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Italian Pages 54 Year 2013
Artur Aristakisjan Il corpo apocrifo del cinema Roberto Mazzarelli
Thunder Road Edizioni
(Cine)Visioni Extra | Libri, Saggi, Approfondimenti
#extra
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Il cinema di Artur Aristakisjan di Roberto Mazzarelli
Thunder Road Edizioni
In copertina: Mesto na zemle (2001; L’ultimo posto sulla Terra) di Artur Aristakisjan Sul retro: fotografia di Artur Aristakisjan (2010, © Roberto Mazzarelli) Le immagini presenti nel libro sono tratte dai film di Artur Aristakisjan Copyright 2013 by (Cine)Visioni Magazine (Cine)Visioni Magazine a cura di Roberto Mazzarelli web: www.cinevisionimagazine.com e-mail: [email protected] Editing e Ufficio Stampa: Simona Cappuccio Si ringrazia: la Noeltan Film Studio per aver concesso gentilmente le registrazioni video sul Workshop Internazionale “Verità e Bellezza” tenuto da Artur Aristakisjan a Potenza nel Febbraio 2008. la Prof.ssa Stefania Parigi dell’Università degli Studi di Roma Tre.
#indice
Introduzione
p.6
Capitolo primo La poetica di Artur Aristakisjan
p.10
Capitolo secondo La palma delle mani
p.20
Capitolo terzo L’ultimo posto sulla Terra
p.34
Filmografia
p.48
Bibliografia
p.49
Web e Video
p.50
4
#0 INTRODUZIONE
Nel flusso cinematografico internazionale, oggi, il cinema russo occupa ancora una volta uno spessore di rilievo. La grande stagione di questa fiorente cinematografia sembrava essersi oramai conclusa con i nomi di alcuni maestri indiscussi, su tutti Andrej Tarkovsky, Otar Ioseliani (attivo ancora oggi) e Sergej Paradzanov.
Dalla seconda metà degli anni ottanta è seguita una nuova ondata di autori, che dominano tuttora la scena del cinema d’autore in Russia, quali Kira Muratova, Aleksej German sr. e Aleksandr Sokurov. Come sottolinea Alena Shumakova, docente dell’Università di Bologna e consulente della Mostra del Cinema di Venezia per il cinema russo, nel saggio Il cinema d’autore dell’era di Putin, oggi in Russia si assiste a un duplice e convergente movimento. Da una parte vi è la coscienza di una cinematografia “classica”, ancora animata nel panorama culturale internazionale, e dall’altra si favorisce una «crescente presenza di una nuova realtà visuale»(1), determinata da un cinema d’autore giovane, nato verso la metà degli anni ’90. Sono spazi sommersi che diventano sempre più visibili grazie all’attento lavoro che viene svolto da molteplici festival in tutto il mondo, i quali hanno tentato di incoraggiare, negli ultimi anni, lo sguardo dello spettatore verso opere poco conosciute in Occidente. In questo modo sono stati riportati alla luce film e autori che fino ad allora non avevano goduto della dovuta attenzione nel panorama internazionale. In Italia è straordinario il lavoro svolto dalla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che già a partire dagli anni ’80 organizzava le maggiori retrospettive sul cinema sovietico, facendo conoscere l’opera di Tarkovskij e il talento di registi emergenti come Nikita Michalkov. Tuttora il Festival di Pesaro, grazie alla direzione artistica del critico Giovanni Spagnoletti, svolge un ruolo importante e significativo: una piattaforma in grado di tracciare una traiettoria sempre più vasta sul cinema russo e transcaucasico. Ed è ugualmente grazie a questo Festival che oggi possiamo beneficiare in Italia di un testo critico sui movimenti contemporanei e postmoderni del cinema russo (2), l’unico attualmente disponibile in ambito nazionale sull’argomento. Tuttavia, leggendo accuratamente questo testo, redatto in parte da critici russi, si rimane profondamente sorpresi di alcune lacune significative. Una su tutte la scarsa attenzione nei confronti di uno dei più rilevanti registi della cinematografia russa contemporanea: Artur Aristakisjan, artista visionario ed eccentrico, autore di soli due film La palma delle mani (Ladoni, 1994) e Un posto sulla terra (Mesto na zemle, 2001). Il suo nome non è nuovo in Italia. La sua conoscenza è dovuta ad Enrico Ghezzi, che nel 1994 lo invitò a partecipare al Festival di Taormina, durante il quale vinse il Premio della Giuria con il suo primo film La palma delle mani. Seguirono diverse proiezioni notturne dei suoi film, nel programma televisivo di Rai 3 Fuori Orario, grazie ancora una volta al già citato Ghezzi, che in una intervista al quotidiano «La Repubblica» disse: «Il cinema di Aristakisjan non assomiglia a nulla. Aristakisjan occupa uno spazio a sé nel cinema russo e mondiale, alterna-
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tivo nell’accezione di samizdat: in Italia, se vogliamo trovare una corrispondenza, ci sono Ciprì e Maresco.» (3). Ma Artur Aristakisjan rimane legato all’Italia per differenti e meno conosciute ragioni. Sarà il Potenza International Film Festival ad organizzare, nel 2005, la prima retrospettiva italiana su di lui, introducendo un discorso critico sulla poetica realista e simbolica del regista, suggestionato principalmente da alcuni maestri del cinema italiano, uno su tutti Pier Paolo Pasolini. Sarà proprio la lezione di Accattone (Pier Paolo Pasolini, 1961) a porre le basi per una ricerca antropologica sui corpi, soggetti che Aristakisjan identificherà come «dei, poeti, angeli caduti in un mondo di puttane». Questi corpi sono anche quelli di The House is Black (Khaneh siah ast, Forough Farrokhzad, 1962), film della poetessa persiana Forough Farrokhzad, capostipite della cosiddetta “Nouvelle Vague" iraniana, altro punto di riferimento nel cinema del regista moldavo. Nel 2008, tre anni più tardi, Aristakisjan sarà ancora in Italia, nuovamente a Potenza, per la realizzazione di un workshop internazionale per filmmaker. Ed è grazie alle registrazioni di queste lezioni, concesse in via del tutto straordinaria dalla Noeltan Film Studio di Potenza, che oggi siamo in grado di delineare un’eventuale ricerca sul cinema e la figura di Artur Aristakisjan, un autore che ha saputo porsi continuamente in modo trasversale alle correnti dei circuiti mainstream, è forse uno dei pochi che con i suoi film ha saputo reinventare il linguaggio del cinema. Il suo è un cinema unico, simbolico e complesso ma in grado di trasportare lo spettatore in quella realtà invisibile, che egli definisce «la camera oscura delle sensazioni» (4). A tal riguardo, mi sembra doveroso concludere con le parole di Artur Aristakisjan: Questa… è una storia nella storia, che non ascolterai né leggerai mai da nessuna parte. Ma influisce su di te. La storia che tu non leggi è presente qui, accanto alla storia che leggi, è in coppia con l’altra, accanto, solo che è invisibile. (5)
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Note
1.
Alena Shumakova, “Il cinema d’autore dell’era Putin”, in Cinema russo contemporaneo, a cura di Giovanni Spagnoletti, Pesaro, Marsilio, 2010, pp. 100-103.
2.
Cinema russo contemporaneo, a cura di Giovanni Spagnoletti, Pesaro, Marsilio, 2010, pp.269.
3.
Michela Bompani, “Artur Aristakisjan al laboratorio probabile”, « La Repubblica», Dicembre 2008.
4.
Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. a cura di Antonio V. Marino, Potenza, 2008.
5.
Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro Video - Visioni Underground, 2009, p.29.
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#1 La poetica di Artur Aristakisjan
Gli insufficienti, e spesso inesatti, elementi, che siamo in grado di rintracciare nei pochi documenti dedicati al regista non ci permettono di individuare un profilo biografico completo su Artur Aristakisjan. Possiamo, ciononostante, accertare che egli è nato nel 1961 a Kishinev, capitale della Repubblica Moldava, da una famiglia di origini armene.
Verosimilmente le parole esatte a delineare una narrazione biografica sono proprio quelle di Aristakisjan, rivelate durante un’intervista alla rivista e scuola di cinema spagnola «El Amante» nel 2001: Non ho una biografia. Quando avevo vent’anni ero un bambino, ero inutile. Sono nato nel sud della Moldavia (ex Unione Sovietica) in una piccola comunità ebrea, anche se mio padre era armeno, un luogo carico di intelligenza da un lato e di orrore dall’altro. Per una persona creativa è una fonte di ispirazione. Da bambino avevo una specie di sogno ricorrente: ero un artista e mi portavano a spasso in gabbia per il paese. Più tardi seppi che anche Ezra Pound veniva portato a spasso in gabbia, però non accadeva in uno Stato totalitario, ma democratico. Così il mio sogno è avere la stessa sorte di Pound. La mia biografia, in fondo, sono le mie fantasie. (1)
L’idea di una non - biografia è il punto di partenza, l’incipit di una storia fantasiosa, ossessiva che ci riconduce a scelte di vita estreme, che porteranno il regista a contatto con il mondo degli emarginati e degli invisibili: l’umanità che prenderà forma in seguito nei suoi film. Aristakisjan stesso è il risultato di questa emarginazione, raffigurata lucidamente nel sogno ricorrente della sua infanzia, ove per ricorrenza si intende epifania e quindi l’essere parte di una continua ed eterna manifestazione, tentativo di rinascita e di appropriazione di una nuova vita, di un nuovo corpo e di conseguenza di un nuovo sguardo. In questo modo il regista moldavo sembra accostarsi ad un’antica tradizione, che trova le sue fondamenta in un libro sacro, il Libro Tibetano dei Morti (2), attribuito a Padmasambhav colui che tra il VII e l’ VIII secolo diffuse il Buddismo in Tibet. Le immagini, così nitide, che si presentano in questo testo, sono le stesse che il defunto vede nell’aldilà, portatrici di un nuovo stato dell’essere, quello che i tibetani chiamano Dharmakāya, il “corpo della verità” ovvero il raggiungimento dell’illuminazione, che sopprime il saṃsāra, ciclo della vita caratterizzato dall’ignoranza dello spirito. La verità Aristakisjan la individuerà proprio nei corpi degli storpi, dei mendicanti, di coloro che socialmente sono definiti reietti. La vita, per il regista moldavo, prende forma ai margini di una società che ha eretto i suoi ideali nell’ipocrisia e nell’indifferenza. Da questo tipo di società Artur Aristakisjan prenderà sempre le distanze facendo fronte a scelte ardue ed estreme che lo condurranno a vivere quattro anni, tra il 1986 e il 1990, in assoluta povertà, tra i diseredati di Kishinev. Da qui nasce la necessità di accostarsi al cinema, unico mezzo in grado di comunicare quel disagio fortemente sentito. Ancora ventenne si reca a Mosca, tentando più volte di entrare alla Moskov Film School (VGIK), la più importante accademia cinematografica russa. Come ci rivela lo stesso regista, l’entrata in questa scuola non fu del tutto facile:
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Durante un periodo di sette anni mi recai a Mosca per vedere se mi ammettevano alla scuola di cinema VGIK. Mi rifiutavano sempre. Gli esami li tenevano registi famosi che, quando mi guardavano in faccia, dicevano “No questo no”. Nel 1988… fu aperto una specie di corso per venti tipi strani come me, gente che aveva sedici anni e già era stata in carcere e cose simili, curato da un documentarista che vedeva qualcosa in questi personaggi che aveva in classe. Il professore era ancora più strano. Filmava le cose che nessuno voleva filmare, come per esempio alcuni pellegrini del polo nord che si mettevano addosso delle specie di ali … Io non avevo soldi, e per questo ero l’unico al quale era permesso dormire nella scuola. Per cinque anni vissi così, vendendo quello che possedevo. I miei genitori mi aiutarono molto, fu una storia molto curiosa … Anche se erano intellettuali vivevano nella povertà più assoluta, senza acqua e senza elettricità … vendettero quel poco che avevano e me lo dettero perché io continuassi a studiare. (3)
