Antrocom: Journal of Anthropology, Vol. 7 9781463235413

AOJA is an multilingual European project that collect studies in the fields of physical and cultural anthropology, and o

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Antrocom: Journal of Anthropology, Vol. 7
 9781463235413

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ANTROCOM J O U R N A L OF A N T H R O P O L O G Y

Antrocom: Journal of Anthropology Volume 7, 2011

Editor in chief Marco Menicocci, Antrocom Onlus

Associate Editor Moreno Tiziani, Antrocom Onlus

Editorial Board Ahmed Sheikh Mashhood, Moreno Tiziani

International Referees Emiliano Bruner, Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana, Spain Lorenzo Brutti, Musée du Quai Branly, CNRS, France Sandra Busatta, Hako Magazine, Italy Ignazio E. Buttitta, University of Sassari, Italy Nicola Carrara, University of Studies of Padua, Italy Irene Fabbri, National Institute for Research on Food and Nutrition, Italy Lucia Galasso, Museo della Civiltà contadina e dell'Ulivo, Pastena (Fr), Italy Spartaco Gippoliti, Italian Institute of Anthropology, Italian Theriological Association, Italy Maximiliano Korstanje, University of Palermo, Argentina Krishan Kewal, Pan) ab University, Chandigarh, India Roberto Maggi, University of Genoa, Italy Claudio Ricciardi, Health Superior Institute, Italy Emaj Uddin, University of Rajshahi, Bangladesh

Antrocom: Journal of Anthropology is the official publication of Antrocom Association for the Anthropological Research and Divulgation. It publishes original notes and reviews concerning Anthropology, open both to cultural and to anthropology, and to the correlated disciplines, with a particular attention interdisciplinary approaches.

Author guidelines are available at www.antrocom.net

On the cover: Hunter, Saltadora Cave, Barranco de la Valltorta, Castellón (Spain)

Onlus, articles, physical towards

ANTROCOM JOURNAL OF ANTHROPOLOGY

Volume 7 2011 Edited by Marco Menicocci

A publication of Antrocom Onlus, Association for the Anthropological Research and Divulgation Rome, Italy

Co-Published by

Qwgtas

r, prtss ÖP

© 2 0 1 1 Antrocom Onlus All rights reserved under International and Pan-American Copyright Conventions. No part of this volume may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopy, recording, or any information storage and retrieval system, without prior permission in writing from the publisher, Antrocom Onlus (Rome, Italy), and the copublisher, Gorgias Press LLC. All inquiries should be addressed to Antrocom Onlus (Rome, Italy).

Co-Published by Gorgias Press LLC 954 River Rd. Piscataway, NJ 08854 USA Internet: www.gorgiaspress.com Email: [email protected] ISBN 978-1-4632-0212-5 ISSN 2160-4223 This volume is printed on acid-free paper that meets the American National Standard for Permanence of paper for Printed Library Materials. Printed in the United States of America

Antrocom: Journal of Anthropology is distributed electronically free of charge at http://www.antrocom.net. To receive automatic notices of reviews by email as they are posted on Antrocom website, readers are invited to subscribe the RSS feed. Readers are welcome to write articles and reviews, open both to cultural and to physical anthropology, and to the correlated disciplines, by sending an email message to the Editor in Chief ([email protected]).

Antrocom Journal of Anthropology 2011, Vol. 7

Table of Contents Antrocom, Journal of Anthropology 2011, Vol. 7 , 1 Marco Menicocci

- I re tragici di Israele - Sul rapporto tra Athena e Medusa

Igor Baglioni Bibiaghdas

Asghari & M. Annapurna

Alessandro

Testa

Edward

Dutton

Chandima

- Micro-etnografia

Singh

Institute or Royal Academy?

35 45

- The Rebellion in Heaven L. Bhaskar, S. Madhubala

& V. Raghavendra

Flavia Busatta

B. Chandra

Antrocom,

Journal

Vokendro

and Sapam Chanu Phareda —

of Anthropology

Sachdev

Dan E. Houser, Subhash

Chandra Verma

Michele

F. Fontefrancesco

Mercedes

Tribe groups

125 133

— Gender Inequality as Cultural Diversity

137

— The Struggling Tharu Youth

149

— To Be a Valen^ano. When jewellery production is local identity

159

— Former British Colony. Mauritians in the Face of Globalisation

Saizar

Y. S. Kusuma

119

— Perceiving Pain: Health, Culture and RJtual.

and L. R. Baker

115

-

removes PCR inhibitors from Ancient DNA extract.

Gerald W. Zamponi

L. A. Cormier,

105

of Homos and Normal Meiteis of Manipur 115-118

- Prevalence of hypertension and associated risk factors amongNomad

S.Jones,

Sylvie Maurer

Rao -

2011, Vol. 7, 2

R. K. Pandey, D. P. Singh, G. Sudhakar and V. R. Rao Ethanol re-precipitation

91

Ray & V. Raghavendra

of PARKIN Gene in Ten Indian Populations

A Comparative Study on the Dermatogjyphic

Bandana

87

- Obesity, Diabetes and the Thrifty Gene

Single Nucleotide Polymorphism

Haobijam

79

- Natural Selection Intensity in Settibaija

J. Sanyal, L. Bhaskar, A. Chatterjee,

75

Rao -

Appraisal of Risk Factors for Diabetes Mellitus Type 2 in Central Indian Popolation Deva Prakash & Godi Sudhakar

59 65

- Secondary Burial of the Chakpa Lois of Phayeng Village, Manipur, India

S. Bandyopadhyay,

19 31

- Does Indigenous Knowledge have Anything to Deal with Sustainable Development'?.

Korstanje

R. Lakshmi,

notturna

- "One Culture — Many Perspectives".

Ashok Das Gupta Maximiliano

15

- Contrastive Study of "Time" in Iranian-Indian Mythology

- Royal Anthropologica

Daskon

Hoabijam

1

167

— The Ideas of God, Good and Evil in the Refigured Yoga Practices

177

and B. V. Babu —

An Ethnographic Note on Khondh, a Primitive Tribe and 1/almiki, an Acculturizing Marco Menicocci

— II linguaggio della vagina: Pornoantropologia

1

Tribe

183 187

Antrocom Journal of Anthropology 2011, vol. 7. n. 1

M. Menicocci — I Re tragici dì Israele

History of Religions

1 - 13

I Re tragici di Israele La narrazione delle origini della monarchia in Israele come problema storico Marco Menicocci

Una questione metodologica: leggere i documenti Nell'analisi dei documenti antichi la Storia delle religioni ha scelto sovente di leggere questi documenti come testimonianze di realtà storiche religiose di epoche anteriori a quella dei documenti stessi. Alla base di una simile scelta c'era l'implicita convinzione che la religione fosse un prodotto culturale statico, dotata di un naturale conservatorismo, per cui il complesso dell'universo religioso di una certa epoca tendeva, così si riteneva, a prolungarsi nelle epoche posteriori con mutamenti minimi. In questo modo un documento di una certa epoca che si riferiva ad un'epoca anteriore era facilmente interpretato come una valida testimonianza su quest'epoca anteriore. Si tratta certo di una scelta che ha certo una sua legittimità e che ha conseguito indiscutibili successi. Si tratta però anche di una scelta che ha dei limiti e che è anche discutibile sul piano metodologico. L'alternativa, che appare metodologicamente più corretta, quando ci si attiene alle fonti, è di considerarle documentarie soltanto per la loro epoca. Quando si riferiscono ad epoche anteriori, la loro testimonianza è valida non per ciò che ci tramandano ma per l'intenzione, il giudizio, lo scopo di chi ci ha trasmesso il testo (Sabbatucci 2003: 269-273). Ciò che le fonti testimoniano è, infatti, un oggettivo momento storico: quello in cui una persona dotata in qualche modo di rappresentatività culturale assume l'incarico di mettere per iscritto un messaggio il cui scopo è contribuire alla fondazione di valori di una certa cultura. Questo è vero anche nel caso in cui la fonte è costituita da un singolo soggetto, quando, cioè, potrebbe apparire legittimo il dubbio di una testimonianza occasionale. Anche in questo caso, infatti, il soggetto che redige il documento si richiama a un insieme di valori e codici che appartengono alla sua cultura e che quindi rendono esemplificativo anche quel documento. Infatti chiunque abbia riportato una testimonianza di qualche tipo - una poesia, una variante mitica, una ricostruzione storica, la narrazione di un evento e così via — e dunque abbia pubblicato, nel senso di rendere pubblico, qualcosa, lo fa sempre con qualche grado di pubblica rappresentatività: rappresenta quindi un aspetto del carattere di una certa epoca. Persino una narrazione orale, per quanto occasionalmente narrata, nel momento in cui viene messa per iscritto acquista un simile valore rappresentativo, poiché è chiaro che non tutte le narrazioni orali sono state fissate per iscritto e quando ciò avviene non avviene certo a caso: qualcuno deve aver ritenuto tale narrazione importante per qualche motivo che trascende, dunque, l'occasionalità iniziale. Se un simile discorso vale per i documenti di un singolo autore, a maggior ragione avrà valore per quei prodotti culturali, come ad esempio l'Antico Testamento, che sono il risultato di una redazione deliberata, operata da qualche tipo di specialisti della cultura, quali ad esempio i sacerdoti. Anche in questo caso un documento può attestare soltanto il momento in cui è stato redatto, anche se fa riferimento ad epoche anteriori. Eppure proprio l'Antico Testamento, per una serie di condizionamenti culturali, è stato sovente letto dagli studiosi come una testimonianza su effettive realtà storiche anteriori. Si è cercato cioè di utilizzare l'Antico Testamento quale fonte per ricostruire i caratteri culturali dell'area nel periodo tra l'inizio del primo millennio a. C. e la metà dello stesso millennio, dunque prima della redazione dei testi quali sono giunti oggi sino a noi. La possibilità di operare confronti con la documentazione archeologica, la corrispondenza con documenti del periodo provenienti da altre culture, la presenza nello stesso Antico Testamento di materiali di età assai anteriore a quello in cui è stato materialmente redatto, hanno confortato questa scelta interpretativa. Non si vuole qui negare la legittimità di queste letture1 e tanto meno di negare tale possibilità in assoluto. Occorre però rendersi conto che in questo modo si perde il senso che, degli eventi narrati, hanno voluto dare i redattori. Cercando testimonianze di eventi precedenti l'Antico Testamento viene ridotto a una collezione di lezioni e varianti e si smarrisce il senso organico e unitario della testimonianza. La tentazione in cui si cade è quella di leggere il testo biblico per cercare di ricostruire i passi originari, le versioni primigenie che lo compongono e che sarebbero state unite soltanto posteriormente. Mostrare il carattere composito del testo, rintracciare le diverse tradizioni che lo compongono, presentare le antichissime origini delle varie versioni che coesistono nel testo giunto sino a noi è sembrato, e per certi versi, sembra ancora, il compito dello storico, quasi che il problema storico consista nel cercare 1

Per citare solo un'opera di riferimento: De Vaux R. 1977: Le istituzioni dell'Antico Lestamente, Marietti, Torino.

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M. Menicocci — I Re tragici di Israele

di recuperare ciò che è originario, primigenio. L'Antico Testamento ha però un'unità che trascende le diverse fonti. Se è indubitabile che esso si presenti come il risultato di una stratificazione culturale, che in esso siano presenti varie fonti precedenti, resta che quella stratificazione non è casuale e che quelle fonti sono state unificate in una sintesi organica. Il vero problema storico, dal punto di vista di una storia delle religioni che voglia essere realmente storia, è ricostruire il senso e le motivazioni di questa unificazione e non cosa quelle tradizioni insegnino su quel che era prima dell'unificazione. Il problema e le ipotesi di lavoro Scopo del presente lavoro, che è scritto da un non specialista e che ha, quindi, solo un carattere sperimentale o di suggerimento, è quello di provare a ricostruire l'origine della monarchia in Israele secondo quanto hanno voluto significare i redattori del testo biblico. Per questo motivo il testo considerato, sostanzialmente una parte del libro dei Giudici e i libri di Samuele, è stato trattato come un documento unitario, redatto secondo un'intenzione da parte degli autori, verosimilmente esponenti della classe sacerdotale 2. Senza pretendere, pertanto, di ricostruire le varie tradizioni e varianti e lezioni precedenti cui i redattori hanno certo fatto riferimento, abbiamo scelto di leggere il testo, secondo i criteri metodologici precedentemente esposti, come un prodotto unitario rispondente a esigenze coerenti. Il nostro scopo non era di cercare di risalire ad una eventuale realtà fattuale delle origini della monarchia (realtà magari sui cui cercare poi conferme da altre fonti o da corrispondenze archeologiche) bensì di portare alla luce il senso e la logica del discorso sacerdotale. Non si è trattato, cioè, di narrare le origini della monarchia come fatto storico ma di comprendere come i redattori hanno voluto intendere le origini della monarchia; allo stesso modo non si è trattato di stabilire se la negromante di Endor testimoniasse o meno la presenza di pratiche di negromanzia nell'antico Israele, bensì di comprendere il motivo per il quale i redattori hanno scelto di utilizzare proprio la negromante nel contesto di Saul. In sintesi, l'oggetto dell'indagine non sono stati i fatti narrati ma il motivo per il quale i fatti sono stati narrati a quel modo. Per questo motivo personaggi ed eventi sono stati considerati solo come segni di un codice da ricostruire. A sua volta ogni evento-segno è stato considerato interpretabile solo all'interno di un contesto. Abbiamo pertanto enucleato alcuni cicli narrativi, senza alcuna pretesa di completezza (ricordiamo che quello tentato è solo un esperimento) proprio per evidenziare come tramite essi si dipani un disegno unitario e coerente, la cui comprensione è possibile solo tenendo presente l'intero complesso narrativo. Per realizzare tutto ciò è stato necessario lavorare sulla base di alcune ipotesi storiografiche che conviene esplicitare: la prima, ormai accreditata dagli specialisti, che la redazione dei libri della Bibbia presi in considerazione sia avvenuta, pur sulla base di materiale preesistente, dopo la liberazione dai babilonesi. La seconda, che nel disegnare le origini della monarchia in Israele i redattori si siano confrontati non con un generico ed astratto modello dinastico ma con due precisi e noti modelli: quello achemenide-persiano, cui si doveva la liberazione e per azione del quale, in fondo, Israele stesso era nato; e quello egiziano, che come primo modello dinastico in assoluto era un punto di riferimento imprescindibile. La nostra tesi è che la cultura ebraica, in quanto tale, abbia avuto effettivamente origine solo dopo l'azione persiana e che la classe sacerdotale ebraica, cioè quella classe che si è fatto carico del compito di costruire la cultura di Israele, abbia proiettato nel passato le origini dell'identità di Israele al fine di disegnarla secondo un preciso progetto, nel quale l'elemento decisivo è costituito dallo stretto collegamento con Yhwh. E infatti la vittoria della monarchia persiana, che in qualche modo si presenta come universale, che produce le condizioni per la formazione autonoma della cultura ebraica3. Queste condizioni sono così riassumibili: 1) nella letteratura profetica (a sua volta condizione per un'organizzazione ierocratica, sacerdotale, non monarchica nel territori di Israele); 2) in un coerente corpo di testi che va a costituire un canone e che si vuole sia il risultato di una rivelazione divina; 3) nella tendenza alla monolatria, se non al monoteismo. Al momento della redazione del corpus di scritti che abbiamo preso in esame, libro dei Giudici e libri di Samuele, sia la formazione del canone sia la monolatria sono solo tendenze e l'analisi di questi testi è interessante anche perché consente di cogliere sul formarsi entrambe queste tendenze.

1 - I cicli delle premesse incomplete Il ciclo del re che non può essere: Gedeone Israele sta costruendo il suo spazio e la sua identità, sta costruendo il suo cosmo. In via provvisoria possiamo dire che occorre passare da uno stato di precosmo ad uno di ordine. Questa costruzione coinvolge la cultura di Israele, in particolare la scelta di Yhwh come simbolo distintivo e qualificante in modo esclusivo, la sua struttura sociale e lo spazio che questo popolo potrà considerare proprio. Per ora Israele ha solo delle distinzioni territoriali, le tribù, ciascuna largamente autonoma, con delimitazioni spaziali sempre a rischio a causa dei popoli vicini. L'unità di Israele è, pertanto, tutt'altro che stabilita, le sole autorità essendo quelle, di carattere locale, dei giudici. Non esiste ancora un'unità, un centro di Israele e la sua stessa esistenza sul piano culturale è ancora da venire, poiché la continua 2 Wesselius Jan-Wim 2002: The Origin of the Histoty of Israel, Sheffield Acaemic Press, Sheffield. Secondo quest'autore i primi nove libri dell'Antico Testamento, dalla Genesi a sino a Re 2 sono stati scritti come opera unitaria in un periodo tra il 440 e il 420 a. C. 3 Grottanelli C. 1999: Rings and Prophets, Oxford Univ. Press, New York-London; pp. 3-9.

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M. Menicocci — I Re tragici dì Israele

penetrazione di divinità straniere all'interno di quello che è per adesso il mal definito cosmo israelita mette in discussione proprio il simbolo distintivo di Israele: Yhwh. Spetterà a Gedeone (Gdc. 6, 8) compiere un passo verso questa definizione. La condizione di Israele all'inizio della chiamata di Gedeone da parte di Yhwh è presentata dai redattori come drammatica. Una crisi di carattere cosmico rischia di travolgere Israele e cancellare la sua stessa realtà, diremmo politica e culturale. Yhwh è infatti adirato contro Israele e popoli stranieri signoreggiano sulla sua terra. Come le cavallette hanno colpito l'Egitto, così nemici numerosi come cavallette spadroneggiano ora su Israele. Gli israeliti sono costretti a vivere nelle caverne e sui monti e le loro coltivazioni sono preda dei madianiti, che giungono al momento del raccolto per razziare tutto, portando via raccolto ed animali. I madianiti sembrano voler imporre agli israeliti una forte regressione, cancellando la possibilità del viver civile nelle città e la possibilità di usare l'agricoltura e l'allevamento a scopo alimentare. In altre parole pesa su Israele la minaccia di una crisi totale: sono a rischio le sue basi economiche e civili, e Israele sembra respinto verso la dimensione del selvatico, del pre-civile, della natura. Al rischio della cancellazione sociale corrisponde poi quello della deculturalizzazione totale: gli israeliti hanno adottato divinità straniere che hanno soppiantato il culto di Yhwh. Questo significa che la cultura di Israele, che distingue questo popolo dagli altri, è minacciata dall'invasione di una cultura straniera. Sia sotto l'aspetto culturale che sotto l'aspetto sociale Israele sta per dissolversi. Questa situazione di precarietà che Israele attraversa dura ormai da sette anni. Il numero sette sembra indicare una certa completezza nella situazione di partenza: un ciclo sembra esser compiuto e si apre la possibilità di un'azione che produca il cambiamento. Soggetto dell'azione è Gedeone: a lui spetta di radunare alcune delle tribù di Israele e sconfiggere gli avversari. Prima di intraprendere azioni militari, però, Gedeone deve operare culturalmente e distruggere, seguendo l'ordine del messaggero di Yhwh, l'altare di Baal sostituendolo con uno di Yhwh. Baal è un dio straniero e abbatterne l'altare è un modo per iniziare a delimitare i confini culturali di Israele, togliendo di mezzo i concorrenti divini di quello che è il simbolo identificante di Israele: Yhwh. Tuttavia all'epoca di Gedeone Israele non è ancora completo e dunque neanche Baal è totalmente estraneo, tanto che Gedeone è costretto ad abbatterne l'altare di nascosto, per timore di reazioni popolari. Il giorno dopo, infatti, la popolazione chiede al padre di Gedeone di consegnarli il figlio per fargli pagare la colpa del suo atto empio. Poiché Israele ancora non esiste pienamente come tale, il ricorso a Baal è ancora legittimo e quindi abbattere l'altare di questo dio equivale ad una colpa che qualcuno deve pagare. Ma proprio il fatto che ormai l'altare non c'è più ha cancellato la possibilità che il gesto possa essere considerato sacrilego: senza culto (consentito dall'altare) non c'è dio. Prima del gesto di Gedeone Baal era interno ad Israele ma ora, dopo che questi ha abbattuto l'altare, e proprio grazie al gesto, Baal è diventato straniero. Non a caso quando l'altare è in piedi, e quindi con Baal interno ad Israele, Gedeone ha timore ed opera di notte, mentre ora che l'altare è abbattuto è possibile ironizzare sul dio. La questione è infatti risolta dalle parole irrisorie del padre di Gedeone: "sìa Baal stesso a vendicarsi di chi ha abbattuto il suo altare". Da quel momento Gedeone sarà chiamato Iarub-Baal, che significa "Baal difenda la sua causd\ Quello che era un titolo onorifico a un dio (ora) straniero è rovesciato e trasformato in titolo per un israelita. Recuperata l'identità culturale di Israele, Gedeone può agire militarmente e convocate le forze di alcune tribù, sconfigge i madianiti con una serie di campagne espellendoli dallo spazio di Israele. Il rischio cosmico che lo minacciava è ora superato anche se il nuovo livello di realtà non è ancora definito. Per quanto l'azione di Gedeone abbia avuto successo si tratta ancora di un successo precario; in qualche modo Israele è lungi dall'esser "completo" e il redattore biblico non manca, lo vedremo, di sottolineare l'incompletezza di questa azione. Le campagne vittoriose di Gedeone consentono di delimitare, cosmicizzandolo, lo spazio di Israele. Ora, l'azione di cosmicizzare lo spazio è l'azione che potrebbe esser propria di un re e non a caso il redattore biblico introduce nemmeno tanto scopertamente il tema regale ancor prima dell'offerta rivolta dal popolo a Gedeone di diventare re. Quando ha catturato i due re madianiti, Zebach e Zalmunna, che avevano ucciso i suoi fratelli, Gedeone chiede loro come erano gli uomini uccisi dai sovrani madianiti. Il senso di questa strana domanda diventa chiaro alla risposta dei due sovrani: gli uccisi, i fratelli di Gedeone, erano come Gedeone stesso ed avevano l'aspetto di un figlio dì re. I fratelli di Gedeone, chiaramente, appartengono alla sua stessa generazione: Gedeone è pertanto nella posizione di essere lui stesso figlio di re. Il figlio di un re diverrà re soltanto alla morte del re padre ma Gedeone non ha un padre re: a quell'epoca Israele non ha ancora un re. Gedeone è quindi un re in potenza ma non può esserlo in atto. Questo spiega il suo rifiuto all'offerta di assumere la carica regale. I redattori del testo conoscevano certo bene il modello dinastico egiziano basato sulla struttura della catena dinastico re-erede. Presentando Gedeone come figlio, e quindi come erede, hanno deliberatamente vanificato il modello originario dinastico mostrando che, nella sua formulazione egiziana, il modello non poteva essere applicato ad Israele. Per potersi trasferire in Israele il modello dinastico egiziano dovrà subire dei cambiamenti e complicare la sua struttura a due elementi (re-erede) in una struttura a tre elementi: Yhwh-re-erede. Torniamo a Gedeone: anche se non può essere il continuatore di una dinastia (è erede senza un re-padre da cui ereditare), potrebbe però essere il fondatore di una dinastia propria. Ma i redattori hanno voluto escludere anche questa possibilità. Per poter iniziare una dinastia occorre avere dei figli e effettivamente a Gedeone non mancano certo i figli. Si tratta però di figli in qualche modo tutti incapaci, privi della capacità di agire e cosmicizzare propria di un re e dunque inabili a diventare personaggi regali 4 . Questa incapacità è rivelata in modo emblematico dal primo figlio citato dal narratore, Iter: Gedeone gli ordina di uccidere i sovrani madianiti ma, poiché troppo giovane e timoroso, Iter non riesce a compiere il gesto. Timore e incapacità di agire sono il contrario di ciò che è proprio di un re: 4 Per fondare una dinastia, inoltre occorre un erede mentre Gedeone ne ha settanta tra i quali non vengono operate distinzioni di privilegio: decisamente troppi

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M. Menicocci — I Re tragici dì Israele

quello del re audace, potente, spietato, vittorioso, attivo è un tema noto e diffusissimo nell'area culturale del Medio Oriente e presentando il figlio di Gedeone come incapace di adeguarsi a questo tema, incapace persino di portare a compimento una legittima vendetta di sangue, i redattori biblici hanno voluto significare l'impossibilità, per Gedeone, di avere un erede regale. Spetterà proprio a Gedeone ubbidire all'ordine che lui stesso aveva dato al figlio e sarà lui a uccidere i due madianiti. Così, dopo aver agito da re pur essendo solo figlio durante le guerre, ora Gedeone è costretto ad agire come figlio in luogo del suo proprio figlio. Dopo aver invaso il livello superiore di una (inesistente) generazione regale ora Gedeone invade il livello inferiore della sua discendenza. Incapace di assumere una giusta prospettiva dinastica, Gedeone confonde le generazioni. Non è dunque adatto ad essere un re, e i redattori biblici gli fanno rifiutare l'offerta.

Il ciclo del re senza dio: Abimelech Gedeone esce di scena dichiarando che la regalità non spetta a lui ma spetta a Yhwh. Potremmo dire che la regalità non può essere umana ma solo divina. Del resto in Egitto, per riprendere ancora il modello egiziano, il re era dio ed era dio proprio perché era re. Per distinguersi dal modello egiziano, Israele deve operare una dissociazione tra la regalità e la divinità e distinguere tra re e Yhwh, attribuendo la qualità divina al solo Yhwh. Questa attribuzione è portata alle estreme conseguenze, escludendo non solo la divinità del re ma di qualsiasi altro dio: Yhwh è l'unico dio e la monolatria tendenziale di Israele, che si è formata intorno al VI secolo, si trasformerà presto in monoteismo. Come vedremo questa dissociazione tra regalità e divinità avverrà attribuendo a Yhwh l'autorità di costituire i re: un re, in Israele, sarà tale solo per diritto divino. Per ora ai redattori preme però di vanificare un'altra possibile modalità di costruzione della monarchia: quella di una monarchia priva di rapporto con la divinità e basata unicamente sul criterio della funzionalità ed efficienza. Lo esemplifica il caso di Abimelech (Gdc. 9). Costui è figlio di Gedeone e di una concubina e dunque si trova in posizione di inferiorità rispetto ai settanta figli legittimi di Gedeone che, lascia capire il testo biblico, governano Israele alla morte del padre. Presentandosi davanti al popolo Abimelech prefigura l'alternativa tra l'efficienza di un governo monarchico in senso letterale, di uno solo, e quella di una quasi anarchia con un potere disperso tra settanta eredi, numero che indica in questo contesto un eccesso. Facendosi aiutare dai parenti materni, Abimelech si fa incoronare re e uccide tutti i figli legittimi di Gedeone, tranne uno. Questa incoronazione, che si richiama a criteri di efficienza, avviene fuori da qualsiasi rapporto con la divinità. Del resto Yhwh ha interrotto il suo rapporto con Israele o forse lo hanno interrotto gli israeliti, che gli hanno voltato le spalle tornando a costruire luoghi di culto per Baal-Berit. Fatto sta che il rapporto Israele-Yhwh è per ora interrotto e non può pertanto essere Yhwh ad elevare Abimelech alla carica di re. Poiché Gedeone non è re, nessuno dei suoi figli per linea maschile può esse re: i redattori scelgono allora di percorrere la possibilità di una linea femminile. Anche qui è implicita una contestazione del modello dinastico egiziano, che prevede il matrimonio preferenziale del faraone con la sorella, proprio al fine di cancellare una possibile discendenza regale femminile diversa ed opposta a quella maschile. Sposando la sorella, ogni discendenza del faraone rimane infatti all'interno della linea maschile, il che è coerente con la necessità egiziana di affermare, per il sovrano, l'esistenza del solo rapporto di discendenza padre-figlio. Dal punto di vista egiziano l'erede del faraone è figlio solo del padre. Con Abimelech i redattori biblici introducono la variabile femminile per mostrare l'illogicità (dal loro punto di vista) del modello originario egiziano: nessuno nasce solo dal padre e anzi un figlio è soprattutto figlio della madre. Ad ogni modo, si è visto, Abimelech elimina gli oppositori, i quali, a testimonianza del carattere di "incapacità" che perseguita i figli di Gedeone, e che abbiamo già notato a proposito di Iter, spariscono senza che i redattori si degnino anche solo di accennare ad una qualche resistenza. L'unico scampato alla strage si chiama Iotam, che significa l'orfano. Già nel nome rivela l'impossibilità di poter essere considerato valido come erede regale: un orfano, che non ha padre, non può essere erede di un padre-re che non ha. Anche lui, del resto, manifesta il carattere di passività proprio dei figli di Gedeone. La sua reazione, infatti, si limita alla narrazione di una specie di apologo: tutti gli alberi decidono di darsi un re e di volta in volta propongono ad un singolo albero (olivo, fico, vite) di diventare re. Tutti respingono l'offerta, ciascuno richiamandosi alla necessità di svolgere i compiti propri della sua specie (dare olive, fruttificare, offrire uva). Diciamo che gli alberi, per rifiutare la monarchia, si richiamano proprio a quel criterio di funzionalità che Abimelech ha accampato come sua giustificazione. Ad accettare il titolo è il rovo, che invitando tutti gli altri a ripararsi sotto la sua propria ombra, chiaramente minima, rivela la sua inutilità funzionale, mentre minacciandoli con il fuoco rivela la sua pericolosità. Si tratta di una minaccia che i redattori biblici illustrano alla lettera: Abimelech soffoca una rivolta degli abitanti di Sichem, la sua città, bruciando la torre di Baal-Berit ove si erano rifugiati i suoi oppositori. Il ricorso al fuoco è un sotterfugio che consente ad Abimelech di eliminare gli avversari nascosti in un luogo sacro senza incorrere nel sacrilegio di spargervi direttamente il sangue. In ciò, pur distruggendo un tempio di Baal, si comporta in modo opposto a Gedeone. Mentre costui aveva abbattuto un altare di Baal per far posto a Yhwh, e quindi per espellere Baal dalla cultura israelita, Abimelech brucia la torre per cancellare degli uomini. A lui non interessa agire contro Baal, interessa agire contro degli uomini ed anzi compie il gesto in modo da non attirare le ire di Baal per il sacrilegio. Lo scrupolo religioso di Abimelech rivela che nella sua monarchia, a differenza dell'epoca di Gedeone, c'è spazio anche per Baal. Infine, laddove Gedeone è in grado di costruire, e infatti contribuisce alla costruzione di Israele, l'efficiente Abimelech è in grado solo di distruggere. L'efficacia di Abimelech si è rivelata solo una finzione. Per questo motivo la cancellazione della torre del dio straniero non gli porta alcun vantaggio. Re di Sichem, Abimelech distrugge la sua città rivelando di comportarsi come un re al contrario. Muore colpito da una macina lanciata da una donna: uno strumento di pace, efficace, elimina un re inefficace, così come una

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M. Menicocci — I Re tragici di Israele

donna elimina un re emerso da una linea femminile. Ancora una volta re al contrario, Abimelech in punto di morte, vergognandosi di una morte ingloriosa, si fa uccidere da un servo: anziché essere usata contro i nemici la spada è usata contro lo stesso re. Che sia stata proprio una macina a mettere fine alla carriera di Abimelech è significativo: il capitolo dedicato a Gedeone si era aperto con il popolo di Israele che rischiava di perdere il bene dell'agricoltura a causa dell'invasione (una invasione paragonata a quella delle cavallette) dei madianiti. Ora Israele è tornato ad usare le macine ma le usa in modo sbagliato, come armi. La corretta agricoltura è ancora lontana e le giuste pratiche agricole devono ancora essere raggiunte. Qualcosa non va in Israele, segno che la crisi non è ancora stata superata completamente. Per giungere ad una soluzione occorrerà che Israele elabori un modello dinastico proprio. Privi di un re, dopo la fine di Abimelech, gli israeliti passano un periodo di guerre interne che rischiano di distruggere due tribù. Per ora i redattori biblici si sono preoccupati di mostrare le condizioni improponibili, dal punto di vista di Israele, di possibili modelli. Con Gedeone si è rifiutato il modello originario egiziano (ripreso dai persiani) che legava un re-padre ad un figlio-erede mentre con Abimelech i redattori biblici hanno mostrando l'assurdità, sempre dal punto di vista israeliano, di un re che sia privo di rapporti con Yhwh e di una monarchia che pretenda di basarsi unicamente su se stessa. Il fallimento di queste esperienze non equivale, però, al rifiuto totale dell'istituto monarchico. Si tratta, al contrario, di mostrare le linee sbagliate per lasciar emergere quella corretta o almeno quella accettabile da Israele. Non a caso il libro dei Giudici termina con una dichiarazione esplicita di sostegno all'istituto regale: dopo la fine dell'ultima campagna ogni israelita torna nel suo luogo e presso la propria eredità, a significare che non esiste un modo per tenere unito permanentemente Israele e questo perché Israele come unità permanente ancora non esiste. "In quel tempo non c'era un re in Israele e ciascuno faceva quel che gli pareva meglio" (Gdc. 21, 24). Per far esistere Israele occorre un re.

