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Italian Pages 212 Year 2013
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FILOSOFIE N. 284 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO
Paolo Bellini (Università “Insubria”, Varese) Claudio Bonvecchio (Università “Insubria”, Varese) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)
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ANTONIO DE SIMONE
ALCHIMIA DEL SEGNO Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno
MIMESIS Filosofie
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© 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana Filosofie n. 284 Isbn: 9788857518404 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
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INDICE
PARTE PRIMA UNA STORIA FILOSOFICA DELLA COSCIENZA MODERNA Rousseau dopo Rousseau I. LE PASSIONI DELL’IO: PERCHÉ ROUSSEAU. L’INEFFABILE ESPERIENZA DEL SENTIMENTO UMANO DELL’ESISTERE
11
Una breve premessa quasi autobiografica e alcuni passaggi nell’intricato labirinto storiografico del conflitto delle interpretazioni di Rousseau
11
Un pensiero del limite. L’Io moderno, il conflitto tragico della socialità, lo sguardo, il riconoscimento e il problema del male. Rousseau tra antropologia, morale e filosofia politica
15
Questioni di metodo. Une lecture «rousseauiste» de Rousseau: pour lire Rousseau dans Rousseau
55
Il «cerchio ermeneutico». Il testo e l’interprete: problemi di intertestualità
65
Lire Rousseau
81 PARTE SECONDA
ROUSSEAU ÉCRIVAIN Filosofia, linguaggio, scrittura
II. LA PLUME DI ROUSSEAU. LE TRACCE DELL’IO La teoria, la critica e la pratica della scrittura
91 91
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Il linguaggio della scrittura e la scrittura come supplemento e medium del linguaggio
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Postilla 1
132 PARTE TERZA
ROUSSEAU SECONDO JEAN-JACQUES L’autobiografia e la produzione simbolica dell’immaginario: i problemi di scrittura di Rousseau e la scrittura come problema di Jean-Jacques
Jean-Jacques Rousseau ABBOZZI DELLE CONFESSIONI III. FILOSOFIA, VITA E AUTOBIOGRAFIA. ROUSSEAU “HOMME DE PLUME” E IL CARATTERE TRAGICO DELL’IDENTITÀ MODERNA Penna in mano: bios e grafia. La confessione di sé e il gramma tra pensiero vissuto e scritto Il problema filosofico dell’autobiografia: l’ontologie de la vie personnelle tra biografia e ipseità
137
141
141 143
Histoire e autobiografia: struttura e semantica autobiografica del tempo umano
146
Ri-tratti dell’io. Le metamorfosi del soggetto vivente: il récit delle Confessioni
154
Rousseau secondo Jean-Jacques
165
Il linguaggio dell’imagination e la scrittura dell’imaginaire
172
Epilogo
181
Appendice Sovranità e rappresentanza: la lezione di Rousseau. Due letture contemporanee
192
INDICE DEI NOMI
199
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NOTA AL TESTO
Ogni libro, per così dire, è per metà di chi lo scrive e per metà di chi lo legge. Anche questo ha un suo “radicamento storico e biografico” e non può sfuggire al “destino” di essere stato pensato, scritto e vissuto “hic et nunc” in un’epoca della storia in cui echeggiano, in tutta la loro complessità, le interferenze, gli attriti e i conflitti emergenti da una profonda crisi di identità sociale che segna il passaggio dal XX al XXI secolo. Inoltre, esso, come opera “individuale” ed espressione di una autorale singolarità, riflette in filigrana anche l’incontro e il dialogo critico con una pluralità altra di opere e interpreti che, come in questo caso, hanno illuminato di germinazioni il mio lavoro filosofico. La loro traccia si trova disseminata nel testo. A loro devo profonda gratitudine per il sostegno intellettuale che mi hanno offerto. In questa occasione non posso non ringraziare anche “retrospettivamente” gli studiosi che si sono riferiti a vario titolo alla prima edizione (ormai da tempo esaurita) di questo mio libro rousseauiano. Qui è impossibile citarli tutti, ma di alcuni è imprescindibile farlo come sentimento personale di riconoscenza, anche nei confronti di chi conservo indelebile memoria: Nicola Abbagnano, Jean Starobinski, Pasquale Salvucci, Antonio Verri, Roberto Gatti, Daniela De Agostini, Franco Cambi. Davide D’Alessandro, allievo e studioso, che qui ringrazio, ha voluto “generosamente” leggere la prima edizione di Alchimia del segno e dedicargli uno studio specifico che ha raccolto e pubblicato con il titolo “I conflitti dell’identità moderna. Antonio De Simone interprete di Rousseau” nel suo volume Manoscritti filosofico-politici. La vocazione critica del pensiero, Morlacchi, Perugia 2012, pp. 13-41. Spero che anche questa nuova edizione aggiornata e ampliata possa appagare i lettori e gli interpreti contemporanei, così come è accaduto felicemente con la prima. Raffaele Federici e Pierre Dalla Vigna, che qui ringrazio, promuovendone la pubblicazione presso i tipi della Casa Editrice Mimesis, hanno fatto sì che questo mio libro, rinato nella sua nuova edizione accresciuta, possa continuare a “vivere” come originario segno del mio cammino di pensiero (Urbino, inverno 2012 - primavera 2013 – A.D.S.).
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PARTE PRIMA
UNA STORIA FILOSOFICA DELLA COSCIENZA MODERNA Rousseau dopo Rousseau
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I. LE PASSIONI DELL’IO: PERCHÉ ROUSSEAU L’ineffabile esperienza del sentimento umano dell’esistere
Una breve premessa quasi autobiografica e alcuni passaggi nell’intricato labirinto storiografico del conflitto delle interpretazioni di Rousseau Con sguardo retrospettivo, segnato dallo scorrere inesorabile del tempo, mi accorgo, non senza un certo stupore riflessivo, che queste pagine non potevano che cominciare con il bisogno ancora attuale di ri-leggere Rousseau, uno degli autori “classici” che ha segnato non solo l’avvio delle mie avventure filosofiche ma anche la mia stessa Bildung filosofica sin dal suo primo muoversi e da sempre legata ai grandi filosofi da cui ho ricevuto impulsi intellettuali e che hanno poi influenzato il mio pensiero. In effetti, agli inizi degli anni Ottanta ho scritto tra Parigi e Urbino (1980-1984) e pubblicato in Italia (1985) il mio “primo” libro Alchimia del segno1 interamente dedicato a Jean-Jacques Rousseau. Subito accolto favorevolmente dalla critica e dal pubblico dei lettori, e ancor oggi, a giudizio degli interpreti, punto di riferimento negli studi rousseauiani contemporanei, il libro esplicitava nell’atto di scrittura un’ipotesi di lettura del pensatore ginevrino che era così incisa con la plume nel suo ordito testuale: Nello scenario della cultura contemporanea l’«inquiétante étrangeté» della scrittura di Rousseau rimane ancora un problema. Cifra e traccia della complessità reale della soggettività moderna, la scrittura rousseauiana, pur nelle sue irresolubili antinomie filosofico-politiche e nella sua prorompente e vibrante tensione autobiografica, ontologica ed etica, si pone progettualmente come destinata a oltrepassare l’ostacolo tra verità, apparenza e menzogna e fra teoria, filosofia e letteratura, dimostrando, nel suo stesso farsi, quanto sia complesso l’intreccio di filosofia, politica e vita con i modi della loro espressione. Eccentrico, rispetto ai percorsi segnati dalle mappe del sapere filosofico classico, l’itinerario della scrittura di Jean-Jacques Rousseau si insinua negli interstizi del reale, nelle pieghe dell’immaginario, nelle metafore vissute, nella semantica dei tempi storici e poli1
Cfr. A. DE SIMONE, Alchimia del segno. Rousseau dopo Rousseau: filosofia, linguaggio, scrittura, Pubblicazioni dell’Università di Urbino, Urbino 1985.
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Alchimia del segno
tici, nei campi di un sapere-pensare post-cartesiano. C’è un Rousseau errante che, a causa delle sue vicende personali, biografiche, viaggia alla ricerca delle condizioni più favorevoli per vivere la propria individuale esistenza. Nella dimensione errante non si iscrive soltanto la personale esperienza di Jean-Jacques, ma prende corpo, nel labirinto della scrittura, il viaggio «pericoloso», solitario e immaginario della riflessione che pervade l’intera sua œuvre. C’è, infine, il viaggio che, dopo Rousseau, è stato fatto compiere al suo pensiero attraverso una continua riappropriazione e ri-scrittura del senso e del significato della sua autobiografia e filosofia: un originale quadro di vita che, muovendosi anche nella dimensione sentimentale come autentico terreno dell’individualità irripetibile, proietta in modo decisivo l’incidenza di Rousseau nella coscienza della contemporaneità.
Oggi, mentre scrivo, in occasione del tricentenario della nascita di Rousseau, è unanimemente acclamato dalla storiografia filosofica più avvertita e attenta il fatto che, come è stato recentemente osservato dal filosofo politico Roberto Gatti, studioso e interprete di Rousseau, in Italia, «si è letto Rousseau, nel secolo scorso e in particolare nella seconda metà di esso, prevalentemente come filosofo politico, inquadrato “da sinistra” o “da destra”, etichettato come capostipite della democrazia moderna o del tutto all’opposto, come iniziatore della tradizione “totalitaria”. Comunque sia, la dimensione politica è stata predominante. Tanto da far recedere spesso (non sempre) sullo sfondo gli altri aspetti del suo pensiero, con l’effetto di trovarsi alla fine in mano un Rousseau dimidiato, e soprattutto un Rousseau del quale molti elementi rimanevano inspiegabili, oscuri, problematici, contraddittori, proprio in ragione del fatto che i “principi del diritto politico” venivano letti a prescindere dai loro fondamenti antropologici, morali, religiosi, autobiografici»2. Un cambio di paradigma nella lettura di Rousseau rivolto al superamento di tale «parzialità», come è noto, si è però attuato, non solo in Italia, a partire dagli ultimi trenta-quaranta anni e ha progressivamente allargato la prospettiva ermeneutica producendo un duplice esito che consiste nel «collegare in modo più sistematico il Rousseau politico alla sua produzione non politica (ma, non per questo, non politicamente significativa) e sondare con un’attenzione molto forte la produzione autobiografica di “Jean-Jacques”, dalle Confessioni, ai Dialoghi, alle Fantasticherie. In quest’ambito, forse, il tema predominante è stato quello dell’“autenticità”. Rousseau è stato considerato uno degli autori essenziali per comprendere le “radici” dell’identità del soggetto moderno, e per affrontare i problemi dell’identità ben oltre i confini della
2
R. GATTI, Premessa, in G.M. CHIODI, R. GATTI (a c. d.), La filosofia politica di Rousseau, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 7-8.
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Le passioni dell’Io: perché Rousseau
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modernità. E non c’è dubbio che il collegamento tra la produzione politica e la produzione autobiografica abbia dato risultati interessanti»3. Ora, è proprio muovendo da questa ormai acquisita consapevolezza critica e storiografica, ulteriore riconferma a posteriori della preveggenza e lungimiranza del mio originario impegno interpretativo espresso nei confronti del pensiero e dell’opera di Rousseau, che intendo qui di seguito riproporre al lettore Alchimia del segno in una nuova struttura testuale, che, fedele all’ispirazione originale e consapevole della sua “aura” originaria di opera “giovanile”, ha saputo registrare i segni del tempo, ovvero arricchirsi, ampliarsi (aggiungendo nuovi paragrafi) e aggiornarsi quanto basta (senza avere la presunzione a posteriori di poter governare, nei limiti della mia capacità documentale, l’immensa e sterminata bibliografia rousseauiana) per cercare di rendere conto ancora al lettore contemporaneo della straordinaria e inquietante “inattuale attualità” dell’opera rousseauiana, evitando non solo le ineludibili riduzioni a cui si espongono quelle interpretazioni della scrittura di Rousseau nelle quali incorrono, con il commento filosofico dell’interprete, non solo la sovrapposizione e la parafrasi consumate nei confronti della sua pagina (sembra quasi impossibile, oggi, recuperare la sua autentica voce dagli strati esegetici che hanno più volte tentato di ascoltarla sino in fondo, rischiarandone solo alcune parti e trascurandone altre non meno importanti), ma soprattutto per tentare di disvelare un Rousseau segreto da contrapporre a un Rousseau vero, ufficiale, puro e inviolabile o ancor di più redivivus. La forza sempre “attuale” di Rousseau, come a suo tempo ebbe a dire da grande storico della filosofia Eugenio Garin, non consiste in alcun precorrimento, ma, al contrario, consiste «nell’avere proposto enigmi e antinomie più essenziali, sul significato e sul destino dell’uomo, col coraggio di contraddirsi fino all’assurdo» e «di essere duramente dogmatico per concludere col dubbio radicale»4. Rousseau è il «pensatore della modernità classica» (F. Châtelet) che più di ogni altro è stato e continua ad essere riletto e reinterpretato, segnando, così, marcatamente, non solo la nostra eredità e tradizione filosofico-politica e culturale, ma, soprattutto, per alcuni aspetti, anche il nostro presente storico5. Come ha detto Todorov, Rousseau «ha scoperto e insieme inven-
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Ivi, p. 8. Cfr. E. GARIN, Introduzione a J.-J. ROUSSEAU, Scritti politici, a c. d. M. Garin, vol. I, Laterza, Bari 1971, pp. XXII-XXIII. Cfr. J.L. LECERCLE, J.-J. Rousseau, modernité d’un classique, Larousse, Paris 1973. Per una lettura critica, invece, cfr. G. BEDESCHI, Il rifiuto della modernità. Saggio su Jean-Jacques Rousseau, Le Lettere, Firenze 2010.
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Alchimia del segno
tato la nostra modernità. Scoperto, poiché la società moderna esisteva prima di lui ma non aveva ancora trovato un interprete così penetrante. Ma anche inventato, poiché ha trasmesso alla posterità i concetti e i temi che da secoli non smettiamo di scrutare»6. Davanti ai problemi contemporanei, Rousseau continua a suscitare le passioni e i sentimenti e ad alimentare importanti e complesse controversie sia nel campo filosofico dell’interpretazione della sua opera7 sia della sua originale storia interiore che coinvolge pervasivamente, nelle pieghe della sua biografia e psicologia umana, le figure della coscienza e le maschere dell’io che si contendono il possesso della sua anima e che danno forma, nell’esperienza della sua vita, al proprio e pulsante sentiment de l’existence fortemente innervato dal bisogno di salvaguardare la libertà e l’autonomia della sfera morale e favorevole allo sviluppo di un’etica materiale flessibile e attenta alle ragioni della sensibilità8. Come ogni pensiero alto e inquietante, quello di Rousseau, tra attualità e inattualità, esprime una forte tensione dialettica e universale, poiché presenta, nelle proprie irresolubili antinomie esistenziali, ad un tempo, un livello metastorico, in quanto comune a tutto il genere umano, e uno strato storico (storicamente determinato) che lo colloca nelle frontiere del tempo. Paradossalmente, il significato intempestivamente ancora “attuale” del «problema Rousseau» risiede in questa peculiare antinomia: il dopoRousseau come problema9. 6
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8
9
T. TODOROV, Una fragile felicità. Saggio su Rousseau, tr. it. di L. Xella, intr. di R. Bodei, il Mulino, Bologna 1987, p. 4 (d’ora in poi FF). Salvo quelle esplicitamente citate con l’abbreviazione FF seguita dal numero della pagina, in seguito tutte le altre frasi di Todorov tra virgolette s’intendono tratte da questa sua opera. Per le edizioni originali delle opere di Rousseau, cfr. J.-J. ROUSSEAU, Œuvres complètes, par B. Gagnebin et M. Raymond, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), Paris 1959-1995, 5 voll. (d’ora in poi OC seguito dal numero romano del volume). È in preparazione una nuova edizione in 21 volumi («Édition du tricentenaire») delle Œuvres complètes di Jean-Jacques Rousseau, sotto la direzione di Jacques Berchtold, François Jacob e Yannick Séité, Éditions Classiques Garnier, Paris 2012-2016. Inoltre, un’altra edizione («Édition thématique du tricentenaire», in 24 volumi) delle Œuvres complètes (et Lettres) di Jean-Jacques Rousseau è pubblicata da Les Éditions Slatkine di Ginevra, con la collaborazione delle Éditions Honoré Champion di Parigi, sotto la direzione di Raymond Trousson, Féderic S. Eigeldinger e di Jean-Daniel Candaux (per le Lettere). Il tentativo di far interagire la sensibilità fisica e quella morale, mettendo la prima al servizio della seconda, rappresenta, come è noto, una delle grandi “ambizioni” di Rousseau. Sull’argomento, cfr. M. MENIN, Il libro mai scritto. La morale sensitiva di Rousseau, il Mulino, Bologna 2013 (ivi bibliografia). Da grande interprete, Bronislaw Baczko ha scritto: «L’œuvre de Rousseau était – et est – particulièrement ouverte aux questions, pensées, attitudes et conflits de
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Le passioni dell’Io: perché Rousseau
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Un pensiero del limite. L’Io moderno, il conflitto tragico della socialità, lo sguardo, il riconoscimento e il problema del male. Rousseau tra antropologia, morale e filosofia politica Se il «problema-Rousseau» e i problemi-di-Rousseau costituiscono «il problema del valore di quella civiltà storica in cui (Rousseau) si trova preso»10 e se sostanzialmente si accetta l’invito secondo il quale «nous ne pouvons pas lui demander la solution des problémes par notre temps»11, allora occorre accogliere con una certa prudenza e cautela il giudizio secondo cui ci sarebbero «molti indizi che fanno pensare alla guarigione della cultura contemporanea dalla malattia Jean Jacques Rousseau»12, quando, probabilmente, come è stato osservato, «uno dei motivi della presenza, dell’attualità di Rousseau oggi, al di là ma in grazia degli interni dissidi o ossessioni che gli furono propri, potrebbe essere questo, che siamo spesso ancora tentati di sentire i conflitti della nostra epoca, più in profondo […] di una ormai lunga storia, come antinomie non transeunti della condizione umana»13. Ancora, è stato felicemente notato che chi segue i pensieri e i sentimenti più autentici e più vissuti di Rousseau è di fatto «indotto a ripercorrere una traccia vivente di quell’azione che in Rousseau, […] come in ciascuno di noi, è la ricerca di sé, quando il sistema di valori imposti da un tempo e da una società non consente di esprimere con immediatezza una relazione univoca e pacifica fra la sensazione individuale e l’ordinamento attuale dei rapporti sociali»14. La crisi d’identità e di legittimazione e la perdita di senso per l’essere sociale costituiscono alcuni dei nodi centrali
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l’homme, car ce qui l’imprègne, c’est la quête douloureuse et dramatique d’une relation univoque à un monde qui se manifeste comme étant ambigu et opaque, comme appartenant en propre à l’homme et lui étant à la fois étranger. Mais en même temps, cette œuvre traduit la conscience que, aussi longtemps que le monde gardera précisément ce caractère, chaque autodétermination restera ambiguë et paradoxale, et “l’existence de l’homme pour soi” ne sera ni durable, ni achevée. C’est peut-être la raison pour laquelle l’œuvre de Jean-Jacques ne s’est jamais transformée en fait – elle est demeurée un problème» (B. BACZKO, Solitude et communauté, Mouton, Paris 1974, p. 8). H. GOUHIER, Les méditations métaphysiques de J.-J. Rousseau, Vrin, Paris 1970, tr. it. di M. Garin con il tit. Filosofia e religione in J.-J. Rousseau, Laterza, RomaBari 1977, p. 22. J.L. LECERCLE, op. cit., p. 245. F. PAPI, Addio Rousseau eri soltanto un sogno, in «L’Unità», 22/9/1982, p. 9. F. DIAZ, Rousseau e la storia del suo tempo, in AA.VV., Rousseau secondo JeanJacques, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1980, p. 138. R. ALBERTINI, Presentazione a J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo. Saggio su Rousseau, tr. it. di R. Albertini, il Mulino, Bologna 1982, p. 5.
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Alchimia del segno
della crisi della razionalità contemporanea15. L’idea e il ruolo dell’identità autentica sono fondamentali non solo per comprendere l’opera di Rousseau, dal momento che per lui «una delle conseguenze più perniciose della vita sociale è l’aprirsi di un abisso fra “essere” e “apparire”», ma la stessa idea di autenticità è pensata, attraverso Rousseau, in un modo che ci consente di cogliere la complessità dei problemi relativi alla natura e alla costituzione del sé anche nella morfologia del contemporaneo. Di fatto, Rousseau «è il filosofo a cui siamo debitori di un’intuizione fondamentale: l’identità è una fonte di normatività ed esercita questa funzione normativa attraverso la sua capacità di essere autentica»16. Una simile intuizione non può che ricondurre a unità le altre quattro idee di cui siamo debitori ancora a Rousseau: (1) «l’idea che gli incentivi mediante i quali la società coordina la divisione del lavoro e la propria riproduzione influenzano la personalità degli individui e fanno sì che l’originario e naturale amore di sé ceda il passo all’amor proprio» (AF, p. 9)17; (2) «l’idea che l’educazione migliore consista nel proteggere l’essere umano dall’influenza dei modelli culturali e sociali piuttosto che nel socializzarlo ad essi»; (3) «l’idea di un 15
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Cfr. J. HABERMAS, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, tr. it. La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1975. Al riguardo, cfr. A. DE SIMONE, Habermas. Le metamorfosi della razionalità e il paradosso della razionalizzazione, Milella, Lecce 1999 (IIª ed. ampliata). A. FERRARA, Autenticità, normatività dell’individuo e ruolo del legislatore in Rousseau, in G.M. CHIODI, R. GATTI (a c. d.), La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 9 (d’ora in poi AF). Dello stesso autore, cfr. Modernità e autenticità. Saggio sul pensiero sociale ed etico di J.-J. Rousseau, Armando, Roma 1989. Sul tema dell’autenticità in Rousseau, cfr. inoltre M. BERMAN, The Politics of Authenticity: Radical Individualism and the Emergence of Modern Society, Athenaeum, New York 1972. L. TRILLING, Sincerity and Authenticity, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1972. C. TAYLOR, Il disagio della modernità, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1994. Sul rapporto tra amor de soi e amour-propre a partire dalle analisi svolte da Rousseau nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (cfr. OC, III, pp. 109-223), tra gli altri, cfr. V. GOLDSCHMIDT, Anthropologie et politique. Les principes du système de Rousseau, Vrin, Paris 1974. M.E. SCRIBANO, «Amour de soi» e «amour-propre» nel secondo «Discours» di Rousseau, in «Rivista di filosofia», n. 69, 1978, pp. 487-498. N.J.H. DENT, Rousseau. An Introduction to his Psychological, Social, and Political Theory, Blackwell, Oxford 1988. E. PULCINI, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Milano 2001 (d’ora in poi ISP). B. CARNEVALI, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, il Mulino, Bologna 2004 (d’ora in poi RR). F. NEUHOUSER, Rousseau’s Theodicy of Self-Love. Evil, Rationality, and the Drive for Recognition, Oxford University Press, Oxford 2008.
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Le passioni dell’Io: perché Rousseau
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regime politico in grado di garantire la vita e la libertà e che tuttavia ci lascia “non meno liberi di prima” che fosse instaurato»; (4) oppure «l’idea che la vita etica moderna comporti un nuovo genere di tragicità» (AF, p. 9). Perché l’autenticità dovrebbe essere assunta come chiave interpretativa della filosofia di Rousseau? Giacché l’universo della reificazione dominante nei rapporti interpersonali segna la società come teatro dell’inautenticità con scene che rappresentano una vera e propria «galleria di maschere», per cui la società «incentiva non soltanto l’insincerità ma anche l’inautenticità», e dal momento che è «pagante apparire diversi da ciò che si è», ne consegue che non solo «il divario tra condotta esterna osservabile e realtà interna si approfondisce», ma la stessa «paura di perdere terreno nella competizione sociale fa sì che le persone considerino conveniente attestarsi sul solido terreno delle forme collaudate e socialmente già accettate di autorappresentazione, piuttosto che affrontare una laboriosa ricerca di autorappresentazioni basate sulle proprie vere motivazioni e identità» (ivi, p. 11). Il risultato di questo modello di evoluzione e riproduzione sociale, in particolare nello stile di vita moderno metropolitano, caratterizzato dalla divisione del lavoro, dalla disuguaglianza sociale, dalla competizione per ricchezza, potere e prestigio sull’individuo e sull’intera vita sociale e dall’incentivo alla furbizia, alla capacità di dissimulare e intimidire, con l’invidia e la diffidenza, fa sì che le persone non possano eludere la pressione della competizione e perciò non possano non dipendere dalle opinioni altrui a tal punto che «la loro percezione di coesione ne viene condizionata e il loro sé alla fine si riduce a pura esteriorità, una copia di ciò che la società richiede» (ibid.). Che il mondo umano e sociale tra realtà e apparenza, tra fare e far apparire, somigli a un teatro e che tra l’arte dell’attore e quella di vivere socialmente si dia un’affinità profonda, è un topos consolidato nella tradizione moralistica occidentale che non ha mai dismesso di concepire la vita umana come una commedia e la società come spettacolo in cui domina l’apparire18. Come ha bene evidenziato Barbara Carnevali, proprio «al culmine della tradizione moralistica, ereditandone la finezza interpretativa e il patrimonio di osservazioni fenomenologiche, ma rielaborando questi materiali in una sintesi di estrema originalità, Jean-Jacques Rousseau formulò quella che viene considerata a giusto titolo la prima filosofia sociale moderna […] che ha al suo centro la questione della spettacolarità» (AS, p. 20). Già a partire dal secondo Discorso, un’opera che può essere considerata come una «storia filo18
A tal proposito, cfr. B. CARNEVALI, Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio, il Mulino, Bologna 2012 (d’ora in poi AS).
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Alchimia del segno
sofica della coscienza», che «ripercorre il processo di formazione dell’io dalle sue manifestazioni primitive e semplici, alle sue determinazioni più articolate e complesse» (RR, p. 69), e in cui il problema della disuguaglianza si incarna con quello relativo all’origine dei primi rapporti sociali, Rousseau ritiene che «l’inizio dell’esperienza sociale propriamente detta coincide con la nascita di uno spettacolo pubblico e con la genesi di rapporti di rivalità, simulazione e seduzione» (AS, p. 20): di fatto, la società è una «messa in scena», e questa sua immanente e illusoria artificialità non può che rappresentare la causa della sua inautenticità e alienazione. Nell’impianto narrativo del Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité di Rousseau (cfr. OC, III, pp. 109-223)19 «la grande rottura della filosofia della storia, quell’episodio originario di corruzione che segna l’uscita definitiva del genere umano dall’innocenza naturale, avviene nel momento in cui un assembramento pacifico delle prime famiglie si trasforma in una festa, una specie di rappresentazione collettiva» (AS, p. 21). A partire da ciò l’apparire in pubblico nonché il mostrarsi e l’esibirsi davanti agli altri e per gli altri diventano, nel contempo, «il baricentro della soggettività e la forma comunicativa fondamentale tra individui» (ibid.). Per Rousseau, come è noto, nella condizione di natura «l’io non conosce il valore dello sguardo altrui, ma gode di una forma di autosufficienza cognitiva ed emotiva, di un’espressività immediata e spontanea del tutto priva di finalità rappresentativa: la passione naturale è l’amour de soi, o sentimento dell’esistenza, tramite il quale ogni uomo considera se stesso “come il solo spettatore che lo osserva” [OC, III, p. 219]» (AS, p. 21): nello stato di natura, quindi, l’individuo è come se vivesse «al di qua della propria immagine, incapace di vedersi e di osservarsi dal di fuori, ancora ignaro 19
Tra i numerosi studi sul Discorso sull’origine della disuguaglianza, cfr. tra gli altri V. GOLDSCHMIDT, Anthropologie et politique, cit. J. TERRASSE (éd.), Etudes sur les Discours de Rousseau / Studies on Rousseau’s Discourses, Pensée libre, n. 1, Ottawa 1988. J. FERRARI, A. POSTIGLIOLA (a c. d.), Egalité / Uguaglianza, Liguori, Napoli 1990. A.M. MELZER, The Natural Goodness of Man. On The System of Rousseau’s Thought, The University of Chicago Press, Chicago 1990. R. WOKLER (ed.), Rousseau and Liberty, Manchester University Press, Manchester 1995. B. BACHOFEN, Premières leçons sur Le Discours sur l’inégalité de J.-J. Rousseau, P.U.F., Paris 1996. A. LOCHE, Immagini dello stato di natura in Jean-Jacques Rousseau, FrancoAngeli, Milano 2003. AA.VV., Uguaglianza e disuguaglianza in Jean-Jacques Rousseau. Il «secondo Discorso» e il «Contratto sociale», in «Rivista di filosofia», 62, n. 2, 2007, pp. 237-264. B. BACHOFEN, B. BERNARDI, Introduction et notes, in J.-J. ROUSSEAU, Discours sur l’origine de l’inégalité, Flammarion, Paris 2008. Per un’indagine genealogica e filosofico-politica sulla disuguaglianza moderna, cfr. A. MARTONE, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni, Mimesis, Milano 2011 (su Rousseau: pp. 59-91).
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della propria parvenza fenomenica». Diversamente, nello stato sociale questo tipo di consapevolezza non solo si sviluppa considerevolmente ma «il ruolo spettatoriale che nell’amour de soi è demandato solo alla coscienza che si autocontempla interiormente si comunica all’alterità e al mondo esterno». Nella condizione sociale «la coscienza si esteriorizza» e perciò «diviene consapevole di avere un aspetto, una sembianza, e sviluppa dentro di sé l’amourpropre», ovvero «il desiderio vanitoso e narcisistico di vedersi rispecchiata positivamente nella coscienza degli altri esseri umani» (cfr. ibid.). Alla ricerca di una propria immagine riflessa il soggetto intraprende una disperata lotta per il riconoscimento opponendosi ad altri rivali al cospetto di un pubblico di giudicanti: in questo caso «la stima dell’opinione pubblica equivarrà alla conquista del prestigio nella considerazione sociale», ma contemporaneamente da qui sortirà, nelle metamorfosi della soggettività, il mimetismo, la violenza simbolica e l’inizio dell’alienazione; mentre per la collettività ciò sancirà l’inizio dell’«istituzione sociale del sensibile», cioè la formazione di «un mondo di apparenze percepite e riconosciute da tutti, la cui spartizione statutaria è all’origine delle gerarchie dell’ordine simbolico» che segna l’importanza delle gerarchie sociali d’appartenenza per rango, prestigio, stima e immagine pubblica entro un dispositivo intrinsecamente simulativo, seduttivo e agonistico, dominato dall’inganno e dal tradimento, dall’ipocrisia e dalla finzione, dall’opacità e dalla menzogna, proprio perché funzionale agli occhi dell’opinione e della riproduzione sociale ma in cui inesorabilmente la coscienza individuale perde la sua integrità e i rapporti sociali si corrompono (cfr. ivi, pp. 22-23). Nella messa in scena dell’umano, lo sguardo disvela il ruolo dell’intersoggettività quale dimensione universale dell’esperienza umana in cui si appalesa la coscienza dell’io e dell’altro in una dimensione agonica e conflittuale, alienante, che testimonia non soltanto la fragile vulnerabilità intrinseca alla condition humaine, ma che è altresì tipica della patologia sociale moderna e che disvela l’anatomia e la topografia delle passioni umane e sociali eterodirette. L’ambiguità del visibile gioca dunque un ruolo fondamentale nella percezione dell’identità, non fosse per altro che, nell’umano, tra tutti i sensi, «la vista occupa un posto preminente nell’antropizzazione del mondo»20. Lo sguardo dell’occhio, che tutto circonda, è ciò che consente all’uomo di tenere il mondo «sotto presa costante – attraverso un complesso di “allusioni” simboliche e linguistiche – e di trattarlo come campo sempre aperto di possibili interventi e manipolazioni». L’uomo è soggetto-oggetto della realtà 20
Cfr. M. MANFREDI, L‘io fallibile. Identità e riconoscimento, Utet, Torino 2011 (d’ora in poi IF).
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osservata attraverso lo sguardo, parimenti la vista gioca un ruolo egemonico nella «dialettica del riconoscimento». L’identità «subisce la vista, lo sguardo creatore e lo sguardo distruttore, lo sguardo che fa essere, quello che ignora, quello che trasforma»: ogni io percorre il riconoscimento come un «palcoscenico» per gli sguardi altrui, e, in questa avventura dell’umano, come lo sguardo di Medusa, vive «il rischio incombente della negazione proveniente da altri» (cfr. IF, pp. 63-64). Lo sguardo ha potere perché è potere, in modo performativo non solo «istituisce la realtà o la annienta, la rivela o la occulta», ma anche perché è «necessario» al riconoscimento reciproco: «il potere dello sguardo fa dello sguardo uno strumento di potere». Ancora. Lo sguardo è un «dispositivo» panoptico di controllo sociale nella possibilità di istituire relazioni di reciprocità (cfr. ivi, p. 64). Dopo Rousseaau, come è noto, dobbiamo all’Excursus sulla sociologia dei sensi contenuto nella Sociologia di Georg Simmel21 una delle più acute e affascinanti analisi della relazione di reciprocità (Wechselwirkung). Secondo la prospettiva relazionale evidenziata da Simmel, «l’unità di ogni singolo individuo chiede il riconoscimento del suo essere per sé, ma l’unità che accoglie in sé ogni singolo individuo rivendica lo stesso diritto: ogni parte è negazione dell’altra, ma nessuna delle due può prescindere dalla sua controparte»22. Come ho già osservato in L’ineffabile chiasmo23, all’interno di questa dinamica fra opposte polarità costruiamo anche l’immagine dell’altro da noi come risultato di un processo analogico per mezzo del quale vediamo l’altro mediante ciò che sappiamo di noi stessi in un incessante gioco di rimandi tra l’Io e il Tu, due istanze legate tra loro da un rapporto di reciproca dipendenza/indipendenza. Nella costitutiva ambivalenza della relazione sociale, in cui si consuma il differente coinvolgimento che contraddistingue il rapporto con l’altro e la sua percezione, alle impressioni sensibili si accompagnano sempre sentimenti di piacere o di dispiacere, di benessere o disagio, di attrazione o repulsione che finiscono inevitabilmente con l’agire su di noi attraverso le risonanze soggettive (emozionali, affettive, estetiche). Nell’interazione conoscitiva e pratica con l’altro, secondo Simmel, occorre riporre particolare attenzione, dal punto di vista sociologico, alle funzioni peculiari che i differenti organi di senso svolgono 21 22 23
Cfr. G. SIMMEL, Sociologia, tr. it. di G. Giordano, intr. di A. Cavalli, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pp. 550-562 (d’ora in poi S). A.R. CALABRÒ, L’ambivalenza come risorsa. La prospettiva sociologica, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 44. Al riguardo, cfr. A. DE SIMONE, L’ineffabile chiasmo. Configurazioni di reciprocità attraverso Simmel, Liguori, Napoli 2007. ID., L’inquieto vincolo dell’umano. Simmel e oltre, Liguori, Napoli 2010.
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nell’attivare differenti modalità attraverso cui avviene la connessione interumana: non solo la struttura dei nostri sensi e dei loro oggetti contribuisce a sorreggere tutti i rapporti umani, ma se essa fosse differente anche la nostra vita interindividuale si fonderebbe su basi anch’esse differenti. Tra le varie attività e funzioni dei singoli organi di senso una «prestazione sociologica assolutamente unica» (S, p. 550) è offerta dall’occhio, che, nella connessione e interazione dell’umano, «consiste nel guardarsi l’un l’altro» (ibid.): in effetti, forse, «questa è la relazione reciproca più immediata e più pura che esista in generale» (ibid.). Il ruolo fondamentale del reciproco guardarsi disvela che, nell’immagine che un uomo si fa di un altro, «ci è negato il sapere perfetto intorno all’individualità dell’altro» (ivi, p. 30): nell’esperienza quotidiana noi attestiamo non solo una percezione frammentaria dell’altrui individualità ma confermiamo altresì l̓impossibilità dell’umano di rivelarsi nella sua totalità. Scrive Simmel: «Noi siamo tutti frammenti non soltanto dell’uomo in generale, ma anche di noi stessi. Noi siamo tutti abbozzi non soltanto del tipo uomo in generale […], ma siamo abbozzi anche di quella individualità e unicità di noi stessi […]. La prassi della vita ci spinge a formare l’immagine dell’uomo soltanto in base ai frammenti reali che conosciamo empiricamente di lui» (ivi, p. 31). Lo sguardo dell’altro integra questo «materiale frammentario» in quel che noi non siamo mai puramente e interamente, soltanto mediante lo sguardo, nei frammenti conoscibili, è data la possibilità all’essere umano di disporre di una dimensione di conoscibilità dell’altro che è preclusa a ogni approccio di tipo esclusivamente concettuale (cfr. ivi, p. 552). Lo sguardo non solo rende visibile l’altro, ma contemporaneamente svela all’altro anche il proprio sé, l’io da cui parte lo sguardo, senza tuttavia riuscire a rivelarlo compiutamente: lo sguardo che io rivolgo all’altro per penetrare le sue intenzioni e i suoi sentimenti è, nel contempo, il modo e la relazione in cui più direttamente mi manifesto all’altro, esponendomi senza difese. La prossimità di questa relazione è sorretta dal fatto singolare che lo sguardo rivolto all’altro e che lo percepisce è esso stesso espressivo, e ciò proprio per il modo in cui si guarda-all’altro: Nello sguardo che assume in sé l’altro si manifesta se stesso; con il medesimo atto con cui il soggetto cerca di conoscere il suo oggetto, egli si offre qui all’oggetto. Non si può prendere con l’occhio senza dare contemporaneamente: l’occhio svela all’altro l’anima che cerca di svelarlo. Poiché ciò si attua evidentemente con l’immediato guardarsi negli occhi, qui si produce la reciprocità più perfetta in tutto l’ambito delle relazioni umane (ivi, p. 551).
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La funzione dello sguardo è così importante nella modernità perché non solo è performativa in quanto crea una forma di esaltazione del valore individuale e di costruzione agonistica della identità, nel gioco reciproco di mascheramento e nella dialettica riconoscimento-disconoscimento, ma anche, e soprattutto, perché Rousseau, da parte sua, ha ritenuto che tale funzione sia fondamentale nell’origine della civiltà e nella prima corruzione della natura umana (cfr. IF, p. 65). Lo sguardo dell’uomo sull’uomo (sguardo di sguardo) è inquietante e competitivo. Come scrive Rousseau nel Discorso sulla disuguaglianza: «Ciascuno cominciò a guardare gli altri e a voler essere a sua volta guardato, e la pubblica stima acquistò valore» (OC, III, p. 169): lo sguardo «è l’origine del rapporto con l’altro, il veicolo del legame realmente umano» (AS, p. 81); esso predispone alla fisiognomica sociale. Sottolineando la prorompente forza simbolica della originaria ambiguità dello sguardo, Rousseau rileva come essa si inscriva in una concezione dell’uomo primitivo inteso come «un essere che interagisce con la natura con i soli mezzi della sua dotazione organica»: esso, infatti, «non si avvale di esteriorizzazioni, non si disperde nel mondo, non si affida a strumenti e tecniche» (cfr. IF, p. 66); diversamente, esso conserva l’interezza del suo sé in ogni evento. Per Manfredi, Rousseau «ribalta la collocazione dello stoico omnia mea mecum porto: non più punto d’arrivo della strada percorsa dal saggio – che attinge l’autosufficienza interiore dopo la liberazione dalla vanità dei mondani –, ma felice condizione originaria del primitivo, ancora immune dalla contaminazione di quella vanità: l’estrema saggezza coincide con l’innocenza dei primordi» (ibid.). In Rousseau, se ricondotta alla radice, la differenza tra l’uomo naturale e l’uomo civile si può tradurre in una «dialettica dell’essere in sé (e con sé) e dell’essere fuori di sé»24. Di fatto, il selvaggio «è organicamente attrezzato in modo da bastare a se stesso, da non aver bisogno d’altro che di ciò di cui la natura lo ha dotato»; invece, l’uomo civile, «grazie agli artifici a cui ricorre e alla sua industriosità, si mette, con il tempo, in condizione di superarlo in abilità; ma il ricorso a strumenti “aggiunti” alle sue doti originarie fa consistere l’uomo civile in qualcosa di esterno a se stesso, lo fa dipendere da un’esteriorità che egli si trova nella necessità di detenere stabilmente, correndo sempre il rischio di perderla». Diversamente, la limitatezza del selvaggio costituisce però anche la sua «autosufficienza, il suo essere stabilmente se stesso, la sua imperdibile perfezione» (cfr. TR, pp. 47-48). Da questo punto di vista, la dialettica dell’essere in sé e dell’essere fuori di sé presenta un 24
Cfr. M. MANFREDI, Teorie del riconoscimento. Antropologia, etica, filosofia sociale, Le Lettere, Firenze 2004, p. 47 (d’ora in poi TR).
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«fondamento organico», cioè «inerisce alla differenza dell’essere al mondo, a partire dalla soddisfazione dei bisogni». Il selvaggio «gestisce il suo rapporto con il mondo contando sul solo uso dei suoi organi di senso, dei suoi organi di movimento e delle sue innate capacità di manipolazione del mondo, a cui non aggiunge nessun artificio». L’insorgere della stessa costruzione di strumenti (anche semplici), rappresenta già «un’uscita da se stessi, un contare su mezzi che non sono “con sé”, ma esterni a sé» (ivi, p. 48). L’uso degli strumenti indica di per sé «il primo movimento di esteriorizzazione umana»: «se ciò coincide con l’inizio della civilizzazione, la civiltà comincia con l’uscita dell’uomo da se stesso», pertanto, «l’allontanamento dalla natura è, sin dall’inizio, una perdita di se stessi, un’alienazione» (ibid.). Per il Rousseau del secondo Discorso, nella relazione mediale che lo strumento intrattiene con il mondo, «il primitivo incontra il mondo anche sotto la specie degli altri», ovvero «gli uomini entrano in reciproche relazioni non a partire dai rispettivi essere in sé e con sé, ma solo dal momento in cui fanno ricorso a oggetti esterni ed entrano in commercio con realtà esterne», ma «finché resta “in sé”, il selvaggio è un solitario» (ivi, p. 49). Parimenti, il processo di civilizzazione è quello che designa anche la possibilità d’uso di strumenti e le relative attività di intervento sul mondo esterno, che «implicano l’incontro con l’altro e la costituzione di un sistema di reciproca dipendenza per la soddisfazione dei bisogni»: questo processo (originariamente materiale e strumentale), assume poi di fatto «una forma di dipendenza identitaria e, sia pure in senso speciale, una condizione ontologica, nel senso che l’esistenza di ciascuno dipende dal riconoscimento degli altri» (ibid.). Qui si dà il cominciamento del ruolo e della funzione dello sguardo e del suo connettersi con il percorso del riconoscimento. In Rousseau, come sostiene Manfredi, «alle origini della categoria moderna di riconoscimento ci sono modelli di filosofia sociale che non usano il termine “riconoscimento”: un atto riconoscitivo è il momento di svolta nel processo di civilizzazione, giacché introduce al sistema della dipendenza universale» (ivi, p. 47). Ciò che è rilevante cogliere, quindi, è la singolarità della «forma di de-materializzazione del medium» che segna l’origine della cultura. Infatti, il riconoscimento «passa attraverso la valutazione, la “stima” delle migliori qualità (bellezza, forza, abilità, eloquenza): entrati in reciproca relazione in virtù dell’uso di strumenti, gli uomini coltivano poi la reciprocità ed instaurano la socievolezza attraverso un medium immateriale: lo sguardo»: esso non solo diventa «l’organo e il veicolo dell’apprezzamento pubblico, la forma nella quale si manifesta l’altrui testimonianza della propria esistenza», ma altresì «fissa l’altrui identità e la istituisce come qualcosa di condiviso e di comunitario» (ivi, p. 50). Il potere dello
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sguardo si carica di una luce negativa per Rousseau, poiché dalla scena della pubblica stima si generano disuguaglianza, vizi, lusso, apparenza, inautenticità, alienazione25. Per Rousseau, il riconoscimento, inteso sotto le spoglie dello sguardo che valuta e stabilisce cosa sia la stima, «segna la svolta dell’evoluzione umana, la nascita della cultura e, con essa, la perdita della felicità naturale» (TR, p. 51). In questo senso, il riconoscimento si appalesa come lo «snodo fondamentale» del processo di «snaturamento dell’uomo», poiché «la necessità di corrispondere alle altrui aspettative induce l’uomo in via di civilizzazione a costruire un’immagine di sé nella quale l’autenticità naturale è soppiantata dall’apparente, dal fittizio, dal simulato» (ibid.). Se nella natura nulla concorre a incrementare la vanità, nella civiltà invece tutto nasce anche «dalla passione connessa con lo sguardo, con la stima, con la dipendenza dagli altri e prende la strada dell’artificio e della finzione» (ivi, p. 52). Il riconoscimento, come «processo sovrastrutturale», fonda «l’universo della socievolezza», non presenta «un carattere regolativo-fondativo», ma contribuisce a riprodurre sempre di nuovo «il sistema della dipendenza universale, attraverso il bisogno sempre rinascente dello sguardo, dell’approvazione, della stima» (cfr. ivi, p. 53). Lo sguardo ab ovo è, dunque, lo sguardo che corrompe. Una sua radicale ambiguità inerisce lo stesso riconoscimento, poiché istituendo l’identità ne stabilisce la dipendenza dagli altri: lo sguardo, come «medium necessario dell’identità civile», dovendo intercettare e ottenere «l’attestazione di esistenza, la certificazione mondana», ha già di per sé, nella sua consustanziale e ambigua captatio, «una connotazione morale», perché di fatto ha a che fare con la virtù e con il vizio, diventa elemento connettivo di una rete di interdipendenze in cui l’uomo perde la sua originaria «autenticità naturale» (IF, p. 67). Di questa disconosciuta natura il vizio esprime, nella sua simbolica, la «corruzione» indotta dallo sguardo, che si oggettiva nella «vanità», poiché «essere è essere guardati» (ibid.). Qui ritorna alla memoria la Theory of Moral Sentiments (1759) di Adam Smith26, cioè a quanto 25 26
Cfr. G. FORNI, Alienazione e storia. Saggio su Rousseau, il Mulino, Bologna 1976. Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, tr. it. di S. Di Pietro, Rizzoli, Milano 2001 (d’ora in poi TSM). Al riguardo, tra gli altri, cfr. W. BROWN, S. FLEISCHACKER (ed.), The Philosophy of Adam Smith. Essays commemorating the 250th anniversary of The Theory of Moral Sentiments, «The Adam Smith Review», vol. 5, Taylor&Francis, New York 2010. Su Smith, cfr. inoltre S. CREMASCHI, Il sistema della ricchezza. Economia politica e problema del metodo in Adam Smith, FrancoAngeli, Milano 1984 e A. ZANINI, Adam Smith. Economia, morale, diritto, Bruno Mondadori, Milano 1997.
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egli ha saputo cogliere per ciò che riguarda «il nesso tra visibilità e riconoscimento, e il nesso opposto, tra perdita (o mancanza) di visibilità e disconoscimento» (IF, p. 67), dal momento che «il senso della visibilità è etico fin dall’inizio, poiché lo sguardo che fa essere sfrutta una naturale inclinazione esibizionistica» (ibid.). Leggiamo Smith: «È la vanità che ci interessa, non il benessere o il piacere» (TSM, p. 150). Dunque, «la ricerca del benessere e della ricchezza non si spiega con la necessità di soddisfare i bisogni – per i quali basta poco – ma con le gratificazioni offerte dall’altrui simpatia e ammirazione» (IF, p. 67). Lo sguardo degli altri attira il ricco, potente e fortunato, mentre il povero avverte tragicamente che il suo stato di povertà «lo pone fuori dalla vista degli altri», in quanto egli «va e viene senza che nessuno lo noti, e quando si trova in mezzo alla folla è al buio come nel suo tugurio» (TSM, p. 151). Commenta Manfredi: «Lo sguardo che disconosce è quello che non si posa, che sorvola, che ignora. Chi è stato ricco e ha perso la sua fortuna, chi era potente e non lo è più, soffre non per i beni perduti e per la decadenza del rango, ma per lo sguardo distolto, manifestazione visibile del disprezzo» (IF, p. 67). Osservata dal punto di vista relativo al «registro del riconoscimento come visibilità» (ivi, p. 69), la filosofia sociale di Smith, dunque, costruisce un vero e proprio “sistema della visibilità”, illustrabile dalla formula rousseauiana dell’«onore senza virtù». Secondo questo sistema, «la società si regge, per così dire, su differenze visibili, le “distinzioni di rango”, la divisione in classi, che garantiscono la pace e l’ordine sociale» (ibid.). La spiegazione di questo “stato di cose” risiederebbe smithianamente nel fatto che «la natura ha saggiamente disposto che queste differenze siano attivate e mantenute dalla generale inclinazione ad ammirare gli uomini grandi, ricchi, potenti, e dalla scarsa propensione a solidarizzare con gli sventurati, i poveri, i miserabili»: il sistema della visibilità «vuole che le differenze di valore sociale siano visibili, fissate dalla funzione dello sguardo che apprezza i privilegiati e disprezza gli umili» (cfr. ibid.). Tutto ciò, secondo Smith, esprime «la corruzione dei nostri sentimenti morali» (TSM, p. 168): «Vediamo spesso le rispettose attenzioni del mondo rivolte in modo più deciso verso il ricco e il potente, piuttosto che verso il saggio e il virtuoso» (ibid.). Questo spiega perché “saggezza” e “virtù” finiscano col configurare una «forma di distinzione meno visibile delle distinzioni di rango», perché «meno utile alla stabilità sociale e all’interesse collettivo» (ibid.). In altri termini: «Alla necessaria visibilità del privilegio sociale si contrappone un’altrettanto necessaria e duplice invisibilità, differenziata al proprio interno: quella dell’inferiorità sociale e quella della virtù. La prima è il risvolto dell’ammirazione dei potenti, che evidentemente non può conciliarsi con la considerazione per gli
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umili; la seconda consegue dalla subordinazione del valore morale all’utilità sociale, sul presupposto che l’esercizio del potere giovi alla società assai più che quello della virtù» (ibid.). L’occhio, lo sguardo, nelle deformazioni dell’egoismo che agita le passioni acquisitive, traducono queste «differenze sociali visibili versus differenze morali invisibili, utilità versus valore, uomo esteriore versus spettatore imparziale, e, appunto, “onore senza virtù”» (ivi, p. 71). Smith, dunque, individua nel self-love, concepito come «ansia di distinguersi» e «desiderio di essere preferiti», «la basilare spinta emotiva dell’agire umano»27: essere osservati, considerati e notati con simpatia, compiacimento e approvazione, il desiderio della ricchezza non tanto per il suo «valore materiale» ma come “segno”, «vettore simbolico della propria distinzione», sono tutti elementi che suscitano nell’umano la «vanità» (cfr. EPa, p. 115): «gli uomini desiderano ciò che altri desiderano (ricchezza, potere) per ottenere quella “posizione sociale”» tramite la quale è possibile ottenere «il riconoscimento altrui» (ibid.). In questo senso, «i desideri dell’individuo smithiano sono dipendenti dal desiderio dell’altro; e l’oggetto desiderato ha in sé meno importanza della relazione mimetica con l’altro» (ibid.). Scrive Pulcini in L’individuo senza passioni: «La passione dell’Io […] nel quadro smithiano assume un’autonomia e una forza tali da spingere gli individui a privilegiare il valore simbolico della ricchezza rispetto ai suoi stessi vantaggi materiali. Gli uomini desiderano possedere qualcosa che altri posseggono e che tutti desiderano, non tanto per il suo valore o per la sua intrinseca utilità, quanto perché questo qualcosa è il mezzo per soddisfare il proprio self-love, ottenendo stima e ammirazione universali» (ISP, p. 77). L’individuo smithiano, quindi, «si configura come un essere essenzialmente mimetico, i cui interessi e scopi, e i cui stessi desideri, in virtù di quella spinta naturale alla “simpatia” che produce identificazione, sono dipendenti dai desideri dell’altro» (ibid.): Smith coglie così «un aspetto fondativo della struttura emotiva dell’individuo moderno» (ibid.), che poi René Girard definirà appunto «desiderio mimetico»28: esso ci dice che «gli uomini desiderano ciò che altri desiderano, o meglio ciò che essi immaginano che gli altri desiderano» (ISP, p. 77). Proprio in quanto «oggetto universalmente desiderato, la ricchezza diven-
27 28
Cfr. E. PULCINI, Il sé mimetico e il falso riconoscimento, in M. CALLONI, A. FERRARA, S. PETRUCCIANI (a c. d.), Pensare la società. L’idea di una filosofia sociale, Carocci, Roma 2001, p. 114 (d’ora in poi EPa). Cfr. R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, tr. it., Bompiani 1981. ID., Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, a c. d. S. Tomelleri, Raffaello Cortina, Milano 1999.
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ta “segno” del proprio rango e del proprio valore, mezzo simbolico per ottenere onore e considerazione» (ivi, p. 78). Tuttavia, precisa Pulcini, «l’individuo smithiano non è l’individuo egoista, isolato e autosufficiente, mosso dal freddo self-interest all’acquisizione e alla creazione della ricchezza»; al contrario, egli «è spinto e motivato all’azione dalla pressione del self-love, vale a dire da una passione eminentemente relazionale che trae alimento dal riconoscimento e dall’emulazione dell’altro, e che lo spinge alla ricerca del possesso delle cose per ottenere a sua volta dall’altro il riconoscimento necessario alla costruzione della sua stessa identità» (ibid.). Se le cose stanno così, allora, come ritiene Pulcini, «non bisogna pensare che in Smith ci sia una delegittimazione del self-love e della “corsa alla ricchezza”: la dinamica mimetica delle passioni umane è condizione necessaria per lo sviluppo del progresso e del benessere, fondamento prezioso della “ricchezza delle nazioni”» (EPa, p. 115)»: ciò che invece va contrastato «sono gli eccessi dell’amore di sé, che contengono pericoli di ordine sociale e morale» (ibid.). Per questo egli «configura l’opposizione tra un falso e un vero riconoscimento»: il falso, foriero di «conflittualità sociale e di corruzione morale», il vero, «inteso come approvazione e simpatia da parte dell’altro» (ivi, p. 116). Tutto ciò comunque non è ancora sufficiente per raggiungere una «visione intersoggettiva della formazione dell’identità e del legame sociale» che comporti un livello acquisitivo di autoriconoscimento. L’approvazione degli altri non è sufficiente, infatti «lo sguardo e il giudizio dell’altro non sono ineffabili»: gli uomini «non vogliono solo il riconoscimento esterno, vogliono anche esserne degni; non vogliono solo essere stimati ma stimabili; e all’opposto, non vogliono essere biasimati quando sentono di non meritarlo» (ivi, p. 117). Dunque, si può dare «una potenziale discrasia tra l’approvazione esterna e l’autoapprovazione che di fatto lascia intravedere una possibile fuoriuscita dal meccanismo mimetico» (ibid.): «prima ancora del consenso dell’altro, gli uomini vogliono essere certi dell’autoapprovazione, dell’autostima, vale a dire di un’approvazione fondata sull’autoriconoscimento del proprio valore e dignità, delle proprie qualità morali» (ibid.). L’autoriconoscimento può rendere possibile un’identità indipendente «dallo sguardo dell’altro», oltre il conformismo. Ma, Smith non giunge «a porre radicalmente in discussione il modello esistente di legame e di ordine sociale, di cui cerca al contrario una più solida legittimazione»: il suo «obiettivo» è quello di mostrare come «la società concorrenziale e competitiva trovi al suo interno il rimedio ai propri eccessi e alle proprie patologie» (ibid.). A differenza di Rousseau, Smith non considera il riconoscimento come «una degenerazione civile rispetto allo stato naturale, né come una distorsione morale pro-
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pria di un dato tempo storico, una degradazione del costume. Alla radice del bisogno di approvazione e ammirazione altrui c’è un’inclinazione naturale dell’uomo. Egli è stato fatto dalla natura per vivere in società» (TR, p. 57). Per Smith, la società «è istituita e mantenuta non dal riconoscimento della virtù, né dal valore della saggezza, tanto meno dalla solidarietà per i deboli, ma dall’attrazione del potere e dal fascino della fortuna e della ricchezza»: dunque, il lato etico del riconoscimento appare come del tutto «marginale rispetto al suo valore utilitario, che è di controllo sociale, di mantenimento della pace e dell’ordine in una società di diseguali» (ibid.). Per l’autore della Theory of Moral Sentiments il riconoscimento non-etico o socialmente funzionale non fa altro che ruotare intorno alla pragmatica e alla retorica della visibilità che si traducono nell’applicazione dello sguardo, allo stesso modo in cui il disconoscimento si appalesa nello «sguardo distolto» (ivi, p. 58). La disuguaglianza sociale continua attraverso la logica dell’utilitario, del funzionale, delle differenze di condizione, le sole, secondo Smith, che possono garantire pace e ordine, a differenza del riconoscimento etico e della compassione che al massimo possono svolgere la funzione di rinforzo della «coesione sociale» (cfr. ivi, p. 61). Come s’è detto, alle origini del riconoscimento moderno si posiziona una complessa teorizzazione dello sguardo «come medium tra comunità riconoscente e soggetto riconosciuto» (ivi, p. 105). Sia in Rousseau che in Smith, l’altro, che interviene nel percorso del riconoscimento, è originariamente «un soggetto comunitario»: alla radice del riconoscimento, quindi, «non c’è una relazione interpersonale, ma la considerazione di uno da parte di molti, l’attenzione qualificata della società per il singolo». Ognuno può ricevere approvazione o stima «in proporzione al possesso delle qualità e delle doti che la società apprezza, o semplicemente perché reso ammirevole dal potere e dalla fortuna» (cfr. ibid.). Rousseau e Smith, pur posizionando il valore del riconoscimento in modo diverso, negativo il primo, positivo il secondo, elaborano la forma teorica moderna del riconoscimento «come originariamente dipendente dalla valutazione dell’altro comunitario»: è in questo che risiede il significato dello sguardo come «elemento operatore» del riconoscimento, esso, infatti, «veicola il giudizio collettivo sulle qualità del singolo, le trova corrispondenti alla visione dell’interesse generale, le certifica e le sanziona in positivo» (ibid.). Dopo Rousseau e Smith, invece, come è noto, Hegel sposterà su un asse più radicale la sua filosofia del riconoscimento cercando di dialettizzare le radici moderne della soggettività indagando fenomenologicamente i percorsi della coscienza attraverso la dialettica di servo e padrone magistralmente esemplata nella Phänomenologie des Geistes.
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Di fatto, per comprendere la dialettica tra identità, alterità e conflitti di riconoscimento non ci si può non riferire ancora a Hegel, al filosofo che più di altri «ha avuto il coraggio teorico di mettere a contatto diretto identità e alterità, ovvero di fare penetrare l’alterità nel nucleo dell’identità […] a tal punto di farlo esplodere»29. Con Hegel, nel percorso culturale della modernità, come è stato osservato, si raggiunge un punto alto di determinazione della soggettività perché nel suo pensiero l’identità e l’autonomia del soggetto si distendono «dall’Io ad un Noi e dall’individuale all’universale solo uscendo dalla staticità e dall’autismo per riconoscersi e ricostituirsi nella plastica e duttile capacità di inclusione di contenuti e tensioni che abbracciano la realtà spirituale, transoggettiva e intersoggettiva; insieme di cui e in cui si costituisce la vicenda umana. Non è un caso che rotta la compattezza sistematica, ciò che si fa problema è la soggettività stessa»30 Come ho ricordato altrove31, nelle Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel ha osservato che «la storia non è il terreno in cui cresce la felicità. I periodi di felicità sono le pagine bianche della storia»32. Certo, sarebbe difficile oggi, retrospettivamente, pensare di contrapporre le lacerazioni della condizione intersoggettiva contemporanea a una ormai irraggiungibile “armonia greca”. Ma la lezione hegeliana, in particolare quella esemplata nella Fenomenologia dello spirito, dopo più di due secoli33, continua ancora a mettere in evidenza il suo tentativo di “pensare la vita” e di abbracciare “la ricchezza del reale”34. Nel Novecento, come è noto, per comprendere la saggezza hegeliana ci si è affidati alla sapienza e al “genio filosofico” di 29 30 31 32
33 34
F. REMOTTI, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 86 (d’ora in poi OI). R. BONITO OLIVA, Soggettività, Guida, Napoli 2003, p. 37. Cfr. A. DE SIMONE, L’inquieto vincolo dell’umano. Simmel e oltre, cit., cap. V. Cfr. G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1983-1985; al riguardo cfr. P. SALVUCCI, Lezioni sulla hegeliana filosofia della storia, presentazione di P. Grassi, FrancoAngeli, Milano 2007. Cfr. AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, in «post-filosofie», n. 4, 2008. Cfr. G. CANTILLO, Introduzione, in G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, vol. I, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2008, pp. V-LXI. Al riguardo, cfr. R. BODEI, La «Fenomenologia» della coscienza, in «Il Sole24ore», 22 marzo 2009; cfr. inoltre l’Introduzione di G. GARELLI, in G.W.F. HEGEL, La fenomenologia dello spirito, a c. d. G. Garelli, Einaudi, Torino 2008. Per i riferimenti testuali, cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a c. d. E. De Negri, voll.1-2, La Nuova Italia, Firenze 1973.
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Alexandre Kojève che, come ha scritto Marco Filoni35, era un filosofo che «non cercava allievi», né tanto meno «voleva creare una scuola»36 e che, tra l’altro, pur lasciandoci un lavoro “incompiuto”, ha trovato non solo il tempo di consegnarci una rilevante, impareggiabile e imprescindibile Introduction à la lecture de Hegel37, che ci guida nel discorso filosofico esemplare della Fenomenologia dello spirito, ma ha altresì dimostrato come le figure centrali della Fenomenologia dello spirito della lotta per il riconoscimento fra il servo e il signore e la paura della morte38 siano degli snodi cruciali tanto nel processo di formazione dell’autocoscienza quanto nel riconoscimento reciproco degli Stati quali “totalità etiche”: snodi che pervadono non solo l’antropologia della modernità ma che presentano tutta la loro forte pregnanza ermeneutica per la criticità anche del nostro tempo. Individuando i limiti della visione kantiana dell’essere umano, in quest’opera scritta a Jena nel 1807, il filosofo di Stoccarda avverte la necessità di porre a base della modernità «una nuova antropologia»39. Per Hegel, oltre la caratterizzazione essenzialmente conoscitiva dell’Io di matrice kantiana, «neanche la raffigurazione di un’individualità che, mossa da bisogni, entri in una relazione strumentale, di uso e consumo con la realtà esterna per soddisfare le proprie necessità, è sufficiente a dar conto della vera natura dell’essere umano»40. Infatti, «ciascuno di noi, oltre ad essere soggetto di una ragione conoscitivo-osservativa e oltre ad essere soggetto di una corporeità fatta di bisogni e appetiti, è soggetto che trova il suo soddisfacimento più profondo, la sua identità più vera, solo nell’essere riconosciuto nel suo valore di individuo e di persona da un essere umano a lui simile, ossia nel
35 36 37
38 39 40
Cfr. M. FILONI, Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Cfr. M. FILONI, L’uomo d’un solo libro, in A. KOJÈVE, Introduzione al Sistema del Sapere. Il Concetto e il Tempo, tr. it. e postfazione di M. Filoni, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, p. 228. Cfr. A. KOJÈVE, Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla «Fenomenologia dello spirito», a c. d. G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. Su Kojève “lettore e interprete” di Hegel, cfr. A. DE SIMONE, Desiderio e lotta, signoria e servitù: fenomenologie della soggettività, in ID., Il soggetto e la sovranità. La contingenza del vivente tra Vico e Agamben, Liguori, Napoli 2012, pp. 93-116. Cfr. A. KOJÈVE, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, tr. it. di P. Serini, Einaudi, Torino 1991². R. FINELLI, Dalla Rivoluzione francese alla Comune di Parigi, in AA.VV., La libertà dei moderni. Filosofie e teorie politiche della modernità, Liguori, Napoli 2003, p. 26. Ibid.
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riconoscimento da parte di un altro soggetto»41. Per Hegel, dunque, «senza il riconoscimento della propria esistenza, della propria irripetibile individualità, da parte di un altro (o da parte di altri) non si dà autentica esistenza umana»42. Nel modello hegeliano, alterità e forme di riconoscimento intersoggettivo giocano un ruolo fondamentale nel complesso movimento dialettico inerente il campo relazionale che delinea la socialità, reciprocità e universalizzazione del soggetto che non rinuncia però alla propria individualità. Nell’antropologia e nella filosofia dialettica di Hegel, «il soggetto è ciò che non è in sé autonomo e autosufficiente ma solo ciò che, dipendente intrinsecamente dall’altro, è capace di rispecchiarsi e di ritrovarsi nell’altro da sé […]. È l’“in sé”, che attraverso il “per altro”, diviene “in sé e per sé”: ossia soggetto non presupposto come già costituito e definito dall’inizio, bensì tale solo per un processo di fuoriuscita da sé e di ritorno a sé»43. Se si potesse sintetizzare la cifra del pensiero hegeliano, potremmo dire che il movimento del riconoscimento, la sua “mediazione sillogistica”, scaturisce da una dialettica fra il trovare-se-stesso nell’altro e il distanziarsi dall’altro, laddove tale movimento non è solo il fare di una singola autocoscienza ma è altresì un processo simmetrico-reciproco e anche riflessivo44. Il conoscere-come-riconoscere, in Hegel, raggiunge il suo livello più alto di compimento sempre come «l’insieme del riconoscimento dell’altro, del riconoscersi e dell’essere riconosciuto», e come tale, «è un nesso di relazioni alla cui definizione non basta la reciprocità simmetrica» in quanto la simmetria va comunque coniugata «insieme alla riflessività interiore», ovvero «l’asse orizzontale va coniugato insieme all’asse verticale»45. L’Anerkennung concepito come “principio specifico della filosofia pratica” hegeliana46 pone capo a un frame in cui il processo del riconoscersi si traduce in un complesso movimento dialettico; qui il riconoscimento reciproco viene a fondarsi con il carattere intersoggettivo dell’identità ma anche con quell’elemento conflittuale che è “la lotta per il riconoscimento”, esemplata originalmente 41 42 43 44 45 46
Ibid. Ibid. Ivi, pp. 26-27. Cfr. C. IBER, Autocoscienza e riconoscimento nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, in AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 16-17. R. FINELLI, Trame del riconoscimento in Hegel, in AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 53. Cfr. L. SIEP, Il riconoscimento come principio della filosofia pratica. Ricerche sulla filosofia dello spirito jenese di Hegel, tr. it. a c. d. V. Santoro, Pensa Multimedia, Lecce 2007.
