Al cuore del destino. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino 9788857521640

Rivolgendosi al "cuore che non trema della ben recintata verità", Parmenide afferma l'eternità dell'

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Italian Pages 282 Year 2014

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Al cuore del destino. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino
 9788857521640

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FILOSOFIE N. 333 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) comitato scientifico

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce) Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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Giulio Goggi

Al cuore del destino Scritti sul pensiero di Emanuele Severino

MIMESIS Filosofie

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© 2014 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana: Filosofie n. 333 Isbn: 9788857521640 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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Indice

Avvertenza

13

Parte prima I. Sulla verità originaria

17

Il fondamento e l’élenchos 1. Sulla figura dell’élenchos 2. Fondamento, negazione, élenchos 3. Nota: fondamento teologico ed élenchos 4. Il momento fenomenologico del fondamento 5. Aporetica della posizione della presenza dell’essere 6. Soluzione dell’aporetica e struttura dell'apparire 7. Il divenire come processo dell’apparire e dello scomparire dell’ente 8. Il momento logico del fondamento 9. Il primato della dimensione dianoetica 10. Operatio prima e operatio secunda intellectus: l’errore dell’isolamento 11. Il pensiero dell’identità: Aristotele ed Hegel 12. Significato concreto dell’identità/non contraddizione 13. Aporetica della posizione dell’identità 14. Soluzione dell’aporetica 15. Il significato originario della tautologia 16. La struttura originaria e la sua negazione 17. Élenchos: autotoglimento della negazione dell’opposizione universale 18. Élenchos: autotoglimento di ogni tipo di negazione dell’opposizione 19. Aporetica del fondamento 20. La struttura dell’élenchos 21. Nota: l’élenchos della negazione della presenza 22. Soluzione dell’aporetica del fondamento

17 17 20 21 22 23 23 25 26 27 28 31 32 34 34 35 38 40 42 44 46 48 48

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II. Sul versante logico della struttura originaria

51

L’intero semantico e le sue parti. Note su Le radici forti del pensiero debole di Gianfranco Basti

51

A. Esposizione della tesi di G. Basti 1. L’infinito attuale e la struttura originaria del nichilismo 2. Nota: la matematica e l’infinito attuale B. Critica della tesi di G. Basti 1. Deus cognoscit infinita 2. Nota: l’infinito attuale e la scienza di Dio 3. La totalità degli essenti include originariamente l’identità di ogni essente 4. Il divenire e l’Immutabile 5. La “differenza ontologica” negli scritti di Emanuele Severino 6. Identità di essenza e di essere nella dottrina dell’eternità dell’ente 7. Nota: la logica e l’isolamento dell’ente

52 52 56 59 59 63 65 71 73 77 87

C. Il primato della relazione 1. Sulla originarietà del dianoetico 2. Sulla opposizione universale del positivo e del negativo 3. Sulla analogicità dell’essere

91 91 94 96

III. Sul versante fenomenologico della struttura originaria

99

Il divenire dell’eterno e la verità dell’accadere

99

1. Il logos dell’essere e l’esperienza del divenire 99 2. L’autoreferenzialità dell’apparire e la verità dell’essere che appare 102 3. Sull’autoreferenzialità dell’apparire 104 4. Ciò che non incomincia né cessa di apparire 106

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5. Il comparire e lo scomparire dell’eterno 6. L’apparire empirico e l’apparire trascendentale 7. La non divenienza dell’apparire trascendentale 8. L’apparire della persintassi dell’ente 9. Individuo e senso del passato Appendice – Il cosiddetto “neoparmenidismo”

108 111 114 117 119 126

Parte seconda I. Sulla via del “Sentiero del Giorno” 133 Bontadini, Severino e il ritorno di Parmenide 133 A. Gustavo Bontadini 1. Valutazione dialettica della filosofia moderna 2. Inferenza metempirica e Principio di Parmenide 3. Centralità dei significati dell’Essere e del non Essere

133 133 138

B. Emanuele Severino 1. Verità dell’Essere e alienazione dell’Occidente 2. Immutabilità dell’Essere e apparire processuale dell’eterno 3. Epistéme e “destino”

144 144

142

151 156

C. Gli allievi 159 II. In dialogo con Bontadini e Severino 169 momenti filosofici 169 1. Dario Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza 2. Aniceto Molinaro, Al di sopra dell’essere. Pensare e credere 3. Carlo Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio 4. Angelo Scola: verità, fede, salvezza

169 182 191 200

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III. La verità dell’essere e la metafisica classica 215 A. Per una rigorizzazione della metafisica classica. La proposta di Leonardo Messinese in dialogo con Emanuele Severino e Gustavo Bontadini 1. Affermazione “teologica” e comprensione non nichilistica del divenire 2. Immutabilità simpliciter dell’essere e immutabilità secundum quid 3. Il “che” e il “come” del nesso finito-Infinito: il Principio di Creazione 4. Il senso del per aliud nella posizione dell’identità 5. Sulla dottrina della creazione B. La fede, la ragione, l’Infinito. Colloquio filosofico con Leonardo Messinese 1. Le “due fasi” del pensiero di Severino 2. La “coscienza finita” e il rapporto fede-ragione 3. Parmenide e la metafisica classica 4. Differenza ontologica e dipendenza ontologica 5. Sull’eternità dell’ente

215 215 221 228 232 237 239 240 247 253 257 262

  nota bibliografica 267   Indice dei nomi 269

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A mia mamma

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Risiede nel significato stesso dell’essere che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza). E. Severino, La struttura originaria

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 AVVERTENZA

  I testi raccolti in questo volume, da me composti in diverse occasioni, sono tutti convergenti nel medesimo tentativo di delineare qualche tratto di quella dimensione che sta da sempre al fondamento di ogni sapere – essendo essa l’essenza del fondamento non controvertibile e non un semplice “tentativo” di stare. Si tratta del cuore fermo e non tremante della verità al quale, da decenni, fanno riferimento gli scritti di Emanuele Severino che quella dimensione indica come la struttura originaria del “destino”. Per conferire unità al volume, i testi sono stati rimodulati e arricchiti con parti inedite. La presenza di cappelli introduttivi orienta la lettura e lega le diverse sezioni che si consolidano nel richiamarsi a vicenda per via del comune intento che le fa convergere.   Giulio Goggi Primavera 2014                          

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Parte prima

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I    

Sulla verità originaria

Il fondamento e l’élenchos Al fondamento di ogni sapere sta la “struttura originaria della verità”, espressione che richiama il celebre scritto di Emanuele Severino intitolato La struttura originaria e indica ciò che è implicato dalla manifestazione di ogni essente: lo strutturarsi dell’immediatezza. A quello scritto si ispirano le pagine di questo primo capitolo che apre il quadro teorico al quale fanno riferimento i testi che seguono – tutti volti ad indagare il senso dello stare incontrovertibile della verità.   1. Sulla figura dell’élenchos   Il logos originario è costruito sulle ragioni dell’essere e del nulla perché il positivo è ciò che si oppone al negativo – e per negativo si intende tutto ciò che “non è” un determinato positivo; quindi non solo gli altri positivi ma anche il nulla. Chi pensa di poter confutare il concetto del nulla – scrive Platone nel Sofista – è costretto «a mettersi in contraddizione con se stesso» (238 d): dice che il nulla non è, e che dunque è impossibile che partecipi dell’unità o della molteplicità ma, per dire questo, deve pure riferirsi al nulla come se fosse un ente. La negazione del nulla si mette in contraddizione con se stessa perché suppone il riconoscimento di una qualche affermazione di quel contenuto: per negare l’esistenza del nulla, deve affermarne la presenza, l’essere presente. Il tentativo di messa da parte del nulla perché impensabile, inesplicabile, presuppone dunque la sua pensabilità e la possibilità di dirlo. Il che vuol dire che non è possibile estrometterne la semantica dall’orizzonte del significare1. 1 Si apre, a questo punto, il capitolo dell’aporetica del “nulla” perché si deve riconoscere che il nulla, in certo senso, “è”. Per la soluzione dell’aporetica, che già Platone considerava come la maggiore delle difficoltà (cfr. Sofista, 238), rinvio alla sua trattazione insuperata: E. Severino, La

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Al cuore del destino

Quando Carnap si propone di espungere dal vocabolario filosofico il concetto del nulla, perché non strettamente riconducibile al contesto dell’esperienza positivisticamente intesa, va incontro ad un movimento negativo che investe la sua stessa negazione. Dicendo infatti che il nulla è parola che non ha alcun significato, e che la metafisica precipita nell’insignificanza in quanto impegnata nella costruzione di teorie che suppongono tale concetto2, Carnap non si accorge che il concetto di “non significanza”, di cui si avvale per smontare gli argomenti della metafisica, è uno dei modi in cui si esprime il concetto del nulla. Questa è dunque l’essenziale confutazione del negatore neopositivista: il concetto di “non significanza” (di assenza di significato) è un sinonimo del concetto del nulla, di cui egli afferma la “non significanza”, sicché la sua affermazione della “non significanza” del nulla porta nella “non significanza” – e quindi toglie di mezzo – lo struttura originaria, Adelphi, Milano 1981. Ne riporto i passaggi chiave: [i] «La contraddizione del non-essere-che-è, non è […] interna al significato “nulla” (o al significato “essere” che è l’essere del nulla); ma è tra il significato “nulla” e l’essere o la positività di questo significato. La positività del significare è cioè in contraddizione con lo stesso contenuto del significare, che è appunto significante come l’assoluta negatività» (p. 213). Di qui la distinzione tra il nulla come significato autocontraddittorio e il nulla come momento: [ii] «È chiaro pertanto che il “nulla”, assunto come significato autocontraddittorio, include come momento semantico il “nulla” del quale [...] si è rilevato l’esser significante come nulla. (O il “nulla” come significato incontraddittorio è momento del “nulla” come significato autocontraddittorio)» (p. 214). Ed ecco la soluzione: [iii] «L’aporia dell’essere del nulla è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio [...] ma afferma che “nulla” non significa “essere” [...]. Il non essere, che nella formulazione del principio di non contraddizione compare come negazione dell’essere, è appunto il non essere che vale come momento del non essere, inteso come significato autocontraddittorio» (p. 215). Dunque, «certamente il nulla è; ma non nel senso che “nulla” significhi “essere”: in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione» (ibidem). Per ulteriori approfondimenti sul tema decisivo dell’aporetica del nulla, cfr. E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2013, cap. v, par. v ed E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, Parte seconda. 2 Cfr. R. Carnap, Die Überwindung der Metaphysik zu logische Analise der Sprache, trad. ital., Il superamento della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio, in Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969, pp. 504-532.

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Sulla verità originaria

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stesso tentativo di liberarsi del concetto di nulla. La carnapiana negazione del nulla nega ciò senza di cui non potrebbe costituirsi la negazione stessa: nega cioè quel concetto di nulla che è sinonimo del concetto di “non significanza” sul quale fa leva la stessa negazione quando afferma la “non significanza” del nulla: la negazione si configura come un togliere se stessa. Intesa in questo senso, e cioè come procedimento per mezzo del quale si fa vedere che il significato che la negazione intende negare è costitutivo della negazione stessa, la confutazione (l’élenchos) è un procedimento che Platone conosceva bene. Sempre nel Sofista, egli considera la tesi dei Megarici per i quali è contraddittoria ogni forma del dire e del pensare che sia riconducibile allo schema A è B. Sembra infatti che, dicendo che A è B, che l’uno è l’altro, noi identifichiamo i non identici. Il problema sollevato dai Megarici e da Platone è di eccezionale rilevanza teoretica: come va intesa la forma più generale del pensare che si esprime dicendo che “qualcosa è qualcos’altro”? Ci torneremo più avanti (cfr. par. 15). Ma adesso è importante seguire la replica di Platone a quanti si rifiutano di pensare la sintesi tra i non identici. Costoro vanno incontro ad una confutazione di questo tipo: negano ciò senza di cui il loro stesso discorso, la loro stessa obiezione, non potrebbe costituirsi. Leggiamo Platone: «Giacché sono pur costretti, credo, a valersi in ogni momento di espressioni quali l’essere, il separatamente, il degli altri, il di per sé, e di tante e tante altre, dalle quali non potendo astenersi e non applicarle nei propri discorsi, non hanno bisogno di altri che stiano a confutarli, ma avendo, come si suol dire, in casa il nemico e l’oppositore, se lo portano sempre in giro protestante dentro di loro»3. Chi sostiene che una sintesi di determinazioni differenti è impossibile, nega l’originaria struttura apofantica del logos e non si avvede che la stessa negazione è un pensiero che procede per sintesi e dieresi: la negazione della sintesi relazionale è infatti già una sintesi relazionale, confermando con ciò lo schema generale del pensare che si esprime secondo la formula A è B. L’argomento-confutazione (élenchos), che qui è in opera, mostra che la negazione di qualcosa di non controvertibile (la negazione della configurazione semantico-apofantica del logos) non può costituirsi a prescindere da ciò che 3

Platone, Sofista, 252 c.

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Al cuore del destino

essa nega; è il rilievo che mostra come il non controvertibile presieda alla costituzione della sua stessa negazione. Il senso dell’élenchos di cui parla Aristotele nel libro Γ della Metafisica (1005 a 35 ss.) è proprio questo: attesta l’impossibilità di negare la determinatezza dell’essere ossia la struttura originaria della verità. Ed è chiaro che non si tratta soltanto di far vedere che chi nega la determinatezza dell’essere si contraddice, come se alla base della verità dell’essere determinato ci fosse il semplice rifiuto della contraddizione. Il punto è: qual è il valore di questo rifiuto della contraddizione? Che valore ha questa adesione al logos, alla ragione e quindi alla “non contraddizione”? Se fosse niente di più di una semplice fede nella ragione, una fede nella scienza, per cui si dice che vale la scienza perché vale la fede nella scienza4, allora lo stesso tenere ferma la “non contraddizione”, come la forma essenziale del sapere, sarebbe niente di più di una fede nella necessità di tener ferma la ragione.   2. Fondamento, negazione, élenchos   Il fondamento è ciò la cui negazione è autonegazione: è il non controvertibile perché si relaziona all’élenchos ossia a quel complesso semantico-apofantico di cui tratta Aristotele nel libro Γ della Metafisica – ed è attraverso l’élenchos che ne appare la saldezza, ossia il suo essere il de-stino dell’essere e non una semplice fede. 4 Secondo Popper la contraddizione va rifiutata perché, se noi accettiamo il principio per cui sono vere due proposizioni contraddittorie, non siamo poi più in grado di costruire la scienza, che peraltro Popper riconduce alla scienza moderna ipotetico-deduttiva: «Il vecchio ideale scientifico dell’epistéme» ossia del sapere non controvertibile «si è rivelato un idolo» (K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970, p. 311). Se concediamo che proposizioni contraddittorie sono entrambe vere, allora dobbiamo poter ammettere qualsiasi proposizione. Ma uno potrebbe anche non avere alcun interesse per la costruzione della scienza. Se alla base dell’atteggiamento scientifico, razionale e quindi della non contraddizione, sta una fede irrazionale nella ragione (cfr. K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1973, cap. xxiv), allora è inevitabile che anche il nostro ancoraggio al principio di non contraddizione non sia niente di più di una fede irrazionale nella necessità di tener fermo il principio di non contraddizione.

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Sulla verità originaria

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Inizierò la trattazione centrando lo studio sulle due valenze del fondamento: quella fenomenologica e quella logica. Negli ultimi paragrafi di questo capitolo affronterò il tema del rapporto tra il fondamento e l’élenchos sciogliendo una rilevante situazione aporetica, quella per cui sembra che del fondamento si debba affermare che è fondato sulla struttura dell’élenchos.   3. Nota: fondamento teologico ed élenchos   La parola élenchos appare in alcuni luoghi cruciali del pensiero occidentale. Il Sofista è certamente uno di questi luoghi, come lo è il libro Γ della Metafisica che dell’élenchos dà la prima grandiosa formulazione. Ma la troviamo anche in un noto passo della Lettera agli Ebrei (11,1) dove la fede teologale viene definita come «prova delle cose che non vediamo». Prova, si dice nella traduzione italiana, che così rende il termine argumentum, versione latina del greco élenchos. Tommaso spiega che le cose che “non vediamo” sono quelle che eccedono la facoltà dell’intelletto5. Di tali cose la fede è appunto la prova, l’argumentum, l’élenchos. Dopodiché, se chiedessimo a san Paolo qual è il fondamento, egli risponderebbe: «Nessuno può porre un fondamento […] diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo»6. Ma proprio questa affermazione della divinità di Gesù è una di quelle cose che “non appaiono”, che appartengono al contesto dei non apparentia: una di quelle cose di cui non appare che la negazione è autonegazione e che possono essere tenute ferme soltanto dalla fede. Il rapporto tra il fondamento che è Gesù e l’élenchos, che ne sostiene la divinità, presenta qualche analogia col rapporto che c’è tra il fondamento, inteso nel senso della struttura originaria, e l’élenchos che ne mostra la fermezza. Ma questa analogia, questa uguaglianza di rapporti è in verità sottesa da una essenziale differenza dei termini in relazione. Il contenuto della fede in generale, e quindi anche della fede cristiana, è infatti qualcosa che non appartiene all’e-

5 Cfr. Tommaso, De fide, a. 2, respondeo, ad 15. 6 1Cor 3,11.

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Al cuore del destino

videnza dell’originario – e ciò che a tale evidenza incontrovertibile non appartiene è controvertibile.   4. Il momento fenomenologico del fondamento   La verità dell’essere è l’apparire dell’essere identico a sé di ogni essente: ciò che appare è l’essere identico a sé della totalità di ciò che è – dove l’apparire, che è identico a sé, è un’individuazione dell’essere identico che appare. Si tratta delle due coordinate fondamentali di ciò che possiamo chiamare destino innegabile: quella fenomenologica, ossia l’immediatezza della posizione (manifestazione) dell’essere, e quella logica, ossia l’immediatezza della identità/incontraddittorietà dell’essere. Cercherò adesso di analizzarne i tratti, incominciando dalla componente fenomenologica: il tema dell’apparire. Qual è il fondamento dei giudizi che affermano la presenza di ciò che è presente? Kant direbbe: si tratta di giudizi sintetici a posteriori e il loro fondamento è l’unità dell’esperienza perché soggetto e predicato, «come parti di un tutto, cioè dell’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l’uno all’altro, benché solo in modo accidentale»7. In base a che cosa diciamo, ad esempio, che il bicchiere è pieno? Lo diciamo perché l’essere pieno del bicchiere è ciò che appare. Il concetto dell’apparire, già visitato da Aristotele8, viene approfondito dalla fenomenologia di Husserl che esprime il suo principio in questi termini: «Tutto ciò che si dà originalmente, nell’intuizione (per così dire, in carne ed ossa), è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui esso si dà»9. La negazione dell’essere che appare (che è presente) è in contraddizione con la presenza dell’essere e resta tolta, di fatto, dalla presenza dell’essere, dal suo esserci immediato. Ciò non vuol dire che il destino sia solo un fatto, qualcosa che è ma che potrebbe non essere. Il destino è tale perché è l’innegabile 7 I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G. Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 48. 8 Cfr. Aristotele, Metaph., 1011 a 21 ss. 9 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, 24, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1970, p. 50.

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Sulla verità originaria

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apparire dell’essere identico e non contraddittorio – e vedremo che l’apparire dell’esser sé di ogni essente implica necessariamente l’apparire dell’eternità dell’essente in quanto essente. Ma vedremo che anche la negazione della presenza dell’essere è intrinsecamente contraddittoria (cfr. infra, par. 21). Adesso va indagata più a fondo la struttura originaria dell’apparire.   5. Aporetica della posizione della presenza dell’essere   Se chiamiamo x il contenuto che appare e a1 il suo apparire, diremo che a1 è ciò in base a cui affermiamo x. Ma se a1 è ciò in base a cui viene affermato x, in base a che cosa affermiamo a1? Qual è il fondamento dell’apparire di x? Se diciamo che a1 va affermato perché l’apparire di x è qualcosa che appare, e se chiamiamo a2 questo secondo apparire, ossia l’apparire dell’apparire di x, la domanda intorno al fondamento si ripete anche a proposito di a2. In base a che cosa viene affermato a2? Se la risposta è che a2 viene affermato perché anche l’apparire dell’apparire di x è qualcosa che appare, e se chiamiamo a3 questo terzo apparire, ci portiamo verso una situazione di regressus che sposta in indefinitum la posizione del fondamento cercato, dovendo porre un quarto apparire e poi un quinto e così via, senza fine. In breve: la non controvertibilità di x è data dal suo rapporto all’apparire (a1), la cui non controvertibilità è data da un secondo apparire (a2) che a sua volta richiama un terzo apparire (a3)... Stando così le cose, la verità dell’apparire resta rinviata all’infinito e il destino non riesce ad essere tale, dovendo sempre arretrare per trovare una base d’appoggio che non gli riesce mai di raggiungere.   6. Soluzione dell’aporetica e struttura dell’apparire   1. La difficoltà del regressus, che rinvia all’infinito l’indicazione del fondamento della fenomenologia, è imputabile ad un’astratta comprensione della struttura dell’apparire: l’apparire del contenuto che appare è astrattamente separato da tale contenuto. L’introduzione dell’apparire nel contesto di ciò che appare viene cioè pensata come un atto logicamente ulteriore rispetto alla posizione originaria del contenuto che appare. Dopodiché è inevitabile

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che si ripeta la domanda circa il fondamento della posizione di questa ulteriorità e così in indefinitum. Tommaso, leggendo Aristotele, diceva: «Visus non videt se sed colorem»10. Si tratta invece di capire che il vedere, proprio perché è un vedere il colore, videt se, originariamente. L’aporia del regressus in indefinitum si costituisce perché l’apparire viene separato da se medesimo e si pensa che l’apparire dell’apparire di x sia un secondo apparire rispetto all’apparire di x, mentre si tratta dello stesso apparire che viene affermato in virtù di se medesimo, ossia in forza della sua originaria appartenenza al contenuto che appare.   2. L’apparire non è altro che la pura manifestazione di ciò che appare. La lezione di Aristotele è qui insuperabile: se l’apparire avesse una determinata natura, se fosse, ad esempio, rosso, renderebbe rosso tutto ciò che si affaccia nell’orizzonte della presenza. Essendo la manifestazione di tutte le cose (¹ yuc¾ t¦ Ônta pèj ™sti p£nta)11, l’apparire non può essere determinato secondo la natura di questa o di quella cosa – è il tema della sua trascendentalità che troverà pieno sviluppo nella filosofia idealistica e nelle principali correnti della filosofia contemporanea: la fenomenologia, l’esistenzialismo, oltre che, naturalmente, la neoscolastica. Dunque, parlare di struttura dell’apparire vuol dire considerare in concreto la sua natura rivelativa: essendo la manifestazione della totalità di ciò che appare, l’apparire è la manifestazione originaria di sé.   3. Di cruciale importanza è poi la distinzione tra l’apparire empirico e l’apparire trascendentale, ossia tra l’apparire di una certa parte della totalità di ciò che appare (ad esempio l’apparire di questo bicchiere che è pieno) e l’apparire della totalità di ciò che appare. Si tratta di due distinte dimensioni dell’apparire perché solo l’apparire empirico è ciò che può incominciare ad apparire, mentre la totalità di ciò che appare non può essere qualcosa che incomincia ad apparire né che cessa di apparire. Quando Aristotele afferma che della mente in atto non si può dire che «ora pensa e ora non pensa»12, in qualche modo allude a questa 10 Tommaso, In Duodecim Libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, n. 706. 11 Aristotele, De anima, iii, 8, 431 b 21. 12 Ibi, 430 a 22.

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indivenienza del trascendentale13. Qualcosa può infatti incominciare ad apparire solo se appare il “prima” rispetto a cui sopraggiunge e può cessare di apparire solo se appare il “poi” come ciò che non include più il qualcosa che dilegua uscendo dal contesto dell’apparire. Ma l’apparire trascendentale è appunto l’orizzonte totale dell’apparire e cioè la dimensione inclusiva di ogni apparire, di ogni “prima” e di ogni “poi” – sicché è impossibile che esso sopraggiunga o dilegui dal contesto dell’apparire14.   7. Il divenire come processo dell’apparire e dello scomparire dell’ente   Posto che l’apparire di qualcosa è apparire dell’apparire del qualcosa segue che, quando qualcosa incomincia ad apparire, ciò che sopraggiunge è questo stesso incominciante apparire e che, quando qualcosa cessa di apparire, ciò che esce dall’apparire è anche questo cessante apparire. Se così stanno le cose, la comprensione del divenire in termini di essere e di non essere – a partire dai greci il divenire dell’ente è stato inteso come il luogo in cui le cose oscillano tra l’essere e il non essere – si presenta come l’esito di una alterazione del volto autentico dell’apparire. Non si mostra infatti l’annullamento dell’ente né il suo incominciare ad essere, ma le cose incominciano ad apparire e cessano di apparire e incomincia e cessa di apparire il loro stesso incominciante e cessante apparire – apparente a se medesimo come incominciante e cessante apparire. Ciò che nella dimensione trascendentale sopraggiunge e dilegua sono dunque gli enti e il loro apparire, dove tale sopraggiungere e dileguare non va inteso in termini di essere e di non essere, ma in termini di apparire e scomparire15.

13 Cfr. Tommaso, In Aristotelis librum de anima commentarium, n. 741. 14 Sul tema del rapporto tra l’apparire empirico e l’apparire trascendentale (qui appena abbozzato), cfr. infra, Parte prima, cap. iii. 15 Sulla necessità di leggere il divenire in termini di apparire e scomparire dell’eterno si veda E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 93-97 e pp. 295-299 ed E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, capp. iv-v. Per lo sviluppo di questo tema (presente, con riprese ed approfondimenti, in tutti gli scritti principali del filosofo), rinvio al cap. iii di questa Parte prima.

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Che ne è, allora, dell’ente quando esso ancora non appare o quando non appare più? A questa domanda risponde il logos: sul versante logico del fondamento, che è distinto ma non separato dalla dimensione dell’apparire dell’ente, si fa vedere incontrovertibilmente l’inseparabilità delle determinazioni che “sono” (e cioè che “non sono un nulla”) dal loro essere.   8. Il momento logico del fondamento   Passiamo alla trattazione della componente logica del fondamento: quella per cui diciamo che il fondamento è l’apparire dell’essere identico e non contraddittorio. Incominciamo intanto col rilevare che la verità dell’essere è il destino di ogni essente: quando cioè si afferma che il destino è l’apparire dell’esser sé dell’essente, con ciò s’intende dire che il destino è il “predicato” comune – il proprium – di ogni essente, ossia ciò che è impossibile che non convenga a uno qualsiasi degli essenti. Isolato dal destino, l’essere è niente. Che cosa significa isolare qualcosa? Significa pensare che qualcosa possa essere, anche se ciò da cui è isolato non fosse. Vuol anche dire pensare che qualcosa possa manifestarsi, anche se ciò rispetto a cui è isolato non si manifestasse. Dire che x è isolato da y vuol dire che si considera x come qualcosa che, per essere e per apparire, non ha bisogno di y. Poniamo che x sia un certo ente e che y sia il destino quale predicato essenziale di ogni essente. Chiediamoci: che ne è dell’apparire di x se y non appare? Se non appare y, l’essere determinato in cui x consiste non appare, perché non appare il suo essere identico a sé e cioè il suo essere altro dal proprio altro. Si potrebbe replicare che, se x non appare, ad apparire sarà un non-x, ad esempio x1. Ma, se la relazione al destino non appare, non può apparire alcun essente: non appare x, non appare x1 e non appare neppure il significato di non-x, giacché anch’esso è un significato determinato (come non-x) che non può apparire se non appare il suo essere determinato. Il destino di ogni essente è dunque lo spettacolo che non sopraggiunge né dilegua: il suo sopraggiungere sarebbe il giungere sopra rispetto ad una dimensione che, in quanto isolata dal destino, sarebbe niente; il suo dileguare sarebbe lo stesso che l’annullamento del-

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la dimensione dell’apparire, perché l’apparire di niente è lo stesso che un niente di apparire. Né si può dire che il destino sia qualcosa che ad un certo punto entra nella mente di chi presta ascolto alla testimonianza del destino, come se si trattasse di riempire un vuoto che si trova nella mente altrui. No! Laddove c’è una “coscienza”, c’è lo spettacolo del destino. Laddove qualcosa appare, appare il destino.   9. Il primato della dimensione dianoetica   Alla totalità di ciò che appare appartiene non solo l’insieme delle determinazioni che sopraggiungono, ma anche quel complesso di determinazioni che sono costitutive della forma di tutto ciò che appare e che, in quanto tali, si possono chiamare determinazioni persintattiche: si tratta di quelle determinazioni il cui apparire è condizione necessaria dell’apparire di una qualsiasi determinazione16. All’orizzonte persintattico della struttura originaria appartiene il principio della determinatezza dell’essere, ossia l’essere sé dell’essere (E = E). Ne consideriamo adesso la concreta figurazione al di là dell’atteggiamento isolante dell’intelletto astratto, che abbiamo già visto in azione nella comprensione della dimensione fenomenologica del destino ma che interviene anche nella comprensione dell’identità. Pensare il rapporto di identità nel modo dell’isolamento significa pensare che l’operazione dell’intelletto per cui si afferma la relatio identitatis, e si dice che l’essere è identico a sé (E = E), è preceduta dall’operazione dell’intelletto per cui ciò che viene inteso è il semplice significato dell’essere (E). Tenere fermo questo schema, che separa la dimensione dianoetica della relazione (E = E) dalla dimensione noematica della pura apprensione del significato (E), significa muoversi nella prospettiva astratta dell’isolamento, ossia del pensiero che si contraddice. Seguiamone l’andamento. Il movimento del pensiero, che dapprima se ne sta chiuso nella comprensione del significato dell’essere (E) e poi raggiunge la rela16 Sul senso della “persintassi” cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. x e gli sviluppi in Essenza del nichilismo, cit. La terra e l’essenza dell’uomo, par. ix. Ma cfr. anche E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, cap. x.

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zione (E = E), in verità attribuisce l’essere identico a sé a qualcosa che non è e non può essere un essere identico a sé. Isolato dal proprio esser sé, l’essere è altro da ciò che si intende che sia: è un nonessere che viene posto come essere. Intesa come risultato di un processo, di un divenire che porta ad essa, la relazione di identità è contraddizione. Si tenga anche presente che l’essere (E) di cui si sta parlando non è il puro essere che cancella le differenze del mondo: non è un genere che confina nel non essere le differenze del mondo, ma è l’essere un non niente che conviene a tutte le differenze, le quali sunt formaliter ens. Sia A una qualsiasi determinazione dell’essere. Si sta dicendo che, ad essere in relazione con sé, non è A isolato dal suo essere A, ma è A nel suo essere sé, nel suo essere in relazione con sé.   10. Operatio prima e operatio secunda intellectus: l’errore dell’isolamento   Secondo il comune modo di pensare, il primo, sul piano della conoscenza, sono le nozioni, i significati: elementi semplici messi in relazione nell’esercizio dell’intelligenza riflessa. Ciò che dapprima viene inteso, afferma Aristotele, è il noema senza sintesi né divisioni: «ad esempio uomo o bianco, quando non vi sia aggiunto qualcosa»17. Sembra che il filosofo intenda dire questo: in un primo tempo il pensiero se ne sta presso la determinazione, concepita come autonoma rispetto alla dimensione dianoetica. Il logos apofantico (relazionale), sede del vero e del falso, sopraggiunge in un secondo tempo. Tommaso conferma questa lettura del testo aristotelico: assegna al libro Categorie il compito di indagare la natura della prima operazione dell’intelletto, che presiede alla formazione delle nozioni, e al libro Dell’interpretazione il compito di indagare la natura della seconda operazione dell’intelletto, che presiede invece all’operazione della congiunzione e alla divisione delle nozioni18. Nel Commen17 Aristotele, De Interpr., 16 a. 18 «Una enim actio intellectus est intelligentia indivisibilium sive incomplexorum, secundum quam concipit quid est res [...]. Et ad hanc operationem rationis ordinatur doctrina quod tradit Aristotelis in libros Praedica-

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to alla Metafisica, l’Aquinate fissa la definizione canonica del rapporto tra le due operazioni: dice che il principio di non contraddizione (ma lo stesso si può dire del principio di identità) est naturaliter primum in secunda operatione intellectus, ossia nell’operazione dianoetica19. La logica di Rosmini, che su questo punto ha mediato a fondo il pensiero di Aristotele e di Tommaso, si muove nella stessa direzione: «Ora, per quanto l’uomo faccia tutte queste operazioni, giudizi e raziocini celermente, per quanto esse nascano naturalmente, prossimamente dall’idea dell’ente, e anzi di più, sebbene tutto ciò non sia che la stessa idea dell’ente applicata, travestita, accompagnata di relazioni, tuttavia è necessario a tal fine che la ragione nostra si mova da quello stato primo di perfetta quiete, nel quale ella è pure, quasi molla, tesa e fermata. Ma tutto ciò che è in noi in conseguenza di qualche movimento della ragione, non essenziale e innato nella stessa, io amo di chiamarlo cosa acquisita; e tale mi sembra, nella sua forma di principio, il principio di [non] contraddizione»20. L’intento di Hegel è quello di denunciare la contraddizione che investe il procedere astratto dell’intelletto, cosa che né Aristotele né Tommaso né Rosmini avevano in vista: «Il pensiero, come intelletto, se ne sta alla determinazione rigida e alla differenza di questa verso le altre: siffatta limitata astrazione vale per l’intelletto come cosa che è e sussiste per sé»21. Isolata, separata rispetto alla relazione, la determinazione finita (Aristotele avrebbe detto: il noema) si contraddice, non riesce ad essere se stessa: «Il movimento dialettico è il sopprimersi da sé di siffatte determinazioni finite e il loro passaggio nelle

mentorum. Secunda enin vero operatio intellectus est compositio vel divisio intellectus, in qua est iam verum vel falsum. Et huic rationis actui deservit doctrina quam tradit Aristoteles in Libro Peri hermeneias» (Tommaso, In libros posteriorum analiticorum expositio, proemium 4). Negli Analitici è contenuta l’analisi del sillogismo: «Tertius vero actus rationis est proprium rationis, scilicet discurrere ab uno in aliud, ut per id quod est notum deveniat in cognitionem ignoti. Et huic actui deserviunt reliqui libri Logicae» (ibidem). 19 Tommaso, In Duodecim Libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, n. 605. 20 A. Rosmini, Nuovo Saggio sulla origine delle idee, Celuc, Milano 1972, sez. v, p. iii, c. i. 21 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1989, par. 80.

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opposte»22. Ciò accade perché la determinazione è un esser sé solo nella relazione a sé e all’altro da sé, come negato. Il movimento dialettico si produce proprio perché quella relazione è originaria e il vizio dell’intelletto sta appunto nell’intenzione isolante. La verità risiede nella relazione che comprende l’essere della determinazione nel suo opporsi a ciò che è altro da sé: «Il momento speculativo, o il positivo-razionale, concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione; ed è ciò che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso»23. Nel concetto del metodo dialettico hegeliano, questa unità delle determinazioni è tuttavia pensata come un risultato: «Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo»24. Ebbene, a parte ogni considerazione che si può fare sul corto circuito della dialettica hegeliana, che qui va incontro ad una petitio principii25, c’è da osservare che, nel risultato del passare in altro da parte della determinazione isolata (un passare in altro che si risolve nella posizione della relazione per la quale l’essenza riesce ad essere un esser sé) si realizza qualcosa di ulteriore rispetto alla semplice posizione della determinazione, così come qualcosa di ulteriore realizza la operatio secunda intellectus rispetto alla operatio prima intellectus. Date queste premesse, si può dire che la logica sottesa al pensiero di Hegel è per molti versi analoga a quella che regola il pensiero di Aristotele e di Tommaso: istituisce il momento speculativo della Vernunft, analogo alla figura classica della operatio secunda intellectus, quale risultato di un movimento che suppone la precedenza del momento astratto del Verstand, analogo alla dimensione noematica aperta dalla operatio prima intellectus. Anche la Scienza della logica si muove dunque nella prospettiva dell’isolamento perché 22 Ibidem, par. 81. 23 Ibidem, par. 82. 24 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 15. 25 La relazione di cui si afferma l’essere un risultato è quella stessa relazione la cui originarietà viene presupposta nel determinare il contraddirsi dell’intelletto. Sul significato della dialettica hegeliana confronta E. Severino, La struttura originaria, cit., “Introduzione”, par. 5 e cap. ix; Id., Essenza del nichilismo, cit., “Risposta alla Chiesa”, par. vi; Id., Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1978, cap. 2, par. 3.

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concepisce la relazione come un risultato che si raggiunge a partire da una situazione (il terminus a quo, il cominciamento del divenire) che tiene la determinazione chiusa nella posizione astratta dell’intelletto separante. Stante il presupposto dell’isolamento, la determinazione, isolata dal suo “esser sé”, è un nulla. Accade quindi che, nel risultato del divenire (nel terminus ad quem), l’“esser sé” venga predicato di qualcosa cui quell’“esser sé” non può convenire.   11. Il pensiero dell’identità: Aristotele ed Hegel   A proposito della relazione di identità, Aristotele scrive: «Pertanto è chiaro che l’identità è una unità d’essere […] di una sola cosa considerata, però, come una molteplicità: per esempio come quando si dice che una cosa è identica a se stessa, nel qual caso essa viene considerata come due cose»26. Quando si dice A = A accade che ci si serve di uno come se fosse due. In effetti la formula A = A differisce dalla semplice posizione di A e lo A che sta a sinistra del segno di identità differisce dallo A che sta a destra. Il fatto è che, nella posizione dell’identità, i termini in relazione sono due. Tommaso commenta così: «Infatti, la relazione non è intelligibile se non tra due estremi: come quando si dice che qualcosa è identico a se stesso; in effetti, in questi casi l’intelletto si serve di quello che è uno per la cosa come di due»27. Ma dire che per l’intelletto l’uno è due non è forse il segno più scoperto della contraddizione? La posizione dell’identità è forse il luogo in cui si nasconde la contraddizione? La Scienza della logica di Hegel afferma che l’essenza appare a se stessa come identità nel movimento della riflessione in lei stessa28. Questo movimento corrisponde al processo per cui l’essere esce da sé, 26 Aristotele, Metaph., D, 1018 a, 7-9. 27 Tommaso, In Duodecim Libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, n. 912. 28 Cfr. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di C. Cesa, Laterza, RomaBari 1988, La dottrina dell’essenza, sezione prima. La Scienza della logica di Hegel inserisce il tema dell’identità nel contesto della dottrina dell’essenza, la quale si pone come risultato del movimento dell’essere: «Solo in quanto il sapere, muovendo dall’immediato essere, s’interna, trova, per via di questa mediazione, l’essenza» (ibi, p. 433).

