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Italian Pages 550 [556] Year 2004
Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e testi Collana fondata da Giovanni Reale e diretta da Roberto Radice 98.
Ilaria Ramelli Giulio Lucchetta
Allegoria Volume I
L'età classica Introduzione e cura di Roberto Radice
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© 2004 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano
ISBN 88-343-5007-3
A Giovanni Reale
INTRODUZIONE
1. Dall'allegoria all'allegoresi Se si dovesse mettere a fuoco in maniera molto sintetica i momenti costitutivi della allegoria in una formula che non sia troppo astratta o generica I, dovremmo fare ricorso per lo meno a due figure: quella degli antichi mitografi2 e quella dei più recenti allegoristi. Ma questo minimum dell'allegoria già di per sé richiede un necessario completamento, implicando a) che ci sia una ragione per cui valga la pena di occuparsi di miti - ossia che i miti abbiano qualcosa da dire - e b) che l'interprete allegorista abbia le capacità e gli strumenti per cogliere questo nucleo significativo. Se si desse la prima condizione senza la seconda, avremmo una ricerca priva di scopo e utilità; se si desse la seconda senza la prima, avremmo una ricerca velleitaria e inconcludente, mancante di sistematicità e coerenza. A queste, naturalmente, si potrebbero aggiungere altre condizioni che sembrano ovvie: ossia, c) che gli antichi avessero davvero la capacità di cogliere in qualche misura la verità e di includerla nelle loro storie d) e poi anche che avessero l'intenzione di comunicarla. In tal caso, si tratterebbe di comprendere per quale motivo essi scegliessero proprio lo stile mitologico e fabulistico per esprimere i loro concetti, e non invece, direttamente, quello filosofico che appare molto più idoneo allo scopo. In questo nucleo definitorio dell'allegoria è implicito un importante p a'S- • saggio (in corrispondenza al punto b) che ci costringe a distinguere_fra qJJ;gor:ff e a!Jegpresj,__ ossia fra un'inter_er~t~zione casu~e e rapsodica dei simboli e una interpretazione sistematica, oltre che filosoficamente motivata dei medesimi. La linea di spartiacque fràquestoe- queT metodo di esegesi è, a nostro giudizio, stabilita da Crisippo in SVF II 1009, per quanto concerne il conferimento di sistematicità all'esegesi, e in SVF II 1070, per quanto concerne lo sfo~do filosofico su cui si stabilisce ed entro cui si costituisce l'allegoria. E evidente, a tal punto, che gli autori di questo libro condividono l'idea che I' or~gi!1e dell'alle_goresi - intesa nel senso appena detto di allegoria fondata e sistematica - è strettamente collegata con la storia dello Stoicismo, e che, anzi, l'allegoresi porta con sé tratti filosoficamente qualificanti di tale pensiero anche presso autori che stoici non sono - come ad esempio, 1 Come quella che la tradizione ci riserva, cfr. pseudo-Eraclito, Allegorie omeriche, 5,2: «Allegoria è una figura che consiste nel parlare di una cosa, mentre se ne vuole designare un'altra del tutto diversa». 2 O simbolisti: cfr. Anonimo della Tavola di Cebete e Cheremone, pp. 359-57; 349-58.
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Plutarco o i tardo neoplatonici - o che non lo sono completamente - come ad esempio Filone di Alessandria - , per il solo fatto che essi hanno assunto il metodo della allegoria nel loro piano di ricerca. Ci sarebbe, insomma, una specie di viscosità del metodo allegorico che trascina con sé contenuti speculativi tipici della filosofia del Portico. Vale la pena si sottolineare fin dall'inizio che !'alle oresi gravita totalmente nell'ambito della razionalità filosofica, ed anzi costiti-!!sce un~ JQEga manus della filosofia per ridurre in proprio potere ambiti che _di _solito_non le competono3, e per dettare ad essi le sue regole e le sue condizioni. L'idea che al fine di un processo allegorico il contenuto mitico e religioso venga in qualche modo salvaguardato o valorizzato è nella sostanza inesatta, anche se in alcune occasioni viene asserita dagli stessi autori. Certo, l'allegoresi dà importanza ai miti e anche alle usanze e ai riti religiosi, ma per trasformarli in qualcos'altro. L'esegeta rivolge la sua attenzione a queste realtà, e quindi le valorizza, in quanto le considera come simboli: in genere, però, l'attenzione non è per il simbolo, ma per il suo significato che, nel nostro caso, sta totalmente nell'ambito della filosofia. Comunque si voglia porre la questione, l'allegoresi è una forma di esegesi razionalista che sfocia nella filosofia e dunque di per sé tenderebbe a togliere ogni senso religioso e di mistero al racconto. Non è un caso che come Ramelli non si stanca di ripetere e di provare - l'allegoria negli Stoici, e per la prima volta negli Stoici, viene ad essere parte integrante della filosofia, e precisamente della teologia-fisica. Pertanto, il passaggio dall'allegoria alla allegoresi segna anche l'inclusione di quest'ultima nel sistema filosofico da cui attinge legittimazione e giustificazione.
2. Il ruolo di Posidonio Quello schema teorico che abbiamo fornito all'inizio non è certo assoluto e definitivo ed anzi sembra fatto apposta per essere infranto, una volta che si entri nella concreta prospettiva di un'analisi storica. Ad esempio, i punti e) e d) che fanno leva sulla competenza e le buone intenzioni del mitografo, non valgono per i casi di allegoria storico-razionalista, in cui, addirittura, alle origini di un dato mito starebbe un errore di interpretazione4, e neppure ha senso per quelle concezioni in cui la validità della testimonianza del poeta dipende proprio dalla sua insipienza, perché essa gli garantirebbe la funzione di veicolo neutrale di contenuti sapienziali che non gli appartengono. 3 Come ad esempio quello del mito, della poesia, del simbolo, della religiosità, del culto. 4 Cfr. ad esempio pp. 205-13.
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Ma l'allegoria storico-razionalista parrebbe contraddire anche la premessa a) della nostra iniziale definizione5, se non fosse che anche in questo caso il disvelamento dell'errore comporta un'affermazione della verità razionale: dunque la «rettificazione»6 del mito, anche quando comporta una squalificazione del suo autore, non esclude un interesse per il racconto mi,t ologico, anzi lo presuppone, perché da esso fa risultare un potenziamento della filosofia. L'allegoria in tal senso non serve solo ad estendere il potere del logos filosofico, ma anche a sgombrare il campo dai suoi eventuali antagonisti. Sembrerebbe dunque che il registro dell'allegoria che abbiamo fissato all'inizio sia eccessivamente astratto e che per questo rischi di essere smentito quasi ad ogni applicazione concreta; ma così non è. Di fatto, esso si adatta molto bene al modello dell'allegoresi stoica matura7 che probabilmente ha come riferimento il mediostoicismo di Posidonio, il quale sta perfettamente nei termini che si sono descritti.
In effetti, nell'Epistola 90 di Seneca8, in cui si attua una severa critica dell'esegesi allegorica dei poeti, si attribuisce a Posidonio il seguente pensiero: Posidonio ritiene che, nell'età definita aurea, il potere fosse in mano ai sapienti. Essi impedivano gli atti di violenza e proteggevano il più debole dai più forti, sapevano persuadere e dissuadere, indicavano l'utile e l'inutile. Con la loro saggezza facevano sì che ai sudditi non mancasse nulla, col coraggio li tenevano alla larga dai pericoli, con la liberalità accrescevano le loro ricchezze. Governare significava compiere un dovere, non esercitare una tirannia. Nessuno esercitava il proprio potere contro coloro che gli avevano permesso di raggiungerlo, nessuno aveva l'intimo desiderio o il motivo razionale per commettere ingiustizie, dato che si obbediva volentieri a chi comandava con giustizia, né, del resto, il sovrano, a chi non voleva obbedire, poteva minacciare qualcosa di più serio della propria abdicazione. Ma quando, a causa del furtivo insinuarsi dei vizi, il governo dei re si trasformò in tirannide, incominciò a risultare necessario l'utilizzo delle leggi, le quali, in origine, furono pure stese dai sapienti. Solone, che fornì ad Atene una costituzione giusta, era tradizionalmente annoverato tra i sette saggi. Di fatto Posidonio si fa interprete della diffusa credenza nell'età aurea e nella successiva decadenza dell'umanità che avrebbe reso necessaria l'istitu-
,,.
5 Perché interessarsi ad un errore o al prodotto di un errore, quale sarebbe il mito? 6 Cfr. p. 61; 175 s. 7 Per lo meno da Cornuto in avanti. 8 Corrispondente al fr. A321 di Posidonio (trad. Vimercati di prossima pubblicazione presso Bompiani).
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zione delle leggi . Questa età felice era cl_i!~Jta dai sapj~ n_ti, _presumibilmente intesi nel senso di filosofi. Il fatto che Seneca, a differenza di Posidonio; non rite ness-e la Tllosofia ;;;sponsabile delle arti manuali (edile, fabbrile, agricola, ecc.) è problema che in questa sede non ci riguarda: l'importante è che tanto Seneca quanto Posidonio concordassero sull'esistenza di un'età dell'oro in cui i sapienti avevano il potere, e sul fatto che da un certo momento in avanti, rotto l'equilibrio di quell'età perfetta per «l'insinuarsi dei vizi» , si fosse awiato un processo di C~Jil!ROne , certamente coincidente con la storia umana. - ---ìICo11e gamento con I' 01.: iginaria sapienza sarebbe allora assicuratg_dagli antichi saggi i quali t:r:ano COI!l.P.~te_nti di as!ronomia, aritmetica, geometria e geografia9, IDE'iv) tanto le arti necessarie alla sopravvivenza, quanto le arti in generale e le scienze astratte. 39 Cfr. pp. 58-60 . 40 Apologia, 21 E ss. 41 Ramelli seguirà puntualmente gli esiti di questa posizione fì210 nelle sue propaggini ultime negli apologisti di Omero, il cui obiettivo polemico è spesso Platone. Cfr. p . 405. 42 III 680 B 1.
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monti I in grotte profonde. Ciascuno poi esercita la propria potestà figli e mogli e nessuno si cura degli altri.
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CLINIA - Direi che questo vostro poeta sia stato dawero abile. Ci siamo già imbattuti in altri suoi versi di alto livello. Non molti, però, perché noi Cretesi abbiamo scarsa dimestichezza con i poemi stranieri. Con questo cambiamento la posizione complessiva di Platone appare molto più vicina alla posizione stoica, per lo meno in ordine a quel modello ideale che abbiamo tracciato all'inizio. Infatti, in tal modo, un filosofo come Posidonio, di fede stoica, ma di grande apertura intellettuale e propenso all'eclettismo, avrebbe trovato ancor meno difficoltà a rifarsi all'ultimo Platone senza mettere a rischio la sua fedeltà allo Stoicismo. 4b. L'origi,ne del linguaggi.o
Abbiamo già dimostrato che un ricorso alla protostoria dell'uomo per garantire la fondatezza del metodo etimologico, nel caso degli Stoici, non sarebbe corretto, e che invece la linea da scegliere è quella psico-fisiologica, che più si adatta al modo di pensare dei Veterostoici e che trova sufficiente conforto nei testi che ci rimangono. Anche in questo caso, mi sembra che il ricorso alla dimensione storica, e alla figura di un nomenclatore originario per giustificare la pregnanza del linguaggio non sia tanto stoica quanto platonica, e possa essere confluita solo più tardi nella tradizione dello Stoicismo. Ma prima di parlare di Platone è bene rivolgersi a Democrito che al fr. 5 affronta il problema dell'origine del linguaggio, e, se non erro, è questa la prima volta che un filosofo pone a tema in maniera chiara e diretta questo argomento. A poco a poco, la loro [sci!.: degli uomini primitivi] voce smise di emettere suoni inarticolati e privi di significato e imparò ad articolare vere e proprie parole, sino a che convenirono fra loro parole atte a simbolizzare ciascuna cosa da loro conosciuta e alla loro portata, determinando così il sorgere di una interpretazione globale del mondo. La posizione di Democrito è interessante perché , se pure in una forma imprecisa sposa una concezione convenzionalista43 dell'origine del linguaggio con una concezione naturalista, oggettiva44: in questo senso, oltre che nel senso di una concezione elementaristico-atomistica del linguaggio, si può pensare che Democrito sia un precursore di Platone e che l'abbia in qualche modo influenzato45. Tuttavia, è indubbio che la teoria del linguag43 « ... convenirono fra loro ... » . 44 « ... parole atte a simbolizzare ciascuna cosa ... » . 45 Gaiser 198, p. 123.
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gio espressa nel Cratilo sia assai più ampia ed evoluta di quella democritea. Senza pretendere di andare al fondo della questione, ma volendoci limitare ai punti che interessano direttamente la nostra ricerca possiamo estrarre questi temi dalla lettura del Cratilo: a) il nome è posto in una fase originaria della storia umana da un essere intelligente che talora si identifica con il legislatore 46, talaltra con un dio47 0 con gli uomini antichi 48. Chiunque fosse il soggetto delegato a fissare originariamente i nomi questi doveva conoscere bene la realtà a cui si rivolgeva49. b) Nonostante l'attribuzione dei nomi tocchi a un individuo o ad un gruppo di individui, i nomi in qualche misura si addicono alla natura del1' oggetto designato50, e per questo, non possono essere assegnati a caso, ma con un'arte che impone una certa correttezza51.
e) La correttezza di cui parla Platone dipende dalla capacità che il nome ha di imitare l'oggetto designato52, ma una tale imitazione non si intende in senso fisico53 o materiale, ma in senso ideale, cioè deve rifarsi all'essenza stessa della cosa54 . d) Inoltre, continua Platone, la capacità di imitazione non tocca al nome in quanto tale, ma alle sue parti costitutive ed elementari55. Il riferimento 46 Cratilo 389 A. 47 Cratilo 438 C. 48 Cratilo 397 C8; 398 B 7, D2; 401 A ecc . 49 Cratilo 438 A: " SOCRATE - Poco fa, nelle precedenti discussioni, se ti ricordi, hai sostenuto che è necessario che l'autore dei nomi li abbia attribuiti conoscendo gli oggetti cui li assegnava. Ebbene, ti sembra ancora così, oppure no? CRATILO --. Ancora. SOCRATE - E sostieni che anche l'autore dei primi nomi li abbia assegna'ti conoscendo? CRATILO - Sì». 50 Cratilo 389 D. 51 Cratilo 397 A: «Da dove desideri che incominciamo l'indagine, dal momento che ci siamo imbarcati in una certa impresa, per sapere se proprio i nomi stessi ci attesteranno che ciascuno non viene attribuito così, a caso, ma possiede una certa correttezza?». 52 Cratilo, 423 B: «SOCRATE - Allora, il nome, a quanto pare, è un'imitazione per mezzo della voce di ciò che viene imitato, e colui che imita denomina per mezzo della voce ciò che imita». 53 Cratilo, 423 C: «altrimenti, osserva argutamente Platone, anche quelli che fanno l'imitazione delle pecore e dei galli e degli altri animali, denominano quello che imitano» . 54 Cratilo, 423 E: «SOCRATE - Ebbene, se si riuscisse a imitare di ciascun oggetto proprio questo, ossia l'essenza, mediante lettere e sillabe, non si mostrerebbe forse quello che ciascuna cosa è? Oppure no? - ERMOGENE - Senza dubbio». 55 "Lettere e sillabe» , come in Cratilo, 423 E o come si dice con più efficacia in 434 A: «SOCRATE - Dici bene. Perciò, se il nome dovrà essere simile all'oggetto, sarà
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agli elementi del nome serve a Platone per ammettere una possibilità di errore nell 'attribuzione dei nomi, anche nella fase originaria, perché chi li impone può effettivamente errare nella loro composizione a partire dagli elementi primari. In tal modo, anche se le lettere e le sillabe sono di per sé perfettamente aderenti all'oggetto56, il nome che ne deriva può risultare una copia infedele, perché è mal costruito, e di conseguenza anche le conclusioni che si traggono dalla sua analisi possono risultare erronee. e) Questa apparente complicazione è di fondamentale importanza dal punto di vista di Platone, perché riconosce una costante possibilità di errore, e una evoluzione in duplice direzione nella genesi e nello sviluppo del linguaggio. Come osserva Gaiser57: «fin dall'origine che si riporta al lontano tempo mitico, dovette prendere l'avvio un'evoluzione in doppio senso: da un lato mediante la lingua il nesso con il vero essere potè venire portato alla coscienza in maniera sempre più chiara; dall'altro si verificò la possibilità di usare la denominazione (onomata) in maniera scorretta, producendo un'immagine sbagliata del mondo mediante false connessioni». Una tale alternativa non sarebbe solamente un dato storico, ma avrebbe carattere strutturale, rispondendo ad una logica profonda, che fa capo alla dialettica e, da ultimo, alla dottrina dei principi. f) Di conseguenza, il carattere mimetico del nome rispetto alla realtà designata autorizza l'uso dell'etimologia58, ma non autorizza una fiducia illimitata in essa59, anche perché manca un criterio assoluto per discernere le false etimologie da quelle autentiche60. Se ne deduce che, per Platone, il metodo dell'etimologia e, a maggior ragione, quello della allegoria, non potrà mai sostituire totalmente il metodo dialettico, filosofico, nella ricerca della verità. Osserva a tal proposito il filosofo61: Penso che non sia da uomo assennato, dopo aver affidato se stesso e la propria anima in cura ai nomi, dopo aver riposto fiducia in essi necessario che siano per natura simili agli oggetti gli elementi, a partire da cui si comporranno i primi nomi? Intendo affermare questo: qualcuno avrebbe mai potuto comporre, come dicevamo poco fa, un dipinto simile a qualcuno degli esseri, se non esistessero per natura dei colori, con cui vengono realizzate le pitture, somiglianti a quegli oggetti che l'arte del disegno imita? Oppure sarebbe impossibile? CRATILO - Impossibile». 56 Cratilo 434 B ss. 57 Gaiser 1988, p. 125. 58 Che nel Cratilo è applicata in maniera massiccia: ai nomi divini, agli elementi fisici, astronomici e meteorologici, ai fondamentali concetti etici, alle arti, alla psicologia e alla gnoseologia. 59 Proprio per i motivi espressi nel punto e. 60 Neppure la concordanza fra etimologie diverse garantisce la loro correttezza: cfr. Cratilo, 436 C ss. 61 Cratilo, 440 C.
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e in coloro che li hanno stabiliti, insistere, come se si sapesse qualcosa, disprezzando se stessi e gli esseri, come se non vi fosse in essi nulla di sano, ma tutto scorresse, simile a vasi d 'argilla. Ora, non può sfuggire il fatto che la dottrina platonica dell'origine del linguaggio, unita alla sua concezione della storia e alla conseguente - se pure parziale - valutazione dell'etimologia, e anche al recupero della funzione dei poeti costituisce uno sfondo filosofico pressoché perfetto dell'allegoresi, che autorizza ad ipotizzare la sua assunzione da parte di esponenti dello Stoicismo di mezzo e degli autori del I secolo a.C.
5. L'atteggiamento degli Stoici di fronte ai poeti e alla storia Per fare il punto sulla nostra ricerca, bisogna riconoscere che essa, per il modo in cui l'abbiamo condotta e per quanto sembra risultare dai testi in nostro possesso, allo stato attuale, è tutt'altro che soddisfacente, perché se da un lato riconosce agli Stoici antichi, e in particolare a Crisippo, l'origine dell 'allegoresi - cioè di una allegoria fondata e sistematica - e il suo strumento principale che è l' etimologia, dall'altro non riesce a trovare, se non in periodo mediostoico, e per il determinante contributo di Platone, i presupposti che giustifichino l'una e l'altra concezione. In particolare, il punto che noi riteniamo non accettabile è l'ipotesi di una teoria della storia già presente nei fondatori della Stoa che stia a fondamento tanto del concetto di età aurea - e della successiva decadenza dell'umanità - , quanto di quello della fissazione dei nomi, ossia, per ritornare alla prospettiva della nostra indagine, tanto della correttezza dei nomi, quanto della oggettività della sua tradizione. Resta comunque il fatto che gli Stoici e in specie Crisippo credevano a,J.,1 carattere naturale dei nomi ed erano convinti di poter fondare su di essi gli «elementi di alcune etimologie,,62. Inoltre, si deve ritenere come assodato che gli Stoici ricorsero massicciamente a fonti poetiche considerandole, purchè debitamente interpretate, parti integranti della loro ricerca filosofica. E ciò fino al punto da modificare la struttura abituale del discorso filosofico in una forma densa di citazioni e alla lunga stucchevole. Cleante e soprattutto Crisippo si attirarono per questo una serie di critiche, ad esempio da parte di Seneca63 : Crisippo, che parla sempre non perdendo di vista la concretezza e usando il minimo necessario di parole per farsi capire, ebbene anche lui ti riempie un intero libro di queste inezie, col risultato di dire quasi nulla sul modo di dare, ricevere e restituire benefici: non è che a questi temi qua e là intercali fantasie, ma al contrario intercala questi temi a fantasie . 6 2 SVF
II 146.
63 SVF II 1082.
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Galeno rincara la dose64: L'oggetto del tuo [scil.: di Crisippo] contendere non è il problema se l'anima irascibile si trova nel cuore, ma se lo è quella razionale : questo avresti dovuto dimostrare senza perderti in una quantità di divagazioni sull'anima irascibile e senza infarcire io! tuo libro di citazioni poetiche, una dietro l'altra [seguono citazioni dall'Iliade e dai tragici] 65. Parrebbero queste delle semplici dispute fra letterati, ma, se si considerano alla luce della storia dell'allegoresi, in una prospettiva globale, tali testimonianze hanno un valore notevole perché attestano che gli Stoici antichi concepivano l'uso della etimologia come parte integrante dell'argomentare filosofico , e non con una incidenza trascurabile, ma massiccia e addirittura preponderante. In tal modo, sembra che il rapporto fra allegoria e filosofia vada sempre più consolidandosi, quasi si preparasse alla totale identificazione che si attuerà nel Giudaismo Alessandrino. Una volta riconosciuto questo legame preferenziale della filosofia con la poesia per il tramite dell'allegoresi sarebbe legittimo attendersi una rivalutazione consistente della poesia e conseguentemente del ruolo dei poeti. Ma questo, sorprendentemente, non risulta affatto; anzi, Boys-Stones66 non ha dubbio alcuno nell'ammettere un sostanziale disprezzo da parte degli Stoici per l'opera dei poeti67. Ma forse esagera. Se ci si attiene ai testi emerge, accanto ad un atteggiamento di decisa condanna68, anche una sostanziale freddezza, che oscilla fra una aperta critica per motivi scientifici69 o etici70 e una moderata accettazione71, fino a un discreto apprezzamento, ma limitatamente alla funzione didattica e non a quella euristica della verità. In questo senso, infatti, bisogna intendere il fr. 739 del terzo libro di SVF: Certo, se non per acquistare una virtù perfetta, almeno in funzione della vita civile, è utile nutrirsi di opinioni di veneranda anti64 SVF II 890. 65 Cfr. anche SVF I 536, dove alla critica si accomuna anche Cleante e II 906: «Era meglio che Crisippo si desse da fare a dimostrare la dottrina di Zenone, piuttosto che trascrivere una quantità di versi raccattati un po' da tutti i poeti ... ». 66 Boys-Stones 2001, p. 34. 67 Disprezzo che apparirebbe in maniera esemplare nell'Ep. 90 di Seneca già più volte citata. 68 SVF II 1067: «... le favole dei poeti colmarono la vita umana di superstizioni di ogni tipo ... ». 69 SVF II 1080: «... messi da parte quei racconti fantasiosi [scil. dei poeti] e non tenendone alcun conto finalmente [gli Stoici] riuscirono a riconoscere dio ... »; 1082: «... Esiodo impostò i nomi a suo piacimento»; 1076: «Gli dèi non sono né maschi né femmine», ecc. 70 Il poeta dà voce al piacere ed è pertanto deviante: SVF III 231, 229b. 71 SVF I 274: «Zenone non muove particolari rimproveri ad Omero».
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chità e seguire un'antica tradizione di nobili azioni, che gli storici e tutta la stirpe dei poeti hanno trasmesso alla memoria dei contemporanei e dei posteri. Se si vuole, l'accusa che lo Stoico rivolgeva ai poeti era quella di scarsa affidabilità nella ricerca del vero, come ben si rappresenta nel già menzionato fr. SVF I 274, che ora è necessario leggere per intero: Anche il filosofo Zenone scrisse sull'Iliade, 1' Odissea e sul Margde, e in effetti anche il Margite sembra essere un poema di Omero, ma del giovane Omero che ancora metteva alla prova la sua attitudine a comporre poesia. Zenone non muove particolari rimproveri agli scritti di Omero, ma nel contempo racconta ed insegna che egli scrisse alcune cose basandosi sull'opinione, altre sulla verità, perché non risulti che si contraddice, allorquando sembra sostenere posizioni opposte. Questa tesi era stata già sostenuta in precedenza da Antistene, il quale affermava che alcune cose il poeta le dice secondo opinione, altre secondo verità. Ma Antistene non diede seguito a questa sua tesi, Zenone invece la dimostrò in modo dettagliato e articolato. Su questo preciso aspetto si baserebbe la distinzione fra il poeta e il filosofo 72: il filosofo si fonda sempre sulla verità, il poeta solo talvolta. Eppure, nonostante questi limiti, il poeta è un buon divulgatore73 e ciò per una ragione formale e per una sostanziale. La ragione formale è presto detta: la poesia sa comunicare e sa dare risalto74 ai nostri pensieri e ai nostri sentimenti e per tale aspetto è insostituibile. D'altra parte, come ben sappiamo, lo stesso Cleante non disdegnava di affidare i suoi pensieri ai ritmi e ai metri della poesia e a giustificare ciò sulla base di precise valutazioni estetiche75: Se forse non vorranno dire alla maniera di Cleante, il quale sostiene che sono migliori le composizioni poetiche e i modelli musica,,7 li e, pur ammesso che il discorso della filosofia possa rivelare adeguatamente le cose divine e umane, l'assoluta eccellenza divina non trova parole appropriate; allora, i metri, i canti e i ritmi giungono, per quanto è possibile, alla verità della contemplazione degli dèi. Così, anche se il poeta non sa cogliere adeguatamente la verità, la sua 72 Cfr. anche il fr II 1009 sotto commentato. 73 L'efficacia della comunicazione poetica è attestata, se pure in senso negativo, da SVF II 1067: «... la Grecia era ormai invasa dall 'arcaica credenza che il cielo era stato evirato dal figlio Saturno ... ». 74 SVF II 487: «Diceva Cleante: come il nostro soffio dà un suono più squillante, quando una trombà lo incanala in un tubo lungo e stretto, e poi lo diffonde in un orifizio più grande, così la stretta disciplina della poesia rende più squillanti i nostri sentimenti». 75 SVF I 486.
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funzione nel diffonderla e nel renderla accetta agli uomini resta insostituibile, e in tal senso fra filosofi76 e poeti si sarebbe creata una sorta di divisione dei compiti e di collaborazione. Questo mi pare si possa desumere da SVF II 1067: Secondo un'altra spiegazione razionale che ha attinenza con la fisica ci fu una serie numerosa di dèi che, indossati panni umani, ispirarono le favole ai poeti e colmarono la vita umana di superstizioni di ogni tipo. Questo punto è stato trattato da Zenone e poi ripreso da Cleante e Crisippo con grande ampiezza. Poiché la Gtecia era ormai invasa dall'arcaica credenza che il Cielo era stato evirato dal figlio Saturno, e quest'ultimo incatenato dal figlio Giove, in questo racconto, tutt'altro che pio, è stato inserito un contenuto scientifico di un certo valore: si volle significare che la parte estrema del cielo, di natura eterea, cioè di fuoco, la quale è all'origine di ogni generazione, è mancante di quella parte del corpo che deve unirsi ad un altro corpo per generare. Resta ora da chiarire la ragione per cui gli Stoici avevano tanto interesse per i poeti, pur negando loro fiducia.
6. La teoria delle nozioni comuni Fra i criteri di verità a cui gli Stoici affidavano il controllo e la garanzia dei discorsi filosofici, e, in ultima analisi, l'accertamento della verità, spiccano le cosiddette koinai ennoiai. Per quanto non sia nostra intenzione occuparci in specifico della dottrina stoica della conoscenza, alcun~ puntualizzazioni sul significato di queste nozioni è doveroso, per il fatto che esse, a nostro giudizio, stanno a fondamento del metodo della allegoresi. Sandbach77, riprendendo le tesi di Zeller e Prechter78 e invece contrastando quelle di Bonhoffer79 dà per assodato che le koinai ennoiai si identificano con le prolessi e dunque ritiene di tradurre la prima espressione con «Universal concepts»8o. Una volta accettato questo significato, non è impossibile dimostrare che il rapporto fra le prolessi e le koinai ennoiai è molto stretto. Tuttavia, la prima identificazione non mi sembra del tutto legittima, 76 In particolare i physici: SVF II 1066: «Ai filosofi della natura piace intendere Giove come etere, cioè fuoco, e Giunone come aria, e poiché questi elementi si equivalgono per via della loro natura rarefatta, li hanno chiamati fratelli. Dato che Giunone, l'aria, è sottoposta al fuoco, cioè a Giove, all'elemento che gode di uno status giuridico più elevato fu attribuito il nome di marito». 77 Sandbach 1971, pp. 22 s. 78,Ivi, nota 6 di p. 34. 79 Bonhòffer 1968, pp. 187 ss. 80 Sandbach 1971, p. 22.
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in quanto il termine koinos nella terminologia stoica ha molto raramente il significato di universaleSl, mentre per lo più ha il significato di «comune», come anche riconosce l'Adler82, che proprio in questa accezione intende le koinai ennoiai di cui trattiamo. In questo senso l'espressione andrebbe tradotta con nozioni comuni e non con nozioni universali, tanto più che il termine tecnico che rende il nostro "universale" sarebbe per gli Stoici kaqolikos, come si trova in SVF II 224, in opposizione con «particolare» ( epi merous): ed è talmente vero questo, che gli Stoici83 parlavano tanto di koinai ennoiai quanto di koina erga84 in opposizione con idia erga, cioè azioni che solo alcuni - nel nostro caso, quelli che sono dotati di una certa arte e competenza possono compiere. D'altra parte, l'aggettivo koinos si inserisce in una famiglia di termini (koinonia, koinonikos) che ha uno stretto rapporto con la dimensione sociale e collettiva, ciò che la prolessi, con la sua caratterizzazione tipicamente gnoseologica, non ha. Detto questo, il rapporto fra prolessi e koinai ennoiai continua ad essere molto stretto, ma non fino al punto di una totale identificazione: infatti, possiamo pur concedere che tutte le prolessi siano koinai ennoiai - perché, in quanto naturali, si presume che siano proprie di ciascun uomo85 - , ma non che tutte le koinai ennoiai siano prolessi. Ad esempio, il passo di SVF II 473 che alla lettera si riferisce alle koinai ennoiai non può86 essere esteso anche alle prolessi: infatti, queste ultime87 hanno a che fare in maniera diretta con «la questione dei beni e dei mali», mentre qui si parla del concetto di mescolanza nelle sue varie articolazioni, senza un particolare impegno teoretico, ma semplicemente per dire che queste si lasciano cogliere con facilità, sulla base della evidenza. Credo che una lettura attenta del passo renda facilmente ragione di questa tesiSS: Crisippo si sforza di convincere del fatto che nelle mescolanze ci sono tali differenze [e cioe cioè connessione, fusione, commistio,,,-;. ne ] servendosi delle nozioni comuni [ton koinon ennoion] che, a 81 A mio giudizio solo in SVF III 278; perché anche in SVF II 362, si intende, in senso fisico , una realtà non individuale, e il termine è contrapposto a kath'ekasta, cioè individuale. 82 SVF voi. IV, p. 84, il quale fra l'altro equipara il greco koinos con il latino communis, come in SVF III 93. 83 Ad es. in SVF III 516. 84 Che, dato il contesto, non può certo rendersi con «azioni universali», ma va inteso come «azioni alla portata di tutti». 85 Cfr SVF III 69. E anche perchè stanno a fondamento della Ragione, a cui danno sviluppo «Dei primi sette anni di vita» (SVF I 149). Inoltre, gli Stoici attribuiscono sia alle prolessi sia alle koinai ennoiai il ruolo di criteri fondamentali della conoscenza: cfr. SVF II 82 e 473, sotto citato. 86 Come vorrebbe Sandbach, cit., p. 24. 87 Come si afferma esplicitamente in SVF III 69. 88 SVF II 473.
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suo giudizio, sono i più importanti criteri di verità che abbiamo da natura. Noi ci formiamo infatti rappresentazioni diverse quando si tratta di cose semplicemente accumulate, oppure quando si tratta di cose fuse insieme e che in questa fusione si sono dissolte; ancora un 'altra rappresentazione l'abbiamo nei casi di compenetrazione totale degli ingredienti, dove però ciascuno mantiene la sua natura specifica.
A tal punto, per dire una parola conclusiva sul senso delle koinai ennoiai, non ci resta che interpretare l'importante fr. SVF II 83: Così affermano gli Stoici. Quando l'uomo viene alla luce, il suo egemonico è come un foglio di carta fatto apposta per la scrittura: e difatti su di esso vengono trascritte una per una tutte le intellezioni .. . Il primo tipo di trascrizione è quello che proviene dalla sensazione ... Delle nozioni (ennoiai) alcune hanno origini naturali, nei modi sopraddetti e senza seguire alcun disegno, altre invece seguono ad un impegno educativo. Queste ultime si chiamano solo nozioni, le prime invece si dicono anche prolessi .. . Quella ragione che ci merita il nome di esseri razionali trae origine dalle prolessi, e, a quanto si dice, giunge a maturazione intorno ai sette anni. Il testo afferma che anche le prolessi sono ennoiai, ma sono ennoiai caratterizzate da una formazione istintiva, naturale, mentre le ennoiai in sé richiedono un impegno educativo. Ebbene, a nostro giudizio, le nozioni comuni in quanto nozioni potrebbero pur ereditare dalle ennoiai il carattere educativo, ma, in quanto comuni e anch'esse naturali, potrebbero prendere il carattere della istintività tipico delle prolessi. Come è possibile conciliare questi due caratteri? Semplicemente ricorrendo alla dimensione diacronica, quella, appunto della verità tramandata attraverso la poesia. I poeti, insomma, in quanto esseri intelligenti hanno avuto loro stessi o hanno raccolto da altri intuizioni naturali della verità; ma in quanto uomini d'arte e maestri nel fissare e divulgare le loro conoscenze, hanno conferito un tal fascino alle loro verità da diffonderle dovunque, appunto rendendole «comuni» e universalmente condivise. In questo modo, per così dire, lo stoico del III secolo poteva trovare un criterio di verità, non solo dentro di sé (nelle prolessi, appunto), ma anche intorno a sé. si potrebbe dire nelle prolessi «depositate» - sia pure in una forma criptica e a volte nascosta da molti errori - nelle opere dei poeti, come nozioni comuni. Qui sta il punto essenziale: quella specie di sapere collettivo che gli Stoici ritenevano celarsi nella mitologia dei poeti non si trovava solo in essa, ma anche nella tradizione in genere, nella toponomastica e in altre forme ancora89. In tal senso, si aprivano per l'uomo diverse vie per la verità: non solo 89 Ad esempio, nel carattere ostensivo di certe parole, come in SVF II 895, o di certe locuzioni, come in SVF II 902 e 809.
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quella dialettico-filosofica, ma anche quella allegorica, o anche l'una e l'altra insieme, in considerazione della loro complementarietà. Anzi, l'uso parallelo dei contributi delle diverse vie e il loro confronto sistematico doveva essere una pratica abbastanza diffusa, ad esempio, a partire da Crisippo se si dà retta al fr. SVF II 107690, secondo il quale nel primo libro dell'opera La natura degli dèi Crisippo avrebbe analizzato i nomi «Che la gente dà» agli dèi e li avrebbe ridotti al loro nucleo razionale , mentre nel secondo libro91 «avrebbe attuato il tentativo di accordare i racconti mitici di Orfeo, Museo, Esiodo, Omero alla concezione degli dèi immortali che aveva esposto nel primo»92. Ebbene, per quale altro motivo il nostro filosofo avrebbe dovuto equiparare i due ambiti - quello della gente comune93 e quello dei poeti se non perché li riteneva entrambi portatori delle medesime verità e capaci di diventare - a determinate condizioni9 4 - criteri di giudizio delle proprie verità95 ? Allora, alla luce di quanto abbiamo detto risulta chiaro anche l'ambiguo atteggiamento nei confronti dei poeti96 che, in quanto non filosofi, non sono garanti di alcuna verità, bensì solo dell'aspetto formale ed estetico di essa e della sua diffusione. E tuttavia, in quanto sono veicoli di tradizione, i poeti sono portatori di verità: una verità che, però, va fatta emergere e riportata alla luce con l'allegoria e l' etimologia97. 90 = Cicerone, De natura Deorum, I 15, 39. 91 Riprendendo una prassi che era già stata di Cleante: cfr. SVF II 1078. 92 Cicerone, maliziosamente, completa: «per far risultare stoici anche quegli antichissimi poeti, i quali, invero, queste teorie neppure se le sognavano» ; De natura Deorum, I 15, 41. 93 Oppure, nel caso del culto degli dèi, del rituale consolidato in formule, com 1 in SVF II 1024, sotto citato. ., 94 Cioè, quando sono conformi alla ragione filosofica. Si noti che Seneca nel fr. II 1024 si spinge molto avanti in questa direzione, attribuendo a chiunque il potere di chiamare dio con altro nome o di propria iniziativa o secondo il rituale ( rite), a condizione però di rispettare il significato filosofico che il dio ha: « Qualunque nome attribuirai al dio - osserva Seneca, De beneficiis IV 7 - sarà ben dato purché esprima una forza o un effetto di ordine celeste: potrà avere tanti nomi quanti sono i suoi doni». Questo discorso ci porta al cuore della questione della allegoresi, cioè al suo contenuto sostanziale che tratteremo più avanti. 95 Cfr. SVF II 925. Ma, reciprocamente, come si può leggere nel fr. II 1024 appena citato, anche le verità proprie del filosofo sono garanzia della verità dei contenuti mitologici. 96Dobbiamo notare che l'ambivalente atteggiamento nei confronti dei poeti non è una ricostruzione a posteriori di un qualche esegeta moderno, ma era ben noto ai contemporanei degli Stoici tanto essa era evidente, come ben risulta da SVF II 1079. 97 In questo modo, appare anche meno importante il contrasto fra Crisippo e Seneca nei confronti dei poeti: cfr. pp. 333-36. Bisogna però notare che l'insipienza dei poeti non pregiudica l'impostazione data da Crisippo all'allegoria che ha un fon-
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7. Esistenza ed essenza di dio Precisata in qualche misura la funzione della tradizione e in particolare della poesia, soprattutto in ambito teologico, non resta che affrontare il problema essenziale, e cioè da dove e in che modo gli uomini acquisiscono la conoscenza degli dèi. Esiste un testo fondamentale a questo proposito, conservatoci da Aezio, Placita, I 698 il quale sembra contenere in nuce tutta la questione della allegoresi, sia in relazione al suo apparato formale99 sia, in parte, in relazione ai suoi contenuti filosofici. Purtroppo a lla importanza di questo passo fa riscontro una notevole oscurità, soprattutto per ciò che concerne la struttura. La sua esegesi va dunque preparata con la lettura di un altro testo di analoga importanza, conservatoci da Filone di AlessandrialOO in una posizione di assoluto spicco per quanto concerne la sua allegoresi. Scrive Filone riportando il pensiero stoicolOl: Nelle ricerche su dio, un pensiero filosofico autentico incontra soprattutto questi due problemi: uno se il divino esista - e questo contro i fautori dell'ateismo, il male supremo -; l'altro qual è la sua essenza. Non è difficile inquadrare il primo problema; il secondo, invece, non solo è difficile, ma forse è addirittura insolubile. Comunque, affronteremo sia l'uno che l'altro. Sempre accade, ed è naturale che così sia, che l'opera d'arte sia il mezzo per conoscere l'artista: chi, alla vista di una statua o di un quadro, non risale allo scultore o al pittore? E chi, guardando un vestito, o una nave, o una casa non si farebbe un'idea del sarto, dell'armatore, o del muratore? E se uno fa ingresso in una città dotata di buone leggi, in cui tutte le istituzioni funzionano a dovere, che altro penserà se non che questa è una città diretta da buoni amministratori? E così quando noi arriviamo in questa autentica megalopoli che è il mondo, e vediamo valli e montagne lussureggianti di piante e animali e le correnti dei fiumi di sorgenti lontane o dei torrenti, e damento antropologico e gnoseologico, quanto piuttosto l'impostazione di Posidonio che, come abbiamo visto, si fonda su una prospettiva storica in cui è determinante il problema della tradizione e della trasmissione della verità. 98 = SVF II 1009. 99 Cioè, in relazione alle regole che la disciplinano. 100 Spec. I 32-35 = SVF II 1010. 101 La provenienza stoica del passo, garantita per altro dall'autorità del von Arnim, è provata anche dal riferimento al concetto tipicamente stoico della megalopoli (cfr. SVF III 323) e da svariate coincidenze formali con il frammento precedente, come, ad esempio, il comune richiamo alla bellezza del cosmo, all'utilità per l'uomo di quanto si trova nel cosmo - la quale trova il suo fondamento nella convinzione che il mondo è fatto per l'uomo: cfr. SVF II 1041 - , nonché alle realtà celesti e alla figura del demiurgo come artista.
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i mari straripanti, e la salubrità dell'aria e la successione delle stagioni; e poi ancora il sole e la luna, signori l'uno del giorno l'altra della notte, i moti e le rivoluzioni delle altre stelle e dei pianeti e di tutto il cielo, non siamo forse autorizzati, anzi costretti, a farci un'idea di un padre creatore, e anche reggitore? E infatti non esiste opera d'arte che si produca da sé, e il mondo è opera quanto mai artistica: dunque, deve essere creato da un artefice di somma sapienza e perfezione. Stando a questa testimonianza, gli Stoici distinguevano fra la prova della semplice esistenza di Dio ( ei esti to theion) che sarebbe lo scopo della filosofia in quanto tale, e la determinazione della sua sostanza (ousia): la comprensione di quest'ultima sarebbe impossibile al filosofo in quanto tale. Bisogna però chiarire che cosa si intende per essenza di Dio: Filone, si sa, riteneva per essenza la costituzione ontologica di Dio, che nella sua assoluta trascendenza e per essere infinito sfugge ad ogni conoscenza umana, in ragione del fatto che l'uomo ha una natura mista (materiale spirituale) limitata ed esposta al peccato e all'errore. Ma potrebbero dire altrettanto gli Stoici nel loro rigido materialismo e nella loro fede nell'onnipotenza del Logos? Evidentemente no, perché qualsiasi carattere di eccellenza lo Stoico voglia attribuire a Dio, questo non potrà comunque eccedere i limiti del materialismo che ha assunto come suo ultimo orizzonte. Inoltre, in ragione del monismo, immanentismo e panteismo che ha scelto come nota dominante del suo pensiero, la sostanza di cui è fatto Dio non può essere diversa da quella di cui sono fatti l'uomo e il cosmo in ogni sua partel02, sicché, data per conosciuta l'una, anche l'altra è conosciuta. Evidentemente Filone e gli Stoici su questo punto intendevano due cose in parte diverse. Un riferimento al De mundol03 attribuito ad Aristotele, in un passo m0Jt0, -; vicino a questo filoniano, e non lontano dalla sensibilità stoica, potrebbe aiutarci a chiarire il problema: È per questo motivo che anche alcuni degli antichi filosofi si sono spinti ad affermare che tutte queste cose che ci appaiono attraverso la vista, l'udito e tutti gli altri sensi sono piene di dèi, adducendo un ragionamento che conviene, sì, alla potenza divina, ma non certo ali' essenza divina.
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Il testo del De munda, come è evidente, non equivale a quello stoico-filoniano perché instaura il raffronto non fra l'esistenza e l'essenza di Dio, ma fra lessenza e la potenza ( dynamis). Tuttavia, è pur vero che quest'ultimo termine trova straordinari riscontri negli Stoicil04 e , inserito nel nostro ragionamento, ha una notevole forza chiarificatrice. Gli Stoici, in effetti, avrebl02 SVF I 158, 163. 103VJ 397 b 16 ss. 104 La teoria aristobulea
e filoniana delle dynameis avrebbe origini stoiche.
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bero potuto intendere l' ousia di dio non nel senso specifico del termine105, ma in un senso più generale, con riferimento alle qualità proprie di una data realtàl06, ai suoi caratteri peculiari e alle sue dynameis - attivitàl0 7 . Le dynameis sarebbero, in tale prospettiva, l'esplicazione di un certo principio attivo 108 che in generale è costituente di tutte le cose ed equivale al Logos: è dunque essenziale che ogni realtà, in quanto è sostanza, abbia la sua propria dynamis. Il senso del frammento verrebbe allora ad essere il seguente: la filosofia con il suo rigoroso procedere può convincerci dell'esistenza di dio ma può dirci poco o nulla dei suoi caratteri e delle sue potenze. Da che cosa allora potremo trarre questa ulteriore conoscenza? Evidentemente da quel sapere collettivo che corrisponde alla tradizione del rituale e della mitologia, e ciò per il fatto che i nomi che il divino assume in questa tradizione sono espressioni delle potenze che dio ha, cioè sono kata tas dynameisl09 . Per tale motivo, possiamo pensare che gli epiteti assegnati agli dei ci possano effettivamente condurre alle potenze di Dio e quindi alla sua «essenza». Si avrebbero in tal modo due livelli di conoscenza: uno preventivo, raggiungibile puramente per via razionale e uno superiore 110 che ha - o meglio, a cui si preferisce attribuirell l - il carattere ad un tempo di rivelazione e di scoperta: si può parlare di rivelazione perché gli Stoici affermano di trovarlo in materiale di tradizione; ma si può parlare anche di scoperta, perché questo materiale non è alla portata di tutti, ma solo dell'allegorista dotato di un'arte idonea.
8. Come si conoscono gli dèi Consapevoli della doppia fonte del nostro sapere sugli dèi possiamo ora affrontare l'importante fr. SVF II 1009, il quale nel complesso ha la seguente struttura: a) definizione e concetto di dio (righe 10-13, di SVF II p. 299); 105 Che per loro equivarrebbe alla materia (cfr. SVF I 86, 87; II 316, 318), owero al sostrato privo di qualità (SVF II 318). 106 Cfr. SVF II 380 dove esplicitamente si afferma che gli Stoici «intendono le qualità come sostanze» . 107 E in effetti, come si deduce da SVF III 203, per gli Stoici la dynamis è appunto ciò «che determina la maggior parte degli effetti». 108 Cfr. SVF I 493, II 300, 310. 109 SVF II 1021: «per questo dio assume molti nomi in ragione delle sue potenze: è detto Zeus perché è principio del vivere o contiene la vita; Atena perché ha potere fin sull'etere ... ,,. 110 Cfr. SVF I 486 di Cleante. 111 Di fatto, quasi sempre l'allegorista scopre esattamente quello che vuole scoprire, ossia quello che la ragione filosofica gli suggerisce.
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b) origine di tale definizione e di tale concetto dalla percezione della bellezza del cosmo (righe 13-15); e) caratterizzazione di questa bellezza (dalla riga 16 di p. 299 alla riga 8 di p. 300); d) come ci è stato tramandato il concetto di dio; e) divisone in sette parti della mitologia corrispondente alle regole della allegoresi (righe 13-37 di p. 300); j) giustificazione dell'antropomorfismo. Il punto a) contiene una delle definizioni più pregnanti e sintetiche di dio che gli Stoici ci abbiano lasciato. Vi si legge: Ecco la definizione stoica della sostanza di dio: pneuma dotato di intelligenza, igneo, privo di una forma propria, m a che riesce a trasformarsi in tutto ciò che vuole, facendosi uguale ad ogni cosa. Questo esordio ci porta subito alle conclusioni del ragionamento che segue e in un certo senso capovolge il senso della argomentazione; per questo motivo il punto b) risulta scarsamente co erente con il punto a)112. Il punto b) è di questo tenore: Tale concetto si guadagnò al principio dall'esperienza della bellezza di ciò che appare, dato che n essuna cosa bella si genera p er caso o per accidente, ma solo grazie all'arte di un demiurgoll3.
Il ragionamento non pare rigoroso, perché dalla constatazione della bellezza del cosmo non si deduce l'esistenza di un pneuma igneo, intelligente e informe, ma, semmai, l'esistenza di un dio artefice e demiurgo, che è effettivamente ciò che la parte centrale del testo mette in risalto. La d efinizione iniziale deve quindi considerarsi come la conclusione ultima di un complesso e vario procedimento di ricerca sugli dei che prevede al principio il coglimento della loro esistenza, e poi, attraverso il ragionamento e l' allegoresi, il cogli I'-; mento della loro essenza, ossia della loro peculiarità, secondo le premesse che si sono illustrate sulla scorta del testo di Filone. E in effetti il passo procede con una dimostrazione puntuale della bellezza del cosmo114 che è fatta dipendere con ampiezza di particolari dalla sua forma (sferica), dal colore, dalle dimensioni, «dalla varietà di astri che lo circondano» e infine115 dalla regolarità dei suoi moti. «Da tutto questo conclude Crisippo noi abbiamo preso la nozione (ennoian) di Dio». 11 2 Questo, come vedremo in seguito, dipende dal fatto che a) non consegue direttamente da b), come il testo pretenderebbe e che la derivazione, come si vedrà, è mediata e non è neppure solamente affidata alla logica, ma coinvolge una pluralità di registri. 113 Per quest'ultimo aspetto cfr. il fr. SVF Il 1010 sopra commentato. 114 Riga 15 di p. 299: «Ora il cosmo è bello ...>" Si noti che Crisippo in questo passo usa cielo e cosmo come sinonimi. 115 Cfr. rr. 1 ss., p. 300.
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Il ragionamento però è tutt'altro che concluso perché da questo momento - che corrisponde al punto d) della serie sopra riportata - l'autore sposta l'attenzione su una prospettiva storica, avviandosi in un nuovo tipo di argomentazione . . . . quelli che ci hanno tramandato il culto degli dèi, lo presentarono in tre modi: in primo luogo in forma scientifica, in secondo luogo in forma mitica, e in terzo luogo nella forma testimoniata dalle legislazioni. La forma scientifica è espressa dai filosofi, quella mitica dai poeti, quella legislativa dalla costituzioni delle singole città. Il culto degli dèi implica una conoscenza dei medesimi116 e dunque i custodi della tradizione religiosa non possono non essere filosofi. Ma, per i motivi che sappiamo, devono pure essere poeti - cioè mitografi -, in quanto solo in tal modo si riesce a diffondere il sapere teologico. Infine, devono anche essere legislatori , sia perchè per gli Stoici la legge, anche quella umana, ha un valore divino117, sia perché le regole religiose di solito sono sancite per legge e inserite nelle costituzioni delle città. Il senso di tutto ciò sarebbe che un discorso fondato sugli dèi non può essere, per così dire monovalente, ma deve necessariamente essere polivalente, ossia pescare ad un tempo dalla cultura filosofica, da quella mitologica e da quella giuridica. La parte mediana del passo, quella che muove dalla bellezza del cosmo e sfocia nella nozione di Dio118, si potrebbe considerare alla stregua di una nozione comune di dio abbastanza generica, che andrebbe poco oltre la consapevolezza della sua esistenza e della sua grandezza. Invece, la parte successiva del passo, in quanto ricorre ad una molteplicità di registri usati in sinergia, arriverebbe non più ad una semplice ennoia di dio ma ad un vero e proprio horismosll9.
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Non per nulla ogni virtù è una forma di conoscenza: cfr. SVF III 301 e SVF II
1017. 117 SVF I 164; III 314. 118 Punti b) e e) dello schema precedente. 119 Riga 11 di p. 299: 6piçovtm ... o\. faw'i xoi. Si noti che per lo stoico Antipatro (fr. 24, SVF III p. 247) , la definizione è assai più di una semplice nozione: «essa è un discorso che si esprime in forma analitica e determinata, dove per "analitico" si vuole intendere la spiegazione punto per punto dell'oggetto della definizione e dove l'espressione "in forma determinata" significa che non manca di nulla e non eccede in nulla». In tal senso, conclude il nostro filosofo: «la definizione è l'espressione di ciò che è specifico dell'oggetto», il che corrisponde pienamente a quella ricerca del!' ousia che noi abbiamo creduto di trovare nell 'inizio del fr. SVF II 1010, sopra esaminato.