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da Hegel nelle celebri pagine della Fenomenologia dedicate all’Autocoscienza e in particolare alla “dialettica servo-signore”. La posta in gioco è dunque proprio il Kampf um Anerkennung, ecco perché hegelianamente la dialettica del riconoscimento disvela un «momento agonistico, conflittuale» che ci presenta un soggetto47 da non considerare mai come un dato, bensì sempre come «una conquista»48. Nella lotta per il riconoscimento, l’autocoscienza che non è mera proiezione dell’identità dell’altro, ma attestazione e affermazione di se stessa come differenza, come opposizione, non si risolve in un superamento dell’intersoggettività e si può manifestare soltanto riconoscendo e presupponendo l’esistenza di una pluralità di autocoscienze antagonistiche, di quegli “altri reali” che chiedono riconoscimento reciproco49. Come dice Bodei: «Il soggetto abdica alla propria presunta sovranità originaria, rischia la perdita di sé e guadagna la propria identità a contatto con l’alterità e l’oggettività. Non si diventa infatti soggetti per diritto divino, a partire dalla purezza dell’Io=Io»50. Nella sua rilettura del rapporto tra Hegel e il riconoscimento, Francesco Remotti ha richiamato l’attenzione sul fatto che con Hegel, nella modernità, assistiamo «a una profonda revisione del rapporto tra identità e alterità»: in Hegel «l’alterità si insinua nell’identità e ne diviene una dimensione sostanziale, fondamentale, irrinunciabile» (OI, p. 27). Inserire l’alterità nell’identità hegelianamente significa «aprirsi la via alla considerazione della molteplicità per un verso e dell’alterazione per l’altro» (ivi, p. 28): le entità a cui si riferisce Hegel non sono più entità ontologiche «fisse e immobili in un empireo metafisico; esse sono entità in divenire, in trasformazione, i cui confini, di conseguenza, sono fissati solo per essere nel frattempo rimossi e superati», dal momento che il mondo, per Hegel, «non è più fatto di sostanze separate e chiuse in se stesse, ma di processi storici coinvolgenti» (ibid.). Secondo il lessico della logica hegeliana51, nel panorama del divenire «non si può più asserire che A è soltanto identico a se stesso ed è tenuto separato, ontologicamente distinto, da non-A: A e non-A si intrecciano 47
48 49 50 51
Cfr. L. CORTELLA, Il soggetto del riconoscimento. L’intersoggettività in Hegel, in C. VIGNA (a c. d.), Etica trascendentale e intersoggettività, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 373-396 (anche in L. CORTELLA, Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Il Poligrafo, Padova 2002, pp. 257-278). Cfr. R. BODEI, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, p. 211. Cfr. A. TUCCI, Individualità e politica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002, p. 65. R. BODEI, Scomposizioni, cit., p. 219. Cfr. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1968.
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e si combinano per formare, a loro volta, altre entità, in un movimento continuo e inarrestabile» (OI, p. 28). Da ciò consegue, come ritiene Remotti, che in Hegel non soltanto «il problema dell’identità è nettamente superato dalla trasformazione», ma altresì che per Hegel, data la molteplicità dinamica dei mutamenti storici, l’identità «è improponibile, perché il mondo è una continua trasformazione» (ibid.). Attraverso la Wissenschaft der Logik (1812-16), in Hegel si consumerebbe «la fusione di identità e alterità» e con ciò avverrebbe «il superamento dell’identità» (ivi, pp. 86-87). Per Hegel, la compenetrazione di identità e alterità è «la sigla della verità completa»: «compenetrazione di identità e alterità, unione di identità e diversità fanno sì che il fondamento della realtà sia dato non dall’identità, ma dalla contraddizione» (ivi, p. 87). Tutte le cose hegelianamente «sono contraddittorie»: la contraddizione, «radice di ogni movimento e vitalità»52, si rivela come più profonda ed essenziale dell’identità. Seguendo Hegel, dal momento che «l’alterità si insinua nell’identità e, divenendone una dimensione sostanziale e irrinunciabile, la distrugge», allora è proprio «l’alterità la dimensione a cui non si può rinunciare», perché «l’alterazione conferisce il senso della realtà, la direzione del suo movimento» (OI, p. 88). Ora, però, non è sufficiente condannare l’identità, ma occorre spiegare perché se ne faccia massiccio ricorso, costruendone un mito, un’ossessione. L’alternativa hegeliana (dello Hegel del periodo jenese 1801-1807) è data dal tema del «riconoscimento» (Anerkennung), che ha ricevuto notevole riscontro nella filosofia contemporanea (Habermas, Taylor, Honneth, Ricoeur). Se c’è qualcosa di irrinunciabile per la vita sociale dei soggetti, come «qualcosa che deve venire per primo, un fondamento e nello stesso tempo un obiettivo che per primo si deve realizzare», come dice Remotti “interprete” di Hegel, «non è l’identità, ma il riconoscimento» (ivi, p. 90). Per Hegel, il riconoscimento, inteso come momento fondante della vita sociale, «non è qualcosa che si verifica dopo l’istituzione dei soggetti, non è un riconoscere una qualche realtà già data. Il riconoscimento fonda i soggetti, li fa emergere dinamicamente e li istituisce non nella loro identità, bensì nella loro intrinseca relazione con l’alterità»; il riconoscimento è «un formarsi del soggetto o della coscienza nel travalicare i confini dell’altro» (ivi, p. 89). Come scrive Hegel: «Ognuno pone sé nella coscienza dell’altro, toglie la singolarità dell’altro, ovvero ognuno pone nella sua coscienza l’altro […]. Questo è in generale il reciproco riconoscere [Anerkennen]»53. 52 53
Cfr. ivi, pp. 490-491. Cfr. G.W.F. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, a c. d. G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 44.
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Per Hegel, conclude Remotti, il riconoscimento è «un superamento dei confini, è un essere l’io negli altri e gli altri in me, un noi dentro agli altri e gli altri dentro al noi» (OI, p. 93). Il tema rappresentato dal rapporto tra identità e riconoscimento attraverso Hegel continua dunque a caratterizzare il conflitto delle interpretazioni nel campo del pensiero filosofico-politico ed etico-giuridico contemporaneo. A riconfermarlo è l’ulteriore rilettura che di tale rapporto ci ha offerto Geminello Preterossi in La politica negata54. Egli ribadisce il carattere strategico della nozione di identità in rapporto alla politica, allorquando sostiene che «le identità sono invenzioni» di cui non ci si può sbarazzare: non solo «l’identità è una risorsa necessaria alla politica», perché se non c’è «non si è capaci di nitide e riconoscibili assunzioni di responsabilità» (cfr. PN, p. 29), ma lo stesso riconoscimento è fondamentalmente «il meccanismo generatore dell’identità» (ivi, p. 30). Di fatto, osserva Preterossi, «la risposta alle domande “chi sono?, chi siamo?” è il risultato di un’attribuzione reciproca di identità» (ibid.). Il che significa che «chi assume, interiorizza una determinata identità lo fa perché riconosce l’identità dell’Altro che gliela assegna o rimanda, in un gioco di specchi» (ibid.). Dunque, specularmente, riconoscere l’identità dell’Altro implica anche «attribuirgliene una». Il rapporto tra identità e riconoscimento non solo «è sempre un movimento reciproco a doppio verso» e ha una peculiare «natura agonistica», ma comporta di per sé che il riconoscimento «non è garantito in partenza» (PN, p. 30). Ciononostante, questa è la tesi di Preterossi, «nella dinamica costruttiva delle identità interviene potentemente la dimensione politica del riconoscimento» (ivi, p. 31), proprio perché quest’ultimo «apre conflitti e mette in relazione, innova e stabilizza» (ibid.). Assumendo questo punto di vista, Preterossi ritiene che l’identità sia «la scatola nera del nesso politica-soggetto» (ivi, p. 34), ed è per questo che il punto di riferimento obbligato per comprendere tale nesso nel Moderno è Hegel e la sua Fenomenologia dello spirito, che analizza il rapporto signoria (dominio)-servitù (assoggettamento). Secondo Preterossi, Hegel «afferma e indaga la politicità dell’umano» (ivi, p. 35), ovvero «la politica come destino del genere umano», secondo un punto di vista «opposto alla tradizione antica», il riferimento è il primo libro della Politica di Aristotele, secondo cui «la politica è “naturale” perché spontanea, ordinata su un’unica sequenza di relazioni, inscritte in un ordine oggettivo complessivo: padre-figlio, marito-moglie, padrone-schiavo, polis-cittadini (anche se c’è differenza tra padrone e politikos, perché 54
Cfr. G. PRETEROSSI, La politica negata, Laterza, Roma-Bari 2011 (d’ora in poi PN).
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quest’ultimo esercita il dominio su uomini liberi)» (ibid.). Diversamente da ciò, Hegel ritiene che nel Moderno la politica si fondi sulla «volontà» (ibid.). Hegel «accetta questo punto di partenza», epperò, precisa Preterossi, «la sua idea di politica come sfida tragica e produttiva, a cui non ci si sottrae e che determina le forme della “vita dello Spirito” – in questo senso è un “destino” –, si differenzia anche dalla condizione umana scarnificata che nello stato di natura hobbesiano costituisce la matrice dell’ordine» (ibid.). Per sintetizzare, come scrive Preterossi: «In Hegel l’intreccio vita-artificio è più complesso, meno riduzionista: c’è la volontà, ma anche l’ethos, in un movimento reciproco, che immette una robusta iniezione di soggettività – e quindi di “trascendenza” laica – nella Sostanza (spinoziana), ma non dimentica che il Soggetto proviene da mondi etici e ha sempre bisogno di partecipare alla riproduzione quotidiana di nuovi legami in cui riconoscersi e, soprattutto, da cui sentirsi riconosciuto, per non separarsi come un “idiota” dalla “cosa” comune. Soprattutto, Hegel sa che originaria è la relazione e la sua capacità di costruire i soggetti, non l’astrazione individuale. Il “soggetto libero” non è un “dato”, ma il risultato di un processo emancipativo – di affermazione di sé e di interazione con il potere – permanente. Presuppone le istituzioni e un tessuto di legami sociali. La storia è storia della libertà, ma la libertà non è naturale. Non è un possesso o una dote. La libertà è liberazione» (ibid.). Nella sua rilettura del rapporto tra identità e riconoscimento in Hegel, Preterossi ritiene che nella Fenomenologia dello spirito sembra che sia l’autocoscienza a «scegliere la fedeltà alla lotta, a trovare la propria identità, ad essere confermata nella sua autonomia (è “signore”)» (ibid.). Diversamente il servo sembra perderla proprio perché intende «preservare la propria vita» (ibid.). Tuttavia, rileva Preterossi, se si fa attenzione, anche «la scelta della sopravvivenza» determina un «effetto identitario»: «non solo nel senso di una soggettività dipendente, ma soprattutto nel senso di una identità in evoluzione, che lavorando trasforma la natura, costruisce strumenti e oggetti, si fa essa stessa strumento, e così elabora e può riappropriarsi dei contenuti “lavorati” immessi nel mondo, riconoscendoli come propri» (ivi, p. 36). Ne consegue, allora, che in modo differente dalla «staticità» del signore (il quale usufruisce del lavoro altrui ma non conosce la mediazione con la natura, che è accollata al servo), proprio il servo «attraverso la disciplina dell’obbedienza e la funzione formativa del lavoro, si trasforma e ritrova se stesso, su un altro piano» (ibid.). Il punto nodale è, dunque, il lavoro del servo qui assunto come «il deposito e la promessa di senso dell’umanità» (ibid.). È nota la definizione hegeliana del lavoro (Arbeit) quale desiderio (o appetito: Begierde) «tenuto a freno», che, in quanto «negatività produttiva», non si esaurisce nel godimen-
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to immediato dell’oggetto, ma persiste, ovvero, «diventa qualcosa che permane»55. Inteso come «opera che trasforma e inscrive simboli» (PN, p. 36), il lavoro diviene «una dilatazione del desiderio che permette di produrre e accumulare significati, quasi una forma di sublimazione» (ibid.). Ma da solo il lavoro non è sufficiente, perché «senza l’esperienza originaria della “paura assoluta” provata dall’autocoscienza quando si è assoggettata», lo stesso lavoro assumerebbe soltanto, nel suo insito «formare», un significato «particolare e privato» (ibid.). Per superare la sua separatezza e trovare se stessa, universalizzandosi, l’esperienza dell’autocoscienza non può che fluidificarsi provando paura nella lotta, in un movimento in cui «se la paura tempra, e la soggettività esprime la potenza del Negativo, lo Spirito – il lavoro universale del genere umano – non potrà mai essere quieto, conciliato, impolitico» (ivi, p. 37). In questo senso, per Hegel, il lavoro del servo «racchiude in sé l’essenza semplice dell’autocoscienza ed esteriorizzandola la porta nel mondo» (ibid.). Affermando che «la paura del signore è l’inizio della sapienza»56 e che «soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà»57, Hegel fa intendere che «la filosofia è debitrice del servo» (PN, p. 37). Onori e sottomissioni scandiscono la vita del signore e del servo nello sperimentare sia la «paura assoluta» che la propria «radicale vulnerabilità»: se la prima è la «paura della morte», la seconda «è il primo gesto politico, perché inaugura il mondo dell’obbedienza e il racconto della necessità del dominio» (ivi, p. 38). Perciò, avere potere significa «rivendicare la decisione sui corpi delle persone, sulla loro vita e la loro morte» (ibid.). Questo potere anche come Gewalt, sostiene Preterossi, costituisce «l’altra faccia della vulnerabilità» perché ci dice «qualcosa di noi, dei nostri bisogni» (ibid.). Allora, affinché vi sia riconoscimento fra le autocoscienze è necessario che esse accettino «il rischio di mettere a repentaglio la vita», mirando così «alla morte dell’Altro rischiando»: la lotta del riconoscimento mette in pericolo la vita. Ma come si può «sopravvivere al conflitto» (ivi, p. 39) tra le autocoscienze che lottano per superarsi reciprocamente? Perché il signore, sempre identico a se stesso, “gode” grazie al servo, è riconosciuto da chi gli dipende ma «non può avere storia» (ibid.)? Viceversa, perché il servo è «il grande mediatore», cioè colui che è destinato alla «vera indipendenza» e a ritrovarsi nel «mondo che crea» (ibid.)? Mettendo in scena la dialettica servo-signore, secondo Preterossi, Hegel espone «una relazione produttiva di soggettività» (ivi, p. 42). Questa rela55 56 57
Cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a c. d. E. De Negri, cit., vol. 1, p. 162. Ibid. Ivi, p. 157.
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zione intrinsecamente conflittuale e simbolica è anche, in un certo senso, elementare, «politica», e, dunque, «non semplicemente economica, domestica, psicologica, morale o genericamente sociale» (ibid.). Ma, perché si diventa «soggetti» attraverso una relazione di dominio e di dipendenza? Ammetterlo, soprattutto nel Moderno, è radicale in quanto significa che «il soggetto – fonte della politica moderna – è un costrutto già in sé politico», che nel suo processo di soggettivazione ha introiettato il «potere» (cfr. ibid.). Inoltre, perché «proprio la soggezione a un signore in conseguenza di un conflitto di riconoscimento […] è – e non può non essere – l’origine dell’ordine politico?» (ivi, p. 48). Rispondere a tali quesiti significa entrare anche nei «tratti enigmatici» che in Hegel segnano il rapporto tra riconoscimento e potere. Secondo Preterossi, la lotta del riconoscimento, in quanto «lotta per l’identità» (ivi. p. 49), è «un conflitto “esistenziale”» dove «si rischia la sopravvivenza» e ha «un esito asimmetrico» perché «mentre fa sperimentare la reciprocità del conflitto determina l’emersione di una forma di dominio» (ivi, p. 50). Per tutto ciò, «laddove c’è riconoscimento c’è anche potere» (ibid.). Il nesso tra “sopravvivenza” e “riconoscimento” – questa è la tesi conclusiva di Preterossi “interprete” di Hegel – è ineludibile perché esso «si colloca all’origine della presa che la politica esercita sull’esperienza umana» (ivi, pp. 52-53): «sopravvivere, ed essere riconosciuti, sono congiuntamente i due lati di una sfida politica originaria (una sorta di Ur-Politische), da intendersi in senso non essenzialistico, ma “funzionale”» (ivi, p. 53). E questa è «una doppia sfida» che la modernità «potenzia e rende visibile» (ibid.). Ora, ritornando a Rousseau, come è noto, pur essendoci nell’arte dell’apparire in pubblico una sorta di artificio estetico in cui il ruolo delle apparenze è pur sempre mediale e in cui si consuma «l’illusio del gioco sociale» tra volto o maschera, fra trasparenza e ostacolo, Rousseau comunque denuncia radicalmente e critica assiologicamente il dispositivo dell’apparenza sociale, che diviene portatrice di una scissione dell’io tutta drammaticamente vissuta tra l’«essere» e l’«apparire», ovvero agita da un effimero bonheur dans l’apparence che specularmente riflette una condizione perpetua di alienazione rispetto a se stessi e di perdita di controllo sul proprio sé (cfr. AS, p. 83), in nome e a favore del valore dell’autenticità. Secondo Alessandro Ferrara è proprio la nozione implicita di autenticità ciò che conferisce unità alle riflessioni rousseauiane «sugli effetti negativi dell’ordine sociale, sul giusto ordinamento politico, sull’educazione e più in generale sull’etica» (AF, p. 10). L’idea rousseauiana di autenticità, estrapolabile in particolare da opere come Il contratto sociale, Emilio e Julie, ou la nouvelle Heloïse, non solo è ricavabile «in negativo» dalla sua critica dell’inautenticità prodotta e incentivata dalla competizione sociale
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dominata dalla proprietà e dagli altri beni a somma zero, ma fa di Rousseau anche il pensatore della modernità politica il quale afferma che la soggettività è autenticità e che l’io autentico ha un valore normativo e che, nel contempo, diventa tra l’altro il “fondatore” di una filosofia sociale – concepita come filosofia critica che presuppone il valore socialmente riconosciuto dell’individuo, ordinata in base a criteri etici in grado di individuare forme di “vita buona” e centrata sulla nozione di «patologie del sociale» tipiche della modernità. Nel Novecento filosofico a riconoscere esplicitamente Rousseau come iniziatore di questa prospettiva, come è noto, è stato Axel Honneth con il suo saggio Pathologien des Sozialen58. Una filosofia sociale che, come osserva Elena Pulcini, non solo rimette criticamente in discussione la figura dell’homo œconomicus dominata dalla “passione dell’utile” caratteristica della tradizione liberale, ma che avvia un’analisi ulteriormente critica dell’individualismo moderno incentrata sul disvelamento delle ragioni che presiedono la “passione dell’Io” rispetto alla prevalente passione dell’utile e la lotta per il prestigio e che si appalesa come «prioritaria» nei confronti del conflitto di interessi (cfr. EPb, p. 38). Le patologie del sociale che Rousseau rinviene si condensano in ciò che egli considera il male radicale dell’umano: «la dipendenza dall’altro, la dipendenza personale» (ibid.). Una differenziata tipologia circoscrive tali patologie. Per Rousseau, è noto, l’amour-propre (e il confronto competitivo che ne deriva) è ricondotto non soltanto (1) all’origine della disuguaglianza e del conflitto, ma anche (2) all’origine della scissione dell’Io mimetico e dell’estraneazione, nonché (3) della genesi dell’inautenticità sia dell’Io che del legame sociale e che si traduce nella formazione e riproduzione di una falsa identità da parte dell’umano, ovvero tra ciò che si è e ciò che si appare, tra verità interiore e maschera esteriore (cfr. ivi, pp. 39-41). Se la costruzione di un’identità inautentica forma una «civiltà del sospetto» che «uccide ogni trasparenza e deforma ogni legame finendo per ledere quel fattore indispensabile alla socialità che è la fiducia», parimenti la stessa 58
Cfr. A. HONNETH, Pathologien des Sozialen. Tradition und Aktualität der Sozialphilosophie, in ID., Pathologien des Sozialen. Die Aufgaben der Sozialphilosophie, Fischer, Frankfurt a.M. 1994, tr. it. di A. Borsari, Patologie del sociale. Tradizione e attualità della filosofia sociale, in «Iride. Filosofia e discussione pubblica», IX, n. 18, 1996, pp. 295-328. Al riguardo, cfr. E. PULCINI, Rousseau e le patologie della modernità: le origini della filosofia sociale, in G.M. CHIODI, R. GATTI (a c. d.), La filosofia politica di Rousseau, cit., pp. 35-52 (d’ora in poi EPb). Sugli sviluppi problematici della filosofia sociale contemporanea, cfr. V. ROSITO, M. SPANÒ, I soggetti e i poteri. Introduzione alla filosofia sociale contemporanea, Carocci, Roma 2013.
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identità inautentica, creata per ottenere la considerazione e l’ammirazione degli altri, finisce poi col gettare una «luce negativa» sulla dinamica del riconoscimento: «Per essere riconosciuti, si finisce per simulare qualità che non si posseggono e per nascondere la propria verità; si finisce insomma, per mostrarsi diversi da ciò che si è. Questo vuol dire che il riconoscimento da parte dell’altro finisce di fatto per legittimare e confermare un’identità inautentica. E ci pone di fronte a un interessante paradosso: in virtù del quale, per essere riconosciuto, l’Io finisce per tradire se stesso, le proprie verità, contenuti, valori» (ivi, p. 42). Le tensioni e contraddizioni interne nei risvolti problematici dello stesso pensiero di Rousseau hanno spinto gli interpreti a non tradurre l’identificazione tout court del riconoscimento con una dimensione morale. Come ha scritto Barbara Carnevali: «Da un lato Rousseau continua a ripetere che il vero io è quello che si trova nel profondo di noi stessi, e che si recupera con la rinuncia all’affermazione competitiva nel mondo. Dall’altro, nelle pieghe delle sue opere e nelle contraddizioni eclatanti della sua stessa vita, sembra sussurrarci la verità contraria: che non esiste pienezza senza l’amore e la stima degli altri uomini, e che i momenti in cui vinciamo la lotta per il riconoscimento, lungi dall’allontanarci irrimediabilmente da un’origine più vera e più innocente, sono il nostro “trionfo”, la più importante conferma della nostra identità» (RR, p. 282). Queste due “verità” antinomiche ci pongono di fronte ad alcuni importanti dilemmi e interrogativi. Elena Pulcini ritiene che dalla diagnosi rousseauiana «possiamo dedurre che il riconoscimento non è sempre e di per sé morale; e che esiste quello che possiamo chiamare un cattivo riconoscimento, il quale scaturisce dalla dinamica delle passioni e dell’amourpropre» (EPb, p. 43). In altri termini, «se il riconoscimento richiede la simulazione e lo sdoppiamento dell’identità, la scissione tra l’essere e l’apparire, si può affermare che essere riconosciuti dagli altri equivale, paradossalmente, a rinunciare a se stessi, alla propria autenticità; equivale a tradire il proprio sé originale e autentico» (ibid.). Nel pensiero di Rousseau l’umano «sentimento dell’esistenza», segnato tragicamente dall’esperienza del male59, disvela una serie di aporie proble59
Cfr. A. PHILONENKO, Jean-Jacques Rousseau et la pensée du malheur, 3 voll.: I. Le traité du mal; 2. L’espoir et l’existence; 3. Apothéose du désespoir, Vrin, Paris 1984. V. GOLDSCHMIDT, Anthropologie et politique. Les principes du système de Rousseau, cit. H. GOUHIER, Filosofia e religione in J.-J. Rousseau, cit. J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo. Saggio su Rousseau, cit. ID., Il rimedio nel male, tr. it. di A. Martinelli, Einaudi, Torino 1990. ID., Accuser et séduire. Essais sur Jean-Jacques Rousseau, Gallimard, Paris 2013. T. TODOROV, Una fragile felicità. Saggio su Rousseau, cit. R. GATTI, Rousseau. Il male e la politica, Edizioni
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matiche (attuali per la filosofia politica contemporanea) che rimettono comunque in discussione la normatività dell’identità che sottende la concezione relativa alla strategia dell’autenticità come dimensione soggettiva radicale, una strategia che non può eludere, per la sua comprensione, un più complesso rapporto tra antropologia e politica e che sia capace di integrare sul piano teorico filosofia sociale e filosofia politica e su quello pratico di declinare la grammatica e la morfologia del soggetto entro e oltre ogni espressione in cui si manifestano quelle che Honneth ha chiamato Pathologien des Sozialen. Nella “galleria” storica, dove sono depositate e custodite le principali interpretazioni del problema del male in Rousseau (da Cassirer a Philonenko, da Goldschmidt a Gouhier, da Todorov a Starobinski), oggi possiamo annoverare anche quella del filosofo politico Roberto Gatti, il quale, nel suo Rousseau. Il male e la politica, nel tentativo critico di riformulare un’altra e ulteriore interpretazione dello stesso problema, che pur considera la rilevanza di quelle precedenti, ritiene che sia necessario esplorare itinerari ermeneutici al cui centro non si ponga esclusivamente, in e per Rousseau, «il tema del “peccato sociale”», quanto piuttosto l’idea che il male sia invece annidato «nell’interiorità del soggetto» (RMP, p. 10). Glossando la pagina del filosofo italiano, emerge che per Rousseau la “società” viene assumendo la sua peculiare configurazione umana, «non come causa, ma come occasione» del male. Questa opzione interpretativa comporta come corollario che «il male è già sempre là; i rapporti sociali lo possono incentivare e far tragicamente esplodere, se si strutturano secondo disuguaglianza, ingiustizia, conflitto»; ma possono pure contribuire a limitarlo «se riusciamo a pensare e a edificare una “società ben ordinata”, in grado cioè di garantire la libertà e l’uguaglianza» (ibid.). Muovendoci nella condizione dell’«interiorità», in cui troviamo «i più significativi segni della fragile libertà umana alle prese con il conflitto tra passioni, da un lato, e ragione e coscienza, dall’altro», si afferma che è la dimensione antropologico-filosofica la chiave decisiva che può offrirci una comprensione del problema del male. Per Rousseau, gli uomini come sono, abusando della loro libertà, finiscono inevitabilmente con l’esporsi agli effetti della loro «debolezza», per questo, il male, radicato nella natura umana, «trascende ogni sforzo di ricondurre l’esperienza dell’uomo entro i confini rassicuranStudium, Roma 2012 (nuova edizione emendata e accresciuta; d’ora in poi RMP). Salvo quelle esplicitamente citate con l’abbreviazione RMP seguita dal numero della pagina, tutte le altre frasi di Gatti tra virgolette s’intendono tratte da questa sua opera.
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ti di un progetto razionale che consenta il superamento di tutte le contraddizioni» (ivi, p. 11). Alla base dell’antropologia, dell’etica e della politica di Rousseau si delinea, quindi, «un pensiero del limite» (ibid.) che diventa la “cifra” emblematica e paradigmatica con cui è possibile ri-leggere «unitariamente» il cammino del suo pensiero, attraverso tutte le ambivalenze interpretative e le contraddizioni interne che lo contraddistinguono nella sua marca originale. Gatti muove dal primo Discours sur les sciences et les arts (cfr. OC, III, pp. 1-30) di Rousseau dove ancora sono incerti i toni con cui il Ginevrino cerca di individuare un’eziologia del male: qui non si tratta soltanto di vedere le fenomenologie attraverso cui il male si manifesta, ma anche di cercare di scoprire quali sono le sue radici (cfr. RMP, p. 16). Nella forma di un «pensiero in fieri», dall’andamento alquanto complesso, Rousseau «apre prospettive che finiscono per intersecarsi e per delineare i contorni non di una risposta unica al problema del male, bensì a soluzioni quanto mai articolate, ricche di interne diversificazioni e talvolta anche in evidente tensione reciproca» (ivi, p. 17). In particolare, nel primo Discorso, come osserva Gatti, l’indagine sull’origine del male assume «la forma di un pensiero che si costruisce, si precisa, si fa man mano che emergono le occasioni per introdurre un sempre maggiore rigore» (ibid.). Scrive Rousseau: «Le nostre anime si sono corrotte man mano che emergono le nostre scienze e le nostre arti avanzano verso la perfezione» (OC, III, p. 9). Come è noto, in questo Discorso Rousseau sostiene che “genealogicamente” l’origine della corruzione va ricercata nelle «scienze» e nelle «arti», ma connette altresì, entro un rigido rapporto di causa-effetto, lo sviluppo della conoscenza con la decadenza dei “costumi”: lungo questo processo degenerativo si delinea una irreversibile «curva del male» le cui principali forme “gettano” l’umano in una «socializzazione perversa». La conseguenza è che «scienze», «lettere» e «arti» finiscono «per dare il tono a società in cui si diventa incapaci di comprendere la giusta gerarchia tra spirito educato e spirito virtuoso» (RMP, p. 19). La scissione tra l’interiorità e l’esteriorità, l’incolore conformismo, il pervasivo egoismo e la diffusione dello spirito scettico costituiscono le «quattro dimensioni» essenziali della «socializzazione perversa». L’«ozio» e il «lusso», generati dalle «nostre scienze», finiscono, inoltre, col rappresentare gli ulteriori «effetti perversi» di questa dinamica della socialità (cfr. ivi, p. 20). Rousseau, nella ricerca della soluzione del dilemma «quid et unde malum», è alla ricerca di altri livelli di profondità a cui occorre riportare genealogicamente l’«eziologia del male» e che non si traducano esclusivamente nei limiti del sapere umano (scienze-lettere-arti) come cause-del-male. Un
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secondo livello di spiegazione sull’origine del male, come sappiamo, verrà individuato col secondo Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (cfr. OC, III, pp. 109-223) nella disuguaglianza, un livello nel quale predomina il nesso «proprietà-dipendenza-conflitto» (RMP, p. 22), mentre nello sviluppo problematico del proprio pensiero, che registra comunque «un’eccedenza rispetto alla spiegazione in termini puramente storico-sociali del male», Rousseau, pur lasciando intravedere l’eventuale possibilità di accedere a un terzo livello di analisi che rintraccia nella provenienza dall’esterno le cause del male, comunque manifesta nella propria intenzione retorico-filosofica «una fondamentale “dialettica” tra l’“esteriore” e l’“interiore” nel prodursi del male» (ibid.). Secondo Gatti, per Rousseau, è possibile cogliere la questione dell’origine del male «solo partendo dalle dinamiche interne della natura umana» (ivi, p. 29). Nel loro insieme, le scienze, le lettere, le arti e l’instaurarsi dei rapporti sociali acquisitivi e competitivi legati connettivamente con l’istituzione della proprietà non si configurano «come causa ma eventualmente come occasione» del male, il quale, invece, ha le sue radici nell’«interiorità del soggetto umano, con la sua costitutiva fragilità e la sua tendenza ad abusare della libertà» (ivi, p. 30). A questo punto, si possono individuare due schemi interpretativi che secondo l’interprete italiano si possono applicare al primo Discorso di Rousseau. Nel primo schema, «si parte dall’affermazione concernente la naturale bontà dell’uomo, definita peraltro in termini alquanto sfumati e generici». La causa del male è individuata nell’«intervento di fattori culturali, sociali e storici che hanno condotto le diverse società ad allontanarsi, in maggiore o minore misura, da un punto di equilibrio che consentiva ai loro membri di conservarsi nell’integrità morale, preservando altresì la rettitudine dei “costumi”». Qui s’intrecciano «una concezione ciclica e una lineare della storia», e, mediante un’esplicita «presa di posizione anti-philosophique», l’intera vicenda storica dell’umano è interpretata come «un processo, sostanzialmente continuo, che va verso una sempre più accentuata decadenza spirituale, morale e politica» (ibid.). In questa dinamica generale, pertanto, ogni società «percorre un arco di sviluppo che la porta da una situazione in cui dominano “costumi” semplici, frugali, severi, che consentono di preservare le “virtù” morali e militari, a una condizione nella quale, crescendo la conoscenza e contribuendo le “arti” e le “lettere” a rendere sempre più artificiosi e falsi i rapporti tra gli uomini, finiscono per regnare invece il “vizio” e la corruzione» (ibid.). Lungo questa dinamica il male non può che essere inarrestabile e all’agguato è sempre presente la crisi dell’ordine politico, perché corruzione dei “costumi” e decadenza politica procedono di pari passo conducendo alla dissoluzione finale. Dunque, per Rousseau, il progresso scien-
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tifico e tecnico, la disuguaglianza, il “lusso”, la decomposizione della buona convivenza non possono non spingere l’umano verso «la scissione sempre più grave tra sviluppo materiale e livello morale del singolo e della collettività» (RMP, p. 30). L’irreversibile decadenza della civiltà e l’impossibilità di estirpare il male dalla storia conducono l’autore del primo Discorso ad assumere un tono “pessimistico” proprio perché, pur cercando di sforzarsi di trovare le «cause» del male, egli di fatto non è nelle condizioni di indicarne il «rimedio» (cfr. ivi, p. 31). Nel secondo schema, l’origine del male non viene fatta risalire a una «casualità esterna», bensì a una «casualità interna» che deriva principalmente dalla disarmonia che regna nel soggetto umano tutto preso dal predominio delle passioni sulla «raison» e sulla «conscience». Spostando l’asse della propria riflessione dalla scena della storia del mondo a quello delle dinamiche dell’interiorità, Rousseau riconosce (anche in se stesso) come l’umano sia condizionato proprio dalle difficoltà della «virtù», dalla fragile vulnerabilità della bontà naturale e dallo scacco delle esposizioni a cui si sottopone la libertà (cfr. ivi, p. 32). Nella logica esplicativa di questo schema, pertanto, «scienze», «lettere» e «arti» non sono assunte «di per sé» come cause del male, ma esse diventano «elementi negativi» allorquando vengono piegate al servizio e in funzione dell’ambizione, della superbia, della vanità e della vana curiosità, che rappresentano quei «vizi nei quali la maggioranza degli uomini sono quanto mai inclini a cadere» (ibid.). Radice del male e analisi della natura umana qui s’intrecciano, portando allo scoperto, l’ineffabile, enigmatica e ambivalente condizione antropologica “finita” e “perversa” dell’umano, anche se viene mantenuta, sullo sfondo, «l’idea» della sua bontà naturale (cfr. ivi, pp. 33-34). Ora, se dal primo Discorso sulle scienze e sulle arti passiamo al secondo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza inevitabilmente non solo il “conflitto delle interpretazioni” si acuisce soprattutto in relazione all’ermeneutica relativa al nesso tra sviluppo dei rapporti sociali e origine del male, ma entriamo anche e sempre più direttamente, con la lettura, all’interno del Rousseau filosofo politico. I passaggi salienti del secondo Discorso sulla disuguaglianza sono noti. Ciò che occorre qui invece sottolineare, secondo Gatti, è il modo in cui esso ci consente di rapportarci al problema dell’origine del male. Per questo è necessario rilevare alcune salienze importanti. In primo luogo, secondo Gatti, non è facile confutare la tesi sostenuta da Starobinski in La trasparenza e l’ostacolo secondo cui nel secondo Discorso pare confermata l’idea rousseauiana che «il male viene prodotto attraverso la storia e la società senza alterare l’essenza dell’individuo» e che «la col-
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pa della società non è colpa dell’uomo nella sua essenza, ma nei suoi rapporti». Da ciò consegue che «al male e alla degradazione storica» è attribuibile «una posizione periferica nei confronti della natura originaria, che permane centrale» (cfr. TO, pp. 50-51). Per Starobinski, quindi, il dinamismo storico e sociale deforma e nasconde ma non cancella la «natura» originaria dell’umano, di un uomo «per natura buono». Come si genera allora la disuguaglianza competitiva che richiama il bellum omnium contra omnes che caratterizza peculiarmente l’hobbesiano stato di natura? Gatti ritiene si debbano seguire altre piste interpretative per spiegare il problema del male così come viene delineato nel Discorso sulla disuguaglianza. Nello specifico egli pone la questione centrale proprio nell’interpretazione del nesso sviluppo dei rapporti sociali/origine del male e suggerisce l’ipotesi per cui considera necessario comprendere non solo perché per Rousseau quest’origine costituisca «un mero accidente cui è possibile porre rimedio entro la storia (poiché esclusivamente dalla storia e nella storia si nasce)», ma è altresì necessario comprendere «se non siano rintracciabili, in continuità con il primo Discorso, elementi che rimandano a una genesi diversa e più profonda» (cfr. RMP, p. 37). Lungo questa via ermeneutica, se leggiamo il «sistema» che Rousseau ha proposto nel Discorso sulla disuguaglianza con «l’occhio attento al problema del male», allora è possibile evidenziare alcuni punti particolarmente rilevanti della sua considerazione di questo problema. Scrive Gatti: «Il tassello iniziale è rappresentato da quella condizione d’“innocenza” primordiale e d’istintiva “felicità” che è lo “stato di natura puro”, governato dai “due principi anteriori alla ragione” costituiti dall’autoconservazione e dalla compassione di fronte alla sofferenza dei propri simili. Entrambi fanno sì che l’“homme naturel”, “finché non resisterà all’intimo impulso della pietà, non farà mai del male a un altro uomo né ad alcun essere sensibile, salvo che nel caso legittimo in cui, essendo coinvolta la sua conservazione, è obbligato a dare la preferenza a se stesso” [OC, III, p. 126]. La bontà naturale, in questo stadio, nasce dalla mera istintualità, della quale partecipano anche gli animali; non ha, quindi, alcuna valenza morale» (RMP, p. 43). I fattori che innescano il “dinamismo storico” contribuiscono immediatamente «a turbare la staticità di questo quadro». Rousseau cita, nell’ordine, gli “ostacoli della natura”, l’alternarsi dei climi, la lotta contro gli animali, i grandi cataclismi che mutano il volto del globo: «a differenza degli altri esseri che popolano la terra, l’uomo risponde alle sfide dell’ambiente esterno. In quanto è libero, individua e sceglie le alternative possibili; in quanto è perfettibile, sviluppa le proprie facoltà nell’atto stesso in cui risponde alle sollecitazioni dell’ambiente e alle circostanze nelle quali viene di volta in volta a trovarsi» (ibid.). L’asimmetria tra le necessità imposte
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dalla natura o dagli eventi e la capacità di risposta dell’uomo, l’errore e l’ignoranza, gli effetti della divisione del lavoro, l’avvento della società proprietaria, sono questi alcuni degli aspetti che declinano, nella storia, sotto l’esposizione alle sfide della «natura» e del «caso», la fallibile finitezza dell’umano. Tale finitudine, nell’insidiosa «complessità» del divenire storico-sociale, non solo limita lo «sguardo dell’uomo» permeato dalla sua contingenza, ma spiega molte delle questioni inerenti il problema del male. In questa prospettiva, il male si configura «non come una colpa (giacché non sono imputabili all’uomo i limiti costitutivi della sua natura), ma al massimo come il risultato di un errore, o, meglio, di una serie di errori, in parte difficili da evitare (dati i limiti della conoscenza e dell’azione umani), in parte scaturiti da cause esterne all’uomo» (ivi, p. 47). Gatti ricorda opportunamente quanto a suo tempo osservò Henry Gouhier nel suo libro Filosofia e religione in Jacques Rousseau: «all’origine di questa storia che è la nostra storia c’è dunque, più che una colpa, un errore, un errore binario, si direbbe oggi: l’umanità ha sbagliato storia come il viaggiatore sbaglia percorso». Pertanto, il male «è una disavventura»60. Per Gatti le «implicazioni filosofiche» principali della rousseauiana concezione del male si traducono in almeno tre importanti immagini che si visualizzano nella trama narrativa che intesse il Discorso sulla disuguaglianza. La prima rappresenta l’uomo agli inizi del processo di civilizzazione: egli, avendo cominciato a sviluppare la propria attitudine riflessiva e avendo altresì acquisito nuove conoscenze, ha iniziato ad essere posseduto dall’orgoglio, e, di conseguenza, a pretendere il «primo posto» tra i propri simili (cfr. OC, III, pp. 165-166). La seconda immagine visualizza, in questo processo degenerativo, il prendere forma delle prime «nazioni particolari». A partire da tutto ciò, «l’abitudine a “stabilire confronti” produce “sentimenti di preferenza”, di “gelosia”, di “discordia”, mentre il desiderio di ammirazione fa sì che ognuno cominci a guardare gli altri e a voler essere guardato”» (RMP, p. 47). In questo modo «si forma “l’idée de la considération” e ogni “torto” diventa un “oltraggio”, nella misura in cui in esso si avverte, o si crede di avvertire, il “disprezzo” dell’altro per me» (ibid.). Inevitabilmente, così, «vanità», «vergogna», «invidia» finiscono per insinuarsi reciprocamente tra gli uomini, offuscando la loro «felicità» e «innocenza» originarie (cfr. OC, III, pp. 169-171). La terza immagine traduce l’apice del processo degenerativo dell’umano. Qui «la divisione del lavoro e la nascita della proprietà inaugurano un “nuovo ordine di cose” in cui dominano incontrastati l’antagonismo più sfrenato, la scissione radicale tra essere e apparire, una “cupa inclinazione a nuocersi a vicenda” e a 60
H. GOUHIER, op. cit., pp. 30-31.
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cercare di perseguire il proprio interesse a spese degli altri. Le “passioni”, prive di freno, rendono gli uomini “malvagi” e lo “stato di guerra” li travolge nel “più terribile disordine” [cfr. OC, III, pp. 174-176]» (RMP, p. 48). Come è noto, le due passioni dell’umano che secondo il Rousseau del secondo Discorso (cfr. OC, III, p. 219, nota XV), come scrive Carnevali, «delimitano il percorso della storia interiore, tanto individuale quanto collettiva, e, come le maschere di un’antica rappresentazione, si contendono il possesso dell’anima umana» sono l’amour de soi e l’amour-propre (cfr. RR, p. 15). Scrive Rousseau: Non bisogna confondere l’amor proprio con l’amore di sé, due passioni molto diverse per la loro natura e per i loro effetti. L’amore di sé è un sentimento naturale che porta ogni animale a vegliare sulla propria conservazione, e che nell’uomo, diretto dalla ragione e modificato dalla pietà, produce l’umanità e la virtù. L’amor proprio è solo un sentimento relativo, artificiale e nato nella società, che porta ogni individuo a dare più importanza a sé che a ogni altro, ispira agli uomini tutti i mali che si fanno a vicenda ed è la vera fonte dell’onore (OC, III, p. 219, nota XV).
In quanto sentiment de l’existence, ovvero sentimento «consustanziale alla vita biologica» (RR, p. 15), l’amour de soi, nel nucleo irriducibile dell’io in cui si consuma questo sentimento, e come una delle due possibili forme di consapevolezza di cui dispone l’umano, traduce l’istinto che ci spinge, costantemente, nel pulsare della vita, a ricercare il nostro benessere e la nostra conservazione: nella sua assoluta autorefenzialità, come scrive Carnevali, l’amour de soi «non tende a superarsi e a lottare senza tregua contro un mondo esterno percepito come sfida ed ostacolo, ma si mantiene in una dimensione solipsistica cui manca la consapevolezza dell’alterità»: qui l’io, incapace di fare paragoni, «non può concepirsi in termini relativi, per analogie e differenze, ma si conosce solo nella forma assoluta del sentiment, l’intuizione immediata di essere qualcosa che vive, che sente» (ivi, p. 17). La peculiare autoreferenzialità dell’amour de soi finisce anche per ripercuotersi nella sua «destinazione pratica»: bisogni e desideri sono immediati perché sono dettati dalla natura che si esprime nell’interiorità individuale, «istituendo un ponte diretto con la realtà esterna»; così «nessuna mediazione, nessun passaggio si interpone tra la coscienza e le cose» (cfr. ibid.). In altri termini, il ruolo svolto nella vita della specie umana dall’amour de soi finisce per corrispondere «a quello dell’istinto nella vita animale: è una voce interiore che guida con sicurezza l’individuo nel mondo, rivelandogli in modo chiaro e distinto ciò che serve alla sua sopravvivenza e al suo benessere» (ivi, pp. 17-18).
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In modo specularmente opposto si appalesa la fenomenologia dell’amourpropre, un sentimento mediato, che Rousseau definisce come «relativo, artificiale, nato nella società» (cfr. OC, III, p. 219, nota XV), un sentimento che, nella sua destinazione pratica, si sviluppa allorquando «l’io, pensandosi come uno tra molti, comincia ad affidare le consapevolezza di sé alla testimonianza delle altre coscienze»: lo sguardo e la mediazione della réflexion contribuiscono a determinare la condizione intersoggettiva dell’umano, in cui la coscienza sociale si mostra come qualcosa di «costituzionalmente relativa» in quanto «è certa di esistere solo se altre coscienze dimostrano interesse nei suoi confronti», proprio perché l’umano, nel teatro della vita sociale fatta di confronti, paragoni, valutazioni, giudizi reciproci, ha «un bisogno incessante di conferme», dal momento che «l’io sociale compie un caratteristico détour: vuole ciò che gli altri io vogliono, fa ciò che gli altri io fanno», e questo soprattutto «per effetto della soggettività mediatrice, che non si incarna tanto nella persona di un singolo e determinato individuo, quanto nel soggetto impersonale dell’opinion, il sistema dei valori dominanti, il costume acquisito, la massa anonima del “si deve fare, si deve dire, si deve pensare”» (cfr. RR, pp. 18-19). Questa fenomenologia che traduce l’amour-propre conferma l’idea di Rousseau secondo cui l’opinione sociale conduce inevitabilmente a una perversione e distorsione dell’intenzionalità dell’io. Anche da qui, cioè dall’analisi delle passioni (l’amour de soi e l’amour-propre), prende forma, nella sua torsione e valutazione morale, la teoria rousseauiana dell’alienazione umana da intendersi nel suo duplice senso, compendiabile nel modo seguente: nel primo senso, l’alienazione «è intesa nel senso metafisico più forte, come “separazione”, distacco o uscita dall’ordine naturale che, essendo l’ordine buono per eccellenza, è anche il metro di riferimento per la diagnosi della patologia morale: in questo campo semantico rientrano l’idea di disordine, snaturamento, divenire altro – come nell’emblematica definizione dell’uomo sociale che, vivendo del giudizio altrui, è sempre hors de soi, fuori di sé» (ivi, p. 22). Diversamente, nel secondo senso, l’alienazione «è concepita in termini più dinamici, come una perdita di vigore e di energia da parte di ciò che, allontanandosi dall’origine, si priverebbe della sua intensità naturale» (ibid.). Oltre a queste due prospettive, Carnevali richiama anche un altro e importante ambito semantico nel quale si configura per l’appunto l’idea del male, in cui l’alienazione si configura come «perdita di libertà, o meglio come perdita di quell’indipendenza dagli altri esseri umani» che Rousseau, di sovente, identifica con «la libertà tout court» (cfr. ivi, p. 23). Quest’ambito, secondo l’interprete, indica la vera e propria «posta in gioco»: esso determina le «conseguenze decisive per il problema dell’intersoggettività», dal momento che tende a identificare «felicità e solitudine» (ibid.). Nell’«antropologia della finitezza» si consuma e si gioca il mo-
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dello rousseauiano di soggettività basato su «un’idea naturalistica e tragica di condition humaine» (ivi, p. 24). Per spiegare, comprendere e criticare questa condizione, «il rasoio» di Rousseau si rivolge «contro» le dipendenze materiali: il lusso, i consumi superflui, la divisione del lavoro, il commercio, il nascente sistema dei bisogni, ovvero tutte le «catene» che costringono gli uomini nella «dépendance mutuelle» e che finiscono con l’azzerare «ogni margine di autonomia e iniziativa» (ivi, p. 25). Per Rousseau, l’amour-propre (che «ha bisogno degli altri persino per l’aspetto più originario della vita») si configura, quindi, non solo come «la passione dell’incompletezza che cerca appiglio e sostegno nell’alterità» (ivi, p. 27), ma anche e soprattutto come «la forma per eccellenza di schiavitù, l’archetipo dell’alienazione come perdita di libertà» (ivi, p. 25). Per Rousseau, secondo Carnevali, per recidere il filo che intesse la trama reticolare di relazioni che avvince l’io al mondo occorre «un percorso identitario guidato dal mito soggettivo dell’“autenticità”» (ivi, p. 26). Qui, «il termine del processo di liberazione dalle dipendenze superflue è infatti l’io naturale, che è più vero, più buono di quello sociale perché più originario e genuino» (ibid.). Ridiventare noi stessi attraverso la solitudine per sottrarsi allo sguardo altrui, dalla dipendenza degli altri, è, come sappiamo, il percorso ascetico (irto di difficoltà) che Rousseau suggerisce nelle Lettres morales (cfr. OC, IV, pp. 1112-1113): per risolvere la crisi morale e sociale scatenata dall’amourpropre occorre «liberare la coscienza dalla morsa dell’opinion, abbandonare la società, ritornare alle origini, recuperare la condizione primitiva di autarchia e solitudine» (RR, p. 53), perché «tutto ciò che è natura si conserva sotto le incrostazioni spurie della civilizzazione, e basta solo saperlo attingere dal profondo, con il giusto metodo e perseveranza»: lontano dalla folla e dagli sguardi corruttori degli altri uomini, «si disinnesca il meccanismo del confronto e della competizione» e «l’inquieta aggressività del mimetismo si dilegua» (ibid.). Il potere alienante per la vita degli uomini dell’amour-propre mette allo scoperto tutto il carico di conseguenze che porta con sé la dipendenza reciproca che finisce per incidere sul bisogno di riconoscimento reciproco (cfr. RR, p. 28). Se l’amour de soi rappresenta intrinsecamente «un egoismo benigno» che «non vuole per principio il male altrui, ma diventa aggressivo solo occasionalmente e per reazione, quando viene impedito», diversamente, l’amour-propre, secondo Rousseau, si esprime in una «forma di sensibilità artificiale negativa». Come sintetizza Carnevali: «L’io sociale, in principio, sarebbe altrettanto egoista dell’io naturale, perché persegue esclusivamente il proprio piacere, senza motivazioni altruistiche. Ma la sua struttura mediata snatura e smaterializza questo piacere, sostituendone il fine conservativo con un obiettivo simbolico. La coscienza che si confronta non vuole un bene de-
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finito, assoluto, tangibile, di chiara ed evidente utilità come la quantità d’acqua o cibo necessaria a soddisfare la sua sete o la sua fame; ciò che desidera è “di più” rispetto agli altri tra cui vive, un valore definibile soltanto relativamente all’interno del sistema socio-culturale» (ivi, pp. 28-29). Dal momento che questo suo bene «coincide» di per sé con un male altrui, il suo egoismo «perde innocenza» e il suo atteggiamento diventa «bellicoso e malevolente» (ivi, p. 29). Qui, però, si genera inevitabilmente un «circolo vizioso», poiché «l’io che vuole primeggiare, avendo perso l’autonomia del sentiment de l’existence» necessita di conferme, reclama il proprio valore da quegli stessi altri nei cui confronti avanza superiorità. Da ciò consegue non solo che il bisogno-di-riconoscimento entra in contraddizione con «lo spirito di concorrenza», ma anche il conflitto viene ad assumere una «forma paradossale» in quanto esso stesso finisce col rendere più indipendenti «gli stessi individui che per principio dovrebbe dividere» (ibid.). Qui, all’interno del pensiero moderno, le mosse teoriche di Rousseau sono fondamentali: a)
b)
c)
Ha accolto l’idea, di origine hobbesiana, che la vita sociale sia prevalentemente segnata dal conflitto. Questo conflitto è endemico, perché legato a caratteristiche strutturali della socialità (la mediazione, la relazionalità, il confronto); si configura in forma individuale-universale, ossia come una lotta tra singoli che si combattono indiscriminatamente tutti contro tutti, non per gruppi o fazioni; e ha per fine la supremazia relativa sugli altri, l’autoaffermazione nella competizione. Ha offerto una spiegazione simbolica della natura e della genesi di tale conflitto. L’ostilità che oppone gli individui rendendoli universalmente nemici non è determinata da cause necessarie, naturali e materiali, quali potrebbero essere la sopravvivenza e la riproduzione sessuale (motivi che invece rientrano nella sfera autoconservativa, dunque tendenzialmente pacifica, dell’amour de soi); ma si radica nel movente gratuito dell’amour-propre. La posta in gioco è la «preferenza», ossia l’insieme dei beni spirituali che dipendono dalla buona opinione degli uomini (l’amore, la considerazione, la stima, l’ammirazione, l’onore, la gloria, ecc.) e rispetto a cui la coscienza competitiva rivendica il primato. Ha giudicato il conflitto in modo negativo […]. Quando l’individuo cerca di affermarsi a spese degli altri, il risultato è un impoverimento fatale del tessuto etico, che nessun progresso economico potrà mai compensare (ivi, pp. 29-30).
Il “tragico” pervade l’analisi psicologica e sociale di Rousseau? Carnevali ritiene di sì perché «oltre ad essere universale, cioè rivolta in modo indiscriminato verso ogni altra coscienza, la conflittualità generata dall’amourpropre si prospetta infinita, priva di telos, di riferimenti assoluti» (ivi, p. 31). In altri termini, il “tragico” rousseauiano dice: «Se gli individui fossero spin-
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ti dal bisogno fisico, si potrebbe ipotizzare un termine della lotta: in un’ipotetica condizione di abbondanza, in cui le risorse fossero sufficienti per tutti, si spegnerebbe la ragion d’essere della rivalità. La radice simbolica dell’amor proprio, al contrario, fa sì che la competizione non abbia né possa avere termine: non esiste una meta se le vittorie si misurano solo in termini relativi. Ogni singolo successo sarà effimero, temporaneo, e la minima oscillazione basterà a riaccendere la contesa» (ibid.). Ora non v’è dubbio alcuno che l’equilibrio psichico soggettivo risenta di questa precarietà dei rapporti sociali. Non solo chi persegue come suo unico fine quello di superare gli altri finisce inesorabilmente con lo struggersi d’insoddisfazione permanente, perché «il suo desiderio di eccellenza, svincolato dall’ancoramento al bisogno naturale, non potrà mai saziarsi», ma vivrà nel contempo in un continuo stato d’ansia perché non potrà non guardarsi continuamente intorno «per scrutare i progressi dei rivali, ondeggiando nell’alternanza di euforia e depressione che si associa sempre a un’esasperata ermeneutica del proprio valore posizionale» (ibid.). In questa sorta di ermeneutica in-finita, “tragica”, si consuma l’antagonismo dell’umano “ciclotimico” nella vita sociale tra rivalità e simulazione. Anche se l’amour-propre colpisce in modo particolare gli hommes de lettres, più proclivi a non amare e a odiare perché vivono tragicamente il dramma della concorrenza e sono assetati di riconoscimento, come passione troppo-umana – «integralmente e coerentemente culturale» – è però da considerarsi una «malattia universale» (ivi, p. 33), essa infetta «tutti gli uomini viventi in società», come sintomo di una patologia morale radicata nel profondo della(e) coscienza(e) è stigma della vita intersoggettiva e delle sue fluttuazioni quotidiane, perciò speculare, nella modernità, di un’antropologia compiutamente secolarizzata (cfr. ivi, p. 43) il cui baricentro morale si vede abbassato dal cielo alla terra (cfr. ivi, p. 48). Una malattia che è cifra e segno del conflitto mimetico intersoggettivo moderno, che è ancora un nostro “vecchio” ma sempre “nuovo” problema. Comprendere l’esito “tragico” di questo dramma che ha come protagonista l’io nella sua lotta-per-il riconoscimento significa anche penetrare non solo nel «poligrafismo» di Rousseau, ma anche e soprattutto nel suo immaginario. Il discorso sul male non può che porsi in e per Rousseau nella struttura ontologica del soggetto, nella stessa «constitution humaine» e nella disarmonia interna degli individui che compongono la società, la quale va vista piuttosto come «un’occasione che la causa di esso» (RMP, p. 55). La «contraddizione interna» che governa e permea il predominio delle passioni confina e riduce l’umano e l’intera esistenza morale del soggetto «a un generale e distruttivo antagonismo» (ivi, p. 119) in cui anche la vita virtuosa non può che essere soltanto «il risultato di una dura lotta e di una difficile conquista» (ivi, p.
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120). Nel dramma di questa lacerazione, che la riflessione sul male pone nelle pieghe e nella carne dell’io, assume tutta la sua rilevanza il tema della «liberté», che secondo Gatti «costituisce il nucleo essenziale dell’antropologia rousseauiana e il fondamento della sua filosofia morale e politica» (ivi, p. 123). Concependo sempre e comunque la libertà come una libertà-in-situazione, il problema che si pone è: «perché la libertà si fa libertà per il male?» (ivi, p. 124). La risposta a questa domanda rimane inevasa se non si accetta l’interpretazione secondo cui «le relazioni sociali rappresentano il contesto e l’occasione entro cui tale pervertimento avviene, ma non la sua causa» (ibid.). In e per Rousseau sull’origine del male non solo «permane un velo di mistero», ma nella spiegazione di esso si scontano «i limiti della ragione», una facoltà che Dio ha dato all’uomo non per fare il male, ma, come si legge nell’Emilio, «il bene per scelta» (OC, IV, p. 587). Dunque, la «responsabilità» del male è tutta della «faiblesse» dell’umano e del suo evidente «abuso e pervertimento della libertà» che con frequenza continua finisce nel distorcersi verso il male, il cui spazio non è totalmente riconducibile «nel cono di luce della raison», ma anche, come si è già detto, nel cono d’ombra del «mistero» (cfr. RMP, p. 137). Dati «i limiti intrascendibili» dell’umano, chi è capace di spiegare e disvelare l’imperscrutabilità di questo «mistero» è anche colui che è capace di spiegare la responsabilità dell’uomo e con essa il principio da cui si genera il male, il quale incombe tanto nella dimensione della privatezza quanto nella dimensione della politica. Il male non è «mera escrescenza storica, ambientale e sociale» ma pertiene all’uomo qual è, una pertinenza-persistenza che può porre in «scacco» con effetti dissolutori non solo l’interiorità del soggetto ma anche l’intera vita della «communauté» e di cui l’autore del Contratto sociale e delle Confessioni era consapevole non solo attraverso lo sviluppo problematico della sua filosofia politica ma anche nel vissuto della propria vicenda biografica. Dopo Rousseau, in relazione ad alcuni dei rapporti che ho appena sopra indicato e ricostruito, in che modo, anche cursorio, è possibile indugiare criticamente sul rapporto tra male e potere? In che termini filosofici, etici e politici è possibile ripensare tale rapporto nella scena contemporanea tardo-moderna61 che disegna la condizione umana globale? Inoltre, come è possibile affrontare oggi la questione del male in rapporto al potere se, come osserva Simona Forti ne I nuovi demoni, «ogni pretesa di affermare il bene, anche in primo luogo il bene politico, è andata incontro a una pro-
61
Al riguardo, cfr. A. DE SIMONE, Il soggetto e la sovranità, cit., (cap. IV).
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gressiva delegittimazione dei propri presupposti?»62. Di fatto, secondo Forti, si è effettivamente «spezzata» la relazione reciproca tra il bene e il male a tal punto che non solo «non ci è più possibile credere alla piena realizzabilità del bene», ma, anche, e soprattutto, «non possiamo e non dobbiamo smettere di parlare del male» (ND, p. XI). Perché? Rispondere a questo ineludibile fascio di interrogativi significa non solo entrare, in termini filosofici, nella piega del problema della sofferenza e del dolore, ma anche nella realtà inevitabile che pervade costitutivamente «la finitezza e la vulnerabilità» delle nostre vite, una pervasività che si espande entro le relazioni umane e che si diffonde molecolarmente, in intensità ed estensione, nelle trame del tessuto sociale e politico63. Dopo Kant e Dostoevskij non si può più pensare il rapporto tra male e potere in una comprensione irrigidita della realtà dell’umana abissalità del soggetto e dell’“essere” attraverso categorie rigidamente schematiche, nelle quali si finisce inevitabilmente, come sostiene Forti, col dare risalto esclusivamente «al volto notturno e trasgressivo di una soggettività avida di distruzione», cioè attraverso un modello di analisi che occulta di fatto «la complessa fenomenologia tanto del potere quanto delle scelte del male» (ivi, p. XV). Oggi, come propone Forti, occorre uscire dal paradigma Dostoevskij se vogliamo non solo comprendere «il “cuore nero” del XX secolo», ma anche se vogliamo affrontare «la nostra attualità» (ibid.). Il motivo di questa fuoriuscita risiede nel fatto incontrovertibile che il presente «non consente più di raffigurare il potere come la semplice relazione frontale tra sovranità dello Stato e individui portatori di diritti». Nel contempo, anche il male politico (compreso quello interno alle democrazie occidentali), «non è più comprensibile quale puro risultato dello scatenamento della malvagità» (cfr. ivi, pp. XV-XVI). La «scena» del male è una scena «complessa», dove, per l’appunto, «non regnano, assolute, la volontà di nulla e la pulsione di morte». La stessa filosofia politica deve liberarsi da ogni concezione del dominio e del rapporto male-potere che sia una concezione non solo dualistica ma anche rigidamente polarizzata in una topologia che vede «demoni malvagi da una parte e vittime assolute dall’altra» (ivi, p. XVI). La complessa trama delle relazioni politiche oggi non la si può più leggere attraverso una visione «demonologica» del potere, quale scena finale del dominio: ciò che occorre è, invece, come sostiene Forti, «un’ana62 63
S. FORTI, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012, p. XI (d’ora in poi ND). Sul rapporto tra male e politica, cfr. R. ESPOSITO, Male, in ID., Dieci pensieri sulla politica, il Mulino, Bologna 2011, pp. 201-224.
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litica che rinunci a ricondurre il male esclusivamente al desiderio e alla volontà di morte» (ibid.). Il naufragar nella deriva «nichilistica» ci obbliga ancora a operare tramite la «tradizionale» dicotomia di bene e male. Diversamente, il tentativo di ripensare il rapporto tra male e bene richiede di uscire definitivamente dalla «cultura dualistica» che nutre le scene del male. Detto altrimenti, per Forti, «non si tratta di opporre al “paradigma Dostoevskij” un modo di pensare speculare e contrario, ma di affiancarvi un altro insieme paradigmatico di concetti che ne integri, e al contempo ne sblocchi, la geometria rigidamente fissata sulla separazione tra un soggetto e un oggetto assoluti di dominio» (ivi, p. XVII). Insomma, un’altra e diversa “genealogia” del rapporto tra male e potere non solo s’impone necessariamente, ma essa dev’essere anche in grado di porre in discussione «il nesso inestricabile e ricorrente fra trasgressione, potere e morte» (ibid.). Il compito della filosofia politica è allora quello di delineare un modo differente di pensare «l’endiadi» male e potere tale che possa fungere da «nuovo» paradigma, ovvero «quello dei “demoni mediocri” o della “normalità del male”» (ivi, p. XVIII). Certamente, il male è «un sistema», è «un intrico di soggettività, di una rete di relazioni, le cui maglie si stringono per la complementarità perfetta di attori e ideatori malvagi (pochi), di esecutori zelanti e convinti (anch’essi pochi) e di spettatori acquiescenti, non semplicemente indifferenti (tanti)» (ibid.). Occorre dunque spiegarsi perché in questo caso gli ingranaggi «tengono». Diversamente, pensare attraverso il paradigma dei «demoni mediocri”, può significare, come sostiene Forti, mettere soprattutto in discussione «il ruolo esclusivo della volontà e del desiderio di morte e pensare le scene del male come potentemente abitate dalla volontà di vita» (ivi, p. XIX), cioè come «il risultato del tentativo di massimizzare la vita stessa» (ibid.). Ovviamente, i «demoni mediocri» non sostituiscono «i demoni assoluti», questi ultimi «esistono, ed esistono ancora oggi» (ibid.) e continuano ad avere successo perché «si integrano perfettamente con il desiderio di tutti coloro che, troppo occupati a consolidare le loro opportunità di vita, si adeguano senza reagire» (ibid.). Soggettività, obbedienza, potere, male: tutto ciò reciprocamente s’intreccia nella «volontà di vita» e si consuma tragicamente nell’«ansia di conformità» che segna l’inquieto vincolo dell’animale umano nelle forme di dipendenza rappresentate dagli «stati di dominazione», dalla governamentalità e dal potere pastorale: tutte forme che segnano in modo indelebile il modo in cui si cementa il «rapporto di subordinazione» e che rilancia il bisogno di ripensare un altro modo di «diventare soggetti» oggi oltre “l’ombra dell’Uno”, riformulando il «patto bio-politico» di obbedienza e sottomissione in cambio di tutela e benessere (cfr. ivi, p. 393).
