia in proposito cfr. PERNIGOTTI, Raccolte, cit., p. 188 nota 125.

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MARIA CHIARA MARTINELLI

teri ecdotici con cui presentare il Mon. 455 in una edizione moderna dei Monostici medioevali. Pare più opportuno stampare il testo metricamente scorretto e prosodicamente sciatto che la tradizione medievale sembra aver ereditato da quella più antica a cui si riesce a risalire con certezza (λάλει τὰ μέτρια καὶ μὴ λάλει ἃ un σε δεῖ),

segnalandone la improprietà metrico-prosodica, e precisando poi in

apparato la divergenza (congettura?) di V; infine, dopo aver indicato la divergenza dell’ostracon Petrie (τά pro di) insieme a quella (μέτρα) dell’alabastro perigordino, e quella che sembra essere una riscrittura presentata dal papiro copto, proporre lo stadio della sentenza da cui il testo della paradosi, medioevale e non, potrebbe essere derivato: cioè, come si è visto, λάλει τὰ μέτρια, μὴ λάλει ἃ μή σε δεῖ.

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MARIA JAGODA LUZZATTO

SENTENZE

DI MENANDRO

E «VITA AESOPI»

Quello che si indica comunemente come Vita Aesopi o Romanzo di Esopo è un affascinante aggregato narrativo di fonti anche antichissime! per le quali abbiamo come unico ferzzinus ante un papito di Berlino del II secolo d.C.? Nell'ambito di questo composito edificio narrativo, eccelle per antichità la Storia di Ahigar} un testo sapienziale del Vicino Oriente di cui si interessarono già due fra i più

1 Cfr. la voce da me curata in Der Neue Pauly, Bd. I, Stuttgart-Weimar, Metzler, 1996,

coll. 359-360 e la bibliografia ivi citata. _ 2 PBerol 11628: si veda H. ZEITZ, Die Fragmente des Asopromans in Papyrushandschriften, Diss. Giessen 1935, pp. 11-14 e 35. Una riproduzione parziale del papiro in W. SCHUBART, Griechische Palaeograpbie, München, Beck 1925 (1966), Abb. 89.

35 Essa occupa i capp. 101-123 della Vita Aesopi. Non è ancora a tutt'oggi ben chiarito, in tutte le sue articolazioni, il rapporto tra le due principali recensioni della vita, rec. W e rec. G: è sicuro però, ed è ben stato ribadito recentemente da F. FERRARI, Romanzo di Esopo, Milano, Rizzoli 1997 («B.U.R.»), pp. 18-20, che il redattore della rec. G, come

dimostra il su citato PBerol 11628, ha operato delle pesanti modifiche di tipo ideologico su un testo preesistente che era sostanzialmente vicino a quello della rec. W: come si vedrà, la ricerca qui presentata apporta un altro tassello in questa direzione. Per la rec. G (cod. unicus G, il famoso ms. 397 della Pierpont Morgan Library di New York, databile

al sec. XI) si hanno oggi a disposizione tre edizioni, l’editio princeps di B.E. PERRY (in Aesopica, Urbana, University of Illinois Press 1952, pp. 35-77), tutt'ora assai utile, quella curata da M. PAPATHOMOPOULOS, Ὁ βίος τοῦ Aiodrov.'H παραλλαγὴ G, loannina, Ec-

dos. Panepistim. 1990 e quella su menzionata di F. FERRARI (corredata di traduzione e note di G. BONELLI e G. SANDROLINI). Per la rec.

W (rec. Westermanniana), articolata in

due rami (codd. MORN e codd. SBPTh) sono disponibili le edizioni recentissime di M. PAPATHOMOPOULOS,'O βίος τοῦ Αἰσώπου. Η παραλλαγὴ W, Athena, Ecd. Papadema 1999 e, limitatamente al ramo SBPTh (al quale si aggiunge il cod. A) quella di G.A. KARLA, Vita Aesopi, Wiesbaden, Reichert Verl. 2001

(«Serta Graeca»,

13). Non

si può tuttavia

fare a meno di consultare anche l’edizione della Vita W a cura di B.E. PERRY (in Aesopica, cit., pp. 81-107), dato che solo nell’ambito del corredo critico ivi aggiunto dall’editore (pp. 133-208) è possibile avere accesso alle lezioni di un codice celeberrimo, il Laur. Conv.

Soppr. 627 (W), testimone primario per il romanzo

greco antico, vergato da una

mano costantinopolitana, dotta e meticolosa, verso il 1260 0 poco dopo: si veda ora, per un’aggiornata bibliografia su questo codice, N. BIANCHI, Poliziano, Senofonte Efesio e il codice Laur. Conv. Soppr. 627, «QS», LV, 2002, pp. 183-184. È importante ricordare fin d’ora che sono variamente riferibili alla rec. G l’importantissimo POxy 3720 (III sec. d.C.)

MARIA JAGODA LUZZATTO

noti filosofi greci, Democrito‘ alla fine del V secolo a.C. e Teofrasto nel IV.’ Nella Vita Aesopi il famoso sapiente assiro viene chiamato Esopo e la drammatica vicenda del suo fallimento nell’educazione del figlio adottivo Nadan® diviene storia di Esopo e del suo figlio adottivo Ainos’ alla corte del fantomatico re Lykoros di Babilonia. Anche Esopo, come Ahigar, pur essendo uno dei più grandi sophoî, non riesce tuttavia a cambiare la natura reproba del figlio adottivo il quale, con una ingiusta e gravissima calunnia di alto tradimento, induce il re Lykoros a condannare a morte Esopo. La verità, tuttavia, col tempo viene fuori: il povero padre, riconosciuto innocente, viene liberato e reintegrato con tutti gli onori nella sua altissima carica. Il re vorrebbe condannare a morte il malvagio figlio adottivo, traditore del suo stesso

padre ma Esopo si oppone: il figlio gli venga consegnato e sarà lui, il padre sophos, a dargli la punizione che si merita. Segue a questo punto, sia nelle versioni orientali* di Ahigar (syr., arm., ar.), sia in

edito con eccellente commento

da M.W.

HASLAM e lo spezzone, contenente solo gli In-

segnamenti al figlio, tràdito dal cod. Vindob. Theol. gr. 128 (ff. 2291-2307) ed edito come $ 109a-110 dal Papathomopoulos nel volume del 1990 su cit. (pp. 149-151) e già da B.E. Perry nei su cit. Aesopica, pp. 69-70. Alla rec. G risale anche la selezione tipicamente bizantina di Praecepta Aesopi nel Paris. gr. 1166 (sec. XI), f. 308rv, edita dal Boissonade in An. Gr. I (1829), pp. 120-121 e nel cod. Heidelb. Pal. gr. 356, ff. 1490-1517, per cui vedi

Φιλοσόφων λόγοι, ed. E. SCHENKL, Progr. Wiener Akad. Gymn. 1888, 6 sgg. e R. FÜHRER, Zu P.Oxy. 3720 (Life of Aesop), «ZPE», LXVI,

1986, pp. 19-22: 20-21.

4 Per i dati e la discussione sulla vexatissima quaestio rimando al mio lavoro Grecia e Vicino Oriente: tracce della «Storia di Ahigar» nella cultura greca tra il VI e V secolo a.C., «QS», XXXVI, 1992, pp. 5-84. Cfr. anche Introduction è la littérature religieuse judeo-hellénistigue a cura di A.-M. DENIS - J.C. HAELEWICK, II, Turnhout, Brepols 2000, pp. 10191022.

3 Dei contenuti del suo ᾿Ακίχαρος (in un libro), menzionato da Diogene Laerzio nel noto pinax delle opere di Teofrasto (Diog. Laert. V 50), non sappiamo purtroppo niente. 6 Questo motivo, che costituisce il perno centrale di tutta la Storia di Ahigar, è con-

servato anche nella mutila versione aramaica di Elefantina (papiro del V sec. a.C.), cfr. il mio art. su cit. Grecia e Vicino Oriente, nota 11. La Storia di Abigar nella sua versione integrale (come dimostrano numerose tracce da essa lasciate nella cultura greca del V se-

colo a.C.) è conservata solo dalle versioni tardoantiche armena (arız.) e siriaca (syr.), vd. M.J. LUZZATTO, Ancora sulla «Storia di Abigar», «QS», XXXIX, 1994, pp. 253-277. ? Così nella rec. W (in ambedue i rami, MORN e SBPTh). Nella rec. G è diventato

Ἥλιος ma nell'ampio frammento della rec. G, contenente solo i Praecepta di Esopo al figlio, conservato nel su cit. cod. Vindob. theol. gr. 128, il nome è Λίνος. 8 Per i testi (in traduzione inglese) delle versioni siriaca (syr.), armena (arm.) e araba (ar.) della Storia di Abigar è tuttora molto usata l’edizione sinottica delle traduzioni a cura di F.C. CONYBEARE, J. RENDEL HARRIS, A. SMITH LEWIS pubblicata in The Apocrypha and Pseudoepigrapha of the Old Testament in English, a cura di R.H. CHARLES, II, Oxford, Oxf. Univ. Press, 1913, pp. 724-776. Importante la traduzione italiana del testo siriaco nel codice Cantabr. syr. Add. 2020 curata da F. PENNACCHIETTI, Storia e massime di Achicar, in Apocrifi dell'Antico Testamento, a cura di P. SACCHI, Torino, UTET

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1981, pp. 65-95.

SENTENZE

DI MENANDRO

E «VITA AESOPI»

quella greca, incastonata nella Vita Aesopi, una lunga serie di detti

dopo la quale il figlio adottivo trova la morte senza che alcuno lo uccida. Nelle versioni orientali in effetti il meschino traditore è costretto

ad ascoltare una lunga serie di minacciosi capi di accusa, incatenato

con catene di ferro del peso di venti talenti e dopo aver subito «mille colpi di frusta sulle spalle e mille e uno sui fianchi».? Alla fine dei detti muore all’improvviso, dopo essersi gonfiato come un otre.!° Nella versione greca al figlio non viene inflitta nessuna pena corporale. Sono i logoi stessi di Esopo padre e σοφός a fare la funzione dei colpi di frusta: eppure la serie dei detti nella versione greca non ha niente assolutamente di minatorio. Si tratta di una tipica raccolta di Paraineseis o Insegnamenti al figlio!! che, nelle versioni orientali (syr., arm., ar.) compare, ma nella prima parte della Storia di Abigar, dove ha il ruolo essenziale di sottolineare quanto alti e buoni ma inutili fossero gli Insegnamenti impartiti ad una natura irrimediabilmente stolta e malvagia. Il redattore greco ha chiaramente eliminato la serie dei terribili Capi di accusa con la truculenta scena della tortura dei mille colpi di frusta e del padre adirato: al suo posto ha sostituito una serie di Insegnamenti presupponendo che i Praecepta di un padre sophos come Esopo/Ahigar abbiano essi stessi la forza di mille colpi di frusta. Nella versione greca il giovane, διὰ λόγων nactıymdeig!? («frustato dalle parole» di Esopo), avverte un tale dolore ed un così forte senso di colpa da suicidarsi: nella rec. W buttandosi da un dirupo ? Ah. syr. 7, 25, Ah. arm. 7, 8. 10 M.W. Haslam, nella nota a POxy

3720, r. 99 (cfr. nota 3, supra) osserva giusta-

mente che questo tipo di morte «was evidently too bizarre to survive into the Aesop Life». 1! Come nella Storia di Ahigar gli Insegnamenti avevano lo scopo di formare un giovane destinato ad una sicura e brillante carriera nella corte assira, così nella versione greca

inserita nella Vita Aesopi troviamo una serie di Insegnamenti del tutto diversa perché adattata alle differenti esigenze della formazione di un giovane delle classi dirigenti greche. Massime di ascendenza delfica e massime socratiche sono miscelate in un sapiente e calibrato dosaggio e secondo un piano che trova il suo più vicino termine di paragone nelle finalità pratiche e concrete dell’Ad Demonicum di ambito isocrateo. 12 Così in V. Aes. W 110, 15 Papathom. Al di là di superficiali varianti morfologiche, la tipica espressione ricorre anche nella rec. G: si veda ad es. il POxy 3720, r. 99 λυπούμενος ἐπὶ τῷ ... διὰ λόγων μεμαστειγῶσθαι (sic); id. nel cod. Vindob. theol. gr. 128 (V. Aes. G 110). M.W. Haslam osserva che «the unusual ‘tongue-lashing’ metaphor probably owes its existence to the literal flogging of the Ahigar original» (comm. a POxy 3720, τ. 98 sg.).

13 Già B.E. Perry, in Aesopica (vd. nota 3, supra), p. 8 si era soffermato su questa anomalia della versione greca: «Prorsus mirum est quod statim post tam innocuam tamque communis

notae admonitionem,

Aenus adeo conscientiae suae angore cruciatur, adeo ‘ver-

bis verberatus’ esse dicitur [...], ut mortem sibi consciscat. Verberatus erat re vera Nadan, et verbis et verberibus; sed illa omnia hic pessum ierunt, relictis tamen vestigiis qui-

busdam satis apertis».

MARIA JAGODA LUZZATTO

(ἀποκρημνισάμενος) come il famoso Cleombroto di Ambracia dopo la lettura del Fedone,! nella rec. G lasciandosi morire di inedia, dποκαρτερήσας, secondo la tradizione del suicidio stoico degli Zenoni

e dei Cleanti ma anche dell’Apokarterön di Egesia di Cirene. Si tratta di due varianti di suicidio tanto tipiche dell’antica tradizione filosofica greca da essere ricordate ambedue da Cicerone in un noto passo delle Tusculanae.”” L'antico redattore greco, con le modifiche sostan-

ziali apportate alla scena della punizione del figlio, voleva chiaramente recare un messaggio pedagogico ben preciso: le Paraineseis di una sophia antica e tradizionale come quella greca, intrisa di massime delfiche e di principi socratici, non possono mai, in nessun caso, fallire, vanno inculcate e ripetute anche quando uno non è più un fanciullo da educare: è meglio infatti essere ὀψιμαθεῖς che ἀμαθεῖς, secondo

una nota massima socratica che compare anche fra gli Insegnamenti di Esopo/Ahigar al figlio.!6 Nell’ottica del redattore greco antico i precetti della sophia greca hanno e mantengono una tale forza che colui che li ha ascoltati da bambino li sentirà ricadere come metaforici

colpi di frusta su di sé ogni qual volta sbagli e quelle frustate potranno anche portarlo alla morte per il pentimento ed il dolore. Elemento pedagogico educativo chiave della scena di Esopo e Ainos è proprio il motivo della συνείδησις (conscientia),!” ripetuto prima degli Insegnamenti e dopo. Al re di Babilonia che vuol punire l’asebeia di Ainos nei riguardi del padre con una condanna a morte, Esopo chiede gli venga consegnato vivo: «Lo vedrai morto: ha già la morte in sé per il pentimento (ὑπὸ τῆς συνειδήσεως)»..8 Alla fine degli Irsegnamenti il figlio muore non solo «frustato dai logoi», ma anche ὑπὸ τῆς συνειδήσεως tpuybuevoc.!? Questo sottile messaggio educativo tutto greco trasmesso dagli Insegnamenti di Esopo non è stato finora studiato da nessuno né quanto alla forma né quanto al contenuto dei

14 Cfr. Call. Epigr. 23. 15 Tusc. Disp. I 84. 16 Sia nella rec. W che nella rec. G (cfr. ad es. il su citato POxy 3720, r. 75).

1 Per comprendere appieno il senso di questo termine bisogna evitare di accostarlo al significato del tutto diverso della μετάνοια neotestamentaria e cristiana. 18 Così nella rec. W 108, 5: τεθνεῶτα αὐτὸν ὄψει" εἰς ἑαυτὸν γὰρ ὑπὸ τῆς συνειδήσεως ἔχει τὸν θάνατον.

19 Ibid., 110, 15. È interessante notare che nella rec. G Esopo non prevede il suicidio del figlio, come nella rec. W: egli chiede al re di lasciarlo vivo perché da vivo sarà un vero e proprio «trofeo del pentimento». Questa espressione, presente anche nel POxy 3720 (rr. 13-14 τρόπαιον τῆς ἰδίας συνειδήσεως) dimostra quanto sul piano etico la rec. G sia stata rimaneggiata in una direzione più consona con ottiche ormai fortemente influenzate da istanze giudaico-cristiane o cristiane fout-court (sull’argomento, vd. infra).

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SENTENZE

DI MENANDRO E

logoi e non possiamo certamente in in tutti i dettagli: ci limiteremo a Quello che mi preme è far rilevare gar orientale che ritiene che, data la

«VITA AESOPI»

questo breve lavoro addentrarci cercare un sentiero percorribile. come, davanti all’ottica dell’ Ahinatura stolta del figlio, i suoi Ix-

segnamenti non avrebbero mai potuto essere efficaci?® e si trasforma

in un padre-giudice adirato?! che porta il figlio alla morte, il redattore greco ha conferito agli Insegnamenti della sophia greca la forza di un metodo educativo che non può mai fallire e che prima o poi ‘colpisce’ e convince. Un’ottica così fortemente ideologizzata della ραΐdeia greca e consapevolmente contrapposta a modelli educativi del Vicino Oriente implica a mio parere che dietro alla versione greca degli Insegnamenti di Ahigar (diventati Insegnamenti di Esopo) ci sia un redattore molto interessato ai problemi etico filosofici posti dal sistema pedagogico greco tradizionale. È ben difficile che i problemi di un confronto tra sistemi sapienziali differenti e tra differenti ottiche etico-filosofiche fossero estranei a quell’opera di Teofrasto, l’Akicharos della quale non sappiamo niente più del nome. Appare tuttavia ovvio che il famoso scolarca peripatetico non era certo interessato agli aspetti narratologici ed ai meccanismi romanzeschi dell’antica storia orientale, bensì al tipo di sophia ed al sistema etico ed educativo? da essa espresso: non sarà inutile ricordare che proprio in un'ottica comparativa delle morali della Grecia e degli altri popoli il suo predecessore Democrito si era interessato anch'egli alla storia del sapiente assiro. Chi ha inserito, in modo così sofisticato, la Storia di Ahigar nella Vita Aesopi, non può non aver tenuto conto dell’Akicharos di Teofrasto? e delle meditazioni assi vive e multiformi proprio nel IV

20 Si ricordi la suggestiva e colorita serie di zmpossibilia con la quale il vecchio Ahigar sottolinea questa ottica arcaica in syr. 2, 62 (trad. Penn., p. 74): «Figlio mio, se le acque si sostenessero senza la terra, se l'uccello volasse senza ali, se il corvo divenisse bianco come la neve e se l'amaro diventasse dolce come il miele, allora lo stolto diverrebbe sag-

gio». Un arcaico passo della silloge teognidea esprimeva lo stesso concetto, cfr. Theogn. 430-31

e quanto notavo in Grecia e Vicino Oriente (vd. nota 4, supra), 43. L’identifica-

zione, implicita nei Capi di accusa, fra uomo stolto e animale che non può mutare la sua natura, fu argomento che attirò l’attenzione del filosofo Democrito, cfr. Grecia e Vicino Oriente, cit., pp. 26-28.

21 Il motivo dell’ira è esplicitamente menzionato all’inizio dei Capi di accusa, quando Nadan, terrorizzato, chiede al padre: «Perché sei così adirato contro tuo figlio?» (Ah. syr., 8, 2, trad. Penn., p. 89). Identiche parole anche nelle versioni arzz. e ar. (cfr. ad loc. l’edizione sinottica cit. alla nota 8, supra).

22 Nel famoso pinax di opere di Teofrasto tramandatoci da Diogene Laerzio compaiono anche titoli assai significativi come Περὶ παίδων ἀγωγῆς (Diog. Laert. V 50) e Περὶ παιδείας ἢ περὶ ἀρετῶν ἢ περὶ σωφροσύνης (ibid.).

2. Cfr. Grecia e Vicino Oriente, cit. (nota 4, supra), pp. 42-44. 24 Cfr. nota 5, supra.

MARIA JAGODA

LUZZATTO

secolo a.C. sulla pedagogia, sulle modalità dei metodi educativi, sui

rapporti tra padri e figli e sulla validità delle antiche massime dei sapienti.?? Prendono luce in questa ottica alcuni frammenti delle ‘tragedie da leggere’? di Chaeremon, attivo attorno alla metà del IV secolo: essi hanno avuto tanto successo da essere citati, come le Sententiae

Menandri, di silloge in silloge, fino a Stobeo e si illuminano di luce chiara solo se visti nell’ottica di accese e coinvolgenti discussioni sulla

paideia quali quelle finora prospettate. È difficile leggere l’inizio degli Insegnamenti di Esopo (V. Aes. 109, 1) in ambedue le recensioni,” là dove il sophos rinfaccia al figlio di non avergli reso δικαίας χά-

pira,” cioè la gratitudine che avrebbe avuto il diritto di attendersi,

e non connetterlo con il motivo chiave espresso in un trimetro di Chaeremon (TrGF 71 F 33): γένοιτό μοι τὰς χάριτας ἀποδοῦναι πατρί. Lo stesso motivo della gratitudine dovuta dal figlio al padre per la paideia ricevuta si trova nell’antico frammento in trimetri di tipo menandreo copiato nel I sec. d.C., assieme a varie Sententiae Menandri, sul verso di un papiro documentario, il noto PVindob G 19999 B:? ἀνθ᾽ dv δικαίας χάριτας ἀποδώσω πάτερ.

2 Ricordo l’interesse per questi argomenti di due notissimi filosofi come Demetrio Falereo e Clearco di Soli, il primo anche fortemente incuriosito dalla sophia esopica arcaica (cfr. M.J. LUZZATTO, s.v. Fabel II in Der Neue Pauly, Bd. IV, Stuttgart-Weimar, Metzler 1998, col. 359 ed E. MATELLI, Gli Aesopica di Demetrio Falereo in Demetrius of Phalerum, eds. W.W. FORTENBAUGH - E. SCHÜTRUMPF, New Brunswick-London, Transaction

Publ. 2000 [«Rutgers Univ. Stud. in Class. Humanities», IX], pp. 413-447). Proprio per merito del peripatetico Clearco i precetti della sophia delfica erano arrivati fino ai confini con l'India, cfr. L. ROBERT, De Delphes ἃ l’Oxus. Inscriptions grecques nouvelles de la Bactriane, «CRAI»,

1968, pp. 416-457, ora in ID., Opera Minora Selecta, τ. V, Amsterdam,

Hakkert 1989, pp. 510-551. Lo studioso sottolinea giustamente lo scopo morale e patriottico di questa operazione di propaganda greca nel lontano Oriente (art. cit., pp. 535, 543, 549). Non è improbabile che nel suo perduto Περὶ παιδείας Clearco mettesse a con-

fronto con quella greca le culture ed i sistemi educativi delle popolazioni orientali, fino all’Indo, delle quali aveva conoscenza diretta e di prima mano (art. cit., pp. 541, 545-548). 26 Così le chiamava Aristotele, in Rbet. III 12, 1413b8.

2? Rec. Ge rec. W (escluso il ramo SBPTh che spesso omette particolari non strettamente necessari alla narrazione). 28 Cfr. e.g. cod. Vind. theol. gr. 128 (rec. G): ... τῶν ἐμῶν λόγων ... δι᾽ dv καὶ πρότερον παιδευθεὶς οὐ δικαίας por χάριτας ἀποδέδωκας.

29 Edito come fr. V dallo Jäkel nella sua edizione delle Sententiae Menandri, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»), p. 9. Si tratta del v. 9 in cui però lo Jäkel (vd. anche Menandersentezen: neue Lesungen der Papyri aus der Österreichischen Nationalbibliothek, «Eos», LKXIII, 1985, p. 250) lascia l’errato δικαίων del papiro: cfr. l’uso di ἀνθ᾽ ὧν, il senso ed il passo identico della Vita Aesopi.

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SENTENZE

DI MENANDRO

È difficile così non connettere

E «VITA AESOPI»

con discussioni vive attorno all’e-

poca in cui era attivo Chaeremon un altro suo frammento (TrGF 71 F 35): πρὸς υἱὸν ὀργὴν οὐκ ἔχει χρηστὸς πατήρ. Su questa base e non su altra il redattore anonimo ma estremamente dotto e consapevole della Vita Aesopi? ha eliminato i Capi di Accusa e le frustate dell’antico sapiente assiro per sostituirle con la moderazione e l’intellettualismo della paideia socratica greca. L'ira contro il colpevole non ha ruolo nell’ottica espressa da questo Ahigar grecizzato nei panni di Esopo. Il figlio ha infatti sbagliato perché non ha ancora imparato bene gli Insegnamenti avuti da giovinetto?! ed ha mancato quindi di dimostrare la dovuta riconoscenza al padre. Perciò Esopo glieli ripete per la seconda volta ora che è diventato adulto. E la γνῶσις, la conoscenza, che gli manca: quando l’avrà essa lo porterà di per se stessa al riconoscimento del suo errore, alla συνεἰδησις. E evidente a questo punto che non è un caso che le prime parole del mite sapiente Esopo poste in testa agli Insegnamenti della rec. W siano intrise della consapevolezza di quanto ciascun essere umano recalcitri davanti alla conoscenza (cfr. οὐ γινώσκομεν) dei propri personali errori: ἅπαντες ἐσμεν εἰς τὸ νουθετεῖν σοφοί αὐτοὶ δ᾽ ἁμαρτάνοντες οὐ γινώσκομεν.

Questo è un distico famoso entrato in tutte le principali sillogi di Sententiae Menandri (cfr. Sent. 57-58 Jakel) e, stando a Stobeo, un frammento da Euripide.” Il suo significato può essere banalizzato, 3° O solo della sezione proveniente dalla Storia di Ahigar nella Vita Aesopi: questa possibilità andrà sempre tenuta presente. 31 All’inizio di V. Aes.

103, sia nella rec. W, sia nella rec. G, c'è un cursorio ma ine-

quivocabile accenno all'educazione impartita da Esopo/Ahigar al figlio ancora bambino. I codd. MW della rec. W hanno un testo molto autorevole (προπαιϊδείαν καὶ πᾶσαν διδάξας σοφίαν) giustamente scelto da B.E. Perry nella sua edizione (cfr. Aesopica, cit. — nota 3, supra — p. 100 e appar. ad loc., p. 188). Questo breve ma significativo accenno, che nella versione greca originaria della Storia di Abigar doveva avere sviluppo molto maggiore, dimostra a mio parere che l’antico redattore greco aveva davanti a sé una Storia di Abigar strutturata come in syr., arm., ar., cioè con due lunghe serie di detti di Ahiqar, prima nella forma di Insegnamenti al figlio bambino, poi nella forma di Capi di Accusa del padre-giudice contro il figlio ormai adulto. 32 Nei codd. della rec. W il testo è approdato con incipit modificato in πάντες γὰρ éσμεν ... (vd. infra). 33 Diversamente dall’Ahigar giudice, Esopo con le forme ἐσμεν e γινώσκομεν giudica anche se stesso. 34 Cfr. Stob. III 23, 5, Eur. fr. 1042 TG.



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MARIA JAGODA LUZZATTO

come dimostra il kephalaion stobeano (περὶ φιλαυτίας): ciascuno vede gli errori degli altri, non i propri. Ma il contesto agonale e dialettico in cui è collocato nell’antica Comparatio Men.

et Phil. (rec. I, vv. 187-

188, p. 95 Jakel) che lo contrappone ad un distico messo in bocca a Menandro, tutto incentrato sulla πονηρία innata del νοῦς, dimostra che i due trimetri avevano in origine, come hanno senz’altro in testa ai Praecepta Aesopi, una valenza filosofica ben più profonda. La breve serie di Menandri Sententiae che apre la predica di Esopo al figlio nella rec. W contiene in effetti tutti versi di forte spessore etico filo-

sofico. Nei codici della rec. W?6 ci sono in questo punto, come purtroppo in tutta la sezione degli Insegnamenti di Esopo, ampie e profonde corruttele, talora anche trasposizioni ed interpolazioni, ma non tali da non permettere di individuare con facilità e sicurezza il numero ed il tenore delle Sententiae in trimetri originarie.” Alcuni versi . sono rimasti integri, tutti sono perfettamente riconoscibili e tutti, per un totale di sei Sententiae (la prima distica, le altre monostiche) iniziano con la lettera alpha. Il che forse non è un caso, dato che inizia con alpha il nome del presunto auctor di questa antica minisilloge, Αἴσωπος. Per comodità del lettore elenco qui gli incipit dei singoli versi nell’ordine in cui sono dati da tutti i codici (aggiungo anche una selettiva concordanza con le sillogi di Sententiae Menandri sia antiche, sia bizantine): ἅπαντες ἐσμεν

... (Men. Sent. 57-58, Comp.

Men.

et Phil.

I 187-188).

ἄνθρωπος dv ... (Men. Sent. 10, POxy 3006, τ. 4).?? ἄνθρωπον ὄντα ... (Men. Sent. 1). ἄγει τὸ θεῖον

... (Men. Sent. 16, POxy 3006, r. 17).

ἄδικον τὸ λυπεῖν ... (Men. Sent. 11, POxy 3006, r. 14). ἀνδρὸς tà προσπίπτοντα ... (Men. Sent. 15, POxy 3006, r. 7).

3 Cfr. v. 188: ... νόον φέροντα κρυπτὴν ἔνδοθεν πονηρίαν. 36 MRN+SBP+W, vd. nota 3, supra.

3 Oltre alle edizioni citate alla nota 3, supra, limitatamente agli Insegnamenti di Esopo al figlio si può anche far uso della utile riedizione da parte di S. Jäkel in appendice a Menandri Sententiae, cit., pp. 132-136 (= App. 13). 38 Le parole che seguono questo verso nei codd. MRNW (non in SBP) della rec. W (ai ταύτης γὰρ δόσεις οὐκ εἰσὶν ἔμμονοι), assenti nelle fonti su citate e soprattutto in Stob. III 22, 25 (cfr. l'edizione del frammento da parte di B. Snell in TrGF 210 F 1 e la

sua nota ad loc.) sembrano essere l’aggiunta (già prebizantina, visto il degrado a pura prosa del trimetro originario, cfr. Snell, zbid.), di chi non ha capito la valenza generale di quel Monostico nell’ambito dei Praecepta Aesopi: il passo di Seneca che vedremo fra poco conferma questo parere.



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SENTENZE DI MENANDRO

E «VITA AESOPI»

Si noti che quest'ordine prevede che per il lettore fosse evidenziata, forse anche graficamente, solo la prima lettera. Si tratta quindi di un ordine alfabetico antico, sicuramente prebizantino, per il quale abbiamo ad es. un sicuro riscontro proprio nel su citato POxy 3006: in esso tutti i Monostici,

come

nota l’editore P.J. Parsons,

sono se-

gnalati da «large pointed initial alphas».?? Tra queste antiche gromai menandree ne campeggiano due (nrr. 2 e 3, supra), strettamente collegate tra di loro da un messaggio eticofilosofico simile e da un simile inizio: ἄνθρωπος dv μέμνησο τῆς κοινῆς τύχης. ἄνθρωπον ὄντα δεῖ φρονεῖν ἀνθρώπινα. Abbiamo appena visto che questo tipo di incipit è ben attestato nelle raccolte alfabetiche di Monostici, non solo di età bizantina ma anche già in età imperiale, come dimostra il notissimo POxy 3006 del III secolo d.C. dove le raccolte alfabetiche più tarde sono in parte preformate.*' Il secondo Monostico, quasi sicuramente premenandreo,‘ era a tal punto noto come famosa parainesis già nel IV secolo a.C. che Aristotele alla fine dell’Erica Nicomachea” sentiva il bisogno di contestarne la validità per affermare che l’uomo deve al contrario, per quanto è possibile, non guardare solo a ciò che è umano ma dθανατίζειν. L'etica laica e molto quotidiana espressa dalle paraineseis di Esopo al figlio non piacque neanche ad un bizantino come Massimo Planude,* che sullo scorcio del XIII secolo confezionò una for-

39 Si veda l’ottima riproduzione fotografica del papiro nello stesso volume 4 I codd. di ambedue i rami, eccetto R, hanno ridotto in prosa il trimetro ἄνθρωπος ὦν ἀνθρώπινα φρόνει. Ma si noti, ἀνθρώπινα (come in Arist. EN, non τἀνθρώπινα come nei codici delle Menandri Sententiae. Utile in proposito

(Tav. IV). originario: vd. infra), la nota di

A. KÖRTE, Zu Terenz Haut. 77, «Hermes», LXXVII, 1942, p. 102. 41 Cfr. M.S. FUNGHI - M.C. MARTINELLI, In margine a P. Oxy. 3004 e 3005, «SCO», XLVI, 1997, p. 428; C. PERNIGOTTI, Raccolte e varietà redazionali nei papiri dei «Monostici di Menandro», in Papiri Filosofici, Miscellanea di Studi III («STCPF», 10), Firenze,

Olschki 2000, pp. 204-205.

4 Il verso, edito come TrGF Adesp. F 76a da B. Snell, così com’era noto ad Aristotele, può essere anche stato riutilizzato e ‘citato’ da Menandro e forse, data la sua fama, non solo una volta: la nota discussione tra E. BICKEL («RhM», ΧΟ, 1941, p. 352; «RhM», XCI, 1942, pp. 186-191) ed A. KGRTE («Hermes», LXXVII, 1942, p. 102) non mi sem-

bra essenziale al nostro scopo. 4 Cfr. EN X 7, 1177b31: οὐ χρὴ δὲ κατὰ τοὺς παραινοῦντας ἀνθρώπινα φρονεῖν ἄνθρωπον ὄντα ... ἀλλ᾽ ἐφ᾽ ὅσον ἐνδέχεται ἀθανατίζειν.

4 Sulla paternità planudea di questa recensio della Vita (consultabile ancora solo nella vecchia edizione a cura di A. EBERHARD in Fabulae Romanenses Graece Conscriptae, Lip-

siae, Teubner 1872, pp. 226-305), cfr. B.E. PERRY, Studies in the Text History of the Life and Fables of Aesop, Haverford Pennsylv., Lancaster Press 1936, pp. 217-228. La pater-

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tunatissima Vita Aesopi seguendo abbastanza fedelmente un codice della rec. W.4 Come intellettuale della prima età paleologa che conosceva bene l’Ezica Nicomachea! e come monaco cristiano, Massimo

Planude ha eliminato tutti i Monostici iniziali dei Praecepta Aesopi avvertendone chiaramente il rapporto con una medesima ottica etico-filosofica: così come, del resto, ha eliminato accuratamente dall’episodio della morte del figlio dopo i Praecepta qualsiasi accenno alle sia pur metaforiche frustate ed al suicidio più o meno volontario.48 Ma soprattutto il Monostico ἄνθρωπον ὄντα δεῖ φρονεῖν ἀνθρώπινα è dispiaciuto al monaco: di ciò si può avere una conferma immediata osservando che anche nella sua raccolta autografa di Gnomai Monostichoi nel codice Marciano greco 481, capostipite della classe Γ delle Menandri Sententiae,®il verso, che già Aristotele rifiutava, non è presente: una riprova, ancora una volta, che molti di questi microtesti

erano letti dagli antichi, ma anche dai bizantini, con grande attenzione ai significati etico-culturali e anche Dietro alla secolare tradizione manoscritta una profonda e prolungata stratificazione presenza o l’assenza di una o più grozzai

filosofici da essi palesati. di queste brevi gnomai c’è di interessi culturali, e la a parità di silloge non è

nità planudea (nel senso che la Vita è stata composta da Planude) è comunque testimoniata dall’uso, nella titolatura della maggior parte dei codici, del verbo συγγράφειν (e.g. cod. Vat. gr. 949, f. 1: Biog Αἰσώπου του κυροῦ Μαξίμου τοῦ Πλανούδη).

... συγγραφεὶς παρὰ τοῦ σοφωτάτου Kai λογιωτά-

45 Indicata dagli studiosi anche come rec. Accursiana perchè fu Bonus Accursius il curatore della sua prima edizione a stampa (Milano, 1479): seguirono le edizioni di A. Manutius (Venezia, 1505) e del Frobenius a Basilea, nel 1518.

4 Sembra non gli fosse nota la rec. G. Come dimostra l’unico foglio sopravvissuto di una bella edizione in Perlschrift del sec. XI (Thessal. Bibl. Univ. 86, sigla Th, vd. nota

3, supra) solo la rec. W aveva una tradizione consolidata nelle biblioteche costantinopolitane. Per la rec. G abbiamo, nel cod. G della Pierpont Morgan Library (vd. nota 3, supra), solo una copia eccentrica nella quale la Vita Aesopi è preceduta, non a caso, da una parziale traduzione greca del famoso Kalila wa Dimna arabo: cfr. G. CAVALLO, La cultura italo-greca nella produzione libraria, in I Bizantini in Italia, Milano, Scheiwiller 1982,

p. 538.

47 L’Etica Nicomachea era notissima ed assai studiata nella prima età paleologa, cfr. C.N. CONSTANTINIDES, Higher Education in Byzantium in the XIIIth and Early XIVth Centuries (1204-ca.1310), Nicosia, Zavallis Press

1982, pp. 36, 125, 146 (Planude ad es. ne

cita due passi nelle sue Episzole). 4 Vd. supra. Cfr. V. Aes. Plan. p. 290, 8 Eberh. dove si dice che il figlio, colpito nell’anima (ψυχὴν) «come da una freccia», dopo non molti giorni «abbandonò la vita» (τὸν βίον μετήλλαξεν). 4 Cfr. la Praefatio di S. Jäkel, ed. cit., p. x. Sul famoso

autografo planudeo,

da lui

sottoscritto nel 1299, si veda la dettagliata descrizione con bibliografia in: A. TURYN, Dated Greek Manuscripts of the Thirteenth and Fourteentb Centuries in the Libraries of Italy, Urbana-Chicago-London, Univ. of Illin. Press 1972, pp. 90-96.

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SENTENZE

DI MENANDRO

E «VITA AESOPI»

quasi mai solo un fatto meccanico ma coinvolge gli usi, i costumi e le credenze etico-religiose di una data epoca, di precise aree geografiche, di precisi livelli sociali. A noi, come spesso succede, sono rimaste le magre ossa di una vita che è stata intensissima. Perciò mi sembra riduttivo quanto osservava B.E. Perry a proposito dell’omissione dei Monostici dalla Vita di Esopo composta da Planude: «the sayings of Menander were so popular in Byzantine times that it would not be very difficult, for a man so well educated [...] to recognize them [...] and to leave them out».5° Planude li ha eliminati per i loro contenuti e non per la loro forma o per supposte ragioni filologiche. Ma torniamo molti secoli indietro. Le Menandri Sententiae all’inizio dei Praecepta Aesopi nella rec. W sono totalmente assenti nella rec. G, anche nel prezioso testimone del III secolo d.C., il POxy 3720. Spero di non sbagliare se ritengo che, dato il peso ideologico conferito a questi microtesti filosofici in trimetri giambici da Aristotele in poi, è rischioso seguire l’opinione vulgata secondo la quale i Monostici che compaiono in testa ai Praecepta nella rec. W sono frutto di una banale interpolazione tarda, magari bizantina.?! Alla luce di quanto abbiamo visto finora potrebbe essere vero il contrario. Con la concezione su indicata degli Insegnamenti di un sopbos visti come fru-

state che colpiscono l’uditore (una concezione presente in ambedue le recensioni e quindi riferibile al redattore originario) appare in perfetta congruità la teoria didattica di antichi caposcuola dello stoicismo come Cleante. Secondo quanto afferma Seneca nella famosa epistola 108,72 Cleante sosteneva che i praecepta o paraineseis entrano più a fondo nell’animo di coloro che non sanno (in animum imperitorum) se è un φιλόσοφος a pronunciarli e se versus inseruntur: proprio come

succede nella rec. W. L’Esopo delle paraineseis al figlio reprobo era considerato uno dei grandi sophoi della Grecia antica e proprio per-

50 Cfr. B.E. PERRY, The Text Tradition of the Greek Life of Aesop, «TAPhA», LXIV, 1933, pp. 241-242.

51 Di «interpolations from Menander» parla a più riprese il Perry, cfr. The Text Tradition, cit., pp. 225 nota 36, 231, 239, 240. M.W.

Haslam, nel commento

a POxy 3720,

p. 152, afferma che «W has been invaded by gnomic monostichoi». Della stessa opinione anche G.A. Karla, op. cit. (nota 3, supra), 63 e nota 76 secondo la quale la presenza delle

Menandri Sententiae in ambedue i rami della rec.

W (MORN

e BPThSA) «als Ergebnis

einer Kontamination zu betrachten ist». 52 Ep. ad Luc. 108, 9. Cfr. K. HULSER, Die Fragmente zur Dialektik der Stoiker, Bd. 2, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog 1987, fr. 610. Che Cleante amasse confe-

zionare gromai in trimetri giambici e citare e modificare trimetri famosi è dimostrato da molti frammenti raccolti da von Arnim:

cfr. e.g. SVF I 560, 562

573, 583, 586, 607.

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(da Eur. Εἰ. 428), 570,

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LUZZATTO

ciò ha potuto rivestire i panni del sapiente Ahigar nella parte della Vita Aesopi che dalla Storia di Abigar appunto deriva. L'antico redattore greco dei Praecepta di Esopo/Ahigar sembra conoscere bene i meccanismi e gli espedienti della parenesi stoica sottolineati da Seneca: i praecepta colpiscono di meno (minus percutiunt) finché vengono detti in prosa (quarzdiu soluta oratione dicuntur), la sententia

costretta entro una precisa struttura metrica velut lacerto ... torquetur. Seneca, sempre influenzato dalla teorizzazione di Cleante, cita su-

bito dopo, come esempi di praecepta che hanno questo effetto immediato e dirompente, quelli che nel I sec. d.C. erano in ambito latino i più precisi corrispondenti dei microtesti del tipo dei Monostici di Menandro, due senari ‘monostici’ di Publilio Siro, a proposito dei

quali il filosofo latino ribadisce: magis tamen feriuntur animi cum carmina eiusmodi dicta sunt. Uno stesso tipo di metafora per indicare l’effetto sferzante del praeceptum breve, per lo più in forma di trimetro, è usato da Seneca anche in Ep. ad Luc. 94, 43: quis autem ne-

gabit feriri quibusdam praeceptis efficaciter etiam imperitissimos? Seguono il famoso μηδὲν ἄγαν delfico in traduzione latina e due senari (ambedue inizianti con la prima lettera dell’alfabeto)” del solito Publilio Siro. Seneca conclude con un’altra inconfondibile metafora: haec cum ictu quodam audimus. I termini usati da Seneca per indicare l’efficacia della parenesi in versi sono assai concreti: percutiunt, feriuntur, lacerto torquetur, cum ictu. Le ‘frustate’ degli Insegnamenti di Esopo/Ahigar riverberano una concezione identica, di chiara matrice stoica come ci dice Seneca stesso: i praecepta di Esopo nella rec. W

sono prosa nella quale versus inseruntur ed i versi sono del tipo delle

Sententiae Menandri proprio come negli esempi senecani. Tutto ciò non sembra aver niente a che fare con lo spirito di una interpolazione tarda o bizantina. Anzi, addentrandoci ancor più in quest'ottica di recupero di un antico modello non possiamo non accorgerci che c’è un altro passo di Seneca (Ep. ad Luc. 95, 53) che può essere accostato all’incipit dei Praecepta di Esopo nella rec. W, non solo per la cornice introduttiva e la forma in monostici menandrei, ma anche per i con-

tenuti. Discutendo, come in tutta l’epistola 95, sulla scelta dei metodi educativi più adeguati al conseguimento della sapientia, Seneca ritiene che ad esempio, per quel che riguarda la questione fondamentale del rapporto con gli altri uomini ($ 51: guomodo hominibus sit utendum),

5 Ep. ad Luc. 108, 10-11.

5 È un caso o anche questo era un elemento che serviva ad insegnare meglio agli iperitissimi?

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SENTENZE DI MENANDRO E «VITA AESOPI»

nessun insegnamento possa essere più efficace del famoso verso greco

‘tradotto’ da Terenzio (Haut. 77):? Ille versus et in pectore et in ore sit: homo sum, bumani nihil a me alienum puto. Habeamus in commune:

mus.

nati su-

56

È evidente che Seneca (influenzato probabilmente da testi riguardanti l’oikeimotg stoica) recupera nel verso latino un valore etico-filosofico universale assente nel contesto della commedia terenziana, ma avvertito già da Aristotele?” nell’anonimo trimetro greco che sta a monte della versione terenziana: questo monostico greco, come abbiamo visto poco fa, campeggia all’inizio degli Insegnamenti di Esopo nella rec. W (non nella rec. G) ed in quel contesto compare attorniato da termini e considerazioni filosofiche che hanno un perfetto corrispettivo nel passo senecano. Cito qui di seguito le parole più significative da V. Aes., rec. W, 109, 1-5:

ἐπάκουσον ... καὶ φύλαξον ἐν τῇ καρδίᾳ σου ... ἄνθρωπος dv μέμνησο τῆς κοινῆς τύχης ... ἄνθρωπον ὄντα δεῖ φρονεῖν ἀνθρώπινα. 58 Il passo di Seneca è purtroppo in parte corrotto ma tra quel mutilo in commune nati sumus (lezione di tutti i codd.) e la fine del monostico greco (τῆς κοινῆς τύχης) c'è, per dirla con un gioco di parole, molto in comune. Non è inoltre irrilevante notare che, come le Sententiae Menandri, così anche l’espressione φύλαξον ἐν τῇ καρδίᾳ si trova solo nella rec. W: dietro agli Insegnamenti di Esopo/Ahigar nella rec. W così come dietro al testo di Seneca sembra di scorgere le tracce inconfondibili di uno stesso famoso modello di parainesis filosofica greca che rispondeva, almeno in parte, a criteri didattici di antica matrice stoica. Anche il fatto che i Praecepta di Esopo nella rec. W comincino con massime di valore etico-filosofico generale e solo dopo i monostici iniziali continuino con una casistica dettagliata (rapporti con gli amici, con i nemici, con la moglie, con i servitori etc.) ricorda da vicino le posizioni assunte in proposito dallo scolarca

5 Per un commento al passo, cfr. L. A. Seneca, Lettere a Lucilio. Libro XV: le lettere 94 e 95, a cura di M. BELLINCIONI, Brescia, Paideia 1979, pp. 301-302. 56 Cito secondo l’edizione di L.D. REYNOLDS, Oxford, Oxford Univ. Press, 1965, II p. 395.

3 Cfr. nota 43, supra. 58 Come abbiamo visto, nella maggior parte dei codd. il trimetro originario è diventato pura prosa (cfr. nota 40, supra).



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stoico Cleante.?? Appare comunque evidente che gli orizzonti filosofici ai quali ci riconduce sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista contenutistico la prima parte degli Insegnazzenti di Esopo/Ahigar al figlio nella rec. W non è compatibile con l’ipotesi di una rielaborazione tarda o addirittura bizantina di quei materiali. Tutti i particolari finora menzionati mancano totalmente nella rec. G (compreso, ovviamente il POxy 3720 del III secolo d.C.). Credo che i confronti fatti autorizzino a prendere in seria considerazione l’ipotesi che nella rec. G, a partire almeno dal III secolo d.C., sia attestato un ramo della Vita Aesopi, caratterizzato dall’eliminazione volontaria e sistematica delle gnomzai monostiche tutte inizianti per alpha all’inizio della serie dei Praecepta. Una precisa spia e conferma di questa opzione ideologica è a mio parere il fatto che nella rec. G e nel papiro troviamo, al posto di una minisilloge di Sententiae Menandri tutte inizianti con la lettera alpha, un unico precetto in prosa iniziante con πρῶτον che non è altro che l'indicazione numerica alpha: napòrov8 μὲν θεὸν σέβου, βασιλέα φοβοῦ.5! Questo precetto ‘numero uno’ è, così formulato, tipico della grecità orientale giudaico-ellenistica e del primo cristianesimo, come dimostrano nell’arco di tre secoli due testimoni assai significativi, uno dal Vecchio Testamento greco ed uno dal Nuovo: cfr. LXX Pr 24, 21 φοβοῦ τὸν θεόν, υἱέ, καὶ βασιλέα (dove il precetto compare, come negli Insegnamenti di Esopo/Ahigar, all’interno di una serie sapienziale di Insegnamenti al figlio) e la prima epistola di Pietro scritta nella seconda metà del I secolo d.C. da Roma,

chiamata Babilonia,®

ai giudeo-cristiani dell'Asia minore (N.T. 1Pt 2, 17 τὸν θεὸν φοβεῖσθε, τὸν βασιλέα τιμᾶτε). Era inevitabile che un precetto così familiare all’antico cristianesimo penetrasse ben presto anche nella rec. W dove ha la forma: πρὸ πάντων σέβου τὸ θεῖον, βασιλέα τίμα. Ma che vi sia penetrato in un secondo tempo lo dimostrano tre fattori riferibili

59 Cfr. SVF I 582 (da Sen. Ep. ad Luc. 94, 4).

6 Così il POxy 3720, r. 37 ed il cod. Vind. theol. gr. 128; πρότερον in G, che per tutti i Praecepta ha un testo ridotto in condizioni disastrose (cfr. quanto nota ad loc. PERRY, Aesopica — cit. nota 3, supra — p. 69). 6 Sic POxy 3720, r. 38. G ed il cod. Vind. theol. gr. 128 hanno: βασιλέα τίμα.

621 confronti che seguono sono già dati da M.W. Haslam, nel suo commento a POxy

3720, r. 38 (p. 165).

6 Babilonia è chiamata la più grande metropoli dell'impero anche nella traduzione greca della Storia di Ahigar della quale i Praecepta Aesopi fanno parte, cfr. V. Aes. 101, sia rec. W che rec. G.

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SENTENZE DI MENANDRO E «VITA AESOPI»

a data molto alta, visto che sono presenti in tutto l’arco dei codici della rec. W:

1. La collocazione incongrua e senza senso tra i due famosi monostici ἄνθρωπος dv μέμνησο τῆς κοινῆς τύχης e ἄνθρωπον ὄντα δεῖ φρονεῖν ἀνθρώπινα. È facile supporre che un’eventuale originaria indicazione numerica alpha, premessa al precetto, abbia facilitato il suo inserimento tra una serie di Sententiae inizianti appunto per alpha. 2. Al momento in cui πρῶτον si è trovato ad essere l'incipit del terzo precetto, è stato cambiato in πρὸ πάντων, lezione di tutti i co-

dici della rec. W. 3. Dato che poco dopo compariva, in uno dei monostici, la forma τὸ θεῖον, la forma originaria τὸν θεόν è stata modificata per unificare lo stile. Ambienti scolastici del tardo neoplatonismo bizantino postgiustinianeo, già mezzo cristiano, sono ottimi candidati per tutte

queste modifiche. Questi piccoli ma chiari indizi dimostrano comunque ancora una volta quanto, in testi di questo spessore didattico e di questa diffusione geografica, varianti anche apparentemente minime siano dovute

spesso a volontari interventi di appropriazione di un dato testo da parte di specifiche aree culturali e specifiche comunità di fruitori. Cosi, per dare ancora un esempio di quanto il testo degli Insegnamenti di Esopo/Ahigar nella rec. G sia stato adattato ad istanze della grecità orientale giudaico-cristiana, vorrei richiamare l’attenzione sul precetto riguardante il rapporto con i nemici, gli ἐχθροί. La rec. G, nei suoi due testimoni principali, POxy 3720 e cod. G (esclusa la selezione di taglio monastico del cod. Vind. theol. gr. 128, vd. infra), riporta un precetto che per forma e contenuto corrisponde a quello testimoniato anche dalla rec. W. Il precetto riguardante i nemici è abbinato a quello riguardante gli amici ed ha una valenza cinicamente pratica: con i nemici sii terribile, con gli amici sii affabile e generoso, augurati che i nemici siano malati e poveri, così non potranno danneggiarti, e che gli amici stiano bene, così ti potranno essere utili.® Questa tipologia di precetto assai antica (amici/nemici)

era già tanto

universalmente diffusa a partire dall’età augustea, che nella Palestina

6 Si tratta della famosa Men. Sent. 16 Jäkel: ἄγει τὸ θεῖον τοὺς κακοὺς πρὸς τὴν δίκην. 65 Cfr. V. Aes. rec. G, 109, 8-10 Papath.; POxy 3720, rr. 50-55; V. Aes. rec. W,

109,

8-11 Papath. 6 Tra i praecepta delphica insegnati nella scuola greco-romana all’epoca del favolista Fedro, il tipico binomio amici/nemici è ben presente: cfr. Phaedr. App. 8, 10-11 hostem

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49—

MARIA JAGODA

LUZZATTO

dei primi decenni del I secolo Gesù di Nazareth, nei suoi Praecepta sulla montagna, poteva riportarla come tipica dei gentili, in quanto evidentemente insegnata ai loro figli nella scuola: cfr. N.T. Mt 5, 43.9 Al tipico binomio amici/nemici Gesù contrappone (ibid.) un unico precetto riguardante i nemici: ἀγαπᾶτε τοὺς ἐχθροὺς ὑμῶν. E a mio parere assai significativo che solo nella rec. G (POxy 3720, cod. G e, questa volta, anche il cod. Vind. theol. gr. 128) e non nella rec. W, compaia un secondo precetto sui nemici recante evidente traccia di un intervento cristiano: «nel caso in cui ti arrida la buona sorte, non mantenere rancore nei riguardi dei nemici ma piuttosto fai loro del bene (αὐτοὺς εὖ ποίει) perché si pentano (iva μεταμέλωνται) rendendosi conto di chi è l’uomo al quale hanno fatto ingiustizia (γνωρίtovteg οἷον ἄνδρα ἠδίκουν)». E difficile non scorgere dietro a que-

ste parole, dette dal magnanimo Esopo/Ahigar al figlio traditore, il ricordo del famoso episodio di Giuda Iscariota (N.T. Mt 27, 3) che si

pente (μεταμεληθείς, nel testo di Matteo) «per avere tradito sangue innocente». A mio parere chi ha inserito nella rec. G un precetto di questo genere, influenzato dal ‘Discorso della montagna’ e dall’episodio dell’Iscariota, ha anche eliminato le enunciazioni troppo laiche e soprattutto non ‘ortodosse’ delle Sententiae Menandri all’inizio dei Praecepta di Esopo, sostituendo a tutta la serie iniziante per alpha un unico precetto, il precetto numero uno, il precetto alpha. L'operazione di adattamento era già avvenuta nel III secolo d.C., come dimostra il POxy 3720. A questa ipotesi interpretativa sembra dare una utile conferma la storia del testo dei Praecepta Aesopi nell’arco di molti secoli: infatti mentre i Praecepta della rec. W non compaiono mai in nessun codice bizantino come sequenza isolata di Insegnamenti di un sophos (e quindi non sono mai stati proposti e fruiti come testo didattico autonomo),

la serie di Insegnamenti della rec. G e del POxy 3720 ha potuto godere di una lunga tradizione autonoma in sillogi sapienziali di chiara matrice monastica. Lo dimostrano sia il più volte citato cod. Vind. theol. gr. 128,6 sia la selezione, tipicamente bizantina e ricca di ri-

maneggiamenti, dei Φιλοσόφων λόγοι trasmessa dai codd. Paris. gr. 1166 e Heidelb. Pal. gr. 356:°° non è certo un caso che in queste se-

ferro pellite, amicos sublevate. Cfr. quanto osservavo in Fedro, un poeta tra favola e realtà, Torino, Paravia 67 ἠκούσατε 68 Cfr. nota 69 Cfr. nota

1976, pp. 212-214, 216. ὅτι ἐρρέθη: «ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σοῦ καὶ μισήσεις τὸν ἐχθρόν σου». 3, supra. 3, supra.

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SENTENZE DI MENANDRO E

lezioni di ambito ἐχθροί sia quello rec. G e rec. W e mio amici/nemici,

«VITA AESOPI»

monastico l’unico ed il solo precetto riguardante gli di matrice cristiana, su citato:?° l’altro, comune a strutturato alla maniera antica e ‘pagana’ sul binoè stato definitivamente eliminato. Così i Praecepta

di Esopo/Ahigar hanno subìto la loro ultima trasformazione e sono diventati un testo attuale per l’uomo bizantino. Vorrei concludere osservando che la genuinità delle Sententiae Menandri all’interno del testo dei Praecepta Aesopi nella rec. W può essere convalidata anche da un’ultima prova, questa volta di tipo formale. Se è vero infatti che i trimetri delle Sententiae sono assenti dalla rec. G, ci sono non solo nella rec. W ma anche nella rec. G altri frammenti metrici di identica matrice (cioè trimetri del tipo dei Monostici) che possono valere a dimostrare definitivamente che la prosa degli Insegnamenti di Esopo/Ahigar era fin dall’origine intercalata da gnomai in trimetro giambico. In un caso”! il testo del POxy 3720 del III secolo ci ha dato una autorevole conferma. Si tratta di due trimetri facilmente ricostruibili, inseriti nello stile di un antico prosimetrum in perfetta continuità con la prosa precedente:” τῇ γυναικί σου χρηστὰ ὁμίλει

ὡς ἀνδρὸς ἄλλου μὴ θέλῃ πεῖραν λαβεῖν"7" κοῦφον γάρ ἐστι πᾶν γυναικεῖον yEvoc.”* Che materiali di questo tipo siano effettivamente collegabili con antiche sillogi di γνῶμαι μονόστιχοι è stato recentemente confermato da una felice scoperta di M. Serena Funghi, che sul verso di un rotolo del III sec. d.C.,77 recante sul recto argomentazioni di ambito

τὸ Cfr. FOHRER, art. cit. (nota 3, supra), p. 21 e nota 11. 7 V. Aes. rec. W, 109, 11-12 Papath.; V. Aes. rec. G, 109a, rr. 10-11 Papath. (solo nel

cod. Vind. theol. gr. 128: in G c’è una grave lacuna); POxy 3720, rr. 57-58. 72 Si tratta di un uso assai antico. Ricordo un caso identico nel famoso frammento di un romanzo, il Iolaos, restituitoci dal POxy 3010 (ed. P.J. Parsons) del II sec. d.C. Anche in quel contesto i trimetri (una famosa gsome da Eur. Or. 1155-57) iniziano ex abrupto in perfetta continuità con la prosa precedente: cfr. Io/. 39-43 nell’edizione curata da S.A. STEPHENS - J.J. WINKLER in Ancient Greek Novels. The Fragments, Princeton, Princeton Univ. Press 1995, p. 370. Come si può vedere nella Tav. I di POxy, vol. XLII, nel frammento del romanzo non c'è alcuna segnalazione grafica del passaggio da prosa a versi, come non c’è nei codici dei Praecepta Aesopi. All’ottima trattazione sul genere del prosimetrum fatta dagli editori alle pp. 363-366, andrebbe aggiunta a pieno diritto anche questa parte sicuramente molto antica della Vita Aesopi. 3 Cfr. e.g. ὅπως ἀνδρὸς ἄλλου πεῖραν μὴ θέλῃ λαβεῖν cod. Vind. theol. gr. 128. 74 Cfr. e.g. κοῦφον γάρ ἐστι (ἐστι SBP, om. MRNW)

τὸ γυναικεῖον γένος rec. W.

75 Cfr. M.S. FUNGHI, PMilVogliano inv. 1241ν.: γνῶμαι μονόστιχοι, in Miscellanea Papyrologica, in occasione del bicentenario dell'edizione della Charta Borgiana, a cura di

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MARIA JAGODA LUZZATTO

stoico,’® ha individuato una serie di 22 Sententiae Menandri, tutte ini-

zianti per alpha, ναικεῖον γένος, stro (che inizia senza il timore γένος. Notiamo

una delle quali (v. 13) presenta proprio la finale yvL'aggettivo iniziale era sicuramente diverso dal nocon la lettera kappa)” ma possiamo anche supporre, di essere smentiti, che fosse poco lusinghiero per il del resto, senza troppa sorpresa, che una gnome mo-

nostica tipicamente misogina ha trovato, questa sì, tutti d’accordo, rec. G, rec. W, il POxy 3720 del III secolo ed anche il monaco Massimo Planude? dieci secoli dopo.

M. Capasso, G. MESSERI SAVORELLI, R. PINTAUDI, Firenze, Gonnelli 1990 («Papyrologica Florentina», XIX), I, pp. 181-188. 76 Cfr. l'edizione a cura di F. DECLEVA CAIZZI - M.S. FUNGHI in Aristoxenica, Me-

nandrea, Fragmenta Philosophica, («STCPF», 3), Firenze, Olschki 1988 («Studi» dell’Accad, Tosc. La Colombaria, XCI), pp. 85-124. 71 Cfr. il comm. e le ipotesi di FUNGHI, ad loc. e anche PERNIGOTTI, art. cit. (nota 41, supra), p. 196 e nota 174.

78 Cfr. V. Aes. Plan. p. 289, 5-6 Eberh.

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SILVIA AZZARÀ

FONTI E RIELABORAZIONE POETICA NEI «CARMINA MORALIA» DI GREGORIO DI NAZIANZO La letteratura sentenziosa occupa, come è noto, uno spazio di ri-

lievo nell’ambito della biblioteca classica di Gregorio di Nazianzo, ma le modalità con cui egli è venuto a contatto con questa tradizione e l’ha utilizzata e rielaborata non sono mai state indagate approfonditamente; il rapporto del Nazianzeno con questo genere di letteratura si sviluppa su due piani che, pur risalendo a una radice comune, restano comunque distinti fra loro: un primo piano consiste nella presenza di una tradizione di letteratura gnomica che Gregorio recepisce e utilizza (lo documentano le citazioni di sentenze trasmesse nelle diverse redazioni dei Monostici di Menandro e di versi tragici già circolanti nella forma di γνῶμαι autonome), l’altro si realizza invece nella

composizione da parte di Gregorio stesso di poesia gnomica. Nella produzione poetica di genere sentenzioso che possiamo attribuire con sicurezza a Gregorio si rileva, com'è ovvio, un patrimonio di temi e motivi comune a quello della tradizione gnomica, ma, pur nei ristretti confini determinati dal genere, è la rielaborazione che prevale sulla riproposizione di modelli tradizionali; se nella produzione poetica di Gregorio vi sono infatti momenti in cui si verificano interferenze testuali vere e proprie tra il piano della tradizione e quello della creazione (ne è un esempio il carme I 2, 10 che incastona nella sua struttura una serie di sentenze trasmesse per via gnomologica, cfr. infra), nei carmi di genere sentenzioso che vorrei qui prendere in esame (I 2, 31 e I 2, 33) Gregorio sembra scegliere piuttosto la strada dell’originalità. All’interno del gruppo di componimenti gnomici presenti nei Carmina Moralia, merita un discorso a sé il carme I 2, 32, attri-

buito a Gregorio, ma di cui si riconosce quasi unanimemente la non autenticità in seguito agli studi di Davids;! il carme presenta come ve-

! H.L. DAvIDS, De Gnomologieen van Sint Gregorius van Nazianze, Nijmegen-Utrecht, Dekker-Van de Vegt 1940, pp. 51-55. Il lavoro di Davids è attualmente l’unico studio mo-

SILVIA AZZARÀ

dremo caratteristiche molto distanti da quelle dei carmi gnomici au-

tentici: oltre ad inglobare un certo numero di trimetri trasmessi come

Monostici di Menandro sembra avere in generale un carattere più vicino a quello di una compilazione eterogenea che di un componimento poetico unitario; di che genere di compilazione si tratti è una

questione problematica, per la quale è molto difficile far riferimento

a precise tipologie di composizioni o raccolte, e ancor più difficile è pensare di poter arrivare a ricostruire la genesi di un testo che si configura come una sorta di ‘centone’ gnomico. Per comprendere meglio il rapporto tra il Gregorio poeta e la tradizione letteraria sentenziosa ci è utile ricordare un passo di un’epistola (51, 5, 4)? in cui l’autore, impegnato ad istruire Nicobulo riguardo alle peculiarità dello stile epistolare, afferma che la caratteristica della χάρις si ottiene con l’addolcire il discorso mediante l’inserimento di γνῶμαι, παροιμίαι, ἀποφθέγματα, così come anche di σκόμματα e

αἰνίγματα, purché di questi espedienti non si faccia un uso eccessivo.

Gregorio fa dunque esplicito riferimento, in modo quasi programmatico, a un certo tipo di letteratura nei suoi diversi aspetti e ‘sottogeneri’; il contesto programmatico di questa affermazione e il riferimento a tipologie codificate di letteratura sentenziosa ci portano a riflettere in primo luogo sulla natura retorica di questa prassi dell’inserimento di sentenze nella prosa e particolarmente nella prosa epistolare ma anche più direttamente riguardo al materiale da cui l’autore poteva attingere per estrarre le citazioni: dietro alle parole di

nografico dedicato ai carmi gnomici di Gregorio: tra i suoi meriti maggiori vi è proprio quello di un’analisi stilistica e metrica approfondita che porta a determinare in modo convincente la non autenticità di I 2, 32; necessita invece di integrazioni la sezione di com-

mento ai carmi: se infatti per alcuni dei versi commentati vengono offerti numerosi paralleli, di molti altri viene presentata

solo una

traduzione,

senza

che siano

corredati

di

commento o di riferimenti a passi paralleli; nella ricerca delle fonti si riscontra invece il limite di un eccessivo sbilanciamento nella direzione cinica. Sulla questione dell’autenticità di I 2, 32 cfr. anche H.M. WERHAN,

Dubia und Spuria unter den Gedichten Gregors

von Nazianz, in Studia Patristica, VII, Papers presented to the Fourth International Conference on Patristic Studies, Oxford

1963, Part I, ed. by F.L. Cross, Berlin, Akademie-

Verlag 1966 («T.U.», 92), pp. 337-349: 339-340. ? P. GALLAY (ed.), Saint-Grégoire de Nazianze. Lettres, τ. I, Paris, Les Belles Lettres 1964.

3 Il passo di Gregorio ha un parallelo molto preciso in un passo di un anonimo trattato retorico Περὶ τοῦ τελείου λόγου (Rh.Gr. INI 573, 9-10 Waltz): ἐν ταῖς ἐπιστολαῖς χρήσιμα tà γνωματεύματα τῶν σοφῶν, καὶ τὰ οὕτω καλούμενα ἀποφθέγματα, καὶ tà παροιμιώδη, πολλάκις καὶ τὰ μυθικώτερα καὶ γλυκύτερα καὶ τὰ ἀφελέστερα; il trattato è

posteriore a Gregorio, ma una simile prassi è radicata nell’uso delle scuole di retorica di età imperiale (cfr. R.F. HocK - E.N. O’ NEIL, The «Chreia» in Ancient Rbetoric. I. The Progymnasmata, Atlanta, Scholars Press 1986).

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FONTI E RIELABORAZIONE POETICA IN GREGORIO DI NAZIANZO

Gregorio non si dovrà certo immaginare soltanto un generico patrimonio sentenzioso e proverbiale universalmente diffuso, ma anche raccolte antologiche di sentenze, massime e proverbi che permettevano l'estrazione consapevole e mirata di particolari γνῶμαι a seconda del contesto in cui dovevano essere inserite: lo confermano le citazioni gnomiche presenti in Gregorio di cui vorrei dare qui alcuni esempi, tenendo conto che, soprattutto per quanto riguarda la produzione di orazioni e quella epistolare, moltissimo altro materiale sentenzioso potrebbe ancora essere individuato; non è mia intenzione qui presentare una raccolta completa di tutte le sentenze citate da Gregorio, ma solo segnalare alcuni casi particolarmente significativi, che possano esemplificare il rapporto dell’autore con le sue fonti. Pur senza voler ricorrere a classificazioni rigorose, possiamo distinguere in Gregorio alcune tipologie di citazioni, a cominciare dalla citazione puntuale di sentenze tradizionali: in Carm. I 2, 28, 145 ricorre la sentenza καλῶς πένεσθαι κρεῖσσον, ἢ πλουτεῖν κακῶς," confrontabile con Men. Mon. 421 Jäkel? (κρεῖττον υ : μᾶλλον cett. Stob. IV 33, 1) = Antiph. fr. 258 PCG II; il contesto della citazione, un carme dal titolo Κατὰ πλουτούντων, suggerisce l’ipotesi che Gregorio potesse avere a disposizione uno o più florilegi su un tema così sfruttato nella letteratura sentenziosa (cfr. infra su Carm. I 2, 10 e cfr. Stob. IV 33, σύγκρισις πενίας καὶ πλούτου); il verso immediatamente seguente la citazione del monostico è anch’esso una γνώμη, che Gregorio crea ‘parafrasando’ la sentenza appena citata: ταπεινὸν εἶναι μᾶλλον ἢ φυσώμεvov; che non si tratti di un verso tradizionale, ma originale, è suggerito dall’uso del verbo φυσάω, estraneo alla tradizione gnomica, comune invece in Gregorio (cfr. e.g. Carm. I 2, 10, 906, dove φυσώμενον è impiegato nella stessa sede metrica), ma soprattutto dal riferimento al motivo cristiano della ταπεινότης e della ταπεινοφροσύνῃ, di tradizione evangelica, e particolarmente caro a Gregorio stesso,’ oltre che, ovviamente, alla letteratura di ambito monastico.®

4 Per le citazioni dei Carmi di Gregorio presenti in questo contributo faccio riferimento al testo del Migne (PG 37), tranne che per il carme I 2, 10 di cui esiste un’edizione critica moderna (cfr. infra).

5 S. JAKEL (ed.), Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»). 6 Mt 11, 29 μάθετε ἀπ᾽ ἐμοῦ, ὅτι πραῦς εἰμι καὶ ταπεινὸς τῇ καρδίᾳ; Le 1, 52 καθεῖλεν δυνάστας ἀπὸ θρόνων καὶ ὕψωσεν ταπεινούς. 7 Un esempio tratto dai Carmina Moralia: I 2, 25, 450-51 οἷς δ᾽ ὀφρυοῦμαι, καὶ ταπεινοῦσθαι πλέον, 7 ἢ νῦν ἐπαίροιμ᾽ οὐ καλῶς φυσώμενος. 8 Moltissimi i passi di Evagrio su questo tema, tra i quali citiamo Aliae Sententiae 63,

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SILVIA AZZARÀ

Il brevissimo carme I 2, 39 Εἰς τύχην καὶ φρόνησιν è costruito intorno alla sentenza θέλω τύχης σταλαγμόν, ἢ φρενῶν πίθον, tràdita come monostico menandreo (Mon. 333) e tra i frammenti di Diogene di Sinope (fr. 2 TrGF; l’attribuzione a Diogene è in Theod. Hyrtac. Ep. 17), partendo dalla quale Gregorio crea una piccola σύγκρισις sui temi di τύχη e φρόνησις; l’ultimo verso del componimento è una γνώμη che Gregorio crea in risposta alla sentenza diogeniana, capovolgendone il punto di vista: ῥανὶς φρενῶν μοι μᾶλλον, ἢ βύθος τύχης; il fortunato motivo della contrapposizione τύχιγφρόνησις è utilizzato da Gregorio

anche

in Carm.

I 2, 33, 217: ἡγοῦ

τύχης φρόνησιν

d-

cparéortepav.!0 Una diversa forma di utilizzo di sentenze tradizionali consiste in

Gregorio nell’adattare le γνῶμαι al discorso in prosa: un esempio in Ep. 78, 4 μέγα ἐστὶ γυνὴ καὶ τίμιον θυγάτηρ, ἀλλ᾽ οὔπω ψυχῆς τιμιώτερον, che parafrasa Eur. Alc. 301 = Men. Mon. 843 ψυχῆς γὰρ οὐδέν ἐστι τιμιώτερον: non possiamo dire se Gregorio conoscesse il verso come menandreo o come euripideo, ma, senza per questo escludere che il poeta abbia letto integralmente l’A/cesti, la γνώμη poteva facilmente essere nota al Nazianzeno attraverso una raccolta di sentenze sul tema della vita e dell’anima (cfr. Stob. IV 52a, 14 περὶ ζωῆς: ἔπαινος ζωῆς). Analogamente Or. 4, 42 ἀλλ᾽ ὄντως ἀσυλλόγιστόν τι πρᾶγμα ἡ πονηρία καὶ οὐκ ἔστιν ᾧ τοὺς μοχθηροὺς ἄν τις βελτίους ποιήσειεν" riadatta il Mon. 36 ἀσυλλόγιστόν ἐστιν ἡ πονηρία (cfr. Stob. III 2 περὶ κακίας, 6). La rielaborazione di γνῶμαι tradizionali non avviene solo in funzione della prosa, ma anche in contesti poetici: in Carm. II 1, 11, 991

1 (PG 40, 1269 C) ἄρρηκτον ὅπλον ταπεινοφροσύνη ψυχῆς e dal trattato Περὶ τῶν ὀκτὼ πνευμάτων τῆς πονηρίας, PG 79, 1164, 2-3 ταπεινοφροσύνη δὲ ἄνθρωπον ἀνάγει εἰς οὐ-

ρανὸν e PG 79, 1164, 36-37 στέφανος δώματός ἐστιν ἡ ταπεινοφροσύνη. Nella tradizione gnomologica è interessante notare come il riferimento a questo motivo possa spesso es-

sere indice di una rielaborazione cristiana: in Mon. 100 (βέβαιος ἴσθι καὶ βεβαίοις χρῶ φίλοις) il Vat. Gr. 915 presenta la variante cristiana ταπεινὸς ἴσθι.

9 Gregorio fa riferimento esplicito a Diogene di Sinope in Carm. I 2, 10, 218 (τίς οὐκ ἀκούει τὸν Σινωπέα τὸν κύνα;), dove però il filosofo è presentato come modello di εὐὖτέλεια e μετριότης, mentre in I 2, 39 la sentenza che la tradizione gli attribuisce è pronunciata da τις τῶν φιλοχρύσων; cfr. anche Ep. 98, 1. 10 Cfr. anche Com. Adesp. CGFPR 298 (PSI 280) πάντα γὰρ tà τοῦ βίου οὐ διὰ φρόνησιν, διὰ τύχην δὲ γίνεται; cfr. Stob. II 8 (περὶ τῶν ἐφ᾽ ἡμῖν), 18 ᾿Επανδρίδου. Φρόνιμος ὁ δι’ ἑαυτὸν εὖ πρήσσων, ὁ δὲ διὰ τὴν τύχην μακάριος. 19 Τοῦ αὐτοῦ. Φρόνησις εὐτυχίην ὡς τὰ πολλὰ χαρίζεται, τύχη δὲ φρόνησιν οὐ ποιέει; Stob. III 3 (περὶ φρονήσεως),

15 ᾿Αγάθωνος (= fr. 20 TrGF) οὐ τῇ φρονήσει, τῇ τύχῃ δ᾽ ἐσφάλμεθα. 11 J. BERNARDI (ed.), Grégoire de Nazianze, Discours 4-5 contre Julien, Paris, Les Éditions du Cerf 1983 («Sources Chrétiennes», 309).

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FONTI E RIELABORAZIONE

POETICA IN GREGORIO

DI NAZIANZO

(De Vita sua) leggiamo ὄντως ἀσυλλόγιστον ἡ πονηρία, adattamento del Mon. 36 già citato nell’orazione 4, modificato in un modo analogo a quanto visto per l'adattamento in prosa, attraverso 1’ ὄντως che

serve per rafforzare il contenuto della γνώμη, ma soprattutto per av-

valorarla in relazione al contesto in cui è inserita: si tratta qui di un livello minimo di rielaborazione che però è indice della tendenza di Gregorio ad armonizzare quanto più è possibile la sentenza con il

contesto. Merita un discorso a sé il carme I 2, 10 Περὶ dperttic,! senza dubbio il momento della produzione poetica di Gregorio in cui il dialogo con la tradizione gnomica si fa più serrato: il lungo componimento pedagogico che, ripercorrendo le tappe del pensiero sulla virtù nel mondo pagano, intende illustrare che cosa sia la vera virtù, può essere letto come una summa della cultura greca classica assorbita da Gregorio; secondo Chadwick i vv. 365-398 del carme sarebbero tratti

in blocco da un florilegio, così come i vv. 585-600 che pure rivelerebbero un’origine antologica, mentre Wyss parla dei vv. 369-378 definendoli Zitatennest e Gnomenreihe: non è semplice, dato il carattere di questa sezione del carme, individuare in modo preciso dove si apra e si chiuda un’eventuale pericope tratta da un florilegio e distinguere quali tra le γνῶμαι sono tradizionali e quali create da Gregorio; soprattutto però dobbiamo chiederci se è plausibile che Gregorio abbia ‘copiato’, come sembra sostenere Chadwick, da un’antologia gnomologica, oppure se non sia più opportuno pensare a una pluralità di fonti gnomologiche da cui Gregorio può aver attinto per creare a sua volta qualcosa di nuovo, mescolando γνῶμαι tradizionali con versi propri. Ecco alcuni esempi tratti dalle due sezioni gnomiche del carme De virtute: — v. 373 τὰ χρήματ᾽ ἀνθρώποισι τιμιώτατα = Eur. Phoen. 439; cfr. Men. Mon. 733 tà χρήματ᾽ ἀνθρώποισιν εὑρίσκει φίλους = Soph. fr. 88, 1 TrGF (apud Stob. IV 31, 27); cfr. anche Plut. Mor. 497b, che attribuisce il verso a Euripide. — v. 374 πένητος ἀνδρὸς οὐδὲν ἀθλιώτερον = Comp. Men. et Phil. I 39, che torna in Gregorio, con ἀσφαλέστερον in luogo di ἀθλιώτερον, anche in Carm. I 2, 33, 125 e in 1 2, 8, 65; cfr. Diph. fr. 104

12 Si veda la recente edizione di C. Crimi e M. Kertsch, Gregorio Nazianzeno, Sulla virtù. Carme Giambico. Introduzione, testo critico e traduzione di C. CRIMI, commento di M. KERTSCH, Pisa, ETS 1995 («Poeti Cristiani», 1). 3 S.v. Florilegium, RAC, VII, 1969, coll. 1131-1160. 14 S.v. Gregor II, RAC, XII, 1983, coll. 793-863: 848.

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SILVIA AZZARÀ

PCG V πένητος ἀνδρὸς οὐδὲν εὐτυχέστερον (ap. Stob. IV 32a, 3 περὶ πενίας’ πενίας ἔπαινος) e Comp. Men. et Phil. II 24 πένητος οὐδέν ἐστι δυστυχέστερον.

— v. 375 ἄνευ δὲ χαλκοῦ, Φοῖβος οὐ μαντεύεται; sulla base di questo verso, noto anche come proverbio esopico in CPG II 228,1, e citato da Gregorio anche in Or. 4, 121, è stato possibile dare una let-

tura del r. 9 di POxy 2661, del r. 25 di POxy 3006 e del τ. 16 di PMilVogliano inv. 12410; tutti questi papiri sono del III secolo e contengono frammenti di uno gnomologio; in POxy 2661 è presente anche la γνώμη nota come Mon. 333, citata da Gregorio in Carm. I 2, 39, mentre in POxy 3006 è presente il Mon. 36 citato da Gregorio nell’orazione 4 e nel carme De vita sua (cfr. supra). — vv. 376-378 οὐκ ἔστιν ὅστις πάντ᾽ ἀνὴρ εὐδαιμονεῖ / ἢ γὰρ neφυκὼς ἐσθλὸς οὐκ ἔχει βίον, 7 ἢ δυσγενὴς ὧν πλουσίαν ἀροῖ πλάκα; ν. 376 = Eur. fr. 661 TGF? (Stenebea) = Men. Mon. 596 (cfr. Stob. IV 44, 10 ὅτι δεῖ γενναίως φέρειν τὰ προσπίπτοντα ὄντας ἀνθρώπους καὶ κατ᾽ ἀρετὴν ζῆν ὀφείλοντας, dove il verso è citato come euripideo); questo passo sentenzioso ebbe una larga diffusione nell’antichità e il verso 376, penetrato poi nelle redazioni dei Monostici, figura come esempio di γνώμη nel passo aristotelico περὶ γνωμολογίας, in cui si definisce ti ἐστιν γνώμῃ. — vv. 387-388 μὴ πάντοθεν κέρδαινε, σαυτὸν αἰσχύνων᾽ / τὸ μὴ δικαίως εὐτυχεῖν ἔχει φόβον; cfr. Men. fr. 733 PCG VI 2 μὴ πάντοθεν κέρδαιν᾽" ἐπαισχύνου δέ μοι’ / τὸ μὴ δικαίως εὐτυχεῖν ἔχει φόBov; (cfr. Men. Mon. 765 τὸ μὴ δικαίως εὐσεβεῖν φέρει ψόγον). L'origine della variante σαυτὸν αἰσχύνων è spiegabile sia come modifica dovuta all’antologizzazione, sia come adattamento di Gregorio stesso. — vv. 389-390 μὴ Πλοῦτον εἴπῃς, οὐχὶ θαυμάζω θεόν, / ὃν καὶ κάκιστος ῥᾳδίως ἐκτήσατο = Eur. fr. 20 TGF? (Eolo); l'attribuzione all’Eolo di Euripide è in Stob. IV 31, 61 (Περὶ πλούτου: ψόγος πλούτου). — vv. 393-395 ληρεῖ δέ μοι Θέογνις ὡς λῆρον πλατύν, / κρημνοὺς προτιμῶν τῆς ἀπορίας καὶ βυθούς, / κακῶς τε Κύρνῳ νομοθετῶν εἰς

χρήματα (cfr. Theogn. 175-176: ἣν (sc. πενίην) δὴ χρὴ φεύγοντα καὶ 5 Vd. R. FÜHRER, Monostichos-Identifikation, «ZPE», XXVII,

1977, p. 76; T. BRUN-

NER, Computer-Früchte, «ZPE», LXVI, 1986, pp. 295-296; M.S. FUNGHI, PMilVogliano inv. 1241v: γνῶμαι μονόστιχοι, in Miscellanea Papyrologica, in occasione del bicentenario dell'edizione della Charta Borgiana, a cura di M. CAPASSO, G. MESSERI SAVORELLI, R. PINTAUDI, Firenze, Gonnelli 1990 («Papyrologica Florentina», XIX), I, pp. 181-188. 16 Arist. Rbes. II 21, 1394b, dove il verso è citato accanto ad altri versi euripidei senza

nominare l’autore, né la tragedia da cui è tratto.

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FONTI E RIELABORAZIONE POETICA IN GREGORIO DI NAZIANZO

ἐς βαθυκήτεα πόντον / ῥιπτεῖν καὶ πετρέων, Κύρνε, κατ᾽ ἠλιβάτων); cfr. Plut. Stoic. rep. 14, 1039-1040 e Clem. Al. Strom. IV 5, 23, 3 (χρὴ πενίην φεύγοντα κτλ.); per un’altra citazione teognidea in Gregorio, cfr. Ep. 13, 1= Theogn. 643-644 πολλοὶ πὰρ κρητῆρι φίλοι γίνονται ἐταῖροι, / ἐν δὲ σπουδαίῳ πρήγματι, παυρότεροι, distico sull’amicizia ripreso anche in Carzz. I 2, 33, 177-179 (πιστοῦ φίλου νόμιζε μηδὲν ἄξιον, / dv οὐ κρατὴρ ἔδειξε, καιροῦ δὲ ζάλη; 7 ὃς οὐ χαρίGer’ ἢ μόνον τὸ σύμφερον). — vv. 396-398 Gregorio,

Teognide,

analogamente

a quanto

appena visto per

esprime il suo disprezzo anche per l’opinione che sullo

stesso argomento aveva Omero, attribuendogli un verso in realtà esio-

deo: ὀπηδὸν εἶναι τὴν ἀρετὴν τῶν χρημάτων (cfr. Op. 313 ... πλούτῳ δ᾽ ἀρετὴ καὶ κῦδος ὀπηδεῖ). — vv. 586-587 γαστρὸς δὲ πειρῶ πᾶσαν ἡνίαν κρατεῖν 7 μόνη γὰρ ὧν πέπονθεν οὐκ ἔχει χάριν = Chares, TrGF I 236, p. 237; cfr. Stob. ΠῚ 17, 3 (περὶ ἐγκρατείας) e Men. Mon. 137. — v. 588 ἐν πλησμονῇ tor Κύπρις, ἐν πεινῶσι δ᾽ οὔ = Men. Mon. 231 = Eur. fr. 895 TGF? (inc. fab.); l’attribuzione a Euripide è in Ath. VI 270c, mentre citazioni senza il nome dell’autore sono in Clem. Al. Strom. III 2, 10, 1 («ἐν πλησμονῇ τοι Κύπρις», N φασι) e in Plut. Mor. 126c, 917b. — v. 589 espressione proverbiale molto diffusa;!” cfr. I 2, 32, 35 (vd. infra). — vv. 598-600 citazione di un passo di Cercida (fr. 66);!5 cfr. I 2, 8, 96-98.

Per quanto riguarda la prima di queste sezioni gnomiche è indubbia la provenienza gnomologica delle sentenze citate, che rivelano certamente l’uso di un florilegio sui temi di ricchezza e povertà: alcune sequenze di versi potrebbero teoricamente essere tratte in blocco anche da un’unica raccolta, ma è più verosimile pensare che Gregorio abbia utilizzato il materiale a disposizione in modo più originale e libero, creando una composizione nuova e personale; ciò che possiamo

riconoscere chiaramente è la traccia di una struttura in cui l’ ἔπαινος è seguito dallo ψόγος, struttura che naturalmente richiama la raccolta dello Stobeo (cfr. in particolare IV 31, con la serie ἔπαινος πλούτου, ὅσα πλοῦτος ποιεῖ διὰ τὴν πλείστων ἄνοιαν, ψόγος πλούτου, ὅτι τὰ χρήματα ἀβλαβῆ συμμέτρως καὶ δικαίως πορισθέντα, καὶ ὅτι τῶν

Per alcuni paralleli si veda CRIMI - KERTSCH, ed. cit., commento ad loc. 18 L. LOMIENTO (ed.), Cercidas. Testimonia et Fragmenta, Roma, GEI 1993, pp. 124; 321-326.

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μέσων ὁ πλοῦτος), e che è rivelata dalle parole con cui lo stesso Gregorio introduce i gruppi di γνῶμαι: ai vv. 367-368 μήτ᾽ οὖν ἐκεῖνα. προσδέχου tà μὴ καλὰ / βίβλων παλαιῶν, ya”, αἷς ἐνετράφης e ai vv. 382-384 ταῦτ᾽ οὖν ἅπαντα φεῦγε τοὺς τ᾽ εἰρηκότας, / εἴτ᾽ ἄλλο τούτοις ἐμφερές τι ἐν λόγοις. / καὶ ταῦτ᾽ ἐπαίνει τῶν σοφῶς εἰρημένων; i vv. 376-378 non necessariamente provengono da un florilegio sui temi di ricchezza e povertà, se in questo senso può avere qualche peso il confronto con il contesto in cui lo stesso verso è citato dallo Stobeo, e potrebbero indicare l’uso da parte di Gregorio di una varietà di fonti antologiche; alle γνῶμαι tradizionali sono poi alternate le considerazioni di Gregorio stesso, come ai vv. 379-381.

La sezione del carme dedicata all’ ἐγκράτεια si apre al v. 585 con

un accenno alla consapevolezza della provenienza tragica delle citazioni che seguono: ἤκουσα τοῦτο τῆς σοφῆς τραγῳδίας, espressione che fa pensare all’uso di un’antologia di sentenze tragiche, o comunque a una selezione di ciò che nella tragedia poteva essere considerato σοφόν, forse dal punto di vista cristiano, o forse dal punto di vi-

sta più genericamente filosofico, dato il contenuto del frammento

assolutamente in linea con il pensiero stoico e cinico; l’attribuzione dei versi a Carete viene dallo Stobeo, ma non possiamo dire se Gregorio conoscesse o no il nome dell’autore che citava. Aldilà dei singoli casi, ci sembra opportuno rilevare che l’uso da parte di un autore e lettore come Gregorio di Nazianzo di testi che possiamo definire genericamente gnomologici, implica per questo tipo di letteratura una circolazione e una destinazione che vanno ben oltre quella esclusivamente scolastica che Chadwick ancora sembra pre-

supporre.

È indiscutibile, come abbiamo potuto vedere, il consistente impiego da parte del Cappadoce di una tradizione gnomica, forse gnomologica, preesistente; ma Gregorio, da autore di poesia moralistica e didascalica, si pone d’altro canto lui stesso come creatore di poesia gnomica: lo dichiara egli stesso in Carm. II 1, 39 (Εἰς tà ἔμμετροα), quando definisce scopi e carattere della propria poesia, inserendo la γνώμη tra le forme di espressione poetica che sceglie di utilizzare (vv. 65-67).

Un lavoro, non semplice, ma fondamentale per l’indagine sul rapporto tra ricezione di una tradizione poetica gnomica e produzione autonoma di poesia sentenziosa, dovrebbe essere quello di individuare, 2 Vv. 64-66: tà μὲν γάρ ἐστι τῶν ἐμῶν, tà δ᾽ ἔκτοθεν. / "H τῶν καλῶν ἔπαινος, ἢ κακῶν ψόγος, / ἢ δόγματ᾽, ἢ γνώμη τις, ἢ τομαὶ λόγων. —

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FONTI E RIELABORAZIONE POETICA IN GREGORIO DI NAZIANZO

all’interno della vastissima opera poetica del Nazianzeno, e dei Carmina Moralia in particolare, che cosa e in che misura può essere definito gnomico, quanta cioè della poesia moralistica di Gregorio deve qualcosa, o molto, alla tradizione gnomica conosciuta attraverso florilegi; il debito nei confronti di questa tradizione infatti non è certamente limitato al ristretto gruppo di carmi che all’interno della raccolta dei Moralia possiamo indicare come appartenenti specificamente al genere gnomico (Carm. I 2, 30-33) e neppure soltanto al carme De virtute che pure è quello che mostra in modo più evidente la dipendenza da una tradizione gnomologica; l’analisi potrebbe infatti essere estesa a molta altra poesia moralistica di Gregorio, soprattutto in trimetri giambici, a cominciare dalla Σύγκρισις βίων (Carzz. I 2, 8, 65 πένητος ἀνδρὸς οὐδὲν ἀσφαλέστερον, da confrontare con la sezione gnomica su povertà e ricchezza in I 2, 10), ma anche Carzz. I 2, 19 (Περὶ ζωῆς ἀνθρωπίνης), 12,25 (Κατὰ θυμοῦ; un esempio di γνώμη al v. 318 θυμὸς πατὴρ πέφηνε τοῦ πικροῦ φόνου), e i carmi che chiudono la raccolta dei Moralia I 2, 39 e 40.20

Vorrei però prendere qui in considerazione i carmi I 2, 31 (Γνῶμαι δίστιχοι), I 2, 32 (Γνωμικὰ δίστιχα) e I 2, 33 (Γνωμολογία τετράστιχος), ovvero la sezione propriamente gnomica dei Carmina Moralia;?* all’interno di questi componimenti bisogna distinguere tra materiale verosimilmente autentico e materiale dubbio o spurio: tratterò per questo da ultimo il carme 32, che ritengo non autentico, non soltanto per le ragioni stilistico-espressive evidenziate da Davids, ma anche per ragioni ‘strutturali’ (vd. infra). Una prima questione che si pone di fronte a chi intende analizzare un componimento poetico gnomico è se si debba interpretare sem-

plicemente come una successione di sentenze, o se si possa cogliere un andamento, una ‘direzione’ del componimento: se è vero infatti che la γνώμη in quanto tale è per definizione una forma di espressione autonoma e conclusa in sé, è tuttavia possibile in un carme come il 31, composto di sentenze in distici, individuare una unitarietà di fondo che qui sembra consistere nell’esortazione al raggiungimento della perfezione mediante la conoscenza di sé e del divino: questa osservazione sull’unità del carme non è fine a se stessa, perché costituisce a mio giudizio una caratteristica fondamentale della rielabora-

20 Tra i Carmina Historica sembra significativa la presenza di una componente gnomica in Carzz. II 1, 11 (De vita sua). 21 Tralascio qui di occuparmi del carme I 2, 30, oggetto della relazione di E. Gian-

narelli sugli acrostici alfabetici cristiani: in questo volume, pp. 263-282.

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zione poetica di Gregorio, che ci permette quindi di distinguere il materiale autentico da quello spurio; la finalità educativa del carme 31 è riassunta nell’acrostico formato dalla prima lettera di ogni verso: Γνῶμαι Ipnyopiov, δίστιχος εὐεπίη, ἐσθλὸν ἄθυρμα νέοις καὶ ydρις ἐξοδίη. Il distico che apre il carme (γυμνὸς ὅλος βιότοιο τάμοις ἅλα, μηδὲ βαρεῖα / ναῦς ἐπὶ πόντον ἴοι, αὐτίκα δυσομένη) è stato interpretato da Davids in senso fortemente cinico per il richiamo 4} εὐτέλεια e 41} αὐτάρκεια presente nell'espressione γυμνὸς 64.06; possiamo però leggere diversamente il ricorso al motivo della γυμνότης:2 per quanto infatti l’invito allo spogliarsi di ogni sovrastruttura inessenziale sia genericamente riconducibile alle dottrine ciniche di Diogene e Antistene, non è forse il caso di pensare al cinismo come principale punto di riferimento di Gregorio per un’immagine così radicata, ad esempio, nella letteratura cristiana di ambiente monastico: possiamo citare a questo proposito e.g. Apophthegmata Patrum, Coll. system. 6, 20: οὕτως

ὀφείλει ὁ μοναχὸς εἶναι, γυμνὸς ἀπὸ τῆς ὕλης τοῦ κόσμου καὶ ἐσταυρωμένος ἐν τοῖς παλαίσμασιν; Coll. system. 7, 58 γυμνὸς ὁ ἀγωνιστὴς ἕστηκεν εἰς τὸ στάδιον παλαίων, γυμνὸς καὶ ἄῦλος;2 compare qui, strettamente connessa a quella della nudità, l’immagine della lotta, presente anche in Gregorio, che la utilizza nell’altro carme sen-

tenzioso che qui discutiamo, la Γνωμολογία τετράστιχος (I 2, 33), in particolare al v. 64 (βαθμοὶ τάδ᾽ εἰσὶ τῆς πάλης τοῦ δυσμενοῦς) e al v. 151 con l’immagine del παλαιστής; d’altra parte riferimenti espliciti ai monaci e alla vita consacrata sono presenti nello stesso carme 31 ai vv. 33-37:

2 De Gnomologieen, cit., p. 22. 3 Cfr. Or. 26, 14, 9-12 εἰ γὰρ ᾿ἀποδυσαίμην καὶ τὰ ῥάκια ταῦτα, ἵνα γυμνὸς διαδράμω τὰς ἀκάνθας τοῦ Biov: εἰ γὰρ καὶ τὸν βαρὺν ἀπεθέμην χιτῶνα τοῦτον ὡς τάχιστα, ἵνα λάβω κουφότερον (1. Mossay ed., Grégoire de Nazianze, Discours 24-26, Paris, Les Éditions du Cerf 1981 [«Sources Chrétiennes», 284]): Gregorio ricorre qui a imma-

gini alternative, ma perfettamente sovrapponibili al primo distico del carme 31; cfr. anche Carm. I 1, 8, 104 γυμνὸν ἄτερ κακίης τε καὶ εἴδεος ἀμφιθέτοιο; Carm. I 2, 2, 352 γυμνὸν ἔχειν βίον; Carzz. I 2, 10, 80-81 βλέψῃ πρὸς αὐτό 1° ἀγαθὸν γυμνούμενον, γυμνῷ

τε τῷ νῷ; di sapore più platonico sono altri riferimenti alla nudità citati anche in C. MoRESCHINI, Filosofia e letteratura in Gregorio di Nazianzo, Milano, Vita e Pensiero 1997, pp. 29-31: Or. 28, 21, Or. 28, 13, Or. 2, 74.

24 Anche lo stesso Davids (De Gnomologieen, cit., p. 23) aveva per altro citato come parallelo per l’immagine della βαρεῖα ναῦς presente nel distico un passo degli Apophthegmata Patrum (PG 65, 80 B) in cui il monaco viene paragonato a un πλοῖον μεστὸν ἀγαθῶν.

25 Si tratta ancora una volta di uno dei temi più presenti nelle opere di Evagrio Pontico, per cui si vedano in particolare i trattati ᾿Αντιρρητικόν, conservatoci nelle versioni

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FONTI E RIELABORAZIONE

POETICA IN GREGORIO

DI NAZIANZO

Θέσθε νόον, βιότῳ μὲν ὅσους γάμος ἁγνὸς ἔδησε Ληνοῖς οὐρανίοις πλείονα καρπὸν ἄγειν. ἽὍσσαι δ᾽ ἂν μεγάλοιο Θεοῦ Λόγου ἀγκάζεσθε, Νύμφαι παρθενικαὶ, πάντα Θεῷ προσάγειν. Αἴγλη παμφανόωσα μονότροπος.

È superfluo ricordare come l’attenzione per monaci e vergini sia costante nel complesso del pensiero del Nazianzeno, ma è particolarmente importante il posto che le esortazioni ai monaci occupano proprio nell’ambito della raccolta dei Moralia, i cui primi sette carmi hanno questa destinazione:

I 2, 1 Παρθενίης

ἔπαινος, 2 Ὑποθῆκαι

παρθέ-

νοις, 3 Πρὸς παρθένους παραινετικός, 4 Εἰς παρθένον, 5 Πρὸς τοὺς ἐν κοινοβίῳ

μοναχούς,

6 Eig σωφροσύνην,

7 Περὶ

ἁγνείας; la pre-

senza di una forte impronta in questa direzione anche nei carmi gnomici non può non essere messa in relazione con il problema più ampio della circolazione della letteratura gnomica negli ambienti monastici. Un'altra componente presente nei carmi gnomici gregoriani, che considero un indice significativo di rielaborazione, è quella di ispirazione medioplatonica, che seppure in una forma molto sfumata compare in 31, 5-8:

Αἰεὶ νηὸν ἔγειρε Θεῷ νόον, ὥς κεν ἄνακτα, "Iöpvu’ Ködov, ἔχῃς ἔνδοθι σῆς κραδίης. Γνῶθι σεαυτόν, ἄριστε, πόθεν καὶ ὅστις ἐτύχθης, ‘Peîd κεν ὧδε τύχῃς κάλλεος ἀρχετύπου. L’esortazione ad innalzare la propria mente a Dio per avere dentro di sé un ἵδρυμα ἄῦλον riecheggia il linguaggio della teologia medioplatonica, anche se nell’uso che Gregorio fa del termine ἵδρυμα rimane forse solo un lontano riverbero del senso tecnico-filosofico che la radice di ἱδρύω ha in Plotino e Porfirio proprio in frequente associazione con ddAov (cfr. Plot. Ern. VI 4, 8, 2; Porph. Sent. ad intell. 39, 6); il termine ἵδρυμα non ha in effetti un uso filosofico nel linguaggio neoplatonico, né ho potuto trovare dei veri paralleli per un uso in senso astratto o spirituale del sostantivo in altri autori,?° ma

siriaca ed armena, Περὶ διαφόρων πονερῶν λογισμῶν (tramandato tra le opere di Nilo di Ancira, PG 79, 1200 D-1240 B) e il già citato Περὶ τῶν ὀκτὼ πνευμάτων τῆς πονηρίας (anch’esso tràdito sotto il nome di Nilo, PG 79, 1145 A-1164 D), tutti dedicati al combattimento contro i vizi e i cattivi pensieri. 26 Per un altro caso in Gregorio si veda Carzz. I 2, 10, 197, dove l’immagine è usata in senso opposto: ἱδρύμαθ᾽ ὕλης.