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9. Le regole dell'allegoria Sulla base di queste premesse è possibile affrontare l'ultima parte del fr. 1009, nella presunzione di essere ormai in possesso della sua chiave di lettura, e soprattutto del suo legame con le parti precedenti che, al di fuori della nostra ipotesi ermeneutica, non mi sembra comprensibile. Il punto e), infatti, incomincia con la seguente espressione: «tutta la dottrina (didaxe') si divide in sette parti», quando in precedenza non si era fatta menzione di alcuna dottrina. Il seguito fa capire che Crisippo intende parlare di una distinzione nell'ambito teologico-religioso, secondo una classificazione che non sembra avere una struttura coerentel20. Effettivamente, la suddivisione degli dèi che viene qui postulata non pare dipendere dall'essenza degli dèi stessi, ma dal modo in cui gli uomini li concepirono: sembra quindi essere il risultato di un'esegesi allegorica del materiale mitologico a partire dal quale bisogna poi risalire alle regole che l'hanno determinato. Insomma, la dottrina a cui si fa riferimento e che pure porta ad una strutturazione del pantheon non sarebbe di per sé di carattere teologico-religioso, ma allegorico e consiste in un articolato criterio ecdotico dei dati mitici o tradizionali che dovrebbe guidare a priori lo studio del divino. Questa ambivalenza lascia perplessil21, ma in verità dipende da unà' sorta di originaria "bidirezionalità" della ricerca allegorica che Lucchetta ha molto ben evidenziato nell'opera dello pseudo-Eraclitol22 e che noi riteniamo di poter estendere anche a questa prima fase della allegoresi. Lucchetta giustamente ritiene che il ricorso «alle allegorie non serve solamente alla comprensione del testo, un uso del procedimento allegorico che potremmo definire passivo, ma anche a comporlo: anzi, la liceità della chiave interpretativa allegorica si fonda sul presupposto di tale impiego da parte del canto- -· re»; si tratta, insomma di «un sistema comunicativo bidirezionale che h à"' .: delle sue regole precise» e che ha due versanti, uno ermeneutico e l'altro teologico-religioso, in quanto ispira le opere sugli dèi. In tal modo, la sezione e) che stiamo analizzando non sarebbe altro che il risultato dell'applicazione di quella pluralità di approcci di cui abbiamo trattato nel precedente paragrafo e, cioè, del metodo filosofico, dello studio della mitologia e delle usanze codificate nelle leggi, tutti riuniti nella sintesi dell'allegoresi filosofica. 120 Tranne forse che per i primi due momenti che danno l'idea di seguire una sequenza storica con riferimento all'evoluzione della concezione degli dèi presso gli uomini. Ma poi il filo si perde e a partire del terzo punto in avanti non c'è alcun nesso intrinseco. 121 Come può mantenere un senso religioso (si pensi ad esempio alla posizione di Cleante!) un testo che si sa «artefatto», cioè costruito sulla base di una tecnica allegorica? 122 Infra, pp. 403-9.
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Ma veniamo al testo che riportiamo in forma strutturata secondo la scansione che lo contraddistingue: Tutta la dottrina si divide in sette parti. I. La prima di queste prende lo spunto dai fenomeni e celesti. , infatti, guadagnarono il concetto di dio dalla contemplazione degli astri, notando che essi sono causa di una straordinaria armonia: l'armonia del giorno e della notte, dell'inverno e dell'estate, delle albe e dei tramonti, e della generazione, sulla terra, dei frutti e degli animali. Così a loro sembrò che il padre fosse il cielo e la terra madre. Di questi uno è padre perché dispone della diffusione delle acque che hanno funzione di semi , l'altra è madre perché riceve questi semi e genera. E vedendo che gli astri corrono (da 6énv) sempre e determinano la nostra contemplazione della luna e del sole, li definirono dèi (6couç) . II e III. In secondo e in terzo luogo divisero gli dèi a seconda della loro influenza, propizia o avversa; e agli dèi benevoli diedero il nome di Zeus, Era, Ermes, Demetra, a quelli portatori di sciagure il nome di Pene , Erinni, e Ares: e questi, data la loro ferocia ecrudeltà, vanno calmati con sacrifici espiatori. IV e V. Come quarte e quinte vengono trattate le azioni e le passioni: alle passioni si connettono Eros, Afrodite, e Desiderio, alle azioni Speranza, Dike , ed Eunomia. VI. Seguono, al sesto posto, le invenzioni dei poeti. Esiodo, volendo aggiungere agli dèi della seconda generazione quelli primigeni, introdusse i seguenti dèi progenitori: «Ceo, Crio, Iperione e Giapeto» (Teogonia). Per tal motivo questo luogo è detto anche mitico. VII. Infine, al settimo posto si trovano quegli esseri divini che sono venerati per i benefici procurati alla vita associata: questi, come Eracle, i Dioscuri e Dioniso, sono imparentati anche con gli uomim. I. La prima categoria di dèi raccoglie le divinità celesti che hanno un punto di convergenza nella figura del cielo e della terra, inteso il primo come divinità maschile e la seconda come divinità femminile. Queste divinità si originano dall'osservazione dell ' armonia delle sfere celestil23, e dunque possono essere ricondotte attraverso un'allegoresi di tipo fisico agli elementi fisici e cosmici. 123 Come ancor più chiaramente afferma Cleante in SVF I 528 : «La quarta causa
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sono, però non ha forma umana. È l'artefice dell'universo, un po ' il padre di tutte le cose, dovunque diffuso fin nelle singole part~: per questo assume molti nomi in ragione delle sue funzioni. E detto Dia (~ia) perché per mezzo suo (8t' ov) tutto avviene; è detto Zeus (Zfiva) perché è principio del vivere (çf]v) o contiene la vita; Atena {A8rivav) perché ha potere fin sull'etere (ai8épa) , Era perché l'ha sull'aria (àÉpa), Efesto sul fuoco artefice, Posidone sull'acqua, e Demetra sulla terra. Allo stesso modo gli conferirono altri nomi a sottolineare certi altri caratteri. Bréhierl32, che ha ben inteso il valore di questi passi in quanto fondamento filosofico dell'allegoresi, parla di una istanza monoteistica e di una politeistica che giungerebbero in qualche misura a conciliazione, ed osserval33: «La novità non consiste nell'aver considerato gli dèi come delle forze naturali e le etimologie dei nomi degli dèi o i miti come se permettessero di determinare il loro ruolo; ma di avere considerato tutte queste forze come i risultati della trasformazione di una forza unica da cui esse sono emanate, e alla quale torneranno per via della conflagrazione universale. Si tratta dell'idea degli dèi mortali, ciascuno dei quali non esiste che come una funzione cosmica speciale, che, di conseguenza, è destinata a sparire insieme col mondo». Bréhier si pone a tal punto il problema essenziale: ma questo «politeismo razionale», nel complesso, conferisce o toglie valore alla mitologia tradizionale? La sua scelta piega verso la prima alternativa, perché a suo awiso gli Stoici, pur collocandosi in una prospettiva razionale, intendono conservare un significato ad ogni valore della civiltà greca e in specie ai poemi omerici e di Esiodol34. In sintesi, per l'illustre studioso, il senso generale della teologia stoica consiste in una sorta di apologetica religiosa, in cui la stessa fisi .,;; ca giocava a favore della religionel35. La mia impressione è che Brèhier in questa valutazione non abbia adeguatamente distinto il piano veritativo da quello relig~oso e non abbia distinto neppure il senso religioso dai contenuti religiosi. E vero che i filosofi del Portico riservarono un grande valore alla mitologia, ma non un valore veritativo bensì documentale; è vero che agli dèi della tradizione riservarono grande interesse, ma non per motivi religiosi, ma filosofici, dato che quanto 132 Bréhier 1951, pp. 197 ss. 133 Ivi, p. 200. 134 Ivi, P· 201. 135 È questo, tra l'altro, un singolare capovolgimento di una tesi corrente che vede nell'allegoresi degli Stoici un'autodifesa della loro filosofia: cfr. a tal proposito anche SVF II 1024. Questo dimostra come, nel contesto di cui ci occupiamo, l'istanza apologetica sia in verità piuttosto equivoca e abbastanza marginale, come la Ramelli ha puntualmente dimostrato nel seguito dell'opera.
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gli dèi rappresentano non è un contenuto religioso, bensì fisico. A tal punto, se vogliamo servirci delle categorie del Bréhier dobbiamo riconoscere che il cosiddetto politeismo razionalista non fu di pari valore del monoteismo, rispetto al quale, anzi, ebbe una funzione strumentale. In verità, l'ambiguità fra istanza politeistica e istanza monoteisticaI36, nel caso particolare degli Stoici era destinata a venire allo scoperto per effetto della dottrina della ekpyrosis, nella quale tutti gli dèi sono destinati a morire, tranne uno, il fuoco-logos. A tal punto, a nessuno potevano sfuggire le conseguenze aporetiche di questa posizione, come ben dimostra il fr. SVF II 613: I fautori della conflagrazione e della palingenesi del cosmo, sono d'accordo nel ritenere che gli astri sono dèi, eppure non arrossiscono nel dimostrare razionalmente che sono corruttibili. >: Ma poiché per mezzo di [otci] lui esistono le cose; Zfìva, in quanto è causa del vivere, sfìv (etimologie di Zeus: Deichgràber 1951); 'A8riva per l'estensione della sua parte dominante nell'etere, ai8Tjp (nesso etere-egemonico nello Stoicismo: Isnardi 1989, 2221); "Hpa per l'estensione nell'aria, àTjp (nesso Era-aria già nel Cratilo); Efesto per quella al fuoco artefice; Posidone per quella all'elemento umido, Demetra per quella alla terra. Brancacci 1997: pure l'interpretazione delle opere d'arte, sviluppata negli allegoristi stoici, ha un precedente in Antistene. Stoici: Inwood 2003; loro teologia: K. Algra ibid., c. 6; loro fisica: M. White ibid., c. 5. Origini arcaiche dell'etimologia: Curiazi 1994. Stoici antichi: Inwood 2003, c. 1 (D. Sedley).
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potenze dell ' unico dio supremo e immanente, e come tali vanno interpretati, ricorrendo anche all'etimologia, che secondo gli Stoici, vedremo, riesce ad attingere al significato originario e vero della parola. Questi nomi ed epiteti sono infatti espressione delle attività e delle funzioni, pro actibus et officiis, del dio unico, unus deus, una eademque potestas (SVF II 1070). Compito della teologia stoica è ricondurre tali divinità del mito al loro vero significato, scoprire quale aspetto dell'unico dio ciascuna rappresenti. Ed è owio che, trattandosi di un dio-qn'.imç, i suoi vari aspetti abbiano carattere fisico, naturale; osserva Cicerone: Zenone, Cleante e Crisippo si presero un bell'impegno, e per giunta nient'affatto necessario, nel voler fornire un'interpretazione razionale dei racconti mitologici [commenticiarumfabularum reddere rationem], e nel cercare la spiegazione dei nomi, perché ciascuna cosa sia stata chiamata in un certo modo. Facendo ciò, venite ad ammettere che la realtà è ben diversa da come la pensano gli uomini, e che quelli che vanno sotto nome di dèi non hanno forma di dèi, ma sono realtà naturali [rerum naturas]2. L'esegesi stoica risolve gli dèi tradizionali in realtà fisiche. Effettivamente, nella raccolta di von Arnim c'è una nutrita serie di frammenti3 in cui si appli2 SVF II 1069 = Cicerone, De natura deorum, III 24, 63. Radice 2000b, 16 n. 6 riconosce l'allegoresi in Antistene e osserva che coincide con il «togliere consistenza agli dèi» tradizionali di cui Cicerone qui accusa (fr. 39B Caizzi) e che risulta dall'opposizione v6µoç-qn'.Jcr1ç della teologia antistenica (Radice 2000b, 17; pensiero teologico di Antistene: anche Brancacci 1985). Infatti, la molteplicità degli dèi tradizionali a fronte di un unico dio naturale poteva aprire la strada all'allegoresi dei primi. Come s'è visto per Antistene, poi, anche per Zenone la divinità non è antropomorfica e non si connota secondo i tratti della religione convenzionale. Radice pone in luce tali convergenze, ipotizzando che «Antistene fosse uno dei veicoli che condusse Zenone a Eraclito, almeno per questo aspetto fisico-teologico» (cfr. Goulet-Cazé l 993b) . Se dunque va sfumata la tesi di Wehrli 1928, 66 per cui «Gli Stoici nei loro interessi teologici non sono seguaci di Antistene, ma seguono probabilmente una prassi anassagorea» ( tr. mia), comunque la teologia stoica non si limita a dipendere da Antistene: Zenone parrebbe più vicino a Eraclito (Radice 2000b, 34-35): Antistene parla di relazione dio-natura mantenendo separati i termini, mentre Zenone, sulla scia di Eraclito, li identifica, in quanto il suo concetto di natura è più ampio di quello antistenico, tanto da assorbire quello di divinità (sicché la teologia stoica, immanentistica, fa parte della fisica) e quello di v6µoç (per cui dio = legge di natura) e da rendere inoperante la contrapposizione antistenica tra dio secondo qrucrtç e dèi secondo v6µoç (identificazione Myoç-qn'.Jcr1ç-v6µoç ad es. in SVF III 315). Ad es. Cicerone, De natura deorum, II 63 (SVF I 166, che citerò per esteso in seguito) fa derivare, nel pensiero stoico, la moltitudine di dèi antropomorfi della tradizione da un principio razionale e al contempo naturale, una ratio physica. 3 Rispettivamente sotto Zenone, Cleante e Crisippo, Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso: SVF I 164-69; 534-35 e 538-49; II 1061-100. Non tutti quelli del secondo gruppo sembrano riconducibili direttamente a Crisippo: il passo laerziano citato, VII 147-48, è catalogato sotto Crisippo in SVF II 1021, ma tratta di tutti gli
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ca tale esegesi allegorica fisica del mito teologico , con frequente ricorso alle etimologie. Dal loro studio sistematico vedremo come l' allegoresi risulti una parte fondamentale della teologia stoica e come in ambito stoico sia sentita per la pri~a v~lta quale pro?lema intrinse~ame_nt~ filosc:ifico. . , . . . Poiche il mito teologico e espresso dagli antichi poeti, e p01che gh Stoici sono convinti che esso esprima contenuti veritativi, ne consegue che nello Stoicismo la poesia sia molto importante e, previa esegesi allegorica, abbia un contenuto sostanzialmente filosofico. Così , secondo gli Stoici, Omero, il poeta più antico e vicino alla verità originaria, esprime verità nascoste di tipo sia fisico-cosmologico sia etico 4 . In quest'ottica si comprende la reiterata e ben documentata asserzione degli Stoici secondo cui il crooc; coincide con il no1ritilc; (SVF III 655): entrambi, per gli Stoici, sono in grado di attingere alla verità. Anzi, solo il sapiente può essere poeta, poiché egli solo può conoscere la verità5. E infatti per gli Stoici il valore della poesia risiede n ella sua capacità di trasmettere insegnamenti veritativi: è una concezione evidentemente didascalica della poesia. Dato che, però, anche la miglior poesia non è un trattato filosofico o un manuale scolastico, ma esprime la verità in modo simbolico, velato e allusivo, si rende necessaria la sua esegesi allegorica, che gli Stoici attuano puntualmente, alla tenace ricerca della verità originaria ivi nascosta.
2. Zenone 2.1. Opere attinenti all'allegoresi del mito In Zenone, in effetti, l' allegoresi del mito teologico appare strettamente legata allo studio dell'antica poesia, che di tale mito era veicolo. Non a caso,-A egli fu autore di commenti a Omero e a Esiodo: il Laerzio attesta su'f Quaestiones Homericae, in 5 libri6, e Cicerone lascia pensare a un suo commento alla Theogonia di Esiodo, riferendosi a «quando Zenone interpreta la Theogonia di Esiodo» 7. Forse alla prima opera va ricondotta anche la testiStoici. Di Diogene di Babilonia - allievo di Crisippo e maestro di Apollodoro di Atene - , e di Antipatro di Tarso riparleremo. Cfr. Radice l 998a, 901 ss. Utile analisi del filone allegorico stoico, oltre a quella di Wehrli che richiamerò in più punti, è Le Boulluec 1975. Rispetto a Omero: Stern 1893. Prevalenza teologica nel mito: Lefkowitz 2003, ix. 4 Filodemo, Poet. Voli. Hercul.2, XI 14 7 +VII 90, presenta tale convinzione come «follia». 5 SVF III 654; cfr. Strab. I 2, 3. Cfr. De Lacy 1948. Poesia e filosofia: es. Boyancé 1937; Anxelos 1956; il sapiente stoico: es. Delatte 1953. 6 SVF I 41: npo~ÀT]µchwv ' OµT]ptKOOV nÉvn:. In breve sull'allegoresi in Zenone: Blònnigen 1992, 27-28; sua interpretazione omerica: Hillgruber 1994/99 intr. 7 Cicerone, De natura deorum, I 36 (SVF I 167): intepretatur.
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monianza di Dione Crisostomo, secondo cui «il filosofo Zenone ha scritto sull'Iliade, sull'Odissea e sul Margite. sembra che anche questo poema sia stato composto da Omero, ma quando era più giovane, e stava ancora mettendo alla prova le proprie attitudini naturali alla poesia»s. Zenone considerava dunque autentico anche il poema comico, ritenendolo opera giovanile di Omero e facendone oggetto d'indagine. Non solo, ma vedremo che egli coinvolse pure il suo discepolo Perseo. Wachsmuth ricorda opportunamente come fondamento dell'esegesi allegorica della poesia negli Stoici la loro definizione di noiricrtç «forma poetica prowista di significato [ OTlµavnKÒv noiriµa], che comprende una rappresentazione [µiµricrtç] di cose umane e divine»9: la poesia non è mero divertimento, ha un significato preciso che va indagato e riguarda la filosofia, in quanto verte su temi teologici ed etici, sugli dèi e sugli uomini. Una definizione simile, che presuppone identica impostazione, è quella secondo cui il mito poetico è «un discorso falso che presenta in immagine la verità»IO: owiamente tale verità va scoperta attraverso le immagini, e si torna alla necessità di un'esegesi allegoricall . Lo Stoicismo teorizza per la poesia contenuti fisico-teologici ed etici: «fisico-teologici» poiché nell'immanentismo vetero-stoico del dio-natura la teologia si riduce alla fisica. La suddetta concezione stoica della poesia e della sua interpretazione allegorica conferma quanto accennavamo a proposito della convinzione degli Stoici che gli antichi poeti conoscevano naturalmente ed esprimevano la verità: al filosofo spetta dunque di riportare alla luce questa verità attraverso l'interpretazione allegorica, così come attraverso letimologia egli deve attingere al vero significato dei nomi delle divinità12. In particolare, riguardo a Omero, Zenone, seguendo Antistene, distingueva nei suoi poemi alcune cose scritte secondo opinione, Ka-tà ool;av, altre invece secondo verità, Kmà àÀTj8nav. Sembra che, tuttavia, esistesse un distacco tra il livello inters SVF I 274 =Diane di Prusa, Or. LIII 4. Diog. Laer. VII 60. Wachsmuth 1860a, 22. Poetica nella filosofia antica: Most 1999. IO A6yoç \j/E'Uòi]ç EÌ.Kovi.çwv àf..118nav = Elio Teone, Progymnasmata, 3: Teone è un retore del II sec. d.C., ma raccoglie questa tradizione, principalmente stoica. li Traslati in Zenone: Stroux 1965. L'impostazione stoica, incominciata già da Zenone, si riflette inalterata ancora in età augustea, quando lo storico Dionisio di Alicarnasso, II 20, 1, allude all'esegesi allegorica dei miti poetici: «tra i miti greci, alcuni sono utili agli uomini: gli uni, grazie all'allegoria [òt' àUriyopi.aç], rivelano le opere della natura; gli altri sono composti per consolare gli uomini delle loro sventure; gli altri scacciano gli affanni e le paure dell'anima e purificano le opinioni malsane ... »: l'esegesi allegorica della poesia mitologica è vista come orientata prevalentemente in senso fisico; altri moduli interpretativi hanno carattere etico. 12 Espressione della verità negli antichi poe ti e nei nomi divini, e riconoscimento di questa verità per mezzo dell'esegesi allegorica e dell 'etimologia: qui infra ultimo capitolo . 9 Ap.
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pretativo .di An.tis~ene e que~lo d~ Z~n_one, in.quanto i.l primo non elaborò la teoria dei parziali contenuti ventativi del mito omenco, mentre Zenone lo fece in modo sistematico 13 . La stessa duplicità interpretativa basata sul binornio opinione/verità è ben illustrata, proprio a livello teologico - quello a cui appartiene l'allegotesi, per gli Stoici - anche da uno scoliol4 secondo cui ornero, a proposito degli dèi, avrebbe detto alcune cose secondo verità e altre in senso poetico e drammatizzato, come nel caso della teomachia, la battaglia tra gli dèi, uno dei soggetti che, nel mito omerico, aveva provocato rnaggiore disagio e, secondo lo scolio porfiriano analizzatol5 , aveva indotto Teagene a interpretare allegoricamente questo episodio, come scontro di elementi naturali, interpretazione destinata ad essere ripetuta a lungo nella storia dell'allegoresi stoica. Se Antistene si limitò ad enunciare la tesi della presenza in Omero di 13 SVF I 274 = Dione, Or: LIII 4 (= Antistene, V A 194 G.; 61 C.) .»Zenone non biasima nulla entro le opere di Omero, spiegando al contempo e insegnando che egli ha scritto alcune cose secondo opinione [86sa], altre secondo verità [àÀ~8na] , perché non sembri contraddirsi, in alcuni casi in cui dà l'impressione di avere sostenuto cose opposte. Era già stata di Antistene, prima che di Zenone, questa teoria che alcune cose dal poeta erano state dette in base all'opinione e altre conformemente a verità, ma l'uno non la elaborò ulteriormente, l'altro la dimostrò punto per punto [Ka8' EKacnov], in modo particolareggiato [É1Ù µépouç]». Antistene aveva dunque formulato tale teoria, per cui sembra drastica la dichiarazione di Wehrli 1928, 65 e 67-68, secondo il quale sarebbe «falso awalersi di questo passo come prova ai fini dell'allegoria», e andrebbe minimizzato il ruolo dell'allegoria in Antistene e la sua ricerca di un significato profondo in Omero . Ho addotto invece nel c. precedente altre testimonianze dell'interesse di Antistene per l'allegoresi, di cui premessa indispensabile è l'assunto della presenza di punti in cui Omero esprime la verità. Inoltre, applicata all 'esegesi biblica, la stessa distinzione di cose espresse secondo opinione~,:J secondo verità è presente, lessicalmente identica, in Filone, in un passo in cui Pépin 1958, 238 rawisa giustamente l'eco di Antistene e di Zenone: «Queste sono le due modalità espressive di tutta la Legge: una è quella che inclina verso la verità [à?.:118éç]: secondo questa è dichiarato: "Dio non è come un uomo" [Nm 23, 19.]; l'altra è quella che inclina verso le opinioni [o6sml degli spiriti più tardi, secondo cui è detto: "Il Signore ti ammaestrerà, come un uomo ammaestra suo figlio" [Dtn 8, 5] »: De somniis, I 237; cfr. anche De posterùate Caini, 1 e 7. Filone , in De praemiis, 61 -65; cfr. De Abrahamo, 119; De congressu, 172; De Cherubim, 21; De vita contempl. 78 teorizza la necessità di ricercare, oltre al senso letterale delle Scritture (P'llTIÌ ypa~), anche un significato allegorico, la Ka8' urrovotav àUriyopia, insita nei «simboli>>, cruµ~oÀa, e questo, non solo nelle Sacre Scritture, ma anche nei poemi omerici ed esiodei (De Providentia, Il 40), come vedremo. 14 «Quando rivolge l'attenzione alla vera essenza e dignità [àsia] degli dèi, dice che non si preoccupano dei mortali, come neppure noi ci daremmo pensiero delle formiche; quando, invece, considera l'arte poetica [rrotrinK~], si attiene ai miti [µu8ot], e drammatizza [ÉKTpaycpoi::i ] il soggetto, introducendo alleanze e battaglie di dèi»: Sch. ABT in Il. VIII 428. 15 8 A 2 D.-K. Cfr. il capitolo precedente.
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passi secondo opinione e altri secondo verità, senza elaborarla, Zenone «la dimostrò punto per punto, in modo particolareggiato», e in ciò fu seguito anche dal suo allievo Perseo e da numerosi altri autoril6: lo sviluppo di tal~ tesi determinò l'applicazione sistematica dell'allegoresi nello Stoicismo. E significativo, infatti, che un allievo di Zenone sia stato indotto dal maestro a occuparsi di allegoresi e a scrivere opere specifiche sul tema: «Perseo, discepolo di Zenone, ha scritto ispirandosi allo stesso assunto [Kmà 't'Ì']v aÙ't'Ì']v ùn68Ecrtv] », ossia che il Poeta aveva scritto alcune cose secondo opinione, altre invece secondo verità. Purtroppo non ci è pervenuto nulla di questi lavori di Perseo; tuttavia il suo interesse rimane significativo della particolare attenzione di Zenone verso il tema allegorico.
2.2. L 'esegesi fisica ed etica degli dèi del mito poetico Zenone fonda sin dall 'inizio lesegesi allegorica in senso fisico degli dèi presentati in vesti antropomorfiche nei miti poetivi. Cicerone, la fonte, istituisce un'assoluta continuità per questa esegesi di ratio physica tra il fondatore della Sto a e gli scolarchi successivi 17. In particolare nell 'esegesi allegorica della Theogonia, intrapresa dallo stesso Zenone, gli dèi erano interpretati non secondo le usitatae, perceptae cognitiones, ma come principi fisici, in base a una simbologial8: gli dèi tradizionali sono simboli di realtà fisiche, delle quali i nomi divini vanno interpretati come coperture. Il principio simbolico è designato come significatio, in conformità con la definizione stoica di poesia come forma poetica crriµavnK6v, provvista di significato. Gli dèi del mito sono solo «segni», dunque, che rinviano ad altre realtà, nella fattispecie fisiche. La duplicità di piani, del significante e del significato, è infatti tipica dell'allegoria. Zenone identifica i vulgi dii, gli dèi tradizionali, con gli elementi naturali: «interpreta Giunone con l'aria, Giove con il cielo, Nettuno con il mare, Vulcano con il fuoco, e similmente riduce a elementi gli altri dèi popolari» (SVF I 169). Tali identificazioni avranno lunga storia nello Stoicismo e nell'allegoresi della teologia. Così, l'identificazione di Zeus, dio supremo, con l'etere, l'elemento più puro, aereo ed igneo, sottilissimo, è attestata in almeno due frammenti zenoniani l9 e sarà continuamente ripresa fino al Medioevo , ad es. nei commentari a Marziano. È attestata anche l'esegesi allegorica che Zenone dava di Afrodite, la quale «in senso proprio, rappresenta la forza capace di collegare le parti fra loro in
16 SVF I 274 = I 456 = Dione di Prusa, Or. 63, 4. Cfr. qui supra la sezione su Antistene. 17 Cicerone, De natura deorum, II 63 = SVF I 166. 18 Cicerone, De natura deorum, I 36 = SVF I 167. Importanza di questo passo in relazione all'interesse degli Stoici per Esiodo: Wehrli 1928, 54. 19 SVF I 154, 1: «Zenone dice che Dio (Zeus) è aether» ; SVF I 154, 4: «Secondo Zenone il sommo dio (Zeus) è aether>>.
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modo appropriato»2o. Anche questa concezione tornerà identica ad es. in Cornuto, 24. Già in Zenone, infine, compare l'interpretazione di alcune divinità del mito non solo in termini fisici, ma anche etici: pure l'esegesi etica del mito si ritroverà regolarmente negli allegoristi stoici successivi. Zenone, infatti, interpretava i Dioscuri come «i retti ragionamenti [6p8oì Myot] e le disposizioni moralmente buone [cmov8a'ìm 8w8Écrnç] » (SVF I 170). In Zenone vediamo dunque già operanti molti dei presupposti e delle caratteristiche dell 'allegoresi stoica successiva. 2.3. Zenone esegeta allegorico-etimologico di Esiodo e di Omero
Un altro importante elemento di continuità, in effetti, è costituito dal fatto che già in Zenone l'esegesi allegorica del mito teologico si avvale del metodo etimologico, attestato con sicurezza per il primo caposcuola della' Stoa e poi usato ininterrottamente nell'allegoresi stoica, in Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso, Diogene di Babilonia e nei suoi discepoli, Apollodoro di Atene e forse Cratete di Mallo, fino al trattato di allegorsi usato da Cicerone nel 1. II De natura deorum, ad Anneo Cornuto (che presenta anche i termini-chiave È'tuµoÀoyia, È'tuµoÀoyÉco ed E'tuµov, «etimo, significato originario di U? termine» )2 1 a Eraclito Grammatico e all'autore del De vita et poesi Homeri. E un metodo, insomma, che l'allegoresi stoica non avrebbe mai abbandonato22. Dalle fonti risulta23 che in Zenone la spiegazione dei nm;ni degli dèi è solo talvolta etimologica, mentre in Cleante sarà sempre tale e in Crisippo sarà tale per la maggior parte dei casi2 4 : non dobbiamo comunque dimenticare che per gli Stoici antichi disponiamo solo di frammenti, e che qualsiasi rilievo statistico rimane relativo. Le etimologie zenoniane sono destinate ad avere una lunga storia; per ciascuna è spesso ·;, possibile trovare riscontri negli allegoristi stoici successivi, anche a distanza di secoli. Ad es. Zenone, interpretando l'inizio della Theogonia esiodea, fa derivare il nome del Caos dal verbo xfoµm, "mi effondo, scorro" (SVF I 103) secondo un'etimologia presente poi anche in Cornuto e in altre fonti25. Tale 20 SVF I 168. Cfr. Sch. in Hes. Opera, 36 Gaisf. : «Chiamavano Afrodite l'unione e la divinità che vi presiede». 21 Il primo sostantivo si presenta nel c. l; il verbo nei cc. 1 e 32; il secondo sostantivo nei cc. 15, 22, 35. 22 Valore dell'etimologia nell'esegesi stoica: Buffière 1956, 60-65; Le Boulluec 1975; Whitman 1987, 36-37. 23 Most 1989, part. 2027. 24 Zenone: SVF I 103; Cleante: SVF I 535, 540-543 546-547; Crisippo: SVF II 1021; 1062-1063; 1076; 1081-1092; 1094-1095; 1098-1100. Alcuni etimi omerici: Blanc 1999; importante per gli epiteti omerici: Dee 2001. 25 Cornuto, c. 17; xaoç da xéw I xucrtç anche in Sch. in Hes. Theog. v. 116; Giovanni Diacono, All. 554, 27.
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etimologia in Zenone è funzionale alla sua interpretazione rigorosamente fisica dei primi versi del poema teogonico esiodeo, per cui il Caos primordiale sarebbe l'acqua, cui si addice scorrere ed effondersi, e da cui deriva la terra per solidificazione26: e così è spiegata la filiazione mitologica di Gea, la terra, dal Caos. Il terzo dio primordiale, Eros, è ricondotto al fuoco, in base a una spiegazione allegorica di immediata comprensione: «il caos di Esiodo è acqua [uocop], dalla cui condensazione si genera il fango, dalla cui solidificazione deriva la terra [yfì]. Per terzo, .secondo Esiodo, venne ali' essere Eros, in modo che ai precedenti elementi si aggiungesse anche il fuoco [nup]: Eros, infatti, è una passione decisamente infuocata» (SVF I 104). Un ultimo esempio illuminante riguarda l'esegesi dei Titani. Anch'essi sono considerati da Zenone elementi naturali, p arti del cosmo, e il supposto significato originario d ei loro nomi aiuta a scoprire la loro natura27. Tali esegesi saranno minuziosamente riprese ad es. da Crisippo e poi da Cornuto, ma anche da Apollodoro di Atene e da Cratete di Mallo28, i quali, non diversamente da Zenone, sono due autori stoicizzanti caratterizzati dall'assiduo e sistematico studio dell'antica poesia mitologica, specialmente omerica29. Zenone, dunque, fece scuola tra gli Stoici per l'esegesi allegorica del mito in seµso fisico e in senso etico, per il metodo allegorico ad essa applicato e anche per l'interesse verso la poesia omerica ed esiodea, dal punto di vista sia filologico sia dell'interpretazione filosofica.
3. Cleante 3.1. L'afflato mistico della teologi,a allegorica di Cleante Cleante, secondo scolarca, poeta e autore dell'Inno a Zeus, tra gli Stoici antichi è il più dotato di un tono ispirato e profondamente religioso, che contraddistingue la sua teologia e che orienta anche la sua prassi allegorica, 26 Lo attesta anche SVF II 105: per Zenone la Terra fu prodotta dall'umido, ÈK wu ùypou. 27 SVF I 100: Titani = elementi del cosmo. Kotoç è la qualità, not6tT]ç, con mutam ento eolico n > K. Crio (lett. l'ariete, capo del gregge) è l'egemonico; · Yne picov è il movimento in alto, dal procedere al di sopra, ùnepcivco ÌÈvm. E, poiché gli oggetti leggeri, se lasciati andare (àqnɵEva), per natura cadono verso l'alto, nimetv avco, chiamò ' Icinnoç tale parte. 28 Crisippo, SVF II 1086, 1090; Cornuto, c. 17. Cfr., più parzialmente, Apollodoro di Atene, FGH 244 F 354; Cratete di Mallo, F23 Broggiato. 29 Zenone intervenne anche filologicamente su Ome ro. Es. in Od. IV 84 leggeva «E movemmo alla volta di Etiopi, e Sidonii, e Arabi» (SVF I 275,1) anziché «... ed Erembi». La sua le ttura è nota e citata da Apollodoro e Cratete: secondo il primo (fr. 157 Jacoby), a Omero l'Arabia parrebbe sconosciuta, ma dalla lettura zenoniana sembra emergere il contrario. Cratete (F41 Br.) congetturava una terza forma, "Eremni".
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conferendo ad essa un fondamento decisamente mistico. Due passi programmati,ci30 mi_ sembra~o di est~e~a i~~orta_nz~: i~ primo fon~a l_~ necessità di un esegesi allegonca dei mltl relativi agli dei, m quanto gli dei, come pure l'universo stesso, sono una realtà misterica, non conoscibile direttamente, ma solo simbolicamente: Cleante ... soleva affermare che gli dèi sono figure per iniziati [µucn:1Kà crxiJµma] e nomi sacri [Kì...i]m:v; tEpai], che il sole è un tedoforo, e che l'universo è un mistero [µucrtTiptov], e soleva chiamare gli ispirati dalle divinità sacerdoti capaci di iniziare ai misteri (TEÀ.ECT'mt]. Di qui la necessità, per il filosofo, di interpretare queste figure criptiche, espresse nel mito dai poeti, sentiti come divinamente ispirati e iniziati al mistero della verità dell'universo. Sebbene i principi basilari dell'allegoresi rimangano gli stessi, questo di Cleante è un tono che non ritroveremo negli altri allegoristi. Il secondo passo apre espressamente la strada all'esegesi della poesia di contenuto teologico, in quanto la poesia è presentata come più adatta all'espressione, non letterale, delle sublimi altezze del divino, similmente a quanto accadeva con i miti platonici: Cleante sostiene che sono migliori i modelli poetici e musicali [µoucr1Ka] e che, siccome il discorso razionale [ì...Oyoç] della filosofia rivela adeguatamente le cose divine e umane, ma, da solo [\j/Elì...Oç], non ha parole appropriate [ì...É/;Elç OÌKctm] ad esprimere le grandezze divine [6Eta µcyi?.6ri ] , allora i metri , le melodie e i ritmi giungono, per quanto possibile, alla verità della contemplazione delle realtà divine [TWV 6Eiffiv 6Effipia]. L'arte arriva, per via intuitiva, dove il logos discorsivo non può giungere direttamente. Questo di per sé non è già allegoresi; tuttavia, è un riconoscimento altissimo del valore della poesia e delle arti dal punto di vista gn e>--~ seologico - vedremo che nello Stoicismo erano oggetto di interpretazione non solo i miti poetici, ma anche immagini di dèi e riti - , e indirettamente conferisce importanza fondamentale all'interpretazione che la filosofia deve dare ai contenuti veritativi, teologici, della poesia. I testi letterari, soprattutto poetici, erano una fonte importante, sebbene non esclusiva, della teoloStrabone, I 41, che presenta molte tracce di allegoresi stoica, difende il testo proposto da Zenone, awalendosi del criterio dell'antichità, rispetto alle congetture dei critici di età alessandrina: «non è necessario modificare questo testo, che è antico». In questi allegoristi di età alessandrina il piano filologico si intreccia con quello filosofico: alcune varianti erano proposte in vista di una precisa interpretazione del testo omerico. Probabilmente ciò accadeva già in Zenone, che difficilmente avrà avuto interesse alla costituzione del testo omerico in sé e per sé: per Zenone e per i suoi il poeta Omero è un sapiente, un cro>: Cornuto allegorizza in senso fisico la teogonia esio-
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Va qui notata anche la duplice esegesi di Zeus - chiamato Giove qui perché la fonte è latina: Cicerone - proposta da Crìsippo, che sicuramente risente della dottrina di Cleante: Zeus non è identificato solo, in senso fisico, con l'etere, come accade da Zenone in poi in tutta· la tradizione stoica, ma anche con la legge eterna che regola pure l etica umana e coincide con il fato . E questa è una concezione che abbiamo visto nell'esegesi cleantea. I contenuti del I. II De diis e il legame con Cleante sono confermati anche da Filodemo, De piet. 13, che specifica quali fossero i poeti in cui Crisippo cercava di ravvisare la teologia stoica: Omero ed Esiodo ovviamente, ma anche i tragici come Euripide, che infatti vedremo citato frequentemente da Crisippo, e ancora i mitici cantori Orfeo e Museo, e altri: Nel I. II De diis Crisippo, come anche Cleante, cerca di conciliare [auvotKEtouv] con le dottrine stoiche le tradizioni fatte risalire a Orfeo e a Museo e quelle che si trovano in Omero, Esiodo, Euripide e altri poeti. Per lui il tutto è etere, nello stesso tempo padre e figlio, come nel I. I sostiene che non sia una contraddizione neppure che Rea fosse sia madre sia figlia di Zeus» (SVF II 1078). È confermata anche lesegesi fisica degli dèi nel I. I, di cui pure Filone nota la stretta interrelazione con l'apprezzamento dei poeti quali latori di verità allegoriche: l'allegoresi consente di ritenere dotate di contenuti veritativi le opere dei poeti che potrebbero sembrare empie78. In questi frammenti sono citati anche esempi di esegesi fisiche degli dèi, che non si discostano nella sostanza da quelle ripetute da tutti gli allegoristi stoici: Giove come etere, Giunone come aria, Efesto come fuoco, Ermete come logos etc. Comunque, accennavo, l'esegesi più corretta dal punto di vista della teologia stoica è di vedere ciascun dio come un aspetto parziale dell'unica divinità diffusa attraverso l'intero universo; ogni dio rappresenta questa divinità in quanto diffusa in un certo elemento. Tale concezione è esplicita nel trattato di allegoresi stoica di Cicerone, De natura deorum, II 71 e che von Arnim fa derivare da Crisippo: Si riuscì a riconoscere nelle sue varie caratteristiche il dio che si estende attraverso la natura di Ciascuna cosa [per ;,,aturam cuiusque rei]: come Cerere attraverso la terra, come Nettuno attraverso il dea e le suddette divinità, riconducendo ognuna ad un'entità naturale, grazie anche all'etimologia. La struttura stessa del Compendium può essere ricondotta alla ripartizione settenaria delle divinità propugnata nel medesimo passo di Crisippo: lo mostreremo a suo luogo. Teologia tripartita anche in Dione Crisostomo: Becker 1993. 78 SVF II 1079 =Filone, De providentia, II 41. «Se riconduci le quanto è narrato nei miti [jabulose] su Vulcano alle proprietà del fuoco [reducas in ignem], quanto è narrato su Giunone alla natura dell'aria [aeris naturam], quelli di Mercurio alla ragione [ratio, A.Oyoç], e così per gli altri, secondo le rispettive caratteristiche ... sarai costretto ad apprezzare come autentici e pii celebratori della divinità anche i poeti (Omero ed Esiodo) che poco fa accusavi».
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mare, come altri dèi attraverso altre realtà: e dobbiamo venerarli e adorarli con quel nome che la tradizione [consuetudo] ha loro attribuito» (SVF II 1080). Poiché parla un allegorista stoico, risulta anche manifesta la suddetta tendenza stoica a salvare la tradizione teologica con tale metodo allegorico. Dunque, gli Stoici attribuiscono ai nomi divini tradizionali una duplice referenzialità, in quanto essi designano per loro sia la divinità sia la realtà fisica che essa rappresenta, quale aspetto parziale dell'unico e universale dio-natura. Tale duplice referenzialità è ben còlta in uno scolio esiodeo79 non incluso nella raccolta del von Arnim ma degno di esservi integrato: Bisogna sapere che i Greci, di tutte le entità che vedevano dotate di una potenza [ouvaµu;], ritenevano che la potenza stessa si esercitasse non senza una protezione e un intervento della divinità [Èmcr'tacria 0i::oov]. E solevano chiamare con un nome solo sia la realtà che possiede la potenza sia la divinità che vi presiede. Perciò chiamavano Efesto sia questo fuoco che rende servigio sia colui che presiede alle arti esercitate grazie ad esso; Demetra il grano e i frutti e la dèa che li dona e che vi sovrintende; Atena sia l'assennatezza sia la dèa che veglia sull'assennatezza; Dioniso il vino e il dio che lo dà; Ilizie i parti e le dèe che presiedono ai parti; Afrodite l'unione e la dèa che vi sovrintende. Questa concorrenza di piani esegetici, intesa anche a salvare la tradizione, non sembra accettata dal filosofo accademico che nel 1. III De natura deorum di CiceroneBO critica Crisippo, con i suoi due predecessori, accusandolo di avere invece distrutto la tradizione teologica, vanificando le concezioni tradizionali delle divinità con la sua razionalizzazione allegorico-etimologica: Per primo Zenone, poi Cleante e quindi Crisippo si presero un bell'impegno, e per giunta nient'affatto necessario, nel voler fornire un'interpretazione razionale [reddere rationem] dei racconti mitologici [commenticiae fabulae], e nel cercare la spiegazione dei nomi [ vocabulorum causae], perché ciascuna cosa sia stata chiamata in un certo modo. Facendo ciò, venite certo ad ammettere che la realtà è ben diversa da come la pensano gli uomini, e che quelli ch e vanno sotto nome di dèi non hanno forma di dèi [jìgurae deorum], ma sono realtà naturali [rerum naturae]. Qui sono espresse da parte accademica serie riserve sull'allegoresi stoica crisippea, simili a quelle avanzate contro gli allegoristi stoici in generale, sul 79 Sch. in Hes. Op., 36 Gaisf. (cfr. Apollodoro, F352, ma senza derivazione nominale, e qui infra). 80 Cicerone, De natura deorum, III 24, 63 (SVF II 1069) . Cfr. supra, sotto Zenone. Dà molta importanza a questo passo per il valore dell'allegoresi in Zenone Blonnigen 1992, 2. Esegesi cosmologica degli dèi: anche Lapidge 1989, 1379-1429.
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versante epicureo, da Filodemo8 1 , il quale si riferisce all'allegoresi stoica applicata alla poesia, come accadeva nel I. II De diis di Crisippo: «Alcuni dicono manifestamente anche follie [µaivov1m] , come quanti asseriscono che i due poemi omerici trattano del cosmo [K60µoç] e delle leggi e dei costumi [ v6µot , È8t0µoi ] umani,,82. Sia che si condividano le critiche ciceroniane e filodemee, sia che si accetti il punto di vista stoico, queste sono, comunque, le coordinate teoriche, di natura manifestamente teologica, entro cui opera l'allegoresi crisippea. È opportuno ora analizzare più dettagliatamente quali interpretazioni Crisippo abbia applicato alle singole divinità, a partire dalle più importanti, Zeus ed Era. La mèsse dei frammenti è veramente ricca per Crisippo, e ci consente quindi di formarci un quadro più completo della sua allegoresi rispetto a quella di altri stoici.
4.4. Interpretazioni allegoriche di Zeus 4.4.a. Zeus come etere igneo e come fuoco: la conflagrazione cosmica L'equazione, improntata all'allegoresi fisica, di Zeus come etere risulta anticipata dall'identificazione del dio sommo con l'etere in Zenone e in Cleante, ed è poi espressa chiaramente da Crisippo, SVF II 1061, secondo una concezione destinata ad avere lunghissima fortuna nella storia dell'esegesi allegorica del mito83: In "O padre, eterna potestà di uomini e dèi", una delle due affermazioni è ispirata ai filosofi della natura [physici], l'altra agli astrologi [ mathematici]: infatti, è potestà degli dèi, perché è letere [aether], che sovrasta gli altri elementi; degli uomini, poiché i favorevoli raggi di Giove attribuiscono onori agli uomini. Accanto all'esegesi di Zeus come pianeta è ricordata infatti anche quella di Zeus come etere, attribuita agli Stoici, che qui a buon diritto sono detti physici, in quanto riconducono gli dèi alla physis, alla natura. La stessa designazione si ha nel fr. 1066, che specifica la natura ignea dell'etere e la sua affinità con l'aria, di cui riparleremo trattando delle interpretazioni allegoriche del connubio di Zeus e di Era: I physici vogliono che s'intenda Giove come etere, cioè fuoco [aether, ignis], e Giunone come aria [ab']. E, poiché questi elementi si equivalgono per la loro natura rarefatta [tenuitas], li hanno chiamati fratelli. Ma dato che Giunone, l'aria, è sottoposta al fuoco, Giove, a buon diritto all'elemento posto sopra fu attribuito il nome di marito. 81 Filodemo, Poetica, Voli. HercuI.2, XI 147 +VII 90. 82 Cfr. Wehrli 1928, 49. 83 Per l'identificazione Zeus-etere nella Stoà cfr. qui infra e Wehrli, 1928, 66. Utile, benché compilato sulle pagine del libro e non sulle fonti, I'Index des symboles di Pépin 1958, 502 ss.
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Qui l'assimilazione di Zeus all'etere, che si accosta a quella del dio suprerno all'etere in Zenone, SFVI 154, passa attraverso l'identificazione con il fuoco, affermata già da Zenone, ib. 146 e 157, che riconduceva il dio-natura al «fuoco artefice [nup 'tEXVtK6v, ignis artijiciosus] procedente metodicamente [òùcp, via] alla creazione [yÉ.vrntç, ad gignendum] » ( ib. 171) . L'identificazione del dio sommo con il fuoco, di Zeus con un elemento igneo, è di ascendenza eraclitea e ha tanta parte nella dottrina stoica, dove la natura ignea dell'etere è anche spiegata con un'etimologia attribuita a Crisippo ( «l'aì.0T]p, sacro fuoco, è fiamma inestinguibile, come indica il suo nome, che deriva da a'i0E.t v, "ardere"»); Radice infatti, per mostrare i legami tra Eraclito e Zenone, insiste proprio sull'identificazione di Dio e della natura con il fuoco8 4. Nello Stoicismo il dio sommo assume forma di fuoco artefice e di nvt:uµa infuocato che tutto pervade: Zeus pertanto, il dio sommo, quando è interpretato da Crisippo come etere in quanto elemento igneo, rappresenta questo principio onnipervasivo che a sua volta è la stessa ucnç (che Zeus sia il dio sommo non è di per sé allegoria, ma che sia identificato con l'etere e il pneuma igneo lo è). Ne consegue che, se Zeus è il dio supremo, tutte le divinità rientrano in esso sotto forma di Zeus; anzi, tutte le divinità rientrano in ciascuna divinità sotto forma di quella divinità, in quanto ognuna di esse, nell'ottica stoica, rappresenta un aspetto della divinità-naturafuoco estesa ovunque: Tutti gli dèi sono in Zeus [Llti] sotto la forma di Zeus [8tiwç], o in un 'altra divinità sotto la forma di Era: nessuna divinità, infatti, manca di perfezione. E come Anassagora affermava che tutto è in tutto [mivta èv m'icn] , ma un aspetto prevale, così diremo anche riguardo alle divinità (SVF III 302). Accanto all'esegesi di Zeus come etere igneo, in Crisippo non meraviglia la diretta identificazione Zeus-fuoco, che si estende attraverso tutta la natu_,.-, ra e che perciò non ha natura propria, ma è in trasformazione perpetua, sul modello eracliteo: «Zeus, un essere senza una propria natura [ o'Ù tjì a-u1ou uon xpc.OµE.voç], un unico grande fuoco [nup] ininterrotto ... variamente configurato, in ogni cosa trasformato e trasformantesi con mutamenti» (ib. 1045). Questo permette un aggancio diretto con la dottrina della conflagrazione cosmica, di cui Crisippo parlava nel l. III De diis, ma anche in molti altri luoghi, data l'importanza di tale teoria nel suo sistema fisico-teologico. Infatti, il fuoco che è Zeus e che in Zenone abbiamo visto caratterizzato come artefice, è dichiarato intelligente, eterno e distruttivo di tutto da Crisippo: «Dio è un fuoco [nup] intelligente che permane in eterno, e distrugge ogni cosa» (ib. 1050). Nella conflagrazione, per Crisippo Zeus84 Presenza del pensiero eracliteo nello Stoicismo: Reale, 1993c, III, 311-1 4; Hahm 1977, 200 ss. con Radice 2000b, 28-31; 33-34. Il frammento crisippeo con l'etimologia di «etere» è SVF II 664 =Filone, De confusione linguarum, 15. Fuoco eracliteo: Jones 1996; Finkelberg 1998.
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fuoco è infatti l'unico dio, ossia l'unico essere naturale, attivo, ed è l'unico che rimane dopo di essa85. Gli dèi della teologia stoica sono concepiti come corruttibili proprio perché identificati con le realtà naturali che nella conflagrazione cosmica sono destinate a dissolversi. Poiché la conflagrazione awiene per prevalenza del fuoco su tutto, si comprende come mai Zeus-fuoco sia l'unico dio-elemento che permane. Questa dottina, abbondantemente attestata per Crisippo, risaliva a Cleante86. Fra tutti gli dèi, dunque, solo uno, per Crisippo e per gli Stoici, SVF II 1049, 2, è eterno: Zeus, che, per Crisippo, ib. 1064, coincide non solo con l'etere, ma anche con la Prowidenza, e che sotto questa duplice forma è l'unico a sopravvivere alla conflagrazione cosmica: nella conflagrazione cosmica, Zeus, il solo incorruttibile tra gli dèi, si ritira nella forma di provvidenza, ed entrambi, divenuti omogenei, sussistono nell'unica sostanza dell'etere.
4.4.b. Zeus come logos, intelletto, fato, provvidenza, legge e anima universali La consistenza di Zeus come intelletto e fato (identificazione che di per sé non implicherebbe direttamente un'allegoria), o ltre che come etere, è confermata da SVF II 5, dalla Physica di Crisippo, che concorda con altre teorizzazioni di Zenone, e che ci mostra Zeus come logos, ragione seminale dell'universo, che in tutto si trasforma, secondo il citato principio della trasformazione perpetua del fuoco nei vari elementi: Secondo il pensiero degli Stoici, Dio è uno, ed è intelletto [voùç], fato [i::\,µapµévri] e Zeus; e si chiama ancora con molti altri nomi. In principio, dunque, essendo per se stesso, trasformò l'intera sostanza, attraverso l'aria, in acqua. E, come nella generazione il seme si diffonde, così anche Zeus, che è ragione seminale [À6yoç 0ni::pµa nK6ç] dell'universo, rimane tale nell'elemento umido, rendendo adatta alla propria azione la materia, in vista della chiamata all'es85 SVF II 1049, 1: «nessun dio è immortale tranne il fuoco (nùp) . Crisippo lo sosteneva ovunque, ad es. nel I. III De diis: alcuni dèi sono generati e corruttibili, altri ingenerati, e lo dimostra per via fisica (ì. ytyvci>crKrov, "intorno a sé riconoscendo" i compagni] Crisippo legge epsylon non aspirato, considerandolo superfluo [se. legge àµc)>teytyvci>crKrov] e interpreta: «Òµc)>tyvociiv, "riconoscendo attorno'', nel senso di àvnpaUrov, "chiacchierando con" i compagni» (in Il. XV 241: fr. 774); «Crisippo pronuncia con l'aspirata aùlaxot, "urlanti", in modo che significhi ,,;;. "dalla voce acuta",, (in Il. XIII 41: fr. 773). Altre volte, Crisippo emenda: nell' espressione eÀ.KE ÒÈ µécrcra , riferita a Zeus che «tenne sospesa nel mezzo» la bilancia, sostituisce µécrcra con puµa : «tenne sospesa l'inclinazione » della bilancia: «µécrcra ] Crisippo scrive puµa, poiché l'inclinazione della bilancia si chiama puµT]» (in Il. XXII 212: fr. 775). 119 Sch. in Il. X 252: «il più della notte è trascorso: due parti, resta la terza»: Crisippo spiega a lungo che si poteva dire così anche trovandosi già nel corso della terza parte della notte. Fr. 777. Abbiamo anche un esempio di esegesi del mito teologico, l'aspetto di maggior interesse per Crisippo, in Omero: «Crisippo scriverà "Ermete Cillenio", "perché la sua verga ammalia gli occhi degli uomini" (Od. XXIV 3) ... I Feaci gli offrono libagioni alla sera, "quando al riposo pensano" (ibid. VII 38), non perché porti sogni, ma perché concilierebbe il sonno». l20 SVF II 156: «per Crisippo, è l'assassino, in quanto merita di andare girovagando [àì..éicr0m] »; SVF II 157: «per Crisippo, viene da eì..acrtç, "cacciata, esilio", in quanto designa chi merita di essere esiliato [éì..auvecr0m] per omicidio; per Apollodoro, da ÒÀ.t'tEtV»: è Apollodoro di Atene, discepolo di un discepolo di Crisippo (Diogene di Babilonia, allegorista anch'egli); si occupò di esegesi omerica e di allegoresi applicata alla teologia, nel De diis. Analogamente SVF II 158.
