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Italian Pages [368] Year 1978
André Breton Antologia dello humour nero
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Nuovi Coralli
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Titolo originale
Anthologie de l'humour noir
Copyright © 1966 Jean-Jacques Pauvert éditeur, Paris Copyright © I 97° Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Le traduzioni dei brani compresi in questa antologia sono di Mariella Rossetti e Ippolito Simonis, salvo alcuni casi che il lettore troverà espressamente indicati Prima edizione in «Einaudi Letteratura», 1970 Seconda edizione, 1971 Prima edizione nei «Nuovi Coralli», 1977
André Breton Antologia dello humour nero A cura di Mariella Rossetti e Ippolito Simonis
Einaudi
L'edizione attuale, riveduta, aggiunge a quella precedente qualche correzione di scarso rilievo. Deliberatamente non è stata aumentata, anche a rischio di deludere l'attesa di qualche lettore. Nel corso di questi ultimi anni l'autore ha avuto indubbiamente l'occasione di veder sorgere, nella prospettiva iniziale di quest'opera, alcune nuove figure che richiederebbero di essere poste nella medesima luce. In particolare ha dovuto resistere alla tentazione di inserirvi Oscar Panizza, Georges Darien, G. I. Gurdjiefi (quale lo rivela il suo magistrale E veti du penser, posto a introduzione dei Récits de Belzébuth à son petit-fils), Eugène Ionesco, Joyce Mansour, ma vi ha rinunciato per evidenti ragioni. Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1939 e ristampato, con alcune aggiunte, nel 1947, ha segnato, cosi com'è, un'epoca. Basti ricordare che quando esso fu stampato le parole «humour nero» non facevano significato (quando non suggerivano addirittura una forma di umorismo tipica dei «negri»! ). Solo da allora questa espressione è entrata nel dizionario: sappiamo quale fortuna ha avuto la nozione di humour nero. Tutto sta ad indicare che essa continua ad essere in piena effervescenza, e che si diffonde tanto per via orale (le storie del tipo «macabro») quanto attraverso l'espressione plastica (specialmente a livello di disegno in certi settimanali) e il cinema (almeno quando si pone ai margini della produzione commerciale). Proprio il fatto che la presente opera
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PREMESSA
resti in presa diretta sull'epoca attuale non meno che su quella precedente, induce a non permettere che la si possa assimilare ad un qualsiasi annuario da tenere costantemente aggiornato e le impedisce infine di assumere un aspetto di derisorio libro d'oro che contrasterebbe radicalmente con la sua destinazione originaria. Si consideri dunque questo volume l'edizione definitiva àdM Antologia dell'humour nero. Parigi, 16 maggio 1966.
Parafulmine
La prefazione potrebbe avere per titolo: il parafulmine LICHTENBERG
«Perché si abbia comicità, cioè emanazione, esplosione, liberazione del comico - dice Baudelaire - occorre...» Emanazione, esplosione: è sorprendente trovare il medesimo accostamento di queste due parole in Rimbaud, e proprio in una delle sue poesie più ricche di humour nero (si tratta, in effetti, dell'ultima poesia di Rimbaud che ci sia giunta, in cui «l'espressione burlesca e smarrita in sommo grado» risorge, condensata al massimo, altissima, dagli sforzi che hanno avuto come scopo prima la sua affermazione, poi la sua negazione): Rêve On a faim dans la chambrée, C'est vrai Emanations, explosions, Un génie: Je suis le gruère! \
Incontro, reminiscenza involontaria, citazione? Bisognerebbe, per poter risolvere il problema, che l'esegesi di questa poesia, la più difficile della lingua francese, fosse stata condotta a fondo, mentre questo lavoro non è stato nemmeno iniziato. Una simile coincidenza verbale non è per questo già di per sé meno significativa. Rivela, nei due poeti, una stessa preoccupazione delle condizioni per 1
[Sogno: Hanno fame nella camerata, È vero... | Emanazioni, espiosioni, | Un genio: Io sono il gniviera! |
IO
ANDRÉ BRETON
cosi dire atmosferiche nelle quali può verificarsi tra gli uomini il misterioso scambio del piacere umoristico; scambio cui, da un secolo e mezzo, si attribuisce un valore crescente, che oggi tende a farne la base dell'unico commercio intellettuale di gran lusso. Diventa sempre più lecito pensare, viste le esigenze specifiche della sensibilità moderna, che le opere poetiche, artistiche, scientifiche, i sistemi filosofici e sociali privi di questa specie di humour, lascino molto a desiderare e che siano condannati a perire più o meno rapidamente. Infatti non si tratta solo di un titolo in maggiore ascesa rispetto agli altri, ma di un titolo capace per giunta di assoggettarseli tutti, fino a impedire a un buon numero di essi di essere ancora universalmente quotati in borsa. Abbiamo a che fare con un soggetto scottante, avanziamo su un terreno infuocato, abbiamo di volta in volta tutto il vento della passione favorevole o contrario, dal momento in cui pensiamo di sollevare il velo su quell'humour di cui riusciamo tuttavia, con immensa soddisfazione, a individuare i prodotti evidenti nella letteratura, nell'arte e nella vita. Abbiamo infatti la sensazione più o meno chiara dell'esistenza di una gerarchia il cui grado più alto sarebbe conferito all'uomo dal possesso integrale dell'humour: proprio in questa stessa misura ci sfugge e ci sfuggirà senz'altro a lungo ogni definizione globale dell'humour, e ciò in virtù del principio per cui «l'uomo tende per natura a deificare ciò che si colloca al limite della sua comprensione». Allo stesso modo che «la grande iniziazione, quella cui giunsero soltanto alcuni spiriti privilegiati, come ultimo postulato della Grande-Scienza, arriva appena a far capire come si possa cogliere la Divinità tramite la ragione» 1 (la Grande-Cabala, riduzione sul piano terrestre della Grande-Scienza, è tenuta gelosamente segreta dai grandi iniziati), cosi non si può nemmeno pen1
1936.
ARMAND PETITJEAN,
Imagination et réalisation,
Denoél et Steele,
PREFAZIONE
II
sare di spiegare l'humour e di servirsene a fini didattici. Sarebbe come voler trarre dal suicidio una morale della vita. «Non vi è niente, è stato detto, che un humour intelligente non possa risolvere in uno scoppio di risa, neppure il Nulla..., il riso, in quanto una delle più sontuose prodigalità dell'uomo, e anche la dissolutezza, sono sulle sponde del nulla, ci dànno il nulla in garanzia» \ Si può immaginare quali risorse l'humour sarebbe in grado di trarre, segnatamente, dalla sua definizione stessa e soprattutto da questa definizione.
Date queste premesse, non c'è da stupirsi se le numerose inchieste sull'humour nero hanno dato, fino ad oggi, i più modesti risultati. Ecco la risposta di Paul Valéry a una di esse, d'altronde molto mal condotta, sulla rivista «Aventure» nel novembre 1 9 2 1 : «La parola humour è intraducibile. Se non lo fosse, i francesi non la userebbero. Ma la usano proprio a causa dell'indeterminatezza che le attribuiscono, e che ne fa una parola perfettamente appropriata a dimostrare che tutti i gusti sono gusti. Ogni frase in cui questa parola è inserita ne modifica il senso; tanto che questo stesso senso non è, a rigore, che l'insieme statistico di tutte le frasi che la contengono e che potranno contenerla». Questo partito preso di assoluta reticenza è tuttavia, in fin dei conti, sempre preferibile alla prolissità di Aragon che, nel Traité du style, sembra volersi assumere il compito di esaurire l'argomento (come annegare un pesce); ma l'humour non gli ha perdonato e, in seguito, lo ha piantato in asso nel modo più radicale ed esemplare: «Vorreste le altre parti anatomiche dell'humour? Ebbene! Signore? prendete la mano alzata per chiedere l'autorizzazione di parlare e avrete la chioma. Gli occhi due cialde per gelato. Le orecchie padiglioni di cac1
PIERRE PIOBB,
Les mystères des Dieux. Vénus, Daragon, 1909.
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ANDRÉ BRETON
eia. Il destro chiamato simmetria rappresenta il palazzo di giustizia, il sinistro è il braccio di un monco dal braccio destro. È ciò che manca alle minestre, alle galline, alle orchestre sinfoniche. Al contrario, non manca ai lastricatori, agli ascensori, ai gibus... L'hanno segnalato nella batteria da cucina, ha fatto un'apparizione nel cattivo gusto, d'inverno alloggia nella moda... Dove corre? All'effetto ottico. La sua casa? Il Petit Saint-Thomas. I suoi autori preferiti? Un certo Binet-Valmer. Il suo debole? I crepuscoli quando son come uova al tegamino. Non sdegna la nota seria. Assomiglia molto, tutto sommato, al mirino sul fucile», ecc. Buon compito da liceale primo della classe, che si è proposto questo tema come un altro qualsiasi, e che ha dell'humour una visione soltanto esteriore. Tutta questa fumisteria non è altro, ancora una volta, che un modo di rifiutare l'ostacolo. Raramente si è andati tanto vicino al nocciolo del problema quanto con Léon Pierre-Quint che, nella sua opera Le comte de Lautréamont et Dieu, presenta l'humour come un modo di affermare al di là della «rivolta assoluta dell'adolescenza e della rivolta interiore dell'età adulta», una rivolta superiore dello spirito.
Perché vi sia humour... il problema rimane aperto. Tuttavia, si può dire che l'humour ha fatto un decisivo passo avanti nel campo della conoscenza, quando Hegel giunse alla concezione di uno humour oggettivo. «L'arte romantica - egli dice - aveva per principio fondamentale la concentrazione dell'anima in se stessa, che, non trovando una rispondenza perfetta tra il mondo reale e la sua natura intima, restava indifferente di fronte ad esso. Questo contrasto si è sviluppato nel periodo dell'arte romantica, al punto che noi abbiamo visto l'interesse fissarsi ora sugli accadimenti del mondo esterno, ora sui capricci della personalità. Ma adesso, se questo interesse giunge a far si che lo spirito si assorba nella contemplazione esteriore e, nel-
PREFAZIONE
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10 stesso tempo, a far si che l'humour, pur conservando il suo carattere soggettivo e riflesso, si lasci cattivare dall'oggetto e dalla sua forma reale, noi otteniamo in questa compenetrazione intima uno humour in certo qual modo oggettivo». D'altra parte1 noi abbiamo annunciato che la sfinge nera dell'humour oggettivo non poteva non incontrare, sulla strada scintillante, la strada dell'avvenire, la sfinge bianca del caso oggettivo, e che ogni successiva creazione umana sarebbe stata il risultato del loro amplesso.
Osserviamo di passaggio che la gerarchia stabilita da Hegel per le varie arti (la poesia, in quanto sola arte universale, prevale su tutte le altre e, in quanto unica a poter rappresentare le situazioni successive della vita, regola il loro passo sul proprio) è sufficiente a spiegare come la specie di humour che ci interessa abbia fatto la sua comparsa in poesia molto prima, ad esempio, che in pittura. Infatti l'intento satirico, moralistico, esercita su quasi tutte le opere pittoriche del passato, che potrebbero in qualche modo richiamarsi a questo humour, un'influenza degradante, e le mette in condizione di cadere nella caricatura. Tutt'al più si sarebbe tentati di fare un'eccezione per una parte delle opere di Hogarth e di Goya, e di non pronunciarsi rispetto a qualche altra dove l'humour si lascia più che altro intravvedere, dove lo si può soltanto ipotizzare, come nella quasi totalità dell'opera pittorica di Seurat. Ma 11 trionfo dell'humour allo stato puro e manifesto pare doversi situare, sul piano delle arti plastiche, molto più vicino a noi nel tempo, e può riconoscere come suo primo e geniale artefice l'artista messicano José Guadalupe Posada che, in mirabili incisioni su legno di carattere popolare, ci fa partecipi di tutti i sommovimenti della rivoluzione del 1
Position politique du surréalisme, 1935: Position surrealiste de l'objet.
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1 9 i o (unitamente a queste composizioni bisognerebbe interrogare, su ciò che può essere il passaggio dell'humour dalla speculazione pura all'azione, le ombre di Villa e di Fierro, tanto più il Messico, coi suoi splendidi giocattoli funebri, si afferma come la terra di elezione dell'humour nero). Dopo di allora l'humour si è comportato in pittura come un vincitore in un paese conquistato. La sua erba nera non ha smesso di crepitare dovunque è passato il cavallo di Max Ernst, La mariée du vent \ Nell'ambito del libro, non esiste nulla a questo proposito di più completo e di più esemplare dei suoi tre romanzi a collages: La femme 100 têtes, Rêve d'une petite fille qui voulut entrer au Carmel, Une semaine de bonté ou les sept éléments capitaux. Il cinema, nella misura in cui non solo rappresenta, come la poesia, le situazioni successive della vita, ma pretende inoltre di render conto del loro concatenarsi, e nella misura in cui, per suscitare emozioni, è condannato a propendere verso soluzioni estreme, doveva incontrare l'humour quasi di primo acchito. Le prime commedie di Mack Sennett e certi film di Chaplin (Chariot evaso, Il pellegrino) gli indimenticabili Fatty e Picratt stanno a capo della linea che col massimo rigore sfocerà in quelle nevi sciolte al sole di mezzanotte che sono One Million Dollar Legs e Animal Crackers e in quelle escursioni in piena grotta mentale, tanto di Fingal che di Pozzuoli, che sono Le chien andalou e L'âge d'or di Bunuel e Dali, passando per Entr'acte di Picabia. «Sarebbe ora - dice Freud - di familiarizzarsi con certe caratteristiche dell'humour. L'humour non solo ha qual1
[Les mariées du vent è il titolo di alcuni quadri di Max Ernst negli anni 1926-27].
PREFAZIONE
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cosa di liberatorio, analogamente allo " spiritoso " e al comico, ma ha inoltre qualcosa di sublime e di elevato, aspetti che non si ritrovano in quegli altri due modi di acquisizione del piacere attraverso un'attività intellettuale. Il sublime dipende evidentemente dal trionfo del narcisismo, dalPinvulnerabilità dell'io che si afferma vittorioso. L'io rifiuta di lasciarsi scalfire, di lasciarsi imporre la sofferenza dalla realtà esterna, si rifiuta di ammettere che i traumi del mondo esterno possano toccarlo; anzi dimostra che questi stessi traumi possono diventare per lui occasioni di piacere». Freud ne dà un esempio grossolano ma sufficiente: il condannato a morte, trascinato al patibolo un lunedi, che esclama: «Ecco una settimana che comincia bene!» Sappiamo che al termine dell'analisi da lui condotta sull'humour, Freud ha dichiarato di riconoscere in esso un modo del pensiero che tende a risparmiare il dispendio reso necessario dal dolore. «Noi attribuiamo a questo tenue piacere — senza troppo saperne il perché - un grande valore, lo sentiamo come particolarmente adatto a liberarci e ad esaltarci». Secondo lui il segreto dell'atteggiamento umoristico risiederebbe nell'estrema possibilità che certe persone hanno, in caso di grave allarme, di spostare l'accento psichico dall'/o al super-io, considerando geneticamente quest'ultimo come l'erede dell'istanza parentale («tiene spesso l'io sotto una severa tutela, continuando a trattarlo come una volta i genitori, o il padre, trattavano il loro figlio»). Ci è parso interessante confrontare con questa tesi un certo numero di atteggiamenti particolari che rientrano nell'ambito dell'humour e un certo numero di testi dove questo humour è stato portato, dal punto di vista letterario, al suo più alto livello di espressione. Facendo salve le riserve che occorre formulare a proposito della distinzione forzatamente artificiale tra es> io e super-io impiegata da Freud, abbiamo pensato di poterci valere, per maggiore comodità, nel nostro esposto, della terminologia freudiana, allo scopo di poter ridurre gli atteg-
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giamenti e i testi in questione a un unico comun denominatore. Non ci difenderemo dall'accusa di grande parzialità nella scelta dei testi, tant'è vero che un simile atteggiamento ci pare l'unico idoneo per un compito di tale fatta. Il timore più grande, l'unico motivo di rammarico, potrebbe essere tutt'al più il non esserci dimostrati abbastanza difficili. Per prendere parte al torneo nero dell'humour, bisogna infatti aver superato numerose prove eliminatorie. L'humour nero è limitato da troppe cose, quali la stupidità, l'ironia scettica, la facezia senza peso... (enumerarle tutte sarebbe lungo) ma è soprattutto il nemico mortale di quel sentimentalismo dall'aria eternamente braccata - quel sentimentalismo sempre all'acqua di rose - e di una certa fantasia di corto respiro, che troppo spesso si spaccia per poesia, che insiste inutilmente nel voler sottoporre lo spirito ai suoi artifici caduchi, e che non potrà ancora più a lungo levare verso il sole, confusa tra gli altri mille steli di papaveri, il suo collo mercenario di gru coronata. 1939.
Antologia dello humour
Jonathan Swift 166.5-1745
Tutto concorre a designarlo come il vero iniziatore dell'humour nero. In effetti, non è possibile, prima di Swift, tracciare un qualsiasi coordinamento delle fuggevoli manifestazioni di tale humour, che pure sono presenti per esempio in Eraclito o nei cinici o nell'opera dei poeti drammatici inglesi del ciclo elisabettiano. L'indiscutibile originalità di Swift, l'assoluta coerenza della sua produzione, quando la si considera sotto l'angolo visuale dell'emozione specialissima e quasi senza precedenti che ci procura, e il carattere insuperabile, sempre da questo punto di vista, dei più svariati esiti della sua opera, giustificano storicamente la precedenza che in questa sede gli si vuol dare. Il fatto è che, nonostante il giudizio di Voltaire, egli non ha niente del «Rabelais perfezionato». Di quest'ultimo non condivide per nulla il gusto della battuta ingenua e greve, e il costante buonumore da stomaco sazio; a Voltaire poi l'oppone totalmente il diverso modo di reagire allo spettacolo della vita, come testimoniano in maniera cosi esplicita i tratti dei loro visi: l'uno in preda a un perpetuo sogghigno, proprio dell'uomo che ha colto le cose con la ragione e mal col sentimento e che si è chiuso nello scetticismo, l'altro invece impassibile, glaciale, il volto dell'uomo che le ha affrontate nell'opposta disposizione mentale, e ne è senza tregua indignato. Si è fatto notare che Swift «provoca il riso ma senza parteciparvi»* è precisamente a questo prezzo che l'humour, nel senso in cui noi lo intendiamo, può esteriorizzare l'elemento sublime, che secondo Freud gli è inerente, e trascendere le forme del comico. Ancora a questo titolo, Swift può a buon diritto essere considerato l'inventore della facezia feroce e funebre. La sua singolarissima forma mentale gli ha ispirato una serie di apologhi e di riflessioni come la Filosofia dei vestiti e la Meditazione su un manico di scopa, che partecipano in misura sconvolgente dello spirito più moderno, e che bastano a far si che non vi sia forse opera meno logorata dal tempo.
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ANTOLOGIA D E L L O H U M O U R NERO
Pare che gli occhi di Swift fossero cosi cangianti da passare dal celeste al nero, dal candido al terribile. Questa instabilità si accorda a meraviglia con il suo modo di sentire: « H o sempre detestato tutte le nazioni, le professioni, le comunità, non posso amare che degli individui. Aborro e odio soprattutto quell'animale che porta il nome di uomo, mentre amo con tutto il mio cuore Giovanni, Pietro, Tommaso, ecc.». Disprezza più di ogni altro il genere umano, e tuttavia è assillato da un bisogno frenetico di giustizia. Fa la spola fra i palazzi di Dublino e la sua piccola canonica di Laracor, ansioso di comprendere se è destinato a coltivare i suoi salici e a godersi i guizzi delle sue trote, o invece a occuparsi degli affari di stato. Quasi suo malgrado, se ne occupa a più riprese, nel modo più attivo ed efficace. «Quest'irlandese - è stato detto - che si considera come un esiliato nella sua terra, non riesce a fissare altrove la sua residenza; quest'irlandese, sempre pronto a dir male dell'Irlanda, mette a repentaglio per essa i suoi beni, la sua libertà, la vita, e la salva, per quasi un secolo, dalla schiavitù di cui l'Inghilterra la minaccia». D'altra parte questo misogino, l'autore della Lettera a una giovane sul suo matrimonio, è destinato nella vita alle peggiori complicazioni sentimentali. Tre donne, Varina, Stella e Vanessa, si contendono il suo amore e, se rompe in termini insultanti con la prima, è condannato a vedere le altre due straziarsi a vicenda e morire senza avergli accordato il loro perdono. Questo ecclesiastico è l'uomo cui una d'esse scrive: «Se fossi molto pia, tu saresti il Dio che adorerei». Da un capo all'altro della sua vita, solo la sua misantropia non incontra alcun correttivo e non trova smentita negli avvenimenti. Un giorno, indicando un albero colpito dal fulmine, aveva detto: « I o sono come quell'albero, comincerò a morire dalla cima». Come se si fosse augurato di giungere a «quel livello di felicità sublime che si chiama facoltà di essere ben ingannato, alla condizione placida e serena che consiste nell'essere un pazzo tra i furfanti», nel 1 7 3 6 si vede precipitare in un intorpidimento intellettuale, di cui potrà osservare i progressi, con atroce lucidità, durante dieci anni. Lascia in eredità diecimila sterline per la creazione di un ospedale per alienati.
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ISTRUZIONI PER I DOMESTICI
I padroni e le padrone di solito brontolano con i servitori perché non si chiudono la porta alle spalle; ma né i padroni né le signore considerano che quelle porte devono essere aperte prima di poter essere chiuse, e che la fatica di aprirle e chiuderle è doppia; perciò la soluzione migliore, la più rapida e la più spicciativa è di non fare nessuna delle due cose; ma, se non vi danno pace al punto di non potervene scordare, allora datele, alla porta, una tale sbatacchiata nell'uscire da far tremare tutta la stanza e far crepitare tutto quello che c'è dentro, cosi rammenterete al vostro padrone e alla signora che vi attenete ai loro comandi. Se vi accorgete che state entrando nelle grazie del vostro padrone o della signora, cogliete qualche occasione per dar loro molto educatamente il preavviso. E quando ve ne chiederanno la ragione, e sembreranno dispiaciuti di perdervi, rispondete che preferireste stare con loro piuttosto che con qualunque altro padrone, ma che non si può far colpa a un povero servitore se cerca di migliorare la propria condizione; che il servizio non è una eredità; che avete un compito faticoso mentre il salario è molto modesto. Se ha un briciolo di generosità, il padrone vi aumenterà la paga di cinque o dieci scellini al trimestre piuttosto che lasciarvi andare; ma, se non ne cavate niente e non avete intenzione di andarvene, fategli dire da qualche altro servitore che lui vi ha persuaso a restare. Qualunque bocconcino riusciate a sgraffignare di giorno, tenetevelo da parte per far baldoria con i vostri colleghi la sera, e invitate anche il maggiordomo, a patto che tiri fuori da bere.
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Scrivete il vostro nome e quello della vostra amorosa con fumo di candela sul soffitto della cucina o della stanza da pranzo della servitù per dimostrare che siete istruito. Se siete un giovanotto ben portante, tutte le volte che bisbigliate qualcosa alla vostra padrona a tavola, sfioratele la guancia col naso, o, se avete l'alito sano, respiratele bene in faccia; quest'abitudine so che ha prodotto eccellenti risultati in alcune famiglie. Non arrivate mai finché non siete stati chiamati tre o quattro volte; perché nessuno, salvo i cani, viene al primo fischio; quando il padrone grida «Chi c'è di là», nessun servitore è tenuto a presentarsi; perché nessuno risponde al nome di «Chi c'è di là».
Alcune signore delicate che hanno paura di raffreddarsi, avendo osservato che al pianterreno le domestiche e i servitori spesso dimenticano di chiudersi la porta dietro quando escono o quando entrano dal cortile, hanno trovato che si può sistemare una puleggia e una corda con un grosso pezzo di piombo all'estremità, in modo che la porta si chiuda da sé e ci voglia una mano robusta per aprirla; e questa è una grossa fatica per i servitori, il cui lavoro può costringerli a entrare e uscire cinquanta volte in una mattinata. Ma l'ingegnosità può fare molto: i domestici accorti hanno scoperto infatti un rimedio efficace contro questo insopportabile disturbo, rimedio che consiste nel legare la corda alla puleggia in modo tale che il peso del piombo non serva a niente; comunque, per parte mia preferirei tenere la porta sempre aperta fermandola in basso con una pesante pietra. I candelieri dei servitori in genere sono rotti, perché niente dura in eterno. Ma voi potete ricorrere a molti espedienti: potete infilare comodamente la candela in una bottiglia, oppure attaccarla ai pannelli della stanza mediante un pezzo di burro, metterla in un corno da polvere da spa-
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ro, in una vecchia scarpa, in un bastone spaccato, nella canna d'una pistola, oppure fissarla col suo stesso grasso su un tavolo, o cacciarla in una tazza da caffè, in un bicchiere, in un barattolo di corno, una teiera, un tovagliolo attorcigliato, un vaso di mostarda, un calamaio, un ossobuco, un pezzo di pasta; altrimenti potete fare un buco in una pagnotta di pane e ficcarcela dentro. Quando la sera invitate in casa, a far bisboccia con voi, i servitori dei vicini, insegnategli un modo particolare di picchiettare o di grattare contro i vetri della finestra di cucina, in modo da udire voi e non il vostro padrone o la padrona, che dovete stare attenti a non disturbare o spaventare in ore cosi inopportune. Date la colpa di tutto al cagnolino, al gatto preferito, alla scimmia, al pappagallo, alla pica, al bambino o all'ultimo servitore che è stato licenziato. Seguendo questa regola, vi scuserete senza far torto a nessuno, e risparmierete al vostro padrone o alla signora il disturbo e l'irritazione della sgridata. Quando vi mancano gli strumenti adatti per un lavoro che state facendo, ricorrete a qualsiasi espediente vi riesca di escogitare piuttosto che lasciare l'opera incompiuta. Per esempio, se l'attizzatoio non è al suo posto o è rotto, attizzate il fuoco con le molle; se le molle non sono a portata di mano, usate la punta del soffietto, l'estremità opposta della paletta per il fuoco, oppure il manico della spazzola del caminetto, o della scopa o la canna da passeggio del vostro padrone. Se avete bisogno di carta per strinare un pollo, strappate il primo libro che vi capita a tiro. Pulitevi le scarpe, in mancanza d'uno straccio, col lembo d'una tenda, o con un tovagliolo damascato. Strappate i pizzi della livrea per farvene giarrettiere. Se il maggiordomo ha bisogno d'un vaso da notte, può in caso di necessità usare la grande coppa d'argento. Vi sono diverse maniere di spegnere le candele, e voi dovreste conoscerle tutte. Potete strusciare il lucignolo
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della candela accesa contro le boiseries della stanza, e cosi la spegnete immediatamente. Potete posarla sul pavimento e pestarne col piede il lucignolo; potete tenerla capovolta finché resta soffocata dal suo stesso grasso, o schiacciarla nel bocciolo del candeliere. Potete rotearla finché non si spegne. Quando andate a letto, dopo aver fatto acqua, potete immergere la candela nell'orinale; potete sputarvi sull'indice e sul pollice e poi pizzicare il lucignolo in modo che si spenga. La cuoca può tuffare la punta della candela nel mastello della farina, lo stalliere nel corbello dell'avena, o in un fascio di fieno o in un mucchio di strame. La serva di casa può strusciare la candela su uno specchio, che nulla pulisce meglio della smoccolatura d'una candela. Ma di tutti i modi il più spiccio e il migliore è quello di soffiarci sopra col fiato, che lascia la candela netta e più pronta ad accendersi.
U M I L E PROPOSTA PER IMPEDIRE CHE I BAMBINI D E L L A P O V E R A G E N T E S I A N O DI P E S O AI GENITORI O A L L A NAZIONE, E PER RENDERLI UTILI ALLA COMUNITÀ
È un triste spettacolo per chi passeggia nella nostra grande città \ o viaggia in campagna, quello che offrono le vie, le strade e le porte dei casolari: frotte di mendicanti di sesso femminile, circondate da tre, quattro o addirittura sei cenciosi bambini, molestano ovunque i passanti chiedendo l'elemosina. Queste madri, invece di guadagnarsi la vita onestamente, sono costrette a girovagare senza tregua, questuando il sostentamento per i figlioli privi di as1
Dublino.
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sistenza, che una volta adulti diventeranno anch'essi ladri per mancanza di lavoro, oppure lasceranno la diletta terra natale per andare a combattere a favore del pretendente in Spagna, o per vendersi nelle isole Barbados. Tutti convengono, credo, che questo prodigioso numero di bambini, in braccio o sulle spalle o alle calcagna delle madri, e spesso dei padri, è, nell'attuale miserevole stato del regno, un altro gravissimo malanno, e perciò chiunque scoprisse un metodo onesto, pratico ed economico di fare di questi fanciulli membri sani e utili della collettività, diverrebbe cosi benemerito dei suoi concittadini che gli si dovrebbe erigere una statua come a un salvatore della nazione. Ma la mia proposta non concerne soltanto i figli dei mendicanti; essa è molto più ambiziosa, e vuol provvedere a tutti i bambini di una certa età, i cui genitori non siano in grado di mantenerli meglio di quanto non facciano quelli che chiedono la carità per la strada. Dopo aver infatti per tanti anni riflettuto su questo importante problema e aver attentamente esaminato le molte proposte che sono state avanzate al riguardo, sono arrivato alla conclusione che i calcoli su cui questi suggerimenti si fondano sono grossolanamente sbagliati. Un bambino, appena uscito dal ventre materno e per un intero anno solare, abbisogna soltanto di latte, integrato da pochi alimenti del valore di due scellini al massimo (che la madre può facilmente procurarsi, in contanti o in natura, esercitando la sua legittima professione di mendicante). Compiuto un anno, i bambini, secondo la mia proposta invece di esser di peso ai genitori o alle parrocchie e mancare poi di cibo e di abiti, per tutta la vita, dovrebbero contribuire all'alimentazione, e in parte al vestiario, di molte migliaia di cittadini. Il mio piano presenta anche il grande vantaggio di eliminare gli aborti volontari e l'orribile consuetudine di uccidere i figli bastardi, cosi frequente, purtroppo, tra le no-
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stre donne, che sacrificano i poveri piccoli innocenti, più, temo, per paura della spesa che della vergogna: cosa che muoverebbe al pianto e alla compassione il cuore più selvaggio e spietato. Si ritiene in genere che vi siano in Irlanda un milione e mezzo di anime. Io calcolo perciò che vi siano circa duecentomila coppie le cui femmine sono fattrici; da questo numero ne sottraggo trentamila che sono in grado di mantenere i loro figli, sebbene mi sembri improbabile che, nella presente, difficile situazione del regno, esse siano cosi numerose; supponendo però che la cifra sia esatta, rimangono centosettantamila fattrici. Sottraggo ancora cinquantamila femmine che abortiscono o i cui figli muoiono di incidenti o di malattia entro il primo anno d'età. Restano soltanto centoventimila bambini che annualmente nascono da genitori poveri; allevarli e provvedere ai loro bisogni è, come ho già detto, assolutamente impossibile nelle presenti circostanze e con i metodi sinora proposti. Non possiamo infatti trovar loro un'occupazione né come artigiani né come agricoltori, visto che non costruiamo case (parlo di case in campagna) né coltiviamo la terra. Solo eccezionalmente questi bambini, eccettuati i precoci, possono, rubacchiando, ragranellare cibo sufficiente prima dei sei anni. Anche se i rudimenti dell'arte - devo ammetterlo - li apprendono molto prima, quando a rigore non possono essere considerati che tirocinanti; almeno a giudicare dalle informazioni che ho avuto da un noto gentiluomo della contea di Cavan, il quale mi ha dichiarato di conoscere solo un paio di casi di ladruncoli d'età inferiore ai sei anni, perfino in quella regione del regno cosi rinomata per la precocità con cui si diventa esperti in questo genere di attività. I nostri mercanti mi assicurano che fanciulli o fanciulle non sono merce smaltibile prima dei dodici anni, e anche quando raggiungono questa età, non rendono più di tre sterline, tre sterline e mezza corona al massimo, cifra che
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non può ripagare i genitori o il Regno delle spese sostenute per l'alimentazione e gli stracci, che sono state almeno quattro volte maggiori. Esporrò ora umilmente le conclusioni cui sono giunto, confidando che non diano luogo a obiezioni di sorta. Un americano che ho conosciuto a Londra mi ha assicurato, da buon intenditore, che un bambino d'un anno, sano e ben allevato, è cibo squisitissimo, nutriente e salutare sia stufato che arrosto, al forno o bollito; e altrettanto saporito deve essere — ne sono certo — in fricassea o al ragú. Perciò umilmente sottopongo all'attenzione pubblica la seguente proposta: che ventimila dei sopracalcolati centoventimila bambini siano destinati alla riproduzione, e di questi solo un quarto maschi (percentuale superiore a quella degli ovini, bovini e suini, che riserviamo a tale scopo); e ciò perché questi bambini sono raramente frutto del matrimonio, formalità di cui i nostri selvaggi non tengono gran conto; un maschio basterà quindi a quattro femmine; propongo inoltre che i rimanenti centomila bambini, all'età di un anno, siano offerti in vendita ai nobili e ai ricchi di tutto il regno, raccomandando sempre alle madri di lasciarli poppare abbondantemente nell'ultimo mese perché arrivino sulla tavola ben tondi e polposi. Un bambino sarà sufficiente per due pietanze se si hanno ospiti a colazione; se invece il pasto si consuma in famiglia, il quarto anteriore e quello posteriore formeranno delle discrete porzioni. Condito con un po' di pepe e sale, potrà essere servito lesso anche dopo quattro giorni, e conservarsi ottimo, specialmente d'inverno. Ho calcolato che in media un bambino appena nato pesa dodici libbre, e sale a ventotto in un anno solare, se convenientemente allevato. Questa carne sarà alquanto cara, lo ammetto, e perciò indicatissima per i proprietari terrieri, i quali, avendo già divorato gran parte dei genitori, sono i più qualificati a fagocitare i figli.
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Una persona assai rispettabile, sinceramente devota al paese e da me stimatissima, s'è compiaciuta ultimamente, discorrendo della proposta, di consigliare un ulteriore perfezionamento. Molti signori irlandesi hanno negli ultimi tempi distrutto i loro cervi, e il gentiluomo in questione suggerisce di sopperire alla mancanza di selvaggina con la carne di fanciulli e fanciulle tra i dodici e i quattordici anni; numerosissimi essendo quelli d'ambo i sessi che, patendo in ogni paese la fame per mancanza di lavoro o di servizio, potrebbero dai genitori, se in vita, o da altri parenti, essere proficuamente venduti. Ma col dovuto rispetto per un cosi buon amico e un patriota tanto degno, non posso del tutto condividere la sua opinione. I maschi infatti, se devo credere a quanto afferma per diretta e ripetuta esperienza il mio conoscente americano, sono per il molto moto, di carne generalmente tenace e filacciosa come quella dei nostri scolari, e il loro sapore è sgradevole. Ingrassarli non vale quindi la spesa. Quanto alle femmine, faccio umilmente osservare che ucciderle sarebbe di danno alla comunità perché, lasciandole in vita, esse possono presto diventare a loro volta fattrici. Delle anime scrupolose potrebbero inoltre osservare, anche se del tutto a torto, che una simile politica rasenterebbe la crudeltà: obiezione che infirmerebbe, a mio avviso, qualsiasi progetto, anche se ispirato dalle migliori intenzioni.
Credo che i vantaggi di questa proposta siano evidenti, e molti anche della massima importanza. Anzitutto, essa comporta, come ho già osservato, una sensibile riduzione del numero dei papisti, dai quali siamo di anno in anno sempre più soverchiati. Essi sono infatti i nostri più pericolosi nemici e, al tempo stesso, i principali riproduttori della nazione: se restano in patria è col
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fine recondito di consegnare il regno al pretendente, approfittando dell'assenza di tanti buoni protestanti, i quali hanno preferito abbandonare il paese piuttosto che restarsene in patria e pagare contro coscienza le decime a un curato idolatra della Chiesa episcopale. Secondo: i contadini più poveri disporranno in proprio di beni di un certo valore, che saranno per legge suscettibili di sequestro. Con tali beni si garantirà al padrone il pagamento del canone fondiario anche dopo la confisca di tutto il grano e il bestiame dei contadini: quando per loro il denaro non sarà più che un ricordo. Terzo: considerato che il mantenimento di centomila bambini dai due anni in su non può essere calcolato meno di dieci scellini Tanno a testa, le risorse della nazione avranno un incremento di cinquantamila sterline l'anno, senza contare il vantaggio di un nuovo piatto che arricchirà la mensa di tutte le persone facoltose e dai gusti delicati; e il denaro resterà nelle nostre mani, essendo questa merce interamente prodotta e confezionata in casa nostra. Quarto: le fattrici a periodicità regolare, oltre al guadagno di otto scellini l'anno in moneta buona che ricaveranno dalla vendita dei figli, si libereranno dalle spese di mantenimento dopo il primo anno di vita. Quinto: questa vivanda accrescerà notevolmente la clientela delle taverne, poiché gli osti saranno certamente cosi avveduti da procurarsi le migliori ricette per prepararla alla perfezione; e di conseguenza i loro locali saranno frequentati da tutti i signori alla moda, i quali giustamente tengono a essere reputati dei buongustai. Un abile cuoco, che sappia soddisfare i suoi clienti, troverà modo di rendere il piatto quanto più costoso piacerà a lor signori. Sesto: questa iniziativa sarebbe di grande incentivo al matrimonio, istituto che presso tutti i popoli saggi è stato sempre incoraggiato con premi o reso obbligatorio con leggi e sanzioni. E le madri, ormai sicure della definitiva sistemazione che la comunità offrirebbe ai poveri piccoli, dive-
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nuti fonte di guadagno invece che di spesa, prodigherebbero maggiori cure e tenerezze ai loro figlioli. Presto vedremmo nascere un'onesta emulazione tra le donne sposate, che cercherebbero tutte di portare al mercato i bambini più grassi; e gli uomini manifesterebbero alle loro mogli, durante la gravidanza, la stessa tenera sollecitudine che solitamente riservano alle cavalle pregne, alle vacche che aspettano il vitellino e alle scrofe prossime a figliare; e per timore di provocare un aborto si asterrebbero dal picchiarle o dal prenderle a calci, come troppo spesso succede.
M E D I T A Z I O N E S U U N M A N I C O DI S C O P A
Il povero manico che oggi vedete ingloriosamente giacere in quell'angolo dimenticato, io so che un giorno fu fiorente in una foresta; era pieno di linfa, pieno di foglie, pieno di rami; ma ora invano il solerte artificio dell'uomo tenta di gareggiare con la natura, legando quel fastello di ramoscelli secchi al suo arido tronco; nella migliore delle ipotesi esso è ora il rovescio di quello che era un tempo, un albero capovolto con i rami a terra e le radici per aria; maneggiato da qualunque sudicia donnetta, e destinato a eseguire il suo faticoso lavoro, deve, per capriccio della sorte, far pulite le altre cose e sporcare se stesso; infine, ridotto a un moncherino dalle serve, viene buttato fuori dalla porta o condannato come ultimo uso ad accendere il fuoco. Quando io mi accorsi di ciò guardai bene e dissi fra me: certamente l'uomo è un manico di scopa. La natura lo ha creato forte e vigoroso, in floride condizioni, con i capelli in testa, che sono rami appropriati a questo vegetale ragionevole, finché l'ascia dell'intemperanza non
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gli ha tagliato via i verdi rami e non lo ha ridotto un arido tronco. Allora egli ricorre all'arte e si mette una parrucca, stimandosi in base a un innaturale fastello di capelli, tutto coperto da una polvere che mai la sua testa produsse; e adesso questo nostro manico di scopa vorrebbe comparire in scena, orgoglioso di quelle spoglie di betulla che mai aveva portate, e tutte coperte di polvere, sebbene spazzata e raccolta dalla camera della signora più raffinata; e noi osiamo anche deridere e disprezzare la sua vanità, giudici parziali come siamo delle nostre squisite virtù, e dei difetti altrui. Ma una scopa è il simbolo di un albero che sta in piedi sulla testa: mentre un uomo che cosa è, di grazia, se non una creatura capovolta, con le facoltà animali che continuamente scavalcano le razionali, con la testa al luogo dei piedi, un essere che striscia in terra, e pure si erge, con tutti i suoi difetti, a universale riformatore e correttore degli abusi, a oppressore delle angherie; che fruga in ogni sudicio angolo della natura, portando alla luce le corruzioni nascoste, e una gran polvere dove prima non c'era, prendendo intensamente e incessantemente parte proprio a quelle porcherie che pretende di spazzar via? I suoi ultimi giorni sono spesi al servizio delle donne, e generalmente delle meno degne. Finché, ridotto al moncone, come la sua sorella scopa, non sarà messo a calci fuori la porta, o adoperato per accendere il fuoco, al quale altri possono scaldarsi.
PENSIERI SU VARI ARGOMENTI
Se un uomo si guarda intorno mentre cammina per la strada, troverà, credo, le facce più allegre nelle carrozze dei funerali.
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Venere, una bella signora di buon carattere, era la dea dell'amore; Giunone, una terribile bisbetica, la dea del matrimonio; e furono sempre mortali nemiche. Apollo, dio della medicina, provocava le malattie. Si trattava in origine di un unico mestiere. Ed è ancora oggi cosi. I vecchi e le comete sono stati venerati per gli stessi motivi: le lunghe barbe, e i pretesi presagi. Si racconta in Pausania di un complotto per tradire la città svelato dal raglio di un asino; lo schiamazzo delle oche salvò il Campidoglio; e la congiura di Catilina fu scoperta da una prostituta. Per quanto io ricordi, questi sono i soli tre animali rimasti famosi nella storia come delatori e spie. Se un uomo mi tiene a distanza, la mia consolazione è che anche lui ci si tiene. Eccellente osservazione, dico, quando leggo un passo d'un autore, dove la sua opinione va d'accordo con la mia. E quando io non sono d'accordo, sentenzio che lui si è sbagliato. Un uomo che offrisse di mostrare, per tre pence, come si può infilare un ferro ardente in un barile di polvere da sparo senza farlo esplodere avrebbe pochi spettatori. Domanda: le chiese non sono dormitori per i vivi come per i morti? La gelosia come il fuoco può accorciare le corna, ma le fa puzzare.
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II cappello di un servo si deve togliere davanti a tutti. Per questo, Mercurio, che era il servo di Giove, aveva ali sul berretto. La visione è Parte di vedere le cose invisibili. Ho chiesto a un povero come viveva. Come un pezzo di sapone: sempre diminuendo, mi disse. Si dice dei cavalli nella Visione, che la loro forza era nelle bocche e nelle code. Lo stesso può dirsi delle donne. Gli elefanti sono sempre disegnati più piccoli che in natura, le pulci più grandi. Nessuno accetta consigli, tutti accettano denaro. Quindi il denaro è meglio dei consigli. A Windsor feci osservare a Lord Bolingbroke che la torre dove abitavano le damigelle d'onore (che a quell'epoca non erano molto belle) era frequentata dai corvi. Milord disse che ci andavano perché sentivano odore di putrefazione.
D.-A.-F. de Sade 1740-1814
Non si può pretendere di sottoporre all'ottica particolare che ispira questa raccolta un'opera Ì cui molteplici orizzonti cominciano a chiarirsi solo ai giorni nostri. In realtà, non esiste opera più seria, e ciò nella misura in cui, in piena società «civile», continua a pesare su di essa il tabù di una censura quasi totale. C'è voluta tutta l'intuizione dei poeti per salvare dalla notte senza fine cui l'ipocrisia la votava, l'espressione di un pensiero considerato fra tutti sovversivo, il pensiero del marchese de Sade, colui che Guillaume Apollinare definì «lo spirito più libero che mai sia esistito». E per porre in evidenza le aspirazioni fondamentali di questo pensiero, c'è voluta tutta la volontà che anima i veri analisti di estendere, al di là di tutti i pregiudizi, il dominio della conoscenza umana: compito cui successivamente si dedicarono, nel 1887, con un opuscolo anonimo dal titolo ha vérité sur le Marquis de Sade, Charles Henry, futuro direttore del Laboratorio di fisiologia delle sensazioni alla Sorbona, all'inizio del secolo il dottor Eugène Duehren (Le Marquis de Sade et son temps) e, dal 1 9 1 2 ai giorni nostri, Maurice Heine, le cui ricerche sistematiche rievocano una serie ininterrotta di conquiste. Grazie a Maurice Heine la vera portata dell'opera sadiana è oggi fuori discussione: dal punto di vista della psicologia, può considerarsi come la più autentica anticipazione dell'opera di Freud e di tutta la psicopatologia moderna; dal punto di vista sociale tende addirittura a un risultato sempre differito di rivoluzione in rivoluzione, cioè a fondare una vera e propria scienza morale. Se pensiamo che sul manoscritto dei Contes Sade volle scrivere «non vi è racconto o romanzo in tutte le letterature europee in cui il genere nero raggiunga una cosi alta intensità di effetti terrificanti e patetici», restiamo meno sorpresi all'idea che egli si sia compiaciuto di sacrificare, sia pure in modo episodico, all'humour nero. Gli stessi eccessi dell'immaginazione cui lo trascina la sua ge-
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nialità naturale e lo dispongono i lunghi anni di prigionia, il folle e orgoglioso partito preso con cui egli pone i suoi eroi, sia nel piacere che nel delitto, al di sopra di ogni sazietà, la sua palese preoccupazione di variare all'infinito, rendendole se non altro sempre più complicate, le circostanze propizie al mantenimento della loro sregolatezza, fanno si che dal racconto scaturisca qualche passaggio di una violenza cosi estrema e manifesta, da distendere il lettore insinuandogli il sospetto che l'autore ne sia consapevole. Per un attimo, il fantastico riprende possesso dell'opera di Sade: il reale, il plausibile sono deliberatamente trasgrediti. Una delle maggiori qualità poetiche di quest'opera consiste nel saper situare l'affresco delle iniquità sociali e delle perversioni umane nella luce fantasmagorica dei terrori infantili, correndo magari il rischio di confondere questi e quelle, come nell'episodio dell'Orco degli Appennini, che abbiamo scelto per questa raccolta. Ma vi sono anche altri e più validi motivi per cui Sade può considerarsi l'incarnazione stessa di ciò che noi chiamiamo l'humour nero: egli sembra aver inaugurato nella vita, d'altronde atrocemente a sue spese, quel tipo di sinistra mistificazione che confina con 1'«assassinio divertente» nel senso in cui lo intenderà più tardi Jacques Vaché. I delitti che gli valsero i primi anni di carcere furono di gran lunga meno orribili di quanto è stato detto \ Quest'accanito spregiatore della famiglia, questo mostro di crudeltà, è lo stesso uomo che per salvare i suoceri dal patibolo, come comunemente si crede, ma soprattutto, e senza dubbio, per convincimento disinteressato e profondo, si schiera con coraggio durante il Terrore contro la pena di morte, ed è messo in ceppi da quella stessa rivoluzione che aveva servito con entusiasmo fin dal primo giorno. Liberato dopo il 9 termidoro, viene di nuovo arrestato nel 1803, per aver pubblicato un libello contro il primo console e i suoi accoliti, e trasferito come pazzo dalla prigione all'ospedale di Bicétre, poi all'ospizio di Charenton, dove muore. È lecito scorgere la manifestazione d'un altissimo humour in quest'ultimo paragrafo del suo testamento, in contraddizione stridente con i ventisette anni passati in carcere per le sue idee, sotto tre regimi e in undici prigioni, e con il fatto di essersi appellato, con la più drammatica delle speranze, al giudizio dei posteri: «Proibisco che il mio corpo venga sezionato, qualunque pretesto 1
Cfr. MAURICE HEINE, L'affaire des bonbons cantharidés du Marquis de Sade, documents inédits («Hippocrate», marzo 1933), Le Marquis de Sade et Rose Keller ou l'affaire d'Arcueil devant le Parlement de Paris («Annales de Médecine legale», marzo 1933).
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possa sorgere. Domando, con la più viva insistenza, che lo si conservi quarantott'ore nella camera in cui morrò, dentro una bara di legno che verrà inchiodata solo allo spirare delle quarantott'ore anzidette, trascorse le quali detta bara sarà inchiodata: in questo lasso di tempo sarà spedito un espresso al signor Lenormand, mercante di legname, Boulevard de l'Egalité, n. 1 0 1 , Versailles, per pregarlo di venire lui stesso, con un carro, a prendere il mio corpo e a trasportarlo sotto sua scorta nei boschi della mia tenuta di Malmaison, comune di Mance, vicino a Epernon, dove voglio che venga posto senza alcuna formalità nel primo cespuglio che si trova a destra nel bosco ora detto, entrandoci dal lato del vecchio castello attraverso il grande viale che lo interseca. La mia fossa sarà scavata in questo cespuglio dal fattore della Malmaison, sotto l'ispezione del signor Lenormand, che non lascerà il mio corpo se non dopo averlo posto in detta fossa: potrà farsi accompagnare a questa cerimonia, se lo vorrà, da quei miei parenti o amici che, senza alcun fronzolo, avran voluto darmi quest'ultima prova di attaccamento. Una volta ricoperta la fossa, vi si semineranno sopra delle ghiande, affinché in seguito, quando il terreno di detta fossa sarà di nuovo erboso e il cespuglio spesso com'era prima, le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra, come io mi auguro che la mia memoria scompaia dalla mente degli uomini. «Fatto a Charenton-Saint-Maurice, sano di mente e di corpo, il 30 gennaio 1806. «Firmato: D.-A.-F. Sade». « Sade - dice Paul Eluard - ha voluto ridare all'uomo moderno la forza dei suoi istinti primitivi, ha voluto liberare l'immaginazione amorosa dai suoi propri oggetti. Ha creduto che da ciò, e da ciò soltanto, possa nascere la vera eguaglianza. Poiché la virtù porta in se stessa la sua felicità, egli s'è sforzato, in nome di tutto ciò che soffre, di abbassarla e di umiliarla, di imporle la legge suprema della sventura, contro ogni illusione, contro ogni menzogna, perché possa aiutare coloro che essa condanna a costruire sulla terra un mondo alla misura immensa dell'uomo» 1
L'évidence
poétique.
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Abbandonata la piana vulcanica di Pietra-Mala, risalimmo, con un'ora di cammino, un'alta montagna sita sulla destra, dalla cui cima ci apparvero abissi profondi oltre duemila tese, nella direzione ove ci portava la nostra marcia. Questo lato della montagna era cosparso di boschi cosi fitti, cosi prodigiosamente folti, che a mala pena si poteva scorgere il cammino. Dopo una ripida discesa di circa tre ore, giungemmo sulle sponde di un vasto stagno. Nel mezzo di questa distesa d'acqua vi era un'isola, dove si poteva scorgere il torrione del castello che serviva di rifugio alla nostra guida: le mura che lo circondavano erano cosi alte che se ne poteva distinguere solo il tetto. Camminavamo ormai da sei ore, senza aver incontrato la più piccola traccia di abitazione..., non un solo individuo era apparso ai nostri occhi. Una barca nera come le gondole di Venezia ci aspettava sul ciglio dello stagno. Da quel punto potemmo osservare la raccapricciante conca in cui ci trovavamo: da ogni lato era circondata a perdita d'occhio da montagne, con le cime e le pendici ricoperte di pini, larici e cerri. Era impossibile vedere uno spettacolo più agreste e insieme più tetro; ci pareva di essere ai confini dell'universo. Montammo in barca: il gigante la governava da solo. Trecento tese separavano ancora il castello dal porto; arrivammo ai piedi di una porta di ferro che si apriva nella spessa muraglia che circondava il castello; là, ci trovammo di fronte a fossati larghi sei piedi; li attraversammo su un ponte levatoio, che scomparve subito dopo il nostro passaggio: poi un secondo muro, una seconda porta di ferro, e ci trovammo in mezzo a una vegetazione cosi folta da farci pensare che fosse impossibile proseguire. Co-
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si era in realtà, poiché questo bosco di rovi non presentava altro che spuntoni aguzzi, e non lasciava intravvedere alcun passaggio: esso nascondeva l'ultima cinta di mura del castello, spessa dieci piedi. Il gigante solleva un masso talmente enorme che solo lui poteva maneggiarlo: si presenta ai nostri occhi una scala tortuosa: il masso si richiude e attraverso le viscere della terra raggiungiamo (sempre nelle tenebre più fitte) il centro dei sotterranei del castello, dai quali risaliamo alla superficie passando attraverso un'apertura sbarrata da un altro macigno, simile a quello di cui già abbiamo parlato. Eccoci infine in un salone dal soffitto basso, tutto tappezzato di scheletri: gli sgabelli che vi si trovavano erano fatti di ossa umane, e nostro malgrado dovemmo usare crani a guisa di sedili; ci parve di udir scaturire dalla terra grida spaventose, e sapemmo ben presto che nella volta del salone erano scavate le celle, dove gemevano le vittime di quel mostro. Appena ci fummo seduti egli parlò: — Siete nelle mie mani, siete in mio potere; posso fare di voi ciò che mi garba. Ma non abbiate timore: vi ho visto compiere azioni tanto consone al mio modo di pensare che vi reputo degni di conoscere e dividere con me i piaceri di questo mio rifugio. Ascoltatemi, mentre preparano la cena ho ancora il tempo d'informarvi. Sono nato in Moscovia, in una piccola città sulle rive del Volga, mi chiamo Minski. Alla morte di mio padre ereditai ricchezze favolose, e la natura volle adeguare le mie facoltà fisiche e i miei istinti ai doni con cui la fortuna mi aveva favorito. Non mi sentivo fatto per vegetare nei recessi di un'oscura provincia come quella che mi diede i natali, e mi misi a viaggiare; l'universo intero non mi pareva abbastanza vasto per soddisfare la portata dei miei desideri: mi poneva dei limiti e io non volevo averne. Sono nato libertino, empio, dissoluto, sanguinario e feroce; ho percorso il mondo solo per conoscerne i vizi, e quelli che conobbi li adottai per perfezionarli. Cominciai con la Cina, il Mogol e la terra dei Tartari: poi tutta l'Asia; risalendo verso la Kam-
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catka, sono entrato in America passando per il famoso canale di Bering. Ho percorso questa vasta parte del mondo, fermandomi di volta in volta presso i popoli civili e quelli selvaggi, imitando i delitti degli uni, i vizi e le atrocità degli altri. Rientrato nella vostra Europa, ho dato prova di tendenze tanto perverse che mi condannarono al rogo in Spagna, ad essere squartato in Francia, impiccato in Inghilterra e mazzolato in Italia: ma le mie ricchezze mi garantirono sempre l'impunità. - Passai in Africa, dove compresi che ciò che voi chiamate, nella vostra follia, depravazione, altro non è che la condizione naturale dell'uomo, e più spesso ancora il frutto dell'ambiente naturale. Quei bravi figli del sole risero di me, quando volli rimproverarli della barbarie con cui trattavano le loro donne. E che cos'è una donna, mi rispondevano, se non un animale domestico che la natura ci fornisce per soddisfare insieme i nostri bisogni e le nostre voglie. Che diritti ha per pretendere da noi qualcosa di più degli animali da cortile. Anzi, la sola differenza, mi rispondevano quei popoli saggi, è che gli animali domestici possono essere meritevoli di qualche indulgenza per la loro docilità e sottomissione, mentre le donne, con la loro indole eternamente malvagia, ingannatrice, perfida, non meritano che durezza e atrocità... - ... Io ho conservato queste tendenze; gli avanzi di cadaveri che vedete sono i resti delle creature che divoro; mi nutro solo di carne umana, e spero sarete soddisfatti del banchetto che sto per offrirvi... - ... Ho due harem. Nel primo vi sono duecento bambine, dai cinque ai vent'anni, che io divoro dopo averle mortificate a forza di lussuria; nel secondo duecento donne dai venti ai trentanni: vedrete poi quale trattamento riservo loro. Cinquanta servitori d'ambo i sessi sono al servizio di questo considerevole numero di oggetti di lubricità, cento agenti sparsi in tutte le grandi città del mondo lavorano per me a scopo di reclutamento. Ebbene, col traf-
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fico incredibile che tutto ciò comporta, sapete che l'unico ingresso a quest'isola consiste nella strada che avete or ora percorso? Nessuno può immaginare quante creature passino per quel misterioso sentiero. - Mai saranno strappati i veli che io stendo su tutto ciò. Non è che io abbia molto da temere: siamo negli stati del Granduca di Toscana, e tutti conoscono l'irregolarità della mia condotta, ma il denaro che spargo a dritta e a manca mi mette al riparo da ogni pericolo... - . . . I mobili che vedete, - ci dice il nostro ospite, - sono viventi: al più piccolo cenno, si muoveranno - . Minski fa un gesto, e la tavola prende ad avanzare, da un angolo del salone fin giusto nel mezzo; cinque poltrone le si dispongono tutt'attorno, due lampadari scendono dal soffitto fin sopra la tavola. - Questo meccanismo è semplice, - dice il gigante, facendoci osservare da vicino la composizione dei mobili. - Vedete che questa tavola, questi lampadari, queste poltrone sono composti da gruppi di giovinette artisticamente disposte: sulle loro reni poggeremo i piatti bollenti... - Minski, - obiettai al nostro Moscovita, - il compito di queste ragazze è estenuante, soprattutto se si sta a lungo a tavola. - Male che vada, - risponde Minski, - ne crepa qualcuna, ma è una perdita che si ripara facilmente e non vai la pena di preoccuparsene neppure per un attimo... - ... Amici miei, - dice il nostro ospite, - vi ho avvertito che qui non si mangia altro che carne umana; tutti i piatti che vedete contengono simile vivanda. - Li proveremo, dice Sbrigani; - la ripugnanza è un'assurdità, che nasce solo dalla mancanza di abitudine: tutte le carni sono fatte per esser di sostentamento all'uomo, la natura ce le fornisce tutte per quest'unico scopo, e mangiare un uomo non è più strano che mangiare un pollo Ciò dicendo, il mio sposo piantò la forchetta in un quarto di bambino che gli pareva ben cucinato e, mettendosene nel piatto almeno due libbre, lo divorò. Io l'imitai. Minski ci incoraggiava
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e, poiché il suo appetito era pari a tutte le sue altre passioni, vuotò ben presto una dozzina di piatti. Minski beveva quanto mangiava: era già alla trentesima bottiglia di Bourgogne quando servirono i dolci che innaffiò di Champagne; con la frutta ingollammo Aleatico, Falerno e altri preziosi vini d'Italia. La fortuna postuma di Sade, quasi dovesse compensare, per qualche misteriosa ragione, il folle e severo destino che accompagnò la sua vita, consiste non soltanto nelTattirare su di lui, a cosi grande distanza di tempo, l'attenzione degli esegeti più degni, ma anche nello spingere gli indagatori più dotati a scoprire nuovi preziosi filoni in quel terreno fulminato - propizio a indicare dirottamenti di vita - che è la sua opera. Dopo la morte di Maurice Heine, nel 1940, che coincise col duecentesimo anniversario della nascita di Sade, Gilbert Lély si assunse il compito di dargli il cambio nel nobile lavoro: e ora, assecondato a sua volta dalla fortuna più fausta nel suo amore e nel suo zelo, si accinge a fornirci numerose opere e documenti, finora sottratti alla nostra conoscenza, alcuni dei quali gettano nuova luce su un aspetto, il più segreto, del marchese. L'Ai gì e, Mademoiselle, che inaugura questa serie di pubblicazioni, ci porta, come per la prima volta, alle brucianti fonti della sua passione e ci permette, sul piano umano, di risalire fino al suo principio originario. Nello smarrimento di questo istante, di cui la lettera che qui riproduciamo segna il parossismo, vedremo che l'humour reclama la parte dell'aquila, soprattutto nella segreta architettura di quelle operazioni aritmetiche cui Sade attribuiva un valore di «segnali», operazioni che, secondo Gilbert Lély, «costituiscono una sorta di reazione della sua psiche, una lotta inconscia contro la disperazione, nella quale la sua ragione avrebbe potuto naufragare senza il soccorso di un tale diversivo».