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ritengo che Gregorio abbia, per così dire, fuso l’eco filosofica della radice di ἱδρύω insieme con l’immagine neotestamentaria dell’ ‘edificio spirituale’ (cfr. IP? 2, 5; 1Cor 3, 16-17; 1Cor 6, 19; Epb 2, 19-

22); ancora più evidente il riferimento al platonismo nel distico suc-

cessivo: pur muovendo dal tradizionale γνῶθι σεαυτόν chiloniano (I, 10, Y DK), la conoscenza di sé è posta come punto di partenza per la conoscenza del κάλλεος ἀρχέτυπον, un motivo che, presente già nel platonismo cristiano di Clemente Alessandrino (Protr. IV 49, 2 τότε προσκυνήσω τὸ κάλλος, ὅτε ἀληθινὸν ἀρχέτυπόν ἐστι τῶν καλῶν), oltre che in Plotino (Exz. V 8, 3, 1 ἔστιν οὖν καὶ ἐν τῇ φύσει

λόγος κάλλους ἀρχέτυπος τοῦ ἐν σώματι), trova un impiego larghis-

simo nel più platonico dei Padri Cappadoci, Gregorio di Nissa;? l’espressione è usata dallo stesso Gregorio di Nazianzo anche in un passo dell’Or. 38 (13, 17 τὸ ἐκμαγεῖον τοῦ ἀρχετύπου κάλλους).2 ' Uno dei distici più interessanti del carme è ai vv. 22-23 (χρήζων δὴ παθέεσσιν ἀκέστορος, ἢν κακὰ κεύθῃς, / οὔ ποτε σηπεδόνα φεύἕεαι ἀργαλέην) per l’uso del termine raro ἀκέστωρ, attestato unicamente in Eur. Ardr. 900, dove compare in un’invocazione ad Apollo (ὦ Φοιβ᾽ ἀκέστορ, πημάτων δοίης λύσιν); Gregorio riprende il termine trasformandolo da epiteto in sostantivo poetico che sostituisce il prosaico ἰατρός

(cfr. anche

Carm.

II 2, 3, 91-92 τοῖς δ᾽ ὑπὸ νού-

σοῦ / τειρομένοις ἐπάγουσιν ἀκέστορες); se dal punto di vista stilistico-espressivo il riferimento a Euripide è evidente, il motivo ha una tradizione cinica;° ma è anche un’immagine evangelica (cfr. Mt 9, 11-

27 Credo che un simile riecheggiamento possa essere presupposto sia nel caso in cui

si intenda ἵδρυμα come apposizione di ἄνακτα, soluzione che io preferisco, sia che lo si riferisca a νηόν, giustificando il difficile iperbato con la necessità di rispettare l’acrostico. 28 Tra i moltissimi esempi citiamo De mortuis «GNO» IX.1, 42, 4 λογισώμεθα τοίνυν πότε μᾶλλον τῷ ἀρχετύπῳ κάλλει προσεγγίζει ἡ ἀνθρωπίνη φύσις; IX.1, 42, 21... εἰς τὸ οἰκεῖον ἐπανιέναι κάλλος, ἐν È κατ᾽ ἀρχὰς ἐμορφώθημεν κατ᾽ εἰκόνα τοῦ ἀρχετύπου γενόμενοι; De perf. «GNO» VIIL1, 195, 4-5 ... πρὸς τὸν χαρακτῆρα τοῦ ἀρχετύπου συσχηματισθῆναι κάλλους, εἰς τὸ γενέσθαι ὅπερ ἧς ἐξ ἀρχῆς; In Eccl. «GNO» V, 324, 22-325, 1 οὐκ εἰδώλοις κάλλους ... ἀλλ᾽ αὐτὸ κατόψει τὸ ἀρχέτυπον κάλλος; In Cart. «GNO» VI, 51, 11-13 ... γέγονε μὲν ἡ ἀνθρωπίνη φύσις [...] τῇ τοῦ ἀρχετύπου κάλλους ὁμοιότητι

στίλβουσα; cfr. VI, 91, 3; VI, 102, 2; VI, 104, 1; VI, 150, 18; VI, 293, 10; VI, 439, 10-15; De virg. «GNO» IV, 8, 13; 10, 2, 21; 12, 2, 8; Or. Cat. PG 45, 29, 22-23; De an. et res. PG 46, 57, 38-39; 89, 41-43; De bom. Op. PG 44, 136, 8-9; 136, 49; 137, 8-9. 29 C. MORESCHINI (ed.) - P. GALLAY (trad.), Grégoire de Nazianze, Discours 38-41, Paris, Les Éditions du Cerf 1990 («Sources Chrétiennes», 358). Per un uso in ambito pagano cfr. Libanio (Declam. 12, 26, 14 οὐκ ἔστιν ᾿Αλκιβιάδης ᾿Αθηναῖος οὐδ᾽ ἄνθρωπος, ... θεῖον δέ τι φάντασμα ... καὶ κάλλους τις ἀρχέτυπος εἰκὼν), in cui il riferimento ad

Alcibiade fa pensare ad un luogo comune fortemente influenzato dal linguaggio neoplatonico. 30 Vd. DavIps, De Gromologieen, cit., p. 31.

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FONTI E RIELABORAZIONE POETICA IN GREGORIO DI NAZIANZO

12). Il termine σηπεδών del v. 22 proviene dal linguaggio medico ed è particolarmente utilizzato da Galeno; le convergenze di Gregorio con il linguaggio medico, con Galeno in particolare, non sembrano affatto isolate né casuali: è significativo in questo senso l’uso che Gregorio fa del termine λύγισμα a I 2, 33, 66, in un’esortazione a non prestare ascolto ai φαύλοι λόγοι che sono assimilati a ἐκμελῆ Avyiσματα: il termine è di uso esclusivamente medico?! fino a Gregorio che lo impiega in riferimento alla musica, per esprimere le tortuosità e le flessioni innaturali del canto (vd. Carzz. II 1, 11, 268; Or. 5, 35 ἀναλάβωμεν ὕμνους ἀντὶ τυμπάνων, ψαλμῳδίαν ἀντὶ τῶν αἰσχρῶν λυγισμάτων τε καὶ ᾳἀσμάτων; Or. 21, 12 κατορχεῖσθαι τῶν θεατῶν παντοίοις καὶ ἀνδρογύνοις λυγίσμασι).᾽2 Caratteristica comune ai carmi 31 e 33 è quella di dosare in modo armonico le esortazioni di carattere più specificamente cristiano, che hanno il Cristo-Aéyog e la Trinità come oggetto, con considerazioni riferibili al patrimonio moralistico tradizionale della σοφία pagana: i vv. 31-32 con l’esortazione a rispondere alla chiamata del Λόγος dφθιτόμητις e ad affrettarsi ἐπὶ Τριάδος γνώσιν ἐπουρανίης aprono infatti la sezione più propriamente parenetica del carme, che comprende i già citati versi rivolti

a monaci e vergini, cui seguono versi dedicati

a motivi tradizionali come quello della μετριότης, con la citazione dell’ ἀπόφθεγμα attribuito a Cleobulo μέτρον ἄριστον ἅπαν (I, 10 ἃ DK), e della ricerca dell’ ἄριστον εἶναι; l'esortazione conclusiva che fa da sigillo a tutto il componimento, ἡ δὲ Τριὰς πάντων ἔξοχά σοι ueλέτω, conferma ulteriormente il legame del carme con la vita contemplativa e forse con l’ambiente monastico. Il carme 33, Γνωμολογία τετράστιχος in trimetri, è preceduto da un epigramma introduttivo (Ipnyopiov πόνος εἰμί, τετραστιχίην δὲ φυλάττω, Γνώμαις πνευματικαῖς μνημόσυνον σοφίης); i versi iniziali sono dedicati al dibattito θεωρίαϊπράξις per il quale non ho trovato paralleli nella tradizione gnomica, salvo una γνώμη inedita su questo tema (πράξει καλὸν συνάψαι τὴν θεωρίαν), conservata nel codice Patm. 263 (f. 235 ν);5 il tema dell’interazione πράξις-θεωρία è molto 31 Vd. Dioscor. Ped. De mat. med. V 117 λυγίσματα καὶ συστροφὰς νεύρων, Id. V 106, e molti casi in Galeno, dove il termine si trova associato prevalentemente a στρέμ-

ματα e παρατρίμματα. 32 J. Mossay 1980 («Sources 3 Cfr. Diog. 34 Il codice,

5

(ed.), Grégoire de Nazianze, Discours 20-23, Paris, Les Éditions du Cerf Chrétiennes», 270). Laert. I 93, 8; Pyth. Carr, aur. 38; Ps.Phoc. Sent. 36 Young (69b Diehl). un miscellaneo della metà del X secolo, di provenienza italo-greca, con-

tiene tra l’altro due florilegi inediti: il primo di questi, intitolato Περὶ ἀρετῆς γνῶμαι

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caro a Gregorio,” la cui personale impronta di originalità è forte anche in questo carme fin dai primi versi; di questo argomento il Nazianzeno parla anche in Or. 20, 12 (πράξις γὰρ ἐπίβασις θεωρίας), e all’interno dei Carmina Moralia in I 2, 34 (Ὅροι παχυμερεῖς), ai vv. 130-131, contenenti le definizioni di θεωρία e πράξις: ancora una volta abbiamo a che fare con un motivo dibattuto negli ambienti mo-

nastici, per il quale è immediato il riferimento alle dottrine di Eva-

grio e ai suoi trattati Πρακτικός e Γνωστικός; interessanti in questo

senso anche i vv. 5-8 del carme I 2, 33, in cui Gregorio fa riferimento a un πρόβλημα τῶν ἐκ πνεύματος riguardo una questione di purificazione: sia il tema che il lessico (ἐκρυπωθῆῇς,᾽΄ σωφρονῶ, καθαρσίων)

si ricollegano a quanto detto precedentemente riguardo al ruolo di

questo genere di poesia nell’ambito della vita consacrata e del monachesimo. Pur essendo difficile indicare per questo carme un motivo unitario vero e proprio, possiamo tuttavia individuarlo proprio nel tema della purificazione, che ritorna, non a caso, nell’esortazione conclusiva del componimento: μή πῶς δεηθῇς ἐσχάτων καθαρσίων; si tratta quindi anche in questo caso di un punto centrale della dottrina spirituale del Nazianzeno, a dimostrazione del fatto che nella parte creativa della sua poesia gnomica gli elementi moralistici tradizionali non sono l’oggetto del messaggio poetico, ma sono piuttosto al servizio dell'educazione alla dottrina cristiana; l’alternanza tra questi due aspetti è comunque costante: si vedano e.g. i vv. 57-60, dove a un primo distico di ascendenza platonica (ὁ νοῦς ἀεί σοι καμνέτω tuπούμενος / θείοις νοήμασί te καὶ βίου λόγοις)" 7 ne segue uno di stampo assolutamente tradizionale sul tema della γλῶσσα,

confronta-

bile con Men. Mon. 136 (γλώσσης μάλιστα πανταχοῦ πειρῶ κρατεῖν), 268 (7 ἔχε δὲ μᾶλλον συνεσταλμένην γλῶσσαν), 318 (ἡ γλῶσσά σου χαλινὸν + ἐχέτω ἢ εὐκόπος λάλει).

κατὰ στοιχεῖον, consiste in una raccolta di 44 monostici, dei quali soltanto il nostro insieme ad un’altra sentenza non figurano nell’edizione di S. Jäkel delle Menandri Sententiae. Cfr. A. BERTINI-MALGARINI, APXAIQN ΦΙΛΟΣΟΦΩ͂Ν TNQMAI KAI ΑΠΟΦΘΕΓΜΑΤΑ

in

un manoscritto di Patmos, «Elenchos», V, 1984, pp. 153-200: 156-157; cfr. anche C. PERNIGOTTI, Appunti per una nuova edizione dei Monostici di Menandro, in Papiri Filosofici. Miscellanea di Studi I, Firenze, Olschki 1997 («STCPF», 8), pp. 71-84: 78-79 e nota 19.

35 Cfr. T. SPIDLÎK, La ‘theoria’ et la ‘praxis’ chez Grégoire de Nazianze, Studia Patristica, XIV, Berlin, Akademie Verlag 1976 («Texte und Untersuchungen»,

117), pp. 358-

364; I. DZIECH, De Gregorio Nazianzeno diatribae quae dicitur alumno [...], Poznan, Drukarnia Univers. Poznanskiego 1925, pp. 27-29; MORESCHINI, Gregorio di Nazianzo, cit.,

pp. 100-101.

36 Hapax gregoriano. 37 Cfr. Procl. In Plat. Crat. 77, 4 τύπους ... τῶν θείων νοήσεων; In Plat. Tim. III 200, 9 διὰ τοῦ τοιοῦδε τύπου τῶν λόγων τὰς θείας νοήσεις ἀπεικονιζόμενος.

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FONTI E RIELABORAZIONE POETICA IN GREGORIO DI NAZIANZO

In generale in questo carme avvertiamo una maggiore presenza dell’eredità tradizionale che nel carme 31, dovuta probabilmente anche alla scelta metrica; in tutto il lungo carme un solo verso, il 33, è però una ripresa puntuale di un verso tradizionale: πανήγυριν νόμιζε τόνδε τὸν βίον = Men. Mon. 627 (cfr. Men. fr. 871 PCG VI 2 πανήγυριν νόμισόν τιν᾽ εἶναι τὸν χρόνον, che sarebbe la forma originaria del verso menandreo, poi banalizzato nel processo di estrazione dalla commedia e antologizzazione); si tratta di una γνώμη, più in generale di una similitudine, che ebbe grande fortuna sia in ambito pagano che cristiano,’® ma quello che ci interessa piü osservare & l’uso che Gregorio fa della γνώμη, inserita in un contesto (cfr. vv. 29-32) in cui il tema è il disonesto ‘mercanteggiare’ di ciò che è di Dio, esemplificato dall'episodio biblico di Anania e Saffira (cfr. Act 5), tema che offre l'occasione a Gregorio di citare la famosa sentenza di tradizione pagana e di cristianizzarla senza alterarne il testo, presentando la πανήyupig come la situazione in cui realizzare ᾿᾿ἀντάλλαγμα ... μικρῶν tà μείζω, καὶ ῥέόντ᾽ ἀϊδίων. Passando a considerare il carme 32, le motivazioni che vids a ritenere spurii gli Γνωμικὰ δίστιχα sono di vario stico (presenza eccessiva di assonanze e allitterazioni), sodico (si vedano le considerazioni sulle percentuali

portano Daordine: stilimetrico-prodei trimetri

parossitoni e sull’incidenza dell’uso dell’elisione), contenutistico (non

compaiono mai riferimenti a Cristo o alla Trinità); sono stati inoltre evidenziati da Werhan? anche importanti indizi di natura tradizionale: la sequenza dei versi cambia nei diversi manoscritti, e inoltre nei codici il carme si trova sempre legato ad un altro gruppo di componimenti in trimetri giambici parossitoni di dubbia paternità, e sempre all’inizio o alla fine del gruppo; in alcuni codici (Laur. C.S. 627 e Par. Suppl. gr. 1175) questo gruppo si trova anche isolato, senza alcun legame con altri testi poetici di Gregorio, e quando è inserito in manoscritti gregoriani occupa

spesso una posizione di ‘cerniera’ o è N

38 Per la storia e la diffusione dell’immagine si veda E. FOLLIERI, La vita somiglia a una ‘panegyris’: storia di una similitudine dall'antichità al Medioevo, in Byzantina et Italograeca. Studi di filologia e di paleografia, a cura di A. AcconciA Lonco, L. PERRIA, A. Luzzı, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1997, pp. 487-495; la Follieri cita moltissime ricorrenze dell’immagine, greche e latine; non mi risulta sia stata mai notata la presenza di questa similitudine anche nel libro biblico della Sapienzia Salomonis (15, 12), dove

l’immagine ha però una valenza assolutamente negativa in quanto sono i fabbricanti di idoli ad assimilare la vita ad un mercato da cui trarre disonesto guadagno: παίγνιον εἶναι τὴν ζωὴν ἡμῶν καὶ τὸν βίον πανηγυρισμὸν ἐπικερδῆ.

3° Dubia und spuria, cit., pp. 339-340.

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ἐλογίσαντο

SILVIA AZZARÀ

collocato alla fine. Credo che queste osservazioni abbiano un valore fondamentale e che possano essere ancora sviluppate in futuro con un’indagine approfondita della tradizione manoscritta del carme; qui vorrei soltanto aggiungere alcune osservazioni sulle ragioni addotte per la non autenticità, sostenendo quanto già comunicato da Davids, che attribuisce giustamente un peso notevole all’assenza di veri e propri riferimenti a Cristo e alla dottrina della Trinità,‘° caratteristici invece dei carmi 31 e 33. Dal punto di vista del contenuto vorrei aggiungere che non soltanto è significativa l’assenza di temi pertinenti alla dottrina cristiana, ma sorprende anche la presenza di versi che rivelano un’etica inconciliabile con il cristianesimo e conil pensiero di Gregorio;*! ritengo comunque che sia principalmente la struttura del carme a rivelarne la natura ‘compilatoria’: la totale assenza di unità e l'impossibilità di rintracciare un filo conduttore suggerisce già che non è forse il caso di parlare di un carme vero e proprio, quanto piuttosto di una sequenza di distici, alcuni di natura più sentenziosa, altri di origine chiaramente proverbiale; se pensiamo a una possibile provenienza gnomologica di questi versi, la domanda successiva è che tipo di raccolta poteva essere questa eventuale fonte, e quale criterio la ordinava: la non sistematicità, o meglio la coerenza solo parziale che è alla base della serie dei nostri distici, e il carattere miscellaneo e disomogeneo dell’insieme escludono che il carme 32 possa essere considerato di per sé una'sorta di florilegio; si notano le tracce irregolari di un ordinamento tematico per coppie di distici, che però non è mai costante, ma sembra prevalere nella prima metà del carme; i primi due distici iniziano con la parola ἀρχή, il che potrebbe suggerire anche l’utilizzo di una fonte ordinata alfabeticamente. Andando ad osservare più da vicino il materiale penetrato in questa compilazione, si registra la presenza dei seguenti versi tràditi come Monostici di Menandro: — v. 43 παντὶ βροτῷ

(cfr. Mon. - v. 61 — v. 63 (= Eur. fr.

θνήσκοντι πᾶσα γῆ τάφος = Men. Mon.

650

511) μισῶ πένητα πλουσίῳ Sopovuevov = Men. Mon. 475 ῥήτωρ πονηρὸς τοὺς νόμους λυμαίνεται = Men. Mon. 694 597 TGF?)

4 Ho potuto trovare in tutto il carme un solo verso, il 76, con un sicuro riferimento cristiano (σταυρός e βαπτισμοῦ κοινωνία). 41 Vv, 21-22 οὐ δεινὸν ὀργὴ δεινὰ τοῖς εἰργασμένοις" 7 καὶ γὰρ δικάζει τοῖς ὁμοίοἷς ἡ δίκη e vv. 49-50 βίαζε καὶ σὺ τοὺς ἀτάκτους, μὴ λύειν 7 τάξιν πρεπώδη καὶ νόμοις ἡρμοσμένην.

-- 68ἃ--

FONTI E RIELABORAZIONE

— v. 97 οὐκ ἔστιν οὐδὲν

POETICA IN GREGORIO

κτῆμα

DI NAZIANZO

βέλτιον φίλου = Men.

Mon. 575

(κάλλιον pro βέλτιον) — v. 98 πονηρὸν ἄνδρα μηδέπου κτήσῃ φίλον = Men. Mon. 638 (μηδέπου] μηδέπω Jakel : μηδέποτε TTaur : μήποτε SKVat 742 κτήσῃ] ποιεῖ Β : ποιοῦ Fey) — v. 115 οὐδεὶς μετ᾽’ ὀργῆς ἀσφαλῶς βουλεύεται = Men. Mon. 564

Questa presenza di γνῶμαι tradizionali è assai significativa al fine di determinare il carattere spurio del carme, se la mettiamo a confronto con l’altro carme gnomico di Gregorio in trimetri, il 33, dove un solo verso menandreo è citato letteralmente, ma abbiamo visto con quali modalità e con quale scopo, e anche con il carme 30, l’acrostico alfabetico, che pur contenendo versi avvicinabili per temi e forme ad

alcune sentenze menandree, non presenta nessun caso di vera sovrap-

posizione con la tradizione dei Monostici. Altre sentenze menandree sono poi riecheggiate nel carme 32, a v. 9 (cfr. Mon. 408 sulla δόξα κενή) e v. 15 (cfr. Mon. 322 sull’onorare Dio e genitori); le sentenze menandree penetrate nel carme 32 hanno tutte temi diversi tra loro, il che parrebbe escludere l’utilizzo sistematico di una raccolta tematica, ma si tratta solo di una semplice osservazione che non ci aiuta a comprendere qualcosa di più sulla provenienza di queste γνῶμαι. Un altro elemento presente nei δίστιχα è quello della tradizione proverbiale e forse favolistica che sembra si possa intravedere dietro versi come 45-50 e probabilmente 121-122. Se ci chiediamo quali sono gli effettivi punti di contatto tra questa raccolta di versi e la poesia morale di Gregorio, possiamo individuarli quasi esclusivamente nei temi genericamente riferibili alla tradizione cinica: i vv. 31-38 sui temi del confronto sobrietà-ubriachezza e sulla μετριότης nel cibo sono confrontabili con il ‘dialogo con .la γαστήρ᾽ di I 2, 33, 73-76 e con i versi dedicati all’ ἐγκράτεια nel carme De virtute (I 2, 10, 588 sgg., in particolare v. 589; cfr. anche v. 446); la compilazione di questa sezione cinicheggiante sembrerebbe presupporre la conoscenza del carme De virtute, come suggeriscono anche precise corrispondenze verbali tra i vv. 37-40 dei δίστιχα e I 2, 10, 647-652; si tratta però di coincidenze riguardanti i temi più generici della tradizione moralistica greca, che, come abbiamo visto, non rappresentano l’interesse primario di Gregorio autore di poesia sen-

tenziosa.

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SERGIO

PERNIGOTTI

LA REDAZIONE COPTA DEI MONOSTICI E IL SUO AMBIENTE CULTURALE L'argomento che mi è stato proposto per questo incontro di studi mi ha dato l’occasione di riflettere su un tema attuale e di notevole portata per lo studio di alcuni aspetti della temperie culturale dell’Egitto nel Tardo Antico, tra sopravvivenze, dirò subito tutt'altro che trascurabili, e coesistenze, anche, di temi del paganesimo egiziano e della cultura greca classica con quelli del cristianesimo ormai definitivamente affermato, in greco e in copto, oltre che del manicheismo, dello gnosticismo, dell’ermetismo e del neoplatonismo. In tale complessa serie di rapporti linguistici e culturali si colloca la nuova considerazione di cui gode presso gli studiosi la letteratura copta,! come essa si è andata sviluppando negli ultimi trent'anni, più o meno, anche, ma non esclusivamente, come conseguenza del progressivo approfondimento degli studi sulla biblioteca di Nag Hammadi e della ripresa di quelli sui testi manichei ritrovati, secondo una tradizione non documentata ma largamente accettata, agli inizi degli anni trenta del Novecento a Medinet Madi nel Fayyum.?

La ‘nascita’ del copto e la conseguente origine della letteratura in copto si collocano in un periodo storico non facilmente definibile in termini di cronologia assoluta ma che, in base a quanto si può ricavare dallo studio della biblioteca di Nag Hammadi, che, come è ben noto, si data in talune opere già al III/IV secolo della nostra era, si può situare agli inizi del III secolo, o, al massimo, nella seconda metà del secondo.

τ Cfr. T. ORLANDI, Letteratura copta e cristianesimo nazionale egiziano, in A. CAMPLANI (ed.), L'Egitto cristiano. Aspetti e problemi in età tardo-antica, Roma, Institutum Patristi-

cum Augustinianum 1997 («Studia Ephemeridis Augustinianum», 56), pp. 39-126. 2 Cfr. l’ottima sintesi di A. CAMPLANI, Sulla trasmissione dei testi gnostici in copto, in

A. CAMPLANI (ed.), L'Egitto cristiano, cit., pp. 171-174 (con la bibliografia precedente).

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SN

SERGIO PERNIGOTTI

Vorrei ricordare anche, in via preliminare, che ciò che noi chiamiamo ‘copto’, al di là delle differenze dialettali che pure sono il tramite per cui noi lo conosciamo, si presenta tuttavia come un fatto unitario: voglio dire non si è trattato solo dell’adozione di un nuovo tipo di scrittura — l'alfabeto greco integrato da un certo numero di segni speciali: altri esempi vi erano stati, precedenti e coevi che non avevano portato a nessun risultato duraturo — ma dell’invenzione, se così si può dire, di uno strumento linguistico che si fondava sulla lingua corrente — ultima fase della plurimillenaria storia dell'Antico Egiziano — che così assicurava una solida continuità con il passato, e fis-

sato nello scritto per mezzo dell’alfabeto greco, a sua volta strumento della diffusione del Cristianesimo, ormai in atto da tempo, e con il greco destinato comunque a rimanere la lingua di riferimento. Una visione tradizionale dei fatti, ormai largamente ma non definitivamente abbandonata, considerava la letteratura copta come una letteratura a contenuto quasi esclusivamente religioso — il romanzo di

Cambise e il Romanzo di Alessandro le sole eccezioni di un panorama

altrimenti uniforme — e una letteratura di traduzioni dal greco: ciò che valeva in sostanza a negare ad essa qualunque valore di originalità e un ruolo comunque secondario tra le letterature del cristianesimo delle origini. Si può consentire facilmente sulla prima caratteristica riconoscendo nel copto la lingua veicolare del Cristianesimo nel momento della sua diffusione in Egitto seconda l’ovvia direttrice Nord-Sud, a partire da un Delta assai ellenizzato verso una chora ellenizzata in misura molto minore, e strumento indispensabile alla traduzione delle opere necessarie alla evangelizzazione del paese, ma anche quella che si ritrova nelle opere della biblioteca di Nag Hammadi e in quella di Medinet Madi a cui sopra ho accennato, con una forte caratterizzazione gnostica la prima, espressione della dottrina manichea la seconda, la cui diffusione nel Fayyum sud-occidentale non era una peculiarità di questa regione,’ come dimostrano i recenti ritrovamenti di testi manichei

a Kellis,* nell’oasi di el-Dakhla, redatti nello stesso dialetto di quelli

3 Cfr. S. GIVERSEN, The Manichaean Coptic Papyri in The Chester Beatty Library, I-IV, Genève, Cramer 1984-1988, special. vol. I, pp. XV-XXVI; I. GARDNER, The Kephalaia of the Teacher, Leiden, Brill 1992 («Nag Hammadi and Manichaean Studies», XXXVII); A. BOH-

LIG, Die Bedeutung der Funde von Medinet Madi und Nag Hammadi für die Erforschung des Gnostizismus, in A. BOHLIG - CH. MARKSCHIES, Gnosis und York, De Gruyter 1994 («Beihefte zur Zeitschr. f. die neutest. A. Magris (ed.), I] Manicheismo. Antologia dei Testi, Brescia, bibliografia). 4 Cfr. I. GARDNER, A Manichaean Litugical Codex Found at



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Manichäismus, Berlin-New Wiss.», 72), pp. 113-242; Morcelliana 2000 (con la Kellis, «Orientalia», LXII,

LA REDAZIONE COPTA DEI «MONOSTICI DI MENANDRO»

di Medinet Madi; prova evidente questa della loro genesi in un unico scriptorium medio-egiziano e di una diffusione nel territorio egiziano che può essere stata molto più ampia di quanto la documentazione a nostra disposizione ci permette ora di ipotizzare. Quanto al secondo punto, le opinioni della dottrina prevalente sono oggi completamente diverse. Vorrei citare a questo proposito quanto affermava, nell'ormai lontano 1969, un noto studioso di cristianesimo delle origini in una sua sintesi sulla letteratura copta: La letteratura copta è quasi esclusivamente cristiana giacché essa fiorì in ambienti cristiani, sia ortodossi che eterodossi (gnostici, manichei). E tutta-

via esagerato e imprudente postulare necessariamente l’esistenza dello greco perduto per quegli scritti copti di cui non si possiede greco. A tale imprudente conclusione spesso si è portati dal largo mini greci che immancabilmente si presenta in qualunque testo

di un mol’originale uso di tercopto: oc-

corre invece tener presente che questi termini greci possono provenire oltre

che dall’influsso del modello greco anche dal fatto di essere stati ormai acquisiti alla stessa lingua indigena, a fianco o in sostituzione del vocabolo egiziano, a seguito del costante e tenace processo di ellenizzazione a cui l’Egitto fu sottoposto.? Vi sono in questo brano cose su cui è facile consentire, altre in cui

le prospettive sono oggi molto diverse (come quello della presenza del vocabolario greco in copto, su cui avremo occasione di tornare più oltre) da quelle di allora, altre come quella relativa ai testi greci (eventualmente perduti) di cui si può conservare solo l’invito alla cautela; ma dati i presupposti, non si poteva che giungere alla seguenti conclusioni: [...] alla letteratura copta, priva di una propria intima forza costruttiva, e pertanto orientata verso la versione, il rifacimento e l’adattamento, dobbiamo pur riconoscere il grande merito di averci conservato, appunto per questo, opere di somma importanza non solo dal punto di vista storico e filologico, come ad esempio le opere gnostiche recentemente scoperte, ma anche dal punto di vista artistico, come la raccolta di salmi che figura nei manoscritti contenenti opere manichee.$

1993, pp. 30-59; In., The Manichaean Community at Kellis. Progress Report, «Manichaean Studies Newsletter», XI,

1993, pp.

18-26; In., Kellis Literary Texts, I, Oxford,

Oxbow

Books 1996 («Dakhleh Oasis Project Monograph», 4). > F. PERICOLI RIDOLFINI, Letteratura copta, in O. BOTTO d'Oriente, Milano, Vallardi 1969, I, p. 771. 6 PERICOLI RIDOLFINI, Letteratura copta, cit., p. 772.

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(ed.), Storia delle letterature

SERGIO PERNIGOTTI

È appena il caso di rilevare che le cose stanno ben altrimenti, come avremo occasione di osservare. Il problema delle traduzioni:” secondo valutazioni recenti le tra-

duzioni non vanno al di là del cinquanta per cento del totale delle opere conservate, anzi forse sono qualche cosa di meno, sempre in termini di percentuali: il resto è letteratura originale non solo con la coeva letteratura greco-cristiana, ma ebraica, rapporti da lungo tempo riconosciuti, e con cristiane del Vicino Oriente come quella siriaca (si talmente

che a Kellis, oltre che i manoscritti

ricca di rapporti anche con quella altre letterature ricordi inciden-

copto-manichei,

sono

stati trovati frammenti in siriaco oltre che naturalmente in greco?). È in questo contesto che si colloca ora il problema delle tradu-

zioni dal greco in copto, problema al quale sono stati recentemente dedicati alcuni studi di sintesi, due simo, di Paolo Marrassini!® che ha tenza, la sua indagine anche ai testi viamente, fuori del nostro assunto. solo problema delle traduzioni in

di Tito Orlandi? e uno, recentisallargato, per ragioni di compein etiopico, che restano però, ovCi occuperemo in questa sede del copto dei testi classici. Come in-

troduzione, non posso fare a meno di citare quanto l’Orlandi dice a questo proposito: [...] il contributo che può dare la letteratura in lingua copta alla conoscenza, nonché al recupero di testi classici propriamente detti, cioè all’antichità classica, è sostanzialmente nullo.!!

È una visione pessimistica, ancorché pienamente giustificata, di uno stato di fatto che varrà la pena di ripercorrere brevemente anche perché la diversa distribuzione dei pochi casi documentabili consente di trarre alcune conclusioni di non poco interesse che, a loro volta,

possono servire di introduzione alla traduzione dei Monostici di Me-

nandro che rappresentano un caso a sé, in un certo senso nuovo, per

? Cfr. ORLANDI, Letteratura copta, cit., pp. 82-94.

8 Cfr. nota 4. ? T. ORLANDI, Le traduzioni dal greco e lo sviluppo della letteratura copta, in P. NAGEL (ed.), Graeco-Coptica. Griechen und Kopten im byzantinischen Ägypten, Halle 1984, Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg Wissenschaftliche Beiträge, 48, pp. 181-203; ID., Traduzioni dal greco al copto: quali e perché, in G. FIACCADORI

(ed.), Autori classici

in lingue del Vicino e Medio Oriente, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 1990, pp. 93-104.

10 P. MARRASSINI, Traduzioni e citazioni dal greco in copto ed etiopico, in S. SETTIS (ed.), I Greci. Storia, cultura, arte, società, 3, I Greci oltre la Grecia, Torino, Einaudi 2001,

pp. 985-1008,

!t Cfr. ORLANDI, Traduzioni dal greco, cit., p. 93.

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74 —

LA REDAZIONE

COPTA DEI «MONOSTICI

DI MENANDRO»

lo meno nel senso che esso non è stato preso in considerazione dagli studiosi sopra citati. L’Orlandi cita solo sei casi di traduzioni in copto di testi greci classici che comunque giudica non a torto «deludenti». Vediamoli. Il primo caso consiste nella traduzione in copto di un brano, del resto assai breve, della Repubblica di Platone (pp. 588b1-589b3) che

si trova nel codice VI della ‘biblioteca’ di Nag Hammadi e serve, almeno in apparenza, da separatore tra la prima parte del codice in cui sono conservate opere di carattere gnostico dalla seconda in cui si trovano tre opere ermetiche e quindi sostanzialmente diverse, talvolta all’opposto, dal punto di vista concettuale, rispetto alle precedenti.'? Il fatto più interessante è che il testo in copto non è affatto una traduzione letterale dell’originale, ma presenta, rispetto ad esso, tutta una serie di divergenze, per così dire, che sommandosi tra di loro portano a un suo totale stravolgimento. Alcune sono errori di traduzione, altre varianti del testo greco, in

altre ancora sono da vedere abili manipolazioni del testo originale per trasformarlo in un testo con valenza religiosa adatto alla funzione che gli era stato riservato di separatore tra le opere gnostiche e quelle ermetiche conservate nel codice. Ciò rende plausibile l'ipotesi che la manipolazione sia stata compiuta espressamente per questo scopo: mi sembra assai meno probabile che si tratti del trasferimento al copto di una manipolazione tardo-antica del testo platonico già compiuta in greco. Nel codice II sempre della biblioteca di Nag Hammadi nel trattato Exegesis de anima si trova una vera citazione omerica, dall’Odissea.” La citazione è giustificata dalla situazione che viene descritta

dall’autore del trattato, dell’anima privata del suo sposo, il Logos, e che anela a ricongiungersi ad esso. Il passo è tratto dal IV libro (vv. 261-263) del poema; assai breve, poco più di due versi, fa parte del racconto che Elena fa della ‘visita di ricognizione’ di Odisseo a Troia: E dopo aver aver trucidato molti dei Troiani col bronzo acuminato, [Odisseo] tornò tra gli Argivi recando copiose notizie. Le altre donne, le Troiane, gemevano con singhiozzi striduli, ma gioiva il mio cuore perché ormai si era volto a tornare indietro, in patria e mi dolevo della follia che zi istillò Afrodite quando dalla patria mi condusse laggiù, abbandonando mia figlia e il talamo e un marito non secondo ad alcuno per senno e bellezza (traduzione di F. Ferrari).

12 ORLANDI, Traduzioni dal greco, cit., pp. 93-94. Cfr. A. CARLINI, CPF 1.1***, Firenze, Olschki 1999, pp. 616-619. 13 ORLANDI, Traduzioni dal greco, cit., p. 94.

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SERGIO PERNIGOTTI

La traduzione copta qui è assai più vicina all’originale che non nel caso del passo di Platone sopra citato e tuttavia anche in questo caso vi sono adattamenti al contesto in cui la citazione si inserisce: così «condusse» è diventato «ingannò» e θάλαμον viene omesso, sì che la traduzione copta suona pressapoco così: «[...] che mi istillò Afrodite

quando dalla patria laggiù mi ingannò abbandonando mia figlia e un marito».

.

Un altro caso significativo per ragioni completamente diverse dalle precedenti si trova nell’opera di Shenute, la maggiore personalità della

letteratura copta, morto quasi centenario poco prima che avesse luogo il Concilio di Calcedonia, autore di molte opere originali, non di traduzione, nelle quali ha modo di dispiegarsi la sua personalità, la più

rilevante certamente di tutta la letteratura copta; egli cita due brani dagli Uccelli di Aristofane: si tratta in realtà poco più di una curiosità perché i passi citati sono quelli famosi in cui vengono imitati i versi appunto degli uccelli.'* L'importanza della citazione sta però, se così mi posso esprimere, nella citazione in sé, nel fatto che Shenute conoscesse comunque tali passi: Orlandi, pur attribuendo a Shenute un ruolo molto significativo nello svolgimento della storia letteraria in copto per aver introdotto nella sua lingua «i modi retorici e stilistici della contemporanea cultura greca» pensa che il celebre abate, fondatore del Monastero Bianco e di quello Rosso che si trovano nei pressi di Sohag, possa essere venuto a conoscenza di essi attraverso antologie scolastiche:! cosa ben possibile, si capisce, ma forse non necessaria. La cultura greca di Shenute poteva forse prescindere dall’uso di antologie: può ipotizzarsi un contatto diretto con le opere originali. Forse potremmo fermarci qui, con questo magro inventario: l’Orlandi in effetti cita qualche altro caso come la traduzione parziale del trattato ermetico Asclepius che si trova nello stesso codice VI di Nag Hammadi di cui fa parte la citazione di Platone sopra citata e la possibilità che alcuni frammenti di due omelie copte provengano dalla Theosophia a cui si può forse aggiungere le allusioni al Physiologus che si trovano in varie opere in copto: ciò che farebbe supporre che ne esistesse una versione non si sa quanto completa.!° Comunque stiano le cose è stato osservato che ben difficilmente l’Asclepius, la

14 ORLANDI,

Traduzioni dal greco, cit., p. 94.

15 ORLANDI, ibid. 16 ORLANDI, Traduzioni dal greco, cit., pp. 94-95.

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LA REDAZIONE

COPTA DEI «MONOSTICI

Theosophia e il Physiologus possono

DI MENANDRO»

considerasi opere classiche da

porre sullo stesso piano di Omero, Aristofane e Platone. Comunque vale forse la pena di osservare che, a parte il caso di Shenute che resta comunque eccezionale sia perché è la personalità di Shenute che è sempre comunque eccezionale e poi perché la fonte delle sue citazioni resta assai problematica e può essere stata anche del tutto occasionale, gli altri casi si trovano tutti nelle biblioteca di Nag Hammadi (codici II e VI): e ciò può non essere un caso. Come si vede nell’elenco sopra riportato non viene menzionata la traduzione dei Monostici di Menandro che dunque andrà ora aggiunta ad esse. Si tratta in sostanza di due papiri. Il primo è costituito dal PLond VIII 1a + 3b datato al V/VI secolo (= II nella edizione di Hagedorn e Weber)! e dal PVat (Sarti) + il P ex-InnsbrCopt 7 (ora PKHM) datato al VI/VII secolo.!8 Entrambi contengono una redazione dei Monostici di Menandro con una traduzione copta ‘verso per verso’ molto vicina all’originale; entrambi contengono gli stessi monostici: varie particolarità fanno pensare non a due testi di cui uno sia copia dell’altro, ma a due stesure della stessa redazione. Numerose sentenze riguardano il tema dei grammata, ciò che porta verso un ambiente scolastico dove operava un maestro (o, se si preferisce, un maestropoeta) che utilizzava i monostici nell’insegnamento. Ad essi va aggiunto l’ostrakon di Vienna K 674 datato al VI/VII secolo che contiene il testo del Monostico 517 a cui segue immediatamente la traduzione copta.!

17 W.E. CRUM, The Monastery of Epiphanius at Thebes, New York, The Metropolitan Museum of Art Egyptian Expedition 1926, U, p.. 320; D. HAGEDORN - M. WEBER, Die griechisch-koptische Rezension der Menandersentenzen, «ZPE», III, 1968, pp. 46-49 (= IL); M. HASITZKA, Neue Texte und Dokumentation zum Koptisch-Unterricht, Wien, Hollinek

1990 («M.P.E.R.», N.S. XVIII), pp. 207-210 (= II. 18 HAGEDORN - WEBER, Die Griechisch-koptische Rezension, cit., pp. 15-45 (= ἢ); G.M. BROWNE - L. KOENEN, Zu der griechisch-koptischen Rezension der Menandersentenzen, «ZPE», VIII,

1971, pp.

105-108;

H. SATZINGER,

Zu den koptischen Menander-Sentenzen,

«CE»,

XLVII, 1972, pp. 351-354; M. MARCOVICH, Menandri Sententiae, «ZPE», XX, 1976, pp. 4546; G.M. Browne, Ad Menandri Sententias, «ZPE», XXIII, 1976, pp. 45-47; R. FÜHRER, P.Innsbr.Copt. 7, fol. IV A, Zeile 108-109, «ZPE», LIX, 1986, p. 36; HASITZKA, Neue Texte

und Dokumentation, cit., pp. 202-207 (= I); M. MORANI, Sur quelques passages des versions copte et vieux-slave des Sentences de Ménandre, «Le Muséon», CIX, 1996, pp. 127-136. 19 W.E. CRUM, Short Texts from Coptic Ostraca and Papyri, London, Oxford University Press 1921, p. 106, nr. 403; W.C. TILL, Die koptischen Ostraka der Papyrussammlung der Österreichischen Nationalbibliothek, Österr. Akad. der Wissensch., Philos.-hist. Klasse,

Denkschr. 78.1, Wien 1960, p. 4, nr. 9; HAGEDORN - WEBER, Die griechisch- koptische Rezension, cit., pp. 49-50; HASITZKA, Neue Texte und Dokumentation cit., pp. 201-202.

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SERGIO PERNIGOTTI

Malgrado le oggettive difficoltà di datare i testi copti, difficoltà che impongono comunque una certa cautela, possiamo dire che i testi sopra menzionati si dispongono su un arco cronologico ampio: il primo gruppo, quello dei codici di Nag Hammadi II e VI (Omero e

Platone) è da datare al III/IV secolo, più verosimilmente al IV, men-

tre le citazioni scenutiane di Aristofane sono della prima metà del V; le Sentenze di Menandro vanno dal V al VI/VII. Mi sembra che si

possa affermare quindi che, malgrado la scarsità del materiale disponibile, vi è continuità, una certa continuità, nella presenza di testi classici nella letteratura copta originale, anche se può trattarsi di un’impressione derivante da un’arbitraria distribuzione nel tempo del poco che si è conservato: e il caso archeologico può avere avuto qualche influenza su tale processo di selezione. Resta il problema del significato che assume la presenza dei testi bilingui greco-copti con i Monostici di Menandro nell’ambiente culturale copto. È stato ipotizzato che si tratti di testi utilizzati nell’insegnamento che allora non potrà essere pensato altro che come insegnamento bilingue, naturalmente all’interno di un mondo copto che in questo caso equivale a dire cristiano, naturalmente cristiano/egiziano.?® Sull’ipotesi dell’insegnamento bilingue credo che si possa consentire: forse però si può andare ancora oltre alla luce anche del modo ora assai diverso con cui noi possiamo vedere la cultura copta nei suoi rapporti con quella greca coeva e della stessa nascita della lingua copta che come sopra s’è detto, ma forse giova ricordarlo, altro non è che la fase finale della plurimillenaria storia della lingua egiziana, scritta con l’alfabeto greco integrato da sei o sette segni speciali mutuati dal demotico per sopperire alla non perfetta coincidenza del sistema fonetico greco con quello egiziano. Due dati devono essere considerati: al momento dell’invenzione del copto la cultura egiziana ‘classica’ era ancora viva e vitale e si esprimeva ancora nelle tre scritture tradizionali (geroglifica, ieratica, demotica) e specialmente in quella demotica, per cui in realtà il copto si aggiungeva alle scritture precedenti senza sostituirle. Inoltre, il copto è assai ricco di prestiti greci, in misura diversa a seconda delle epoche — si nota un certo ma del resto assai limitato

20 R. CRIBIORE, Greek and Coptic Education in the Late Antique Egypt, in Agypten und Nubien in spätantiker und christlicher Zeit. Akten der 6. Internationalen Koptologenkongresses, hrsg. von 5. EMMEL, M. KRAUSE, S.G. RICHTER, S. SCHATEN, Wiesbaden, Reichert

1999 («Sprachen und Kulturen des christlichen Orients», 6.2), pp. 279-286; cfr. anche HASITZKA, op. cit.

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LA REDAZIONE

COPTA

DEI «MONOSTICI

DI MENANDRO»

regresso dopo il Concilio di Calcedonia — prestiti che si inseriscono

senza apparenti difficoltà nel tessuto linguistico egiziano:?! la cura degli scrittori in copto nel rendere le parole greche è perfino eccessiva come si vede molto bene, ad esempio, nella cura con cui viene puntualmente notato lo spirito aspro: ma si veda il caso di una parola come synodos che in copto si scrive synhodos con la lettera bor: (= h) tra syn e hodos. Non si tratta di casi limitati alla scrittura: essi in realtà si estendono anche alla sintassi, cosa molto più complessa per due lingue tra di loro così lontane. L’idea che ancora qualche anno fa era ben presente in dottrina del copto come una lingua per gli ‘indigeni’, nata dalla esigenze della evangelizzazione, la lingua degli ‘ultimi’ d’Egitto, delle classi subalterne, retaggio dei monaci ignoranti, degli artigiani e dei contadini, non regge di fronte alle considerazioni sopra esposte e ancora meno alla presenza dei testi classici e alla ricchezza straordinaria delle presenze gnostiche e dei testi manichei, nonché delle controversie dottrinali che si esprimono attraverso di esso. Mi sia consentito citare un altro passo di Tito Orlandi che mi pare molto significativo: È utile anzitutto sbarazzarsi di un pregiudizio che purtroppo trova un accordo pressoché unanime negli studiosi, e cioè che il lavoro di traduzione in lingua copta sarebbe stato attuato per mettere i testi in questione alla portata di quei settori della popolazione egiziana che non conoscevano il greco. Il modo più normale per rendere comprensibile un testo greco a un egiziano che non conoscesse il greco dovette essere prima di tutto la traduzione orale, in particolare la spiegazione in lingua egiziana di ciò che era stato prima letto in greco [...] Il produrre libri contenenti traduzioni per un pubblico ignorante e sicuramente poverissimo (si parla infatti sempre di contadini della Valle del Nilo) non può essere stata un’idea di quei tempi.?

Non si può pensare che una lingua in cui la presenza del vocabolario e delle strutture sintattiche del greco è così massiccia fosse rivolta ad altro che a un pubblico di cultura bilingue medio-alta: l’evangelizzazione e le sue esigenze sono probabilmente un fatto importante, sicuramente presente e documentabile, anche, ma non essenziale per la nascita del copto; un fatto che si colloca meglio al di fuori del Delta, più intensamente

ellenizzato, ma realizzato comunque

in am-

21 Cfr. 5. DEMARIA, Die griechischen Lehnwörter in der Sprachen des christlischen Orients,

«REAC», III, 2001, pp. 103-125.

22 ORLANDI, Letteratura copta, cit., pp. 47-48.



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SERGIO PERNIGOTTI

bienti, egiziani, in cui ci si poteva muovere con uguale disinvoltura tra greco e egiziano. Le esigenze che hanno portato alla nascita del copto sono altre, in primo luogo essenzialmente culturali: è questo un tema di ricerca particolarmente attuale e di notevole portata per lo studio di taluni non secondari aspetti della temperie spirituale dell’Egitto tra il lento tramonto della civiltà egiziana classica e l'affermarsi del Cristianesimo e il tardo antico secondo i caratteri con i quali si è andato delineando

in Egitto, fino alla conquista araba e perfino oltre di essa. In realtà il copto nasce come rifiuto consapevole della cultura egiziana pagana e degli strumenti di cui essa si serviva per esprimersi in ambienti che sono profondamente ma non totalmente ellenizzati, per i quali il greco rimane comunque qualche cosa di più della lingua di

riferimento del Cristianesimo che si sta mano a mano diffondendo nel paese: non solo lingua dell’evangelizzazione, ché altrimenti rimarebbe inspiegabile la ricchezza del vocabolario greco, ma lingua degli evangelizzatori, inventata in ambienti colti del Delta che non solo sono in grado di servirsi del greco e dell’egiziano corrente, ma che spingono la loro consapevolezza dei rapporti tra fasi linguistiche e scritture fino all'adozione di un certo numero di segni tratti dal demotico per completare l’alfabeto ‘copto’, altra e quasi decisiva prova del suo carattere largamente artificiale. E l’orgoglioso rifiuto del passato pagano del proprio paese che spinge gli esponenti del nascente cristianesimo egiziano a trasformare il proprio volgare in lingua letteraria, ché tale è il copto come noi lo conosciamo per alcuni secoli — ricordo incidentalmente che i primi testi documentari non sono anteriori al VI secolo. Una lingua letteraria dunque che non può rivolgersi per il suo carattere composito e l'ampia utilizzazione del lessico greco se non a circoli culturali medio-alti, come sopra s'è detto: e che rispecchia comunque la volontà di esprimere nella lingua ‘nazionale’ che si ponga con pari dignità di fronte al greco la propria adesione al Cristianesimo. È il bilinguismo dunque la principale caratteristica in cui nasce e si sviluppa la letteratura copta e tale rimane per il suo intero svolgimento storico. In tale contesto ben si collocano i Monostici di Menandro; si è detto più sopra che l’ipotesi del loro uso nell’insegnamento, ovviamente bilingue, è accettabile e anzi obbligatoria nel caso dell’oszrakon di Vienna che andrà considerato, più propriamente, un esercizio scolastico, testimone quindi di un uso di raccolte bilingui come quelle che si sono conservate negli altri papiri.

L'ipotesi dell’uso nell’insegnamento rimane in piedi e anzi credo

che si rafforzi; ma si può pensare a una circolazione dei Monostici —

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LA REDAZIONE

COPTA

DEI «MONOSTICI

DI MENANDRO»

anche al di fuori dell'ambiente strettamente scolastico, proprio per questa caratterizzazione in senso bilingue e medio-alta, giova ricordarlo, della cultura in copto considerata nel suo insieme. Bisogna però riconoscere che la presenza dell’ostrakon e l’insistere sull'argomento dei grammata sembrano privilegiare l’ambiente scolastico: tale tema, quello dei grammata, ricorda molto da vicino le antiche esortazioni, rivolte dal maestro ai propri pupilli, a scegliere il mestiere di scriba. Mi avvio rapidamente alla conclusione. Resterebbe da domandarsi se la redazione copta dei Monostici di Menandro possa in qualche modo ricollegarsi a un persistere della tradizione sapienziale anticoegiziana testimoniata per un periodo di tempo di quasi tremila anni e ben viva ancora all’inizio della nostra era nel demotico. Personalmente sono propenso a vedere nella letteratura copta la sopravvivenza di temi e di tendenze del gusto della letteratura egiziana antica: alcuni casi sono facili da riconoscere, altri meno, ma que-

sto sembra essere uno di essi, come potrebbe senza di una traduzione copta delle gzomai della Biblioteca di Nag Hammadi, mentre un trebbe forse ipotizzarsi, pur nella ben diversa le Sortes Sanctorum delle quali una redazione

dimostrare anche la predi Sesto nel codice XII più tenue rapporto pofunzionalità, anche con copta è testimoniata.”

2 A. VAN LANTSCHOTT, Une collection sabidique de «Sortes Sanctorum», «Le Muséon»,

LXIX, 1956, pp. 35-52.

— 831—

PAOLO

BETTIOLO

DEI CASI DELLA VITA, DELLA PIETÀ E DEL BUON NOME INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO 1. È del 1852 la pubblicazione, sul «Journal Asiatique», della Lettre à M. Reinaud sur quelques manuscrits syriaques du Musée britannique, con cui E. Renan registrava per primo il «grand travail philosophique qui se manifesta chez les Syriens au Vle et au VIIe siècle».! In quel saggio il giovane studioso francese segnalava tra l’altro, in uno dei mss. su cui richiamava l’attenzione, Add.

14.658, databile al VII

secolo, un testo che raccoglieva un certo numero di sentenze introdotte dall’izcipit: «Menandro il sapiente ha detto». Renan non ebbe allora dubbi nell’identificare questo Menandro nel commediografo greco,’ e in questo senso scrisse anche a G. Guizot, che in quegli anni preparava uno studio a lui dedicato. Tuttavia non sembra egli abbia mantenuto a lungo tale identificazione, se in nota 1 a p. 39 del suo Ménandre. Étude historique et littéraire sur la Comédie et la Société Grecques, pubblicato a Parigi, Didier, nel 1855, Guizot annotava, a proposito del testo segnalatogli: «M. Renan lui-méme [...] soupgonne ces sentences d’étre apochryphes».* Si deve a J.P.N. Land l’edizione e la messa a punto di una prima versione, latina, dello scritto di ‘Menandro’, apparse nel primo volume degli Anecdota Syriaca, stampati a Leyden nel 1862." Due note,

I Il saggio fu pubblicato su «Journal Asiatique», XIX, 1852, pp. 293-333: 294. 2 Così si legge al f. 163vb; il testo nel ms. si estende fino al f. 167vb. Per una prima descrizione del codice cfr. le note di W. WRIGHT, Catalogue of the Syriac Manuscripts in the British Museum, Acquired Since the Year 1838, London, pp. 1154-1160. 3 Cfr. Lettre, p. 302.

The British Museum

1870,

4 Riprendo la citazione dal saggio di J.-P. AUDET, La sagesse de Ménandre l’égyptien, «Revue Biblique», LIX, 1952, pp. 55-81: nota 2 a p. 55; cfr. anche quanto scrive M. KÜCHLER, Frühjüdische Weisheitstraditionen, Freiburg, Universitätsverlag-Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1979, nella sezione dedicata a ‘Menandro’, pp. 303-318: nota 15 a p. 310.

> Land vi pubblicava il testo siriaco alle pp. 64 1. 21-73 1. 18, e la traduzione latina alle pp. 154-164; degli Scholia in Menandri Sententias seguono quindi alle pp. 198-205.

- 435.

PAOLO

BETTIOLO

rispettivamente di W. Wright e R. Payne Smith, recensivano l’anno

seguente il suo lavoro, fornendo utili contributi ad una migliore comprensione del testo.° In quello stesso anno, una doppia recensione del

rabbino francofortese A. Geiger, che prendeva in considerazione sia l’opera di Land sia l’apporto dei suoi critici, migliorava ulteriormente, tra l’altro, anche l’intelligenza dello scritto.” Land, che aveva raffrontato il testo delle sentenze siriache con quello dei «fragmenta» menandrei editi nel 1860 da F. Dübner, aveva osservato che, se in singoli casi si dava somiglianza o convergenza tra le due collezioni sia nel senso di singoli detti sia, più complessivamente, nella «ratio cogitandi» che attestavano, pure «minime probabile» era congetturare una traduzione «ad verbum» del greco: il siro ‘gentile’ («nam Christianum fuisse vix credo», annotava) cui si doveva la versione aveva sicuramente, a suo sentire, ampliato e interpolato qua e là con propri pensieri o «proverbia popularia» l’originale.® «This sage Menander» «was not a Christian», confermava Payne Smith, facendo però slittare l’osservazione di Land dal traduttore all’autore stesso dello scritto, situato in epoca romana. Aggiungeva poi, a proposito del testo siriaco, che esso «is by no means easy, but its difficulty chiefly consists in the translator having somewaht slavishly fol-

lowed the order of the Greek original».!° Infatti, concludeva, «put his maxims back into Greek, and they become comparatively easy».!! E un'osservazione felice, credo, che, se confermata, consentirebbe di

6 La recensione di W. WRIGHT, apparsa nel «Journal of Sacred Literature and Biblical Record», III.V (April 1863), pp. 115-130, fu ripubblicata in estratto in Arecdota Syriaca, London 1863, pp. 3-18 (da cui cito). Egli segnalava un certo numero di errori, sia di lettura del ms., sia di stampa, presenti nel lavoro di Land — cfr. soprattutto zvz, p. 8. La recensione di R. Payne Smith, stampata sulla stessa rivista e nello stesso fascicolo che ospitava la precedente, vi compare, tra le Notices of Books, alle pp. 187-199, e apporta in particolare una serie di correzioni alla sua traduzione dei testi -- per ‘Menandro’ cfr. pp. 194-196.

? Cfr. Bibliograpbische Anzeigen in «Zeitschrift der Morgenlandischer Gesellschaft», XVII, 1863, pp. 752-759 e 760-762. 8 LAND, Anecdota I, pp. 198-199. ° PAYNE SMITH, Notices, p. 195. 10 Ibid. Quest’osservazione, noto, non contrasta con quella di Land sopra riportata, perché questa, a mio giudizio, intende non tanto valutare la qualità della traduzione stessa,

quanto prendere atto della distanza della raccolta siriaca da quanto ci è tradito e chiaramente riconoscibile come menandreo. 1! Ibid. 12 Segnalo che pure A. Baumstark, nelle note che appone alla sua versione dello scritto in Lucubrationes Syro-Graecae, «Jahrbücher für klassische Philologie», Supplement-Band XXI,

1894, pp. 473-490, osserva, a proposito della «vertendi ars» del traduttore siriaco,

-

84

INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

ritenere la versione stessa eseguita non prima della fine del V, inizi VI secolo, se questo è il periodo in cui i traduttori siriaci passano crescentemente «from the reader-oriented to the source-oriented type of translation», ovvero ad un «mirror type» di versione, in cui si dà corrispondenza sempre più stretta tra parole greche e parole siriache.! Torneremo su questo appunto. Qui è invece opportuno concludere questa rassegna della prima recezione del testo in esame ricordando che Geiger, contro Land, considera la versione opera di un cristiano, di un zonaco cristiano, anzi — attestazione della varietà degli interessi

e delle curiosità degli ambienti monastici siriaci. La traduzione delle sentenze

di ‘Menandro’,

in particolare, testimonierebbe,

secondo

lo

studioso di Francoforte, l’attenzione prestata nei monasteri alla letteratura classica di lingua greca — «mag deren Sittenlehre auch nicht überall dem christlichen Standpunkte entsprechen»!!4 Insisto su questa osservazione di Geiger, che pure vorrei riconsiderare alla fine di queste note: non v'è traccia, afferma, di attività letteraria di «pagani» in Siria; nulla ne è rimasto. Scritti e lingua sono cristiani sempre, dunque, o, con più precisione, plasmati esclusivamente «durch jüdische und christliche Einflüsse», e traditi da monaci.

È bene però por termine qui a questa digressione e riprendere il sommario resoconto della fortuna moderna del ‘Menandro’ siriaco,

che deve ripartire da Land. Le critiche mossegli nel ’63 lo indussero infatti ad una serie di correzioni alla sua pubblicazione, comparse in Anecdota Syriaca II, editi nel 1868.!6 Neppure questo doveva tuttavia risultare un lavoro definitivo: le incertezze relative ad un testo di non agevole lettura indurranno ancora due volte gli studiosi a tornare al ms.: questo fece F. Schulthess, per la sua versione tedesca delle sentenze, pubblicata nel 1912; questo ripeté J.-P. Audet, per appronche ora egli aggira «magno labore» e con scelte arbitrarie le difficoltà che incontra, ora «Graeci exemplaris vestigia summa quadam atque etiam anxia cum diligentia adeo premi videmus, ut passim verborum collocationes efficiantur a legibus linguae Syriacae prorsus absonae» (ivi, p. 487).

5 Seguo le indicazioni offerte da S. BROCK in Towards a History of Syriac Translation Technique, in III Symposium Syriacum - Les contacts du monde syriaque avec les autres cultures (Goslar 7-11 Septembre 1980), R. LAVENANT ed., Roma, Pontificium Institutum Stu-

diorum Orientalium 1983 («Orientalia Christiana Analecta» 221), pp. 1-14: 12. 4 GEIGER, Bibliographische Anzeigen, p. 753. 15 Ibid. 16 Ivi, in Addenda et emendanda in Tomo primo, pp. 1-26, 17-19 (correzioni alla tra-

duzione) e 25-26 (correzioni al testo). 17 Die Sprüche des Menander, aus dem Syrischen übersetzt, «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft», XXXII, 1912, pp. 199-224.

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PAOLO BETTIOLO

tare la sua traduzione francese, stampata nel 1952.!8 Entrambi confrontarono il testo di Land con quello offerto da foto del ms. londi-

nese, pervenendo a proporre correzioni non sempre identiche, in taluni casi, anzi, fortemente divergenti. La più recente versione delle

sentenze, tuttavia, se tiene conto della totalità delle letture e congetture proposte e delle traduzioni comparse, non una rinnovata lettura del codice: T. Baarda, che glese nel 1985, scrive infatti di non aver avuto una riproduzione fotografica dei suoi fogli.' Ultimo, indipendente apporto alla lettura del in talune sue parti, è infine l'edizione, a cura di

poggia, aggiungo, su l’ha pubblicata in inmodo di accedere ad testo siriaco, almeno E. Sachau, a due soli

anni dalla pubblicazione del secondo volume degli Arecdota di Land, di una breve Epitome della raccolta siriaca, contenuta in un ulteriore ms. londinese, ’Add 14.614 (VIIV/IX sec.), che, tuttavia, su indicazione di W. Wright, già lo studioso olandese aveva segnalato negli Addenda et emendanda al suo precedente lavoro.? 2. Dovevano passare più di vent'anni dalla pubblicazione di Sachau prima che comparisse un nuovo, consistente contributo alla ricerca sul testo del ‘Menandro’ siriaco. È del 1894, infatti, come si è

18 La sagesse de Ménandre. 19 Cfr. The Sentences of the Syriac Menander (Third Century A. D.), in The Old Testament Pseudepigrapha II, J. CH. CHARLESWORTH ed., New York, Doubleday & Co. 1985, pp. 583-590 (introduzione — ove, in nota 6 a p. 584, si legge la dichiarazione riportata nel testo) e 591-606 (traduzione — ma alle pp. 591-592 si legge la versione dell’Epitome, su cui cfr. la nota successiva). 20 Cfr. LAND, Arecdota II, pp. 20-21, ove tali sentenze sono giudicate «nostrarum simillimae» (ivi, p. 20). Sachau pubblica la raccolta in Inedita Syriaca. Eine Sammlung syrischer Übersetzungen von Schriften griechischer Profanliteratur, Halle 1870 (rist. an. Hildesheim, Olms 1968), pp. 80-81 I. 10, per complessive 23 righe di testo. Nel Vorwort all'edizione, p. VII, egli osservava che il testo dell’Add. 14.614 contiene «einige Varianten von Bedeutung» rispetto a quello edito da Land; Baarda, introducendo la sua versione, ricapitola così il rapporto tra i due testi: «The younger text of the Epitome is not based upon the older text of the Florilegium but presupposes a slightly different recension of the latter, which at least in one instance seems to have preserved a better text» (Sentences, p. 584). Segnalo che, nello stesso anno della pubblicazione di Inedita, usciva su «Hermes», IV, 1870, pp. 69-80, un ulteriore lavoro di SACHAU, Uber die Reste der syrischen Übersetzungen classischgriechischer, nichtaristotelischer Litteratur unter den nitrischen Handschriften des brittischen Museums. Qui, a p. 78, lo studioso tedesco avanza

l’ipotesi che i materiali filosofici dell’Add. 14.658 (fra cui si colloca pure lo scritto di ‘Menandro’) siano tutti frutto del lavoro di traduzione di Sergio di Rish’ayna, brillante intellettuale siriaco degli inizi del VI secolo, cui, in questo ms., si deve sicuramente la

versione di alcuni scritti aristotelici. Su questo suggerimento e su Sergio rinvio a quanto si scriverà più oltre, lì dove si tratterà dell'ambiente siriaco che ha prodotto e letto il testo ‘menandreo’.

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INTORNO

AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

già avuto modo di segnalare, la pubblicazione, da parte di A. Baumstark,?! di una nuova versione, latina come quella di Land, dell’operetta, accompagnata da una nota in cui si insisteva fortemente, ancora

una volta, sulla dipendenza della collezione da una raccolta di estratti dall’autentico Menandro, pure, nel testo pervenutoci, profondamente rielaborata e alterata, senza che tuttavia ciò significasse, come aveva sostenuto il suo editore, l’inserzione in essa di materiali siriaci, quali che fossero.?? Era questo, tuttavia, l’ultimo tentativo di connettere in modo sostanziale lo scritto alle opere del commediografo greco o, meglio, al loro utilizzo nell’ambito dei grormologia. L’anno successivo comparve, infatti, un ampio saggio di W. Frankenberg, che definiva fin dal titolo la raccolta come «ein Produkt der jüdischen Spruchweisheit», dimostrandone le connessioni con il materiale sapienziale ebraico.?? Certo, Schulthess, presentando nel 1912 una nuova traduzione del testo minuziosamente annotata, ma solo sotto il profilo filologico-linguistico, inviterà a grande prudenza nel giudicarlo, prima di averne condotto uno studio accurato — e i suoi rimproveri sono rivolti contro Baumstark, ma anche contro Frankenberg, che accusa di non aver addotto, a conferma della sua tesi, alcun serio elemento poggiante su un’esauriente analisi delle sentenze. Infatti, i materiali in esse presenti sono assai vari, suggerisce, osservando poi, in termini in

fondo non trascesi dalla successiva ricerca, che molti ‘consigli’ sono ripresi dalla «internationalen Weisheitsliteratur Vorderasiens und Griechenlands» più che da un contesto strettamente giudaico.?* Tuttavia, pur sottolinenadone i limiti, anche nelle conoscenze relative agli ambienti di elaborazione e fissazione delle Scritture ebraiche che necessariamente tradisce, per l’importanza che ha assunto è opportuno indugiare nell'esposizione delle tesi del lavoro di Frankenberg. Il saggio, dunque, si apre con un’annotazione di carattere teologico, relativa alla «Gottesidee» presente nelle sentenze: si tratta di un Dio dai tratti

21 In Lucubrationes Syro-Graecae. Baumstark, si deve segnalare, dimostra di ignorare le correzioni proposte da Wright al testo di Land e le correzioni da questi arrecate alla sua edizione. 22 Ivi, p. 474. Baumstark, osservo, imputa al traduttore siriaco un profondo rimaneggiamento del testo greco, teso a trasformare in discorso continuo i materiali gnomici o i

(presunti) brevi dialoghi che dovevano caratterizzare l’originale che traduceva (cfr. ivi, pp. 473-474). 3 Die Schrift des Menander (Land anecd. syr. I, S. 64 ff), ein Produkt der jüdischen Spruchweisheit, in «Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft», L, 1895, pp. 226-

277. Anche questo lavoro non utilizza gli Addenda et emendanda di LAND, Anecdota II. 24 Die Sprüche des Menander, soprattutto pp. 201 e 202 (la citazione, in particolare, si legge a p. 202).

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PAOLO BETTIOLO

marcatamente antropomorfici, «ein Person», che opera nelle vicende umane «nach seiner unerforschlichen Willkür», ma, alla fine (fosse pure nel mero ‘buon nome’ che sopravvive all’uomo pio), secondo un’infallibile giustizia — il Dio d’Israele, insomma. Entro questo qua-

dro lo studioso tedesco legge le sentenze di ‘Menandro’ alla luce della letteratura sapienziale ebraica, in particolare di Pr e Sir,?° segnalando i numerosi paralleli che esse presentano con questi testi. Di più, in quest’analisi Frankenberg si spinge fino ad ipotizzare un originale ebraico per la collezione, facendo perno su talune espressioni che si chiarirebbero solo sulla base di una tale eventualità.” Vi sono tuttavia alcune difficoltà cui va incontro una lettura della raccolta che la riconduca a paralleli unicamente biblici. V’e, innanzi

tutto, il caso della lunga sentenza che si legge in Land, p. 69 Il. 1724, il cui incipit recita: « Il re — i suoi grandi lo onorano, ma gli dei -i loro sacerdoti (li) disprezzano». Frankenberg, in un lungo commento, richiama l’attenzione sulle numerose incertezze del testo siriaco nella pagina che ospita queste righe; suggerisce, quindi, di correggerlo qui mettendo al singolare la parola «dei» e il pronome enclitico che la richiama, leggendo: «ma Dio - i suoi sacerdoti (lo) disprezzano»; nota, infine, che lo scritto di ‘Menandro’ si inscrive in quella letteratura che attesta e celebra la crescente centralità assunta dalla ‘sapienza’ e dai ‘sapienti’ in Israele, con la conseguente sempre minore insistenza, almeno nel suo ambito, sul ruolo del sacerdozio e sull’onore dovutogli — quando non si pervenga a vera e propria insofferenza nei suoi confronti.?8 Μ᾽ ἃ poi una serie di dettagli inquietanti, che limitano l'ampiezza e la profondità, forse, della corrispondenza tra Pr e Sir, da una parte, e sentenze di ‘Menandro’, dall’altra. Frankenberg, nelle sue annotazioni conclusive, deve riconoscere infatti che la raccolta siriaca non ospita alcuna speculazione sulla Sapienza; che difetta di qualsiasi «religiöse Warme» e «Nationalitätbewußtsein»; che, da ultimo, accentua

2 Die Schrift des Menander, pp. 226-228. Frankenberg anche altrove nel suo saggio insiste sulla «Willkür» di Dio (p. 238), sul fatto che ogni umano caso è «in Gottes Macht»

(p. 228; cfr. anche p. 238, ove annota: «Zufall, d. h. Gaben Gottes»). 26 Solo raramente vengono utilizzati paralleli desunti da altri scritti, quali Sap (pp. 229, 234, 261) o Salmi di Salomone (pp. 233, 235, 268, 270) o, testo su cui altri insisteranno

maggiormente, Qo (sempre limitatamente ai primi versetti del settimo capitolo: cfr. pp. 242, 252, 259 e 261).

21 Cfr. le note sull’uso della parola «legge» in ‘Menandro’, a p. 229; nota 1 a p. 263 e l'osservazione conclusiva in fine p. 264. 28 Ivi, pp. 265-270.

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INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

tratti sconosciuti alla letteratura sapienziale ebraica, quali, ad esempio, «der Antrieb zum Erwerb».?? Infine, v'è ancora almeno un’altra sentenza interessante per queste note critiche. In Land, p. 66 Il. 7-15, si leggono una serie di domande poste ad Omero dai suoi ‘compagni’ sulla condotta da tenere nei confronti di anziani e genitori.?° Il testo non ha ricevuto particolari commenti; Frankenberg, in nota, segnala solo che l’originale dell’aneddoto si legge in Erodoto e che, in bocca ad un saggio d’Israele, esso è «besonders bemerkenswert».?! Esso costituisce, dunque, un ulteriore piccolo indizio dell’impossibilitä di limitare le fonti di ‘Menandro’, per sua esplicita ammissione, a quelle di una sapienza meramente ‘ebraica’.

29 Ivi, pp. 270-271. Sono tratti su cui insisterà anche la critica successiva, che, ad esempio, in riferimento al primo punto sopra menzionato, talora escluderà ‘Menandro’ da una qualsiasi cura nei confronti dell’elaborazione intellettuale, sia essa ‘greca’ o ebraica, per

quanto minima (cfr. quanto scrive Audet in La sagesse de Ménandre, p. 78: «(s)es observations et (s)es conseils relèvent de l’expérience humaine la plus commune», o p. 79: «Toute espèce de philosophie un peu consciente d’elle-m&me est absente de sa pensée»). A correzione, tuttavia, dell’impressione che l’ultimo cenno di Frankenberg può produrre (e a preparazione di prossime osservazioni), vorrei richiamare una pagina di E.J. BICKERMAN, in un suo celebre testo su The Jews in the Greek Age, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press 1988, trad. it. Gl ebrei in età greca, Bologna, Il Mulino 1991, ove, a proposito del Siracide, si legge: «Il suo uomo pio porta gioielli d’oro e braccialetti d’oro sul braccio destro ed apprezza carni e leccornie. Come in tutte le antiche ammonizioni etiche, da quelle degli antichi egiziani a quelle degli stoici — che discutevano se un saggio dovesse afferrare il miglior pezzo di carne a tavola —, i fai e i non fare della vita giornaliera svolgono una parte importante nel consiglio di Ben Sira. Per esempio, un saggio non dovrebbe guardare furtivamente nelle case degli altri; dovrebbe essere educato con chiunque, rispondendo al saluto anche di un povero; dovrebbe visitare l’ammalato e piangere il morto (ma non più di un giorno o due). Dovrebbe evitare il pettegolezzo. Dovrebbe sapere come presiedere ai banchetti, come parlare e come ascoltare. Se invitato come ospite, non dovrebbe ingordamente metter la mano sul piatto comune. Se invece gli dovese capitare di mangiare troppo, dovrebbe lasciare la tavola, come un gentiluomo, ed andare altrove a vomitare» (cfr. zur, trad. it., p. 225).

30 Il testo recita: «Non essere litigioso e la tua mano non si protenda contro chi è più vecchio di te, perché i compagni di Omero gli domanda(ro)no: “Cosa accadrà a chi batte un uomo anziano?”. Disse loro: “I suoi occhi saranno accecati”. “E cosa accadrà a chi percuote la propria madre?”, Disse loro: “La terra non lo sosterrà, perché è la madre di tutti gli uomini”. E ancora gli domanda(ro)no: “E cosa accadrà a chi batte il proprio padre?”. Omero disse ai suoi compagni: “Questo non sia! Neppure si deve scrivere di ciò. Infatti, non v'è figlio che batta il proprio padre, a meno che sua madre, la sua genitrice, non abbia commesso adulterio con uno di un’altra regione”» (LAND, Anecdota, p. 66 Il. 7-15).

31 Cfr. Die Schrift des Menander, p. 238 -- per la citazione cfr. ivî nota 1, con rinvio a Erodoto, I 137. BAARDA, The Sentences, p. 594, segnala in parallelo, oltre ad Erodoto, Cicerone, Pro Roscio 25.

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PAOLO BETTIOLO

In conclusione, il saggio di Frankenberg, si vede, è problematico,

tanto quanto ricco di spunti. E uno di questi che, infine, prima di lasciarlo, vorrei menzionare, ad anticipazione di un aspetto su cui pure converrà tornare. Lo studioso, infatti, insiste sul «vernünftiges Lebensgenuß» che presiede ai consigli del redattore della collezione che esamina:? ha ragione, indubbiamente, ma ha ragione anche nel sottolineare che quanto traspare dallo scritto è, comunque, una «pessimistische Lebensanschauung».’* A questo proposito qui basti citare l’accorata quanto composta sezione finale dello scritto, in cui l’autore esorta così chi piange la morte di una persona cara: «Gli uomini non debbono intristire perché non possono vivere più di quel che è asse-

gnato loro; neppure debbono mormorare contro Dio per i mali che

capitano loro. [...] L’uomo, nel lutto che gli capita, non deve essere troppo mesto [...]. Chi è sapiente, anche se il suo morto gli è caris-

simo, lo accompagni fino al sepolcro con lacrime, però, quando il morto sia stato sepolto, anche lui passi oltre il suo lamento e nel suo pensiero si ricordi di vivere, perché lui pure morrà ed è quello il luogo di riposo che Dio ha stabilito per gli uomini, perché lì riposino dai mali che vedono durante la loro vita». Scritto ‘ebraico’, allora, quello di ‘Menandro’, o scritto di un saggio certo tendenzialmente monoteista,

ma non troppo

caratterizzato

nella sua ‘cittadinanza’, nelle sue attese? Prima di giungere ad una breve ricapitolazione delle risposte a queste domande suggerite dal dibattito più recente e ad un timido tentativo di collocare la versione del testo negli ambienti della Siria tra V e VI secolo d.C., mi sembra opportuno segnalare qui, in margine alle note di Frankenberg, un ultimo contributo alla definizione delle sue fonti, dipendente dagli studi relativi ad un ulteriore scritto sapienziale, inserito anch’esso, in una

sua rielaborazione e nell’eco della sua fortuna, teratura ‘giudeo-ellenistica’: la cosiddetta Storia infatti, sia Fr. Nau, nel suo studio sulle versioni sia E. Schiirer, nella sua ampia e classica ricerca

nell’ambito della letdi Abigar?> Nel 1909, siriache della Szoria,?® sulle vicende del po-

32 Segnalo il rilievo giustamente accordato da Frankenberg alla «Tischgenossenschaft» nella raccolta siriaca: cfr. ad esempio quanto scrive in Die Schrift des Menander, alle pp. 249-250.

33 Ivi, p. 257.

34 Cfr. ivi, pp. 263-264; cfr. anche pp. 265 e 271. > Su questo scritto cfr. la messa a punto di A. DENIS in Introduction è la littérature religieuse judéo-hellénistigue II, Turnhout, Brepols 2000, pp. 993-1036. 36 Cfr. FR. NAU, Histoire et sagesse d’Ahigar l’Assyrien. [...] Traduction des versions syriaques, avec les principales différences des versions arabes, arménienne, grecque, néosyriaque, slave et roumaine, Paris, Letouzey et Ané 1909, soprattutto pp. 42-46.

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INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

polo ebraico ai tempi di Gesù,” mettevano in rilievo la somiglianza esistente tra alcune massime contenute nel testo di Ahigar e altre presenti nelle Sentenze monostiche di Menandro, sia il Menandro greco, sia, e con più pertinenza, quello siriaco, per cui segnalavano paralleli in almeno

15 casi. E importante questa connessione, che aiuta a me-

glio comprendere il contesto culturale entro cui viene elaborata la stessa raccolta ‘siriaca’ che qui ci occupa. Ahigar, infatti, è sicuramente, sia nel suo originale (accadico e aramaico insieme, con ogni probabilità, e comunque risalente alla prima metà del VII secolo a.C.) sia nelle sue versioni, comprese quelle siriache, un testo ‘gentile’, che riceve però ben presto, nella sua ampia diffusione, interessanti modificazioni, tese talora a ‘interpretarne’ o alterarne la lettera ben al di là del suo senso e del suo tenore originari, connessi alla cultura della

corte assira: basti qui citare la sua recezione, fin dagli inizi del V secolo, verisimilmente, nella lingua e letteratura greca e ebraica. L’attestazione della sua presenza tra i materiali utilizzati per la raccolta ‘menandrea’ conferma dunque il radicamento plurimo di questo scritto, al di là dei suoi accenti più propri. 3. Ma è opportuno muovere ad alcune osservazioni conclusive sul contesto storico e culturale entro cui il ‘Menandro’ siriaco si colloca, indicando quelli che sono gli orientamenti e le acquisizioni della critica più recente.

Inizierei sottolineando che la tesi secondo cui si tratta di uno scritto

del cosiddetto giudaismo ellenistico sembra oggi prevalente — nonostante il permanente disagio che questa caratterizzazione comporta.

L'ultimo saggio che, a mia conoscenza, abbia fornito nuovi, significa37 Geschichte des jüdischen Volkes im Zeitalter Jesu Christi III, Leipzig 1909 (rist. an. Hildesheim-New York, Olms

1970), pp. 622-624 (vd. anche oltre, nota 41).

38 Sull’Ahigar ‘greco’ si vedano gli stimolanti contributi di Μ, Jagoda LUZZATTO, Grecia e Vicino Oriente: tracce della «Storia di Ahigar» nella cultura greca tra VI e V secolo a. C., e Ancora sulla «Storia di Abigar», «Quaderni di storia», rispettivamente XXXVI,

1992,

pp. 5-84, e XXXIX, 1994, pp. 253-277, ove si seguono con acribia le vicende dell’utilizzo del testo negli ambienti dell’aristocrazia greca tardo-arcaica, le sue interpretazioni nell’etica ‘filosofica’ di un Democrito.

Per l'ambito ebraico, invece, si deve ricordare, sia pur

fugacemente, il papiro aramaico rinvenuto tra le carte di una guarnigione ‘giudaica’, al soldo dei persiani, di servizio, lungo il V secolo, ad Elefantina, all’estremità meridionale

dell’Egitto, recuperato durante gli scavi ivi compiuti negli anni 1906-1908 e pubblicato nel 1911. Il testo presenta una rielaborazione, tendenzialmente monoteista,

della Storia,

ed è databile al 430 a.C. circa: cfr. DENIS, Introduction, pp. 998-1000. Le tradizioni interne ad Israele si sono ‘appropriate’ anche altrimenti di Ahigar, dotto consigliere dei re assiri Sennacherib (704-681 a.C.) e Esarhaddon (681-669 a.C.): nel libro di Tobia, ad esem-

pio, egli risulta essere figlio del fratello di Tobi, padre di Tobia (cfr. Τὸ 1, 21).

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PAOLO BETTIOLO

tivi elementi di valutazione in relazione all'ambiente di formazione del testo, ospita, nella sua pagina finale, un’ultima nota che modera le conclusioni cui perviene: «the discussion of socializing with pagan

priests [...] — vi si legge, con riferimento ad una sentenza che si è già citata — presents a conundrum on this wiew [di un troppo netto ac-

costamento alla letteratura giudeo-ellenistica più fedele alle tradizioni sapienziali interne alle Scritture] and cautions against overly definitive conclusions».5? Ciò non toglie che l’autore dello studio, da una prima, forse eccessivamente problematica ricapitolazione delle acquisizioni della ricerca,* giunga, alla fine della sua analisi, ad affermare: «Menander was a Jew familiar with the classical traditions of Judaism and the compositional conventions of ancient Jewish paraenesis».* Aggiungerei poi alcune note sulla caratterizzazione dei destinatari

del testo per periodo e ambito sociale. Quanto alla datazione, si è concordi nel collocare lo scritto, nella stesura a noi giunta, preferi-

bilmente nel III secolo 0, comunque, in un periodo compreso tra la 39 A. KIRK, The Composed Life of the Syriac Menander, in «Studies in Religion/Sciences Religieuses», XXVI, 1997, pp. 169-183: nota 29 a p. 183. 4° KIRK, ivi, p. 171, aveva sintetizzato le conclusioni cui era pervenuta la ricerca rela-

tivamente al ish influence 41 Ivi, p. ove si rinvia

contesto di elaborazione della collezione scrivendo che al suo interno «Jewcan in no way be taken as predominant or even assured». 183. Sulle «compositionals features» della raccolta, cfr. pp. 172 e 180-181, ai seguenti ‘paralleli’ biblici: Pr 1-9; Qo 11-12 e Lv 19. Negli anni prece-

denti, si deve dire, gli studi avevano segnalato, in quest'ambito, un’oscillazione affatto simile. Audet, ad esempio, aveva scritto, dopo aver ricondotto sostanzialmente ‘Menandro’

a un Plutarco «desséché»: «Il y a pourtant chez lui quelque chose de plus que chez Plutarque, et c'est d’abord son monothéisme» — ed è un monoteismo «pur», aggiungeva, caratterizzato sì da «un détachement absolu du sort d’Israél», ma ebraico, tuttavia, anche

nel suo essere fede «non développée pour elle-m&me», fede che «n’apparait que liée ἃ la morale à laquelle elle a prété, implicitement, dès le principe, un appui transcendant» (La sagesse de Ménandre, pp. 78, 79 e 80). M. Kiichler, d’altra parte, nella sezione dedicata a ‘Menandro’ del suo studio su Frühjudische Weisheitstraditionen, dopo aver affermato che la raccolta si presenta «ohne deutliche Erkennungsmarken» e «ohne klare Identitàt», concludeva che essa comunque si connette, attraverso sottili fili, al mondo biblico e giudaico

(ivi, p. 318). Non dissimilmente Baarda, nel 1985, osservava che «it is very difficult to decide the matter», pur aggiungendo anche lui, nelle righe successive, che «syriac Menander should be included among the Pseudepigrapha until there is decisive proof that it ought to be dealt with under another heading» (The Sentences, p. 589). Infine, esemplare, si potrebbe dire, è la sintesi offerta dalla riedizione della Storia del popolo giudaico dello Schürer, pubblicata in inglese nel 1986 (cfr. E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesà Cristo (175 a. C. - 135 d. C.), Edizione diretta e riveduta da G. VERMES, F. MILLAR, M. GOODMAN con la collaborazione di P. VERMES, Edinburgh, Clark, trad. it.

a cura di C: GIANOTTO, qui IIV1, Brescia, Paideia 1997, pp. 887-889: 888), ove, a proposito del nostro testo, si legge: «[...] la cosa più probabile è che si tratti di una raccolta di materiali fondamentalmente pagani, aventi un carattere etico generale, che furono messi insieme da uno scrittore monoteista con simpatie giudaiche e con una qualche conoscenza delle tradizioni giudaiche sapienziali».

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INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

metà del II e la fine del IV. In questo senso testimonierebbero soprattutto due sentenze, la prima delle quali recita: «E se tuo figlio uscirà dalla sua fanciullezza sfrontato e detestabile e temerario e ladro e menzognero e sprezzante, insegnagli l’arte gladiatoria e poni in sua mano spada e pugnale e prega per lui, che presto muoia e sia ucciso, perché, se vivrà, per i suoi debiti e le sue spese tu non sia logorato e non succeda quel che è bene per te»; l’altra: «Odia il servo malvagio ed evita il figlio di liberi che ruba, perché, come non puoi uccidere il servo, neppure (puoi) esercitare-costrizione sul figlio di liberi».4 Quanto al pubblico cui il testo, nell’originale, si rivolgeva, credo si possa sostenere che risulta costituito da maschi adulti benestanti, con servi e clienti, ma non appartenenti alle classi più alte della società — uomini preoccupati di ben governarsi e di accreditarsi presso quanti sono loro soggetti (come clienti), uguali o superiori. Audet, ad esempio, scrive: «Ménandre est l’homme du niveau moyen où l’on retrouve confondu un peu de tout ce qu’on distingue dans la lumière des sommets. Son éducation n’a dü lui apporter que la sagesse la plus courante d’un paganisme qui achevait de perdre les restes de sa foi. Son expérience de la vie et des hommes a-t-elle méme accru sensiblement ce modeste héritage? Sa veine de réflexion est en tout cas restée celle d’un Plutarque desséché [...1».44 Küchler a sua volta afferma: «Der [...] Menschtyp [delle sentenze] ist der ausgeglichene, begüterte Mann, der im sozialen und familiären Bereich nach der Gol-

4 Cfr. LAND, Anecdota, p. 65 Il. 13-17. Come ricapitola Baarda, The Sentences, p. 585:

«Some scholars find a latest possible date in the fact that schools for gladiators gradually disappeared after Constantine due to successive imperial rules», Il testo non può quindi essere datato «after c. 400» (214). 4 Cfr. LAND, Arecdota, p. 67 Il. 20-22. Anche in questo caso Baarda riassume bene il convincimento degli studiosi, scrivendo: «An earliest possible date is found in the laws of Hadrian and Antonine with respect to the treatment of slaves. The master was not permitted to kill his slave. This would imply that [la sentenza in esame] ought to be dated after c. 150» (The Sentences, p. 585). Al termine di questa nota vorrei dedicare qualche parola al problema del luogo di provenienza della raccolta. È stato Audet ad aver argomentato con più forza in ordine ad un radicamento

del testo in un preciso ambiente, a

suo avviso inequivocabilmente egiziano (cfr. La sagesse de Ménandre, p. 77). Le sue ragioni, sostanzialmente relative a due diverse sentenze dello scritto, hanno incontrato un qualche favore, soprattutto la seconda, legata ingegnosamente ad «un détail de vocabulaire», consistente in una confusione, nel siriaco, di romos-provincia con »omos-legge. Baarda scrive che i suoi argomenti «are not persuasive»

(The Sentences, p. 585), e così

giudico anch’io, pur non ritenendo opportuno fornire qui una dimostrazione di questo avviso, che rinvio ad una prossima traduzione commentata del testo.

4 AUDET, La sagesse de Ménandre, p. 78.

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PAOLO

BETTIOLO

denen Regel lebt, nicht zu gehorchen, sondern zu befehlen hat und ein ausgeprägtes Bewusstsein von Ehre zeigt. Er kennt einige religiöse Grundsätze und versucht mit ihnen, aber auch mit viel Sinn für die

Güter dieser Welt, seine unsichere Lebenswaage stabil zu halten».* Questo cenno finale ad un equilibrio incerto indica un tratto che pervade numerose sentenze dello scritto, aggiungo, dettando, ad esempio, comportamenti prudenti nei confronti di uomini riechi e potenti

improvvisamente travolti e gettati nella povertä: «Non sprezzare la povertà — recita una sentenza -, [...] perché v’& chi è caduto malamente, e nessuno aveva creduto a suo riguardo che si sarebbe (ri)alzato sui suoi piedi, ma in un attimo Dio (lo) ha preso con la sua mano e lo ha (ri)alzato e lo ha fatto giungere a grande onore — perché la ricchezza non (è) per sempre, né per ogni tempo la povertà». Il testo aggiunge, a conclusione: «Casi, infatti, sono tutte le cose, perché io ho visto uno che si era alzato per uccidere, ed è stato ucciso, e uno che avevano preso per far(lo) morire, e ha trovato vita — perché Dio, che lo aveva (ri)gettato, non (lo aveva rigettato) come (dovesse essere)

per sempre, e (Lui), che lo aveva umiliato, non (lo aveva umiliato) perché (fosse così) in ogni tempo». V’è una netta insistenza, in ‘Menandro’, sulla sottomissione di tutto al volere di Dio. Già la prima sentenza recita: «Al principio delle parole dell’uomo (vi sono) tutte le sue opere: acqua e seme e pianta e figli. Bello è piantare una pianta e magnifico generare figli; glorioso e bello è il seme, tuttavia [insisto su questo «tuttavia»: il testo mi sem-

bra dica: l’uomo parla d’altro, e certo tutto quest'altro è bene, ma ...] Colui per il cui tramite (ciò) avviene, lui si glorifichi!» -- e che qui si parli di Dio risulta chiaro dalla seconda sentenza, che così inizia: «Prima di ogni cosa, (si deve) temere Dio». Questo volere, si deve aggiungere, è indecifrabile, né mai, come si sarà già inteso, deciso una volta per tutte. «I beni e i mali sono me-

4 sopra Recita vivi e

Frühjudische Weisheittraditionen, p. 306. A spiegazione degli ultimi cenni del testo citato, mi si permetta di riportare due sentenze tra loro vicine della raccolta siriaca. la prima: «Se hai sostanze e possiedi degli averi, mangia delle tue sostanze, finché il tuo occhio vede e il tuo piede cammina. Infatti, ricorda e vedi: nessuno userà le

sue sostanze nello sheol, né (lo) accompagnerà la ricchezza nella casa dei morti. Per que-

sto, non negarti i beni: è meglio, infatti, un giorno sotto il sole di cent'anni nello sheol»; la seconda: «Corri nella tua giovinezza, finché il tuo occhio vede e il tuo piede cammina e la tua forza è abbondante. Ma, quando sei divenuto anziano e pesante, siedi e mangia dei tuoi averi» (LAND, Azecdota, p. 71 ll. 18-23 e 23-25). 4 Ivi, p. 66 Il. 19-20 e 21-24.

Ivi, p. 66 Il. 24-27.

4 Ivi, p. 64 1. 21-65 1. 1. _ 94..-.

INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

scolati nel vivere degli uomini, [...] e nessuno può scegliere, prendere

per sé quel che è bello e tenersi lontano da quel che è male», scrive ‘Menandro’, e prosegue: «Gli uomini camminano secondo quella mi-

sura che Dio ha dato loro, per tutto il tempo che ha dato loro di vivere». Tuttavia, annota Kirk, il testo «affirm the paradox: despite the subjugation of human life to the will of God and to shifts in fortune, through the exercise of wisdom

and the fear of God

one can

influence one’s lot for the better»?0 — e se anche ciò non dovesse accadere, egli non sarebbe biasimato per la sua sventura.?! Sono note che fanno pensare a Oo, già citato tra i paralleli (forse le fonti) della raccolta, e che tuttavia è più cupo su ciò, all’interno della critica di una teologia del patto che si sosteneva sul binomio libertà umana,

capace di governarsi — retribuzione divina, conforme

a

giustizia. Come si è scritto, per l’Ecclesiaste «troppe volte il giusto soffre e l’ingiusto trionfa perché si debba credere che di regola accade il contrario (cfr. Oo 8, 14); troppe volte una vita retta non è ac-

compagnata neppure dal conforto di una memoria imperitura (cfr. Oo 8, 10); mentre davanti all’uomo si para sempre più insuperabile la difficoltà che è insita nei suoi stessi sforzi di essere giusto [...] (Qo 7, 20) [...]. L'esperienza infatti chiaramente dimostra che “vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e per l’empio, per il buono [e per il cattivo], per il puro e per l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre”

(Oo 9, 2)».?? ‘Menandro’

no, non è così cupo; la «pessimi-

stische Lebensanschauung» che si segnalava a suo riguardo non giunge a tanto, mi sembra. Se l’uomo spesso si perde, pio o empio che sia; se i casi spesso affaticano e sopraffanno indifferentemente il giusto e l’ingiusto; se non v'è vita oltre la morte — e la morte sola è «il luogo di riposo che Dio ha stabilito per gli uomini, perché lì riposino dai mali che vedono nella loro vita»? -, pure v’& un resto indefettibile per il giusto, il pio: quel ‘nome’, quel ‘buon nome’ che la sua applicazione, il suo inflessibile lavoro, la sua perseveranza nel bene fino alla morte, alla stessa morte faticosa, sventurata, vana, immancabilmente gli procurano.

4 Ivi, p. 73 Il. 2-5 e 5-6.

50 The Composed Life, p. 178. 51 Cfr, LAND, Anecdota, p. 66 Il. 4-7: «È odiosa la pigrizia, affamata e assetata e nuda e gemente. Quant'è magnifica e gloriosa la solerzia! Sempre il ventre è pieno e il volto lucente, (e), anche se non gli va bene [al solerte], non lo biasimano». 52 G. BOCCACCINI, I/ Medio Giudaismo, Genova, Marietti 1993, p. 54 5 Cfr. LAND, Arecdota, p. 73 ll. 16-18.

5 Suggerirei di leggere in questo senso una sentenza come la seguente, ad esempio

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PAOLO

BETTIOLO

Dunque, ‘Menandro’ scrive per uomini dabbene, posti a vivere in situazioni di difficile, forse impossibile governo e dall’esito impreve-

dibile. Si aggiungeva: uomini che nella loro condotta si attengono alla regola d’oro, almeno tendenzialmente.?? Ora, questo suggerisce un ultimo pensiero, che ricondurrà questi appunti al problema

dell’am-

biente siriaco in cui hanno trovato attenzione e accoglienza le sentenze. 4. Geiger sosteneva, come si sottolineava nella prima parte di queste note, l'interesse dello scritto ‘menandreo’ per gli ambienti monastici della Siria, ma qui, sia al tempo del pre-monachesimo, come si suole dire (ovvero in quelle forme di vita ecclesiale che trovano attestazione in scritti del IV inizi V secolo quali le Esposizioni di Afraate o l’anonimo Liber graduum), sia al tempo del monachesimo propriamente detto, valgono tutt’altri riferimenti: non vi sono certo nozze né possedimenti né lavoro per i ‘figli del patto’ o i ‘solitari’ cui quegli scritti si indirizzavano. Costoro, piuttosto, condividevano le condotte caratterizzate dal ripristino, nel Cristo, delle condizioni dell’esistenza

essenzialmente liturgica dell’; principio — un culto a Dio cui si oppone la coltura della terra, la cura di sé, della sposa, dei figli, tratti tutti non ‘illegittimi’, certo, ma propri di quel vivere successivo alla trasgressione, faticoso e soggetto alla morte, di cui i cristiani annunciano e testimoniano ad un tempo l’imminente fine e l’incipiente trascendimento.5 La stessa regola aurea, interpretata con tutt’altra fermezza, connota, in questi ambienti, una condizione affatto. mondana dell’uomo, quella in cui, avendo appunto scelto la terra contro Dio, è tenuto, in essa, a dar prova di equità, almeno, nulla pensando, dicendo, operando che possa offendere l’altro.” Nulla, insisto — e con

(che pure altri intendono diversamente): «Non rendere mai vile il tuo cuore, e in battaglia non essere codardo. Chiunque infatti non sia codardo e si esponga alla morte, presto vivrà e troverà buon nome e sarà glorioso», anche se dovesse morire (LAND, Arecdota, p. 70 11. 17-19).

5 Cfr. il giudizio di Küchler citato sopra, nel passo cui si riferisce la nota 45. La formulazione della «regola d’oro» in ‘Menandro’ si legge in LAND, Arecdota, p. 69 1. 13: «Tutto quel che odi riguardo a te, tu non voler(lo) fare al tuo prossimo». 56 Su questi temi mi permetto di rinviare, per una rapida messa a fuoco, a due miei studi: Confessare Dio in perfetta spogliazione. La via del discernimento dei comandamenti nel «Liber graduum», «Cristianesimo nella storia», XIX, 1998, pp. 631-651, e Adamo in Eden e la liturgia celeste: temi della meditazione cristiana nella Siria del IV secolo, tra Afraate e il «Liber graduum», «Rivista di storia e letteratura religiosa», XXXVII, 2001, pp. 3-27.