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un mutamento dell ' ortografia del nome121. Airov, reso in latino con aevum, e contrapposto a xpovoc;, è ricondotto etimologicamente da Crisippo al suo valore di perpetuitàl22. Particolare importanza riguardo alla concezione crisippea di come l'etimologia delle parole possa esprimere direttamente il loro significato originario è la spiegazione data da Crisippo del pronome Éyro, «io», l'articolazione dei cui suoni costituirebbe già di per sé un'immediata indicazione del soggetto, con quel valore deittico, direttamente indicativo, che gli Stoici, vedremo, attribuivano alle parole originarie123. Duplice è la sede di questa etimologia: sia nelle Etymologi,ae, come è naturale, sia in un testo non di linguistica, ma di psicologia, il De anima; lo scopo era infatti la chiarificazione della dottrina dell'egemonico, a conferma del fatto che l'etimologia era assunta da Crisippo per il suo valore filosofico e non come prassi linguistica fine a se stessa. Nel trattato di psicologia Crisippo inseriva un'altra etimologia, sempre posta al servizio della dottrina sull'egemonico: .. . svolge l'etimologia di "cuore", Kapoia, Kpaoia, subito di seguito nel I. I De anima... : "Coerentemente con tutto ciò, al cuore è toccato il nome che ha in ragione della forza e del potere, Kpm:ouv, che esercita sull'anima, poiché è sede del principio direttivo o egemonico. Perciò sarebbe stato chiamato Kpm:ia. Un'altra derivazione etimologica, di immediata comprensione, riconduce il nome della spanna all'atto di tirarsi: 0m8aµi] deriva da àrcomm0µ6v, "divaricazione" (tra il pollice e la punta del mignolo). Secondo Crisippo, è perché l'intera mano si divarica, si tira [0rca00m]124. Ulteriori attestazioni confermano lesteso impiego dell 'etimologia nel
121 Es.: di àyKwv, «gomito», muta l'iniziale, fondandosi sulla presunta derivazione da i:'.yn:1µm, «giaccio dentro, sono incastrato»: «Crisippo corregge in ÈyKWV, dal fatto che nel gomito un osso si trova incastrato [èyn:l>, dichiarando che sarebbe follia raccomandare l'opposto. 138 SVF III 350: «nel De virtutibus definisce la nobiltà scarto e raschiatura della uguaglianza ... Adduce quanto ha detto il più acuto dei poeti contro la nobiltà (Il. II 231) .. . sostenendo che riveli le malefatte dei nobili, quando Efesto sorprende Arese Afrodite in flagrante adulterio (Od. VIII 308-9) ... E per assalirci prende spunto dal suo amato Euripide ... ». 139 SVF III 389: Eur. fr. 837 Nauck. Intellettualismo etico: es. Sorabji 2000 . . 140 Men. fr. 567 Kock: SVF III 390 (sulla fonte: Bellanti 2003); ib. 478: Eur. Alcestis, 1079.
141 Il. I 81-82: : «Se anche per un solo giorno, infatti, egli seda il rancore,/ tuttavia mantiene il suo sdegno, fino a che non lo abbia compiuto», in SVF III 396. Ira e passioni nella filosofia antica: es. Harris 2001; Sorabji 2000.
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re effettivamente infarcita di citazioni poetiche, sia omeriche sia euripidee. SVF III 467 attesta infatti che, a dimostrazione della derivazione delle passioni dal desiderio e dalla brama, Crisippo, nel 1. II, scriveva: mi pare che alcuni riescano a liberarsi dal dolore, quasi ne avessero colmato la misura, come, secondo il Poeta, capitò ad Achille che piangeva Patroclo ... 142, si diede a consolare Priamo, mostrandogli l'assurdità del dolore. Perciò Crisippo riteneva che, col tempo, «anche il divampare d elle passioni si attenui, e la ragione ... prenda il soprawento, rivelando l'assurdità della passione». E citava anche altri versi omerici ed euripid ei sulla trasformazione delle passioni 143, per concludere che sarebbe possibile mettere insieme, dai poeti, molti altri esempi di persone che si saziano di pene, lacrime e simili, spiegabili a suo avviso in quanto, con il tempo, cessa la passione e la ragione prende il soprawento sugli impulsi. Altri versi Crisippo citava a proposito della passione d'amore e delle circostanze in cui divampa o si spegnel44. A illustrazione della tesi «ch e ci si debba assuefare in anticipo alle cose che non ci sono ancora, comportandosi con esse come ci si comporterebbe quando ci sono», Crisippo, SVF III 482 citava Euripide, fr. 392 Nauck, che attribuìva a Teseo un pensiero simile al suo: Io, addestrato in questo da un sapiente, ho rivolto.la mente a pensieri di sciagura .. . sicché, se avessi subìto un male di quelli immaginati, piombandomi addosso all'improvviso, non mi avrebbe straziato l'anima. E aggiungeva un altro passo euripideo di simile tenore, citando ancora un lungo stralcio del medesimo autore sul fatto ch e il dolore tocchi a tutti i mortali per necessitàl45. Inoltre, per esemplificare come la rappresentazione (crtç; tuttavia si può constatare, da parte degli Stoici, la riduzione degli dèi a un totale immanentismo, di cui !'allegoresi fu senz'altro strumento, ma non certo causa. La causa risiede nel rifiuto della metafisica nello Stoicismo. Il ciceroniano Cotta vede nell'allegoresi stoica un modo per rafforzare i miti tradizionali: «Voi Stoici, anziché ricusare i racconti mitologici, li rafforzate, grazie a un 'interpretazione [interpretando] che mostra quale significato abbia ciascuno ... i miti trovano in voi dei difensori»165. Questo vale anche perché gli Stoici consideravano ,,;;. sapienti coloro che li forgiarono: «non solo non riconoscete che quanti inventarono questi miti erano degli stolti, ma ne fate addirittura dei sapienti» . In Filodemol66 invece è espresso un attacco agli Stoici non per aver difeso il mito, ma, al contrario, per avere tolto consistenza agli dèi tradizionali in favore di un'unica divinità, il dio-natura: Tutti i seguaci di Zenone ... affermano che esista un'unica divinità... distruggono gli dèi popolari, dichiarando che, in assoluto, c'è un solo dio, negando che ve ne sia più d'uno, rifiutando tutti 163 Cicerone, De natura deorum, I 36 = SVF I 167. 164 Cicerone, De natura deorum, I 39-41 = SVF II 1077. 165 De natura deorum, III 23, 60 e 24, 62. l66 De pietate, 17-18. La tr., a scopo esemplificativo, è ancora dall'ed. Gomperz, 84, 8 ss. Per Filodemo, piet. col. 6, e Cic. nat. deor: I 41: Long 1992, 49-50; Obbink 1994, 111-14. Henrichs 1974 riporta la critica alla teologia stoica contenuta in un papiro ercolanese (cfr. Marcovich 1975).
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quelli che l'opinione comune ha tramandato ... Essi, inoltre, gridano di revocare agli dèi la natura che tutti venerano ... ritengono, infatti, che gli dèi non abbiano figura umana, ma che siano aria, soffio, etere. Se l'accademico scetticheggiante imputa agli Stoici la rivalutazione del mito attuata tramite l'allegoresi, l'epicureo Filodemo sostiene, per converso, che gli Stoici hanno vanificato tutti gli dèi del mito, riducendoli tutti a un unico dio.
5. Diogene di Babilonia 5 .1. Diogene autore del De Athena, allievo di Crisippo e maestro di Apollodoro
Diogene di Babilonia fu il quinto scolarca della Stoa, dopo Zenone, Cleante, Crisippo e Zenone di Tarso, e ricoprì un ruolo importante nella vita culturale dell'epoca; fece parte dell'ambasceria dei filosofi greci a Roma nel 155 a.C. insieme con l'accademico Carneade e il peripatetico Critolao (SVF III, II 7-9); influenzò molto Lelio, amico di Scipione Emiliano, e fu maestro di Panezio, che mitigò le asprezze dell'etica vetero-stoica, consentendo un più pieno incontro fra lo Stoicismo e il mondo romano; anzi, per Morford è probabile che le innovazioni paneziane fossero già state anticipate da Diogene, che da alcuni studiosi, come la Isnardi, è considerato iniziatore del Mediostoicismol67. Diogene costiuisce un anello importante nella "catena" dell'allegoresi stoica, in quanto discepolo di Crisippo (SVF III, II l. 35), di cui assunse le dottrine allegoriche, e maestro di Apollodoro di Atene e , forse, di Cratete di Mallo, allegoristi stoicizzanti. Ciò potrebbe spiegare il fatto che alcune sue osservazioni trovano paralleli in Cornuto, una cui fonte sembra Apollodoro. L'opera principale in cui Diogene metteva a frutto il metodo allegoricoetimologico crisippeo si intitolava Athena. Qui sembra trovare eco, fra l'altro, l'allegoresi, sviluppata soprattutto da Crisippo, relativa all'identificazione di Zeus con l'etere e di Era con l'aria, che per l'etimologia di «Era» si rifà espressamente al Cratilo, 404B. In SVF III, II 33, anzi, le esegesi allegoriche di Diogene e di Crisippo, riccamente articolate e tutt'altro che isolate nella storia dell'allegoresi stoica, sono strettamente accostate: il cosmo si identifica con Zeus, o comprende Zeus, come un essere umano la sua anima; il sole coincide con Apollo e la luna con Artemide, e definire gli dèi antropomorfi è puerile e impossibile. 167 Cfr. Morford 2002, 14-15 e 23 per Diogene e 23-28 per Panezio; lsnardi 1989, 2221: ma si veda già Scha.fer 1936. Impatto dell'ambasceria del 155 sulla cultura romana: anche Astin 1967; 1978.
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La parte di Zeus che si estende verso il mare è Posidone, e quella che si estende verso l'aria è Era, come sostiene anche Platone, cosicché se si pronuncia "aria", aér, più volte, si dice "Era"; la parte che si estende verso l'etere è Atena; è questo, infatti, il significato della sua nascita "dalla testa" di Zeus. Diogene ricupera qui il valore autentico dell'allegoresi teologica stoica, quale abbiamo ricordato agli inizi del capitolo, in quanto identifica gli dèi tradizionali con le manifestazioni parziali dell'unico dio-natura che si estende nelle varie parti del mondo fisico, e vede in Zeus l'egemonico dell'intero cosmo. L'importante frammento prosegue concentrandosi maggiormente su Atena, protagonista dell'opera di Diogene, secondo l'esegesi crisippea: Alcuni Stoici sostengono che la parte egemonica dell'anima è nella testa, e che è l'intelligenza; perciò prende anche il nome di Meti. Crisippo sostiene che l'egemonico sia nel petto e che da qui abbia tratto origine Atena, che è l'intelligenza, siccome la voce esce dalla testa, e "da Efesto" poiché l'intelligenza si ha grazie all'arte. Afferma poi che Atena andrebbe detta "Atrena", "Tritonia" e "Tritogenia", in quanto la saggezza si articola in tre momenti logici: fisica, etica e logica. Adatta poi in modo mirabile anche gli altri suoi appellativi e gli altri attributi alla saggezza. Dunque il metodo è quello collaudato: gli epiteti di Atena, le sue caratteristiche e i suoi attributi, nonché i particolari del mito, ricevono tutti una spiegazione allegorica in base all'identificazione fondamentale di Atena con la parte dell'egemonico che si estende nell'etere e che indica l'intelligenza. Diogene si atteneva al modello di Crisippo nella spiegazione allegorica, in senso fisico, dei vari aspetti del mito, tra cui in particolare il rapporto fra Atena e il padre Zeus: «Sulla scia di Crisippo, Diogene di Babilonia, nel De Athena, interpretando in termini fisici [ad physiologi,am traducens] il parto d" ·; Giove e la nascita della vergine, li disgiunge dal mito» ( ib. 34) .
5.2. L'importanza del metodo etimologi,co Un'altra eredità crisippea in fatto di allegoresi è senz'altro, in Diogene, l'interesse per il metodo etimologico. Abbiamo visto, confrontando l'esegesi di Atena da parte di Crisippo con quella operata da Diogene, il gioco di parole «Atena / Atrena» e il legame fra « Tritonia», « Tritogenia» e il tre, 1pc.ìç. Possiamo riscontrare anche altri esempi in almeno tre passi tratti da un'altra opera di Diogene, De musica. Nel primo ricorre, in una serie di connessioni e in senso critico, il legame fra 8c.6ç, "dio", e 8c.ìv, "correre", presente già nel Cratilo, e che suppone l'idea che gli antichi avessero considerato dèi per primi gli astri; che in effetti questa etimologia derivasse a Diogene da Platone è supposto da MunzeP68, a ragione: abbiamo visto che 168 Platone,Cratilo, 397D; Munzel 1883a, 18.
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anche per la connessione del nome Era con àl]p Diogene richiamava esplicitamente il Cratilo. Scriveva Diogene, fr. 64: ... che la musica fosse destinata alla divinità [0ctov], lo testimoniano anche i nomi stessi: il contemplare [0coopctv], l'essere spettatore [0rnTijç] e il teatro [0ém:pov] ... si sarebbe potuto dire che il contemplare, l'essere spettatore e il teatro derivino dal correre [0òv], ma il divino non ha a che vedere con questi più che il correre. E così si può concludere che le manifestazioni che hanno a che fare con la vista [0caµm:a] sono adottate per rendere onore agli dèi ... è vero piuttosto che queste manifestazioni hanno preso il nome di 0caµm:a dal vedere con gli occhi e con la mente. Diogene sembra preferire il vincolo etimologico fra 8c6ç e 8Earo I 8cropÉro, «contemplo», spiegato su base allegorica: non a caso, un suo discepolo quale Apollodoro di Atene, di cui tratteremo, presenta la stessa etimologia data dal maestro per 0c6ç, contestando invece quella del Cratilo: 8E6ç deriva da 0Etv, "correre" ... per Apollodoro, invece, dal fatto di essere causa del vedere, 0Eiicr0m, per lo splendore del sole e della lunal69. Ulteriori attestazioni comprovano l'interesse di Diogene per l'etimologia posta al servizio delle interpretazioni allegoriche, e segnatamente alcune legate alle Muse - già oggetto dell'allegoresi di Crisippo - , sempre tratte dal De musica: «la µoucrtKTJ fu così chiamata dalle Moucrm»; «Siccome la musica favorisce la virtù d'amore [Èpronxl], da Èparo] , opportunamente una Musa fu chiamata Erato» (SVF III, II 72 e 78). L'interesse di Diogene per l' etimologia è indubbiamente un'altra vistosa eredità crisippea, che egli a sua volta avrebbe trasmesso al suo discepolo Apollodoro di Atene e forse anche a Cratete di Mallo, un altro importante allegorista di età alessandrina.
6. Antipatro di Tarso 6.1. L'esegesi allegorica del mito in Antipatro
Antipatro di Tarso fu il sesto scolarca stoico e succedette a Diogene di Babilonia. Si segnalò soprattutto nella polemica contro Carneade e morì suicida prima del 129 a.C.170. Come si vede, l'allegoresi fu praticata da tutti, o quasi, i capiscuola dell'Antica Stoa, e certamente dai più importanti: ovviamente, dato lo stato frammentario in cui ci sono pervenute le loro opere, 169 Cramer, AO, II 446; Muller, FHG IV 649. Etymologicum Gudianum, 258, 57: «0Eot per Apollodoro deriva da 8Etv ... e dall'essere causa del 8Eéicr8m, grazie ai raggi solari e lunari». 170 Ancora importante è Cohn 1905.
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!'eventuale assenza di riferimenti per alcuni minori poco documentati non significa di per sé assenza di interesse. Ciò rafforza l'idea che l'esegesi allegorica del mito teologico fosse considerata parte della filosofia stoica a pieno titolo. Autore di un De munda in molti libri, anche Antipatro considerava il dio-natura, il dio sommo, identificato con Zeus, come coincidente con il cosmo, attribuendogli una natura aeriforme che non esclude l'identificazione, tradizionale nell'allegoresi stoica, con l'etere. Non per nulla, il Laerzio istituisce una fondamentale continuità del pensiero di Antipatro con le concezioni teologiche di Zenone e di Crisippo: Zenone afferma che la sostanza di Dio sia costiuita dall'intero cosmo e dal cielo, e similmente anche Crisippo ... anche Antipatro, nel I. VII De munda, sostiene che la sostanza di Zeus sia aeriforme [ài::poetòf\ ]1 71 . Abbiamo visto passi di Zenone e di Crisippo con oscillazioni fra etere e aria nell'identificazione; Boeto di Sidone, uno degli ultimi capiscuola stoici, tornerà a designare il dio sommo come etere in SVF III, VI 2. Questo filone allegorico veramente conferma sempre più la sua continuità all'interno della Stoa Antica. Le interpretazioni allegoriche degli epiteti delle divinità seguono in Antipatro la prassi stoica coadiuvata dall'etimologia: ad es. egli si interroga sul senso dell ' epiteto di Apollo AuKtoç, fornendone una spiegazione diversa da quella di Cleante, che proponeva l'accostamento con ÀUKOt, «lupi», in base a una similitudine, poiché, come i lupi rapiscono le pecore, così Apollo-sole sottrae l'umido con i raggil72. Antipatro propone piuttosto una connessione con ÀEUKaivi::08m, «illuminare», che presuppone sempre, comunque, l'allegorizzazione di Apollo come il solel73. L'interesse di Antipatro per la teologia è confermato anche da una sua opera in più libri De superstitiane, un tema che stava a cuore agli Stoici e che .. ritroveremo enfatizzato in un allegorista del I sec. d.C. come Cornuto. È'.' ~ notevole che in questa sua opera Antipatro si interessasse anche dell'interpretazione delle divinità extra-greche, un tratto che vedremo sviluppato, grazie anche all'influsso di Posidonio, nello stesso Cornuto e in un altro allegorista stoico a lui contemporaneo, Cheremone, la cui esegesi simbolica sarà 171 SVF III, III 44 =Diogene Laerzio, VII 148. 172 SVF I 541 = Macr. Sat. I 17, 36. Trovo un compendio delle esegesi antiche del!' epiteto negli Sch. in Aesch. Septem, l 45a: «Chiama Apollo "Licio" o perché è venerato nella città di Licia, o perché gli è dedicato il lupo [À.uKoç] in quanto a lui sacro, o perché è uccisore di lupi , oppure - l'interpretazione migliore - perché produce la luce dell'alba [À.uK6$coç], al ritirarsi della notte. Apollo, infatti, è il sole»; l 45b: «Si dice che Apollo si chiami così poiché una volta uccise un lupo. Ora, questa versione del mito è stata inventata a partire dalla circostanza che dal sole viene dissolto il crepuscolo dell'alba [À.uK6$coç]: e Apollo è l'allegoria del sole. E il crepuscolo è chiamato À.UK6$coç perché ha lo stesso colore dei lupi, À.UKOL». Ed. Smith 1982. 173 SVF III, III 36 =Macrobio, Sat. I 17, 36.
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rivolta agli dèi della mitologia egiziana. Antipatro presenta l'interpretazione della dèa siriaca Atargatis, menzionata poi in Cornuto, 6 che la identifica con Rea, e ne riconduce il nome a un fraintendimento: quest'ultimo è un modulo proprio dell'esegesi storico-razionalistica, e, poiché Antipatro riporta un 'opinione altrui, èprobabile che avesse presente un modello esegetico storicizzante: Antipatro di Tarso, appartenente alla scuola stoica, nel !. IV De superstitione riferisce che, secondo alcuni, ranç, la regina dei Siri, era così golosa di pesce da far proclamare ufficialmente che «nessuno mangiasse pesce tranne Gati [frtep ran8oç] »: ma, per ignoranza, la maggior parte della gente la chiama ' A'tapyanç e si astiene dal pesce (SVF III, III 64). È una storicizzazione, in quanto la dèa è ricondotta a una mortale, che si suppone storicamente esistita, e una norma sacrale è spiegata con un fraintendimento. In effetti, al tempo di Antipatro, nel II sec. a.C., ormai era sviluppato anche il filone storico-razionalizzante, di cui Palefato, seguace di Aristotele, fu l'esponente più rappresentativo, come vedremo. 6.2. Antipatro cita i poeti a illustrazione delle sue tesi Un altro aspetto importante di continuità tra gli allegoristi vetero-stoici visti finora e Antipatro risiede nell'assunzione, da parte del filosofo, di frequenti versi poetici, tratti soprattutto dai tragici, a sostegno e illustrazione del proprio pensiero. Un chiaro esempio è costituito da SVF III, III 63, derivato da un'altra opera perduta di Antipatro, De matrimonio, anche questa una tematica spesso trattata nella scuola stoica, dai Vetero-stoici ai Neo-stoici con Musonio e Senecal74. Nel giro di pochi paragrafi, quanto è lungo il frammento, troviamo citati un passo di Sofocle, due di Euripide e due di comici non identificatil75. È opportuno ricordare una piccola parte del frammento: Antipatro, argomentando in favore dell'opportunità di sposarsi, per rendere completa la propria vita, per giovare alla patria, per comportarsi secondo natura e per rendere onore agli dèi, illustra il carattere particolare dell'unione sponsale, che non è una giustapposizione, ma una «fusione totale», dell'anima, dei corpi, dei figli, dei patrimoni degli sposi, commentando: Questa unione è certamente straordinaria anche da un altro punto di vista. Tutte le altre unioni, infatti, in certa misura, ammettono deviazioni, mentre "queste è necessario che mirino a un 'anima sola", ossia a quella umana. La citazione è da Euripide, Medea, 247, e ne segue un'altra, dichiarata, 174 Per il tema in Musonio cfr. l'intr. di Ramelli 200ld; nello Stoicismo Ead. 2000b con Lentano 1999 e Torre 2000. 175 Sofocle, Philoct. 400; Eur. Medea, 247; Phrixus, fr. 819 N.; Aedspoton, fr. 119 Kock; ibidem.
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del medesimo tragico , Phrixus fr. 819 N. , sul conforto offerto da una sposa. Sono sempre passi di argomento etico, come si conviene al tema. Similrnente, nel prosieguo, Antipatro, illustrando i vantaggi che derivano dall'aiuto di una moglie, definita con la stessa, celebre designazione dell'amico «Un altro se stesso»l76, argomenta che, grazie all'affidamento dell'amministrazione domestica alla moglie, il marito sarà anche più libero di occuparsi dei suoi interessi politici o filosofici , e per questo cita due passi di un comico non identificato, fr. 119 Kock. Dunque, sia per l'esegesi allegorica del mito teologico, sia per l'attenzione alla prassi etimologistica, sia per l'impiego dei poeti nel contesto di argomentazioni filosofiche, con funzione asseverativa e illustrativa, Antipatro mostra di continuare uniformemente il filone stoico di Zenone, Cleante, Crisippo e Diogene di Babilonia, dal IV al II secolo a.C.
176 Formula già presente in Aristotele, ENIX 1170 b 6, come E-tepoç m'rc6ç, «un altro se stesso», tradotta da Cicerone, De amicitia, 18: alter idem. In Zenone, ap. Diogene Laerzio, VII 23, si ha la variante aÀ.A.oç èyro, «un altro io» , da cui il sintagma in uso ancor oggi, alter ego.
capitolo terzo
Esegesi allegorico-etimologica stoica negli interpreti di Omero di età alessandrina
1. Apollodoro di Atene 1.1 . Inquadramento storico, filosofico e culturale. Il De diis Il letterato stoico Apollodoro di Atene, «autore celebratissimo», «straordinario in massimo grado» 1, nacque intorno al 180 a.e. e fu discepolo, ad Atene, di Diogene di Babilonia2, allievo di erisippo. Come attestano Filodemo e la Suda3 , fu altresì discepolo del filosofo Panezio e del grammatico Aristarco. Dunque, la sua filiazione intellettuale stoica è duplice. Dopo avere lavorato per molti anni ad Alessandria con Aristarco, dove apprese la filologia e diresse la Biblioteca4, si trasferì a Pergamo, alla corte di Attalo II, forse in seguito alla cacciata dei dotti nel 145 a.C.: nel 146 anche Aristarco era stato esiliato a Cipro da Tolemeo Fiscones. A Pergamo Apollodoro compose fra l'altro un 'opera cronografica6 in cui conferiva rilievo anche ai filosofi dell'epoca, ricordando ad es. la celebre ambasceria di Carneade, Critolao e Diogene a Roma nel 155 a.C. o gli esponenti dell'Epicureismo contemporaneo (T8). Apollodoro morì ad Atene tra il 120 e il 110 a.e. A lui, esperto di miti greci, fu attribuita una Bt~Àw8iJKTJ in 3 libri, sistematica raccolta mitologica conservataci, che va dalle più antiche teogonie al ciclo di., Teseo, nel tentativo di ricostruire l'intera mitologia greca7. La prima meTi- ' zione del suo autore, Apollodoro Grammatico (ossia filologo, letterato), e del titolo è in Fozio, che schedò la Bibliotheca apollodoreas. Ma la critica 1 Tl 9 Jacoby = Gellio, NA XVII 4, 4 e Stefano di Bisanzio, s.v. ' QptK6ç. Le testimonianze (Tn) e i frammenti (Fn) saranno riferiti all'ed. Jacoby, salvo diversa indicazione. 2 T2: «allievo di Diogene lo Stoico, condiscepolo a lungo di Aristarco» . 3 Filod. Index Stoic., 69, 3 = T5; Suda, s.v. Apollodoro = Tl . 4 POxy. X 1241 = T4 tra i direttori include «Apollodoro, filologo [ypaµµm:tK6ç] ». 5 Munzel 1883b, 1. Su Pergamo: Montanari l 993b; l 993a sul contesto degli studi letterari. 6 In 4 li. , in trimetri giambici, a partire dalla guerra di Troia, dedicata a un Attalide (T2; T6). 7 Scarpi 1996, part. IX-XXXIV. 8 Fozio, Bibl. cod. 186, 142 ab: «Nel medesimo volume in cui ho trovato le narrazioni di Conone, ho letto un libriccino del ypaµµm:tKoç Apollodoro. Il titolo è
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moderna9 ha molti motivi per ritenere infondata l'attribuzione all'Ateniese; oggi diversi studiosi pongono l'autore della Bibliotheca all'epoca della Seconda Sofistica, in particolare verso l'età severiana10 . A parte la Bibliotheca, probabilmente spuria, Apollodoro scrisse diverse opere, tra cui una corografia in metro comicoll, un lavoro Sulle etère di Atene (Tl 7), una raccolta delle commedie di Epicarmo in 10 tomi (Tl8) e, soprattutto, un commento in 12 libri all'iliadico Catalogo delle navi (Tl2), per cui trasse materiale da Eratostene e da Demetrio di Scepsi (Tl3-14), nonché un IlEpÌ 8Effiv in 24 libri (T9), di cui sono pervenuti solo frammenti, ma in numero cospicuo e significativi per la ricostruzione della metodologia apollodoreaI2. L'opera, non casualmente, reca lo stesso titolo del lavoro di Crisippo - maestro del suo maestro - dedicato all'allegoresi: il trattato apollodoreo era infatti uno studio della «teologia greca espressa nei miti», come definisce Fazio, che precisa: «sia i miti relativi agli dèi, sia quanto è stato detto in narrazioni storico-leggendarie, sia riguardo agli eroi della loro tradizione e ai Dioscuri, sia riguardo a ciò che è nell'Ade, e quant'altro di simile», aggiungendo che presto ne furono ricavati estratti dal sofista Sopatro (Tll). Perciò Eraclito, autore nel II sec. di un trattato allegorico su Omero, chiama Apollodoro, sua fonte, «uomo straordinariamente competente in ogni mito»I3. La perdita di questo testo apollodoreo impedisce la sua conoscenza precisa; non è sempre facile ravvisarne i frammenti, ove non sia espressamente indicato il nome di Apollodoro. Mùnzel, Zucker e Hefermehl14, più di un secolo fa, operarono una prima, sistematica disamina del materiale apollodoreo, in particolare quello proveniente dal De diis e inerente all'esegesi allegorica, ricavandolo da diverse fonti successive, come gli scolii omerici, Macrobio, Cornuto o Eraclito grammatico. I risultati dei loro studi furono per lo più accolti da Jacoby nella sua raccolta dei frammenti degli storici greci. Albin Lesky, deplorando la perdita del trattato apollodoreo, dichiarava, con vaghezza perfino eccessiva, che «è indubbio che Apollodoro si ispirasse a una data concezione della divinità nella quale aveva Bibliotheca. Conteneva i più antichi racconti dei Greci: tutto ciò che il tempo ha fatto loro pensare sugli dèi e sugli eroi, sui nomi dei fiumi ... e di tutti gli altri fatti che risalgono all'antichità. Si spinge pure fino alle vicende di Troia, ripercorre le battaglie degli eroi, le loro imprese e alcuni itinerari di coloro che sono ritornati da Troia, soprattutto di Odisseo, con il quale si conclude questa storia del passato. Il testo è per lo più una sintesi, non senza utilità per chi si fa un punto d 'onore di conservare il ricordo del passato» ( tr. Scarpi 1996, XX). 9 Già con Robert 1873. 10 Seconda Sofistica: Mactoux 1989. Età severiana: Carrière 1991. l i Tl 6 (Fl 70): Descrizione della terra. 12 In FHG I 428 ss.; FGH 244, part. F88-207 per i frr. del De diis e sul Catalogo delle navi; per questo catalogo in Omero: Gaertner 2001. 13 T 10 =Eraclito, All. 7 (cfr. F 98). 14Munzel 1883a; Hefermehl 1905; Zucker 1905.
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avuto parte la sua formazione; si può anche supporre che la sua esposizione della religione greca fosse determinata dal principio evolutivo. Nell'impostazione possiamo afferrare l'aspetto "alessandrino" dell'opera, il suo fondarnentale orientamento storico-filologico, in base al quale era ordinata una rnassa immensa di materiale» 15 . In realtà possiamo farci un'idea più precisa, alrneno per quanto concerne l'esegesi omerica e l'impiego dell'allegoresi in Apollodoro. Già Reinhardt tentò, infatti, di definire struttura e contenuti dell'opera16, che oggi è possibile analizzare grazie all'ampia silloge dijacoby.
I.2. Principi di interpretazione allegorica della tradizione teologica Apollodoro si atteneva a un principio fondamentale della teologia stoica, che abbiamo visto ben definito nell'Antica Stoa: il dio-natura è uno e gli dèi tradizionali sono manifestazioni parziali dei suoi vari aspetti, presentati come maschili o femminili secondo le loro caratteristiche: per Apollodoro infatti «non si potrebbe trovare una denominazione propria della divinità, ma nemmeno una conoscenza precisa della sua natura, poiché i filosofi ne presentano le sostanze ora come maschili, ora come femminili. Piuttosto, hanno imposto nomi agli dèi in base a quanto essi compiono, presentando come divinità maschili le potenze creatrici, come femminili le generatrici di viventi» (Fl 17). Collegato a questo del dio unico con vari aspetti, un altro caposaldo dell'allegoresi in Apollodoro è la duplice valenza dei nomi divini, letterale e allegorica. Hefermehl ricondusse infatti all'Ateniese un passo plutarcheo con una dichiarazione programmatica di esegesi dei poeti: «i poeti impiegano i nomi degli dèi, talora volendo significare gli dèi stessi, talaltra invece indicando, per omonimia, determinate potenze a cui gli dèi presiedono»l 7. Ora, tale idea si ritrova identi.c a nel trattato di esegesi allegorica stoica che Cicerone inserisce nel 1. II De natura deorum18, per il quale non /;; ;. fuori luogo ipotizzare un 'ascendenza apollodorea, come vedremo. Secondo questa concezione, per Apollodoro ad es. Efesto è sia il fuoco sia il dio: «chiamando Efesto la òuvaµu; del fuoco, dotarono di aspetto umano la sua rappresentazione»19. Il motivo di questa ambivalenza semantica è spiegato da Apollodoro stesso: poiché ogni facoltà e potenza si attua sotto la protezione di certi dèi, chiamavano con un unico nome sia il soggetto prowisto della facoltà sia la divinità che vi presiedeva20. Le identificazioni da lui citate (F352) sono per 15
Lesky 1987, 968.
16 Reinhardt 1910, 107 ss. Hefermehl 1905, 22. Cicerone, De natura deorum, II 60-62. 19 Giovanni Lido, De mensibus, 135, 19 ss. W. 20 Efesto = fuoco e il dio che presiede alle arti che si esercitano con il fuoco; Demetra = grano e i frutti, e la dèa che ce ne fa dono; Atena = saggezza e la dèa che 17 18
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lo più tradizionali e le abbiamo trovate negli Stoici Antichi, con i quali Apollodoro si pone in evidente continuità. Un esempio di questa interpretazione allegorica degli dèi come sostanze o potenze naturali è in un frammento, sicuro perché nominale, del I. IX De diis messo in luce da Schwarz2l, con l'interpretazione di Ares come ferro, attestata in effetti in altri due passi che sembrano derivare dal Nostro22. Così, la duplice valenza delle divinità e degli elementi è illustrata in un frammento apollodoreo di esegesi omerica, in cui l'autore, ricorrendo al principio dei due piani, letterale e allegorico, spiega perché Omero chiami Anfitrite sia «urlante» sia «illustre»: illustre è la dèa, urlante è il mare23. Analoga duplicità di piani esegetici è riscontrata anche per la Terra, concepita da Omero talora come dèa, talaltra quale elemento e corpo del mondo24. 1.3. Apollodoro e la tradizione allegoristica stoica: frattura o continuità ?
Per la sua esegesi dei testi omerici, Apollodoro, che lavorava alla Biblioteca di Alessandria, aveva a disposizione numerosi commentari a Omero, a Esiodo e ad altri poeti, oltre alle opere dei mitografi. E certamente aveva presenti le opere di Crisippo e di Diogene di Babilonia, di cui era discepolo, e conosceva bene l'allegoresi stoica. Il suo rapporto con gli Stoici in fatto di esegesi omerica e del mito fu riscontrato, in effetti, già da Reinhardt, che, tuttavia, sembra avere una visione riduttiva dell'apporto dell'allegoresi stoica alla prassi di Apollodoro e, quindi, di Apollodoro all'esegesi allegorica successiva, in quanto egli si sarebbe concentrato più sui nomi e sugli epiteti etimologicamente interpretati che sull'esegesi del I?ito vera e propria25: questa posizione sembra tuttavia abbastanza forzata. E vero che Apollodoro era molto interessato alle etimologie26, ma in questo non differisce dai Vetero-stoici prima di lui, da Cratete di Mallo su9 contemporaneo, e da Cornuto o Eraclito grammatico suoi successori. E anche vero che Apollodoro talora si discosta dalle tradizioni allegoristiche precedenti, come attesta Fl03, ma esegesi etimologico-allegoriche diverse in rapporto alla vi presiede; Dioniso =vino e dio che lo dona, dal «donare il vino», 8t86vm 'tÒV oìvov > Lhooivricroç > L'it6vucroç ( Cratilo, 406 C); Ilizie = parti e dèe che vi presiedono ai parti; Afrodite = unione e dèa che vi presiede. 21 Stefano di Bisanzio, s.v. Areopago; apollodoreo per Hefermehl 1905, 22-23. 22 1) Com. 19: allego resi deli' adulterio di Ares-ferro con Afrodite-bronzo, sorpresi e imprigionati da Efesto-fuoco, poiché ferro e bronzo sono domati dal fuoco . 2) Eracl. 69: Ares =ferro. 23 F355: sono citati Od. XII 96 e V 421. Biblioteca di Alessandria: Escolar 2001. 24 Sono citati: Il.XIX 259; XV 37; XI 425 e XV 36. 25 Reinhardt 1910, 117 ss., part. 118. 26 Scrisse anche Etymologiae in 2 o più libri, di cui restano frr. (FGH244 F 222-25): ad es. riconduceva il nome dei Cretesi, Kpfi'teç, a KEKpiicr8at, per l'aria temperata dell'isola (F225).
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stessa divinità, allo stesso epiteto o allo stesso mito si trovano già in seno alla swa antica e si troveranno emblematicamente affiancate anche nel Neo-stoico Cornuto. Apollodoro non sembra discostarsi dalla prassi stoica, e la sua irnportanza nell'esegesi etimologico-allegorica del filone stoico sembra indiscutibile, anche per il profondo influsso che ebbe. Non si deve porre una frattura fra l'interesse per l'interpretazione di nomi, epiteti, riti e simili e quello per l'esegesi del mito - del resto non assente in Apollodoro e poco presente anche negli Stoici antichi e in Cornuto - , poiché i due aspetti sono strettamente collegati e si trovano sia negli Stoici antichi, fonti di Apollodoro, sia ad es. in Cornuto, che ebbe molto probabilmente Apollodoro quale fonte. Proprio Cornuto, tipico rappresentante ed erede dell'allegoresi stoica del mito, nel suo Compendium non farà che interpretare allegoricamente, per lo più, nomi ed epiteti divini, senza introdurre lunghi racconti mitologici. Inoltre, va tenuto presente che la maggior parte dei frammenti del De diis di Apollodoro deriva da lessici, scolii e commenti a omero, compresa l'opera di Eraclito grammatico : sarebbe quindi difficile trovarvi ampi affreschi legati a lunghe narrazioni di miti. La sola lettura dei numerosi e talora molto ampi frammenti raccolti da Jacoby consente comunque di farci un'idea della ricchezza e della vastità degli spunti allegorico-etimologici di Apollodoro, ponendola in connessione con gli antecedenti e gli epigoni. Lungi dal dover istituire una rigida distizione, infatti, sembra di poter cogliere una decisa continuità di Apollodoro con la tradizione allegoristica stoica precedente e successiva. 1.4. L'etimologia in funzione dell'esegesi allegorica
L'interesse etimologistico di Apollodoro è evidente non sòlo dalle citate Etymologiae, ma anche da molti passi del De diis, come notò Reinhardt.
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non va dimenticato che l'etimologia è per lui al servizio dell'interpretazione allegorica delle divinità, come già megli Stoici antichi. Ad es nel I. I De diis, F88 egli faceva risalire lepiteto di Zeus L1coocovciioç al fatto che il dio oiococn V, «dona» i beni, e lepiteto I1EÀ.a Apollodoro - > Cornuto. Di esegesi astrale Apollodoro si occupava nel 1. Il De diis, F91: «afferma che sia un'opinione pitagorica quella dell'identità di Lucifero e di Vespero» . Anche qui Apollodoro si inserisce nella tradizione stoica: questa esegesi si ritrova nel trattato di allegoresi stoica del 1. Il De.natura deorum di Cicerone, 20, 53.
1.7. Esegesi delle rappresentazioni iconografiche degli dèi Apollodoro era interessato a interpretare non solo il mito poetico con i relativi epiteti, ma anche le rappresentazioni iconografiche degli dèi, come abbiamo visto per l'attenzione da lui posta alle statue di Apollo con arco e fre cce. Anche questa sensibilità all 'aspetto figurativo quale espressione dell' antica teologia era già in Crisippo, per le raffigurazioni di Zeus e di Era. Un altro frammento nominale la conferma per Apollodoro, riguardo alle Erme quadrate, le raffigurazioni plastiche di Ermete detto tetragono per la forma , realizzate nei ginnasi e, su scala minore, nelle stanze private, dove si credeva favorisse i sogni. Apollodoro, F 129 spiegava il fatto come simbolo delle quattro invenzioni del logos: le lettere, la musica, la ginnastica e la geometria. 65 Fl31: Semele =Terra, detta 8EµÉÀ.T\ poiché tutto è fondato (Kma8EµEÀ.10ucr8m) in essa. 66 Fl36a: es. senza genitori poiché è l'universo, m'iv; corna= circoli di sole e luna; volto arrossato poiché imita l'etere; indossa una pelle con macchie = stelle; parte inferiore irsuta= terra; zampogna= venti . Stesse spiegazioni in Com. 27. Su queste e altre caratterizzazioni iconografiche di Pan: Colafrancesco 2001. 67 Rispettivamente SVF II 673, 1 e SVF III, II 33.
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Come spesso accade, Cornuto, 16 riprende questi spunti apollodorei, quando spiega che Ermete è il logos, che è un dio quadrato e che manda i sogni poiché il logos governa la mente. Apollodoro, Fl30 forniva pure, probabilmente, un'etimologia dell'epiteto KuA.A.i)vwç di Ermete basata sulla medesima connessione d e l dio con il sonno, «che tiene le briglie delle palpebre inferiori», KUÌcWV / KUÀaòwv T]vi.aç. Anche qui possiamo rilevare un'ascendenza crisippea, sia per la connessione di Ermete con il sonno, sia per il legame d ell 'epiteto con gli occhi e il sonno, su cui il dio ha potere: Cillenio, "poiché la sua verga ammalia gli occhi degli uomini" ... I Feaci gli offrono libagioni alla sera, "quando al riposo pensano'', non perché porti sogni, ma perché concilia il sonno68. Con ciò, troviamo ancora confermata la linea allegoristica Crisippo -> Apollodoro -> Cornuto.
1.8. Esegesi delle tradizioni cultuali nel De diis: molteplici influssi su Cornuto 1.8.a. Motivazioni teoriche e allegoria di una cerimonia Non solo nomi ed epiteti di dèi, episodi mitologici e rappresentazioni iconografiche, ma anche tradizioni cultuali, riti e oggetti o viventi consacrati a loro sono oggetto dell'attenzione di Apollodoro in quanto espressioni allegoriche della teologia. Questa tendenza abbiamo visto già in Crisippo, SVF II 1009, che addirittura teorizzava «le usanze rituali delle varie città» come una delle forme di trasmissione della teologia, e si ritroverà in Cornuto, come verificheremo, in diversi casi, a ulteriore conferma della continuità della tradizione esegetica stoica che passa attraverso Apollodoro. Ad es. Apollodoro interpreta allegoricamente una strana usanza di una festa di Crono - Saturno nella fonte latina, Macrobio-, in base all'identificazione di Saturno con la semenza, sottesa anche all'etimologia latina di Saturnus da serere, seminare69.
1.8.b. Attributi viventi di Atena, di Posidone e di Asclepio Anche gli animali e le piante attribuiti tradizionalmente agli dèi erano oggetto dell'attenzione di Apollodoro nel De diis, come di quella di Cornuto. Abbiamo avuto occasione di vedere esempi relativi ad Atena, cui è attribuita la civetta per affinità del suo nome con l 'atto di vedere proprio dell'intelli68 SVF III 777. Sono citati Od. XXIV 3 e VII 38. 69 Fll8 = Macr. Sat. I 8, 5: «Apollodoro dice che Saturno sta legato per un anno con lacci di lana e che è liberato nel giorno della sua festa, nel mese di dicembre, e di qui derivò il proverbio secondo cui gli dèi hanno i piedi di lana; significa che nel decimo mese, il seme, che si anima nel grembo materno, cresce per giungere alla vita e, finché non viene alla luce, viene trattenuto dai teneri legami della natura».
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aenza, e a Posidone, allegoria del pneuma diffuso per l'elemento acqueo, cui %sacro il pino poiché vive in zone costiere; altri due attributi sono spiegati non in base all'etimologia o a derivazioni toponomastiche , ma, come già i . suddetti, in virtù di supposte affinità intrinseche con le realtà fisiche di cui gli dèi so~o allegorie: ad es. Rea. è interpretata come .la terra, secondo. un 'identificaz10ne presente anche m Cornuto, 2 e attmta forse propno da Apollodor~, e per 9ue~to l~ è sacra la quercia7~. Anal?ga~ent~'. il s.er~ente, attributo di Asclep10, e spiegato con la facolta curativa di cm il d10 e rappresentazione allegorica: «come esso si spoglia della vecchiaia, così la medicina libera dalle malattie» (Fl38a). Anche in questo caso ritroviamo in Cornuto, 34 una spiegazione fondata su un'identica similitudine tra la muta del serpente e l'operato della medicina. Sono veramente numerosi i frammenti allegorici apollodorei che trovano riscontro in Cornuto. 1.8.c. Attributi viventi di Artemide-Ecate e di Apollo Altri attributi tradizionali di divinità, come quelli vegetali di Artemide tipici della tradizione regionale cretese, dìttamo e lentisco, sono interpretati in relazione a una proprietà della dèa, quella di facilitare i parti (il dittamo li rende rapidi), spiegata a sua volta tramite l'identificazione con la luna (Fl28). Artemide, infatti, era protettrice dei parti in quanto Ilizia (EiÀEi8uw, poiché gira, CÌÀouµévri, e corre, 8foucra, attorno alla terra): questa caratteristica è spiegata allegoricamente anche da Cornuto in riferimento alla luna, con cui Artemide è identificata pure da lui e che fa crescere i piccoli concepiti e li scioglie dalle madri 71 . L'attribuzione delle piante sacre ad Artemide era dunque delucidata da Apollodoro con l'identità di funzione rispetto a quella della luna, che Artemide rappresenta. Se un aspetto di Artemide-luna era l'assistenza alla nascita, un altro era quello più sinistro di -~ Ecate, che comunque anch'essa si identifica con la luna, e che, per :.or Apollodoro, Fl09a, aveva consacrata la triglia, -rpiyÀT], in virtù di una affinità etimologica con le sue tre fasi, essendo la dèa triforme, -rpiµopaÀ:r1piç < cpaA.A.6ç (cfr. Fl09a), o per la bianchezza (cpaA,wv) del seme animale. 76 F354,15. Cfr. Fl09a: l'elemento generatore marino (àcjluT], àcpp'inç o àcjlp6ç) è caro ad Afrodite, che nacque dalla schiuma, àcpp6ç, del mare. 77 F 354,8. La spiegazione apollodorea non coincide qui con quella di Com. 9: «il suo uccello sacro è detto essere l'aquila, per la ragione che questo è il più veloce /acuto dei volatili». 78 C. 35; cfr. Sofocle, Oed. Col. 683; Euforione ap. Schol. Lucan. III 402, ll l Usener (per il cui impiego cfr. Munzel 18830, 10 ss.). 79 A tale esegesi Com. 10 riconduce la denominazione di Erinni = investigatrici (Èpcuvi]'tptat) dei colpevoli, e i loro nomi Megera, Tisifone e Aletto: «è come se il dio avversasse [µeyaipw] i colpevoli e punisse ['tivvuµm] in modo ininterrotto [àÀi]K't(J)ç] le uccisioni compiute da loro», e la loro dimora nell'Ade, «poiché le offese commesse giacciono nell'oscurità» . Anche tali aspetti derivano da Apollodoro, che trattava delle Erinni in connessione con l'Ade nel I. XX De diisvertente sull'Ade (Fl02a) , con un'ampia trattazione sullo Stige trasmessa da Porfirio nel De Styge.: «lo Stige è, per gli
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1.8.f. Piante e animali sacri a Efesto e agli Eroti Che il pino fosse sacro ad Efesto era spiegato da Apollodoro, F354,13 sia ricorrendo a un'associazione immediata con il fuoco, di cui Efesto è allegoria, sia a un 'e timologia: «la pianta del pino è attribuita a Efesto non solo perché prende facilmente fuoco , ma anche a motivo della fiaccola, o~ç, il cui nome deriva da oaico, "brucio", come anche "Hmcr1:0ç deriva da aì'.8i::tv "ardere"». L'interpretazione di Efesto come allegoria del fuoco artefice, ~ meglio di quella parte del dio-natura che ad esso si estende, è già attestata per i Vetero-stoici: «Dio è chiamato Efesto, per lestensione del suo egemonico al fuoco artefice» , in particolare per Crisippo, nel I. I De diiS'>O; che Efesto simboleggi il fuoco , quello meno puro, usato anche da noi, è attestato in F352 : «Usavano chiamare "Efesto" sia questo fuoco che ci presta servigio sia il dio che presiede alle arti che si esercitano grazie a tale fuoco», e in Cornuto, 19, il quale analizza anch'egli etimologicamente il nome del dio in riferimento all'ardore: «l 'etere, fuoco luminoso e puro, è Zeus, mentre quello che si usa ed è mescolato con l' aria è Efesto, il quale ha preso il nome "Hmcr1:0ç dall 'accensione , ~8at» . Una supposta affinità etimologica costituisce anche il motivo dell 'attribuzione della lepre (Àayffiç < ÀaEtv) agli Eroti ('Epcoç < òpav): entrambi i verbi significano "guardare" (F354,l 7).
1.9. Tra mito e storia. Il rito locale e l'interesse per le tradizioni anelleniche Talvolta, anche nello stesso De diis, le consuetudini rituali, specialmente locali , erano spiegate da Apollodoro in chiave più storica che allegorica: ad es. l'usanza ateniese di offrire ad Eracle una mela è ricondotta in Fl15 a un episodio avvenuto in tempi remoti: «una volta era fuggito il bue che avrebbero offerto in sacrificio a Eracle; presero una mela e vi misero sotto quattro bastoncini in luogo delle zampe, due in luogo delle corna, a rappresentare il bue, e così celebrarono il sacrificio». Questa ricerca delle origini di certe usanze, preferibilmente legate al culto, ritroveremo non solo in Cornuto e in Plutarco, ma ripetutamente anche in Conone, di età augustea, un interprete storico-razionalistico del mito che si dimostra erede anche della tradizione allegorica stoica. Un altro episodio storico, o supposto tale, forniva per Apollodoro l'eziologia di un'ulteriore consuetudine rituale ateniese: la festa dei Congi (Boccali) , in onore di Dioniso. Anche qui la citazione è nominale8I. Ma non solo i riti religiosi, bensì anche la toponomastica ateniese legata a nomi divini era oggetto dell'indagine di Apollodoro, dèi che abbiano errato, quello che l'Erinni è per le anime ingiuste» (Fl02cl 3): l'Erinni era anche per Apollodoro la punizione divina che tormenta i colpevoli. 80 SVF II 1021 ; Crisippo, SVF II 1076: «Efesto è il fuoco». 8 l Fl33: «Quando Oreste si recò ad Atene dopo l'assassinio, era in corso la festa di Dioniso Leneo. Perché non offrisse libagioni con ~oro, avendo ucciso la madre, Pandione escogitò uno stratagemma: dopo avere offerto a ogni convitato un bocca-
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ernpre nel De diis, di cui altri due frammenti si collocano fra mito e storia:
~,!'Areopago o "colle di Ares" è un'altura in Atene, come dice Apollodoro nel J. IX De diis, in cui si svolgevano i processi per assassinio, in quanto le uccisioni awengono con il ferro» , e quindi pertengono ad Ares82. Anche un ulteriore dato toponomastico ateniese, l'epiteto di Zeus "Moria", legato a un luogo di culto presso l'Accademia, era spiegato in Apollodoro, grazie anche all'etimologia: in quanto è protettore degli olivi sacri, µopia , piantati presso il tempio di Atena8 3 . Sempre nel De diis, per dichiarata testimonianza delle fonti, Apollodoro forniva altre notizie storico-etimologiche relative ad Atene e ai suoi abitanti, ad esempio informando in Fl06 che essi «si chiamarono «autoctoni» poiché per primi avrebbero lavorato il terreno, xewv, ossia la terra, che prima era incolta», o fornendo notizie anche etimologiche sulle antiche tavole rotanti (Kup~nç) che recavano incise le leggi84. Apollodoro analizzava poi il particolare rito ateniese di recare focacce in una fiaccolata fino al tempio di Artemide, spiegando etimologicamente in Fl52 pure il nome di queste focacce speciali: àµcptcpmvtEç, poiché le portavano piantandovi tutt'attorno, àµcpi, delle fiaccole accese (cpwç) . Un'ultima usanza era spiegata con una credenza: «Facevano risuonare oggetti di bronzo nelle eclissi di luna e per i morti, poiché ritenevano che il bronzo avesse proprietà purificatrici ... come dice Apollodoro nel De diis», FllOa. Nei frammenti visti Apollodoro si occupava pressoché sempre di usanze e di toponimi ateniesi, che evidentemente rientravano maggiormente nelle sue conoscenze. Questo, tuttavia, non esclude un'attenzione particolare anche per le tradizioni religiose più lontane. Sembra infatti emergere in lui pure un interesse per l'allegoresi del mito egizio, quale vedremo nello stoico Cheremone e in Cornuto, che considera veritativo anche il mito non greco, forse per influsso posidoniano: che gli dèi egizi fossero in realtà esseri umani dimostrano anche ~,-~ gli Egizi più dotti, i quali, sostenendo che siano dèi l'etere, la terra, il cielo, ritengono tuttavia che gli altri fossero mortali, e considerarono sacre le loro sepolture (Fl04). le di vino, li invitò a bere senza mescolare nulla gli uni con gli altri, cosicché Oreste né bevesse dallo stesso cratere, né si sdegnasse di dover bere da solo. Da allora fu istituita dagli Ateniesi la festa dei Congi». 82 F94. Il collegamento è con il valore allegorico del dio, che già per Crisippo, SVF II 1076, 1094, simboleggiava «la guerra e le schiere contrapposte» e «l'impulso combattivo e irascibile», in base all 'etimologia da àvmpétv, «distruggere, uccidere », accolta da Com. 21, che vede simboleggiata in Ares l'istigazione degli animali gli uni contro gli altri e il giudizio delle armi. Apollodoro, che di Crisippo era allievo di un allievo, si allineava a questa tradizione. 83 Fl20. Sul significato allegorico della consacrazione dell'olivo ad Atena offrirà lumi Com. 20. 84 Fl07a: «Erano pietre poste in piedi, cosicché, dalla posizione verticale [cri:acrtç], furono chiamate crTI;Àm, "stele", mentre dall'estensione in alto, poiché si elevavano [KEKOpu~wcr8m], le chiamavano Kup~Etç ... ». Per le leggi di Solone cfr. Holkeskamp, 1999, part. c. 4.