2 - Saul: il ciclo degli errori La regalità sottratta a Yhwh: il primo re Il libro dei Giudici si chiude con una nota negativa perché Israele non ha ancora trovato il suo centro e costruito la sua dimensione. Le esperienze monarchiche incomplete o fallimentari (in effetti: rifiutate) hanno riportato la situazione all'epoca dei giudici: una frammentazione interna e autorità locali inefficaci e corrotte. L'Arca è stata persa, catturata dai nemici e anche se poi i filistei la hanno restituita, l'evento indica la precarietà di Israele. Grazie all'Arca Israele, che ha rischiato di essere cancellato, esiste come possibilità, come potenzialità e non come atto. Israele vive dunque una situazione di crisi e la popolazione chiede a Samuele la monarchia. Non solo l'anarchia è dilagante (" ognuno faceva quel che gli pareva meglio") ma i figli stessi di Samuele sono corrotti. L'età dei giudici è caotica e occorre un re per superare la crisi. Il re è, dunque, una soluzione, o almeno è questo quello che ritiene il popolo di Israele. Ciò che i redattori biblici intendono significare è che la costruzione di Israele è ancora incompleta e per completarla, suggeriscono, occorre un re che possa fondare e garantire, con il suo operare, il cosmo israeliano. Quella regale, però, non è una conquista facile: occorre allontanarsi dal modello originario egiziano per costruire una nuova forma monarchica che sia compatibile con le esigenze di Israele. Gli israeliti sono pienamente consapevoli dell'estraneità del modello regale alla loro cultura: vogliono un re come hanno tutti gli altri popoli (1 Sam. 8, 5), il che comporta l'implicito riconoscimento che la monarchia è un fatto culturale esterno a Israele. Occorre, pertanto, una serie di trasposizioni per limitare l'estraneità della monarchia egiziana e trasformarla in un fatto interno alla israelita. Il principale scoglio è costituito dalla divinità del faraone: Israele non ha bisogno di un uomo-dio ma d'altra parte il re non può essere del tutto privo di del rapporto con dio, come ha dimostrato la vicenda di Abimelech. Il problema diventa pertanto quello di trovare il modo di annullare la divinità del re senza cancellare il suo rapporto con dio. Il primo passo da fare è quello di separare nettamente divinità da regalità: accettare un re umano significa, per il redattori del testo, rifiutare la regalità di Yhwh. Lo dichiara lo stesso Yhwh quando rivolgendosi a Samuele gli suggerisce di acconsentire alle richieste della popolazione che chiede un re: "Costoro non hanno rigettato te ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi" (1 Sam. 8, 7). Sottrarre la regalità a Yhwh significa dichiarare che non c'è posto in Israele per un dio-re, e quindi che non c'è posto per un faraone che sia anche dio. Naturalmente questa non è, in Israele, una soluzione definitiva: al momento di rifiutare la monarchia, o di ridurne le prerogative a proprio vantaggio, la classe sacerdotale che si occupa della redazione del testo biblico cambierà posizione e attribuirà proprio a Yhwh l'unica possibile e legittima funzione regale (e lo farà proprio per sottrarre questa funzione a degli uomini) ma per il momento la questione non è quella di liberarsi di ingombranti o incapaci re umani bensì è quella di rifiutare il modello del re divino. In questo contesto la rinuncia di Yhwh alla regalità, operata quando acconsente alla richiesta del popolo, apre lo spazio per un re che sia solo umano. Proprio perché solo umana, a differenza di quella divina, la regalità del re avrà dei limiti e, soprattutto, dei costi: su istruzione di Yhwh, Samuele preannuncia le future, esose, pretese dei re, ammonendo la popolazione che davanti ai soprusi regali vanamente gli israeliti torneranno a chiedere l'aiuto di Yhwh. I due livelli, la regalità divina e quella umana, si sono separati e la divisione appare consolidata e non più ricucibile. Accettata la regalità occorre scegliere un re. Chiaramente la regalità non può provenire dalla sovranità popolare, casuale e contingente. Il re non è dio ma questo non significa che non debba avere un rapporto con dio. La regalità dovrà pertanto provenire da Yhwh, anche se

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non in via diretta, perché Yhwh, come si è visto, a differenza del faraone osirizzato non può lasciarla in eredità ad un figlio. A prendere l'iniziativa è un uomo, Saul. Ma è un'iniziativa assai modesta: parte in cerca di asine e anche quando decide di rivolgersi ad un veggente, 10 fa su suggerimento e con il denaro di un servo. Saul, in sostanza, è raffigurato inizialmente come privo della capacità di cosmicizzare: perde le asine e non sa come recuperarle (e infatti le troveranno altri), la sua presa sul cosmo è nulla. Preavvertito da Yhwh è Samuele a compiere il primo passo, ungendo Saul. Si tratta però di un gesto per così dire, privato. Nessuno ancora deve sapere nulla e lo stesso Saul, al ritorno, si guarda di raccontare la cosa allo zio. Potremmo dire che l'unzione sottrae Saul alla dimensione quotidiana e lo prepara ad un cambiamento decisivo, che avviene con l'incontro con i profeti. Qui Saul subisce una trasformazione, non perché diventi un profeta ma perché assume il comportamento tipico dei profeti, manifestando una sorta di possessione o, almeno, di estraneamento estatico. I profeti erano rispettati, per la funzione di rapporto con l'alterità extraumana che svolgevano in Israele ma erano anche circondati da un alone di inquietudine e di disprezzo: erano fuori dal viver comune, elementi ai limiti della società, e sovente definiti, in opposizione al buon israelita che aveva una lunga e chiara discendenza,^// dì nessuno. Ad ogni modo, comportandosi da profeta senza essere profeta, Saul riceve lo Spirito di Yhwh che lo rende sacro. Da questo momento il suo corpo diviene intoccabile e a lui occorre accostarsi con rispetto: persino dopo tutti i fallimenti il suo corpo resta sacro e nessuno potrà colpire il suo corpo senza incorrere in un atto sacrilego. Il verbo usato per definire il corretto rapporto con lui è lo stesso verbo usato per per esprimere l'adorazione a Yhwh. Sottratto alla contingenza, trasformato in un uomo nuovo, Saul può essere poi dichiarato re al termine di una pubblica procedura di sorteggio. Volendo sintetizzare potremmo dire che Saul sta seguendo un percorso iniziatico che ricalca lo schema della fenomenologia del rito, con una fase di allontanamento (l'unzione), una di margine (l'incontro con i profeti); ed una di reintegrazione nella comunità (il sorteggio). Oppure che i redattori seguono un percorso crescente, disegnando una sequenza nella quale Saul è prima riconosciuto solo da uno (Samuele), poi da un certo numero di persone che sono ai margini del popolo (i profeti) e infine da tutto il popolo. Elevato al rango regale, Saul deve ora dimostrare di esser capace di grandi gesta (diverse alla ricerca degli asini) e di scelte autonome (senza affidarsi si suggerimenti del servo). Per dare avvio alla sua azione di cosmicizzazione i redattori costruiscono una situazione di crisi: gli ammoniti invadono Israele e sembrano inarrestabili. Il primo passo di Saul è quello, avvertito del pericolo, di fare a pezzi due buoi e mandarli in tutte le direzioni, in modo da farli giungere a tutti i vari gruppi che costituiscono Israele. Si tratta del primo forte atto di cosmicizzazione, con il quale Saul definisce lo spazio di Israele: sin dove giungono i pezzi degli animali, lì è Israele. Messo su un esercito Saul sconfigge gli avversari e si dimostra capace di stabilire l'unità e la concordia del popolo: al momento della sua elezione a re alcuni avevano espresso dei dubbi (1 Sam. 10, 27) ed ora che è vittorioso i suoi partigiani suggeriscono di punirli ma Saul rifiuta il suggerimento, di fatto stabilendo così la sua regalità su tutto Israele, senza distinzioni. A questo punto c'è un re e non occorrono più giudici: l'ultimo di questi, Samuele, si congeda dunque dal popolo. Prima del congedo definitivo, per rammentare ancora una volta ad Israele la trasgressione commessa chiedendo un re, come punizione predice l'arrivo di tempeste nel periodo del raccolto. Davanti alle richieste del popolo spaventato, poi, fa sì che la tempesta termini subito e raccomanda a tutti la fedeltà a Yhwh. Il senso del discorso è che ormai c'è un re e occorre obbedirgli ma tuttavia questo non significa che Yhwh sia sparito dall'orizzonte di Israele: un ampio settore del cosmo rimane ancora sotto il controllo divino e c'è una netta separazione tra i poteri divini e quelli regali.

Follia e violazioni: il re al contrario 11 buon inizio di Saul è solo un inizio: le cose cominciano subito a sfuggirgli di mano e Saul sembra non riuscire a stabilire un corretto rapporto con i suoi obblighi regali. Le vittoriose campagne militari intraprese ottengono successo più grazie alle vittorie di Gionata, suo figlio, che agli interventi diretti del sovrano. Anzi, tutte le volte che Saul interviene attivamente finisce per provocare disastri, agendo in campi che non sono quelli che gli competono. Il primo intervento sbagliato è in occasione della crisi aperta dall'invasione dei filistei. Saul dovrebbe attendere per sette giorni l'arrivo di Samuele, incaricato di compiere il sacrificio necessario ma prende l'iniziativa di sacrificare lui stesso e sbaglia. Quella in cui Saul si trova ad agire è una dimensione per certi versi festiva, nella quale le attività umane sono sospese, e dovrebbero cessare, lasciando il posto solo alle attività che per semplicità potremmo definire sacre: spetta a chi ha un contatto diretto con Yhwh, Samuele, il compito di chiudere il periodo festivo e di riaprire lo spazio all'agire umano. Il senso del discorso è che essendo bloccato l'agire umano resta possibile solo l'agire al livello divino, per il quale occorre un apposito mediatore. I redattori dell'Antico Testamento stabiliscono qui due livelli: uno nel quale agiscono i re e uno nel quale agisce Yhwh, tramite i suoi mediatori. Saul, invece, agisce direttamente, prima del tempo, intervenendo nella sfera divina, usurpando così il ruolo di Samuele che lo rimprovera. La punizione per aver cercato di agire in luogo di Yhwh sarà il ritiro del favore divino alla discendenza di Saul: Saul non avrà un erede regale (1 Sam. 13, 13-14). In modo abbastanza oscuro Samuele rimprovera Saul di non aver obbedito ad un ordine di Yhwh che però nel testo non è citato. Possiamo sciogliere l'apparente incongruenza interpretando l'azione di Saul come una violazione del limite posto da Yhwh tra il livello umano e quello divino. Saul ha invaso la sfera divina ponendosi non solo come re ma come re-profeta, un re, cioè, capace di stabilire attivamente un rapporto diretto con Yhwh. Anche il secondo intervento di Saul ha un carattere analogo. Impone ai guerrieri un interdetto alimentare che li rende deboli e incapaci di inseguire i nemici in fuga. Gionata viola l'interdetto, mangiando del miele. Il risultato di questa trasgressione compiuta da Gionata è

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che i combattenti israeliti, affamati, si gettano su alcune prede e mangiano gli animali con il loro sangue, un gesto proibito (Lev. 19, 26). Saul riesce in parte a recuperare la situazione realizzando un altare che stabilisce il corretto modo di macellare ma i nemici prendono egualmente la via della fuga. Invano, allora, Saul chiede consiglio a Yhwh: questi non risponde. Compreso che c'è una colpa da eliminare Saul ricorre ad un complesso sorteggio per comprendere chi è il colpevole. Al termine di progressive esclusioni che rammentano il modo con cui Saul è stato scelto re, restano in ballo solo lo stesso Saul e Gionata, il quale confessa la sua colpa. Saul lo condanna a morte ma la condanna è cancellata dalle invocazioni del popolo, che chiede sia risparmiata la vita a Gionata. Anche in questo caso, Saul più che comportarsi da re si è comportato da sacerdote-profeta, invadendo una funzione non sua. Anziché guidare il popolo in guerra, come dovrebbe, impone una pausa rituale (nuovamente diremmo: festiva) non solo inopportuna ma che non spettava a lui di stabilire. La sua attività, anziché svolgersi al livello umano, storico, che gli compete, si svolge a livello superumano, che per semplicità definiremo religioso. Il re adatto sarebbe proprio Gionata, che si comporta bene in guerra, subisce anche lui un sorteggio (sia pure rovesciato rispetto a quello che ha avuto per oggetto Saul al momento di diventare re) ed è apprezzato dal popolo (che infatti lo salva), una volontà popolare che è la stessa che ha chiesto a Samuele di costituire un re per Israele. Il re adatto sarebbe Gionata ma proprio la discendenza sbagliata da Saul impedisce questa soluzione. La terza indebita intromissione di Saul avviene in occasione della campagna voluta da Samuele contro gli amaleciti: Saul deve distruggerli completamente, eliminando ogni traccia di questo popolo. Si tratta di un sacrificio totale a Yhwh, nel quale tutto deve essere offerto. Senonché Saul sbaglia la celebrazione del sacrificio risparmiando e riservando per le esigenze umane parte dell'offerta. Saul salva infatti il re nemico e la parte migliore del bestiame, e li riporta entrambi indietro come bottino. In questo modo fallisce l'opera di cosmologizzazione che, in quanto re, avrebbe dovuto compiere: non solo non distrugge Amalek fuori da Israele ma lo porta all'interno di Israele, sia pure come prigioniero. Saul, in questo modo, confonde i limiti tra ciò che è dentro e ciò che è fuori di Israele, e proprio l'aver confuso questi livelli giustifica l'accusa che gli rivolge Samuele (1 Sam. 12, 22-23) di divinazione e terafim. Lasciando agli esperti il compito di precisare cosa si intenda qui con questi due termini ( t e r a f i m indica qualcosa di illecito), possiamo accontentarci di interpretarli in termini generali come due modi alternativi a Yhwh per accedere al livello superumano e di interrogare la corretta via da seguire. I redattori del testo vogliono stabilire che è illecito ricorrere a forme di divinazione diverse da quelle legittime che interrogano la volontà di Yhwh: è costui che stabilisce il senso del cosmo e non vi sono altre vie stabilirlo. Possiamo a questo punto immaginare che per divinazione e tefiarim Samuele intenda o forme che chiamano in causa altri esseri superumani diversi da Yhwh (come sarà nel caso della negromante di Endor) oppure forme che ricorrono al fortuito, al casuale, e che pertanto presuppongono un cosmo non stabile e già scritto da Yhwh ma un cosmo fluido, da precisare e stabilire, in fondo inventandolo, di volta in volta. Tutte le forme di divinazione, e il sorteggio è una di queste, sono opposte a Yhwh e dunque sbagliate. Comportandosi da divinatore e terafim ancora una volta Saul ha invaso un livello che non compete ai re. A questo punto si comprendono meglio sia il sorteggio con il quale è stato indicato Saul come re, sia quello per stabilire la colpa di Gionata. Il sorteggio di Saul produce il re sbagliato, e quindi è una pratica da abbandonare perché pericolosa; quello di Gionata è inutile, perché Gionata viene salvato dal popolo, azione che equivale a dichiararlo innocente, a dispetto del sorteggio. Vedremo come il re giusto, David, non avrà bisogno di alcun sorteggio, essendo sufficiente la sola unzione (che, abbiamo visto, non bastava per Saul). Naturalmente Saul sa benissimo che le forme di divinazione e di contatto con l'extraumano diverse da quelle attraverso Yhwh sono sbagliate, e infatti ha bandito dal suo regno tutti gli stregoni e negromanti (1 Sam. 28, 3). Anche in questo caso, lasciando agli esperti di precisare il senso di queste due categorie, ci atteniamo all'interpretazione minima per la quale ciò che negromanzia e divinazione hanno in comune è proprio di essere forme alternative a Yhwh. Prima di chiarire però come mai Saul, a dispetto del suo stesso ordine finisca poi per consultare la strega di Endor, occorre chiederci come mai Samuele, dopo essersi ritirato, sia comparso nuovamente in scena. Il fatto è che Samuele si è ritirato dal ruolo di giudice, quel ruolo che riuniva insieme funzioni religiose (il rapporto con Yhwh) e amministrative. Con la presenza di un re, e con la distinzione tra azione sul piano umano (riservata al re) e azione sul piano divino (riservata ai profeti-sacerdoti), quell'autorità è diventata inutile. Samuele si è pertanto ritirato come giudice ma non come profeta, come mediatore tra uomini e Yhwh. La sua funzione è ora quella di far risaltare gli abusi di Saul e il suo continuo confondere i ruoli e i livelli tra piano regale-umano e profetico-divino. Veniamo adesso alla strega di Endor. Ancora una volta una crisi interna alla regalità è significata con una crisi esterna: il regno è in pericolo per le invasioni dei filistei e Saul non riesce ad avere istruzioni da Yhwh. Saul ha provato a consultare Yhwh mediate in profeti, con i sogni, con gli urim ma Yhwh non ha risposto. Difficile dire cosa siano gli urim\ sono menzionati per la prima volta nel libro dell'Esodo (Es., 28,30) insieme ai tummin. Entrambi fanno parte dell'abbigliamento sacerdotale. Senza pretendere di stabilire con precisione il senso di questo termine, possiamo considerarli come un canale legittimo per interrogare Yhwh. Mediante questi tre canali Saul ha cercato, in una situazione di crisi, di avere un responso da Yhwh: possiamo pertanto dire che li ha utilizzati, vanamente, come uno strumento di divinazione. Opposte a queste forme legittime di divinazione ve ne erano altre, tra cui la negromanzia, e disperato, Saul sceglie proprio una negromante per ottenere da Samuele, morto, le informazioni che il Dio dei vivi, Yhwh, non gli ha donato. Ma si tratta di un canale inaccettabile e proprio Saul aveva vietato questa forma di divinazione. Il ricorso a questo canale confonde i piani tra il livello dei vivi e il livello dei morti e questa nuova confusione viene ad aggiungersi alle altre già prodotte e manifestate da Saul. Incapace di cosmologizzare, Saul continua a confondere: il responso di Samuele non poteva che essere la predizione della rovina di questo re al contrario. I redattori del testo tendono ad opporre ancora una volta, e stavolta in modo più preciso, la consultazione legittima del volere di Yhwh

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alle altre forme illegittime di divinazione. Quello che intendono presentare è un cosmo già definito, scritto, nel quale, nei periodi di crisi, è possibile trovare la propria posizione solo attraverso la voce di Yhwh. Questi rivela il senso delle situazioni, permettendo a chi interroga di conoscere il suo particolare luogo nel cosmo e di adeguarlo alle esigenze. Questa è l'unica divinazione possibile. Non c'è spazio per il fortuito e l'occasionale e sono, pertanto, escluse tutte le forme di divinazione che ricorrono al fortuito (e abbiamo visto come lo stesso sorteggio, in definitiva, sia rifiutato e comunque ridotto alla volontà di Yhwh) così come sono escluse quelle che si rivolgono ad altri interlocutori diversi da Yhwh. Solo quest'ultimo può dettare la realtà. Non conoscendo la sua posizione nel cosmo Saul non sa come agire, è impotente. La sua azione di cosmologizzazione, l'azione propria dei re, è fallita. Ormai non più re, a Saul non resta che sparire subito. Ferito, si getta sulla sua spada e muore insieme ai tre dei suoi figli. Anche alla fine, invece di usare la spada per uccidere i nemici, Saul, la usa all'opposto di come andrebbe usata: per uccidere se stesso. Il suo corpo verrà bruciato, gesto che significa la volontà di cessare i rapporti, anziché sepolto. Al contrario del faraone che, nel modello egiziano, riceve una tomba, simbolo del potere del figlio-erede, per Saul non ci saranno tombe. Il limite di Saul può essere sintetizzato nel suo sforzarsi di essere insieme re e profeta, o re e sacerdote. Pretende di usurpare le funzioni sacerdotali e di stabilire un contatto diretto con Yhwh, si comporta da profeta, si spoglia nudo davanti la casa di Samuele, esegue rituali, cerca canali di contatto con l'extraumano, e nel suo pretendere di assolvere tutte le funzioni sacerdotali esautora, o addirittura cancella letteralmente come nel caso della strage dei sacerdoti di Nob, le funzioni sacerdotali. Così confonde i limiti, tra livello divino e umano, regale e profetico, tra vivi e morti. E' come se i redattori avessero deciso di mostrare un re al contrario per far risaltare meglio la figura del re giusto: David. Prima di considerare la corretta regalità secondo i redattori del testo converrà però esaminare ancora un aspetto di Saul: i momenti in cui viene invaso da uno spirito, di Yhwh o di un essere maligno.

Spirito e possessioni La tendenza di Saul a confondere i piani non è solo sbagliata, è anche pericolosa. Entrare direttamente a contatto con l'extraumano, senza le cautele necessarie e senza essere un profeta riconosciuto, porta ad esiti rischiosi. Nel testo in esame il rischio è esemplificato dalle possessioni di Saul da parte di spìriti extraumani. Saul è posseduto cinque volte: tre da Yhwh e due da uno spìrito maligno. Questa la sequenza. Al momento del primo incontro con i profeti, dopo l'unzione regale e prima del sorteggio che lo ufficializzerà re (1 Sam. 10, 10-13) Saul riceve lo spirito di Yhwh. La seconda volta è quando fa a pezzi i buoi per chiamare a raccolta tutti gli israeliti nella guerra contro gli invasori (1 Sam. 11, 6-7): anche in questo caso è lo spirito di Yhwh a scendere su di lui. In due altre occasioni Saul è invece preda di uno spirito malevolo che subentra a quello di Yhwh che si era ritirato. La prima è quando cade in depressione e solo la musica di David riesce a consolarlo (1 Sam. 16, 14-23); la seconda è quando accecato dalla rabbia cerca di uccidere David che suonava per lui tirandogli una lancia (1 Sam. 19, 9-11). L'ultima possessione è davanti a Samuele: David è fuggito a Naiot, avvertito da Mikal del progetto di ucciderlo, e Saul lo insegue. Davanti a Samuele, però, lo spirito si impossessa di lui e Saul si abbandona ad un atteggiamento estatico, rimanendo nudo tutta la notte (1 Sam. 19, 18-24). Nel primo e nell'ultimo caso l'incontro con lo spirito di Yhwh ha esiti grotteschi, trasforma Saul in un profeta fallito, proprio per segnalare che un re non può essere un profeta. Nel secondo incontro con lo spirito di Yhwh, Saul produce un'azione sovrumana: quella di fare a pezzi i buoi; anche questo è però un gesto per certi versi eccessivo. I due incontri con lo spirito malevolo producono invece esiti pericolosi: Saul cessa di regnare oppure diviene pericoloso per il suo stesso popolo. In tutti i casi quando è posseduto da uno spirito Saul è incontrollabile e va da un eccesso all'altro. I redattori del testo vogliono mostrare come la possessione sia negativa per un re. Un re non deve essere posseduto, neanche da Yhwh, perché la possessione da parte dello spirito di Yhwh apre la possibilità di invasioni nefaste. Al modello negativo della possessione divina di Saul viene contrapposto il modello positivo della saggezza di Salomone. David, da parte sua, riceve una volta lo spirito di Yhwh ma solo nel momento, ritualmente controllato da Samuele, dell'unzione: per il resto non avrà più contatti diretti con Yhwh ma solo attraverso la mediazione di personale accreditato e non si parlerà più di possessione per lui. In Israele, prima dei re, i giudici potevano ricevere lo spirito di Yhwh ed esser posseduti e, se il caso, esercitare le funzioni divinatorie, dopo i re saranno solo i profeti a poter esser posseduti, i re mai. Un re deve agire in modo prevedibile e funzionale al suo popolo: gli eccessi incontrollati sono contrari al disegno di un cosmo ordinato. Un caso analogo, a ben osservare, riguarda il digiuno. Dopo l'incontro con Samuele risalito dai morti, a casa della maga di Endor, Sul cade in catalessi e rifiuta il cibo, quasi che i digiuno regale potesse avere un senso o una funzione. Allo stesso modo, abbiamo visto, aveva imposto il digiuno al momento dell'inseguimento degli avversari, condannando a morte proprio il figlio per aver violato l'ordine. Ma un re non deve digiunare, un re ha l'obbligo del proprio benessere verso il popolo che rappresenta. Dopo la morte del figlio avuto da Betsabea, David cessa subito il digiuno, nonostante lo scandalo dei dignitari; oppure digiuna, ma solo sino a cena, come nel caso della morte di Abner, ottenendo l'approvazione dei dignitari laddove Saul, nudo profeta davanti a Samuele, ottiene solo uno scherno ironico. Un re non digiuna come uno sciamano, non impone condizioni festive o sospensioni del tempo ma guida il popolo nel tempo che Yhwh gli dona: questo il senso della regalità secondo l'Antico Testamento 5 . 5 Analogo discorso si potrebbe svolgere relativamente ai sacrifici: David sacrifica direttamente solo due volte, entrambe circostanze eccezionali. La prima è in occasione del trasporto dell'Arca a Gerusalemme (2 Sam. 6, 17-19); la seconda in occasione dell'elevazione di un altare (2 Sam. 24, 35). Analogamente Salomone offre ben pochi sacrifici (1 Re 3, 3; 1 Re 3, 15; 1 Re 8, 62-66) lasciando invece a sacerdoti e leviti la pratica ordinaria di

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3- Il ciclo delle mogli Le sventure di Mikal Saul offre a David sua figlia Merab come moglie. Spera che David muoia cercando di procurarsi il prezzo necessario per ripagare Saul della cessione della figlia. Subito, però, Merab va in sposa ad un altro e viene sostituita da Mikal. Costei si è innamorata di David e il padre accoglie con piacere la richiesta della figlia: la cederà a David in cambio di cento prepuzi filistei. Anche nel caso di Mikal è chiaro lo scopo di Saul: liberarsi di David facendolo uccidere dai filistei. Si tratta di una speranza vana e David consegna a Saul il doppio dei prepuzi richiesti. Un matrimonio con la figlia del re renderebbe in qualche modo David vicino al lignaggio reale. La prima sposa-promessa non va bene: avrebbe donato a David una priorità che Saul non desidera dargli. Neanche la seconda figlia va bene. Si è visto che Abimelech è diventato re proprio per via femminile e quindi è chiaro che una linea femminile legittima, la moglie del re in luogo della concubina di Abimelech, porterebbe David all'interno della linea di discendenza. Ma Saul non promette Mikal a David per tirarlo dentro la sua linea di discendenza, al contrario vuolc farlo fuori, e spera che gli stranieri lo aiutino nel suo progetto. Tutto salta in aria perché David reca a Saul il doppio dei prepuzi richiesti. La scarsa competenza non ci consente nemmeno di avviare un discorso sul senso, in Israele della circoncisione degli stranieri e sul valore del prepuzio come preda. E' chiaro però che i prepuzi sono in qualche modo connessi con la virilità e portando indietro quanto Saul gli ha chiesto David dimostra la sua virilità simbolica, sia sul piano indiretto della virilità sessuale, sia su quello diretto del coraggio virile, entrambe caratteristiche necessarie per un re. Scopo di un re, se riduciamo all'osso le sue funzioni, è quello di difendere il suo popolo contro i nemici e di garantirsi un erede. I prepuzi mostrano le capacità militari di David e la sua capacità di avere eredi, di procreare. Ma torniamo a Mikal. Sposa David e, da brava moglie, salva il marito da un tentativo di assassinio da parte di Saul. Il suo gesto, però, equivale alla perdita del marito: David fugge e Mikal finisce sposa ad un altro uomo, Polti, senza che David la abbia nemmeno ripudiata. Tornerà poi da David, che la pretende da Abner dopo la morte di Saul. Mikal torna al primo marito, strappata a Polti che la segue in lacrime, ma la sua unica azione sarà quella di criticare David per aver festeggiato all'ingresso dell'Arca a Gerusalemme, con il risultato che sarà condannata alla sterilità. Nella logica del testo Mikal deve, naturalmente, rimanere sterile. Ai redattori preme mostrare che ogni continuità dinastica da Saul è impossibile. Una sola può essere la dinastia regale e stabilita la regalità di David, ogni altra linea alternativa deve cessare: si è visto come finiscono i parenti maschi di Saul e adesso occorre eliminare ogni possibile alternativa in linea femminile (ed evitare un secondo caso Abimelech). Nel cosmo disegnato dai redattori del testo non può esserci alcun posto per la dinastia del re-profeta, neanche in linea femminile. A questo punto si comprende perché David pretende il ritorno di Mikal, e anche perché questa pretesa sia avanzata dopo la morte di Saul, e non prima. Le mogli del re, e Mikal è la prima moglie di David, non possono esser preda di altri uomini, perché unirsi alla moglie del re equivale ad appropriarsi del diritto a regnare. Lo hanno capito Assalonne, che si appropria delle concubine di David quando cerca di rivendicare il suo diritto alla regalità, e Adonia, che chiede Abisag a Salomone, il quale comprendendo che la richiesta equivale a pretendere il regno lo fa uccidere (1 Re 2, 23). David può fare a meno di Mikal sino a che Saul è vivo, e lui stesso solo un pretendente, un re in potenza (di Ebron e non di Israele) ma quando diviene re effettivo allora Mikal deve tornare da lui, e nessun altro può neanche pensare di unirsi a lei. Con David re, la sessualità di Mikal deve rimanere bloccata, monopolio del re, in modo che nessuno possa contestargli l'autorità; e deve rimanere sterile, in modo da eliminare la possibile confusione che sorgerebbe dalla presenza di una dinastia che sia, insieme, di David e di Saul. Si badi che il problema non è solo quello di evitare che si confondano due linee ereditarie rendendo quindi possibile la confusione tra diversi pretendenti: c'è qualcosa di più. Il modello regale di riferimento, quello egiziano, prevedeva il matrimonio preferenziale del re-faraone con la sorella: prevedeva dunque che vi fosse una sola linea ereditaria da due individui di discendenza regale. La proibizione dell'incesto, fortissima in Israele che affida ai codici sessuali la funzione di codificare l'identità di Israele, rende impossibile anche solo accennare a una simile eventualità nel caso di David, il re-prototipo. Poiché in Israele può esserci una sola stirpe regale, accostare la regale Mikal al regale David (che è il primo della dinastia e pertanto non può avere sorelle regali) significa rendere Mikal quanto di più vicino ci sia ad una "sorella" per David: sul piano logico Mikal è assimilabile alla sorella del regale David. Assimilabile, naturalmente, solo per mostrare che Israele rifiuta una simile logica e dunque proprio per escludere la possibilità logica di un matrimonio tra persone della (stessa) stirpe regale. Non a caso, prescindendo dalla scontata possibilità di sposare una vergine, le altre mogli di David che hanno un ruolo sono tutte già state sposate.