5 Cfr. BETTIOLO, Adamo in Eden, pp. 21-22.

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INTORNO

AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

ciò non sarà punto ‘giusto’, ma solo retto e, nella sua rettitudine, solo ‘aspirante’ alla giustizia, in un rimettersi tutto a Dio.?8 Comunque, l’attardarsi in una forma di vita non propriamente cristiana o solo imperfettamente cristiana, quale quella di chi ha parte al mondo, se consentito in ecclesia per la pochezza di molti, non richiede particolare attenzione?’ ... Anche

se, si potrà obiettare, le chiese di Siria non si

lasciano sicuramente raccogliere tutte in queste loro esperienze più radicali, pur nella loro ‘ortodossia’. Fin da principio, probabilmente, vi convivevano tradizioni e stili cristiani distinti, non sempre alterativi tra loro o vicendevolmente ostili. Alcuni ambienti potevano verisimilmente attingere all’eredità di un giudaismo forse connesso alle origini stesse del cristianesimo in Siria, non tutto ‘proto-rabbinico’,

sembra,‘ ma neppure tutto accesamente messianico, che poteva indugiare su scritti quali quello di ‘Menandro’ o quello della Storia e massime di Abigar, assai più antico, connesso a tradizioni aramaiche

e sicuramente più diffuso nella tradizione manoscritta siriaca, con cui la raccolta ‘menandrea’, come si è visto, ha contatti. Passiamo oltre, per ora, lasciando in sospeso il problema: vorrei tornare, infatti, alla nota di Renan sull’Add. 14.658 come ms. ‘filosofico’. I testi che questo codice ospita sono, nella sua prima, ampia sezione, traduzioni di opere di Aristotele e Porfirio o opuscoli che le concernono; in particolare vi si leggono sia versioni sia scritti di Sergio di Rish’ayna, un intellettuale particolarmente interessante, testimone qual è di un ambiente cristiano siriaco — della Siria occidentale, nel caso specifico — di fine V inizi VI secolo, che ha familiarità con

58 Cfr. ivi, p. 26.

59 Rinvio esemplificativamente alle note che A. de Halleux, in margine ad uno studio sulla teologia di Filosseno di Mabbug, uno dei grandi monaci e vescovi della chiesa siriaca tra V e VI secolo, dedica al problema del perché per lui «une condition qu’il assimile au régime de la Loi [quella dei cristiani che vivono nel secolo] peut encore subsister après le dépassement de ce régime par l’institution de la nouvelle Alliance [che trova adeguato compimento solo nella condotta dei solitari]». La risposta andrebbe cercata, osserva lo studioso belga, nella «condescendence divine»: infatti, «le Sauveur aurait voulu

voir tous les hommes mener la vie angélique de la perfection en renongant au monde», ma poiché non tutti ne erano capaci, «la volonté du salut universel disposa des exigences adaptées aux forces de chacun». Ciò detto, de Halleux sottolinea che Filosseno non era interessato a «entrer dans les détails» di simili considerazioni, essendo tutto proteso ad

esplorare le condizioni della via della perfezione (Philoxène de Mabbog - Sa vie, ses Ecrits, sa théologie, Louvain, Imprimerie orientaliste 1963, pp. 456-457). 6 Si veda, ad esempio, quanto scrive M. WEITZMAN, From Judaism to Christianity: The

Syriac Version of the Hebrew Bible, in The Jews among Pagans and Christians in the Roman Empire, J. Lieu, J. NORTH, T. RAJAK eds., London-New 147-173.

-- 97 —

York, Routledge

1992, pp.

PAOLO BETTIOLO

la cultura medico-filosofica di matrice greco-alessandrina, le cui acquisizioni diffonde attivamente in lingua siriaca, secondo progetti ambiziosi.°! Alessandria, ricordo, era a quel tempo al centro di interessi diversi, ma

convergenti,

di rilevanti settori delle comunità

cristiane

d’oriente, sia al di qua sia al di là del confine tra Roma e Persia: ad esempio, probabilmente entro la prima metà degli anni ’20 di quello stesso VI secolo, lì scende, da Nisibi, via Edessa, Mar Aba, futuro cattolico della chiesa di Persia, come la Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste, più tardi oggetto di un ampio scritto polemico di Giovanni Filopono, ci attesta.*

Sergio, aggiungo, a dimostrazione della complessità e dell’intreccio delle attenzioni che caratterizzavano il mondo cristiano cittadino (si licet, per differenziarlo da quello strettamente monastico) della Siria di allora, è autore pure di una versione degli scritti dello PseudoDionigi, non lontana nel tempo dal primo apparire dell’opera. E si 61 Su Sergio cfr. ora soprattutto H. HUGONNARD-ROCHE, Aux origines de l’exégèse orientale de la logique d’Aristote: Sergius de Resh’aina (f 536), médecin et philosophe, «Journal Asiatique», CCLXXVII, 1989, pp. 1-17 (sul rinvio a Galeno e Aristotele cfr. in particolare le pp. 9-10; sul «grand dessein» di Sergio — «celui de présenter tous les livres d’Aristote» —, cfr. poi le pp. 11-12), e Note sur Sergius de Res‘aina, traducteur du grec en syriaque et commentateur d’Aristote, in The Ancient Tradition in Christian and Islamic Hellenism. Studies on the Transmission of the Greek Philosophy and Science Dedicated to H.]. Drossaart Lulofs, G. ENDRESS - R. KRUK eds., Leiden, Research School CNWS

Asian, African, and Amerindian Studies 1997, pp. 121-143.

- School of

Su Rish’ayna e il suo rilievo

in epoca greco-romana cfr. invece le interessanti note di M. TARDIEU in ID., Les paysages reliques. Routes et haltes syriennes d’Isidore ἃ Simplicius, Louvain-Paris, Peeters 1990, in

particolare pp. 103-135. € Mi permetto di rinviare, in relazione a tutto ciò, a quanto scrivevo brevemente nei

Lineamenti di patrologia siriaca, in Complementi interdisciplinari di Patrologia, a cura di A. QUACQUARELLI, Roma, Città nuova editrice 1989, pp. 503-603: 521 e 571-572. Aggiungo, a sottolineare l’intrecciarsi dei diversi percorsi, che secondo la Vita di Mar Aba, questi nel suo viaggio ad occidente avrebbe inteso incontrare anche un Sergio, dalle opinioni ‘ereticali’, che la critica ha proposto di identificare nel medico di Rish’ayna (cfr. ad esempio quanto scriveva P. PEETERS in Observations sur la vie syriaque de Mar Aba, catholicos de l’église perse (540-552), saggio ristampato in Recherches d’histoire et de philologie orientales, II, Bruxelles, Societé des Bollandistes 1951 [«Subsidia Hagiographica», 27], pp. 117-163: 125-126 -- mi sembra opportuno accostare a questa notizia l’indicazione che si ricava dal catalogo trecentesco degli scrittori ecclesiastici siri di ‘Abdisho’ bar Brika, alla voce dedicata

a Teodoro

di Merw:

costui, un autore del VI secolo, avrebbe scritto,

tra l’altro, anche una «solutionem decem quaestionum Sergii [...] exigente Mar Aba Catholico». HUGONNARD-ROCHE, Note sur Sergius, nota 13 a p. 124, cita questo testo per confutare l’opinione, dipendente da un appunto ad esso di Assemani, secondo cui si deve identificare nel Teodoro, vescovo siro-orientale, di cui vi si narra, il destinatario di parte

degli scritti di Sergio di Rish’ayna. Assodato questo, resta però interessante la conferma della preoccupazione di Mar Aba nei confronti dell’attività letteraria di un Sergio che sembra ragionevole ritenere sia il traduttore e diffusore dell’opera di Aristotele e Galeno).

_ 98.--

INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

badi: parlo di un ‘mondo cristiano cittadino’, perché Sergio, archiiatra, uomo di vaste letture e capace tramite di strategie ecclesiastiche di alto livello (basti menzionare la sua missione a Roma per conto del patriarca calcedonese d’Antiochia, Efrem, e, di lì, il ritorno in oriente, a Costantinopoli, dove sarebbe morto nel 536, in compagnia del papa Agapito), non è un solitario, né un monaco che viva nei grandi, potenti e culturalmente ricchi conventi della Siria occidentale, ma un uomo di città, pienamente inserito nella vivace vita urbana del tempo, a tutti i livelli in cui si declina. Vorrei tornare, ora, al ms. londinese: Hugonnard-Roche, nel saggio del 1989 dedicato al medico di Rish’ayna, trattando dell’Add. 14.658, ricorda come vi siano state letture tese ad attribuire a lui tutti i materiali del codice, e in particolare gli opuscoli di letteratura morale o gnomologica che vi si trovavano. Non è necessario qui attardarsi su un’attribuzione che lo studioso parigino sensatamente giudica erronea e dipendente dalla mera vicinanza di questi scritti a quelli di Sergio. V’& però un luogo del ms., forse sfuggito allo studioso francese, che consente la formulazione di un’ipotesi ad un tempo prossima e diversa. G. Furlani, in un articolo del 1937 Sur le stoicisme de Bardesane d’Edesse,® sottolineava come, nel terzo «chapitre» «du grand trait sulle Categorie di Sergio, ospitato nell’Add. 14.658, si trovi una notizia su Bardesane che certo non dipende dalle fonti greche a cui l’erudito siriaco attingeva. La presenza di testi di scuola bardesanita in due restanti sezioni del codice ha indotto A. Camplani, in un recente studio dedicato ad una rivisitazione dei materiali relativi al ‘filosofo’ edesseno vissuto tra il 154 e il 222, a suggerire che parte almeno delle opere presenti nel codice potessero essere state copiate da «un archivio testuale di scritti da lui [Sergio] redatti, da lui tradotti, da lui semplicemente raccolti». In qualsiasi modo si debba giudicare questa proposta, più complessa di quella rifiutata da Hugonnard-Roche, e quindi l’estensione della ‘presenza’ di Sergio nella costruzione del ms. londinese, resta la configurazione complessiva del codice come testo pensato per un lettore ‘mondano’,

ovvero vivente nel ‘mondo’,

° 6 Cfr. Aux origines, p. 2 e, ivi, nota 10, ove in particolare si rinvia al saggio di E. Sachau del 1870 (cit. sopra, in nota 20), le cui indicazionisi rinvengono ancora nello stu-

dio fondamentale di Kh. Georr su Les Categories d’Aristote dans leurs versions syro-arabes, Beyrouth, Institut frangais de Damas 1948, pp. 17-23. 64 Cfr. HUGONNARD-ROCHE, Aux origines, p. 3. 65 In «Archiv Orientälni», IX, 1937, pp. 347-352. 6 Rivisitando Bardesane. Note sulle fonti siriache del bardesanismo e sulla sua collocazione storico-religiosa, «Cristianesimo nella storia», XIX, 1998, pp. 519-596: 543-544.

—9_

PAOLO BETTIOLO

in città — partecipe delle sue istituzioni, dei suoi commerci, della sua

vita e delle sue curiosità intellettuali, anche se comprendo che pure un ambiente come quello del monastero monofisita di Qenneshrin, fondato da Giovanni bar Aphtonia (t 537) proprio in quello stesso periodo, con i suoi forti interessi culturali, teologici, filosofici ed eruditi, che ne faranno un centro di studi greci e siriaci di grande rilevanza per almeno due secoli, potrebbe ben corrispondere al luogo di

costituzione o trasmissione della raccolta che il ms. attesta.”

Altre nita, di ducono cenni a

opere in esso presenti, oltre a quelle di ambiente bardesacui un po’ si è detto, quali quelle di Melitone, Mara, non ina giudizio diverso. Testi cristiani? Forse, ma la presenza di Cristo in essi è rara: in Mara, ad esempio, v’& solo un rinvio

al re dei giudei, tipo — con Socrate e Pitagora — di giusto sofferente e vendicato.

Del resto, un opuscolo

ospitato nel codice londinese

consente qualche ulteriore, utile osservazione. Si tratta di una raccolta di sentenze attribuite alla filosofa pitagorica Theano, pubblicata tra gli Inedita Syriaca di Sachau e di cui recentemente U. Possekel ha fornito versione e commento. Quanto qui interessa è la sezione conclusiva di questo studio, in cui si tenta una delimitazione del contesto in cui lo scritto è stato tradotto e tradito in Siria. L'analisi dei temi della raccolta aveva permesso di evidenziare l’omissione in essa di ogni insistenza su un motivo pure centrale nella tradizione pitagorico-platonica quale quello dell’assimilazione a Dio. Theano, vi si registrava, insiste sulla decisività di una vita virtuosa fine a se stessa, senza menzione, almeno esplicita, di una qualsiasi sopravvivenza dell’anima al corpo. Onore e amici sono l’unica ‘ricompensa’ dell’uomo virtuoso, vi si sostiene. Possekel accosta allora le sentenze di Theano alla lettera di Mara, figlio di Serapione, più sopra citata, ove pure sono presenti (o assenti) gli stessi tratti: «beide Schriften zu etwa derselben Zeit entstanden sind» — conclude, e aggiunge: «Diese Vermutung wird verstärkt durch die Abwesenheit griechischer Lehnwérter,

67 Su Qenneshrin — e i suoi ‘contatti’ con Edessa e la sua cultura perfettamente bilingue — si leggano le pagine che J.W. Watt ha di recente dedicato al suo fondatore: A Portrait of John Bar Aphtonia, Founder of the Monastery of Qenneshre, in Portraits of Spiritual Authority: Religious Power in Early Christianity, Byzantium and the Christian Orient, J.W. DRUVERS - J.W. WATT eds., Leiden-Boston, Brill 1999 («Religions in the Graeco-Roman World», 137), pp. 155-169. 6 Sulla Lettera di’ Mara, figlio di Serapione, cfr. la breve notizia che fornisco in Let teratura siriaca, in Patrologia V - I Padri orientali (secoli V-VIII), a cura di A. DI BERARDINO, Genova, Marietti 2000, pp. 413-493: 438.

_

© Der «Rat der Theano». Eine pythagoreische Spruchsammlung in syrischer Ubersetzung, «Le Muséon», CXI, 1998, pp. 7-36.



100—

INTORNO

AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

ein Kennzeichen der frühen syrischen Ubersetzungen».?° Ulteriore elemento che accomuna le due opere, si deve aggiungere, & l’assenza di interventi cristiani, a correzione del loro testo,’! come invece spesso si registra altrove in scritti dello stesso genere, ad esempio nelle Sentenze di Sesto.?? Dunque, una collocazione nel III secolo sembrerebbe corrispondere al meglio ai tratti di questi scritti, nella traduzione che ce ne è pervenuta, e gli ambienti intellettuali edesseni vicini a Bardesane (la cui attività, ricordo, è bene attestata nel ms. in esame) sono quelli indicati come i più appropriati ad ospitarne l’emergenza.”? La proposta è assai suggestiva. Se le sentenze di ‘Menandro’ sono più tarde nella loro versione, come talune particolarità e ruvidezze del loro testo possono indurre a congetturare, pure concorrono a definire una stessa cerchia di lettori: da Bardesane a Sergio — entrambi ‘cristiani’, si badi! -, tra III e VI secolo sono le stesse élites cittadine (0, al limite, élites monastiche loro strettamente assimilabili, come parte di

quelle presenti a Qenneshrin) a sostenere la circolazione di tali testi. Ma l’affermazione, ancora una volta, non può essere troppo netta. Si potrebbe sostenere, infatti, che proprio il materiale gnomologico spesso rinvia ad un ben diverso ambiente, rigorosamente monastico. In uno studio di Furlani relativo al nostro ms.,’? si segnalano interessanti paralleli tra alcuni dei materiali contenuti in esso e quelli di un codice sinaitico. In Sin. syr. 16 (VII secolo) si leggono infatti le vite dei Padri, un testo di Nilo il solitario, l’Apologia di Aristide, ma poi anche scritti di Plutarco, Pitagora, Luciano, Theano ... Sì, le sentenze di Theano, come Possekel sa, ma tralascia di sottolineare, si trovano anche qui, ove, per il luogo di custodia (il monastero di santa Caterina, appunto) e la presenza di scritti strettamente monastici, non si può dubitare dell’interesse di questi testi per dei monaci ... Del resto, si sa: i monaci citano i filosofi. Penso, per la Siria della

prima metà del V secolo, a Giovanni il solitario, e si potrebbe pro70 Ivi, pp. 32 e 33.

71 Anche se K.E. McVey, in un suo recente studio sulla lettera - A Fresh Look at the Letter of Mara Bar Sarapion to His Son, in V Symposium Syriacum 1988, R. LAVENANT ed.,

Roma, Pontifium Institutum Studiorum Orientalium 1990 («Orientalia Christiana Analecta», 236), pp. 257-272 —, ipotizza in ciò un preciso disegno ‘apologetico’: il testo, secondo lei, sarebbe un ‘falso’ cristiano del IV secolo teso a collocare alla fine del I una

prima, positiva traccia di Cristo in ambito siriaco — di una Siria ancora tutta ‘gentile’ o, meglio, ‘greca’. 72 Cfr. Der «Rat der Theano», p. 34. 3 Ivi, p. 35.

74 Contributions to the History of Greek Philosophy in the Orient, Syriac Texts, IV, «Journal of the American Oriental Society», XXXV,



101 —

1915-1917, pp. 297-317.

PAOLO BETTIOLO

cedere menzionando via via numerosissimi altri monaci e solitari, fino ad un Dadisho’ Qatraya o ad un Isacco di Ninive e oltre -- cioè fino ad autori di quel VII secolo durante il quale sono stati prodotti an-

che i mss. appena menzionati. Ma sono testi particolari, osservo, quelli trascritti negli opuscoli letti in questi ambienti: sono testi che forniscono esempi di ascesi, di quiete, di silenzio, di perseveranza, che presuppongono -- nei cinici o negli altri filosofi che menzionano — un distacco e una indifferenza al mondo che, se possono corrispondere ad alcuni tratti delle sentenze

di Theano, non sono punto quelli delle sentenze di ‘Menandro’. Si presti attenzione a quest’unico esempio, testimone degli «anecdotes» o «sentences qui rappellent les collections d’Apophthegmata, paiennes ou chrétiennes», che cita Giovanni il solitario, grande autore della prima stagione del monachesimo in Siria, testimone di un «ascétisme savant», come si è scritto, per quanto profondamente radicato nelle tensioni escatologiche più proprie della tradizione siriaca.” Nel secondo dei suoi discorsi sull’anima e le passioni, in margine ad un’esortazione sul raccoglimento richiesto dal «travail de l’étude», si legge, tra l’altro: «Il y avait un sage, qui, pour n’étre pas dérangé dans l’etude, cessa d’habiter en ville et se bAtit une cellule hors du rem-

part. Or, il y avait ἃ cété y passait continuellement. si sa semence poussait, il È ben evidente, credo,

de lui un domaine ensemencé de blé, et il Lorsque quelqu’un de la ville lui demanda dit: Je ne sais m&me si c’est semé».? la differenza intercorrente tra questo testo,

che afferma la totale distrazione nei confronti della realtà circostante,

e le sentenze di ‘Menandro’. Come scrive Isacco in uno dei suoi discorsi, indirizzandosi ad un fratello che esitava dinnanzi all’asprezza del vivere solitario, incredulo che l’uomo potesse reggerne la prova: «Se non credi alla chiesa, accostati ai filosofi e vedi quanta potenza ha la volontà in ordine al divenire oltre il corpo e al restare senza turbamento nella scelta che ha scelto». Essi, «che pure non conoscevano

Dio», «per non perdere la meditazione della loro sapienza e la consuetudine con essa» — aggiunge -- hanno sostenuto ogni prova, divenendo con ciò testimoni e modello di un vivere coerente, teso alla conoscenza e contemplazione del vero.” 15. Cfr. l’Introduction di I. HAUSHERR a Jean le Solitaire (Pseudo-Jean de Lycopolis), Dialogue sur l’îme et les passions des hommes, Roma, Pontificium Institutum Studiorum Orientalium 1939 («Orientalia Christiana Analecta», 120), pp. 12 e 7. 76 Ivi, p. 69. 7 Cfr. Mar Isaacus Ninivita, De perfectione religiosa, P. BEDJAN ed., Parisiis-Lipsiae,

Harrassowitz 1909, qui Discorso LVII (Sulla sopportazione a motivo della carità di Dio:



102 —

INTORNO AI ‘DETTI’ SIRIACI DI MENANDRO

In questa prospettiva la letteratura ‘morale’ greca trova spazio nei manoscritti, nelle pagine e nei pensieri dei monaci — ma non altrimenti. Quindi, nonostante la varietà quasi sconcertante di stili monastici, di sensibilità monastiche,

pure

nella Siria tra V e VII/VIII

secolo;

nonostante gli interessi eruditi di parte almeno degli ambienti monastici, siro-orientali non meno che siro-occidentali, spesso prossimi a scuole ‘teologiche’ o anche ‘mediche’, se non addirittura coincidenti con esse, per la traduzione e recezione di ‘Menandro’ suggerisco di pensare ad un mondo diverso, quello, come già accennavo, delle é/;tes ecclesiastiche e cittadine che, ad esempio, nei primi decenni del V secolo si dispongono intorno al vescovo Rabbula e ‘fabbricano’ la storia di un’Edessa cristiana, ‘cattolica’, fin dai tempi di Gesù, nel suo re così come nelle sue classi dirigenti: origini apostoliche, fedeltà all’evangelo, pur nelle persecuzioni (i nobili martirizzati!), cultura ‘greca’ e amicizia con Roma sono i tratti decisivi di questa costruzione.” Non è impensabile che alcuni dei documenti e testi ‘prodotti’, anche come

traduzione, all’interno di queste cerchie, in parte forse pure eredi ortodosse di quelle che avevano raccolto l’insegnamento di Bardesane,

siano stati più tardi recepiti e traditi da uomini come Sergio e i suoi

interlocutori — cristiani convinti, certo, ma sicuramente non ‘solitari’, nell’accezione più stretta che il termine serba.

come essa trovi aiuto da parte di Dio), pp. 399-406, 405. S. BROCK, Secundus the Silent Philosopher: Some Notes on the Syriac Tradition, saggio del 1978 ristampato in Studies in Syriac Christianity, Aldershot, Variorum 1992, cap. IX, così come in parte di un suo più recente contributo su Stomatothalassa,

Dandamis and Secundus in a Syriac Monastic An-

thology, in After Bardaisan. Studies on Continuity and Change in Syriac Christianity in Honour of Professor Han J.W. Drijvers, Leuven, Peeters 1999, pp. 35-50, ha indagato felice-

mente su alcuni esempi di quest’uso della letteratura filosofica negli ambienti monastici siriaci, prendendo spunto dal discorso di Isacco sopra citato. 78 Cfr. la breve sintesi delle ricerche relative alla Dottrina di Addai, testo edesseno de-

gli inizi del V secolo, narrante l’evangelizzazione della città, che tracciavo in Letteratura siriaca, pp. 450-451, cui vanno accostate le note di 5. BROCK, Eusebius and Syriac Christianity, in Eusebius, Christianity, and Judaism, H.W. ATTRIDGE - G. HATA eds., LeidenNew York-Köln, Brill 1992 («Studia Post-Biblica», 42), pp. 212-234: 227-228.



103—

MORENO

LA VERSIONE

MORANI

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO*

La versione slava delle Gromai di Menandro costituisce una notevole risorsa per il grecista, in quanto offre la possibilità di ricostruire in maniera abbastanza obiettiva il testo greco che il traduttore (o i traduttori) avevano di fronte. Infatti le più profonde differenze tra greco e antico slavo si collocano nell’ambito del sistema verbale, mentre nell’ambito della flessione nominale si riflette in modo più fedele la comune eredità indeuropea dei due sistemi linguistici, e la declinazione slava, con la sua ricchezza di forme (sette casi), permette di rendere con precisione ogni sfumatura del testo greco. Poiché, per ovvie ragioni, le Grozzai presentano una sintassi del periodo elementare, si concluderà che vi sono tutte le condizioni per fare della ver-

sione slava un testimone importante e affidabile. Un vantaggio delle versioni è quello di essere sottratte a un lavorio di cambiamento congetturale o di contaminazione a cui sono spesso sottoposti i testimoni della tradizione diretta greca. Riutilizzando, sulle orme di Giorgio Pasquali, nell’ambito della filologia classica la teoria areale enunciata in linguistica da M. Bartoli, si possono paragonare

* Per la numerazione della gro»zai si fa ricorso per la versione slava all’ediz. di M. MORANI, La traduzione slava delle «Gnomai» di Menandro, Alessandria, Edizioni dell'Orso

1996. Per il testo greco si fa ricorso (ove non diversamente indicato) all’edizione di S. JAKEL, Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»). La numerazione delle grormai arabe è quella dell’ed. di M. ULLMANN, Die arabische Uberlieferung der sogenannten Menandersentenzen, Wiesbaden, Steiner

1961 («Abhandlungen für die Kunde des Morgenlandes», XXXIV.1). Ove necessario, per eliminare ambiguità si precisa con M la numerazione della versione slava, con J la numerazione del testo originale greco, con U la versione araba. Le notizie generali sulla tradizione della versione slava, con elenco (provvisorio) delle fonti manoscritte nella già citata

edizione di M. Morani. Per il Menander auctus et christianizatus si fa riferimento all’edizione di V. JAGIC citata nella nota 3. Nelle trascrizioni dei brani slavi generalmente si è tenuto conto delle oscillazioni grafiche dei manoscritti quando il testo si fonda su di un unico testimone, mentre si è normalizzata la grafia quando il testo si fonda sull’autorità di più manoscritti divergenti tra loro.



105 —

MORENO MORANI

le traduzioni alle aree laterali di una comunità linguistica:! le aree laterali mostrano caratteri spesso conservativi e non sono raggiunte da processi di innovazione che si determinano al centro del territorio; possono

avere innovazioni loro proprie, ma proprio questo mette in

condizione di enucleare ciò che è antico distinguendolo da ciò che si è prodotto in età successiva. Accanto a questi vantaggi stanno però diversi elementi sfavorevoli. Oltre ai caratteri di ordine generale che rendono difficoltosa l’utilizzazione delle versioni (anche di quelle strettamente letterali) per fini filologici, questo testo presenta alcune complicazioni specifiche. Innanzitutto noi non possediamo il testo originale della versione slava, la cui stesura possiamo collocare nell’area meridionale del mondo slavo attorno all'XI secolo. Essa ci è nota attraverso due successive redazioni, l’una in antico serbo e l’altra in antico russo, trasmesse in modo sensibilmente diverso: mentre della redazione antico-serba abbiamo un solo manoscritto con molte lacune, della redazione antico-russa abbiamo più manoscritti, che presentano il materiale in modo assai più completo. Per la ricostruzione del testo originale della versione la diversità linguistica non costituisce un ostacolo di grande rilievo: le differenze tra antico russo e antico serbo si situano quasi unicamente nell’ambito della fonetica, e sarebbe possibile ricostruire con un altissimo grado di probabilità, grazie ad alcune operazioni meccaniche, l’originaria stesura paleoslava, se non fosse che un’operazione del genere sarebbe da ritenere nient'altro che un gioco fine a sé stesso, più che corrispondere a un’obiettiva esigenza filologica. Considerando le numerose e varie oscillazioni grafiche che percorrono la nostra documentazione paleoslava (non solo di questo testo), un testo così ricostruito sarebbe più una proiezione astratta o virtuale che non l’immagine di una realtà effettivamente esistita. Di fatto, le due redazioni differiscono tra di loro, più che per l’aspetto linguistico, per la diversa inclinazione a rielaborare e interpolare il materiale, assai più accentuato nella redazione antico-russa, mentre la redazione antico-serba si mantiene in linea di massima più fedele al testo originale della versione. In queste condizioni, il ramo

di tradizione generalmente più fedele è quello che ci è pervenuto in condizioni peggiori (attraverso un codice unico, lacunoso e deteriorato), mentre

del ramo

più incline al cambiamento

volontario e alla

1 G. PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier p. 8.



106—

19522,

LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

rielaborazione abbiamo una documentazione più ricca. Peraltro la tendenza al cambiamento e alla sistemazione del testo (risistemazione grammaticale e sintattica, ma anche ideologica) percorre tutta la tradizione in misura sensibile, e ad essa non si è completamente sottratta

neppure la redazione serba, e, ancora più a monte, vari cambiamenti volontari nella resa del testo greco devono essere fatti risalire direttamente alla redazione primitiva della versione. Non dobbiamo dimenticare che la traduzione slava delle Gromai nacque in ambiente cristiano, e una delle preoccupazioni principali che il traduttore doveva sentire era quella di rendere compatibile il contenuto delle Gromai con la dottrina cristiana. Per fare solo un esempio, il plurale θεοί dell’originale è reso in genere col singolare ῥορῇ (cfr. 24, 76, 146), e ugualmente il singolare Log è la resa di gr. τὸ θεῖον alla gnome 16 M e di gr. τύχη alla 279 M; ancora più significativo il cambiamento operato a 290 (= 588 7): nella grozze ὁ νοῦς γὰρ ἡμῶν ἐστιν ἐν Eκάστῳ θεός troviamo v7 boga mésto ‘pro Deo, in Dei loco’ per evitare qualunque ambiguità di natura religiosa nella lettura. In altri casi il traduttore cerca di rendere meno pesanti certe affermazioni dell’originale, attenuando per esempio il carattere fortemente misogino di molte gromzai. Così per 172 M (= 371 J) ἴσον ἐστὶν ὀργῇ καὶ θάλασσα καὶ γυνή e 216 M (= 450 J) λύπη παροῦσα πάντοτ᾽ ἐστὶν ἡ γυνή l'intento è raggiunto mediante l’inserzione di χία ‘mala’ dinanzi alla resa di γυνή Ζεπα; in 57 M (= 151 J) γυναῖκα θάπτειν κρεῖσσόν goti ἢ γαμεῖν si ha il medesimo procedimento, col sintagma aggettivo-sostantivo in accusativo (Zenu zlu); in 243 M (= 459 1) μεστὸν κακῶν πέφυκε φορτίον γυνή si ha un’analoga attenuazione mediante l’aggiunta di zeverna ‘infida, ἄπιστος dopo Zena. In 96 M (= 233 J) ἐν γὰρ γυναιξὶ πίστιν οὐκ ἔξεστ᾽ ἰδεῖν il concetto viene mitigato sostituendo alla negazione assoluta οὐκ un meno pesante redko ‘raramente’. Come detto, questo atteggiamento incline a intervenire sul testo è assai più avanzato nella redazione antico-russa: p.es. l’originale della gnome 74 M (= 174 J) ha δίκαιος εἶναι μᾶλλον ἢ χρηστὸς θέXe, ma la versione

antico-russa, con ulteriore accentuazione

morali-

stica, ha sostituito la corretta resa di χρηστός, che troviamo mantenuto nella redazione antico-serba (//ub?), con bogattà ‘ricco’, che certo non si può spiegare come variante nata meccanicamente. Nella resa della guome 26 M (= 55 J ἀρχῆς τετευχὼς ἴσθι ταύτης ἄξιος) alla traduzione di ἀρχῆς, #’r4v4, è aggiunto l’aggettivo blagu ‘bonam’, che è evidente integrazione esplicativa. Piccoli ritocchi del testo, quali aggiunte di pronomi o di aggettivi (p.es. 16 M = 16 J τοὺς κακούς reso come fosse ‘omnes malos’; 27 M = 36 J ἡ πονηρία resa come fosse ‘valde malum’; 85 M = 223 βλάβην reso come fosse ‘omne dam—

107—

MORENO MORANI

num’, ecc.), trasformazione di participi in verbi di modo finito e simili, sono molto frequenti nella versione antico-russa.

Si è detto dell’esistenza di due redazioni fondamentali. Andrebbe aggiunto un terzo ramo di tradizione, il cui rapporto con gli altri due

è da chiarire. Alcuni manoscritti offrono un’ampia antologia di gromai in antico-russo, il cui testo è stato sensibilmente modificato e rielaborato in senso cristiano, con una serie di interpolazioni e di cam-

biamenti piuttosto massiccia: questa antologia fu pubblicata nello stesso anno, indipendentemente e sulla base di manoscritti diversi, da V. Seménov? e da Vatroslav Jagié (che la denominò Menander auctus et christianizatus) 3 Secondo Jagié questa antologia fu redatta in Russia (e non nel territorio slavo meridionale): sta però di fatto che essa

mostra importanti errori congiuntivi che la collegano alla redazione antico-serba. Ad es. nella gnome 17 di questa raccolta (= 23 M, 27 7) per la traduzione di ἀνδρὸς χαρακτήρ troviamo nella redazione antico-serba mu?7 skvrinavi (lett. ‘homo sordidus’), nato da falsa divisione delle parole per muzisk? nravi: a fronte di questo errore della redazione antico-serba troviamo nella redazione antico-russa il testo corretto muZisk& nravü: ma l’errore della redazione antico-serba si ritrova anche nel Menander auctus. Ma coincidenze in errore non meno significative accomunano il Menander auctus alla redazione anticorussa. Nella resa di 146 J γέρων ἐραστὴς ἐσχάτη κακὴ τύχη è caduta nella redazione antico-russa nella parte finale della grozze (52 M) la traduzione di κακὴ τύχη, che troviamo ancora conservata nella redazione antico-serba (z’la kovî): in luogo di queste parole la redazione antico-russa ha est? ‘est’; il testo che ne risulta è insostenibile, e i co-

pisti della redazione antico-russa hanno cercato di restituire leggibilità alla frase cambiando sezina, traduzione di ἐσχάτη che risultava privo di legami col resto della frase, in sozona ‘diavolo, Satana”: il medesimo testo, con est? e la caduta delle parole finali del verso e il conseguente rimaneggiamento della grozze, si trova nel Menander auctus (gnome 47). Nella gnome 426 M, resa di 840 ψυχῆς νοσούσης ἐστὶ φάρμακον λόγος, mentre la redazione antico-serba si attiene al testo greco, che viene reso in modo strettamente letterale, la redazione an-

2 V. SEMENOV, Mydpocmo Menandpa no pyecxumo cnuckamo, Tamorpadia Mmmeparopckoi Axanemin Haygv, Moskva 1892 («IlamarHHKH mpesneh IMCbBMeHHocTm», 88).

3 V. JaGIC, Die Menandersentenzen in der altkirchenslavischen Übersetzung, «SAWW», CCXXVI,

1892, Abh. VII, Wien

1892. L’edizione del Menander auctus et christianizatus

si trova alle pp. 90-103 (preceduta da un’ampia introduzione sulle fonti manoscritte e sui rapporti con gli altri testimoni della versione slava, pp. 75-89).



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LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

tico-russa ha nella seconda parte un ampliamento evidentemente vo-

lontario: dui pecalinéi slovo dobro zelo polzuetài ‘animae aegrotanti verbum bonum valde medetur’: il Menander auctus (gnome 265) pur

riprendendo nell’insieme il testo della redazione antico-serba ha però,

come la redazione antico-russa, l'aggiunta di dobro ‘bonum’ dopo slovo ‘verbum’: ἀμξδ pecalnéi polza jesti slovo dobro ‘animae aegrotanti remedium est verbum bonum’. Poiché anche in altri casi si hanno nel Menander auctus lezioni intermedie a quelle delle due redazioni più antiche, si potrebbe concludere che il redattore ha compiuto un’opera di adattamento che tiene conto di più manoscritti. In alcuni casi

questo testo può servire per spiegare la genesi di errori o varianti de-

teriori che troviamo nell’una o nell’altra delle due redazioni antiche. Valga l'esempio di 64 M, la cui fonte va cercata non nel testo greco delle Gromai, ma in un verso di Carete (II 1 Jäkel): δαπάνην

ἄκαι-

ρον μηδαμῶς προσίεσο. I traduttori slavi hanno inteso δαπάνην nel senso di ‘spesa per il vitto” e hanno tradotto tale parola con brasna (in genitivo per il valore negativo della frase) e hanno poi reso ἄκαιρον con lichago ‘abbondante, eccessivo’; la variante z/4 ‘cattivo’ che troviamo nella redazione antico-russa potrebbe essere una semplice banalizzazione, ma, per poterla valutare correttamente, dobbiamo rifarci alla precedente lezione /ukava

‘cattiva’, attestata dal Menander

auctus (gnome 63), che a sua volta deve essere nata come trascorso grafico di lichago ed è stata poi sostituita dal sinonimo z/4. Questo carattere intermedio tra le due redazioni fa sì che il Menander auctus, quando è possibile individuare il testo soggiacente ai successivi rimaneggiamenti, possa in alcuni (pochi) casi conservare da solo lezioni antiche utili per migliorare il testo delle altre due. Segnaliamo un paio di esempi. Nella grozze 15 M, resa di 15 J, ἀνδρὸς τὰ προσπίπτοντα γενναίως φέρειν, nella redazione antico-serba troviamo aggiunto a fine di verso (napasti) vsaku ‘(casum) omnem’, rispetto al quale la redazione antico-russa ha l'ulteriore ampliamento (napasti) vsaku nachodgsu ‘(casum) omnem evenientem’; il Menander auctus ha un testo (gnorze 9) ancora indenne da entrambe le aggiunte,

col plurale zapasti che rende forse meglio l’originale greco tà προσπίπτοντα. Un altro gruppo di codici antico-russi (indicati da Jagié con la sigla Gc e Uc) conservano un testo intermedio fra quello della redazione antico-russa e quello che sta alla base del Mezander auctus. Poiché si tratta di testi antologici che rappresentano comunque una tradizione collaterale rispetto a quella del Menander auctus, in quanto la scelta non comprende le stesse grozzai che si ritrovano poi nella redazione interpolata, potremmo definire questo gruppo di manoscritti —

109—

MORENO

MORANI

come Menander breviatus. Il Menander breviatus, che nei passi presi

finora in esame si allinea sempre col Menander auctus condividendone le corruttele, in qualche caso può conservare da solo la lezione originaria. La resa della gnome 99 M (corrispondente a 237 J ἐχθροῖς ἀπιστῶν οὔποτ᾽ ἂν πάθοις βλάβην) è significativa: mentre nella tradizione antico-russa il participio è stato svolto in una frase condizionale, la tradizione antico-serba rende ἀπιστῶν con un imperativo,

dando luogo così a un asindeto piuttosto brusco. Gc, con la sua lezione vragomi ne verug ‘inimicis non fidens’, è l’unico a fornirci la traduzione attesa. Se aggiungiamo che la lezione del Menander auctus in questo caso corrisponde a quella della redazione antico-serba avremo dato un’idea esauriente del carattere complesso e in ultima analisi ancora poco chiaro che lega i diversi codici. Nel complesso, la nostra conoscenza del testo originario della versione risulterà da un’attenta comparazione delle due tradizioni anticoserba e antico-russa, con un uso saltuario dei testimoni secondari. Il Menander auctus andrà preso in esame solamente se si può enucleare in maniera obiettiva e sicura il testo soggiacente alla rielaborazione, e non ci sentiremmo neppure di escludere che in questa fase estrema della tradizione vi sia stato un ricorso, sia pure occasionale,

a origi-

nali greci per rivedere il testo della versione, il che evidentemente ne farebbe ampiamente diminuire il valore testimoniale. Ad es. nella gnome 56 M, resa di 150 J γυναικὸς ἐσθλῆς ἐπιτυχεῖν οὐ ῥάδιον, le due redazioni antico-serba e antico-russa hanno rispettivamente udru o premudru ‘sapientis’ in luogo dell’attesa resa di ἐσθλῆς (o dγαθῆς, se si accetta la variante recata da Stobeo): nel Menander auctus leggiamo dobru, che corrisponde più fedelmente al testo greco in nostro possesso: lezione originaria conservata in un testimone marginale, o contaminazione sulla base di un confronto con un originale greco? La stessa domanda si può porre per 29 M = 26 J ἀνδρῶν δὲ φαύλων ὅρκον εἰς ὕδωρ γράφε: mentre /ukava ‘mali’ di GcX rinvia alla lezione della tradizione diretta, /’Ziva o Iziva delle due tradizioni slave presuppone un ἀπίστων (o meglio ἀπίστου, poiché la versione slava ha il singolare): quest’ultima lezione è presupposta anche dalla versione araba (26 U) e la si ritrova in tradizioni gnomologiche diverse da quella menandrea (p.es. ἔχε, Vind. 16), mentre non compare come variante nei codici delle Grorzai di Menandro: trattandosi di una lectio difficilior, ci sembra altamente probabile che proprio essa comparisse nell’originale della versione slava, mentre la variante di GcX potrebbe essere nata da un ricorso a qualche codice delle Gromai di Menandro. Si deve sempre tenere conto del fatto che la nostra conoscenza —

110 —

LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

della versione slava è comunque una conoscenza indiretta o, come si usa dire oggi, virtuale, che risulta da un lavoro di confronto fra testimoni qualitativamente diversi e sempre inclini al rimaneggiamento

del testo. Nell’apparato critico dell'edizione teubneriana di Jäkel troviamo usata occasionalmente (per la verità assai meno di quanto sarebbe auspicabile) la sigla 2 per indicare la versione slava, leggendosi nella prefazione dell’edizione: «Varias lectiones, quas translatio Slavica ecclesiastica (2) offert, hanc in editionem recepi, quoad certae et magni pretii sunt ad textum restituendum. praeterea codex sententias 444 ordine litterarum dispositas continens seriem versuum classis primae sequitur».* Per la verità un «codex 2» non esiste, e averne presupposto l’esistenza nella prefazione di un’edizione critica conduce a un equivoco sostanziale. Se con £ vogliamo indicare la versione slava, dobbiamo sempre ricordare che non possediamo un testo originario cui fare riferimento in modo obiettivo: inoltre le versioni antiche sono per loro natura qualcosa di differente dai manoscritti greci, perché pongono al loro interno problemi di trasmissione testuale, di scelte nella resa del testo, di eventuali errori e incomprensioni che è operazione fondamentale individuare in via prioritaria, e soprattutto perché le diversità del sistema linguistico impediscono di verificare determinati elementi dell’originale, che la lingua d’arrivo non sarebbe in grado di rendere (per fare un esempio specifico, dalla versione paleoslava non possiamo desumere la presenza o meno dell’articolo nell'originale greco, perché lo slavo antico non possiede articolo). In altri frangenti la resa di certi particolari è troppo poco costante perché dall’eventuale diversità fra testo greco e versione slava si possano de-

durre degli elementi concreti: si ha spesso singolare per il plurale (e

viceversa), aggettivo al grado positivo invece del superlativo, aggiunta od omissione del verbo ‘essere’, diverso ordine di parole: tutti elementi per i quali la versione slava in genere non è da prendere in considerazione. In più questa versione è ancora qualcosa di differente dalle altre versioni antiche, perché per ragioni varie la possiamo conoscere in modo più incerto e nebuloso. Se con Z vogliamo indicare il testo greco utilizzato dai traduttori, il discorso si fa ancora più delicato, e ci pare in ultima analisi scorretto porre in apparato la sigla di una versione accanto a lezioni (recepite o rifiutate) scritte in greco: si pongono sullo stesso livello lezioni obiettivamente verificabili nei manoscritti e lezioni frutto comunque di un lavoro esegetico e interpretativo che non sempre può condurre a risultati definitivi e inop-

4 Pp. XIII-XIV.



111]-

MORENO MORANI

pugnabili. Ad esempio, se la tradizione greca è incerta tra due lezioni sinonime, mentre la lezione di un manoscritto può essere precisata in

genere senza dubbi o incertezza, potrebbe essere impossibile stabilire con quali testimoni si allinea la versione slava; in altri casi, viceversa,

potrebbe essere impossibile stabilire il testo originario della versione slava, mentre si può stabilire con discreta sicurezza quello dell’antecedente greco. Ad esempio nella grozze 68 (= 181 7) in corrispondenza di τὰ χρήματα del greco troviamo bogatistvo nella redazione antico-russa e ime&nie nella redazione antico-serba: non è possibile ricostruire con certezza il testo originale della versione slava, perché entrambe le varianti sono accettabili, ma possiamo stabilire abbastanza

tranquillamente che nell’antecedente della versione slava era presente la medesima lezione della tradizione greca: anche in altri passaggi (155; 177; 273; 277; 355) si ha la medesima alternanza tra bogatistvo e iménie (a 355 uménie ‘intellectus’, in corrispondenza di πλούτου di 715 J, è sicuramente da emendare in imérie), mentre in 69, 159, 305, 411 troviamo bogatistvo in entrambe le tradizioni, il che ci condurrebbe a dare una leggera preferenza a quest’ultima forma. In qualche caso è l'ordinamento alfabetico a permetterci di stabilire l’antecedente della versione slava: ad esempio per la gnome 142 M, la cui fonte è Stobeo IV 27, 1 ὡς ἡδύ γ᾽ ἐν ἀδελφοῖσιν ὁμονοίας ἔρως, la versione

slava aveva davanti un testo simile a quello del codice A, ma senza ὡς, come si può desumere non dal fatto che la resa di ὡς è tralasciata dalla versione (un’analoga omissione, presumibilmente deliberata, si ha anche a 431, 432, 433, e altrove), ma dal fatto che la gnome è collocata nel gruppo di quelle inizianti per n-. La guozze 857 J ὡς ἡδὺ κάλλος, ὅταν ἔχῃ νοῦν σώφρονα, è collocata nella versione slava prima di 652 J, tra le gnomai inizianti per n-: è plausibile l’ipotesi di Führer? che nell’antecedente della versione slava questa grozze iniziasse con πρέπει, dal momento

che anche altrove (387 M = Stob. III 9, 9)

a πρέπει del greco corrisponde /jubo come in questo caso. Un caso particolare è quello di 392 J κούφως φέρειν δεῖ τὰς παρεστώσας τύχας. Apparentemente questo verso è presente due volte nella versione slava, come 182 M e 334 M. In realtà due grormzai molto simili tra loro (una iniziante con κούφως e l’altra con ῥᾷον) dovevano comparire nell’antecedente della versione slava, così come in alcuni codici delle Gromai di Menandro e ancora nella raccolta di Meineke®

5 R. FÜHRER, Zur slavischen Übersetzung der Menandersentenzen, Königstein, Verlag Anton Hain 1982, pp. 18-19. 6 Fragmenta Comicorum Graecorum,

collegit et disposuit A. MEINERE,

mer 1839-1857: vol. IV (1841), pp. 340-374. —

112—

Berolini, Rei-

LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

(ove le due gromai sono riportate rispettivamente coi nrr. 280 e 470).

L’aver eliminato la seconda è dunque una scelta di Jakel, che non rispecchia la situazione della tradizione manoscritta greca. Per dare un’idea della cautela con cui si deve procedere, e dei problemi di metodo che si devono affrontare, basti il seguente esempio. Alla gnome 337 M, in corrispondenza di 698 J del greco ῥάθυμος ἐὰν ἧς πλούσιος, πένης ἔσῃ leggiamo nella redazione antico-serba bogat? sy atte lEnujesi nist’ budesi e nella redazione antico-russa bogatü sy alte lénifise ubogü budest; il Menander auctus (gnome 234) presenta una lezione intermedia tra le due, con /èérifise della seconda e nistr della prima. In conclusione, il senso della versione è chiaro, anche se risulta difficile scegliere tra l’imperfettivo attivo /énuseti e il perfettivo medio /énitise e tra nisti e il suo sinonimo ubogü. Jäkel segna in apparato ὧν σύ TZ; in realtà mi pare molto dubbio che la versione slava condivida la variante di T (Marc. Gr. 481): è vero che in essa leggiamo il participio sy, che parrebbe corrispondere a div del testo greco, ma questo è collegato a bogatö - πλούσιος, che è stato collocato all’inizio della gzomze per una scelta del traduttore, il quale ha voluto mettere in rilievo questa parola ed esplicitarne il valore concessivo aggiungendo un participio; il successivo a$te mostra che il traduttore conosceva ἐάν. Che l'inversione tra πλούσιος e ῥάθυμος sia frutto di un cambiamento volontario del traduttore è dimostrato dalla collocazione della gromze nella serie di quelle inizianti per π-. Se proprio si vuole, si potrebbe, caso mai, pensare a una variante dell’antecedente ράθυμος dv dv πλούσιος ἧς, πένης ἔσῃ, ma si tratta di una mera ipotesi, che non si potrebbe certo segnalare come acquisita in un eventuale apparato delle gromai. Poste queste premesse, si può tentare di dare qualche valutazione sul rapporto tra la versione slava e il testo greco. La versione slava presenta complessivamente la resa di 443 gromai, alle quali seguono alla fine dei codici della redazione antico-russa la ripetizione delle gnomai 5 e 68. Diciamo 443, e non 444 come hanno altri studiosi,

perché riteniamo che le parole nikogdaze nikogoze ne osudi ‘neminem umquam oderis’ che leggiamo dopo la grozze 221 nella tradizione antico-russa (la redazione antico-serba in questo tratto è mancante) non siano da considerare la versione monca di un ignoto trimetro greco (che sarebbe comunque molto arduo ricostruire, considerata l’estrema esiguità del passo slavo), ma un’inserzione nata all’interno della traduzione slava (e magari di un solo ramo della sua tradizione) dalla ripetizione della parola iniziale della gzorze successiva, a cui è stata aggiunta un’affermazione di natura molto generica: i tentativi di recuperare —

13 —

MORENO MORANI

la possibile fonte greca’ o di ricostruire il trimetro originale non conducono a risultati persuasivi. Nella tradizione antico-russa mancano le gnomai 59; 135; 262 M. La tradizione antico-serba è molto più po-

vera: manca dalla seconda metà della 215 M

alla parte iniziale della

256 M (dunque quasi tutte le gromaî inizianti per μ- e v-) e in più le gnomai 79; 86; 162; 183; 385; 405. L'ultima, 443, è mutila. Infine, uno spostamento di fogli dell’antigrafo ha portato alla collocazione di 295322 M dopo 369 M. Il Menander auctus presenta una selezione di gromai, col medesimo ordine della redazione russa e con la ripetizione di 5 e 68 alla fine; è notevole il salto che si trova fra la gnome 258

(che corrisponde a 369 M) e 259 (= 420 M): non possiamo parlare di lacuna, perché il Menander auctus è comunque un testo antologico, e

quindi il salto potrebbe essere frutto di una scelta volontaria, e tuttavia è interessante che esso si collochi proprio dopo 369, cioè dove

l’antigrafo del codice antico-serbo presentava lo spostamento di fogli di cui si è detto. Di queste 443 gnomai conservate dalla versione slava circa 66 non compaiono nella raccolta di Jakel; se si esclude la 110 M, che era presente nell’edizione di Meineke (col nr. 664) e in edizioni precedenti, delle 65 restanti almeno 27 hanno una fonte greca nota, ma estranea alle raccolte bizantine delle gnomai (Stobeo, papiri gnomici, altre fonti): questo numero può salire a 28 se si ritiene che 340 M possa essere messa in relazione con Comp. I 30. Restano quindi 37 gnomai la cui fonte greca è sconosciuta: almeno tre di queste (la 71, la 378 e la 382) sono presenti anche nella versione araba; abbiamo quindi circa 34 gnomai che la versione slava non ha in comune con nessun’altra fonte. Abbastanza stretti sono i rapporti che collegano la versione slava alla versione araba prima studiata da Ullmann. Delle guomzai tradotte nella versione slava, ben 202 ricorrono anche nell’araba, e anche l’or-

dine con cui le gnomai si susseguono mostra delle interessanti affinità. In entrambe la 74 J è collocata prima della 12 J e della 13 J; in entrambe la 175 J è collocata dopo la 185 J, e tra le due è inserita una gnome che manca nei codici bizantini; la 215 J è collocata prima della 240 J e 241 J; la 682 J è collocata prima della 642 1, e fra en-

? Cfr. MORANI, Führer).

La tradizione, cit., p. 71 (col rinvio ai precedenti tentativi di Jagié e

8 Per ulteriori notizie sulla versione araba definita ‘prima’ da M. Ullmann si rimanda all’introduzione premessa all’edizione curata dal medesimo studioso (Die arabische Über-

lieferung, cit.), p. 1 585.

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LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

trambe si ha l’inserzione di una grome sconosciuta ai codici bizantini; prima della 749 J entrambe le versioni hanno un’altra gnome ignorata dai codici bizantini; la 318 J è collocata dopo 824 7 tra le gromai inizianti per χ- (e quindi si deve presumere che nell’originale comune essa cominciasse con χαλινόν e non con ἡ γλῶσσα); per con-

tro la versione araba ignora lo spostamento dopo 668 J = 316 M di 305 J = 317 M (che dunque doveva cominciare nell’antecedente della versione slava con πολλοῖς, come peraltro in vari testimoni della tradizione diretta’). Anche diverse varianti comuni alle versioni slava e araba presentano un certo interesse: citiamo p.es. in 10 M = 74], che, come abbiamo detto, entrambe le versioni pongono prima della gnome 12 J: una variante πάθης in luogo di φρονῆς; in12M=13]J ἄγει δὲ πρὸς φῶς τὴν ἀλήθειαν χρόνος sia la versione slava sia l’araba οἱ riportano a un inizio diverso della grorze (qualcosa come ‘conduce e rivela’!9); e così via. Spesso il materiale non comune

tra le due ver-

sioni compare all’inizio o alla fine di una lettera alfabetica, e pure alla fine o all’inizio di una lettera alfabetica si collocano spesso (non sem-

pre) le gzomai che la versione slava non condivide con le raccolte

contenute nei codici greci: sembra che la versione slava e la versione araba abbiano avuto dinanzi un codice antico il cui redattore aveva accresciuto il materiale presente nell’antigrafo con l’aggiunta di altro materiale di provenienza diversa all’inizio o alla fine di ogni lettera alfabetica. In varie circostanze la versione slava può risalire a un testo diverso da quello dei codici greci. Segnaliamo alcuni casi in cui la versione slava offre varianti o lezioni alternative non necessariamente superiori a quella della tradizione diretta greca, ma comunque interessanti e degne di essere valutate. Un caso notevole è offerto da 361 M = 730 J in cui la versione slava presuppone il testo non della grozze quale appare nella tradizione bizantina, ma della fonte, Euripide, Phoen. 393. Anche in altri frangenti la versione slava riflette un testo diverso da quello presentato dalla tradizione diretta e noto invece ad altre fonti. Per 92 M = 231] ἐν πλησμονῇ τοι Κύπρις, ἐν πεινῶσι δ’ οὔ la ver-

9 Precisamente nei codici designati da Jäkel con le sigle HB. Peraltro byvajetà della versione si adatta meglio al yiver(aı) di questi codici che 41] ἐστιν del resto della tradizione. . 10 Potrebbe trattarsi di un adattamento comune, se si tiene conto della tendenza, fre-

quente in tutte le versioni antiche, a far corrispondere a una parola dell’originale due parole, per non lasciare scoperta nessuna delle possibili sfumature di natura semantica com-

prese nella parola dell'originale. Potrebbe anche essere (e ci pare un’ipotesi tutto sommato più plausibile) che entrambe le versioni si rifacciano a una glossa comune.



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MORENO MORANI

sione slava sembra rifarsi a un singolare πεινῶντι anziché al plurale πεινῶσι: il plurale è concordemente riferito dai codici greci delle Gnomai ed è noto p.es. anche a Gregorio Nazianzeno, che cita questo verso nei Carzzina moralia,

De virt. 588, e si trova in uno scolio

a Teocrito;! ma la lezione col singolare si trova in Ateneo (VI 270c),

che attribuisce il verso ad Euripide, e col singolare il trimetro viene accolto anche dall’edizione dei frammenti euripidei di Nauck, fr. 895. La traduzione di 212 1 ἐσθλῷ γὰρ ἀνδρὶ ἐσθλὰ καὶ διδοῖ θεός presenta nelle due redazioni slave (93 M) i testi seguenti: blaga muta jesti tripeti jete dasti gospodî la versione antico-serba (per la verità muta jesti è ovvia e sicura correzione di Jagié per l’insostenibile mutett del manoscritto!) e blagago muta esti vse terpeti eie dasti emu bogü nella versione antico-russa (con l’aggiunta di vse e di emu che paiono secondari). Il Menander auctus offre (gnome 86) un testo che ricalca quello della tradizione antico-russa, semplificandone la sintassi: blagd muti terpiti vise ele dastò emu bogü. Le divergenze tra greco e slavo sono abbastanza consistenti, tanto da avere fatto concludere ad alcuni precedenti studiosi che la versione slava traduca non 212 J, bensì

un’altra grozze ignota alla tradizione diretta greca che viene ricostruita ipoteticamente col seguente testo: ἐσθλοῦ γὰρ ἀνδρὸς ὅ τι διδοῖ θεὸς

φέρειν (Edmonds!) ovvero ἐσθλοῦ γὰρ ἀνδρὸς δῶρα τοῦ θεοῦ φέpeıwv (Snell citato da Jäkel in apparato a App. 1, 11) ovvero ἐσθλοῦ γὰρ ἀνδρὸς τἀπὸ τῆς τύχης φέρειν (Fihrer!): una soluzione quest’ultima per la verità non convincente, perché poco motivata e troppo lontana dal testo della versione; è bensì vero che in qualche caso τύχη può essere reso con ῥορῆ, ma alla soluzione di Führer si deve muovere l’obiezione che essa ignora completamente das, e dubitiamo comunque che il traduttore slavo avrebbe reso in questo modo un eventuale testo simile a quello proposto da Führer. La nostra impressione

11 TI testo della versione slava presenta qualche incertezza, ma la lezione corretta, conservata solamente in un codice della redazione antico-russa, può essere facilmente ripristiriata. Si noti che nella resa del testo greco il metaforico Κύπρις è stato sostituito dal termine proprio /jubodéjanija ‘luxuria’ (per la verità i testimoni delle due redazioni hanno, con qualche oscillazione grafica, il singolare jubodéjanie, che è sicuramente da correggere nel corrispondente plurale, per permettere l’accordo col verbo al plurale byvajutü). 12 Schol. K a Theocr. 10, 9. 13 V. JAGIC, Pasym u funocofiuja us cnpckux knumesnuxcmapuna,

1912, p. 101.

«Cnomenux», XIII,

14T.M. EDMONDS, The Fragments of Attic Comedy, vol. ΠῚ B, Leiden, Brill 1961, gzoze 963.

15 FÜHRER, Zur slavischen Übersetzung, cit., pp. 18-19.



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LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

è che qui la versione slava proponga non la resa di un monostico al-

trimenti ignoto, ma la resa di 212 J in una forma diversa da quella

pervenutaci nei codici delle Grorzai, e in una forma che a nostro parere merita la massima attenzione da parte degli studiosi. Sottolineiamo infatti che sono molto numerose nella tradizione gnomologica le attestazioni di trimetri che iniziano per ἐσθλοῦ γὰρ ἀνδρὸς o per ἐσθχῶν γὰρ ἀνδρῶν (0 eventualmente σοφοῦ γὰρ ἀνδρὸς): citiamo p.es. Soph. TrGF F 319 e 922; Eur. fr. 8; Hec. 845; Men. Sent. 260; col plurale Eur. fr. 75, 2; fr. 44, 2; ecc.; per contro 212 J sembra essere l’unica gnome iniziante con una formula analoga, ma al dativo. Posto che la ricostruzione di Edmonds è la più prossima alla versione slava, sarà utile cominciare da questa. Se si osserva che entrambe le tradizioni hanno il verbo jest si potrebbe pensare a un testo originario ἐσθ᾽ 6 ovvero ἐσθ᾽ di: da quest’ultima poteva nascere facilmente la corruttela ἐσθλά (anche per influsso della parola iniziante il trimetro), sulla base della quale veniva poi riformulato il trimetro, con la sostituzione del dativo iniziale all’originario genitivo e con l’eliminazione di φέρειν; come ultimo ritocco potremmo avere l’aggiunta di καί integrato presumibilmente da qualche copista che aveva percepito l’insostenibilità metrica del passo. Al termine di un simile processo, concettualmente il verso si sarebbe molto allontanato da quella che presumiamo essere la redazione primitiva: all’idea che l’uomo valoroso sapesse sopportare con coraggio ciò che Iddio gli dava era subentrata l’idea della benevolenza divina nei confronti dell’uomo valoroso. Questa seconda idea (debolmente attestata in qualche trimetro comunque estraneo alla raccolta delle Gromai) appare piuttosto banale, tanto che un codice delle grozzai ha sostituito καὶ διδοῖ θεὸς con καὶ διδάγματα. Per contro l’altra idea è attestata a partire dal fr. 319 di Sofocle ἐσθλοῦ πρὸς ἀνδρὸς πάντα γενναίως φέρειν, un passo ripreso anche dalla Comparatio I 279 con qualche variazione testuale (σοφοῦ δὲ ἀνδρὸς πάντα γενναίως φέρειν) e richiamato da Coricio di Gaza, Epitaph. Procop. 35, 2 (p. 122, 20 Foerster - Richtsteig) ἐσθλοῦ γὰρ ἀνδρὸς, ἡ τραγῳδία φησί, ἅπαντα φέρειν καλῶς e, più alla lontana, dalle stesse grozzai (15 J ἀνδρὸς τὰ προσπίπτοντα γενναίως φέρειν). Il testo presupposto dalla versione slava è dunque ἐσθλοῦ γὰρ ἀνδρὸς ἐσθ᾽ ἃ διδοῖ θεὸς «φέρειν». La caduta di una parola alla fine di un trimetro si rileva anche in altre occasioni: p.es. 119 7 (πᾶν «θέλει» secondo l'emendamento di Erbse) o 490 J (ποιεῖν «θέλε» emendamento di Erbse per ποιοῦ). La versione di 682 J = 322 M πολλοὶ τραπεζῶν, οὐ φίλων εἰσὶν φίλοι appare pressoché identica nelle due tradizioni fondamentali (mnozi sutò obedu druzi, a ne druZibè nella redazione antico-serba, e —

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MORENO

MORANI

mnozi suti obedu druzi, a ne druibe ‘multi sunt tabulae amici, sed non amicitiae’ nella redazione antico-russa); nel Menander auctus il verso (gnome 219) è troppo rimaneggiato perché se ne possa trarre qualche

cosa di utile.!° Innanzitutto notiamo che il testo dell’edizione teubneriana è frutto di congettura di Jakel: i testimoni hanno πολλοὶ τραπεζῶν καὶ οὐ φίλοι εἰσὶν φίλων e πολλοὶ τραπέζης εἰσὶν ἢ φίλων φίλοι. La versione slava presenta, oltre a un ordine di parole un po’ diverso, tre fatti che la rendono differente dal testo greco: il singolare obédu a fronte di τραπεζῶν (che potrebbe far pensare alla variante τραπέζης nota anche alla tradizione greca, ma nella resa dei numeri c’è sempre qualche oscillazione nella versione), la presenza di una congiunzione avversativa (4) tra le due parti del trimetro, e infine la presenza dell’astratto druzbe per la resa di φίλων, Questa terza particolarità sembra nota anche alla versione araba.” Nell’insieme, dalla versione slava potrebbe ricavarsi un testo come πολλοὶ τραπέζης (τραπεζῶν») κοὐ φιλίας εἰσὶν φίλοι, il cui contributo per una migliore sistemazione dell’originale greco meriterebbe di essere attentamente valutato. Per la versione di 317 J] = 128 M ἡ δ᾽ ἀργία πέφυκεν ἀνθρώποις κακόν le due redazioni della versione slava hanno: prazdinistvo veliko zlo dlovekomi l’antico-serba e prazziosti veliko esti zlo élovèéku l’anticorussa, quest’ultima con l’aggiunta del verbo est? e col singolare ὅϊοveku in luogo del plurale Clovékomi. Poiché l'aggiunta di est? è nata con tutta probabilità all’interno della redazione russa (come nelle gromai 50; 115; 124; 127; 136; 192 [omissione della tradizione anticoserba?]; 268; 301; 331; 391; 410 M), l’unica diversità tra le due tradizioni resta circoscritta allo scambio di numero, col plurale della

redazione antico-serba che corrisponde più fedelmente a ἀνθρώποις del greco. In luogo di πέφυκεν troviamo nella versione slava veliko ‘magnum’; se teniamo conto del frequente scambio tra grado positivo e superlativo dell’aggettivo possiamo presupporre nell’antecedente della versione slava μέγιστον: anche in 179, 247, 400 gr. μέγιστον è reso con veliko. Con questo cambiamento ci troviamo di fronte a un trimetro la cui struttura richiama molte altre grozzaz: p.es. 297 J ἡ δ᾽ ἁρπαγὴ μέγιστον ἀνθρώποις κακόν; 794 J ὑπερηφανία μέγιστον ἀνθρώ-

ποις κακόν; leggermente diverse 795

ὕβρις κακὸν μέγιστον ἀνθρώ-

16 Precisamente: M’nozi suti u dobra xitija druzi a ne u bedy ‘multi sunt quidem pulchrae vitae amici atque non laboris’. Si noti alla fine 5édy ‘laboris’ presumibilmente nato da una cattiva lettura di obedu ‘tabulae’. ἢ 17 Gnome 254 della versione araba ‘prima’ edita da M. Ullmann.



18



LA VERSIONE

SLAVA DELLE «GNOMAI»

DI MENANDRO

ποις ἔφυ; 849] ψεῦδος μέγιστόν ἐστιν ἀνθρώποις κακόν; 386 κακὸν μέγιστον ἐν βροτοῖς ἀπληστία,

Come valutare questo μέγιστον»

In-

flusso magari inconscio di altre gromai presenti nella versione slava o nel suo antecedente, o traccia di una diversa, e magari superiore, redazione di questa grome? Nella resa di 330] = 145 M θεὸς συνεργὸς πάντα ποιεῖ ῥᾳδίως la versione slava presenta, in luogo del soggetto, una proposizione temporale ῥορῶ egda pomagaetü (bogi egda pomagaeti la redazione serba) ‘si deus auxiliatur’, che presume una lezione analoga a quella troviamo in W θεοῦ συνεργοῦ; in luogo di ποιεῖ la resa tvoritse rimanda a un passivo ποιεῖται (non a ποιεῖς, come segna l’apparato di Jäkel, lezione che non ha nessuna base). Potremo pertanto supporre un antecedente θεοῦ συνεργοῦ πάντα ποιεῖται ῥᾳδίως; dal momento che nella versione slava troviamo il singolare vse a fronte del plurale πάντα, rimane però l'incertezza se non si debba ammettere una lezione al singolare anche nell’antecedente greco: θεοῦ cuvepyod πᾶν ποιεῖται ῥᾳδίως; mancano elementi decisivi per pronunziarsi a favore dell'una

o dell’altra lezione.

Con

questi

ritocchi,

il pensiero

della

gnome non muta di molto, ma risulta formulato in maniera diversa, e la versione slava ci fa conoscere una lezione alternativa a quella della tradizione diretta greca: se si considera la lezione presupposta dalla versione slava come punto di partenza, si possono spiegare le successive alterazioni subite dal testo: la difficoltà ad accettare un genitivo assoluto senza participio (costruzione in sé legittima, quando in un aggettivo è implicito un valore verbale che lo assimila praticamente a un participio,'® ma rara) ha indotto qualche copista a sostituire συν€pyod con un participio, e di questo cambiamento reca traccia qualche settore della tradizione diretta greca che ha συνεργῶν (BET); il cambiamento della parte iniziale del trimetro ha portato con sé anche la modifica. del verbo, che da passivo doveva diventare attivo. Un'altra grorze per la quale la versione slava propone un’interessante variante non nota da altre fonti è la 186 M = 403 1: al testo greco κάλλιστον ἐν κήποισι φύεται ῥόδον corrisponde nella tradizione antico-serba byvajeti na trini dobri cvètisi ‘nascitur in sente pulcher flos’ e nella tradizione antico-russa byvaetà i na trnii dobrü cvetesü ‘nascitur et in sente pulcher flos’, con l’inserzione di un i ‘et’ che potrebbe anche essere secondario. Se si escludono il diverso ordine delle parole e la resa del superlativo greco con l’aggettivo al grado positivo (due particolari per i quali la testimonianza della versione slava ha ge-

18 Cfr. E. SCHWYZER, Griechische Grammatik, II, München, Beck 1953, pp. 384 e 404.



119—

MORENO MORANI

neralmente scarso valore), la nostra versione sembra riflettere una versione ἐν ἀκάνθαις (ἀκάνθαισι) in luogo di ἐν κήποισι. Una variante che merita considerazione, sia perché rende meno banale il dettato della gnormze sia perché un’idea simile a quella recata dalla versione slava si può ritrovare in altri testimoni della tradizione gnomologica greca: citiamo ad esempio il Gromzologium Vaticanum 22 καὶ γὰρ τὰ ῥόδα ἐν ἀκάνθαις φύεται, ἀλλ᾽ ἐν ἡδονῇ καὶ κάλλει διαφέρει e la Vita Aesopi, ove leggiamo (Vita G 884 5) μηδεὶς οὖν εἰδὼς τὸ μέγεθος ἐλαττούμενον μεμφέσθω τὸν νοῦν’ καὶ γὰρ ἐν ἀκάνθαις τὰ καλὰ φύεται ῥόδα. Un concetto almeno in parte simile viene richiamato

da Gregorio

Nazianzeno,

Carm.

mor., PG

37, 594,

13 μεσάτη

δὲ κακῶν ἀρετὴ κατάκειται / ὡς ῥόδον ἐν στυγερῆσι καὶ ὀξείῃσιν ἀκάνθαις e PG 37, 638, 6 οὐ πάντες ἄνδρες τὴν σὴν ἁπλότητα χωροῦσιν. / Ὡς ῥόδον ἐν στυγερῇσι καὶ ὀξείῃσιν ἀκάνθαις, La Vita Ae-

sopî viene utilizzata in una delle appendici dell’edizione di Jikel come

testimonio collaterale delle Gromai di Menandro, ma questo passaggio non viene richiamato. Jagié, Jäkel e Führer considerano il verso desumibile della versione slava come la traduzione di un verso non compreso nelle Gromai, per il quale vengono proposte diverse ipotetiche ricostruzioni: a noi sembra, più ragionevolmente, che esso rap-

presenti una diversa redazione della grorze 403 J.



120 —

CARLO

PERNIGOTTI

LA TRADIZIONE MANOSCRITTA DELLE «MENANDRI SENTENTIAE»: LINEE GENERALI Uno degli snodi fondamentali della tradizione del testo delle Menandri Sententiae riguarda le differenze fra la fase antica, testimoniata dai papiri, e quella successiva, rappresentata dalle traduzioni araba e slava e dalla tradizione medievale greca. Il sostanziale isolamento che i papiri hanno a causa dell’unicità di ogni singolo testimone costringe a considerarli in sé e separati, ma sono comunque

emersi, accanto a

tracce di legami reciproci, caratteri che escludono la possibilità di confronti precisi con una o l’altra classe medievale, o l’una o l’altra traduzione. Pur all’interno della medesima tradizione, non solo non si registrano preformazioni delle classi dei manoscritti, ma la maggior parte dei testimoni antichi (a parte qualche caso!) mostra una chiara tendenza alle raccolte di dimensioni ridotte e dal patrimonio testuale in buona parte diverso (anche in termini di versi che non hanno paralleli nella tradizione successiva). In sostanza, la documentazione papiracea conserva tipi di raccolte non interpretabili sulla base delle ra-

mificazioni della fase successiva della storia del testo e dotati di caratteristiche che fanno pensare a filoni indipendenti e in gran parte

perduti di tradizione e ad una serie di percorsi paralleli e distinti da

non sovrapporre fra loro.? A sua volta, la situazione

delle raccolte medievali

e delle tradu-

I Solo due i documenti di dimensioni maggiori alla media: POxy XLII 3006 e PMilVogliano inv. 1241v, che riportano 22 sentenze in alfa ciascuno; nonostante il confronto

non regga con le 54 in alfa di B, le 52 di A o con le 42 di K, è comunque un dato rilevante (e non si può sapere se la sezione continuasse o no): va anche ricordato che la sezione in alfa è anche — sempre — tra la più ricche di sentenze. Per contrasto, comunque,

si possono ricordare le 10 sentenze in alfa di PCopt (ovvero il testo della redazione greco/copta), i cui due testimoni conservano la collezione antica più completa. 2 Per un quadro generale della tradizione antica, cfr. C. PERNIGOTTI, Raccolte e va-

rietà redazionali nei papiri dei «Monostici di Menandro», in Papiri Filosofici. Miscellanea di Studi III, Firenze, Olschki 2000 («STCPF»,



10), pp. 171-228.

121-

CARLO PERNIGOTTI

zioni è molto diversificata al suo interno, ed è proprio in questo senso

che la prassi editoriale che le Menandri Sententiae hanno conosciuto fin dalle prime edizioni critiche parziali degli inizi dell'Ottocento (le prime che prescindessero dalla redazione planudea) fino a Jakel risulta più che mai fuorviante. Accorpare, come è sempre stato fatto, tutto ciò che di nuovo proveniva dalle nuove testimonianze, inserendo

di volta in volta i nuovi versi nell’acrostico alfabetico, significa non

solo produrre un testo mai esistito, ma anche obliterare la specificità delle singole redazioni:? rimane in questo senso esemplare la scelta opposta operata da W. Meyer nel pubblicare la redazione del manoscritto Urbinate greco 95 (U). Riconosciutane l’irriducibilità alla tra3 La prima edizione indipendente dalla redazione planudea è di J.G. SCHNEIDER, Fabulae Aesopiae e codice Augustano nunc primum editae cum Fabulis Babrii choliambicis et Menandri sententüs singularibus aliquot etiam ineditis. Recensuit et emendavit Io. Gottlob Schneider saxo., Vratislaviae, Korn 1812, pp. 140-159, che pubblica un testo che si basa essenzialmente su A, con integrazioni da Wo e V, per un totale di 502 versi. Poi, A. MEI-

NERE, nelle Menandri et Philemonis Reliquiae, Berolini, Myl 1823, pp. 311-340 aggiunge Wi, Vin, ed un supplemento di 121 versi dall’edizione aldina, per un totale di 685 Monostici (564+121). Pochi anni dopo, J.FR. BOISSONADE, Arecdota Graeca e codicibus regiis I, Parisiis, in Regio Typographeo 1829 (rist. an. Hildesheim, Olms 1962), pp. 153-159, pubblica estratti di P e Par (rispettivamente 94 e 11 versi). Tutto questo materiale, senza ulteriori aggiunte, confluisce nell’edizione di Aristofane di F. DÜBNER, Aristophanis Comoediae et perditarum fragmenta, ex nova recensione Guilelmi Dindorf. Accedunt Menandri et Philemonis fragmenta auctiora et emendatiora (rec. F. Dübner). Graece et latine (cur. H. Gotius) cum indicis, Parisiis, Didot 1838, pp. 90-103, che in più presenta le traduzioni

latine di gran parte dei Monostici, variamente tratte da Grotius, Stephanus, Bentley o da Dübner stesso. Nell’Editio Maior dei FCG

(Berolini, Reimer 1841, vol. IV, pp. 340-374)

Meineke dà una propria sigla ai manoscritti viennesi: Vin. 1 (= A); Vin. 2 (= V); Vin. 3 (= Wi); Vin. 4 (= Vin); Vin. 5 (= Wo); nel frattempo si è aggiunto S (Vin. 6), con un

supplemento di 29 vv. (Supplementum I, FCG IV, pp. 356-357); a seguire, i testimoni raccolti da Boissonade (Supp/. II, ibid., pp. 357-358) e dall’edizione aldina (Supp/. III, pp. 358-362, nel quale sono però confluite sentenze non presenti nel testo di T ma arbitrariamente aggiunte nell’edizione brunckiana, Ἠθικὴ ποίησις sive Gnomici Poétae Graeci.

Ad optimorum exemplarium fidem emendavit Rich. Franc. Phil. Brunck, Argentorati, in bibliopolio Academico 1784, pp. 221-247, sulla base di fonti diverse (cfr. pp. 342-349) e segnalate da Jakel a pp. xvi-xvu della sua edizione; ma vd. già L. STERNBACH, Menandrea, «Rozprawy i sprawozdania z posiedzen wydzialu filologicznego Akademii Umiejetnosci», XV, Kraköw 1891, pp. 352-354). Nel frattempo, rimane a lungo ignorato il lavoro di N. PiccoLos, Supplement ἃ l’Anthologie Grecque contenant des épigrammes et autres poésies

légères inédites. Précédé d’observations sur l’Anthologie, et suivi de remarques sur divers poètes grecs, Paris, Reinwald 1853, pp. 227-233, che pubblica estratti dai codici fiorentini F ed L. Il primo lavoro di risistemazione generale si deve a W. MEYER (come a lui si devono le sigle principali), in Die Urbinatische Sammlung von Spruchversen des Menander, Euripides und Anderer, «ABAW», XV.2, 1880, pp. 399-401, che per primo analizzò la collezione del manoscritto K in Nachlese zu den Spruchversen des Menander und Anderer, «SBAW», II, 1890, pp. 364-374. Sul materiale lasciato inedito da Meyer ha infine ripreso a lavorare S. JAKEL, Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»).



122—

TRADIZIONE MANOSCRITTA DELLE «MENANDRI SENTENTIAE»

dizione medievale a lui nota all’epoca (ma oggi le cose non sono molto cambiate), lo studioso ha dedicato al testo conservato dal manoscritto un'edizione specifica, che gli ha permesso di isolare e mettere a fuoco alcuni processi caratteristici della tradizione del testo dei Monostici, come la tendenza ad eliminare le soluzioni del trimetro e ad intervenire con libertà soprattutto sulla parte finale del verso — per ottenere la chiusa con parole parossitone — oppure la facilità di interazione con raccolte diverse. Un metodo del genere deve servire da esempio anche nell’indagine delle singole redazioni conservate dalla tradizione medievale, le cui diverse fisionomie possono dipendere, oltre che dal patrimonio testuale proprio, anche dalle diverse modalità di intervento sul testo e, quindi, da tutta una serie di tratti peculiari che devono essere recuperati e poi messi a confronto con le altre fasi della tradizione. Questo quadro può essere ancor meglio completato tenendo presente il problema delle dimensioni delle redazioni, considerando la tradizione antica caratterizzata da una serie di corpuscula autonomi di sentenze che procedevano parallelamente e che, come vedremo, potevano essere disponibili ancora in età bizantina tanto da essere probabilmente utilizzati ed accorpati nella costituzione delle nuove raccolte. Il quadro generale del rapporto fra la prima traduzione araba, quella slava e la tradizione del testo greca è stato visto, a mio parere, in un modo più lineare del reale stato delle cose; si è sempre sottolineato il notevole numero di legami‘ fra le due traduzioni e si è dato a queste coincidenze un peso che non rende il giusto conto di un quadro molto più sfuggente: se infatti l’insieme dei rapporti (misurato soprattutto sulla base dei versi comuni), considerato in sé appare effettivamente sorprendente, se si va a verificare lo stato delle cose sezione per sezione, analizzando le sentenze di ogni singola lettera dell’alfabeto, emerge una certa quantità di divergenze che mette in crisi non

4 Per un elenco ancora sufficiente degli errori congiuntivi (ma ve ne sono anche di separativi), delle coincidenze nell'ordine e dei versi comuni alle traduzioni ma non alla tradizione greca, cfr. R. FÜHRER, Zur arabischen Übersetzung der Menandersentenzen, Stutt-

gart, Teubner 1993 («Beiträge zur Altertumskunde», 43), pp. 2-3 nota 12. Per la numerazione delle sentenze appartenenti che seguiranno, si fa riferimento, per la versione araba

a M. ULLMANN, Die arabische Überlieferung der sogenannten Menandersentenzen, Wiesbaden, Steiner 1961 («Abhandlungen für die Kunde des Morgenlandes», XXIV.1), con le

aggiunte pubblicate dallo stesso autore nelle Bemerkungen zu den arabischen Übersetzungen der Menandersentenzen, «Der Islam», XLII, 1965-1966, pp. 79-88; per la versione slava, M. MORANI, La traduzione slava delle «Gnomai» di Menandro, Alessandria, Edizioni dell’Orso 1996.



123—

CARLO PERNIGOTTI

solo il rapporto privilegiato con una qualsiasi classe medievale (rap-

porto che del resto - significativamente — nessuno aveva mai chiamato in causa), ma anche quello reciproco fra le due traduzioni. Anche il confronto numerico secco dei monostici che entrambe riportano (il modello ricostruito per la versione slava ne doveva avere un centinaio di più) è spesso contraddetto nelle singole sezioni — nelle quali si deve sempre distinguere fra sentenze comuni alle due traduzioni e sentenze riportate solo da una: ad esempio, le sentenze in a tradotte solo in arabo sono più di quelle tradotte solo in slavo. Altro fenomeno tipico è ancora,

all’interno

di sezioni di sentenze tradotte solo in slavo o

solo in arabo, l’accordo irregolare con classi diverse o addirittura con manoscritti diversi (non a caso i più ricchi di sentenze,

come A, B,

K, ma anche U), per non parlare infine di quei versi che non compaiono in altre fasi della tradizione delle Menandri Sententiae? Di fronte ad un quadro così eterogeneo ed irriducibile, la difficoltà di

rintracciare una linea coerente dipende probabilmente da un errore di prospettiva: se invece di considerare il quadro generale dal punto di vista della tradizione medievale, e delle sue ‘strettoie’ peculiari, lo

si guarda dal punto di vista della tradizione antica, gli elementi di coincidenza sembrano evidenti: assenza di legame con una classe in particolare e ricchezza di patrimonio originale (spesso portato a confronto con buoni risultati con versi noti per altre vie gnomologiche) sono elementi già tipici dei papiri, con un dato in più, e cioè quello delle dimensioni. La traduzione araba potrebbe risalire anche al IX sec., mentre per quella slava le fonti sono più tarde, ma non va dimenticato che siamo di fronte a testimoni sui quali può essere applicato il cosiddetto criterio delle “aree laterali’, per cui può essere presupposta una certa arcaicità dei caratteri: comunque sia, l’ipotesi più convincente, è quella di un accorpamento di corpuscula diversi, paragonabili a quelli conservati dai papiri sia per le dimensioni, sia per i caratteri di originalità e peculiarità di gran parte dei rispettivi versi; un accorpamento che ha provocato una situazione a macchia di leopardo, per cui al-

5 I Monostici

‘esclusivi’

di A registrati anche

nelle traduzioni

sono:

191

[= Ar.I 92],

244 [= Ar.I 121], 303 [= Ar.I 146, Slav. 138], 340 [= Ar.I 167], 369 [= Slav. 169], [= Slav. 186], 473 [= Slav. 224], 580 [= Slav. 283], 584 [= Slav. 287]; quelli di U, [= Slav. 109], 615 [= Slav. 297], 623 [= Slav. 300]; di K: 351 [= Slav. 156], 493 [= 244], 672 [con C,, vd. infra = δῖαν. 314], 673 [= Slav. 309], 868 [= Ar.I 338]. Ciò

403 262 Slav. che

colpisce è che accanto a queste coincidenze (già di per sé destabilizzanti), anche all’interno di un’unica traduzione compaiono una di seguito all’altra sentenze di classi distinte; è dal confronto combinato dei singoli casi che la situazione appare ancora più fluida.

— 124—

TRADIZIONE

MANOSCRITTA

DELLE «MENANDRI

SENTENTIAE»

cune parti sono comuni alle due tradizioni (e a singoli rami o addi-

rittura singoli testimoni della tradizione medievale) e si sovrappongono interamente, mentre altre non consentono alcun tipo di confronto incrociato e non possono essere riportate ad una tradizione unica proprio a causa dell’impiego diversificato di organismi testuali ridotti nelle dimensioni e diversi nel patrimonio testuale. Anche la comprensione del quadro della tradizione medievale può progredire da un attento confronto con lo stato delle traduzioni e della tradizione antica: l’identificazione delle prime due classi, dovuta al Meyer, e l’aggiunta della terza (opera di Jäkel) hanno buone basi testuali, e soprattutto la divisione fra le prime due classi è evidente sia per la quantità dei Monostici esclusivi, sia per le varianti di quelli comuni, ma quello che manca è la nettezza dei confini fra classe e classe, la loro indipendenza totale: non si tratta di esigere che la tradizione non sia toccata da fenomeni di contaminazione fra fonti, ma il tipo di permeabilità recipoca che contraddistingue le ramificazioni medievali ha caratteri molto sfuggenti, e difficili da definire. Le classi, cioè, sembrano

avere sin da principio, accanto ai tratti distintivi, si-

gnificative parti comuni (in particolare molti Monostici uguali): si tratta di capire il motivo di un fenomeno del genere, e di verificare se un quadro tradizionale come quello prospettato per le traduzioni possa essere presupposto anche in questo versante della trasmissione del testo. I riscontri, in effetti, non mancano: può essere preso come primo caso esemplare quello della collezione di U, caratterizzata sia da un deciso intervento testuale sui singoli versi, sia da un uso combinato di almeno un’altra raccolta, estranea alla tradizione dei Monostici ma da tempo identificata. Seguendo il comportamento complessivo di U ma selezionando alcune lettere in particolare (la raccolta è incompleta: termina con la lettera τ), si osserva una situazione molto irregolare: delle 45 sentenze in alfa, 22 non sono attestate nella tradizione dei Monostici (e di queste 10 sono comuni ad un testo conservato dal Par. Suppl. gr. 690 = M°), 21 sì, e sono identificative della classe di

6 Si tratta di una raccolta di sentenze monostiche in acrostico alfabetico, conservata

ai ff. 73*-74 sotto il titolo Γνῶμαι κατὰ στοιχεῖον διὰ ἰάμβων, che ha 17 versi in comune con l’Urbinate per le lettere a e B; cfr. C. PERNIGOTTI, Appunti per una nuova edizione dei Monostici di Menandro, in Papiri Filosofici. Miscellanea di Studi I, Firenze, Olschki

1997 («STCPF», 8), p. 77 nota 13 (per una diversa datazione del manoscritto vd. J. IRIGOIN, L’Italie Meridionale et la tradition des textes antiques, «JÖByz», XVIII, 1969, p. 49, che lo sposta dall’XI alla seconda metà del XII sec.).



125—

CARLO PERNIGOTTI

appartenenza (la seconda), mentre 2 sono comuni a U e alla cl. Io ad altre fonti (61 [con la cl. I Ven T M] e 62 [con la classe I e M]). La sezione in ß, su 9 sentenze ne conta 8 esclusive (7 in comune con

M) e una condivisa con il resto della tradizione dei Monostici (98). Il legame con il testimone M si ferma qui; la raccolta di quest’ultimo conta altre numerose sentenze monostiche in acrostico alfabetico fino alla lettera ἕξ, ma non mostra più nessun legame con U, che da parte sua comincia ad intraprendere un percorso più lineare, pur senza perdere i propri tratti peculiari. Per esempio, la sezione in o, su 21 sentenze, ne conta 9 nuove e 4 condivise con testimoni estranei alla cl.

II; la sezione in x ne ha invece 23, di cui 8 nuove e una non nota al resto di cl. II. Altro dato caratteristico la disuguaglianza delle sezioni: dai 45 Monostici in a all’unico in 1 e €, ο ai 2 ἰπ ἢ ο αἱ in p; tutto questo in un testimone che, come detto, interviene in modo consistente anche sui versi già noti alla tradizione. Dire che un monostico è ‘nuovo’ (o ‘esclusivo’), implica una semplificazione: il verso è nuovo rispetto al resto della tradizione, ma sarebbe più corretto specificare che il verso è nuovo rispetto alle altre fonti dirette della tradizione medievale dei Monostici; il caso dell’accordo con M mostra l’inadeguatezza dell’espressione in sé, ma non perde di consistenza nei confronti della restante tradizione del testo (medievale e non). U non segue una linea coerente alla sua posizione nella classe II, ed intrattiene legami con fonti di altra natura: anche senza l’esempio di M è naturale pensare all’impiego di altre fonti, ma che questo impiego non sia stato sistematico lo mostra l’improvvisa scomparsa di M dal resto della raccolta di U e la presenza irregolare di versi non altrimenti noti dalla tradizione medievale (ma conservati in altri canali”) e lì reimpiegati. Nella tradizione dei Monostici esiste un altro caso in parte confrontabile, e riguarda le due raccolte di C (Vindob. phil. gr. 173): soprattutto nei confronti della seconda, l'apparato di Jakel è particolarmente carente, e non registra alcuni dati cruciali per il nostro discorso. Conclusasi la prima raccolta (C,, ai ff. 1405-142:, dal titolo

Τῶν Ἑλλήνων κατὰ ἀλφάβητον ἠθικαὶ παραγγελίαι, e dai forti legami con D e H), dopo altri testi sentenziosi, ricomincia con un altro titolo generico simile a quello della prima, una nuova raccolta di Monostici (C,, Ε 143", titolo Ἕτεροι στίχοι ἑλληνικοὶ κατὰ ἀλφάβητον) molto più breve della precedente e con poche sovrapposi-

7 Come per es. i Mon. 71, 204, 262, 426, 615, 618, 620, 622, 678, 869-870.



126—

TRADIZIONE MANOSCRITTA

DELLE «MENANDRI

SENTENTIAE»

zioni (Mon. 109, 138 [ὅπουC, : ὅπως C,], 149, 409 [σιωπή C, : σιωπᾶν C,], 452 [ἰατρός C,: intpéc C,], 524). La brevità della seconda raccolta non è solo dovuta al fatto che si interrompe alla lettera π, ma anche alla tendenza propria alla misura breve delle sezioni (le più ampie sono quella in «x, con 14 sentenze ed in a con 13, ma anche C, tende a ridurre): quello che sorprende è che fino alla lettera n la col: locazione nella classe I procede regolare, mentre a partire dalla lettera @ interviene una serie di Monostici e lezioni identificativi della cl. IL? sino alla fine (anche se restano mescolate sentenze e lezioni di cl. I): si dovrà così pensare che su di una raccolta mutila della cl. I si è intervenuti integrando (ma solo parzialmente) con una raccolta vicina alla cl. II. Ma non basta: nel manoscritto Coll (Collegii Graeci Romae 3), un testimone della classe v, la raccolta completa di quest’ultima è inserita al termine di una serie di excerpta che comprendono parti della Comparatio I, materiale gnomico vario e, ai ff. 143°-144', un estratto parziale ed irregolare (ma sempre disposto secondo l’acrostico alfabetico) tratto da un’altra classe di Monostici, ancora una volta la seconda. L'aggiunta non è funzionale all’integrazione o al completamento mediante materiale testuale nuovo, sembra indipendente; tuttavia, le omissioni presenti nella redazione della classe v di Coll sono state fatte per non ripetere le sentenze della classe II già trascritte, anche se l'operazione non è perfettamente riuscita.” Tutto quanto il materiale è raccolto sotto il titolo generale Ἐκ τῶν ἔξω σοφῶν ἀντιρρητικὰ Μενάνδρου καὶ Φιλιστίωνος. In tre casi diversi si ricorre o a materiale estraneo o a fonti diverse del medesimo testo integrando o aggiungendo, ma non in modo sistematico; non viene riversato tutto quello che proviene dalle altre fonti, ma

si seleziona,

si lavora di preferenza

su alcune lettere e si

cerca anche di eliminare le ripetizioni; in due casi la nostra conoscenza della tradizione medievale ha permesso di recuperare i tratti

8 Si tratta di Monostici o esclusivi della cl. II o condivisi con le altre classi, comun-

que per tutti è sparita l’indicazione di C, dall’apparato dei testimoni di Jäkel: 322, 347, 351 [K], 348, 329, 327, 353 [8], 370, [id.], 398, 402, 396 [nella versione di versione di cl. II], 386 [lezione di cl. 471, 486, 532 [x], 536 [€], 227 [nella

365, 376 [δ], 425 [δ], 391 [in accordo con ö], 389 cl. II], 427 [K], 418 [in accordo con δ), 395 [nella II], 455 [e], 462, 469, 495 [δ], 490 [Ky], 500 [δ], versione di cl. II], 554, 569, 571, 565, 614 [δ], 649,

672 [K]. ? Dei versi comuni alle due selezioni (358, 385, 431, 546, 564, 630, 781, 841), solo 358 e 385 sono ripetuti nella redazione di v (anche se in 385 la versione di v ha reipaσμός per καιρός).

- [127



CARLO PERNIGOTTI

di una delle due classi, nell’altro si è recuperata una fonte soltanto, estranea però alla tradizione dei Monostici e probabilmente tarda. In ogni caso, però, si è potuto constatare direttamente la facilità dell'aggiunta e infiltrazione di materiale estraneo e soprattutto l’interazione ragionata di fonti del medesimo testo ma appartenenti a redazioni diverse.

Per affrontare il problema complessivo della tradizione delle Menandri Sententiae si deve tenere presente un quadro dotato di questi tratti specifici: così, anche il problema del rapporto fra le classi maggiori e dei legami, trasversali alle classi, di alcuni dei manoscritti principali (come per esempio A e ancora di più B) può essere affrontato in modo più produttivo. I casi visti sopra, e la complessità dei rapporti reciproci fra le classi, l'assenza di una divisione assoluta fra di

esse o fra i vari testimoni ed altri tipi di tradizioni, ed il fatto che il grado di permeabilità aumenti nelle raccolte più ampie e nelle tra-

duzioni è un segnale a mio parere forte del fatto che il ricorso al confronto ed all’integrazione, anche non sistematica, con altri filoni della tradizione, è una costante di diverse fasi della storia del testo e deve essere sempre tenuto presente. Il caso di U e, più in generale, dell’accordo di singoli manoscritti con fonti diverse, talora solo antiche (in questo senso è notevole il comportamento di K, Athen. Bibl. Nat. 1070), spinge a credere che molto materiale inedito potesse ancora provenire

direttamente,

recta via, dalla fase antica; e le sovrapposi-

zioni (al pari delle differenze) che ancora restano fra le prime due classi potrebbero essere spiegate proprio pensando all’accorpamento successivo di fonti simili fra di loro ma non ancora identificate con una classe in quanto appartenenti ad una fase della tradizione precedente alle strettoie medievali: l’esempio delle traduzioni (che rappresentano ognuna un diverso esito di diverse combinazioni possibili) deve ancora una volta servire da modello.

All’interno di questa molteplicità di collezioni ricollegabili alla tradizione dei Monostici in ragione della loro forma redazionale e, fin dalle prime attestazioni, esposte al rischio di un assemblaggio irregolare di singoli versi ed intere raccolte, spiccano per la loro maggiore integrità testuale, i casi in cui è ricostruibile un intervento redazionale sul testo. L'esempio più antico è probabilmente quello della classe v, una redazione che ha conosciuto una propria tradizione autonoma e che osserva regolarmente la misura di quattro sentenze per lettera, per un totale di 96 monostici. Il testo‘è stato ben presto attribuito al poeta gnomico cristiano per eccellenza, Gregorio di Nazianzo e presenta un —

128 —

TRADIZIONE MANOSCRITTA DELLE «MENANDRI SENTENTIAE»

notevole numero di sentenze esclusive:!° ma proprio la possibilità di considerare la redazione nella sua specificità e, quindi, di sottoporre a confronto le sue varianti testuali (per i Monostici noti anche da altre classi) e i suoi versi esclusivi, permette di affermare in modo netto che la redazione presenta chiari segni di antichità, perché, ad esempio, non conserva traccia di alcuni meccanismi tipici delle fasi recenziori della tradizione dei Monostici, come quelli già ricordati che portano molti testimoni ad adattare i trimetri alla misura di dodici sillabe ed alla chiusa parossitona (anche se non mancano nemmeno in v i versi irregolari). Ma anche il tono ed il contenuto dei versi esclusivi sono quelli tipici, non si ravvedono preferenze per tematiche particolari; tanto che è molto difficile pensare ad un diretto coinvolgimento di un ambito cristiano (con forse una sola eccezione, Mon. 819: φῶς ἐστι τῷ νῷ πρὸς θεὸν βλέπειν dei). Sono tutti elementi che fanno pensare δά un’iniziativa redazionale antica (tra l’altro, non esistono altri casi in cui il numero delle sentenze per lettera risulti così regolare) che è stata recepita in ambito cristiano e che per questo stesso motivo ha goduto di una buona tradizione autonoma (si ricordi che ne esiste anche una traduzione araba: Men. Ar.II). Un'altra redazione che si distingue anche per la compattezza della sua tradizione è quella rappresentata dalla classe A, probabile frutto di un’iniziativa di Giorgio Ermonimo,!! che ne è sicuramente il copi-

10 Cfr. PERNIGOTTI, Appunti, cit., pp. 78-80 per un aggiornamento delle scarne informazioni ricavabili dallo Jäkel. Le sentenze esclusive sono 34, di queste 9 (266, 380, 429, 456, 512, 626, 703, 775, 839) hanno attestazioni anche in altre tradizioni, le restanti 25 sono tramandate solo dalla classe v: 94, 95, 133, 134, 172, 208, 209, 267, 285, 284, 319, 320, 355, 540, 541, 559, 625, 797, 798, 819, 820, 838, 851, 876, 877.

1! Giorgio Ermonimo di Sparta, attivo nel periodo a cavallo fra la fine del ’400 e l’inizio del ’500, oltre a ricoprire una serie di incarichi diplomatici, fu soprattutto copista ed insegnante di greco nell’Europa del nord; fra i suoi allievi, Guillaume Budé, Johann Reuchlin, Beato Renano e per poco tempo, anche Erasmo, che nelle lettere lo ricorda, con disprezzo, soprattutto per la sua avidità. Vd. H. OMONT, Georges Hermonyme de Sparte, maître de grec à Paris et copiste de manuscrits, «Mémoires de la Société de l’histoire de Paris et de l’Ile-de-France», XII, 1885, pp. 65-98, con catalogo dei manoscritti (estr., pp. 5-38); M. VOGEL - V. GARDTHAUSEN, Die griechischen Schreiber des Mittelalters und der Renaissance, Leipzig, Harassowitz 1909 (rist. an. Hildesheim, Olms 1966), pp. 74-77; J.