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1.1 O. Il valore filosofico dei poeti nel l. XX De diis relativo al! 'Ade Al pari di Crisippo, Apollodoro citava spesso i poeti a illustrazione delle proprie tesi esegetiche, in un passo in cui faceva ampio uso dell'etimologia, come nelle sue osservazioni sui fiumi dell'Ade, nel I. XX De diis85. Qui, il nome dell'Acheronte era fatto derivare dalle angosce, ax11, e a conferma erano citati tre passi poetici86. Quindi, esso era identificato con la palude acherontica, e a dimostrazione di ciò era citato Sofocle che nella Polissena fr. 480 N2 fa dire all'anim~ di Achille: «Dopo avere lasciato le sponde tristi'. nere e profonde della palude, giunsi alle impetuose correnti d'Acheronte, echeggianti di gemiti che acuti rimbombano», laddove «sponde tristi» (ànairovec;) indica quelle dei morti, che non hanno peana (nmcùv), e «correnti impetuose» (èipcrevec;, lett. «maschili») quelle che non nutrono nulla87. L'attraversamento dell'Acheronte da parte dei morti aveva anch'esso valore simbolico: «chi, infatti, è morto si è lasciato alle spalle tutte le angosce (èiXTJ) della vita ed è in una condizione di assoluta mancanza di affanni e di dolori». Il nome della mitica moglie di Acheronte, Gorgira, viene dal fatto che la sede dell'Ade generalmente appare orrenda (yopya), e a questo si riferisce anche il nome della balia di Ade in Sofrone, fr. 9 Kaibel: Mormolica, «spauracchio». Anche il nome Litui; deriva dal fatto che ci si rattrista (crtuyvaçeiv) per i lutti e che si ha orrore (crtuyecr8m) per la sede dell'Ade; KroKutoc; dal verbo K(l)KUEtv, «lamentarsi, gemere», e Tiupt(j>ÀEyÉ8rov dal fatto che i morti bruciano nel fuoco (nupì (j>ÀÉyecr8m) . Per illustrare quest'idea, Apollodoro citava Od. XI 218-21, che assimila le anime, quando la vita s'è «dileguata come sogno», alle parvenze sugli specchi e sulla superficie dell'acqua, le quali ci somigliano e imitano i nostri movimenti, ma sono prive di consistenza, ragion per cui Omero le chiama «simulacri di mortali trapassati» (Od. XI 476). Il lungo prosieguo di questo frammento apollodoreo si compone anche di altre sezioni, derivate per lo più da Stobeo anche attraverso Porfirio, in 85 Fl02 da Porfirio , De Styge, una delle più note opere allegoriche d i Porfirio, con il De antro Nympharum: i frr. sono raccolti in Smyth 1993, F371-80. Cfr. es. Simonini 1986; Sellew 1989; Penati 1985, 1988; Lamberton 1986: l'allegoresi in Porfirio e la sua critica a quella cristiana (es. Rinaldi 1982; 1998, I, 119 ss.; Ruggiero 2002, 13550) sarà ripresa in un lavoro a parte. 86 Melanippide, Persefone, fr. 3B4: «E angosce suscita, nel seno della terra, I ai mortali Acheronte, riversandosi», e due d i Licinnio: «Acheronte, stillando in fonti innumerevoli, riempie di angosce [àxfoiv] ,, ; «Acheronte, che ai mortali angosce arreca,, (frr. l-2B4). 87 Qui Apollodoro spiegava che allegoricamente gli antichi chiamavano «femminili» gli esseri che portano frutto, «maschili» quelli che non generano, in quanto l'elemento maschile si limita a fornire la semenza, mentre quello femminile nutre anche: di qui pure lespressione «rugiada femminile » (Od. V 467), in quanto genera e nutre.
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cui Apollodoro discuteva minuziosamente le realtà dell'Ade, le ripartizioni delle anime e simili, soprattutto in base a Omero88. Non manca una polernica contro Aristarco quale esegeta di Omero in materia di aldilà: A.pollodo;o interpreta un passo odi_s~iac_o8 9 _n el senso che ~rade, stando al di fuori dell Acheronte, pumrebbe gh mgmsu, producendo m loro spaventose irnpressioni di sé che scaglia proiettili e tira con l'arco, così da «combattere anche nell'Ade, come quando era vivo, contro quanti sono degni di punizione. Infatti, non fa certo parte anch'egli di quanti vengono puniti, come invece riteneva Aristarco, ma di _q uanti puniscono». Tale dissidio esegetico è significativo in quanto vedremo che Cratete, allegorista di matrice stoica e ornerista pressoché contemporaneo di Apollodoro_, si trovò spesso in disaccordo con Aristarco, proprio sull'esegesi omerica. E importante rilevare che i punti frj di questo lunghissimo frammento del I. XX De diis sono costituiti dalle sezioni relative all'Ade nei trattati allegoristici di Cornuto, 35 e di 88 Ad es. Fl02c: la sede dei beati è confermata dall'esegesi di campi Elisi (Od. IV 561 -68). Si nota attenzione speciale alla poesia, le cui citazioni si moltiplicano: es. per spiegare perché le anime dei morti in Omero acquistino coscienza dei fatti terreni se bevono sangue, Apollodoro adduceva la convinzione di Omero e di molti successivi che nel sangue sia ìnsita per gli uomini la coscienza delle realtà mortali, citando Empedocle, fr. 21B 105D.: «per gli uomini il sangue è intelletto che ha sede nel cuore». E per mostrare che gli insepolti dimorano fuori dall'Acheronte e sono dotati di una parvenza di corpo e di vesti simili, citava l'apparizione di Patroclo defunto in Il. XXIII 65-67, 71 (« ... Seppelliscimi: al più presto potrò attraversare le porte dell'Ade»). Numerosi altri vv. omerici erano citati a dimostrazione delle condizioni dei defunti nell'Ade, e l'esegesi era condotta spesso con l'etimologia: ad es. il nome del giudice Minosse dalla circostanza «che lì rimangono, µi.µvi::tv, quanti giungono laggiù» (F102g) . .. 89 In Eraclito, oltre alle etimologie dei fiumi infernali, coincidenti con quelle'' • apollodoree, troviamo le etimologie e le allegoresi di Ade (' Ai.oriç, da a priv. + radice iO-, "vedere": luogo invisibile) e Persefone (i::pcri::, per Ar. «semovente, natante». L'agg. aoopot, «invisibili" (le gambe di Scilla, Od. XII 89) per Ar. è «Senza cosce,,, per Cr. F60 «inevitabili" (ion. «Coscia» = wpri/ wpaia; «evitare» = cbpiJGEtv); in «lo trascinarono Koupil;», Od. XXII 188, per Ar. l'aw. vale «prendendolo per la chioma» (Koupci, «testa»), per Cr. F70 «al modo di giovani» (KOupot, «giovani»). In µÉA.av 8pu6c;, «tronco di quercia,,, Od. XIV 12, per Ar. µÉA.av è «corteccia», per Cr. F63 µEA.civòpuov è il folto del fogliame. In Od. XVII 225; XVIII 74, l'Émyouviç è per Ar. la parte sopra il ginocchio, per Cr. la sommità della spalla; in Il. XXI 323, Cr. F31 legge 1uµPox6ric;, «di terra versata»; Ar. 1uµPoxoiìd, «Che si versi un tumulo». A livello testuale più che lessicale, in Od. IV 260, Ar. legge T\ori, «già", Cr. F42 scinde in ~ òiJ, «in verità, dunque», e così numerose altre divergenze tra i due sulle varianti testuali: es. in «impedendogli di muoversi», Od. XIX 229, A.cioov è per Ar. come àrcoA.auoov, «traendo vantaggio»; per Cr. F66 vale «vedente», da cui àA.a6ç, «cieco»; in Il. XI 754, «li inseguimmo, allora, per la vasta (òtà GrctoÉOç)
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uggerito da Plutarco, De audiendis poetis, 33Css., per certi passi poetici imbas azzanti. Ad es. Zenodoto intervenne su Il. III 421-27 editandone una ver~ione abbreviata, per owiare alla sconvenienza che Afrodite porti una sedia all'adultera Elena.
2.13. Cratete stoico e "critico". Convergenze di interessi con Filita Il contrasto esegetico su Omero tra Cratete e gli allegoristi stoici, da un lato, e, dall'altro, Aristarco e i filologi alessandrini si rileva in tanti particolari: ad es. Odissea peregrinò secondo Aristarco nel mare interno (Èv TIÌ ifow eaA.cim:n;i), secondo Cratete in quello esterno ( Èv TIÌ E.l;w) 222. Anche questo rientra nell'attribuzione delle più varie dottrine a Omero da parte di Cratete, di cui si potrebbero fornire numerosi esempi oltre a quelli già visti. Così, in armonia con le proprie convinzioni esegetiche, Cratete223 attribuì a omero anche la dottrina, da lui stesso professata, della divisione simmetrica dell'ecumene tra uomini noti, perieci, anteci e antipodi224 . Secondo Cratete, Menelao, in Omero, sarebbe giunto per mare, passando per lo stretto di Cadice, fino in India, non circumnavigando l'Africa, ma procedendo sempre verso occidente225. Cratete considera Omero esperto. anche di geopianura», per Ar. (in base a Eschilo) omòfoç è «grande, lunga», Cr. Fl5 legge òi àcrmMoç, «ricca di scudi/a forma di scudo»; in Il. XXIV 253, nell'insulto di Priamo ai figli Ar. legge KatTJ~OVEç, «poltroni», Cr. F 35 scrive KaTI]~ÉEç, «tristi». Divergenze esegetiche sono attestate anche rispetto a Zenodoto (Pusch 1890): es. l'agg. 'l~9tµot (i Lestrigoni in Od. X 118-19) per Cr. F51 vale «malvagi», per Z. «valorosi». Il caso più interessante di discrepanza di lettura fra Cr. e Ar. è uno che comporta una conseguenza diretta sul piano dell'allegoresi del mito. In Il. XV 365 Apollo è invocato con l'epiteto Tj'iE, che Ar. pronunciava con aspirazione, f\tE, interpretandolo «arciere», dal lancio (i:crtç) dei dardi; Cr. F23 senza aspirazione, intendendo «guaritore», dalla cur • ('lacrtç). Entrambe le caratterizzazioni sono presenti negli allegoristi stoici, da Apollodoro a Cornuto a Eraclito, in base all'identificazione Apollo-sole: ad es. per Apollodoro F99a Apollo «è arciere poiché invia i suoi raggi come da un arco», e così per Eracl. 6-7; per Com. 32 parimenti «presentarono Apollo e Artemide come arcieri, alludendo all'emissione dei raggi fin lontano» e la funzione guaritrice sarebbe attribuita ad Apollo per eufemismo (il sole causa epidemie) , per Apoll. F95 «poich é il calore temperato del sole determina l'allontanamento di tutte le malattie». In Cratete dunque i motivi filologico-testuali si intrecciano con quelli filosofico-allegoristici. Cratete si occupava anche dell'interpretazione del testo di Platone, ad es. intervenendo (Fl24) sulla corretta lettura del ricorrente~ 8' oç, «ed egli disse•>. 222 F77 =A. Cellio, NA XIV 6; cfr. Wachsmuth 1860a, 29. Cfr. Buonajuto 1996. Viaggi d'Odisseo: es. Hartog 1996; Revelli 2001; de Jong 2001. 223 Commentando Od.I 23; X 86; XI 19; XII 1 e 236. 22 4 Lo dimostra Wachsmuth 1860a, 24-25. Cfr. Strabone, I 5; Cleomede, Astronomica, 1-20 B. 225 F40 = Strab. I 2, 31; per le idee degli antichi sull'India e su come giungervi docum. in Dognini-Ramelli 2001, part. cc. I-II e passim.
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grafia astronomica: commentando Il. XI 32, dichiara che egli conosceva i cinque «Circoli» celesti - polare artico, tropico del Cancro, equatore, tropico del Capricorno, polare antartico - , nonché i coluri, la Via Lattea, lo Zodiaco, l'orizzonte. Analogamente, abbiamo visto che, analizzando Od. XII 62, egli attribuiva a Omero dottrine astronomiche sulla costellazione delle Pleiadi, e gli ascriveva la concezione stoica della notte quale ombra della terra226. Abbiamo anche visto quanto fossero interconnesse le scelte grarnmaticali ed esegetiche nel contrasto fra Stoici e Alessandrini. Lo stoico Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, fu maestro di Cratete secondo molti moderni: il dato non è corroborato da fonti antiche, se non dal fatto che Diogene diresse la Stoa ad Atene nella prima metà del II sec. a .C., quando Cratete poté averla frequentata227. Diogene comunque, oltre che dell'allegoristico De Athena, fu autore di una teoria linguistica ispirata ai principi stoici nel IIEpì roviìc; (SVF III, II 17 ss.); si occupava di fonetica, digrammatica, di retorica nel De rhetorica e di logica nel De arte dialectica228. L'interesse linguistico di Diogene, e in generale degli Stoici, per i quali esso rientrava nell'interesse per la logica229, si riflette anche in Cratete. I Fl02-1 05, derivati per lo più da Varrone, riportano ampi passi di suoi studi linguistici, in cui egli discuteva, in polemica con Aristarco, la questione dell'analogia o anomalia nella declinazione nominale, prendendo in esame, si noti, anche lingue non greche come quella dei Persiani o dei Galli: segno di un interesse per le altre culture - come la già vista etimologia di ~riMc; dal semitico Bel che, accennato in Crisippo, si farà consistente con Posidonio e in campo allegorico-etimologico farà stimare agli Stoici Cornuto e, specialmente, 226 Commentando Il. X 394. Eraclito, ispiratosi a Cratete nelle sue Allegoriae Homericae, presenta anch'egli Omero come competente in tante discipline, specialmente astronomia e fisica: ad es. avrebbe conosciuto la data esatta delle eclissi (75), la dottrina dell'armonia delle sfere ( 12), la classificazione dei fenomeni sismici (38) . Cfr. Buffiè re 1956, 204-5; 1962, XXVII (e qui infra cap. VIII). Senza attribuire espressamente tali conoscenze a Omero, come farà anche lo Ps. Plutarco, l'allegorista stoico Cornuto, 35 ripeterà che gli antichi, tra cui Omero era il principe, «erano in grado di comprendere la natura del cosmo e di filosofare su di essa in simboli ed enigmi». È probabile che tra i precedenti filosofi di tradizione allegoristica stoica che egli menziona, da cui «questi insegnamenti furono esposti più estesamente», Cornuto avesse in mente anche Cratete. 227 Non è certo che Cratete fosse discepolo di Diogene: cfr. già Wachsmuth 1860a, 3. 228 Es. frr. 17-20 (fonetica); frr. 21-22 (grammatica); frr. 24 e 91-126 (retorica) frr. 25-26 (logica). 229 Diog. L. VII 44: «l'altra ripartizione della dialettica è quella relativa al linguaggio, al cui interno si può indicare il linguaggio scritto e quali sono le parti del discorso, e a proposito di solecismi, barbarismi, espressioni poetiche, ambiguità, espressioni melodiose, musica e·definizioni, secondo alcuni, distinzioni e stili espressivi»; 83: «gli Stoici fanno rientrare nella logica la dottrina sulla correttezza dei nomi». Cfr. Wachsmuth 1860a, 8-9.
ESEG
ES! STOICA IN ETA' ALESSANDRINA
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cheremone anche i miti e i nomi degli altri popoli, in particolare l'egizio230. Importante appare soprattutto la posizione teorica di Cratete sul! ' espre s·one linguistica23 1: egli sostiene la necessità di fondare lo studio gra mmatis~le sulla logica e di inserirlo in un quadro filosofico, diversamente dagli Nessandrini. Attesta Sesto Empirico: .. . Cratete diceva che il critico [KptttK6ç] si differenzia dal filologo [ypaµµattK6ç]: e afferma che il critico debba essere esperto di tutta la scienza logi,ca [m:imiç ÀOyt> 1 e interpreta Cerbero come un serpente velenoso chiamato «il cane di Ade »2: troviamo qui uno dei procedimenti esegetici che saranno più cari ai Palefatiani, quello giocato su un nome proprio che è interpretato come comune e, in base a tale fraintendimento, produce un mito. Inoltre, Ecateo cerca di razionalizzare il mito di Gerione3. Acusilao di Argo4 fa dipendere la morte di Eracle non dalla carni1 Ecateo, FGH 1 F 1. Cfr. ad es. Porciani 2001 e qui supra, c. I: razionalizza il mito di Danao. 2 Ecateo, FGH 1 F 27. Su Ecateo esegeta del mito anche Verlinsky 2000. 3 Ecateo, FGH 1 F 26. 4 Acusilao, FGH 2 F 32.
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gica, lo Stoicismo concilia la teologia filosofica, ch e n ella fattispecie si risolve nella fisica e tende al monoteismo, e la religione tradizionale, di cui accetta i miti e i riti, ma letti alla luce della ragione. In un'epoca in cui ormai gli intellettuali non credevano certamente più ai miti presi alla letteral59, l'allegoresi stoica permetteva di "salvare" tale patrimonio religioso, le tterario e rituale, di mantenere le forme della pietà e della devozione, conferendo loro una consistenza filosofica. Naturalmente, questa soluzione poteva risultare adatta per gli Stoici e non per altri filosofi, e anzi, tra gli Stoici, n emmeno per tutti: a maggior ragione, dunque, poteva non essere accettata da sistemi di pensiero la cui teologia non fosse immanentistica, o da quelli che, com e gli Epicurei, rifiutavano senz'altro la religione tradizionale che tantum potuit suadere malorum. Vedremo ad es. da parte epicurea le critiche di Filodemo e di Lucrezio, da parte stoica quelle di Seneca, da parte neoaccademica quelle di Cicerone, soprattutto nel discorso di Cottal60. Q u esti, polemizzando in De natura deorum, III 39-64, come l'epicureo Velleio, con lo stoico Balbol61, ricusa in quanto superstiziosa l'esegesi allegorica che identifica con divinità non solo i corpi celesti e le realtà naturali (ib. 20, 50-51 ) , ma anche virtù morali e intellettuali (24, 61) : insomma, rifiuta l'allegoresi sia fisica sia etica. In particolare, sostien e ch e l'interpretazione degli dèi come doni divini deificati es. Cerere come grano, Libero come vino - sia un'illecita trasformazione di pure metafore in sostanze reali ( 41) e che, analogamente, le personificazioni di virtù morali e di passioni siano «mere astrazioni, non divinità personali» (61). Egli coglie anche n ell'etimologia, la enodatio nominum, un metodo importante usato dagli Stoici ai fini dell'esegesi allegorica d ei miti, della explicatio fabularum, riportandone esempi per ribadire che si tratta di una metodologia illegittima, che vanifica gli dèi tradizionaJi162. Anche l'epicureo Velleio si mostra critico nei confronti dell'esegesi allegorico-etimologistica (36-43): abbiamo visto come sostenga che si tratta di una prassi sostanziaisiamo sia suoi soci sia sue membra»; Ep. 91, 4: «Dio è ... con te, è dentro di te», tecum est, intus est. Anche Musonio parla del divino come «Zeus» o «dio» in modo abbastanza interscambiabile, senza mostrarsi troppo interessato alle altre divinità; Zeus/ 8e6ç, Giove/ deus tendeva ad essere concepito come la suprema divinità di cui le altre sono manifestazioni parziali: cfr. Ramelli 1997, 200ld. l59 Lo mostra il discorso dell'accademico Cotta, portavoce di Carneade, nel I. III De natura deorum di Cicerone, in risposta all'argomentazione di Balbo, nel I. II, in favore dell'esegesi allegorica. Cfr. qui infra. 160 Critiche neoaccademiche: Pépin 1958 138-43; epicure: ibid. 132-38 e qui infra. l6I Discorsi di Balbo e Cotta nel II e III I. e loro fonti: qui infra e Hirzel 1877, 191 ss. e a tutto il voi. per le fonti del De natura deorum. Critica all'allegoresi in questi discorsi: Dawson 1992, 52-56. Posizioni allegoristiche di Balbo in De natura deorum, II 63-64, 70-71. 162 Cicerone, De natura deorum, III 24, 62 ss.: è il già citato passo di SVF II 1069.
L'ESEGESI STORICO-RAZIONALISTA
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dei pirati (I 4. 8) 9 . Tucidide, tuttavia, non polemizzava apertamente con il mito da lui storicizzato, come invece sembra aver fatto Erodoro di Eraclea tra V e IV sec. a.C., autore di un «discorso su Eracle», il quale rivisitò il mito di Prometeo, razionalizzandolo e giocando anch'egli sul doppio significato di un nome, àc1:0'llcri::wç di Epicuro fonte di Lucrezio di Sedley 1998; Lucrezio poeta didascalico: Milanese 1989a; Rozelaar 1989; Romano 1995; Gaie 2001 ; rapporto col mito: Id. 1994, con il culto: Ot6n 1993. 95 Lucrezio, De rerum natura, II 655 ss.: Hic si quis mare Neptunum, Cereremque vacare/ constituet fruges, et Bacchi nomine abuti/ mavolt quam laticis proprium proferre vocamen,/ concedamus ut hic terrarum dictitet orbem/ esse deum Matrem, dum vera re tamen ipse/ religione animum turpi contingere parcat, tr. Canali 1989, 149.
96 Si vedano i frr. 336-40 Usener, e nn. di Ramelli 2002c. Etimologia in Lucrezio: Gaie 200lb. 97 Atque ea nimirum quaecumque Acherunte profundo/ prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis, w. 978-979; tr. Canali 1989, 234. Lucrezio critica la religione popolare: Lorca in Giannantoni 1996. Sul valore d religio in Lucrezio: Salem 1994. 98 «Paralizzato dal vano spavento , il povero Tàntalo/ non, com 'è fama, il gran masso teme che incombe dal cielo;/ piuttosto opprime l'inutile superstizione i viventi,/ e teme i colpi, ciascuno , della sventura ... Chi viene ,/ schiavo d'amore, straziato
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Né vi son già né potrebbero esservi, dove che sia, I le Furie e Cerbero e i luoghi pieni di tenebre e il Tartaro I che erutta dalle sue fauci lo spaventevole fuoco. I Ma c'è il terror delle pene qui nella vita, maggiore I quanto magiore è la colpa, ed il castigo del fallo, I il bagno, e l'orrido lancio giù dalla rupe, le verghe, I la pece, il boia, le torce, il cavalletto, le piastre: I e s'anche mancano, l'animo, conscio dei falli, in anticipo, I applica a sé quei tormenti, si strazia con i rimorsi, I né scorge intanto qual termine possano avere i suoi mali, I né quale fine, alla fine, avranno le sofferenze, I e teme ch'essa si debbano far, con la morte, più gravi». Lucrezio conclude: « COSÌ la vita diventa qui, per gli stolti, un inferno99. Un'attestazione parallela si trova nel fr. 341 Usener, dove LattanziolOO ricorda la medesima interpretazione dei miti dell'Ade, attribuendola direttamente a Epicuro, in contrasto con Zenone: Epicuro afferma... che le pene degli inferi non sono da temere, poiché le anime dopo la morte periscono e non esistono affatto degli inferi ... Lo stoico Zenone insegnò che gli inferi esistono e che i luoghi destinati ai pii sono separati da quelli degli empi. E i primi, in effetti, abitano regioni tranquille e dilettevoli; i secondi, invece, scontano le loro pene in luoghi tenebrosi e in orrende voragini di fango. Lo stesso a noi rivelano i profeti. Dunque, sbagliò Epicuro, il quale ritenne che questo fosse un'invenzione dei poeti e, nella sua interpretazione, identificò tali pene degli inferi con quelle che si devono sopportare in questa vita. Anche Seneca101 attesta che Epicuro riteneva destituiti di fondamento i miti relativi all'Ade, e al contempo manifesta il proprio scetticismo verso tali racconti: Non sono tanto ingenuo da recitare, a questo punto, la filastrocca di Epicuro, e da dire che il timore degli inferi è infondato, e che dagli avvoltoi, chi vien roso/ dall'angosciosa inquietudine e dilaniato dai triboli/ d'una qualunque passione, è quello Tizio per noi. / Abbiam sott'occhio anche Sìsifo qui nella vita: chi agogna/ aver dal popolo i fasci e le terribili scuri,/ e si ritira ogni volta vinto e scornato. L'ambire,/ cosa illusoria, il potere che non è mai conseguibile,/ e sopportare per esso sempre una dura fatica, / questo, in effetti, significa sforzarsi a spingere in alto,/ sul monte, il masso che rotola di nuovo giù dal cocuzzolo/ e in un baleno precipita al fondo nella pianura./ E il sempre pascere l'animo per sua natura insaziabile/ e il ricolmarlo di beni senza che mai se ne sazi,/ come nel giro dell'anno fanno per noi le stagioni,/ quando ritornano e portano svariati frutti e diletti/ senza perciò che la vita coi doni suoi ci contenti,/ è ciò che fanno, mi pare, le rigogliose fanciulle/ che ... stipano l'acqua nel vaso forato, / che in nessun modo per altro non se ne può riempire». Cfr. Marincic 1994. 99 Hic Acherusia fuit stultorum denique vita, v. 1023; tr. Canali 1989, 235. 100 Lattanzio, Inst. III 17, 42 e VII 7, 13. 101 Seneca, Ep. 24, 18 = fr. 341 Usener.
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la ruota di Issione non gira, e che il masso dalle spalle di Sisifo non sia spinto in direzione opposta, né che le viscere di qualcuno possano rinascere ogni giorno e ogni giorno essere sbranate. Nessuno è tanto puerile da avere paura di Cerbero e del buio e dell'aspetto di fantasmi ridotti a nude ossa. Vedremo che in effetti Seneca, a differenza di altri Stoici suoi contemporanei come Cornuto o Cheremone, si mostra piuttosto critico nei confronti dell'esegesi allegorica del mito, sebbene questa fosse per lo più di matrice stoica. La sua posizione sembra awicinarsi, piuttosto, a quella dell'accademico Cicerone, che stima le critiche epicuree ai miti dell'Ade addirittura inutili, poiché nessuno può essere tanto stolto da creder a tali frottole: Ci sono interi libri di filosofi [epicurei] che discettano contro questi stessi discorsi. Quanto mai inopportunamente. Chi è, infatti, tanto fuori di sé da lasciarsi influenzare da tali ragionamenti?l02. L'esegesi di Lucrezio dei miti relativi all'Ade è ricondotta da Pépinl03 a quella storico-razionalistica di Evemero, "importata" a Roma da Ennio, autore che anche Cicerone ha ben presente e cita spesso nelle opere filosofiche. Inoltre, lo studioso accosta il passo lucreziano a una favola di Fedrol04, in cui è presentata un'analoga esegesi etica dei vari supplizi dell'Ade. Si tratta dunque di concezioni ormai diffuse.
2.4. Orazio Come Lucrezio, anche Orazio, un altro poeta di tendenze epicureizzanti che si definisce porcus de grege Epicuri nell'Ep. I 4, 16 e che, similmente a Virgilio, ammira l'autore del poema De rerum natura105, interpreta non gli dèi del mito, che egli non tocca, ma diversi altri personaggi mitologici in senso puramente etico. Egli applica così una certa forma di esegesi allegori- • ca, seppur lontana da quella stoica e simile piuttosto a quella lucreziana dei supplizi dell'Ade. Ad es. la leggenda di Danae, alla quale, rinchiusa dal padre Acrisio, Giove si unì sotto forma di pioggia d'oro, allude secondo Orazio al potere dell'oro di aprire tutte le portel06. Così, Tantalo rappre102 Cicerone, Tusculanae, I 5, 10-6, 11, spec. 6, 11; cfr. anche ibid. I 21, 48. 103 Pépin 1958, 173-75. Lucrezio e l'interpretazione del mito: Neumeister 1997. 104 Fedro, App. I, fab . 5. A Roma il mito sarà interpretato in senso, oltre che allegorico, anche politico e attualizzante: fra l'ampia bibl. cfr. solo Champlin 2003; per l'epica: Goldberg 1995. 105 Epicureismo di Orazio: Erler 1994, con ampia bibl. 373-75; Lebek 1981, 203192; Ferri 1993, 11; West 2002, per cui non è incompatibile con l'ideologia augustea di Carmina, III. Ammirazione di Orazio e di Virgilio per Lucrezio: Morford 2002, 12526; elementi epicurei ibid. 136-46. Maurach 2001, part. 55-1 24 (Sat. I-Il); 125-296 ( Carm. I-III).
106 «Una torre di bronzo e porte solide/ e di vigili cani irosa guardia/ ben difendean la prigioniera Danae/ da notturni amatori, I I ma pur d'Acrisia, carceriere tre-
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senta l'avaro che non gode delle sue ricchezze, come se fossero dipintel07, e Orazio avvisa il lettore che il mito lo concerne direttamente, se interpretato in senso morale, poiché è sul suo conto che è raccontato: Tantalo cerca, assetato, di bere le onde che sfuggono - I Perché ridi? È di te che, sotto un altro nome, I il mito sta parlando. Tu dormi sopra a sacchi I ammucchiati dovunque, nella brama, e I ti obblighi a non toccarli, come fossero I sacri, o a goderne come di dipinti. / Non sai a che mai servano i soldi, che uso abbiano? 108. Anche Agamennone che rifiuta la sepoltura di Aiace, mentre sacrifica follemente la figlia, indica l'ambizione che può condurre all'empietàl09. La critica al sacrificio di Ifigenia è tutta epicurea e richiama il celebre passo di LucreziollO in cui tale episodio, subito dopo l'elogio di Epicuro come libepido/ della rinchiusa vergine, si risero/ Venere e Giove: aperto è il varco e facile/ a un Dio converso in oro!/ I L'oro ama entrare fra le guardie e rompere/ mura, più formidabile del fulmine ... Poco bramando, accrescerò ben meglio/ il piccolo mio reddito,/ I che unendo al !idio regno il suol migdonio./ A chi vuol molto, molto manca. L'ottima/ sorte ha colui cui diedero il bastevole/ gli dèi con parca mano»: Orazio, Carm. III 16, i versi iniziali e finali dell'ode (tr. Vitali 1985, 255-57). Inclusam Danaen turris ahenea/ robustaeque fores et vigi,lum canum/ tristes excubiae munierant satis/ nocturnis ab adulteris,// si non Acrisium, virgi,nis abditae/ custodem pavidum, Iuppiter et Venus/ risissent; fare enim tutum iter et patens/ converso in pretium Dea!// Aurum per medios ire satellites/ et perrumpere amat saxa, potentius/ ictu fulmineo ... Contracto melius parva cupidine/ vectigalia porrigam,// quam si mygdoniis regnum Alyattei/ campis continuem. Multa petentibus/ desunt multa. Bene est cui Deus obtulit/ parca quod satis est manu. 107 Orazio, Sat. I 1, 68-72: Tantalus a labris sitiens fugentia captati flumina - quid rides? mutato nomine de te/ fabula narratur: congestis undique saccis/ indormis inhians et tamquam parcere sacris/ cogeris aut pictis tamquam gaudere tabellis./ Nescis quo valeat nummus, quem praebeat usum?. Tr. mia. 108 lbid. w. 69-70. 109 «Quando uccide agnelli innocenti, Aiace è pazzo; tu, invece,/ quando commetti un delitto, ben lucido, per vani onori,/ sei ben sano di mente, e hai il cuore, gonfio, libero da errori? ... / Che dire: se uno offre in sacrificio/ la figlia, in luogo di un'agnella muta,/ è egli sano di mente? Non diresti. Dunque, dove/ c'è malvagia stoltezza, è follia somma;/ chi commette un delitto, è anche pazzo./ Chi da fama, che al vetro assomiglia,/ si sia fatto circuire, a costui/ tuona attorno Bellona, compiaciuta di sangue»: Orazio, Sat. II, 3, 187-223, tr. mia. Riporto solo alcuni w. salienti: Aiax immeritos cum occidit desipit agnos:/ cum prudens scelus ob titulos admittis inanis,/ stas animo et purum est vitio tibi cum tumidum est cor?... Quid, siquis gnatam pro muta devovet agna,/ integer est animi? Ne dixeris. Ergo ubi prava/ stultitia, hic summa est insamia; qui sceleratus,/ et furiosus erit; quem cepit vitrea fama,/hunc circumtonuit gaudens Bellona cruentis. 110 Lucrezio, De rerum natura, 83-101. Tr. Canali 1989, 51-53: Quod contra saepius illa/ religi, o peperit scelerosa atque impia f acta./ A ulide quo pacto Triviai virgi,nis arami Iphianassai turparunt sanguine foede/ ductores Danaum delecti, prima virorum ... sed casta inceste, nubendi tempore in ipso,/ hostia concideret mactatu maesta parentisi exitus ut classi felix faustusque daretur. Cfr. Perutelli 1996; Morford 2002, 115. Orazio, Ep. I 2, 1-32.
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ratore degli uomini dalla superstizione, è portato ad esempio d elle scelleratezze che la stessa superstizione può indurre a compiere: Più di una volta la superstizione I fu proprio lei che produsse gli empi ed orrendi misfatti. I Nel modo che orribilmente contaminarono in Aulide I l'ara alla vergine Trivia col sangue d'Ifigenia I i condottieri dei Greci, gli eletti, il fior degli eroi ... Dopo la toccante descrizione della spietata uccisione della delicata e innocente fanciulla, il poeta osserva che ella cadde «pura, impuramente», casta inceste, ossia empiamente, «per mano del padre ... onde si desse alla flotta fausto e felice il passaggio ». Lucrezio commenta infatti con il celebre verso: tantum religio potuit suadere malorum, «indurre a sì gran misfatto poté la superstizione». Indubbiamente, dunque, Orazio si richiamava a questo passo lucreziano nella propria rievocazione del mito di Ifigenia. Ulisse, infine, è interpretato da Orazio sia come il viaggiatore curioso sia come il saggio che supera le prove impostegli. Anche questo personaggio conosce una lunga storia nell'esegesi allegorica del mito.
3. Un cenno a Filone e a Flavio Giuseppe Anche se non è questa la sede per occuparci dell ' esegesi allegorica giudaico-alessandrina, che ha come principali protagonisti Filone di Alessandria e Aristobulo, tuttavia per completare il quadro degli allegoristi agli inizi ormai dell'età imperiale è doveroso un accenno a Filonelll e a un altro Giudeo ellenizzato del I sec. d.C., Flavio Giuseppe , le cui rispettive posizioni sembrano divergere. Il presupposto dell'applicazione di un'esegesi allegorica alle Scritture consiste nella presenza in esse di parti scritte secondo verità e altre secondo opinione: questa tesi è espressa da Filone in un passo in cui Pépin ravvisa, accennavo, l'eco della distinzione di piani di verità e di opinione individuati in Omero da Antistene e da Zenone: Queste sono le due modalità espressive di tutta la Legge: una è quella che inclina verso la verità [àÀ118éç] : secondo questa è dichiarato: "Dio non è come un uomo"; l'altra è quella che inclina verso le opinioni [86/;m] degli spiriti più tardi, secondo cui è Lucrezio: Lagache 1997; Sedley 1998; Gigandet 2001 ; Comte-Sponville 2001; teologia in L.: Marchetta 1988; poetica e tradizione epicurea: Arrighetti 1998; 2001. 111 Radice 2000a; cfr. Bréhier 1925; Goodenough 1932; Boyancé 1967; Pépin 1967; Christiansen 1969; Del Valle 1975; Hay 1979; Amir 1984; Dillon 1996; Graffigna 1996; Borgen 1997; Milgrom 1997; Runia 2001. Contestualizzazione storico-culturale di entrambi: es. Troiani 1980; 1997; Alexandrina 1987; Magris 2001; Baltrusch 2002; Bartlett 2002; Gruen 2002; per Giuseppe ad es. Boyle 2003. Non è la sede per ulteriore bibl. filonica. Aristobulo: Radice 1994; Holladay 1995.
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detto: "Il Signore ti ammaestrerà, come un uomo ammaestra suo figlio"112. Dunque, per il del testo sacro, Filone teorizza una duplice esegesi, letterale o allegorica: Bisogna interpretare, piuttosto, in modo metaforico [i:pontKW'tEpov] il contenuto dei libri espressi da Mosè? ... Alcune delle cose espresse ll 3 non sono dette in senso proprio [K1lpt0Àoyi::ìi:m], dunque occorre procedere per la strada dell'allegoria [àÀÀ.T]yopia], cara ai "fisici"114. Filone, dunque, teorizza la necessità di ricercare, oltre al senso letterale delle Scritture, anche un significato allegorico, insito nei «simboli», e questo non solo nelle Sacre Scritture, ma anche nei poemi omerici ed esiodei. È bene analizzare quindi una serie di passi programmatici filoniani relativi all'allegoresi delle Scritture e importanti anche per il lessico dell'allegoria, che è opportuno riportare anche in greco, almeno per alcuni termini-chiave: «L'esegesi delle Sacre Scritture awiene per mezzo di significati nascosti [un6votm], in forma allegorica», Èv ÙÀÀT]yopimçll5; la distinzione dei piani letterale e simbolico in certi passi biblici è chiara per Filone, laddove egli asserisce che «l'espressione letterale [priTii 811tyri01ç] è simbolo di un significato occulto [cruµ~oÀov 8wvoiaç àavouç] ... Questa è la famiglia che preserva dal male, perfetta e armoniosa, quale appare nel senso letterale delle Scritture [prii:aì. ypaai], e nelle allegorie secondo il senso simbolico [KaEl' un6votav ÙÀÀ.T]yopim] »116. Infatti, per Filone, i significati letterali sono «i simboli [cruµ~oÀa], espressi in parole, dei concetti che si colgono soltanto con l'intelligenza discorsiva [8iavow] ... Questo è, dunque, ciò che va detto del resoconto letterale [pTJ't'Ìl àn68omç] ; rimane da indagare il suo senso simbolico nascosto [81' U1tOVOlcDV l »117. Torna il sostantivo un6vow, impiegato da Socrate nello Ione di Platone e nel Simposio di Senofonte, in riferimento al significato sotteso del testo omerico, al senso allegorico che va disvelato: la stessa espressione, identica dal punto di vista sia lessicale sia sintattico, ricorre nuovamente in altri due passi, sempre in rapporto al significato alle112 Filone di Alessandria, De somn. I 237. Le citazioni bibliche nel passo sono rispettivamente Numeri 23, 19 e Deuteronomio 8, 5. Cfr. anche De posteritate Caini, 1 e 7. Provvidenza in Filone: Frick 1999. Tesi di Pépin a cui alludo: Id. 1958, 238. Ripresa di Filone nell'allegoresi cristiana: es. Blònnigen 1992; Dawson 1992; Edwars 2002 . Il tema sarà ripreso a parte. l 13 Se. il volto attribuito a Dio, la Sua residenza in una parte determinata del mondo, etc. 114 Filone, De posteritate Caini, 1 e 7. Mito pedagogico nel Pentateuco per Filone: Kamesar 1998. 115 Filone, De vita contemplativa, 78. 116 Filone, De praemiis, 61-65. 117Filone, DeAbrahamo, 119.
AJ..LEGORESI STOICA E MONDO LATINO
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gorico delle Scritture: «Non lasciamoci, quindi, sviare dalle parole m tiarno ed enunciamo i significati sottintesi [81' u1wvo1cùv rniµmv6µ~va a] s_cru. .f . 11 . [ ' ' ] per mezzo dei eh » , «A b. q uale msegnamento s1 accia a. us10ne mvn1i::1a1 I d h . . eru ~ Il h 1 ni ... è que o e e occorre ana izzare ora. o ere o c e c1 sia un riferim alla rivoluzione complessiva del cielo, per mezzo di un significato nascento d l" . osto - ] . h, 1 S . . [151' u1rovo1rov », p01c e a cnttura a atta agi «orgam» apprensivi um . 118 L . , , arn . d idee «troppo gran i e auguste» . o stesso termme unovow abbiam incontrato in &pubblica, 378D, ove Platone respinge l'esegesi omerica fatto a «in senso allegorico [Èv unovoimç] ». I passi fin qui analizzati riguardano esclusivamente le Sacre Scritture, alle quali Filone applica sistematicamente l'allegoresi. Ma ciò che più ci interessa in questa sede è che Filone conosce e ammette anche lesegesi allegorica dei poemi con contenuti mitologici, come quelli omerici ed esiodei. Filone cita con rispetto gli allegoristi classici che si sono cimentati nell'interpretazione di questi poemi, ritenendo addirittura che alcuni di essi fossero ispirati: «Se la fama di Esiodo e di Omero è giunta fino ai confini della terra, ciò è dovuto ai pensieri racchiusi sotto i racconti letterali [sententiae sub rebus comprehensae]; i loro esegeti [enarratores] ispirati sono innumerevoli »119. Filone stesso non esita a servirsi dei poemi omerici ed esiodei, interpretati appunto allegoricamente, allo scopo di illustrare e di appoggiare le sue tesi filosofiche . Ad es. Omero è effettivamente impiegato da Filone come auctoritas per sostenere l'importanza della triade: «Non senza motivo Omero affermò che tutte le realtà comportano una triplice divisione»120. Qui l'antico poeta è trattato come se fosse un Pitagorico esperto di matematica; abbiamo visto in effetti che, specialmente in ambito stoico, Omero era considerato precursore di varie discipline e di tanti aspetti del pensiero filosofico: tale tendenza, presente in Cratete Mallota, sarà sviluppata ulteriormente in Eraclito Grammatico e nel De vita et paesi Homeri. Anche di Esiodo Filon,e richiama il «mito delle età», nel contesto di un discorso filosofico con una serie di risonanze allegoriche. Filone istituisce infatti una corrispondenza tra le età con i loro metalli e le realtà sensibili e intelligibili, in gerarchia: loro sono le intelligibili, l'argento è il cielo sensibile, il bronzo sono le realtà terrene, soggette alle guerre. Va anche ricordato il ruolo dell'etimologia nell'allegoresi di Filone, di recente indagato da Runial21 . Dunque, Filone non solo mostra di conoscere lesegesi allegorica dei poemi mitologici, ma la 118 Niehof 2001, c. 7, anche per la centralità della Scrittura nella cultura giudaica secondo Filone, la necessità della sua esgesi metaforica, il rispetto per Roma (c. 5) ma la teorizzazione della superiorità della cultura giudaica su quella greca (c. 6) . Ho citato risp. Filone, De congressu, 172; De cherubim, 21. Ruolo dell'allegoria nella politica alessandrina: Dyck 2002. 119 Filone, De Providentia, II 40. 120 Filone, Quaestiones in "Genesim ", lV 8. 121 Mito delle età: Esiodo, Le Opere e i Giorni, 106-201, richiamato in Filone, Quaestiones in ''Exodum", II 32. Etimologia nell'allegoresi filonica, anche con etimi
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applica egli stesso, considerando che in Omero e in Esiodo fossero present' semi di verità che l'allegoresi, non di rado coadiuvata dall'etimologia corn~ negli allegoristi stoici, è in grado di scoprire. Naturalmente, l'allegoresi filoniana, anche etimologizzante, dà il maggior frutto applicata sistematicamente alle Scritture. Se, dunque, l'allegoresi è per Filone un metodo assolutamente fondamentale per lesegesi biblica, altresì noto e accolto anche per l'interpretazione dei poeti greci quali Omero ed Esiodo, per Flavio Giuseppe invece essa è accettata solo per alcuni passi biblici, mentre l'espressione allegorica delle verità filosofiche è decisamente respinta: Tra i filosofi greci, quelli che hanno parlato secondo verità videro assai bene tutto quanto ho appena esposto, e non rimasero all'oscuro degli insipidi pretesti [\JfUXPaì rrpoacraç] delle allegorie [àUriyopi.m] : perciò, essi li disprezzarono a buon diritto, e la loro concezione di Dio, vera e conveniente, risulta conforme alla nostra 122. Così, Giuseppe critica gli scultori e i pittori greci per le modalità di rappresentazione degli dèi, quelle che Crisippo e gli allegoristi stoici amavano inerpretarel23. D'altra parte, di fronte al testo biblico, Giuseppe ammette il ricorso all'allegoresi nei casi in cui l'interpretazione letterale risulti indegna della maestà e degli attributi del Signore (la stessa esigenza a cui risponderà Eraclito per Omero e a cui già vollero rispondere i primi che sentirono il bisogno di non prendere il mito alla lettera): come Filone, dunque, ritiene che nelle Sacre Scritture alcune cose siano espresse letteralmente, e altre invece in modo figurato; alcune secondo opinione, altre · secondo verità. Scrive infatti: a quanti si porranno da questo punto di vista, nulla qui (nella Scrittura) sembrerà non conforme a ragione [aì-oyov] o non confacentesi [àvapµocrwv] alla grandiosità di Dio o al suo amore per alternativi per un singolo nome e con un simbolismo molteplice per una singola etimologia (e derivazioni greche per nomi ebraici): Runia 2004, che richiama Legum allegoriae, I 68; III 225; De agricultura, 2; De mutatione nominum, 62-65; De somniis, I 41; De Abrahamo, 99, e cita quali paralleli etimologico-allegorici. Etimologie nell'interpretazione di Filone e dell'antico Giudaismo: Pépin 1967; Grabbe 1988; Goulet 1990; Schur 1991; Winsotn 1991; Long 1997; Alexander 2004, con un importante raffronto tra l'etimologia rabbinica (che raramente allegorizza le Scritture, a differenza di Filone) e l'etimologia allegorica stoica: la matrice comune di tale pratica potrebbe risalire agli scribi babilonesi. Rapporto dell'allegoresi filonica con quella greca e con l'esegesi giudaico-alessanrlrina: Sterling 2004; Tobin 2004, che ammette l'influsso dell'allegoresi greca; pl' 1 Filone però anche il piano letterale delle Scritture è valido, mentre per gli allegoristi stoici quello dei miti greci non lo era. Legge in Filone e Giuseppe: Weber 2001 122 Giuseppe, c. Apionem, II 36. Vita: Mason 2001. 123 Giuseppe , c. Apionem, II 252. Apione e Giuseppe: es. Horst 2002, capp. 12-1 3.
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gli uomini [µcyaÀElOTY\ç, qnÀavElpconia]. Tutte le sue caratteristiche sono presentate con l'espressione corrispondente alla natura delle cose; talvolta il legislatore si esprime, con destrezza, per allusioni [ai. v1 noµÉvou ... 8cçuiiç]; talaltra per allegorie, con maestà [àUriyopouvwç µETà crEµv6n1wç] ; ogni volta in cui, invece, ha inteso parlare in maniera diretta, si è espresso apertamentel24. Queste distinzioni di piani di significato nelle Scritture sarà ripresa nelJ'esegesi cristiana e teorizzata in particolare da Origene, che conosceva bene J'allegoresi classica stoica - leggeva Cornuto e Cheremone - , ma anche Filone e Giuseppe 125.
.,. .
l24 Giuseppe, Premessa al I libro delle Antiquitates Iudaicae, 24. Cfr. Pépin 1958, 242-44 con bibl.; Boys-Stones 2001, 93. 125 Cfr. Origene, I Principi, IV (ed. e intr. Crouzel-Simonetti 1980); per l'attestazione sugli auctores di Origene v. qui infra, su Cheremone; Chadwick 1947; Hanson 1959; Berchman 1984; Simonetti 1985; Edwards 2002. Non fornisco altra bibliografia su Origene e l'allegoresi scritturale cristiana perché sarebbe sterminata e spero di riprendere il tema altrove.
capitolo sesto
L'allegoresi di Cornuto e degli altri Stoici romani 1. Testimonianze antiche su L. Anneo Cornuto I.I. L'autore del Compendium theologiae Graecae Una delle pochissime opere complete dedicate all'allegoresi della teologia greca tramandate dall'antichità ci è pervenuta sotto il nome di «Cornuto» e, nella sua densa e didascalica brevità, conferisce particolare rilievo alla presentazione dei personaggi del mito nei poemi omerici. Varie fonti attribuiscono infatti a un Cornuto quest'opuscolo. Teodoreto, Curatio, II 35, specifica che Cornuto era cp1Maocpoç e «offrì un'esposizione sintetica della teologia greca». L'Etymologicum Magnum, s.v. Zeus, cita il c. 2 del trattatello, di cui indica anche il titolo I1Epì · EUrivtKT]ç 0coÀoyiaç: «Cornuto, nella Theologia Graeca, dice che sia l'anima dell'intero cosmo, in quanto è la vita e la causa del vivere per i viventi, e perciò si dice che regni su tutte le cose, come anche in noi regna l'anima etc.». Inoltre, i codici migliori della tradizione manoscritta, tra cui uno dei più antichi, assegnano l'operetta a Kopvofrwç 1: è la stessa forma che presentano sia Teodoreto sia l'Etymologicum Magnum, nei passi citati2. Sotto forma di Koupvofrwç, invece, il nome compare nel cod. X dell'opuscolo e in Stobeo, che di lui cita un parere filosofico sui rapporti anima-corpo al momento della morte: «l'anima è eliminata prima del corpo, oppure insieme con il corpo, come ritiene Curnuto»3. Tale opinione non sembra contenuta nel testo di Cornuto in nostro possesso, ma_, vedremo, è probabilmente una tesi sostenuta altrove da questo autore, che evidentemente si occupava della questione filosofica della relazione tra il corpo e l'anima. Un indice redatto anticamente sull'opera ancora completa di Diogene 1 Cfr. l'Appendice in Ramelli 2003. Il cod. è Nnell'ed. Lang 1881; cfr. 188lb; de Martini 1825. 2 Nei peggiori si legge opvouwc;, oupvofrr:oc;, o pouvofrwc;. Lang 1881, V-VI, ritiene che la confusione dell 'iniziale sia insorta perché uno scriba non riconobbe il segno marginale+, antica forma di , che richiamava l'attenzione su un punto notevole: es. nei codd. Ve G di Cornuto, accanto alla titolatura, si trova nel primo +, nel secondo lo stesso segno inscritto in un cerchio, ossia un maiuscolo con sbarra trasversale. Sulla validità dell'ed. Lang e sulle migliorie apportate dalla critica successiva: Ramelli 2003, Appendice filologica; cfr. Schmidt 1913, Praejatio, 1-2. Questioni testuali già in Boysen 1884. 3 Anth., Physica, I 49, 43, 383, 28 Wachsmuth. Cfr. Reppe 1906, 26; Zeller 1963, III, 1 718.
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Laerzio rende poi noto che giungeva fino a «Cornuto» il I. VII delle Vitae Philosophorum, sugli Stoici, oggi interrotto a metà della trattazione di Crisippo4: mancano nei codici laerziani dopo il c. 702 le vite degli ultimi venti Stoici da Zenone di Tarso a «Cornuto» 5 . Sembra certo che sia precisamente l'au'. tore del nostro opuscolo6, che reca evidenti tracce di Stoicismo, se non altro in virtù di una serie di paralleli con i frammenti degli Stoici Antichi e Medi e con passi di Neostoici. Questo è un dato riconosciuto sino da Lang e da Munzel, per cui al primo sguardo si rawisa il gran numero di elementi stoici in quest'opuscolo7. Senz'altro stoico è il Compendium anche per molti altri critici, tra cui Wehrli, e, oggi, Most, Blèinnigen, Dawson, Boys-Stones 0 Edwards, per portare alcuni esempi; inoltre, è di per sé significativo dello stoicismo del libretto di Cornuto anche il fatto che von Arnim ne abbia estratto molti passi, includendoli nei suoi Stoicorum Veterum Fragmentaf3. 1.2. Apprezzamenti degli antichi riguardo ad Anneo Cornuto
Sembra certo che il Compendium theologiae Graecarfa sia opera del Lucio Anneo Cornuto vissuto nel I sec. d.C. il cui prenome è noto solo da Carisio
4 «Nel libro VII: Zenone, Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene, Apollodoro, Boeto, Mnesarchide, Mnesagora, Nestore, Basilide, Dardano, Antipatro, Eraclide, Sosigene, Panezio, Ecatone, Posidonio, Atenodoro, un altro Atenodoro, Antipatro, Ario, Cornuto», E un indice antico, contenuto nel cod. PI, Parisinus Gr. 1759, della fine del XIII sec. (pp. 1-3 Marcovich 1999, I). Lo riportano pi, l'apografo H del cod. p4 e i suoi apografi I E Y. Cfr. Dorandi 1992. 5 Qui la lista «Zenone, Cleante, Crisippo» è dovuta a P H, nonché all 'indice più recente di I. Lascaris (t 1534), mentre i codd. del Laerzio hanno la serie: Zenone, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. 6Su Cornuto: Weinberger 1892; Nock 1931; Stroux 1931; Geymonat 1984; Colish 1985, I, 195-200 e passim; Most 1989; Blònnigen 1992, 37-42; Dawson 1992, 23-38; Fuentes 1994; Boys-Stones 2001, 49-59; 2002; Citti 2001; Morford 2002, 192-194; Edwards 2002, 53, 127; Inwood 2003, c. 2 (C. Gill: nel contesto dei Neostoici); Ramelli 2003; White-Armstrong 2004 Stile. v. Horst 198la. 7 Lang 1881, VI; Miinzel 1883a, 26: «Se prendiamo in considerazione il libretto stesso, risulta evidente al primo sguardo che il suo autore era seguace della dottrina stoica, secondo l'opinione del Lang e di altri studiosi, che è verissima» (tr. mia); cfr. tutto il c. III, 25 ss. 8 Wehrli 1928, passim; Most 1989. Paralleli con gli SVF: Compendium, c. 21 = SVF I 514; c. 32 67, 14-17 Lang = SVF I 542; 67, 17 - 68, 3 = SVF I 503; 69, 14-17 = SVFI 543; c. 15 = SVFII 1083; c. 17, 30, 11-13 e 17-18 = SVF II 1086; c. 6, 7. 4-5 = SVF II 1087; c. 13 = SVF II 1092. Tutte le convergenze tra Cornuto e gli Stoici, dall'antica Stoa in poi, sono nel comm . di Ramelli 2003. 9 È il titolo più diffuso, fondato sulla collazione dei migliori codici: in gr. Compendio [ÈmopoµTj, C: cfr. Diog. Laert. VII 48 e 162; X 11 ] delle dottrine tramandate
relative alla teologia greca.
~·AJ-.LEGORESI DI CORNUTO E DEGLI ALTRI STOICI ROMANI
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che era nativo di Leptis secondo la Suda, Esichio e Stefano di BisanziolO.