La logica delle mogli Mikal è la prima di una lunga serie di mogli di David. Tuttavia il testo, nomi a parte, reca le vicende di solo alcune di queste. Confrontiamo la vicenda di Mikal con quella di Abigail. Entrambe si sforzano di difendere il marito, la prima da Saul, il re, la seconda sacrificare. Si è visto come Saul abbia invaso la sfera sacerdotale-profetica eseguendo un sacrificio al momento sbagliato e come abbia sacrificato male al momento della vittoria sugli amaleciti. Anche il re Ozia (2 Cr. 26, 16-20), usurpando il ruolo sacerdotale e officiando di persona, avrà conseguenze nefaste e finirà afflitto da malattie che lo condurranno a morire da solo.

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da David; entrambe riescono solo in parte nel gesto: infatti la prima perde David, che fugge (e perderà anche Polti, che invece la insegue), la seconda diventa subito vedova. Entrambe sposano David (Mikal lo sposa una seconda volta dopo il matrimonio con Polti) e sono mogli di re. La prima è sterile, la seconda è feconda. Mikal, che aveva difeso David, non è capace di difendere Polti, a dimostrazione del fatto che la linea di Saul è confusa; Abigail, che è stata capace di difendere il marito, non ha bisogno di altre azioni perché avendo perso il primo marito è legittimamente, senza confusione possibile, maritabile da David. Ancora una volta la differenza sembra sia da poter individuare nella discendenza della prima da Saul: la linea dinastica di Saul è fonte di confusione. La terza moglie di David che ha un ruolo è, naturalmente, Betsabea. Anche lei, come le altre due, ha un marito fuori dal definitivo matrimonio con David ma, a differenza delle prime, non è in grado di difenderlo e Uria, che è uno straniero, morirà di morte violenta. Nessun israelita poteva morire innocentemente per mano di David, e il fatto che Uria sia hittita attenua la colpa di David. I redattori, in altre parole, hanno scelto di far ricadere su David una colpa che fosse, in qualche modo, attenuata dal carattere estraneo, straniero, della vittima. David espia la sua colpa con la morte del figlio avuto da Betsabea. Anche qui la logica dell'istituto monarchico imponeva che fosse esclusa la possibilità di un figlio-erede che provenisse dall'esterno di un matrimonio legittimo. La possibilità di un erede al trono che provenisse dalla moglie di un uomo diverso dal re oltre a confondere le linee di discendenza cancellerebbe i confini legittimi dell'istituto matrimoniale e questo sarebbe incompatibile con la funzione di cosmologizzazione propria del re. Muore dunque il primo figlio ma naturalmente ve ne saranno altri appena Betsabea diviene una moglie legittima. Mentre David è

Lei sposa:

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David è o lei ha figli diventa

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David

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David

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David

-

-

muore

-

morto

no

Abisag costituisce un caso a parte: quando David la sposa lui è molto vecchio e lei molto giovane. Si tratta, in altre parole, di una invasione del re nella generazione successiva, quella che spetterebbe al figlio-erede e abbiamo visto come Abigail sia poi chiesta in moglie proprio da un erede di David. Questa invasione generazionale non ha però effetto: David è ormai impotente e muore. Respingendo le pretese di David (o meglio, considerando che Abisag è stata offerta a David più che cercata da costui, diremo: respingendo la possibilità che il sovrano invada la generazione del suo erede) i redattori del testo hanno voluto significare che la regalità funziona nel rispetto della catena dinastica re-padre/figlio-erede, e che questo andamento generazionale non può e non deve esser mutato. La confusione generazionale comporterebbe il caos e pertanto va evitata.

4 - 1 1 ciclo di David L'iniziazione di un re Laddove Saul confonde, rimanendo sostanzialmente passivo sul piano dell'agire umano, David agisce e riesce. Si comporta da re e lo stesso Saul comprende le implicazioni di questo comportamento esprimendole con una sorta di profezia: "Hanno dato a David diecimila, a me ne hanno dati solo mille. Non gli manca altro che il regno" (1 Sam. 18, 8). Si tratta, per David, di una sorta di investitura che inizia con l'unzione regale, operata in segreto da Samuele mentre Saul è ancora re. Samuele passa in rassegna vari candidati e sceglie, su ispirazione di Yhwh, il più piccolo dei figli di lesse. In effetti quello di Samuele è un rito di divinizzazione: c'è una crisi regale e occorre designare un nuovo re, che è scelto mediante l'interrogazione della volontà divina. David risulta poi vittorioso sul gigantesco e caotico Golia, sposa la figlia del re e diviene intimo del re stesso. Questa sorta di investitura precede una lunga fase di margine: salvato, di volta in volta, da Mikal e Gionata, David si allontana prima dalla reggia e poi da Israele stesso. Diviene capobanda di fuorilegge e poi comandante degli avversari di Israele, compiendo più volte l'impresa di avvicinarsi a Saul senza ucciderlo 6. Questa fase di margine si configura nel modo classico della fenomenologia delle iniziazioni: i giovani iniziati debbono passare una fase di distacco dalla condizione di normalità per essere trasformati in uomini. Questa fase, in qualche modo caotica o comunque contraria all'ordine usuale delle cose, è essenziale per poterli reintegrare quali membri completi nella normalità della vita sociale. Anche David deve passare una fase caotica, solo che la sua non è una generica iniziazione ma è una iniziazione regale. 6 Certamente il rispetto della vita di Saul deriva dalla sacralità del corpo del re: David ucciderà coloro che si macchiano del sacrilegio di colpire un re, si tratti del servo di Saul che obbedisce all'ordine di Saul stesso o si tratti dei servi infidi di Is-Baal che sperano di ottenere benefici da David per aver eliminato un rivale. Tuttavia sembra lecito leggere le imprese di David come delle prove iniziatiche attraverso le quali un giovane deve dimostrare la sua capacità di agire in modo contrario alla norma, avvicinandosi al corpo del sovrano senza ucciderlo. Uccidere Saul in quel momento significava far tornare Israele nel caos oltre che caricare David di una inopportuna impurità.

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Il reintegro dalla fase di margine ha varie tappe e avviene per gradi, come se i redattori del testo abbiano ritenuto necessario, nel caso del primo re pienamente legittimo, ricorrere ad una serie di mediazioni. Il motivo è chiaro: nel corso di una dinastia il figlio di un sovrano acquista la sua legittimità semplicemente ereditando dal padre ma nel caso del fondatore di una dinastia le cose sono molto più complesse e la legittimazione necessita di un diverso fondamento. Nel caso di David occorre ridurre progressivamente la sua estraneità e farlo diventare da "diverso" la pietra angolare del cosmo israeliano. Il primo passo che i redattori fanno compiere a David, che rammenta un analogo comportamento di Saul, è quello di dividere le prede della campagna contro gli amaleciti tra tutti i suoi seguaci, costituendo un segno di unità. La vicenda è la seguente: David, che è un fuorilegge, insegue coloro che hanno distrutto la sua città e libera tutti i suoi seguaci. In questo modo si comporta da re, rispetto al quale tutti i sudditi sono eguali, indipendentemente dalla condizione e rigettando le richieste di coloro che volevano porre distinzioni tra chi aveva partecipato allo scontro e chi non vi aveva preso parte, divide equamente le prede. Invia poi parte del bottino a tutte le città del sud di Israele, la Giudea, compiendo così un atto di cosmologizzazione del suo futuro regno (1 Sam. 30, 21-25). Ma per ora David non è un re: il secondo passo è il suo arruolamento sotto le bandiere del re dei filistei e poi il suo congedo prima della battaglia contro Saul. Qui la fase di margine è massima e David è un nemico potenziale di Israele. La morte di Saul avvia il processo di reintegrazione e David giunge ad Ebron ove diviene re di Giuda. A questo punto Israele vive un momento di duplicità, come risultato dell'ambiguità di Saul: un regno a Ebron, con David e uno a Maconin, con Is-Baal, figlio di Saul. Israele ancora non esiste come cosmo unitario, non ha ancora il suo centro, la città di Gerusalemme. Per poter giungere a questa conclusione David deve eliminare tutti gli avversari, entrare in Gerusalemme, cioè fondare la città e il regno unitario, costituendo insieme se stesso come re di Israele e Israele come unità culturale 7. L'azione di cosmicizzazione di David — e non è importante se a compiere le azioni sia David stesso o un suo rappresentante: sono le azioni del re! - si sviluppa vincendo i popoli rivali; eliminando avversari caotici, quali un gigante con 6 dita per arto (2 Sam. 21, 20-22); superando rivolte interne di avversari iniqui (Seba); eliminando una carestia dovuta alle colpe di Saul. Si dimostra anche capace di rimediare i propri errori (il censimento) mediante la fondazione di un appropriato culto espiatorio. Il regno è perfezionato dal trasporto dell'Arca a Gerusalemme, che equivale alla consacrazione ufficiale della città: la fase di margine è conclusa e ogni elemento caotico estraneo all'ordine è espulso dal regno8. Il Tempio, la casa dell'Arca, deve essere completato da Salomone e non da David: mostrando un figlio che completa l'opera del padre si mostra la necessità del collegamento dinastico padre-figlio: si fonda la continuità dinastica. A questo punto l'Arca (mobile) sparisce e di lei non si parla più: il trono di Yhwh diviene il trono del re a Gerusalemme. Ma per far esistere Gerusalemme come città occorre un tempio (immobile). Il modello mesopotamico di città, diffuso a macchia d'olio praticamente in tutto il Mediterraneo, stabilisce un nesso inscindibile tempio-città: perché ci sia una città deve esserci un tempio. Con la costruzione del Tempio - la casa dell'Arca - i re di Israele dimostreranno di essere all'altezza dell'opera di cosmologizzazione che è stata affidata loro: da questo momento Yhwh potrà punire singole mancanze individuali di sovrani ma non ritirerà il suo favore dalla dinastia. Con questa assicurazione i redattori del testo vogliono significare il carattere definitivo non tanto della dinastia Davidica in Israele in sé quanto della continuità dinastica di Israele stesso.

Invasioni generazionali e la corretta successione La successione di un re è un momento critico e deve esser sottratta ad ogni rischio. La narrazione della successione di David ha proprio la funzione, esemplare in senso mitico, di fondare la corretta successione mostrando, e scartando, tutte le possibili alternative che dal punto di vista dell'Antico Testamento sono sbagliate per Israele. Abbiamo già notato, a proposito di Mikal e David, che il modello regale originario, quello egiziano, contemplava come matrimonio preferenziale per il re quello con la sorella. Nel caso di David, primo re e privo di sorelle regali, l'allusione alla possibilità avviene attraverso Mikal. Al momento però della successione a David, che ha vari eredi possibili, la possibilità deve esser considerata con maggiore aderenza al modello egiziano. I redattori la esaminano, per scartarla, nella vicenda di Amnon e Tamar 9. Amnon desidera Tamar e la attira nella sua stanza per assalirla. L'unione non sarebbe ancora, di per sé, impossibile: Tamar rileva che David sicuramente la concederebbe ad Amnon se questi la chiedesse correttamente al re ma questa possibilità deve esser rifiutata e viene cancellata dalla violenza di Amnon. La vicenda acquista, in relazione alla fondazione della corretta discendenza dinastica, un carattere mitico: nell'epoca precosmica in cui si decidevano i caratteri della realtà della successione dinastica, era ancora possibile il matrimonio regale con la sorella ma la colpa di Amnon ha cancellato per sempre questa possibilità. Amnon muore poi per mano di Assalonne il quale, per parte sua, segue una sorta di percorso iniziatico che comprende, come per David, una fase di margine. E' infatti costretto a fuggire per evitare la vendetta di David. Si tratta però di una fase decisamente meno gloriosa di quella del padre e si conclude non grazie ad una 7 Va notato che David non elimina direttamente nessuno dei suoi avversari regali ed anzi punisce tutti coloro che hanno osato macchiarsi del sangue di un re. Si tratta di un atto di cautela cui i redattori ricorrono per eliminare ogni contaminazione possibile dalla nuova monarchia. 8 "Ilcieco e lo %oppo non entreranno nella casa ' (2 Sam. 5, 8): cecità e zoppaggine rientrano nella fenomenologia degli esseri caotici e sono segno del caos che David espelle definitivamente da Israele. 9 Qui non è rilevante che i due siano figli di madri diverse: sono entrambi discendenti regali di David e a tutti gli effetti sono fratello e sorella dal punto di vista regale.

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vittoria ma grazie all'intercessione di una donna, per giunta istigata da Ioab10. Tornato a Gerusalemme, e quindi ripreso il suo ruolo di erede, Assalonne si sposta ad Ebron, la città da dove era partita la carriera regale di David, per cerca re di dare origine ad un regno alternativo a quello del padre. Così facendo Assalonne invade la generazione precedente, quella di David, pretendendo di diventare re prima della morte del padre. La pretesa fallisce e con il fallimento dimostra la sua illogicità dal punto di vista dei redattori: Assalonne resta impigliato con i capelli tra i rami, "sospeso tra cielo e terra" (2 Sam. 18, 10), ambiguo e ambivalente come Saul, incapace di trovare un proprio centro. Se nel modello egiziano è il padre morto ad avere un monumento funebre, la piramide, qui è Assalonne, il figlio, ad elevare a se stesso da vivo un inutile monumento (2 Sam. 18,18). David potrebbe prolungare indefinitamente se stesso attraverso le generazioni e quindi non aver bisogno di un erede: è questo il senso dell'invasione generazionale che David compie nella vicenda che lo lega ad Abisag. Ma anche questa è un'ipotesi da scartare. La dinastia definisce i ruoli del padre-re e del figlio-erede in modo definitivo e come non è lecito per il figlio invadere la generazione del padre (Assalonne si appropria delle ancelle di David), così non è lecito per il padre invadere la generazione del figlio unendosi ad una ragazza della generazione di questi. Entrambe le invasioni generazionali restano infatti sterili, cioè vane. Restano due possibili eredi: Adonia, che come Assalonne si è dichiarato re prima della morte del padre e il saggio Salomone, che ascolta i consigli del padre prima di agire. Il bellissimo Adonia, re prematuro come è prematuro 1'Adonis greco di cui porta il nome, è destinato ad una esistenza vana ed il corretto rapporto padre re, cioè la corretta catena dinastica che diviene il modello regale israelita, dopo il fallimento della pseudo-dinastia Saul-David è simbolizzata da David-Salomone.

5- Conclusione Il paradosso del re umano La narrazione che abbiamo considerato comprende le origini non tanto di un istituto quanto, in fondo, di Israele stesso: possiamo dire che Israele è, nel suo insieme, il risultato anche di quelle origini. Ora, le origini di qualcosa sono sempre diverse dal risultato, dall'attualità storica come la vedevano (e volevano) i redattori. Le origini sono diverse dalla realtà attuale: questa è fondata a partire da una non realtà che doveva contenere elementi di disordine rispetto all'attualità. Se Gedeone è un giudice che non può essere re, Saul è un re che non può esser profeta. I redattori biblici si sforzano di distinguere nettamente le due funzioni, regale e profetica, attribuendo alla prima il compito di costruire e garantire l'ordine di Israele, alla seconda di mantenere un rapporto con Yhwh. Ai sovrani spetterà di mantenersi saldi nell'Alleanza, al Patto con Yhwh, e quindi di costruire e mantenere un cosmo che ruoti attorno a questo patto, esercitando un'autorità che pur richiamandosi a Yhwh si dispiega unicamente a livello umano. Ai profeti (ma anche, considerando l'ideologia dei redattori, più generalmente ai sacerdoti) spetterà di stabilire una mediazione con Yhwh tutte quelle volte che l'azione puramente umana non sarà sufficiente. La loro funzione è però di essere degli intermediari, di render chiari gli eventi, di dare un senso agli orizzonti confusi che di volta in volta si profilano davanti al percorso di Israele, mai quella di agire direttamente. Agire è compito da re. Solo nel periodo precosmico, almeno rispetto alla regalità, era possibile per i giudici avere funzioni assimilabili a quelle regali e funzioni assimilabili a quelle profetiche. Era il periodo dell'anarchia in cui si poteva fare quel che si voleva, un periodo chiuso proprio dai re. Ancora una volta Israele cerca una dissociazione separando ciò che nel modello egiziano era interpretato come associato11. Ai re spetta l'azione, ai profeti la divin-a^ione. In effetti, sia mediante la visione che stabilisce un contatto diretto con Yhwh, sia mediante forme di divinazione, i profeti debbono render chiaro il senso di situazioni potenzialmente critiche ed eventualmente indicare le vie necessarie per superarle. Diciamo che possono svolgere la loro funzione solo mediante un contatto con il livello superumano, che per Israele è il livello divino. I sovrani debbono invece agire sul piano umano. Da David in poi la loro azione mira a difendere, mantenere e perseverare l'identità culturale e politica di Israele, simbolizzata o definita dall'Alleanza, sottraendola alla dispersione, al caos implicito del divenire storico. I sovrani devono organizzare la società, cosmicizzare lo spazio (le guerre che stabiliscono i confini ma anche la costruzione del Tempio che stabilisce il centro di Israele), cosmicizzare il tempo (a questo punto: la storia) di Israele. I profeti devono invece intervenire ogni qual volta l'azione regale, che è pur sempre azione umana, rischia di perdersi travolta da casi, o crisi, eccezionali. Mediatori con il divino hanno a loro volta bisogno, per agire nel tempo storico, di un mediatore umano, che è il re. Portata alle estreme conseguenze, ma è proprio la conclusione radicale che la redazione del testo biblico intende raggiungere, potremmo dire che ai profeti spetta di interpretare, al re spetta di agire. A questo punto non sarà più nemmeno necessario che sia un re israelita ad agire: può essere anche un re straniero e nel caso i profeti stabiliranno il senso dell'agire di questo re straniero. Ci arriveremo, per ora notiamo che attraverso le cautele di questa doppia mediazione, profetico-sacerdotale e regale, l'ideologia sacerdotale si sforza di separare nettamente il carattere divino dall'elemento monarchico. In ciò si trova stretta in una contraddizione 10 Gesto che rammenta la passività di Saul, il quale incontra Samuele solo grazie alle insistenze di un servitore. 11 Naturalmente questi sono termini nostri: noi possiamo parlare di dissociazione perché ci rapportiamo al modello egiziano che è precedente ma è chiaro che per l'Egitto, ove il modello dinastico è sorto, se prescindiamo dal confronto con esperienze posteriori, non sarebbe corretto parlare di associazione. Siamo noi, cioè, che distinguiamo per i nostri fini ciò che dal punto di vista egiziano costituiva una realtà organicamente unitaria, e che, sempre per gli egiziani, non sarebbe stato possibile pensare come distinta.

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che è insuperabile rimanendo all'interno dei termini dell'istituto monarchico. Da una parte, infatti, il re non può essere una persona qualunque, deve avere un rapporto con Yhwh e questo spiega il carattere sacrale che circonda il corpo del re, la sua intoccabilità. Dall'altra il re non può esser divino, poiché si tornerebbe al modello egiziano, eliminando la necessità di Yhwh, dell'elemento profetico e quindi della casta sacerdotale. Il re non può esser dio, poiché come dio Israele ha già Yhwh, ma non può essere un uomo qualunque perché altrimenti non sarebbe re. Naturalmente si tratta di una contraddizione che la redazione sacerdotale ha voluto far emergere proprio per dimostrare che l'istituto monarchico cela un'assurdità di fondo, che lo rende inaccettabile. E' come se la Bibbia tenesse a mostrare che Israele ce l'ha messa tutta per avere un re ma proprio non era possibile e la monarchia non poteva che finire tragicamente. Una dimostrazione, naturalmente, che non ha niente a che vedere con la filosofia o la logica ma che è funzionale alle scelte culturali di Israele. Per tentare di superare questa contraddizione, ma in realtà per svolgerla sino alle estreme conseguenze, i redattori, almeno sino al IV secolo, hanno seguito varie tappe e vari percorsi. Ad esempio, come accennato, hanno scelto di dislocare la regalità, nei casi in cui serva, fuori di Israele, a Babilonia o in Persia. Occorre un re per agire nel tempo storico ma non necessariamente deve trattarsi di un re israelita. Può essere un re qualunque, anche straniero e infatti sono i sovrani babilonesi e persiani che, di volta in volta, intervengono nel tempo storico di Israele per mettere ordine e cosmicizzare in situazioni nelle quali Israele rischiava di essere travolto dal caos. Se consideriamo che stiamo ricostruendo una ideologia e non un fatto storico nel senso di eventi, allora possiamo dire che i contrasti esterni sono utilizzati per significare situazioni di crisi interne; crisi che, in termini generali, possiamo proprio riassumere nell'impossibilità di trovare un re che agisca per tutto Israele. In altre parole un re, per tutto Israele, non è più proponibile. Almeno: non è proponibile un re umano. Un altra via, infatti, è quella di attribuire la regalità direttamente a Yhwh. Eliminando la dimensione umana della regalità, si torna al re divino, che però non è uomo. Solo Yhwh è il re adatto a Israele: tutti gli altri re umani, sino ad Erode, sono solo delle pallide e sbiadite figure - dei re fannulloni nel migliore dei casi, dei disastri nel peggiore - una necessità contingente priva di reale consistenza. Qualcosa che è più vicino ad Abimelech che a David. Lo strumento per la liberazione di Israele dai babilonesi è la monarchia persiana e un altro modello di monarchia si aggiunge a quello noto di derivazione egiziana. Un modello decisivo: in fondo Israele nasce realmente proprio dopo l'intervento persiano e lo stesso Yhwh diviene dio unico proprio a seguito dell'incontro con i tratti culturali della monarchia persiana e la riforma in senso monoteista del mazdeismo. Senza seguire le linee di questo incontro, già ricostruito da altri (Sabbatucci 2001) notiamo che le premesse universalistiche implicite nel modello persiano (il Re dei re) si sviluppano completamente proprio in Israele, spianando la strada alla reintroduzione dell'elemento umano nella monarchia divina. Solo che, reinterpretando in modo innovativo l'osirizzazione egiziana che consentiva ad un dio-morto di lasciare la sua eredita regale al figlio vivente, sarà un Dio vivente celeste a lasciarla in dono ad un figlio Re-Salvatore. Non sarà più un uomo-dio a regnare, bensì un Dio che si fa Uomo; sarà un nuovo, decisivo, Re dei re: Cristo.

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I. Baglioni — Sul rapporto tra Athena e Medusa

History of Religions

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Sul rapporto tra Athena e Medusa Igor Baglioni

Hartswick in uno studio dedicato alle rappresentazioni di Medusa connesse all'egida della dea Athena 1 , pone in relazione lo Ione di Euripide — nel quale è la dea stessa ad uccidere direttamente Gorgo 2 — con un processo, iniziato con l'instaurazione della democrazia ad Atene, che avrebbe visto la messa in ombra di Perseus in quanto entità mitica strettamente legata a Pisistrato e ai suoi discendenti. Lo studioso, infatti, tramite un'analisi delle fonti iconografiche, sostiene che le figure di Perseus e Medusa possano essere state utilizzate da parte di Pisistrato a simboleggiare la sua alleanza con Argo 3 : città dalla quale proveniva la sua seconda moglie Timonassa 4 e le truppe mercenarie che consentirono il ritorno al potere del tiranno nel 560 a. C. 5 . Pertanto, l'eroe di Argo e Gorgo, come sembrerebbe potersi rilevare dalle fonti iconografiche del periodo 6 , sarebbero stati inseriti nel generale programma di promozione della dea Athena attuato dal tiranno, cosa che comportò, con l'instaurazione della democrazia e la promozione di Theseus come eroe rappresentante la nuova polis, la "marginalizzazione" del figlio di Danae 7 . Per lo studioso, quindi, la variante mitica per la quale è la dea Athena stessa ad uccidere Medusa andrebbe interpretata come parte integrante di questo processo: come riflesso della "marginalizzazione" di Perseus sul piano della tragedia 8 . Ora, la lettura dell'interessante studio di Hartswick, peraltro suggestivo e ben argomentato, ha riproposto alla nostra attenzione il problema del rapporto intercorrente tra la dea Athena e Medusa. E noto, infatti, che la tradizione antica nel suo insieme lasci supporre in diversi modi la necessità di uno stretto legame tra le due entità, ponendo in evidenza sia il ruolo che la dea avrebbe svolto, quale insostituibile aiuto di Perseus, nella morte dell'entità mostruosa 9 , sia sottolineando la necessità che Perseus, una volta terminate le sue imprese, consegnasse alla divinità la testa dell'entità che andrà poi a porsi sull'egida della dea 10 . Peraltro, secondo le fonti, sarebbe sempre stata Athena a donare a Kepheus 11 , re di Tegea, un ricciolo di Medusa quale arma difensiva per la sua città12 ed a consegnare gocce di sangue provenienti dal corpo di Gorgo ad Asklepios 13 ed ad Erichthonios 14 . Inoltre, importanti da questo punto di vista sono anche quelle tradizioni che attribuiscono l'aspetto mostruoso della figlia di Phorkys proprio alla volontà di Athena, la quale avrebbe punito Medusa trasformandola in un essere orribile, perché si sarebbe unita a Poseidon in un tempio della dea 15 . E, comunque, bisogna soprattutto sottolineare il fatto che la testa di Gorgo, posta sull'egida, costituisce un elemento qualificante ed essenziale nelle rappresentazioni della figlia di Zeus: un elemento che compreso nell'insieme della raffigurazione, contribuisce ad indicarne le qualità 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

K. Hartswick, The Gorgoneion on the aigis of Athena:genesis, suppresion and survival., RA 1993, pp. 269-292. Eur. lon 990-1003. G. Arrigoni, Perseo contro Dioniso a Iberna, in F. Conca (a cura di), Ricordando Raffaele Cantarella: miscellanea di studi, Milano 1999, pp. 9 sgg. sottolinea però come la figura di Perseus non emerga in modo rilevante nel materiale documentario proveniente da Argo. Arist. Ath. Voi XVII 3. Hdt I 61. K. Hartswick, op. cit., pp. 278-283. Ibidem, pp. 283-286. Ibidem, p. 291. Sull'uccisione di Medusa si veda: Hes. Th. 280; Lucian. D. M. 14; Apollod. II 4,2; Serv. VA VI 289, VII 732; Ov. Met W 776-784; Lue. IX 669677. Apollod. II 4,4. Un'altra tradizione (Paus. II 21,5) afferma che la testa di Gorgo sarebbe sepolta nell'agora di Argo. Paus. V i l i 47,5. Altri tradizioni (Apollod. II 7,3; Suid. plovkion Gorgavdo") indicano Herakles - il quale avrebbe ricevuto il ricciolo sempre dalla dea - come colui che avrebbe donato il ricciolo a Kepheus. Su questo tema si veda I. Baglioni, La maschera di Medusa. Considerazioni sull'iconografia arcaica di Gorgo, in I. Baglioni (a cura di), Storia delle Religioni e Archeologia. Discipline a confronto, Roma 2010. Apollod. I l i 10,3. Eur. lon 1003-1015. Sul dono delle gocce di sangue ad Erichthonios si veda E. Montanari, Il mito dell'autoctonia. Linee di una politica mitico-poietica ateniese, Roma 1981, pp. 159 sgg.. Ov. Met. IV 798; Myth. Vat. II131.