IRIGOIN, George Hermonyme de Sparte: ses manuscrits et son enseignement ἃ Paris, «BAGB», 1977, pp. 22-27; E. GAMILLSCHEG - D. HARLFINGER, Repertorium der griechischen Kopisten 800-1600, 1 Teil: Handschriften aus Bibliotheken Grossbritanniens, A: Verzeichnis der Kopisten, Wien, Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften 1981, pp. 56-

57 (61 = In., Repertorium Bibliotheken Frankreichs Verzeichnis der Kopisten, Biographical Register of the

der griechischen und Nachträge ibid., 1989, pp. Renaissance and



Kopisten 800-1600, 2 Teil, Handschriften aus zu den Bibliotheken Grossbritanniens, A: 50-51 [80]); Contemporaries of Erasmus. A Reformation, P.G. BIETENHOLZ - T.B. DEUT-

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CARLO PERNIGOTTI

sta in gran parte dei manoscritti: l'isolamento del gruppetto di testimoni (garantito da un numero cospicuo di errori caratteristici)! è senz'altro condivisibile e trova conferma sul piano testuale e su quello, non banale, delle successioni di versi. Ma, a sua volta non sfugge ad una sfasatura nel quadro generale del rapporto con il resto della cl. III, cui la redazione è comunque legata: e si tratta di una sfasatura che ancora una volta non riguarda che una parte della raccolta. Prendendo come riferimento uno dei due rappresentanti di W, Wi (Vin-

dob. phil. gr. 167) e sottoponendo a verifica il rapporto che intrattiene con A, si nota come a partire da un punto determinato (sezione

SCHER, eds., II, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press 1986, pp. 185-186; J.F. KINDSTRAND, Gromica Basileensia Uppsala, Almqvist & Wiksell 1991 («Acta Universitatis Upsaliensis, Studia Byzantina Upsaliensia», 2) pp. 10, 15-16 nota 21; L’Europe des bumanistes (XIV*-XVII* siècles). Repertoire établi par J.-F. MAILLARD, J. KECSKEMETI et M. PORTALIER, s.l., Brepols-Cnrs 1995, p. 234; J.-C. SALADIN, La bataille du grec è la Renaissance, Paris, Les Belles Lettres 2000, pp. 342-343. Il complesso di testimoni a lui attribuibili (vd. nota seguente), in questa classe fortemente imparentata con la III, ed il

tipo stesso di manufatti apprestati da Ermonimo (ridotte dimensioni, pagine con ampi interlinei, scrittura leggibile e di modulo ampio), fanno pensare ad un impiego funzionale all'insegnamento, confermato dalle numerose traduzioni latine che accompagnano i suoi testi. 12 La scrittura di Ermonimo è sicuramente individuabile almeno in Vin (Vind. Suppl. gr. 83, che contiene anche una traduzione latina inedita, sempre di Ermonimo), G (Καῖ. Pal. gr. 122), e, a mio parere, L (Laur. X, 22). Ma esiste anche un altro manoscritto, non

noto a Jäkel: Aix-en-Provence, Bibl. Méjanes 1385 (il testo è ai ff. 144-154), ancora di mano di Ermonimo, di cui diede notizia H. OMONT, Ur nouveau manuscrit grec de Georges Hermonyme de Sparte, «Bibliothèque de l’Ecole des chartes», LXVIIL, 1907, pp. 671-

672 (cfr. anche Catalogue general des manuscrits des Bibliothèques publiques de France. Bibliotheques des Departements, XLV, 1915, pp. 404-405), in un lavoro in cui ne menzionava un ulteriore, anch'esso con traduzione latina, il ms. Ashburnham - Barrois 293, segnato con il nr. 265 nell’asta in cui, nel 1901, la BNF riuscì a recuperare alcuni manoscritti di

origine francese della collezione di Lord Ashburnham, e poi scomparso. Si può leggere una descrizione del contenuto in OMONT, George Hermonyme, cit., pp. 85-86 (estr., pp. 25-26): «Gennadii Scholastici via salutis hominum e graeco in latinum Georgius Hermonymus

Spartanus

accuratissime

traduxit

(5); Menandri

sententiae,

gr.-lat.

(74); Sen-

tentiae VII sapientium, gr.-lat. (95). Parchemin. 211 fol. in 4°. Peint. Rel. maroquin rouge. Au bas du fol. I sont peintes les armes de Louis de Beaumont évéque de Paris (14721492) auquel est dédié le volume». 13 Proprio questi errori condivisi da tutti i testimoni assicurano dell’unità della classe, e confermano la possibilità di impiegare la sigla X in un modo che risponde alla reale com-

pattezza della tradizione (come vedremo, con le sigle impiegate da Jäkel, le cose non stanno sempre così): si segnalano alcuni errori ortografici comuni a tutti i testimoni in Mon. 33

(uapévetar per μαραίνεται, solo L ha, con W, la forma corretta), 139 (συγή per σιγή), 440 (τύκτουσι(ν) per τίκτουσιν), 721 (στερῶς per στερρῶς), ed altri errori di vario tipo: Mon. 639 è da tutti i testimoni di A riportato nella forma tronca πάντ᾽ ἀνακαλύπτων ὁ χρόνος, con omissione della parte finale πρὸς φῶς φέρει; 147 ha μεταμέλειαν per nerdvorav, 472 κριτὴς εἶναι per εἶναι κριτής, 601 (οὔποτ᾽ per οὐπώποτ᾽.



130 —

TRADIZIONE MANOSCRITTA DELLE «MENANDRI SENTENTIAE»

in A), si interrompe il tipo di relazione che sino a quel punto permetteva di considerare A semplicemente come una selezione da W:!4 A (Wi+3) Wi

(20):

15-16-19-21-26-35-28-13-36-41-42

(xWT)-29-47-48-31

(ᾺΓ

Giess Ven)-49-32 (xWT)-33-34-52 A (17): 15-16-19-21-26-35-28-13-36-41-29-47-48-49-33-34-52 B (Wi+2) Wi

(8): 111-113-109-102-117(xWT)-118-98-

264 (WT)

% (6): 111-109-113-102 (in A disposizione diversa delle sentenze)-118-98 T (Wi+3) Wi (13): 139-144-151 (xWT Par)-147-150-146-152 (x6WT)-156-159-162164-165-166 (xWT) % (10): 139-147-144-150 (in A disposizione diversa delle sentenze)-146156-159-162-164-165 A (Wi+2)

Wi (8): 183-175-174-189 (xWT)-190-194-195-197 (xWT) x (6): 183-175-174-190-194-195 E (Wi+6)

Wi (12): 225 (GvWT)-226-228-235 (W)-237-240 (x£WT)-247-249 (BW)211-250 (BWT)-252 (xWT)-*253 λ, (6): 226-228-237-247-211-*253 Ζ (Wi+2)

Wi (6): 269-276-278-279 (W)-282-283 (ABP Par WI) X (4): 269-276-278-282

14 Nonostante questo confronto sia stato effettuato su uno solo dei due manoscritti che compongono W, le conferme che provengono anche dall’apparato dei testimoni di Jäkel riguardo i Monostici riportati da tutta la classe sono così coerenti alle indicazioni fornite dal solo Wi, anche ammesso un numero fisiologico di inesattezze, che lo si è proposto ugualmente. Si utilizzano alcuni sistemi per individuare a prima vista i casi più interessanti: *= sentenza riportata solo dalla cl. III nella tradizione medievale dei Monostici; neretto = sentenze che le due fonti hanno in più rispetto all’altra. Non sono registrati i casi di omissioni di versi dei singoli manoscritti di X.



131-

CARLO PERNIGOTTI

H (Wi+4) Wi (8): 288-287 (xCWT')-299-302 (yWT)-316 (BeWT)-306-309 (xW)-307 A (4): 299-288 (disp. div. in A)-306-307 Θ (Wi+3) Wi (10): 330 (xWT)-331-332-334 (xW)-337-338-339 (XW)-342-344-323. X (7): 331-332-337-342-338-323-344 (disp. div. in A) I(Wi+1) Wi (7): 358-361-364-367-372 (yWT)-373-374 1 (6): 358-361-364-367-373-374 K (Wi+3) Wi (21): 381-383-385-386 (χξΓ Ven)-388-389-390-394-397 (xUW)-400401 (BUWT)-395-404-406-422-409-410-412-413-418-415 x (18): 381-383-385-388-389-390-394-400-395-404-406-422-409-410-412413-418-415 A (Wi+2/-6)

Wi (7): 430-440-437 (x6WT)-445-447-446-311 % (11): 440-430-432 (BAT)-433 (λδ)-435 (BòAI)-445-447-446-452 Wi)-451 (xAT)-453 (om. Wi)

(om.

M (Wi+3/-3) Wi (16): 463-457-472-486 (agg. in interl.)-477 (yWT)-460-481 (BWT)490-482-476-459-484-488-*491-487-492 (W) % (16): 463-457-470 (BEAT)-478 (χλυΓ)-471 (BVAT)-472-486-460-490482-476-459-484-488-*491-487 N (Wi+2/-4) Wi (6): 519-524 (xeWT)-522 (yWT)-523-517-521 X (8): 519-523-527 (Αδλυ)-525 (A$1)-517-521-528 (ψλΓ)-529 (ψλΓ) E (Wi-3) Wi (6): 546-547-548-544-552-554 x (9): 546-547-548-544-551 (yAT)-545 (ψζλΓ)-552-555 (KAT)-554 O (Wi+1/-6) Wi

(8): 566 (xW)-570-575-564-603-590-604-592



132—

TRADIZIONE MANOSCRITTA

DELLE «MENANDRI

SENTENTIAE»

x (13): 570-575-595 (xAT)-578 (XAT)-600 (XAT)-564-601 (BAT)-603-590604-592-608 (BUAT)-609 (xA,Par) II (Wi+3/-2)

Wi (10): 638-639-654 (XW)-640-655-628-656-647 (xCWT')-662 (W)-637 x (9): 633 (BEAT)-648 (0X1)-638-639-628-655-640-656-637 P (Wi-3) Wi (4): 690-392-700-702 x (7): 690-392-693 (χδλυΓ)-698 (XKÖAT)-700-701 (XAvVat)-702 Σ (Wi-3) Wi (8): 383-705-709-710-712-713-716-717 x (11): 383-705-709-710-712-713-714 (vaT')-715 (eAT)-716-717-721 (KAT) τ (Wi+5/-8) Wi (13): 725-726-729-740-742-743 (W)-744 (WST)-747-754 (BWT)-756757 (KWT)-758 (oW)-759 x (16): 725-726-729-733 (XAUT')-739 (64)-740-742-745 (BAT)-746 (BA)747-748 (BAT)-751(2)-752 (XAT)-753 (BAT)-756-759 Y (Wi+1/-2)

Wi (7): 780 (BWT')-78-782-783-786-*788-789 x (8): 777 (x62w)-779 (BCAT)-781-782-786-783-*788-789 ® (Wi-1) Wi (7): 800-804-806-810-811-812-814 x (8): 799 (A)-800-804-806-810-811-812-814 X (Wi+1/-2) Wi (3): 718-832 (BWT)-831 x (4): 718-822 (BAT)-833 (Av)-831 Ψ (1) Wi (3): 845-843-846 1 (4): 841 (Beiv)-845-843-846 Ω (Wi+2)

Wi (5): 852 (W)-853-854 (e W)-855-856 % (3): 853-855-856. —

133—

CARLO PERNIGOTTI

Si deve immaginare così che ancora Ermonimo abbia utilizzato al-

tre fonti, nessuna delle quali immediatamente riconoscibile sulla base di una sola delle altre classi: all’interno di una generale tendenza verso la prima, per esempio, non si sfugge ai consueti casi di Monostici della sola seconda (433, 715, 739) o di accordi più particolari (833 condi-

viso solo con », per esempio). Del resto, ancora la redazione planudea (I di Jäkel) conserva Monostici che non hanno paralleli nella restante tradizione diretta, o che

si accordano solo con papiri!” o solo con traduzioni.!* Si deve probabilmente pensare che fossero a disposizione di Planude non solo testimoni di tutte le classi di Monostici a noi note,!” ma anche di redazioni più antiche. Il ricorso ad altre fonti, sia per collazionare il testo, sia per correggerlo (e sulla redazione I vi sono anche tracce piuttosto chiare di interventi congetturali),! è nel caso della redazione planudea più facilmente riconoscibile, e proprio per questo deve essere analizzato e confrontato con altri momenti della storia del testo. Il fatto che le iniziative redazionali sicure siano isolabili con maggior

nettezza e, quindi, meglio confrontabili con le molteplici altre vie tradizionali deve servire a ricostruire un modello di lavoro da impiegare anche per i casi più complessi ed intricati. Quello che invece rende l’iniziativa planudea unica è la complessità del lavoro di raccolta consapevole del materiale e la sistematica opera di organizzazione a cui l’ha sottoposto: riconosciuti alcuni temi

5 Mon. 93 in PMilVogliano inv. 12410, 17; 875 [Slav. 431], in PGissLitt 3.4. 16 Mon. 91 [= Ar.I 12], 120 [= Ar.I 50, Slav. 34], 121 [= Slav. 35], 201 [= Ar.I 98], 202 [= Ar.I 96], 688 [= Ar.I 253, Slav. 321], 774 [= Ar.I 300b, Slav. 385], 790 [= Ar.I 311], 796 [= Ar.I 309].

17 Fra tutti comunque spicca l'accordo con B (Par. gr. 396); non solo un alto numero di Monostici riportati solo da queste due fonti, ma, per limitarsi a qualche esempio, anche lezioni particolari che provano dell’impiego di quella fonte da parte di Planude (che spesso corregge): vd. almeno Mon. 571 (ὁ πολὺς ἄκρατος ὀλίγ᾽ ἀναγκάζει φρονεῖν] κρὸν d. φ. B : μικρ᾽ Γ᾿ : πολλὰ A : ὀλίγα KPDi : ὀλίγ᾽ C, Stob. III 18, 4 [Men. fr. K.-A.]); 804 (φίλων τρόπους γίνωσκε, μὴ μίσει δ᾽ ὅλως] μίσει δὲ μὴ [nice δὲ μέ] μὲν’ μίσει δὲ μὴ FT); 826 (χρυσὸς δ᾽ ἀνοίγει πάντα καὶ χαλκὰς πύλας] καὶ Αιϊδου λας BI [κάιδου T]); 349 (θεοῦ θέλοντος κἂν ἐπὶ ῥιπὸς πλέοις] ἐπίρριπος π. ΒΓ); (ῥήτωρ πονηρὸς τοὺς νόμους [BI : τοὺς λόγους cett.] λυμαίνεται). Per i Monostici muni (a loro volta non privi di differenze testuali), si vedano 30, 314, 420, 489, 596, 605, 659, 708, 720, 737, 750.

μι735 B : πύ694 co599,

18 Per esempio, A. CAMERON, The Greek Anthology from Meleager to Planudes, Oxford, Clarendon Press 1993, p. 361 segnala il caso di Mon. 151 γυναῖκα θάπτειν xpeîoσόν ἐστιν ἢ γαμεῖν che nel Marc. gr. 481 ha una correzione di mano di Planude (ἢ ζῆν

ἀθλίως) assente nel Lond. Brit. Mus. Add. 16409 e nella tradizione da lui dipendente (per es. Par. gr. 2739): le correzioni apportate da Planude sul Marciano non compaiono sul Londinese, che rappresenta una copia effettuata prima dei nuovi interventi.

- 134—

TRADIZIONE

MANOSCRITTA

DELLE «MENANDRI

SENTENTIAE»

tipici e frequenti, Planude ha predisposto delle unità tematiche, coin-

cidenti con i capita poi disposti in ordine alfabetico, in cui di volta in volta ha inserito i versi che giudicava coerenti al tema disponendoli a loro volta secondo l’acrostico alfabetico.'? Si è trattato di un processo selettivo, che non ha conservato tutto; d’altra parte, la selezione non è stata dettata da semplici criterii di contenuto, perché anche laddove Planude ha incontrato versi che potevano rientrare nella collezione ma che non trattavano nessuno dei temi principali, ha provveduto a costituire delle sezioni apposite, che contengono un solo verso.2° In modo consapevole, Planude ha così cercato di fare ordine e di rendere utilizzabile una messe di versi che la tradizione continuava ad accorpare, ma lo ha fatto conservando l’ordine alfabetico delle sentenze, riconoscendolo come un tratto peculiare del testo. L’edizione planudea, che, oltre a fare da modello alle prime edizioni a stampa dei Monostici, ha conosciuto una ricca tradizione autonoma,?! è anche quella che valorizza esplicitamente la varietà del materiale testuale eliminando il nome di Menandro; infatti, con critica consapevolezza, il dotto bizantino scelse per la sua raccolta il titolo Tv@par μονόστιχοι ἐκ διαφόρων ποιητῶν κατὰ κεφάλαια συντεταγμέναι.2 Anche sul piano ecdotico, una tradizione del genere impone di re-. cuperare le redazioni nella loro integrità e di non portare l’intervento sul testo e sui suoi caratteri al di là del rigoroso rispetto dei dati della tradizione: una volta di più deve essere superato il principio che sta

19 Dei due capostipiti della tradizione, solo il Lond. conserva l'indicazione complessiva degli argomenti dei capita, appena dopo il titolo (una lacuna ha inghiottito la parte iniziale del testo del Marc.). I medesimi ‘capitoletti sono riprodotti nei margini del testo (sempre nella forma εἰς + argomento all’acc.) ai lati delle due colonne (a sinistra della colonna sinistra e a destra della destra). L’elenco completo dei capitoli si può leggere nell’edizione di Jäkel, pp. ΧΙ-ΧΠῚ, 20 Le sezioni di un solo verso sono εἰς δῆμον, Mon. 372; εἰς εὐγενῆ, 32; εἰς εὐχήν, 217; εἰς ἐρῶντα, 146; εἰς μετάνοιαν, 315; εἰς μητρυιάν, 189; εἰς πίστιν, 460; εἰς συνεἰδησιν, 107; εἰς τιμήν, 753; εἰς φθόνον, 52; εἰς ψυχήν, 842. Da notare anche εἰς παραί-

νεσιν (Mon. 57-58). 21 Molti dei nuovi manoscritti di Menandri tracciati appartengono infatti a questa classe; a cit., pp. 81-82 nota 26, si devono aggiungere i μουσίου 100, Leid., cod. B.P.G. 74 H, Perugia,

Sententiae che continuano ad essere rinquelli segnalati in PERNIGOTTI, Appunti, seguenti: Monte Athos, Μονὴ KovrAovBiblioteca Municipale (Bibliotheca Augu-

sta), 667 (I. 62), più un altro testimone del XVIII sec., come il ms. Athos Σκήτη ‘Ayiov Δημητρίου, nr. 9.

22 La complessità della tradizione di T è confermata dall’unico caso a me noto finora di manoscritto di questa classe che si comporta in modo diverso: al f. 186” del ms. Athos τοῦ Διονυσίου 282 (XVI sec.) si legge infatti il seguente titolo γνῶμαι povdoriyor peγάνδρου τοῦ κωμικοῦ.



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CARLO

PERNIGOTTI

alla base dell’edizione di Jakel, che non si limita ad accorpare in modo indistinto tutti i versi che possiedono determinati requisiti, ma procede anche ad interventi congetturali che annullano la specificità delle diverse redazioni ed obliterano gli elementi di riconoscibilità più forti delle classi medesime.” Basti pensare in questo senso alla numerazione, che si basa sulla classe prima ed in particolare sui manoscritti A (Vindob. theol. gr. 277) e B: la sequenza dei Monostici che costituisce il nucleo dell’edizione di Jäkel è quella di questi due manoscritti, ma non può bastare il pur utile apparato dei testimoni diretti a ricostruire la fisio-

nomia delle altre classi (si pensi al problema già ricordato del consistente patrimonio comune) o anche degli altri manoscritti della stessa cl. I, in cui solo di rado e, ancora, solo in certe lettere si segue la medesima serie dei due manoscritti. L'edizione di Jakel è cosi tutta incentrata sulla prima classe ed interviene sui versi — con criterii chiari ma inaccettabili — verso un recupero pieno dell’espressione più ‘classica’ possibile, ovvero del trimetro perfetto: è un procedimento che non si propone di conservare i dati della tradizione ma che interviene su di essa sulla base di un pregiudizio di partenza. Non solo, ma secondo una inaccettabile applicazione di criteri meccanici ad una tradizione per sua stessa natura aperta, Jäkel utilizza le stesse sigle delle classi dei manoscritti come se servissero ad identificare un vero e proprio modello perduto e ricostruibile nella sua completa fisionomia sulla base dei testimoni da lui dipendenti: così, se nell’apparato compare una delle sigle che identificano le classi (x, ©), non significa sempre, come dovrebbe essere, che tutti i manoscritti di quella classe riportano il Monostico in questione. Basta anche che solo alcuni dei manoscritti lo riportino (non c’è una regola, un numero minimo) perché la sigla possa essere utilizzata. Del resto, il tipo di valutazione della tradizione di Jäkel è reso esplicito dal ricorso allo stemma codicum, ma anche da alcuni procedimenti di espunzione ed eliminazione di

2 Il principio non è nuovo per la filologia classica (basti pensare alla situazione delle diverse redazioni della Historia Alexandri Magni) anche se finora è stato ricco di applicazioni soprattutto nella filologia moderna (vd. per es. G. CONTINI, Breviario di Ecdotica, Torino, Einaudi

1990?, pp. 3-66: 7-8 e PERNIGOTTI, Appunti, cit., pp. 83-84). Ma ora si

vedano anche i contributi contenuti nel volume Editing Texts - Texte edieren, G.W. MOST ed., Göttingen, Vandenhoeck

ὃς Ruprecht

1998 («Aporemata», 2), ed in particolare l’in-

tervento di P. PETITMENGIN, Le texte dans tous ses états. Simples remarques sur les éditions multiples, pp. 219-236. Il Petitmengin mette in guardia dal pericolo di limitare il peso ‘critico’ di un’edizione pluriredazionale, ma in un caso come quello delle Menandri Sententiae il rischio è annullato dal fatto che le varie redazioni conoscono rispettivamente tradizioni manoscritte autonome.



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TRADIZIONE MANOSCRITTA DELLE «MENANDRI SENTENTIAE»

versi che la tradizione mostra di conoscere come distinti — pur essendo fra di loro molto simili — e che Jäkel considera in alcuni casi (anche qui non c’è una regola) l’uno variante dell’altro, obliterando uno dei tratti tipici della tradizione delle Menandri Sententiae, e cioè il processo di rielaborazione continua dei versi operata allo scopo di incrementare le collezioni di monostici. Parrebbe in questo caso applicata al testo ricostruito (e quindi veramente ritenuto ‘originale’) un sorprendente criterio di coerenza interna secondo il quale non dovrebbero essere tollerate le ripetizioni.? per evitare questi arbitrii, e per il ruolo decisivo che l’identificazione delle procedure di trasmissione dei testi e della diffusione delle unità redazionali minori (a partire dai papiri) ha avuto al fine di tracciare un quadro generale della storia del testo delle Menandri Sententiae, che la tendenza deve essere quella di isolare, di dividere, e prima di tutto di capire cosa è isolabile, cosa no, e se i modelli di interazione e conflazione di testi e fonti che abbiamo registrato possano servire da esempio per interpretare la genesi delle raccolte più grandi, ovvero le ramificazioni principali della tradizione medievale che, alla resa dei conti, si identificano

con i manoscritti AB

da un

lato e KP (Par. gr. 1168) dall’altro: le altre raccolte appartenenti alle medesime classi sono da queste dipendenti — anche se mai in modo impermeabile a nuove infiltrazioni - e, significativamente, conservano

meno tracce di tradizioni perdute.”

I casi più notevoli sono quelli dei Mon. 177, 305, 383, 513, 554, 823. È consuetudine di Jäkel segnalare il fenomeno (anche se in modo spesso incoerente), facendo seguire alla sigla del manoscritto o della classe che riportano le due versioni l'indicazione (1) o

(2) in riferimento alla prima o alla seconda versione (a seconda ch’egli giudichi superiore l’una o l’altra), spesso non lasciando capire alcuni dati fondamentali, come per esempio quale classe (o anche quale singolo manoscritto) conservi entrambe oppure una solo delle due. 2 Penso soprattutto alle redazioni breviores come V per la classe Π o C,DFH e R per la prima (cui sono da aggiungere due mss. non noti a Jäkel, il Vars. BOZ cim. 125 [per cui vedi già Pernigotti, Appunti, cit., p. 76 nota 12] e Mus. Benaki TA

131, imparentati

fra loro e con ΕἸ: tutti testimoni la cui appartenenza alla rispettiva classe è certa nonostante le consuete tracce di contaminazione e la difficoltà di stabilire rapporti reciproci chiari.



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PARTE II

ASPETTI DI LETTERATURA GNOMICA

GLENN W. MOST

EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤΟΣ᾽ Volendo ricorrere a una ben nota metafora, forse fin troppo banale, potremmo paragonare la storia dello sviluppo della tradizione gnomologica greco-latina a un intrico di lunghi e torbidi fiumi che in vario modo s’intersecano tra loro. Sgorgando dall’oscuro terreno dell’esperienza anonima, dei pregiudizi e dello spirito di una cultura popolare che si sottrae a ogni tentativo di definizione, essa vede la luce del sole presso la fontana delle Muse, assumendo le sembianze di sextentiae a cui il genio di tanti poeti famosi ha dato una forma lapidaria facilmente memorizzabile. Queste sententiae hanno seguito poi la corrente di varie tradizioni che le raccolgono, deformano, riordinano, riselezionano e di nuovo raccolgono con differenti livelli di fedeltà e

riconoscibilità, per scopi e destinatari assai divergenti tra loro, lungo

l’arco di molti secoli. Alla fine di questo percorso sfociano nel grande oceano della letteratura gnomologica tardo-antica, in parte riversandosi direttamente in quel vasto mare, in parte passando per il tramite degli estuari di altre tradizioni in altre lingue (soprattutto la copta, la siriaca, l’araba e la slava) che proseguono l’opera di rielaborazione e

riuso per destinatari sempre diversi.

Ogni singola fase di questo millenario processo di trasformazione, per quanto affascinante, ha, per lo storico della cultura antica e della sua successiva ricezione, i propri lati oscuri e lo pone, in modi di volta in volta differenti, di fronte al paradosso (a cui egli non può sfuggire) dell’irriducibile tensione tra una tradizione non erudita, o comunque non abbastanza, e il fatto che le sue incerte e lacunose tracce si possono ricostruire soltanto attraverso la più tenace applicazione di un intenso e approfondito lavoro d’erudizione. Gli altri articoli di questo volume indagano i diversi aspetti di questa straordinaria corrente tradizionale, includendone il canale rappresentato dai papiri egiziani

* Traduzione dall’inglese di Mario Telò.

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GLENN W. MOST

e i depositi fluviali precipitati nel variegato bacino delle traduzioni. Il presente contributo invece si sofferma sugli inizi della storia ‘visi-

bile’ della tradizione gnomologica antica, sulle sorgenti delle Muse, ovvero su quei poeti, in particolar modo Euripide, da cui proviene il grosso delle γνῶμαι che formano le grandi raccolte gnomologiche. Ci chiederemo in che modo si deve interpretare il rapporto tra quelle sorgenti e questi fiumi: in altri termini, Euripide è l’autore più fre-

quentemente citato in Stobeo (per lo meno 850 citazioni), però in che senso può essere considerato un poeta gnomologico? Il problema del rapporto tra γνῶμαι euripidee e l’antica tradizione gnomologica greca costituisce solo un singolo aspetto, ancorché di grande rilevanza, di quello più generale concernente i rapporti tra poesia greca d’età arcaica e classica e le tradizioni erudite e non che fanno di questa poesia il proprio centro d’interesse nei secoli successivi. Si possono individuare due differenti strategie interpretative per la definizione di questi rapporti: quella tradizionale, rappresentata per

esempio da Sandys, che contrappone la poesia all’erudizione come se si trattasse di due mondi totalmente separati, sorti in tempi diversi;! una seconda, forse non meno tradizionale della prima, impersonata principalmente dalla Storia della filologia classica di Pfeiffer, che insiste sull’idea che l’erudizione antica si sviluppi senza soluzione di continuità dalla poesia e che le opere dei poeti antichi, anche quelle più arcaiche, rechino in sé già evidenti tracce di tutte le caratteristiche proprie di quella tradizione erudita che si svilupperà in seguito.? Le differenze tra queste due strategie si possono facilmente vedere all’opera prendendo in considerazione il problema delle origini della filologia alessandrina: la nascita del Museo dei Tolemei si deve ix primis al decisivo impulso delle ricerche storico-letterarie di Aristotele e del Peripato, forse attraverso la mediazione di figure come Demetrio Falereo, oppure l’attività di Callimaco e degli altri eruditi-poeti d’età ellenistica può essere meglio intesa se si considera primario l’apporto della tradizione molto più antica della saggezza poetica greca? Pfeiffer propendeva decisamente per la seconda alternativa, e, secondo me, sbagliava perché si trovava così costretto a trascurare quella fetta non irrilevante di testimonianze antiche che sottolineano con insi-

1 E. SANDYS, A History of Classical Scholarship. Vol. I. From the Sixth Century B. C. to the End of the Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press 1921). 2 R. PFEIFFER, History of Classical Scholarship. Vol. I. From the Beginnings to the End of the Hellenistic Age, Oxford, Clarendon Press 1968.

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EURIPIDE O TNQMOAOTIKQTATOE

stenza l’importanza del rapporto tra la scuola di Aristotele e l’istituzionalizzazione della ricerca filologica alla corte dei Tolomei. Tuttavia, per quanto concerne la questione dei rapporti tra γνῶμαι e poesia euripidea, il modello interpretativo di Pfeiffer può sembrare preferibile. Si potrebbe pensare infatti che la tradizione gnomologica non faccia altro che sviluppare ed esagerare un certo numero di tendenze già chiaramente riscontrabili nello stesso Euripide. Dopo tutto, già i poemi omerici contengono molte celebri sententiae moraleggianti, ed è a partire proprio da Omero che i poeti greci sembrano aver considerato come parte essenziale del loro ruolo (oltre che come esemplare dimostrazione della loro abilità) il fatto di fornire al loro pubblico delle γνῶμαι che apparissero appropriate ix situ, ma potessero essere anche riutilizzate efficacemente in altri contesti. Nonostante ciò, ci troviamo di fronte a un dilemma. Da un lato è innegabile che alcune differenze emergano solo quando nei secoli successivi alla morte di Euripide comincia a delinearsi una tradizione gnomologica formalizzata; dall’altro, però, il fatto che Euripide sia la fonte di una così larga parte delle γνῶμαι di cui quella tradizione si compone deve senza dubbio collegarsi a qualche tratto caratteristico della sua poesia. Come dobbiamo allora interpretare il rapporto tra Euripide e la tradizione gnomologica? Il punto di partenza per le riflessioni che vado a fare è venuto da un recente articolo di Richard Kannicht pubblicato nel volume miscellaneo Collecting Fragments.* In questa sede Kannicht notava la grande frequenza delle γνῶμαι di derivazione euripidea che si possono rintracciare nella tradizione gnomologica in confronto a quelle provenienti da altri poeti, e sottolineava come questo dato altro non fosse che il riflesso di una caratteristica tipica della poesia euripidea. Tuttavia lo scopo di Kannicht in quell’articolo era più generale, di conseguenza le osservazioni ricordate venivano fatte en passant e non

erano sviluppate in dettaglio. Vale la pena di chiedersi a questo punto non solo se Euripide sia un poeta gnomico, ma anche come e perché lo sia. È noto che fin dall’antichità un aspetto fondamentale dell’opera di Euripide è stato riconosciuto nella sua forte dimensione filosofica; inoltre, data la natura della filosofia antica e dell’antica poesia dram-

3 PFEIFFER, op. cit., pp. 67, 137, 272. Per la posizione opposta si veda SANDYS, op. cit., pp. 98 sgg.

4 R. KANNICHT, TrGF V Euripides, in G.W. MOST ed., Collecting Fragments - Fragmente sammeln, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1997 («Aporemata», 1), pp. 67-77: 68-71.

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matica, era inevitabile pensare che un tale contenuto filosofico potesse essere espresso sotto forma di brevi e concise frasi gnomiche più

facilmente che attraverso estese catene di sillogismi o un’approfondita analisi concettuale. D'altra parte già subito dopo la morte di Euripide, Aristofane fa riferimento al carattere libresco della sua poesia (Ran. 943 ἀπὸ βιβλίων) e mette in scena proprio un Euripide che sottolinea come elemento a suo favore il contenuto intellettuale dei suoi drammi. Tale contenuto, secondo quanto egli dice, avrebbe aiutato gli

Ateniesi a organizzare meglio le loro vite: Τοιαῦτα μέντοὐγὼ φρονεῖν τούτοισιν εἰσηγησάμην, λογισμὸν ἐνθεὶς τῇ τέχνῃ καὶ σκέψιν, ὥστ᾽ ἤδη νοεῖν ἅπαντα καὶ διειδέναι

τά τ᾽ ἄλλα καὶ τὰς οἰκίας οἰκεῖν ἄμεινον ἢ πρὸ τοῦ κἀνασκοπεῖν᾽ «Πῶς τοῦτ᾽ ἔχει; Ποῦ μοι τοδί; Τίς τοῦτ᾽ ἔλαβε;» (Ran. 971-79) Così anche nel secolo successivo Eschine allude a Euripide come ὁ τοίνυν οὐδενὸς ἧττον σοφὸς τῶν ποιητῶν Εὐριπίδης e prosegue rivolgendo ai suoi ascoltatori il seguente invito: σκέψασθε δέ, ὦ ἄνδρες ᾿Αθηναῖοι, τὰς γνώμας ἃς ἀποφαίνεται ὁ ποιητής (Ir Tim. 151, 153). Questo rimane un tratto costante dell'immagine tradizionale che viene attribuita a Euripide nel corso dell’antichità. Quintiliano lo chiama sententüs densus (X 1, 68); Ateneo ne parla come ὁ σκηνικὸς οὗτος φιλόσοφος (IV 158e, cfr. XIII 5614). La fama di Euripide in età moderna è fortemente influenzata (nel bene e nel male) da questa tradizione; basti pensare all’accusa di essere il poeta del ‘socratismo estetico’ che Nietzsche rivolge a Euripide nei capitoli 11-12 della Nascita della tragedia? Questo ben noto aspetto della ricezione di Euripide pone molti problemi. Uno è il fatto di essere espresso in modo vago e generico: non è immediatamente chiaro in che cosa consistano la natura e la funzione specifiche delle γνῶμαι nelle tragedie di Euripide, e di con-

5 F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, ed. G. COLLI - M. Mon-

TINARI, I. Die Geburt der Tragödie, Unzeitgemässe Betrachtungen I-IV, Nachgelassene Schriften 1870-1873, München-Berlin-New York, De Gruyter 19882, pp. 75-88. Per un altro illustre esempiö, anch’esso molto influenzato da Nietzsche, si veda W. NESTLE, Euripides.

Der Dichter der griechischen Aufklärung, Stuttgart, Kohlhammer 1901, pp. 34-41.

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EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤῸΣ

seguenza non è chiaro fino a che punto questo giudizio formulato da un così grande numero di lettori euripidei possa essere effettivamente prodotto da elementi obiettivi ricavabili dall’indagine sull’opera superstite del poeta. Cerchiamo di riesaminare dunque il ruolo che le γνῶμαι rivestono nei drammi euripidei.® Per fare ciò dobbiamo rispondere, però, a una domanda preliminare: che cos'è una yv@un? Mentre identificare una γνώμη dovrebbe essere certo meno difficile di trovare uno gnomo, uno di quei leggendari nanetti che si dice vivano sotto terra e custodiscano favolosi tesori, ci potrebbe essere invece fondata ragione di disaccordo sui criteri da adottare per localizzare il tesoro di preziose γνῶμαι contenuto nelle tragedie di Euripide. In generale, quando si hanno dei dubbi, è sempre una buona idea andare a vedere prima cosa ha da dire Aristotele sulla questione; nel nostro caso, c'è una ragione di più per farlo, dal momento che sembra chiaro che Aristotele ha Euripide in mente quando discute di γνῶμαι e che trae molti dei suoi esempi proprio da lui.” Non è dunque sorprendente che anche in questo caso, come succede spesso, ciò che

Aristotele dice, per quanto rappresenti solo un punto di partenza, è sicuramente di grande utilità. Aristotele discute dell’uso di γνῶμαι in contesti retorici nel capitolo 21 del secondo libro della Retorica, e qui ne dà la seguente definizione: ἔστι δὴ γνώμη

ἀπόφανσις,

οὐ μέντοι οὔτε περὶ τῶν καθ᾽

ἕκαστον, οἷον ποῖός τις Ἰφικράτης, ἀλλὰ καθόλου, οὔτε περὶ πάντων, οἷον ὅτι τὸ εὐθὺ τῷ καμπύλῳ ἐναντίον, ἀλλὰ περὶ ὅσων αἱ πράξεις εἰσί, καὶ «ἃ» αἱρετὰ ἢ φευκτά ἐστι πρὸς τὸ πράττειν ... (Rbez. II 21, 1394a21-25).® In questa definizione, l’accento viene posto su due

6 Datato, ristretto nelle prospettive, ma sorprendentemente ancora utile è F. HoFINGER, Euripides und seine Sentenzen, Inaugural-Diss. Erlangen (Schweinfurt 1896), II. Teil

(Landau 1899). Per gli scopi di questo studio, H. FRIIS JOHANSEN, General Reflection in Tragic Rhesis. A Study of Form, Copenhagen, Munksgaard 1959, nonostante la sua cogenza argomentativa e lucidità, si è rivelato, a causa della sua insistenza sulla struttura concettuale e i diversi schemi logici delle γνῶμαι tragiche, di gran lunga meno utile. Cfr. anche J. DE ROMILLY, Les Reflexions générales d’Euripide: analyse littéraire et critique textuelle, «Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions», 1983, pp. 405-418; in aggiunta, si vedano H. PFEUFER, Die Gnomik in der Tragödie des Aischylos, Diss. Würzburg 1940, e E. WOLF, Sentenz und Reflexion bei Sophokles, Diss. Tübingen

1910.

7 Allo stesso modo anche HOFINGER, op. cit., p. 3 e II Teil, op. cit., p. 3 parte da Aristotele e rileva l’implicita enfasi di Aristotele su Euripide come maestro di γνωμολογία (rispettivamente alle pp. 7-8 e 3). 8 Per qualche altra discussione del termine γνώμη nella tradizione retorica antica, cfr. Hermogenes, Progymn. 4; Aphthonius, Progyrzn. 4; Rufus, Techn. I, p. 402, 10; 406, 18

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GLENN W. MOST

caratteristiche del contenuto delle γνῶμαι: in primo luogo il fatto di presentare delle generalizzazioni, e di conseguenza di essere applicabili non solo a singoli individui o a situazioni particolari, ma anche, su un piano di universalità, a tutte le persone e le situazioni di un certo tipo; e in secondo luogo, il fatto che tra le varie forme di ge-

neralizzazioni vengono incluse soltanto quelle che concernono il comportamento umano ed indicano quali azioni, a seconda che vengano

compiute o evitate, portino felicità o infelicità. I criteri contenutistici di Aristotele, per quanto imprecisi, sembrano d’altra parte cogliere aspetti essenziali di una qualsiasi frase qualificabile come γνώμη; tuttavia, possiamo forse affinare la nostra analisi introducendo in aggiunta il seguente gruppo di criteri linguistici: e

quantificatori: tutto, niente, molti, pochi / tutti gli uomini, alcuni uomini, nessun uomo / sempre, mai, spesso deittici generalizzanti: τοιοῦτος, οὗτος, ὅστις

terminologia

assiologica: aggettivi (buono,

cattivo) / avverbi (bene,

male) / sostantivi (qualità e difetti morali e intellettuali) / verbi

® e e ὁ

(amare, odiare, approvare, disapprovare) / predicati neutri \ categorie generali: gli esseri umani in quanto tali (in contrapposizione a dei e animali) / categorie umane (secondo il discrimine sessuale, familiare, economico o politico) verbo: copula / copula sottintesa / tempo presente / aoristo (gnomico) 7 futuro (consecutivo) persona: terza (per esprimere una tendenza o un giudizio) / seconda (generalizzazione, consiglio, avvertimento) / prima (generalizzazione o autocaratterizzazione) particelle: τοι, γάρ 7 δέ, ἀλλά

dativo etico: pet tutti gli uomini, per tutti i saggi / per molti, per i più stile: brevità, concisione? / ripetizione, parallelismo / contrasto, antonimi / paratassi preferita all’ipotassi

A differenza dei due criteri aristotelici che sono entrambi indispensabili (se ne manca anche uno solo diventa difficile immaginare una γνώμη), nel caso di questi indicatori linguistici aggiuntivi non si deve pensare che ciascuno di essi sarà presente in qualsiasi γνώμη, e anzi potrebbe succedere di trovare delle γνῶμαι che non ne eviden-

Spengel; per una compilazione e discussione moderna, cfr. H. LAUSBERG, Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, München, Hueber 1960,

I, pp. 431-434, $$ 872-879. Queste discussioni non aggiungono nulla d’indispensabile alla trattazione aristotelica.

? Cfr. Epicharmus, fr. 244, 11 K.-A.: ἐν βραχεῖ γνώμας λέγειν.

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EURIPIDE O TNOQMOAOTIKOTATOX

zino più di uno o due. Mi sentirei tuttavia di affermare che non si troveranno γνῶμαι che non presentino qualcuno di questi indicatori, e che nella maggioranza di esse se ne potranno rintracciare più di uno, anche se non è detto che, prendendo due γνῶμαι, vi si troveranno gli stessi. In altre parole, la categoria di γνῶμαι individuata attraverso questi criteri avrà il proprio elemento unificante non nel fatto che tutte condividano un singolo tratto linguistico, ma piuttosto nel partecipare in quanto gruppo di quelle che Wittgenstein chiama «somiglianze di famiglia». Rimarrà ovviamente un certo grado di soggettività nello stabilire se un certo testo possa essere classificato o meno come γνώμη; tuttavia, nella misura in cui questi criteri possono essere dati per relativamente affidabili, agli argomenti che faranno propendere a favore o contro la ‘gnomicità’ si dovrà tributare un considerevole grado di oggettività. Supponiamo ora di applicare questi criteri contenutistici e linguistici a un campione tratto dall’opera di Euripide con lo scopo d’isolare i passi che possono essere classificati come gnomici: il risultato sarà l’identificazione di un gruppo di γνῶμαι euripidee come sottoinsieme di quella più ampia porzione di testo che costituisce il campione. Per far questo potremmo semplicemente iniziare dal primo verso di una tragedia e proseguire fino alla fine (e se volessimo potremmo andare avanti con le altre e coprire tutto il corpus euripideo). A dire il vero, un’operazione molto simile a questa sembra essere già stata applicata all’Ardromaca da Stobeo, o più verosimilmente, da una delle sue fonti: nell’Arthologium di Stobeo, infatti, si trovano due capitoli in cui brani di questa sola tragedia si succedono proprio nello stesso ordine in cui compaiono nel testo di Euripide. Questa è la struttura dei due capitoli con indicato tra parentesi il corrispondente brano della tragedia euripidea: IV 22g nr. 159 (v. 85)

nr. 162 ( vv. 94-95) nr. 164 (vv. 181-82)

nr. 166 (vv. 269-73) IV 23

nr. 19 (vv. 177-80) nr. 21 (vv. 229-31) nr. 22 (vv. 352-54)

nr. 23 (vv. 372-73) nr. 24 (vv. 672-77) nr. 27 (v. 930)

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Evidentemente qualcuno che aveva a disposizione il testo completo della tragedia (o, meno probabilmente, una versione abbreviata) l’ha passato in rassegna a tappeto, cominciando dall’inizio e andando sistematicamente alla ricerca di tutte le frasi gnomiche concernenti alcuni temi ben precisi; in questo modo

si applicava, consciamente

o,

come è più probabile, inconsciamente, una versione primitiva di quei criteri suggeriti sopra, con l’aggiunta di un altro, più restrittivo: l’interesse esclusivo per le γνῶμαι che contenevano forme di polemica contro le donne (IV 22g), o precetti matrimoniali (IV 23).!° È difficile evitare di chiedersi perché.!!

Quello che era in grado di fare un anonimo excerptor probabil-

mente di età tardo-antica possiamo rifarlo con facilità noi oggi: il pro-

gresso degli studi in ambito umanistico si realizza spesso in questo

modo... Tuttavia, dato che non dobbiamo condividere con l’excerptor le stesse manie e gli stessi propositi, ma possiamo sfruttare il suo lavoro per i nostri scopi, siamo liberi di modificare il metodo d’indagine nel modo che ci sembra più appropriato. Supponiamo d’ampliare la nostra selezione di sentenze e d’includere non solo le γνῶμαι sulle donne e il matrimonio, ma tutte quelle che rispondono ai nostri criteri e a quelli aristotelici: dovremmo ottenere in questo modo un campione, più o meno affidabile, di tutte le γνῶμαι rinscontrabili nel nostro testo di base, indipendentemente dal loro soggetto. Potremmo sentirci liberi di applicare la nostra ricerca all’intero corpus tragico euripideo, o a qualunque suo sottogruppo. Supponiamo di confrontare le γνῶμαι di Euripide con quelle di Eschilo e Sofocle: potremmo confrontare i risultati ottenuti dall'indagine su tutti i drammi, e indubbiamente essi apparirebbero di notevole interesse. Ma volendo risparmiare tempo e nello stesso tempo arrivare a un risultato interessante, dovremmo selezionare solo alcuni drammi dal corpus superstite dei tre tragici. Ma quali? Un modo per aver la sicurezza che l’argomento mitico di ogni dramma eserciti la minore influenza possibile

10 Ci sono casi simili che riguardano l’Oreste di Euripide in Stob. IV 36 - nr. 1 (vv. 211-12), nr. 2 (vv. 229-30), nr. 3 (vv. 231-32), nr. 4 (vv. 233, 235-6) — e la Medea in Stob. III 20 - nr. 30 (vv. 109-10), nr. 34 (vv. 446-47), nr. 35 (vv. 520-21), nr. 37 (vv. 1079-80).

Si veda in generale sull'argomento R.M. PICCIONE, Sulle citazioni euripidee in Stobeo e sulla struttura dell’ Anthologion, «RFIC», CXXII, 1994, pp. 175-218; sull’ordine di apparizione nel testo originario delle citazioni di Stobeo si vedano le pp. 181-188. Ringrazio la Dr. Piccione per i suoi consigli su questo punto. 1! Ovviamente, il fatto che in commedia e nella tradizione biografica Euripide venga dipinto come il misogino par excellence aiuta a spiegare perché chiunque abbia scelto di raccogliere le γνῶμαι contro le donne e sul matrimonio si sia rivolto a Euripide, non spiega però perché questo excerptor decise di raccogliere proprio le γνῶμαι su questi temi,

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EURIPIDE O TNQMOAOTIKQTATOZ

sui risultati della nostra ricerca sarebbe di scegliere per ciascuno dei tre tragici una tragedia che tratti esattamente dello stesso soggetto mitico; in questo modo, infatti, avremmo la possibilità di ridurre al minimo il rischio che un determinato contenuto (per esempio, presenza di vecchi o indovini, nutrici o servi, o di forti elementi di delibera-

zione politica) possa produrre un quantitativo particolarmente alto o basso di γνῶμαι. Sono queste le considerazioni che ci hanno spinto, in questa sede, a restringere la nostra ricerca all’E/ettra di Euripide e stabilire un confronto con le Coefore di Eschilo e l’Elettra di Sofocle: se si può ammettere in linea di principio che i risultati emersi, se confrontati con quelli ottenuti da una ricerca più ampia, potrebbero apparire distorti, d’altro lato non c’è 4 priori ragione di credere che questo sarà necessariamente il caso.!? In appendice a quest'articolo si trovano i risultati ottenuti nel modo indicato. Consideriamo prima quelli ricavati per il solo Euripide. Potremmo sintetizzarli in questi quattro punti: Forma. In quasi tutti i casi, la fine di una γνώμη coincide con la fine di verso. Le uniche eccezioni sono i versi 69-70, dove comunque la seconda metà del secondo verso è completata attraverso quello che ha tutte le sembianze di un riempitivo. La coincidenza tra conclusione semantica e metrica conferisce alla γνώμη una forza e un’autorevolezza ulteriori: in questo modo si carica di una parvenza di definitività, sembra fondarsi su un’esperienza e una saggezza inconfutabili, suscita un’impressione di lapidarietà nel senso letterale della parola: potrebbe in altre parole essere incisa come iscrizione e fungere da ammonimento

per tutti.

Personaggio. Talvolta il personaggio che pronuncia la γνώμη è vecchio e fonda così la sua affermazione su un patrimonio di riflessioni accumulato nel corso di tutta la vita; talaltra è di estrazione sociale bassa (contadino, messaggero, servo) e potrebbe quindi essere interpretato come il portavoce di una saggezza popolare anonima. Ma chi pronuncia una γνώμη può essere anche giovane e aristocratico, pro-

prio come Oreste e Elettra nell’E/etra; in questo caso, il personaggio riceve legittimazione non tanto dall’esperienza o dalla capacità meditativa (anche se è a queste qualità che si fa appello), ma piuttosto da una saggezza acquisita sui libri e dalla conoscenza delle mode intellettuali contemporanee. Un giovane che assume il tono tipico di un

12 Non ha importanza per gli scopi di questo confronto stabilire se l’Elezira di Sofocle debba essere datata prima o dopo quella di Euripide.

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GLENN W. MOST

vecchio dispensando γνῶμαι

ai suoi interlocutori potrebbe impres-

sionare negativamente il pubblico, ed essere considerato ingenuo e presuntuoso, ma, con tutta probabilità, questo si verificherà soltanto

nel caso che una caratterizzazione di questo tipo sia rafforzata da altri segnali che vanno nella stessa direzione. Contesto. Ci sono situazioni nelle quali trovare una γνώμη è più facile che in altre: nel caso di discorsi di una certa lunghezza, accade soprattutto all’inizio o alla fine, quando si annuncia un tema o lo si riassume pet sommi capi; nel caso dei dialoghi, soprattutto nel momento cruciale in cui le questioni essenziali vengono esplicitamente enunciate; oppure poco prima del compimento di un’azione importante, per rendere ragione del modo in cui, in particolari circostanze e in vista di un ben determinato scopo, un personaggio ha deciso di comportarsi. Funzione. In età antica come in età moderna la funzione fondamentale di queste γνῶμαι sembra essere stata spesso considerata filosofica e didattica: in quest'ottica, Euripide viene visto essenzialmente come un filosofo che intende impartire insegnamenti al suo pubblico, usando i suoi personaggi come meri portavoci delle sue idee su questioni da lui giudicate importanti.!* Tuttavia, dato il loro contesto e il

loro evidente effetto drammatico, sembra preferibile assegnare loro una funzione retorica: sono concepite per assicurare alle affermazioni e alle azioni dei personaggi l'approvazione del pubblico. La generalizzazione espressa attraverso una γνώμη funziona da ponte che col-

13 Cfr. HOFINGER, op. cit., pp. 11-12, 18 e passim. Hofinger sbaglia quando sostiene che l’unica funzione delle γνῶμαι in questi contesti sarebbe essenzialmente esplicativa, cioè quella di aiutare il pubblico a comprendere quale era o sarebbe stato il tema principale del discorso. Oltre a questa funzione, tuttavia, se ne possono individuare delle altre: concentrare l’attenzione del pubblico su quello che si stava per dire facendo appello a un patrimonio esperienziale comune; assicurare al proprio discorso l'approvazione del pubblico rievocando ciò che il pubblico già sa; da un punto di vista puramente formale, segnalare un inizio o una fine attraverso un espediente discorsivo convenzionale. 14 Su questa linea si veda per esempio NESTLE, op. cit., p. 38: «So kehrt denn Euri-

pides vielfach absichtlich seine Subjectivitàt heraus, und es hat daher eine gewisse Berechtigung, wenn Aristophanes ihn wegen seiner philosophischen Exkurse (περίπατοι Frösche 942) und antilogistischen Streitszenen (Frösche 775) angreift. Denn es wird dadurch

in der That zuweilen der Zusammenhang gestört und der Gang der Handlung unterbrochen, überhaupt die Aufmerksamkeit des Zuschauers von dem Schauspiel ab- und auf den

Dichter hingelenkt, der doch hinter seinem Stück zurücktreten sollte. Aber das eben Euripides nicht; vielmehr lag es in seiner Absicht, seine Zuhörer zu belehren, er sich besonders auch seiner schon im Altertum anerkannten Meisterschaft in der mologie bediente». Dello stesso avviso HOFINGER, op. cit., pp. 23-25, 34-35, II. Teil FRIIS JOHANSEN, op. cit., pp. 175-176, e molti altri.



150 —

wollte wozu Gnop. 12;

EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤΟΣ

lega un soggetto particolare (l’identità e la situazione del personag-

gio) con altri soggetti (l’interlocutore o gli interlocutori particolari presenti in scena, il gruppo di interlocutori che forma il Coro, il più consistente gruppo d’individui che forma il pubblico) per sottolinearne affinità e somiglianze, benché essi sembrino a prima vista distanti l’uno dall’altro. In altre parole le γνῶμαι non comunicano ai loro interlocutori o al pubblico cose che non sappiano già, ma fanno appello proprio alle conoscenze che essi posseggono: cercano non d’educare gli interlocutori o il pubblico, ma di assicurare il loro consenso alle opinioni (che ovviamente riflettono un punto di vista parziale) espresse dai personaggi in scena; dunque, la voce da cui le sentiamo pronunciare non è quella di Euripide ma piuttosto quella dei suoi personaggi rinchiusi nella propria individualità e intrappolati negli stretti confini delle concrete situazioni in cui si trovano a causa del loro carattere, del loro destino, o semplicemente per sfortuna. Tutto ciò si può ricavare dall’esame delle γνῶμαι del solo Euripide. Ma fino a che punto Euripide rappresenta da questo punto di vista un caso unico, o fino a che punto questi risultati coincidono con quello che potremmo attenderci da un qualsiasi altro poeta rappresentante della tragedia attica del quinto secolo? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo confrontare i risultati ottenuti per l’Elettra euripidea con quelli emersi dalle altre due tragedie che sono riportati nell’appendice. Ecco un diagramma con i risultati di questo confronto: tale diagramma, nonostante le apparenze, non ambisce alla benché minima precisione statistica ma si propone semplicemente d’indicare quella che sembra essere la tendenza generale: Sentenze

Trimetri/Versi lirici

in Stobeo

Aesch. Choe.

79 vv. (73%)

19 vv. (24%)/60 vv. (76%)

3 vv. (3.8%)

Soph.

47 vv. (3.1%)

37 w.

101 vv. (7.4%)

95 vv. (94%)/6 vv. (6%)

El.

Eur. El.

(79%)/10

vv. (21%)

11 vv. (23.490)

37 vv. (36.6%)

Anche tenendo conto dell’imprecisione di questi risultati e della ristrettezza del campione su cui si basano, le differenze che emergono sembrano in ogni caso notevoli: 1. La percentuale di γνῶμαι sul numero totale di versi dell’Elettra di Euripide è alta più del doppio di quella che si registra per Sofocle, e persino più alta in confronto a quella di Eschilo. 2. Le γνῶμαι di Euripide si trovano quasi esclusivamente nei versi recitati: nei trimetri di Euripide si registra un numero di γνῶμαι sedici volte superiore a quello che si riscontra nelle parti liriche. Così anche in Sofocle ci sono più γνῶμαι recitate che cantate, anche se in —

51 —

GLENN

W. MOST

questo caso la sproporzione è meno vistosa: qui, infatti, il numero

delle γνῶμαι presenti nei trimetri è solo quattro volte superiore a quello delle γνῶμαι liriche. Il vero contrasto è tra questi due poeti da una parte e Eschilo dall’altra, dal momento che in Eschilo si ri-

scontra una frequenza di versi lirici gnomici tre volte superiore a quella

dei trimetri dello stesso genere. Dietro quest’inversione di tendenza numerica si cela un radicale cambiamento intervenuto nel tipo di autorità morale che la tragedia greca esercita sul suo pubblico nel periodo compreso tra Eschilo e Euripide: in Euripide, la sede della riflessione generalizzante si è spostata dal Coro ai personaggi.! Le γνῶμαι non sono più cantate da una voce unitaria che rappresenta in qualche modo l’essenza morale del dramma, ma al contrario sono declamate da un singolo personaggio portatore di un’ottica parziale: rappresentano ora il punto di vista di un individuo particolare che si oppone ad altri e utilizza questo espediente come tattica per cercare di procurare consenso al proprio personale punto di vista. In Euripide, la γνώμη è un tentativo di assicurare consenso, e proprio per questa

ragione svela l’esistenza di un irriducibile dissenso. 3. In Stobeo le γνῶμαι euripidee si trovano citate venti volte di più di quelle eschilee — ma questo può difficilmente sorprenderci, dato che le γνῶμαι di Eschilo sono perlopiù in metri lirici mentre quelle di Euripide in trimetri, e il materiale citato da Stobeo proviene con più abbondanza dalle sezioni recitate che da quelle liriche.!* Nemmeno questo sorprende: nella misura in cui le antologie gnomologiche sono concepite come serbatoio di frasi d’effetto da citare in una conversazione informale, o in discorsi formali, o in prosa scritta, si capisce facilmente che un proverbio proveniente da sezione lirica sembrerà, all’interno di un contesto prosastico, molto più inappropriato di un trimetro. Come notava Aristotele, in greco antico il trimetro giambico era così vicino al ritmo del parlare ordinario che nella conversazione quotidiana si producevano spesso trimetri senza accorgersene (Poet. IV 1449a24-27). 4. Più di un terzo delle γνῶμαι che si trovano nel testo completo dell’Elettra di Euripide compaiono in Stobeo. Questo potrebbe essere un dato non rappresentativo, ma d’altro canto non c’è ragione valida

5 Questo punto decisivo è riconosciuto da FRIS JOHANSEN, op. cit., p. 174. 16 FRIIS JOHANSEN, op. cit., p. 34 spiega la frequenza delle citazioni euripidee in Stobeo con il fatto che «Euripides throughout his career seems to have preferred short, handy, and easily detachable types» di sententiae, mentre Eschilo'e Sofocle avrebbero preferito «lengthy and complicated types of comparatio paratactica». Cfr. anche pp. 44, 49.



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EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤΟΣ

per dubitarlo. Se si tratta di dato rappresentativo, questo porterebbe a concludere che anche le γνῶμαι provenienti da tragedie euripidee perdute (o almeno da alcune) potrebbero essere state salvate in numero più alto di quanto ci saremmo aspettati. Ma questo significa essere nelle condizioni per sapere di più di queste perdute tragedie anche dal punto di vista della loro struttura drammatica complessiva? Purtroppo no. La tradizione gnomologica si regge infatti sull’estrapolazione delle γνῶμαι dal loro contesto originario,

anzi è proprio

perché

queste

γνῶμαι

sembrano

facilmente

estrapolabili, senza alcun danno, dal loro contesto d’appartenenza che possono essere rielaborate e riutilizzate in contesti sempre diversi. Ma se le γνῶμαι di Euripide vengono considerate all’interno del loro contesto drammatico

originario,

appare

chiaro

che non possono

essere

separate dalla situazione che le ha prodotte senza che ne venga una considerevole perdita in termini di senso. La loro funzione retorica e drammatica implica, infatti, che esse rappresentino sempre uno strumento di caratterizzazione, che siano strettamente legate a una situazione drammatica ben precisa e che risultino interamente appropriate al personaggio che le pronuncia e al contesto discorsivo in cui tale personaggio è inserito. Non è Euripide che, attraverso il filtro trasparente dei suoi personaggi, le pronuncia come se fossero le sue personali convinzioni filosofiche, ma al contrario sono gli stessi personaggi che se ne servono intenzionalmente per assicurare consenso ai loro punti di vista parziali, ma che nello stesso tempo finiscono, in questo modo, senza accorgersene, per autocaratterizzarsi e aiutarci

così a reperire gli elementi su cui fondare i nostri giudizi su di loro:

di conseguenza separare le γνῶμαι dalle situazioni drammatiche che le hanno prodotte significa ridurne drasticamente la ricchezza semantica per renderle universali e quindi banalizzarle. Questo non è certo quello che si è spesso detto di Euripide. Gli

scolî antichi a diversi passi delle sue tragedie lamentano il fatto che sia tipico di Euripide inserire inutili γνῶμαι nelle sue opere. Sostengono per esempio: οὐκ ἐν δέοντι δὲ γνωμολογεῖ, τοιούτων κακῶν

περιεστώτων

τῇ

πόλει.

τοιοῦτος

δὲ

πολλαχοῦ

ὁ Εὐριπίδης

(Schol. ad Phoen. 388), oppure καὶ ἔστι τοιοῦτος ὁ Εὐριπίδης περιάπτων

τὰ

καθ᾽

ἑαυτὸν

τοῖς ἥρωσι

καὶ

τοὺς

χρόνους

συγχέων

(Schol. ad Hec. 254). Allo stesso modo succede spesso che i critici moderni critichino una presunta mancanza di pertinenza delle γνῶpor euripidee e subiscano altrettanto spesso la tentazione di liquidarle come interpolazioni — i versi tra parentesi quadre dell’appendice a quest'articolo forniscono un’adeguata testimonianza dell’illusione critica, assai diffusa, di risolvere un’aporia esegetica semplicemente —

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GLENN W. MOST

eliminandola dal testo.!” Anche coloro che riconoscono i difetti di un tale approccio ai problemi di critica del testo, come la De Romilly, non fanno, a dire il vero, nessun passo in avanti quando sostengono banalmente che la non pertinenza è una caratteristica fondamentale dello stile euripideo.!8 Questa non è la sede per argomentare in dettaglio in favore della tesi che non ci sia in tutto il corpus dell’opera di Euripide una sola γνώμη che non sia interamente pertinente nel suo contesto drammatico: potrebbe darsi che una tesi di questo tipo, formulata in modo così reciso, non sia sostenibile fino in fondo e che si debba ripiegare su una sua versione di pretese più modeste. Ma da un punto di vista ermeneutico sembra essere una strategia più produttiva presupporre una piena pertinenza e perseverare nello sforzo di dimostrarla an-

dando aldilà delle iniziali difficoltà, piuttosto che supporne la mancanza sonale è che mente

e abbandonare la ricerca di fronte ai primi ostacoli. La mia peridea, e uno dei miei principi base nell’interpretazione di Euripide, molte più γνῶμαι di quanto talvolta si creda siano contestualpertinenti e che lo siano molto più di quanto non si voglia am-

mettere. Concluderò con due soli esempi a sostegno della mia tesi: spero che il fatto di essere così celebri e così suggestivi potrà ripagare della mancanza in questa sede di una dimostrazione dettagliata. Entrambi gli esempi ricorrono, non a caso, in ampi monologhi recitati da donne intelligenti e appassionate che attraverso un estremo ed eroico atto di volontà stanno lottando per imporsi una forma di autocontrollo nel momento in cui si trovano sotto il dominio di una violentissima tensione emotiva. Il primo è una porzione del discorso di Fedra alle donne di Tre-

zene:

Τροζήνιαι γυναῖκες, αἱ τόδ᾽ ἔσχατον οἰκεῖτε χώρας Πελοπίας προνώπιον, ἤδη ποτ᾽ ἄλλως νυκτὸς ἐν μακρῷ χρόνῳ

θνητῶν ἐφρόντισ᾽ ἧ διέφθαρται βίος. καί μοι δοκοῦσιν οὐ κατὰ γνώμης φύσιν πράσσειν κάκιον᾽" ἔστι γὰρ τό γ᾽ εὖ φρονεῖν

17 Così, tra i passi dell’Eletira di Euripide riportati in grassetto come γνῶμαι nell’appendice, Wilamowitz e Page espunsero i vv. 386-90, Hartung e Pagei vv. 1097-99, Nauck e Denniston i vv. 1097-1101.

1 DE ROMILLY, op. cit.

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EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΏΩΤΑΤΟΣ

πολλοῖσιν" ἀλλὰ τῇδ᾽ ἀθρητέον τόδε" τὰ χρήστ᾽ ἐπιστάμεσθα καὶ γιγνώσκομεν, οὐκ ἐκπονοῦμεν δ᾽, οἱ μὲν ἀργίας ὕπο, οἱ δ᾽ ἡδονὴν προθέντες ἀντὶ τοῦ καλοῦ ἄλλην τιν᾽" εἰσὶ δ᾽ ἡδοναὶ πολλαὶ βίου, μακραί τε λέσχαι καὶ σχολή, τερπνὸν κακόν, αἰδώς τε’ δισσαὶ δ᾽ εἰσίν, ἡ μὲν οὐ κακή,

ἢ è ἄχθος οἴκων᾽ εἰ δ᾽ ὁ καιρὸς ἦν σαφής, οὐκ ἂν δύ᾽ ἤστην ταὔτ᾽ ἔχοντε γράμματα. ταῦτ᾽ οὖν ἐπειδὴ τυγχάνω φρονοῦσ᾽ ἐγώ, οὐκ ἔσθ᾽ ὁποίῳ φαρμάκῳ διαφθερεῖν ἔμελλον, ὥστε τοὔμπαλιν πεσεῖν φρενῶν. (Eur. Hipp. 373-90).!?

Molti lettori hanno avuto l’impressione che qui Fedra stia pronunciando una specie di lezione di filosofia preparata durante lunghe notti di meditazione intellettuale; il suo contenuto sarebbe però del tutto incongruente con la particolare situazione in cui versa la donna. Di conseguenza alcuni, tra cui Snell, per citare solo il più famoso, hanno sostenuto che non sarebbe Fedra qui a parlare, ma lo stesso Euripide impegnato in una vigorosa polemica contro la nota affermazione socratica secondo cui nessuno compie mai il male consapevolmente.?° Eppure tutto il discorso di Fedra è pronunciato non dal punto di vista di un cittadino di sesso maschile, che trova nella dimensione aggressiva della lotta politica la propria forma di autodefinizione, ma piuttosto da quello di una ricca e libera donna di estrazione aristocratica.?! Confinata nelle mura

domestiche, limitata nelle

sue relazioni sociali alla sola famiglia e alle amiche donne, Fedra non può nemmeno immaginare nella vita umana altri piaceri diversi da quelli che il suo particolare stile di vita le rende accessibili: lunghe conversazioni con le altre donne, la libertà di pensare a se stessa e al

genere umano, il senso del pudore che il proprio ruolo di donna rispettabile l’ha educata a salvaguardare volentieri al di sopra di tutte

1? Il testo qui riprodotto, come quello di Med. 230-58 riportato più avanti, è quello dell’edizione OCT di Diggle. Questo discorso è analizzato da FRIIS JOHANSEN, op. cit., pp. 122-126, e DE ROMILLY, op. cit., pp. 406-408. 20 B. SNELL, Das frühste Zeugnis über Sokrates, «Philologus», XCVII, 1948, pp. 125134, ripubblicato con modifiche in Scenes from Greek Drama, Berkeley-Los Angeles, Ca-

lifornia University Press 1967, pp. 47-69. 21 Questo punto è ben colto da W.S. BARRETT, Euripides. Hippolytos, Oxford, Clarendon Press 1964, p. 229 ad vv. 381-385.



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GLENN W. MOST

le altre virtù, benchè esso possa non solo salvare una casa, ma rappresentare per qualcuna anche un pesante fardello. Questo è senza dubbio il suo caso, dato che, come si vedrà presto, è stato proprio il

senso del pudore a indurla all’inizio a nascondere la sua infatuazione piuttosto che a suicidarsi subito, e a consentire così a questo senti-

mento di trasformarsi in malattia incurabile. Senza dubbio molti uomini ateniesi discutevano delle idee di Socrate e di quelle di altri intellettuali nel periodo in cui la seconda versione dell’Ippolito fu messa in scena; ma se qualcuno di loro avesse fatto la stessa lista di piaceri tipicamente femminili che fa Fedra, sarebbe divenuto lo zimbello dei

suoi compagni. Queste parole potevano dunque essere pronunciate soltanto da una come lei. La stessa cosa si può dire per il mio secondo esempio, il discorso

di Medea alle donne di Corinto:

πάντων δ᾽ ὅσ᾽ ἔστ᾽ ἔμψυχα καὶ γνώμην ἔχει γυναῖκές ἐσμεν ἀθλιώτατον φυτόν᾽ ἃς πρῶτα μὲν δεῖ χρημάτων ὑπερβολῇ πόσιν πρίασθαι δεσπότην τε σώματος λαβεῖν’ κακοῦ γὰρ τοῦτ᾽ ἔτ᾽ ἄλγιον κακόν. κἀν τῷδ᾽ ἀγὼν μέγιστος, ἢ κακὸν λαβεῖν

ἢ χρηστόν’ οὐ γὰρ εὐκλεεῖς ἀπαλλαγαὶ γυναιξίν, οὐδ᾽ οἷόν 1° ἀνήνασθαι πόσιν. ἐς καινὰ δ᾽ ἤθη καὶ νόμους ἀφιγμένην δεῖ μάντιν εἶναι, μὴ μαθοῦσαν

οἴκοθεν,

οἵῳ μάλιστα χρήσεται ξυνευνέτῃ. κἂν μὲν τάδ᾽ ἡμῖν ἐκπονουμέναισιν πόσις ξυνοικῇ μὴ βίᾳ φέρων ζυγόν,

εὖ

ζηλωτὸς αἰών: εἰ δὲ μή, θανεῖν χρεών. ἀνὴρ δ᾽, ὅταν τοῖς ἔνδον ἄχθηται ξυνών, ἔξω μολὼν ἔπαυσε καρδίαν donc [ἢ πρὸς φίλον τιν᾽ ἢ πρὸς ἥλικα τραπείς"] ἡμῖν δ᾽ ἀνάγκη πρὸς μίαν ψυχὴν βλέπειν. λέγουσι δ᾽ ἡμᾶς ὡς ἀκίνδυνον βίον

ζῶμεν κατ᾽ οἴκους, οἱ δὲ μάρνανται δορί᾽ κακῶς φρονοῦντες. ὡς τρὶς ἂν παρ᾽ ἀσπίδα στῆναι θέλοιμ᾽ ἂν μᾶλλον ἢ τεκεῖν ἅπαξ.

ἀλλ᾽ οὐ γὰρ αὑτὸς πρὸς σὲ κἄμ᾽ ἥκει λόγος; σοὶ μὲν πόλις θ᾽ ἥδ᾽ ἐστὶ καὶ πατρὸς δόμοι βίου 7’ ὄνησις καὶ φίλων συνουσία,

ἐγὼ 8’ ἔρημος ἄπολις οὖσ᾽ ὑβρίζομαι πρὸς ἀνδρός, ἐκ γῆς βαρβάρου Aeinouevn, —

156 —

EURIPIDE O TNOMOAOTIKQTATOL

οὐ μητέρ᾽, οὐκ ἀδελφόν, οὐχὶ συγγενῆ μεθορμίσασθαι τῆσδ᾽ ἔχουσα συμφορᾶς. (Eur. Med. 230-58)??

Il lamento di Medea sull’infelice condizione delle donne & stato spesso (e non solo da classicisti di professione) separato dal suo contesto quasi fosse stato concepito come diretta e generale descrizione della condizione femminile in Grecia (e per estensione come una condanna dell’ingiusto trattamento a cui sono sottoposte le donne in molte altre societä). Eppure le ingiustizie che Medea deplora qui non sono, a dire il vero, quelle che lei ha subito: dopo tutto non ha dovuto lasciare la casa di suo padre per quella del marito sotto costrizione (a meno che non pensiamo a una costrizione divina, ma questa possibilità in questo caso ha poco senso),

e nemmeno

è stata comprata con

una dote (se non in un senso metaforico che qui non è pertinente). Euripide si è forse dimenticato che era Medea a dover parlare qui, e invece ha scelto di offrire propria voce un’analisi generale della condizione femminile, che tuttavia si rivela poco pertinente con la per-

sonale situazione di Medea? Alcuni hanno tentato di sostenere questo. Ma tenendo conto del fatto che in ogni altra scena della prima parte di questa tragedia Medea riesce brillantemente a ingannare uno dopo l’altro i personaggi con cui viene in contatto per farne i complici più o meno consapevoli dei suoi piani, e che nei versi immediatamente seguenti continuerà a richiedere, e la riceverà, la promessa da parte del Coro di darle col proprio silenzio sostegno in qualunque azione escogiti per vendicarsi (259-68), non si dovrebbe avere difficoltà a riconoscere che anche qui sta pronunciando parole che spera potranno persuadere il Coro ad aiutarla, stabilendo quello che agli occhi delle coreute potrà apparire come un importante legame di affinità reciproca. In altre parole, il suo discorso potrebbe non essere appropriato per la sua personale vicenda biografica, ma è interamente appropriato alla concreta situazione retorica nella quale la donna si trova e nella quale deve dare l'impressione di essere solidale con i membri del Coro se vuole spingerli a provare pietà per lei e conseguentemente ad aiutarla. La prova decisiva della sua strategia ingannatoria — strategia che soltanto

22 Si vedano le analisi di questo discorso proposte da FRIIS JOHANSEN, op. cit., pp. 128-129 e DE ROMILLY, op. cit., pp. 408-409. 2 Quest’osservazione è accennata rapidamente da D.L. PAGE, Euripides Medea, ford, Clarendon Press 1938, p. 89 ad v. 231.



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Ox-

GLENN W. MOST

noi all’interno del pubblico possiamo capire, e non certo il Coro ai cui danni essa si compie — è il suo enfatico lamento sul fatto di essere venuta in Grecia senza nemmeno un fratello. Noi, infatti, a differenza del Coro, sappiamo bene che la vera ragione per la quale Absirto non è con lei ora è che lei stessa l’ha ucciso: la nostra costernazione di fronte al suo inganno e alla facilità con cui il Coro cede ad esso dovrebbero (ma non sempre lo fanno) renderci ancora più ansiosi riguardo agli inganni che metterà in atto in seguito. Una discussione completa del problema della pertinenza dramma-

tica delle γνῶμαι euripidee richiederebbe un trattamento più detta-

gliato non solo di queste due scene, ma anche del resto del corpus, e un confronto con le tendenze ravvisabili per Eschilo e Sofocle, oltre che per l’autore del Reso. Naturalmente ciò non può essere fatto in questa sede. Ma se la tesi avanzata qui dovesse essere corretta, ciò vorrebbe dire che Euripide non è soltanto un pensatore, ma anche e soprattutto un poeta drammatico, che sa integrare le proprie personali convinzioni all’interno delle situazioni drammatiche che crea con più efficacia di quanto si è spesso pensato. Euripide fu attento a costruire le sue γνῶμαι in modo tale che potessero essere riutilizzate dai fruitori successivi, ma non fu meno attento a renderle perfettamente appropriate alla specifica situazione drammatica in cui i suoi personaggi le pronunciarono per la prima volta. In conclusione, ci sarà, dopo tutto, una certa differenza tra un capolavoro teatrale e uno gnomologio. L’acqua della sorgente di un fiume potrebbe sembrare uguale a quella che si trova a valle, ma il suo sapore è ben diverso.



158—

APPENDICE”

1. Euripide, Elettra 37-38 {Av.}

67-76 {HA.}

λαμπροὶ γὰρ ἐς γένος ye, χρημάτων δὲ δὴ πένητες, ἔνθεν ηὐγένει᾽ ἀπόλλυται.

ἐγώ σ᾽ ἴσον θεοῖσιν ἡγοῦμαι didov' ἐν τοῖς ἐμοῖς γὰρ οὐκ ἐνύβρισας κακοῖς.

μεγάλη δὲ θνητοῖς μοῖρα συμφορᾶς κακῆς ἰατρὸν εὑρεῖν, ὡς ἐγὼ σὲ λαμβάνω. δεῖ δή με κἀκέλευστον εἰς ὅσον σθένω μόχθου ’᾽πικουφίζουσαν, ὡς ῥᾷον φέρῃς, συνεκκομίζειν σοι πόνους. ἅλις δ᾽ ἔχεις τἄξωθεν ἔργα᾽ τἀν δόμοις δ᾽ ἡμᾶς χρεὼν ἐξευτρεπίζειν. εἰσιόντι δ᾽ ἐργάτῃ θύραθεν ἡδὺ τἄνδον εὑρίσκειν καλῶς. 80-81

{Av.}

ἀργὸς γὰρ οὐδεὶς θεοὺς ἔχων ἀνὰ στόμα βίον δύναιτ᾽ ἂν ξυλλέγειν ἄνευ πόνου.

265 {HA.}

γυναῖκες ἀνδρῶν, ὦ ξέν᾽, οὐ παίδων φίλαι.

290-96 {Op.}

οἴμοι, τόδ᾽ οἷον εἶπας: αἴσθησις γὰρ οὖν καὶ τῶν θυραίων πημάτων δάκνει βροτούς. λέξον δ᾽, iv’ εἰδὼς σῷ κασιγνήτῳ φέρω λόγους ἀτερπεῖς, ἀλλ᾽ ἀναγκαίους κλύειν. ἔνεστι δ᾽ οἶκτος ἀμαθίᾳ μὲν οὐδαμοῦ. σοφοῖσι δ᾽ ἀνδρῶν: καὶ γὰρ οὐδ᾽ ἀζήμιον γνώμην ἐνεῖναι τοῖς σοφοῖς λίαν σοφήν.

294-96

* Il testo qui riprodotto è per Euripide quello di Diggle (OCT), per Eschilo quello di West (Teubner), e per Sofocle quello di Lloyd-Jones e Wilson (OCT). Le γνῶμαι identificate nelle due Elettre e nelle Coefore secondo i criteri indicati a testo (p. 149) compaiono in grassetto (in alcuni casi i versi limitrofi, di contenuto non-gnomico, sono riportati in carattere normale per rendere così più chiaro il posto e il ruolo delle γνῶμαι nel loro vicino contesto). Quei versi che si trovano citati anche nella tradizione gnomologica antica, soprattutto in Stobeo (Orione cita solo Eur, Εἰ, 367-70 e 954-56), e che evi-

dentemente suscitarono l’interesse di almeno un precursore antico della nostra indagine, sono sottolineati. Quelli in metri lirici sono stampati in corsivo per distinguerli da quelli

in trimetri. Quelli che sono stati espunti come interpolazioni nelle edizioni citate sono messi tra parentesi quadre.



159—

GLENN

343-44 {Av.}

W. MOST

γυναικί τοι αἰσχρὸν μετ᾽ ἀνδρῶν ἑστάναι νεανιῶν. ἀσθενὴς φεύγων ἀνήρ.

352 {HA.}

367-90 {Op.} 367-70

ded:

οὐκ ἔστ᾽ ἀκριβὲς οὐδὲν εἰς εὐανδρίαν: ἔχουσι γὰρ ταραγμὸν αἱ φύσεις βροτῶν. ἤδη γὰρ εἶδον ἄνδρα γενναίου πατρὸς τὸ μηδὲν ὄντα. χρηστὰ δ᾽ ἐκ κακῶν τέκνα, λιμόν 7’ ἐν ἀνδρὸς πλουσίου φρονήματι, γνώμην

83-90

δὲ μεγάλην

ἐν πένητι

σώματι.

[πῶς οὖν τις αὐτὰ διαλαβὼν ὀρθῶς κρινεῖ; πλούτῳ; πονηρῷ τἄρα χρήσεται κριτῇ. ἢ τοῖς ἔχουσι μηδέν; ἀλλ᾽ ἔχει νόσον πενία. διδάσκει δ᾽ ἄνδρα τῇ χρείᾳ κακόν. ἀλλ᾽ εἰς ὅπλ᾽ ἐλθών; τίς δὲ πρὸς λόγχην βλέπων μάρτυς γένοιτ᾽ ἂν ὅστις ἐστὶν ἀγαθός; κράτιστον εἰκῇ ταῦτ᾽ ἐᾶν ἀφειμένα. οὗτος γὰρ ἀνὴρ οὔτ᾽ ἐν ᾿Αργείοις μέγας οὔτ᾽ αὖ δοκήσει δωμάτων ὠγκωμένος, ἐν τοῖς δὲ πολλοῖς ὦν, ἄριστος ηὑρέθη. οὐ μὴ ἀφρονήσεθ᾽. ol κενῶν δοξασμάτων πλήρεις πλανᾶσθςε. τῇ è ὁμιλίᾳ βροτῶν κρινεῖτε καὶ τοῖς ἤθεσιν

τοὺς εὐγενεῖς:

[οἱ γὰρ τοιοῦτοι τὰς πόλεις οἰκοῦσιν εὖ καὶ δώμαθ᾽: αἱ δὲ σάρκες αἱ κεναὶ φρενῶν ἀγάλματ᾽ ἀγορᾶς εἰσιν. οὐδὲ γὰρ δόρυ μᾶλλον

βραχίων

σθεναρὸς

ἀσθενοῦς

μένει:

ἐν τῇ φύσει δὲ τοῦτο κἀν εὐψυχίᾳ.] 422-23 {Av.} 426-31 {Av.}

πολλά τοι γυνὴ χρήζουσ᾽ ἂν εὕροι δαιτὶ προσφορήματα. ἐν τοῖς τοιούτοις è ἡνίκ’ ἂν γνώμη πέσῃ. σκοπῷ τὰ χρήμαθ᾽ ὡς ἔχει μέγα σθένος. ξένοις te δοῦναι σῶμά τ’ ἐς νόσους πεσὸν

δαπάναισι σῷσαι: τῆς δ’ ἐφ’ ἡμέραν βορᾶς ἐς σμικρὸν ἥκει: πᾶς γὰρ ἐμπλησθεὶς ὁ πλούσιός τε χὠ πένης ἴσον φέρει.

ἀνὴρ

530-31 {HA.}

πολλοῖς δ᾽ ἂν εὕροις βοστρύχους ὁμοπτέρους καὶ μὴ γεγῶσιν αἵματος ταὐτοῦ, γέρον.

320-51 {Πρ.}

ἀλλ᾽ εὐγενεῖς μέν, ἐν δὲ κιβδήλῳ τόδε: πολλοὶ γὰρ ὄντες εὐγενεῖς εἰσιν κακοί.

583-84{Op.}

ἢ χρὴ μηκέθ᾽ ἡγεῖσθαι

θεούς,

εἰ τἄδικ᾽ ἔσται τῆς δίκης ὑπέρτερα.

645 {TIp.}

μισεῖται γὰρ ἀνόσιος γυνή.



160 —

EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤΟΣ

743-44 {Xo.}

φοβεροὶ δὲ βροτοῖσι μῦθοι κέρδος πρὸς θεῶν θεραπείαν.

907-57 {HA.}

elév τίν᾽ ἀρχὴν πρῶτά σ᾽ ἐξείπω κακῶν, ποίας τελευτάς; τίνα μέσον τάξω λόγον; καὶ μὴν 81’ ὄρθρων γ᾽ οὔποτ᾽ ἐξελίμπανον θρυλοῦσ᾽ ἅ γ᾽ εἰπεῖν ἤθελον κατ᾽ ὄμμα σόν, εἰ δὴ γενοίμην

δειμάτων ἐλευθέρα

τῶν πρόσθε. νῦν οὖν ἔσμεν' ἀποδώσω δέ σοι ἐκεῖν᾽ ἅ σε ζῶντ᾽ ἤθελον λέξαι κακά. ἀπώλεσάς με κὠρφανὴν φίλου πατρὸς καὶ τόνδ᾽ ἔθηκας, οὐδὲν ἠδικημένος, κἄγημας αἰσχρῶς μητέρ᾽ ἄνδρα τ᾽ ἔκτανες στρατηλατοῦνθ᾽ Ἕλλησιν, οὐκ ἐλθὼν Φρύγας. ἐς τοῦτο δ᾽ ἦλθες ἀμαθίας ὥστ᾽ ἤλπισας ὡς ἐς σὲ μὲν δὴ μητέρ᾽ οὐχ ἕξεις κακὴν γήμας, ἐμοῦ δὲ πατρὸς ἠδίκει λέχη. ἴστω δ᾽, ὅταν τις διολέσας δάμαρτά του κρυπταῖσιν

εὐναῖς

εἶτ᾽ ἀναγκασθῇ

λαβεῖν,

δύστηνός ἐστιν, εἰ δοκεῖ τὸ σωφρονεῖν ἐκεῖ μὲν αὐτὴν οὐκ ἔχειν, παρ᾽ οἷ δ᾽ ἔχειν. ἄλγιστα

δ᾽ ὦκεις, οὐ δοκῶν οἰκεῖν κακῶς"

ἤδησθα γὰρ δῆτ᾽ ἀνόσιον γήμας γάμον, μήτηρ

δὲ σ᾽’ ἄνδρα

δυσσεβῆ

κεκτημένη.

ἄμφω πονηρὼ δ᾽ ὄντ᾽ ἀνῃρεῖσθον τύχην κείνη τε τὴν σὴν καὶ σὺ τοὐκείνης κακόν. πᾶσιν δ᾽ ἐν ᾿Αργείοισιν ἤκουες τάδε; Ὃ τῆς γυναικός, οὐχὶ τἀνδρὸς ἡ γυνή. καίτοι τόδ᾽ αἰσχρόν, προστατεῖν γε δωμάτων γυναῖκα, μὴ τὸν ἄνδρα: κἀκείνους στυγῶ τοὺς παῖδας, ὅστις τοῦ μὲν ἄρσενος πατρὸς οὐκ ὠνόμασται, τῆς δὲ μητρὸς ἐν πόλει. ἐπίσημα γὰρ γήμαντι καὶ μείζω λέχη τἀνδρὸς μὲν οὐδείς, τῶν δὲ θηλειῶν λόγος. ὃ δ᾽ ἠπάτα σε πλεῖστον οὐκ ἐγνωκότα, ηὔχεις τις εἶναι τοῖσι χρήμασι σθένων᾽

τὰ δ᾽ οὐδὲν εἰ μὴ βραχὺν ὁμιλῆσαι χρόνον. ἡ γὰρ φύσις βέβαιος, οὐ τὰ χρήματα. ἡ μὲν γὰρ αἰεὶ παραμένουσ᾽ αἴρει κακά: ὁ δ᾽ ὄλβος ἀδίκως καὶ μετὰ σκαιῶν ξυνὼν ἐξέπτατ᾽

923-26

οἴκων.

σμικρὸν

ἀνθήσας

χρόνον.

ἃ δ᾽ ἐς γυναῖκας (παρθένῳ γὰρ οὐ καλὸν λέγειν) σιωπῶ, γνωρίμως δ᾽ αἰνίξομαι. ὕβριζες, ὡς δὴ βασιλικοὺς ἔχων δόμους κάλλει © ἀραρώς. ἀλλ᾽ ἔμοιγ᾽ εἴη πόσις μὴ παρθενωπὸς ἀλλὰ τἀνδρείου τρόπου. τὰ γὰρ τέκν᾽ αὐτῶν "Apeog ἐκκρεμάννυται, τὰ δ᾽ εὐπρεπῆ δὴ κόσμος ἐν χοροῖς μόνον. Epp’, οὐδὲν εἰδὼς ὧν ἐφευρεθεὶς χρόνῳ δίκην δέδωκας. - ὧδέ τις κακοῦργος ὧν



161—

GLENN

W. MOST

μή por τὸ πρῶτον Bin’ ἐὰν δράμῃ καλῶς νικᾶν δοκείτω

τὴν Δίκην,

πρὶν ἂν πέρας

γραμμῆς ἵκηται καὶ τέλος κάμψῃ

βίου.

972 {HA.}

ὅπου δ᾽ ᾿Απόλλων σκαιὸς ᾧ, τίνες σοφοί;

1013-14 {KA.}

καίτοι δόξ᾽ ὅταν λάβῃ κακὴ γυναῖκα, γχώσσῃ πικρότης ἔνεστί τις.

1015-17 {KA.}

τὸ πρᾶγμα δὲ μαθόντας, ἢν μὲν ἀξίως μισεῖν ἔχῃ» στυγεῖν δίκαιον: εἰ δὲ μή, τί δεῖ στυγεῖν;

1035-40 {KA.}

μῶρον μὲν οὖν γυναῖκες, οὐκ ἄλλως λέγω ὅταν δ᾽, ὑπόντος τοῦδ᾽, ἁμαρτάνῃ πόσις τἄνδον παρώσας λέκτρα, μιμεῖσθαι θέλει γυνὴ τὸν ἄνδρα χἄτερον κτᾶσθαι φίλον. κἄπειτ᾽ ἐν ἡμῖν ὁ ψόγος λαμπρύνεται, οἱ δ᾽ αἴτιοι τῶνδ᾽ οὐ κλύουσ᾽ ἄνδρες κακῶς.

1052-54{Xo.}

γυναῖκα γὰρ χρὴ πάντα συγχωρεῖν πόσει, ἥτις φρενήρης: ἧ δὲ μὴ δοκεῖ τάδε, οὐδ᾽ εἰς ἀριθμὸν τῶν ἐμῶν ἥκει λόγων.

1072-75 {HA.}

γυνὴ δ᾽ ἀπόντος ἀνδρός ἥτις ἐκ δόμων ἐς κάλλος ἀσκεῖ, διάγραφ᾽ ὡς οὖσαν κακήν. οὐδὲν γὰρ αὐτὴν δεῖ θύρασιν εὐπρεπὲς φαίνειν πρόσωπον, ἤν τι μὴ ζητῇ κακόν.

1084-85 {HA.}

τὰ γὰρ κακὰ παράδειγμα τοῖς ἐσθλοῖσιν εἴσοψίν τ᾽ ἔχει.

1097-99 {HA.}

[ὅστις δὲ πλοῦτον

ἢ edyéverav

εἰσιδὼν

γαμεῖ πονηρὰν μῶρός ἐστι: μικρὰ γὰρ μεγάλων

ἀμείνω μ'

σώφρον᾽

ἐν δόμοις λέχῃη.]

1100-1{Xo.}

[τύχη γυναικῶν ἐς γάμους. τὰ μὲν γὰρ εὖ, τὰ δ᾽ οὐ καλῶς πίπτοντα δέρκομαι βροτῶν.]

1103-4{KA.}

ἔστιν δὲ καὶ τόδ᾽. οἱ μέν εἰσιν ἀρσένων, οἱ δ᾽ αὖ φιλοῦσι μητέρας μᾶλλον πατρός.

1131 {HA.}

πένητας

1169 {Xo.}

νέμει

1357-59 {Xo.}

4

οὐδεὶς

βούλεται

,

4.

κτᾶσθαι

©

,

tor δίκαν θεός, ὅταν τύχῃ"

χαίρειν δ᾽ ὅστις δύναται καὶ ξυντυχίᾳ μή τινι κάμνει

θνητῶν εὐδαίμονα πράσσει.



162—

φίλους.

EURIPIDE O TNQMOAOTIKQTATOZ

2. Eschilo, Coefore 59-65 {Xo.}

τὸ δ᾽ εὐτυχεῖν,

τόδ᾽ ἐν βροτοῖς θεός τε καὶ θεοῦ πλέον’ ῥοπὰ δ᾽’ ἐπισκοτεῖ δίκας ταχεῖα τοῖς μὲν ἐν φάει, τὰ δ᾽ ἐν μεταιχμίῳ σκότου μένει χρονίζοντα (ἄχη) fpver τοὺς δ᾽ ἄκραντος ἔχει νύξ. 71-74 {Xo.}

θιγόντι δ᾽ οὔτι νυμφικῶν ἑδωλίων ἄκος, πόροι τε πάντες ἐκ μιᾶς ὁδοῦ «ξυμ»βάλλοντες, τὸν χερομυσῆ φόνον καθαίροντες, ἴθυσαν «μ»άταν.

103-4 {HA.}

τὸ μόρσιμον γὰρ τόν 7’ ἐλεύθερον μένει καὶ τὸν πρὸς ἄλλης δεσποτούμενον χερός.

313 {Xo.}

«δράσαντι παθεῖν», τριγέρων μῦθος τάδε φωνεῖ.

324-31 {Xo.}

τέκνον, φρόνημα τοῦ θανόντος οὐ δαμάGer πυρὸς μαλερὰ γνάθος, φαίνει 6’ ὕστερον ὀργάς. ὀτοτύζξεται δ᾽ ὁ θνήσκων, ἀναφαίνεται δ᾽ ὁ βλάπτων: πατέρων δὲ καὶ τεκόντων γόος ἔνδικος ματεύει, τὸ πᾶν ἀμφιλαφὴς ταραχθείς.

340-41

ἀλλ᾽ Er’ ἂν ἐκ τῶνδε θεὸς χρήξζων θείη κελάδους εὐφθογγοτέρους:

{Xo.}

400-4 {Xo.}

ἀλλὰ νόμος μὴν φονίας σταγόνας χυμένας εἰς πέδον ἄλλο προσαιτεῖν αἷμα: βοᾷ γὰρ λοιγὸς Ἐρινὺν παρὰ τῶν πρότερον φθιμένων ἄτην ἑτέραν ἐπάγουσαν ἐπ’ ἄτῃ.

505-7

παῖδες γὰρ ἀνδρὶ κληδόνος σωτήριοι θανόντι: φελλοὶ δ᾽ ὡς ἄγουσι δίκτυον.

{Op.}

τὸν ἐκ βυθοῦ κλωστῆρα σῴζοντες λίνου. 585-601

{Xo.}

πολλὰ μὲν γᾶ τρέφει δεινὰ

(καὶ) δειμάτων

ἄχη,

πόντιαί τ’ ἀγκάλαι κνωδάλων ἀνταίων βρύουσι (πλάθουσι)})-: βλάπτουσι καὶ πεδαίχμιοι λαμπάδες πεδάοροι, πτανά τε καὶ πεδοβάμονα κἀνεμόεντ' ἂν



163—

GLENN W. MOST

αἰγίδων φράσαι κότονἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀνδρὸς φρόνημα τίς λέγοι καὶ γυναικῶν φρεσὶν τλαμόνων {καὶ} παντόλμους ἔρωτας, ἄταισι συννόμους βροτών; ξυζύγους δ᾽ ὁμαυλίας θηλυκρατὴς ἀπέρωπος ἔρως παρανικᾷ κνωδάλων τε καὶ βροτῶν. 629-30 {Xo.} 635-37 {Xo.}

τίω δ᾽ ἀθέρμαντον ἑστίαν δόμων, γυναικείαν ἄτολμον αἰχμάν. θεοστυγήτῳ

δ᾽ ἄχει

βροτῶν ἀτιμωθὲν οἴχεται γένος: σέβει γὰρ οὔτις τὸ δυσφιλὲς θεοῖς. 646-52 {Xo.}

Δίκας δ᾽ ἐρείδεται πυθμήν, προχαλκεύει δ᾽ Αἶσα dacyavovpyöcτέκνον δ᾽ ἐπεισφέρει δόμοις αἱμάτων παλαιτέρων tiver μύσος χρόνῳ κλυτὰ βυσσόφρων Ἐρινύς.

666-67 {Op.}

εἶπε θαρσήσας ἀνὴρ πρὸς ἄνδρα κἀσήμηνεν ἐμφανὲς τέκμαρ.

702-3 {Op.}

τί γάρ

ξένου ξένοισίν ἐστιν εὐμενέστερον; 755-57 {Tp.}

οὐ γάρ τι φωνεῖ παῖς ἔτ᾽ ὧν ἐν σπαργάνοις, εἰ λιμός ἢ δίψη τις ἢ λιψουρία ἔχει: νέα δὲ νηδὺς

αὐτάρκης

τέκνων.

773 {Xo.}

ἐν ἀγγέλῳ γὰρ κυπτὸς ὀρθοῦται λόγος.

780 {Xo.}

μέλει θεοῖσιν ὧνπερ ἂν μέλῃ πέρι.

902 ({Πυ.}

ἅπαντας ἐχθροὺς τῶν θεῶν ἡγοῦ πλέον.

920 {KA.}

ἄλγος γυναιξὶν ἀνδρὸς εἴργεσθαι, τέκνον.

921 {Op.}

τρέφει δέ γ᾽ ἀνδρὸς μόχθος ἡμένας ἔσω.

958-60 {Xo.}

κρατεῖ nos τὸ θεῖον ἵ παρὰ τὸ μὴ È ὑπουργεῖν κακοῖς: ἄξιον (δ᾽} οὐρανοῦχον ἀρχὰν σέβειν.

1005-6 {Op.}

τοιάδ᾽ ἐμοὶ ξύνοικος ἐν δόμοισι μή

— 164—

EURIPIDE O ΓΝΩΜΟΛΟΓΙΚΩΤΑΤΟΣ

1018-19 (Χο)

γένοιτ᾽. dioipunv πρόσθ«εν» ἐκ θεῶν ἄπαις. οὔτις μερόπων ἀσινῆ βίοτον διὰ πάντ᾽ «ἂν» ἄτιμος ἀμείψαι.

3. Sofocle, Elettra n

ret

ta

x

,

A

61 {Op.}

δοκῶ

75-76 {Op.}

καιρὸς γάρ, ὅσπερ ἀνδράσιν μέγιστος ἔργου παντός ἐστ᾽ ἐπιστάτης.

145-46 {HA.}

νήπιος ὃς τῶν οἰκτρῶς οἰχομένων γονέων ἐπιλάθεται-

174-75 (Xo.}

ἔτι μέγας οὐρανῷ Ζεύς, ὃς ἐφορᾷ πάντα καὶ κρατύνει:

179 {Xo.}

χρόνος γὰρ εὐμαρὴς θεός:

320 {Xo.}

φιλεῖ γὰρ ὀκνεῖν πρᾶγμ᾽ ἀνὴρ πράσσων μέγα.

398 {Xp.}

καλόν γε μέντοι μὴ ᾽ξ ἀβουλίας πεσεῖν.

415-16 {HA.}

πολλά τοι σμικροὶ λόγοι ἔσφηλαν ἤδη καὶ κατώρθωσαν

466-67 {Xp.} δυοῖν

μὲν, οὐδὲν

ῥῆμα σὺν κέρδει

κακόν-

βροτούς.

τὸ γὰρ δίκαιον οὐκ ἔχει λόγον ἐρίζειν, ἀλλ᾽ ἐπισπεύδει τὸ δρᾶν.

621 {HA.}

αἰσχροῖς γὰρ αἰσχρὰ πράγματ᾽ ἐκδιδάσκεται.

624-25 {HA.}

σύ τοι λέγεις νιν, οὐκ ἐγώ' σὺ γὰρ ποεῖς τοὔργον, τὰ δ᾽ ἔργα τοὺς λόγους εὑρίσκεται.

659 {KA.}

τοὺς ἐκ Διὸς γὰρ εἰκός ἐστι πάνθ᾽ ὁρᾶν.

696-97 {IIa.} βλάπτῃ.

170-71 {KA.}

{Xo.}

ὅταν δέ τις θεῶν ἂν οὐδ’ ἂν ἰσχύων

φυγεῖν.

δεινὸν τὸ τίκτειν ἐστίν: οὐδὲ γὰρ κακῶς πάσχοντι

860

δύναιτ᾽

μῖσος

ὧν τέκῃ

προσγίγνεται.

πᾶσι θνατοῖς ἔφυ μόρος.

864 {Xo.}

ἄσκοπος a λώβα.