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incontra la parvenza del proprio altro e dissolve tale parvenza, perché l’altro qui è l’essere stesso: «Vi è dunque, nella forma della proposizione, in cui è espressa l’identità, più che non la semplice e astratta identità; vi è questo puro movimento della riflessione, movimento in cui l’altro si affaccia soltanto come parvenza, come immediato dileguarsi. A è, è un cominciare, cui sta dinanzi un diverso, al quale si deve riuscire: ma esso non arriva al diverso; A è A; la diversità è soltanto un dileguarsi; il movimento rientra in se stesso»29. Nella posizione dell’identità, il movimento di A, che procede a partire da un A isolato rispetto alla relazione, incontra una parvenza di diversità che nella relazione dilegua, giacché A è A. Ma è proprio così? Non si dovrà dire, invece, che quella diversità resta confermata? Perché si presenta la difficoltà sollevata nel paragrafo precedente, quando si è rilevato che, nel risultato del divenire, il movimento di una qualsiasi determinazione, separata dal suo esser sé, non può che incontrare un altro da sé. Nonostante le apparenze contrarie, lo schema dell’astratta presupposizione del momento noetico rispetto al momento dianoetico si trova anche nella Logica di Hegel nella misura in cui la relazione viene concepita come un risultato – e allora è inevitabile che il primo termine della relazione sia altro da ciò con cui entra in relazione e che pertanto la relazione appaia come l’identificazione dei non identici.   12. Significato concreto dell’identità/non contraddizione   Si è visto che la verità dell’essere è la relazione originaria, l’apparire dell’essente nella forma dell’identità. Ora va precisato il senso della originarietà dicendo che la relazione (proprio perché originaria) non è risultato di un divenire: non il primo in secunda operatione intellectus; è il primo in assoluto. Laddove la determinazione “A” sia isolata rispetto al suo esser sé, allora è necessario che la determinazione, entrando in relazione con sé, entri in relazione con un altro da sé. Al di fuori dell’isolamento che separa la dimensione noetica (semantica) dalla dimensione dianoetica (apofantica), la determinazione “A” non è qualcosa di isolato dal suo esser sé che deve raggiungere l’esser sé nella mediazione del divenir se stessa, ma è già (originariamente) un esser sé. 29 Ibi, p. 462.

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La determinazione A di cui si predica l’esser sé (A = A) è la determinazione A che è un esser sé: (A = A) = A, dove l’esser A che viene predicato è l’esser A da parte di A. L’identità va dunque pensata come identità dell’identità con se stessa. In formula:   (A = A) = (A = A)   L’identità di A con sé è il suo essere altro dal proprio altro: la sua non contraddittorietà. Porre l’identità di A con sé (A = A), senza porre il suo essere altro dal proprio altro (indichiamo con A = nnA questo non essere non-A da parte di A), è lo stesso che porre l’identità con sé di un ente che non è in grado di essere un esser sé, proprio perché non è posto (non appare) il suo esser altro dal proprio altro. Anche qui l’identità dell’identità e della non contraddittorietà va intesa secondo la sua strutturazione concreta perché l’identità di A, di cui si predica l’essere non contraddittorio, è l’identità che è non contraddittoria, dove l’essere non contraddittorio che viene predicato è l’essere non contraddittorio dell’identità. In formula:   [(A = A) = nnA] = [nnA = (A = A)]   Ma l’essere identico a sé e il non essere contraddittorio non è qualcosa che conviene ad A e che non conviene a B a C… L’essere non contraddittorio conviene ad A perché A è un essere e l’essere è identico e non contraddittorio. L’originario del logos è l’universalità concreta dell’essere e cioè l’universale opposizione del positivo e del negativo: non questo modo dell’opposizione (A) piuttosto che quello (B o C…) ma la loro cooriginarietà. Se adesso indichiamo con E la totalità concreta dell’essere, e con E = nnE l’essere che non è non essere, possiamo intendere il senso della formulazione concreta dell’identità:   [(E = E) = nnE] = [nnE = (E = E)]   In quanto inclusivo di ogni essente E significa il non niente che include originariamente l’identità/non contraddittorietà di ogni essente – e quindi anche la propria identità30.

30 Sul tema dell’identità come “identità dell’identità con se stessa”, rinvio a E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. iii.

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13. Aporetica della posizione dell’identità   Si potrebbe obiettare che, se la formula (E = E) va sviluppata nel senso indicato dalla formula [(E = E) = (E = E)], allora, per la comprensione autentica di quest’ultima identità, va pensato uno sviluppo analogo: {[(E = E) = (E = E)] = [(E = E) = (E = E)]} e così via, in indefinitum. È l’obiezione di Tommaso il quale afferma che la relazione di identità non è una relazione reale, relatio realis, ma soltanto di ragione, sed rationis tantum: «Infatti, se la relazione d’identità fosse una cosa che va oltre ciò che si dice identico, anche la cosa che è una relazione, essendo identica a sé, per lo stesso motivo avrebbe un’altra relazione che sarebbe identica a sé; e così all’infinito. Ora, non è possibile che nelle cose si vada avanti all’infinito; però, nelle cose che esistono per l’intelletto, niente lo vieta. Infatti, dato che l’intelletto riflette sul suo atto, coglie la sua attività intellettiva. E può anche cogliere questo stesso fenomeno; e così all’infinito»31. Il rischio paventato da Tommaso è il regressus in indefinitum della posizione del fondamento.   14. Soluzione dell’aporetica   Se consideriamo la relazione di identità (E = E) come un secondo essente rispetto a ciò che si dice identico (E), come un qualcosa che si produce in seconda battuta logica (primato del momento noeticosemantico sul dianoetico-apofantico), è inevitabile che la relazione tra questo secondo essente e il suo essere un essente sia pensata come un terzo essente [(E = E) = (E = E)] e così via, in indefinitum. Sennonché l’essere (E) che è identico a sé (E = E) non è un essere separato dal suo essere identico a sé. Ad essere identico a sé è l’essere che è identico a sé: (E = E) = (E) dove, daccapo, questo esser sé (E) non è un semplice noema ma è, appunto, l’essere dell’essere. In formula: [(E = E) = (E = E)]. L’obiezione muove i suoi passi a partire da una comprensione astratta dell’identità: concepisce in separato i termini dell’equazione e cioè concepisce (E) in separato da (E = E) e concepisce (E = E) in 31 Tommaso, In Duodecim Libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, n. 912.

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separato da [(E = E) = (E = E)]. È perciò inevitabile che, così separati, i termini dell’identità appaiano come enti diversi da porre come identici, mentre si tratta dello stesso ente che si struttura nella forma dell’identità dell’identità con sé. Il regressun in indefinitum non fa che ripetere, in indefinitum appunto, quella astratta separazione rispetto alla quale la posizione autoriflessiva dell’identità è l’originario toglimento.   15. Il significato originario della tautologia   1. Quanto detto a proposito delle relazioni identiche la cui forma generale è “A è A” va ripreso nella considerazione delle relazioni sintetiche la cui forma generale è “A è B”, ad esempio, questo bicchiere è pieno. Il tema richiederebbe una considerazione a parte. Qui mi limito a dire l’essenziale32. L’essere è l’identico, il non contraddittorio. L’essere del bicchiere è l’esser sé del bicchiere. L’essere pieno di questo bicchiere è l’esser sé dell’ente questo bicchiere-che-è-pieno. L’essere pieno non può essere, infatti, qualcosa di separato da questo bicchiere. Separato rispetto a ciò che di esso si predica, questo bicchiere non può essere ciò cui conviene l’essere pieno. Analogamente a quanto stabilito per la relatio identitatis (A = A), diremo che l’esser pieno conviene a questo bicchiere in quanto questo bicchiere sta originariamente in relazione all’esser pieno – e l’esser pieno, a sua volta, non è l’esser pieno che conviene a qualsiasi recipiente riempito d’acqua, ma è l’esser pieno di questo bicchiere. D’altra parte, l’essere pieno di questo bicchiere non può significare un’impossibile identità dell’essere pieno e dell’essere questo bicchiere. Significa invece l’identità con sé di quel complesso semantico che è l’essere questo bicchiere (originariamente in relazione al suo esser pieno), di cui l’essere pieno è una parte. Anche qui si ha a che fare con un’assoluta identità (da intendersi secondo la concreta strutturazione dell’identità) senza che per questo venga sacrificata la complessa articolazione del significato di cui si afferma l’essere sé. Da ciò segue che la forma concreta del pensare che intende l’essere è la tautologia. Non nel senso in cui Hegel afferma che l’essen32 Per approfondire, cfr. E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995, capp. xv e xvi.

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za del metodo dialettico è la tautologia33 perché per Hegel, come s’è visto, l’identità (la verità dell’essere) è risultato di un processo, ma nel senso in cui il pensare non contraddittorio è il pensare la struttura originaria dell’essere, che è identità.   2. L’esser sé dell’ente è l’originario: non è cioè il risultato di un divenire dell’ente. Se l’essente che si considera è questo bicchiere (A), allora ad essere un esser sé non è semplicemente questo bicchiere (A) in quanto “noema” separato dal proprio esser sé (e che attende di venire all’esistenza prima di essere un esser sé), ma è di questo bicchiere-che-è-identico-a-sé (A = A) che si afferma l’esser sé: (A = A) = (A = A). Analogamente, l’affermazione che questo bicchiere (A) è pieno (B) non è una contraddizione solo se esprime l’identità con sé della relazione tra questo bicchiere e il suo essere pieno. In formula: (A = B) = (A = B). Ma tale relazione sarebbe di nuovo una contraddizione se con essa si intendesse affermare l’identità tra quei contenuti non identici che sono l’essere di questo bicchiere (A) e l’essere pieno (B). L’«essere» di A “è” B va invece inteso come significante l’identità con sé tra questo bicchiere (A) e il suo essere identico al proprio “essere insieme” all’esser pieno (B). La formula per esprimere in termini non contraddittori che A “è” B è dunque la seguente:   [A = (essere insieme a B)] = [(essere insieme a B) = A]34. Il dire originario e incontraddittorio (il dire dell’identità) è dunque il dire che dice l’assoluta identità del “soggetto” e del “predicato” – fermo restando che qui il “predicato” non è pensato al modo della logica, ossia come qualcosa di originariamente separato dal “soggetto” e che attende il venire all’essere del “soggetto” per convenirgli, né il “soggetto” va pensato come qualcosa di originariamente separato dal predicato35.

33 «Bisogna […] saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto quello da cui esso risulta; il che è propriamente una tautologia», G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 36. 34 Per la determinazione del senso di questa formula rinvio ai capitoli di Tautótēs già citati nella nota 32. 35 Per la distinzione tra le proposizioni analitiche e quelle sintetiche – distinzione interna alla forma dell’identità – si veda: E. Severino, La struttura

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L’affermazione che ogni ente (ad esempio A) è identico a sé (A = A) e che, proprio perché è identico a sé non è l’altro da sé, ma è identico al suo essere insieme all’altro da sé [(A = insieme a B)], vuol dire che ogni ente è negazione del proprio altro – e non solo del proprio altro in quanto altro positivo (ad esempio B, C…), ma anche del nulla, il che implica l’essere eterno da parte di ogni essente. La tautologia originaria dice cioè l’eternità di ogni ente, di ogni non niente. Pensare che vi sia un tempo in cui l’ente è niente – e con ciò negare che l’ente sia eterno – vuol dire acconsentire all’idea che vi sia un tempo in cui l’ente è niente: significa cioè negare l’esser sé dell’essente36. All’essenza del fondamento appartiene dunque questa implicazione necessaria tra l’apparire dell’esser sé dell’essente e l’apparire del suo essere eterno: è perché l’essere è identico a sé e cioè è se stesso e non un niente, è per questo che si afferma l’eternità dell’ente.   3. Nei prossimi paragrafi vedremo che il fondamento è l’esser sé dell’essente in quanto appare come ciò la cui negazione è autonegazione. L’incontrovertibilità del fondamento è appunto questa sua strutturale relazione alla propria negazione, ossia all’“errore”, come ciò che da sempre è negato dalla verità dell’essere. Ma intanto è chiaro che, se non apparisse che l’ente è eterno, l’essenza del fondamento – e cioè del destino innegabile dell’ente – non potrebbe essere ciò che è in verità: non potrebbe essere l’incontrovertibile. Se non apparisse che l’ente è eterno sarebbe infatti possibile pensare la situazione in cui l’ente è niente ossia è altro da sé – e allora l’identità con sé dell’ente non sarebbe ciò la cui negazione è autonegazione. Ciò significa che l’eternità dell’ente appartiene necessariamente al senso concreto dell’identità dell’ente. Separato dall’apparire dell’eternità dell’ente, considerato cioè come una dimensione indipendente da ciò che esso fonda, il fondamento non sarebbe l’incontrovertibile. Il che significa che l’autentico fondamento è la sintesi (l’unità) del fondamento e del fondato, originaria, cit., Introduzione, par. 2 e i capp. iii, vi, vii, xiii. Gli sviluppi si trovano in E. Severino, Tautótēs, cit., capp. ix ss. 36 È il tema che sta al centro degli scritti di Emanuele Severino e che sarà ripreso nei prossimi capitoli del presente lavoro. Per gli sviluppi del discorso sul versante logico dell’originario si veda, in particolare, il capitolo ii di questa Parte prima.

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sicché l’apparire dell’essente è, da sempre, apparire dell’esser sé dell’essente e quindi della sua eternità. Anche la struttura del divenire inteso come apparire e scomparire dell’ente appartiene necessariamente all’apparire dell’esser sé dell’essente – e a tale apparire appartiene, da sempre, tutto ciò che da esso è necessariamente implicato ossia tutto ciò senza di cui l’esser sé dell’essente non potrebbe essere l’incontrovertibile che pure esso è per essenza.   16. La struttura originaria e la sua negazione   L’essere sé dell’essente (E = E), il suo essere altro da ciò che è altro da sé (E = nnE), non è qualcosa che se ne sta presso di sé, tenendosi isolato dalla negazione della propria negazione. Il destino, ossia la verità dell’essere, è l’apparire della determinatezza dell’essente nella sua relazione al processo di autotoglimento della negazione del destino. Aristotele afferma che necessaria è la determinatezza dell’essente: «È impossibile che allo stesso convenga e non convenga lo stesso [...]. È impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia»37. Questa impossibilità che la cosa sia e non sia lo stesso è appunto la necessità che raggiunge tutti gli essenti e ciascuno di essi. Ma perché il destino non sia solo un nome altisonante di cui è facile riempirsi la bocca, la domanda cui dobbiamo rispondere è questa: perché mai è necessario affermare l’identità dell’essente, il suo essere un essere sé? In che cosa consiste la necessità del destino? Consiste nella sua non negabilità. Il destino è ciò che non può essere altrimenti. Siamo nel cuore del rapporto essenziale tra il destino e l’élenchos. Lasciamo dunque che la negazione, che va presa sul serio, si dispieghi secondo tutta la forza di cui è capace. Che cosa tenta di pensare la negazione? In generale, che un essente è altro da sé. Ad esempio, che il bicchiere è la lampada. Si dirà subito che questa è una stranezza, una di quelle astruserie di cui si occupano i filosofi. Se siamo assetati e dinanzi a noi sta un bicchiere pieno d’acqua, non stiamo certo lì a chiederci se quello è un bicchiere o una lampada, ma prendiamo il bicchiere e ci dissetiamo. 37 Aristotele, Metaph., 1005 b 19-20; 23-24.

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Lo stesso Aristotele ad un certo punto si chiede: perché il negatore del principio di non contraddizione va a Megara e non se ne sta tranquillo a casa sua pensando di camminare? Se non c’è nessuna differenza tra l’andare a Megara e il non andarci, perché il negatore si alza dal letto e si mette in cammino? E perché (l’esempio è sempre di Aristotele) il negatore del principio non si getta in un pozzo o in un burrone, ma si guarda bene dal farlo? Se non c’è alcuna differenza tra gettarsi in un burrone e andarsi a coricare, perché non gettarsi nel burrone? In sostanza Aristotele osserva che lo scettico che pretende di negare la differenza tra le determinazioni, per il fatto stesso di vivere, la riconosce: riconosce, di fatto, ciò che solo a parole nega38. Ebbene, che valore ha questo tipo di confutazione? Dal punto di vista strettamente teoretico l’argomentazione non è affatto stringente. Per accorgersene basta che ci chiediamo che cos’è che appare quando si osserva il comportamento del negatore del principio. Appaiono le azioni che egli compie: il suo alzarsi dal letto, il suo andare a Megara evitando il burrone. Tutto questo fa pensare che, per lui, alzarsi dal letto e andare a Megara non sono la stessa cosa che gettarsi in un burrone. Ma questa è un’interpretazione. Che il negatore riconosca ciò che 38 Cfr. Aristotele, Metaph., 1008 b 14 ss. È la cosiddetta variante pragmatica dell’élenchos. Non si vive a prescindere dalla considerazione della determinatezza dell’ente. Nietzsche farà leva su questo tipo di presentazione del primo principio per sostenerne il carattere falsificante: per un’esigenza di conservazione vitale, e sulla base del processo di assimilazione (che identifica i non identici), il primo principio fissa la stessa e identica cosa e non consente di vedere le differenze sottese al flusso caotico del divenire. Alla base del principio di non contraddizione, inteso come ciò che comanda la costruzione di un mondo vero di enti identici e immutabili, sta qualcosa di più originario: la volontà di sopravvivenza (cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, Adelphi, Milano 1979, fr. 9[97]; Id., Frammenti postumi 1888-1889, Adelphi, Milano 1986, fr. 14[152]). Quando Habermas propone una fondazione di tipo pragmatico-trascendentale dei principi della morale, costruisce elencticamente la sua argomentazione (cfr. J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma Bari 1985). Sostiene che chi nega i principi della morale, per il fatto stesso di partecipare alla comunicazione e al dialogo (per il fatto stesso di partecipare all’argomentazione e di essere inserito in una comunità di parlanti), deve presupporre certi principi che sono riconducibili ai principi fondamentali della morale: deve, ad esempio, accettare che ogni proposta possa essere messa in discussione e deve riconoscere all’altro la possibilità di esprimere il proprio parere senza costrizione.

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egli nega a parole, per il modo in cui conduce la sua vita, questa è un’interpretazione e ogni interpretazione è un che di problematico39. Poiché abbiamo preso l’impegno di dare alla negazione tutto lo spazio di cui ha bisogno per portare il suo assalto al destino, lasciamo che rilanci la sua sfida. Dal punto di vista del senso comune, ciò potrà sembrare follia, ma può forse la verità dell’essere farsi scudo del senso comune? può dire al senso comune: «Affido a te la soluzione del problema, pensaci tu»? In fondo resta ancora da capire perché la lampada è diversa dal bicchiere, perché il gettarsi nel burrone è altra cosa dal non gettarsi. Lasciata libera di attaccare su tutti i fronti, la negazione ci pone dinanzi a questa difficoltà ineludibile.   17. Élenchos: autotoglimento della negazione dell’opposizione universale   1. Prendere la negazione sul serio vuol dire, innanzi tutto, lasciare che essa dichiari la propria intenzione per valutarne la consistenza teorica. Ciò che essa intende contestare è il valore dell’opposizione universale del positivo e del negativo. Sennonché, per dichiarare la propria intenzione, è necessario che la negazione significhi appunto quella intenzione e non altro, distinguendo la positività dei propri asserti da tutto ciò che è altro da quella positività. L’élenchos è precisamente il rilevamento di questa necessità che investe la stessa negazione. Collocando l’élenchos in un contesto dialogico, Aristotele scrive: «Il punto di partenza […] non consiste nell’esigere che l’avversario [del primo principio] dica che qualcosa è (egli, infatti, potrebbe su39 Se volessimo spingere fino in fondo il discorso, potremmo dire che è un’interpretazione anche l’affermazione dell’esistenza di una dimensione intersoggettiva per cui diciamo che vi sono più coscienze in relazione, compresa quella dello scettico. Se per coscienza intendiamo l’ambito della vita interiore che trasborda rispetto a tutto ciò che del comportamento dell’altro appare, allora l’esistenza di questa ulteriorità è qualcosa di problematico. An vero etiam hoc vides animo tuo, quod in animo agitur alieno? (Agostino, De fide rerum quae non videntur, 1.2). Che esista questa ricchezza sovrabbondante, eccedente rispetto a ciò che appare del cosiddetto comportamento altrui, tutto questo non può risultare da una semplice ricognizione fenomenologica.

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bito obiettare che questo è già un ammettere ciò che si vuol provare), ma che dica qualcosa che abbia un significato e per lui e per gli altri; e questo è pur necessario se egli intende dire qualcosa»40. Il negatore non può essere indifferente a che la sua negazione sia negazione, proprio perché egli intende dire qualcosa. Concedendo questo, egli riconosce la necessità dell’essere determinato del proprio dire. Ma la necessità della determinatezza dell’ente (del suo esser sé) è appunto ciò che manifesta la struttura originaria del logos: «Proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale del ragionamento»41. La negazione deve significare qualcosa, ma la negazione della determinatezza del determinato è un che di determinato: «Infatti, non si può pensare nulla se non si pensa una determinata cosa»42. Se vuol essere negazione del determinato, la negazione deve opporsi a tutto ciò che non è e non significa la negazione del determinato. Deve quindi (se vuol essere negazione) tenere ferma la determinatezza in cui consiste il suo positivo significare. Negando l’opposizione del positivo e del negativo, la negazione del determinato nega quindi se stessa perché di quella opposizione essa è una individuazione: negando l’universalità dell’opposizione, di cui essa è individuazione, la negazione fonda se stessa su una parte (individuazione) di ciò che essa nega e proprio per questo essa consiste nella dichiarazione della propria inesistenza, proprio perché nega ciò senza di cui essa non è43.

40 Aristotele, Metaph., 1006 a 18-22. 41 Ibi, 1006 a 26. 42 Ibi, 1006 b 10. 43 Chi nega il principio di non contraddizione nega la determinatezza del determinato, nega cioè quella determinatezza che è protetta dal principium firmissimum. A questo punto si inserisce l’élenchos perché si osserva che la negazione della determinatezza del determinato, per poter negare, deve essere negazione determinatamente significante: questa stessa negazione è cioè un che di determinato. La conclusione di Aristotele è la seguente: se uno non vuole essere come un “tronco” e vuol dire qualcosa di determinato, allora, con questo suo dire qualcosa di determinato, ha già detto qualcosa che si distingue dal proprio altro. La necessità dell’essere determinato dell’essere investe la stessa negazione: chi dice che l’essere è contraddittorio, così dicendo, non intende dire che il bicchiere sta sopra il tavolo o che la lampada è accesa, ma appunto che l’essere è contraddittorio. Se la negazione non fosse un che di determinato (se non fosse identica a sé) non sarebbe neppure negazione.

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2. Nel capitolo IV della Metafisica, Aristotele configura il rapporto tra la verità e l’élenchos nei termini della situazione dialogica tra due interlocutori e cioè nei termini del rapporto tra il “filosofo” che tiene ferma la verità e il “negatore” del principio di identità/non contraddizione. Ma s’è già detto che l’esistenza di una situazione dialogico/intersoggettiva non è affatto qualcosa di fenomenologicamente attestato: fenomenologicamente attestata è la “fede” nell’esistenza di una molteplicità di “soggetti”. S’è anche detto che l’errore appartiene, come negato, all’essenza della verità: se infatti non apparisse l’errore, la verità non sarebbe ciò che pure essa è incontrovertibilmente e cioè l’apparire della negazione dell’errore. Ciò significa che l’apparire della negazione della verità non è un che di accidentale rispetto al quale la verità possa restare indifferente e che dunque l’élenchos non è qualcosa che si fa innanzi se e quando si fa innanzi il negatore. Autentico “dialogo” è quello intercorrente tra la verità e la negazione della verità – e l’élenchos è appunto l’apparire di tale originaria relazione44.   18. Élenchos: autotoglimento di ogni tipo di negazione dell’opposizione   Ferma restando la necessità che la negazione si opponga al proprio negativo, alla negazione resta però una possibilità di replica: in fondo, le basta negare l’opposizione tra due determinazioni particolari del positivo e dire, ad esempio, che il bicchiere è la lampada. In questo caso ciò che si nega non è l’opposizione universale (di cui la negazione è un caso particolare), ma l’opposizione tra due determinazioni qualsiasi del positivo.

44 La trattazione insuperata dell’élenchos si trova in E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., Ritornare a Parmenide, par. 6 e Poscritto, Nota. Ma vedi anche, dello stesso autore, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, cap. iv e Tautótēs, cit., parr. xxiv-xxvii. Per approfondire: E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, cap. iv, parr. ii e iii e Id., La morte e la terra, cit., cap. i, parr. v-vi e cap. ii. In tutti questi testi la struttura dell’élenchos viene considerata a partire dalla sua capacità di distinguersi dal contesto intersoggettivo in cui si trova invece calata nella trattazione aristotelica.

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Chiediamoci dunque che cosa accade quando si provi a pensare che il bicchiere è la lampada, ponendoci così sul piano della logica della negazione e lasciando da parte il senso comune, che potrà anche essere buon senso, ma che adesso deve fare un passo indietro, perché il destino non può consegnare al senso comune la saldezza che gli è propria, il suo essere firmissimum sive certissimum. Se con la identificazione del bicchiere e della lampada l’intento fosse quello di dire che “bicchiere” e “lampada” sono due parole diverse che significano lo stesso, non saremmo alle prese con la negazione del principio, ma con una situazione di sinonimia, e la negazione avrebbe tutte le ragioni di protestare che non la si sta prendendo sul serio: essa infatti vuole pensare l’identità del bicchiere e della lampada. A fronte di questo rilancio, prendiamo l’iniziativa e chiediamoci a quale condizione può darsi qualcosa come una negazione del primo principio. Formuliamo la domanda così: «Se apparisse il bicchiere ma non apparisse alcuna differenza tra il bicchiere e la lampada, avrebbe senso qualcosa come la negazione della differenza? Avrebbe senso la negazione in questa situazione in cui la differenza di quei differenti che sono il bicchiere e la lampada non apparisse in alcun modo?». La risposta non può che essere un secco no! La negazione impegna tutta la sua carica negativa nel tentativo di negare la differenza dei differenti e tuttavia, se la differenza non apparisse, se non stesse lì dinanzi alla negazione, dicendo che “il bicchiere è la lampada” non avremmo a che fare con la negazione della differenza, ma con l’affermazione dell’esser sé di un certo ente. Il che significa che la negazione ha bisogno della differenza per la sua stessa formulazione. Se infatti la differenza non apparisse in alcun modo, che cosa negherebbe la negazione? Il passaggio è cruciale perché stabilisce che la negazione, per essere se stessa, e cioè per essere negazione della differenza, suppone l’apparire della differenza. Ma che cos’è l’apparire della differenza se non l’apparire della determinatezza della differenza ossia l’apparire dell’esser sé dell’essente? La differenza (determinatezza) dell’ente sta dunque al fondamento della stessa volontà di negare la differenza: non nel senso che lascia essere la negazione, ma nel senso che la negazione può essere solo se afferma ciò che nega. Negando ciò senza di cui non potrebbe esistere, la negazione nega se stessa. L’apparire della differenza è ciò senza di cui non si costituirebbe nessun pensiero, neppure il pensiero della negazione.

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In questo modo si è accertato che, quale che sia l’opposizione di cui si tratta e cioè, sia che si neghi l’opposizione universale del positivo e del negativo, sia che si neghi l’opposizione tra due determinazioni particolari, la negazione della differenza implica l’apparire della differenza: si fonda su ciò che nega e perciò nega se medesima. Tale negazione consiste nell’ammissione della propria inesistenza45.   19. Aporetica del fondamento   La difficoltà che ora si fa innanzi è quella cui ho fatto cenno nel par. 2 a proposito del rapporto tra il fondamento e l’élenchos. L’élenchos è un complesso di determinazioni e di nessi formalmente distinto dalla posizione del primo principio. L’affermazione che l’essente è determinato, cioè è identico a sé e altro dal proprio altro, differisce dal campo semantico-apofantico costituito dalla formulazione dell’élenchos nelle due figure sopra considerate. La prima formulazione si riferisce alla negazione dell’opposizione universale e si articola in due asserti: [I1] “la negazione del determinato è un determinato” e [I2] “la negazione del determinato è negazione di quel determinato che è la negazione stessa” e quindi è negazione di sé.

45 La negazione della differenza deve essere affermazione di ciò che nega e proprio nella misura in cui lo nega. Si potrebbe obiettare che anche la verità, in quanto negazione della propria negazione, e cioè in quanto negazione dell’identità del positivo e del negativo, implica l’apparire dell’identità del positivo e del negativo – e che quindi la verità si fonda sulla non-verità. Ma la situazione logica è differente perché è vero che la nonverità, per essere negata, deve apparire ed essere, ma ciò accade su un piano diverso da quello in cui essa non è. L’identità del positivo e del negativo è infatti sì presupposta (e quindi esistente), non però come identità del positivo e del negativo, bensì come positività significante. In generale: l’identità degli opposti, che la negazione della verità intende affermare, è un niente; la negazione dell’opposizione non è, invece, un niente, ma è un intenzionare il niente, ossia l’identità degli opposti la quale, in quanto pensata, è un positivo significare: pensare il nulla, non è lo stesso che non pensare nulla. Si ripresenta qui l’aporetica del nulla (vedi supra, nota 1) determinata dalla circostanza per cui il nulla si pone come un pensato e cioè si costituisce come un qualcosa.

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Questa prima figura dell’élenchos si esercita, come s’è visto, rispetto alla negazione che si pone come momento (individuazione) di ciò che essa nega. La seconda formulazione si riferisce alla negazione dell’opposizione tra due determinazioni particolari del positivo e si articola anch’essa in due asserti: [II1] “la negazione della differenza include la differenza” e [II2] “la negazione della differenza è negazione della differenza che è inclusa nella negazione” e quindi è negazione di sé. Questa seconda figura dell’élenchos ha, come s’è visto, una maggiore portata rispetto alla prima perché mostra come la negazione si fondi simpliciter su ciò che essa nega: quale che sia il termine che la negazione ha di mira (si riferisca cioè all’opposizione universale del positivo e del negativo oppure si limiti a negare l’opposizione di questo o di quel positivo) si rileva che la negazione deve comunque opporre il positivo e il negativo. Chiamiamo F il complesso in cui consiste il fondamento e chiamiamo NNF il complesso in cui consiste l’élenchos, che è negazione della negazione del fondamento. Abbiamo visto che NNF è quanto si richiede affinché F appaia come il non controvertibile, dal momento che F è tale solo nella misura in cui sta in relazione a NNF, che è la manifestazione dell’autotoglimento della negazione di F. I due volumi semantico-apofantici sono formalmente distinti: “esser sé dell’essente” non significa “negazione della negazione di F”. D’altra parte, F richiede NNF perché un fondamento, che non appaia secondo la forma della non controvertibilità, è un fondamento controvertibile, negabile. Ma dire che l’originario rinvia al complesso volume di significati in cui l’élenchos consiste non vuol dire forse che l’originario è fondato sull’articolato concettuale dell’élenchos? Se facciamo a meno dell’élenchos, il senso del destino resta campato per aria. Se introduciamo l’élenchos, sembra si debba dire che il destino (l’originario) non è il destino e che il fondamento autentico è ciò cui il fondamento rinvia, ossia l’élenchos. Dopodiché si dovranno chiedere le ragioni per cui si afferma l’élenchos arretrando in indefinitum nella ricerca del fondamento.  

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20. La struttura dell’élenchos   Per la soluzione dell’aporetica occorre che si analizzi più a fondo il rapporto tra il fondamento e l’élenchos. Si vedrà che alla base della difficoltà sta, anche in questo caso, una considerazione astratta dei termini in questione. Torniamo alla prima figura dell’élenchos. Il suo primo asserto [I1] dice che “la negazione del determinato è un determinato”. Il soggetto di questa proposizione, “la negazione del determinato”, è la negazione del primo principio; è quel dire a proposito del quale si è riconosciuta la necessità che sia un che di determinato: se vuole essere negazione, deve stare presso di sé, e cioè deve essere altro da ciò che è altro da sé. Se chiamiamo N questo essere determinato della negazione, possiamo trascrivere [I1] in questo modo:   N=N   che significa: quella certa determinatezza, che è la negazione del determinato, è una determinatezza, ossia è un esser sé. Il primo asserto della prima figura dell’élenchos è dunque un’identità, una non contraddizione: dice l’essere determinato di quella certa determinatezza che è la negazione della determinatezza. Ma ciò vuol dire – e qui sta tutto il punto della questione – che l’essere determinato della negazione, così come l’esser sé del bicchiere o della lampada, è una individuazione dell’opposizione universale del positivo e del negativo. L’élenchos non è altro dall’identità perché è costituito di identità. Se andiamo un po’ più a fondo nell’analisi dei suoi asserti, scopriamo che si tratta di individuazioni dell’identità. Il secondo asserto della prima figura [I2] dice che “la negazione del determinato è negazione di quel determinato che è la negazione stessa” e quindi è negazione di sé. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un’assoluta identità del soggetto e del predicato perché, anche qui, va tenuto fermo quanto guadagnato in precedenza a proposito della necessità che il pensare e il dire si presentino nella forma dell’assoluta identità. Se chiamiamo N la negazione del determinato e N(n) la negazione di quella individuazione del determinato che è la negazione stessa, allora il soggetto di questo secondo asserto della prima figura

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non è la semplice negazione del determinato isolata da quella individuazione del determinato che è la negazione stessa, ma è la stessa sintesi in cui consiste il predicato sicché [I2] può essere trascritto così:   N(n) = N(n)   che significa: la negazione del determinato, nella sua originaria sintesi con quell’individuazione del determinato che è la negazione stessa, è identica a sé e altro dal proprio altro. Ancora un’identità, un’individuazione dell’originaria identità e non contraddizione che manifesta l’autotoglimento della negazione dell’identità.   Passiamo alla seconda figura dell’élenchos. Il suo primo asserto [II1] dice che “la negazione della differenza include la differenza” ossia che la differenza inclusa nella negazione è differenza. Se chiamiamo (d⊂N) questo essere inclusa della differenza nella negazione e (d) la differenza, allora il predicato non può essere soltanto l’affermazione della differenza, ma è la differenza in quanto appare inclusa nella negazione. In formula: (d⊂N) = (d⊂N) che significa: la negazione includente la differenza è l’apparire della differenza come ciò che è originariamente incluso nella negazione. Ad essere pensata è l’assoluta identità del soggetto e del predicato per cui appare la necessità dell’apparire della differenza. Siamo nuovamente dinanzi ad una individuazione dell’identità. Il secondo asserto della seconda figura [II2] dice infine che “la negazione della differenza è negazione della differenza che è inclusa nella negazione” e dunque è negazione di sé. Se chiamiamo N la negazione della differenza e N(d1⊂N) la negazione di quella specificazione della differenza che è inclusa nella negazione, il soggetto N non può essere qualcosa che attende il sopraggiungere di quella specificazione (d1⊂N), ma è la stessa relazione originaria di N e di (d1⊂N). In formula: N(d1⊂N) = N(d1⊂N)

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che significa: la negazione della differenza, inclusa nella negazione, è quell’assoluto essere identico a sé ed esser altro dal proprio altro per cui si accerta che la negazione della differenza nega il proprio fondamento (l’apparire della differenza) e quindi nega se stessa46.  21. Nota: l’élenchos della negazione della presenza   Nel par. 4 ho detto che la negazione della presenza dell’essere è non solo in contraddizione con la presenza dell’essere, ma anche qualcosa di intrinsecamente contraddittorio. In effetti, per negare ciò che appare è necessario che la negazione si riferisca alla concreta configurazione della presenza sicché la negazione nega se stessa, perché nega ciò da cui è costituita. La negazione della presenza si realizza come autocontraddizione perché ciò che viene negato (l’essere di “x” che appare nel cerchio dell’apparire), per essere negato è necessario che appaia nella negazione di esso: la negazione (dell’essere o dell’apparire di “x”) può realizzarsi solo se implica quello stesso che nega sicché, da capo, tale negazione si presenta come autonegazione. L’élenchos che si rivolge alla negazione della determinatezza dell’essente si rivolge dunque anche alla negazione della presenza degli essenti. In quanto apparire della negazione della negazione della presenza, l’élenchos non è qualcosa di esterno alla presenza ma è una individuazione dell’apparire dell’essente – inteso, tale apparire, quale tratto comune di tutto ciò che appare.   22. Soluzione dell’aporetica del fondamento   Da quanto precede è emerso che l’élenchos è una individuazione dell’universalità dell’essere sé dell’essente ossia dell’universalità dell’opposizione del positivo e del negativo. D’altra parte, l’universalità dell’essere identico e non contraddittorio non può essere qualcosa di isolato ossia di indipendente dall’individuazione in cui l’élenchos consiste. L’élenchos è infatti l’apparire dell’incontrovertibilità dell’essere sé e l’essere sé dell’essente appare come incon46 Per lo sviluppo più analitico della considerazione dell’élenchos e delle sue figure rinvio ai testi di E. Severino citati nella nota 44.