Nel 1994 Aristakisjan propone come diploma di laurea, La palma delle mani (Ladoni, Artur Aristakisjan, 1994), il suo primo lungometraggio. Nello stesso anno il film verrà presentato al Festival Internazionale di Berlino e nel contempo vincerà il Nika, importante premio assegnato dall’Accademia di Arte Cinematografica, come miglior documentario dell’anno. La palma delle mani viene girato integralmente a Kishinev, all’interno della comunità di diseredati, luogo in cui lo stesso regista visse. Il film è un’espressione dura e poetica di questa esperienza marginale, narrata in parte da immagini, marcate da un bianco e nero primitivo, adatte a documentare la vita reale di tale comunità, e dall’altra da una voce fuori campo asincrona che fa da cornice alle immagini. Quest’ultima è la voce di un padre che si rivolge al figlio ancora non nato e che presumibilmente non nascerà mai. Ciò nonostante egli decide di rivelargli ogni cosa, lo mette in guardia sull’oscurità della vita, l’ipocrisia e l’indifferenza e augura al figlio una vita di miseria ed elemosina. In quanto soltanto i mendicanti sono in grado di vivere un’esistenza autentica ed illuminata. Il successivo lungometraggio, Un posto sulla Terra (Mesto na zemle, Artur Aristakisjan, 2001), viene girato dopo sette anni. Anch’esso è il frutto di un’esperienza vissuta in prima persona dal regista. Il film è ambientato a Mosca all’interno di una comunità di hippy, denominato il “Tempio dell’amore”. Per la volontà di un guru, fondatore della comunità ed espressione figurata di Cristo, uomini e donne offrono il loro corpo, facendo l’amore con storpi, mendicanti e gente pazza. Questa solidarietà morbosa e ossessiva è il tentativo di dimostrare come è possibile amare ed essere amati. La comunità è pertanto il luogo dell’unione, intesa come contatto dei corpi. La comunità stessa è un corpo e verrà fisicamente amputata, dall’incapacità a riuscire in siffatto sacrificio di amore. Sarà proprio il guru a castrarsi di fronte allo sguardo incredulo della comunità perché lasciato dalla sua compagna, legata ancora ai canoni di una vita borghese. La privazione del pene sarà l’alba di un nuovo giorno, l’inizio di una disgregazione inevitabile, emblema di un fallimento preavvertito. Il guru deve a questo punto rasse-
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gnarsi di fronte al suo folle gesto: una persona castrata è incapace all’amore, una parte slegata di un corpo che non esiste più. Il resto del film ruoterà sulla figura di Maria, una donna malata, con i piedi incancreniti. Visto fallire il ruolo del guru all’interno della comunità, e rifiutata più volte dall’uomo, decide di assumere sulle sue spalle il tentativo di propagazione di un credo, dirigendosi al di là delle mura del “Tempio dell’Amore”. Ma l’esterno risulta essere fatale al suo scopo e diverrà una delle tante vittime dell’indifferenza sociale. Ambedue i film di Artur Aristakisjan richiamano a un cinema primitivo attraverso immagini continuamente in bilico tra la narrazione drammaturgica e una visione documentaristica. C’è un fondamento indiscutibilmente naturalista nel suo cinema, in quanto i personaggi vengono (ri)presi nell’universo in cui vivono: sono corpi e volti esistenti, congiunti agli spazi in cui le storie vengono narrate. Nei film di Aristakisjan si concretizza il mito neorealista teorizzato da Cesare Zavattini. Compito del regista è quello di pedinare i suoi personaggi e la macchina da presa non è nient’altro che un fantasma che interagisce con essi, registrando la loro esistenza. Tutto questo ci chiarisce Aristakisjan, si compie in modo naturale, poiché «solo girando può entrare un personaggio nel nostro film» (4). Di conseguenza il cinema diviene il mezzo di una ricerca personale ed interiore, nato prima di tutto dallo sguardo, o “visione”, e dal contatto tra l’occhio e con ciò che il regista moldavo chiama “materiale”. Visione e materiale sono entrambi elementi centrali della poetica di Aristakisjan, il quale nella sua attività di critico formulerà alcune riflessioni importanti su di essi, messe in pratica, poi, nei suoi film. E’ singolare l’aneddoto con il quale il regista russo ci introduce al concetto di visione: Io ho imparato a fare cinema da persone che non avevano nessun rapporto con il cinema. Ad esempio a Kishinev dove vivevo, avevo come vicini di casa una famiglia ebrea molto povera. C’era una donna anziana, che viveva con la figlia e i nipoti. Erano adolescenti già pronti alla vita. Questa grande famiglia viveva in un’unica stanza. Quando essi andavano a letto, tutti i nipoti violentavano a turno la nonna. Dio è stato generoso con me perché mi ha permesso di vivere con questa famiglia. Io ho visto come vivevano e posso concludere dicendo che nessuno può insegnarti ciò che i tuoi occhi vedono direttamente. (5)
Questo racconto, crudo e drammatico, ci restituisce un’immagine chiara e concreta del concetto al quale il regista russo vuole rimandarci, dichiarando che il cinema è prima di tutto un fenomeno legato alla visione, allo sguardo soggettivo di un individuo rispetto a ciò che lo circonda. Sono «gli occhi», dice Aristakisjan, «i veri maestri del cinema», e unicamente attraver-
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so di essi possiamo comprendere la realtà nella sua totalità. Vedere vuol dire prima di tutto uscire da uno stato permanente di cecità. «E’ un fatto di occhi», ribadisce Aristakisjan, «se gli occhi non riescono a vedere non servirà nessuna nuova tecnologia per realizzare i bei film». Gli occhi devono essere in grado di vedere ciò che non si vede, ed è proprio l’invisibile, ciò che sta dietro alla realtà oggettiva a rivelare l’universo nelle sue differenti forme. In che modo è possibile percepire ciò che ci circonda? Come possono i nostri occhi uscire dal loro stato di cecità? Per il regista moldavo la realtà tangibile ci viene di continuo raccontata, non siamo noi, attraverso i nostri occhi, a scorgerla. Riusciamo a vedere, e pertanto ad avere una percezione dissimile dello spazio e di ciò che ci sta attorno, unicamente quando in maniera indipendente determiniamo di “inquadrare” qualche cosa, isolandola dal suo contesto. Così, diveniamo “autori” di quello che vediamo e siamo in grado, quindi, di raccontare la realtà a noi stessi attraverso ciò che Aristakisjan definisce la “camera oscura delle sensazioni”, quella parte interna a noi stessi per mezzo della quale l’Io elabora, sotto forma di ricezione, tutto ciò che ci circonda. A prova di questo, dice il regista, sarebbe sufficiente «prendere qualsiasi film, ad esempio uno di De Sica e Rossellini e iniziare a raccontare a se stessi ciò che si vede, vedremo sicuramente un film diverso. In questo modo noi raccontiamo a noi stessi una storia che non è raccontata né nel film e né nella realtà» (8). Tale racconto interiore può compiersi, tuttavia, unicamente in presenza del “materiale”. Con suddetto termine l’artista, o in questo caso il regista, viene privato di qualsiasi “aura” e ridimensionato alla figura di “artigiano”. «Colui che costruisce i mobili» dice il regista moldavo «sa sempre se ha in mano il materiale che gli serve» (9). Il cinema per Aristakisjan si esplicita soltanto in presenza di questa consapevolezza. Realizzare un film vuol dire anzitutto avere a disposizione un materiale autentico, tangibile, reale. Ciò vuol dire lasciarsi influenzare da un oggetto o da qualcosa e farsi trasportare emotivamente da esso. Ecco un esempio concreto sul concetto di materiale: Per spiegare cosa intendo con la parola materiale, posso fare un esempio parlando dei film girati prima del 1910. Allora il cinematografo era un trucco che ricorda i maghi, ma non è solo questo. Fino al 1910 le persone non avevano mai visto arte in movimento. Quando a Roma o a Parigi sono nati i primi cinema, la gente fischiava quando vedeva un volto o un primo piano. Nei primi film di allora la cosa che più interessava era il movimento delle gambe. Questo permetteva di vedere la magia. Le gambe erano alla base del cinema di allora. Il loro movimento erano un vero e proprio linguaggio. Geroglifici egiziani che diventavano gambe in movimento … Le gambe portavano la psicologia dei personaggi in mille modi diversi. Allora le gambe erano materiale (10).
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In primo luogo va evidenziato il carattere soggettivo di ogni materiale: il materiale può essere differente da individuo a individuo, «come le scene del vangelo sono un materiale diverso per ogni persona» (11). Tale soggettività presuppone che sia l’individuo stesso a rispondere alla domanda se esiste o meno tale materiale. Per il regista moldavo gli errori più frequenti sono due; può verificarsi che il materiale non ci sia e la persona non sia consapevole di questa mancanza; viceversa c’è il caso in cui l’artista ha il materiale ma è presente una difficoltà o un’incompetenza ad impiegarlo. Nondimeno, va aggiunto che l’amore per il materiale non è sufficiente per realizzare un film. Il rischio è di non riuscire a concludere l’opera; anche per questo, sostiene Aristakisjan: Ogni artista ha po’ paura a rapportarsi al suo materiale. Il materiale è già presente nell’artista e nell’uomo, deve solo poterlo aprire. Ma spesso l’artista ha paura ad aprirlo, perché quel materiale trasformerà, in un modo o nell’altro, la persona, sia l’artista e sia lo spettatore … Anche l’imbroglione ha bisogno del suo materiale. I rapinatori, sono molto professionali, perché loro quotidianamente hanno il contatto con il loro materiale. Essi conoscono e studiano bene il loro materiale. (12)
A volte è il materiale stesso a condurre lo sguardo del regista. È il caso de L’ombra degli avi dimenticati (Tini zabutych predkov, Sergej Paradzanov, 1964). Sergej Paradzanov, ci rivela Aristakisjan, è stato fortunato, dato che non conosceva il materiale che aveva a disposizione per il suo film. Tuttavia il materiale compare molto spesso anche in “assenza di informazioni”. Di fatto, durante le riprese del film, avvenne accidentalmente la morte di un uomo. Paradzanov con la sua macchina da presa riprese tutto. In seguito ogni inquadratura e ogni oggetto di quel film parevano riportare magicamente a quella morte, guidando esteticamente la mano del maestro. Da allora Paradzanov capì che la morte poteva comparire in qualsiasi istante. Risulta evidente da questo aneddoto un’assodata impossibilità a controllare il materiale che si ha a disposizione. Lo sguardo di un autore è sempre in balia della potenza energetica che il materiale esercita sul suo Io. Per il regista moldavo, di fatto, controllare il materiale vuol dire «rifinirlo al punto da perdere il cuore, l’anima del gioiello» (13). Malgrado ciò, precisa Aristakisjan, ogni materiale deve essere nobilitato. Dare una dignità al materiale vuol dire prima di tutto fare riferimento a un metodo di tipo accademico. È attraverso la sceneggiatura, quindi, che è possibile conferire una drammaturgia chiara a qualsiasi materiale, e con essa è possibile delimitare i confini del «gioiello che si ha a disposizione» (14). Il pericolo da evitare è il concentrarsi per intero sui virtuosismi tecnici e stilistici che provocano un inevitabile vuoto all’interno dell’opera.