916-17 {Xp.}

τοῖς αὐτοῖσί τοι οὐχ αὑτὸς αἰεὶ δαιμόνων παραστατεῖ:



165—

GLENN W. MOST 988-89

{H.}

990-91 {Xo.}

τοῦτο γιγνώσκουσ᾽

ὅτι

ζῆν αἰσχρὸν αἰσχρῶς τοῖς καλῶς πεφυκόσιν. ἐν τοῖς τοιούτοις ἐστὶν ἡ προμηθία καὶ τῷ λέγοντι καὶ κλύοντι σύμμαχος.

1007-8 {Xp.}

[οὐ γὰρ θανεῖν ἔχθιστον, ἀλλ᾽ ὅταν θανεῖν χρήζων τις εἶτα μηδὲ τοῦτ᾽ ἔχῃ λαβεῖν.]

1015-16 {Xo.}

πείθου: προνοίας οὐδὲν ἀνθρώποις ἔφυ κέρδος λαβεῖν ἄμεινον, οὐδὲ vod' σοφοῦ.

1039 ({Ηλ.}

A δεινὸν εὖ λέγουσαν ἐξαμαρτάνειν.

1042

ἀλλ᾽ ἔστιν ἔνθα xi δίκη βλάβην

{Xp.}

φέρει.

1047 {HA.}

βουλῆς γὰρ οὐδέν ἐστιν ἔχθιον κακῆς.

1050-51

{Xp.}

[ἄπειμι τοίνυν" οὔτε γὰρ σὺ τἄμ᾽ ἔπη τολμᾶς ἐπαινεῖν οὔτ᾽ ἐγὼ τοὺς σοὺς τρόπους.]

1082-84

{Xo.}

οὐδεὶς τῶν ἀγαθῶν ζῶν κακῶς εὔκλειαν αἰσχῦναι

θέλοι

νώνυμος, ὦ rail παῖ: 1173

{Xo.}

1219 {Op.}

πᾶσιν γὰρ ἡμῖν τοῦτ᾽ ὀφείλεται

παθεῖν.

τοῦ γὰρ ζῶντος οὐκ ἔστιν τάφος.

1243-44 {Op.}

ὅρα ye μὲν δὴ κἀν γυναιξὶν ὡς "Apns ἔνεστιν. εὖ δ᾽ ἔξοισθα πειραθεῖσά που.

1485-86{HX.}

[tt γὰρ βροτῶν ἂν σὺν κακοῖς μεμιγμένων θνήσκειν ὁ μέλλων τοῦ χρόνου κέρδος φέροι:]

1505-7 {Op.}

χρῆν δ᾽ εὐθὺς εἶναι τήνδς τοῖς πᾶσιν δίκη ὅστις πέρα πράσσειν γε τῶν νόμων θέλοι, κτείνειν: τὸ γὰρ πανοῦργον οὐκ ἂν ἦν πολύ.

-

166—

GUIDO

TESTI GNOMICI

BASTIANINI

DI AMBITO

SCOLASTICO

L’argomento che mi propongo di trattare è quanto mai infido e sfuggente, poiché sia il concetto di ‘testo gnomico’, sia la definizione di ‘ambito scolastico’, non sono univocamente individuabili e risultano suscettibili di molteplici interpretazioni. Per quanto riguarda il concetto di ‘testo gnomico’, può non essere funzionale per la sua individuazione la semplice contrapposizione tra γνώμη e χρεία, per cui la χρεία è una pericope breve di cui è protagonista un personaggio famoso, che risponde sapidamente a una domanda o fa qualcosa di notevole in una determinata situazione, mentre la γνώμη è una frase, una riflessione che si adduce in quanto scritta da un determinato autore, più o meno famoso: la χρεία non è scritta dal personaggio famoso, il cui motto o il cui comportamento è riportato in forma oggettiva; la γνώμη invece è costituita da un testo, che si considera scritto da un autore, sia che il testo esprima il pensiero diretto dell’autore stesso, sia quello di un personaggio creato dalla sua fantasia. Con ciò è evidente che non basta avere di fronte la citazione del testo di un autore, perché si possa parlare di γνώμη: è necessario che il testo in questione abbia un contenuto di portata x

universale, o che esprima un’opinione di carattere generale.

Più sfuggente ancora può risultare la definizione di ‘ambito scolastico’: nell’infinita varietà della documentazione che è sopravvissuta,

in particolare dall'Egitto (tolemaico, romano, bizantino e arabo), non è certo sempre facile individuare i testi collegabili in qualche modo al mondo della scuola e dell’insegnamento. Dobbiamo inoltre tenere presente che nella scuola operavano e producevano testi scritti sia i docenti sia i discenti, e non sempre è agevole distinguere i prodotti degli uni e degli altri sulla base della correttezza ortografica e linguistica. Anche gli insegnanti sbagliavano; si pensi al marchiano e banale errore del maestro che, nel modello proposto allo scolaro, scrive πιστεύεται invece di πιστεύετε: PLitLond 253 (Pack? 2713, LDAB

2642). —

167—

GUIDO

BASTIANINI

Per nostra fortuna, il mondo della scuola nel periodo greco-romano è stato recentemente indagato a fondo da Raffaella Cribiore, che ha prodotto due volumi, diversi e complementari, grazie ai quali è possibile avere un quadro articolato e completo della scuola antica, con particolare attenzione alle testimonianze dirette fornite da papiri, ostraca e tavolette lignee e cerate ritrovate in Egitto: si tratta di Writing, Teachers and Students in Graeco-Roman Egypt, e Gymnastics of the Mind: Greek Education in Hellenistic and Roman Egypt, — e con ciò mi ritengo esonerato dal dilungarmi qui in una sesquipedale bibliografia. Nel primo di questi due volumi, Raffaella Cribiore ci offre (pp.

173-284) un catalogo ragionato di tutti i testi in greco afferenti al

mondo della scuola, che l’Egitto antico ci ha restituito, dal periodo tolemaico a quello arabo; il catalogo, che consta di 412 items, è ordinato per tipologie di contenuto: si tratta di 11 sezioni, che vanno dalle semplici elencazioni di lettere dell’alfabeto fino a testi svilup-

pati ed estesi, che denotano o comportano un livello d’impegno no-

tevole. Quello che, nel catalogo della Cribiore, non è immediatamente esplicito ed evidente per il fruitore, è la distribuzione nel tempo delle varie tipologie di testi. Penso che non sia inutile presentare, in questa sede, le risultanze di una periodizzazione cronologica all’interno di ogni singola tipologia individuata dalla Cribiore. Nello schema seguente, sotto il numero 1 si indica quanti siano i testi di epoca tolemaica (III-I a.C.), sotto il numero 2 quanti siano i testi di epoca romana (I-III d.C.), sotto il numero 3 quanti di epoca bizantina (IV-VI d.C.), sotto il numero 4 quanti di epoca araba (dal VII d.C. in poi; è difficile, per il VII secolo, distinguere con sicurezza quali siano anteriori e quali posteriori alla conquista araba). (R. Cribiore, Writing, Teachers, Students in Graeco-Roman Egypt) Catalogue of School Exercises (1-412) Letters of the Alphabet 1. 2. 3. 4

1-3 4 5-31 32-40

Alphabets 3 1 27 9

1. 2. 3. 4

41 42-58 59-71 72-77

1 17 13 6

! Atlanta, Scholars Press 1996 («American Studies in Papyrology», 36) (= Cribiore!). 2 Princeton-Oxford, Princeton University Press 2001 (= Cribiore?).



168 —

TESTI GNOMICI DI AMBITO SCOLASTICO Syllabaries 1. 2. 3.

Scholia Minora 78 79-80 81-92

4.

93.97

Lists of Words 1. 2. 3.

4.

1 2 12

5

98

1

99.111 112-125

13 14

126-128

1. 2. 3.

4.

᾿

129-130 131-145 146-172 173-174

3

4.

2. 3 4

182.218 219-232 -

0

346-353 354-357

8 4

358-368 369-377 378

0 11 9 1

-

0

Grammar 2 15 27 2

1. 2. 3. 4.

Notebooks

and Limited Amount of Verses 175-181

-

2. 3.

Short Passages: Maxims, Sayings 1.

0 16 3

Compositions, Paraphrases, Summaries 1. 344-345 2

Writing and Copying Exercises 1. 2. 3. 4.

325-340 341-343

7

37 14 0

1.

379.380

2

2.

381-390

10

3. 4.

391-412 -

22 0

Long Passages: Copies or Dictations 1 2. 3. 4.

233-254 255-302 303-323 324

22 48 21 1

Totale dei testi di epoca tolemaica (1.):

..................

42

(10%)

(2.): .....................

177

(43%)

Totale dei testi di epoca bizantina (3.): ...................

166

(41%)

27

(6%)

Totale dei testi di epoca romana

Totale dei testi di epoca araba (4.):

...........

È ovvio che queste risultanze non possono avere un valore assoluto, in quanto si basano su un insieme di dati determinato dalla casualità dei ritrovamenti, con l’aggravante che spesso la datazione dei pezzi è incerta, determinata soltanto dall’esame paleografico, della cui affidabilità talvolta è lecito dubitare: si pensi per es. alla tavoletta lignea Cribiore! 364 (Pack? 2711, LDAB 3868), assegnata dal primo editore al III secolo d.C., ma più probabilmente forse da posdatare al IV.’ Si tenga conto, inoltre, che la determinazione stessa delle ti-

3 Vedi D. SEDLEY, Papiri filosofici. Miscellanea di studi II, Firenze, («STCPF», 9), p. 167 (cfr. CPF 1.1***, Pythagoras 2T, pp. 681-684).



169 —

Olschki

1998

GUIDO

BASTIANINI

pologie e l'attribuzione di un testo all’una o all’altra comporta talvolta un discreto livello di soggettività.

Pur con queste evidenti limitazioni, colpiscono comunque, nel quadro sopra delineato, alcuni fatti. In epoca araba, all’interno di un numero percentualmente più esiguo di testimonianze superstiti, mancano del tutto o quasi i prodotti scolastici di livello più alto, mentre hanno ampia prevalenza prodotti di levatura modesta e francamente elementare. Gli scholia minora al testo di Omero sono attestati per la maggior parte in epoca romana, più scarsamente in epoca bizantina, dove prevalgono le parafrasi; mancano invece nel periodo precedente e in quello successivo. Ma fin qui, nessuno di questi fatti può susci-

tare eccessiva meraviglia. E per quel che riguarda la relativa scarsità di testimonianze scolastiche del periodo tolemaico rispetto a quello romano e bizantino, non si tratterà certo dell’indizio di una minore presenza dell’attività d'insegnamento nell’Egitto alessandrino; piuttosto, si dovrà inquadrare il dato nel fatto più generale della minore sopravvivenza complessiva dei testi del periodo tolemaico. In questo panorama, ci possiamo chiedere ora in quale forma e in quale distribuzione tipologica e cronologica figurino testi scolastici, il

cui contenuto possa definirsi gnomico. Tra le tipologie individuate in

Cribiore!, è in teoria plausibile aspettarci che compaiano testi gno.mici tra i Writing and Copying Exercices, tra gli Short e i Long Passages, tra le Compositions o tra i Notebooks:

e così è, difatti, in mi-

sura non certo trascurabile. Che brani di natura sentenziosa, soprattutto poetici, fossero ampiamente impiegati nella scuola, è cosa ben nota: basti rinviare a Cribiore!, pp. 44-45, e Cribiore?, pp. 178-180 e 192204. In questa sede, senza nessuna pretesa di voler esaurire un tema generale così ampio, vorrei limitarmi soltanto ad alcune osservazioni. E un dato acquisito che nella scuola si utilizzavano, come base di esercizio più o meno avanzato di lettura e scrittura, i testi degli autori, a cominciare (soprattutto) da Omero. I testi usati, comunque, non avevano, necessariamente, un contenuto gnomico: basti pensare a quante volte si trova impiegato come esercizio di scrittura il primo verso dell’Iliade: cfr. per es. PSI Iliade 1 (LDAB 7876). D'altra parte, è innegabile che il contenuto sentenzioso di un passo lo rendeva appetibile per trasmettere nel discente particolari contenuti: perciò non meraviglia, per es., trovare due monostici gnomici nella già citata tavoletta cerata di Londra PLitLond 253 (Cribiore! 383); di contro, in un’altra tavoletta, questa di Milano, PBingen 8 (p. 31, nota 4; LDAB 7989), il trimetro usato per esercizio di scrittura si giustifica esclusi-

vamente come χαλινός, per la sua casuale caratteristica di contenere, almeno una volta, tutte le lettere dell’alfabeto. —

170—

TESTI GNOMICI DI AMBITO SCOLASTICO

Bisogna comunque tener presente che il contenuto gnomico di un passo lo rende, sì, suscettibile di uso nell’ambito della scuola: ma questo principio generale deve essere articolato in una prospettiva complessa. La scuola, da un certo punto di vista, può essere considerata come l’ultimo anello di una catena, che ha al suo inizio la produzione letteraria dei singoli autori e, passando attraverso il pubblico dei fruitori, arriva fino al momento della formazione delle nuove leve attraverso ciò che si ritiene conveniente e meritevole di essere trasmesso e insegnato. Non sarà un fenomeno che si possa concepire come dato ex abrupto in forma definita: nella scuola, comunque, deve essersi determinato, pur nella diversità del tempo e dello spazio, non solo un insieme di autori — e singole opere di autori — che si presentavano agli studenti, ma anche una selezione di particolari passi che, ai vari livelli dell’insegnamento, erano utilizzati per la trasmissione di contenuti utili in particolare, per es., per l’esercizio dell’oratoria, ma anche, più genericamente, per il patrimonio di pensiero considerato necessario all’individuo per essere πεπαιδευμένος. Non è, questo, un processo né semplice né lineare. Di fatto, si nota che, se dall'epoca romana in poi la scuola sembra utilizzare i testi della letteratura non solo attingendo direttamente alle fonti, ma anche utilizzando bacini di raccolta già adatti ad una fruizione finalizzata all’apprendimento scolastico, per l’epoca tolemaica questo fenomeno appare meno decisamente evidente. In epoca tolemaica, non sembrano ancora rigidamente fissate determinate regole, per cui si distingue teoricamente e tecnicamente la χρεία, la γνώμη, la διήγησις."

Fermiamoci ad esaminare alcuni testi scolastici di epoca tolemaica. Sarà forse un caso, ma, di fatto, nel complesso delle pur non tantissime testimonianze, le citazioni di carattere sentenzioso non sono né

prevalenti né inquadrabili in un contesto di produzione libraria in cui si possa presupporre l’esistenza di qualcosa che sia definibile come antologia di brevi passi a carattere gnomico (anche se certamente libri antologici esistevano: per es., PBerol 9772 e 9773 (Pack? 1568 e 1573, LDAB

3753

e 1049).

Un esempio significativo può essere costituito da PCair JE 65445 (Cribiore! 379, Pack? 2642, LDAB 1054), il sussidiario di un maestro (fine III a.C.), che partendo dall’alfabetario elementare arriva fino a comprendere passi estesi di commedia (per finire con semplici tavole aritmetiche e di calcolo monetario): nessuno dei brani di letteratura

4 Cfr. PSI I 85; vedi R.F. Hock - E.N. O’ NEIL, The «Chreia» in the Ancient Rbetoric, I. The Progymnasmata, Atlanta, Scholars Press 1986.

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GUIDO

BASTIANINI

riportati (Omero, Od. V; due excerpta di Euripide, Phoen. e Ino; due epigrammi inquadrabili nell’ambito della corte tolemaica, dei quali

uno è forse attribuibile a Posidippo — Posidipp. *113 -, due brani di commedia adespoti -- PCG VIII tone - CGFP 219 —), nessuno, pochi versi, rivela un carattere tenzioso. Le stesse considerazioni si ‘Papiro Didot’ (Cribiore' 244,

1072-1073 — e uno attribuibile a Stradicevo, oltre a non essere limitato a particolarmente o spiccatamente senpossono fare anche per il cosiddetto LDAB 1048), della metà del II a.C.,

dove il quindicenne Apollonio, fratello di Tolomeo, il κάτοχος del Serapeo di Menfi (UPZ, I, pp. 104-116), ha copiato passi estesi della Medea di Euripide (Pack? 401), dei Kares di Eschilo (Pack? 31) e di una commedia adespota, PCG VIII 1001 (Pack? 1320); sullo stesso rotolo, un amico(?) di Apollonio aveva copiato un altro brano ade-

spoto di commedia, PCG VIII 1000 (Pack? 1319), che risulta copiato di nuovo sul verso dallo stesso Tolomeo insieme a due epigrammi, esplicitamente assegnati a Posidippo, Posidipp. 115-116 (Pack? 1435). Apollonio, alla fine del suo lavoro, ha scritto Ἀρίστων | φιλόσοφος | μαθήματα (recto VI 6-8). Gli scavi di Viereck e Zucker a Philadelphia nel 1909 hanno restituito, tra l’altro, un cospicuo lotto di ostraca di contenuto documentario (BGU, VII 1500-1562), datati dal 13° al 18° anno di un sovrano che è più probabilmente Tolomeo V (192-187 a.C.) che non Tolomeo IV (209-205 a.C.): cfr. PLugdBat XXI (1981) p. 74, C.Ptol.Sklav. II p. 758 sg. Ecco, in quello stesso lotto erano compresi anche cinque pezzi di contenuto letterario, tutti (probabilmente) di un’unica mano, quella di uno studente già esperto di scrittura, che li ha redatti per esigenze scolastiche: PBerol 12318 (Cribiore! 233, Pack? 2603, LDAB 6919) PBerol 12319 (Cribiore! 234, Pack? 1567 LDAB 3864) PBerol 12310 (Cribiore! 235, Pack? 1498+1697, LDAB 4013) PBerol 12311 (Cribiore! 236, Pack? 1575, LDAB 1058)

PBerol 12309: FGE 1686 sgg. = SH 975 (Pack? 1771, LDAB 6926).

L’ultimo della serie non sembra proprio un esercizio di scuola (e in effetti non è raccolto dalla Cribiore): si tratta di un epigramma scurrile, non pienamente leggibile e comprensibile,” però chiaramente diretto contro un tal Kleitorios: se è davvero lo studente che l’ha

5 Ma cfr. E. LIvREA, «ZPE», LXVIII, Gonnelli 1991, I, pp. 259-265.



1987, pp. 21-28 = Studia Hellenistica, Firenze,

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TESTI GNOMICI DI AMBITO SCOLASTICO

scritto, è questa la dimostrazione delle -sue capacità anche nella ... libera composizione poetica. Gli altri ostraca, invece, contengono passi di commedia e di tragedia (Euripide), Omero, Esiodo, Teognide, versi epicarmei, un brano di λόγος Σωκρατικός (CPF 1.1***, pp. 766-768) e altri passi in prosa. Se in tutto questo materiale non mancano i passi

che potremmo definire gnomici, come i versi comici iniziali di PBe-

το 12319 (CGFP 306a-c) o i due passi teognidei trascritti poco più oltre sullo stesso coccio (Theogn. 435 sgg., 25 sg.), altri brani non sono classificabili come sentenze: in PBerol 12319 il passo di commedia CGFP 318 non è una γνώμη, come anche la parte in prosa che si legge alla fine dello stesso coccio non è propriamente una sententia (così la si definisce in Pack? 1567; ‘maxim’ in Cribiore! 234), ma piuttosto un aneddoto. Insomma, l'impressione è che, per l’epoca tolemaica, nella scuola si utilizzasse, certo, materiale letterario a carattere sentenzioso, ma che ciò avvenisse in un contesto di maggiore flessibilità educativa e culturale in genere. La situazione è complessa e non si può pretendere di delinearla in poche parole, che potrebbero risultare fuorvianti. In effetti, i testi greci di scuola che sono sopravvissuti dall'Egitto antico non possono essere esaminati senza un costante riferimento alla

situazione complessiva della civiltà greca, nel suo quotidiano realizzarsi in un contesto di relazioni non solo con la compresente cultura egiziana, ma anche con la situazione generale del mondo greco fuori dall’Egitto, dalle continue trasformazioni delle monarchie ellenistiche allo stabilizzarsi del dominio di Roma -- e poi di Costantinopoli — fino alla situazione terminale della conquista araba. Io penso che nel mondo

culturale dell'Egitto tolemaico, estrema-

mente variegato e sfaccettato a seconda dei luoghi, dei tempi e dei livelli sociali, il problema dell’identità culturale, appunto, avesse una rilevanza primaria di ordine sostanziale: greci (d’Egitto) di fronte a egiziani. Se nella vita quotidiana dovettero essere attuate forme di convivenza integrate e produttive, per quanto non scevre di conflittualità (per es., PYale I 46), di fatto proprio in quel periodo la grecità produsse un modello culturale di ampio respiro, che da Alessandria prende il nome, nel contesto più generale della civiltà greca che esce dai suoi confini storici e dalla prospettiva della polis. La scuola,

comunque la si supponga realizzata, è di per sé, come ho detto, l’ul-

timo anello di una catena di trasmissione culturale: ma può essere an-

che lo stimolo alla produzione di nuove forme letterarie in generale e librarie in particolare, in un mutato contesto di esigenze. E così, dalla fine dell’epoca tolemaica in poi, possiamo assistere al diffondersi di prodotti librari che acquistano un carattere sempre più definito di —

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GUIDO BASTIANINI

‘raccolte’, di ‘sillogi’ che, se non direttamente nella scuola, almeno come fruizione immediata da parte di un’utenza più lontana da approfondite esigenze di cultura, trovano largo gradimento. Si pensi a quel rotolo (Pack? 2085+2086+2857, LDAB 341+783+784), certamente un vero e proprio libro, anche abbastanza elegante, che raccoglie χρεῖαι di vari pesonaggi (fra cui Aristippo, CPF 1.1", 21 IT, p. 243 sg.; Diogene, CPF 1.1, 48 27, p. 94 sg.), le stesse χρεῖαι che troviamo ampiamente attestate in tanti esercizi scolastici.

In Egitto, il greco che veniva appreso negli ultimi secoli precedenti la nostra èra doveva essere una lingua molto più viva rispetto a quella dei periodi successivi, quando il greco era probabilmente sempre più una lingua di studio, che in maniera sempre più evidente era necessario imparare

attraverso l’esercizio, per poter leggere gli autori. E

quali autori? Quelli che una tradizione culturale, recepita e potenziata a livello di scuola, andava via via selezionando, sia nel nome che

nei titoli. Si consideri quanto scarse siano le testimonianze di autori come Diodoro (PSI inv. 6),° Strabone (LDAB 3976, 3978-3980) o Flavio Giuseppe (Pack? 1283 = LDAB 2457); anche un autore come Plu-

tarco non è poi molto rappresentato tra i papiri egiziani (Pack? 1430 = LDAB 3840, Pack? 1431 = LDAB 3842, Pack? 1432 = LDAB 3861; LDAB 3838, 3839, 3841, 3843, 8887). Forse ciò non è casuale: se an-

‘ cora nell’Egitto della nostra èra sono assai più numerosi i ritrovamenti di Senofonte e Platone, di Demostene e Isocrate, di Euripide e Menandro, si può pensare che ci sia una preferenza dovuta non solo ad un riconosciuto e condiviso valore del testo, ma anche ad una educazione scolastica che quel valore tramandava e sosteneva, a scapito di più moderni prodotti letterari. In epoca romana, i ‘greci’ sono tali per accertamento burocratico, come dimostrano i numerosi documenti della pubblica amministrazione; esistono,

come

istituzione, oi ἐν τῷ Μουσείῳ

σιτούμενοι

d-

τελεῖς φιλόσοφοι; gli alessandrini, nella coscienza della loro storia passata, sviluppano un più o meno latente sentimento antiromano, che

talvolta si concretizza in atteggiamenti di provocazione o rivolta contro l’autorità (si vedano i cosiddetti Acta Martyrum Alexandrinorum); nei centri della chora la grecità che vive nelle istituzioni delle zezropoleis si alimenta nell'ambiente del ginnasio e si riverbera nei libri, che anche le κῶμαι della campagna hanno abbondantemente restituito: ma l'impressione è che, da un punto di vista generale, la gre-

6 Ed. M. MANFREDI in ΠΟΙΚΙΛΜΑ. 2001, II, pp. 715-719.

Studi in onore di M. Cataudella, La Spezia, Agorà

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TESTI GNOMICI DI AMBITO SCOLASTICO

cità d’Egitto agisca, parli e scriva a un livello che definire più freddo e costruito rispetto all’epoca precedente potrà risultare banale e approssimativo, ma forse non tutto errato. I testi della scuola sembrano

riflettere questa situazione; e l’uso delle γνῶμαι, come delle χρεῖαι, degli scholia minora, tipologicamente ben connotati, rientra agevolmente in questo quadro.



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PAOLO

CARRARA

LA GNOMOLOGIA ELLENISTICA LE «GNOMAI» DI CARETE E DELLO PSEUDO

EPICARMO

Raccolgo qui qualche riflessione e precisazione, utile a mio avviso anche da un punto di vista metodologico, che può chiarire alcuni problemi concernenti le sentenze (γνῶμαι) di Carete e di Epicarmo (uso volutamente le attribuzioni tradizionali). Esse devono intendersi come

considerazioni previe al lavoro di revisione dei papiri che ci hanno

preservato questa produzione gnomica, lavoro che avrà come esito la

pubblicazione dei testi nella relativa sezione del Corpus dei papiri filosofici greci e latini (CPF). È cosa ovvia e risaputa che l’apporto delle scoperte papiracee alla conoscenza non solo più vasta, ma anche, e direi particolarmente, più approfondita della produzione letteraria greca è stato enorme. Oggi siamo in grado di leggere un numero notevolmente più ampio di testi greci di quanto non fossero in grado di fare ancora gli studiosi della seconda metà del sec. XIX. Anche testi tramandati direttamente attraverso il Medioevo hanno potuto avvantaggiarsi enormemente dei ritrovamenti in ordine ad una migliore e in ogni caso più documentata costituzione del testo. Questo è vero, ovviamente, per la grande letteratura: basterà fare i nomi di Bacchilide, Menandro, Callimaco, ma anche quelli di Euripide e Aristotele. L'ampliamento di conoscenze risulta tuttavia ancora più significativo, se è possibile, per quanto riguarda la valutazione

della cosiddetta letteratura minore. Il pensiero corre subito, ad esem-

pio, ai numerosi frammenti che ci documentano, ora assai meglio di un tempo, la produzione ipomnematica e grammaticale. Nell'ambito di questa letteratura minore, anche se certamente non omologabile a quella produzione di servizio rappresentata da scritti tecnico esegetici, possiamo collocare la produzione gnomologica di cui ci stiamo occupando. Dico solo in un certo senso. Infatti i testi che stiamo prendendo in esame condividono indubbiamente con la letteratura ‘alta’ un certo numero di peculiarità, prima fra tutte l’aspirazione, in che misura coronata da successo è ovviamente un’altra —

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PAOLO CARRARA

questione, ad una compiutezza formale elevata, e comunque iscritta entro una tradizione poetica canonizzata.

Essi d’altro canto, proprio per la loro destinazione e la loro storia, si caratterizzano come testi fluttuanti, privi di quegli agganci e di quei contrassegni che rendono poi riconoscibile un testo letterario alto e che ne garantiscono,

almeno

entro certi limiti, una conserva-

zione tendenzialmente fedele, nella preoccupazione di tramandare il più esattamente possibile anche la veste originale del testo.

La storia dei nostri testi invece si snoda tortuosa e complessa, assumendo a volte perfino un andamento carsico, tale da far ben presto perdere le tracce di che cosa tali testi fossero realmente all’origine. Non siamo infatti in grado di dire se e in che misura essi abbiano, o anche solo abbiano avuto, un vero autore, che ne concepisse interamente il disegno; oppure se essi siano cresciuti un po’ alla volta, per gemmazione e addizioni. E anche quando avremo potuto cominciare ad orientarci fra queste ipotesi, i contorni continueranno sem-

pre a rimanere in parte oscuri e ambigui. Per questo motivo, credo, l’esame di un tale genere di testi e della

tradizione che essi rappresentano consente non solo il recupero di capitoli, ‘new chapters’ per usare un celebre titolo, della letteratura greca, capitoli tutt'altro che secondari nel loro significato storico-culturale. Una tale analisi ci rende altresì possibile formulare alcune considerazioni di principio che permettono di affinare il metodo critico e renderlo più adatto a trattare una produzione letteraria a lungo fraintesa proprio in conseguenza di una certa rigidità della strumentazione critica.

Abbiamo fatto notare che questi testi, diciamo pure queste opere, non hanno un autore noto; intendo dire un autore nel senso tradizionale del termine, come ad esempio Sofocle o Tucidide lo sono dei rispettivi lavori. Esse sono per la verità giunte a noi sotto il nome di antichi poeti, ma il rapporto fra questi poeti, l’opera in quanto tale e le redazioni che ci sono concretamente pervenute è complesso e tutto da delineare. Di conseguenza, esaminando questo tipo di letteratura conviene sempre partire, a mio avviso, non tanto da un’idea di autore e di ‘opera, avendo in mente entità ben precise e determinate, ma tutto sommato formulate secondo criteri generali che rischiano, nel caso specifico, di essere astratti; meglio, piuttosto, sarà cercare di fondarsi

sulla nozione, forse più indefinita e meno soddisfacente, ma probabilmente più redditizia perché più comprensiva, di tradizione letteraria. Sullo sfondo di questo forse un po’ vago, ma utile termine dobbiamo, qualora sia possibile, cercare di collocare e di conseguenza di —

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LA GNOMOLOGIA

ELLENISTICA

interpretare quei prodotti librari, concreti, che in varia forma sono giunti fino a noi. Il momento della ricostruzione della forma originaria di questi scritti e l'eventuale paternità saranno solo una tappa successiva. Bisogna insomma partire dal particolare, dal singolo libro direi, perché la dose di innovazione che il processo di trasmissione di questi testi comporta può essere talmente elevata, e soprattutto talmente strutturale al genere stesso, da non potersi affrontare con i consueti criteri di errore, interpolazione o rifacimento. Procedere in questo modo significherebbe ignorare le dinamiche interne del genere e rischiare quindi di fraintendere, come spesso è avvenuto, la natura del testo di cui ci occupiamo. Conseguentemente si corre anche il pericolo di compromettere ogni ulteriore ricerca sulla veste più antica e, diciamo pure, originaria e sull’eventuale autore. Non a caso, come vedremo dagli esempi che tratteremo tra poco, proprio l'impossibilità documentaria di poter esaminare singoli prodotti librari nella loro concreta individualità, prima quindi che la tradizione papiracea restituisse, sebbene in brandelli, questi testi, la visione di tali autori e scritti era non solo manchevolissima, ma spesso

fortemente erronea e avviata verso vie sostanzialmente improduttive. L’impossibilità, o la grande difficoltà, di valutate correttamente un prodotto culturale, ha spesso determinato non solo conclusioni false e attribuzioni insostenibili, quanto soprattutto un metodo inadeguato

per affrontare il problema. Il caso dei due testi di cui ci stiamo occupando, e la storia recente della loro fortuna, costituiscono al riguardo un significativo paradigma. Il primo testo è costituito dalle Sentenze di Carete. Questo misterioso personaggio era considerato, in passato, un autore tragico post-

euripideo. Negli scarsi resti che gli si potevano attribuire,! infatti, il marchio euripideo era assolutamente evidente. C’era poi un passo di Gregorio di Nazianzo? che sembrava andare proprio in questa direzione: «Ho udito la sapiente tragedia» cui seguono appunto due versi

di Carete, l’attribuzione al quale si evince da una citazione più ampia, col nome appunto di Carete, che si trova nello Stobeo.? Th. Bergk*

! I testi tramandati dalla tradizione indiretta si trovano nei TGF del Nauck, Chares, frr. 1-3. Carete è ovviamente assente dai TrGF di Snell - Kannicht. 2 De virt. 585.

3 Stob. III 17, 13. 4 Poetae Lyrici Graeci, Lipsiae, Teubner 18824, II, p. 372. Si veda inoltre G.A. GERHARD, Χάρητος Γνῶμαι, «SHAW», XIII, 1912, pp. 3-34: 4, nota 8.



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PAOLO CARRARA

e poi, con più chiarezza, Wilamowitz? avevano negato che questi fram-

menti appartenessero a testi teatrali; Wilamowitz poi giudicò che i frr.

1-2 (in trimetri giambici: il fr. 3 è in tetrametri trocaici) provenissero senz'altro da un componimento didascalico appunto in trimetri. La pubblicazione di cinque frammenti papiracei, conservati a Heidelberg e facenti parte di uno stesso volumen, a cura di G.A. Gerhard, nel 1913, ha definitivamente fugato ogni dubbio sulla natura dell’opera alla quale appartenevano almeno i frammenti in giambi. Il

papiro è databile al sec. III a.C. e proviene da cartonnage, forse dalla zona di Hibeh.* Si tratta di una raccolta di sentenze morali, affine per tanti aspetti, diversa per altri, alla raccolta dei Monostici menandrei. Con la raccolta dei Monostici peraltro vi sono anche dei veri e pro-

pri contatti, dato che alcuni versi sono in comune fra le due sillogi. Il testo di Carete, infatti è stato edito da ultimo, da S. Jakel, proprio assieme ai resti papiracei e al testo trasmesso dai mss. medievali dei Monosticha.” Che l’opera testimoniata dal papiro restituisca il testo che circolava come opera di Carete è sicuro. Nel papiro infatti (vv. 22-24 Jäkel) è stato riconosciuto il fr. 2 che lo Stobeo (III 33, 4) attribuiva appunto a Carete. L’identificazione dell’opera e la conseguente possibilità di chiarirne il carattere, tuttavia, aprono un altro problema. Il problema della caratterizzazione dell’opera, problema a cui si alludeva all’inizio. Gerhard dedica a ciò un attento studio, nelle note che accompagnano l’edizione. Non c’è dubbio che si tratti di una raccolta di carattere moraleggiante organizzata per temi. Di un genere molto vicino a quello di alcune antologie compilate sui testi maggiori della letteratura greca - epica, dramma -- e che costituiscono un tipo di produzione edito- ‘ riale ormai studiato e abbastanza noto. Nelle antologie la dinamica di base è piuttosto evidente. Si tratta di estrarre da opere note e, diciamo accreditate -- Omero, Euripide soprattutto — una serie di passi singolarmente significativi nei quali si possono rintracciare delle ‘sentenze’ sui più svariati temi.

5 «Hermes», XXXIV,

1899, pp. 608-609 = Kleine Schriften, IV, Berlin, Akademie Ver-

lag 1962, pp. 79-80. 6 Cfr. GERHARD, cit., pp. 13-14. Sempre da Hibeh provengono i papiri dello Ps.Epicarmo di cui ci occuperemo più avanti.

75. JAKEL ed., Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»). Ricordiamo che nel 1961 era comparsa l’edizione teubneriana di Teognide curata da D. Young che, dopo i testi teognidei, riuniva altri versi sentenziosi, fra i quali anche le Sexztenze di Carete. Young ha poi curato una seconda edizione teubneriana (1971): la prima edizione di Young è nota a Jäkel.



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LA GNOMOLOGIA ELLENISTICA

In scritti come questo del nostro misterioso Carete il rapporto con

le fonti è meno chiaro. Ad un primo sguardo si potrebbe pensare ad un’opera in un certo senso ‘originale’ anche se tutta intessuta di riecheggiamenti di elementi tradizionali. L’opera si presenta probabilmente come un discorso rivolto ad un destinatario, cfr. il παῖ del v. 3. Le sentenze si snodano, a quel che sembra, una di seguito all’altra, occupando un numero variabile, anche se limitato, di versi. In sostanza una sorta di poemetto giambico che si ricollega, quanto a struttura formale, con la tradizione della giambografia arcaica, ad esempio col celebre componimento misogino

di Semonide di Amorgo.

i

Vale la pena però di notare che il contenuto presenta analogie, a volte molto stringenti, non tanto con quanto leggiamo della giambografia arcaica, ma con la produzione tragica, soprattutto euripidea.® Questo fatto non stupisce minimamente. La tragedia, e quella di Euripide in particolare, era infatti divenuto per così dire il nuovo serbatoio di una saggezza largamente diffusa e di carattere in certo senso più moderno e aggiornato. Uno sguardo all’apparato dei /oci paralleli di Jäkel darà la misura di quanto la raccolta di Carete debba alla tragedia attica e di quanto la leghi ad altri scritti. Veniamo ora alle questioni concernenti il problema dell’autore. Il papiro

ci restituisce resti di un unico volume.

Di conseguenza

non

siamo in grado di decidere se il testo conservato rappresenti la copia di un’opera, la cui forma era ben fissata e peculiare: in altre parole, se un autore aveva dato forma a questo scritto morale e i copisti si erano preoccupati di tramandarlo nella sua veste originaria il più integralmente possibile. E infatti possibile anche supporre che i compilatori si siano comportati come solevano agire nei confronti delle raccolte antologiche, attingendo cioè liberamente alle fonti, tagliando e ampliando, e producendo così, di volta in volta, una specie di opera nuova, sebbene di materiale comune, in modo che ogni nuova antologia venisse a costituire, formalmente, un’opera nuova e autonoma.

La singolarità del volume non autorizza grandi illazioni circa l’autore. Fino a prova contraria, finché cioè non emergeranno altri manufatti librari simili, ma non identici al nostro, sarà opportuno con-

8 E in certa misura anche con la commedia. Ma il rapporto con la commedia, per il fatto che non siamo in grado di precisare la cronologia di Carete, deve essere affrontato con grande prudenza e soprattutto con lo sguardo sempre fisso ai problemi di genesi e di storia di queste raccolte.



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PAOLO CARRARA

siderare la nostra opera come uno scritto morale autonomo,

ovvia-

mente fortemente indebitato con le proprie fonti come dimostra, lo abbiamo già rilevato, l'apparato dell’edizione Jäkel. I numerosissimi riecheggiamenti, soprattutto euripidei, ci aiutano tuttavia a trarre qualche conclusione sulla collocazione anche crono-

logica dell’autore o compilatore di questo scritto. Il papiro è databile al sec. III a.C, forse attorno alla metà. Il materiale che in esso si trova attesta, si è visto, un massiccio impiego del teatro euripideo, forse già grazie alla mediazione delle prime raccolte antologiche. L'autore, Carete per noi, ha dunque lavorato con ogni probabilità nel sec. IV. Una accurata, ma doverosa indagine sui testi che in questo componimento Carete riecheggia, permetterà di vedere se e in che misura essi abbiano una storia nelle antologie a noi pervenute e valutare di conse-

guenza il metodo di lavoro dell’autore. Fra tutte queste consonanze tuttavia, una è di particolare interesse.

Almeno in cinque casi il testo di Carete coincide alla lettera, salvo varianti adiafore, con versi della raccolta dei Monosticha menandtei. Si pone ovviamente la domanda: quale può essere il rapporto fra le due raccolte e in subordine che relazione intercorre fra questi versi di Carete e Menandro. Voglio solo fare qui una osservazione che mi pare di un certo significato. La raccolta ‘menandrea’, come dice il suo stesso titolo, si compone di monostici, di versi in cui la sentenza è contenuta in un unico trimetro. In Carete, in almeno un caso (I 22 Jakel) il verso che ha perfetta corrispondenza nei Monosticha (Mon. 136), appare d’altra parte legato con il verso successivo, una proposizione relativa che lo completa.? Lo scritto di Carete, abbiamo visto, si organizza per piccoli gruppi di versi sentenziosi. Nelle altre occorrenze il contesto lacunoso del papiro non consente di cogliere la connessione fra il testo che corrisponde al monostico menandreo e quello che in Carete precedeva o seguiva. Non mi stupirei tuttavia che altri casi rivelassero che il monostico era in Carete incastonato in una sentenza più ampia. Interpretare questo dato non è facile. Si potrebbe tuttavia azzardare un’ipotesi. Visto che nessuno dei monostici in questione sembra aver riscontro con un testo sicuramente menandreo, si potrebbe pensare, fino a prova contraria, che il poemetto giambico di Carete sia fonte della raccolta - o di una raccolta, viste le osservazioni fatte

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complesso dei vv. 22-24, peraltro, è conservato dallo Stobeo, III 33, 4.



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LA GNOMOLOGIA

ELLENISTICA

prima -- di monostici ‘menandrei’. È più semplice infatti pensare che una sentenza, con un suo senso compiuto all’interno di un unico verso,

sia stata disarticolata dal contesto originale per entrare a far parte, così estrapolata e forse talora anche adattata, di un’opera organizzata appunto per monostici; meno credibile, mi sembra, che il monostico sia stato preso e inserito a sua volta in una raccolta che, non prevedendo quella rigida struttura, abbia permesso di fargli crescere intorno ex novo un contesto più ampio. Si tratta più di un’ipotesi di lavoro che di una conclusione, ovviamente. L'indicazione tuttavia merita di essere presa in considerazione e vagliata. Diverso è il caso delle sentenze che la tradizione gnomologica attribuisce ad Epicarmo. Anche a riguardo di queste sentenze, attestate molto più diffusamente nella letteratutra antica di quanto non lo siano quelle di Carete, e già discusse dagli antichi, solo con la pubblicazione di alcuni frammenti di volumi papiracei, anche questi di età ellenistica (secc. III e II a.C.) si può cominciare a toccare con mano con una certa precisione lo stato della questione. Il problema nel suo insieme è stato recentemente discusso, con equilibrio critico e solida

documentazione, da uno studioso tedesco, Rainer Kerkhof.!° In questo suo studio sulla farsa dorica, un capitolo è dedicato appunto anche agli Pseudepicharmea. In particolare viene delineata la storia che ha portato dall’Epicarmo storico, l’autore di brevi drammi comici in dialetto dorico, all’Epicarmo sapiente e moralista, ben attestato nella tradizione ellenistica e romana. I dubbi sulla autenticità di questa produzione sapienziale e filosofico-scientifica attribuita ad Epicarmo non sono stati sollevati dalla filologia moderna. Già gli antichi ipotizzavano autori diversi per alcune raccolte che circolavano sotto il nome di Epicarmo:!! in particolare ad un certo Assiopisto (᾿Αξιόπιστος) erano attribuiti una raccolta di sentenze e un Canone.'? Sicuramente debitore di questo filone

10 R. KERKHOF,

Dorische Posse, Epicharm

und Attische Komödie,

München-Leipzig,

Saur 2001. Il libro riflette una dissertazione dottorale coloniense scritta sotto la direzione di R. Kassel e va quindi letta anche in relazione alla pubblicazione dei testi giunti sotto il nome di Epicarmo, sia genuini che preudoepigrafi, in R. KASSEL - C. AUSTIN (ed.), Poetae Comici Graeci (PCG), I, Berolini-Novi Eboraci, De Gruyter 2001, pp. 8-173: per gli Pseudepicharmea, pp. 138-173. 1 Cfr. Athen. XIV 6484; cfr. PCG I, p. 138 dove si usa appunto il termine Ψευδεπιχάρμεια. Cfr. KERKHOF, cit., p. 79 sgg. 12 Ateneo fa risalire la notizia a Filocoro (FGrHist 328 F 79) e ad Apollodoro di Atene (FGrHist 244 F 226).



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PAOLO CARRARA

di produzione antica che circolava sotto il nome di Epicarmo era l’Epicharmus di Ennio. Il contributo dei papiri a che la questione si potesse porre su basi rinnovate è stato ancora una volta decisivo. In particolare due resti di libri del sec. III a.C., provenienti da Hibeh,!* editi nel 1906 da Grenfell, Hunt e Blass, ci hanno restituito due testi di estremo interesse. Il primo, PHibeh 1 (PCG I, 244, pp. 141-142) appunto, contiene un prologo in tetrametri trocaici da un’opera di tipo sentenzioso in cui si annuncia che lo scritto conterrà γνῶμαι σοφαί utili per diversi campi della vita. Il prologo lascia intravedere anche un sottofondo polemico. L'autore, che si presenta, se pur indirettamente, come Epi-

carmo (v. 13), dice di aver voluto scrivere questo suo componimento

in risposta a quanti lo biasimavano per una presunta incapacità a scrivere le proprie considerazioni in breve spazio.

È difficile dire quanto

di topico vi sia in questa affermazione. Il tono generale del prologo sembra voler accreditare tuttavia la figura di un autore capace di esprimersi con brevità, in aforismi, e non solo di mettere insieme trattazioni vaste e complesse. Il prologo certo avrebbe poco senso se non presupponesse che al lettore fossero noti altri scritti di “Epicarmo’ di mole più vasta e, soprattutto, io ritengo, di struttura e articolazione più complessa. Difficilmente, credo, l’autore di questa introduzione, che doveva aprire ovviamente una raccolta gnomica di monostici (cfr. v. 14: «esprimendosi in un solo [verso]»), avrà inteso riferirsi con ἄλλως μὲν εἴην δεξιός / μακρολόγος δὲ ecc. (vv. 10-11) alla produzione drammatica di Epicarmo, all’Epicarmo autentico per intenderci; credo che la frase, e quindi la circostanza, vera o fittizia qui poco importa, che presiedette alla nascita delle Sentenze, doveva presupporre almeno alcuni degli scritti cui si riferisce Diogene Laerzio,!6 che scrive «Ha lasciato dei commentari in cui parla di scienze naturali, esprime sentenze e tratta di cose mediche»; conosciamo anche dei titoli di opere, attribuite da Filocoro ad altri autori,!” che con ogni probabilità si estendevano per una certa ampiezza: Politeia e Chiron, che saranno, io credo, fra quelle alle quali qui si allude.

13 14 15 16 17

Cfr. Cic. De divin. II 111; PCG I, p. 138. PHibeh 1 e PHibeh 2. Cfr. v. 11 «e che non sarei capace di dire γνῶμαι in breve». Diog. Laert. VIII 78. Cfr. Athen. XIV 6484.

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LA GNOMOLOGIA

ELLENISTICA

Il PHibeh 2 (PCG I, 245, pp. 143-144), anch’esso pubblicato da Grenfell, Hunt e Blass, con l’aggiunta di qualche nuovo frammento a cura di C. Austin,!® pone invece un interessante problema. Si tratta di brandelli di un volume, coevo a quello testimoniato in PHibeh 1, e di carattere anche librario molto simile. Il testo è assai meno ben conservato rispetto a quello del rotolo con il prologo, ma da quanto è dato capire si tratta di una raccolta di sentenze monostiche in tetramentri trocaici il cui carattere è in linea di massima!’ coerente con quanto ci è stato tramandato dalla tradizione antologica. Dall’unico luogo del papiro in cui è conservato l’inizio dei versi (PCG I, 245 fr. a, vv. 4-6) sembra di poter dedurre che le sentenze erano ordinate al-

fabeticamente: i tre versi infatti iniziano tutti con la lettera e. La più naturale inferenza è che il PHibeh 2 conservi parti dell’opera di cui il testo trasmesso da PHibeh 1 era il prologo. In realtà l’attento esame dei due volumi, condotto dal Kerkhof, ha messo in luce che lingua e metro dei due scritti non sono pienamente compatibili, in quanto il testo di PHibeh 2 presenterebbe forme assai meno doriche di quelle del prologo? e in ogni caso lontane dal dorico dell’Epicarmo autentico. Dovremo dunque pensare a due opere simili, ma non identiche, ovvero a scritti i cui titoli sarebbero fra quelli che la tradizione antica ci ha conservato, scritti che sarebbero dunque stati pensati e organizzati in forma gnomologica? Il problema è di delicata trattazione e di difficile soluzione. Che nel loro complesso le raccolte sentenziose attribuite a Epicarmo non siano autentiche è un fatto io credo ormai assodato. Quanto alla valutazione del materiale in esse inserito e conservato, invece, la questione è diversa e si deve ancora accuratamente vagliare ciò che è tramandato. È evidente infatti che questa produzione è strettamente imparentata con quella delle compilazioni antologiche. La tradizione degli scritti antologici, nella loro forma primitiva, è a mio avviso un presupposto necessario di opere del genere e si svolge in qualche modo parallelamente. Come per Carete, tuttavia anche qui sarà importante stabilire in che misura si sia fatto luogo a veri e propri excerpta da autori anti-

18 C. AUSTIN, Comicorum Graecorum Fragmenta in Papyris reperta (CGFP), Berlin, De Gruyter 1973, p. 81. -

19 In realtà alcune sentenze di ‘Epicarmo’ citate dagli scrittori antichi presentano una struttura non di monostico, cfr. PCG I, 254, 255, 267 ecc. 20 Cfr. KERKHOF, cit., p. 95. Alcuni rilievi in tal senso anche nell’apparato di Kassel Austin ad loc. (PCG I, 245, p. 143).



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PAOLO CARRARA

chi, anche di Epicarmo, quindi, e quanto invece riecheggi e rielabori materiale tradizionale, tragico e comico soprattutto. La non perfetta coerenza dei due testi testimoniati dai due fram-

mentari rotoli di papiro riapre poi la questione che abbiamo accen-

nato all’inizio, quella del rapporto, cioè, in questo tipo di letteratura, fra testo in astratto e copie del testo allestite con ogni probabilità con una dose di libertà di gran lunga superiore a quella usata per trasmettere i testi classici della letteratura ‘alta’. Lo studio puntuale di quanto ci rimane nei papiri e il suo confronto con i dati della tradizione medievale consentiranno spero, se correttamente illuminati da un approccio metodico non rigido e il più possibile comprensivo delle dinamiche della trasmissione di tali testi, di restituirci una immagine credibile e concreta di questo importante capitolo della cultura greca.



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CARLO

PERNIGOTTI

OSSERVAZIONI SUL RAPPORTO FRA TRADIZIONE GNOMOLOGICA E «MENANDRI SENTENTIAE» Le Menandri Sententiae, considerate dal punto di vista della tipologia testuale, sono un tipo particolare di antologia gnomologica di sentenze di un solo verso — ordinate secondo l’acrostico alfabetico — variamente rappresentata da redazioni e raccolte diverse a seconda delle fasi della storia del testo; si possono far rientrare nella categoria generale degli gnomologi poetici in quanto presentano alcune delle caratteristiche tipiche della categoria stessa: il materiale testuale (in origine derivante soprattutto da versi della tragedia e della commedia), il taglio del contenuto (appunto, gnomico) ed il carattere antologico, per cui i versi sono estratti dal loro contesto di appartenenza e reinseriti in un nuovo organismo testuale, che coincide con lo gno-

mologio vero e proprio.! Tuttavia, al di là della molteplicità di applicazioni che il termine stesso ‘gnomologio’ presuppone (basti pensare

! Ho proposto una definizione di antologia gnomologica, con particolare attenzione alla complessa realtà dei documenti antichi, in un contributo dal titolo: Axtologie gnomologiche su papiro: materiali per una nuova analisi del problema, destinato ad apparire negli Azzi del XXIII Congresso Internazionale di Papirologia (Vienna, 23-28 Luglio 2001), nel quale ho stilato anche un elenco dei papiri che, a mio parere, contengono raccolte dotate dei caratteri identificativi necessari (p.es., una raccolta di estratti in larga parte di origine tragica o comica suddivisi per sezioni tematiche e identificati mediante vari sistemi di lemmi); si tratta di PPetrie I 3 (sec. III a.C.), PHibeh I 7 (III a.C.), PRossGeorg 19

(II a.C.), PEES (ed. J. BARNS, «CO», XLIV, 1950, pp. 126-137, II a.C.), PSchubart 28 (= PBerol inv. 13680, II a.C.), PBerol inv. 9772 (= BKT V, pp. 123-128, II a.C.), PBerol inv.

9773 (= ΒΚΤ V, pp. 129-130, Il a.C.), POxy XLV 3214 (II d.C.), PHarris II 170 (II d.C.), PSI XV 1476 (preedizione di V. BARTOLETTI, Atti dell'XI Congresso Internazionale di Papirologia (Milano 2-8 settembre 1965), Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere

1966, pp. 1-14 [= ID., Scritti 1933-1976, 1.2, Pisa, ETS Editrice 1993, pp. 535-548], II

d.C.), PBerol inv. 21144 (= ΒΚΤ IX 45, 1111 d.C.), POxy XLII 3005 (IVII d.C.), PSchubart 27+PBerol inv. 21312 (O. BOUQUIAUX-SIMON, Additamenta pour une anthologie mutilée (P.Berol. inv. 21312 + P.Schubart 27), in Proceedings of the XIX" International Con-

gress of Papyrology [Cairo 2-9 September 1989], Cairo, Ain Shams University, Center of Papyrological Studies 1992, I, pp. 461-480, IVIII d.C.).



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CARLO PERNIGOTTI

agli gnomologi filosofici), una volta limitato il campo all’ambito della

gnomologia poetica, rimane un problema di collocazione relativa: si tratta cioè di capire come debba essere valutato il rapporto con le altre forme note di gnomologi e se il confronto consenta di ricavare indicazioni utili per una più precisa definizione del tipo particolare che a noi interessa più da vicino. Questo è necessario soprattutto per due motivi: da un lato la profonda diversità dei destini testuali fra le raccolte di Menandri Sen-

tentiae e gli altri tipi di gnomologi; dall’altro il fatto che il modo più tradizionale di affrontare la questione è quello che ricostruisce un processo meccanico di dipendenza dalle raccolte più elaborate (gli gnomologi poetici divisi per sezioni tematiche e per autori) delle raccolte di Monostici, per loro natura ritenute più banali, più semplici e, quindi, secondarie, in quanto prive di legami tematici interni (l’unico crite-

rio ordinatore è quello dell’acrostico alfabetico), attribuite solo a Menandro, nonostante contengano versi di molti autori, e contraddistinte

dall’assoluta limitazione alla sentenza in un solo verso. Rispetto ad esse, le raccolte più elaborate presenterebbero il materiale in un modo più articolato, ma soprattutto già filtrato e pronto per un'ulteriore estrazione. L'analisi dei motivi della costante e duratura fortuna delle Menandri Sententiae, unico caso di gnomologio ad avere, pur nelle varie redazioni, una continua tradizione testuale che va dalle forme embrionali

conservate in papiri del I d.C. fino all’età bizantina, passando per traduzioni in copto, arabo e slavo, non può andare per ora al di là della semplice ma significativa sottolineatura di un destino profondamente diverso da quello che, per la restante tradizione gnomologica, pone da un lato tutta una serie di papiri che conservano compilazioni di vario tipo ma tutte definibili come antologie gnomologiche poetiche e dall’altro le grandi raccolte tardoantiche (soprattutto lo Stobeo e Orione), che, a loro volta, presentano tratti molto simili e sovrapposizioni testuali a volte notevoli, ma anche profonde differenze, in un quadro che impedisce qualsiasi semplificazione e soprattutto l’identificazione di qualsiasi linea tradizionale univoca.?

2 Per una caratterizzazione della tradizione antica delle Merandri Sententiae, cfr. C.

PERNIGOTTI, Raccolte e varietà redazionali nei papiri dei «Monostici di Menandro», in Papiri Filosofici. Miscellanea di Studi III, Firenze, Olschki 2000 («STCPF»,

10), pp. 171-228;

considerazioni molto importanti sui legami dello Stobeo con la tradizione gnomologica precedente si possono leggere in R.M. PICCIONE, Sulle fonti e le metodologie compilative di Stobeo, «Eikasmos», V, 1994, pp. 281-317.



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TRADIZIONE

GNOMOLOGICA

E «MENANDRI

SENTENTIAE»

Ma la differenza non si registra solamente sul confronto della diversa continuità delle tradizioni testuali: la possibilità stessa di isolare tutta una serie di documenti che si collocano, con tratti diversi ma accomunabili ad una medesima prassi, su di un arco di tempo che dal III sec. a.C. arriva fino allo Stobeo e di seguire in parallelo come tradizione distinta (e più compatta) quella delle raccolte di Menandri Sententiae, per un periodo che, per le forme standard, procede dal IVIII d.C. in avanti ed è quindi almeno in parte sovrapponibile, impone di riconoscere in queste tradizioni manifestazioni già di per sé diverse e concomitanti di un medesimo interesse. D'altra parte non basta la sola convivenza delle due tipologie a permettere di parlare di linee tradizionali di origine ed ispirazione diversa, sebbene il dato debba essere valorizzato: in realtà è solo il confronto testuale che può dare qualche indicazione sul tipo di rapporto fra le tradizioni, e da questo punto di vista, la presenza di materiale in parte comune è di notevole aiuto, ancora di più quando si ha la possibilità di seguire la diffusione di singoli versi e frammenti anche al di fuori degli ambiti di esclusivo interesse gnomologico. Si tratta cioè di valorizzare ogni volta i tratti specifici dei contesti delle citazioni e di cercare di capire se chi ha citato o reimpiegato quei versi dipende da una tradizione individuabile. Penso in particolar modo ai non pochi casi in cui versi si trovano nelle raccolte di Menandri Sententiae, in altre fonti gnomologiche, ed all’interno di opere di altro tipo come semplici citazioni: la lettura meccanica di queste coincidenze porta a tracciare delle linee di dipendenza reciproca, e pre-

suppone un quadro complessivo della tradizione gnomologica molto rigido, caratterizzato dalla tradizionale idea di una grande fonte comune dalla quale tutte le testimonianze gnomologiche successive dipenderebbero in vario modo? Ma, come vedremo, la valorizzazione combinata dei contesti e dell’insieme delle attestazioni mostra come nella maggior parte dei casi le cose sono difficilmente così semplici.

3 Queste teorie sono formulate, seppure in modi diversi da A. ELTER, De gnomologiorum graecorum bistoria atque origine commentatio Part. I, Natalicia Regis Augustissimi Guilelmi II, Imperatoris Germanici, Ab Universitate Fridericia Guilelmia Rhenana, Bon-

nae, ex Caroli Georgi typographeo academico 1893, pp. 5-70 (il primo di numerosi interventi sul tema), che pensava ad un Thesaurus di citazioni dagli autori creato dal filo-

sofo stoico Crisippo come punto di partenza originario di tutta la tradizione gnomologica e di tutte le citazioni poetiche degli autori successivi e da U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Einleitung in die griechische Tragödie, Berlin, Weidmann 1907, p. 171, che ipotizzava l’esistenza di un Ur-Florilegium in cui tutti gli estratti di Euripide sarebbero stati disposti secondo l’ordine alfabetico del titolo delle opere d’origine e dal quale dipenderebbero tutte le citazioni del poeta tragico.



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CARLO PERNIGOTTI

In realtà, si deve immaginare una situazione in cui a disposizione di ciascun compilatore di raccolte, ciascun excerptor, erano svariate opzioni, anche perché la documentazione indica esplicitamente che di autori come Euripide e Menandro (assoluti dominatori del repertorio gnomologico) circolavano in contemporanea opere complete, antologie gnomologiche di vario tipo (e anche non gnomologiche) e versi inglobati nelle Menandri Sententiae: solo avendo in mente un quadro del genere e pensando in modo privo di pregiudizi all’effettiva dispo-

nibilità di ognuno di questi tipi di fonte per figure di compilatori di cui non possiamo tracciare profili precisi, ma nei quali possiamo senz’altro riscontrare una discreta erudizione ed una buona familiarità con i testi che reimpiegavano,* si possono cercare di interpretare i numerosi casi di sovrapposizioni e differenze. Il primo tratto caratteristico dei Monostici di Menandro, l’elemento

testuale e redazionale che li distingue in modo netto dalla restante tradizione gnomologica, non solo antica, è la preferenza assoluta per la sentenza condensata in un unico verso; ed un esempio interessante di confronto fra tradizioni può essere la verifica della disponibilità delle gnomologie antiche a fornire materiale di questo tipo: non solo excerpta lunghi a partire dai quali sia possibile isolare un monostico, ma sentenze di un verso già pronte per essere inserite nelle collezioni di Monostici. E significativamente, il numero dei frammenti presenti nelle raccolte antiche e dotati delle dimensioni adatte all'immediato reimpiego nelle raccolte di Menandri Sententiae non è alto; in un gran numero di brani, per la maggior parte dei casi derivati dalla tragedia o dalla commedia, in trimetri e di argomento gnomico, ma di dimensioni assai diverse, si possono isolare solo pochi casi: PEES

(ed. Barns), col. I 3: Eur. fr. 1017 N.? (incertissimo); col. I 12:

Mon. 388 (anch’esso assai incerto). PBerol inv. 13680, rr. 7-8: CGFP

PBerol inv. 9773, POxy XLV 3214, Eur. fr. del Fenice (= PSI XV 1476, fr.

80.

col. Il 4-5: Anassandride, fr. 71 K.-A. rr. 5-6: Eur. Antiope, fr. 38 Jouan-Van Looy; rr. 7-8: Med. 76). D 13: Apollodoro, fr. 16 K.-A.; fr. E 15: Moschione,

TrGF 97 F 12.

4 La capacità stessa di intervenire sul testo, tagliandolo, modificandolo e riconoscendone una tematica adatta ad un nuovo contesto, o la disponibilità ad essere riutilizzato

anche con semplici interventi di adattamento, parla a favore di un livello di conoscenza degli autori e delle opere utilizzate che fa pensare al coinvolgimento di personalità di un buon spessore culturale e quindi, a non limitarne i possibili ambiti di lettura ed indagine.



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TRADIZIONE GNOMOLOGICA E «MENANDRI SENTENTIAE»

POxy XLII 3005, col. I, r. 6: Men, fr. 701 K.-A. (= Mon. 42); r. 7: Men,

fr. 702, 1 K.-A. (= Mon. 43); τ. 21: Men. fr. 249 K.-A.; col. II, r. 5: Men. Kolax, fr. 10 K.-A. (= Mon. 35); r. 8: Men. fr. *95 K.-A.; r. 12: Men. fr. 298, 1 K.-A.

(cfr. Mon.

8612).

La verifica della relativa scarsitä del fenomeno nella maggior parte degli gnomologi antichi e, di contro, dell’alta densitä di sentenze di un verso confluite nelle collezioni di Menandri Sententiae medievali conservate da una sola di queste raccolte (POxy 3005: ma due dei Monostici sono tramandati anche come parti di ecloghe piü ampie) deve essere sottolineata e deve servire da esempio per l’atteggiamento da tenere nei riguardi di tutta la tradizione gnomologica, senza del resto mai dimenticare tutti gli altri possibili contesti in cui altri versi monostici sentenziosi si trovano, isolati, fuori dall’ambito di raccolte

costituite e quindi, ancor più difficili da collocare.° Se trova nuova e puntuale conferma l’impressione già espressa da altri” circa uno stretto legame fra l’antologia apparentemente solo menandrea di POxy 3005 e la tradizione

dei Monostici,

si afferma però

anche la necessità di

sottolineare il comportamento particolare di questa antologia rispetto

3 Sempre in POxy 3005 era forse presente una versione di Mon. 743 (cfr. fr. 907, 2 K.-A.). Tengo in disparte in questo caso la testimonianza di PBerol inv. 21312 + PSchubart 27 perché ritengo probabile che questo atipico gnomologio abbia estratto i Monostici che riporta (630, 22 [o 16], 27) da una collezione di Merandri Sententiae (il che in

parte pregiudica anche la possibilità di valutare diversamente il frammento di Cheremone lì stesso riportato [TrGF 71 F 20] ed i numerosi casi di sentenze di un verso di cui le paragraphoi permettono di individuare le tracce). 6 In questo ambito dominano i contesti scolastici, ragion per cui molti dei testimoni sono confluiti nella recente raccolta di R. CRIBIORE,

Writing,

Teachers,

and Students in

Graeco-Roman Egypt, Atlanta, Scholars Press 1996 («American Studies in Papyrology», 36). Si registrano attestazioni di Mon. 9: TColon 21 = Cribiore 216; Mon. 16: MND e MND 552L = Cribiore 396; Mon. 269: TWürzburg 1020 = Cribiore 150; Mon. 455: Tav.

Mus. Périgord inv. 2382 = Cribiore 220; Mon. 517: OVindob K 674 (con versione copta), Pap. XII Jäkel, D. HAGEDORN - M. WEBER, «ZPE», III, 1968, pp. 49-50, Pack? 1322, CGFP 331, M.R.M. HasırzkA, Neue Texte und Dokumentation zum Koptische-Unterricht (MPER, n.s. XVIII), Wien, Hollinek 1990, pp. 201-202, nr. 268 (tav. 94); Mon. 567: PI-

FAO s.n. (tav. lignea bizantina) = Cribiore 159; Mon. 705: PLitLond 253 (con un verso aggiunto: μὴ πᾶσιν εἰκῆ τοῖς φίλοις πιστεύετε) = Cribiore 383; Mon. 732: OClermontGanneau = Cribiore 190; Men. Cith. fr. 10 Sandb.: OClaud 184-187 = Cribiore 194-197.

Numerose anche le attestazioni isolate di una grozze che non è stata conservata dalla tradizione medievale dei Monostici, ma che in quella antica era molto diffusa: ἀρχὴ μεγίστη τοῦ φρονεῖν tà γράμματα, per cui cfr. C. PERNIGOTTI, Appunti per una nuova edizione dei Monostici di Menandro, in Papiri Filosofici. Miscellanea di Studi I, Firenze, Olschki 1997 («STCPF», 8), p. 72 nota 3 e Raccolte, cit., p. 193.

7 Cfr. V. JARCHO, Vor der Neurung bis zum Truismus-Ein Vers, in Papiri Letterari Greci e Latini, a cura di M. Capasso, Galatina, Congedo 1992 («Papyrologica Lupiensia», 1),

pp. 117-124.



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CARLO PERNIGOTTI

alle altre. Si può forse sostenere che POxy 3005 avesse un rapporto privilegiato con la tradizione delle Sententiae, e tentare ancora di più di capire se e come questo legame possa essere interpretato, in termini di influenza o di interazione (sembra difficile credere qui ad un caso); ma non si può ignorare né il fatto che l’incidenza media delle occorrenze di Monostici nelle altre raccolte è più bassa, né che le gromai di un solo verso compaiono in una serie di documenti in cui vi

è una netta preferenza per i frammenti brevi, ma superiori al singolo verso.® Emerge quindi un’indicazione importante: i repertori gnomologici non sono di per sé interscambiabili, e a diverso tipo di antologia può corrispondere un diverso tipo di elaborazione e di materiale testuale.

Questo non significa negare legami e reciproche influenze, ma solo sottolineare la significativa diversità di intenti e di interessi che il po-

tenziale excerptor di Menandri Sententiae ha rispetto a quello che prepara antologie gnomologiche; una diversità che ha vari aspetti (prima fra tutte la rinuncia al criterio tematico per la scelta e la classificazione degli estratti ed alla cura dell’indicazione dell’autore mediante i lemmi), che incide sulla scelta dei repertori e sul modo di utilizzarli, e di cui è indispensabile ricostruire i tratti costitutivi: si tratta di sottolineare il peso che ha per la definizione della fisionomia stessa delle singole raccolte, il tipo di interesse e quindi di scelta che sta loro dietro. Il confronto con lo stato della tradizione gnomologica antica è in qualche modo semplificato (ed in parte condizionato) dal ridotto numero di documenti a disposizione, ma indica una linea di ricerca che si arricchisce di nuovi casi ed ulteriori indicazioni se si confronta il comportamento di numerosi Monostici negli ambiti estranei alla tradizione del testo delle raccolte di Menandri Sententiae. Come detto, 8 In realtà il quadro è più complesso: la preferenza per l’excerptum breve sembra essersi imposta con il tempo,

dato che, p.es., PBerol inv. 9772 presenta estratti anche di

una ventina di versi (coll. III 4-V 1: Eur. Mel. desm. fr. 14 Jouan-Van Looy, e coll V 6VI 7: Eur. Hipp. 403-422). In generale, comunque, nonostante si preferisca l’espressione concisa e pregnante, la misura in cui essa si distende non costituisce un vincolo di nessun tipo: di rado, tuttavia, si ritrovano sentenze di un verso. Questo non vuol dire natu-

ralmente che vi sia una chiusura in quel senso, ma nemmeno che in qualche modo si intenda dare un peso diverso alle diverse ‘dimensioni’ della sentenza stessa. Significativamente diversa è la situazione dei Monostici, in cui la misura del verso unico costituisce nell’arco di tutta la tradizione un vincolo rigido (violato solo in pochi casi). 5 Di cui tra l’altro potrebbe dare prova PSI XV 1476, che contiene (fr. A col. I) un frammento di sei versi dalle Cretesi di Euripide (fr. 5 Van Looy), il cui secondo verso ha

una fortuna gnomologica autonoma e coincide con Mon. 854 esattamente come il primo verso dell’estratto dall’Epangellomenos di Menandro (fr. 126 K.-A., nel fr. B del papiro) corrisponde a Mon. 818.



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TRADIZIONE GNOMOLOGICA E «MENANDRI SENTENTIAE»

le raccolte di Monostici che trovano forma nei diversi periodi della storia del testo sono infatti costituite da un patrimonio testuale composto di versi che in molti casi conoscono tradizioni testuali autonome, seguendo le quali è possibile ricavare dati in più sul tipo di circolazione ed impiego delle raccolte stesse. L’approfondimento di questo aspetto del problema non risponde ad una semplice esigenza di registrare la fortuna dei singoli monostici, ma aiuta a completare il quadro generale della tipologia di diffusione dei versi e delle raccolte gnomologiche e, al tempo stesso, a sottolinearne le significative differenze di origine ed impiego. Ed utilizzando, come punto di vista proprio, il materiale testuale conservato dalle varie redazioni di Menandri Sententiae, che, una volta ricostruito nelle sue peculiarità (alterazioni erronee comprese), risulta più facile da mettere a confronto con le altre occorrenze, si notano dei fenomeni importanti. Sul piano delle fonti vi sono, in effetti, segnali del ricorso a solu-

zioni di diverso tipo; vi è per esempio un discreto numero di versi di tragedia e commedia conservati per tradizione indiretta solo nella tradizione dei Monostici: Mon. 265 [classe T, cap. εἰς μετριότητα]: ἐν è’ εὐπροσηγόροισιν ἔστι τις χάρις = Eur. Hipp. 95. Mon. 498: μηδένα νόμιζε εὐτυχεῖν πρὶν θάνῃ Καὶ : μηδένα κρῖνε εὐτυχῆ πρὶν ἢ θάνῃ U (] πριν αν [ OPetrie 449, 5. conc., 13) = Eur. Troad. 510,

μηδένα νομίζετ᾽ εὐτυχεῖν πρὶν ἂν θάνῃ. Mon. 606 [BC,DH]: ὄντας δὲ θνητοὺς καὶ θνητὰ φρονεῖν χρεών = Eur. Alec. 799 (che ha θνητὰ καὶ).

Valgono anche i casi in cui la tradizione mostra un adattamento di un verso che non ha avuto altra fortuna indipendente: Mon. 354 [U]: θεῷ προσεύχου πημάτων drom. 900: ὦ Φοῖβ᾽ ἀκέστωρ, πημάτων δοίης Mon. 681: πολλοὶ κακῶς πράττουσιν οὐκ πράττοντες οὐ εἰσὶ κακοί K. Cfr. Eur. Hel. σιν οὐ σὺ δὴ μόνος,

λαβεῖν λύσιν. Cfr. Eur. Anλύσιν. ὄντες κακοί U : πολλοὶ κακὸν 464: πολλοὶ κακῶς πράσσου-

La coincidenza diretta ed esclusiva sembra presupporre un rapporto immediato: l’intervento del caso, naturalmente, non può mai essere escluso, ma quello che sembra di intravedere è un dato forte, che

parla a favore della disponibilità delle Menandri Sententiae (ma lo stesso discorso vale per tutte le tradizioni gnomologiche) ad attingere da materiale di varia origine e qualità, affrontato con obiettivi e modalità ogni volta diversi, che ogni volta richiedono un diverso tipo di

rapporto con il testo e, soprattutto, diverse esigenze: nel caso speci—

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CARLO PERNIGOTTI

fico, la necessità di ricavare sentenze di un verso risalendo ai testi ori-

ginali. Come non potevano bastare a supporto della teoria elteriana di un

Thesaurus di estratti poetici capace di condizionare tutte le tradizioni successive le coincidenze nelle citazioni in autori diversi, così, anche

per le tradizioni gnomologiche, la sola coincidenza di passi nei diversi tipi di antologie non basta a ricostruire filiazioni, e la tradizione può prevedere percorsi di volta in volta diversificati, non ultimo quello che porta all'impiego dei testi diretti.!° E anche se un fenomeno del genere lascia tracce abbastanza limitate, proprio la possibilità di individuare una redazione o più ancora un singolo testimone portato

ad intervenire aggiungendo e utilizzando nuove fonti, può servire sia come segnale forte e significativo del livello e del modo di lavorare del singolo testimone, sia come un esempio concreto del modo in cui devono essere valorizzati i contesti identificabili.!! L'importante è non porre delle limitazioni preconcette ad un tipo di tradizione che affonda le sue radici culturali in una prassi per sua stessa natura libera da condizionamenti di sorta e permeabile per definizione alle aggiunte più disparate. In questo senso è sempre importante richiamare alla mente un procedimento caratteristico di ogni fase della trasmissione delle Menandri Sententiae e in sostanza analogo come procedimento: quello della creazione ex novo di nuovi versi sulla base di giri di parole e temi tipici.'? In un tipo di tradizione del genere, che in potenza si integra con-

10 Anche nella multiforme congerie di versi delle diverse redazioni dei Monostici emergono delle preferenze (condivise in parte anche da altre tradizioni): per es. l’A/cesti e, soprattutto, le Fenicie di Euripide. Di recente è stato valorizzato il ruolo e la celebrità particolare che questa singola tragedia aveva nella scuola ed in altri ambiti, ed il fatto che il ricorso continuo ad alcuni testi preferiti (in modo di volta in volta indipendente) sia una prassi da ritenere diffusa nell’antichità: cfr. R. CRIBIORE, The Grammarian’s Choice: the Popularity of Euripides «Phoenissae» in Hellenistic and Roman Education, in Y.L. TOO ed.,

Education in Greek and Roman Antiquity, Leiden-Boston-Köln, Brill 2001, pp. 241-259. Ma l'estrazione e la segnalazioni di parti interessanti, anche per il loro contenuto gnomico, può avvenire in qualsiasi punto della tradizione diretta di un testo, come mostra bene l’esempio del palinsesto di Gerusalemme di Euripide che riporta diverse segnalazioni di sentenze nel margine; cfr. S.G. DAITZ, The Jerusalem Palimpsest of Euripides, Berlin, De Gruyter 1970, p. 10. 11 Nel caso dei monostici che si accordano con la tradizione diretta degli autori di origine, si nota la presenza in particolare dei manoscritti K e U. 12 Quanto di comune possa esserci fra il ricorso a fonti diverse da quelle già selezionate dalle tradizioni precedenti e l'elaborazione di nuovi monostici sulla base di ‘tessere’ appartenenti ad altri versi può essere mostrato dal caso del Mon.

647 πατὴρ ὁ θρέψας

κοὐχ ὁ γεννήσας πατήρ, la cui ultima parte ricalca quella di due versi euripidei: Eur. IT

- 194—

TRADIZIONE

GNOMOLOGICA

E «MENANDRI

SENTENTIAE»

tinuamente con l’apporto di nuove fonti, anche la valutazione del rapporto con le tradizioni gnomologiche più tarde deve essere quindi fatta con prudenza, considerando che in un novero di testi che copre un arco cronologico amplissimo aumentano anche le possibilità che le fonti estraggano versi proprio dalle redazioni dei Monostici. Cercando di recuperare all’interno delle varie tradizioni segnali della fortuna delle Menandri Sententiae, si deve per prima cosa constatare un fenomeno che sembra tipico delle opere di raccolta e delle antologie antiche: la scarsità di riferimenti diretti. Forse a causa della loro natura privata e strumentale, questo tipo di compilazioni vengono scarsamente menzionate, soprattutto in età antica, e non è un caso che

chi ha indagato la storia e l’origine degli gnomologi antichi ha dovuto lavorare, prima dei papiri, su ipotetiche tracce di uso indiretto. Per i Monostici, il quadro è ristretto a due fonti molto tarde, delle quali una si limita a citare il titolo dell’opera; solo nelle ὁμιλίαι εἰς A006vıov

di Dossopatro

(XI sec.) due Monostici

(10 e 48) sono in-

trodotti con la formula ἐν μονοστίχοις Μενάνδρου. Si tratta dell’unica testimonianza esplicita dell’uso del nostro testo legata concretamente alla citazione di alcuni versi: altrimenti, l’unico sistema per identificarne l’impiego è quello testuale. Ma la verifica puntuale del

quadro complessivo delle citazioni pone di fronte ad una molteplice

gamma di fenomeni; dalla riproduzione esatta del singolo verso, alla sua minima modifica interna, fino all’elaborazione profonda, che però non impedisce di riconoscere i contorni del verso originario. Si trovano i medesimi versi citati in contesti disparati, sotto il nome di più autori o anonimi, da soli o all’interno di excerpta più ampli, rispetto al cui assetto generale l’estrazione ha provocato o meno un intervento sul singolo verso estratto.'*

360: ἔσφαζον, ἱερεὺς 8’ ἦν ὁ γεννήσας πατήρ; e 499: σοὶ δ᾽ ὄνομα ποῖον ἔθεθ᾽ è γεννήσας

πατήρ. 13 Versi satirici di Giovanni Catrari a Neofito Prodromeno, due copisti del XIV sec.,

nei quali il primo rinfaccia al secondo l'ignoranza dei testi fondamentali dell’istruzione di base (Men. test. 164 K.-A.): οὐκ ᾿Αριστοφάνην oldev, / οὐκ ἡμέρας Ἡσιόδου, / οὐδὲ τὴν Asoyoviav,/o tà γνωμικὰ Mevavipov,/odè Πίνδαρον avérva,/ody’ ὠμίλησεν Ὁμήρῳ. Cfr. P. MATRANGA, Anecdota Graeca, II, Romae, Bertinelli 1850 (rist. anast. HildesheimNew York, Olms 1971), pp. 675-682; A. DAIN, À propos de Petude des poètes anciens è Byzance, in Studi in onore di U.E. Paoli, Firenze, Le Monnier 1956, pp. 195-201.

14 Ancora affidabile (sebbene incompleto) il riepilogo dei versi che conoscono una tradizione anche al di fuori delle raccolte di Monostici di K. KLAus, Die Adjektiva bei Menander, Leipzig, Harassowitz 1936 («Klassisch-Philologische Studien», 8), pp. V-VI, non sufficientemente integrato dall’apparato dei testimoni dell’edizione di S. JAKEL, Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»).



195—

CARLO PERNIGOTTI

Queste molteplici soluzioni convivono anche all’interno delle medesime tradizioni e nei medesimi contesti, non necessariamente solo gnomologici, ed in questi casi sorprende il fatto che le diverse tipo-

logie di citazione, anche se si trovano a breve distanza l’una dall’al-

tra, non siano individuate per mezzo di sistemi di segnalazione specifici: una citazione è in apparenza del tutto indipendente dall’altra, e all’interno della medesima opera si può trovare lo stesso verso ci-

tato da solo o all’interno di un’ecloga più ampia senza che la cosa meriti una considerazione particolare. Vi sono casi, cioè, in cui le di-

verse citazioni dei medesimi estratti o di parti di essi sembrano formulate in modo del tutto indipendente, il che, in teoria, può far pen-

sare ad un’estrazione operata in fasi distinte e attraverso canali diversi. Esemplare in questo senso il caso del Mon. 53 (riportato solo da B: dp’ ἐστὶ πάντων ἀγρυπνία καλλίστατον), che compare due volte, a breve distanza fra loro nei Progymnasmata di Teone: prima (p. 51, 14 Patillon) il verso è citato da solo e anonimo. Poi (p. 56, 19) ricompare all’inizio di un’ecloga di tre versi con una variante (λαλίστατον per λαλίστερον; il καλλίστατον dei Monostici è senza senso) ed in-

trodotto da nome dell’autore e titolo della commedia (οἷον καὶ παρὰ Μενάνδρῳ ἐν τῇ Χρηστῇ τὸ

διήγημα:

ἐμὲ

γοῦν

Ἐπικλήρῳ, ἄρ᾽ --- λαλίστατον. Εἶτα ἑξῆς

ἀναστήσασα

δευρὶ

προάγεται / λαλεῖν

an’

ἀρχῆς πάντα τὸν ἐμαυτοῦ βίον, Men. fr. 129 K.-A.). Così, la valutazione di questi fenomeni deve confrontarsi con la scarsa attendibilità dei sistemi di indicazione dell’autore, ed in particolar modo

i lemmi, il cui studio comparato evidenzia molto chiara-

mente quanto ridotte siano le possibilità di ricavarne indicazioni oggettive sulle fonti degli estratti cui si riferiscono. Esiste un vero e proprio problema relativo alla prassi di citare i brani poetici nelle opere antiche ed al modo in cui debbano essere valutati: un problema che riguarda la messa a fuoco del ruolo delle citazioni, di quanto il modo in cui sono fatte possa fornire indicazioni precise sulla loro origine, sul peso che avevano nel progetto di ogni autore e, di fatto, anche sulla destinazione dell’opera stessa al cui interno si trovano. Nell'economia di un discorso o di un’argomentazione spesso non trova spazio l'indicazione completa della paternità di un verso che si sta citando: molto spesso l’autore decide di ometterla semplicemente perché non la ritiene funzionale; ma esistono anche molti casi simili a quello visto, in cui la questione è molto meno chiara ed il comportamento contraddittorio: il problema è che non esiste né una regola né una prassi. Plutarco può citare lo stesso verso più volte e alternarne il nome dell’autore o la ‘versione anonima’ senza che sia mai chiaro se si tratti di una scelta consapevole, di un momentaneo vuoto di me—

196 —

TRADIZIONE

GNOMOLOGICA

E «MENANDRI

SENTENTIAE»

moria o di un puro caso: questo è un dato di fatto che emerge dalla semplice lettura dei diversi casi e vale per Plutarco come per qualsiasi altro autore (probabilmente in autori come Plutarco sorprende di più proprio perché si oppone ad una tendenza generale verso l’indicazione accurata dei dati). Ma la stessa situazione si verifica nello Stobeo, nonostante l’aspetto più compilativo che caratterizza la tradizione e la struttura generale di quest'opera impedisca forse di percepire a pieno la somiglianza dei processi. E questo, alla fine, significa che, in una prospettiva tradizionale, non si può fare troppo affidamento sui lemmi; accanto a fenomeni legati alla trasmissione del

testo ed essenzialmente meccanici (i lemmi sono particolarmente esposti ad omissioni modifiche e confusioni), esiste anche la compresenza di diverse strategie, che è essa stessa ereditata dalla tradizione del testo (tante strategie quante le fonti impiegate, in potenza) ma che può anche essere influenzata da altri fattori: dalle raccolte dei papiri fino allo Stobeo, le citazioni dei medesimi brani in contesti diversi come

le sequenze di brani in un’unica fonte presentano una tale molteplicità di tipologie da non essere assolutamente possibile trarne indicazioni positive. E una molteplicità che non si può indagare con criteri meccanici e che, in genere, non fornisce indicazioni attendibili: l’unico che abbia affrontato in modo sistematico il problema della tradizione gnomologica di un autore (Menandro), W. Görler,!° ha colto

scarsi frutti con il suo quadro di filiazioni fra gnomologi basato sulla superata teoria che individuava nelle tipologie dei lemmi nello Stobeo (semplice, tipo Μενάνδρου, e complesso, Μενάνδρου più il titolo della commedia) segnali dell'impiego di diverse fonti gnomologiche: ma anche al di fuori della specifica inattendibilità di un metodo del genere applicato allo Stobeo, proprio la debolezza di un punto di riferimento così condizionato da fattori spesso incomprensibili toglie spazio a qualsiasi possibilità di impiego positivo ed univoco di metodologie che applicano criteri meccanici, ed invita a valutare con estrema cautela il peso stesso delle intestazioni ed attribuzioni di versi a determinati autori (non a caso il più delle volte Euripide e Menandro), considerando quanto facili potevano essere i cambiamenti, le false attribuzioni o le omissioni consapevoli.!”

15 Su cui insistono giustamente gli studi di R.M. PICCIONE, che hanno avuto il merito di sottolineare la varietà di sistemi che la stessa tradizione dello Stobeo conserva: soprattutto Sulle citazioni euripidee in Stobeo e sulla struttura dell’«Anthologion», «RFIC», CKXII,

1994, pp. 175-218.

16 Μενάνδρου Γνῶμαι, Diss. Berlin 1963, pp. 102-149. 17 Il che significa anche che difficilmente si potrà considerare prova sufficiente



197—

CARLO PERNIGOTTI

L’unico criterio veramente affidabile rimane quello testuale, com-

binato comunque alla individuazione dei tratti distintivi di ogni tradizione, laddove la cosa sia possibile: all’interno delle forme gnomologiche, pochi sono i casi comparabili alle Merandri Sententiae, e se sul piano delle singole occorrenze di versi sembra difficile ancora trovare le tracce di citazioni lavorando sui singoli Monostici, la riconoscibilità della forma redazionale fornisce un punto di riferimento unico per seguire le varie fasi della trasmissione, con una peculiarità che

sfugge al rischio di confusioni. In questo

senso,

esiste un caso esemplare

sia per sottolineare la

specificità della tradizione dei Monostici sia per fare luce una volta di più sulla varietà di soluzioni che il quadro complessivo delle tradizioni gnomologiche può riprodurre. Da tempo gli studiosi hanno notato la presenza nello Stobeo di alcune sequenze di versi monostici (e non solo) ordinati secondo l’acrostico alfabetico:! Stob. IV 22b (περὶ γάμου: ὅτι οὐκ ἀγαθὸν τὸ γαμεῖν), 48-56: 48, Βίον καλὸν ζῇς ἂν γυναῖκα μὴ ἔχῃς Mon.

118; Ar.I 60.

49, Aubikov' γυναικὸς ἀγαθῆς (ἐσθλῆς Mon.) ἐπιτυχεῖν οὐ ῥάδιον Mon. 150; Ar.I 68, Slav. 56; Diph. fr. 114 K.-A. 50. Χαιρήμονος: γυναῖκα θάπτειν κρεῖττόν γαμεῖν. Mon. 151; Slav. 57; Chaer. TrGF 71 F 32.

(κρεῖσσόν

Mon.)

ἐστιν» ἢ

51. Φιλήμονος: γαμεῖν ὃς ἐθέλει (M [Stob.] : ὃς θέλει A [Stob.] : ὁ μέλλων Mon.) εἰς μετάνοιαν ἔρχεται Mon. 147; Ar.Ì 66, Slav. 53; PCopt 67-69; Philem. fr. 167 K.-A.

dell’impiego di una raccolta di Menandri Sententiae il fatto che un verso presente anche in una delle redazioni compare attribuito a Menandro, senza titolo della commedia: il caso contrario (cioè una citazione che registri il titolo) ha effettivamente un peso diverso (nel senso che difficilmente il verso può essere stato estratto, in quel caso, da una raccolta

standard di Monostici), ma la semplice intestazione Μενάνδρου o anche l’omissione stessa del nome dell’autore non è sufficiente ad identificare la fonte, come mostra il caso visto

sopra di Teone. 18 A. ELTER, De Gromologiorum graecorum bistoria atque origine commentationis ramenta, Natalicia Regis Augustissimi Guilelmi II, Imperatoris Germanici, Ab Universitate Fridericia Guilelmia Rhenana, Bonn, Georg 1897, pp. 36-37 e O. HENSE, Ioannes (Stobaios), RE, IX.2, col. 2574. Per le sigle impiegate in riferimento alle traduzioni araba e

slava e di alcuni papiri dei Monostici in questa sezione, si veda PERNIGOTTI, Raccolte, cit., p. 174 nota 10 e p. 178 nota 17.



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TRADIZIONE

GNOMOLOGICA

E «MENANDRI

SENTENTIAE»

52. Ἱπποθόου: ζευχθεὶς γάμοισιν οὐκέτ᾽ ἔστ᾽ ἐλεύθερος Mon. 282; Ar.I 134 = Stob. IV 224 (περὶ γάμου’ ὅτι κάλλιστον ὁ γάμος), 13 (Εὐριπίδου ᾿Αντιγόνης), 1 - Eur. Antig. fr. *12, 1 Jouan-Van Looy = Hippoth. TrGF 210 F 3: ζευχθεὶς — ἐλεύθερος 7 ἀλλ᾽ Ev γ᾽ ἔχει τι χρηστόν ἐν κήδει γὰρ div 7 ἐσθλῷ

δέδοικε μηδὲν ἐξαμαρτάνειν.

53. Μενάνδρου: ὅστις γενόμενος (πενόμενος Bentley) βούλεται ζῆν ἡδέὡς, / ἑτέρων γαμούντων αὐτὸς ἀπεχέσθω γάμου Men. fr. 799 K.-A. 54. Θεοδέκτου *** (lac. stat. Hense).

55. παραπλήσιον πρᾶγμ᾽ ἐστὶ γῆρας καὶ γάμος. / τυχεῖν γὰρ αὐτῶν duφοτέρων σπουδάζομεν, / ὅταν δὲ τύχωμεν, ὕστερον λυπούμεθα Adesp. 899 K.-A.

_56. ᾿Αντιφάνους᾽ ὡς (πῶς Kassel) ἐστὶ τοῦ γαμεῖν ἔσχατον τοῦ δυστυχεῖν Ar.I 337; Antiphan. fr. 285 K.-A.

57.1? Μενάνδρου" πατρῷ᾽ ἔχειν δεῖ τὸν καλῶς εὐδαίμονα. / τὰ μετὰ γυναικὸς εἰσιόντ᾽ εἰς οἰκίαν, οὐκ ἀσφαλῆ τὴν κτῆσιν 008’ ἱλαρὰν ἔχει Men. fr. 800 K.-A.,

1-2; Ar.I 255, Slav. 323.

Stob. IV 25 (ὅτι χρὴ τοὺς γονεῖς τῆς καθηκούσης τιμῆς καταξιούσθαι παρὰ τῶν τέκνων, καὶ εἰ ἐν ἅπασιν αὐτοῖς πειστέον), 30-33: 30. Φιλήμονος: βούλου γονεῖς πρώτιστον (πρὸ παντός T fort. Slav. : πρὸ πάντων Mon. cett.) ἐν τιμαῖς ἔχειν Mon.

113; Slav. 45; Philem. fr. 168 K.-A.

31. Χαιρήμονος *** (lac. stat. Hense).

314. βεβαιοτέραν φιλίαν ἔχε πρὸς τοὺς γονεῖς Adesp. 901 K.-A; Slav. 37.

32. Μενάνδρου:

δίκας γραφόμενος πρὸς γονεῖς μαίνῃ, τάλαν

Men. fr. 824 K.-A.

33. Δικαιογένους: οἱ γονεῖς

θεὸς μέγιστος (θεοὶ μέγιστοι Mon.) τοῖς φρονοῦσιν

Mon. 331; Ar.I 163, Slav. 146; Dicaeog. TrGF 52 F 5.

1 Questo frammento potrebbe essere aggiunto alla sequenza solo accettando la correzione di Kassel al frammento precedente.



199—

CARLO PERNIGOTTI

Nell’arco di due? sequenze che conservano tanti e tali legami con varie fasi della tradizione dei Monostici, nonostante i punti di contatto e le somiglianze anche impressionanti, emergono delle differenze

a mio parere cruciali: accanto alla presenza di due criteri chiave per identificare una redazione di Menandri Sententiae come l'ordinamento

acrostico alfabetico e la misura del verso unico,” compaiono alcuni elementi talvolta tollerati, come la presenza di ecloghe più ampie, ed altri decisamente incompatibili, come l’indicazione del nome dell’autore, e l’organizzazione tematica; a ciò si aggiungono le molteplici differenze sul piano testuale.? A mio parere non solo non si può parlare di un modello delle fonti delle Menandri Sententiae (Elter), ma

l'appartenenza a iniziative diverse è chiara quanto è netta la diversità di intenti:? se poi vi è coincidenza, anche parziale, nelle sequenze al-

fabetiche il fatto in sé è molto significativo, ma in un altro senso. Non dimostra cioè di per sé l’impiego di una fonte con lo stesso ordinamento né la predisposizione a servire per un’estrazione che ricalchi la stessa sequenza, ma semplicemente che diverse iniziative antologiche possono dare vita in modo indipendente a compilazioni molto simili fra loro (non va dimenticato che il materiale testuale appartiene quasi esclusivamente alla tragedia ed alla commedia) e che l’acrostico alfabetico può essere impiegato come uno dei tanti sistemi di organizzazione.?* Per identificare una tradizione caratterizzata come quella delle Menandri Sententiae, in questo caso possiamo fare affidamento

20 Elter ed Hense segnalano anche IV 26, 8-11, in cui però tre sentenze che si susseguono e che iniziano una in y e altre due in n sono incastonate in mezzo ad altre che non

rispettano nessun ordine alfabetico. 21 D'altra parte lo Stobeo è ricco di simili sequenze di versi, anche se non in ordine alfabetico; per il solo Menandro, cfr. per esempio Stob. III 9 (περὶ δικαιοσύνης), 6-9: frr. 718-721 K.-A., tutti monostici.

22 Qui, per comoditä, ho riportato solo quelle per cui la tradizione dei Monostici & compatta contro lo Stobeo. 23 In linea teorica non si può nemmeno escludere l’ipotesi di una collezione di Monostici in cui siano stati aggiunti i nomi

degli autori, si sia intervenuti sul testo e si

siano selezionati i versi utili al tema specifico. Ma pare un procedimento troppo complesso. 24 Questo vale anche per altri casi di raccolte che si basano su questo sistema: senza stare a coinvolgere operazioni di sicuro spessore letterario (come le sillogi epigrammatiche), basterebbe pensare alle collezioni di bypotheseis di commedie menandree o euripidee restituite dai papiri; si veda a tal proposito il lavoro di M. VAN ROSSUM-STEENBECK, Greek Readers’ Digests? Studies on a Selection of Subliterary Papyri, Leiden-New YorkKöln, Brill 1998, pp. 1-52 (Hypotheses to Tragedies and Comedies): 39-45 (Menandrean Hypotheses), Pap. 23-28. Il ricorrere di metodologie simili non implica l’idea di iniziative editoriali identificabilli solo su questa base; oltretutto, in questo caso, l’acrostico convive

anche con l’organizzazione per temi.



200 —

TRADIZIONE GNOMOLOGICA E «MENANDRI SENTENTIAE»

su un alto numero di riscontri (compreso quello testuale) che, messi

alla prova e combinati, escludono le raccolte conservate nello Stobeo dalla tradizione dei Monostici. Così, in un contesto generale in cui le tradizioni gnomologiche escogitano

comunque

strategie molteplici e convivono

con influssi e

intersezioni di ogni tipo, si individuano due tipi principali di raccolte di materiale gnomico di origine tragica e comica: uno, che ha avuto un’enorme fortuna ma non ha dato vita ad una tradizione unitaria, seleziona i brani per il loro contenuto, in linea di massima privilegia l’espressione breve e icastica, è interessato a fornire dati sull’autore,

sul luogo di origine del brano e a disporre gli estratti per temi generali. L'altro, che con le Menandri Sententiae si è stabilizzato in una

vera e propria tradizione testuale, prevede solo versi monostici disposti per acrostico alfabetico — senza vincoli tematici — e attribuisce tutto a Menandro. Per apprestare raccolte di questo tipo, l’excerptor non si limita ad impiegare le restanti tradizioni gnomologiche, ma ha a disposizione diverse soluzioni: utilizzare quanto l’altro tipo di tradizione conserva e già possiede i parametri richiesti, riadattare il patrimonio gnomico di dimensioni diverse (accorciando, ma anche allungando) e procedere ad una nuova analisi dei testi d’origine, per recuperare solo sentenze di un verso; arrivare, infine, alla fase che poi diventerà preponderante e che contribuirà ad alterare in gran parte la fisionomia ‘originaria’ del testo delle Menandri Sententiae, cioè quella del riadattamento e della creazione di nuovi versi a partire da altri che già fanno parte della tradizione. Quest'ultima fase è caratterizzata dall'intervento di un nuova esigenza, quella che, aumentate le raccolte di Monostici nelle dimensioni complessive, esige di arricchire le sezioni di versi inizianti con una determinata lettera; l’acrostico alfabetico ampio richiede sempre nuove sentenze ed estrarre diventa più complicato, per cui si passa ad una nuova fase di rielaborazione consapevole del materiale esistente.?? Ed è probabile pensare anche in queste fasi al ricorso a varie possibili fonti di aggiunta, completamento o semplice ispirazione: tra di esse, oltre all’adattamento di altri Monostici ottenuto semplicemente modificando la parola incipitaria, si devono immaginare altre possibili tradizioni, e, ancora una volta, non solo gnomologiche; molto presto, infatti, nelle redazioni delle Me-

2 Il peso di questi fenomeni nella conformazione del testo delle Menandri Sententiae è stato messo in luce per la prima volta in modo esemplare da TH. KocK, Die Sammlungen Menandrischer Spruchversen, «RhM», XLI,



1886, pp. 85-117.

201 —

CARLO PERNIGOTTI

nandri Sententiae fanno il loro ingresso versi e temi di ispirazione cristiana. In definitiva, è la possibilità stessa di seguire nelle sue diverse fasi tradizionali un caso unico di gnomologia dotata di tradizione testuale come le Menandri Sententiae che permette di individuare i vari processi di genesi, diffusione e accrescimento di una raccolta che, pur nella sua unicità, serve da confronto per indagare i meccanismi caratteristici delle altre tradizioni gnomologiche, ad essa legate in modi molteplici.



202 —

FRANCESCA

MALTOMINI

THEOGNIDEA Vorrei presentare qui alcune riflessioni sulla circolazione dei componimenti inclusi nella silloge teognidea. Esse prendono spunto e fanno riferimento essenzialmente alle tesi esposte da A. Peretti nel suo importante lavoro sulla tradizione dei Theogridea,! dove si afferma, come noto, l’assoluta centralità delle compilazioni gnomologiche sia per la circolazione dei componimenti della silloge, sia per la genesi della silloge stessa. La scelta di discutere proprio le tesi di Peretti deriva da diversi fattori: l'argomento stesso dell’Incontro di Studio ha avuto, ovviamente, grande peso; ma determinante è stata anche la constatazione che Peretti è l’unico ad essersi occupato approfonditamente (seppure nei limiti e con le modalità che saranno discussi nel par. II) delle testimonianze indirette della silloge per cercare di capirne l’origine e l'ambito di pertinenza. Il suo saggio è il solo in cui vengono affrontati certi aspetti che, per quanto non immediatamente inerenti alla ‘classica’ questione teognidea, ritengo importanti e meritevoli di attenzione: i canali di circolazione e fruizione dei componimenti che ci sono giunti raccolti nella silloge. Una simile problematica porta inevitabilmente con sé la questione della cronologia di formazione della silloge: sarà dunque fra questi due punti (la circolazione dei testi contenuti nella silloge, l’esistenza della silloge stessa già in età imperiale) che si muoveranno le osservazioni proposte. Riassumerò inizialmente le tesi di Peretti in proposito, per poi discuterle in dettaglio più avanti: la silloge fu assemblata molto tardi (probabilmente intorno al IX sec. d.C.), per opera di un compilatore che mise insieme varie raccolte di carattere gnomologico autonome e già esistenti (anzi, il più delle volte molto antiche); proprio da gnomologi o da autori precedenti dipendono tutte le citazioni indirette di parti della silloge da Plutarco in poi.