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I. Baglioni — Sul rapporto tra Athena e Medusa

nonché i settori della realtà posti sotto il suo controllo. Pertanto, stante il quadro precedentemente riportato, il problema del rapporto tra le due entità è andato a porsi con forza nell'ambito degli studi specialistici i quali né hanno sottolineato, a seconda delle metodologie d'analisi applicate, i molteplici aspetti. Si possono ricordare in questa sede, quale esempio delle linee interpretative più diffuse, gli studi che, utilizzando categorie non più accettabili nel panorama scientifico contemporaneo 16 , tendono ad interpretare Medusa come il lato negativo di una Grande Madre mediterranea 17 — della quale Athena sarebbe un aspetto — oppure che, debitori dei contributi giunti sul tema dall'ambito psicanalitico18, tendono ad interpretare Gorgo come il lato terrificante della sessualità femminile che sarebbe simboleggiata, in maniera differente a seconda delle tesi dei singoli studiosi, dalla dea19. Per quanto ci riguarda, vorremmo apportare il nostro contributo in merito a questa tema, cercando di analizzare la questione da un altro punto di vista. Quello che ci preme sottolineare al riguardo è che, nonostante Medusa sia sicuramente l'entità mostruosa più nota ad essere legata alla dea, essa non è né l'unico essere mostruoso ad essere collegato alla dea, né l'unica creatura anticosmica ad essere uccisa direttamente o indirettamente da Athena. In realtà, una volta vagliato il materiale documentario, sembrerebbe più corretto, paradossalmente, porsi il problema non tanto dello specifico, od univoco, rapporto tra Athena e Medusa quanto del rapporto che intercorre tra la dea e le entità a carattere ibrido, onde poi indagare il legame con Gorgo alla luce dei dati acquisiti. Ora, pur non potendo in questa sede analizzare dettagliatamente il problema, il quale merita uno studio specifico ad esso rivolto, si può, comunque, porre l'attenzione su alcuni dati estremamente significativi, senza ovviamente avere la pretesa di esaurire completamente l'argomento né di ridurre la figura complessa di una divinità e del settore a cui essa presiede ad un singolo aspetto20. Quindi, in base a quanto detto, si può innanzitutto notare, dall'analisi del materiale documentario, che la dea appare legata ad altre entità mostruose appartenenti — oppure connesse secondo diverse modalità — alla stessa stirpe alla quale appartiene Medusa: la stirpe di Pontos21. Al riguardo, si dimostra utile ricordare che, secondo la tradizione 22 , la dea indosserebbe la pelle di un entità extraumana, Pallas, generata da Eurybia figlia di Pontos23, il cui aspetto di opposizione all'"ordine" di Zeus viene indicato dalle fonti tramite la qualificazione di questa entità come appartenente o alla stirpe dei Titanes 24 oppure dei Gigantes25, oltre che naturalmente dal legame con la stirpe pontica26. Un entità, Pallas, che pur essendo presente, secondo una parte del materiale documentario 27 , alla battaglia di Phlegra nello schieramento che muove guerra alle divinità olimpiche, può anche essere rappresentata come il padre di quella dea28, Athena, il cui legame con questa entità29, uccisa da lei in quella battaglia, e con ciò che essa rappresenta, viene ancor di più ribadito dalla 16 O. Pettersson, Mother Harth, an analysis of the Mother Harth concepts according to Albrecht Dieterich, Scripta Min. Regiae Societatis Humaniorum Iitterarum Lundensis, 3, Lund 1965-66; S. Gill, Mother Harth. An american story, Chicago 1987; T. Swain, The Mother Harth cospiracy. An australian episode, "Numen" 38, vol. 1, 1991, pp. 3-26; P. Pisi, Il mito della Grande Dea, in I. Baglioni (a cura di), Storia delle Religioni ..., cit.. 17 A. Fronthingham, Medusa, Apollo and Great Mother, AJA 15 1911, pp. 349-377; J. Harrison, Prolegomena to Study of Greek Religion, New York 1957 (I ed. 1903), pp. 193 sg; W. Schiering, Werkstätten orientalisierenden Keramik auf Rhodos, Berlin 1957, pp. 103 sg.; Th. Karagiorgia, Gorgeie Kephale, Athene 1970. 18 II principale studio di riferimento è stato S. Freud, Ha testa di Medusa, tr. it. in Opere di Sigmund Freud, edizione diretta da C. L. Musatti, vol. IX, Torino 1977, pp. 415-416. 19 N. Loraux, Matrem Nudam:Quelques versionsgrecques, EDT 11 1986, pp. 91-102; J.-P. Vernant, Ha morte neg}i occhi. Figure dellAltro nell'antica Grecia, tr. it. Bologna 1987; E. Pellizer, Voir le visage de Meduse, METIS II 1987, pp. 45-62; M. Halm-Tisserant, Cephalophorie, BABESCH LXIV 1989, pp. 100-113; H. Vermorel, Castration et mort dans le mythe de la tete de Meduse interprete par Freud, KENTRON 9 1993, pp. 65-73; B. CaUieri - L. Faranda, Medusa allo specchio. Maschere fra antropologia e psicopatologia, Roma 2001. Sui limiti dell'utilizzo negli studi a carattere storico-culturale delle teorie elaborate in ambito psicanalitico si veda: A. Brelich, Appunti su una metodologia, SMSR 27,1956, pp. 23-29; D. Sabbatucci, Opsiche o cultura, in D. Sabbatucci, Giuoco d'a^ardo rituale e altri scritti, a cura di G. Mazzolali, Roma 2003, pp. 119-153, pubblicato originariamente sul secondo numero della rivista Culture del 1977, pp. 51-70 (riguardo all'articolo di Sabbatucci si può consultare I. Baglioni, H'archetipo del Redentore, in I. Baglioni - A. Cocozza (a cura di), Dario Sabbatucci e la storia delle religioni, Roma 2006, pp. 29-38). 20 Sulla caratterizzazione delle divinità in un sistema tipologicamente politeistico si veda: D. Sabbatucci, Politeismo, 2 voli., Roma 1998; A. Brelich, Il politeismo, a cura di M. Massenzio e A. Alessandri, Roma 2007. Per una sintesi del materiale documentario e degli studi riguardanti la dea Athena si veda S. Deacy, Athena, London and New York 2008. 21 Per le caratteristiche della stirpe di Pontos si veda C. Costa, Ha stirpe di Vontos, SMSR 62 1968, pp. 61-100. 22 Apollod. I 6,2. 23 Hes. Th. 375 sgg; Apollod. I 2,2. 24 Paus. V i l i 26,12. 25 Apollod. I 6,2; schol. Horn. Od. I 252; Etim. M. s. v. PallaV"; Hyg. Fab. Praef. 17; Myth Vat. I 124 III 10,1. 26 Su questo aspetto della stirpe si veda C. Costa, op. cit., pp. 61 sgg. 27 Apollod. I 6,2; schol. Lyc. Alex. 355. 28 Apollod. I 6,2; Clem. Aless. Protr. II 28,2; schol. Lyc. Alex. 355; Cic. Nat. Deor. III 59; Arnob. Adv. Nat. IV 14; Fir. Mat. XVI 2. 29 Si intende precisare che, contrariamente all'interpretazione di Vian (F. Vian, Ha guerre des Géants, Paris 1952, pp. 198 sg.) che tende a separare nettamente le tradizioni riguardanti Pallas, ascrivendole a diverse entità dal medesimo nome, l'analisi del materiale documentario (si vedano le fonti riportate nelle note rimandanti alla figura di Pallas) permette di parlare di un'unica figura mitica i cui molteplici aspetti vengono sottolineati dalla tradizione tramite il rimando a diverse genealogie, cosa che si rileva peraltro nell'attribuzione degli stessi motivi mitici all'uno o all'altra entità denominata Pallas.

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frequente associazione che la dea ha con quella che, secondo la tradizione mitica30, sarebbe la figlia di Pallas e Styx, cioè Nike, dea della vittoria31. Peraltro, oltre al volto di Gorgo e alla pelle di Pallas, Athena può venire raffigurata anche con altre entità pontiche. Sul suo elmo, infatti, possono essere rappresentate le terribili figure di Sphinx32 e di Skylla33. Inoltre, bisogna ricordare che la dea è presente alla morte, oppure all'asservimento all'"ordine", della maggior parte delle entità appartenenti alla stirpe. Noti, ad esempio, sono gli scontri sostenuti da Herakles con le entità discendenti da Pontos, come l'Hydra di Lerna 34 , Geryoneus 35 , il leone di Nemea 36 e Kerberos 37 , dove il figlio di Zeus potè contare sull'aiuto di Athena, come anche il ruolo centrale che la dea ricoprì nell'aiutare Bellerophontes a domare Pegasos 38 , figlio di Medusa 39 ; cavallo alato che aiuterà il suo padrone ad affrontare ed ad uccidere un'altra entità pontica come Chimaira40. Ora, ponendo in correlazione il collegamento emerso con la stirpe di Pontos, entità rappresentante il mare nel suo aspetto "acosmico" e "precosmico", e la discendenza di Athena, tramite Metis, da Okeanos — entità rappresentante un diverso aspetto delle acque "acosmiche" primordiali rispetto a Pontos — si potrebbe avanzare l'ipotesi che la dea agisca nel mito, nell'ambito e secondo modalità coerenti alla sua sfera d'azione, in funzione della riduzione all'"ordine" dell'"acosmico" acqueo, sia quando questo si manifesterebbe nei discendenti di Pontos, sia quando questo sembrerebbe emergere anche nella sfera "marina" presieduta da Poseidon41. Okeanos, infatti, entità che presiede alle acque che circondano il kosmos1a stabilendo così allo stesso tempo i limiti di esso, rappresenta, in un certo senso, l'aspetto positivo delle acque primordiali: quell'aspetto che è a fondamento dell'"ordine" stesso, come si può rilevare non solo dalle tradizioni che vedono da esso discendere il mare, i fiumi e le acque sotterranee 43 ma anche, e soprattutto, dalla tradizione che fa discendere le divinità olimpiche proprio da Okeanos 44 . Le Okeanides, inoltre, presiedono non solo alla giovinezza degli uomini — insieme ad un dio dell'"ordine" come Apollon — ma si occupano anche della prole delle dee45. In particolare, nel caso determinato di Medusa, questa linea interpretativa potrebbe trovare conferma nelle tradizioni relative a Perseus il quale, secondo le caratteristiche della sua stirpe, è coinvolto nella fondazione mitica di elementi del kosmos legati all'acqua 46 . Infatti, analizzando la genealogia dell'eroe, notiamo che, tramite sua madre Danae, Perseus discende da Danaos e dalle Danaides 47 . Questa stirpe, ad un attento studio di Giulia Piccaluga 48 , risulterebbe avere valenze particolari in relazione all'elemento acqueo. Infatti, in opposizione alla discendenza di Aigyptos, fratello di Danaos, caratterizzata da un costante tragico "rapporto" con la siccità — alla quale si tenta di porre rimedio tramite sacrifici umani 49 — il padre delle Danaides, così come le sue figlie, si trova, in molteplici modalità, a fondare miticamente il controllo umano sull'elemento acqueo50. Da una parte, perché, secondo alcune tradizioni, è proprio Danaos con le sue figlie ad imbarcarsi sulla prima nave51, riscattando così il mare alla navigazione umana 52 , mentre, dall'altra, sono sempre loro ad arginare gli intrinseci problemi di siccità dell'Argolide, insegnando agli indigeni l'arte di scavare cisterne53 e provocando, indirettamente, 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46

47 48 49 50 51 52 53

Hes. Th. 383 sg.; Apollod. I 2,4; Hyg. Fab. Praefi. \l\Anth. Pai. VI 313 (dove si menziona solo la discendenza da Pallas). Si veda, ad esempio, Eur. Ioti 1528-1530; Paus. I 42,4; Dion. Hai. I 33,1. Si veda LIMC s. v. Athena 220. Ibidem, 306. Hyg. Fab. 30. Si veda anche LIMC s. v. Herakles 1198, 2030. LIMC s. v. Herakles 2464, 2468, 2472, 2487, 2489, 2500, 2501, 2504. Ibidem, 1793,1797,1800,1807,1812,1829,1831-33,1835,1851,1854,1857,1861,1862,1866,1881-1883,1902. Ibidem, 2554, 2556, 2560, 2562, 2584, 2595, 2600, 2614. Pind. Ol. XIII 63 sgg.; Apollod. II 3,2; Paus. II 4,1; Myth Vat. II131. Al riguardo si veda I. Baglioni, Nascere da Medusa. Studio sul parto di Gorgo e sulle caratteristiche dei suoi figli, "Antrocom. Online Journal of Anthropology", anno VI, n. 2, 2010, pp. 207-220. Hom. II. VI 180; Hes. Th. 325; Apollod. I 9,3 II 3,1; schol. Lyc. Alex. 17; Hyg. Fab. 57. Sul rapporto dialettico Athena/Poseidon si veda: M. Detienne-J. P. Vernant, Te astuzie dell'intelligenza nella Grecia antica, trad. it. Roma-Bari 1978, pp. 139 sgg.; E. Montanari, op. cit., pp. 43 sgg.. Hom. II. XVIII107; Hdt III 23; Paus. I 33,4; Ov. Met. V 81 sg.. Hom. Il XXI 195-197. Solo per quanto riguarda i fiumi Hes. Th. 337-345, 367-371. Hom. II. XIV 200-210, 245 sg., 302. Hes. Th. 346-366. Altri studiosi hanno visto in Perseus una connessione con la sfera infera (J. H. Croon, The mask ofi the underword daemon-some remarks on the PerseusGorgon story, JHS 75 1955, pp. 11 sgg.; C. G. Jung - K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, tr. it. Torino 1972, p. 185) oppure solare (A. Moreau, Te discobole meurtrier, PALLAS 34 1988, pp. 8 sgg). In generale su Perseus si veda D. Ogden, Perseus, London and New York 2008. Apollod. II 2. G. Piccaluga, Tykaon. Un tema mitico, Roma 1968, pp. 124 sgg.. Ibidem , pp. 125 sg.. Ibidem , p. 127. Apollod. II 1,4 ; schol. Apoll. Rhod. I 4 ; Hyg. Fab. 168 ; schol. Germ. Arat. 172b. G. Piccaluga, op. cit., p. 127. Strab. 119; schol. Hom. II. IV 171; Plin. N.H. VII 195.

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lo sgorgare della fonte Amymone da parte di Poseidon, invaghitosi della omonima bella figlia di Danaos 54 . Peraltro, sullo stesso Perseus non mancano attestazioni per un collegamento all'elemento acqueo. Infatti, anche l'eroe appare con un ruolo di risolutore per i problemi di scarsità d'acqua sofferti dalla regione di Argo nella tradizione che collega la fondazione e il nome della città di Micene alla sorgente fatta sgorgare da Perseus, tramite lo strappo un fungo (mukh") da terra, presso il luogo in cui l'eroe avrebbe fondato la città55. Sempre al figlio di Danae va ricondotta, secondo una tradizione56, la creazione di un elemento dell'ecosistema marino come il corallo, pietra nota anche come gorgonia 57 . Inoltre, bisogna notare che, oltre a Medusa e alla creatura mostruosa che minaccia Andromeda 58 , Perseus affronta un'altra entità collegata all'elemento acqueo: Atlas59. Infatti, il Titan è sposo di Pleione, figlia di Okeanos, e padre delle Pleiades 60 le quali, come costellazione, porterebbero, al loro apparire, pioggia, neve e burrasche 61 ; caratteristica questa che emerge anche in altre figlie di Atlas: le Iades62. Inoltre, in Omero leggiamo che Atlas qalavssh" / pavsh" bevnqea oi\den63, un passo che sembrerebbe proprio attestare un connessione diretta tra Atlas e il mare. Un'altra tradizione significativa è riportata da Eliano, per il quale gli abitanti di Serifo non pescano di proposito una determinata specie di pesce, il Tettix Enalios, e capita che, quando un pesce di questa razza finisca nelle loro reti, venga rigettato in mare perché, a detta dei pescatori, questi pesci sarebbero stati i compagni di giochi di Perseus64. Soprattutto, secondo una variante attestata da Apollonio Rodio65, Danae sarebbe stata solita chiamare il figlio con il nome di Eurymedon, nome che è anche un epiteto ("dai vasti domini") del signore del mare, Poseidon66. Pertanto, Da questo quadro non risulta strano, o casuale, il fatto che sia proprio il figlio di Danae ad affrontare Gorgo, che sia lui, uccidendola e provocando la nascita di Pegasos e Chrysaor, a porre un nuovo tassello per inquadrare nel kosmos la sfera "pontica" rappresentata da Medusa. Come probabilmente, quindi, non sarà un caso la presenza di Athena a fianco dell'eroe, sia come entità divina che potrebbe presiedere alla riduzione all'"ordine" degli aspetti acosmici legati all'elemento acqueo, sia come divinità che, come le Okeanides che presiedono alla giovinezza dei mortali e degli dei67, affianca Perseus nel raggiungimento del suo tevlo~, in un percorso mitico i cui elementi rimandano a tematiche di carattere iniziatico68.

54 Eur. Ph. 185-189; Apollod. II 1,4; Paus. II 37,1,4; Lucian. DM. 6; schol. Hom. II. IV 171; Prop. II 26, 45-50; Serv. VA IV 377; schol. Germ. Arat. 172b; Hyg. Fab. 169. 55 Paus. II 16,3. 56 Ov. Met. IV 740-752; Plin. N. H. XXXVII164. 57 Plin. N. H. XXXVII164. 58 Lucian. D. M. 14; Lyc. Alex. 837; schol. Lyc. Alex. 837; Ov. Met. IV 711-734; Manil. V 579-610. 59 Sullo scontro tra Perseus ed Atlas si veda: Ov. IV Met. 627-662; Lue. IX 654-655; Lact. Plac. Theb. I 98; Fulg. Myth. XXI17; Serv. VA VI 246 60 Schol. Apoll. Rhod. I l i 255; Schol. Arat. Phain. 254; Hyg. Astr. II 21. 61 Ov. Trist. 111,1; Hor. C. IV 14,20; Stat. Silv. I 3,95 III 2,76; Val. Flacc. II 357. 62 Schol. Arat. Phain. 254; Ov. Fast. 171 sgg.; Hyg. Fab. 192. 63 Hom. Od. I 52-53. 64 Ael. H. XIII 26. Anche Paus. II 18,1. 65 Apol. Rhod. IV 1514. 66 Pind. 0 1 V i l i 31. 67 Che il presiedere alla giovinezza dei mortali possa essere connesso con rituali a carattere iniziatico incentrati su queste entità lo si potrebbe evincere, ad esempio, dalla vicinanza al fiume Neda — luogo al centro di un probabile rituale iniziatico rivolto ai fanciulli della città di Phigalia in Arcadia — del tempio di una delle figlie di Okeanos, Eurynome, cfr. Paus. V i l i 41, 4-6. 68 Sul tema I. Baglioni, Il rapporto tra Perseus e Hermes. Osservazioni a margine di Les Monosandales di Angelo Brelich, in A. Santiemma (a cura di), Scritti in onore di Gilberto Ma^oleni, Roma 2010, pp. 39-51.

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B. Asghari & M. Annapurna — Time in Iranian-Indian

History of Religions

Mythology 19-29

Contrastive Study of "Time" in Iranian-Indian Mythology Bibiaghdas Asghari , Annapurna M.

Abstract The main aim in the study is to compare and contrast the textual contents and the formal structures that are involved in the myth of 'time' in Indian and Iranian mythologies. Three questions will be replay: What are the divisions of time? What is the function of time in the mythical system in both myths of Iran and India? And what is the formal structure in this myth in the both mythologies'? Data collection for this article has been done with a documentary approach. The Primary sources involved the Avesta and the RigVeda and secondary sources (include: 31 books, related article) were reviewed, after data gatheredfrom those, the data analysis has been done in this study. Comparison of two myths is done with following mythical three indices: 1. Structure (trinity) 2.Binary Oppositions 3 .Archetypal patterns time. In the Iranian myth, like the Hindu myth time is divided into three and then again four part horizontally. In Hindu myths, time is cyclical. Lord Brahma in Hindu mythology is referred to as the creator. The Zoroastrian concept of time is linear not cyclical. In the creation myth Unlimited/limited and Numeric /Divine time are cosmic oppositions; Golden Age / Iron Age indicate sociological opposition. Keywords: Time myth, Indo-Iranian mythology, Vedic mythology, Avesta mythology,

Structural mythology.

Introduction A creation myth, by definition, contains statements about time and space. There is a beginning, and this beginning is taking place somewhere. In cosmological terms, its statement can be opposed to that of a steady state theory, claiming the world to be eternal. In the latter, both time and space exist continuously, with neither beginning nor end; whereas the creation myth may - or may not - have a clear beginning to both. Since a lot of creation myths are rather vague or indefinite about the beginning, a more elaborate definition is needed. In traditional societies, myth represents the absolute truth about primordial time. According to the myths, this was the time when the Sacred first appeared, establishing the world's structure. Myths claim to describe the primordial events that made society and the natural world being that which they are. Eliade says that all myths are, in that sense, origin myths: myth, then, is always an account of a creation (Eliade, 1963, 6).Many traditional societies believe that the power of a thing lies in its origin. If origin is equivalent to power, then it is the first manifestation of a thing that is significant and valid (a thing's reality and value therefore lies only in its first appearance). The mythical age was the time when the Sacred appeared and established reality. For traditional man, (1) only the first appearance of something has value; (2) only the Sacred has value; and, therefore, (3) only the first appearance of the Sacred has value. Because the Sacred first appeared in the mythical age, only the mythical age has value. According to Eliade's hypothesis of Sacred time , "primitive man was interested only in the beginnings (...) to him it mattered little what had happened to himself, or to others like him, in more or less distant times". Hence, traditional societies express a nostalgia for the origins, a yearning to return to the mythical age. To traditional man, life only has value in sacred time (Eliade, 1967). There is profane time, and there is sacred time. According to Eliade, myths describe a time that is fundamentally different from historical time (what modern man would consider normal time) In short, says Eliade, "myths describe (...) breakthroughs of the sacred (or the supernatural) into the World" (Eliade, 1963, 6). "The mythical age is the time when the Sacred entered our world, giving it form and meaning: The manifestation of the sacred ontologically founds the world thus, the mythical age is sacred time, the only time that has value for traditional man" (Eliade, 1961,21). The Indo-Iranian myths are a branch of Aryan myths. The term Aryan has generally been used historically to denote the IndoIranians because Aryan is the self designation of the Indo-Iranian languages and their speakers. The early Indo-Iranians are commonly identified with the bearers of the Andronovo culture and their homeland with an area of the Eurasian steppe. Historical linguists * *

Faculty in Islamic Azad University of Gonabad, Iran; e-mail: [email protected] Dept. of Anthropology, M.G.M, University of Mysore

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#ph:0091- 9845632558

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B. Asghari & M. Annapurna — Time in Iranian-Indian

Mythology

broadly estimate that a continuum of Indo-Iranian languages probably began to diverge by 2000 BC, if not earlier (Mallory, 1989, 3839) preceding both the Vedic and Iranian cultures. The earliest recorded forms of these languages, Vedic Sanskrit and Gathic Avestan, are remarkably similar, descended from the common Proto—Indo-Iranian language. Purposes of Study The main aim of this study is to compare and contrast the actual contents and the formal structures that are involved in the myth of time in Indian and Iranian mythology. Three questions will replay: What are the divisions of time? What is the function of time in the mythological system in both myths? And what is the formal structure in this myth in the both mythologies? In a general classification any coherent mythological system consists of four mythical hierarchy layers which composition according subject and time sequence as follow: the myth of the universe image, creation mythology (include time myth), human, hero and ritual myth and resurrection myth. In a reduction process in myth, the cosmos system (in macro size) at last ends to social system on earth. The Avestan and Vedic time is a part of creation myth that has some common structure and element. Comparison of two myths is done with following mythical three indices: 1) Structure; 2) Binary Oppositions; 3) Archetypal patterns. Data collection for this article has done with documentary approach. The Primary sources involved the Avesta and the Rigveda and secondary sources (include: 28 books, related article and internet documents) were reviewed. After data gathered from those, the data analysis has been done. In the both books, Av. (Avesta) and Rv. (Rigveda), the image of the universe are expressed several times; however, the researcher has also used of other sacred texts same Budahishen, Brahmanas and Puranas.

1. Time in Indian Mythology (The Hindi Divisions of Time) The astronomical time cycles mentioned in ancient Hindu astronomical and Puranic texts are remarkably similar to each other. Old Indian measures are still in use today, primarily for religious purposes in Hinduism and Jainism. They also are employed in the teachings of Surat Shabda Yoga. The Hindu cosmological time cycles are described in Surya Siddhanta in verses 11—23 of Chapter 1.Vedic and Puranic units of time span from the Truti (microsecond) to the mahamanvantara (311.04 trillion years). Hindu theology considers the creation and destruction of the universe a cyclic process. The World's Ages are the Yugas of Brahmanism. Of this elaborate system . . . no traces are found in the hymns of the Rigveda. Their authors were, indeed, familiar with the word Yuga, which frequently occurs in the sense of age, generation, or tribe. The first passage of the Rigveda in which there is any indication of a considerable mundane period being noted is where a first or an earlier age (Yuga) of the gods is mentioned when "the existent sprang from the non-existent'. . . . (Mandala,10/129). In one verse of the Atharvaveda, however, the word Yuga is so employed as to lead to the supposition that a period of very long duration is intended. It is there said: We allot to thee hundred, ten thousand years, two, three, four ages (Yugas).'Professor Muir traced references in the Brahmanas to the belief in Yugas as Ages, but showed that these were isolated ideas with which, however, the authors of these books were becoming familiar (Muir, vol. i, 1861, 29-30). When the system of Yugas was developed by the Indian priestly mathematicians, the result was as follows: Vedic and Puranic units of time span from the truti (microsecond) to the mahamanvantara (311.04 trillion years). Hindu theology considers the creation and destruction of the universe a cyclic process. • •

The astronomical time cycles (on macro level) Time Measurement Unit (on micro level)

The Astronomical Time Cycles The three main divisions of time employed in the Hindu Scriptures are Yuga, Manvantaras, and Kalpa. These will now be described: There are four Yugas, which together extend to 12,000 divine years. The Vishnu Purana Time measurement section of the Vishnu Purana( Book I Chapter III )explains the above as follows: 2 Ayanas (six month periods, see above) = 1 human year or 1 day of the devas. • 4,000 + 400 + 400 = 4,800 divine years = 1 Krita Yuga • 3,000 + 300 + 300 = 3,600 divine years = 1 Treta Yuga • 2,000 + 200 + 200 = 2,400 divine years = 1 Dwapara Yuga • 1,000 + 100 + 100 = 1,200 divine years = 1 Kali Yuga • 12,000 divine year = 4 Yugas = 1 Mahayuga (also called divine yuga) • 1000 Mahayugas = 1 kalpa = 1 day (day only) of Brahma • (Two kalpas constitute a day and night of Brahma) • 30 days of Brahma = 1 month of Brahma (259.2 billion human years) • 12 months of Brahma = 1 year of Brahma (3.1104 trillion human years)

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50 years of Brahma = 1 Pararddha



2 parardhas = 100 years of Brahma = 1 Para = 1 Mahakalpa (the lifespan of Brahma) (311.04 trillion human years)

Mythology

One day of Brahma is divided into 10,000 parts called charanas. The charanas are divided as follows: Table 1. Division of one day of Brahmans into Charanas

Four Yugas

Charanas

Satya Yuga

4 charanas (1,728,000 solar years)

Treta Yuga

3 charanas (1,296,000 solar years)

Dwapar Yuga

2 charanas (864,000 solar years)

Kali Yuga

1 charanas (432,000 solar years)

One Mahayuga, or Great Age, including the four lesser Yugas, therefore, being 12,000 divine years = 4,320,000 years of mortals. A thousand such Mahayugas are day of Brahma, and his nights are of equal duration; a Kalpa, therefore, or Day, of Brahma extends over 4,320,000,000 ordinary years. Within each Kalpa 14 Manus reign; a Manvantara, or period of a Manu, therefore, is consequently onefourteenth part of a Kalpa, or day of Brahma. In the present Kalpa, six Manus, of whom Swyambhuva was the first, have already passed away; the present being Vaivasvata. In each Manvantara (period of a Manu), seven Rishis, certain deities, an Indra and a Manu, and the kings, his sons, are created and perish. A thousand systems of the four Yugas occur coincidentally with these fourteen Manvantaras, and consequently about 71 systems of four Yugas elapse during each Manvantara, and measure the lives of the Manus and the deities of the period. At the close of this day of Brahma, a collapse of the universe takes place, which lasts through a night of Brahma, equal in duration to his day, during which period the worlds are converted into one great ocean, when the lotus-born god (Brahma), expanded by his deglutition of the universe, and contemplated by the Yogis and gods in Janaloka, sleeps on the serpent Sesha. At the end of that night he awakes and creates anew. A year of Brahma is composed of the proper number of such days and nights, and a hundred of such years constitute his whole life. The period of his life is called Para, and the half of it Pararddha, or the half of a Para. One Pararddha, or half of Brahma's existence, has now expired, terminating with the great Kalpa called the Padma Kalpa. The now existing Kalpa, or day of Brahma, called Varaha (or that of the boar), is the first of the second Pararddha of Brahma's existence. The dissolution which occurs at the end of each Kalpa, or day of Brahma, is called naimittika, incidental, occasional, or contingent. The dissolution of existing beings is of three kinds: incidental, elemental, and absolute. The first is naimittika, occasional, incidental, or Brahmya, as occasioned by the intervals of Brahma's days; the destruction of creatures, though not of the substance of the world, occurring during the night. The second is the general resolution of the elements into their primitive source, or Prakriti, the Prakritika destruction, and occurs at the end of Brahma's life. The third, the absolute, or final, Alyantika, is individual annihilation, Moksha, exemption forever from future existence.The process of destruction is described as follows: At the end of a thousand periods of four ages the earth is for the most part exhausted. A total death then ensues, which lasts a hundred years, and in consequence of the failure of food all beings become languid and exanimate, and at last entirely perish. The eternal Vishnu then assumes the character of Rudra, the destroyer, and descends to reunite all his creatures with himself. He enters into the seven rays of the sun, drinks up all the waters of the globe, and causes all moisture whatever, in living bodies or in the soil, to evaporate, thus drying up the whole earth. The seas, the rivers, the mountain-torrents, and springs are all exhaled, and so are all the waters of Patala, the regions .below the earth. Thus fed, through his intervention, with abundant moisture, the seven solar rays dilate to seven suns, whose radiance glow above, below, and on every side, and sets the three worlds and Patala on fire. The three worlds, consumed by these suns, become rugged and deformed throughout the whole extent of their mountains, rivers, and seas; and the earth, bare of verdure and destitute of moisture, alone remains, resembling in appearance the back of a tortoise. The destroyer of all things, Hari, in the form of Rudra, who is the flame of time, becomes the scorching breath of the serpent Sesha, and thereby reduces Patala to ashes. The great fire, when it has burnt all the divisions of Patala, proceeds to the earth and consumes it also. A vast whirlpool of eddying flame then spreads to the region of the atmosphere and the sphere of the gods, and

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wraps them in ruin. The three spheres show like a frying-pan amidst the surrounding flames, that prey upon all movable or stationary things. The inhabitants of the two upper spheres, having discharged their functions, and being annoyed by the heat, remove to the sphere above, or Maharloka. When that becomes heated, its tenants, who after the full period of their stay, are desirous of ascending to higher regions, depart for the Janaloka (Wilkins, 1900, pp 353-55). The Vayu Purana gives more explicit teaching on this subject: Those sainted mortals who have diligently worshipped Vishnu and are distinguished for piety, abide at the time of dissolution in Maharloka, with the Pitrs, the Manus, the seven Rishis, the various orders of celestial spirits and the gods. These, when the heat of the flames that destroy the world reaches to Maharloka, repair to Janaloka in their subtle forms, destined to become re-embodied in similar capacities as their former, when the world is renewed, at the beginning of the succeeding Kalpa. This continues throughout the life of Brahma; at the expiration of his life, all are destroyed; but those who have then attained a residence in the Brahmaloka, by having identified themselves in spirit with the Supreme, are finally resolved into the sole existing Brahma. The Vishnu Purana continues as follows: Janarddana, in the person of Rudra, having consumed the whole world, breathes forth heavy clouds. Mighty in size, and loud in thunder, they fill all space. Showering down torrents of water, these clouds quench the dreadful fires which involve the three worlds, and then they rain uninterruptedly for a hundred years and deluge the whole world. Pouring down in drops as large as dice, these rains overspread the earth, and fill the middle region and inundate heaven. The world is now enveloped in darkness, and all things, animate and inanimate, having perished, the clouds continue to pour down their waters for more than a hundred years. The four Yugas mentioned above—viz. the Krita, a Dvapara, and Kali have characteristic qualities. The Krita is the golden, and Kali the Iron Age. The Mahabharata gives these characteristics very distinctly. Hanuman, the monkey-god, is the speaker, describing the four ages to Bhimasena, one of the Pandus. The Krita is that age in which righteousness is eternal. In the time of that most excellent of Yugas (everything) had been done (Krita), and nothing (remained) to be done. Duties did not then languish, nor did the people decline. Afterwards through (the influence of) the time, this Yuga fell into a state of inferiority. In that age there were neither gods, Danavas, Gandharvas, Yakshasas, Rakshasas, nor Pannagas; no buying and selling went on, no efforts were made by men; the fruit (of the earth was obtained) by their mere wish; righteousness and abandonment of the world (prevailed). No disease or decline of the organs of sense arose through the influence of age; there was no malice, weeping, pride, or deceit; no contention, no hatred, cruelty, fear, affliction, jealousy, or envy. Hence the Supreme Brahma was the transcendent resort of these Yugas. Then Narayana, the soul of all beings, was white. In that age were born creatures devoted to their duties. They were alike in the object of their trust, in observance, and in their knowledge. At that period the castes, alike in their functions, fulfilled their duties, were unceasingly devoted to one deity, and used one formula (Mantra), one rule, and one rite. They had but one Veda. In the Treta Yuga, in which sacrifice commenced, righteousness decreased by a fourth, Vishnu became red; and men adhered to truth, and were devoted to a righteousness dependent on ceremonies. Then sacrifices prevailed, with holy arts and a variety of rites. In the Treta men acted with an object in view, seeking after reward for their rites and their gifts, and no longer disposed to austerities, and to liberality from (a simple feeling of) duty. In this age, however, they were devoted to their own duties and to religious ceremonies. In the Dvapara age righteousness was diminished by two quarters, Vishnu became yellow, and the Veda fourfold. Some studied four Vedas, some three, others two, and some none at all. The scriptures being thus divided, ceremonies were celebrated in a great variety of ways; and the people, being: occupied with austerity and the bestowal of gifts, became full of passion (Rajasi). Owing to ignorance of the one Veda, Vedas were multiplied. And now from the decline of goodness (Sattva), few only adhered to truth. When men had fallen away from goodness, many diseases, desires, and calamities, caused by destiny, assailed them, by which they were severely afflicted, and driven to, practise austerities. Others, desiring enjoyments and heavenly bliss, offered sacrifices. Thus, when they had reached the Dvapara, men declined through lack of righteousness.(Vishnu purana, 630-33). In the Kali, righteousness remained to the extent of one-fourth only. Arrived in that age of darkness, Vishnu became black; practices enjoined by the Vedas, works of righteousness, and rites of sacrifices ceased. Calamities, diseases, fatigue, faults, such as anger, etc., distresses, anxiety, hunger, fear, prevailed. As the ages revolve, righteousness again declines; when this takes place, the people also decline. When they decay, the impulses which actuate them also decay. The practices generated by this declension of the Yugas frustrate men's aims. Such is the Kali Yuga, which has existed for a short time. Those who are long-lived act in conformity with the character of the age. In the Bhishmaparvan there is a paragraph in which it is said that Four thousand years are specified as the duration of life in the Krita Yuga, three thousand in the Treta, and two thousand forms the period at present established on earth in the Dvapara. There is no fixed measure in the Tishya (Kali). It should be noticed that the immense duration of the ages as quoted above from the Vishnu Purana is peculiar to the Puranas. In the text of The Mahabharata no mention is made of the years comprising the different Yugas being divine years, though the earlier books certainly favor far more extravagant notions of chronology than those which Western nations accept. It is interesting to notice that in the account of the Krita Yuga, or the Age of Righteousness, it is said that the castes were alike in their functions. This must evidently mean that the modern caste distinctions did not then exist, and that all were devoted to the worship of one deity with one rule and one rite, evidently pointing to the time when their forefathers were monotheists. And in the