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Ciò chiarisce probabilmente la difficoltà di Artur Aristakisjan a realizzare nuovi progetti a lui cari. Molteplici sono, di fatto, i lavori incompiuti del regista moldavo, come ad esempio un film ambientato in Messico: Sto scrivendo da alcuni anni una sceneggiatura ambientata in Messico scritta tutta sull’onda delle emozioni e delle sensazioni. Uno dei personaggi di questo film ricorda la forma di una montagna … perché ha un’enorme gobba e la testa rivolta sempre verso il basso. Ogni sguardo di questa persona è prezioso. Dal punto di vista visivo è infinito. Questo materiale è magico… ma in questa mia sceneggiatura mi sono talmente concentrato sulla rifinitura che ho perso di vista il materiale. (15)
Per di più, in questi ultimi anni, Aristakisjan ha dichiarato un’incapacità personale a fare cinema. Tale problematicità si riferisce alla consapevolezza di non essere più «regista, ma spettatore del materiale» (16). Ciò vuol dire rivolgere lo sguardo con distacco verso la realtà, senza possibilità di interagire con essa. Più chiara è questa difficoltà di realizzare nuove opere se viene presa in considerazione un’altra dichiarazione che il regista moldavo ha più volte espresso nel corso di questi anni di inattività, vale a dire la tormentata impossibilità di rivedere i propri film. Io non rivedo i miei film. A me non piace ricordare ciò che in passato ho girato, perché ci sono una serie di ricordi spiacevoli, cose che ho dovuto fare per girare questi film e ora me ne vergogno. Avvolte penso che sarebbe meglio non farli questi film. Non è un discorso di natura etica quello che sto facendo. Perché io tra l’arte e la vita scelgo l’arte. Io ho paura della vita. Credo che le persone che girano film, che disegnano quadri o che scrivono libri siano le persone che stanno a contatto con quella parte migliore della vita. Ma nel mio caso si trattava di situazione pazzesche, dure. Solo successivamente è entrata una fase di tranquillità. (17)
In aggiunta a quanto dichiarato, durante la conversazione registrata con il critico Enrico Ghezzi, poi pubblicata nel 2009 dalla Raro Video nel cofanetto dvd a lui dedicato con il titolo “L’anima e la carne”, Aristakisjan dirà: Si è vero io non frequento i miei film, ho paura a riguardarli … Si dice che non si può andare a letto con la propria madre. Beh, per me rivedere i miei film è lo stesso. (18)
Ed è questo aspetto incestuoso del rivedere i propri film che in qualche modo ci ricollega alle esperienze drammatiche vissute dal regista in prima persona. Il rivedere è senz’altro un gesto doloroso, crudele, espressione di una reviviscenza, ritorno ad un passato remoto. Pur tuttavia questo passato non può essere rimosso, in quanto esso si è già tramutato in immagine.
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Possiamo in definitiva concludere attestando che il cinema di Artur Aristakisjan nasce proprio da questo tentativo, a volte estremo, di «ricordare le immagini» (19) e di fissarle in quella pellicola indelebile che è la “camera oscura dei sentimenti”.
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Note
1. “Artur Aristakisjan, lo zar della realtà”, «El Amante», 2001, intervista in lingua spagnola disponibile su www.elamente.com/nota/1/1040.shtml. Traduzione in lingua italiana a cura di Francesco Tavolaro disponibile sul sito web www.sentiereselvaggi.it, 2007. 2. Padmasambhava, Bardo Thodol, (1975), tr.it Il libro tibetano dei morti, a cura di Francesca Fremantle e Chögyam Trungpa, Roma, Casa Ed. Astrolabio-Ubaldini Editore, 1977, pp. 111. 3. “Artur Aristakisjan, lo zar della realtà”, «El Amante», 2001, intervista in lingua spagnola disponibile su www.elamente.com/nota/1/1040.shtml. Traduzione in lingua italiana a cura di Francesco Tavolaro disponibile sul sito web www.sentiereselvaggi.it, 2007. 4. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 5. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 6. Ibidem. 7. Ibidem. 8. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 9. Ibidem. 10. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 11. Ibidem. 12. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008.
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13. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 14. Ibidem. 15. Ibidem. 16. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 17. Ibidem. 18. L’anima e la carne, conversazione tra Artur Aristakisjan ed Enrico Ghezzi, a cura della Noeltan Film Studio, Roma, Raro Video – Visioni Underground, 2009. 19. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008.
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#2 La palma delle mani
Come è noto, intorno alla seconda metà degli anni Trenta, nell’Unione Sovietica il dittatore Stalin inaugurò, in seguito all’omicidio del presunto politico trotzkista Sergej Mironovič Kirov, il periodo delle «Grandi Purghe», atto a epurare il partito comunista da presunti cospiratori; questi ultimi venivano deportati nei cosiddetti gulag, campi di lavoro correttivi. A ciò si aggiungevano, poi, numerosi ospedali psichiatrici, che attuavano
sui pazienti pratiche disumane. Va precisato che siffatto trattamento punitivo colpiva non solo coloro che presumibilmente tramavano contro il governo, i cosiddetti «cinquantotto» (1), ossia i condannati in base all’art. 58 della costituzione per attività contro lo Stato ma, in realtà, vittime delle grandi purghe erano per di più i mendicanti, i non vedenti e gli omosessuali. Nel 1950 i cosiddetti “dannati” erano circa 2.800.000. Nel marzo del 1953 venne introdotta una nuova costituzione dei gulag, che decretava un’amnistia per circa un milione di detenuti. Le pratiche depurative furono ufficialmente soppiantate nel 1960 dal Presidio del Consiglio Supremo dell’URSS, anche se in verità esse continuarono ad essere esercitate fino al 1991, data che decretò la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dalla fine degli anni ‘80, i milioni di detenuti rilasciati dai campi di lavoro e dai manicomi andavano ad accrescere un nuovo popolo, che si propagava nelle numerose città delle repubbliche sovietiche, dando vita a vere e proprie comunità, così come avvenne a Kishinev in Moldavia, luogo di nascita di Artur Aristakisjan. È stato già asserito in precedenza che il regista visse in questa comunità per ben quattro anni, tra il 1986 e il 1990. Questa scelta non dipese da fattori economi, bensì fu una decisione di carattere etico e morale. Trasferitosi, poi, a Mosca nel 1991, per studiare cinema presso la Moskov Film School (VGIK), Aristakisjan decise di ritornare nel 1993 a Kishinev per realizzare il suo primo lungometraggio. Alla base di La palma delle mani (Ladoni, 1994) c’è l’idea di realizzare un film che sia innanzitutto una testimonianza diretta delle esperienze vissute all’interno della comunità. Il regista rifiuta qualsiasi tipo di espediente accademico e si affida al caso, lasciandosi trasportare totalmente dal «materiale» e dalle situazioni che gli si presentano davanti. Per un anno gira filmati in totale libertà, avendo a disposizione unicamente una macchina da presa e della vecchia pellicola, recuperata nei magazzini della VGIK. «Tutto il film è nato durante le riprese» (2) dichiara Aristakisjan, eppure il lavoro svolto con i suoi “attori sociali” fu intenso. Il regista moldavo incontrava i suoi personaggi, li osservava nei loro gesti quotidiani e li spingeva a leggere testi antichi, come il Mahbharata, testo sacro della religione indù, o il Decamerone di Giovanni Boccaccio, oppure i Vangeli Apocrifi. Le registrazioni di queste letture servivano da guida per le riprese del film: Mettevo le cuffie e li sentivo leggere il Vangelo. Influenzato da queste letture, prendevo la macchina da presa e iniziavo a girare. Sono andato molte volte negli ospedali a registrare i pianti dei malati o nei cimiteri. Allo stesso modo, registravo, ascoltavo, poi iniziavo a girare… inquadravo e capivo cosa dovevo riprendere. Neanche attraverso la macchina da presa, semplicemente guardavo. Poi iniziai a capire come attra-
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verso la pellicola, potevo studiare, vedere dei simboli. Spesso andavo in ospedale e davo dei soldi alle persone malate o compravo loro cose da mangiare. Portavo con me il pezzo del Mahbharata e li pregavo di leggere per registrare. Mia madre rubava cioccolata dalla fabbrica per poterle regalare a queste persone. Tutto avveniva in maniera spontanea. (3)
Ed è grazie a questa spontaneità e attraverso queste letture che si rivelavano allo sguardo di Aristakisjan le sofferenze e le storie di queste esseri umani. In questo modo, dice il regista: Creavo vari contesti per relazionarmi con la realtà che avevo intorno. Ed è così che la realtà diventa testo. Escono fuori le illustrazioni, come nel Vangelo e nel Decamerone, ma la realtà si trasforma in testo per i miei occhi. Anche perché il mondo esiste solo soggettivamente. (4)
L’esperienza diretta sul campo presuppone un tipo di lavoro da parte del regista analogo, per certi versi, a quello svolto dall’antropologo. Il cinema, ha dichiarato Aristakisjan, è una sorta di «antropologia mistica» (5), ovvero lo studio dell’uomo, non solo in rapporto ai suoi caratteri socio-culturali, ma altresì a ciò che è pertinente al suo spirito. Sono queste le basi per la produzione di un testo filmico: partendo dalla comunità di diseredati di Kishinev il regista ci conduce in un viaggio dai caratteri universali, indagando sulle conseguenze apocalittiche e disastrose innescate dai meccanismi sociali che hanno portato oggi ad una sorta di “fascismo intellettuale”. Di riflesso, Aristakisjan si ricollega ad alcuni concetti chiave dell’antropologia sociale, nello specifico al concetto di «corpo fisico» e «corpo sociale», elaborato dall’antropologa britannica Mary Douglas in una delle sue opere fondamentali Natural Symbols (6). In questo testo la studiosa evidenzia come il corpo fisico sia in realtà strettamente subordinato al corpo sociale, perché controllato attraverso le sovrastrutture e le leggi dal sistema sociale. Nella raffigurazione lirica e visionaria dei diseredati di Kishinev, in La palma delle mani, il regista introduce un discorso altamente sovversivo nei confronti del sistema sociale, dando una rappresentazione inquietante e totalitarista del mondo. Le uniche soluzioni di salvezza per l’uomo sono, secondo Aristakisjan, l’elemosina, la pazzia e la morte. Sotto questo punto di vista per il regista i mendicanti, i pazzi, gli storpi e i non vedenti appaiono come essere beati, gli unici in grado di vivere un’esistenza pura. La sovversione del film, non è unicamente presente nella messa in scena ma si realizza anzitutto grazie alla voce narrante, che ricopre un ruolo decisamente importante. Questa non ha soltanto il compito di descrivere le immagini, bensì traghetta l’intera ideologia del film; in altre parole, il narratore «possiede una funzione di orientamento per lo spettatore» (7). La voce nar-
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rante è probabilmente quella che Michel Chion definiva «voce-io» (8), concetto poi ripreso da Christian Metz, che la definirà una voce «giustadiegetica». Il narratore, in questo caso, non viene mai mostrato nell’atto del raccontare ma è possibile identificarlo all’interno della diegesi, perché è colui che guarda ed interagisce con i personaggi e con gli spazi: è il regista stesso, presente attivamente all’interno della messa in scena. Nel contempo, però, il narratore, si distacca dalla narrazione filmica, per portare avanti una narrazione parallela. Egli si presenta come un padre che si rivolge al figlio che deve ancora nascere; da una parte cerca di mostrare al figlio i gesti, i corpi e i volti degli anziani, dei mendicanti, degli storpi, delle donne e dei bambini all’interno della comunità, dall’altra parte cerca di parlare di sé, della sua vita e del suo tentativo disperato di liberarsi dalle leggi del sistema, dimostrando, tuttavia, come ormai egli sia già parte del sistema. È proprio per questo che si rivolge al figlio e gli augura di morire prima della sua nascita, oppure, in caso contrario, di diventare un mendicante o addirittura un pazzo, dal momento che solo in questo modo è possibile sfuggire al sistema e alle sue leggi. Sin dall’inizio del film il narratore si rivolge immediatamente al figlio: Figliolo, sono io, è tuo padre che ti parla. Non sei ancora nato. Ormai è da un mese che vivi nell’oscurità. Figliolo, vedi, tua madre, non è mia moglie. E io non ho il potere di prometterti che rimarrai in vita. Ma voglio comunque che tu sappia tutto. Solo poco fino a poco tempo fa tutto andava bene. Qualunque cosa intraprendessi funzionava splendidamente. La gente si invaghiva di me. E io usavo la loro gentilezza. Il denaro mi si appiccicava addosso. E mia madre e mio padre mi aspettavano invano per molte notti. Tutto mi sembrava perfetto. E oggi tutto è cambiato. Le mie carte mostrano un’oscurità totale. Figliolo chiuderò gli occhi per vederti.
Possiamo ipotizzare come questa figura del figlio in realtà sia lo spettatore stesso, che implicitamente viene invitato a sostituirsi al bambino attraverso la visione e l’ascolto. Non è un caso, dunque, che il padre cerchi immediatamente un contatto diretto con il figlio, indicandogli una condizione di vita simile. Entrambi, infatti, vivono nell’oscurità: «Ormai è da un mese che vivi nell’oscurità», pronuncia il narratore al bambino e conclude il suo enunciato ribadendogli che tutto è ormai cambiato nella sua vita, e che «le carte» gli «mostrano un’oscurità totale». La condizione di oscurità del narratore si specchia, in qualche modo, nella condizione umana, in cui l’uomo già prima di nascere vive nell’oscurità dell’utero materno. Tuttavia, non è di minore importanza la condizione dello spettatore che con molta probabilità guarda il film all’interno di una sala cinematografiche buia. Aristakisjan rafforza, inoltre, il concetto di oscurità inserendo al posto delle immagini uno sfondo nero, che si protrae per tutta la durata dell’enunciato.