A L L A SIGNORA D E S A D E
Questa mattina ho ricevuto una vostra lettera lunga a non finire. Non siate cosi prolissa, ve ne prego: pensate ch'io non abbia altro da fare che leggere le vostre rumina-
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zioni? Dovete avere del bel tempo da perdere, per scrivere lettere di quella mole, e devo averne io per rispondervi, non ho ragione? Tuttavia, poiché l'oggetto di questa mia è di grande importanza, leggetela a mente lucida e a sangue freddo. Ho trovato tre segnali di grande bellezza. Mi riesce impossibile tenerveli celati. Sono cosi sublimi da indurmi a pensare che, leggendoli, applaudirete vostro malgrado alla grandezza del mio genio e alla ricchezza del mio sapere. Si potrebbe dire della vostra combriccola ciò che Piron diceva dell'Académie: siete in quaranta e avete cervello per quattro. La vostra cricca, è lo stesso: siete in sei e avete cervello per due. Ebbene, malgrado tutto il vostro genio e benché siano solo dodici anni che lavorate alla grande operat son pronto a scommettere, doppio contro semplice \ se volete, che i miei tre segnali valgono più di tutto ciò che avete fatto. Un momento, mi sto sbagliando, ce ne sono, in fede mia, quattro... Va bene, sono tre o quattro, voi sapete che il tre-quattro è di grande potenza. i° segnale inventato da me} Christophe de Sade2: Il primo taglio o ferita che avrete da segnalarmi, bisognerà tagliare i c... a Cadet de la Basoche (Albaret) e spedirmeli in una scatola. Io aprirò la scatola, getterò un grido e dirò: Ah Dio mio, ma che cos'è questo? - Jacques, il suggeritore, che sarà là dietro, risponderà: Non è nulla, Signore; non vedete che è un 19? — Eh no, vi dico io... — Non per vantarmi, ne avete uno buono come questo? 1
Eh! doppio contro semplice: bella questa. Vi piacerebbe averla pensata voi? [Nota di Sade]. 2 [Secondo Lély, Sade ha forse voluto paragonare sarcasticamente il proprio supplizio con quello di Cristo].
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2° segnale, dello stesso: Quando volete segnalare il 2, il doppio, il duplicato, il secondo te stesso, il pagare due volte, ecc. \ ecco come dovete comportarvi: Bisognerà sistemare in posizione in camera mia una bella creatura (il sesso non importa; ho un po' il carattere della vostra famiglia, io, non guardo tanto per il sottile; e d'altronde cane arrabbiato ecc.), bisognerà dunque, dicevo, piazzare nella mia camera una bella creatura neirattitudine della Callipigia farnese, là, che lo metta bene in mostra. Io non odio quella parte: penso, come il presidente, trovo che è più carnosa del resto e che, di conseguenza, per uno cui piaccia la carne, è sempre meglio di ciò che è piatto... Entrando, dirò al suggeritore, o al suggerito: Ma che è dunque quest'infamia? - (per la forma, esclusivamente) e il suggeritore risponderà: Signore, è un duplicato. 3° segnale, sempre dello stesso : Quando vorrete fare un grande arco, come quest'estate, con il fulmine e il conduttore (effetto atroce, per poco non ne muoio di convulsioni) bisognerà appiccare il fuoco al magazzino delle polveri (è verticalmente orientato verso la camera dove dormo): sarà un effetto sublime. Ohi ecco il più bello, nevvero? Per il 40 infine: Quando (statemi bene a sentire) vorrete fare un 16 a 9, dovrete prendere due teste di morto (due, mi capite be1
[Sempre secondo Lély, si tratta probabilmente di un'immagine della sodomia eterosessuale].
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ne; avrei potuto dire sei, ma, benché abbia servito nei dragoni, sono modesto e dico e ripeto due) e, mentre sono in giardino, farete sistemare il tutto nella mia camera in modo che, al mio rientro, trovi la decorazione bella e pronta. Oppure mi direte che è giunto per me un pacchetto dalla Provenza: io l'aprirò in gran fretta e sarà quello - e avrò molta paura (perché la mia indole è estremamente timida, devo averlo dimostrato due o tre volte in vita mia). Ah, brava gente, brava gente! credetemi, non inventate, perché per inventare cose cosi piatte, stupide e facili da indovinare, non vai neanche la pena di darsi da fare. Ci sono tante altre cose da fare oltre a inventare, e quando non se ne ha la capacità, tanto vale fare scarpe o cannucce, piuttosto che inventare in modo sciocco, goffo e stupido. Questo 19, e partito il 22.
A proposito, speditemi la mia biancheria; e dite a quelli che giudicano che non è affar mio, che loro giudicano molto male, perché il signor Direttore di Rougemont, che giudica benissimo, ha giudicato che la mia stufa aveva un gran bisogno di riparazioni, e adesso le fa fare. Cosi, una volta nella vita, se è possibile, tirate l'aratro insieme, perché, per quanto carogne siate tutti, bisogna almeno cercare di non esserlo al punto di tirare sempre a destra quando l'altro tira a sinistra. Tirate come il signor Direttore di Rougemont; è un uomo di buon senso che tira sempre dalla parte giusta - o che si fa tirare quando non tira lui. Il mio servo si raccomanda che ricordiate alla presidentessa che gli aveva promesso di fargli fare sergente il figlio, se avesse eseguito bene il segnale.
Georg Christoph Lichtenberg 1742-99
Credere o non credere, questo dilemma non fu mai affrontato in modo tanto geniale e patetico, quanto da un uomo estremamente dotato, come Lichtenberg, del senso della qualità intellettuale; tale ci appare, nell'atto di analizzare, dal proscenio di un teatro londinese, la recitazione del grande Garrick nel monologo di Amleto. «... con grande dignità, egli guarda di lato verso terra. Poi, togliendo il braccio destro dal mento, ma (mi ricordo benissimo) continuando a sostenerlo con il sinistro, pronuncia le parole To be or not to be ecc., a voce bassa, ma udibile dappertutto a causa del gran silenzio (e non per una sua dote particolare, come si legge perfino in alcuni scritti su di lui». La voce di Lichtenberg è impostata in modo altrettanto ammirevole, e il suo interrogativo personale sul piano della conoscenza riesce a trarre partito nel modo più sorprendente dalla sua disgrazia fisica (era gobbo) e nello stesso tempo a sprofondare in un silenzio senza pari destinato a crescere, a tendere all'oblio totale fino ai giorni nostri. Sarebbe poco più che semplice vanità dare peso a questo silenzio, raramente rotto dopo la sua morte, se gli uomini che si son rifatti a Lichtenberg non fossero, proprio ed esclusivamente, alcuni di coloro con cui i posteri hanno dovuto fare Ì conti. Nonostante alcuni non disprezzabili motivi di rancore che poteva nutrire contro di lui, ecco le parole di Goethe: «Possiamo servirci degli scritti di Lichtenberg - afferma Goethe - come di una mirabile bacchetta da rabdomante. Là dove egli fa uno scherzo è nascosto un problema». Kant, verso la fine della sua vita, collocava Lichtenberg su un piedistallo e, sulla sua copia personale degli Aforismi, aveva sottolineato in rosso e in nero diversi passaggi. Schopenhauer vede in lui il pensatore per eccellenza, colui che pensa per se stesso e non per gli altri. Nietzsche colloca gli Aforismi) accanto ai Colloqui di Goethe con Eckermann, al centro del «Tesoro della prosa tedesca». Wagner, nel 1878, crede di scoprire nella sua opera un'anticipazione del proprio pensiero. Tolstoj, nel 1804, si dichiara influenzato
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da Lichtenberg ancor più che da Kant, e si stupisce dell'ingiustizia che la sorte postuma gli ha riservato: «Non capisco come i tedeschi di oggi trascurino tanto questo scrittore, mentre vanno pazzi per quello scribacchino vanesio che è Nietzsche». La vita di Lichtenberg è ricca come quella di Swift di contraddizioni appassionanti, tanto più appassionanti in quanto concernono in questo caso uno spirito eminentemente raziocinante. Ateo con assoluta consapevolezza, non solo pensa che il cristianesimo sia «il più perfetto sistema per favorire la pace e la felicità nel mondo», ma gli accade anche, nello smarrimento sentimentale, di abbandonarsi alla vita mistica degli altri, fino a «pregare con fervore». Dopo aver scritto: «La rivoluzione francese è il risultato della filosofia, ma quale abisso tra il cogito ergo sum e il grido di "Alla Bastiglia! " che riecheggiava al Palais Royal! » e dopo aver ammesso il Terrore, si commuove per la morte di Maria Antonietta. Malgrado il suo disprezzo per l'amore alla Werther, nel 1 7 7 7 si innamora di una ragazzina di dodici anni: «... a partire dalla Pasqua del 1780 - scrive sei anni dopo al pastore Amelung - restò sempre con me... Eravamo costantemente insieme. Quando lei era in chiesa mi sembrava di aver mandato via con lei i miei occhi e tutti i miei sensi. - In una parola - essa era mia moglie senza la benedizione del prete (mi scusi, amico carissimo, quest'espressione)... Santo Iddio, questa celestiale fanciulla mi è morta il 4 agosto 1782 all'ora del tramonto». Benché, come uomo dei «lumi», sia un avversario convinto del movimento Sturm und Drang che irrompe allora nella letteratura tedesca, dentro di sé è il più entusiasta e pronto ammiratore di Jean Paul. In lui convivono, nella più perfetta comunione di spirito, lo sperimentatore (professore di fisica all'Università di Gottinga e maestro di Humboldt, ha scoperto che l'elettricità positiva e quella negativa non si propagano nello stesso modo nelle materie isolanti) e il sognatore (il razionalista Lichtenberg ha fatto l'elogio di Jacob Böhme, è stato il primo a penetrare il senso profondo dell'attività onirica e il meno che si possa dire è che il suo punto di vista sull'argomento resta ancor oggi di piena attualità). Egli dev'essere celebrato come il profeta stesso del caso, di quel caso che Max Ernst definirà «signore dell'humour». A questo riguardo nulla è più sintomatico che vederlo dedicare le sue prime lezioni al calcolo delle probabilità nel gioco. «Uno dei tratti più singolari del mio carattere è certo la strana superstizione con cui io traggo da ogni cosa una presignificazione e in un giorno trasformo cento oggetti in altrettanti oracoli. Non ho bisogno di descriverlo perch'io mi capisco anche troppo bene. Ogni strisciare di insetto mi serve per dare delle
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risposte a domande sul mio destino. Non è singolare per un professore di fisica? » Né negare né credere... « I o mi vanto - egli dice ancora - di dimostrare che talvolta si crede a qualcosa e che tuttavia non ci si crede affatto. Non vi è nulla di più insondabile del sistema che regola i moventi delle nostre azioni». Nel cono bianco della sua famosa «candela accesa», ritroviamo con emozione, nel pastello di Abel, il più fine dei sorrisi, quello del precursore in ogni campo, quasi un Paul Valéry prima maniera, definitivamente riveduto e corretto da Monsieur Teste (ma Valéry non deve nulla a Lichtenberg, se non l'arte di numerare Ì quaderni). Ecco uno dei più grandi maestri dell'humour: l'inventore di questo sublime scherzo filosofico, che rappresenta, per mezzo dell'assurdo, il" capolavoro dialettico dell'oggetto: «Un coltello senza lama cui manca il manico». Nella sua solitudine, è giunto a qualcosa di meglio che variare, come fanno gli uomini, le posizioni dell'amore: ha descritto 62 maniere di appoggiare la testa alla mano.
AFORISMI
Ho studiato l'ipocondria, mi ci sono messo a fondo. La mia ipocondria è in sostanza l'abilità di spremere fuori da ogni accadimento della vita, comunque si chiami, la massima quantità possibile di veleno a mio uso e consumo. Non è la forza dello spirito ma quella del vento che ha portato quest'uomo all'altezza del suo posto. Era uno di quelli che vogliono fare le cose sempre meglio di quanto richiesto. È una qualità orribile in un servo. Il grado più alto a cui possa elevarsi uno spirito mediocre ma dotato di esperienza è la capacità di scoprire le debolezze degli uomini migliori di lui.
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Per rendersi ben conto di quello che l'uomo potrebbe fare se volesse, basta pensare alle persone che sono evase o che avrebbero voluto evadere di prigione. Con un semplice chiodo hanno fatto quanto avrebbero fatto con un ariete. L'uomo ama la compagnia: anche se è solo quella di una candela che fuma. C'è gente incapace di prendere una decisione se non ci ha dormito sopra. Bene, solo che esistono dei casi in cui si rischia di essere fatti prigionieri con tutto il letto. Quando si è giovani si sa appena di vivere, la sensazione della salute si acquista solo attraverso la malattia. Quando facciamo un salto in aria l'attrazione della terra la notiamo sbattendo nella ricaduta. Entrando nella vecchiaia lo stato di malattia diviene una specie di stato di sanità e non ci si accorge più di essere malati. Se non rimanesse il ricordo del passato, si noterebbe poco il cambiamento. Credo perciò che gli animali divengono vecchi solo ai nostri occhi. Uno scoiattolo che nel giorno della sua morte conduce la vita dell'ostrica non è più infelice dell'ostrica. Ma l'uomo che vive in tre luoghi, nel passato, nel presente e nel futuro, può essere infelice quando uno di questi tre luoghi non serve più a nulla. La religione ne ha aggiunto anche un quarto, l'eternità. Una delle situazioni più spiacevoli è la seguente: prendere delle precauzioni esagerate per prevenire un accidente e fare in questo modo tutto il possibile per attirarselo; mentre senza alcuna precauzione si sarebbe stati perfettamente al sicuro. Ho visto qualcuno rompere un vaso prezioso per volerlo togliere dal posto dove sarebbe stato tranquillamente almeno altro mezzo anno, in quanto aveva paura che un giorno potesse essere rovesciato.
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Crescendo, la sua biblioteca non gli stava più: cosi come non sta più bene un panciotto troppo stretto. Le biblioteche possono divenire in genere troppo strette o troppo larghe rispetto all'anima. Poiché oggi tutti scrivono libri per bambini sarebbe una buona idea che una volta tanto un bambino scrivesse un libro per gli adulti. Ma la cosa è difficile, se si vuole mantenerne il carattere. Sarebbe cosa eccellente inventare un catechismo o un piano di studi grazie al quale gli uomini potessero essere trasformati dal terzo stadio in una sorta di castori. Non conosco animali migliori sul creato: mordono solo se vengono presi, sono amanti al massimo dello stato matrimoniale, sono abili nel lavoro e la loro pelle è eccellente. Quest'uomo aveva tanta intelligenza che nel mondo non lo si poteva quasi utilizzare in niente. Se ben conosco la genealogia della signora scienza, l'ignoranza è la sua sorella maggiore, e cosa c'è di tanto scandaloso nel prendere la sorella maggiore quando uno ha anche a sua disposizione la minore? Da tutti coloro che l'hanno conosciuta ho sentito che la maggiore ha le sue attrattive, che è una brava ragazza grassotta, e che appunto perché in genere dorme più che essere sveglia, è un'ottima moglie. Faceva le sue scoperte pressappoco come i cinghiali e i cani da caccia scoprono le sorgenti salate e le acque minerali. Quest'uomo lavorava a un sistema di storia naturale nel quale aveva classificato gli animali a seconda della forma degli escrementi. Distingueva tre categorie: i cilindrici, gli sferici e quelli a forma di torta.
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Questa teoria psicologica equivale secondo me alla teoria, ben nota in fisica, che spiega il fenomeno dell'aurora boreale con il riflesso delle aringhe nell'acqua. Mi piace la gente che ha nervi grossi come corde da quattro soldi. Si stupiva che i gatti avessero due fessure nella pelle, proprio al posto degli occhi. Se fate dipingere un bersaglio alla porta del vostro giardino potete stare sicuri che ci tireranno sopra. A: Perché non venite in aiuto di vostro suocero? B: Perché? A: È povero. B: Si ma ha voglia di lavorare, ed io non ho bastante denaro per farne un fannullone. Ho conosciuto il garzone di un mugnaio che non si toglieva mai il berretto di fronte a me se non quando aveva un asino che gli camminava accanto. Per lungo tempo non sono riuscito a spiegarmi questo fatto. Finalmente ho capito che egli considerava la presenza dell'asino come umiliante per lui e domandava scusa; pareva che con questo volesse sfuggire al minimo paragone tra lui e il suo compagno. Ci sono moltissimi uomini che sono più infelici di te: questo non ti dà un tetto sotto al quale abitare, d'accordo: ma la frase è sufficiente perché vi si possa trovare riparo durante un temporale. Da lungo tempo penso che la filosofia finirà con il divorare se stessa. La metafisica, in parte, si è già autofagocitata. Aveva dato un nome ad ognuna delle sue pantofole.
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Darei volentieri qualcosa per sapere esattamente per chi sono state effettivamente compiute le azioni di cui pubblicamente si dice che siano state compiute per la patria. Una forca con un parafulmine. Autobiografia. Non dimenticare che una volta lasciai nel solaio di Graupner un biglietto con la domanda - Che cosa è l'aurora boreale? - indirizzata a un angelo, e che il giorno dopo andai di soppiatto a cercarlo, timido timido. Ah, se ci fosse stato un mattacchione che avesse risposto a quel biglietto? Nella notte dal 9 al io febbraio 99 ho sognato di mangiare durante un viaggio in un'osteria, più propriamente in una baracca molto strana, in cui si stava giocando ai dadi. Di fronte a me era seduto un uomo ben vestito, dall'aria un po' svanita, il quale, senza badare a chi gli stava attorno, mangiava la mia minestra, però ogni due o tre cucchiaiate ne lanciava in aria una, la ripigliava con il cucchiaio e poi l'inghiottiva. Ciò che rende particolarmente notevole questo sogno ai miei occhi è che io facevo in esso la mia solita osservazione che roba simile non la si può inventare, bisogna viverla (cioè non c'è romanziere cui possa venire in mente), eppure quello l'avevo proprio inventato in quel momento. Là dove si giocava ai dadi stava seduta una spilungona che faceva la maglia. Le chiesi che cosa si potesse vincere; essa rispose «nulla», e quando le chiesi se si potesse perdere qualche cosa, rispose «no!». Questo gioco mi pareva importante. Trad, di Nello Sàito, Einaudi, Torino 1966.
Charles Fourier 1772-1837
I critici più benevoli e perfino i seguaci più entusiasti del suo sistema economico e sociale sono d'accordo nel deplorare in Fourier il divagare dell'immaginazione: non sanno come comportarsi per nascondere le «stravaganze» di cui si compiace, sorvolano sull'aspetto «capriccioso e bizzarro» del suo pensiero, spesso cosi splendidamente controllato. Come spiegare la coesistenza, nella stessa mente, dei più alti attributi razionali e di un gusto del vaticinio spinto agli estremi? Marx e Engels, cosi severi con i loro precursori, hanno reso omaggio al genio dimostrato da Fourier in materia di sociologia, il primo facendo osservare, a proposito delle «serie passionali» che costituiscono la pietra angolare della sua opera, che «tali costruzioni, esattamente come il metodo hegeliano, non sono criticabili che con la dimostrazione di come bisogna farle, provando cosi che le si domina» \ il secondo presentandolo come «uno dei più grandi scrittori satirici che sia mai esistito» 2 , accompagnato da un dialettico senza pari. Come ha potuto Fourier soddisfare tali esigenze e, al tempo stesso, sconcertare quasi tutti coloro che hanno voluto accostarsi alla sua opera con le sue vertiginose ascese nel regno dell'incontrollabile e del meraviglioso? La sua storia naturale - dove si vuole che la ciliegia sia il prodotto della copula della terra con se stessa, e l'uva della copula terra-sole - è stata considerata come nettamente aberrante, e cosi pure la sua cosmologia, dove la terra occupa il posto insignificante di un'ape in un alveare formato da un centinaio di migliaia di universi siderali, il cui insieme forma un bi-universo, che a sua volta, insieme ad altre migliaia, costituisce un tri-universo e cosi via, dove la creazione procede per tappe e tentativi successivi, dove la nostra esistenza individuale è ridotta a Opere filosofiche. ENGELS, Socialismo utopistico e socialismo scientifico.
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KARL MARX,
2
FRIEDRICH
CHARLES F O U R I E R 53 1260 reincarnazioni che corrispondono a 5 4 0 0 0 anni nell'altro mondo e a 27 000 in questo, ecc. Tuttavia, nel x i x secolo la cosmologia di Fourier, responsabile delle sue più inquietanti divagazioni, arriva a far sentire la sua eco nello spirito dei poeti e di Victor Hugo in particolare. Quest'ultimo ne resta impregnato, grazie a Victor Hennequin e, senza dubbio, tramite la lettura delle opere di Eliphas Lévy (l'ex abate Constant) «che, sulla strada che va dal seminario alla magia, incontra la libreria del falansterio e pone sotto il patrocinio di Rabelais la teoria delle serie e quella delle attrazioni proporzionali ai destini» l . Sarebbe tempo di stabilire con precisione quanto questa cosmologia, come le altre tesi insolite professate da Fourier, sia stata influenzata dalla filosofia ermetica, se pensiamo che la Tbéorie des quatre mouvements raccoglie probabilmente le «minute» delle conferenze che il suo autore tenne nelle logge massoniche sotto il Consolato. Resta il fatto che queste tesi assumono uno straordinario rilievo per la loro costante interferenza con i più arditi piani di trasformazione sociale, piani la cui giustezza e vitalità risultano in gran parte dimostrate, Volerle espurgare dal suo messaggio sociale per renderlo più comprensibile, equivale a tradire Fourier, facendo finta di dimenticare che nel 1 8 1 8 questi affermò l'assoluta necessità «di rifare il pensiero umano e dimenticare tutto ciò che si è appreso» 2 (esigendo quindi che venga posto in discussione il consenso universale e che la si faccia finita una volta per tutte col presunto«buon senso»). Baudelaire ha dato prova, a due riprese, di vedute molto ristrette nel giudicare Fourier, rifiutandosi di rendergli gli onori cui ha diritto. «Fourier - scrive ne Uart romantique - è venuto un giorno, in pompa magna, a rivelarci i misteri dell * analogia. Io non voglio negare il valore di alcune delle sue minuziose scoperte, benché pensi che il suo cervello fosse troppo preoccupato dell'esattezza materiale per non commettere errori e per arrivare di colpo alla certezza morale dell'intuizione... D'altronde Swedenborg, che aveva un'anima ben più grande (?) ci aveva già insegnato che il cielo è un grandissimo uomo*\ che ogni cosa, numero, forma, movimento, profumo, sia nello spirituale che nel naturale, è significativo, reciproco, converso, corrispondente». (Occorre rileggere tutto il contesto). Nella lettera del 2 1 gennaio 1856 ad Alphonse Toussenel, il suo partito preso giunge fino a fargli contestare, contro ogni evidenza, che il delizioso autore del Monde des o'tseaux fosse in qualche modo debitore di Fourier: «Senza Fourier, sareste stato ugualmente ciò 1
2
vi ATTE, Victor Hugo et les Illumini s de son temps, p. 73. Publication des Manuscrits de Fourier, t. IV, p. 327. AUGUSTE
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che siete. L'uomo dotato di ragione non ha atteso l'avvento sulla terra di Fourier per capire che la natura è un verbo, un'allegoria, uno stampo, un lavoro di sbalzo, se cosi preferite. Noi lo sappiamo, e non perché Fourier ce lo ha insegnato, ma lo sappiamo tramite noi stessi, e tramite i poeti». (Poiché ai giorni nostri Swedenborg e Claude de Saint-Martin son caduti ancor più nell'oblio che ai suoi tempi, l'accusa di aver usurpato le loro idee madri, supponendo che essi stessi a loro volta non le abbiano ricevute in eredità, potrebbe altrettanto falsamente ritorcersi contro Baudelaire). Senza dubbio il modo di recepire e di propagare queste idee è stato ben diverso in Fourier da un lato, in Nerval e Baudelaire dall'altro: ciò che in questi ultimi vale a rafforzare il concetto immutabile che essi hanno del sacro, nello spirito sostanzialmente profano di Fourier finisce per scatenare un principio di . turbolenza che non si riconosce altro fine che la conquista della felicità. Il contrasto — che nel sistema di Fourier è la prima condizione «seriale» che garantisce la soddisfazione della «papillonne» - si identifica nella Minerva in armi che di slancio scaturisce da quella testa, dove l'iperlucidità e l'estremo rigore sul piano della critica sociale si alleano, sul piano trascendentale, alla sfrenatezza del congetturare. «Forse, è stato suggerito, si potrebbe scrivere una buona tesi su Fourier umorista e mistificatore». È fuor di dubbio che uno humour ad altissima tensione, costellato dalle scintille che scambierebbero i due Rousseau (Jean-Jacques e il Doganiere) aureola questo faro, uno dei più luminosi che io conosca, la cui base sfida il tempo mentre la sua cima si abbarbica alle nubi.
CORONA B O R E A L E
Quando il genere umano avrà sfruttato il globo fino oltre i sessanta gradi di latitudine nord, la temperatura del pianeta sarà assai più mite e regolare: l'esercizio del sesso si intensificherà; l'aurora boreale, divenuta frequentissima, si fisserà sul polo, svasandosi in forma d'anello o di corona. Il fluido, che oggi è soltanto luminoso, acquisterà una nuova proprietà: quella di diffondere il calore insieme con la luce.
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La corona sarà di dimensioni tali da aver sempre qualche punto di contatto col sole, i cui raggi saranno necessari per infuocare il contorno dell'anello: essa quindi dovrà presentargli un arco, anche quando l'asse della terra avrà la massima inclinazione. L'influenza della corona boreale si farà intensamente sentire fino a un terzo del suo emisfero; sarà visibile a Pietroburgo, Ochotsk e in tutte le regioni del sessantesimo parallelo. Dal sessantesimo parallelo fino al polo, il calore andrà via via aumentando, di modo che il punto polare godrà pressappoco della temperatura dell'Andalusia e della Sicilia. A quell'epoca l'intero globo sarà coltivato, ciò che provocherà un addolcimento della temperatura di cinque o sei gradi, a volte perfino dodici, nelle latitudini ancora incolte come la Siberia e l'alto Canada.
In attesa del verificarsi di questo futuro avvenimento, osserviamo alcuni indizi che già l'annunciano: per prima cosa, la differenza di conformazione tra le terre prossime al polo australe e quelle prossime al polo boreale: i tre continenti meridionali terminano con una punta acuta, in modo da allontanare il commercio umano dalle latitudini polari. Una forma del tutto opposta si nota nei continenti settentrionali; sono svasati in vicinanza del polo, e si raggruppano intorno al polo stesso per raccogliere i raggi dell'anello che dovrà un giorno fargli corona; i grandi fiumi scorrono in questa direzione, come per attirare il commercio umano sul mare glaciale. Ora, se Dio non avesse progettato di dare la corona fecondante al polo boreale, ne seguirebbe che la disposizione dei continenti che circondano questo polo sarebbe un fenomeno incongruo; e Dio sarebbe tanto più ridicolo ad aver cosi operato dal momento che al punto opposto, sui continenti meridionali,
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la sua opera è stata improntata ad estrema saggezza; infatti egli ha dato loro dimensioni del tutto convenienti, intorno a un polo che mai potrà avere una corona fecondante. Si potrebbe deplorare solo che Dio abbia spinto troppo in là la punta magellanica, il che è causa di un momentaneo intralcio; ma è sua intenzione che questa strada venga abbandonata e che si costruiscano negli istmi di Suez e di Panama canali navigabili dai grandi vascelli. Questi lavori e altri ancora, la cui prospettiva spaventa le genti civili, altro non saranno che trastulli puerili per le armate industriali della gerarchia sferica. Altra prova e indizio della corona ci è data dalla posizione difettosa dell'asse del globo: se supponiamo che la corona non debba mai venire alla luce, l'asse dovrebbe, nell'interesse dei due continenti, essere ribaltato di un ventiquattresimo, o di sette gradi e mezzo, sul meridiano di Sandwich e Costantinopoli, in modo che questa capitale si troverebbe al trentaduesimo parallelo boreale: di conseguenza la longitudine 225 dell'isola del Ferro, e quindi lo stretto del Nord, e le due punte dell'Asia e dell'America, si inoltrerebbero in ugual misura nei ghiacci del polo boreale: ciò significherebbe sacrificare il punto più inutile del globo per valorizzare gli altri punti.
Questa osservazione sull'inopportunità dell'asse non si è punto fatta, poiché lo spirito filosofico ci allontana da ogni critica ragionata sull'operare di Dio, e ci spinge a partiti estremi, dubitare della provvidenza o tributarle una venerazione stupida e cieca; come quei sapienti che ammirano perfino il ragno, perfino il rospo e altri esseri immondi, in cui null'altro si può vedere che un motivo di vergogna per il creatore, fino a quando non siano note le ragioni di questo pessimo operare. Cosi è per l'asse del globo, la cui posizione viziata doveva indurci a disapprovare Dio, e a presagire il sorgere della corona, che fornirà la giusti-
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Reazione di questa apparente topica del creatore. Ma poiché le nostre esagerazioni filosofiche e la nostra smania d'ateismo o di venerazione ci hanno distolti dall'emettere un giudizio imparziale sull'operato di Dio, non abbiamo saputo né determinare i correttivi necessari alla sua opera, né prevedere le rivoluzioni materiali e politiche per mezzo delle quali egli effettuerà questi correttivi.
i METODO D'UNIONE DEI
SESSI
N E L S E T T I M O P E R I O D O ( E NON N E L L ' O T T A V O )
Si possono distinguere, nel mondo cornuto, nove gradi di cornificazione, sia fra gli uomini che fra le donne, poiché le donne sono ben più cornificate degli uomini; e se il marito ne porta di alte quanto i rami del cervo, si può ben dire che quelle della moglie si alzano al livello dei rami dell'albero. Mi limiterò a citare le tre classi principali, cioè: il Cornuto, il Cornuto Contento, il Becco \ i ) Il Cornuto propriamente detto è un geloso pieno di dignità, che ignora la sua sventura e che crede di essere l'unico signore della sua donna. Fintantoché la gente mantiene viva la sua illusione con una lodevole discrezione, non siamo autorizzati a canzonarlo: potrebbe egli forse adontarsi di un'offesa che ignora? Il ridicolo è tutto nel seduttore, che lo adula e che s'inchina davanti a colui con il quale scientemente divide la bella. 1
[Il quadro completo comprende 64 specie progressivamente distribuite in classi, ordini e generi, dal cornuto in erba fino al cornuto postumo; ne ho descritto qui solo tre specie, poiché su questo argomento, come su tanti altri, voglio sondare quali sviluppi conviene dare al Trattato].
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ANTOLOGIA D E L L O H U M O U R NERO
2) Il Cornuto Contento è un marito sazio degli amori casalinghi e che, volendo cogliere altrove i suoi piaceri, chiude gli occhi sulla condotta della moglie e l'abbandona, senza nulla più, agli spasimanti, col patto che essa non abbia a generare. Uno sposo siffatto non si presta punto alla beffa; anzi egli ha il diritto di malignare sulle corna altrui, come se egli stesso ne fosse esente. 3) il Becco è un geloso ridicolo, sgradito alla sposa e informato della sua infedeltà; è un furibondo che recalcitra contro il volere del destino, ma che, con i suoi goffi tentativi di resistenza, diviene un oggetto di scherno per le precauzioni inutili, la rabbia e gli scoppi di collera. In materia di becchi, il George Dandin di Molière è un modello esemplare.
D E T T A G L I O DI C R E A Z I O N E IN C H I A V E I P O - M A G G I O R E
Sarebbe per noi cosa vana la conoscenza del sistema della natura, se non ci fornisse i mezzi atti a correggere il male presente e sostituire ai prodotti scissionari, agli esseri nocivi, dei contro-stampi o servitori utili all'uomo. Che ci varrebbe conoscere in quale ordine ogni astro operò il suo intervento nella creazione: il sapere che il cavallo e l'asino furono creati da Saturno in una certa modulazione; la zebra e il quagga da Proteo (stella non ancora scoperta ma pur esistente, dal momento che se ne scorge l'opera in ogni direzione e genere); che in quella modulazione Giove diede il bue e il bisonte; e Marte il cammello e il dromedario? Da queste nozioni particolari potremmo solo trarre la sgradevole certezza che gli astri, che qualifi-
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chiamo sfaccendati peripatetici, hanno invece operato sul nostro globo sette volte troppo, procurandoci un'apparecchiatura i cui sette ottavi sono cagione di male. Sommamente preziosa ci sarà, invece, l'arte di richiamarli sulla scena della creazione con un lavoro di controstampo, per mezzo del quale chi ci diede il leone ci darà in contro-stampo un superbo e docile quadrupede, un'elastica cavalcatura, I'ANTILEONE, atto a tali poste per cui un cavaliere, partendo la mattina da Calais o da Bruxelles, farà a Parigi la prima colazione, pranzerà a Lione e cenerà a Marsiglia, meno stanco per questa giornata che uno dei nostri corrieri lanciati a spron battuto: poiché il cavallo è cavalcatura rude e semplice (solipede) che starà alr antileone come la carrozza senza sospensioni a quella che ne è fornita. Lasceremo il cavallo ai tiri a quattro e alle parate, quando avremo a disposizione la famiglia delle cavalcature elastiche, antileoni, antitigri, antileopardi, che avranno dimensioni triple degli stampi attuali. Cosi un antileone a ogni balzo radente coprirà con facilità quattro tese, e il cavaliere sul suo dorso sarà a proprio agio come su una berlina. Sarà bello abitare questo mondo, quando potremo valerci di simili servitori. Le nuove creazioni di cui possiamo vedere l'inizio daranno entro cinque anni ricchezze a profusione in ogni regno, cosi nei mari come sulle terre. Invece di creare balene e squali, ippopotami e coccodrilli, sarebbe forse costato di più creare servitori preziosi come: Antibalene che rimorchiano i vascelli durante la bonaccia; Antisquali atti a cacciare il pesce; Antiippopotami che spingono i battelli nei fiumi; Anticoccodrilli o aiutanti di fiume; Antifoche o cavalcature di mare? Tutti questi brillanti prodotti saranno l'effetto necessario di una creazione che avverrà in aromi contromodel-
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lati, iniziando da un bagno aromatico sferico, che purghi i mari dai bitumi ivi contenuti. Sorvoliamo sul quadro di queste prossime meraviglie: la prospettiva, ben lungi dal soddisfare il lettore, turba una generazione educata all'empietà, al dubbio circa la Provvidenza e che, nell'imperfezione del suo spirito, immagina che Dio non abbia pari potere per fare il bene che per fare il male; male che Egli dovette organizzare in misura sette volte maggiore in creazioni sovversive, cosi come dovrà organizzare il bene in misura sette volte maggiore in creazioni armoniche.
DIMOSTRAZIONI FAMILIARI DELLA
CATARATTA
In armonia, una delle prime operazioni consisterà nel radunare un congresso di grammatici e naturalisti allo scopo di comporre una lingua unitaria, il cui sistema dovrà reggersi sull'analogia con le grida degli animali e altri documenti di natura. Questo lavoro sarà appena terminato allo scadere di un secolo: allo scopo di perfezionarlo, ci si varrà di una bussola dal sicuro funzionamento, che ancora non è tempo di render nota.
Punteggiatura Oltre all'alfabeto delle lettere, sarà d'uopo creare quello della punteggiatura, che dovrà comprendere un ugual numero di segni: esso è a tal punto ignoto che i francesi si valgono solo di sette segni di punteggiatura, cioè , ; : . ! ? ) . La parentesi quadra, che più non entra nell'uso, era l'ottavo. Quanto agli accenti é è è è, essi stanno ad indi-
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care differenza di vocali e non di punteggiatura. Lo stesso per l'apostrofo, che richiederebbe un segno speciale e non il semplice innalzamento di una virgola. La nostra lingua è cosi povera che siamo obbligati ad usare o il punto, o i due punti, creando una gran confusione. Io avevo iniziato un lavoro sulla gamma della punteggiatura, portandola a venticinque segni, mostrando con esempi l'ambiguità di quelli attuali: ma il lavoro andò smarrito prima che lo terminassi, e in seguito non lo ripresi. Osserviamo a questo proposito che il primo e il più semplice dei nostri segni, la virgola, si deve differenziare per lo meno in quadruplice forma, perché si possano apprezzare i suoi differenti significati, le accezioni che, variando all'infinito, sono confusamente espresse da un solo segno: il che determina un estremo disordine. Lo stesso vale per gli altri segni, in cui si trovano accumulati insieme tre o quattro significati: la punteggiatura civilizzata è un vero caos, come l'ortografia, che varia per ciascuna delle tipografie parigine. L'Accademia, col principio oscurantista di non permettere correzione alcuna degli errori più vistosi, ha irritato a tal punto gli animi che ne risulta una ribellione generale, un'anarchia universale nella grammatica.
L ' E L E F A N T E , IL CANE...
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Cominciamo col distinguere una virtù reale da una falsa, mettendo a raffronto l'Elefante e il Cane, l'uno come emblema di amicizia nobile e l'altro di amicizia menzognera. 1 ) L'amicizia. È nobile nell'Elefante; si concilia sempre con l'onore. Non ha la bassezza del Cane che, battuto
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talvolta senza ragione, non serba alcun rancore. L'Elefante tollera le sanzioni giustificate, ma non si lascia maltrattare senza motivo; non perdona le offese; del resto, la sua amicizia è inalterabile e devota quanto quella del Cane. Questa nobile amicizia produce legami collettivi e corporativi, mentre quella servile del Cane favorisce solo il despotismo, il regime civile e barbarico in cui certo non regnano nobili passioni, quali invece vediamo albergare nell'Elefante. I despoti vogliono l'amicizia del Cane, che, ingiustamente maltrattato e offeso, continua ad amare e servire il suo persecutore. 2) L'amore. Nell'Elefante esso è discreto e fedele: nel Cane, che in amore è il più ignobile dei quadrupedi, è scandaloso e criminale, poiché a questa passione associa ogni genere di vizi, cosi come gli uomini civili nei cui amori prevalgono l'astuzia, la frode, l'oppressione. 3) La paternità. Nell'Elefante è saggia e onorevole. Quando è in schiavitù si astiene dal procreare, non volendo dar vita a creature destinate all'infelicità. Serva ciò di lezione agli uomini civili, assassini dei loro figli, poiché li generano in tal numero da non poterne assicurare il benessere. La morale, o teoria di falsa virtù, li spinge a fabbricare carne da cannone, formicai di coscritti che saranno obbligati a vendersi per miseria. Questa improvvida paternità è falsa virtù, egoismo del piacere. La natura ha preservato da questo vizio l'Elefante, che è il prototipo delle quattro passioni affettive, considerate in senso veramente sociale e in accordo coi vincoli generali. Il Cane, emblema delle false virtù, è dotato di quella falsa paternità che genera formicai, figliate di undici (primo dei numeri antiarmonici), mucchi di figli di cui tre quarti moriranno sotto il ferro, il dente o gli stenti. 4) L'onore. È la quarta virtù impressa nello stampo dell'Elefante; ma non si tratta di quell'onore morale che predica il disprezzo delle ricchezze e pretende che si beva nel cavo della mano, come Diogene. L'Elefante non solo
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esige un buon nutrimento (80 libbre di riso al giorno) ma predilige il lusso dei paramenti, dei cibi, del vasellame, delle bevande; lo umiliano le stoviglie d'argilla, se è abituato a cibarsi in stoviglie d'argento. Se l'elefante è un modello delle quattro virtù sociali, deve anche rappresentare, per essere fedele al quadro generale, il destino della virtù schernita in regime di Civiltà. Perciò la natura lo ha vestito di fango. Egli stesso predilige la polvere, di cui si cosparge, a immagine dell'uomo virtuoso che ama imboccare la via della miseria, invece d'inseguire una fortuna cui giungerebbe solo attraverso la pratica di ogni sorta di vizi, furti, bassezze, venalità, ingiustizie, traffici, aggiotaggi, accaparramenti, usura. La natura avrebbe potuto fornire a questo animale un mantello ricco quanto quello della tigre; ma sarebbe stata una contraddizione, un falso ritratto, perché nella nostra società la virtù reale e veramente dignitosa porta soltanto alla miseria; parlo della virtù reale e non delle virtù filosofiche, saggezza del camaleonte che a ogni infamia si presta purché conduca alla fortuna.
La natura ha dotato l'Elefante di difese in avorio, armi opulente, in analogia al nostro stato sociale, che destina il lusso al potere, alla classe improduttiva e dominante. Cosi, la proboscide, che è insieme arma e strumento e quindi produttiva, è poveramente vestita, poiché l'Elefante deve rappresentare la condizione del lavoro e della virtù, vittime di ingiustizia e di scherno. Emblematica dei destini della virtù è la sua parte posteriore, ridicola nel contrasto tra la schiena possente e la coda sgraziata ed esile.
L'estrema piccolezza degli occhi è in flagrante contrasto con l'immensità del corpo. Specchio delle ristrette prospettive dell'uomo virtuoso... Le orecchie sono l'opposto
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degli occhi: la loro grande dimensione e la forma schiacciata raffigurano la sofferenza dell'uomo virtuoso, che altro non ode che voci ipocrite e perverse, nella nostra società, ove gli uni predicano la virtù senza praticarla e gli altri esaltano sfrontatamente i benefici del vizio. L'uomo giusto è oppresso e schiacciato da questo duplice linguaggio di depravazione: le sue orecchie si piegano sotto la falsità. Questa ingrata situazione è riflessa nelle orecchie dell'Elefante.
Thomas De Quincey 1784-1859
Dice Baudelaire che De Quincey è essenzialmente digressivo; l'espressione humourist gli si addice meglio che a chiunque altro; in un punto della sua opera paragona il suo pensiero a un tirso, nudo bastone che trae fisionomia e grazia dal groviglio di foglie che lo riveste. Nelle due famose memorie (1827 e 1839), raccolte sotto il titolo L'assassinio considerato come una delle belle arti, si sforza di afferrare il delitto non più, come dice egli stesso, «per il suo manico morale» ma in modo extrasensibile, tutto intellettuale, e di considerarlo unicamente in funzione delle doti più o meno notevoli che mette in gioco. Facendo astrazione dall'orrore fin troppo convenzionale che suscita, l'assassinio, secondo De Quincey, richiede una trattazione estetica e un apprezzamento qualitativo come un'opera plastica o un caso clinico. Diventando cosi oggetto di pura speculazione, avrà valore nella misura in cui, prima di tutto, appaga determinate esigenze: mistero, indeterminatezza dei moventi, difficoltà superate, grandezza e smalto dei risultati. D'altronde si può considerare sufficiente il soddisfare anche una sola di queste condizioni: « V i è... un progetto incompiuto di Thurtell, di assassinio di un uomo per mezzo di una coppia di pesi da sollevamento, che ammiro molto». Uno dei personaggi del libro " Toad in the Hole" convulso e inquietante personaggio, s'identifica col «Vecchio della Montagna, precursore e maestro del genere», «luce scintillante» che esalterà in seguito Alfred Jarry L'autore, in un post-scriptum del 1854 al suo libro dedicato al resoconto di tre assassinii esemplari, giustifica la stravaganza volontaria del suo procedere con la preoccupazione di non tagliare i ponti, in una materia cosi scabrosa, con ogni traccia di comicità e si richiama a lungo al precedente di Swift. « I l lettore - dice in un altro punto De Quincey - penserà forse che voglio ridere, ma io sono da tempo abituato a scherzare nel do' Cfr. Les jours et les nuits, Mercure de France, 1897.
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lore» l . Poche esistenze furono cosi patetiche come la sua, poche vicende cosi crudeli e meravigliose. Meno che diciassettenne fugge dalla scuola di provincia dove vogliono costringerlo i suoi tutori: vive di espedienti, girovaga per il Galles, nutrendosi di more e di bacche selvatiche; giunge tuttavia a Londra, dove trova asilo in una grande casa abbandonata, rifugio nelle ore dei pasti di un uomo d'affari dal viso di faina, e di una timida ragazzina di dieci anni che vi abita giorno e notte facendo da serva a questo enigmatico personaggio. Il suo ospite gli lascia per pranzo qualche crosta di pane, e la ragazzina dorme stringendosi a lui sul nudo pavimento. Nel corso delle sue peregrinazioni per Londra, il giovane De Quincey, che si fa un principio filosofico di parlare familiarmente con ogni essere umano che incontra, uomo donna o bambino, si innamora platonicamente di una prostituta di sedici anni, Anna, adorabile creatura tenera e innocente. Baudelaire ha sognato di strappare «una penna dalle ali di un angelo» per dipingere il loro legame insieme di povertà e di amore. « La povera Anna, - racconta Marcel Schwob, - si precipitò verso Thomas De Quincey... barcollante e quasi svenuto nella Oxford Street, sotto i grandi lampioni accesi. Gli occhi umidi, accostò alle sue labbra un bicchiere di vino dolce, lo abbracciò e lo accarezzò. Poi scomparve nella notte. Forse mori poco dopo. Dice De Quincey che tossiva, l'ultima volta che la vide. Forse vagava ancora per le strade: ma per quanto si accanisse a cercarla, per quanto sfidasse il riso di coloro cui si rivolgeva, Anna fu persa per sempre. Più tardi, quando ebbe una casa calda, pensò sovente con le lacrime agli occhi che la povera Anna avrebbe dovuto vivere là, vicino a lui, mentre se l'immaginava ammalata o moribonda, disperata, nell'orrore di un b... di Londra, lei che aveva portato via, con sé, tutto l'amore e la pietà della sua anima» 2 . Perduta per sempre? No: dato che, almeno, essa ritornò diciassette anni dopo a popolare i suoi sogni di mangiatore d'oppio (cominciò soltanto nel 1 8 1 2 ad usare la droga per vincere le sofferenze lasciategli dalla fame troppo a lungo patita). La sua luminosa apparizione placa ancora una volta le angosce della perdizione totale che sono in De Quincey il terribile rovescio della «più straordinaria, complessa e splendida visione». Nessuno più di De Quincey mostrò tanta profonda compassione per la miseria umana. Il suo senso della fraternità universale lo spinge nel 1 8 1 9 a entusiasmarsi alla lettura dei Principi di economia politica di Ricardo e a sforzarsi di contribuire allo sviluppo di quella 1 2
Confessioni di un mangiatore d'oppio. Le livre de Monelle.
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nuova scienza (Prolegomeni per ogni sistema futuro di economia politica). Conseguenza di questa stessa compassione f u il suo assoluto disprezzo per ogni fama consolidata: « I n generale, i pochi individui che in questo mondo eccitarono il mio disgusto, furono persone abbienti e di buona reputazione. I bricconi che ho conosciuto, e non son pochi, li ricordo invece tutti, senza eccezione, con piacere e con affetto».
L ' A S S A S S I N I O C O M E UNA D E L L E B E L L E A R T I
Ma è giunto il momento di spendere qualche parola sui principi dell'assassinio, non già per dirigere la vostra pratica, ma il vostro modo di giudicare. Le vecchierelle, e la folla in genere dei lettori di giornali, si accontentano di tutto, purché ci sia abbastanza sangue. - Parliamo dunque, prima di tutto, del tipo di persone meglio adatte agli scopi dell'assassino; secondariamente del luogo dove agire; terzo, del tempo in cui, - e di altre circostanze di minor conto. Quanto alla persona, mi par evidente che debba essere un uomo dabbene, perché, se no, potrebbe anche lui - tutto è possibile! - star pensando a compiere un assassinio proprio in quel momento; e zuffe simili, in cui «un diamante taglia un diamante», per quanto abbastanza divertenti quando non ci sia niente di meglio in vista, non sono comunque quel che un critico può permettersi di chiamare degli assassinii. Potrei citare delle persone (non facciamo nomi) che sono state trucidate da altre in un vicolo oscuro: e fin qui tutto può parere abbastanza corretto; ma, approfondendo la questione, il pubblico si è avvisto che anche la vittima stava progettando, nello stesso istante, di derubare almeno almeno il proprio assassino, - e forse di ucciderlo, se gliene fosse bastata la forza. Ogniqualvolta
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le cose stanno in questi termini, o tali si suppongono, addio effetti genuini dell'arte. Infatti lo scopo finale dell'assassinio, dal punto di vista delle arti belle, è precisamente il medesimo di quello della tragedia nella definizione di Aristotile: «purificare gli animi per mezzo della pietà e del terrore». Ora, terrore può esserci, ma come può esserci pietà per una tigre sbranata da un'altra tigre? È ovvio del pari che la persona scelta non dovrebb'essere un personaggio pubblico. Nessun artista di giudizio, ad esempio, avrebbe tentato di assassinare Abraham Newland \ Infatti il caso era questo: tutti avevano tanto letto di Abraham Newland, e tanti pochi l'avevano veduto, che, per la maggioranza, egli era una pura idea astratta. Mi ricordo che una volta, per aver detto incidentalmente che avevo mangiato in un caffè con Abraham Newland, tutti mi guardarono con sprezzo, come se avessi finto d'aver giocato a biliardo con Prete Gianni o di avere avuto una questione d'onore col papa. A proposito: il papa sarebbe un individuo pochissimo indicato per un assassinio; egli possiede, come padre della cristianità, una tale ubiquità spirituale, e, come il cuculo, è cosi spesso udito e in pari tempo mai visto, da farmi sospettare che infinite persone stimino un'idea astratta anche lui. - Quando invece un uomo pubblico ha l'abitudine di dar pranzi «con tutte le primizie della stagione», ecco che il caso è diverso: ciascuno è ben certo ch'egli non sia un'idea astratta, e quindi non ci può esser scorrettezza nel1
Abraham Newland (cassiere-capo della Banca d'Inghilterra, morto nel 1807) è ora completamente dimenticato. Ma, quando queste pagine furono scritte (1827), il suo nome non aveva cessato di risuonare alle orecchie britanniche, come il più familiare e significativo che sia forse mai esistito. Era il nome che si trovava su tutti i biglietti della Banca d'Inghilterra, grandi o piccoli che fossero; ed era stato, per più di un quarto di secolo (specialmente durante tutta la rivoluzione francese) un'espressione stenografica indicante « carta moneta » nella sua forma più sicura
[Nota di De Quittcey].
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l'ucciderlo. Soltanto che il suo assassinio rientrerà nella classe degli assassinii politici, di cui non ho ancora parlato. Terzo. Il soggetto scelto deve godere buona salute, essendo assolutamente barbaro l'assassinio di un ammalato, che in genere non si trova affatto in grado di sopportarlo. In omaggio a questo stesso principio non si dovrebbe mai scegliere un sarto di più che venticinque anni, perché, passata quell'età, diventa certamente dispeptico. O almeno, se proprio si vuol cascare li, si dovrà reputare doveroso di uccidere, secondo la vecchia formula, un multiplo di 9: il 18, per esempio, il 27, o il 36. E qui, in questa caritatevole sollecitudine per il bene degli ammalati, riconoscerete il consueto effetto di ogni arte bella nel raddolcire e raffinare i sentimenti. Generalmente il mondo, oh signori, è sanguinario; e tutto quel che pretende in un assassinio è un abbondante spargimento di sangue: fatene uno spreco vistoso, e gli basta. Ma il conoscitore illuminato ha gusti più raffinati: e dall'arte nostra - come da tutte le altre arti liberali, ove sien possedute a fondo - risulta un ingentilirsi dell'animo. Tanto è vero che
Ingenuas didicisse fideliter artes, Emollit mores; nec sinit esse feros.
Un filosofo amico mio, ben noto per la sua filantropia e per la costante bontà, consiglia che il soggetto scelto abbia anche una tenera figliolanza, la cui vita dipenda per intero dal lavoro di lui; cosi da rendere più profondo il pathos. E, senza dubbio, si tratta di un avviso giudizioso. Ma io non insisterei troppo su questa condizione. Un perfetto buon gusto la richiede senz'altro; nondimeno, se un uomo fosse incensurabile quanto a morale ed a salute, non mi terrei con tanto scrupolo ad una restrizione che potrebbe aver l'effetto di limitare il campo d'azione dell'artista. Trad. di Corrado Pavolini, Formiggini, Roma 1926.
Pierre-Frangois Lacenaire 1800-836
Dice Lacenaire: «Arrivo alla morte per una cattiva strada, ci arrivo salendo una scala». Disertore e falsario in Francia, assassino in Italia, poi ancora ladro e assassino a Parigi, occupato senza tregua, come dice egli stesso, a «meditare sinistri progetti contro la società», Lacenaire dedica i pochi mesi che precedono l'esecuzione a redigere le sue Mémoires, révélations et poésies e si adopera in ogni modo per fare del suo processo uno spettacolo. Le ombre delle sue vittime, dello Svizzero di Verona, di un suo vecchio compagno di cella, Chardon, e della madre di quest'ultimo, come pure l'immagine dell'esattore che cercò di derubare e uccidere, non lo distolgono neanche per un attimo dall'atteggiamento distratto e insieme divertito che conserva fino alla fine delle udienze. Per nulla preoccupato di salvarsi la testa, si concede un ultimo gioco crudele, infierendo contro i suoi complici intenti a difendersi, e si limita, per quanto lo riguarda, a cercar di fornire una giustificazione materialista dei suoi delitti. Dal punto di vista morale, sembra non esservi mai stata coscienza più tranquilla di quella di questo bandito. Alla vigilia della morte, prende in giro i preti che lo importunano, i frenologi e gli anatomisti impazienti di esaminare il suo caso, e confessa di essere soggetto a «qualche piccola crisi di malinconia» che lo «diverte»; la notte, attraverso le sbarre della cella, «quasi quasi faccio cucù al secondino». Un critico, nel celebrare recentemente il centenario di una famosa opera di Balzac, ha potuto scrivere: «Nel 1836, quando il libro esce, è accolto freddamente e quasi denigrato dalla stampa; la grazia del Lys dans la vallee non viene immediatamente apprezzata dal pubblico, ancora follemente infatuato di Lacenaire, l'elegante assassino in finanziera blu, poeta di corte d'assise e teorico del "diritto al crimine"».
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S O G N I DI U N C O N D A N N A T O A M O R T E
Quanta felicità in un sogno!... Senza dormire, bello è sognare E in men di un'ora terminare Il romanzo più lieto. Creo un mondo a mio riguardo, Le sorti migliori sono per me, Cosi mai io mi azzardo A scegliere quella di re. Nel mio solitario rifugio, Non mi curo dell'avvenire, Mi nutro di una chimera Nella memoria m'indugio; Freschi sogni di gioventù, Che il fato non può sfiorire, Allietate la mia tarda età: Son vecchio perché sto per morire. A volte in un gaio castello, Raduno mille e mille beltà; Più spesso nell'erba mi sdraio, Lisa sola al mio fianco sta; Il velo che il seno solleva Mio malgrado mi invita a sognare. Gran peccato che questo sogno Solitario debba terminare. Talora in una capanna, Padre felice e dolce sposo, Ho presso di me la mia mamma E i miei bimbi nel braccio riposo.
PIERRE-FRANÇOIS LACENAIRE
All'ombra di un fitto ramo Vivo, leggo, a volte scrivo; Ma ahimè! vien l'uragano, Sogno, sei già cosi lontano.
Christian Dietrich Grabbe 1801-36
L'odiosa fama che accompagna la vita di Grabbe non risparmia neppure la sua infanzia. Nessun autore fu cosi aspramente maltrattato dai suoi biografi, nessuno ha fornito maggiori appigli alla critica meno scientifica e più vana, quella del moralista. Ci dicono che sia cresciuto sotto le più funeste influenze: il padre dirigeva un riformatorio, la madre gli trasmise il vizio del bere. A diciottenni, mentre studiava legge a Berlino, compose il suo primo dramma, Il Duca di Gothland\ si riposero in lui per qualche tempo le speranze della scuola romantica, ma ben presto deluse l'attesa del pubblico, non resistendo al suo bisogno di urtarlo, anzi di scandalizzarlo. Perfino Heine e Tieck, che gli erano amici, non sopportarono a lungo il suo carattere scontroso e la sua estrema sregolatezza. Dopo aver tentato di fare l'attore, ritorna agli studi di legge, esercita per qualche tempo la professione legale e in seguito quella di avvocato in un tribunale militare nella sua città natale. Nel frattempo si sposa, ma poco dopo abbandona la moglie, ed è destituito dal suo incarico. Il direttore del teatro Immermann lo assume come copista, ma egli non si adatta per nulla a questa nuova esistenza e, distrutto totalmente dall'alcool, si rifugia di nuovo, in attesa della morte, presso la moglie, la sola persona ancora disposta ad accoglierlo. Nella produzione drammatica di Grabbe occupa un posto a parte la commedia tradotta da Jarry con il titolo Les Silènes e che nell'originale tedesco s'intitola Scherzo, satira, ironia e significato profondo \ 1
Dopo che è stata scritta questa presentazione, Robert Valan^ay ha dimostrato che occorre fare le più ampie riserve circa l'attribuzione a Jarry dell'insieme del testo francese di Les Silènes: « I l poema iniziale e i passaggi erotici di cui quest'opera è costellata, non figurano in nessuna edizione tedesca di Grabbe. Sono forse di Jarry? Supponiamo piuttosto che siano di mano dell'editore, abile imitatore che li ha aggiunti per tirar
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE
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Un'analisi sommaria potrebbe solo far intravvedere i meriti di un'opera insuperabile per genio e vis comica, che si stacca prepotentemente dal suo tempo e che è legata al nostro, più di ogni altra, da innumerevoli prolungamenti.
I SILENI
I.
Un giorno d'estate, caldo e luminoso. Il Diavolo, seduto su una montagnola di terra, rabbrividisce dal freddo. Fa freddo, freddo. - All'inferno fa più caldo! A dire il vero, la mia satirica nonna mi ha fatto indossare - poiché sette è il numero che più volte si ripete nella Bibbia - sette giustacuori di pelliccia, sette mantelli di pelliccia e sette berretti di pelliccia. Ma fa freddo, freddo! Che Dio mi porti, ma fa proprio freddo? Se soltanto potessi rubare della legna o dar fuoco a una foresta! Per tutti gli angeli! Sarebbe buffa davvero, se il diavolo dovesse morire assiderato! Rubare legna dar fuoco foresta - dar fuoco - rubare. (Rimane congelato).