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Sulla verità originaria

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trovertibile perché appare l’élenchos, che è una determinata individuazione dell’essere sé. A questo punto va richiamato quanto già detto a proposito del senso dell’essere, e cioè che non è l’astratta identità dell’essere puro e indeterminato. La formula (E = E) non significa l’essere sé di un essere separato da ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo, conosciamo. Separato dalle sue determinazioni (al modo dell’essere di Parmenide che ritroviamo nella prima triade della logica di Hegel) l’essere è l’essere di niente, cioè niente di essere. Del pari, l’identità/non contraddittorietà dell’essere, separato dalle sue concrete determinazioni, è l’identità/non contraddittorietà di nulla, cioè un nulla. In breve: l’essere di cui ci stiamo occupando è un universale concreto che include tutto ciò che è e quindi anche tutto ciò che appare nella sua determinatezza e che sopraggiunge nel cerchio trascendentale dell’apparire47. L’originarietà del logos è l’universale concreto dell’opposizione del positivo e del negativo rispetto alla quale concretezza l’essere del bicchiere e l’essere della lampada sono delle parti. L’essere identico a sé e non contraddittorio dell’essere è dunque il proprium che si riferisce alla determinatezza di ogni essente – il quale essente appartiene all’originarietà del logos nella misura in cui non è separato dall’universalità dell’opposizione. E il destino, che è l’apparire dell’essere sé dell’essente, è autenticamente destino solo in quanto include originariamente quella individuazione che è l’élenchos. Con ciò siamo alla soluzione del problema: non è vero, infatti, che il destino sia fondato su altro perché esso, che è il fondamento, è la sintesi originaria dell’essere sé non contraddittorio e dell’élenchos, che è l’apparire della incontrovertibilità dell’essere sé. Gli asserti, da cui l’élenchos è costituito, sono individuazioni dell’identità e della non contraddittorietà dell’essere. Ma tale identità e non contraddittorietà è l’originario del logos in quanto esso è l’universale 47 Per inciso, va detto che il sopraggiungere (e il dileguare) delle determinazioni nell’orizzonte trascendentale dell’apparire è segno della disequazione della struttura originaria rispetto alla totalità del reale la quale, proprio perché totalità del reale, è impossibile che sia ciò rispetto a cui qualcosa sopraggiunge (o dilegua). Il senso di questa impossibilità non va cercato in un contesto che sia altro da quello aperto dalla struttura originaria, che istituisce il senso originario della necessità.

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Al cuore del destino

concreto, ossia la relazione originaria dell’universale e delle sue individuazioni. Analoghe considerazioni si possono ripetere a proposito dell’élenchos della negazione della presenza dell’essere: anch’esso è infatti parte dell’universalità concreta della presenza e individuazione della presenza intesa come essenza universale presente in tutto ciò che è presente. Ma l’élenchos della negazione dell’identità e l’élenchos della negazione della presenza sono due aspetti della originarietà dell’élenchos che si relaziona alla valenza logica e a quella fenomenologica del fondamento. Per esigenze espositive, il linguaggio presenta prima l’universalità dell’esser sé e poi fonda su di essa l’élenchos. Ma, in verità, l’élenchos appartiene a quella che abbiamo chiamato dimensione persintattica: appartiene cioè alla struttura originaria del destino.

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II

     

Sul versante logico della struttura originaria

L’intero semantico e le sue parti. Note su Le radici forti del pensiero debole di Gianfranco Basti   L’eternità dell’ente implica che tutto ciò che incomincia e cessa di apparire sia già prima del suo comparire e sia ancora dopo il suo scomparire. Il divenire degli enti non comporta infatti alcun incremento o decremento dell’essere – neppure di quell’ente che è l’apparire dell’ente che incomincia e cessa di apparire. La totalità di ciò che appare nello sguardo trascendentale dell’apparire non è dunque la totalità assoluta degli essenti – in tal caso, infatti, ciò che sopraggiunge e dilegua, e che quindi incomincia ad apparire e cessa di apparire, sarebbe qualcosa che incomincia ad essere e cessa di essere. Da ciò segue che l’apparire attuale dell’essere incontraddittorio, in cui consiste la struttura originaria, è un trovarsi in contraddizione: in quanto posizione finita del Tutto, ciò che viene posto come il Tutto degli enti non appare infatti nel pieno della concretezza semantica che al Tutto compete. Ma, poiché l’essere è incontraddittorio, è necessario che la totalità delle contraddizioni del finito siano risolte nella totalità assoluta dell’essere che non lascia alcun essente al di fuori di sé – e cioè nell’apparire infinito del Tutto. La dimensione che include la totalità degli essenti include anche la totalità degli essenti che appaiono: ciò che qui ed ora appare e si manifesta appartiene necessariamente alla totalità assoluta dell’ente, diversamente la totalità degli enti che appaiono nel cerchio finito dell’apparire conterrebbe una positività che non appartiene alla totalità assoluta del positivo. Nel testo che segue si espone e discute la critica di Gianfranco Basti al concetto di Totalità cui fanno riferimento gli scritti di Emanuele Severino – scritti ai quali si ispira il contenuto dei testi raccolti in questo volume – e vengono approfonditi alcuni dei temi affron-

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Al cuore del destino

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tati nelle pagine precedenti, soprattutto in relazione alle implicazioni logiche del discorso.   A. Esposizione della tesi di G. Basti   1. L’infinito attuale e la struttura originaria del nichilismo   Nel testo L’alienazione dell’Occidente Cornelio Fabro, ex Definitore del Sant’Uffizio, ebbe a scrivere che nella filosofia di Emanuele Severino la struttura originaria «è senz’altro il pendant speculativo [...] della distinzione tomistica di essentia e di esse, che è la fondazione e la formula speculativa della Diremtion metafisica ossia della distinzione radicale e della dipendenza totale della creatura dal creatore. Perciò Severino – con estrema coerenza – afferma contro la distinzione reale tomistica, l’identità perfetta di essenza e di esistenza»1. Difensore del “tomismo essenziale” (centrato appunto sulla distinzione reale fra essenza e atto di essere), Fabro aveva riconosciuto che la posizione di Severino rappresenta la formula più radicale e più coerente di un pensiero che, rispetto al “centro specifico” del tomismo, si pone nella lontananza più estrema2. In un libro intitolato Le radici forti del pensiero debole, Gianfranco Basti3 ha sviluppato la critica di Fabro in una direzione del tutto originale: interrogandosi sulla natura del nichilismo e delle sue ma1 C. Fabro, L’alienazione dell’Occidente (osservazioni sul pensiero di E. Severino), Quadrivium, Genova 1981, p. 94. A proposito delle critiche mosse da Fabro, si veda E. Severino, Risposta alla Chiesa. In Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 317-387. 2 Sui tratti del “tomismo essenziale” o “tomismo originario”, cfr. C. Fabro, Per un tomismo essenziale. In Id., Tomismo e pensiero moderno, Ed. della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, pp. 1-19. 3 Il testo Le radici forti del pensiero debole, il poligrafo, Pontificia Università Lateranense, 1996 (d’ora in poi, Le radici forti), contiene due saggi: il primo, di G. Basti, è intitolato: Per una lettura tomista dei fondamenti della logica e della matematica; il secondo, di A. Perrone, è intitolato: Verso una teoria “dinamica” della computazione (e contiene una prima formalizzazione assiomatica della teoria tomista del numero). Nelle pagine che seguono, prenderò in considerazione il primo dei due saggi (quello di Basti), perché è in esso che si gettano le basi filosofiche di ogni possibile approccio tomista (neo-tomista) al problema dei fondamenti dell’induzione e del concetto di numero.

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Sul versante logico della struttura originaria

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nifestazioni più attuali – le varie forme del “pensiero debole” –, ne ha individuato le “radici forti” nell’affermazione dell’esistenza di totalità assolute dove tutti gli enti e tutte le relazioni sono già completamente determinate nella loro positiva diversità. Più precisamente, nell’affermazione di quell’“infinito attuale” che il pensiero logico-matematico ha posto in modo del tutto esplicito con G. Cantor (il matematico tedesco fondatore della teoria degli insiemi), e le cui antinomie ha cercato di risolvere con un approccio di tipo assiomatico ai fondamenti4. La tesi del nostro autore è che la totalità eterna degli enti a cui si rivolge il pensiero di Severino sia esposta alle medesime contraddizioni che derivano dalla posizione cantoriana dell’“infinito in atto”. Lungi dall’essere la “struttura originaria” della verità (e dunque la negazione più perentoria del nichilismo), quella espressa negli scritti di Severino sarebbe invece la stessa “struttura originaria” del nichilismo. Basti ritiene allora che, per uscirne e per impostare in una direzione completamente nuova lo stesso sapere della fisica e della matematica, sia necessario negare, insieme a Tommaso, ogni “infinito attuale” (ossia ogni collezione attualmente infinita di oggetti e di relazioni), sulla base di una metafisica della differenza reale essere-essenza e della loro reciproca determinazione nella costituzione di ogni ente che non sia Dio5.

4 La negazione dell’esistenza di verità autoevidenti, definitive, e la riduzione degli “assiomi” a semplici ipotesi che vanno sempre più liberandosi dalla presenza della metafisica, abbandonando ogni pretesa di assolutezza, è uno degli aspetti più rilevanti della negazione degli immutabili ad opera del sapere fisico-matematico contemporaneo. 5 Scrive Tommaso: «è evidente che il primo ente, che è Dio, è atto infinito, cioè avente in sé tutta la pienezza dell’essere non contratta ad alcuna natura né di genere, né di specie [...]. Pertanto ogni ente che è dopo il primo ente, poiché non è il suo essere, ha l’essere ricevuto in qualcosa [l’essenza] per mezzo della quale lo stesso essere viene contratto: e così in ogni ente creato, altra è la natura della cosa che partecipa dell’essere, altro è lo stesso essere partecipato [...]. Quindi è necessario che l’essere partecipato in ciascheduno si relazioni alla natura partecipante come l’atto alla potenza» (Q. de Spir. Cr., 1). Su questa concezione del rapporto essere-essenza (dove l’atto dell’essere è estrinseco all’essenza, essendo partecipato da una Causa esterna all’esistente, ma non è estrinseco al soggetto concretamente esistente, essendo l’atto formale ultimo dell’essenza di quell’ente al quale esso dà la sua ultima specificazione) ruotano tutte le considerazioni di Basti che ritiene di poter fondare (contro Severino) e in termini

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Al cuore del destino

«Sarà dunque molto interessante per noi – afferma Basti nell’Introduzione generale de Le Radici forti – presentare la teoria tomista in contrapposizione all’approccio di Emanuele Severino che invece pretende di superare il convenzionalismo delle teorie assiomatiche proprio riproponendo l’identità reale essere = essenza, cercando di integrare l’istanza dell’assoluta positività dell’“essere-incontraddittorio” parmenideo con quella della positività relativa dell’“esserediverso” platonico. E Severino fa questo, senza essersi avveduto che le diverse assiomatizzazioni della teoria degli insiemi proposte in questo secolo sono nate precisamente per limitare in qualche modo i danni delle antinomie legate alla nozione parmenidea-platonica di Totalità Assoluta ed auto-consistente dove tutto è definito […] che un simile tentativo, già perseguito da Cantor più di un secolo fa, irrimediabilmente implica. In una parola, pensando di “superare” il nichilismo, la teoria severiniana ne mostra invece la più intima radice: il tentativo di mettere d’accordo istanza parmenidea (positività dell’essere) e istanza platonica (positività dell’essenza) senza passare per l’istanza tomista che lega in una relazione di mutua determinazione per ciascun ente le due attraverso la nozione di partecipazione dell’essere (differenza reale e quindi mutua determinazione fra attualità dell’essere e potenzialità dell’essenza in tutti gli enti, in funzione di una dipendenza reale (partecipazione dell’essere), comune ed ultima di ambedue, dall’Essere-per-essenza)»6. Il ritorno a Tommaso (e alla dottrina della distinzione reale essere-essenza) consentirebbe dunque di superare il nichilismo negandone il presupposto più “forte”, quello cioè dell’Uno parmenideo-platonico che Severino avrebbe portato alla coerenza più dispiegata. La metafisica tomista della differenza reale tra essenza e atto di essere (e della loro mutua determinazione) sarebbe inoltre in grado di aprire la strada per uno sviluppo futuro del sapere scientifico. Di contro alle tendenze convenzionalistiche della logica matematica (e la conseguente riduzione dell’oggettività del linguaggio scientifico alla sua intersoggettività e coerenza interna), Basti afferma che è necessario tornare al realismo della filosofia di Tommaso, per cui gli assiomi della logica e delle scienze sono sempre derivati dall’oggetto (la res cui le procedure deduttive devono applicarsi). «Occorre

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non contraddittori la nozione di contingenza dell’ente. Vedremo più avanti se ciò sia davvero possibile. G. Basti, cit. p. 38.

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cioè – scrive Basti – che il sistema formale che costituisce il cuore della dimostrazione scientifica, ovvero della sua interna logicità, sia “semantico” per sua intrinseca struttura [... Ma affermare questo] significa accettare, che se ne sia consapevoli o meno, il cuore della logica tomista fondata sull’affermazione che l’identità logica della predicazione per sé di un assioma – ovvero quella predicazione in cui si afferma l’immediata reciproca appartenenza del predicato P al soggetto S, ed in cui ogni altra forma di predicazione ha da essere ultimamente risolta, in ogni procedura dimostrativa o “scientifica” – si giustifica ultimamente per riferimento alla res, all’oggetto reale R definito mediante l’enunciato assiomatico: S = P»7. In altri termini, prosegue il testo, si tratta di comprendere che «la definizione degli assiomi propri (o “per sé immediati e in sé noti”) di una procedura dimostrativa […] non sono aprioristicamente e dunque ipoteticamente fondati in Tommaso. Infatti per Tommaso la ridefinizione del “genere astratto” sulle specificità di determinati oggetti non è ottenuta mediante l’aggiunta ipotetica di assiomi ad hoc che determinano le specificità ulteriori appartenenti a quel genere. Né Tommaso suppone che un “genere” contenga in maniera definita sebbene implicita tutte le ulteriori “possibili” specificazioni che gli appartengono. La specificazione viene ottenuta mediante una procedura di ridefinizione dell’enunciato generico sull’unità specifica dell’oggetto, così che Tommaso può affermare che le ulteriori differenze sono contenute in maniera indefinita (in potenza passiva, dice Tommaso) in esso. Esse vengono attualizzate ogni volta che ve ne sia bisogno dalla specificità (potenza attiva) dell’ente individuale che si sta definendo»8. La giustificazione ultima (metafisica) di questa teoria tomista dei fondamenti della logica sta dunque sempre nella teoria della differenza reale essere-essenza ovvero in quella negazione (ne Le radici forti si dice: superamento) dell’identità parmenidea (severiniana) essere = essenza che è, a parere di Basti, «la radice di tutte le antinomie in metafisica, in logica ed oggi in quel particolare approccio ai fondamenti della logica e della matematica che va sotto il nome di teoria degli insiemi»9.   7 8 9

Ibi, p. 36. Ibi, pp. 36-37. Ibi, p. 37.

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2. Nota: la matematica e l’infinito attuale   A proposito della crisi dei fondamenti della matematica, la tesi sostenuta ne Le radici forti si può esprimere in questo modo: alla base del pensiero logico-matematico del nostro tempo agisce l’articolo di fede parmenideo-platonico per cui «tutto ciò che è non-contraddittorio (o come pensabile o come costruibile, dunque come possibile) esiste»10. Cantor aveva già scoperto che la nozione di totalità assoluta in quanto insieme (o “intero” o “collezione assoluta”) produce contraddizione11. Aveva scoperto che questa “totalità unitaria” (cui tutte le entità matematiche e dunque tutti gli insiemi devono appartenere) non era determinabile matematicamente né poteva essere a sua volta un insieme12. Secondo Basti «Cantor non è così distante da von Neumann [matematico ungherese sostenitore di un approccio assiomatico alla teoria degli insiemi], come di solito si pensa. La sua assoluta genialità, universalmente riconosciuta in matematica solo dopo Hilbert, aveva già compreso il nucleo di ogni antinomia. Allo stesso tempo la sua distanza assoluta da von Neumann dipende dal fatto che la fondazione delle collezioni assolute non è assiomatica, ma metafisica»13. In effetti è «un non piccolo indizio della grandezza di 10 Ibi, p. 207. 11 L’insieme potenza (ossia l’insieme dei sottoinsiemi) di un insieme A, ha numero cardinale maggiore di A e dunque contiene A come suo proprio elemento. Di qui l’antinomia dell’insieme potenza. E infatti: l’insieme potenza P(U) dell’insieme universale U dovrebbe avere potenza superiore ad U, ma U, in quanto universale, dovrebbe contenere P(U), quindi P(U) dovrebbe avere potenza inferiore ad U e questo è contraddittorio. (Cfr. G. Basti, cit., p. 191). 12 Cantor scrive: «Quanto sorpassa tutto ciò che è finito e transfinito [e transfinite sono quelle grandezze che eccedono le quantità finite] non può essere un “genere” [che indica il comune] – è la singola, completamente individuale unità in cui tutto è incluso, che include l’‘Assoluto’ incomprensibile a ogni umana comprensione» (G. Cantor, Nachlass vi, p. 234). Basti sottolinea la permanenza in Cantor della prospettiva parmenidea (nonostante il rifiuto di identificare l’Assoluto ad un “genere”), proprio nel concetto della appartenenza del tutto esistente alla collezione assoluta. (Cfr. G. Basti, cit., p. 185). 13 G. Basti, cit., p. 183. L’assiomatica di von Neumann lavora per evitare i danni introdotti dal concetto cantoriano di infinito in atto (v. nota 11). In breve, la soluzione di von Neumann consiste nel distinguere (e separare) due classi di insiemi. La prima è la classe degli insiemi che sono costrui-

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Cantor come matematico e come filosofo e teologo l’aver sempre esplicitato che questo e solo questo […] era il suo punto di partenza: possibilità (non-contraddittorietà) implica esistenza (Cantor, Nachlass vi, 52s). Di qui la necessità di supporre collezioni assolute»14. Nella ricostruzione storica della crisi dei fondamenti della matematica, il testo de Le radici forti assegna poi un posto di assoluto rilievo a Gödel e ai suoi teoremi sulla incompletezza (sintattica e semantica) di tutte le teorie formali in grado di esprimere la propria sintassi. Scrive Basti che questi teoremi hanno denunciato «il vero ed unico punto di crisi di tutto il pensiero occidentale da Platone in poi [... che consiste nella] indeducibilità del ‘due’ dall’‘uno’, della differenza dall’assoluta identità, della molteplicità (materia) dall’unità (forma), ovvero l’indeducibilità del problema ‘uno-due’ in un sistema che pretenda di essere logicamente completo (= non-contraddittorio) e autoconsistente (= capace di dimostrare la propria coerenza)»15. In breve, ad essere contraddittoria sarebbe sempre e solo la nozione di una collezione attualmente infinita di oggetti, ossia la nozione del Tutto dove ogni cosa è già determinata (elementi e relazioni), ovvero dove tutto è parmenideanamente e platonicamente determibili (ed è la classe degli insiemi del primo tipo: insiemi 1). Si tratta di quegli insiemi che possono essere sottoinsiemi di altri insiemi. La seconda è la classe degli insiemi che non è possibile costruire, ma solo porre assiomaticamente (ed è la classe degli insiemi del secondo tipo: insiemi 2). Si tratta degli insiemi che non possono essere sottoinsiemi di altri insiemi. Ora l’insieme che è cardinalmente equivalente all’insieme di tutte le cose sarà un insieme del secondo tipo (insieme 2). In questo modo si evita l’assurdo che l’insieme (o classe) di tutti gli insiemi sia un insieme del primo tipo. In questo tentativo di rimuovere le contraddizioni prodotte dal concetto cantoriano di infinito in atto, Basti mette in evidenza che ciò che «resta dato come assodato è l’atto di fede, il dogma in cui consiste tutto il ‘formalismo’ [al quale è riconducibile, secondo Basti, la posizione di Severino] ... Il principio che essere in una maniera ben definita non-contraddittorio, ovvero logicamente possibile, implica esistenza. Un principio che postula necessariamente che il tutto sia necessariamente già tutto definito […]. Ciò che von Neumann comunque fa vedere con assoluta chiarezza è che questo modo di pensare può essere reso non contraddittorio, solo assiomaticamente, aggiungendo ad hoc un assioma: l’autoconsistenza di un approccio razionalista, parmenideo [severiniano], all’essere è un sogno perciò irrealizzabile, contraddittorio» (G. Basti, cit., p. 200). 14 G. Basti, cit., p. 207. 15 Ibi, p. 62.

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Al cuore del destino

nato. La teoria metafisica di Severino, che propone di “ritornare a Parmenide”, conterrebbe in sé proprio quella antinomicità intrinseca alla nozione di infinito in atto che il pensiero logico-matematico del nostro tempo ha scoperto nei fondamenti della matematica. Per uscire dalla ferrea necessità parmenidea e severiniana, il cui destino è però, secondo Basti, il nichilismo, «occorrerebbe aver posto il riferimento alla res, mediatamente attraverso un assioma, o immediatamente nell’assioma stesso, come essenziale alla definizione di non-contraddittorietà [si tratta del carattere primariamente semantico di ogni sistema formale, sostenuto da Basti]. In questo caso, infatti, avrei il riferimento alla res e non alla totalità dei pensabili come criterio ultimo di esistenza/non contraddittorietà di un ente logico. Ma come poter far questo coerentemente, se il pensiero moderno non ha mai avuto a disposizione per pensarla la distinzione reale essenza-esistenza per definire in riferimento alla res l’esistenza di un assioma, ovvero per fondare la necessità di una coappartenenza immediata Soggetto/Predicato in un enunciato?»16. Per fondare sul riferimento al singolo oggetto la universalità-necessità di quell’appartenenza immediata Soggetto-Predicato che caratterizza la forma logica delle proposizioni assiomatiche, occorrerebbe dunque il “ritorno al realismo di Tommaso” attraverso la messa a punto della dottrina tomista della differenza reale di essenza e di atto di essere (e della loro reciproca determinazione negli enti creati)17. 16 Ibi, p. 207. 17 La separazione fra essenza ed esistenza è presente nella logica intuizionista del matematico olandese L.E.J. Brouwer. Egli afferma che «non vi sono verità matematiche al di fuori della mente umana» (L.E.J. Brouwer, Lezioni sull’intuizionismo, Boringhieri, Torino 1983, p. 31) e di quelle che la mente umana (finita) è capace di costruire. Di qui il rifiuto dell’infinito attuale (finitismo) e la tesi della non coincidenza fra il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso: per affermare l’esistenza di “A”, non è sufficiente che “¬ A” produca contraddizione. Nella prospettiva della logica intuizionista, la sequenza “¬ ¬ A → A” dimostra solo la non contraddittorietà di “A”. Per affermarne l’esistenza, occorre poter applicare un metodo capace di costruire “A”. Occorre cioè poter indicare il percorso mentale che conduce alla intuizione di “A”. Ciò detto, Basti si preoccupa di evidenziare la differenza rispetto all’impianto generale della logica tomista. Scrive dunque: «Proprio il fatto che nella teoria tomista l’universalità è legata ad una procedura universale di ridefinizione dell’enunciato universale sull’esistente singolare in un contesto finitista (infinità solo potenziale) non deve far pensare che l’approccio tomista ai fondamenti sia in

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B. Critica della tesi di G. Basti   1. Deus cognoscit infinita   1. Richiamati i tratti di fondo de Le radici forti, nei prossimi paragrafi seguirò più da vicino le critiche che in questo testo vengono mosse alla struttura originaria di Severino. Prima di entrare nel merito della trattazione, vorrei però fermare l’attenzione su quella che mi sembra la discordanza più manifesta del lavoro di Basti: il Tommaso che egli propone al sapere delle scienze matematiche per negare l’esistenza di ogni collezione infinita di enti e di relazioni (nozione di infinito in atto, che Basti ritiene distruttiva della ragione), in realtà non esiste. Per l’Aquinate è infatti fermo teorema della Teologia che Deus cognoscit infinita (Summa contra Gentiles, i, 69). E ciò significa che per Tommaso l’infinito attuale esiste proprio nell’Intelletto di Dio: quella che secondo Basti è la radice più intima del nichilismo (ossia il concetto di una collezione infinita di oggetti), e che sarebbe presente (in termini sostanzialmente equivalenti) nell’impostazione di qualche modo riconducibile a quello intuizionista [...]. È vero infatti che anche nell’approccio intuizionista vige la netta separazione fra essenza ed esistenza [...]. Non esiste nulla, però, nell’approccio intuizionista che assomigli al principio della loro reciproca determinazione, che è invece caratteristico della teoria tomista» (G. Basti, cit., p. 221). Ma il principio della mutua determinazione dell’essenza e dell’esistenza, inscritto nell’ambito della dottrina della differenza reale di essenza e di esistenza, costituisce anche lo specifico della teoria tomista rispetto ad ogni metafisica formalistica dell’essere e ad ogni epistemologia formalistica della verità, per cui gli enti e tutte le loro determinazioni risulterebbero già determinate nel sistema della Totalità Assoluta. A fronte di queste considerazioni, Basti può dire che la posizione tomista risulta essere «la classica via media fra formalismo e intuizionismo e per ciò essa si pone in qualche modo dopo di esse, anche se storicamente le precede. Infatti, se la distinzione reale fra essenza ed esistenza sembrerebbe avvicinarla alla posizione intuizionista, il fatto che essenza ed esistenza siano posti in rapporto di reciproca determinazione garantisce della loro intrinseca relazione in questo avvicinandosi al nucleo della posizione razionalista. Allo stesso tempo, il fatto che questa relazione non sia data una volta per sempre in qualche Collezione Assoluta, di enti-essenze già definiti e quindi per questo già esistenti in atto, ma sia in qualche modo in fieri (non sia dunque un’identità assoluta fra essenza ed esistenza), garantisce della fondamentale differenza della posizione tomista rispetto al nucleo razionalista parmenideo-platonico, del pensiero occidentale» (G. Basti, cit., p. 223).

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fondo delle scienze fisiche e matematiche moderne, nella teoria di Cantor e nel pensiero di Severino, (ma non nella dottrina di Tommaso), risiede proprio nel cuore della stessa teologia tomista. «L’essere di Dio» – si legge infatti nella Summa – «s’identifica con la sua intellezione. Perciò come è infinito l’essere divino [...] così è infinito l’intendere divino. Ora, come il finito sta al finito, così l’infinito sta all’infinito. Se dunque il nostro intendere, che è finito, può abbracciare cose finite, Dio con la sua intellezione può abbracciare cose infinite (infinita capere potest)»18. Il testo di Tommaso si fa comunque ancora più esplicito là dove dice: «Siccome Dio conosce se stesso perfettamente [perché Egli è l’infinito in senso assoluto], niente impedisce che conosca la somma degli enti infiniti (nihil prohibet eum etiam illam summam infinitorum cognoscere)»19. E per “enti infiniti” (sia pure secundum quid) Tommaso intende: «gli enti infiniti o della stessa specie, come infiniti uomini, o di infinite specie»20, ma anche «le specie infinite dei numeri e delle figure» (nam et numerorum species infinitae sunt et figurarum)21. Dunque, «Dio deve conoscere tutti questi infiniti» (Relinquitur igitur quod Deus omnia huiusmodi infinita cognoscat)22. è vero che l’intelligenza divina non muta passando da una all’altra parte del suo oggetto, sicché «nella conoscenza di Dio le cose molteplici vengono conosciute come fossero una sola, poiché sono conosciute, non mediante specie distinte, ma mediante una sola specie, ossia nell’essenza divina»23, ciò tuttavia non toglie che la scienza di Dio possa estendersi a cose infinite. A differenza del nostro intelletto che, essendo finito, «non può conoscere cose infinite che enumerandole successivamente», l’intelletto divino è invece capace di «percepire molte cose simultaneamente, quasi scorgendole in una sola specie intenzionale»24. In questa maniera Dio conosce «sia le cose che sono, sia quelle che non sono» (quia intellectus divinus est eorum quae sunt et quae non sunt)25.   18 Tommaso, Summa contra Gentiles, i, 69, 580. 19 Ibi, 581. 20 Ibidem. 21 Ibi, 583. 22 Ibidem. 23 Ibi, 586. 24 Ibi, 588. 25 Ibidem.

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2. Basti osservare che per Tommaso non possono esistere relazioni reali tra Dio e gli enti creati. E questo è certamente vero. Tommaso lo dice in modo del tutto esplicito: «Poiché infatti relative sono quelle entità “che secondo il loro essere dicono rapporto ad altre cose”, come scrive il Filosofo (Praedic., c. 5, nn. 1, 2), bisognerebbe che l’essenza di Dio, per quello che è, fosse in rapporto ad altro. Ma ciò che è in queste condizioni deve dipendere in qualche modo dall’altro; non potendo né esistere né intendersi senza di esso. Bisognerebbe quindi che l’essenza di Dio dipendesse da una realtà estrinseca. Cosicché egli non sarebbe una realtà necessaria»26. Tra la Causa prima e gli enti creati non vi sono dunque relazioni reali (tali cioè da implicare una reciproca determinazione o una simmetria ultima delle relazioni). Questo tuttavia non significa che Dio non stia in relazione alle creature e alla somma degli enti infiniti che Egli conosce scientia simplicis intelligentiae27, come invece sembrerebbe leggendo il testo de Le radici forti. Scrive infatti il nostro autore: «Teologicamente, dire che non esistono relazioni reali (= non esiste simmetria delle relazioni fra causante-causato e causatocausante) fra Dio e le cose significa dire allora che il ‘necessariamente-ente’ per essere tale, nel creare l’ente pone in essere anche la relazione necessitante unidirezionale causato-causante. Dunque non è mai Lui a riferirsi alle cose create come causa (e come potrebbe se non ci sono: porli in relazione secondo la relazione causante-causato sarebbe compromettere l’essere col nulla: violerebbe cioè il principio di non contraddizione) ma sono solo esse a riferirsi a Lui come causate prescindendo da ogni riferimento al tempo [...] Quindi solo l’ente si può porre in relazione all’Essere, ma solo come un causato ad un causante, cui mancherà sempre l’altra direzione: quella del causante al causato. Per questo si può risalire dall’effetto (ente) alla Causa (Essere), ma mai dedurre l’effetto dalla Causa»28. Ma allora, si chiede Basti, dovremmo forse concludere che Dio non starà mai in relazione alle creature? La risposta a questa domanda viene cercata nelle pagine luminose della Summa. Qui Tommaso ci dice che Dio, che è la prima misura di tutti gli esseri, «sta agli altri esseri, come l’oggetto conoscibile sta alla nostra conoscenza, essendone esso la misura, secondo l’espressione del Filosofo: poiché 26 Ibi, ii, 12, 913. 27 Ibi, i, 69, 590. 28 G. Basti, cit., p. 63.

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“dal fatto che la cosa è o non è, l’opinione e l’affermazione sono vere o false” [Praedic., c. 3, n. 22]. Ora, sebbene una cosa si dica conoscibile in rapporto alla conoscenza, nella cosa conosciuta non c’è una relazione reale, ma questa esiste solo nella conoscenza [intenzionalità, relazione intenzionale]. Ecco perché Aristotele nel quinto libro del Metaph. (c. 15, n. 8) afferma che una realtà conoscibile è tale per una relazione, “ma non perché essa si riferisce ad altri, bensì perché altri si riferiscono ad essa”»29. Si dirà dunque che «Dio fa essere un ente che allora a Lui necessariamente si riferisce per esistere “fisicamente”, come un ente fa essere un enunciato che allora necessariamente a quell’ente si riferisce per esistere “logicamente” come vero. Ma l’ente con la sua esistenza non modifica nulla dell’Essere di Dio, come un enunciato non modifica nulla dell’essere dell’ente cui si riferisce necessariamente»30. Ebbene, se è vero che nella prospettiva tomista tra Dio e le creature non esistono relazioni reali, ciò tuttavia non esclude che Dio stia in relazione agli enti finiti e alla loro infinità. Basti non ne fa parola, ma Dio, si dice nella Summa, conosce i singolari (giacché conosce le cose non solo nella loro universalità, ma anche nella loro concretezza), conosce le cose che ancora non esistono, conosce quei singolari che sono futuri contingenti, conosce gli atti della volontà, i pensieri delle menti finite e i voleri dei cuori. Da ultimo, Deus cognoscit infinita. è assurdo, spiega Tommaso, pensare che Dio non conosca anche attualmente le cose infinite – infinita etiam actu31. Certo, per l’Aquinate «gli infiniti in atto né esistono, né esistettero, né esisteranno, perché, secondo la fede cattolica la generazione non è indefinita da nessuna parte»32. Ma l’infinità delle creature, non realizzata in pieno nella creazione, è senza dubbio conosciuta attualmente (actu) dall’intelletto divino, stante che «Dio conosce gli infiniti che non sono, né saranno, né furono, che però sono potenzialmente nel creato, Scit enim Deus infinita quae nec sunt nec erunt nec fuerunt, quae tamen sunt in potentia creaturae. E conosce anche gli infiniti che sono nella propria potenza, ma che non sono, non sa-

29 Tommaso, cit., ii, 12, 914. 30 G. Basti, cit., p. 64. 31 Tommaso, cit., i, 69, 584. 32 Ibi, 590.

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ranno e non furono, Et scit etiam infinita quae sunt in sua potentia quae nec sunt nec erunt nec fuerunt»33. Si potrebbe obiettare che i singolari non sono infiniti. Tuttavia, dice Tommaso, «qualora lo fossero, Dio li conoscerebbe»34. Un bel problema per Basti. 2. Nota: l’infinito attuale e la scienza di Dio   L’affermazione dell’inesistenza di ogni infinito attuale (ossia di ogni collezione assoluta di elementi e di relazioni, dove tutte le cose risultano già determinate) sta alla base delle analisi contenute ne Le radici forti. In questo libro si dice: se andiamo a leggere con attenzione i testi, scopriamo che Tommaso ha fatto vedere, «ben prima che lo dimostrassero Cantor e Gödel [...], che un tale concetto di infinità attuale di tutte le relazioni fra n-ple di elementi è intrinsecamente contraddittorio, perché già lo è per un sottoinsieme di queste relazioni possibili: i numeri interi, generati dall’unità e dalla relazione che pone il successore n + 1 (il binarius, lo definiva Tommaso), generati dunque dall’“1” e dal “2”. Infatti se si ponesse una tale totalità, “ne seguirebbe che vi sarebbero infinite relazioni in atto nel medesimo [infinitae relationes actu in eodem: ovviamente qui medesimo va inteso nel senso di un insieme di tutte le infinite relazioni] quando già i numeri infiniti in potenza [dunque un sottoinsieme della totalità delle relazioni possibili] sono più grandi del ʻbinarioʼ dei quali tutti, però, esso viene prima (cum numeri infiniti in potentia sint maiores binario, quibus omnibus ipse est prior)” (S. c. Gent., ii, 12, 915). Detto nei termini della moderna teoria degli insiemi, un’infinità attuale di relazioni non può essere posta come totalità autoconsistente (“non può essere in atto in un medesimo”): il principio di consistenza di questa infinità dev’essere necessariamente “fuori” di essa, che allora non sarà più l’“assoluto” che si pretendeva che fosse»35. Il testo riportato per esteso contiene la tesi di Basti nella sua formulazione più chiara: Tommaso avrebbe negato l’esistenza di ogni tota33 Ibidem. 34 Ibi, 591. 35 G. Basti, cit., pp. 60-61.

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lità onnicomprensiva di relazioni. Egli avrebbe dunque dimostrato «ben prima di Cantor e di Gödel» la necessità speculativa di rimuovere la nozione della collezione attualmente infinita di oggetti. Ma stanno davvero così le cose? Se andiamo a rileggere il passo della Summa citato da Basti e lo collochiamo nel contesto da cui è tratto (e cioè la dimostrazione del teorema per cui le relazioni esistenti tra Dio e le creature non sono reali), scopriamo ancora una volta quella discordanza, rispetto allo spirito e alla lettera della dottrina tomista, già denunciata come la più manifesta de Le radici forti. E infatti, nel capitolo dodicesimo del libro secondo della Summa (il capitolo da cui Basti ha ricavato il passo in questione), Tommaso afferma che le relazioni esistenti tra la Causa Prima e le creature si attribuiscono a Dio «non solo rispetto agli esseri esistenti in atto, ma anche a quelli che esistono in potenza: poiché anche di questi Egli è a conoscenza, ed anche rispetto a loro Egli viene denominato Ente Primo e Sommo bene»36. Certo, Tommaso ritiene che nessun ente possa avere relazioni reali con cose esistenti solo in potenza, altrimenti nell’identico soggetto ci sarebbero infinite relazioni attuali precedute dal principio che le pone in essere (è quanto si dice nel passo riportato da Basti). Ma questo non significa che Dio non stia in relazione con l’infinità delle creature. Tommaso parla infatti di relazioni esistenti (relationes quae sunt) e afferma che la Causa Prima «si riferisce alle cose in atto non diversamente da come si riferisce a quelle in potenza: poiché in lui non c’è mutazione per il fatto che produce degli effetti»37. Se dunque Dio non si rapporta alle cose che sono in potenza per una relazione reale esistente in lui stesso, è tuttavia impossibile che Dio non conosca le cose infinite38. Le conosce simultaneamente, giacché nella Sua cognizione la molteplicità non produce delle differenze. Ed è necessario che le conosca tutte. Spiega Tommaso: «L’intelletto di Dio, come la sua essenza, è perfetto in modo assoluto. Perciò non può mancare di nessuna perfezione intellettiva. Ora gli oggetti cui il 36 Tommaso, cit., ii, 12, 915. 37 Ibidem. 38 Se si suppone che la totalità delle relazioni sia “generata”, è chiaro che il principio (o la relazione) “generante” non può essere contenuto nella totalità “generata”, che dunque non potrà essere la “totalità” delle relazioni, avendo al di fuori di sé il principio della propria consistenza. Si tratta però di comprendere che la totalità degli enti e delle loro relazioni non può essere “generata”. Essa è in sé e per sé.

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nostro intelletto è in potenza, costituiscono la sua perfettibilità intellettiva. Ed esso è in potenza a tutte le specie intelligibili. Ma codeste specie sono infinite: infinite, per esempio, sono le specie dei numeri e delle figure. Dunque Dio deve conoscere tutti codesti infiniti»39. Anche le cose che sono infinite secondo la quantità. Ciò di cui Tommaso sta parlando è pertanto l’infinito attuale esistente nella mente di Dio. E si badi che ne sta parlando proprio in quei termini che, a parere di Basti, vanno a definire il cuore della “struttura originaria del nichilismo”: il concetto di una collezione attualmente infinita di oggetti, l’infinito attuale di Cantor. Veda Basti quali disastri ne vengono per la stessa scienza di Dio.   3. La totalità degli essenti include originariamente l’identità di ogni essente   1. Venendo all’interpretazione che dà Basti della struttura originaria di cui parla Severino, vorrei adesso richiamare l’attenzione su un’altra incongruenza (forse ancora più manifesta di quella già denunciata a proposito dell’interpretazione di Tommaso): il Severino che viene presentato ne Le radici forti, in realtà non esiste. Le critiche di Basti sono infatti costruite a partire da alcune incomprensioni (o fraintendimenti), soprattutto là dove viene analizzato il modo in cui Severino intende il rapporto tra l’Intero (la totalità dell’essere) e le sue parti. E il segno più vistoso di queste incomprensioni è proprio l’affermazione della sostanziale commensurabilità tra la totalità eterna degli enti (l’Intero semantico a cui si rivolgono gli scritti di Severino) e il concetto cantoriano di “infinito in atto”, di cui la logica matematica contemporanea ha denunciato il carattere antinomico. Vedremo, nel seguito del discorso, che il carico di antinomie (contraddizioni) che investe la posizione di Cantor non si riflette automaticamente su quella di Severino. Anzi, vedremo come le due posizioni siano, in realtà, assolutamente incommensurabili. Ma procediamo con ordine. Incominciando dalla concezione severiniana dell’Intero dell’essere come Intero delle parti, va fatta fin da subito una precisazione iniziale, e tuttavia essenziale, al fine di calibrarne adeguatamente il concetto. è bene richiamare che con il termine “Intero”, o “totalità 39 Tommaso, cit., i, 69, 583.