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Emblematico è l’ossimoro nella frase finale: «Figliolo chiuderò gli occhi per vederti». Il gesto del vedere, sembra volerci dire il regista, non è un’azione collegata unicamente agli occhi. Spesso il buio mostra all’uomo più di quanto possa fare la luce. Immediatamente, però, nel momento in cui Aristakisjan passa da uno schermo nero alle immagini, la voce narrante transita da una condizione visiva a una uditiva: Figliolo riesci a sentirmi? Io, tuo padre posso parlarti. Perché ci sono cose di cui nessuno ti parlerà mai. Ti porterò in città. Non dovresti essere triste. Tutto è divino nella natura, e mi spiace di averci messo tanto a capirlo.
Il passaggio da una condizione, quella del buio, all’altra, quella del sentire, accresce il contatto tra il padre e il figlio, e, di conseguenza, tra il narratore e lo spettatore. Questa vicinanza avviene tutta in modo sensoriale: il padre sembra voler dire al figlio «viviamo entrambi in uno stato di cecità, ma possiamo ugualmente sentirci». Stabilito un legame, il narratore introduce subito il suo ruolo all’interno del discorso. «Ti porterò in città», dice al bambino, assumendo, in qualche modo, il ruolo di guida all’interno della narrazione. La città di cui egli parla è quella della comunità di diseredati di Kishinev. Visivamente ci viene presentata attraverso una lunga panoramica dall’alto, che riprende la comunità nella sua totalità. La panoramica è seguita da immagini che mostrano una donna distesa per terra; ella è il primo personaggio che ci viene presentato nel corso del film. Sarà il narratore a raccontarci la sua storia, cosa che avverrà anche con gli altri personaggi, mentre alle immagini verrà lasciato soltanto il compito di restituirci i frammenti di quotidianità dei diseredati. Secondo quanto ci è narrato, la donna giace per terra da quarant’anni; è lì, nello stesso posto in cui anni prima aspettava il suo sposo, che non è mai arrivato. Ella «colleziona chance», aspettando «la seconda venuta di Cristo». Raccontata la storia della donna, la voce narrante si rivolge nuovamente al figlio: Coloro che non avevano un posto sulla Terra venivano a vivere qui… Figliolo riesci a sentirmi? Mi senti?… Ti mostrerò come si vestono gli esseri umani e come funzionano i loro corpi. Ci muoveremo insieme passo dopo passo, dato che non abbiamo idea di quando ci rivedremo. Perché tu e io abbiamo lo stesso bisogno. Abbiamo bisogno della salvezza. E se ti sarà concesso di vivere tu dovrai vivere in un sistema. Gli anni passeranno e tu inizierai a pensare da solo come uscirne. La tua prima possibilità di salvezza è perdere il senno. Semplicemente perdere il senno. Ti propongo questa possibilità di salvezza come padre, perdere il senno non è disperazione, no. E’ una chance. Puoi usarla solo fisicamente o usarla come questa donna: fare un letto sulla terra, stendersi e fare l’amore con Gesù Cristo.
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In queste parole si chiarificano i motivi per i quali il padre ha stabilito un contatto con il figlio: entrambi hanno «bisogno di salvezza», in quanto ambedue sono parte di un «sistema». Il bambino, però, poiché non è ancora nato, ha una “chance” in più. Per questo motivo il padre gli indica una prima possibilità di salvezza, ovvero la pazzia. Il secondo personaggio che ci viene mostrato è un uomo. Egli vive con una ragazza ed entrambi vanno in giro per la città raccogliendo dei vecchi vestiti. Questi non vengono rivenduti ma l’uomo li sistema intorno alla sua casa, realizzando un vero e proprio muro. Tra questi abiti vi sono anche quelli di uomini e donne morti nei manicomi. L’uomo afferma di amare quei vestiti perché da essi impara a conoscere il significato dell’esistenza. Tuttavia, all’uomo verranno presto amputate entrambe le gambe, e per questo egli passa ora il suo tempo a pregare i vestiti che questo non avvenga. Una nuova sequenza del film si apre con la figura di un ragazzo che vive a pochi passi dalla donna che giace per terra. Egli è scappato dal manicomio e vive all’interno della comunità, nascosto in un buco scavato nella terra. Il ragazzo fisicamente ha le sembianze di un uomo preistorico e, per questo motivo, nell’ospedale psichiatrico lo chiamavano «pitecantropo». Egli fu salvato un giorno da un giovane, dopo aver rischiato di morire dissanguato per essersi morso le labbra con violenza. Sulle immagini del “pitecantropo”, la voce narrante si rivolge ancora una volta al figlio: Comincerai a parlare dopo, quando la gente avrà pronunciato tutte le combinazioni di parole quando avrà mangiato la propria lingua. Proprio allora inizierai a parlare tu. Ma per ora in questo mondo, devi solo guardare. Guardare e non avere paura. Non avere paura se non puoi cambiare niente, ancora non sai cos’è il tuo silenzio veramente. Non puoi ancora vedere la forma del tuo silenzio. Guardi una ragazza, ti piace. Ma persino il suo corpo non può essere paragonato con quello del tuo silenzio. Il tuo silenzio ha un corpo e tutti ne hanno bisogno. Comincerai a parlare dopo quando la gente perderà il dono della parola per la vergogna o la paura. Per ora, guarda la gente e immergila nel tuo silenzio. Verrà un tempo in cui dal tuo silenzio tutti estrarranno nuove parole. Completamente nuove.
In questo enunciato viene ancora una volta ribadita l’importanza della visione. Il narratore spiega come il gesto del guardare, per quanto silenzioso, sia più efficace rispetto alla parola, all’interno della società. È da questo gesto, dice il padre, che nasceranno nuove parole, una nuova cultura, un nuovo modo di vedere ed agire nel mondo. Alternati alle immagini del “pitecantropo”, scorrono alcuni fotogrammi che mostrano una ragazza su una carrozzina, la quale suona un flauto. Ella viene trasportata da una donna ed il
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regista la segue scrupolosamente. È con questa figura che riusciamo ad immergerci negli angoli più nascosti della comunità. Tra i personaggi di questo racconto vi sono anche i bambini, che nudi girovagano tra le strade fangose. «La vita nella palude», afferma la voce narrante, «inizia nel momento in cui un bambino si sveglia, si alza dal letto e cammina nell’acqua». Oltre agli anziani, i bambini sono le uniche forme di vita rimaste all’interno della comunità, in quanto «gli adulti, sono andati via per guadagnare. Altri sono stati rinchiusi nei campi o nei centri di cura forzati». Insieme a questi bambini, ce n’è uno che abita con la sorella di tredici anni; entrambi vivevano in passato con la mamma, in seguito portata via dalle guardie. La mamma soffriva di attacchi depressivi e il bambino passava la notte a baciarla per farla stare bene; in questo modo ha imparato che baciando 1050 volte “la persona malata, migliora”. Spesso molti bambini vengono presi dalle guardie e portati negli istituti infantili. Ciò avviene, dice il padre al figlio, perché: il potere ha cominciato a fermentare come il vino, ma loro hanno paura di versare nei vecchi otri il vino di nuovo. Nei vecchi otri non versano più vino. Oggi butteranno via i vecchi otri. Il sistema ha bisogno di otri nuovi. Ma gli otri nuovi quali sono? Sono l’agnello che pascola libero … l’agnello di Dio. Poi lo prendono, lo uccidono, lo mangiano, spremono la sua pelle e con essa fanno gli otri.
La sequenza legata ai bambini si conclude con una dichiarazione che la voce narrante rivolge al figlio: Figliolo, di loro addio (ai bambini), devo portarti ora più lontano. Fino a quando non nascerai potrai essere giovane e avere un futuro.
In queste ultime parole si evince il chiaro tentativo del padre di non far nascere il bambino. Il futuro non è nella nascita ma nella morte. Eppure il genitore non può esimersi dal compito di dare ulteriori consigli al figlio, mettendolo in guardia rispetto ad altri aspetti centrali dell’esistenza, come la sessualità: Figliolo, vorrei tanto che tu avessi i favori delle donne… che fossi amato e facessi un matrimonio felice. Tuttavia, ti prego, se è possibile, conserva la verginità e non diventare un uomo. Lo so, è difficile. Ma ascolta. Dal tuo cuore può nascere un altro corpo. E con questo corpo potrai condurre una vita sessuale. Con esso potrai difendere una donna anche dopo la sua morte, quando accanto a lei non ci saranno né il marito, né il padre né i fratelli. Figliolo, nel profondo del tuo cuore c’è il corpo di un mendicante. È il più esile dei corpi. E con esso potrai abbracciare qualsiasi donna. È un corpo sempre nudo. È così nudo che non si può vedere. Lui non è nel sistema.
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Benché molte volte il concetto di castità sia legato alla visione, tipicamente religiosa, del peccato, in questo caso la purezza del gesto contribuisce a palesare la sediziosità del film nei confronti del sistema sociale. Il padre, infatti, invita il figlio a mantenere la sua verginità e a usarla come un mezzo atto ad allontanare il proprio corpo dai meccanismi sociali imposti dal sistema. Oltre il sesso, un’altra costrizione che il sistema sociale impone all’uomo è sicuramente quella del consumismo: Lo so, è troppo presto, piccolo, per dirti che sei un consumatore. Usi la luce, acquisti vestiti, utilizza l’acqua calda. Ti diranno che tutto in questo mondo viene dall’ordine costituito che prepara gli insegnanti e i preti. Se tu non hai bisogno né degli uni né degli altri, non importa. L’ordine costituito mantiene per te i dottori e le prostitute. E se hai bisogno di prostitute, dimostreranno che tu sei condannato a condurre una vita sessuale che richieda almeno un asciugamano e un sapone, e questo li produce l’ordine costituito. In una parola, loro non ti lasceranno in pace. Ti proveranno che l’uomo nasce in un corpo sociale, e che muore in un corpo sociale. E tu sarai d’accordo con queste considerazioni. Ma dal momento che non sei ancora nato, puoi ancora dire qualcosa in tua difesa.
Il sistema sociale, attraverso il consumismo, ha avviato un processo di assoggettamento dell’essere umano, in quanto ogni cosa prodotta dall’«ordine costituito» diventa inevitabilmente un bene di primaria necessità per l’uomo. Questo processo ha influito profondamente sui meccanismi di integrazione ed emarginazione dell’essere umano, dal momento che il sistema è fondato sull’accettazione del suo corpo sociale da parte dell’uomo; diventa così inevitabile la ghettizzazione per coloro i quali si auto-escludono dai meccanismi imposti dal sistema. All’interno della narrazione, ampio spazio viene dato ad altri personaggi, come l’“uomo con la tinozza rotta”, senza gambe, il quale trasporta se stesso in una tinozza di metallo, dotata di ruote che gli permettono di muoversi. In quella tinozza la madre gli faceva il bagno, ed ora questa è l’unica cosa rimasta in sua proprietà. La tinozza, però, è rotta poiché in passato l’uomo aveva tentato il suicidio buttandosi da un palazzo di otto piani, rimanendo miracolosamente illeso. Sulle immagini dell’uomo la voce narrante parla ancora una volta al figlio del sistema: Figliolo, stai lontano dai libri accademici, dalle leggi, da qualunque legge. Per il sistema noi siamo essere umani. Nell’ordine stabilito non c’è né te, né me né nessun altro. Tra noi c’è la legge del sangue, della materia fine. Il mio sangue è il tuo, sono il sacro asse dell’intero sistema. La legge della dialettica è la legge del sistema. Controllano, sono logiche. Secondo queste leggi, il sistema è una grande biomassa, è l’individuo è la quantità delle sue chance … Tutto si fonde su questo. Le leggi della dialettica sono leggi amorali.