1 Teognide nella tradizione gnomologica, Pisa, Goliardica 1953.



203 —

FRANCESCA MALTOMINI

Nel primo paragrafo si riconsidereranno due papiri che sembrano minare seriamente gli assunti di Peretti sulla genesi della silloge: ciò che mi propongo è un’analisi degli elementi ricavabili da questi te-

stimoni diretti e una valutazione obiettiva del loro valore. Il secondo paragrafo muove da alcune critiche che credo si debbano portare al

lavoro di Peretti, per tentare di indagare nuovamente - attraverso l’esame di alcune testimonianze indirette — sul quadro tradizionale, in età imperiale e tardo-antica, dei componimenti che della silloge fanno

parte. I. TESTIMONIANZE SIBILI

E PROBLEMI

DIRETTE

DELLA

SILLOGE

TEOGNIDEA:

DATI

ACQUI-

APERTI

Quattro sono i testimoni antichi che ci presentano estratti della

nostra silloge teognidea. Non affronterò nel dettaglio i due ostraka provenienti da Philadelphia e databili al III sec. a.C., PBerol inv. 12319 e PBerol inv. 12310 (Pack? 1567 e 1498/1697 = Cribiore 234 e 235), il cui unico contributo alla conoscenza della tradizione teognidea è il presentare versi compresi nella silloge insieme a brani di autori diversi, senza peraltro essere qualificabili come testi gnomologici.? Più interessanti sono invece due papiri del II-III sec. d.C., che della silloge teognidea presentano non uno ma diversi estratti consecutivi. Il testimone ‘meno ricco’ è PBerol 21220, edito nel 1970 da H. Maehler («ZPE», VI, 1970, pp. 163-165) ma solo recentemente identificato da R. Kotansky («ZPE», XCVI,

1993, pp. 1-5). Il frustolo

conserva, sul verso, parte dei vv. 917-932 della nostra silloge; sopravvivono anche due lettere del verso successivo che sembrano compatibili col v. 933; la sovrapposizione è esigua e troppo poco significativa per affermare con certezza che anche questo verso della silloge compariva nel nostro testimone, ma si tratta comunque

di una possi-

bilità concreta che andrà tenuta nella dovuta considerazione. Queste le caratteristiche materiali del papiro:

? La generica pertinenza ad un medesimo tema (la saggezza) che, secondo la Cribiore, gli undici passaggi (nove in versi e due in prosa) riportati dal primo ostrakon presenterebbero, risulta in realtà estremamente labile e non può essere paragonata a quella che si rintraccia in alcuni gnomologi su papiro (rispetto ai quali mancano anche, nell’ostrakon, indicazioni autoriali o contenutistiche).

Assai meno

ricco e tematicamente

ancor

meno coeso il secondo ostrakor, in cui i vv. 434-438 della silloge (scritti a mo’ di prosa e con un’inversione fra 434 e 435 che ne denuncia la provenienza dalla citazione platonica di Men.

95e) sono seguiti da CGFP *317, incentrato su un diverso argomento.

— 204—

THEOGNIDEA

- il testo che ci interessa si trova, come detto, sul verso; sul recto si leggono poche parole di un documento inedito;

— la mano è piuttosto accurata: sebbene non sia al livello di alcuni testimoni librari coevi, il papiro non fa in alcun modo pensare ad un brogliaccio, qualificandosi, nell’insieme, come una ‘copia d’uso’; - non si trovano lemmi veri e propri: per le ipotesi formulabili sull'annotazione interlineare che trovava posto sopra il v. 931 vedi infra. Veniamo al contenuto del testimone: i vv. 917-932 (gli unici, come si è detto, la cui presenza sia fuor di dubbio) costituiscono la seconda

parte di una lunga elegia (vv. 903-930) e il distico subito successivo. Riporto qui di seguito i versi in questione (includendo per intero l’elegia 903-930; le parti leggibili nel papiro sono in neretto, per il v. 921 si veda l’apposita nota): Ὅστις ἀνάλωσιν

τηρεῖ κατὰ χρήματα

θηρῶν,

903

κυδίστην ἀρετὴν τοῖς συνιεῖσιν ἔχει. εἰ μὲν γὰρ κατιδεῖν

βιότου τέλος ἦν, ὁπόσον τι

ἤμελλ᾽ ἐκτελέσας εἰς ᾿Αίδαο περᾶν, εἰκὸς ἂν ἦν, ὃς μὲν πλείω χρόνον αἶσαν ἔμιμνεν, φείδεσθαι μᾶλλον τοῦτον iv’ εἶχε βίον. νῦν δ᾽ οὐκ ἔστιν. ὃ δὴ καὶ ἐμοὶ μέγα πένθος ὄρωρεν καὶ δάκνομαι ψυχὴν καὶ δίχα θυμὸν ἔχω.

905

910

ἐν τριόδωι δ᾽ ἕστηκα. δύ᾽ εἰσὶ τὸ πρόσθεν ὁδοί μοι’ φροντίζω τούτων ἥντιν᾽ ἴω προτέρην᾽ ἢ μηδὲν δαπανῶν τρύχω βίον ἐν κακότητι,

ἢ ζώω τερπνῶς ἔργα τελῶν ὀλίγα. εἶδον μὲν γὰρ ἔγωγ᾽, ὃς ἐφείδετο κοὔποτε γαστρί σῖτον ἐλευθέριον πλούσιος dv ἐδίδου" ἀλλὰ πρὶν ἐκτελέσαι κατέβη δόμον ἴΑιδος εἴσω, χρήματα δ᾽ ἀνθρώπων οὐπιτυχὼν ἔλαβεν, ὥστ᾽ ἐς ἄκαιρα πονεῖν καὶ μὴ δόμεν ὧι κε θέληι τις. εἶδον δ᾽ ἄλλον, ὃς ἧι γαστρὶ χαριζόμενος χρήματα μὲν διέτριψεν, ἔφη 3 «ὑπάγω φρένα τέρψας» πτωχεύει δὲ φίλους πάντας, ὅπου τιν᾽ ἴδηι. οὕτω, Δημόκλεις, κατὰ χρήματ᾽ ἄριστον ἁπάντων τὴν δαπάνην

915 917 920

θέσθαι καὶ μελέτην ἐχέμεν.

οὔτε γὰρ ἂν προκαμὼν ἄλλωι κάματον μεταδοίης, οὔτ᾽ ἂν πτωχεύων δουλοσύνην τελέοις: οὐδ᾽, εἰ γῆρας ἵκοιο, τὰ χρήματα πάντ᾽ ἀποδραίη. ἐν δὲ τοιῶιδε γένει χρήματ᾽ ἄριστον ἔχειν. ἣν μὲν γὰρ πλουτῆις, πολλοὶ φίλοι, ἢν δὲ πένηαι, παῦροι, κοὐκέθ᾽ ὁμῶς αὐτὸς ἀνὴρ ἀγαθός. Φείδεσθαι μὲν ἄμεινον, ἐπεὶ οὐδὲ

205 —

930

θανόντ᾽ ἀποκλαίει

οὐδείς, ἢν μὴ ὁρᾶι χρήματα λειπόμενα. —

925

932

FRANCESCA MALTOMINI

Testo:

v. 921: il papiro conserva la sequenza di lettere ]vpay@id[ che prospetta una variante rispetto al tràdito ἔφη 8’ ὑπάγω φρένα τέρψας. Kotansky ha proposto di interpretare il testo del papiro come ἐφ᾽ ἡδ]υφάγῳ d[péva τέρψας (con ἡδυφάγος hapax ma testimoniato dall’enniano Hedyphagetica; il verbo ἡδυφαγέω è attestato per la prima volta in Cirillo di Alessandria), basandosi anche sulla lezione del ms. K ἐφ᾽ ἡδυπάγω, Questa ricostruzione pare molto buona sul piano del senso e dell’articolazione della frase, risultando, a mio parere, migliore del testo tràdito (nel quale l’interpretazione di ὑπάγω è problematica). Probabile, quindi, che il papiro conservi il testo genuino, corrottosi in seguito ad un errore di segmentazione delle parole (del processo di corruzione, K attesta una fase intermedia).

Sopra il v. 931 restano tracce di un’annotazione interlineare (]raı‘) inserita, come si deduce dalla mancata variazione dell’interlineo, dopo la stesura del testo; si poteva trattare di una variante, di una glossa o di un’indicazione di altro tipo. Gronewald (apud Kotansky, cit.), ha pensato che si volesse dare un'indicazione di lettura per le parole ἐπεὶ οὐδέ e ha quindi integrato e.g. συναλείφε]ται

o συνεκφώνε]ται

(sic). Queste

proposte

non

mi

sembrano

particolarmente convincenti, specie per la natura abbastanza banale del fenomeno che lo scriba si sarebbe preso cura di segnalare. L’annotazione potrebbe invece riferirsi a tutto il distico seguente (se si trattava di una sola parola, si trovava proprio a centro rigo) ed esprimere, ad esempio, un’osservazione incentrata sui contenuti dei due versi, magari paragonati a quelli dell’elegia precedente, che sviluppava la stessa tematica. Procedendo in questa direzione, si potrebbe ipotizzare che l'annotazione evidenziasse, ad esempio, la diversità delle posizioni espresse nel distico rispetto a quelle dell’elegia. Bisogna comunque sottolineare come il punto che si vede chiaramente in alto dopo lo iota farebbe decisamente pensare ad una correzione o ad una variante (interventi collocati spesso fra punti); se è difficile trovare una parola con terminazione -to1 che potesse rappresentare un’alternativa ad una parte della sequenza di testo sottostante (grosso modo ἄμεινον ἐπεὶ οὐδέ),

è bene tenere comunque presente che l’annotazione poteva, teoricamente, partire anche dall’inizio del rigo ed essere quindi piuttosto estesa (in quest’ottica, potremmo anche ipotizzare che si fosse inserita in interlineo una versione diversa di tutto l’emistichio). Identificare ται con la terminazione di una forma verbale mi sembra in ogni caso la strada più promettente. L’ultimo rigo leggibile nel papiro riporta le lettere co, eventualmente compatibili col v. 933: questo il testo dell’elegia 933-938: Παύροισ᾽ ἀνθρώπων ἀρετὴ καὶ κάλλος ὀπηδεῖ" ὄλβιος, ὃς τούτων ἀμφοτέρων ἔλαχεν. πάντες μιν τιμῶσιν ὁμῶς νέοι οἵ τε κατ᾽ αὐτόν χώρης εἴκουσιν τοί τε παλαιότεροι.

γηράσκων ἀστοῖσι μεταπρέπει, οὐδέ τις αὐτόν βλάπτειν οὔτ᾽ αἰδοῦς οὔτε δίκης ἐθέλει. —

206—

THEOGNIDEA

Il tema dei due componimenti 903-930 e 931-932 è lo stesso e consiste nella problematica φείδεσθαι ἢ δαπανᾶν: l’elegia giunge, attraverso un articolato ragionamento, a sancire che è meglio assumere un modus vivendi intermedio, che eviti sia lo sperpero sia le eccessive privazioni, mentre nel distico si sostiene, in modo piuttosto lapidario, che è meglio risparmiare. Opinioni diverse, dunque, accostate in modo tale che la seconda ha tutta l’aria di una risposta alla prima. Procedimenti di questo genere sono, come si sa, frequentissimi nella silloge teognidea, ma non possono in nessun modo essere considerati un suo tratto esclusivo: un simile abbinamento poteva ben trovarsi in una raccolta di altra natura, uno gnomologio che contenesse, appunto, componimenti sul tema φείδεσθαι ἢ δαπανᾶν o una registrazione simposiale (il ‘botta e risposta’ su uno stesso argomento era uno dei procedimenti più tipici dell’intrattenimento poetico a banchetto). La domanda fondamentale che ci si pone di fronte a questo papiro (i.e.: «abbiamo qui un testimone della stessa silloge teognidea giuntaci da tradizione medievale?», e quindi: «esisteva già la silloge?») rimarrebbe insomma, se ci basiamo su questi due componimenti, senza risposta e dovremmo accontentarci di affermare che in un testimone del II-III sec. d.C. due componimenti della silloge si presentavano nello stesso ordine in cui li ritroveremo in seguito. Questo testimone potrebbe quindi, a livello teorico, essere del tutto autonomo dalla silloge, oppure rappresentare una di quelle raccolte che, secondo la teoria di Peretti, nella silloge sono confluite solo molto più tardi. Tutto ciò se si giudicano irrilevanti le tracce dell’ultimo verso riportato nel papiro; ma se esse corrispondevano effettivamente al v. 933 e, quindi, 933938 seguiva 903-932, il discorso cambia radicalmente, in quanto questo componimento è tematicamente irrelato ai due precedenti: si dovrebbe a questo punto escludere senz’altro l’idea dello gnomologio e formulare delle osservazioni analoghe a quelle che si faranno per il prossimo papiro. POxy XXIII 2380 (Pack? 1497), edito da Lobel nel 1956, è un frustolo che conserva parte dei vv. 254-278 della silloge, corrispondenti a sei componimenti; l’aspetto materiale è del tutto simile a quello del papiro berlinese: il testo è scritto sul verso di un documento, la mano è piuttosto curata senza raggiungere livelli ‘da biblioteca’, mancano lemmi fra un componimento e l’altro (lo spazio interlineare non varia; sull’inaccettabilità di un’ipotesi di M. Gronewald sull’assetto del v. 255 si veda infra). Ecco il testo dei sei componimenti (dal v. 237, inizio della lunga elegia il cui ultimo verso è il primo riportato dal papiro; per il testo —

207 —

FRANCESCA

MALTOMINI

dei vv. 255 e 270 nel papiro si vedano le apposite note; del v. 268 si vede solo una traccia indecifrabile): Σοὶ μὲν ἐγὼ πτέρ᾽ ἔδωκα, σὺν οἷσ᾽ En’ ἀπείρονα πόντον πωτήσηι, κατὰ γῆν πᾶσαν ἀειρόμενος ῥηϊδίως θοίνηις δὲ καὶ εἰλαπίνηισι παρέσσηι ἐν πάσαις πολλῶν κείμενος ἐν στόμασιν, καί σε σὺν αὐλίσκοισι λιγυφθόγγοις νέοι ἄνδρες εὐκόσμως ἐρατοὶ καλά τε καὶ λιγέα

240

ἄισονται. καὶ ὅταν δνοφερῆς ὑπὸ κεύθεσι γαίης

βῆις πολυκωκύτους εἰς ᾿Αίδαο δόμους, οὐδέποτ᾽ οὐδὲ θανὼν ἀπολεῖς κλέος, ἀλλὰ μελήσεις ἄφθιτον ἀνθρώποισ᾽ αἰὲν ἔχων ὄνομα, Κύρνε, καθ’ Ἑλλάδα γῆν στρωφώμενος, ἠδ᾽ ἀνὰ νήσους ἰχθυόεντα περῶν πόντον En’ ἀτρύγετον, οὐχ ἵππων νώτοισιν ἐφήμενος: ἀλλά σε πέμψει ἀγλαὰ Μουσάων δῶρα ἰοστεφάνων. πᾶσι δ᾽, ὅσοισι μέμηλε, καὶ ἐσσομένοισιν

245

250

ἀοιδή

ἔσσηι ὁμῶς, ὄφρ᾽ ἂν γῆ τε καὶ ἠέλιος. αὐτὰρ ἐγὼν ὀλίγης παρὰ σεῦ οὐ τυγχάνω αἰδοῦς, ἀλλ᾽ ὥσπερ μικρὸν παῖδα λόγοις μ᾽ ἀπατᾶις. Κάλλιστον τὸ δικαιότατον" λῷιστον δ᾽ ὑγιαίνειν" πρᾶγμα δὲ τερπνότατον, οὗ τις ἐρᾶι, τὸ τυχεῖν.

254 255

Ἵππος ἐγὼ καλὴ καὶ ἀεθλίη, ἀλλὰ κάκιστον ἄνδρα φέρω, καί μοι τοῦτ᾽ ἀνιηρότατον. πολλάκι

δ᾽ ἠμέλλησα

διαρρήξασα

χαλινόν

φεύγεν ἀπωσαμένη τὸν κακὸν ἡνίοχον. Οὔ μοι ἄλλος ψυχρόν ὥσθ᾽

260

πίνεται οἶνος, ἐπεὶ παρὰ παιδὶ τερείνηι ἀνὴρ κατέχει πολλὸν ἐμοῦ κακίων. μοι παρὰ τῆιδε φίλοι πίνουσι τοκῆες, ἅμα θ᾽ ὑδρεύει καί με γοῶσα φέρει,

ἔνθα μέσην περὶ παῖδα λαβὼν

ἀγκῶν᾽

ἐφίλησα

265

δειρήν, ἡ δὲ τέρεν φθέγγετ᾽ ἀπὸ στόματος. Γνωτή τοι πενίη γε καὶ ἀλλοτρίη περ ἐοῦσα.

οὔτε γὰρ εἰς ἀγορὴν ἔρχεται οὔτε δίκας" πάντηι γὰρ τοὔλασσον ἔχει, πάντηι δ᾽ ἐπίμυκτος,

πάντηι δ᾽ ἐχθρὴ ὁμῶς γίνεται, ἔνθα παρῆι. Ἴσως τοι tà μὲν ἄλλα θεοὶ θνητοῖσ᾽ ἀνθρώποις γῆράς τ᾽ οὐλόμενον καὶ νεότητ᾽ ἔδοσαν. τῶν πάντων δὲ κάκιστον

ἐν ἀνθρώποις -- θανάτου τε

καὶ πασέων νούσων ἐστὶ πονηρότατον -—

208 —

270

THEOGNIDEA

παῖδας ἐπεὶ θρέψαιο

πάντα παράσχοις,

275

χρήματα δ᾽ ἐγκαταθῆις πόλλ᾽ ἀνιηρὰ παθών, τὸν πατέρ᾽ ἐχθαίρουσι, καταρῶν ᾿ται΄ δ’ ἀπολέσθαι καὶ στυγέουσ᾽ ὥσπερ πτωχὸν ἐπερχόμενον.

καὶ ἄρμενα

278

Testo: v. 255 il papiro conserva la sequenza di lettere ] ıcrovro[, incompatibile col testo dei mss. teognidei; si dovrà pensare ad una variante tipo λῷστον τό γ᾽ ὕγειον (Van Groningen) o λῷστον τὸ δ᾽ ὕγειον. Da respingere l’ipotesi di Gronewald («ZPE», XIX, 1975, pp. 178-179) secondo cui la sequenza del papito corrisponderebbe all’inizio del verso (κάλλιστον τὸ) che sarebbe stato notevolmente indentato, a segnalare uno stacco da quanto precede o al fine di ospitare un titolo. A sconsigliare fortemente quest’idea basta l’abnormità stessa dell’ezstbesis presupposta, priva, a quanto pare, di qualsiasi parallelo.? La variante del papiro si affianca ad una tradizione indiretta di 255-256 straordinariamente variegata dal punto di vista testuale: il distico è citato due volte da Aristotele (Ezh. Nic. I 9, 1099a e Eth. Eud.

I 1, 1214a) e una

dallo Stobeo (IV 39, 8). In Aristotele il componimento viene indicato come τὸ Δηλιακὸν ἐπίγραμμα in quanto, si spiega, era iscritto a Delo sui propilei del tempio di Letò. Tutte le citazioni (anche le due aristoteliche) differi-

scono fra loro e dal testo della silloge (il primo emistichio del pentametro suona ἥδιστον δὲ πέφυχ᾽ in Eb. Nic. e πάντων 8’ ἥδιστον in Eih. Eud.); particolarmente distanti risultano la silloge e lo Stobeo (in cui il. distico suona: Κάλλιστον τὸ δικαιότατον ῥᾷστον δ᾽ ἔσθ᾽ ὑγιαίνειν, ἥδιστον δὲ τυχεῖν ὧν τις ἕκαστος ἐρᾷ, col pentametro che è una vera e propria variazione su tema). Di fronte all’oggettiva impossibilità di rendere conto con precisione della genesi di tante e tali differenze, si può almeno osservare che siamo probabilmente di fronte ad un distico proverbiale, per sua natura esposto più di altri a variazioni (anche dovute, come paiono testimoniare le due versioni aristoteliche, a citazioni mnemoniche). Rispetto ad un passaggio testo teognideo + iscrizione di Delo, mi pare più verosimile l'opposto: il distico, proverbiale e anonimo, sarà entrato nella silloge (forse con delle varianti rispetto all’ ‘originale’ delio) in séguito allo stesso meccanismo che ha portato all'inclusione di brani di autori diversi da Teognide (e possiamo ritenere cosa altamente probabile che nella silloge esistano, oltre a quelli noti, molti altri componimenti di questo tipo che non siamo in grado di identificare).

3 L’ipotesi di Gronewald è stata invece accettata da M. VETTA, Teognide e anonimi nella Silloge teognidea, in La letteratura pseudepigrafa nella cultura greca e romana. Atti di un Incontro di studi (Napoli, nota 6.

15-17 gennaio

1998) = «A.LO.N.»,

XXII, 2000, p. 126

4 Su questo distico, le sue varie redazioni e la loro interpretazione vd. anche VETTA, cit., pp. 126-128.



209 —

FRANCESCA

MALTOMINI

v. 256: οὗ del papiro si oppone alla lezione τοῦ dei principali manoscritti teognidei, mentre compare in alcune redazioni di questo distico tramandateci da fonti indirette. v. 270: il papiro riporta una variante rispetto al rep ἦ dei mss. v. 278: ἐπερχόμενον è il testo dei recentiores teognidei; A (Par. Suppl. gr. 388), il ms. più antico e autorevole, ha ἐσερχόμενον.

Sul piano dei contenuti, colpisce in questa sequenza la sua eterogeneità, il susseguirsi e l’accavallarsi di temi diversi: ad un’elegia erotico-simposiale segue un distico gnomico; poi due componimenti a tematica erotica, poi un biasimo della povertà e infine un componimento che sviluppa il tema del dolore recato da figli ingrati. Una raccolta che con la silloge non ha avuto niente a che fare non poteva certo presentare questa stessa bizzarra successione di testi; d’altra parte, il papito ovviamente non fornisce informazioni sicure sull’esistenza dell’intera silloge all’epoca in cui fu vergato. Il dato inconfutabile che nel II-III sec. d.C. esisteva già una simile serie non organica si contrappone però all’idea — portata avanti da chi ipotizza una genesi della silloge in età bizantina — che i ‘salti tematici’ e le incoerenze nella successione dei brani all’interno della silloge siano spiegabili con la sutura (in età bizantina, appunto) di un certo numero di fonti originariamente autonome e con l’imperizia del compilatore che fu responsabile di questo lavoro di collage (ed è difficile non farsi l’idea che collocare la formazione della silloge in età bizantina non risponda proprio al desiderio di giustificare il caos che spesso si riscontra nella silloge stessa: il ragionamento di fondo è che maggiore è il lasso di tempo intercorso fra la creazione dei componimenti e la compilazione della nostra silloge e più sono le fonti entrate in gioco, più confusione può essere giustificata). Così, Peretti pensava che i vv. 271-314 (contenenti una pericope che pare incentrata sulle tematiche svolte da Hes. Erga, 181-202) si fossero incuneati in un’originale pericope gnomica περὶ πενίας che si sviluppava nei vv. 267-270 + 315322, in seguito ad un errore materiale, ad una dislocazione di fogli all’interno di un codice prodottasi in età bizantina.” Se la sequenza riportata dal papiro ha avuto origine da dislocazione o fusione mal-

5 PERETTI, Teogride, cit., pp. 271-274 e 365-366. La sequenza in questione consta di

22 distici: avendo isolato alcune altre sequenze della stessa lunghezza che appaiono omogenee al loro interno ma ‘fuori posto’ rispetto al contesto, Peretti sostenne che «esse sono entrate (nella sede ora occupata all’interno della silloge) in una fase secondaria della silloge teognidea, quali fogli spersi o scambiati di una più antica redazione dove 11 distici si leggevano sul recto e 11 sul verso di ogni foglio» (p. 274).



210 —

THEOGNIDEA

destra di pericopi indipendenti, queste, dobbiamo prenderne atto, si sono verificate prima della data a cui questo testimone risale. Naturalmente, se simili processi di commistione fra nuclei autonomi vanno retrodatati per questi versi, è inevitabile prendere in seria considerazione l’idea che tutte le parti della nostra silloge in cui fenomeni analoghi sembrano verificarsi si presentassero come noi le abbiamo già nello stadio della tradizione a cui il papiro appartiene. Di qui a pensare che tutta la silloge esistesse già il passo non è lungo e dobbiamo chiederci se esistono validi motivi di altro tipo per escludere che essa circolasse a quest'epoca, come presupposto da chi vuole una genesi bizantina. Utili elementi in questo senso potranno venire dalla disamina della tradizione indiretta. Dopo il ritrovamento del papiro, Peretti ha affermato che non si tratta di un testimone della silloge, ma soltanto di una di quelle raccolte ancora autonome in questo stadio tradizionale e aggregatesi uni-

camente per opera del compilatore bizantino. Lo studioso si è trovato pertanto costretto a negare l’opportunità di vedere questa serie di componimenti come il risultato di un processo di stratificazione e a sostenere che sia nata cosi.° Peretti tentò di dimostrare che tutti i componimenti di POxy 2380 sono incentrati sul tema del ti κάκιστον e costituiscono quindi una raccolta omogenea; prova dell’unitarietà e dell’originaria autosufficienza della sequenza sarebbe anche il suo isolamento, all’interno della silloge, rispetto a quanto precede e quanto segue. Le argomentazioni di Peretti risultano deboli sotto molti punti di vista: il soggetto sarebbe ‘proposto’ (Peretti pensa ad una sequenza simposiale: vd. infra) dal distico 255-256, che però affronta esattamente il tema opposto (πρᾶγμα τερπνότατον: strano che a questo tipo di proposta si ‘risponda’ solo per antifrasi); inoltre una delle

6 A. PERETTI, A proposito del papiro di Teognide, «Maia», XIX, 1967, p. 121: «qui si domanda se essi hanno tra loro qualche unità, un nesso formale o tematico che giustifichi l'eventuale autonomia della sequenza, nella tradizione simposiale o florilegica, come un tutto in sé conchiuso». Il problema della stratificazione, che qui si pone per dimostrare l'autonomia del papiro dalla silloge così come ci è giunta, esiste in realtà a prescindere da questo testimone e in relazione a tutta la silloge, costituendo uno dei nodi cruciali della questione teognidea: ci sono state davvero varie aggiunte, fusioni e rimaneggiamenti o la silloge è nata così? Non è mia intenzione di dare una risposta a questo quesito, ma ho l'impressione che la teoria dell’accostamento fra più fonti non basti, da sola, a giustificare tutti i salti e i ‘corsi e ricorsi’ tematici che nella silloge si individuano

con tanta frequenza; c'è qualcosa di profondamente disorganico nella raccolta che noi possediamo, qualcosa che, più che a fattori puramente meccanici (o forse oltre che ad essi),

deve risalire alla natura stessa della silloge o (se davvero è il risultato di un collage) delle sue varie parti.



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FRANCESCA MALTOMINI

risposte (l’elegia 237-254) precederebbe inspiegabilmente la proposta. Per quanto riguarda poi l’isolamento della sequenza rispetto a quanto la circonda nella silloge, basti dire che Peretti teorizza una netta frattura fra 271-278 e 279-282, quando, nell’esporre la sua prima teoria su questa parte della silloge (precedentemente, quindi, al ritrovamento del papiro), aveva voluto dimostrare, come si è visto, la stretta coesione fra i due componimenti, uniti dal comune richiamo esiodeo.

Chi voglia sostenere l'autonomia della serie di componimenti in questione deve poi rendere conto della sua natura. Peretti si pronunciò a favore di una pertinenza simposiale, ma del tutto ex passant e senza alcuna argomentazione. È tuttavia significativo che lo studioso non abbia pensato ad uno gnomologio: troppa la distanza dalla strut-

tura degli gnomologi che conosciamo, sostanziali le differenze grafi-

che fra il nostro papiro e quelli sicuramente gnomologici (specie per l’assenza di lemmi). Le raccolte simposiali che ci sono giunte potrebbero invece avere dei punti di contatto con la nostra sequenza, che include alcuni componimenti che risulterebbero particolarmente adatti al contesto simposiale (la prima elegia, soprattutto, nella quale il simposio è esplicitamente chiamato in causa) e nessuno che sarebbe fuori luogo (sappiamo che vi trovavano posto le grorzai più sobrie così come i versi erotici più salaci); anche l’assenza di lemmi di qualunque tipo sembra essere caratteristica peculiare di tali raccolte (cfr. PBerol 13270 e PTebt I 1 e 2). Lo svolgersi dei temi, d’altra parte, potrebbe lasciare perplessi: ciò che sappiamo del simposio parrebbe indicare un andamento più lineare, con una tematica che viene affrontata e poi abbandonata in favore di un’altra e così via. Una sostanziale disorganicità è tuttavia rilevabile nei due papiri di Tebtynis e si veda, a questo proposito, anche quanto accade nei carmina convivalia Attica riportati da Ateneo 694c-695f (PMG

884-908), che co-

stituiscono, probabilmente, una registrazione simposiale: lì i temi politici, svolti da PMG 893-896 e poi abbandonati in favore di argomenti diversi tornano sul finire della raccolta con PMG 906 e 907; in modo analogo, tre componimenti che affrontano lo stesso argomento (le caratteristiche di un buon amico: PMG

892, 897, 908) si trovano sparsi.

Le nostre conoscenze su come potessero essere concepite e organizzate le raccolte simposiali sono comunque estremamente causa dell’esiguità dei testimoni: nella presente discussione trà quindi andare oltre questa scarna constatazione di pro Il problema di un’eventuale stratificazione deve dunque rere rimanere aperto; per il resto, quanto detto sin qui sul stimone può essere così riassunto: di fronte all’alternativa a) il rotolo da cui il frustolo proviene ospitava l’intera —

212—

limitate a non si poe contro. a mio panostro tesilloge

THEOGNIDEA

b) esso conteneva solo una parte, originariamente autonoma e solo molto più tardi ‘cucita’ insieme ad altre a formare la silloge

posto che non abbiamo elementi decisivi, si dirà che optare per b) non risolve alcuno dei problemi presentati dalla sequenza per quanto riguarda l'accostamento dei brani; la presunta raccolta autonoma non rientra inoltre con sicurezza in nessuna delle tipologie a noi note. II. LE TESTIMONIANZE INDIRETTE: ZIONI DELLA TEORIA GNOMOLOGICA

RIFLESSIONI

SU ALCUNE

IMPLICA-

Come accennato all’inizio di questo lavoro, uno dei capisaldi della tesi gnomologica formulata da Peretti è che nessuno degli autori che citano Teognide da Plutarco in poi ne conoscono direttamente il testo: tutti dipenderebbero o da autori precedenti o da fonti gnomologiche compilate nel primo ellenismo in ambiente stoico o peripatetico. Presupposto di questa teoria è che non esistesse una qualsiasi fonte diretta a cui attingere: né una raccolta di carmi genuinamente teognidei, né, come si è visto, la silloge, assemblata solo molto più tardi. Peretti si riallaccia qui esplicitamente a Elter e alla sua ipotesi sull'esistenza di un fhbesaurus messo insieme da Crisippo, immenso serbatoio di estratti gnomici da cui tutta la letteratura successiva di questo tipo sarebbe derivata. L’assunto generale è che sin da molto presto buona parte della letteratura non si leggesse più nella sua forma originale ma soltanto in forme epitomate e soprattutto tramite florilegi. Sia detto qui brevemente, una simile visione delle cose non ha più, oggi, molto senso: i ritrovamenti papiracei ci hanno mostrato e

continuano a mostrarci come in zone anche molto decentrate circolassero durante tutto l’ellenismo e in età imperiale testi non certo di fruizione corrente o diffusa, materiale che, stando alle tesi cui si è appena accennato, avrebbe dovuto essere scomparso da tempo. Esiste quindi una problematica che investe la circolazione dei testi, in questo caso del testo di Teognide esistente prima della compilazione degli gnomologi i in cui sue parti possono essere state incluse, ma ciò che qui mi interessa prima di tutto è l’aspetto estremamente restrittivo delle posizioni di Peretti e il quadro tradizionale da esse prospettato. Bisogna infatti sottolineare che, secondo Peretti, le varie citazioni indirette di uno stesso passo dipenderebbero di volta in volta dallo stesso gnomologio (uno solo, tràdito attraverso i secoli): si ha quindi una notevole limitazione delle fonti disponibili anche all’interno dello stesso filone gnomologico, il che ci pone di fronte ad una teoria strettamente monogenetica. —

213 —

FRANCESCA MALTOMINI

Lo studioso cerca di mostrare da una parte la dipendenza di più

testimoni indiretti di uno stesso passo da fonti gnomologiche comuni e dall’altra la loro indipendenza dalla silloge. Di fronte alle dimostrazioni di Peretti in questo senso, ci si accorge che il dato puramente testuale viene spesso messo da parte: gli apparentamenti fra i vari testimoni indiretti sono stabiliti fondandosi su elementi esterni, quali il ricorrere di un gruppo più o meno omogeneo di citazioni nell’opera di più autori o la generica familiarità degli autori che citano uno stesso passo con fonti di un certo tipo (per lo più, stoiche o peripatetiche). Un simile approccio può dare, di volta in volta, risultati più o meno convincenti e in un certo numero di casi mi sembra che i dati prodotti dallo studioso bastino a confermare l’origine comune di un gruppo di citazioni. Resta il fatto che non si tratta di un metodo di per sé del tutto valido: a questi accostamenti su base ‘esterna’

si dovrebbe serzpre affiancare un’analisi testuale che, prendendo in considerazione le varianti (spesso notevoli) che i vari testimoni pre-

sentano cercasse di appurare: 1) se gli apparentamenti esterni trovano conferma nelle varianti: se due citazioni presentano un testo dissimile, la loro comune derivazione può non essere così evidente e aproblematica. 2) in che rapporto stanno i testi dei vari testimoni indiretti con quello della nostra silloge: nel caso che alcuni testimoni vadano d’accordo con la silloge e altri no, un’indagine più approfondita si rende necessaria e si possono delineare situazioni ben più articolate di quella che Peretti prospetta. In sostanza, il dato testuale è imprescindibile per capire se davvero esiste questa grande omogeneità tra i vari testimoni indiretti e la contemporanea completa separazione dalla nostra silloge.

Si può qui notare come Peretti — già nel suo libro e poi, più sistematicamente, in un articolo successivo — si sia soffermato con attenzione su elementi testuali (varianti in più testimoni di uno stesso passo) per demolire la tesi dualista di Carrière.* Le posizioni di Peretti sono pienamente condivisibili allorché lo studioso contesta la ri? A. PERETTI, La fonte teognidea di Stobeo, in Studia Florentina Alexandro Ronconi sexagenario oblata, Roma, Edizioni dell’Ateneo 1970, pp. 325-348.

8 J. CARRIERE (Théognis de Megare, Étude sur le recueil elegiaque attribué ἃ ce poète, Paris, Bordas 1948, poi ripreso nell’introduzione alle edd. Budé 1948 e 1975) sostenne, come noto, la circolazione di due diverse raccolte di Teognide, fuse a formare la nostra silloge in età bizantina. Di queste due raccolte, una fu conosciuta dagli autori di età clas-

sica ma sparì all’inizio della nostra era per ricomparire soltanto in età bizantina, rimanendo quindi ignota agli autori successivi; questi si sarebbero serviti della seconda raccolta, originatasi forse in età augustea. La fusione di queste due compilazioni spiegherebbe

— 214—

THEOGNIDEA

gidità della ricostruzione di Carrière e vi contrappone, come elemento ricavabile dai testimoni indiretti, una tradizione più sfaccettata. Sennonché, Peretti finisce, nel suo libro, per ribaltare la teoria dello stu-

dioso francese (dall’esclusiva presenza della silloge nelle sue due diverse redazioni all’assenza totale della medesima) e, ipotizzando che i brani teognidei dall’età di Plutarco in poi venissero letti solo in florilegi o nelle opere di autori più antichi, arriva a posizioni altrettanto rigide, che non tengono in considerazione proprio la molteplicità di tradizioni che era stata correttamente intravista.? Discuto di seguito alcuni casi significativi, soffermandomi soprattutto sulle citazioni presenti negli autori di età imperiale, i primi che dovettero (secondo Peretti) attingere esclusivamente al patrimonio florilegico; l’ordine in cui presento i passi è quello che ritengo più produttivo per la presente discussione in quanto mostra i vari approcci al testo rintracciabili nel lavoro di Peretti e i diversi tipi di considerazioni possibili sulle varianti fornite dalla tradizione indiretta. Il testo riportato è sempre quello della silloge (ed. Young, BT [1961] 1971?: segnalerò eventuali discrepanze fra i vari manoscritti nel caso che esse risultino funzionali al discorso); illustro poi le varianti dei testimoni indiretti in una sorta di ‘apparato critico discorsivo’, che mi è parso il mezzo più adatto per sottolineare e discutere i punti importanti. Theogn. 457-458: OÙ τοι σύμφορόν ἐστι γυνὴ νέα ἀνδρὶ γέροντι" οὐ γὰρ πηδαλίωι πείθεται ὡς ἄκατος I due versi sono citati da Clemente Alessandrino (Strom. VI 14, 5), dallo Stobeo (IV 32, 110) e da Ateneo (XIII 560a); in Clemente, essi

la presenza dei doppioni rintracciabili nella nostra silloge e proprio sulla base dei doppioni Carrière identificò e distinse le sequenze derivanti dall’una o dall’altra raccolta. L’indagine di Peretti ha sostanzialmente danneggiato

questa tesi dimostrando come essa sia

smentita dalle varianti dei testimoni indiretti rispetto alla silloge: alcuni testimoni che dovevano conoscere la seconda raccolta condividono le lezioni della prima e viceversa, op-

pure si rintracciano lezioni che con la silloge non vanno d’accordo e rimandano ad una tradizione diversa. 9 Credo sia importante sottolineare che quanto segue non vuole in alcun modo negare il ruolo avuto dalle compilazioni gnomologiche per la circolazione dei testi qui presi in considerazione: la loro importanza fu certamente grande e a Peretti va tutto il merito di aver richiamato l’attenzione su questo aspetto ed individuato in modo convincente la matrice gnomologica di alcune testimonianze indirette. Ciò che interessa vedere qui è che queste raccolte non furono, verosimilmente, l’unico canale disponibile.



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FRANCESCA MALTOMINI

fanno parte della famosa sezione «sui plagi», in cui passi molto simili di autori diversi vengono accostati in modo tale da dimostrare come nelle lettere greche fosse pratica comune copiare impunemente i versi altrui. L'ipotesi generale di Peretti su questa sezione è che derivi da fonti gnomologiche attraverso la mediazione giudaico-cristiana: in sostanza, coloro che intendevano denigrare la letteratura greca si sarebbero serviti di gnomologi ordinati tematicamente per trarne passi simili da abbinare e presentare come esempi di plagio. Da questa medesima tradizione gnomologica deriverebbero le citazioni degli stessi passi in altri autori. Nel caso specifico, Peretti tenta di ricostruire la fonte comune a Clemente, Ateneo e allo Stobeo. Per quanto riguarda lo Stobeo, l’apparentamento con Clemente sarebbe dimostrato dal fatto che nell’Antologio si trova, oltre al passo teognideo, anche il frammento ad esso affiancato in Clemente (Ar. fr. 616 K.-A. = Eur. fr. 807 N22). Sennonché: a) nello Stobeo i due passi, pur essendo rubricati sotto la stessa sezione (il che è ovvio dal momento in cui trattano lo stesso tema e non dice niente sulla loro provenienza), non sono consecutivi, ma risultano separati da altri cinque estratti;!° b) in Clemente il brano teatrale accostato ai versi teognideiè attribuito ad Aristofane, mentre nello Stobeo è presentato come appartenente al Phoenix euripideo; c) il testo dei due testimoni differisce al v. 457, dove Clemente ha χρήσιμόν ἐστι contro σύμφορόν ἐστι dello Stobeo; l'eventualità che la variante di Clemente sia stata generata dal contesto (vale a dire che si sia prodotta un’ ‘attrazione’ col testo della citazione abbinata) può essere esclusa con sicurezza: non c’è niente nel frammento drammatico che possa aver provocato la sostituzione χρήσιμον / σύμφορον. Mi pare che in questo caso il modo di procedere di Peretti si riveli poco affidabile: la ricostruzione è fatta a partire da labili elementi esterni, il testo viene ignorato. Nel momento in cui si proceda ad una disamina completa degli elementi in nostro possesso, la parentela fra due testimoni appare tutt'altro che certa. Ancora più fragile si dimostra la comune derivazione delle cita-

10 Questo dato va comunque preso con un po’ di cautela, in quanto in certi casi si è potuta provare la dipendenza di Stobeo e un altro autore da una medesima fonte sebbene i passi comuni non fossero consecutivi ma risultassero inframezzati da estratti diversi: cfr. H. DieLs, «RhM», XXX,

1875, pp. 172-181

che individua uno stesso florilegio dietro a

sequenze di Teofilo di Antiochia e Stobeo sulla base dell’analisi di pericopi ampie e di coincidenze testuali significative, tutti procedimenti che qui non risultano possibili.



216 —

THEOGNIDEA

zioni di Clemente e Ateneo: qui l'elemento probante si riduce al fatto che in Ateneo compare, accanto ai versi teognidei, un altro frammento poetico (Theoph. fr. 6 K.-A.) che affronta lo stesso tema. Questo frammento

non compare,

si noti, né in Clemente

né nello Stobeo

e non

esistono altre attestazioni che ne prevedano l’abbinamento con i versi teognidei che ci interessano; il testo, inoltre, è ancora una volta diverso da quello di Clemente, e concorda semmai con quello dello Stobeo nella variante σύμφορον. Ma a Peretti basta che Ateneo riporti due brani sullo stesso tema per stabilire che Ateneo si serviva di uno gnomologio, lo stesso da cui hanno attinto anche i ‘cacciatori di plagi’ fonte di Clemente e, più tardi, lo Stobeo. Theogn. 509-510. Ancora all’interno della sezione «sui plagi», Clemente cita questo distico teognideo: οἶνος πινόμενος πουλὺς κακόν ἢν δέ τις αὐτόν πίνηι ἐπισταμένως, οὐ κακόν, ἀλλ᾽ ἀγαθόν. Gli stessi versi sono riportati da un gran numero di altri testimoni indiretti: si trovano nei Problezzi pseudoaristotelici, in Galeno, in Ar-

temidoro e nello Stobeo. Secondo Peretti tutti i nostri testimoni avrebbero preso il passo da una stessa gnomologia περὶ οἴνου καὶ μέθης; questa comune derivazione sarebbe «visibile nelle molteplici coincidenze fra scrittori indipendenti» (p. 91) per quanto riguarda tre passi: il distico teognideo qui esaminato e i due passi omerici che Galeno cita insieme ad esso. Per comodità riporto lo schema di coincidenze fornito da Peretti come giustificazione del suo assunto: 1. Omero È 464-466 =

Galeno, Scr. min. II p. 40, 17 Mue. Clemente, Paed. II 48, I p. 186 Stobeo, III 18, 17 p. 517

»

> 36,6 p. 691 (v. 466)

Plutarco, De Garrul. 4 p. 5034 Ateneo, V 179e

2. Omero è 293-298

Galeno, Scr. min. II p. 40, 10 Mue. Ateneo, XIV 6134

3. Teognide 509-510

Galeno, Scr. min. II p. 40, 20 Mue.

Clemente, Strom. VI 11, 5 p. 430 Artemidoro, Oxirocr. I 66 Stobeo, III 18, 11 p. 515

[Arist.] Probl. I 17 [= AL Aphr. Probl. III 17 Us.]



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FRANCESCA MALTOMINI

Non mi pare che questo quadro basti a dimostrare quanto sostenuto da Peretti. Nessun altro autore, oltre a Galeno, cita l’insieme dei tre passi; Clemente, Ateneo e lo Stobeo ne citano due su tre e mai in

immediata connessione fra loro: in Ateneo i due passi omerici sono molto distanti, rientrano in argomentazioni diverse e, soprattutto, vengono trattati diversamente;!! in Clemente la prima citazione omerica e il passo teognideo si trovano addirittura in due opere distinte; nello Stobeo la prima citazione omerica si trova sotto lo stesso capitolo (περὶ ἀκρασίας) del passo teognideo, ma l’organizzazione dell’Arzologio per temi fa sì, come abbiamo già detto, che la vicinanza di due estratti che trattano lo stesso tema, non sia, di per sé, particolarmente significativa. L'elenco di Peretti riesce soltanto a mostrare ‘come tre estratti poetici fossero piuttosto conosciuti e sfruttati: di qui ad affermare che la loro diffusione dipende da uno stesso gnomologio il passo è davvero troppo lungo; procedendo in questo modo, una comune derivazione gnomologica potrebbe essere sostenuta per qualsiasi citazione rintracciabile in più autori. Lasciando da parte i due passi omerici (sostanzialmente inutili per il nostro discorso), vediamo ora qual è la situazione testuale del distico teognideo nei vari testimoni:

v. 509: κακόν Theogn. Gal. : κακός Clem. Artem. [Arist.] Stob. vv. 509-510: il testo di Clemente si discosta da quello della silloge e degli altri testimoni nella lezione αὐτῷ χρῆται (invece di αὐτὸν πίνῃ): anche in questo caso la variante non si spiega col contesto in cui la citazione è inserita. v. 510: Artemidoro, lo Stobeo e [Aristotele] hanno κακός e dya86, concordando in questo punto con l’altra occorrenza del distico nella silloge teognidea (vv. 211-212: Oîvév τοι πίνειν πουλὺν κακόν" ἣν δέ τις αὐτόν πίνῃ ἐπισταμένως, οὐ κακός, ἀλλ᾽ ἀγαθός), per il resto completamente ignorata dalla tradizione indiretta. Il dato testuale, insomma, sembra mostrare l’autonomia di Clemente dalla tradizione della silloge, ma evidenzia al contempo la distanza fra Clemente e il resto dei testimoni indiretti; la vicinanza di

U Il primo passo omerico è in Ateneo sostanzialmente isolato da altre citazioni e viene

analizzato minuziosamente per stabilire l’esatto significato dei versi. Il secondo estratto fa invece parte di una serie di citazioni, di autori diversi ma tutte incentrate sul tema del-

l’ubriachezza molesta: per queste una derivazione da fonte comune sarebbe forse ipotizzabile con maggior verosimiglianza, ma il loro legame con la prima citazione omerica non è in alcun modo dimostrabile, né, a rigore, sospettabile: non si può certo pensare che tutti i versi genericamente su uno stesso tema citati in un autore come Ateneo derivino da una

stessa

fonte.



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THEOGNIDEA

una parte dei testimoni indiretti al testo della silloge è d’altro canto innegabile e nel caso di Galeno si riscontra una perfetta sovrapposizione. Identici, poi, i testi di Artemidoro, dello Pseudo-Aristotele e

dello Stobeo. In assenza di elementi esterni significativi, non siamo in grado di precisare la matrice dei vari filoni tradizionali (tre, a quanto sembra) individuabili, ma è certo che quello della silloge è presente;

questa molteplicità di linee tradizionali è in ogni caso un dato da acquisire. Theogn. 35-36: ἐσθλῶν

μὲν γὰρ dr’ ἐσθλὰ

μαθήσεαι᾽

ἢν δὲ κακοῖσιν

συμμίσγηις, ἀπολεῖς καὶ τὸν ἐόντα νόον. Si tratta di un caso interessante, in quanto Peretti, nel discuterlo, non ignora completamente (come negli esempi visti fin qui) il dato testuale, ma se ne serve solo parzialmente, senza indagare in modo approfondito sul significato degli elementi disponibili. Il distico è citato da diversi testimoni, fra cui Peretti prende in considerazione Platone (Men. 954), Musonio (apud Stob. IV 15, 18) e Clemente (Strom. V 52, 4). A Peretti interessa stabilire la fonte di Clemente

e, dopo

aver escluso che possa trattarsi di Platone (il cui testo ha διδάξεαι, contro il μαθήσεαι di Clemente), la identifica senz'altro in Musonio, che con Clemente condivide, oltre al μαθήσεαι, anche la lezione συμ-

μιγῇῆς (συμμιγῆς nei mss.) al v. 36. Peretti avvalora l’apparentamento fatto su base testuale con alcune considerazioni di carattere più generale, volte ad evidenziare la vicinanza a livello di contenuti e argo-

mentazioni fra Musonio e Clemente; una volta completato questo qua-

dro, si ferma. Ci sono dei dati che lo studioso tralascia di fornire e che invece hanno una certa importanza. Intanto il valore distintivo di συμμιγῆς è sostanzialmente irrilevante in quanto questa lezione è condivisa anche da Platone, da Senofonte, Syzp. II 4, da tutti i mss. tranne uno dell’altra citazione senofontea (Merz. I 2, 20) e si trova anche nella maggior parte dei mss. teognidei. Il corretto συμμίσγῃς è tradito nel testo dei Merzorabili dal ms. Par. gr. 1302 e dal già citato ms. A della silloge. L'unica variante significativa condivisa da Clemente e Musonio è dunque μαθήσεαι, presente anche in tutti i mss. della silloge. Gli altri testimoni indiretti (Platone e Senofonte) si allineano su διδάξεαι. Anche in questo caso, il discorso doveva essere ampliato, in modo da ottenere una visione completa delle attestazioni del distico in questione: le argomentazioni

di Peretti su questo punto rispondono in-

fatti soltanto ad uno dei suoi intenti dichiarati (z.e.: dimostrare che —

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FRANCESCA

MALTOMINI

Clemente non attingeva direttamente dalla silloge ma da un altro autore), ma non perseguono l’altra sua tesi — presentata quasi come il

complemento della prima: l’unitarietà di tutta la tradizione indiretta. Far risalire la citazione da Clemente a Musonio non fa, inoltre, che ‘rimandare’ un problema di fonti comunque esistente e importante per l’argomentazione di Peretti: dove ha attinto i versi Musonio, autore di pochi anni più anziano di Plutarco e quindi presumibilmente impossibilitato a leggere direttamente la silloge? La congruenza del testo di Clemente e Musonio con quello della silloge potrebbe essere, a questo proposito, molto significativa. Da questi pochi esempi credo si veda piuttosto chiaramente come alcuni apparentamenti di più testimoni fatti su base esterna risultino di scarso valore di fronte ad una verifica testuale. Emergono, d’altra

parte, diversi filoni tradizionali (fra cui quello della silloge), che rimandano a fonti diverse utilizzate dai vari autori, ad una molteplicità di canali disponibili. Un altro aspetto che può talvolta rivelarsi utile è il modo in cui le citazioni indirette sono introdotte: come noto, la silloge contiene com-

ponimenti o parti di componimenti che appartengono ai maggiori autori elegiaci (Solone, Mimnermo,

Tirteo, Eveno di Paro); tutto ciò lo

sappiamo da altre testimonianze che citano questi stessi componimenti col nome del loro vero autore, mentre nei manoscritti della silloge tutto è tramandato sotto l’unitaria attribuzione a Teognide presente nel titolo, senza nessuna indicazione ulteriore. Ora si nota che, in un

piccolo gruppo di casi, alcuni di questi componimenti vengono citati come teognidei invece che col nome del loro vero autore; di più, nella

silloge questi componimenti presentano spesso delle varianti rispetto alle altre testimonianze in nostro possesso, e i testimoni che li citano con l’inesatta attribuzione a Teognide presentano in molti casi queste stesse varianti. 1) Clem. Al. Strom. VI 8, 1: Σόλωνος δὲ ποιήσαντος"

τίκτει γὰρ κόρος ὕβριν, ὅταν πολὺς ὄλβος ἕπηται, (Sol. fr. 6,3 W.) ἄντικρυς ὁ Θέογνις γράφει:

τίκτει τοι κόρος ὕβριν, ὅταν κακῷ ὄλβος ἕπηται. (Theogn. 153) Siamo ancora una volta all’interno della sezione sui plagi nella letteratura greca: all’originale solonico viene accostata la versione della silloge per dimostrare il plagio da parte di Teognide. Ciò significa che la fonte da cui Clemente traeva il verso modificato recava l’attribu—

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THEOGNIDEA

zione al poeta di Megara. Non possiamo pensare che Teognide abbia effettivamente ripreso, modificandolo leggermente, il testo di Solone e lo abbia spacciato per un suo componimento:! la vicenda di questo verso è uguale a quella di tutti gli altri brani altrui inclusi nella silloge: il verso, cioè, è quello di Solone, ma con le varianti tor e κακῷ e incluso, in questa nuova forma, in una raccolta unitariamente attribuita a Teognide.! 2) Stob. III 1, 8: si citano i vv. 315-318 (corrispondenti, con minime variazioni, a Sol. 15 W. = 6 G.-P., 9-12). I versi sono citati come

solonici in quattro passi plutarchei: Sol. 3, 3, Tranquill. anim. 13, 472e, Prof. in virt. 6, 78c [316-318]; nello Stobeo, sono introdotti dal lemma Θεόγνιδος. Questo il testo della silloge: Πολλοί τοι πλουτοῦσι κακοί, ἀγαθοὶ δὲ πένονται, ἀλλ᾽ ἡμεῖς τούτοισ’ οὐ διαμειψόμεθα τῆς ἀρετῆς τὸν πλοῦτον, ἐπεὶ τὸ μὲν ἔμπεδον αἰεί,

χρήματα δ᾽ ἀνθρώπων ἄλλοτε ἄλλος ἔχει. v. 315: πλουτοῦσι Theogn. Stob. : πλουτεῦσι Sol. v. 316: τούτοις Theogn. Stob. : αὐτοῖς Sol.

L'unica altra variante della silloge rispetto al testo solonico (τοι invece di ydp al v. 315) non è controllabile nello Stobeo, in quanto la parola manca del tutto (il verso è difettoso); per inciso, ammesso che sia opportuno integrare il testo dello Stobeo, appare corretta la scelta di Hense che inserisce «τοι», lezione della silloge.'*

12 Su questa linea si muovevano E. HARRISON, Studies in Theognis, Cambridge, Cam-

bridge University Press 1902 e, più recentemente, D. YOUNG (prefazione all’ed. teubneriana della silloge, pp. XI-XI1), sostenendo che Teognide avrebbe di proposito incluso nel suo ‘libro’ citazioni o variazioni di poeti a lui noti. Ma «si tratta di una posizione che, a parte l'impossibile ‘citazione’ di Eveno di Paro (V sec. a.C.!), misconosce radicalmente il

carattere antologico e composito della silloge» (F. FERRARI, introduzione a Teognide, Elegie, Milano, Rizzoli 1989 («B.U.R.»), p. 11 nota 14).

13 La sostituzione di γάρ con τοι (particella tipicamente incipitaria nei componimenti della silloge) rappresenta un’evidente conseguenza dell’estrazione del brano dal suo contesto originario e della sua nuova autonomia. Importante, in relazione al presente discorso,

anche il nesso (rilevato da B.A. VAN GRONINGEN, Theognis. Le premier livre édité avec un commentaire,

Amsterdam,

Noord-Hollandische

Uitgevers Maatschappi

1966, p. 61) che

esiste fra la sostituzione di πολύς con κακῷ e i componimenti che nella silloge precedono immediatamente il nostro verso: è molto verosimile, infatti, che la variante sia stata (in-

tenzionalmente) inserita sulla base del παγκάκῳ del v. 149 e del κακόν del v. 151. 14 La coincidenza fra il testo di Stobeo e quello della silloge era già stata notata da G. MORELLI

(I/ Solone di Basilio di Cesarea, «RFIC», XCI,

1963, pp.

182-196), che di-

mostrò con efficacia l'indipendenza, per la citazione di questo passo, di Basilio da



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FRANCESCA MALTOMINI

La segnalazione — presente nell’apparato teognideo del Carrière --

di una differenza fra il testo della silloge e quello dello Stobeo (dei invece di αἰεί) non è corretta: anche in questo punto i due testi coincidono. 3) Stob. IV 47, 16: si citano i vv. 585-590 (corrispondenti, con variazioni di una certa entità, a Sol. 13 W. = 1 G.-P., 65-70), introdotti dal lemma Θεόγνιδος. È lo stesso Stobeo a citare, in III 9, 23, l’E/egia alle Muse nella sua interezza con l'attribuzione a Solone. Questo il testo della silloge: πᾶσίν τοι κίνδυνος En’ ἔργμασιν, οὐδέ τις οἶδεν πῆι σχήσειν μέλλει πρήγματος ἀρχομένου. ἀλλ᾽ ὁ μὲν εὐδοκιμεῖν πειρώμενος οὐ προνοήσας εἰς μεγάλην ἄτην καὶ χαλεπὴν ἔπεσεν᾽

τῶι δὲ καλῶς ποιεῦντι θεὸς περὶ πάντα τίθησιν συντυχίην ἀγαθήν, ἔκλυσιν ἀφροσύνης. v. 585: πᾶσιν Theogn. Stob. : πᾶσι δέ Sol. v. 586: lo Stobeo ha ποῖ, con la maggior parte della tradizione teognidea (πῇ, generalmente accolto a testo dagli editori, è tradito soltanto da A - il manoscritto più antico della silloge — e dal recenziore E), contro il solonico N; l'accordo con la silloge si ha anche per quanto riguarda σχήσειν μέλλει invece di μέλλει σχήσειν e πρήγματος invece di χρήματος.

v. 587: εὐδοκιμεῖν Theogn. Stob. : εὖ ἕρδειν Sol. v. 589: qui la lezione dello Stobeo si discosta sia dal testo solonico che da quello teognideo, risultando comunque più vicino a quest’ultimo: κακῶς ἕρδοντι Sol. : καλῶς ποιεῦντι Theogn. : καλὸν ποιοῦντι Stob. Lo Stobeo presenta anche la lezione particolare καλά invece del solonico περί, mantenuto nella silloge. L’accordo con la silloge esiste invece sulla lezione τίθησιν contro il δίδωσιν solonico. . ν. 590: ancora una divergenza dello Stobeo rispetto al testo solonico e teognideo: ἀγαθῶν invece di ἀγαθήν.

4) Stob. IV 33, 7: si citano come teognidei i vv. 719-728 della silloge; i vv. 719-724 corrispondono, con variazioni, ai versi citati da Plut. Sol. 2, 3 come di Solone (Sol. 24 W. = 18 G.-P.).

Plutarco e la presenza, anche in questo caso, di filoni tradizionali distinti di cui i vari autori si sono serviti. Morelli non ha tuttavia approfondito la sua constatazione della coincidenza silloge-Stobeo, rifacendosi completamente all’autorità di Peretti in materia ed accettandone le conclusioni negative sull’esistenza della silloge in età tardo-antica e, quindi, sulla possibilità che Stobeo vi abbia potuto attingere.



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THEOGNIDEA

Ἶσόν τοι πλουτοῦσιν, ὅτωι πολὺς ἄργυρός ἐστιν καὶ χρυσὸς καὶ γῆς πυροφόρου πεδία ἵπποι θ᾽ ἡμίονοί τε, καὶ ὧι᾽ - τὰ δέοντα πάρεστι

γαστρί τε καὶ πλευραῖς καὶ ποσὶν ἁβρὰ παθεῖν, παιδός τ᾽ ἠδὲ γυναικός: ὅταν δέ κε τῶν ἀφίκηται ὥρη, σὺν δ᾽ ἥβη γίνεται ἁρμοδία,

ταῦτ᾽ ἄφενος θνητοῖσι χρήματ᾽ ἔχων οὐδεὶς οὐδ᾽ ἂν ἄποινα διδοὺς νούσους οὐδὲ κακὸν

τὰ γὰρ περιώσια πάντα ἔρχεται εἰς ᾿Αίδεω, θάνατον φύγοι οὐδὲ βαρείας γῆρας ἐπερχόμενον.

v. 719: mss. teognidei e testo solonico hanno ὅτῳ, mentre lo Stobeo presenta ὅσοις, v. 721: lo Stobeo non va d’accordo né con Solone né con la silloge, avvicinandosi tuttavia maggiormente a questa: μόνα ταῦτα Sol. : τὰ δέοντα Theogn. : τάδε πάντα Stob. La lezione dello Stobeo potrebbe anche derivare da un errore meccanico intervenuto sul testo della silloge (a partire da un’errata divisione di parole).

v. 723: lo Stobeo e i mss. teognidei vanno d’accordo nella lezione ὅταν δέ ye τῶν [τῶνδ᾽ Stob.] contro ἐπὴν kai ταῦτ᾽ del testo solonico.

v. 724: lo Stobeo riporta lo stesso testo della silloge, contro il solonico fin: σὺν δ᾽ ὥρῃ γίγνεται ἁρμονία.

v. 726: si può notare come in questo verso (che nel frammento solonico non compare) lo Stobeo vada d’accordo con la maggior parte dei mss. della silloge nel riportare la lezione ἀΐδην (ἀΐδεω è lezione dei soli A e O); un caso analogo si verifica nel succitato v. 585, in cui lo Stobeo ha οἷδε, come

la maggior parte dei teognidei e non oîdev come A: se a ciò si aggiunge quanto detto a proposito della variante ποῖ / πῇ al v. 586, si può osservare che, allorché esistano delle varianti all’interno della tradizione teognidea, lo Stobeo non segue il testo di A; a questo proposito è bene ricordare che A (Par. Suppl. gr. 388) è manoscritto di origine italiota e potenziale portatore di un ramo tradizionale autonomo: lo Stobeo, come sarebbe del resto lecito aspettarsi, ignora questo ramo in favore di quello ‘bizantino’.

Per quanto nei casi 3) e 4) la coincidenza fra il testo della silloge e quello dello Stobeo non sia perfetta (ma si è visto che si tratta di divergenze minime e che un disaccordo apparentemente ‘di peso’ esistente fra lo Stobeo e la silloge — τάδε πάντα / tà δέοντα nell’ultimo passo -- può essere frutto di una corruttela meccanica), mi sembra che

15 La derivazione da un ramo tradizionale italiota indipendente (in quanto originatosi da una diversa traslitterazione) da quello orientale è accertata per altre opere tramandate nel Par. Suppl. gr. 388: le Sentenze pseudofocilidee, la Descriptio Mundi di Dionigi Periegeta e il De Raptu Helenae di Colluto.



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FRANCESCA

MALTOMINI

un rapporto diretto fra le citazioni in questione e la nostra silloge sia molto verosimile e rappresenti la spiegazione più ovvia ad un gran

numero di significative sovrapposizioni, tanto più che i vari brani si trovano in punti diversi, lontani fra loro, della silloge: Clemente e lo Stobeo attingevano ad una raccolta in cui questi passi figuravano come teognidei e in cui il testo originale era stato modificato in un certo modo; questa raccolta noi la possediamo ed è la nostra silloge. Inutilmente macchinosa e insufficiente la soluzione prospettata da Peretti, che pensa ad una fonte gnomologica che raccoglieva questi passi e in cui, come nella nostra silloge, si era generata la falsa attribuzione a Teognide. Sono ora possibili alcune brevi considerazioni finali, basate sugli elementi utili che sono emersi dalla presente analisi: a) in alcuni casi di citazione di uno stesso passo della silloge in più testimoni indiretti sono individuabili, su base testuale, una mol-

teplicità di canali tradizionali a cui gli autori attinsero, il che va contro la teoria rigidamente monogenetica di Peretti. Uno di questi è lo stesso della silloge, ma quanto all’esistenza della raccolta così come noi la conosciamo niente può essere detto sulla base di questi elementi;

b) più significativi in relazione a quest’ultima questione sono le false attribuzioni a Teognide di materiale non teognideo: qui si deve pensare, come detto, ad una raccolta che circolava sotto il nome di Teognide e che conteneva materiale non teognideo; inutile reduplicare raccolte con questa stessa peculiarità: è più logico pensare che già Clemente e poi lo Stobeo disponessero della nostra silloge; c) almeno POxy 2380 ha mostrato come una sequenza disorganica della silloge esistesse nel II-III sec. d.C. (z.e., si noti, all’epoca di Clemente); può darsi che questa sequenza non facesse ancora parte della silloge così come ci è giunta da tradizione medievale, ma quali sono, a questo punto, i motivi di collocare la compilazione della silloge in età bizantina? Se essa poteva essere funzionale a spiegare lo stato caotico della silloge, il papiro basta, come già detto, a gettare seri dubbi sull’opportunità di continuare a sostenere che la confusione è prodotto della seriorità della compilazione.

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CARLO MARTINO

PUBLILIO

LUCARINI

SIRO E LA TRADIZIONE

GNOMOLOGICA’

Nel suo studio sul mimo latino F. Giancotti! è giunto alla conclusione che da un lato la Weltanschauung che si ricava dall’insieme delle sentenze di Publilio «presenti tratti di affinità soprattuto rispetto all’epicureismo» (Mio, p. 370), dall’altro che la raccolta «sia stata composta in rapporto con un fine non elementare, con un orientamento etico di ispirazione filosofica» (Mimo, p. 327). Eppure, come la prima delle due ipotesi non pare accordarsi con sentenze quali B 10 bonus animus laesus gravius multo irascitur, B 33 bona turpitudo est quae periclum vindicat, C 14 cum vitia prosunt peccat qui recte facit, H 15 honestus rumor alterum est patrimonium, 1 45 iucunda macula est ex inimici sanguine, Q 1 quamvis non rectum quod iuvat rectum putes, U 19

virtute quod non possis blanditia auferas, così la seconda né dà spiegazione delle sentenze in contraddizione tra loro (e.g.: S 2 spes est salutis ubi hominem obiurgat pudor; U 9 ubicumque pudor est semper ibi sancta est fides e P 41 pudorem habere servitus quodammodo est; Q 9 quicquid conaris quo pervenias cogites e N 6 nescias quid optes aut quid

fugias: ita ludit dies) né pare conciliabile colle numerose sentenze che sembrano in contrasto con qualsiasi scuola filosofica quali quelle che ho citato a proposito della supposta Weltanschauung epicurea.

A me pare che cercare di arrivare dalle sentenze rimaste alle idee dell’autore sia impresa impossibile; tanto più che se è vero che, come hanno

affermato

il Woelfflin?

e il Giancotti

(Mimo,

p. 338), non

ci

sono argomenti per affermare che nella nostra raccolta siano presenti versi di altri poeti, il sospetto a tal proposito rimane. Che alcune sen-

* Ringrazio i proff. F. Bellandi, A. Carlini e l’amico C. Pernigotti per aver discusso con me la tesi di fondo sostenuta in questo contributo. 1! F. GIANCOTTI, Mimo e gnome. Studio su Decimo Laberio e Publilio Siro, Messina-Firenze, D’Anna («Biblioteca di cultura contemporanea», XCVIII), 1967. 2 Publilii Syri sententiae, rec. E. WOELFFLIN, Lipsiae, Teubner 1869, pp. 45-46.



225—

CARLO

MARTINO

LUCARINI

tenze siano spiegabili alla luce di eventi politici contemporanei a Publilio, come ha ipotizzato P. Hamblenne,? è possibile, ma, a parte l’incertezza che resta sui risultati di tale indagine, il numero delle sentenze così contestualizzabile non è molto alto.4 Certezze maggiori si possono avere indagando sul raccoglitore delle sentenze. Giancotti (Mimo, pp. 305-338) ha proposto diverse ipotesi, ma tutte inficiate (tranne quelle su Cassio Severo e Seneca rètore) dall’idea che l’antologizzatore avesse un intento parenetico-filosofico. Più sagacemente a

mio modo di vedere Kalbfleisch? e Vysok$° hanno cercato di spiegare la nascita della nostra raccolta collegandola colla gnomologia greca.

A queste indagini ha dato del resto un notevole contributo Giancotti stesso coi suoi Adversaria Publiliana’ ove ha proposto nuovi paralleli fra le sentenze di Publilio e passi del teatro greco, molti dei quali furono accolti negli gnomologi.

Prima di riprendere le argomentazioni di questi studiosi due cose vanno precisate. E innanzitutto assai verisimile che le sentenze pubblicate come publiliane da Meyer? siano state messe assieme prima del secondo secolo d.C., come dimostra una citazione di Gellio (N.A. XVII 14). Forse Seneca, di sicuro Gellio, avevano davanti a sé la raccolta;? i versi sono comunque tutti stati composti secondo la consue-

tudine dei versi del teatro latino arcaico, sebbene con maggiori restrizioni rispetto a Plauto e Terenzio.!° Bisogna poi tenere conto che allorché noi troviamo un verso publiliano simile a un verso o a un motivo di uno scrittore del teatro greco due sono le considerazioni da fare; in primis che è probabile che Publilio avesse consuetudine con questo scrittore, poi che l’antologizzatore aveva probabilmente in mente gnomologi nei quali erano compresi versi riguardanti quegli argomenti: se cioè noi abbiamo un verso di Publilio sulla gratitudine che assomiglia a un verso di Menandro sullo stesso argomento si deve

3 P. HAMBLENNE, L’opinion romaine en 46-43 et les sentences ‘politiques’ de Publilius Syrus, in ANRW 1/3, pp. 631-702. 4 Circa una cinquantina, cfr. HAMBLENNE, op. cit., pp. 693-696. 5 K. KALBFLEISCH, MENANAPOY TNQMAI, «Hermes», LXIII, 1928, pp. 99-103.

6 Z.K. VysokY, Prameny gnomologia Publilia Syra, «Listy filologicke», LXXI, 1947,

pp. 193-216.

7 F. GIANCOTTI, Adversaria Publiliana, «Boll. dei classici», n.s. XI, 1963, pp. 3-14.

8 Publilii Syri mimi sententiae, rec. G. MEYER, Lipsiae, Teubner 1880. ? Cfr. SCHANZ - HosIus, Gesch. röm. Lit., I, 261; O. SKUTSCH in RE, XXIIL2 (1959), s.v. Publilius Syrus, col. 1924; F. GIANCOTTI, Ricerche sulla tradizione manoscritta delle sentenze di Publilio Siro, Messina-Firenze, D’Anna 1963 («Biblioteca di cultura contem-

poranea», LXXIX), p. 27. 10 Cfr. SKUTSCH, op. cit., col. 1927.



226 —

PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE

GNOMOLOGICA

da un lato immaginare che Publilio conoscesse quel verso menandreo,

dall’altro che l’antologizzatore sapesse che in altri gnomologi erano compresi versi περὶ χάριτος; come vedremo molti pensieri publiliani assomigliano a pensieri espressi in versi conservati in gnomologi; verrebbe il sospetto che Publilio stesso conoscesse della letteratura gnomologica; ma questo non possiamo saperlo. Passi simili fra Publilio e altri scrittori!! si trovano elencati in I. Gruter, Sententiae, Lugduni Batavorum 1708 (pòstumo) e in Publilii Syri mimi sententiae, ed. O. Friedrich, Berolini, Grieben 1880, oltre-

ché nei rammentati lavori del Vysokf e del Giancotti e nella edizione publiliana del Ribbeck! e nella edizione teubneriana delle Menandri sententiae del 1964 di S. Jäkel. Qualche nuovo confronto è stato proposto da R. Tosi. Il Kalbfleisch!' ha ipotizzato che la raccolta delle Μενάνδρου γνῶμαι sia servita da modello al compilatore delle nostre sentenze. A favore della sua tesi il Kalbfleisch non ha però portato argomentazioni e Giancotti l’ha poi sostanzialmente rifiutata (Miro, p. 338). Certo per esprimersi con sicurezza sull’argomento dovremmo avere maggiori certezze su come la raccolta menandrea circolava fra il primo secolo avanti e dopo Cristo.! Comunque anche basandosi sulla raccolta dello Jäkel alcune osservazioni si possono fare. Alcuni temi sono trattati nello stesso modo. Il tema περὶ τοῦ ζῆν è affrontato colla stessa prospettiva, che cioè a una vita insopportabile è preferibile la morte; cfr. B 11 dora mors est homini vitae quae extinguit mala, B 39 bene vixit is qui potuit cum voluit mori, D 12 dum est vita grata mortis conditio optima est, M 5 mori

est felicis antequam mortem invoces, N 44 nemo immature moritur qui moritur miser, Q 4 quam miserum est mortem cupere nec posse emori,

S 33 satis est beatus qui potest cum vult mori, U 3 ubi omnis vitae metus est mors est optima e Mon. 120 βίος ἐστίν, dv τις τῷ βίῳ χαίρῃ

1! Nei passi che seguono, quando il paragone fra Publilio e un altro autore è stato istituito da un altro studioso, mi attengo al testo proposto dallo studioso citato, altrimenti cito secondo il testo di Meyer. Da questo mi distacco in certi casi circa la punteggiatura: ciò non ha conseguenze sul significato. 12 Scenicae Romanorum poesis fragmenta, rec. O. RIBBECK, II, Lipsiae, Teubner 1865.? 3 R, Tosı, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano, Rizzoli 1991 («B.U.R.»). 14 Art. cit., p. 102.

5 Per i testimoni non presenti nella raccolta dello Jäkel mi valgo dell’utile lavoro di C. PERNIGOTTI, Raccolte e varietà redazionali nei papiri dei «Monostici di Menandro», in Papiri Filosofici. Miscellanea di Studi III, Firenze, Olschki 2000 («STCPF», 228.



227 —

10), pp. 171-

CARLO MARTINO LUCARINI

βιῶν, 276 ζωῆς πονηρᾶς θάνατος αἱρετώτερος, 280 ζῆν αἰσχρὸν οἷς ζῆν ἐφθόνησεν ἡ τύχη, 286 ἢ ζῆν ἀλύπως ἢ θανεῖν εὐδαιμόνως, 410

καλὸν τὸ θνήσκειν οἷς ὕβριν τὸ ζῆν φέρει, 415 κρεῖσσον τὸ μὴ ζῆν ἐστιν ἢ ζῆν ἀθλίως, 855 ὡς ἡδὺ τὸ ζῆν μὴ φθονούσης τῆς τύχης." ὅ Sul tema del vivere εἰκῃ ἐπιμελῶς troviamo un δισσὸς λόγος procedente allo stesso modo nelle due raccolte; da un lato infatti si esorta a meditare bene i propri atti (e.g. C 3 cavendi nulla est dimittenda occasto, C 26 cave quicquam incipias quod paeniteat postea, P 23 per quae sis tutus illa semper cogites, Q 9 quicquid conaris quo pervenias cogi-

tes, Ὁ 65 quod est timendum decipit si neglegas e Mon. 111 βουλὴν ἅπαντος πράγματος προλάμβανε, 343 θνητὸς πεφυκὼς τοὐπίσω πειρῶ βλέπειν, 727 τῆς ἐπιμελείας πάντα δοῦλα γίγνεται, 736 τὸ μηδὲν εἰκῇ πανταχοῦ ‘ot χρήσιμον), dall'altro si legge N 6 nescias quid optes aut quid fugias: ita ludit dies e Mon. 504 μηδὲν λογίζου: πάντα καιρῷ γίνεται.17 Su questo argomento non ho trovato paralleli nello Stobeo. Il tema dell’errare due volte è trattato nelle seguenti sentenze:

I 63 inprobe Neptunum accusat qui iterum naufragium facit, L 12 lapsus ubi semel sis, sit tua culpa si iterum cecideris. A proposito di I 63 già Vysoky ha richiamato Mon. 183 δὶς ἐξαμαρτεῖν ταὐτὸν οὐκ dvδρὸς σοφοῦ;}8 ma bisogna richiamare pure Mon. 204 δὶς πρὸς τὸν αὐτὸν αἰσχρὸν 7 προσκροῦσαι λίθον. Il tema della moderazione nella vittoria ricorre a B 21 bis vincit qui se vincit in victoria, S 44 satis est superare inimicum nimium est perdere, U 34 vincere est honestum op-

primere acerbum pulchrum ignoscere, e un'osservazione simile si trova pure in Mon. 419 καλὸν τὸ νικᾶν, ἀλλ᾽ ὑπερνικᾶν κακόν.

Di alcuni temi è possibile solo osservare che sono presenti in entrambe le raccolte, mentre né lo Stobeo né altri gnomologi ne hanno traccia; sul viaggiare assieme cfr.: C 17 comes facundus in via pro vebiculo est - Mon. 25 ἀνδρὸς πονηροῦ φεῦγε συνοδίαν dei, 423 κακῷ σὺν ἀνδρὶ μηδ᾽ ὅλως ὁδοιπόρει, 494 μόνος βάδιζ᾽ ἢ δεύτερος, τρίτος

16 Il tema è trattato pure dallo Stobeo in maniera assai diffusa, ma per questo tema egli usa il δισσὸς λόγος poiché, accanto a versi che vanno nella direzione di quelli citati di Menandro e Publilio, troviamo citazioni quali quella (IV 52, 9) da Eur. Ipb. Aul. 125053: τὸ φῶς τόδ᾽ ἀνθρώποισιν ἥδιστον βλέπειν, / τὸ νέρθε δ᾽ οὐδέν“ μαίνεται δ᾽ ὃς εὔχεται 7 θανεῖν᾽ κακῶς ζῆν κρεῖσσον ἢ καλῶς θανεῖν.

7 Simile per argomento è il δισσὸς λόγος che Publilio offre sul deliberare: D 17 deliberando discitur sapientia D 18 deliberando saepe perit occasio. 18 Per I 63 bisogna forse pure richiamare un fr. di Filemone, autore che Publilio dovette avere ben presente; cfr. Diod. Sic. XII 14, 1-2: ταῖς γὰρ ἀληθείαις ὁ δὶς ἐν τοῖς adτοῖς πράγμασιν ἁμαρτάνων ἄφρων ἂν δικαίως νομισθείη. καὶ Φιλήμονος τοῦ κωμῴδιογράφου γράφοντος «εἰς; τοὺς πολλάκις ναυτιλλομένους καὶ εἰπόντος Νόθῳ [fr. 51 K.-A.]: .. τεθαύμακ᾽, οὐκ ἐπεὶ 7 πέπλευκεν, ἀλλ᾽ εἰ δὶς πέπλευκεν.



228 —

PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE GNOMOLOGICA

δὲ un. Alcune sentenze publiliane affermano la comune disposizione degli uomini al male: M 20 malae naturae numquam doctore indigent, M 63 multa ante temptes quam virum invenias bonum, N 19 nulli facilius quam malo invenies parem; l’unico parallelo lo trovo in Mon. 77 ἀεὶ πονηρόν ἐστι τἀνθρώπων γένος, mentre nulla di simile ho trovato nello Stobeo. Alcuni pensieri simili s'incontrano pure sulla sapienza e l'apprendimento: E 4 ex vitio alterius sapiens emendat suum - Mon. 121 βλέπων πεπαίδευμ᾽ εἰς τὰ τῶν ἄλλων κακά (Tosi), S 4 sapiens contra omnes arma fert cum cogitat - Mon. 621 ὅπλον μέγιστόν ἐστιν ἀνθρώποις λόγος (Vysoky), S 7 sensus non aetas invenit sapientiam - Mon. 661 πολιὰ χρόνου μήνυσις, οὐ φρονήσεως. Ci sia lecito dare ora un elenco delle corrispondenze più significative, in parte note, in parte da me qui proposte per la prima volta (contrassegnerö queste ultime coll’asterisco), tra singole sentenze publiliane e singole γνῶμαι μονόστιχοι (per ognuna indico il πρῶτος εὑpemg, compito necessario anche perché sovente gli autori dei repertori non tengono conto del lavoro dei loro predecessori): A 11 alienum aes homini ingenuo acerba est servitus - Mon. 759 tà δάνεια δούλους τοὺς ἐλευθέρους ποιεῖ (Ribbeck), A 15 amans quid cupiat scit quid sapiat non videt -- 143 γυνὴ γὰρ οὐδὲν οἷδε πλὴν ὃ βούλεται (Giancotti), A 29 amare iuveni fructus est crimen seni - 146 γέρων ἐραστὴς

ἐσχάτη κακὴ τύχη (Tosi), A 51 animo ventrique imperare debet qui frugi esse vult - 425 καλόν γε γαστρὸς κἀπιθυμίας κρατεῖν (Jäkel), A 53 amico firmo nibil emi melius potest - 810 φίλους ἔχων νόμιζε θησαυροὺς

ἔχειν

(Giancotti),

815

φιλίας

δικαίας

κτῆσις

ἀσφαλε-

στάτη (Jäkel), A 56 amici mores noveris non oderis - 804 φίλων τρόπους γίνωσκε, μὴ μίσει δ᾽ ὅλως (Ribbeck), B 4 bonum est fugienda aspicere in alieno malo - 121 βλέπων πεπαίδευμ᾽ εἰς τὰ τῶν ἄλλων κακά (Tosi), B 18 bonitatis verba imitari maior malitia est - 483 μισῶ πονηρὸν χρηστὸν ὅταν εἴπῃ λόγον (Ribbeck), B 20 bonum quod est supprimitur numquam extinguitur - 28 ἀνδρὸς δικαίου καρπὸς οὐκ ἀπόλλυται (Vysokyg), *B 28 bene cogitata si excidunt non occidunt 799 φρόνημα λιπαρὸν οὐδαμῶς + ἀναλίσκεται, *B 34 bona comparat

praesidia misericordia - 717 σωτηρίας σημεῖον ἥμερος τρόπος, cfr. Men. fr. 261 K.-A., C 7 cum inimico nemo in gratiam tuto redit -- 451 λόγον παρ᾽ ἐχθροῦ μήποθ᾽ ἡγήσῃ φίλον (Giancotti), *C 29 crudelis lacrimis pascitur non frangitur - 33 ἀνδρὸς πονηροῦ σπλάγχνον οὐ μα-

λάσσεται, C 34 cuivis potest accidere quod cuiquam potest - 514 νόμιζε κοινὰ πάντα δυστυχήματα (Giancotti), D 44 dixeris male dicta cuncta qui ingratum hominem

dixeris - 655 πονηρός ἐστ᾽ ἄνθρωπος

πᾶς τις F ἀχάριστος (Vysoky), D 13 damnum —

229 —

appellandum est cum

CARLO MARTINO LUCARINI

mala fama lucrum - 8 ἅπαν τὸ κέρδος ἄδικον «ὃν» φέρει βλάβην (Ribbeck), 422 κέρδος πονηρὸν ζημίαν dei φέρει (Ribbeck), 755 τὰ δ᾽ αἰσχρὰ κέρδη συμφορὰς ἐργάζεται (Friedrich), D 21 dolor animi gravior est quam corporis -- 116 βέλτιόν ἐστι σῶμά γ᾽ ἢ ψυχὴν νοσεῖν (Woelfflin), “D 26 dissolvitur lex cum fit iudex misericors - 174 δίκαῖος εἶναι μᾶλλον ἢ χρηστὸς θέλε (χρηστός = misericors, cfr. Men. fr. 771 K.-A.), E 4 ex vitio alterius sapiens emendat suum, cfr. B 4 (Tosi), F 22 feminae naturam regere desperare est otium - 157 γυναικὶ δ᾽ ἄρχειν οὐ δίδωσιν ἡ φύσις (Giancotti), F 27 fortuna in hominibus plus quam consilium valet - 732 τύχη tà θνητῶν πράγματ᾽, οὐκ εὐβουλία (Ribbeck), F 31 frenos imposuit linguae conscientia - 844 ψυχῆς μέγας χαλινὸς ἀνθρώποις ὁ νοῦς (Jäkel), H 4 bozzo qui in bomine calamitoso

est misericors

meminit

sui - 470

μὴ

'uBawe

δυστυχοῦντι᾽

κοινὴ γὰρ τύχη (Giancotti), H 10 beu quam multa poenitenda incurrunt vivendo diu - 482 μακρὸς γὰρ αἰὼν συμφορὰς πολλὰς ἔχει (Vysoky), I 22 iracundiam qui vincit hostem superat maximum - 269 ζήσεις βίον κράτιστον, ἢν θυμοῦ κρατῆῇς (Vysoky), I 26 inizzicum quamvis humilem docti est metuere - 394 καιροῦ τυχὼν καὶ πτωχὸς ἰσχύει μέγα (Giancotti), *I 62 insanae (così Friedrich, invectibile codd.) νοεῖς numquam libertas tacet - 60 ἀνουθέτητόν ἐστιν ἡ παρρηcia, I 63 improbe Neptunum accusat qui iterum naufragium facit - 183 δὶς ἐξαμαρτεῖν ταὐτὸν οὐκ ἀνδρὸς σοφοῦ (Vysoky), M 9 malus bonum

ubi se simulat tunc est pessimus

- 483

μισῶ πονηρὸν

χρηστὸν

ὅταν εἴπῃ λόγον (Jäkel), *M 21 + misereri scire sine periclo est vivere cfr. B 34, M 22 male vivunt qui se semper victuros putant - 284 ζῶμεν ἀλογίστως προσδοκοῦντες μὴ θανεῖν (Ribbeck), *M 46 mzalus bonum ad se numquam consilium refert - 190 δειλοῦ γὰρ ἀνδρὸς δειλὰ καὶ φρονήματα, M 60 malitia ut peior veniat se simulat bonam ctr. M 9 (Jakel), *M 72 malum ne alienum feceris tuum gaudium - 580 où δεῖ σε χαίρειν τοῖς «δερδυστυχηκόσιν, N 21 zocere posse et nolle laus

amplissima est - 37-38 ἀνὴρ δίκαιός ἐστιν οὐχ ὁ μὴ ἀδικῶν / AAN ὅστις ἀδικεῖν δυνάμενος μὴ βούλεται (Ribbeck), N 35 nec vita nec fortuna hominibus propria est - 96 βέβαιον οὐδέν ἐστιν ἐν θνητῷ βίῳ (Vysoky), *N 51 nisi per te sapias frustra sapientem audias - 865 ὡς οὐδὲν ἡ μάθησις div μὴ νοῦς παρῇ, O 9 opzime positum est beneficium, % ubi meminit qui accipit - 414 καλὸν τὸ θησαύρισμα κειμένη χάρις (Vysok$), P 9 pecunia È regimen est rerum omnium - 612 ὅπλον

μέγιστον ἐν βροτοῖς τὰ χρήματα (Giancotti), *P 23 per quae sis tutus illa semper cogites - 93 ἀεὶ κράτιστόν ἐστι τἀσφαλέστατον, *P 42 potest uti (così Bickford-Smith, potest ultus in codd.) adversis numquam felicitas - App. I, 48 J. τοῖς εὐτυχοῦσι πάντα πίπτει | εὐκόλως, P 48 post calamitatem memoria alia est calamitas - 589 οὐ χρὴ φέρειν —

230 —

PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE GNOMOLOGICA

τὰ πρόσθεν ἐν μνήμῃ κακά (Ribbeck), P 49 probo bona fama maxima est hereditas - 406 καλῶς ἀκούειν μᾶλλον ἢ πλουτεῖν θέλε (Woelfflin), P 52 plures amicos mensa quam mens accipit - 682 πολλοὶ τραπεζῶν οὐ φίλων εἰσὶν φίλοι (Vysoky), Q 9 quicquid conaris quo pervenias cogites - 111 βουλὴν ἅπαντος πράγματος προλάμβανε (Vysok$), Q 20 quem fama semel oppressit vix restituitur - 845 ψευδὴς διαβολὴ

τὸν βίον λυμαίνεται (Giancotti), Q 37 qui sibi non vivit aliis merito est mortuus - 775 τοῦτ᾽ ἐστὶ τὸ ζῆν μὴ σεαυτῷ ζῆν μόνον (Ribbeck), Q 45 qui se ipse laudat cito derisorem invenit -- 778 ὑπὲρ σεαυτοῦ μὴ φράσῃς ἐγκώμιον (Giancotti), S 4 sapiens contra omnia arma fert cum cogitat - 621 ὅπλον μέγιστόν ἐστιν ἀνθρώποις λόγος (Vysoky), S 7 sensus non aetas invenit sapientiam - 618 οὐχ αἱ τρίχες ποιοῦσιν αἱ

λευκαὶ φρονεῖν (Vysoky), S 12 sapiens cum petitur si tacet breviter neφαΐ - 308 ἡ γὰρ σιωπὴ μαρτυρεῖ τὸ μὴ θέλειν (Ribbeck), S 18 sibi ipse dat supplicium quem admissi pudet - 315 ἡ δὲ μετάνοια γίγνετ᾽ ἀνθρώποις κρίσις (Ribbeck), S 20 szultum est ulcisci velle alium poena sua - 224 ἐχθροὺς ἀμύνου μὴ Ti τῇ σαυτοῦ βλάβῃ (Vysoky), *S 25 stultum est queri de adversis ubi culpa est tua - 266 ἔλεγχε σαυτὸν ὅστις εἶ πράττων κακῶς, S 30 spes inopem res avarum mors miserum iuvat - 30 ἄνθρωπος ἀτυχῶν σῴζεθ᾽ ὑπὸ τῆς ἐλπίδος (Giancotti), 5 41 sat magna usura est pro beneficio memoria, cfr. O 9 (Woelfflin), *T 2 taciturnitas stulto homini pro sapientia

est - 258 ἐνίοις τὸ σιγᾶν

κρεῖττόν ἐστι τοῦ λαλεῖν, U 15 ubi coepit ditem pauper imitari perit - 636 πένης ὑπάρχων μὴ φρόνει tà πλουσίων (Giancotti), U 30 ubi iudicat qui accusat vis non lex valet - 404 κατηγορεῖν

οὐκ ἔστι kai

κρίνειν ὁμοῦ (Giancotti).! A me pare quindi verisimile che una o più raccolte di sentenze con delle affinità rispetto alle γνῶμαι uovéotiyor pubblicate dallo Jäkel siano state presenti all’antologizzatore di Publilio. Ma il compilatore scelse anche temi che noi non incontriamo nelle Menandhri sententiae (se poi fossero presenti nelle raccolte che circolavano nel I secolo avanti e dopo Cristo non possiamo saperlo). Ci viene a questo proposito in soccorso lo Stobeo; che i titoli dello Stobeo e in generale la

sua raccolta abbiano origini più antiche della raccolta di Publilio pare

assodato.?° Sul pudore abbiamo numerose sentenze publiliane: P 4, P

15 Cfr. anche Theodectes TrGF 72 F 10, 7 κρατοῦσι (κρινοῦσι Nauck) δ᾽ οἵπερ καὶ κατηγοροῦσί μου. 20 Cfr. O. HENSE in RE, IX.2 (1916), s.v. Ioannes Stobaios, coll. 2576-2577; cfr. an-

che R.M. PICCIONE, Sulle citazioni euripidee in Stobeo e sulla struttura dell’«Anthologion», «Riv. di Filologia e Istr. class.», CXXII, 1994, pp. 200-205.



231 —

CARLO MARTINO LUCARINI

6, P_10, P 41, 45, 5 2, Ὁ 9; da un lato lo si esalta (S 2 spes est salutis ubi hominem obiurgat pudor, U 9 ubicumque pudor est semper ibi sancta est fides), dall’altro si dice (P 41) pudorem habere servitus quodammodo est. Nelle superstiti yvöuaı μονόστιχοι il tema del pudor non ricorre, mentre lo Stobeo offre sull'argomento lo stesso schema ψόγος ἔπαινος che troviamo in Publilio: cfr. III 31, 5 (περὶ αἰδοῦς) = Men. fr. 262 K.-A. πᾶς ἐρυθριῶν χρηστὸς εἶναί μοι δοκεῖ e INI 32, 2 (περὶ ἀναιδείας) = tr. ad. fr. 556 K.-S. αἰδὼς ἀπώλεσ᾽ αὐτὸν, ἐρρέτω κακή"7) πολλὴν γὰρ αὐτὴν δειλὸς dv ἐκτήσατο. Alcune sentenze publiliane si legano al tema dell’ ἔπαινος τόλμης: A 43 audendo virtus crescit tardando timor, I 30 in rebus dubiis plurimi est audacia, N 50 nemo timendo ad summum pervenit locum, P 50 pericla qui audet ante vincit quam

accipit, U 29 virtutis omnis impedimentum

est

timor; mentre le sentenze menandree non offrono paragoni adeguati, lo Stobeo nei capitoli περὶ ἀνδρείας ed ἔπαινος τόλμης pare offrirli: Eur. fr. 302 N.? θάρσος δὲ πρὸς τὰς συμφορὰς μέγα σθένει (già richiamato da Vysok$ per I 30), Eur. fr. 240, 3 N.? τίς τῶν μεγίστων δειλὸς dv ὠρέξατο;, Soph. fr. 351 R. ὅστις δὲ τόλμῃ πρὸς τὸ δεινὸν ἐρχεται / ὀρθὴ μὲν ἡ γλῶσσ᾽ ἐστίν, ἀσφαλὴς δ᾽ ὁ νοῦς. Anche qui pare lecito immaginare

che l’antologizzatore

avesse

in mente

gno-

mologi nei quali era presente il tema dell’ ἔπαινος τόλμης ed abbia quindi antologizzato sentenze quali quelle sopra riportate. A proposito di A 27 animo dolenti nil oportet credere Giancotti ha richiamato Sen. Troades, 545-546 est quidem iniustus dolor rerum aestimator; forse anche D 23 difficile est dolori convenire cum patientia va collegata allo stesso tema se si accetta la lezione sapientia di H F in luogo di patientia di $. Preme comunque di osservare che mentre le γνῶμαι μονόστιχοι non offrono nulla di paragonabile, i capitoli περὶ ὀργῆς e περὶ λύπης dello Stobeo contengono rispettivamente fra l’altro i seguenti passi: Eur. fr. 1039 N.? ὁ θυμὸς ἀλγῶν ἀσφάλειαν οὐκ ἔχει e Philem. fr. 147 K.-A. ἀγαθὴ γὰρ ἡ λύπη καθ᾽ αὑτῆς ἀναπλάσαι / ἀτεχνῶς διπλάσια τῆς ἀληθείας κακά. Anche il tema della consuetudo consente osservazioni analoghe; queste le sentenze publiliane: A 52 aegre reprendas quod sinas consuescere, B 2 bonarum rerum consuetudo pessima est, C 4 cui semper dederis ubi neges rapere imperes, E 19 etiam imperium

bonis malum

consuetudinis,

saepe est adsuescere, H

11 heu quam

G

miserum

8 gravissimum

est

est discere servire,

+ ubi sis doctus dominari. Le sentenze menandree non conservano nulla sul tema della συνήθεια, ma lo Stobeo nei capitoli περὶ πολιτείας e περὶ νόμων καὶ ἠθῶν riporta sentenze quali Men. fr. 767 K.A. ἔργον ἐστί, Pavia / μακρὰν συνήθειαν βραχεῖ λῦσαι χρόνῳ, id. fr. 52 K.-A. τὸ γὰρ σύνηθες οὐδαμοῦ παροπτέον (è fra l’altro note—

232 —

PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE GNOMOLOGICA

vole la somiglianza quest’ultimo verso e G 8 e pure il fr. 767 assomiglia ad A 52).2! Anche la Comparatio Menandri et Philistionis, testo notoriamente messo assieme diversi secoli dopo la raccolta publiliana, presenta sporadiche coincidenze colla nostra raccolta; un bel parallelo lo ha individuato Giancotti tra I 16 ita amicum habeas ne sit inimico locus e

Comp. 1 45-46 μυστήριόν σου μήποθ᾽ εἴπῃς τῷ φίλῳ / κοὐ μὴ φοβηθῇς αὐτὸν ἐχθρὸν γενόμενον. Aggiungo P 33 pereundi scire tempus assidue est mori da confrontare con Comp. I 21-22 ὅστις κάτοιδε τοῦ piov τὴν ἔκβασιν / μαθὼν ὀδυνᾶται προσδοκῶν καθ᾽ ἡμέραν e Q 64 qui invitus servit fit miser servit tamen da confrontare con Comp. I 267 δούλενε, δοῦλε, μᾶλλον ἐκ βουλήσεως.