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A questo punto non ci si può non chiedere: ma oggi come funziona quel patto? Secondo Forti di una cosa vi è certezza: «se è tramontata l’assolutizzazione della vita come valore di un’entità collettiva – etnia, popolo, razza – il suo posto è stato preso dall’imperativo di massimizzazione della vita come valore del singolo, nella sua autoaffermazione sociale e soprattutto nell’ottimizzazione della sua qualità biologica di corpo» (ibid.). Per comprendere la natura e la morfologia che connotano la produzione di docilità e di consenso attraverso cui trova il suo humus la riproducibilità del male politico è necessario però, sostiene Forti, non fermarsi alla categoria del biopotere à la Foucault che si traduce in «dominio totale di morte». Diversamente, oggi «ci troviamo immersi in funzionamenti sociali che esercitano il controllo sulle nostre vite, indirizzano i nostri comportamenti e stili di condotta, non attraverso la limitazione o la preclusione di movimenti, non imponendo divieti e discipline» (ibid.). Nonostante il potere pastorale continui a perpetuarsi, di fatto oggi non esistono più luoghi da cui si irradia il potere che siano «chiaramente individuabili», poiché assistiamo, invece, alla «frammentazione, alla moltiplicazione di poteri che reclamano il diritto di normare le nostre vite»: essi «senza imporre imperativi o norme trascendenti, gestiscono e promuovono la tutela della vita assecondando lo svolgimento presunto “normale” e “fisiologico” dei comportamenti umani e incentivando i processi che dovrebbero condurre verso il benessere» (ibid.). Vita, morte, potere, sapere sono oggi sempre più controllabili? È sostenibile l’idea relativa alla «ottimizzazione della vita» come funzionale al rafforzamento reciproco tra «nuove scienze mediche e biotecnologie», da un lato, e «imperativi di accumulazione del capitale», dall’altro? Inoltre, può la «logica del “capitale umano”» – che esige soggetti pensati e agenti come «imprenditori di se stessi e della propria corporeità» – assumere la «vita biologica» delle persone come qualcosa su cui investire con profitto (cfr. ivi, pp. 393-394)? Rispondere a questi interrogativi significa, secondo Forti, poter diagnosticare criticamente le diverse e nuove forme d’interazione tra vita e potere non solo in termini biopolitici “post-foucaultiani” e deleuziani, ma anche saper tenere presenti le «mediazioni immateriali», il cui «ordine simbolico», nelle proprie coordinate spazio-temporali e intersoggettive di significato, sia in grado di configurarsi come «un a priori storico e concreto fatto di stratificazioni di senso, individuali e collettive, che agisce su tutti i soggetti coinvolti, senza che questi ne siano sempre consapevoli, e li porta a condividere il suo sistema di presupposti» (ivi, p. 394). L’imperativo oggi dominante nelle società ipermoderne è: «devi vivere al meglio, potenziando e attualizzando al massimo il possibile che ti è dato» (ivi, pp. 394-395). Entro questo imperativo si rideclina, per le soggettività, l’interdipendenza tra vita e
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potere, che assume sempre più un’intrinseca «rilevanza» politica. Ovviamente, ne consegue che «più noi vogliamo vivere, sentirci vivi e potenti, più dipendiamo dalla complicata rete di poteri e di riconoscimenti che ci confermano negli attributi dell’essere» (ivi, p. 396). Il fatto è che completamente “assorbiti” da tale imperatività finiamo inesorabilmente, senza residui, nel non avere il tempo e lo spazio necessari per «distanziarci da noi stessi», e avere così un’altra percezione e rappresentazione della realtà e del rapporto tra soggettività. Nei processi di soggettivazione che s’interrogano sul rapporto tra soggetto e potere, secondo Forti, il mondo, quello contemporaneo, non potrà essere altrimenti da ciò che è, se l’individuo non saprà mutare «il suo modo di diventare e rimanere soggetto» (ivi, p. 398), oltre quella “circolarità” che impone ogni praemeditatio malorum e ogni cieca «obbedienza» a quei poteri che «giocano con il nostro desiderio di vita» (ibid.). Questioni di metodo. Une lecture «rousseauiste» de Rousseau: pour lire Rousseau dans Rousseau Ora, pur attraverso lo spessore della mediazione e della contraddizione problematica, uno dei motivi (persistenti) dell’“attualità” di Rousseau, ma non del suo reiterato “attualismo” di maniera, trova le sue più intime ragioni nel tema tipicamente rousseauiano della «legittimità della riappropriazione del sé» tale che conferisca senso e identità all’individuo sociale e alla sua azione concreta, etico-politica, nella città. Rousseau, lui solo e da se stesso, attraverso dilaceranti contraddizioni personali, ha sollevato, sperimentandoli di persona, alcuni dei problemi centrali della coscienza filosofica moderna: ontologia della vita quotidiana e ontologia dell’essere sociale si coniugano nella sua propria politica dell’esistenza64 e si pongono, quali antinomie della coscienza, come tra i nodi ancora cruciali (e non solamente filosofici) dell’uomo contemporaneo. Rousseau, l’uomo-Rousseau (Jean-Jacques) e l’uomodi-Rousseau65, si rapportano, così, con inaudita forza ai problemi della con64 65
Cfr. P. BURGELIN, La philosophie de l’existence de Jean-Jacques Rousseau, P.U.F., Paris 1952. Il problema dell’uomo e l’uomo come problema costituiscono il nucleo forte del pensiero etico-filosofico di Rousseau. Come scrisse Bernard Groethuysen, uno dei suoi più grandi interpreti: «Per Rousseau l’interesse primordiale dell’uomo è l’uomo. L’uomo e la sua vita, nella filosofia di Rousseau, si collocano in primo piano. Nello sfondo la visione dell’insieme degli esseri e delle cose è come un paesaggio i cui contorni sfumano. La domanda: “chi sono io?” precede il problema di Dio. La domanda: “cosa è l’uomo?” precede il problema della natura. La visio-
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temporaneità che, dopo-Rousseau, è ancora impegnata a risolvere non pochi di quei mali umani e sociali che tanto acutamente disvelò Rousseau, quanto drammaticamente pervasero Jean-Jacques. Il dispositivo-Rousseau, labirintico quanto si voglia, pervaso dalla «malattia del moderno», ha fatto emergere il grande «tema della fatica della dialettica, della conflittualità che si ingenera fra la purezza dell’anima bella, che sposa la causa della verità assente, e la metamorfosi dei princìpi; un tema animato dal desiderio di felicità e giustizia vissute, in una società che è ancora da venire»66. Sappiamo. La politica è radicalmente (antropologicamente e ontologicamente) innervata nelle cose umane, Rousseau ne aveva piena consapevolezza67 ma, l’uomo-Rousseau (Jean-Jacques) aveva da-
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ne della natura non costituisce il punto di partenza delle sue esperienze filosofiche. È, se mai, il complemento cosmico delle idee che si forma sull’uomo e sul suo destino. Il suo pensiero, si potrebbe dire, è ben più psicologico che metafisico. È antropocentrico. La concezione del mondo viene dopo quella dell’uomo, così come i problemi generali precedono in lui i problemi della natura umana in generale. È l’esperienza personale che lo porta alle aspirazioni cosmiche» (B. GROETHUYSEN, J.-J. Rousseau, Gallimard, Paris 1949, p. 238). R. ALBERTINI, op. cit., p. 6. Sul pensiero politico di Rousseau, tra gli altri, cfr.: R. DERATHÉ, J.-J. Rousseau et la science politique de son temps, P.U.F., Paris 1950 (tr. it. di R. Ferrara, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, il Mulino, Bologna 1993). E. WEIL, Rousseau et sa politique, in «Critique», 8, n. 56, 1952, poi in ID., Essais et conférences, Plon, Paris 1971, vol. II, ora in ID., Dell’interesse per la storia e altri saggi di filosofia e storia delle idee, a c. d. L. Sichirollo, Bibliopolis, Napoli 1982, pp. 201-232. I. FETSCHER, Rousseaus politische Philosophie. Zur Geschichte des demokratischen Freiheitsbegriffs, Luchterhand Verlag, Neuwied 1960 (tr. it. di L. Derla, La filosofia politica di Rousseau. Per la storia del concetto democratico di libertà, Feltrinelli, Milano 1972). AA.VV., Rousseau et la philosophie politique, P.U.F., Paris 1965. AA.VV., Études sur le Contrat social de J.-J. Rousseau, Les Belles Lettres, Paris 1964. M. EINAUDI, The Early Rousseau, Ithaca 1967 (tr. it., Il primo Rousseau, Einaudi, Torino 1979). R.D. MASTERS, The Political Philosophy of Rousseau, Princeton University Press, Princeton 1968. L.G. CROCKER, Rousseau’s Social Contract: An Interpretative Essay, Case Western Reserve University Press, Cleveland 1968 (tr. it., SEI, Torino 1971). R. POLIN, La politique de la solitude: essai sur la Philosophie politique de Rousseau, Sirey, Paris 1971. M. LAUNAY, J.-J. Rousseau, écrivain politique, C.E.I./A.C.E.R., Grenoble 1971. V. GOLDSCHMIDT, Anthropologie et politique. Le principes du système de Rousseau, cit. S. ELLEMBURG, Rousseau’s Political Philosophy, Cornell University Press, Ithaca 1976. V. MURA, La teoria democratica del potere. Saggio su Rousseau, ETS, Pisa 1979. M. REALE, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal “Discorso sull’ineguaglianza” al “Contratto”, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983. R. GATTI, Natura umana e artificio politico. Saggio su J.-J. Rousseau, La Porziuncola, Assisi 1988. M. VIROLI, La théorie de la société bien ordonnée chez Jean-Jacques Rousseau, Walter de Gruyter, Berlin 1988 (tr. it., il Mulino, Bologna
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vanti a sé un mondo di alienazione68, ecco perché fece della solitudine la politica della sua personale esistenza69, il supplemento necessitante della sua vita come del suo pensiero: il progetto radicale, utopico, immaginario – nei confronti di un mondo di disvalori – di comunicazione intersoggettiva e sociale70. L’incidenza di Rousseau nella contemporaneità è problematica e difficile perché si scontra contro i problemi della società globale e della sempre più crescente complessità sociale, problemi che Rousseau non poteva avvertire in tutta la loro portata perché viveva in un periodo di crisi e di transizione fondamentale della storia e della democrazia moderne71, ma la sua presenza sta lì a indicarci i nodi del presente: la difficile costruzione di una comunità della comunicazione e di una «società giusta»72.
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1993). A. BURGIO, Eguaglianza, interesse, unanimità. La politica di Rousseau, Bibliopolis, Napoli 1989 e ID., Rousseau, la politica e la storia. Tra Montesquieu e Roberspierre, Guerini e Associati, Milano 1996. P. CASINI, Il pensiero politico di Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1999. P. RILEY (ed.), The Cambridge Companion to Rousseau, Cambridge University Press, Cambridge 2001. L. VINCENTI, JeanJacques Rousseau. L’individu et la république, Kimé, Paris 2001. A. PINZANI, Rousseau: l’individuo tra utopia e rinuncia mondana, in ID., Ghirlande di fiori e catene di ferro. Istituzioni e virtù politiche in Machiavelli, Hobbes, Rousseau e Kant, Le Lettere, Firenze 2006, pp. 185-272. G.M. CHIODI, R. GATTI (a c. d.), La filosofia politica di Rousseau, cit. D. GIORDANO, Jean-Jacques Rousseau filosofo politico. Introduzione a J.-J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine della disuguaglianza & Contratto sociale, Bompiani, Milano 2012, pp. 5-38 (ivi bibliografia). Cfr. B. BACZKO, Rousseau et l’aliénation sociale, in «Annales de la Société J.-J. Rousseau», XXXV, 1959-62, pp. 223-37 e ID., Rousseau. Solitude et communauté, cit., pp. 12-56. R. VITIELLO, Rousseau e l’alienazione: un problema politico o psicologico, Bulzoni, Roma 1981, pp. 7-15. Cfr. B. BACZKO, op. cit.; R. POLIN, op. cit.; J. STAROBINSKI, op. cit.; B. MUNTEANO, Solitude et contradictions de J.-J. Rousseau, Nizet, Paris 1975 e G.-A. GOLDSCHMIDT, J.-J. Rousseau ou l’esprit de solitude, Phébus, Paris 1978. Cfr. B. BACZKO, Lumières de l’utopie, Payot, Paris 1978 (tr. it. di M. Botto e D. Gibelli, L’utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1979, cap. II: Utopia e politica: un «viaggio immaginario» di Rousseau, pp. 63-101). Cfr. W. SCHLANGEN, Demokratie und bürgerliche Gesellschaft. Einführung in die Grundlagen der bürgerlichen Demokratie, Verlag W. Kohlhammer, Stuttgart 1973 (tr. it. Democrazia e società borghese, il Mulino, Bologna 1979). A. ILLUMINATI, J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, Il Saggiatore, Milano 1977. G. GENTILE, Rousseau filosofo della crisi, Guida, Napoli 1980. A. BURGIO, Rousseau e gli altri. Teoria e critica della democrazia tra Sette e Novecento, DeriveApprodi, Roma 2012. Cfr. S. VECA, La società giusta, Il Saggiatore, Milano 1982.
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Grandezza e limiti di Rousseau, ecco due segni della sua incidenza nel nostro attuale orizzonte di senso e di significato. Dopo il 300° anniversario della nascita di Rousseau (28 giugno 1712) e dopo il 250° della pubblicazione del Contratto sociale e dell’Emilio, gli studi rousseauiani hanno registrato un significativo spostamento d’asse e d’interesse. Nella critica dei rousseauiani si è passati infatti dal «primautè de la politique» in Rousseau, tema che ha lungamente dominato le interpretazioni rousseauiane degli anni ’60 del Novecento73, alle più recenti ricerche sugli aspetti particolari e meno analizzati, ma non per questo meglio conosciuti e meno rilevanti, del 73
«Rousseau politico» e «il primato della politica» in Rousseau, costituiscono, come è noto storiograficamente, i principali paradigmi metodologici (e ideologici) di lettura del pensiero rousseauiano. Nel variegato campo degli studi rousseauiani tra gli interpreti italiani di quel decennio è sufficiente qui menzionare i principali: S. COTTA (a) La position du problème de la politique chez Rousseau, in AA.VV., Études sur le Contrat social de J.-J. Rousseau, cit., pp. 177-190; ID., Filosofia e politica nell’opera di Rousseau, in «De Homine», III, n. 2, 1964, pp. 293-310; ID., Théorie religieuse et théorie politique chez Rousseau, in AA.VV., Rousseau et la philosophie politique, cit., pp. 171-195; ID., J.-J. Rousseau, in AA.VV., Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1968, vol. XV, pp. 845928. L. COLLETTI, Rousseau politico, in «Cultura e scuola», II, n. 6, 1962-63, pp. 134-138; ID., Rousseau critico della società civile, in «De Homine», VII, n. 24, 1968, pp. 123-176, poi con il tit. Mandeville, Rousseau e Smith, in ID., Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, pp. 195-262. U. CERRONI, Prefazione, in J.-J. ROUSSEAU, Discorso sull’economia politica e frammenti politici, Laterza, Bari 1968, pp. 5-29. C. VIOLI, Rousseau e le origini della democrazia moderna, in «Critica marxista», IV, n. 4, 1966, pp. 178-200. V. GERRATANA, L’eresia di J.-J. Rousseau, in J.J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, a c. d. V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1968, pp. 9-72, poi con il tit. Rousseau e Marx, in V. GERRATANA, Ricerche di storia del marxismo, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-68. P. ALATRI, Introduzione, in J.-J. ROUSSEAU, Scritti politici, Utet, Torino 1970, pp. 9-72. Le interpretazioni rousseauiane di Colletti, Cerroni, Gerratana e Alatri costituiscono una serrata discussione teorica sul rapporto Rousseau-Marx e rappresentano l’estensione critico-problematica dell’ardita «lettura» di Galvano Della Volpe, Rousseau e Marx, Editori Riuniti, Roma 1957. Sull’interpretazione marxista di Rousseau e della scuola dellavolpiana, cfr. A. POSTIGLIOLA, Rousseau e il marxismo italiano, in «Critica marxista», IX, n. 4, 1971, pp. 70-83 e M. FEDELI DE CECCO, Il «Rousseau» di G. Della Volpe, in «Studi Urbinati» XLIX, n. 2, 1975, pp. 517-574 e Rousseau e il marxismo italiano nel dopoguerra, Cappelli, Bologna 1982. A.M. REVEDIN, Politica e verità. J.-J. Rousseau e il ritorno del principe, Giuffrè, Milano 1983. A. BURGIO, Rousseau e gli altri, cit. Sul rapporto Marx-Rousseau, cfr. inoltre G. RADICA, Lectures marxistes de Rousseau en Italie, in C. SPECTOR (a c. d.), Modernités de Rousseau, in «Lumières», n. 15, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux 2010, pp. 69-88 e L. VINCENTI (a c. d.), Rousseau et le marxisme, Éditions de la Sorbonne, Paris 2011.
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filosofo ginevrino74. Rousseau secondo Jean-Jacques rappresenta emblematicamente e paradigmaticamente l’oggetto degli ultimissimi studi rousseauiani, i quali sono sempre più orientati a saggiare aspetti (auto)biografici, esistenziali, letterari, linguistici, psicoanalitici, sociologici, mitici e utopistici dell’autore del Contratto sociale e delle Confessioni. Un panorama storiografico e critico che, pur fortemente influenzato dalla temperie culturale e dal climax sociale della contemporaneità nostra, traccia – «dal primato della politica alla insufficienza della politica in Rousseau» – un itinerario di ricerche teso problematicamente a sorprendere il pensato, il vissuto e lo scritto nella «unità» di pensiero di Jean-Jacques75. 74
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Per una tematizzazione critica e un bilancio storiografico e bibliografico di queste e di numerose e altre ricerche e interpretazioni rousseauiane, cfr. E. GARIN, Introduzione, in J.-J. ROUSSEAU, Scritti politici, cit. P. ROSSI, Introduzione, in J.-J. ROUSSEAU, Opere, cit. A. ILLUMINATI, J.-J. Rousseau, La Nuova Italia, Firenze, 1975. A. VERRI, Studi rousseauiani in Italia ieri e oggi, Milella, Lecce 1989. Per un repertorio bibliografico delle opere di Rousseau e degli studi su Rousseau in Italia, cfr. D. FELICE, Jean-Jacques Rousseau in Italia. Bibliografia (1816-1986), Clueb, Bologna 1987. Sul problema dell’«unità» nel pensiero di Rousseau, cioè sul tanto discusso rapporto tra pensiero e opera nel Ginevrino, permangono ancora valide le caute indicazioni di Gerratana: «Si sa che Rousseau ha sempre rivendicato l’ispirazione unitaria e il carattere sistematico di tutta la sua opera teorica, anche quando, assorbendone infine il significato nel tormentato quadro autobiografico della propria personalità, finirà egli stesso col rendere più difficile qualsiasi interpretazione unitaria. È lo stesso Rousseau infatti a suggerire, negli scritti autobiografici dell’ultimo periodo, una sostanziale sottovalutazione del suo pensiero politico […]. Certo non sarebbe giustificato dare per dimostrata o accettare facilmente una scissione dell’opera di Rousseau, trascurando, come fonte non pertinente al suo pensiero politico, i grandi scritti autobiografici, – dalle Confessioni a Rousseau juge de Jean-Jacques e a Les rêveries du promeneur solitaire; – ma ancor meno giustificato sarebbe dimenticare che anch’essi devono essere interpretati nell’arco di sviluppo di un pensiero in movimento, mentre sarebbe del tutto arbitrario privilegiarli fino ad assumerli come unico criterio o chiave d’interpretazione. Si tratta quindi di esaminare quest’arco di sviluppo e di vedere attraverso di esso se e come sia possibile configurare l’unità del pensiero rousseauiano» (V. GERRATANA, L’eresia di J.-J. Rousseau, cit., p. 26). Nello specifico di questa complessa questione storiografica mi soffermerò nel seguito della ricerca. Per i termini essenziali della stessa, cfr.: G. LANSON, L’unité de la pensée de J.-J. Rousseau, in «Annales J.-J. Rousseau», VIII, 1912, pp. 1-32 (tr. it. in Il pensiero di Rousseau, a c. d. E. Bossi, La Nuova Italia, Venezia 1927). E. CASSIRER, L’unité dans l’œuvre de J.-J. Rousseau, in «Bulletin de la Soc. française de philosophie», XXXII, 1932, pp. 45-85 e Das Problem J.-J. Rousseau, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 41, 1932 (tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1938). P. BURGELIN, L’unité de l’œuvre de J.J. Rousseau, in «Revue de Métaphysique et de Morale», LXV, n. 2, 1960, pp. 199209. R. DERATHÉ, L’unité de la pensée de J.-J. Rousseau, in AA.VV., J.-J. Rous-
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Le «letture» del pensiero di Rousseau, passate e recenti, sono «letture» che, muovendosi in più direzioni, non hanno mancato, talvolta, di travisarne e deformarne il senso e il contenuto. Nella «storia della fortuna» e/o nella «storia della critica», Rousseau è tra quei grandi pensatori per il quale, come ha osservato Raffaele Vitiello: «Sembra infatti che ogni generazione di lettori abbia dovuto di volta in volta inventarsi una sua propria interpretazione, un suo più o meno tortuoso sentiero per riguadagnare quella semplicità. Molto si potrebbe dire (e molto è stato scritto) su di un vero Rousseau che reclama i suoi diritti a una corretta lettura filologica, contrapposta al Rousseau vero, o “inveratosi” nella storia che, più in profondo, ha finito per influenzare oltre due secoli di storia del pensiero»76. La storiografia come episteme è oggi un problema aperto. Ágnes Heller, nel suo tentativo critico di costruire una «teoria della storia» ha scritto: «La ricezione di una filosofia è in sé una sorta di interpretazione. Ogni filosofia può essere recepita (e quindi interpretata) in modi completamente diversi. La stessa “alta” teoria filosofica può servire a illuminare diversi punti oscuri, ma anche lo stesso punto sotto aspetti diversi. Nel momento in cui lo storico applica delle teorie filosofiche a teorie storiografiche, egli ricrea anche le prime. Queste vengono conservate e trasformate da quelle»77. In breve, e non senza una certa enfasi, secondo Heller: «Impariamo dalla storia perché possiamo dimenticare e ricordare, e apprendiamo sia il male che il bene, in quanto possiamo anche non imparare niente. L’apprendimento della storia, come ogni tipo di apprendimento, comporta uno sforzo, la concentrazione di tutte le nostre forze mentali. È meticoloso e gratificante. Come in ogni tipo di apprendimento, possiamo commettere errori e dobbiamo quindi ricominciare da capo, ma apprendiamo comunque e in ogni momento»78. Ma, come ha invitato a riflettere Mario Einaudi: «Solo pochi pensatori che formano la nostra eredità culturale subiscono nel corso dei secoli successivi il genere di riconsiderazione che, nel suo rigore, esprime un bisogno profondo di ricerca di una nuova chiave interpretativa del loro pensiero. E ancora più raramente tale considerazione, quando interviene, modifica
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seau et son œuvre, problèmes et recherches, Klincksiek, Paris 1964. M. EINAUDI, Il primo Rousseau, cit. C. SALOMON-BAYET, Rousseau ou l’impossible unité, Seghers, Paris 1968. J. STAROBINSKI, op. cit. D. BENSOUSSAN, L’unité chez JeanJacques Rousseau: une quête de l’impossible, Nizet, Paris 1977. M. EIGELDINGER, J.-J. Rousseau. Univers mythique et cohérence, La Baconnière-Payot, Neuchâtel 1978, capp. VII e IX. R. VITIELLO, Rousseau e l’alienazione, cit., p. 26. Á. HELLER, Teoria della storia, tr. it., Editori Riuniti, Roma 1982, p. 204. Ivi, p. 222.
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nettamente i lineamenti della tradizione comunemente accetta. Fra le vittime della nostra costante riscrittura del passato, Rousseau spicca per la profondità dell’indagine a cui è stato sottoposto e per l’importanza dei cambiamenti intervenuti nel nostro giudizio su di lui»79. Le deformazioni del pensiero rousseauiano che talvolta questi giudizi e queste interpretazioni hanno prodotto si sono sviluppate secondo due principali direzioni storiografiche che sinteticamente e lucidamente sono state ricapitolate da Furio Diaz: «In primo luogo quella di privilegiare esclusivamente una componente del pensiero e dell’opera di Rousseau: o vedere soprattutto in JeanJacques il pensatore politico, il critico della società e il teorico di un modello di superamento della degenerazione di essa; o considerare invece in lui l’aspetto psicologico o filosofico e letterario nel ripiegamento su se stesso, del rifugio nella coscienza, nel sogno dell’anima bella, del contatto esistenziale con la natura. In secondo luogo e, con un duplice segno che agisce poi all’interno sia dell’una che dell’altra di queste linee riduttive, la tendenza a ricondurre il magma amplissimo e fluido della sua riflessione a uno schema univoco di significato, o nel senso della sua completa unità o nel senso invece della sua assoluta e insanabile contraddizione, (direi) disgregazione»80. Dell’attualità e/o dell’inattualità di Rousseau. Le «immagini» di Rousseau, che la storia del pensiero occidentale ha prodotto nel corso degli ultimi tre secoli, costituiscono un vero e proprio collage di epiteti, definizioni, profili, caricature, precorrimenti, attualizzazioni, abiure, mode ideologiche, interpretazioni. A fronte di tutto ciò si erige l’«unicità» di Rousseau, dell’unico Rousseau che, come scrisse con forte enfasi Cassirer, «s’impose a noi continuamente e sempre nuovamente ci trascina con sé»81. Quale Rousseau? È un fatto. Ogni epoca, naturalmente, ha il diritto di «leggere» con le proprie lenti, con un proprio stile e con una peculiare strategia teorica e critica i pensatori del passato: questo è un diritto che appartiene alla cosa stessa, sarebbe inutile criticarlo, esso è implicito allo «spirito del tempo». Lo stesso Rousseau è stato interpretato, di volta in volta, ora come individualista, autoritario, solitario, irrazionalista, utopista, ora come rivoluzionario, illuminista, liberale, totalitario, anarchico, socialista, preromantico, razionalista, primitivista, restauratore, riformatore. Ma, Rousseau è stato più «usato» che compreso: ogni lettore, ogni interprete e ogni pensatore vi hanno attinto «colpevolmente» a piene mani. Rousseau, pensatore della moder79 80 81
M. EINAUDI, Il primo Rousseau, cit., p. 3. F. DIAZ, Rousseau e la storia del suo tempo, cit., p. 129. E. CASSIRER, Il problema J.-J. Rousseau, cit., p. 8.
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nità classica, è un «classico» che è stato sottoposto a una variegata campionatura di «letture». Una rilettura della complessa macchina rousseauiana va fatta, comunque, considerando il contesto epocale in cui l’autore ha vissuto, pensato e scritto. Naturalmente, il rapporto con un pensatore «classico» dispiega tutta una serie di potenzialità critiche che, in una consapevole libertà nei suoi confronti, consente di valutare, di porre domande e di ricostruire il suo pensiero considerando che, se la storiografia-è-rivolta-al-passato (Heller), la lettura è pur sempre aperta al e sul presente, nella contemporaneità. L’eredità e l’incidenza di un filosofo giocano sempre un ruolo fondamentale per i problemi e le difficoltà del presente storico: l’attualità e/o l’inattualità del suo pensiero segnano i limiti o i progressi, le domande e le risposte intorno a cui si esercita la pratica discorsività del sapere filosofico. Come ha osservato un interprete: «Rousseau è sempre attuale e inattuale insieme. Egli ha scavato a fondo nell’anima umana, portando alla luce esigenze che non si perdono nel tempo, perché esprimono valori che sono dell’uomo in quanto essere spirituale e libero, che quei valori ha faticosamente costruiti, elevandosi sulla barbarie e sull’istinto, portando alla luce potenzialità che lasciate a se stesse lo avrebbero appena distinto da altri esseri che corrono sulla terra»82. Oggi, comunque, nel ripensare Rousseau, occorre, come ha tenacemente osservato Diaz, «[…] riconsegnare Jean-Jacques alla sua storia, alla storia del suo pensiero e del suo comportamento, alla storia quindi del suo tempo»83. Questo è un altissimo richiamo realistico e di metodo per il lettore e l’interprete contemporanei. Ma, Diaz ha aggiunto con forza l’avvertimento: «Il che non vuol dire, però, […] annegare il senso dell’opera di Rousseau in un condizionamento assolutamente storicistico, limitandone il valore e la portata all’espressione di esigenze unicamente connesse a certi movimenti di fatti e d’idee di un’epoca. Perché appunto in Rousseau, nelle contraddizioni, nei conflitti stessi interni alla sua personalità e al suo pensiero, si verifica tipicamente che le idee, i giudizi, i sentimenti che egli esprime, pur nella loro radicatezza agli eventi del suo tempo, rivelano anche esigenze, valori, motivi strutturali, coupes d’essence, inerenti a una più duratura “condizione umana”, che non può non riproporsi di continuo, con toni e tensioni analoghe, in altri momenti dello sviluppo storico»84. Nella vastissima e sterminata letteratura critico-esegetica su Rousseau, all’interno delle opzioni metateoriche che caratterizzano la ricerca storiografico-filosofica, le due principali tendenze degli studi rousseauiani si or82 83 84
A. VERRI, Studi rousseauiani in Italia, cit., p. 51. F. DIAZ, op. cit., p. 130. Ivi, p. 130-131.
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ganizzano intorno a una scelta fra i più svariati modelli per interpretare Rousseau da un lato e, dall’altro, verso un’altra direzione tesa a utilizzare, fra gli stessi modelli, la «teoria» rousseauiana. La prima tendenza metodologica considera l’intera œuvre rousseauiana come un «sistema» sincronico, implicitamente dotato di una sua interna unità e coerenza. La seconda tendenza esegetica e storiografica, che pur presuppone la prima, considera l’œuvre del Ginevrino come un «sistema» diacronico, cioè come un «nonsistema», ed è tutta protesa ad analizzare i rapporti di Rousseau con il suo tempo e a far luce sulle vicende (auto)biografiche di Jean-Jacques. Se la prima tendenza seguita nella ermeneutica filosofica-letteraria, che considera il pensiero di Rousseau, e in particolar modo i suoi scritti politici, come un «sistema» sincronico, permette di «utilizzare» la «teoria» rousseauiana, la seconda direzione, quella diacronica, discute della attualità e/o della inattualità del «modello rousseauiano»85. Le tipologie e le logiche dei modelli interpretativi sono direttamente connesse, nel senso che retroagiscono, sul destino controverso dell’œuvre di Rousseau, affidata – malgré Rousseau – ai suoi interpreti e critici. Nel «leggere» Rousseau e nel valutare la sua presenza si stabilisce una particolare situazione tra il lettore e il filosofo. Infatti, è stato lo stesso Rousseau a presagire la «operazioni» a cui sarebbero stati sottoposti i suoi scritti, per questo motivo invitava continuamente il lettore a leggere per intero ogni suo scritto, prima di essere da questi giudicato. Per un dovere di lettura nei confronti del lettore, Rousseau così scriveva nei Dialoghi: Se io osassi chiedere qualcosa a coloro tra le cui mani cadrà questo scritto, sarebbe di volerlo leggere per intero prima di prendere dei provvedimenti e anche prima di parlarne con altri86.
Mentre, per un dovere di scrittura nei suoi confronti, diceva nelle Confessioni: […] Non ho promesso al lettore di presentargli un grande personaggio; gli ho promesso di mostrarmi quale sono […]. Vorrei riuscire a rendere la mia anima trasparente agli occhi del lettore; e per questo cerco di mostrargliela sotto tutti gli aspetti […]. Ma narrando minutamente e con semplicità tutto quello che mi è successo, tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho pensato, tutto quello che ho sentito, non posso indurlo in errore, a meno che non lo voglia
85 86
Cfr. M. BOVERO, Politica e artificio. Sulla logica del modello giusnaturalistico, in «Materiali filosofici», n. 6, 1981, pp. 91 sgg. J.-J. ROUSSEAU, Rousseau giudice di Jean Jacques. Dialoghi, in J.-J. ROUSSEAU, Opere, a c. d. P. Rossi, cit., p. 1125.
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[…]. Spetta a lui riunire questi elementi e determinare l’essere che è da essi formato: la conclusione deve essere opera sua; e allora se si sbaglierà lo sbaglio sarà tutto suo […]. Non debbo giudicare io dell’importanza dei fatti: debbo narrarli tutti e lasciare a lui la cura di scegliere […]. In quest’opera non ho da temere che una cosa: non di dir troppo, o di dir delle menzogne, ma di non dire tutto e tacere alcune verità87.
87
J.-J. ROUSSEAU, Le Confessioni, in J.-J. ROUSSEAU, Opere, cit., pp. 843-844. Puntuale il commento di Claire Salomon-Bayet: «Per chi sa leggere, la verità sorgerà dai suoi scritti: una verità che ha a che fare con la giustizia, poiché anche ragione e coscienza sono inseparabili. Ma la lettura dev’essere totale, riguardare l’insieme e non trascurare alcun elemento, perché possa organizzarsi la verità» (C. SALOMONBAYET, Jean-Jacques Rousseau, in AA.VV., Histoire de la Philosophie. Idées. Doctrines. Les Lumiéres (le XVIIIe siècle), vol. 4, a c. d. F. Châtelet, Libraire Hachette, Paris 1972 (tr. it., Rizzoli, Milano 1976, p. 108). Con sagacia interpretativa, Bartolo Anglani, nel suo libro Le maschere dell’io. Rousseau e la menzogna autobiografica, Schena Editore, Fasano 1995 (d’ora in poi MI), non ha mancato di sottolineare il fatto che le Confessioni di Rousseau «si presentano come un libro che chiama il pubblico contemporaneo a confermare con la sua risposta la “verità” del racconto che sta per iniziare» (MI, p. 35). Certamente, nello “sdoppiamento” (dei due «Io») tra il personaggio (Jean-Jacques) e il narratore (Rousseau) «vi è l’emersione di un’altra verità: quella che fin dall’inizio l’autore abbia solo finto, magari con se stesso, di rivolgersi a interlocutori reali, presupponendone l’esistenza e la funzione nel tessuto comunicativo delle Confessions; e che in realtà il “discorso” avesse come unico destinatario e come interlocutore proprio lui, Jean-Jacques in persona» (ivi, p. 42). Ma il sospetto che il racconto sia una mera finzione, la maschera di un discorso senza interlocutori veri, in realtà, secondo Anglani, «è fondato solo in parte, perché Rousseau senza gli spettatori non saprebbe esprimersi neanche con se stesso. Egli ha bisogno di fingere un discorso rivolto al di fuori di sé perché non osa (ancora) confessare di essere proprio lui il solo privilegiato interlocutore di se stesso» (ibid.). Nella sua perfomance, esposto nella pratica autobiografica della scrittura come autore che cerca la «verità di fondo» e come personaggio che predispone le cose in modo tale da essere giudicato e valutato secondo la «verità di forma», Rousseau «ha portato alle conseguenze estreme, fino agli ultimi e maturi giorni di esistenza, questa esperienza di finzione con cui ciascuno di noi inaugura la propria vita come soggetto sociale». La contraddizione ineludibile dell’impresa autobiografica del suo «récit» lo costringe, quindi, nel gioco e nel trucco della maschera, «tra il bisogno di svelare se stesso nella luce piena ed immediata della verità, e la natura inguaribilmente letteraria del mezzo scelto» (ivi, p. 43). Sulla logica “doppia e conflittuale” che guida la scrittura autobiografica delle Confessions di Rousseau (che comprende anche le figure degli avventurieri e dei ciarlatani che si intrecciano nella sua esistenza), cfr. inoltre B. ANGLANI, Gli avventurieri dimenticati. Jean-Jacques tra Pinocchio e Proust, in «Lo Sguardo.net. Rivista di filosofia», n. 11, 2013, pp. 71-120.
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Il «cerchio ermeneutico». Il testo e l’interprete: problemi di intertestualità La specificità della riflessione ermeneutica è l’atto intorno a cui si organizza un modello di lettura di un testo: ogni comunicazione di significati pone capo a un processo interpretativo, richiede interpretazione. È a partire da tale consapevolezza che le moderne scienze del linguaggio hanno apportato, negli ultimi decenni, notevoli contributi alla metodologia e alla problematica della storiografia filosofica. Nel campo delle pratiche discorsive del sapere filosofico e, nello specifico, nel rapporto tra filosofia, storia della filosofia e storiografia filosofica, la semiotica testuale e l’ermeneutica testuale hanno svolto un ruolo decisivo intorno alla tematica della intertestualità: cioè della lettura, della interpretazione e della ri-scrittura del testo filosofico. È noto. Il sapere filosofico contemporaneo ha nel problema della «interpretazione» storiografica uno dei suoi nodi ermeneutico-epistemologici più cruciali da risolvere a fronte dell’oggettivo limite della sola interpretazione filologica della produzione testuale delle pratiche filosofiche. Nel campo della metodologia storiografico-filosofica si va sempre più acquisendo la consapevolezza critica che il senso e il significato del testo filosofico non siano univocamente (filologicamente) rintracciabili nel testo stesso, ma nel campo aperto della intertestualità: cioè nel rapporto complesso tra segno (testo di scrittura) e interprete (testo di lettura, processo di significazione, teoria dell’interpretazione, critica storiografica). Tra il testo della scrittura e il testo della lettura si giocano i relativi rapporti tra l’oggettività, la materialità e la complessità testuale. Il testo filosofico è e si pone come segno complesso di scrittura e di lettura nelle cui pratiche non si dà un rapporto di meccanica e immediata giustapposizione e/o di identificazione. La complessità segnica ed ermeneutica del testo filosofico, cioè le pratiche enunciative, discorsive e scritturali che esso evince, pone il problema dell’interprete, di chi conferisce senso e significato al testo. Secondo le più recenti acquisizioni ermeneutiche della storiografia filosofica contemporanea, il rapporto tra il testo (testo di scrittura) e l’interprete (testo di lettura) è un rapporto di progressiva differenziazione, di alterità, giammai di meccanica identificazione, il che comporta che ad una progressiva crescita di complessità testuale della scrittura si possa (poi) disporre di adeguate pratiche e strategie di lettura che vadano oltre il processo di ripetizione riflettente della norma autorale della materialità del testo: cioè, il testo di lettura si predispone ad essere voce significante del testo di scrittura e non mera attività di natura filologica, esegetica, conoscitiva ed
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epistemologica. Di fatto, la complessità del testo di scrittura pone capo alla intertestualità e interdiscorsività della lettura quale pratica dialogica interpersonale aperta «cronotopicamente» tra l’autore del testo e i suoi interpretanda88. Tra testo e interprete, scrittura e lettura si dà una pratica dialogica ad un tempo di vicinanza e di distanza reciproca tesa a far cogliere quel senso e quel significato che dal testo emergono e che il più delle volte né l’autore dello stesso né i suoi interpreti contemporanei sono in grado di trasmettere: tra testo e interprete si stabilisce, così, una «dualità necessaria», infatti, «non c’è incontro – ha scritto Starobinski – che a condizione di una distanza antecedente; non c’è adesione mediante la conoscenza se non a prezzo di una dualità prima provata, poi superata»89. Il testo filosofico che si protende oltre i confini e le frontiere del proprio tempo storico e che continua a vivere dopo la propria contemporaneità – questo è il destino delle opere «classiche» – si fa portatore di nuovi significati, cioè di un nuovo senso che non soltanto dipende dal lavoro critico delle sue «letture» posteriori, ma che, in nuce, esso contiene, mentre queste vengono nascoste dal contesto culturale ed epocale della propria contemporaneità e che soltanto, a posteriori, la semantica dei tempi storicoculturali può evincere. A fronte della oggettività, della materialità e della complessità del testo filosofico si erigono l’autonomia, l’originalità e la soggettività della norma autorale: il discorso dell’autore del testo filosofico. La storiografia filosofica ha acquisito, da tempo, la consapevolezza che il testo filosofico si muove tra due linguaggi, quello dell’autore e quello dell’interprete-lettore e che questo movimento comporta una sorta di resistenza reciproca e nei confronti dell’autore, in quanto il testo non può avere un processo di semplice autosignificazione e, parimenti, nei confronti dell’interprete, poiché il processo di significazione del testo non è un processo interamente a suo appannaggio. Con la consueta efficacia critico-ermeneutica, Starobinski ha invitato a considerare – nei confronti dell’oggetto-testo che: La nostra prima preoccupazione sarà dunque di garantire all’oggetto la sua più forte presenza e la sua massima indipendenza: che si consolidi la sua propria esistenza, che esso si offra a noi con tutti i caratteri dell’autonomia; che opponga la sua differenza e segni le sue distanze […]. Prima di ogni spiegazione, 88 89
Cfr. J. STAROBINSKI, La letteratura: il testo e l’interprete, in AA.VV., Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, a c. d. J. Le Goff e P. Nora, Einaudi, Torino 1981, pp. 193-208. Ivi, p. 193.
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prima di ogni interpretazione comprensiva, l’oggetto deve essere riconosciuto nella sua singolarità, ossia in ciò che lo sottrae a un’illusoria annessione. Per una sorta di paradosso, è a furia di arricchimenti oggettivi che l’opera studiata ci può opporre una resistenza analoga a quella che incontriamo di fronte a una soggettività estranea: sfugge a ogni tentativo che non sia disposto a pagare il prezzo per attraversare lo spazio frapposto90.
Ora, se l’interprete deve poter idealmente restituire il testo filosofico «al suo stato originario, leggibile nella lezione voluta dal suo autore», ma deve, anche, con la sua ricerca ridare vita «alle tracce di un percorso soggettivo»91, quindi, considerare il complesso rapporto tra testo/fonti/ scrittura/autore, allora si fa sempre più chiara l’emergenza di interpretare la storia della filosofia non come semplice successione diacronica di testi di scrittura, ma anche, e contemporaneamente, dei corrispettivi testi della loro lettura. Nella storia della filosofia come campo di pratiche discorsive il testo della scrittura non può, naturalmente, sussistere indipendentemente e autonomamente dal testo della sua lettura. È questa l’intertestualità del discorso filosofico che coinvolge i testi filosofici e che pone capo, nello scambio comunicativo, ai rapporti, tra testo/interprete/scrittura/lettura/autore/interpretazione/senso/significato/critica storiografica. Ecco perché leggere oggi Rousseau significa, pertanto, da un lato, apprestarsi ad «istituire una teoria dell’interpretazione» (Starobinski), avventurarsi nel «labirinto della scrittura» rousseauiana, porgersi in modo tale da poter vedere la possibile proliferazione significante del suo testo, coglierne i dettagli, le svolte e lo sviluppo; dall’altro lato, volgere lo sguardo su l’ampio scenario costituito dalle appropriazioni, riattivazioni e ri-scritture che dispiegano le «letture» del suo pensiero: con e dopo Rousseau, la filosofia si apre alla ricerca e alla ricostruzione della specificità dei linguaggi, della materialità con-testuale e significante dei discorsi. La caratteristica peculiare e inquietante della scrittura rousseauiana, il destino del suo testo, è che può e/o deve essere letta! Ma, ogni qual volta stabilisce il rapporto con i testi e con la letteratura critica, il lettore è di fatto chiamato a valutare quanto le interpretazioni storiografiche interpretino l’autore studiato e, quanto, parimenti interpretino la storia culturale degli stessi critici.
90 91
J. STAROBINSKI, op. cit., p. 194. Ivi, pp. 194-195.
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Sulla vita, il pensiero e l’opera di Rousseau si è via via costituita una grande biblioteca di studi, di saggi, di articoli, una molteplicità di ricerche la cui conoscenza non è sostituibile. Nell’archeologia del sapere gli strumenti bibliografici, dopo la lettura dei testi, sono fondamentali per ogni pratica di lettura esegetica e critica. Il lettore che abbia una qualche dimestichezza con la letteratura critica rousseauiana avrà senz’altro avuto l’impressione, nonostante la solidità dell’immagine suggerita dalla sicurezza e robustezza filologica delle edizioni e traduzioni e della fedeltà dei critici, che nel rapporto Rousseau-storiografia critica si sia più volte privilegiato il tempo dell’interprete, la sua epoca culturale, politica e ideologica, che piuttosto l’equilibrio – anche se precario – tra la partecipazione attiva dell’interprete e la speculare proiezione dell’œuvre rousseauiana sui codici ermeneutici sottesi alla sua genesi e al suo sviluppo: il testo, l’interprete e il loro cerchio92. 92
Con profonda criticità, Starobinski ha scritto – nella sua pagina ricca di suggestione e densità teorica che qui conviene riportare per intero – : «Non v’è nulla di più facile che plasmare il passato in modo da fargli prefigurare il nostro progetto o il nostro discorso. La scena dell’interpretazione […] è divenuta il modello dei discorsi che si fanno su di essa. Il pericolo è di aver foggiato un’eco compiacente, di aver fatto in modo che ciò che ci viene trasmesso è il nostro stesso discorso. Si è costituito un cerchio tautologico, ove circola uno stesso discorso, riverberato su se stesso, e sempre sicuro della propria autoconferma attraverso la chiave che gli offre il proprio oggetto. Un cerchio dunque, come è giocoforza riconoscere. Un cerchio in cui la nostra parola è principio e fine, ma non giunge alla propria fine se non dopo avere attraversato il proprio oggetto, il quale allora svolge funzione di griglia […]. Sembra legittimo che il discorso interpretativo sia prima di tutto indicativo in sé, che si ponga a sua volta e si affermi secondo il proprio stile, il proprio ordine e la propria possibilità, e che l’oggetto studiato gli dia adito di saggiare i propri poteri, le sue specifiche qualità – e che venga così alla luce il linguaggio della nostra cultura (o della nostra coscienza) nella sua particolarità storica e nella sua visione dell’universale. Certo, la parola esplicativa non chiude il proprio circuito così come lo ha iniziato: questa parola ha incontrato un ostacolo, una sfida, una provocazione, e se non si preoccupasse di ridurre un dato estraneo ai propri termini, se non avesse l’ambizione di saggiare la propria capacità di avere ragione di tutto ciò che le viene proposto, le sarebbe occorso fornire un lavoro, dispiegare un’energia assimilatrice; e questo oggetto altro, che essa ha costretto così a entrare nel filo di un discorso sempre uguale, sempre identico a sé, non scompare: l’oggetto analizzato viene assunto responsabilmente, non è soltanto un’illustrazione e un caso di applicazione di un metodo preesistente, ma diviene parte integrante del discorso della cultura, conferisce ai principi metodologici la possibilità di trasformarsi attraverso una pratica, sicché alla fine l’oggetto interpretato costituisce un elemento nuovo del discorso interpretante: non è più un enigma da decifrare e diviene a sua volta uno strumento di decifrazione […]. Tuttavia, il cerchio di una parola che si rinchiude sulla propria origine, che fa regna-
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La pratica interpretativa starobinskiana, originalmente esemplata sulla metodologia di «ascolto» del testo ed elaborata intorno alla pratica del regard critique93, ha segnato, nel campo degli studi rousseauiani, un punto di cesura nella storiografia filosofica contemporanea, proponendosi come uno dei nuovi paradigmi di lettura critica del testo e della scrittura di Rousseau. Dopo La transparence et l’obstacle di Starobinski94, l’œuvre rousseauiana, come «opera aperta», chiede ad un tempo, di essere letta tramite l’esegesi, la filologia e la storiografia filosofica, nella sua significanza attendi-
93 94
re l’ordine dello stesso, e assorbe nella sua universalità coerente tutto ciò che tocca, non basta a definire l’interpretazione […]. Il cerchio dall’oggetto all’oggetto si rivela importante anche per altri motivi che rimandano a talune verità prime che sarebbe errato trascurare. Sta di fatto che nelle discipline interpretative tutto comincia con la scelta di un oggetto, e che tale scelta non è mai l’effetto di un caso. L’oggetto si è segnalato alla nostra attenzione come cosa che “deve-essere-interpretata” e “merita-uno-studio”. Nessuno infatti si prende la briga di studiare ciò che considera trascurabile o insignificante: non si interpreta se non ciò che suscita un interesse, ciò che appare promettente e si offre contemporaneamente come già importante e non ancora sufficientemente chiarito. Per noi l’oggetto da interpretare si designa come portatore di senso: si designa su fondo storico a noi individui storici. È la storia dietro di me, in me, la storia sotto il nome di cultura o sotto il suo aspetto di urgenza attuale che mi fornisce un motivo per interessarmi di Rousseau, della sua rivolta e della sua scrittura. È la mia scelta presente, nella situazione presente, nella condizione a cui oggi sono sottoposto, è la mia scelta, […] che, eleggendo nuovi oggetti, o confermando nel loro valore significativo quelli segnalati dal giudizio delle generazioni, mi destina all’opera del sapere, mantenendo sotto il mio sguardo attuale gli avvenimenti, le persone e le opere, di tutte le epoche, e che non voglio abbandonare all’oblio: esse non hanno esaurito la loro riserva di senso possibile, e il dialogo con loro risulta ancora proficuo perché la loro comprensione più larga può darmi una ricchezza tutta attuale. L’interprete e i suoi interpretanda si fronteggiano quindi nel tempo storico. Occorre restituire alla sua storicità non soltanto il problema metodologico, non solo l’oggetto del nostro interesse, ma il nostro stesso interesse. Non spiaccia che il clima attuale richiami su questo punto la nostra attenzione costringendoci a giustificare le nostre scelte, a riesaminare la fondatezza, e a rinnovare, con cognizione di causa, la fiducia che nutriamo non solo verso i nostri metodi di lavoro, verso i nostri oggetti di studio, ma anche nel senso stesso dello studio» (J. STAROBINSKI, L’occhio vivente, tr. it., Einaudi, Torino 1975, pp. 266 sgg.). Cfr. ivi, in particolare i saggi Jean-Jacques Rousseau e il pericolo della riflessione, pp. 73-158 e Il senso della critica, pp. 201-273. Cfr. J. STAROBINSKI, J.–J. Rousseau. La transparence et l’obstacle suivi de sept essais sur Rousseau, Gallimard, Paris 1971. La tr. it. cit. del 1982 è priva dei sette saggi e contiene l’aggiunta del saggio Accusare e sedurre (1978). Su Starobinski, cfr. C. COLANGELO, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski, Quodlibet, Macerata 2001.
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bile come testo e, parimenti sempre come testo, chiede di essere significata dal lettore-interprete secondo la pratica della intertestualità: risulterebbe, infatti, difficile e imbarazzante oggi leggere Rousseau soltanto mediante veterani schemi storiografici che ne riducano e appiattiscano l’intera complessità testuale ora nelle esegesi di maniera, ora nelle storicizzazioni di rito. Questa considerazione, molto generale, serve a indicare quanto in realtà sia accaduto nella contemporaneità e per le opere di Rousseau e per i testi critico-interpretativi del suo pensiero. Ogni libro ha un suo peculiare destino tutto espresso e giocato nella circolare, ma discontinua, spirale di attualità e/o inattualità. Questa particolare condizione è ascrivibile tanto a quelle opere che hanno assunto e ricevuto lo statuto di «classiche», quanto a quelle di carattere critico-ermeneutico il cui oggetto principale è dato dal campo dell’interpretazione. I contesti storicosociali e i modelli ideologico-culturali costituiscono, prevalentemente, il banco di prova della «storia» di un testo, della sua «vita» e della sua «fine» nell’universo multimediale della comunicazione culturale. Così, non soltanto il «modello rousseauiano», come si è più volte visto, è stato fatto oggetto di molteplici «letture» e di pratiche strumentali, ma gli stessi approcci interpretativi hanno conosciuto una loro alterna vicenda storiografica e ideologica. Ora, nella sterminata letteratura rousseauiana, il libro fondamentale di Starobinski costituisce un paradigma di interpretazione storiografica della œuvre di Rousseau sia per il metodo che per i problemi e le stratificazioni culturali che esso propone al lettore. Non è nelle intenzioni né nell’economia di queste pagine discutere dettagliatamente i diversi transiti a cui conducono le tesi starobinskiane, alle quali si è, anzi, più volte fatto ricorso, durante la ricerca, per la comprensione di alcuni dei problemi rousseauiani, ma, ciò che qui preme sottolineare sono soprattutto le questioni di metodo, di stile e di scrittura che emergono dall’analisi di Starobinsky «lettore di Rousseau», quali spie indiziarie della ricerca teorica in corso. Ancora prima di Starobinski, la nuova critica rousseauiana aveva avanzato con la lettura esistenzialista di Burgelin – mirabile autore de La philosophie de l’existence de J.–J. Rousseau95 – l’esigenza problematica di «comprendre Rousseau par Rousseau»96. Però, Starobinski con La transparence et l’obstacle ha spostato in avanti il metodo di lettura di Rousseau: un «leggere Rousseau» e i suoi testi che, forte della ricostruzione esegetica, filologica ed ermeneutica, sapesse poi ritrovare le più profonde e autentiche 95 96
P.U.F., Paris 1952. Ivi, p. 13.
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intenzioni unitarie di Jean-Jacques; una «lettura», quella starobinskiana, che, come è stato felicemente osservato, «riconduce l’incipit filosofico di Rousseau dalla scienza alla vita, radicando al suo interno l’esperienza drammatica della percezione dell’impotenza del linguaggio a dire e a comunicare la verità»97. Nell’Avant-propos de La transparence et l’obstacle, Starobinski così descrive il metodo di lettura di Rousseau che egli ha praticato: Autant qu’il était possible, nous avons limité notre tâche à l’observation et à la description des structures qui appartiennent en propre au monde de Jean-Jacques Rousseau. A une critique contraignante, qui impose du dehors ses valeurs, son ordre, ses classifications préétablies, nous avons préféré une lecture qui s’efforce simplement de déceler l’ordre ou le désordre interne des textes qu’elle interroge, les symboles et les idées selon lesquels la pensée de l’écrivain s’organise98.
Volendo dichiaratamente esplicitare l’intenzione storicizzante del suo metodo di leggere Rousseau, metodo tutto esemplato nella ricerca delle strutture oggettive e intersoggettive della coscienza di Jean-Jacques e ruotante attorno alla bipolare metafora della transparence e dell’obstacle e, di fronte al difficile rapporto che il testo rousseauiano intrattiene tra tempo storico e temporalità sua interna, il critico ginevrino ha voluto sottolineare che: Cette étude, néanmoins, est davantage qu’une “analyse intérieure”. Car il est évident qu’on ne peut interpréter l’œuvre de Rousseau sans tenir compte du monde auquel elle s’oppose. C’est par le conflit avec une société inacceptable que l’expérience intime acquiert sa fonction privilégiée. On verra même que le domaine propre de la vie intérieure ne se délimite que par l’échec de toute relation satisfaisante avec la réalité externe. Rousseau désire la communication et la transparence des cœurs; mais il est frustré dans son attente, et, choisissant la voie contraire, il accepte – et suscite – l’obstacle, qui lui permet de se replier dans la résignation passive et dans la certitude de son innocence99.
Queste dichiarazioni di metodo sussumono la complessa strategia d’indagine storiografica che Starobinski ha ampiamente esperito nei suoi numerosi studi rousseauiani, strategia che non ha mancato certo di influenza97 98 99
D. TARANTO, Alla ricerca della trasparenza perduta. Il Rousseau di Starobinski, in «Critica marxista», n. 1, 1983, p. 184. Avant-propos, in J. STAROBINSKI, J.-J. Rousseau. La transparence et l’obstacle, cit., pp. 9-10. Ivi, p. 10.
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re, agli esordi degli anni Settanta, la critica storiografica europea e italiana. Qui, prendendo come spunto l’indagine storiografica condotta da Starobinski, non intendo discuterne la sua architettura e validità, giacché le molteplici letture di Rousseau hanno spinto continuamente verso una sorta di «insolubile idolatria del metodo» di volta in volta dominante, ma leggerne la testualità, la sua interna storicità e la criticità problematica, tutte relative all’universo dell’œuvre rousseauiana. Pur operando dentro la storiografia filosofica, Starobinski ha letto Rousseau secondo un proprio e originale progetto teorico, storico e culturale tutto agito dalla sua particolare metodologia del regard critique100, di ascolto del testo rousseauiano e della produzione della «differenza» che da esso emerge nelle pieghe profonde della dialettica della negazione fra transparence e obstacle. Com’è noto, la pratica interpretativa e la metodologia starobinskiane hanno conosciuto una loro storia ed evoluzione, ecco perché, oggi, La transparence et l’obstacle presenta, oltre allo statuto di paradigma di lettura storiografica di Rousseau, anche taluni intrinseci limiti in quanto, poiché datato, non tiene seguito alle più recenti acquisizioni delle recherches rousseauistes sull’illuminismo, sull’autobiografia come genere letterario e filosofico, sulla crisi della Kultur e del soggetto occidentali, sugli sviluppi della problematica del linguaggio, della comunicazione e della scrittura, sulle strutture retorico-argomentative del discorso filosofico, sul significato politico del contrattualismo, sulla struttura materiale, quotidiana e culturale della società nell’epoca dei Lumi. Naturalmente tutto ciò non sminuisce il significato e la portata della lettura starobinskiana di Rousseau quale «modello» storiografico di analisi «interna» del testo filosofico e delle antinomie vitali del Ginevrino. Nella lettura starobinskiana di Rousseau, come per ogni lettura, vi sono omissioni inevitabili, dettate da interessi ideologici e scelte retoriche diverse; differenti sottolineature e strategie critiche, differenti modalità di articolazione del discorso storiografico che giocano sulle ambiguità e pluralità della scrittura e del testo di Rousseau. Per lungo tempo, per mezzo di Rousseau si sono cercate risposte, si sono rilanciate domande e disegnati progetti, come è avvenuto per Marx,
100 «Il critico – scrive Starobinski – è colui che, pur consentendo alla fascinazione impostagli dal testo, intende tuttavia conservare diritto di sguardo. Egli desidera penetrare ancora più lontano: al di là del senso manifesto che gli si discopre, egli intuisce un significato latente. Una vigilanza supplementare gli diviene necessaria, a partire dalla prima “lettura a vista” per andare incontro a un senso secondo» (J. STAROBINSKI, L’occhio vivente, cit., p. 17).
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Nietzsche e Freud. Ma, a differenza di Marx, Nietzsche e Freud, la discontinua emergenza di un sistema filosofico in Rousseau e l’uso della sua scrittura, che in modo metaforico tentò di superare il «discorso classico» e aprire nuovi transiti per la ragione discorsiva dell’essere umano post-cartesiano, hanno fatto sì che ogni tentativo critico di interpretazione non potesse che radicalizzare uno dei molteplici e plurivoci aspetti che costituiscono l’œuvre filosofica di Rousseau. La lettura di Starobinski, che qui viene considerata come cifra significativa di un modello storiografico, ha aperto una nuova stagione di sperimentazione critico-ermeneutica in quanto consapevole di «aver saputo leggere un Rousseau rigorosamente storicizzato a partire dal ritmo e dalla struttura di se medesimo: un Rousseau che non esce dalle coordinate del suo “mondo”, che non rompe le frontiere del tempo, che non ripete il già-detto né predice il non-ancora-detto e che al tempo stesso resta solo, altro, diverso»101. In ciò risiedono la storicità, la criticità e la politicità di questa strategia interpretativa che ha saputo leggere e decifrare «le ragioni dell’insularità rousseauiana senza proporcela come modello per il presente e per l’assoluto»102. Per questi e altri motivi, la lettura starobinskiana di Rousseau, punto di riferimento per gli studi rousseauiani, si presenta, come è stato sottolineato, ancora «originale e non banalmente attuale». Poiché, «originale è l’impianto critico, perché l’autore evita di rinchiudersi settorialmente nei criteri interpretativi offerti dal marxismo, dalla fenomenologia, dalla psicoanalisi, dall’esistenzialismo, scegliendo di ricostruire il disegno e l’ossessione dell’autenticità di Jean-Jacques attraverso le parole di Rousseau, quasi ponendo la propria scrittura al servizio di Jean-Jacques Rousseau per consentirgli di raccontare, finalmente, tutta la ricchezza della ricerca di una sintesi morale, ma in modo che l’ambivalenza passionale di fondo non dilegui. Non è banalmente attuale, perché il tema della legittimità della riappropriazione di sé vi è presentato in modo da non eludere le antinomie della coscienza filosofica, quando mira a ricomporre le possibilità reali di una trasformazione delle norme e delle istituzioni politiche»103. Pertanto, dopo La transparence et l’obstacle di Starobinski, leggere Rousseau, è stato fatto notare, «vuol dire dunque innanzitutto decidere di accettare questa sua scelta di essere “testo” e spettacolo di sé nella com101 Cfr. B. ANGLANI, Starobinski/Rousseau, ovvero della trasparenza, in «Lavoro critico», n. 27, 1982, p. 137. 102 Ivi, p. 138. 103 R. ALBERTINI, Presentazione a J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., p. 5.
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plessità delle proprie articolazioni, nella frantumata interezza dell’io; accettare la specificità, la duplicità, la figuralità della sua solitudine storica e individuale»104. Rousseau, come hanno più volte sottolineato i suoi grandi interpreti, è fra quei pensatori la cui lettura storiografica rimanda ad un difficile lavoro ermeneutico dove l’interpretazione del testo rimane pur sempre complemento all’œuvre: al lettore-interprete di Rousseau resta, di fatto, il difficile compito di stabilire se il ritratto che ha via via compiuto è costrittivo oppure se restituisce esemplarmente l’intenzionalità umana e filosofica dell’autore del Contratto sociale e delle Confessioni. Allo storico della filosofia, dopo la lettura dell’œuvre di Rousseau, spetta però, anche, il compito di analizzare, nel quadro di una più generale teoria ermeneutica dell’interpretazione, le componenti riflessive delle interpretazioni rousseauiane. Il lettore-interprete, nel lavoro storiografico, ha davanti a sé la bibliografia rousseauiana che direttamente e/o indirettamente lo coinvolge nel campo dell’interpretazione: egli deve poter risolvere il problema della bibliografia non come funzione dell’interpretazione ma come fattore dell’interpretazione. Ha scritto Walter Benjamin: «Certamente la bibliografia non è la parte spirituale di una scienza. Però svolge una funzione centrale nella sua fisiologia, non è il sistema nervoso, ma è il sistema dei suoi vasi. La scienza è cresciuta con la bibliografia, e un giorno si vedrà persino che la sua crisi è in buona parte di carattere bibliografico»105. Anche il pensiero di Rousseau è stretto nel fitto reticolo di un simile sistema di vasi! Tentare di compiere un bilancio, sia pure sintetico, degli studi e delle ricerche contemporanee sul pensiero di Rousseau è senza dubbio impresa affascinante ma oltremodo difficile da poter, comunque, realizzare con esiti storiografici soddisfacenti sia per l’interprete che per il lettore. Il carattere appassionante risiede senz’altro nella ricchezza emergente delle diverse «letture» di Rousseau avanzate dagli anni ’70 del Novecento a oggi, una molteplicità di approcci metodologici e storiografici che hanno contribuito a leggere Rousseau anche sotto nuovi e inesplorati aspetti della sua œuvre e del suo pensiero. La difficoltà, invece, affonda le sue radici nel problema sollevato dal rapporto tra Rousseau/scrittore e Rousseau/pensatore sul quale si è abbondantemente soffermata la storiografia recente e meno recente.
104 B. ANGLANI, op. cit., p. 139. 105 W. BENJAMIN, Critiche e recensioni, tr. it., Einaudi, Torino 1979, p. 71.
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Nel suo peculiare processo di oggettivazione storica, l’œuvre di Rousseau ha continuato a registrare una notevole produzione di ricerche e di studi che pone al ricercatore non pochi problemi quantitativi e qualitativi nella sistemazione bibliografica. Da un punto di vista sociologico, cioè sul piano della sociologia della produzione culturale, qui, la legge dei numeri non testimonia soltanto un trend quantitativo di crescita, ma dimostra il sempre costante interesse contemporaneo per l’œuvre di Rousseau. Nel campo della produzione culturale si assiste a una vera e propria riproduzione allargata degli studi rousseauiani sollecitata ampiamente dall’industria culturale. La difficoltà è poi ampiamente accresciuta anche dalla mondializzazione linguistica degli studi rousseauiani che ne rende oltremodo difficile qualsivoglia rassegna critica esaustiva. In questa sterminata produzione occorre pertanto compiere un lavoro di selezione storiografica, scegliere nel campo della letteratura la contemporaneità, restringendone i confini nel tempo e circoscriverne le aree culturali più direttamente agite dai miei interessi storiografici. Logocentrismo eurocentrico? No, necessità contingente ma motivata. Il motivo è rintracciabile, metodologicamente, se, partendo dall’œuvre e dal pensiero di Rousseau, si arriva, attraverso la ricerca storiografica, alla estrapolazione di alcuni dei principali problemi rousseauiani: l’uomo, la natura, la storia, il progresso, la civiltà, l’alienazione, la filosofia, la teoria politica, il pensiero utopico, la società, la personalità umana, il linguaggio, la scrittura, l’immaginazione, il male, le scienze dell’uomo, la religione, la morale, la solitudine, la comunità, etc. I problemi rousseauiani sono complessi, attuali e inattuali ad un tempo, ma pur sempre e da sempre appassionanti. Procedendo per nuclei problematici è forse possibile al lettore (e all’interprete) contemporaneo districarsi nelle maglie di quel complesso reticolo costituito dalla vita, dal pensiero e dall’œuvre di Rousseau e iniziare l’avventuroso e pericoloso viaggio attraverso i più disparati itinerari storiografici che di quel pensiero-vissuto hanno fatto motivo delle loro ricerche. Ogni scelta comporta sempre e comunque una determinata alternativa con al suo interno i propri confini, i propri limiti residuali e i propri (problematici) risultati. Quella (qui) seguita potrà sembrare schematica e riduttiva, ma mi consentirà, tuttavia, di avviare una lettura di Rousseau, del problema-Rousseau, dei problemi rousseauiani e del dopo-Rousseau come problema. Modelli di lettura. Il tempo delle ortodossie sembra quasi finito completamente. La contemporaneità nella quale oggi viviamo e abitiamo, la società mondiale, è l’epoca delle eresie eclettiche (Baczko). Comunque volgendo lo sguardo al passato recente, alle recherches rousseauistes, possiamo individuare alcuni principali modelli di lettura del pensiero di Rousseau,
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orientamenti che, pur con una certa forzatura terminologica, si possono definire come «kantiano», «hegeliano», «marxista», «liberale», «freudiano», «fenomenologico», «esistenzialista» e «strutturalista». Modelli di lettura che, influenzandosi reciprocamente, hanno come referenti il pensiero di Kant, Hegel, Marx, Tocqueville, Freud, Husserl e Lévi-Strauss: modelli euristici ed ermeneutici di interpretazione e comprensione dei testi e dell’œuvre di Rousseau – modelli che permettono pur sempre una lettura «rousseauiana» di Rousseau (Althusser). La stragrande maggioranza dei grandi interpreti contemporanei di Rousseau, dagli anni Sessanta ad oggi, si è ampiamente ispirata a tali modelli teorici nel leggere Rousseau: è sufficiente leggere i loro studi e le loro ricerche per rendersene conto. L’esegesi e la filologia sono state ampiamente rispettate, ma l’ideologia storiografica ha svolto il ruolo di protagonista! Tra i modelli di lettura che più hanno influenzato gli orientamenti storiografici recenti, quello «marxista», quello «liberale», quello «freudiano» e quello «strutturalista» occupano senz’altro un posto di primo piano e sul quale si sono poi innestati i restanti. Del modello starobinskiano, che rappresenta un’originale «sintesi» di diverse strategie critico-storiografiche, si è già detto. Il modello «marxista», che si rifà alla lettura marxiana del pensiero politico di Rousseau (una lettura storica e critica di Marx del Contratto sociale), si organizza intorno a due prevalenti «letture» di Rousseau: una dichiaratamente «ortodossa», ispirata ai canoni del materialismo storico-dialettico e tutta tesa a rintracciare i caratteri sociali, ideologici e di classe del pensiero politico rousseauiano; l’altra più apertamente «eretica», rivolta allo specifico filosofico e teoretico del pensiero di Rousseau, una lettura meno rigida e deterministica di quella «ortodossa» ma più dialettica – perché influenzata dalle interpretazioni kantiane e hegeliane – e più sollecita a cogliere le contraddizioni, le novità e le antinomie dell’autore del Contratto sociale. Com’è noto, la lettura «marxista» di Rousseau ha incontrato il favore di molti interpreti e ha contribuito non soltanto a problematizzare criticamente la teoria, l’ideologia e l’utopia del Rousseau-politico, ma ha anche sollevato un vasto dibattito sull’evoluzione e la «crisi» del marxismo occidentale contemporaneo, del marxismo come teoria, ideologia e come prassi sociale. Il modello «liberale» ha inteso interpretare il pensiero politico-sociale di Rousseau utilizzando categorie culturali effettivamente altre da quelle che il tempo-di-Rousseau sollecita, riducendo così la complessa e ricca versatilità del pensiero politico di Rousseau nella coppia opposizionale di pensiero «totalitario» e/o «antitotalitario». Un modello di lettura quello «liberale» che pur trovando molti suoi adepti, soprattutto nel campo della storiografia anglosassone e americana, ha di fatto offerto una caricaturale
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interpretazione del filosofo ginevrino quale precursore dei miti carismatici e degli autoritarismi contemporanei. Le suggestioni critiche che senz’altro più delle altre hanno notevolmente rinnovato la storiografia filosofica nel campo degli studi rousseauiani provengono dai modelli di lettura «freudiano» e «strutturalista» a partire dai quali e/o reagendo agli stessi si misurano attualmente gli studi successivi. Il modello «freudiano», anche se Freud non ha direttamente e intensivamente agito sul pensiero e sul testo rousseauiani, ha fatto proprie le principali acquisizioni ermeneutiche della psicoanalisi e della pratica freudiana «applicandole» al vissuto, al pensato e allo scritto di Jean-Jacques e di Rousseau. La storiografia di orientamento psicanalitico – da Freud a Lacan – ha praticamente «analizzato» la personalità, la scrittura e l’œuvre di JeanJacques Rousseau. Anche questo modello di lettura presenta i suoi impliciti ed espliciti limiti che, nel fare di Rousseau un «caso clinico», si scontrano proprio con la non riducibile né scomponibile complessità della vita e dell’œuvre di Rousseau, ma ha anche sortito i suoi più positivi e fertili risultati indicando quanto centrali e cruciali siano nella filosofia rousseauiana i rapporti che di volta in volta si vengono a stabilire tra natura, storia, violenza, vita, sentimento, passione, desiderio, ragione, immaginazione e realtà e che specularmente riflettono i ben noti problemi rousseauiani. Il modello «strutturalista» che ha come referente teorico il pensiero antropologico e simbolico di Claude Lévi-Strauss, ma che ha trovato poi in Jacques Derrida (v. infra) il suo epigono critico, è tra gli svariati modelli di cui si è fatto cenno, a giudizio di molti, uno tra i modelli (insieme alla lettura starobinskiana) senz’altro più problematico e senza dubbio più stimolante di interpretazione del pensiero e della scrittura del Ginevrino. Questo modello di lettura, tramite i suoi propugnatori, rivendica a Rousseau la paternità di fondatore delle moderne sciences humaines e di protagonista nel campo della trasformazione dei «generi», degli «specialismi» e della «semantica» del sapere moderno. Nodo strategico di questo protagonismo rousseauiano sarebbe l’originale rapporto che si stabilisce tra filosofia, linguaggio e scrittura nella vita, nel pensiero e nell’opera di Rousseau. L’Essai sur l’origine des langues106 è l’inquietante testo su cui maggiormente, oltre alle opere «auto-
106 Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Essai sur l’origine des langues, testo stabilito e annotato da J. Starobinski, in J.-J. ROUSSEAU, Œuvres complètes, cit., vol. V. Per le traduzioni italiane, cfr. A. VERRI, Origine delle lingue e civiltà in Rousseau, Longo, Ravenna 1970, 2a ed. 1982 e J.-J. ROUSSEAU, Saggio sull’origine delle lingue, a c. d. P. Bora, Einaudi, Torino 1989. Sulla linguistica rousseauiana, tra l’altro, cfr. J. DERRIDA, La linguistique de Rousseau, in «Revue internationale de philosophie», 21, n. 4,
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biografiche», si concentra la lettura di questo modello storiografico e dal quale continuano a provenire suggestive proposte interpretative107. Perché l’Essai? Perché nell’Essai Rousseau ha proposto una sua personale teoria del linguaggio la cui complessità e il cui significato (consustanziali a quelli del Discorso sull’ineguaglianza, con cui Rousseau perviene alla fondazione critica di una nuova e radicale antropologia della prima epoca moderna) lo protendono problematicamente nel nostro tempo, un’epoca (che non è più la sua), quella contemporanea, in cui i problemi del linguaggio e della comunicazione sono largamente avvertiti come problemi centrali di senso e di significato nel destino della ragione e della libertà: dai problemi-di-Rousseau al dopo-Rousseau-come-problema. Ho già fatto notare come la continua e discreta accelerazione subìta nella storiografia critica dal trend di crescita e di produzione della bibliografia specifica su Rousseau ha senz’altro prodotto i suoi effetti di ridondanza sulla «lettura» del suo pensiero. La critica rousseauiana recente non si può dire che abbia deluso le aspettative, anzi ha senz’altro illuminato, analizzato e pensato-oltre il testo rousseauiano in molte delle sue implicanze. Naturalmente la pratica del saggismo critico ha operato numerosi interventi sul corpus dell’œuvre e del pensiero di Rousseau, operazioni che, in taluni casi, hanno anche rischiato di neutralizzare la scrittura rousseauiana e tutto il suo ricco potenziale filosofico e semantico. Il saggismo critico della storiografia rousseauiana, nel tentativo difficile di mediare e coniugare l’incidenza dell’autore-Rousseau con il momento storico-culturale contemporaneo, ha manifestato, talvolta, una evidente sindrome di «patologia citatologica», riducendo il vissuto, il pensato e lo scritto di Jean-Jacques Rousseau ad una sorta di «macchina per citazioni». Il «corpo glorioso della scrittura» (Clément) rousseauiana non è certamente stato risparmiato dallo smembramento citazionale! Tra lo scrittoreRousseau e il (suo) lettore non si è interposto soltanto il testo (e il discor1967, pp. 443-462. J. STAROBINSKI, L’inclinaison de l’axe du globe, in J.-J. ROUSSEAU, Essai sur l’origine des langues, Folio Essais, Paris 1998, pp. 165-189. 107 L’Essai sur l’origine des langues è un’opera che non è soltanto una suggestiva riflessione sull’origine delle lingue, del linguaggio, della scrittura, della musica e sulla evoluzione della civiltà, ma anche un interessante laboratorio di pratiche teoriche inerenti la comunicazione interindividuale e lo statuto pragmalinguistico della scrittura come supplemento e medium del linguaggio. Nell’Essai rousseauiano è forse possibile, dopo Rousseau, rinvenire, allo statu nascendi, una delle prime e originali teorie moderne sull’evoluzione sociale (cfr. R.L. MEEK, Social Science and the Ignoble Savage, Cambridge University Press, Cambridge 1976, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 57 e sgg.).