IL DIAVOLO
2.
Entra, botanizzando, un botanico. Davvero in questa regione si trovano vegetali molto rari; Linneo, Jussieu... Signor mio Ge-
IL NATURALISTA
acqua al suo mulino». Non ci resta quindi che rimandare all'ottima traduzione di Valançay, Raillerie, satire, ironie, etc., Coll. L'Age d'or, Fontaine, 1945.
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su Cristo, chi c'è qui, sdraiato per terra? Un uomo morto e, come si può chiaramente vedere, congelato! Ebbene, è in ogni caso stupefacente! Un miracolo, se esistesse qualcosa come un miracolo! Oggi è il 2 d'agosto, il sole fiammeggia nel cielo, è il giorno più caldo che io abbia mai visto; e quest'uomo osa, ha la faccia tosta, contro tutte le regole e contro tutte le esperienze degli uomini di scienza, di gelare. - No; è impossibile, assolutamente impossibile! Adesso mi metto gli occhiali! (Si mette gli occhiali). Incredibile, stupefacente! Mi son messo gli occhiali, e questo bel tipo continua a essere gelato! Stupefacente al massimo grado! Lo porterò ai miei colleghi. (Prende il diavolo per la collottola e lo trascina via).
3-
Una sala nel castello. Il Diavolo è coricato sulla tavola e i quattro naturalisti stanno in piedi intorno a lui. Mi concedete, signori, che la faccenda di questo cadavere è un caso ingarbugliato? SECONDO N A T U R A L I S T A Se vogliamo! L'unico guaio è che i suoi abiti sono cosi labirinticamente annodati che perfino Cook, che ha fatto il giro del mondo, non saprebbe sbrogliarli. TERZO N A T U R A L I S T A Senz'altro! Ha cinque dita e niente coda. QUARTO N A T U R A L I S T A L'unico punto da risolvere è questo: che specie di uomo è? PRIMO N A T U R A L I S T A Perfetto! Ma poiché le precauzioni non sono mai troppe, proporrei, prima di metterci al lavoro, di accendere una lampada, benché il giorno sia ancora chiaro. TERZO N A T U R A L I S T A Troppo giusto, signor collega! PRIMO N A T U R A L I S T A
Christian Dietrich Grabbe
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Accendono una lampada e la mettono vicino al Diavolo, sulla tavola. PRIMO N A T U R A L I S T A
(dopo che tutti e quattro hanno esa-
minato il Diavolo con la massima attenzione) Signori, sono persuaso ormai di vederci chiaro, riguardo a questo misterioso cadavere, e spero di non sbagliarmi. Questo naso rovesciato, questa bocca larga e tumida - notate, vi dico, questa ineguagliabile divina volgarità impressa su tutto il volto, e non avrete più dubbi: quello che sta sdraiato davanti a voi è uno dei nostri critici contemporanei, e a colpo sicuro uno di quelli autentici. SECONDO N A T U R A L I S T A Caro collega, non posso condividere fino in fondo il vostro parere, peraltro straordinariamente acuto. Anche tralasciando il fatto che i nostri critici d'oggi, soprattutto quelli teatrali, sono più ingenui che grossolani, non riesco ugualmente a scorgere in questo defunto viso nemmeno uno dei caratteri che ci avete graziosamente enumerato. Al contrario, garantisco nel modo più assoluto che in questo viso vi è alcunché di leggiadro, degno di una giovinetta! le sopracciglia folte, a strapiombo, indicano quel delicato pudore femminile che si sforza di celare perfino gli sguardi, e il naso, che voi definite rovesciato, sembra piuttosto essersi cortesemente scostato, per lasciare più spazio ai baci del sospiroso amante... Basta cosi: se tutti questi segni non m'ingannano, quest'essere umano congelato è la figlia di un pastore. TERZO N A T U R A L I S T A Vi devo confessare, signore, che vi è qualcosa di azzardato nella vostra ipotesi. Per quanto figlia di pastore, una figlia di pastore mostrerebbe pur sempre le fattezze proprie in generale di quelle creature divine che chiamiamo donne, il movimento noncurante della nuca, la flessuosità musicale delle vertebre, il netto rigonfiamento delle cosce (dal latino coxa) e io opino che, nel luogo ove abitualmente si trovano le lab-
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bra (dal greco ninfé) il soggetto in questione deve essere invece provvisto di un'appendice a forma di tridente. Cosi, io presumo che si tratti del Diavolo. PRIMO e SECONDO N A T U R A L I S T A È ab ifiìtio impossibile, poiché il Diavolo non si adatta in alcun modo al nostro sistema. QUARTO N A T U R A L I S T A Non litigate, miei stimati colleghi! Adesso vi dico il MIO parere, e scommetto che sarete subito d'accordo. Considerate l'immensa bruttezza che ci fa strillare Pun contro l'altro su ogni tratto di questo viso, e sarete senza fallo obbligati ad ammettere con me che una tal caricatura non potrebbe neppure esistere, se non vi fossero al mondo le donne di lettere, i T R E A L T R I N A T U R A L I S T I Si, è una letterata: cediamo alla forza dei vostri argomenti. QUARTO N A T U R A L I S T A Vi ringrazio, colleghi: ma che cosa succede? Vedete che la morta, da quando le abbiamo messo il lume davanti al naso, ha incominciato a muoversi? Adesso agita le dita - adesso scuote la testa - apre gli occhi - è viva! I L DIAVOLO (rizzandosi sulla tavola) Dove sono? Ahi! Sto ancora gelando. (Ai naturalisti) Vi prego, signori, chiudete dunque quelle due finestre là in fondo, non posso sopportare le correnti d'aria! PRIMO N A T U R A L I S T A (chiudendo la finestra) Abbiamo certamente un polmone debole. I L DIAVOLO (scendendo dalla tavola) Non sempre! Se son seduto in una stufa ben imbottita di fiamme, no! SECONDO N A T U R A L I S T A Come! Vi sedete in una stufa ben imbottita di fiamme? IL DIAVOLO Si, ho l'abitudine, talvolta, di sedermici dentro. TERZO N A T U R A L I S T A Rimarchevole abitudine. (Prende un appunto). QUARTO N A T U R A L I S T A Vero, signora, che siete una donna di lettere?
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Donna di lettere? Che cosa significa ciò? Quelle donne, il Diavolo le tormenta, ma che esse siano il Diavolo stesso - Dio ne liberi! TUTTI I NATURALISTI Come? Ma allora è il Diavolo? Il Diavolo? (Vogliono scappare). I L DIAVOLO {a parte) Ah! per una volta, posso levarmi la voglia di mentire! (Forte) Signori, dove correte? Calmatevi. Non fuggirete via solo per questo scherzetto che ho fatto giocando sul mio nome (I naturalisti ritornano). Mi chiamo Diavolo, ma non è che lo sia veramente. PRIMO N A T U R A L I S T A Con chi abbiamo l'onore di parlare? I L DIAVOLO Con Teofilo Cristiano Diavolo, canonico minore al servizio del duca di * * * , membro onorario di una società per l'incoraggiamento del cristianesimo presso gli Ebrei, e cavaliere dell'ordine pontificio al merito civile, titolo che mi è stato conferito dal papa recentemente, nel medioevo, per aver mantenuto il volgo in uno stato di timore durevole. QUARTO N A T U R A L I S T A Allora dovete già aver raggiunto un'età di tutto riguardo? I L DIAVOLO Vi sbagliate, ho soltanto undici anni. PRIMO N A T U R A L I S T A (al secondo) È il più grande sacco di menzogne che abbia mai visto! SECONDO N A T U R A L I S T A (al terzo) In questo caso avrà molto successo con le signore. I L DIAVOLO
Il Diavolo si è avvicinato sempre più alla lampada e, senza volerlo, ha immerso un dito nella fiamma. Signore Iddio! Che cosa fate, signor canonico? Mettete il dito nella lampada? DIAVOLO (sconcertato, ritirando il dito) Io... a me piace mettere il dito nella lampada!
PRIMO N A T U R A L I S T A IL
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE TERZO N A T U R A L I S T A
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Bizzarra passione! (Prende un ap-
punto). Il Diavolo propone al margravio Tual, nella cui casa lo hanno appena trasportato, assiderato in pieno agosto, di procurargli la giovane baronessa Liddy, a due condizioni: che Tual faccia studiare filosofia al suo figlio maggiore, e che faccia uccidere tredici artigiani sarti.
E perché proprio degli artigiani sarti? Ma perché sono i più innocenti.
I L MARGRAVIO I L DIAVOLO
Mercanteggiano sul numero di artigiani sarti, e si mettono d'accordo su dodici, col patto che il tredicesimo non sarà ucciso, ma che tuttavia gli verranno spezzate le costole. Il Diavolo compera la giovane donna dal suo fidanzato du Val per 19 999 scudi, 18 soldi e 2 liardi, cifra calcolata in base a una giusta stima delle sue doti fisiche e morali (si ottiene cosi una riduzione di prezzo basata sul fatto che essa è intelligente). Decidono di persuadere il poeta Morte-ai-Topi a trasportare la ragazza nella piccola casa di Schallbrunn. Trovano il poeta Morte-ai-Topi occupato a cercare intorno a sé dei soggetti di ispirazione. Ecco un giovanotto che si apparta per soddisfare un bisogno naturale, situazione che non può fare al suo caso. Ecco invece un vecchio che morde una crosta di pane e Morteai-Topi scrive, nell'entusiasmo, questi tre versi:
Ero seduto al mio tavolo e masticavo la penna Cosi come il leone, quando l'alba sbianca di terrore Mastica il cavallo sua rapida penna... Entra il Diavolo. IL DIAVOLO
Non spaventatevi, ho letto le vostre opere.
Non vi è nulla di straordinario in ciò perché, gli confida, una delle grandi consolazioni dei dannati consiste nel dilettarsi con la peggiore letteratura che esista: la letteratura tedesca.
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Eh! se la letteratura tedesca è la vostra occupazione principale, devono essere ben bizzarre quelle secondarie! DIAVOLO Oh, sapete, nei ritagli di tempo costruiamo vetri per finestre o per occhiali, servendoci di spiriti invisibili: l'altro giorno appunto il curioso capriccio di penetrare l'essenza della virtù si mise sul naso i due filosofi Kant e Aristotele; ma, poiché grazie ad essi ci vedeva sempre meno chiaro, li sostituì con un occhialetto fatto con due contadini di Pomerania, e cosi potè vederci tanto bene quanto desiderava.
MORTE-AI-TOPI
IL
Perché il Diavolo è venuto sulla terra? «Perché in Inferno stan facendo le pulizie generali». Tutti i personaggi irreprensibili, eroici o geniali di cui Morte-ai-Topi chiede notizie, sono all'Inferno: il marchese Posa, il pittore Spinarosa, come il Wallenstein di Schiller, Hugo di Miller come Shakespeare, Dante, Orazio - quest'ultimo ha sposato Maria Stuarda - Schiller, Ariosto - Ariosto si è comprato da poco un ombrello nuovo - Calderón, ecc. Tra le quinte un incredibile maestro di scuola alla Groucho Marx, regna, dall'alto della sua vertiginosa facondia, su alcuni bizzarri individui, veri e propri «pallottini» ante-li tteram.
(a Monroc) Signor Monroc! Sono incantato di questa sorpresa. Come vi siete trovato in Italia, il paese dove le pietre parlano? Ancor nessun segno di vecchiaia sulla Venere dei Medici? Spero che il papa non avesse camminato nella sporcizia, quando gli baciaste il piede? Io... I L M A E S T R O DI SCUOLA Avete saputo, signor Tobies, che un'ora fa è arrivato all'albergo un dentista, che strappa i denti senza farsi pagare? TOBIES Non m'interessa! Io, vedete, ho due file di denti cosi sani che potrei usarli per affilarci i miei forconi da fieno. I L M A E S T R O DI SCUOLA E che cosa importa? Ve li strapI L M A E S T R O DI SCUOLA
CHRISTIAN DIETRICH GRABBE
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perà gratis. Bisogna approfittare di una simile occasione. TOBIES Si, è giusto. Non bisogna trascurare nessuna occasione di guadagno, per quanto piccolo esso sia. Ora vado, e mi faccio strappare tutti i molari. {Esce}. Volendosi impadronire del Diavolo, il maestro di scuola si congeda dai suoi interlocutori, e si dirige barcollando verso la foresta. Dopo aver sistemato qualche libro erotico in una gigantesca gabbia che si era portato sulle spalle, va ad appostarsi in un angolo. Il Diavolo entra annusando l'aria. I L M A E S T R O DI SCUOLA IL
IL
Eccolo già qui. Come gli stuz-
zicano il naso! DIAVOLO Fiuto due specie di cose qui. A sinistra, qualcosa di impudico...; a destra, qualcosa di sbronzo, che si occupa di bambini. M A E S T R O DI SCUOLA Purché questa allusione non sia rivolta a me!
Ciò malgrado, il Diavolo resta vittima dello stratagemma. Chiuso dentro la gabbia, è liberato solo grazie all'intervento di sua nonna - una donna giovane e fiorente in tenuta da inverno in Russia che giunge accompagnata da Nerone e Tiberio (Nerone se ne starna n o alla grande scala a pulire gli stivali del cavallo, il «camerata Tiberio» è nella lavanderia e fa asciugare i suoi panni). Tutti gli ubriaconi della commedia, in compagnia della giovane baronessa Liddy, si ritrovano nella casetta di Schallbrùnn.
(alla finestra) Ma chi arriva laggiù, con una lanterna, attraverso la foresta! Sembra che stia venendo da questa parte. M A E S T R O DI SCUOLA (seduto alla finestra) Il diavolo se lo porti! Quel bel tomo arriva cosi tardi nella notte per darci una mano a tracannare il punch. È quel maledetto dell'autore, o, per chiamarlo nel modo più appropriato, il minuscolo autore, l'autore della commedia. È stupido come una scarpa, sbava su tutti gli scrittori ed
MORTE-AI-TOPI
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è un buono a nulla anche lui, ha una gamba storpia, gli occhi strabici e una faccia da scimmia che non sa di niente. Sbattetegli la porta sul naso, signor barone, chiudetegli la porta in faccia. L ' A U T O R E (dal di fuori, dietro la porta) Oh! Dannato maestro di scuola! Smisurato sacco di menzogne! I L M A E S T R O DI SCUOLA Chiudetegli la porta in faccia, signor barone, sbattetegliela sul naso! LIDDY Maestro di scuola, come siete amaro nei confronti di un uomo che vi ha inventato! (Bussano). Entrate. Entra l'autore, con una lanterna accesa.
Pétrus Borei 1809-59
« Y o soy que soy» (Io sono ciò che sono), fu il motto di Pétrus Borei e fu anche l'ultima frase pronunciata da Swift tre anni prima di morire: mentre si guardava in uno specchio, pieno di compassione per se stesso, qualcuno s'affrettava a far scomparire un coltello che aveva a portata di mano. E un pugnale compare nella mano di Pétrus Borei, rivolto verso il suo petto, nel ritratto che si trova sul frontespizio del suo volume di versi, Rapsodies. In Champavert, contes immorauXj «libro senza equivalenti, lugubre mistificazione, scherzo di un'immaginazione feroce», trionfa la «parola sinistra», insieme beffarda e ripugnante ( Jules Claretie); in Madame Putiphar soffia un vento rivoluzionario fra i più possenti (Jules Janin, molto ostile, lo paragona nei «Débats» alle opere del marchese di Sade): in entrambi abbondano situazioni che muovono insieme al riso e al pianto, passaggi in cui la sincerità più dolorosa è unita a un senso acuto della provocazione, a un bisogno irresistibile di sfida. « " S o n qui per domandarvi un favore, - cosi si rivolge al boia uno degli eroi di Borei, Passereau lo scolaro, - vorrei umilmente pregarvi, ve ne sarei tanto riconoscente, di farmi l'onore e la cortesia di tagliarmi la testa..." "Che significa ciò?" "Brucerei dal desiderio che mi ghigliottinaste! " » Lo stile dello scrittore, cui più che a ogni altro si addice l'epiteto «frenetico», e la sua ortografia attentamente barocca sembrano voler provocare nel lettore una certa resistenza verso la stessa emozione che gli si vuol far provare, resistenza basata sull'estrema singolarità della forma, e senza la quale il messaggio fin troppo allarmante dell'autore non potrebbe umanamente essere recepito. Una litografia di Célestin Nanteuil, da un ritratto di Louis BouIanger, ci tramanda l'espressione di quei «grandi occhi tristi e brillanti», di cui parla Théophile Gautier, aggiungendo: «Si sente che non è del nostro tempo, che non ha nulla dell'uomo moderno, ma che viene dal fondo del passato». In effetti nasce una certa ambi-
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guità dal contrasto fra questa espressione e il portamento spettrale del personaggio che, in piedi, tiene la mano sul capo del suo cane, di quel cane che sarebbe morto per averne troppo a lungo condiviso la miseria. Fu una miseria cosi nera che, dopo la pubblicazione di Champavert, Borei dovette adattarsi a redigere in serie discorsi d'occasione per cerimonie ufficiali. Nel 1846, logorato da questo lavoro mercenario, invecchiato fisicamente e col morale quasi irriconoscibile, accetta la raccomandazione di Gautier per il posto vacante d'ispettore coloniale a Mostaganem. Appena in carica lo destituiscono, poi gli ridanno il posto a Costantina, dove viene di nuovo destituito: ridotto alla disperazione, deve mettersi a fare il contadino. Fino alla fine quest'uomo cosi provato dalla vita, conserva intatta la fiducia nelle forze della natura. Sotto il solleone dice: «Non mi coprirò il capo; la natura fa bene ciò che fa, e non spetta a noi modificarla. Se mi cadono i capelli, significa che ora la mia fronte è fatta per restare nuda». Muore in pochi giorni di insolazione.
RAPSODIE1
Chi vorrà giudicarmi da questo libro, e giudicandomi dispererà di me, sbaglia; chi vorrà attribuirmi un grande talento, anch'egli sbaglia. Non è falsa modestia, perché contro coloro che mi accuseranno di metagrabolizzare vi è la mia convinzione di poeta, e una risata. Non ho altro da dire, se non che avrei potuto valermi, come introduzione, di un paraninfo, oppure della mia etopea, oppure ancora di un lungo trattato ex professo sull'arte; ma vendere prefazioni mi disgusta; e poi, non sarebbe ridicolo dire tante cose a proposito di cosi poco? Tuttavia, a pensarci bene: qualche mia pagina è macchiata di politica: mi scaglieranno contro anatemi, uggioleranno al repubblicano? Per prevenire ogni possibile interrogatorio dico subito francamente: si, sono repubblicano! 1
Introduzione.
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Andate a domandarlo al duca d'Orléans padre, se si ricorda di quella voce che senza tregua gli gettava in faccia le grida di Libertà e Repubblica, mentre andava a giurare il 9 agosto alla ex Camera, tra le acclamazioni di una plebe circuita. Si, sono repubblicano, ma fin dall'infanzia; questa grande idea non s'è schiusa in me al sole di luglio; e non di quei repubblicani con la giarrettiera rossa o blu cucita sulla carmagnola, predicatori da fienile e piantatori di pioppi; sono repubblicano come potrebbe esserlo un lupo mannaro: il mio repubblicanesimo è la licantropia! Parlo di Repubblica perché questa parola rappresenta per me la più ampia indipendenza che il vivere civile e associato possa consentire. Sono repubblicano, perché non posso essere Caribi; ho bisogno di una somma immensa di libertà: potrà darmela la Repubblica? non ho l'esperienza per affermarlo. Ma quando questa speranza sarà delusa, come tante altre illusioni, vi è il Missouri che mi aspetta!... Quando, come me, si è su questa terra straziati dai dubbi, inaciditi da tanti mali, si sogni pure l'uguaglianza, s'invochi la legge agraria, ancora non ci si merita altro che applausi. Quelli che diranno: questo libro è l'opera di un pazzo, d'uno di quei caproni romantici che hanno riportato di moda l'anima e il buon Dio, che secondo i barbitonsori si nutrono di poppanti e scaldano l'acquavite nei crani. Quelli, so come evitarli, ho i loro connotati. Fronte schiacciata o strozzata come dal forcipe, capelli filacciosi, sulle guance due strisce di cotenna pelosa, la testa sepolta nel collo della camicia che forma un doppio triangolo di tela bianca, cappello a tubo di stufa, abito a fischietto e parapioggia. Quanto a quelli che diranno: è l'opera di un san-simoniaco!... a quelli che diranno: è l'opera di un repubblicano, di un basileofago: bisogna ucciderlo!, quelli là devono essere dei bottegai senza clientela: i rivenditorucoli senza
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clienti sono delle tigri!... o dei notai che con una riforma avrebbero tutto da perdere: il notaio è filippista quanto un passamanaio! Dev'essere di quella brava gente che vede la Repubblica nella ghigliottina e negli assegnati! La Repubblica è per loro una questione di potatura di teste. Non han capito niente della nobile missione di SaintJust, gli rimproverano quel poco che fu costretto a fare, e poi ammirano le carneficine di Buonaparte - Buonaparte! - e i suoi otto milioni di cadaveri! A quelli che diranno: in questo libro c'è un sentore di suburbio che ripugna, risponderemo che effettivamente l'autore non rincalza le coltri al re. D'altronde non è egli forse all'altezza di un'epoca che ha per governanti degli stupidi trafficanti, mercanti di fucili, e per monarca un uomo che ha per motto: «Dio sia lodato, e con lui le mie botteghe! » Per fortuna, per consolarci di tutto ciò, ci resta l'adulterio! il tabacco del Maryland! e del papel español por cigaritos.
M E R C A N T E E L A D R O SONO S I N O N I M I
Un poveraccio che per necessità ruba il più vile degli oggetti, lo spediscono in galera; ma i mercanti han licenza di aprire botteghe lungo le strade, per rapinare i passanti che vi si avventurano. Questi ladri non hanno chiavi false 0 grimaldelli, ma hanno bilance, registri, mercerie, e nessuno esce di là senza dirsi: sono stato spogliato. Questi ladri a poco a poco, finiscono per arricchire e diventano proprietari, e appena posson dirsi proprietari, insolenti. Al minimo rivolgimento politico, si radunano e si armano, urlando che li si vuol saccheggiare, e vanno a massacrare 1 cuori generosi che insorgono contro la tirannia.
Petrus Borei
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Rigattieri idioti! tocca proprio a voi parlare di proprietà, e linciare come saccheggiatori quei coraggiosi che si son ridotti in miseria ai vostri banchi! Difendete, difendete le vostre proprietà! brutti bifolchi! Ve ne siete venuti via dalle campagne, e, come un branco di corvi e di lupi affamati, siete calati sulla città per succhiarne la carogna! difendete dunque le vostre proprietà! sporchi ruffiani! Ma quali proprietà potreste vantare, senza i vostri barbari saccheggi? quali? se non vendeste ottone al posto d'oro, acqua sporca al posto di vino? avvelenatori! Non credo che si possa raggiungere la ricchezza se non si è di indole feroce, un uomo sensibile non riuscirà mai ad accumulare. Per arricchirsi, bisogna avere un'idea soltanto, un'idea fissa, dura, incrollabile, la voglia di radunare un grosso mucchio d'oro; e per riuscire a farlo diventare sempre più cospicuo, bisogna essere usurai, imbroglioni, inesorabili, ricattatori e assassini! e soprattutto maltrattare i deboli e gli indifesi! Poi, quando questa montagna d'oro raggiunge il suo culmine, ci si può arrampicare sopra e dall'alto, col sorriso sulle labbra, contemplare la valle di miserabili che si è stati capaci di creare. Il grande commercio depreda il negoziante, il negoziante depreda il bottegaio, il bottegaio depreda l'artigiano, l'artigiano depreda l'operaio e l'operaio muore di fame. Non sono quelli che lavorano con le loro mani che riescono ad emergere, ma gli sfruttatori di uomini. Preferisco tacere a proposito della pena di morte: già messa sotto accusa da tante voci eloquenti, a partire da Beccaria; ma mi scaglierò, ma getterò l'anatema contro il testimonio a carico, lo coprirò di vergogna! Come si può concepire di essere testimonio a carico?... che orrore! solo
PETRUS BOREL
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gli uomini possono offrire simili esempi di mostruosità! Vi è al mondo una barbarie più raffinata, più civile, della testimonianza a carico? In Parigi, vi sono due tane, una di ladri, l'altra di assassini; quella dei ladri è la Borsa, quella degli assassini è il Palazzo di Giustizia.
IL BECCAMORTO
State fumando allegramente con degli amici, mentre aspettate che vi portino qualche rinfresco e - toc! toc! bussano alla porta: - Chi è? - Sono io, Signore, vi porto la birra. — È chiara? - Si, Signore. - Bene, lasciatela pure nel corridoio, e passate domani a ritirare le bottiglie L'uomo obbedisce e se ne va. Ma quale sorpresa quando, andando a vedere, vi trovate faccia a faccia con una cassa orrenda! Ogni scherzo e ogni antitesi a parte, se l'antica giocosità francese con la sua grancassa panciuta e i suoi zufoli sottili fiorisce ancora in qualche angolo del globo, ebbene credetemi, vi dico il vero, questo luogo è le pompe funebri. Là si trova ancora in magazzino il palco di Tabarin: è l'unico posto al mondo dove Momo agita ancora i suoi sonagli. Cosi, i signori appaltatori dell'impresa (poiché, dopo il decreto dell'anno XII, i morti sono in appalto come i tabacchi), che voi siete portati a immaginare affogati nella tristezza e imbottiti di epigrafi! in nome di Dio e dell'Ono1
[Gioco di parole intraducibile fra «birra» e «bara», in francese
bière per entrambe].
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re! sono invece tutt'altro: giocondi buontemponi, allegri compari, vitaioli spavaldi che prendono il mondo per il giusto verso. Son tutti, più o meno, simpatici canzonettisti, tutti o quasi adorabili rivistaioli! cosi hanno insieme il monopolio del boulevard, del Palais-Royal, della fiera e delle catacombe. La sera, ci fanno morire dal ridere; l'indomani, ci sotterrano. Il giorno dei Morti è la festa delle Pompe, il carnevale del beccamorto! Come passa in un lampo, quel giorno dopo Ognissanti, ma quanta allegria in quelle ore!... Di buon mattino, tutta la corporazione si riuniva con gli abiti della festa, e mentre i signori appaltatori, nel lutto più civettuolo, col mantello a cappuccio gettato distrattamente sulle spalle, dispiegavano la loro munificenza, tutt'intorno giravano boccali e bicchieri, e si scolava in un baleno una botte intera. Poi, un araldo intonava il buttasella, e allora si precipitavano nelle carrozze, e partivano ventre a terra, a gran galoppo, sbarcavano in un battibaleno al «Fuoco d'Inferno», osteria in gran voga ai bei tempi. Là, in un giardino solitario, sotto un magnifico catafalco, era apparecchiata una tavolata immensa (la tovaglia era nera, cosparsa di lacrime d'argento e di ossa ricamate a croce di Sant'Andrea) e tutti si mettevano a sedere. Veniva servita la minestra in un cenotafio — l'insalata in un sarcofago - le acciughe dentro dei feretri! - Si stava sdraiati sulle tombe - seduti sui cipressi; - le coppe erano urne - si beveva birre 1 di ogni sorta, si mangiavano frittelle2, e sotto il nome di gelatine al naturale, di embrioni alla béchamelle, di ragù di orfanelli, di civet di vegliardo, di suprème di corazzieri, si deglutivano le vivande più delicate e sontuose. Dappertutto e in gran profusione montagne di cibo! In confronto, le nozze di Camaccio furon quaresima, e 1 2
[Prosegue il gioco di parole tra bière (birra) e bière (bara)]. [Gioco di parole tra i due significati di crèpe: frittella e gramaglie].
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la Kermesse di Rubens è una scena desolata. Mentre gli animi via via si accendevano esaltandosi e sprizzando mille scintille, da ogni parte infine ecco uno scatenarsi di burle - un piovere a dirotto di facezie - una scorpacciata di lazzi. Tutti cantavano, gridavano, levavano il calice ai defunti, brindavano alla Morte, e si scatenava l'orgia più smodata, l'orgia più sfrenata! Tutto per aria, tutto a soqquadro, tutto sconquassato! Tutto era sottosopra. Da far pensare a una fossa comune svegliata di soprassalto dalle trombe del giudizio universale. Poi, quando questo primo tumulto si era un poco calmato, si dava fuoco all'acquavite: alla luce delle sue fiamme infernali, qualche beccamorto tendeva budelli su feretri vuoti, costruiva archetti con le chiome e flauti tibicini con le tibie: una spaventevole orchestra s'improvvisava, e la folla in un immenso girotondo girava senza tregua su se stessa, gettando orrende grida come una sarabanda di dannati.
Edgar Poe 1809-49
Benché, come sappiamo dalla sua «Filosofia della composizione», l'ambizione suprema di Edgar Poe fosse di far dipendere la realizzazione dell'opera d'arte da una preliminare e metodica organizzazione dei suoi elementi ai fini dell'effetto desiderato, è giocoforza tuttavia ammettere che egli tralasciò sovente questa rigorosa impostazione per dare, nella sua opera, libero corso alla fantasia. Checché se ne dica, la predilezione per l'artificiale e lo straordinario dovette prevalere in più di un'occasione sulla volontà di analisi: sa-, rebbe incomprensibile che questo seguace del Caso non avesse voluto fare i conti con i casi dell'espressione. Ci viene alla memoria quella speciosa distinzione tentata da Paul Valéry, in una conversazione di circa vent'anni fa, tra coloro che egli definiva gli «strani», e i «bizzarri». Solo i primi riscuotevano il suo favore, e Poe naturalmente veniva incluso in questa categoria. Agli altri, a Jarry ad esempio, rimproverava di volersi distinguere esteriormente. Ma in colui che Mallarmé cosi descrisse fisicamente, «demone in piedi! la sua tragica civetteria nera, inquieta e appartata», è lecito riconoscere, come già fece dal canto suo Apollinare, «il meraviglioso ubriacone di Baltimora»: «Rancori letterari, vertigini dell'infinito, infelicità familiari, insulti della miseria, Poe - racconta Baudelaire sfuggiva a tutto ciò calandosi nelle tenebre dell'alcool come in quelle di una tomba: non beveva da goloso infatti, ma da barbaro... A New York, nella stessa mattina in cui la rivista " W h i g " pubblicava Il corvo, quando il suo nome era su tutte le bocche e tutti si strappavano di mano il suo poema, attraversava Brodway barcollando e inciampando contro ogni muro». Basterebbe questa contraddizione a creare un terreno propizio per l'humour, sia che esploda nervosamente dal conflitto tra le eccezionali capacità logiche, la alta tensione intellettuale e le nebbie dell'ubriachezza (Vangelo del bizzarro) sia che, nella sua forma più tenebrosa, vada aggirandosi tra
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le umane incoerenze messe in luce da certi stati morbosi (Il
della
demone
perversità).
L'ANGELO DEL BIZZARRO
Faceva freddo, quel pomeriggio di novembre. Avevo appena finito di consumare un pranzo un po' più sostanzioso dell'ordinario, l'elemento meno importante del quale non era certo stato il dispeptico tartufo, ed ero solo nella mia sala da pranzo seduto coi piedi sul parafuoco e il gomito appoggiato a un tavolinetto che m'ero situato accanto con alcune bottiglie di vini e liquori di diverse qualità. Durante la mattina avevo letto il Leonida di Glover; VEpigoniade di Wilkie; il Pélerinage di Lamartine; la Colombiade di Barlow; la Sicilia di Tuckermann; e le Curiosità di Griswold; sicché, e lo confesso volentieri, mi sentivo leggermente istupidito. Cercai di scuotermi a forza di bere Lafitte, e, non riuscendovi, mi buttai per disperazione sopra un giornale che mi capitò a portata di mano. Letto che ebbi con ogni cura la colonna delle case d'affittare, quella dei cani smarriti, e le due delle donne e commesse scappate, passai ad attaccare con energica risoluzione la parte propriamente giornalistica, letta anche la quale, dal principio alla fine senza averne capita una sillaba, mi venne in mente che poteva essere scritta in cinese e la rilessi, dalla fine al principio stavolta, senza però ottenere miglior risultato. Disgustato, ero già sul punto di buttar via L'in-folio di quattro pagine, felice scritto che la critica non scende a criticare,
quando mi sentii un tantino interessato dal paragrafo di cui appresso: « Le vie che conducono alla morte sono numerose e strane. Un giornale di Londra dà notizia del decesso d'un uo-
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ANTOLOGIA D E L L O H U M O U R NERO
mo dovuto a una causa singolare. Quest'uomo stava giocando a puff the darty che consiste nel soffiare sopra un bersaglio, attraverso un tubo di stagno, un lungo ago tutto fasciato di lana. Egli infilò l'ago nel tubo dalla parte sbagliata, e nel raccogliere il fiato per poi soffiare con tutta la sua forza, si attirò l'ago nella gola. L'ago penetrò nei polmoni, e in pochi giorni l'imprudente giocatore se ne andò all'altro mondo». La lettura del fatto, senza ch'io sapessi esattamente perché, mi mandò su tutte le furie. - Questa notizia, - esclamai, - è di una vergognosa falsità, è una papera della più miserabile specie; sicuro, è la feccia della fantasia di qualche infimo scribacchino da un soldo al rigo, di qualche pietoso fabbricante di avventure al paese di Cuccagna. Certo, quei tipi, conoscono la prodigiosa credulità del nostro secolo, e si adoperano in tutti i modi a immaginare le più improbabili possibilità, gli accidenti bizzarri, come li chiamano; ma per uno spirito riflessivo (come me, aggiunsi tra parentesi, appoggiandomi, senza volerlo, la punta dell'indice alla punta del naso), per una intelligenza contemplativa come quella di cui sono dotato io, risulta evidente a prima vista che il miracoloso moltiplicarsi in questi ultimi tempi dei cosiddetti accidenti bizzarri è di gran lunga il più bizzarro di tutti. Per conto mio, io ho deciso di non credere ormai più a nulla di tutto quello che può avere qualcosa di bizzarro! — Mein Gott! pisogna proprio essere pestia, ber tire guesto! — rispose una delle più curiose voci ch'io avessi mai udite. Dapprima la presi per un ronzio alle orecchie come talvolta capita a chi sta diventando ubriaco; ma, riflettendo, trovai che il rumore somigliava piuttosto a quello che produce un barile vuoto quando lo si percuote con un bastone; e, a dire il vero, mi sarei contentato di spiegarmelo cosi se non avessi anche distinte delle sillabe e delle parole. Io non sono affatto di temperamento nervoso, e i pochi
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bicchieri di Lafìtte centellinati servivano non poco a infondermi coraggio, tanto che non provai nessuna trepidazione, ma, alzati gli occhi con semplice naturalezza, esaminai accuratamente ogni parte della stanza, onde scoprire l'intruso. Non riuscii, però, a veder nessuno. - Hum! — riattaccò la voce, intanto ch'io badavo alla mia ricerca, - pisogna ghe ziate umbriaco fradizo ber non fetermi setuto qui fìcino a foi. Pensai allora di guardar dritto davanti al mio naso; e cosi, quasi dirimpetto a me, allato del tavolino, vidi un personaggio che, per quanto non proprio indescrivibile, mai era stato descritto. Il suo corpo consisteva di una botticella da vino o da rum o d'altro che fosse; veramente falstaffiano all'aspetto. Due lunghi barili aggiustati in basso sembravano avere l'ufficio di gambe. Al posto delle braccia venivano fuori dalla parte superiore due bottiglie d'una considerevole lunghezza, il collo delle quali figurava da mani. Quanto alla testa, il mostro non possedeva altro che uno di quei porta-bottiglie di Hesse, che hanno forma di tabacchiere, con un buco al centro del coperchio. Questo portabottiglie, sormontato da un imbuto come un elmo da cavaliere calato sugli occhi, si trovava posato sul piano della botticella col buco dalla mia parte; e dal buco, tutto grinzoso e storto come la bocca di una vecchia zitella cerimoniosa, lo strano personaggio emetteva quei sordi brontolìi che voleva evidentemente presumere per un linguaggio intelligibile. - Tico, - diceva, - ghe tofete essere umbriaco fradizo, ber non fetermi setuto qui ficino a foi, e ghe tofete essere anche una pestia più crossa di un'oga, ber non cretere le coze stampate nello stampato. È la ferità, la ferità, parola ber parola. - Scusatemi, chi siete voi? - feci io gravemente, sebbene fossi un po' sconcertato, - e come siete entrato qui? Cos'è che andate mormorando?
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- Gome sono entrato qui, - mi rispose il mostro, — non è una coza ghe fi ricuarda, e quanto a ciò ghe fado mommoranto, io mommoro quel ghe mi pare e piaze, e in quanto poi a ciò ghe zono, ber l'appunto zono venuto berché lo feriate foi stesso. - Siete un miserabile d'ubbriacone, ecco quello che siete, - dissi io, - e chiamerò il mio domestico per farvi cacciar fuori a pedate. - Hi, hi, hi! - replicò il mariuolo, - hu, hu, hu! Questo poi non botete farlo! - Non posso farlo? - dissi io. - Che dite? Che cosa non posso fare? - Zuonare il cambanello! - spiegò il mariuolo abbozzando una smorfia con la sua piccola bocca ripugnante. Volli mettere allora la mia minaccia in esecuzione, e cercai di alzarmi; ma quella birba, chinandosi attraverso la tavola, mi colpi alla fronte col collo di una delle sue bottiglie, e mi ributtò in fondo alla poltrona, dalla quale mi ero per metà sollevato. Rimasi del tutto stordito, incapace di pensare a qual partito appigliarmi. E intanto quello continuava a parlare. - Gome fetete, - disse, - è meglio ghe stiate tranguillo; e ora zaprete ghi zono. Guardatemi! Io zono l'Anghelo tei Pizzarro. - Abbastanza bizzarro, difatti, - osai replicare, - ma io credevo che un angelo dovesse avere le ali. - Le ali! — esclamò quello, su tutte le furie. - Coza dofrei farmene telle ali? Mi prentete ber un pollo?
Trad, di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 1936.
Xavier Forneret 1810-85
Xavier Forneret, o l'Uomo Nero, o l'Ignoto del Romanticismo. Dice nel 1840: «Gli Annali letterari di questa parte del diciannovesimo secolo consisteranno in un volume zeppo di un'infinità di nomi (eccetto il mio) di cui voi conoscete già i principali. Non dimentichiamo la copertina; vi leggeremo sia metà dell'Accademia sia Scribe. Sapete bene che la copertina di un libro che si fa rilegare, si butta via». In effetti, non avremmo alcuna notizia di questa personalità, sotto più aspetti cosi appassionante, senza l'articolo che gli dedicò a suo tempo Charles Monselet sul «Figaro», del quale sono stati raccolti alcuni estratti nel catalogo di vendita redatto da Monselet stesso (Catalogne détaillé, raisonné et anecdotique d'un Homme de lettres bien connu). D'altra parte questo articolo è tale da eccitare la nostra curiosità e non da soddisfarla. Noi non esitiamo a sostenere che esiste un caso Forneret, la cui persistente oscurità giustificherebbe ancor oggi ricerche pazienti e sistematiche: ci si domanda come mai l'autore di una ventina di opere tanto singolari sia passato quasi del tutto inosservato; come si spieghi l'estrema diseguaglianza della sua produzione, dove l'invenzione più autentica confina con il peggior luogo comune, dove il sublime si batte con il banale, dove la costante originalità del linguaggio lascia spesso trasparire la povertà del pensiero; ci si domanda ancora chi fosse quell'uomo, il cui comportamento sembra essere stato rivolto ad attirare l'attenzione del gran pubblico che il suo modo di scrivere non poteva che allontanare, chi fosse quell'uomo tanto orgoglioso da far pubblicare nei giornali questo annuncio di uno dei suoi libri: «La nuova opera del signor Xavier Forneret verrà consegnata solo a coloro che si prenoteranno presso l'editore Duverger, rue de Verneuil, previo esame della loro richiesta da parte dell'autore» e, al tempo stesso, tanto umile da scusarsi della propria incapacità e da chiedere rindulgcnza del lettore, come leggiamo in calce a molti suoi libri. Sotto più di un aspetto questo modo di fare non manca di rivelare
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sconcertanti analogie con quello che adotterà più tardi Raymond Roussel. D'altronde lo stile di Forneret è tra quelli che fanno presagire Lautréamont, cosi come il suo repertorio di immagini del tutto nuove ed audaci anticipa Saint-Pol-Roux; una poesia come Jeux de mère et d'enfant in Vapeurs ni vers ni prose, anticipa con sconcertante ingenuità l'illustrazione clinica delle teorie psicanalitiche attuali. «Digione - scriveva Monselet - si ricorda ancora della prima rappresentazione de L'homme noir, dramma in prosa in cinque atti. Si era nel 1834 o nel 1 8 3 5 . L'autore era un borgognone, uomo giovane e abbiente, ma di abitudini estranee alla vita borghese e provinciale, che avevano il dono di suscitare la diffidenza dei suoi conterranei. Tanto per cominciare, aveva il torto di non vestirsi come loro. Prediligeva i velluti, le cappe, aveva un cappello di forma insolita e una canna bianca e nera. Si raccontavano cose strane sul suo conto: che abitava in una torre gotica dove suonava il violino tutta la notte. Per queste e altre ragioni i digionesi stavano sulle loro e diffidavano di Xavier Forneret; cosi, la loro curiosità f u bruscamente svegliata quando fu annunciata la presentazione de L'homme noir. Xavier Forneret non aveva badato a spese; il giorno prima della rappresentazione, alabardieri e araldi in costume medievale andarono su e giù per le strade della città, agitando bandiere recanti a grandi lettere il titolo della commedia. Se non proprio su un buon successo, si poteva contare almeno su un buon incasso. «La sala dello spettacolo era in effetti gremita, ma Uhomme noir non ebbe alcun successo; crediamo perfino che non sia giunto nemmeno alla fine; vi furono mormorii, disturbi. Xavier Forneret fece stampare il suo dramma con una copertina simbolica: lettere bianche su fondo nero. Fece anche di meglio, adottò il soprannome di Uomo Nero, firmandosi cosi in parecchi volumi. Contemporaneamente si rifugiava più che mai in un modo di vivere singolarissimo. La sua personalità, cosi spiccata ma senza risvolti offensivi, ha irritato per vent'anni gli abitanti di Digione e di Beaune. I giornali locali non resistettero alla tentazione di divertirsi alle sue spalle: divenne il personaggio originale del luogo, cercarono di spiegarsi il suo isolamento; vi furono scandali e processi a non finire. Ma Xavier Forneret tenne duro». Dopo aver accennato alle stravaganze che contraddistinguono la veste tipografica delle sue opere (stampa a grossi caratteri, uso smodato del bianco: due o tre righe per pagina, o il testo stampato soltanto sul «recto», la parola fine che non interrompe necessariamente il libro, il quale talvolta continua con una «dopo-fine», l'inserimento in mezzo alle altre di una poesia eccezionalmente stam-
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pata in caratteri rossi, titoli singolari (d'altronde quasi sempre fra i più felici), Monselet fa acutamente notare: «Siamo dunque certi di esserci imbattuti in uno scrittore umorista» e continua: «Ma proprio qui sta il guaio. In Francia non sono mai mancati scrittori umoristi, ma vi sono apprezzati meno che in ogni altro paese... SÌ è molto parlato delle audacie di Petrus Borei, il licantropo, e delle divagazioni di Lassailly: ebbene, Xavier Forneret va molto oltre». Monselet, più coraggioso in questo dell'intera critica degli ultimi cento anni, non esita ad ammirare in Forneret ciò che vi è da ammirare: «Temps perduf - e noi stessi sottoscriviamo formalmente questa opinione - contiene un capolavoro, Le dìamant de Vherbe, un racconto di non più di venti pagine. Il singolare, il dolce, il misterioso, il terribile, non si sono mai sposati, sotto la stessa penna, con eguale intensità». Il suo autore sottovaluta i propri mezzi, quando dichiara: «Tutto è sentito dentro di me, senza mai ben sortire». Vi son buone ragioni per credere che Monselet abbia visto giusto e che i posteri saranno d'accordo con questo suo giudizio: «Xavier Forneret si esagera la sua incapacità; vale più lui, nei suoi sforzi e nelle sue febbrili aspirazioni, che cento scrittori nella loro stupida e serena abbondanza. Vi è un temperamento in lui. Sotto la zappa del critico, questo terreno inesplorato lascia a volte brillare un filone di metallo puro». Osserviamo ancora che sarebbe vano cercare di squalificare l'autore di Sans titre sostenendo che egli era più o meno incosciente e irresponsabile degli echi che suscita una lettura attenta e imparziale delle sue opere: lui che mise per epigrafe al suo libro questa frase di Paracelso: «Spesso non vi è nulla in superficie, tutto è sotto, scavate».
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L'ha cavata Da una tasca bucata, Sotto gli occhi l'ha messa L'ha guardata ben bene Dicendo: «Infelice!»
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L'ha soffiata Con la bocca umettata; Aveva quasi paura Di un tremendo pensiero Che lo colse nel cuore. L'ha bagnata: Una lacrima ghiacciata Che per caso sgelò; La sua stanza è tarlata Ancor più di un bazar. L'ha strofinata, Ma non l'ha riscaldata; Non sentendola quasi Ché, contratta dal freddo, Gli voltava la schiena. L'ha pesata Sull'aria appoggiata, Come si pesa un'idea; Con del filo di ferro L'ha poi misurata. L'ha sfiorata Con la bocca aggrottata. Con terrore improvviso Essa allora gridò: Baciami, addio! L'ha baciata, E poi l'ha incrociata Sull'orologio del corpo, Che mal caricato suonava cupo e sordo. L'ha palpata Con mano ostinata A farla morire.
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— Si, questo boccone Nutrire mi può. L'ha piegata Spezzata Sistemata L'ha tagliata Lavata Portata Rosolata, L'ha mangiata. Quando non era ancora grande, gli avevano detto: - Se hai fame, mangiati una mano.
SENZA TITOLO E ANCORA U N ANNO S E N Z A T I T O L O
Si può camminare senza testa. Vi sono cuori che assomigliano a una bottiglia piena che si avvolge in un panno bagnato e si espone in pieno sole. - Il panno diventa bollente, l'interno della bottiglia gelato. La promessa e la verità sono come palloncini che gli uomini si lanciano l'un l'altro e che restano in aria. L'abete, con il quale si fanno le bare, è un albero sempreverde. Oh! che disgrazia che la donna mangi, sia pure fragole nel latte! Non vi è un i più vero di un 2 che fa un 3.
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Amo troppo la donna per non confessarle una verità: - Che essa è talvolta una scellerata - . Mi perdoni questa battuta: è un osso sorridente uscito dal mio cimitero. Una piccola città è un grosso buco, - e le sue grandi idee, un piccolo topo. Ho visto una cassetta postale in un cimitero. Riderei, se tutte le cose che afferriamo si attaccassero alle mani come tante verruche, perché allora al Mondo vi sarebbero soltanto venditori di pietre infernali. Nelle esposizioni del Louvre e dei negozi, quanti grandi ritratti IN PICCOLO, quante statuette IN G E S S O , alle quali manca un nome, come manca la gamba di una M per riunire due parole, precedenti, e fare quella che, secondo l'Académie, indica la cosa che adoperava Figaro su degli occhi malati \ o N I E N T E . - Queste tre parole sono un paio di occhiali da mandare alla donna che dice di saper L E G G E R E solo nel nostro cuore, T U T T O e N I E N T E saranno le due lenti, e o ciò che glieli terrà sul naso. TUTTO
I minuti d'albergo sono le ali senza l'uccello. Come sono spaventose le belle mani con le loro grandi unghie \ 1
[Gioco di parole intraducibile tra en plâtre (in gesso) e emplâtre (impiastro), cioè la cosa che Figaro usa sugli occhi malati]. 2 Capita che queste parole abbiano in questa sede cambiato mese, e sarebbero invecchiate se le belle mani innanzitutto, e poi le belle unghie, non fossero di tutti i tempi.
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Che bella carta la terra; quali caratteri il Giorno; che inchiostro la Notte! - Tutti stampano, tutti leggono; nessuno capisce. GIORNALE:
Non è che si sia buoni; si è contenti. Per pensare amaramente, non occorre altro che vedere una serratura toccata da una mano viva, - e un cimitero dove le mani morte non sono OCCUPATE.
Charles Baudelaire 1821-67
L'humour di Baudelaire fa parte integrante della sua concezione del dandysmo. Per lui «la parola dandy implica una quintessenza di carattere e una comprensione sottile del meccanismo morale del mondo». Nessuno più di lui si è preoccupato di caratterizzare l'humour in contrapposizione all'allegria triviale o al sarcasmo sogghignante in cui lo «spirito francese» ama riconoscersi. Colloca Molière a capo delle «ridicole religioni moderne»; Voltaire, è «l'antipoeta, il re dei babbei, il principe dei superficiali, l'antiartista, il predicatore delle portinaie, il babbo Gigogne dei redattori del Siècle». Il dandy è diviso tra la cura narcisistica dei suoi atteggiamenti e dei suoi gesti («Egli deve aspirare a essere sublime senza sosta. Deve vivere e morire davanti allo specchio») e il desiderio di suscitare al suo passaggio lunghi mormorii di disapprovazione («ciò che è inebriante nel cattivo gusto è il piacere aristocratico di dispiacere»). In Baudelaire, la cura del vestire potrebbe testimoniare da sola questo partito preso destinato a trionfare su ogni vicissitudine della fortuna, dai guanti rosa pallido della sua fastosa gioventù, passando attraverso la parrucca verde che esibiva al CaféRiche, fino al boa di ciniglia scarlatta, addobbo supremo dei giorni di disgrazia. I suoi improvvisi interventi, le stravaganti confidenze in pubblico, nascono da una necessità di stupire, disgustare e sbalordire (a bruciapelo a Nadar: «Non sei d'accordo con me che il cervello dei bambini deve avere un sapore come di nocciola?»; a un passante che si rifiuta di dargli del fuoco per non far cadere la cenere del sigaro: «Mi scusi, signore, vorrebbe avere l'infinita compiacenza di dirmi il suo nome? - Vorrei ricordare il nome dell'uomo che desidera conservare la sua cenere»; a un borghese che vantava i meriti delle sue due figlie: « E quale delle due giovani avvierete alla prostituzione?»; a una giovane donna in una birreria: «Signorina, voi che, incoronata di spighe d'oro, mi ascoltate con quei bei denti, vorrei mordere la vostra carne... Vorrei legarvi
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le mani e appendervi per i polsi al soffitto della mia camera; mi metterei allora in ginocchio e bacerei Ì vostri piedi nudi»). Si sforza di lasciare agli uomini comuni un'immagine da incubo della sua vita: « I suoi amori - cosi scrive " L e Gaulois" del 30 settembre 1866 - hanno avuto per oggetto donne fenomeno. Passava dalla nana alla gigantessa, e rimproverava la Provvidenza di negare spesso la salute a quegli esseri privilegiati. Aveva perso qualche gigantessa di tisi e due nane di gastrite. Raccontando questi episodi sospirava, s'immergeva in un profondo silenzio, e finiva col mormorare filosoficamente: "Una di queste nane aveva solo settantadue centimetri di statura. Non si può aver tutto a questo mondo"». Volenti o nolenti, occorre ammettere che Baudelaire ha dedicato una cura tutta particolare a questo lato del suo personaggio e, ciò che più conta, che proprio questo lato sembra essere miracolosamente sfuggito al naufragio finale; anzi, negli anni di affievolimento mentale che precedettero la sua morte, sembra in qualche modo sublimarsi: «Quando si guardò allo specchio, non si riconobbe e salutò»; le sue ultime parole, dopo un silenzio di molti mesi, furono per chiedere a tavola con la massima tranquillità di passargli la senape. L'humour nero, in Baudelaire, rivela cosi la sua appartenenza al fondo organico dell'essere. Significa non capir nulla del suo genio ostentare indifferenza verso questa disposizione elettiva, o perdonargliela con indulgenza. Essa conforta la concezione estetica su cui appoggia la sua opera; in stretto rapporto con essa, si sviluppa sul piano poetico un insieme di norme destinate a sconvolgere tutta la sensibilità moderna. «Narrare pomposamente cose comiche. - L'irregolarità, cioè l'inatteso, la sorpresa, lo stupore, sono una parte essenziale e la caratteristica della bellezza. - Due qualità letterarie fondamentali: soprannaturalismo e ironia. - La combinazione del grottesco e del tragico riesce gradevole alla mente, cosi come le discordanze sono gradite a un orecchio raffinato. - Studiare una trama per una farsa lirica e fiabesca, per una pantomima, e tradurre il tutto in un romanzo serio. Immergere il tutto in un'atmosfera anormale e di sogno, nell'atmosfera dei grandi giorni... Regione della poesia pura» \ 1
Fusées.
CHARLES BAUDELAIRE
III
IL CATTIVO VETRAIO
Ci sono nature puramente contemplative e totalmente negate all'azione, le quali tuttavia, sotto un misterioso stimolo ignoto, agiscono a volte con una rapidità di cui loro stesse si sarebbero credute incapaci. Uno che per tema di trovare dalla portinaia una brutta notizia gironzola vigliaccamente un'ora davanti alla porta senza il coraggio di entrare; uno che si tiene in tasca quindici giorni una lettera senza aprirla, o che soltanto in capo a sei mesi si rassegna a compiere un passo necessario da un anno: a volte si sentono improvvisamente scagliati verso l'azione da una forza irresistibile, come la freccia d'un arco. Il moralista e il medico, che pretendono di sapere tutto, non possono spiegare da dove provenga cosi a un tratto una si folle energia a codeste anime pigre e voluttuose; e come, incapaci di compiere le cose più semplici e necessarie, a un certo momento trovino tanto lusso di coraggio da mandare a effetto le più assurde e spesso pericolose azioni. Un amico mio, il più innocuo sognatore del mondo, una volta appiccò il fuoco a una selva per vedere, diceva, se il fuoco attacca con la facilità che si dice. Dieci volte di fila l'esperienza falli, ma l'undecima riuscì anche troppo bene. Un altro accenderà un sigaro accanto a un barile di polvere, cosi, per vedere, per sapere, per tentare il destino, per costringersi a dar prova d'energia, per rischiare come il giocatore, per sperimentare i piaceri dell'ansia, per niente, per capriccio, per non saper che fare. È una specie di energia che scaturisce dalla noia e dalla fantasticheria; coloro nei quali si manifesta cosi impensatamente sono in generale, come ho detto, gli esseri più indolenti e sognatori del mondo.
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Un altro, timido a segno da chinar gli occhi anche davanti allo sguardo degli uomini, a segno da dover radunare tutta la sua povera volontà per entrare in un caffè o per passare davanti al botteghino d'un teatro, dove i biglietti gli paiono investiti della dignità di Minosse, di Eaco e di Radamante, eccolo a un tratto saltare al collo d'un vecchio che gli passa accanto e abbracciarlo con entusiasmo davanti alla folla stupita. Perché? Perché... perché quella fisionomia gli riusciva irresistibilmente simpatica? Forse; ma è più fondato supporre che nemmeno lui sa perché. Più d'una volta sono stato vittima di codeste crisi e di codesti slanci, che ci autorizzano a credere che Dèmoni maliziosi si insinuano in noi, e a nostra insaputa ci fanno compiere le loro più assurde volontà. Una mattina m'ero alzato di malumore, triste, stanco d'oziare e spinto, mi pareva, a fare qualcosa di grande, un'azione illustre; e, ahimè! aprii la finestra. (Vi prego di osservare che lo spirito di mistificazione il quale, in certe persone, non deriva da un lavoro o da una combinazione, ma da una fortuita ispirazione, partecipa molto, non foss'altro che per l'ardore del desiderio, di quell'umore che i medici dicono isterico, satanico quelli che pensano un po' meglio dei medici: il quale ci spinge inevitabilmente verso una quantità di azioni pericolose e sconvenienti). La prima persona che scorsi in strada fu un vetraio, il suo grido acuto e stridulo s'alzò fino a me attraverso la greve e sudicia atmosfera parigina. Per altro non saprei affatto dire perché fui preso da un odio improvviso e dispotico per codesto pover'uomo. - Ehi! ehi! - e gli gridai che salisse. Frattanto riflettevo, non senza una certa allegria, che siccome la camera era al sesto piano e le scale molto strette, l'uomo doveva penare un poco nell'ascensione e impigliarsi spesso con gli angoli della sua fragile merce.
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Finalmente comparve; esaminai curioso tutti i vetri e gli dissi : - Ma come! non avete vetri colorati? dei vetri rosa, rossi, azzurri, vetri magici, vetri paradisiaci? Spudorato! avete la sfrontatezza di girare per i quartieri poveri, e non avete nemmeno vetri che fanno vedere la vita in bellezza! E lo spinsi vigorosamente verso le scale, dove inciampò brontolando. M'accostai al balcone e afferrai un vasetto di fiori, e quando l'uomo risbucò dalla porta lasciai cadere a perpendicolo il mio arnese di guerra sull'orlo posteriore del suo carico; rovesciato dall'urto, il vetraio fini di infrangere sotto la schiena tutta la sua povera ricchezza ambulante, che rese il fragore sonoro d'un palazzo di cristallo spaccato dal fulmine. E, ubbriacato dalla pazzia, gli urlai furioso: - La vita in bellezza! la vita in bellezza! Codesti scherzi nervosi non vanno esenti da pericolo, spesso bisogna pagarli cari. Ma cosa conta l'eternità della dannazione, per chi ha trovato in un attimo l'infinito del piacere? Trad. di Piero Bianconi, Rizzoli, Milano 1 9 5 5 .