~pparteneva .alla gens Anri_aea, d_i ~ui faceva parte Lucio_ Anneo Seneca, il maggiore St01co romano: e poss1b1le che fosse un colto liberto della gensll. fu maestro di Anneo Lucano, nipote di Seneca, e dello stoico A. Persio fiacco, contemporaneo di Seneca. Secondo Aulo Cellio, Noctes Atticae, II 6, 1 Cornuto rientrava tra «alcuni letterati [grammatici] dell'età precedente, d~vvero tutt'altro che incolti e mediocri», haud sane indocti neque ignobiles: on litote, era uno dei più colti e illustri del suo tempo. Un'altra litote Cellio crnpiega in IX 10, 5 per descrivere la cultura e la saggezza di Cornuto: «non ~erto privo di cultura e di saggezza», non indoctus neque imprudens. Una valutazione simile, intesa a porre in rilievo la cultura greca di Cornuto, quale emerge anche dal Compendium, ritroviamo nei Saturnalia di Macrobio, V 19, 2.3: «uomo di così grande valore, coltissimo anche nella letteratura greca», Graecarum doctissimus litterarum; «Cornuto, per altro un uomo coltissimo», doctissimus. Conferma tale apprezzamento lo storico di Roma Dione Cassio, LXII 29, 2, secondo cui nel 65-66 d.C. «Anneo Cornuto era celebre per la sua cultura», EÙÒOKtµouvm È7tÌ nmòdçt. Secondo Most, Cellio incluse Cornuto, maestro di filosofia, tra i grammatici poiché aveva in mente la materia dei trattati grammaticali di Cornuto, o perché forse Cornuto forniva agli allievi più giovani anche un'istruzione grammaticale e letteraria12. Già gli antichi, insomma, apprezzavano l'autore del Compendium, per la sua cultura, quale eff~ttiva_n:ente si. espresse .in una ric~a serie di opere che attestano la vastità dei su01 mteress1 filosofin e letteran.
10 Carisio, I 127, 19 K. = 162, 9 Barwick; Suda, II 1, 347 B.; Esichio, Onomasticon, 123, 16 Fl.; Stefano di Bisanzio, s.v. Tépytç, 617, 1 M. Id., s.v. 0fonç, 312, 13 M., lo fa originario di Testi, in modo probabilmente erroneo: Reppe 1906, 9; Nock 1931, col. 995; cfr. Monceaux 1894. Per il cognomen cfr. Kajanto 1965; Id. 1966; Id. 19942; Solin 1990. 11 Secondo Marx 1894, col. 2227, di Seneca il Vecchio, secondo Nock 1931 col. 996, di Anneo Mela, padre di Lucano, il che sarebbe più probabile per la conoscenza solo tardiva che Persio, vedremo, poté stringere con Seneca; pure Dawson 1992, 262 n. 33, sostiene che fosse un liberto degli Annaei, onorato per la sua cultura e protettore di poeti, e così Bellandi 2003, 185, mentre Morford 1985, 2012; 2002, 193 ipotizza piuttosto che gli Annaei lo avessero aiutato a ottenere la cittadinanza romana. Modalità onomastica dell 'assunzione in una gens, anche da parte dei liberti, e nomi servili: Salomies 1987; 1992; 1996. Nomi romani (praenomina, gentilizi e cognomina) in area greca: Solin 2001. Annaei: oltre alla miscellanea in cui è Bellandi 2000, cfr. Levick 2002 (loro scarsa ibericità). Era certo bilingue (bilinguismo nella società antica: Adams 2002; rapporti con la cultura greca-romana: Desideri 2003). 12 Most 1989, 2030 n. 118. Documentazione e bibl. su Persio qui infra; cfr. event. Ramelli 1997; Ead. 200la.
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2. Le opere di Cornuto e i suoi molteplici interessi 2.1. Opere filosofiche Cornuto fu maestro di filosofia e, come tale, autore di un testo scolastico di allegoresi stoica ad uso di un allievo, ma scrisse anche altri lavori che riflettono il suo orientamento filosofico; la Suda attesta che «Scrisse molte opere, sia di filosofia [>. Così pure Porfirio, Quaestiones Homericae, in Il. XV 189, 204 (ed. Schrader 1880); Eusebio, Praeparatio evangelica, XV 15, 6; Schol. B. in Il. XV 188. Cratete «ritiene che ~ia, che si estende attraverso [otÉKrov] tutto, sia chiamato così da owivetv, inumidire, ovvero maivetv, impinguare» ap. Lido, De mensibus, IV 83B.; Cratete fr. 8 sede inc., 71 Wachsmuth. Altra convergenza Cornuto-Cratilo: ~T\µiJ'tllp, in Crat. 404B, è otooùcra c.òç µi]trip , «che dà come una madre», e un nesso simile si trova sino a Corn. 28, con relativo comm. in Ramelli 2003.
L'ALLEGORESI DI CORNUTO E DEGLI ALTRJ STOICI ROMANI
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di Zeus, come ~EU,183. Un altro esempio del lavoro di prudente revisione degli scritti di Persio attuato da Cornuto in vista della pubblicazione postuma è attestato sempre dalla Vita, secondo cui il poeta aveva scritto: con tanta vivacità contro i poeti e gli oratori recenti, da colpire anche Nerone .. . Il verso contro Nerone, che era originariamente: "Il re Mida ha le orecchie d 'asino [auriculas asini Mida rex habet]", fu corretto, esso solo, da Cornuto così: "Chi non ha orecchie d'asino? [auriculas asini quis non habet?]", affinché Nerone non lo credesse scritto contro di luil84.
4.2 . Cornuto in esilio e l'opposizione stoica al principato neroniano La prudenza di Cornuto era finalizzata con ogni probabilità a impedire ritorsioni - di cui in effetti non abbiamo notizie - dell'imperatore sui familiari del giovane scomparso 185. La sua circospezione, invece, non valse ad evitare guai a lui stesso da parte di Nerone. Come Musonio, infatti, anch'egli uno Stoico romano la cui opera ci è pervenuta in grecol86, pure Cornuto fu condannato all'esilio su un'isola da Nerone, nel 65 d.C. Entrambi facevano parte dell'opposizione stoica al principato di Nerone, similmente a Trasea, amico di Persio, come abbiamo visto in base alla Vita, e mandato a morte da Neronel87. Seneca, l'altro grande esponente dello Stoicismo romano, negli anni della «svolta neroniana», a partire dal 62 d.C., si era ritirato dalla scena politica e fu poi condannato al suicidio con l'accusa di partecipazione alla congiura dei Pisonil88. Il dissidio con Nerone nel 65, abbiamo visto, sarebbe 182 Vita Persi, 5 e 8. Inserimento di questa trama di rapporti entro la politica conservatoristica, stoica e filorepubblicana dei senatori etruschi come Trasea e Cecina Peto: Torelli 1969, 296. l83 Vita Persi, 8: Omnia ea auctor fuit Cornutus matri eius ut aboleret. 184 Vita Persi, 10: il verso è nella Sat. I, 121. Cfr. Stampacchia 1968; Sullivan 1978; Koster 1988; anche Bo 1987. Inserimento di Persio negli intellettuali in età neroniana e tendenza al ritiro e all'ascesi: Griffin 1976; Rocca Serra 1982; Sullivan 1985; Chaumartin 1989; Grimal 1989 (cfr. Levi 1949). Cornuto editore di Persi o: Duret 1986, 3189-90. 185 Specialmente la madre, la sorella e la zia; la profonda pietas di Persia nei loro riguardi è attestata nella Vita, 6; del padre, Persia era rimasto orfano in giovane età. l86 Documentazione in Ramelli 200ld, part. Introduzione e Testimonianze, Whitmarsh 2001, c. 3; Morford 2002, part. 203-208. 187 Vita Persi, 5. Cfr. Devillers 2002; Galtier 2002. 188 Opposizione stoica antineroniana: es. Bossier 1892, 97-105; MacMullen 1966,
L'Af,LEGORESI DI CORNUTO E DEGLI ALTRI STOICI ROMANI
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tato causato dal raffronto tra i settecento libri di Crisippo, giudicati da
~ornuto utili alla vita umana, e i quattrocento che avrebbe voluto scrivere
:Nerone, stimati da Cornuto per lo meno inutilil89. Nella stessa occasione, :Nerone vietò di comporre poesia a Lucano, lo Stoico allievo di Cornuto: quest'ultimo, abbiamo visto, lo aveva fatto conoscere a Persio, con cui Lucano strinse un forte vincolo di amicizia e di ammirazione. La proibizione di Nerone ai danni di Lucano è attestata anche da Tacito, Ann. XV 49, 3, per cui Lucano avr~b.~e ad~rito alla .congi~ra di Pison,~ p:opri~ per il divieto di rendere pubbhc11 sum compomment1, dovuto ali mVIdia d1 Nerone per la sua gloria. Tuttavia, si può osservare che prima di questo incidente - conternporaneo alla disgrazia di Anneo Lucano e al ritiro dalla scena politica di Anneo Seneca - Nerone volle pur consultare Cornuto, un altro Anneo, non solo filosofo stoico ma anche letterato, scegliendolo come consigliere per una questione squisitamente letteraria, l'estensione ideale di un poema epico. Non penso che questo elemento, insieme con altri possibili indizil90 , sia sufficiente ad autorizzarci a supporre un omaggio di Cornuto a Nerone, e non è escluso che, anziché un segno di stima, la convocazione da parte delJ'irnperatore potesse essere un tranello, un pretesto o una messa alla prova. 46-95; Cizek 1972; Brunt 1975; Griffin 1976, 202 ss.; Chesnut 1978, 1324 ss.; Vogel 1979; Griffin 1984, 155-60 e 171-77; Sullivan 1985, 142-43; Raaflaub 1987, 1 ss; 27 ss .. Ulteriore docum . e bibl. su Seneca e l'opposizione stoica in Ramelli l 998a; 2001 b; 200lc; event. 1999d; cfr. Gabba 1991; Maurach 1991. Possibilità dello Stoicismo contribuire alla conciliazione di principato e libertas aristocratica (cui rispondeva l'ideale del civilis princeps: Wallace 1982) : Roller 2001, cc. I (su Lucano) e II (su Seneca); libertas quale ideale politico ed etico dell'aristocrazia stoicizzante del primo impero: Wirszubski 1960; cfr. Griffin 1992; Motto 2001 (cfr. 1993); O'Brien 2001. Pensiero politico stoico: Erskine 1990. Per il rapporto Seneca-principato va ricordata d'altra parte l' Apocolocynthosis satirica contro Claudio e la sua divinizzazione: es. Eden 1984; Bringmann 1985; Ramelli 200lb (cfr. 2000a). 189 Il fatto è ricordato anche da Gerolamo ( Chronicon, 185 Helm, a. Abr. 2083, Olimpiade 211, 3) sotto l'anno 67 d.C., mentre la versione armena dà il 64 (a. Abr. 2080); è sospetta la notizia della Suda: «messo a morte da lui (da Nerone)», itpòç aùwu àvmpi::8Eiç (cfr. Reppe 1906, 8; Nock 1931, col. 995), che cita invece correttamente l'Ep. 30 di Giuliano con la notizia, esatta, dell'esilio di Musonio da parte di Nerone. L'accostamento dell'esilio di Cornuto con quello di Musonio del 65 è sostenuto anche da Giovanni Antiocheno (fr. 90, FHGlV 575), e il 65 è l'anno ritenuto più probabile da Reppe 1906, 14, e da Nock: «L'ordine del materiale dell'estratto di Dione Cassio porta al 65, che, come sappiamo, fu l'anno dell'esilio di Musonio, e questo poteva corrispondere ... l'esilio di Cornuto cadde negli anni tra il 63 e il 65». Cfr. Vacca, Vita Lucani, 41-44; Gagliardi 1968, 80-85. Troikà di Nerone: Néraudau 1985. Morte di Lucano: Tacito, Ann. XV 70; Svetonio, De grammaticis, 30-31; Vacca, l. cit., 50; Tucker 1987. 190 Parzialmente discutibili appaiono infatti le argomentazioni di Rocca-Serra e di Most, sulle convergenze tra Cornuto e l'ideologia neroniana. Secondo RoccaSerra 1982a è possibile trovare correlazioni con l'ideologia di Nerone in alcuni punti del Compendium dedicati a divinità connesse con la poesia o con la simbologia nero-
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Certo è che, secondo la Vita Persi, Cornuto usò molta circospezione neU pubblicazione postuma delle satire dell'allievo, eliminando un verso eh a avrebbe potuto offendere Nerone e impedendo la pubblicazione di altre versi giovanili in elogio di Arria e di Cecina Peto, parenti di Trasea Peto 1 paradigmi di opposizione al ~rincipato. La p~ssibile .stima di Nerone pe~ Cornuto come letterato e la sicura prudenza d1 questi nella pubblicazione dei lavori di Persio non impedirono che egli fosse bandito da Nerone e che uno dei suoi allievi, Lucano, per la partecipazione alla congiura pisoniana fosse messo a morte, anche se nel Compendium e nei frammenti di Cornut~ non sembrano trovarsi passi .interpretabili in chiave di critica al _rrincipato191, forse per la prudenza dimostrata anche nella «censura» degh scritti di Persio e a maggior ragione, si può supporre, applicata ai propri. Il trattatello di allegoresi sembra alieno da interessi politici. Del resto, si sa che l'accusa di astensione dalla vita pubblica era ricorrente, specie in età neroniana contro potenziali oppositori: rappresentativo è il caso di Trasea, dalle forti tendenze stoiche, accusato d i inertia, di tristitia e di rifiuto del culto imperialel92. In effetti l'istanza di Crisippo «il sapiente partecipi alla vita politica», che aveva reso lo Stoicismo congeniale ai Romani insieme con la dottrina paneziana dei doveri (Ka8l)Kovta), e che nella prima età neroniana era stata seguita da Seneca193, si era rovesciata nell'invito senechiano al ritiro dalla
niana: nel c. 64 su Eracle; nei cc. 64-66 su Apollo, nei cc. 70-71 sulle Muse. Most 1989, 2034-40, come Dawson 1992, 37-38, riprende e sviluppa tale ipotesi, ponendo attenzione ai paralleli tra la rappresentazione di Apollo in Cornuto e quella trasmessa dall'ideologia autocelebrativa di Nerone. Uno dei particolari a mio parere più significativi è però fondato su uno scarto rispetto a una tradizione già diffusa (e non sul1' adeguamento ad essa, come invece è la presentazione di Apollo quale sole, dalla chioma intonsa e protettore delle Muse, addota da Most 1989, 1039): la modificazione di un verso esiodeo, che Cornuto cita nel c. 32 nella seguente forma: ÈK yétp 'Wl Moucrèwv KaÌ. ÉKTJBOÀ.O'U . An6Uwvoç I avòpt:ç étotòoì. focrtv ènì. xeovì. KaÌ. BacrtÀ.fii::ç, ma Esiodo, Theog. 95-96 recita: avÒpEç étotòoì. focrtv ènì. xeovì. KaÌ. Kt9aptcr'tai, I ÈK ÙÈ lnòç BacrtÀ.fjEç. Non sembra casuale che l'alterazione riguardi proprio il rapporto fra Apollo e i sovrani: se Esiodo faceva derivare i cantori e i suonatori di cetra da Apollo, e i sovrani invece da Zeus, secondo una concezione che vedremo nei trattati De regno della prima età imperiale, Cornuto fa derivare da Apollo sia i cantori sia i sovrani: e Nerone, almeno nelle sue aspirazioni, era appunto sia cantore sia sovrano; sua immagine e propaganda: Schumann 1930; Hiesinger 1975; Huss 1978; Neronia 2002. Cugusi 2003, 222-23: commentando Bucoliche, 6, 9, non iussa cano, Cornuto non coglie come gli altri un riferimento al potere imperiale (Nerone-Apollo), bensì alle Muse (cato quello che mi è stato ordinato di cantare dalle Muse). 191 Cfr. l'adattamento di Theog. 95-6 (n. precedente). Lucano e Pisoni: Néraudau 1985, 2041. 192 Documentazione in Ramelli 200lf. Cfr. pure MacMullen 1966, 50-51; 306 n. 6. 193 Crisippo in SVF III 611. De clementia e teorizzazione del potere assoluto dell'imperatore: Fears 1975; Id. 1977, 136-41; Mortureux 1989; Ramelli 1998a.
L'Af.LEGORESI DI CORNUTO E DEGLI ALTRI STOICI ROMAN I
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vita politica nel De otio e in alcune Epistulae, ad es. 14, 14194, e nella dichiarazione di un altro stoico, disilluso e oppositore del potere, Lucano, che, forse memore del fallito tentativo dello zio di guidare Nerone, constata amaramente: virtus et summa potestas /non coeuntl95. Quale che fosse la posizione di Cornuto verso il principato neroniano al momento della stesura del Compendium, con ogni probabilità prima dell'esilio, essa non sembra trasparire dall'opuscolo. Possono essere comunque significativi alcuni accenni di decisa opposizione al principato neroniano nel suo allievo Persio, morto già tre anni prima dell'esilio del maestro: oltre ai versi "pericolosi" nella sua produzione poetica e censurati per questo dal suo maestro, si possono ricordare anche altri aspetti anti-tirannici nelle satire di Persio, che non sono stati "tagliati" da Cornuto. Uno , ad es., è nella Sat. III, 53-58, con l'invettiva contro i «crudeli tiranni» , saevi tyranni, sospinti da «funesta passione, tinta di bollente veleno», dira libido, ferventi tincta veneno: Persio invoca Giove di punirli mostrando loro la virtù e sucitando così in loro fieri rimorsi per averla abbandonata; è un passo che sarà citato ancora da s. Agostino nel De civitate Dei, II 7. Un altro esempio è l'intera satira IV, dedicata alla fondazione etica dell'attività politica: il poeta, come Socrate nell'Alcibiade Maggiore di Platone, si rivolge a un giovane che, novello Alcibiade appunto, intende governare, per mostrargli che senza virtù, senza basi etiche, non si può esercitare il potere: il pensiero corre ovviamente a Seneca con Nerone e si ha l'impressione che anche a quest'ultimo sia rivolta la famosa esortazione finale tecum habitas: noris quam sit tibi curta supellex, ossia quanto siano scarse le tue virtù 196. Non è escluso che queste stesse idee siano sorte in Persia proprio dalla frequentazione intellettuale del suo maestro . 4.3. I Choliambi di Persia e Cornuto In effetti, Persio, che con Cornuto intrattenne un rapporto stretto sia sul piano dottrinale sia su quello umano, può essere usato come fonte, almeno a livello indicativo, sul pensiero stoico di Cornuto, di cui il Compendium illustra solo una parte, e per di più in modo schematicol97. Ovviamente, le satire di Persia non esprimono direttamente il pensiero di Cornuto, e inoltre non lo esprimono in forma di trattato filosofico, bensì secondo un modulo poetico, ma credo sia comunque opportuno esaminare almeno un passo dei
194 Cfr. ad es. André 1989, part. 1730, 1772-78; Mazzoli 1989, part. 1830. 195 Pharsalia, VIII 494-95. Cfr. Most 1989, 2042, che appiattisce però la prospettiva temporale (cfr. la questione dell'elogio di Nerone all'inizio del Bellum civile) e non tiene conto della problematica posizione di Lucano di fronte allo Stoicismo «Ortodosso» , per cui rinvio ai già citati studi di Narducci 1979; 2002a; 2002b, oltre che a Roller 2001, part. c. I. 19 6 Questi aspetti si trovano commentati, con altri, in Ramelli 200la. 197 Cfr. anche Préaux 1976.
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I. RAMtlL1
Choliambi, e poi, soprattutto, la Sat. V, che Persio dedica precisamente Cornuto. I Choliambi di Persio, che precedono la breve raccolta delle sue sat~ re, possono risultare indicativi della filiazione intellettuale del poeta d~ Cornuto, in quanto lasciano intrawedere un interesse particolare dell'autore verso l'etimologia applicata ai nomi del mito, una metodologia che tanta importanza assume nel Compendium e in generale nell'allegoresi stoica. Infatti, nei w. 1-4, incipitari, in una dichiarazione programmatica di poetica Persio afferma con modestia di non essere poeta ispirato dalle Muse, di quel~ li che compongono in stile sublime, e si riferisce alle Muse menzionando diversi luoghi ed esse legati: la sorgente lppocrene, il Parnaso, l'Elicona e la fonte di Pirene. Ora, al v. 1, in posizione di tutto rilievo, l'Ippocrene è indicata non direttamente con il suo nome greco, ma con la sua scomposizione in 'tmt0ç, «cavallo» + Kpi]vri, «fonte», tradotta in latino, fons caballinus, dove l'effetto vagamente comico è dovuto al registro basso, che determina la scelta dell'aggettivo derivato non da sonipes, «destriero», o da equus, «cavallo», ma da caballus. Vv. 1-2: «Non ho mai né bagnato le labbra alla fonte del ronzino,/ né ricordo di avere sognato sul Parnaso a due punte,/ per riuscire, così all'improvviso, d'incanto, un poeta» 19B. La connessione dell'lppocrene con il cavallo Pegaso, fondata su una nota etimologica, è in Cornuto, Compendium, 22, dove «Pegaso» è ricondotto a nriyi]: «Si riferisce al medesimo criterio (del legame di Posidone con le acque) anche il fatto che il figlio di Posidone sia ITT]yacroç, che trae nome dalle fonti [nriyai]». Una conferma dell'interesse di Persio, condiviso con Cornuto, per le etimologie, intese come ricerca dei significati originari delle parole, si può ravvisare nell'elogio rivolto al poeta Cesio Basso quale «artefice mirabile, in versi, delle antiche espressioni originarie», mire opifex numeris veterum primordia vocum: come autore di etimologie in versiI99. Most200 suggerisce che si possa leggere un gioco etimologico su nriyi] anche nel discusso aggettivo semipaganus con cui Persio si designa nel v. 6 dei Choliambi: si tratterebbe di un altro indizio dell'interesse del poeta per l'etimologia. Forse questa problematica qualifica di «semi-campagnolo», per Most, può essere posta in relazione con la spiegazione fornita da Cornuto in Compendium, 14 del fatto che, secondo il mito, le Muse, per Cornuto simbolo della cultura, danzano sulle montagne: «poiché gli amanti dell'apprendimento hanno bisogno di rimanere isolati e si ritirano di frequente in solitudine, "senza la quale nulla di ragguardevole si scopre"». Persio, in quest'ottica, sarebbe un «semi-campagnolo» in quanto, l 98 Nec fonte labra prolui caballino, I nec in bicipiti somniasse Parnaso / memini, ut repente sic poeta prodirem. Sui Choliambi: Somville 2001. Testo di Persio: Oleg 2002. 199Sat. VI 6. Questa interpretazione, avanzata da Jahn 1843, ad l., e ricusata da Harvey, 1981, ad l. senza motivazione, è riproposta con ragione da Most 1989, 2053. Per la tradizione di invocazione alle Muse presupposta dai Choliambi basti Fantuzzi 2002, c. I 1, Invocare le muse, invocare modelli, 3-20 con bibl.
200 Most 1989, 2052.
~·AJ,LEGORESI DI CORNUTO E DEGLI ALTRI STOICI ROMANI
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ur abitando in città, si sarebbe ritirato spesso in campagna per applicarsi
~Ua filosofia20I.
4.4. La V satira di Persia documento su Cornuto e sul suo pensiero etico Dunque, quanto si può ricavare dai Choliambi è l'interesse di Persio per !'etimologia e una certa dichiarazione di poetica, mentre è soprattutto nella Sat. V, indirizzata a Cornuto, che Persia non solo ci informa dello stretto vincolo che aveva con il maestro, ma sembra anche ispirarsi agli insegnamenti di lui nell'esposizione del proprio pensiero sulla vera libertà, quale, secondo l'etica stoica, può essere soltanto quella di chi vive rettamente (w. 10409) e sa tenere a freno le passioni (w. 109-12)202. Persio immagina che la satira si svolga come un ideale colloquio con il maestro, durante il quale egli vuole esprimere quanto gli giace nell'intimo della coscienza, plasmata da Cornuto stesso, mostrargli «quanta parte della sua anima appartenga» a lui. Il maestro è invitato a verificare come le parole di Persio corrispondano alle sue convinzioni, foggiate da Cornuto stesso, e non siano solo un'imbellettatura203. Persio rievoca l'incontro con il maestro, quando il poeta era ragazzo, in un'età in cui gli sarebbe stato facile sviarsi, specialmente in una città come Roma20 4. Gli insegnamenti di Cornuto, infatti, come quelli del suo contemporaneo Musonio, stoico romano-etrusco, erano ispirati a Socrate («accogli i teneri anni nel tuo abbraccio socratico»), e intendevano educare la razionalità e, per conseguenza, curare la dirittura morale dei discepoli205. 201 Anche la conclusione dei Choliambi può essere interessante: Persio, vv. 8-14, dichiara che a spingerlo a poetare è stato il bisogno del ventre, e non l'ispirazione come nel caso dei poeti raffigurati nelle statue: «Le abitanti dell'Elicona e la pallida fonte Pirene I io le lascio a coloro le cui statue lambiscono I le edere che si avvinghiano,, (vv. 4-6), ove si può forse discernere un richiamo all'idealizzazione dei poeti antichi, depositari di una "teologia" sottesa all'allegoresi stoica, secondo un concetto presente in Cornuto, c. 35. 202 Infatti, la legittimità del ricorso a Persio per lo studio del pensiero di Cornuto è riconosciuta anche da Hays 1983, 38; e da Morford 2002, 194-95, che ammettono l'importanza della Sat. V nella documentazione degli interessi etici di Cornuto (cfr. Saccone 1985); da Runchina 1983, che studia la Sat. V come documento del rapporto di Persio con Cornutò; da Zietsman 1991 , che valorizza il tributo di Persio verso Cornuto, il quale lo ha aiutato a divenire veramente libero, e da diversi altri studiosi che hanno analizzato la V satira sotto varie angolature: Reigl 1956; Anderson 1960; Paratore 1964; Schottlaender 1966; Brunner 1971; Zietsman 1980 e soprattutto Id. 1988; Pinotti, 1981. Bellandi 2003, 187 ss. vede come dalla satira, di cui rileva gli echi oraziani e lucreziani, emerga la figura di Cornuto, che - a differenza di Epicuro per Lucrezio - rimane dulcis amicus e pater philosophicus, senza divenire un dio. 203 Vv. 21-29. Tr. mie anche di seguito; ed. Clausen 1992. 204 Cfr. Mazzoli 2002. 205 Cfr. Lutz 1947. L'incontro avvenne «quando il cammino è ancora incerto e
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Dopo avere ricordato la sua vita in comune con Cornuto, Persio ai disparar vizi degli uomini, elencati secondo la tipologia dei ~io1, i generi di vita, con~ trappone la vocazione del maestro allo studio e all'insegnamento della filosofia stoica206, simboleggiata da Cleante, l'unica fonte che Cornuto cita nel Compendium: «Mille sono le tipologie umane e variopinti i comportamenti ... 207 Ma a te di notte piace impallidire sulle carte: I educatore infatti sei di giovani, sei uso seminare nelle orecchie I purificate la messe di Cleante» Per Persio è indiscutibile l'appartenenza di Cornuto allo Stoicismo e, in par~ ticolare, il suo ispirarsi allo Stoicismo antico, che abbiamo visto documentato dal suo interesse per Crisippo. Non è un caso che nell'unica opera di Cornuto non frammentaria, il Compendium, siano ravvisabili numerose ascendenze crisippee. Quindi Persio, secondo un modulo che trova un famoso antecedente nell'apertura della Epistula ad Menoeceum di Epicuro208 esorta tutti, giovani e vecchi, a mettersi alla scuola filosofica di Cornuto. No~ è mai troppo presto, infatti, per iniziare a praticare la filosofia, poiché equivale a perseguire la libertà, necessaria a ognuno: libertate opus est (v. 73). Ma tale libertà non è quella che acquisiscono i liberti (w. 74sgg)209, e neppure l'errore, che nasce dal non conoscere la vita, I porta gli animi inquieti su vie che si diramano»: è evidente il riferimento alla pitagorica lettera Y simbolo di un bivio morale, quale quello immortalato da Senofonte nel mito di Eracle al bivio. La scuola di Cornuto è stata per Persio anche condivisione di vita con il maestro, giorno e notte, che ha portato a un'armonia tanto profonda tra i due da far sospettare che abbia un'origine fatale. 206 Vocazione stoica all'insegnamento: Pire 1958; tradizione dei ~iot: Castaldi 2003. 207 Vv. 52-65: i ~iot sono illustrati nella parte omessa: «Ciascuno ha un suo volere e non si vive tutti con uno stesso desiderio. I Questi ecco scambia con le merci italiche, sotto il sole d'Oriente, I pepe rugoso e grani del cumino che fa impallidire; / questi invece, ben sazio, preferisce ingrassare nel sonno ristoratore; I questi indugia nel Campo Marzio, questi si lascia rovinar dai dadi, quegli I s'imputridisce nei piaceri; quando però la gotta che impietrisce I ha ridotto le articolazioni simili a rami di un vecchio faggio, I allora sì, si dolgono che i giorni crassi siano trascorsi con la loro I luce malsana, e piangono - ormai tardi - la vita che loro è rimasta»: si contrappone a queste la scelta di Cornuto. Lo Stoicismo dell'immagine del viatico è confermato da una diatriba di Musonio (comm. Ramelli 200ld) intitolata Qual è il miglior viatico per la vecchiaia? - risposta: la pratica della filosofia. Quella che insegnava Cornuto. 208 La si veda oggi, con commento e tr., in Ramelli 2002c: «Né uno, se è giovane, esiti a studiare filosofia, né, se si trova a essere veçchio, si stanchi di praticarla... » (Diogene Laerzio, X 122). 209 Forse Cornuto era un liberto degli Annaei e questa riflessione poteva essere presente nei suoi insegnamenti, come ad es. l'esperienza personale dell'esilio è nelle diatribe di Musonio (Ramelli 1999d; Ead. 200ld, intr.; tradizione diatribica: Capelle 1957). Cfr. Schottlaender 1966, 533-39; schiavi e liberti nella prima età imperiale: Bellen 200la; Schumacher 2001; duBois 2003. statuto dei liberti: Bellen 200lb; lweiler 2001; Herrmann 2001.
L'A]..LEGORES I DI CORNUTO E DEGLI ALTRI STO ICI ROMANI
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una vita condotta come ci pare210. Persio dichiara che la legge comune di natura, la publica lex hominum naturaque, contiene la norma sancita dal diritto divino (jas) che chi non ha saggezza non può vivere rettamente ed essere davvero libero (w. 96-99). Gli imperativi morali sono dunque fondati sulla. legge naturale e su quella divina che governa gli uomini e il cosmo. Quindi il poeta, denunciata l'assurda pretesa di essere libero da parte di chi non è saggio, elenca, ai w. 101-14, i requisiti di saggezza necessari al possesso della vera libertà tali che, se li si possiede, si è liberi , giuridicamente con il consenso dei pretori, e moralmente con il consenso di Giove, custode della legge morale: Tu diluisci elleboro21 l e non sai poi fermare/ l'ago della bilancia ad un preciso punto .... / l'arte ti ha posto in grado di vivere/ con rettitudine e del vero I sai riconoscere l'aspetto con prontezza .. .? I E quel che va perseguito e ciò che va invece evitato212j l'hai segnato, il primo con la biacca, e questo col carbone? I Nutri tu aspirazioni moderate, hai dimora modesta, sei dolce con gli amici? .. ./ E riusciresti a passare oltre a un soldo conficcato nel fango,/ senza ingoiare l'acquolina che fa venire Mercurio? I "Queste virtù sono mie, le possiedo": se potrai/ dichiararlo in tutta verità, sia tu/ e libero e saggio [liberque ac sapiens], col favore dei pretori e di Giove. Nell'esposizione della dottrina morale appresa da Cornuto, Persio sembra ricordare anche gli insegnamenti legati all'esegesi della teologia greca da parte del maestro, su Mercurio213 e su Giove, interpretato da Cornuto nel c. 9 come Liberatore. La vera libert~ infatti per Persio non viene dal pretore, bensì da Giove, e si esplica nel discernimento dei veri beni in contrasto con quelli apparenti, da cui discende la capacità di vivere rettamente, in modo equilibrato e libero da cupidigie. La virtù stoica, per Persio e probabilmente anche per Cornuto - dato che gli insegnamenti di questa satira sono presentati come frutto dell'apprendistato presso il maestro - , non è
210 Il poeta fa intervenire un contestatore stoico a dire che ciò non basta per essere, iperbolicamente, «più libero di Bruto», che assassinò Giulio Cesare in nome della libertas, intesa in senso politico: Clarke 1981 ; Morford 2002, 43-47 e 56. Altro esempio di libertasper gli Stoici è Catone Uticense, citato da Persio nella sat. III come paradigma stoico: Tandoi 1965; Wirszubski 1960; Morford 2002, 47-50; 53-55; 172-73. Passioni nei neostoici: Donini 1995; anche Sorabji 2000. 211 Ossia «non sei sano di mente»: l'elleboro era una pianta usata per curare la pazzia. 212 Categorie stoiche: a\.pEtci e cpE'UKtci. 213 Nei w. citati Mercurio è protettore dei denari e degli oggetti trovati per strada, concezione spiegata anche in Cornuto, c. 16: Mercurio in forma di statua lungo le strade, chiamato «stradale» [Èv6otoç], testimone dei ritrovamenti; le scoperte chiamate «doni di Ermete».
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ascetica durezza, ma presenta anche risvolti quali la mitezza e la generosità verso gli amici. Una simile mitigazione di alcune asprezze vetero-stoiche e ra stata notoriamente operata da Panezio, recepita da Cicerone nel I sec. a.e e poi dagli Stoici romani214. · Ma anche altri spunti in Persio possono essere correlati al Compendiurn: sono stati individuati da Most e possono effettivamente riflettere l'insegnamento del maestro215. L'intero discorso svolto nella II satira sul vero culto, a critica delle superstizioni, accompagnato alla chiusa della V satira, w. 179 ss. con un ulteriore attacco alla superstizione, risulta in accordo con la con~ danna della superstizione nell'epilogo del Compendium, che a sua volta si pone n el solco della tradizione stoica ostile alla superstizione in quanto passione216: «Riguardo all'allegoresi, poi, e riguardo alla venerazione degli dèi e agli atti compiuti convenientemente in loro onore, assumerai gli usi patri e la ragione perfetta, poiché solo così i giovani sono condotti alla pia venerazione e non alla superstizione». Persio insiste poi sulla topica dello studio delle veglie e del pallore che ne consegue in più punti delle satire, e spe~ cialmente nella V2 17 , con diretto riferimento a Cornuto: «a te di notte piace impallidire sulle carte». Queste idee trovano piena concordanza con Cornpendium, 14: C'è bisogno dell'indagine scientifica svolta durante la notte, ai fini dell'istruzione:i non per altro motivo i poeti chiamarono la notte "propizia'', ed Epicarmo, ad es., dice: "E se uno va cercando qualcosa di sapiente,/ è di notte che deve meditare". E: "Tutte le cose buone, è piuttosto di notte che si trovano" ... L'erudizione risulta dalla permanenza all'interno della casa e dalla sedentarietà. Anche il collegamento tra le Muse e la ricerca si trova sia in Persio, precisamente nella V satira dedicata a Cornuto, w. 21-22, sia in Cornuto, c. 14: 214 Panezio e il ripudio dell' apatheia: es. Reale 1993, III, 443-44; cfr. Prost 2001; Cicerone da Panezio: es. Annas 2001; Morford 2002, 34-97. Poco oltre, w. 124-25, ritorna con incisiva sintesi il medesimo tema della vera libertà, che non è giuridica, bensì etica: i padroni più temibili sono infatti le passioni, che nascono nell'intimo e asserviscono l'uomo; cfr. Sorabji 2000, 29-75 e c. 21 per il rapporto delle passioni con la libertà e la volontà nello Stoicismo; passioni nello Stoicismo: Konstan 2001; Harris 2001. . 215 Cfr. Most 1989, 2052-53: i paralleli sono per intero in Ramelli 2003, commento, sebbene non costituiscano, di per sé, la dimostrazione di una dipendenza. 216 Cornuto, c. 35. Per l'analisi della concezione religiosa nella Sat. II: Ramelli 1997; Ead. 200la per la condanna stoica della superstizione cfr. Ead. 2003, commento al c. 35. 217 Sat. I 26, 124; III 54-55, 85 e V 62-63. Quello del pallore notturno degli studiosi è un topos che si ritrova ad es. in Marziano Capella, I 37: la giovane Filologia è pallida e dedita a strenue veglie per amore dello studio: «O forse c'è qualcuno che oserebbe asserire di non conoscere le operose veglie (se. di Filologia) e il pallore di uno studio costante?». Cfr. Ramelli 200lh, ad l.
1.,'ALLEGORESI DI CORNUTO E DEGLI ALTRJ STOICI ROMA!' !!
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«Si chiamano Muse dalla µcòcrtç, dalla ricerca». Ancora: se Persio allude agli antenati sorti dalla terra in Sat. VI 56-58, Cornuto nel c. 20 menziona «i rimi uomini, nati dalla terra», e al c. 18 dice: « gli esseri umani nacquero ~alla terra» . Così, la relazione tra Ermete-Mercurio e il denaro, incontrata nella V satira, si ritrova in Persio, VI 62, e in Cornuto, 16218. 4.5. Accenni ai rapporti tra Cornuto e Silio Italico Tra le opere di Cornuto abbiamo visto un commento all'Eneide, X dedicato a Silio Italico. Questo dato, che denota conoscenza e simpatia tra i due intellettuali, si sposa bene con le riconosciute propensioni di Silio per lo Stoicismo2 19 e con la sua ammirazione per Virgilio220, tale che egli, secondo le fonti antiche, collezionava i cimeli del poeta e acquistò addirittura il suo sepolcro. D'altro canto, si sa che l'Eneide è il modello letterario dei Punica di Silio , presentati come la sua continuazione, nel senso che la guerra di Annibale discenderebbe dalla maledizione di Didone contro i discendenti di Enea. Mentre le recenti opere maggiori su Silio non sembrano interessate alle sue relazioni rispetto a Cornuto22 1, e mentre Marmorale, pur ammettendo la conoscenza tra i due, ritenne che Silio avesse ricavato poco o nulla dalla frequentazione di Cornuto222, Most ha condotto un 'analisi comparativa preliminare tra la teologia di Silio e quella del Compendium, pervenendo a risultati parziali, ma significativi223. Sembra prestarsi bene a raffronti con il Compendium la presenza stessa degli dèi nell'epica di Silio, una presenza importante, invasiva e deliberata. Interessante è la scena dell'assedio di Sagunto in Punica, I 535-40 e 548-52, in cui Giove tuona, lanciando una folgore, e ferisce Annibale: Giunone accorre in suo aiuto. Dalle parole di Silio risulta chiaro che Giove è posto al di sopra delle nubi, le quali egli deve diradare per lanciare la sua saetta: «Qui un improwiso fragore/ eruppe, dopo aver squarciato il cielo,/ tra dense nubi, e scosse la terra,/ e proprio sopra le battaglie il padre/ tuonò due volte, con un doppio fulmine»224. I lampi devono infatti attraversare la zona della confusione delle nubi e dei venti 218 «Fu ritenuto che presiedesse ai commerci e fu chiamato protettore dei traffici mercantili e apportatore di guadagno, in quanto egli solo è causa dei veri guadagni per gli uomini». Allegoria degli dèi in Persio: anche Knickenberg, 1867, 109. 219 Albrecht, 1964; Vessey 1974; Billerbeck 1986, part. 3134-43; Danesi 1989; Laudizi 1989; Matier 1990; Cotta 1999; cfr. contributo su Silio di M. Leigh in Taplin 2000.
220 Cfr. Ahi 1986. 221 Kissel, 1979; Reitz 1982; Schubert 1984; Kuppers 1986. 222 Marmorale 1956, 145: si riferisce alla condiscendenza di Silio verso Nerone. 223 Most 1989, 2057-59. 22 4 Vv. 535-537: Hic subitus scisso densa inter nubila caelo I erupit quatiens terram fragor, et super ipsas I bis pater intonuit geminato fulmine pugnas. Presenza degli dèi nell'epica, rifiutata da Lucano (cfr. Le Bonniec 1970): Feeney 1991.
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prima di arrivare a terra: «di là, attraverso le nubi, nel cieco turbinìo d . venti/ corse la lancia punitrice della non giusta guerra»225 , Giunone, inveeei è situata in cima a una montagna: «Ma Giunone, che stava a guardare sui~' cima dell'alta Pirene ... »226; ella accorre in aiuto di Annibale attraverso l'ariaa circondata da una nube oscura: «vola in aiuto, per l'aria, ravvolta da un'o'. scura nube»227. Abbiamo visto tradizionale nello Stoicismo, già dall'Antico l'associazione di Zeus/Giove con l'etere e di Era/Giunone con l'aria, conti'. gua all'etere e subito al di sotto di esso, ed è sostenuta anche da Cornuto, cc. 2-3, il quale associa anche il fulmine a Zeus, che lo scaglia dal di là delle nubi, nel c. 9. Ancora per il resto del poema di Silio, Giove rimane associato con l'etere e Giunone con l'aria e le nubi228. Un altro punto che potrebbe rivelare una corrispondenza con Cornuto e con la sua attenzione verso l'etimologia e la ricerca delle forme originarie è l'interesse dimostrato da Silio per i nomi antichi, ad es. in XII 113 ss., e verso le tr~sformazioni che i nomi hanno subìto nel tempo, come in III 107 o IX 76. E un interesse che abbiamo visto operante anche in Persio, allievo di Cornuto. Altre rappresentazioni mitologiche nel poema di Silio trovano precisi riscontri nell'opera allegorica di Cornuto: ad esempio, il tridente di Nettuno in Punica, XIV 11 ss. simboleggia la potenza dell'oceano che provoca i terremoti, esattamente come in Compendium, 22. Ancora, in Punica, XIV 585 ss., il Sole è presentato come causa di pestilenze: così nel Compendium, 32, Apollo-Sole sembra ammorbare, talvolta, l'aria e causare pestilenze. In Silio, III 168-69, Mercurio reca i comandi di Giove attraverso le nebbie e gli spazi del cielo, come fa Ermete simbolo del logos nel Compendium, 16, messaggero perché noi conosciamo il volere degli dèi grazie alle nozioni poste in noi secondo il logos. Non mancano in Silio le metonimie, che, s'è visto, hanno alle spalle una lunga storia, come Vulcano nel senso di fuoco, in IV 667-68, 675-76, V 512-13, o Bacco come vino, in VII 169 e 748, XI 406. Un aspetto che colpisce sono anche le allegorie costituite da astrazioni personificate, che, sempre più presenti nella poesia latina dopo Ovidio, ad es. Met. XI 593, costituiscono una presenza vistosa anche in Stazio229. I particolari del mito individuati da Most in Silio e posti in corrispondenza con Cornuto hanno, certo, 225 Vv. 538-539: Inde inter nubes ventoruin turbine caeco I ultrix iniusti vibravit lancea belli.
226 V. 548: Sed luno, aspectans Pyrenes vertice celsae.. . 227 V. 551: Advolat, obscura circuindata nube, per auras. 228 Giove legato all'etere ad es. in V 384 ss.; VI 605 ss.; VIII 652 e XII 602 ss.; Giunone associata ad aria e nubi ad es. in II 534; V 206; XVII 341, 358. Per l'influsso di Virgilio anche su questi aspetti cfr. Hardie 1986, 205, 229, n. 175; 314-315 e 327328. 229 Basti pensare ad es. alla Clemenza e al suo culto spirituale, in confronto con gli dèi tradizionali e con i loro miti, di fronte ai quali il poeta si sente imbarazzato dal punto di vista morale (per ovviare a questo disagio si prese a interpretare i miti allegoricamente!) . Lewis 1936, 49 ss. fa cominciare con Stazio questo fenomeno : cfr.
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!le spalle una lunga tradizione e talora sono provvisti di importanti svilupa. paralleli anche in autori contemporanei a Cornuto. Per limitarmi a un P1ernpio, vedremo il sole come causa di pestilenze in una lunga sezione di ~~adito grammatico. Quindi, non si tratta di convergenze esclusive. Mi sembra tuttavia che, pur senza pretendere che i parallelismi rilevati indichino na dipendenza di Silio da Cornuto, si sia messa in luce una serie di affinità, ~i punti di accordo che sembrano suggerire, secondo Most, che il carattere wico del poema di Silio non sia ristretto ad alcuni tratti etici dei personags i quali Atilio Regolo o Scipione230. Parrebbe, insomma, di intravvedere che f.a negoresi stoica «fisica», unitamente al metodo etimologico, non fosse esclusiva, nella prima età imperiale, di trattatisti quali Cornuto, Cheremone 0 Eraclito Grammatico, bensì che trovasse eco anche in autori variamente legati allo Stoicismo, come il satirico Persio o lepico Silio. Vedremo ora, d'altra parte, che entro lo Stoicismo si possono riscontrare anche divergenze di opinioni in merito alla validità dell'allegoresi: Seneca sembra sfavorevole all'esegesi allegorica dei miti . 4.6. Cornuto e gli altri Stoici romani di fronte all'allegoresi 4.6.a. Divergenze rispetto al valore accordato alle arti liberali. Un confronto con Seneca e con la Cebetis Tabula L'istanza degli allegoristi stoici di fare di Omero un esperto di varie scienze e un filosofo, precursore degli indirizzi di pensiero successivi, trova un riscontro, interessante quanto polemico, in uno Stoico contemporaneo di Cornuto: Seneca. Nelle Epistulae ad Lucilium, 88, 1-5, nel contesto di una svalutazione delle arti liberali o enciclopediche, le ÈyKuKÀ-Wt TÉXVat , ai fini dell'acquisizione della vera sapienza, quella filosofica, che ha come fine privilegiato la virtus, Seneca scrive: .. .sulle discipline liberali [ liberalia studia] ... bisogna soffermarsi finché l'animo non sia in grado di compiere qualcosa di più importante: sono i nostri rudimenti, non le nostre opere realizzate ... non dobbiamo apprenderle, ma averle già apprese [didicisse]... quale di queste discipline spiana la via alla virtù? .. . Quale elimina il timore, scaccia la brama, raffrena la passione? ... (Bisogna vedere) se questi maestri insegnino la virtù o no ... se la insegnano; sono filosofi. Vuoi renderti conto di come seggano a cattedra non per insegnaRamelli 1999b; oggi con bibl. Newlands 2002; Damon 2002. Testo, tr. e nn. in Shackleton 2003. Ess. in Silio: Il 548 ss.; IV 436-437; V 220 ss.; Vl 552 ss.; XIII 581 ss.; XV 18 ss., 96 ss 230 Billerbeck 1986, 3135-41 per Scipione, 3141-43 per Regolo; Most 1989, 2059; ancora per Regolo: Cotta 1999; Gendre 2001, 147 per la costruzione del mito di Regolo in ambiente stoico, spec. Seneca.
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re la virtù? Considera quanto dissimili siano, tra loro, gli studi di tutti costoro: eppure sarebbero simili, se insegnassero le stesse cose, a meno che, per caso, non ti convincano che Omero fosse un filosofo [philosophus], mentre lo negano con gli stessi argomenti in base ai quali deducono tale tesi. Infatti, ora fanno di lui uno Stoico, che approva unicamente la virtù ed evita i piaceri, e non si allontana dall 'onestà nemmeno a prezzo dell'immortalità; ora ne fanno un Epicureo, che elogia la condizione di una cittadinanza pacifica, che trascorre la vita fra banchetti e canti; ora un Peripatetico, che introduce i generi dei. beni, ora un Accademico che dichiara incerta ogni cosa: risulta manifesto che in lui non c'è nessuna di queste teorie, proprio perché ci sono tutte [ nihil horum esse in illo, quia omnia sunt] . L'attribuzione di dottrine filosofiche a Omero sarà caratteristica spiccata del De vita Homeri: in effetti, questa lettera di Seneca, come già un passo dell'epicureo Velleio nel 1. I De natura deorum di Cicerone, è stata considerata rivolta contro gli allegoristi omerici quali saranno Eraclito e lo pseudoPlutarco del De Vita Homeri fin da Gaie e da Mehler23I; questi collegamenti sono ripresi da Stuckelberger e Morford232. La confutazione di simili teorie della sapienza filosofico-scientifica di Omero, basata in Seneca sulla contraddizione reciproca delle dottrine che si erano volute attribuire al poeta, si ritroverà in Sesto Empirico, che adduce lo stesso argomento: le molteplici interpretazioni si annullano reciprocamente233. Riguardo alla posizione di Seneca, interessa osservare come il tema del!' educazione e del rapporto filosofia-arti liberali fosse dibattuto in tempi vicini anche da Filone nel De cong;ressu quaerendae eruditionis g;ratia, un trattato allegorico in cui Sara rappresenta la sapienza, crocpia, e Agar, concubina di Abramo, le arti liberali. E rilevante che un filosofo allegorista stoicheggiante forse contemporaneo di Seneca, l'autore della Cebetis Tabula, esprima una posizione simile alla sua nei confronti delle arti liberali in genere: le fa rien-
231 Mehler 1896, 22, da cui traduco: «il proposito dello Ps. Plutarco è quello di dimostrare che Omero aveva fornito moltissimi spunti alle teorie dei filosofi successivi: e risulta chiaro che questa argomentazione, sotto molti aspetti, doveva appoggiarsi all 'interpretazione allegorica. Cfr. l'Ep. 88 di Seneca, che a partire da Gaie è addotta pressoché da tutti quanti si siano occupati degli spunti di filosofia in Omero, e anche da Cicerone, De natura deorum, I 15, 41. Sia Seneca sia Cicerone deridono tali insulsi "elogiatori di Omero", · Oµiipou Èitm vÈi:aç. 232 Comm. alla lettera in Stiickelberger 1965, che a p. 37 presenta un confronto con la concezione dell'educazione nella Tabula Cebetis; in rapporto alla visione stoica delle arti liberali: Morford 2002, 185-88. Cfr. Morgan 1998. 233 A . Math. IX 29: «Tale è l'insegnamento dei filosofi dogmatici a proposito della conoscenza degli dèi, e credo che non abbia nemmeno bisogno di confutazione: la diversità delle loro interpretazioni rivela la loro completa ignoranza della verità». Barnes 1988; Ramos 2000.
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trare sotto la Falsa Educazione , 'Pi::u8onm8Eia, e sostiene che quanti la pereguono sono convinti di intrattenersi con la Vera Educazione, àÀ:r18tviì Dat8i::ia. Costoro sono innanzitutto i «poeti» (nourmi), quindi «i retori, i dialettici, i musici, i matematici, i geometri, gli astronomi» (prrtopi::ç, 8wf$K'ttKOt, µoucrtKoi, àpt8µ11nKoi, yi::mµÉ-rpm, àcr-rpoÀoym), ossia i cultori delle arti liberali, poi «i critici» (Kpt-rtKoi), la categoria di Cratete di Mallo, e , ancora, alcuni tipi di filosofi professanti dottrine non condivise dall'autore : «gli edonisti» , ossia con ogni probabilità i Cirenaici e gli Epicurei, «i peripatetici [Ili::prnmrJnKoi ] e altri del genere» ( Tab. 13). L'autore della Tabula, infatti, esattamente come Seneca, ritiene che «il cammino che conduce alla Vera Educazione» non sia quello dell'erudizione, bensì della virtù, in particolare quello delle virtù sorelle Temperanza e Fortezza, personificate nei cc. 15-16: ' EyKpchna e Kap-ri::pia, due delle quattro virtù cardinali teorizzate da Platone23 4 e mantenute nello Stoicismo: sapienza, giustizia, fortezza e temperanza. Come Seneca, l'autore della Tabula non ritiene le arti liberali dannose: sono utili, ma non necessarie alla Vera Educazione, mentre necessarie alla Falsa sono ...le lettere [ypaµµma] e, tra le altre discipline [µa811µ frtwv], quelle che anche Platone235 dice che per i giovani valgono come una sorta di briglia [XCXÀtvou], perché non siano attratti verso altro ... se si vuole pervenire alla Vera Educazione, necessaria [àvayKYJ] non è nessuna ... , ma sono comunque utili [XPiJcrtµa] per pervenirvi più brevemente [cruvwµw1Épwç]. Tuttavia, non contribuiscono in nulla [oÙÒÈ:v cruµ~aÀÀE1m] a far divenire migliori ... è possibile divenire migliori anche senza; comunque, anch'esse non sono inutili [oùK axpriarn J236. Come queste discipline sono utili, ma non necessarie alla virtù, così è possibile che chi le possiede non possieda la virtù237. In effetti, se tra gli Accademici e i Peripatetici si tendeva a stimare le discipline liberali utili, se non necessarie, alla filosofia238, gli Epicurei, gli Scettici e i Cinici erano 234 Nella &pubblica, IV 441D - 442D. 235 Cfr. Leggi, 808 DE. 236 Tabula, 33: continua: «come, infatti , talvolta scambiamo discorsi per mezzo di un interprete, e tuttavia non sarebbe inutile che conoscessimo la lingua direttamente, dato che potremmo comprendere qualcosa con maggiore precisione, così anche senza queste discipline nulla impedisce di divenire migliori, ... »: qui c'è una lacuna, ma il senso è chiaro. 237 Ibid. 34: «Nulla impedisce di conoscere la letteratura e di padroneggiare tutte le scienze, e tuttavia essere un ubriacone, intemperante, avido ... e, insomma, dissennato [a~pqva l )) 238 Senocrate le considerava «le impugnature della filosofia» e respingeva dalla sua scuola chi non le aveva apprese (Laerzio, IV 10) e Aristotele le considerava «assai utili ai fini del conseguimento della virtù» (ibid. V 31). Arti liberali nell'antichità: Lachenaud 1997. '
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meno fiduciosi n ella loro utilità. Di Epicuro è infatti nota la polemica contro le discipline enciclopediche, tanto che egli lodava chi si fosse accostato alla filosofia «puro» da esse e invitava Pitocle a fuggirle a vele spiegate239. i Cinici «rifiuta[va] no la geometria, la musica e tutte le arti simifo,240, serve~ dosi dello stesso argomento di cui si awale 1aTabula, che gli eruditi spesso non sono virtuosi241. Gli Scettici, conformemente ai loro principi, facevano notare l'impossibilità di attingere alle verità da queste insegnate242. In àmbito stoico si ravvisano le stesse discrepanze vigenti entro questa scuola rispetto all'allegoresi: Zenone riteneva inutile (axp11cr1:0v) l'educazione enciclopedica243; «Crisippo sostiene che siano utili [EÙXPT\O"'tcl.v] anche le discipline enciclopediche» 244; infatti gli Stoici consigliavano che il saggio si dedicasse alle arti liberali come la musica2 45. Seneca e la Tabula sono più scettici rispetto all'educazione liberale. Secondo Praechter246, per cui gli Stoici avrebbero considerato le discipline enciclopediche come «preferibili» (n:po11yµÉva) entro gli «indifferenti» ( ào1acpopa), la posizione del presunto Ce bete si inserisce bene nel quadro generale della scuola, differenziandosi dalle posizioni ciniche, più drastiche nel rifiuto della educazione liberale247. Quanto a Cornuto, mi sembra che diverga da Seneca, con evidenza, sul valore delle
239 Cfr. ad esempio Sesto Empirico, Adv. Math. I 1 (Blank 1998); Diogene Laerzio, X 6; Plutarco, Non passe suaviter vivi secundum Epicurum, 1092D-1096E; Cicerone, De finibus, I 21, 71-72. Sull'avversione di Epicuro per le arti liberali, cfr. ad es. Gigante 1981, 179 ss.; Erler 1994, 169-70. I testi con brevi aggiornamenti si troveranno in Ramelli 2002c. 240 Diogene Laerzio, VI 104. 241 Jbid. 27-28. 242 Sesto Empirico, Adv. math. I 6. 243 Diogene Laerzio, VII 32; SVF I 269. 244 Jbid. 129; SVF III 738. 245 Cfr. Quintiliano, IO, I 10, 1-2 e 15. 246 Praechter 1886, 23 ss.;·cfr.Jaeger 1943 (oggi in Bellanti 2003a) . 247 Per Marrou 1955, invece, secondo il quale furono solamente gli Stoici successivi a Crisippo a valutare l'importanza di queste discipline (e le fonti gli danno ragione), la tesi di "Cebete" risente anche di influssi cinici, come pure per Joel 1901, Il, part. 322-32, che legge in chiave cinica pure la distinzione "cebetiana" tra Vera e Falsa Educazione.Joly 1963, 75-77 ravvisa nel punto di vista di "Cebete" certi influssi neopitagorici, come anche nel resto della Tabula, mentre Fitzgerald-White 1983, 16264 notano giustamente il parallelo con la cit. Ep. 88 di Seneca sull'educazione, richiamando anche l'importanza dell'eredità socratica: Socrate in Senofonte, Mem. IV 7, 28, consigliava sì lo studio delle discipline liberali, ma «fino a un certo punto», «fino a dove fossero utili» alla vita, ed esortava a passare ben presto ad altro. Questa posizione precorre quella del socratico "Cebete" e anche quella di Seneca, appartenente allo Stoicismo, scuola socratica. Ma lo Stoicismo dell'epoca di Seneca non aveva opinioni monolitiche né riguardo alle discipline liberali né rispetto all'allegoresi.