Il POxy 3004 è l’unico testimone a noi noto della sentenza ζῶ]ν εἵνεκ᾽ αὐτῶν ἀπόδος αὐτοῖς τὴν xalpıy; è probabile che qui si alluda ai genitori e probabilmente ai genitori si riferiva pure S 5 sanctissimum est meminisse cui te debeas. Abbiamo finora cercato di stabilire corrispondenze fra le sentenze di Publilio e singoli gnomologi che hanno a che vedere con le Guomai menandree; eppure per un gran numero di nuclei tematici non è possibile stabilire corrispondenze con nessuno gnomologio in particolare, solo notare come il tema fosse tipico della letteratura gnomologica. Questo avrà comunque una sua utilità, poiché costituirà un’ulteriore prova a favore dell’idea che la raccolta publiliana è uno gnomologio, come gnomologi sono le γνῶμαι μονόστιχοι e lo Stobeo, non una raccolta di sentenze fatta da un filosofo con fini parenetici. Un certo numero di sentenze publiliane parla della necessità che i colpevoli vengano puniti e del danno che arrecano alla vita civile gli ingiusti che godono di buona fortuna: C 45 crebro ignoscendo facies de stulto improbum,

D 26 dissolvitur lex cum fit iudex misericors, F 10

felix improbitas optimorum est calamitas, I 28 iudex damnatur ubi nocens absolvitur, I 55 iniuriam ipse facias ubi non vindices, M 4 mala

causa est quae requirit misericordiam, N 45 nocentem qui defendit sibi crimen parit; questi argomenti erano tipici degli gnomologi, cfr. Mon. 21 Per U 20 utrumque casum preti se con gui imperat si debba ad loc.); in favore della seconda ἀρχῆς καὶ περὶ τοῦ ὁποῖον χρὴ

aspicere debet qui imperat non c’è accordo fra gli interintendere un giudice o un capo politico (cfr. FRIEDRICH ipotesi milita il titolo di un capitolo dello Stobeo (περὶ εἶναι τὸν ἄρχοντα) che contiene fra l’altro la citazione

da Eur. Held. 179-180: τίς ἂν δίκην κρίνειεν ἢ δοίη λόγον / πρὶν ἂν παρ᾽ ἀμφοῖν μῦθον ἐκμάθῃ σαφῶς;

-

233



CARLO MARTINO LUCARINI

174 δίκαιος εἶναι μᾶλλον ἢ χρηστὸς θέλε (per la cui interpretazione vedi supra) e il capitolo περὶ τῶν παρ᾽ ἀξίαν εὐτυχούντων dello Stobeo, in particolare per F 10 la citazione da Eur. Suppl. 423-424 È) δὴ νοσῶδες τοῦτο τοῖς ἀμείνοσιν, / ὅταν πονηρὸς ἀξίωμ᾽ ἀνὴρ ἔχῃ. Ho citato ora alcune sentenze di biasimo verso la misericordia, ma ve ne sono anche di questo tipo: B 34 bona comparat praesidia misericordia, H 4 homo qui in homine calamitoso est misericors meminit sui, M 21 + misereri scire sine periclo est vivere, M 42 multa ignoscendo fit potens potentior, M 59 misericors civis patriae est consolatio, N 41 nullo in loco male audit misericordia, P 26 potens misericors publica est felicitas,

P 51 perpetuo vincit qui utitur clementia. Pure queste osserva-

zioni trovano corrispondenze negli gnomologi greci, cfr. Mon. 717 σωτηρίας σημεῖον ἥμερος τρόπος e Stobeo III 37, 10 (περὶ χρηστότητος) = Men. fr. 261 K.-A. χρηστοὺς νομιζομένους, ἐφόδιον ἀσφαλές / εἰς πάντα καιρὸν καὶ τύχης πᾶσαν ῥοπήν (qui mi pare che la somiglianza fra quest’ultimo fr. menandreo e B 34 ed M 21 autorizzino a pensare che Publilio aveva nella mente il teatro di Menandro). Di Publilio

possediamo quattro versi sulla suspicio: A 7 ad tristem partem strenua est suspicio, S 36 suspicio sibi ipsa rivales parit, S 45 suspiciosus om-

nium damnat fidem, S 46 suspicio probatis tacita iniuria est. Lo Stobeo non dä paralleli, ma che lo ψόγος ὑπονοίας fosse presente nella letteratura gnomologica è sufficiente a garantirlo Mon. 780 ὑπόνοια δεινόν ἐστιν ἀνθρώποις κακόν. Il tema del silenzio ricorre nelle seguenti sentenze: S 12 sapiens cum petitur si tacet graviter negat, T 2 taciturnitas stulto homini pro sapientia est; questo tema ricorre in al-

cuni Monostici (e.g. 521, 566) e 258 (ἐνίοις τὸ σιγᾶν κρεῖττόν ἐστι τοῦ λαλεῖν) offre un pensiero simile a T 2; pure lo Stobeo ha un capitolo περὶ σιγῆς (III 33) ove si leggono molti trimetri giambici in elogio del silenzio. Pure il tema del rapporto fra superiori e sottoposti è ben rappresentato sia in Publilio (cfr. C 41, D 25, D 27, F 29, F 33, I 1, M 14, M 64, P 24, P 37, Q 44, Q 64) sia nei Monostici (e.g. 176, 449, 858), sia nel capitolo περὶ δεσποτῶν καὶ δούλων (IV 19) dello Stobeo sia in POxy 3006, 10. Il tema della παρρησία, se coglie nel segno un emendamento

del Friedrich, s'incontra a I 62 insa-

nae (invectibile codd.) vocis numquam libertas tacet; né il tema è ignoto alle sentenze di Menandro (cfr. in particolare simile alla testé citata sentenza publiliana Mon. 60 ἀνουθέτητόν ἐστιν ἡ παρρησία), così come è presente nel cap. περὶ παρρησίας (III 13) dello Stobeo. Citavo prima per M 72 (malum ne alienum feceris tuum gaudium) Mon. 580, ma pure lo Stobeo ha un capitolo (IV 48a-b) ὅτι οὐ χρὴ ἐπιχαίρειν τοῖς ἀτυχοῦσιν ὅτι οἱ ἀτυχοῦντες χρήζουσι τῶν συμπασχόντων. Alcuni versi di Publilio parlano dell'opportunità e del va-

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PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE GNOMOLOGICA

lore del pentimento dopo un’azione errata, cfr. C 40 cito culpam effugere pote quem culpae poenitet, S 18 sibi supplicium ipse dat quem admissi paenitet. Per S 18 già Ribbeck ha richiamato Mon. 315 (vedi supra), per C 40 si può richiamare il titolo del perduto capitolo dello Stobeo (II, 24) ὅτι ἐν οἷς πλημμελεῖ τις τὸ μεταμελεῖσθαι κάλλιστον. Due sentenze trattano dei medici, C 5 ed Μ 24; il tema è sia

nei Monostici (379, 659) sia nel capitolo περὶ ἰατρῶν καὶ ἰατρικῆς (IV 38) dello Stobeo. Sui nemici Publilio ha molti versi: C 7 cum inimico nemo in gratiam tuto redit, D 5 de inimico non loquaris male sed cogites, G 7 gravis est inimicus is qui latet in pectore, I 2 inimicum ul-

cisci vitam accipere est alteram, I 16 ita amicum habeas posse ut facile fieri bunc inimicum putes, I 20 iratum breviter vites inimicum diu, I 26 inimicum quamvis humilem docti est metuere, I 45 iucunda macula est ex inimici sanguine, I 57 inimici ad animum nullae conveniunt preces, I 58 inimico extincto exitium lacrimae non habent. I Monostici trattano per lo più l'argomento

colle stesse idee (cfr. 237, 239, 451,

un po’ differente 5). Anche lo Stobeo (II 40) aveva un capitolo περὶ ἔχθρας kai τοῦ ὁποῖόν τινα χρὴ εἶναι πρὸς τοὺς ἐχθρούς. Dell’op-

portunità di dimenticare i mali passati parla P 48 per cui già il Ribbeck ha richiamato Mon. 589 (vedi supra); pure lo Stobeo ha un capitolo περὶ λήθης (III 26) ove è citato tra l’altro Eur. Or. 213-214: ὦ πότνια λήθη τῶν κακῶν, ὡς εἶ σοφή, / καὶ τοῖσι δυστυχοῦσιν εὐκταία θεός. Del tema del beneficium troviamo una trattazione coerente e coincidente nelle sentenze di Publilio e nelle γνῶμαι μονόστιχοι; in entrambe le raccolte v'è una costante esortazione al χάριτας yapiζεσθαι e all'essere memori dei benefici ricevuti. Do qui di seguito tutte le sentenze di entrambe le raccolte che poi commenterò: B 1 bis fiet gratum quod opus est si ultro offeras, B 3 beneficium dare qui nescit iniuste petit, B 5 beneficium accipere libertatem est vendere, B 8 beneficia plura recipit qui scit reddere, B 12 beneficium dando accepit qui digno dedit, B 15 beneficium qui dedisse se dicit petit,

B 17 beneficium saepe dare docere est reddere, B 22 beni-

gnus etiam causam dandi cogitat, B 35 beneficium dignis ubi des omnes obliges, B 37 beneficia donari aut mali aut stulti putant, D 4 dixeris male dicta cuncta cum ingratum bominem dixeris, D 19 duplex fit bonitas simul accessit celeritas, F 7 fraus est accipere quod non possis reddere, F 30 facile invenies qui bene faciant cum qui fecerunt coles, I 6 inopi beneficium bis dat qui dat celeriter, I 14 ingratus unus omnibus miseris nocet,

140 ingrata sunt beneficia quibus comes est me-

tus, M 1 malignos fieri maxime ingrati docent, N 60 non leve beneficium praestat qui breviter negat, O 9 optime positum est beneficium } ubi meminit qui accipit, P 18 perdit non donat qui dat nisi sit memo—

235—

CARLO MARTINO LUCARINI

ria, Ῥ 20 pars benefici est quod petitur si belle neges, P 44 probo beneficium qui dat ex parte accipit, Q 30 quicquid bono concedas des partem tibi, Q 39 qui expectat ut rogetur officium levat, R 5 rapere est accipere quod non possis reddere, S 41 sat magna usura est pro beneficio memoria, Mon. 12 ἀχάριστος ὅστις εὖ παθὼν duvnuoveî, 42-43 ἀεὶ δ᾽ ὁ σωθείς ἐστιν ἀχάριστος φύσει / ἅμ᾽ ἠλέηται καὶ τέθνηκεν ἡ χάpic, 49 ἀνὴρ ἀχάριστος μὴ νομιζέσθω φίλος, 198 δίδου πένησιν ὡς λάβῃς θεὸν δότην, 243-244 ἐπιλανθάνονται πάντες οἱ παθόντες εὖ, 7 ἔνιοι δὲ καὶ μισοῦσι τοὺς εὐεργέτας, 414 καλὸν τὸ θησαύρισμα κειμένη

χάρις, 443

λαβὼν

ἀπόδος,

ἄνθρωπε,

καὶ

λήψῃ

πάλιν, 477

μετὰ τὴν δόσιν τάχιστα γηράσκει χάρις, 739 τὸν εὖ ποιοῦνθ᾽ ἕκαστος ἠδέως ὁρᾷ, 743 τέθνηκ᾽ ἐν ἀνθρώποισιν πᾶσα «γὰρ» χάρις, 824 χάριν φίλοις εὔκαιρον ἀπόδος ἐμ μέρει, 825 χάριν χαρίζου, καθ᾽ ὅσον ἰσχύειν δοκεῖς, 827 χάριν λαβὼν μέμνησο καὶ δοὺς ἐπιλαθοῦ, 828 χάριτας δικαίας καὶ δίδου καὶ λάμβανε, 872 ὡς μέγα τὸ μικρόν

ἐστιν ἐν καιρῷ δοθέν. Coll’eccezione di B 5 il beneficium è sempre

considerato positivamente; si insegna con coerenza a essere prodighi

di benefici, a ricambiare i nostri benefattori, a non far pesare i nostri atti generosi. Su due punti Publilio dice più che le Menandri sententiae, sull'opportunità che i benefici vengano fatti a chi ne è degno e che essi vengano fatti al momento opportuno con celerità, mentre la raccolta greca afferma più volte che l’ingratitudine è la regola, cosa che in Publilio non si trova mai. E probabile che questi tre argomenti che Publilio e le γνῶμαι μονόστιχοι presentano da soli fossero ben rappresentati nella tradizione gnomologica; lo mostrano i capitoli 4246 del II libro dello Stobeo; eccone i titoli: περὶ τοῦ εὐεργετεῖν, ὅτι μείζων ἡ χάρις ἐν καιρῷ δοθεῖσα, περὶ τοῦ ἀντευεργετεῖν, ὅτι τοὺς πονηροὺς οὐ χρὴ εὖ ποιεῖν οὐδὲ παρ᾽ αὐτῶν εὐεργετεῖσθαι,2 περὶ ἀχαριστίας. Di questi cinque capitoli purtroppo possediamo solo l’ultimo; comunque che i temi conservati dal solo Publilio fossero pure nello Stobeo sembrano garantirlo i titoli dei capitoli 43 e 45, mentre il capitolo 46 περὶ ἀχαριστίας ci dà la certezza che l'osservazione delle Menandri sententiae che l’ingratitudine è la regola fosse anche in altri gnomologi, cfr. i versi ivi citati di Anaxandr. fr. 69 K.-A. οὐχὶ παρὰ πολλοῖς ἡ χάρις τίκτει χάριν e di Soph. Azax, 1267 χάρις διαρρεῖ καὶ προδοῦσ᾽ ἁλίσκεται. A proposito dei temi della clemenza e del beneficio Giancotti ritiene che il modo come questi argomenti

vengono sviluppati nella raccolta publiliana mostri «il rilievo notevole che nel mondo

2 Cfr.

delle sentenze publiliane ha la solidarietà umana»

H 29 honestum laedis cum pro indigno intervenis.

— 236 —

PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE GNOMOLOGICA

(Mimo, p. 414); eppure per il tema della clementia/misericordia abbiamo mostrato sopra come Publilio dovesse avere presenti pensieri menandrei (accolti negli gnomologi) ove sulla zisericordia si dava un giudizio tutt'altro che univoco. Per quello del bezeficium senz'altro i pensieri publiliani sono più coerenti e l'osservazione di Giancotti è più calzante; eppure anche qui limitarsi all'osservazione sulla «solidarietà umana» come fa Giancotti porta a dimenticare le coincidenze

di pensiero fra Publilio e i suoi modelli teatrali greci (cfr. e.g. B 8 e

Mon. 443) e l’accoglienza che queste osservazioni avevano trovato negli gnomologi. Altro tema ricorrente sia in Publilio sia negli altri gnomologi è che non bisogna chiedere aiuto a persone indegne: I 4 ingenuitatem laedas cum indignum roges; cfr. Mon. 64 ἀνδρῶν δικαίων ἔρχε᾽ εἰς σωτηρίαν e il titolo di Stobeo II 45 ὅτι τοὺς πονηροὺς οὐ χρὴ εὖ ποιεῖν οὐδὲ παρ᾽ αὐτῶν εὐεργετεῖσθαι, capitolo perduto. Anche sulla δόξα è riconoscibile un pensiero abbastanza coerente all’interno della letteratura gnomologica: B 19 bona opinio hominum tutior pecunia est, B 27 bona fama in tenebris proprium splendorem tenet, B 40 bene audire } alterum patrimonium est, C 27 cui omnes bene dicunt possidet populi bona, H 15 honestus rumor alterum est patrimonium, P 49 probo bona fama maxima est hereditas, Mon. 192 δίωκε δόξαν κἀρετὴν, φεῦγε ψόγον, 270 ζήτει σεαυτῷ καταλιπεῖν εὐδοξί-

αν, 683 πλούτου γὰρ ἀρετὴν, δόξαν ἐξ αὐτῆς ποίει; anche i capitoli 17-18 del secondo libro dello Stobeo (perduti) trattavano rispettivamente περὶ εὐδοξίας e περὶ φήμης ed è presumibile contenessero un coerente elogio della bona fama. Sul lucrum così si esprime Publilio: D 13 damnum appellandum est cum mala fama lucrum, L 6 lucrum sine damno alterius fieri non potest. Mentre per L 6 non sono in grado d’indicare paralleli, per D 13 bisogna osservare che il tema del /ucrum è trattato in maniera coerente nello stesso modo della nostra sentenza anche in molti Monostici (cfr. Mon. 8, 119, 288, 405, 422; 406, 729, 755), nel capitolo περὶ ἀδικίας dello Stobeo e nel PHarris II 170, forse imparentato, come ipotizza il suo editore, E. Livrea, colla fonte del summemorato capitolo dello Stobeo.? Sulla potenza della coxscientia hanno pure pensieri comuni: C 16 conscientia animi nullas invenit linguae preces, C 33 cicatrix conscientiae pro vulnere est, E 21 etiam sine lege poena est conscientia, F 31 frenos imponit linguae conscientia, H 25 heu conscientia animi gravis est servitus, O 8 o tacitum tormentum animi conscientia!, Mon. 81 ἅπασιςν» ἡμῖν ἡ συνείδησις

2 Cfr. The Rendel Harris Papyri, II, Zutphen, Terra Publishing & Co. 18.

— 237—

1985, pp. 9-

CARLO

MARTINO

LUCARINI

θεός e il capitolo περὶ τοῦ συνειδότος (III 24) dello Stobeo ha versi come Men. fr. 745 K.-A. ὁ συνιστορῶν αὐτῷ τι κἂν ἦ θρασύτατος, / ἡ σύνεσις αὐτὸν δειλότατον εἶναι ποιεῖ. Sulla difficoltà di superare l’ira abbiamo I 22 zracundiam qui vincit hostem superat maximum, a proposito del quale, oltre a Mon. 269 (Vysoky), si può richiamare dal capitolo III 20 dello Stobeo (περὶ ὀργῆς) Men. fr. 740 K.-A. ὅσος τὸ κατέχειν ἐστὶ τὴν ὀργὴν πόνος. Anche la condanna dell’avarizia è ben rappresentata nelle sentenze publiliane e una delle più celebri sentenze di Publilio Siro, T 3 tam deest avaro quod habet quam quod non habet, mi pare trovare in un frammento di Filemone (116 K.-A.) conservato nel capitolo περὶ φειδωλίας dello Stobeo il parallelo più stringente: dv οἷς ἔχομεν τούτοισι μηδὲ χρώμεθα, / d δ᾽ οὐκ ἔχομεν ζητῶμεν, ὧν μὲν διὰ τύχην, 7 ὧν δὲ δι᾽ ἑαυτοὺς ἐσόμεθ᾽ ἐστερημένοι.2 Se di molta parte delle sentenze publiliane è possibile indicare paralleli nella gnomologia greca rimane un gruppo di sentenze per cui non sono riuscito a individuare corrispondenze. Si tratta di tutte quelle sentenze secondo le quali il vir bonus, se colpito da un’ingiustizia, è meno capace di sopportarla di un iniquo: Β 10 bonus animus laesus gravius multo irascitur, C 15 contumeliam

nec fortis potest nec inge-

nuus pati, I 54 ingenuus animus non fert vocis verbera, N 34 nocens precatur innocens irascitur, T 4 tarde sed graviter sapiens + trascitur.

In conclusione a me pare che tutto il materiale publiliano che trova corrispondenze negli gnomologi greci indichi con sicurezza che chi ha antologizzato queste sentenze dai mimi di Publilio era a conoscenza di gnomologi (sicuramente greci) in cui erano stati accolti i temi che sopra abbiamo indicato; se così è cade tutto quello che sulla genesi della raccolta ha proposto Giancotti, il quale, prescindendo completamente dalla tradizione gnomologica e cercando rapporti con Seneca, si è precluso l'indagine di quello che è il genere letterario all’interno del quale vanno inserite le Publilii sententiae. Né credo si possa confermare l’ipotesi del Kalbfleisch secondo la quale le Menandri sententiae furono il modello del raccoglitore. Rispetto alla tesi di Giancotti quella di Kalbfleisch ha di sicuro il merito di riportare le sentenze publiliane all’interno del genere che loro appartiene; ed è altresì vero che l’essere la raccolta publiliana in monostici, ordinati alfabetica-

24 Una corrispondenza menandrea è forse possibile indicare per un altro dei più famosi versi publiliani, A 31 amoris vulnus idem sanat qui facit; cfr. Men. fr. 644 K.-A.: οὐχ ὅθεν ἀπωλόμεσθα (Koerte, malim: ἀπωλλύμεσθα K.-A.) σωθείημεν dv; Ma è troppo dub-

bia l’interpretazione del luogo menandreo perché si possa andare oltre la mera ipotesi.



238 —

PUBLILIO SIRO E LA TRADIZIONE

GNOMOLOGICA

mente, come lo sono le Menandri sententiae, e non, ad esempio, per argomento, dà forza all’idea del Kalbfleisch. Eppure quello che a noi resta dell’antica letteratura gnomologica non consente assolutamente di ritenere più che un'ipotesi quanto afferma lo studioso tedesco: troppo labili sono i punti di accordo fra le due raccolte. Con sicurezza mi pare invece si possa immaginare che chi ha messo assieme le sentenze (e anche se il raccoglitore non fu unico, ciò non contrasta con quanto affermo) dovette avere nella mente forme della letteratura gnomologica fra le quali dovettero esservi raccolte che presentavano somiglianze (non siamo in grado di determinare fino a che punto) con quello che della gnomologia greca è giunto a noi.



239 —

RosA

MARIA

PICCIONE

LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE FONTI, MODELLI, ARCHITETTURE Questo intervento vuole render conto di parte dei risultati di una ricerca più ampia che ha come oggetto la letteratura ‘di raccolta’ del tardo-antico e di età bizantina, osservata nella sua sistematicità, come fenomeno letterario. Volendo offrire qui un quadro sui caratteri di questa Literaturgattung nella sua produzione in lingua greca e nella fase di passaggio tra l’etä imperiale e Bisanzio, la scelta non poteva che cadere sui due prodotti in qualche modo più noti, l’Artbologion dello Stobeo e l’Antbolognomicon di Orione. Di una sola delle due raccolte, quella dello Stobeo,

siamo in grado in realtà di ricostruire

una redazione che dia idea di compiutezza, mentre nel caso di Orione la riduzione estrema del testo a noi pervenuto consente solo di precisare alcuni dettagli. Proprio in ragione della maggior estensione della silloge e di una sua qualche completezza, questa riflessione su fonti, modelli e architetture muoverà dal cosiddetto Anzhologion, sintesi di una gamma ampia e molteplice di problemi relativi ai modi di elaborazione del patrimonio gnomologico, nonché alla genesi e alla trasmissione di questa tipologia testuale. I. U«ANTHOLOGION»

DI GIOVANNI

STOBEO

Questa raccolta è senza ombra di dubbio la più significativa di tutto il tardo-antico. In sé, sia per la tipologia del materiale citato, sia per la ricchezza di esso, l’opera si presenta, come ho già detto altrove, quale ricco bacino di confluenza della tradizione gnomologica antecedente e, per contro, di defluenza per quella a venire,! in quel proliferare di collectanea che diverranno caratteristica della tradizione e

1 Cfr. R.M. PICCIONE, Sulle citazioni euripidee in Stobeo e sulla struttura dell’ ‘Anthologion’, «RFIC», CXXL, 1994, pp. 175-218: 218.

— 241—

ROSA MARIA PICCIONE

dell’elaborazione della cultura a Bisanzio, ivi compresi anche i cosiddetti florilegi sacro-profani.? Per i problemi che offrono allo studioso,

i quattro volumi dell’Arzbologion? si presentano come esemplare paradigmatico per la comprensione dei metodi di lavoro dei florilegisti e delle questioni relative alla trasmissione di testi di questa natura. Alludo alla possibilità di identificare diverse tipologie di approccio al testo ridotto in estratti, di distinguere gli interventi su di esso, i meccanismi di stratificazione del materiale, eventuali nuclei di accrescimento recenziori e così via.

Come è noto, nulla sappiamo dell’autore dell’Arthologion, Gio-

vanni di Stobi.' Controversa è per di più anche la trasmissione del testo della raccolta, datata al V secolo sulla base di criteri interni” Tràdita in due parti distinte, ciascuna delle quali ha goduto di diversa fortuna, è conservata infatti in una redazione gravemente ridotta nei primi due libri, le cosiddette Eclogae, mentre negli ultimi due, il Florilegium, pur avendo conservato la struttura originaria, presenta una tradizione manoscritta divisa in due rami sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro, sia nella successione delle sentenze che per il mate-

2 Mi riferisco, per citarne solo alcuni, al Florilegium Laurentianum (Laur. plut. VII 22), al Corpus Parisinum (Par. gr. 1168 e Oxon. Bodl. Digby 6), al Voss. gr. 0.9, e ancora alle raccolte di sicura paternità, come la Ῥωδονιά di Macario Crisocefalo o il Violarium

di Arsenio Apostolio. Per uno sguardo d’insieme cfr. M. RICHARD, Florilèges spirituels grecs, in Dictionnaire de Spiritualité, fasc. XXXII-XXXIV, Paris, Beauchesne 1962, coll. 475-512; Ὁ. GUTAS, Greek Wisdom Literature in Arabic Translation. A Study of the Graeco-

Arabic Gnomologia, New Heaven, American Oriental Society 1975, pp. 9-35; D.M. SEARBY, Aristotle in the Greek Gnomological Tradition, Uppsala, Acta Universitatis Upsaliensis 1998, pp. 28-70. 3 L’edizione di riferimento, sia pure datata, rimane quella a cura di CURT WACHSMUTH

ed OTTO HENSE: Ioannis Stobaei Anthologii libri duo priores, I-II, ed. C. W., Berolini, Weidmann

1884; Libri duo posteriores, III-V, ed. O. H., Berolini, Weidmann

1894 (III) -

1909 (IV) - 1912 (V) (rist. Berolini 1958, con indice degli autori pubbl. da Hense, 1923). 4 In Fozio (Bibl., cod. 167) il titolo della raccolta è ἐκλογῶν, ἀποφθεγμάτων, ὑποθηκῶν, βιβλία τέσσαρα ma ᾿Ανθολόγιον troviamo in Esichio di Mileto (s.v. Ἰωάννης Στοβεύς,

così successivamente in Suid. 1 466 Adler). Una presentazione dello status quaestionis in 7. MANSFELD - D.T. RUNIA, Aétiana. The Method and Intellectual Context of a Doxographer, I, The Sources, Leiden, Brill 1997, pp. 196-271; cfr. anche R. GOULET in Dictionnaire des philosopbes antiques, III, Paris, CNRS Editions 2000, s.v. Jean Stobée. Un’introduzione

generale e una proposta di interpretazione in R.M. PICCIONE, Encyclopedisme et ‘enkyklios paideia’? A propos de Jean Stobée et de l’“Anthologion’, «Philosophie Antique», II, 2002, pp. 169-197.

3 Terminus post quer è il retore Temistio, morto intorno al 388, la cui presenza nella raccolta, tuttavia, non ne avalla con certezza la datazione ai primi decenni del V secolo.

Cfr. O. HENSE, RE IX, col. 2549: «So darf man denn die nicht direkt bezeugte Lebenszeit des Stobaios in die ersten Jahrzehnte des 5. Jhdts. setzen: er zitiert unter Ausschluß christlicher Schriftsteller den Themistios».

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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

riale citato. Ma la complessità della trasmissione dell’Arthologion — e di opere di tale natura - è legata fisiologicamente proprio alla sua costituzione: nel testo non vi è corpo altro rispetto a quello dei passi citati, i quali ne costituiscono la materia, che si sviluppa su un’ossatura fornita dalla strutturazione in capitoli. Pur essendo di norma associato ai prodotti della cosiddetta Buntschriftstellerei, quali ad esem-

pio i Deipnosofisti di Ateneo, gli Stromati di Clemente Alessandrino o i Saturnali di Macrobio, l’Anthologion è in realtà del tutto privo di una qualsivoglia forma di contesto, di uno scenario all’interno del quale vengano impiantati e connessi fra di loro segmenti di testi altrui. Le uniche zuncturae — oltre, naturalmente, ai titoli dei singoli capitoli - sono i sobri e schematici lemmi che introducono le sentenze, i quali si limitano di norma a segnalare il nome dell’autore ed il titolo dell’opera da cui il passo è citato. Data la singolare fisionomia del testo, è facile comprendere come fenomeni di accrescimento e di riduzione possano averne alterato il tessuto, senza naturalmente che se ne colga il minimo indizio. Grave è dunque la problematicità di un tentativo di corstitutio di un’opera del genere, a ragione ancor maggiore, se si considera che lo Stobeo, in tale disegno, rimane una figura nebulosa, la cui mano — nell’economia della raccolta — ha lasciato tracce difficilmente riconoscibili. Il presupposto da cui origina l’Arthologion è quello di costituire un testo partendo da tessere autonome per forma e contenuto, ricucite insieme sulla base di princìpi associativi di tipo argomentativo o lessicale, quali anelli di un filo conduttore che si spiega con la proposizione dei singoli temi. Il tessuto narrativo, dunque, è costruito dalle voci e dagli assunti della tradizione, con una varietà tipologica di testi -- παροιμίαι, γνῶμαι, χρεῖαι, ἀποφθέγματα ezc. —, che fa della raccolta una biblioteca del tutto unica. Ma l’intento dell’autore non è quello di collezionare aneddoti, zirabilia 0 testi curiosi, e neppure di catalogare aforismi o semplicemente di condensare sapienza. Da tale zibaldone di passi in versi e prosa non è riproposta solo saggezza in pillole, di facile uso, ma il sapere di tutta la tradizione greca, organizzato e classificato con gli occhi di un non indotto autore tardoantico. Questo è un elemento da non trascurare, che ci aiuta a capire l’evoluzione di tale Gattung: che cosa è in realtà uno gnomologio, e se questo per caso è da intendere come raccolta di estratti di contenuto sentenzioso, finalizzata all’apprendimento di massime etiche, sarà lecito definire gnomologio anche l’Arzthologion? L'osservazione sistematica

del materiale

confluito

nella raccolta

— 243 —

e, parallelamente,

dei

ROSA MARIA PICCIONE

princìpi di classificazione, conduce a constatare che lo Stobeo non si

è limitato a raccogliere γνῶμαι, e questo florilegio, la sua silloge di fiori della tradizione, non ha sempre un carattere gnomico, sentenzioso. La raccolta non è dunque solo uno gnomologio, nel senso che si è detto, ma piuttosto è l’esito di una fruttuosa combinazione di con-

fluenze e di innovazioni. Il contenitore rispecchia le tipologie canoniche della raccolta, così come siamo abituati a conoscerle dai papiri, ma a questa somiglianza formale non corrisponde un’affinitä di contenuto, se non in misura limitata. In buona sostanza possiamo dire che lo Stobeo ha raccolto l’ereditä di una tradizione, di cui i frustoli

di antologie su papiro sono testimonianza, riadattandola ad un nuovo contesto e piegandola ad una nuova funzione. Anche formalmente, infatti, l’assetto della raccolta permette qua e là di individuare forti somiglianze e tracce di processi di accrescimento da nuclei preesistenti, che possiamo mettere a confronto con il materiale papiraceo conservato. È possibile ad esempio isolare segmenti di monostici ordinati alfabeticamente (dalla lettera X a v in III 1, 67; lettere e-a-n in III 22, 26; cfr. anche IV 22b, 48-56), brandelli di gnomologi monografici o tematici (IV 19; IV 22g; IV 23),° compatte sezioni di precetti attri-

buiti ai Sette Saggi (III 1, 172-173), a Pitagora (III 1, 30-44), ad Epitteto (III 1, 125-171; III 9, 37-45; IV 5, 79-88) e così via. Parliamo di

semplici sentenze a carattere etico-didascalico, generalmente in versi.

Ma a tutto ciò si associa una parte cospicua — come quantità e valore contenutistico — del materiale selezionato e raccolto nell'antologia: mi riferisco al ruolo di assoluto rilievo che nella silloge giocano i passi in prosa, soprattutto gli excerpta dal testo dei filosofi. Basterà menzionare la generosa testimonianza di Platone, l’Epitome di etica stoica

di Ario Didimo, Aezio e la dossografia, Porfirio, Giamblico e i neoplatonici. Tale materiale non rientra nel repertorio canonico degli gnomologi e mancano adeguate possibilità di confronto con le antologie su papiro. La mia impressione (che deriva da un recente tentativo di analisi dell’architettura dell’opera e degli aspetti tecnici della composizione, e che dovrà essere ora convalidata da un attento vaglio del materiale filosofico) è che la raccolta dello Stobeo manifesti una struttura didattico-esegetica e un’unità programmatica, che si innestano sulla tradizione gnomologico-dossografica antecedente con un disegno culturale nuovo, organizzando un inventario generale del mondo

6 Sembra si possa parlare di nuclei originari di sentenze κατὰ στοιχεῖον, adattati successivamente ad altro materiale gnomologico. Cfr. PICCIONE, Sulle citazioni euripidee in Stobeo, cit., pp. 197-205.

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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

scandito in metafisica, fisica, logica, etica ed etica pratica (politica). Il capitolo che si trova in apertura, I’ ἔπαινος φιλοσοφίας, sembrerebbe essere la chiave in cui l’opera va letta, mentre la struttura della raccolta e così la scelta e la classificazione del materiale — specialmente per i filosofi — rivelerebbero un florilegista competente, caratterizzato da pretese dottrinali e da un forte influsso del Neoplatonismo.” Entriamo adesso nel merito della questione, illustrando alcune delle

caratteristiche peculiari della raccolta. Abbiamo detto che lo schele-

tro dell’opera, la sua struttura portante, risulta dalla proposizione degli argomenti da trattare, di cui sono analizzati i possibili aspetti, sviluppati per mezzo della giustapposizione delle voci della tradizione. Queste sono assemblate sulla base di princìpi associativi all’interno dei capitoli, nei quali è di norma rispettata la successione poesia-prosa, elemento noto già alla tradizione antologica antecedente? e di cui sembra vi sia una pur minima conferma, come vedremo, nella raccolta di Orione, L'organizzazione generale, che accentua il carattere didattico, procede sovente per contrapposizione di opposti — ἀρεταί κακίαι — e dal generale al particolare, ma non manca uno sviluppo dialettico del tema secondo un ἔπαινος, uno ψόγος ed una conclusiva σύγκρισις. Fsemplificativa è la serrata evoluzione tematica di IV 204-27: 204

Περὶ ᾿Αφροδίτης Πανδήμου παρεχούσης τὴν αἰτίαν τῆς γενέσεως τοῖς ἀνθρώποις καὶ περὶ ἔρωτος τῶν κατὰ τὸ .σῶμα ἡδονῶν

7 Non mi è possibile riprendere qui l’analisi della testimonianza foziana (cod. 167), di cui discuto in Ercyclopédisme et ‘enkyklios paideia’?, cit. In base al testo del patriarca si ritiene che lo Stobeo avrebbe costituito la raccolta di passi a vantaggio del figlio Settimio, per migliorarne la natura poco incline alla memorizzazione dei classici. Sulla base della struttura dell’opera e della successione dei capitoli ho tentato di proporre una nuova lettura, secondo cui l’opera non sarebbe stata destinata ad un'istruzione scolastica generalizzata e rivolta ad un destinatario unico, ma avrebbe avuto carattere protrettico.

8 giche negli ?

Su questo punto rimando alle considerazioni di C. PERNIGOTTI, Antologie gnomolosu papiro: materiali per una nuova analisi del problema, di prossima pubblicazione Azti del XXIII Congresso Internazionale di Papirologia (Vienna, 23-28 Luglio 2001). Il procedere per confronto di opposti è chiaro ad es. nella successione di III 1-20:

1 Περὶ ἀρετῆς; 2 Περὶ κακίας; 3 Περὶ φρονήσεως; 4 Περὶ ἀφροσύνης; 5 Περὶ σωφροσύνης; 6 Περὶ ἀκολασίας; 7 Περὶ ἀνδρείας; 8 Περὶ δειλίας; 9 Περὶ δικαιοσύνης; 10 Περὶ πλεονεξίας καὶ ἀδικίας; 11 Περὶ ἀληθείας; 12 Περὶ ψεύδους; 13 Περὶ παρρησίας; 14 Περὶ κολακείας; 15 Περὶ ἀσωτίας; 16 Περὶ φειδωλίας; 17 Περὶ ἐγκρατείας; 18 Περὶ ἀκρασίας; 19 Περὶ ἀνεξικακίας; 20 Περὶ ὀργῆς. Un buon esempio di contrapposizione antilogica in IV 31a-33: 31a Ἔπαινος πλούτου; 310 Ὅσα πλοῦτος ποιεῖ διὰ τὴν πλείστων ἄνοιαν; 31c Ψόγος πλούτου; 314 Ὅτι τὰ χρήματα ἀβλαβῆ συμμέτρως καὶ δικαίως πορισθέντα, καὶ ὅτι τῶν μέσων ὁ πλοῦτος; 324 Πενίας ἔπαινος; 320 Πενίας ψόγος; 33 Σύγκρισις πενίας καὶ πλούτου.

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ROSA MARIA PICCIONE

20b 214 210 224 220 22c 224 22e 22f

Ψόγος ᾿Αφροδίτης: καὶ ὅτι φαῦλος ὁ ἔρως γεγονὼς αἴτιος Ὑπὲρ κάλλους Κατὰ κάλλους Ὅτι κάλλιστον ὁ γάμος Ὅτι οὐκ ἀγαθὸν τὸ γαμεῖν Ὅτι τοῖς μὲν ἐπωφελῆ τὸν γάμον, τοῖς δὲ ναπτομένων ἀπετέλεσε τρόπος Περὶ μνηστείας Ὅτι ἐν τοῖς γάμοις τὰς τῶν συναπτομένων Ὅτι ἐν τοῖς γάμοις οὐ τὴν εὐγένειαν οὐδὲ πεῖν ἀλλὰ τὸν τρόπον

καὶ πόσων εἴη κακῶν

ἀσύμφορον ὁ τῶν συἡλικίας χρὴ σκοπεῖν τὸν πλούτον χρὴ σκο-

22g

Ψόγος γυναικῶν

23 244 240

Γαμικὰ παραγγέλματα Ὅτι καλὸν τὸ ἔχειν παῖδας Ὅτι ἀσύμφορον τὸ ἔχειν τέκνα καὶ ἄδηλον εἰ ἴδια τῶν ἔχειν νομιζόντων. Καὶ μηδὲ θετοὺς ποιεῖσθαι. Ὅτι κρείττονες οἱ ἄρρενες τῶν παιδῶν, καὶ ὅτι τοὺς νόθους οὐκ ἐλάττονας χρὴ κρίνειν τῶν γνησίων Περὶ νηπίων

24c 244 25

Ὅτι χρὴ τοὺς γονεῖς τῆς καθηκούσης τιμῆς καταξιοῦσθαι τῶν τέκνων, καὶ εἰ ἐν ἅπασιν αὐτοῖς πειστέον

26

Ὁποίους τινὰς χρὴ εἶναι τοὺς πατέρας περὶ τὰ τέκνα, καὶ ὅτι φυσική τις ἀνάγκη ἀμφοτέρους εἰς διάθεσιν ἄγει Ὅτι κάλλιστον ἡ φιλαδελφία καὶ ἡ περὶ τοὺς συγγενεῖς διάθεσις,

27

παρὰ

καὶ ὅτι ἀναγκαίοι.

Quanto agli autori menzionati nell’Arthologion, come primo dato generale possiamo dire che si annoverano più di 500 nomi: dietro una buona parte di tali indicazioni — ad esempio nei lemmi Σωκράτους, Ζήνωνος,

Κράτητος,

Διογένους,

Κάτωνος

πρεσβυτέρου

e così via —

più che la paternità del passo sarà da riconoscere piuttosto il personaggio cui viene attribuita la chria o l’apoftegma. Come si è detto, varie sono la fisionomia e l’estensione delle sentenze: si va dai monostici incompleti, come la γνώμη con il lemma Σοφοκλέους di III 4, 5 ὡς δυσπάλαιστον ἀμαθία κακόν; (Soph. fr. inc. 924 R.)!° o il verso euripideo τὸ δοῦλον οὐχ ὁρᾶς ὅσον κακόν di IV 19, 12 che reca il

10 Nell’edizione Radt il verso è accolto con l’integrazione mediana di Grotius ὡς δυσπάλαιστόν ἐστι ἀμαθία κακόν, Sui processi di autonomizzazione di singoli versi o di parti

di essi rimando a R. TOSI, La lessicografia e la paremiografia in età alessandrina ed il loro sviluppo successivo, in La philologie grecque ἃ l’époque hellenistique et romaine, Entretiens préparés et présidés par F. MONTANARI (Vandoeuvres-Genève 16-21 Aoüt 1993), Genève 1994 («Entretiens Hardt», XL), pp. 143-197 e discussione pp. 198-209: 183 sgg.



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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

lemma Εὐριπίδου Ἀντιόπῃ (Eur. fr. 217 N.), a testi presumibilmente compiuti o comunque sentiti come tali, quale il Περὶ ἀρετῆς di III 1, 194, falsamente attribuito ad Aristotele, o una sorta di epitome dallo Ierone di Senofonte in IV 8, 30. Casi da segnalare per rilevanza storico-letteraria o perché lo Stobeo ne è fonte unica — ne indico solo alcuni tra i moltissimi — sono infine citazioni come P’Inno a Zeus di Cleante (I 1, 12), l’Inzo orfico di I 1, 23 e gli altri Orpbica, i numerosi passi di tradizione ermetico-stoica, ascritti ad Ermete Trismegisto, i molti Theognidea, o ancora gli excerpta dal cinico Telete o da Musonio Rufo. Numerose sono le alterazioni, i rimaneggiamenti dei passi citati, gli interventi per fini epidittici e gli adattamenti a nuove realtà socio-politiche. La Entstellung è infatti uno dei fenomeni più sintomatici di questa tipologia testuale, in cui agli errori di trasmissione si sommano le alterazioni richieste e causate dalla natura stessa del testo, che si corrompe in modo peculiare per adattamenti al contesto florilegistico, necessità di generalizzazione o funzionalizzazione

del contenuto e così via.! Per fornire un quadro orientativo del materiale che costituisce il tessuto antologico, possiamo dire brevemente che tra i poeti ricopre un ruolo predominante la produzione di Euripide (più di 850 citazioni), le cui sentenze aprono di norma i capitoli e per il quale 1 Axthologion dello Stobeo è la principale fonte indiretta (ca. 500 frammenti). Segue il comico Menandro, rientrando nelle consuetudini della tradizione, del quale sono citati numerosi passi dalle commedie e sono confluite nella raccolta anche γνῶμαι μονόστιχοι note alla tradizione medievale. Va segnalata una cospicua presenza di Omero, per la maggior parte tuttavia nel contesto di citazioni in prosa di autori come Platone, Plutarco o altri (cfr. IL X 279-280 in I 1, 40 p. 51, 67; Od. XVII 383-384 in IV 5, 95 p. 228, 17-18; Il. XIX 92-93 in IV

20a, 36 p. 453, 5-6 etc.). Generosamente citati sono ancora Sofocle, Antifane fra i comici della μέση e Filemone fra quelli della νέα, ed infine Esiodo. Sempre secondo consuetudine, i passi che ricevono spa-

1! Gli studi di riferimento sui processi di alterazione, sia pure ormai metodologicamente datati, sono ancora quelli di S. LURIA, Extstellungen des Klassikertextes bei Stobaios, «RhM», LXXVII, 1929, pp. 81-104; 225-248 e di O. BERNHARDT, Quaestiones Stobenses, Bonnae, Georgi 1861.

12 Su Euripide rimando al contributo di G.W. Most, Euripides 6 γνωμολογικώτατος, nel presente volume, pp. 141-166. 13 Cfr. R. KANNICHT, TrGF V Euripides, in Collecting Fragments - Fragmente Sammeln, ed. G.W. Most, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1997 («Aporemata», 1), pp. 67-77: 70-71.

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zio nella raccolta sono generalmente in trimetro giambico o esametro, mentre rarissima è la presenza di passi in metro lirico. Lo Stobeo, infatti, in totale accordo con la tradizione, si limita di norma a versi recitati κατὰ στίχον o in generale costruiti κατὰ μέτρον (trochei, dattili, coriambi, ionici, ma specialmente anapesti), fenomeno che sembra rispondere ancora una volta alla necessità di facile fruizione delle γνῶμαι. Fra i prosatori, i più presenti sono naturalmente Platone, Tucidide, dalle cui Storie sono conservate nell’Anthologion specialmente le δημηγορίαι, con ogni probabilità provenienti da una raccolta tema-

tica. Abbiamo ancora Erodoto e i due autori che potremmo definire canonici della παιδεία greca, Senofonte ed Isocrate, del secondo dei quali sono soprattutto presenti estratti dalle allocuzioni in forma precettistica, come A Demonico o Nicocle, che ben si prestavano ad una

riduzione in segmenti gnomici. Sono inoltre frequenti passi da repertori tecnici, come gli excerpta dal medico Antillo (IV 37, 15-18. 2730), già leggibili in Oribasio, o dal De fluviis pseudo-plutarcheo (IV 36, 12-14. 16-22), e ciò vale probabilmente anche per gli ἔθη di Nicola di Damasco (IV 2, 25; IV 55, 12-18). Tra tutti il caso di Platone è singolare. E l’autore più testimoniato, non per numero di citazioni (oltre 400) quanto in termini di estensione di testo, e ne è stata sup-

posta una conoscenza di prima mano,! anche se non vi sono in realtà elementi decisivi, né per Platone, né per altri, che avvalorino l’ipotesi di una lettura diretta. Proprio l’ingente massa del materiale platonico è quella che richiede urgentemente un’indagine sistematica, soprattutto in relazione ai criteri di rimaneggiamento e di rifunzionalizzazione del testo, fenomeno assai frequente, indagine che potrebbe raccontare ancora molto sia della funzione che dell’ambito filosofico-culturale di riferimento dell’Antbologion. La questione più spinosa che riguarda la costituzione della raccolta è di sicuro quella relativa alle sue fonti, problema tuttavia che non implica solo ed esclusivamente la possibilità di ricostruire linee di derivazione, o nuclei di agglutinamento intorno ai quali l’opera si stratifica. La Quellenforschung, in un testo quale l’Arthologion, chiama in causa anche questioni basilari decisamente complesse, come la valutazione dell’ipotesi di una lettura diretta delle opere da cui vengono selezionati e desunti gli estratti, e i problemi relativi alla circolazione

14 Cfr. E. BICKEL, De Ioannis Stobaei excerptis platonicis de Phaedone, Lipsiae, Teubner 1902; C. THIAUCOURT, De Iohannis Stobaei Eclogis earumque fontibus, Lutetiae, Ha-

chette 1885.

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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

libraria e al reperimento materiale dei testi. Questo soprattutto considerando proprio quell’assenza di cornice, caratteristica peculiare della raccolta, che non consente di distinguere la mano dello Stobeo: quali dovranno essere i canoni per cui si possa stabilire che l’autore abbia letto direttamente i testi che cita, estrapolandone i passi ritenuti significativi? Il problema

non è

di facile soluzione,

ed è importante

la consa-

pevolezza che coesistono fenomeni diversi alla base delle diverse stratificazioni del materiale nella raccolta. In taluni casi non si può prescindere dalla presupposizione che il testo di alcuni autori fosse già stato generosamente ridotto ed antologizzato, e che in questa forma avesse

ormai

un’ampia

circolazione.

Alludo,

ad esempio,

ad autori

quali Euripide o Menandro, ma questo vale, in certi casi, anche per testi gnomico-protrettici come gli isocratei A Demonico e Nicocle, già citati, o per le sillogi di δόξαι e di apoftegmi. Ciò è certamente diverso per autori come Platone, ad esempio, per il quale si possono presupporre, sì, opere di riduzione in estratti, legate soprattutto alla scuola, ma la natura stessa del testo, per centralità e rilevanza, e per una sua naturale funzionalità alla παιδεία può lasciarne facilmente ipotizzare una conoscenza non mediata da raccolte. Senza dimenticare che l’antologia dello Stobeo è orientata filosoficamente in maniera chiara verso il platonismo tardo, e questo non è in proposito elemento indifferente. Sarebbe dunque una propensione comprensibile quella che porta a concludere che un autore ricco e competente come lo Stobeo non possa non aver letto direttamente proprio Platone o ancora ad esempio Plutarco, ma in realtà non ci sono gli estremi manifesti per attestarlo. Se per Euripide o Menandro una tale affermazione può essere in linea di massima -- ma non del tutto — esclusa, dal momento che vi sono le tracce di confluenze di segmenti di raccolte preesistenti, ciò non vale sic et simpliciter per tutto il materiale citato nell’antologia, come in realtà, appunto, non vale neppure il contrario. Si tratta di esaminare con cura le singole sentenze o gruppi di esse, cercando gli indizi che possano far propendere per l’una o per l’altra ipotesi. Ancora una volta non è possibile stabilire un criterio unitario. La stessa struttura schedografica della raccolta, infine, è un elemento che complica la fissazione dei confini compositivi, avendo favorito l’infiltrazione e la caduta del materiale, durante la trasmissione stessa del testo. Dunque non sarà del tutto agevole neppure stabilire che cosa sia stato raccolto dallo Stobeo e che cosa, per così dire, dopo di lui. Il famoso capitolo περὶ ἀρετῆς (III 1) è a questo proposito un caso del tutto esemplare, che consente di intuire i metodi di costitu-

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ROSA MARIA PICCIONE

᾿

zione delle sillogi in generale. Nel capitolo, infatti, è alterato più volte l’ordine poesia-prosa, cosa che lascia presupporre inserzioni e rima-

neggiamenti. Una parte del materiale ha inoltre una facies che farebbe pensare ancora una volta a sillogi precostituite (cfr. III 1, 30-44; 8490; 125-171; 172; 173; 174-179; 185-190; 194), la cui confluenza, visto l’assetto del tutto particolare del capitolo, non sappiamo con certezza a quale stadio della trasmissione sia da far risalire. L’opera potrebbe dunque essersi arricchita in parte nel corso della tradizione: a ben vedere neppure i codici presentano una redazione concorde, e ciascuno rispecchia differenti finalità di pubblico e forse momenti diversi della tradizione. Le due famiglie in cui si dividono i testimoni del Florilegium, infatti, sono radicalmente dissimili proprio in quanto prodotti codicologici. La prima, costituita dallo Scor. & II 14 e dal Par. gr. 1984, testimonia verosimilmente una redazione arricchita, forse finalizzata alla fruizione di biblioteca, che manifesta un attento lavoro di armonizzazione e di strutturazione artistica del materiale. La seconda fa capo invece al Vind. phil. gr. 67, di proprietà verosimilmente di un dotto bizantino, che aveva trascritto ed annotato la raccolta per proprio uso, con una scrittura minuta e quasi illeggibile, codice che nella assoluta mancanza di pretese estetiche rivela gli interessi del suo autore.” Qualche dato, tuttavia, è lecito affermarlo con una certa convinzione. E possibile dedurre, ad esempio, che un florilegio composito è fonte comune allo Stobeo e a Teofilo di Antiochia (II sec.), nel trattatello apologetico Ad Autolycum.! L'osservazione comparata delle due testimonianze è istruttiva a proposito dei possibili metodi di fruizione di una raccolta gnomologica, in quanto le citazioni comuni in ciascuno dei due testi sono di norma inframezzate da materiale estraneo alla fonte, con un procedimento per così dire a mosaico. Altre ipotesi relative alle fonti sono invece del tutto incerte. Poco verosimili, specialmente dopo il confronto con i papiri antologici, sono le teorie monogenetiche di derivazione diretta, soprattutto per Euri-

5 Sulle due famiglie di codici, cfr. PICCIONE, Sulle citazioni euripidee in Stobeo, cit., pp. 188-197 e 205-216. Da osservare che il problema ecdotico principale, trascurato da Wachsmuth ed Hense, è la coesistenza di doppie redazioni, come nel caso delle due famiglie di codici del Florilegium. In casi come questi, frequentissimi, è necessario porsi il problema dell’equivalenza e della legittimità delle singole e autonome redazioni della raccolta. 16 Cfr. H. DieLs, Fine Quelle des Stobäus, «RhM», XXX,

1875, pp. 172-181; Theo-

philus of Antioch. Ad Autolycum, Text and Transl. by R.M. GRANT, Oxford, Clarendon Press 1970, p. XI.



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pide e Menandro, da Ursammlungen κατὰ στοιχεῖον, filiazioni di edizioni complete dei drammi ordinate secondo l’iniziale del titolo. Sono le note posizioni di Otto Bernhardt, a proposito delle sentenze euri-

pidee,!” e di Woldemar Görler per le citazioni da Menandro,!8 tesi che è opportuno citare brevemente qui, quale esempio di Quellenforschung del testo dello Stobeo. Bernhardt affronta il problema delle fonti, partendo dall’osservazione dei diversi lemmi preposti agli excerpta, e sulla base di essi ipotizza che a disposizione dello Stobeo fossero due raccolte monografiche di sentenze di Euripide. Il compilatore di uno dei due florilegi avrebbe premesso agli estratti selezionati un lemma con il solo nome dell’autore, mentre il compilatore della seconda raccolta avrebbe apposto accuratamente un lemma completo, con il titolo dell’opera e il nome dell’autore citato. In questa raccolta complessiva sarebbero successivamente confluiti tutti i lemmi con la formula nome dell’autore/titolo dell’opera, nei quali il titolo stesso poteva essere indicato in modi diversi, ad esempio in caso nominativo, genitivo, o dativo con preposizione.!? Ma un'osservazione sistematica della lemmatizzazione delle sentenze dimostra che non è possibile 4 priori riconoscere un criterio costante di caratterizzazione di tali zitulationes,?° e a ciò si aggiunge il fatto che la testimonianza dei manoscritti che riportano florilegi non è in nulla autorevole proprio per quanto riguarda i lemmi. L’apposizione di lemmi nei codici è sovente subordinata infatti all’arbitrio dei copisti, che hanno abbreviato, mutilato, a volte sostituito, soprattutto in relazione alle necessità di spazio, o per esigenze di reintroduzione di lemmi omessi accidentalmente. In alcuni casi vengono utilizzati persino lemmi comprensivi, posti verticalmente a margine, nei casi di successione di

più sentenze di un medesimo autore, come ad esempio nel codice Vind. phil. gr. 67, di cui si è già fatta menzione. L'ipotesi dell’esistenza di Urflorilegien si basa dunque su un elemento inaffidabile e fortemente a rischio.” Sulla stessa linea di pensiero è Görler, il quale ipotizza l’esistenza di una Gesamtausgabe menandrea ordinata κατὰ στοιχεῖον secondo l’iniziale del titolo del dramma. Osservando le successioni di sen1 Cfr. BERNHARDT, Quaestiones Stobenses, cit. 18 Cfr. W. GÖRLER, Μενάνδρου Γνῶμαι, Diss. Berlin 1963, pp. 111-118. 19 Cfr. BERNHARDT, Quaestiones Stobenses, cit., pp. 9-10.

20 Cfr. ἘΜ. PICCIONE, Caratterizzazioni di lemmi nell’ ‘Anthologion’ di Giovanni Stobeo. Questioni di metodo, «RFIC», CXXVIL, 1999, pp. 139-175. 21 Contra Bernhard già DIELS, Eine Quelle des Stobäus, cit., pp. 173-174.

2 Parallela a quella euripidea ipotizzata da Hense. Cfr. PICCIONE, Sulle citazioni euripidee in Stobeo, cit., pp. 197-206.



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tenze in ordine alfabetico, le alterazioni del testo citato e soprattutto i lemmi apposti alle ecloghe, Görler arriva alla supposizione che questa edizione completa dei drammi sia stata alla base della costituzione di una Ursammlung di sentenze menandree anch'esse κατὰ στοιχεῖον,

con lemmi costituiti dal nome dell’autore e dal titolo della comme-

dia, dalla quale i compilatori avrebbero attinto materiale per una nuova raccolta, questa volta non monografica e strutturata per capita. Tutte le sentenze menandree nello Stobeo deriverebbero così da questa raccolta ordinata alfabeticamente, con la sola differenza che quelle di derivazione diretta, caratterizzate da un lemma completo, mostrerebbero maggiore fedeltà, in quanto l’esigenza del compilatore di tale raccolta era puramente quella di riportare passi menandrei, senza intervenire sul testo. Le altre, al contrario, derivate dal florilegio intermedio, tematico e composito, caratterizzate da un lemma con il solo nome dell’autore, potrebbero essere state esposte all’intervento diretto del florilegista, che avrebbe alterato, abbreviato e quant'altro, a seconda delle proprie necessità di compilazione e di ἐπίδειξις gnomologica. Anche i compilatori delle antologie su papiro avrebbero desunto il materiale menandreo da questi florilegi, come dimostrerebbero lemmi e successioni di sentenze ordinate κατὰ στοιχεῖον. Valgono naturalmente anche per la tesi di Görler le obiezioni mosse a Bernhardt: per quanto riguarda i lemmi, le testimonianze dei codici manoscritti sono così inattendibili e confuse che non è possibile prendere questo come criterio discriminante. Inoltre, se dobbiamo attribuire all’originario florilegio monografico le sentenze con lemma completo, di norma di maggior estensione, mentre all’altro quelle con il solo nome dell’autore e di norma di breve estensione, è da domandarsi a quale delle due raccolte si vogliano far risalire le citazioni (e sono numerosissime) che si presentano estese e con lemma incompleto, 0, al contrario, i monostici o i distici introdotti dal nome dell’autore e

dal titolo del dramma. Sia Bernhardt che Görler partono dall’idea di una raccolta statica e basata su procedimenti costitutivi lineari: grandi raccolte complete sarebbero il punto di partenza dell’opera, confezionata in base a principi coerenti fra di loro e che non avrebbe subìto alterazione alcuna. Dubito fortemente che teorie monogenetiche possano risolvere il problema delle fonti dell’Antbologion dello Stobeo. Andare alla ricerca di Urformen di florilegio, cercando di individuarne le tracce in un te-

2 Cfr. GÖRLER, Μενάνδρου Γνῶμαι, cit., p. 112. 24 Cfr. GORLER, Μενάνδρου Tvéuai, cit., pp. 147-148.



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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

sto così facilmente e dichiaratamente esposto alle ingiurie della tradizione, e soprattutto all’arbitrio stesso dei copisti, è un procedere che si avvale di un fragile fondamento metodologico. II. IL COSIDDETTO «ANTHOLOGNOMICON»

DI ORIONE

Della redazione originaria in tre libri, di cui sappiamo da fonti indirette, si vogliono riconoscere i resti nei fogli 264r-266v di un unico testimone, il codice miscellaneo Vind. phil. gr. 321 (XIII ex.-XIV in.).? La nostra conoscenza della raccolta è purtroppo estremamente sommaria, aggravata anche in questo caso dalla massima incertezza sull’identità dell’autore e per di più sull’originaria costituzione del testo. A ciò si aggiunge, come si è detto, la problematicità della trasmissione e della natura di quest’unica testimonianza manoscritta, tanto che sulla stessa attribuzione dell’intero frustolo alla raccolta di Orione è lecito avanzare legittimi dubbi.* Convenzionale è la definizione della raccolta, che nasce da una corruzione: in apertura dei tre fogli del codice il copista ha premesso al testo la titulatio ἐκ τοῦ ἀνθολογ᾽νωμικοῦ Ὡρίωνος γραμματικοῦ Καισαρείας -- forse presente in questa forma già nel suo antigrafo -, che pare plausibile sciogliere in ἐκ τοῦ ἀνθολογείου γρνωμικοῦ etc.2? Autore di tale ἀνθολόγιον γνωμικόν sarebbe il grammatico Orione Tebano (V sec.), attivo ad Alessandria dove, secondo il Περὶ εὐδαιμοvias del neoplatonico Marino (cap. 8), Proclo sarebbe stato suo discepolo. Da Suida sappiamo inoltre che i tre libri della raccolta erano stati dedicati da Orione all’imperatrice Eudocia, che a Costan-

tinopoli o forse a Cesarea, in Palestina, sarebbe stata spettatrice delle sue letture pubbliche.?8

2 La prima edizione, con commentario, è di F.G. SCHNEIDEWIN, Coniectanea critica, Göttingen, Dieterich 1839, pp. 33-119; il solo testo è presente anche nell’edizione del-

l'Antbologion dello Stobeo a cura di A. MEINEKE, Leipzig, Teubner 1857 (Ioannis Stobaei Anthologium, IV; Discrepantia Lectionis pp. XLIV-XLVI; Addenda p. LXXXIV). L'ultima recente edizione è ora a cura di M. HAFFNER, Das Florilegium des Orion, mit einer Einlei-

tung hrsg., übersetzt u. kommentiert, Stuttgart, Steiner 2001 («Palingenesia», 75). 2 Di ciò discuto nel contributo In margine a una recente edizione dell’ ‘Antholognomicon’ di Orione, «MEG»,

II, 2002, pp. 141-153.

27 Cfr. HAFFNER, Das Florilegium des Orion, cit., pp. 124-126. 28 Suid. ὦ 188-189.201 A.; cfr. Io. Tzetz. Chzl. X 56-60. Rimando ancora a HAFFNER,

Das Florilegium des Orion, cit., pp. 11-18 per la discussione delle questioni prosopografiche e per l’attribuzione al medesimo autore sia dell’Erymologicon che dell’Antholognomicon.



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ROSA MARIA PICCIONE

La testimonianza del codice di Vienna, come si è detto, non è priva di difficoltà. Il testo è suddiviso in tre sezioni formalmente autonome, trascritte tuttavia senza soluzione di continuità. In realtà solo il frammento d’apertura, strutturato in otto capitoletti su tema vario, è in-

trodotto da una titulatio con la menzione esplicita di Orione. Questa sezione iniziale è seguita da un piccolo florilegio di passi euripidei da Ecuba (9 citazioni) ed Alcesti (2 citazioni), e successivamente da un’altra silloge ridotta, anch'essa rigorosamente euripidea e caratterizzata questa volta dal lemma introduttivo Εὐριπίδου. Le tre sezioni - il frammento ‘da Orione’ e le due sillogi euripidee mediana e di coda, quest’ultima definita convenzionalmente Appendix Euripidea — constano nel loro insieme di circa 150 brevi citazioni. Essendo questo lo stato dell’arte, esprimere una valutazione sulle ipotetiche fonti e sui modelli della raccolta di Orione, descrivendone nel contempo l’architettura, è a ben vedere non solo impresa ardua, ma in qualche modo priva di indubbi elementi di giudizio. In fondo, sia pure estremamente problematico, lo stato della trasmissione del testo dello Stobeo ci consente in qualche modo di riconoscere la fisionomia originaria e le tracce di confluenze e di processi di incrostazione, anche se non mancano zone d’ombra e questioni lasciate del

tutto insolute. Ma nel caso di Orione la perplessità iniziale consiste nel dover stabilire sulla base di quale o di quali, fra le tre sillogi gnomologiche del codice viennese, sarà lecito dedurre dati sull’opera originaria. In breve, che cosa sia ragionevolmente da ricondurre all’Artholognomicon. : I tre fogli del codice, per illustrare meglio la complessità della questione, ci offrono dunque segmenti gnomologici indipendenti, di cui solo quello iniziale è esplicitamente ἐκ Ὡρίωνος: un brandello di raccolta suddiviso in otto unità tematiche, la cui fisionomia rientra a buon diritto nel repertorio dei prodotti gnomologici. Mi riferisco all'ordinamento poesia-prosa, alla divisione in capita e direi anche alla generosa presenza di passi da Euripide (36 citazioni) e da Menandro (17 citazioni), ancora un dato abituale. Questi i titoli degli otto capitoli: I. περὶ λόγου καὶ φρονήσεως; II. περὶ φύσεως; III. περὶ εὐσεβείας; IV. περὶ προνοίας; V. περὶ θεοῦ; VI. περὶ δίκης καὶ δικαιοσύνης; VII. περὶ ἀρετῆς; VIII. περὶ τοῦ ἀνθρωπίνου βίου. Il materiale è distribuito piuttosto regolarmente all’interno delle sezioni,

con i passi euripidei in apertura e la consueta struttura composita, cioè con sentenze di autori diversi alternate fra di loro, e infine con la prosa che chiude di norma i capitoli. Le sentenze in versi hanno la fisionomia tipica della raccolta di tipo gnomologico, e sono dunque di estensione piuttosto breve, dal monostico ai passi di cinque-sei

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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

versi, con l’eccezione di un passo dall’Ippolito euripideo, che consta di ben quindici versi (vv. 73-87 in III 3). Dei passi in prosa sarà bene precisare che sono una quantità del tutto irrilevante: si tratta infatti di sole 16 sentenze su un totale di 111,25 e si tratta di excerpta di estensione decisamente limitata, con un massimo di sei linee a stampa (Isocr. 13, 2 in IV 4): il confronto con l’entità e la consistenza del materiale in prosa conservato nell’Arthologion dello Stobeo non sussiste neppure. Anche nel caso di questo frammento ritorna la lemmatizzazione formalmente incostante e a volte imprecisa, altro dato cui siamo abituati dallo Stobeo. Ai lemmi completi, che indicano contestualmente il nome dell’autore e il titolo dell’opera, si alternano quelli con il solo nome dell’autore e quelli con il solo titolo, ma non manca neppure la didascalia sintetica τοῦ αὐτοῦ, che riconduce all’autore del passo precedente. Riporto la sequenza dei lemmi del cap. VII περὶ ἀρετῆς,

che appare decisamente eterogenea: 1 2 3 4 5 6a 6b 7 8 9 10 11 12

Ex Μελεάγρου Εὐριπίδου (Eur. fr. 526 N.2) ‘Ex τοῦ Ἐρεχθέως (Eur. fr. 364 N.?) Ek τοῦ ᾿Αρχελάου (Eur. fr. 244 N.) @véotov (Eur. fr. 393 N.?) ‘Ex τῆς Ὑψιπύλης (Eur. fr. 759 N.) Ἐκ τοῦ Ἡνιόχου Μενάνδρου (Men. fr. 157, 1 K.-A.) «Ἐκ * * * (Men. fr. 157, 2 K.-A.)?° Ex τῶν Ἐπιτρεπόντων (Men, Epitr. 704) Εὐριπίδου (Eur. Andr. 775b-776) Ex τοῦ Γεωργοῦ (Men. Epitr. fr. 9 S.) Τοῦ αὐτοῦ (Men. Georg. fr. 3 S.) Σοφοκλέους Ἴωνος (Soph. fr. 319 R.) Ἐκ τῆς Ἠλέκτρας (Soph. Εἰ. 1082 sg.)

Una certa incostanza strutturale, anche questa consueta ma aggravata probabilmente qui dai processi di riduzione estrema del testo, si

29 Nei capitoli dell’edizione di Haffner le sentenze segnalate sono complessivamente 113, ma in due casi - V 11a; VII 16a -- ἃ possibile ipotizzare la caduta di una citazione e del lemma che introduce la successiva, con conseguente coesione del primo lemma con il secondo passo. Nel caso di VII 16a-b, tuttavia, non escluderei che possa trattarsi semplicemente di un errore di lemma, come accade a volte anche nello Stobeo. La zitulatio indica infatti Ἐκ τοῦ Μένωνος Πλάτωνος, mentre il passo successivo è dall’Apologia di Socrate. 30 Sulla non compatibilità di senso dei due monostici

(sentenze nrr. 6a-b), coesi nel

codice viennese, cfr. HAFFNER, Das Florilegium des Orion, cit., pp. 211-213.



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ROSA MARIA PICCIONE

riscontra inoltre nella disomogeneità dell’estensione dei capitoli, che vanno da un minimo di sole tre sentenze (il capitolo Il περὶ φύσεως), ad un massimo di ventotto (il primo, περὶ λόγου καὶ φρονήσεως). Un dato da non trascurare, infine, sarà la presenza di timide tracce di successione alfabetica nei titoli di tragedie euripidee, fenomeno cui si è accennato anche a proposito dello Stobeo. Si veda ad esempio il cap. I περὶ λόγου καὶ φρονήσεως con la sequenza 1. Ἀντιγόνη, 3. Ἀλέξανδρος, 4. Ἑκάβη, 5. Ἰνώ, 6. Παλαμήδης, 7. Ῥῆσος, 8. Φοίviccat, ο il cap. V περὶ θεοῦ con la sequenza 1. Ἀρχέλαος, 2. Ἱκέτιδες, 5. Μελανίππη, 4. Φιλοκτήτης. Anche in questo frustolo di gno-

mologio si osserva la frequente ricorrenza di drammi inizianti per a nel cap. VIII περὶ τοῦ ἀνθρωπίνου βίου, come 2. Ἀρχέλαος, 3. AvSpoudyn, 4. Ἄλκεστις, sequenza che continua in ordinamento alfabetico dopo una breve interruzione 7. Ἠλέκτρα, 8. Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι. La mia perplessità, tanto per le successioni alfabetiche all'interno di questo frammento, quanto per quelle che riguardano lo Stobeo, è che possa trattarsi realmente di residui di successione alfabetica provenienti da raccolte più ampie, complete e ordinate a loro volta κατὰ στοιχεῖον. Le tracce di tali successioni mi sembrano talmente scarne, che propenderei per l’ipotesi che siano piuttosto testimoni di un principio di arrangiamento del materiale, al momento della costituzione di singoli nuclei di sentenze, che sono andati aggregandosi, confluendo poi in raccolte di maggiore estensione. Mi chiedo infatti se sia economico che un raccoglitore di sentenze, che voglia costituire un florilegio, percorra ogni volta sistematicamente un repertorio alfabetico generale, dalla lettera a in poi, andando alla ricerca dei passi da utilizzare nella propria silloge: il fenomeno è notò anche alle antologie su papiro, e pensare che ciò riveli sempre l’uso di raccolte complete mi pare improbabile. AI di là dei dati che riguardano la struttura interna delle varie sezioni del frammento e la natura del materiale citato, conformi ai canoni, l’interrogativo più urgente — e certamente il più problematico -appare quello relativo all’affinità che si dovrà presupporre fra questo frustolo e la raccolta originaria, tra la successione e l’organizzazione dei pochi capitoli a noi pervenuti e l'architettura dei tre libri di Orione.

31 Nel codice il secondo capitolo consta di quattro passi, l’ultimo dei quali (Isocr. 1, 18) sembra tematicamente incongruente ed è stato anticipato dall’editore al capitolo precedente. Cfr. HAFFNER, Das Florilegium des Orion, cit., pp. 153-154. 32 Nel codice il lemma è fortemente abbreviato. Per la possibile attribuzione all’Alessandro, cfr. HAFFNER, Das Florilegium des Orion, cit., p. 130.



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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

Per analogia si dovrebbe presupporre che la raccolta di Orione fosse costituita da capitoli tematici di brevi sentenze in versi e prosa, ma certo si tratta di ricostruire una lacuna dell’entità di quasi tre libri, sulla base di una sola parte dei tre fogli del codice viennese. Per quanto ne sappiamo, in realtà, quella lacuna di quasi tre libri potrebbe anche aver avuto la struttura della raccolta dello Stobeo ed essere stata costituita da materiale di natura simile: chiunque sia stato l’escertore, potrebbe aver avuto necessità o desiderio — o forse solo il gusto — di conservare soltanto brevi citazioni all’interno di alcuni capitoli, con un procedimento di riduzione che si ritrova, ad esempio, in quei florilegi bizantini in cui confluiscono frammenti dall’Arthologion dello Stobeo. Ad ogni modo è lecito domandarsi se la successione dei capitoli del frammento rispecchi una successione originaria: da parte mia ritengo probabile che l’escertore abbia ritagliato e ricucito fra loro sequenze di passi all’interno di alcuni fra i tanti capitoli, quelli che più lo interessavano e potevano essergli utili, comprimendo

in qualche modo la raccolta a sua disposizione.”

I successivi segmenti gnomologici dei tre fogli del Viennese sono prodotti formalmente lontani dal frammento iniziale. Ambedue sono monografici, dedicati ad Euripide, e ambedue non vengono articolati per capita. La piccola silloge centrale si presta già ad un ambivalente giudizio: le undici sentenze — nove dall’Ecuba e due dall’A/cesti, tutte in forma di monostici e distici — sono in successione, dopo una citazione dal Menone platonico che viene bruscamente interrotta, con una frattura nel senso.?4 Il problema principale, ancora una volta, sarà naturalmente relativo alla parentela tra questa piccola sezione centrale e il frammento antecedente, soprattutto dal momento che non si riscontra alcun elemento di separazione o lemma introduttivo, come nella sezione euripidea successiva. Personalmente non mi pare vi siano gli estremi per ricollegare ad Orione anche questa silloge, a meno che non si voglia pensare che un raccoglitore di sentenze abbia isolato dai tre libri di Orione un gruppo di passi euripidei riportandoli poi in successione, ma non vedo la ragione per un’operazione del genere. L'ipotesi che mi sembra più plausibile è piuttosto che un florilegista, o lo stesso copista del codice, abbia voluto accostare al frammento

3 Non credo si possa affermare con un buon margine di verosimiglianza che i capitoli del frammento fossero in successione anche nella raccolta originaria, dal momento che anche questa possibilità di rimaneggiamento faceva parte delle libertà dei compilatori. Sull’ordine dei capitoli del frammento, cfr. PICCIONE, In margine a una recente edizione, cit., pp. 144-146.

34 Nel codice si legge a margine λείπει.



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ROSA MARIA PICCIONE

iniziale una selezione euripidea a propria disposizione, sulla base di quel principio associativo di cui si è ampiamente parlato. Ancor più interessante è l’Appendix Euripidea, le cui sentenze sono del tutto prive di indicazioni lemmatiche ma vengono introdotte dal lemma generale Εὐριπίδου. La breve silloge consta di 23 passi di norma da uno a tre versi, con l’eccezione di due γνῶμαι di cinque versi ciascuna (Hipp. 916-920 in App. 19; fr. 1029 N.? in App. 22a). Nella successione sembra riconoscibile un ordinamento tematico sostanziale, sia pure non dichiarato con fitulationes, che si ravvisa nell’uso di parole-chiave all’interno delle sentenze, decisamente più consistente nel caso delle prime due unità tematiche: I περὶ θεοῦ (1-6); II περὶ γονέων (7-15); III περὶ δίκης (16-17); IV περὶ φρονήσεως (1819); V περὶ ἀρετῆς (20-22). Valgono per l’Appendix le medesime con-

siderazioni avanzate per la sezione euripidea intermedia: pur avendo una struttura inequivocabilmente gnomologica, esplicitata da un implicito procedere per capita, anche per quest’ultima parte dei tre fo-

gli del Viennese non vi sono elementi identificativi davvero validi per considerarla una derivazione dal florilegio di Orione. E difficile stabilire se vi sia un legame di consanguineitä fra le tre sezioni del codice viennese, e se sia possibile ricondurle tutte all’ Axtholognomicon. Il solo dato evidente è il lemma con l’attribuzione ad Orione apposto al frammento iniziale, e non vi sono elementi incontestabili per rivendicare alla raccolta originaria anche le due sezioni euripidee, che non mostrano affinità di presupposti organizzativi. Va detto, inoltre, che quest’unica testimonianza a noi giunta della raccolta di Orione proviene da un codice miscellaneo retorico-epistolografico, qual è appunto il Vind. phil. gr. 321, che riporta anche una sezione dai Monostici menandrei e γνῶμαι dallo Ps.-Focilide, e parrebbe un manuale per il bello scrivere, accessoriato di brevi reper-

tori gnomici. Le due sezioni euripidee potrebbero essere state ana-

logicamente incluse nel manuale, ad accrescere il piccolo prontuario di uso retorico, in quanto materiale sentenzioso di consolidata tradizione. La testimonianza sul florilegio di Orione sembra ridursi dunque a otto capitoletti: poco più che uno gnomologio su un papiro ben conservato. Il presupposto da cui ha preso le mosse questo intervento è stato

dunque di individuare i principi costitutivi e i problemi metodologici che tale eventuali tinuità o visto che

Literaturgattung pone nel tardo-antico, e così di osservare fenomeni caratterizzanti e di discuterne il rapporto di condi innovazione rispetto alla tradizione antecedente. Abbiamo l’Arthologion dello Stobeo si configura in realtà come un —

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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

testo di raccolta di orientamento filosofico, usando una definizione intenzionalmente aperta, che lasci spazio ad ulteriori precisazioni, e

non stricto sensu come uno gnomologio sentenzioso. Come gnomolo-

gio in senso proprio può essere definito invece ciò che abbiamo dai tre libri di Orione (la definizione vale in questo caso per tutti e tre i fogli del Viennese,

data la loro configurazione),

anche

se la mutila-

zione quasi radicale del testo vincola il giudizio ed impedisce qualsiasi ipotesi che sia più che approssimativa. Assoluta appare in ogni caso l’unicità del prodotto letterario dello Stobeo nelle linee di sviluppo della tradizione del genere, ad un crocevia tra la produzione anteriore, rappresentata dalle antologie gnomiche, e la ricchissima tradizione bizantina. Il grande cambiamento è dato dalla sistematizzazione del pensiero, che diverrà ad esempio il principio dei Sacra Parallela di Giovanni Damasceno, e che per i suoi presupposti educativi

sembra essere stata assimilata anche dalla cosiddetta letteratura di

Adab della tradizione araba, sulla quale non è possibile tuttavia soffermarsi in questa sede.

Ciò che si rende necessario, adesso, è cercar di capire meglio i presupposti genetici e funzionali di questa letteratura, dal tardo-antico in poi, precisando l’idea che sta sotto il movimento generale, ovvero la forma di cultura che questo metodo di lavoro intende servire e realizzare. È essenziale dunque comprendere che cosa diventano le raccolte, in quanto fenomeno sistematico non solo puramente letterario,

ed è importante che vengano affrontati problemi che riguardano principalmente il metodo, in relazione all’attività dei compilatori e ai loro presupposti e per quanto riguarda pubblico e milieu come elementi determinanti nella genesi di opere di questa natura. Bisogna in breve chiedersi chi sono gli autori di questi testi miscellanei e per quale ragione si sono dati sforzo di selezionare le voci della tradizione, riunendole fra di loro ed armonizzandole secondo un disegno. Si tratta dunque di leggere l’intelaiatura logica in rapporto ai contenuti, e di determinare un approccio al prodotto letterario che non sia più quello della cosiddetta Quellenforschung, della raccolta solo come testimone dell’antico.



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APPENDICE Nell’ambito di questa discussione, alle due precedenti raccolte avevo ritenuto di una qualche utilità accostare anche un terzo prodotto del tardo-antico, i dodici libri delle Ἐκλογαὶ διάφοροι attribuite ad un tal Sopatro sofista, dietro il quale si vuol riconoscere l'omonimo di Apamea, allievo di Giamblico. Della raccolta non vi è alcuna tradizione, né diretta né indiretta, ma solo la descrizione che ne dà il patriarca Fozio, nel cod. 161 della Biblioteca, descrizione che consente di raccogliere preziose informazioni sui metodi di assemblamento del materiale, sulle fonti e sui destinatari, i membri di un ambiente chiuso, probabilmente appartenenti ad una scuola (la silloge sarebbe costituita τοῖς ἑταίροις, secondo quanto Fozio riporta dal testo stesso). Nel corso dell’elaborazione della ricerca relativa a Sopatro, tuttavia, si sono poste questioni e si sono delineati ulteriori percorsi di ricerca che mi hanno convinto della necessità di dedicare maggiore attenzione a questo tema, e di conseguenza mi inducono a rinviare la discussione ad altra sede. Il discorso sulla raccolta di Sopatro richiede infatti una trattazione specifica, in primo luogo per una discussione dettagliata sull’identità dell’autore (se si tratti dell’allievo di Giamblico o del figlio omonimo, o ancora del Sopatro retore, forse nipote del primo, allievo di Imerio e attivo ad Atene nel IV secolo, il quale gravita intorno ad ambienti neoplatonici), e in secondo luogo in relazione ad altri collectanea di cui nella Biblioteca lo stesso Fozio dà una recensione, nell’intento di raccogliere, da parte nostra, ulteriori elementi che chiariscano la natura e la funzione di tali serbatoi del sapere. La domanda che mi aveva spinto ad associare la raccolta di Sopatro a quella dello Stobeo e di Orione era se mai sia possibile accertare che la sempre più ricca produzione di opere di questo genere, con strutturazioni formali di volta in volta differenti, legate alle necessità del pubblico cui l’autore si rivolge e alle funzioni che la raccolta acquista, possa essere legata alla fioritura di circoli culturali, di comunità di dotti. Che si tratti di circoli filosofici o di comunità erudite, questo è in qualche modo di secondaria importanza (tutta da scrivere, ad esempio, è la storia dei metodi di insegnamento utilizzati all’interno delle scuole neoplatoniche, soprattutto di Asia Minore,

che sembrerebbero

più cenacoli

che scuole istituzionalizzate, e allo stesso

modo nebulose sono anche le nostre conoscenze sulle attività svolte all’interno delle comunità di sapienti, come la lettura comune di testi classici). Lo Stobeo assembla infatti un’antologia ‘filosofica’ di orientamento neoplatonico e più squisitamente giamblicheo, il cui materiale è difficilmente non riconducibile ad un ambiente che non sia di scuola, come dimostrano struttura e contenuto; il grammatico-retore Orione è maestro di Proclo ad Alessandria, ma forse ancor più indi-

cativa è la dedica ad Eudocia, sua allieva e corifea di una comunità di dotti, e infine il retore-filosofo Sopatro costituisce una raccolta del sapere per i propri non meglio identificati commilitoni. Da discutere ora è se sia casuale o meno che autori di raccolte del tardo-antico abbiano avuto direttamente contatti con circoli filosofici ο sodalizi di eruditi, e se i loro prodotti letterari, bacini di sapere compendiato, abbiano

avuto in quest'ambito una finalità pratica di conservazione, fruizione e nuova diffu-

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LE RACCOLTE DI STOBEO E ORIONE

sione della tradizione classica. Questa dunque la Fragestellung, che necessita di un’attenta verifica. Per un’interessante raccolta di dati sulle attività all’interno delle comunità di dotti nel tardo-antico rimando a R. LIzzi TESTA, Le comunità di sapienti nel Tardo Impero, fra selezione e specializzazione del sapere, «AANL», Rendiconti IX.13, 3, 2002, pp. 387-417; cfr. anche G. AGOSTI, I poemetti del codice Bodmer e il loro ruolo nella storia della poesia tardoantica, in Le codex des Visions, Actes du Colloque Charles Bally (Genève, 1-4 giugno 2000), Genève, Droz 2002, pp. 73-114. Ringrazio qui Dominic O’Meara per aver messo a mia disposizione due suoi scritti attualmente in corso di stampa, A Neoplatonist Ethics for High-level Officials: Sopatros’ Letter to Himerios, in A. SMITH (ed.), The Philosopher and Society in Late Antiquity, Bristol 2003 e Notes on a Platonist Rhetor: Sopatros 3, Appendix II del volume Platonopolis. Platonic Political Philosophy in Late Antiquity, Oxford, Oxford University Press 2003.



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ELENA

GIANNARELLI

ACROSTICI ALFABETICI

CRISTIANI GRECI

I. I CRISTIANI E L'USO DELL’ACROSTICO ALFABETICO

L'occasione di ripensare la storia e le caratteristiche degli acrostici alfabetici cristiani è stata recentemente offerta dalla pubblicazione dei poemetti del Codice delle visioni (Bodmer XXX-XXXVII). In esso si segnalano tre testi interessanti, che utilizzano questa particolare struttura e che appartengono a generi letterari diversi. Parafrasi biblica — e forse siamo in presenza di uno dei primi esperimenti orientali di questo tipo — si può definire il componimento su

Abramo, che conferma il rilievo assunto dall’episodio del sacrificio.di Isacco nell’esegesi, nella letteratura e nella liturgia cristiane. A questo proposito Gianfranco Agosti, in uno studio del 1995, aveva segnalato significativi punti di contatto con un testo liturgico, la Casta oblaciö, pubblicato da Roca Puig e proveniente dal codice miscellaneo dei Papiri di Barcellona. Aggiungo solo che l'obbedienza di Abramo fino al sacrificio del figlio, oltre a rientrare nella serie delle prefigurazioni veterotestamentarie della vicenda di Cristo, è uno dei punti di riferimento preferiti dalla letteratura monastica per illustrare il concetto di sottomissione. Il secondo testo è un inno cletico dedicato a Gesù, sempre con la particolarità dell’acrostico alfabetico, vicino a poesie brevi del Nazianzeno

e, come lo stesso Agosti sottolinea con acume,

all’epinicio

di Cristo nell’Izzo VIII di Sinesio.?

1 Cfr. A. HURST - J. RUDHARDT (éds.), Papyri Bodmer XXX-XXXVII.

«Codex des Vi-

sions». Poèmes divers, München, Saur 1999.

2 Cfr. greci. 1: G. GOSTINI (a 5 Cfr.

G. AGOSTI - F. GONNELLI, Materiali per la storia dell’esametro nei poeti cristiani AGOSTI, Versificazioni ‘imperfette’ fra IV e V secolo, in M. FANTUZZI - R. PRETAcura di), Struttura e storia dell’esametro greco, Roma, GEI 1995, I, p. 302 nota 37. G. AGOSTI, I poemetti del codice Bodmer e il loro ruolo nella storia della poesia

tardoantica, in A. HURST - J. RUDHARDT

(éds.), Le «Codex des Visions». Actes du Collo-

que ‘Charles Bally” sur le «Codex des Visions» organisé par la Faculté des Lettres de l’Université de Genève, Genève, Droz 2002, pp. 73-114: 89,



265 —

ELENA GIANNARELLI

Di taglio parenetico è il poemetto D (ὁ δεσπότης πρὸς τοὺς ...),

che invita a sopportare la sofferenza sulla scia di Cristo, venuto in terra per salvare i κοσμήτορε λαῶν: il problema di chi si nasconda

dietro questa formula omerica al duale è ancora aperto e si accettano ipotesi.4 La venuta del Signore ha avuto anche lo scopo di portare la μετάνοια ἀλιτροῖς. È lui stesso poi a prendere la parola e ad assicu-

rare che i malvagi saranno allontanati dalla torre insieme a quelli che hanno bruciato i libri. Se per quest’ultima affermazione si può ipotizzare un’allusione a quanto decretato da Diocleziano nel febbraio 303, per l’impianto in generale si può richiamare un testo di grande suggestione come il Pastore di Erma Casi interessanti, come si vede, che mostrano un’ampia diffusione della struttura κατὰ στοιχεῖον. Il dato notevole è la scelta dell’esametro, metro non frequente negli acrostici: se non erro, prima di que-

sti ritrovamenti, per avere un carme alfabetico in lingua e metro epico, secondo gli studi di Anastasijewié, bisognava arrivare all'imperatore Leone il saggio (886-911).6 A questo proposito è da notare come per lungo tempo sia stato operante un deciso iato tra struttura acrostica e scansione esametrica. Quei Salmi che pure si presentavano in ebraico come acrostici alfabetici (Ps 9, 25, 34, 37, 111, 119, 145) nella metafrasi in verso epico perdono questa loro caratteristica, già peraltro omessa dai buoni, mitici Settanta. Agosti nota tutto ciò, precisando che l’uso dell’acrostico probabilmente era «avvertito quale artificio compositivo di grande comunicatività e perciò stesso più adatto alla poesia ‘popolare’ che a quella colta». I poemetti Bodmer a suo dire «mostrano una inaudita tipizzazione popolare dell’esametro».’ Nell’Egitto del IV-V secolo, in pieno fervore monastico, la scelta della forma alfabetica costituisce una sottolineatura del valore dei γράμματα, in una rilettura che stabilisce un legame forte con la realtà

4 AGOSTI, I poemetti, cit., p. 89 nota 83, ricorda che questa espressione, presente in I. I 16; 1375 etc., è stata variamente interpretata: sono stati proposti riferimenti ai martiri Doroteo e Gorgonio (Eus. H.E. VIII 1, 4 e 6, 5), oppure ad Adamo ed Eva (così

HURST - RUDHARDT, cit., p. 130). Dopo aver ricordato che Livrea pensa a Maria e al Figlio, lo studioso sottolinea come sfugga il significato preciso della formula: «gli ornamenti» sono forse i capi della comunità dei credenti? > Cfr. il contributo specifico di A. CARLINI, Gli studi critici sul «Pastore» dopo la pubblicazione di PBod 38 e la presenza delle «Visioni di Erma» nei testi poetici del «Codex Visionum», in Le «Codex de Visions», cit., pp. 123-138.

6 Cfr. D.N. ANASTASIJEWIC, Die paränetischen Alphabete in der griechischen Literatur, Diss. München

1905, p. 34, nr. 10 della lista, che ne sottolinea la dipendenza dalle Ὑπο-

θῆκαι παρθένοις di Gregorio di Nazianzo (PG 37, 578 sgg.). 7 Cfr. AGOSTI, I poemetti, cit., p. 93.

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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

della vita solitaria. Lo dimostra la divisione dei cenobiti pacomiani a Tabennesi in classi corrispondenti ognuna ad una lettera, secondo la notizia data da Palladio. La ratio cui obbediva una simile operazione

è spiegata dallo stesso autore, che riporta le parole di Pacomio: «seguivano un certo valore simbolico delle lettere. “Ai più semplici e ai più puri imporrai lo iota, a quelli che hanno un carattere più difficile e tortuoso attribuirai lo csi”. E così, corrispondentemente alla natura dei propositi, dei caratteri e dei modi di vita, adattò a ciascuna classe una lettera; e solo i padri spirituali ne conoscevano il valore simbolico».8 Peraltro la stessa scansione alfabetica è un filo altrettanto forte che si dipana in direzione scritturistica e vengo al punto centrale di questo intervento. In ambito cristiano ci si sentiva autorizzati a scrivere acrostici alfabetici per la presenza di questi componimenti nella Bibbia, testo sacro e quindi autoritativo per eccellenza. Oltre ai già ricordati Sali, avevano questa struttura Pr 31, 10-31, l’elogio della γυνὴ ἀνδρεία, testo base per la definizione della donna positiva, che riscatta la sua ἀσθένεια sulla base dell’attività domestica, in una rivalutazione finalizzata alla sfera del privato; le Larzentazioni I-IV di Geremia, sulle quali non spendo parole data la loro diffusione e l’intrecciarsi in esse di fili letterari, profetici, parenetici; infine Sir 51, 13-30, un poema sulla ricerca della sapienza purtroppo mal conservato. Il grande valore che veniva attribuito a questo tipo di scansioni è affermato nella mai abbastanza citata Ep. 30 di Gerolamo a Paola, significativa su più piani, oltre che per essere indirizzata ad una donna capace di recepire problematiche culturali di grande impegno. Nulla però, come è noto, era troppo difficile per le coltissime dame dell’Aventino. L’ese-

geta filologo distingue tipi di scritture acrostico-alfabetiche, indican-

done i relativi esempi, a seconda che singulis litteris singuli versiculi qui trimetro iambico constant sint subnexi, oppure se le singole lettere

siano a capo di più versi o di strofe. Il buon Gerolamo istituisce parallelismi fra metrica classica e scansioni della poesia ebraica, parla di trimetri giambici, come abbiamo visto, e di tetrametri giambici, agendo in maniera del tutto arbitraria, nell'intento di riuscire comprensibile a Paola, evidentemente formatasi su testi greci e latini. E anche da sottolineare lo sforzo che egli fa di riportare e chiarire il significato delle singole lettere ebraiche e delle loro connessioni, il tutto nella

8 Cfr. Palladio, La Storia Lausiaca, introd. di CHR. MOHRMANN, testo critico e commento a cura di G.J.M. BARTELINK, traduzione di M. BARCHIESI, Fondazione L. Valla 1974,

pp. 152-155. Si tratta del cap. 32, 4-5.



265 —

ELENA GIANNARELLI

prospettiva del sensus da attribuire ai γράμματα in ottica cristiana. «Che c’è di più sacro di questo mistero? Qui cibi, quae mella sunt dulciora Dei scire prudentiam, in adyta eius intrare, sensum creatoris inspicere et sermones Domini tui qui ab buius mundi sapientibus deridentur plenos doceri sapientia spiritali?». Il tutto è espresso con la giusta dose di vis polemica e con il necessario rispetto delle norme retoriche: si notino la κλῖμαξ e l’allusione scoperta al Nuovo Testamento attraverso il richiamo ai «sapienti di questo mondo». Paola, quando riceve questa lettera, nel 384, è già avviata alla vita monastica.? Non vorrei accentuare oltre misura il legame fra monachesimo e forme di poesia acrostico-alfabetica, ma molti carmina presenti nell'inventario di quanto fino ad oggi restituito dalle scoperte papiracee e dagli studi letterari in questo particolare campo!’ sono da ricollegare a tematiche relative alla verginità e si configurano come esortazioni per la scelta opposta al saeculum. II. PBODMER XLVII

Da questo punto di vista ritengo di grande interesse il PBodmer XLVII, edito da Antonio Carlini e Michele Bandini,!! con il suo acro-

stico alfabetico che si inscrive in un filone di poesia parenetica alle vergini, legata ai nomi di Gregorio di Nazianzo ed Evagrio,!? oltre ? Cito dall’ed. di 7. LABOURT, Saint Jeröme, Lettres, Paris, Les Belles Lettres 1951, vol. II, pp. 31-35.

10 Acrostici alfabetici cristiani greci sono: l’Ixzo di Metodio di Olimpo; il Carzze I 2,

30 di Gregorio di Nazianzo; i testi dei papiri Amherst I 2 (IV?); Berol. inv. 8299 (IVP); Köln IV 172 (inv. 3261, sec. IV/V); Bodmer XLVII; i citati poemetti del Codice delle Vi-

sioni e la ‘casta oblaciò”, quelli dei papiri Bouriant 1 (comunemente datato al IV, ma del VI sec., secondo Bastianini); del Monastero di Epifanio 592 e 593 (sec. VI/VII); Rylands 17 (VI?); Pinno acrostico alfabetico ᾿Αρξώμεθα παῖδες e la litania acrostico-alfabetica

"Ayıe τῶν ἁγίων studiati da C. GRASSIEN, Deux bymnes et une litanie chrétiennes byzantines conservées par le P.Rainer Cent. 31 et cinq autres témoins, «Tyche», XII, 1997, pp. 51-84. Costituisce infine un caso interessante l’inno acrostico a Cristo, Or. Sib. 6, considerato da M.D. UsHER, The Sixth Sibylline Oracle as a Literary Hymn, «Greek, Roman

and Byzantine Studies», XXXVI, stiano-medioplatonico.

1995, pp. 25-49 come espressione di un gruppo cri-

11 Cfr. A. CARLINI - M. BANDINI, P. Bodmer XLVII: un acrostico alfabetico tra SusannaDaniele e Tucidide, «Museum Helveticum», XLVIII, 1991, pp. 158-168.

12 Non entro nella spinosa questione legata alla produzione di Evagrio e alle sue Sententiae, Insieme al problematico nodo costituito da Nilo, da quanto attribuito all’Ancirano e dalla raccolta di Sesto (con la nota attribuzione a Sisto) è testimonianza chiara della grande diffusione della letteratura gnomica in ambito cristiano e della capacità di risemantizzare e di fare proprio un vasto patrimonio classico da parte dei seguaci di Cristo, che trovano pur sempre precedenti illustri cui guardare nei Proverbi di Salomone e nel



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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

agli στίχοι παραινετικοί attribuiti a Giovanni Crisostomo. Esso si caratterizza anche per una accentuata presenza di riprese dal corpus pao-

lino.! In apertura, il tema della vita come ἀγών richiama non solo Fil 1, 30, ma 1Tim 6, 12 e 2Tim 4, 7. È da invocare soprattutto il parallelo di Eb 12,1 τρέχωμεν τὸν προκείμενον ἡμῖν ἀγῶνα. Al v. 5 ἐν K(vpi)® καυχωμένη rimanda all'espressione ὁ καυχώμενος ἐν Κυρίῳ καυχάσθω,

di Ger 9, 23 così come viene citato in 1Cor 1, 31 e 2Cor

10, 17. Il commento puntuale di Bandini prende in esame la zunctura ὡς σοφή del v. 9 e forse del v. 17, evocando Ef 5, 15; si concentra poi su termini caratteristici della lingua paolina come βδελύσσομαι, κοσμικός, ἁγνεία, ῥητῶς; rileva infine la valenza del tutto particolare della formula conclusiva ὦ] δόξα, τιμὴ καὶ κράϊτος, che risulta una somma di Eb 13,210 ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων e 1Tim 6, 16 ᾧ τιμὴ καὶ κράτος αἰώνιον e appare identica alla chiusa del Περὶ παρθενίας del Nisseno. Molte altre osservazioni linguistiche relative alla presenza di richiami al corpus paolino costruiscono un solido ponte di rimandi fra questo testo, Metodio e gli scritti dei Cappadoci relativi alla verginità, il che non stupisce: la trattatistica De virginitate e l'applicazione pratica nei βίοι o nella poesia parenetica di quanto lì elaborato vivono di riprese dall’apostolo. Pare elemento centrale e chiave di lettura dell’intero alfabeto il v. 6 ζήτησον ὡς ἔχει ἡ γραφὴ τηασγί: ricercare quanto dice la Scrittura, farne il fondamento dell’esistenza in generale, di qualunque precettistica cristiana e della vita monastica in particolare. Un testo come questo difficilmente può essere considerato un centone: si configura piuttosto come rielaborazione di tematiche neotestamentarie, quasi una costruzione a tema. È una esortazione alla vita secondo verginità, con l'accettazione della dimensione agonistico-martiriale propria di quella scelta esistenziale, il rifiuto del saeculurz, la acquisizione di σοφία, il tema della gloria, l’èydrn, le dolcezze della dimensione monastica, fino alla dossologia finale. Il tipo di composizione ricorda, mutatis

Siracide. Il doppio binario, filosofico-pagano e scritturistico, -è costantemente presente. Cfr. H. GRESSMANN, Nonnenspiegel und Mönchsspiegel des Evagrios Pontikos zum ersten Male in der Urschrift berausgegeben, Leipzig, Hinrichs 1913 («T.U.», 39, IV), pp. 146-165; H. CHADWICK, The Sentences of Sextus. A contribution to the history of early christian ethics, Cambridge, Cambridge Univ. Press 1959; A. BÖHLIG - F. Wisse, Zum Hellenismus

in den Schriften von Nag Hammadi, Wiesbaden, Harrassowitz 1975, pp. 55-86; P. BETTIOLO, Le Sententiae di Nilo, «Cristianesimo nella Storia», I, 1980, pp. 155-184. 3 Per quanto riguarda la metrica, si tratta di versi giambici di tre metra e mezzo, come quelli di Metodio di Olimpo e di Gregorio di Nazianzo, Carme I 2, 30.



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ELENA GIANNARELLI

mutandis, un passo famoso di Gregorio di Nissa, la preghiera di Macrina morente, che non è poesia, ma prosa poetica con forti scansioni ritmiche e divisioni in κῶλα simmetrici.!4 In questa pagina non esiste

espressione che non sia una citazione diretta o allusione a versetti vetero e neotestamentari, con netta prevalenza di rimandi al corpus paolino. Il Nisseno vi svolge il tema morte-resurrezione di Cristo/morteresurrezione

del credente,

in modo

da

dare

una

visione

unitaria

sull'argomento. E da notare che Macrina al cap. 18 attribuisce a se stessa l’espressione τὸν καλὸν ἀγῶνα ἠγώνισμαι di 2Ti 4, 7, che abbiamo richiamato a proposito del v. 1.

Sono evidenti i condizionamenti legati alla forma acrostica, fra cui le scelte obbligate in relazione alle lettere di inizio del verso. Per lo ζ ad esempio, il tema del cercare, ζητεῖν, appare anche in PAmh I 2 e in Carm. I 2, 30 del Nazianzeno. Per lo È, il tema della Éevia viene svolto in PAmh 12, PBour 1 e in Carm. I 2, 30 di Gregorio di Nazianzo. Con questo testo si possono confrontare anche lo sviluppo del concetto di φυλάττειν per il è e l’ovvia associazione di ψυχή con Ψ, presente nell’inno acrostico-alfabetico Ἀρξώμεθα παῖδες e nelle litanie acrostico-alfabetiche ‘Ayie τῶν ἁγίων. Ill. GREGORIO

DI NAZIANZO:

L’ACROSTICO

ALFABETICO I 2, 30.

Già evocato per quattro volte, eccoci all’acrostico alfabetico per eccellenza, il più famoso, la ‘madre’, per così dire, di tutte le analoghe composizioni cristiane. Il testo base è quello stampato in Migne,!6 Jäkel lo propone in Menandri sententiae secondo la testimonianza del Laur. 57, 50.”