Lewis Carroll 1832-98
Un pastore anglicano che è, per di più, un eccellente professore di matematica e un logico specializzato; tanto basta perché il nonsense faccia la sua comparsa nella letteratura, o quanto meno una clamorosa ricomparsa (le più sorprendenti poesie di Lewis Carroll presentano un certo rapporto di parentela, senza dubbio inconscia, con certi poemi «incoerenti» francesi del XIII secolo, noti sotto il nome di fatrasies, ai quali è rimasto legato un solo nome, quello di Philippe de Beaumanoir). L'importanza del non-sense in Lewis Carroll deriva dal fatto di costituire per lui la soluzione vitale di una profonda contraddizione, da un lato fra l'accettazione della fede e l'esercizio della ragione, dall'altro tra l'acuta coscienza politica e i rigorosi doveri professionali. La caratteristica di questa soluzione soggettiva è di riflettersi in una soluzione oggettiva, precisamente d'ordine poetico: lo spirito, alle prese con difficoltà di ogni genere, può trovare una via d'uscita ideale nell'assurdo. Il gusto dell'assurdo riapre all'uomo il regno misterioso dell'infanzia. I l gioco dell'infanzia, come mezzo ormai smarrito di conciliazione tra l'agire e il sognare ai fini della soddisfazione organica, a cominciare dal semplice «gioco di parole», si trova cosi riabilitato e nobilitato. Le potenze che presiedono al «realismo», all'animismo e all'artificialismo infantili e che combattono per una morale senza costrizioni, dopo essersi assopite tra Ì cinque e i dodici anni, sono passibili di un ricupero sistematico che minaccia il mondo severo e spento in cui siamo obbligati a vivere. La mano destra come sulla maniglia di una porta di uscita (di rientrata), in realtà chiusa su un'arancia: ecco l'atteggiamento di una bambina che il poeta Lewis Carroll, - in realtà il degno Mr Dodgson che si cela sotto quello pseudonimo - ha appena condotto davanti a uno specchio e che, per spiegare che vede se stessa tenere il frutto con la mano sinistra, mentre sente di tenerlo sempre con la destra, suppone di tenerlo con la mano giusta, la destra,
L E W I S CARROLL 113 «dall'altra parte dello specchio». (Questo tema dell'attraversamento dello specchio sarà ripreso in forma tragica da Jacques Rigaud in Lord Patchogue). Senza dubbio alcuno si ha qui il presentimento di un « a ritroso» dei più autentici. Non si può negare che nell'occhio di Alice un mondo di distrazione, di inconseguenza, e, più propriamente, di sconvenienza, gravita vertiginosamente al centro del vero. Humour rosa? Humour nero? è senz'altro difficile precisarlo. Dice Aragón: «La caccia allo snark esce contemporaneamente ai Chants de Maldoror e a Une saison en enfer. Stretta nelle catene vergognose di quei giorni di massacri in Irlanda, di oppressione infame nelle fabbriche dove prendeva corpo l'ironica contabilità del piacere e del dolore preconizzata da Bentham, mentre da Manchester si levava come una sfida la teoria del libero scambio, che ne era della libertà umana? Stava tutt'intera nelle fragili mani di Alice, dove questo curioso uomo l'aveva collocata». Sembra però stranamente abusivo presentare Lewis Carroll come un refrattario «politico» e prestare alla sua opera intenzioni satiriche contingenti. SÌ commette una soperchieria pura e semplice insinuando che la sostituzione di un regime a un altro varrebbe a metter fine a rivendicazioni di un tale ordine. Si tratta della resistenza radicale che il bambino opporrà sempre a coloro che pretendono di plasmarlo e poi di condizionarlo, limitando più o meno arbitrariamente il suo meraviglioso campo di esperienza. Tutti coloro che conservano in sé il senso della rivolta riconosceranno in Lewis Carroll il loro primo maestro di scuola marinata.
L A QUADRIGLIA D E L L E A R A G O S T E
La Finta Tartaruga tirò un profondo sospiro e si passò una pinna sugli occhi. Quindi guardò Alice e cercò di parlare, ma per qualche minuto i singhiozzi le soffocarono la voce. - Singhiozza come se avesse un osso in gola, — disse il Grifone, cominciando a scuoterla e a batterle forte sulla schiena. Finalmente la Finta Tartaruga riacquistò la sua voce e, con le lacrime che le scorrevano giù sulle guance, continuò : - Tu forse non hai vissuto molto in fondo al mare -
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(«infatti non ho vissuto» disse Alice) - e forse non sei mai stata presentata ad una Aragosta... — (Alice cominciò a dire: «una volta l'ho assaggiata», ma subito si corresse e disse invece: «no, mai») - sicché non puoi avere idea di quanto sia deliziosa una Quadriglia di Aragoste! - No, infatti, - disse Alice. - Che genere di danza è mai questa? - Ecco, - disse il Grifone, - per prima cosa ci si dispone in una lunga fila sulla spiaggia... - Due File! - interruppe la Tartaruga. - Foche, tartarughe, salmoni e cosi via; poi, una volta che tutta la spiaggia è stata ripulita dalle meduse... - Questo lavoro di solito prende un po' di tempo, - interruppe il Grifone. - ... si avanza di due passi... - E ognuno ha un'aragosta per dama, - urlò il Grifone. - Naturalmente, - disse la Finta Tartaruga: - si avanza di due passi, a tempo con la propria dama... - ... si scambiano le Aragoste, e ci si ritira nel medesimo ordine, - continuò il Grifone. - Poi, - continuò la Finta Tartaruga, - si scagliano le... - Le aragoste! - urlò il Grifone, facendo un gesto in aria. - ... il più lontano possibile nel mare... - Poi si nuota dietro a loro! - strillò il Grifone. - ... e si fa una capriola nell'acqua! - esclamò la Finta Tartaruga, saltellando qua e là come una cavalletta. - ... e si scambiano di nuovo le aragoste! — strepitò il Grifone. - Quindi si ritorna a riva, ed è finita la prima figura, disse la Finta Tartaruga, abbassando improvvisamente la voce. E qui i due animali, che avevano saltellato come pazzi per tutto il tempo, si sedettero rivolti verso Alice, assumendo nuovamente quell'aria triste e quieta di prima. - Deve essere proprio una bella danza, - disse Alice timidamente.
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- Ti piacerebbe vederne un saggio? - rispose la Finta Tartaruga. - Davvero moltissimo, - disse Alice. - Su, proviamo la prima figura! - disse la Finta Tartaruga al Grifone. - Possiamo fare anche senza aragoste. Chi canta? - Oh, tu canti, - disse il Grifone. - Ho dimenticato le parole. Cosi cominciarono a danzare solennemente intorno ad Alice, pestandole i piedi di tanto in tanto, quando le passavano troppo vicino e agitando le zampe anteriori per battere il tempo, e la Finta Tartaruga cantava lentamente e con fare triste questa canzone: - Vuoi camminare un po' più forte? - disse un merluzzo ad una lumaca. - C'è un delfino proprio dietro di noi che mi sta calpestando la coda! - Guarda con quanta bravura aragoste e tartarughe procedono insieme! Ci stanno aspettando sulla spiaggia - vuoi venire con me e unirti alla danza? Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza? Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza? - T u non puoi davvero immaginare come sarà divertente Quando ci prenderanno e ci getteranno a mare insieme con le aragoste! Ma rispose la lumaca: - Troppo lontano, troppo lontano! guardando un poco di traverso. Disse che ringraziava di cuore il merluzzo, ma che non voleva unirsi alla danza. Non voleva, non poteva, non voleva, non poteva, non voleva unirsi alla danza. Non voleva, non poteva, non voleva, non poteva, non voleva unirsi alla danza. - Che importa quanto lontano camminiamo, - rispose il suo amico squamoso. - C'è un'altra spiaggia, per certo, per certo, dall'altra parte. E più lontana sarà dall'Inghilterra, più vicina sarà alla Francia.
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Adesso non diventar pallida, mia cara lumaca, ma vieni e uniamoci alla danza. Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza? Vuoi, non vuoi, vuoi, non vuoi, vuoi unirti alla danza?
- Grazie, è una danza molto interessante a vedersi, disse Alice contenta che finalmente fosse finita: — e mi piace tanto quella curiosa canzone sul merluzzo! - Oh, quanto ai merluzzi, - disse la Finta Tartaruga, essi... oh! naturalmente li avrai visti qualche volta? - Si, - rispose Alice, - ne ho spesso visti a pran... - e subito s'interruppe. - Non so dove sia Pran, - replicò la Finta Tartaruga, ma se ne hai visti spesso, certamente saprai come sono fatti. - Credo di si, - rispose Alice pensierosa. - Hanno la coda in bocca... e sono tutti ricoperti di pane grattugiato. - Ti sbagli riguardo al pane grattugiato, - disse la Finta Tartaruga, - perché il mare glielo toglierebbe subito di dosso. Ma quanto alla coda, è vero che Vhanno in bocca e la ragione è... - A questo punto la Finta Tartaruga sbadigliò e cominciò a socchiudere gli occhi, poi, rivolgendosi al Grifone, aggiunse: - Oh, digliela tu la ragione e tutto il resto. - La ragione è, - spiegò il Grifone, - che avevano l'abitudine di andare a ballare con le aragoste e cosi finivano sempre scagliati in mare. E durante il lungo volo si mettevano rapidamente la coda in bocca senza in seguito tirarla fuori. Ecco tutto. - Grazie, - disse Alice, - è veramente interessanté. Non ho mai saputo tante cose in una volta sola sui merluzzi. - Potrei continuare ancora se queste cose ti piacciono, - disse il Grifone. - Sai perché i lucci hanno questo nome? - Non ci ho mai pensato, - disse Alice. - Perché? - Perché lucidano scarpe e stivali, - rispose il Grifone con aria solenne.
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Alice era più sbalordita che mai. - Lucidano scarpe e stivali! - continuò a ripetere per qualche istante. - E dimmi, come sono state pulite le tue scarpe? - disse il Grifone. - Volevo dire: che cosa le fa brillare a quel modo? Alice guardò le sue scarpe e rimase a riflettere per un po' prima di rispondere; poi disse: - Oh, credo che siano state pulite con il lucido nero. - No! No! Scarpe e stivali in fondo al mare, - continuò il Grifone con voce profonda e solenne, — si puliscono soltanto con l'inchiostro di seppia. Ora lo sai. - E di che cosa sono fatte? - domandò Alice in tono di grande curiosità. - Sono fatte di Sogliole e Tacchigliole, naturalmente, rispose il Grifone piuttosto spazientito: — qualunque gambero di buon senso avrebbe saputo dirti queste cose. - Se fossi stata il merluzzo, - disse Alice che pensava ancora alla canzone, - avrei detto al delfino: «sta' indietro, per favore non ti vogliamo con noi! » - Ma erano obbligati ad accettarlo, - disse la Finta Tartaruga: - nessun pesce saggio andrebbe contro il volere del suo delfino. - Davvero non lo farebbe? - esclamò Alice in tono di grande sorpresa. - Certo che no, - rispose la Finta Tartaruga: - se un pesce venisse da me e mi dicesse che è in procinto di mettersi in viaggio, io gli direi: «Se cosi vuole il tuo delfino». - Non volete dire per caso «destino»? - osservò Alice. - Io volevo dire esattamente quello che ho detto, - rispose la Finta Tartaruga in tono offeso. Poi il Grifone aggiunse: - Suvvia, sentiamo un po' il racconto delle tue avventure. - Potrei raccontarvi le mie avventure... a cominciare da questa mattina, - disse Alice timidamente: - ma è inutile raccontarvi quelle di ieri, perché allora ero una persona diversa.
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- Spiega tutta questa faccenda! - esclamò la Finta Tartaruga. - No! no! Le avventure prima, - disse il Grifone con voce impaziente: - le spiegazioni portano via sempre troppo tempo. E Alice allora cominciò a raccontare loro le sue avventure dal momento in cui aveva scorto il Bianco Coniglio. Dapprima si senti un poco a disagio perché i due animali, uno da una parte l'altro dall'altra, le si erano fatti molto vicini e stavano entrambi con occhi e bocca spalancati; ma poi guadagnò coraggio e continuò il suo racconto. I due ascoltatori stettero in perfetto silenzio fino al momento in cui Alice descrisse come aveva ripetuto al Bruco la filastrocca Tu sei vecchio, babbo Guglielmo e come le parole le erano venute tutte diverse; quindi la Finta Tartaruga trasse un profondo sospiro e disse: - Tutto molto curioso. - Tutto stranissimo quanto mai, - disse il Grifone. - La filastrocca ti è venuta tutta diversa! - ripete alquanto turbata la Finta Tartaruga. - Mi piacerebbe sentirla provare e ripetere qualcosa adesso. Dille di cominciare E dicendo questo si era voltata verso il Grifone, forse pensando che costui avesse qualche autorità su Alice. - Alzati e ripeti Questa è la voce del fannullone, - disse il Grifone. «È incredibile come qui ogni animale dia ordini e faccia ripetere le lezioni a questo modo! - pensò Alice; - è esattamente come se fossi a scuola». Comunque si alzò e cominciò a recitare la filastrocca, ma la sua testa era tanto piena della Quadriglia delle Aragoste che a malapena riuscì a capire quello che stava dicendo. E le parole che le uscirono suonavano davvero strane: Questa è la voce dell'Aragosta; e l'ho sentita dichiarare - Mi avete arrostita un po' troppo, ora dovrò inzuccherarmi i capelli. Cosi come un'anitra, essa rassetta per bene col naso ben saldo cintura, bottoni e butta fuori i piedi.
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- Ma è diversa da come la recitavo io quando ero bambino, - esclamò il Grifone. - Beh, io non l'ho mai sentita prima, - disse la Finta Tartaruga; - e mi sembra di una insolita assurdità. Alice non disse nulla; si era seduta con il viso tra le mani chiedendosi se qualcosa mai sarebbe ancora accaduta in modo normale. - Mi piacerebbe che qualcuno me la spiegasse, - disse la Finta Tartaruga. - Lei non può spiegartela, - s'affrettò a dire il Grifone. - Continua con la seconda strofa. - Ma come teneva i piedi? - insiste la Finta Tartaruga. - Come poteva girarli all'infuori con il naso? - È la prima posizione della danza, - disse Alice, ma era terribilmente confusa da tutta la storia e non desiderava altro che cambiare argomento il più presto possibile. - Continua con la seconda strofa, - ripetè il Grifone con impazienza: - mi pare cominci cosi: Son passata per il giardino. Alice non osava disobbedire e, malgrado fosse certa che la filastrocca le sarebbe venuta tutta sbagliata nuovamente, cominciò con voce tremante: Son passata per il giardino e ho notato, con un occhio, in che modo il G u f o e la Pantera stavano dividendosi la torta.
- Ma a cosa serve ripetere tutta questa roba, — interruppe la Finta Tartaruga, - se non ce la spieghi a mano a mano che vai avanti? È sicuramente la poesia più confusa che abbia mai sentito! - Si, credo che sia meglio rinunciare, - disse il Grifone; e Alice, che non aspettava altro, fu molto contenta di smetterla. - Perché non proviamo un'altra figura della Quadriglia delle Aragoste? - propose il Grifone. - Oppure vuoi che la Finta Tartaruga ti canti una canzone? - Oh, una canzone. Si; per favore, se la Finta Tartaru-
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ga è tanto gentile da cantarcene una, - rispose Alice cosi premurosamente, che il Grifone, in tono piuttosto offeso, disse: - Uhm! I gusti non si discutono! Cantale La Zuppa della Tartaruga; eh, vuoi vecchia mia? La Finta Tartaruga trasse un'ennesimo sospiro e con voce a tratti soffocata dai singhiozzi cominciò a cantare cosi: Magnifica Zuppa, cosi ricca e verde, che ci aspetti in una calda zuppiera! Chi non farebbe una sosta per tale leccornia? Zuppa della sera, magnifica Zuppa! Zuppa della sera, magnifica Zuppa! Magni - fica Zup - pa! Magni - fica Zup - pa ! Zup - pa della se - ra, Magnifica, magnifica Zuppa! Magnifica Zuppa! Che ce ne importa del pesce, dei giochi o di qualunque altro piatto? Chi non darebbe tutto quello che ha per due soldi soltanto di questa magnifica Zuppa? Per due soldi soltanto di questa magnifica Zuppa? Magni - fica Zup - pa! Magni - fica Zup - pa! Zup - pa della se - ra, Magnifica, magni - FICA ZUPPA!
- Il coro ancora! - urlò il Grifone, e la Finta Tartaruga aveva appena cominciato a ripeterlo, quando in lontananza si udì un grido: - Il processo ha inizio! - Su, vieni, - gridò il Grifone, e afferrata Alice per una mano volò via senza aspettare la fine della canzone. - Di che processo si tratta? - chiese ansimando Alice, durante la corsa: ma il Grifone si limitò a rispondere. Su, vieni! - e affrettò la corsa, mentre giungevano sempre più deboli e melanconiche le parole della canzone portate dalla brezza: Zup - pa della se - ra, Magnifica, magnifica Zuppa! Trad. di Alfonso Galasso e Tommaso Kemeni, Sugar, Milano 1967.
Villiers de TIsle-Adam 1840-89
Crollano sordamente lembi di muro. Lo scoiattolo della folgore balza di ramo in ramo nelle foreste. Un dubbio fondamentale stringe d'assedio il principio di realtà, mira a spogliare le forme presenti della vita del carattere dispotico che in generale rivestono, in modo che l'esistenza umana sia colta nel suo divenire senza cessa. Questo atteggiamento strettamente hegeliano di Villiers non può che provocare in lui un certo disamore verso il suo tempo e spezza l'equilibrio filosofico a vantaggio del non attuale. Il passato e il futuro si accaparrano tutte le facoltà sensibili e intellettuali del poeta, distaccato dallo spettacolo immediato; divengono due filtri di pura trasparenza, una volta che non ci si lasci più ipnotizzare dal torbido precipitato che nasce dal mondo di oggi. Qui la possibilità è sentita come «altrettanto terribile» che la realtà e naturalmente, per quell'idealista assoluto che è Villiers, non vi è identità fra il ceppo che si getta nel camino e lo stesso ceppo in fiamme: «dov'è la sostanza? tra Ì vostri due sopraccigli!» Cosi, la maggior parte dei suoi personaggi spalanca verso l'esterno occhi di nuvola, quando addirittura non cela questi occhi che più non vedono dietro immensi «occhiali d'azzurro», come la bella Claire Lenoir. Questa chiaroveggenza cercata a qualsiasi costo (anche a prezzo della cecità), come in Maeterlinck che volle dichiarare: «Tutto ciò che ho fatto lo devo a Villiers», non ha mai trovato peggior nemico del senso comune, la cui caricatura tragica e vendicativa è rappresentata dal personaggio di Tribulat Bonhomet, «archetipo del suo secolo». Senso comune che Villiers de l'Isle-Adam non cessò di sfidare lungo quello che Mallarmé chiamò «il simulacro della sua vita». Si può credere che fu lo stesso processo mentale a spingerlo a cercar di far valere i suoi diritti al trono di Grecia, e a fargli sposare in extremis la sua povera e ignorante domestica. «Nel temperamento di Villiers - dice Huysmans - vi era un lato di comicità nera e di caricatura feroce: non più le paradossali mistificazioni di Edgar
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Poe, ma uno schernire lugubre e comico, lo stesso dei furori di Swift».
L ' U C C I S O R E DI CIGNI
A forza di consultare tomi di storia naturale, il nostro illustre amico, il dottor Tribulat Bonhomet, aveva finito per scoprire che, «il cigno canta prima di morire». In realtà (ci confessava ancora di recente), da quando gli era accaduto di ascoltare quella musica, essa soltanto poteva ormai aiutarlo a sopportare le delusioni della vita, e ogni altra gli sembrava solo del fracasso, del «Wagner» — Come aveva potuto procurarsi questo piacere da raffinato? - E c c o : Nei dintorni dell'antica città fortificata dove abitava, in un parco secolare ormai abbandonato, l'industrioso vegliardo aveva un bel giorno scoperto, all'ombra di grandi alberi, un vecchio stagno sacro, sulle cui acque cupe scivolavano dodici o quindici di quei placidi uccelli; ne aveva studiato con cura meticolosa le vie d'accesso e le distanze, facendo soprattutto attenzione al cigno nero, il loro guardiano, che dormiva" smarrito in un raggio di sole. Questi se ne stava vigile, ogni notte, ad occhi spalancati, con un ciottolo levigato chiuso nel lungo becco rosa e, al minimo segno di pericolo per i suoi protetti, era pronto, con un rapido movimento del collo, a gettare bruscamente nel mezzo del bianco cerchio dei compagni dormienti, la pietra del risveglio; a quel segnale il branco sarebbe fuggito, dietro la sua stessa guida, attraverso l'oscurità di viali profondi, verso qualche praticello lontano, o una fonte dove si specchiano grige statue, o qualche altro rifugio ben noto alla loro memoria. Bonhomet li aveva osservati a lungo, in silenzio, quasi
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sorridendo. Non sognava forse, da raffinato amatore, di saziare il suo udito con il loro ultimo canto? Talvolta dunque, quando i dodici tocchi suonavano in una notte autunnale senza luna, Bonhomet, travagliato dall'insonnia, tutto a un tratto si alzava e, per il concerto che sperava di riascoltare, indossava un abbigliamento speciale. L'ossuto e gigantesco dottore, dopo aver cacciato le gambe dentro smisurati stivaloni di gomma chiodati, propaggine ininterrotta di un ampio giaccone impermeabile debitamente foderato di pelliccia, infilava le mani in un paio di guanti d'acciaio riccamente lavorato, che provenivano da qualche armatura medievale (guanti che si era concesso il piacere di comperare al prezzo di trentotto soldi - una pazzia! - da un antiquario). Fatto ciò, si calcava sul capo il suo grande cappello moderno, soffiava sulla lampada, scendeva e, una volta messosi in tasca le chiavi di casa, s'incamminava con dignitoso contegno verso il limitare del parco abbandonato. Subito s'avventurava per oscuri sentieri verso il rifugio dei suoi cantori preferiti, lo stagno dall'acqua poco profonda che egli sapeva, avendone accuratamente esplorato ogni tratto, non giungergli oltre la cintola. Quindi, sotto le volte di frasche contigue alle sponde, attutiva il passo, calpestando con cautela i rami morti. Arrivato ai margini dello stagno, lentamente, molto lentamente, - e senza il minimo rumore! - arrischiava prima un passo, poi l'altro, e procedeva nell'acqua con precauzione inaudita, talmente inaudita che osava a mala pena respirare. Come un melomane in attesa della sospirata cavatina. Tanto che, per compiere i venti passi che lo separavano dai suoi cari virtuosi, impiegava di solito da due ore a due ore e mezzo, preoccupato com'era di non allarmare l'acuta vigilanza del nero guardiano. L'alito del cielo senza stelle scuoteva lamentosamente le cime degli alberi, nelle tenebre che circondavano lo stagno; ma Bonhomet, senza lasciarsi distrarre da quel miste-
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rioso sussurro, continuava insensibilmente ad avanzare, fino a trovarsi, invisibile, verso le tre del mattino, a mezzo passo dal cigno nero, senza che questi avesse avvertito il benché minimo indizio della sua presenza. Allora, sorridendo nell'ombra, il buon dottore grattava dolcemente, molto dolcemente, sfiorava con la punta del suo medioevale indice la superficie abolita dell'acqua, davanti al guardiano!... E grattava con tanta delicatezza che questi, benché perplesso, non riusciva a considerare questo vago allarme abbastanza preoccupante da fargli buttare il ciottolo. Ascoltava. Alla lunga, il suo istinto era oscuramente penetrato dall'idea del pericolo, e il suo cuore, oh! il suo povero cuore ingenuo!, si metteva a battere all'impazzata: ciò riempiva di gioia Bonhomet. Ed ecco che i bei cigni, uno dopo l'altro, turbati da quel rumore nel profondo del loro sonno, svolgevano il capo flessuoso da sotto le pallide ali d'argento e, sotto il peso dell'ombra di Bonhomet, entravano poco a poco in una confusa angoscia, coscienti in qualche oscura maniera del mortale pericolo che li minacciava. Ma, nella loro infinita delicatezza, soffrivano in silenzio, come il loro guardiano - e non potevano fuggire, perché la pietra non era stata gettataì I cuori di quei bianchi esiliati si mettevano a battere rintocchi di sorda agonia - comprensibili e chiari all'orecchio rapito dell'eccellente dottore che - ben conscio, lui, degli effetti morali provocati dalla sua sola vicinanza - gioiva in pruriti incomparabili della orrenda sensazione che la sua immobilità faceva loro subire. «Come è bello incoraggiare gli artisti!» si ripeteva tra sé. Durava tre quarti d'ora circa quest'estasi, che egli non avrebbe barattato con un intero reame. D'improvviso, il raggio della Stella del mattino, scivolando di ramo in ramo, illuminava Bonhomet, le acque scure, i cigni dagli occhi ancora pieni di sogni! A quella vista il guardiano, pazzo di terrore, buttava la pietra... Troppo tardi!... Con un
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grido terribile, in cui sembrava smascherarsi il suo dolciastro sorriso, Bonhomet si precipitava a braccia avanti, sfoderando gli artigli, in mezzo alla schiera degli uccelli sacri! Rapida era la stretta delle ferree dita di questo moderno eroe: gli immacolati colli color di neve di due o tre cantori venivano trafitti e spezzati, prima che gli altri uccellipoeti potessero alzarsi nel loro volo radioso. Allora, l'anima dei cigni morenti, dimentica del buon dottore, si esalava in un canto di immortale speranza, di liberazione e di amore verso Cieli ignoti. Il razionale dottore sorrideva di tanta sentimentalità e si degnava di assaporarne, da serio conoscitore, questo solo elemento - I L TIMBRO. Apprezzava musicalmente solo la singolare dolcezza del timbro di quelle simboliche voci, che vocalizzavano la Morte come una melodia. Bonhomet, a occhi chiusi, ne aspirava nel suo cuore le armoniose vibrazioni: poi, barcollando come in uno spasimo, naufragava sulla sponda e si lasciava cadere sull'erba, supino, nei suoi vestiti ben caldi e impermeabili. E là, questo Mecenate dei tempi nostri, smarrito in un voluttuoso torpore, assaporava ancora una volta, attingendolo dal fondo di se stesso, il ricordo di quel canto delizioso — anche se esaltato da un sublime un po' fuori moda, a suo gusto. Poi, riassorbendo quell'estasi comatosa, ne ruminava contegnosamente la squisita sensazione, fino al sorgere del sole.
Charles Cros 1824-88
Je sais faire les vers perpétuels. Les hommes Sont ravis à ma voix qui dit la vérité. La suprême raison dont j'ai, fier, hérité Ne se payerait pas avec toutes les sommes. J'ai tout touché: le feu, les femmes, et les pommes; J'ai tout senti: l'hiver, le printemps et l'été; J'ai tout trouvé, nul mur ne m'ayant arrêté. Mais, Chance, dis-moi donc de quel nom tu te nommes? \ Potè presentarsi cosi, e senza alcuna esagerazione: la sua opera poetica apre un «paradiso mattutino», il suo cuore ancor oggi non fa che un mazzo dei lillà del monte Valérien. Se ancora è lontano dall'avere il posto che gli spetta, lo deve senza dubbio al suo genio, che lo fa cadere, come nessun altro, nel gioco di luci e ombre di molteplici sfere. Le dita di Charles Cros, come quelle di Marcel Duchamp, sono guidate da farfalle color della vita, che si nutrono del nettare dei fiori ma che possono essere attratte solo dalla fonte luminosa dell'avvenire. Sono dita di un eterno inventore. Frementi sempre tra l'oggetto e il progetto, corrono volteggiando dalla pagina in cui, al tempo stesso, s'architettano i piani e si dispongono in ordine i versi, fino agli umili materiali dal cui più o meno logico concatenarsi può scaturire una conquista per tutta l'umanità. Charles Cros ha visto nelle parole stesse dei «procedimenti», procedimenti 1
[Io so fare i versi eterni. Gli uomini | Sono rapiti dalla mia voce che dice il vero. | La suprema ragione che, fiero, ereditai | Nessuna somma la potrebbe pagare. Ho tutto toccato: il fuoco, le donne e le mele; | Ho tutto sentito: l'inverno, la primavera e l'estate; | Ho tutto trovato, poiché nessun muro mi ha fermato. | Ma, fortuna, dimmi, con quale nome ti chiami?].
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che egli ha amato tanto quanto quelli che segnano, con la loro scoperta e la successiva applicazione, le tappe del progresso scientifico. Si tratta in entrambi i casi di strappare alla natura una parte dei suoi segreti: ecco ciò da cui deriva l'unità della sua vocazione di poeta e di scienziato. Nasce da questo fatto, per esempio, la sorprendente orchestrazione di certi suoi poemi in prosa (Sur trois aquatintes de Henri Cros) che preparano le lUuminations, e la prodezza di far girare a vuoto la macina poetica in L'hareng-saur. La freschezza della sua intelligenza fa si che tutto ciò che è passibile di desiderio non gli sembri a priori utopistico e che, meno di chiunque altro, avverta pesare la proibizione su ciò che non è (ai suoi occhi ciò che non è ancora) in funzione di ciò che è. Ha realizzato per primo la sintesi artificiale del rubino; ha «immaginato, descritto, precisato tutte le caratteristiche del radiometro che Sir William Crookes utilizza per misurare il vuoto e l'imponderabile, come pure del "fotofono" che Graham Bell aveva sognato di usare per far parlare la luce e raccogliere gli echi del sole». Si deve a lui il principio della fotografia a colori, ed è provato che, otto anni e mezzo prima che Edison inventasse il fonografo, Cros aveva depositato all'Accademia delle Scienze un plico sigillato in cui descriveva un apparecchio quasi del tutto simile. Emil Gauthier, che si è dedicato alla causa di fargli rendere giustizia su questo punto, ricorda ancora «gli studi di Charles Cros sull'elettricità, di cui lamentava curiosamente le "snervanti lentezze" e la "costituzione vischiosa", il suo stenografo musicale realizzato poi da altri sotto il nome di "melotropo", il suo telegrafo automatico, il cronometro, il vertiginoso progetto di telegrafia ottica interplanetaria, ecc...» La prodigiosa avventura mentale di Charles Cros ebbe come risvolto le modestissime condizioni economiche in cui dovette sempre dibattersi. Dalla sua soffitta fino allo «Chat-noir», dove creerà il genere del monologo, non gli toccò in sorte altro che alternare la povertà alla bohème. Ciò significa che l'humour nasce in lui come sottoprodotto di quella «filosofia amara e profonda» che gli attribuisce Verlaine, senza il cui conforto non avrebbe potuto socialmente rassegnarsi. La giocosità pura di certe parti tutte stravaganti della sua opera non deve far dimenticare che alcune fra le più belle poesie di Cros hanno un revolver puntato contro il cuore.
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L'ARINGA A F F U M I C A T A
- nudo, nudo, nudo, Era un grande muro bianco - alta, alta, alta, Contro il muro era una scala Per terra un'aringa affumicata - secca, secca, secca. - sporche, sporche, sporche, Viene e stringe nelle mani Un martello e un grande chiodo - aguzzo, aguzzo, aguzzo, Un gomitolo di spago - spesso, spesso, spesso. Sale allora sulla scala E il chiodo a punta pianta Su nel grande muro bianco
- alta, alta, alta, - toc, toc, toc, - nudo, nudo, nudo.
Il martello lascia andare Lo spago attacca al chiodo Allo spago l'aringa affumicata
- che cade, cade, cade - lungo, lungo, lungo, - secca, secca, secca.
Scende giù da quella scala Porta via scala e martello E poi se ne va altrove
- alta, alta, alta, - grosso, grosso, grosso, - lungi, lungi, lungi.
Allora l'aringa affumicata Che pende giù dalla corda Si dondola piano piano
- secca, secca, secca, - lunga, lunga, lunga, - sempre, sempre, sempre.
Ho composto questa storia Per fare arrabbiare i grandi E divertire i bambini
- facile, facile, facile, - seri, seri, seri, - piccini, piccini, piccini.
LA SCIENZA
DELL'AMORE
Ancora giovane, mi trovai con molto denaro e la passione della scienza. Non di quella scienza campata in aria
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e piena di pretese, che crede di poter creare il mondo di sana pianta e svolazza nell'azzurra atmosfera dell'immaginazione. Ho sempre pensato, d'accordo coi ranghi compatti degli scienziati moderni, che l'uomo non è che uno stenografo dei fatti grezzi, un segretario della natura tangibile; che il vero, considerato non come qualche futile universalità, ma come un volume immenso e confuso, può essere parzialmente attinto solo da chi sappia grattare, rifilare, frugare, procacciare e immagazzinare fatti reali, constatabili, innegabili; in una parola, che bisogna esser formica, che bisogna essere acaro, rotifero, infusorio, che bisogna essefe nulla! per arrecare il proprio atomo all'infinità di atomi che compongono la maestosa piramide delle verità scientifiche. Osservare, osservare, e soprattutto mai pensare, mai sognare o immaginare: qui sta la magnificenza del metodo moderno. Nutrito di questa sana dottrina, feci il mio ingresso nella vita; e, mentre ancora muovevo i primi passi, mi venne in mente un progetto meraviglioso, un'autentica bazza scientifica. Imparavo la fisica, e mi sono detto: Si è studiato il peso, il calore, l'elettricità, il magnetismo, la luce. L'equivalente meccanico di queste forze è o sarà determinato, senza dubbio alcuno, in modo rigoroso. Ma tutti coloro che lavorano all'identificazione di questi elementi del sapere futuro, hanno, nel nostro mondo, un ben misero ruolo. Vi sono altre forze che l'osservazione sagace e paziente deve sottomettere al pensiero dello studioso. Non starò a fare classificazioni generali, perché le considero deleterie per lo studio e poi non ci capisco niente. Per farla breve, mi sono trovato (il come e il perché lo ignoro) a intraprendere lo studio scientifico dell'amore. Ho un fisico non del tutto sgradevole, non sono né troppo alto né troppo piccolo, e nessuno ha mai affermato che
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io fossi bruno o biondo. Solo gli occhi sono un po' piccini, non tanto vivaci, e mi dànno un aspetto ebete che mi torna utile negli ambienti eruditi, ma mi nuoce in società. D'altronde, malgrado tanti sforzi metodici, non ho una conoscenza sicura di questa società, ed è stato un vero capolavoro di sangue freddo l'essere riuscito a perseguirvi la mia meta austera senza dare troppo nell'occhio Mi ero detto: Voglio studiare l'amore, non come i Don Giovanni che si divertono senza scrivere, non come i letterati che nebulosamente sentimentalizzano, ma come gli scienziati seri. Per constatare l'effetto del calore sullo zinco, si prende una sbarra di zinco, la si riscalda nell'acqua a una temperatura rigorosamente determinata col miglior termometro possibile: si misura poi con precisione la lunghezza della sbarra, la sua resistenza, sonorità, capacità calorica, e si compiono quindi le stesse operazioni a un'altra temperatura, non meno rigorosamente determinata. Mi proposi dunque di studiare l'amore attraverso procedimenti altrettanto esatti (progetto notevole in cosi tenera età: venticinque anni appena). Impresa difficile.
Ci scambiammo le nostre fotografie. La mia era stampata su smalto e chiusa in una cornicetta dorata; una minuscola catenella permetteva di portarla sotto le vesti. Questo ritratto conteneva, nascosti fra una piastra d'avorio e lo smalto, due termometri a massima e a minima, due capolavori di precisione, in cosi esigue dimensioni. Potevo in tal modo verificare gli scarti rispetto alla temperatura normale in un organismo affetto da amore. Inventando qualche scusa (non sempre facile da trovare) mi facevo restituire il medaglione per qualche ora e, dopo aver preso nota della temperatura a una certa data, predisponevo di nuovo i termometri. Una sera che avevo ballato due volte con una piccola signora bruna, ricordo di aver constatato un abbassamen-
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to di temperatura di quattro decimi, seguito o preceduto (nulla ha potuto chiarirmi l'ordine dei due fenomeni) da un aumento di sette decimi. Questi sono fatti. Sia quel che sia, una volta apprestata ogni cosa, presi le seguenti misure: dissi al signor D.: «La proprietà è un furto» (non è mia, non è nuova, ma funziona sempre); alla signora D., che aveva avuto un aborto e non faceva altro che parlarne, dissi: «La donna, dal punto di vista economico e sociale, può e deve essere considerata una fabbrica di feti»; e canticchiai, sull'aria di Vicino a una culla, qualche verso di una canzoncina di W., dal titolo Vicino a un boccale. ... Lo vedevo col bianco colletto Sostituto dalle degne pose... Se non fosse nell'alcool costretto, Avrebbe fatto grandi cose!
Poi feci scivolare nelle mani di Virginia questo biglietto: «Vi spiegherò tutto, più tardi. Disaccordo assoluto fra i vostri genitori e me. L'ideale, il sogno, il prisma dell'impossibile, ecco ciò che ci attende. Per vivere bisogna amare... c'è una vettura, da basso: vieni, o m'uccido e sarai dannata». Fu cosi che la rapii. Ero ancora stupito della facilità con cui avevo portato a termine la mia impresa quando, sul treno, guardai questa ragazza, educata in un ambiente tranquillo, probabilmente destinata a qualche mediocre impiegato: ora mi seguiva, grazie a una serie di formule sentimentali, che del resto non avevo inventato io, e di cui non avrei saputo fornire una spiegazione sufficiente. Andavamo da qualche parte, si suppone. In realtà, avevo da tempo predisposto, con la mia abituale sagacia, un delizioso e metodico apparato, di cui vedremo più oltre lo scopo.
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Il viaggio in ferrovia durava tre ore, un tempo ben lungo per lo sgomento, i singhiozzi, i palpiti. Per fortuna non eravamo soli nello scompartimento. Avevo preliminarmente studiato il meglio possibile la situazione, quale si presenta nei romanzi: « Tu... voi mi sacrificate tutto... Come ringraziarvi...» Poi, dopo un silenzio: «Ti amo... Vi amo... Oh! Viaggiare con la donna amata! L'orizzonte si accende a sera, o il mattino s'imperla all'aurora, e, dopo lo svago o il sonno, trovarsi con gli occhi negli occhi in paesi dai profumi nuovi». Mi ero fatto preparare la frase dal mio amico, il poeta W. Arriviamo, lei come un pulcino bagnato, io felice del successo iniziale delle mie ricerche. Infatti, senza lasciarmi prendere dalle vacuità romanzesche di questo rapimento, nel corso del viaggio, mentre rassicuravo la povera ragazza sconvolta, ero riuscito ad applicare abilmente tra la decima e l'undicesima costola un cardiografo dal funzionamento prolungato, talmente esatto che lo stesso dottor Morey, autore della sua descrizione ideale, vi aveva rinunciato per economia. Alla stazione ci aspettava una vettura. Terrore, imbarazzo, ebbrezza irrequieta della signorina. I miei abbracci, debolmente respinti, permettevano al cardiografo di registrare le espressioni viscerali della situazione. E nel delizioso salottino dove, coprendosi gli occhi con le mani, essa si rimproverava quella rottura definitiva con le esigenze della morale e dell'opinione corrente, potei felicemente procedere alla determinazione esatta del peso del suo corpo (il momento era di capitale importanza). Ecco come: Si era lasciata cadere su un divano, perduta nei suoi pensieri. Soffermandomi, commosso e rapito, a contemplarla, schiacciai col tacco il pulsante del campanello elettrico sistemato sotto il tappeto; e li accanto, in una stan-
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zetta segreta, Jean (il mio affezionato domestico, preventivamente istruito) poté rilevare il peso della fanciulla vestita sul braccio della bilancia di cui il divano costituiva l'altra estremità. Mi gettai ai suoi piedi e le prodigai ogni possibile consolazione, carezze, baci, massaggio, ipnotismo, ecc., consolazioni tuttavia non definitive, secondo il piano delle mie ricerche. Sorvolo sui vari passaggi che mi portarono a far cadere i suoi ultimi indumenti, sempre sul divano, e a trascinarla nell'alcova dove essa dimenticò famiglia, reputazione e società. Nel frattempo Jean pesava gli abiti abbandonati sul divano, calze e stivaletti compresi, in modo da ottenere, per sottrazione, il peso netto del corpo della donna. Del resto, nella camera dove ebbra d'amore essa si abbandonava ai miei trasporti fittizi (non avevo certo del tempo da perdere), si era come in una storta. Le pareti rivestite di rame impedivano qualsiasi comunicazione con l'atmosfera, e l'aria veniva rigorosamente analizzata, prima all'entrata, poi all'uscita. Le soluzioni di potassio degli apparecchi ad ampolla rivelavano ora per ora, a una schiera di esperti chimici, la presenza quantitativa dell'acido carbonico. Ricordo a questo proposito alcuni dati curiosi, ma che mancavano della precisione necessaria alle tavole comparative, poiché il mio respiro, di non innamorato, si mescolava a quello di Virginia, innamorata vera. Basti far menzione di un certo eccesso di carbonio nel corso delle notti tumultuose, in cui la passione raggiungeva il maximum di intensità e di espressione numerica. Cartine di tornasole accortamente nascoste nelle fodere dei suoi vestiti mi hanno rivelato la reazione sempre piuttosto acida del sudore. Poi, nei giorni seguenti, nelle notti seguenti, quante cifre da registrare sull'equivalente meccanico delle contrazioni nervose, sulla quantità delle secrezioni lacrimali, sulla composizione della saliva, sulla
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variabile igroscopia dei capelli, sulla tensione dei singhiozzi inquieti e dei sospiri di voluttà! I risultati del contatore di baci sono particolarmente curiosi. Lo strumento, di mia invenzione, non è più ingombrante di quegli apparecchi che i saltimbanchi si mettono in bocca per far parlare Pulcinella, e che vanno sotto il nome di pivetta. Appena il dialogo si faceva tenero e la situazione si annunciava favorevole, mi mettevo fra i denti, di nascosto, beninteso, l'apparecchio già preparato. Fino allora avevo sempre riso di quelle espressioni tipo «mille baci», che si mettono in fondo alle lettere d'amore. Sono, mi dicevo, iperboli passate nel linguaggio comune e tratte da certi poeti di cattivo gusto, come Jean Second per esempio. Ebbene, sono lieto di poter recare una conferma sperimentale a quelle formule istintive che tanti studiosi, prima di me, avevano considerato assolutamente chimeriche. Nello spazio di un'ora e mezzo all'incirca, il mio contatore aveva registrato novecentoquarantaquattro baci. Lo strumento piazzato nella bocca m'infastidiva; ero tutto preso dalle mie ricerche, e poi le attività fittizie non eguagliano mai quelle reali. Tenuto conto di tutto questo, è chiaro che questa cifra di novecentoquarantaquattro può essere spesso superata da persone ardentemente innamorate.
Friedrich Nietzsche 1844-1900
È significativo che Nietzsche abbia attirato su di sé la vigile attenzione degli psichiatri firmando la mirabile lettera del 6 gennaio 1889, lettera in cui si può essere tentati di ravvisare il punto liricamente più alto della sua opera. L'humour non ha mai raggiunto un tal grado di intensità, e nello stesso tempo non si è mai urtato contro cosi impervi ostacoli. L'impegno tutto di Nietzsche tende in effetti a rafforzare il «Superio», come accrescimento e dilatazione dell'io (il pessimismo presentato come fonte di buona volontà, la morte come forma della libertà, l'amore sessuale come realizzazione ideale dell'unità dei termini contraddittori: «Annullarsi per riimmettersi nel divenire»). Si tratta in sostanza di restituire all'uomo tutta la potenza che egli ha saputo applicare al nome di DIO. Forse a questa temperatura l'io dovrà dissolversi («Io è un altro», dirà Rimbaud, e non si vede perché non dovrebbe trattarsi per Nietzsche di una serie «di altri», scelti secondo il capriccio dell'ora e designati per nome). È vero che l'euforia fa qui la sua apparizione: esplode a guisa di stella nera nell'enigmatico «Astù» che è il corrispettivo del «Baou!» di Rimbaud nella poesia Dévotion e prova che, a questo punto, i ponti di comunicazione sono crollati. Ma Ì ponti di comunicazione CON CHI, se si è tutti, tutti in uno solo, dalla stessa parte? «Tutte le morali - ci dice Nietzsche - sono state utili, in quanto hanno dato inizialmente alla specie una stabilità assoluta: ma una volta raggiunta questa stabilità, la meta può essere spostata più in là. Uno dei movimenti è incondizionato: il livellamento dell'umanità, i grandi formicai umani, ecc. L'altro movimento, il mio movimento, è invece l'accentuazione di ogni contrasto, di ogni abisso, l'abolizione dell'eguaglianza, la creazione di esseri onnipotenti». Si delira solo agli occhi degli altri, e le sue idee deliranti di grandezza Nietzsche le offerse solo a dei piccoli uomini.
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L E T T E R A A JACOB BURCKHARDT
6 gennaio 1889 [timbro postale: Torino, 5 gennaio 1889] Caro professore, alla fin fine preferirei moltissimo essere professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato fino al punto di omettere, per causa sua, la creazione del mondo. Lei vede, bisogna fare dei sacrifici, dovunque e comunque si viva. Ma io mi sono riservato una cameretta da studente che è posta di fronte al Palazzo Carignano (in cui sono nato col nome di Vittorio Emanuele) e inoltre permette di ascoltare dal proprio tavolo di lavoro la splendida musica che si suona sotto di me, alla Galleria Subalpina. Pago 25 frs. servizio compreso, provvedo da solo al mio tè e a tutte le compere, soffro perché ho gli stivali rotti e ringrazio il cielo ogni momento del vecchio mondo, per cui gli uomini non sono stati abbastanza semplici e tranquilli. - Dato che sono condannato a divertire la prossima eternità con cattive freddure, mi sono messo qui a scribacchiare in un modo che non lascia proprio nulla a desiderare, molto carino e nientaffatto faticoso. La posta è a cinque passi di distanza, imbuco io stesso le lettere per fare la parte del grande feuilletoniste del grand monde. Naturalmente ho stretti rapporti con il «Figaro», e affinché lei abbia un'idea di quanto posso essere innocuo, stia a sentire le mie prime due cattive freddure: Non prenda troppo sul serio il caso Prado. Io sono Prado, sono anche Prado padre, oso dire che sono anche Lesseps... Volevo dare ai miei parigini, che amo, un concetto nuovo - quello del delinquente dabbene. Sono anche Chambige - altro delinquente dabbene.
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Seconda freddura. Saluto gli Immortali. Monsieur Daudet fa parte dei Quarante. Astu. Ciò che è spiacevole e mette a dura prova la mia modestia è che in fondo io sono ogni nome della storia; anche per i figli che ho messo al mondo, le cose stanno cosi che io mi chiedo con qualche diffidenza se tutti coloro che entrano nel «Regno di Dio» non vengano anche da Dio. Quest'autunno, vestito il più scarsamente possibile, sono stato presente due volte ai miei funerali, prima come conte Robilant (— no, questi è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero io stesso. Caro professore, dovrebbe vedere questo edificio; essendo io del tutto inesperto nelle cose che creo, ogni critica spetta a Lei, io gliene sarò grato, senza poterLe promettere di trarne profitto. Noi artisti siamo incorreggibili. - Oggi mi sono visto un'operetta - genialmente moresca - , e in questa occasione ho pure constatato con piacere che adesso sia Mosca che Roma sono faccende imponenti. Vede, anche per il paesaggio non mi si contesta il talento. — Ci rifletta, faremo una bellissima chiacchierata, Torino non è distante, per il momento non ci sono seri impegni professionali, un bicchiere di vino della Valtellina si fa presto a procurarselo. La tenuta prescritta è il négligé. Con cordiale affetto, suo Nietzsche Vado dappertutto nella mia palandrana da studente, qua e là do un colpo sulla spalla a qualcuno dicendo: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura...1. Domani arriva mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che io però riceverò anche lei solo qui in maniche di camicia. 1
[In italiano nel testo].
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Il resto per la signora Cosima... Arianna... Di tanto in tanto si fanno incantesimi... Può fare di questa lettera qualsiasi uso che non mi faccia scadere nella considerazione dei basilesi. Trad, di Cesare Cases.
Isidore Ducasse conte di Lautréamont 1846-70
Bisogna ricorrere ai colori di cui si valse Lewis nel Monaco per dipingere l'apparizione dello spirito infernale sotto i lineamenti di un giovane stupendo, nudo e dalle ali cremisi, con le membra raccolte nell'orbita dei diamanti sotto un alito antico di rose, la stella impressa sulla fronte e lo sguardo segnato da una selvaggia malinconia; e a quelli cui ricorse Swinburne per poter tratteggiare l'autentico aspetto del marchese di Sade: «Nel fuoco e nel frastuono dell'epopea imperiale si vede fiammeggiare questa testa folgorata, questo ampio petto solcato dai fulmini, l'uomo-fallo, profilo augusto e cinico, smorfia di gigante orrendo e sublime; nelle sue pagine maledette corre un brivido di infinito, sulle sue labbra bruciate vibra un soffio di tempestoso ideale. Avvicinatevi e sentirete palpitare in questa carcassa di sangue e di fango le arterie dell'anima universale, le vene gonfie di sangue divino. Questa cloaca è tutta impastata di cielo...» Occorre, affermiamo, ritrovare questi colori per situare nell'atmosfera, a dir poco extraletteraria, che le si addice, la figura splendente di luce nera del conte di Lautréamont. Agli occhi di certi poeti d'oggi, i Chants de Maldoror e le Poésies scintillano di una luce senza pari; sono l'espressione di una rivelazione totale che sembra andare al di là delle possibilità umane. Tutta la vita moderna, tutto ciò che in essa vi è di specifico, viene d'un tratto a sublimarsi. La sua scena scorre sui sostegni degli antichi soli, che lasciano intravvedere il pavimento di zaffiro, il lume dall'argenteo becco, alato e sorridente, che avanza sulla Senna, le membrane verdi dello spazio e Ì negozi di rue Vivienne, preda dei raggi cristallini che sgorgano dal centro della terra. Un occhio di pura verginità scruta e sorveglia il progredire scientifico del mondo, passa oltre il carattere scientemente utilitario di questo progredire, lo situa, con tutto il resto, nella luce stessa dell'apocalisse. Apocalisse definitiva quest'opera in cui si smarriscono e si esaltano i grandi impulsi istintivi a contatto d'una gabbia d'amianto in cui
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è rinchiuso un cuore al calor bianco. Tutti i pensieri e le azioni più audaci che si compiranno nei secoli, hanno trovato qui una formulazione preliminare nella loro legge magica. I l verbo, non più lo stile, subisce con Lautréamont una crisi fondamentale, segna il momento di un reinizio. Ecco liquidati i limiti che costringevano i rapporti tra parola e parola, tra cosa e cosa. Un principio di perpetua mutazione si è impadronito degli oggetti come delle idee, e tende alla loro totale liberazione, implicante quella dell'uomo. A questo riguardo, il linguaggio di Lautréamont è insieme un solvente e un plasma creativo senza eguali. A proposito di tale opera sono state impiegate, cioè riprese, parole come follia, prova per assurdo, macchina infernale: ciò dimostra soltanto che ogni volta che la critica le si è avvicinata ha dovuto presto o tardi desistere dal suo scopo. Il fatto è che, rapportata alla scala umana, quest'opera, che è il luogo stesso di tutte le interferenze mentali, costringe la sensibilità a un clima tropicale. Léon Pierre-Quint, nel suo lucidissimo studio Le comte de Lautréamont et Dieu ha tuttavia individuato alcuni dei caratteri più cocenti di questo messaggio, che può essere ricevuto solo con guanti di fuoco: i ) poiché il «male», per Lautréamont (come per Hegel) è la forma in cui si presenta la forza motrice dello sviluppo storico, è necessario rafforzarlo nella sua ragion d'essere, e questo può essere fatto nel modo migliore solo radicandolo nei desideri proibiti, inerenti all'attività sessuale primitiva, come si manifestano in modo particolare nel sadismo; 2) l'ispirazione poetica, in Lautréamont, si presenta come il risultato della rottura tra il buon senso e l'immaginazione, rottura consumata per lo più a favore di quest'ultima e ottenuta grazie all'accelerazione volontaria e vertiginosa del flusso verbale (Lautréamont parla dello «sviluppo estremamente rapido» delle sue frasi: è noto che dall'organizzazione sistematica di questo modo d'espressione prende le mosse il surrealismo); 3) la rivolta di Maldoror non sarebbe in modo definitivo la Rivolta se dovesse risparmiare una forma di pensiero a spese di un'altra; è dunque necessario che, con le Poésies, essa sprofondi nel suo proprio gioco dialettico. Il flagrante contrasto offerto, dal punto di vista morale, da queste due opere, non ha bisogno di altre spiegazioni. Ma se si va oltre e si cerca ciò che può costituire la loro unità, la loro identità dal punto di vista psicologico, si scoprirà che questa è fondata anzitutto sull'humour: le varie operazioni che derivano dall'abdicare del pensiero logico e del pensiero morale, poi dei due nuovi pensieri definiti per opposizione a questi ultimi, non ammettono in definitiva altri fattori comuni: rilancio oltre l'evidenza, richiamo al caos
isidore ducasse 143 delle similitudini più ardite, affossamento del solenne, montaggio a rovescio, o di traverso, dei «pensieri» o massime celebri, ecc.: tutto ciò che a questo riguardo l'analisi rivela circa i procedimenti in gioco, cede in interesse alla rappresentazione infallibile che Lautréamont ci ha indotto a farci dell'humour quale egli lo prospetta, dell'humour che giunge con lui alla sua suprema potenza e ci sottomette fisicamente, nel modo più totale, alla sua legge.
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Due pilastri, che non era difficile e ancor meno impossibile prendere per baobab, si scorgevano nella vallata, più grandi di due spilli. Infatti, erano due torri enormi. E, benché due baobab, a prima vista, non somiglino a due spilli, e nemmeno a due torri, tuttavia, ricorrendo abilmente alle astuzie della prudenza, si può affermare, senza timore d'aver torto (invero, se quest'affermazione fosse accompagnata da una sola particella di timore, non sarebbe più un'affermazione; per quanto un medesimo nome esprima questi due fenomeni dell'anima, che presentano caratteri abbastanza netti da non esser confusi alla leggera), che un baobab non è tanto diverso da un pilastro da vietare il paragone fra due forme architettoniche... o geometriche... o luna e l'altra... o né luna né l'altra... o piuttosto forme alte e massicce. Ho trovato dunque, non pretendo di dire il contrario, gli epiteti adatti ai sostantivi pilastro e baobab: si sappia bene, lo voglio, che non è senza una gioia frammista d'orgoglio ch'io lo faccio notare a coloro che, levate le palpebre, hanno preso la lodevolissima risoluzione di scorrere queste pagine, mentre la candela arde, se è notte, mentre il sole rischiara, se è giorno. E inoltre, quand'anche una potenza superiore ci ordinasse, nei termini più chiaramente precisi, di respingere negli abissi del caos il giudizioso paragone che ognuno ha certamente potuto as-
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saporare impunemente, anche allora, e anzi soprattutto allora, non si perda di vista questo assioma principale, le abitudini contratte con gli anni, i libri, i contatti coi propri simili, e, inerente a tutti, il carattere che si sviluppa in rapida efflorescenza, imporrebbero allo spirito umano l'irreparabile stimmata della recidiva, nell'uso criminale (criminale, se ci si mette momentaneamente e spontaneamente dal punto di vista della potenza superiore) d'una figura retorica che parecchi disprezzano, ma che molti incensano. Se il lettore trova questa frase troppo lunga, accetti le mie scuse, ma non s'aspetti bassezze da parte mia. Posso confessare le mie colpe; ma non renderle più gravi con la viltà. I miei ragionamenti urteranno talvolta contro i sonagli della pazzia e la seria apparenza di ciò che in fin dei conti è soltanto grottesco (benché, secondo alcuni filosofi, sia abbastanza difficile distinguere il buffo dal melanconico, essendo la vita stessa un dramma comico o una commedia drammatica); e tuttavia, è lecito a chiunque uccidere mosche e anche rinoceronti, per riposarsi ogni tanto da un lavoro troppo arduo. Per uccidere mosche, ecco il modo più sbrigativo, benché non sia il migliore: si schiacciano fra le due prime dita della mano. La maggior parte degli scrittori che hanno trattato a fondo questo argomento ha calcolato, con grande verisimiglianza, che è preferibile, in parecchi casi, tagliar loro la testa. Se qualcuno mi rimprovera di parlare di spilli, come d'un argomento radicalmente frivolo, costui noti senza preconcetti che gli effetti più grandi spesso sono stati prodotti dalle più piccole cagioni. E, per non scostarmi di più dal quadro di questo foglio di carta, non è chiaro che il laborioso brano di letteratura che sto componendo dall'inizio di questa strofa, sarebbe forse meno apprezzato se prendesse lo spunto da uno spinoso problema di chimica o di patologia interna? Del resto, tutti i gusti sono naturali; e quando, all'inizio, ho paragonato i pilastri agli spilli con tanta esattezza (non pensavo certo che un giorno qualcuno sarebbe venuto a
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rimproverarmelo), mi sono basato sulle leggi dell'ottica, le quali hanno stabilito che, più il raggio visivo è lontano da un oggetto, più l'immagine si riflette diminuita nella retina. Cosi, ciò che l'inclinazione del nostro spirito alla burla prende per una miserabile spiritosaggine, è, per lo più, nel pensiero dell'autore, solo un'importante verità proclamata con maestà! Oh! quell'insensato filosofo che scoppiò in una risata vedendo un asino mangiare un fico! Non invento nulla: i libri antichi hanno raccontato con i particolari più ampi questa volontaria e vergognosa abdicazione dell'umana nobiltà. Non so ridere, io. Non ho mai potuto ridere, per quanto abbia tentato più volte di farlo. È molto difficile imparare a ridere. O, piuttosto, credo che un senso di repugnanza nei riguardi di questa mostruosità sia il segno essenziale del mio carattere. Ebbene, io sono stato testimone di qualcosa di più straordinario, ho visto un fico mangiare un asino! Eppure, non ho riso; francamente, nessuna parte della mia bocca s'è mossa. Il bisogno di piangere s'impadronì di me con tanta forza, che i miei occhi lasciarono cadere una lacrima. - Natura! Natura! - esclamai singhiozzando, - lo sparviero dilania il passero, il fico mangia l'asino, e la tenia divora l'uomo! Senza prendere la decisione di procedere oltre, mi chiedo se ho parlato del modo in cui s'uccidono le mosche. Si, non è vero? Ed è altrettanto vero che non avevo parlato della distruzione dei rinoceronti! Se certi amici volessero pretendere il contrario, io non darei loro retta, e mi ricorderei che la lode e la lusinga sono due grandi pietre d'inciampo. Eppure, per soddisfare il più possibile la mia coscienza, non posso impedirmi di far notare che questa dissertazione sul rinoceronte mi porterebbe oltre le frontiere della pazienza e del sangue freddo, e, da parte sua, scoraggerebbe probabilmente (abbiamo, anzi, il coraggio di dire certamente) le generazioni presenti. Non aver parlato del rinoceronte dopo la mosca! Come scusa passabile, avrei al-
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meno dovuto menzionare prontamente (e non l'ho fatto!) quest'omissione non premeditata, che non stupirà chi abbia studiato a fondo le contraddizioni reali e inspiegabili che risiedono nei lobi del cervello umano. Nulla è indegno per un'intelligenza grande e semplice; il più piccolo fenomeno della natura, se c'è in esso mistero, diverrà, per il saggio, inesauribile argomento di riflessione. Se qualcuno vede un asino mangiare un fico o un fico mangiare un asino (queste due circostanze non si presentano spesso, tranne in poesia), siate sicuri che, dopo aver riflettuto due o tre minuti per sapere quale comportamento adottare, abbandonerà il sentiero della virtù e si metterà a ridere come un gallo! Fra l'altro, non è stato ancora dimostrato con esattezza che i galli aprono apposta il becco per imitare l'uomo e fare una smorfia tormentata. Chiamo smorfia nei volatili ciò che ha il medesimo nome nell'umanità! Il gallo non esce dalla sua natura, meno per incapacità che per orgoglio. Insegnate loro a leggere, e si ribellano. Un pappagallo, sicuramente, non si estasierebbe cosi davanti alla sua debolezza, ignara o imperdonabile! Oh! avvilimento esecrabile! Come somigliamo a una capra quando ridiamo! La quiete della fronte è scomparsa per far posto a due enormi occhi di pesce che (non è deplorevole?)... che... che si mettono a brillare come fari! Spesso, m'accadrà d'enunciare solennemente le proposizioni più buffonesche; io non trovo che ciò sia un motivo perentoriamente sufficiente per allargare la bocca! Non posso impedirmi di ridere, mi risponderete voi; accetto quest'assurda spiegazione, ma allora, sia un riso malinconico. Ridete, ma nello stesso tempo piangete. Se non potete piangere con gli occhi, piangete con la bocca. Se è ancora impossibile, urinate; ma v'avverto che un liquido qualsiasi è, in questo caso, necessario per attenuare l'aridità che il riso, dai tratti spaccati ali'indietro, si porta nei fianchi. In quanto a me, non mi lascerò sconcertare dal ridicolo chioccare e dagli originali muggiti di quelli che trovano sempre qual-
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cosa da ridire in un carattere che non somiglia al loro, perché esso è una delle innumerevoli modificazioni intellettuali che Dio, senza scostarsi da un tipo primordiale, creò per governare le ossee carcasse. Fino ai tempi nostri, la poesia ha battuto una strada falsa; innalzandosi fino al cielo, o strisciando fino a terra, ha misconosciuto i principi della propria esistenza, ed è stata, non senza ragione, costantemente dileggiata dalla gente per bene. Non ha avuto modestia... la qualità più bella che debba esistere in un essere imperfetto! Voglio mostrare le mie qualità, io; ma non sono abbastanza ipocrita per nascondere i miei vizi! Il riso, il male, l'orgoglio, la pazzia, faranno la loro apparizione, a volta a volta, fra la sensibilità e l'amore della giustizia, e serviranno d'esempio alla stupefazione umana; ognuno vi si riconoscerà, non quale dovrebbe essere, ma quale è. E, forse, questo semplice ideale, concepito dalla mia immaginazione, sorpasserà tuttavia tutto ciò che la poesia ha trovato finora di più grandioso e di più sacro. Infatti, se lascio trasparire i miei vizi in queste pagine, si crederà ancor più alle virtù che vi faccio rifulgere, la cui aureola sarà posta da me tanto in alto che i più grandi geni dell'avvenire testimonieranno per me una sincera gratitudine. Cosi, l'ipocrisia sarà dunque decisamente scacciata dalla mia dimora. Vi sarà, nei miei canti, un'imponente prova di potenza, se in essi disprezzo in tal modo le opinioni bell'e fatte. Egli canta solo per sé, e non per i suoi simili. Non pone la misura della sua ispirazione sulla bilancia umana. Libero come la tempesta, è venuto ad incagliarsi, un giorno, sulle spiagge indomabili della sua terribile volontà! Non teme nulla, tranne se stesso! Nei suoi combattimenti sovrannaturali, attaccherà l'uomo e il Creatore, e avrà la meglio, come quando il pesce spada affonda il suo brando nel ventre della balena: sia maledetto dai suoi figli e dalla mia mano scarna, chi persiste nel non capire gli spietati canguri del riso e gli audaci pidocchi della caricatura!... Si scorgevano due torri enor-
6148a n t o l o g i a DELLO h u m o u r nero mi nella vallata; l'ho detto all'inizio. Moltiplicandole per due, il prodotto era quattro... ma non afferrai molto bene la necessità di quest'operazione aritmetica. Proseguii per la mia strada, col volto febbricitante, e di continuo esclamavo: - No... no... non afferro molto bene la necessità di quest'operazione aritmetica! - Avevo udito uno strider di catene, e gemiti dolorosi. Nessuno ritenga possibile, quando passerà in quel luogo, moltiplicare le torri per due, perché il prodotto sia quattro! Alcuni sospettano ch'io ami l'umanità come se fossi una madre e l'avessi portata nove mesi nei miei fianchi profumati; è per questo che non ripasso più nella vallata dove s'innalzano le due unità del moltiplicando!