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so-testuale) della scrittura-lettura, ma si è affacciato prepotentemente il segno della citazione. Così il saggismo critico-storiografico, nel «leggereRousseau», ha più volte cercato di «ri-trascrivere» il pensiero del Ginevrino ostinandosi nel processo problematico di «citare» la sua scrittura. Questo processo, ora brevemente descritto, ha i suoi referenti disciplinari nel campo dei diversi «specialismi» della produzione culturale i quali hanno cercato di cucire, in un tessuto variegato, i vari tratti del pensiero di Rousseau: dalla filosofia alla politica, dall’antropologia alle scienze dell’uomo, etc. Naturalmente, nel campo dell’attività storiografica, queste nuove metodiche, oltre ad alcuni limiti oggettivi, hanno però fatto registrare alcune funzioni innovative nell’area degli studi rousseauiani, soprattutto per quanto concerne i metodi di lavoro storiografico e gli apparati categoriali adoprati, provocando, così, nei confronti della tradizione, la consunzione di veterani paradigmi storiografici, esegetici, ermeneutici e critici. Il «pericoloso supplemento» della scrittura ha coinvolto lo stesso saggismo critico il quale ha letto Rousseau in una continua e mai sopita tensione metaforica, cercando con gli occhiali della teoria storiografica di cogliere il nostro tempo storico nello specchio di Jean-Jacques Rousseau: di dire-di-Rousseau attraverso una lingua-scrittura che egli non aveva affatto o non aveva ancora. Nel variegato e complesso multiversum della cultura storiografica, «l’inquiétante étrangeté» della scrittura rousseauiana, nella sua insistente incidenza, rimane ancora un problema. Qui si dà un passaggio problematico cruciale, un interrogativo a cui non ci si può facilmente sottrarre: che rapporto sussiste, quale relazione simpatetica si stabilisce tra il progetto di pensare il proprio tempo storico e la lettura della scrittura rousseauiana? Come avremo modo di notare, una possibile risposta a tale interrogativo – che non ipostatizza alcun rapporto deterministico ma che si propone come problema ermeneutico e critico – risiede nello stile della scrittura rousseauiana, nella sua prorompente e vibrante tensione teorica, ontologica ed etica, nelle sue irresolubili antinomie filosofiche: uno stile che è cifra e traccia della complessità reale della soggettività moderna. Se la scrittura rousseauiana si presta ad una plurivocità di letture, da quelle esegetico-filologiche a quelle storico-filosofiche e sociologico-culturali, non meno utile risulterà quella lettura che tenti di avventurarsi nel suo labirintico tessuto metaforico-concettuale (la sua struttura retorico-argomentativa), tutta organata attorno ad alcuni nodi problematici centrali (le coppie opposizionali della vita, del pensiero e dell’œuvre di Rousseau).
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Questo modello di lettura108, che sarà sperimentato sul rapporto filosofia/linguaggio/scrittura, tenterà di cogliere alcuni di quei problemi rousseauiani in cui si raggiungono livelli di massima concentrazione filosofica. Modello di lettura che, nella sua parzialità, costituisce un’ipotesi di lavoro teorico, una pratica possibilità storiografica di sperimentazione critico-ermeneutica. Sappiamo. C’è un Rousseau errante, che a causa delle sue vicende personali viaggia alla ricerca delle condizioni più propizie per vivere la propria individuale esistenza. Sarebbe appena necessario ricordare i luoghi in cui Jean-Jacques pensò e scrisse le sue opere principali: spazi privati, ambientali e sociali che connotano pervasivamente l’andamento tutto peculiare della sua scrittura. Nella dimensione errante non si iscrive soltanto la propria e individuale esperienza personale di Rousseau, ma prende corpo, nel labirinto della scrittura, il viaggio «pericoloso», solitario e immaginario della riflessione (Starobinski) che pervade l’intera sua œuvre. C’è infine, in questa dimensione, il viaggio che, dopo-Rousseau, è stato fatto compiere al suo pensiero attraverso una continua riappropriazione e riscrittura del senso e del significato dei suoi testi. Si può giungere a Rousseau, ma anche dipartirsi da lui, praticando sentieri inediti, nascosti, non segnati nelle grandi mappe del sapere filosofico: senz’altro queste sono le vie più impervie e difficili da percorrere, ma sono anche quelle, talvolta, più proficue e fruttuose, allorquando si tratta di abbandonare al suo destino ogni formula storiografica e critica che abbia la presunzione di essere l’ultima e definitiva. Il pericolo insidioso delle «cattive letture» risiede nella semplificazione velleitaria che presume di consegnare l’essenza del pensiero rousseauiano alla fissità di un paradigma teorico-critico capace di esorcizzarne le contraddizioni vitali e/o teoretiche, quando, invece, l’autenticità del pensiero vissuto di Jean-Jacques si misura proprio sulla sua capacità di essere co108 Cfr. R. J. ELLRICH, Rousseau and his reader: The rhetorical situation of the major works, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1969. P. DE MAN, Rhétorique de la cécité: Derrida lecteur de Rousseau, in «Poétique», I, 1970, pp. 455475 (tr. it., in ID., Cecità e visione. Linguaggio letterario e critica contemporanea, Liguori, Napoli 1976, pp. 127-177) e ID., Theory of Metaphor in Rousseau’s Second Discourse, in «Studies in Romanticism», n. 2, 1973, pp. 475-98. J. TERRASSE, Rhétorique de l’essai littéraire, Les presses de l’université du Québec, Montréal, Canada 1977. F. ORLANDO, Illuminismo e retorica freudiana, Einaudi, Torino 1982. E. BLOOMBERG, Rhétoriques et apologétique chez Rousseau, in «Orbis Litterarum», n. 4, 1982, pp. 269-280. J.-P. HUGOT, Rhétorique et argumentation. J.– J. Rousseau: Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, in «L’École des Lettres», 15 octobre 1982, pp. 27-32.
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scienza (infelice) attiva delle contraddizioni del reale e, quindi, elemento propulsore della sua possibile trasformazione. Come si è acquisito storiograficamente, l’autoriflessione linguistica, cioè, la coappartenenza essenziale di linguaggio e pensiero, di essere e significato, costituisce uno dei fondamentali problemi rousseauiani, uno di quei sentieri nascosti ricco di suggestioni ermeneutiche. Il senso della scrittura rousseauiana si pone, così, progettualmente come destinata a oltrepassare l’ostacolo e la frattura tra verità, apparenza e menzogna e fra teoria, filosofia e letteratura, dimostrando, nel suo stesso farsi, come ogni filosofia sia (anche) una scrittura che nella propria peculiare pratica produce i suoi oggetti, determinandoli e conoscendoli. L’itinerario della scrittura rousseauiana è eccentrico rispetto ai percorsi del «logocentrismo» filosofico classico (Derrida) in quanto si insinua negli interstizi del reale, nelle pieghe dell’immaginario, nelle metafore vissute, nella semantica dei tempi storici e nei campi di un sapere-pensare il cui asse fondamentale non è più esclusivamente il cogito cartesiano, l’io-pensante e parlante, ma si configura come linguaggio dal quale anche quell’io è parlato e scritto. Pertanto, è muovendo da questa latitudine critica che si costituisce lo stile della filosofia rousseauiana e che può, a sua volta, essere letta ermeneuticamente e storiograficamente come scrittura filosofica sperimentale e della quale è poi, post-festum, possibile riconoscere quel che di attuale e/o inattuale c’è di consustanziale al mondo contemporaneo, un mondo abitato da una pluralità di linguaggi, della loro violenza, della loro «crisi» e della loro progettualità: una filosofia come scrittura, ecco un aspetto decisivo della incidenza di Rousseau nella modernità. Lire Rousseau On n’en a jamais fini avec lui: il faut toujours s’y reprendre à neuf, se réorienter ou se désorienter, oublier les formules et les images qui nous le rendaient familier et nous donnaient la rassurante conviction de l’avoir défini une fois pour toutes. Chaque génération découvre un nouveau Rousseau, en qui elle trouve l’exemple de ce qu’elle veut être, ou de ce qu’elle refuse passionnément. Jean Starobinski
Le continue edizioni e le ristampe dell’œuvre di Rousseau e la ricerca storiografica più attenta e scrupolosa, problematizzante, restituiscono, oggi, al lettore contemporaneo, un’immagine più ricca e completa della complessa
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vita umana e intellettuale dell’autore del Contratto sociale. Nel leggere e interpretare Rousseau non si può non avvertire però – come si è visto – il peso della sconfinata e sterminata letteratura109 che gravita attorno alla vita, all’opera e al pensiero del filosofo. Il critico, lo storico della filosofia e il lettore interpreti sono avvertiti, devono badare nel non cadere vittime di interpretazioni riduttive perpetrate da tempo nei confronti di Rousseau. Il pensiero di Rousseau continua ad essere riattivato da molteplici letture esegetiche e critiche che tendono a ritrascrivere il discorso rousseauiano nell’ambito delle pratiche del sapere filosofico moderno da un lato e, dall’altro, altre trascrizioni tendono molto più audacemente a reinscriverlo in campi di sapere differenti e altri rispetto a quello più decisamente filosofico. La scrittura di Jean-Jacques, che Rousseau originalmente organizza lungo il dispositivo del «supplemento» e nel reciproco rapporto di teoria, critica e pratica scritturale – nel suo peculiare intreccio di modernità, genialità e ambiguità110 – subisce, così, storicamente, numerose riscritture da parte degli interpreti: una continua «piallatura» del suo discorso tradotto (periodicamente) nei vari «specialismi» disciplinari. Dopo Marx e Freud e, poi, attraverso Starobinski, Althusser, Derrida, Barthes e Foucault111, è noto che la lettura di un testo è anche interpretazione, significazione112. Leggere Rousseau è, così, non più e non soltanto un 109 Tra i fondamentali strumenti bibliografici, cfr. «Annales de la Société J.–J. Rousseau», Ginevra, 1950 sgg. J. SÉNELIER, Bibliographie générale des œuvres de J.–J. Rousseau, P.U.F., Paris 1950. A. CIORANESCU, Bibliographie de littérature française du XVIIIe siècle, Ed. du C.N.R.S., t. III, Paris 1969. A. SCHINZ, État présent des travaux sur J.-J. Rousseau, Kraus, New York 1971. R. TROUSSON, Rousseau et sa fortune littéraire, Ducros, Bordeaux 1971, 2a ed., Paris 1977. 110 Cfr. J.–J. LECERCLE, J.–J. Rousseau, modernité d’un classique, cit., cap. 4, Modernité de l’écriture, pp. 181-233 e M. EIGELDINGER, J.-J. Rousseau. Univers mythique et cohérence, cit., cap I, L’ambiguité de l’écriture, pp. 29-47. 111 Cfr. J. STAROBINKI, J.-J. Rousseau. La transparence et l’obstacle, cit. e L’œil vivant, cit. L. ALTHUSSER, Sur le «Contrat social», in «Cahiers pour l’Analyse», n. 8, 1966, pp. 5-42. J. DERRIDA, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967 (tr. it., Jaca Book, Milano 1969). R. BARTHES, Critique et vérité, Seuil, Paris 1966 (tr. it., Einaudi, Torino 1969). M. FOUCAULT, Le mots et les choses, Gallimard, Paris 1966 (tr. it., Rizzoli, Milano 1967). 112 La realizzazione del testo, cioè la sua interpretazione e significazione, resta pur sempre una continua datità, una possibilità aperta. Come ha scritto Cesare Segre: «Il testo resta materia scrittoria attraversata da righe di scrittura, inerti sinché non vengono lette. Il testo prende a significare, e a comunicare, solo per l’intervento del lettore. Significazione differita. Intersoggettività a distanza. Ogni volta, v’è una soggettività che assume, o comunica a sua volta ad altre soggettività, il messaggio. Allora la materialità del testo, proprio nella sua “insignificanza” di prima,
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invito e una sollecitazione, un itinerario suggestivo attraverso «le mythe du moi» rousseauiano, ma anche una deliberata messa in questione del «problema Rousseau». Come ha scritto efficacemente Raffaele Vitiello: «Le “nuove” letture di Rousseau, improntate all’esistenzialismo o al marxismo, alla psicoanalisi o alle scienze sociali, di interpreti “laici” o “cattolici”, hanno riproposto tutte, pur se in vario modo, un Rousseau come dilemma. Hanno tentato cioè, traducendola nei termini della cultura contemporanea, di definire l’ambiguità di fondo, il “dualismo spontaneo” (l’espressione è di H. Gouhier), che sembra caratterizzare quella esperienza»113. La lettura della materialità del testo e della scrittura, quale emerge con forza dal discorso rousseauiano, dispiega una pluralità di esperienze. La lettura dilata il campo del testo, fa emergere, a livello sintomale e circolare114, una pluralità di sensi, impliciti e/o espliciti, produce punti di connessioe dopo, la lettura, è l’ancoraggio più sicuro perché le distorsioni soggettive non seguano una linea di fuga; e le cure poste per garantire la conservazione del testo, o per recuperarne la dizione quando offuscata dall’usura del tempo, sono tentativi di difesa contro la prepotenza del soggettivo. Ma l’alternativa è ferrea: l’oggettività è possibile solo in assenza di lettura, perciò di significazione; la lettura coinvolge una qualunque misura di soggettività. Solo all’interno di questa soggettività è possibile proporsi la massima aderenza dell’interpretazione, grazie al dominio dei codici utilizzati nel testo; le ripetute letture a cui esso è disponibile permettono di fronteggiare (non eliminare) errori e travisamenti» (C. SEGRE, Testo, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1981, vol. 14, p. 272). 113 R. VITIELLO, Rousseau e l’alienazione, cit., p. 11. 114 La necessità di una lettura «circolare» degli scritti rousseauiani, in cui la lettura specifica di ogni testo può, di rimando, condurre a un potenziale arricchimento degli altri, è stata avanzata da P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, Seuil, Paris 1975, pp. 49-163 (tr. it. Il patto autobiografico, il Mulino, Bologna 1986). Sul problema dell’autobiografia rousseauiana, cfr. inoltre N. BONHÔTE, J.-J. Rousseau. Vision de l’histoire et autobiographie, L’Age d’Homme, Lausanne 1992; S.K. JACKSON, Rousseau’s Occasional Autobiographies, Ohio State UP, Columbus 1992. B. ANGLANI, Le maschere dell’io, cit. G. YANG, Jean-Jacques Rousseau, la part autobiographique de l’œuvre. Un exercise de style, L’Harmattan, Paris 2007. Sulle metamorfosi ontologiche dell’autobiografia in Rousseau, cfr. M. EIGELDINGER, op. cit., cap. VII e IX. Sui problemi della letteratura autobiografica, cfr. tra gli altri il n.s. L’Autobiographie della «Revue d’histoire de la France», nov.-dic. 1975. G. MAY, L’Autobiographie, P.U.F., Paris 1979. AA.VV., L’autobiografia, in «Quaderni di retorica e poetica», n. 1, 1986; G. GUSDORF, La découverte de soi, P.U.F., Paris 1948. ID., Lignes de vie 1. Les écritures du moi, Ed. Jacob, Paris 1990. ID., Lignes de vie 2. Auto-biographie, Ed. Jacob, Paris 1991. B. ANGLANI (a c. d.), Teorie moderne dell’autobiografia, Edizioni B.A. Graphis, Bari 1996. D. DEMETRIO, Raccontarsi, Raffaello Cortina, Milano 1996. P. LEJEUNE, Pour l’autobiographie, Gallimard, Paris 1998. F. D’INTINO, L’autobiografia moderna, Bulzoni, Roma 1999. F. CAMBI, L’autobiogra-
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ne, di incontro e/o di scontro tra l’esperienza immaginativa depositata nel testo e le stratificazioni culturali sedimentatesi nel codice linguistico e critico del lettore. Nel leggere Rousseau e nel valutare la sua presenza si stabilisce, così, una particolare situazione tra il lettore e il Philosophe. Nella lettura-di-Rousseau come afferrare (dagli scritti autobiografici a quelli filosofico-etico-politici e viceversa) il «Jean-Jacques Rousseau» reale e come distinguerlo, se poi è necessario115, dal «Rousseau» autore e scrittore, dal Rousseau-Jean-Jacques, intimo, persona e personaggio? Per comprendere Jean-Jacques Rousseau, «bisogna credere ciò che dice la parola scritta, ma non crederla perché la si è letta»116. La lettura è anche pratica d’analisi e pratica ermeneutico-discorsiva, lavoro di decostruzione e, ad un tempo, ricerca genealogica di senso e significato. Non si danno letture «innocenti» ma solo interessate di Jean-Jacques. Ha scritto Dalmasso: «Leggere non è mai un’operazione innocente, speculare. Leggere non è mai commisurare un significato ad una costellazione di significati preesistenti, in cui tale significato possa essere valutafia come metodo formativo, Laterza, Roma-Bari 2002. I. TASSI, Storie dell’io. Aspetti e teorie dell’autobiografia, Laterza, Roma-Bari 2007. 115 «Distinguer – scrive Georges May – […] l’homme de l’écrivain, c’est reconnaître implicitement l’existence d’un conflit entre eux. C’est à cause de ce conflit que Rousseau dénoncera avec une véhémence désormais croissante la tendance à le juger sur les livres, et non sur sa conduite. Rares sont pourtant les lectures capables d’un pareil effort d’abstraction. La postérité n’a-t-elle pas, au contraire, sans cesse confondu l’homme et l’auteur? Et son choix ne s’est-il pas arrêté sur les ouvrages de l’homme de préférence à ceux de l’homme de lettres? Autobiographies, plaidoyers pro domo, opuscules défensifs, justificatifs, explicatifs ou polémiques, tous les livres que Rousseau s’est mis à écrire dès qu’il eut, comme il le dit, posé la plume, n’appartiennent plus à la “littérature”» (G. MAY, Rousseau, Seuil, Paris 1980, p. 58). 116 M. FOUCAULT, Introduzione ai Dialoghi di Rousseau, in ID., Scritti letterari, tr. it., Feltrinelli, Milano 1971, p. 23. La molteplicità degli approcci di lettura dell’opera di Rousseau risiede nei caratteri propri di quest’opera. Come ha invitato a considerare Starobinski: «C’est une œuvre qui, de la réflexion philosophique à l’autobiographie, de la dialectique la plus serrée à l’épanchement lyrique, de la fiction à la législation, joue sur un nombre considérable de registres et occupe une étonnante diversité de dimensions spirituelles. Il est légitime der parler isolément du penseur ou du rêveur, du politique ou du persécuté, du musicien ou du romancier. Mais chacune de ces perspectives est fragmentaire, et n’atteint qu’une vérité incomplète: non point seulement par le vice inhérent à toute approche partielle, mais parce que Rousseau, en toute occasion, et même dans ses textes les plus solidement construits, associe à sa parole explicite la présence implicite de sa personne et de sa passion […]. Il ne nous demande pas seulement de dire et d’aimer ce qu’il écrit, mais de l’aimer dans ce qu’il écrit, de faire confiance à celui qu’il fut et à celui qu’il est, en deça ou au-delà de son livre». (J. STAROBINSKI, Rousseau et la recherche des origines, cit., pp. 319-320).
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Le passioni dell’Io: perché Rousseau
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to, accolto o respinto. Una lettura non innocente, non speculare, non idealistica, non è solo quella che esplicita l’interesse da cui muove il discorso, quella che non si limita alla superficie del testo, e ne smaschera gli interessi e le domande precedenti, in forza delle quali il testo si costituisce; ma lettura non speculare, non idealistica, significa lettura in cui ciò che vien prima della legge, ciò che la legge di un certo sapere oscura e impedisce, diventa oggetto del discorso»117. Leggere Rousseau significa anche addentrarsi con forza nei vuoti interstiziali che si aprono nella profonda compattezza del testo rousseauiano, della sua mirabile pagina pensata, scritta e vissuta; spostarsi, muoversi lungo i suoi bordi, presentarsi intorno alle sue assenze e ai suoi silenzi continuamente oscillanti, in bilico fra l’interno e l’esterno di sé, il dicibile e l’indicibile, nella trasparenza e l’ostacolo del suo io teorico ed esistenziale. «Leggere» e «comprendere» Rousseau può significare ascoltare criticamente una dimensione e uno strato dell’essere e del pensiero «altri». Il discorso rousseauiano non spinge né sollecita soltanto la comprensione, ma suscita un’esperienza, l’accoglimento d’un pensato, scritto e vissuto estraneo, altro: di un être a part. Molto di Rousseau è stato e può e/o deve essere oltrepassato, anche se tale superamento non coincide immediatamente con la sua comprensione e ri-lettura. Per leggere e comprendere il linguaggio filosofico di Rousseau occorre accostarsi lungo il dispositivo strategico della sua politica della parola. Nei confronti del (suo) testo c’è bisogno – si è visto – di una teoria-pratica della lettura di Rousseau: leggerlo significa ascoltare, parlare (e tacere), dire, scrivere e leggere della sua parola come del suo discorso, del suo savoir philosophique come del suo più intimo savoir de soi. Si deve, infatti, alla lettura psicobiografica118 e alla lettura circolare119 se oggi è possibile valutare più attentamente il rapporto che collega nel Ginevrino l’esperienza teorica con quella (auto)biografica. Rousseau è, come ha osservato Georges-Arthur Goldschmidt, «celui par qui le “philosophique” se trouve être instauré comme “vécu” […]. Avec Rousseau, la philosophie se décide enfin a “prendre corps”, elle devient publiquement ce qu’elle a toujours été secrètement: un acte biographique»120. 117 Cfr. G. DALMASSO, La politica dell’immaginario. Rousseau/Sade, Jaca Book, Milano 1977, p. 29. 118 Cfr. P.-P. CLÉMENT, Jean-Jacques Rousseau de l’éros coupable a l’éros glorieux, La Bacconière, Neuchâtel 1976. 119 Cfr. P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit. 120 Cfr. G.-A. GOLDSCHMIDT, Jean-Jacques Rousseau ou l’esprit de solitude, Phébus, Paris 1978, p. 47.
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Filosofia e vita vengono, così, originalmente a innevarsi in un pensatore come Rousseau in cui, come intuì Cassirer, «il contenuto e il senso della sua opera non possono essere staccati dalla vita personale»121; per un filosofo che non si voleva filosofo, per il quale, come ha scritto Claire Salomon-Bayet, «l’uomo e l’opera sono a tal punto confusi da rendere impossibile la comprensione dell’una se non si giungono a chiarire le vicende dell’altro»122. In Rousseau, la formazione della propria identità razionale e la politica della propria esperienza esistenziale hanno prodotto, nella «insulare» corrispondenza tra filosofia e vita, una peculiare ontologizzazione del suo sé tra mito, realtà, storia e utopia, di modo che il pensiero (Rousseau) ritorna su se stesso (Jean-Jacques), si pensa e, ripensandosi, nel sentimento trasparente della propria esistenza, si fa pensiero «du soi» quale strenua ricerca del proprio io, della propria identità, coscienza di sé, «savoir de soi». In un continuo «cercle du soi», Rousseau e Jean-Jacques si inseguono a vicenda tracciando il quadro analitico e il livello ontologico del proprio essere e non-essere, dell’in-sé e per-sé che si raccolgono attorno all’io rousseauiano: un Es individuale e collettivo che specularmente si espande e/o si ritrae, ora nell’alterità e/o in-socialità, ora nell’unicità e/o socia(bi)lità della umanissima trilogia rousseauiana: «l’Io-Rousseau, il Super-Io-Rousseau e Jean-Jacques». Pertanto, leggere-Rousseau può anche significare, per il lettore contemporaneo, scoprire cosa si cela nella pagina e nel testo che legge e che «circolarmente» rimanda a un altro testo presente come assenza comunque e pur sempre necessaria nel primo: produrre, nella teoria-pratica della lettura, il senso forte dell’illeggibile Jean Jacques. La linguisticità dell’esperienza umana (la voce, la parola, il linguaggio, la scrittura, la comunicazione) rappresenta uno dei problemi centrali per la coscienza ermeneutica e la comunicazione sociale della nostra contemporaneità. È un dato di fatto. Una rilettura e una reinterpretazione di Rousseau sono pur sempre un certo discorso sulla linguisticità di quella umanissima esperienza, un leggere e uno scrivere con le parole dell’alfabeto di una vita. Il testo e la scrittura di Rousseau impegnano l’esperienza del lettore e dell’interprete, i quali subito incontrano la poliedrica versatilità immaginativa, critica, fantastica e saggistica di Jean Jacques. La lettura reinterpretativa lavora sui diversi codici linguistici e generi rousseauiani.
121 Cfr. E. CASSIRER, Il problema J.–J. Rousseau, cit., p. 14. 122 Cfr. C. SALOMON-BAYET, Rousseau. La vita il pensiero le opere, Accademia, Milano 1979, p. 10.
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Le passioni dell’Io: perché Rousseau
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Da grande interprete, Starobinski ha invitato a considerare che: «Nel corso della sua carriera di scrittore, Rousseau ha probabilmente esperimentato tutte le possibili modalità della comunicazione. È questa, certamente, una delle ragioni del singolare fascino che la sua opera continua a esercitare sui lettori e i commentatori. Senza averlo programmato, spinto dal problema tenace, gravido di ostacoli sempre più angoscianti, rappresentato per lui dal rapporto con gli altri, Rousseau si trovò a sperimentare tutte le modalità dei rapporti che un testo scritto può stabilire con un destinatario reale, immaginario, assente, annullato»123. Il lettore avverte la complessità della scrittura e il senso e il significato dello scrivere in e per Rousseau solo se comprende che per Jean-Jacques l’autosufficienza della scrittura si carica di una forte connotazione esistenziale, soggettiva, ontologica ed etica. Così acutamente recita il commento dello Starobinski: «L’atto di scrivere per se stesso costituisce l’ultima risorsa di una volontà di comunicazione che perdura e resiste anche quando sembrano venir meno i destinatari esterni: lavorano per assicurare, in una situazione di grave depressione, la sopravvivenza della coscienza soggettiva nella sua presenza a se stessa»124. La materialità del testo e della scrittura in Rousseau sottintendono tutta la drammaturgia dell’uomo moderno, del soggetto della maschera: della sua «ulissicità» tra l’essere nel mondo, il linguaggio e la comunicazione. Nelle maglie della scrittura di Rousseau, carica come sempre di profondi significati antropologici, politici ed etici, emerge con forza, tra pessimismo e ottimismo, il senso più forte dell’ermeneutica radicale del Ginevrino, della sua più originale progettazione utopica. Egli parlando, dialogando e scrivendo da uomo per e con gli uomini ci ha trasmesso una forte tensione dialettica tutta dentro lo spazio politico e morale della contraddizione tra la «comunità reale della comunicazione» e la «comunità ideale della comunicazione»: il tempo e lo spazio della trasparenza, della città. Con grande vigore ha scritto Baczko: «In tutta l’opera di Rousseau, il movimento del pensiero è guidato dall’immaginazione e dal sogno. Un incontro dunque di due orientamenti del pensiero teorico, ma anche fusione di due sogni: il sogno politico della Città, nella quale il popolo possa esercitare sovranamente la sua libera parola, e il sogno linguistico di un linguaggio che assicuri alla Città una comunicazione libera da impacci»125. 123 Cfr. J. STAROBINSKI, Introduzione a J.–J. ROUSSEAU, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, a c. d. H. Roddier, Rizzoli, Milano 1979, p. 6. 124 Ivi, p. 8. 125 Cfr. B. BACZKO, La città e i suoi linguaggi, in «Studi filosofici», n. 1, 1978, p. 19.
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Alchimia del segno
Per il lettore e per lo storico della filosofia che abbiano disponibilitàverso-il-messaggio-del-passato e che vogliano comprendere i «segni» della lunare complessità del pensiero di Rousseau, valga l’invito di André Wyss: «Nous sommes aujourd’hui les destinataires de Jean-Jacques, c’est donc à nous qu’il revient de retrouver sa présence dans ce qu’il nous a laissé; qu’elle soit volontaire ou non, qu’elle soit signe ou indice, elle ne doit pas échapper à celui qui prétend d’aller au fond du message et, plus loin, du message à son producteur. Notre tâche est de lire l’“accent”»126.
126 Cfr. A. WYSS, L’accent ment moins que la parole, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., p. 104.
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PARTE SECONDA
ROUSSEAU ÉCRIVAIN Filosofia, linguaggio, scrittura
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II. LA PLUME DI ROUSSEAU Le tracce dell’Io
La teoria, la critica e la pratica della scrittura La teoria, la critica e la pratica della scrittura stabiliscono in Rousseau un complesso intreccio le cui diramazioni, oggettive e soggettive, biografiche e autobiografiche testimoniano i vari registri linguistici sui quali deve posarsi l’occhio del lettore, che è lì sotto lo sguardo di Rousseau, «l’occhio vivente» (Starobinski). A suo tempo, Furio Jesi ebbe un’intuizione felice quando constatò che: «La consuetudine della maggior parte degli studiosi moderni (di Rousseau) tende a scartare i problemi posti dall’interazione psicologica tra interpretato e interprete; precisi presupposti metodologici dovrebbero garantire l’obiettività dell’interpretazione di là dall’affinità o dall’avversione dello studioso nei confronti del pensatore che egli affronta. Questo atteggiamento, da un lato, permette di correggere a priori una parte delle distorsioni dovute a simpatia o ad antipatia, ma dall’altro implica una repressione dell’attività degli organi che presiedono alla riflessione; ed è una repressione che si paga nella misura in cui si è involontariamente tentati, e spesso costretti, a smussare gli spigoli più acuti della personalità su cui si riflette»1. Oggi, sappiamo, la situazione è completamente cambiata, ci si accosta alla vita, all’opera e al pensiero di Rousseau con occhi e con strumenti critici diversi da quelli del passato. Le «letture» contemporanee di Rousseau, pur conservando al loro interno una tradizione interpretativa molto forte e non senza conflittualità, e pur producendo un determinato «processo di oggettivazione filosofica e storica dei testi rousseauiani» che spesso «allontanano le pagine dal loro autore», hanno comunque offerto una ricezione critica del pensiero del Ginevrino, quale risultato di un lungo lavoro critico di ricerca dal quale emerge, come ha sinteticamente sottolineato Fulvio Papi, la consapevolezza che «ovviamente il pensiero è nulla, ma se lo si nomina 1
Cfr. F. JESI, Rousseau, Ubaldini, Roma 1972, p. 5.
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Alchimia del segno
si intende indicare una regola discorsiva, un modo di porgere gli argomenti, un presupporre un rapporto particolare tra chi parla e chi ascolta che non è proprio di altri scambi simbolici […]. Troviamo Rousseau attraverso Rousseau, come deve avvenire per un autore che è continuamente un problema per se stesso: pagine che rappresentano, pagine che vogliono dire, pagine che devono essere difese. Una lettura che percorre questi strati di discorso e che li deve continuamente dominare con il gioco delle reciproche illuminazioni ha bisogno, via via, di comporre “figure” che mostrino le varie apparizioni dell’autore e dei suoi testi»2. Problemi di lettura critica di Rousseau: lettura sperimentale e sperimentata, «grammatologica». Lettura che è dentro e oltre la storia delle idee e la storia della filosofia. Come ogni lettura critica che si rispetti è necessario aver riguardo delle norme canoniche della filologia e della storiografia, ma qui, è anche urgente qualcosa d’altro che sia nel e del testo. Da grande interprete di Rousseau, Derrida ha scritto: «Bisogna continuamente considerare il testo di Rousseau come una struttura complessa e a piani: certe proposizioni possono essere lette come interpretazioni di altre proposizioni che noi, fino a un certo punto e con certe precauzioni, siamo liberi di leggere diversamente. Rousseau dice A, poi interpreta, per ragioni che dobbiamo determinare, A in B. A, che era già un’interpretazione, viene reinterpretato in B. Dopo averne preso atto, possiamo, senza uscire dal testo di Rousseau, isolare A dalla sua interpretazione in B e scoprivi delle possibilità, delle risorse di senso che appartengono sì al testo di Rousseau, ma che non sono state da lui prodotte o sfruttate, e con le quali, per motivi anch’essi leggibili, egli ha preferito tagliar corto, con un gesto che non è né cosciente né inconscio»3. I problemi di lettura di Rousseau e la lettura dei problemi di Jean-Jacques costituiscono, nella loro reciproca circolarità, un nodo strategico su cui il lettore-interprete deve lavorare avendo davanti a sé, contemporaneamente, la pagina di Rousseau e il soggetto Jean-Jacques. Tra biografia, storia reale, trasgressione mitica, immaginazione fantastica, apologetica indiretta, regressione psicoanalitica e autobiografica, la scrittura rousseauiana prende corpo, si fa corporeità immediata, spazio mentale, centro ontologico dell’essere personale, luogo della «riappropriazione simbolica della presenza» (Derrida). Sul significato, la funzione e il ruolo che il linguaggio della scrittura e la scrittura come supplemento e come medium del linguaggio hanno svolto nel2 3
F. PAPI, op. cit., p. 9. Cfr. J. DERRIDA, Della Grammatologia, cit., p. 346.
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La plume di Rousseau
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le vicende biografiche e culturali di Rousseau, la critica contemporanea ha ormai raggiunto risultati storiografici ampiamente soddisfacenti4. Paradossalmente Rousseau adotta il medium della scrittura per criticarne e denunciarne i suoi intrinseci pericoli e i suoi più evidenti limiti, quale strumento mediato del mondo della cultura, irreversibilmente separato dall’immediatezza dell’universo della natura e della parola, «segno di un segno» (Starobinski). Sin dalla pubblicazione del Discorso sulle scienze e sulle arti, i contemporanei di Rousseau5 non mancarono certo di accusare e criticare il Ginevrino di incongruenza e contraddizione per aver egli stesso adoprato la scrittura per, poi, criticarne la sua funzione e il suo significato nell’universo della cultura, contra philosophiam. È fin troppo evidente che la produzione della scrittura e la scrittura come problema costituiscono un nodo strategico centrale che pervade l’intera œuvre di Rousseau, del primo Rousseau, del Rousseau maturo e dell’ultimo Rousseau. Infatti, il problema della scrittura e dello scrivere ha profondamente agito nell’esperienza di Jean-Jacques e ha agitato la coscienza critica di Rousseau in quanto écrivain: la propria esperienza personale fu un continuo imbarazzo, una continua riflessione e una dilacerante contraddizione che avevano nella scrittura il loro banco di prova. Ambiguità della scrittura!
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5
Cfr. J. STAROBINSKI, (a) La trasparenza e l’ostacolo, cit., capp. VI e VII; (b) Modalites de la communication dans l’œuvre de Rousseau, in AA.VV., J.-J. Rousseau et l’homme moderne, Colloque de l̓UNESCO, Paris 1965, pp. 112-138; (c) Rousseau et l’origine des langues, in «Europäische Aufklärung Festschrift für Herbert Dieckmann», München 1966 poi in J.–J. Rousseau. La transparence et l’obstacle, cit. (escluso dalla tr. it.). J. DERRIDA, De la grammatologie, cit. e La linguistique de Rousseau, cit. M. EIGELDINGER, J.–J. Rousseau. Univers mythique et cohérence, cit., capp. I, VII e IX. A. KREMER-MARIETTI, J.–J. Rousseau ou la double origine et son rapport ou système Langue-Musique-Politique, Introduzione a J.-J. ROUSSEAU, Essai sur l’origine des langues, Aubier, Paris 1974 p. 1184, C. PORSET, «L’inquiétante étrangeté» de «l’ Essai sur l’origine des langues»: Rousseau et ses exégètes, in «Studies on Voltaire», CLIV, 1976, pp. 1715-1758. A. VERRI, Introduzione a Origine delle lingue e civiltà in Rousseau, cit. e Antropologia e linguistica in Rousseau, in «The Voltaire Foundation», Taylor, Oxford 1980, pp. 1205-1218. A. WYSS, L’accent ment moins que la parole, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., pp. 97-105. R. SALVUCCI, Sviluppi della problematica del linguaggio nel XVIII secolo. Condillac Rousseau Smith, Maggioli, Rimini 1982, cap. II (Rousseau: la teoria del linguaggio), pp. 163-333. P. BORA, Introduzione e apparato critico, in J.-J. ROUSSEAU, Saggio sull’origine delle lingue, cit. R. RAGGIUNTI, Il problema dell’origine delle lingue nel pensiero di Rousseau, Marco Del Bucchia Editore, Massarosa 1998. Cfr. M. EINAUDI, Il primo Rousseau, cit., cap. IV (Rousseau affronta l’Illuminismo, pp. 70-106).
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Profondamente preoccupato del problema della scrittura, lo stesso Rousseau non pervenne di certo alla sua risoluzione se non al prezzo di un’osservazione critica e di un vissuto approfondimento della sua esperienza filosofica e letteraria quale risultato di un continuo interrogarsi sulla funzione della scrittura, sulla natura dei suoi confini e sull’estensione dei suoi poteri, nell’ostinato tentativo di (auto)giustificarsi come écrivain. Pur accusando e criticando le lettere, le arti, la filosofia e le scienze quali responsabili della progressiva corruzione dei costumi e quali fonti di produzione e di riproduzione dei vizi sociali, Rousseau non può non ricorrere alle forme di sapere che la Kultur illuministica del suo tempo gli offriva, operando, così, una netta distinzione dicotomica tra natura e cultura, conoscenza ed etica. Nella società francese del proprio tempo dove domina una «vile e trompeuse uniformité» e dove ogni pratica di comunicazione sociale è mascherata dalle forme prevalenti di alienazione, Rousseau oppone la sua pratica della scrittura nei confronti di un mondo dove la lingua e il linguaggio hanno raggiunto un alto livello di complessità perdendo, però, d’accento e d’energia: un mondo sociale dove l’economia simbolica della comunicazione interindividuale e intersoggettiva è governata dalla cultura cerimoniale del «decoro», della «convenienza», dall’«etichetta», dal galateo e dalla prossemica dei gesti e delle parole, dalla retorica salottiera. La voce che più si addice al borghese galantuomo, assiduo frequentatore della società mondana dell’Ancien Régime, non è la voce energica della lingua accentata ma è precisamente il suo contrario, la voce sussurrata in quella cassa armonica artificialissima che è il salotto, vero e proprio luogo topico della civiltà borghese occidentale, «spazio simbolico che nega l’anima e la sua voce, affermando in sua sostituzione la parola circospetta del corpo plasmato dal galateo»6. Rousseau, filosofo e critico del linguaggio, è drammaticamente consapevole che la scrittura, benché contestata, trova una sua legittimazione e una sua strutturale e oggettiva ragion d’essere perché ormai la parola non è più in grado né è più sufficiente per difendere e garantire la causa della virtù e della verità trasparente davanti alla progressiva degradazione dei costumi e agli «effetti perversi» della Kultur del suo tempo. Nel processo di modernizzazione del corpo sociale, tipico della prima fase della transizione alla modernità, anche l’universo linguistico della comunicazione conosce – al pari di quello economico e politico – una differenziazione nor6
Cfr. C. BOLOGNA, Voce, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1981, vol. 14, p. 1281.
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mativa e precettistica delle forme di vita simboliche: la voce e la parola vanno educate, cioè dissimulate nella loro «spontaneità» («naturalezza») e, poi, simulate in direzione dello spazio sociale esterno, spazio della rappresentazione, della menzogna e della maschera. Degenerazione della lingua (francese) e perdita del suo accento sono specularmente anche il riflesso della crescita inaudita del fenomeno urbano nel mondo esterno, là dove alla provincia, al mondo rurale, corrisponde una lingua ancora accentata, mentre nella grande città, nella capitale, Parigi, la lingua è caratterizzata dai processi omologatori di assenza d’accento: dal rurale all’urbano, dal Nord al Sud. L’universo sociolinguistico in cui si trova a vivere e contro cui Rousseau reagisce, cioè quello della società parigina della metà del ‘700, è omologato nelle sue forme di vita e di comunicazione, la stessa lingua francese, dalla quale l’accento è stato proscritto, ha progressivamente subito un processo di neutralizzazione e manipolazione sociale dettato dalle mode aristocratiche e borghesi e dominanti. Come ha scritto André Wyss: «L’uniformité, l’anonymat de la mode remplacent la vérité de la présence individuelle. Ce qui triomphe, à Paris, au milieu du siècle, c’est le persiflage, cette forme extrêmement pervertie de la communication, où l’absence total d’accent (donc d’engagement personnel du locuteur dans son message) permet de dire quelque chose à quelqu’un, tout en faisant entendre exactement le contraire à des tiers. En outre, l’on ne parle ni n’écrit plus pour dire quelque chose, mais se mettre en avant»7. È di fronte a questo incessante processo di omogeneizzazione dei linguaggi, di perdita di accento della lingua e di mascheramento delle passioni e dei sentimenti che Rousseau reagisce e contro cui «opposera le métier d’auteur et la vocation d’écrire»8. La scelta e l’atto di scrivere esprimono, tra l’altro, anche la posizione e il ruolo che Rousseau occupa nei confronti del sistema sociale del suo tempo. Lungo tutta la sua vita, Rousseau è stato un marginale, la sua esperienza individuale e sociale è stata profondamente segnata dalle più svariate forme di marginalità sociale: Jean-Jacques ha intensamente vissuto queste forme di esperienza interiorizzandole come uomo e interpretandole come filosofo. Naturalmente, Rousseau non ha soltanto vissuto in prima persona le drammatiche condizioni materiali e le dilaceranti contraddizioni psicologiche della marginalità sociale, ma ha anche, lungo tutta la sua œuvre, operato una 7 8
Cfr. A. WYSS, L’accent ment moins que la parole, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., p. 100. Ibid.
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complessa riflessione sociopsicoantropologica e filosofica sulla natura sociale, culturale e storica del fenomeno e del problema dell’homme marginal che prepotentemente si affacciava come realtà nel mondo della complessità sociale del suo tempo storico: être marginal au siècle des Lumières9. Vaga-bondaggi, manie ambulanti, esordi intellettuali, restrizioni materiali, meccanismi psicologici di (auto)giustificazione, assenza e/o carenza d’integrazione sociale, domanda individuale di aspettative sociali, aggressività, autodifesa e solitudine individuali, critica dell’ineguaglianza e dell’ingiustizia sociali, rivolta morale, costituiscono la complessa fenomenologia e l’ambiguità fondamentali che connotano il campo di esperienze di Jean-Jacques come homme marginal e che sociologicamente riflettono anche l’acuta e sensibile riflessione critica che Rousseau svolse sulla marginalità sociale e che non poco influì sulla pratica della sua scrittura. Con mirabile probità critica ed ermeneutica Baczko ha scritto: «Sociologiquement la carrière de Jean-Jacques représentait donc un cas tout à fait exceptionnel sinon unique. L’expérience qu’il a vécue était d’autant plus riche. Son discours sur la marginalité en est largement nourri mais il ne se cantonne pas pourtant dans un simple récit des événements vécus. La marginalité se présentait à Jean-Jacques comme un phénomène multiforme, condition sociale mais aussi relation au monde et modèle d’existence, qu’il avait à affronter et avec lequel il se débattait sans cesse. Subir la marginalité, la choisir ou la refuser ce ne sont que des aspects d’une seule et même attitude qui se fait et défait tout au long de sa vie et de son œuvre»10. Durante tutta la sua vita, nel sentimento della propria différence, Rousseau ha sempre avvertito il bisogno di riformarsi esteticamente, materialmente, intellettualmente e moralmente nei confronti del sistema sociale del suo tempo storico, il mondo dell’apparenza e della menzogna, dell’ostacolo e della maschera: un mondo contro cui ha rivolto tutti i suoi sforzi per non conformarsi alle sue spietate leggi e tendenze e agli «effetti perversi» della sua strutturale alienazione. Nell’esperienza di Rousseau, come ha osservato Georges-Arthur Goldschmidt, «tout se passe en effet comme s’il n’avait cessé, au long de sa vie, de se réformer pour n’avoir pas à se conformer à un monde où il n’arrive pas à se reconnaître […]. La seule conformité qu’admette Jean-Jacques est en effet celle qui postule l’identité à soi – et par là-même, la différence entre le soi et le monde. Rousseau, c’est un 9 10
Sul problema della marginalità sociale quale tema del rapporto tra individuo, solitudine e comunità in Rousseau, cfr. B. BACZKO, Rousseau et la marginalité sociale, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., pp. 117-128. Cfr. B. BACZKO, op. cit. p. 120.
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fait, n’est jamais parvenu à se fondre dans la société qui l’entoure. Son attitude de toujours, où chacun peut lire le refus de renoncer à soi pour adhérer à quelque chose qui ne serait plus le soi, l’exclut par force du monde social – en même temps qu’elle révèle sa différence. On remarquera pourtant que jamais Rousseau ne “proclame” cette différence. C’est que sa réforme n’a jamais consisté à réfléchir sur ce qui, chez Jean-Jacques, pouvait être différent, mais à débusquer ce qu’avait pu faire surgir en lui le sentiment de la différence. Ce qui lui importe, ce n’est pas le détail de sa singularité, c’est que ce savoir de soi en lui si fort, si évident, si éclatant, soit à ce point en contradiction avec les moyens linguistiques ou sociaux»11. Nel vissuto, nel pensato e nello scritto dell’esperienza essenziale della non-conformité12 di Rousseau e nel comportamento caratteristico di JeanJacques in quanto homme marginal, la condizione oggettiva e soggettiva di «marginalité sociale» non è riducibile specularmente alla condizione di anomia e devianza sociale, ma è traccia e spia indiziaria di un pensiero antinomico, modello di un «pensiero accusatore» (Starobinski)13. Rousseau profondamente indignato nei confronti della società urbana del suo tempo, una società che deprava e degrada l’uomo, sceglie, radicalizzandola, la via del pensiero accusatore, denunciando e, poi, ritirandosi dalla grande città, Parigi. Ha osservato Starobinski che «l’indignazione, per JeanJacques, è strettamente legata all’esperienza della grande città […]. La logica del pensiero accusatore esige che, presto o tardi, compaia il modello (ide11 12 13
Cfr. G.-A. GOLDSCHMIDT, Jean-Jacques Rousseau ou l’esprit de solitude, cit., pp. 61-62. Ivi, p. 12. Centrali, pertanto, permangono le indicazioni di Baczko, il quale ha scritto: «Marginalité subie, marginalité voulue, contrainte et libération, Jean-Jacques sera aux prises avec ces antinomies tout au long de sa vie. A un moment donné, en 1756, un terme de cette antinomie semblait l’emporter définitivement sur l’autre. En entreprenant sa “grande réforme”, en quittant Paris et en changeant d’une manière spectaculaire tout son mode de vie Rousseau s’installe volontairement en marge de ce monde auquel il a finalement réussi à s’imposer. La marginalité dans laquelle il veut se cantonner ne ressemble guère à celle à laquelle il était assujetti comme intellectuel débutant. Jean-Jacques est un écrivain renommé que les salons et les grands de ce monde se disputent et dont le public (c’est à dire aussi les libraires) attend beaucoup. C’est donc par un choix délibéré qu’il se retire et qu’il se définit comme un marginal par rapport à un monde qui s’est ouvert enfin à lui. Ce n’est plus la société qui le répousse en marge d’elle-même. C’est lui qui la rejette en choisissant une marginalité à lui, unique en quelque sorte. Pourtant c’est un choix qui comporte de multiples sens sous-jacents dont l’ambiguïté deviendra de plus en plus troublante. En effet, c’est une marginalité dénonciatrice et accusatrice» (B. BACZKO, op. cit., p. 124).
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ale, possibile o reale) che autorizza la messa sotto accusa del male. E siccome il pensiero accusatore è un pensiero antinomico, il modello sarà esattamente l’opposto della corruzione prevalente nella civiltà urbana»14. Sul rapporto tra comunità e società, tra ville e cité in Rousseau, gli interpreti hanno sollevato problemi critici e avanzato proposte precipue d’interpretazione dell’esperienza esistenziale di Jean-Jacques e della pratica della scrittura del Ginevrino. Nel dualismo tra rurale e urbano, tra città e campagna si consumerebbero le non poche antinomie di uno spazio individuale e, ad un tempo, collettivo che caratterizzano la solitudine di Rousseau. Baczko, constatando che «se retirer de cette société c’était dresser un réquisitoire contre ses rapports anonymes et aliénants qui substituent les apparences aux réalités, contre la hiérarchie sociale fausse et injuste, contre tout un système qui met sans cesse en danger l’indépendance et la liberté de l’individu»15, si è chiesto: «Mais accuser la société symbolisée par Paris n’est-ce pas du même coup la rendre responsable du mal moral et social qu’elle produit? L’homme du bien, qui “cherche l’amour, le bonheur et l’innocence”, n’estil pas forcé de la fuir? Choisir la marginalité par rapport à un tel “centre” est un défi et une révolte mais n’est-ce pas du même coup un acte d’autodéfense? La révolté ne se présent-t-il pas, à lui-même et aux autres, comme une victime des forces menaçantes et agressives»16? Una risposta a questo fascio di scottanti interrogativi che tenga conto, tra l̓altro, del problema della comunicazione e della scrittura in rapporto alla tematica della marginalità sociale e della ricerca e/o illusione della comunità non può essere semplicistica. Starobinski ha invitato a considerare che per Rousseau: «Vivere fuori dalla città (per chi ha denunciato il falso splendore delle capitali) non significa rinunciare all’accusa, significa all’opposto vivere l’antinomia in modo più completo, accostandosi a ciò che la città non è: il paesaggio rurale o boschivo, l’orizzonte della “natura”, dove è lecito sognare ciò che è stato irrimediabilmente perduto: lo stato di natura. Abbandonare la città, luogo di alterazione delle immagini e dello snaturamento, significa darsi la possibilità di pensare la figura originaria dell’uomo, la natura antecedente alla storia: significa avere acceso alla visione di un mondo inalterato, o all’immagine di un mondo plasmato di nuovo»17.
14 15 16 17
Cfr. J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., pp. 15-16. B. BACZKO, op. cit., p. 124. Ivi, p. 124. Cfr. J. STAROBINSKI, op. cit., p. 16.
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Il mito, la realtà e l’utopia della città rimangono ancora un problema aperto nella lettura e nell’interpretazione dell’œuvre di Rousseau18 e nella pratica della sua scrittura. All’interno dell’œuvre rousseauiana, i tempi, i luoghi, le motivazioni e le forme della scrittura sono molteplici e traducono, coscientemente e/o incoscientemente, la natura e la direzione del messaggio che l’écrivain emette. I tempi umani della scrittura sono strettamente collegati alla situazione esistenziale di Rousseau. Sono tempi individuali, privati e coscienziali, legati alla psicologia dell’io dell’uomo-Rousseau e, tempi collettivi, tempi di socializzazione, di interazioni umane, rapportati alla stratificazione e alla condizione sociale in cui il filosofo ginevrino vive e agisce. Gli spazi ambientali, privati e pubblici, sono principalmente lo spazio urbano e lo spazio rurale: lo sviluppo e il processo ontologici dell’essere dell’autore vivono profondamente della dialettica moderna che si stabilisce tra l’urbano (la città) e il rurale (la comunità agricola)19. L’antropologia, l’economia politica e la psicologia sociale di questi spazi giocano un ruolo fondamentale nella struttura pulsionale dell’io di Jean-Jacques e nella scrittura di Rousseau: sottendono alla dialettica complessa e nuova tra mobilità sociale, cittadinanza sociale, integrazione comunitaria e marginalità sociale20 dell’uomo Rousseau e dell’uomo-di-Rousseau, della loro natura e del loro posto nel mondo. La scrittura critica, polemica, pubblica, politica, si genera dall’urbano, diventa critica della società e dell’alienazione, progetto politico21. La scrittura auto-biografica e la scrittura dell’immaginario si producono a contatto, ma non esclusivamente, con il comunitario e il rurale, microuniversi sociologici e culturali, ecologicamente22 incontaminati. Città e comunità diventano il polo dualistico dal quale prende corpo il senso e il significato antropologico18
19 20 21 22
Cfr. C. BORGHERO, Sparta tra storia e utopia. Il significato e la funzione del mito di Sparta nel pensiero di J.-J. Rousseau, STEF, Cagliari 1973. D. LEDUC-FAYETTE, J.–J. Rousseau et le mythe de l’antiquité, Vrin, Paris 1974. L. GUERCI, Libertà degli antichi e libertà dei moderni. Sparta, Atene e i «philosophes» nella Francia del Settecento, Guida, Napoli 1979. P. CASINI, L’antichità e la ricerca della patria ideale, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., pp. 87-95. P. BERTHIAUME, La ville et la campagne: de la raison à l’utopie, in R.U.O., gen.-mar. 1982, pp. 64-77. G. CAMBIANO, Dalla polis senza schiavi agli schiavi senza polis, in «Intersezioni», n. 1, 1982, pp. 29-53. Cfr. P. BERTHIAUME, op. cit. Cfr. B. BACZKO, op. cit. Cfr. J.-J. ROUSSSEAU, Le citoyen, a c. d. F. Khodos, P.U.F., Paris 1974. B. BACZKO, La città e i suoi linguaggi, cit. Cfr. M. SCHNEIDER, Jean-Jacques Rousseau et l’espoir écologiste, Pygmalion, Paris 1978.
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politico e filosofico della scrittura rousseauiana, ora razionale ora immaginaria, il topos di un’antinomia strutturale: lo spazio-tempo della complessità sociale e della moderna alienazione, teatro della storia, da un lato e, dall’altro, condizione esistenziale, estetica, ludica, quotidiana e simbolica. Il fenomeno urbano, spazio-tempo dei «supplementi», rivelatore privilegiato della totalità sociale ed espressione del conflitto moderno tra comunità e società, vissuto e descritto da Rousseau perché «exclut les valeurs communautaires par ses effets d’atomisation sociale et politique»23, conserva un suo peculiare rapporto privilegiato con la scrittura e con la produzione filosofico-letteraria facilitando il «passage du champ du réel au champ de l’imaginaire»24 e riproducendone le sue antinomiche ambiguità25. Così, la ville, la cité e la communauté, tra esperienza, ambivalenza, critica, nostalgia, illusione e progetto, rappresentano gli spazi mitici, reali e utopistici in cui si produce la «storicità», la «politicità» e «l’immaginario» della scrittura dell’autore del Contratto sociale e della Nouvelle Héloïse26. Marginalité sociale, antinomies de la solitude e ambiguité de l’écriture disegnano ad un tempo il campo di esperienze e l’orizzonte di aspettative di Rousseau caratterizzandone pervasivamente ogni sua forma di vita nel vissuto, nel pensato e nello scritto della sua solitude che, come ha sottolineato Baczko, è «solitude choisie mais aussi imposée, solitude malheureuse mais pourtant héroïque»27 e che, tuttavia, in Rousseau, come ha invitato a considerare Georges-Arthur Goldschmidt, è «solitude non pas subie, mais recherchée, dans la mesure où elle s’est toujours révélée, tout au long de l’histoire de Jean-Jacques, comme le moyen par excellence d’investigation 23 24 25
26 27
Cfr. P.-M. VERNES, La ville, la fête, la démocratie. Rousseau et les illusions de la communauté, Payot, Paris 1978, p. 63. Ivi, p. 58. Assai efficacemente Paule-Monique Vernes ha scritto: «L’écriture, selon l’Essai sur l’origine des langues, est elle-même le supplément de la parole. La parole représente la pensée par les signes conventionnels mais l’écriture représente à son tour la parole; supplément d’un supplément, elle permet l’analyse de tous les autres signes et elle est désormais, dans les villes où les voix authentiques ne sont plus entendues, le seul moyen de les proclamer. L’écriture, la littérature sont les seuls recours, les seuls façons de communiquer dans l’absence de l’autre, quand la présence vive de la voix est devenue inaudible pour les gens de ville qui ne sont devenus sourds qu’à ne plus vouloir s’entendre. Aussi Rousseau écrit pour rectifier son image aux yeux de ses accusateurs parisiens, ses faux amis; il parle à travers l’écriture pour tenter d’échapper au malheur de la parole incomprise et se retrouve prisonnier de la littérature parisienne qu’il dénonce» (ivi, p. 59). Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Giulia o la Nuova Eloisa, a c. d. E. Pulcini, Rizzoli, Milano 1992. Cfr. B. BACZKO, op. cit., p. 124.
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du soi. Non pas cette solitude sociale (dont il faudrait encore mesurer la réalité) que l’imagerie “rousseauiste” s’est tant employée à décrire. Non pas solitude-état, mais solitude au contraire toujours à gagner, toujours à conquérir sur les autres ou plutôt contre les autres: contre tous ceux dont Rousseau aura à se différencier»28. Nel sentimento vissuto della propria différence e con la politica della propria solitude, Rousseau farà della pratica della scrittura una forma di vita caratterizzante la sua esistenza e la sua œuvre. Il linguaggio della scrittura e la scrittura come supplemento e medium del linguaggio Cos’è la scrittura rousseauiana? Quale significato assume la scrittura come supplemento e come medium del linguaggio nell’opera di Rousseau? Senz’altro nell’esperienza intima ed esistenziale dell’io di Rousseau la lingua è una natura che trapassa per intero la parola del filosofo e dello scrittore ginevrino. Nel cerchio di natura-lingua-parola il verbo solitario di Jean-Jacques prende forma e pone capo alla scrittura e alla creazione filosofico-letteraria di Rousseau. Lingua della natura e natura della lingua costituiscono, com’è noto, un nodo centrale dell’antropologia e dell’ontologia rousseauiane: in e per Rousseau – come si vedrà – l’altrove della lingua come natura diventa trasgressione, metanatura del linguaggio, mondo dei possibili. La lingua è per Rousseau al-di-qua della letteratura come scrittura e come stile. Lo stile della scrittura di Rousseau è forma di un linguaggio autarchico, risale alla mitologia personale di Jean-Jacques, alla dimensione «solitaria» del suo essere: «lo stile è qui il modo d’essere dell’individuo […] è il segno della relazione tra “chi scrive” e il proprio passato, nel momento stesso in cui manifesta il progetto orientato verso il futuro, di un modo specifico di rivelarsi all’altro»29. Nelle metamorfosi ontologiche di Rousseau, lo stile, nel «corpo glorioso della scrittura»30, è anche scarto, segno della carne, infralinguaggio del suo sé ai confini del mondo. Starobinski ha osservato che «lo stile come “forma aggiunta a un fondo” va giudicato soprattutto in funzione della sua inevitabile infedeltà a una realtà passata: il “fondo” è rite28 29 30
Cfr. G.-A. GOLDSCHMIDT, op. cit., p. 23. Cfr. J. STAROBINSKI, L’occhio vivente, cit., pp. 204-205. Cfr. P.-P. CLÉMENT, Jean Jacques Rousseau de l’éros coupable à l’éros glorieux, cit.
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nuto anteriore alla “forma”, e la storia passata, tema della narrazione, occupa necessariamente questa posizione di anteriorità. Lo stile come scarto, invece, appare soprattutto in una relazione di fedeltà a una realtà presente. In tal caso, la nozione di stile obbedisce segretamente a un sistema di metafore organiche, secondo cui l’espressione procede dall’esperienza, senza discontinuità alcuna, come il fiore spunta dalla pressione della linfa e dal germoglio del gambo; di contro, la rappresentazione della “forma aggiunta al fondo” implica – sin dalla sua formulazione – la discontinuità, che è proprio l’opposto della crescita organica – vale a dire l’operazione meccanica, l’intervento strumentale applicati a un materiale d’altra natura. Allora l’immagine dello stilo, della punta acuminata, tende a prevalere su quella della mano guidata dalla passione interiore dell’individuo. Del resto, occorre certo concepire una idea dello stile che consideri nel loro insieme lo stilo e la mano, la condotta dello stilo attraverso la mano»31. Rousseau vuole un mondo-di-parola, un mondo trasparente e orizzontale, senza segreti, dove con e nella parola tutto è dato e offerto immediatamente. Nel mondo della scrittura, dove tutto è opaco e mediato, lo stile lo costringe a vivere in un mondo verticale, dove tutto è segreto, metafora, «supplemento», ricordo circoscritto e racchiuso nel corpo dell’écrivain, in un mondo dove l’essere frammentario, frantumato ed alienato vive in una realtà estranea al linguaggio della comunicazione libera e immediata. Lo stile della scrittura contiene una irresolubile e tragica antinomia della forma, non libera Rousseau dalla (sua) solitudine nella storia: la lingua come natura e la solitudine (dello stile) della scrittura di-segnano l’orizzonte comunicativo di Jean-Jacques Rousseau, dal mondo del caso e del possibile al mondo della necessità e della storia. Rousseau e Jean-Jacques non hanno altra scelta, perciò faranno della scrittura non solo una forma e uno scarto, una questione di stile, ma ne faranno un valore, la scelta (supplementare e alternativa) del loro proprio comportamento umano, segno della parola, funzione comunicativa di destinazione sociale, la traccia dell’altro quale ipseità dell’io e relazione di e con l’illeità. Ma non anticipiamo passaggi che troveranno un loro successivo sviluppo. La scrittura e lo stile della scrittura e del filosofo32 prendono progressivamente corpo dopo un lungo periodo di apprendistato e di preparativi, at31 32
Cfr. J. STAROBINSKI, op. cit., p. 207. Nel corpo della scrittura di Rousseau non si darebbe alcuna coupure tra la scrittura delle opere giovanili, delle opere della maturità e quelle della vecchiaia. In ciascuno dei suoi testi, Rousseau si pone in una particolare e determinata relazione nei confronti della propria scrittura diversamente occasionata e agita dal suo pro-
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tingendo al passato, al presente e al futuro dell’écrivain, alla sua bio-grafia prima e, alla sua auto-bio-grafia dopo e viceversa. La scrittura rousseauiana conosce il proprio cominciamento dopo un lungo periodo di apprentissage e di formazione. Attraverso una continuità/discontinuità di fasi e di momenti, la scrittura prende corpo, si sviluppa alternativamente e contemporaneamente tanto nei modi della scrittura musicale, della scrittura letteraria, della scrittura retorica e filosofica e della scrittura tout-court quale copia calligrafica; quanto nelle forme della scrittura: le opere pubbliche, le opere autobiografiche e le opere della solitudine. La trilogia della scrittura – la scrittura come vita, come arte e come professione – contraddistingue, così, la vicenda umana di Rousseau, costituisce, come si vedrà, il supplemento di ogni sua attività, il segno della sua esistenza, la traccia del suo io. Ecco, perché, una «lettura» dell’œuvre di Rousseau non può non essere particolarmente attiva, organizzatrice, critica e aperta ai tempi e alle forme, ai concetti e ai segni che da essa germinano: lire Rousseau, per il lettore contemporaneo, deve poter anche significare penser Rousseau. Il metodo di scrittura di Rousseau pone capo, così, a una questione centrale: il lettore dell’œuvre (del testo di scrittura) di Rousseau deve poter disporre di un metodo di lettura della stessa. È stato lo stesso Rousseau a suggerirlo. Ma l’autore avverte e sollecita il suo lettore, il libro, però, non può scegliere il suo lettore! La scrittura diventa per Rousseau una scelta responsabile e di coscienza dove situare la natura del proprio linguaggio, una forma-di-vita e, ad un tempo, una morale-della-forma. Nel teatro delle grandi crisi della storia, la scrittura rousseauiana parla, pensa e scrive del linguaggio della Kultur illuminista – ma, non è, pena una sua possibile reductio ad unum, scrittura-merce prodotta per il consumo di quel linguaggio: qui risiede una delle «ambiguità» centrali della scrittura rousseauiana, una delle sue funzioni ideologicamente e sociologicamente ambivalenti. Nata da e per un atto di libertà, da e per un confronto/scontro tra écrivain e società, la scrittura subisce la pressione della storia, del potere-sapere e del mercato dei valori di scambio. Progettata quale «riforma personale e collettiva», la scrittura come supplemento e come medium del linguaggio non si (ri)produce intemporalmente, senza residui: essa si crea come forma e come
prio io. La anatomia della scrittura di Jean-Jacques diventa così, anche, la chiave di lettura dell’œuvre di Rousseau. Il tempo naturale della scrittura – dalle opere pubbliche a quelle dell’autobiografia e della solitudine che comunque non si dispongono superficialmente lungo un asse lineare ma si intrecciano in un complicato quanto originale puzzle – è inverso rispetto al tempo di lettura, il quale procede retrospettivamente dalle ultime per risalire alle prime.