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concreta” dell’essere, Severino intende dire del Tutto nella sua relazione alle parti e, reciprocamente, delle parti nella loro relazione al Tutto. Attenzione dunque: non il Tutto in quanto distinto o separato dalle sue parti e neppure le parti in quanto distinte o separate dalla loro relazione al Tutto, ma ciascuna parte in quanto relazionata necessariamente a ciascuna delle altre parti e al Tutto e il Tutto in quanto relazionato necessariamente alle parti. Nella verità dell’essere (che esprime l’identità dell’essente con se medesimo), il rapporto tra il Tutto e le sue parti viene concepito da Severino nel senso indicato da La struttura originaria là dove si sostiene che esiste una sola proposizione analitica40, con ciò intendendo dire che l’identità con sé del Tutto si costituisce nella misura in cui il Tutto sta in relazione alle parti (giacché anche le parti sono identiche a sé). E l’identità con sé delle parti si costituisce nella misura in cui ogni parte sta in relazione ad ogni altra parte e al Tutto (giacché le parti sono identiche a sé in quanto la totalità delle parti è identica a sé). Ora, è proprio il modo in cui Severino intende il senso della identità (dell’esser sé dell’essente, del suo esser altro da ciò che è altro da sé) ciò che determina la profonda lontananza del pensiero contenuto nei suoi scritti rispetto al pensiero logico-matematico contemporaneo e, più in generale, e con buona pace di Basti, rispetto all’anima stessa del pensiero dell’Occidente.   2. Per rendercene conto, è sufficiente leggere alcuni dei passaggi basilari contenuti nel capitolo vii, par. 18 de La struttura originaria, perché in esso la rigorosa determinazione del senso dell’identità-incontraddittorietà dell’essente (rigorosa determinazione che sta esplicitamente al centro dell’intera indagine speculativa di Severino) porta in primo piano la natura speciale del rapporto tra il Tutto e le parti (di cui viene affermata la medesimezza: A = A, B = B, C = C...). Scrive Severino:   Si afferma che A è A – che questo essere è questo essere – non in quanto l’identità (l’incontraddittorietà) sia una proprietà di questo essere – sì che, considerando una cert’altra determinazione x, non si possa dire che x è x; ma in quanto A è rilevato come determinazione o indivi-

40 E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. vii, par. 18. pp. 320 ss. Il paragrafo è intitolato: Principio di non contraddizione e proposizioni analitiche. Esiste un’unica proposizione analitica.

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duazione dell’universale – l’essere – alla cui essenza appartiene l’incontraddittorietà. Viceversa, si afferma che l’essere è essere [identità originaria] non in quanto l’identità sia una proprietà che conviene all’essere, inteso come universale astratto o formale [...], indipendentemente dal contenuto concreto di questa formalità; ma in quanto l’essere è l’universale concreto, concreto contenuto della forma, ossia in quanto l’elemento formale è posto nella sua relazione al contenuto determinato (e non al contenuto indeterminatamente posto). Sì che, se da un lato si deve dire che A è A in quanto l’essere è essere, dall’altro lato si deve dire che l’essere è l’essere in quanto A (B, C...) è A (B, C...), ossia in quanto ogni determinazione particolare è se medesima41.

  L’esser sé di A non è separato dall’esser sé di B e di C... sicché ogni essente è identico a sé perché la totalità degli essenti è identica a sé. Ma, proprio per questo, il pensiero che si pone al di fuori dell’Occidente afferma che l’esser sé di ogni essente è legato necessariamente (e originariamente) all’essere sé di ogni altro essente. Cantor sapeva che l’universale (U) è identico a sé (U = U) e poteva rilevare che anche questa relazione di identità è identica a sé [(U = U) = (U = U)]42. Ma il pensiero di Cantor (in ciò solidale con il pensiero dell’Occidente) continua a concepire questa seconda identità [(U = U) = (U = U)] come un che di ulteriore (e dunque di diverso) rispetto alla prima identità (U = U), a sua volta pensata come un che di ulteriore rispetto alla posizione dell’universale. Stante questa impostazione, è inevitabile che la totalità degli essenti sia destinata a rincorrere all’infinito la propria identità – giacché anche la seconda identità sarà da intendere come identica a sé e altrettanto si dovrà dire di questa terza identità e così via, in indefinitum. Si tratta invece di capire, come insegnano gli scritti di Severino, che l’autentica totalità degli essenti è l’identità della totalità di ciò che è identico a sé, originariamente inclusiva dell’esser sé di quell’essente che è la stessa totalità degli essenti.   3. Se procediamo nella lettura de La struttura originaria, dove si studia la relazione tra immediatezza e mediazione logiche (L-immediatezza e L-mediazione), la cosa si fa ancora più chiara. 41 Ibi, pp. 321-322. 42 Possiamo intendere anche così il rapporto tra l’universale e l’insieme potenza dell’insieme universale. Cfr. supra, nota 11.

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Consideriamo la proposizione A è A e assumiamo A come campo semantico distinto dal suo valere come individuazione dell’universale. Scrive Severino:  

Ciò posto, A conviene, come predicato, ad A (soggetto), non in quanto A sia, semplicemente, tale, e cioè A sia tenuto fermo come distinto nel modo indicato: o A è A, non semplicemente perché A vale come quel campo semantico che si costituisce allorché A è tenuto distinto nel modo indicato; ma A è A perché A vale come individuazione dell’universale identico, che, per sé, o L-immediatamente, è se medesimo. Ciò significa che A (sempre inteso nel modo indicato) non è, per sé, A: appunto perché l’identità non è peculiare ad A piuttosto che a B. Si afferma che A è A, per altro, ossia perché A è determinazione o individuazione dell’universale identico. La convenienza di A ad A è pertanto L-mediata dal valere A come una tale individuazione: o il medio è l’universale identico concretamente determinato come A. Dove è chiaro che l’“altro”, per il quale A è A, non è semplicemente altro da A, ma è un altro che include A (ossia è il concreto, rispetto a cui A è momento), e che pertanto è “altro” appunto perché non è soltanto A in quanto distinto. Lo stesso discorso va ripetuto se si considera la proposizione “L’essere è essere” assumendo il termine “essere” come universale astratto, e cioè come determinazione distinta dal contenuto concreto dell’universalità [...]. L’universale astratto non è per sé identico, ma per altro: appunto perché esso è identico in quanto è identica ogni determinazione della forma. Ciò che media l’identità della forma è il concreto, ossia è l’identità dell’universale concreto: e anche qui l’“altro”, per il quale la forma è identica a se medesima, include la forma: a quel modo che la sintesi della forma e del contenuto può includere come momento la forma43.

  Qui stiamo per toccare il cuore stesso della metafisica severiniana. Dal contesto si evince che il termine “essere” sta ad indicare sia le parti (A, B, C...), sia la totalità formale (l’universale astratto), sia la Totalità o l’universale concreto e cioè la sintesi originaria delle parti e della totalità formale. Inoltre, ogni essente è identico a sé (ossia è incontraddittorio) nella misura in cui non è separato dall’universale concreto che è inclusivo di tutto ciò che non è un niente. A differenza di Severino, il pensiero logico-matematico non si accorge che l’identità di un essente non può essere separata dall’identità di ogni altro essente. Ed è questa la ragione per cui l’identità dell’universale (alla Cantor) non è originariamente inclusa nel43 E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 322-323.

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la totalità (identica) dell’essente – ciò che determina la contraddizione del regressus in indefinitum nella posizione dell’identità.   4. Ma eccoci al passo decisivo che fissa un punto fermo sul quale Severino tornerà diffusamente anche negli scritti successivi (ma che Basti non ha tenuto presente, perdendo così di vista il senso della relazione che, nella prospettiva severiniana, lega, secondo necessità, le parti e l’Intero delle parti):  

L’identità [incontraddittorietà] L-immediata è dunque solo l’identità del concreto, e questa identità è espressa dalla proposizione: “L’intero è l’intero” – l’intero essendo appunto l’essere, come universale concreto. (Tale proposizione [...] non esprime semplicemente la connessione Limmediata costituita dall’identità dell’intero con se medesimo, ma ognuna e quindi la totalità delle connessioni L-immediate). Per questo lato, questa è l’unica proposizione analitica, o non si dà altra proposizione analitica che questa: porre infatti A come individuazione dell’universale concreto, e porre B come individuazione dell’universale concreto, significa porre lo stesso contenuto: l’universale concreto appunto. Si badi che ciò non significa affatto che l’identità con sé di A non si distingua in alcun modo dall’identità con sé di B: le due identità sono certamente distinte; ma sia l’una che l’altra implicano, essenzialmente, in quanto identità L-immediate, un termine – l’universale, l’intero – che include l’una e l’altra; sì che il significato concreto di entrambe è il medesimo44.

  Dunque è chiaro: l’identità di A, distinta dal significato concreto che ad essa conviene in quanto sta in relazione all’identità di B, di C e alla totalità delle altre identità, è un distinto dal significato concreto dell’identità (l’Universale o l’Identità concreta); il significato concreto che compete ad A, a B, a C e alla totalità delle altre identità (significato concreto che ad esse compete in quanto stanno in relazione alla totalità delle identità), è l’intero dell’orizzonte semantico da esse implicato, l’identità delle identità. Inoltre, l’affermazione della identità con sé di quell’essente che è la stessa identità con sé della totalità degli essenti, non va a costituire una determinazione che incrementa il contenuto originario, ma appartiene essa stessa (e originariamente) al contenuto originario. Il testo de La struttura originaria è ancora una volta molto esplicito. Vi 44 Ibi, pp. 323-324.

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si dice: «è chiaro quindi che, da un lato, la proposizione (A = A) = (A = A) è essa stessa sintetica a priori qualora A sia tenuto fermo come distinto dall’universale di cui A è individuazione; e, dall’altro lato, la proposizione: “L’intero (T) è l’intero” è essa stessa sintetica a priori qualora T sia inteso semplicemente come noesi, qualora cioè tale proposizione sia pensata come T = T – intesa quest’equazione come termine distinto da (T = T) = (T = T) – e non, appunto, come (T = T) = (T = T)»45. Nella posizione dell’universale concreto non si dà dunque alcun regressus in indefinitum quanto all’affermazione della identità. E infatti «per il significato stesso di T, ognuno dei termini dell’equazione non può essere momento astratto del campo posizionale costituito dall’equazione, ché altrimenti l’intero (T) non sarebbe più tale. Ognuno dei termini dell’equazione include pertanto, o, meglio, si realizza esso stesso come l’equazione di cui è termine. Ciò non significa che T non può essere tenuto distinto da T = T e da (T = T) = (T = T); ma significa che, in quanto così distinto, il campo posizionale di T non è l’intero semantico e, precisamente, è soltanto una posizione formale dell’intero»46. Il significato concreto dell’identità (l’universale identico) è dunque la totalità concreta in quanto è includente in sé tutto ciò che è identico a sé – compresa la propria identità che è un contenuto della totalità dell’esser sé –, e cioè in quanto sta originariamente in relazione alla totalità delle sue parti (anch’esse infatti, incluse nella totalità concreta, sono identiche a sé e non sono isolate dalla Totalità). Su questo punto ho ritenuto opportuno di dover insistere, perché l’intento di Basti è quello di ridurre il discorso di Severino all’impostazione di fondo del pensiero logico-matematico quanto al problema dell’infinito. Ma ciò accade perché ne Le radici forti si discute del pensiero di Severino prescindendo totalmente dal “suo” pensiero, scaricando su di esso il carico delle contraddizioni che il pensiero logico-matematico ha scoperto a proposito del concetto di infinito in atto47.   45 Ibi, pp. 325-326. 46 Ibi, p. 326, nota. 47 Vedi nota 11. Cfr. G. Basti, cit., pp. 186-202.

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4. Il divenire e l’Immutabile   Facendo riferimento all’aporetica del divenire – così come essa viene formulata e risolta nel cap. xiii de La struttura originaria48 – Basti richiama la distinzione severiniana tra il significato dell’“Intero” come assoluta immutabilità oltrepassante la totalità del “F-immediato” (ossia la totalità di ciò che è affermato in quanto appartenente al contesto dell’immediatezza fenomenologica) e la Limmediatezza della “totalità dell’essere” (ossia l’affermazione logicamente immediata dell’esistenza della totalità dei significati comprensiva della totalità del F-immediato). Ebbene, scrive Basti, «Nessun “intero semantico” o “totalità dell’essere” parmenideo che abbia la totalità del F-immediato come sua parte propria e sia a sua volta una totalità “chiusa” o un “intero” può essere giustificata senza ricadere nell’antinomia di partenza»49, scatenata dalla nozione dell’esistenza attuale di una collezione infinita. Gli sviluppi del pensiero matematico avrebbero mostrato che «le due totalità così distinte, sia se le chiamiamo, con von Neumann e tutta la teoria degli insiemi contemporanea, insiemi di tipo primo e secondo, cioè insiemi (che possono essere sottoinsiemi) e classi (che non possono essere sottoinsiemi), essi, una volta separati [corsivo mio], non possono essere ricongiunti in un’unica totalità autoconsistente che li comprenda. Severino, invece di riconoscere questa sentenza di morte definitiva dell’essere parmenideo inteso come un’unica totalità del razionale me48 L’aporetica viene formulata dicendo che «la L-immediatezza dell’immutabilità dell’intero [l’affermazione logicamente immediata dell’immutabilità/eternità dell’essere] è in contraddizione con l’affermazione dell’esistenza di sintesi a posteriori, ossia di contenuti positivi (costituiti appunto dalla sintesi) il cui sopraggiungere o il cui annullamento non è posto come autocontraddittorio» (E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. xiii, par. 20, p. 542). L’aporetica è tolta affermando che «l’intero come immutabilità assoluta, non è la totalità dell’essere F-immediato [ossia la totalità dell’immediato fenomenologico], in quanto questa è l’orizzonte del divenire. […]. Affermare che l’intero, come immutabilità assoluta, non è la totalità dell’essere F-immediato significa dunque affermare che l’intero oltrepassa la totalità del F-immediato – sì che il significato “intero” compare in due accezioni diverse: come immutabilità assoluta – e quindi come opposto alla totalità del F-immediato – e come includente questa totalità. Quel positivo, che oltrepassa l’essere F-immediato, ha d’altronde una valenza tipica, in quanto non è una parte dell’intero, ma è lo stesso intero in quanto immutabilità assoluta» (E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. xiii, par. 21, pp. 543-544). 49 G. Basti, cit., p. 166.

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tafisico che gli soggiace, ha cercato l’impossibile: rimetterli insieme, dopo averli in qualche modo distinti»50. Ora, che una volta separate, le due totalità non possano più essere ricongiunte, questo è senza dubbio vero. Ma non è certo in questi termini che ne La struttura originaria si configura il rapporto tra l’“intero semantico” (ossia la “totalità dell’essere” come immutabilità assoluta) e la totalità del “F-immediato” (ossia la totalità di ciò che è immediatamente presente in quanto è l’orizzonte del divenire). Altrimenti, che cosa avrebbe voluto dire Severino quando ha osservato che l’aporetica del divenire «si produce solo in quanto, ad un tempo, da un lato la relazione semantica tra l’intero immutabile e la realtà diveniente viene astrattamente considerata e il concetto della realtà diveniente è astrattamente separato dal concetto dell’intero immutabile; e dall’altro lato quella relazione vien tenuta ferma [e cioè viene tenuta ferma quella relazione semantica dalla quale pure si aveva prescisso]»51? In altri termini, si tratta di capire che alla radice della difficoltà e delle contraddizioni (che investono, se vogliamo, lo stesso pensiero logico-matematico contemporaneo) sta proprio l’operazione astrattiva dell’intelletto che, dapprima tiene separate la totalità dell’essere posta L-immediatamente e la totalità del F-immediato, e poi cerca di ricongiungerle in un’unica realtà totale e autoconsistente che le includa entrambe52. Si tratta cioè di capire che la L-immediatezza dell’intero come immutabilità assoluta e la totalità dell’essere F-immediato non sono due “totalità” separate. Del resto, ne La struttura originaria, il pensiero che incomincia a testimoniare la verità dell’essere (ossia l’impossibilità che l’ente in quanto ente non sia) afferma appunto che «la totalità dell’essere F-immediato è un positivo che non può contenere alcuna valenza o quantità o aspetto o modo di positività che non 50 Ibidem. 51 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 551. 52 L’intelletto astratto chiude le stalle (cerca di ricongiungere le due totalità, ossia i due sensi della totalità) dopo che sono scappati i buoi (quando cioè è ormai troppo tardi, ossia dopo che il danno è stato fatto e i due sensi della totalità sono andati a costituire due totalità separate). Ma, accorgendosi che ciò non è possibile (giacché la riunificazione di ciò che è stato concepito come originariamente separato produce solo contraddizioni), si rassegna a lasciare le stalle incustodite (o le affida ad un guardiano instabile: la decisione, l’atto in ultima istanza arbitrario legato alla definizione degli assiomi).

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siano contenuti nell’intero immutabile: diversamente quest’ultimo non sarebbe l’intero della positività – ché l’immutabilità non conviene a questo o a quell’essere, ma ad ogni essere»53. è vero che ne La struttura originaria si sostiene ancora (ed è il tratto che accomuna questo testo alla metafisica tradizionale) l’appartenenza non necessaria della totalità del divenire all’Intero (inteso, quest’ultimo, come ciò che, di fatto, include il divenire e l’immutabile)54. Ma da ciò segue, in quel testo, la distinzione tra l’Intero immutabile (l’Intero simpliciter) e la totalità dell’essere Fimmediato (la realtà molteplice e diveniente), e non certo la loro astratta posizione quali totalità separate, essendo proprio tale concetto astratto dell’astratto (della parte) ciò che produce la situazione antinomica. 5. La “differenza ontologica” negli scritti di Emanuele Severino   Ne La struttura originaria si afferma la necessità che la totalità del F-immediato resti determinata «come l’orizzonte in cui è manifesto il comparire e lo scomparire dell’essere»55. Tuttavia in questo testo si continua a concepire la dimensione della realtà diveniente come un orizzonte in cui viene alla manifestazione la generazione e l’annullamento dell’essere56. Negli scritti successivi (mi riferisco soprattutto ai testi contenuti in Essenza del nichilismo), Severino afferma l’impossibilità che la F-im53 E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 546-547. 54 Si dice infatti: «Proprio perché la realtà diveniente non contiene alcuna positività, che non sia contenuta nell’intero immutabile, non è autocontraddittorio supporre o progettare l’iniziale nullità o l’annullamento della realtà diveniente; ossia non è autocontraddittorio affermare che questa realtà è come ciò che sarebbe potuta non essere e come ciò che potrebbe non essere» (E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 550-551). 55 Ibi, p. 547. 56 Nel cap. xiii, par. 26 de La struttura originaria (il par. è intitolato: “Il divenire come apparizione dell’immutabile”), Severino afferma che se «absolute o simpliciter non si dà nascita o annullamento dell’essere, sì che, in relazione all’intero immutabile, nascita e annullamento sono un apparire e uno scomparire, nell’ambito invece della totalità del F-immediato il divenire, come nascita e annullamento del contenuto F-immediato, è pienamente reale, in quanto è appunto o appartiene alla struttura del contenuto F-immediatamente noto» (p. 549).

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mediatezza si determini come l’apparire dell’uscire e del rientrare nel niente da parte dell’essente. La definizione del divenire come apparizione dell’immutabile (ossia come il comparire e lo scomparire dell’eterno) trova così il suo compimento nel concetto della concreta unità (o relazione) tra la L-immediatezza e la F-immediatezza. «Ciò significa che l’impossibilità che l’ente non sia è tale, proprio perché si struttura originariamente con la necessità che il contenuto autentico, effettivo dell’apparire non sia l’uscire e il ritornare nel niente da parte dell’ente, ma il suo comparire e scomparire»57. In ogni caso, i lavori successivi a La struttura originaria insistono su questo punto: l’affermazione per cui ogni essente è identico a sé (= è incontraddittorio) è originaria nella misura in cui ogni essente non solo non è separato dalla totalità degli essenti, ma anche (e proprio in quanto essente, ossia in quanto identico a sé e altro da ciò che è altro da sé) non è separato dal suo non esser un niente. Il rapporto tra l’Intero immutabile e la totalità dell’essere F-immediato (o anche: il rapporto tra il Tutto e le sue parti) si determina dunque secondo quanto si dice dell’“autentica differenza ontologica” in Ritornare a Parmenide, dove si afferma che «l’immutabile è “diverso da sé” in quanto diveniente e il divenire è “diverso da sé” in quanto immutabile: appunto perché il divenire non incrementa l’essere, ma lo rispecchia» ossia ne è il processo della manifestazione58. è vero che la natura della autentica differenza ontologica impone la distinzione tra due sensi dell’o]n h|/ o[n, poiché tutto l’essere è immutabile e, d’altra parte, il divenire dell’essere appare. Ed è pure vero che l’essere in quanto immutabile è altro (è diverso o non è il medesimo) rispetto a sé in quanto diveniente. Ma con ciò non si intende affatto abbandonare all’assurdo una dimensione dell’essere (quella della realtà diveniente, come se essa fosse soggetta a generazione e corruzione, o come se la nascita e la morte dell’essere fossero un che di reale, sia pure relativamente al solo contenuto F-immediato), e neppure si intende dire (come invece vuol far passare Basti) che l’essere in quanto immutabile sia un distinito-separato dall’essere in quanto diveniente. 57 E. Severino, La struttura originaria, cit., “Introduzione”, 1, p. 20. Sul tema dell’immediatezza fenomenologica e sul concetto dell’apparire come comparire e scomparire dell’eterno si veda il prossimo capitolo del presente volume. 58 E. Severino, Ritornare a Parmenide. In Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 30.

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Il concetto del divenire come manifestazione dell’eterno – e quindi il senso del rapporto tra l’immutabile e il diveniente – trova la sua rigorosa determinazione nel Poscritto di Ritornare a Parmenide. Ecco un testo eloquente:  

L’essere che appare, poiché appare come diveniente, è una parte dell’essere (nel senso che se il tutto, certamente, appare, appunto in quanto il termine ‘tutto’ è significante, d’altra parte il tutto non appare nel suo concreto contenuto, e, in questo senso, si dice che l’essere appare in parte); ma poiché l’essere che appare non appare nella sua concreta relazione al tutto, l’essere che appare è diverso da sé in quanto così concretamente relazionato59.

  Poco più avanti si mette in chiaro che il Tutto include la totalità degli enti che appaiono e che, proprio perché così includente, può essere “altro” da quella sua parte che è la totalità degli enti che appaiono, fermo restando che ad essere il Tutto non è il Tutto in quanto semplicemente “altro” dalle parti che esso include:  

L’essere non lascia oltre di sé nulla, e poiché l’essere è immutabile, l’immutabile non lascia nulla oltre di sé: l’essere in quanto essere si estende tanto quanto si estende l’immutabile. Ma l’immutabile appare in modo processuale – ossia diviene – e quindi l’essere che appare differisce dall’essere in quanto è in sé: non già nel senso che appaia qualcosa che non sia in sé, ma nel senso che ciò che appare (e quindi lo stesso apparire) appare privo di una quantità di positività che gli compete in quanto è in sé (anche se tutto l’essere che appare è in sé). Per questo lato, si deve dire che l’essere lascia “oltre di sé” il suo apparire, o che l’essere in quanto essere ‘include’ l’immutabile: appunto perché, oltre all’essere, include l’essere che appare (e ciò che appare – ripetiamo – è l’essere in sé, ma poiché appare processualmente, non appare come è in sé, ossia differisce, nel senso indicato, dall’essere in sé). Queste due valenze dell’essere in quanto essere – che sono insieme due valenze dell’idea di ‘totalità’ – sono determinate appunto dalla circostanza che, nella differenza ontologica, uno dei due differenti non manca di alcuna positività (e in questo senso coincide col tutto, e con l’area di applicazione dell’essere in quanto essere); onde l’altro differente non aggiunge alcuna positività al primo – e questo è possibile perché quest’altro è lo stesso primo in quanto astrattamente manifesto, e quindi è differente come un mancamento dell’essere60.

59 E. Severino, Poscritto. In Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 112. 60 Ibi, pp. 112-113. Si può dire che l’apparire finito è “isolato” dal Tutto nel senso che l’infinito assolutamente considerato non appare né può apparire nel finto: il finito non può infatti divenire quell’altro da sé che è l’Infinito.

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 A questo punto, il senso dell’Intero come Intero delle parti resta perfettamente determinato: ad essere l’Intero è la Totalità nella sua relazione alle parti. L’identità con sé della Totalità è dunque la Totalità identica in quanto include tutto ciò che è un non-niente. O anche: è ciascuna parte nella sua relazione ad ogni altra parte e alla Totalità – e la parte è identica a sé perché ad essere identica a sé è ciascuna delle parti e la Totalità delle parti. Inoltre dovrebbe essere chiaro che con il termine “relazione” si intende dire di un legame secondo necessità61. Ma il finito che appare nel cerchio finito dell’apparire appartiene necessariamente all’infinita totalità dell’essere sicché, per questo lato, l’Infinito è ciò che il finito è in verità. Il suo “isolamento” dall’infinito significa soltanto che in esso l’Infinito è posto astrattamente – significa cioè che il finito è attraversato da quella forma della contraddizione (cfr. nota seguente) il cui superamento è determinato non già dalla negazione del suo contenuto quanto piuttosto dall’apparire della totalità concreta dell’ente. Sul tema del rapporto tra il finito e l’Infinito si veda il cap. iii della Parte seconda del presente volume. 61 L’affermazione L-immediata dell’eccedenza di un positivo (l’Intero come immutabilità assoluta) rispetto alla totalità dell’essere F-immediato in quanto è l’orizzonte del divenire, determina una disequazione tra il significato originario (la totalità dell’essere affermato immediatamente) e la assoluta materia semantica. Ciò fa sì che la posizione di un qualsiasi contenuto, compresa l’apertura del significato originario e la stessa posizione originaria del significato dell’Intero (della Totalità), valga solo come l’intenzione di questa posizione (stante appunto che ogni significato è legato secondo necessità ad ogni altro significato e che la totalità dei significati non è determinatamente posta). La posizione dell’Intero che si riesce a porre è solo la posizione astratta (formale) dell’intero sicché ciò che resta posto non è ciò che si intende porre. Nel cap. viii de La struttura originaria (intitolato: “Il fondamento come contraddizione”), questa situazione viene definita come Contraddizione C. Essa consiste «nel porre S [= il significato originario] formalmente e nel non porlo concretamente; o nel porre S in modo tale che non resta posta la concreta valenza semantica, o la concreta significanza di ciò che si pone. Rispetto alla posizione di questa concretezza semantica di S, la posizione di S che effettivamente si realizza quando ponendo S non son poste tutte le costanti di S, è quindi soltanto l’intenzione della posizione di S: questa posizione è soltanto esigita. [...] La contraddizione C è pertanto l’intendere come S ciò che, proprio perché è soltanto la valenza formale di S, non è S» (pp. 348-349). La contraddizione C è determinata dalla circostanza per cui qualcosa non ha ciò che invece dovrebbe avere, e cioè la sua relazione al concreto. La negatività che risulta da questo tipo di contraddizione viene dunque dalla “steresi posizionale”, ossia dalla “privazione” per cui qualcosa appare e viene posta senza che appaiano e siano poste concretamente tutte le determina-

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6. Identità di essenza e di essere nella dottrina dell’eternità dell’ente   1. Torniamo alla tesi portante sostenuta ne Le radici forti. Basti ritiene che la teoria metafisica di Severino sia nell’errore perché contiene la stessa antinomicità scoperta nei fondamenti della matematica dal pensiero contemporaneo. Da quanto precede incomincia invece ad apparire che la metafisica di Severino non si trova nell’errore perché non si muove sullo stesso terreno del pensiero logicomatematico contemporaneo. Ma adesso si tratta di capire che la posizione teorica di Severino non si trova nell’errore proprio perché continua a mantenersi (con buona pace di Basti) al di fuori di ogni possibile sintesi del pensiero occidentale, e cioè perché non appartiene alla storia dell’Occidente. Per chiarire il senso di quest’ultima affermazione, cercherò di mettere in evidenza i punti di forza della posizione di Severino per confronto con la soluzione tomista, una soluzione che fa capo alla dottrina della differenza reale di essenza e di atto di essere, e che Basti spiega distinguendo, nella metafisica di Tommaso, tre diversi modi di dire “essere”: «1. L’essere come atto o atto d’essere (actus essendi) partecipato dall’Essere-per-essenza o Atto puro a ciascun ente; 2. L’essere come potenza di essere dell’essenza (materia e forma) di ogni ente fisico, codeterminata dall’insieme delle cause seconde, essenza che si relaziona perciò all’atto d’essere come una potentia passiva alla sua potentia activa; 3. L’essere come esistenza o essere-in-atto (esse actu) dell’ente, inteso come risultato della precedente relazione»62. zioni che necessariamente le convengono (ossia, senza che sia concretamente posta la propria relazione al Tutto). Va da sé che questo tipo di contraddizione non deve essere confusa con la contraddizione di tipo aristotelico (quella per cui vengono attribuite ad uno stesso, e secondo lo stesso, delle predicazioni opposte, sicché accade che lo stesso venga concepito come tale che ha ciò che non può avere – e cioè le determinazioni contrarie). 62 G. Basti, cit., p. 74. L’atto e la potenza si determinano reciprocamente secondo rapporti diversi. In relazione alla costituzione ontologica dell’essenza di ogni ente fisico, la reciproca determinazione dice del rapporto tra la forma e la materia (atto : potenza = forma : materia); in relazione alla costituzione metafisica di ogni ente che non sia Dio, il rapporto è tra l’essere e l’essenza (atto : potenza = essere : essenza); in logica, il rapporto è tra l’esistenza e l’universalità (atto : potenza = esistenza : universalità).

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2. Sulla questione metafisica del rapporto tra essere (atto dell’essere), essenza ed esistenza dell’ente, il testo de Le radici forti sottolinea l’assoluta originalità di Tommaso «rispetto al resto del pensiero occidentale che non va mai oltre la distinzione fra essenza ed esistenza»63. E al «resto del pensiero occidentale» Basti cerca di far rientrare la stessa filosofia di Severino64, che dunque avrebbe ridotto l’essere all’esse existentiae, e l’essenza ad una modalità specifica dell’essere, quella della possibilità (il was, l’esse essentiae) contrapposta al modo della realtà effettuale (il dass, l’esse existentiae). Ma le cose non stanno così: nel Poscritto di Ritornare a Parmenide, Severino afferma che «se dell’essere (di ogni e di tutto l’essere) non si può pensare che non sia, allora dell’essere (di ogni e di tutto l’essere) non si può pensare che divenga perché, divenendo, non sarebbe – non sarebbe, cioè prima del suo nascimento e dopo la sua corruzione. Sì che tutto l’essere è immutabile. Non esce dal nulla e non ritorna nel nulla. è eterno»65. La testimonianza della verità dell’essere esige dunque che si affermi che “l’essere è”: che tutto Questa dottrina tomista viene presentata da Basti come la chiave risolutiva di tutte le antinomie presenti al pensiero da Platone a Gödel. In particolare, essa sembra fornire la soluzione alle antinomie (o contraddizioni) che il pensiero logico-matematico contemporaneo ha scoperto nella nozione cantoriana di infinito in atto inteso come Totalità Assoluta dove tutte le cose (enti e relazioni) sono già determinati. La distinzione reale dell’essenza e dell’atto dell’essere consente infatti di distinguere tra «l’essere (potenziale) dell’essenza di una proprietà e l’esistenza predicativa della medesima (ovvero il suo esistere come predicato nell’ente logico, nella proposizione), quando siano poste le opportune condizioni (relazioni) che ne necessitano l’esistenza stessa» (Ibi, pp. 74-75). 63 Ibi, p.76. 64 La tesi non è nuova. Nello scritto L’alienazione dell’Occidente, C. Fabro aveva già sostenuto che «Severino [...] non distingue fra la existentia come ‘fatto’ di essere della Scolastica, passata poi nel pensiero moderno, e lo esse come actus essendi profondo ch’è proprio di S. Tommaso» (C. Fabro, cit., p. 59, nota 18). In altre parole, Severino avrebbe inteso il rapporto tra l’essenza e l’essere come il rapporto che intercorre tra la possibilità (l’esse essentiae) e la realtà (l’esse existentiae): l’essenza si risolve così nel Was rispetto al Dass, «come in Suárez, Wolff, Kant». Insomma, anche Severino avrebbe del tutto ignorato la posizione assolutamente originale di S. Tommaso quanto alla distinzione di essentia e esse nella creatura, «confondendo il semantema proprio di S. Tommaso (esse, actus essendi) con la existentia della Scolastica nominalistica, che si prolunga nel razionalismo moderno» (C. Fabro, cit., p. 90, nota 27). 65 E. Severino, Poscritto, cit., p. 63.

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l’essere è eterno. Dopodiché, Severino spiega che con il termine “essere” si intende «tutto ciò che non è un nulla: la natura, il linguaggio, la realtà e l’apparenza, i fatti e le essenze ideali, il divino e l’umano...; e l’‘è’, indica l’esse, l’esistenza, l’œstin di Parmenide. Se l’‘essere’ è l’ejovn di Parmenide – ma che ormai, dopo Platone, include la totalità delle determinazioni o differenze, ossia appunto, la totalità di ciò che non è nulla – l’œstin significa appunto questo non esser nulla»66. Che cosa significa dunque l’ “è”, l’esse, l’esistenza, negli scritti di Severino? Significa lo stesso che il non essere un niente da parte dell’essente: «Che qualcosa ‘esista’ significa innanzitutto che non è un niente, e cioè che riesce a starsene presso di sé senza disciogliersi in un niente»67. E se con il termine actus essendi si intende il principio più intrinseco dell’ente, quel principio per cui l’ente se ne sta presso di sé, l’esse è appunto l’actus essendi. «L’esistenza invece, come exsistere, come cioè un riuscire a costituirsi mediante un venir fuori alla luce, è soltanto un modo particolare dell’esistere assunto nella sua valenza trascendentale, ossia come negazione del nulla»68. Ma negli scritti di Severino anche il termine “essenza” viene assunto nella sua valenza trascendentale: non coincide cioè con il was inteso come la semplice modalità del possibile, ma sta ad indicare ogni dimensione semantica e ogni determinazione sia empirica che non empirica, storica o fantastica, astratta o concreta, possibile o reale, universale o individuale. Ciascuna di esse è eterna e ciascuna lo è a modo suo (come empirica o non empirica, come storica o fantastica... come possibile o reale, come universale o individuale). E la verità dell’essere afferma appunto che «se è problematica l’implicazione tra l’essenza e una certa modalità dell’esistenza (diversa da quella che le compete attualmente), non è però problematica l’implicazione tra l’essenza (ossia tra qualsiasi essenza o determinazione considerata: irreale o reale, incorporea o corporea, ecc.) e l’esistenza pura, intesa cioè in senso trascendentale»69. 66 67 68 69

Ibidem. Ibi, p. 64. Ibidem. Ibi, p. 75. La verità dell’essere dice del Tutto e della sua eternità. Ma l’affermazione dell’eternità del Tutto è qualcosa di fondamentalmente diverso dall’affermazione che ad ogni ente convenga l’esse existentiae. «Questa seconda affermazione riduce tutti i modi di essere al modo di essere della ‘realtà’ (e tale riduzione, come soppressione e nientificazione degli

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3. La necessità di non confondere l’esse con l’esse existentiae è di certo presente nella dottrina metafisica di Tommaso: si tratta della esigenza di tenere fermo il valore trascendentale dell’essere e di escludere un puro estrinsecismo nel rapporto tra l’essenza e l’atto dell’essere. Ma a differenza della posizione di Severino (che afferma l’immediata implicazione dell’essenza e dell’essere, presi nel loro valore trascendentale), la soluzione di Tommaso consiste nel riportare questi due principi nell’ambito di una concezione della causalità centrata sul principio della partecipazione. In altre parole, la posizione di Tommaso circa la questione metafisica del rapporto tra essere, essenza ed esistenza degli enti consiste nel tentativo di concepire l’atto dell’essere come estrinseco rispetto all’essenza (in quanto partecipato da una causa efficiente estranea o estrinseca all’ente esistente), senza che per questo l’essere diventi un accidente dell’essenza. Scrive Basti: «La partecipazione dell’atto d’essere (non l’essere!) è estrinseca all’essenza negli enti materiali perché altrimenti si arriverebbe all’assurdità ch’essa dovrebbe contenere in atto tutte le specificazioni possibili del singolo individuo e quindi tutte le specificazioni di tutti gli individui di ogni tempo, ed è estrinseca anche al soggetto esistente perché è sua causa efficiente ultima per partecipazione dalla Causa prima. Ma non è estrinseca al soggetto concretamente esistente come sua causa formale perché è causa dell’essenza di quell’ente, ovvero l’atto d’essere è atto dell’atto formale ultimo dell’essenza di quell’ente. E questo proprio perché l’essenza, in quanto genere specificato fino alla sua ultima specificazione, partecipa mediatamente dell’atto d’essere. Vi partecipa cioè attraverso l’essere assoluto (atto d’essere) del soggetto individuo concretamente esistente, essere assoluto che dà così all’essenza la sua ultima determinazione rispetto a quell’individuo»70. Sennonché, all’interno della prospettiva tomista (alla quale si riferisce il testo de Le radici forti), si tratta pur sempre di concepire l’essere degli enti finiti (l’actus essendi, il loro esistere) come un che di estrinseco (adveniens extra) rispetto alla loro essenza e perciò come facente composizione con essa (et faciens compositionem cum altri modi di essere è un aspetto del nichilismo). La verità dell’essere dice invece l’eternità di ogni modo dell’essere (reale, irreale, corporeo, incorporeo, illusorio, ideale, sensibile, umbratile, speculare, storico, sociale, ecc.)» (E. Severino, Risposta alla Chiesa, cit., pp. 368-369). 70 G. Basti, cit., p. 96.