Prima d'entrare in argomento, trovo stupido che sia necessario (penso che tutti non saranno del mio parere, se mi sbaglio) ch'io ponga accanto a me un calamaio aperto, e qualche foglietto di carta non pesta. In tal modo, mi sarà possibile cominciare con amore, in questo sesto canto, la serie delle poesie istruttive che sono impaziente di produrre. Drammatici episodi di spietata utilità! Il nostro eroe s'accorse che, frequentando le caverne, e prendendo a rifugio i luoghi inaccessibili, trasgrediva le regole della logica, o compiva un circolo vizioso. Ché, se, da un lato, egli favoriva cosi la propria repugnanza per gli uomini, grazie al compenso della solitudine e della lontananza, e circoscriveva passivamente il proprio limitato orizzonte, fra arbusti intristiti, rovi e lambrusche, dall'altro, la sua attività non trovava più nessun alimento per nutrire il minotauro dei suoi istinti perversi. Di conseguenza, egli decise di riavvicinarsi agli agglomerati umani, persuaso che fra tante vittime già bell'e pronte, le sue varie passioni avrebbero trovato ampiamente di che soddisfarsi. Sapeva che la polizia, scudo della civiltà, lo ricercava con perseveranza, da molti anni, e che un vero e proprio esercito d'a-
isidore ducasse 149 genti e di spie gli stava di continuo alle calcagna. Senza tuttavia riuscire a incontrarlo. Tanto la sua sbalorditiva abilità sventava, con suprema eleganza, le insidie più indiscutibili dal punto di vista del loro successo, e le disposizioni della più sapiente meditazione. Aveva una facoltà speciale per assumere forme irriconoscibili agli occhi più esperti. Travestimenti superiori, se parlo da artista! Fogge ridicole, e d'effetto realmente mediocre, quando penso alla morale. In questo, egli sfiorava quasi la genialità. Non avete notato la gracilità d'un bel grillo, dai movimenti vivaci, nelle fogne parigine? Non c'è che quello: era Maldoror! Magnetizzando le capitali fiorenti con un fluido pernicioso, egli le porta a uno stato letargico in cui sono incapaci di sorvegliarsi come dovrebbero. Stato tanto più pericoloso in quanto insospettato. Oggi è a Madrid; domani sarà a Pietroburgo; ieri, si trovava a Pechino. Ma affermare esattamente il luogo attualmente terrorizzato dalle imprese di questo poetico Rocambole, è lavoro che supera le forze possibili del mio opaco raziocinio. Quel bandito è, forse, a settecento leghe da questo paese; forse, è a un passo da voi. Non è facile far perire interamente gli uomini, e ci son leggi; ma si può, con pazienza, sterminare a una a una le formiche umanitarie. Orbene, dai giorni in cui sono nato, quando vivevo coi primi avi della nostra razza, ancora inesperto nel tendere i miei agguati; dai tempi remoti, situati al di là della storia, in cui, sottilmente metamorfosato, io devastavo, in epoche varie, le contrade del globo con le conquiste e la carneficina, e seminavo la guerra civile fra i cittadini, non ho già schiacciato sotto i miei talloni, membro per membro o collettivamente, intere generazioni, di cui non sarebbe difficile concepire l'innumerevole cifra? Il passato radioso ha fatto brillanti promesse all'avvenire: le manterrà. Per ripulire le mie frasi, impiegherò per forza il metodo naturale, regredendo fino ai selvaggi, perché mi diano lezioni. Gentlemen semplici e maestosi, la loro bocca graziosa nobilita tutto ciò che co-
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la dalle loro labbra tatuate. Ho appena provato che nulla è risibile su questo pianeta. Comico pianeta, ma splendido. Impossessandomi d'uno stile che alcuni giudicheranno ingenuo (invece è molto profondo), io me ne servirò per interpretare idee che, purtroppo, forse non sembreranno grandiose! Con ciò stesso, spogliandomi dei modi leggeri e scettici della conversazione corrente, e abbastanza prudente per non assumere pose... non so più quel che avevo intenzione di dire, giacché non ricordo l'inizio della frase. Ma sappiate che la poesia si trova dovunque non sia il sorriso, stupidamente sarcastico, dell'uomo dalla faccia di papera. Prima di tutto, mi soffierò il naso, perché ne ho bisogno; e poi, potentemente aiutato dalla mia mano, riprenderò la penna che le mie dita avevano lasciato cadere. Come ha potuto serbare la costanza della sua neutralità, il ponte del Carrousel, quand'ha udito le grida laceranti che il sacco pareva cacciare?
LETTERA
22 maggio 1869 Egregio signore, Proprio ieri ho ricevuto la sua lettera che porta la data del 2 i maggio; era la sua. Ebbene, sappia che purtroppo non posso lasciar passare cosi l'occasione di farle le mie scuse. Ecco perché: se lei m'avesse annunciato l'altro giorno, ignaro di ciò che può accadere di spiacevole nelle circostanze in cui è posta la mia persona, che i fondi stavano esaurendosi, io mi sarei ben guardato dal toccarli; ma, certamente, avrei provato tanta gioia a non scrivere queste tre lettere quanta lei ne avrebbe provato a non leggerle. Lei ha posto in vigore il deplorevole sistema di diffidenza
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vagamente prescritto dalla bizzarria di mio padre; ma ha indovinato che il mio mal di testa non m'impedisce di considerare con attenzione la difficile situazione in cui l'ha posto sinora un foglio di carta da lettera giunto dall'America del Sud, il cui principale difetto era la mancanza di chiarezza; io non prendo infatti in considerazione la sgarbatezza di alcune melanconiche osservazioni, facilmente perdonabili in un vecchio, che mi sono sembrate, a prima lettura, aver avuto l'aria d'imporle, forse in avvenire, la necessità d'uscire dalla sua precisa funzione di banchiere, nei riguardi d'un signore che viene a stare nella capitale... ... Mi scusi, egregio signore, ho una preghiera da rivolgerle: se mio padre mandasse altri fondi prima del primo settembre, epoca in cui il mio corpo farà un'apparizione dinanzi alla porta della sua banca, potrà avere la gentilezza di farmelo sapere? Del resto, io sono in casa a qualsiasi ora del giorno; ma basterebbe che lei mi scrivesse due righe, ed è probabile che allora io le riceverei quasi nel medesimo tempo della signorina che tira il cordone, oppure molto prima, se mi capita d'essere nel vestibolo... ...E tutto ciò, ripeto, per un'insignificante quisquiglia formale! Presentare dieci unghie secche invece di cinque, che grossa faccenda: dopo averci pensato sopra a lungo, confesso che m'è sembrata colma d'una notevole quantità d'importanza zero...
Trad, di Ivos Margoni, Einaudi, Torino 1967.
Joris-Karl Huysmans 1848-1907
«Questo scrittore - dice di se stesso Huysmans, in una presunta intervista apparsa sotto la firma di A. Meunier ma in realtà redatta interamente da lui - è un inesplicabile amalgama di un parigino raffinato e di un pittore olandese. È proprio questa fusione, cui si può ancora aggiungere un pizzico di humour nero e di ruvida comicità inglese, che dà l'impronta alle opere di cui ora ci occupiamo» (si trattava in quella circostanza delle sue prime opere, fino a A rebours incluso). Questo tipo di humour, che nella frase citata viene raccomandato come se si trattasse di una spezia, sembra essere per Huysmans, almeno fino al 1892, data in cui appare En route e cessa il nostro interesse per lui, la condizione stessa per conservare l'appetito mentale. Il suo eccedere nei colori cupi, la sua abituale esasperazione, al di là di un certo punto critico, delle situazioni abbiette, la prefigurazione minuziosa, insistita, delle delusioni che ogni specie di scelta, sia pure nelle alternative più banali, comporta ai suoi occhi, lo portano al risultato paradossale di liberare in noi il principio del piacere. La realtà esteriore, presentata sistematicamente sotto il suo aspetto più meschino, aggressivo e oltraggioso, impone al lettore di Huysmans il compito costante di ricostruire la propria energia vitale, insidiata dal cumulo dei fastidi quotidiani, che gli vengono resi d'un tratto insopportabilmente evidenti. La grande originalità dell'autore di En ménage consiste nel fatto che egli sembra rinunciare, per se stesso, ai piaceri dell'umorismo, come a esclusivo beneficio dei lettori, e di non scostarsi mai, per parte sua, da un atteggiamento di spossatezza e di prostrazione che ci lascia in qualsiasi momento l'illusione di essere su di lui avvantaggiati. SÌ tratta di una precisa intenzione, di un ponderato metodo terapeutico, di un 'astuzia, destinata a farci superare la nostra propria miseria. « E - si legge in En ménage - le sere in cui tetri umori lo angustiavano, si ritirava di buon'ora, andava su e giù davanti alla sua biblioteca, cercando un libro che si
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IN F A M I G L I A
Aveva fame. La stanchezza e il cammino avevano come smussato la sua pena. Era quasi di buon umore quando scorse una bettola, con una vetrina dietro la quale marciva un melone cresciuto nell'alcool. Delle file di bottiglie con le loro capsule di piombo e delle stelle accese sul ventre formavano un semicerchio, che racchiudeva due strati di formaggini acciaccati, dei piattini di lesso freddo in salsa verde, certi stufati alle rape rappresi e dei dolci mezzo bruciacchiati, sommersi in una loro melma giallastra. Un rimasuglio di riso al latte tremolava in una gamella
6154a n t o l o g i a d e l l o h u m o u r nero di ferro; un'antipastiera traboccava di uova violacee, e la carcassa color cinabro slavato di un coniglio, aperto sopra un piatto, esibiva, con le quattro zampe in aria, il rossiccio vischioso del suo fegato. Un muro di tazze incastrate Funa nell'altra, e una torre di piattini dal bordo blu troneggiavano di fronte ai riquadri della vetrina, dietro a un vecchio boccale di prugne sotto spirito, colmo d'acqua, dove si maceravano i gambi di un mazzo di gladioli afflosciati. André si sedette a un tavolo vuoto. Mentre aspettava che gli portassero la minestra diede un'occhiata alla sala. Era una stanza assai grande, decorata con becchi a gas e paralumi verdi, con una stufa di ghisa, un banco di falso mogano dipinto, con le sue venature, sul quale posavano un vaso di vetro blu colmo di fiori, una piramide di misurini di stagno, una cassetta di nichel, e un calamaio. Dietro il mobile, alcuni scaffali con bottiglie già incominciate, una teiera di porcellana, tazze bianche con tre piedi e il manico scarlatti, su cui spiccava un monogramma dorato sporco e sbiadito. Uno specchio incastrato nella scaffalatura rifletteva la parte superiore del mazzo di fiori, in disfacimento nel vaso blu, lo zigzagare del tubo della stufa, tre attaccapanni vuoti appesi al muro, la fodera lisa di un cappotto, il luccicume di un cappello bisunto. Su una piccola tavola, in un angolo, un formaggio di Borgogna mezzo sbocconcellato si sbriciolava sotto l'attacco di un nugolo di mosche; vicino agli scaffali dove si pigiavano un mucchio di tovaglioli muniti dei loro anelli, una madia era stipata di pagnotte gracili e molli, che arrivavano quasi a toccare una gabbietta appesa al soffitto. Questa gabbia era vuota a causa di un decesso, e l'abitava un osso di seppia, sospeso all'estremità di un filo. Il locale era una via di mezzo tra una locanda di campagna e una latteria della Parigi povera. Il padrone, in maniche di camicia, con lo stomaco prominente come una gobba e il naso all'insu, ciondolava qua e là, col suo tova-
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gliolo sul braccio, trascinando in una melma di sputi e segatura un paio di pantofole tappezzate di figure del domino e carte da gioco. Rumori di vasellame e di pentole, misti al canto del fritto e al lamento del burro rosolato, si sprigionavano dalla porta continuamente sbattuta della cucina. A tratti giungeva lo sfrigolio furioso della carne «saltata» sulla stufa e di qualche bistecca che spremeva il suo sugo sulla griglia, accompagnato da improvvisi vapori rossi e da fetidi fumi azzurrini. A ogni istante si udivano sorde dispute, e le secche ingiunzioni dei padroni ai domestici storditi. Una cameriera gracile, pallida, dall'aria dolorante e stolida, barcollava qua e là, minata da inarrestabili perdite bianche. Un'altra faceva la spola tra la cucina e il servizio rimorchiando come una sonnambula pile di piatti, senza dar segno di rendersi conto dell'importanza del compito affidatole. André cominciava a spazientirsi; stava sempre aspettando la sua minestra. Era stufo di guardare la gente che lo circondava; si conoscevano tutti; era finito in una specie di pensione familiare, in una greppia dove uno strano mondo veniva a rimpinzarsi. Vi erano dei gruppetti discreti, che parlavano a voce bassa, soffocando le risate nei tovaglioli; ve n'erano altri di chiacchieroni, che vomitavano ad alta voce facezie grossolane, accaparrandosi l'attenzione generale con i loro scherzi. Il padrone, in grande familiarità con i suoi clienti, ridacchiava, sbraitando: Ah! questa si che è buona! poi, subito ricomposto, gridava: un fricandò al sugo, un filetto salsa pomodoro, uno! André inghiottiva i vermicelli che si erano infine decisi a servirgli. Alla sua sinistra, due comari si davano da fare intorno a un piatto di trippe, poi attingevano a una tabacchiera vuotando un bicchiere dopo l'altro. Con i gomiti appoggiati sulla tavola, si facevano a vicenda mille salame-
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lecchi per una cucchiaiata di salsa, chiacchieravano da buone massaie, sparlavano di una vicina; compiangevano la loro portinaia cui si era enfiato il ventre per aver mangiato troppe cozze. André cominciava a sentirsi meglio, ma un gruppo di avventori piazzato vicino alla stufa faceva tanto chiasso da annullare il brusio generale. Teneva banco un parrucchiere, proclamando verità di questo calibro: - Quando si han dei soldi, son tutti li a cavarsi il cappello; ma senza quelli, quando uno, come me, mette tutto il suo malloppo in fondi che non rendono, ecco che ti cantano: «Maria, inzuppa il pane, Maria, inzuppa il pane». D'altronde, tutte le volte che ho comperato delle azioni, ribassavano il giorno dopo; non saprei farne a meno però, ho bisogno di emozioni, io. I suoi compari erano estasiati, gli versavano da bere, e lui, con gli occhi stralunati, con quell'aria di imbecillità trionfante, ricominciava: - A me il sesso piace; per poterne fare a meno dovrei essere come il merlo che, una volta nati i piccoli, fischia - ; e, alludendo al suo mestiere con un gioco di parole, aggiungeva: — Ma non sarei mica un merlo vivace, sarei un merlo lento Esplosioni di gioia, incomprensibili esultanze salutarono questa bordata di scemenze. André non vedeva l'ora di prendere il cappello e scapparsene via, ma il servizio era lento. Aveva sbocconcellato la metà di un roastbeef durissimo, lasciando il resto nel piatto; ora voleva un'insalata che non arrivava mai. Domandò al padrone che ridacchiava stupidamente se aveva un giornale. «Il Siècle» era in lettura, e gli portarono Les petites affiches. Cercò allora di immergersi nella lettura, di isolarsi dall'allegria degli altri tavoli, di tapparsi le orec1
[Gioco di parole tra merle lent (merlo lento) e merlati (merluzzo). Quest'ultimo era, nel X V I I I e xix secolo, un nomignolo spregiativo dato ai parrucchieri che, incipriati com'erano, rassomigliavano al merluzzo fritto cosparso di farina].
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chie per non udire il cicaleccio stridente di tutti quegli imbecilli; ma non poteva fare a meno di sentirli. Si costrinse a leggere tre pagine del giornale, e si fermò a un annuncio che offriva, come occasione superba, in seguito a una liquidazione familiare, una dote di diciottomila franchi e un'orfana; rimase pensieroso. La parola urgente che figurava tra parentesi sotto l'annuncio, gli suggeriva una prospettiva infinita di miserie. Vi si potevano intuire rapide successioni di parti, ventri che si gonfiavano dopo un mese di matrimonio. Pensò alle prove amare cui andava incontro l'onesto babbeo che si sarebbe lasciato accalappiare. Aveva buone probabilità di sposare una vergine abituata a ogni turpitudine fin dalla più tenera età! E pensava: è già difficile non essere presi in giro quando uno conosce la famiglia e ha frequentato per mesi la fidanzata. Chi avrebbe mai potuto credere che sua moglie, ad esempio, l'avrebbe tradito? Una volta ancora, era ritornato al punto di partenza dei suoi pensieri, alle miserie della sua vita familiare. Volle a ogni costo cacciare via questi ricordi. Si costringeva adesso a guardare i suoi vicini, ad ascoltarli. Un'acuta voce in falsetto gli trapanava le orecchie. Non si era accorto che il parrucchiere se n'era andato. Ora, al suo posto, era seduto un signore con una barba rossa e un paio di occhiali d'oro inforcati sul naso, e stava spiegando i misteri della dentatura a un giovanotto che l'ascoltava devotamente a occhi sbarrati, certo ansioso di sistemarsi in quella professione. - 1 guadagni più facili, - diceva il signore, - sono quando si mettono i denti finti. Si fabbricano in Inghilterra, e li vendono al passage Choiseul. C'è un bel guadagno, sa, può farli pagare dieci franchi l'uno, e costano dieci soldi senza gengiva in caucciù, e un franco con la gengiva. - Ce ne sono di rosa e di scure, vero? - interruppe timidamente il giovane. - Io preferisco quelle rosa. - Guarda un po'! Mica stupido lui! Quelle scure, sono
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le gengive dei poveri! Costano meno care, ma se ne vendono di più, - riprese l'altro. Il giovane adepto se ne stava a bocca spalancata dallo stupore. - E le dentiere d'ippopotamo? - azzardò. L'uomo dagli occhiali d'oro alzò le braccia al cielo. Quella è scultura! Pensi un po', bisogna intagliare il dente nell'avorio, mettere delle montature d'oro, costa una cifra pazzesca! - e continuava a spiegare i maneggi del suo mestiere, confessava di praticare operazioni inutili sulle radici dei suoi malati, e di approfittare dello stordimento causato dal dolore per vendere i suoi dentifrici a caro prezzo. André pensò che ne aveva abbastanza di tali squallide rivelazioni. Aveva finito l'insalata. Insistè accanitamente per avere il conto, rifiutò la frutta, pagò un franco e quaranta; stava aprendo la porta per andarsene, mentre dal fondo della sala, dove alcune persone si attardavano davanti a un bicchiere, una voce diceva semplicemente, in tono convinto: — Le donne, non sono poi un gran che! André chiuse la porta, pensando con una certa melanconia che, tra tutte le insulse chiacchiere che aveva udito, quel pensiero era forse l'unico profondo, l'unico vero.
IN R A D A
Un articolo lo colpi e lo indusse a lunghe fantasticherie. Che magnifica cosa, si disse, la scienza! Ecco che il professor Selmi, di Bologna, scopre nella putrefazione dei cadaveri un alcaloide, la ptomaina, che si presenta allo stato di olio incolore, e spande un lento ma tenace sentore di
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biancospino, di muschio, di gelsomino, di fior d'arancio e di rosa. Solo questi profumi, finora, si son potuti trarre da questi succhi di un'economia marcescente, ma altri ancora senza dubbio ne verranno; nell'attesa, per soddisfare le richieste di un secolo cosi pratico che, a Ivry, seppellisce la povera gente a macchina, e che utilizza tutto, dai liquidi residui ai fondi di tinozza, dalle budella delle carogne alle vecchie ossa, si potrebbero trasformare i cimiteri in stabilimenti per fornire su richiesta, a uso delle famiglie ricche, estratti di antenati, essenze di figlioli, aromi di genitori. Sarebbe quello che nel commercio viene chiamato «articolo di lusso»; ma, per soddisfare i bisogni delle classi lavoratrici, che non si devono assolutamente trascurare, perché non affiancare a questi laboratori specializzati potenti officine per la fabbricazione di profumi all'ingrosso? Si potrebbe distillare con i resti della fossa comune, che nessuno viene a reclamare; l'arte della profumeria sarebbe impostata su nuove basi, alla portata di tutti, e l'articolo comune, la profumeria da grande magazzino, potrebbe essere venduto a buon mercato, data l'abbondanza della materia prima e il suo basso costo, che consisterebbe, per cosi dire, solo nelle spese di manodopera degli esumatori e dei chimici. Ah! quante donne del popolo conosco che sarebbero ben liete di poter acquistare per pochi soldi interi barattoli di brillantina, oppure pani di sapone, all'essenza di proletario! E poi, quale continuo alimento per i ricordi, quale eterna freschezza di memoria, non si otterrebbero da queste emanazioni sublimate di morti! Ai giorni nostri, quando muore uno di due esseri che si amarono, l'altro può solo serbare la sua fotografia e visitarne la tomba il giorno dei Morti. Grazie all'invenzione delle ptomaine, sarà ormai possibile tenere presso di sé la donna adorata, mettersela
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perfino in tasca, allo stato volatile e spirituale, tramutare la beneamata in un flacone di sali, condensarla in un succo, conservarla sotto forma di cipria in un sacchetto ricamato con un dolente epitaffio, respirarla nei giorni di angoscia e fiutarla nei giorni felici, su un fazzoletto. Senza contare che, dal punto di vista delle facezie carnali, saremmo forse finalmente dispensati dall'udire, nell'attimo cruciale, l'immancabile «appello alla madre», dal momento che la degna signora potrebbe assistere alla scena e posare sul seno della figliola sotto forma di un neo finto o mescolata al belletto quando questa cade in deliquio e la chiama in suo aiuto proprio perché è ben sicura che essa non può venire. Le ptomaine, che oggi sono ancora dei temibili tossici, potranno con l'aiuto del progresso essere in futuro ingerite senza pericolo alcuno; e allora perché non arricchire con le loro essenze l'aroma di certe vivande? perché non usare quest'olio odoroso, come ci si serve della cannella e della mandorla, della vaniglia e del garofano, per rendere più squisita la pasta di certi dolci? cosi come per la profumeria, una nuova strada insieme economica e cordiale si aprirebbe anche per l'arte del pasticciere e del confettiere. Infine, gli augusti vincoli della famiglia, che in questi tempi gretti e irrispettosi vanno allentandosi e rilassandosi, potrebbero certamente risultare rinsaldati per effetto delle ptomaine. Grazie ad esse, si avrebbe come un rinserrarsi freddoloso degli affetti, un fianco a fianco di tenerezza sempre viva. Esse creerebbero di continuo le circostanze propizie per richiamare alla memoria la vita dei defunti e per citarla a esempio ai fanciulli, che, nella loro golosità, ne manterrebbero un ricordo perfettamente lucido. La sera del giorno dei Morti, la famiglia è seduta nella piccola sala da pranzo ammobiliata con una credenza di legno chiaro a fregi scuri, sotto la luce della lampada che il paralume riflette sulla tavola. La madre è una brava donna, il padre è cassiere in una ditta commerciale o in una banca,
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il bambino, ancora piccolo, ha appena superato la crosta lattea e la tosse asinina; domato dalla minaccia di restare senza dolce, il moccioso ha finalmente consentito a non sbattere il cucchiaio nella minestra e a mangiare la carne con un po' di pane. Immobile, guarda i genitori assorti e silenziosi. Entra la domestica, portando una crema alle ptomaine. Quella stessa mattina, la madre ha aperto la scrivania impero, di mogano, ornata di una serratura a forma di trifoglio, e ne ha rispettosamente estratto la fiala dal tappo smerigliato che contiene il prezioso liquido ricavato dalle viscere decomposte del nonno. Con un contagocce, ha versato con le sue stesse mani qualche lacrima di quel profumo che adesso dà il suo aroma alla crema. Gli occhi del bimbo brillano; ma, prima di essere servito, deve ascoltare l'elogio del vegliardo, che probabilmente gli ha lasciato in eredità, insieme a certi tratti della sua fisionomia, quel gusto postumo di rosa che tra poco potrà assaporare. - Ah! era un uomo di buon senso, un uomo coraggioso e saggio, il nonno Jules! Era arrivato a Parigi con gli zoccoli ai piedi, e sempre ha messo da parte qualcosa, perfino quando guadagnava solo cento franchi al mese. Non era certo il tipo da prestare soldi senza interesse e senza garanzie! mica cosi stupido; gli affari prima di tutto, niente per niente; e poi, come rispettava i ricchi! Cosi, se ne è morto riverito dai suoi figli, lasciando degli investimenti sicuri, e dei valori di tutto riposo! - Te lo ricordi il nonno, caruccio? - Si, si, il nonno! - strilla il piccolo mentre si impiastriccia le guance e il naso con la crema ancestrale. - E la nonna! Te la ricordi la nonna, amoruccio mio? Il bambino riflette. Nell'anniversario della morte di quella cara signora, gli dànno un dolce di riso profumato con l'essenza corporea della defunta che, per uno strano «
joris-karl huysmans 163 fenomeno, puzzava di tabacco da fiuto finché era in vita, e da morta spande un aroma di fiori d'arancio. - Si, si, anche la nonna! - esclama il piccolo. - E a chi volevi più bene, alla nonna o al nonno? Come tutti gli infanti che preferiscono ciò che non hanno a ciò che già possiedono, il bimbo pensa al dolce futuro e confessa di preferire la nonna; ma intanto tende il suo piatto verso la crema del nonno. Temendo un'indigestione d'amor filiale, la madre previdente fa portar via il dolce. Che deliziosa e toccante scenetta di famiglia! si disse Jacques stropicciandosi gli occhi. E si domandò, nello stato mentale in cui si trovava, se non avesse sognato nel dormiveglia, col naso sulla rivista in cui aveva letto, alla pagina scientifica, la notizia della scoperta delle ptomaine.
Tristan Corbière 1845-75
Tutto il mare, ma soprattutto quello degli scogli notturni, il mare donna fatale, e non solo tutto il mare ma tutta la campagna nella sua luce più remota, dove a ogni passo si levano Ì miti da sotto le piante spinose, le apparizioni all'orizzonte dei sentieri infossati, i poveri gesti millenari attorno agli armenti e davanti ai massi sgrossati a vaga immagine di quei santi protettori di Bretagna, dai miseri attributi: tale è il palinsesto - ben poco diverso per Jarry al quale Corbière sovrappone la sua scrittura tutta lampi ed ellissi. Il dandysmo di Baudelaire si traspone qui in piena solitudine morale, nell'ombra dell'ossario di Roscoff, dove il poeta, afflitto da una terribile deformazione del corpo e soprannominato dai marinai ari Ankou (la Morte) vaga in compagnia del suo cane, che volle chiamare Tristan, come si chiamava egli stesso. Il contrasto tra la disgrazia fisica e la sensibilità di prim'ordine non può fare a meno di suscitare, in Corbière scrittore, l'humour come meccanismo di difesa, e di spingere Corbière uomo alla ricerca sistematica del «cattivo gusto». Si traveste da marinaio, le cosce nude e le gambe vacillanti dentro enormi stivali. Inchioda un rospo disseccato sullo specchio del suo caminetto. «Prendi, ecco il mio cuore!» e getta a una donna un cuore sanguinolento di montone. Ma quanta ammirevole semplicità saprà dispiegare nel meccanismo della seduzione per un'altra donna, la bella creatura di passaggio, che nel 1 8 7 1 amerà e da cui saprà miracolosamente farsi amare! Senza dubbio con gli Amours jaunes l'automatismo verbale fa il suo ingresso nella poesia francese. Corbière è forse il primo in ordine di tempo a essersi lasciato trasportare dall'onda delle parole che, indipendentemente da ogni direzione cosciente, batte ogni istante al nostro orecchio, e a cui l'uomo comune oppone la diga del senso immediato. Per esserne certi, basta ricordare il suo terribile « I o parlo sotto dirne». Tutte le risorse offerte dagli accostamenti e raggruppamenti di parole sono qui sfruttati senza scrupolo, a co-
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minciare dal calembour, utilizzato, come più tardi da Nouveau, Roussel, Duchamp e Rigaut, non certo con lo scopo di «divertire», anzi, quando occorre, con lo scopo contrario: trasportato quasi morente alla casa di cura Dubois, Tristan Corbière scrive alla madre: « J e suis à Dubois dont on fait les cercueils» l .
L I T A N I A D E L SONNO
(Frammento)
ascolta: ti parlerò con voce lieve: Sonno. Cielo del letto di chi non lo possiede! SONNO!
Tu che plani con l'Albatro delle nere tempeste E leggero ti posi sulle notturne cuffie oneste! SONNO! Riposo bianco di vergini sfiorite! E valvola di sfogo di vergini scaltrite! Morbido materasso al dorso tormentato Sacco dove il fuggiasco può nascondere il capo! Vagabondo del boulevard esterno! prosseneta! Paese dove il muto si ridesta profeta! Metrica del verso, e rima del poeta! SONNO! Lupo Mannaro grigio! Sonno! Nero di fumo! SONNO! Bautta di velluto, di pizzo e di profumo! Abbraccio dell'Ignota, e abbraccio dell'Amata! SONNO! Ladro notturno! Brezza estasiata! Profumo che sale al cielo da un'urna profumata! Carrozza delle fate che donnacce raccatti! Osceno Confessore delle smorte bigotte! Tu vieni e come un cane lecchi la piaga antica Del martire che la morte si prende con fatica! 1
[Dove Dubois, va letto come du bois, cioè del legno. Come dire: « Sono a Collegno col quale si fanno le bare »].
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Faticoso sorriso della crisi strozzata! SONNO! Vento aliseo! Aurora annuvolata! Rutto dell'esistenza, e Strofinaccio passato Al C A F F È DELLA VITA, su ogni piatto usato! Grano di noia che la noia degli spazi invia! Cosa che corre ancora, senz'orma e senza scia! Ponte sui fossati! Varco tra le più strette vie! Camaleonte di stelle rilucente! Vascello Fantasma a gonfie vele errante! Donna di bordello, celata dietro un velo! SONNO! Ragno crudele! Tendi su me il tuo telo! SONNO!
aureolato! Magica Apoteosi, Che arricchisci il giaciglio ove il fallito posa! E ascolti paziente dell'incompreso il pianto! Rifugio del peccatore, del puro che non osa! SONNO
Domino! Diavoli blu! Angelo custode rosa! Voce mortale che vibra con immortali onde! Risveglio di morte echi e di cose profonde! Giornale della sera: «Siècle», «Temps» e «Revue des Deux Mondes»! Fontana di Gioventù e Brama pacificata! Tu che vieni a saziare la fame insaziata Tu che a sciogliere vieni l'anima rapita, E d'aria pura la inondi al largo della vita! Tu che, a scena finita, molli la funicella, Del commissario, del gatto, del Pulcinella, Del violoncellista e del suo violoncello, E la lira di quelli cui la Musa è pulzella! Gran Dio, Signor del tutto! Signor della mia Amante Che m'inganna con te - l'amorosa Mollezza Oh Bagno di piacere, Ventaglio di carezze!
t r i s t a n corbière
I
Onestà dei ladri! Chiarore della luna Agli occhi abbacinati! Ruota della Fortuna Per ogni sventurato! Spazzino del rancore! SONNO!
Oh corda d'impiccato del Pianeta pesante! Accordo d'arpa che il sordo orecchio incanta! Racconta, o Narratore, la storia che addormenta! SONNO! Focolare di quelli la cui fascina è spenta! Focolare di quelli il cui fuoco si smorza! Chiave per chi è rimasto fuor dalla sua porta! Faccia di bronzo pei creditori e la lor sorta! Riparo del marito contro la moglie accorta! Leggerezza dei profondi, profondità degli imbecilli! Nutrice del soldato e soldato di nutrici! Giudizio dei giudici! Sbirro degli sbirri! SONNO! Bella-di-notte che schiude la corolla! Lucciola, Crisalide e notturno Supplizio! Pozzo di verità del Signor di La Palisse! Spiraglio delle altezze! Polvere impalpabile Che smorza del giorno la lanterna implacabile! ascolta, ti parlerò con voce lieve: Dell 'Essere o non essere, oh crepuscolo breve! SONNO!
Germain Nouveau 1852-1920
Perfino l'immaginazione più duttile stenta a veder riuniti nella stessa persona il giovane ventunenne dalla voce di sole e dagli occhi di miraggio che conquista subito l'amicizia di Rimbaud (questi, preceduto da una pessima reputazione, era appena entrato al Tabourey dove tutti fan finta di non riconoscerlo: Nouveau, spronato da un'ammirazione senza limiti, corre da lui, e l'indomani partiranno insieme per l'Inghilterra); questo giovane è il mendicante che trent'anni dopo si trascina sotto il portico di Saint-Sauveur d'Aix, e al quale ogni domenica, andando a messa, Paul Cézanne darà uno scudo in elemosina. Un assoluto non-conformismo impronta dunque la sua vita, dall'inizio alla fine. «L'autore di Valentines - dice il suo amico Ernest Delahaye - non era un uomo indisponente, aveva anzi uno spirito di contraddizione tranquillo, sorridente, talvolta piacevolmente ironico. Esso nasceva dal suo bisogno costante di costruire le idee facendo "la casa dal tetto", e anche dalla sua tendenza a cercare continuamente nuovi aspetti nelle cose. Le cose semplici per lui erano il contrario di ciò che fanno e dicono i comuni mortali». Benché il meccanismo della sovversione intellettuale, che egli, insieme a Cros, Rimbaud e anche Verlaine, aveva fin dall'inizio contribuito a mettere a punto, gli sia scoppiato un giorno fra le mani (la sua prima crisi mistica, nel 1879, lo sorprese il venerdì santo mentre mangiava una bistecca che si era voluto tagliare personalmente in una macelleria) non cessò mai di applicare, tanto al «bene» quanto al «male», lo stesso zelo inquietante, la stessa totale mancanza di misura. Impiegato in un ministero, dovette rassegnare le dimissioni Ìn seguito a un duello per burla con un collega. Professore di disegno a Janson-deSailly, cade in ginocchio ai piedi della cattedra e intona un cantico. Dopo un breve ricovero all'ospizio di Bicétre e due pellegrinaggi a piedi, l'uno a Roma, l'altro a San Giacomo di Compostella, si sente in dovere, per umiltà, di distruggere la sua opera, e passa gli
germain nouveau ultimi quindici anni della sua esistenza vagando per le chiese della Provenza, inquietante spettro di Benedetto Labre, il santo dalla corona di vermi che si era scelto come modello.
IL PETTINE
La salvietta è una servente Il sapone un servitore, E la spugna una sapiente; Ma il pettine è un gran signore. Si, è un gran signore, Signora, Per il nobile lignaggio E per l'onestà del cuore, Si, il pettine è un gran signore! Che? s'osa dire a voce fonda Sporco come... Di chi l'errore? Con il cuore si risponda! Ma il pettine è un gran signore! Se non è netto alla bisogna Di chi l'errore? dell'autore? No, piuttosto è della rogna! Perché... il pettine è un gran signore. Appassire nella sporcizia Lo si lascia: qui è l'errore. È uno sbaglio di... pigrizia. Lui, il pettine è un gran signore. Si; la mano è al suo servizio, E se è sporco, per disgrazia, Se n'infischia del suo vizio, Perché il pettine è un gran signore.
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Pulirà il capo tutto contento Sol se la mano con tanto amore Gli farà i denti con lo strumento, Si il pettine è un gran signore. Senz'arroganza o canzonatura È proprio, il pettine, un gran signore, Che ha per motto: «chi se ne cura» Perché il pettine è un gran signore. Gran signore il suo sdegno sfavilla, Porta lo stocco con buonumore, Questo stocco sarà una spilla, Solo se il pettine è un gran signore. Questa spilla svelta e carina, Fresco e pulito lo fa come un fiore, Sotto le mani della bambina Di cui il pettine è un gran signore. Or che tu dica o se io dico Ch'egli è sporco, non si dà cuore Di tal sciocchezze, mio caro amico, Perché il pettine è un gran signore. Per mio conto, non voglio dirlo: Ciò mancherebbe... di sapore Io non voglio infastidirlo; No... il pettine è un gran signore. Sui denti fini e senza traccia, Ogni mattina io ho l'onore, Pettine mio, di porre un bacio, E di esser vostro servitore.
Arthur Rimbaud 1854-91
L'elemento sconvolgente magnifico e agghiacciante dell'humour, quale noi lo consideriamo, ciò che in esso ci turba, la facoltà di reazione paradossale ultradisinteressata che presuppone, è ben lontano dal trovare in Rimbaud un terreno propizio. Uno humour siffatto non arriva a esprimersi nella sua opera che in modo occasionale, e, per di più, in modo da non rispondere che in parte all'idea d'insieme che noi ne abbiamo. L'aspetto fisico di Rimbaud, quale ci è rivelato dalla fotografia di Carjat o da quelle di Etiopia, sarebbe sufficiente a dissipare ogni dubbio a questo proposito. Lo sguardo filtrante del visionario, e quello quasi spento dell'avventuriero, non lasciano trasparire nulla della profonda malizia che non manca mai negli occhi degli umoristi nati. Forse è proprio qui il suo punto debole: la concezione poetica e artistica dei nostri giorni, nella misura in cui le esigenze di un'epoca possono determinarla ed esserne super determinate, concede all'humour un'importanza che finora gli era stata negata. Tutta la sensibilità attuale ne resta eccitata, e non si può proprio dire che Rimbaud possa, come per esempio Lautréamont, soddisfarla sotto questo punto di vista. Innanzitutto in lui l'uomo esteriore e quello interiore non hanno mai trovato una conciliazione, ma si alternano e, perfino nella prima parte della sua vita, si sopraffanno continuamente l'un l'altro. Non prendiamo neppure in considerazione la seconda parte della sua vita, dove la marionetta ha ormai preso il sopravvento e dove un pietoso pagliaccio fa tintinnare a ogni pie sospinto i suoi sonagli: pensiamo soltanto al Rimbaud del 187T-72, autentico dio della pubertà, quale non è dato trovare in nessuna mitologia. Il trauma affettivo offre qui alla sublimazione delle risorse cosi ricche che, d'un tratto, il mondo esterno viene ad assumere un'importanza non maggiore di quanta ne abbia agli occhi scaglionati di tutti gli zelatori della setta Zen in Giappone. «L'uomo dalle suole di vento» non può non richiamarci alla memoria quei «tappeti volanti» che vengono
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dall'Oriente e che permettono, cosi si dice, di battere a piedi, nella castità e nel digiuno, tutti i primati automobilistici ed altri ancora. È possibile, non è possibile: ambedue i termini sono veri, cosi come Rimbaud che scrive le sue poesie e che vende mazzi di chiavi sui marciapiedi di rue de Rivoli. I soli lampi di humour che abbia avuto Rimbaud, queste sole illuminazioni di altro tipo al di là delle llluminations (non dimentichiamo che agli occhi di un «umorista di professione» - nel senso in cui si dice un «rivoluzionario di professione» - come Jacques Vaché, egli appare un puerile seccatore) sono quasi sempre oscurati dalle macchie di un'ironia disperata, quanto vi è di più contrario all'humour; in Rimbaud l'io, gravemente minacciato, non è di solito capace di quel balzo verso il «Super-io» che potrebbe permettere lo spostamento dell'accento psichico; insiste a difendersi con i suoi propri mezzi, con le armi fornitegli dalla miseria morale e intellettuale di coloro che lo circondano. Di fronte alla propria sofferenza se la prende con gli altri, invece di risolversi in essi. Perde cosi la sola occasione di dominarla e di apparirci intatto. Queste riserve, per rigorose che siano, non vogliono togliere valore - tutt'altro! - a certe sconvolgenti professioni deWAlchimie du verbe: «Mi piacevano i quadri stupidi, soprapporte, scene e tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; mi piaceva la letteratura fuori moda, il latino di chiesa, i libri erotici sgrammaticati», e a quella poesia Rive del 1875, fra tutte ammirevole, che costituisce il testamento poetico e spirituale di Rimbaud.
UN C U O R E SOTTO UNA TONACA
Riaprii debolmente gli occhi... Cesarino e il sagrestano fumavano entrambi un sigaro sottile, con tutte le smancerie possibili, cosa che li rendeva spaventosamente ridicoli: la signora sagrestana se ne stava seduta sull'orlo della seggiola, col petto incavato chino in avanti e con le pieghe del vestito giallo che, da dietro, le arrivavano a sbuffi fino al collo, e con l'unico volani aperto a ventaglio tutt'attorno; sfogliava delicata-
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mente una rosa, mentre un orrendo sorriso le socchiudeva le labbra facendo risaltare sulle gengive magre due denti scuri, gialli come la ceramica di una vecchia stufa. Tu, Timotina, tu eri bella, col tuo collettino bianco, gli occhi bassi e i capelli lisci sul capo. - È un giovane che farà strada, il suo presente fa ben presagire del futuro, - diceva il sagrestano, buttando fuori uno sbuffo di fumo grigio. - Oh, il signor Léonard farà onore all'abito che porta! disse con voce nasale la sagrestana mettendo in mostra i due denti. Dal mio canto, io arrossivo come un ragazzino dabbene; mi accorsi che scostavano le seggiole da me e che sussurravano qualcosa sul mio conto. Timotina aveva sempre gli occhi sulle mie scarpe; quei due orribili denti mi minacciavano... il sagrestano rideva ironico; io tenevo sempre la testa china! - È morto Lamartine... - disse improvvisamente Timotina. Cara Timotina! Era per il tuo adoratore, per il tuo povero poeta Léonard, che buttavi nella conversazione quel nome; allora io rialzai il capo, sentivo che la sola idea della poesia avrebbe rifatto una verginità a tutti quei profani, e sentivo le mie ali palpitare, e dissi raggiante, fissando Timotina : - Aveva splendide gemme nella sua corona, l'autore delle Meditazioni poetiche! - Il cigno dei versi non è più, - disse la sagrestana. - Si, ma ha cantato il suo canto funebre, - ribattei con entusiasmo. - Ma, - esclamò la sagrestana, - anche il signor Léonard è un poeta! L'anno scorso, sua madre mi ha mostrato un saggio della sua musa... Giocai d'audacia; - Oh! Signora, non ho portato né la mia lira né la mia cetra, ma... - Oh, la vostra cetra sarà per un altro giorno...
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- Ma tuttavia, se non è cosa sgradita alla stimatissima compagnia - e tirai fuori di tasca un pezzo di carta - vi leggerò qualche verso... Li dedico alla signorina Timotina. - S i ! si! Giovanotto! molto bene! recitate! recitate! Mettetevi in fondo alla sala... Feci qualche passo indietro. Timotina guardava le mie scarpe... La sagrestana faceva la Madonna; i due signori si chinavano l'un verso l'altro... Io arrossii, diedi un colpo di tosse e dissi con voce tenera e cantante: Nel suo rifugio di cotone Dorme lo zeffiro dal dolce respiro Nel suo nido di lana e di seta Dorme lo zeffiro dal gaio sorriso.
Tutti quanti scoppiarono in una risata: i due signori si chinavano l'un verso l'altro facendo grossolani giochi di parole; ma soprattutto spaventoso era l'atteggiamento della sagrestana che, gli occhi levati al cielo, faceva la mistica e sorrideva con i suoi denti orrendi! Timotina, Timotina crepava dal ridere! Mi sentii trafitto da un colpo mortale, Timotina si teneva la pancia dalle risate!... - Un dolce zeffiro dentro del cotone, è soave, è soave!... - diceva tirando su dal naso papà Cesarino. Mi parve di accorgermi di qualcosa... ma quello scoppio di risa non durò che un attimo: scoppiettava ancora di tanto in tanto mentre tutti cercavano di darsi un contegno. - Continuate, giovanotto! Va bene, va bene! Quando lo zeffiro solleva l'ala Nel suo rifugio di cotone,... Quando corre dove lo chiama il fiore, Il suo alito ha un buon odore...
Questa volta una fragorosa risata scosse il mio uditorio; Timotina guardò le mie scarpe: avevo caldo, i piedi mi bruciavano sotto il suo sguardo e nuotavano nel sudore; mi ripetevo infatti: queste calze che porto da un mese, sono un dono del suo amore, questi sguardi che getta sui
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miei piedi sono una testimonianza del suo amore: essa mi adora. Ed ecco che un certo qual misterioso sentore mi parve uscire dalle mie scarpe: oh! compresi allora le orrende risa dell'assemblea! Compresi pure che, smarrita in quella malvagia società, Timotina Labinette, Timotina, non avrebbe mai potuto dar libero sfogo alla sua passione! Compresi che anche a me toccava consumare in me stesso quell'amore doloroso che si era schiuso nel mio cuore un pomeriggio di maggio, nella cucina dei Labinette, davanti alle contorsioni posteriori della Vergine della ciotola! La pendola del salotto suonava le quattro, l'ora del rientro; smarrito, arso d'amore e pazzo di dolore, afferrai il mio cappello e fuggii rovesciando una seggiola, attraversai il corridoio mormorando: «Adoro Timotina»; e scappai al seminario senza fermarmi... Le falde nere del mio abito svolazzavano dietro di me, nel vento, come uccelli sinistri!
LETTERA
14 ottobre 75 Caro amico, Ricevuto il Postcard e la lettera di V . 1 otto giorni fa. Per semplificare, ho detto al Fermo posta2 di mandarmi a casa le lettere, di modo che puoi scrivermi qui, se non vi è ancora nulla al Fermo posta. Non commento le ultime volgarità del Loyola 3 , e attualmente non ho più da darmi da 1
[Verlaine]. [Per evitare di dover dare sedazioni alla madre, Rimbaud si faceva spedire la corrispondenza al Fermo posta. Ma presto vi rinuncia, in seguito ad alcuni inconvenienti. Vedasi il post-scriptum di questa lettera dove Rimbaud accenna alla corrispondenza «en passepoil»]. 3 [Sempre Verlaine: allusione alle sue ultime poesie cristiane]. 2
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fare a quel riguardo \ poiché pare che il secondo «scaglione» del «contingente» della «classe» 74 sarà chiamata il 3 novembre prossimo o venturo: la camerata di notte: Sogno Hanno fame nella camerata È vero Emanazioni, esplosioni, Un genio: Io sono il gruviera! Lefebvre: Keller! Il genio: Io sono il Brie! I soldati tranciano sul loro pane: È la vita! II genio: Io sono il roquefort! - Sarà la nostra morte. - Io sono il gruviera E il brie... ecc..
Valzer Ci han messo insieme, Lefebvre e me... ecc...!
Tali preoccupazioni non permettono che di immergercisi. In ogni caso, rispedire cortesemente, all'occorrenza, le «Loyola» 2 che dovessero arrivare. Un piccolo favore: vuoi dirmi preciso e conciso — in cosa consiste attualmente la licenza in scienze, materie classiche, e mate, ecc... - Dovresti dirmi a che punto di ogni materia bisogna arrivare: Mate, fis., chim., ecc.; e anche qualche titolo essenziale, e il modo di procurarsi i libri usati per esempio nella tua scuola per questa licenza, a meno che non cambi nelle diverse università: in ogni caso da professori o allievi al corrente, informati da questo punto di vista. M'interessano soprattutto delle cose precise, poi1 2
[Riguardo la letteratura]. [Le lettere di Verlaine].
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che si tratterebbe di comperare questi libri tra poco. Servizio militare e licenza, vedi, mi farebbero due o tre stagioni divertenti! Al diavolo d'altronde questa «gentil fatica». Soltanto sii cosi bravo da indicarmi il meglio possibile in che modo ci si può regolare. Qui nulla di nulla. - Mi piace pensare che il Petdeloup1 e gli appiccicosi pieni di fagioli patriottici o no, non ti diano più distrazioni di quante te ne occorra. Almeno, non c'è odor di neve come qui2. A te «nella misura delle mie deboli forze». Scrivi : A. R I M B A U D
3 1 , rue Saint-Rarthélemy Charleville (Ardennes), naturalmente. PS. La corrispondenza: «en passepoil» arriva a questo, che il «Hémery » 3 aveva affidato i giornali del Loyola a un agente di polizia per portarmeli! 1
[Pet-de-loup: nome di un personaggio creato da Nodar nel 1849. Sta per professore d'università ridicolo e anziano]. 2 [« 9a ne chlingue pas la neige » argot, le virgolette sono nel testo. Nel senso che Charleville, da dove Rimbaud scrive, non sa di nulla, non vi è niente che lo interessi]. 3 [Hémery era un compagno di scuola di Rimbaud].
Alphonse Allais 1854-1905
Sarà forse perché i vasi della farmacia dove Alphonse Allais trascorse la sua infanzia non riflettevano nulla di cupo - sopra di essi il cielo di Honfleur, come lo dipingerà, più tenero di qualsiasi altro cielo, Eugène Boudin, assiduo quanto Courbet e Manet del laboratorio di suo padre - è raro comunque che quest'opera, tutta imperniata sull'humour, tradisca qualche grave preoccupazione, sveli la minima riserva mentale. Se malgrado tutto lo poniamo accanto agli autori, di gran lunga più velenosi, che dànno il tono a questa raccolta, non è tanto per la materia, limpida e quasi sempre primaverile, dei suoi racconti dal profumo raramente amaro, quanto per l'ingegnosità con cui ha perseguitato, sotto le loro più svariate forme, la meschinità e l'egoismo piccolo-borghese, giunti al culmine nel suo tempo. Non solo non si lascia sfuggire nessuna occasione di mettere in ridicolo il penoso ideale patriottico e religioso esasperato nei suoi concittadini dalla disfatta del 1 8 7 1 , ma è bravissimo nel mettere in difficoltà l'individuo soddisfatto, abbagliato dai luoghi comuni e sicuro di sé che egli incontra ogni giorno per la strada. In compagnia del suo amico Sapeck egli eccelle infatti in una forma di attività fino ad allora pressoché sconosciuta, la mistificazione. Si può dire che con loro la mistificazione giunge a livello di arte: si tratta né più né meno che di esercitare un'attività di terrorismo intellettuale che, sotto innumerevoli pretesti, denuncia il conformismo, logoro fino alla corda, dell'uomo medio, che stana in lui la bestia sociale coi suoi vistosi limiti, e la perseguita estraniandola poco a poco alla sfera dei suoi sordidi interessi. Vi è qui un richiamo alla ragion d'essere che equivale a una condanna a njorte: «Come Ì suoi antenati sulle loro barche risalivano il corso dei fiumi - dirà Maurice Donnay - cosi egli risale sui suoi racconti il corso dei pregiudizi». L'ombra di Baudelaire non è lontana e, in effetti, Ì biografi ci ricordano che il poeta, quando viene a trovare sua madre a Hon-
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fleur, si reca pure dal padre di Alphonse Allais, e, senza dubbio, lascia la sua impronta sul bambino (Alphonse Allais abiterà, verso la fine della sua vita, «casa Baudelaire»). L'esistenza di Alphonse Allais è legata all'astro, destinato ben presto a tramontare, di quelle imprese eccentriche che furono successivamente gli Hydropates, gli Hirsutes e lo Chat-noiri con le quali il pensiero ancora misterioso di questo declinante x i x secolo si spoglia del cappello a cilindro. Si è tentato invano fino ad oggi di fare il conto delle invenzioni perfettamente gratuite dell'autore di A se tordre, prodotti di un'immaginazione poetica che sta tra quella di Zenone di Elea e quella dei bambini: il fucile del calibro di un millimetro, caricato ad aghi, che può trapassare, infilare, legare ed impacchettare insieme quindici o venti uomini; pesci viaggiatori destinati a rimpiazzare i piccioni per il trasporto dei dispacci; acquario in vetro smerigliato per pesci rossi timidi; intensificazione del focolaio luminoso delle lucciole; oliatura dell'oceano per rendere inoffensive le onde; cavatappi azionato dalla forza delle maree; essiccatrice tascabile; casa-ascensore che sprofonda nel suolo fino a raggiungere il piano voluto; treno lanciato su dieci lame sovrapposte che corrono ognuna a venti miglia all'ora, ecc. ecc. È chiaro che l'edificazione di questo castello di carte mentale esige innanzitutto una conoscenza profonda di tutte le risorse del linguaggio, sia dei suoi segreti che delle sue trappole: «Era un grande scrittore», dirà alla sua morte il severo Jules Renard.
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UN D R A M M A T U T T O PARIGINO
Capitolo 4. Dove si potrà constatare come coloro che si immischiano in ciò che non li riguarda farebbero assai meglio a restarsene tranquilli. È straordinario come sta diventando cattiva da un po' di tempo, la gente!
(Detto dalla mia portinaia la mattina dello scorso lunedi).
Un mattino, Raoul riceve la seguente missiva: «Se per caso vi interessa vedere, una volta tanto, vostra moglie darsi bel tempo, recatevi giovedì al Ballo degli Incoerenti, al Moulin Rouge. Vostra moglie ci sarà, mascherata e travestita da Piroga congolese. A buon intenditor... Un amico». Lo stesso mattino, Marguerite ricevette la seguente missiva: « Se per caso vi interessa vedere, una volta tanto, vostro marito darsi bel tempo, recatevi giovedì al Ballo degli Incoerenti, al Moulin Rouge. Vostro marito ci sarà, mascherato e travestito da Templare di fine secolo. A buon intenditor... Un'amica». Questi biglietti non caddero nel vuoto.
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Giunto il giorno fatale, dissimulando a meraviglia i loro propositi: - Mia cara, - disse Raoul con la sua aria più innocente, - mi vedo obbligato a lasciarvi fino a domani. Affari della massima importanza richiedono la mia presenza a Dunkerque. — Meno male, - rispose Marguerite con delizioso candore, - perché ho ricevuto or ora un telegramma di zia Aspasie che è molto malata e mi vuole al suo capezzale. Capitolo 5. Dove si vede la folle gioventù d3oggigiorno turbinare tra i più chimerici e turbinosi piaceri, invece di pensare all'eternità. Mai vouéli vièure pamens: La vido est tant bello! AUGUSTE MARIN.
Le cronache del «Diavolo Zoppo» sono state unanimi nel dichiarare che quell'anno il Ballo degli Incoerenti fu brillante come non mai. Molte spalle nude, e gambe in abbondanza, senza contare gli accessori. Due degli intervenuti non sembravano partecipare alla follia generale: un Templare di fine secolo e una Piroga congolese, entrambi ermeticamente mascherati. Verso le tre del mattino il Templare si avvicinò alla Piroga e la invitò a recarsi a cena con lui. Per tutta risposta, la Piroga appoggiò la manina sul braccio vigoroso del Templare, e la coppia s'allontanò.
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a n t o l o g i a d e l l o h u m o u r nero Capitolo 6. Dove la situazione s'ingarbuglia. I say, don't you think the rajah laughs at us? Perhaps, Sir. HENRY O'MERCIER.
— Andate pure per il momento, - disse il Templare al cameriere del ristorante, - vi chiameremo dopo aver scelto il menù. Il cameriere si ritirò e il Templare chiuse accuratamente a chiave la porta del salottino. Poi, con un movimento brusco, si tolse il proprio copricapo e strappò la maschera della Piroga. Entrambi gettarono, all'unisono, un grido di stupore: non si riconoscevano né l'uno né l'altra. Lui, non era Raoul. Lei, non era Marguerite. Si chiesero reciprocamente scusa e, con l'aiuto di una cenetta, non tardarono a stringere conoscenza; altro non vi dico.