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judgment of the writer this happy condition was in the age of which the prevailing characteristic was righteousness. 2. Time in Iranian Mythology (The Iranian Division of Time) The idea of sacred time is as old as human history itself as well as being attributed to a time before human history began. It is a time known as the creation time. Sacred time is unlike the time associated with daily activities but is rather a time affiliated with a reverence for heaven and earth, honored and held in the highest esteem, and definitely not to be sullied by actions counter to the messages conveyed by actions or events considered to be a part of that sacred time when the universe was born; the creation time.In Iranian mythology similar Indian myth sacred and astronomical time divided into two section: • The astronomical linear time (on macro level) • Time Measurement Unit (on micro level) The Astronomical Linear Time The Indian and Iranian mythology have given a wide extension to the conception of a struggle between light and darkness, this being the development of myths dating back to Indo-European times and found among all Indo-European peoples. Besides the cosmogonic stories in which monstrous giants are killed by the gods of sky or storm we have the myths of the storm and of the fire. Dualism in Zoroastrianism is the existence of, yet complete separation of, good and evil. This is recognised in two interconnecting ways: • Cosmically (opposing forces within the universe) • Morally (opposing forces within the mind) Cosmic dualism refers to the ongoing battle between Good (Ahura Mazda) and Evil (Angra Mainyu) within the universe. To share time in these classes based on dualism and Millenarianism. It is a perfectly dualistic system. There are two cosmic myth of time in Iranian myth: unlimited /limited time in Zoroastrian and Zurvan in Zorvanism. Unlimited/limited time in the creation myth of Zoroastrian: The Zoroastrian concept of time was linear. Av. mentions two kind of time, • Unlimited that is eternal, boundless and sacred. In Av. This time come associated with Zurvana and Vayu or Vay as follow: Yasna72/10, Khorde Avesta/sorush/5-worship sun/8 ... • Limited (finite), that is 12000 years age of world and created by Ahura Mazda. This time is related to the creation that is described In the Avesta specific in Vandidad/29/2/19, 29/l/19and 13/2/19. • Also is Mentioned in the Bundahishn(The Primal Creation), a ninth century Pahlavi book. From the Bundahishn Chapterl, 1826: • Ohrmazd, before the act of creation, was not Lord; after the act of creation he became Lord, eager for increase, wise, free from adversity, manifest, everorderin aright,bounteous,all-perceiving. • First he created the essence of the gods, fair (orderly) movement, that genius by which he made his own body better] for he had conceived of the act of creation; from this act of creation was his lordship. • And by his dear vision Ohrmazd saw that the Destructive Spirit would never cease from aggression and that his aggression could only be made fruitless by the act of creation, and that creation could not move on except through Time and that when Time was fashioned, the creation of Ahriman too would begin to Move. • And that he might reduce the Aggressor to a state of powerlessness, having no alternative he fashioned forth Time. And the reason was this, that the destructive Spirit could not be made powerless unless he was brought to battle. • Then from Infinite Time he fashioned and made Time of the long Dominion: some call it finite Time. From Time of the long Dominion he brought forth permanence that the works of Ohrmazd might not pass away. From permanence discomfort was made manifest that comfort might not touch the demons. From discomfort the course of fate, the idea of changelessness, was made manifest, that those things which Ohrmazd created at the original creation might not change. From the idea of changelessness a perfect will (to create) material creation was made manifest, the concord of the righteous creation. • In his unrighteous creation Ahriman was without knowledge, without method. And the reason and interpretation thereof is this, that when Ahriman joined battle with Ohrmazd the majestic wisdom, renown, perfection, and permanence of Ohrmazd and the powerlessness, self-will, imperfection and slowness in knowledge of the Destructive Spirit were made manifest when creation was created. • For Time of the long Dominion was the first creature that he fashioned forth; for it was infinite before the contamination of the totality of Ohrmazd. From the infinite it was fashioned finite; for from the original creation when creation was created until the consummation when the Destructive Spirit is made powerless there is a term of twelve thousand years which is finite. Then it mingles with and returns to the Infinite so that the creation of Ohrmazd shall for ever be with Ohrmazd in purity. • As it is said in the Religion, 'Time is mightier than both creations-the creation of Ohrmazd- and that of the Destructive

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Spirit. Time understands all action and order (the law). Time understands more than those who understand. Time is better informed than the well-informed; for through Time must the decision made. By Time are houses overturned-doom is through Time-and things graven shattered. From it no single mortal man escapes, not though he fly above, not though he dig a pit below and settle therein, not though he hide beneath a well of cold waters. • From his own essence which is material light Ohrmazd fashioned forth the form of his creatures-a form of fire-bright, white, round and manifest afar. From the material (form) of that Spirit which dispels aggression in the two worlds-be it Power or he it Time-he fashioned forth the form of Vay, the Good, for Vay was needed: some call it Vay of the long Dominion. With the aid of Vay of the long Dominion he fashioned forth creation; for when he created creation, Vay was the instrument he needed for the deed". There are four periods, which together extend to 12,000 human (or solar) years. Bundashin has described, during creation myth about it. The World's Ages are twelve millennium of this system, no traces are found in the hymns of the Av. The period of the age of universe is as follow: Table 2. Iranian mythical period of world age (finite time) Four Period of World Age 1. the world in a non-material, spiritual state (Mega) 2. the world material existence (Getig) 3. great heroes defeated monsters and demons 4. present age(ending with the need for a savior)

Time Period 3000 solar years 3000 solar years 3000 solar years 3000 solar years

Universal history came to be seen as divided into four periods of 3,000 years each: • The first 3,000 years began when Angra Mainyu caught a glimpse of the realm of light in which Ahura Mazda dwell, and he became determined to destroy it. Ahura Mazda set out to battle against him, but Angra Mainyu fled back into the darkness. It was then that Ahura Mazda set about creating the world in its menog, or non-material, state. Towards the end of this first world age, Angra Mainyu created legions of demons to help him in his attempt to destroy the realm of light. • A treaty was made between Ahura Mazda and Angra Mainyu to share sovereignty for 9,000 years before a final, decisive battle. Afterwards, Ahura Mazda recited a sacred chant which revealed that Angra Mainyu would be defeated in the end.A stunned Angra Mainyu fell helpless back into the darkness where he remained for the next period of 3,000 years. (Hultgard, 1998, 456). • During this second world age, without the disturbance of Angra Mainyu, Ahura Mazda brought the world into its getig, or material, state. It is at the end of this second world age that Angra Mainyu had some success in attacking the good creation of Ahura Mazda. This is when he created an evil counterpart to all of the elements of the good creation, so that the world became a mixture good an bad elements. • The third period of 3,000 years was largely a period of heroes and legends. It was a time when great heroes defeated monsters and demons, a period of pre-history full of tales of a legendary nature. (Kreyenbroek, 2002, 37) • The fourth and final world age is the present age, and it began with Zarathustra. It is itself further divided into three periods of 1,000 years each. Each of the 1,000-year periods begins somewhat optimistically and deteriorates over time, ending with the need for a savior. Each of the three saviors will be a son of Zarathustra who will be conceived when a virgin bathes in a lake.The practicing Zoroastrians today have divided the last period into four lesser periods, each being symbolized by a metal. In Zand-i Vohuman Yasht saying this way: • First, the golden, that in which Ohrmazd displayed the religion to Zartosht. • Second, the silver, that in which Vishtasp received the religion from Zartosht. • Third, the steel, is the reign of the glorified (anoshak-ruban) Khosraw son of Kobad theperiod within which the organizer of righteousness, Adurbad Mahraspandan, was born. • Fourth(present period), the period mingled with iron is this, in which is much propagation of the authority of the apostate and other villains, along with destruction of the reign of religion, the weakening of every kind of goodness and virtue, and the departure of honour and wisdom from the countries of Iran. In the same period is a recital of the many perplexities and torments of the period for that desire of the life of the good which consists in seemliness. Perfect is the excellence of righteousness. In the iron period (the last and present period), Zoroastrian tradition believe in three future saviors, one for the end of each 1,000-year period that comprise the last 3,000 years of the world. Each of the three saviors will be a son of Zarathustra. Zoroaster, his first wife had one son and three daughters;by his second, two sons;and by Hvovi, no earthly children were born. But here again, legend

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come in, to say that Hvovi shall become the mother of three sons: hushedar, hushedar- mah , and Soshyans (named Astvat-ereta). The third and most important savior-figure will be known as the Saoshyant, and he will come at the end of the present age in order to bring in the complete renovation of the world, which is known in Avestan as Frashokereti, and in Pahlavi as Frashegird. When the Saoshyant appears, the sun will stand still for thirty days and nights (Kreyenbroek, 2002, 39). He will form an army and go to battle against the demons and the wicked. It is not by physical strength alone, but by the performance of ritual ceremonies that the Saoshyant will gain victory over the wicked forces. Ahura Mazda himself, along with the Amesha Spentas, will come to the earth to take part in this final decisive battle. Each will destroy their wicked counterparts. For example, Vohu Mana (Good Mind) will defeat Aka Mana (Evil Mind). Angra Mainyu will be pushed back into his realm of darkness to remain there forever, unable to create any more havoc in the newly perfected world (Hultgard, 1998, 54-5).Thus will end the time of mixture. Zurvan (god of Time ): Zurvan is the Persian god of infinite (boundless) time, space and fate. The deity is traditionally represented as being nameless (the name Zurvan being an appellative title), without gender and passions, and neutral in regard to good and evil. However, in certain strains of Zoroastrianism, Zurvan is also the father of the good deity, Ahura Mazda, and the evil deity, Angra Mainyu, also known as Ahriman. Zurvan simply means "time" and time is a key part of Zoroastrianism, which divides it into the time of creation, the finite time of history (Time of Long Dominion) and the eternal time after that (Boundless Time). At the end of finite time, Ahuramazda destroys the evil creation, and restores the world to its pristine state before the Evil Spirit realised what was happening the kingdom of God. This term is misleading, because it is unlikely that any Zoroastrians worshipped Zurvan; worship was always reserved for Ahura Mazdaalone (Boyce, 1957, pp304-316). The Iranian word Zurvan (Time) is known from the 12th century BC but not in any mythological context. It is a sophisticated idea and there is no way of knowing that the concept did not exist before Zoroaster and have some role in his scheme, but it is not mentioned in the Gthas.There is no hint of any worship of Zurvan in any of the texts of the Avesta, even though the texts (as they exist today) are the result of a Sassanid era redaction.(Zaehner, 195, 48; Duchesne-Guillemin, 1956, 108). In the texts composed prior to the Sassanid period, Zurvan appears twice, as both an abstract concept and as a minor divinity, but there is no evidence of a cult. In Yasna 72/10 Zurvan is invoked in the company of Space and Air (Vata-Vayu) and in Yasht 13/56, the plants grow in the manner Time has ordained according to the will of Ahura Mazda and the Amesha Spentas. Two other references to Zurvan are also present in the Vendidad, but although these are late additions to the canon, they again do not establish any evidence of a cult. Zurvan does not appear in any listing of the Yazatas (Dhalla, 1932). The classic Zurvanite model of creation, preserved only by non-Zoroastrian sources, proceeds as follows: In the beginning, the great God Zurvan (God of time & boundless time) existed alone. Desiring offspring that would create heaven and hell and everything in between, Zurvan sacrificed for a thousand years. Towards the end of this period, androgyne Zurvan began to doubt the efficacy of sacrifice and in the moment of this doubt Ohrmuzd and Ahriman were conceived: Ohrmuzd for the sacrifice and Ahriman for the doubt. Upon realizing that twins were to be born, Zurvan resolved to grant the first-born sovereignty over creation. Ohrmuzd perceived Zurvan's decision, which He then communicated to His brother. Ahriman then preempted Ohrmuzd by ripping open the womb to emerge first. Reminded of the resolution to grant Ahriman sovereignty, Zurvan conceded, but limited kingship to a period of 9000 years, after which Ohrmuzd would rule for all eternity (Zaehner, 1955:419-428). Discussion and Conclusions In the lore of human cultures there are two major types of myths, which are easily detectable, although it is not rare that they intermingle: • Explanatory myths, where circumstances in nature - all the way from the creation of the world to the color of certain birds - are given reasons in events having taken place in the distant past. • Adventure myths, where heroes tirelessly proceeding on their quests are performing their grand feats, others are struck terribly by the most tragic events, tribes are finding their land, fighting a mighty foe, and so forth. These characters may be human beings, animals or the kinds of super humans usually labeled gods - no matter, as long as the myth in question is mainly an adventure story. Myths of creation (and also the myth of time) do unquestionably belong to the first category, in as much as they portray the making of the world, even in those cases where that primal process of events includes the feats of individual heroes in adventurous tiding . all creation myths are cosmological, but the reverse is not always the case. All cosmological myths are myths of change in the world order, and of those some are myths of primary change of world order. All creation myths are myths of primary change of world order, and vice versa. Then we have a definition for creation myths, relating to the criteria and classifications given above: creation myths are myths of primary world change. The narrowing down to creation myths can be made in this manner.( Stenudd,1994). In a general classification any coherent mythological system consist of four mythical layer which composition according subject

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and time sequence as follow: The myth of the universe image, creation mythology, human, hero and ritual myth and resurrection myth. In a reduction process in myth, the cosmos system (in macro size) at last ends to social system on earth. Comparison of two myths is done with following mythic all three indices: 1.Structure 2.Binary opposition 3.Archetypal Patterns. Structure Trinity: The time classification actually reveal the first trinity in the Avesta And the Rigveda. In both the myth time was first divided into three sections then again divided into four. All divisions follow of the mathematical order and structure. Some body believes that, Past, Present and future are the base of trinity term and division of mythical items into three sections. The past is the symbol of golden and welcome era. Present is not an ideal time. The future carrier the ideal and welcome past era. In future social reforms and evolution will occur. This is the verdict: Light will come into world instead darkness, lives by the truth comes into the light. Time prior of the creation process Praja-Pati, the Creator in the Rigveda, appears as a "golden embryo" but later, in the Athervaveda, he is the son of "Time" (Kala).In Bundahishn such say, Ohrmazd, before the act of creation, was not Lord; after the act of creation he became Lord, eager for increase, wise, free from adversity, manifest, everorderin aright, bounteous,all-perceiving, the Iranian word Zurvan (Time) is known from the 12th century BC but not in any mythological context. The Zoroastrian concept of time was linear not cyclical, but the Zurvanites fitted the cycles into the "time of long dominion." To Zoroastrians this world is a battlefield between two opposing forces, good and evil. The world is currently in a temporary stage of "mixture" where in both evil and good co-exist. But this is not how Ahura Mazda originally created the world, nor is it how it will always be. From the beginning, two spirits have existed, totally unlike each other, completely opposed in every way. Ahura Mazda is all-good and Angra Mainyu (known in Pahlavi as Ahriman) is all-bad. No evil ever comes from Ahura Mazda, and no good ever comes from Angra Mainyu (Nigosian, 1993, 84). Archetypal Patterns This researcher has borrowed the term archetype from the C. G. Jung and M. Eliade theory.But the aim is not explanation this myth by their views. It is merely propose an idea in order to express the common formats which be repeated in the Iranian, Indian and the myths of another cultures. These statements are fixed invariable. They constantly appear everywhere and whenever and shaping the myths content in themselves. The notion of archetype is of crucial importance in Eliade's historical-religious perspective, although he never provides a clear definition. Starting from the first occurrences of the term archetype in 1937, and taking into account. Three meanings of the notion of 'archetype' can be identified in his works, where it is used systematically since 1942. The first of these three meanings is the 'descriptive' meaning (the archetype as the expression of an 'archaic ontology', possessing a 'Platonic structure'); the second is the 'existential' meaning (the archetype as a consequence of boundary situations that a human being discovers at the moment of reaching an awareness of his or her own position in the universe); the third is the 'morphological' meaning (the archetype as a structural and structuring element of the religious phenomenon). This researcher's finding is not the narrative and story (which is Considered by structuralism, on the contrary, exactly the elements and tools that appear beyond of the narration structure. These structures present and appear not only in myth but also in all of the fields of folklore such as oral literature, ritual and traditions. In the mentioned myth of universe image there are common four archetypes: numerical structure (three &seven), circular (and centralist), sanctity (inviolability) and finally equalize of sizes. •

The number Four (4): The divine manifestation numbers are significant with the use of symbolic aspect. Number three, four, six, seven, twelve, forty and multiples of these numbers in the tradition of myth have symbolic image. Numbers have taken a variety of symbolic meanings among different ethnic groups. But all of them are covered by transcendental, mental, abstract and mysterious meaning.

The world's ages in both myths divided into four sections, in Indian mythology: Satya, Treta, Dwapar and Kali Yuga, which together extend to 12,000 divine years; In Iranian myth Universal history came to be seen as divided into four periods of 3,000 years, which together extend to 12,000 human (or solar) years.The World's Ages are twelve millennium of this system. Duration of these periods are equal.While in Indian myth duration of the periods follow a decreasing trend. •

Endless Time: In both myths time is divided into two categories, unlimited and limited. In fact In Iranian time myth duration of all four periods are equal, but in Indian limited is endless time that is sacred and divine time.While limited time related to only material and non spiritual world.

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Sexless time: Zurvan and Praja-Pati, are sexless. Because, Praja-Pati has delivered universe and Zurvan, god and demon (Ahura and Ahriman) by himself, which means half man and half woman. Millennialism: is also a doctrine of medieval Zoroastrianism concerning successive thousand-year periods, each of which will end in a cataclysm of heresy and destruction, until the final destruction of evil and of the spirit of evil by a triumphant king of peace at the end of the final millennial age (supposed by some to be the year 2000). "Then Saoshyant makes the creatures again pure, and the resurrection and future existence occur" (Zand-i Vohuman Yasht 3/62).



Golden Age: comes from Greek mythology and legend and refers to the first in a sequence of four or five (or more) Ages of Man, in which the Golden Age is first, followed in sequence, by the Silver, Bronze, and Iron Ages, and then the present, a period of decline. By extension "Golden Age" denotes a period of primordial peace, harmony, stability, and prosperity. The Indian teachings differentiate the four world ages (Yugas) not according to metals, but according to quality depicted as colors, whereby the white color is the purest quality and belongs to the first, ideal age. After the world fall at the end of the fourth, worst age (the Kali Yuga) the cycle should be continued, eventually culminating in a new golden age. In the Iranian myth there are two types of golden age. The first is the first 3,000 years that began when Angra Mainyu caught a glimpse of the realm of light in which Ahura Mazda dwelled, and he became determined to destroy it. Ahura Mazda set out to battle against him, but Angra Mainyu fled back into the darkness.The second is the golden age in the first 3000 millennium of the last 3,000 years. •

Eternity (disambiguation): in metaphysics of eternity might be summarized by the question: can anything be said to exist "outside o f ' or independent of Time/Space, and if so how and why? This term is only in the Iranian myth that is related to resurrection.In Zoroastrian after final judgment everybody can exist in eternity situation; but in hinduism is impossible. According to the sacred text of Hindu after two kinds of periods of dissolution, pralaya, at the end of a kalpa( when both the physical and subtle worlds are destroyed); and mahapralaya at the end of a mahakalpa(when all three worlds: physical, subtle and causal are absorbed into Siva) everything is destroyed. • Linear and cyclical time: Time Cycles and Wheel of time that regards time as cyclical and quantic consisting of repeating ages that happen to every being of the Universe between birth and extinction. In Hindu myths, time is cyclical. Brahma in Hindu mythology is referred to as the creator. A thousand catur yugas are said to make up the daylight hours of a single day of Brahma's life.ancient Hindu cosmology, describe which the universe goes through repeated cycles of creation, destruction and rebirth, with each cycle lasting 4320 million years. This cyclical nature of time as believed in Indian mythology refers to time as 'anaadi' or that without a beginning. The Zoroastrian concept of time is linear not cyclical, but the Zurvanites fitted the cycles into the time of long dominian. In the mythologies of India and the world was not to be reformed, but only known, revered, and its laws obeyed (Campbell, 1991, 191). In contrast, in Zoroastrianism, the current world is corrupt... and to be reformed by human action. According to Campbell, this progressive view of cosmic history can be heard echoed and re-echoed (Campbell, 1991,192). Mircea Eliade believes that mythology of linear time in Zoroastrianism originated with eschatological elements. According to Eliade, these elements include ethical dualism, the myth of a savior, and "an optimistic eschatology, proclaiming the final triumph of good (Eliade, 1978, 302). Numeric and Divine time: numeric is chronological time and Divine, literally "the right or opportune moment," relates specifically to metaphysical or Divine time. In the Hindu myths there are both type of time, numeric and divine; but in Iranian myth any act is measured only with numeric time. 3. Binary Opposition The myth of the time independently (no linkage with the creation myth) has not narrative and story aspect, but has all kinds of the binary oppositions. Claud Levi Strauss defined three kinds of binary opposition: Cosmic, Geographical and Sociological. According to Joseph Campbell we can add the transcendental (post—cosmic) myth to this categorist. Present picture of the time belongs to cosmic myths. There is a significant point, that is presence of oppositions obey a linear and reduction process. There are two types binary oppositions in both, Cosmic, and sociological. In the creation myth Unlimited/limited time, Numeric/Divine time are cosmic oppositions; Golden age / Iron age are sociological oppositions.

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Micro-Etnografìa

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Riflessioni di un antropologo in discoteca Alessandro Testa Università degli Studi di Messina

Non sono un frequentatore abituale di discoteche o di clubs, come si preferisce chiamarle oggi. Questi appunti sono l'esito di osservazioni che hanno avuto luogo in alcune discoteche romane molto frequentate e da me precedentemente sconosciute, nell'arco temporale di alcuni fine-settimana di primavera. Essi pongono, credo, problemi metodologici di "scala" e di rappresentatività del documento etnografico che pure saranno affrontati brevemente nel testo, per la scrittura del quale ho scelto un taglio stilistico molto descrittivo, non informale ma nemmeno saggistico. Sebbene il caso etnografico a cui mi riferisco sia estremamente circoscritto e non possa dunque assurgere automaticamente a modello paradigmatico, ritengo che una parte — e non la minore — degli elementi in esso evidenziati siano facilmente riscontrabili altrove — cioè in situazioni analoghe —, e che di conseguenza le riflessioni qui presentate siano "applicabili" e mutuabili — mutatìs mutandìs e tenuto in debito conto il senso critico e la contingenti esigenze interpretative dell'etnografo — anche all'analisi di contesti simili. Questa è la ragione per la quale la mia scrittura glisserà a un certo punto dal livello della descrizione etnografica a quello del tentativo di abbozzo di un modello teorico. Al micro-cosmo della discoteca (o meglio della maggior parte delle discoteche e di certo di tutte quelle che mi è capitato di frequentare) si accede in modo controllato e univoco. Spesso il controllo è esercitato preliminarmente tramite una selezione all'entrata, la quale è caratterizzata da procedure che mobilitano dinamiche di inclusione/esclusione basate su criteri estetici e, in alcuni casi, "razziali" o addirittura fisiognomici. I pierre (dall'acronimo "p.r.", addetti alle "pubbliche relazioni") e i buttafuori sono coloro che mediano tra l'interno e l'esterno; ai secondi sono concessi poteri straordinari di cui essi non esitano a servirsi e che permettono loro atteggiamenti coercitivi spesso al limite della legalità. Di primo acchito, dunque, e almeno stando alle modalità di accesso, il sistema-discoteca parrebbe molto formalizzato; in realtà, una volta entrati nello spazio interno la percezione cambia radicalmente: all'apparente e rigido ordine dei controlli e della selezione all'esterno e del limes dell'entrata/uscita si contrappone un ambiente in apparenza disordinato, spesso vasto, caratterizzato da una iniziale disorientante soluzione di continuità sinestesica in cui i luoghi, i corpi, le luci, gli odori, i suoni provocano un effetto di rottura con le precedenti coordinate spazio-temporali e sensoriali: si ha la percezione di entrare nello spazio di una realtà diversa da quella ordinaria. Se l'esterno e interno sembrano corrispondere a una dicotomia che caratterizza in modo ben definito lo spazio di interazione, l'interno è a sua volta divisibile in diversi spazi socialmente significativi: il bancone per la somministrazione degli alcolici, il guardaroba, il palco con le strumentazioni del disc jokey, la "pista" da ballo, lo spazio riservato (o "privi') a cui si accede mediante una ulteriore selezione interna, i bagni e, da qualche anno (ma non in tutti i locali), lo spazio fumatori (in realtà il fumare "in pista" è atto molto diffuso e che a seconda del caso e di alcune variabili viene tollerato oppure, al contrario, represso anche violentemente dai buttafuori). Ognuno di questi spazi è caratterizzato da funzioni (gestionali, economiche, relazionali, etc.) più o meno ben definite, anche se in alcuni casi queste stesse funzioni tendono a sovrapporsi in un unico spazio. Ciò che è certo, è che ciascuno di essi assume una valenza socialmente rilevante a seconda della circostanza e degli agenti che vi operano, la qual cosa rende difficili generalizzazioni non basate sulla pratica etnografica. Per una questione di incisività e brevità, mi concentrerò solo su alcuni di questi ambienti, quelli che, per ragioni contingenti, hanno attirato la mia attenzione e sollecitato le mie osservazioni, e che mi sono parsi essere teatro di modi d'azione ed interazione piuttosto significativi. Tuttavia, è dapprima necessaria una precisazione di carattere metodologico: mai come in questo caso la prassi etnografica mi è sembrata essere orientata — suo malgrado, direi — da questioni di "genere". In effetti, durante la lettura delle mie note e nella redazione di queste pagine mi sono reso conto di quanto i miei dati siano stati raccolti — in principio inconsapevolmente — in base a una percezione che definirei appunto di genere, e di quanto anche le rappresentazioni e le interpretazioni successivamente sviluppate siano state marcate da questa qualità. Nelle discoteche che propongono serate esplicitamente "etero" e che rispondono al gusto e alle preferenze della parte maggiore dei potenziali utenti o comunque di un vastissimo pubblico (sono molti i cartelloni di locali che, invece,