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essentia)71. Ma allora è inevitabile che lo stesso soggetto concretamente esistente, che è un non niente (!), sia concepito come ciò che di per sé è niente, stante che è solo per forza di altro (ossia è ens ab alio che dipende, quanto all’essere, dall’Ens a se).   4. Torniamo adesso al testo de Le radici forti e fermiamoci, ancora per un po’, sulla nozione della differenza reale tra l’essenza e l’esistenza (l’atto di essere). Riferendosi all’esempio che fa Tommaso (In De Div. Nom., 113) per spiegare la differenza tra la totalitas ante partes (ossia l’universale come formalità pura che prescinde da ogni distinzione parte-Tutto: l’essenza antepredicativa dell’universale) e la totalitas ex partibus (e cioè l’universale come totalità composta di parti: l’esistenza predicativa dell’universale), Basti scrive: «Se concepiamo una casa esistente come totalitas ex partibus, come una ‘totalità composta di parti’, la sua consistenza come totalità dipende dalla totalitas ante partes che è l’idea della casa nella mente del costruttore. D’altra parte, però, l’idea della casa da sola non è sufficiente a garantire l’esistenza: 1. né di una casa soltanto in quanto totalità di parti assemblate secondo quella forma se non esistono le condizioni materiali (p. es., mattoni, cemento, ecc.) che codeterminano, con la forma, la nuova totalità-casa (universale uno-di-uno); 2. né a maggior ragione di una collezione di case in quanto, di nuovo, totalità di parti individue, ovvero di singole case, ciascuna assemblata in maniera assolutamente unica al variare delle condizioni materiali, ma tutte secondo quella forma comune a più case (universale-uno-di-molti)»72. Di qui la distinzione tomista tra l’essere dell’essenza (nel caso citato, la qualità dell’esser-casa, la totalitas ante partes) e l’esistenza di ciò di cui l’essenza è predicabile (la singola casa o una collezione di case, come totalitas ex partibus). Ora, è certamente vero che io posso pensare che cosa sia una casa e tuttavia ignorare se nella ‘re71 Tommaso, De ente et essentia, cap. v. Nel teorema tomista della distinzione reale di essenza e di essere, «il termine ‘essentia’ non ha il significato ristretto di ‘essenza intelligibile’, astratta dalle determinazioni individuanti, ma indica ogni tipo di determinazione, dalla più individuata (onde si parla di ‘essentia Petri’, in cui ‘ponitur hoc os vel haec caro’, Tommaso d’Aquino, De ente et essentia, cap. i) alla più astratta. L’‘essentia’ è cioè appunto quel ‘non essere’, che Platone ha rilevato come ›teron dall’essere» (E. Severino, Poscritto, cit., p. 74, nota 11). 72 G. Basti, cit., pp. 171-172.

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altà’ esista una casa o una collezione di case. Ma in questo modo il termine “esistere” viene assunto nel significato speciale di “essere secondo una specifica modalità dell’esse”. Inoltre, se può essere problematica l’implicazione tra l’essenza di “casa” (o l’essenza di “cavallo”, o quella di “marziano”) e quella certa modalità dell’esse che è l’esistere nella realtà effettuale, non è tuttavia problematica l’implicazione tra una determinazione (quale che sia e secondo la modalità che le conviene) e il suo essere un non niente (dove “l’essere un non niente” o “l’essere essente” dice appunto della trascendentalità dell’ente: ens commune). Accade invece che nella dottrina tomista della distinzione reale dell’essenza e dell’atto d’essere, l’essenza degli enti finiti sia pensata come ciò nel cui concetto non entra l’essere, l’actus essendi, l’esistere. Nel celebre cap. v del De ente et essentia, Tommaso sostiene infatti la possibilità di dimostrare che, nel concetto dell’essenza, nulla si dice circa il suo esistere e afferma: «Qualunque essenza o quiddità [dalla essenza più astratta a quella più individuale] può essere pensata senza che venga pensata come avente l’essere (omnis autem essentia vel quidditas intelligi potest sine hoc quod aliquid intelligatur de esse suo): possiamo infatti pensare che cos’è l’uomo o la fenice, e tuttavia ignorare se abbia l’essere nella realtà effettuale (possumus enim intelligere quid est homo vel phoenix et tamen ignorare an esse habeat in rerum natura). Dunque è chiaro che essere è altro dall’essenza (Ergo patet quod esse est aliud ab essentia)»73. Ma è 73 «A meno che non ci sia una realtà, la cui essenza sia lo stesso suo essere (nisi forte sit aliqua res cuius quidditas sit suum esse): questa realtà non può essere che unica e prima realtà [...]. Se dunque si pone una cosa che è il suo essere, in modo che l’essere stesso sia sussistente, tale essere non può accogliere l’aggiunta di una differenza, perché allora non sarebbe assoluto, bensì essere unito ad una forma; e molto meno un tale essere ammetterà la composizione con la materia, perché allora non sarebbe essere sussistente, bensì essere incarnato nella materia. Resta dunque che una realtà tale, che sia il proprio essere, non può essere che unica; di conseguenza è necessario che in ogni altra realtà, al di fuori di essa, altro sia il suo essere e altro sia la sua quiddità o natura o forma» (Tommaso, De ente et essentia, cap. v). La differenza ontologica tra la Totalità Assoluta e Trascendente (Totalitas ante partes) e la totalità degli enti finiti (totalitas ex partibus) fornisce, a parere di Basti, la chiave per la soluzione non assiomatica delle antinomie rilevate dal pensiero logico-matematico contemporaneo a proposito del concetto dell’infinito attuale: «Avendo così posta l’identità essere-essenza nella totalitas ante partes dell’Essere Sussistente, tutti gli altri enti appartenenti alla seconda totalità godranno senza con-

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anche chiaro che con questa fondamentale argomentazione, con cui nella scuola tomista si pensa di poter dimostrare la distinzione reale tra essenza e atto dell’essere (esse est aliud ab essentia), la valenza trascendentale dell’essere viene persa di vista, essendo l’essere (l’esse, l’actus essendi) risolto interamente nell’esse in rerum natura. Accade cioè che il rapporto tra l’essenza e l’essere sia in realtà concepito come il rapporto che sussiste tra due modalità specifiche dell’essere: l’esse essentiae e l’esse existentiae (sicché ad essere dimostrata è propriamente la distinzione tra queste due modalità dell’essere), dove l’essenza viene a perdere il suo valore trascendentale (quella valenza per cui essa sta a significare una qualsiasi determinazione: individuale o universale, possibile o reale) e si riduce, o contrae, al semplice modo della possibilità (il was rispetto al dass), mentre l’essere (l’esser un non niente da parte dell’essente) resta da ultimo identificato all’esse existentiae o all’esistenza effettuale74. traddizione della medesima proprietà che definisce la totalità cui appartengono, quella della composizione essere-essenza, ognuno di loro godrà infatti della proprietà di essere una totalitas ex partibus. In altre parole, avendo distinto tra essenza ed esistenza è possibile pensare senza contraddizione l’esistenza di una totalità composta di parti (i singoli enti) che a loro volta sono totalità composte di parti (al limite, solo dall’essenza e dall’essere). Da ciò si evidenzia [...] la via del tutto nuova che la teoria tomista della differenza reale essere-essenza offre dell’antinomia della classe totale» (G. Basti, cit., p. 173). La soluzione consiste dunque nell’affermare che l’essere (l’esse) non appartiene alla totalitas ex partibus in quanto tale, giacché essa riceve l’essere da un principio ad essa estrinseco: la Totalitas ante partes dell’Essere Assoluto che «dev’essere assolutamente semplice, non solo nel senso di non essere costituita di elementi, come una qualsiasi forma, ma anche nel senso di non essere composta di essenza e di essere come ciascuno degli esseri che compongono la seconda totalità e come la totalità stessa. La totalitas ante partes dell’universitas rerum sarà dunque l’Essere divino, l’unica ‘Totalità Semplice’ [...], la pienezza dell’Essere o l’Essere Sussistente. Solo a questo prezzo la totalitas ex partibus dell’universitas rerum può divenire una totalità consistente» (G. Basti, cit., p. 172). Ma ciò vuol dire che al fondo del pensiero di Tommaso (di Basti e dell’intero pensiero dell’Occidente) agisce la persuasione che, in quanto tale, la totalitas ex partibus (che non significa “niente”, che è “non niente”) è niente. 74 Per lo sviluppo di queste tematiche si veda il Poscritto di Ritornare a Parmenide, cit., pp. 74-79. In Risposta alla Chiesa, cit., pp. 364-371, Severino richiama le pagine del Poscritto e afferma che «il modo fondamentale secondo cui il pensiero tomista dimostra che “esse est aliud ab essentia vel quidditate” perde di vista la valenza trascendentale dell’esse e riduce l’esse all’“esse in rerum natura”: in quella dimostrazione (che si rifà ad Avi-

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Inoltre, rispetto a quell’essente che è la sintesi tra l’essenza (la determinazione, dalla più astratta a quella più individuale, compresa la stessa totalitas ex partibus dell’universitas rerum) e l’atto dell’essere, si dovrà pur sempre dire che rimane l’indifferenza rispetto all’essere o al non essere un niente, stante che l’atto d’essere gli è estrinseco (est adveniens extra): contingenza dell’ente esistente, indifferenza del non-niente all’essere niente. Come si vede, la critica di Basti per cui la filosofia di Severino sarebbe riconducibile al resto del pensiero occidentale, incapace di andare al di là della distinzione dell’essenza e dell’esistenza, si può rovesciare: non è la filosofia di Severino ad aver perduto di vista il valore trascendentale dell’essere, ma è il pensiero dell’Occidente (compresa la posizione di Tommaso e la sua nozione della partecipazione dell’atto d’essere) ad aver smarrito il senso della verità dell’essere, nella misura in cui finisce per identificare (in ultima analisi) la determinazione (la determinazione qua talis e dunque lo stesso esistente finito) al niente.   5. Ancora un’osservazione critica: a proposito del concetto della contingenza dell’ente, Basti osserva che «la potenzialità della materia ad essere e non essere (potenza passiva) non dipende da un’assurda indifferenza dell’ente all’essere o al non essere che violerebbe il principio di non contraddizione [...]. La contingenza ha allora una spiegazione causale, non logica: non suppone le alternative e/o differenti determinazioni già esistenti in qualche “altrove” della totalità dell’essere determinato. La contingenza dipende dal fatto che non esiste un concorso causale (potenza attiva) sufficiente a determinare univocamente a priori l’esito del processo prima che avvenga (potenza passiva), perché non può essere garantito che una o più delle cause agenti concomitanti non vengano impedite ad agire»75. cenna) Tommaso non fonda la “distinzione reale” (cioè la separabilità) di esse (in senso trascendentale) ed essenza, ma la “distinzione reale” tra l’essenza e un certo ‘modo’ dell’esse: quel “modo” [...] che consiste appunto nell’“esse in rerum natura”» (p. 366). 75 G. Basti, cit., pp. 51-52. «È necessario che l’essere sia, quando è, e che il non-essere non sia, quando non è; tuttavia non è necessario che tutto l’essere non sia, né che tutto il non-essere non sia; non è infatti la stessa cosa che tutto ciò che è sia necessariamente, quando è, e l’essere senz’altro di necessità» (Aristotele, De Interpr. 9, 19a 23-27). Riferendosi a questo celebre passo del De Interpretatione, in cui Severino vede sintetizzato nella sua formulazione più rigorosa il tramonto del senso dell’essere, Basti osserva che il testo dello Stagirita va integrato con la spiegazione di Tommaso (cfr. Le

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Più avanti Basti ci dice che in una teoria causale della contingenza dell’ente, quale è quella tomista, «esiste e necessariamente solo ciò che dipende da una causalità sufficiente a farlo esistere come tale (e non da una ragione sufficiente a farlo apparire univocamente in un orizzonte dei possibili già tutti definiti)»76. Ora il punto critico sta proprio qui: contingente è ciò che dipende da altro quanto al suo essere, ma ne dipende in guisa tale che l’azione causante dell’altro potrebbe essere impedita. In una teoria causale della contingenza esiste, infatti, e necessariamente, «solo ciò che dipende da una causalità sufficiente a farlo esistere come tale». Ma tale causalità sufficiente potrebbe anche smettere la sua azione. E allora che ne sarebbe dell’ente causato? Il fatto è che la spiegazione causale suppone che i differenti essenti e la stessa totalitas ex partibus dell’universitas rerum siano tali nella misura in cui sono causati, e cioè nella misura in cui per sé sono niente (essendo per altro, ossia per forza della Totalitas ante partes). Inoltre, la spiegazione causale suppone che le cause agenti concomitanti non siano determinate ad un solo esito – e cioè che una determinata azione causale sarebbe potuta essere niente. Affermare che «non può essere garantito che una o più delle cause agenti concomitanti non vengano impedite ad agire» significa appunto supporre che una determinata azione causale (e dunque un determinato essente) non è necessario che sia. In conclusione, la spiegazione causale della contingenza, non meno che la spiegazione logica (per cui il contingente è ciò che non è impossibile che sia, ossia ciò che non è necessario che sia), è fondata sulla persuasione che l’essente in quanto tale sia

radici forti, cit., pp. 50 ss.). Nell’esempio della battaglia navale che Aristotele riporta subito dopo (per cui è necessario che domani una battaglia navale vi sia o non vi sia, senza che per questo sia necessario che domani vi sia battaglia, né che domani non vi sia battaglia), la contingenza dell’ente andrebbe allora spiegata riportandone il concetto all’interno di una teoria causale: «Quindi bisogna dire che la possibilità della materia ad ambedue gli esiti, se parliamo comunemente, non è una giustificazione sufficiente della contingenza, a meno che non si aggiunga qualcosa da parte della potenza attiva. E cioè che essa non sia del tutto determinata ad un solo esito. Altrimenti, se fosse così determinata ad un solo esito da non poter esser impedita, ne conseguirebbe di necessità che essa ridurrebbe in atto la potenza passiva nel medesimo modo» (Tommaso, In Perih., 1, xiv, 184). 76 G. Basti, cit., p. 55.

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niente, proprio nella misura in cui la determinazione (essentia, quale che sia) riceve il proprio essere ab alio: esse est aliud ab essentia77.   6. Nella dottrina tomista l’essere è «l’attualità di ogni atto»78. Ciò significa che la specificazione dell’essere di ogni essente non può avvenire per l’aggiunzione estrinseca delle differenze (e delle essenze) all’esse commune, come se quest’ultimo fosse il genere generalissimo. L’essere, infatti, non è un genere stante che le differenze non sono niente (differentiae entis sunt formaliter ens)79. Inoltre, «Nulla si può aggiungere all’essere che sia ad esso estraneo, poiché ad esso nulla è estraneo, se non, appunto, il non essere che non è né materia né forma. Quindi l’essere non viene determinato da altro come una potenza dall’atto, ma come un atto dalla potenza»80. 77 «Per Tommaso (come per l’intero pensiero occidentale) l’esse è divisibile dall’essenza: “est adveniens extra et faciens compositionem cum essentia” (De ente et essentia, V). Ciò vuol dire che l’esse non compete all’id quod, ossia alla determinazione, in quanto essa è tale: in quanto tale la determinazione non è. La determinazione è, solo in quanto riceve l’essere “ab alio”. Ma affermare che, in quanto tale, la determinazione non è, significa affermare che il non niente, in quanto non niente, è niente. (La determinazione, infatti, non significa “niente”; la determinazione non è un niente). In Tommaso, il nichilismo si esprime in modo eminente nel concetto di partecipazione» (E. Severino, Risposta alla Chiesa, cit., p. 366). 78 Tommaso, De pot., vii, 2, ad 9. 79 Le differenze del genere non sunt formaliter genus, perché le differenze specifiche non vanno a costituire l’elemento generico, ma si aggiungono sinteticamente ad esso. Invece, le differenze dell’essere sunt formaliter ens perché, se andiamo a considerare i modi specifici secondo cui l’essente è, di essi dobbiamo dire che “sono”. Se l’essere fosse un genere, che indica il comune, le differenze sarebbero o cadrebbero al di fuori di esso. Le differenze sarebbero niente. Se l’essere fosse un genere, si annullerebbero (resterebbero cancellate) le differenze, ma differentiae entis sunt formaliter ens. Dove le differenze sono appunto i modi specifici secondo cui l’essente è. «Non è possibile che l’Uno e l’Essere siano un genere. È necessario infatti che le differenze di ciascun genere siano, e che ciascuna differenza sia una. [L’uno e l’essere sono infatti convertibili]. D’altra parte è impossibile che le specie di un genere si predichino delle proprie differenze, o che il genere senza le sue specie si predichi delle differenze. Ne segue che, se l’Essere e l’Uno sono generi, nessuna ‘differenza’ potrà né essere né essere una» (Aristotele, Metaph. iii, 3, 998b 22 - 27). 80 Tommaso, De pot., vii, 2, ad 9.

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A questo proposito Basti osserva che l’essenza «specifica l’essere di un ente non dall’esterno, aggiungendosi come ulteriore determinazione all’essere indeterminato [...], ma perché, come costitutiva della sostanzialità di ogni ente che esiste, sia esso un ente logico o un ente naturale, articola l’esse comune ad ogni ente secondo la propria esclusiva specificità o perseità, contraendo, riducendo a se stessa come ‘potenzialità’ – ovvero come impossibilità dell’essenza di un ente finito ad essere simultaneamente ogni perseità – l’‘attualità’ perfetta e completa dell’essere»81. Ora, ciò che si avverte anche in questo testo de Le radici forti è l’esigenza del trascendentale, e cioè l’esigenza di non intendere una assurda estrinsecità nel rapporto tra l’essenza e l’atto dell’essere (il non essere un niente da parte dell’essente). Ma c’è da dire che questa esigenza resta alla fine non soddisfatta, proprio perché nella prospettiva tomista quel rapporto di mutua appartenenza dell’essenza e dell’essere viene inserito nel contesto causale della partecipazione, e in tale contesto l’essere rimane pur sempre divisibile dall’essenza, in quanto si pone che negli enti finiti esso sia «adveniens extra et faciens compositionem cum essentia». Accade allora che l’essere non possa più venire inteso come l’ens trascendentale che conviene ad ogni essenza in quanto essa è tale e cioè in quanto è una determinazione qualsiasi (che anzi, in quanto tale, la determinazione resta identificata al niente, stante che essa riceve l’essere ab aliquo principio extrinseco), ma venga assolutamente identificato ad una modalità specifica dell’essere: il modo d’essere della realtà. 7. Nota: la logica e l’isolamento dell’ente   1. All’interno della prospettiva tomista nella quale intende collocarsi il testo de Le radici forti, rimane un’esigenza non soddisfatta lo stesso tentativo di tenere ferma la «irriducibile unità semantica» di ogni enunciato definitorio, di contro ad ogni forma di atomismo logico che riduce l’“è” della predicazione a “copula”. Basti rinvia al concetto della necessaria coappartenenza del Soggetto e del Predicato (rinvia quindi alla res, ossia all’unità stessa di quelle cose di cui 81 G. Basti, cit., p. 107. Per Tommaso, solo il primo ente, ossia Dio, è «atto infinito, cioè avente in sé tutta la pienezza dell’essere non contratta ad alcuna natura né di genere, né di specie» (Q. de Spir. Cr., 1).

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l’una viene predicata dell’altra) e al concetto della analogia entis, per cui «l’unico essere si predica in modo “proporzionalmente diverso” all’essenza di ogni ente»82. Questa dottrina si inserisce però tutta all’interno del principio della “differenza metafisica” fondamentale tra essenza ed essere e della loro reciproca determinazione. Ora, ciò che fa problema non è la predicazione analogica dell’essere (che anzi l’essere è concetto analogico), ma è proprio il ricorso a quel principio della strutturazione metafisico-causale della differenza reale dell’essenza e dell’atto d’essere, giacché per tale principio resta posto che l’essere est aliud ab essentia vel quidditate (essendo esso partecipato da un principio estrinseco). Ciò significa che per Tommaso l’essere non entra nel concetto dell’essenza degli enti finiti, non est de intellectu essentiae, sicché è inevitabile che, quando l’essere attualizza una determinata essenza, si determini, rispetto a quest’ultima, un “divenire altro” e cioè un passare dal non essere (cui resta identificata la determinazione quando non è ancora) all’essere. Come sostenere dunque l’affermazione dell’intrinsecità e dell’immediatezza della appartenenza di Soggetto e di Predicato, senza perciò cadere nell’errore dell’identificazione dei non identici? In un solo modo, e cioè ponendo che l’essere (l’essere non niente dell’essente) non est aliud ab essentia o, anche, che l’essere est de intellectu essentiae vel quidditatis. Ma con ciò siamo ritornati alla tesi fondamentale della filosofia di Severino per cui «nel significato della determinazione (essenza) di cui si predica l’essere (l’esse, esistenza) è originariamente incluso l’essere (la positività, l’esistenza) della determinazione»83.   2. La critica di fondo, che il testo de Le radici forti muove al formalismo della logica contemporanea, è il rilievo strategico che la forma, e dunque la perseità del predicabile, «determina la totalitas ante partes non quella ex partibus, determina i “confini” di una totalità, ma non il suo “contenuto”, determina la condizione da soddi82 G. Basti, cit., p. 121. 83 E. Severino, La struttura originaria, cit. pp. 517-518. È appena il caso di ribadire che qui il termine “essenza” sta ad indicare ogni tipo di determinazione: non solo, dunque, le forme intelligibili e gli enti logici, ma anche, ad esempio, l’essenza (tutta individuata) di Socrate. La verità dell’essere afferma appunto l’eternità dell’essere e delle sue forme molteplici, ideali o reali che siano.

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sfare ad un elemento per entrare a far parte di quel dominio, ma non l’esistenza dell’elemento medesimo»84. L’errore del formalismo sta dunque nell’aver surdeterminato la forma, assegnandole un compito che essa non può assolvere: determinare non solo il modo di essere, ma anche l’esistenza dell’ente. Scrive Basti: «Il formalista è sempre costretto a cercare il fondamento della perseità delle definizioni a livello dell’esistenza predicativa dell’ente logico: o in qualche totalità assoluta che, diversamente da come suppone Severino, non può contenere in se stessa come esistente e come completamente specificata ogni altra totalità senza divenire una nozione contraddittoria, oppure nell’autoreferenzialità delle definizioni lasciandole “generiche”, ma per ciò stesso essendo costretto ad aggiungere in maniera incontrollabile assiomi su assiomi per garantire in seconda istanza la necessaria specificità delle definizioni esistenziali»85. Qui mi limito ad osservare che tali critiche possono funzionare solo se applicate al formalismo della logica. Abbiamo visto, infatti, che il pensiero della logica e della matematica contemporanea è incapace di intendere il legame che tiene relazionate, secondo necessità, le parti e la totalità delle parti. Ma questa incapacità è determinata dalla circostanza per cui quel pensiero è fondato sull’isolamento, e dunque non può vedere ciò che viene indicato dagli scritti di Severino ossia che l’identità di un certo essente non è isolata dall’identità di tutti gli altri essenti. In particolare, non può vedere che la totalità degli essenti «include originariamente il proprio essere identica a sé e l’identità di ogni essente» e cioè che l’identità che viene affermata della totalità dell’essente «è un contenuto della totalità dell’essente»86. La totalità eterna degli enti non è dunque in alcun modo riducibile alla nozione della “totalità assoluta” o dell’“infinito attuale” cantoriano (o alla nozione di “classe”) cui Basti vorrebbe ricondurlo (per farne saltare il concetto), sicché le critiche che il testo de Le radici forti muove al formalismo, se applicate al discorso di Severino, vanno fuori bersaglio.   3. Quanto alla soluzione proposta da Basti per superare le antinomie della totalità infinita (soluzione consistente nel ritorno alla 84 G. Basti, cit., p. 174. 85 Ibi, pp. 174-175. 86 E. Severino, Tautótēs, cit., p. 113.

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dottrina di Tommaso della differenza reale di essenza e di essere, per avere «il riferimento alla res e non alla totalità dei pensabili come criterio ultimo di esistenza/non contraddittorietà di un ente logico»87 e per fondare così la necessità della coappartenenza immediata Soggetto/Predicato di un enunciato), vorrei qui, in sede di critica finale, inserire un rilievo che è strettamente legato a quanto ho già detto a proposito della dottrina della “differenza reale” – una dottrina che poggia sull’isolamento dell’essente dal proprio essere. Il concetto tomista della res cui si richiama Basti è fondato su un duplice isolamento: 1) l’isolamento della res (dell’essente singolare) dalla totalità degli essenti; e 2) l’isolamento della res (dell’essente) dal suo esser identico a sé. Nella prospettiva del realismo tomista l’essente può infatti costituirsi indipendentemente (e dunque al di fuori e separatamente) rispetto al suo essere conosciuto. L’ente (la res) viene poi concepito come ciò che esce dal nulla e vi ritorna (divenendo altro da sé). Inoltre, da questo punto di vista si continua a pensare che l’identità dell’essente con sé si costituisce solo all’interno della riflessione dell’intelletto: per Tommaso, infatti, l’identità non è una relazione reale, sed rationis tantum, perché «se la relazione di identità fosse una certa cosa oltre ciò che viene detto identico, allora anche la cosa in cui consiste la relazione, essendo identica a sé, per lo stesso motivo avrebbe un’altra relazione che sarebbe daccapo identica a sé, e così all’infinito. Ma non è possibile procedere all’infinito nelle cose. Mentre nulla lo impedisce in ciò che è secondo l’intelletto»88. In questo modo l’essente e la res vengono a costituirsi, originariamente, come “noemi” isolati e dunque separati rispetto alla dimensione dianoetica ossia rispetto alla posizione originaria dell’identità. Ora, irrelati (separati) da tutto ciò che ad essi può convenire l’essente e la res sono qualcosa cui non può convenire alcun predicato, proprio perché tutto ciò che si dice o si pensa di un “noema” isolato è “altro” dal noema, sicché ogni tipo di enunciazione [(A = B), ma anche (A = A)], si presenta come identificazione del non identico89. 87 G. Basti, cit., p. 207. 88 Tommaso, In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, 912. 89 Sulla duplice operazione dell’intelletto, quella noetica (prima operatio intellectus) e quella dianoetica (secunda operatio intellectus – a cui appartie-

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Sul versante logico della struttura originaria

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Come si vede, la tesi di Basti può essere ancora una volta rovesciata: non è il pensiero di Severino a trovarsi nell’errore perché in accordo con i presupposti del pensiero logico-matematico contemporaneo ma, semmai, è il pensiero di Tommaso nell’errore, nella misura in cui si muove anch’esso nella prospettiva dell’isolamento: non vede che l’identità con sé della relazione di identità non va a costituire una dimensione semantica ulteriore rispetto a quella già costituita dall’identità dell’essente – sicché non si apre il processo all’infinito nella posizione dell’identità – né può vedere che il “dianoetico” costituisce la dimensione originaria della manifestazione dell’ente90. C. Il primato della relazione   Prima di chiudere, vorrei tornare brevemente su tre luoghi strutturali del discorso di Severino, al fine di rendere più chiaro quanto già detto a proposito dello specifico della sua posizione. Dunque, tre punti teorici capitali: 1) l’originarietà del dianoetico; 2) l’opposizione del positivo e del negativo; 3) l’analogia dell’essere.   1. Sulla originarietà del dianoetico   1. L’affermazione che ogni essente (A) è identico a sé (A = A) è una tautologia. E una tautologia è pure l’affermazione che l’Intero (T) è l’Intero (T = T) o che l’Essere (E) è l’Essere (E = E). Queste tautologie vanno pensate secondo quanto si dice delle tautologie e del significato concreto dell’identità ne La struttura originaria. Scrive Severino:   ne lo stesso principio di non contraddizione, il quale est primum in secunda operatione intellectus, Tommaso, In duodecim libros Metaphysicorum expositio, 605), e sulla affermazione dell’antecedenza e dell’indipendenza della prima dalla seconda nella dottrina aristotelico-tomista, si veda E. Severino, Tautótēs, cit., capp. x e xi. 90 Sull’incapacità dell’essente di essere identico a sé e negazione del proprio altro, all’interno della prospettiva del realismo aristotelico-tomista – e dunque sul fallimento del tentativo di fondare i primi principi sulla res isolata – si veda E. Severino, Tautótēs, cit., capp. ix-xi.

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Al cuore del destino

Sia il soggetto sia il predicato della proposizione: «L’essere è essere» non sono semplici momenti noetici, dei quali il giudizio, espresso da quella proposizione, sia sintesi; ma sono il giudizio, l’identità stessa nel suo esser posta. [... E infatti] se il soggetto e il predicato dell’identità valgono semplicemente come momenti noetici [...] il campo semantico costituito da ognuno di essi non include come posto che esso sia l’altro, poiché la posizione che l’uno sia l’altro è posizione dell’identità, ossia dell’apofansi [...]. Intesa a quel modo l’identità [avendo cioè conferito al soggetto e al predicato una semplice valenza noetica], la proposizione: «L’essere è essere» diventa [...] un’affermazione autocontraddittoria, stante che il soggetto e il predicato vengono posti come il medesimo, mentre ognuno dei due, come semplice momento noetico, è altro dall’altro. Se il soggetto e il predicato sono presupposti alla loro identità, essi valgono come momenti noetici; e, se sono intesi come momenti noetici, sono presupposti alla loro identità. L’identità concreta è dunque identità dell’identità con se stessa [...]. L’«essere» (E’) di cui si predica l’«essere» (E’’) è appunto l’«essere-che-è-essere»: E’ = E’’; l’«essere» (E’’) che è predicato è appunto l’«essere-dell’essere»: E’’ = E’. La formula dell’identità concreta è pertanto: (E’ = E’’) = (E’’ = E’)91.

  Ma l’identità, da intendersi come “identità dell’identità con se stessa”, è concreta nella misura in cui non è tenuta separata dalla incontraddittorietà dell’essente: (E = nnE) = (nnE = E). E cioè: «L’essere, che non è non essere, non è non essere – dove questo non essere non essere è proprio dell’essere»92. La formulazione suprema dell’identità sarà «la posizione dell’identità tra l’identità (I) e la non contraddittorietà (nC): “Dire che l’essere è l’essere, è lo stesso che dire che l’essere non è non essere”. Pertanto: (I = nC) = (nC = I)»93.   2. In tutti i giudizi [(A = A); (A = B)], il soggetto e il predicato hanno valore apofantico [(A = A) = (A = A); (A = B) = (B = A)]. Questo aspetto della questione viene approfondito nel cap. vi de La struttura originaria, ma è in Tautótēs che esso trova la sua definitiva soluzione teorica. Analizzando l’identità (A = B) si dovrà dire che il pensiero adeguato che la esprime è il seguente: «A-che-è-identico-al-suo-essereinsieme-a B è insieme a B, ossia a quell’essere-insieme-a B che è

91 E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 181-183. 92 Ibi, p. 193. 93 Ibidem.

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Sul versante logico della struttura originaria

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identico ad A»94. In formula: [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A]. Più in generale, nella testimonianza più rigorosa della verità dell’essere si dovrà tenere ferma la co-originarietà di questi momenti: [1] “A è”, ossia A è un non niente; [2] A è identico a sé (A = A); [3] A è identico al suo essere insieme agli altri essenti: [A = (insieme a B)], [A = (insieme a C)]... (dove ciascuna di queste identità va intesa secondo il significato concreto che ad essa conviene, e cioè come identità con sé dell’essente identico); [4] A è identico al suo essere negazione del proprio altro (A = nnA) e cioè: l’identità con sé di A è identica al suo essere negazione dell’identità con sé di B, di C...; [5] A è identico al suo essere eterno95. L’esser sé dell’essente, la tautologia originaria, dice dunque (originariamente) che ogni essente è eterno. A questo punto si tratta di capire che ognuna di queste identità, pur esprimendo delle differenze (pur significando qualcosa di diverso), si implicano tuttavia necessariamente e pertanto sono identiche: significano lo stesso e questo medesimo significare è appunto l’identità di tali identità. È pertanto necessario distinguere: 1) il significato concreto in cui consiste l’identità delle identità; 2) le identità in quanto distinte dal significato concreto dell’identità delle identità. In definitiva le identità «sono differenti tra loro in quanto ognuna è distinta dal proprio significato concreto, cioè dalla propria relazione alle altre identità; e non sono differenti tra loro, in quanto ognuna è in relazione al proprio significato concreto, cioè al significato concreto che è lo stesso di ogni altra identità, e che è, appunto, l’identità delle identità [...] Come distinte, le identità non sono l’originario: l’originario è la loro implicazione e, anzi, l’implicazione delle identità in cui si trova non soltanto un certo essente, ma ogni essente»96.   94 E. Severino, Tautótēs, cit. p. 152. La relazione tra A e B non può essere intesa come l’assurda identificazione dei non identici, ossia l’esser B da parte di A. 95 «L’essere identico a sé, da parte di un certo essente, implica necessariamente il suo essere un essente, il suo essere negazione del proprio altro (e non solo dell’altro in quanto altro, ma anche dell’altro in quanto concretamente determinato; e non solo dell’altro positivo, ma anche del nulla), il suo essere eterno» (E. Severino, Tautótēs, cit. p. 165). 96 E. Severino, Tautótēs, cit., pp. 167-168.

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Al cuore del destino

2. Sulla opposizione universale del positivo e del negativo   Torniamo adesso al punto cruciale del discorso: l’affermazione della identità dell’essenza e dell’esistenza. Anche qui (ma non è che un vedere con lo sguardo rivolto ad una individuazione del fondamento, quanto appena detto circa il rapporto Totalità-parte), si tratta di mettere in chiaro il significato di tale affermazione collocandola nel quadro dell’indagine più generale del pensiero di Severino, che ha di mira la determinazione rigorosa del senso dell’opposizione del positivo e del negativo. Nel richiamarne l’aspetto più generale, il nostro filosofo mette subito in rilievo che «il negativo non è soltanto il puro nulla (Parmenide), ma anche l’altro positivo (Platone)»97. Il che è da intendersi così:  

L’opposizione dell’essere e del nulla è […] uno dei modi secondo i quali il positivo si oppone al negativo: nella sua concretezza, la verità dell’essere è l’opposizione nella sua universalità, e non in questo o in quel modo, in questa o in quella individuazione, sia pure emergente, come quella costituita dalla proibizione che l’essere non sia [...]. Questa pluralità di direzioni o rapporti è appunto la pluralità di modi secondo cui ogni positivo si oppone al suo negativo [...]: a) l’albero non è il monte, b) l’albero non è il monte, la casa e tutto ciò che è altro dall’albero, c) l’albero non è un nulla, e cioè d) l’albero non è mai inesistente [...]. L’opposizione originaria non è né questo né quel modo dell’opposizione, ma la loro cooriginarietà, ossia l’universale concreto dell’opposizione, espresso appunto dalla proposizione «l’essere non è non essere»; dove – ci sia concesso di ripetere ancora una volta – non viene pensata soltanto l’opposizione dell’essere al nulla, bensì l’opposizione ad ogni forma del negativo (e quindi anche l’opposizione al nulla) [...]. Sì che l’opposizione tra quest’albero e questa casa, se considerata come distinta dall’opposizione universale, è fondata su questa universalità (e quindi non è qualcosa di originario), mentre se è pensata nella sua relazione all’opposizione universale, allora, in questa sua relazione, è la stessa opposizione universale e cioè la stessa originarietà del logo. A sua volta, l’originarietà dell’opposizione universale è l’originarietà delle singole individuazioni, ma non – ripetiamo – qualora o in quanto esse sino tenute ferme nel loro distinguersi dall’opposizione universale (poiché, così distinte, non sono originarie ma dei derivati), bensì in quanto sono poste nella loro reciproca relazione. L’opposizione universale è l’originario in quanto è l’universale concreto: né la semplice individuazione, né la semplice universalità, ma la relazione tra l’universale e l’in-

97 Id., Ritornare a Parmenide, cit., p. 29.

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dividuale – il che può accadere solo in quanto si intenda come “universale concreto” l’essere che compare nella proposizione: «l’essere non è non essere»98.