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La lotta al sistema può realizzarsi prima di tutto attraverso il rifiuto incondizionato delle leggi. Malgrado tale affermazione, Aristakisjan sembra qui rifiutare la «filosofia ufficiale», come veniva definita nell’Unione Sovietica di fine dell’Ottocento, quella concezione strettamente legata al materialismo dialettico marxista, la quale si sarebbe poi sviluppata grazie alle teorie del tedesco Friederich Engels e a Lenin. Per Marx, la cui teoria riprende il concetto di dialettica elaborato da Hegel, che attribuiva il passaggio da una realtà elementare ad una più complessa allo Spirito dell’uomo, la realtà è frutto non di un’«idea» ma della materia; in altre parole la mente e la coscienza dell’uomo non possono esistere separatamente dalla materialità del corpo vivente. Per Artur Aristakisjan la dialettica marxista è «amorale» perché, nonostante questa riconosca una certa libertà dell’uomo, essa è parte integrante delle logiche del sistema. Le leggi dialettiche, riportando tutto alla materia, considerano l’uomo come una sorta di «biomassa», ovvero di materia organica. Per il regista moldavo la realtà, invece, è fatta sì di materia ma di una materia molto più «fine», ovvero il sangue; e attraverso il sangue, che in qualche modo lega gli esseri umani, la materia (organica) prende vita. Un altro personaggio di rilievo è Giorgio «il vittorioso», un mendicante con entrambe le mani amputate, le cui braccia, proprio per tal motivo, sono definite «candele» dagli altri mendicanti. Un tempo l’uomo lavorava in campo e, per amore di una ragazza, un giorno fu scagliato contro le macine di una trebbiatrice. Da quel giorno cammina soltanto con le ginocchia e dice che non si alzerà più in piedi. Giorgio racconta, inoltre, di essere felice, poiché può farsi il segno della croce non come fanno gli ortodossi con tre dita, né come i cattolici con le palme delle mani aperte; per lui «la divisione tra le chiese non c’è stata. Sulle sue palme, esse si sono riunite». Segue la storia di Zar Oswald, un uomo senza gambe che si muove su un carrello rotato e dichiara che la sua «civiltà non lascia impronte». Dura è, poi, la storia di Yazundokta, un’ altra anziana con una gobba molto ricurva. Ella cammina per la città, trascinando con sé un vecchio baule, in cui pare sia nascosta la testa dell’uomo che la fece diventare una donna. Il suo primo rapporto sessuale Yazundokta lo ebbe in carcere, con quello che sarebbe stato il suo carnefice. Prima dello sgombero delle carceri, uomini e donne venivano uccisi in modo atroce: in particolare, le guardie uccidevano le donne sparando nella parte interna degli organi genitali. Il carnefice di Yazundokta mise la pistola nella vagina della donna, ma essa si inceppò. L’uomo si vergognò a tal punto del suo falli-
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mento che lei lo abbracciò e si concesse a lui. Lo stesso giorno la Russia fu bombardata. Era iniziata la seconda guerra mondiale. Il carcere fu colpito dalle bombe e l’uomo morì. Sulle immagini di Yazundokta e Zar Oswald, la voce narrante ritorna a rivolgersi al figlio, parlandogli nuovamente del sistema: Il sistema non vuole ucciderci. Vuole essere. Non vuole la fine del mondo. Il sistema ha bisogno della luce che non ha. Le parti di questa luce sono le carni e l’anima. Queste possono essere prese solo dalla vita umana. Alla fine di questi giorni, mi sembra che il sistema cristallizzi la sua luce sul mio corpo ... Per questo piccolo mio, pensa alla tua salvezza. Tu hai già la tua luce. Usala e uscirai dal sistema.
La vita del sistema dipende dall’uomo stesso. Senza l’anima e senza il corpo dell’uomo, l’ordine costituito non potrebbe sostenersi. Un altro elemento su cui il sistema si fonda è senza ombra di dubbio il lavoro: C’è qualcosa di umiliante in un uomo che cerca lavoro. E tu non dovrai andare a lavoro. E’ meglio vivere di carità. Vedi, la gente ha bisogno di garanzie. Per questo va a lavoro. Stampano solidi, perché si rifiutano di diventare mendicanti. Figliolo non voglio che tu diventi povero contro la tua volontà. Eppure io penso che solo di quelli che vivono di carità è possibile dire che vivono del loro lavoro. I mendicanti sono così liberi che non hanno bisogno nemmeno della libertà.
Altro modo per liberarsi dalle leggi del sistema è, secondo Aristakisjan, l’eliminazione della parola come stratagemma atto a nascondere i propri pensieri. Così la voce narrante esprime tale concetto: … Se ci fossero parole ci sarebbero anche i pensieri. Bisognerebbe imparare la lingua degli uccelli e diventare anti-sociale … Solo chi sa nascondere i suoi pensieri può avere un modo di pensare diverso. Perciò non ascoltare nessuno piccolo mio. Figlio mio non parliamo nella lingua in cui ti sto parlando.
La prima parte del film si conclude con la storia di un ragazzo non vedente, che vive di elemosina. Così come gli è stato fatto credere dai suoi genitori, anche loro non vedenti, egli è convinto che tutti gli esseri umani siano ciechi e che nessun uomo possa vedere se stesso. Egli crede che tutti gli uomini siano donne e che soltanto lui e il padre siano nati uomini, perché malati. Nella seconda parte del film, il narratore si rivolge ancora una volta al figliolo, invitandolo nuovamente a riflettere sulla possibilità di diventare pazzi:
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Figliolo, chiudo gli occhi per vederti meglio. Anche se dovessi finire in miseria so che comunque la terra mi sosterrà. Se prima volevo vivere come una persona con idee diverse ed ero disposto ad essere condannato al rogo o a impazzire, oggi è ovvio che per avere idee diverse, bisogna prima perdere il senno.
In questa parte del film largo spazio viene riservato alla storia di un uomo già morto, di nome Srulik, che viveva in un attico assieme agli uccelli, e con i quali mangiava e dormiva. L’uomo non usava denaro e non riceveva pensione ma si cibava solo del pane e del vino che gli portavano le donne scappate di prigione a cui dava riparo. Per Srulik gli uccelli erano «poveri mendicanti» perché vivevano della sua carità. Egli conosceva il linguaggio degli uccelli e riusciva a comunicare con loro. Quando Srulik morì una donna nascose una colomba sotto il suo vestito e si buttò dal quinto piano del palazzo. Quando voltarono il suo cadavere, dalla sua veste volò una colomba bianca. Di rilievo è anche la storia di una donna che vive le sue giornate preparandosi per le allucinazioni notturne. Ogni notte incontra suo marito, che anni prima era morto di fame. La mattina la donna fa l’elemosina e poi compra degli alimenti; tuttavia, ella non può mangiarli. Quei cibi sono per il fantasma del marito che ogni notte ritorna nella sua abitazione per mangiare ciò che la moglie gli conserva. La donna, però, non riesce a vedere il marito, e al suo posto vede un’ enorme chiazza rossa nel cielo. Alle due storie si alternano altre dichiarazioni del narratore. Queste sottolineano maggiormente la centralità sovversiva del film contro il sistema: Un uomo non può lasciare l’ordine costituito all’improvviso. Tu mangi, bevi, vivi, tu sei già nell’ordine costituito. Non mangiare, non bere, non vivere questo vuol dire non vivere nell’ordine costituito. Altrimenti, puoi dire quello che vuoi, puoi possedere qualsiasi valore spirituale, puoi vedere chiaro, ma se segui la corrente c’è già lavoro. Tu lavori per l’ordine costituito perfino quando apri gli occhi.
Qui il dialogo relativo al sistema viene estremizzato al punto da considerare i gesti del «mangiare, bere e vivere» come atti facenti parte delle dinamiche dell’ordine costituito. Da queste parole risulta sempre più evidente come, oltre alla pazzia e all’elemosina, l’unico modo di estraniarsi dal fascismo instaurato dal sistema per l’uomo sia la morte. Una possibilità, in questo senso, è il tragico gesto del suicidio: Figlio mio, se vivrai, e sentirai qualcuno che l’ha fatta finita sappi che lui non voleva morire. Non credere che un suicida non vuole vivere. Lui desiderava molto vivere… Figlio mio fa un passo indietro, perché tutti i tuoi passi possono portarti al Golgota. Il sistema sicuramente conosce il giorno della tua nascita e quello della tua morte.
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In questo enunciato di grande interesse è il riferimento relativo al Golgota. La figura di Gesù Cristo è più volte tirata in causa nel film e ciò potrebbe indurre a pensare che il narratore cerchi di instaurare all’interno della narrazione un discorso di tipo teologico. Al contrario, la figura di Cristo è qui riproposta nella sua accezione umana e sovversiva. Per Aristakisjan, infatti, Gesù era prima di tutto un rivoluzionario, un uomo che ha fatto della mendicità un credo: Gesù non venne qui, nell’ordine costituito, come re dei Giudei. Venne come un re, e poi ha potuto condurre la vita di un mendicante. Sceglieva i suoi seguaci tra gli emarginati, tra i poveri pescatori, i vagabondi, le prostitute.
Nel film è rifiutato anche il concetto di religione. La fede religiosa, come qualsiasi altro credo, è un altro tentativo di incatenare l’uomo in un sistema. Il penultimo capitolo del film è incentrato sulla storia di un uomo che ripercorre i passi di Abramo. Egli ogni giorno con una mazza di legno segna il confine del suo cortile, da lui chiamato «confine dello stato di Israele». All’interno di tale confine si erge la sua casa, che è in realtà una discarica. A volte la discarica è talmente piena di immondizia che l’uomo non riesce neppure ad entrare nella sua casa. Per questo motivo egli ha cercato più volte di dare fuoco alla montagna di immondizia ma questa è sempre ricresciuta. Il finale del film ha toni del tutto surreali. Le immagini dei diseredati della comunità di Kishinev vengono sostituite da immagini funeree e la messa in scena è inserita all’interno di un vecchio cimitero. I protagonisti non sono delle persone viventi bensì le foto delle lapidi, ritraenti i defunti. Su tali immagini la voce narrante si rivolge nuovamente al figlio, raccontandogli un sogno: Figlio mio, ho fatto un sogno strano. Ero nella nostra città, ma appariva completamente diversa. C’era la neve e al posto delle case e delle strade c’era un cimitero. E al posto delle persone c’erano lapidi che stavano come gruppi famigliari. Si abbracciavano l’un l’altro e si sostenevano. Vivevano la loro vita. Erano persone cambiate molto. Sul loro viso erano scritte domande e risposte sulla vita e la morte. Erano come lettere, ma non proprio. Mi stavano tutti dicendo qualcosa, ma io non capivo la loro lingua.
La scena del sogno conduce l’intero intreccio narrativo ad un discorso relativo alla morte. Per Artur Aristakisjan la morte è un’inevitabile «trasformazione» (9), ovvero il passaggio dell’anima da una realtà oggettiva ad una più ampia, da una vita ad un’altra. È il momento in cui l’uomo abbandona il proprio corpo. In questo transitare dell’uomo, tuttavia, per Aristakisjan esiste una salvezza, in quanto il corpo non è di proprietà dell’uomo ma del sistema. La morte, in questo caso, è perciò vista come una «chance», probabilmente l’unica per l’intera umanità.
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Con la scena del sogno, il narratore conclude il suo racconto e si rivolge per l’ultima volta a suo figlio: Questo è tutto piccolo mio. Ricordi Srulik? Mi ricordo che fece un gesto con la mano e disse: «Questa è tutta la mia vita». Figlio mio, questa è tutta la mia vita.
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Note
1. Sergio Rapetti, “Il sistema Gulag 1918-1991- Jaques Rossi e il suo straordinario registro della memoria”, in Storie di uomini giusti nei Gulag, a cura di Gabriele M. Nissim, Milano, Paravia Bruno Mondandori Editori, 2004. 2. L’anima e la carne, conversazione tra Artur Aristakisjan ed Enrico Ghezzi, a cura della Noeltan Film Studio, Roma, Raro Video – Visioni Underground, 2009. 3. Ibidem. 4. Ibidem. 5. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, Potenza, 2008. 6. Mary Douglas, Natural symbols. Explorations is cosmology, New York, Rotledge, 1996, pp. 224 7. Christian Metz, L’Enonciation impersonelle ou le site du film, Parigi, Méridiens-Klincksieck, 1991, p.146. 8. Michel Chion, La voce nel cinema, Parma, Pratiche 1991. 9. L’anima e la carne, conversazione tra Artur Aristakisjan ed Enrico Ghezzi, a cura della Noeltan Film Studio, Roma, Raro Video – Visioni Underground, 2009.