PIACERI D'ESTATE
La tenuta nella quale passo la buona stagione è contigua a una modesta dimora abitata dalla più odiosa strega di tutta la costa. Vedova di un ispettore stradale che aveva fatto morire di dolore, questa megera univa un'acidità fuor del comune alla più sordida avarizia, il tutto nascosto sotto la maschera di una devozione spinta all'eccesso.
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È morta, riposi in pace! È morta, e mi sono fatto delle belle risate quando l'ho vista annaspare con le lunghe braccia scarne e afflosciarsi sull'erba stenta del suo ridicolo giardinetto troppo curato. Infatti io ho assistito al suo trapasso; per meglio dire, ne sono stato la causa, e credo che questa piccola avventura resterà uno dei miei ricordi migliori. Doveva d'altronde finire cosi, perché ero arrivato a non poter più dormire, tanto mi ossessionava il solo pensiero di quell'arpia. Donna orribile! veramente orribile! Ottenni il mio funebre risultato grazie a un certo numero di scherzi; tutti di pessimo gusto ma che, bisogna ammetterlo, rivelano nel loro autore un'astuzia pari all'implacabile perseveranza. Volete udire un breve riassunto delle mie macchinazioni?
La mia vicina aveva la mania del giardinaggio: non c'era in tutto il paese insalata paragonabile alla sua insalata, e i suoi cespi di fragole erano tutti cosi belli che veniva voglia di inginocchiarcisi davanti. Contro le erbacce, contro gli insetti nocivi, contro i vermi più voraci, conosceva, e usava senza stancarsi mai, mille astuzie di un'efficacia più che temibile. La caccia alle lumache era tutto un poema, avrebbe potuto dire Coppée in un verso immortale. Ed ecco che cosa architettai un giorno che il temporale aveva imperversato sul paese: Convocai una miriade di ragazzini (miriade è un modo di dire) e dissi loro, consegnando a ciascuno un sacco : - Andate, miei piccoli amici, andate per i viottoli della campagna, e portatemi più lilmase che potete. Quando tornerete ci sarà qualche soldo per voi.
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(Nella regione in cui abito, lumache si pronuncia, in modo peraltro scorretto, lumase). I miei monelli si misero in caccia. Li attendeva un copioso bottino: mai, infatti, tante lumache avevano lasciato sul terreno le loro scie iridescenti. Radunai a congresso tutti questi molluschi in una immensa cassa ben chiusa, dove furono invitati a digiunare per una settimana. Dopo di che, in una radiosa sera d'estate, liberai l'intero branco nel giardino della vecchia. L'alba venne ben presto a illuminare quella Waterloo. Delle lattughe, delle cicorie, delle fragole già cosi rigogliose, non restava ormai altro che poche nervature sinistre e cincischiate. Ah, se non avessi riso tanto, come mi avrebbe straziato un simile spettacolo di devastazione! La megera non credeva ai suoi occhi. Intanto, rimpinzate ma non sazie, le mie lumache continuavano la loro opera di distruzione. Dal mio piccolo osservatorio potevo vederle arrampicarsi risolutamente all'assalto dei peri. ... In quel momento suonò la campana per la messa delle dieci, e la mia vicina scappò a raccontare le sue pene al buon Dio.
Un racconto dettagliato delle burle feroci che inflissi a quella perfida femmina che era la mia vicina sarebbe noioso. Non parlerò di tutti i pezzi di carburo di calcio impuri che gettavo nella piccola vasca situata davanti alla sua casa: nessuna penna umana saprebbe descrivere il fetore d'aglio che spandeva allora il suo stupido zampillo. E la megera (particolare che venni a sapere in seguito e che mi riempi di gioia) provava appunto un'invincibile avversione per l'odore dell'aglio.
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Ai piedi del muro che separa il suo giardino dal mio, essa coltivava una superba pianta di prezzemolo. Un prezzemolo veramente magnifico! A piene mani, senza risparmio, cosparsi il terreno alla sua base di semi di cicuta, pianta il cui aspetto assomiglia a quello del prezzemolo tanto da trarre in inganno. (Compiango i nuovi affittuari del giardino, se non si accorgono dell'inganno). Arriviamo alle due supreme facezie, l'ultima delle quali provocò, come già ho accennato prima, l'improvviso trapasso dell'orribile vecchia. A forza di osservarla, conoscevo a perfezione il meschino tran-tran della nostra megera. Levatasi alle prime luci dell'alba, ispezionava con occhio carico di sospetto ogni minimo particolare del suo giardino, schiacciando una lumaca qui, là strappando una erbaccia. Al primo tocco della messa delle sei, la devota filava via, poi, compiuto il dovere religioso, ritornava e prendeva dalla cassetta delle lettere il giornale «La Croix», alla cui edificante lettura si dedicava centellinando il suo caffè e latte. Bene, una mattina, lesse cose assai strane sul suo giornale favorito. L'articolo di fondo, per esempio, cominciava con questa frase: «Quando la faremo finita con questi maledetti pretastri?» e il resto dell'articolo continuava sullo stesso tono. Dopo di che, si leggeva questo trafiletto: « Avviso ai nostri lettori. «Non saranno mai troppe le precauzioni che potremo raccomandare a quei nostri lettori che si vedono costretti, per una qualsivoglia ragione, a introdurre degli ecclesiastici nella loro dimora. «Lunedi scorso, per esempio, il curato di Saint-Lucien, chiamato presso uno dei suoi parrocchiani per sommini-
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strargli gli ultimi Sacramenti, ha creduto bene di portarsi via, andandosene, l'orologio d'oro del moribondo e una dozzina di posate d'argento. «Questo episodio è lungi dal costituire un caso isolato, ecc. ecc.». E la cronaca, poi! Si raccontava ad esempio che il Nunzio del Papa era stato arrestato la sera prima, al ballo del Moulin Rouge, per ubriachezza, schiamazzi, e insulti agli agenti dell'ordine. Strano giornale! Forse è superfluo aggiungere che questo curioso foglio era stato redatto, illustrato, composto e stampato, non da un gruppo di signore come il giornale « La Fronde », ma dal vostro servitore, con la complicità di un amico tipografo, del quale non potrò mai lodare abbastanza la squisita cortesia dimostrata in quell'occasione.
Una delle burle che posso raccomandare con piena fiducia alla mia elegante clientela è la seguente. Non brilla né per sottile intelligenza né per tatto squisito, ma la sua esecuzione procura all'autore una viva allegria. Beninteso, non mancai di propinarla alla mia odiosa vicina. A partire dal mattino, e a diverse ore del giorno, inviai telegrammi, recanti la firma e l'indirizzo della vecchia, a persone che abitavano nei più disparati angoli della Francia. Ogni telegramma, con risposta pagata, consisteva in una richiesta d'informazioni su un argomento qualsiasi. Non è facile farsi un'idea dello stupore misto a spavento che la vecchia signora ebbe a provare ogniqualvolta il fattorino del telegrafo le consegnava un foglietto azzurro che ostentava frasi della più strampalata assurdità. Venendo subito dopo la lettura del numero speciale de
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«La Croix» fabbricato da me, questi telegrammi precipitarono la mia odiosa vicina in uno stato quanto mai comico di allucinazione. Alla fine, rifiutò di aprire al postino, e arrivò perfino a minacciare il povero impiegato di prenderlo a colpi di scopa, se mai fosse tornato alla carica. Installato alla finestra del mio granaio e munito di un ottimo binocolo, io non avevo mai riso tanto.
Frattanto venne la sera. Secondo una sua vecchia abitudine, il gatto della brava donna, un gran gatto nero, magro ma superbo, sul finir del giorno venne a girovagare nel mio giardino. Con l'aiuto di mio nipote (un ragazzo che promette bene) l'animale fu ben presto catturato, e con altrettanta prestezza lo cospargemmo copiosamente di solfuro di bario. (Il solfuro di bario è uno di quei prodotti che hanno la proprietà di rendere luminosi gli oggetti nel buio. Lo si trova in qualsiasi negozio di prodotti chimici). Avvenne nella notte opaca, una notte senza stelle e senza luna. Preoccupata perché non aveva visto rientrare il suo micio, la vecchia chiamava: - Polyte, Polyte! Vieni, mio piccolo Polyte! (Che razza di nome per un gatto! ) Quando all'improvviso lo liberammo, Polyte schizzò via pazzo di rabbia e di paura, si arrampicò sul muro in meno tempo di quanto ne occorra per raccontarlo, e si precipitò verso la sua casetta. Avete mai visto un gatto luminoso balzare dalle tenebre della notte? È uno spettacolo che vai la pena di vedere, e, per mio conto, il più fantastico che conosca. Era veramente troppo.
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Udimmo delle grida, degli urli. - Belzebù! Belzebù! strillava la vecchia. È Belzebù! Poi, la vedemmo abbandonare la candela che teneva in mano e crollare sull'erba. Quando alcuni vicini, richiamati dalle sue grida, accorsero per risollevarla, era troppo tardi. Non avevo più una vicina.
Jean-Pierre Brisset
Se la più che notevole opera di Brisset merita di essere esaminata nei suoi rapporti con l'humour, non può in nessun modo passare per umoristica la volontà che la informa. Infatti l'autore non si scosta mai, in nessuna occasione, dall'atteggiamento più serio e più austero. Soltanto dopo aver esaurito un processo di identificazione pari a quello che è richiesto dall'esame di qualsivoglia sistema filosofico o scientifico, il lettore sarà indotto a trovare per proprio conto un rifugio nell'humour. Gli è infatti indispensabile risparmiarsi una scossa affettiva troppo radicale, quale risulterebbe dall'accettazione di una scoperta che scuote le basi stesse del pensiero, e annulla ogni acquisizione anteriore rimettendo in questione i principi più elementari della vita sociale. Una tale scoperta è considerata a priori impossibile e, nell'incredibile evenienza che si dovesse verificare, i manicomi sono costruiti apposta perché nulla ne possa trasparire. Questo istinto di conservazione della società sembra essersi manifestato in modo meno immediato nel caso di Brisset, ed ebbe come unico risultato di fargli affibbiare, nel 1 9 1 2 , da parte di una combriccola di scrittori, l'appellativo ironico di principe dei pensatori. Dignità derisoria che varrà a danneggiarlo solo presso coloro che chiudono gli occhi nel passare davanti alle più grandi singolarità della mente umana. Lo scaricarsi emotivo del linguaggio di Brisset in uno humour tutto di ricezione (in opposizione allo humour di emissione della maggior parte degli autori che ci interessano) pone in specialissima evidenza alcuni caratteri costitutivi di questo humour. L'autore si presenta come depositario di un segreto di portata tale da far considerare come nullo e non avvenuto tutto ciò che è stato pensato prima della sua rivelazione. Attraverso la sua persona, ci troviamo di fronte al ritorno all'infanzia di tutta la specie umana, e non più soltanto del singolo individuo. (Qualcosa di analogo avviene nel caso del doganiere Rousseau). Il flagrante contrasto che si produce fra la natura delle idee comu-
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nemente accettate e l'affermazione, nello scrittore o nel pittore, di questo primitivismo integrale, genera uno humour di grande stile, cui il protagonista resta estraneo. L'idea centrale di Brisset è la seguente: «La parola che è Dio ha conservato nelle sue pieghe la storia del genere umano fin dagli inizi, e in ogni idioma la storia di ogni popolo, con una sicurezza e un'irrefutabilità che confonderanno i semplici e i dotti». L'analisi delle parole gli consente, di primo acchito, di concludere che l'uomo discende dalla rana. Questo reperto, che egli tende dapprima a giustificare, poi a sfruttare in un gioco d'associazioni verbali di straordinaria ricchezza, convalida, per lui, la constatazione anatomica che «l'aspetto del seme umano, visto al microscopio, è quello di una pozza d'acqua piena di girini il cui sembiante e forma ricordano in pieno quello dei piccoli corpi contenuti nel seme». Si sviluppa cosi, su un fondo pansessualista dì grande potere allucinatorie, e sotto l'egida di una rara erudizione, una serie vertiginosa di equazioni verbali di impressionante rigore, e prende forma una dottrina che pretende d'essere la chiave certa e infallibile del libro di vita. Brisset non nasconde di essere egli stesso abbagliato dallo splendore del dono che offre all'umanità e che deve conferirle l'onnipotenza divina. Non vuol riconoscersi altri predecessori che Mosè e i profeti, Gesù e gli apostoli; presenta se stesso come il settimo angelo dell'Apocalisse e l'Arcangelo della resurrezione. È ovvio che una comunicazione di questa specie doveva riservargli, sul piano umano, le peggiori delusioni. «La grammaire logique pubblicata nel 1883 - egli dice - si è ragionevolmente diffusa nel mondo erudito. L'abbiamo presentata all'Accademia per un concorso, ma il signor Renan volle respingerla. Nel 1 8 9 1 , non trovando un editore, pubblicammo a nostre spese Le mystère de Dieu, con affissione di manifesti c due conferenze pubbliche a Parigi. Questo libro suscitò un'ondata di emozione tra gli studenti di Angers, dove avevamo organizzato tutto per tenere una conferenza, ma le autorità municipali fecero fallire il nostro progetto. Nel 1900 abbiamo pubblicato La science de Dieu e un foglio tirato a mille esemplari, La Grande Nouvelie, dove venivano riassunti tutti i nostri lavori. I nostri strilloni erano come paralizzati, e non riuscivano affatto a vendere questa grande novella: allora la facemmo distribuire gratuitamente a Parigi e la spedimmo, insieme col libro, un po' per tutto il mondo. In seguito alla distribuzione del foglio si riuscì a vendere l'edizione, come venimmo a sapere solo dopo il fallimento del nostro distributore. Queste due pubblicazioni fecero abbastanza rumore da spingere il " Petit Parisien" a dedicarci in modo indiretto un articolo di prima pagina (29 luglio 1904) dal ti-
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tolo Chez les fous. Ecco ciò che direttamente ci concerne. Si cita tra l'altro un alienato "che, con un sistema di allitterazioni e tiritere, aveva preteso di fondare un intero trattato di metafisica intitolato La science de Dieu. Per lui infatti la Parola è tutto. E le analisi delle parole esprimono i rapporti tra le cose. Mi manca lo spazio per citare qualche passaggio di questa inquietante filosofia, la cui lettura genera d'altronde un reale turbamento: i miei lettori mi saranno grati di averglielo voluto risparmiare". L'alienato - prosegue Brisset, che apparteneva alla polizia giudiziaria e il cui modo di scrivere non aveva nulla da spartire con l'oscuro vaniloquio di cui sopra - fu tuttavia ben contento della critica e ringraziò perfino. La science de Dieu fu, alla sua pubblicazione, la settima tromba dell'Apocalisse, e nel 1906 abbiamo pubblicato Les prophéties accomplies. Un lungo prospetto, tirato a duemila copie, fu spedito a diversi indirizzi e, poiché dovevamo ancora far sentire la nostra voce, tenemmo una conferenza all'Hotel des Sociétés Savantes, il 3 giugno 1906. Ci scontrammo contro molta cattiva volontà e i manifesti, preparati per essere affissi in tutta Parigi, furono collocati solo nei dintorni dell'Hotel. Vennero una cinquantina di persone ad ascoltarci, e affermammo, nella nostra indignazione, che nessuno d'ora in poi avrebbe più udito la voce del settimo angelo». Una seconda edizione della Science de Dieu (interamente rinnovata) appare tuttavia nel 1 9 1 3 con il titolo di Les origines humaines. L'autore dichiara che, sentendosi vecchio e stanco, teme di non poter condurre a termine il suo più alto progetto: un dizionario di tutte le lingue. Se consideriamo l'opera di Brisset dal punto di vista dell'humour, essa trae la sua importanza dalla sua situazione unica, a capo della linea che congiunge la patafisica di Alfred Jarry o «scienza delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà degli oggetti descritti nella loro virtualità» all'attività paranoico-critica di Salvador Dali o «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull'associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti». Non può non colpirci il fatto che l'opera di Raymond Roussel e l'opera letteraria di Marcel Duchamp si siano situate, a loro insaputa o meno, in stretta connessione con quella di Brisset, che stende la sua influenza fino ai più recenti esperimenti di smembramento poetico del linguaggio («Rivoluzione della parola»): Leon-Paul Fargue, Robert Desnos, Michel Leiris, Henri Michaux, James Joyce e la giovane scuola americana di Parigi.
Jean-Pierre Brisset
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L A GRANDE LEGGE O LA CHIAVE D E L L A
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PAROLA
Sono insite nella parola numerose Leggi, rimaste ignote fino ad oggi; la più importante è che un suono o una serie di suoni identici, chiari e percepibili, possono esprimere cose differenti, in seguito a una modifica nel modo di scrivere o di intendere quei nomi o quelle parole. Tutti i concetti enunciati con suoni simili hanno una stessa origine e si richiamano tutti, nel loro principio, a uno stesso oggetto. Prendiamo i seguenti suoni: Les dents, la bouche. Les dents l a bouchent, l'aidant la bouche. L'aide en la bouche. Laides en la bouche. Laid dans la bouche. Lait dans la bouche. L'est dam le à bouche. Les dents-là bouche.
[I denti, la bocca. I denti sbarrano la bocca, con l'aiuto della bocca. L'aiuto nella bocca. Brutti nella bocca. Brutto nella bocca. Latte nella bocca. È danno alla bocca. Quei denti là chiudi]
Se io dico: dents, la bouche (denti, la bocca)2 ciò richiama alla mente immagini del tutto familiari: i denti sono nella bocca. Si arriva cosi ad afferrare soltanto la superficie del libro di vita nascosto nella parola e sigillato da sette sigilli. Ora noi leggeremo in questo libro, oggi spalancato, ciò che era nascosto sotto le parole: les dents, la bouche. I denti sbarrano l'ingresso della bocca e la bocca è d'aiuto e contribuisce a questa occlusione: Les dents la bou1
[Tutte queste frasi hanno in francese la medesima pronuncia. La traduzione italiana può solo consentire una lettura letterale]. 2 [Si può anche leggere: dans la bouche (dentro la bocca)].
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chent, Vaiàant la bouche (i denti la sbarrano, con l'aiuto della bocca). I denti sono Vaide (l'aiuto), il sostegno en la bouche (nella bocca) e troppo spesso sono anche laides en la bouche (brutti nella bocca), e questo è anche laid (brutto). Altre volte, è invece lait (latte): sono bianchi come lait dans la bouche (latte nella bocca). L'est dam le à bouche si deve intendere: è un dam (danno), male o danno, qui nella bocca; o più semplicemente: Ho mal di denti. Si vede al tempo stesso che il primo dam ha un dent (dente) alla sua origine. Les dents-là bouche sta per: chiudi o nascondi quei denti, cioè chiudi la bocca. Tutto ciò che è in questo modo scritto nella parola e vi si legge chiaramente, è vero di una verità ineluttabile; è vero su tutta la terra. Ciò che è detto in una sola lingua è detto per tutta la terra: su tutta la terra, i denti sono d'aiuto e insieme sono brutti nella bocca, benché le altre lingue non lo dicano alla stessa maniera della lingua francese; ma dicono cose altrettanto importanti, sulle quali la nostra lingua non si pronuncia. Le lingue non si sono punto accordate tra loro; lo Spirito dell'Eterno, creatore di tutte le cose, ha predisposto da solo il suo libro di vita. Come ha potuto nascondere a tutti gli uomini, su tutta la terra, una scienza tanto semplice? Questa è la chiave che apre i libri della parola.
LA FORMAZIONE DEL
SESSO*
Cominciamo con l'osservare che si può cambiare l'ordine dei vocaboli di una frase senza modificarne il significa1
[Di questo brano, al confine dell'intraducibile, ci limitiamo a dare uno stralcio, rimandando il lettore all'edizione originale].
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to: La porte est ouverte (la porta è aperta) e porte est ouverte là (porta è aperta là) significano comunque: ouverte est la porte (aperta è la porta)... Ammesso ciò, noi leggiamo1: ai que ce? che valeva: ce qu'ai? oppure: qu'ai ce? = qu'ai-je? Le domande: ai que ce? est que ce? significavano: ai oppure est quoi ici? (che cos'ho, oppure che cos'è, qui?) e crearono la parola exe, il primo nome del sexe (sesso)2. Gli uni pronunciavano éqce> gli altri èqce, secondo la frase creatrice: ai que ce? est que ce? Per cui sexe si pronuncerà, secondo il caso: sécqce, sèqce. Ec, èque, oppure ek, formato da: ai que? è anche un primo nome del sesso: éque-ce valeva ce èque, ec o eky e divenne exe. Ci si domandò in seguito: ce exe, sais que ce? = ce point, sais-tu quoi c'est? (questo punto, sai che cos'è? ) che si trasformò in: sexe. - Sais que c'est} ce exe est, sexe est, ce excès. Ce excès (questo eccesso) è il sesso. - Si vede qui che il sesso fu il primo eccesso. Non vi è alcun eccesso da temere da coloro che non hanno sesso.
Je ne sais que c'est. Jeune sexe est \ (Non so che cos'è. Giovane sesso è). La prima cosa che fu notata dal progenitore, e che gli era sconosciuta, era un sesso giovane in formazione. In questo caso, i più lucidi sono ancora indotti a dire a volte: Je ne sais que c'est (non so che cosa è). Jeune sexe est, vale: sexe est jeune (sesso è giovane) e: jeune est sexe (giovane è sesso). La parola giovane può essere considerata come un nome. Ne risulta che giovane designa e designò coloro che assumevano il sesso. I giovani sono i bam1
[La dimostrazione di Brisset si basa su una serie di modificazioni della formula francese est-ce-que che introduce le frasi interrogative, e della frase qu'ai-je (che ho?); si basa inoltre sull'assonanza tra ai (ho) e est (è) e di quella tra ce (ciò, questo, quello) e je (io)]. 2 [ai que ce e est que ce si pronunciano entrambe exe]. 3 [Assonanza tra je ne e jeune ; e inoltre tra sais que c'est e sexe est].
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bini il cui sesso non ha ancora raggiunto tutto il suo vigore, a causa del suo lento sviluppo. Tu sais que c'est bien (tu sai che è bene), da cui: Tu sexe est bien. La parola tu, come la parola giovane, indicò anche il sesso. È un termine infantile: nascondi il tuo /«, il tuo tutu. Tu tu = il tuo sesso. Tu relues tu tu = tu guardi [reluques] il tuo sesso. Turlututu ripeteva indispettito chi era sottoposto a questa indiscreta constatazione... On sait que c'est (si sa che cos'è), da cui: On sexe est. Il pronome on designò il sesso e aveva il valore di en (in), en ce lieu (in questo luogo), en ce Vyeu = en cet ceil-là (in quell'occhio)1. Il sesso si presentò sotto forma di yeu cioè di occhio. Fu una piccola apertura. Il pronome on è indefinito e tutte le parole che può sostituire sono in primo luogo riferite al sesso, l'origine di ogni parola vivente: Pietro, Giovanni, Giulia, ecc., sait que c'est bien (sa che è bene) e sexe est bien (sesso è bene). Tutto ciò che può sapere qualcosa è a rigore, in origine, un sesso, un membro della famiglia umana o divina. Je sais que c'est bien (io so che è bene). Je (io) oppure jeu (gioco) sexe est bien. Il primo gioco era il sesso. Di qui la passione del gioco. Il prudente celava il suo gioco. Il pronome je designa anche il sesso, e quando je parla, è un sesso, un membro virile del Padre Eterno che agisce per sua volontà o suo consenso. Parlando del suo sesso il progenitore si accorse di parlare della sua propria persona, di se stesso.
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[Il plurale di œil è yeux; da cui Brisset trae il singolare yeu\
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L E CŒUR (IL CUORE)
Que heure! (Che ora! ) Que heurt! (Che colpo! ) 1 Leurre-leur l'heure. (Attira loro la fortuna). L'heure (Torà), dando le heurt (il colpo), dà l'heure (la fortuna)2. È con l'heure (l'ora) che si attirava la fortuna. Chi aveva l'heure (l'ora) era heureux, heure eux, cioè felice, fortunato. Finché l'ora non giungeva, si mancava di cuore. Il cuore è anche: Le qu'eust re, le queue re \ Il sesso sotto il nome di cuore colpi e diede per primo l'heure (l'ora, e anche la felicità). Fu lui che diede cuore al ventre. Le queue relevé (il membro rialzato) indicava le cœur élevé (il cuore nobile). Si chiamava senza cuore colui che non era sessuato. Il cuore prese il significato di cosa centrale, di cosa in mezzo, e cosi questa parola indicò il centro del regno del sangue; ma, in senso figurato, il cuore è sempre il sesso. Quando il nostro antenato aveva male al cuore4, ispirava disgusto e ripugnanza, e lo stesso quando lo sollevava e l'offriva all'adorazione di coloro che ne erano disgustati. Quel cuore era la chiave dei cuori che possono aprirsi. Ciò che noi oggi chiamiamo cœur (cuore) non può né aprirsi, né mostrarsi, né darsi, e mai lo potè. Tuttavia, l'espressione appare naturale e non scandalizza: ma lo spirito degli sciocchi è scandalizzato dal fatto che la donna fu presa da una queue haute (membro eretto), o côte (costola)5 dell'uomo. 1
[Que heure, que heurt e cœur hanno una pronuncia simile]. [In francese antico eur, eure e, anche in certe espressioni del francese moderno, heur, hanno il significato di fortuna, felicità, caso. SÌ ritiene che Brisset abbia mantenuto l'ortografia heure intendendola però in questa accezione]. 3 [Le qu'eust re, e le queue re, si pronunciano in modo simile a cœur, ma l'autore intende per queue-, la queue, volgare per il membro maschile. 4 [Avoir mal au cœur (lett. aver male al cuore) significa anche aver la nausea]. 5 [Queue haute e côte hanno una pronuncia simile]. 2
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Si poneva sul cuore, e dentro il proprio cuore, ciò che si aveva di più prezioso; e allora diventava sacro. Ce à cœur ai (ciò a cuore ho), ce à creux ai (ciò nel profondo ho) 1 . Ce à creux ai cœur, ci mostra l'unione dei cuori, cosi come le Sacré-Cœur (il Sacro Cuore)2 è trafitto da frecce. Si tratta di un abominio simile a quello dei bramini, che adoravano l'unione sessuale sotto il nome di lingam. I cuori consacrati e tutti i medaglioni sono dei tabu, delle immagini del sesso. I demoni hanno sempre il loro cuore in bocca, il loro buon cuore: il loro cuore cosi tenero e tuttavia pieno di durezza, il loro cuore adorabile e altre infamie. Adorano il Cuore di Gesù e insultano cosi colui che solo deve essere adorato: Dio. 1
[Ce à cœur ai g ce à creux ai hanno una pronuncia simile a sacré (sacro)]. 2 [Ce à creux ai cœur e Sacré-Cœur hanno una pronuncia simile].
O. Henry 1862-1910
O. Henry, con un cappello a cilindro sul capo, andò a vedere le cascate del Niagara e, ascoltandone il rumore, affermò di esser riuscito a individuarne il timbro: « I l suono che fanno le cascate è pressappoco 60 centimetri al di sopra del sol più basso del piano» l . Il grande umorista popolare porta con sé, lungo l'arco della sua opera, un passato lirico che evoca gli occhi chiari degli inizi del cinema americano, le strofe ardenti di Uemigrant de Landor Road di Apollinaire e i grandi appelli di Jacques Vaché alla vocazione comune a tutta una generazione: «Sarò anche cacciatore di pellicce, o ladro, o minatore, o cercatore d'oro, o scandagliatore. Bar dell'Arizona...» Fu cosi che O. Henry, puro prodotto di quel Texas dove compi i suoi studi, ai confini del Messico e del territorio indiano dell'Oklahoma, divenne di volta in volta cow-boy, cercatore d'oro, commesso di drogheria, disegnatore presso un'agenzia immobiliare, prima di essere messo in prigione per falso e poi riconosciuto innocente, e diventare editore di un giornale satirico. Il suo humour («gebrochener» Humour) è pieno di tenerezza^ come quello del primo Chaplin, e non pretende di modificare la struttura del mondo. «Tutti noi - egli dice - siamo in qualche modo costretti a prevaricare, mentire, essere ipocriti, e non solo di tanto in tanto, ma ogni giorno della nostra vita. Se facessimo altrimenti, la macchina sociale cadrebbe a pezzi nello spazio di una giornata. È necessario agire cosi, l'uno rispetto all'altro, come è necessario indossare gli abiti. Noi facciamo per il meglio». Ciononostante, la sua benevolenza e la sua commossa simpatia, cosi come in Thomas De Quincey, vanno per scelta elettiva alle «canaglie», ai fuorilegge. Le grandi piste poetiche che percorre a tutta andatura in racconti come La voce della città sono di quelle che solo uno splendido cavaliere riesce a descrivere. « I passi 1
[Gioco di parole intraducibile tra sol, «suolo» e sol, «nota musicale »].
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di un uomo perduto nella neve disegnano anche suo malgrado una circonferenza perfetta». D'altra parte, lo mette al riparo da ogni amarezza il senso dell'amore stupefatto, e il dono, che egli possiede, di sapersi piegare a volontà sopra il pozzo d'illusione dell'infanzia. Dalla campagna scrive alla sua nipotina: «Qui è estate, e le api sono in fiore; i fiori cantano, gli uccelli fanno il miele... A quando le feste di Pasqua e le uova di coniglio? Ma tu hai certo imparato a scuola che i conigli non fanno le uova; esse crescono invece su certi arbusti».
MENTRE L'AUTO ASPETTA
Puntuale, al cader del crepuscolo in quell'angolo quieto del piccolo quieto parco, ecco venire la ragazza in grigio. Siede su una panchina e si mette a leggere un libro, giacché c'è ancora una mezz'ora di luce sufficiente. Ripeto: la sua veste era grigia e semplice abbastanza da mascherare l'impeccabilità dello stile e del taglio. Una veletta a larghe maglie imprigionava un turbante e un volto raggiante di calma e ignara bellezza. Era venuta anche il giorno avanti, e due giorni prima, e c'era chi lo sapeva. Il giovane che sapeva si aggirava nei pressi levando preci alla grande dea Fortuna. La sua pietà fu ricompensata quando, voltando pagina, il libro le sfuggi di mano e cadde a un buon mezzo metro dalla panchina. Il giovanotto si slanciò avanti con avidità repentina e riportò il libro alla proprietaria con quell'aria, propria di chi frequenta i parchi e in genere i luoghi pubblici, fatta d'un misto di galanteria e speranza temperate dal rispetto per il probabile poliziotto di turno. Con voce gradevole arrischiò una banale osservazione sul tempo (pretesto responsabile di tanta infelicità umana) e rimase in attesa del suo destino. La ragazza ispezionò a lungo, senza fretta, l'abito or-
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dinato e senza pretese e il volto scarsamente espressivo del giovane. - Sieda, se lo desidera, - disse. Aveva una voce da contralto, piena e fonda. - Dico sul serio; mi farebbe piacere. La luce è troppo fioca per leggere e preferirei conversare. Il devoto della Fortuna scivolò con evidente soddisfazione sulla panca. - Sai, - disse, pronunciando la formula di apertura degli incontri nel parco, - che sei la ragazza più straordinaria che abbia visto da un pezzo? Non sapevi mica, tesoro, che c'era qualcuno ch'era rimasto ammaliato da quei tuoi occhioni radiosi? - Chiunque lei sia, - rispose gelida la ragazza, - cerchi di ricordare che sono una signora. Posso perdonare ciò che ha detto, giacché è un errore senza dubbio comprensibile nel suo ambiente. Ma se il mio invito a sedere significa che devo diventare il suo tesoro, lo consideri pure annullato. - Le chiedo sinceramente perdono, - disse il giovane, fattosi da baldanzoso, umile e pentito. - È stata colpa mia, ma sa, nei parchi si incontrano certe ragazze... cioè, no, certo, lei non lo sa, ma.... - Cambiamo argomento, se non le spiace. Certo che lo so. Parliamo piuttosto di questa gente che passa nei viali. Dove vanno? e perché cosi in fretta? sono felici? Il giovane, abbandonato rapidamente il tono frivolo, cercava di indovinare il ruolo che gli sarebbe toccato. - È molto interessante osservare la gente, - rispose, assecondandola. - Il meraviglioso teatro della vita: alcuni vanno a casa per cena e altri a... beh, in altri posti. Viene voglia di sapere la storia di ognuno. - A me no, - disse la ragazza. - Non sono cosi indiscreta. Vengo qui unicamente perché è l'unico luogo dove riesco a star vicina al grande, pulsante cuore dell'umanità. La vita mi ha assegnato un ruolo che mi tiene lontana da
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quei battiti. Riesce a immaginare perché le ho parlato, Mr...? - Parkenstacker, - disse il giovane, e attese impaziente e fiducioso. - No, - disse la ragazza, e levando un dito sottile con un lieve sorriso. — Il mio nome lo riconoscerebbe subito; è impossibile sfuggire alla stampa; del resto riconoscerebbe anche il mio viso. Questo cappello e il velo della mia domestica mi assicurano in qualche modo l'incognito. Avrebbe dovuto vedere come li guardava l'autista, quando credeva che non me ne accorgessi. Insomma, per farla breve, vi sono cinque o sei nomi che appartengono al sancta sanctorum, e il mio è tra questi. Le ho rivolto la parola, Mr Stackenpot... - Parkenstacker, - corresse umilmente il giovane. - Mr Parkenstacker, perché desideravo parlare per una volta con un uomo qualunque, incontaminato dal meschino scintillio della ricchezza e della cosiddetta superiorità sociale. Ah, non può immaginare quanto ne sia stufa: denaro, denaro, denaro! E gli uomini che mi circondano, queste marionette tutte uguali. Stufa dei piaceri, dei gioielli, dei viaggi, della vita di società, dei lussi. - Avevo sempre pensato, - tentò il giovane timidamente, - che il denaro fosse una cosa apprezzabile. - Certo, il necessario è sempre auspicabile. Ma quando si hanno tanti milioni che... — concluse la frase con un gesto di disperazione. - È la monotonia che nausea, - disse, - gite, pranzi, teatri, balli, cene, tutto indorato da questa ricchezza superflua. A volte il tintinnio del ghiaccio nella mia coppa di champagne mi porta sull'orlo della pazzia. A questo punto Mr Parkenstacker mostrò un sincero interesse. - Mi è sempre piaciuto, - disse, - leggere ciò che riguarda la gente di mondo. Forse sono uno snob, ma mi piace conoscere con precisione i minimi particolari. Ora,
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a me era parso di capire che lo champagne viene ghiacciato nella bottiglia e non mettendo il ghiaccio nei bicchieri. - Dovrebbe sapere, - disse con una sfumatura di ineffabile indulgenza la ragazza, - che per la gente oziosa come noi uno dei maggiori divertimenti sta nell'inedito. In questo momento è di moda mettere il ghiaccio nello champagne. L'idea parti da un principe tartaro durante una cena al Waldorf. Tra poco verrà fuori qualche altro capriccio. Per esempio a una cena in Madison Avenue questa settimana, avevano messo accanto al piatto di ciascun ospite un guanto di capretto verde da usare per mangiare le olive. - Capisco, - ammise umilmente il giovane, - naturalmente questi passatempi della cerchia degli eletti non possono giungere all'orecchio del grosso pubblico. - A volte, — disse la ragazza, accettando questo riconoscimento con un leggero cenno del capo, — penso che se mai dovessi amare, amerei un uomo di condizione sociale modesta. Un lavoratore, non un fannullone. Purtroppo, le esigenze di casta e di ricchezza saranno più forti delle mie inclinazioni. Al momento sono assediata da due uomini; uno è un granduca di un principato tedesco, credo che abbia o abbia avuto una moglie in qualche posto, impazzita per le sue intemperanze e crudeltà. L'altro è un marchese inglese, cosi freddo e mercenario che quasi preferisco le diavolerie del duca. Ma perché racconto a lei queste cose, Mr Packenstacker? - Parkenstacker, - bisbigliò il giovane. - Non può immaginare quanto io apprezzi le sue confidenze. La ragazza lo considerò con occhi calmi, impersonali quali convenivano alla loro differente condizione sociale. - Quale è la sua attività, Mr Parkenstacker? - chiese. - Una attività molto umile, ma spero di farmi strada. Diceva proprio sul serio quando affermava che potrebbe amare un uomo di umili condizioni? - Certo. Ma ho detto «potrei». Ci sono il granduca e
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il marchese, ricorda? Si, nessun mestiere potrebbe parermi troppo umile se l'uomo fosse quale desidero. - Io, — disse Mr Parkenstacker, - lavoro in un ristorante. La ragazza rabbrividì leggermente. - Non come cameriere? - chiese, quasi implorante, tutti i lavori nobilitano, ma, lei capisce, il servizio... - Non sono un cameriere. Sono cassiere, - una grossa insegna RISTORANTE brillava sulla strada che cingeva il lato opposto del parco, - sono cassiere in quel ristorante. Come a un segnale, la ragazza consultò il piccolo orologio da polso montato su un braccialetto barocco e si alzò in fretta. Sistemò il libro in una reticella che portava appesa alla cintura, troppo piccola per contenerlo, e chiese; - Come mai non è al lavoro? - Faccio il turno di notte, - disse il giovane, - ho ancora un'ora prima di cominciare. Posso sperare di vederla ancora? - Non lo so. Forse... può darsi che non mi prenda più questo capriccio. Ora ho fretta. Ho una cena e un palco a teatro, Dio mio! la solita giostra! Forse avrà notato un'automobile all'entrata del parco quando è venuto. Un'automobile bianca. - Con fregi rossi? — chiese il giovane corrugando le sopracciglia come per ricordare. - Si. Adopero sempre quella per venire qui. Pierre mi aspetta li. Crede che stia facendo spese nel grande magazzino dall'altro lato della piazza. Pensi che schiavitù una vita in cui si è costretti a mentire perfino al proprio autista. Buonanotte. - Ma è buio ora, - disse Mr Parkenstacker, - e il parco è pieno di gentaglia. Non posso accompagnarla...? - Se ha il minimo rispetto per i miei desideri, - disse la ragazza in tono fermo, — lei resterà su questa panchina per dieci minuti dopo che sarò andata via. Non ho intenzione di offenderla, ma saprà che le automobili recano il
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monogramma del proprietario sullo sportello. Di nuovo, buona notte. Rapida e altera scomparve nell'ombra. Il giovane rimase ad osservarne la svelta figura mentre raggiungeva il marciapiede esterno del giardino e svoltava verso l'angolo dove si trovava l'automobile. Poi di soppiatto, senza esitazione, cominciò a correre ripiegato su se stesso tra alberi e cespugli, seguendo una strada parallela a quella di lei e senza perderla un attimo di vista. Raggiunto l'angolo, la ragazza lanciò un'occhiata all'automobile, la sorpassò e attraversò la strada. Protetto da una carrozza parcheggiata il giovane ne segui i movimenti da presso con gli occhi. Muovendo lungo il marciapiede della strada dirimpetto al parco, entrò nel ristorante dal segnale luminoso. Era uno di quei locali sfacciatamente chiassosi, tutto vernice bianca e vetri, dove si può mangiare a poco prezzo. La ragazza entrata nel ristorante scomparve in qualche ripostiglio donde emerse rapidamente senza cappello e veletta. La cassa era assai vicina all'entrata. Una ragazza dai capelli rossi scese dallo sgabello guardando intenzionalmente l'orologio. La ragazza in grigio prese il suo posto. Il giovane si ficcò le mani in tasca e ritornò lentamente sui suoi passi. All'angolo colpi col piede un libretto non rilegato, mandandolo a finire sull'orlo del marciapiedeDalia copertina colorata riconobbe il libro della ragazza. Lo raccolse senza curiosità e, visto che si trattava di Le nuove mille e una notte di un certo Stevenson, lo lasciò ricadere sull'erba. Poi, rimasto un attimo in forse, entrò nell'automobile, si adagiò sui cuscini e disse all'autista: - Club, Henry. Trad, di Giuliana Scudder.
André Gide 1869-1951
La vera questione in sospeso fra le due generazioni che per una ragione o per l'altra hanno creduto di potersi richiamare all'opera di André Gide, è rappresentata dall'humour nero. Volenti o nolenti bisogna riconoscere che la pubblicazione di Les caves du Vatican alla vigilia della guerra segna il culmine del malinteso fra queste due generazioni. Dal momento stesso in cui apparve sulla «Nouvelle Revue Française», quest'opera suscita due correnti di giudizio in netto contrasto fra loro: mentre da un lato la maggior parte degli ammiratori e amici dell'autore rimangono sconcertati e s'affrettano ad affermare che egli si è sviato (l'accusano di indulgere al romanzo d'appendice, di cadere nella parodia, di che cosa non si sa ma in ogni caso alla parodia, gli rimproverano di mancare, per la prima volta, di serietà), dall'altra i giovani si esaltano, non tanto a dire il vero per la trama, d'altronde più che accettabile nella sua levità, e per lo stile, non scevro di residui estetizzanti, quanto per la creazione basilare del personaggio di Lafcadio. Questo personaggio, totalmente incomprensibile per i primi, appare ai secondi pieno di significato, destinato a una straordinaria progenie; rappresenta ai loro occhi una tentazione e una giustificazione di prim'ordine. Negli anni di sfacelo intellettuale e morale della guerra '14-18, l'importanza di questo personaggio non fece che aumentare: rappresentò l'incarnazione del non-conformismo sotto tutti i suoi aspetti, con un sorriso che i tapirs1 trovarono di comune accordo affascinante, benché fosse impercettibilmente obliquo e crudele. Con lui nasce una specie di «obiezione di incoscienza» ben più seria dell'altra e che non ha ancora detto la sua ultima parola. Le idee di famiglia, di patria, di religione e perfino di società, escono terribilmente malconce dall'attacco sferrato da un adolescente, con la sua noia per nulla rassegnata e i suoi tutt'altro che sedentari ozi. «L'opera d'arte per me è solo 1
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un ripiego - dichiarerà a Gide nel 1 9 1 9 un giovane tedesco che era andato a trovarlo - io preferisco la vita... ecco (e, nota l'autore delle Nourritures terrestres, stende il braccio con un gesto elegante) io provo più felicità a stendere semplicemente un braccio che a scrivere il più bel libro del mondo. L'azione, è questo che io voglio; si, l'azione più intensa... intensa... fino all'assassinio...» È facile vedere in questo atteggiamento, e in quello di Lafcadio, lo sbocco logico, attivo, moderno, della concezione del dandysmo. A l «fronte», Jacques Vaché, che pure era in molte cose ostile a Gide, sogna di piazzare il suo cavalletto fra le linee francesi e quelle tedesche per dipingere il ritratto di Lafcadio. Qualche anno prima Arthur Cravan, nipote di Oscar Wilde, e Lafcadio parziale ante-litteram, aveva fatto notare, con la massima severità e col massimo garbo, la distanza che separa André Gide dal suo personaggio. Cionondimeno a più riprese Gide ha scavalcato il principio di realtà, e poiché - humour a parte - tra tutti gli autori contemporanei egli è quello che si dà maggiormente da fare per durare, siamo più d'uno a credere che in ciò consista la parte meno peritura della sua opera.
IL PROMETEO M A L E
INCATENATO
IV.
Nella sala delle Lune Nuove, alle 8 precise, la folla entrò. Coclite si sedette al centro sinistro; Damocle al centro destro; il resto del pubblico nel mezzo. Uno scoppio d'applausi salutò l'entrata di Prometeo; egli sali gli scalini del palco, posò l'aquila accanto a sé e riprese il controllo. Nella sala un silenzio fremente... La petizione di principio. - Signori, - cominciò Prometeo, - non avendo la pretesa, ahimè, di interessarvi con quello che sto per dire ho avuto l'avvertenza di portare con me quest'aquila. Dopo
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ciascun passo noioso del mio discorso essa farà qualche giochetto. Ho portato anche delle fotografie oscene e dei razzi: nei momenti più gravi del mio discorso procurerò di distrarre con queste cose il pubblico. Oso dunque sperare, signori, un po' d'attenzione. - A ogni nuovo punto del discorso avrò l'onore, signori, di farvi assistere a un pasto dell'aquila - perché, signori, il mio discorso ha tre punti; non ho creduto di dover rigettare questa forma che piace al mio spirito classico. E questo che ho detto potendo servire come esordio, vi dirò ora, anticipatamente e senza trucchi, quali sono i due primi punti del mio discorso. - Primo punto: Bisogna avere un'aquila. - Secondo punto: Del resto ne abbiamo tutti una. - Temendo che voi mi accusiate, signori, di partito preso; temendo pure di nuocere alla libertà del mio pensiero, io non ho preparato il mio discorso che per i due primi punti: il terzo scaturirà naturalmente dagli altri due; e cosi lascio alla passione tutta la sua libertà. In guisa di conclusione l'Aquila, signori, farà la questua. - Bravo! Bravo! - grida Coclite. Prometeo bevve una sorsata d'acqua. L'aquila fece, piroettando, tre volte il giro di Prometeo poi salutò. Prometeo guardò nella sala, sorrise a Damocle e a Coclite, e vedendo che non si notava ancora nessun segno di noia, rimise a più tardi i razzi e riprese:
v. - Per quanta abilità rettorica vi adoprassi non potrei, signori, dinanzi ai vostri spiriti chiaroveggenti, prestidigitarvi la fatale petizione di principi che mi aspetta alle soglie del mio discorso. - Signori avremo un bel fare ma non sfuggiremo alla petizione di principio. Cos'è una petizione di principio?
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Signori, mi arrischio a dirlo: ogni petizione di principio è un'affermazione di temperamento perché, dove i principi mancano, s'afferma il temperamento. — Quando io dichiaro: Bisogna avere un'aquila, voi potreste esclamare: Perché? cosa volete che vi risponda che non si possa riportare a questa formula in cui s'afferma il mio temperamento: Io non amo gli uomini; amo ciò che li divora. — Il temperamento, signori, è ciò che si deve affermare. Nuova petizione di principio, direte voi. Ma vi ho dimostrato ora che ogni petizione di principio è un'affermazione di temperamento e siccome sostengo che bisogna affermare il proprio temperamento (perché ciò importa) io ripeto: Non amo l'uomo; amo ciò che lo divora. Ma chi è che divora l'uomo? La sua aquila. Dunque, signori, bisogna avere un'aquila. Io ritengo che questo punto sia dimostrato abbastanza. Prometeo bevve una sorsata d'acqua. L'aquila piroettò tre volte intorno a Prometeo e salutò. Prometeo riprese. - Signori, io non ho conosciuto sempre la mia aquila. Ciò mi fa supporre, in forza d'un ragionamento che ha un nome particolare, di cui non mi ricordo più, nella logica che io studio, del resto, da soli otto giorni - ciò mi fa supporre, dicevo, che malgrado il fatto che la sola aquila qui presente sia la mia, voi dovete avere, signori, tutti quanti un'aquila. - H o taciuto fino ad ora la mia storia; d'altra parte, fino a questo momento, non la capivo troppo bene. E se mi decido a parlarvene è perché essa, grazie alla mia aquila, mi appare ora meravigliosa.
vi.
- Signori, ve l'ho già detto: io non ho visto sempre la mia aquila. Prima ero incosciente e bello, felice e nudo
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senza saperlo. Giorni incantevoli! Sui fianchi grondanti del Caucaso, felice e nuda anch'essa la lasciva Asia mi baciava. Si ruzzolava insieme nelle valli; sentivamo l'aria cantare, l'acqua ridere, odorare i più semplici fiori. Spesso ci si coricava sotto le ampie fronde, fra i fiori dove sciami mormoranti si sfiorano. Asia mi sposava, piena di risa; poi dolcemente il brusio degli sciami, dei fogliami, dove si fondeva quello dei numerosi ruscelli, c'invitava al più dolce dei sonni. Intorno a noi tutto permetteva, tutto proteggeva la nostra solitudine inumana, — improvvisamente, un giorno Asia mi disse: dovresti occuparti degli uomini. - Mi toccò per prima cosa cercarli. - Fui contento d'occuparmi di loro; ma era averne pietà. - Erano male illuminati; inventai per essi dei fuochi; e da allora cominciò la mia aquila. Da quel giorno mi accorgo d'esser nudo. A questo punto, degli applausi partirono da diversi punti della sala. Bruscamente, Prometeo scoppiò in singhiozzi. L'aquila batté le ali, tubò. Con un gesto atroce Prometeo si apri il panciotto e porse il suo fegato doloroso all'uccello. Gli applausi raddoppiarono. Poi l'aquila fece piroettando tre volte il giro di Prometeo; il quale bevve un sorso d'acqua, si riprese e continuò il suo discorso in questi termini:
VII.
- Signori, la mia modestia ha avuto la meglio. Scusatemi: è la prima volta che parlo in pubblico. Ma ora prevale la mia franchezza: signori, mi sono occupato degli uomini assai più di quel che ho detto. Signori, ho fatto molto per gli uomini. Signori, ho amato appassionatamente, perdutamente e deplorevolmente gli uomini. - E ho fatto tanto
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per loro che potrei dire d'averli fatti - perché, prima, che cos'erano? Esistevano ma non avevano coscienza d'esistere. Come un fuoco per illuminarli, signori, io feci questa coscienza con tutto il mio amore. La prima coscienza che ebbero fu quella della loro bellezza, e fu questa che permise la propagazione della specie. L'uomo si prolungò nella sua posterità. La bellezza dei primi si ripete, eguale, indifferente, e senza storia. E ciò avrebbe potuto durare a lungo. Pensoso, allora, e portando digià in me senza saperlo l'uovo della mia aquila, volli più e meglio. Questa propagazione, questo prolungamento frazionato mi parve indicare in essi un'attesa - mentre, in verità, soltanto la mia aquila aspettava. Io non sapevo; questa attesa la credevo nell'uomo; questa attesa la riponevo nell'uomo. E poi, avendo fatto l'uomo a mia immagine, io capisco ora che in ciascun uomo qualcosa di non sbocciato attendeva; in ognuno di loro era l'uovo d'aquila... E poi non so nulla; non posso spiegarmi. Ma so che non soddisfatto di dar loro la coscienza del loro essere io volli dare anche la ragione d'essere. E detti a loro il fuoco, la fiamma, e tutte le arti che s'alimentano con la fiamma. Scaldando i loro spiriti vi feci sbocciare la divorante fede nel progresso. E stranamente mi rallegravo che la salute dell'uomo si consumasse per generarla. Non più credenza nel bene bensì morbosa speranza del meglio. La fede nel progresso, signori, era la loro aquila. La nostra aquila è la nostra ragion d'essere, signori. - La felicità dell'uomo scemò, scemò, e non m'importava: l'aquila era nata, signori! Io non amavo più gli uomini, amavo invece ciò che si nutriva di loro. - Finita, per me, l'umanità senza storia... la storia dell'uomo è la storia delle aquile, signori. Trad, anonima, Vallecchi, Firenze 1920.
John Millington Synge 1871-1909
Se si volesse racchiudere in un talismano il singolare potere di dominio su se stessi e sugli altri che l'humour è in grado di conferire, tale talismano dovrebbe contenere un po' di terra irlandese: John Millington Synge, con la sua opera poetica e drammatica, ci offre appunto e soprattutto un sacchetto di questa terra, in ciò che essa ha di più fresco e di più profumato. Al vertice della sua opera si colloca II furfantello dell'ovest, che non solo ci appare, come disse George Moore, «la commedia più significativa degli ultimi due secoli», ma ha inoltre il potere di sollevare sul teatro del futuro, quale esso dovrà essere, il velo di mille sipari. Con questa commedia infatti si verifica una rottura definitiva con le formule antiquate di cui ci si vale ai giorni nostri nel tentativo di ricreare quel mezzo di espressione che un Eschilo, uno Shakespeare o un Ford hanno innalzato al di sopra di tutti gli altri, ma che oggi ha dietro di sé secoli di avvilimento. Si tratta, come ha osservato Antonin Artaud, di «ritrovare il segreto di una poesia oggettiva basata sull'humour, alla quale il teatro ha rinunciato abbandonandola al music-hall, e che il cinema ha saputo poi sfruttare». Questo segreto è chiuso nelle mani di Synge, e Guillaume Apollinaire ha saputo presagirlo, in una nota all'indomani della rappresentazione del Furfantello a Parigi: «Da questo realismo di una perfezione sempre inaspettata scaturisce una poesia cosi forte e di cosi rara qualità che non mi stupisce affatto lo scandalo che ha suscitato». La commedia era stata fischiata a Dublino, e a New York le rappresentazioni finivano in sommosse. «A Parigi - aggiunge Apollinaire - tutti rimasero indifferenti, salvo i poeti che furono vivamente colpiti da questa tragicità cosi nuova; il fatto è che Ì poeti hanno sempre più o meno cercato di uccidere il padre; ma è cosa ben difficile, ne è testimone il Furfantello, e guardando la sala il giorno della prova generale, dicevo tra me e me: troppi padri e non abbastanza figli». Questa interpretazione del significato dell'opera, per quanto felice essa
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sia, non ne esclude parecchie altre, e la caratteristica di questa «commedia» sta proprio nelTaverne fatte nascere tante e cosi disparate. Per i puritani di New York che, volontariamente o meno, si limitarono ciecamente ai suoi contenuti più immediati, essa cadeva «per quattro motivi» sotto la sferza della legge che vieta la rappresentazione di opere «lascive, sacrileghe, oscene o indecenti». Per un critico irlandese, nota Maurice Bourgeois, autore della bella traduzione francese, essa era semplicemente la versione drammatica della beffa di Baudelaire, che entra in un ristorante parigino esclamando ad alta voce «Dopo che ebbi assassinato il mio povero padre...» lasciando sbigottiti gli astanti. Per i traduttori tedeschi rappresentava la lotta della «giovane Irlanda» contro la «vecchia Irlanda». Per altri ancora, niente di meno che la lotta della materia contro lo spirito. Vi è bisogno di sottolineare che, benché finora non se ne sia parlato, le componenti immediate della commedia si potrebbero spiegare in modo più che soddisfacente ricorrendo semplicemente al complesso di Edipo? L'importante è che la ricerca del «contenuto latente» ci mette di fronte a una rosa di significazioni che tendono a essere valide, nello stesso tempo, su più piani e per tutti, come se, col Furfantello, s'avesse a che fare con un precipitato del sogno universale. Synge che, prima di ritirarsi in Irlanda e affrontare il teatro, aveva viaggiato in Germania e in Italia e aveva soggiornato a lungo in Francia, s'era fatta un'idea molto chiara dello scoglio su cui rischiavano di infrangersi, in letteratura e in arte, entrambe le tendenze antagoniste del suo tempo: «La letteratura moderna delle città ottiene qualche risultato solo in uno o due libri molto tormentati che sono ben lontani dai profondi e comuni interessi della vita. Da un lato vi sono Mallarmé e Huysmans che producono appunto questa letteratura, e dall'altra Ibsen e Zola che trattano della vita reale in termini disincantati e incolori». Synge ha trovato il modo di risolvere questa contraddizione nel linguaggio ultra-concreto e insieme perdutamente magico del popolo irlandese, ridotto a chiudersi, per ragioni geografiche ed economiche, nella propria indole, e nell'immaginazione bruciante con cui questo popolo di pastori e pescatori, di ostesse e di stagnai nomadi, cerca di liberarsi dalla «schiavitù delle colline». La straordinaria luce dell'opera di Synge sta nell'aver saputo denudare per noi, fino alla linfa, questo magnifico albero primitivo.
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IL FURFANTELLO DELL'OVEST
A t t o II.
E..., vi domando scusa, siete voi l'uomo che ha ammazzato suo padre? CHRISTY (venendo avanti di sghimbescio verso il chiodo dov'era appeso lo specchio) Sono io si, il cielo mi perdoni. SARA (mostrandogli le uova che ha portate) Allora abbiate il mio grazioso saluto, signore. Son venuta di corsa sin quassù a portarvi un paio d'uova di anitra per la vostra cena di oggi... Le anitre di Pegeen non fanno uova, ma queste qui sono di ottima qualità. Allungate la mano e sentite se dico bugie. CHRIS T Y {avanzando timidamente verso di lei, soppesando le uova con la mano sinistra) Sono grosse si, e di un bel peso. SUSANNA Ed io v'ho portato una formella di burro, ch'è davvero una triste cosa v'abbiate a nutrire a patate secche dopo che avete percorsa tanta strada dacché avete ammazzato vostro padre. CHRIS T Y Grazie di cuore. ONORINA Ed io vi ho portato una fetta di focaccia. Dovete aver lo stomaco ai calcagni voi dopo tanto scorrazzare che avete fatto. NELLY Ed ecco qua una pollastrina da ova, cotta a lesso, e tutto. È rimasta schiacciata l'altra sera sotto la carrettella del curato. Toccatele il petto, signore, sentite com'è grasso! CHRISTY Grasso da scoppiare, proprio. (Tocca il petto SARA
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della pollastra col dorso della mano nella quale tiene i regali). SARA Datele anche una palpatina, di grazia... La vostra mano è poi una cosa cosi santa che non si degna di farlo? {Gli scivola dietro) Ha in mano uno specchio:... Ah, ah, parola che non ho mai visto un uomo che tenesse uno specchio dietro al dorso. Quelli che uccidono i loro babbi, han da esser gente un po' vanesia. Le ragazze sghignazzano. (sorridendo con aria innocente e ammonticchiando i doni sopra lo specchio) Grazie, grazie di cuore a tutte quante. LA VEDOVA (entra come un colpo di vento e si sofferma sulla porta) Sara Tansey, Susanna Bray, Onorina Blake! Che diavolo fate qui a quest'ora? RAGAZZE (ridacchiando) C'è qui l'uomo che ha ammazzato suo padre. L A VEDOVA (andando verso loro) Lo so beae ch'è lui: ed io sono venuta su appunto per vedere di iscriverlo alle gare sportive che han luogo quest'oggi laggiù alla spiaggia: saltare, correre, lanciare il disco, e Dio sa che cosa! SARA (vivace) Bene la Vedova. Ci scommetto la mia dote ch'egli subisserà il mondo intiero. L A VEDOVA Allora abbiate cura di mantenerlo in forze e ben nutrito. (Prendendo i doni) Avete il ventre pieno o digiuno, figliolo? CHRISTY Digiuno, se non vi spiace. LA VEDOVA (forte) Bene, ora vi sazieremo... Su, ragazze, movetevi e preparategli da colazione. (A Christy) Intanto venite qua giovanotto. (Lo fa sedere sulla panca accanto a lei mentre le ragazze preparano il tè e la colazione) E raccontateci tutta la vostra storia avanti che Pegeen ritorni.
CHRIS T Y
•V.