  Tutto questo trova la sua più rigorosa formulazione nei passi de La struttura originaria che ho già riportato sopra. La tesi severiniana dell’eternità dell’ente in quanto ente va dunque concepita in relazione alla universalità concreta dell’opposizione. Va cioè concepita alla luce del significato autentico del principio dell’identità (-incontraddittorietà) dell’essente, che è l’universale includente, come propria individuazione, l’affermazione dell’eternità dell’essente. «Ciò la cui negazione è autonegazione – leggiamo infatti in Tautótēs – non è questa individuazione in quanto tale e a sua volta separata dall’universalità concreta della opposizione del positivo e del negativo (ossia dell’universalità concreta della determinatezza), ma è questa universalità concreta che è concreta solo in quanto non espunge da sé – come invece accade nel modo in cui il pensiero dell’Occidente intende il ‘principio di non contraddizione’ – quella forma specifica dell’opposizione del positivo e del negativo che è appunto “l’identità dell’essenza e dell’esistenza”»99. 98 E. Severino, Poscritto, cit., pp. 117-118. 99 L’identità-opposizione dell’essente – il suo essere identico a sé ossia il suo opporsi al proprio negativo – «è necessaria [è il destino della verità, lo stante], perché la negazione di essa è autonegazione: nell’autonegazione di tale negazione consiste il senso della necessità della determinatezza, ossia dell’identità-opposizione dell’essente. E l’élenchos mostra che la negazione della determinatezza dell’essente è autonegazione, non perché la negazione è un essente eterno, ma perché è un essente determinato» (E. Severino, Tautótēs, cit., p. 242). Ma la determinatezza dell’ente è inclusiva dell’eternità dell’ente: «L’eternità è infatti un modo specifico dell’universale in cui consiste la determinatezza (ossia l’identità-opposizione) dell’essente – è un modo specifico della determinatezza in quanto universale» (ibi, p. 243). La necessità di affermare l’opposizione del positivo e del negativo (e dunque la necessità di affermare la determinatezza dell’essente, l’esser essente dell’essente, la determinatezza del determinato) implica, necessariamente, l’affermazione di quella specifica opposizione del positivo e del negativo che è l’eternità dell’essente. Qui emerge il senso della filosofia autentica (filosofia prima) che non può certo essere “giudicata” dalla matematica, né può essere raggiunta da quelle antinomie (contraddizioni) che la logica e la matematica contemporanea hanno rilevato (ad esempio) nel concetto cantoriano dell’“infinito attuale”. Per quanto riguarda i rapporti tra l’identità-opposizione universale e quella sua individuazioni che è l’identità in cui consiste l’élenchos (ossia la concreta ma-

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 3. Sulla analogicità dell’essere   L’identità cui si rivolgono gli scritti di Severino non è un’identità vuota o isolata dalle sue parti. Su questo punto la lezione di Severino è del tutto esplicita: «L’identità a cui le differenze sono identiche non è un’identità separata dalla sua relazione alle differenze. Se le differenze fossero identiche alla loro identità così separata, questo loro essere identiche non solo sarebbe identificazione dei non identici, ma sarebbe anche la vanificazione delle differenze, la cancellazione del loro differire. L’identità (l’essere essente) a cui un certa differenza è identica è l’identità nella sua relazione a questa certa differenza, e questa relazione differisce dalla relazione dell’identità a una cert’altra e a ogni altra differenza; e per questo differire le differenze differiscono»100. L’esser essente è dunque ciò a cui ogni differenza è identica (è l’identità della totalità delle differenze). Ma questo vuol dire che l’essere è un concetto analogico: significa identità e differenza, dove l’“esser essente” o “l’essere non niente” è appunto l’identità rispetto alla quale le differenze degli essenti sono identiche. Ora, per questo lato (quello dell’identità), tra gli enti e il loro essere sussiste una vera e propria comunanza intrinseca per cui si dice che ogni essente è un non niente – la tautologia originaria la quale attesta che ogni essente, proprio in quanto essente, è eterno.   Ciò detto, dovrebbe essere chiaro che la filosofia di Severino si muove su un terreno diverso da quello del pensiero occidentale. Quest’ultimo vive di un presupposto fondamentale, e cioè del convincimento profondo (ben nascosto e radicato) che gli essenti siano in se stessi niente. Il linguaggio che testimonia l’eternità del Tutto (l’eternità dell’ente in quanto ente) afferma invece che «risiede nel significato stesso dell’essere che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’es-

nifestazione dell’autonegazione dell’identità-opposizione), rinvio al precedente capitolo di questo volume. 100 E. Severino, Tautótēs, cit., p. 210.

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senza dall’ inesistenza)»101. è questo il nucleo teorico fondamentale del pensiero di Severino.

101 Id., La struttura originaria, cit. p. 517. L’universalità dell’opposizione nel suo concreto significato (e dunque il significato autentico del principio di non contraddizione) sta originariamente in relazione a quella forma specifica dell’opposizione che è l’eternità dell’essente. Il principio di non contraddizione non ha dunque «un valore semplicemente logico – ossia non si limita ad affermare che qualora l’essere sia, l’essere è essere (o l’essere non è non essere), e, qualora l’essere non sia, il non essere non è, o non è essere – ma ha anche un valore ontologico, ossia è appunto esclusione della supposizione che l’essere sia e della supposizione che l’essere non sia (stante che anche il supporre che l’essere sia equivale all’affermazione della possibilità che l’essere non sia): e cioè è affermazione che l’essere è» (ibidem).

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III

 

Sul versante fenomenologico della struttura originaria

Il divenire dell’eterno e la verità dell’accadere    L’ente che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire è un eterno. Ma un eterno è anche il suo incominciante apparire sicché, quando un ente sopraggiunge nel cerchio dell’apparire, ciò che incomincia ad apparire è la sua eterna connessione con l’apparire. Tale connessione, proprio in quanto eterna e cioè necessaria, non incomincia ad essere, ma non è contraddittorio che incominci ad apparire. Anzi è necessario che incominci ad apparire quell’eterno che è l’incominciante apparire dell’ente che sopraggiunge nel cerchio trascendentale dell’apparire. Neppure lo scomparire contraddice la verità dell’essere: accade infatti che, quando qualcosa non appare più, al cerchio trascendentale dell’apparire non appartiene più il qualcosa e neppure il suo cessante apparire. Le pagine che seguono, centrate appunto sul versante fenomenologico della verità dell’essere, riflettono sulla tesi per cui nessun incremento o decremento dell’essere è apportato da quell’eterno che è il processo dell’apparire e dello scomparire dell’ente. Il testo sfrutta i contributi scritti in occasione di un dialogo da me tenuto con Alessandro Martinetti, giovane e valente critico delle tesi severiniane. Ma il contenuto di queste pagine si rivolge, più in generale, alle obiezioni che su questo luogo teorico fondamentale sono state mosse da quasi tutti i critici: Carmelo Vigna, Dario Sacchi, Mauro Visentin... solo per citarne alcuni.   1. Il logos dell’essere e l’esperienza del divenire   1. Il destino dell’ente è l’apparire della non controvertibilità dell’essere identico a sé dell’essere. Proprio per via del suo essere

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Al cuore del destino

l’apparire dell’essere identico a sé dell’essere, il destino dell’ente, e cioè la verità dell’essere, è l’affermazione dell’alterità dell’essere dalla inesistenza ossia l’apparire della non nientità dell’ente in quanto ente – ed è perciò l’esclusione originaria della possibilità che l’apparire dell’ente si configuri come apparire del processo in cui si assiste ad un incremento o ad un decremento dell’essere. Dire che la verità dell’essere è il non controvertibile significa che essa è l’originario toglimento della propria negazione, quale che sia la forma determinata che quest’ultima assume. Quanto più la negazione si mostra nella sua concretezza (quanto più concretamente appare il senso della negazione), tanto più la verità riluce nella sua determinatezza, e la posizione astratta (formale) della verità come negazione della propria negazione va progressivamente determinandosi per apparire nella forma della negazione determinata della propria determinata negazione. Nel seguito studierò le movenze che assume la negazione della verità dell’essere allorché ci si propone di mostrare in quale modo, e in quanti svariati modi, l’esperienza (il piano fenomenologico del sapere originario) attesti il divenir altro dell’essere come passare dal non essere all’essere.   2. In dialogo con E. Severino, sostenitore della tesi dell’eternità dell’ente in quanto ente, il filosofo Gustavo Bontadini ha affermato che il logos scopre nell’esperienza del divenire l’esistenza di qualcosa che si annienta: vi è un minimum, egli dice, che non è divinizzabile. Di che cosa si tratti è presto detto: per il pensiero dell’eternità dell’ente, il divenire è non già passaggio dal non essere all’essere di qualcosa (e viceversa), ma dal non apparire all’apparire di qualcosa (e viceversa). Ma, ammesso pure che il divenire non attesti l’essere divenuto niente di ciò che non appare più, e neppure attesti l’essere niente di ciò che ancora non appare, sembra si debba dire che, quando qualcosa ancora non appare, l’apparire del qualcosa è ancora niente, e che, quando qualcosa scompare, l’apparire del qualcosa, ossia la sua attualità (il suo essere contenuto dell’Unità dell’Esperienza), deve annullarsi. Se infatti fosse eterno anche l’apparire del qualcosa, la sua eternità comporterebbe il suo essere eternamente presente; comporterebbe il suo apparire attuale (il suo essere attualmente contenuto nell’Unità dell’Esperienza) anche quando non appare più o ancora non appare, con patente contraddizione: lo stesso (l’apparire attuale del qualcosa), non apparendo

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Sul versante fenomenologico della struttura originaria

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ancora, sarebbe presente e, non apparendo più, continuerebbe pur sempre ad apparire1. Si badi che questa obiezione Severino la conosceva molto bene. Prima che Bontadini e poi altri la riprendessero, il filosofo se l’era posta con tutta nettezza nel lontano 1965, nel Poscritto di Ritornare a Parmenide2. Nello stesso testo Severino ne indicava la soluzione, poi ripresa e approfondita nei lavori successivi: da Destino della necessità a Il parricidio mancato, da Tautótēs a La Gloria, per citare gli scritti di maggiore rilievo. Nelle pagine che seguono richiamerò il senso della soluzione. Ma intanto un punto va subito chiarito. Ci si chieda: qual è il fondamento dell’affermazione dell’annullamento dell’ente? E cioè: l’asserito annullamento dell’ente è constatato o dimostrato? Semplicemente constatato non può esserlo: se è vero che tutto ciò che si annienta (posto che un annientamento si dia) scompare nella misura in cui si annienta, è anche vero, come lo stesso Bontadini ebbe a riconoscere, che «dal fatto che qualcosa scompare non si può dedurre che sia niente. Né l’esperienza dello scomparire è esperienza dell’annientamento dell’ente che scompare»3. Dunque, se l’annientamento non è affermato in base al suo apparire, qual è la base della sua affermazione? Bontadini rispose che tale affermazione «è opera non solo del logo, né della sola esperienza, ma di entrambi questi fattori della Struttura originaria: è opera del logo che legge l’esperienza, e non può che leggerla al modo che s’è detto»4, ossia come dimensione in cui vi è qualcosa dell’ente che si annulla. Sennonché il logos si struttura nella forma dell’opposizione universale del positivo e del negativo – e di tale opposizione è individuazione l’asserto dell’eternità dell’ente in quanto ente. Un logos che nell’esperienza del divenire ritenga di incontrare l’annullamento (e che comunque non escluda a priori l’esistenza dell’annullamento) è dunque un logos alienato. Se la struttura della verità è l’affermazione dell’eternità del tutto (cosa che Bontadini ha infine compreso molto bene)5 e se, d’altra 1 Cfr. G. Bontadini, Dialogo di metafisica i, in Id., Conversazioni di metafisica, tomo ii, Vita e Pensiero, Milano 1995. 2 E. Severino, Poscritto, in Id., Essenza del nichilismo, cit., 1982. 3 G. Bontadini, Per continuare un dialogo, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», i, 1983, p. 112. 4 Ibi, p. 114. 5 Cfr. G. Goggi, Dal diveniente all’Immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, Cafoscarina, Venezia 2003. Su Bontadini e il suo “dialogo” con Severino si veda infra, Parte seconda, cap. i.

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Al cuore del destino

parte, l’annullamento non può essere affermato sulla base del semplice scomparire dell’ente (tale impossibilità appartiene alla struttura originaria della verità), ogni ragionamento che intende dimostrare l’annullamento non può che essere definito a priori come un errore del ragionamento.   2. L'autoreferenzialità dell’apparire e la verità dell’essere che appare   Ciò che consta d’evidenza immediata è in vero innegabile, e la negazione di ciò che consta d’evidenza immediata è tolta immediatamente perché nega ciò che è per sé noto: nega ciò che sta lì dinanzi allo sguardo. Sennonché la struttura dell’immediatezza fenomenologica è qualcosa di più complesso di quanto non risulti da queste prime battute. Qui è opportuno considerare che all’orizzonte dell’essere immediato (di ciò che è impossibile negare) appartiene la stessa immediatezza dell’essere immediato. Il senso di questa appartenenza fa luce sulla struttura originaria dell’apparire e della sua verità. Lo richiamo (il senso di questa appartenenza) attraverso lo studio di un’aporia di notevole interesse esposta da Emanuele Severino ne La struttura originaria, un’aporia il cui risolvimento è la stessa manifestazione della struttura originaria della verità come struttura dell’autoriflessione dell’apparire: se l’affermazione “l’essere è” (sia A1 tale affermazione) è fondata sull’affermazione dell’immediatezza dell’essere (sia A2 l’affermazione dell’immediatezza dell’essere), su che cosa è fondata l’affermazione dell’immediatezza dell’essere (su che cosa è fondata A2)? Noi diciamo che l’affermazione dell’immediatezza dell’essere appartiene al contesto di ciò che è per sé noto (e sia A3 l’affermazione della immediatezza dell’immediatezza dell’essere). A questo punto si può pensare di proseguire il discorso chiedendosi su che cosa è fondata l’affermazione che l’essere per sé noto dell’essere è per sé noto (e cioè in base a che cosa è posta A3), dando così il via ad un regressus in indefinitum nella ricerca del fondamento della posizione dell’essere6. L’aporia viene risolta mostrando che tale procedere è il risultato di un «uso incontrollato dell’intelletto astratto»7 che tiene separato 6 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. ii, parr. 11 ss. 7 Ibi, p. 150.

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l’apparire dell’immediatezza del contenuto immediato dall’orizzonte costituito da ciò che è immediato e cioè dalla posizione dell’immediatezza dell’essere. Si tratta invece di tenere ferma la cooriginarietà delle due posizioni:   Che l’essere che è noto sia quella base o fondamento dell’affermazione dell’essere, è esso stesso un momento dell’essere che è per sé noto8.

  In ogni fase del suo procedere, l’intelletto astratto si impegna ad affermare l’essere per sé noto (l’immediatezza) del proprio contenuto, ma con ciò non fa altro che ripetere l’inclusione dell’immediato nell’ambito di ciò che è noto per sé – e ripete tale inclusione come momento logicamente ulteriore rispetto alla posizione del contenuto immediato, mentre essa è originariamente (immediatamente) inclusa in tale contenuto. L’affermazione dell’immediatezza dell’essere (A2) esclude dunque la possibilità che si costituisca un rinvio in indefinitum nella posizione dell’immediatezza dell’essere, ossia nella presenza o manifestazione di tale essere come ciò che è noto per sé: «La posizione dell’immediatezza dell’essere [il suo essere noto per sé e non per altro] ha valore di fondamento solo se nell’orizzonte dell’immediato è immediatamente inclusa la stessa immediatezza di tale orizzonte»9. La posizione dell’essere (A1) è cooriginaria alla posizione della sua immediatezza (A2); nell’apparire della totalità di ciò che appare (in A1) è cioè immediatamente inclusa l’immediatezza di questa posizione (A2), il che non consente di pensare che l’essere che viene posto (in A1) sia qualcosa di ancora infondato che per trovare la sua fondazione attende il sopraggiungere della posizione della sua immediatezza:  

 

Ciò che viene posto come fondamento […] non è un contenuto presupposto o separato dal suo essere posto come fondamento, ma è appunto ciò che è in relazione […] al suo esser posto come fondamento10.

8 Ibi, pp. 153-154. 9 Ibi, p. 156. 10 Ibi, p. 159.

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La posizione dell’essere (il suo apparire) si distingue dalla posizione dell’immediatezza dell’essere (dall’apparire del proprio apparire come ciò che è noto per sé), ma in questa distinzione le due posizioni sono in relazione: cooriginarietà della posizione dell’essere e della posizione dell’immediatezza dell’essere, originaria inclusione dell’immediatezza dell’essere nell’orizzonte posizionale che si apre con l’apparire dell’essere.   3. Sull’autoreferenzialità dell’apparire   L’autoriflessività dell’apparire (che s’è visto essere condizione necessaria dello strutturarsi della verità della posizione dell’essere che appare) è condizione necessaria del configurarsi dell’apparire dell’ente. Ne richiamo qualche tratto di fondo perché, come presto verrà in chiaro, la soluzione dell’aporetica del divenire (apparente contraddizione tra il dettato del logos e l’esperienza) non può prescinderne. Nel Poscritto di Ritornare a Parmenide, Severino affronta così questo tema cruciale:   Di solito ci si rappresenta l’apparire […] come ciò cui sia consentito di non avere come contenuto se medesimo: l’apparire – si ritiene – può essere apparire delle cose senza essere apparire del loro apparire: l’apparire dell’apparire sarebbe una figura che si realizza solo qualora si rifletta sull’apparire delle cose. Eppure l’apparire è un predicato che conviene necessariamente alle cose che appaiono: non nel senso che ogni cosa che appare non possa non apparire, ma nel senso che, apparendo, l’apparire le conviene necessariamente11.

  Appare una certa determinazione dell’essere: sia x una determinazione qualsiasi dell’essere. Chiediamoci allora: può x apparire se non appare il suo apparire? La risposta è: no! Posto infatti che l’apparire di x sia un apparire in cui non appare l’apparire di x, l’apparire di x sarebbe l’apparire di x e insieme non lo sarebbe, giacché un apparire in cui non appare l’apparire di x è un apparire in cui x non appare. Accanto all’affermazione del qualcosa troverebbe spazio, come non tolta, la negazione del qualcosa – la quale negazione è invece originariamente tolta dall’affermazione dell’essere per sé noto del qualcosa che appare. 11 E. Severino, Poscritto, cit., p. 95.

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Vediamo la cosa da quest’altra angolazione: l’affermazione “x appare” è un dire non contraddittorio solo se l’apparire viene affermato di un x che non è separato (isolato) dal suo essere un qualcosa che appare; in tal caso, infatti, dovremmo pensare che x, che non è un qualcosa che appare, è un qualcosa che appare... di nuovo, una patente contraddizione. Dunque, è di x-che-appare che si afferma l’essere apparente, il che vuol dire che l’apparire di x (sia a1 questo primo apparire) è l’apparire dell’apparire di x (sia a2 questo secondo apparire), e cioè che l’apparire ha come contenuto sé medesimo (a1 e a2 sono, in verità, lo stesso apparire che ha come contenuto se medesimo): x, che è identico al suo essere insieme al suo apparire, è identico al suo essere insieme al suo apparire. In formula, e usando il simbolo “=” per esprimere “l’essere identico”, abbiamo:   [x = (essere insieme al suo apparire)] = [(essere insieme al suo apparire)]12.   Come apparire di se medesimo, dove il “medesimo” è appunto lo stesso apparire che appare a se medesimo, l’apparire dell’essere si manifesta come apparire dell’apparire dell’apparire, e cioè come struttura triadica per cui ad apparire è l’essere contenuto di se stesso da parte dell’apparire: una struttura che ha in sé il suo completamento, senza aprirsi ad una serie infinita di posizioni dell’apparire che sposterebbe all’infinito la fondazione dell’apparire di ciò che appare. Nell’apparire dell’essere, sia a1 tale apparire, è originariamente incluso lo stesso apparire dell’essere che appare: sia a2 lo stesso a1 in quanto entra nel proprio contenuto. Se a1 è l’apparire di se medesimo, anche a2 sarà questo stesso apparire dell’apparire dell’essere – e sia a3 quest’ultimo apparire. Il rapporto tra a2 e a3 è la relazione dell’apparire con sé (l’autoriflessione dell’apparire: l’apparire dell’apparire dell’essere) di cui a1 è l’apparire (apparire dell’apparire dell’apparire dell’essere). Ma a1 è lo stesso a2 e a2 è lo stesso a3, sicché l’atto con il quale a1 include a2 e a3 è l’atto stesso con cui a2 e a3 includono (ciascuno rispettivamente) gli altri due termini: anche a2 e a3 sono apparire dell’apparire dell’apparire. 12 Per lo sviluppo di questo ordine di considerazioni cfr. E. Severino, Tautótēs, cit., cap. xv ss.

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Il regressus in indefinitum si costituisce perché a1, a2 e a3 sono pensati come tre atti successivi per cui dapprima viene posto a1 (che non include a2) e poi, con atto logicamente ulteriore, viene posto a2 (che include a1 ma non a3) e poi ancora viene posto a3 (che include a2 e a1) e così via, in indefinitum. In questo modo la posizione dell’apparire dell’essere si presenta come qualcosa che rinvia all’infinito la propria fondazione. Ma è proprio l’inclusione o appartenenza originaria dell’apparire nel contenuto che appare ad escludere che tale apparire sia qualcosa che debba venire ulteriormente fondato.   4. Ciò che non incomincia né cessa di apparire   Stabilito che l’apparire ha sempre come contenuto se medesimo, posto cioè che l’apparire di qualcosa è sempre l’apparire dell’apparire di qualcosa, segue che l’apparire di qualcosa che entra nell’orizzonte dell’apparire è l’apparire dell’incominciare ad apparire dello stesso apparire del qualcosa – e segue pure che lo scomparire di qualcosa è l’uscita, dal cerchio dell’apparire, del qualcosa e del suo apparire. Non tutto ciò che appare è però un incominciante o cessante apparire. Non incomincia e non cessa di apparire il complesso semanticosintattico che è necessario che appaia affinché possa apparire un qualsiasi essente, ossia l’insieme delle determinazioni che entrano necessariamente nella definizione della sintassi di ogni essente che appare e che possiamo chiamare persintattiche: non incominciano ad apparire né cessano di apparire i significati dell’essere, del non essere, dell’essere identico (e non contraddittorio), e l’insieme delle determinazioni che è necessario che appaiano affinché l’essere che appare sia ciò che esso è in verità (ossia il non controvertibile). Inoltre ciò che accade può apparire come sopraggiungente e come cessante, solo in quanto appare il prima e il poi rispetto al sopraggiungere e al cessare, ma il prima e il poi non potrebbero apparire se non apparissero nella forma veritativa dell’essere sé dell’essente (strutturantesi nella dimensione non diveniente della persintassi dell’essente). Non incomincia ad apparire né cessa di apparire nemmeno l’orizzonte dell’apparire (che pure appartiene al contesto della persintassi). Non mi riferisco all’apparire empirico ossia all’apparire di questa o di quella determinazione che appare (apparire che,

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in quanto empirico, è una certa parte della totalità di ciò che appare), ma all’apparire trascendentale, ossia all’apparire in quanto totalità di ciò che appare. Va anche detto che la comprensione della struttura triadica dell’apparire (nella sua distinzione tra apparire empirico e apparire trascendentale)13 fa circolo con la struttura del logos veritativo che attesta l’eternità dell’ente in quanto tale e che non consente che vi sia un tempo dell’assurdo in cui l’ente non è. Ad essere esclusa è dunque la temporalità dell’essere, ossia la possibilità che ad apparire sia il venir meno dell’essere dall’ente: ciò che nel destino della verità dell’essere appare come l’assurdo impercorribile è la caduta del verbo essere (ptîjij r»matoj), il suo abbandonare l’ente nel niente14. Il non apparire ancora e il non apparire più sono certo tratti non eliminabili della struttura originaria in quanto ciò che appare è appunto il sopraggiungere e il dileguare degli enti, ma ciò non può in alcun modo essere inteso come un passare dell’ente dal non essere all’essere (produzione) e dall’essere al non essere (annientamento), secondo la definizione ontologico-nichilistica del divenire. Se e poiché l’ente è eterno, ad essere eterno è pure quell’ente che è il sopraggiungere dell’ente e cioè il suo incominciare ad apparire. Ma è eterno come ente incominciante, che passa dal non essere apparente all’essere apparente – e ciò che va fatto vedere è che «questo non apparire ancora, che precede l’incominciare ad apparire, non è la nientità dell’apparire incominciante»15. Si tratta quindi di capire che è la 13 Severino si esprime in questi termini: «Nella struttura originaria della verità dell’essere, l’essere che appare include […] originariamente il suo stesso apparire: la posizione (ossia l’apparire) dell’apparire dell’essere è già la posizione (ossia l’apparire) dell’apparire dell’apparire dell’essere, ossia è già la posizione di se medesimo, e quindi non è qualcosa che debba venire successivamente fondato […]. “Posizione dell’apparire dell’apparire” significa “coscienza dell’autocoscienza”. Ma la coscienza che ha come contenuto l’autocoscienza è la stessa coscienza che è contenuta nell’autocoscienza” (E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 238). La struttura autoriflessiva o circolare dell’apparire si configura quindi come struttura triadica – Severino stesso parla di «trinità “apparire dell’apparire dell’apparire”» (cfr. Destino della necessità, cit. p. 160). Va poi precisato che autoriflessiva è la struttura dell’apparire in quanto tale: si riferisce dunque tanto all’apparire empirico, quanto all’apparire trascendentale (ibi, pp. 160-161). Ad essere autoriflessivamente strutturato non è solo l’apparire trascendentale, ma anche l’apparire empirico. 14 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., cap. v, par. ii. 15 Ibi, pp. 100-101.

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stessa struttura dell’apparire ad escludere quella nientità iniziale e che «con l’incominciare ad apparire dell’ente non si produce una sintesi nuova tra l’ente e il suo apparire, ma che tutto ciò che sopraggiunge (e sopraggiunge anche la sintesi tra l’ente sopraggiungente e l’apparire in cui il sopraggiungente sopraggiunge) è già, eterno»16. Il punto da sviluppare e da chiarire ulteriormente è proprio questo: la sintesi tra il sopraggiungente e il suo sopraggiungere (il suo apparire incominciante) è un eterno che sopraggiunge.   5. Il comparire e lo scomparire dell’eterno   L’ontologia nichilistica concepisce l’incominciare ad apparire del qualcosa come un processo in cui ne va dell’essere: il momento che precede l’apparire del qualcosa viene inteso come il tempo in cui la sintesi del qualcosa e del suo apparire (la sua presenza attuale) è niente. Per evitare la contraddizione di un apparire che, essendo la presenza attuale del qualcosa ed essendo eterno, dovrebbe apparire anche quando ancora non appare, sembra non resti che pensare al divenire come processo in cui l’essere e il non essere si contendono, in tempi diversi, qualcosa dell’essere (almeno qualcosa, un minimum), con palese smentita della tesi dell’eternità dell’ente in quanto ente. Chiamiamo Ax la sintesi del qualcosa e dell’apparire del qualcosa. L’obiezione dice: se Ax non appare nel tempo T1 – se cioè, in quel tempo, Ax non è apparente – ciò vuol dire che, in quel tempo, Ax è separato dal “suo” apparire e quindi è niente perché non può darsi un apparire che non appaia; quando poi, nel tempo T2, sopraggiunge la sintesi del qualcosa e del suo apparire (appunto: Ax), tale sopraggiungere sarà da intendere come un incominciare ad essere e solo allora Ax potrà incominciare ad apparire – producendosi così una nuova sintesi: l’apparire dell’apparire del qualcosa. Ecco che, allora, del qualcosa (e del suo apparire) si dovrà dire che diviene altro da sé: da non apparente e quindi non in sintesi con il suo apparire (in T1), ad apparente e in sintesi con il suo apparire (in T2). Per replicare all’argomento della ragione alienata è sufficiente richiamare e sviluppare i motivi teorici abbozzati nei paragrafi prece16 Ibi, p. 101.

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denti. Si osservi allora, innanzitutto, che l’apparire dell’apparire del qualcosa – chiamiamolo A(Ax) – non è una sintesi nuova rispetto ad Ax, ma è lo stesso incominciante Ax che è strutturato autoriflessivamente [A(Ax)] e che va considerato nel suo essere un apparire incominciante. Scrive Severino: «Ogni ente è eterno; ma, appunto, è eterno l’ente nel suo essere ciò che è: nell’accadimento [e cioè nell’incominciare ad apparire dell’ente], l’ente che incomincia ad apparire non è in sintesi con un apparire che è separato dal proprio incominciare, ma è in sintesi con l’apparire incominciante. Questa è la sintesi che è e che è eterna»17. Quando dunque si afferma il non apparire (in T1) dell’apparire del qualcosa [Ax], ci si riferisce con ciò all’apparire incominciante del qualcosa [appunto: Ax] che certamente è identico a sé, strutturandosi autoriflessivamente [e cioè come apparire che ha per contenuto se medesimo: A(Ax)], ma è identico a sé come apparire incominciante, e cioè come l’eterno incominciante apparire dell’apparire del qualcosa. In altri termini: ciò che incomincia ad apparire non sopraggiunge mai privo del cerchio di luce del “proprio” apparire, e ciò significa che non sopraggiunge mai isolato/ separato dal “proprio” incominciante apparire che ha per contenuto se medesimo18. 17 Ibi, p. 100. 18 Scrive Severino: «Ciò che il nichilismo ritiene un’“aggiunta” prima inesistente è quello stesso che, eterno, sopraggiunge; è cioè l’apparire dell’apparire sopraggiungente; ma – si ripeta – l’apparire dell’apparire sopraggiungente è lo stesso apparire sopraggiungente, sì che, ponendolo come un’“aggiunta” rispetto all’apparire sopraggiungente, si nega questo suo essere lo stesso apparire sopraggiungente, cioè si nega che tra gli eterni, il cui apparire sopraggiunge, possa trovarsi il loro stesso sopraggiungente apparire. L’apparire sopraggiungete è l’accadimento. Da un lato, dunque, anche dell’apparire sopraggiungente è necessità dire che è eterno e che l’eternità del sopraggiungere implica che il sopraggiungente prima non appaia e poi appaia (l’uscire dal non-apparire è cioè richiesto con necessità dall’eternità del sopraggiungere); dall’altro lato è necessità dire che l’apparire in cui il “poi” consiste non è un’“aggiunta” rispetto all’eterno apparire sopraggiungente, ma è questo stesso sopraggiungente apparire. L’incominciare ad apparire, così, non aggiunge nulla al Tutto dell’ente: nemmeno quell’ente che è lo stesso incominciante apparire dell’ente». (E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 143). Proprio perché ciò che sopraggiunge appartiene già da sempre al cerchio dell’apparire, ma questa sua eterna appartenenza al cerchio dell’apparire incomincia ad apparire, Severino può dire che l’incominciare ad apparire della terra «è l’incomin-

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La contraddizione cui si è fatto cenno nel par. 1.2 e cioè la contraddizione del qualcosa che è “apparente”, perché eternamente insieme al suo apparire, e “non apparente”, perché ancora non sopraggiunto, sussiste solo a condizione che non si distingua tra la struttura autoriflessiva dell’apparire incominciante e l’orizzonte trascendentale dell’apparire in cui si fa presente che, quando il qualcosa incomincia ad apparire, incomincia ad apparire anche il suo incominciante apparire. L’essere “apparente” e “non apparente” non si dice, infatti, di Ax secondo lo stesso rispetto: l’apparire del qualcosa incominciante è “apparente” perché l’essere contenuto di se medesimo appartiene alla natura dell’apparire in quanto tale. Ma poi non bisogna perdere di vista che questo apparire che incomincia ad apparire (non separato dal suo essere un apparire incominciante) non è l’apparire in cui si rileva che qualcosa incomincia e cessa di apparire, non è cioè l’apparire inteso come orizzonte totale o “trascendentale” dell’apparire. Su questo nodo teoretico torneremo a riflettere nei prossimi paragrafi: va infatti messo bene in chiaro che la struttura dell’incominciare (ossia il divenire) dell’eterno si fa intelligibile solo a condizione di tenere distinta l’identità con sé dell’apparire incominciante del qualcosa – che, in quanto apparire incominciante di questa o di quella determinazione, possiamo chiamare apparire “empirico” – dalla forma “trascendentale” dell’apparire che è l’orizzonte indiveniente della totalità di ciò che appare. In quanto sopraggiungente struttura autoriflessiva dell’apparire [A(Ax)], l’apparire empirico che sopraggiunge è l’apparire di una “parte” della totalità di ciò che appare, da non confondere con la forma trascendentale dell’apparire, ossia con l’orizzonte in cui si verifica il sopraggiungere del sopraggiungente apparire empirico. Affermare che vi è un apparire che sopraggiunge non significa dunque separare l’apparire da se medesimo, ma tenere distinto l’esser sé dell’apparire empirico dall’esser sé dell’apparire trascendentale. Ciò che si è detto a proposito dell’apparire incominciante di Ax vale anche per l’apparire cessante di Ax: posto cioè che l’apparire ha per contenuto se medesimo [A(Ax)], quando qualcosa (e il suo apparire) scompare – e cioè esce dall’orizzonte dell’apparire trascendentale –, scompare pure il suo empirico apparire. L’obiezione dice: ciare ad apparire del suo non aver mai incominciato ad apparire, cioè del suo stare eternamente nell’apparire» (ibidem).

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quando il qualcosa scompare, il suo apparire deve annullarsi perché, se fosse anch’esso un eterno, il qualcosa dovrebbe continuare ad apparire, pur non apparendo più. La critica non comprende come possa esistere lo scomparire del qualcosa fintantoché c’è l’essere apparente dell’apparire del qualcosa, ma, anche qui, non lo comprende perché non distingue tra l’apparire trascendentale e l’apparire empirico e non si avvede che, a scomparire, è l’apparire empirico del qualcosa che ha come contenuto se medesimo – ossia A(Ax) – la cui forma/struttura autoriflessiva va distinta dalla forma/struttura autoriflessiva dell’apparire trascendentale. Si tratta ora di approfondire la relazione tra le due forme dell’apparire – e qui il punto qui si fa cruciale perché bisogna far vedere che, in nessun caso, il divenire dell’ente dà luogo ad un processo in cui ne va dell’essere. 6. L’apparire empirico e l’apparire trascendentale   1. Che cosa si intende dire quando si afferma che qualcosa entra nel cerchio trascendentale dell’apparire? Se ci rappresentiamo “fisicamente” questo entrare, come ad esempio l’atto del riempire una brocca di una certa quantità d’acqua, è facile che si produca un ragionamento di questo tipo: nel tempo T1 c’è dell’acqua nel fondo di un pozzo; nel tempo T2 mi appresto a prendere l’acqua per riempire la brocca, ed ecco che la brocca è riempita e una certa quantità d’acqua, quella entrata nella brocca, non si trova più nel pozzo. Entrando nella brocca, quella quantità d’acqua è trapassata “dal non essere dentro il qualcosa in cui è entrante (quando, nel tempo T1, la quantità d’acqua che va a riempire la brocca si trova ancora nel pozzo) all’essere dentro il qualcosa in cui è entrante” e questo passare si lascia intendere come un trapassare dal non essere all’essere (e dall’essere al non essere). Nel tempo T1 la quantità d’acqua che serve a riempire la brocca non sta dentro la brocca; si dirà, dunque, che nel tempo T1 l’ente “acqua dentro la brocca” è niente: quella certa quantità d’acqua sta nel pozzo, la brocca è vuota. Nel tempo T2 la brocca è riempita d’acqua: a questo punto si dirà che l’ente “quantità d’acqua che sta nel pozzo e che non sta nella brocca” è trapassato dal non essere dentro la brocca all’essere dentro la brocca.

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Eppure le cose non stanno in questi termini e la comprensione del senso del divenire, costruita sull’analogia dell’atto fisico del riempire una brocca di una certa quantità d’acqua, risulta estremamente fuorviante. In effetti (come s’è più volte ripetuto) la piena intelligenza del concetto del divenire non può prescindere dalla comprensione della struttura autoriflessiva dell’apparire: non può ignorare che ciò che entra nell’orizzonte trascendentale dell’apparire è l’apparire empirico che, avendo come contenuto se medesimo, si struttura autoriflessivamente come apparire dell’apparire del qualcosa [A(Ax)] e che, proprio in forza di questa originaria strutturazione autoriflessiva, esclude un qualsivoglia incominciare ad essere dell’apparire incominciante. Tornando all’immagine della brocca: nel tempo T1 l’ente “acqua dentro la brocca” (che appare nel tempo T2) non è un niente né appare il suo essere un niente (e come, d’altra parte, potrebbe apparire la nientità di qualcosa?); né il suo passare dal non essere apparente all’essere apparente è un passare simpliciter dal non essere all’essere del qualcosa e del suo apparire perché, se è vero che l’accadimento dell’ente è il suo sopraggiungere nel cerchio dell’apparire (il suo incominciare ad apparire), e se è vero che l’apparire ha come contenuto l’apparire stesso, allora il divenire dell’ente “acqua dentro la brocca” è il suo incominciare ad apparire nel tempo T2, dove ciò che incomincia ad apparire è questo stesso apparire incominciante. Si ripeta il ragionamento a proposito dell’uscire degli enti dal cerchio trascendentale dell’apparire e si vedrà come nemmeno in questo caso è possibile intendere il divenire nei termini nichilistici del passaggio dall’essere al non essere – a meno che non si preda di vista la struttura autoriflessiva dell’apparire e del suo rapporto all’apparire trascendentale quale orizzonte dell’apparire e dello scomparire degli enti.   2. Il pensiero isolante può tuttavia avanzare un’ulteriore obiezione alla tesi dell’eternità dell’ente e provare a sostenere che ad essere diveniente, in senso nichilistico, è proprio lo stesso apparire trascendentale pensato come qualcosa che passa dal non essere contenente all’essere contenente l’ente che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire, e dall’essere contenente tale ente al non contenerlo più. Per riprendere l’analogia con la brocca, possiamo esprimere l’obiezione alla tesi dell’eternità dell’ente in questi termini: come una

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brocca è dapprima (nel tempo T1) non contenente dell’acqua che sta all’esterno di essa per divenire poi, in un secondo momento (nel tempo T2), contenente quell’acqua al proprio interno, così l’apparire trascendentale è dapprima (nel tempo T1) non contenente un certo ente che sta al di fuori di lui per divenire poi, in un secondo momento (nel tempo T2), contenente quell’ente al proprio interno. L’analisi della ragione alienata rivela un ulteriore passare da parte dell’apparire trascendentale: come la brocca, che dapprima (nel tempo T2) è carica d’acqua, diviene brocca svuotata quando (nel tempo T3) si versa l’acqua nel bicchiere, così l’apparire trascendentale passa dal contenere l’ente che sopraggiunge (nel tempo T2) al non contenerlo (nel tempo T3) – e l’apparire trascendentale che contiene l’ente che sopraggiunge diviene quell’altro da sé che è l’apparire trascendentale non contenente l’ente in parola. Sennonché l’apparire trascendentale non è una brocca d’acqua che appare vuota in un primo tempo e che, in un secondo tempo, viene riempita (un prima e un poi che l’intelletto isolante interpreta come processo del trapassare dal non essere all’essere per cui la brocca si trasforma dall’essere non includente all’essere includente l’acqua) e non è alcuno degli enti determinati che sopraggiungono nel processo dell’apparire e dello scomparire dell’ente che appare, ma è l’indiveniente apparire del passare, e cioè l’orizzonte all’interno del quale appare il passare: è l’apparire del prima e della sopraggiungenza del poi rispetto al quale il prima appare come prima. Il sopraggiungere di ciò che incomincia ad apparire è insieme il sopraggiungere della sua attualità e cioè del suo apparire attuale: sopraggiunge la stessa attualità dell’apparire in quanto apparire empirico. Del pari, lo scomparire di ciò che esce dal cerchio dell’apparire è, insieme, lo scomparire del suo apparire: non appare più il qualcosa e non appare più nemmeno l’apparire del qualcosa. Ma è impossibile che entri e che esca dal cerchio dell’apparire l’attualità dell’apparire trascendentale, essendo impossibile che appaia un sopraggiungere e uno scomparire della totalità di ciò che appare in quanto essa è la dimensione includente l’apparire di ogni prima e di ogni poi. In tal senso l’apparire trascendentale è fuori del processo: non solo perché non trapassante dall’essere apparente al non essere apparente (e viceversa), ma anche perché, essendo l’apparire di tale processo, «non si trasforma da qualcosa che non include in qualco-

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sa che include il sopraggiungente, ma è l’indiveniente apparire del sopraggiungente»19.   7. La non divenienza dell’apparire trascendentale   1. In definitiva va tenuto fermo quanto segue:  

Che con l’incominciare ad apparire da parte di un essente incominci ad apparire questo stesso incominciante apparire significa pertanto che con l’incominciante appartenenza di un essente al cerchio dell’apparire incomincia ad appartenere a questo cerchio questa stessa incominciante appartenenza, e che con l’incominciante relazione dell’apparire di un essente alla totalità di ciò che appare incomincia ad essere in relazione a questa totalità questa stessa incominciante relazione.   E come il qualsiasi essente che incomincia ad apparire è eterno, così sono eterne quell’incominciante appartenenza e quella incominciante relazione20.