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organizzano eventi "omo", e dalla casistica che evoco in questo scritto escludo volutamente il fenomeno dei rave partìes) i modi di azione e gli spazi sociali mi sono sembrati essere negoziati e caratterizzati principalmente per il tramite della percezione di questa "appartenenza". Le conseguenze di tale tendenza di genere risulteranno evidenti nelle prossime pagine, anche se, chiaramente, non potranno essere affrontate in tutte le loro implicazioni. Le dinamiche tra agenti che si sviluppano nella sala che costituisce l'ambiente principale di ogni discoteca sono troppo complesse e articolate per poter essere presentate nello spazio di qualche riga. Qui mi soffermerò dunque solo su alcuni aspetti. Un'indagine etnografica circoscritta nello spazio/tempo della discoteca non può, infatti, avvalersi del più comune mezzo di interazione etnografica: la comunicazione verbale. Il volume della musica e la calca dei corpi rendono di fatto inutilizzabile il maggiore espediente di raccolta di dati, o almeno così è stato nel caso delle mie esperienze, che qui sto rielaborando. L'osservazione relativamente passiva e solo a volte attivamente partecipe dei fatti è risultata di conseguenza la sola strada metodologicamente praticabile con profitto. Inoltre, la presenza dell'etnografo — in quanto etnografo — non è stata avvertita ed è pertanto risultata, malgrado la sua stessa volontà, "nascosta". Nella gran confusione della discoteca ogni qualifica e riconoscibilità sociale perde di valore immediato, o meglio ne assume uno relativo: in discoteca ciò che si è al di fuori essa — in sostanza nella quotidianità che precede e segue il week-end — viene temporaneamente messo da parte, ed anche il più acuto osservatore avrebbe grandi difficoltà a distinguere un avvocato da un autista o da un professore universitario. Ogni differenza sociale e culturale viene (momentaneamente) livellata all'interno di una ristretta parentesi spaziotemporale. Gli spazi che mi sono parsi più interessanti e ricchi di interazioni sono il bancone dove si consumano le bevande e la pista da ballo. Questi due luoghi sono, in particolare, i luoghi dove avviene l'interazione tra persone vicendevolmente interessate a uno scambio comunicativo tramite il ballo o tramite la pur difficile comunicazione verbale. E in questi due ambienti, inoltre, che più spesso c'è contatto tra persone in cerca di avventure galanti. In effetti, la ricerca di un partner occasionale sembra essere una delle costanti dell'esperienza della discoteca, un fattore ben presente del resto anche nell'immaginario collettivo dei non frequentatori. I comportamenti relativi a tale ricerca sono abbastanza formalizzati e, stando alla mia esperienza, non mi pare lontano dal vero l'affermare che essi rispettano standard procedurali più o meno uniformi e quindi prevedibili. D'altronde molti frequentatori abituali di discoteche, per loro stessa ammissione (certificata da un mio breve questionario somministrato in diversi momenti), usano comportarsi similmente in tutte le discoteche, e determinati stereotipi non solo paiono ampiamente verificabili, ma sembrano addirittura fondare la loro operatività proprio in quanto stereotipi; le modalità di azione sono vissute, mediate e riprodotte secondo convenzioni che variano nel tempo e a seconda del luogo, ma che nel hìc et nunc dell'osservazione etnografica rivelano tutta la loro importanza azionale e la loro carica "socio-genetica", nella misura in cui accettare un determinato comportamento e agire di conseguenza rende patente la propria appartenenza, in questo caso alla categoria di "quelli che vanno in discoteca". Non rispettare le norme tacitamente sancite sulla base delle più diffuse pratiche significherebbe porsi al di fuori delle possibilità di azione (per esempio, al di fuori della possibilità di portare a buon fine il tentativo di seduzione). Non che la trasgressione non sia usuale o ammessa, ma essa rimane, appunto, tale. Un esempio un po' brutale, certamente sessista ma rappresentativo: un uomo che, come espediente per la seduzione, inviti una donna precedentemente sconosciuta al bancone, dovrebbe curarsi di offrirle un drink. Una violazione di questa banale norma (ad esempio lasciando che sia la donna a pagare entrambi i drinks) porrebbe l'uomo al di fuori della normale prassi sancita dalle convenzioni; il suo comportamento sarebbe pertanto avvertito come sconveniente e poco elegante, dunque trasgressivo. Questo esempio descrive una situazione decisamente stereotipica, ma ha di certo il pregio di essere facilmente appurabile. L'esempio che ho appena descritto rende inoltre palese quell'aspetto "di genere" a cui ho precedentemente accennato. Come osservatore partecipante percepito e inserito nella categoria maschi eterosessuali, la mia micro-etnografia è stata giocoforza orientata (da me stesso e dagli altri) verso un determinato range di azioni e situazioni. Pur con il rischio di forzare l'interpretazione — rischio comunque insito in ogni generalizzazione — ed escludendo volontariamente il caso, più che consueto, delle coppie che frequentano abitualmente le discoteche, direi che il comportamento degli individui maschi sembra essere motivato, soprattutto "in pista", quasi esclusivamente dalla necessità di avvicinare una donna e tentare di sedurla: avvicinare e tentare di sedurre in modo diretto e immediato, ciò che non accadrebbe mai in un ufficio, o in un'aula universitaria o in un qualsiasi altro ambiente e momento ordinario nella vita di una persona, diviene un'azione ovvia nello spazio/tempo della discoteca. Infatti, durante il ballo e nel caso della presenza di donne virtualmente abbordabili (a esempio: che stiano in gruppi composti da sole donne o che non stiano ballando con altri maschi), gli individui maschi appartenenti a gruppi diversi — o che comunque non si conoscono — si considerano alla stregua di avversari. Il loro comportamento è tale per cui le donne sembrano rappresentare un "capitale aperto" a cui tentare di attingere, donde le competizioni che è facile immaginare, talvolta tacite o addirittura scherzose, altre invece molto più serie: le risse in discoteca sono molto frequenti e sono causate nella grande maggioranza dei casi da "approcci" maldestri, da comportamenti sconvenienti nei confronti di una ragazza o comunque da situazioni generate durante i tentativi di seduzione. Non è un caso se nei posti liminali o dove la tensione generata dalla musica e dal ballo si distende (l'entrata, il guardaroba, il bagno) i tentativi di abbordaggio siano molto più rari e le interazioni tra le persone stranamente ovattate. Nel bagno, solitamente, si diviene sodali e complici anche con persone sconosciute. Oltre all'effetto disinibente delle sostanze psicoattive, la ragione di tale scarto comportamentale è evidente: lo spazio delle toilettes discrimina sulla base del genere, i maschi da una parte, le donne dall'altra. Le tensioni vi sono di conseguenza livellate. E ovvio inoltre che le donne, nelle situazioni-tipo sopra descritte, sono lungi dall'essere passive. Esse agiscono in risposta alle sollecitazioni dei maschi oppure sono esse stesse ad avvicinare e tentare di sedurre. Le situazioni di tensione e le eventuali reazioni

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negative, in questi casi, sono chiaramente meno violente. Su questi aspetti, tuttavia, la parzialità delle mie osservazioni e riflessioni è patente, le suggestioni di una collega antropologa sarebbero dunque alquanto illuminanti. Nonostante queste tendenze nei comportamenti e nelle azioni degli agenti sociali coinvolti nell'esperienza della discoteca, non sfugge all'osservatore critico che la caratteristica principale di tale esperienza è rappresentata da una messa tra parentesi della normali prassi comportamentale e di interazione tra individui. La massa danzante della discoteca, il trambusto, l'eccesso di socialità, l'abuso di sostanze psicoattive sono elementi coerenti all'interno di un sistema che ha nella quotidianità e nella "vita ordinaria" il suo polo oppositivo. Dedicherò le ultime righe di questo mio scritto a qualche considerazione su questi aspetti "di sistema". Le discoteche romane — ma l'affermazione che segue potrebbe facilmente esser generalizzata e comprendere la maggioranza dei casi italiani — sono di solito localizzate in ambienti urbani marginali o periferici, spesso degradati. I motivi sono facilmente immaginabili: i loro spazi sono caratterizzati da numerosi fattori comunemente ritenuti forieri di disordine o degrado sociale, come continui assembramenti di persone (giovani per la maggior parte) e quindi schiamazzi, volumi alti, spaccio di droga, risse. Questa caratterizzazione è coerente con — e corrobora — le tesi di una prospettiva interpretativa che qui intende rintracciare nel tempo e nello spazio dell'esperienza sociale della discoteca delle coordinate altre rispetto a quelle ordinarie, coordinate che permetterebbero di ricondurre le dinamiche che vi si sviluppano all'interno di una tendenza culturale ben definita: quella che una solida vulgata antropologica vuole ascrivibile ad alcune tipologie di ricorrenza festiva o calendariale, vale a dire la reintegrazione dell'ordine sociale attraverso un provvisorio e controllato passaggio attraverso un momento di disordine. In effetti, le pratiche della discoteca caratterizzano principalmente momenti marginali (le ore tarde della notte, l'alba) in giorni "marginali" (cioè vicini alla fine, dunque al margine) della settimana (il venerdì e il sabato) o in giorni festivi, come Pasqua e Natale (e relative vigilie). Come le sue pratiche e i suoi tempi, i luoghi della discoteca sono spesso socialmente eccentrici e, solitamente, periferici da un punto di vista urbanistico. Le normali abitudini sociali e addirittura le attitudini personali sono momentaneamente messe tra parentesi, al fine di partecipare pienamente a un momento durante il quale la propria individualità stenta a trovare senso al di fuori della simbiosi con la massa. Non è un caso che le "serate", le "feste" in cui c'è poca gente siano avvertite con disagio: il momento del disordine non può dispiegarsi se non all'interno di un eccesso di persone e comportamenti (questi ultimi però vincolati, per esser significativi, alla prima condizione: la presenza di un numero importante di persone che permetta di entrare nella dimensione della "festa"). Non che la trasgressione come categoria operativa — e quindi gli effetti di un sistema di valori e di condotte — sia neutralizzata da questa parziale "uscita dall'ordine". Come ho già accennato e stando anche a quanto ho riportato nelle precedenti pagine, abitudini, formule, canoni e convenzioni sono ben presenti anche all'interno di questa esperienza, ma esse sono significative — e quindi messe in atto in concrete relazioni sociali — soltanto nel momento reale della loro partecipazione: i momenti di sovversione, soprattutto quelli calendarizzati, sono sempre a loro volta controllati, ritualizzati, definiti sulla base di azioni e comportamenti culturalmente determinati. Basti pensare a ciò che il carnevale popolare ha rappresentato per secoli nella cultura europea. D'altronde l'uomo e la donna delle società industrializzate sono avvezzi a questo genere di commutazione del codice comportamentale: il tempo e gli spazi del lavoro, della domesticità, della mondanità sono sottoposti a regimi prassiologici diversi posti in essere dagli agenti sociali secondo modalità specifiche. Quello della discoteca è quindi il momento in cui ci si permette una licenza relativamente ampia e significativa sui costumi e sulla morale ordinaria. La percezione di sé e le modalità di azione e interazione con gli altri cambiano radicalmente. L'abuso, molto diffuso, di sostanze eccitanti, stimolanti o socialmente disinibenti (alcool, droghe, tabacco), così come l'oggettivo sforzo fisico richiesto dal ballo, indicano chiaramente quanto anche il proprio corpo diventi parte integrante e operativa di una rappresentazione che si potrebbe qualificare come "cosmologica", nella misura in cui essa è coerente con una più generale visione/costruzione della realtà e dei modi di agirvi; una visione/costruzione che consente la definizione di spazi, tempi e modi di relazione con cose e persone e che permette l'accettazione — ma anche lo scardinamento — delle prassi ordinarie in situazioni culturalmente definite e "controllate". Finito lo spazio/tempo di un relativo e ricercato disordine, la quotidianità e la routine irrompono nuovamente a ricondurre nella realtà ordinaria. Nel quadro di un'azione riconducibile alla categoria del festivo e alla sua "messa tra parentesi" dell'ordinarietà, dunque, tale spazio/tempo socialmente immaginato e costruito determina una destrutturazione (provvisoria) dell^ habitus funzionale a una sua ristrutturazione, fermo restando che la destrutturazione stessa implica a sua volta una mobilitazione di schemi e coordinate coerenti di pensieri e azioni, senza le quali mancherebbe all'agente sociale qualsivoglia margine di operabilità. Un'altra considerazione è possibile a questi riguardi: se ciò che viene più o meno consapevolmente attuato dagli agenti sociali rappresenta una rottura condivisa con la quotidianità e con i normali rapporti tra persone che la caratterizzano, tale rottura è operata sotto il segno del "divertimento" come principio ultimo da ricercare e al quale ispirarsi. In questo senso, è particolarmente significativa, ai fini di questo mio tentativo di sussunzione dell'esperienza della discoteca all'interno della macro-categoria del festivo (e dei relativi significati che essa implica), l'espressione francese "faire la fête", che viene utilizzata per indicare il momento del divertimento, soprattutto quello della "movida", della vita notturna e del ballo in discoteca; espressione che in italiano, senza grandi forzature, può essere appunto tradotta con "divertirsi" e che richiama palesemente quell'esperienza che nelle società tradizionali europee permetteva e simboleggiava il momento della sovversione dei valori dell'ordinarietà: la festa appunto. La discoteca rappresenterebbe, in questa misura, una sorta di tempio dove celebrare eventi e "ricorrenze" — caratterizzate da evidenti aspetti calendariali e rituali — ascrivibili a una vaga, post-moderna e non dottrinale "religione del divertimento", così come in passato qualcuno, riferendosi alla festa per antonomasia, ha parlato di una "religione del Carnevale".

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Royal Anthropological Institute or Royal Academy? Post-Modern Anthropology as Contemporary Art Edward Dutton

Abstract It has been widely argued that postmodern and cultural relativism are replacement religions in Romantic, neo-tribal tradition (e.g. Scruton 2000, Ku^nar 1997) This article attempts to better understand the nature of postmodern anthropology by looking at it through the prism of Art. "Following Scruton (2000), it argues that, since the Enlightenment, Art has performed a similar function to Christianity in many people's lives and is accordingly a form of replacement religion. The article demonstrates that while modern forms of anthropology might be deemed 'religious,' the cultural relativist anthropology of Margaret Mead appears to be art whereas this is less clear with postmodern anthropology. The article argues that the boundaries between postmodern (or 'contemporary) anthropology and visual 'Contemporary Art' are essentially weak and that postmodern anthropology is usefully understood as exemplifying contemporary art. Accordingly, it has no place in scholarly discourse. It is a replacement religion by virtue of its artistic nature.

Introduction The postmodern style in anthropology has been examined in relation to a number of conceptual frameworks. Roger Scruton (2000, 141) has compared it to magical incantations and spells writing that, "Deconstruction is neither a method nor an argument. It should be understood on the model of magical incantation. Incantations are not arguments and avoid complete thoughts and finished sentences. Their purpose is not to describe what is there but to summon what is there" \ Andreski (1974) and more recently Dutton (1999) have dismissed this style of writing as being 'jargon' which is attempting to make the reader feel that they are in the presence of someone or something profound. As Dutton puts it, of a particular sentence by philosopher Judith Butler, 'To ask what this means is to miss the point. This sentence beats readers into submission and instructs them that they are in the presence of a great and deep mind. Actual communication has nothing to do with it" 2 . 1 would argue that there is an artistic quality to the postmodern and cultural relativist styles both in anthropology and beyond. In this article, I will explore this suggestion and I will argue that some cultural relativist anthropology sits in the Romantic tradition whereby art has, for many, come to replace traditional 'religion.' However, where some cultural relativist literature is poor scholarship but successful art, postmodern writing is both poor scholarship (it is illogical and does not lead to the truth) 3 and poor art. Though it possesses artistic qualities it questions boundaries to such an extent that it is usefully compared to 'contemporary art.' Such a comparison provides fertile ground for further discussion by demonstrating that postmodernism is a replacement religion not merely in the ideological sense widely argued but specifically by virtue of being most 1 Scruton refers to writing of Jacques Derrida. Here is an example of Derrida's style: 'If the alterity of the other is posed, that is, only posed, does it not amount to the same, for example in the form of the "constituted object" or of the "informed product" invested with meaning, etc.? From this point of view, I would even say that the alterity of the other inscribes in this relationship that which in no case can be "posed." Inscription, as I would define it in this respect, is not a simple position: it is rather that by means of which every position is of itself confounded (dijferance)\ inscription, mark, text and not only thesis or /¿ewe-inscription of the thesis' (Derrida 1981, 95-96). 2 This was with reference to the following sentence: "The move from a structuralist account in which capital is understood to structure social relations in relatively homologous ways to a view of hegemony in which power relations are subject to repetition, convergence, and rearticulation brought the question of temporality into the thinking of structure, and marked a shift from a form of Althusserian theory that takes structural totalities as theoretical objects to one in which the insights into the contingent possibility of structure inaugurate a renewed conception of hegemony as bound up with the contingent sites and strategies of the rearticulation of power" (Butler 1997). 3 For an examination of the perceived nature of scholarly enquiry see Popper (1963).

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usefully categorised as art. Defining Our Terms Philosopher Daniel Dennett (1995, 95) argues that scholars should define their terms but "only up to a point". One of the problems with postmodern Deconstruction, from a scientific perspective, is that its deconstruction of terms is ultimately epistemologically pessimistic. We might argue that all concepts are examples of essentialism, even if hopefully "cautious essentialism" where it is realised that the concepts are merely useful constructs (see Dennett, 95). Faced with a world which does not make sense, they attempt to make sense of it by breaking it down into component parts which are easier to manage. They create taxonomies and conceptual divisions. From a Platonic perspective, these are eternally true and are reflected in the World of Forms. For the "nominalist", these categories are important but only insofar as they assist in answering discrete questions. Thus, the nominalist may engage in 'cautious essentialism': he employs a category because it is useful but he is always mindful of its conceptual difficulties. It is likely to, for example, play down nuance and neglect that which is borderline. But it is the, though imperfect, only practical means we have of gaining a foothold on the mountain of knowledge. As we shall see, many postmodern scholars — in deconstructing and suggesting the rejection of categories such as 'culture' — are only finding difficulties inherent in all categories (see Rees 2010a). All categories have a history, are culturallybased, play-down nuance and are underpinned by some kind of worldview. Moreover, postmodernist insistence of categories being 'conceptualised' in tremendous leaves in a situation where there is no room for analysis, thus stopping analysis. In this article I will define 'science' as being characterised by 'consilience' (Wilson 1998). This means that any assertion in a given science must be reducible to the science underpinning it, so an anthropological assertion must be reducible to biology. Secondly, 'science' must involve certain agreed characteristics. Anthropologist Lawrence Kuznar (1997, 22) argues that these are the following: (1) It must be solely empirical. If a discipline is based on unprovable or inconsistent dogmas it is not scientific. (2) It must be systematic and exploratory. (3) It must be logical. This means, in particular, that fallacious arguments, such as appeal ad hominem, appeal to motive or any other form of rhetoric must be avoided. It also means that the research and arguments must be consistent. (4) It must be theoretical, it must attempt to explain, to answer questions and, where possible, predict. (5) It must be self-critical, prepared to abandon long-held models as new information arises. (6) Its propositions must be open to testing and falsification. (7) As it wishes to be falsified and as anybody can, in theory, do so; science should be a public activity. (8) It should assume that reality as is actually real and can be understood; it should be epistemologically optimistic. As I have already noted, we can spend a great deal of time and space debating the merits of different definitions and, indeed, of the checklist method. I would suggest that this is a useful definition with which to underpin our discussion. As Hurley (2007) notes, a useful definition involves explaining what the category denotes, explains how it operates and it avoids metaphor and emotive language. I think this definition achieves that. Some disciplines, such as fieldwork-based anthropology, can never, perhaps, be fully scientific and so Wilson (1998) argues the more they imitate science the more they will partake in science's success in reaching the truth. How should we define 'religion'? Again, there is considerable debate over this (see Boyer 2001, Dutton 2009, Ch. 2, Fitzgerald 2000, Geertz 1966). For the purposes of this article I will define 'religion' in two different ways. On the one hand, I use it to refer to the lexical definition of religion: that is belief in the sacred as found in such 'religions' as Christianity. On the other hand, I will employ an operational definition of religion; focussing on how 'religion' functions. This is useful in making cross-cultural and cross-historical comparisons because, in some cultures, there is no clear border between the 'sacred' and the 'profane.' Moreover, it allows us to understand more because, by loosening this border, it explains secular movements which operate like religion such as Marxism or nationalism. Accordingly, I will define 'religion' as a group-based, illogical but fervently believed system of beliefs and practices which involve some sense of agency ranging from gods to fate. Such a definition helpfully prevents 'religion' from being simply subsumed into 'culture' (see Dutton 2009, Ch. 2). This means that, as Popper (1963) argues, 'religion' stands in contrast to science on much of the above checklist. It is noteworthy here that postmodernism is incongruous with our definition of science. It tends to be based on inconsistent and unproven assumptions, such as that all cultures are equal but that Western culture is 'imperialistic' and cultures can only be understood through their own concepts (see Wilson 1998). This 'cultural relativism' is highly problematic because it ultimately leads to epistemological pessimism where we can make sense of nothing. Postmodernism objects to objective logic — this is questioned as Western and imperialist — meaning that we cannot get to the truth or debate in any way (Kuznar 1997). And it is inconsistent because it attempts to use supposedly reasonable argument to undermine reason (see Bruce 2002, 221) 4. In that it involves, ultimately, 4 For a detailed critique of post-modernism see Gellner (1992).

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being subsumed into the void of Nothing, it might be argued, and Scruton (2000, 148) implies as much, that it is congruous with our definition of religion 5. How should we define 'art'? There are two main methods. The 'conventionalists' argue that 'art' is anything in a clear artistic tradition. In a sense, if it is produced to an artist (whether a painter, poet or dramatist) then it is art. I will hold to a more operational definition of art for same reasons that I have employed an operational definition of religion. Moreover, this definition becomes problematic because it means that anything can be 'art,' rendering the term less useful as a separate category. And it simply leaves us asking, 'What is an artist?' Accordingly, I will argue that 'art' is distinguished by its ability to create an experience of catharsis or, at least, a strong, emotional and thought-provoking experience and, as part of this, it should transport the audience into the realms of the imagination. In contrast to science, art, therefore, does not have to be logical, theoretical, systematic, empirical and so forth. Art, like science, should also involve certain characteristics, otherwise it can be subsumed into another category and is un-necessary, and, as such, I would suggest these be the subcategories widely understood to be denoted by the word Art: Music, Literature and Representation and the various genres within these categories. Accordingly, 'art' involves 'skill' in one of these subgenres (see Dutton, D. 2009). Bad art would be a failed attempt at this ideal. I would define 'catharis' as purging of the emotions and the intense relieving of emotional tensions, often in a way that is uplifting, thought-provoking and overwhelming. In contrast to 'religion,' art does not necessarily involve a sense of agency or belief or practice. Art involves creating a certain kind of emotional experience in the audience within certain accepted boundaries and taking them into the realms of the imagination 6. Finally, as I will draw a distinction in this regard, how should we best define contemporary or postmodern art in the sense of representational art? I would argue that, in contrast to our definition of art contemporary art is motivated by a desire to be avantgarde, to push the boundaries and to be novel. In this regard in tends to question — and deliberately flout — traditional artistic conventions and boundaries, assumes the conventionalist definition and does not necessarily involve skill or catharsis. It must be avantgarde and accordingly it must be shocking (see Scruton 2009a/b). This is perhaps most noticeably epitomised by the British school known as the New Neurotic Realists, many of them displayed in the Charles Saatchi Gallery in central London. These have included Damien Hirst — who put a cow in a vat full of formaldehyde, Tracey Emin who presented a filthy unmade bed and a video of herself talking about having abortions 7 and the Chapman Brothers, who are most well known for mannequins of children with their noses and mouths replaced by sexual organs. In 1998, many of these artists presented their work at a controversial exhibition at London's Royal Academy of Art called 'Sensation' (see Mulholland 2003 or Price 1998)

The Relationship between Religion and Art Scruton (2000) observes that the Enlightenment involved a systematic doubting of 'religion,' of the sacred ideas and values which held the society together; its sense of tribalism. It led to a rise in scientific thinking, following the definition of science which we have already outlined. This led to a reaction in the form of the Romantic Movement which attempted re-sanctify the world; to, in a sense, operate in the same way as the Christianity which had been rejected. As Scruton argues: 'Beneath the rational culture of the Enlightenment, the Romantics searched for another, deeper culture — the culture of the people, rooted in mystery . . .' (Scruton 2000, 49). The essence of Scruton's (2000) thesis is that there is a direct link between the fall of religion (and tribalism) and the rise of the arts and he provides a persuasive case. In religious societies, what we would now call 'the arts' was grounded in the religion (as the core of the culture) of that society. High art recycled the society's myths and this can be observed from Sophocles through to Shakespeare (17-18). Scruton continues, drawing upon analysis of the ancient world, to argue that art and religion begin to diverge when religion is 'in turmoil or declining.' Having argued this point, Scruton suggests that modern art evidences a clear separation between religion and art. Modern high culture, he argues, tends to reflect an isolated individual in a quest for a community or lapsing into solitude and mental anguish. It replaces the religion which has been lost and can never truly be regained. It is religion's surrogate in a number of ways. Firstly, it permits ritual, especially so with regard to music and theatre, in which, as in Durkheim's (1995) analysis, a kind of effervescence can be experienced. On a private level, even reading a novel or a poem can permit us to enter another world and experience a kind of transcendence of ordinary life. Secondly, if a canon of literature is created, partaking in part of that canon is a means of partaking in a transcendent experience with an 'imagined community' (see Anderson 1983) of fellow religious seekers. Thirdly, the literature itself can become a new way of binding society together and Scruton sees it as no coincidence that the decline in 5 Scruton (2000, 148) writes that the ultimate purpose of Post-Modernism — he concludes — is to take us into a void of Nothing where there no meaning other than destruction of meaning where 'absence is the all-embracing presence. It is, in short, the work of the Devil.' This sense of 'presence' would be congruous with the definition of religion that I have espoused. 6 For a more in-depth discussion of the definition of 'art' and the debates surrounding such definitions see Adajian (2007), Danto (1981), Tilghman (1984) orDavies (1991). See also Scruton (2000, 2009a/b). 7 Having been shortlisted for the 'Turner Prize,' Emin's 'My Bed' was displayed at the Turner Prize Exhibition at Tate Britain in London in 1999. It included condoms and a pair of pants with menstrual stains on them. See Saatchi Gallery (Accessed 8th February 2011).

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theology is paralleled by a rise in the academic appreciation of the arts. Fourthly, 'high art,' unlike popular culture according to Scruton, operates rather like the myths that form a part of religious discourse. Vaguely based on truth, they permit us to meditate on the meaning of life. Scruton insists that popular culture is merely a shallow relation to high culture. Its literature does not permit us to seriously contemplate the human condition and nor does it create catharsis. And, fifthly, in some cases at least, this literature transports us to a world where there is once again a community and rituals, such as in the works of Wagner. Romanticism sits in this tradition in two key ways depending on the Romantic tradition in question. It either creates a new religion which attempts directly to replace the lost religion, such as with Romantic nationalism, or it achieves elements of this in a more subtle way by taking us into the depths of the imagination, as in Romantic art.

Margaret Mead's Ethnographies as Art Margaret Mead (1901 — 1978) was perhaps the leading figure in cultural relativist anthropology and she has been described by others as first and foremost a 'writer', 8 her scholarship having been widely discredited (see Freeman 1983 or Orans 1986). Nevertheless, she sits in the Romantic tradition by virtue of illogical and fervent beliefs and, most importantly, the prizing of tribal life as unique, (she advocated cultural relativism), special and, possibly superior to Western life. Mead's Coming of Age in Samoa (Mead 1928) was not scientific and was successful but not for scientific reasons (see Orans 1986). However, I would suggest that part of the success of Coming of Age in Samoa lies in the way in which Mead presented it. It was, in literary terms, a very successful piece of work because it was able to transport the reader to a lost, ideal, perfect world and bring that world to life. And, putting aside our arguments over other religious dimensions to Mead's work, this is, I think, significant. It is difficult to find an example that singularly encapsulates this quality and I am wary of being accused of providing insufficient evidence or engaging in some kind of appeal to instinct. But let me provide the following example of Mead's style. This is from her second ethnography: "In the centre of a long house are gathered a group of women. Two of them are cooking sago and coconut in shallow, broken pieces of earthenware pottery, another is making beadwork. One old woman, a widow by her rope belt and black rubber-like breast-bands, is shredding leaves and plaiting them into new grass skirts to add to those which hang in a long row above her head. The thatched roof is black with thick wood smoke, rising incessantly from the fires which are never allowed to go out. On swinging shelves over the fires, fish are smoking. A month old baly lies on a leaf mat, several other children play about (...) It is dark and hot in the house (. . .) The women have laid aside their long drab cotton cloaks, which they always wear in public to hide theirfaces from their male relatives-in-law (. . .) One woman starts to gather up her beads, 'Come, Alupwa!' she says to her three year old daughter. 'I don't want to!' The fat little girl wriggles and pouts. Yes, come; father will be home from the market and hungry afterfishing all night" (Mead 1942, 19) Whether they are accurate or not, Mead describes these wistful little snippets of life. Her style is thick with sensual description, it is active, it is a present tense stream-of-consciousness allowing you almost to take part in it, it subtly conveys important pieces of ethnographic information through what is, in some ways, a kind of prose poem which drifts off dreamily with no real ending when the father returns: 'His hand plays affectionately with her hair as he scowls up at his wife, who is sullenly descending the ladder.' Each of Mead's little scenes are poetic in this way and, indeed, the particular chapter of Growing Up in New Guinea (Mead 1930) is simply a series of these 'Scenes from Manus Life' with no clear connection between them. Ultimately they culminate in the following: 'When will Molung die?' asks little Itong, and 'Come for a swim,' she adds, diving off the veranda without waiting for an answer' (24). Mead's style seems to me to be like that of a skilled novelist. There is a degree to which Mead's work is first and foremost 'literature' and, I would argue, a very high standard of literature. Equally, if we briefly look at an example of contemporary style in anthropology, we can also see — in a very different way — its artistic dimensions, though it is not as successful as Mead. "This article explores continuities and discontinuities in conventional and changing meanings and uses of essufi a term which denotes approximately the 'wild', 'solitude', or 'nostalgia' in dialects of the Tamajaq language spoken by Tuareg peoples in Mali and Niger. In this analysis of creative reinventions of essufi in both local and 'borderlands' spaces of psycho-social crises, oral art performances, and 'modern' literature, the wider goal is to produce more nuanced anthropological understandings of local/global and structure/ agency connections. The data illustrate the connections between sacred spaces — literal, imagined, and remembered — in African philosophical modes of thought and sociopolitical power and agency. The Tuareg case opens up perspectives on how cultural spaces of varying scale are affected by selective remembering, and creative re-enacting of key philosophical notions. The data caution anthropologists against reifications and binaries of global and local, and structure and agency" (Rasmussen 2008, 609). This is an abstract summary of an anthropological article by Susan Rasmussen. In quoting it, I am not meaning to criticise the article or suggest it is of no academic value. That is not the issue. I quote this abstract because of its style and what this style achieves 8 See Sandali (2001).

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emotionally. It focuses on an obscure tribe, immediately quoting its language. This creates a sense of mystery and takes us there because we can, at least partly, hear the tribe speak. Otherwise, I would submit, it is very difficult to understand. The sentences, despite not quoting, are lengthy, often going over four lines. It is substantially composed of anthropological and other social science jargon such as: 'continuities and discontinuities', 'selective remembering,' 'borderlands', 'psycho-social crisis' and 'reifications,' all of which could be expressed in more everyday and immediately understandable English. There is the peculiar use of the backslash — which creates a kind of energy and immediacy. The widely understood term 'modern' is placed in quotations as if to indicate that the writer does not accept such, one guesses, simplistic, common categories and, accordingly, it subverts — without demonstrating the intellectual right to do so — these very same categories. This kind of writing, in my view, creates the impression — through an opaque style - of profundity and being in the presence of a profound mind. And it is, in this sense, a kind of art 9. Philosopher of art Denis Dutton is well known for his 'Bad Writing Contest' which he ran between 1995 and 1998. As part of this, he highlighted many examples of jargon-filled, verbose academic writing, arguing that the aim of much of such writing was merely to create a sense of profundity and inflate weak or unoriginal ideas rather than to communicate clearly (see Dutton 5th February 1999). For Dutton, the example I have cited — from one of the world's leading anthropology journals — would be a worthy contender in his contest, if not actually a winner. He remarks (Dutton, Private correspondence with author 30th October 2010), 'The writing seems awfully pretentious. Not meaningless, but it is certainly academese' 10 . Put simply, this style of writing is not 'science' because it is unclear and thus illogical and where it is clear it is arguing something scientifically questionable — that anthropologists are engaging in 'reification;' that they are possibly literally believing that concepts are real things. It is to closer to 'art' because it does involve some kind of emotional experience and journey into the imagination. It achieves this in a sense of making us think of 'Africa' and 'tribes.' It also confuses the reader and makes them, possibly, feel that they are in the presence of someone profound and, for some, this might lead to an intense emotional experience. But this is more a mark of religious discourse than artistic discourse. Accordingly, though this might broadly be understood as 'art' it is not especially in-depth or successful art. Moreover, it is not in a clear genre. But it seems closer to 'art' than 'science.' A second example of such style, produced by Rees (2010b), is worth assessing at some length. As background, I should point out that in an attempt to provoke a detailed criticism of the scientific model of anthropology and the much criticised 'culture' category (see Kuznar 1997), I (Dutton 2010b) wrote a comment piece for the Journal of the Royal Anthropological Institute (perhaps the world's most prestigious anthropology journal, chosen my me for this very reason) criticising Rees (2010a). The precise nature of the debate is not really relevant to our discussion here. What fascinated me was the linguistic nature of Rees (2010b) rejoinder to me. It is powerful and does, possibly, induce an emotional experience in some readers.