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arti liberali, che egli stima non solo utili , ma necessarie al fine della filosofia, che , nell ' ottica dello Stoicismo romano tendente a privilegiare l'etica, è l'acquisizione della virtù 248 . Siamo lontani da Seneca, e più vicini a quella che di lì a poco sarebbe stata la posizione dell'autore del De vita Homeri e di Eraclito. Vedremo ora che le posizioni di Cornuto e di Seneca erano opposte anche rispetto all'allegoresi del mito.
4.6.b. Divergenze rispetto all'allegoresi e alla sapienza degli antichi poeti zn ser:eca, Cornuto, Musonio Dal passo citato della lettera 88 di Seneca, che ha paralleli nella Tabula e si inserisce in un dibattito filosofico non solo tra gli Stoici e le altre scuole, rna anche in seno allo Stoicismo, risulta chiaro che l' esegesi omerica nota a Seneca - egli cita solo l 'interpretazione etica, non quella fisica249 - era improntata primariamente allo Stoicismo, che non per nulla è menzionato per primo, ma anche ad altre scuole di pensiero, e che d'altra parte non tutti gli Stoici la condividevano. Così , Anneo Cornuto l'apprezzava e la praticava; Anneo Seneca evidentemente non lo faceva, coerentemente con la sua mancanza di simpatia e la sua critica alle espressioni della religione tradizionale, che egli si rifiuta di "salvare", "curare" o "rettificare" attraverso l'allegoresi250, e coerentemente con il suo presupposto, che discuterò nell ' ultimo capitolo, dell'assenza di sapienza filosofica agli inizi dell'umanità: «Non credo che la filosofia esistesse nell'epoca rozza in cui ancora non erano state inventate le arti,,251. Cornuto invece, c. 35, afferma che gli antichi espositori del mito «non furono gente di poco conto, ma erano capaci di comprendere la natura del cosmo e ben portati a filosofare su di essa in simboli ed enigmi». Anzi, per Nock252 le parole dell'Ep. 88 possono essere considerate una critica a Cornuto253. 248 Cornuto, c. 14: «Zeus generò le Muse da Mnemosine, poiché introdusse le discipline costitutive dell'educazione, le quali, per loro natura, si apprendono grazie all'applicazione e alla memorizzazione, in quanto necessarie in massimo grado ai fini di vivere bene».
249 Osserva Most che il tipo di interpretazione etico-pJicologica, applicata soprattutto ali' Odissea, che qui Seneca sembra avere in mente anticipa quella neoplatonica applicata al poema quale si trova in Numenio, ap. Porfirio, De antro Nympharum, 34; Plotino, Enn. I 6, 8; Porfirio, De antro, 35: cfr. Buffière 1956, 386-87, 414-18; Lamberton 1986: 250 Diverso è il discorso per il sublime inno a Zeus di Cleante, che Cornuto ammirava e citava per l'alta concezione della divinità che ne emergeva, aliena dai culti popolari e dalle superstizioni. Cfr. Morford 2002, 171-72. 251 Seneca, Ep. 90. Problema della verità in Seneca (non attingibile da mito e poeti): Maso 1999; cfr. anche lnwood 1995. 252 Nock 1931, col. 1004. Per Cornuto , e a partire da Posidonio, si può parlare dell'allegoresi etimologistica come di un' «archeologia del Logos» (Torre 2003, 167-68). 253 Diversamente, Cizek 1963, 254, pensa che la tendenza del Compendium sia di
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Sia che Seneca criticasse direttamente Cornuto o che si rivolgesse agli allegoristi in generale, le opinioni dei due sembrano opporsi anche su questo punto, e non per nulla Persio, discepolo di Cornuto, non apprezzò Seneca, come attesta la Vita25 4. Per altro, anche Lucano, pur discepolo di Cornuto, sembra divergerne sulla valutazione del mito teologico255. Seneca non nega che il più antico e venerato espositore del mito, Omero, fosse appoggiare le tesi di Seneca sull'ateismo e sull'Epicureismo: contra Most 1989, 2046. 254 C. 5: «Grazie a Cornuto ... conobbe, tardi, anche Seneca, ma non fu troppo attratto dal suo ingenium», cioè dalla sua indole, dalle sue disposizioni e doti intellettuali». Per Most 1989, 2048 n. 262 un motivo di attrito tra i due fu la recusatio (in Persio, Chol. 1-2; Sat. I 4-5, 34, 50, 99-102, 123, 134, V 3 e 17-18) di trattare tragedie di argomento mitologico da parte di Persio, spiegata con l'istanza di fondo dell'allegoresi stoica che la poesia mitologica esprimesse la verità in origine e poi non più (Most 1989, 2051): proprio le tragedie rappresentano l'intera produzione poetica di Seneca, se si eccettua il prosimetro dell'Apocolocynthosis, la cui attribuzione è stata per altro contestata da più parti (status quaestionis in Ramelli 2001c). Appunto nella Sat. V, dedica.t a a Cornuto, due passi sono emblematici: «quanti intendono parlare in stile alto/ scelgano essi le nebbie d'Elicona,/ se mai a qualcuno o Progne/ o la pentola bollirà di Tieste/ ... lascia stare le mense di Micene,/ con il capo e i piedi» (7-9, 17-18): Persio menziona temi delle tragedie di Seneca, part. del Thyestes (su cui cfr. Davis 2004), mentre la sua scelta è uno stile dimesso, i verba togae. per De Lacy 1948, 250-51, 264-65, 270-71, alla decisione di occuparsi dei problemi etici quotidiani è sottesa la poetica stoica. 255 Lucano scrisse epica di soggetto non mitologico, ma storico, anzi bandì programmaticamente l'intervento divino; emblematico per il rovesciamento della provvidenza stoica è ad es. Phars. VII 445-55; «non esistono per noi decisamente/ dèi alcuni: poiché i secoli/ sono travolti da un caso cieco,/ falsamente diciamo: «"Giove regna" ... / nessun dio v'è che si prenda cura/ dei casi dei mortali»: si è perfino supposto che Lucano avesse aderito all'Epicureismo (es. Griset 1960, 7; contra Due 1968, 214), senza fondamento, dato che nessun'altra dottrina epicurea è da lui accettata: il suo è, piuttosto, un orizzonte stoico divenuto problematico (Narducci 1979; 2002a,b). Così, se è possibile trovare punti di contatto tra la fisica di Lucano e quella di Cornuto (Lapidge 1979, 360-62), è difficile rinvenirne in campo teologico, ove molte sono le divergenze tra i due: oltre alla provvidenza, ripetutamente affermata da Cornuto e negata invece da Lucano, anche la presenza della verità negli antichi poeti e nei miti è n egata da Lucano: «il racconto leggendario, divulgato per il mondo/ anziché la vera causa, ha ingannato sempre gli uomini» (Phars. IX 359-60, 622-23). Most 1989, 2056 rileva che la stretta correlazione istituita da Lucano tra Dioniso e Apollo (Phars. I 674678; V 73-74) e il conflitto tra Ares e Atena (VII 568) non trovano riscontro nel Compendium; la collocazione di Delfi al centro del mondo, affermata da Lucano V 71, è negata da Cornuto, c. 32; la spiegazione dell'epiteto Tritonis data da Lucano IX 354 è diversa da quella di Cornuto c. 20; la scena di magia che coinvolge Ecate nella Pharsalia (VI 431 ss.; Ecate ai w. 700, 737) contrasta con la critica di Cornuto, c. 34, a simili finzioni: «Fu anche inventato, nel mito, che costei contamini la terra, come i morti, che collabori con le maghe e che si awenti contro le case, quindi, alla fin e, che si compiaccia dei lutti e dell'uccisione, da cui alcuni procedettero fino a volere che ella fosse placata da sacrifici assurdi e da sgGzzamenti di esseri umani».
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sapiente, ma tiene a distinguere in modo radicale la sapienza dalla poesia, assumendo che, se pure Omero era sapiente, .non lo era in quanto poeta, bensì prima di essere poeta256. Anche in altri passi Seneca mostra scetticismo e un certo disprezzo nei confronti dell'esegesi del mito stoica, e istituisce un netto discrimen tra filosofia e poesia: ad es. riporta l'esegesi delle Grazie data da Crisippo (e in parte già da Aristotele), a cui si ispira Cornuto, e la definisce ineptiae, «sciocchezze», la giudica completamente fuori luogo, extra rem, un «discorso leggero e fantasioso [ levis ac fabulosus], argomenti degni di vecchiette [ anilia] ,,257. Con uno spirito ben diverso da quello degli allegoristi stoici che vedono nella poesia l'espressione simbolica della verità, Seneca distingue ancora radicalmente tra la poesia, che h a il solo scopo di piacere e non di istruire - la stessa concezione che ad es. Aristarco opponeva all'allegorista Cratete - , e la filosofia, che deve invece giovare alla vita: «queste sciocchezze le si lasci ai poeti, il cui scopo è quello di dilettare le orecchie [ aures oblectare], di intessere una storia piacevole quanto fantasiosa [ dulcis fabula] »; «Ma tu giudica pure vera qualsiasi di queste due alternative: questo tipo di sapere, a noi, a che giova mai?,,258. Interessante appare, in particolare, la polemica di Seneca contro chi si preoccupa di spiegare i nomi assegnati da Esiodo a ciascuna delle Grazie, che è esattamente quanto fa Cornuto259: «ammettiamo che ci sia pure qualcuno talmente asservito ai Greci da dire necessarie queste cose; tuttavia, non ci sarà nessuno che ritenga pertinente [ad rem pertinere] anche analizzare quali nomi Esiodo abbia imposto loro,,260. Pazienza se si discute sulle Grazie, ma prestare anche attenzione alle fantasie di un poeta non riguarda il filosofo: l'espressione ad rem pertinere richiama da vicino l'accusa di essere extra rem rivolta da Seneca all'esegesi crisippea delle Grazie, mentre abbiamo visto come per Crisippo, 256 Seneca fu poeta egli stesso: molti studi sono stati dedicati a definire la stretta relazione tra la sua filosofia e le sue tragedie; cfr. la bibl. in calce a Reale 2000b. 257 Seneca, De ben. I 3-4; part. I 3, 8 e 4, 5 per la definizione ineptiae, I 4, 1 per il "fuori luogo" e I 4, 6 per gli argomenti senili. Cornuto, c. 15. Aristotele, EN1133a 35: «costruiscono un tempio alle Grazie in un luogo dove sia sempre sotto gli occhi, per stimolare alla restituzione, giacché questo è proprio della gratitudine [xapl'toç] : si deve rendere il contraccambio a chi è stato gentile con noi [xaptcmµÉvcp], cioè prendere noi stessi l'iniziativa di essere gentili [xaptçoµEvov] » ( tr. Mazzarelli 1993, 203). Cfr. Azzoni 2002. Cornuto da Crisippo: White 2004. Seneca contro Cornuto: Nock 1931 , 1004; Torre 2003, 167. 258 Seneca, De ben. I 4, 5 e 3, 4. 259 Esiodo Theog. 909; Cornuto, c. 15. Setaioli 1988, 287-93: Seneca dipende da Crisippo e da Ecatone, a sua volta dipendente da Crisippo. Seneca si riferisce a Cornuto anche secondo White 2004 e Torre 2003, 171 ss.: coincidono il numero delle Grazie. la letizia, le vesti, i nomi, Ermete accompagnatore, Eurinome la madre; 177: l'ironica assimilazione del poeta al nomenclator potrebbe alludere al legislatoreimpositore dei nomi del Cratilo e degli allegoristi stoici ridicolizzato da Lucrezio. 260 Seneca, De ben. I 3, 6.
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Cornuto e gli allegoristi stoici fosse importante considerare l'esposizione de· dati mitologici da parte dei poeti, tanto che Crisippo classifica tra le sett~ varietà di dèi anche quella delle divinità inventate dai poeti261. La critica a· Romani «asserviti» ai Greci nell'esegesi del mito si attaglierebbe a Cornuto1 il cui Compendium è in greco. Insomma, è centrata l'osservazione di Most~ «l'atteggiamento di Seneca verso le fonti a cui attingono sia egli stesso sia Cornuto è diametralmente opposto a quello di quest'ultimo: S~E.~ùia) e paternità che deve legare il re ai sudditi come lega Dio al cosmo75. Per Musonio, sempre nella diatriba VIII, il re è la legge vivente, il v6µoç eµ\j/uxoç, un concetto che ha alle spalle una lunga storia, a partire dalla delineazione della figura monarchica data dallo stesso Platone nel Politico, 295E ss., e che fu poi caro soprattutto a Filone e ai trattatisti De regno, ma anche, vedremo, a Cicerone: l'espressione compare in Diotogene, ap. 74 Cfr. Ramelli 200ld, part. l'intr. 75 Il re è veramente tale se ha per i suoi sudditi la stessa amicizia e lo stesso spirito di comunanza [Kotvwvia] che anima Dio nei confronti del mondo, un padre verso i figli (quest'ultimo concetto si invera nel titolo romano pater patriae, poi assunto dall'imperatore: Alfòldi 1971) . Cfr. Isocrate, Ad Nicoclem, 31; Platone, Politico, 311C (in Reale 2000a, 368).
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swbeo, Anth. VII 61: «il sovrano è o la legge vivente o il governante che rispetta la legge». Il concetto è ripreso anche da Clemente Alessandrino, Stromata, II 438 P. Quello di essere legge vivente è un aspetto della partecipazione del sovrano alla perfezione divina. A tale partecipazione umana alla perfezione divina attiene l'istanza, su cui Musonio incentra la sua visione antropologica ed etica, dell'imitazione di Dio, µi.µT]cru; wu 8cou, che l'uomo deve sforzarsi costantemente di attuare per inverare la propria natura (Diss. 17). Anche per "Ecfanto" l'uomo è imitazione di Dio, e il sovrano è tale più degli altri uomini, partecipando del divino in misura maggiore degli altri76. Naturalmente, questa mimesi non va intesa in senso fisico, ma, come per Musonio, in senso etico, per partecipazione alle virtù e alle perfezioni della divinità. Anche Cornuto, c. 14, enfatizza l'importanza dell'imitazione di Dio nella formazione morale: «elemento basilare dell'educazione è guardare verso la divinità e rendersela modello di vita». Un'ulteriore affinità di pensiero tra "Ecfanto" e Musonio riguarda la questione dell'esilio, che in Musonio, come in Seneca, è trattato con attenzione e posto tra i mali apparenti, alla luce della cittadinanza universale del saggio che, specialmente in Musonio, Diss. IX, tende a configurarsi come cittadinanza della "città di Zeus", intesa, su un piano etico, quale comunità degli esseri razionali e virtuosi, dèi e uomini buoni. In "Ecfanto", l'esilio è posto a tema fin dall'inizio del trattato e si declina come condizione esistenziale di ogni uomo, esiliato (àncpKtcrµÉvoç) rispetto alla vera patria celeste e destituito dalla natura più pura77. Anche il tema dell'armonia cosmica, qui accennato nelle ultime parole, si trova sia in Cornuto, c. 32, dove Apollo-sole ne è garante, e c. 14, dove è trasportata sul piano umano, sia in Ecfanto ap. Sto beo, IV 6, 22, per cui la natura di ogni vivente è in armonica corrispondenza con il cosmo. Certo, i punti di convergenza notati non dimostran_o una dipendenza diret ta, ma sono probabilmente dovuti a fonti comuni. E importante comunque rilevare la condivisione di questi temi in uno stesso periodo e milieu culturale. 4.4. ''Ecfanto" e Seneca
In senso più ampio, si trovano riscontri sul tema della regalità anche tra "Ecfanto" e un altro Stoico contemporaneo di Cornuto e di Musonio, Seneca, tanto più che quest'ultimo, fra i trattatisti sul tema, era il più vicino 76 Ap. Stobeo, IV 7, 64; Dio ha infatti creato il monarca prendendo sé a modello (ibid.).
77 Ap. Stobeo, IV 6, 22. Cfr. Empedocle, fr. 115: l'uomo è àncpKt>, ma anche quello sostitutivo es. in ls. 372E5 (Iside = principio femminile della natura) e De Facie, 942D-43D (Demetra e Core = terra e luna) etc.
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tempi di Plutarco, che sono anche quelli di Apuleio: è noto che questo romanziere e retore, il quale era al contempo anche filosofo medioplatonico, nell 'ultimo libro delle Metamorphoses ha descritto una solenne epifania di Iside, e ha intriso l'opera di simbolismo isiaco. Anche in Apuleio è sottesa l'identificazione tra divinità egizie e greche: Arpocrate era assimilato a Eros e al Sole-Horus, Dioniso a Osiride: i sacerdoti di quest'ultimo portavano il tirso e l'edera. Le divinità stesse, nella processione, assumono forma simbolica in ricordo del mito, Anubi con testa di cane, Iside sotto forma di mucca, Arpocrate di serpente e Osiride di acqua dolce nell'urna sacra. Molti episodi del libro XI delle M etamorphoses sono leggibili in chiave allegorica: ad es. la patria, che per il protagonista è Patrasso, e alla quale egli aspira a tornare, è allegoria della vera patria dell'anima umana, l'aldilà; lo spogliarsi del vecchio abito per la seconda iniziazione significa spogliarsi dell'uomo vecchio, e così via. Per l'XI libro, infatti, e per la presenza di simboli isiaci nel romanzo apuleiano è Classica l'interpretazione di R. Merkelbach, di cui ho proposto alcuni spunti 155. Ma allegorica è anche la nota fabula di Cupido e Psiche nelle Metamorphoses, simboli di amore e dell'anima umana, e altri spunti eticil56. Inoltre, a livello teologico va ricordata la concezione, espressa sia nelle Metam. 11, 5 («il mio divino potere è uno, ma con molti aspetti, molti riti, molti titoli») sia nel De munda, 37 (anche se il dio rector e gubernatorè uno, «Ci si rivolge ad esso con molti nomi») , di un'unica divinità dai molti nomi, che concorda pienamente con l'idea sottesa all 'allegoresi stoica secondo cui il dio sommo è uno, ma i suoi vari aspetti assumono i nomi diversi delle divinità del mito. Si tratta dunque di un contesto culturale comune anche a Plutarco. 6.2.d. De audiendis poetis e altre opere Plutarco nell'operetta De audiendis poetis sostiene che Omero celi profondi insegnamenti, ad es. in 4, l 9E: «in Omero si trova un genere d'in155 Merkelbach 1991; per bibl. sul romanzo di Apuleio: Finkelpearl 1998; Zimmerman 1998 e 2000; Magnaldi 2000; Schlam 2000;Frangoulidis 2001; Ramelli 20011, c. 9, aggiornamenti in Petronian Society Newsletter e in Ancient Narrative. Misteri isiaci: es. Kakosy 1999. Apuleio e la religione: Sapota 1999. Pensiero teologico di Apuleio: Moreschini 1983, 135-138: Munstermann 1995; Harrison 2000; Morford 2002, 226-29; ed. Moreschini 1992; Helm 1993. Allegorie animali nelle Metamorphoses: Gomez 2001. 156 Tale fabula (su cui: Moreschini 1991, 1994, 2000; Gollinck 1992; Caltagirone 1998; Callebat 20000; Galligani 2001; Panayotakis 2001) influenzerà l'allegorista Marziano: Ramelli 200lh, intr. e nn.; M. Zimmerman, On the Road in Apuleius Metamorphoses, in Paschalis 2002, 95: le strade difficili nel romanzo sono allegoria delle vie che conducono alla virtù; C. Connors, Chariton 's Syracuse and its H istories o/ Empire, ibid. 24 trova nel romanzo allusioni simboliche a imperatori romani e supporti allegorici alla visione augustea.
ALLEGORISTI STOICI E STOICIZZANTI DEL 1-11 SECOLO
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segnamento silenzioso», crtmnffiµEvov yÉvoc;, Tiic;, 01oa0KaÀiac;,, «che util · 1a specu1azione · [ ava · eEmp11crtc;, , ] con 1· mIU . . pm . , severamente calumente umsce . d. , O . h 1 1 U» , anc e se ta ora, come ne caso 1 -rux11, mero sem b ra conoscere ilnn1acetto ma non ancora il termine, per cui usa perifrasi: la sua espressio~on_ ancora ii:ripre~isa: .In 19E-20B. Plutarco .~ich~ara di ~refe~i~e l'allegor:s~ morale d1 certi mIU a quella fis1ca 157, e cnt1ca m 31E gh eqmhbrismi etimologico-allegorici, come quello già citato di Cleante, che in Il. XVI 223 leggeva, in luogo di ZEU ava ~(J)O(J)VatE, «Zeus sire di Dodona», ZEu àvaomowva'ìE «Zeus che dona» (oiomcrt), in riferimento ai vapori che dalla terra esalan~ "verso l'alto" (avm). In un passo allegorico delle Quaestiones Romanae, 12, 266EF, è espressa la convinzione che la conoscenza della verità sia da ricercarsi nella remota antichità: «Perché considerano Saturno padre della verità? Forse ... perché è verisimile che l'età di Crono, quale presentata nel mito, abbia partecipato in massima misura alla verità». Che di questa sapienza originaria si sia serbata traccia anche nelle più antiche tradizioni cultuali è una convinzione sottesa all 'argomento usato da Plutarco ibid., 364E-365B, dove la tesi che Osiride sia identificabile con Dioniso è sostenuta in base alla somiglianza dei riti tradizionali delle due divinità. Anche in questi casi Plutarco si adegua manifestamente alle concezioni dell'allegoresi stoica. Ancora, nel De facie in orbe lunae, 938F, seguendo il metodo allegorico, Plutarco spiega l'identificazione tra Artemide e la luna in base alla verginità e alla sterilità, ma anche all'aiuto offerto alle donne nel dare alla luce i bambini. Così nelle Quaestiones convivales, III 10, 658F-659 A egli identifica gli dèi della mitologia con corpi celesti, nel solco di una lunga tradizione allegorica alimentata soprattutto dallo Stoicismo. Tuttavia, in De communibus notitiis, 34, 1076F Plutarco ridicolizza la concezione della cittadinanza del cosmo da parte degli dèi-astri, la quale poggia anche sulla già vista allegoresi crisippea di Zeus come cosmo che è dimora di tutti gli esseri razionali: «"Il cosmo è una città e gli astri sono i cittadini" (SVF II 645). Se questo è vero, allora saranno anche membri di tribù e arconti, e il sole 'sarà un consigliere, Espero un membro del pritaneo o un astinomo. Non so, allora, se si dimostri più pazzo chi cerca di confutare tali concetti o chi li sostiene e li espone». Lo scetticismo è più che marcato. E in De audiendis poetis, 19EF Plutarco afferma che gli esegeti sono troppo fantasiosi quando interpretano in senso astrologico - tipo di allegoresi che va distinto da quello astronomico - l'adulterio di Ares e di Afrodite come allegoria della congiunzione dei pianeti Marte e Venere che produce nascite adulterine che, quando il sole riprende il suo corso, non rimangono celatel58. Va comunque ricordato che Plutarco, 157 Cfr. De Iside, 382E-383A. 158 L'astrologia era nota agli Stoici antichi (Ioppolo 1984), ma non sembra da loro usata nell'allegoresi. Plutraco e l'allegoria: Pérez 1992; astrologia antica: Barton 1994; Pérez 1994; Id. 2001; secondo Giannantoni 1994b, l'astrologia era scarsamente presente nelo Stoicismo antico e Panezio è fonte della critica ad essa in Cicerone
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in quanto medioplatonico, non poteva aderire direttamente all'immanentismo stoico della tradizione allegorica e all'identificazione delle divinità con realtà fisiche tout court, o con il logos onnipervasivo. Rimane, insomma, una polarità di fondo, che sembra rendere anche ragione del duplice livello esegetico da lui teorizzato in De audiendis poetis, 23A: Quando i poeti usano i nomi degli dèi, talora nella loro concezione [i:'.vvota] comprendono gli dèi stessi, talaltra designano con gli stessi nomi [òµovuµcoç npocrayopEUOV'tEç] determinate potenze e facoltà [ouvaµEtç ] di cui gli dèi sono datori e fautori. Rimane tuttavia innegabile, al di là dello scarto metafisico tra Platonismo e Stoicismo, il debito di Plutarco verso la tradizione allegoristica stoica: anzi, è vistoso e consistente. Anche nel recupero del valore della poesia Plutarco risulta vicino allo Stoicismo: nell'analisi del De audiendis poetis Whitmarsh osserva a ragione che Plutarco non solo propugna, in modo del tutto analogo allo stoico Musonio, la pari educazione di ragazzi e ragazze 159, ma intende anche riscattare la poesia e l'arte mimetica dalla condanna di Platone nella &pubblica: Plutarco tende alla rivalutazione della poesia nel contesto di una società colta che ha già attraversato ormai la fase di critica al mito antropomorfico e può recuperare la poesia mitologica come patrimonio culturale tradizionalel60. Ora , anche gli Stoici, che applicavano l'allegoresi al mito poetico e alle espressioni iconografiche e cultuali della teologia proprio per evitare di doverle condannare come irrazionali, parrebbero animati dall'intento della creazione di un'ampia sintesi culturale che abbracciasse la tradizione nella sua espressione poetica e figurativa e nelle tradizioni rituali e cultuali.
Div. 2; Favorino, fr. 3 Barigazzi e Sesto Empirico, Adv Math. 5. Così è scettico verso l'esegesi della cosmesi di Era con la fascia magica di Il. XIV 153-189 come purifica-
zione dell'aria all'avvicinarsi dell'elemento igneo: «Interpretano questi miti [µu801] in modo forzato e fuorviante, mediante quelli che si chiamavano "significati nascosti" [unovotm], e che oggi si chiamano "allegorie" [àA.A.mopi.m] ». Qui Plutarco sembra preferire l'esegesi morale, indicata dal Poeta stesso: «I versi su Afrodite insegnano che una musica frivola, canti poco seri, discorsi su soggetti scandalosi danno origine a modi licenziosi ... Il passo su Era mostra bene che l'uso di droghe ... per sedurre gli uomini non solo ha effetto effimero e provoca ben presto disgusto e incostanza, ma fa anche sì che al piacere segua risentimento ... ». Spec. Dawson 1992, 63-65 accentua la presente critica plutarchea dell'allegoresi in senso fisico, riportando ulteriori esempi di esegesi morale, sempre dal De aud. poet., 20BC, 33A etc. Sui passi delle Quaest. Conv. e del De facie. Babut 1969, 380-81; Hardie 1992, 4766-70. 159 Whitmarsh 2001 (sulla Seconda Sofistica), c. 3; anche Levick 2002; Barnes 2002. 160 Whitmarsh 2001, c. 1. Plutarco e la tradizione culturale: Jones 2001; Ramelli 200le, 2002a.
Capitolo ottavo
Le Allegorie dello pseudo Eraclito
«Il sonno è l'estremo confine di ogni parola» pseudo Eraclito, Allegorie
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1. Struttura delle Allegorie Nel proposito di studiare la letteratura esegetica riguardo a Omero e, semmai, di caratterizzarne una parte come influenzata dalla matrice culturale stoica, sono stati owiamente privilegiati quegli aspetti, ricorrenti tra testo e testo, atti a porre in essere una tradizione come tale. In questa parte del testo s'intende adottare un taglio differente concentrando l'analisi esclusivamente su una singola opera, le Allegorie dello pseudo Eraclito, che magari risenta di tutta la precedente tradizione. Infatti l'esame di quest'opera terrà conto di quanto è finora risultato dall'analisi dei rimandi intertestuali all'interno della continuata prassi dei commenti ai poemi omerici, ma in modo tale che ciò non pregiudichi l'incontro diretto con tale testo, impedendo di coglierne la particolarità. Dalle pagine precedenti è chiaro, infatti, come tutti i riferimenti alla tradizione facciano parte del corredo culturale necessario a caratterizzare un buon commentatore: in un certo senso si costituisce una sorta di vocabola-,. rio concettuale comune a tutti coloro che vogliano fare parte della comunità degli esegeti di Omero, o che vogliano dialogare con essa; l'esistenza di simile vocabolario, tuttavia, non ha mai impedito al singolo commentatore di esprimere la sua particolare visione all'interno del generale dibattito interpretativo sull'opera di Omero. Perciò il fatto che molti dei luoghi da interpretare e delle soluzioni adottate tornino anche nelle pagine dello pseudo Eraclito non ci deve portare a ridurre il suo ruolo a quello di mero e pedissequo ripetitore di quanto già detto o scritto, altrimenti verrebbe a pagare come colpa il destino di essere l'ultimo della fila all 'interno di una comune tradizione, col risultato di vedere misconosciuta l'originalità dell'opera e, quindi, la sua ragion d'essere studiata. Ciò che, semmai, si cercherà di evidenziare, in questo caso, è proprio il diverso utilizzo dei topoi in questione, come il loro significato potrebbe risultare diverso, se non addirittura stravolto, in contesti muta ti. Facciamo immediatamente un esempio con quanto troviamo subito ad apertura d'opera: lo pseudo Eraclito si accinge a tessere le lodi della profondità del pensiero di Omero contro la campagna denigratoria intentatagli dai filosofi,
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G.A. L UCCHEDA
dichiarando che essa contrasta con le abitudini dei Greci. Infatti questi invitano i propri bimbi ad accostarvisi senza alcun timore, come a un nutrimento per le loro anime pure, e vi si riaccostano essi stessi, sia da maturi che in età avanzata1. La tesi è che ogni età ritrova il suo Omero; notazione, questa, che sembra richiamare un passo dello pseudo Longino2, anche se l'argomentazione risulta rovesciata: secondo questo autore nei poemi omerici sarebbero rintracciabili diversi stili narrativi adattabili alle diverse età. Mentre per lo pseudo Eraclito le cadenze dei testi omerici sarebbero accostabili alle diverse età dei lettori, per lo pseudo Longino sarebbero accostabili alle diverse età dell'autore. L'argomento così riformulato permette una chiosa allo pseudo Eraclito, che sembra prenderci di sorpresa: «c 'è un solo limite alla presenza di Omero per gli uomini: il limite della vita»3, quasi a voler sancire l'assoluta aderenza dell'esperienza omerica a quella esistenziale, una sorta di intrinseco legame tra testo e vita che denoterebbe l'umanesimo di Omero. Anche in ragione di ciò si cercherà di impedire che il testo risulti schiacciato da quel patrimonio di rimandi culturali che gli deve garantire la riconoscibilità all'interno della cerchia degli omeristi: anzi, proprio nel ripercorrere riconoscibili clichès interpretativi appaiono più chiaramente la sua marcata originalità e le sue differenti motivazioni. Sull'autore, Eraclito il retore o, meglio, lo pseudo Eraclito, è già stato detto che si dispone di poche notizie e per di più incerte, per cui è preferibile parlare del testo, della sua complessa e originale struttura e del contenuto argomentativo. Le Allegorie sono altrimenti conosciute come Homerika problemata, titolo generico con cui si iscrivono nella lunga tradizione di opere a commento dei poemi omerici; il sottotitolo ne specifica gli intenti: «L'allegorizzazione di Omero applicata alle divinità». Sul registro dell'allegorizzazione omerica va rinvenuta la fondamentale unità del testo, assai nutrito di riferimenti e di soluzioni interpretative di diversi passi dell'Iliade e dell'Odissea, mentre sul particolare modo d'intendere l'allegoria potrebbe giocarsi loriginalità dell'autore. La rivalutazione di Omero si snoda per 79 capitoli, 5 di introduzione, 54 sull'Iliade, 16 sull'Odissea e 4 conclusivi: apparentemente potrebbe sembrare che l'autore segua pedissequamente lo sviluppo cronologico degli awenimenti dei due poemi; in realtà il commentatore n el porre l'analisi dell'Odissea dopo quella dell'Iliade realizza un ben preciso disegno argomentativo. Vengono, infatti, progressivamente·messi a fuoco alcuni temi che subiranno successivi ampliamenti e approfondimenti; ciò permette di intuire che nello sguardo complessivo dato ai poemi è possibile percepire una I Alt. I 4-6 nell'edizione Buffièrel962; n ei capp. I-XXV, LX-LXXIX si segue per lo più la traduzione di G. Carugno, la cui edizione è in preparazione. 2 Pseudo Longini De sublime, 9. 3 Alt. I 7.
LE ALLEGORIE DELLO PSEUDO ERACLITO
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trama unitaria e fondamentale che tende a trasformare l'opera di commento in un trattato organico sull'uso dell'allegoria, teorizzata nei capitoli introduttivi ed esaminata in atto in quelli che seguono. Risultano motivi conduttori sia il riconoscere liceità al processo allegorizzante a cui Omero, a detta dello pseudo Eraclito, ricorre, sia il mostrare come la sua applicazione a personaggi e a temi mitologici assolva Omero dall'accusa di vilipendio delle divinità. Tutto ciò prende spunto dal compito, che il commentatore fa proprio, di difendere Omero da quello che, in apertura del commento, egli indica come il «colossale processo universale» intentatogli «per la sua irriverenza nei confronti degli dei»4. Non tragga in inganno il tono apologetico iniziale: in realtà l'intera macchina esegetica messa in piedi dallo pseudo Eraclito per analizzare l'opera omerica e scagionarla dalle accuse platoniche di immoralità, tornerà sui suoi passi e si precipiterà contro Platone e le sue tesi, quasi questo fosse il suo più autentico obiettivo, e il testo assumerà l'aggressività tipica del pamphlet polemico5. Quasi senza soluzione di continuità si passa dal contesto dell'epica, cioè da sotto le mura di Troia, a quello filosofico, fuori delle mura di Atene, del Fedro platonico, per scagliare, alla fine, un deciso fendente sulla filosofia platonica che ha dato luogo alle calunnie su Omero. La disamina della poesia omerica si apre all'interno di un tribunale virtuale; e, infatti, una volta accettate le premesse dei detrattori e ribaltate dialetticamente le tesi che essi sostenevano, il commento si trova già nella traiettoria di diventare tout court un atto d'accusa nei loro confronti. Il processo diventa quello condotto dalla ragione nel difendere Omero, e l'esame dei passi incriminati ed incriminabili dell'Iliade e dell'Odissea potrebbe assumere il ruolo di un controinterrogatorio dei testi d'accusa, in relazione ai quali vengono prodotte testimonianze a discarico, prima dell'arringa finale. Per la verità Eraclito, in fase di premessa, manda letteralmente «alla malora anche Platone, adulatore e allo stesso tempo detrattore di Omero»6, in compagnia di Epicuro. Ma se Platone scaccia come esule dalla sua Repubblica Omero, questi si troverà, nella conclusione, cittadino di diritto di quel cosmo riprodotto da Platone nel Fedro e nella &pubblica proprio dalla descrizione omerica dello scudo di Achille: Eppure Platone esiliò Omero dalla sua città, ma l'universo intero afferma di essere l'unica sua patria7.
Ali. I 1; cfr. E. Belfiore 1983, 39-62. Di uso frequente all'interno delta tradizione filosofica: cfr. Owen 1983. 6 Ali. N 1. 7 Ali. LXXVI 8.
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2. Analisi contenutistica del testo 2.1. L 'allegoria dello pseudo Eraclito: definizione e uso Dunque la tesi di fondo dello pseudo Eraclito è che la mancata comprensione della strategia allegorica messa in atto da Omero abbia causato il colossale fraintendimento che è alla base delle accuse di empietà mosse all'autore, dato che con il termine allegoria ( allegorias) si indica il procedimento grazie al quale nel dire una cosa se ne intende in realtà una diversas. Al riguardo lo pseudo Eraclito cita alcuni esempi tratti da poeti classici (Archiloco, Alceo e Ariacreonte), anche se è inteso che quella che Omero adopera è qualcosa di più di una metafora poetica. L'excursus letterario vale per mostrare che i poeti ricorrono a forme linguistiche radicate nella vita dei propri uditori: essi parlano attraverso metafore marinaresche ai popoli della costa e delle isole, propongono analogie con l'agricoltura agli abitatori dell'interno9: «parliamo servendoci di immagini del tutto diverse da quello che intendiamo esprimere»10. Questo è il parlare figurato consueto ai poeti, dal quale non è estraneo Omero; ma c'è in lui un valore aggiunto, relativo al suo parlare allegorico riguardo agli dei. L'analisi che percorre i due poemi omerici fa risaltare una comune prassi linguistica: se spesso Omero chiama in causa le divinità, anche a sproposito, non sempre egli intende parlare di loro; in altre parole non sempre il significato corrisponde a ciò che i termini immediatamente e di per sé indicano. Più che la dottrina del doppio significato dei nomi divini, di ascendenza palefatiana, quella dello pseudo Eraclito è una precisa strategia allegorica, intesa non più solo come decodificazione che un testo può semplicemente subire, ma soprattutto come prassi comunicativa dell'autore nella composizione dei suoi poemi. Per lo pseudo Eraclito ricorrere alle allegorie non serve solo alla comprensione del testo, un uso del procedimento allegorico che potremmo definire passivo, ma anche a comporlo: anzi, la liceità della chiave interpretativa allegorica si fonda sul presupposto di tale impiego da parte del cantore, come risulta nell'episodio dell'esibizione di Demodoco davanti al suo uditorio. È un sistema comunicativo bidirezionale ed ha delle sue regole precise, per chi ha l'umiltà ancora di stare a sentire il poeta, e di non giudicarlo troppo frettolosamente, come fanno gli emuli dei Feaci. È evidente per lo pseudo Eraclito che il linguaggio di Omero si presenta caratterizzato dall'eccezionalità, potremmo dire dalla paradossalità, proprio nella narrazione di fatti attribuibili agli dei anche se in contrasto con i loro 8
All. V 2.
Cfr. Vetta 2002, 13-15. 10 All. V 9 e 16; cfr. Long 1992, 46.
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abituali comportamenti; tale enfatizzazione si spinge al punto che l'autore «avrebbe commesso un vero e proprio sacrilegio se non avesse parlato allegoricamente» 11. Ma è altrettanto evidente che recuperare la dimensione allegorica di tale linguaggio significa salvare Omero, a dispetto di quanto sosteneva Platone relativamente all'uso di tale strategia interpretativa12. Ma lo pseudo Eraclito, si vedrà, pretende di più dalla propria teoria dell'allegoria: non solo ridare plausibilità ai poemi omerici, ma dare ad essi profondità filosofica, superiore a quella dei testi platonici: Se ci sono degli uomini che per ignoranza non comprendono il suo procedimento allegorico e non sono penetrati nei recessi della sua saggezza, ma rifiutano di esercitare la capacità di giudicare il vero senza tentare e accettano ciò che è costruito con le sembianze del mito, non sapendo che si tratta in realtà di un messaggio filosofico, ebbene vadano in malora13! Perché Omero possa comunicare nuovamente la propria sapienza, è necessario recuperare le regole della grammatica del "parlare allegoricamente" percorrendo tutti e due i testi che in tale linguaggio si esprimono; altrimenti permarrebbero le note di blasfemia, di sacrilegio, financo di follia: Racconti sacrileghi e carichi di follia blasfema infuriano in entrambi i poemi, al punto che se qualcuno, senza supporre un aspetto filosofico, sottraendo senso allegorico li considerasse secondo i criteri della poesia ordinari, Omero sarebbe un Salmoneo o un Tantalo «con una lingua senza freno, malattia fra le più infami»14. Non si tratta di sciogliere qua e là delle figure ardite, delle perifrasi «barocche» o «ermetiche», così care ai poeti, magari appoggiandosi ad opportune e rivelative etimologie riguardo ai singoli termini impiegati: si tratta, invece, di elaborare una teoria del significato che vada oltre ciò a cui le parole di per sé rimandano. Solo a queste condizioni è possibile togliere l'ombra della follia dalle apparenti incongruenze del testo, ridandogli un senso più consono. Ciò è possibile, e su questo lo pseudo Eraclito insiste, solo non applicando ai testi omerici i parametri con cui ordinariamente si valutano i testi dei poeti: non è in ballo il pregio estetico della forma raggiunta con perifrasi ricercate, con immagini insolite e con termini impreziositi; si tratta, al contrario, di recuperare il contenuto più profondo, quello magari filosofico, che il testo adombra e che la tradizione filosofica, da Senofane, attraverso Platone, fino ad Epicuro, tende a negargli. 11
Ali. I 1.
l2 Cfr. Luise-Farinetti, 1998; Mc Cabe 1992; Gaudin 1992; Hall 1980; Moreau 1979; Perret 1982; Whitrnan 1987. 13 All. III 2. 14 Ali. I 2-3.
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Si capisce allora perché punto nodale di tale ambizioso progetto sia proc prio l'allegoria; ma quella qui impiegata risulta, per alcuni aspetti, diversa da quella finora incontrata all 'interno degli altri commenti; segno ne è il fatto che lo pseudo Eraclito non awerte più l'obbligo del corredo etimologico, ricorrendo all'analisi dei significati più profondi degli epiteti. Naturalmente quando è necessario, neppure lo pseudo Eraclito disdegna tale apparato, ma esso svolge un ruolo secondario, semplicemente accessorio: perché in questione non è il significato più autentico delle singole parole, recuperato magari andando a rovistare tra quelli da tempo deposti. Il tentativo di recuperare la verità omerica all'interno delle sue parole per lo pseudo Eraclito è fuorviante e ricondurrebbe alle posizioni platoniche perché, presi nella loro singolarità, i termini omerici invece di rivelare il senso del discorso omerico, lo tradiscono, lo nascondono. Nel linguaggio omerico la somma delle parti non ridà l'intero: cioè il senso di una proposizione allegorica non è dato dai significati che albergano all'interno delle parole che la costituiscono, perché esse stesse stanno per altre. Perciò il metodo di analisi non può essere quello poetico, insiste lo pseudo Eraclito; si tratta ora di capire quale sia quello che egli definisce filosofico. Lo pseudo Eraclito ci offre una traccia che riprendo con le sue stesse parole. Bisogna non accettare ciò che è costruito con le sembianze del mito, rinunciando così ad esercitare la capacità di giudicare. Ora con l'introduzione di allegorie riguardo agli dei s'instaura proprio un gioco tra vero e falso che c'impegna criticamente, poiché bisogna distinguere ciò che più propriamente rimanda agli dei e ciò che riguarda esclusivamente le loro azioni. È necessario, quindi: 1. vedere l'interazione che si stabilisce tra i termini di un'allegoria; 2. far emergere i ruoli che le cose, indicate dai termini, interpretano nel gioco linguistico; 3. cogliere l'estraneità di questo gioco alla natura degli oggetti stessi indicati dai termini; 4. riposizionare l'azione, interpretata dal gioco tra i termini, nel suo contesto più adeguato.
In altri termini: è come se per lo pseudo Eraclito l'allegoria indicasse azioni, secondariamente cose: le parole si sostituirebbero ad altre e ne imiterebbero i comportamenti. Per rintracciare le parole sostituite è necessario recuperare il criterio della naturalità e, perciò stesso, il concetto filosofico di essenza: si deve infatti con la ragione cogliere l'inadeguatezza di un certo attributo o di un certo comportamento n ei confronti di ciò che fa essere dio un dio; di conseguenza, si deve intuire che non è in questione la natura del dio; anche se il dio e la cosa o l'atto attribuitogli si prestano al caso recitando una parte impropria. Cogliere il senso equivarrebbe, quindi, a cogliere l'azione mimata dal dio e dagli altri elementi con cui sta interagendo; men-
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tre un effettivo atto conoscitivo si avrebbe quando l'interprete è in grado di riattribuire l'azione a soggetti più consoni: capire, cioè, di cosa si parli sotto altre spoglie. L'intera operazione potrebbe essere sintetizzata come recupero del contesto originale, cioè di quella naturalità nascosta dalla paradossalità della forma apparente.
2.2. La prima allegoria delllliade: l'ira di Apollo.
È opportuno vedere a questo punto lo pseudo Eraclito all'opera a partire proprio dalla prima allegoria analizzata, quella contenuta nelle prime righe dell'Iliade: l'ira di Apollo. Attribuire tale sentimento al dio è un abbaglio prodotto del generale processo allegorico del linguaggio omerico: lo dimostrano alcune evidenti incongruenze a cui porterebbe l'accettare concretamente tale attribuzione. In realtà l'espressione «l'ira di Apollo» ha un suo preciso senso non riconducibile, dicevamo, alla somma dei significati dei termini che la compongono; pensati d'altronde singolarmente ciascuno dei due termini elimina l'altro dai suoi ambiti di applicazione. Ne deriva che il dio, di cui si predica l'ira, e l'ira, che si attribuisce al dio, nella formula che li unisce significano altro da quello che separatamente significherebbero; il risultato del loro assemblaggio acquista un senso ben lontano dai singoli significati originali. Si parla di 'ira di Apollo' (Apollonos orge) come di 'frecce di Apollo' (Apollonos oiStoi) 15; ma attraverso tali endiadi si indica un solo oggetto di pensiero: quindi non si può considerare il nome del dio declinato al genitivo come un'entità disgiungibile dall'altro termine. Se si pensasse in tale modo, cioè che il nome del dio conservasse in qualunque situazione il suo significato proprio, si genererebbero equivoci sull'identità del dio stesso. Invece lo pseudo Eraclito è esplicito nell'affermare che il nome del dio - ora collegato all'ira ora alle frecce - indichi un'entità assolutamente diversa da quella divina: «il flagello di un 'epidemia di peste, una sciagura non certo divina, ma di origine naturale,,16. Tale soluzione sembra parallela al comune uso linguistico che tende a volte ad identificare Apollo con il solel7; quindi, in questo caso, in causa è la violenza del sole e non del dio, a cui non si addice l'inte'm peranza. L'immagine , così ottenuta, rivela una sua intrinseca coerenza col proseguo dell'allegoria: esiste, infatti, una competizione con Poseidone che sembra sfociare in vero e proprio odio; ma quale motivo, personale o biografico, potrebbe esserci per tale awersione? In realtà tutto ciò sembra riacquistare senso se si ricorre ulteriormente alla chiave interpre tativa allegorica; sarebbe a dire che l'Apollo messo in competizione con Poseidone non è il dio, ma neanche più il sole, come quando gli si attribuiva l'ira; ora indicherebbe il 15 All. VI 3. 16 All. VI 5. 17 All. VI 5 - VII.
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fuoco in contrapposizione all'acqua. Dunque, in questo caso, l'accostare le due divinità è funzionale al mettere in rilievo esclusivamente la reciproca e assoluta incompatibilità. Se ne conclude che, se è il contesto a dare senso alle perifrasi al punto da rendere flessibili e molteplici i significati, questo è sotteso dal tipo di relazione che intercorre tra i termini accostati; percepire tali connessioni sotterranee che vanno al di là delle apparenze dei singoli termini in relazione significa, per lo pseudo Eraclito, cogliere il profondo messaggio filosofico del processo allegorico omerico. Al riguardo fanno la loro comparsa alcune argomentazioni di tutt'altro tipo, sulla natura di certi epiteti e sulle loro più profonde implicanze: tale analisi filologica, decisamente in linea con la tradizione esegetica del testo omerico di matrice stoica, sembra certificare i debiti di Eraclito nei confronti di Apollodoro, citato esplicitamente nel testolS, ma anche di Cornuto relativamente alla capacità di ricavare conoscenze maggiori sulla natura degli dei dall'analisi comparata dei loro epiteti e delle loro genealogie. Più avanti sarà la volta di Cratete di Mallo, mentre ora incontreremo Erodico.
2.3. Il filo argomentativo dell'ira: da Apollo ad Achille Andiamo a vedere di fatto come l'argomento allegorico si rinviene in altre situazioni che arricchiscono la trama dell'ira divina dissolvendo la natura divina di un tale intervento contro gli Achei nella naturale manifestazione di una pestilenza tra gli eserciti accampati. Se punto nodale è l'identificazione di Apollo con il sole, è lo stesso Eraclito che si chiede la ragione dell'insistere su tale sovrapposizione: Queste spiegazioni saranno sufficienti, grazie ad esse ho dimostrato che il sole e Apollo coincidono. Ma tentando di stabilire che cosa? Per dimostrare che il motivo fondamentale della strage causata dalle malattie letali come la peste è il sole. Quando infatti l'estate che il sole ci offre gioisce, mite e dolce, di un piacevole calore, grazie allo splendore moderato, la luce che dà la vita sorride agli uomini. Quando invece arida e infuocata fa scaturire dalla terra vapori malsani i corpi stanchi, indeboliti dall'insolita condizione, soccombono alle malattie letalil9. A questo punto egli deve dare conto delle cause naturali che avrebbero dato luogo a tale sciagurato fenomeno: ed ecco che viene fatta luce sulla stagione, una torrida estate, desumendola da vari particolari riferimenti sparsi nel testo. Poiché dunque identifica il sole con Apollo e afferma che dal sole sono causate tali sofferenze, ne consegue che pone Apollo, per sua 18 All. 19 All.
VII 1. VIII 1-3.
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natura, come responsabile della peste. Tenterò quindi di dimostrare che la stagione durante la quale accadde ai Greci di ammalarsi di peste era l'estate e quindi ciò che si verificò non fu l'ira di Apollo ma una corruzione spontanea dell'aria20. Indizi dell'estate sono la lunghezza dei giorni, testimoniata dal notevole numero di azioni che awengono alla luce del sole; le notti tiepide, testimoniàte dai campi scoperti presso il mare e dalle frequenti sortite in armi; la polvere sollevata nei combattimenti; il bisogno di frescura e la sete accusati dai combattenti 21 . Lo pseudo Eraclito è un accorto esegeta; sa, infatti, che quella individuata è solo una condizione necessaria ma non sufficiente: Se si è d'accordo sul fatto che il periodo in questione sia l'estate e che in tale periodo si manifestino le malattie estive appunto, e che Apollo sia il responsabile dell'epidemia di peste, che cosa ci trattiene dal ritenere che l'evento non sia dovuto all'ira divina, ma alle circostanze atmosferiche22? Contro quale elemento cozzi ancora l'interpretazione naturalistica per essere comunemente accettata è presto detto: perché solo ora scoppia la peste in un assedio durato dieci anni? Chi lo ha deciso? Ed ecco che lo pseudo Eraclito sviluppa un argomento sottile, che sembrerebbe ad hoc, comunque supportato da qualche altra fonte, Eradico appunto, per mostrare che solo nel decimo anno le truppe greche si concentrarono, con continuità e accanimento, sull'assedio di Troia. Durante tutto il periodo precedente, consapevoli della profezia di Calcante, essi si erano dedicati ad azioni di scorreria, avanti e indietro le coste dell 'Asia per esercitarsi nella pratica militare e rifornire l'accampamento di bottino; sopraggiunto il decimo anno, nel quale era destino si compisse il termine dell'assedio, si raccolsero tutti insieme. Li accolse una concavità del terreno e per questo al giungere dell'estate la peste piombò su di loro22a. L'argomento è tratto, per esplicita ammissione dello pseudo Eraclito, da Erodico di Babilonia, detto il cratetese forse più che altro per le sue tendenze antiaristarchee; Buffière tende ad attribuire a questo commentatore d'Omero una pesante influenza sull'autore delle Allegorie, al punto da crederlo fonte dell'intera polemica antiplatonica. Ma il risvolto medico che l'argomento di Eradico conosce, una volta passato per le mani dello pseudo Eraclito, risulta del tutto originale e in linea, invece, con altre riprese di temi e argomentazioni mediche che riaffioreranno in questo commento. Infatti l'annotazione logistica permette allo pseudo Eraclito di passare dall 'ambito epico alla casistica medica, poiché il teatro delle imprese belli20 All. VIII 5-6. 21 All. IX-X. 22 All. XI 1. 22 a All. XI 3-5.