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valore a contatto con la tradizione, la Kultur e la memoria storica delle altre scritture possibili. È stato già osservato che la scrittura, benché criticata e contestata, si legittima, in e per Rousseau, poiché, nella modernità, la parola non è più in grado di difendere e di garantire la causa delle virtù umane nei confronti del dilagante processo di degradazione sociale dei costumi e dell’affermazione di un sempre più problematico universo culturale di disvalori. Nella modernità, nella civiltà dello scritto, il Diskurs comunicativo non può esprimersi efficacemente se non tramite la mediazione simbolica della scrittura, divenuta, per un’evoluzione fatale e fattuale, strumento di persuasione. L’uso necessario della scrittura si giustifica, per Rousseau, per l’esigenza morale, per la sincera volontà e per l’entusiasmo della libertà, della verità e della virtù, ma non certo per l’ambiziosa ricerca della gloria, del lucro e del successo personali: la scrittura (l’atto di scrivere) diventa lecita e legittima solo e soltanto per garantire la difficile ricerca dell’identità e dell’autenticità dell’essere e per l’attitudine a produrre e a riprodurre il disvelamento della verità. Naturalmente, l’imbarazzo dell’ambiguità tra la condanna della scrittura e il necessario ricorso alla sua forza non è sfuggito a Rousseau, il quale ritenne fondamentale (auto)legittimarsi nei suoi confronti piuttosto che nei riguardi del lettore: la sua coscienza morale, soltanto, gli ha permesso e autorizzato a perseverare nello scrivere, denunciando i mali, i vizi e gli «effetti perversi» dello sviluppo sociale moderno. Nell’intentio recta di Rousseau, l’autogiustificazione della scrittura è da collegare all’espressione disinteressata della verità, nella volontà umana di far coincidere il contenuto del pensiero con la scrittura. L’autogiustificazione della scrittura pone capo normativamente, in e per Rousseau, al rifiuto di utilizzare e promuovere l’atto dello scrivere come un métier, e spinge JeanJacques alla volontà di non prender mai lo stilo se non sotto la necessaria e ineluttabile forza della passione. La scrittura, secondo Rousseau, deve potersi praticare ed esercitare al-di-là di ogni condizionamento strumentale e di ogni costrizione oggettiva, ma deve poter conservarsi e riprodursi come una libera e indipendente attività del soggetto della creazione letteraria e filosofica, indipendentemente dalla domanda sociale del «pubblico» e dalla facile e lusinghiera ricerca della fama individuale. Qualsivoglia strumentalizzazione economica e/o psicologica della scrittura non fa che asservirne il genio, alterando e alienando la ricchezza e la statura morale del pensiero che la (ri)produce. L’atto di scrivere si legittima, in Rousseau, per la sua autonomia e il suo radicale disinteresse; corrisponde a una sorta di «infinito intrattenimento», slegato da ogni fine lucrativo e demagogico. Sappiamo. Ciò che è scritto, nella modernità – l’epoca della riproducibilità tecnica – può essere riprodotto e trasmesso indefinitivamente nella co-
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pia. C’è nella riproducibilità della scrittura un limite di fondo della scrittura stessa: la possibilità di riproduzione della scrittura (nella copia) sottende una mancanza e un’assenza d’origine della e nella scrittura, disvela che non vi è l’originale dell’atto di scrivere, il carattere non originario-originale della sua origine. Direttamente con lo stilo e la mano lo scrittore afferma imperiosamente la soggettività del suo io; con la copia si determina, in forma impersonale e neutra, la privazione di soggettività quando lo scrittore si scopre soggetto-scritto, quindi non-soggetto. Tuttavia, l’esigenza dell’écrivain di essere pubblicato, di trasmettere la sua opera, non è semplicisticamente segno di interesse e vanità, ma, legittima aspirazione ad avvicinarsi al rumore del mondo da cui la sua œuvre ha pur sempre avuto origine. Ecco, perché, allora, la creazione letteraria e filosofica non è un prodotto sottomesso meccanicamente a un qualunque asservimento sociale, una merce che permette all’autore di vivere della sua opera; la scrittura si definisce come un atto coscienziale ed essenziale dell’io dell’écrivain che attinge la sua grandezza nella indipendenza esistenziale e nella ricerca generosa della verità. L’atto di scrivere e il ricorso alla scrittura si legittimano, per Rousseau, solo se accompagnati alla vocazione essenziale dell’io di Jean-Jacques, solo cioè se ispirati dai movimenti della sua passione e affettività. L’atto di scrivere in Rousseau – profondamente esemplato nelle sue opere autobiografiche – non deve assolutamente essere né gratuito né calcolato, ma originato e agito dall’entusiasmo e dalle passioni ribollenti nella profondità degli strati ontologici del suo essere. La creazione letteraria procede dalle implosioni ed esplosioni del cuore, da una sorta di surriscaldamento che la ingenera e la sostiene dall’interno: essa attinge la sua forza e la sua ragion d’essere nel trasporto dell’anima e nella conseguente esaltazione che irrefrenabilmente la vince. La scrittura non è questione di ragionamento, intelligenza e/o calcolo. La fenomenologia delle passioni e l’ontologia della vita quotidiana sono il campo reale della sua (ri)produzione. La scrittura dell’io, la scrittura del cuore, violente e immediate, oltrepassano il loro proprio movimento; sfuggendo al controllo della ragione cedono all’eretismo della passione che, rifulgente, le proietta al-di-là di se stesse. La passione, al-di-là delle sue spinte e dei suoi scarti, è segno e traccia dell’autenticità dell’essere: è ciò che restituisce alla scrittura quella dimensione esistenziale della espressività immediata dell’io del soggetto della comunicazione che si è perduta per la ascendente razionalizzazione socio-tecnica dei media linguistici. Tuttavia, la scrittura in quanto supplemento non è più degradata platonicamente, ma è riabilitata nella sua essenziale espressività allorquando la si rivolge a tradurre la verità dell’essere e del senso e significato dell’essere, e quando la si riafferma
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come una pratica portatrice dell’istanza della libertà ed esprimente la complessa fenomenologia delle passioni umane. Essa coincide – tende verso – con la realtà dell’essere quando, in sé e per sé, coesiste con la dimensione etica ed esistenziale del soggetto. In Rousseau, è stato osservato33, la giustificazione (e legittimazione) della scrittura è doppia, prima per la sua inserzione nel tempo e le forme dell’essere dove essa in-scrive la veridicità del suo (di Jean-Jacques) messaggio, poi, e alternativamente, per la sua atemporalità quale mitico disegno di eternità. Sappiamo. La rivalutazione rousseauiana della scrittura implica il progetto di rimontare il corso del tempo a fronte di un’esperienza mitica del soggetto, per riscoprire la natura del linguaggio “originale” delle origini: essa (pre)suppone una ricostruzione genetica, una riflessione ermeneutica e un’interrogazione ontologica della funzione della scrittura, delle sue frontiere, dei suoi limiti e dei suoi poteri di rappresentazione simbolica. L’Essai sur l’origine des langues registra la irrequieta ricerca rousseauiana sulla natura del linguaggio stabilita sulla disgiunzione della parola dalla scrittura. Durante il suo lungo apprentissage e prima di diventare écrivain, Rousseau ha sperimentato di persona la forza e la debolezza della parola: «la parola – ha scritto Starobinski – può nulla e tutto nel medesimo tempo: è incapace di vincere le “apparenze” ingannevoli, mentre è in grado di ispirare “predisposizioni”che resistono vittoriosamente alla verità. Nessuna parola può comunicare la percezione interiore dell’innocenza, mentre la finzione trova credito con strana facilità»34. Il linguaggio, la sua dinamica intenzionale e la sua fenomenologia mettono alla prova Jean-Jacques che avverte profondamente il disagio della parola parlata e agita attraverso il Diskurs intersoggettivo. Nella situazione concreta della conversazione dialogica, Jean-Jacques vive la difficoltà di una libera comunicazione dove il suo essere rischia di essere sminuito e giudicato. Nell’interazione simbolica della conversazione con gli altri, Rousseau, imbarazzato e infastidito, lascia intravedere un altro Jean-Jacques che inesorabilmente viene giudicato, stigmatizzato, misconosciuto. Ma, Rousseau, si sente differente dagli altri, spera nel risarcimento di un’altra forma di comunicazione linguistica e di interazione simbolica che costringa e consenta agli altri di stimarlo nella sua autenticità, ma è impossibilitato ad essere in-diffe33
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Cfr. M. EIGELDINGER, J.-J. Rousseau. Univers mythique et cohérence, cit., cap. I (L’ambiguité de l’écriture, pp. 29-47). Il testo di Eigeldinger costituisce come una sorta di canovaccio e di intreccio per la mia ricerca e per le sue intenzionalità di contenuto. Cfr. J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., p. 197.
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rente nei loro confronti perché dalla loro opinione dipende la tragica dialettica del riconoscimento del suo singolare essere: continuamente si ripropone come immagine speculare soggetta al giudizio degli altri del cui riconoscimento avverte l’oggettiva dipendenza e la soggettiva alterità. Differente dagli altri, Jean-Jacques teme il vuoto dell’indifferenza generale nei confronti del suo essere, sente il bisogno, comunque, di comunicare e sceglie la scrittura come forma di vita del suo essere assente che comunica con il resto del mondo, nascondendosi. Una volta interrotto il circuito della comunicazione immediata con gli altri e segnata, così, la sua assenza da (e con) loro, Jean-Jacques si fa presente con la parola scritta. Nei confronti della mediazione simbolica direttamente esperita nella pratica della comunicazione intersoggettiva e nei confronti di una società che non gli riconosce il valore suo autentico, Jean-Jacques Rousseau oppone loro la verità assente del suo io, scandalo e seduzione per l’intero sociale che lo circonda. La sua comunicazione con gli altri non è più agita dalla presenza prossemica della fisicità materiale del proprio io, ma è supplita dal messaggio scritto a cui affida l’identità del proprio essere che non è più rin-tracciabile nella presenza, ma, che, nell’assenza – nel «ciò che non è» (Starobinski) – impone la propria traccia ontologica nel circolare rapporto tra ipseità dell’io e illeità dell’altro35. Ha scritto Starobinski: «Compiendo la scelta di scrivere e di nascondersi Jean-Jacques cerca di operare la trasmutazione che allo sguardo altrui gli darà la bellezza di ciò che non è. Scrivere e celarsi. La parità di importanza che Rousseau attribuisce a questi due atti produce meraviglia, ma l’uno non può fare a meno dell’altro: celarsi senza scrivere vorrebbe dire scomparire. Scrivere senza celarsi vorrebbe dire rinunciare a proclamarsi diverso. Jean-Jacques si esprimerà solo se scrive e si cela. In entrambi i gesti: la decisione di scrivere e la volontà di solitudine, vi è intenzione espressiva. Rompendo con gli altri Rousseau intende dire loro che la sua anima non è fatta per i piaceri comuni. Il gesto della separazione è eloquente quanto il testo»36. Jean-Jacques scrive celandosi al cospetto degli altri, dai quali si aspetta il giusto risarcimento dell’accoglienza «mancata». L’accoglienza, quale segno di riconoscimento del suo sé come «anima bella»37, della sua infelice 35 36 37
Cfr. A. KREMER-MARIETTI, Altérité et ipséité de l’Existence en tant que structure, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n. 1, 1970, pp. 92 sgg. J. STAROBINSKI, op. cit., p. 202. Pensando al razionalismo politico di Rousseau, Eric Weil ha scritto: « Il valore dell’anima bella, ecco il valore nuovo. Ma come può l’anima bella pensare la politica? La risposta, per ciò che riguarda Rousseau, è d’ordine biografico e psicologico: non era affatto un’anima bella mentre pensava la politica e quando egli tor-
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coscienza di «homme marginal» (Baczko), pone capo in Rousseau écrivain alla problematica cruciale delle possibili (reali e/o immaginarie) condizioni di un ritorno, dopo una lunga serie di fratture e di opposizioni, del suo essere riconciliato con il mondo degli altri e con quello della realtà del suo io. La realtà di Rousseau, nella scrittura del suo discorso, intrattiene rapporti di un sempre possibile accesso con l’io di Jean-Jacques: il problema del ritorno – dell’«ebbrezza del ritorno» – è il terreno che Rousseau sceglie affinché la realtà sia possibile per l’io di Jean-Jacques. Nel testo rousseauiano il ritorno sottende il tragico gioco della coscienza infelice di Jean-Jacques che, differente nel suo destino e nel suo discorso, esperisce – tra caso, necessità, realtà, possibilità e immaginazione – il ritorno nel medesimo con il quale si infrange nuovamente e circolarmente segnando, così, a spirale, una sorta di continuo movimento di concentrazione centripeta e di espansione centrifuga del proprio essere38, il quale, nello scarto tra l’alterità del soggetto e la ripetizione nel medesimo, definisce – tra estasi egotiste e cosmiche – il dinamismo dell’esistenza del proprio io e della sua realtà con un funzionamento fenomenologico raddoppiato, come una struttura possibile del soggetto che nel ritorno – quale realtà originaria dell’identità – rintraccia una medesimezza differente (perché più originaria) del pure complesso gioco che fra l’io e la realtà di Jean-Jacques si stabilisce nel linguaggio della scrittura e nella scrittura come supplemento e come medium del linguaggio in Rousseau. Accoglienza e ritorno sono problemi e nodi cruciali non solo dell’opera e della scrittura di Rousseau come écrivain, ma sono anche espressione della condotta archetipale della personalità di Jean-Jacques. Nella suggestione della sua ricca pagina, così recita il bel commento di Starobinski: «Jean-Jacques ha scelto di scrivere e di celarsi, ma scrivendo non fa che attendere il meraviglioso momento in cui la parola diventa inu-
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nava alla ricerca del nuovo assoluto, non faceva politica. L’aspirazione profonda, quell’aspirazione all’unità di cui parla il Burgelin, vi si palesa: ma si mostra e agisce diversamente. L’unità del cittadino non è l’unità dell’uomo Rousseau; o essa è unità per Rousseau in quanto nello Stato giusto e ideale, ciascuno vivrebbe per se stesso; lì non avrebbe possibilità di esistere quell’opinione per la quale ciascuno dipende più dagli altri che da se stesso. Lì otterrebbe quel riconoscimento assoluto della sua personalità che, al presente, non si trova che nella solitudine o presso Dio» (E. WEIL, Rousseau et sa politique, cit., tr. it., p. 208). Cfr. P. BURGELIN, La philosophie de l’existence de J.–J. Rousseau, cit., cap. IV e G. POULET, Ètudes sur le temps humain, Plon, Paris 1950 e Les metamorphoses du cercle, Plon, Paris 1961. H. GOUHIER, Les Méditations Métaphysiques de J.-J. Rousseau, cit., cap. III della tr. it.
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tile e, celandosi, anela all’istante in cui basterà mostrarsi. Il “circolo delle parole” è un vero e proprio circolo per la mente di Rousseau, perché lo sbocco cui deve pervenire è un punto somigliante al primo momento in cui la parola non è ancora apparsa. Il ritorno ideale elimina i malintesi e perfino le “illuminazioni” che si sono accumulate nel linguaggio scritto: è una nascita nuova, una “rigenerazione”, un ritorno, un risveglio. Sotto la penna di Rousseau il linguaggio negava il mondo degli altri: io non sono come voi, non riconosco i vostri valori. Ma il momento del ritorno nega il linguaggio della negazione; l’assenza, l’esilio nella letteratura si convertono in una presenza silenziosa nella quale Jean-Jacques si offre com’è, vale a dire come si è costruito mediante l’assenza e la letteratura. Abolite tutte le parole sussiste allora, allo stato puro, ciò che il linguaggio voleva dimostrare: l’innocenza, la verità, l’unicità di Jean-Jacques»39. Rousseau è tragicamente e drammaticamente consapevole che la comunicazione libera e immediata tra gli uomini – che egli non smette mai di desiderare e di progettare – è impossibile, perché solo la luce divina è capace di intuizione immediata. Gli uomini sono necessitati dal sistema dei bisogni e, per ciò, comunicano attraverso la mediazione simbolica del linguaggio, della parola e della scrittura. Per Rousseau la parola è il segno analitico del pensiero e la scrittura è, a sua volta, il segno analitico della parola: «Si fa l’analisi del pensiero con la parola, e l’analisi della parola colla scrittura; la parola rappresenta il pensiero con segni convenzionali e parimenti la scrittura rappresenta la parola. Così l’arte di scrivere non è altro che una rappresentazione mediata del pensiero»40. La scrittura si predispone ad essere, così, una «rappresentazione del pensiero doppiamente mediata» (Starobinski). La mediazione della scrittura allontana l’humanum dell’uomo dal privilegio della comunicazione immediata in quanto l’essere sociale è già entrato nel mondo socio-tecnico dei media strumentali della comunicazione. Rousseau apologeta della parola e della comunicazione immediata ma, pur sempre mirabile écrivain, contesta e critica continuamente la scrittura. Nel mondo socio-tecnico dei mezzi comunicativi, Rousseau vive acutamente il disagio della civiltà contro cui oppone la pratica della propria scrittura, che acquista il valore di denuncia del non-senso della non-comunicazione intersoggettiva: la scrittura e la sua mediazione continuano a sussistere nell’io di Jean-Jacques, il quale ha preso a scrivere per farsi valere nei confronti del mondo umano che lo circonda. 39 40
Cfr. J. STAROBINSKI, op. cit., p. 218. Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Œuvres complétes, cit., vol. II.
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Jean-Jacques però, come ha notato Starobinski, «scrive per affermare che vale più di quanto appaia, ma scrive anche per dichiarare che vale più di quel che scrive»41. Vita e linguaggio. Ciò che Jean-Jacques e Rousseau desiderano è che la loro vita faccia veramente da interprete del loro linguaggio, cioè, il loro linguaggio sia la loro forma di vita e viceversa. Ambiguità della scrittura! Si è osservato, di sovente, come in e per Rousseau, il rapporto tra linguaggio e scrittura sia spesso ambivalente nei confronti dell’autenticità e della verità dell’essere e del senso dell’essere. Che rapporto c’è, infatti, tra la naturalezza, la spontaneità e l’immediatezza della parola e la sua scrittura? Quale funzione e quale ruolo svolge la presenza/ assenza dell’essere del soggetto nel rapporto parola/scrittura? E tra parola, scrittura e libertà quale istanza etica assume la verità dell’essere di JeanJacques e l’essere come autenticità in Rousseau? Questo fascio di interrogativi sussume la complessa fenomenologia della linguisticità dell’esperienza umana e critica di Rousseau e della sua filosofia del linguaggio. Rousseau vuole che «lo si giudichi per quello che è e non per quello che scrive»42, egli «reclama il privilegio di non dover parlare per essere compreso e accettato, ma tale privilegio può reclamarlo solo scrivendo e parlando: ha bisogno della mediazione del linguaggio per dire che rifiuta tale mediazione. Fino a che la silenziosa felicità dell’immediato non è realizzata, dell’immediato si può solo deplorare l’assenza, per mezzo di una parola che desidera la morte della parola. Per quanto intenso sia l’auspicio di comunione immediata, di buon grado o per forza bisogna portare pazienza, e accettare gli umani mezzi del discorso. L’immensa opera di Rousseau appare come la testimonianza di questa pazienza appassionata […]. Una pazienza nostalgica, che non tralascia occasione per esprimere la sua nostalgia. In tutto ciò che Rousseau scrive sul tema del linguaggio è presente una chiarissima intelligenza delle condizioni che rendono inevitabile il ricorso ai segni convenzionali e, nel medesimo tempo, ci si imbatte nell’acuto rimpianto delle modalità più dirette della comunicazione»43. La irreversibilità dell’evoluzione socio-culturale delle forme di linguaggio ha prepotentemente imposto, nella storia, il dominio della scrittura e della sua forma nel campo della comunicazione interumana. Rousseau è perfettamente consapevole della effettualità di tale evoluzione e come tale ne registra e ne critica la sua logica struttura e i suoi «effetti perversi», ma non ne nega platonicamente una sua (alternativa) praticabilità. Così, 41 42 43
J. STAROBINSKI, op. cit., p. 225. Ivi, p. 226. Ivi, p. 227.
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Rousseau compie nell’Essai un’analisi genetica della formazione, della funzione e dello sviluppo delle lingue, delle forme di linguaggio e della scrittura. Questa analisi, così geniale e dalla quale emergono non poche valenze epistemologiche ed ermeneutiche, non avrebbe, però, come suo scopo principale, l’indagine scientifica. Come ha sostenuto Starobinski, «il suo interesse per la linguistica speculativa è stimolato da una nostalgia che non è di ordine scientifico»44. Si è così prospettata l’ipotesi secondo la quale la filosofia del linguaggio – e il suo terreno epistemologico – è per Rousseau soltanto un punto di partenza, sia pure ricco, complesso e problematico, ma che il suo «vero» progetto fosse il raggiungimento di un metalinguaggio e di una metaetica della comunicazione umana, la progettazione dei possibili. In Rousseau, come ha osservato Starobinski, «una volta di più si coglie il suo desiderio di combattere il mondo dove è costretto a vivere, il mondo della mediazione e delle operazioni mediate, per contrapporvi un mondo possibile dove i rapporti umani potrebbero edificarsi con mezzi più esigui, più diretti, più sicuri»45. Tuttavia, l’analisi genetica delle forme di linguaggio e la possibile progettazione utopica di una comunicazione immediata in Rousseau sono pur sempre strettamente, connettivamente, intessute dal duro spessore della realtà storica da un lato e, dall’altro, pongono capo all’ipotesi storica controfattuale delle stesse. C’è nell’Essai, nella ricca e complessa analisi che Rousseau compie della problematica del linguaggio, un doppio passaggio che è, ad un tempo, centrale della sua ontologia ermeneutica: dal cominciamento del linguaggio delle origini al ricominciamento di una possibile comunicazione riconquistata nella sua immediatezza dopo il crescere della complessità intervenuta nel rapporto tra linguaggio/parola/scrittura: dalle origini alla modernità. Analisi genetica, antropologia culturale, filosofia del linguaggio, filosofia della storia, ontologia ed etica scandiscono i timbri del registro in cui si prospetta il discorso rousseauiano e che consentono, dopo Rousseau, di analizzarne la sua pregnante costituzione ermeneutica. La scrittura, e la sua violenza46, irrompono nell’humanum alienando ogni genere di comunicazione immediata, introducendo nel vissuto, nel parlato e nel pensato la mediazione dello scritto. Il senso dello scrivere fa da «supplemento» al non-senso della comunicazione interrotta, bloccata. Rousseau vive drammaticamente il problema della comunicazione – si è 44 45 46
Ivi, p. 231. Ibid. Cfr. R. SALVUCCI, op. cit., (La scrittura e la sua violenza, pp. 241 sgg.).
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detto – in tutta la sua complessità oggettiva, soggettiva e intersoggettiva, antropologica e ontologica. Ma, Rousseau non rinuncia né a parlare né a scrivere, come poi, non farà rinunciare a far scrivere e parlare di sé. Per Rousseau la scrittura rompe la comunicazione diretta, agisce secondariamente e, facendo ricorso alla mediazione del «supplemento», fa sì che la rappresentazione simbolica dell’azione comunicativa non sia più spontanea: essa rinvia non alla presenza del soggetto-oggetto, ma alla sua immagine speculare. Per tutto ciò, Rousseau è incline a svalutare, platonicamente, la scrittura in rapporto alla parola, a considerarla come riduttrice in quanto abolisce la presenza della cosa per sostituirla e supplirla con una figura o con una rappresentazione: essa privilegia l’immagine, il segno grafico, a detrimento della presenzialità dell’oggetto. La parola è, rousseauianamente, «l’espressione naturale del pensiero», cioè quella «forma d’istituzione o di convenzione la più naturale per significare il pensiero»47, mentre, la scrittura si scarta dallʼordine della natura introducendo il processo della figurazione e della mediazione simbolica. Nei confronti della parola, nella fenomenologia, nellʼeconomia e nella psicologia dello scambio simbolico, la scrittura è ridotta alla funzione di supplemento, sostituendo alla presenza la rappresentazione della presenza. La parola, perché prima, conserva il vantaggio di restituire l’oggetto della comunicazione simbolica, dialogica e intersoggettiva, mentre, la scrittura, in quanto seconda, ne fissa specularmente il simulacro partendo dai segni della parola: Le lingue son fatte per essere parlate, la scrittura non serve che da supplemento alla parola48.
In generale. La parola libera la comunicazione da ogni dominio, la scrittura la in-scrive nel-mondo-del-dominio: il dominio nel e del mondo è scritto mediante la forza, il potere, la proprietà, l’ineguaglianza, la violenza. La parola abita nella comunità (nella città)49 della comunicazione, la scrittura media ogni comunicazione nella comunità. Sopraggiunge, nei tempi e le forme del caso, della necessità, del bisogno e della storicità, il linguaggio mediato del discorso. Segni del tempo, catastrofi naturali e transizioni storiche: dalla cultura orale all’acculturazione scritta.
47 48 49
J.-J. ROUSSEAU, OC., II, p. 1249. Ibid. Cfr. B. BACZKO, La città e i suoi linguaggi, cit. R. SALVUCCI, op. cit., (Linguaggio e politica, pp. 267 sgg.).
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La nostalgia della parola e del sentimento, della parola-del-sentimento e del sentimento-della-parola, la voce del cuore, della passione e della verità cedono – nel mondo dell’alienazione – alla scrittura che ne diventa tecnicamente e automaticamente, e in forma reificata, il loro doppio: il segno insensato del senso. La parola era (ed è) senso del segno, la scrittura si dispone, invece, quale segno (ambiguo, affabulatore, negativo, omologatore) del senso. La parola, luogo di verità, sentimento, passione, espressione poetica e melodica, naturalità e corporeità immediata, si può scrivere in prosa? Alla scrittura, quale accusata, si può offrire la possibilità, l’alternativa, di essere accusatrice, segno di ragione e di autenticità? (È ancora tropo presto per seguire il percorso di questi transiti rousseauiani di cui si vedrà in seguito). Il segno, il gesto, lo sguardo della e nella parola – spazio della trasparenza linguistica – non traspaiono dalla e nella scrittura, mondo di segni – spazio della opacità. Il bene e il male, segni del mondo, sono di-segni che la scrittura in-scrive nella trama del supplemento, incapace com’è di costruire «une transparence dans la parole, quand elle ne peut à la vraie transparence»50. Supplendo alla spontaneità e alla ricchezza della comunicazione diretta, immediata, la scrittura fa ricorso alla mediazione grafologica, ortografica, segnica del senso dell’essere, rinviando, in assenza dell’essere (del soggetto-oggetto) alla sua immagine speculare. La scrittura supplisce la presenza dell’essere: è scrittura dell’assente, atemporalità dell’essere-nel-tempo e del-tempo-dell’essere. Come è stato osservato: «Tutta l’ermeneutica occidentale del segno analizza il progresso della comunicazione come inversamente proporzionale alla densità della presenza: più il primo è esteso, meno la seconda è forte, autentica»51. Lingua, linguaggio, scrittura e comunicazione costituiscono una costellazione di problemi che hanno profondamente caratterizzato gli orientamenti e la coscienza critica della filosofia moderna occidentale. Uno scenario così fitto di problemi con i suoi vari e complessi itinerari, transiti e progetti che ha marcatamente influenzato non soltanto i tradizionali campi del sapere filosofico, ma, che, ha anche spianato, a fronte della critica e della crisi della tradizione della metafisica occidentale, la strada verso la pratica di nuovi saperi discorsivi che hanno interagito all’interno del discorso filosofico moderno52. 50 51 52
A. WYSS, L’accent ment moins que la parole, cit., p. 104. R. BARTHES, P. MAURIÉS, Scrittura, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1981, vol. 12, pp. 625-626. Cfr. M. FOUCAULT, Le mots et les choses, cit. e J. DERRIDA, De la grammatologie, cit.
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Nel campo della linguistica, della filosofia e dell’ontologia del linguaggio, i contorni problematici che disegnano i confini di una tale affastellata costellazione possono essere concettualmente organizzati intorno al polo dualistico del problema della crisi del linguaggio da un lato e, dall’altro, dal rapporto tra pensiero della scrittura e scrittura del pensiero. Sappiamo, nel logos occidentale, questo polo dualistico, espresso dalla crisi del linguaggio e dal dominio della scrittura, affonda le sue radici indiziarie, scientifiche, filosofiche e ideologiche, nel discorso della metafisica e dell’ontologia della ragione classica e che si protendono, nella modernità, nel sempre più emergente e inaudito processo di crescita morfologica e strutturale della complessità sociale e della formazione dell’«esprit capitaliste». Dalla crisi del linguaggio al dominio della scrittura, questo, in itinere, è il percorso teoretico che la filosofia del linguaggio di Rousseau ha ampiamente transitato e di cui occorre (ri)leggerne, oggi, dopo Rousseau, gli esiti ermeneutici e critici più rilevanti. Il problema della lingua, del linguaggio, della scrittura e della comunicazione costituisce una complessa rete di nodi concettuali, problematici e pratici, effettivamente inaudita e tipica della struttura sistemica del moderno53, la quale vive nell’inflazione del segno-linguaggio e del linguaggio-del-segno, e della loro «crisi». La modernità, caratterizzata da un’elevata crescita delle prestazioni comunicative tra gli uomini, è il tempo e la forma di questa costellazione architettonicamente disegnata dall’insieme di due complesse polarità circolari: natura/ambiente/sistema sociale e linguaggio/parola/ segno/scrittura. Dopo un lungo movimento evolutivo, socio-culturale e storico, quale risultato di una complessa differenziazione funzionale delle prestazioni comunicative umane dalle loro condizioni naturali originarie, la modernità giunge al tempo e alle forme della scrittura quale medium e supplemento del linguaggio come comunicazione di senso e di significato: la scrittura come supplemento e come medium comincia a comprendere l’estensione del linguaggio, significante del significante. Sempre nella modernità, il mondo assume la forma sistemica di complessità sociale con, al suo interno ed esterno, i propri confini naturali e ambientali, le proprie formazioni sociali, le proprie morfologie strutturali, le proprie contingenze storiche e le proprie espressioni simboliche: dove
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Cfr. N. LUHMANN, Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, Bd. I, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1980 (tr. it. Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983).
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caso e necessità, casualità e teleologia segnano i ritmi dell’orologio del tempo storico tra razionalità e irrazionalità 54. La scrittura come necessità è una scelta dell’essere-nel-tempo: l’economia del sistema (simbolico) «intendersi-parlare-comunicare» nel mondo, nell’epoca storica del-mondo-dell’essere e dell’essere-del-mondo – tra passato, presente e futuro. Il telos di questo movimento è certamente discutibile, però esso ha sanzionato la sua «necessaria» funzione di strumento, di «macchina», di medium del linguaggio da quando l’essere è entrato nella storia e nel mondo della techné, nell’epoca storica del linguaggio della tecnica e della scrittura come tecnica del linguaggio: nel mondo socio-tecnico dei media della comunicazione. L’origine della scrittura nasce da una «morte», la «morte» della parola come phoné. La scrittura ha una storia fatta di lutti, di inganni e di violenze, ma il suo futuro è ignoto, cioè conosciuto perché misconosciuto è il destino del linguaggio, del pensiero del linguaggio. Tutto ciò può significare che occorre, ancora, «pensare la scrittura»? [Il linguaggio della scrittura, la scrittura del linguaggio, il linguaggio del pensiero scritto]. La scrittura, nella modernità, esprime micro e macro-universi significanti e significati: disegna il dominio spazio-temporale del segno nel e del mondo. Razionalità e/o irrazionalità della scrittura, ecco un modo in cui è avvolto il segno della modernità, il suo senso e il suo significato: il segno della ragione moderna si in-scrive, anche nella ragione segnata dalla scrittura fonocentrica e logocentrica. Dall’epoca in cui il segno (come significato e significante) traduceva immediatamente la prossimità assoluta della voce, della parola e del senso dell’essere – il tempo e le forme della prossemica dialogico-comunicativa/tempo della soggettività, dell’intersoggettività e dell’alterità presente dell’essere, in cui si dava presenza del senso dell’essere e dell’essere del senso, del soggetto –, si è passati al segno della pragmatica della comunicazione, al tempo e alle forme della scrittura come medium e come supplemento: alla scrittura come mediazione di mediazione, a un tempo come caduta nell’esteriorità del senso dell’essere e come traccia dell’essere come non-presenza. L’essere entrato nell’epoca della scrittura è l’essere della differenza, il mondo dell’essere è il mondo dell’apparire, il mondo come segno, come immagine, come esteriorità del significante e della scrittura metaforica: il soggetto (tragico) della maschera. Da tutto ciò risulta che la scrittura riduce la complessità del mondo della parola e dei confini del pensiero, ne rappresenta la contingenza mediata. Così, la scrittura è la riduzione sistemica della spontanea e ricca immediatezza della parola e 54
Cfr. J. ELSTER, Logic and Society, Wiley, London 1978.
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della complessa relazionalità e razionalità del pensiero. Come è stato osservato: «L’idea di una semplificazione, di una tensione verso l’economia dei sistemi di scrittura è più o meno acquisita nei teorici del Settecento: se i lumi si diffondono, il linguaggio cambia, diventa più preciso e meno ancorato alle passioni; sostituisce i sentimenti con le idee; non parla più al cuore ma alla ragione. Tuttavia questa economia, essenzialmente analitica, non è particolarmente positiva: la distanza sempre più grande rispetto all’origine che si crea in ogni progresso dà adito a una vera e propria nostalgia dell’essere, che vanifica tutte le possibili acquisizioni della storia […]. Il progresso della lingua, e della sua notazione, tende a una segmentazione economica; esso implica immancabilmente un’incoerenza, una riduzione della complessità, insomma uno smembramento dell’espressione […]. Dunque la scrittura non costituisce mai un oggetto autonomo, ma è sempre relativa. Essa è legata alla parola come il cattivo oggetto al suo contrario. È dell’ordine del corpo (e non del senso), della cultura (e non della natura) in quanto presuppone di sé un resto che non trova posto in nessuna economia classica» 55. Il dispositivo che genera tale riduzione di complessità del mondo/natura/ambiente/società/cultura è, com’è noto, la umana perfectibilité56. Delineando le componenti semantiche dell’antropologia della prima epoca moderna, Niklas Luhmann ha scritto, in relazione ai problemi di costituzione dei sistemi funzionali dell’antropologia dell’humanum, che: «Questo sviluppo trova il suo apice in Rousseau: nella rifondazione della natura umana da perfezione in perfettibilità. Con ciò il depotenziamento della negazione viene riferito all’origine stessa (dell’uomo). Al posto di una positività privatamente negabile e sempre in una certa estensione già corrotta si pone una originaria negatività, che è diretta a trasformare la determinazione da parte degli altri in autodeterminazione. Allora non si tratta più della perfezione che si autocorrompe ed eventualmente si priva della salvezza dell’anima, scegliendo l’amor di sé invece dell’amor di Dio. La negatività, piuttosto, sta ancora prima dell’autoriferimento e lo rende possibile solo dandogli la funzione dell’autodeterminazione. In corrisponden55 56
R. BARTHES, P. MAURIÈS, op. cit., pp. 612-613 e p. 626, c. m. Cfr. F. RIGOTTI, Nascita ed evoluzione di un’idea e di una parola: perfectibilité nel Settecento francese, in «Trimestre», X, n. 1-2, 1977. A. MINERBI BELGRADO, Società e natura umana nel discorso sull’origine dell’ineguaglianza in Rousseau, in «Studi critici», XII, n. 2, 1971. H. GOUHIER, op. cit., cap. I (Natura e storia nel pensiero di J.-J. Rousseau). B. BACZKO, op. cit., Deuxième partie (La «nature» et l’idée de l’histoire). R. POLIN, op. cit., cap. II (Les natures de l’homme et leur perfectibilité).
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za con ciò […] anche la perfettibilità non garantisce una perfezione alla fine raggiunta, non è né la forza germinale di uno sviluppo né una concausa della perfezione; essa è solo una espressione eufemistica della doppia possibilità della perfezione e della perversione»57. Poiché, come ha osservato Jean Mosconi, pensando al confronto tra Condillac e Rousseau, «la nature humaine originaire ne se définirait que par une labilité l’exposant à une perversion en même temps qu’à une perfection»58, tuttavia, il processo fondamentale che si registra è che, secondo Luhmann, «con il passaggio dalla perfezione alla perfettibilità l’antropologia fa venire l’uomo fuori dalla natura e lo pone come storia»59. Complessità sociale e contingenza storica non sono, così, né un portato né corrispondono a una «necessità» naturale, ma esprimono l’interazione di casualità e teleologia tra l’uomo, la natura e la storia: disegnano e compongono la morfologia e la struttura del tempo storico della moderna società borghese, quale risultato del processo di differenziazione funzionale e di razionalizzazione. L’uomodi-Rousseau abita in questa contingenza e la filosofia di Rousseau può essere considerata «une philosophie de la contingence»60. Così, dalla originaria destinazione che la parola e il discorso svolgevano nelle forme del linguaggio umano, si passa alla razionalizzazione, all’intelligibilità e all’autonomia della scrittura quale sintassi e grammatica del pensiero-linguaggio. Alla stregua del linguaggio evoluto, anche la scrittura soggiace a un divenire storico-logico-evolutivo orientato nella direzione e nel senso della progressiva razionalizzazione e astrazione, alla ricerca della chiarezza e della precisione, nell’attitudine a esprimere le idee allo scopo di soddisfare gli imperativi logici dello spirito. La pluralità delle forme di linguaggio acquistano, lungo tale divenire, in chiarezza ed esattezza perdendo, però, la loro espressione appassionata. Esse tendono a organizzarsi intorno al nucleo forte del pensiero logico-astratto, allontanandosi dalla forma immediata dell’emozione. Conformandosi al progresso e al potere della ratio, esse sostituiscono l’articolazione all’accento che è «l’anima del discorso» e la traduzione del sentimento: esse perdono, così, le principali qualità dell’armonia, il loro calore e la loro energia, trasformandosi in un macchinale strumento al servizio dell’intelligibilità e del rigore, del calcolo, del fonocentrismo e del logocentrismo della ratio astratta. Per un’evoluzione a 57 58 59 60
N. LUHMANN, Struttura della società e semantica, cit., p. 210. Cfr. J. MOSCONI, Analyse et genèse: regards sur la théorie du divenir de l’entendement au XVIIIe siècle, in «Cahiers pour l’Analyse», n. 4, 1966, p. 62. N. LUHMANN, op. cit., p. 210. R. POLIN, op. cit., p. 253.
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sua volta naturale ed effettuale, esse si distanziano dalla verità del cuore per aderire, progressivamente, alle verità dello spirito; intellettualizzandosi e perfezionandosi nell’uso delle astrazioni, si allontanano, però, dalla loro originaria e originale virtù tutta fondata sulla comunicazione al livello dei segni e dell’affettività: tali forme di linguaggio rinviano, così, agli esseri e alle cose tramite la mediazione della rappresentazione che si dispone ad essere altro dallo slancio iniziale delle passioni umane. Scrive Rousseau nell’Essai sur l’origine des langues: A misura che crescono i bisogni, che le questioni si aggrovigliano, che si diffondono i lumi, il linguaggio cambia carattere; esso diviene più preciso e meno appassionato, sostituisce ai sentimenti le idee; non parla più al cuore ma alla ragione. Perciò s’estingue l’accento, mentre si estende l’articolazione; la lingua diviene più esatta, più chiara, ma più biascicata, più sorda e più fredda. Questo progresso mi sembra affatto naturale61.
Come ha sottolineato Wyss: Le langage accentué des passions était universel, quoique exprimant l’individualité d’un être singulier: c’est qu’il était donné. Mais le langage articulé ne peut être clair que s’il est créé, non donné, conventionnel, non plus naturel. Avec le langage articulé, nous entrons proprement dans l’histoire: l’accent de l’homme primitif ne pouvait évoluer, puisqu’il était donné; par contraste, l’articulation, conventionnelle, est vouée à l’évolution constante; l’homme de l’articulation, c’est l’homme des besoins; or, ceux-ci augmentent sans cesse. L’histoire du langage, ce sera donc l’histoire de l’articulation et de ses progrès; en d’autre termes, c’est l’accent entré dans l’histoire par dégénérescence […]. On passera toujours de l’accent à l’articulation, et c’est ainsi que l’écriture apparaît comme une espèce de comble de l’articulation, dans la mesure où elle est inapte à représenter l’accent, alors qu’elle rend parfaitement compte de l’articulation. En outre, éliminant la présence de l’allocutaire au moment de l’encodage et la présence du locuteur au moment du décodage, l’écriture est essentiellement contraire à cette présence de l’être qui définissait la parole originelle. Enfin, traduction de traduction, elle est doublement médiate, alors que l’accent était caractérisé par l’immédiateté absolue, et du locuteur à l’allocutaire, et du message au référé62.
La scrittura si predispone al di là della parola e del discorso, quali destinatari originali del linguaggio, e promuove il processo di razionalizzazione 61 62
J.-J. ROUSSEAU, Essai sur l’origine des langues, tr. it. in Appendice a A. VERRI, op. cit., p. 171. A. WYSS, op. cit., p. 99.
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delle forme comunicative. Rousseau, nell’Essai, ha descritto, serializzandoli funzionalmente e storicamente, i principali tipi di scrittura: a) la scrittura pittografica; b) la scrittura ideografica e c) la scrittura alfabetica o fonetica. Il telos dell’evoluzione delle forme di scrittura è sotto il segno della «negatività»: lo sviluppo della cultura e la crescita della complessità sociale partecipano al processo di potenziamento e perfezionamento della scrittura a svantaggio della parola, approfondendo, di fatto, lo scarto tra l’arte di scrivere e l’arte del discorso63. Come è stato osservato: «Le perfectionnement de l’écriture, qui s’accompagne du perfectionnement de la grammaire et de la syntaxe, dépouille la langue de son pouvoir énergétique, de ses accents passionnés et de sa valeur mélodique; il provoque la dénaturation du discours, la rupture entre écriture et parole, selon un mouvement que l’on peut schématiser ainsi: discours/écriture = affectivité + harmonie/ clarté + intelligibilité»64. Lo sviluppo culturale della scrittura, come emerge con forza dalla sociologie de la communication65 che Rousseau svolge nell’Essai, annovera le principali responsabilità nella degradazione del linguaggio, provoca lo snaturamento del discorso e la scissione tra écriture e parole: la scrittura svolge, così, ad un tempo, una funzione unificatrice e riduttrice della poliedrica ricchezza del linguaggio umano, omologandone e razionalizzandone tutta la sua espressività, tutta la sua forza e tutto il suo vigore in favore di una astratta oggettivazione e sussunzione: La scrittura, che sembra dover fissare la lingua, è precisamente ciò che l’altera; essa non ne cambia le parole, ma il genio, sostituendo l’esattezza all’espressione. Si esprimono i propri sentimenti quando si parla, le proprie idee quando si scrive. Scrivendo si è costretti a prendere tutte le parole nell’accezione comune, ma colui che parla, modifica le accezioni mediante i toni, le determina come gli piace; meno impacciato per essere chiaro, dà più forza al tono: non è possibile che una lingua che si scrive conservi a lungo la vivacità di quella semplicemente parlata. Si scrivono le voci e non i suoni; ora, in una lingua accentata, sono i suoni, gli accenti, le inflessioni di ogni specie, che fanno la più grande energia del linguaggio, e rendono una frase, per altro comune, appropriata solo nel posto dove essa è. I mezzi che si usano per supplire a ciò, estendono e allungano la lingua scritta, e passando dai libri al discorso, snervano la parola stessa. Dicendo tutto come lo si scriverebbe, non si farebbe più che leggere parlando66. 63 64 65 66
Cfr. A. VERRI, Introduzione, op. cit.; A. KREMER–MARIETTI, op. cit. R. SALVUCCI, op. cit. M. EIGELDINGER, op. cit., p. 35. Cfr. G. NAMER, Le système social de Rousseau, Anthropos, Paris 1979, pp. 30-31. J.–J. ROUSSEAU, Essai, cit., pp. 179-181.
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La conclusione del capitolo V dell’Essai, interamente dedicato da Rousseau alla scrittura, ha sollevato una pluralità di commenti critici da parte degli interpreti. Recentemente c’è chi, insistendo particolarmente sulla problematica dell’espressione, ha scritto: «Il termine “espresione”, se inteso nel senso scolastico, è senza dubbio la parola chiave della visione platonico-rousseauiana della scrittura: quest’ultima è immancabilmente svalutata rispetto al pensiero, all’ingenium e alla parola; quando si parla, si rimane il più possibile fedeli al proprio pensiero e “non è possibile che una lingua che si scrive conservi a lungo la vivacità di quella semplicemente parlata” [Essai, cit., p. 181]. Ciò che parla non ha bisogno né d’assistenza né di sostegni di alcun genere, e la lingua letteraria, quella che parla come si scrive, esemplifica tutta la mostruosità della civiltà che la pratica quotidianamente. Ammalata gravemente, essa è “snervata”: ovvero quasi morta. Le caratterizzazioni filosofiche della scrittura sono quindi relativamente monotone e tale monotonia lungi dall’essere innocente, è tipica di una insistenza necessaria; perché la posta in gioco non è affatto limitata alla linguistica»67. La critica della scrittura retroagisce, però, positivamente, sulle possibilità della scrittura stessa quale «riappropriazione simbolica della presenza» (Derrida), diventa per Rousseau una forma-di-vita. È noto. La critica della scrittura che Rousseau svolge nell’Essai non ha affatto il senso e il significato di una definitiva condanna: la critica rousseauiana pone capo, si è visto, a uno studio genetico della scrittura e del processo della sua complessa evoluzione nell’universo della Kultur e nei disparati campi del sapere e della ragione. L’ambiguïté de l’écriture68, più volte espressa oggettivamente e soggettivamente da e in Rousseau, fa sì che essa sia ad un tempo contestata, riabilitata e legittimata: dal mondo della phoné all’universo dell’écriture. Ampiamente ritrattata per le riduzioni che essa compie e per la distanza (assenza) che instaura nello scambio comunicativo, la scrittura, secondo Rousseau, si giustifica, nella coscienza collettiva, per la sua oggettiva forza mediatrice e, nella coscienza individuale, per la sua soggettiva virtualità terapeutica. In quanto supplemento e medium, la scrittura riduce e fissa il mobile e l’effimero, si fa portatrice di una durata ontologica. In quanto forma-di-vita, la scrittura si fa (un) mezzo di salvezza: è con la scrittura che Rousseau può raccontarsi e (auto)giustificarsi sia ai suoi occhi come nei riguardi del lettore: vincere lo sdoppiamento di cui Jean-Jacques e Rousseau sono preda e riconquistare la loro unità; trascrivere i problemi della sua vita e gli oggetti delle sue contem-
67 68
R. BARTHES, P. MAURIES, op. cit., pp. 613-614. Cfr. M. EIGELDINGER, op. cit., cap. I, pp. 29-47.
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plazioni, restituendo loro la memoria e lo slancio vitale, quali i più benefici risarcimenti che gli si possano concedere. Contenuto e destinazione della scrittura non importano più, poiché la scrittura come forma-di-vita è diventata lo strumento mediante il quale Jean-Jacques Rousseau può risolvere la contraddizione vissuta tra il sentimento e il pensiero. La teoria e la pratica della scrittura si coniugano reciprocamente nel Ginevrino non assolvendo solamente il compito di critica ideologica della scrittura, ma poggiano le loro radici nel più intimo temperamento dell’écrivain-Rousseau. Fenomenologia, psicologia e ontologia della scrittura si connettono nel vissuto e nel pensato di Jean-Jacques. Leggiamo le celebri pagine delle Confessioni: Due cose quasi inconciliabili si uniscono in me senza che io possa capire come: un temperamento molto ardente, delle passioni vive, impetuose e delle idee lente a nascere, impacciate e che si presentano sempre troppo tardi. Si direbbe che il mio cuore e la mia testa non appartengano allo stesso individuo. Il sentimento più veloce del lampo fa traboccare la mia anima, ma invece di illuminarmi mi brucia e mi abbaglia. Sento tutto ma non vedo niente; sono impulsivo, ma stupido. Per pensare è necessario che io sia a sangue freddo. È strano, ma tuttavia ho il senso abbastanza sicuro della penetrazione, dell’acutezza anche, purché mi si aspetti: faccio delle magnifiche improvvisazioni con comodo, ma sul momento non ho mai fatto o detto niente che valga. Farei una bellissima conversazione per posta […]. Questa lentezza di pensiero insieme a questa vivacità di sentimento non l’ho solamente nella conversazione, la ho anche da solo e quando lavoro. Le idee si combinano nella mia testa con la più incredibile difficoltà. Vi si muovono lentamente, vi fermentano fino a commuovermi, a riscaldarmi, ad agitarmi, e per tanta emozione non vedo niente con chiarezza, non saprei scrivere una sola parola: bisogna che aspetti. Insensibilmente questa grande agitazione si calma, questo caos si schiarisce, ogni cosa si mette al suo posto, ma lentamente e dopo una lunga e confusa agitazione. Non avete visto qualche volta l’opera in Italia? Su quei grandi teatri nei cambiamenti di scena regna un disordine spiacevole che dura molto tempo; tutte le decorazioni sono mescolate. Da ogni parte si vede una confusione che fa pena, si crede che tutto va sossopra, e tuttavia a poco a poco tutto si aggiusta, niente manca e si resta sorpresi nel vedere seguire a questo lungo tumulto uno spettacolo stupendo. Questa manovra è simile a quella che avviene nella mia mente quando voglio scrivere. Se avessi saputo prima attendere, e poi rendere nella loro bellezza le cose che così vi si sono rappresentate, pochi autori mi avrebbero superato. Da ciò deriva la grande difficoltà che trovo nello scrivere. I miei manoscritti, cancellati, scarabocchiati, confusi, indecifrabili testimoniano la fatica che mi sono costati. Non ve ne è uno che non abbia dovuto copiare quattro o cinque volte prima di darlo alle stampe. Non ho potuto fare niente con la penna in mano davanti a un tavolo e alla carta. A passeggio, tra le roc-
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ce e i boschi, di notte, nel mio letto durante le mie insonnie scrivo nel mio cervello, e si può giudicare con quale lentezza, soprattutto per un uomo assolutamente sprovvisto di memoria verbale, e che durante la sua vita non ha potuto ritenere sei versi a memoria. Alcuni dei miei periodi li ho girati e rigirati cinque o sei notti nella mia testa prima che potessero essere messi sulla carta. Da ciò ancora deriva che io riesca meglio nelle opere che richiedono lavoro, che in quelle che debbono essere fatte con una certa leggerezza, come le lettere; genere di cui non ho mai potuto prendere lo stile e di cui occuparmi è per me un supplizio. Non scrivo una lettera sul più futile argomento che non mi costi delle ore di fatica; se voglio scrivere di seguito ciò che mi viene non so né cominciare né finire, la mia lettera è una lunga e confusa ciancia; vi si capisce a fatica quando la si legge. Non solo mi è faticoso rendere le idee, ma mi è faticoso anche riceverle. Ho studiato gli uomini, e credo di essere un osservatore abbastanza buono; tuttavia non so vedere niente di quello che vedo, non vedo bene che ciò che ricordo, e non ho acume che nei miei ricordi. Di tutto quello che si dice, di tutto quello che si fa, di tutto quello che avviene davanti a me non comprendo niente, non penetro niente, la forma esterna è tutto quello che mi colpisce. Ma dopo tutto ritorna a me, mi ricordo il luogo, il tempo, il tono, lo sguardo, il gesto, la circostanza; niente, allora, mi sfugge su ciò che si è fatto o detto, ritrovo ciò che si è pensato ed è raro che mi sbagli. Così poco padrone del mio spirito quando sono solo con me stesso, si pensi quello che debbo essere nella conversazione quando, per parlare a proposito, bisogna pensare a mille cose nello stesso tempo e con prontezza. Il solo pensiero di tante convenienze delle quali sono sicuro di dimenticare almeno qualcuna, basta a intimidirmi; non capisco neanche come si osi parlare in un crocchio poiché a ogni parola bisognerebbe passare in rassegna tutte le persone che sono là, bisognerebbe conoscere tutti i loro caratteri, sapere tutte le loro storie, per essere sicuri di non dir niente che possa offendere qualcuno. Su questo punto quelli che vivono nel mondo hanno un grande vantaggio: sapendo meglio quello che debbono tacere, sono i più sicuri di quello che dicono, eppure spesso scappa loro qualche scemenza. Si pensi a chi cade là dalle nuvole: gli è quasi impossibile parlare impunemente. Quando si è solamente due vi è un altro inconveniente che io trovo peggiore: la necessità di parlare sempre. Quando vi parlano bisogna rispondere; e se non dicono una parola bisogna risollevare la conversazione. Questa insopportabile costrizione da sola mi avrebbe disgustato della società, non trovo che vi sia una tortura peggiore dell’obbligo di parlare con prontezza e sempre. Non so se questo dipenda dalla mia mortale avversione per ogni assoggettamento, ma basta che sia necessario che io parli perché dica infallibilmente una scempiaggine. Quel che è più tragico è che invece di saper tacere quando non ho niente da dire, proprio allora per pagare più in fretta il mio debito ho la smania di voler parlare. Mi affretto a balbettare subito delle parole senza idee, felicissimo quando esse non significano completamente niente. Per voler vincere o nascondere la mia incapacità raramente manco di mostrarla […].
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Amerei la società come un altro se non fossi sicuro di mostrarmi ad essa non solamente con mio svantaggio ma del tutto diverso di quello che sono. La decisione che ho preso di scrivere e di nascondermi è proprio quella che mi si addiceva. Me presente, nessuno avrebbe mai saputo ciò che valevo69.
In tutta la sua originalissima torsione, la disgiunzione tra parola e scrittura – poggiante sul dualismo antinomico tra sentimento e pensiero – pone capo al complesso rapporto tra i problemi di scrittura di Rousseau e la scrittura come problema di Jean-Jacques. Jean-Jacques osserva, nella propria esperienza vissuta, un peculiare, strano, contrasto, una sorta di scarto psichico che si interpone tra la «vivacità del sentire» e la «lentezza del pensare»: i moti dell’animo, dell’affettività e delle passioni sono rapidi, istantanei, violenti, caldi come la fiamma; mentre, i movimenti del pensiero sono confusi e tardivi, il più delle volte impediti e ostacolati nella loro germinazione e nella loro riorganizzazione cosciente. I sentimenti e le idee non procedono simmetricamente, anzi si separano nel tempo e nello spazio, come la parola e la scrittura. Le implosioni e le esplosioni dei primi, dei sentimenti, proiettano in Jean-Jacques un fuoco di un’intensità abbagliante che annebbia il pensiero; le seconde, le idee, procedono lentamente e non possono a loro volta riorganizzarsi se non dopo l’intervento razionale della coscienza riflessiva. In Jean-Jacques, come in Rousseau, non si dà simultaneità e contemporaneità tra i moti dell’animo e quelli dello spirito: una delle singolarità di Jean-Jacques Rousseau è di provare una dislocazione ontologica tale che gli impulsi del sentimento e quelli del pensiero non si riuniscono, sic et simpliciter, nella trama del vissuto. Sia nelle opere autobiografiche che in quelle della solitudine, Rousseau, dipingendo retrospettivamente la psicologia del carattere di Jean-Jacques, conferma sostanzialmente la divisione tra sensibilità e riflessione, tra vissuto e pensato. È la creazione letteraria che interviene, tramite l’intervento diretto dell’écrivain, nella complicata trama delle «apparenti contraddizioni» di Jean-Jacques, nel tentativo di risolverne le più interne antinomie. La forza della passione e l’azione della ragione discorsiva, entrambe divise nel tempo e nella durata del loro cominciamento, sono riconciliate dialetticamente mediante la scrittura, nel cui processo alchemico si combinano tanto l’espansione e la concentrazione quanto il calore dell’emozione e il calcolo della riflessione. Sentimento, passione, pensiero riflesso e ragione discorsiva costituiscono, nel loro peculiare e reciproco intreccio, gli ele69
J.-J. ROUSSEAU, Le Confessioni, in ID., Opere, cit., pp. 808-810.
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menti fondamentali che organizzano tra di loro il complesso e complicato rapporto tra linguaggio, scrittura e comunicazione in Rousseau. Nella (ri)produzione della scrittura come supplemento-medium del linguaggio, la riflessione gioca un ruolo estremamente importante in Rousseau, costituendone un topos polemico e quanto mai ambivalente del suo pensiero filosofico e autobiografico: della «vertigine dello sdoppiamento ed esigenza di unità»70 che connotano il vissuto, il pensato e lo scritto di Jean-Jacques. Sullo statuto ontologico e sull’ambiguità estrinseca della riflessione in Rousseau è necessario soffermarsi su quanto ha scritto Starobinski: La ragione discorsiva, nella misura in cui procede dal pensiero riflesso, costituisce il culmine della disgiunzione in rapporto all’unità primitiva. Ma la prova della divisione provoca e fa fiammeggiare il desiderio di reintegrare l’unità perduta: subire la rottura porta a scoprire l’esigenza della comunicazione che ricomporrà la frantumazione dell’essere. La parola razionale assolve in Rousseau la funzione esplicita di ritrovare ciò che, in essa e per sua causa, è stato perduto. La riflessione logica non va bandita; occorre portarla senza cedimenti al suo fine. Allora, quando la parola tace dopo avere esaurito il proprio compito, la coscienza dalla ragione ritorna alla legge del sentimento e all’unità indivisa del cominciamento. Un ciclo si richiude dove la visione separata e il male della riflessione avranno avviato la coscienza sulla strada del ritorno alla felicità originaria. Rousseau è bel lontano dal poter essere collocato fra gli irrazionalisti, ma il suo razionalismo va di pari passo con la convinzione (cui faranno ricorso i romantici) secondo la quale la verità «esistenziale» pertiene al regno del tempo – o dell’istante – e non a quello dello spazio oggettivo offerto alle operazioni quantitative della ragione. Non va dimenticato che questa avventura della coscienza, che tende a superare la servitù del linguaggio convenzionale, si offre a noi nella sua interezza attraverso il veicolo del linguaggio: se lo sguardo riflessivo, a forza di rigore, può condurre al di là dell’infelicità della riflessione, la parola conclusa (che è poesia) cerca e trova un potere di superamento analogo. Sembra proprio che Rousseau abbia contribuito a porre questo potere in evidenza71.
La parola e la scrittura, il sentimento e il pensiero, la passione e la ragione ritrovano una loro consustanziale dislocazione ontologica, nella funzione dialettica di riconciliazione della écriture praticata dal filosofo che, tan70 71
Cfr. J. STAROBINSKI, Jean-Jacques Rousseau e il pericolo della riflessione, in ID., L’occhio vivente, cit., pp. 135 sgg. J. STAROBINSKI, op. cit., pp. 15-16. Sulla portata teorica e morale del tema della riflessione in Rousseau si vedano anche le osservazioni di R. ALBERTINI, J.–J. Rousseau. La conoscenza come misura dei possibili, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», serie III, vol. XIII, n. 4, 1983, pp. 1057-1076.
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to nella creazione letteraria quanto nel delirio esistenziale, combina l’espansione e la concentrazione, il calore dell’emozione e il calcolo della riflessione nel suo io quotidiano e nella sua coscienza spirituale. Le «apparentes contradictions» che agitano il cuore di Jean-Jacques e lo spirito di Rousseau possono essere affrontate mediante l’atto di scrivere secondo un atteggiamento «bipolare» a cui ricorre il Ginevrino, ora attraverso una retorica dell’antitesi, ora con una dialettica del superamento72. Illuminazioni spirituali, implosioni emotive, esplosioni ed effervescenze passionali, euforie, delusioni, ruminazioni dell’anima, rimozioni, repressioni, agitazioni viscerali, rêveries, spunti polemici, lettere, confessioni, dialoghi, progetti critici, partecipano alla magmatica concezione e composizione della produzione mentale che, organizzata coscientemente, si traduce nella scrittura delle opere. L’atto di scrivere – il lavoro della creazione (culturale) – si svolge secondo i ritmi di una temporalità bipolare. In un primo tempo si accompagna a un turbamento e a una effervescenza che confina col delirio dell’essere. Durante questa fase, non potendosi svolgere in un climax di quiescenza, e comunque dispensato dall’azione della ratio, esso provoca un ribollimento di tutto l’essere, un suo riscaldamento spirituale: la febbrile e abbagliante emotività che accompagna la germinazione confusa e disordinata delle idee pone capo, nel primo momento dell’intuizione e della creazione, a una vera e propria illuminazione i cui «effetti perversi» non possono essere immediatamente appresi dalla e con la scrittura. In un secondo momento, invece, dopo il passaggio della «corrente calda» della illuminazione rivelatrice, subentra la «corrente fredda» del pensiero riflesso e della ragione discorsiva, la cui funzione è quella di riorganizzare coscientemente e coerentemente l’universo delle idee ai fini della comprensione dell’opera. Di fatto, la fenomenologia e l’economia peculiari dell’atto di scrivere evidenziano, nelle loro diverse fasi, i rapporti che si stabiliscono in esso tra i nuclei simbolici e la componente semantica della temporalità con le forme del pensare e dell’agire individuale e collettivo. Così, come ha osservato Eigeldinger: «Non seulement l’écriture bénéficie de la chaleur du sentiment et de la maturation de la pensée, mais elle réconcilie leurs mouvementes contradictoires, en les équilibrant par son pouvoir de synthèse»73. Questo «pouvoir de synthèse» che la scrittura rousseauiana evince, consente – nel suo orizzonte di senso formalmente e storicamente determinato 72 73
Ivi, pp. 137 sgg. M. EIGELDINGER, op. cit., p. 40.
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– un superamento di tutte quelle pratiche di scrittura tradizionali che rapportano le dimensioni simboliche e temporali del processo culturale di produzione letteraria e filosofica nei termini statici e ipostatizzati di una distribuzione topologico-spaziale-temporale del vissuto, del pensato e dello scritto. In Rousseau la creazione letteraria e la produzione della scrittura richiedono dinamiche distinte e tempi e spazi fisici e psichici differenziati: gli atti della creazione culturale, i suoi ritmi, le sue forme e i suoi luoghi si distinguono tanto per la concezione e l’esecuzione, quanto per l’invenzione mentale e l’atto di scrivere. Coinvolgendo l’economia del corpo e l’immaginazione dell’esprit, Jean-Jacques e Rousseau mobilitano tutte le risorse energetiche e interiori del proprio essere. La scrittura, supplemento della parola, differente dalla naturalità dell’essere, è il veicolo sul quale si intraprende il viaggio dell’autoanalisi che l’io dell’écrivain compie, attraverso l’uso delle metafore, delle analogie e delle immagini, della dinamica soggettiva dell’essere dell’uomo, dell’uomo-Rousseau (Jean-Jacques) e dell’uomo-diRousseau. Mediante la scrittura Rousseau approda a una visione della propria vita e del mondo che si risolve nella propria œuvre come un’opera pur sempre tesa e destinata a riordinare e reinterpretare i frammenti del proprio io vissuto in una generale prospettiva di salvezza né meramente teologica né esclusivamente estetico-letteraria, ma progettante una riappropriazione in sé della propria identità individuale – al di là di ogni possibile «effetto perverso» di disgregazione – e disposta a farsi «figura» di un più generale disegno storico collettivo. L’immaginazione progettante della scrittura rousseauiana pare seguire una sua intima e consustanziale teleologia, circolarmente percepibile a posteriori, e che si dispone lungo due principali paradigmi connettivamente intrecciantisi: il paradigma indiziario e quello analogico. Secondo la prospettiva che si desume dal paradigma indiziario, l’écrivain deve poter restituire – e perciò ridurre a mezzo della pratica scritturale – ai minimi segni, che emergono dalla complessità del reale (esterna e interna), un loro appropriato e comunque coerente senso del mondo fin dentro alle sue più imperscrutabili regioni: un mondo del senso che non trascuri il gioco tra conoscenza consapevole e sapere dell’inconscio74. A questo modello di conoscenza si contrappone, nella pratica scritturale, l’altro paradigma e cioè quello della prospettiva intuitivo-analogica. Se nel paradigma indiziario la scrittura ha a che fare con l’opacità e refrattarietà della realtà dell’essere e delle cose per le quali ingaggia la forma sua propria di com74
Cfr. P.-P. CLÉMENT, Jean-Jacques Rousseau de l’éros coupable à l’éros glorieux, cit.
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prensione, nel paradigma analogico la scrittura evince l’improvvisa e immediata trasparenza di un mondo purificato da ogni sedimentazione spazio-temporale, il-mondo-originale-delle-origini sul quale si organizza, sul piano della scrittura, il dispositivo forte della metafora e del suo potere liberatorio per l’immaginario. Nell’Essai (cap. III, Que le premier langage dut être figuré) Rousseau fa esplicito riferimento alla affezione passionale della genesi del linguaggio, nella cui «funzione espressiva» occorre ricercarne il linguaggio originario. Il linguaggio delle origini è un linguaggio appassionato, sonoro e fortemente accentato, un linguaggio che trova proprio nel registro soggettivo una lingua espressiva, non descrittiva: tale linguaggio, fondamentalmente metaforico, si organizza tramite un’economia simbolica di «immagini, sentimenti, figure» che diventano i segni della rappresentazione comunicativa e i portatori della ricca e complessa fenomenologia delle emozioni e della poetica delle passioni umane. Scrive Rousseau nell’Essai: «Siccome i primi motivi che fecero parlare l’uomo furono le passioni, le sue prime espressioni furono i tropi. Il linguaggio figurato fu il primo a nascere; il senso proprio fu trovato per ultimo»75. Il registro passionale dell’essere e l’immediatezza del suo sentire connotano la componente energetica del linguaggio metaforico, la cui ricchezza, il cui vigore e il virtuoso movimento della sua mirabile eloquenza si fanno forza consustanziale della espressione, della parola e della scrittura. Naturalmente, l’espressione linguistica e simbolica agita nella forma retorica della metafora, nata dalla passione, non riflette né disegna la verità, la configurazione oggettiva della complessità del reale: il linguaggio metaforico non è il linguaggio della ratio ma è il linguaggio vissuto, parlato e scritto nell’affezione delle passioni. «La métaphore – ha scritto Eigeldinger – ne constitue pas seulement la substance poétique du langage, elle remplit en lui la fonction connotative, qui rompt avec l’ordre de la logique pour valoriser le contenu de l’émotion. Elle sollicite l’acquiescement de la sensibilité par son relief et son éclat, par les corrélations qu’elle exprime entre l’univers psychique et l’univers physique»76. L’écrivain e la sua immaginazione77 aprono con il lavoro della metafora e della sua scrittura un campo inedito all’interno delle pratiche discorsive del sapere letterario, estetico e filosofico. L’operare metaforico rom75 76 77
J.–J. ROUSSEAU, Essai, cit., pp. 164-165. M. EIGELDINGER, J.–J. Rousseau. Univers mythique et cohérence, cit., p. 45. Cfr. M. EIGELDINGER, J.–J. Rousseau et la réalité de l’imaginaire, La Baconnière, Paris 1962.