On the challenge - and beauty — of (contemporary) anthropology Rees' rejoinder begins by stating his argument: 'The challenge — and beauty — of (contemporary) 11 anthropological enquiry' (895) is that it escapes the conception of science advocated by Karl Popper. This is 'critical rationalism' - in essence, is that 'science' must be strictly logical, open to falsification, epistemologically optimistic, public and a number of other factors (see above). Accordingly, there is an objectively accurate understanding of the world which can be increasingly known. So, Rees' argument is that '(contemporary) anthropology' is a 'challenge' and 'beautiful' because it rejects critical rationalism. There are three difficulties at this stage. 1.

Rees' expression is unclear. What is he trying to say by placing 'and beauty' between dashes when there does not appear to be any need to? Why is 'contemporary' placed in brackets? Is he talking about 'contemporary anthropology' or 'anthropology' more broadly? The punctuation structure renders this — and thus his essential argument — unclear. Accordingly, the argument itself is an appeal to ambiguity and is not logically sound.

2.

He is not using neutral language. By terming '(contemporary) anthropology' a 'challenge' involving 'beauty' he is appealing to the emotions of the reader. Implicitly, a 'challenge' is positive and only the weakling or coward demurs from it. Thus, Rees is appealing to popularity; the desire to be regarded as adventurous and brave enough to accept a 'challenge.' By extension, it might be argued that those who disagree with Rees — such as Dutton (2010b) — are cowards or reactionaries.

3.

The word 'beauty' is not neutral. It is flattering the reader — another appeal to popularity - and suggesting that agreeing with

9 For an interesting discussion of aesthetics see Denis Dutton (2009) and for a critique see Torres (2010). There are many other examples of this anthropological style. See also Helmreich (2007, abstract). 10 Denis Dutton is no relation of mine. He sadly died on 28th December 2010 and I am most grateful that, though presumably very unwell, he took the time to correspond with me and give me his advice on this research. 11 Popper (1957, 160) observes that many historicist movements draw a clear divide between themselves and everything that came before which they perceive as inherently outdated. They 'contrast their "dynamic" thinking with the "static" thinking of all previous generations...' and draw a clear line under the past because their thinking is 'so staggeringly novel.' Terming your intellectual movement 'contemporary' implies that opponents are 'old-fashioned' — an appeal to novelty — and seems to be in line with Popper's summary of what is, as we shall see, an implicit religion. The idea that we are 'Modern' likewise draws such a divide (see Scruton 1996).

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Rees' 'anthropology' involves creating something 'beautiful.' It may imply that the anthropology advocated by Rees' opponents is, at best, less beautiful than his own. The word 'beauty' is vague but Rees does not define it rendering any argument based around it inherently weak. This argument is not explicitly pursued in the subsequent body of the essay which, instead, goes off on various different tangents to respond to specific criticisms in Dutton's (2010) comment piece 12. Accordingly, the central stated argument is a 'Red Herring' which may confuse the reader. Where there is attempt at counter argument it is an appeal to authority and intuition: 'many of those anthropologists who have conducted research in the new domains have found themselves in an open, undefined space to which their established analytical terms did not speak and which rendered the stakes of their discipline unstable and even uncertain' (896). It does not matter how many anthropologists feel this way, it doesn't make their decision philosophically sustainable and we might ask, 'Which anthropologists? Do these anthropologists have a reputation for logical thinking?' This is an appeal to faulty authority and, perhaps, 'the majority' though Rees does not attempt to render his inductive argument more persuasive by stating what percentage of anthropologists take this view. He refers to this change as 'extraordinarily exciting' (896). Again, this is appeal to popularity. It plays on the emotions. Secondly, Rees' defence uses a great deal of 'appeal to jargon,' of unclear or obscure language such as 'it creates a no-longer, not-yet situation that invites genuine conceptual innovation' (896) or the assertion that anthropology should be focused on studying 'the emergent' or that it exists in an 'open, uncertain space' (896). What does it mean to conduct research in 'an open, undefined space'? And why should this 'space' be kept 'open'? This is, again, appeal to popularity. Are you 'open' or' closed' to new ideas? Rees effectively states that Westbrook (2008) — whose book his original article critiqued (Rees 2010a) - is 'closing' this space as if he is stopping people from thinking. Westbrook's suggestions for anthropology are closing-off rather than opening-up which is problematic because these 'open spaces' 'invite genuine conceptual innovation.' Thirdly, Rees engages in appeal to verbosity as evidenced in very long sentences with many clauses. For example, page 896, par 2 is composed of two sentences, the first of which — involving no quotations - is 73 words long 13. Taken together with the jargon, this has the psychological effect of intellectually intimidating or beguiling the reader, compelling him to accept Rees' arguments for invalid reasons. Rees then summarises Popper's view of science and suggests difficulties with it. For example, he states: 'One can certainly think through the conceptual presuppositions one brings to research without articulating them in the form of a falsifiable theory' (897). This is stated as a crucial criticism and yet there is no attempt to back it up at all. The fundamental issue is whether we can have understanding without some kind of theory. Dutton suggests we cannot because science involves building on previous knowledge and even language is ultimately underpinned by a worldview and thus theory. Rees would require some kind of conceptual framework to make sense of these cultures and this would, to some degree reflect his culture because it would be expressed through his language — and if he tried to express it through foreign categories he would still have to explain them through his language - and it would therefore be based on certain implicit assumptions. I suppose he could try to avoid language and make sense of the culture through abstract painting. But, as I've said, this would not be science. It would be a kind of art. So, in essence, Rees' philosophy leads us into a situation where 'contemporary anthropology' can become 'contemporary art;' where the conceptual borders are blurred. Rees' second reservation is that Popper's model basically makes research boring because it reduces everything to 'yes/no logic' (897). But this is the essence of science and logic. Either an argument is logical or it isn't. Either it can be backed up, to a reasonable degree, with empirical evidence or cannot be. Moreover, we might submit that Rees' is a strawman understanding of 'logic.' Inductive logic is not simplistic 'yes slash no' but straining over the issue before carefully and hesitantly coming to a conclusion. Rees then argues that Popper's model denies the 'theory-less but epistemologically not naiVe" (a further appeal to jargon) effort to move beyond what one already knows' (897). He argues that this view of science would lead to 'impoverished research' and 'meagre role' — appeal to insult, popularity and, lastly, a kind of threat. Thereafter, essentially, Rees argues that fieldwork involves disorientation and a shattering of preconceptions. This may be true, he notes Dutton arguing, but expressing them — through language — involves some kind of category system and, accordingly, no matter how implicit, some form of theory about how things operate because a world-view, and thus theory, underpins language. Clearly, Dutton is defining 'understanding' differently from Rees and so Rees' argument here is based on equivocation. Rees is now talking about understanding ex nihilo which is comparable to the 'understanding' one might reach due to a mystical experience (see Rambo 1993). It may be the case that fieldwork involves a breakdown — comparable to religious experience — so that one feels that insights come from nowhere and nothing makes sense. But this does not mean that they really do come from nowhere — this is appeal to 12 1 refer to myself in the third person here as a way of better looking at this debate as an uninvested outsider. 13Butler's (1997) Bad Writing contest-winning sentence was 94 words long. Rees' (2010b) competitor is the following: 'Given that time and space are limited, however, I can merely claim that, owing to the various departures from the ethnographic project of classic modernity that anthropology has seen since the 1980s, many of those anthropologists who have conducted research in the new domains have found themselves in an open, undefined space to which their established analytical terms did not speak and which rendered the stakes of their disciple unstable and even uncertain.'

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intuition. As part of this, Rees asserts that fieldwork 'literally derails the scenarios and assumptions that one has laid out beforehand . . .' (897). This is a misuse of language — possibly reification fallacy - because fieldwork does not literally have rails. Rees then argues that, for Dutton, this 'derailment' is mere 'noise' whereas for him it is at the heart of fieldwork and it is a turning point in making sense of the object of study. This involves emotive language. Moreover, it a false dichotomy to suggest that something which 'distracts the researcher from her actual business' (897) is inherently useless to that 'business.' A distraction might, sometimes, aid useful developments. Rees also refers to the hypothetical anthropologist as 'she' and 'her.' This novel practice — usually it is 'he', 'he or she' or 's/he' — is, thus, not neutral and is making a political statement. Rees is conveying himself as pro-feminist, as leftwing (see Ellis 2004) and thus, I submit, attempting to engraciate himself with the assumed politically left-wing readership of social anthropologists (see Kuznar 1997). Next, Rees defines 'science' in a very broad manner as 'knowledge-producing practice' (897) and later as 'thoughtful, sincere research' (900). Firstly, we might ask, 'Which is it?' because a 'knowledge-producing practice' is not necessarily 'sincere' or 'thoughtful' and 'thoughtful, sincere research' might not produce knowledge. Secondly, these definitions are so broad that 'science' could be merged into 'art' — which can be thoughtful, sincere, involve research and produce knowledge — and become meaningless as a separate category. Thirdly, these definitions are highly novel — they are stipulative - and are nowhere near most lexical or theoretical definitions of 'science' and to engage in debate we must agree on how we are defining our terms (see Hurley 2007). Rees is keeping his model as 'science' by redefining 'science' stipulatively. Thus, Rees engages in the fallacy of equivocation because it is quite obvious when he is discussing 'science' as examined by Popper that it is defined in a very different way and this is nowhere made explicit. Rees then distinguishes between anthropologists who define 'humans' and work from there — a scientific method — from those interested in finding out if there are other human groups who escape our categories of apprehension. In doing so, he is engaging in a logical practice of essentialism. But this is a false dichotomy. Critical rationalists are, by definition, interested in having all their assumptions challenged and this includes their categories. He argues that his form of anthropology has 'a sense of wonder' — another appeal to emotion. Rees finds Dutton's conception of 'culture' 'delimiting' because he wants to 'avoid beginning with answers' (899). This is deductively impossible. In Logic, you must begin with some truths, some boundaries and some agreed definitions ultimately underpinned by Mathematics or you cannot go any further. But, Rees argues, 'culture' prevents him, for example, asking questions which 'insert movement into our established categories of knowledge/thinking . . . '. These include questions such as 'Are humans elsewhere conceptualized differently?' Where and in what ways do we see humanum in motion, in metamorphosis?' (899). Again, this appears to be at least partly an appeal to jargon. Why use the word humanunii Why code switch? Moreover, it is further evidence of false dichotomy. Evolutionary anthropologists, for example, may indeed insert movement into categories by, for example, questioning the borders of the 'human' essence. Rees suggests that 'insistence' on the use of this 'culture' category is limiting because everything is seen as grounded in culture. He gives a series of examples of potential human thought — including that inanimate objects have 'language' - and asks rhetorically 'All culture?'(899). They are 'all culture' because the term 'culture' means the entire way of life of a people and Rees' denotations therefore involve various degrees of extension within the 'culture' category. Rees ultimately argues that perceiving others through our own categories is 'symbolic violence' (an appeal to emotion and to abuse and, for the reader, popularity). Rees suggests that the consequence of Dutton's approach is 'boredom' (899) which is another fallacious argument — an appeal to novelty. To suggest that Dutton's model leads to an 'eternal repetition' (899) is hyperbole. Rees summarises by asserting that the 'significance' of his 'philosophically inclined anthropology of thinking' is that by seeing 'culture' as one of many ways of thinking about humans its 'opens up a space' beyond the assumption that anthropology — as a science of humans — is a science of culture (899). This metaphor does not clearly state why his model is 'significant' to anthropology. In essence, he is arguing that by not assuming anthropology is a science of culture he is achieving a situation where, for some, anthropology is not assumed to be a science of culture. This is a circular argument — it begs the question - and it does not justify the 'significance' of Rees' anthropology in any way. Rees ends his rejoinder by referring to 'Dutton's Dilemma' (899-900). He quotes Dutton's concern that rejecting 'culture' has become illogically popular in anthropology leading, sometimes, to unfair peer-review treatment of those who employ it. Rees states, 'These lines document how Dutton's holding on to his theory-based conception of science has seemingly alienated him from much of contemporary anthropology' (900). With emotive language such as 'alienate' this is an appeal to threat — you will be alienated if you accept Dutton's view rather than mine — and, regarding Dutton, to popularity: reject your theory, embrace mine and you will not be 'alienated'. Lastly, Rees claims to 'hope' that he has shown that anthropology is science — but he stresses his stipulative definition (this time 'thoughtful, sincere research') — and that the 'beauty' of '(contemporary) anthropology' is that it occurs 'beyond either/or oppositions' (900). This could be interpreted as an appeal to pity. Who, after all, wants to dash someone's hopes, especially if they stress that their research is 'thoughtful' and 'sincere'?

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Contemporary Anthropology and Contemporary Art Rees does not prove that his version of anthropology is 'science' because he employs a stipulative definition and uses a process of equivocation. Secondly, there is no engagement with aesthetics in this essay — the word 'beautiful' is nowhere defined — so we must conclude that he has not proven that '(contemporary) anthropology's occurrence 'beyond either/or oppositions' possesses 'beauty.' Thirdly, he has not proven that his form of anthropology occurs 'beyond either/ or oppositions.' This metaphor is vague and undefined other than through further metaphors and jargon and Rees himself — exemplifying such an anthropology - employs such oppositions to criticize Dutton's logic such as accusing Dutton of quoting him 'out of context' (898). As such, none of Rees' arguments are logically valid and even if they were they would still be fallaciously argued. But we can also assess Rees' style in terms of art. It plays on the emotions of the readers, thus potentially creating strong emotional experiences. In its opacity, it confuses and intimidates the reader, thus potentially making them believe they are in the presence of something profound, a possible road to catharsis. The degree to which it takes us into the realms of the imagination is questionable but there is an extent to which it does this by describing what it feels like to be anthropologist and what fieldwork feels like from a subjective perspective. Accordingly, in a broad sense, this appears to qualify as 'art.' What renders it less than successful art is, I think, a matter of degree. Whereas Mead clearly transports us to another world, this is less clear with Rees. Whereas, I would argue, Mead's writing may, at points, produce a kind of catharsis I would submit that Rees merely provokes emotion. Thinking about it destroys its power which is not the case with successful art (see Lawrence 1931) Accordingly, it may be possible to compare the style of 'contemporary anthropology' to what is sometimes called 'contemporary art', as in representational art. An institutional definition of 'art' renders 'contemporary art' as being 'art' but its artistic status is sometimes questioned because it is, often, not interested in aesthetics or artistic skill and nor does it necessarily create catharsis. Its purpose is, in essence, to be innovative and to create emotion, in particular shock. A well-known example is the British artist Damien Hirst's Cow suspended in a vat of formaldehyde. It might be argued that the style of Rees and Rasmussen is comparable to this. To the extent that Rasmussen is saying anything, she is arguing for being radically new and rejecting traditional conventions and categories such as the use of 'culture' or 'modern.' These traditional methods are rejected in favour of presenting a piece of writing which does little more than insist it is avant-garde, induce emotion and — through its opacity — the feeling of something profound. It also breaks with scholarly convention because it essentially advocates a situation — though not necessarily consistently — where there are no 'rules' and, as such, anything goes; art and science can essentially be merged as one (see Rees 2010b). Both contemporary anthropology and contemporary art imply a very broad definition of their discipline. For Hirst's cow to be 'art' we must define art as that engaged in by an artist or anything in an art gallery and we must do the same, as Rees seems to concede, for contemporary anthropology to be 'science.' As we have seen, Rees' definition of 'science' — 'knowledge producing practice' or 'thoughtful, sincere research' — is extremely broad and really means that all research is basically science and, as such, 'science' is 'science' if it is engaged in by a scientist. As we have noted, this is a problematic kind of definition. By virtue of categorizing such anthropological writing as 'art' we can see that both cultural relativism and postmodernism are replacement religions in both of the senses discussed by Scruton.

Conclusion This article has raised a number of questions about the boundaries between categories. We have examined the central points of difference between science, art and religion and also the points of cross-over between religion and art. We have done so in order to better make sense of postmodern or 'contemporary' anthropology, how we should best comprehend its style and how we should best categorize it. I would conclude that postmodern anthropology can be compared to postmodern art. This comparison can be made not simply because the philosophy implicitly advocated by both disciplines is very similar but because being an audience to either one involves the same experience: an induced, manipulated emotional reaction including — due to the confusion of categories involved — a feeling of the profound. As we have observed, there is an extent to which we might also understand postmodernism in terms of 'religion,' in the operational sense of the word, and 'art' has in many ways become a replacement religion. The 'religious' dimensions to postmodernism have been examined elsewhere and cannot be divorced fully from its 'artistic' nature. But, in essence, whereas Mead's writing does appear to be 'art,' postmodern anthropological style is effectively contemporary art. Indeed, to a certain degree, Rees (2010b) implies that it would be acceptable for academic anthropologists to present their artistic expression as research. Perhaps some contemporary anthropology is better suited to the Royal Academy of Art than the pages of the Journal of the Royal Anthropological Institute. But that aside, this article has demonstrated that postmodernism can be usefully understood as a replacement religion by virtue of its artistic nature and I think that this will be a fruitful pasture for further discussion.

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Cultural A n t h r o p o l o g y

Perspectives 45-57

"One Culture - Many Perspectives" Understanding Cultural Diversity Through Rural Livelihoods A Reflection from the Rural Craft Communities in Kandy, Sri Lanka Dr. Chandima Dilhani Daskon Department of Geography, University of Sri Jayewardenepura Nugegoda, Sri Lanka Email — [email protected] cdaskon@yahoo. com

Abstract There is no universally accepted definition for the concept of culture. Culture should be understood as a specific and unique phenomenon that affirms community's identity and diversity. Judging one culture by the values of another over-simplifies the distinctiveness and the wealth of a particular culture. Recognising, understanding and respecting dynamics of cultural norms, and defending and expanding cultural freedom are crucial in assuring secure and sustainable well-being of any community. This paper investigates different perspectives of culture by referring to everyday livelihood activities of rural communities that engage in traditional craft industries in the Kandyan region, Sri Tanka. In a livelihood perspective, culture is defined as a structure, function, product and identity, through its influence on everyday lives of people, and accordingly people's engagement with and uses of culture. Culture is multifaceted and extremely diverse entity that varies from place to place and person to person. The strengths of cultural diversity should be respected and accepted by mainstream society, if any initiative is to be truly about satisfying human desires. Key words: culture, livelihoods, craft community, Sri Lanka

Introduction People in different societies define and understand culture differently. Even though culture is a universal element, there are many different ways in interpreting the concept of culture. The way that culture interprets and perceives vary according to people's lifestyles, behaviours, and more importantly people's attachment with their past, inherited customs and value systems. Raymond Williams, a renowned Sociologist, believes that 'culture is one of the two or three most complicated words in English that notoriously difficult to define' (Schech & Haggis 2000:16). In the present day society we are familiar with different types of culture, namely: global culture; popular culture; urban culture; rural culture; young culture; pop culture; modern culture; western culture; traditional culture; drug culture; and cyber culture etc. However, there is a marked emphasis on traditional and indigenous cultures due to their potential economic values and significance in meeting day-to-day survival needs of people (see Jenkins 2000). Development scholars seem to have accepted that cultural attributes and values actually matter in development (see Sen 2004; Rao & Walton 2004; Escobar 1995; Tucker 1999; Commonwealth Foundation 2008; UNFPA 2008), but there is still much debate over how, why and where they matter (Radcliffe 2006). According to Sen (2004:38), there are appropriate questions to be asked in this regard; what are the different ways in which culture may influence development processes? How can such influences be better acknowledged and understood? and, how might be cultural context modify development policies? Part of the answer for all these questions relate to the way of understanding and defining the concept of culture. The concept of culture first comes from the Latin word of culturare, which means 'to cultivate' (Baldwin et. al, 2006). The term Kultur, as in the Classical German implies to 'spiritual brotherhood', and in English, the notion of culture refers often to represent 'high' culture — arts (see Throsby 2001) and manners of educated elites (see Bourdieu 1986). Anthropology, the major

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discipline that deals with culture in all its aspects, refers to symbolize 'human behaviours' (see Nanda & Warms 2007). Therefore, in its simplest sense culture implies to human activities, and different definitions of culture represent different perspectives of human activities and behavioural patterns (Oswalt 1972). The development of culture depends upon humans' capacity to learn and to transmit knowledge to succeeding generations. According to Fortier (2009:163) group consensus in a particular society dictates the elements of culture, and are preserved and sanctioned as paramount. It can be viewed as patterns (e.g. cultural areas, cultural traits) and, as institutional structure and functions (e.g. social organisations, religion and beliefs, customs and norms). Nevertheless, definitions of culture still remain highly ambiguous and the concept has become more contested within development debate. Apart from its theoretical intricacy, this paper attempts to interpret culture through a livelihood perspective, based on rural communities survive with various types of traditional livelihoods. These people engage with a number oftraditional craft industries that have been maintained by their families for generations. They understand culture through their everyday livelihood activities that considerably shaped by their family traditions, cultural values, norms, traditional knowledge and belief system, or simply their 'way of life'. Before entering into a detail analysis, the following perception given by a villager, who has been engaged in traditional brassware industry, clarifies the complexity and diversity of the concept of culture. In his context he perceives that; 'Sanscrutija (culture) is about our sirith-virith (customs). It includes what we have been maintaining and preserving for generations, and what we have practised and experienced in our lives'. According to another elderly craftsman; 'We have nothing else other than our jeewanopaya (livelihood) to describe our sanscruthiya (culture). We know what culture is and its meaning as we have been living with our sampradjaika rakija (traditional livelihoods) for generations'. As revealed from these two examples there are different phases and complexities inherent in all cultures. They are diverse from place to place and person to person, according to their experiences and the influences of cultural values on their lives. Therefore, as Skelton (1997 in Bergendorff 2007:197) argues, 'culture is not fixed and static but rather dynamic, changing over time and space'. According to the second example, villagers perceive culture through their inherited jeewanopayan (livelihoods). Thus, culture is seen as something passes from generation to generation. However, these interpretations of culture may not equally valid for every community or society. Every human society has its own distinctive culture and value system. Thus, this paper argues that the existing propositions of culture need refinement, particularly with respect to how people recognise, define and utilise culture in everyday life. With empirical evidences, the paper justifies that 'it is risky to generalise, and it is particularly dangerous to judge one culture by the norms and values of another. Such oversimplification can lead to the assumption that every member of a culture thinks the same way. This is not only a mistaken perception but ignores one of the diversity of culture' (UNFPA 2008).

Why rural livelihoods? Rural communities establish livelihoods in a variety of ways with varying degrees of resources available to them. They instinctively use the most of their traditional norms, customs, traditional knowledge, religious and spiritual elements and other creative sources to meet everyday livelihood objectives (Daskon 2010; Daskon and Binns 2010). Thus, there are tangible reasons to argue that rural communities can derive significant benefits if 'cultural livelihoods' are supported and, traditional social capital, cultural values, historical relations and traditional knowledge are incorporated into development process (UNESCO 2003; UNCTAD 2008; UNFPA 2008; Commonwealth Foundation 2008). For many rural communities, recognition of and support for the realisation of the potential of their own cultural values will be critical in attaining their sustainability. Paddy cultivation for example, has always been a multifunctional 'cultural practice' (see Tennakoon 1988), providing not only the material subsistence but also serving as the central focus for family and community life as well as spiritual and religious expression (Groenfeldt 2003). Pastoral societies in many African countries (e.g. Patterson 2000; Njoh 2006), and Andean communities in Latin American context, portray their livelihood systems as 'cultural artifacts' (Radcliffe 2006; Radcliffe & Laurie 2006). Writing about the Fulani people of Senegal, Adriansen and Nielsen (2002) and Adriansen (2006) for example, describe their 'cattle culture' by defining cattle as being 'cultural capital' among the Senegalese. Cattle are the most 'culturally valued resource' for Fulani communities and, as Adriansen (2006:223) quotes: 'Because I'm Fulani...a Fulani without cattle [is] like a woman without jewels.. .Cattle are gold for the Fulani.. .Cattle are the honour of the Fulani'. In this pastoral context, cattle are treated as a wealth object, and a source of prestige and cultural identity. Referring to rural livelihoods in Latin American context, Radcliffe and Laurie (2006) explain that these communities are really maintaining their culture, their own identity, there's really a lot of vigour in their culture, their technologies, their wisdom (2006:94). Subsistence economies of traditional crafts produced by the Zapotec community in Mexico and Otavalo weavers in Ecuador for example and, the mountain communities live in the places like Andes, Himalaya and Appalachia have also developed their natural cultures as their means of living. Mountain regions are inherently multifunctional and its livelihoods system is also running parallel with its natural, historical and cultural diversity. Livelihoods of these people are fundamentally determined by their capabilities and existing tangible and intangible resources, with the latter essentially representing the values, norms, customs and knowledge systems that are traditionally embedded in their societies. As Chambers (1998) emphasises, people construct and contrive their livelihood portfolios using inherent knowledge, skills and creativity acquired within their families. Chambers and Conway (1991:6) argue that, 'many livelihoods are less singular and largely predetermined by accident of birth'. They are culturally determined and 'people may be born, socialised and apprenticed into inherited

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livelihoods as a cultivator, a pastoralist, a forest dwellers, a fish person or craftsmen/artisans as determined by their caste and social system' (Chambers & Conway 1991:6). Their skills and values are passed down for generations as indigenous and traditional knowledge, or are modified through innovation and their own experiments. Therefore, livelihood systems are important in exploring not only culture, but also genuine claims and demands of rural communities and in designing appropriate strategies for their sustainable well-being.

Different perspectives of culture Culture represents a range of components that embody diverse socio-economic structures, forms of social organisations, meanings, connections, inequalities among people and 'behaviours which are socially produced' (Cochrane 2006:322). Based on a comprehensive review Krober and Kluckhohn (1952 in Baldwin et. al, 2006) examined 156 definitions of culture and categorized them under six different themes. Based on this original definition Faulkner et. al, (2006:30) redefine culture as a structure; function; process; product; refinement; membership; and ideology. Therefore culture, in a broader sense; ...consists of patterns, explicit and implicit, of andfor behaviour acquired and transmitted by symbols, constituting the distinctive achievements of human groups, including their embodiments in artefacts; the essential core of culture consists of traditional ideas and especially their attached values; culture systems may, on the one hand, be considered as products of action, on the other as conditioning elements of further action. (Krober & Kluckhohn 1952, in Baldwin et.al, 2006:8)

This definition frequently uses in Social Sciences. Anthropology commonly adopts Sir Edward Tylor's (1871) definition of culture, which refers to the 'complex whole, which includes knowledge, belief, art, law, morals, customs and any other capabilities and habits acquired by man as a member of the society' (Nanda & Warms 2007: 86). This perspective has been established in academic anthropology as a separate category, and combined with open definitions of culture which represent racial formations, political economies and history (Radcliffe & Laurie 2006:232). Emile Durkheim, one of the founders of modern Sociology, defines culture as a 'design for living, an aspect of the social structure ensuring the cohesion and continuity of society as a whole' (Schech & Haggis 2000:21). However, Kluckhohn (1949, in Baldwin et.al, 2006:187) is more elaborative and argues, that 'not all social activities are culturally patterned. Every culture supplies standardised orientations towards the deeper problems; every culture is designed to perpetuate the group and its solidarity, to meet the demands of individuals for an orderly way of life and for satisfaction of biological needs'. Modern Sociology defines culture as a social practice that produces various meanings based on the 'symbols, rituals, and activities involved in the construction of everyday social reality' (Schech & Haggis 2000:21). Thus, 'culture is socially constructed and determined by such social factors as gender, race, class, sexuality, age, geography etc.,' (Skelton, 1997 in Bergendorff 2007:197). UNESCO's cultural conventions define this concept more broadly. For example UNESCO (2003), in its convention for the safeguarding of the Intangible Cultural Heritage defines 'intangible' culture as the: ...practices, representations, expressions, knowledge, skills, oral traditions, performing arts, social practices, rituals and festive events and traditional craftsmanship — as well as the instruments, objects, artifacts and cultural spaces associated therewith — that communities, groups and, in some cases, individuals recognise as part of their cultural heritage. Intangible culture is transmitted from generation to generation, is constantly recreated by communities and groups in response to their environment, their interaction with nature and their history, and provides them with a sense of identity and continuity, thus promoting respect for cultural diversity and human creativity. (UNESCO 2003: 2)

This form of culture exists in various art forms such as music, dancing and literature, traditional craftsmanship and all forms of traditional and popular folk culture, including collective works originating in a given community based on tradition. One of the main characteristics of these elements is that they transmit from generation to generation and provide people with a sense of belonging, identity and continuity (see Kurin 2004). However, culture in a livelihood aspect may relate to that which is interpreted by UNFPA (2008:12): Culture is made up of 'inherited patterns of meanings that people share within particular contexts'. Through socialisation, people develop common understandings of what is significant and what is not. These common understandings, which may be reflected in 'symbols, values, norms, beliefs, relationships and different forms of creative expressions', influence how people 'manage their daily works, large and small'; they 'shape the way things are done and understanding of why thy should be done so'; they 'provide the lens through which people interpret their society'. However, at opposite ends of the spectrum are Marxist analyses that have suggested there is 'no such thing as culture' (see 47

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Mitchell 2000). To Verhelst's (1990: 17) all encompassing definition that culture incorporates 'every aspect of life; know-how, technical knowledge, customs of food and dress, religion, mentality, values, language symbols, socio-political and economic behaviours, indigenous methods of taking decisions and exercising power, methods of production and economic relations and so on'. As stated by Marshall Sahlins (in WCCD 1995) sometimes, 'a great deal of confusion arises in both academic and political discourses when culture in the humanistic sense is not distinguished from culture in its anthropological senses, notably culture as the total and distinctive way of life of people or society'. Even with these conceptual ambiguities, it is important to understand all aspects and contested meanings of culture (WCCD 1995).Awareness of such multifaceted aspects of culture helps in realising the difficulty of establishing a fixed definition, while providing different perspectives in incorporating cultural phenomena into development processes.