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che dei Greci diventa un esempio concreto di quanto venivano teorizzando i medici della scuola di Kos seguendo le dottrine esposte nel Sulle acque e sui luoghi attribuito ad Ippocrate. Così prosegue lo pseudo Eraclito: Consideriamo ora i particolari della malattia: quasi tutto si collegherà con quanto è stato detto da noi. Per prima cosa Omero nascose sotto la voce portata dalle frecce un fenomeno fisico; ma, per Zeus, non si spaccia per vera la favola delle frecce sonore: in questo verso c'è un contenuto filosofico23 . Il commentatore si appella ancora una volta a un recondito contenuto filosofico che in questo caso sembra combaciare con quello medico, al punto da rinunciare subito alla più superficiale metafora poetica della sonorità dei corpi in movimento, che pure porterebbe all'immagine alta dell'armonia astrale. Invece egli punta diritto sul significato focale dell'epidemia che sembra, a suo dire, far ricombaciare una serie di sequenze narrative dissolvendo, nel contempo, alcune intollerabili incongruenze. Ad esempio alcune difficoltà sorgevano relativamente alla capacità di colpire con precisione tirando frecce con l'arco da lontano e contro luce, quando il dio avrebbe potuto con estrema facilità, data la sua invisibilità, posizionarsi più vicino e colpire direttamente. La tesi della pestilenza risolverebbe egregiamente un altro tormentone per gli interpreti di Omero come Zoilo di Anfiboli, appartenente alla scuola di Isocrate e avverso a Omero almeno quanto Platone, definito dallo pseudo Eraclito «schiavo Tracio ... dispensatore di sciocchezze,,24 : a suo dire l'ira di Apollo avrebbe mostrato un aspetto insano, morboso, comunque irrazionale nello scagliarsi prima di tutto contro cani e muli. Simile comportamento non si addice a un dio, e , se le frecce da lui scagliate sono effetto di una punizione, rimane da capire di che cosa si siano macchiati gli animali. Ma nell'ipotesi della pestilenza naturale, che ammorberebbe la piana dove si sono accampati gli eserciti, tutti i conti tornano: Omero, eccellente conoscitore degli aspetti della natura, descrive attraverso questo episodio ciò che accade durante le epidemie di peste: infatti le esperienze di medicina e di filosofia, che si costruiscono attraverso minuziose osservazioni, hanno riconosciuto che durante le pestilenze il male comincia a diffondersi a partire dai quadrupedi. Due sono le cause molto plausibili del loro essere facilmente preda del male: la regolarità del regime alimentare è sospesa in funzione della sospensione della loro caccia e per questo motivo, riempitisi senza misura di cibo e di acqua, muoioni senza che alcun ragionamento abbia potuto mettere un freno al loro impeto. La seconda causa, quella ancor più plausibile, è che 23
24
All. XII 1-2 All. XIV 2.
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gli uomini respirando un 'aria più pura negli strati più alti dell'atmosfera, sono preda del male più lentamente; al contrario, gli animali che si muovono rasoterra, proprio lì respirano più facilmente le esalazioni malsane25. Le conclusioni sono che non c'è alcuna volontà divina quale causa dello scoppio dell'epidemia. Tempi e priorità sono determinati dall'accidentalità della scelta del luogo da parte degli stessi assedianti. Mentre, per l'uscita dallo stato epidemico, è rintracciabile una precisa responsabilità: È Achille a liberare dalla malattia: Chitone, infatti, «il migliore tra i centauri», gli fu maestro ed era eccellente conoscitore di ogni scienza e straordinario esperto in medicina, in quanto si dice avesse conosciuto Asclepio26. Se Omero è eccellente conoscitore di medicina, Achille è «guaritore» (luter d'Achilleus tes nosou): un'altra ragione di eccellenza per l'eroe greco, che viene così ad acquistare una dimensione intellettuale in qualche modo negatagli. Su questa linea di rivalutazione della figura di Achille lo pseudo Eraclito tornerà, anche se per ora deve impegnarsi a trovare indizi che certifichino la consapevolezza diffusa tra i Greci della naturalità dell'epidemia. Al fianco di Achille Omero dice che si sia mossa anche Era, che, spiega Eraclito, altro non è che una «allegoria della forza della natura,,2 7 . La soluzione naturale della crisi nel campo acheo così viene spiegata: Essendo due, secondo i fisici, gli elementi pneumatici della natura, l'etere e l'aria, chiamano per primo Zeus, l'essenza infuocata, la seconda era, elemento più tenero e per questo femminile. Poco più avanti parleremo di questo con più precisione, ora sia sufficiente dire che, spazzata via l'aria prima torbida, il fuoco fu riassorbito28. La consapevolezza della naturalità dei fenomeni appena avvenuti trova adeguato riverbero nella prassi sacrificale conseguente lo spegnimento del focolaio epidemico, e soprattutto nell'atto sacrificale di Odisseo rivolto esplicitamente ad onorare Helios29. Ma l'ira è un filo tematico che non si esaurisce subito: all'ira di Apollo si collega immediatamente l'ira di Achille, personaggio che avevamo visto essere introdotto da Eraclito quale elemento risolutivo della prima. Se l'ira del dio viene risolta adottando il registro dell'interpretazione allegorica come «traduzione filosofica di un fenomeno naturale»30 che investe la collettività 25 All. XN 3-5. 26 All. XV 1. 27 All. XV 2. 28 All. XV 3-5. 29
A ll. XVI 1-2.
30 All. XVI 5.
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e, perciò stesso, attribuibile alla corruzione del luogo, quella che investe Achille è veram~nte la passione dell'ira, quale manifestazione di una forte individualità31. E curioso notare che in questo caso è proprio il «guaritore» dall'ira allegorica ad essere aggredito da quella reale; allegoricamente deve essere interpretato l'intervento risanante di Atena, la cui apparizione è di un'intensità drammatica come poche: La dea interviene mentre viene estratta la spada; con una rapidità senza eguali lascia il cielo per impedire l'omicidio; con un gesto molto coreografico afferra da dietro saldamente i capelli di Achille 32. Questo gesto presentato in modo così rimarchevole deve avere un suo profondo significato, che sembrerebbe non essere sfuggito a Platone, se, pur denigrando Omero, il filosofo non si è fatto scrupolo alcuno di saccheggiare le dottrine relativamente alle parti dell' anima. A questo proposito inizia un ragionamento ellittico il cui intento è di rintracciare all'interno dei poemi omerici quella tripartizione dell'anima presente nel Fedro, espressamente riportata nel testo33. Chiaramente lo pseudo Eraclito ripercorre all'inverso il tragitto che separa Omero da Platone: dopo aver dettagliatamente documentato la tesi platonica, rintraccia le anticipazioni in Omero: Platone trasse dai versi di Omero, come da una fonte, tutto questo per i suoi dialoghi. Innanzi tutto bisogna esaminare le parti irrazionali dell'anima. Che il thumos abbia sede nella zona intorno al cuore, Odissea lo mostrerà nella sua collera contro i proci, battendo sul suo cuore come se fosse la sede dell'odio contro i malvagi ... Il suo discorso si volge poi a quell'organo dal quale scorrono le correnti del thumos. D'altra parte Omero dice che Tizio, innamoratosi della sposa di Zeus, fu punito in quella parte del corpo [=il fegato] dalla quale aveva incominciato ad escogitare il male ... Rimane da indagare in quale luogo abbia sede la parte razionale. Secondo Omero si tratta della testa che ha ricevuto dal corpo il ruolo di somma guida34. Solo se il testo omerico viene arricchito delle conseguenze che ha saputo trarre Platone, il significato del gesto di Atena nei confronti di Achille appare esplicitato nel modo più completo. D'altronde, sottolinea lo pseudo Eraclito, Omero offre una conferma interna alla interpretazione di tale gesto, richiamando la stessa origine della dea: Omero afferma questa tesi allegoricamente a partire da quanto ci riferisce a proposito di Atena. Dopo che Achille, pieno d'ira, si 31 Cfr. Vegetti 1995. 32
All. XVII 2.
33 All. XVII 9-14. 34 All. XVIII 1-XIX 2.
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gettò sulla spada, essendosi ottenebrato il ragionamento nella sua testa a causa della collera che agisce ·sul suo cuore, in poco tempo esce dallo stato di agitazione e la sua mente torna sobria. Nei poemi il mutamento indotto dalla saggezza è giustamente identificato con Atena, infatti il nome della dea non è nient'altro che il nome dell'intelligenza, poiché essa è una veggente (athrena) che osserva tutto con gli occhi assai acuti dei ragionamenti35. È da non perdere di vista quest'ultimo rilievo relativo ad Atena-sunesis che conoscerà una sua ripresa all'interno del commento dello pseudo Eraclito e il gioco di parole con il termine athrena, «veggente», che verrà da altri riproposto. Per ora rileviamo l'identificazione della dea con la phronesis: Perché prolungare il discorso? Atena è la perfetta incarnazione della saggezza. Essa sopraggiunge come un farmaco (pharmakon) atto a spegnere l'ardente furore di Achille36. Con il ritorno sul tema della guarigione - se Achille è «guaritore», addirittura Atena è il pharmakon - siamo così giunti alla soluzione della seconda allegoria. 2.4. Le allegorie naturalistiche dell'Iliade e dell'Odissea Si è trattato finora di sciogliere due allegorie presenti nella fase introduttiva delle Allegorie (capp. VI-XX) che dovevano avviarci in qualche modo alla prassi dell'esegesi allegorica mostrando come si deve operare nel testo per rintracciare la chiave esplicativa, cioè quel sens,o filosofico più profondo che salverebbe il testo dalla condanna universale. E il momento, ora, di esaminare un atto d'accusa ben più grave contro Omero che riguarda il tema della rivolta degli dei contro Zeus, un motivo che tocca nettamente i toni della blasfemia, più volte ripresa e sviluppata. Per questa empietà Omero non è solo degno di essere cacciato dalla Repubblica di Platone, ma oltre i confini delle lontanissime colonne d'Ercole e oltre l'inaccessibile Oceano37. Il problema è ora dare un senso filosofico o, per lo meno, razionale allo scontro brutale e senza quartiere tra divinità che dovrebbero, invece, governare il mondo: si tratta della theomachia, motivo che serpeggia per tutta lIliade fino a trovare pieno sviluppo nel libro XXI. Per sciogliere allegoricamente tale imbarazzante situazione che più volte si riaffaccia, è necessario affrontare di petto il problema se esiste la sapienza omerica e di quale natura sia. 35 All. XIX 36
All. XX 1-2.
37 All. XXI 3.
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Il bandolo della matassa viene recuperato dalla precedente argomentazione, dove già apparivano alcune divinità: Apollo, Poseidone ed Era. Allora si parlava dell'opposizione tra i primi due atta a indicare i rapporti che intercorrono tra gli elementi naturali da essi sottesi. Ora nella narrazione epica viene introdotta anche Era, che era stata proposta come elemento risanatore. Queste divinità, con i loro reciproci intrecci sembrano essersi rivoltate contro il volere di Zeus al punto da dargli battaglia nel tentativo di spodestarlo e imprigionarlo definitivamente. Ebbene la convinzione dello pseudo Eraclito sembra non discostarsi dalla tradizione esegetica precedente che riconduce ad Omero la teorizzazione naturalistica degli elementi, propria dei primi cosmologi: Omero è l'assoluto iniziatore (heis archegos) delle dottrine fisiche sugli elementi; maitre à penserper tutti quelli che vennero dopo di lui e per quello che fanno mostra di scoprire38. Per fare degli esempi inconfutabili si fanno i nomi espliciti di Talete, Anassagora, Euripide, Empedocle. Quindi sotto le sembianze di un dio, Zeus, viene presentata la nozione di sostanza generatrice e di natura primigenia di tutti gli enti, il fuoco : Invoca il sottilissimo etere collocato nell'ordine più alto; penso che il fuoco di natura pura sia il più leggero, quindi gli è stato assegnato il luogo più alto; credo che questi sia Zeus dal nome significativo, avendolo ricevuto o perché dona la vita (zen) agli uomini o per la sua vitalità (zesin) focosa39. Torna il gusto per le etimologie significative di Cornuto, funzionale al rinvenimento in Omero di una tesi che faccia di Zeus una forza vitalizzante il cosmo, in qualche modo affine al fuoco delle dottrine stoiche . Significativamente fa più volte la sua comparsa phusikoteras theorias, puntualmente ripresa da phusikos10; essa introduce un'angolazione fisicista per l'intera rivolta contro Zeus: lo pseudo Eraclito realizza un'intera rivisitazione delle immagini di conflittualità tra gli dei mirata ad offrire un quadro complesso e completo della natura fisica del cosmo e dei suoi cambiamenti. Tutti i partecipanti al «gioco» della rivolta contro Zeus conoscono la propria riduzione ad elemento - Zeus come fuoco, Era come aria, Poseidone come acqua, Atena come terra4I - o, comunque, a una condizione attinente i processi fisici naturali. Cronos viene associato a chronos, il tempo; Rea rappresenta il flusso, cioè lo scorrere incessante che investe cose e processi nel cosmo, come pure tutti gli elementi naturali e il tempo stesso: Chiama Crono il tempo con il cambiamento di una sola lettera, il tempo che è padre di tutti gli enti ed è del tutto impossibile che 38 All. XXII 2. 39 All. XXIII 5-6. 40 All. XXV l; XXVI 13; XXXVI 1 (phusikes theorias); XLVI 1 (phusikos). 41 All. XXV 7 e XLI 9-10.
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alcuno di essi sia generato fuori dal tempo: per questo è radice di tutti e quattro gli elementi. Per madre gli assegna Rea, poiché il tutto viene regolato attraverso una specie di corrente ( rusei) e da un movimento incessante. Prole del tempo e della corrente sono la terra e l'acqua, l'etere e l'aria che con lui si accompagna42. Teti si pone quale garante della conservazione di tutte le condizioni che permettono la durata nel tempo dell'universo, «contenendo gli elementi all'interno delle proprie regole,,43, ruolo analogo a quello svolto dalla catena aurea, più volte ripresa nell 'VIII e nel XV libro come vincolo stabile per tutti gli dei-elementi44. Il discorso riprenderà più avanti45, a proposito della theomachia vera e propria che vede dei e uomini in una battaglia comune a partire dal libro XX; si tratta, come alcuni esegeti hanno proposto, di una congiunzione astrale in una particolare 'casa' zodiacale, segno di una confusione cosmica che a sua volta è preludio della distruzione universale? Ma a chi è ormai addentro alla saggezza omerica, sembra suggerire lo pseudo Eraclito, appare scontato il gioco delle opposizioni tra vizi e virtù o tra gli elementi naturali. Così ad Ares, la follia, si oppone Atena la saggezza46; contro Letò, che con il cambiamento di una sola lettera si rivela come Letho, cioè l'oblio, si muove Ermete, poiché non si può annunciare ciò che più non si ricorda47. Ad Era si oppone Artemide, facendo riferimento alla corsa della luna attraverso l'aria48. Il significato degli dei chiamati in causa si determina relativamente al contesto del gioco determinato dalle opposizioni intavolate nel testo. Una di queste che vedremo avere una interessante ripresa più avanti nel commento riguarda Iris ed Hermes: tutte e due le divinità rappresentano il discorso, ma distinto in due precisi aspetti. Iris, messaggera inviata da Zeus, rappresenta il discorso che narra (ton eironta logon), come Hermes il discorso che interpreta (ton her.,.. meneuonta); ambedue sono messaggeri degli dei, il cui nome non designa altro che l'interpretazione di ciò che passa attraverso il discorso (tes kata ton logon hermeneias)49. Ci sono, dunque, dei doppi: o diverse divinità vengono evocate per rappresentare uno stesso significato o una divinità risulta invocata con sempre diversi significati: il primo è il caso del binomio Efesto-Zeus, il secondo riguarda Ares. 42
All. XLI 6-8.
43 All. XXV 9-12. 44
All. XXXVI. All. LII. 4 6 All. LIV. 47 All. LV. 4 8 All. LVII. 4 9 All. XXVIII 2-3. 45
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Il primo: stabilite le condizioni di ciò che è per natura, è possibile indicare ciò che non è per natura e di per se stesso è instabile. Ecco introdotta la figura di Efesto come doppio di Zeus: il fuoco non puro, non separato dal mondo, ma trattenuto in esso dall'arte umana. La rovinosa caduta di Efesto , persino le ammaccature conseguite, avrebbero la pura funzione di evidenziare la differenza tra le due condizioni; il suo precipitare sull'isola di Lemno altro non è che la rappresentazione allegorica del prodursi delle fiamme dal cielo, catturando raggi solari con apposite lenti50; e questo dovrebbe essere il primo capitolo della storia della metallurgia umana51. A proposito dell'episodio della caduta di Efesto, lo pseudo Eraclito ci porta a conoscenza di una interpretazione alternativa avanzata da Cratete di Mallo; il che ci permette di mettere direttamente a confronto sullo stesso episodio i due esegeti e i rispettivi metodi . L'interpretazione di Cratete ha dell'ingegnoso: Zeus avrebbe misurato l'ampiezza del cosmo confrontando la distanza percorsa dal proiettile vivente, Efesto, nel tempo che Elios passava da oriente a occidente52. Ma simile interpretazione, risulta allo pseudo Eraclito troppo ardita, quasi barocca; per di più, se prendiamo alla lettera l'episodio come fa Cratete, non si risparmia ad Omero l'accusa di blasfemia per aver descritto il rapporto tra Zeus ed Efesto sul filo del sadismo tra parenti. Invece, questo stesso disprezzo che Zeus sembra manifestare per il proprio figlio se adottiamo l'interpretazione allegorica, come consiglia lo pseudo Eraclito, sarebbe esclusivamente indice della minor nobiltà attribuibile allo stesso elemento naturale, il fuoco, nel suo manifestarsi nella regione terrestre anziché in quella celeste53.
2.5. Metallurgi,a e allegoria cosmologi,ca: Ares, Efesto e le armi di Achille Per quanto riguarda Ares, invece, bisogna contestualizzare il suo nuovo ruolo all'interno del racconto di Demodoco nella reggia dei Feaci: la presenza di Efesto e l'atto di costruire una trappola a scapito di Ares portano questi a fungere da ferro piegato dall'arte di Efesto, il fuoco adoperato dalla techne umana; di conseguenza l'intervento di Poseidone in soccorso di Ares, altro non è che l'acqua in cui s'immerge il ferro per estinguere la fiamma che lo ha piegato e ridargli il suo naturale vigore5 4 • Dobbiamo rilevare proprio a proposito della metallurgia un curioso scambio di ruoli tra segni e significati. Della tecnica di lavorazione dei metalli si parla in due differenti luoghi e in due differenti modi: è esplicita la raffigurazione di Efesto nella sua fucina che fabbrica le armi di Achille55, men5 o All. XXVI. 51 LXIX 12-16. 52 All. XXVII. 53 Porter 1992, 95-97. 54
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All. LXIX. All. XLIII e XLVIII.
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tre è allegorica, più avanti nell'Odissea, l' evocazione dell 'arte del lavoro dei metalli sotto le sembianze della trappola costruita da Efesto per i fedifraghi amanti (Ares e Afrodite)56. Ebbene, nel primo caso il lavoro di Efesto, in quanto attività divina, non va interpretato letteralmente: poiché un dio non ha bisogno di «mani che lavorano senza riposo notte e giorno», come non può essere un infelice o infortunarsi cadendo, né esistono «nel cielo montagne di bronzo, di stagno, di oro e d'argento»5 7 ; ciò significa che il lavoro del dio ne1 testo non raffigura se stesso, ma è segno di altro. Omero, per lo pseudo Eraclito, in questo punto va inteso phusikos, recuperando la sua «grandiosa visione cosmogonica»58: Prepose Efesto, in quanto essenza calda, «il fuoco» infatti secondo Eraclito «tutte le cose, alternativamente» genera59. L'armatura, di fatto, non è tutta d'oro, come quella di Glauco: la_presenza dei quattro metalli richiama i quattro elementi; e il primo oggetto fabbricato è lo scudo di forma sferica alla stregua del mondo60. In nome delle regole del gioco allegorico, quando è il momento che la metallurgia appaia, ciò avviene sotto altre spoglie: risulta, cioè, significato di un'altra e ben diversa azione divina. A chi contestasse questo continuo ricorso alle allegorie come pernicioso alla chiarezza del discorso omerico, lo pseudo Eraclito risponde mostrando come nessuno dei cosmologi naturalisti si sia mai astenuto dal frequentare poderose metafore, senza che ciò risultasse a discapito dei contenuti osservativi. Perché mai dovrebbe questo non valere per Omero, che viene riconosciuto come poeta? E perché mai nei suoi confronti l'ascoltatore o l'uditore non dovrebbe porre la stessa attenzione che pone nel decodificare le immagini di Empedocle? Tanto più che le stesse individuazioni degli elementi in divinità esistono alla stessa stregua in Empedocle, ed Omero non si esprime attraverso allegorie enigmatiche come Eraclito, il presocratico6 1 . Troviamo anche nel!' Odissea la ripresa di analoghi argomenti atti a confermare la presenza stabile di un orizzonte interpretativo naturalistico; è per Proteo che riappaiono le catene, il tradimento e persino l'agguato da parte di Menelao: Il lungo racconto di Proteo che Menelao fa a Telemaco dimostra subito il suo aspetto illusorio e ingannevole; di certo simile a favola è il fatto che l'infelice abitante della piccola isola egizia trascini in eterno la sua pena, che trascorra l'esistenza tra terra e mare, 56 All. LXIX 12-16. XLIII 4-5. XLIII 1. 59 All. XLIII 7. 60 All. XLIII 10-13. 61 All. XLIII 7; XXN. 57 All. 5 s All.
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facendo la guardia a un gregge di foche affinché venga punita anche la sua gioia. La figlia Eidotea favorisce uno straniero a causa dell'ingiustizia del padre e ne diventa complice; a questo punto si aggiungono le catene che lo imprigionano e lo stesso Men elao che gli tende un agguato; poi, ancora, la metamorfosi che lo porta a trasformarsi in tutto ciò che vuole. Tutti questi elementi conferiscono al racconto un aspetto fantastico a meno che qualcuno non spieghi i misteri olimpici di Omero grazie ad un'anima celeste62. Sorprende il finale quasi sarcastico nei confronti di chi tende a risolvere i problemi di interpretazione del testo omerico invocando una forma di sapienza metaumana. Niente di tutto ciò passa attraverso l'interpretazione dello pseudo Eraclito che, invece, scioglie il racconto ribattendo sul tasto naturalistico, di modo che sia presente anche in questo poema il tema della phusis: Attraverso questo racconto Omero descrive la generazione di tutte le cose, le radici da cui è scaturito il tutto per giungere allo stato attuale. Infatti c'era un tempo in cui tutto era informe e paludoso e non era giunta a compimento l'articolazione della materia in forme dai caratteri distinti. La terra, focolare di tutte le cose, non aveva un centro sicuro e il cielo non ruotava con moto perpetuo; tutto era deserto senza sole, triste silenzio e nient'altro che materia sparpagliata. C'era una quiete informe prima che il demiurgo universale conferisse al cosmo ordine, avendogli impresso una forma adatta alla vita in quanto principio cosmologico63. Siamo ancora in pieno clima cosmogonico; il kosmotokos arche qualche riga più avanti verrà indicato come dio, in ragione dello standard demiurgico (forse un'altra eco platonica, questa volta dal Timeo) a cui sembrano ricalcate le sue azioni ordinatrici sulla materia informe: Esso divise il cielo dalla terra, separò la terra dal mare, distinse i quattro elementi, radici e origine di tutte le cose e diede a ciascuna la forma propria nell'ordine. Mescolando sapientemente, il dio... dove prima la materia non presentava alcuna distinzione di forme64. Ci sono poi i mutamenti di forma per i quali lo pseudo Eraclito trova un preciso riscontro: il leone per l'etere, il serpente per la terra, l'albero per l'aria, mentre l'acqua si autorappresenta65. Ma, sottolinea lo pseudo Eraclito, oltre a questi elementi i principi organizzatori dell'intero universo sono due, il secondo dei quali risulta indiscutibile eredità stoica:
62 A..ll. LXIV 1-4. 63 A..ll. LXV 1-4. 64
A..ll. LXV 5-6.
65 A..ll. LXVI 3-6.
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Proteo è chiamato materia indifferenziata e la figlia Eidotea la Prowidenza che dà forma a ogni cosa66. Tornando all'Iliade, quella che potrebbe sembrare una digressione tematica nel commento dello pseudo Eraclito diventa il punto più alto della poesia sapienziale omerica. Si comincia da un'analisi filologica dei termini usati per indicare il sole: akamas, elektor, huperion; tutti rimandano nel loro significato al movimento circolare67. Lo stesso vale per la notte detta thoè, rapida o aguzza, per la quale è d'obbligo il richiamo alle prove dei matematici della sfericità del cosmo a partire dallo studio delle forme delle ombre6B: tutti motivi già presenti in precedenti commentatori gravitanti l'ambiente stoico. Si potrebbero accumulare una quantità enorme di prove sulla credenza di Omero nella sfericità della terra, ma la prova più chiara agli occhi dello pseudo Eraclito risulta essere quella della fabbricazione allegorica dello scudo di Achille69. Nel suo personale apparato filosofico Omero non può permettersi di nominare e contare tutti i corpi astrali del cielo alla stregua di Eudosso o di Arato; d'altronde, conclude Eraclito, il suo intento era quello di scrivere lIliade e non i Phaenomena70. Comunque nella descrizione della fabbricazione dello scudo, Omero ha voluto distinguere le cinque zone in cui i geografi dividono la crosta terrestre alla luce dei fenomeni celesti. Ma in questo caso il rimando è del tutto particolare: più che rifarsi a un precedente tra gli esegeti omerici che pur riportano queste teorie geografiche diffuse, egli chiama in causa lo stesso Eratostene, citandone un prezioso frammento della sua operetta Hermes71. Siamo sempre più decisamente orientati in un contesto scientifico: dal phusikos relativo alla teoria elementare di Empedocle siamo passati alla matematica applicata alla misura della crosta terrestre, attraverso la forma delle ombre studiate dai matematici; quindi dalla geografia climatica, con la suddivisione delle fasce terrestri di Eratostene, si penetra nel cuore dei problemi astronomici con la descrizione dell'eclisse e la sua datazione, fornite da Ipparco e riportate in ciò che ci rimane del cap. LXXV.
2.6. La parola alata e il ragi,onamento nell'Odissea Quale cerniera tra i due poemi nel cap. LIX si illustra l'incontro tra Priamo e Achille, al quale incontro il re troiano giunge vestito di quella che lo pseudo Eraclito definisce «l'armatura della parola»72, che ha il solo pote66 All. LXVI 7. 67 All. XLIV. 68
All. XLV.
69 All. XLVIII All. XLIX A ll. L 5-9. 72 All. LIX 5.
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re di persuadere, he dia tou logou peitho. Quello che si sta enucleando è già il filo conduttore dell'Odissea: accanto a Priamo si materializza Hermes, che prima era apparso nello stuolo delle opposizioni divine, appaiato a Iris. Se ambedue rappresentavano la traduzione verbale del pensiero, il dio era la capacità di interpretare questa espressione verbale del pensiero. Ora nell'episodio di Priamo Hermes diventa anche il discorso che persuade, nella misura in cui interpreta ciò che verbale non è , cioè i sentimenti (ton pathon hermeneus logos): Tale è la forza della parola, interprete dei sentimenti, che Omero gli ha affidato per sostenere la sua supplica73. Or;:i. è la volta della rappresentazione allegorica del pensiero; nella sua lettura dell'Odissea lo pseudo Eraclito torna a parlarci comunque di Hermes, per sempre nuove specificazioni del logos, come parola, come pensiero espresso, come forza persuasiva, come interpretazione di quanto è di norma difficile da esprimere. Potrebbe sembrare scontato che da simili premesse il punto d'arrivo sia rappresentato dalla figura di Odisseo; invece, curiosamente è Telemaco a rubargli la scena. Con i suoi drammatici tentennamenti offre l'occasione allo pseudo Eraclito di farci vedere come Omero ricorra a interventi divini della stessa stregua di quelli già visti realizzarsi per Achille. Owiamente la straordinarietà di tali interventi viene risolta con l'ausilio della tecnica interpretativa allegorica: Un pensiero su ciò che sta avvenendo gli si è insinuato nella mente. Non è più tempo di tollerare la spudoratezza dei pretendenti che dura ormai da quattro anni. Questo pensiero che si va formando in Telemaco è rappresentato in chiave allegorica come apparizione di Atena. Giunge sotto le sembianze di un vecchio che si presenta come Mente, un antico ospite di Odisseo. I capelli bianchi e la vecchiaia, porto sicuro per gli ultimi anni, sono per gli uomini un ancoraggio e, più il vigore fisico diminuisce, più aumenta l'efficacia del pensiero74. Siamo tornati all'interno di uno scenario già visto - la mente umana arricchito però di tutti i percorsi dell'Iliade ; se è d'obbligo il parallelo con quanto si è visto succedere ad Achille in apertura del poema, emerge anche il tema della vecchiaia la cui forza riposa nella capacità di convincere con i discorsi, come emerge dall'episodio di Priamo davanti ad Achille, in chiusura dello stesso poema. Secondo lo pseudo Eraclito ci si può ora spingere «Oltre l'immagine di una dea seduta accanto a lui»75 e cercare di distinguere i diversi pensieri che si susseguono nella mente di Telemaco, come diver73 All. LIX 9. 74 All. LXI 75 All. LXII 1.
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se fasi di un ragionamento o come espressione di diverse e varie funzioni dell'anima. Un primo pensiero, che gli si affaccia alla mente dal profondo dell'inesperienza propria della sua giovane età, rivela pietà filiale e senso di giustizia: non è cosa degna trascorrere giorni inoperosi dimenticandosi di colui che lo ha generato; è necessario, se ama suo padre, che prepari una nave con la quale inseguire le voci d'oltremare per trovare le tracce di Odissea scomparso in terre lontane 76. A questo primo atto mentale primario che pesca nell'inesperienza del!'adolescente77 è necessario che si accosti saggezza, che per ragioni anagrafiche gli è estranea. Osserviamo come il commentatore gradui il progresso di Telemaco mettendo in fila una serie di avvenimenti allegorici: la saggezza che Telemaco ancora non può avere viene a sedersi accanto, assumendo la forma del vecchio Mente. Potremmo dire, con un gioco di parole, che essa rappresenta la presenza dell'assenza, cioè il vecchio raffigura adeguatamente quel tipo di sapere che a Telemaco manca e a cui è necessario che egli si accosti al più presto. Attraverso la parola suadente Mente gli consiglia un viaggio fin dal più vecchio Nestore; costui , a sua volta, non esiterà a spingere Telemaco a un altro viaggio fino a Sparta, da un altro vecchio, Menelao 78.Si tratta di un lungo viaggio a tappe verso un modello di sapere che appare abitualmente frequentato da Odisseo, mentre risulta ancora del tutto sconosciuto a suo figlio . Ambedue i re, commilitoni di Odisseo, possiedono notevole esperienza: viene loro dall'età ma anche dai favolosi viaggi a loro volta compiuti79. I modi del ragionamento prodotto dalle parole di Mente sono quelli propri di un maestro e di un padre e destano in Telemaco «la capacità di assumere la responsabilità della situazione»8o. Viene offerto come esempio di saggezza acquisita, quello di un altro giovane, Oreste 81 ; e di fronte a questa possibilità aperta, Telemaco si sente alleggerito nel prendere le sue decisioni82. Lo pseudo Eraclito crede di poter leggere ciò nella rappresentazione che fa Omero della mente di Telemaco quando la paragona a un uccello ; comunque è la chiarezza degli argomenti prodotti con opportuna riflessione che spinge Telemaco all'azione: 76 Ali. LXII 3-4. 77 Ali. LXII 2. 78 Ali. LXII 5. 79 All. LXII 7; sul viaggio come esperienza e conoscenza cfr. Camassa - Fasce 1991; Ramfos 1972; Frame 1978; Larrain 1987. 80 All. LXIII 2. 8l All. LXIII 3. 82 All. LXIII 4.
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La saggezza di Telemaco, portando su di sé orgogliosa, come penso, una tale responsabilità, si leva diritta. L'assemblea è radunata in fretta e il giovane si esprime con l'eloquenza paterna83. Forse è già stato raggiunto l'obiettivo, se i modi del padre sembrano già rivivere nel figlio: il logos da interiore si fa esplicito; viene immediatamente posto in essere lo spazio, l'assemblea, dove tale logos possa diventare pubblico e venire condiviso. Ciò è possibile a Telemaco perché ha fatto finalmente suo, attraverso la mediazione di Nestore, lo strumento proprio del padre e della vecchiaia in genere, leloquenza. Noemone figlio di Fronio (entrambi i nomi hanno un significato allegorico) prepara da prudente la partenza. Omero con questi due nomi non indica nient'altro che i recenti ragionamenti maturati da Telemaco. Atena, assunte nuovamente le sembianze di Mentore, si imbarca con il giovane: nelle difficoltà tale personaggio sa dare prova di intelligenza, che è madre della saggezza84. La sequenza dei nomi per lo pseudo Eraclito è uno stratagemma allegorico per illustrare con gradualità lo sviluppo del ragionamento in Telemaco, fino a raggiungere il livello della saggezza. A questo punto l'autore introduce una sorta di digressione su Proteo85, la cui interpretazione abbiamo già affrontato; ma questo episodio non deve distrarci dal percorso, perché, a sua volta, ne è elemento funzionale . Il racconto di Proteo e Eidotea viene presentato quale elemento allegorico desumibile dai racconti che Menelao fa a Telemaco: a farci tornare sul binario argomentativo è la vecchiaia del dio che va di pari passo al fatto che comunque il suo discorso, al contrario della sua apparenza mutevole, non inganna mai86. Tutto ciò, come prima l'eloquenza «paterna» raggiunta da Telemaco, porta diritto a parlare di Odisseo e dei suoi rapporti stretti con la persuasione e il ragionamento, cioè Hermes: Calipso indica con il nome di Hermes la persuasività dei discorsi ricchi di argomenti di Odisseo che, sebbene a fatica, riesce con una sorta di incantesimo a volgere a suo vantaggio l'amore della ninfa ottenendo che lo rimandi ad Itaca. Per questo Hermes giunge dall'Olimpo simile ad un uccello: le sue parole sono alate e niente tra gli uomini è più veloce87.
83 All. LXIII 5. 84 All. LXIII 7-8. 85 All. LXIV-LXVII. 86 All. LXVII 4. 87 All. LXVII 5-6.
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2. 7. Mente, ragi,onamento e virtù Per capire adeguatamente la scrittura del testo , che risulta unitaria nonostante le molteplici divagazioni, è opportuno rimanere ancora aderenti allo sviluppo del commento. A seguito della trattazione di Proteo (capp. LXIVLXVII) appare il tema degli amori di Ares e Afrodite (cap. LXIX) , che abbiamo trattato precedentemente in sede di discussione dei meccanismi allegorici. Va osservato che un tale tema, prima di concludersi nell 'allegoria dei metalli, conosce un suo sviluppo etico-edonistico. Il problema, in breve è questo: i «delatori di Omero»88 fanno una tragedia degli amori scandalosi tra le due divinità, perché si tratterebbe di un rapporto adulterino. La questione non è da poco; tra gli uomini per un fatto analogo è nata una guerra sancita dagli dei: ora è mai possibile che, a guerra conclusa, a uno dei suoi sfortunati superstiti, per di più autore della sua tragica conclusione, venga rivelata per bocca di Demodoco la totale estraneità e indifferenza degli dei su questioni etico-morali? Evidentemente agli occhi dello pseudo Eraclito tale modo di leggere il racconto non regge: Io. credo invece che questi racconti, sebbene siano stati cantati presso i Feaci, uomini schiavi del piacere, abbiano dei collegamenti con il pensiero di qualche filosofo: sembra infatti che da ciò trovino conferma le dottrine siciliote e le idee di Empedocle, quando chiama la contesa Arese Afrodite l'amore89. Con Empedocle si riaffacciano temi già visti: la raffigurazione proteiforme della materia, il naturalismo presocratico, «l'immagine delle catene, lo scherno degli dei e la supplica di Poseidone ad Efesto»9o. Le divagazioni sembrano, mi si perdoni il gioco di parole, «concatenate»; al punto che non giunge immotivata la soluzione interpretativa dello scandaloso triangolo adulterino nella descrizione dell'arte della fusione e lavorazione dei meta li, dove abbiamo visto Ares rappresentare il ferro. A questo punto il cap. LXX sembra cambiare tono e argomento bruscamente, introducendo il vagabondaggio (planen) di Odisseo la cui conclusione è che Omero si svela maestro di filosofia presentando «Odisseo come strumento per l'acquisizione di ogni virtù,,91. Ora se analizziamo con attenzione come lo pseudo Eraclito descriva il compimento di tale operazione vedremo riapparire dei termini incontrati nella digressione: Il piacere è rappresentato con il paese dei Lotofagi, luogo in cui si coltiva un piacere esotico, al quale Odisseo sfugge cOn la moderazione. Il feroce comportamento di ciascuno l'ha cauterizzato, 88 All. LXIX 1. 89 All. LXIX 7-8. 90
All. LXIX 5.
91 All. LXX 2.
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come un ferro rovente, con l'aiuto dei ragionamenti. Ciclope è chiamato colui che ha rubato i ragionamenti92. Riappaiono il piacere, il ferro messo a prova, il ragionamento; quindi ne] cap~ LXXII si torna a parlare nuovamente di Hermes. E necessario capire l'operazione sottile dello pseudo Eraclito: se nel parlare dei processi mentali predilige seguire i progressi di Telemaco piuttosto che descrivere la completezza raggiunta dal padre, nell'assegnazione di una competenza filosofica entra in campo Omero; se si deve indicare, poi, una personificazione adeguata del sapere è la volta della complessa figura di Eracle, sotto evidente suggerimento stoico. Non potremmo certo dire, allora, che l'analisi dei testi omerici condotta dallo pseudo Eraclito sia del tutto pervasa dalla figura di Odisseo, come, invece, risulta in altri commenti, soprattutto nella posteriore tradizione neoplatonica. Forse è Hermes la figura che sembra profilarsi in modo sempre più deciso come egemone: se già l'abbiamo visto accompagnare Priamo e Telemaco, ora l'indiscussa guida si ripropone a Odisseo: Non appena Odisseo scende dalla nave e si avvia verso il palazzo di Circe, Hermes, cioè il ragionamento saggio, gli va incontro93. Prima però di avventurarci nell'isola di Circe con Odisseo dobbiamo fare un'altra osservazione, questa volta relativa ai Feaci che ci vengono presentati quale esempio di black-out comunicativo; in altri termini essi figurano come controesempio di Odisseo, nel senso che Hermes, in quanto capacità ermeneutica, non va loro incontro. C'è, evidentemente, contrasto tra il profondo senso filosofico del racconto che sugli amori di Afrodite ed Ares ha fatto Demodoco e la capacità di coglierlo manifestata dall'uditorio: una sorta di rilievo sociologico sulla disparità tra quanto trasmesso dall'emi~tente e quanto ricevuto dal destinatario che non decodifica il messaggio. E possibile capire che ovviamente gli dei ridono e gioiscono di tale unione perché i benefici che ciascuna divinità apporta non si separano annientandosi, ma procurano pace concorde94 nella misura in cui si penetrano i riferimenti colti impliciti nelle movenze del racconto mitologico: Io credo invece che questi racconti, sebbene siano stati cantati
presso i Feaci, uomini schiavi del piacere, abbiano dei collegamenti con il pensiero di qualche filosofo95. 92 All. LXX 3-5. 93 All. LXXII 4. 94 95
All. LXIX 11 . All. LXIX 7.
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La comunità d'ascolto viene introdotta dallo pseudo Eraclito attraverso l'awersativo kaiper. la schiavitù del piacere condiziona il contesto al punto tale da falsare la corretta ricezione degli insegnamenti di Omero impedendo il travaso dei suoi contenuti filosofici. Come in un circolo vizioso e non ermeneutico, il dislivello culturale tra il cantore e il suo uditorio fa sì che i feaci provino piacere non per l'insegnamento svelato per via allegorica, ma proprio per la forma apparente e scandalosa del racconto licenzioso; la stessa che viene unicamente percepita dai detrattori di Omero. Sull'onda del motivo del piacere ci ritroviamo nel cap. LXXII ad incontrare separatamente Circe ed Hermes: Il kukeon di Circe è ciò che contiene il piacere, bevendo il quale gli smodati, a causa del senso effimero di sazietà, conducono una vita più miserabile di quella dei maiali. Perciò i compagni di Odissea, che sono una folla di insensati, si lasciano vincere dall'ingordigia, mentre la saggezza di Odissea vince la dissolutezza che aleggia nella dimora di Circe. Non appena Odissea scende dalla nave e si awia verso il palazzo di Circe, Hermes, cioè il ragionamento saggio, gli va incontro. Noi riteniamo che a buon diritto sia chiamato Hermes perché interprete di tutto ciò che viene concepito mentalmente96. Il legame con l'ermeneutica è reso finalmente esplicito dallo pseudo Eraclito, che sospende il commento all'azione della trama epica per soffermarsi sul ruolo di Hermes anche passando per le sue raffigurazioni più condivise: Le mani dei pittori e degli scultori lo raffigurano «quadrato» perché ogni discorso retto ha un solido punto d'appoggio senza rotolare da una parte e dall'altra su una base sdrucciolevole; e gli attribuiscono ali alludendo alla velocità di ogni discorso. Ama la pace perché le guerre non hanno affatto bisogno di discorsi: in esse il potere risiede soprattutto nella forza97 . Hermes conosce una doppia identità, contraddistinta da due differenti serie di onori, che lo riguardano ora come dio celeste, viaggiatore dell'aria, ora come dio frequentatore delle zone ctonie, dei recessi sotterranei. Ma anche questa opposizione va risolta alla luce dell'allegoria, ed ecco rispuntare il valore del logos: La risposta sta nel fatto che ci sono due modalità del discorso: i filosofi li distinguono chiamando uno «parola interiore » (endiatheton) e l'altro «parola espressa» (prophorikon), quest'ultimo è messaggero dei discorsi interiori (endon logismon) e l'altro è racchiuso nei petti ... Per questo Omero dice terrestre la parola interiore che 96 97
All. LXXII 1-5. A ll. LXXII 6-8.
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è invisibile nella profondità della mente e pone nel cielo la parola espressa poiché chiara anche da lontano98. Rileva lo pseudo Eraclito che la parola espressa è quella in uso presso gli dei, semplicemente perché si degnano di usarla, pur non abbisognando di nulla; quindi tutti i problemi di interconnessione tra mentale e parlato sono propri dell'uomo. Il processo di produzione di parole dai pensieri, che si era visto illustrato a proposito di Telemaco, viene a riproporsi con Odissea; va notato infatti che nel tornare all'analisi dell'azione omerica lo pseudo Eraclito riprende da Hermes, dal suo affiancarsi ad Odissea: Hermes dunque si affianca ad Odissea come consigliere mentre questi si dirige alla dimora di Circe. All'inizio è animato da un 'esaltazione irrazionale a causa dell'ira e del dolore per ciò che è venuto a sapere. Spegnendosi le passioni a poco a poco, egli ritorna gradualmente ad una disposizione d'animo ragioneyole e, dunque, più vantaggiosa per lui99_
L'atteggiamento morale di Odissea si risolve in questo processo di autocontrollo, che d'altronde era stato già indicato dallo pseudo Eraclito con l'esempio del ferro e definito come processo di autocauterizzazione attraverso il ragionamento. Odissea è in grado di vincere il veleno di Circe dopo un lungo e difficile training mentale in compagnia di Hermes, il ragionamento, che mai sembra abbandonarlo: Dunque questa riflessione, stando accanto a lui, lo colpisce dopo la smodata collera, mentre inutilmente si affretta: «Dove vai, o infelice, per questi colli, solo, ignaro del luogo?». Questo Odisseo dice a se stesso dopo essere riuscito a imbrigliare il precedente slancio con un ragionamento che lo fa ricredere. Ritengo plausibile che la saggezza sia chiamata molu, perché raggiunge solo pochi tra gli uomini e con difficoltàlOO_ In chiusura dell'analisi dell ' Odissea, cioè al cap. LXXV, lo pseudo Eraclito sviluppa un sottile ragionamento a proposito di un delicato problema: quale virtù di Odissea lo fa vincere sui proci? Il perché è chiaro: in un precedente capitolo, descrivendo le qualità di Hermes aveva detto che egli «ama la pace perché le guerre non hanno affatto bisogno di discorsi: in esse il potere risiede soprattutto nella forza»IOI; d'altronde «il ragionamento è estraneo alla malvagità, salva chiunque si serva di esso ed è di grande giovamento»102. Quella attuata da Odissea è una strage in aperta contraddizione con la pras-
98 All. LXXII 14-16. 99 All. LXXIII 1-3. 100 All. LXXIII 7-1 0. All. LXXII 8. l02All. LXXII 13.
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si dei «discorsi intrecciati» 103 a cui allude Omero, per cui «da discorso nasce discorso e l'uno cucito all'altro raggiunge l'obiettivo utile,,104. Lo pseudo Eraclito si accinge a rispondere: «il disco del sole, [quando entra in congiunzione] con la luna, è offuscato e spesso vediamo trasparenti scintìlii di stelle ... ,,105. Purtroppo ci manca la prima parte del cap. LXXV, ma siamo comunque abituati, con il nostro commentatore, ai cambiamenti di argomento all'apparenza immotivati; dico all'apparenza perché è sufficiente seguire il discorso, ripreso da lontano, per ritrovarci poi in linea con tutta la serie di ragionamenti finora condotti. Dunque il sole; anzi, un 'eclisse: ciò spiegherebbe il color sangue di cui si tinge la sala e i commensali al suo interno106. Un'eclisse che ha permesso ad Ipparco di offrirci una precisa datazione dei fatti cruenti descritti nel poema107. Ma, giustamente lo pseudo Eraclito si chiede quale ruolo giochi I' eclisse ai fini della risoluzione della crisi nella reggia di Itaca, quando ad Odisseo era sufficiente la sua esperienza bellica per eliminare «apertamente e con la violenza,,108 gli sgraditi ospiti. La risposta dello pseudo Eraclito è immediata: Ora, invece, accerchiatili con l'inganno e con una precisa strategia, per conquistare la vittoria senza farsi riconoscere, ha successo grazie all'intelligenza109. È un dato di fatto che Odisseo fosse in ogni caso capace di risolvere la crisi interna al suo regno, ma il problema era quello di scegliere il modo più consono. La scelta di Omero, dice lo pseudo Eraclito, è quello di privilegiare la strategia dell'intelligenza: cedere a un atto impulsivo, di quell'ira con cui si apre lIliade, significava tradire le presenze divine, prima quella di Hermes e poi quella di Atena, che fino ad allora lo avevano accompagnato. E la conoscenza del momento più opportuno, quello di massima oscurità prodotta dal!' eclisse, fa parte di questa strategia sottilmente preparata. Tale elemento astronomico ci riporta al problema della scienza omerica, da altri con puntiglio negata.
103 All. LXXIII 6; cfr. Od. XII 295. 104 All. LXXIII 6. I05
All. LXXV 1.
106 All. LXXV 3. l07
All. LXXV 5.
108 All. LXXV 10. 109 All. LXXV 11.
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3. Obiettivi del commento 3.1. «Scompaia pure Epicuro»11 0: la polemica filosofica Dove finisce l'analisi dei poemi, là riprende la polemica personale dello pseudo Eraclito con Platone ed Epicuro; proprio a partire dall'argomentazione astronomica appena toccata: È forse possibile che dopo tutto ciò il grande ierofante del cielo e degli dei, Omero, colui che aprì i sentieri del cielo chiusi e inaccessibili alle anime umane sia condannato per empietà, di modo che, diffusasi questa sentenza empia e scellerata, distrutti i poemi, si affermi la silenziosa ignoranza del cosmol 11? Ma gli argomenti polemici presto scendono dai cieli per prendere tonalità astiose su temi di basso profilo. Se Platone punta ad esiliare Omero da Atene, è perché non ama la sua città da cui ha preferito autoesiliarsi 11 2, e le procura danno perché Atene, dopo aver rinnegato Socrate fino alla condanna per awelenamento, una sola preghiera ha da fare. Essere ritenuta la patria di Omero 11 3. Ma, comunque siano i rapporti con Atene, se Platone pensa di condannare Omero all'esilio dalla sua Repubblica, parte dal presupposto infondato che il poeta desideri abitarvi114; al riguardo lo pseudo Eraclito dubita che Omero possa accettare di conformarsi alle leggi platoniche: L'uno prescrive matrimoni e figli in comune, mentre entrambi i poemi omerici, al contrario, sono santificati da unioni sagge. I Greci combatterono a causa di Elena e grazie a Penelope Odisseo può andare all'awentura. Attraverso i due poemi vengono introdotte istituzioni tra le più giuste per la condotta di vita umana; i dialoghi platonici sono continuamente mortificati dagli amori per gli adolescenti e in essi non si trova uomo che non sia preso dal desiderio di un altro uomo115.
È evidente che dal brano dello pseudo Eraclito sono spariti gli dei, le cui scandalose prodezze sono state bonificate dall'allegoria: il confronto è, quindi, unicamente sul piano umano, riguarda la «condotta di vita umana,,116, e
All. All. 112 All. 113 All. 114 All. 115 All. 116 All. llO
111
LXXIX 11. LXXVI 1-2. LXXVI 6. LXXVI 10. LXXVI 11. LXXVI 12-15. LXXVI 14.
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si fa sempre più serrato, col risultato di rovesciare addosso a Platone le accuse di immoralità che il filosofo rivolgeva agli dei omerici. L'acme è raggiunto in un confronto testuale di grande effetto. Il Commentatore prende in esame due invocazioni alle musell7 come standard omerico, frequentato per introdurre eroi e capi dei Danai; di contro si sofferma su due passi del Fedro platonico dove l'appello alle muse fa la sua comparsa per ben diversi scopi: Ma questo incredibile Platone nello splendido dialogo intitolato Fedro, all'inizio della saggia distinzione dei diversi amori ebbe l'audacia di Aiace di Locri nel santuario della più pura tra le dee: offrire una libagione sacrilega alle Muse perché, loro sagge, fossero sostenitrici di opere impure: «Venite, o Muse, dalla dolce voce, sia che abbiate questa denominazione per la specie del vostro canto, sia che l'abbiate per la musicale stirpe dei Liguri, datemi una mano nella narrazione ... ».A quale scopo, chiederei io, o meraviglioso Platone? Per [narrare] il cielo, la natura di tutte le cose, la terra e il mare? Ma non è per il sole e per la luna, né per il movimento dei pianeti o per le stelle fisse; non oso, per pudore, dire lo scopo di questa preghiera: «C'era un tempo un ragazzo, anzi un giovinetto così bello che aveva molti innamorati; uno di essi era astuto poiché, pur essendo innamorato, gli aveva fatto credere di non esserlo e un giorno al giovane che glielo chiedeva disse ... ,,118. Chiaramente l'operazione è indebita agli occhi di un platonista, dato che nella lettura decontestualizzata operata dallo pseudo Eraclito viene totalmente smarrito il senso ironico del testo; quella che appare in bocca a Socrate dovrebbe risultare una parodia dei modi aedici atta a introdurre il tentativo di mettere un po' d'ordine nel confuso ed empio discorso di Lisia. Ma si badi bene che la lettura dello pseudo Eraclito non è ingenua ma è frutto di una ritorsione: come Platone nella Repubblica nega si possa salvare Omero pur concedendo un senso allegorico alle sue affermazioni paradossali sugli dei, gli viene resa pariglia negando il beneficio dell'ironia alla blasfema invocazione alle Muse messa in bocca a Socrate. Guardiamo il parallelo destino che tocca ad Epicuro quando viene definito «filosofo feace,,119, nelle ultime righe che a lui dedica lo pseudo Eraclito. Anche Epicuro in un certo senso ha saccheggiato Omero: Ciò che Odisseo rispose ad Alcinoo mentendo e dando l'impres-. sione di non essere saggio, queste cose Epicuro indicò come scopo nella vita, ritenendo che dicesse la verità. Ma ... l'Odisseo che parla non è colui che primeggiò sui Troiani, che saccheggiò la
117 II.
II 484-487; IX, 218-219
118 All. LXXVII 5-10; Platone, Fedro 237a-b. 119 All. LXXIX 2.
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Tracia, che passò oltre i piaceri dei Lotofagi, né colui che fu più grande ancora del grandissimo Ciclope, colui che navigò l'Oceano e che, ancora vivo, vide l'Ade; non è questo Odisseo che parla, ma il piccolo relitto che è scampato all'ira di Poseidone, che le violente tempeste gettarono davanti alla pietà dei Feaci. Le cose ritenute onorevoli dai suoi ospiti sono quelle che necessariamente approva. Egli ha una sola preghiera che innalza nella sua sventura: «Fa che gradito io arrivi ai Feaci e che ispiri loro pietà». Così egli fu costretto a rendere testimonianza favorevole a quei comportamenti ignobili che tuttavia non gli era possibile insegnare a migliorare120. L'Odissea, dunque, che agisce all'interno della reggia dei Feaci è fortemente condizionato dal bisogno immediato: «necessariamente approva,,121 ciò che i Feaci considerano onorevole, ma che in cuor suo Odisseo considera un comportamento ignobile, o comunque in contrasto con la condotta finora da lui tenuta. L'esempio è già stato offerto prima: i Feaci ridono dello scontro tra Efesto ed Ares senza cogliere i significati più nobili del racconto, per~hé i loro sensi sono ottenebrati dalla ricerca del solo piacere. E possibile ricorrere a un' analogia che dia ragione compiuta dell'epite to «feace » riservato ad Epicuro; essa contempla il caso della cattiva ricezione di· un messaggio da parte del suo uditorio: come i Feaci non capiscono il senso della narrazione di Demodoco e ridono della forma apparente della vicenda erotica, così Epicuro fraintende Omero e percepisce come clima positivo quello che regna nella corte dei Feaci e che ,c ondiziona la forzata adesione di Odisseo alla dottrina del piacere enunciata da Alcinoo. Come Platone anche Epicuro ci offre la testimonianza di un totale fraintendimento del senso del linguaggio omerico; e sul suo abbaglio addirittura costruisce un intero edificio dottrinale: Ma Epicuro, per ignoranza, eresse il suo edificio dottrinale sulla base di ciò che Odisseo aveva assunto come regola in una temporanea situazione di necessità della sua vita: quelle cose che l'eroe presso i Feaci mostrò come migliori, queste le piantò sul suo venerabile giardino. Scompaia pure Epicuro, perché io credo che egli abbia contratto malattie peggiori nell'anima che nel corpol22.