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Oh, è una storia un po' lunga... vi struggereste a sentirla. LA VEDOVA Via, non siate cosi schivo: un ragazzo astuto e traditore della vostra sorte!... Fu in casa vostra che gli avete spaccata la testa? CHRISTY (timidamente ma lusingato) No, non fu là... si stava a vangare le patate nel suo campiciattolo a tramontana, sassoso, tutto in monte... L A VEDOVA E m'immagino che gli avrete domandato quattrini o vi sarete messo a dire di volere sposare qualche ragazza che non gli andava a genio. CHRISTY NO, niente affatto... Io ero là che vangavo vangavo, e lui mi fa: «Tu, sguercio d'un idiota, va' giù dal prete e digli che fra una ventina di giorni sposerai la vedova Casey». L A VEDOVA Che tipo di donna era questa vedova Casey? CHRISTY (con orrore) Uh, il Babau in persona quando va a spasso per le colline! Con un paio di dozzine d'anni per gamba o giù di li, dugentocinque libbre di peso in bilancia; zoppa da una gamba, sguercia da un occhio e poi una donna di pessima condotta ch'era notorio se la faceva coi vecchi e coi giovani. RAGAZZE (che si radunano intorno a lui e lo servono') Mammamia! L A VEDOVA E per qual motivo voleva costringervi a sposarla? {Si piglia su un'ala di pollo). C H R I S T Y (mangiando con crescente soddisfazione) Mah, diceva ch'avevo bisogno d'una persona che mi proteggesse contro le insidie del mondo; ma in realtà, egli voleva beccarsi la sua capanna per starci lui, e il denaro per trincarselo. L A VEDOVA Eh, si può star peggio di cosi, con un focolare spento, una vecchia femmina e un bicchiere da bere, le sere? Eh, dite un po', fu allora che gli siete zompato addosso? CHRISTY {eccitandosi sempre piti) No. «Io non la vo-
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(con una certa compiacenza)
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glio sposare», dico io. «Già tutti sanno ch'è stata lei ad allattarmi per sei settimane quando venni al mondo, e poi una vecchia strega di quella sorta che nemmeno i gabbiani e le cornacchie le andrebbero a gittar ombra sull'orto per paura della sua maledizione». LA VEDOVA Bella compagnia sarebbe stata la sua. SARA (vivacemente) E voi, allora lo avete accoppato. CHRISTY «Gli è una donna troppo fina per un gaglioffo come te», dice lui. «Bene, o tu la sposi, o ti spiaccico come un verme cui è passato sopra un carro». «Tu non lo farai se io mi ci metto», fo io. «O tu la sposi», ripete lui, «o stanotte chiamo il demonio che farà delle tue membra un mazzo di legacce!» «Tu non lo farai s'io mi ci metto», fo io. (S'alza da sedere e brandisce la tazza). SARA Eravate nel vostro diritto. CHRIS T Y (cercando di fare impressione) E con questo il sole spuntò su dalla collina e brillò, livido, sulla mia faccia!... «Dio abbia pietà dell'anima tua!» grida egli alzando la falce. «O della tua piuttosto!» rispondo io levando la vanga. SUSANNA Gli è pur una magnifica storia! ONORINA E come la racconta bene. C H R I S T Y (lusingato pieno di confidenza, agitando l'osso di pollo) Egli allora balzò su di me con la falce brandita, ma io feci un salto avanti. Poi trinciai una giravolta voltando il dorso a sinistra e gli rigirai una vangata sulla cima del capo che in un amen te lo stese là netto stecchito col cranio spaccato fino alla bozza del gorgozzule. 0Con la punta dell'osso indica il suo pomo d'Adamo). SUSANNA Ah, Cielo benedetto! SARA Voi si che siete un uomo. ONORINA Voi siete un eroe!
Trad, di Carlo Linati, Studio Editoriale Italiano, Milano 1 9 1 7 .
Alfred Jarry 1873-1906
Come egli disse: «Redon - quello che mistero» o «Lautrec quello che manifesto», bisognerebbe dire: «Jarry, quello che rivoltella». « È un grande piacere di... proprietario — scrive a Madame Rachilde l'anno stesso della sua morte - poter sparare con la rivoltella nella propria camera da letto». Una sera, mentre in compagnia di Guillaume Apollinaire, assiste a uno spettacolo del circo Bostock, terrorizza Ì vicini agitando una rivoltella, nell'intento di convincerli della propria abilità di domatore. «Jarry - dice Apollinaire - non mi nascose la soddisfazione provata nello spaventare i buoni borghesi e, ancora con l'arma in pugno, sali sull'imperiale dell'omnibus diretto a Saint-Germain-des-Prés. Dì lassù mi salutava agitando ancora il suo cannone». Un'altra volta, in un giardino, si diverte a stappare le bottiglie di champagne a colpi di rivoltella. Alcuni proiettili finiscono oltre il muro di cinta, e provocano l'irruzione di una signora i cui figli giocavano nel giardino accanto. « " M a se li colpivate, pensate un po'! " " E h ! - dice Jarry, - se è solo per questo, signora, ve ne faremo degli altri"». Un'altra volta, durante una cena, spara sullo scultore Manolo, reo, secondo lui, di avergli fatto delle proposte sconvenienti: gli amici lo trascinano via, ed egli esclama: «Mica male come letteratura, vero?... Ma, ho dimenticato di pagare il conto». Negli ultimi giorni della sua vita si reca ogni sera, con un cappello di pelliccia e in pantofole, dal dottor Saltas (lo stesso che, avendogli chiesto, in punto di morte, cosa avrebbe potuto fargli piacere, si senti rispondere: uno stuzzicadenti) portando due rivoltelle alla cintura e armato, per di più, di una robusta canna piombata. Questa inseparabile alleanza di Jarry e della sua rivoltella, proprio come per André Marcueil, l'eroe del Surmàle e della Machine à inspirer l'amour, può essere considerata come la chiave risolutiva del suo pensiero. La rivoltella è il paradossale legame tra il mondo esteriore e quello interiore. Nel piccolo oggetto a forma di paralle-
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logrammo che si chiama il caricatore dormono, già bell'e pronte, un'infinità di soluzioni, di vie di conciliazione: «Sulla disputa tra il segno Più e il segno Meno, il R. P. Ubu, della Compagnia di Gesù, ex re di Polonia, farà ben presto un gran libro che avrà per titolo César Antechrist, dove si trova la sola dimostrazione pratica dell'identità dei contrari, per mezzo di quel congegno meccanico detto bastone da fisica». Con Jarry la letteratura si sposta pericolosamente su un terreno minato. L'autore si impone in margine alla sua opera; il trovarobe, seccante quanto si vuole, passa e ripassa senza tregua davanti all'obiettivo, fumando un sigaro; impossibile cacciar via dalla casa ormai finita questo operaio che si è messo in testa di piantar su di essa la bandiera nera. Noi affermiamo che con Jarry, ancor più che con Wilde, viene a trovarsi contestata, e finirà poi annullata nelle sue stesse basi, la distinzione fra arte e vita che a lungo si era ritenuta necessaria. Dopo la prima rappresentazione di Ubu roi, ci dicono, Jarry intraprende un processo di identificazione a qualsiasi costo con la sua creazione: ma in realtà, di quale creazione si tratta? Ammesso che l'humour rappresenti la rivincita del principio del piacere legato al super-io sul principio di realtà legato all'/o, quando quest'ultimo si trova in cattive acque, non avremo più alcuna difficoltà a scoprire nel personaggio di Ubu l'incarnazione magistrale dell'ei nietzschiano-freudiano che indica l'insieme delle forze sconosciute, inconsce, represse, di cui l'io non è che l'emanazione consentita, tutta subordinata alla prudenza: «L'io - dice Freud - ricopre l'es solo con la sua superficie formata dal sistema P (= percezione, in opposizione a C = coscienza) press'a poco come il disco germinale copre l'uovo». Nella fattispecie l'uovo è proprio Ubu, trionfo dell'istinto e dell'impulso istintivo, come dichiara egli stesso: «Simile a un uovo, a una zucca, o a una sfolgorante meteora, rotolo su questa terra dove farò ciò che mi parrà. Donde nascono questi tre animali (i pallottini) dalle orecchie imperturbabili rivolte al nord, e dai nasi vergini, simili a trombe che non hanno ancora suonato». Sotto il nome di Ubu, Yes si arroga il diritto di castigare e punire, diritto che in realtà spetta al super-io, ultima istanza psichica. Uest promosso al supremo potere, procede immediatamente alla liquidazione di tutti i nobili sentimenti («Avanti, gettate i nobili nella botola!»), del senso di colpa («Nella botola i magistrati! »), del senso di dipendenza sociale («Nella botola i finanzieri! »). L'aggressività del super-io ipermorale nei confronti dell'/o viene cosi trasferita all'ey, totalmente amorale, concedendo ogni licenza alle sue tendenze di distruzione. L'humour, inteso come processo che permette di eludere gli aspetti più penosi della realtà, si eserci-
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ta qui quasi esclusivamente a spese degli altri. Siamo nondimeno, senza tema di smentita, alle fonti stesse di questo humour, come dimostra il suo continuo sgorgare. Questo è, secondo noi, il significato profondo del carattere di Ubu e, al tempo stesso, è questa la ragione per cui egli va oltre ogni singola interpretazione simbolica. Come Jarry si è fatto premura di dichiarare: «Non si tratta esattamente del signor Thiers, né del borghese, né dello zotico. Piuttosto sarà l'anarchico perfetto, ma con questo a impedire che noi diventiamo l'anarchico perfetto: che si tratta di un uomo, di qui codardia, sporcizia, ecc.». Ma la caratteristica essenziale di questa creazione è la volontà di assoggettarsi le forme più varie dell'attività umana, a cominciare da quelle collettive. Ne deriva che lo stesso Ubu sarà pronto a rinunciare al tornaconto personale che nell'UE« roi costituiva il suo unico stimolo, per rientrare nella massa umana di cui tenderà a impersonare le emozioni, tanto più contagiose quanto più sono grossolane. Alla volontà di dominio a tutta prova di Ubu roi, Ubu enchaîné contrappone una pari volontà di servilismo. Il super-io si è liberato dall'avventura solo per ricomparire sotto un aspetto stereotipo, deprimente, che sarà proprio, allo stesso livello, del fascista e dello stalinista. Bisogna riconoscere che gli avvenimenti degli ultimi vent'anni conferiscono al secondo Ubu un valore profetico eccezionale, sia che si pensi alle esercitazioni militari degli «uomini liberi» trasmesse fino a noi attraverso tutti gli schermi del mondo al grido più che mai entusiasta e unanime di «Viva l'armerdra! », sia che ci riporti col pensiero alFatmosfera dei «processi di Mosca»: «Padre Ubu (al suo difensore): Signore, scusi! Stia zitto! Lei dice delle menzogne e impedisce il racconto delle nostre imprese. Sissignori, aprite le orecchie e non fate chiasso... Noi abbiamo massacrato un'infinità di persone... il nostro sogno è sgozzare, assassinare, scorticare; ogni domenica mattina su una collinetta in periferia diamo pubblico spettacolo di scervellamento, tra cavallucci di legno e bancarelle di cocco fresco... queste vecchie faccende sono archiviate, perché noi siamo molto ordinati... ecco perché chiediamo ai signori giudici di condannarci alla pena più grave che son capaci di immaginare, affinché essa sia alla nostra altezza; tuttavia, non a morte... Ci vedremmo bene come forzati, con un bel berretto verde, nutriti a spese dello Stato e passando il tempo in piccoli lavoretti».
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EPILOGO
Nella foresta triangolare, dopo il crepuscolo. Il coro. La sua voce, dapprima quasi spenta ancora e che poi mormora, poi sempre più tonante e sonora. I cappelli a cilindro dei neri Yankees Affidano al cielo smarrito I tre sostegni della clessidra. La siesta dei lunghi femori incrocia Le bianche X filosofali. La punta delle nostre barbe si sfilaccia nella raffica. Che la sfera dei nostri cappucci, Riflesso rosa al sangue che scorre La morte rintracci, mummia nell'oro del crepuscolo; E le clessidre capovolte La sabbia in alto, donino al dannato La notte intera prima degli Ebrei erranti nella notte inetta. Ricolma d'alabastro la clessidra, II cuore che piange non batte. Come lui sotto i tassi i nostri passi d'ibis sul salmastro Pioverà la luce futura Sui piombi dei vetri delle selve Sul nostro compito di necrofori abituale. Sul lamento delle mandragore E sulla pietà delle passiflore Il bianco funebre lombrico esce dal suo foro.
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ANTOLOGIA D E L L O HUMOUR NERO
Il Coro, che non si è mai visto, sbianca il fondo della sua alba solforata ad ogive. Comparendo: Il bianco funebre lombrico esce dal suo foro.
LA CANZONE DELLO
SCERVELLAMENTO
Fui per lungo tempo operaio ebanista In via Campo di Marte, parrocchia d'Ognissanti. La mia sposa di mestiere era modista, C'era mai mancato niente a tutti quanti. Le domeniche serene e senza vento Ci mettevamo gli abiti da festa E s'andava a vedere lo scervellamento In via dello Scottato, a passare un bel momento. Guarda, guarda la macchina girare, Guarda, guarda il cervello saltare, Guarda, guarda i Redditieri tremare; Coro. Urrah, corni al culo, viva il Padre Ubu! I nostri cari marmocchi, col volto impiastricciato, Agitando con gioia bambole di pezza, Salivano con noi in cima alla carrozza E s'andava felici in via dello Scottato. Ci precipitiamo in frotte allo steccato, per essere primi ci riempiam di botte; Io salgo sempre su un mucchio di mattoni Per non sporcarmi di sangue gli scarponi.
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Ritornello Mia moglie e io siamo bianchi di cervello, I pupi ne son pieni, si gode tutti un mondo Vedendo il Pallottino maneggiare il coltello, E le ferite e i numeri di piombo. D'un tratto presso l'arnese nel cantone, Vedo il grugno d'un tale che non mi piace affatto, Riconosco il tuo muso, vecchio mio, gli sbatto Tu m'hai fregato e io mica ti perdono. Ritornello Mi sento tirare la giacca dalla sposa: Razza di fesso, dice, acchiappa l'occasione, Buttagli sul muso un bel mucchio di busa Ora che il Pallottino ci volge il groppone. Nell'udire questo ragionamento fino Di colpo afferro il coraggio a due mani E butto al Redditiero una merdra immane Che si schiaccia sul muso del Pallottino. Ritornello Subito mi lanciano oltre lo steccato, La folla furiosa mi sbatte tutto attorno, E a testa prima sono scaraventato Nel gran buco nero da cui non vi ha ritorno. Ecco che capita la domenica a passeggiare In via dello Scottato a veder scervellare Con il Pinza-Porci o lo Squinterna-Corpi: Si parte da vivi e si ritorna morti. Ritornello
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UBU INCATENATO
A t t o primo. S C E N A SECONDA
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II Campo di Marte.
Noi siamo gli uomini liberi e questo è il caporale. - Viva la libertà, la libertà, la libertà! Noi siamo liberi. - Non dimentichiamo che il nostro dovere è di essere liberi. Andiamo più adagio, potremmo arrivare in tempo. La libertà è non arrivare mai in tempo - mai, mai! alle nostre esercitazioni di libertà. Disobbediamo tutti insieme... No! non insieme: un, due, tre! il primo all'uno, il secondo al due, il terzo al tre. Ecco dov'è la differenza. Inventiamoci ciascuno un tempo diverso, anche se ci costa fatica. Disobbediamo individualmente al caporale degli uomini liberi! IL CAPORALE Adunata! (Si sparpagliano). Voi, uomo libero numero tre, mi farete due giorni di rigore per esservi messo in riga con il numero due. La teoria dice: siate liberi! - Esercitazioni individuali di disobbedienza... L'indisciplina cieca e continua è la forza essenziale degli uomini liberi. - Spali... arm! 1 T R E UOMINI L I B E R I Parliamo nei ranghi. - Disobbediamo. - Il primo all'uno, il secondo al due, il terzo al tre. - Un, due tre! IL CAPORALE Al tempo! Numero uno, dovevate posare l'arma a terra; numero due, dovevate sollevarla con il calcio in alto; numero tre, dovevate gettarla sei passi indietro e poi cercare di assumere un atteggiamento libertario. Rompete le file! Un, due! Un, due! T R E UOMINI L I B E R I , I L C A P O R A L E
Si radunano ed escono facendo attenzione a non camminare al passo.
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GLI E M E R A L O P I
Sengle ebbe una licenza di quindici giorni « a titolo di convalescenza» per Parigi. Di nuovo nei panni del fantoccino rosso e blu, si avviò, attraverso tutta la città, verso la stazione. Incrociò parecchi ufficiali che si guardò bene dal salutare, ma essi non lo rimproverarono. D'altronde, per provare a se stesso la sua buona volontà di deferenza militare, sei passi prima e sei dopo, alzò la mano nel saluto regolamentare per: Due postini; Sette studenti; Un esattore; Un conducente di omnibus, che passeggiava in alta uniforme in un giardino pubblico. E poiché vi gironzolavano anche parecchi ciclisti, che avevano lasciato le biciclette appoggiate ai cespugli, si mise allora, naturalmente, a cercare la rimessa degli omnibus. Salutò uno dei ciclisti perché portava, a sinistra, un orrendo piccolo distintivo di club tutto contorto. Entrò nella cattedrale, andò in cerca dello Svizzero per rendergli omaggio in ginocchio; quindi, secondo quanto gli offriva il caso lungo il cammino, si umiliò davanti a: La targa di zinco di un lavatoio; Un pulcinella insegna di un bazar; Parecchi facchini, a causa della loro targhetta; Un marmittone, pensando che forse poteva essere un graduato e che dissimulasse i suoi gradi sotto la somiglianza della tenuta di servizio e di quella di corvée. Col calare della notte, quando le possibilità di salutare si fecero meno onorevoli, si avvicinò alle luci scintillanti della stazione.
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Lungo il viale incontrò un gruppo di soldati, che si contorcevano in gesti bizzarri. Non erano degli ubriachi, i quali, come innaffiando si tracciano dei simboli d'infinito, sono respinti da un rigagnolo all'altro e seguono esattamente nei loro zig-zag le leggi della rifrazione. Quei soldati strisciavano lungo il muro tastandolo con le mani, fino a urtare dolorosamente il primo passante o a inciampare nel gradino del marciapiede : sembravano dei ciechi che si stessero guidando a vicenda verso la fossa, dei Breughel in uniforme. Sengle potè udire qualche frase smozzicata e ricostruire cosi i loro lamenti: «Non troveremo mai l'ospedale. Sono già tre volte che facciamo il giro della città. L'ospedale è crollato. Come l'anno scorso, quando il maggiore, alla visita serale, trovò soltanto i muri, poiché si era dimenticato di avvisare il genio. Il tetto crollò sui tifoidei, e dovettero evacuarli in un ospedale per partorienti. Tant'è vero che un malato si rimise cosi in salute. Ma crollano tutti gli anni gli ospedali, in questa città, per l'incuria dei maggiori?» E ripartirono barcollando per un quarto giro. Sengle capi la loro allucinazione vedendo la matricola. In una piccola guarnigione vicina, su un'altura, si moltiplicavano i casi di cecità notturna a causa dell'altitudine. Il maggiore, passando la sua visita mattutina, li mandava al pronto soccorso, ma si aspettava poi di formare un convoglio e lo si spediva giù senza guida dopo il rancio della sera. Arrivavano nella città dov'era l'ospedale quando il sole era già tramontato e, poiché l'amaurosi impediva loro di vedere le luci artificiali, quei poveri diavoli vagavano barcollando nel buio più completo. Ormai ci si era fatta l'abitudine: ecco perché gli ufficiali non si erano scandalizzati della mancanza di cortesia militare da parte di Sengle. Possa questo capitolo far capire alla folla, la grande emeralopa, in grado di scorgere soltanto le luci a lei note,
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che altri possono considerarla come un'eccezione morbosa, e calcolare le ascensioni rette e le declinazioni di una notte per lei senza astri; possa farle perdonare ciò che essa troverà di sacrilego verso i suoi idoli in questo libro, perché insomma noi affermiamo: che non capita tutti i giorni agli ospedali militari di crollare per l'incuria dei maggiori medici, e anzi è perfino possibile che il fatto sia piuttosto raro; che da parecchi anni non è più successo; che si trattava forse di un avvenimento isolato; che, malgrado la sua autenticità (vedi certi giornali dell'estate dell'89) noi abbiamo la gentilezza di descriverlo solo come allucina torio. Sengle, rispettoso della parola del Vangelo, pensò dapprima di cercare una fossa o una vetrina, per farci rotolare dentro i momentanei ciechi; ma, preoccupato di non perdere il treno, si contentò di dir loro: «Sono il Generale; cercate di assumere un atteggiamento militare». i IL
SUPERMASCHIO
- State a vedere, adesso ucciderò la bestia, - disse Marcueil con grande calma. - Q u a l e bestia? Sei ubriaco, vecchio mio... anzi mio giovane amico, — disse il generale. - La bestia, - disse Marcueil. Davanti a loro, sotto la luna, se ne stava accovacciata una cosa tozza di ferro, con delle specie di gomiti appoggiati alle ginocchia, e delle spalle, senza testa, che le facevano da corazza. - Il dinamometro! - esclamò divertito il generale. - Adesso lo uccido, - ripetè con ostinazione Marcueil.
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- Mio giovane amico, - disse il generale, - quando avevo la vostra età e anche meno, e studiavo matematica allo Stanislas, mi è capitato spesso di staccare delle insegne, scardinare vespasiani, rubare bottiglie del latte, chiudere degli ubriachi negli androni, ma non mi è ancora successo di scassinare un distributore automatico! È proprio sbronzo... Ma fa' attenzione, là dentro non c'è niente per te, mio giovane amico! « È pieno, pieno di forza, e pieno, pieno di numero, là dentro», diceva tra sé Marcueil. - E va bene, - accondiscese il generale, - voglio aiutarti a romperlo, ma come? Lo prendiamo a calci, a pugni? Non vorrai che ti presti la mia sciabola per spaccarlo in due!? - Spaccarlo? Oh no, - disse Marcueil: - io lo voglio uccidere. - Attento alla multa, allora, per effrazione di monumento di pubblica utilità! - esclamò il generale. -Uccidere... ma con un'autorizzazione, - disse Marcueil. Frugò nel taschino del gilè e ne trasse una moneta francese da dieci centesimi. La fessura verticale del dinamometro scintillava. - È una femmina, - disse con serietà Marcueil... - Ma è molto robusto. La moneta fece scattare un meccanismo, come se la macchina si fosse messa subdolamente in guardia. André Marcueil afferrò quella specie di poltrona di metallo per i due braccioli e, senza sforzo apparente, tirò: - Venite, signora, - disse. La sua frase terminò in un terribile rumore di ferraglia, le molle spezzate si contorcevano al suolo come le viscere di una bestia; il quadrante fece una smorfia e la lancetta impazzita fece due o tre giri come una creatura braccata in cerca di una via di scampo. - Filiamocela, - disse il generale: - quest'animale, per
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sbalordirmi, è andato a scegliere una macchina che non era solida. Ora erano tutti e due lucidissimi, benché Marcueil non avesse pensato a gettare le due maniglie che brillavano come due cesti da pugilatore; scavalcarono di nuovo la cancellata e risalirono il viale, verso la carrozza. Sorgeva l'alba, come la luce di un altro mondo.
LA PASSIONE
CONSIDERATA
C O M E U N A C O R S A IN S A L I T A
Barabba, che era stato ingaggiato, dichiarò forfait. Lo starter Pilato, estraendo il Suo cronometro ad acqua - o clessidra - e bagnandosi cosi le mani, a meno che non vi avesse semplicemente sputato sopra, diede il segnale della partenza. Gesù scattò a tutta velocità. A quei tempi vi era l'abitudine, secondo il bravo cronista sportivo san Matteo, di fustigare alla partenza gli sprinters ciclisti, come fanno i vetturini con i loro ippomotori. La frusta è uno stimolante e insieme un massaggio igienico. Dicevamo dunque che Gesù, in ottima forma, si produsse in uno scatto, ma subito vi fu l'incidente del pneumatico. Una pianticella di spino gli si piantò tutt'attorno alla ruota anteriore; ai nostri giorni possiamo vedere l'esatto simulacro di questa vera e propria corona di spine nelle vetrine dei negozi di biciclette, come réclame dei tubolari a prova di foratura. Quello di Gesù, un comune tubolare da pista, non lo era. I due ladroni, che se l'intendevano tra loro, passarono in vantaggio. Non è vero che vi siano stati dei chiodi. I tre che compaiono in certe immagini non sono altro che la leva di smontaggio per pneumatici detta «l'istantanea».
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Ma è opportuno innanzi tutto dare un resoconto dettagliato delle cadute. Incominciamo col descrivere in qualche modo la macchina. Il telaio è un'invenzione relativamente recente. Le prime biciclette a telaio si videro nel 1890. Prima di questa data, il corpo della macchina era composto da due tubi saldati perpendicolarmente l'uno all'altro: quest'insieme veniva chiamato bicicletta a corpo retto o a croce. Gesù, quindi, dopo l'incidente del pneumatico, si arrampicò a piedi per la salita, portandosi sulle spalle il suo telaio o, se vogliamo, la sua croce. Scena che è riprodotta da incisioni dell'epoca, tratte da fotografie. Ma pare che lo sport ciclistico, in seguito al famoso incidente che concluse in modo cosi spiacevole la corsa della Passione, e che è reso d'attualità, quasi nel suo anniversario, dall'incidente similare occorso al conte Zborowski sulla salita della Turbie, pare dunque che questo sport sia stato proibito per un certo periodo di tempo per decreto prefettizio. Tutto ciò vale a spiegare perché i giornali illustrati, nel riprodurre la celebre scena, rappresentassero delle biciclette piuttosto bizzarre. Essi confusero la croce del corpo della macchina con un'altra croce, quella del manubrio. Rappresentarono infatti Gesù con le mani protese sul manubrio, e notiamo a questo proposito che Gesù pedalava sulla schiena per offrire meno resistenza all'aria.
Notiamo anche che il telaio o la croce della macchina era di legno, come lo sono ancor oggi certi cerchioni. Alcuni hanno erroneamente insinuato che la macchina di Gesù fosse una draisina. Strumento ben poco idoneo ad essere montato in una corsa in salita. Secondo i vecchi agiografi ciclofili, santa Brigida, Gregorio di Tours e Ireneo, la croce era munita di un dispositivo che essi chiamano «suppedaneum». Non occorre certo essere dei latinisti per tradurre questa parola con «pedale».
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Giusto Lipsio, Giustino, Bosio ed Ericio Puteano descrivono un altro accessorio che si ritrova ancora, come scrisse nel 1634 Cornelio Curtius, in certe croci del Giappone: una sporgenza della croce o telaio, di legno oppure di cuoio, sulla quale il ciclista si mette a cavalcioni: trattasi evidentemente della sella. Queste descrizioni, d'altronde, non sono più infedeli della definizione della bicicletta che danno i cinesi ai giorni nostri: «Piccolo mulo che si guida per le orecchie e che si manda avanti a forza di calci». Riassumeremo ora il resoconto della corsa, raccontata nei minimi particolari in opere specializzate, e rappresentata dalla pittura e dalla scultura in monumenti «ad hoc». Sulla salita assai dura del Golgota, vi sono quattordici curve: fu nella terza di queste curve che Gesù cadde per la prima volta. Sua madre in tribuna cominciò a preoccuparsi. L'allenatore Simone di Cirene, che, senza l'incidente delle spine, avrebbe avuto il compito di «tirare» e di tagliargli l'aria, gli portò la bicicletta. Gesù, anche se non portava niente, si mise a sudare. La notizia che una spettatrice gli abbia asciugato il viso non è certa, è invece esatto che la giornalista Veronica gli prese un'istantanea con la sua Kodak. La seconda caduta ebbe luogo nella settima curva, su un tratto di selciato sdrucciolevole. Poi, Gesù cadde per la terza volta scivolando su un binario nell'undicesima. Schierate sul bordo dell'ottava curva, le mondane d'Israele agitavano i loro fazzoletti. Il deprecabile incidente che tutti conosciamo si verificò al dodicesimo tornante. Gesù era in quel momento testa a testa con i ladroni. È ben noto anche che egli continuò la corsa da aviatore... ma questo esula dal nostro tema.
Raymond Roussel 1877-1933
La difficoltà che s'incontra a distinguere, da una certa distanza, un automa vero da uno falso, ha eccitato per secoli la curiosità degli uomini. Dal portiere androide di Alberto il Grande che introduceva i visitatori pronunciando qualche parola, fino al giocatore di scacchi celebrato da Poe - passando attraverso la mosca di ferro di Jean Muller che dopo aver volato tornava a posarsi sulla sua mano, e la celebre anatra di Vaucanson, senza dimenticare gli omuncoli, da Paracelso a Achim d'Arnim - fra la vita animale, soprattutto quella umana, e il suo simulacro meccanico, ha sempre regnato l'ambiguità più sconcertante. Caratteristica della nostra epoca è l'aver spostato il luogo di quest'ambiguità, facendo passare l'automa dal mondo esteriore a quello interiore, e invitandolo a manifestarsi liberamente all'interno stesso dello spirito. La psicanalisi infatti ha scoperto la presenza, nella zona più recondita della mente, di un manichino anonimo, «senza occhi, naso ed orecchie», molto simile a quelli che Giorgio de Chirico dipingeva verso il 1 9 1 6 . Questo manichino, una volta ripulito dalle ragnatele che lo nascondevano e lo paralizzavano, si è rivelato di una mobilità estrema, «sovrumana» (proprio dal bisogno di togliere ogni freno a questa mobilità è nato il surrealismo). Questo personaggio straordinario, spogliato dai caratteri mostruosi che sconciano la creazione del mirabile Frankenstein di Mary Shelley, ha la facoltà di spostarsi, senza il minimo attrito, nel tempo e nello spazio, e di annullare con un balzo quel fossato invalicabile che si ritiene separi il sogno dall'azione. La cosa meravigliosa è che questo automa sia in grado di liberarsi all'interno di ogni uomo: basterà aiutare quest'ultimo a riconquistare, sull'esempio di Rimbaud, il senso della sua totale innocenza e della sua potenza assoluta. È noto che l'«automatismo psichico puro», nel significato che si dà oggi a questa parola, vuole solo indicare uno stato limite che esigerebbe dall'uomo la perdita integrale del controllo logico e morale
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delle sue azioni. Senza che questi consenta ad arrivare cosi lontano, o piuttosto a restarvi, da un certo punto in poi gli accade di trovarsi azionato da un motore di forza insospettata, e di obbedire matematicamente a un movimento d'apparenza cosmica, che gli sfugge. L'interrogativo che nasce a proposito di questi e degli altri automi, è di sapere se in essi è celato un essere cosciente. E fino a che punto cosciente? ci si può domandare di fronte all'opera di Raymond Roussel. Certo, quando egli era vivo, certuni avevano presagito che la sua prodigiosa ricchezza inventiva fosse dovuta alla scoperta e all'uso di un qualche metodo, ed erano convinti che egli si valesse di una tavola immaginativa (cosi come esistono le tavole sinottiche). Oggi sappiamo che questo metodo, che egli stesso volle divulgare dopo la sua morte nell'opera intitolata Comment 'fai écrit certains de mes livres, consisteva nel comporre, tramite vocaboli omonimi o sensibilmente omofoni, due frasi dal significato il più possibile diverso, e nel disporle come pilastri del racconto (prima e ultima frase). La fabulazione doveva rincorrersi dall'una all'altra tramite un nuovo lavoro da compiersi su ciascuno dei vocaboli che costituiscono le due frasi: legare ogni parola dal doppio significato a un'altra parola dal doppio significato con la preposizione «a». Come dice lo stesso Roussel: «La caratteristica del procedimento consiste nel creare delle specie di equazioni di fatti che occorre poi risolvere logicamente». Una volta introdotta la massima arbitrarietà nel soggetto letterario, si trattava di dissiparla, di farla scomparire per mezzo di una serie di passaggi in cui il razionale tempera e limita costantemente l'irrazionale. Roussel è, con Lautréamont, il più grande ipnotizzatore dell'epoca moderna. In lui l'uomo cosciente, quanto mai laborioso («Sanguino - egli dice - su ogni frase»; confida a Michel Leiris che ogni verso delle Nouvelles impressions d'Afrique gli è costato circa quindici ore di lavoro) è sempre alle prese con l'uomo inconscio estremamente sbrigativo (è sintomatico che sia rimasto fedele per circa quarant'anni a una tecnica filosoficamente ingiustificabile, senza cercare di modificarla o di sostituirla). L'humour, volontario o no, di Raymond Roussel, sta tutto in questo gioco di equilibri sproporzionati: «La macchina infernale collocata da Lautréamont sui gradini dello spirito - dice Jean Lévy - fa udire il suo lugubre tic-tac (in Roussel), e molti di noi salutano con ammirazione le sue esplosioni liberatrici». Lo stesso critico ha fatto molto giustamente notare che si è ancora lontani dall'aver chiarito quale parte abbia in quest'opera l'humour, quale l'ossessione e la repressione. Infatti Raymond Roussel ha avuto a che fare con la psicopatologia, tant'è vero che il suo caso
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è stato oggetto di una comunicazione del dottor Pierre Janet, dal titolo: « I caratteri psicologici dell'estasi», e il suo suicidio (?) ha confermato l'opinione che, durante tutto il ciclo della sua produzione, sia sempre stato un anormale. A diciannove anni, mentre terminava il poema La doublure, ha conosciuto l'estasi finale di Nietzsche: «Ci si rende conto, da qualche segno particolare, d'aver compiuto un capolavoro, di essere un prodigio... Ero pari a Dante e a Shakespeare, avevo le stesse sensazioni che Victor Hugo ebbe a settantanni, sentivo ciò che Napoleone sentiva nel 1 8 1 x, sognavo i sogni di Tannhauser nel Venusberg. Ciò che scrivevo sprigionava luce e dovevo chiudere le tende per il timore che il minimo spiraglio potesse far filtrare all'esterno i raggi luminosi che uscivano dalla mia penna, poiché io volevo abbassare lo schermo all'improvviso e illuminare il mondo. Se avessi lasciato sparse quelle carte, i raggi di luce sarebbero giunti fino in Cina e la folla sconvolta si sarebbe precipitata sulla mia casa». Fino in Cina... Questo fanciullo che adorava Jules Verne, quest'appassionato del teatro dei burattini, quest'uomo ricchissimo che si era fatto costruire per i suoi viaggi la roulotte più lussuosa del mondo, resterà fino all'ultimo il dispregiatore più accanito del viaggio reale. «A Pechino - dice Michel Leiris - dopo una visita sommaria della città non uscirà più dalla sua stanza»; cosi come, mentre aveva l'occasione di vedere per la prima volta Tahiti, se ne resta per più giorni a scrivere nella sua cabina. La stupenda originalità dell'opera di Roussel dà un'importante e significativa smentita e infligge un affronto definitivo a quelli che predicano un antiquato realismo primario, che si qualifichi o meno come «socialista». «Martial - sotto questo nome l'autore di Locus solus viene presentato nell'analisi di Pierre Janet - ha un'interessantissima concezione della bellezza in letteratura; bisogna che l'opera non contenga alcun elemento reale, nessuna descrizione del mondo e del pensiero, ma solo combinazioni affatto immaginarie: sono già idee di un mondo extraumano».
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IMPRESSIONI D'AFRICA
Il do vibrava ancora in lontananza quando Fuxier avanzò verso di noi, tenendo stretto contro il petto, con la mano destra aperta e tesa, un vaso di terra da cui spuntava un ceppo di vite. La mano sinistra reggeva un boccale cilindrico e trasparente, munito di un largo tappo di sughero traversato da un tubo metallico; nella parte bassa si vedeva un mucchietto di sali chimici sotto forma di graziosi cristalli. Deposti a terra i due fardelli, Fuxier estrasse di tasca una piccola lanterna cieca e la distese in senso orizzontale sulla superficie di terra che affiorava fra i bordi del vaso di grès. All'improvviso una corrente elettrica, messa in azione all'interno della lampada portatile, proiettò un fascio abbagliante di luce bianca, diretto verso lo zenit da una lente potente. Allora Fuxier, sollevando il boccale senza modificarne la posizione orizzontale, girò una chiave posta all'estremità del tubo metallico, e l'orifizio, rivolto con cura verso una parte stabilita del ceppo, lasciò uscire un gas prima violentemente compresso. Da una breve spiegazione dell'operatore venimmo a sapere che il fluido, messo a contatto con l'atmosfera, provocava un calore intenso che, unito a talune proprietà chimiche ben precise, avrebbe fatto maturare sotto i nostri occhi un grappolo d'uva. Aveva appena terminato il suo discorso, che il fenomeno annunciato si rivelò ai nostri sguardi sotto forma di un impercettibile racemo. Disponendo del potere che la leggenda attribuisce a certi fachiri indiani, Fuxier compiva per noi il miracolo dello sboccio improvviso.
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Per effetto dell'azione chimica i chicchi si svilupparono rapidamente e tosto sul lato del ceppo vedemmo pendere, ben distinto, un grappolo d'uva bianca, pesante e maturo. Dopo aver chiuso il tubo con un nuovo giro di chiave, Fuxier depose il boccale a terra. Poi richiamò la nostra attenzione sul grappolo e ci mostrò alcuni minuscoli personaggi, prigionieri all'interno dei diafani globi. Eseguendo in precedenza sul germe un'opera di modellamento e di coloritura ancora più minuziosa del compito impostogli dalla preparazione delle pastiglie azzurre o rosse, Fuxier aveva deposto in ciascun chicco la genesi di un grazioso quadro, la cui messa a punto seguiva immediatamente le fasi della maturazione ottenuta con tanta facilità. Ci avvicinammo e attraverso la buccia dell'uva, di una straordinaria finezza e trasparenza, potemmo vedere senza difficoltà i diversi gruppi, illuminati dal basso dal fascio di luce elettrica. Le manipolazioni operate sul germe avevano portato all'eliminazione dei vinaccioli, e nulla offuscava la purezza delle statue lillipuziane, traslucide e colorate, la cui materia era data dalla stessa polpa. - Uno squarcio della Gallia antica, — disse Fuxier toccando col dito un primo chicco in cui si vedevano numerosi guerrieri celti nell'atto di accingersi al combattimento. Ciascuno di noi ammirava la finezza dei contorni e la ricchezza dei colori, messi bene in rilievo dagli effluvi luminosi. - Eude segato da un demonio nel sogno del conte Valtguire, - continuò Fuxier, additando un secondo chicco. Ora si distingueva, dietro il delicato involucro, un uomo chiuso nella sua armatura addormentato ai piedi di un albero; una nuvola di fumo che gli usciva dalla fronte,
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forse a raffigurare un sogno, conteneva nei suoi leggeri bioccoli un demone armato di una lunga sega, i cui denti affilati si conficcavano nel corpo di un dannato, contratto dalla sofferenza. Un altro chicco, illustrato da una spiegazione sommaria, mostrava il Circo romano: lo occupava una folla numerosa, eccitata da un combattimento di gladiatori. - Napoleone in Spagna. Le parole di Fuxier si riferivano a un quarto chicco, in cui l'imperatore, nel tradizionale abito verde, cavalcava vincitore in mezzo a una calca che col suo atteggiamento minaccioso sembrava vituperarlo. - Un episodio del Vangelo di san Luca, - prosegui Fuxier, sfiorando di fianco, in un unico stelo a tre ramificazioni, tre chicchi gemelli ove erano raffigurate tre scene popolate dai medesimi personaggi. In primo luogo si vedeva Gesù nell'atto di stendere la mano verso una ragazzina che, le labbra semiaperte, lo sguardo fisso, sembrava cantare un sottile e prolungato trillo. Vicino, su un tavolaccio, un ragazzo immobile nel sonno della morte teneva ancora fra le dita un lungo ramoscello di vimini; accanto al funebre giaciglio il padre e la madre, affranti, piangevano in silenzio. In un angolo, una bimba gobba e mingherlina, si teneva umilmente in disparte. Nel chicco di mezzo Gesù, volto verso il tavolaccio, guardava il giovane morto che, reso miracolosamente alla vita, intrecciava da abile panieraio il ramoscello di vimini leggero e flessibile. La famiglia, stupita, manifestava con gesti estatici la sua gioiosa meraviglia. L'ultimo quadro, con lo stesso scenario e gli stessi personaggi, glorificava Gesù nell'atto di toccare la giovane inferma che di colpo si raddrizzava e acquistava bellezza.
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Passando oltre la breve trilogia, Fuxier alzò la parte inferiore del grappolo e ci mostrò un chicco superbo, che commentò con queste parole: - Hans il boscaiolo e i suoi sei figli. Un vecchio eccezionalmente robusto portava sulle spalle un enorme carico di legna, costituito da tronchi intieri commisti a fasci di ciocchi legati da liane. Dietro di lui sei giovani si curvavano tutti sotto un fardello della stessa specie, infinitamente più leggero. Il vecchio volgeva indietro il capo e sembrava farsi beffe dei ritardatari di lui meno resistenti e vigorosi. Nel penultimo chicco, un adolescente in costume Luigi XV guardava con emozione, pur fingendo di passare di li a caso, una giovane donna vestita di un abito rosso acceso, ferma sulla soglia della sua casa. - La prima sensazione amorosa dell'Emilio di JeanJacques Rousseau, - spiegò Fuxier e, muovendo le dita, fece giocare i raggi elettrici fra i riflessi rosso-vivo dell'abito smagliante. Il decimo e ultimo chicco racchiudeva un duello sovrumano, che Fuxier ci presentò come la riproduzione di un quadro di Raffaello. Un angelo, librandosi a poca altezza da terra, conficcava la punta della spada nel petto di Satana, che barcollando lasciava cadere la propria arma. Dopo aver passato in rassegna tutto il grappolo, Fuxier spense la lanterna cieca, la rimise in tasca, poi si allontanò portando ancora con sé, come quando era arrivato, il vaso di terra e il recipiente cilindrico. Trad, di Laura Lovisetti Fuà, Rizzoli, Milano 1964.
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P O L V E R E DI S O L I
Quadro sedicesimo. Un luogo spoglio e piatto. Sul fondo una ringhiera di ferro dietro la quale si staglia una croce. A destra, una tavola da giardino, dove è seduta la Ricevitrice che sta cucendo.
SCENA DECIMA
Blache, Réard, la ricevitrice. Si, signor Blache... Più ci penso, più mi convinco che siamo sempre sulla buona strada. BLACHE Cosi, secondo voi, questi tre asterischi sottolineati, tra tanti altri, sul francobollo ocleatico trovato nella collezione di mio zio... RÉARD Non possono che indicare le tre stelle incise su questa croce. BLACHE Chi vi è sepolto, uno sconosciuto?... RÉARD NO. Anzi, un morto il cui nome, François Patrier, è ben noto a noi tutti. Vedete, laggiù ci sono delle sabbie mobili, che una volta, prima che ci fosse questo steccato, erano segnalate solo da un semplice cartello; un giorno, un ragazzo sbadato a caccia di farfalle non lo vide, e una sfinge qualsiasi lo trascinò fino alle sabbie; alle grida dell'imprudente accorre François Patrier, un pescatore, che, per strapparlo alla stretta mortale finisce per restarne vittima egli stesso. BLACHE Sprofondò ?... RÉARD ...E rapidamente, purtroppo! E ben presto do-
RÉARD
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vette tener sollevato il ragazzino sopra la sua testa, mentre le loro grida si confondevano invano. La sabbia gli sfiorava già la bocca quando finalmente apparve all'orizzonte un gruppo di persone che venivano in loro soccorso. BLACHE Per fare il resto della strada, dovettero per forza impiegare parecchi minuti! RÉARD Cosi, sentendo che per lui i soccorsi sarebbero arrivati troppo tardi, François Patrier fece al ragazzo un'estrema raccomandazione. Preoccupato di chiarire che il suo gesto non era stato per nulla motivato da un desiderio di gloria, volle che sulla croce che avrebbe segnato il luogo dove era stato inghiottito, si incidessero soltanto tre stelle. BLACHE E quando arrivarono i soccorsi? RÉARD Emergevano ormai solo due mani che tenevano sollevato il bambino; essi lo poterono afferrare formando con le mani strettamente avvinte una lunga e solida catena, mentre François Patrier scompariva per sempre. BLACHE II bambino riferì la sua ultima volontà?... RÉARD (indicando la croce) ...Che eseguimmo fedelmente. BLACHE Già... Tre stelle... Senza nemmeno la data. RÉARD Ma ben presto fummo letteralmente costretti a soddisfare, tanto era imperiosa, la sete generale di rendere onore a un simile eroe. Poiché il suo breve testamento verbale non prevedeva che la croce, pensammo che non sarebbe stata una disubbidienza innalzargli una statua in città. BLACHE E si apri una sottoscrizione?... RÉARD ... Che è ancora aperta. Particolare commovente, è proprio qui che si raccolgono le offerte che affluiscono ogni giorno in quest'urna. Il minimo è stato fissato in cinque hanchiy cifra che può essere superata solo da un'altra cifra che rappresenti una delle sue potenze. BLACHE COSÌ, chi vuole offrire più di cinque franchi?...
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...Deve scegliere tra venticinque franchi, centoventicinque oppure seicentoventicinque, ma nulla impedisce che si arrivi a tremilacentoventicinque, o quindicimilaseicentoventicinque, o... ma fermiamoci qui! Abbiamo sperato, con questa progressione, di suggerire delle grosse cifre ai sottoscrittori più ricchi. BLACHE Bisognerebbe sapere se mio zio... Come chiedere a questa donna... RÉARD Volete cominciare col sottoscrivere?... BLACHE Certo... ben volentieri. RÉARD (avvicinandosi alla ricevitrice) Ecco il signor Blache che desidera partecipare... LA RICEVITRICE «Blache»... Ho già questo nome in uno dei registri delle offerte. [Riflettendo) Nel cinque al quadrato... o al cubo... al cubo credo... RÉARD (a Blache) Vedete... le offerte sono smistate scrupolosamente... C'è una serie di registri, tutti adorni della cifra cinque, che figurà solitaria sul primo mentre sugli altri mostra ordinatamente la gamma delle sue potenze, fermandosi alla sesta. BLACHE E i registri, come è logico, sono via via più sottili, partendo dal primo fino all'ultimo. LA R I C E V I T R I C E (dopo aver sfogliato uno dei registri) Ah! Ecco il nome! Proprio sul terzo registro! B L A C H E (estraendo il portafogli) Ebbene, per pietà familiare seguo il buon esempio, e scelgo di sottoscrivere la cifra che lo farà comparire di nuovo sullo stesso registro.
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NUOVE IMPRESSIONI D'AFRICA
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(((((Tali: - A mezzogiorno, l'ombra sul quadrante solare, Indicando lo stomaco che la paga reclama; - Quando gela, è innegabile, il metro campione; - A sfidare lo sterco, un rimboccato calzone; - Sulla grata del cesso, i fogli di un giornale; - Lo stivale da aggiustare col tacco consumato; - Ciò che attento scappuccia a colpi d'unghia un rabbino; - Quando appresta il coperto, i piatti di un garzone; - Se il barbiere lo muove, un tiepido schienale; - Il metro che alla sveglia un veterano ha in mano; - Al gran gala di Ejur, Giulietta con Romeo Da due mimi bambini fatti gratis prò Deo; - La sciabola sconfitta che in scena un prode spezza; - Il pane che salivando porge uno svizzero a messa; - L'asparago buttato dopo il morso del dente; - Sotto la vanga, un verme per mortale incidente; - La lama a mezzo sguainata quando falso è l'allarme; - Lo scranno troppo alto con lo spartito aperto; - Quando il bambino pianista cresce, il seggiolino a vite; - Il vecchio calendario che un tempo era massiccio; - La lampada che si solleva a minestra finita; - La striscia di cerotto quando ci si ferisce; 1
[Roussel dà in questi versi una serie di esempi di cose che « rimpiccioliscono», cosi come «l'homme... ses défauts... par ses yeux complaisants ils sont rendus petits». Si rimanda il lettore curioso a J E A N F E R R Y , Une étude sur Raymond Roussel, Arcanes 1953].
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Dove l'alito intacca, lo specchio che intristisce; Al primo lampo che conta, la vela ripiegata; Il tavolo dopo la cena di nuovo arrotondato; L'arco dove gonfia un'acqua che si spia; Sotto il mefitico soffio di chi fuma, l'esca; La coda nuova in sangue del botolo piccino; Quando il «dressage» è buono, l'ozioso finimento; Quando la testa cade, il fiammifero spento; Il tubo mezzo sfatto che un pittorastro avvolge; Quando il bottone schizza, l'elastico da ombrello; Quando rimpiazza la culla il letto, il corsello; Il soffione che il fiato disperde crudelmente; Finite le sue punte, la ballerina coi lustrini; A detta dell'avvocato, l'atto di un delinquente; Il getto della pompa se il giardiniere ha sete; Il filo che oscilla mentre il ragno lo scala; Ai bordi del tappeto un gruzzoletto onesto; Un sigaro ridotto a mo' di mozzicone; Il disco del sole nel cielo di Nettuno;))))),
Francis Picabia «
1878-1935
Il Picabia polemista, non sempre sorretto dall'ispirazione, ha sovente nociuto al pittore e al poeta. Il suo spiccato senso dell'humour mal s'accorda con quell'atteggiamento critico, diffidente e aggressivo da lui adottato nei confronti dei suoi contemporanei, che egli attaccò spesso e volentieri sul piano personale. Ma questo è forse il necessario risvolto di un'opera che più di ogni altra volle essere aderente alla vita e la cui maggior preoccupazione consisteva, secondo la parola d'ordine di Rimbaud, nell'essere «assolutamente moderna». La volontà di scandalo alla quale fu improntata per un lungo periodo (dal 1 9 1 0 al 1925) ne ha fatto il bersaglio dell'irritazione o per meglio dire del furore di tutti i difensori della norma e del buon gusto. «Tutto ma non Picabia» è il patto che è stato offerto ai novatori in arte di questi ultimi vent'anni. Patto indegno ma che generalmente veniva accettato e che non può non accrescere la grandezza di Picabia. Un ostracismo di questa portata non è comune ai nostri giorni, ed egli fece sistematicamente il contrario di ciò che avrebbe dovuto fare per scongiurarlo. Questo convinto detrattore di tutte le convenzioni morali ed estetiche è uno dei più grandi poeti del desiderio, del desiderio senza tregua condannato a rinascere ogni volta diverso dalla sua stessa realizzazione. L'amore e la morte sono naturalmente gli estremi di questa linea, tra i quali si sposta zigzagando un punto sensibilissimo all'immagine dell'attimo presente. Picabia è stato il primo a capire che tutti gli accostamenti di parole, senza eccezione, sono leciti, e che la loro virtù poetica è tanto più grande quanto più appaiono a prima vista gratuiti o irritanti. Tutto il periodo eroico della sua pittura mostra non tanto il bisogno di reagire contro la banalità dei soggetti e delle tecniche o il desiderio di sbalordire gli imbecilli, quanto il sogno disperato, neroniano, di ottenere una sempre maggior festosità per se stesso: «Fougère royale - mi scrisse un giorno - è un quadro grandissimo,
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di tre metri per due e cinquanta. È composto di duecentosessantun cerchi neri su fondo color fragola schiacciata. In un angolo c'è un grande burattino d'oro. Quanto alle scritte, preferisco lasciarvi la sorpresa».
L'OCCHIO FREDDO
Dopo la nostra morte dovrebbero metterci in una boccia, in una boccia di legno dai molti colori. La si farebbe rotolare fino al cimitero, e i becchini incaricati di questo compito dovrebbero portare guanti trasparenti, perché negli amanti riaffiori il ricordo delle carezze. Per chi volesse arricchire il proprio arredamento col piacere oggettivo della persona amata, vi sarebbero bocce di cristallo nella cui trasparenza si potrebbe scorgere la nudità definitiva del nonno o del fratello gemello! Scia dell'intelligenza, lampada steeple-chase; gli umani assomigliano a quei corvi dall'occhio fisso, che spiccano il volo al di sopra dei cadaveri, e tutti i pellerossa sono capistazione.
I N T E R M E Z Z O DI C I N Q U E M I N U T I
Avevo un amico svizzero, si chiamava Jacques Dingue e viveva in Perú a 4000 metri d'altezza; partito qualche anno prima per esplorare quelle regioni, aveva subito laggiù il fascino di una strana indiana, che l'aveva reso completamente folle con i suoi rifiuti. Poco a poco si era indebolito e non usciva nemmeno più dalla capanna in cui si era sistemato. Un dottore peruviano, che l'aveva accompa-
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gnato fin là, lo assisteva per guarirlo di una demenza precoce che giudicava incurabile. Una, notte, sulla piccola tribù d'indiani che ospitava Jacques Dingue, si abbatté un'epidemia di influenza; tutti, senza eccezione, ne furono colpiti, e su duecento indigeni centosettantotto morirono in pochi giorni; il medico peruviano, terrorizzato, era ritornato in tutta fretta a Lima... Il mio amico, anche lui, fu colpito dal tremendo male, e immobilizzato dalla febbre. Orbene, tutti gli indiani morti possedevano uno o più cani, i quali ben presto non ebbero altra risorsa per sopravvivere che mangiare i loro padroni, facendone a pezzi i cadaveri; uno di questi cani portò nella capanna di Dingue la testa dell'indiana di cui egli era innamorato... La riconobbe sull'istante e senza dubbio fu colpito da un'emozione vivissima, tanto che guari immediatamente dalla sua pazzia e dalla febbre; gli ritornarono le forze e allora, strappando la testa della donna dalle fauci del cane, si diverti a lanciarla all'altra estremità della stanza, incitando l'animale a riportargliela; tre volte il gioco ricominciò, il cane riportava la testa tenendola per il naso, ma la terza volta Jacques Dingue la lanciò con troppa forza e la testa si ruppe contro il muro: con grande gioia del giocatore di bocce che potè constatare come il cervello fuoriuscito presentasse una sola circonvoluzione e assomigliasse, tanto da potercisi ingannare, a un paio di chiappe.
IL BAMBINO
L'autunno è offuscato dal fanciullo che amavamo. Come un avvoltoio
f r a n c i s picabia su una carogna diminuisce la sua famiglia poi scompare come una farfalla.
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Guillaume Apollinaire 1880-1918
Cosi numerose sono le strade che s'incrociano nell'opera di Guillaume Apollinare che un solo aspetto della sua personalità può entrare nell'orizzonte di questo libro, dove si esaurisce, si potrebbe dire, un solo ramo della sua stella. Un mondo intero lo divide dai protagonisti a tutto tondo, insieme provocatori e raziocinanti, dell'humour moderno: un Lafcadio, un Jacques Vaché, o quello straordinario Gino Pieri che fu per qualche tempo il suo segretario e che, col nome di Barone d'Ormesan, divenne il protagonista de L'Amphion faux-messie, l'ultimo racconto delYHérésiarque et Cie. Per quanto la sua grande curiosità naturale lo spingesse a nutrire una simpatia elettiva per persone di questa specie, egli non si mostra poi in grado di affascinarle a sua volta e di legarle a sé. Quando, per causa loro, gli capita di avere qualche attrito, sia pure di poco conto, con la società, cade in atteggiamenti infantili e, per discolparsi, non esita a sfiorare il ridicolo, finisce per far ridere di se stesso. Nel 1 9 1 3 si trova implicato nel furto della Gioconda, vittima dell'interesse che aveva nutrito per Gino Pieri al punto di nascondere due statuette fenice che quest'ultimo aveva sottratto al Louvre: eccolo allora lamentarsi, scrivere brutti versi piagnucolosi, sollecitare dagli amici testimonianze di onorabilità. Per contro, come nota il prefatore anonimo delle Onze mille Verges nella ristampa del 1 9 3 1 , rimangono le lettere del «Baron d'Ormesan», dove precisava la parte da lui avuta nella faccenda: «Nulla può meglio chiarire la differenza che vi è fra l'uomo che mette il suo humour nella vita e quello che fa dell'humour, fra un avventuriero e uno che ha il gusto dell'avventura». Stesse contestazioni con Arthur Cravan che, avendo scritto in un articolo «l'ebreo Apollinaire», ebbe la sorpresa di ricevere i padrini di quest'ultimo: «Non perché - dichiara Arthur Cravan - io abbia paura della grande sciabola di Apollinaire, ma perché ho pochissimo amor proprio, sono pronto a fare tutte le rettifiche del mondo, e a dichiarare che... il signor Guil-
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laume Apollinaire non è affatto ebreo ma cattolico romano. Per evitare anche in futuro ogni possibile equivoco, voglio aggiungere che il signor Apollinaire, che è ben panciuto, assomiglia più a un rinoceronte che a una giraffa, e che, come aspetto, ricorda più il tapiro che il leone, e tende più all'avvoltoio che alla cicogna dal lungo becco». Fatte queste riserve, è innegabile che Apollinaire sia riuscito meglio di chiunque altro a introdurre nell'espressione, il solo campo in cui eccelleva, alcuni tra gli atteggiamenti più tipici dell'humour odierno. Se il senso dell'humour gli fece totalmente difetto in certi casi della vita in cui sarebbe stato più che necessario (ci riferiamo alla sua credulità e al suo attivismo nei confronti della guerra, lo rivediamo sul letto di morte alla vigilia dell'armistizio contemplare con aria rapita il suo képi sul quale era stato appena aggiunto un secondo gallone), seppe invece magnificamente immetterlo nelle sue poesie e nei suoi racconti. «Una coscienza chiarissima - è stato detto - del nesso tra poesia e sessualità, una coscienza di profanatore e di profeta, ecco ciò che colloca Apollinaire a un punto chiave della storia». Trascinato poeticamente da un vento furioso, nello scatenarsi dell'immaginazione e dell'immaginazione sola, al limite estremo della sua volontà di liberazione di tutti i generi letterari, gli è accaduto di incontrare il grande humour: pensiamo al soggetto di léximal Jélimite nel Poète assassinò. Apollinaire, quando si passeggiava per la strada, si volgeva volentieri verso le vecchie vagabonde collezioniste che si possono talora incontrare la sera, a Parigi, sulla riva sinistra, mentre si dirigono verso i quais. Le guardava un po' come si guarda la storia letteraria, e il suo occhio pareva annegarvisi per un attimo. In tutt'altre occasioni, la sua risata faceva lo stesso rumore della prima raffica di grandine sui vetri.
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DRAMMATURGIA
I teatri. #
Giovanotto, vi racconteremo ora qualche soggetto di commedia. Se fossero firmati da nomi famosi, noi li rappresenteremmo, ma si tratta invece di capolavori di ignoti, che ci sono stati affidati e che, per la fiducia che il vostro aspetto ci ispira, ora vi elargiamo.