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#3 L’ultimo posto sulla Terra
Il secondo film di Artur Aristakisjan, L’ultimo posto sulla Terra (Mesto na zemle, 2001), venne realizzato nel 2001, a distanza di sette anni dall’esordio di La palma delle mani (Ladoni, Artur Aristakisjan, 1993). L’esigenza di realizzare un nuovo film giunse ad Aristakisjan nel momento in cui egli si avvicinò, ad una comunità hippy ubicata in un palazzo abbandonato, nei pressi del centro di Mosca.
Conosciuta come «Il Tempio dell’amore», la comune era stata fondata da un predicatore con l’intento di accogliere uomini e donne che potevano amarsi liberamente, donando oltretutto la loro anima e il loro corpo ai più bisognosi, e nello specifico agli storpi e ai mendicanti. In questo luogo Aristakisjan visse alcuni anni, sperimentando sulla propria pelle la vita da hippy e condividendo quest’esperienza marginale con quelli che sarebbero stati i protagonisti della sua nuova opera. Con queste parole il regista moldavo racconta la sua esperienza a Francesca Baroncelli, giornalista del quotidiano online Mentelocale.it: La comune di Mosca in cui ho vissuto è in realtà un unico momento di vita, e insegna un tipo di esistenza che permette di aprirsi a nuove esperienze. Ci trovavamo a vivere in ampie stanze spoglie di qualsiasi oggetto o mobile, in un palazzo abbandonato e in grandi spazi. Eravamo un’unità, una cosa sola… Prima di questa esperienza era come se vivessi perennemente su un palcoscenico, sul palcoscenico della vita con il ruolo di attore principale. Dopo aver vissuto nella comune invece ho scoperto l’unione e il sentirsi un tutt’uno con gli altri, e più volte mi sono chiesto che senso avesse avuto la mia vita fino ad allora. (1)
L’idea di realizzare un film si fece più concreta quando Aristakisjan portò all’interno della comunità una macchina da presa, imprimendo sulla pellicola i corpi e i volti di uomini, donne e bambini che vivevano nel Tempio dell’amore. La prima cosa che ho fatto - afferma il regista - è fare delle prove con una macchina da presa e una pellicola in bianco e nero e riprendere questi poveri. Quando ho visionato il girato e ho rivisto quei volti ho capito che erano i soggetti del mio film. Questi volti erano definiti come in un affresco. Eppure, oltre alle immagini, io mi ero innamorato di questa comunità. Avevo un sentimento molto forte nei confronti di queste persone. (2)
In seguito a tali riprese, che tuttavia non confluirono nell’opera finale, Aristakisjan decise di realizzare un film che avrebbe racchiuso «una serie di ricordi personali che si erano accumulati» all’interno della comunità; abbozzò, quindi, un copione, scritto a due mani con la sceneggiatrice Irina Shubina. La sceneggiatura avrebbe delineato per sommi capi la struttura diegetica del film. Nel film merita una nota di interesse la splendida colonna sonora, composta da un unico brano, Alifib, del musicista Robert Wyatt; quest’ultimo è stato uno dei capostipiti, negli anni Sessanta, della cosiddetta scena di Canterbury, sottogenere che trova le sue radici nel rock progressive bretone. Prima di dedicarsi alla carriera da solista, Wyatt ha fondato numerosi gruppi, tra i quali rimangono memorabili i Soft Machine e i Matching Mole. Numerose sono
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poi state le sue collaborazioni con artisti dal calibro di Mike Oldfield, Pink Floyd, Björk ed Elvis Costello. Il brano Alifib, concesso personalmente da Wyatt per la realizzazione di L’ultimo posto sulla Terra, fu composto nel 1973, anno tragico per il cantante, che durante la lavorazione dell’ultimo album dei Matching Mole, cadde da un palazzo di quattro piani, riportando una grave frattura alla colonna vertebrale. Paralizzato dall’anca in giù e costretto su una sedie a rotelle, Wyatt riprese il materiale a cui stava lavorando e compose da solista il suo album capolavoro Rock Bottom, un tuffo negli abissi dell’oceano, nel quale in soli quaranta minuti il musicista trasporta l’ascoltatore in una realtà fatta di suoni cupi e fantastici. Ad essere raccontata è la solitudine e la voglia di salvezza dell’uomo attraverso la morte e la rinascita. Come ha notato il critico della rivista online Onda Rock.it, Gaetano La Montagna (3), il viaggio ultraterreno di Rock Bottom rimanda per certi versi al surreale finale di 2001: Odissea nello Spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), in cui il protagonista, dopo aver viaggiato in una quarta dimensione, vede se stesso rispecchiarsi in diverse fasi della vita, fino alla rinascita in un utero materno. La musica di Wyatt in L’ultimo posto sulla Terra è utilizzata con grande cura da Aristakisjan ed inserita in momenti cruciali: a conclusione della scena del matricidio oppure nel finale, enfatizzando la straziante immagine di Maria che non riesce a rialzarsi dalle scale su cui si era accasciata. Nel 2008 Enrico Ghezzi, presentando i film di Artur Aristakisjan nel programma di Rai 3 Fuori Orario, sottolineerà la grande sinergia esistente tra le note del musicista inglese e le immagini del film, affermando: La musica di Robert Wyatt nel film di Aristakisjan è probabilmente uno dei momenti più straordinari di incontro tra musica e cinema degli ultimi vent’anni. (4)
Lo svolgimento narrativo del film è incentrato essenzialmente sulle vicende di tre personaggi. Il primo è il creatore del Tempio dell’amore, leader e maestro spirituale degli hippy che seguono la sua volontà morbosa di amare il prossimo attraverso il sesso. La sua ossessione, che in un primo momento era stata motivo di unione tra i membri della comunità, si rivelerà essere il frutto di un reale egocentrismo, portando ad un inevitabile sfaldamento della comune. In realtà, la credibilità dell’uomo verrà a mancare nel momento in cui si evirerà brutalmente dopo che la sua donna, rifiutando l’idea di concedere il proprio corpo ai mendicanti, e ancora legata all’idea di una vita borghese, deciderà di andarsene da lui. Il gesto estremo dell’uomo porterà numerosi adepti ad abbandonare definitivamente la comune, facendo così fallire l’esperimento del Tempio dell’amore.
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Centrale è anche il personaggio di Maria, una mendicante malata, con i piedi incancreniti, in cerca di un uomo che la possa amare e proteggere. Dopo aver sentito parlare del Tempio dell’amore da altri mendicanti la donna deciderà di trasferirsi nella comune. Qui si innamorerà del leader ma l’uomo, ormai mutilato e privo di ogni desiderio, la rifiuterà, costringendola ad abbandonare la comunità sempre più disgregata. Nonostante ciò, Maria sarà l’unica a credere ciecamente nell’ideologia dell’uomo e a diffondere il suo verbo all’esterno della comunità, rivolgendo il suo amore ai poveri mendicanti incontrati casualmente per le strade fredde ed innevate di Mosca. Durante il suo cammino ella si imbatterà poi in un soldato, il quale incuriosito cercherà di comprendere il perché la donna vada in giro a baciare i mendicanti. Maria gli parlerà dell’uomo che lei ama e di come egli abbia creato il Tempio dell’amore. Pur essendosi dimostrato sensibile ai racconti della mendicante, alla fine del film lo scetticismo dell’uomo porterà ad una retata nella comune da parte delle guardie, causando la devastazione totale del Tempio. Non di minore importanza è il “cinese”, un giovane marinaio trovato ubriaco sulla sponda del fiume Moscova da alcuni hippy. Il ragazzo, risvegliatosi all’interno della comunità, verrà preso dal panico e si scaglierà ferocemente contro tutti, credendo che gli si voglia fare del male. Il marinaio deciderà, tuttavia, di trattenersi nella comune anche se, a differenza degli altri mendicanti, rifiuterà ogni tipo di contatto fisico. Egli sembra soffrire di un problema di dissociazione mentale, poiché è convinto di essere ancora un bambino; il suo unico contatto con il sesso avviene attraverso un tipo di masturbazione infantile, che lo induce a giocare con il suo pene come se fosse una «bambola». Solo una donna riuscirà, con violenza, ad iniziarlo al sesso. La sessualità, però, verrà da lui interpretata come un qualcosa di morboso, tanto da spingere la donna, stanca dei numerosi rapporti sessuali, ad insegnare al giovane marinaio il rispetto per i veri sentimenti che si nascondono dietro il gesto carnale del sesso. Questa lezione indurrà il ragazzo ad allontanarsi momentaneamente dalla comunità e cercare il vero amore al di fuori di essa. Egli si avvicinerà così ad una povera mendicante, priva di sensi, sul ciglio di una strada innevata e, dopo aver fatto l’amore con lei, tra l’indifferenza della folla, i due si giureranno amore eterno. Malgrado ciò, il cinese abbandonerà la sua compagna e tornerà nuovamente nella comunità, poiché conscio di essere ancora legato alla donna che lo ha reso un uomo. Allora la mendicante si recherà nel Tempio dell’amore e ivi scoprirà la doppia vita dell’uomo; a causa di tale visione la donna, nel silenzio assordante della comunità, mentre tutti dormono, si taglierà le vene. La differenza sostanziale tra L’ultimo posto sulla Terra e il primo film di Aristakisjan, La palma delle mani, sta sicuramente nel passaggio dal documentario alla fiction. Per il suo secondo film, infatti, il regista scelse di rimettere in scena storie e fatti realmente accaduti nella co-
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munità, affidando la parte dei personaggi principali ad attori professionisti, selezionati in alcune compagnie teatrali di Mosca. Nel contempo, però, furono riutilizzati i veri spazi della comune, inserendo al suo interno gli hippy che realmente vi avevano vissuto. Per quanto diverso sia stato l’approccio rispetto al suo primo film, Aristakisjan cercò ugualmente di rapportarsi al materiale narrativo in modo del tutto “naturale”, facendolo in due modi: prima di tutto agli attori fu consentito spesso d’improvvisare, con l’intenzione di ottenere un effetto veritiero; ugualmente la macchina da presa, libera da movimenti preventivati, inseguì fortuitamente gli attori, restituendo al film un’estetica realista. Il film sposa alla perfezione la cosiddetta «ideologia della presa diretta», caratterizzata da lunghi piani sequenza e dalla registrazione dell’audio in loco, rifiutando l’ormai diffusa pratica del doppiaggio e del missaggio dell’audio. Altresì la fotografia, curata da Andrej Trojrzkij, risulta «sporca», primitiva «tanto da apparire perfino amatoriale». Ciò che cerca di ottenere Aristakisjan è prima di tutto una fisicità, uno spessore che possa delineare i tratti caratteristici dei corpi e dei volti da lui ripresi. In quest’ottica, importante è l’utilizzo e la lavorazione della pellicola, considerata dal regista come la «carne» del cinema. I vecchi film in bianco e nero perché sono particolari? Perché la condizione chimica della pellicola entra in contatto fisico con lo spazio filmico. Prendete qualsiasi film italiano, indiano o francese degli anni quaranta o cinquanta … c’è una qualità particolare che non è nel regista, ma della pellicola. E’ la magia del cinema. Con lo sviluppo della tecnologia, invece, c’è stata una cosa terribile. La tecnologia è intervenuta nello spazio, creando un caso che prima non aveva. Questo fenomeno si ripercuote nell’immaginazione del regista. Nel medioevo, ad esempio, l’uomo viveva di più nella sua immaginazione. Non erano solo fantasie sessuali, ma avevano un altro tipo di carattere. Dietro gli alberi si immaginavano degli gnomi. Gli uomini nella loro immaginazione avevano un rapporto organico con la natura. Con le nuove tecnologie, invece, la tridimensionalità dello spazio è venuta a mancare. Si è perso un certo spessore dello spazio. Prima la pellicola permetteva di avere questa cosa. Oggi questa cosa non c’è più e i film sembrano essere entrati in un videogioco. Ciò che conta nel cinema di oggi è la capacità del regista che deve in qualche modo riempire lo spazio. Noi dobbiamo entrare in contatto con le leggi di questa magia. Tutto dipende dalla nostra capacità di recepire le cose. Oggi è la tecnologia ad indirizzare il pensiero dell’uomo. Prima era il contrario. (5)