  Nulla vieta che un contenuto particolare (empirico) incominci a far parte della totalità di ciò appare:  

 

L’essente che incomincia ad apparire entra nel cerchio dell’apparire del destino nel senso che l’apparire di tale essente (l’apparire empirico…) è una parte, della totalità di ciò che appare, che entra in tale totalità, ossia entra […] nell’«apparire trascendentale» [...]. Tutto ciò che può entrarvi è una sua parte (e pertanto è una sua parte anche l’incominciante apparire di un certo essente, l’incominciante appartenenza e l’incominciante relazione di cui si è detto qui sopra); e ogni sua parte, come ogni essente, è un eterno (ed è insieme una parte della totalità dell’essente)21.

  L’orizzonte non incominciante della totalità di ciò che appare (l’apparire trascendentale) è invece lo sfondo non diveniente rispetto a cui sopraggiungono gli eterni incomincianti:   19 E. Severino, Tautótēs, cit., p. 191. 20 Id., La Gloria, cit., p. 104. 21 Ibi, p. 105.

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L’apparire (trascendentale) non diviene né in senso nichilistico né in senso non nichilistico. Accoglie gli eterni – ossia accoglie gli essenti che compaiono, accoglie il loro comparire, accoglie il suo stesso accoglierli (e anche qui… l’accogliere è lo stesso accogliere-che-è-accolto); ed è la luce eterna e immutabile in cui tutto ciò che si illumina, e quindi il suo stesso illuminarsi, è un eterno, ossia non è qualcosa che esca dal nulla22.

  Dunque, obiettare che lo sfondo, ossia la dimensione che non incomincia né cessa di apparire, passa dal non essere accogliente all’essere accogliente e dunque diviene altro da sé, significa non vedere che, in quell’accogliere, ciò che viene accolta è la stessa sopraggiungente accoglienza del qualcosa, un’accoglienza che è una parte della totalità di ciò che appare. Il divenire, come uscita dal contesto dell’apparire, non va inteso diversamente: non si può obiettare che lo scomparire del qualcosa (e del suo apparire) dal cerchio dell’apparire trascendentale sia un divenir altro da parte di quest’ultimo giacché, ad uscire dal cerchio dell’apparire, non è solo il qualcosa e il suo apparire ma anche la sua appartenenza al cerchio dell’apparire trascendentale – e tornare a chiedersi, di bel nuovo, che ne è del rapporto tra quella eterna appartenenza e l’apparire trascendentale significa non avvedersi che tale rapporto è proprio quella eterna appartenenza di cui si è già affermato l’essere uscente dalla totalità di ciò che appare. Si legga questo chiaro passaggio di Severino:   L’appartenenza (o la relazione) di una parte al tutto non è il tutto. E solo della parte si può affermare lo scomparire, ossia solo di ciò che è parte di quel tutto che è l’apparire trascendentale. Scompare il tavolo, scompare il suo apparire, scompare l’appartenenza del tavolo e del suo apparire all’apparire trascendentale23.

  In breve: lo sfondo non si trasforma dal non essere accogliente all’essere accogliente una determinata configurazione dell’essere né si trasforma dall’essere accogliente al non essere accogliente quella configurazione, giacché quella accoglienza è eterna (come ogni ente), ma è un eterno che inizia ad apparire e cessa di apparire.  

22 Ibi, pp. 105-106. 23 E. Severino, Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985, p. 157.

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2. A proposito del sopraggiungere degli enti nel cerchio trascendentale dell’apparire, Severino osserva:  

Le voci della solitudine della terra [le voci che testimoniano la terra isolata dalla verità] e del nichilismo si fanno sentire anche quando se ne vede la non verità. Dicono: pur ammettendo che tutto stia come si è detto, l’apparire trascendentale è apparire del divenire, cioè del sopraggiungere di certi essenti nella luce dell’apparire; e tra un essente X che appare e X che non appare c’è differenza – la differenza che è costituita appunto dall’apparire di X. Ne segue che, quando X incomincia ad apparire, questo apparire esce dal nulla – altrimenti non esisterebbe quella differenza. È proprio l’essere sé dell’essente e il suo non esser l’altro da sé (X che appare è se stesso e non è X che non appare) a esigere che l’apparire di X esca dal nulla24.

Sennonché questa “differenza” che l’obiezione ha premura di salvaguardare «è una differenza astratta, in cui si presuppone che il divenire sia quel divenir-altro […] in cui un essente X, non illuminato dalla luce dell’apparire, diventa quell’altro, ossia quel differente da sé, che è X illuminato»25. Si deve pertanto richiamare che, da un lato il divenir altro è impossibile, dall’altro lato l’apparire del divenire in senso non nichilistico non è un divenir altro «appunto perché l’essente che sopraggiunge nell’apparire trascendentale vi sopraggiunge essendo già eternamente unito al proprio apparire e cioè non uscendo dal buio per entrare nella luce. E l’apparire trascendentale del sopraggiungere non è un divenir altro, appunto perché non è in alcun modo diveniente»26. Se ogni cerchio dell’apparire è apparente a se medesimo, ciò non vuol dire che tale cerchio sia apparente quando ancora “non appare”, e cioè quando tale cerchio non appartiene ancora all’apparire trascendentale. Né ciò significa che quella “appartenenza” è ancora un niente, giacché, ormai dovrebbe essere chiaro, a sopraggiungere è quella stessa eterna appartenenza sopraggiungente. E neppure si può dire che l’apparire trascendentale diventa altro da sé quando il suddetto cerchio incomincia ad apparire. Non lo si può dire perché quella accoglienza sopraggiungente (e cioè quella determinata relazione tra il trascendentale e l’empirico che incomincia ad apparire)

24 Id., La Gloria, cit., p. 106. 25 Ibidem. 26 Ibi, p. 107.

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è lo stesso eterno apparire del qualcosa di cui incomincia ad apparire l’eterna accoglienza da parte del cerchio dell’apparire.   8. L’apparire della persintassi dell’ente   Lo sfondo di ogni accadere è un eterno di cui non può darsi alcun cessare né alcun incominciare ad apparire dal momento che lo “sfondo” è ciò che non incomincia né cessa di apparire. Si deve perciò distinguere tra l’appartenenza ad una determinata e sopraggiungente configurazione della totalità di ciò che appare (e cioè a quell’insieme di enti a cui compete di essere, nella vicenda dell’accadimento, la totalità degli enti che appaiono), dall’appartenenza alla totalità di ciò che appare in quanto essa è lo sfondo intramontabile di ogni accadere. Un testo di Severino può agevolare la comprensione di questo passaggio:  

L’eterna appartenenza, da parte dell’essente che incomincia ad apparire, al cerchio dell’apparire, non è qualcosa di autocontraddittorio: appunto perché non è (e cioè si distingue formalmente da) l’appartenenza, da parte di ciò che incomincia ad apparire, allo sfondo, ossia alla dimensione di ciò che non incomincia ad apparire e non esce dall’apparire; ma è, appunto, l’appartenenza, di ciò che incomincia ad apparire, al cerchio dell’apparire in quanto quest’ultimo è la totalità di ciò che attualmente appare, e non in quanto esso è lo sfondo non incominciante e non tramontabile di tale totalità. E ciò che incomincia ad apparire non è soltanto un essente, ma anche l’apparire di tale essente, ossia è anche l’appartenenza eterna di tale essente alla totalità di ciò che appare. Qui l’essente che incomincia ad apparire è in una sintesi necessaria ed eterna con qualcosa – la totalità di ciò che appare – che a sua volta incomincia ad apparire: non nel senso che, in quanto totalità, la totalità di ciò che appare incominci ad apparire […]; ma nel senso che incomincia ad apparire quella certa configurazione della totalità, con cui l’essente che incomincia ad apparire è in sintesi27.

  Nulla vieta di pensare che incominci ad apparire “quella certa configurazione della totalità, con cui l’essente che incomincia ad apparire è in sintesi”. Nulla lo vieta perché non c’è nulla, in tale sopraggiungere, che venga all’essere o che si annulli, neppure l’incominciante apparire di tale eterna configurazione della totalità 27 Ibi, pp. 100-101.

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dell’essente, stante che tale incominciante apparire dell’eterno apparire dell’essente è lo stesso eterno apparire dell’essente non separato dal suo incominciare. Ciò che “appartiene” all’apparire trascendentale come non sopraggiungente né dileguantesi appartenenza è invece la stessa struttura della verità dell’essere, quel complesso semantico-sintattico originario (l’esser sé dell’essente, il suo essere altro dal proprio altro, il suo essere altro dal nulla e tutto ciò che è implicato dall’esser sé dell’essente) che è necessario che appaia affinché un qualsiasi essente (compreso l’apparire sopraggiungente di ciò che incomincia ad apparire) possa apparire. Il complesso semantico-sintattico originario è la persintassi dell’essente, ossia la forma di tutte le forme, la sintassi di tutte le sintassi: è il destino stesso dell’essente, lo “sfondo” non sopraggiungente né dileguante in cui è accolto ogni sopraggiungente e rispetto a cui il sopraggiungente può dileguare. In quanto è l’apparire della persintassi dell’essente (alla quale persintassi appartiene lo stesso apparire della persintassi) e cioè in quanto è la forma trascendentale il cui apparire è la condizione di possibilità dell’apparire di tutto ciò che appare, lo sfondo non sopraggiunge né si dilegua. In tal caso infatti – se cioè lo “sfondo” fosse un che di sopraggiungente o di dileguantesi – la dimensione rispetto a cui si definisce il sopraggiungere e il dileguare dello “sfondo” (che è il destino dell’essente) sarebbe un apparire che, non avendo come contenuto la persintassi dell’essente (persintassi che è il mostrarsi dell’impossibilità che un essente qualsiasi sia nulla), sarebbe un apparire di nulla e quindi un nulla di apparire. Se adesso consideriamo che la determinazione sopraggiungente è un’individuazione di quel contenuto persintattico (essendo un’individuazione di quell’“esser sé” che è presente in ciascuno degli essenti appartenenti alla totalità dell’esser sé dell’essente), allora il sopraggiungere di quella determinazione è il sopraggiungere di una determinata configurazione della persintassi, ossia è il sopraggiungere della persintassi in quanto “così e così” determinata, e cioè in quanto si individua in questo e in quell’essente rispetto al quale essa si distingue. In questo senso possiamo dire che, nell’apparire finito del tutto – e la struttura originaria in quanto manifestazione processuale del tutto eterno è apparire finito del tutto –, la relazione tra lo “sfondo” e la determinazione che sopraggiunge è un che di sopraggiungente e che ciò che sopraggiunge è una individuazione dell’uni-

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versalità dell’esser sé dell’essente, e cioè di quella universalità (forma, attualità di tutte le attualità, “essenza”) che è presente nella totalità dell’esser sé dell’essente. Nell’apparire infinito del Tutto, ossia nella totalità concreta dell’esser sé dell’essente che è la sola individuazione di se medesima – totalità concreta (universale concreto dell’esser sé dell’essente) rispetto a cui ciascuno degli eterni essenti è una parte –, non vi è invece alcun incominciare o cessar di apparire. Non è questa la sede nella quale approfondire la relazione esistente tra l’apparire attuale dell’ente – la struttura originaria, l’apparire finito del Tutto dove l’essere appare processualmente e il Tutto si manifesta “in parte” – e l’apparire infinito del Tutto rispetto al quale le determinazioni né sopraggiungono né si assentano e dove sono risolte tutte le contraddizioni del finito28. Ma ciò che s’è detto è sufficiente per capire che la tesi dell’eternità dell’ente in quanto ente non produce affatto le contraddizioni che la critica intende rilevare, tutte volte a mostrare che il divenire implica un qualche incremento/annullamento dell’ente. Si è invece argomentato quanto basta per mostrare (1) che l’esperienza non mostra alcun trapasso dall’essere al non essere (e viceversa), e cioè che tale trapasso non è affatto un contenuto fenomenologico, (2) che soltanto l’eterno può divenire – ed è ormai chiarito che tale divenire, non comportante alcun incremento o decremento dell’essere e quindi alcun assurdo divenir altro, è il mostrarsi processuale dell’eterno, ossia il sopraggiungere e l’assentarsi delle eterne determinazioni dell’essente.   9. Individuo e senso del passato   1. L’apparire della verità non è la cancellazione delle differenze: l’essere che in essa appare non è, infatti, un genere, che tiene al di fuori di sé (nel non essere) le differenze. Ma il molteplice differente che appare è unificato nell’apparire trascendentale, che è appunto l’apparire dell’essere nelle sue determinazioni molteplici ed eterne (e sopraggiungenti). Tutto ciò implica che si esca dal modo di pensare che è proprio del senso comune, che è un esito del nichilismo, per entrare nello specifico della concettualità del destino. 28 Per lo sviluppo di questo tema vedi supra, cap. ii e infra, Parte seconda, cap. iii.

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La nozione di individuo che si incontra nel destino, ad esempio, non può essere la stessa che troviamo nel pensiero che in qualche modo si richiama ad Aristotele: non può essere cioè l’individuazione dell’essenza in un hic et nunc. Intesa in questi termini, l’esistenza dell’individuo si dispiega in un insieme di stati che si annullano nel processo del divenire; ciascuno di essi si annulla per fare spazio a quello successivo, che a sua volta esce dal proprio nulla: quando Socrate è seduto, l’essere in piedi di Socrate è ancora un niente, e quando Socrate si alza in piedi, l’essere seduto di Socrate è divenuto un niente. Così parla la ragione alienata. Ebbene, qui si intende introdurre «un altro senso dell’‘individuo’: l’‘individuo’ come eterno insieme dei suoi stati […], dove l’insieme non è giustapposizione, ma è unificato da un che di identico, presente in ognuno di essi e solo in essi»29. Il pensiero dell’esistenza di un Socrate eterno, la cui essenza si dispiega in una molteplicità di determinazioni eterne, ci porta al di fuori del mondo del senso comune, ma non ci porta all’assurdo – anzi, ci consente di uscire dall’assurdo di un senso comune informato da secoli di comprensione nichilistica della realtà. Tutt’al più si potrà parlare di «strana concezione del reale mondano»30, come infine giunse a dire Bontadini, ma non di una concezione contraddittoria. Se è impossibile che l’ente si annienti, è pure impossibile che Socrate possa trapassare dall’essere (seduto) al non essere (seduto) in parte permanendo e in parte annientandosi. Non c’è nulla di Socrate che vada annientandosi: Socrate seduto e Socrate in piedi sono due enti che l’essere-Socrate unifica.   2. Nella prospettiva del nichilismo l’essenza della realtà si conserva come un passato nella forma del ricordo (Erinnerung), mentre la sua esistenza (Dasein) viene lasciata al niente: quando appare l’essere accesa di questa lampada – si dice in tale prospettiva – l’essere spenta della lampada diventa un niente, trasformandosi in un passato di cui rimane, nel cerchio dell’apparire attuale, il ricordo. D’altra parte, se il passato non è qualcosa che prima era e ora non è più, che cos’altro può essere alcunché di passato?

29 E. Severino, Risposta alla Chiesa, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 362. 30 G. Bontadini, Dialogo di metafisica i, cit., p. 207.

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A questa difficoltà risponderò qui molto brevemente, rinviando, per lo sviluppo più corposo, alle pagine del cap. VI di Destino della necessità. Intanto va osservato che l’affermazione per cui l’essere spenta della lampada è qualcosa che non esiste più (e di cui rimane il ricordo come di una cosa passata) è il risultato di una costruzione teorica che non si basa affatto su ciò che appare: se il passato è ciò che è diventato un niente, non può essere (questo niente) qualcosa che appare. Tutto ciò che del passato appare sta lì dinanzi come un non niente. Dunque, che il ricordo del passato sia ciò che si riferisce a qualcosa che è divenuto niente, non è (né può essere) qualcosa che appare, né l’annullamento di qualcosa può essere il risultato di una dimostrazione o di un’inferenza che proceda a partire dal senso della struttura originaria che esclude a priori l’annullamento dell’ente, a meno che questo senso non lo si voglia discutere concretamente e non si contesti l’affermazione che l’annullamento di un ente qualsiasi è il dire della ragione alienata – ma allora bisogna che si discuta concretamene del senso dell’essere quale appare negli scritti di Severino. Ciò detto, non si vuole certo sostenere che il passato è identico al presente. Si tratta invece di capire che il passato appare insieme al presente e che vi appare come passato ossia come qualcosa di compiuto: il passato è il compiuto, il perfectum. La lampada spenta è una certa identità che, col sopraggiungere della lampada accesa, diventa un passato: diventa un passato nel senso che, col sopraggiungere della lampada accesa, l’identità con sé della lampada spenta continua ad apparire, ma non si dispiega più in un insieme di determinazioni che, nell’essere spenta della lampada, hanno la loro unità (dove l’identità del molteplice va intesa nel senso cui sopra abbiamo fatto cenno, ossia come l’eterna identità delle eterne sue individuazioni). Quando la lampada accesa incomincia ad apparire, la lampada spenta continua ad apparire, ma non appare più il suo continuare in ciò che sopraggiunge:  

 

Nell’apparire del divenire, il «passato» è ciò che non «cresce» più, ma la cui avvenuta crescita continua ad apparire insieme al «presente» – dove il «crescere» non è una trasformazione ontologica, ma è la successione degli eterni […] che, sebbene diversi, hanno qualcosa di identico (che è appunto ciò che nella successione è il crescente)31.

31 E. Severino, Destino della necessità, p. 184.

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Prima del sopraggiungere della lampada accesa, la lampada spenta appariva in un insieme di contesti differenti accomunati da quell’identità specifica che è l’essere spenta della lampada in quei contesti. Al sopraggiungere della lampada accesa quell’identità continua ad apparire, ma non si ripete, e cioè la lampada non continua ad essere spenta: la totalità di quei contesti differenti, accomunati da quell’identità specifica, è compiuta e l’apparire di quella totalità è pertanto un che di perfectum. Ciò non significa che, in un secondo momento, non possa apparire (come sopraggiungente) un altro insieme di contesti accomunati da un differente esser spento della lampada e che non possa così sopraggiungere il passare dell’essere acceso della lampada accesa, insieme ai contesti specifici in cui essa appare accesa – un passare che è il suo stesso permanere come un passato. 3. Si richiami brevemente il tratto logico che sta al centro della struttura originaria: l’incontrovertibile è l’esser sé dell’essente, il suo essere altro dal proprio altro (dunque il suo esser altro dal nulla), dunque il suo essere eterno. L’esser sé dell’essente “A” – e “A” sia un qualsivoglia essente, ad esempio, l’apparire di “questa lampada spenta” – è la sua determinatezza, il suo essere così e così determinato, il che non significa lo starsene isolato dell’essente “A” rispetto all’essente “B” o all’essente “C”, ma che l’esser sé di “A” è identico al suo essere insieme a “B”, a “C” e alla totalità degli altri essenti, ossia alla totalità del positivo significare dell’essente32. 32 Nello sguardo del destino, il significato concreto dell’“esser sé” di “A” – ad esempio, dell’esser sé di “questa lampada” – è l’esser sé della totalità dell’essente che nell’apparire attuale (che è il luogo in cui gli enti incominciano ad apparire e cessano di apparire) va progressivamente disvelandosi. Su questo punto può essere istruttivo tener presente quanto dice Severino laddove afferma che, nella logica della struttura originaria, esiste un’unica proposizione analitica immediata e che pertanto, pur essendo certamente distinte, l’identità di “A” che appare in T1 e l’identità di “B” che appare in T2 «implicano, essenzialmente, in quanto identità L-immediate [e cioè in quanto espressione dell’immediatezza logica], un termine – l’universale, l’intero [l’universale concreto, il significato concreto del tutto] – che include l’una e l’altra» (E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, pp. 323-324). In quanto “momento” eterno del concreto, “A” non è quell’altro da sé che è “A-B”; e neppure l’eterno esser “A” diventa l’eterno esser “A-B” ma, in T2, l’eterno esser “A” appare insieme all’essere eterno di “B”, incontrando progressivamente nell’“altro” (e cioè nel suo essere insieme a “B” e poi a “C”…) ciò che esso è in verità.

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Anche nell’ente più “insignificante” vi è “traccia” della “totalità di ciò che è” perché ogni ente sta in relazione necessaria con ogni altro ente, una relazione che implica la “presenza” di ogni ente in ogni altro ente: in ciascuno degli enti è presente, come negata, la totalità del proprio altro e la “traccia” è appunto questa “presenza”. Si può allora affermare che il significato concreto di “A”, come di “B” e di “C, è il Tutto, fermo restando che “A” si distingue da “B” e da “C” e che la relazione di “A” col Tutto e del Tutto con “A” si distingue dalla relazione di “B” e di “C” col Tutto e del Tutto con “B” e con “C”. In ogni caso, però, il significato concreto di “A”, come di “B” e di “C”, è il Tutto, e ciò vuol dire che “A”, come “B” e “C”, appare concretamente solo se il Tutto appare concretamente33. Tornando all’apparire della “lampada spenta”, diremo che il significato concreto di tale essente appare solo in quello che abbiamo definito come “apparire infinito del Tutto”. L’apparire che costituisce l’orizzonte manifestativo della struttura originaria è invece un che di finito – lo abbiamo chiamato “apparire finito del Tutto” –, non è cioè la presenza della totalità di ciò che è nella sua concreta materia semantica, e non lo è perché in esso (nel “finito”) il Tutto appare in modo processuale: non solo sopraggiungono nuove determinazioni – sopraggiunge, per esempio, l’apparire della “lampada accesa” –, ma si può anche far vedere che il progetto di un arresto della processualità dell’ente che appare è qualcosa di contraddittorio34. Stabilito che la struttura originaria è un che di finito e cioè che non è la totalità infinita della verità in cui appare concretamente la totalità infinita dell’ente (l’apparire infinito del Tutto), segue che ciò che nella struttura originaria viene posto come “A” (ad esempio, “questa lampada spenta”) non è il significato concreto di “A” – segue cioè che non si riesce a porre tutto ciò che si dovrebbe porre per porre concretamente un certo significato e il risultato è che tale significato resta solo formalmente posto. In questa situazione la stessa struttura originaria è un contraddirsi perché ciò che resta posto non è ciò che pure si intende porre: si intende porre “A”, ma ciò che si riesce a porre non è il significato concreto di “A”. Si pone il significato del “Tutto” (giacché la posizione del significato “A” implica la posizione del Tutto), ma anche il Tutto resta posto solo formalmente perché la totalità dei significati è solo formalmente posta – e 33 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. x. 34 Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., cap. iii.

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la posizione della totalità concreta dei significati è necessariamente implicata dalla posizione concreta del Tutto35. Si noti che il contenuto di questa contraddizione non è il nulla: non abbiamo qui a che fare con la contraddizione “normale” o “aristotelica” (non è che la struttura originaria sia l’intenzione di porre “A” come ciò che è identico a “non-A”), ma con la contraddizione che è il “proprium” del finito e che è determinata dalla steresi posizionale per cui ciò che resta posto è in un essente astratto. L’oltrepassamento della contraddizione del finito (Severino la chiama “contraddizione C”) non è dunque la negazione di quel contenuto astrattamente posto, ma è un cammino infinito «sì che la contraddizione del finito, in quanto finito, permane all’infinito nel suo essere oltrepassata all’infinito»36, trovando la sua definitiva e assoluta risoluzione solo nel Tutto concreto, ossia nell’apparire infinito del Tutto. In tale contesto il sopraggiungere degli eterni essenti (e solo l’eterno, come s’è visto, può sopraggiungere) va progressivamente a contrarre il volume di questa ineliminabile contraddizione: ridurlo a zero significherebbe far coincidere il finito con l’infinito, significherebbe cioè pensare che possa darsi un momento in cui il finito diventa quell’altro da sé che è l’infinito, ciò che è impossibile. Il sopraggiungere progressivo delle determinazioni del Tutto (l’apparire processuale del Tutto) è quindi il procedere verso se stessa della struttura originaria e del complesso semantico sintattico che la costituisce: il procedere verso ciò che essa è in verità. La situazione in cui “appare questa lampada spenta” è dunque, nel senso che s’è detto, l’apparire di una contraddizione. Quando poi nel cerchio dell’apparire appare quell’eterno che è “la lampada accesa” (“B”), il significato “questa lampada spenta” (“A”) è oltrepassato, ma continua ad apparire, senza che peraltro il suo continuare ad apparire (il continuare ad apparire di “A”) vada a sovrapporsi all’apparire di quell’altro da sé che è l’apparire della “lampada che è accesa” (“B”), ed è appunto questo sopraggiungere progressivo dell’eterno che riduce in parte il volume di contraddizioni che investe l’apparire finito del Tutto. 4. Si consideri adesso il passare di Tizio da “seduto” a “non seduto”. Da quanto già detto risulta che l’apparire di quell’eterno che è 35 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., capp. viii e ix. 36 E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, p. 89.

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Sul versante fenomenologico della struttura originaria

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“Tizio non seduto” non è il risultato di un impossibile divenir altro da parte dell’eterno “Tizio seduto”, ma è un contenuto particolare e perciò “empirico” di cui appare il sopraggiungere nel cerchio “trascendentale” dell’apparire. Ma poi va precisato che qualcosa come l’incominciare ad apparire di “Tizio non seduto” può sopraggiungere se e soltanto se continua ad apparire ciò rispetto a cui “Tizio non seduto” sopraggiunge. Sia “TS” il significato di “Tizio seduto” e siano “TS1”, “TS2”…“TSn” i significati di “Tizio seduto” in quanto appare dapprima in relazione a Caio (“TS1”), poi in relazione a Sempronio (“TS2”) e così via (…“TSn”). Ciò che appare è un’identità, una permanenza che si individua nella serie indicata (“TS1”, “TS2”… “TSn”). Quando incomincia ad apparire “Tizio non seduto” – sia “TnS” l’apparire di questo significato sopraggiungente –, allora “TS” incomincia ad apparire come un passato. Ciò significa che, quando “TnS” incomincia ad apparire, la permanenza di “TS” (quella permanenza che appunto precede il sopraggiungere di “TnS”) appare come compiuta (perfetta) e non si prolunga più in ulteriori individuazioni: la compiuta permanenza di “TS1”, “TS2”...“TSn” sta dunque in relazione sia al proprio essere “presente” sia al sopraggiungere di “TnS” ed è appunto per questo sopraggiungere che il contenuto di “TS” può apparire come un “passato”. Ma, in tutto questo passare e permanere, non si dà alcun impossibile “divenire altro”: ad essere un eterno è sia l’identità con sé di “TS”, che precede il sopraggiungere di “TnS”, sia l’identità con sé di “TS” in quanto unita al sopraggiungere di “TnS.   5. Posto che l’essente è eterno e che il senso concreto dell’ente (di qualsiasi essente) è dato dalla sua concreta relazione al Tutto, segue che la dimensione del passato va mostrando il vero senso di ciò che essa è nel dispiegamento degli enti eterni nel cerchio dell’apparire. La terra è tutto ciò che incomincia ad apparire e che cessa di apparire nel dispiegamento dell’eterno. Ebbene, se il nichilismo e la sua radice più profonda, ossia l’atto che isola la terra dalla verità dell’essere, sono destinati a diventare un passato, e se è destino che ciò che sopraggiunge si dispieghi all’infinito nello splendore della verità dell’essere non più contrastata dall’isolamento (e tale dispiegamento è la Gloria della terra)37, allora è pure destino che la totalità della 37 Per la dimostrazione della “gloria” della terra, cfr. E. Severino, La Gloria, cit., cap. iii.

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Al cuore del destino

terra isolata vada mostrando all’infinito il senso di ciò che essa è stata – un senso che da sempre dimora nell’apparire infinito e non diveniente (non sopraggiungente né dileguantesi) della totalità infinita degli essenti.   Appendice – Il cosiddetto “neoparmenidismo”   A questo punto vorrei aggiungere qualche osservazione a proposito del termine “neoparmenidismo” che viene per lo più utilizzato dai critici di Severino. Definire in questi termini la tesi che afferma l’eternità dell’essente in quanto tale può generare più di un equivoco ed è comunque impropria. Innanzi tutto va chiarito in che senso, all’interno del cosiddetto “neoparmenidismo”, è presente il pensiero di Parmenide. Se infatti Parmenide è colui che ha affermato che «l’essere è e non gli è consentito di non essere» (fr. 2, v. 3) e che il non essere non è «e non si potrà mai imporre che il non essere sia» (fr. 7, v. 1), va anche detto che «Parmenide è insieme il primo responsabile del tramonto dell’essere»38 perché ha sostenuto che le concrete determinazioni del mondo (che non significano essere e che pertanto sono “non essere”) sono nulla. Per Parmenide l’essere che si oppone al nulla è la pura luce nella quale restano dissolti i colori del mondo ossia le “cose”. Severino afferma invece che «quanto Parmenide diceva del puro essere – “perché né nascere né perire gli ha permesso la Giustizia disciogliendo i legami, ma lo tien fermo” – la verità dell’essere deve ripeterlo di ogni essere, di ogni positività determinata»39. Non si tratta dunque di riproporre Parmenide, ma di volgersi verso Parmenide per ripetere il passo innanzi che, rispetto a Parmenide, ha compiuto Platone – il “parricidio” –, ma ripeterlo in modo essenzialmente diverso: quello di Platone è infatti il pensiero che certo «unisce la determinazione al suo “è” (ponendola appunto come ciò che non è un nulla)», ma al tempo stesso «intende la determinazione come ciò che può sciogliersi dal salutare abbracciamento al suo essere, e quindi come ciò che può non essere. Il pen38 E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 23. 39 Ibi, p. 72.

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Sul versante fenomenologico della struttura originaria

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siero che pensa il non essere nulla della determinazione (il pensiero che si portava più in alto di Parmenide) è lo stesso pensiero che consente che la determinazione (quando non è) sia un nulla! Esso quindi si mantiene in quella stessa astratta separazione dell’essere e della determinazione che era stata propria di Parmenide: nel suo fondo questo pensiero pensa l’essere […] e la determinazione […] come assolutamente irrelati» sicché «questo gran passo oltre Parmenide, che afferma l’essere del non essere, ossia di quel non essere in cui consiste la determinazione in quanto diversamente significante dall’essere, unisce ciò che per sé è disunito, e quindi l’unione diventa qualcosa di accidentale, un fatto che può essere sostituito dal fatto contrario»40. Si tratta invece di comprendere che la verità dell’essere esige l’implicazione immediata dell’essere da parte di ogni essenza, dove esistenza (esse) ed essenza (essentia) si distinguono nella sintesi originaria che è l’identità con sé dell’essente:   Certo che la determinazione di cui si predica immediatamente l’“è” (ossia il non essere un nulla), non è la determinazione separata dal suo “è” (e che, in quanto così separata, o è senz’altro posta come nulla – come pensava Parmenide – o è posta come ciò di cui non si può sapere se sia o non sia un nulla – come pensano tutti gli altri che si mettono al seguito di Platone): l’unione non è fra due termini (essenza, esistenza) disuniti (come appunto accadde a Platone): sicché la determinazione di cui si afferma immediatamente che non è un nulla è appunto la determinazione-che-non-è-un-nulla41.

  L’essere conviene all’essenza che non è un nulla, ossia all’essenza che è in sintesi (originaria) col suo “è”; diversamente, se l’essenza fosse presupposta alla sintesi col proprio “è”, essa «si presenterebbe daccapo come qualcosa di cui non si saprebbe se sia o non sia un nulla e a sua volta l’esistenza, in quanto presupposta alla sintesi, sarebbe l’esistenza di nulla»42. Il pensiero essenziale che qui si esprime è quello che mostra l’impossibilità che l’“essente” (e cioè l’essenza che è già da sempre in sintesi con la propria esistenza: è dell’essenza-che-“è” che si predica l’“è”) possa uscire dal niente o andare verso il niente: ciò è 40 Ibi, p. 73. Per il significato della dÒxa di Parmenide, cfr. ibi, pp. 90-93. 41 Ibi, p. 77, nota. 42 Ibi, p. 78, nota.

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Al cuore del destino

impossibile perché, in tal caso, vi sarebbe un tempo (quello in cui l’“essente” ancora non è e quello in cui l’“essente” non è più) in cui l’“essente” sarebbe “non ente”, cioè non sarebbe “essente”. Il divenir altro dell’essente – il divenire inteso in senso classico, ad esempio il divenire cenere da parte della legna – implica che vi sia un tempo in cui l’essente sia quell’altro da sé che è il terminus ad quem del divenire e quindi che vi sia un tempo in cui, proprio per essere/divenire quell’altro da sé (ma che un ente sia/divenga altro da sé è appunto l’assurdo!), la forma dell’ente che diviene, ad esempio la forma dell’esser legna, sia, quanto alla sua specificità, un niente43. Ho indicato molto sommariamente il senso dell’impossibilità che l’essente divenga in senso classico e riportato il discorso al valore del principio di non contraddizione – e quindi della contrapposizione infinita del positivo e del negativo – per ribadire che il tema della semantizzazione dell’essere rimane alla fine decisivo. In base a quale buona ragione ci si propone infatti di mostrare l’autocontraddittorietà della cosiddetta ontologia neoparmendea? Sulla base di una rigorosa elaborazione dell’impianto logico-fenomenologico originario? Se sì, che cosa dice questo “logos” originario? Se esso dice che l’ente è eterno e che non può divenir altro e se, d’altra parte, il divenir altro non è né può essere (lo sapeva bene Bontadini) l’oggetto di una semplice constatazione – l’annullarsi dell’ente non è constatabile, non appare! –, allora qualsiasi argomentazione portata a sostegno del divenire in senso nichilistico, per cui vi sarebbe un minimum residuale non divinizzabile, resta originariamente tolta dalla verità dell’essere. Poco importa se, sulle prime, non si è in grado di uscire dalla situazione aporetica che si viene a produrre; la verità saprebbe tuttavia «a priori che ogni possibile motivazione della sua negazione, e quindi ogni possibile modo individuato secondo il quale la negazione è motivata, sono soltanto apparenze di motivazioni: non sono motivazioni reali, vere, perché per essere tali dovrebbero fondarsi su quella verità originaria che invece esse intendono negare»44. Non sono motivazioni reali e l’apparire di quegli elementi eterogenei rispetto alla struttura originaria che provocano l’apparenza della con43 Cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, Parte prima, cap. i; Tautótēs, cit., capp. i-ii. 44 E. Severino, Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 1984, p. 70.

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Sul versante fenomenologico della struttura originaria

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traddizione è solo, come dire, “questione di tempo”. Ma, per quanto riguarda le motivazioni per lo più addotte dai critici, ritengo di aver mostrato quanto basta il vizio che le sottende.

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Parte seconda

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I

   

Sulla via del “Sentiero del Giorno”

  Bontadini, Severino e il ritorno di Parmenide   Severino ha avuto modo di dire che Gustavo Bontadini vale ben tre Maritain. Non si tratta, com’è ovvio, di stilare una classifica tra i pensatori quanto piuttosto di rilevare l’eccezionale spessore teoretico di un filosofo – qual è Bontadini – capace, come ben pochi prima e dopo di lui, di volgere lo sguardo verso quel contenuto che da sempre rifulge nell’eterno spettacolo dell’apparire dell’ente: la verità dell’essere implicante la sua eternità. Il testo che segue presenta le linee di fondo del pensiero di Bontadini e di Severino seguendo gli sviluppi del loro dialogo di metafisica – un dialogo sul senso dell’originario del sapere che non solo ha sollevato il pensiero ai vertici della speculazione filosofica, ma rappresenta anche un modello di rigore e di cogenza argomentativa sul quale si sono formate le più brillanti intelligenze del panorama filosofico italiano.   A. Gustavo Bontadini   1. Valutazione dialettica della filosofia moderna   1. Nei primi decenni del secolo scorso, quando in Italia l’idealismo attualistico si era imposto come la sintesi suprema dell’autocoscienza filosofica, negatrice di ogni verità trascendente l’atto dello spirito, G. Bontadini, allievo del neotomista Amato Masnovo, tentò un’operazione assai ardita: sostenne che il significato di fondo della filosofia moderna sta nell’aver aperto la strada al ritorno della metafisica classica. In generale, l’atteggiamento della filosofia neoscolastica rispetto alle altre dottrine era improntato a un difetto di storicità: «Posti i principi e le tesi della filosofia vera, si mettevano con essi a riscon-

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Al cuore del destino

tro i principi e le tesi delle varie filosofie eterodosse, classificate l’una accanto all’altra indipendentemente dal loro ordine di presentazione storica, e così, ad una ad una, confutate»1. La secca contrapposizione delle sentenze aveva senz’altro il pregio di smarcare con nettezza il vero dal falso; ciò tuttavia esponeva al rischio di una incomprensione del carattere specifico delle singole dottrine confutate in massa, perdendo di vista le esigenze peculiari cui esse venivano incontro in epoche diverse. A questo procedere antistorico si era opposto mons. Francesco Olgiati. Se nella filosofia classica (antica e medioevale) egli vedeva un’ideale tensione verso la sintesi tomistica, quale definitiva messa a punto della “metafisica dell’essere” o dottrina dell’essere in quanto tale2, nella vicenda della filosofia moderna e nel suo confluire verso l’idealismo egli riconobbe un valore, un elemento di positività: la posizione dell’essere concreto, ossia dell’essere quale si mostra nel concreto dell’esperienza umana che è sì storica, ma che è pure il luogo in cui, in qualche modo, appare l’essere nella sua verità. Bontadini chiamò analitica tale valutazione, perché «presuppone un’analisi critica; vale a dire che egli (l’Olgiati) non attribuisce valore alla sintesi moderna come tale, ma ad alcuni o ad uno dei suoi elementi»3. Propose dunque, da parte sua, di integrare il lavoro del sacerdote filosofo con una valutazione di tipo dialettico, che ricercasse il valore della filosofia moderna «considerata nella sua unità storica ed ideale»4. Il contributo storiografico di Bontadini è certo originale: «Il nostro avviso», egli scrive, «è che oltre alla valutazione analitica che l’Olgiati sta esperendo, si debba operare da parte della Neoscolastica anche la valutazione dialettica, la quale, da un punto di vista polemico [...] sta alla valutazione analitica come l’offensiva sta alla difensiva: giacché la conclusione di quest’ultima – conclusione cui perviene appunto l’Olgiati – è che non ci sia bisogno di rifiutare tutt’intero il pensiero di cinque secoli per aderire alla metafisica tomistica [...]; la conclusione della critica dialettica sarebbe invece anche più radicale, e cioè che il significato complessi1

G. Bontadini, Valutazione analitica e valutazione dialettica della filosofia moderna, 1929, in Id., Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 221. 2 Cfr. F. Olgiati, L’anima di San Tommaso. Saggio filosofico intorno alla concezione tomista, Vita e Pensiero, Milano 1923. 3 G. Bontadini, cit., p. 225. 4 Ibidem.