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pe gli schemi e i codici abituali del sapere e della ragione classica, libera una nuova immagine del soggetto moderno, progetta nei confronti del reale il mondo dei possibili. Il dispositivo della metafora lavora direttamente sui materiali del vissuto, sia sulla quotidianità dell’esperienza che sulle luci e le ombre della coscienza dell’essere; stabilisce nuovi e più articolati rapporti nella fitta rete in cui si organizza il sistema degli oggetti. Ancora, il metaforico traspone, nella dinamica della scrittura, l’universo onirico di Jean-Jacques e la memoria del vissuto dell’essere di Rousseau, irrimediabilmente destinati, altrimenti, all’oblio del tempo. Tuttavia, nella scrittura rousseauiana, il potere evocativo della metafora e il valore conoscitivo dell’analogia si sovrappongono confondendosi nel complicato circolo in cui vengono a confluire i segni del tempo, la ragione speculativa e l’immaginazione progettante. Le stesse metamorfosi ontologiche di Jean-Jacques incidono sulla scrittura di Rousseau connotandone ora la prospettiva indiziaria, ora quella retorico-argomentativa. I tempi, i modi, i ritmi e le forme della scrittura di Rousseau non corrispondono immediatamente al vissuto di Jean-Jacques: il vissuto anticipa il pensato e lo scritto. Ecco, allora, intervenire il dispositivo metaforico e allegorico della scrittura a ricomporre e ricostruire, pur nella loro irriducibile alterità, i frammenti, i segni e le tracce dell’io e della vita di Jean-Jacques Rousseau. La pratica della scrittura, attraverso e mediante il cortocircuito della metafora, coniuga nell’essere dell’écrivain il mondo della sua vita quotidiana con il campo del sapere indiziario e analogico, complice lo stesso suo originale stile. Metafora e analogia convergono nella pratica della scrittura rousseauiana e, così, pongono capo alla produzione dell’immaginario simbolico all’interno della sua œuvre. Nel momento della creazione letteraria e dell’intuizione filosofica, l’ispirazione è, per l’écrivain, una sorta di ebbrezza che trasfigurando il reale e dischiudendo i più intimi, profondi e segreti recessi della sua interiorità, lo mette in comunicazione con il mondo. Nella vicenda umana e intellettuale di Rousseau, l’ebbrezza svolge un ruolo che difficilmente si può ridurre nel semplicistico e debole significato comportamentale di atteggiamento anarchico dell’io di Jean-Jacques e della sua differente alterità quale regola ontologica dei suoi rapporti intersoggettivi78. Nella pratica della scrittura, le metamorfosi dell’ebbrezza di Rousseau evidenziano, in tutto il loro spessore, una più intima archeologia della sua esperienza biografica e autobiografica. Nel processo alchemico della scrittura, di fatto, l’ebbrezza di Jean-Jacques traccia la topografia della psiche di Rousseau, degli strati (ontologici) 78
Cfr. F. JESI, Rousseau, cit., pp. 92-94.
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inseparabili del suo essere pubblico e privato, profondo e mondano. L’ebbrezza di Rousseau non è meramente un eccesso dell’io di Jean-Jacques, ma sprigiona una complessa politica dell’esperienza che allenta l’intricato tessuto di maglie che chiudono quell’io trasgredendone la rigida separazione tra realtà, mito e immaginazione. L’ebbrezza e la politica della sua esperienza si collegano direttamente alla responsabilità del soggetto che desidera praticarla (nella solitudine) nell’altrove della sua esistenza: il luogo aporetico dove realtà e immaginario coincidono. L’esperienza dell’ebbrezza non è per l’essere semplicemente uno stato estatico-allucinatorio, ma è anche uno stato di quiete in cui si accumulano quelle forze potenziali che dilatano lo spazio immaginale, l’altrove dell’esistenza immaginata possibile e/o mitica. Nell’ebbrezza, l’io, rilassandosi rivive l’esperienza della propria autenticità nel continuo gioco delle metafore e delle immagini allegoriche restituite, poi, dallo stile della scrittura. Nello spazio immaginale che l’esperienza e la magia dell’ebbrezza evocano, prende corpo la «luce filosofica» della scrittura rousseauiana, quale «riappropriazione simbolica della presenza», manifestando acutamente tutte le sue ambiguità e aporie ampiamente note. La metafora, rousseauianamente, getta un fascio di luci e di ombre sul complesso rapporto che dialetticamente e ontologicamente lega pensiero, linguaggio e mondo. Ma, la metafora è ambigua, sfuggente. Il suo dispositivo ha un che di enigmatico nel gioco dei suoi possibili contrari che in e con esso agiscono e che determinano l’operare metaforico: figura, segno, parola, concetto, scrittura, immaginazione. Lo statuto ermeneutico della metafora continua ancora a provocare le pratiche discorsive del sapere filosofico. Ha scritto Umberto Eco: «Se appena si intende per metafora tutto quello che di essa è stato predicato lungo i secoli, appare chiaro che trattare della metafora significa come minimo trattare anche (e l’elenco è incompleto) di: simbolo, ideogramma, modello, archetipo, sogno, desiderio, delirio, rito, magia, creatività, paradigma, icona, rappresentazione – nonché, è ovvio di linguaggio, segno, significato, senso» 79. Ora, il dispositivo della metafora è continuamente presente nel corpo della scrittura rousseauiana nella molteplicità delle sue forme di linguaggio, di senso reale e letterale, di simbolo, di mito, di sogno, di desiderio, di immaginazione. Nell’œuvre e nel testo, la scrittura rousseauiana si organizza ampiamente intorno ad un’economia della retorica della metafora, della metafora della parola, della intuizione allegorica e di una teoria metaforica con-testuale della realtà e della verità che ne tracciano l’interna e comples79
U. ECO, Metafora, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1980, vol. 8, p. 191.
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sa architettura: nel rapporto tra metafora ed essere si sviluppano le metamorfosi ontologiche di Jean-Jacques. Il processo metaforico ha in Rousseau il suo dispiegamento nella scrittura come supplemento e come medium del linguaggio. Tuttavia, tale processo è problematico qualora si pensi ai rapporti che in tale scrittura la metafora stabilisce con la finzione, l’immagine e l’immaginazione operate dall’écrivain. Jean-Jacques vuole un mondo-di-parola ma, nelle difficoltà della comunicazione, assente, sceglie di scrivere per comunicare con gli altri e con la realtà che lo circonda. Allora il centro ontologico dell’essere si scarta, si sposta, si dispone dalla parola alla scrittura e la metafora, nelle pratiche del discorso tra scrittore/lettore, si inserisce nel linguaggio tra le parole e le frasi. Ma, allora, è la metafora una riscrittura della realtà e della verità della medesima? Il carattere pulsionale e tensionale della verità metaforica, nella sua peculiare ambiguità di finzione e riformulazione della realtà, è nella scrittura dell’assente la spia indiziaria del suo rapporto dialettico e ontologico tra il «ciò che non è e l’è»? L’enigma della scrittura metaforica disvela il suo intimo paradosso! Ha scritto Ricoeur: «Il paradosso sta nel fatto che non v’è altro modo di riconoscere la nozione di verità metaforica che quello di comprendere la portata critica del “non è” (letteralmente) nella forza ontologica dell’“è” (metaforicamente)»80. Nella produzione simbolica dell’immaginario, il lavoro della metafora trasgredisce l’ordine statico dei segni linguistici e della grammatica del pensiero. La scrittura metaforica rousseauiana non si dispone più e soltanto come figura o organo del pensiero mitico e come strumento di conoscenza della ratio, ma si fa sempre più segno portatore di un «surplus di senso», forza del desiderio, autocomprensione e attività progettante del soggetto, immaginazione dei mondi possibili. Pertanto, in Rousseau, «ne deriva – come è stato osservato – che il linguaggio metaforico è senz’altro falso rispetto alla realtà oggettiva, ma vero, tuttavia, rispetto alla sfera soggettiva della passione: in quanto una trascrizione linguistica della passione non sarebbe possibile in termini meramente descrittivi, il linguaggio figurato è l’unico adeguato all’espressione del sentimento. Nel comune medio linguistico, la metafora è il modulo letterario che consente il passaggio dall’uno all’altro piano di realtà e verità, e la trasposizione in chiave di sentimento e di una realtà oggettivamente diversa»81. 80 81
P. RICOEUR, La métaphore vive, Paris, Seuil 1975, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1981, p. 335. F. ZAMBELLONI, Linguaggio musicale e linguaggio lirico in Rousseau, in «Rivista di filosofia», n. 1, 1974, p. 26.
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Nella parola, nel linguaggio, nel discorso e nella scrittura, la realtà e la vita di Jean-Jacques trovano la loro ragion d’essere, ogni loro comprensione ontologica. Jean-Jacques lotta, durante tutta la sua vita, per il riconoscimento e la comprensione, per la verità, in un gioco continuo e complesso di maschere82, e in questa incessante lotta, nel tempo corrotto del presente, è spinto da una duplice volontà: dalla «volontà di ascolto» circolarmente esperita tra il suo io, differente e altro, e il mondo intersoggettivo che lo circonda, e dalla «volontà di sospetto» che anima la mania persecutoria delle sue idiosincrasie personali. Al centro di questo complesso processo si snoda l’essere della coscienza di Jean-Jacques quale fondamento ontologico umano, come interazione di essere-uomo-mondo-linguaggio: la coscienza di Rousseau non è immediatamente data ma è un processo ora centrifugo ora centripeto del suo sé, un compito verso il quale l’uomo e il filosofo, Jean-Jacques e Rousseau, si dispiegano e che trovano, nel fare poietico del linguaggio e della scrittura, come supplemento-medium del linguaggio, la loro pratica costitutiva. Tale fare poietico del linguaggio della scrittura trova nel mondo del testo, nel mondo del linguaggio divenuto testo – in cui si sussume il potere della parola, dei simboli, dei miti, della poesia, della musica, della festa, della metafora e dell’immaginazione – il proprio medio dialogico-comunicativo, lo specifico testuale del proprio senso che definisce il significato e il contenuto del discorso di cui parla e/o scrive Rousseau, e la sua referenza che rimanda al suo destinatario, una referenza che non è, malgré Rousseau, di tipo ostensivo, nel senso che chi parla e scrive (Jean-Jacques) non è «presente». La materialità del testo e della scrittura rousseauiana fa riferimento a situazioni, fatti, cose che vengono evocate e che non sono, hic et nunc, presenti, ma che sono state e che, in nuce, possono avere una vita virtuale, possibile: ecco, perché, tale referenza è sdoppiata dal senso letterale ad opera del dispositivo metaforico tipico della scrittura rousseauiana. La referenza sdoppiata del testo scritto è una delle caratteristiche peculiari della scrittura di Rousseau, del fare poietico del suo linguaggio di écrivain e di filosofo del linguaggio. Il mito, l’analogia, l’immaginazione e la metafora rappresentano gli elementi costitutivi del fare poietico del suo linguaggio scritturale, lo scopo del suo agire comunicativo. Infatti, nella sua œuvre come in ogni suo testo, il dispositivo della metafora non ci dice fino in fondo la realtà, ma, come, tra le infinite possibilità, essa potrebbe essere: la sua funzione è quella di potenziare il valore dell’immaginazione, di riscrivere, nel testo, la realtà. La metafora ci fa fare esperienza delle metamorfosi ontologiche del linguaggio e della realtà, 82
Cfr. B. ANGLANI, Le maschere dell’io, cit., pp. 47-74.
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trasgredendo ogni forma-di-linguaggio e ogni forma-di-vita logicamente precostituite. La metafora riscrive l’essere-uomo-mondo-linguaggio, ricreandolo nell’immaginario. Tra immaginario e metafora, la scrittura rousseauiana, come supplemento e medium del linguaggio, dispiega possibili nuove dimensioni dell’agire comunicativo e del fare poietico del linguaggio dell’essere e della coscienza per la costituzione di una nuova soggettività post-cartesiana. Postilla 1 Sulle questioni sviluppate sopra occorre, tuttavia, aggiungere quanto segue. Rousseau écrivain e l’écriture di Jean-Jacques rappresentano, nell’ermeneutica filosofica della critica rousseauiana, un rapporto assai complesso e ancora ricco di suggestioni interpretative che non hanno mancato di caratterizzare la lettura di Rousseau nella contemporaneità. Infatti, c’è chi, come Michel Launay83, ha proposto, provvisoriamente, la nozione di écriture concractuelle quale sintesi dei diversi registri linguistici e problematici in cui si organizza il lavoro critico di Rousseau écrivain. Per Launay in Rousseau sarebbero rintracciabili quattro principali forme e/o figure di écriture contractuelle, la cui struttura implica un certo tipo di rapporto di osmosi reciproca tra il lecteur e l’écrivain. La prima forma è quella della écriture critique, tipica dell’apprentissage e del commencement di Rousseau come écrivain, durante i quali, il Ginevrino, denunciando i mali della civilisation, la corruzione della società e la dénaturation dell’humanum 84, critica, pur utilizzandoli, gli strumenti della rhétorique e fa ricorso alla sua personale ed espressiva forma di éloquence accusatrice (Starobinski). L’éloquence è sempre stata una delle caratteristiche peculiari, costanti ed evidenti della écriture rousseauiana85: la forza delle passioni e la dialettica dei sentimenti sono le predominanti personali della parola, del linguaggio e della retorica argomentativa di Jean Jacques. È un fatto. Non sempre la storiografia critica ha saputo cogliere in profondità i nessi tutti moderni che legano l’éloquence e la rhétorique nella pratica della écriture (e nello stile) della filosofia di Rousseau, che difficilmente possono essere «lette» mediante i canoni della classicità dei «generi» (letterari, linguistici, filosofici). Nell’œuvre di Rousseau, sappiamo, éloquence,
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Cfr. M. LAUNAY, Rousseau écrivain, in AA.VV., Rousseau after two hundred years, Edited by R.A. Leigh, Cambridge University Press, Cambridge 1982, pp. 207-223 e ID., L’écriture contractuelle de J.-J. Rousseau, Symposium RousseauVoltaire, American Society for Eighteenth-Century Studies, Chicago 22 Avril 1978. Cfr. M. ANSART-DOURLEN, Dénaturation et violence dans la pensée de Rousseau, Klincksieck, Paris 1975. Cfr. J. STAROBINSKI, Rousseau et l’éloquence, in AA.V., Rousseau after two hundred years, cit., pp. 185-200.
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rhétorique e métaphora si intrecciano nella pratica della sua scrittura lungo tutto l’arco del suo itinerario letterario, filosofico, politico e autobiografico: questa trilogia costituisce, nel suo rapporto dialettico, un problema di vita, di riflessione teorica e di (auto)giustificazione consustanziali alla sua écriture. Rousseau, nella sua œuvre e con la sua écriture, sviluppa – tra apologetica personale e criticità riflessiva – una teoria, una pratica e una critica della tematica e del problema dell’éloquence. È stato Starobinski86 a richiamare l’attenzione sugli effetti tipici di éloquence che la pratica di scrittura rousseauiana produce: accuser e séduire. Dalle opere «sistematiche» e «dottrinali», pubbliche, a quelle autobiografiche e della solitudine, private, Rousseau ha esperito ed esibito la natura ora accusatrice ora fabulatrice e seduttrice dell’éloquence, dei suoi limiti come della sua ricchezza linguistico-argomentativa. Il commencement dell’œuvre e dell’écriture di Rousseau, lo si è già visto in precedenza, è sotto il movimento e il segno dell’accusation e della dénonciation (queste sono alcune delle prerogative della écriture critique) del mal che la modernità ha prodotto e produce. Nelle opere pubbliche, «les maux de la civilisation», le loro cause e i loro «effetti perversi» vengono denunciati e criticati da Jean-Jacques con il continuo ricorso a un linguaggio, a una scrittura e a uno stile (letterario, filosofico, politico) in cui l’éloquence gioca, insieme alla métaphora del «mal», della «maladie», del «remède», della «crise» e della «révolution» 87, un ruolo topico affatto secondario nell’economia del suo pensiero. L’éloquence che anima lo stile della écriture critique dei due Discorsi, per esempio, è tipicamente di natura morale e passionale, la cui funzione retorico-argomentativa88 è di evidenziare il carattere accusatore del pensiero di Rousseau critico della «società civile» 89. Tuttavia, l’écriture contractuelle non si esaurisce, come si accennava, nella sola forma di écriture critique, infatti, nelle tre forme di écriture autocritique, di écriture dialogique e di écriture dialectique, essa raggiunge un suo circolare sviluppo interno ed esterno in quella particolare relazione di complementarità che si stabilisce attraverso i testi di Rousseau, tra il lecteur e l’écrivain, relazione che coimplica da parte del lettore, tutta l’«attention» necessaria per non tradire l’alchimie du verbe (Goldschmidt) e l’alambic de l’écriture (Launay) che il testo produce e, da parte
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Cfr. J. STAROBINSKI, Rousseau et l’éloquence, cit. e ID., The Accuser and the Accused, in «Daedalus» (Summer 1978), pp. 41-58 e Rousseau: accuser et séduire, in «Le Nouveau Commerce» (automne 1978), pp. 21-36, tr. it. in ID., La trasparenza e l’ostacolo, cit., pp. 9-21. Cfr. J. STAROBINSKI, Le remède dans le mal, in AA.VV., Rousseau secondo Jean Jacques, cit., pp.19 sgg. Cfr. J.–P. HUGOT, Rhétorique et argumentation. J.-J. Roussseau: Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, cit., pp. 27-32. Cfr. L. COLLETTI, Rousseau critico della «società civile», in ID., Ideologia e società, cit., pp. 195-262 e M. MINERBI, Società civile e divisione del lavoro negli scritti politici di Rousseau, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., pp. 107111.
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dell’écrivain, ogni sua «resistance» contro qualsivoglia e possibile manipolazione della sua œuvre come del suo lavoro critico90. Ancora. Complementare e intrecciata alla tipologia dell’écriture contractuelle (critique, autocritique, dialogique e dialectique) è la dinamica che si registra nello sviluppo del pensiero di Rousseau, il quale passerà, attraverso un uso retorico e stilistico della sua écriture, dalla pratica dell’éloquence accusatrice, che è servita a denunciare con collera, con furore, con indignazione, con energia passionale e con illuminante intuizione, i mali della civilisation, alla pratica della éloquence séductrice, tipica delle opere successive ai due Discorsi e attraverso la quale l’écrivainRousseau cerca – con «il linguaggio dei segni» – di opporre al disordine e all’alienazione della società presente, un’immagine di mondi possibili: la Nouvelle Héloïse, l’Emilio e il Contratto sociale partecipano direttamente alla funzione «persuasiva» dell’éloquence séductrice di Rousseau. Nell’evoluzione della sua œuvre e della sua écriture, Rousseau avvertì il bisogno di difendere e di legittimare, nei suoi confronti e in quelli del suo lettore, le forme e i contenuti del suo messaggio, l’autenticità e la verità della sua parola e, per far ciò, attingendo agli strumenti della rhétorique, sviluppò il dispositivo tipico di una terza forma di éloquence, quella che si può definire apologétique (Starobinski), e che raggiunge, com’è noto, nei Dialogues 91 una delle sue più espressive forme di pratica dialogica e monologica «obliqua». Ora, alla base della teoria, della pratica e della critica dell’éloquence c’è per Rousseau un critère che deve poter fungere da règle linguistique per Jean-Jacques nel mentre egli compie – direttamente e/o indirettamente – la sua propria apologétique. «Il mondo che abbiamo perduto», la società presente e la rappresentazione/progettazione di un possibile «monde enchanté», nella loro pensabilità e temporalizzazione storica, rappresentano i referenti retorico-argomentativi e strutturali della teoria dell’éloquence così, come si è sviluppata lungo il corso dell’œuvre di Rousseau. La retorica dell’éloquence pone capo, così, nella écriture rousseauiana, alla critica dell’«artificieuse éloquence» tipica dei processi di degenerazione moderna delle lingue e alla teoria e alla pratica di «une autre éloquence» che, come libero «acte de parole», partecipi al bisogno di «communication linguistique intégrale» tra la natura, la storia e la cultura nella modernità92.
90 91 92
Cfr. M. LAUNAY, Rousseau écrivain, cit., pp. 219 sgg. Cfr. A. PIZZORUSSO, Le «personae» nei Dialogues, in AA.VV., Rousseau secondo Jean-Jacques, cit., pp. 65-74 e ID., I Dialogues: costruzione e distruzione di un sistema, in «Paragone», n. 348, 1979, pp. 5-21. Cfr. J. STAROBINSKI, Rousseau et l’éloquence, cit.
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PARTE TERZA
ROUSSEAU SECONDO JEAN-JACQUES L’autobiografia e la produzione simbolica dell’immaginario: i problemi di scrittura di Rousseau e la scrittura come problema di Jean-Jacques
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JEAN-JACQUES ROUSSEAU
ABBOZZI DELLE CONFESSIONI
[…] Per conoscere un carattere occorrerebbe separare ciò che è acquisito da ciò che è naturale, sapendo come si è formato, quali occasioni lo hanno sviluppato, quale concatenazione di segrete cure o affetti lo han reso tale, e come si modifica, per produrre talvolta gli effetti più contraddittori e inattesi. Ciò che si vede è solo una parte minima di ciò che un carattere è: è l’effetto visibile la cui causa interna è nascosta e spesso assai complessa. Ciascuno indovinerà a modo suo e si farà un quadro conforme alla propria fantasia senza pur temere il confronto dell’immagine col modello, perché, come poter far conoscere un modello interiore se colui che se lo figura nell’altro non può vederlo, e colui che lo vede in se stesso non vuol mostrarlo. Nessuno, tranne se stessi, può scrivere la vita di un uomo. Il suo modo d’essere interiore, la sua vita effettiva è nota solo a lui; ma scrivendola la trasforma –, sotto il nome della propria vita compie la propria apologia – si mostra come vuole esser visto e neanche un po’ com’è. Le cento biografie più sincere sono vere al massimo per ciò che dicono, ma mentono per reticenza, e ciò che tacciono muta talmente quel che fingono d’ammettere che dicendo solo una parte di verità non dicono in effetti proprio nulla. E metto Montaigne alla testa di questi falsi sinceri che vogliono ingannare dicendo il vero. Si mostra con alcuni difetti, ma se ne attribuisce solo d’amabili quando tutti ne hanno d’odiosi. Montaigne si ritrae somigliante, ma di profilo. Chi ci dice che uno sfregio alla guancia o un’orbita vuota proprio dalla parte che ci ha tenuto nascosta non avrebbe mutato totalmente la sua fisionomia? Più vano di Montaigne ma più sincero è certamente Cardano. Sfortunatamente Cardano è anche così pazzo che dai suoi dogmi non si può ricavare alcun insegnamento. E chi si scomoderebbe a pescare insegnamenti tanto radi in dieci tomi in folio zeppi di stravaganze? È dunque certo che se adempirò bene il mio impegno avrò fatto cosa unica e utile. E non mi si obietti che per essere uomo del popolo io non abbia niente da dire per meritare l’attenzione del lettore. Ciò può essere vero dei fatti della mia vita: ma io non scrivo tanto la storia di questi fatti in se
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Alchimia del segno
stessi, quanto quella dello stato della mia anima via via che si sono venuti verificando. E le anime sono più o meno illustri a seconda che abbiano sentimenti più o meno grandi e nobili, idee più o meno vive e numerose. I fatti giocano qui solo il ruolo di cause occasionali. Per oscura che sia stata la mia vita, se ho pensato più o meglio dei re, la storia della mia anima è più interessante di quella della loro. Dirò di più. Se l’esperienza e l’osservazione hanno qualche valore, sono allora nella posizione più vantaggiosa mai trovata forse da qualsiasi altro mortale perché, senza appartenere a nessuno stato determinato, ho conosciuto tutti gli stati: ho vissuto in tutti, dai più bassi ai più alti, eccetto il trono. I grandi conoscono solo i grandi, i piccoli solo i piccoli. Questi ultimi vedono i primi solo attraverso l’ammirazione del rango e ne sono visti solo con ingiusto disprezzo. In rapporti così distanti, l’essere comune agli uni e agli altri, l’uomo sfugge a entrambi. Quanto a me, accurato nel guardare oltre la maschera, l’ho ritrovato dappertutto, ho pesato, ho comparato i rispettivi gusti, piaceri, pregiudizi e massime. Ammesso da tutti come persona senza pretese e senza conseguenze, li esaminavo a mio agio: quando smettevano di camuffarsi potevo paragonare l’uomo con l’uomo e lo stato con lo stato. Essendo nulla, e nulla volendo, non imbarazzavo né importunavo nessuno; entravo dovunque senza mirare a nulla e talvolta facevo colazione, il mattino, con principi, e cenavo la sera con paesani. Se non ho la celebrità del rango e della nascita ne ho un’altra che è più mia e meglio acquistata: ho la celebrità delle sventure. Il rumore delle mie ha riempito l’Europa: i saggi sono restati attoniti, i buoni afflitti, e tutti hanno infine compreso che meglio di loro avevo conosciuto questo secolo sapiente e filosofo: avevo visto che il fanatismo che credevano annientato era solo camuffato e l’avevo detto prima che gettasse la maschera quando non pensavo nemmeno che proprio io gliela avrei fatta gettare. La storia di questi fatti, degna della penna di Tacito, deve conservare qualche interesse anche con la mia penna. I fatti sono pubblici e tutti li possono conoscere: ma si tratta di trovarne le cause segrete. Naturalmente nessuno ha potuto vederle meglio di me: mostrarle è scrivere la storia della propria vita. Gli avvenimenti ne sono stati così vari, ho provato passioni così vive, ho visto tante specie d’uomini, sono passato per tanti tipi di condizioni, che nello spazio di cinquant’anni ho potuto vivere molti secoli, se ho saputo giovarmi di me. Ho dunque nel numero dei fatti e nella loro specie tutto ciò che occorre per rendere interessanti i miei racconti. Forse nonostante tutto non lo saranno, ma allora non sarà per la materia ma per lo scrittore, e lo stesso difetto si potrebbe trovare anche nella vita in sé più brillante.
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Abbozzi delle Confessioni
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Dato che, se la mia impresa è singolare, la posizione che me la fa assumere non lo è di meno. Tra tutti i contemporanei vi sono pochi uomini il cui nome sia più noto in Europa e di cui l’individuo sia più ignorato. I miei libri giravano le città, mentre il loro autore si aggirava solitario nelle foreste. Tutti mi leggevano, tutti mi criticavano, tutti parlavano di me, ma solo in mia assenza: ero altrettanto lontano dai discorsi che dagli uomini; nulla sapevo di ciò che si diceva. Ciascuno mi figurava secondo la sua fantasia, senza timore che l’originale venisse a smentirlo. Vi era un Rousseau per il gran mondo, e un altro in ritiro che non gli rassomigliava in nulla […]. Poiché il mio nome durerà tra gli uomini, non voglio che vi si associ una reputazione menzognera; non voglio che mi si attribuiscano virtù o vizi che non avevo, né che mi si dipinga con tratti che non furono miei. Se ho qualche gioia dal pensiero che vivrò nella posterità, la provo per cose che mi riguardano più da vicino che non le lettere del mio nome; preferisco che mi si conosca con tutti i miei difetti e che questa figura sia io stesso, che non con qualità inventate come personaggio che mi è estraneo. Pochi uomini hanno fatto peggio di quanto io abbia fatto, e mai uomo ha mai detto di se stesso ciò che io ho da dire di me. Non vi sono vizi di carattere la cui ammissione non sia più facile di quanto non lo sia un’azione nera o bassa, e si può esser certi che colui che osa confessare simili azioni, confesserà ogni cosa. Ecco la dura ma sicura prova della mia sincerità. Sarò vero; lo sarò senza riserva; dirò tutto; il bene, il male, tutto insomma. Realizzerò pienamente il mio assunto, e mai la devota più paurosa farà esame di coscienza più scrupoloso di quello cui mi preparo; né mai più meticolosamente si aprirà al suo confessore in tutte le pieghe della sua anima di quanto io non spieghi al pubblico tutte quelle della mia. Solo si cominci a leggermi sulla parola: non si andrà tanto oltre senza vedere che intendo mantenerla. Per ciò che ho da dire occorrerebbe inventare una lingua nuova quanto il mio progetto: perché, che tono, che stile assumere per dipanare quell’immenso caos di sentimenti così diversi, così contraddittori, spesso così vivi e talvolta così sublimi da cui sono stato incessantemente agitato? Quali piccolezze, quali miserie non dovrò esporre, in che rivoltanti, indecenti, puerili e spesso ridicoli dettagli non dovrò entrare per seguire il filo delle mie segrete inclinazioni, per mostrare il modo in cui ogni impressione che ha lasciato traccia nel mio animo vi sia entrata per la prima volta? E mentre arrossisco al sol pensiero delle cose che devo dire, so che uomini indurirti tratterranno come imprudenza l’umiliazione delle confessioni più penose: pure è necessario farle, e se no camuffarsi; poiché se taccio qualcosa non mi si conoscerà in nulla, a tal punto tutto si collega e si trova nel mio carat-
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Alchimia del segno
tere e con così tanta forza tale bizzarro e singolare insieme richiede tutte le circostanze della mia vita solo per poter essere pienamente svelato. Se volessi fare opera di scrittura accurata come altre, non mi rappresenterei come sono, mi farei bello. Qui si tratta del mio ritratto e non di un libro; lavorerò, per così dire, nella camera oscura: non sarà necessaria altra arte oltre a quella di seguire esattamente i tratti che vedo segnati. Faccio dunque la mia scelta sullo stile come sulle cose. Non mi sforzerò di renderlo uniforme; avrò sempre quello che mi verrà, cambierò secondo l’umore, senza scrupolo, dirò ogni cosa come sento, come vedo, senza ricercatezze, senza preoccupazioni, senza imbarazzi per eterogeneità. Abbandonandomi contemporaneamente al ricordo dell’impressione ricevuta e al sentimento presente, rappresenterò doppiamente la condizione della mia anima, al momento in cui l’evento mi è capitato, a volte rapido e a volte diffuso, ora saggio e ora folle, ora grave e ora gaio, farà esso stesso parte della mia storia. Infine, e indipendentemente dal modo in cui quest’opera potrà essere scritta, sarà sempre libro prezioso ai filosofi per il suo oggetto; lo ripeto, si tratta di una pietra di paragone per lo studio del cuore umano, ed è l’unica che esista. […] Prevedo i discorsi pubblici, prevedo la severità dei giudizi pronunciati in alto, e mi sottometto, ma almeno ogni lettore mi imiti, rientrando in se stesso come ho fatto io, e nel profondo della coscienza si dica, se osa: sono migliore di quanto non fu quell’uomo. (da J.-J. ROUSSEAU, Abbozzi delle Confessioni, OC, I).
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III. FILOSOFIA, VITA E AUTOBIOGRAFIA Rousseau “homme de plume” e il carattere tragico dell’identità moderna
Penna in mano: bios e grafia. La confessione di sé e il gramma tra pensiero vissuto e scritto Un motivo suscita la riflessione su Rousseau secondo Jean-Jacques: mettere alla prova, nell’interpretazione storiografica dell’œuvre rousseauiana, i principi ermeneutici, i livelli ontologici e gli strumenti concettuali elaborati e adoprati dallo scrittore-filosofo durante l’itinerario della sua esistenza. Questa strategia d’analisi – che ha improntato molta della critica rousseauiana1 – si impone da sé in quanto mira a estrapolare, all’interno del vissuto, del pensato e dello scritto rousseauiani, le condizioni e le dimensioni problematicamente più incisive e vitali di Rousseau. In questo capitolo cerco, per quanto possibile, di portare in evidenza quei nodi e quei nuclei problematici di pensiero vissuto tipici della intenzionalità e autenticità come del senso e del significato dell’œuvre del Ginevrino. Al centro di una tale strategia di ricerca storiografica c’è, tra gli atri, anche il problema autobiografico, quello che suggestivamente Philippe Lejeune ha definito le pacte autobiographique e che ha acquisito uno statuto ermeneutico e una capacità critica tali da allargare l’orizzonte della comprensione e della illuminazione dell’existence e dell’œuvre dell’autore delle Confessioni, nella loro integrale totalità.
1
Cfr. P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit. P.P. CLÉMENT, Jean-Jacques Rousseau de l’éros coupable à l’éros glorieux, cit. M. EIGELDINGER, Jean-Jacques Rousseau. Univers mythique et cohérence, cit. G.A. GOLDSCHMIDT, Jean-Jacques Rousseau ou l’esprit de solitude, cit. AA.VV., Jean-Jacques Rousseau et la crise contemporaine de la conscience, Beauchesne, Paris 1980. AA.VV., Rousseau after two hundred years, cit. H. WILLIAMS, Rousseau and Romantic Autobiography, Oxford University Press, Oxford 1984. Per gli scritti autobiografici di Rousseau, collazionati nel loro insieme, cfr. J.-J. ROUSSEAU, Scritti autobiografici, a c. d. L. Sozzi, Einaudi-Gallimard, Torino-Paris 1997.
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Alchimia del segno
Per Jean-Jacques, pensatore ed écrivain dell’esistenza2, l’existence vissuta, pensata e scritta direttamente e personalmente costituisce tanto la genesi extrafilosofica e il fondamento metateoretico della propria réflexion3, quanto della pratica della propria écriture saggistica e autobiografica. In modo complesso e differenziato, in e per Rousseau, la pratica della scrittura traduce in un multiversum di immagini il quadro del proprio personale vécu: è in questo universo simbolico e metafilosofico che l’autobiografia acquista l’ambiguo e complesso significato di cifra di un particolare e peculiare milieu culturale e di traccia dell’io e degli enigmi del vivere dell’écrivain, che rinviano (filosoficamente) alla ricerca fondamentale dell’identità e dell’autenticità quali trame esistenziali dell’essere e alla domanda centrale sul destino della soggettività moderna: questo è, tra gli altri, uno dei temi prevalenti nelle opere autobiografiche di Jean-Jacques Rousseau sul quale si è soffermato l’interesse storiografico della critica rousseauiana. Scaturendo da un acuto e problematico senso di disagio individuale e collettivo e costantemente rivolto alla ricerca dell’autenticità dell’essere, le pacte autobiographique rousseauiano pone capo, anche, a uno dei problemi cruciali della coscienza filosofica moderna: la «crisi del soggetto»4. La vita, il pensiero, l’opera e la scrittura di Jean-Jacques Rousseau testimoniano, oggettivamente e soggettivamente, la peculiarità e l’intensità di quella «crisi», così come dimostrano, in tutti i loro molteplici aspetti, l’inquietante soggettività di uno dei «maestri del mondo moderno» (E. Weil). Quando Jean-Jacques decide di provare l’avventura autobiografica è già da tempo un personaggio e un protagonista: il periodo di apprentissage come écrivain ha raggiunto la maturità dell’impegno totale che fa prendere coscienza a Rousseau di essere un homme de plume. Nel Rousseau che matura il progetto autobiografico delle Confessioni e nel récit d’une âme di Jean-Jacques, forte è la consapevolezza che l’écriture sia diventata la vocazione (e la passione) più vera, più sentita e più autentica del proprio essere: l’autoanalisi filosofica e l’autobiografia di Jean-Jacques nascono, com’è noto, sotto il segno delle metamorfosi ontologiche del suo esistere come homme d’écriture continuamente impegnato nell’appassionante ed estenuante ricerca di senso individuale e collettivo. La scrittura autobiografica solleva, però, un fascio di interrogativi che ne connotano l’intero orizzonte problematico: chi è «veramente» l’écrivain 2 3 4
Cfr. P. BURGELIN, La philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, cit. Cfr. J. STAROBINSKI, Jean-Jacques Rousseau e il pericolo della riflessione e Il senso della critica, in ID., L’occhio vivente, cit., pp. 73-158 e pp. 201-273. Cfr. G. GENTILE, Rousseau filosofo della crisi, cit., pp. 84 sgg.
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Filosofia, vita e autobiografia
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dell’autobiografia? Quali sono l’origine, il senso e il significato delle opere autobiografiche? Per chi sono state scritte? A questi interrogativi la critica rousseauiana ha cercato di dare alcune plausibili risposte interpretative. Qui ne seguo sinteticamente soltanto i nodi principali poiché è impossibile schematizzare un vissuto infinitamente complesso come quello di Rousseau. Il problema filosofico dell’autobiografia: l’ontologie de la vie personnelle tra biografia e ipseità L’esser Jean-Jacques protagonista della propria vita passata, presente e futura è un problema-di-Rousseau. Naturalmente, non c’è un Jean-Jacques altro da Rousseau, l’uomo privato contrapposto a quello pubblico, al personaggio e scrittore-filosofo: un uomo e un filosofo sono la propria vita e la propria œuvre nella verità e nella storicità del tempo. Così come il «primo Rousseau», il «Rousseau maturo» e «l’ultimo Rousseau» sono soltanto periodizzazioni storiografiche strumentali di lettura del suo pensiero. Tuttavia, è però euristicamente utile la distinzione tra la stagione rousseauiana delle opere «sistematiche» e/o «pubbliche» e quella delle opere «autobiografiche» e della «solitudine»: tutto ciò non esclude, come si è visto più volte, che queste due fasi si possano rapportare «circolarmente» tra di loro, in quanto l’espressione alta di un pensiero filosofico e la ricerca dell’identità e dell’autenticità di un’esistenza sono profondamente intrecciate. Una volta pervenuto a una fase cruciale della propria vita e del proprio itinerario intellettuale, Rousseau avverte il bisogno d’interrogarsi, di confessarsi e autoanalizzarsi scrivendo. Jean-Jacques non ha mai mancato, in un certo senso, di autoinquisirsi e di vivere la propria esistenzialità vitale e filosofica attraverso la pratica dello scrivere attingendo al proprio vécu: in questo inizia una tradizione, tutta francese dei filosofi dell’io, mirabili écrivains dell’humanum individualmente e irripetibilmente vissuto nella propria singolarità e soggettività. Il problema della soggettività e della singolarità dell’io è, infatti, uno dei principali e più originali luoghi problematici che attraversa per intero l’œuvre di Rousseau, un nodo in cui confluiscono sinteticamente i «dualismi antinomici» della sua écriture filosofica e le «antinomie della solitudine» della sua existence: l’irriducibilità della «condition humaine» e il suo rapporto con la realtà del mondo, della storia e degli altri – l’ipseità e l’illeità. Il problema della soggettività (moderna e borghese) – e le implicazioni ontologiche che esso comporta – consente di rapportarsi al problema della ècriture autobiographique anche da un punto di vista più strettamente filosofico.
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Alchimia del segno
Qualunque sia il grado di oggettivazione storica e qualunque sia il suo peculiare orizzonte e sviluppo temporale, un’auto-bio-grafia è il racconto, la narrazione, il récit, la scrittura della propria vita da parte di un singolo nella e della propria ipseità. Secondo la «définition» che ne ha fornito Lejeune, l’autobiografia è: «récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l’histoire de sa personnalité»5. Gli elementi costitutivi dell’auto-bio-grafia rimandano direttamente agli stessi termini componenti la semantica, la struttura e la pratica autobiografica: 1) Chi è veramente l’autore, il soggetto-oggetto principale dell’intera vicenda biografica? Il senso e il significato della vita ricostruiti e scritti dal soggetto-écrivain coincidono e/o si identificano con il soggetto reale e protagonista del récit? 2) Come leggere e interpretare la vita-che-si-scrive o la vicenda esistenziale posta come problema e/o tema di rievocazione retrospettiva? Quale rapporto sussiste tra la vita reale e la vita-che-si-scrive dell’écrivain-autobiografo? 3) Ancora. Quale senso (e quale significato) assume lo scrivere del proprio passato vitale e, mediante quale stile di linguaggio (e quale pratica di scrittura) deve e/o può essere tracciato il profilo autobiografico?
Come si può notare, questo fascio di interrogativi sottintende i diversi e complessi aspetti filosofico-ermeneutici dell’autobiografia come ontologie de la vie personnelle (Gusdorf), ai quali occorre poter dare spiegazione per affrontare i testi caratteristici della écriture autobiografica di Jean-Jacques, poiché le Confessioni, i Dialoghi e le Rêveries non sono soltanto delle opere autobiografiche, ma, nelle intenzioni metaetiche e metapolitiche di Rousseau, configurano, anche, la proposta di un’ermeneutica esistenziale. Biografia e autobiografia costituiscono un nesso inscindibile nell’œuvre di Rousseau: la scrittura della biografia occupa un posto rilevante nel disegno complessivo del suo pensiero antropologico-filosofico e ontologicopolitico. Il continuo ricorrere ai tempi, ai luoghi e alle forme della biografia traduce la condizione storica di un autentico vivere e operare di Rousseau-écrivain: la propria biografia viene esibita come il campo di esplicazione del senso e del significato dell’esistere nei confronti della natura, del mondo e della storia; spetta, poi, al lecteur di attingere, in quella vita-che-si-scrive, alle radici profonde della sua esistenza. L’ipseità 5
P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit., p. 33.
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Filosofia, vita e autobiografia
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dell’écrivain è il nodo centrale del profilo autobiografico, un nodo che direttamente rimanda al complesso rapporto intersoggettivo tra l’io dello scrittore-filosofo e il tu del lettore. Ora, c’è da chiedersi quale caratterizzazione filosofica e ontologica assume il problema dell’autobiografia? Perché il filosofo (Jean-Jacques Rousseau) sente il bisogno di gettare su di sé uno sguardo (auto)riflessivo, di raddoppiare riflessivamente il proprio vécu? Tra présence à soi e absence de soi prende corpo il progetto autobiografico rousseauiano, sul quale grava, sin dall’inizio, la pesante e problematica ipoteca esemplata dalla grave difficoltà per l’écrivain (il soggetto-oggetto dell’autobiografia) di cogliere e di dire – scrivendola – la propria ipseità nella sua identità personale e nella propria verità e autenticità. Mediante il dispositivo supplementare della écriture, Jean-Jacques dispone circolarmente la propria ipseità come coscienza inquieta del proprio soi e del suo rapporto con la realtà del mondo, della natura e della storia. Rousseau è drammaticamente consapevole di vivere in un’età di insecuritas per l’essere dell’uomo – il cui problema, nel pensiero occidentale, era già stato al centro dell’ontologia spinoziana6 – un’epoca profondamente agita dall’obstacle e dalla crisi dell’identità dell’io: nella stessa antropologia dell’inquietudine e dell’insicurezza vive Jean-Jacques, il quale non smette mai di autoinquisirsi, di chiedersi e ricercare le ragioni del suo male di vivere. Insecuritas e inquiétude non sono, però, le sole ragioni che spingono Rousseau al problema dell’autobiografia come ontologie de la vie personnelle: Rousseau filosofo dell’esistenza e della soggettività è, anche, il protagonista-testimone di un’epoca di Krise del soggetto moderno (Gentile) e della sua costituenda ideologia borghese7. Il milieu storico-politico, lo scenario antropologico presente, l’esperienza della contingence, il mondo dell’obstacle, la «crisi d’identità» e la inautenticità dell’essere sono alcuni tra i referenti reali che spingono Rousseau-écrivain al progetto ontologico dell’autobiografia, al «ripiegamento intimista» dei suoi scritti autobiografici come carte della crisi: «la scelta/riforma autobiografica – ha osservato Gentile – rimanda, inevitabilmente, al retroterra da cui si origina»8.
6 7 8
Cfr. G. SEMERARI, L’ontologia della sicurezza in Spinoza, in «Paradigmi», n. 1, 1983, pp. 33-35 e ID., Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano 1982, cap. II, pp. 53-80. Cfr. G. PASQUALOTTO, Storia e critica dell’ideologia. Da Bacone a Marx, Cluep, Padova 1978, pp. 91-108. G. GENTILE, op. cit., p. 86.
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Alchimia del segno
Ora, non v’è dubbio che la solitudine politica ed esistenziale sia, anche, il referente (e il deterrente) reale del bisogno di «autobiografismo demistificante» da parte di Rousseau, ma l’impresa filosofica dell’autobiografia presenta – anche – altri interrogativi e problemi che caratterizzano il récit rousseauiano e su cui occorre prestare una particolare attenzione critica. Histoire e autobiografia: struttura e semantica autobiografica del tempo umano Il rapporto fra temporalità storica e scrittura autobiografica solleva uno dei nodi centrali e cruciali della rousseauiana ontologie de la vie personnelle. La complessità del rapporto tra passato-presente-futuro costituisce la totalità dell’essere nel vissuto, nel pensato e nello scritto dell’essere di Rousseau-écrivain. Ma, occorre, chiedersi, nella presenza/assenza del soggetto-oggetto del récit autobiografico delle Confessioni, Jean-Jacques come ha reso comprensibile il tempo della sua esistenza, la histoire della sua vita? Inquisire se stesso, per Rousseau, deve poter significare il ripensare le modalità fondamentali del suo existere nel tentativo e nello sforzo di eccedere la contingence e di illuminare l’oscurità della vita generica. Così, nell’impresa autobiografica, Jean-Jacques non vuole semplicemente trasporre nel registro linguistico dell’écriture e/o nella trama concettuale del discorso filosofico l’esperienza fattuale della sua vita, ma vuole andare oltre, interrogare il senso profondo del vécu della sua existence: l’écriture autobiographique ambisce alla ricostruzione totale di una personalità, di una soggettività, e non semplicemente della vicenda storica di un individuo. Il passato di e per Rousseau non può essere semplicemente correlato alla cronologia degli eventi, ma va strutturato morfologicamente sugli strati ontologici della coscienza presente del suo essere: il suo passato è pur sempre, passato del suo presente, è l’essere-stato del quale occorre ricostruirne il senso e non, semplicemente, la linearità dei fatti. Il passato attende di ricevere, da parte dello scrittore-filosofo, una significazione di senso attraverso il filtro dell’attività memoriale che deve ricostruire la durée ontologica dell’esistere nella sua autenticità, oltre il semplice fluire del tempo. Pertanto, l’ontologia aporetica dell’écriture autobiographique disvela le sue molteplici ambiguità e difficoltà proprio nel tema e nel problema della ipseità che la coscienza dell’écrivain deve affrontare. Il soggetto-oggetto (JeanJacques) della scrittura autobiografica deve esprimersi nello sforzo continuo a cogliere la propria identità personale, il proprio sé vero e autentico e,
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Filosofia, vita e autobiografia
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poi, di rapportarlo al mondo dell’illeità, alla proximité. È, così, nel circuito uomo-persona-mondo, cioè tra coscienza individuale, ipseità e mondo dell’illeità, che si gioca la totalità e la contingenza dell’essere, dell’unità e del de-centramento ontologico del soggetto, dell’identità e/o della «crisi» d’identità dell’io. All’altezza di tutto ciò, la ricerca autobiografica è, allora, da intendersi, in e per Rousseau, come uno sforzo di ricostruzione e di ricostituzione del proprio vécu esistenziale, sforzo che evince al suo interno il complicato rapporto tra soggetto e oggetto del récit autobiografico: l’écrivain, scrivendo della propria – e perciò problematica – esistenza ha davanti a sé il problema del difficile rapporto tra il presente e il passato del suo io, tra l’io (Jean-Jacques) soggetto della narrazione e l’io (Rousseau) oggetto della rievocazione. È il problema della temporalità storica, della historire, che Rousseau deve, comunque, affrontare nelle Confessioni, per dar corso alla sua auto-bio-grafia: nella semantica dei tempi individuali e collettivi anche per Jean-Jacques il problema del tempo, nella sua continua varietas e diversitas, acquista il significato complesso di dimensione ontologica. Nella modernità, infatti, come ha osservato Niklas Luhmann: «Il tempo è, nella sua piena realizzazione, più complesso di quanto possa essere fissato con una mera cronologia […]. Il tempo è […] una determinazione di senso. Ciò significa che nell’evento non avviene solo l’evento stesso, ma, nella misura della sua rilevanza, si formano insieme nuovamente un passato e un futuro»9. Il tempo come durée ontologica e come determinazione di senso e non già come calendario e/o orologio della vita: questo rapporto è problematicamente al centro dell’écriture autobiographique di Rousseau, che, nel récit delle Confessioni, raggiunge uno dei suoi più alti livelli di espressività. L’écriture autobiographique non può e non deve solamente assolvere alla funzione di narrazione retrospettiva e di delineazione del profilo personale di Jean-Jacques, ma pone Rousseau in un determinato rapporto (ontologico e metaetico) con la temporalità del tempo storico e della storicità della propria condizione esistenziale: l’io e il tempo sono intrecciati nel campo dell’expérience che di-segna il senso dell’essere dell’écrivain. Nelle Confessioni, la scrittura autobiografica discopre, nei confronti della rivendicazione della propria soggettività impegnata di Jean-Jacques, una temporalità e una storia che, forti dell’esperienza dell’obstacle, si protendono immaginariamente all’intemporale della autointerprétation (Starobinski) che l’écrivain compie della propria e soggettiva storia. Il récit del9
N. LUHMANN, Struttura della società e semantica, cit., p. 240.
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la propria anima e la ossessiva presenza della storia del proprio sé fanno da contrappunto – sempre nelle Confessioni – agli scarsi riferimenti storici (tout-court) che fanno da sfondo e da scenario all’intera opera autobiografica. Chiediamoci. Perché Rousseau non contestualizza storicamente la propria vicenda umana nel quadro della sua autobiografia? Perché Jean-Jacques, parlando e scrivendo di sé, non dice anche, riferendone accuratamente i particolari, della sua contemporaneità? Scrivendo della propria vita, perché Rousseau non fa direttamente continui riferimenti alla dimensione évenementielle che, comunque, implica, ogni profilo autobiografico in senso stretto? La lettura delle Confessioni, a ben vedere, conferma la carenza di una determinata dimensione storica e manifesta direttamente l’intenzione autentica di Jean-Jacques: egli vuole scrivere della propria existence ritenendo non necessario fare l’almanacco del proprio essere, ma di mostrare e raccontare la verità e l’autenticità della propria vita interiore. La scarsa incidenza della narrazione storica (diacronica) nelle Confessioni esprime l’intenzione di Jean-Jacques di scrivere un’autobiografia che non sia una rammemorazione-rievocazione del suo passato storico, in quanto per Rousseau il territorio della histoire appartiene di fatto al campo della contingence, della relativité e dell’obstacle, mentre ciò che l’écrivain si prefigge con l’écriture autobiographique è di attingere alle radici profonde dell’altrimenti-che-essere del suo io, radici che evidenziano non soltanto le metamorfosi ontologiche, le estasi egotiste e lo stato di «insularità» di Jean-Jacques, ma che riconfermano il «dualismo spontaneo» (Gouhier) del pensiero di Rousseau stretto nel contrasto oppositivo e differenziale tra natura e storia. Ora, questo dualismo tra natura e storia si ripropone anche nella struttura testuale portante della scrittura autobiografica delle Confessioni dove la natura è il topos dell’autenticità originaria, della bontà e della libertà dell’essere dell’uomo; mentre la storia è il luogo del divenire dell’evoluzione, della contingence, del progresso della raison e dell’azione devastante del male, tutti processi che spingono alla necessità «rassicurante» del contratto etico-politico per rifondare la libertà civile per l’uomo e tra gli uomini. Questo dualismo di fondo agisce continuamente nella pagina rousseauiana delle Confessioni dove Jean-Jacques si schiera apertamente per la «verità della natura» in conflitto differenziale con quella della histoire. Naturalmente, la écriture dell’autobiografia – sempre nelle Confessioni – si svolge secondo un determinato ritmo processuale di temporalizzazione dell’esistenza vissuta da Jean-Jacques, un ritmo che acquista il caratte-
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ristico movimento, più volte accennato, di «espansione» e di «contrazione» dell’io dell’écrivain10. L’écriture autobiographique non può essere schiacciata, secondo JeanJacques, sulla semplice cronologia dei fatti, ma deve poter assurgere, nel suo statuto ontologico, alla circolarità intemporale e transtemporale, del mito cosmogonico della totalità e dell’infinito dell’essere, dellʼaltrimentiche-essere dellʼessere. Ha scritto con molta efficacia Eigeldinger: «Rousseau est en quête de l’authenticité de se moi, au-delà de ses contradictions personnelles et des entraves du réel; il se place délibérément, non dans l’ordre de la vérité historique, mais dans l’atemporalité de la vérité mytique. Davantage qu’il ne raconte sa vie, il reconstruit le mythe de sa vie, comme la seule entreprise qui permette de restituer le contenu de l’intériorité»11. Al di là dell’expérience del bene e del male, la sincerità e l’autenticità del proprio essere – la «tensione nell’esistenza» di Jean-Jacques – sono il referente reale che spinge e giustifica l’écriture autobiographique di Rousseau, il cui sforzo volontaristico è quello, una volta fatto appello a tutte le (sue) risorse esistenziali, di esprimere «la nature et l’histoire de son âme». L’écriture autobiographique ha, nelle Confessioni, una portata filosofica e ontologica peculiare in quanto si propone di compiere un’esplorazione e un’autoanalisi retrospettiva della «vérité intérieure» dell’essere di Jean-Jacques, un’autointrospezione non dell’esteriorità della sua esistenza, ma della complessità spirituale de son moi e de son être. Per questo motivo i «fatti» storici sono sempre ai «bordi» del récit rousseauiano, mentre il significato psicologico, autoanalitico e morale giocano il ruolo principale nella trama testuale dell’écriture del vécu dell’écrivain-Rousseau: i fatti, gli avvenimenti, la vita quotidiana, i ricordi, la memoria storica non fanno da supporto alla ri-scrittura dell’io di Jean-Jacques, ma sono al servizio della sua soggettività sentimentale e interiore. Nella scrittura autobiografica emerge con chiarezza un rapporto difficile ma necessario da affrontare e che l’écrivain deve poter risolvere: dalla fenomenologia dell’esistenza alla ontologia della vita personale12.
10 11 12
Cfr. P. BURGELIN, La philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, cit., capp. IV-V. G. POULET, Etudes sur le temps humain, cit., capp. IV-V e ID., Le metamorphoses du cercle, cit. M. EIGELDINGER, op. cit., p. 71. Cfr. A. PHILONENKO, Essai sur la signification des «Confessions» de J.-J. Rousseau, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n. 1, 1974, pp. 1-26.
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Si è visto. La temporalizzazione degli eventi e degli avvenimenti che costituisce la continuità e la durata del vécu viene, di fatto, assoggettata alla dialettica dei sentimenti e alla immaginazione memoriale che operano per la ricostruzione della histoire de la vie di Jean-Jacques e, che egli, nel récit delle Confessioni, vuole presentificare mediante il supplemento della écriture autobiographique. Ha scritto Starobinski: «Raccontandoci la storia della sua vita Rousseau intende dipingere la sua anima; quello che conta al di sopra di ogni altra cosa non è tanto la verità storica, quanto l’emozione di una coscienza che permette al passato di emergere e di rappresentarsi al suo interno. Se l’immagine è falsa, l’emozione attuale, almeno, non lo è. Più che l’esatta collocazione dei fatti biografici, la verità che Rousseau vuole comunicarci è il rapporto che mantiene col suo passato»13. Il récit di Jean-Jacques insegue, nelle Confessioni, il progetto e la ricerca della transparence sia nei riguardi della interiorità del proprio sé sia nei confronti del lecteur il quale ha da decifrare le passioni del suo animo e le implosioni ed esplosioni del suo essere nel loro più autentico significato psicologico e morale: i «fatti» della vita non giocano, in sé e per sé, tutta la loro portata materiale e ontologica se non per le relazioni che essi stabiliscono al livello dell’esistenza psichica e della azione del sentimento e/o della ragione discorsiva che circolarmente di-segnano l’autobiografia dello scrittore-filosofo. Ancora. Il récit rousseauiano è teso, tramite l’écriture autobiographique, a far emergere e a discoprire gli strati psicologici profondi – coscienti e/o incoscienti – di Jean-Jacques, lungo i labirinti dell’io esistensivo della coscienza individuale e tali da rivelarli in tutta la loro complessità ontologica agli occhi del lecteur. La verità dell’essere e la transparence dell’anima non appartengono immediatamente al campo delle contingenze storiche14, ma, pur avendo una loro intrinseca «temporalità storica» si costituiscono come strutture 13 14
J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., p. 308. L’écriture autobiographique non privilegia affatto nel récit rousseauiano lo spessore storico e politico del milieu in cui il Ginevrino ha vissuto la sua vita. L’impegno politico si rarefà per lasciare posto alla autointrospezione psicologica, alla ricerca della propria identità interiore lungo i recessi dello psichismo della coscienza individuale. Ripiegamento intimista? Solitudine politica? Oppure, riflessione metaetica e metapolitica del e sul soggetto in un’epoca di «crisi» e di transizione? Si è detto. Le Confessioni, a una più attenta lettura, non escluderebbero nessuno dei due interrogativi, che, anzi, pare si rimandino reciprocamente l’uno all’altro, giacché è proprio Rousseau, com’è noto, a ricordarcelo dicendo che proprio tutto dipende dalla politica e che dividere morale e politica, histoire e vécu, rappresenta un pericolo grave per la vera conoscenza delle cose umane. Su tali problemi ritornerò con maggiore analiticità nella parte finale del testo.
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della Lebenswelt soggettiva di Jean-Jacques e come forme dell’esperire vivente di Rousseau-écrivain, capace di eticità e comunicazione con gli altri umani, oltre che con il mondo delle cose. Di fronte alla vérité historique, l’écrivain fa ricorso all’attività memoriale, che, per sua natura, non può restituire in tutta fedeltà lo spessore autentico del reale vécu. Pertanto, nell’ontologie de la vie personnelle, la mémoire individuale di JeanJacques introduce la durata dell’existence nei suoi tempi forti e/o deboli, significanti e/o insignificanti che si dispongono lungo il labirinto del passato dell’essere, della presenza/assenza dell’io dell’écrivain durante la sua «vie errante». La mémoire, elemento compartecipe dell’écriture autobiographique, ha però la caratteristica della imprecisione e della incostanza del ricordo del passato, delle regioni ontologiche dellʼessere: la memoria vitale di Jean-Jacques ha a che fare con le molteplicità discrete, continue e/o virtuali dei tempi della sua vita e della sua coscienza. Ecco, perché, la scrittura-della-vita non può ricorrere alla sola mémoire in quanto quest’ultima non è in grado, da sola, di risolvere i problemi che nella curva dell’expérience dell’écrivain si interpongono tra il suo inconscio psicologico e il suo inconscio ontologico. È noto. L’imagination è la facoltà, in questo caso, compensatrice dell’attività memoriale a cui Rousseau fa ricorso nel récit delle Confessioni. L’écriture autobiographique non può fare a meno della fondamentale attività dell’imagination mémoriale, senza la quale sarebbe difficile poter porre «attenzione alla vita», scrivendola. Ha scritto Eigeldinger: «La littérature autobiographique recourt aux ressorts de l’imagination pour remédier aux omissions de la mémoire et préserver la cohérence du récit; elle ne peut éviter l’intrusion de la fable et de la fiction, quelque répréhensible que soit cette démarche au regard des exigences absolues de la sincérité»15. Nelle Confessioni, come pure nelle altre opere autobiografiche e della solitudine, Rousseau lega spesso la mémoire con l’imagination nel processo alchemico della sua écriture e, nel far ciò, dispone i tempi umani della sua vita lungo un asse discontinuo che non riflette immediatamente la temporalità fattuale delle proprie dimensioni vitali vissute. Nella forma di un plaidoyer (Lecercle) di ricordi, immagini, parole, fatti datati e di anticipazioni retrospettive, la materialità del testo e la trama temporale del récit rousseauiano prendono forma: l’avventura umana realmente vissuta, la durata ontologica della verità dell’essere, la catena dei sentimenti e l’écriture autobiographique si coniugano reciprocamente – nelle Confessioni – come roman personnel e roman d’apprentissage (Bildungsroman) di Rousseau 15
M. EIGELDINGER, op. cit., p. 75.
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(Lecercle)16. È difficile, infatti, distinguere le distanze che separano, sempre nel récit delle Confessioni, il romanzo, l’autobiografia e la scrittura filosofica da un lato e, dall’altro, la dialettica dei sentimenti, lo psichismo della coscienza e il ruolo dell’inconscio. È il supplemento-medium della écriture che, tramite la mémoire e l’imagination, restituisce l’unità, il senso e il significato dell’existence di Jean-Jacques, di una vita che – sempre nel récit autobiografico – Rousseau-écrivain ha trasformato e trasmutato in roman e in «mythe du Moi» (Lejeune) quale ricerca di un’ontologia complessa della vita personale e dell’unità dell’essere. Le Confessioni annunciano, così, la nascita di un nuovo genere di romanzo moderno autobiografico e filosofico le cui risonanze si prolungheranno, come è noto, nel tempo della (nostra) contemporaneità. All’altezza di quanto sopra detto, ora, avvicinandosi alla pagina rousseauiana, si tratta di introdursi nella materialità del testo delle Confessioni per seguirne l’evoluzione e l’architettura interne al campo dell’écriture autobiographique. Indugiamo, però, ancora, su di alcuni problemi interpretativi. C’è chi, come Eigeldinger17, ha proposto di prendere la topica del mythe come una delle strutture portanti che disegnano l’architettura testuale del récit rousseauiano delle Confessioni: nella retorica del paradiso, circolarmente esperito come perduto e/o ritrovato durante le diverse fasi della vita, l’io di Jean-Jacques, tra cadute e rinascite, è alla ricerca – tramite l’attività della imagination mémoriale e attraverso la pratica dell’écriture – delle origini autentiche della sua personale existence, delle radici iniziali del commencement e dello svolgimento della durata ontologica del suo essere. Il cominciamento genetico, genealogico e storico del proprio essere è posto da Rousseau nel quadro metaforico del mythe nostalgico del «paradis perdu» che l’écrivain ricostruisce per scrivere del proprio passato, del proprio vécu. L’atteggiamento «nostalgico» svolge, nell’economia simbolica e nella pratica metaforologica dell’écriture autobiographique, la funzione di tecnica di «rassicurazione» nei confronti delle forme di «insicurezza» che la storiadella-vita esprime. C’è un rapporto analogico nel campo dell’argomentazione rousseauiana tra vita, pensiero e scrittura, una commistione e uno scambio continui tra figura e concetto, simbolo e teoresi, parola e segno, mythos e logos: rapporto che si evidenzia particolarmente tra il mythe dell’âge d’or presente, per es., nei Discorsi, nell’Emilio, nel Saggio sull’origine delle lingue e ne La Nouvelle Héloïse e il mythe du paradis presente nell’intera architettura retorica e metaforica delle Confessioni. 16 17
Cfr. J.L. LECERCLE, J.–J. Rousseau, modernité d’un classique, cit., pp. 215-220. Cfr. M. EIGELDINGER, op. cit., pp. 77 sgg.
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La storiografia critica ha mostrato efficacemente come la topica del mito paradisiaco si sviluppi lungo i dodici libri che compongono le Confessioni e come la sua simbologia rappresenti i ritmi e i tempi di un movimento tematico profondamente radicato nel vissuto, nel pensato e nello scritto di Rousseau: un movimento triadico e tridimensionale che dalla originaria bontà dell’innocenza e della trasparenza della propria anima, «getta/JeanJacques/nel mondo» dénaturé del male, dell’obstacle, della disuguaglianza, dell’ingiustizia e dell’alienazione e che, soltanto facendo ricorso alla écriture de l’imaginaire, Rousseau può compensare alla miseria del reale che rende inattuale l’expérience biografica mentre pone capo alla necessaria proiezione mitico-fantastica di quella auto-bio-grafica18. Dall’infanzia alla maturità l’io di Jean-Jacques è di-segnato nel récit delle Confessioni, nel susseguirsi delle proprie metamorfosi ontologiche, come un progressivo viaggio dal paradis terrestre, luogo soteriologico della «salvezza», al mondo dell’univers social, condizione essenziale e strutturale di insecuritas per l’uomo. Secondo le modalità di un movimento circolare e spiraliforme, l’écrivain-Rousseau proietta e traccia l’ontologie de la vie personnelle di JeanJacques alternandone ora le fasi paradisiache, ora quelle della «caduta» e dell’«esilio», ora quelle della «solitude» e della «insularirà», ora quelle della limitatezza dell’«espace terrestre et humain» per il raggiungimento e il ritrovamento, di nuovo, del «paradis terrestre». È l’architettura stessa delle Confessioni a essere, in un certo modo, strutturata sulla ciclicità della topica del mythe du paradis che connota per intero l’acte d’écrire di Rousseau e che performa l’écriture della sua principale œuvre autobiografica19. 18 19
Cfr. M. RAYMOND, J.-J. Rousseau, la quête de soi et la rêverie, Corti, Paris 1962. È stato molto bene indicato da Eigeldinger: «Le thème du paradis retrouvé ou perdu figure dans la plupart des livres des Confessions comme un cycle de moments ou de relais qui ponctuent la composition de l’œuvre, sans en commander nécessairement l’architecture. Rousseau convertit en récit mythiques les temps heureux de son existence, il les transfigure pour les soustraire aux variations de la durée et aux contraintes de l’historie. En suggérant au lecteur une interprétation et une transposition subjectives de certains épisodes de sa vie, il se hisse au niveau de l’exemplarité mythique, capable de traduire les mystères de l’intériorité dans un temps arraché à la pure linéarité. Le mythe du paradis est, dans Les Confessions, circulaire par le phénomène de la répétition, il est un leitmotiv qui tantôt sourd discrètement tantôt éclate comme un rythme périodique, s’imprimant dans la trame du récit. Il permet à Rousseau d’exprimer le drame ontologique qu’il a vécu dans l’alternance des mouvements d’élévation et de chute, puis d’harmoniser ces pôles contraires par le pouvoir unificateur du langage. Le mythe, porteur de l’affectivité, est le modèle de cette
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Ri-tratti dell’io. Le metamorfosi del soggetto vivente: il récit delle Confessioni Ogni autobiografia è sempre un problema per chi la scrive e per chi la legge. Un problema che in sé e per sé pare non avere soluzione di continuità. Un problema che, comunque, ogni lettore cerca di risolvere perseguendo le proprie individuali predisposizioni e tendenze. Così, c’è chi si pone davanti a un’autobiografia perché è mosso dalla curiosità di penetrare con lo sguardo nel più personale, vissuto e intimo retroscena quotidiano della vicenda privata (ma anche di quella pubblica) dell’autore. Un atteggiamento di questo tipo da parte del lettore è, però, superficiale e anche rischioso perché gioca sulla duplice avventura dell’autore fra realtà e finzione del suo racconto, della sua verità, della sua confidenza, della sua parola scritta. Il pericolo dell’equivoco nel leggere un’autobiografia c’è quando chi voglia entrare come ospite nel laboratorio di una vita pretenda, poi, di giungere subito alla sua verità interna, nelle schegge della sua avventura quotidiana. Il rischio continua a esercitare il suo fascino quando chi legge e chi si accosta alla pagina privata dell’autobiografia voglia scoprirvi la storia di un’anima. Oggi, sappiamo, la ricerca storiografica sull’autobiografia come genere letterario e/o come stile di scrittura filosofica ha senz’altro assunto panni laici. L’occhio del critico20 va a ciò che precede: nell’autobiografia si vuole un’ultima confessione della propria vita quotidiana (ed esistenziale) dell’autore. Delineare e disegnare un profilo umano della propria persona nei frammenti, nelle luci, nelle ombre e nelle schegge della propria esistenza, quale soggetto vivente, è cosa significativa e affascinante, ma, ad un tempo, impegnativa. Il testimone-protagonista del proprio tempo storico e della propria Kultur non può esprimersi naturalmente. Il lettore legge la vox del narratore-scrittore che, assente, è solo parola scritta, che riferisce quanto la memoria-della-vita ha reso oggettivo e ha oggettivato nella forma della scrittura come medium del linguaggio. Il narratore-scrittore, nel bene e nel male, è protagonista della memoria-della-vita che ha vissuto in tutti i suoi processi materiali, psicologici, culturali, politici, sociali, estetici e intellettuali. Il testo autobiografico è aperto a più letture possibili. Ma, «leggere» un’autobiografia è, pur sempre, un problema nei confronti di chi scrivendo e parlando di sé ha voluto comu-
20
représentation archétypale de l’être à travers laquelle l’écrivain est en quête de l’identité de son moi. Il réconcilie le vécu et l’imaginaire, soudés indissolublement par le geste de l’écriteur qui dépasse, en les sublimant, les fluctuations du temps et de l’histoire» (M. EIGELDINGER, op. cit., p. 83). Cfr. J. STAROBINSKI, L’occhio vivente, cit., pp. 204 sgg.