Sri Lankan village life — Kandyan region Sri Lanka is an island state of 65,610 sq km, situated in the Indian Ocean to the south and east of the Indian sub-continent. Known as 'the pearl of the Indian Ocean', it is classified as a Middle Income country by UNDP and has achieved impressive progress in human development, particularly in the areas of life expectancy and literacy (UNDP 2009). The current population of the country is 20.4 million (World Bank 2010), and the country has a diverse ethnic and religious composition (e.g. 74% Sinhalese (Buddhists); 12.6% Sri Lankan Tamils (Hindu); 7% Sri Lankan Moors (Islam); 5.5% Indian Tamils (Hindu); 0.9% Burghers (Christian) Malay and others (DCS, 2001)). Despite the thirty years of civil conflict in the North-Eastern province, the country has had notable achievements of development over the past few decades, and with the end of the war in 2009 the country hopes to become another 'Asian miracle' in a new post-conflict era of development. Sri Lanka has a rich historical and cultural heritage covering more than 2500 years. Ancient legends and chronicles such as the Ramayana, the Skanda Purana and the Mahavamsa provide the cultural and historical legends of the country. The country's traditional economy and social formation were exposed to powerful foreign influences during the colonial period (15th to 18th century), which exerted profound impacts that continue to reverberate today. However, traditional rural economies and social practices exist beside modern economies, and the majority (75 per cent) of the total population lives in rural areas relying predominately on the traditional agricultural sector for their living. Rural village society is considered to have been a prosperous and harmonious, which is based on a system of relatively self-sufficient and sustainable village life. As Hennayake (2006: 51) describes one of the prominant features of the rural village has always been the Buddhist temple that provides the ethical and moral support and makes development of the society more holistic (see Yalmen 1967). Thus, rural villages in the country are regarded as 'living heritage' blurring traditional and modern distinctions. Majority of the rural people are held to have a natural affinity for paddy cultivation, and the 'peasantry' was conceived as the true locus of indigenous culture (Kemper 1991, in Brow 1999: 68). The rural villages in the Kandyan region, where I conducted my field research are closer to traditional Sinhalese ways of life and, are differ from the life of the pahata-rata or low-country people. The Kandyan region is called uda-rata or up-country and remained politically independent from the Europeans. The traditional craft industry makes up-country or the Kandyan community unique and cohesive, providing them a suitable environment for conducting their craft industries as a traditional base of the early society. Rural Kandyan villages with sufficient traces of traditional culture, skilful craftsmen and their handiworks claim the superiority as the proud upholder of traditional customs, religion and national cultural identity (Coomaraswamy 1956:10; Gunasekara 1994:9). Especially, in relation to traditional craftsmanship, Kandyan craftsmen are considered superior to the low-country counterparts as they had not faithfully maintained the craft traditions (Thilakasiri 1994:4). These crafts people's life provides an ideal setting to understand culture, as they have been engaged in culture-based livelihoods from generation to generation. Many of the Kandyan villages are well-known for traditional craft industries, and it is estimated that there are about 3,500 people engaged in traditional craft industries. There is evidence in information gathered for these communities of a culturally rich society, which prevailed in the 18th century and before, indicating that rural Kandyan customs are enduring through the centuries and have been virtually unaffected by the passage of time. Both paddy farming and hereditary craft industries play a central role in the Kandyans' lives. Although the number of traditional craft families may increase and decreasefrom generation to generation, they have a long-standing connection with their traditional villages and traditional ways of living (Thilakesiri 1994). The views present in this paper represent the communities in villages named; Kiriwaula, Embekke, Talagune, Kalapura and Henawela (Kalasirigama) (Figure 1). The majority of the people in these villages engage respectively in traditional brassware, silverware, woodenware, Dumbera weaving, and drum making industries. According to Coomaraswamy's (1956) description, these craft communities are descended from ancient Indian institution. In historical Kandyan society, caste was an important factor, and social, political, economic and religious functions were regulated on the basis of caste (Seneviratne 1978). According to the existed caste hierarchy Govigama (farmers) and, Navadanno (artificers), including Achari (blacksmith), Badal (goldsmith), ~Vadu (carpenters), Galvadu (stonemasons), Sittara (painters) and l^okuru (brassfounders) (Seneviratne 1978), were held in high esteem, second only to Govigama (farmers) in society (Pieris 1956). The majority of the villagers that participated for this study mainly represent the Navadanno group, which means the 'experts in nine traditional skilful industries'. The outstanding craftsmen belong to the Navandanno group worked for the royal household. They

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have formed a close-knit body with the hereditary groups known as the Vatal-hatara - four workshops. As Coomaraswamy (1956) describes, these people took pride in their 'caste-based professions' and ultimately the caste system has becom a legal recognition of the natural division of society into functional groups. This represents the places 'automatically assigned by legal and religious sanction' to the early Kandyan village communities (Coomaraswamy 1906, in Brow 1999:76). Although these caste divisions or caste-based activities are not functioning in present day Kandyan society, the traditional professions assigned by the early caste system are still 'observable' in these villages.

Figure 1: Traditional craft villages in the centralprovince of Sri Lanka — Kandy

To Tincomolee

To Anuradhapura

(

Dambulla

Unawetuwa] O Wallehewa)

Palle Hapuvida O o Dehideniya

A

Matale To Kurunegala To Mahiyangana

Danture# To Colombo

--V'" yKirivavulq'

GadaladeniyaV Kuragala

Nugallyadda

o Nilawela

E \-.Pamunuwa Hanguranketha Embakke Weliganga

Nuwara Eliya

To Badulla

• Brasswork (wrought) • Brasswork (cast) A Pottery • Kandayan Drums O Lack Work OSesath •ir Dumbara Mats * Weaving O Jewellery A Wood Carving Miscellaneous Handicrafts

(Source: Author)

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In fact, this connection is much more evident at an event like the Daladd Verahara (Daladd procession) (see Seneviratne 1978). People perform their traditional functions at the ceremony, as assigned to their families from the early times. Some outstanding craftsmen still work on projects such as decorating Buddhist temples, and painting religious scenes etc (Thilakesiri 1994). New craft villages (e.g. Kalapura) have resurrected these glorious traditions and brought the traditional craft industry to new localities (Thilakesiri 1994). The young people, descendants of the traditional craftsmen, are enjoying the reputation of their forefathers and the birthright of gifted craftsmen from the past.

Rural perceptions — defining culture through village livelihoods Villagers' perceptions of culture are significantly connected with their everyday livelihood activities. When villagers were inquired how they recognised culture, they referred to different perspectives based on what they 'see' and 'experience' in their everyday lives. Villagers' interpretations reflect not only the way they perceive culture, but also their relationship with cultural values and long-standing traditions. For example, one villager clarified the way he understands culture by asserting; 'we are part of this culture. We were born into a unique tradition. My great grandfather used to supply decorative brassware to the royal palace and the temples in Kandy. Following our ancient traditions we preserve our precious culture'. This villager believes that culture is integral to their lives, and inherited livelihood is a symbol of culture. According to another craftsman; 'sanskrutija (culture) represents what we have, what we do and our different modes of living'. His understanding of culture is not limited only to 'customs, norms and values', but to their 'distinctive ways of life'. Thus, their 'creative livelihoods' symbolise the capacity of villagers not only to be creative, but also to perceive and understand the meaning of culture in their context. They recognise the significance of inherited knowledge and skills of their livelihood activities in order to preserve cultural values in their society. According to an interviewee in Henawela, who has been engaged in drum making industry for more than 30 years, his livelihood is precious for him since it is an ancestral heritage. While he produces and supplies traditional drums for various places, he also attends the Dalanda Verehara (the temple procession) as a drummer following his fathers' step. As he clarifies:

'my livelihood teaches what our culture really means. This industry keeps me connect with our past. Drum making is not a prestigious profession' in today's society. But I can't get rid of it. It is disrespect for my ancestors and our cultural traditions. I can't find a job at this age, and this is the 'only' thing we have specialised'. Aged 60, this villager has had a long-standing association with the Drum making industry and decided to join at age of 20 to continue a family tradition that has spanned five generations. He runs the industry with the support of his wife and two sons. He further clarifies that; 'our livelihood represents all our traditional values, customs, beliefs and knowledge and — 'everything' in our l i v e s T h u s , he understands the meaning of culture through his own engagement, and defines culture as 'everything', including traditions, values, knowledge and belief system etc. As revealed from his interpretation 'caste' is also a fundamental factor of culture. He confesses that; 'people think berakdrayo (drummers) are adu-kula (low-caste). Some are ashamed to be drummers. But kulaya (caste) is not a matter, if we keep our precious traditions alive'. According to the available literature, berevd people (drummers) were categorised as low-caste in historical society (see Seneviratne 1978; Silva et. al., 2009). However, in modern day society these people regard that being a drummer as a special privilege, since they represent their inherited customs and obligations in various traditional rituals. Although these people are not satisfied with the economic gains from their industries, they still believe that they are entitled to 'protect' their cultural heritage. They are genuine about their status in society, and contend that caste has been a help in attaining a life they enjoy, and believe it is a privilege to honour the traditions and heritage of their ancestors. In this regard it is worthy to recall Hocart's (1936) interpretation about the drummers; 'although anyone can drum, only a drummer can drum ritually: no other person's drumming is "real" and "meaningful". Reality or meaningfulness in drumming does not belong to the quality of the drumming, but to the quality of the drummer, i.e., his caste' (in Seneviratne 1978:27). Similar to the drummer's perception another young villager who has been performing as a Kandyan dancer, understands culture through his industry; 'what we have been received from our past is our culture. People underestimate our past, and when chase money, they easily forget ape deval ('what belongs to us' — identity)'. This villager is happy about his involvement in dancing, and he earns his pride and respect of being a Kandyan dancer. He further clarifies that; 'we know what real "culture" is. It is an inherent value that we have been associated with for a long time'. He defines culture as an 'inherent value system that people have been associated with for a long time'. He considers his livelihood as a symbol of cultural heritage that provides the self-esteem that are important in present day life. Literally, if the dancer's caste (OH) has described as low-caste, dancers are also highly regarded as ritualistic performers and traditionally they have not performed outside the specific ritual context (Senviratne 1978). Thus, both dancers and drummers believe that their inherited livelihoods provide them with not only income, but also the feeling of culture. A skilful young jewellery maker, who has been engaged in the silverware industry for the past 10 years, understands culture differently.

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He perceives culture as a 'source of learning and teaching of ancient tradition, customs and values'. His present livelihood helps him to experience the wealth of cultural traditions. As he explains; 'real culture means our past. All our values come from the past. I believe that they teach and guide us to have a better life'. Villagers learn culture from their family industries and believe that they are good means of exploring traditional knowledge and disseminating them to future generations. Most of the villagers appreciate their learned cultural values and use them purposely and effectively to meet present requirements and transmit to the next generations as independent occupations. According to this perspective culture is something that 'guides' and 'teaches' past traditions and the 'way of life', whilst helping people to 'survive' and 'adapt' to the changing situations. A similar perspective revealed by a female weaver in Talagune by declaring; 'this is an invaluable source of learning about our sanscrutiya (culture) and the life of our mutun-mittan (ancestors)'. She belongs to a family that thrived in the weaving industry from the time of ancient kings. She is proud of her ancestral connection and her talents, especially in Dumbera weaving and design. As she further clarifies; 'this is not just an industry. Activities like these simply explain "what our culture and its values are". We have been learning of our ancestors' lives, their skills and knowledge from our weaving'. The Dumbera weaving is a very old cottage industry in Sri Lanka, and Talagune is the only place where these oldest forms of livelihood have survived. Certain people in this community understand culture as a 'process' that helps in building social cohesion in their society, and a source that gives them a feeling of 'belonging'. The long-standing customs and traditional values strengthen interactions and relationship among different communities. This idea revealed from one of the villagers' explanation; 'we are from paramparika paul (families that thrive for many generations) and these traditions "belong" to us'. These people represent a unique and irreplaceable identity that is solely generated through their traditional industries. In order to distinguish their uniqueness another respondent declared that; 'everyone engages in these industries do not belong to 'traditional' families. They don't have specialised skills and family heritage as we do'. According to this interpretation villager distinguishes his community as paramparika minissus (followers of the particular traditions), by comparing with those who are not follow such traditions or 'outsiders' of their industries. The above respondent is a descendent of the renowned Devendra Mul-archar?s family that was outstandingly talented in wood carving during the Kandyan era. According to this interpretation he tries to understand culture through their belonging to 'originality' of the ancient craft traditions. Another respondent clarifies this by referring to the new comers to their industry, or as he says aluth aya or pita aya; 'we are born to these traditions that cannot break away from us. They give us the feeling of belonging to "something special" and that is the way we feel "what culture means". Vita aya, (those who are exterior to the traditional families) spoils and misuses our industries for the sake of money'. As revealed from these interpretations and as clarified by a government key informant, such craft communities in the Kandyan society are regarded as 'small groups' with a distinguished system of knowledge, skills and customs preserved through generations; 'traditional craft communities are like a 'subculture' of the country. They are a separated 'group' distinguished by their crafts, knowledge and even in their behaviour, social attitudes and caste. They understand things differently than we do'. Caste-based professions, Kandyan ancestry and traditional craftsmanship are crucial determinants of these groups and their membership. They interpret culture through their 'identity' which has been established by their values and aspirations. Those who specialized in a particular type of traditional skill and descended from an ancestral family are recognized as a 'group' or a guild. They refer their group and belongingness to understand and define culture in their context. Creativity is unique to every society, and involves originality, imagination, inspiration, ingenuity, and inventiveness and in this setting sampradayan, (traditions) as well. This is a strong aspect of every culture. Creativity represents a stock of 'intangible culture' of a particular community which articulates people's identity, traditions and values. During a discussion with an elderly villager who produces silverware, explains this by showing one of the ornately decoratedpathra (bowls), made by his grandfather; 'this is unique due to its special design and fine decorations. I have been keeping this as a 'sample' of our precious culture, which makes me feel that my forefathers are looking after me'. According to his comment, these products have a greater 'value' beyond their simple utility — and are expressions of culture. As another villager declared; 'craft products purely symbolise what is our culture. They are original and are the bridges to our past'. Craft products connect people with their past traditions and portraits of a great culture. They also convey the embedded meanings, traditions, knowledge and values of society and its people. A woman engages in traditional brassware industry implies that their products as; 'real "materials" of our culture. You can "touch" and "feel". These are unique to Kandyan people, they tell who we are, where we from, and our craftsmanship and the spirit of culture'. Compared to ordinary commercial products, the products of these communities differ in quality and representation. Their products are ultimate representations of both cultural and aesthetic values and these views explain how villagers perceive culture through their everyday experiences and livelihood practices.

Explaining different perspectives of culture It became clear from above examples that most of the families that were studied maintain strong family traditions and depend on their ancestral occupations for living. The villagers' responses illustrate the diverse perspectives of culture, traditions, their lives and work, and how they prioritize cultural values in their everyday environment. These examples also demonstrate that diverse expressions of

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culture emanate from the hearts, minds and souls of these communities - the very source of their values, identity and sense of purpose or meaning. On one hand their views show the extent to which their livelihoods influence their understanding and interpretations of culture. On the other hand, how culture and traditional values have become factors that determine their livelihood choices. In this context culture is a dynamic force and a crucial part of people's life that cannot and should not be confined. Culture is intrinsic to people's everyday activities, and perceived differently as a set of values, a process, a product and a source of identity. The above examples revealed how village people interpret and understand culture by referring to 'what they see and experience' in their lives and, most of these are historical phenomena permanently embedded with these communities. Understandably, a generalisation of such a complex and diverse phenomenon may lead to think that every member in a society perceives and experiences culture in an identical way. The findings prove that such an assumption is mistaken and ignores the diversity and complexity of society, its people and their value systems. As revealed from the villagers' interpretations, culture can be recognised as a set of inherited attributes constantly transmit, both shaping and being shaped by their social and economic interactions. These patterns and regularities of a society, according to Faulkner et. al.,(2006:31) describes culture as a 'structure' that provides particular 'norms' for human behaviours. Thus, in a structural sense culture is defined as a system or framework of elements including beliefs, norms, customs, rituals, attitudes, behaviours, ceremonies, skills, knowledge, symbols, language, religion etc., that evolves over time. In a structural perspective culture can be referred to every aspect of human life and encapsulates all 'socially constructed and historically transmitted patterns' (Faulkner et. al, 2006:35) and regularities of the 'way of life' (2006:32). These structures explain their 'way of life'- or, as the villagers put it, 'everything in their lives'. Most of the villagers references to culture are 'observable' and, useful in dealing with everyday life.Thus culture as a structure represents all 'observable patterns that utilised by a group' (Newmark & Asante 1975, in Faulkner et. al, 2006:31) of people to meet recurring social and private situations in their lives. These 'patterns' constitute a sort of 'social heritage' that people receives from their past, which they share with others in their society or social group (Horton & Hunt 1984, in Faulkner et. al., 2006:31). The inherited livelihood patterns of these village communities have enabled them to deal with their everyday circumstances, whilst representing the principle that they are all 'creative, have a right, a responsibility and a desire to be actively involved in making their own culture' (Hawkes 2002:11). Villagers referred to caste as a significant element of understanding culture. As previously explained caste is one of the underlying factors in determining villagers' livelihood activities. Among these villages, the caste system has been established as a form of 'social organisation' that is permanently bound and entangled with the broader system of family and religion, and the economy of their society. According to Gunasekera (1994), the religious justification of the caste system has led some anthropologists to perceive caste primarily as an ideology. Others, although not denying the religious aspect, see it as a system of social stratification (also see Silva 2006). However, in the rural Kandyan context, caste is referred to as an ideology - identity - and also as a system of social stratification. It is often used to describe a person's status, power and economic position (Gunasekera 1994), or simply as a group possessing differential degrees of 'social honour' and 'prestige' (see Daskon 2010). Hence, in these particular village contexts, caste is a recognition of the natural division of their society into different functional groups and these people take pride in the traditional professions entitled by their ancient caste. Such a significant recognition of caste is contrary to the situations, where see caste negatively or as an extreme barrier for human interactions (see North 1990; Carswell 2000; Acharya 2003). It is evident that culture is not merely a structure or a historical set of values and norms, but is rather a tool for achieving some purposes or ends. Therefore, culture can be defined in terms of its functions and services provided. The above examples reveal 'what culture does, or accomplishes' (Faulkner et. al., 2006:38), or how culture helps people to solve their everyday problems. Villagers located their interpretations of culture in the services and needs - the 'functions'- provided by their traditional knowledge, values and customs. Hence, culture refers to something that helps people to 'adjust and cope with their living environment' (2006:38). This perspective explains how different elements of culture function in the society, by providing various services such as teaching/guiding of survival and adaptive strategies, controlling power relations, giving identity and a sense of belonging, and furnishing raw materials for life. Thus, as Gardner (1999, in Faulkner et. al, 2006:38), points out, 'every culture addresses certain universal needs'. The guidance and learning functions are two aspects that clearly articulated by the village respondents. As confirmed by village craftsmen, cultural values guide their lives, and teach them about their history and ancestry, and how their traditions have been evolved from the past, and are useful in adjusting their lives appropriately. In this context, culture is an 'intellectual heritage' and, what Lenski & Lenski (1987, in Baldwin et. al. 2006:189) term, a 'learned heritage' that is passed from generation to generation by providing a 'design for living'. In functional sense, the transmission of accumulated knowledge and traditions is a vital role played by any culture. Therefore culture itself provides the 'logic of communication' (Applegate & Sypher 1988, in Baldwin et. al., 2006:142) for its own inhabitants. As confirmed by interviews with the villagers culture is also identified through the 'identity and strong sense of belonging' that foster through their family customs, ancestral relations and traditional craftsmanship. They understand that they have their own unique history, which is associated with ancestral heritage, knowledge, skills and traditions. That is culture allows these communities to define their distinctiveness and authority as sampradayika (traditional) and paramparika (comes across generations) craftsmen/women/families by differentiating them from 'others'. It gives them a 'sense of who they are, of belonging, of how they should behave, and of what they should be doing' (Harris & Moran 1996, in Baldwin et. al., 2006:179).

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Villagers' interpretations of culture were based to a large extent on a variety of artefacts, including brassware, silverware, Dumbera weavings, drums, jewellery and various other streams of cultural activities, which are 'cultural products'. These cultural products are bearers of the 'Kandyan' identity, values and meanings of these societies, as well as being absolute factors of economic and social development. As Faulkner et. al., (2006:44) describe, culture is a product that generates through a 'meaningful activity' of people, which is 'representative' and 'significant'. As revealed in the examples, villagers perceive culture through the meanings and values embedded in their livelihood products and, consider them as sources of 'representation' that convey their identity, traditional knowledge and customs to future generations. Thus, culture consists of the totality of people's products; 'some of these are material, others are not' (Berger 1969, in Baldwin et. al., 2006:147). Such products are important instruments in the preservation of expertise underlying diverse cultural expressions. Kandyan dancing is a distinct species, "possessing on its own right the attributes of refinement and distinction associated with highly evolved classical tradition inherited from the past" (Molamure 1956:27). Therefore, culture exists as a series of tangible and intangible products that are the results of the application of manual skills and knowledge of the people (Salzmann 1998). Such artefacts and cultural performances represent intellectual, moral, artistic, aesthetic and sacred qualities of village communities and are inspirations and symbols of a distinctive culture (see Klamer 2002, 2004). According to Throsby (1999, 2001) and UNCTAD (2008), however, in order to perceive 'culture as a product', there are important characteristics that are essential to be considered. First, cultural products and activities should incorporate some distinctive 'creativity' that involves 'originality' and 'authenticity'. Secondly, such products should essentially have a 'cultural value' in addition to whatever monetary/commercial value they may possess. The examples showed that there are embedded values in villages' craft products that give them economic value by converting their cultural products into economic products. As Throsby (2001:28-29) explains, cultural products differ from ordinary economic products in terms of their aesthetic, spiritual and historical values that cannot be evaluate in monetary aspect. Thirdly, which is more important, skills and knowledge of particular products should essentially pass down from generation to generation, and should be a vehicle for symbolic messages of history, heritage and traditions of particular group of people, to those who consume them. In order to have a broader understanding and to bring culture into an operational level, recognition of culture in different perspectives is important. In this regard, the examples discussed in this paper showed that rural livelihoods help us by providing a pragmatic framework to investigate different perspectives of culture and also the significance of culture in attaining livelihood objectives. This proposal was supported by one key informant stating that; 'many rural livelihoods are deeply rooted in family customs and their traditional values. But we can't see them clearly, and are misleadingly overlooking such relationships'. Hence people's livelihoods provide useful information on different ways in which culture can be perceived and may both integrate and influence well-being of rural communities. Therefore, in the final analysis, this paper argues that all cultural values, traditions, beliefs and knowledge must be nurtured and 'equally' valued and respected, since they all contribute to cultural distinctiveness. Cultural values are 'relative' to individuals within their own socio-cultural context and, whether it is 'good' or 'bad' and 'right' or 'wrong' depends on cultural specificity. As Groenfeldt (2003:922) observes, even indigenous values can be accommodated, but mainstream society has not been able to accept competing worldviews as serious descriptions of how life can be experienced. Hence, he further questions, 'will this be the fate of indigenous values? 'are we about to experience the end of (other) values?' No one has a right to adjudge 'other' culture, and all cultures must be regarded as equally legitimate, since they reflect not only their identities, but also community capabilities and knowledge about the world. Hence, on the one hand, cultural values are universal, yet on the other hand they are specific. Since we all (society/groups/individuals) share values, norms, beliefs and traditions, culture is 'universal', but cultural values are 'specific' because such values, traditions and knowledge are essentially shaped according to people's socio-cultural context (place-based/specific) (see Daskon and Binns 2010; Daskon 2010; UNFPA 2008; Tucker 1999; Bergendorff 2007; Commonwealth Foundation 2008). The research findings justify that all cultures must be equally valued and respected, and demonstrate the significance of valuing 'other cultures' rather than 'western culture' within a broader development context, and also evaluating their capacities in building a secure and sustainable living environment for human societies.

Conclusion The paper has set out to investigate both the feasibility and effectiveness of a livelihood perspective within which culture can be recognised, understood and defined, by using different perspectives drawn from the craft communities in rural Kandyan villages. Culture has been recognised as a concept that 'highly ambiguous and notoriously difficult to define' which remains culture as a less treated and integrated phenomenon within development context. Taking culture in different perspectives to development agenda is vital in fostering a genuine respect and understanding 'every culture' —'different ways of seeing, thinking and valuing' of people's living world. It is suggested that livelihood perspective helps in understanding and effectively internalising culture as a significant part of development processes, and minimising the difficulties of monitoring invisible aspects, which has often led to an underestimation and misunderstanding of certain cultures. Being more flexible and culturally sensitive to the local context is vital, in order that grassroots initiatives to be more effective. In attempting to bridge culture-development divide, this paper has endeavoured to show that interpretations of culture must go further than mere customs, norms, beliefs, or forms of artistic expression. It should embrace the

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complex and distinctive spiritual, aesthetic, historical, symbolic, intellectual and emotional aspects of societies and communities. Every society has a continuity of cultural values that are inherited from the past, and which help communities to be distinctive from others. Thus it is suggested that development should not be a process where one particular perspective dominates over others, but instead it is a process which should equally accept and respect everyone's perceptions, capabilities and ingenuities. The strengths of cultural diversity should be accepted by mainstream society, if any initiative is to be truly about satisfying human desires. Appreciating and respecting cultural distinctiveness and nurturing distinct cultural values are vital for fulfilling spiritual, aesthetic, material and intellectual well-being of human societies.

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Introduction In spite of incredible world-over progress in the field of medicines, curative and preventive health measures, still there are huge population living in isolation in natural and unpolluted surroundings far away from civilization with their traditional values, customs, beliefs and myths intact. They are commonly known as "tribals" and are considered to be the autochthonous people of the land. About half of the world's autochthonous people, comprising 635 tribal communities including 75 primitive tribal communities live in India. According to 1991 census, Rajasthan has a tribal population of 54, 74,881, which forms 12.44 percent of the total population of the state. The population has grown at a rapid rate for the last eighty years and at an almost flooding rate during the last three decades. During 1901 the total population in the state was 103 lakhs, which rose to 564 lakhs in 2001-1 Keeping in mind the rapid growth of tribal population and following the lifestyle of urbanization that leads to various lifestyles oriented diseases. Our main focus of the study is to screen out the presence of lifestyle related disease especially the hypertension and associated risk factors among few endogamous group of Tribal population Methods The procedure involved in the present investigation was to fill a questionnaire by the subject stating his brief bio-data. The subjects' blood pressure was measured with digital blood pressure machine. Classification of hypertension was based on JNC guidelines 2 (a) Healthy blood pressure: < 120.80 (b) Pre-hypertension: between 120/80 and 140/90 (c) Hypertension: 140/90 or higher. BMI, which is the most commonly used indicator of obesity in population studies, was determined from calculated as weight in kilograms divided by height in meters squared (kg/m2) 3 .The cut-off value of waist circumference for female was >85cm and for men>101cm.It was *

Women Scientist under DST Project; Department of Bio- Sciences, 2146 C, Faculty Division II, Birla Institute of Technology and Science (BITS), Pilani, 333031 Rajasthan, India. Email: [email protected]

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B. Sachev — Hypertension and associated risk among Nomad Tribe groups

measured by inch tape around the belly button or just above it. To determine the blood group, the finger was pricked with a lancet under aseptic conditions. The blood group was determined using the anti A and anti B sera. Rh typing was not done. The gene frequencies for these two systems were calculated after Mourant et al. (1976) 4. The study was approved by the institutional human ethics committee at BITS, Pilani, Rajasthan, India and performed according to the Declaration of Helsinki. All study members were given detailed explanation of the study in their regional language before obtaining their written consent Results From table 1 it has been found that the prevalence rate of hypertension was very high (22.8%). It ranges from 16.3 % to 30.9 % among different caste of nomad tribals.The prevalence rate of hypertension was high in Bhopa tribe as compared to other group. Chisquare test was used to analyses the association between different caste of tribes and it was found to be significant.

Table 1: Prevalence of Hypertension

among Few Endogamous

Group of Tribal

Population

Blood Pressure Healthy Nomad Tribes Banjara

Hypertension N (%)

N (%)

Total

317

(72.9%)

118

(27.1%)

435 (100%)

Natt

350

(83.7%)

68

(16.3%)

418 (100%)

Sapara

116

(77.3%)

34

(22.7%)

150 (100%)

Bhawariya

40

(72.7%)

15

(27.3%)

55

(100%)

Sansui

58

(80.6%)

14

(19.4%)

72

(100%)

Bhopa

76

(69.1%)

34

(30.9%)

110 (100%)

Gujjar

36

(78.3%)

10

(21.7%)

46

993

(77.2%)

293

(22.8%)

1286 (100%)

Total

(100%)

Chi-square— 19.994 p—0.003 The frequency distribution of Obesity and Overweight among different caste of Nomad Tribes were as shown in table 2. Banjara and Natt tribes shown maximum percentage of obesity and overweight tendency as compared to other group .It was followed by Bhopa Tribe that had 15.2% of Obesity. Whereas Bawariya and Sansui tribes had not attained as much as tendency towards overweight and obesity .The graphical representation of distribution of tendency towards obesity and overweight among different population of Nomad Tribes were shown in Bar Chart 1.

Table 2: Prevalence of Obesity and Overweight among Different Caste of Nomad

Tribes

Nomad Tribes Body mass index

Banjara

Natt

Sapara

Bawariya

Sansui

Bhopa

Gujjar

Total

199(32.1%)

198(32%)

80(12.9%)

36(5.8%)

36(5.8%)

50(8.1%)

20(3.2%)

619

23 - 25 (over weight)

54(38.0%)

50(35.2%)

14(9.9)

0(0%)

6(4.2%)

13(9.2%)

5(3.5%)

142

BMI of 25 or greater (obesity)

73(35.8%)

60(29.4%)

16(7.8%)

9(4.4%)

4(2.0%)

31(15.2%)

11(5.4%)

204

below 18 (under weight)

109(34.0%) 110(34.3%) 40(12.5%)

10(3.1%)

26(8.1%)

16(5.0%)

10(3.1%)

321

435(33.8%) 418(32.5%) 150(11.7%)

55(4.3%)

72(5.6%)

110(8.6%)

46(3.6%)

1286

18 - 22.9 (normal)

Total

Cht-square-44.003p=.001

126

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B. Sachev — Hypertension and associated risk among Nomad Tribe groups

Linear regression analysis was done to find out the correlation between blood pressure and body mass index and a positive relationship (r=0.186) was observed between blood pressure and body mass index and based on the t-value (6.771) and p-value (0.001), we can conclude that this relationship is statistically significant (Figure 1).

Fig. 1: Correlation between body mass index of respondents

and blood pressure among few endogamous groups of tribes

Body mass index

The distribution of hypertension according to the age groups were given below in table 3. It was seen that the prevalence of hypertension increases from the 12.5% to 60% as the age increases and it was maximum at the age between seventy-eights to eightyseven years. Clii-square was done to see the association between different age groups and hypertension among few endogamous Nomad Tribal group and it was found to be significant that shows that the entire Nomad Tribal group had inclination towards hypertension and it increase with increase in age.

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Antrocom Journal of Anthropology 2011, vol. 7. n. 2

Table 3. Prevalence of Hypertension

B. Sachev — Hypertension and associated risk among Nomad Tribe groups

among Different Age Groups among Different Nomad

Population

Blood Pressure Healthy N (%)

Hypertension

N (%)

Total

Age of

18-27

288

(87.5%)

41

(12.5%)

329

respondents

28-37

228

(87.4%)

33

(12.6%)

261

38-47

137

(74.1%)

48

(25.9%)

185

48-57

96

(64.4%)

53

(35.6%)

149

58-67

148 (71.2%)

60

(28.8%)

208

68-77

73

(67.6%)

35

(32.4%)

108

78-87

21

(40%)

25

(60%)

42

993 (77.2%)

293

(22.8%)

1286

Total

Chi-sqimre-85.701, p-0.001

Fig. 2: Scatter Plot Diagram between Age of Respondents

and Blood Pressure among Few Endogamous

Groups of Tribes

Age of respondents

The percentile distribution of visceral adiposity measured by waist circumferences among few endogamous Nomad Tribes .It was seen that Bliopa tribe had maximum abdominal overweight trend followed by Banjara Tribe.Bawariya, Gujjar and Sansui had least tendency as compared to other groups. The overall propensity of having abdominal overweight among all the tribes was 11.6%.Linear correlation analysis was calculated to find out the relationship between visceral adiposity and hypertension and it was found to be positively correlated with r=0.97 based on t —value (7.190), p=0.001as shown in figure 3.

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Table 4: Percentage Frequency Distribution

B. Sachev — Hypertension and associated risk among Nomad Tribe groups

of Visceral Adiposity among Nomad Tribes

120.00-

100.00-

«