Il carme ha avuto diffusione straordinaria e si devono anche fare i conti con alcuni ‘testi paralleli’: gli Γνωμικὰ δίστιχα e la Γνωμολο14 Cfr. Grègoire de Nysse, La vie de Sainte Macrine, ed. P. MARAVAL, Paris, Les Éditions du Cerf 1971 («Sources Chrétiennes», 178), pp. 218-224 (cap. 24 del βίος); E. GIANNARELLI, La poesia sui santi nella tarda antichità: il ruolo della Scrittura, in F. STELLA (a cura di), La scrittura infinita. Bibbia e poesia in età medievale e umanistica, Firenze, SI-

SMEL-Edizioni del Galluzzo 2001, pp. 303-316: 305-308. 15 Nella prima parte la sorella del Nisseno e di Basilio enumera i benefici effetti della morte e resurrezione del Signore in riferimento alla vita umana, mentre la seconda sezione vive delle richieste connesse con la circostanza specifica in cui la preghiera viene pronunciata: la protagonista chiede l’aiuto divino per affrontare il difficile momento del proprio trapasso. 16 Cfr. PG 37, 908-910. Si tratta dell’ed. di A.B. CAILLAU.

1 Cfr. S. JAKEL ed., Menandri Sententiae. Comparatio Menandri et Philistionis, Lipsiae, Teubner 1964 («Bibliotheca Teubneriana»), pp. 131-132.



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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

yia tetpdotiyoc,!8 e soprattutto con un ‘testo satellite’, un altro alfabeto in trimetri attribuito nei manoscritti a Gregorio e indirizzato πρός νέους, il cui dettato appare estremamente vicino a quello del carme che stiamo per analizzare.!? Là il v. 1 recita ἀρχὴν νόμιζε τῶν ὅλων εἶναι θεόν e la conclusione è ὦ παῖ, φυλάσσων ταῦτα σώζῃ ἐνθέως, mentre in Carm. I 2, 30, il verso iniziale suona ἀρχὴν ἁπάντων καὶ τέλος ποιοῦ Θεόν e quello finale è una interrogativa: ὦ tig φυλάξει ταῦτα, καὶ σωθήσεται;

In PG 37, 908-910 si nota la divertente presenza della resa in latino dell’acrostico, ad opera di Johann Léwenklau, risalente al 1575, con il tentativo di mantenere in qualche modo una ratio alfabetica, proposito non sempre rispettato. Il carme I 2, 30, sulla cui paternità gregoriana sono state avanzate perplessità? — sarà compito di questo studio cercare di dare un qualche contributo al problema -, sembra vivere, ad una prima lettura, di una serie di riprese dalle Sertentiae menandree, il che non stupisce affatto. Come è noto, sono soltanto tre le citazioni dalla poesia classica presenti nel Nuovo Testamento: in 1Cor 15, 33 si legge μὴ πλανᾶσθε’ φθείρουσιν ἤθη χρηστὰ ὁμιλίαι κακαί, con una ripresa da Menandro, Thais, fr. 165 K.-A.2! L’acrostico ha una sua logica interna, come già ha sottolineato Anastasijewic.? I ventiquattro trimetri giambici abbastanza regolari, ciascuno contenente una γνώμη parenetica, insegnano regole di morale religioso-ascetica. La devozione a Dio, nel quale si vede inizio e fine, acconsentire a lui in tutto, porre la sua bontà come ideale, contrap-

porre alla sublimità della saggezza etica e del λόγος la vanità della vita sono i concetti iniziali. Da qui scaturisce tutta una serie di pre-

18 Rimando all’intervento di S. Azzarà in questo stesso volume, pp. 53-69. 19 Cfr. ANASTASIJEWIC, cit., pp. 21-24, nr. 5 dell’elenco. 20 In questo stesso seminario, durante la discussione, il prof. Odorico ha espresso dubbi sulla autenticità gregoriana, perché il carme, a suo dire, sarebbe formato da sentenze estremamente generali e contestualizzabili anche altrimenti. Lo studioso pensa addirittura alla possibilità di spostare la datazione del testo al V-VI secolo, perché alcune tematiche presenti in esso furono dibattute soprattutto in quell’epoca. Segnalo che Carm. I 2, 30 non viene citato da H.M. WERHAHN, Dubia und Spuria unter den Gedichten Gregors von Nazianz, in Studia Patristica, VII, Papers presented to the Fourth International Conference on Patristic Studies held at Christ Church, Oxford

1963, Part I, ed. by F.L.

Cross, Berlin, Akademie-Verlag 1966 («T.U.», 92), pp. 337-347. 2! Le altre due citazioni sono in Tzt 1, 12 (da Epimenide di Cnosso) ed At 17, 28 (da

Arato di Soli). La sentenziosità peraltro è qualcosa di insito nel DNA cristiano, come dimostrano i Λόγια di Gesù, la tradizione dei Teszimonia, gli Apophthegmata ed altro. 22 Cfr. ANASTASIJEWIG, cit., pp. 19-20.



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ELENA

GIANNARELLI

cetti pratici: aspirare all’essere e non all'apparenza; pensare alla sfor-

tuna nella fortuna;? disprezzare le ricchezze, soprattutto quelle acquistate ingiustamente; domare i sensi e le passioni, in ordine l’occhio, la lingua, l’orecchio, il riso e, fra le seconde, la presunzione, l’ira, l'invidia, la carne, per approdare alla vita futura e alla salvezza. Si traccia un iter spirituale in piena regola, una via salutis pensata soprattutto per giovani monaci.

Jäkel, nella sua edizione delle Menandri Sententiae, come già si è

anticipato, presenta il testo dell’acrostico di Gregorio di Nazianzo secondo il codice Laur 57, 50 e lo accompagna con un apparato di rimandi alle γνῶμαι del corpus menandreo e alla Vita Aesopi. Ad un primo esame pare che questi materiali vengano utilizzati per espri-

mere contenuti cristiani, spesso coincidenti con la morale profana. Tuttavia la situazione appare più complicata non appena si scende in profondità. Per il v. 1: Ἀρχὴν ἁπάντων καὶ τέλος ποιοῦ Θεόν, Jäkel chiama in causa Mon. 63 ἀρχὴν νόμιζε τὸν θεὸν F φοβεῖσθαι, ma il concetto espresso in questa sententia è diverso.?* Peraltro Dio come principio e fine di tutte le cose è affermazione che percorre l’intera cultura greca dallo Zeus dei poemi omerici alla filosofia stoica ed oltre: caso mai, più calzante appare Mon. 667 πατὴρ ἁπάντων καὶ τροφὸς θεὸς πέλει. La fonte tuttavia è da ricercarsi nella Scrittura. In Ap 21, 6 si legge che il Signore dice di se stesso: ἐγὼ τὸ ἄλφα καὶ τὸ ὦ, ἡ ἀρχὴ καὶ τὸ τέλος. In Ap 22, 13 il concetto viene ribadito: ἐγὼ τὸ ἄλφα καὶ τὸ ὦ, ὁ πρῶτος καὶ ὁ ἔσχατος, ἡ ἀρχὴ καὶ τὸ τέλος. Dio quindi si autodefinisce inizio e fine ed anche alfa e omega:?? ecco giustificata su base

23 Ciò costituisce il contrario di massime famose del tipo «nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice nella sventura»: entrambe le posizioni sono ben documentate nel mondo antico e non vale la pena insistervi. 24 Esso appare singolarmente vicino a Pr 1, 7 ἀρχὴ σοφίας φόβος κυρίου (θεοῦ BS).

Che il timor Dei sia la base del corretto atteggiamento, cristiano e non solo, nei confronti della divinità è motivo

talmente noto da non richiedere ulteriori precisazioni.

Quando

Gregorio di Nazianzo traccia il ritratto idealizzato dei genitori nel De vita sua, al v. 67 definisce Nonna come colei le cui azioni erano guidate dal φόβος, μέγας διδάσκαλος. Cfr. Gregor von Nazianz, De vita sua, Einleitung, Text, Ubersetzung, Kommentar von CHR.

JuNGCK, Heidelberg, Carl Winter Universitätsverlag 1974, p. 156. Si vedano anche per la espressione Carm. I 2, 10, 172: φόβος γὰρ ἀρχὴ πολλάκις σωτηρίας e per il valore di φόβος Or. 39, 8. Forse è da confrontare anche il primo verso dell’inno ᾿Αρχὴ τῆς σωτηρίας, per cui cfr. GRASSIEN, cit., p. 59. 25 Più vicino al verso di esordio di Carzz. I 2, 30 è l’inizio dell’acrostico PBour 1: ἀρχὴ μεγίστη τοῦ φρονεῖν τὰ γράμματα.

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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

biblica la scrittura di acrostici alfabetici, non solo di quelli che attraverso γνῶμαι portano alla salvezza — in direzione escatologica di salvezza deve essere letto il carme stesso che stiamo esaminando, se è vero che esso si chiude con la forma verbale σωθήσεταιό — ma di inni e carzzina che predicano Cristo e lo fanno conoscere, come la celeberrima composizione di Metodio. D'altronde, che la Scrittura possa giustificare la scelta di un genere letterario e risemantizzarlo interamente non è una novità presso i cristiani, come

si può vedere nella

pagina iniziale della Vita di Efrem di Siria, attribuita a Gregorio di Nissa.?’ In essa l’autore confessa di aver trovato lo stimolo per scrivere di Efrem in Mt 5, 13-15 (I cristiani sono il sale della terra e la luce del mondo) «non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma la si pone in alto perché faccia luce a tutti quelli che si trovano nella casa». Così il biografo scrive del santo di Siria: il suo esempio come la lucerna evangelica deve risplendere a tutti. Se quel personaggio durante l’intero arco della sua vita aveva rifuggito encomi ed esaltazioni, l'apparente contraddizione può essere sanata ricorrendo ancora al testo dei Vangeli, dove si legge chiaramente che «chi si umilia sarà esaltato». Tutto ciò giustifica per lo Pseudo-Gregorio, ma potrebbe trattarsi anche di Gregorio, la scelta di un genere letterario considerato squisitamente elogiativo. Come questa pagina può essere intesa quale cristianizzazione dell’idea di βίος,23 il carme I 2, 30 potrebbe essere letto come ‘manifesto’ dell’acrostico alfabetico cristiano, nella sua struttura e nella sua funzione di proposta di una via salutis, complice l’Apocalisse, un testo che il Nazianzeno amava molto. Nel suo corpus poetico, peraltro, compaiono espressioni parallele a questa, in qualche caso sottoposte ad una tecnica di arzplificatio. Si veda a proposito Carm. II 2, 8, 6 θεὸς γὰρ πᾶσιν ἀρχὴ καὶ τέλος

τοῖς εὐφρονοῦσι γίγνεται παντὸς Biov.? Nella costruzione del testo in esame una insistita presenza di tematiche bibliche va a sommarsi (o sovrapporsi) a quelle profane delle sententiae classiche. Così per il v. 2 Biov τὸ κέρδος ἐκβιοῦν καθ᾽

26 Si veda infra l’analisi del v. 24. 2 Cfr. PG

46, 820A-821CD.

28 Cfr. E. GIANNARELLI, Infanzia e santità: un problema della biografia cristiana antica, in A. BENVENUTI PAPI - E. GIANNARELLI (a cura di), Bambini santi. Rappresentazioni del-

l'infanzia e modelli agiografici, Torino, Rosenberg & Sellier 1991, pp. 31-32. 29 Maggiore brevità, inversione e variatio caratterizzano Carr. II 1, 1, 116: Σὺ δέ σφισι

τέρμα καὶ ἀρχή. Il poeta si rivolge a Dio e parla dei credenti.



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ELENA GIANNARELLI

ἡμέραν, oltre al back-ground platonico di una simile affermazione? si deve richiamare Fz/ 1, 21 ἐμοὶ γὰρ τὸ ζῆν Χριστὸς καὶ τὸ ἀποθανεῖν κέρδος. Per l’idea di cotidie mori può essere evocata 1Cor 15, 31 καθ᾽ ἡμέραν ἀποθνήσκω. È il tema dell’unione salvifica alla morte di Cristo e la sua attualizzazione nel quotidiano per il credente.?? Si veda in Carm. II 1, 12, 593 τὸ θνήσκειν μνώμενος καθ᾽ ἡμέραν

come at-

teggiamento esemplare parallelo: si tratta di una delle tante riprese paoline operanti in Gregorio di Nazianzo. Il v. 3 propone Γΐνωσκε πάντα τῶν καλῶν tà δράματα. Sternbach, che curiosamente cita nella forma appena riportata il trimetro nella sua riproposta dell’acrostico, ma nelle pagine di commento lo presenta con la forma verbale γνώριζε al posto di γίνωσκε," afferma: eundem trimetrum leniter inmutatum adponit Nilus in Boissonadi Anecdot. Graec., vol. IV p. 438 v. 9 ἴχνευε πάντων τῶν σοφῶν τὰ δράματα. Egli rileva poi una serie di consonanze fra Nilo e i Monostici menandrei? e conclude che i due versi — quello di Nilo e quello di

Gregorio — proverrebbero dalla stessa fonte, con la differenza che il

primo pristinam scripturam servasse videtur, Theologus vero interpolatum textum usurpasse putandus est. Tracce dell’interpolatore sareb-

bero quelle notate dallo stesso Sternbach nella raccolta dei Monosticha in Par. Graec. Suppl. nr. 690? dove la sententia in questione è presente nella forma: γνώριζε πᾶσι τῶν καλῶν τὰ πρακτέα. La ricognizione effettuata sul manoscritto dallo studioso gli consente di affermare la presenza della mano interpolatrice quae quidem etiam δράματα ex libidine mutarit, cum eiusmodi clausula rationi metricae sequioris

20 Cfr. Plat. Apol. 404 θαυμάσιον κέρδος ἂν εἴη ὁ θάνατος e 40e εἰ οὖν τοιοῦτον ὁ θάνατός ἐστι, κέρδος ἔγωγε λέγω. JAEKEL, ed. cit., p. 130 segnala la presenza del verso βίου τὸ κέρδος ἐκβιοῦν καθ᾽ ἡμέραν nel ms. Jos. e suggerisce un riscontro col Mon. 120

(ibid., p. 39). DI Espressione simile in Carm. Il 1, 89, 22. 32 Per la stessa associazione Platone/Paolo nella thanatologia nazianzenica cfr. C. MoRESCHINI, La ‘meditatio mortis’ e la spiritualità di Gregorio Nazianzeno, in S. FELICI (a cura di), Morte e immortalità nella catechesi dei Padri del III-IV secolo, Roma, LAS-Roma

1985,

pp. 151-160 (rist. in C. MORESCHINI, Filosofia e letteratura in Gregorio di Nazianzo, Milano, Vita e Pensiero 1997, pp. 82-93). 3 Cfr. L. STERNBACH, Curae menandreae, Rozprawy Akademii Umiejetnosci, Wydzial Filologiezny 17 (S. II, 2), Kraköw 1893, p. 23 e p. 29, 34 Ibid. pp. 29- 32. Ad esempio Mon. 336 (= 461 J.) μιμοῦ tà σεμνά, μὴ κακοὺς (κακῶν Jäkel) μιμοῦ τρόπους da porre in relazione con Nilo 12 μιμοῦ τὰ σέμνα’ μὴ μιμοῦ κακὸν τρόπον oppure Mon. 546 (= 718 7.) χρηστοῦ (σοφοῦ Jäkel) παρ᾽ ἀνδρὸς χρὴ co-

φόν τι μανθάνειν e Nilo 18, dove l’uomo da cui bisogna imparare è il σοφός. 35 Cfr. L. STERNBACH,

Georgii Pisidae carmina inedita, «Wiener Studien», XIII, 1891,

pp. 58-62 (testo delle seztentiae secondo Par. Graec. Suppl. nr. 690).



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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

aevi repugnaret. Molti sono i problemi aperti da questa pagina del ce-

lebre filologo, che solo un esame dei testimoni e la edizione critica dei testi possono risolvere. Scorrendo la lista di consonanze fra Gregorio e la silloge del Par. Graec. Suppl. nr. 690 si ha l’impressione di riprese molto late;?® peraltro la misteriosa alternanza γίνωσκε γνώριζε per il v. 3 di Carm. I 2, 30 potrebbe anche risalire ad un comprensibile lapsus di Sternbach, fuorviato dalla presenza di questa voce verbale nel Parisinus stesso. Una indagine su Nilo esula da questo lavoro, ma è da rilevare come l’ombra inquietante della ‘questione’ legata al suo nome compaia ogni volta in cui si tratti di studiare acrostici cristiani.

Δεινὸν πένεσθαι, χεῖρον δ᾽ εὐπορεῖν κακῶς. L'affermazione del v. 4 è stata messa in relazione con Mon. 421 καλῶς πένεσθαι κρεῖττον ἢ πλουτεῖν κακῶς. In effetti questa è la formula più diffusa, che trova riscontro in Pr 28, 6 κρείσσων πτωχὸς πορευόμενος ἐν ἀληθείᾳ πλουσίου ψευδοῦς; vi si ispira Gregorio in Carm. I 2, 28, 145 καλῶς πένεσθαι κρεῖσσον ἢ πλουτεῖν κακῶς. Si tratta di una tipica

struttura comparativa fra due concetti in opposizione. Qui tuttavia la prima parte del trimetro richiede forse qualche spiegazione. Benché l’indigente sia immagine di Cristo, essere poveri è una brutta condizione. Per questo ogni cristiano e il monaco in particolare sono chiamati al dovere della carità. I Cappadoci appaiono particolarmente sensibili a questo tema: basti pensare alle due orazioni De pauperibus amandis di Gregorio Nisseno, all’Epistolario di Basilio, alle numerose

prese di posizione del Nazianzeno sull’argomento, in particolare nell’Or. 14 Περὶ φιλοπτωχίας.᾽ Non fa quindi difficoltà questa affermazione che trova riscontro in Giovanni Crisostomo, il quale scrive: δεινὸν ... ἡ πενία καὶ ἴσασι ὅσοι πεῖραν ταύτης εἰλήφασιν.8 Il tutto appare riconducibile alla dimensione martiriale del monaco. Per il v. 5 Εὐεργετῶν νόμιζε μιμεῖσθαι Θεόν si può richiamare il discorso di Pietro in AZ 10, 38 dove Gesù di Nazaret διῆλθεν εὐερ-

36 37 téraire taliste

Cfr. Cfr. et de

STERNBACH, Curae, cit., pp. 32-33. B. COULIE, Les richesses dans l'oeuvre de saint Grégoire de Nazianze, Étude litbistorigue, Louvain-La-Neuve, Peeters 1985 («Publications de l’Institut OrienLouvain», 32).

38 Cfr. Joh. Chrys. Laz. 1, 9. Anche Clemente Alessandrino aveva riflettuto su una simile tematica in Strom. IV 6, 26 scrivendo che il Signore ha detto «“beati i poveri” sia di spirito, sia di risorse, beninteso per causa della giustizia. Insomma, non dice beati i poveri in assoluto, ma quelli che hanno voluto farsi poveri per causa della giustizia, che hanno disprezzato gli onori di quaggiù per conquistare il bene». Tuttavia a prevalere è pur sempre l’idea che povertà e ricchezza siano ἀδιάφορα e che il loro uso abbia valenza qualificante.



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ELENA GIANNARELLI

γετῶν καὶ ἰώμενος πάντας τοὺς καταδυναστευομένους ὑπὸ τοῦ διαβόλου, ὅτι ὁ Θεὸς ἦν μετ᾽ αὐτοῦ. Nel greco dei cristiani il verbo εὐἐργετέω è tecnico per indicare l’azione tipica di Cristo e per questo chi la compie è detto suo imitatore, con una variatio su passi paolini quali 1Cor 4, 16 o più precisamente 11, 1 μιμεταί μου γίνεσθε, καθὼς

κἀγὼ Χριστοῦ. Non è da sottovalutare la presenza in simili contesti

di Ef 5, 1 γίνεσθε οὖν μιμηταὶ τοῦ Θεοῦ ὡς τέκνα ἀγαπητά, a sottolineare la grande dignitas che i credenti possono raggiungere ed a cui sono chiamati. Il tema aveva già avuto ampia diffusione: si veda Hom. Clem. 12, 26: χρὴ ... μιμετὴν εἶναι τοῦ θεοῦ, εὐεργετοῦντα δικαίους καὶ ἀδίκους. Non va infine dimenticato l’ironico ἢ καὶ φρονεῖς αὖ γ᾽ ὡς θεὸν μιμούμενος; in Gregorio, Carm. I 2, 25, 397. Il v. 6 Ζήτει

Θεοῦ

σοι χρηστότητα

χρηστὸς

div consente

un ri-

chiamo a Rx 11, 22 ἐπὶ δὲ σὲ χρηστότης Θεοῦ, ἐὰν ἐπιμείνῃς τῇ χρηστότητι. Il gioco fra Χριστός e χρηστός appare evidente ad un orecchio cristiano ed entrano in circolo anche affermazioni veterotestamentarie quali χρηστὸς κύριός ἐστι di IRe 24, 11 (cod. A) e Ger 40, 11, che nei Salmi assume addirittura frequenza quasi formulare.?? Per il v. 7 Ἢ σὰρξ κρατείσθω kai δαμαζέσθω καλῶς Jäkel rimanda a Mon. 851 ψυχῆς ὄλεθρός ἐστι σωμάτων ἔρως, che mi pare meno calzante di Rz 7, 18 οἶδα γὰρ ὅτι οὐκ οἰκεῖ ἐν ἐμοί, τοῦτ᾽ ἔστιν ἐν τῇ σαρκί μου, ἀγαθόν.

All’interno del corpus poetico del Nazianzeno l’uso di κρατεῖσθαι e δαμάζεσθαι in uno stesso verso è presente in Car. II 1, 12, 27 in un contesto diverso,‘ mentre in Carm. II 2, 5, 182-183 appare la

iunctura δαμάζω θυμόν. Si tratta di espressioni scelte con cura da Gregorio, alle prese con un vocabolario che poteva evocare posizioni eterodosse, come si vede in Clemente Alessandrino, Strorz. III 4, 26

a proposito della necessità di σαρκὶ μάχεσθαι tipica dei Nicolaiti. Θυμὸν χαλίνου μὴ φρενῶν ἔξω πέσῃς: così suona il successivo v.

8, che pone parecchi problemi. Secondo Sternbach, come per il v. 3 precedentemente esaminato, qui Gregorius [...] cavere non potuit ne memoria deceptus alienis fontibus hortulos suos inrigaret. Il v. 8 recurrit inter Aesopi praecepta ad Aenum p. 47, 5 sq. Westermann: in realtà l’editore stampa θυμοῦ κράτει, ma la lezione θυμὸν χαλίνου appare in margine al codex Vratislaviensis (C).*' Non è il caso di discutere l'argomento: certo, la precettistica relativa a θυμοῦ κρατεῖν oppure 3° Cfr. Ps 24, 8; 33, 9; 85, 5; 99, 5 etc. 40 ἀλλ᾽ ὅστις ἐν κακοῖς τε καὶ κακῶν

πέρα “αὐτὸς κρατείσθω

νῦν. 41 Cfr. STERNBACH,

Curae, cit., p. 24 e note 3-4.

- 274 —

καὶ δαμαζέσθω

τὰ

ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

θυμὸν φυλάττειν rimanda a materiali molto antichi, data la grande importanza e diffusione del problema dell’ira. Si vedano Mon. 348, 355, e soprattutto 547

che recita θυμὸν

φυλάττου:

τὸ φρονεῖν

γὰρ

οὐκ ἔχει. Il verbo χαλινόω ricorre peraltro nell’acrostico per ben due volte: qui con complemento oggetto θυμόν e al v. 20: Ὕβριν χαλίνου καὶ μέγας ἔσῃ σοφός."2 E l’immagine che esso evoca, «porre la cavezza all'ira o alla superbia» che attrae Gregorio, anche per le risonanze classiche che la caratterizzano. L'uso metaforico del verbo con complementi oggetto quali φόβος e ἐπιθυμία rimanda a Epic. fr. 485 Usener; con ὀργή e θυμός esso compare in Ps. Phoc. 57 e Them. Or 34, p. 454d. Anche per la seconda parte del trimetro e in particolare per ἔξω φρενῶν è possibile richiamare precedenti classici di notevole

prestigio come Pi. Οἱ, 7, 47.4 Ἵστη μὲν ὄμμα, γλῶσσα δὲ στάθμην ἔχοι Κλεὶς ὠσὶ κείσθω μηδὲ πορνεύῦοι γέλως. I vv. 9-10 segnano un deciso ritorno a tematiche veterotestamen-

tarie. Su un piano generale è possibile vedere una eco da Pr 21, 23 ὃς φυλάττει τὸ στόμα αὐτοῦ καὶ τὴν γλῶσσαν / διατηρεῖ ἐκ θλίψεως τὴν ψυχὴν αὐτοῦ. Anche Sir 28, 25 può aver giocato un suo ruolo nella ‘memoria esegetico-parenetica’ e non solo poetica di Gregorio: καὶ τοῖς λόγοις σου ποίησον ζυγὸν καὶ σταθμὸν / καὶ τῷ στόματι σοῦ καὶ ποίησον θύραν καὶ μοχλόν. Il rimando potrebbe trovare conferma nella variatio σταθμόνγοτάθμη e forse la immagine della chiave da porre alle orecchie è suggerita da quella del catenaccio che nel testo biblico è da apporre alla bocca. Il Nazianzeno nel carme parenetico Πρὸς παρθένους (I 2, 3) ai vv. 51-52 scrive: ὄμμα σου σωφρονείτω, γλῶσσα παρθενευέτω / μὴ νοῦς πορνεύῃ, μὴ γέλως, μὴ ποῦς ἄτακτα

βαίνων.

In De pudicitia (Carm. I 2, 6) αἱ v. 35 compare lo stesso verso dell’acrostico: κλεὶς ὠσὶ κείσθω, μηδὲ πορνεύοι γέλως. La risemantizzazione cristiana di concettualità e terminologia profana appare evidente al v. 11 Advyog βίου σοι παντὸς ἡγείσθω λόγος dove λόγος scritto con la minuscola può benissimo essere inteso con A e assumere le valenze rese canoniche dal prologo di Giovanni. Peraltro in Carm. II 2, 5, 3 il Nazianzeno chiama Cristo βίου φάος.

4 JÄKEL, cit., p. 132 rimanda a Mon. 795 ὕβρις κακὸν μέγιστον ἀνθρώποις ἔφυ. Al

solito le consonanze sembrano molto generiche. ® Si veda ad esempio Carız. II 1, 17, vv. 103-106. 4 Cfr. Soph. Ant. 648-49 per τὰς φρένας ἐκβάλλειν e Eur. Heracl. 709 σῶν φρενῶν οὐκ ἔνδον ὦν.

-

275 —

ELENA GIANNARELLI

La nota contrapposizione fra ‘essere’ e ‘sembrare’ costituisce l’ossatura del v. 12: Μή σοι τὸ εἶναι τῷ δοκεῖν ὑπορρέοι. Il concetto ricorre spesso nei versi gregoriani e in varie formulazioni; fra queste particolarmente interessanti quella del carme giambico De virtute (I 2, 10, 442) τὸ γὰρ δοκεῖν ὑφεῖλε τοῦ εἶναι πολύ e del v. 54 del De vita sua dove il padre è definito ὦν, οὐ δοκῶν, ἄριστος, οὐ τὸν νῦν τρόπον. Sia Kertsch che Jungck offrono un ottimo apparato di citazioni per la ricostruzione di questo motivo che data da Eschilo, Platone, Plutarco e trova grande fortuna presso i Cappadoci. Fra i paral-

leli citati, degno di nota è il rimando a Sesto, Sententiae 64 (p. 20 Chadwick) ἄσκει μὴ τὸ δοκεῖν ἀλλὰ τὸ εἶναι δίκαιος / τὸ δοκεῖν γὰρ ἕκαστον τοῦ εἶναι ἀφαιρεῖται. Anche in prosa Gregorio fa ricorso a espressioni simili, come dimostra ad esempio Or. 2, 51. Se il v. 13 Νόει tà πάντα, πρᾶσσε δ᾽ ἃ πράσσειν θέμις presenta una struttura logica molto usata dal Nazianzeno e dai Cappadoci in genere quale l'opposizione fra teoria e prassi,* molto più complessa è la situazione per quanto concerne il v. 14 Ξένον σεαυτὸν ἴσθι καὶ τίμα ξένους. Come già è stato notato da Bandini, negli acrostici quasi costantemente alla lettera & si lega il tema della &evia:*’ PAmh I 2 ξένους εἶπε θεὸς διατρέφειν; PBour I 1 ξένους ξένιζε μή ποτε ξένος γένῃ; PBodmer XLVII ξένιζε 1ö πένητα, χαίρου τῷ ....; Nilo,

Cap. paraen. (PG 79, 1249) ξένος ἐκεῖνος ᾧ ξένα τὰ τοῦ κόσμου. Jäkel richiama Mon. 553 ξένον προτιμᾶν μᾶλλον ἀνθρώποις ἔθος; Mon. 554 ξένους ξένιζε, μήποτε ξένος γένη; Cod. H 7-8 ξένιζε τοῖς πένησι τυγχάνων ξένος. / Ξένος δ᾽ ὑπάρξας τοῖς ξενισταῖς ἐμπεσεῖς (p. 127 Jäkel); Vita Aesopi (p. 102, 14 Perry) ξένους ξένιζε καὶ προτίμα, μήποτε καὶ σὺ ξένος γένῃ. Credo utile precisare che solo alcune fra le sententiae citate esprimono

idee consonanti con quanto

Gregorio

intende affermare. Il riconoscersi ξένος per chi crede in Cristo si-

gnifica considerare estranea a se stesso la realtà del saeculum. Si tratta di un concetto parallelo a quello della παροικία, del vivere pellegrini sulla terra, secondo una linea che si sviluppa su base scritturistica e percorre tutto il pensiero cristiano antico. Non si escludono ovvia-

4 Cfr. Gregorio Nazianzeno, Sulla virtà. Carme giambico (12,10). Introduzione, testo

critico e traduzione di C. CRIMI, commento di M. KERTSCH, appendici a cura di C. CRIMI e J. GUIRAU, Pisa, Edizioni ETS 1995 («Poeti cristiani», 1), pp. 276-277; Gregor von Nazianz, De vita sua, cit., pp. 153-154. j

4 Ringrazio Silvia Azzarà per aver richiamato la mia attenzione su questo punto durante la discussione. 4? Cfr. CARLINI - BANDINI, cit., p. 167.



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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

mente in questo campo influssi platonici e stoici. Nell’ acrostico alla posizione teorica espressa nella prima parte del trimetro tiene dietro una conseguenza pratica: τίμα ξένους, il che esprime in termini di letteratura gnomica il precetto di ΜῈ 25, 35-37 e 43 sg., dove l’accoglienza a Cristo ξένος e per estensione agli ξένοι diventa uno dei motivi di salvezza. Essa sarà poi dovere fondamentale del credente in generale e del monaco in particolare.

Ed è proprio la vocazione monastica del Nazianzeno a permettere

di rintracciare forse una pointe autobiografica, una sorta di σφραγίς che potrebbe supportare l’idea della paternità gregoriana. Il v. 15 recita “Ot εὐπλοεῖς, μάλιστα μέμνησο ζάλης. È l'invito a «ricordarsi della sventura nel tempo felice», con un evidente rovesciamento, come anticipato, rispetto a formule diffuse nella poesia e nella tradizione classica, nella quale tuttavia esiste anche la consapevolezza che ὅτ᾽ εὐτυχεῖς μάλιστα, μὴ φρόνει μέγα (Mon. 581), di colorito stoico. Il Nazianzeno, che pare avere presente questa formulazione — nel suo trimetro

si legge

ὅτ᾽ εὐπλοεῖς

μάλιστα, qui

ὅτ᾽ εὐτυχεῖς

μάλιστα

— -

precisa la sententia generica con il ricorso ad una contrapposizione di immagini cariche di significati: la navigazione felice e la tempesta. Α quanto mi consta, questo è il solo passo nell’intero corpus poetico gregoriano in cui i due termini appaiono contrapposti Nella lingua poetica del Cappadoce, naturalmente, ζάλῃ si identifica col saeculum, la εὐπλοία con la vita monastica. In Carzz. I 2, 3, di esortazione alle

vergini, ai vv. 40-44 si raccomandano alle monache veglie, preghiere, lacrime,

l’abitudine

di dormire

sulla nuda

terra,

un

amore

diretto

esclusivamente a Dio, che sopisca ogni desiderio estraneo alle cose celesti. ὁ πεσὼν ἐγειρέσθω: ὁ ναυαγῶν ἑλεείσθω. Σὺ δὲ εὐπλόει τὸ ᾿ ἱστίον πετάσασα τῆς ἐλπίδος. Α questo punto è forse possibile cogliere una suggestione personale: Gregorio avrebbe voluto approdare al monachesimo e ne è sempre stato respinto; quella è per lui la buona navigazione nel are saeculi.4? Inoltre in Or. 18, 31 egli stesso rac-

4 Raccolta di passi in Egeria, Diario di viaggio, a cura di E. GIANNARELLI, Milano, Edizioni Paoline 1992, pp. 13-14; P. GRELOT, s.v. Patria, in X. LEON-DUFOUR (a cura di), Dizionario di teologia biblica, Torino, Marietti 1968, pp. 776-778; R. CANTALAMESSA, Po-

lis, patria e nazione nel sentimento della grecità e del primitivo cristianesimo, «Vita e pensiero», LIV, 1972, pp. 70(762)-76(768). 4 Cfr. B. LORENZ, Zur Seefabrt des Lebens in den Gedichten des Gregors von Nazianz, «Vigiliae Christianae», XXXIII, 1979, pp. 234-241; R. FREISE, Zur Metaphorik der Seefabrt

in den Gedichten Gregors von Nazianz, in II Symposium Nazianzenum, Band 2, ed. J. MousSAY, Louvain-La Neuve- 25-28 aoüt 1981, Paderborn, Schöningh 1983 («Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums», N.F. 2. Reihe: «Forschungen zu Gregor von Nazianz»),

pp.

159-163.



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_

ELENA GIANNARELLI

conta di essere scampato ad un naufragio e di esserne stato salvato grazie alla madre, che un marinaio sognò nell’atto di tirare a riva la

barca su cui il figlio si trovava e che stava per inabissarsi. Credo tuttavia che qui sull’allusione al fatto concreto prevalga il piano metaforico, in linea con l'andamento dell’intero carme.” Molte sententiae presenti nell’acrostico trovano paralleli nella riflessione esegetica sul Nuovo e sull’Antico Testamento e le stesse tematiche ad esse sottese compaiono anche nelle opere pastorali del vescovo di Nazianzo, elaborate in maniera più ampia. Per il v. 17 Ῥάβδος δικαίου πλεῖον ἢ τιμὴ κακοῦ si può concettualmente invocare Ps 140,

5 παιδεύσει με δίκαιος ἐν ἐλέει καὶ ἐλέγξει ue / ἔλαιον δὲ ἁμαρτωλοῦ μὴ λιπανάτω τὴν κεφαλήν μου. La verga del giusto con ogni probabilità per l’esegeta antico significa allusione a 1Cor 4, 21 dove Paolo chiede: ἐν ῥάβδῳ ἔλθω πρὸς ὑμᾶς ἢ ἐν ἀγάπῃ πνεύματί τε πραὕτητος; La semplice contrapposizione di due concetti costituisce l'ossatura del v. 18 Σοφῶν θύρας ἔκτριβε, πλουσίων δὲ un. Se la zunctura δὲ μή in fine di trimetro compare abbastanza spesso nei Monosticha ed aiuta

la memorizzazione — ma su questo aspetto del carme torneremo - allo stesso principio di assonanze e riprese sembra ispirarsi il v. 19 Τὸ μιkpòv οὐ μικρὸν ὅταν ἐκφέρῃ μέγα. La sententia può confrontarsi con Mon. 872 ὡς μέγα τὸ μικρόν ἐστιν ἐν καιρῷ δοθέν. Sul piano con-

cettuale, molti passi evangelici sottolineano l’esistenza di piccole cose che diventano importanti agli occhi di Dio: così il granellino di senape, «il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» secondo ΜῈ 13, 32 (e Mc 4, 31-32).

Segue una serie di versi divisibili in due parti ben distinte: può trattarsi di un precetto e della sua conseguenza oppure di due precetti posti uno di seguito all’altro. Del ν. 20 già si è detto; il successivo suona Φύλασσε σαυτόν, πτῶμα δ᾽ ἄλλου μὴ γέλα. Il verso è presente anche nella raccolta di sententiae tradite dal cod. H, stampate da Jäkel in appendice alla sua edizione e destinate, secondo l’editore, ad un pubblico cristiano, come dimostrerebbe l’uso di Θεός sempre scritto con la maiuscola.” L’e-

50 Cfr. B. COULIE, Les trois récits de la tempéste subie par Grégoire de Nazianze, («Corpus Nazianzenum», I), pp. 157-180.

3 Cfr. JAKEL, cit., pp. 127-128. L’argomento, se è valido, lo è per quell’unico testimone. -



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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

spressione φύλασσε σαυτόν potrebbe essere letta come una variatio su ἔπεχε σεαυτῷ di 1Tim 4, 16. Per il secondo precetto contenuto nel verso, all’interno del corpus Nazianzenum è possibile trovare una consonanza interessante in II 1, 2, 19-20. Si tratta del giuramento di Gregorio, che si pone una serie di regole ed invoca su di sé la punizione divina εἰ γελάσαιμι πτῶμα καὶ οὐχ ὁσίων. Peraltro Baruc 4,

33, rivolgendosi a Gerusalemme afferma che verrà cambiata in lutto la gioia di chi εὐφράνθη ἐπὶ τῶ πτώματί σου. Non ci si rallegra del male altrui, neppure di quello dei nemici. In qualche misura da spiegare può apparire il v. 22 Χάρις φθονεῖσθαι, τὸ φθονεῖν δ᾽ αἶσχος μέγα, il cui dettato indica come cosa gradita, o forse meglio come grazia, l’essere oggetto di invidia, mentre l’invidiare è definito una grande vergogna. Se per il concetto espresso nella seconda parte del trimetro non ci sono problemi, il motivo gloria est invideri può essere ricondotto alla ben attestata idea che chi è felice e ricco viene fatto oggetto di φθόνος da parte di divinità e uomini. L'idea presenta un qualche parallelismo con Eur. fr. 814 Nauck? φθόνον οὐ σέβω,

φθονεῖσθαι δὲ θέλοιμ᾽ ἂν ἐπ᾽ ἐσθλοῖς. In questo frammento euripideo” chi parla evidentemente non ha un grande concetto dell’invidia e preferirebbe invece essere invidiato per i suoi ἐσθλά, che potrebbero essere ‘beni’ oppure ‘virtù’. In ambito cristiano χάρις φθονεῖσθαι trova la sua giustificazione nel fatto che il padre di ogni invidia è il diavolo, il quale si accanisce soprattutto contro coloro che più appaiono vicini alla perfezione e a Dio. Basilio, nella Hom. XI Περὶ φθόνου inizia la sua dimostrazione affermando che ἀκολουθεῖ τῷ διαβόλῳ ἡ βασκανία. Esorta quindi se stesso e i fratelli a guardarsi dal πάθος τοῦ φθόνου, μὴ κοινωνοὶ τῶν ἔργων τοῦ ἀντικειμένου γενώμεθα. La definizione del vizio è semplice: λύπη γάρ ἐστιν τῆς τοῦ πλησίου εὐπραγίας ὁ φθόνος. Molteplici sono le cause dell’invidia: dalla fertilità del campo che l’altro possiede, alla sua ricchezza, alla sua salute, alla sua eleganza. A tutto ciò si aggiungono le doti dell’animo, la prudenza, la capacità dialettica e quant’altro possa rendere ragguardevole un uomo, staccandolo dalla massa.

Gli esempi biblici sono quelli di Caino e Abele,

Saul e

David; Giuseppe e i suoi fratelli. Il vescovo di Cesarea, in un’altra

52 Cfr. TGF, p. 625. 5 Cfr. Bas. Hom. XI De invidia, PG 31, 372B-385C.



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ELENA GIANNARELLI

omelia dedicata all’assunto quod Deus non est auctor malorum, mette

in rilievo che l’azione dell’invidus per eccellenza affonda le sue radici nell’essere costui nemico di Dio e degli uomini, che sono a immagine della divinità: διὰ τοῦτο γάρ ἐστι μισάνθρωπος, διότι καὶ θεομάχος; καὶ μισεῖ μὲν ἡμᾶς ὡς κτήματα τοῦ Δεσπότου, μισεῖ δὲ ὡς ὁμοιώματα τοῦ Θεοῦ." Il grande modello dell’uomo giusto oggetto di que-

sta particolare invidia è Giobbe. Nella Laudatio Melettii di Gregorio Nisseno si legge che Melezio era «nobile fra gli orientali, irreprensibile, giusto, sincero, devoto, che si asteneva da ogni azione malvagia (di certo non sarà geloso il grande Giobbe, se anche il suo emulo venne ornato delle stesse qualità testimoniate per lui). ὁ tà καλὰ πάντα βλέπων ὁ φθόνος εἶδε καὶ τὸ ἡμέτερον ἀγαθόν». Il risultato fu che Melezio morì.” Anche Gregorio di Nazianzo si allinea su queste posizioni nell’Epitafio per il fratello Cesario (Or. 7), dove a φθόνος si

deve la morte del fratello, secondo un topos di grandissima diffusione, ma soprattutto in Or. 39, 7 In sancta lumina, dove l’invidia dei demoni per gli uomini si giustifica col fatto che questi ultimi sono de-

stinati a godere dei beni eterni in quel cielo dal quale gli altri sono stati cacciati.”° In questo senso il trimetro dell’acrostico assume notevole spessore, perché la positività dell’essere oggetto di invidia rimanda alla certezza dell’essere salvi. Degne di nota sono alcune pagine di Giovanni Damasceno nei Sacra Parallela. Il cap. XII Περὶ φθόνου καὶ ζήλου," raccoglie una serie di passi dedicati a questi due atteggiamenti, a partire dall’ Antico e dal Nuovo Testamento, per approdare a Basilio, a Gregorio di Nazianzo e a Giovanni Crisostomo. I brani di questi autori risultano posti uno di seguito all’altro, senza alcuna indicazione. Alla fine della sezione riportata di testi basiliani sull’argomento, vengono inseriti due trimetri: Χάρις φθονεῖσθαι, τὸ φθονεῖν δ᾽ αἶσχος μέγα.

Ὑψοῦ βάδιζε, τὸν φθόνον δ᾽ ἔα κάτω. Il secondo dei due trimetri proviene da Carm. I 2, 6, 26, testo autentico del Nazianzeno; il primo è quello di cui ci stiamo occupando;

34 5 stesso 56

Cfr. PG 31, 349CD. Cfr. Greg. Nyss. In Melet. ed. A. SPIRA, («GNO», IX), pp. 445, 17-446, 6. Dello Nisseno si veda Or. cath. 22, 18-26, 12 ed. E. MUHLENBERG («GNO», III, IV). Cfr. PG 36, 341B. Ho discusso il problema gloria est invideri con Emiliano Gelli,

il quale sta preparando una edizione commentata della Or. 7 del Nazianzeno e una edizione italiana del De rebus suis. Lo ringrazio per molte di queste indicazioni, vuoi euripidee, vuoi interne alla produzione dei Cappadoci. 57 Cfr. PG 96, 412-420 (i due trimetri sono citati alla col. 417D).



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ACROSTICI ALFABETICI CRISTIANI GRECI

risulta quindi evidente che il Damasceno considera l’acrostico come gregoriano, inserendone una sententia tratta da esso fra le auctoritates patristiche concernenti invidia e emulazione. Il v. 23 Ψυχὴ θύοιτο μᾶλλον ἢ τὸ πᾶν Θεῷ esprime l’idea del-

l’offrire in sacrificio a Dio la propria anima, una posizione elaborata

da lungo tempo all’interno della Chiesa, soprattutto in rapporto polemico con i sacrifici cruenti del rituale ebraico e dei pagani. Già nell’Epistola di Barnaba si affermava sulla scia di Ps 50, 19 θυσία τῷ κυpio καρδία συντετριμμένη.

Questa posizione è spesso presente nei Cappadoci. Lo dimostra ad esempio la chiusa della già evocata preghiera di Macrina morente nella biografia scritta dal Nisseno, allorché la protagonista si augura προσδεχθείη ἡ ψυχή μου ἐν ταῖς χερσί σου, ὡς θυμίαμα ἐνωπίον σοῦ, con un voluto rimando a Ps 140, 2.60 Inoltre in Carm. II 2, 3 Ad Vi-

talianum il v. 256 recita: poùvng δὲ ψυχῆς καθαρὸν θύος. Nell’ultimo trimetro Ὃ τίς φυλάξει ταῦτα καὶ σωθήσεται; la forma interrogativa può essere una spia del ricollegarsi dell’autore a celebri domande evangeliche quali Mc 10, 26 e Lc 18, 26 καὶ tig δύναται σωθῆναι;5: A queste vanno affiancate affermazioni del tipo ὁ δὲ ὑπομείνας εἰς τέλος, οὗτος σωθήσεται che leggiamo in Mi 10, 22, ΜΙ 24, 13 e Mc 13, 13, vere e proprie massime interne ai Sinottici. Non

è assolutamente casuale il fatto che il carme termini con l’accenno alla salvezza, in perfetta coerenza con la scelta della forma acrostica nella

sua simbologia di ‘viaggio’ da a a ὦ — in questo caso si tratta di un manuale di comportamento valido per l’intera vita — e con il significato escatologico assunto dall’ultima lettera dell’alfabeto. Molti altri rilievi sarebbero possibili, che lascio ad un prossimo intervento, insieme ad una precisa ricognizione filologica del testo stesso, perché la mancanza di una edizione critica ha condizionato pesantemente il procedere del lavoro. È forse necessaria un’ultima considerazione: l’acrostico appare costruito in maniera estremamente curata,

58 Giova ricordare che entrambi gli atteggiamenti sono passibili di sitivo: se l’essere oggetto di invidia, come si è visto, può significare certo grado di perfezione e di vicinanza a Dio, l'emulazione è uno dei lano il progresso spirituale nella vita monastica, vista come nobile gara Cristo cercano di superarsi a vicenda.

una lettura in poaver raggiunto un principi che regoin cui gli atleti di

59 Cfr. Epistola di Barnaba, a cura di F. SCORZA BARCELLONA, Torino, SEI 1975 («Co-

rona Patrum», 1), pp. 82-83. È il cap. II 10. © Cfr. Grégoire de Nysse, Vie de Sainte Macrine, cit., p. 224. 61 Un analogo quesito è presente in ΜῈ 19, 25. 62 Di queste pare essersi ricordato Erbse per la congettura ὅστις φυλάξει ταῦτα καὶ σωθήσεται, accolta da Jäkel nella sua edizione, cit., p. 132.



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ELENA GIANNARELLI

con allitterazioni e riprese di concetti: si vedano le riprese interne ai vv. 6 (χρεστότητα χρηστός), 19 (Τὸ μικρὸν οὐ μικρόν ..., che si chiude con μέγα, tema opposto a quello su cui è giocata tutta la prima parte del trimetro); il v. 22 (φθονεῖσθαι ... τὸ φθονεῖν), le chiuse dei vv. 47 che propongono uno schema A B B A (κακῶς, Θεόν, ὦν, καλῶς) e le rime finali dei vv. 16-17 (Θεοῦ / κακοῦ). Si tratta di un acrostico da manuale, che sfrutta ogni mezzo possibile per una buona memorizzazione dei contenuti.

Ad una prima lettura, è possibile concludere che questo acrostico

alfabetico è un’opera da esegeta, da teologo, da retore scaltrito e, in ultima analisi, anche da poeta, sia pure nei limiti imposti dallo schema

scelto e dall’intento parenetico: il nome di Gregorio di Nazianzo po-

trebbe esservi ragionevolmente apposto come firma, con il conforto di un tessuto rilevante di consonanze con il pensiero del Cappadoce e di un antico testimone come Giovanni Damasceno.



282 —

PAOLO

ODORICO

UN ESEMPIO DI LUNGA DURATA DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE:

CECAUMENO,

SINADINOS, L’ANTICHITÀ, L’ETÀ MODERNA

Gli Incontri di studio, e a fortiori quelli riusciti, come questo, hanno di brutto che poi richiedono la preparazione di Aff. Un sapere pensato per la comunicazione orale, con tutto l'apparato di retorica e di captationes benevolentiae, deve trovare una forma scritta, ben inserita nella tradizione degli articoli scientifici, che richiedono un linguaggio specifico, una struttura determinata, una sequenza logica diversa da quella che presiede alla comunicazione orale. La preoccupazione di ogni autore non è più quella di catturare l’attenzione di un pubblico ristretto, di cui egli conosce più o meno la natura, ma quella di rivolgersi alla vasta cerchia degli specialisti. Il suo sapere deve essere dunque codificato secondo strutture che determinano la natura stessa del suo contributo, ne mutano la forma e talvolta lo spirito, adeguandosi ad un linguaggio che deve essere creato ed adattato al nuovo contesto. Limmediatezza della comunicazione si stempera dietro una selva di attribuzioni a tal o talaltro studioso, la sequenza logica dell’esposizione si frantuma e si ricompone seguendo gli schemi imposti dalla forma scritta. Sarà questa forma scritta a determinare una produzione a sua volta destinata alla comunicazione orale o no. Questa introduzione mi serve evidentemente per tentare un parallelo con la trasmissione del sapere sentenzioso. Il problema ben vasto del passaggio dall’orale allo scritto rappre-

senta solo uno degli aspetti più intriganti delle composizioni gnomo-

logiche, che comprendono molto spesso apoftegmi di varia natura, dall’enunciato semplice, talora introdotto dall’espressione «ὁ δεῖνα ἔφη», fino alla trasformazione della frase in aneddoto ricreato: per esempio «il tale, avendo visto ... e interrogato ... disse». In questo caso la sentenza si arricchisce di un contorno narrativo; si tratta dello stesso procedimento che sta alla base della costruzione di certi film di ultima categoria, in cui alcune barzellette, talora semplici battute, —

283 —

PAOLO ODORICO

legate assieme diventano la trama costitutiva dell’intera pellicola. Un altro aspetto della produzione gnomologica, per sua natura sufficientemente disarticolata, è quella del passaggio dallo scritto allo scritto, nel senso che ciascun ‘gnomologista’ (mi si perdoni il brutto neologismo) lavora alla sua opera a partire da raccolte già codificate, ma secondo la propria ispirazione, talora aderendo a modelli precisi e talora innovando, talora semplificando e talora intrecciando le diverse tradizioni. I copisti della sua opera completeranno il processo di articolazione e disarticolazione secondo le proprie inclinazioni, disponibilità, finalità.

I filologi che si sono occupati di questi processi (parzialmente del primo, il passaggio dall’orale allo scritto, molto di più del secondo, il passaggio dagli scritti agli scritti), appartengono perlopiù alla dotta

generazione che alla fine dell’’800 e agli inizi del ’900 ha gettato le basi dello studio della gnomologia. L'interesse che li aveva spinti a far

uscire i codici dalle biblioteche era puramente filologico-classicista, nel senso che le sillogi conservavano frustuli della produzione letteraria e del pensiero antichi, vero obiettivo delle ricerche. Tuttavia ogni atto di produzione o di riproduzione letteraria è intimamente legato al periodo e alla società che lo ha determinato. Per questo, la ripresa di studi gnomologici non può prescindere dalle ragioni che hanno spinto autori e amanuensi bizantini a compilare o copiare le loro sillogi. In esse, possiamo cogliere un aspetto essenziale della cultura greca, quello della trasmissione del sapere. E dal momento che gli gnomologi sono stati utilizzati non solo come fonte di sapienza, ma anche «per coloro che vogliono ricorrere alla retorica e scrivere», come dice Fozio,! è evidente che essi hanno giocato un ruolo essenziale anche nel processo di produzione letteraria. Data l'enorme diffusione che questo tipo di produzione letteraria ha conosciuto, gli intellettuali bizantini devono avere messo a punto tecniche estremamente raffinate di produzione. Ma in che cosa con-

siste questa cultura? Che ruolo hanno i florilegi nella trasmissione del

sapere? Quale è la natura di una silloge? A questi problemi la critica moderna ha raramente cercato di dare risposte. Spesso questa produzione è stata agglomerata sotto la generica definizione, assurda e fuorviante, di ‘enciclopedismo’. Per non soffermarmi troppo su un 1 Τοῖς ῥητορεῦειν καὶ γράφειν σπουδάζουσιν: codice 167 della Biblioteca (ed. R. HENRY, t. II, p. 159, 11. 30-31).

2 Per quanto più antica (si veda per esempio A. DAIN, L’encyclopedisme de Constantin Porphyrogenete, «Lettres d’Humanit&», XII, 1953, pp. 64-81), la definizione di «enciclopedismo bizantino» è stata rilanciata da P. Lemerle, dapprima in uno studio apparso

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UN ESEMPIO DI LUNGA DURATA DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE

discorso zione di tata alle ferenti,

che ci porterebbe lontano, mi limito a riproporre la definicultura della συλλογή, per tutta quella produzione non limiraccolte sentenziose, ma comprendente opere svariate e difcome i sinassari o le cronache.?

Per meglio comprendere la funzione delle raccolte sentenziose nei processi di produzione letteraria, abbiamo di fronte a noi almeno due percorsi possibili: da un lato vedere in cosa consiste il passaggio dall’orale allo scritto, di cui parlavo prima, dall’altro considerare il passaggio dallo scritto allo scritto. Il primo caso merita uno studio molto avanzato, ed è ptobabilmente possibile ricavare una buona messe di dati dall’analisi delle composizioni come la Filocalia, o le raccolte di fatti e detti dei Padri del deserto. Il secondo percorso presenta almeno due possibilità: quella di ricercare attraverso una analisi filologica attenta le filiazioni possibili tra i vari gnomologi, per vedere quale strada hanno compiuto le gromai. Una ricerca di questo tipo è probabilmente la più desiderata, perché in teoria essa permette di vedere nel contempo l’origine di una sentenza (meta ambita dei classicisti), e il suo mutare nei corso dei secoli. L'altra possibilità è quella di ten-

tare di ritrovare non le filiazioni dirette.o le riprese alla lettera di gro-

mai, ma piuttosto. l’uso globale di un sentenziario, la sua partecipazione alla produzione nel senso più vasto. Tenterò qui di avanzare . qualche proposta di lettura in questo senso, evitando di ricorrere alla filologia pura, per < cercare di considerare piuttosto l'aspetto storicoculturale. 5 In primo iuogo bisognerebbe definire cosa si intenda esattamente per silloge. La’ definizione minima, per esempio quella del Vocabola-

rio Zingarelli della lingua italiana, è la seguente: «collezione, raccolta, di decreti, editti, scritture, brani di uno o più scrittori, e simili». Questa definizione si adatta abbastanza bene agli gnomologi, ma è riferita ad una produzione certamente più ampia di quella dei senten-

ziari. Prenderò tre esempi per mostrare quanto vasta possa essere l'applicazione di tale definizione, considerata nella realtà culturale della tecnica excerptoria bizantina. Ma prima una breve digressione per vedere come gli stessi Bizantini definivano o illustravano il loro

in un numero dei «Cahiers d’Histoire Mondiale» (IX.3, 1966) dedicato agli enciclopedismi (L’encyclopedisme è Byzance è l’apogée de l’Empire et particulierement sous Constantin VII Porphyrogénète, pp. 596-616), in seguito nell'ormai classico Le premier bumanisme byzantin, Paris, PUF 1971, («Bibliothèque Byzantine», 6), capitolo L’encyclopedisme du X° siècle, 3 Rimando al mio studio La cultura della συλλογή, «ByzZ», LKXXIII,



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1990, pp. 1-21.

PAOLO ODORICO

lavoro di organizzazione di una silloge a partire dai testi che avevano sotto gli occhi. La parola stessa, συλλογή, deriva da σύν e λέγω, nel senso di «raccogliere assieme»: è un termine tecnico che i Bizantini utilizzano molto spesso, accanto ad altri analoghi, come per esempio συντάσσω, ἐρανίζω, συναρμολογέω, συνάγω, ad espressioni come «raccogliere i fiori», o a frasi che esprimono il concetto della ma-

neggiabilità dell’opera che permette il facile reperimento degli elementi che si cercano, come ἐρανιζόμενος ... ἐκ διαφόρων ἔργων. Fo-

zio dice a proposito di Stobeo che «la ricerca di ciò che si vuol trovare diviene rapida e si fa senza pena, se si volesse passare dai capitoli (i cui sono riunite le sentenze) alle opere complete » (ἡ τῶν ζητουμένων ἀταλαίπωρος καὶ σύντομος εὕρεσις ἐπειδάν τις ἀπὸ τῶν κεφαλαίων εἰς αὐτὰ τὰ πλάτη ἀναδραμεῖν ἐθελήσε). Le stesse espressioni ricorrono in molte opere appartenenti a generi letterari in apparenza molto differenti. Così se la natura di sil-

loge risulta evidente negli gnomologi, e basterebbe ricordare il titolo di Μέλισσα, Ape, sotto cui uno di questi è conosciuto, altre composizioni fanno ricorso agli stessi concetti, alla stessa tecnica excerptoria. Prendiamo dunque i tre esempi annunciati. Il primo è rappresenatto dai sinassari, raccolte di vite di santi organizzate secondo l’ordine del calendario, in cui si espone in poche righe la biografia del celebrato. I sinassari, che hanno conosciuto un successo enorme, hanno avuto diverse edizioni, alcune delle quali sono introdotte da una prefazione che spiega il piano dell’opera. Il sinassarista Pietro (o Elia) dice che «quelli che leggono questo testo (i/ sinassario), se conoscono già il contenuto, possono

essere portarti a ricordarsene, e se non lo

conoscono, possono avere l’occasione di apprenderlo»:? osservazione che richiama il sopracitato giudizio espresso da Fozio sull’opera di Stobeo. L’Anonimo che compilò un’altra famiglia di sinassari e a cui daremo il nome di Anonimo Sa, utilizza un linguaggio farcito di questi termini tecnici: «ἐκ διαφόρων συναξαρίων συναξάριον συντάξαι ... συνάγων τὰ ἐσκορπισμένα ... συντέμνων ... ἐρανιζόμενος ... συν-

αρμολογῶν»ὅ etc. Il secondo esempio è rappresentato da un genere letterario ancora

4 Codice 167 della Biblioteca (ed. R. HENRY, t. II, p. 159, Il. 29-30).

5 Il testo si trova nei Prolegomena all'edizione del Sinassario di Constantinopoli (Propylaeum ad Acta Sanctorum Novembris. Synaxarium Ecclesiae Constantinopolitanae e codice Sirmondiano nunc Berolinensi adiectis synaxariis selectis, opera et studio Hippolyti DELEHAYE, Bruxelles 1902), col. XIX. 6 Ibidem, col. IX. Ho parlato diffusamente di questi testi in uno studio recentemente

pubblicato: Ideologie politique, production litteraire et patronage au Xe siècle: l’empereur Constantin VII et le synaxariste Evariste, «Medioevo Greco», I, 2001, pp. 199-219.

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UN ESEMPIO DI LUNGA DURATA DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE

diverso, quello dei commentari. A leggere l’introduzione della Catena in Genesim di Procopio di Gaza, non può non colpirci il ricorso allo stesso tipo di espressioni: «τὰς ἐξηγήσεις συνελεξάμεθα, ἐξ ὑπομνημάτων καὶ διαφόρων λόγων ταύτας ἐρανισάμενοι».7 Ed ancora, terzo esempio, le cronache sono spesso costituite da frammenti estra-

polati da diversi autori e cuciti assieme in modo da formare un discorso continuo. Malalas afferma di costruire la sua opera nel modo seguente: «μετὰ τὸ ἀκρωτηριάσαι τινὰ τῶν κεφαλαίων (segue la lista degli autori) ἐκθέσαι τὰ συμβάντα».ὃ Giorgio Monaco, tre secoli più tardi, dice «ἐξεθέμεθα τὰ πρὸς ὄνησιν ἐκ πολλῶν ὀλίγιστα συντείνοντα ... συλλέξαντες καὶ συνθέντες». Una testimonianza originale sull’uso delle sillogi e sul loro valore nel processo di trasmissione del sapere proviene da Eustazio, il metropolita di Tessalonica vissuto nel XII secolo: «Vorrei che fossero raccolte in sillogi (ἀνθολογεῖν) sia le storie profane che le γνῶμαι e gli apoftegmi, da cui i santi Padri anticamente, facendo delle estrapolazioni (ἐρανισάμενοι), produssero il loro miele, bottinando come api quei dolci libri, in cui si trovavano inserite (ἐνέθεντο) parole dolcissime più del miele e della cera, e così celebravano i misteri in modo gradito a Dio». (Eust. De emend. vit. mon., p. 249 $ 143 Tafel).

Il ruolo della silloge come produttrice di cultura merita di essere maggiormente valorizzata. Credo fermamente che sotto il titolo di «cultura della συλλογή» debbano essere catalogate le opere più svariate e che l’impiego di raccolte abbia determinato una produzione letteraria che resta in gran parte ancora da scoprire. Le maniere in cui la silloge interviene nel processo di produzione, per quanto riguarda il passaggio dallo scritto agli scritti di cui parlavo più sopra, possono essere diverse. Siccome ci occupiamo in questa sede di gno-

mologi, val la pena ricordare almeno tre modi di utilizzo. Il primo tipo di impiego dei sentenziari è il più banale. Un autore ricrea una silloge a partire dal materiale preesistente. Certo, ogni ricercatore sogna di poter trovare il sentenziario più antico da cui deriva il più recente, e così, di passaggio in passaggio, di giungere alle raccolte prime: speranza vana, perché tali e tante sono le varianti e gli incroci che è difficile poter dire quanto uno gnomologio ricuperi

? PG, 87, I, col. 21.

8 Ioannis Malalae Chronographia, rec. I. THURN, Berolini et Novi Eboraci, De Gruyter 2000 («CFHB», XXXV), p. 3, Il 1-8. ? Georgii Monachi Chronicon, ed. C. DE BOOR, I, Stutgardiae, Teubner 1978, p. 2, Il. 3-5.



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correctionem curavit P. WIRTH, vol.

PAOLO ODORICO

dal suo ‘modello’, anche se di entrambi possediamo i testimoni. Non vale la pena soffermarci su questo tipo di passaggio dallo scritto agli scritti, se non per sottolineare un aspetto che ogni studioso delle sillogi deve avere ben presente, cioè l’originalità dello gnomologio. Sembra strano usare il termine originalità (parallelo di paternità) riferito a una categoria di testi che per loro natura negano l’idea stessa di originalità, come noi la concepiamo. Tuttavia le sillogi possono presentare alcune caratteristiche peculiari, che sono spie dell’uso per il quale esse sono state concepite. Bisogna verificare innanzi tutto il loro

tipo di struttura, perché là risiedono l’originalità del compilatore e numerosi indizi sul loro uso. Così il Corpus Parisinum, di cui oggi attendiamo una edizione critica, organizza le sentenze estrapolate per autore, giustapponendo la sapienza cristiana a quella pagana, e inserendo tra le sue sezioni un ‘filtro’ costituito da sentenze di autori pagani, ma riferite a Dio e alla Trinità. In tal senso supera in qualità le raccolte come lo Gromologium Byzantinum. Altrimenti la silloge può avere disposizione alfabetica (meno pratica: il Georgide per esempio, ma anche le raccolte di proverbi), o — più comunemente — per temi: la raccolta di Stobeo, articolata secondo

questo sistema, è una delle

più importanti. Quanto alle raccolte cristiane,!° quella attribuita a Giovanni Damasceno, i Sacra Parallela,

è una vera enciclopedia filosofica,

con il materiale diviso per capitoli e un indice che suggerisce al lettore i percorsi alternativi possibili.!! Meno originali da questo punto

di vista, ma innovatrici in quanto giustappongono le sentenze sacre e

le profane sono lo Pseudo Massimo e il suo derivato, la Melissa dello Pseudo Antonio. Tutte queste raccolte servono come manuale di insegnamento, e come fonte di citazioni. Ciascuna silloge segue uno schema, il quale, assieme al tipo di sentenze estrapolate, può permettere di apprezzare il fine per il quale essa è stata compilata. Il Patm. 6 e lo Pseudo-Massimo, sono stati studiati in questo senso.! Passiamo rapidamente ora al secondo tipo di utilizzo, quello diretto. Nelle opere dei più svariati autori bizantini abbondano citazioni tratte da sillogi gnomologiche. Molto spesso, invece di ricercare affannosamente la fonte che un autore avrebbe letto e da cui estrapolerebbe una citazione, il filologo potrebbe: consultare i florilegi per

10 Per le quali è ancora valido lo studio di M. RICHARD, lemma Florileges Spirituels, in Dictionnaire de Spiritualité, τ. 5, 1964, coll. 476-486. 1! ODORICO, La cultura della συλλογή, cit.

12 E. SAGOLOGOS, Un traite de vie spirituelle et morale du Xle siècle: le florilège sacroprofane du manuscrit 6 de Patmos, Thessalonique-Asprovalta 1990; e ID., Florilège sacroprofane du Pseudo-Maxime, Hermoupolis-Syros, 2001.



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UN ESEMPIO DI LUNGA

DURATA DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE

scoprire da dove la citazione è in realtà attinta. Quello che importa in questa sede non è tanto considerare l’uso degli gnomologi in sé, quanto vedere come essi producano la letteratura. In altre parole, al centro della nostra attenzione non deve essere il fatto che un autore decida di abbellire il suo discorso con una espressione incastonata come perla rara o bigiotteria banale nel proprio discorso, ma il fatto che l’utilizzo di una sentenza entra direttamente nel processo di creazione letteraria, perché diviene determinante nello sviluppo narrativo o discorsivo in cui essa è inserita. Credo di aver dimostrato abbastanza chiaramente quest’uso studiando il Digenis Akritas.'” Romanzo d’amore, romanzo epico o che dir si voglia, conosciuto in numerose recensioni, talora più popolari, talora più colte, il poema presenta una lingua piuttosto vicina alla lingua parlata. Il rimaneggiatore della versione di Grottaferrata ha voluto impreziosire il suo discorso con sentenze tratte perlopiù dagli gnomologi. Ma la grozze inserita ha una struttura e spesso una funzione particolari: essa serve a marcare un punto di passaggio nella narrazione, per riassumere quanto è stato detto e anticipare quanto deve avvenire. Per questo normalmente troviamo un γάρ inserito in seconda posizione, secondo il più tradizionale utilizzo.! Riporto qui le conclusioni del mio studio: «La frase sentenziosa si presenta come un nesso facilmente estrapolabile dal contesto narrativo [...]; per tale motivo può essere riutilizzata in momenti

e situazioni

diverse,

sia di natura

letteraria

che non,

contri-

buendo ad assolvere in tal modo alle funzioni didattiche implicite del poema [...] Interrompendo lo svolgersi dell’azione, l’autore parla per mezzo di ciò che viene presentato o riconosciuto come ‘opinione comune». La gnome assolve così al suo ruolo estetico e nel contempo produce letteratura, poiché organizza il seguito della narrazione. Il terzo tipo di utilizzo della tradizione letteraria sentenziosa è quello su cui vorrei soffermarmi di più, perché mi pare che gli studi in questa direzione manchino. Si tratta di opere concepite secondo uno schema parzialmente o interamente gnomologico, in modo tale che la silloge assume l’aspetto di opera letteraria compiuta. Talvolta — specie nei prologhi -- compaiono termini tecnici (come ἐρανίζω, συλλέγω, ἐκλέγω) che ci aiutano a capire se il prodotto finito si ap-

3 P, ODORICO, La sapienza del Digenis: materiali per lo studio dei loci similes nella recensione di Grottaferrata, «Byzantion», LIX, 1989, pp. 137-163.

14 Si possono vedere gli studi di S. MELEUC, Structure de la maxime, «Languages», XIII, 1969, pp. 69-99, e di J. CERQUIGLINI - B. CERQUIGLINI, L’écriture proverbiale, «Revue des Sciences Humaines», XXXXI, 1976, pp. 359-375.

5 ODORICO, La sapienza del Digenis, cit., p. 143.



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PAOLO ODORICO

parenta con la produzione della cultura della silloge. Ma si tratta di opere che hanno nel contempo una struttura, che differisce largamente da una silloge tradizionale. Il caso forse più noto è quello del Christus Patiens, una ‘tragedia’ sulla morte di Gesù composta in metro giambico, costituita per un

buon terzo da versi estrapolati da autori antichi, soprattutto da Euripide. Che l’opera sia conosciuta e apprezzata dagli studiosi moderni è dovuto a due fattori: l’essere attribuita a Gregorio Nazianzeno e

contenere molti frammenti di Euripide.!9 La questione della paternità (e di una paternità illustre) si coniuga dunque con la ricerca di frustuli dell’Antichità per garantire il successo di un’opera. Più interessante ai nostri fini è tuttavia il caso di opere costituite interamente da citazioni. Ne troviamo un esempio tra le opere edite nella Patrologia Graeca sotto il nome di Giovanni Crisostomo: alcune omelie portano un titolo preciso, che richiama quello delle compilazioni gnomologiche, come Περὶ ἀρετῆς o Περὶ κακίας. Tuttavia queste orazioni non appartengono allo stesso Crisostomo: si tratta di omelie composte a partire dalle sentenze contenute nelle varie opere crisostomiche, estrapolate dal loro contesto secondo la tecnica della silloge, e ricucite insieme in modo da formare una nuova omelia completamente gnomica. Il processo è interessante, perché il loro utilizzo va incontro alle necessità dell’utente. In queste opere si trovano passi adattati a impreziosire un discorso, riferimenti necessari all’opera del Crisostomo e tutti i caratteri di un sentenziario, senza tradire l’attri-

buzione ad un autore amato, letto e imitato durante tutta l’epoca bizantina. Il risultato è un nuovo prodotto letterario, lo gnomologio si è spogliato del suo abito subito riconoscibile di raccolta di sentenze per indossare quello dell’omelia, una omelia particolare, certo, un cen-

16 Non è il caso di dilungarmi in questa sede sull’opera. Quanto alla cronologia, normalmente essa è attribuita ed un epoca che oscilla tra l'VIII ed il XII secolo: il più antico manoscritto è del XIII sec. E. Follieri poneva come zerminus post quem VPVIII-IX sec. (E. FOLLIERI, Ancora una nota sul Christus Patiens, «ByzZ», LXXXIV-LXXXV,

1991/92,

pp. 343-346). A. Tuilier, editore dell’opera, crede alla paternità nazianzena (Grégoire de Nazianze, La Passion du Christ. Tragédie, Paris, Ed. du Cerf 1969 [«Sources Chrétiennes»,

1497), come recentemente TH. DETORAKIS, Βυζαντινὴ φιλολογία, Irakleio 1995, p. 318 sgg. Sulla tecnica di composizione: F. TRISOGLIO, La tecnica centonica nel «Christus Patiens», in Studi Salernitani in memoria di R. Cantarella, Salerno, Laveglia 1981, pp. 371409; In., Datazione del «Christus Patiens» ὁ titolazione bizantina della Vergine, «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino». Mem. di Scienze morali XXVI, 2002, pp. 161-

256; W. HÖRANDNER, Lexikalische Beobachtungen zum Christos Paschon, in Studien zur byzantinischen

Lexikographie,

ed. E. TRAPP

et alii, Wien,

Wissenschaften 1988, pp. 183-202.



290—

Osterrichische Akademie

der

UN ESEMPIO DI LUNGA

DURATA

DELLA TRASMISSIONE

DEL SAPERE

tone che gioca sul virtuosismo delle citazioni e su un abile utilizzo delle conoscenze letterarie. Ancora una volta dobbiamo considerare non il concetto di pater-

nità o di originalità del prodotto finito, ma il suo uso, e dobbiamo riconoscere che opere di questo genere rappresentavano una comodità innegabile per il lettore, e una economia di tempo e di pergamena. Ma se proprio volessimo ricercare l’ambiente di produzione di queste opere, ebbene, sappiamo che il loro autore fu Teodoro Dafnopates,!” vissuto verso la metà del X secolo, importante letterato dell’epoca di Costantino Porfirogenito. La produzione retorico-gnomologica rappresentata dalle 48 omelie crisostomee va ben al di là di un semplice esercizio retorico e meriterebbe uno studio più approfondito.!8 A noi potrebbe sembrare un

tipo di letteratura un po’ bizzarro; tuttavia dovremmo essere piuttosto ricettivi a questo tipo di giochi letterari: basta pensare al gruppo di scrittori che parteciparono in Francia al movimento battezzato Οὐlipo, letterati di grande statura, come Raymond Quenau o Georges Perec o Italo Calvino, che fecero ricorso frequente a costruzioni poetiche o a racconti costruiti attraverso giochi di lettere, assonanze, ri-

petizioni di frasi comuni assemblate per dare plicemente divertenti.!° La letteratura bizantina anche sotto questo punto di vista. E Roland quello che è il suo capolavoro, Frammenti di

significati nuovi o semdovrebbe essere indagata Barthes costruisce forse un discorso amoroso, at-

1 H.-G. BecK, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, München, Beck 1959 (Handbuch der Altertumswissenschaft, XII.2.1), p. 552. Non è qui il caso di discutere sulla paternitä delle altre opere di Dafnopates, di cui possediamo una importante raccolta di lettere. Sicuramente di sua mano sono alcuni elogi di santi, la vita di Teodoro

Studita, e alcuni discorsi sulla translazione di reliquie, come l’Appendice al di-

scorso di Costantino Porfirogenito sulla traslazione dell’immagine di Edessa: va semplicemente segnalata l’importanza di questi discorsi ai fini della costruzione dell’ideologia imperiale costantiniana, e nella stessa direzione va un altro discorso, forse suo, il Discorso

anonimo sulla pace con i Bulgari. Se poi Teodoro sia o no l’autore di una parte della composizione storica che va sotto il nome di Teofane Continuato, è incerto. Ma tutto ciò in-

dica che sicuramente Teodoro fu un intellettuale di rilievo. 18 Si veda il recentissimo studio di TH. ANTONOPOULOU, H ομιλητική καὶ n θέση της σε μια νέα ıoropla της βυζαντινής Aoyorexviac, in P. ODORICO - P. AcAPITOS (éds.),

Pour une ‘nouvelle’ histoire de la littérature byzantine. Problèmes, methodes, approches, propositions, Actes du Colloque international philologigue (Nicosie mai 2000), Paris, Centre d’ Étud. Byz., Néohell. et Sud-Est-Européennes 2002 («Dossiers Byzantins», 1), pp. 117137: 129 sgg. 19 Si vedano le raccolte di Oulipo, La bibliothèque oulipienne, vol. I e II, Paris, Ram-

say 1987. Particolarmente interessanti ai nostri fini sono le poesie di H. Mathews: cfr. per esempio Le savoir des Rois, vol. I, pp. 75-96.



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PAOLO ODORICO

traverso una serie di citazioni, spesso di amici, il cui autore viene se-

gnalato a margine, secondo un sistema che la letteratura gnomologica bizantina aveva ben esplorato.

Vorrei ora .considerare un altro tipo di utilizzazione della tradizione gnomologica, assai complesso, perché non riguarda la compila-

zione di un florilegio in senso più o meno largo, ma piuttosto una creazione letteraria che si serve della tradizione sentenziosa per dar luogo ad un prodotto nuovo e talvolta difficile da inserire in una precisa corrente letteraria. In questa

categoria

devono

essere inseriti gli ‘specula principis,

consigli ad uso del sovrano per la buona gestione dello Stato. Questo tipo di produzione ha conosciuto molti studi: ciò è dovuto soprattutto all’importante contenuto ideologico di cui essi sono al tempo stesso creatori e testimoni. Ma in essi confluisce una tradizione molto antica, di consigli sul giusto modo di comportarsi, di cui l’orazione pseudo-isocratea A Demonico, letta e copiata durante tutto il medioevo, è uno dei migliori e più fortunati esempi. A Bisanzio, la raccolta certamente più conosciuta è la Scheda regia di Agapeto Diacono, che questo altrimenti sconosciuto autore indirizza a Giustiniano.?° In quest'opera, la struttura gnomologica diviene creazione letteraria, l’organizzazione dei capitoli rende ben strutturato il lavoro; le gromai, per lo più di tradizione sentenziosa sia greca che biblica, sono disposte secondo l’acrostico contente la dedica all'imperatore e il nome dell’autore: ΤΩ OEIOTATOQ KAI EYZEBEZTATO BAZIAFI HMOQN IOYZTINIAND ATAITHTOX O EAAXIZTOX AIAKONO®. Ancora una

volta, come nel caso delle omelie costituite da excerpta, siamo in presenza di un’opera letteraria fatta di materiali di ricupero, giustapposti ad altri provenienti dalla penna dell’autore, che formano, secondo i punti di vista, un trattato piuttosto disarticolato o uno gnomologio ben organizzato. Passiamo ora a considerare un’opera dell'XI sec., i cui caratteri

20 Gli studi su Agapeto Diacono e la sua Scheda Regia sono numerosi, soprattutto in rapporto al suo contenuto ideologico. A causa del gran numero di manoscritti e di traduzioni in tutte le lingue, che ha reso arduo il lavoro del filologo, l’edizione critica del

testo è invece recente: R. RIEDINGER, Agapetos Diakonos. Der Fürstenspiegel für Kaiser Iustinianos, Athena,

Kévtpo

Ἐρεύνης Βυζαντίου

1995; lo studio di R. FROHNE,

Agapetus

Diakonos. Untersuchungen zu den Quellen und zur Wirkungsgeschichte des ersten byzantinischen Fürstenspiegels, Diss. Tübingen, 1985, contiene una buona bibliografia. Per la fortuna del testo, si consulti il lavoro di I. SEVCENKO, Agapetus East and West: the Fate of a

Byzantine «Mirror of Princes», «Revue des Études Sud-Est-Européennes», XVI, 1978, pp. 3-44.



292 —

UN ESEMPIO DI LUNGA

DURATA DELLA TRASMISSIONE

DEL SAPERE

letterari hanno suscitato l’aporia degli studiosi: lo Strategikon di Ce-

caumeno. Per poter esaminare e comprendere quest’opera, la metterò in rapporto con un’altra, la Cronaca di Serres di Sinadinos, vissuto nel XVII secolo.

Il grande problema incontrato da tutti gli studiosi nello studio dello Strategikon, è proprio la sua impossibilità ad essere classificato, al punto che può essere giudicato un unicum nella letteratura bizantina. D’altra parte, non abbiamo nessuna informazione sul suo redattore: sappiamo che apparteneva alla famiglia dei Cecaumenos, e possiamo fissare il suo periodo di vita all'XI secolo. Tutte le informazioni che possediamo su di lui provengono esclusivamente dalla sua opera, che per giunta ci è pervenuta acefala. Probabilmente se avessimo il prologo dello Strategikon, potremmo saperne qualcosa di più. L’opera si presenta come una serie di consigli indirizzati al lettore, cui — un po’ paternalisticamente — l’autore si rivolge chiamandolo «figlio mio». Gli studiosi si sono affannati a dividere la materia trattata in una serie di capitoli, per aiutare la comprensione dell’opera stessa, ma i risultati sono comunque insoddisfacenti; si è arrivati anche a pensare che essa sia costituita da due trattati differenti. La numerazione presente nel codice è forse frutto del copista, che ha trovato il suo originale in triste stato. Così per esempio Maria Dora Spadaro divide il contenuto in cinque sezioni: Sulla giustizia e correttezza professionale; Sulla strategia; Sull’onestà privata e pubblica; Sulle rivolte contro l’imperatore; Sui toparchi. Ma queste divisioni sono estremamente aleatorie, e corrispondono più al nostro desiderio di qualificare l’opera che alla realtà del testo.?! Credo fermamente che la composizione non sia un vero e proprio testo letterario, al di là delle volontà dell’autore, ma una sorta di scrittura privata con caratteristiche eccentriche in rapporto alla restante produzione bizantina. Si tratta semplicemente di una sorta di zibaldone elaborato da qualcuno che, messo a prova dalla vita (come apprendiamo dal testo stesso), decide di confidare ad un quaderno

alcune riflessioni personali. Differentemente dalla restante produzione bizantina, non riusciamo a vedere dietro l’autore un ambiente

2! Dopo l’edizione di B. WASSILIEWSKY - V. JERNSTEDT, Cecaumeni «Strategicon» [...], Petropoli, Academia Caesarea Scientiarum

1896 [rist. an. Amsterdam, Hakkert

1965], il

testo fu rivisto ed edito criticamente da G.G. LITAVRIN, Sovety i rasskazy Kekavmena [...], Moskva 1972. Il lettore italiano troverà utile la recente edizione con traduzione di M.D. SPADARO, Raccomandazioni e consigli di un galantuomo, Alessandria, Edizioni dell'Orso 1998, che presenta una ricca bibliografia.



293 —

PAOLO

ODORICO

che determina la produzione dell’opera, né un pubblico (nel senso

più vasto del termine) per il quale essa sia stata pensata. In compenso, trattandosi di un quaderno di riflessioni personali, possiamo vedere bene quale cultura possiede l’autore: questa cultura è in gran parte fondata sulla tradizione gnomologica. La composizione segue uno schema nel contempo rigido e fluido. Particolarmente nella prima e nella terza parte dell’opera, Cecaumeno dà una serie di consigli al lettore, consigli che derivano da una sapienza derivata dalla Bibbia o da testi gnomologici, o che, creati dall’autore, sono modellati come sentenze. In seguito, egli commenta l’affermazione sentenziosa attraverso riflessioni personali, osservazioni, scolî, episodi attinti alla propria esperienza. Prendiamo qualche esempio a caso. Nella prima sezione un passaggio porta sulla necessità dell’elemosina (p. 48, ll. 18-21 Spadaro). Provvedi sempre all’indigente; infatti per il povero il ricco è un dio, se quest’ultimo gli fa della beneficenza; perciò i Bulgari chiamano il ricco vogatos, che significa ‘simile a dio’. La struttura del passaggio è la seguente: ad una prima sentenza, di carattere parenetico, segue una seconda, giustapposta, contenente una motivazione del consiglio appena espresso. La terza parte del passaggio è costituita da una osservazione attinta dall’esperienza personale, che serve a convalidare il portato dell’insegnamento. Secondo esempio (p. 52, IL 16-22 Spadaro): Stai lontano dai banchetti: infatti in essi vi sono molte chiacchere e molti pettegolezzi; so che se osserverai questo precetto si befferanno di te, dicendo che sei asociale e taccagno; se vai ad un banchetto o lo organizzi ti succederà questo: o sarai accusato davanti al basileus come se il banchetto fosse organizzato contro di lui, o farai discorsi privi di senso e sarai biasimato dai commensali. Alla prima sentenza, espressa sotto forma di esorta: zione, segue una seconda che spiega le ragioni dell’esortazione, a sua volta completata dall’osservazione personale introdotta da οἶδα. Oppure (p. 156, ll. 11-16 Spadaro): Ricorda che né i piaceri né i dolori sono stabili, ma che tutto è soggetto al flusso e al riflusso; finché dunque hai l'occasione, mostra chi sei, affinché i discendenti di co-

loro che tu hai beneficato vedano la tua generosità come se fosse scolpita su una

stele.

Sia che tu faccia

del bene

o del male,

non

sarà

dimenticato, ma si troverà negli occhi del Signore, al momento della ricompensa. Il linguaggio attinge largamente alla tradizione sentenziosa, sia dal punto di vista dei concetti (l’instabilità delle cose umane), sia nelle formulazioni gnomiche che attingono dal lessico della Bibbia e della Chiesa (εἰ troverà negli occhi del Signore, al momento della ricompensa).

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UN ESEMPIO DI LUNGA

DURATA DELLA TRASMISSIONE DEL SAPERE

Una analisi portata sulle fonti, potrebbe rivelare l’uso di raccolte sentenziose, a partire dai Proverbi biblici e dalla Sapienza di Sirach, che vengono utilizzati sia dal punto di vista linguistico che da quello contenutistico, anche se la fonte nonè citata alla lettera, ma piuttosto rimodellata e rimpastata con elementi gnomici di provenienza eteroclita. Nella sua struttura lo Strategikon riflette gli specula principis, come quello di Agapeto Diacono, con la differenza importante che i consigli non sono diretti ad un imperatore, ma più democraticamente ad un lettore qualunque. Se Agapeto è stato a lungo considerato come una fonte importantissima dell’ideologia politica imperiale, Cecaumeno è stato visto come una fonte importantissima per la comprensione della mentalità del ‘Bizantino medio’. Ma questi autori esprimono il loro vero sentire, oppure raccolgono un pensiero comune, cui

viene data una forma scritta ‘per sentenza’, costruendo così uno ‘gnomologio’? Si potrà obiettare che uno gnomologio è una raccolta di gnomai, e che quindi in questo risiede la differenza fra una compilazione gnomologica e — per esempio — uno speculum principis. Ma que-

sta osservazione mi pare debole. La questione non è quella di sapere se un dato autore cita parola per parola una fonte eventuale: quello che importa è la qualità intrinseca del testo e l’uso che ne viene fatto nella costituzione e nella trasmissione di un sapere (reale o immaginario) che spiega la funzione stessa della letteratura gnomologica e le trasformazioni testuali. In questo senso la letteratura gnomologica, attraverso la sua forma mutevole, diviene fonte di creazione letteraria, sta alla base stessa del processo creativo. Ritorniamo allo Strategikon. Per meglio comprendere il senso di quest'opera, cercherò di fare un parallelo con la Cronaca di Serres di Sinadinos. Infatti credo che i due testi presentino fortissime analogie, e il confronto può aiutarci nella comprensione dei contenuti. Inoltre, dal momento che Sinadinos parla molto di se stesso, possiamo capire quali sono gli stimoli che ha ricevuto per la realizzazione delle proprie riflessioni, quale è la sua cultura e quali fonti ha utilizzato. Il confronto ci farà meglio comprendere Cecaumeno e siccome, a differenza di quest’ultimo, Sinadinos è piuttosto sconosciuto, mi dilungherò un po’ su di lui. Nel 7126 (1618/19) sono andato dal prete messere Partenio alla metropoli ed ho imparato la grammatica, la scrittura, e — tra i poeti — Catone, Pitagora, Aristofane ed il canone di Natale e dell'Epifania. Così dice di se stesso Sinadinos, l’autore della cronaca della città di Serres in Macedonia, ad un centinaio di kilometri a nord-est di Salonicco. Le sole informazioni che noi possediamo su questo personag—

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gio? derivano da questa ‘cronaca’ e da qualche documento relativo

alle vicende economiche della metropoli di Serres o del vicino monastero di San Giovanni Prodromo sul Monte Meneceo.? La notizia, che di per sé potrebbe sembrare banale, diviene in realtà un’informazione preziosa per comprendere meglio il quadro culturale della grecità all’epoca ottomana, perché le fonti relative al reale livello di insegnamento durante questo periodo sono davvero scarse. In effetti Sinadinos è una figura che può essere rappresentativa di una

intera classe sociale. Figlio di un prete, che ricopre una importante carica all’interno dell’amministrazione della metropoli (dunque della comunità greca), e che gioca un ruolo importante anche nei rapporti col patriarcato (dunque nel cuore del zllet [comunità etnica o religiosa] cristiano), Sinadinos è a sua volta prete, funzionario, commerciante, impresario, padrone di un atelier di tessitura. Appartiene in-

somma ad una famiglia in vista, anche se ogni definizione data per analogia al sistema occidentale (per esempio quella di nobile di periferia), sarebbe fuorviante. Nonostante il suo relativo benessere, nonostante il fatto di essere il figlio prediletto di un padre attento alla sua formazione e alla sua carriera, Sinadinos siede sui banchi di scuola solamente due anni: dapprima nel 1609, a nove anni, quando si trasferisce in un piccolo villaggio, dove un prete, Papadimos, gli impartisce ‘l’istruzione di base’ (τὰ κοινὰ γράμματα). E poi una seconda volta, alla metropoli di Serres, quando ormai ha già 18 anni, è padre di una bimba ed è sposato da un anno con quella che sarà la sua fedele compagna lungo tutta la vita, Avrambakina, figlia di un orefice. La sua formazione intellettuale è dunque fondata sull’insegnamento della grammatica e dell’ortografia, probabilmente apprese sui canti religiosi, i canoni. Se confrontiamo questa informazione con il contenuto dei ua@nuatdpia, i libri su cui si formavano gli studenti, possiamo vedere come i canoni di Giovanni Damasceno e di Cosmas Me-

22 L'edizione completa del testo è recente: P. ODORICO, avec la collaboration de S. ADRACHAS, T. KARANASTASIS, K. Kostıs, S. PETMEZAS, Conseils et Mémoîres de Synadinos,

prétre de Serrès en Macédoine (XVIle siècle), Paris, Editions de l’Association P. Belon 1996. Su Sinadinos si veda anche P. ODORICO, Μνήμες και ἱστορία του Συναδινού Σερραίου: n ζωή ενός κληρικού του δεκάτου εβδόμου αιώνα, «Serraika Analecta», I, 1992, pp. 122135.

2 Si veda P. ODORICO, Memoire d'une voix perdue. Le cartulaire de la metropole de Serrès (17e-19e siècles), Paris, EHESS 1994 («Documents et recherches sur le monde byzan-

tin néohellenique et balkanique», 46); ID., Le codex B du monastère Saint-Jean-Prodrome, t. B: Serrès XVe-XIXe siècles, Paris, Editions de l’Association P. Belon 1998.

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lodo fossero normalmente utilizzati dagli allievi per l'apprendimento. Quella che ci interessa in questa sede sono piuttosto z poeti Catone, Pitagora, Aristofane: si tratta dei Disticha Catonis, opera tarda di contenuto sentenzioso, attribuita a Catone e tradotta a Bisanzio nel XIII secolo da Massimo Planude, dei Xpvod ἔπη di Pitagora, un’altra opera sentenziosa che circolava abbondantemente a Bisanzio e la cui fortuna si estende durante il periodo ottomano, e di una commedia di

Aristofane, probabilmente il Pluto o le Nuvole.

Che questo insegnamento ridotto non sia stato molto efficace lo dimostra l’opera di Sinadinos. Di lui possediamo infatti solo la Cronaca della città di Serres. Si tratta di una sorta di diario scritto nel 1642, quando la peste infuria nella regione. Ritiratosi nel suo villaggio natale, là dove aveva i suoi ateliers di tessitura, di fronte al fla-

gello e alla morte, Sinadinos raccoglie le sue memorie in un volume, che vorrebbe essere una storia del mondo, poi una storia della città, ma che in realtà è un miscuglio di ricordi e di vicissitudini personali, di avvenimenti recenti della comunità cristiana, di insegnamenti e consigli tra la predica e l’ammonizione. Anche in questo caso la divisione dell’opera in parti, capitoli e paragrafi è un arbitrio dell’editore, che si è sforzato di dare un senso logico ad una scrittura che segue il filo del pensiero dell’autore. Il volume autografo, conservato nel monastero di Koutloumousiou sul Monte Athos, mostra che Sinadinos ha una conoscenza grossolana delle norme ortografiche e sintattiche, ma mostra anche tracce di letture occasionali che ci forniscono qualche indicazione per meglio capire come funzionasse la letteratura gnomologica. In effetti, la seconda parte della Cronaca, come ho detto, è costituita da un insieme di memorie, riflessioni, consigli, avvertimenti, che dimostrano una simpatica curiosità da parte del Nostro. Il filologo che passi al setaccio questa parte, non tarderebbe a riconoscere quale tipo di letteratura sta alla base della composizione. Vediamo un po’ di cosa si tratta. A scuola Sinadinos aveva letto i Disticha Catonis. In effetti egli si rivolge così al lettore: Caro fratello, siccome tutto quello che ti ho scritto e ti ho consigliato, tu l’hai gradito e l’hai accettato con grande piacere, ecco, ti scrivo qualche altro insegnamento e qualche precetto affinché tu possa comprendere le vicende umane, e agire in modo conforme a quello che ti insegno. Ecco, ora comincio (1. II, $ 10, 1-5, p. 208). Seguono nel testo una serie di sentenze in greco demotico, piene di grazia e di espressioni popolari, che non sono nient'altro che la traduzione dei Disticha Catonis. Tenendo conto del fatto che il manoscritto della Cronaca è lacunoso e che due fogli sono caduti, il testo di Sinadinos con—

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teneva all'origine una gran parte dei Disticha, cioè della traduzione

greco-moderna dell’opera a sua volta tradotta quattro secoli prima da Massimo Planude. . La terza parte della Cronaca è costituita da una serie di precetti rivolti al lettore: ogni paragrafo inizia con una sentenza seguita da una considerazione personale, attinta dall’esperienza dell’autore. I consigli riguardano norme di comportamento, morale o economico: ancora una volta uno gnomologio che diventa creazione letteraria nuova. La grome è il punto di partenza di una serie di considerazioni, come se all’insegnamento si volesse aggiungere una casistica per confermarne la validità. La sentenza non è il punto di arrivo della riflessione, ma è il punto di partenza, e qui risiede il fondo stesso dell’opera.

Esattemente come nel caso di Cecaumeno, ci troviamo in presenza di una serie di raccomandazioni a partire dalle quali l’autore mescola il proprio io, per riconoscere un ammaestramento. La vita stessa viene

dunque letta attraverso il sapere sentenzioso e non viceversa. Lo gnomologio diviene elemento di riconoscimento della propria esperienza

umana. Qui tocchiamo il fondo della funzione del sentenziario: uno stru-

mento che serve per riconoscersi, ma che resta uno strumento puramente letterario. In ambedue le opere, quella di Sinadinos e quella di Cecaumeno, la creazione gnomologica passa dalla codificazione retorica all'esperienza di vita e questa creazione è dettata da una serie di difficoltà esistenziali che spingono un lettore dotato di cultura medio-bassa alla produzione letteraria per inserire il proprio io nel flusso dei precetti, per trovare una giustificazione alla propria esistenza. Non è uno specchio di vita dunque, perché non si racconta il proprio io, ma una riproduzione di un sapere nel quale si vorrebbe riconoscere il proprio percorso, riproduzione tutta libresca, che l'applicazione al contingente rende fresca e cui l’esperienza personale dona l’aspetto falso di una realtà vissuta. Certo, resta il problema di sapere quali sono le fonti utilizzate, sapere insomma se la sentenza precede la considerazione o se la sentenza, creata sulla base della propria esperienza, prende solamente a prestito la forma esteriore della tradizione gnomica. Il parallelo tra le due opere può darci una risposta: non solo esse trattano molto spesso della stessa materia, negli stessi termini, ma alcuni richiami testuali (al di là della lingua, che in Sinadinos è la demotica del XVII secolo) ci convincono della stretta parentela dei due testi. Per esempio quando Cecaumeno e Sinadinos consigliano di affrontare direttamente un calunniatore e domandargli le ragioni del suo comportamento (Cecaumeno I, 4: p. 50, Il. 6-14 // Sinadinos IV, 6), oppure quando l’autore — 298—

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raccomanda di non portarsi mai garante neppure per un amico, perché ciò comporta la rovina economica (Cecaumeno III, 89-90: p. 135, 20-136, 16 = Sinadinos III, 29), oppure ancora quando si raccomanda

al lettore di frequentare l’ufficio religioso (Cecaumeno III, 93 = Sinadinos III, 10). I due testi non sono in stretta dipendenza tra di loro, ma riflettono un sapere che si è consolidato e consacrato attraverso una serie interminabile di passaggi gnomici, un sapere impersonale che diventa creazione letteraria. Il lettore che volesse continuare in questa direzione, potrebbe trovare altri testi in cui la tradizione gnomologica ha agito fortemente nella concezione stessa dell’opera: mi limito qui a citare il Logos didaktikos che nel XVI secolo Giovanni Neagoe, «gran voivoda e imperatore della Grande Ungrovalacchia» compose per il proprio figlio Teodosio, un testo poco conosciuto, ma che meriterebbe di essere studiato sotto questa prospettiva, per vedere la lunga durata della trasmissione del sapere, fondata sull’insegnamento sentenzioso, dall’ Antichità all’Età Moderna. Lo studioso che si rivolga all’esame degli gnomologi deve aver presente questi processi di trasmissione del sapere, perché essi danno il senso della loro utilizzazione durante tutto il periodo in cui circolarono. Questo utilizzo ha conseguenze anche sulla trasmissione del testo, perché il sentenziario è un prodotto aperto, suscettibile di accogliere o eliminare continuamente parte del materiale, per adattarsi alle esigenze del copista-elaboratore, del lettore, del riutilizzatore. Considerare un prodotto nella sua fissità di fonte scritta una volta per tutte,

alla ricerca di una paternità spesso dubbiosa, significa ignorare tutto il processo di utilizzazione. Peccato mortale che la filologia classica ha troppo spesso commesso. [Nel 2002, mentre presentavo questo testo all’Incontro di studio pisano, è uscito l’articolo di C. ROUECHÉ,

The Literary Background of Kekaumenos,

in Literacy, Education and Manuscript Transmission in Byzantium and Beyond (eds. C. HOLMES - J. WARING), Leiden-Köln, Brill 2002, pp. 111-138: ho potuto vedere questa pubblicazione solo quando il mio testo era in bozze. Lo studio di C. Roueché è estremamente interessante: ad esso rinvio il lettore per una analisi attenta e innovatrice di Cecaumeno].

24 Il testo è edito da V. GRECU, Inväfäturile lui Neagoe Basarab, domnul tärii Romönesti (1512-1521). Versiunea greceascà, Academia Romänä, Studii si Cercetàri, LX, Bucarest 1942,



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INDICE

Avvertenza (M.S.FUNGHN. Presentazione (A. CARLINI)

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PARTE I - LE ‘SENTENZE DI MENANDRO’ M. SERENA FUNGHI, Tipologie delle raccolte papiracee dei Monostici: vecchie e nuove testimonianze

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M. CHIARA MARTINELLI, Estrazione e rielaborazione dei

Monostici: problemi di testo e di metrica LL... M. JAGODA LUZZATTO, Sentenze di Menandro e «Vita Aesopi» . . .. SILVIA AZZARÀ, Fonti e rielaborazione poetica nei «Carmina Moralia» di Gregorio di Nazianzo