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Filosofia, vita e autobiografia
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nicare la propria politica dell’esistenza, la più profonda soggettività impegnata, tagliando a fette la carne del suo io. Alcuni interrogativi sono ineludibili21. Chi è quel soggetto che nell’autobiografia dice “io”? Inoltre, raccontarsi non è già diventare altro? Di fatto, l’autobiografia «è un esercizio filosofico in cui l’identità si scopre tramata da altre vite e l’io emerge soltanto perché dislocato nei suoi segni. Sono forse proprio le condizioni di impossibilità di un’autopresentazione trasparente e definifinitiva che rendono possibile una soggettività autobiografica. Scrivere di sé infatti è già trascendenza: insinua il sospetto di un’alterità, di un’alterazione e turba la rigida identità, che si presume autonoma e precedente alle sue iscrizioni. L’intreccio tra autós, bíos e graphein non è dunque una neutra autoespressione, ma uno specchio in cui il proprio volto è riflesso e capovolto, il sé si racconta e si ascolta, recita e osserva»22. Ancora. L’autobiografia è «un luogo di verità»? Nei confronti della verità il patto autobiografico disvela come «la trasparenza dell’io viene disdetta» poiché l’autobiografia è «la scrittura impossibile come unica iscrizione possibile: il tentativo estremo di restituire il senso di una vita incompiuta, di dare una verità senza verità, di raccontare di sé da sé». L’autobiografia è, quindi, «una messa in scena dell’identità e della propria distanza, un’autosospensione e una torsione tropica dell’io, che si racconta e si espone». Infatti, dietro ogni autobiografia c’è «un nome proprio, che sigilla l’autore, il narratore, il personaggio», e proprio nella sua firma «si custodisce, più che il diritto a una proprietà, la promessa di verità per sé e per gli altri: un corpo a corpo con la lingua e con la propria storia»23. Inoltre, chi-scrive-parlando-di sé non lo fa sempre per essere letto, perché ciò che scrive è vita vissuta, pensiero vissuto, che germinano spontaneamente dalla vita activa, prima della fine. Ma, allora, perché un’autobiografia? Perché si ha bisogno, pur sempre, di guardarsi, di fermarsi a riconsiderare il passato anche per vivere il presente e predisporsi al futuro, dopo verrà la fine. La vita-che-si-scrive è una vita che ogni momento, ogni istante, ogni giorno va continuamente cambiando. Ecco, allora, che un’autobiografia si presenta come una testimonianza e uno scenario dell’avventura del soggetto nella natura, nel mondo, nella storia: la storia delle metamorfosi del soggetto.
21 22 23
Cfr. L. PISANO, M. CARASSAI, Vite dei filosofi. Filosofia e autobiografia (Editoriale), in «Lo Sguardo.net. Rivista di filosofia», n. 11, 2013, p. 7. Ibid. Ibid.
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Nella scrittura autobiografica comunque «si annidano coppie di ossimori: intimità ed essere per altro, particolare e universale, restituzione del sé ed esercizio retorico, vita e morte». Pertanto, «il desiderio di narrare è anche quello di essere narrato». In quanto scrittura, l’autobiografia «è una traccia di sé destinata ad un altro, un segno per ricordare e scalfire la propria unicità, un’immobilità di pietra per salvare la vita», dal momento che «con il tempo sospeso e raccontato, l’autobiografia è la condanna all’incancellabile, un lasciar tracce e rovine di sé che attende un riscatto»24. Donarsi-una-storia, restituire-una-unicità attraverso pratiche di scrittura, di ripetizione, di inscrizione nella forma di «un sé auto-ritratto, ma anche ritrattato e sottratto all’autoespressione»25. Soggettivazione e scrittura disegnano la piega autobiografica. Jean Starobinski, rilevando che «ogni autobiografia […] è un’autointerpretazione» in cui «chi scrive […] manifesta il progetto, orientato verso il futuro, di un modo specifico di rapportarsi all’altro»26, ha osservato che «[…] proprio perché l’io è differente dall’io attuale, quest’ultimo può veramente rivelarsi in tutti i suoi attributi, in quanto non narrerà quello che gli è capitato in un altro tempo, ma soprattutto come, da altro che era, è divenuto se stesso»27. L’autobiografismo di Rousseau, del Rousseau secondo Jean-Jacques, è, paradigmaticamente, un esempio forte di vita-che-si-scrive, di pensiero vissuto e scritto. Paolo Casini ha scritto, molto efficacemente, che «Rousseau ebbe un sentimento tormentoso e geloso della propria singolarità. Aspri conflitti interiori l’indussero, nella tarda maturità, ad analizzare senza tregua il proprio io, a ricomporre nella memoria una immagine il più possibile coerente di se stesso e della propria vita […]. L’egocentrismo che domina molte pagine delle Confessioni, dei Dialoghi, delle Rêveries ha spesso sollecitato superficiali analisi estetico-letterarie. Lettori recenti, nutriti di cognizioni di psicologia del profondo, vi hanno ravvisato invece un fenomeno morboso, vissuto con lucida consapevolezza e descritto con straordinaria intensità espressiva. La varietà dei giudizi correnti tra gli interpreti di Rousseau non deve distrarre il suo lettore da un dovere primario. È necessario tener sempre presenti le pagine autobiografiche se si vuole comprendere intus et in cute – secondo il motto di Persio che apre le Confessioni – il pensatore politico, il moralista, il teorico dell’educazione, il romanziere, il musicista. Le connessioni tra gli eventi e le idee, l’“interno” e l’“esterno” vi si articolano varia24 25 26 27
Ivi, pp. 7-8. Ivi, p. 8. J. STAROBINSKI, L’occhio vivente, cit., p. 205. Ivi, pp. 210-211.
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mente, dalle più ovvie testimonianze fattuali alle risonanze complicate e segrete che introducono il lettore avvertito nel cuore stesso del “problema Rousseau”. Non è meno necessario evitare l’errore, troppo diffuso, di smembrare l’opera del Ginevrino a seconda dei generi letterari o delle discipline cui ciascun testo appartiene: romanzo, pedagogia, politica, e via dicendo. Rousseau stesso, a ben guardare, ha indicato sottili relazioni, che il suo lettore deve seguire, tra autobiografia e riflessione astratta; ha esibito il significato profondo del proprio egocentrismo; ha sottolineato più volte l’unità della propria opera. Tutti questi aspetti convergono in taluni autoritratti ai quali è indispensabile rifarsi per intendere – al di là di non poche mascherature – la vera fisionomia dell’uomo»28. Le Confessioni appartengono alla trilogia delle opere autobiografiche di Rousseau. Nella loro costitutiva novità e originalità quale genere letterario e metafilosofico di scrittura si propongono, secondo l’intenzionalità di Jean-Jacques, di essere un’opera «unica» per la confessata ricerca ed esigenza di verità, e «utile» alla conoscenza dell’homme. La conoscenza del proprio sé e la conoscenza dell’uomo si coniugano nel progetto e nell’impresa a cui si accinge Rousseau: sono la natura specifica del suo essere e le singolari circostanze della sua vita a spingerlo a ciò. Sotto il segno della natura e della verità, Rousseau vuole dimostrare agli altri la sua autenticità e sincerità: la propria identità (ipséité). La conoscenza del proprio sé (savoir de soi) rimarrà sempre uno dei problemi centrali dell’autobiografia rousseauiana: uno dei problemi ontologici e politici nodali della sua scrittura e del suo essere «in sé» e «per sé» e del suo essere «per noi»: il difficile rapporto tra la conoscenza di sé e il riconoscimento da parte degli altri, della proximité. Rousseau vuole essere trasparente come il cristallo agli occhi del lettore29, vuole mostrarsi a lui in tutta la verità della (sua) natura, della sua vita interiore e della sua anima, al di là delle stratificazioni e delle sedimentazioni imposte alla natura del suo essere dalla società e dalla storia. Il progetto, l’impresa e l’unicità delle Confessioni, secondo Rousseau, devono contribuire alla ricostruzione dell’essere superando le contraddizioni e l’alienazione generate dal mondo dell’ostacolo e delle apparenze, dalla scissione tra être e paraître, costitutiva della modernità borghese. La transparence non è però un dato di fatto, ma è un problema, un fine, una meta da raggiungere. Per essere trasparenti bisogna poter trasparire agli altri, che gli altri – nella loro prossimità – accettino e si facciano partecipi di tale tra28 29
P. CASINI, Introduzione a Rousseau, cit., pp. 7-8. Cfr. J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., cap. VII.
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sparenza. Il mondo della solare trasparenza deve poter inebriare di luce la lunare opacità del mondo dell’obstacle. La cristallina trasparenza dell’«occhio vivente» di Rousseau ha davanti a sé il mondo dell’ostacolo, dell’alienazione. Trasparenza e ostacolo sono incompatibili: dove c’è trasparenza non c’è ostacolo e/o viceversa. Ma, sappiamo, l’ostacolo è sempre stato sulla strada della vicenda umana di Jean-Jacques! Le stesse lenti di cristallo del lettore possono essere di ostacolo a Rousseau che desidera con forza e inquietudine essere, appunto, trasparente come il cristallo nei suoi confronti. Nelle Confessioni, però, Rousseau desidera superare l’événémentiel e si dispone, nella coscienza della propria singolarità, alla ricerca dell’universale della condition humaine, offrendo al lettore l’occasione di approfondire lo studio e la conoscenza del cœur umano. Intus et in cute è l’imperativo categorico della scrittura di Jean-Jacques, il modello, il valore e la misura della (auto)rivelazione e/o dello svelamento del suo essere. Tuttavia, la conoscenza di sé non è per Rousseau un problema, ma, piuttosto, un dato antropologico ed etico-politico da esperire: è un processo ontologico. La conoscenza di sé e della propria soggettività impegnata, pur essendo imperfetta e parziale, può servire da modello metaetico e metapolitico per la conoscenza (pratico-filosofica) dell’humanum proprio e altrui, altro da sé e altro dagli altri. Ma le Confessioni non propongono un modello esclusivo e univocamente prescrittivo di un dover-esserecosì-e-non-altrimenti-dell’essere, ma propongono i lineamenti normativi (metaetici) che possono servire al lettore come referenti per comprendere l’altrimenti-che-essere di Jean-Jacques. Le Confessioni, è noto, producono degli «effetti perversi» nella pratica della (loro) lettura. Paradossalmente, Rousseau, che si è dichiarato e si riconosce altro, differente, un être a part nei confronti dell’umanità, genera il dispositivo fluido della identificazione: il lettore, leggendo le Confessioni, suggestionato dalla scrittura (auto)riflessa, scopre e ricerca se stesso attraverso la comparazione caratteriologica con Jean-Jacques e, parimenti, aumentando la conoscenza del proprio sé, diventa, attraverso lo «sguardo» altrui, misura e confronto di giudizio per l’uomo, la sua essenza è il comportamento: si differenzia dall’altro, da Jean-Jacques. Ma, è lo stesso dualismo antinomico della écriture di Rousseau che fa delle Confessioni un’opera autobiografica che, da una parte, si offre come modello esemplare al lettore e, dall’altra, rivendica il diritto della soggettività impegnata, della differenza differente e della singolarità singolare del suo écrivain: della sua sensibilità e della sua vulnerabilità. Il modello (metaetico e metapolitico) tutto centrato sull’esperienza della solitude, della singolarità singolare, sul mito e sul disagio del proprio sé, non risolve i di-
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laceranti conflitti di identità e di senso che nell’accesso-all’essere, tra ipseità e illeità, le Confessioni mettono in vista. La coscienza della propria singolarità singolare emerge assai presto nella vita e nell’œuvre di Rousseau: dall’infanzia all’adolescenza, dalla maturità alla vecchiaia, tale coscienza (la «conscience de soi») pervade globalmente la sua esistenza, contrassegna l’egotismo del suo essere. Una molteplicità di cause e di motivi spingono la «passione errante» (Blanchot) di Jean-Jacques a farsi estraneo alla comunità umana30 del suo tempo storico: egli si sa e si sente altro. La sua coscienza e la sua soggettività lo spingono, in un processo di separazione/scissione, verso la (auto)concentrazione interiore, ora nei recessi dello psichismo, dell’assenza e della solitudine silenziosa, ora nell’altrimenti-che-essere della ripetizione nel medesimo. L’uomo, ontologicamente, è un essere che dà delle risposte e che sceglie: è il soggetto dell’alternativa. Rousseau sceglie, e la sua «alternativa ontologica» – metaetica e metapolitica – coincide con la politica della (sua) esistenza: la solitude, l’isolamento della soggettività – l’altrimenti-che-essere della assenza del suo essere. Come è noto, Todorov in Una fragile felicità (cfr. FF, pp. 35 sgg.) ha osservato che il tema della solitudine comporta in Rousseau «diverse sfaccettature». Nelle Confessions, nelle Rêveries e nei Dialogues, a fronte dell’orrore della solitudine, Rousseau non smette mai di nutrire la speranza di ritrovare la società: «la causa di questa solitudine non è dunque in lui; è una solitudine dovuta all’atteggiamento ostile degli altri o al fatto che essi sono indegni del suo amore» (FF, p. 35). Rousseau può anche associare la sofferenza-nella-solitudine col «rifiuto di spezzarla»: «egli distingue infatti tra una comunicazione autentica e una comunicazione superficiale; ora quest’ultima non pone rimedio alla solitudine, tutt’altro; dunque, pur stando con gli altri, si soffre per la stessa cosa, ma in maniera ancora più intensa» (ivi, p. 36). La solitudine è deplorevole, ma la sua forma peggiore è quella che si vive «in mezzo alla folla»: qui il mondo appare come un «deserto», mentre la confusione sociale è «un silenzio opprimente». Rousseau cerca in questi atteggiamenti di riconciliare la sua nostalgia per la società con la condanna espressa su quest’ultima. Ora, «questa condanna ha degli accenti consueti: contrapposta alla autentica solitudine, la società ritrova tutti i vizi che caratterizzano lo “stato di società”; esalta l’apparire a detrimento dell’essere, l’opinione pubblica invece che la stima di sé, la vanità e non la semplicità; le istituzioni sociali degradano l’uomo» (ibid.): poiché l’«interno» è preferibile all’«esterno», 30
Cfr. B. BACZKO, Rousseau. Solitude et communauté, cit., parte III (Les sens de la solitude), pp. 155-279.
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l’uomo solitario «è superiore all’uomo sociale» (ibid.). La vita-in-comune ha un suo consustanziale difetto: creando rapporti di reciproca dipendenza tra gli uomini, di fatto finisce nel ledere la nostra libertà, che invece è «l’ideale dell’individuo». Occorre però non lasciarsi trarre in inganno e distinguere tra «libertà apparente» e «libertà autentica». La schiavitù, la paura e la dipendenza dagli altri rendono gli uomini non liberi. È preferibile perciò rifugiarsi nella «solitudine radicale», proprio perché «la società è cattiva, la solitudine è buona». Non mancano ambiguità e ambivalenze, oscillazioni, spostamenti e distinzioni nella difesa rousseauiana dell’ideale solitario: la solitudine, «da condizione temuta, diventa l’ideale a cui si aspira» (ivi, p. 38). Il dubbio radicale che permane però concerne appunto l’effettiva possibilità di realizzazione di questo ideale: «si può veramente vivere soli? E a che prezzo?» (ivi, p. 39). Todorov ritiene che si debbano nutrire seri dubbi sul fatto che Rousseau provasse felicità nella solitudine e sul suo valore soggettivo. È dunque preferibile non prendere la solitudine «in senso letterale»: «più che vivere assolutamente solo, l’individuo deve orientare la propria vita nel senso di fare una minore frequentazione degli altri» (ibid.). Più che di solitudine allora è meglio parlare di «comunicazione ristretta» e individuarne, in Rousseau, almeno quattro grandi specie: la scrittura, l’immaginario, la natura e la depersonalizzazione (cfr. ivi, pp. 40-46). La scrittura traduce la metamorfosi della relazione con gli altri e consiste «nell’agire sulla forma stessa del contatto, sostituendo alla promiscuità della presenza umana uno scambio mediato» (ivi, p. 40). Rousseau è più eloquente come scrittore, mentre come parlatore è scadente; non solo la sua penna esprime il linguaggio delle passioni meglio della sua lingua, ma in lui l’imbarazzo di parlare si contrappone al suo piacere di scrivere: «è la parola ad esporre costantemente al rischio di essere fraintesi, ad essere l’atto più compromettente»31. Lo scritto, invece, «mezzo più freddo, strumento meno legato all’irripetibilità dell’esperienza, meno bisognoso della presenza altrui hic et nunc, manifesta al meglio l’autenticità del personaggio Rousseau» (RB, p. XIX). Egli «ha bisogno di costruirsi: non per il prossimo e per i contemporanei, bensì per i lontani e per i posteri, che sapranno giudicarlo con tanta maggiore benevolenza e comprensione, quanto più egli avrà aperto loro il proprio cuore, rivelandone anche gli aspetti più sgradevoli» (ibid.). In e per Rousseau, «nello scrivere si estrinseca la volontà obliqua di riformulare il mondo, di riplasmare la realtà, di introdurre nell’essere il corrosivo di ciò che avrebbe potuto essere ma non è ancora 31
Cfr. R. BODEI, L’unità e la frazione, in T. TODOROV, Una fragile felicità, cit., p. XIX (d’ora in poi RB).
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stato, di attivare l’immaginario pensando che “non c’è niente di bello se non ciò che non esiste”» (ibid.) L’immaginario serve da sostituto al reale: le «chimere», ecco un modo economico di «vivere nell’autosufficienza». La natura pone l’inanimato al posto dell’animato. La natura è il regno del non umano: «se gli uomini sono indegni, la natura è un’egida contro la loro malvagità e stupidità; ha il vantaggio – come il dio di Delfi – di non dire, ma di indicare, di significare; di non essere invadente e, soprattutto, di non mettere in discussione il soggetto» (ibid.). Rousseau «ha bisogno di depersonalizzare ogni rapporto umano, di evitare la reciprocità, il confronto, l’emulazione e il rispecchiamento perturbante nell’altro: ha paura di essere annullato in esso, teme di scomparire» (ivi, pp. XIX-XX). La depersonalizzazione si traduce nel fatto che Rousseau «accetta la presenza degli altri a condizione che non siano dei soggetti come lui, che non si personalizzino» (FF, p. 43): eloquente, ambiguo ed emblematico è l’esempio di sua moglie Thérèse. La tesi della «comunicazione ristretta», dunque, dice la «verità» delle relazioni che Rousseau intrattiene con le persone reali: essa consiste «nel trasformarle in non persone, oggetti o strumenti»: il che significa che per vivere nella «solitudine», Rousseau «deve rifiutare agli altri uno statuto simile a quello che accorda a se stesso»; detto altrimenti, «il prezzo della sua “solitudine” è l’accettazione della disuguaglianza tra gli esseri» (cfr. ivi, p. 46). Ma come si può erigere a ideale la solitudine se gli uomini sono tutti passati allo stato di società? L’individuo solitario non vive veramente solo. Neppure nel «patto autobiografico» lo scrittore può fare a meno di non rivolgersi agli altri, come se gli altri non esistessero e non contassero. È chiaro che, nella prospettiva di Rousseau, «la solitudine e il suo contrario, la società, sono entrambe successive alla caduta nello stato di società, ed estranee allo stato di natura; di conseguenza è ingiusto ritenere la società responsabile di ciò di cui soffre anche il suo contrario, la solitudine» (ivi, pp. 54-55). Perfino la «natura» subisce le metamorfosi. La solitudine radicale non costituisce un ideale per l’uomo proprio perché è «impossibile». Secondo Todorov, «ciò che Rousseau ci presenta sotto il nome di solitudine, sono due esperienze complementari, quella della comunicazione ristretta e quella della ricerca del sé» (ivi, p. 57). È un vero solitario colui che consegna ai posteri «migliaia di pagine» scritte, colui «che affida i propri manoscritti a persone sicure, che dà loro istruzioni precise su ciò che dovranno fare, che moltiplica le copie e le precauzioni?» (ibid.). Scrittura, immaginario, natura, depersonalizzazione. Proviamo a ricapitolare in uno schema sinottico che, al riguardo, ha bene indicato Remo
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Bodei32. Alla ricerca della propria identità, frazionato nella società e dallo sviluppo dei legami di dipendenza dalle cose che sono imposti dalla vita civile, l’individuo moderno si rifugia nel mondo della sua interiorità, in una solitudine in cui gli «unici» rapporti che si intrattengono sono quelli «con se stessi» e «con la natura». In questa situazione, «l’oppressione e il sostegno del gruppo sono scomparsi. Ciascuno si trova a godere di ciò che più somiglia alla felicità. Isolato con i propri pensieri, sensazioni e sentimenti, senza dover render conto a nessuno delle proprie azioni, può trascorrere intere giornate in un ozio divino, sottratto alla tirannide del tempo e degli obblighi sociali e familiari. L’anima e il corpo si depurano così di ogni residuo ricordo del contatto con la civiltà e i suoi disagi e raggiungono l’autosufficienza. Niente manca al solitario, nessun vuoto deve essere colmato» (RB, p. XVI). A questo punto, la pienezza del vivere non può non derivare proprio «dall’assenza di desideri, dal non essere né attivi, né passivi, bensì attenti al puro sentimento dell’esistere, al suo pulsare intermittente e leggero, immersi in un ascolto fluttuante di se stessi e del mondo, allo scongelarsi del fiume della vita indivisa, che scioglie la barriera che separava il soggetto dall’oggetto, aprendo finalmente l’animo all’unità, favorendo la comunicazione reciproca delle parti disperse di sé, guidando verso il rinvenimento dell’uomo naturale, dell’uomo nella natura» (ibid.). In questo modo si pone fine al «dominio della riflessione» e si pone tra parentesi «la dissipazione della vita sociale»: in questo caso, l’individuo «non ha più bisogno di apparire, non dipende più dall’opinione degli altri, che lo squarta e lo tira in tutte le direzioni (e se cede una volta, rischia di perdere per sempre se stesso)» (ibid.). Le contraddizioni individuali trovano la loro specularità «in una oscillante rêverie in cui percezione e sogno, realtà e desiderio si intrecciano, cullando dolcemente il volontario eremita» (ivi, p. XVII). Ciononostante, la solitudine non dura, perché non può surrogare la socialità, pena la regressione e l’ottundimento dell’umano. Per Rousseau non c’è alcun «permanente ritorno all’indietro» né si profila la possibilità di raggiungere «un equilibrio mitico tra natura e cultura». Qui lo scopo di Rousseau molto più semplicemente è quello di trasformare l’artificialità in spontaneità dell’intervento umano, sapendo comunque che «la spontaneità è una conquista» (ibid.) nell’esercizio dell’umano. Pur essendo «il più radicale surrogato di socialità» (ibid.), la solitudine, per Rousseau non è l’unico sostituto: «laddove mancano rapporti umani pienamente soddisfacenti, altri succedanei si affermano, fissando forme ristrette di comunicazione (che non coincidono affatto con la solitudine)» 32
Cfr. ivi, pp. XVI-XVIII.
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(ivi, p. XVIII). Todorov, come ho già detto sopra, enuclea tali surrogati: «la scrittura, l’evasione nell’immaginario, la natura vegetale, le persone ridotte al ruolo di strumenti o di oggetti» (FF, p. 58). Va da sé, però, che ogni succedaneo «non vale l’originale» (ibid.). Il fatto è che Rousseau «vorrebbe essere amato, vorrebbe vivere con gli altri, ma il destino non gli è stato favorevole» (ibid.). Jean-Jacques si sente incompreso dal resto del mondo, dai suoi contemporanei e, alla base di questa incomprensione, ci sarà, non di meno, il desiderio e il progetto della scrittura autobiografica: alla rottura della comunicazione egli supplirà «con quella comunicazione per rottura che è la presenza letteraria»33. Ma, come e perché Jean-Jacques, proprio lui, si propone come «soggetto-ostaggio», nella sua unicità singolare, di scrivere testi autobiografici? La sua personale esistenza (ed esperienza) può far testo? Per autobiografarsi, il soggetto-oggetto della scrittura deve poter esperire ed esibire una collaudata pratica, conoscenza e familiarità del proprio essere, del proprio sé e della propria identità. Jean-Jacques esibisce la possibilità di scrivere-la-vita di se stesso, della sua soggettiva interiorità, dell’autenticità del suo essere: della sua soggettività come «ostaggio» del mondo dell’obstacle. L’autobiografia si incarica, attraverso il supplemento-medium della scrittura, del difficile compito di sopperire alla miseria della biografia. L’immaginazione fantastica deve far fronte alla menzogna e ai complotti che il mondo ordisce nei confronti di Jean-Jacques e del suo essere profondamente agitato dalla sensibilità psicofisica e morale e dal delirio esistenziale. Nella scrittura autobiografica, Rousseau cerca – pur sempre – di difendersi e tenta di non cadere nel plagio di se stesso e nell’apologia, più o meno diretta, della sua persona. Onde evitare tale pericolo invoca l’esigenza della sincerità. Il ritratto autobiografico è sempre esposto al pericolo della falsificazione: nel tentativo di mettere in rilievo le regioni di luce e di trasparenza dell’essere si occultano le zone d’ombra delle figure e delle immagini dell’essere: la retorica della finzione è il prezzo che l’essere deve pagare per la sua consustanziale finitezza. La scrittura autobiografica, così come viene praticata da Rousseau nelle Confessioni, deve rispondere in termini di «morale della responsabilità», cioè deve offrire, in tutta «sincerità» una visione riflessa dell’essere che si (auto)identifichi con la realtà dell’essere. Qui si impone una considerazione immediata. La scrittura autobiografica, pur concepita sotto il segno della «sincerità», non la si può strutturalmente considerare depositaria assoluta della medesima, 33
M. BLANCHOT, Rousseau, in AA.VV., Rousseau, a c. d. M. Antomelli, Isedi, Milano 1977, p. 47.
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il segno dell’autenticità dell’essere. La scrittura autobiografica deve poter corrispondere a un imperativo morale, un modello metaetico e prescrittivo del dover-essere altro, a una intenzionalità tutta soggettiva dell’écrivain. Ma, la «sincerità» non è il segno strutturale della scrittura autobiografica, essa corrisponde alla «scelta ontologica» che l’écrivain compie nei suoi confronti e in quelli del lettore: la scrittura della verità non corrisponde alla verità della scrittura! Filosofia della sincerità, maschere dell’io, menzogne autobiografiche. Qual è il «gioco di Rousseau» nel tempo corrotto delle maschere, delle apparenze, del conflitto per i bisogni reificati dell’«amor proprio»? Rousseau, nelle Confessioni, esercita continuamente un controllo della propria scrittura e chiede costantemente l’intervento attivo del lettore, della sua intelligenza attiva e della sua giustizia. L’io dell’écrivain esorta continuamente il tu del lettore ad abbandonare ogni resistenza e incredulità e di stabilire una relation critique intersoggettiva nei suoi confronti sotto l’egida della verità e della giustizia. Tuttavia, la scrittura dell’autobiografia, nelle Confessioni, non si produce unicamente in relazione alla funzione intertestuale e al ruolo critico del lettore, ma trova le più intime motivazioni nella disperata ricerca dell’unità del sé dell’essere dell’uomo-Rousseau. Nonostante le metamorfosi e le diversità ontologiche del suo essere e le alienazioni che egli conosce ed esperisce, Rousseau si persuade, attraverso i movimenti centrifughi e centripeti del suo essere, di scoprire e di esibire una sua interna cohérence, l’unità del suo essere va ricercata nella sua différence. Il dispositivo della scrittura autobiografica è così adoprato per ridare la complessità eterogenea dell’essere a un tutto coerente, alla unità ontologica dell’essere in-sé e per-sé, alla circolare insularità dell’essere-diJean-Jacques. Il tempo, le forme e lo spazio dell’unità ontologica dell’essere si traducono nella politica della (sua) solitudine, Nella condizione esistenziale dell’isolamento, l’essere dell’écrivain risale, genealogicamente, le fasi del suo processo ontologico di formazione per ricercarne l’irriducibile essenza, la sua vera e autentica natura originaria. La memoria, il ricordo, la reminiscenza, il sentimento e la rêverie, assistono Jean-Jacques in questo suo viaggio di (auto)introspezione alle radici dell’essere attraverso il linguaggio e la grammatica dei suoi strati ontologici, da quelli più profondi e complessi a quelli originari, mitici, quelli che segnano il cominciamento dell’essere. L’io dell’écrivain, attraverso il supplemento-medium della scrittura autobiografica, vuole offrire un ritratto completo, una immagine globale del suo essere, una sintesi ad un tempo, «storicizzante», testimone delle verità
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Filosofia, vita e autobiografia
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storiche della sua vita e, «strutturante», desiderosa di ricercare l’unità del proprio sé. Al di là delle contingenze «storiche». La scrittura autobiografica chiude il circolo («cercle du soi»): dalla solare trasparenza dell’essere si passa all’eclissi del «mythe du moi». Con forte incisività critica ed espressiva, Maurice Blanchot ha scritto: «Rousseau, l’uomo del cominciamento, della natura e della verità, è anche colui che non può adempiere a questi rapporti se non scrivendo […]. Da un lato, scrivere non è male, perché si entra nella menzogna della letteratura e nella vanità degli usi letterari; d’altro canto, è anche rendersi capaci di un mutamento suggestivo ed entrare in un nuovo rapporto di entusiasmo “con la verità, la libertà e la virtù”: e non è forse un risultato prezioso? Eppure, è ancora perdersi, perché, divenuto un altro uomo – altro in un altro universo – egli è ormai infedele alla sua vera natura […] costretto a lasciarsi coinvolgere in una ricerca che pure non avrà altro oggetto se non lui stesso»34. Rousseau secondo Jean-Jacques L’autobiographie est animée par une intention métahistorique; elle se situe selon l’ordre d’une ontologie de la vie personnelle. Georges Gusdorf
Mediante la pratica scritturale dell’auto-bio-grafia, la quale implica un raddoppiamento/sdoppiamento dell’essere in essere individuale e collettivo, pubblico e privato, in essere-in-sé e per-sé e in essere-per-noi, Rousseau sceglie deliberatamente la prospettiva ontologica dell’io come soggettività. Tale prospettiva esprime, tra solitudine, isolamento e insularità, la coscienza (infelice) della propria singolarità e della propria differenza che, pur appartenendo al proprio tempo storico, si carica di un forte sentimento di autonomia (contro l’eteronomia del mondo dell’alienazione) e di individualità (contro la vertigine dell’affanno dell’urbanità, della «solitude dans le foule»). Soggetto dell’unicità (Jean-Jacques) e unità del soggetto (Rousseau) bilanciano reciprocamente – in un equilibrio/squilibrio instabile – tra espansione e concentrazione35, le forze centripete e centrifughe che il centro ontologico dell’essere sprigiona. Soggetto/oggetto della comunicazione, l’io 34 35
Ivi, pp. 44-46. Cfr. G. POULET, Expansion et concentration chez Rousseau, in «Les Temps modernes», XVI, n. 178, feb. 1961, pp. 949-973.
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Alchimia del segno
di Jean-Jacques scambia, nelle forme, i tempi e le modalità della relazione, il messaggio, con il tu destinatario del lettore. L’io, diviso e frantumato di Jean-Jacques e, pur sempre riunito in e da Rousseau, circolarmente segnato dalla sintesi di sentimento-passione-pensiero-scrittura, si rapporta al macrouniverso del pubblico dei lettori, stabilendo, così, i tempi e i ritmi di un peculiare, quanto originalissimo, genere (letterario e filosofico) di scambio simbolico. Nella loro specifica unicità, l’io dell’écrivain e il tu del lettore intrattengono un rapporto linguistico generativo nel quale, tra locutore e allocutore, si stabilisce una caratteristica correlazione di personalità (Benveniste)36: lo schema pronominale, lo sdoppiamento dialogico e la frammentazione del soggetto, quali risultano dall’utilizzazione rousseauiana delle «personae»37, (s)compongono la persona soggettiva (Jean-Jacques Rousseau) che emette il messaggio (scritto) e la oppongono alla non-persona (la persona non-soggettiva) del lettore, fruitore dello stesso. Tra lo spazio ontologico del proprio essere-in-sé e per-sé soggettivo, unico, singolarmente irriducibile, trascendentale, interiore dell’autore e lo spazio esteriore del lettore si costituisce, pur nella conseguente opposizione, una relazione di complementarità e di reversibilità comunicativa: un feed back tra l’io dell’écrivain e il tu del lettore. Tuttavia, soltanto apparentemente, in superficie, questa relazione può sembrare lineare, in realtà, la scrittura autobiografica e la sua lettura intrattengono una difficile «alleanza». Il linguaggio della scrittura e la scrittura come supplemento e come medium del linguaggio diventano, nell’œuvre di Rousseau, il luogo di un’esperienza immediata. Tutto ciò «testimonia – come ha scritto efficacemente Starobinski – ad un tempo come lo scrittore inerisca alla sua “fonte” interiore e come sussista il bisogno di far fronte a un giudizio, vale a dire di essere giudicato nell’universale. È un linguaggio che non ha più niente in comune col “discorso” classico; è infinitamente più imperioso e, insieme, infinitamente più precario. Se la parola è l’autenticità dell’io, essa rivela, d’altronde, che l’autenticità perfetta non è ancora raggiunta, che la pienezza va ancora conquistata e nulla è certo se il testimone rifiuta il suo consenso. L’opera letteraria non richiede più l’assenso del lettore su una verità frapposta in “terza persona” fra lo scrittore e il suo pubblico; lo scrit36 37
Cfr. E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966 e P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit. Cfr. A. PIZZORUSSO, Le «personae» nei Dialogues, cit., pp. 65-74 e ID., I Dialogues: costruzione e distruzione di un sistema, cit., pp. 5-21. M. FOUCAULT, Introduzione ai Dialoghi di Rousseau, cit.
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Filosofia, vita e autobiografia
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tore si designa colla sua opera e richiede l’assenso sulla verità della sua esperienza personale. Sono questi i problemi scoperti da Rousseau. Egli ha veramente inventato l’atteggiamento, che poi diventerà proprio della letteratura moderna […]; si può dire che è stato il primo a vivere in maniera esemplare il pericolo del patto fra l’io e il linguaggio; la “nuova alleanza” nella quale l’uomo si fa verbo»38. Tra il pensato, il vissuto e lo scritto di Jean-Jacques Rousseau e la «lettura» delle sue opere da parte del lettore si frappongono i tempi e le forme della relazione; così come la difficoltà della rappresentazione della sua scrittura attesta, anche, le vertigini dell’affanno della lettura dell’interprete. Storicità, temporalizzazione e atemporalità dell’essere segnano i tempi umani e gli scarti temporali in cui il passato, il presente e il futuro dell’io si formano ontologicamente. La scrittura autobiografica e le metamorfosi ontologiche della vita personale di Jean-Jacques si avvolgono in una difficile relazione critica produttrice ora di «permanenze», ora di «scarti». Ancora. I tempi e le forme della scrittura autobiografica non sempre stabiliscono, pertanto, una corrispondenza biunivoca, una osmosi con i tempi vissuti dell’esperienza esistenziale: l’io (ri)scritto slitta sul vissuto dell’io. Tra il pensato, il vissuto e lo scritto si inserisce la distanza dal e del tempo, la presenza e l’assenza dei tempi dell’essere e dell’essere del tempo. La coupure tra il tempo dell’io e il tempo della scrittura, la loro differenza, non è risolvibile né conciliabile con i soli strumenti della mediazione della retorica e del campo dell’argomentazione filosofica. Le germinazioni dell’io e la ricerca della propria identità, in un mondo di alienazione, si scartano dalla riduzione di complessità che la scrittura (autobiografica) tenta di compiere della totalità e dell’infinito dell’essere: una écriture che l’uomo (Jean-Jacques) e il filosofo (Rousseau) ricercano negli abusi del linguaggio comune della vita, della letteratura e della storia della filosofia e in cui l’in-dicibile e l’altrimenti che essere della propria soggettività lo traducono davanti agli occhi del lettore. L’io, nelle sue fluttuanti metamorfosi ontologiche è, comunque, alla ricerca, ostinata e drammatica, di un proprio centro personale. La scrittura autobiografica, allora, si capovolge, si giustifica, diviene strumento (supplemento e medium) di sintesi che, trascendendo le contingenze e le alterazioni, le permanenze e i mutamenti, le discontinuità e le variazioni del e nel tempo, sappia coerentemente (sincronicamente e diacronicamente) dislocare, nei confronti del lettore, l’essere nella sua identità-verità-unità: il luogo dell’ontologia mitica dell’essere (Eigeldinger). 38
J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., pp. 311-312.
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Alchimia del segno
Le «antinomie della solitudine» (Baczko) e la «violenza della propria alterità» segneranno, come si vedrà, la condizione antropologica, esistenziale, sociale e ontologica di Jean-Jacques Rousseau. In questo quadro, la scrittura lotta per conquistare una «permanenza» transtemporale: con la sua œuvre e con la sua écriture, Rousseau lotta contro il fruscio del mondo, contro il fruscio del c’è, ma con la scrittura Jean-Jacques riempie il vuoto che, comunque, la negazione dell’essere presente lascia dietro di sé. Da questa consapevolezza (critica) nascerà il progetto di scrivere opere autobiografiche che non siano solo il riverbero della propria esperienza personale, ma che siano, nella loro unicità, utili alla conoscenza dell’uomo: tra queste le Confessioni, i Dialoghi e le Fantasticherie partecipano ampiamente di questo progetto e, parimenti, registrano al proprio interno, insieme con le altre, il «dualismo antinomico» di fondo della scrittura del Ginevrino. Anche, e soprattutto, in queste opere si stabilisce un peculiare rapporto intersoggettivo tra l’io dello scrittore e il tu del lettore. Qui la scrittura di Rousseau presenta, per la lettura del suo interlocutore-interprete, le stesse contraddittorie esigenze del processo ontologico e delle metamorfosi del suo essere. La scrittura di Rousseau partendo dalla insoddisfazione della biografia reale e contingente, temporale, si fa immaginazione, linguaggio dell’immaginario: Il mondo reale ha i suoi limiti, il mondo immaginario è infinito; non potendo allargare l’uno, restringiamo l’altro poiché è dalla loro differenza che nascono tutte le pene che ci rendono veramente infelici39. Chi non immagina nulla non sente che se stesso; egli è solo in mezzo al genere umano40.
Dalla contingenza ed esteriorità della biografia, topos dell’inautenticità dell’essere, si passa all’immaginario u-topico dell’autobiografia, dove la scrittura trasgredisce la contingenza e i confini della realtà data a favore di una realtà altra, eterea: alla realtà-del-mondo l’immaginazione supplisce con il mondo-del-possibile. Nel generale processo ontologico dell’essere-nel-mondo e del mondodell’essere la mediazione della scrittura non assolve più e soltanto alla funzione di riduzione della loro complessità, ma si predispone e si progetta quale esperienza dell’immaginario. Qui si dà un rapporto estremamente complesso, reticolato, che immagine, immaginazione e immaginario intrat39 40
J.-J. ROUSSEAU, Emilio, in J.-J. ROUSSEAU, Opere, cit., p. 305. J.-J. ROUSSEAU, Essai, cit., p. 197.
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Filosofia, vita e autobiografia
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tengono con il linguaggio della scrittura e con la scrittura come supplemento e medium del linguaggio. Nel mondo dell’alienazione e della crisi (Baczko), il linguaggio ha operato un essenziale oblio di e da se stesso, si è ritratto dal mondo a causa della perdita di immediatezza della comunicazione. Nel mondo opaco delle apparenze, il linguaggio mediato del Diskurs e la scrittura quale mediazione del linguaggio ri-producono immagini-del-mondo. Dove prima il linguaggio esprimeva l’essere immediato, parlava il linguaggio della natura e delle cose, ora l’essere si può comprendere soltanto mediante il linguaggio mediato della rappresentazione/discorso, strumento di comunicazione mediata. La comunicazione sociale, l’essere e il tempo, nella loro essenza, diventano rappresentazioni/immagini del mondo: la realtà è l’immagine del mondo. Tuttavia, la modernità (il mondo dell’alienazione, dell’ineguaglianza, dell’ostacolo e della crisi) non ha un’immagine (vera e autentica) del mondo, piuttosto deve essere interpretata come quel tempo storico in cui il mondo è un’immagine: il mondo delle apparenze. L’essere del mondo è proprio il suo «apparire». Il problema della comunicazione nella modernità, in un’epoca in cui il mondo si costituisce a immagine e dove l’essere sociale dell’uomo si rappresenta e si organizza quale soggetto-maschera produttore e riproduttore dell’immagine (oggettiva) del mondo, è ontologicamente centrale nell’esperienza teorica e pratica di Rousseau. Il mondo dell’alienazione e della crisi, delle passioni e degli interessi, dell’ostacolo e della società ineguale, costituiscono il mondo come immagine al quale Rousseau, problematicamente, contrappone (La Nouvelle Héloïse) l’immaginazione di un mondo dell’immaginario, altro, possibile: la Città Nuova, il paese di Utopia, l’elegiaco paradiso terrestre della comunità della festa, la società intima dell’eguaglianza, il vivere a Clarens41. 41
Sui temi, progetti e pensieri utopici di Rousseau, cfr.: J. FABRE. Realité et utopie dans la pensée politique de Rousseau, in «Annales J.-J. Rousseau», XXXV, 195962, pp. 181-221. J.L. LECERCLE , Rousseau et l’art du roman, Colin, Paris 1969. N. WAGNER, L’Utopie de «la Nouvelle Héloïse», in AA.VV., Roman et lumières au XVIIIe siècle, Editions sociales, Paris 1970, pp. 189-270. R. TROUSSON, Rousseau et les mécanismes de l’utopie, in «Romanische Forschung», n. 2-3, 1971, pp. 267287 e ID., J.-J. Rousseau et la pensée utopique, in «Revue de l’Université de Bruxelles», n. 2-3, 1972. J. STAROBINSKI, La trasparenza e l’ostacolo, cit., cap. V, pp. 137-196. B. BACZKO, Rousseau. Solitude et communauté, cit., cap. IV; ID., Lumières de l’utopie, cit., cap. II, pp. 63-101; ID., Utopia, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi Torino, 1981, vol. 14, pp. 856-920. M. DUCHET, Clarens, «le lac d’amour où l’on se noie», in «Littératur», n. 21, 1976, pp. 79-90. J. GAASCH, Rousseau and the politics of fête, University Microfilms International, A. Arbor, USA, 1977. P. MONIQUE VERNES, La ville, la fête, la démocratie. Rousseau et les illusions de la
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Alchimia del segno
Attraverso la mediazione della scrittura, del «corpo glorioso della scrittura» (Clément), il carattere espansivo dell’immaginazione disvela la sua ambigua, creatrice, compensatrice e supplementare natura nei confronti dell’essere, nei suoi livelli soggettivi e oggettivi. Sotto l’aspetto dell’ontologia della vita personale, la scrittura dell’immaginario assume una peculiare torsione, presentando, all’interno del proprio reticolo semantico, diverse sfaccettature: uno specchio problematico sul quale si rifrange lo sguardo del lettore (Starobinski). Filosofia, linguaggio, scrittura e tempo storico sono in stretto rapporto. La (ri)produzione di un determinato tipo di scrittura quale supplemento e medium del linguaggio resta proprio come scelta e/o espressione di un momento storico. L’essere intrattiene tramite la scrittura un peculiare rapporto con il tempo passato, presente e futuro. Nella scrittura, il passato svolge il ruolo rituale del racconto: esso non deve più esprimere un tempo, ma ha il compito di ricondurre la realtà in un determinato punto, un centro ontologico dell’essere, al-di-là dei tempi biografici vissuti, un centro libero e liberato dalle radici esistenziali dell’esperienza (del male) e orientato verso il mito cosmogonico (Eigeldinger). Il mondo non è inspiegabile quando l’io dell’écrivain lo narra e lo descrive: nel racconto dell’autore, e mediante la sua scrittura, il passato è quel segno attraverso il quale egli riconduce (e riduce) le diverse e molteplici divergenze della realtà a un verbo la cui funzione differente è quella di coniugare altrimenti le cause e i fini. Il passato è nelle mani dell’écrivain che, riducendolo in segni, né può proporre o rifiutare la trasparenza e/o l’opacità. Nella scrittura del racconto il passato gioca tutta la sua verosimiglianza e/o falsità, esso istituisce nel possibile storico la propria (in)credibile e (in)dicibile continuità sotto il segno dell’ambiguità tra verità, apparenza e immaginario: la scrittura mette la maschera anche per indicarne e svelarne la magica esistenza di morte e di lutto. communauté, cit., J.F. JONES jr., La nouvelle Héloïse: Rousseau and Utopia, Droz, Genève-Paris 1978. S. BARTOLUCCI (a c. d.), Illuminismo e Utopia. Temi e progetti utopici nella cultura francese (1676-1788), Il Saggiatore, Milano 1978, pp. 5460. M. DE MARINIS, La festa tra utopia e politica in J.-J. Rousseau, in AA.VV., Forme dell’utopia, La Pietra, Milano 1979, pp. 85-125. L. LUPORINI, Rousseau di fronte all’utopia, in «Atti e memorie dell’Acc. “La Colombaria”», Olschki, Firenze, XLV, 1980, pp. 133-174. G.A. ROGGERONE, Utopia, mito e realtà nel pensiero di Rousseau, in «Discorsi», n. 2, 1982, pp. 222-249. P. BERTHIAUME, La ville et la campagne: de la raison à l’utopie, in R.U.O., gen-mar. 1982, pp. 64-77. R. SALVUCCI, Sviluppi della problematica del linguaggio. Condillac Rousseau Smith, cit., cap. II, pp. 307 sgg.
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Filosofia, vita e autobiografia
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Nella scrittura, come si vedrà, la funzione ambigua e fabulatrice del passato è messa in evidenza dalle coniugazioni e declinazioni dell’io, del tu e dell’egli (je, tu, il): composizione, scomposizione e ricomposizione pronominale sono funzioni tipiche della scrittura narrativa e auto-bio-grafica. L’egli rappresenta una trasformazione dell’io, ma ha anche la funzione di esprimere un’esperienza esistenziale. Nella scrittura la storia dell’essere sociale e umano dell’uomo ha davanti a sé la curva esistenziale e ontologica della coniugazione: partito dall’io l’autore-scrittore si compone, scompone e ricompone, si doppia e si sdoppia con la terza persona dell’egli; la vittoria dell’egli sull’io testimonia della tragicità della scrittura, evince l’ulissicità del soggetto nella dialettica dell’illuminismo. La produzione e la scrittura dell’immaginario simbolico danno vita a un complesso rapporto su cui occorrerà soffermarsi: l’utopia del linguaggio e/o il linguaggio dell’utopia. Sappiamo. Nella modernità, il processo di moltiplicazione e di disseminazione della scrittura costringe l’écrivain a compiere una scelta nei confronti della forma e dell’etica della scrittura come comportamento e come forma-di-vita, parimenti, la forma-scrittura, nella produzione intellettuale, letteraria e filosofica, assume una sua relativa autonomia. Come ha fatto notare Barthes: «La scrittura moderna è un vero e proprio organismo indipendente che cresce attorno all’atto letterario, lo abbellisce di un valore estraneo alla sua intenzione, lo impegna continuamente in un duplice modo di esistenza, e al contenuto delle parole sovrappone segni opachi che portano in se stessi un’altra storia, un altro compromesso o redenzione. In tal modo alla situazione del pensiero si mescola un destino supplementare della forma, spesso divergente, sempre ingombrante»42. Il segno della scrittura impone il dominio della sua forma all’œuvre dello scrittore. Per scrivere cose vive l’écrivain dispone di una scrittura omogenea, unica, morta, una scrittura ereditata da una storia diversa e passata, differente, di cui egli non è responsabile: tragicità della scrittura! L’artificio della scrittura non dipende dall’écrivain, ma dalla natura del legame sociale, dal suo grado di complessità. La scrittura consuma, così, la sua tragica ambiguità in quanto è, ad un tempo, depositaria di alienazione e portatrice di sogni. Essendo necessità, la scrittura attesta «la frattura dei linguaggi, inseparabile da quella delle classi: in quanto Libertà, essa è la coscienza di questa frattura e lo sforzo stesso che tende a superarla. Sentendosi costantemente colpevole della propria solitudine, non per questo 42
R. BARTHES, Le degré zéro de l’écriture suivi de Nouveaux essais critiques, Edition du Seuil, Paris 1953 e 1972, tr. it., Einaudi, Torino 1982, p. 62.
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Alchimia del segno
essa cessa di essere avida di immaginazione, di una felicità delle parole; e così si spinge verso un linguaggio sognato la cui freschezza, per una specie di ideale anticipazione, potrebbe rappresentare la perfezione di un nuovo mondo adamitico dove il linguaggio non fosse più alienato. La moltiplicazione delle scritture istituisce una Letteratura nuova nella misura in cui questa inventi il proprio linguaggio solo per proiettarlo nel futuro: la Letteratura diventa l’Utopia del linguaggio»43. Il linguaggio dell’imagination e la scrittura dell’imaginaire Insita nella stessa percezione, commista alle operazioni della memoria, aprendo intorno a noi l’orizzonte del possibile, scortando il progetto, la speranza, il timore, le congetture, – l’immaginazione è molto più di una facoltà di evocare immagini che trascendano il mondo delle nostre percezioni: è una capacità di scarto in virtù della quale ci raffiguriamo le cose lontane e ci distacchiamo da quelle presenti e reali. Di qui quell’ambiguità che si riscontra ovunque: l’immaginazione, in quanto anticipa e prevede, serve l’azione, ci prospetta il modo con cui si configura il realizzabile prima che sia realizzato. In questo primo senso, l’immaginazione collabora con la “funzione del reale”, in quanto il nostro adattamento al mondo esige che si esca dall’istante presente, che si superino i dati del mondo immediato, per impadronirci col pensiero di un avvenire a tutta prima indistinto. Sennonché, volgendo le spalle all’universo tangibile che il presente concentra intorno a noi, la coscienza immaginativa può anche assumere una sua distanza e proiettare le sue invenzioni in una direzione in cui non deve tener conto di una possibile coincidenza con l’avvenimento, e in questo secondo senso essa è finzione, gioco o sogno, errore più o meno volontario, pura fascinazione. Allora, anziché contribuire alla “funzione del reale”, essa allevia la nostra esistenza trasportandola nel regno dei fantasmi, contribuendo in tal modo ora a estendere il nostro dominio pratico sul reale, ora a rompere i legami che ad esso ci uniscono. Ma a complicare ancor più le cose, si può dire che niente garantisca il successo dell’immaginazione anticipatrice, la quale corre sempre il rischio di non ricevere la conferma che attende e di non aver generato se non una vaga immaginazione della nostra speranza. Per contro, va riconosciuto che l’immaginazione più delirante conserva sempre una realtà propria, la stessa a cui possono richiamarsi tutte le attività psichiche, poiché è un fatto tra i fatti. Se in ogni vita pratica si dà necessariamente un’immaginazione del reale, si constata che anche nel fantasticare più sregolato, sussiste una realtà dell’immaginario. Jean Starobinski
43
Ivi, p. 64.
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Filosofia, vita e autobiografia
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In Rousseau, per il Rousseau che non vive semplicemente «per il presente e del presente» (Vitiello), immaginazione, immaginario e utopia costituiscono un fascio di problemi su cui la riflessione storiografica degli ultimi tempi si è ampiamente approfondita. Dopo una ricca stagione di ricerca critica come quella caratterizzante gli studi rousseauiani più attenti, non si insisterà, infatti, mai abbastanza nel sottolineare il ruolo e la funzione che il linguaggio dell’imagination e la scrittura dell’imaginaire svolgono nell’economia simbolica e nella semantica metaforica dell’intera opera di Rousseau e, in particolare, delle opere pedagogiche, politiche e autobiografiche, dove il rapporto tra l’io dell’écrivain e il tu del lecteur raggiunge livelli alti di concentrazione testuale. La complessa e ricca elaborazione che Rousseau propone, nella sua œuvre e attraverso la pratica e lo stile della sua écriture, della natura, della funzione e dei poteri dell’immaginazione anticipatrice (e della realtà dell’immaginario) si differenzia da quella dei philosophes del ‘600 e del ‘700. Alla base della concezione rousseauiana dell’imagination c’è, infatti, in direzione chiaramente anticartesiana, il rifiuto di considerarla come una semplice facoltà sensibile e, perciò, estranea alla forza della conoscenza del proprio sé e degli altri; inoltre l’imagination è pensata in termini antipascaliani dal Ginevrino, per il quale è vivo e forte il convincimento che essa non possa essere riducibile alla (sua) mera funzione di (ri)produttrice di errori, di inganni, di falsità, di menzogne e di pericolosi fantasmi, non senza residui. Per Jean-Jacques, l’imagination deve poter acquisire lo statuto di facoltà autonoma delle attività dello spirito, indipendentemente dalle sue contingenze sensibili e/o dalle razionalizzazioni del logos. Secondo quanto ha osservato Eigeldinger, per Rousseau: «La faculté imaginante ne correspond plus à une opération physique ou mémorial, elle ne consiste plus uniquement en une aptitude à la représentation, elle devient créatrice en s’associant aux injonctions du désir et aux énérgies de l’affectivité»44. Relativamente all’imagination nell’œuvre di Rousseau si potrebbe agilmente distinguere la presenza, sempre secondo Eigeldinger, di quattro sue principali funzioni che connotano in pieno la novità, l’originalità e l’unicità dell’esperienza umana e della «vision du monde» di Jean-Jacques: 1. la fonction spatial (au niveau du «Je»); 2. la fonction créatrice, idéalisante et compensatrice (au niveau du «Je» qui se projette vers un «Tu» imaginaire); 44
M. EIGELDINGER, Les fonctions de l’imagination dans “Emile”, in AA.VV., Rousseau after two hundred years, cit., p. 251.
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3. la fonction humanitaire et érotique (au niveau du «Tu»), 4. la fonction temporelle, liée à l’ambivalence et à la bipolarité (retour au niveau de «Je»)45.
Si vedrà come tali funzioni dell’imagination agiranno nello specifico autobiografico del récit delle Confessioni. Relativamente alla scrittura dell’immaginario e/o del discorso utopico, invece, queste principali funzioni non costituiscono solamente ed esclusivamente una pratica retoricodiscorsiva del campo del sapere. Tale pratica attinge, come ha suggerito Baczko, «alle profondità dell’immaginario collettivo, sfruttando i vecchi miti, si istalla negli ambiti del potere e dell’ideologia creandosi uno spaziotempo immaginario»46. Ora, tale pratica, appropriandosi delle varie forme del sapere e insinuandosi in quelle del potere, non la si può considerare «una semplice questione di Linguaggio»47, ma, e soprattutto, una politica dell’immaginario48: la progettazione, ora realista, ora riformista, ora utopista, della trasparente Città nuova49 e della formazione dell’homme nouveau. La produzione di queste idee-forza non gioca, in e per Rousseau, il semplice ruolo di essere «visioni del mondo», «sogni visionari», (non)luoghi utopici dell’«immaginazione sociale», «idea-immagine» di un sistema di segni e di una semantica dei tempi nei quali si tradurrebbe il «progetto» di un «al di là del male della storia», di una «fine della storia» e di una profonda ed eterna sensibilità fantasmatica degli strati ontologici dell’essere. La produzione simbolica dell’imaginaire è anche, attraverso la costruzione del genere letterario, scrittura di un altrove esistenziale e sociale dell’essere etico. La produzione (e l’écriture) dell’imaginaire traduce, così, tra passato, presente e futuro, tutta la sua immaginazione (meta)politica, la (sua) politicità dell’imagination, che è poi, anche, la politicità dell’ideologia di Jean-Jacques. Si è già detto. La produzione della scrittura dell’imaginaire avviene attraverso un processo reciproco di espansione/concentrazione spazio-temporale dell’essere dell’écrivain-Rousseau, supplementare alla riflessione razionale che detta la scrittura delle opere «sistematiche» e/o «pubbliche». 45 46 47 48 49
M. EIGELDINGER, op. cit., p. 251. B. BACZKO, Lumières de l’utopie, cit., tr. it., p. X. Ibid. Cfr. G. DALMASSO, La politica e l’immaginario, cit., cap. I, pp. 19-104 e A. DAL LAGO, Fortezze e labirinti. Utopie e costituzione del mondo sociale (I), in «autaut», n. 185, 1981, pp. 19-53, in particolare pp. 42 sgg. Cfr. B. BACZKO, La città e i suoi linguaggi, cit.
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Filosofia, vita e autobiografia
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Promenades, rêveries, letture pubbliche, introspezioni psicologiche e dialogiche, eremitaggi, complessi persecutori, deliri esistenziali, dialettica dei sentimenti, rappresentazioni oniriche, trasgressioni fantastiche, illusioni e chimere, segnano, attraverso il loro difficile e complicato processo alchemico, le forme attraverso le quali prende corpo la scrittura dell’immaginario, il cui complesso reticolo semantico-metaforico si svolge con grande originalità nel récit autobiografico delle Confessioni. Nelle Confessioni, infatti, a differenza dei Dialoghi e delle Rêveries, il linguaggio dell’imagination e la scrittura dell’imaginaire svolgono una complessa azione dinamica: nei confronti della chiusura spazio-temporale del reale, l’imagination dilata il bisogno ontologico dell’uomo di trascendere la fatticità, progettandolo e proiettandolo nella totalità e nell’infinito dell’altrimenti-che-essere dell’essere del soggetto. La possibilità di espansione che l’imagination e l’imaginaire posseggono nascondono subito, però, al loro interno, non pochi pericoli nei confronti del centro ontologico dell’essere: l’io può essere, così, contemporaneamente, esposto alla concentrazione e/o alla dispersione del proprio sé. Non mancheranno certo, com’è noto, le occasioni nelle quali l’écriture autobiographique possa avvedersi di questo pericolo, infatti lo stesso Rousseau, attraverso la pratica della scrittura, tenterà di «ridurre» il campo dell’immaginazione per ovviare ai suoi possibili «effetti perversi». Tuttavia, sempre nelle Confessioni, l’immaginazione conserva il suo carattere di «ebbrezza estatica», di viaggio nell’etereo spazio della totalità e dell’infinito dell’altrimenti-che-essere del soggetto (Jean-Jacques). Il viaggio dell’immaginazione spinge l’essere a librarsi nello spazio per congiungersi con l’infinito, per sondare il mondo dei possibili ai confini dell’universo metafisico, per avventurarsi nell’ignoto e nell’enigmatico, per affacciarsi miticamente al futuro. È l’immaginazione – scrive Rousseau nell’Emilio – che estende per noi la misura delle cose possibili, sia in bene che in male, e che per conseguenza, eccita e alimenta i desideri con la speranza di soddisfarli50.
Sia nel bene che nel male e, pur con qualche forzatura, anche al di là del bene e del male, in quanto, in e per Rousseau, l’imagination, come ha suggestivamente indicato Starobinski, è una di quelle «potenze ammirevoli e funeste che fomentano l’insoddisfazione obbligando lo spirito a vivere a distanza da se stesso e ad abbandonare il suolo natale della vita immedia50
J.-J. ROUSSEAU, Emilio, in J.-J. ROUSSEAU, Opere, cit., p. 385.
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Alchimia del segno
ta»51. La scrittura dell’immaginario produce, comunque, i suoi effetti, svolge la sua azione, disvela la sua natura ora anticipatrice e creatrice, ora compensatrice e/o affabulatrice. L’immaginazione, in e per Rousseau, spezza il cerchio della fatticità reale, della finitudine e della finitezza del e nel reale, della routine e dell’abitudine, trasgredisce, derealizzandola, la realtà a favore di una realtà altra, mitica e immaginaria, fantasmatica. Come accadrà anche per le altre opere autobiografiche e della solitudine, l’immaginario e la sua scrittura si predispongono, nel récit delle Confessioni, a svolgere la funzione di facoltà «consolatrice» di cui l’essere di Jean-Jacques ha bisogno: risarcimenti e compensazioni con cui progettare, attraverso lo psichismo della rêverie e la contemplazione interiore, un «secondo mondo» al di là della contingence di quello fattuale. Un mondo trascendentale e fantastico, immaginario, dove l’essere raggiunge, tra béatitude e solitude, la propria pienezza e si congiunge alla prossimità degli altri esseri soltanto attraverso le più autentiche «affinità elettive»: una sorta di ubiquità paradisiaca dove gli esseri rivivono il tempo (e il mito) dell’âge d’or. Tuttavia, nella scrittura dell’immaginario, emerge, però, con forza e inquietudine, una distinzione/opposizione tra reale e immaginario tale da conferire al primo termine della coppia – il reale – un segno e una connotazione negativi e, all’altro termine – l’immaginario – uno di carattere positivo. La scrittura e la produzione dell’immaginario simbolico, che corrispondono, anche, alla quête metaetica e metapolitica di creare nuove formedi-vita e nuovi mondi vitali per l’humanum dell’uomo, devono poter svolgere la funzione di progettare l’esistenza di un mondo dei possibili non, però, nel disegno di un utopismo manieristico e/o come «effetto perverso» della regressione psichica dell’io quale espressione del «disagio della civiltà», ma nel quadro di una più complessa philosophie de l’histoire e della Kultur della modernità52. Tale scrittura e tale produzione si riproducono all’interno di un complicato processo ontologico di interiorizzazione dell’io dell’écrivainRousseau, tutto proteso, nella «quête de soi» e della sua autenticità, a superare la precarietà (alienata e alienante) dell’humanum tra Kritik e Krise dell’universo borghese moderno. La scrittura dell’immaginario chiude circolarmente le sue funzioni producendone una terza e, cioè, rivolgendo, attraverso il sentimento dell’amore e 51 52
J. STAROBINSKI, J.-J. Rousseau et les pouvoirs de l’imaginaire, in «Revue Internationale de philosophie», LI, n. 1, 1960, p. 63. Sul rapporto tra mondo reale, mondo dell’immaginazione e utopismo in Rousseau cfr. oltre ai contributi già citati sopra nella nota n. 41, l’agile e pregevole studio di L. LUPORINI, Rousseau di fronte all’utopia, cit.
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della pietà, il potere dell’immaginario all’esperienza esistenziale del tu destinatario del suo messaggio. Attraverso la forza, la sensibilità e la vulnerabilità della propria creatività anticipatrice, l’immaginazione svolge una funzione di trascendimento dei limiti del reale: sprigiona l’io e lo fa uscire fuori dal livello della soggettività del medesimo, lo sensibilizza e lo responsabilizza, attraverso il sentimento della pitié e lo predispone a entrare in comunicazione con la prossimità, con le sofferenze umane degli altri. L’io, attraverso un processo centrifugo di espansione, si rapporta al tu altro da sé e spinge a riconoscerlo nella sua autonomia, finendo, così, con l’identificarvisi. Ha scritto Rousseau nell’Essai sur l’origine des langues: I sentimenti sociali non si sviluppano in noi che con i nostri lumi. La pietà, benché naturale al cuore umano, resterebbe eternamente inattiva se l’immaginazione non la mettesse in moto. Come noi ci lasciamo muovere a pietà? Trasportandoci fuori di noi stessi e identificandoci con l’essere che soffre. Noi non soffriamo se non per quanto giudichiamo che egli soffra; non in noi, ma in lui noi soffriamo. Si pensi quante conoscenze acquisite suppone questo trasporto. Come immaginerei io i mali di cui non ho alcuna idea? Come soffrirei io vedendo soffrire un altro, se non so neppure se egli soffre; se io ignoro quanto vi è di comune fra lui e me? Chi non ha mai riflettuto non può essere né clemente, né giusto, né pietoso; non può essere nemmeno cattivo e vendicativo. Chi non immagina nulla, non sente che se stesso; egli è solo in mezzo al genere umano53.
La funzione archetipale dell’imagination e la scrittura dell’imaginaire nell’œuvre di Rousseau non sono certo immuni da ambivalenze. Tuttavia, Rousseau le carica di un significato moderno e, ad un tempo, originale, predisponendo il soggetto ricercatore del senso della storia, del «tempo della differenza» (Esposito)54 e dell’autenticità dell’essere sociale verso-la-sofferenza-altrui, connotando tale «scelta ontologica» di profondi significati metaetici e metapolitici: nella tragicità dell’universalismo borghese, la ricerca della verità dell’essere ha più probabilità di successo schierandosi dalla parte dell’Humanitas che soffre. Pur nella sua ambivalenza di fondo la scrittura dell’imagination diventa cifra del linguaggio energico dei segni e modalità di comunicazione sociale55. Ambivalenza e bipolarità dell’imagination, ecco due nodi della sua na53 54 55
J.-J. ROUSSEAU, Essai, cit., p. 197. Cfr. R. ESPOSITO, Vico e Rousseau e il moderno Stato borghese, De Donato, Bari 1976 (parte seconda, cap. II, Il tempo della differenza, pp. 131 sgg.). Sul senso e significato dell’immaginazione nella «vision du monde» di Rousseau, Baczko ha proposto un’interpretazione che per la sua criticità si impone da sé: «L’importanza accordata al linguaggio dei segni e, in particolare, al suo uso in po-
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tura e della sua funzione nella scrittura rousseauiana. L’imagination nella sua forza d’espansione, nella sua attività fantasmatica e nella sua mobilità dinamica è una sorta di «Giano bifronte», ora così viva e ricca nel rapporto tra l’io (di Jean-Jacques) e il tu del lettore, ora così ambivalente, ambigua e pericolosa nei riguardi della condizione esistenziale, ontologica ed etica dell’essere sociale dell’uomo: ora è di fronte al bene, ora è di fronte al male. Indugio, svolgendo alcune considerazioni in margine al rapporto tra produzione e scrittura dell’imaginaire, e mi chiedo: è possibile rintracciare nella écriture rousseauiana tracce di un’epistemologia dell’«immaginario sociale»? È un’ipotesi che certo spinge notevolmente avanti l’intenzionalità del testo rousseauiano, però in alcune opere di Rousseau è dato da rinvenire la sostanziale metaforicità dell’immaginario come allegoria della «vie litica sottendeva tutta l’antropologia di Rousseau. Il principio attivo nell’uomo non è la sua ragione ma il “cuore”, le sue passioni, i suoi desideri, e su tali forze motrici la ragione non ha alcuna presa diretta; così chi voglia far agire l’uomo deve toccare il suo cuore, attivare le sue riserve di passioni. Ora, esiste nell’uomo una facoltà specifica al cui fuoco le passioni si accendono, l’immaginazione. Ed è appunto ad essa che si rivolge il linguaggio energico dei segni e dei simboli. Per Rousseau, come per tutta la filosofia dell’epoca, l’immaginazione è una facoltà ambigua, oscura e difficile da definire se non attraverso i suoi effetti. Il carattere tipico dell’immaginazione è quello di “trasportarci al di fuori di noi stessi” (Rousseau); essa sola consente il passaggio dal se medesimo all’altro. Così, mette in gioco tutti gli affetti sociali e scatena il complesso meccanismo che sta all’origine di ogni legame sociale e, di conseguenza, del passaggio dall’uomo naturale all’uomo sociale […]. Inattiva nell’uomo naturale, l’immaginazione è sempre operante presso l’uomo sociale e, per così dire, accompagna le sue attività. In altri termini, nessun rapporto sociale e, a maggior ragione, nessuna istituzione sociale, sono possibili senza che l’uomo prolunghi la propria esistenza nelle immagini di se stesso e degli altri, del proprio passato e del proprio futuro che egli si costruisce. Istituzione appartenente al sociale – e quale presuppone un lavoro costante dell’immaginazione – la sua interazione con la ragione e le passioni è, in particolare, la traduzione in immagini di concetti astratti quali la virtù, la giustizia, l’eguaglianza, la Città, ecc… Contrariamente alla memoria, che si limita a immagazzinare le idee, l’immaginazione è creatrice, le immagini che essa produce si organizzano in un vero e proprio mondo immaginario, infinito e senza confini. Tra il mondo reale, provvisto di propri limiti naturali che l’uomo non può ampliare, e il mondo immaginario esiste sempre uno scarto […]. Sia in male: lo scarto fra il reale e l’immaginario spinge l’uomo ad allontanarsi dalla sua vera condizione, fa sì che rincorra dei miraggi e trascuri il proprio presente; sia in bene: l’uomo animato dalle immagini della virtù e della Città-patria amplia anche egli la “dimensione dei possibili” per se stessa e per la sua repubblica» (B. BACZKO, Utopia e politica: un «viaggio immaginario» di Rousseau, in ID., Lumiéres de l’utopia, tr. it., cit., pp. 93-94).