3.2. Connotazione del sapere Vale la penà di soffermarsi nel tentativo di penetrare il senso da attribuire all'analisi allegorica dei testi omerici realizzata dallo pseudo Eraclito, a partire da un'affermazione già incontrata, durante la polemica con Omero, nella quale egli manifesta il timore che 120 All. LXXIX 3-9. 121 All. LXXIX 8. 122 All. LXXIX 10.
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diffusasi questa sentenza empia e scellerata, distrutti i poemi, si affermi la silenziosa ignoranza del cosmol23. In definitiva, sulle dottrine di Platone lo pseudo Eraclito non avrebbe tanto da dissentire (si veda la piena copcordia sulla tripartizione dell'anima, confutata da Aristotele, ma ripresa da Galeno), invece il dissenso riguarda il comportamento di Platone. E qui non si sta a sottilizzare sulla sua morale: chiaramente è per strategia retorica che viene impugnata come discutibile la visione del!' eros evocata nel secondo discorso del Fedro; la perplessità dello pseudo Eraclito verte invece sulla censura culturale di cui Platone si fa promotore . Una censura nei confronti non di Omero ma di quel sapere che da Omero prende le mosse o che a Omero, comunque, potrebbe essere fatto risalire: si tratta del naturalismo presocratico che non ha mai reciso le sue radici con il pensiero poetante e teologizzante , anche a parere di Aristotele. Quello dello pseudo Eraclito non è il giudizio di un letterato che si sente colpito dalle barriere erette contro la poesia dal filosofo di Atene, poiché queste non hanno mai potuto nulla contro la diffusione, la conservazione e il successo degli stessi stilemi omerici; è, invece, il giudizio di uno che crede nel contenuto filosofico racchiuso in quel testo epico del cui linguaggio e delle cui metafore sono intrisi tutti i poemi e i trattati cosmogonici e cosmologici. Si veda come viene dipinto Eracle, considerato, «come è anche opinione dei più illustri tra gli Stoici,,124, campione della conoscenza, iniziato alla saggezza celeste; egli appare raffigurato mentre ferisce Era con una freccia a tre punte, le tre branche della filosofial25: Egli lancia le sue frecce verso il cielo. Ogni filosofo, in effetti, senza mai uscire dal proprio corpo mortale e terrestre invia il proprio spirito in un batter d'ali verso le regioni superioril26. Se Ercole ritratto mentre indirizza le sue frecce al cielo, è allegoricamente il grande archegos della sapienzal27, potremmo credere che il sapere a · cui vorrebbe indirizzarci lo pseudo Eraclito sia primariamente quello cosmologico, così come illustrato nelle lunghe allegorie sulle armi di Achille e sulle theomachiaz? La mia impressione è che in tal caso staremmo applicando la chiave allegorica solo sul personaggio Ercole e non sul suo atto, e così avremmo sèiolto l'immagine allegorica solo a metà. Lo pseudo Eraclito ha mostrato rispetto per le allegorie che vantano lunga tradizione letteraria e filosofica e, come ci ha dato prova egli stesso, sembra conoscere bene il Fedro. In quel testo Platone discute della potenza del linguaggio poetico: questo, più che accarezzare le orecchie degli ascol123 All. LXXVI 2. 124 All. XXXIII 1. 125 A ll. XXXIV 4. 126 All. XXXIV 3. 127 All. XXXIV 8.
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tatori con dolci e ricercate parole, sa offrire 'ali' alla mentel28; ora è chiaro che Platone offre un valore aggiunto all'immagine omerica delle 'parole alate'. Se esse sono determinate dalla «persuasività dei discorsi ricchi di argomenti>,129, sono anche dono di Hermes che sembra sempre più acquisire le fattezze del dio del mito egizio a cui nel Fedro veniva attribuita la creazione del linguaggio scritto. Tutto il percorso dello pseudo Eraclito lungo i due poemi omerici porta all'individuazione del valore del linguaggio significante, pregno di pensiero, o, al contrario, del pensiero che si fluidifica e viene ben condiviso attraverso le parole: l'allegoria, appunto, è uno di questi modi, una di queste 'ali'. Si sono passate in rassegna le allegorie complesse che nell'Iliade s'impegnano a rivelarci aspetti della natura difficilmente esprimibili, sia quelli inerenti alle trasformazioni naturali , sia quelli riguardanti i rivolgimenti cosmici: tutte con immediatezza ci trasmettevano il loro contenuto filosofico. Si è giunti, quindi, a parlare con il confronto Priamo - Achille (episodio che segna il passaggio tra i due poemi) del linguaggio come contatto umano anche tra uomini in guerra, atto a privilegiare i sentimenti e la solidarietà a dispetto della guerra stessa. Finalmente, nell'Odissea viene pienamente esplicitata l'influenza sul comportamento umano del linguaggio; viene illustrata la sua capacità di portare i ragionamenti da dentro di noi a fuori di noi; ma quello che sorprende è che il linguaggio omerico è in grado di parlare di se stesso e dei suoi modi corretti d'uso, sempre attraverso il ricorso di allegorie. In tal senso va letto e interpretato l'episodio che ritrae l'assemblea dei Feaci mentre ride delle disawenture di Ares e Afrodite: ciò è segno che essa è rimasta impermeabile ai contenuti 'alati' che dona Demodoco alle sue parole. Così Omero testimonia, dicevamo, un caso di 'non-ascolto', in realtà dovremmo aggiungere che ciò è successo perché il racconto è stato percepito dall'uditorio solo passivamente, cioè senza che le parole dell'aedo riuscissero a stimolare una qualsiasi curiosità interpretativa, capace di penetrare nei contenuti oltre le parole. È il caso di riprendere l'attribuzione ad Hermes delle due forme di.vita della parola, quella interiore e quella espressa, che in qualche modo sembra legare lo pseudo Eraclito da una parte a Platone, dall'altra a Eliano: costui, riproponendo una zoologia mitologica nel II secolo d. C., tematizzava l'esistenza dei due status d~lla parola evidenziando il divario tra l'introspezione e l'esternazione130. E possibile inoltre riagganciare il tutto alla differenza tra leggere e capire delineata nel Fedro, cioè tra il leggere un testo come sequenza di parole, belle ma morte, e il percepire, al proprio interno, la vitalità che quel discorso aveva nella mente del proprio autore, magari al momento in cui lo stava scrivendol31. Se que128 Platone, Fedro 249 c-d. 129 All. LXVII 5. 130 Aeliani De natura animalium, ed. A.F. Scholfield, London-Cambridge (Mass,), II 29; Bettini 1996, XII. l 3I
Fedro 276 a.
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sto discorso interiore è il modello di quello esternato attraverso la scrittura, la preghiera che Socrate rivolge a Pan alla fine del dialogo platonico suona come augurio che ciò che si comunica all'esterno risulti coerente con il proprio mondo interiorel32. A tale scopo, sia in Platone che nello pseudo Eraclito, la divinità che inventò l'alfabeto e la scrittura, Theuth o Hermes, di necessità avrebbe donato agli umani la capacità di interpretarla, l'ermeneutica; e se questa venisse (è un augurio) applicata condurrebbe a creare catene di discorsi interioril33. Perciò le allegorie del linguaggio omerico sono elemento necessario di un modo di porre il discorso che fa perno sulla capacità interpretativa del suo uditorio: è grazie all'ermeneutica che il messaggio allegorico da ermetico si fa esplicito. La prassi esegetica, si è visto, è quella di mettere in parallelo serie di awenimenti e soggetti lontani tra loro: secondo lo pseudo Eraclito tale modo poetante può indurci a una comprensione più ampia della realtà suggerendoci l'unità dell 'azione sottesa ai diversi ambiti accostati, e forse tale convinzione è desunta dalla lettura di quanto Aristotele aveva scritto sull'uso della metafora nella Rhetorica e nella Poetica. Nello pseudo Eraclito, però, il tema del potere della parola, come esternazione convincente del pensiero, viene strettamente connesso con la mente, che a sua volta viene fin dall'inizio del commento, insediata nel cervello attraverso l'allegoria della nascita di Atena dalla testa di Zeus; per questa anomala origine la dea è detta pura e, a sua volta tenendo dalla testa Achille, ottenebrato dai sentimenti, lo arresta dal macchiarsi di un delitto. Tutto ciò porta a una connessione fisiologica tra pensiero, voce e cervello; una tesi che solo Galeno in ambito medico sosteneva contro tutta la tradizione a lui precedente; proprio su quest'aspetto si apre una questione cronologica.
.,. .
4. Originalità del testo e problemi di datazione È noto che relativamente al testo dello pseudo Eraclito esiste un problema di collocazione riguardo sia la datazione, sia l'ambiente culturale. È tradizione acquisita la sua localizzazione nello stoicismo del I secolo d.C.: è pur vero, però, che lo stesso Buffière nell'editare il testo, dopo aver mostrato delle perplessità sull'identità di Eraclito il retore (autore del De incredibilibus) , abbia ammesso una matrice stoica per lo meno blanda. Per quanto riguarda la datazione, poi, se gli risultava inammissibile anticipare il testo in ragione degli autori citati, credeva non vi fossero ragioni sufficienti per posticiparlo 134 . 132 Fedro 279 b-c. 133 Fedro 277 a. 134 Buffière 1962, XXXI-XXXIX; Long 1992, 4 7-48.
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Un tentativo in tal senso potrebbe essere fatto alla luce di alcuni riscontri contenutistici, interni al testo. Si potrebbe cominciare rimarcando che se in apertura il commento manifesta un approfondito interesse per l'aspetto scientifico da attribuire ai poemi omerici, ciò comporta che, oltre all'Omero astronomo o cosmologo, venga messo in particolare luce un sorprendente risvolto medico. Quando poi si passa a leggere l'episodio dell'intervento di Atena su Achille, il contesto sembra farsi decisamente anatomico: si parla della tripartizione dell'anima che Platone avrebbe assimilato da Omero, assegnando una precisa dislocazione a ciascuna funzionalità: la parte razionale dell 'anima è situata nella sommità della testa, come un'acropoli protetta in un cerchio da tutti gli organi dei sensi; la parte irrazionale il thumos abita intorno al cuore, e i desideri passionali nel fegato. A controllare i testi, cioè andando al Timeo di Platone, tale anima «che appetisce i cibi» è localizzata da Platone «nella regione intermedia fra il diaframma e il confine dell'ombelico»: quindi tra i suoi strumenti organici vi è il fegato, come pure la milzal35. Chi punta a identificarla direttamente nel fegato è Galeno: è sua la riproposta della dottrina platonica nell 'ambiente medico del II sec. d.C., e risulta programmatica alla presa di distanza dall'anatomia aristotelica cardiocentrica, a cui lo stoicismo era rimasto abbastanza fedele . Il sospetto che nasce è che proprio a Galeno sia r.iconducibile l'intera fisiologia umana evocata nel testo delle Allegorie, non solo per la netta distinzione delle funzioni dell'anima, ma soprattutto per la precisa loro locazione anatomica. 4.1. La discussione sulle parti dell'anima e i loro luoghi fisiologici
Dobbiamo, a questo punto, confrontarci con Galeno direttamente: nel De placitis Hippocratis et Platonisl36 egli dà ampio spazio al tema della differenziazione delle parti dell'anima e della loro distribuzione nel corpo. Questa è una questione che, se gli permette di coinvolgere sullo sfondo Platone prendendo le distanze da Aristotele, dall'altra gli offre l'occasione di prodursi, per tutto il libro, in una lunga polemica con gli stoici, soprattutto con Crisippo e i suoi seguacil37. Della dottrina di Crisippo, è Calcidio che ci offre un colorito spaccato nel suo Commento al Timeol38: l'anima sarebbe divisa in «otto parti: nell'egemonico, nei cinque sensi, nell'organo della fonazione e in quello della riproduzione,,139. E il Commentatore neoplato135 Timeo 70 d-72 d . l36 Galeno, De placitis Hippocratis et Platonis, ed. P. De Lacy, 2 voli, Berlin 19801981.
137 Cfr. Tielmanl 996. 138 Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus, ed. J.H. Waszink-P. Jensen , London-Leiden 1967. 139 SVF II 235, 28-30 (Calcidii in Ti;,_. CCXX); trad. Radice.
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nico fa seguire due felici analogie per illustrare il modo in cui Crisippo spiega la connessione tra l'egemonico e tutte le sue espansioni, affinché sia preservata l'unità dell'anima stessa: Così l'anima intera espande i sensi - i suoi collaboratori - dal suo egemonico come rami da un tronco, perché divengano in seguito messaggeri di ciò che percepiscono, ed essa possa, in veste di regina, giudicare i dati che apportano ... Come il ragno collocandosi in mezzo alla tela con le zampe tira le fila di tutta la ragnatela, in modo da sentire ogni urto di animaletti da qualsiasi parte vengano, così l'egemonico, situato nella zona centrale, cioè nel cuore, tira le fila dei sensi per riconoscere da vicino ciò che quelli comunicherannol40. Aezio, da parte sua, riporta un 'altra analogia atta a certificare la stessa struttura tra l'egemonico e le parti dell'anima: Gli Stoici sostengono che· l' egemonico è la parte superiore dell'anima, e che esso produce le rappresentazioni, l'assenso, le sensazioni e gli impulsi: lo chiamano anche pensiero. Dall'egemonico scaturiscono sette parti dell'anima che si estendono in direzione del corpo come i tentacoli di un polipo141. Chiaramente, su quanto afferma Crisippo, Galeno dissente nel suo De placitis Hippocratis et Platonis sia per quanto riguarda il contenuto, non condividendo l'articolazione dell'anima a partire da un nucleo egemone, sia per quanto riguarda il metodo, disapprovando l'uso di argomentazioni retoriche, analogie convincenti, analisi di metafore linguistiche al posto di procedimenti scientifici: Gli aristotelici non oserebbero mai usare termini non tecnici o desunti dalla retorica nelle dimostrazioni scientifiche, e invece ne sono pieni i libri di Crisippo, nei quali sono convocati a testimoni •r delle posizioni assunte persone qualsiasi, quando non poeti, o addirittura l'etimologia più convincente, o altre cose dello stesso tenore, prove che non conducono a nulla, ma che occupano tempo: tutto tempo buttato! Anzi, grazie ad esse noi potremmo dimostrare a questa gente che le premesse dei loro sillogismi non sono scientifiche, e che lo scendere in gara avendo come compagni nella lotta per la dimostrazione alleati come i profani e i poeti gioca non meno a nostro favore che al loro, e forse ancor più al nostro che al lorol42. Il nostro intento non è di dare voce a Galeno sulla questione, ma di capire il senso della polemica con gli Stoici, e il genere di argomenti prodotti: la 140 SVF II 235, 34-37; 13-17. 141 SVF II 227, 23-27 (Aetii De placitis N 21). 142 Galeno, De plac. Hipp. et Plat. II 2, 5-7; SVF II 237, 1-10.
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nostra impressione è che tutto ciò abbia avuto un riverbero sui temi affrontati dallo pseudo Eraclito. Un esempio chiarificatore del tipo di concatenazione argomentativa proposta dagli Stoici, e di cui si è trovata traccia all'interno del testo delle Allegorie, ce lo offre Filodemo: Alcuni Stoici sostengono che l'egemonico si trova n ella testa, che corrisponde all ' intelligenza, e pertanto lo chiamano Metis. Crisippo, però, lo colloca nel petto e afferma che proprio qui è nata Atena, il sapere - se si dice che è nata dalla testa è per il fatto che la voce esce appunto da qui-; oppure dice che il sapere è nato da Efesto, perché è l'arte a generarlo. Atena però andrebbe chiamata «Athrena», e poi Tritonide o Tritogenia, per il fatto che la saggezza (phronesin) è tripartita in fisica, etica e logica. E così tutti gli altri nomi ed epiteti che la nobilitano sono splendidamente adattati alla saggezzal43. Galeno, nel De placitis Hippocratis et Platonis, non manca di notare che il gran numero di passi omerici citati da Crisippo sostiene che l'anima irascibile abbia la sua sede nel cuore; ma rileva anche che, parlando poi dell 'egemonico, egli, sempre ricorrendo alle stesse fonti poetiche, attesta che pure le passioni si trovano nel petto e nel cuore: il risultato è, a suo dire, contraddittorio perché così si troverebbero nella stessa sede due facoltà dell'anima completamente diverne l'una dall'altra, quella razionale e quella irrazionalel44. La risposta di Galeno è di questo tono: L'oggetto del tuo contendere non è il problema se l'anima irascibile si trova nel cuore, ma se lo è quella razionale, questo avresti dovuto dimostrare senza perderti in una quantità di divagazioni sull'anima irascibile e senza infarcire il tuo libro di citazioni poetiche, una dietro l'altra... ma per Zeus, non era questo l'oggetto della dimostrazione, ma l'anima razionale! E se proprio non ti riusciva di dimostrarlo direttamente, potevi almeno provare a farlo [direttamente] chiarendo il motivo per cui l'anima razionale e quella irascibile possono trovarsi ambedue solo in questo unico luogol45.
4.2. Sulla nascita di Atena e della voce Come si è visto fin dal succinto quadro offerto da Filodemo, due sono gli argomenti su cui il ragionamento di Crisippo, tutto infarcito di modi comuni del dire, di etimologie e di citazioni poetiche, ruota per muovere obie143 SVF II 258, 17-26 (Philodemi De pietate XVI) . 144 SVF II 255, 12-16. 145 Galeno, De plac. Hipp. et Plat. III 2, 1 e 3; SVF II 241 28-32; 241 41-242 2.
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zioni a un'eventuale tesi della locazione dell'egemonico nel cervello: uno è sull'origine fisiologica del linguaggio , a partire dal presupposto che la voce è condizione della sua esternazione; l'altro sulla confutazione dell'interpretazione del mito della nascita di Atena dalla testa di Zeus. La fonte è ancora il De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno: Prima di passare alla confutazione di costoro, desidero ancora esporre la seguente argomentazione di Crisippo: «È ragionevole pensare che in questo caso le realtà a cui sono indirizzati i significati, e ciò da cui deriva il discorso, siano la medesima parte direttiva dell'anima, perché non può darsi che altra sia la fonte del discorso e altra quella della mente, oppure che una sia l'origine della voce, e un'altra diversa quella del discorso, oppure, in generale, che la voce abbia una fonte diversa dalla parte dominante dell'anima». Coerentemente con ciò definiscono la mente come sorgente del discorso... «In linea di massima il luogo da cui proviene il discorso è necessariamente il medesimo in cui si realizza il pensiero, e anche le argomentazioni e gli esercizi oratori, come si è già detto. Tutto ciò, dunque, si genera nella zona del cuore e dal cuore vengono emesse attraverso la gola la voce e il linguaggio. D'altra parte, è anche verosimile che le cose dette ricevano il loro significato dalla realtà che le significa, e che anche la voce venga da lì, nel modo suddetto,,146. Appare quindi in Crisippo quella distinzione che vedemmo proposta anche dallo pseudo Eraclito tra le due forme del parlare, quello interiore e quello esternato, rria mirata a fare del cuore il luogo del pensiero parlante: «In base alla mente si deve parlare, parlare fra sé e sé, argomentare, modulare la voce e poi indirizzarla all'esterno». Egli prende qualcosa come una p!"emessa scontata cioè che il parlare e il par'I"· lare fra sé siano prodotti di una stessa parte , a questa premessa aggiunge che il parlare è l'azione specifica del cuore, dopo di ché deduce dall'una e dall'altra proposizione che la sede del discorso interiore è nel cuorel47. · Di fronte al mito della nascita di Atena dalla testa di Zeus, ingegnosa è la scappatoia per non attribuire la mente e i suoi prodotti al cervello; gli è sufficiente giocare sulla distinzione tra il luogo del concepimento e l'organo del parto: Sento dire che alcuni hanno buoni motivi per credere che la parte dominante si trovi nella testa. Infatti Atena che rappresenta il pensiero e in certo qual modo la saggezza, si genera dalla testa di Zeus, e questo - essi dicono - è segno che l'egemonico è sito in tale luogo; ebbene, pensiero e intelligenza a nessun'altra condizione 146 Galeno, De plac. Hipp . et Plat. II 5, 15-20; SVF II 244, 7-22. 147 Galeno, De plac. Hipp . et Plat.. III 7, 34-35; SVF II 250, 32-38.
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potrebbero generarsi nella testa, se lì non si trovasse l'egemonico... però il poeta non dice che essa si sia generata nella testa, a meno che uno non voglia distorcere e alterare il suo discorso: si dovrebbe invece affermare che è uscita da là, ma che si è generata in altro luogo. Ecco dunque che anche questo racconto è un simbolo di qualcos'altro, come avevo già sostenuto. Il fatto che i contenuti del sapere si generino in noi stessi ed escano dalla testa, è la miglior conferma di quanto prima ho sostenutol48. Si osservi come i due processi sono stati messi in parallelo da Crisippo: come per uscire Atena passa per la testa di Zeus, mentre è stata prodotta in un altro luogo più interno, così la voce se.mplicemente passa per la bocca situata sul capo, dopo esser stata pensata altrove. Galeno, che aveva mosso delle perplessità sul termine 'passa', chorei149, ha in serbo una contromossa sperimentale che, secondo le regole della dialettica, dovrebbe avere effetti devastanti sulle tesi di Crisippo, ma anche su quelle formulate da Zenone. Sull'argomento, tra i due capiscuola dello stoicismo v'è identità di vedute e la loro posizione viene in sintesi articolata nel De placitis Hippocratis et Platonis secondo il clichè ipotetico-deduttivo elaborato dalla logica stoica: Questo è il ragionamento di Zenone tanto ammirato dagli stoici: «La voce passa ( chorei) attraverso la trachea, ma se provenisse dal cervello, non passerebbe per la trachea. Si produce ragionamento nello stesso luogo da cui viene la voce, ma il ragionamento proviene dalla mente: pertanto la mente non è nel cervello,,150. La prima mossa di Galeno è quella di riformulare la tesi stoica sull'origine fisiologica del linguaggio in una forma che, pur rispecchiando la precedente struttura deduttiva, la esponga a un protocollo di verifica: Se la voce scaturisse dall'impronta che il pneuma del cuore lascia su quello dei polmoni, la quale impronta a sua volta si trasmette al pneuma della gola, non cesserebbe di colpo alla recissione di alcuni nervi 151 . Cosa che, invece, viene descritta con puntualità nel De placitis Hippocratis et Platonis II 4. È noto anche che Galeno riuscì a dare dimostrazione pubblica che la vocalizzazione dipende da un piccolo nervo, quello laringeo ricorrente che trasporta ordini dal cervello ai muscoli della laringe preposti alla fonazione; a tale scopo nelle Anatomicae administrationes dava le istruzioni per immobilizzare tale nervo , una volta individuato, con laccetti di filo o di lana di modo che l'improvvisa afonia dell'animale fosse la dimostrazione dell'in148 Galeno, 149 Galeno, 150 Galeno, 151 Galeno,
De plac. De plac. De plac. De plac.
Hipp . Hipp. Hipp . Hipp .
et Plat. III 8, 3-4 e 19; SVF II 256, 11-15; 258, 10-15. et Plat. II 5, 21 -31; SVF II 244, 23-36. et Plat. II 5, 8; SVF 1'40, 26-31. et Plat. II 4, 40; SVF II 244, 1-4.
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dividuazione della sua origine. Al contrario, la compressione del cuore non lo privava assolutamente della vocel52. L'importanza dell'esperimento, per le conseguenze in ambito di teorizzazione sulle funzionalità corporee umane, è espressa nel De usu partium: Giacché la voce è la più importante delle funzioni dell 'anima in quanto annuncia i pensieri della ragione , essa doveva certamente essere prodotta mediante organi che ricevono nervi dal cervellol53. È evidente che l'attribuzione delle attività mentali al cervello comporta come conseguenza il controllo della voce: in tale sede si darebbe luogo al linguaggio come qualsiasi altro atto volontario, nonostante la distanza degli organi interessati, come la trachea, e a pagarne le conseguenze è la dottrina stoica del linguaggio.
4.3. Sul fegato Si capisce come il dibattito sulla voce non fosse una questione da poco, ma che il suo ruolo era quello dell' esperimentum crucis: dalla sua soluzione dipendeva il prevalere di una dottrina sull'altra. Se la voce giungeva alla bocca attraverso la trachea, spinta dall'aria prodotta dal polmone, ma pilotata da un movimento indotto dall'egemonico posizionato nel cuore, in grado da lì di controllare ogni movimento, volontario e non, ciò significava che il pensiero stesso sorgeva nel cuore e nel cuore conosceva la sua trasformazione in logos interiore, eventualmente da proferire; e quello, secondo gli Stoici e Crisippo in particolare, era lo stesso luogo dove si avvertiva l'ira e dove si soffrivano le altre passioni umane . Se, invece, si riusciva a dimostrare che il controllo dei movimenti volontari, e quindi anche quelli atti a produrre la voce e a darle articolazione in · un linguaggio significante, venivano controllati dalla testa, si doveva fare i conti con un sistema più complesso per quel che riguarda i movimenti e le trasformazioni interne del corpo umano, che magari portasse alla distinzione del luogo dove principiano le azioni volontarie da quelle dove si percepiscono quelle non volontariel54. Tale è il progetto di Galeno: nel proporre all'interno del nostro corpo tre centraline con ben differenziate funzioni e tutte con un proprio autonomo sistema circolatorio, di fatto decentrava la funzione direzionale e totalizzante dell'egemonico stoico. Affidando alla terza parte, identificata nel fegato, la produzione del sangue, è chiaro che la funzione vitale veniva garantita alla pari da tutte e tre le parti che collaboravano differenziatamente, mentre a una sola di queste appartenevano esclusivamente le funzioni mentali. La parola e il ragionamento sono prodotti mentali e su questo l'accordo 152 Galeno, Anat. admin. VIII 4 Garofalo. 153 Galeno, De usu part. XVI 3, 277 Kuhn. 154 De Lacy 1986, 43-64; Manuli 1986, 185-214.
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tra i contenden~i è totale; se sperimentalmente Galeno rende plausibile la sua tesi che la mente risieda nel cervello, rimane tutto da dimostrare che per lo stesso Omero il cervello fosse la sede della mente, del pensiero e del linguaggio. Da un punto di vista medico tale ampliamento del dibattito, fino al coinvolgimento di Omero, risulta irrilevante; ma non lo è per Galeno che ritiene il medico ottimo filosofo. Infatti egli sa che nel proporre l' experimentum crucis ha aperto un confronto dialettico con i suoi awersari; e le leggi della dialettica impongono che per sancire la definitiva vittoria sull'awersario non serve portare prove alla propria posizione, bensì queste devono avere un effetto devastante nei confronti delle altrui opinionil 55. Quindi se da Omero, e non da prove anatomiche, Crisippo riceveva conferma alle sue teorie, è solo in questo ambito che egli può ricevere la sconfitta definitiva; Galeno, quindi, nel De placitis Hippocratis et Platonis, in chiusura del VI libro, accetta di spingersi nel terreno dell'awersario misurandosi con il testo poetico di Omero, dando prova di capacità esegetica nel tentativo di farlo combaciare con le proprie osservazioni, nonostante il linguaggio epico sia estraneo, ormai, agli scopi della scienza medica: È ora tempo di porre fine a questo libro, una volta che si è dimostrato che il fegato è la fonte delle vene, del sangue e dell'anima appetitiva. Ma dato che non solo Ippocrate e Platone sostennero questa opinione, ma anche quelli tra i poeti che Crisippo usa come testimoni, ho deciso di fare questa aggiunta alla mia argomentazione in ragione della strabiliante sapienza di quest'uomo che suole distogliere dalle prove scientifiche e usa poeti, miti e donne a conferma dei suoi insegnamenti senza rendersi conto di questo curioso fatto, cioè che tutti questi testimoniano contro di lui e prendono posizione contraria, essendo anch'essi convinti che, come ho mostrato prima, l'ira è nel cuore e la ragione nel cervello. E che questi pongono anche l'anima appetitiva nel fegato, io potrei stabilirlo con molteplici testimonianze; ma poiché non vorrei sembrare di perseguire quello che consiglio agli altri di evitare, e non vorrei perdere tempo in argomenti inutili, io menzionerò solo Omero, che presenta Tizio in qualità di punito nell'Ade per la sua licenziosa aggressione di Letò: «Vidi anche Tizio, il figlio della splendida Terra, steso al suolo; per nove iugeri egli era steso. Due awoltoi piantati ai due lati gli rodevano il fegato, penetrandogli nel peritoneo, ed egli non si scherniva: aveva violentato Letò, la gloriosa compagna di Zeus, che andava, diretta a Pito, per l'ampia Panopeo». Il poeta non ritrae il cuore di Tizio o il cervello o qualsiasi altra parte che venisse mangiata a causa dell'indecente violenza che portò a termine per il desiderio erotico, bensì il fegato, dicendo che questa sua punizione era sull'organo colpevole 155 Galeno, De plac. Hipp. et Plat. II 3, 8-27.
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dell'atto indecente, come era comprensibile. Anche oggi questa è la pratica per chi è chiamato a giudicare la cattiva condotta degli schiavi. Essi bruciano, ledono o picchiano le gambe di coloro che fuggono, le mani di coloro che rubano, il ventre dei ghiottoni, la lingua dei diffamatori. In una parola, essi puniscono il membro con cui è stata commessa l'offesa. Se qualcuno degli ammiratori di Crisippo può offrire qualche altra ragione di perché Omero abbia ritratto Tizio nell'essere punito in questo modo, io avrei piacere di ascoltarlo. Ma dato che costoro non hanno alcuna spiegazione e non ne possono trovare alcuna, io penso sia ragionevole lodare Omero per aver qui anticipato le opinioni di Ippocrate e di Platone, e metterlo nella lista anche come testimone di ciò che noi abbiamo confermato attraverso dimostrazione scientifical56. Qualcosa di analogo succede nel testo dello pseudo Eraclito e non si tratta di semplici citazioni omeriche coincidenti; sembra ripreso lo stesso costrutto dell'intera argomentazione galenica, anche se riportata con meno accuratezza, con meno puntiglio sugli argomenti, e con qualche passaggio oscurato Il suo discorso si volge a quell'organo dal quale scorrono le correnti del thumos. D'altra parte Omero dice che Tizio, innamoratosi della sposa di Zeus, fu punito in quella parte del corpo dalla quale aveva incominciato ad escogitare il male: «Due avvoltoi piantati ai due lati gli rodevano il fegato». Per quale motivo Omero? «aveva violentato Letò, la gloriosa compagna di Zeus». Come i legislatori stabiliscono di tagliare le mani di coloro che fanno violenza al proprio padre, tagliando appunto la parte che ha agito empiamente, così Omero colpisce nel fegato colui che ha agito empiamente attraverso di esso. Riguardo alle parti irrazionali dell'anima questi sono i contenuti filosofici di Omero. Rimane da indagare in quale luogo abbia sede la parte razionale. Secondo Omero si tratta certo della testa che ha ricevuto nel corpo il ruolo di somma guida; Omero, infatti, è solito chiamare l'uomo intero da quella sola parte, la più importante, che indica tutto il resto ... Omero afferma questa tesi allegoricamente a partire da quanto riferisce a proposito di Atenal57. 156 Galeno, De plac. Hip. et Plat. VI 8, 77-83; la stessa citazione (Horn. Od. XI 576581) era d'altronde già apparsa nel II libro del De placitis Hippocratis et Platonis con le seguenti introduzione e conclusione: «Perché, o mio caro Crisippo, non ci dici che il fegato è anche la fonte dell'anima, dato che abbiamo Omero come nostro testimone, un poeta di tale eminenza a cui dovresti credere preferendolo alla gente ordinaria. In aggiunta a questi altri passi il poeta scrive i seguenti versi "Vidi anche Tizio ... per l'ampia Panopeo". In queste righe il poeta chiaramente indica che la parte desiderativa dell'anima è nel fegato. Poiché Tizio, egli dice, desiderò assalire Letò, gli awoltoi si awentano sul suo fegato, owiamente punendolo soprattutto sul membro da cui prese awio l'empio atto» III 7, 28-30. 157 All. XVIII 4-XIX 5.
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Anche lo pseudo Eraclito, quindi, per avallare una ricaduta anatomicofisiologica per quel gesto di Atena, che trattiene la testa di Achille per i capelli, deve mostrare che l'insediamento della mente nel cervello passa per il rinvenimento di una specificità di funzione del fegato: il senso di tale operazione è l'appello a una teoria organica che sia in grado di riconoscere specificità di funzione a ciascuno dei tre organi vitali e che questa è rinvenibile nella sua interezza all'interno della tramatura allegorica che lo pseudo Eraclito rinviene in ambedue i poemi omerici. Al commentatore risulta necessario operare sul tappeto narrativo unificato dei poemi omerici: se l' episodio di Atena ed Achille relativamente al cervello è colto all'inizio dell'Iliade, è nell'Odissea rinvenibile il pendant per il fegato. Si noti come ci sia consonanza d'intenti tra la distinzione galenica e la descrizione dell'operato degli eroi omerici nel commento. L'attribuzione persino di differenti luoghi d'insediamento a quelle che sono le diverse funzioni espresse da quell'entità sempre più complessa che si chiama anima, non solo rende conto della radicale differenza che esiste nello stesso individuo tra i comportamenti indotti dalla ragione e quelli della passione, ma anche spiega come nei repentini cambiamenti di umore esista pur sempre la possibilità di un reale controllo da parte di una mente che si preserva del tutto estranea a fattori emotivi, anche se residente nel corpo stesso: chiamata in causa in qualsiasi momento, essa risulta in grado di espletare attività intellettuali, come se fosse effettivamente separata dal resto del corpo. Ebbene lo stesso pseudo Eraclito insiste sulla diversità della natura dei comportamenti indotti dal cuore e dal fegato rispetto a quelli indotti dalla mente, quando sottolinea l'estraneità degli interventi di Atena o di Mente o di Hermes pur considerandoli operazioni interiori. Prima di tutto è da rilevare come il comportamento dei tre eroi, Achille, Telemaco ed Odissea, siano sovrapponibili: costoro sanno o imparano a dominare i propri impulsi recuperando una razionalità che non si è lasciata intaccare dai moti d'animo e che prende parola non appena l'ira o l'ansia si placano, come se ci si accostasse a un individuo estraneo a noi e ben più anziano e aweduto di noi. Del resto avevamo visto il vecchio Priamo, consapevole della forza della sola parola, affrontare Achille; quella parola che è detta ben lontana dalla guerra, che sa cucire insieme i discorsi da una posizione più vantaggiosa che è quella dell'animo chetato e perciò meglio disposto al ragionamento. Si pensi all'animo «raffreddato» di Odissea, come frutto di dura fatica e lungo esercizio, di contro alla complessità del pensiero che giunge a Telemaco, diviso in più fasi, la prima pervasa dai sentimenti verso il padre e solo l'ultima in grado di trasformarsi in parola; quella parola che è il dono di Hermes al pensiero del saggio. Tutti questi elementi del dibattito fisico-anatomico tra gli stoici e Galeno sembrano rivivere in ambiente epico nella rappresentazione messa in scena dallo pseudo Eraclito in un crescendo che va da Achille ad Odissea, dall'Iliade all'Odissea, mirato a celebrare la figura di Herme;;, ora discorso,
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ora discorso pilotato dalla ragione, ora discorso interiore, ora discorso parlato e proferito pubblicamente attraverso la voce; manifestazione di una mente e di un pensiero fisiologicamente distaccati dal resto delle funzioni vitali perché, come dimostra la nascita di Atena, ha sede nella testa. Se dovessimo accettare che il testo di Galeno abbia eco nel commento dello pseudo Eraclito, a cosa dovremmo il suo silenzio su Crisippo? Potrebbe essere il tentativo di sorvolare sulla polemica antistoica mentre si sta aderendo alle tesi di Galeno? Oppure significa non riconoscere in ogni caso alcuna autorevolezza all'autore impugnato da Galeno? In ambedue i casi, uno pseudo Eraclito che si rifaccia più a Galeno che a Crisippo, nell'evidente regime di polemica tra i due, porrebbe degli interrogativi sulla sua appartenenza alla tradizione esegetica stoica. Siamo giunti, così, a chiudere la nostra analisi aprendo un problema di datazione e, quindi, di attribuzione di tale testo ricco di critica letteraria e di polemica filosofica, dai risvolti curiosi e intriganti. La sua collocazione un secolo dopo pone l'autore in dialogo con tutto un altro contesto culturale (stoicismo eclettico? Media Accademia?), magari con interlocutori che ci ripromettiamo di individuare158. Va per lo meno notato che il testo sembra concludere la sua disamina di Omero con una nota di nostalgia per un pensiero «forte» di contro al «debolismo» epicureo; tale decadimento del pensiero filosofico ha i suoi germi nel falso moralismo di cui si arma Platone pronto a tradire anche ciò che di valido c'è nelle proprie dottrine, frutto di sistematico saccheggio sui testi di Omero, pur di contestarne la grandezza. Con le Allegorie siamo in piena ripresa del sapere pagano, poiché vi si delinea il programmatico intento di recuperare le salde e possenti radici di questa civiltà nell'interezza delle sue espressioni e dei suoi sviluppi: le dottrine naturalistiche, scientifiche, etiche e filosofiche fiorite in seguito possono comunque riconoscersi, pur nel loro ramificarsi, come coerente produzione da quell'unico ceppo intriso di mito. E il testo potrebbe manifestare altresì il progetto di richiudere la forbice aperta tra le varie dimensioni del sapere filosofico e quelle della espressione letteraria, che ha conservato i suoi legami, anche se formali, con il mito; una tale operazione è indubbio che vada condotta contro chi tale forbice ha aperto, Platone, a cui stava a cuore I' «antica diatriba tra poesia e filosofia» 159. Infine questo commento si pone come anello ideale tra quelli precedenti, i commenti di matrice stoica, e quelli che seguiranno in ambiente neoplatonico, restaurando lo spazio fisico e metafisico che sarà esplorato dal viaggiatore neoplatonico per antonomasia, lanima.
158 159
Cfr. Donini 1974 e 1982. Cfr. Rosen 1988; Levin 2001.
Capitolo nono
Il dibattito della critica: significato e funzioni dell'allegoresi stoica
1. La concezione stoica della storia dell'umanità sottesa al metodo allegorico: Posidonio, Manilio, Cornuto, Seneca Al termine della sezione storica e analitica dedicata agli allegoristi, ritengo opportuno presentare alcune brevi considerazioni e valutazioni conclusive, che si riallacciano anche all'introduzione , sui presupposti teorici dell'allegoresi classica, di orientamento prevalentemente stoico, sul suo significato e sui suoi scopi, temi che hanno trovato spesso discordi i critici. Riguardo ai presupposti teorici, è importante prestare attenzione alla concezione dello sviluppo storico dell'umanità e a quella delle origini della lingua umana sottese all'allegoresi. Il rapporto tra allegoresi e concezione della storia umana, infatti, sembra stretto, anche se problematico: Most scrive che «la questione dell'interrelazione tra l'interesse stoico per l'allegoresi e la concezione stoica dello sviluppo della storia umana rimane una questione aperta e importante »l. Il concetto di storia dell'umanità che sta alla base del metodo allegorico, almeno a partire dal Mediostoicismo, dato che per lo Stoicismo antico abbiamo visto nell'introduzione che non è questione di sviluppo diacronico, trattandosi di KOtvaì i::vvotat, è quello che vede gli autori antichi, trasmettitori del mito, come vicini alla verità, capaci di cogliere la vera natura del cosmo e del divino, possessori, insomma, di una forma di teologia e di fisica che, proprio in quanto espressa simbolicamente, necessita di un'esegesi allegorica, la quale ha dunque lo scopo di cogliere la verità su tale natura. Questo pensiero sembra procedere di pari passo con la concezione stoica di un'origine della lingua uaEt, fondata sull'imitazione diretta della vera natura del reale , le cui componenti originarie, secondo gli Stoici, vanno ricercate attraverso l'etimologia. Cornuto abbraccia espressamente questa posizione, abbiamo visto, nella conclusione del suo opuscolo, c. 35, tra le raccomandazioni rivolte al destinatario: gli antichi non furono gente di poco conto, bensì erano anche capaci di comprendere la natura del cosmo e ben portati a filosofare su di essa attraverso simboli ed enigmi. Qui la conoscenza filosofica è attribuita agli antichi, la cui qualifica di oùx 1
Most 1989, 2023, da cui traduco.
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oi TUXOV'l:Eç si porrebbe, secondo Most2, in diretto contrasto con una dichiarazione di Aristotele, secondo cui gli antichi sono designati precisamente come oi 'tUXOV'tEç, «gente di poco conto» : «ed è verisimile che i primi uomini [np&1:01], sia che siano nati dalla terra [YllYEVEtç] ... , fossero simili alle persone di poco conto [0µ0101 w'iç 'tuxoum] e agli stolti [àvofi1:01ç] ... sicché sarebbe assurdo rimanere ancorati alle convinzioni di costoro,, 3. L'opposizione appare netta. Most contesta quindi le tesi di Tate e di Le Boulluec4 per cui Cornuto si sarebbe allontanato dall'ortodossia stoica, avvicinandosi piuttosto alle teorie di Aristotele sull'allegoresi. Ho illustrato come la posizione aristotelica non sia così monolitica e ho indicato anche tracce di esegesi peripatetica, ossia "palefatiana" e storico-razionalistica, del mito in Cornuto; certamente, comunque, ho potuto portare prove notevoli dell'appartenenza di Cornuto alla tradizione stoica. In particolare, ho cercato di mostrare come la sua concezione delle forme di trasmissione dell 'originario sapere teologico derivino da Crisippo, in cui è chiarissimo questo presupposto teorico della sapienza trasmessa attraverso i poeti e le usanze rituali (c. 28: i misteri eleusini furono istituiti dagli antichi "filosofi"), che la filosofia decifra con l'allegoresi. In generale, si può rilevare in tutto il Compendium l'enfasi posta da Cornuto sugli antichi, come risulta evidente dalle numerose occorrenze di termini quali àpxa'iot, "gli antichi", naÀ.moi, "gli arcaici", np&1:01, "i primi uomini'', e aggettivi, sostantivi e awerbi correlati5. Cornuto afferma chiaramente che i poeti come Omero ed Esiodo trasmisero talora l'antica sapienza, espressa in forma mitica: «il Poeta sembra riportare questo frammento di antico mito [µu8oç] ... fa menzione, poi, di un altro mito, relativo a Tetide ... E il mito che si trova presso il poeta (Omero) presenta un significato evidente»; similmente per Strabone gli antichi espressero enigmaticamente il loro pensiero sulla natura6. Talatra, essi corruppero questo sapere originario con l'aggiunta di finzioni, che Cornuto, c. 17, raccomanda di distinguere dal mito originario, da lui identificato significativamente con l"'antica teologia": 2 Most
1989, 2020. Politica, 2, 1269 a 4-8. Primitivismo della concezione storica medio- e neostoica: cfr. Lovejoy 1935 e le discussioni qui infra; gli "antichi" nella filosofia imperiale: Brancacci 2001. Importanza del c. 35: Boys-Stones 2003, l 95ss. 4Tate 1929, part. 43; Le Boulluec 1975, part. 316. 5 Cfr. indici dei nomi nell'ed. Lang, con relativa paginazione: oi. àpxaiot in 2, 18; 4, 9; 23, 16; 35, 10; 50, 16; altre forme di àpxaioç in 37, 16 e, al compar., in 31, 14, 15; al superi. in 18, 8; àpxm6TI1c; è in 36, 2; oi. itaÀmoi, declinato, in 16, 4; 17, 6; 21, 13 e 14; 30, 8; 36, 7; 52, 7; 54, 2; 63, 5-6; 64, 10; 75, 6; 76, 3; altre forme di naÀ.moç in 15, 8; 26, 8 e 16; 31, 16; 63, 13; al superi.: in 34, 14; naÀ.m in 75, l; oi. 7taÀ.m, "gli uomini di un tempo", in 65, 14; npòn:oç in varie forme in: 2, 17; 5, 17; 6, 6; 14, 3; 6, 20;20, 7;21, 1;25,2;28,3;29, 13;33, 3;34,4;39, 15;53, 15; 54,2;41, 21;53, 12; 54, 10; 58, 5 e 14; 59, 5; 61, 18; 69, 6 e npùmoç in 3, 5; 44, 8; 54, 9. 6 Comp. 17, 27 e 30 rispettivamente; Strab. X 3, 23 con Boys-Stones 2003, 200 (205: misteri in Cornuto). 3 Aristotele,
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Occorre non mescolare i miti [µu8ot] e non trasferire i nomi dall'uno all'altro, né comportarsi irrazionalmente, nel caso in cui alle genealogie tramandate in essi sia stato aggiunto qualèosa di fittizio [npocrrnÀacr8ri] da persone che non hanno compreso le verità a cui alludono [ai vi:n:ovi:m], e che le trattano come le finzioni [n:Àacrµma] ... Ma della di Esiodo potresti avere una spiegazione [ÈçT,yT]crtç] più compiuta, in quanto egli assunse alcuni aspetti - credo - dai più antichi [àpxmoi:i::pot], e altri, invece, li aggiunse da sé con tono più mitico [µu8tKW1:Epov], modalità secondo cui moltissimi punti dell'antica teologia [naf..mà ElEoÀoyia] sono andati rovinati. A proposito del «tono mitico» attribuito qui alle creazioni dei poeti: nell'importante passo crisippeo della ripartizione degli dèi il punto sesto, che comprende appunto quelli inventati dai poeti, è chiamato «mitico» da Crisippo, con un esempio tratto proprio da Esiodo, dal medesimo v. 134 della Theogonia citato da Cornuto, c. 17, in cui tratta del rapporto tra Esiodo, l'antica teologia e il mito; Cornuto, c. 31, distingue anche almeno una figura storica, Eracle, entrata nel mito come dio7. Cornuto, c. 208, probabilmente per influsso di Posidonio per cui gli uomini fin dall'inizio non avevano solo il logos ma anche impulsi irrazionali, lascia trapelare l'idea che gli uomini primitivi fossero violenti e irascibili9 , sostenendo al contempo che essi avessero innata la nozione della verità, le idee innate 10, quelle che abbiamo visto nell'introduzione fornire la base teorica dell'allegoresi del mito nell'Antico Stoicismo, e che siano stati gli dèi stessi a far loro ricordare tale verità, trasformandoli grazie al logos e aiutandoli a costituirsi in città e a vivere vita civile: è ragionevole che i primi uomini [npcinot], nati dalla terra [YT\YEvi::iç], fossero violenti e irascibili [~imot, 8uµtKoi] gli uni verso gli 'r • altri, per il fatto di non riuscire ancora a distinguere né a far scoccare la scintilla della comunanza presente in loro. Gli dèi, allora, come pungolandoli e facendo loro ricordare [unoµtµvficrKovi:i::ç] i concetti innati [evvotm], la spuntarono: e soprattutto la solerzia del logos li combatté, li sconfisse e li sottomise, così che si credette che essa li avesse respinti ed,eliminati, pur essendo tanti; in effetti, essi divennero diversi, grazie a una trasformazione, e quanti nacquero da loro si riunirono in città, sotto la guida di Atena Polìade, protettrice della città. 7 SVF II 1009 (supra): «Al sesto posto, le invenzioni dei poeti ... Esiodo, volendo aggiungere agli dèi della seconda generazione quelli primigeni, introdusse i seguenti dèi progenitori: "Ceo, Crio, Iperione e Giapeto". Perciò questo luogo è detto anche mitico ». 8 Boys-Stones 2003, 197 distingue in Com. resoconti primitivi sulla natura, invenzioni dei poeti e figure storiche (200) . 9 Come rileva anche Most 1989, 2022; poi Boys-Stones 2003, 208-9. 10 Come giustamente osserva Boys-Stones 2001, 52-53.
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In Cornuto sembra dunque espressa chiaramente la concezione probabilmente mediostoica secondo la quale gli antichi ebbero accesso diretto alla verità, accanto all'idea, già vetero-stoica, che questo accesso sia garantito dalle Kotvat €vvow1, e tali concezioni sembrano connesse immediatamente all'allegoresi, che ha il compito di rintracciare questa verità al di là del rivestimento mitico-simbolico. Così, Boys-Stones riassume la posizione di Cornuto in modo corretto: «Cornuto concepì la sua esegesi allegorica in un contesto latamente posidoniano: egli riteneva che i primi uomini avessero compreso la verità e formulassero pensieri sulla natura, esprim·e ndo le loro concezioni in forma allegorica; che queste allegorie, assunte come mere finzioni dai poeti, formassero la base delle storie di questi ultimi, le quali erano costruite attorno ad esse; che, con il tempo, si fosse costituita un'intera tradizione mitologica, espressa anche nella pratica cultuale e attraverso la tradizione orale, accanto ai testi dei poeti, e che infine ... gli elementi originali dell'allegoria filosofica potessero essere nuovamente estrapolati, isolati e interpretati, per poter dare uno sguardo diretto su quella che era, ex hypothesi, la verità»l 1. Secondo Pohlenzl2, questa concezione della sapienza degli antichi si fonderebbe sulla idea, non attestata però nell'Antica Stoa, che il logos è presente nella sua forma più pura agli inizi della storia umana e che dunque gli antichi potevano meglio attingere alla verità. D'altra parte, la convinzione che i poeti attingessero alla verità sembra connessa alla teoria vetero-stoica che il sapiente è veramente poetal3, la quale si rovesciava nel presupposto che Omero e i poeti fossero veri sapienti: va notato però che, in quest'ottica, i poeti non erano sapienti perché antichi: erano eccezionali anche nel loro tempo: erano com~ i sapienti (cro VII, 1991, ed.JJ. Cleary, Lanham, Md.-London 1993, 63-93, 1045. - 1992 = E. Asmis, Crates on Poetic Criticism, «Phoenix,, 46 ( 1992), 138-69. - l 992b = E. Asmis, An Epicurean survey of poetic theories (Philodemus, On poems 5, cols. 26-36), «Classica! Quarterlp> 42 (1992), 395-415. - 1992c = E. Asmis , Flato on poetic creativity, in The Cambridge companion to Flato, ed. R. Kraut, Cambridge 1992, 338-64. Assael 2001 =]. AssaeJ, Phémios autodidaktos, «Revue de Philologie,, 75 (2001) , 7-21. Assis 2001 = M. Assis de Rojo, Aportes a los conceptos de "uso" y "norma" en De lingua latina deM. Terencio Varr6n, «Argos» 25 (2001), 5-14. Astin 1967 = A.E. Astin, Scipio Aemilianus, Oxford 1967. - 1978 = A.E. Astin, Gato the Censor, Oxford 1978. Atherton 2002 = Monsters and Monstrosity in Greeh and Roman Culture, ed. C. Atherton, Bari 2002, Nottingham Classica! Literature Studies Midland Classica! Studies 6: qui: R. Clare, Representing Monstrosity: Polyphemus in the Odyssey, 1-17 (Clare 2002); I. LadaRichards, Foul Monster or Good Saviour? Rejlections on Ritual Monsters, 41-82 (Lada 2002) ; R. Buxton, The Myth of Talos, 83-112 (Buxton 2002); K. Dowden, Man and Beast in the Religious lmagination oftheRomanEmpire, 113-35 (Dowden 2002). Attridge 1978 = H .W. Attridge, The Philosophical Critique of Religion under the Early Empire, II, 16, 1, Berlin-NewYork 1978, 45-78. Auffarth 2002 = Efl!TOMH THL OIKOYMENHL. Studien zur romischen Religion in Antike und Neuzeit fiir Hubert Cancik und Hildegard Cancik-Lindemaier, edd. C. Auffarth:J.
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I. RAMELLI
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