Dunque è per merito della pellicola che Aristakisjan cerca di ottenere una tridimensionalità dello spazio, inteso nell’accezione di luogo dell’azione, nel quale i personaggi interagiscono tra di loro e con ciò che li circonda. Come ha sottolineato Enrico Ghezzi, infatti, è lo spazio ad avere un ruolo centrale nel film. Ciò che «caratterizza maggiormente L’ultimo posto sulla Terra», dice il critico, «è proprio il rapporto tremendamente ossessivo con lo spazio, dove la comune è allo stesso tempo un rifugio, come un bunker post-atomico» (6). La maggior parte delle scene girate all’interno della comune, rimandano per certi versi alle caverne dell’età della pietra. A testimonianza di ciò numerosi sono i graffiti disegnati a mano sui muri delle stanze
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della comune, i quali rievocano la pittura parietale dell’era preistorica. Nella loro primitività, tali pareti creano una sorta di «spazialità teatrale» (7), che permette ai soggetti del film di interagire tra di loro. Lo spazio è rappresentato nel film come il luogo dell’unione, un «posto sulla terra» in cui ogni cosa è condivisa al contrario di ciò che viene mostrato nella «società contemporanea, che si regge su un forte senso di possesso del territorio» (9). L’unione tra gli individui, sembra voler dirci Aristakisjan, può attuarsi solo in una società tribale; nel film, difatti, viene mostrato quel tipo di «contatto affettuoso» (9), caratteristico delle tribù primordiali. In relazione a tale concetto egli annoterà numerose riflessioni nelle pagine dei suoi diari, scritti dopo la realizzazione di L’ultimo posto sulla Terra, e pubblicati parzialmente dalla Raro Video in occasione della distribuzione italiana delle sue opere in dvd. Per Artur Aristakisjan il Tempio dell’amore rappresenta un tentativo di riavvicinamento alla società tribale: Nel film si vede un modo di toccarsi che non si trova affatto nella società, o meglio, nella società non esiste. La società lo ha perso e finge di non conoscerlo. E’ inconcepibile che un individuo in una società primitiva debba forzare la sua personalità per concedere il proprio corpo per una qualsivoglia relazione (inter)personale. Tutta la tribù è come un unico corpo… Una tribù non vive in modo che ognuno abbia un proprio territorio. Anche cani e gatti dormono insieme. La società contemporanea si regge su un forte senso di possesso del territorio. Tutti si separano. Tutti dormono nel proprio letto. C’è un tabù molto serio, anche se non considerato tale: non si deve dormire nello stesso letto. Se le persone dormono nello stesso letto, allora affettivamente qualcosa è uscito dal seminato. Non è possibile immaginare una tribù dove non si può giacere o dormire insieme, come cane e gatto giacciono insieme. (10)
Rilevante è, poi, il concetto di tribù come «corpo» (11) vivente che, come si evince dalla visione del film, rappresenta il corpo di Cristo. Probabilmente il film, se privato della figura di Cristo, non avrebbe nessun tipo di risoluzione; ciò è dimostrato in parte dalla figura del leader e, con maggior enfasi, dalla primitività degli hippy. Tuttavia, se l’intenzione del leader della comune è quella di creare «un’idra da una moltitudini di corpi umani» , per il regista il corpo di Cristo è, invece, un corpo «degradato, rozzo e traviato», rappresentato «nella sua variante orribile e primitiva che se non spaventa allora irrita, come ogni propaganda o ancora peggio come una provocazione sfacciata». Per gli hippy che vivono nel Tempio dell’amore la conoscenza del corpo di Cristo avviene soltanto nel momento in cui «si possiede la capacità di abbandonarsi e vivere tra le rovine e l’immondizia», sentendosi così «affini agli animali». Questo modo di vivere è efficientemente rappresentato in una delle prime scene del film: mentre uomini, donne e bambini sono riuniti attorno ad un calderone, ripartendosi le porzioni di cibo, una donna si rivolge al figlio piccolo dicendo: «mangiamo quello che ci manda Dio, siamo
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randagi. Siamo liberi come i cani e come loro non abbiamo bisogno di nulla per amare». È possibile, quindi, affermare come ogni relazione tra il corpo di Cristo e la comune vada ricercata nell’idea di un corpo antisociale e in una «cultura inumana e animale» (12). Andando più a fondo, Aristakisjan dichiarerà che la «cultura contemporanea è una sorta di preservativo»: Una pellicola di separazione tra tutti. Ma esiste un tipo di contatto che non si può sostituire con niente. E in questo genere di contatto non c’è bisogno necessariamente delle mani… Ogni persona è la continuazione del corpo di un’altra persona, non perché così hanno pensato e così hanno pattuito, ma perché dalla nascita è sempre stato così. Ma soltanto un estraneo non può sfiorare il loro corpo. In un altro ruolo la persona – che è di un altro ceppo – non può sfiorarlo perché è sconosciuto. E’ un estraneo. Il contatto… non è martirio, non è ascesi né yoga. Ma fa più paura del comunismo. Perché il comunismo era il tentativo forzato di mettere insieme tutti i contatti e di buttarli nel pentolone. (13)
A partire da queste osservazioni il regista sosterrà che il suo è un film «pericoloso» (14), poiché il vero obbiettivo è minare alla stabilità delle varie autorità, siano esse statali, culturali o sociali. Il film, mostrando allo spettatore persone giovani e belle che dormono con i mendicanti e gli storpi, cerca di abbattere assodati tabù psicologici presenti nella società e nella cultura contemporanea. Con molta probabilità tale provocazione verrebbe a mancare se il film avesse rappresentato la vita degli «eschimesi», anziché mostrare quella degli hippy, in quanto «tutto sarebbe regolare perché è così che vivono gli eschimesi» (15). Dichiara Aristakisjan: Scopo del film è quello di sfidare alcuni incrollabili tabù atavici, sensibilmente alimentati dalla televisione di massa e sedimentati in profondità nella coscienza collettiva. Nel film vengono mostrate persone sorprendentemente uniche, persino i minacciosi membri dell’OMON (forze speciali russe), inviati per distruggere e disperdere la comune hippy, sono unici: si comportano come poeti isterici e parlano per metafore. (16)
Nel film ciò che maggiormente infrange i codici culturali, radicati nell’attuale società, è la rappresentazione dell’atto sessuale consumato con persone diversamente abili, che allo sguardo dello spettatore appare come una sorta di «delitto». Tuttavia, fare sesso con uno storpio o con un mendicante, nella visione del regista, è un «privilegio dei santi, e questo tra il popolo si sa» (17). A destare ulteriormente scandalo è il superamento del concetto di fedeltà, che trova la sua raffigurazione nella storia d’amore tra il leader della comunità e la sua donna. Le prime parole pronunciate dall’uomo nel corso del film sono indirizzate proprio alla sua compagna: «Io e te impareremo», dice il guru, «a baciare e a fare l’amore con i poveri, nessuno li bacia mai». A
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partire da tali parole risulta evidente come all’interno della comune l’idea di coppia e di fedeltà vengano definitivamente a mancare. Ciò che il leader propone alla sua donna, come a se stesso e agli hippy, è un esperimento che per la maggior parte degli uomini sarebbe contro natura. Egli è come «una farfalla che sbatte contro un vetro, proponendo a tutti di fare la stessa cosa» (18). Più volte, infatti, l’uomo incita la comunità a donare il proprio corpo. «E’ l’istinto», dice il leader, rivolgendosi alla comunità: lasciatevi guidare dal corpo che è più vecchio, più saggio della nostra testa. Se a una persona tagliano tutte le parti del corpo, e gli rimane solo un troncone, si attaccherà comunque all’amore e cercherà di amare con quel troncone. Lasciate libero il corpo, sarà lui a indicarvi la strada. Dobbiamo ricordare questo istinto, l’abbiamo dimenticato. Dovete donare il vostro corpo. Se volete chiamatelo sesso, ma sarà un’altra cosa fondata sulla solidarietà nella disgrazia. Questo istinto non nasce dalla testa, viene dal contatto, nel momento della disgrazia.
Le parole dell’uomo, però, nel momento in cui verrà abbandonato dalla sua donna, appariranno agli hippy come le parole di un folle. La disgregazione sarà, dunque, inevitabile e questo porterà il leader a castrarsi. L’estremismo dell’atto sta a simboleggiare da una parte l’impotenza totale dell’uomo di fronte alla perdita totale del controllo e dall’altra sottolinea come, nella mancata unità della comune, il corpo tribale, e quindi il corpo di Cristo, venga automaticamente amputato. Il leader, attuando questo gesto folle, dimostra di essere non solo una vittima sacrificale, ma l’unico ad avvertire che la disgregazione della comunità rappresenti la morte di un corpo. Nel film l’unico personaggio che comprenderà ciò che gli viene insegnato è il cinese. Attraverso la figura della donna che lo inizia al sesso il giovane marinaio passa da uno stato infantile ad una condizione più matura, imparando così il significato dell’amore. Tuttavia, anche il non amare rappresenterà per lui una dura lezione, che pagherà con il sangue della mendicante che ha abbandonato. Proprio come il leader, anche Maria è una vittima sacrificale. Ella perirà per gli stessi ideali dell’uomo che ama, ma pagando un prezzo più alto: se da una parte l’uomo concentrerà i suoi sforzi solo ed esclusivamente nella comune, Maria, invece, diffondendo il verbo del leader al di fuori del Tempio dell’amore, dovrà vedersela con una realtà più vasta e crudele. Emblematica è la scena finale del film, nella quale Maria, tra l’indifferenza delle persone, si accascia su una scalinata, con i piedi ormai incancreniti. L’immagine straziante e commuovente è messa in scena nella sua totale crudeltà e violenza.
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Una scena del film su cui è necessario soffermarsi è, infine, quella del matricidio. Mentre la comunità dorme, una giovane madre canta una ninna nanna al proprio neonato; successivamente il piccolo, avvolto in una coperta, viene adagiato su un materasso. Nel frattempo che la donna riscalda una minestrina nella piccola cucina della comune, un mendicante, apparentemente sbronzo e assonnato, incurante della presenza del bambino, si lascia cadere sul letto, schiacciando così quel piccolo corpicino. Tornata nella stanza, la madre del bambino, alla vista dell’uomo, si rende conto immediatamente della tragedia appena accaduta; ella prende in braccio il neonato, ormai morto, e disperata corre in un’altra stanza. Il mendicante la segue ma, assalito dalla paura, viene colpito da un forte attacco di panico. La donna, che in un primo momento imprecava contro di lui, vedendo la reazione disperata dell’uomo, con grande sensibilità, cerca di calmarlo dicendo che la colpa non è sua, «ma era il bambino che era troppo piccolo», e lui non avrebbe potuto vederlo. Quella che ci viene mostrata in seguito è probabilmente una delle immagini più forti del film: la giovane madre, uscita dalla comunità con in braccio il cadavere del figlio, decide di liberarsene, seppellendolo nella cavea di un muro, che lei stessa coprirà con delle pietre. Per Aristakisjan questa scena costituisce un ulteriore tentativo di far crollare «gli stereotipi della cultura comune e sociale» (19). Per lo spettatore il matricidio, compiuto nel momento in cui ella si libera del corpo del neonato, è inaccettabile. Eppure, dichiara il regista, il gesto che spinge la madre a liberarsi in fretta del corpo del neonato avviene secondo un meccanismo punitivo, già presente nella «coscienza del mondo»: L’immagine del fattaccio risulta una falsa trappola per lo spettatore la cui cultura è abituata a vedere le apparenze, non a guardare dentro. In questo contesto che non ritrova nella cultura, la situazione appare allo spettatore come possibile. Il delitto e l’immediata liberazione del corpo del neonato risultano non nella superficie del mondo, dove si commettono gli omicidi, ma realizzano un meccanismo del lato invisibile del fatto, dove tutte le situazioni sociali (criminali) rappresentate dalla cultura possono essere corrette e rinnovate. (20)
Il lato invisibile dell’avvenimento è rintracciabile nel fatto che «la madre del bambino ucciso comincia a comportarsi come la madre dell’omicida», liberandosi del corpo del figlio attraverso una sorta di «istinto sconosciuto» (21), che la porta a credere di essere colpevole del fattaccio. Come è facile intuire L’ultimo posto sulla Terra ha suscitato numerose polemiche da parte del pubblico. Proprio per questo motivo appare degno d’interesse, tra i vari temi trattati da Aristakisjan nei suoi diari, quello relativo alla ricezione del film da parte dello spettatore.