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II principe di San Meco trova un pidocchio sulla testa della moglie, e le fa una scenata. La principessa, da sei mesi, è andata a letto solo col visconte di Dendelope. Gli sposi fanno una scenata al visconte che, essendo andato a letto soltanto con la principessa e con la signora Lafoulue, moglie di un segretario di Stato, fa cadere il ministero e riversa sulla signora Lafoulue tutto il suo disprezzo. La signora Lafoulue fa una scenata a suo marito. Tutto si chiarisce con l'arrivo del signor Bibier, deputato. Egli si gratta la testa. Lo rapano. Egli accusa i suoi elettori di essere dei pidocchiosi. Finalmente ogni cosa ritorna al suo posto. Titolo: II parlamentarismo. COMMEDIA A T E S I
Isabelle Lefaucheux promette a suo marito di essergli fedele. Si ricorda allora di aver promesso la stessa cosa a Jules, il garzone di bottega. Soffre di non poter conciliare la sua parola e il suo amore. Nel frattempo Lefaucheux mette alla porta Jules. Questo fatto determina il trionfo dell'amore e ritroviamo Isabelle cassiera in un grande negozio dove Jules fa il commesso. Titolo: Isabelle Lefaucheux. COMMEDIA DI C A R A T T E R E
II famoso romanziere Stendhal è l'anima di un complotto bonapartista che culmina nella morte eroica di una giovane cantante, durante una rappresentazione del Don Giovanni alla Scala di Milano. Stendhal, che si cela sotto uno pseudonimo, si trae brillantemente d'impaccio. Grandi sfilate, personaggi storici. DRAMMA STORICO
L'asino di Buridano esita a soddisfare la propria fame e la propria sete. L'asina di Balaam profetizza che l'asino morirà. Arriva l'asino d'oro, mangia e beve. Pelle d'Asino mostra la sua nudità a questo gregge asiniOPERA
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no. Passando da quelle parti, l'asino di Sancho pensa che darebbe prova del suo vigore rapendo l'infanta, ma il traditore Melo avverte il genio della Fontana. Questi proclama la sua gelosia e impone il basto all'asino d'oro. Metamorfosi. Il principe e l'infanta fanno il loro ingresso a cavallo. Il re abdica in loro favore. II governo svedese intenta causa alla Francia per contraffazione dei fiammiferi svedesi. All'ultimo atto, si esumano i resti di un alchimista del xiv secolo che inventò questi fiammiferi a La Ferté-Gaucher. DRAMMA
PATRIOTTICO
COMMEDIA V A U D E V I L L E .
Il bell'automedonte Gridava alla vicina: Se mi fai vedere il tuo salone Ti farò veder la mia cucina. Ecco di che alimentare una vita intera di drammaturgo, signore.
INCONTRI
Mentre correva dietro Tristouse Ballerinette, Croniamantal continuò la sua educazione letteraria. Un giorno, mentre passeggiava per Parigi, si trovò d'un tratto sulle rive della Senna. Attraversò un ponte e camminò ancora per qualche minuto quando, all'improvviso, vedendo di fronte a sé François Coppée, Croniamantal si dispiacque che quel passante fosse morto. Ma non vi è nulla in contrario a una chiacchierata con un defunto, e l'incontro era piacevole.
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«Via, via, - si disse Croniamantal, - per essere un passante lo è, anzi è Fautore stesso del Passante1. È un bravo rimatore, abile ed ingegnoso, e ha il senso della realtà. Parliamo con lui della rima». Il poeta del Passante fumava una sigaretta nera. Era vestito di nero, il suo viso era nero: se ne stava installato in modo bizzarro su un blocco di pietra, e Croniamantal si accorse, dalla sua aria pensierosa, che stava componendo dei versi. L'abbordò, e dopo averlo salutato gli disse a bruciapelo: - Caro maestro, come siete scuro. Egli rispose gentilmente: - Il fatto è che la mia statua è di bronzo. Ciò mi espone continuamente a dei malintesi. Per esempio l'altro giorno: Passandomi qui accanto il negro Sam Mac Vea Vedendomi di lui più nero s'affliggea. - Notate l'ingegnosità di questi versi. Adesso sto perfezionando la rima. Avete osservato come il distico che vi ho recitato rima bene alla vista? - In effetti, - rispose Croniamantal, - poiché si pronuncia Sam Mac Vi, cosi come si dice Shekspire. - Ecco allora qualcosa che vi piacerà di più, - continuò la statua: Passandomi qui accanto il negro Sam Mac Vea Scrisse questi tre nomi li per li. - Vi è qui una sottigliezza che non mancherà di sedurvi, la rima ricca all'udito. - Mi avete chiarito la questione della rima, - disse Croniamantal. - Son ben lieto, caro maestro, di avervi incontrato cosi, da passante a passante. - È il mio ultimo successo, - rispose il poeta metalli1
[Il Passante, commedia in versi in un atto di François Coppée (1842-1908), rappresentata per la prima volta nel 1869].
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co. — Tuttavia, ho appena composto un piccolo poema dallo stesso titolo: vi è un signore che passa, il Passante, attraverso il corridoio di un treno; intravvede una deliziosa signora con cui, invece di andare semplicemente fino a Bruxelles, si ferma alla frontiera olandese: Passarono almeno otto giorni a Rosendal Egli gustava Videal, essa amava il real Tra essi in ogni cosa vi era differenza E per conseguenza fu vero amore che conobbero i lor cuori. - Richiamo la vostra attenzione sugli ultimi due versi che, malgrado la ricchezza della rima, contengono una dissonanza che introduce un delicato contrasto tra il suono pieno delle rime maschili e quello morbido delle femminili. - Caro maestro, - ripresi a voce più alta, - parlatemi del verso libero. - Viva la libertà! - esclamò la statua di bronzo.
LA FOCA
Ho gli occhi di un vero vitello marino Della signora Ygreco ho l'andatura Mi si incontra in ogni raduno Io fo' della letteratura Io so' foca per mia natura E poiché il matrimonio è nell'aria Un bel giorno Lota sposare mi tocca Dalla mattina alla sera l'Otaria Mamma Papà Pipa tabacco sputacchiera caffè-concerto Lai Tou
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CAPPELLO-AVELLO
Lo han cacciato Dentro al suo avello L'appollaiato Sul tuo cappello Era vissuto Sul continente Questo pennuto Or nitologico Or Basta cosi Vo' a far pipi.
UNA P O E S I A
È entrato Si è seduto Non guarda il pirogeno dai rossi capelli Il fiammifero s'accende Se n'è andato.
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Pablo Picasso nato nel 1 8 8 1
«L'humour - dirà Jacques Vaché - deriva talmente da una sensazione da essere difficilmente esprimibile. Io credo che sia una sensazione». Nulla può aiutare a chiarire tale sensazione, se di sensazione si tratta - più che il vederla prodursi in congiunzione con un'altra: a questo proposito l'opera di Picasso è forse la più significativa, poiché in essa la facoltà visuale è potenziata al massimo, e si presenta allo stato di «rivoluzione permanente». «Credete - egli dice - che m'importi qualcosa che questo quadro raffiguri due personaggi? Questi due personaggi sono esistiti, non esistono più. La loro vista mi ha dato un'emozione iniziale, poco a poco la loro presenza reale si è stemperata, son diventati per me una finzione, per poi sparire o meglio trasformarsi in problemi di ogni genere». Questa volontà di trasferire l'oggetto dal particolare al generale e di sopprimere il dettaglio aneddotico, ciò che traduce l'intento fondamentale del cubismo, non può non essere in rapporto con la preoccupazione di trascendere a qualsiasi costo gli accidenti dell'/o, preoccupazione che si esprime nel ricorso all'humour. Questi accidenti restano tuttavia quanto mai necessari - nulla più di quest'arte è in contrasto con l'impassibilità - ma, data l'estrema mobilità dell'emozione, non si può far altro che cercarla all'interno dell'opera stessa anziché porla come suo soggetto precostituito, ciò che equivarrebbe a bloccarla arbitrariamente: «In fondo, ogni cosa dipende da se stessi. È un sole nel ventre, dai mille raggi. Il resto è nulla». È chiaro che si tratta del super-io, che agisce come condensatore di luce, come corazza rivolta verso l'interno. L'atto lirico ininterrotto che è l'opera plastica di Picasso non può quindi darsi miglior garante dell'humour, quale deve risultare dall'emozione coltivata per se stessa e portata al suo culmine. Un fremito unico percorre l'intervallo oscuro che separa le cose naturali dalle creazioni umane. Un interrogativo palpitante, instancabile, corre dalle une alle altre, tentando di far scaturire, in virtù solo
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dello strumento interposto, l'uomo dal suo canto, se lo strumento è una chitarra, la donna dalla sua nudità, se è uno specchio. Il volto umano in particolare si propone come l'eterno, l'inestinguibile gioco di pazienza, come il luogo elettivo di tutti Ì turbamenti. Il mondo esterno altro non è che la ganga di questo volto eternamente ignoto e mutevole, in cui tutto alla fine dovrà ritrovarsi; altro non è che il mondo metaforico in cui si fondono le emozioni, stampo che ha valore solo in quanto è comune a tutti gli uomini e in quanto si basa sulla loro esperienza quotidiana: « I quadri - dice Picasso - si fanno sempre come Ì principi fanno i figli: con le pastorelle. Non si fa mai il ritratto del Partenone; non si dipinge mai una poltrona Luigi XV. Si fanno i quadri con una bicocca del Mezzogiorno, con un pacchetto di tabacco, con una vecchia sedia». Le poesie recenti di Picasso permettono di comprendere tutto l'abbandono e tutta la patetica ritrosia di un tale modo di procedere, che egli ha seguito per più di trent'anni e che ha sconvolto tutta l'ottica moderna.
POESIE
Ragazza correttamente vestita con un mantello beige a paramenti violenti 1 5 0 0 0 0 - 3 0 0 — 22 — 95 centesimi sottoveste madapolam riveduta e corretta alludendo a pellicce d'ermellino 143 - 60 - 32 un reggiseno slacciato, gli orli della piaga scostati da pulegge a mano fanno il segno della croce profumato al formaggio reblochon 1 3 0 0 - 7 5 - 0 3 - 4 9 — 3 1 7 0 0 0 - 2 5 centesimi aperture a giorno aggiunte un giorno su due sulla pelle incrostate da brividi allarmati da silenzio mortale color esca tipo Lola di Valenza 103 più sguardi languidi 3 1 0 - 3 1 3 più 3 000 0 0 0 - 8 0 franchi - 15 centesimi per un'occhiata smarrita sul comodino - penalità incorse nel corso dell'incontro - lancio del disco tra le gambe con una sequenza di fatti che senza alcuna ragione giungono a farsi un nido e a trasformarsi in certi casi nell'immagine ragionata del taglio 380 - n più
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le spese ma il disegno cosi accademico misura di tutta la storia dalla nascita fino a stamane non scrive nemmeno se si cammina sulle dita indicanti l'uscita ma sputa il suo profumo con il bicchiere da bibita che l'odore formato da reggimenti e che sfila bandiera in testa che se il solletico del desiderio non scopre il luogo adatto a trasformare la sardina in pescecane la lista delle compere si allunga soltanto a partire da questo momento senza l'inevitabile sosta a tavola all'ora di colazione per poter scrivere in mezzo a tante iperboli mischiate con il formaggio e il pomodoro. Lingua di fuoco ventaglio la sua faccia nel flauto il taglio che cantandogli rosicchia la pugnalata del blu cosi vivace che seduto nell'occhio del toro inscrive nella sua testa ornata di gelsomini aspetta che la vela rigonfi il pezzo di cristallo che il vento avviluppato nella cappa del mandoble sgocciolante carezze distribuisca il pane alla cieca e alla colomba color lillà e stringa con tutta la sua malvagità contro le labbra del limone fiammeggiante il corno torso che terrorizza con i suoi gesti d'addio la cattedrale che vien meno tra le sue braccia senza un applauso intanto che nel suo sguardo esplode la radio svegliata dall'alba che fotografando nel bacio una cimice di sole mangia l'aroma dell'ora che cade e attraversa la pagina che vola disfa il profumo che porta via tutto impellicciato tra l'ala che sospira e la paura che sorride il coltello che sobbalza di piacere lasciando anche oggi ondeggiante a suo modo e poi non importa come nel momento preciso e necessario dall'alto del pozzo il grido della rosa che la mano gli getta come una piccola elemosina.
Arthur Cravan 1881-1920
Dall'aprile 1 9 1 2 all'aprile 1 9 1 5 appaiono e scompaiono i cinque numeri, oggi introvabili, di «Maintenant», la piccola rivista diretta da Arthur Cravan. Egli ostenta una concezione del tutto nuova della letteratura e dell'arte, simile a quella che potrebbero avere, nel campo del bello spettacolo, un lottatore da fiera o un domatore. In odio alle librerie soffocanti dove tutto diventa confuso e, ancora nuovo, cade subito in polvere, Cravan spinge davanti a sé la pila delle copie di «Maintenant» su un carretto da fruttivendolo ambulante: venticinque centesimi al numero! A distanza di tempo quest'impresa, pur cosi breve e limitata, sembra aver avuto un effetto rinfrescante di prim'ordine. È impossibile non intravvedervi i segni precursori di Dada, benché la soluzione al disagio intellettuale vi sia cercata in tutt'altra direzione. Cravan si propone di riabilitare il temperamento, nel senso quasi fisico della parola: regressione non più verso l'infanzia dell'uomo ma verso quella del mondo, la preistoria; amore verso lo zio, nella fattispecie Oscar Wilde, descritto negli anni della vecchiaia come un pachiderma: «L'adoravo perché assomigliava a un grosso animale». Per descrivere se stesso il poeta trova questi accenti lirici: «Avevo ripiegato i miei due metri nell'auto, dove con le ginocchia spingevo avanti due mondi trasparenti; potevo scorgere sul selciato, che diffondeva il suo arcobaleno, le cartilagini granata incrociare le bistecche verdi». Nella misura stessa in cui Cravan proclama che «ogni grande artista ha il senso della provocazione», i suoi sistemi preferiti sono la confessione cinica e l'insulto. Ciò che Rimbaud obietta con toni di pianto: « I o non capisco le leggi; non ho senso morale, sono un bruto... Sono una bestia, un negro», Cravan lo trasferisce sul piano dell'apologia, della rivendicazione totale: «Tutti possono capire che io preferisca un grosso San Bernardo ottuso alla signorina Fronzolo col suo passo di gavotta, e, in ogni caso, meglio un giallo che un bianco, un negro che un giallo, e un negro pugile che un negro stu-
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dente». A prescindere dagli apprezzamenti erronei cui lo porta, in pittura, la sua innata simpatia per pugili, nuotatori, e altri specialisti della muscolatura, Cravan ha firmato, nel numero 4 di «Maintenant», un resoconto del Salón des Indépendants che resta il capolavoro dell'humour applicato alla critica d'arte: «Come siamo lontani dagli incidenti ferroviari: Maurice Denis dovrebbe dipingere in cielo, dal momento che ignora lo smoking e la puzza di piedi. Non che io trovi particolarmente audace dipingere un acrobata o uno che fa i suoi bisogni, anzi penso che una rosa fatta in modo nuovo è molto più diabolica... Se avessi la fama di Paul Bourget mi esibirei ogni sera in puntino in qualche spettacolo di rivista, e vi assicuro che farei un pienone». Durante la guerra, non contento di esser riuscito a farsi disertore in diversi paesi, Cravan si sforza ancora di attirare su di sé l'attenzione e la più violenta disapprovazione. Invitato a New York per tenervi una conferenza sull'humour, entra in scena completamente ubriaco e incomincia a svestirsi, aspettando che la sala si vuoti e che la polizia venga a prelevarlo; in Spagna sfida il campione del mondo Joe Johnson, e si fa mettere knock-out alla prima ripresa; nel 1 9 1 9 si segnala il suo passaggio a Città del Messico come professore di ginnastica nella locale Accademia atletica: prepara una conferenza sull'arte egizia. Le sue tracce si perdono poco dopo nel golfo del Messico, dove, una notte, si era imbarcato su uno scafo dei più leggeri.
ANDRÉ GIDE
Sognavo febbrilmente, dopo un lungo periodo della peggior pigrizia, di diventare molto ricco (Dio mio, quante volte ci pensavo!), e poiché ero arrivato alla fase degli eterni progetti e mi scaldavo progressivamente all'idea di conquistare la ricchezza in modo disonesto, e inatteso, con la poesia - ho sempre cercato di considerare l'arte come un mezzo e non come un fine - mi dissi allegramente: «Dovrei andare a trovare Gide, è milionario. Ma si, facciamoci due risate, vediamo di infinocchiare quel vecchio letterato! »
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E subito, che cosa non può l'eccitazione?, mi concedevo una prodigiosa capacità di successo. Scrivevo un biglietto a Gide, valendomi della mia parentela con Oscar Wilde; Gide mi riceveva. Una sorpresa per lui la mia statura, le mie spalle, la mia bellezza, le mie stranezze, le mie trovate. Gide impazziva per me, io lo trovavo gradevole. Siamo già in viaggio verso l'Algeria - lui ripeteva il viaggio di Biskra e io l'avrei portato fino alle coste dei Somali. Mi veniva subito un bell'aspetto abbronzato, poiché mi sono sempre un po' vergognato di essere bianco. E Gide pagava carrozze di prima classe, nobili cavalcature, alberghi di lusso, amori. Potevo finalmente realizzare qualcuna delle mie innumerevoli personalità. Gide pagava, pagava sempre; oso sperare che non m'intenterà causa chiedendomi danni e interessi, se gli confesso che nelle malsane sfrenatezze della mia immaginazione galoppante gli avevo fatto vendere perfino la sua solida fattoria normanna, per soddisfare fino in fondo i miei capricci di adolescente moderno. Ah! mi rivedo ancora come m'immaginavo allora, con le gambe allungate sui sedili del rapido mediterraneo, sballandole grosse per divertire il mio mecenate. Forse diranno di me che ho dei costumi da Androgide. Lo diranno? Del resto, i miei piccoli progetti di sfruttamento sono riusciti cosi male che devo vendicarmi. Per non allarmare oltre misura i nostri lettori di provincia, aggiungerò che il signor Gide cominciò a starmi veramente sullo stomaco il giorno in cui mi resi conto, come ho già fatto capire in precedenza, che non sarei riuscito a spillargli neanche un centesimo; in compenso, quel mezze-maniche ebbe l'impudenza di stroncare, per motivi di prestigio, quel cherubino nudo che si chiama Théophile Gautier. Volevo dunque andare a trovare il signor Gide. Mi ricordo che a quell'epoca non possedevo una marsina, e ancor oggi lo rimpiango, perché mi sarebbe stato facile sba-
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lordirlo. Appena giunto vicino alla sua villa, mi ripetei le frasi sensazionali che mi ripromettevo di inserire nel corso della conversazione. Un istante dopo suonai alla porta. Mi venne ad aprire una governante (il signor Gide non ha camerieri). Mi fece salire al primo piano e mi pregò di aspettare in una specie di sgabuzzino in fondo a un corridoio piegato ad angolo retto. Passando, avevo gettato un'occhiata curiosa in alcune stanze, cercando di cogliere in anticipo qualche informazione sulle camere degli ospiti. Adesso me ne stavo seduto nel mio angolino. Delle vetrate, che io trovavo piuttosto racchie, illuminavano uno scrittoio su cui erano sparsi dei fogli ancora freschi d'inchiostro. Naturalmente non rinunciai a commettere la piccola indiscrezione che immaginate. E sono in grado di informarvi che il signor Gide corregge e ricorregge terribilmente la sua prosa e che al tipografo deve mandare almeno la quarta stesura. La governante venne a chiamarmi e mi riportò al pianterreno. Stavo per entrare nel salotto quando dei botoli turbolenti si misero ad abbaiare. Ci si doveva aspettare qualche inconsulta grossolanità? Ma il signor Gide stava per arrivare. Tuttavia ebbi tutto il tempo di darmi un'occhiata intorno. Alcuni mobili moderni e poco azzeccati in una stanza spaziosa; niente quadri, muri nudi (un'intenzione di semplicità o un'intenzione un po' semplice) e soprattutto un puntiglio tutto protestante nell'ordine e nella pulizia. Per un attimo mi vennero i sudori freddi all'idea che forse avevo insudiciato i tappeti. Avrei probabilmente spinto la mia curiosità un poco oltre, o avrei ceduto alla squisita tentazione di ficcarmi in tasca qualche oggettino, se non avessi avuto la irrefrenabile sensazione che il signor Gide si stesse documentando da qualche buchetto segreto della tappezzeria. Se ho sbagliato, prego il signor Gide di voler accettare le scuse pubbliche e immediate che devo alla sua dignità.
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Finalmente l'uomo apparve. (Ciò che mi colpi maggiormente a partire da quell'istante fu che non mi offri assolutamente nulla, a parte una seggiola; mentre tutti sanno che verso le quattro del pomeriggio una tazza di tè, se si tiene proprio all'economia, o meglio ancora qualche liquore orientale, sono giustamente considerati, nella società europea, atti a suscitare quella disposizione di spirito che le è necessaria per essere talvolta brillante). - Signor Gide, - incominciai, - mi sono permesso di venirvi a trovare, e tuttavia penso che sia meglio dichiararvi senza indugi che preferisco per esempio di gran lunga la boxe alla letteratura. - Eppure, - rispose seccamente il mio interlocutore, la letteratura è il solo piano su cui potremmo incontrarci. Pensai: l'illustre buontempone! Parlammo dunque di letteratura, e poiché stava per farmi la domanda che doveva essergli particolarmente cara: «Che cosa avete letto di mio?», io sillabai senza batter ciglio, con lo sguardo piti schietto del mondo: - Ho paura di leggervi —. Immagino che il signor Gide dovette alquanto sobbalzare. Arrivai allora, poco a poco, a piazzare nel discorso le famose frasi che mi ero preparato, pensando che il romanziere dovesse essermi grato di poter utilizzare, dopo lo zio, anche il nipote. Gettai dapprima con noncuranza: - La bibbia è il più grande successo editoriale - . Un attimo dopo, poiché era cosi gentile da interessarsi dei miei genitori: - Mia madre e io, - dichiarai allegramente, - non siamo nati l'uno per l'altra. Quando l'argomento letteratura ritornò sul tappeto, ne approfittai per parlar male di almeno duecento autori viventi, degli scrittori ebrei in generale e di Charles-Henri Hirsch in particolare, e aggiunsi: — Heine è il Cristo degli scrittori ebrei moderni —. Di tanto in tanto lanciavo qualche occhiatina discreta e maliziosa al mio ospite, che mi ricompensava con risolini soffocati, ma che, dovrò pur
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dirlo, era ben in ritardo rispetto a me, e che pareva contentarsi di registrare, perché non aveva probabilmente preparato nulla. A un certo punto, troncando una conversazione filosofica e cercando di somigliare a un Budda che schiuda le sue labbra una volta ogni diecimila anni, mormorai: - La grande Pagliacciata, è nell'Assoluto Al momento di congedarmi, con un tono molto stanco e molto vecchio, pregai: — E col tempo, signor Gide, a che punto siamo col tempo? - Saputo che erano le sei meno un quarto, mi alzai, strinsi affettuosamente la mano dell'artista e me ne andai, portandomi nella mente il ritratto di uno dei nostri più famosi contemporanei, ritratto che ora cercherò di schizzare, se i miei cari lettori vorranno accordarmi ancora un minuto della loro benevola attenzione. Il signor Gide non ha l'aria di un trovatello, né di un elefante, e nemmeno di tanti altri uomini: ha l'aria di un artista; gli farò un solo complimento, del resto poco piacevole, constatando che la sua piccola pluralità deriva dal fatto di poter essere facilmente scambiato per un guitto. La sua ossatura non ha nulla di notevole; ha le mani di un fannullone, bianchissime, vi giuro! Nell'insieme è un piccolo personaggio. — Il signor Gide deve pesare circa cinquantacinque chili e misurare pressappoco un metro e sessantacinque. Il suo modo di camminare tradisce un prosatore che non potrà mai scrivere un verso. Con tutto ciò, l'artista ha un viso malaticcio, da cui si staccano, verso le tempie, delle pellicine un po' più grandi di quelle della forfora, inconveniente che viene descritto volgarmente dal popolo con la frase: «quello spela». Tuttavia l'artista non ha affatto l'aria nobilmente devastata del prodigo che dilapida ricchezza e salute. No, cento volte no: l'artista sembra voler provare al contrario che si cura meticolosamente, che bada all'igiene, e prende le sue distanze da un Verlaine, che portava la sifilide come si porta il mal sottile; sono inoltre persuaso, salvo sua
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smentita, di non rischiare troppo affermando che non frequenta né donne di facili costumi né luoghi di perdizione; tutti questi segni ci danno il piacere di constatare, come ne avremmo avuto spesso Poccasione, che egli è un uomo prudente. Vidi il signor Gide una volta sola per la strada: stava uscendo da casa mia, e gli mancavano pochi passi prima di svoltare e di scomparire alla mia vista; lo vidi fermarsi davanti a una bancarella di libri: e dire che c'era un negozio di strumenti chirurgici e una pasticceria. Dopo d'allora, il signor Gide mi scrisse una volta 1 , e non lo rividi mai più. Ho fatto vedere l'uomo, ed ora avrei mostrato volentieri anche la sua opera, se vi fosse almeno un solo punto in cui non fossi obbligato a ripetermi. 1
La lettera autografa del signor Gide può essere ritirata nei nostri uffici al prezzo di franchi 0,15.
Franz Kafka 1883-1924
Sulla trama dell'uomo medio dei nostri giorni, del passante che s'affretta parallelo ai rovesci di pioggia, in una luce dai colori smorti come le stoffe di un campionario, Kafka fa passare come una raffica l'interrogativo capitale di ogni tempo: dove andiamo, a chi sottostiamo, qual è la legge? L'individuo uomo si dibatte al centro di un gioco di forze il cui senso generalmente gli sfugge, e la sua rinuncia a cercarlo, la sua mancanza totale di curiosità sembrano essere la condizione stessa per adattarsi alla vita sociale: è ben raro che il mestiere di ciabattino o di ottico siano compatibili con una meditazione profonda sui fini dell'agire umano. Il pensiero di Kafka sposa ogni fascino, ogni sortilegio della stupenda Praga, la sua città natale: benché segni l'attimo presente, esso gira simbolicamente a ritroso con le lancette dell'orologio della sinagoga, regola a mezzogiorno il dibattersi dei gabbiani sulla Moldava, risveglia al tramonto, per sé solo, i forni spenti della piccola strada degli Alchimisti, vero quartiere riservato dello spirito. Questo pensiero, profondamente pessimista, non nasconde le sue affinità con quello dei moralisti francesi: pensiamo in particolare all'ultimo, uno tra i più grandi di essi, Alphonse Rabbe, secondo il quale «Dio ha sottoposto il mondo all'azione di certe leggi secondarie che operano in vista di uno scopo a noi ignoto, annunciandoci tuttavia, tramite la voce potente dell'istinto morale, il mondo invisibile delle riparazioni solenni, dove tutto sarà svelato, e sarà chiarito». Ma gli eroi di Kafka si scagliano invano contro la porta di questo mondo: l'uno, nell'angosciosa ignoranza di ciò di cui è accusato, sarà giustiziato senza processo; l'altro, convocato in un castello, non potrà scoprirne l'ingresso, malgrado gli sforzi più sfibranti. Il problema che qui è posto in tutta la sua portata, è quello dell'oscura necessità naturale, in quanto essa si contrappone alla necessità umana o logica, rendendo chimerica ogni aspirazione profonda alla libertà. Il sogno ha fornito a Kafka una soluzione provvisoria di questo
IO
272 a n t o l o g i a d e l l o h u m o u r nero conflitto. Gli oggetti virtuali che lo popolano cessano infatti di essere estranei all'uomo immerso nel sonno; la loro presenza è sempre giustificabile, la fiamma dell'io li illumina da ogni lato e, uscendo dal corpo umano inerte, può giungere a percorrerli interiormente. « I o » mi confondo con ciò da cui, durante la veglia, tutto mi separa. Nessuno come Kafka ha saputo innervare con la propria sensibilità le cose inanimate, nessuno ha saputo riprendere in modo più flagrante l'insegnamento dei Vers dorés di Gérard de Nerval. Impiegato in Austria nell'amministrazione delle acque, possiamo illuderci che fosse in suo potere far correre e guidare quelle acque attraverso la foresta delle condutture cosi come, con la sua sola sostanza emozionale, egli seppe tessere una tela che annulla ogni soluzione di continuità tra i regni e le specie, fino all'uomo, e che tutt'intera vibra al minimo contatto. Nessuna opera si schiera con maggior vigore contro l'accettazione di un principio sovrano che sia al di fuori del soggetto pensante: «Nella marmitta di Kafka, è stato detto, ciò che bolle è l'uomo. Cuoce a fuoco lento nel brodo tenebroso dell'angoscia, ma l'humour fa saltare il coperchio e traccia nell'aria, in lettere blu, formule cabalistiche».
LA METAMORFOSI
Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava dinanzi agli occhi. «Che mi è accaduto? » pensò. Non era un sogno. La sua camera, una camera normale da essere umano, soltanto un po' troppo piccola, aveva il solito aspetto fra le quattro note pareti. Al di sopra del tavolo, su cui era spiegato un
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campionario di stoffe - Samsa era commesso viaggiatore era appesa una fotografia che egli stesso aveva ritagliato qualche giorno prima da un giornale illustrato e incorniciato con una bella cornice dorata. Rappresentava una signora con un berretto e una sciarpa di pelliccia, che sedeva rigida e levava verso il riguardante un enorme manicotto in cui le scompariva tutto l'avambraccio. Lo sguardo di Gregorio si levò allora alla finestra e il cielo tetro - si sentivano battere le gocce di pioggia sul davanzale di lamiera - fini di renderlo malinconico. «Se dormissi ancora un poco e dimenticassi tutte queste pazzie? » pensò; ma fu assolutamente impossibile; era abituato a dormire sul lato destro, e nel suo stato attuale non gli riuscì di mettersi in quella posizione. Per quanto tentasse con tutta la sua forza di gettarsi sul fianco, oscillava sempre e ricadeva in posizione dorsale. Lo tentò più di cento volte, a occhi chiusi per non vedere tutte quelle gambe guizzanti, e rinunziò soltanto quando incominciò a sentire nel fianco un dolore leggero, sordo, non ancora mai provato. «Dio mio! - pensò, - che mestiere gravoso ho mai scelto! Ogni giorno viaggiare! Preoccupazioni d'affari molto più gravi che quando avevamo negozio noi, e per di più questo tormento del viaggiare; l'affanno delle coincidenze, i pasti cattivi a ore irregolari, e coi propri simili delle relazioni che mutano sempre, che non durano mai, che non divengono mai cordiali. Al diavolo tutto questo! » Senti un leggero prurito al ventre; si spostò adagio sulla schiena verso la testiera del letto, per poter alzare meglio il capo; trovò il punto che gli prudeva, coperto di puntini bianchi, di cui non seppe cosa pensare, e volle tastarlo con una zampina, ma la ritirò tosto perché al contatto brividi di freddo lo avvolsero. Scivolò nuovamente nella posizione primitiva. «Questo alzarsi presto istupidisce proprio, - pensò. - L'uomo ha bisogno di dormire. Eppure ci sono viaggiatori di commercio che vivono come donne in un harem. Se mi accade
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per esempio di rientrare in albergo prima di mezzogiorno per trasmettere le ordinazioni ricevute, trovo questi signori che fanno appena la prima colazione. Provassi io col mio principale, mi caccerebbe sui due piedi. Chi sa del resto se non sarebbe una fortuna per me. Se non mi frenassi per amore dei miei genitori, già da un pezzo mi sarei licenziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto quello che penso, senza peli sulla lingua. Giù dalla scrivania avrebbe dovuto piombare! Già è una mania curiosa quella sua di sedersi sulla scrivania e di parlare di lassù all'impiegato, che per di più, sordo com'è il principale, deve venirgli fin sotto il naso... Ma, la speranza non è ancor perduta. Quando avrò potuto racimolare tanto denaro da pagargli il debito dei miei genitori - ci vorranno ancora cinque o sei anni - lo faccio, oh, se lo faccio! Rottura definitiva! Intanto però bisogna che mi alzi, perché il mio treno parte alle cinque».
Per prima cosa voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi e soprattutto far colazione, e poi pensare al resto, poiché, di questo si rendeva ben conto, finché restava a letto le sue riflessioni non avrebbero avuto una conclusione ragionevole. Si ricordava di aver sentito sovente, stando coricato, qualche leggero dolore provocato dalla posizione cattiva, che poi nell'alzarsi risultava pura immaginazione, e aspettava con curiosità di veder dissolversi a poco a poco le sue fantasie d'oggi. Che il cambiamento di voce non fosse se non il presagio di un violento raffreddore, la malattia professionale dei viaggiatori di commercio, di questo egli non aveva il menomo dubbio. Gettare la coperta fu semplicissimo; gli bastò gonfiarsi un poco e quella cadde da sé. Ma il resto divenne difficile, soprattutto perché egli era divenuto cosi smisuratamente largo. Braccia e mani sarebbero state necessarie per tirarsi su; invece egli non aveva che le innumerevoli zampine
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ininterrottamente vibranti e che non sapeva dominare. Se ne voleva piegare una gli toccava stirarsi tutto; e se gli riusciva finalmente di eseguire il movimento voluto, tutte le altre gambe, scatenate, lavoravano frattanto con febbrile, dolorosa eccitazione. «Inutile restare a letto per nulla», si disse Gregorio. Dapprima voleva uscir dal letto con la parte inferiore del corpo, ma questa parte che egli del resto non aveva ancor veduto e di cui non si faceva un'immagine esatta, si dimostrò troppo difficile a smuovere; la manovra era cosi lenta; e quando egli, infine, inferocito, si spinse avanti a tutta forza senza riguardo, scelse male la direzione, urtò con violenza contro il fondo del letto, e l'acuto dolore provato gli insegnò che appunto la parte inferiore del suo corpo era per il momento la più sensibile. Tentò dunque di estrarre dal letto prima il tronco e volse cautamente il capo verso la sponda. Questo gli riuscì facilmente e nonostante la sua larghezza e il suo peso, tutta la massa del corpo fini per compiere la stessa conversione. Ma quando potè finalmente tenere la testa al di fuori del letto, sospesa nel vuoto, la paura lo colse; perché se egli si lasciava cadere a quel modo si sarebbe certo fracassato la testa, a meno di un miracolo. E a nessun costo avrebbe voluto perdere i sensi proprio adesso; piuttosto sarebbe rimasto a letto. Ma quando, con rinnovata fatica e con molti sospiri, si fu rimesso a giacere come prima e vide di nuovo le sue zampine lottare l'una contro l'altra con accanimento ancor maggiore e non intravvide alcuna possibilità di portare la pace e l'ordine in quell'anarchia, tornò a dirsi che era impossibile restare a letto e che bisognava sacrificare tutto alla speranza, fosse pur lieve, di togliersi di li. Né trascurò di ammonire se stesso che una calma e tranquilla deliberazione valeva molto di più di una risoluzione disperata. In simili frangenti egli soleva cercare ispirazione guardando fuori della finestra, ma oggi purtroppo, data
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la nebbia mattutina che velava persino il lato opposto della strada stretta, quella vista non gli diceva proprio nulla. «Già le sette, - si diss'egli al nuovo suono della sveglia, già le sette e ancora tanta nebbia». E per un momento giacque fermo, col respiro leggero, come se attendesse dalla calma completa il ritorno alla situazione normale. Poi si disse: «Prima che siano le sette e un quarto, bisogna assolutamente che io abbia lasciato il letto. Frattanto verrà certo qualcuno della ditta a chiedere di me, poiché l'ufficio si apre prima delle sette». E si accinse a rotolarsi fuori del letto con tutto il corpo simultaneamente. Lasciandosi cadere cosi, la testa, tenuta ben sollevata, sarebbe probabilmente rimasta illesa. La schiena pareva solida e la caduta sul tappeto non le farebbe alcun male. La preoccupazione maggiore era il fracasso inevitabile, che susciterebbe dietro a ogni porta se non il terrore almeno una certa apprensione. Ma era necessario osare. Quando Gregorio si fu sporto per metà dal letto - il nuovo metodo era piuttosto un gioco che uno sforzo, egli non aveva che da muoversi oscillando, a scosse - gli venne in mente quanto sarebbe stata facile l'impresa se qualcuno gli fosse venuto in aiuto. Sarebbero bastate due persone forti, per esempio suo padre e la domestica; facendo passare le braccia sotto il suo dorso arcuato, lo avrebbero sgusciato dal letto e non avrebbero avuto che da chinarsi col peso e lasciarlo cautamente eseguire la sua conversione sul pavimento, dove c'era da augurarsi che le zampine avrebbero acquistato qualche utilità. Ma, a parte il fatto che le porte erano chiuse a chiave, avrebbe fatto bene a chiamare aiuto? A questo pensiero, nonostante la difficoltà in cui si trovava, non potè reprimere un sorriso. Era già tanto avanti che alle oscillazioni più forti riusciva a malapena a mantenere l'equilibrio, e presto avrebbe dovuto decidersi perché mancavano cinque minuti alle sette e un quarto, quando suonarono alla porta di casa. «Qui c'è qualcuno della ditta», egli disse, e si senti ag-
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ghiacciare il sangue mentre le sue zampette danzavano ancor più sollecite. Per un minuto tutto restò quieto. «Non aprono», si disse Gregorio in preda a chi sa quale assurda speranza. Poi, come sempre, la domestica andò alla porta con passo fermo, e apri. A Gregorio bastò di udire la prima parola di saluto del visitatore per sapere chi era: il gerente in persona. Perché mai Gregorio era condannato a servire in una ditta dove la più piccola mancanza dava luogo ai più gravi sospetti? Gli impiegati erano forse tutti mascalzoni dal primo all'ultimo, non ci poteva esser fra loro una creatura fedele e devota che per aver sottratto al suo lavoro anche soltanto un paio d'ore mattutine ammattiva dal rimorso e non era neppur più in grado di alzarsi dal letto? Non bastava mandare un apprendista — se era proprio necessario mandar qualcuno - doveva venire il gerente in carne e ossa, per mostrar bene all'intera famiglia (che non c'entrava affatto) che l'inchiesta su una faccenda cosi sospetta non poteva essere affidata se non al senso del gerente? E Gregorio, più che per l'eccitazione in cui fu messo da queste considerazioni, che per una vera decisione, si buttò a tutta forza fuori del letto. Fu un colpo forte, ma non il fragore che aveva temuto. La caduta fu in parte attutita dal tappeto, e la schiena era più elastica di quel che Gregorio si era immaginato, perciò il rumore fu sordo e non troppo allarmante. Soltanto non aveva sollevato abbastanza la testa e l'aveva battuta sul pavimento; la volse in qua e in là soffogandola sul tappeto per la rabbia e il dolore.
Per schiarirsi il più possibile la voce in vista delle imminenti spiegazioni, egli tossicchiò un poco, sforzandosi però di smorzare anche questo rumore che probabilmente suonava esso pure diverso dalla tosse umana; tuttavia egli non osava giudicarne da sé. Nella camera attigua s'era fatto silenzio. Forse i genitori erano seduti col gerente intorno al-
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la tavola e parlavano sottovoce, forse erano tutti dietro alla porta a origliare. Gregorio si spinse lentamente con la seggiola fino alla porta, lasciò la seggiola e si gettò contro la porta mantenendovisi ritto - sulle estremità delle sue zampine c'era una sostanza attaccaticcia - e si riposò un istante dallo sforzo. Poi si accinse con la bocca a far girare la chiave nella serratura. Purtroppo, a quel che sembrava, egli era sprovvisto di veri e propri denti - come afferrare la chiave? ma in compenso le mandibole erano molto solide e, servendosi di quelle, egli riuscì a mettere in moto la chiave, senza por mente al male che si faceva. Infatti un liquido bruno gli usciva dalla bocca, scorreva sulla chiave e gocciolava a terra. « Ascoltate, - disse il gerente nell'altra camera, - egli gira la chiave». Questo fu per Gregorio un incoraggiamento; avrebbe desiderato che tutti, anche il padre e la madre, gli gridassero: «Coraggio, Gregorio, avanti, dàgli con quella chiave!». E immaginando che tutti seguissero con ansia i suoi sforzi, radunando tutta la sua energia e quasi demente, egli diede di morso nella chiave. Seguendo il progresso della chiave che si volgeva nella serratura, egli vi ballonzolava attorno, rimanendovi appeso per la bocca, e, secondo il bisogno, ora tirava in giù la chiave e ora vi premeva sopra con tutto il peso del suo corpo. Il suono chiaro e metallico che fece la serratura scattando finalmente, risvegliò del tutto Gregorio. Con un sospiro di sollievo egli si disse: «Ho fatto a meno del fabbro» e appoggiò il capo alla maniglia per tirare a sé il battente. In quel momento la porta era già spalancata prima che egli fosse visibile. Dovette girare pian piano attorno al battente con molta cautela per non ricadere goffamente supino proprio sulla soglia. Era ancora occupato in quella complicata manovra e non aveva tempo di badare ad altro, quando udì il gerente emettere un lungo «oh! » - pareva il vento quando sibila - e subito lo vide (poiché era il più vicino alla porta) premersi la mano sulla bocca aperta e indie-
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treggiare lentamente, come se una forza invisibile e costante lo ricacciasse indietro. La madre, che nonostante la presenza del gerente aveva ancora i capelli sciolti e arruffati, guardò il padre, le mani giunte, poi fece due passi verso Gregorio e cadde a terra, fra le sottane che le si allargavano intorno, il viso tanto chino sul petto che non lo si scorgeva più. Il padre serrò i pugni con un'espressione ostile, quasi volesse respingere Gregorio nella sua camera, poi si guardò intorno incerto, si adombrò gli occhi colle mani e pianse, col petto poderoso scosso dai singhiozzi. Gregorio non avanzò nella stanza ma si appoggiò di dentro al battente ancor chiuso, cosi che non restavano visibili altro che metà del suo corpo e la testa inclinata da un lato per spiare gli altri. Intanto s'era fatto chiaro, dall'altro lato della strada si vedeva nitidamente una fetta della casa di fronte, grigia, indefinita - era un ospedale - con le sue finestre rigide e regolari che tagliavano la facciata; la pioggia continuava a cadere, ma in grosse gocce distinte che piombavano a terra a una a una. Sulla tavola era servita una colazione complicata, poiché per il padre la prima colazione era il pasto più importante della giornata, che egli prolungava per ore e ore accompagnandolo con la lettura di vari giornali. Alla parete opposta era appesa una fotografia di Gregorio al tempo del servizio militare; era in divisa di tenente, la mano alla sciabola, un sorriso spensierato sulle labbra, con l'aria di esigere rispetto per il suo contegno e per la sua uniforme. La porta verso l'ingresso era aperta e quella dell'appartamento pure, lasciando scorgere il pianerottolo e un primo tratto di scala.
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U N INCROCIO
Posseggo una strana bestiola, metà gattino metà agnello. Proviene dall'eredità paterna. Però si è sviluppata da quando è con me, prima era più agnello che gattino. Ora invece ha tanto dell'uno quanto dell'altro. Del gatto ha la testa e gli artigli, dell'agnello la grossezza e la figura; di entrambi gli occhi sfavillanti e selvaggi, la pelliccia morbida e attillata, i movimenti ora saltellanti ora striscianti. Sul davanzale al sole si acciambella e fa le fusa, sul prato corre come ammattita e non si lascia acchiappare. Fugge davanti ai gatti, vuol gettarsi addosso agli agnelli. Nelle notti di luna la grondaia è la sua passeggiata prediletta. Non sa miagolare e ha orrore dei topi. È capace di stare in agguato per ore e ore vicino al pollaio, ma non ha mai sfruttato un'occasione d'uccidere. Io la nutro con dolce latte, è la cosa che più le si addice. A lunghi sorsi lo succhia attraverso i suoi denti di animale da preda. Naturalmente per i bambini è un vero spettacolo. La domenica mattina è il giorno di ricevimento. Io ho la bestiola in grembo e tutti i bambini del villaggio mi stanno intorno. Allora vengono fatte le domande più stupefacenti, a cui nessuno può rispondere: perché ce n'è soltanto una di simili bestiole, perché la posseggo proprio io, se ce ne sono mai state delle altre, e come sarà quando sarà morta, se si sente solitaria, perché non ha dei piccoli, come si chiama, eccetera. Io non mi affanno a rispondere, e mi accontento di mostrare quel che posseggo, senza altre spiegazioni. A volte i bambini portano dei gatti con sé; un giorno portarono addirittura due agnelli. Ma contrariamente a quel che s'aspettavano non vi furono scene di riconoscimento. Le be-
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stie si guardarono tranquille coi loro occhi di bestie, ed era chiaro che consideravano reciprocamente la loro esistenza come un fatto divino. Sulle mie ginocchia la bestiola non conosce terrori né bramosia di caccia. Ben stretta contro di me si sente meglio che in qualunque luogo. Essa è attaccata alla famiglia che l'ha allevata. Non si tratta di una fedeltà eccezionale, ma del giusto istinto d'una bestia che ha sulla terra innumerevoli affini, ma forse neppure un consanguineo, e cui perciò la protezione che ha trovato presso di noi è sacra. Sovente non posso trattenere il riso quando mi gira intorno annusandomi, mi si attorciglia alle gambe e non si vuol più staccare da me. Non le basta essere agnello e gatto, vuole anche essere un cane. Un giorno che io, come può succedere a ognuno, non sapevo più come districarmi nei miei affari, e volevo mandar tutto al diavolo, e in questo stato d'animo me ne stavo sdraiato sulla sedia a dondolo, con l'animale sulle ginocchia, guardando giù per caso vidi stillare delle lacrime sui peli dei suoi enormi baffi. Erano le sue lacrime? Erano le mie? Questo gatto con l'anima d'agnello aveva anche ambizioni umane? Non ho ereditato grandi cose da mio padre, ma di quest'eredità sono abbastanza fiero. Essa ha in sé le due inquietudini, quella del gatto e quella dell'agnello, per quanto diverse esse siano. Perciò si sente a disagio nella sua pelle. A volte salta sulla seggiola vicino a me, appoggia le zampe anteriori alle mie spalle e tiene il muso presso il mio orecchio. Sembra che mi dica qualcosa e infatti si piega in avanti e mi guarda in viso per osservare l'impressione che la notizia datami ha fatto su di me. E per esser compiacente io faccio mostra di aver capito e accenno di si. Allora essa balza a terra e mi saltella intorno. Forse il coltello del macellaio sarebbe una liberazione per questo animale, ma avendolo ereditato bisogna che io gliela neghi. Perciò dovrà aspettare fin tanto che il respiro
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gli si arresti spontaneamente, anche se qualche volta mi guarda con ragionevoli occhi umani che mi invitano a una ragionevole azione.
IL PONTE
Ero rigido e freddo; ero un ponte, gettato sopra un abisso. Da questa parte erano conficcate le punte dei piedi, dall'altra le mani; avevo i denti piantati in un'argilla friabile. Le falde della mia giacca svolazzavano ai miei fianchi. Giù nel profondo rumoreggiava il gelido torrente dove guizzano le trote. Nessun turista veniva a smarrirsi in quelle alture impervie, il ponte non era ancor segnato sulle carte. Cosi giacevo e aspettavo, dovevo aspettare. Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare. Un giorno verso sera - fosse la prima, fosse la millesima, non saprei dire - i miei pensieri erano un guazzabuglio, e facevano una ridda. Verso sera, d'estate, più cupo scrosciava il torrente, ecco che udii un passo umano! A me, a me! Stenditi, ponte, mettiti all'ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l'incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano. Egli venne, mi percosse con la punta ferrata del suo bastone, poi sollevò le falde del mio abito e me le depose in ordine sul dorso. Infilò la punta del bastone nei miei capelli folti e ve la mantenne a lungo; probabilmente egli si guardava d'intorno con aria feroce. Poi a un tratto - io stavo appunto seguendolo trasognato per monti e valli saltò a piedi giunti nel mezzo del mio corpo. Rabbrividii per l'atroce dolore, del tutto inconscio. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un grassatore? Un suicida? Un tenta-
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tore? Un distruttore? E mi volsi per vederlo. Il ponte che si volta! Non ero ancora voltato e già precipitavo, precipitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato cosi pacificamente attraverso l'acqua scrosciante. Trad. di Anita Rho, Frassinella Milano 1968.
Jacob van Hoddis 1884-1921
Una banderuola canta nel cielo di Berlino, una pompa incantata ride sotto il ghiaccio nella campagna: è un piccolo libro di poesie che non vuol bruciare, che si rifiuta di subire la sorte di tante altre opere che la dittatura hitleriana ha votato all'autodafé, nella speranza di arrestare la marcia ininterrotta del pensiero rivoluzionario. Siamo alla punta estrema della poesia tedesca: la voce di Van Hoddis ci giunge dal ramo più alto e più sottile dell'albero folgorato. L'uomo, che per un attimo si accompagna ad Arp, si segnala per il suo comportamento bizzarro: invitato a cena, batte a tutto spiano il cucchiaio, per far rumore, e poco ci manca che, come Harpo Marx, tenda la gamba alle signore. Alla svolta storica rappresentata dalla fine della guerra, che si fece cosi crudelmente sentire in Germania, scompare in una casa di cura. Belle canzoni dei manicomi, dove si esalta il sentimento di una libertà totale - i raduni, militari o no, si spezzano contro i loro muri - noi siamo con esse nel paese stesso dell'humour nero, lo riconosciamo dal suo aspetto immutabile, simbolico, misterioso: sciami bianchi di mosche, tappeti di fiori, gatti che germogliano verde.
L ' U O M O C H E SOGNA
Notte verdazzurra, i muti colori ardono. È minacciato dal rosso raggio delle lance e da brutali corazze? Sfilano qui gli eserciti di Satana? Le macchie gialle natanti nell'ombra sono occhi di grandi vacui cavalli.
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Il suo corpo è nudo e pallido e senza difesa. Un rosa pallido suppura dalla terra.
TOHUB
Tre ometti cantano lassù quest'orrida canzone: Se cimici, pulci, pidocchi hai tu, il tempo ti passerà presto. Hai sempre qualcosa da schiacciare, ti prude qua, ti prude là. Puoi acchiappare e puoi pizzicare... Ossignore! Alleluiali! Perché mai devi annoiarti quando vai nobilmente in malora. Il minuto ti diventa ora, tu vedi solo il tempo e poi brontoli. Sul cranio senti i capelli, ti cresce l'erba dietro le orecchie, la mascella ti si fa raganella che geme faticosamente negli anni su e giù senza mai requie. Tre ometti cantano lassù quest'orrida canzone: Se cimici, pulci, pidocchi hai tu, il tempo ti passerà presto. Salirono su nell'aurora e cantarono giorno e notte,
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jacob vanhoddis e disturbarono pranzo e cena e aria e terra scoppiano.
I L VISIONARE.1
Lampada non belare. Dalla parete usci un sottile braccio di donna. Era pallido e venato d'azzurro. Le dita erano scarabocchiate di anelli preziosi. Quando baciai la mano, mi spaventai: era viva e calda. La faccia mi fu tutta graffiata. Presi un coltello da cucina e tagliai qualche vena. Un gattone leccò graziosamente il sangue sul pavimento. Frattanto un uomo con i capelli rizzati sulla testa strisciò su per un manico di scopa appoggiato di traverso alla parete. Trad. di Cesare Cases. 1
[Invece di Visionar (visionario), per incrocio con Narr (pazzo)].
Marcel Duchamp 1887-1968
Una volta varcato il fosso che separa le idee particolari da quelle generali, cosa già peculiare delle grandi menti, il genio di Marcel Duchamp consiste forse nell'averle a loro volta abbandonate per andare incontro a quelle che si possono chiamare le idee generali particolareggiate: cosi come ci si domanda se Maurice Scève, sotto il nome di Dèlie abbia cantato una determinata donna, l'ideale femminile o semplicemente «l'idea» (astratta da ogni rappresentazione femminile) l'idée di cui Delie è l'anagramma. Scavalcati deliberatamente i principi correnti della conoscenza e dell'esistenza, con Duchamp per la prima volta si è arrivati a «dare, sempre o quasi sempre, il perché della scelta tra du^ o più soluzioni (per causalità ironica)» cioè a fare intervenire il piacere perfino nella formulazione delle leggi cui la realtà deve obbedire (esempi: «un filo orizzontale cade da un metro d'altezza su un piano orizzontale deformandosi a suo piacimento, e dà una nuova configurazione all'unità di lunghezza», «per condiscendenza un peso è più pesante in discesa che in salita», le bottiglie di marca (tipo Bénédictine) obbediscono a un «principiodi densità oscillante»). In ciò risiede l'«ironia di affermazione», come Duchamp la chiama, che si contrappone all'«ironia di negazione che dipende solo dall'ilarità», ironia di affermazione che sta all'humour come il fior di farina sta al grano. Il mugnaio, nella fattispecie colui che, al termine di tutto il processo storico di sviluppo del dandysmo ha accondisceso a vestire Ì panni, secondo la definizione di Gabrielle Buffet, del «tecnico benevolo», il nostro amico Marcel Duchamp insomma, è senz'altro l'uomo più intelligente e (per molti) il più preoccupante di questa prima parte del secolo ventesimo. Il problema del rapporto tra realtà e possibilità, problema che resta la grande sorgente dell'angoscia, è risolto qui nel modo più audace: «La realtà possibile (si ottiene) dilatando un poco le leggi fisiche e chimiche». Verrà senz'altro il giorno in cui ci si dovrà preoccupare di stabilire rigorosamente l'or-
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dine cronologico delle scoperte effettuate da Marcel Duchamp, seguendo questo metodo, nel campo delle arti plastiche, e la cui enumerazione va oltre i limiti di questa nota: il futuro dovrà sistematicamente risalire il corso di queste scoperte, esplorarne con precauzione i meandri, alla ricerca di quel tesoro nascosto che fu lo spirito di Duchamp e, attraverso ciò che esso ha di più raro e di più prezioso, lo spirito stesso del nostro tempo. È in gioco tutta l'iniziazione profonda al modo di sentire più moderno, di cui l'humour si presenta, in quest'opera, come la condizione implicita. Dopo un fulmineo passaggio nella pittura ( Jeune homme triste dans un train, Nu descendant un escalier, Le roi et la reine entourés de nus vites, Le roi et la reine traversés par des nus vîtes, Vierge, Le passage de la Vierge à la Mariée, Mariée), Duchamp, mentre si dedica, dal 1 9 1 2 al 1923, a quella specie di «anti-capolavoro»: La mariée mise à nu par ces célibataires même, che resta la sua opera fondamentale, firma, come atto di protesta contro la sprovvedutezza, la mancanza di fantasia, e la vanità in arte, una serie di manufatti (ready made) nobilitati a priori in virtù della sua sola scelta: attaccapanni, pettine, portabottiglie, ruote di bicicletta, orinatoio, pala da neve, ecc. In attesa di passare ai ready made reciproci («usare un Rembrandt come asse da stiro») si dedica, sempre in questa direzione, ai ready made corretti: Gioconda abbellita da un paio di baffi, gabbia per uccelli piena di pezzetti di marmo bianco a imitazione di zollette di zucchero e attraversata da un termometro, ecc. Troveremo qui di seguito, insieme a un certo numero di «arrière-pensées» inedite e tipiche della sua maniera, una serie abbastanza completa di frasi costruite con parole sottoposte al « regime della coincidenza»; frasi in cui questi oggetti hanno trovato il loro accompagnamento ideale, e che brillano della luce stessa del loro compenetrarsi, dimostrando ciò che ci si può aspettare, sul piano del linguaggio, dal «caso in conserva», grande specialità di Marcel Duchamp.
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Etrangler l'étranger
Strangolate lo straniero2.
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Eglise, exil.
Chiesa, esilio3.
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Des bas en soie... la chose aussi.
Calze in se-ta... la cosa anche4,
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Un mot de reine, des maux de reins.
Parola di regina, mali di reni \
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Nous livrons des moustiques domestiques (demistock).
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Consegnamo zanzare domestiche
( metà stock)6-
[Poiché la traduzione italiana dei testi che seguono deve necessariamente limitarsi al loro significato letterale, ed è quindi ben lungi dal poter chiarire la portata di quel « regime della coincidenza » di cui parla Breton, si è ritenuto opportuno mantenere il testo originale, corredato da una traduzione letterale e da una succinta nota che non vuol offrire altro che una possibile chiave di lettura]. 2 [Anagramma]. 3 [Falso anagramma basato sull'assonanza tra il suono della x e quello del gruppo consonantico gs]. 4 [Gioco di parole tra soie » seta e soi - sé]. 5 [Gioco di parole basato sull'omofonia di mot - parola e maux = mali, e sull'assonanza tra teine — regina e reins = reni]. 6 [Falsi anagrammi fonetici ottenuti mediante spostamenti di vocali e gruppi sillabici].
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m a r c e l duchamp *
Rrose Sélavy et moi esquivons les ecchymoses des Esquimaux aux mots exquis.
Rrose Sélavy, ed io schiviamo le ecchimosi degli Esquimesi dalle parole squisite \
Le système métrite par un temps blennorrhagieux.
Il sistema metrite con un tempo blenorragico2.
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Fossettes d'aisance.
Fossette di comodo3.
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My nice is cold because my knees are cold.
Mia nipote è fredda perché le mie ginocchia sono fredde 4 .
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A coups trop tirés.
A colpi troppo sparati5.
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Parmi nos articles de quin- Tra i nostri articoli di chincaglieria pigra, raccomandiamo il rubicaillerie paresseuse nous netto che smette di colare quanrecommandons le robido non lo si ascolta. net qui s'arrête de couler quand on ne l'écoute pas. 1
[Gioco di parole complesso in cui Rrose Sélavy si legge come Rose, c'est la vie, ed è uno degli pseudonimi usati da Marcel Duchamp; si ha poi una serie di assonanze che culminano nella contrepèterie finale tra Esquimaux e mots exquis]. 2 [Il gioco di parole è basato sulla sostituzione di métrite -» metrite, malattia delle vie urinarie, a métrique - metrico, e sull'invenzione dell'aggettivo blénnorrhagieux, composto da blennorrhagique ~ blenorragico, e orageux ~ temporalesco]. 3 [Sostituzione della parola fossettes - fossette delle guance, alla parola fosses, nell'espressione fosses d'aisances = pozzi neri]. 4 [Assonanza tra niece e knees\ 5 [Letta senza la r di trop, la frase si trasforma nell'espressione idiomatica à couteau tiré = ai ferri corti].
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a n t o l o g i a
Ave2-vous déjà mis la moelle de Fépée dans le poil de Faimée?
d e l l o
h u m o u r
n e r o
Avete già messo il midollo della spada nel pelo dell'amata?
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Matin et soir: bains de gros thé pour grains de beauté sans trop de Bengué,
Mattina e sera: bagni di grosso the per nei senza troppo Bengué2.
ik
Une nymphe amie d'enfance.
Una ninfa amica d'infanzia \
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Physique de bagage : Calculer la différence entre les volumes d'air déplacé par une chemise propre (repassée et pliée) et la même chemise sale.
Fisica da viaggio: Calcolare la differenza tra i volumi d'aria spostati da una camicia pulita (stirata e piegata) e la stessa camicia sporca.
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Il y a celui qui fait le photographe et celle qui a de l'haleine en dessous.
C'è quello che fa il fotografo e quella che ha il fiato di sotto4.
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Inceste ou passion de famille. 1 2 3
zia].
4
Incesto o passione di famiglia.
[