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quotidienne», come retorica del sociale, come pensiero della modernità e progetto u-topico. Tutti aspetti, questi, del pensiero di Rousseau che si sintetizzano mirabilmente nello stile e nella pratica della sua écriture saggistico-filosofico-letteraria. Dalla Nouvelle Heloïse all’Emilio, dal Contratto sociale alle Confessioni e alle Rêveries, l’écriture dell’imagination emerge dalla realtà implausibile dell’immaginario come facoltà produttrice di metafore e di simboli tangenti alla realtà oggettiva e tesa a coglierne e a dirne l’altro e l’altrove, a rappresentare il mondo dei possibili. Prodotta dall’ontologia del lavoro critico dell’écrivain, l’écriture dell’imagination e dell’imaginaire, attraverso l’uso allusivo di metafore, conserva aperta a Jean-Jacques la possibilità e la forza di sopravvivere nel mondo dell’obstacle, metabolizzando e metamorfosando continuamente l’insecuritas della propria (e altrui) condition humaine. Ironie, rêveries, nostalgie, proiezioni mitiche, allegorie fantastiche, récit introspettivo, partecipano alla produzione dell’immaginario simbolico dell’écriture autobiographique e della solitude di Jean-Jacques, scrittura che gli consente di conservare aperta, ancora una volta e comunque nella solitudine, la ferita tra la propria ipseità e il mondo e che caratterizzerà la sua personale vicenda di homme e di philosophe. Ma, la scrittura e la produzione dell’immaginario non si iscrivono unicamente nelle vicende biografiche dell’io di Jean-Jacques. Esse acquistano, anche, la proposta di un’ermeneutica dell’attività metaforica dell’imaginaire in relazione alla realtà dei mondi vitali e ai mezzi di comunicazione linguistica intersoggettiva. Qui è da leggere, tra l’altro, l’apologetica rousseauiana della fête56 quale luogo ed espressione della libera, autentica e autonoma forma di creatività e di socia(bi)lità umana: la fête come «expérience», come «spectacle», come «modéle» e come «illusion» della communauté (Vernes). Intenzionalmente si potrebbe dire che il progetto rousseauiano delle piccole comunità ponga capo (anche se non senza fughe nostalgiche e aporie politiche) alla ricostruzione della quotidianità del legame sociale tra natura, ambiente, mondo umano e storia, in cui naturale, simbolico e immaginario interagiscono nel principio di comunità.
56
Sul tema della fête in e per Rousseau, cfr. J. GAASCH, Rousseau and the politics of fête, cit. P.M. VERNES, La ville, la fête, la democratie. Rousseau et les illusions de la communauté, cit., pp. 61-132. M. DE MARINIS, La festa tra utopia e politica in J.-J. Rousseau, in AA.VV., Forme dell’utopia, cit., pp. 85-125. R. SALVUCCI, Sviluppi della problematica del linguaggio. Condillac Rousseau Smith, cit., pp. 307315.
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Non si può dare, nell’œuvre di Rousseau, una ipostatizzazione dell’immaginario in tutti i suoi aspetti. Invece, è necessario rinvenire le modalità di frequenza in cui l’écriture dell’imaginaire è adoperata da parte di Rousseau-écrivain per la rielaborazione e la ricostruzione della realtà sua e del teatro della storia, attraverso operazioni simboliche di tipo metaforico che si registrano sin dall’inizio del suo commencement come écrivain (i Discorsi) e giungono sino alla china della sua vita (le Rêveries). La simbolicità, anche arbitraria, della scrittura e della retorica dell’immaginario affonda le proprie radici nel profondo dell’io di Rousseau anche come homme marginale, che, mediante lo stile della propria scrittura e dell’attività metaforica dell’immaginario, sfida il mondo proprio della contingence storica, cercando l’altro mitico del mondo antico e perduto dell’uomo e, pensando utopicamente, ricerca la patria ideale. Il mito, la realtà, la storia e l’utopia della piccola comunità organica giocano un forte influsso nella vita quotidiana e nel pensiero del Ginevrino, il quale – non a caso Jean-Jacques è nato e ha anche vissuto in Svizzera, paese «dell’immaginario miniaturizzante» – avverte, anche se con forti contraddizioni, la novità e il peso della complessità dell’immaginario della e nella modernità carico di una doppia valenza relativa, da un lato, alla progettualità «futuribile» della comunità del contratto e, dall’altro, al mito e alla nostalgia della comunicazione comunitaria degli antichi e dell’âge d’or. L’immaginario miniaturizzante, che l’écriture di Rousseau più volte evince, sussume la forte presenza nel Ginevrino dell’ideale di armonia contra la realtà dell’obstacle nel e del mondo. Ancora. L’écriture dell’imaginaire pone capo alla alterità di Jean-Jacques, al vécu del suo quotidiano e alle metamorfosi ontologiche del suo essere che si tradurranno, poi, nella sua solitudine politica e nella sua politica della solitude: Jean-Jacques, il soggetto dell’immaginario, attraverso la pratica quotidiana e ontologica della propria alterità come assenza e isolamento da e con l’universo disumano, assedia il mondo con il dispositivo supplementare dell’écriture la cui funzione retorico-metaforica è di dire altro da ciò che «non è» della drammaticità del rapporto soggetto/natura/storia/mondo umano che caratterizza l’esperienza entropica du mal della civilitation. Ora, nella produzione della scrittura dell’immaginario simbolico, il récit delle Confessioni, a differenza delle altri principali opere autobiografiche del Ginevrino, partecipa attivamente della ambivalenza, ambiguità e bipolarità dell’imagination, collocando l’essere sociale dell’uomo ora nella transparence, al di là dell’ostacolo, ora nell’obstacle, al di qua della trasparenza, nello spazio dell’opacità. Problemi di scrittura e problemi di lettura. Il linguaggio dell’imagination e la scrittura dell’imaginaire costituiscono,
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sempre nelle Confessioni, il principio della cohérence intorno a cui si organizza l’intera architettura dell’opera autobiografica rousseauiana? È questo, senz’altro, un problema che ancora oggi rimane aperto nella discussione critica e storiografica. La trama e il campo dell’argomentazione autobiografica e i possibili significati che essi ingenerano possono offrire molteplici letture del (suo) testo. È il destino delle Confessioni? Qui, indicando una delle possibili tendenze interpretative57, è necessario sottolineare come, nel récit autobiografico delle Confessioni, il linguaggio dell’imagination sia, nella sua polivalente, multipla e contraddittoria funzione archetipale e compensatrice una sorta di refuge ontologique in cui si coniugano il passato, il presente e il futuro del vécu dell’essere di Jean-Jacques; mentre, come l’expérience de l’imaginaire sia, per quello stesso vécu, ontologicamente possibile solo tramite la médiation de l’écriture. Epilogo Si può ben dire che la ricerca sul rapporto tra Rousseau écrivain e Rousseau secondo Jean-Jacques – che costituisce il nucleo essenziale di questo mio lavoro di ermeneutica filosofica – sia stata ormai avviata dalla storiografia critica, da quando, dopo le fondamentali «letture» di alcuni grandi interpreti del Ginevrino (di cui ho anche ripercorso i principali transiti critici), si è tentato di coniugare, con metodo intertestuale, strutturante e storicizzante, sincronico e diacronico, il plan politique con il drame du sentiment che pervasivamente connotano l’œuvre di Rousseau e l’écriture di Jean-Jacques. In questo intreccio emerge quanto segue. a) Come è possibile salvare la singolarità irriducibile attraverso il patto autobiografico? Perché Rousseau? Per rispondere a questi interrogativi, che sottendono lo sviluppo problematico che intesse la trama del récit che tiene unite le parti di questo mio volume, occorre compiere ancora alcune osservazioni conclusive. Per fare ciò mi faccio guidare anche da quanto rileva Maria Anna Mariani in Sull’autobiografia contecomporanea58.
57 58
Cfr. M. EIGELDINGER, op. cit., pp. 274-275. Cfr. M.A. MARIANI, Sull’autobiografia contemporanea, Carocci, Roma 2011 (d’ora in poi SAC). Salvo quelle esplicitamente citate con l’abbreviazione SAC seguita dal numero della pagina, in seguito tutte le altre frasi di Mariani tra virgolette s’intendono tratte da questa sua opera.
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In primo luogo è necessario riprendere il significato che assume la parola scomposta auto-bio-grafia: «una prima persona parla di sé (autos); racconta la propria vita (bios) usando il medium della scrittura (graphia)» (SAC, p. 9). Una simile definizione di autobiografia la si ottiene, appunto, «scomponendo la stringa del nome nei suoi elementi costitutivi» (ibid.). Questo procedimento è alla base della strategia testuale seguita dallo storico delle idee e studioso di scienze umane Georges Gusdorf in Auto-biographie59. In questa definizione emergono immediatamente tre dimensioni critiche e problematiche che sottendono l’autobiografia: «le insidie della prima persona, che non può conoscere se stessa; l’incompiutezza e l’inafferrabilità della vita, che è informe e acquista un senso compiuto solo dopo la sua fine; la menzogna legata alla scrittura, che falsifica l’esperienza traducendola in linguaggio» (SAC, p. 9). Sotto l’urgenza di una riflessione oggettiva dell’io su se stesso, scrivere di sé e riassumersi «prima del dissolversi del tutto» in un atto poietico «attraverso il quale la propria esistenza assume un senso che originariamente non aveva, risultato di una lettura svolta a posteriori da un punto di vista di osservazione privilegiato, quello dell’io onnisciente, dell’io che si scrive dopo essersi ormai lasciato alle spalle i bivi cruciali dell’esistenza»60, è impresa umana ardua perché riportare «i frammenti dell’io all’unità» è comunque una forma di titanismo infedele che si traduce nell’antinomia inconciliabile: realtà vs finzione, ma che tuttavia rilancia la complessità della comparsa dell’autofiction negli orizzonti teorici, pratici ed esperienziali nelle storie dell’io. Inoltre, l’elenco problematico presente nella scomposizione prismatica di auto-bio-grafia è comunque incompleto. Di fatto, scrive Mariani, «un’autobiografia non racconta direttamente la vita passata di un individuo. Il passato è un oggetto perduto. Ma non completamente: esiste ciò che ne conserva le tracce e permette in qualche modo di ricostruirlo. Si tratta dei documenti e della memoria: è interrogandoli che si va alla ricerca del tempo perduto» (SAC, p. 9). Se i documenti, nella loro “inerzia”, attendono chi sia capace di decifrarli e criticarli, parimenti la memoria «è una struttura vivente e interpretante»: «i primi sono il materiale privilegiato dello storico, la seconda è il materiale pressoché esclusivo dell’autobiografo». Quando leggiamo un’autobiografia, comunque, non ci troviamo “semplicisticamente” di fronte alla-vita-passata-di-un-individuo, ma «a quel che della vita passata si è conservato nella sua memoria, in questa facoltà mutevole 59 60
Cfr. G. GUSDORF, Auto-bio-graphie, Odile Jacob, Paris 1991. E.B. LICCIARDI, Scrivere di sé, in ID., Maschere dell’io. Gli scritti autobiografici di Elias Canetti, Bonnano Editore, Roma 2010, p. 16.
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e viva». È possibile dunque affermare che «l’autobiografia è il racconto della memoria che un individuo ha della propria vita» (cfr. ibid.). Nell’ermeneutica della vita umana, come ha chiarito Ricoeur61, uno degli aspetti inquietanti e problematici è dato proprio dal rapporto con il passato, con l’orizzonte temporale, che definisce la natura del ricordo, il lavoro della memoria, quest’ultima, infatti intrattiene un rapporto «paradossale» con il passato perché «pretende di custodirlo, e intanto non fa altro che deformarlo» (SAC, p. 19). Di fatto, i ricordi, nella loro evocazione, mutano nel tempo e sono modificati dal tempo. All’infedeltà del tempo che-non-è-più, l’oggetto perduto, si protende la memoria che, pur nella sua labile inaffidabilità, promette di trasmettere, tramite il racconto, il contenuto ineffabile dell’esperienza umana. Nella trama del racconto si disvela il fatto che l’umano consapevolmente si comprende come essere «gettato nel tempo». Come è noto, la riflessione sul rapporto fra temporalità, storia e funzione narrativa del racconto viene svolta da Ricoeur nell’imponente trilogia esemplata originalmente in Tempo e racconto (1983-85)62. L’idea direttrice generale, secondo Ricoeur, è che nel racconto il tempo viene organizzato; parimenti solo l’esperienza temporale permette al racconto di divenire significativo: il racconto porta a compimento la sua corsa soltanto nell’esperienza del lettore, del quale esso «rifigura» l’esperienza temporale. Per Ricoeur, il tempo è in qualche modo il referente del racconto, mentre la funzione del racconto è di articolare il tempo in modo da conferire ad esso la forma di un’esperienza umana. Come dice Ricoeur: «La posta in gioco ultima e dell’identità strutturale della funzione narrativa e dell’esigenza di verità di ogni opera narrativa, sta nella natura temporale dell’esperienza umana. Il mondo dispiegato da qualsiasi lavoro narrativo è sempre un mondo temporale […]. Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo; per contro il racconto è significativo nella misura in cui disegna i tratti dell’esperienza temporale»63. Il problema che si pone è quindi quello del passaggio dalla configurazione all’interno del testo del racconto (cioè le operazioni narrative operanti nel linguaggio – lin61
62 63
Cfr. P. RICOEUR, La memoria, la storia, l’oblio, a c. d. D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano 2003. ID., Ricordare, dimenticare, perdonare, tr. it., il Mulino, Bologna 2004. Per un profilo tematico del pensiero e dell’opera di Ricoeur, si veda A. DE SIMONE, Ricoeur, in G. FORNERO, S. TASSINARI, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 1039-1054. F. BREZZI, Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma-Bari 2006 (ivi bibliografia). Cfr. P. RICOEUR, Tempo e racconto, vol. I-II-III, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1986, 1987, 1988. P. RICOEUR, Tempo e racconto, vol. I, cit., p. 15.
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guaggio ordinario, storia, finzione – nella forma della costruzione dell’intreccio dell’azione e dei personaggi), alla rifigurazione del mondo reale del lettore, fuori dal testo del lettore. Nei confronti della costruzione dell’intrigo, l’incontro tra racconto e temporalità, lettore e opera, si verifica attraverso un processo di mimesis intesa in senso dinamico come un processo attivo di imitazione creatrice e rappresentazione dell’azione. Mimesi I: mimesi come precomprensione dell’azione, in quanto l’azione umana è consustanzialmente linguistica. La mimesi I è la condizione necessaria per comprendere o narrare una storia. Mimesi II come capacità dell’opera narrativa di configurare, di dare forma al mondo delle azioni umane. Mimesi III come capacità dei testi narrativi di alimentare una nuova prassi, di ri-figurare l’azione64: qui l’intreccio narrativo agisce sul lettore. Per Ricoeur la forma narrativa sembra già inerente al modo umano di vivere e di ordinare l’esperienza temporale. Ora, secondo Mariani, quando si prova ad applicare lo schema di Ricoeur a quella particolare narrazione del tempo che è l’autobiografia, l’articolazione nelle tre mimesi si rivela particolarmente «insufficiente» (SAC, p. 11). Infatti, l’autobiografo «ha a disposizione un altro modo, tutto naturale, di dare forma alla propria esperienza, un modo capace di produrre configurazioni sia in presa diretta, sia in retrospettiva: la memoria» (ibid.). Quando si parla di autobiografia, quindi, «la memoria va introdotta all’interno dello schema ricœuriano, facendola operare come quarto piano di articolazione, come mimesi naturale capace di dare forma al tempo vissuto, prima ancora che intervenga la configurazione artificiale operata dal racconto» (ibid.). Procedendo così, la dislocazione dei livelli mimetici in un’autobiografia è la seguente: 1. mimesi I (consapevolezza del carattere temporale della vita umana); 2. memoria-racconto (configurazione naturale del tempo vissuto, operata dalla memoria); 3. mimesi II (configurazione narrativa del tempo); 4. mimesi III (arricchimento della propria comprensione del tempo, avvenuto durante la lettura) (ivi, pp. 11-12).
La memoria, nella sua capacità di configurazione simile a quella dell’intreccio narrativo, per così dire, agisce contemporaneamente sul tempo e sul racconto. La trama evocativa dei ricordi ha il potere di creare: «per ricordare è necessario dimenticare, per raccontare è necessario omettere» (ivi, 64
Cfr. D. JERVOLINO, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Marietti, Genova 1993².
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p. 12). Memoria-racconto: dall’equivalenza alla differenza. Tra di loro la differenza è che «solo la memoria garantisce eticamente che il legame con il passato sia effettivo, non inventato» (ibid.). A differenza del racconto come struttura narrativa, il cui legame con l’esperienza «non è garantito da alcuna pretesa di verità, ma si fonda sulla pura assenza», la configurazione della memoria avviene mediante l’operazione «su di una esperienza che non è più, ma che è stata» (ibid.). Nell’intreccio narrativo del racconto, il gioco speculare – dalla indecifrabile frontiera – di fiction e non fiction, si gioca l’ambiguità dell’autobiografia che, tra memoria, ricordo e oblio, consuma il problema drammatico e vertiginoso dell’identità, di autos (cfr. ivi, p. 14), nella trasfigurazione dell’io reale in io narrativo e dove il sé scritto diventa altro, come nella formula di Rimbaud: «je est un autre» (cfr. ibid.)65. L’io fallibile e mutevole cerca comunque, attraverso l’impulso sorgivo della scrittura autobiografica, di dare un senso alla propria esistenza. Ma, «come dare un senso compiuto alla propria vita se essa non è ancora finita?» (SAC, p. 16). Come può il patto autobiografico sconvolgere e sciogliere l’inestricabile intreccio tra vita e morte? L’autobiografia, un «montaggio non definitivo», non può intrinsecamente rivelare «l’ultimo istante e non si scrive all’ultimo istante»: essa, «dal presente riapre il passato e dal presente slitta verso il futuro» (ibid.). Di fatto, «l’unica cosa certa del futuro è la morte» (ibid.)66, a cui neppure il soggetto dell’autobiografia può sottrarsi: ricordare e scrivere sono ancora sorprendenti avventure dell’umano. b) L’autobiografia, il bisogno del «ritorno a se stesso», la coscienza, la conoscenza e la ricerca del proprio sé e della propria identità, la politica della solitudine, la solitudine politica, i problemi della comunicazione e le contraddizioni vissute della soggettività moderna, costituiscono, come sap65 66
Cfr. PH. LEJEUNE, Je est un autre. L’autobiographie, de la littérature aux médias, Seuil, Paris 1980. Ha scritto Paolo D’Angelo: «Comunque si ponga la questione, resta certo che l’autobiografia ci confronta con la morte, non solo perché raccontando la nostra vita in un certo senso la terminiamo, o siamo portati a pensare alla sua conclusione, ma, molto più profondamente, perché vale la proposizione inversa: è perché ci si confronta con la morte che sorge la pulsione autobiografica […]. La nostra morte, quella morte che non possiamo vivere, la esperiamo come morte altrui […]. Il rapporto tra l’autobiografia e la morte si dispone, insomma, almeno su due piani. Da un lato, inevitabilmente, raccontare la propria vita significa porsi da un punto di vista postumo, immaginarsi già morti […]. Dall’altro, raccontare la propria vita può significare mettere in salvo quei ricordi che prima erano condivisi da altri che non ci sono più» (P. D’ANGELO, Autobiografia, in AA.VV., Forme letterarie della filosofia, a c. d. P. D’Angelo, Carocci, Roma 2012, p. 53).
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piamo, i temi prevalenti nella lettura dell’œuvre di Rousseau che la storiografia critica è andata compiendo dopo gli anni Settanta. Questi studi ci hanno rimandato un’immagine nuova e assai più complessa del Ginevrino, un’immagine, come ha scritto Franco Cambi, «più radicale e creativa del suo modello di pensiero»67. Oggi possiamo ben comprendere perché sia fondamentale l’aspetto autobiografico del suo lavoro, delle sue opere «soggettive, di autoindagine, di giustificazione di sé», opere che mal si prestano ad essere interpretate come «il segnale di una malattia», di «un indebolimento del suo pensiero strategico-culturale», come «un contributo minore alla sua figura intellettuale». Tutt’altro! Esse, secondo Cambi, «sono invece un ripensamento sullo statuto del soggetto, un’interpretazione della problematicità dell’io, uno scandaglio psicologico nel profondeur dell’identità di ogni io, la messa a punto di uno strumento narrativo (anzi, di una serie di strumenti) capace di metterci in sintonia con quell’io-profondo e, nel contempo, di assegnarli una modalità espressiva tale che ne permetta la trascrizione attivandosi intorno alla problematicità che è lo statuto più profondo dell’io, dell’io di Jean-Jacques e di ogni altro io» (FC, p. 34). Nella storia dell’autobiografia, Rousseau costituisce un «punto di svolta» verso la sua concezione contemporanea perché «ne rinnova i quadri e ne potenzia il senso, come pure ne sviluppa un discorso riflessivo, intorno al proprio statuto, alle proprie regole e al proprio senso, che arriva fino a noi, fino agli studi attuali di storia, di struttura e di significato intorno all’autobiografia sia come forma narrativa sia come strumento cognitivo» (ibid.). Dunque, non si può fare a meno di «cominciare da Rousseau», perché dal Ginevrino in poi l’autobiografia subisce una nuova torsione, che ingloba e rinnova sia il modello classico sia il modello agostiniano-cristiano68, un modello che si appalesa come «laico» perché «si lega alla quotidianità dell’esperienza vissuta, scandaglia le tensioni psicologiche, si fa storia di una coscienza che diviene, nella narrazione, coscienza di sé» (FC, p. 34). Il «patto autobiografico» inaugurato da Rousseau vede legarsi la narrazione alle «maschere dell’io» proprio perché «l’autobiografia è anche un teatro di maschere, di modelli dell’io che si sovrappongono, si confondono, si scartano, in un gioco assai complesso di ridefinizione (e definibilità) dell’identità del sogget67
68
Cfr. F. CAMBI, A cominciare da Rousseau, in ID., L’autobiografia come metodo formativo, cit., p. 33 (d’ora in poi FC). Dello stesso autore, cfr. inoltre Tre pedagogie di Rousseau. Per la riconquista dell’uomo-natura, il Melangolo, Genova 2011. Sul confronto filosofico tra il modello autobiografico di Agostino e di Rousseau, cfr. R. GATTI, Storie dell’anima. Le Confessioni di Agostino e Rousseau, Morcelliana, Brescia 2012.
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to» (ivi, p. 35). Nella «rete dell’io», nell’«io-groviglio di sentimenti, sensazioni, disponibilità» e nell’«io-ricerca», cioè nell’«io che ricerca se stesso e si vuole secondo se stesso, pur sapendo che la sincerità (che è il valore supremo) sarà socialmente inutile, pericolosa, controproducente» (cfr. ivi, p. 35), un’io che emerge nelle Confessioni, il «patto autobiografico», nel gioco speculare di maschere che alimenta e cerca di restituirci i grumi di un’identità (sempre in fieri) del soggetto, si fa doppiamente romanzo: «romanzo di un io e romanzo di un travaglio di interpretazione» (ivi, p. 36). Questo patto ci pone senz’altro al vertice dell’individualismo moderno alla cui ridefinizione Rousseau partecipa mettendo soprattutto in campo «un io-problema (anche a se stesso) che solo l’interpretazione/narrazione (con annessa oggettivazione della scrittura) rende ordinabile e orientabile» (ivi, pp. 3637). L’autobiografia, in e per Rousseau, si configura quindi come una «pratica» esistenziale di un soggetto che, fuori di essa, «non può restare che problema, problema anche e soprattutto a se stesso»: «solo l’autobiografia, comunque svolta, lo illumina» (ivi, p. 37). c) I modelli di lettura del «patto autobiografico», pur differenziati tra di loro, hanno messo in luce nel rapporto tra Rousseau écrivain politique e Rousseau secondo Jean-Jacques un insieme abbastanza complesso che si sviluppa intorno al nesso il problema-Rousseau e i problemi-di-Rousseau. Il possibile scarto tra piano politico e ripiegamento intimista, tra filosofia, vita, politica e scrittura autobiografica, risulterebbe da ogni lettura «dualizzante» di Rousseau (del «Rousseau a due teste») e da quegli approcci a Rousseau écrivain che si fondano sulla coupure artificiale del rapporto tra «l’homme/l’œuvre» e/o «l’homme/le penseur/l’écrivain». Per ovviare al pericolo di ogni distinzione/opposizione nei complessi legami tra la plume di Rousseau e il cœur di Jean-Jacques, si è sollevata l’ammonizione di un interprete di Rousseau che, pur nella sua «sollecitante lettura» del pensiero del Ginevrino, ha ritenuto opportuno avvertire (ancora) che: «A chi voglia far emergere dalla lettura delle opere autobiografiche il contrasto cœur/raison o il fondamento psicologico (nascosto) dell’anima bella di Rousseau sfugge, inevitabilmente, il referente reale da cui hanno origine. Esse parlano il linguaggio della crisi politica di Rousseau, che si misura anche all’altezza del ripiegamento intimista. Tale ripiegamento è substratum visibile dell’esposizione autobiografica: se oltre la Critica non c’è progettazione politica possibile, oltre la Kultur non c’è progetto culturale possibile – e diverso – dal dialogare con se stessi. È questa la radice (la nuova forma) di Pensiero Accusatore: ben altro, dunque, che laicizzazione della Caritas e/o versione laicizzata del dogma della caduta
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[…]. L’autobiografismo – seppure inteso come conseguenza di delusione/ sconfitta politica – annulla ogni possibile tentativo di apertura/estensione del Sapere a tutti»69. Tuttavia, nonostante la succitata posizione interpretativa, la questione del rapporto tra Rousseau écrivain politique e Rousseau secondo Jean-Jacques, rimane, almeno in sede storiografica, aperta, poiché lo stesso quadro della critica non è affatto poi così omogeneo. Infatti, dopo i fondamentali contributi offerti da P. Burgelin, J. Starobinski, R. Polin e da B. Baczko70, la letteratura critica rousseauiana e, in particolare, gli studi di P. Lejeune, P.P. Clément, M. Eigeldinger e di G.A. Goldschmidt71, hanno persuasivamente avanzato la necessità di una più attenta ricostruzione e ricognizione del mondo vitale di Jean-Jacques quale condizione per una possibile e nuova comprensione del problema (del) politico di e per Rousseau. Insomma, come è stato sinteticamente osservato, «i critici più attenti del Rousseau intimista, solitario, distaccato dal mondo, sono portati a cogliere nel tema autobiografico una serie di aspetti capaci di ricongiungere le componenti, solo a prima vista divaricanti, del tormento esistenziale e della riflessione politica di Jean-Jacques»72. Pertanto, dalla suggestiva ricostruzione ermeneutica di questi studi «si ricava che le opere autobiografiche di Jean-Jacques contengono la richiesta di venir proiettate sulle opere precedenti, che il “ritorno a se stesso” di Rousseau non si definisce di per sé, ma come opposizione al regno delle apparenze nelle relazioni umane, che l’individuo, pur prendendo coscienza del male morale nel corso della sua esperienza sociale, può ritrovare in se stesso, come voce della sua coscienza, l’imperativo dell’agire morale. Il “silenzio” rousseauiano non assume quindi i risvolti di un deluso ritiro da un’azione politica mancata; esso rappresenta invece l’occasione della conquista della conoscenza di sé, di quell’interiorità che sola permette la conoscenza degli altri uomini»73.
69 70 71
72 73
G. GENTILE, op. cit., p. 87. Cfr. P. BURGELIN, La philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, cit. J. STAROBINSKI, La transparence e l’obstacle, cit. R. POLIN, La politique de la solitude, cit. B. BACZKO, Rousseau. Solitude et communauté, cit. Cfr. P. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, cit. P.P. CLÉMENT, Jean-Jacques Rousseau de l’éros coupable à l’éros glorieux, cit. M. EIGELDINGER, Jean-Jacques Rousseau. Univers mytique et cohérence, cit. G.A. GOLDSCHMIDT, Jean-Jacques Rousseau ou l’esprit de solitude, cit. S. CARDINALI, Ancora sul rapporto Rousseau e Marx, in «Paradigmi», n. 3, 1983, p. 475. Ibid.
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Di Rousseau, allora, all’altezza di quanto sinora detto, colpisce soprattutto che la sua vita, la sua œuvre, il suo pensiero e la sua scrittura costituiscono una profonda, vissuta e problematica unità, nella cui dimensione – nel tempo e nelle forme del soggetto vivente – il senso di quella rilevata unità diventa possibilità storica di realizzazione di una grande biografia e di un originale e inedito stile di scrittura filosofica. Airaghi ha sottolineato che in Rousseau «le idee, la teoria, la filosofia non sono qualcosa d’impersonale, che sta fuori o oltre la vita. Le idee hanno verità in quanto vissute, la teoria è valida se praticata. Questa coerenza è difficile e Jean-Jacques lo sa […]. Rousseau sa che è difficile adeguarsi a modelli teorici che la realtà continuamente smentisce così come sa che è su questa realtà che il pensiero cresce e si approfondisce. Il suo pensiero e la sua vita testimoniano dello sforzo, da lui sempre sostenuto, di compiere tale adeguazione, che urta continuamente con le contraddizioni che la società stessa crea»74. Nella dialettica e nel tempo storico dell’illuminismo, Rousseau si colloca altrove, rifiutando e criticando le forme dell’esistente: lo scenario della sfera pubblica borghese dove sempre più acute si fanno la scissione e la crisi tra être e paraître, tra homme e citoyen. La scelta di Rousseau, tra Kritik e Krise75 della Kultur e dei valori dell’universalismo borghese76, incide direttamente sulla pratica quotidiana della sua forma di vita, sul modello del suo pensiero e sullo stile della sua écriture: la dialettica dei sentimenti, la politica della solitudine, la solitudine politica e la filosofia della crisi coniugano, nel Ginevrino, la grammatica del tempo, delle forme e delle antinomie del soggetto vivente della modernità. Prima di Marx – anche se c’è «un Rousseau dopo Marx, nel senso delle questioni di fondo che egli poneva: un Rousseau dopo Marx, non senza Marx» (C. Luporini) – Rousseau ha posto, pur nei limiti, nelle aporie e nelle ambiguità del suo pensiero, delle domande centrali e cruciali che, da un lato, si rivolgono a quello che Peter Laslet ha definito the world we have lost77 e, dall’altro, sulla costituzione della modernità, sull’antropologia, sulla politica e sulla ontologia (regionale) del mondo-della-vita e del mondo-della-storia che disegnano la morfologia, la struttura, la semantica e la complessa temporalizzazione storica della costituenda bürgerliche Gesellschaft. 74 75 76 77
M.A. AIRAGHI, Rousseau, Vallecchi, Firenze 1974, pp. 67-68. Cfr. R. KOSELLECK, Critica illuminista e crisi della società borghese, tr. it., il Mulino, Bologna 1972. Cfr. A. ILLUMINATI, J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, cit. Cfr. P. LASLET, Il mondo che abbiamo perduto, tr. it., Jaca Book, Milano 1979.
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Sappiamo. La riflessione politica e il problema (del) politico impegnano costantemente l’intera œuvre di Rousseau. Naturalmente, durante il corso della sua vita e del suo pensiero, il problema (del) politico coinvolge e interessa in maniera differenziata Rousseau: diverso è, infatti, il ruolo e il significato che tale problema svolge nel primo Rousseau, nel Rousseau della maturità e nell’ultimo Rousseau. Egli, pur ribadendo continuamente il carattere unitario e la complessa matrice politica del suo pensiero e della sua œuvre, pur manifestando nel suo «autobiografismo demistificante» (G. Gentile) l’ambiguità vissuta tra dramma del sentimento e dramma della politica ha, comunque, saputo coniugare – tra ambiguità e antinomie – la questione vitale e l’immagine metapolitica delle forme di vita, delle forme di sapere e delle forme di potere del soggetto vivente della modernità. Come è noto, si registra, nello sviluppo della complessità del discorso filosofico-politico del Ginevrino, una progressiva rareté dell’incidenza e della costituzione della problematica del politico, del suo linguaggio e della sua scrittura78, non appena si passi dalle opere pubbliche e politiche della maturità alle opere autobiografiche e della solitudine dell’ultima stagione della sua vita: «dal primato della politica» alla «insufficienza della politica» (S. Cotta) – da Rousseau a Jean-Jacques. Oggi, come si è visto, la storiografia critica più recente, pur indicando nelle opere che vanno dal Discorso sull’ineguaglianza al Contratto sociale, la possibilità di cogliere in tutta la sua complessità la politica di Rousseau, il suo fondamentale contributo alla scrittura e alla costruzione del politico moderno79, non ha affatto escluso, come si è già fatto osservare, una forte connotazione antropologica e ontologica del politico nel Rousseau secondo Jean-Jacques. Il politico e la politica costituiscono senz’altro alcuni dei principali nodi vitali e teorici della vicenda umana e intellettuale di cui Rousseau fu protagonista. In e per Rousseau il politico e la politica non sono né possono essere riducibili alle forme oggettive (e oggettivate) della loro costituzione e della loro apparenza, ma rimandano a un «sovrappiù» di pratica, di senso e di significato che ne strutturano la loro interna ed esterna complessità nel mondo della vita, della storia e della politica. Ecco perché, il politico e la politica, in e per Rousseau, assumono, anche, il significato di questione vitale e di modello me78 79
Cfr. T. MARSHALL, Art d’écrire et pratique politique de Jean-Jacques Rousseau, I-II, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n. 2, 1984 e n. 3, 1984, pp. 232261 e pp. 322-347. In questa direzione si muovono i contributi della critica rousseauiana italiana di G. GENTILE, Rousseau filosofo della crisi. Il politico e le masse, cit. V. MURA, La teoria democratica del potere. Saggio su Rousseau, cit. M. REALE, La ragione della politica. J.-J. Rousseau dal «Discorso sull’ineguaglianza» al «Contratto», cit.
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tapolitico. È significativo, al riguardo, come nella “meditazione trentadue” del suo L’être et l’événement (1988)80, Alain Badiou abbia radicalmente suggerito di interpretare Rousseau per ciò che concerne il suo modo «di esaminare i requisiti concettuali della politica, di pensare l’essere della politica» (EE, p. 345). Nello stabilire il concetto moderno della politica, Rousseau pone radicalmente la stessa come «una procedura che si genera in un evento, e non una struttura sostenuta nell’essere», questo perché «il caso della politica è un evento soprannaturale», per cui il patto sociale «non è un fatto storicamente attestabile», esso, piuttosto, «è la forma evenemenziale che si deve supporre se si vuole pensare la verità di questo essere aleatorio che è il corpo politico» (ivi, p. 346). L’evenemenzialità dell’evento traduce il “dove” ogni procedura politica trova la propria «verità». Contra Hobbes, per Rousseau, come sostiene Badiou, «supporre che la convenzione politica risulti dalla necessità di uscire da uno stato di guerra di tutti contro tutti, subordinare l’evento agli effetti della forza, è sottomettere la sua evenemenzialità a una determinazione estrinseca» (ibid.)81. Diversamente, come sostiene Badiou, «bisogna assumere il carattere “di troppo” del patto sociale originario, la sua assoluta non-necessità, la casualità razionale, pensabile retroattivamente, della sua venuta». In questa prospettiva, la politica viene ad essere pensata come «una creazio80
81
Cfr. A. BADIOU, Rousseau, in ID., L’essere e l’evento, tr. it. di G. Scibilia, il Melangolo, Genova 1995, pp. 345-355 (d’ora in poi EE). Salvo quelle esplicitamente citate con l’abbreviazione EE seguita dal numero della pagina, tutte le altre frasi di Badiou tra virgolette s’intendono tratte da questa sua opera. Su Badiou, cfr. J. BARKER, Alain Badiou. A Critical Introduction, Pluto Press, London 2002. C. RAMOND (éd.), Penser le multiple, L’Harmattan, Paris 2002. F. TARBY, Le Philosophie d’Alain Badiou, L’Harmattan, Paris 2005. B. BESANA, O. FELTHAM (éd.), Écrits autour de la pensée d’Alain Badiou, L’Harmattan, Paris 2007. O. FELTHAM, Alain Badiou: Live Theory, Continuum, London-New York 2008. C. NORRIS, Badiou’s Being and Event: A Reader’s Guide, Continuum, London-New York 2009. E. PLUTH, Badiou, Polity Press, Oxford 2010. B. BOSTEELS, Badiou and Politcs, Duke University Press, North Carolina 2011. T. ARIEMMA, L’estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou, Mimesis, Milano 2012. S. BOWDEN, S. DUFFY, Badiou and Philosophy, Edimburgh University Press, Edimburgh 2012. Come è noto, sul rapporto Rousseau-Hobbes la letteratura critica è molto ricca. Al riguardo, cfr. M. CRANSTON, R.S. PETERS (ed.), Hobbes and Rousseau. A Collection of Critical Essays, Doubleday Anchor, Garden City (NY) 1972. L. PEZZILLO, Il rapporto Hobbes/Rousseau: studi e interpretazioni, in «Studi Francesi», n. 78, 1982, pp. 464-474. ID., Rousseau e Hobbes: fondamenti razionali per una democrazia politica, Slatkine, Genève-Paris 1987. N. IANNELLO, L’ordine degli uomini: antropologia e politica nel pensiero di Thomas Hobbes e di Jean-Jacques Rousseau, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa 1998. L. ALFIERI, Contratto sociale e sovranità dei cittadini (da Hobbes a Rousseau), in G.M. CHIODI, R. GATTI (a c. d.), La filosofia politica di Rousseau, cit., pp. 79-86.
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ne, locale e fragile, dell’umanità collettiva» e, di conseguenza, essa «non è mai il trattamento di una necessità vitale», dal momento che «la necessità è sempre a-politica, sia a monte (stato di natura), sia a valle (Stato dissolto)». Dunque, nel suo essere, la politica «è commensurabile solo con l’evento che la istituisce» (cfr. EE, p. 346). Appendice. Sovranità e rappresentanza: la lezione di Rousseau. Due letture contemporanee Nel Contratto sociale (1762)82, scrive Bernard Manin, Rousseau «associa le lotterie alla democrazia e le elezioni all’aristocrazia. L’estrazione a sorte e le elezioni vengono presentate come due procedure che potrebbero essere usate per scegliere il “governo”»83. Nel lessico di Rousseau il «governo» (anche detto «principe») indica il ramo esecutivo mentre la legislazione rimane sempre nelle mani del popolo (il «sovrano»). A questo livello non avviene «alcuna selezione»; invece, per selezionare i magistrati dell’esecutivo «occorre compiere una scelta fra un metodo di selezione e l’altro» (PGR, p. 84). Con Montesquieu, Rousseau si dichiara d’accordo con l’idea che la «scelta per estrazione a sorte è nella natura della democrazia», ma specifica che le ragioni di ciò non sono quelle stesse avanzate da Montesquieu (evitare la gelosia, distribuire egualmente le cariche) (cfr. ibid.). Manin individua sostanzialmente due problemi sintetizzando il pensiero espresso dall’autore del Contratto sociale84 allorquando scrive: «Per Rousseau l’allocazione delle magistrature (la “selezione dei capi”), che avvenga per estrazione a sorte o per elezione, è una misura particolare. La distribuzione delle cariche riguarda individui identificati per nome anziché tutti i cittadini. Di conseguenza, non può essere compiuta dal popolo in quanto sovrano. Secondo Rousseau il sovrano può agire soltanto attraverso leggi, ovvero regole generali che riguardano tutti i cittadini in egual misura: «le misure particolari sono competenza del governo; di conseguenza, se il popolo nomina i magistrati, può farlo solo in qualità di governo» (PGR, p. 85). Scrive infatti Rousseau nel Contratto sociale: «L’elezione dei capi è una funzione del governo e non del-
82 83 84
Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, tr. it., Feltrinelli, Milano 2003. Cfr. B. MANIN, Principi del governo rappresentativo, tr. it. di V. Ottinelli, pref. di I. Diamanti, il Mulino, Bologna 2010, p. 84 (d’ora in poi PGR). J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, cit., p. 198.
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la sovranità»85. Qui Manin, nella sua “lettura” di Rousseau, riscontra, come detto, l’insorgenza di due problemi. In estrema sintesi abbiamo quanto segue. In primo luogo, osserva Manin, secondo Rousseau «la democrazia è definita precisamente dal fatto che è il popolo a essere contemporaneamente sovrano (come in ogni sistema politico legittimo) e governo: in una democrazia il popolo fa le leggi e le mette anche in esecuzione. Rousseau suppone inoltre che, anche se il popolo detiene il potere collettivamente, le diverse magistrature devono essere assegnate a cittadini diversi» (ibid.). Il corollario di base di questa definizione di democrazia ci potrebbe indurre a ritenere che le elezioni («la selezione per scelta») possano essere considerate congeniali ai regimi democratici, poiché in tali sistemi «il popolo può anche agire in quanto governo» (ibid.). Per Manin, però, questa non è la conclusione tratta da Rousseau. Un supplemento ulteriore e diverso di argomentazione subentra nel suo ragionamento, dacché per il Ginevrino «l’esercizio da parte del popolo sia delle funzioni legislative sia di quelle esecutive dà vita a un grande pericolo: le decisioni del popolo in quanto sovrano (le leggi) possono essere corrotte dai punti di vista particolari che esso deve adottare in quanto governo» (ibid.). Nel capitolo terzo del Contratto sociale dedicato alla democrazia, Rousseau infatti scrive non soltanto che «non è bene che chi fa le leggi le applichi», ma aggiunge subito dopo una specificazione secondo cui non è bene neppure che «il popolo distolga la sua attenzione dai problemi generali per indirizzarla a scopi particolari»86. L’imperfezione umana non solo è un pericolo ma è nel contempo anche un «grande difetto» (PGR, p. 85) della democrazia. Perciò Rousseau con tono aforismatico sentenzia: «Se ci fosse un popolo di dèi, esso si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene agli uomini». Ciò sta a significare che «degli dèi sarebbero in grado di separare nelle proprie menti i punti di vista generali che devono adottare quando agiscono come sovrano da quelli particolari che devono adottare come esecutori delle leggi, ed evitare che i primi vengano distorti dai secondi. Ma questo eccede le capacità umane» (PGR, p. 85). Ne consegue che un governo democratico può funzionare al meglio quando il popolo (sovrano) «ha il minor numero possibile di occasioni per prendere decisioni particolari in qualità di governo» (ivi, p. 86). Per questa ragione Rousseau sostiene che nelle democrazie «l’amministrazione è tanto migliore quanto meno se ne moltiplicano gli atti»87. L’estrazione a sorte subentra per tentare di risolvere questo primo problema. Scrive Manin “interprete” di 85 86 87
Ibid. Ivi, p. 146. Ivi, p. 198.
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Rousseau: «Quando i magistrati sono selezionati per estrazione a sorte, il popolo ha solo una decisione da prendere: deve soltanto stabilire che i magistrati saranno scelti per estrazione a sorte. Chiaramente, questa decisione è una regola o legge generale, che quindi esso può approvare in quanto sovrano. Non c’è bisogno di nessun altro suo intervento particolare in qualità di governo. Se invece la democrazia è di tipo elettorale, allora il popolo deve intervenire due volte: la prima volta per istituire le elezioni e il modo in cui devono essere condotte, e poi come governo per eleggere i magistrati. Si può sostenere, seguendo Rousseau, che in questo caso la prima decisione correrebbe il rischio di essere influenzata dall’aspettativa della seconda: per esempio, esso potrebbe disegnare la legge elettorale generale in modo da rendere più o meno probabile l’elezione di determinati individui» (ibid.). A questo punto emerge un secondo problema. Manin lo esplicita sinteticamente così: «Anche supponendo che, in una democrazia, il popolo riesca a fare in modo che le sue decisioni in quanto sovrano non siano condizionate dalle opinioni particolari che deve adottare per governare, rimane il fatto che, quando si tratta di scegliere i magistrati, considerazioni particolari relative alle persone influenzeranno la sua scelta» (ibid.). Per ovviare il rischio di parzialità, l’estrazione a sorte presenta l’indubbio vantaggio che nell’allocazione delle cariche effettuata per estrazione a sorte «non c’è posto per nessuna volizione particolare»: l’estrazione a sorte, pertanto, «è il metodo di scelta corretto per la democrazia, perché assegna le magistrature senza l’intervento di nessun atto di volontà particolare» (ivi, p. 87). Come scrive Rousseau nel Contratto sociale: «Le elezioni a sorteggio presenterebbero pochi inconvenienti in una vera democrazia, dove, essendo tutto eguale sia quanto ai costumi e alle capacità, sia quanto ai principi e alle fortune, la scelta diventerebbe quasi indifferente»88. Il fatto è, come ci ricorda Manin, che storicamente «il ragionamento accurato con il quale Rousseau associò l’estrazione a sorte alla democrazia probabilmente esercitò solo pochissima influenza sugli attori politici» (PGR, p. 89). Lo stesso Manin, però, aggiunge che Rousseau era pienamente consapevole del fatto che l’estrazione a sorte poteva selezionare degli «incompetenti»: questo spiega il perché oggi «non ci venga neppure in mente» di assegnare le funzioni pubbliche per «estrazione a sorte». Nella sua “lettura” critica della politica antirappresentativa di Rousseau, che qui glosso sinteticamente in relazione alle finalità del quadro argomenta-
88
Ivi, p. 199.
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tivo sin qui sviluppato, Nadia Urbinati89 rileva come il filosofo ginevrino affermasse sostanzialmente due cose: «la sovranità è un atto della volontà e la volontà può essere delegata ma non rappresentata, dal momento che la rappresentanza implica l’alienazione della volontà» (DR, p. 3). Come è noto, «la logica rousseauiana ha ammaliato tanto i fautori della democrazia diretta o radicale quanto i suoi critici, entrambi i quali (seppure con opposti obiettivi) hanno sollevato dubbi o sulla possibilità di democratizzare il governo rappresentativo o sulla praticabilità dell’autogoverno diretto» (ibid.). Urbinati si chiede: ma è proprio vero che le conseguenze della teoria rousseauiana «consistono nella promozione di una più piena partecipazione e nel contenimento dell’influenza politica dei delegati rispetto al sovrano?» (ivi, p. 4). Detto altrimenti: «è possibile mettere in discussione la posizione di Rousseau da un punto di vista che tenga insieme partecipazione e rappresentanza?» (ibid.). L’intentio recta di Urbinati è mostrare «perché Rousseau ci è di aiuto» (ivi, p. 57), ovvero verificare la possibilità dell’«uso positivo che si può fare del suo rifiuto della rappresentanza» (ibid.). Le questioni sono complesse. Una schematizzazione s’impone necessariamente. Secondo quanto sostiene Urbinati, Rousseau «non propose il sistema del sorteggio o quello della rotazione (tradizionalmente associati alla democrazia), né infine escluse le elezioni nella sfera legislativa» (ivi, p. 4). Egli ribadì l’idea (già di Montesquieu) secondo cui «il sorteggio era un metodo democratico mentre l’elezione era un sistema aristocratico», giungendo così alla conclusione (che fu di Aristotele), che «le cariche che richiedono solamente il buon senso e un’idea basilare di giustizia dovessero essere aperte a tutti i cittadini, laddove i posti che necessitano di “attitudini specifiche” dovessero essere assegnati tramite elezione e ricoperti da pochi» (ibid.). Le elezioni possono essere una caratteristica sia dei governi diretti che di quelli indiretti. Rousseau riteneva che le elezioni «dovessero essere utilizzate per assegnare i posti nel ramo legislativo»: quindi, «non sono le elezioni in sé a definire il carattere del governo rappresentativo, bensì lo statuto legale della funzione che le elezioni assolvono, dal momento che è il modo di attuazione della rappresentanza a rivelare che cosa le elezioni producono». Pertanto, la differenza tra «governo diretto e governo rappresentativo» attiene alle forme del potere delegato più che al ricorso o
89
Cfr. N. URBINATI, Il sovrano irrappresentabile di Rousseau, in ID., Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri, Donzelli, Roma 2010, pp. 3-59 (d’ora in poi DR). Sul pensiero filosofico-politico democratico di Nadia Urbinati, cfr. D. PALANO, Quale ethos per la democrazia? I limiti dell’«individualismo democratico», in ID., La democrazia e il nemico. Saggi per una teoria realistica, Mimesis, Milano 2012, pp. 107-130.
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meno alle elezioni (cfr. ivi, p. 5). In sintesi: «Il modello delle istituzioni politiche elaborato da Rousseau – scrive Urbinati – è coerente con una democrazia delegata (intesa come non deliberativa) che si contrappone a una democrazia rappresentativa (deliberativa per sua intrinseca natura). Tale modello si fonda sulla sovranità popolare concepita come l’atto unitario della volontà che i cittadini compiono sia eleggendo i redattori delle leggi o i legislatori con istruzioni (mandato imperativo) sia votando essi stessi le leggi direttamente. La delega, a differenza della rappresentanza, prevede che i delegati discutano e deliberino ma che non abbiano l’ultima parola: essi esprimono un’opinione, non una volontà» (ibid.). Ma, a fronte degli argomenti addotti criticamente da Rousseau nei confronti della rappresentanza, che si fondano «sulla massima normativa della legittimità politica secondo cui la politica deve considerare “gli uomini quali sono” e “le leggi quali dovrebbero essere”» (ivi, p. 57), allora, perché Rousseau può esserci d’aiuto? A tale quesito Urbinati articola la sua risposta evidenziando tre punti. In primo luogo, «quando Rousseau dice che gli uomini devono essere considerati quali “sono” si riferisce alla loro realtà antropologica: gli uomini con i residui dei loro sentimenti naturali e con i vizi e le virtù della loro seconda natura. Il suo realismo è irrealistico, se così si può dire, fondato come è nella filosofia dell’“ordine naturale” contro l’ordine dell’uomo socializzato» (ibid.). Gli uomini dovrebbero essere considerati «non quali sono in una data organizzazione sociale né quali sono in base a un ideale di perfezione che non può appartenere loro (non come parte della dialettica servo-padrone, dunque, ma nemmeno come angeli o, infine, come esseri autarchici in un ipotetico stato di natura dove riescono a vivere indipendenti l’uno dall’altro)» (ivi, pp. 57-58). Insomma, dovrebbero essere invece considerati «come esseri dotati antropologicamente della duplice natura prettamente umana che li rende capaci di desiderare (e capire) l’armonia (la norma del buon ordine) pur essendo deboli nella capacità di dare compimento a ciò che desiderano» (ivi, p. 58). Il realismo, quindi, è da riferirsi «a ciò a cui gli esseri umani possono aspirare, non a ciò che essi sono hic et nunc» (ibid.). In secondo luogo, Rousseau considera la rappresentanza «come prova del declino della sovranità, non come sua causa» (ibid.). Come precisa Urbinati, nel Contratto sociale Rousseau «sostiene che, storicamente, la rappresentanza è stata inventata alla fine della civiltà repubblicana antica (nel medioevo), in seguito agli innumerevoli cambiamenti sociali e politici che avevano minato in modo irrimediabile la possibilità di istituire nuovamente la repubblica. Eppure, l’esser diventata ineludibile ha condannato la rappresentanza sia come norma che come buon espediente, in quanto rifletteva uomini ormai corrotti
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Filosofia, vita e autobiografia
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dalla società e incapaci di aspirare a qualcosa di meglio» (ibid.). Per Rousseau, la società «non dovrebbe essere usata come una scusa o una giustificazione per le istituzioni politiche che esistono», pertanto, l’ordine sociale, fonte di disuguaglianza artificiale, non deve essere trasformato «in un argomento legittimante l’ordine politico» (ibid.). Questo spiega perché «una giustificazione sociologica della rappresentanza farebbe esattamente il contrario di ciò che secondo Rousseau doveva fare il ragionamento di legittimità: trasformare l’assunto “gli uomini quali sono” in norma, accettare il fatto che la “volontà particolare” sostituisce la “volontà generale”, che la rappresentanza istituzionalizza l’antisovrano in rapporto al quale la sovranità della legge diventa un anacronismo» (ivi, pp. 58-59). Infine, qual è la conclusione (e la lezione) da trarre da Rousseau? Per Urbinati, secondo Rousseau «la rappresentanza sancisce effettivamente una forma moderna di schiavitù» (ivi. p. 58). L’insegnamento “positivo” che da questa conclusione si può evincere dice: la teoria democratica del governo rappresentativo «non può eludere il problema di una fonte normativa per la legittimità», cioè, esso «non può essere pensato o accettato come un “meno peggio” o un ripiego per ciò che non si può più avere (la vera libertà politica, quella diretta e creativa di norme)». Tutto ciò basta per riaffermare il principio che «esigenze strumentali e opportunismo non possono essere una giustificazione per la rappresentanza politica». Questa è la lezione di Rousseau per chi voglia conferire alla democrazia rappresentativa «un valore normativo» e, quindi, sappia vederne «le violazioni» (cfr. ivi, p. 59). Per la doxa, come ha scritto Bruno Karsenti, Rousseau «resta, qualunque cosa si faccia, l’emblema del pensiero democratico, quel pensiero a cui i rivoluzionari si sono richiamati e che hanno cercato di far passare nei fatti»90. Il fatto è che non sono pochi i filosofi politici che si sentono «depositari di un segreto: Rousseau non democratico»91. Questo “segreto” non è difficile da svelare se si pensa che questi filosofi possono accontentarsi di «due o tre citazioni». Diversamente, per Karsenti, «il vero segreto non è che Rousseau non risponde al ritratto del democratico secondo il nostro senso comune, ma che egli introduce in politica certi requisiti che fanno della democrazia una posta in gioco di nuovo genere, imprime un movimento alla teoria politica che la obbliga a girare continuamente intorno a questo centro oscuro e a riaccendere senza posa i dilemmi che contiene»92. 90 91 92
Cfr. B. KARSENTI, Il corpo a corpo politico: Rousseau e l’ideale democratico, in «Filosofia politica», XXVI, n. 2, 2010, p. 184. Ibid. Ivi, p. 185.
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Alchimia del segno
È destino dei grandi, anche nella loro emblematica ambivalenza, saper disvelare il segreto nel «corpo a corpo politico» dell’umano. Ogni rilettura di Rousseau serve anche per questo: serve per smentire l’opinione corrente, altrimenti «non si è mai altro che un “demi-habile”, “gente di mezza cultura”, nel senso di Pascal»93. Insomma, Rousseau è un pensatore così «complesso e ricco di trabocchetti» (Anglani) e dalla creatività polimorfa che non può essere lasciato, senza troppi danni, «soltanto» ai philosophes.
93
Ivi, p. 184. Sul pensiero politico Pascal, tra gli altri, cfr. R. GATTI, Politica e trascendenza. Saggio su Pascal, Edizioni Studium, Roma 2010.
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INDICE DEI NOMI
Agamben G., 30 Agostino d’Ippona, 186 Airaghi M.A., 189 Alatri P., 58 Albertini R., 15, 56, 73, 124 Alfieri L., 191 Althusser L., 76, 82 Anglani B., 64, 73, 74, 83, 131, 198 Ansart-Dourlen M., 132 Antomelli M., 163 Ariemma T., 191 Aristotele, 34, 195 Bachofen B., 18 Bacone F., 145 Baczko B., 14, 15, 57, 75, 87, 96, 97, 98, 99, 100, 108, 112, 116, 159, 168, 169, 174, 177, 178, 188 Badiou A., 191 Barker J., 191 Barman M., 16 Barthes R., 82, 113, 116, 120, 171 Bartolucci S., 170 Bedeschi G., 13 Benjamin W., 74 Bensoussan D., 60 Benveniste E., 166 Berchtold J., 14 Bernardi B., 18 Berthiaume P., 99, 170 Besana B., 191 Blanchot M., 159, 163, 165 Bloomberg E., 80 Bodei R., 14, 29, 32, 160, 162 Bologna C., 94
Bonhôte N., 83 Bonito Oliva R., 29 Bora P., 77, 93 Borghero C., 99 Borsari A., 38 Bossi E., 59 Bosteels B., 191 Botto M., 57 Bovero M., 63 Bowden S., 191 Brezzi F., 183 Brown W., 24 Burgelin P., 55, 59, 70, 108, 142, 149, 188 Burgio A., 57, 58 Calabrò A.R., 20 Calloni M., 26 Cambi F., 83, 186 Cambiano G., 99 Candaux J-D., 14 Canetti E., 182 Cantillo G., 29, 34 Carassai M., 155 Cardano G., 137 Cardinali S., 188 Carnevali B., 16, 17, 39, 46, 47, 48, 49, 50 Casini P., 57, 99, 156, 157 Cassirer E., 40, 59, 61, 85, 86 Cavalli A., 20 Cerroni U., 58 Châtelet F., 13, 64 Chiodi G.M., 12, 16, 38, 57, 191 Cioranescu A., 82
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Clément P-P., 78, 85, 101, 126, 141, 170, 188 Codignola E., 29 Colangelo C., 69 Colletti L., 58, 133 Condillac E.B., 93, 117, 170, 179 Cortella L., 32 Cotta S., 58, 190 Cranston M., 191 Cremaschi S., 24 Crocker L.G., 56 D’Angelo P., 185 D’Intino F., 83 Dal Lago A., 174 Dalmasso G., 84, 85, 174 De Man P., 80 De Marinis M., 170, 179 De Negri E., 29, 36 De Simone A., 11, 16, 20, 29, 30, 51, 183 Della Volpe G., 58 Demetrio D., 83 Dent N.J.H., 16 Derathé R., 56, 59 Derla L., 56 Derrida J., 77, 81, 82, 92, 93, 113, 120 Di Pietro S., 24 Diamanti I., 192 Diaz F., 15, 61, 62 Dostoevskij F., 52, 53 Duchet M., 169 Duffy S., 191 Eco U., 129 Eigeldinger F.S., 14 Eigeldinger M., 60, 82, 83, 93, 106, 119, 120, 125, 127, 128, 141, 149, 151, 152, 153, 154, 168, 170, 173, 174, 181, 188 Einaudi M., 60, 61, 93 Ellemburg S., 56 Ellrich R.J., 80 Elster J., 115 Esposito R., 52, 177
Alchimia del segno
Fabre J., 169 Fedeli De Cecco M., 58 Felice D., 59 Feltham O., 191 Ferrara A., 16, 26, 37 Ferrara R., 56 Ferrari J., 18 Fetscher I., 56 Filoni M., 30 Finelli R., 30, 31 Fleischacker S., 24 Fornero G., 183 Forni G., 24 Forti S., 51, 52, 53, 54, 55 Foucault M., 54, 82, 84, 113, 166 Freud S., 73, 76, 77, 82 Frigo G.F., 30 Gaasch J., 169, 179 Gagnebin B., 14 Garelli G., 29 Garin E., 13 Garin M., 13, 15, 59 Gatti R., 12, 16, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 51, 56, 186, 191, 198 Gentile G., 57, 142, 145, 146, 188, 190 Gerratana V., 58, 59 Gibelli D., 57 Giordano D., 57 Giordano G., 20 Girard R., 26 Goldschmidt G.-A., 57, 85, 96, 97, 100, 101, 134, 141, 188 Goldschmidt V., 16, 18, 39, 40, 56, 57 Gouhier H., 15, 39, 40, 45, 83, 108, 116, 148 Grampa G., 130, 183 Grassi P., 29 Groethuysen B., 55, 56 Guerci L., 99 Gusdorf G., 83, 144, 165, 182 Habermas J., 16, 33 Hegel G.W.F., 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 76 Heller Á., 60, 62
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Indice dei nomi
Hobbes T., 57, 191 Honneth A., 33, 38, 40 Hugot J.-P., 80, 133 Husserl E., 76 Iannello N., 191 Iannotta D., 183 Iber C., 31 Illuminati A., 57, 59, 189 Jackson S.K., 83 Jacob F., 14 Jervolino D., 184 Jesi F., 91, 128 Jones J.F., 170 Kant I., 52, 57, 76 Karsenti B., 197 Khodos F., 99 Kojève A., 30 Koselleck R., 189 Kremer-Marietti A., 93, 107, 119 Lacan J., 77 Lanson G., 59 Laslet P., 189 Launay M., 56, 132, 134 Le Goff J., 66 Lecercle J.L., 13, 15, 82, 151, 152, 169 Leduc-Fayette D., 99 Lejeune P., 83, 85, 141, 144, 152, 166, 185, 188 Lévi-Strauss C., 76, 77 Licciardi E.B., 182 Loche A., 18 Luhmann N., 114, 116, 117, 147 Luporini L., 170, 176, 189 Machiavelli N., 57 Manfredi M., 19, 22, 23, 25 Manin B., 192, 193, 194 Mariani M.A., 181, 182, 184 Marshall T., 190 Martinelli A., 40 Martone A., 18
201
Marx K., 58, 72, 73, 76, 82, 145, 188, 189 Masters R.D., 56 Mauriés P., 113, 116, 120 May G., 83, 84 Meek R.L., 78 Melzer A.M., 18 Menin M., 14 Minerbi Belgrado A., 116 Minerbi M., 133 Moni A., 32 Montaigne M. de, 137 Montesquieu C-L., 57, 192, 195 Mosconi J., 117 Munteano B., 57 Mura V., 56, 190 Namer G., 119 Neuhouser F., 16 Nietzsche F., 73 Nora P., 66 Norris C., 191 Orlando F., 80 Ottinelli V., 192 Palano D., 195 Papi F., 15, 91, 92 Pascal B., 198 Pasqualotto G., 145 Persio, 156 Peters R.S., 191 Petrucciani S., 26 Pezzillo L., 191 Philonenko A., 39, 40, 149 Pinzani A., 57 Pisano L., 155 Pizzorusso A., 134, 166 Pluth E., 191 Polin R., 56, 57, 116, 117, 188 Porset C., 93 Postigliola A., 18, 58 Poulet G., 108, 149, 165 Preterossi G., 34, 35, 36, 37 Proust M., 64 Pulcini E., 16, 26, 27, 38, 39, 100
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Radica G., 58 Raggiunti R., 93 Ramond C., 191 Raymond M., 14, 153 Reale M., 56, 190 Remotti F., 29, 32, 33, 34 Revedin A.M., 58 Ricoeur P., 33, 130, 183, 184 Rigotti F., 116 Riley P., 57 Rimbaud A., 185 Robespierre M., 57 Roddier H., 87 Roggerone G.A., 170 Rosito V., 38 Rossi P., 59, 63 Sade D.-A.-F. de., 85 Salomon-Bayet C., 60, 64, 86 Salvucci P., 29 Salvucci R., 93, 111, 112, 119, 170, 179 Sanna G., 29 Santoro V., 31 Schinz A., 82 Schlangen W., 57 Schneider M., 99 Scibilia G., 191 Scribano M.E., 16 Segre C., 82, 83 Séité Y., 14 Semerari G., 145 Sénelier J., 82 Serini P., 30 Sichirollo L., 56 Siep L., 31 Simmel G., 20, 21 Smith A., 24, 25, 26, 27, 28, 58, 93, 170, 179 Sozzi L., 141 Spanò M., 38 Spector C., 58 Spinoza B., 145 Starobinski J., 15, 39, 40, 43, 44, 57, 60, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 77, 78, 80, 81, 82, 84, 86, 87, 91,
Alchimia del segno
93, 97, 98, 101, 102, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 124, 132, 133, 134, 142, 148, 150, 154, 156, 157, 166, 167, 169, 170, 172, 175, 176, 188 Tacito P. C., 138 Taranto D., 71 Tarby F., 191 Tassi I., 84 Tassinari S., 183 Taylor C., 16, 33 Terrasse J., 17, 80 Tocqueville A., 76 Todorov T., 13, 14, 40, 159, 160, 161, 163 Tomelleri S., 26 Trilling L., 16 Trousson R., 14, 82, 169 Tucci A., 32 Urbinati N., 195, 196, 197 Veca S., 57 Vernes P.-M., 100, 169, 179 Verri A., 59, 62, 77, 93, 118, 119 Vico G., 30, 177 Vigna C., 32 Vincenti L., 58, 59 Violi C., 58 Viroli M., 56 Vitiello R., 57, 60, 83, 173 Wagner N., 169 Weil E., 56, 107, 108, 142 Williams H., 141 Wokler R., 18 Wyss A., 88, 93, 95, 113, 118 Xella L., 14 Yang G., 83 Zambelloni F., 130 Zanini A., 24
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FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.
Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas Antonino Trusso, L’uomo allo specchio Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della
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30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63.
natura e coscienza globale sulla via della complessità Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter
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64. 65. 66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96.
Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male Franco Manti (a cura di), Res publica Luca Marchetti, Oltre l’immagine Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte
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97. Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno 98. Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia 99. Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano 100. Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche 101. Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij 102. Aldo Trucchio (a cura di), Cartografie di guerra. Le ragioni della convivenza a partire da Kant 103. Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar 104. Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” 105. Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento 106. Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne 107. Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente 108. Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti 109. Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne 110. Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica 111. Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer 112. Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka 113. Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità 114. Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) 115. Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida 116. Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare 117. Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea 118. Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica 119. Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo 120. Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto 121. F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel 122. Soardo Andrea, Accade l’accadere 123. Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni 124. Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto 125. Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele 126. Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile 127. Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente 128. Auguro Ponzio, In altre parole 129. Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi
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130. Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti 131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S. A. Kauffman 132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto 133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C. 134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu 135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo, in preparazione 136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema 137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica 138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo 139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura 140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain 141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia 142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design 143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia e dei suoi segreti 144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto 145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla 146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss 147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e nel Gorgia 148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio, 2011 149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele 150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica della capacità di giudizio 152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto 153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo 154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo 155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia dell’estetica 156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte 157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze 158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello spazio della letteratura 159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud 160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger 161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault
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162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno 163. Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica 164. Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione 165. Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida 166. Paulo Barone, Utopia del presente 167. Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera 168. Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, 2012 169. Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia 170. Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze 171. Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria 172. Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva 173. Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi 174. Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori 175. Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur 176. Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti 177. Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora 178. Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio 179. Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? 180. Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio 181. Riccardo Corsi, Incroci simbolici 182. Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica 183. Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti 184. Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento 185. Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty 186. Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali 187. Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza 188. Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura 189. Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. 190. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito 191. Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi 192. José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro 193. Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo 194. Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico 195. Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune 196. Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento
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197. Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder 198. Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari 199. Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou 200. Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento 201. Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione 202. Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura 203. S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme 204. Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti 205. Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch 206. Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia 207. Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero 208. J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione 209. Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura 210. Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea 211. Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath 212. Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione 213. Luca Mori, Tra la materia e la mente 214. Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno 215. Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica 216. Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere 217. Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana 218. Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico 219. Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger 220. Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza 221. Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali 222. Liliana Nobile, Democrazie senza futuro 223. Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita 224. Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale 225. Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica 226. Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin 227. Antonio Valentini (a cura di), Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka 228. Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia 229. Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine 230. Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento 231. Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze 232. Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo 233. Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso 234. Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume
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235. Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim 236. Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità 237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile 238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica 269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia
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270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità 273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (19702010) 274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura. Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter
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