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C’è una ragione fondata per attaccare il film, per la prima volta lo spettatore si è imbattuto in un cinema nel quale essi non esistono… questo è il cinema – la finestra sul mondo dei desideri – nel quale loro, la gente integrata in questa società, devono essere assolutamente presenti. (22)
Il motivo per cui lo spettatore non riesce ad identificarsi nel film è dovuto, in primo luogo, all’immaginario cinematografico a cui esso è in qualche modo legato, ed assai differente da quello che gli viene presentato ne L’ultimo posto sulla Terra. Ad un livello primario i processi di identificazione ed empatia in un film sono condizionati dal desiderio dello spettatore di veder riprodotti su pellicola i propri sogni, attraverso i volti di attori famosi e la rappresentazione di un mondo felice. Nel film di Aristakisjan, invece, lo spettatore può trovare soltanto «qualche materasso sporco sul pavimento di una casa diroccata e giovani sporchi e con i capelli lunghi». Tuttavia, dice il regista, ciò che gli spettatori non accolgono nel loro immaginario è la raffigurazione non dei cosiddetti rifiuti della società ma dei ragazzi «normali e belli», che vivono in quelle condizioni di degrado per scelte ideologiche. Per Aristakisjan gli hippy devono essere considerati come «un popolo apocrifo», ovvero un popolo che si nasconde e che viene tenuto nascosto. La società, probabilmente, accetta l’esistenza dei mendicanti nel film, ma rifiuta la visione degli hippy, in quanto non esiste una reale differenza tra questi ultimi e le persone considerate normali. Come dicono le persone normali? Sei un hippy? Non parleremo della tua ideologia. Tu mangi, come me. Dormi, come me. Fai sesso, come me. Di sicuro, a volte paghi per mangiare. Quindi non dire che sei diverso da noi. (23)
Tale approccio, ribadisce ancora il regista, fa credere alla società di «sapere tutto sugli hippy», etichettandoli come looser, ovvero perdenti incapaci di affermarsi nel sistema sociale. La raffigurazione di un mondo in cui la società non esiste provoca sicuramente nello spettatore una reazione di disagio, mettendolo nelle condizioni di non poter sviluppare un personale punto di vista sul film. Obiettivo di L’ultimo posto sulla Terra è evitare qualsiasi tipo di aspettativa intellettuale. Gli spettatori vanno al cinema perché vi sia qualcosa di cui parlare… Si aspettano che il film li intratterranno… Dopo il film Stalker, oppure i film di Sokurov, ad esempio, avranno la chance di brillare con doti intellettuali. Questo è il tipo di cinema che si aspettano, il cinema da salotto, quel cinema, quale in effetti è in quel caso, simile a un buffet; ma il buffet è lo spettro della propria gerarchia, un punto di passaggio tra il cinema e la loro vita personale.
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In base a tale prospettiva, oggi lo spettatore percepisce il cinema non più come un linguaggio nel quale realtà ed eventi vengono reinterpretati nella loro chiave simbolica, ma come una
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sorta di «divertimento in mezzo a una miriadi di altri» (25). Gli spettatori, dichiara Aristakisjan, sono «clienti sociali», e i «peggiori» tra essi sono coloro che credono di capire il cinema, o l’arte in genere, assimilando bulimicamente ogni cosa pur di sentirsi parte di un élite. Probabilmente un altro motivo per cui lo spettatore non riesce ad identificarsi con il film è l’indifferenza che gli hippy mostrano nei suoi confronti. «Tu li odi e loro lo sanno» (26), scrive Aristakisjan nei suoi diari, «ma loro non hanno bisogno della tua compassione». Ciò implica l’eventualità che lo spettatore rimanga senza nessuna coordinata percettiva. Il film, dal canto suo, non «lascia la possibilità di raggirare l’argomento»: Allora è difficile occupare una posizione di compromesso. Questo non è un film sui problemi sociali. La società è assente in questo film, non esiste. E’ un film non filosofico. Non vi sono le idee e le posizioni dell’autore. (27)
A rafforzare tale atteggiamento del film nei confronti dello spettatore è senza ombra di dubbio lo stile della messa in scena. Per certi versi, afferma il regista, il leader della comune di L’ultimo posto sulla Terra potrebbe essere paragonato al personaggio del film Gulliver nel paese di Lilliput (Gulliver’s travel, Peter R. Hunt, 1977), descritto anch’egli come un pazzo. A differenza di quello che accade nel film di Aristakisjan, però, nella rappresentazione di questo personaggio «viene dato come condimento un qualche sfondo: paesaggi lussuosi e costumi sciccosi» (28). L’esempio dimostra che a mancare in L’ultimo posto sulla Terra è il gusto dell’ornamento, di indubbia rilevanza per lo spettatore. Nessuno, sicuramente, vede nel film la bellezza dell’insieme di capelli lunghi, ma tutti inorridiscono di fronte al fatto che dei giovani mangiano degli avanzi. Eppure, se nel film ci fosse un’illuminazione speciale e la gente fosse ripresa su uno sfondo di cose multiforme e belle, tutti sarebbero contenti e direbbero: che riprese raffinate. Ma qui la gente accende il fuoco a terra. Quale bellezza deve esserci. Di fatto, il film non è in contrasto con i critici, ma con i modelli della cultura di massa. (29)
Lo spettatore è, dunque, impotente rispetto al film. Nonostante ciò, L’ultimo posto della Terra esorta all’azione, ma «quale?», si chiede il regista, proseguendo: «sarebbe meglio percepire un film non col pensiero, ma come i bambini percepiscono il disegno, affondandovi un dito» (30).
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Note
1. “Artur Aristakisjan: la vita nuda e cruda”, «Genova Mentelocale», intervista a cura di Francesca Baroncelli disponibile su http://genova.mentelocale.it 2. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. a cura di Antonio V. Marino Potenza, 2008. 3. “Robert Wyatt – Rock Bottom”, «Onda Rock», recensione a cura di Gaetano La Montagna disponibile su www.ondarock.it 4. Cinema nelle vene – Catastrofi e altri amori, a cura di Enrico Ghezzi, Fuori Orario in onda su Rai 3, 2008 5. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. a cura di Antonio V. Marino Potenza, 2008 6. Ibidem. 7. Atelier del cinema “Verità e bellezza”- Estratti dal dialogo tra Enrico Ghezzi e Artur Aristakisjan, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. a cura di Antonio V. Marino, Roma, Raro Video – Visioni Underground, 2009. 8. Dalle riprese video effettuate durante il Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. a cura di Antonio V. Marino, Potenza, 2008. 9. Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro VideoVisioni Underground, 2009, p.18. 10. Ibidem 11. Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro Video- Visioni Underground, 2009, pp.17-18. 12. Ibidem
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13. Ivi, p.17 14. Ivi, p.18 15. Ivi, p.6 16. Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro Video- Visioni Underground, 2009, p.19 17. Ivi, p.7 18. Ivi, p.20 19. Ivi, p.21 20. Ivi, p.25. 21. Ivi, p.26 22. Ivi, p.25-26 23. Ivi, p.12 24. Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro Video- Visioni Underground, 2009, p.12 25. Ivi, p.13 26. Ibidem 27. Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro Video- Visioni Underground, 2009, p.14
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28. Ivi, p. 15. 29. Ibidem 30. Artur Aristakisjan, Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, traduzione dall’inglese di Ernesto Evangelista, Roma, Raro Video- Visioni Underground, 2009, p. 16.
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#filmografia
La palma delle mani
L’ultimo posto sulla terra
Titolo originale: Ladoni
Titolo originale: Mesto na zemle
Titolo italiano: La palma delle mani
Titolo italiano: L’ultimo posto sulla Terra
Regia: Artur Aristakisjan
Regia: Artur Aristakisjan
Soggetto: Artur Aristakisjan
Soggetto e Sceneggiatura: Artur Aristakisjan,
Testi: Naum Kaplan
Irina Shubina
Operatore di macchina: Artur Aristakisjan
Operatore di macchina: Artur Aristakisjan
Direttore della fotografia: Artur Aristakisjan
Direttore della fotografia Andrej Trojtzkij
Montaggio: Artur Aristakisjan
Montaggio: Natalja Tapkova, Natalija Sazhina
Musiche: Giuseppe Verdi
Musiche: Robert Wyatt
Produzione: Moskov Film School (VGIK)
Interpreti principali: Anna Cernova, Vitalij
Nazionalità ed anno: Moldavia, 1994
Chaev, Nonna Grishaeva, Inna Verbitzkaja, Ro-
Durata: 139 minuti
man Atlasov, Tatjana Kuznetova. Produzione: Hoboe KNHO Nazionalità ed anno: Russia, 2001 Durata: 121 minuti
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#bibliografia
• Aristakisjan A., Frammenti del diario del regista – riflessioni in merito alla realizzazione di L’ultimo posto sulla terra, tr. it. a cura di Evangelista E., Roma, Raro Video - Visioni Underground, 2009. • Bompiani M., Artur Aristakijan al Laboratorio Probabilie, La repubblica, 20 Dicembre 2008. • Chion M., La voix au cinéma, (1981), tr. it. La voce nel cinema, a cura di Fontanelli M, Pratiche, Parma, 1990. • Douglas M., Natural symbols. Explorations is cosmology, New York, Rotledge, 1996. • Direzione della Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro, a cura, Il cinema delle Repubbliche Transcaucasiche Sovietiche, Venezia, Marsilio Editore, 1986. • Metz C., L’Enonciation impersonelle ou le site du film (1991), tr. it. L’enunciazione impersonale, a cura di Sanna A., Cosenza, Editoriale Bios,1992. • Padmasambhava, Bardo Thodol, (1975), tr. it. Il libro tibetano dei morti, a cura di Fremantle F. e Trungpa C., Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore, 1977. • Rapetti S., “Il sistema Gulag 1918-1991- Jaques Rossi e il suo straordinario registro della memoria”, in Storie di uomini giusti nei Gulag, Nissim G.M, a cura, Milano, Paravia Bruno Mondandori Editori, 2004. • Shumakova A., “Il cinema d’autore dell’era Putin”, in Spagnoletti G., a cura, Cinema russo contemporaneo, Pesaro, Marsilio, 2010. • Spagnoletti G., Cinema russo contemporaneo, a cura, Pesaro, Marsilio, 2010. • Vanoye F. e Goliot-Lété A., Précis d’analyse filmique, (1992), tr.it Introduzione all’analisi del film, a cura di Buzzolan D., Torino, Lindau, 2002.
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#web e video
Sitografia • Baroncelli F., Artur Aristakisjan: la vita nuda e cruda, 2008: . • Olivieri A., Un posto sulla terra: . • Artur Aristakisjan, lo zar della realtà, «El Amante», a cura, (2001), tr. it. a cura di Tavolaro F, 2007: . • Intervista con Artur Aristakisjan, a cura di Fumagallo M., 2008: . • Un posto sulla terra e Artur Aristakisjan a Ravenna,2008: . • Fantozzi M.,Un altro tipo di amore, 2010: . • Scaringi F., Il cinema di Artur Aristakisjan, 2008: . • Materialismo dialettico, a cura di Bibilioteca marxista: .
Registrazioni Video
• Workshop di cinema “Verità e Bellezza”, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. Marino A.V., a cura. Potenza, 2008. • L’anima e la carne, conversazione tra Artur Aristakisjan ed Enrico Ghezzi, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. Marino A.V., a cura, Roma, Raro Video – Visioni Underground, 2009. • Atelier del cinema “Verità e bellezza”- Estratti dal dialogo tra Enrico Ghezzi e Artur Aristakisjan, a cura della Noeltan Film Studio, tr. it. Marino A.V. Roma, Raro Video – Visioni Underground, 2009.
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© 2013 Tutti i diritti riservati Pubblicato nell’Aprile 2013 da (Cine)Visioni Magazine www.cinevisionimagazine.com e mail: [email protected]
“Figliolo riesci a sentirmi? Io, tuo padre posso parlarti. Perché ci sono cose di cui nessuno ti parlerà mai. Ti porterò in città. Non dovresti essere triste. Tutto è divino nella natura, e mi spiace di averci messo tanto a capirlo.”