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Sulla via del “Sentiero del Giorno”

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vo del pensiero moderno, tenuto conto anche di ciò che esso ha di contraddittorio con la metafisica classica, è fuori di esso, è, appunto, in quella metafisica o in una nuova sintesi che coincida con quella metafisica nelle affermazioni teologiche»5.   2. Dovendo indicare «determinatamente il contributo dialettico del pensiero moderno alla verità soprastorica»6, Bontadini spiega che «la speculazione moderna ha segnato il punto di partenza della speculazione in generale, e vorremmo anche esprimere l’opinione che tale designazione abbia un carattere definitivo»7. Punto di partenza dell’indagine metafisica e definitivo guadagno del pensiero, storicamente preparato da cinque secoli di lavoro teorico, è il concetto dell’«Unità dell’Esperienza», ossia «l’Unità attuale e reale del dato, di ciò che è presente»8. Il problema essenziale per la filosofia è valutare se l’Unità dell’Esperienza, intesa come l’orizzonte inoltrepassabile dell’apparire, sia o non sia l’Assoluto. Si badi: Bontadini è ben consapevole che il culmine del pensiero moderno, e cioè la filosofia attualistica, non è la semplice posizione dell’Unità dell’Esperienza. L’atto del pensiero, di cui parla Gentile, non si risolve nella sola affermazione dell’Unità dell’Esperienza: è, in effetti, la posizione dell’identità tra l’Unità dell’Esperienza (l’atto intrascendibile del pensiero) e l’Assoluto9. Ma è appunto questa asserita identificazione (Unità dell’Esperienza = Dio) che Bontadini contesterà fin dai primi lavori come la strada falsa dell’immanentismo idealistico, come l’aspetto esorbitante della filosofia dell’atto. L’errore dell’attualismo sta qui: nell’aver conferito al pensiero pensante una valenza teologica. Per Gentile sono due i concetti fondamentali dell’attualismo: il concetto dell’autoconcetto e quello del formalismo assoluto. L’au5 Ibi, pp. 225-226. 6 Ibi, p. 232. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 In uno dei primissimi lavori giovanili (Le polemiche dell’attualismo, 192426, in G. Bontadini, Studi sull’idealismo, cit. p. 57), Bontadini scriveva: «Se noi ci rappresentiamo la filosofia di Gentile in questo modo: a) descrizione del contenuto dell’esperienza nelle sue formalità universali; b) constatazione dell’unità del contenuto nella forma dell’esperienza (storia, atto); c) dimostrazione della coincidenza di essa unità con Dio, mi sembra che avremmo innanzi, in compendio, l’essenziale di essa filosofia».

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toconcetto è l’espressione più decisa dalla negazione idealistica della “cosa in sé”: quanto più ci sforziamo di pensare una dimensione in cui le cose sono in se stesse, esterne ed indipendenti dal pensiero, tanto più quelle cose si fanno presenti al pensiero. Ma, col toglimento della “cosa in sé”, l’attività del pensiero diventa, per l’attualista, la produzione assoluta dell’essere: se non esiste un essere che sia indipendente rispetto al pensiero, allora quest’ultimo è la produzione dell’essere. L’autoconcetto è appunto il pensiero che, pensando e ponendo l’essere, produce se stesso (già l’idealismo di Hegel si era mosso in questa direzione). Il differire molteplice della realtà resta così raccolto nell’unità della forma, nell’unità dell’atto del pensiero: l’attualismo – dirà Gentile nella sua Teoria generale dello spirito come atto puro – è formalismo assoluto. Ma poi i due concetti (autoconcetto e formalismo assoluto), in realtà, «non sono che un concetto solo: giacché essi sono come l’alfa e l’omega di un alfabeto che non è una linea retta, ma un circolo, in cui la fine è lo stesso principio»10. Per Bontadini se il concetto di una “cosa in sé”, come pensato non pensato (non concepito) è, in effetti, un che di contraddittorio, il concetto della creatività e assolutezza ontologica dello spirito resta una tesi ancora tutta da provare: a ben vedere, egli afferma, essa non è che la negazione della presupposizione naturalistica, ossia dell’atteggiamento di chi presuppone, già sin dall’inizio dell’indagine conoscitiva, che le cose in sé esistono al di là e indipendentemente da ciò che appare. Quella creatività, insomma, non è che l’espressione esorbitante o “retorica”, e fondamental­mente sbagliata, di una giusta istanza avanzata dall’idealismo, quella che denuncia la contraddittorietà del concetto di “cosa in sé”. Si tratta invece di cogliere la verità della dottrina riconducendo la figura dell’autoconcetto a quella, pure gentiliana, del formalismo assoluto, ossia del concetto della intrascendibilità o assolutezza formale del pensiero: dove intrascendibilità o assolutezza siano dette, però, nell’ordine del conoscere, che è l’ordine intenzionale. In altri termini, posta l’Unità dell’Esperienza, o l’Unità dell’Atto, è ancora tutto da decidere se vi sia una realtà trascendente l’attualità nell’ordine dell’essere. L’atto del pensiero, il Logos concreto della Logica gentiliana «non è che la considerazione, diciamo così, in assoluto, della realtà 10 G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, G. C. Sansoni Editore, Firenze 1938, p. 232.

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Sulla via del “Sentiero del Giorno”

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empirica presa nella sua totalità formale e contenenziale»11. L’andare in sé dell’attualismo, vale a dire il suo assestamento teorico, è nel risultato del formalismo assoluto liberato dalle scorie teologiche e ontologizzanti dell’autoconcetto; in una parola, è il concetto dell’Unità dell’Esperienza come presenza di tutto ciò che è pre­sente, e cioè come totalità unitaria del contenuto dell’Esperienza, «affermato in ba­se alla sua semplice presenza»12.   3. Il rilancio della metafisica parte da qui, dalla posizione dell’Unità dell’Esperienza, che è Unità di Pensiero e di Essere, punto di coincidenza di idealismo e di realismo, dirà Bontadini. è a partire da questa Unità originaria che la filosofia dell’immanenza e la filosofia della trascendenza si giocano la partita decisiva. In effetti, il pensiero «pensa assolutamente quello che pensa necessariamente: epperò, come si dovrebbe accettare l’immanenza, quando l’immanenza si rivelasse l’unico concetto del reale, così bisognerà accettare la trascendenza quando fosse rigorosamente dimostrata. Volerla negare, appunto perché dimostrata! ossia pensata, sarebbe scambiare l’essere fisico o soggettivo con l’essere logico od obiettivo del pensiero, ovvero subordinare questo a quello, ossia degradare il pensiero e, quindi, sotto questo aspetto, corrompere lo stesso concetto dell’Unità dell’Esperienza»13. Trasformato l’attualismo in una situazione essenzialmente problematica (esiste l’Altro dall’Esperienza?) resta «l’esigenza che la costruzione metafisica debba partire dall’esperienza e, precisamente, non da un’esperienza qualsiasi, ma dall’Unità dell’Esperienza, ossia dal contenuto dell’Esperienza visto nella sua compiuta sistematicità e concretezza [il logos concreto]. Nell’aver posto con tutto rigore la necessità di questo punto di partenza [...] sta il valore dialettico che al pensiero moderno può conferire colui che si pone dal punto di vista della filosofia tradizionale, scolastica, tomistica»14. Un valore dialettico, dunque un valore di trapasso verso la costruzione della sintesi metempirica. Mi sono fermato a lungo sul concetto dell’Unità dell’Esperienza, non solo perché centrale nel pensiero di Bontadini, ma anche perché 11 G. Bontadini, Le polemiche dell’attualismo, cit., p. 54. 12 Id., Valutazione analitica e valutazione dialettica della filosofia moderna, in Studi sull’idealismo, cit., p. 233. 13 Ibi, p. 234. 14 Ibi, pp. 235-236.

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Al cuore del destino

è qui che egli fa convergere la sua indagine intorno all’originario del sapere quanto al versante fenomenologico-immediato, comprensivo di tutto ciò che va affermato perché è presente. Su questo punto e, in particolare, sul superamento della presupposizione naturalistica (determinata dalla posizione, più o meno esplicita, dell’originaria alterità dell’essere e del pensiero), il contributo del nostro filosofo appare di grande rilievo. Lo stesso può dirsi a proposito della posizione dell’intenzionalità ontologica del pensiero (il pensiero è pensiero dell’essere, necessariamente) e della sua intrascendibilità formale. Sono tratti costitutivi del discorso sul fondamento (protologia). Ma alla struttura del fondamento appartiene anche l’altro cespite originario del sapere, quello che interessa il versante logico-immediato, vale a dire il principio di non contraddizione. Dimostrare, spiegava l’ancora giovanissimo Bontadini, «equivale a eliminare il contraddittorio, precisamente mostrandolo contraddittorio»15. Dimostrare rigorosamente significa appunto ricondurre alla contraddizione formale le tesi contraddittorie. Anche su questo punto l’indagine di Bontadini si farà sempre più intensa e sarà uno dei lasciti più significativi che egli consegnerà alla riflessione del nostro tempo.   2. Inferenza metempirica e Principio di Parmenide   1. L’itinerario storico-teoretico percorso da Bontadini va dall’attualismo al problematicismo, quindi dal problematicismo al ritorno della metafisica classica. Non possiamo seguire questo tragitto nei suoi dettagli, perché troppo articolato16, e il discorso ci porterebbe troppo lontano dal nostro obiettivo, che è il se­guente: cogliere i nuclei di quel discorso “forte” che il filosofo ha lasciato in eredità ai suoi allievi e che definiscono un nuovo approccio teorico rispetto al quale «la denominazione di neotomismo e quella stessa di neoscolastica, pur mantenendo la loro attualità e vitalità, sono relativamente scadute di importanza [...]. La denominazione che, in vece loro, 15 G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e pensiero, Milano 1995, p. 204. La prima edizione risale al 1938. 16 Per la ricostruzione del pensiero di Bontadini, dall’impostazione problematicistica dei primi lavori fino alla svolta “neoparmenidea” della maturità, cfr. G. Goggi, Dal diveniente all’Immutabile, cit.

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prende credito è piuttosto quella di metafisica classica, con la quale si indica appunto esclusivamente il fondamento, le sue conseguenze apodittiche e la sua particolare posizione nei riguardi dello sviluppo del pensiero occidentale»17. Dopo aver toccato il tema fondamentale dell’Unità dell’Esperienza, veniamo adesso al tema dell’inferenza metempirica, ossia alla dimostrazione del teorema fondamentale della metafisica classica: quello della eteronomia del divenire, «il nerbo della metafisica di San Tom­maso»18, che già il neoscolastico Amato Masnovo, maestro di metafisica di Bontadini, si era impegnato a difendere. Il succo dell’argomento, la sua presentazione più succinta, si trova in un breve scritto del 1952. Il testo, che porta in primo piano l’eleatismo e il pensiero di Parmenide, va letto per esteso:   Il principio della metafisica afferma la impossibilità che l’essere sia originariamente limitato dal non essere. Esclude cioè [...] che il negativo possa essere assunto, originariamente, in funzione determinante. Non esclude la positività o plasticità del negativo simpliciter: quest’ultima esclusione è propria dell’eleatismo; il quale perciò nega la possibilità del divenire.   Nonostante questa esorbitanza – alla quale si ovvia con la distinzione [...] dell’originario dal partecipato – siccome il Principio si trova contenuto (anche se non esattamente formulato) per la prima volta nella storia della filosofia occidentale, nello stesso eleatismo, così esso può, ad honorem, esser chiamato Principio di Parmenide19.

  Il principio della metafisica – è impossibile che l’essere sia originariamente limitato dal non essere – è, in fondo, una riformulazione del teorema aristotelico del primato dell’atto sulla potenza20. Ma Bontadini mette in chiaro che questo teorema non è che l’esplicitazione e la messa a punto del Principio di Parmenide e cioè del principio eleatico della permanenza dell’essere.

17  G. Bontadini, Esperienza e metafisica, 1952, in Id., Dal problematicismo alla metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 159. 18 G. Bontadini, Realismo gnoseologico e metafisica dell’essere, 1934, in Id., Studi sull’idealismo, cit., p. 272. 19 G. Bontadini, La metafisica nella filosofia contemporanea (Principio della Metafisica), in Id., Dal problematicismo alla metafisica, cit., p. 211. 20 Cfr. Aristotele, Metaph., ix, 8-9.

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La “via della verità”, diceva Parmenide, è dire e pensare che l’essere “è e che non è possibile che non sia”21, e che il nulla non è e non è possibile che sia. Dunque, se l’essere è ed è impossibile che non sia, esso è eternamente permanente. A rigore, con il Principio di Parmenide resta impensabile non solo la generazione dal nulla (ex nihilo nihil fit), ma la generazione simpliciter: se l’essere è immutabile, diceva l’Eleate, l’esperienza del divenire è illusoria, perché attesta quel non essere che sembra negare la verità dell’essere. Il divenire dell’essere è l’evidenza originaria del fa…nesqai: è l’Unità dell’Esperienza come apparire originario del novum che sopraggiunge. E innegabile è non solo la “via della ragione” di Parmenide, ma anche l’esperienza attestante il divenire. Ma l’essere limitato dal non essere è, per l’appunto, spiega Bontadini, l’essere diveniente di cui facciamo esperienza originaria: un atto misto a potenza, unità di essere e di non essere. Ora il non essere non può per sé limitare o condizionare l’essere, perché il non essere non è, e a ciò che non è non si può attribuire la forza di incidere su qualcosa: non si può dire e pensare che il non essere sia. Torniamo al testo:   La fondazione del Principio di Parmenide (P.d.P.) si appoggia direttamente al primo principio o principio di contraddizione, in quanto ammettere il contrario varrebbe appunto quanto attribuire al non essere la positività, come incidenza sull’essere, o forza limitatrice dell’essere.   Il primo principio rivela perciò qui, nel fondare il P.d.P., la sua portata sintetica o costruttiva. Col P.d.P. si è già varcato il Rubicone della costruttività speculativa22.

  Ricondotto il Principio di Parmenide alla sua fondazione ultima (il primo principio o principio di non contraddizione), si afferma che la limitazione dell’essere da parte del non essere va fatta risalire ad un Principio trascendente l’Esperienza. Diversamente avremmo che il non essere può di per sé limitare o affettare l’essere. Varcare il Rubicone significa, speculativamente parlando, dimostrare la connessione necessaria tra un certo tipo di ente (la realtà diveniente) e

21 Parmenide, Sulla natura, fr. 2. 22 G. Bontadini, La metafisica nella filosofia contemporanea (Principio della Metafisica), cit., p. 211.

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una realtà che lo trascende: è questo il senso della applicazione sintetica del principio di non contraddizione.   2. Con Aristotele, Bontadini precisa così il senso della permanenza dell’essere, che va intesa come la preesistenza di una realtà che sia in atto rispetto alla totalità delle perfezioni sopraggiungenti (o alla totalità del sopraggiungere). Di qui l’attribuzione a Parmenide del principio della metafisica, ma ad honorem, per via dell’assestamento teorico che esso richiede. Se, con Parmenide, l’esistenza dell’Assoluto è già dimostrata (l’Assoluto essendo l’essere nella sua originaria pienezza), resta ancora da dimo­strare come siano compossibili l’Assoluto e il diveniente. Fino a che si continua a ritenere la dimensione del divenire come qualcosa di separato e indipendente ontologicamente (= quanto all’essere) dall’Immutabile, la contraddizione del divenire rilevata da Parmenide non può essere superata: l’indipendenza fa sì che, nel divenire, la limitatezza sia ex nihilo. Dunque, non basta porre che il diveniente sia ordinato finalisticamente all’Immobile (Aristotele); si deve pure pensare che tutto ciò che diviene sia posto dall’Immutabile inteso come causa efficiente (Tommaso). Di qui la distinzione di originario (Ipsum esse) e di essere partecipato (ens ab alio) che chiude il breve tratto della metafisica puri intellectus: «Il divenire deve venire dall’Immobile. Perché, se non venisse, sarebbe esso stesso originario, e perciò il non essere, in lui, limiterebbe originariamente l’essere. Deve venire, senza far divenire l’Immobile. Noi ci rappresentiamo questa necessità col Principio di creazione»23. Siamo al concetto della creazione libera che esclude il procedere necessario del diveniente dall’Immutabile: «L’emanazione dei neoplatonici [...] in quanto necessaria (è la nota che la distingue dalla creazione dei cristiani) compromette l’immobilità dell’Uno, perché ordina l’Uno stesso alla processione del molteplice; cioè fa di tale processione una attuazione, sia pure di scarsa entità, dell’Uno»24. Con ciò Bontadini trova conferma della verità della tesi aristotelico-tomistica: il divenire, l’essere limitato (nullificato) dal non essere, suppone una condizione che lo trascende.  

23 Ibi, p. 212. 24 Ibi, pp. 213-214.

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3. Centralità dei significati dell’Essere e del non Essere   Introducendo qualche altro elemento essenziale della teoresi di Bontadini, possiamo adesso raccogliere i punti di forza del suo pensiero neoclassico, ossia i punti nodali del suo magistero: • all’orizzonte dell’Unità dell’Esperienza (erede critico dell’atto gentiliano) appartiene l’idea dell’Assoluto, o della Totalità del reale, ossia quell’idea che «determina il problema filosofico, sotto l’aspetto della pura teoreticità, come problema teologico»25. La coscienza speculativa è il pensiero della totalità formalmente posta. In quanto pensa l’Intero dell’essere il pensiero è, esso stesso, formalmente illimitato. Ma resta il problema se ciò che appare all’interno dell’Unità dell’Esperienza sia, o non sia, il contenuto adeguato alla forma in­terale. Di qui la necessità di definire l’equazione dell’essere mediante l’affermazione metempirica; • la metafisica è il guadagno della trascendenza dell’Assoluto. Nella sua struttura fondamentale, l’inferenza metempirica consiste nel mostrare, sotto la regia direttiva del primo principio (o principio di non contraddizione), la necessità dell’Assoluto. Bontadini fa vedere che la negazione dell’esistenza dell’Assoluto trascendente, e la seguente assolutizzazione dell’Unità dell’Esperienza, implica la violazione del principio di non contraddizione. Quella negazione contiene infatti l’implicita affermazione che, nel processo del divenire inteso un che di assoluto, l’ente che si annulla sia annullato dal nulla – con ciò facendo del “nulla” un “non-nulla”; • la dimostrazione incontrovertibile dell’esistenza dell’Immutabile (la potenza creatrice e annullante) è insieme la dimostrazione che questa realtà esiste anche quando non viene pensata, giacché il pensiero pensa assolutamente ciò che pensa necessariamente. Il realismo dualistico «non è un antecedente, ma un conseguente della costruzione metafisica26; 25 G. Bontadini, La funzione metodologica dell’Unità dell’Esperienza, 1946, in Id., Conversazioni di metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1995, tomo i, p. 41. 26 Id., Realismo gnoseologico e metafisica dell’essere, cit., p. 269.

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• la necessità della dimostrazione e l’incontrovertibilità della sintesi metempirica sono garantite dalla riconduzione degli asserti al fondamento della struttura originaria del sapere: evidenza del contenuto presente, in quanto presente, e principio di non contraddizione, giocato tutto sulle ragioni dell’essere e del non essere. L’essere si semantizza per opposizione al non essere, e cioè: «La semantizzazione dell’essere è [...] in funzione del negativo»27; • con Parmenide (e con Aristotele) la verità è già in vista: «La metafisica non è che lo sviluppo del Principio di Parmenide, nella sua applicazione all’ordine fenomenologico, ossia alla Unità dell’Esperienza. Mediazione dell’esperienza (metafisica dell’esperienza) operata in base alla considerazione dell’essere e del non essere (cioè come metafisica dell’essere)»28. Mediare l’esperienza alla luce delle ragioni dell’essere e del non essere, questa era l’esigenza più profonda dell’indagine di Bontadini. Lo stesso principio di causa, egli diceva, deve seguire in seconda battuta: «Il Principio di Parmenide fonda, bensì, il principio di causa (giacché la causa è introdotta per salvare l’equazione dell’essere), ma non passa attraverso di esso per arrivare a Dio»29. Il nucleo essenziale e il segreto riposto della metafisica classica andava cercato nella portata sintetica del principio di non contraddizione, fondato appunto super rationem entis et non entis. Il che portava ad una rigorizzazione degli asserti speculativi ricondotti, per tal via, alla struttura originaria del sapere: sintesi di immediatezza fenomenologica e di immediatezza logica. C’è da dire che questo processo di essenzializzazione subirà, negli anni Sessanta e Settanta, una speciale curvatura che modificherà l’impianto strutturale della protologia bontadiniana. Ciò accadrà quando il Maestro della Cattolica discuterà gli scritti del suo allievo più geniale, Emanuele Severino, accogliendone, in fine, la tesi di fondo: l’affermazione dell’eternità dell’ente in quanto ente. Accogliendo tale tesi, ma dialettizzandola con l’asserto dettato dall’espe-

27 Id., La metafisica nella filosofia contemporanea (Principio della Metafisica), cit., p. 211. 28 Ibi, p. 212. 29 Ibi, p. 213.

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rienza che, per Bontadini, documenta l’esatto opposto, ossia l’annientamento dell’ente. Di questa ristrutturazione dialettica della protologia diremo, in breve, più avanti. è dell’altissimo magistero di Severino che ora, sia pure per sommi capi, dobbiamo trattare. B. Emanuele Severino   1. Verità dell’Essere e alienazione dell’Occidente   1. Se per Bontadini lo sviluppo del pensiero moderno e contemporaneo porta al ritorno della metafisica classica (la quale apre, a sua volta, al cristianesimo), per Severino, invece, la storia della filosofia occidentale «è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci». Così inizia Ritornare a Parmenide, il saggio che ha posto Severino al centro del dibattito filosofico italiano negli anni Sessanta. Quanto al senso dell’essere si dice che «è proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola più essenziale e più di­men­ti­cata di tutto il nostro sapere [...] œsti gar enai mhdn d' oÙk œstin (fr. 6, vv. 1-2). Le parole son pur sempre queste [...]. Il gran segreto sta pur sempre in questa povera af­fermazione che “L’essere è, mentre il nulla non è”. Nella quale non si indica sem­pli­ cemente una proprietà, sia pur fon­da­mentale dell’essere, ma se ne indica il senso stes­so: l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi»30. All’altezza della verità essenziale dell’essere (essere è la verità di ogni ente: essere e non poter non essere), il pensiero occidentale non si è però mantenuto. Lo stesso Par­me­ni­de non è riuscito ad impedire che il pensiero dell’essere fosse, in­sieme, il pensiero che esclude la nientità dell’ente: «Parmenide è [...] il primo re­spon­sabile del tramonto del­l’essere. Poiché le differenze non sono l’essere – poiché “ros­so”, “casa”, “mare”, non significano “essere”, non significano

30 E. Severino, Ritornare a Parmenide, 1964, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 20.

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cioè “l’energia che spinge via il nulla” – le dif­fe­renze sono non-essere, sono esse stesse il nulla, che la dÒxa chia­ma con molti nomi»31. Per la fondazione del molteplice, e per salvare le differenze dal nulla cui Parmenide le aveva consegnate, bisogna attendere, com’è noto, il parricidio compiuto da Platone: la fondamentale distinzione tra il non es­sere come contrario (™nant…on) dell’essere e il non essere come altro (›teron) dal­l’essere. In forza di tale distinzione si riesce a dire (e a buon diritto) che “rosso”, “ca­sa” e “mare”, che pur non significano es­se­re, non signifi­ca­no nemmeno niente; non si­ gnificano il contrario del­l’essere, ma un che di diverso da esso. Af­ fer­ma­re che il “ros­so” è, vale quanto af­fer­ma­re che un non-essere è; ma questo non significa che il niente è, bensì che qualcosa, una certa deter­minazione (che non significa essere) è. Da Pla­tone in poi pensare l’es­sere significherà pensare la totalità delle determinazioni che sono. Sennonché la di­stin­zione platonica «è stata, per il pensiero occidentale, tanto più fatale quanto più essen­ziale e im­pre­scin­di­bile. Perché essa porta le differenze nel­l’es­sere – e le porta sicura­mente e definitiva­mente –, ma con­ti­nua a lasciarle nel tempo (come già era accaduto a Parmenide); on­de ci si deve mettere in cammino – un cam­mino che ancora oggi non è finito – per an­dare alla ri­cerca di quell’essere che è fuori del tempo»32. Quelle differenze sono infatti degli enti che oscillano tra l’essere e il non essere. Sono dei metaxÚ: partecipano dell’essere e del non essere. Anche i molti sensi dell’essere, che Aristotele raccoglie nella dottrina delle categorie, sono concepiti secondo quel modo di pensare che, con Platone, sorregge l’intero corso dell’Occidente. Che anzi, è proprio in un passaggio chiave del Liber de Interpreta­tio­ne che Severi­no tro­va la formulazione più limpida ed esemplare del tramonto del senso dell’essere. Ecco il passo dello Stagirita:   è necessario che l’essere sia, quando è, e che il non-essere non sia, quando non è; tuttavia non è necessario che tutto l’essere sia, né che tutto il non-essere non sia; non è infatti la stessa cosa che tutto ciò che è sia necessariamente, quando è (Óte e]stin), e l’essere senz’altro (¡plîj) di necessità33.

31 Ibi, p. 23. 32 Ibidem. 33 Aristotele, De Interpr., 19 a 23 ss.

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 Ed ecco il commento di Severino:  

Il discorso aristotelico (ripetuto dagli aristotelici e dagli scolastici vecchi e nuovi) ponendo che quando l’essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che quando l’essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero pericolo dal quale ci si deve guardare non è l’affermazione che, quando l’essere è nulla, sia essere (e, quando è essere, sia nulla), ma è l’acconsentimento che l’es­sere sia nulla, cioè l’acconsentimento che si dia un tempo in cui l’essere non è il nulla (quando è) e un tempo in cui l’essere è nulla (quando non è), cioè l’acconsentimento che l’essere sia nel tempo. In questo modo il “principio di non contraddizione” diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall’essere34.

  Nel pensiero che l’essere – questo “rosso”, questa “casa”, questo “mare” – sia stato niente, e che ritorni ad essere niente, è contenuto il pensiero che l’essere – quel “rosso”, quella “casa”, quel “mare” ­– sia niente. Pensare che l’essere divenga (passi dal non essere all’essere e viceversa) significa pensare che l’essere sia niente. Si legga questo passaggio del Poscritto di Ritornare a Parmenide:  

Come nell’espressione “Quando il cielo è coperto” è inclusa l’affermazione “Il cielo è coperto”, così nell’espressione: “Quando questa lampada è nulla” è inclusa l’affermazione “Questa lampada è nulla” (sia pure riferita ad una situazione diversa da quella presente, a proposito della quale si riconosce che questa lampada non è un nulla). E questa affermazione è l’impercorribile assurdo, ossia è l’identificazione del positivo (cioè di questo positivo che è questa lampada) e del negativo, dell’essere e del nulla35.

  Il pensiero cui si conforma l’Occidente, la persuasione che il divenire dell’ente sia l’evidenza originaria, contiene la persuasione che l’ente sia niente – ciò che Severino chiama nichilismo. La verità dell’essere è invece l’affermazione che la totalità del positivo (e dunque anche ciò che vi è di più “banale” come questa lampada) è eterna:   Poiché questa lampada è questa lampada, ed è così significante, non solo il nulla non le conviene di fatto, ma è impossibile che le convenga36.

34 E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 22. 35 E. Severino, Poscritto, 1965, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 64. 36 Ibidem.

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 Ritornare a Parmenide vuol dire, per Severino, «ripetere il “parricidio”, senza divenire colpevoli dinanzi alla verità dell’essere»37: ripetere la fon­dazione del molteplice senza abbandonarlo alle fauci del nulla, «affermando di ogni ente, e della concreta totalità de­gli enti, ciò che Parmenide affermava dell’es­se­re: “È impossibile che non sia”»38.   2. Il pensiero alienato tenta la dimostrazione del­l’e­si­stenza dell’essere necessario os­sia dell’essere che non può non essere. Andare alla ricerca dell’essere necessario «significa cercare l’essere di cui non si possa dire – in alcuna circostanza e in alcun momento –: “non è” [...]. Ed eccola qui la gran barbarie del pensiero: nel do­ mandarsi appunto: “Esiste un essere di cui non si possa dire che non è?”, “Esiste un essere-che-è?”. Poi­ché ciò significa: “Esiste un positivo che non sia il negativo?”. Ci si domanda dunque se il po­sitivo sia il negativo e, proprio perché si domanda, si ammette la possibilità che lo sia. Domandarsi se esiste l’essere necessario significa affermare la contrad­dit­torietà dell’essere, la sua identità col nul­la»39. In tutto il suo cor­so sto­ri­co (fino alla neoclassica di Bontadini inclusa), la me­ta­fi­sica ha pensato di trovare lontano ciò che invece sta vicino, come vicina sta la “lam­pa­da” e tutto ciò che appare nel contesto immediato dell’Unità dell’E­spe­rienza – tutto ciò di cui si dice che è una positività determinata, un determinato imporsi sul nulla. Ciò di cui la metafisica si è sempre preoccupata è di escludere che dal nulla possa venire qualcosa: ex nihilo nihil fit. Ma tale principio, osserva Severino, può essere tenuto fermo solo da chi ha già smarrito il senso dell’essere. Il tramonto della verità dell’essere – si dice in Ritornare a Parmenide – è già at­ti­vo nella scuola eleatica con Melisso. Nel fram­ mento I il filosofo di Samo afferma quanto segue: «Sempre era ciò che era e sempre sarà. Infatti, se fosse nato, è ne­ces­sa­rio che prima di nascere non fosse nulla. Ora, se era nulla (e„ to…nun mhdn Ãn), in nes­sun modo nulla avrebbe po­tuto nascere dal nulla». Dove è indubbio che nulla esisterebbe attualmente se vi fosse stato un tempo in cui l’essere era nulla. Ma, per chi ha inteso il senso autentico del 37 E. Severino, Risposta ai critici, 1968, in Id., Essenza del nichilismo, cit., p. 315. 38 Ibidem. 39 E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 33.

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Principio di Parmenide, l’assurdo si cela proprio in quella af­fer­ mazione che prospetta la situazione in cui l’essere sia nul­la. Ciò fa dire a Severino che è Melisso e non Parmenide il padre della metafisica classica: «A partire da Melisso, nella metafisica classica l’immutabilità dell’essere (e quindi, daccapo, l’essere ne­ces­sario) è fondata sul principio dell’ex nihilo nihil. Che non è, come in­ve­ce vorrebbe Bontadini, il Prin­cipio di Parmenide, ma è il principio, appun­to, di quella “metafisica classica” che è la prima responsabile della dimenticanza della verità dell’essere»40. Più avanti, il testo rileva che, non solo per Melisso e per la sterminata coorte dei suoi seguaci, ma anche per Bontadini, «che l’essere non sia (che il po­si­ti­vo sia il ne­gativo) è cosa del tutto naturale per il pensiero: l’essere diviene – il che significa: “l’essere è e (poi) non è”–: fin qui, si crede, tutto è a posto, la contraddizione non c’è ancora; bisogna fare degli altri passi per trovarla. Bisogna introdurre il prin­ci­pio che l’essere non è originariamente limitato dal non essere [Principio ad honorem at­tri­bui­to a Parmenide], bisogna ricondurre questo prin­cipio all’opposizione del positivo e del negativo. E cioè bisogna ricondurlo pro­prio a quell’opposizione che all’inizio è stata negata proprio in quanto si è lasciato passare come incontraddittorio in quanto tale quel concetto del divenire dell’essere in cui il po­sitivo è identificato al negativo»41. Nella sua semplicità e radicalità estrema il pensiero di Parmenide, cui Severino ritorna, è invece l’esclu­sione che l’essere passi dal non essere all’essere, e viceversa: per la sola ragione che, se ciò accadesse, l’essere non sarebbe – e «non si può dire o pensare che [l’essere] non è»42. Certo, l’essere di cui Severino af­fer­ma che è e che non può non essere non è la totalità vuota di Par­me­ni­de, ma l’intero del positivo, la totalità delle differenze (Platone) sot­tratte da sempre e per sempre al­la presa mor­tale del nulla.   3. La replica di Bontadini non si fece attendere. Egli ribadì che «il discorso aristotelico del De interpretatione non solo può essere fatto, in quanto corrisponde al referto del faivnesqai ma anche deve es-

40 Ibi, p. 35. 41 Ibi, p. 39. 42 Parmenide, fr. 8.

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sere fatto, perché l’esperienza non può essere messa da parte»43. E l’esperienza attesterebbe precisamente che l’essere è quando è. L’uscita di Ritornare a Parmenide ha lasciato tuttavia un segno indelebile nello svi­luppo della teoresi del Maestro della Cattolica. La contraddizione del divenire, che in precedenza Bontadini attribuiva ad una cattiva lettura (o interpretazione) del di­ve­nire, quella che ne fa un che di Assoluto (alla Gentile), ora viene calata nel cuore stesso del divenire in quanto luogo dell’uscire dal niente e del ritornare al niente delle determi­nazioni. La grande contraddizione avvistata da Parmenide, ora si riconosce, è data dal­l’affermazione che l’essere non è: «Il fatto che io non abbia dichiarato la contraddit­ to­rietà del divenire», dirà Bontadini, «non significa che io neghi tale contraddittorietà (neghi, cioè, che il divenire si presenti – appaia – come contraddittorio). Il fatto che io non abbia espresso alcuna meraviglia non significa che io non l’abbia provata»44. A dire il vero, però, di quella meraviglia, provata ma inespressa per pudore, non solo non c’è traccia alcuna nei testi precedenti, ma non c’è traccia perché l’im­pianto del discorso era diversamente strutturato: prevedeva il rilievo della contrad­dit­torietà del divenire in quanto assolutizzato. A partire da Sèzein t¦ fainÒmena la me­tafisica puri intellectus va a configurarsi nei termini di un mo­vi­mento dialettico tra l’istanza parmenidea (l’essere non può non essere) e l’attesta­zio­ne opposta dell’e­sperienza (c’è dell’essere che diviene). Per evitare che l’opposizione diventi con­traddizione occorre che «quella identificazione dell’essere e del non essere, che ri­scon­triamo nell’esperienza» – identificazione del positivo e del negativo che definisce la contraddittorietà del divenire – sia vista «come il risultato dell’azione dell’Essere (a­zione indiveniente dell’essere indiveniente) [...]. Se infatti l’essere è quell’energia che respinge via da sé il nulla, esso non può, per sé, identificarsi col nulla; ma se l’annullamento dell’essere – di quell’essere che può essere annullato, e che diciamo annullabile perché tale lo constatiamo (ab esse ad posse valet illatio, che è quanto dire che il reale è incontraddittorio) – è opera della Potenza o del­l’Energia dell’Essere, allora la contraddizione scompare.

43 G. Bontadini, Sèzein t¦ fainÒmena, 1964, in Id., Conversazioni di metafisica, cit., tomo ii, p. 143. 44 Ibi, p. 152.

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Giacché l’essere non si identifica più col nulla per se stesso, ma per l’intervento del­l’Es­se­re»45. Il nuovo assetto della protologia bontadiniana (che pure Bontadini faceva passare co­me un’esplicitazione dell’impostazione precedente) andrà assumendo nei testi suc­ces­sivi una configurazione che richiama il motivo dominante di Ritornare a Parmenide, la contraddittorietà del divenire per sé considerato. L’impronta del grande allievo, ben si coglie nelle chiare lettere del saggio Sull’aspetto dialettico della di­mostrazione dell’esistenza di Dio:  

La contraddizione del divenire non consiste nel fatto che l’essenza (a) esista e non esista, abbia e non abbia l’esistenza (giacché essa l’ha nella prima battuta e non l’ha nella seconda), ma nel fatto che l’esistenza si identifica con la non esistenza. Ciò che noi possiamo anche esprimere dicendo che l’essere a è annullato [...]. Si scorge, allora, che il positivo che si identifica col negativo, il positivo di cui si predica il negativo, è propriamente l’esistenza, l’actus essendi. L’esistenza non esiste: questo lo scandalo del divenire46.

  La contraddizione tra l’istanza razionale (l’essere è) e l’istanza empirica (il reale dell’esperienza diviene) che è poi contraddizione «tra la contraddizione del divenire (che significa la sua impossibilità) e la sua realtà»47, va superata in forza della valenza metempirica del principio di non contraddizione:   In quanto l’esperienza – la quale non può essere contraddetta, perché è un positivo – presenta una contraddizione, si dà origine ad un movimento del pensiero – ad una mediazione, o inferenza –, che equivale [...] ad un “uso sintetico” del principio di non contraddizione. “Uso sintetico” signi­fi­ca che il pensiero deve affermare una realtà ulteriore all’esperienza, allo scopo di dirimere la con­traddizione che questa presenta in se stessa48.

  Per la soluzione della contraddizione Bontadini introduce il Principio di Creazione:

45 Ibi, p. 145. 46 G. Bontadini, Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio, 1965, in Id., Conversazioni di metafisica, cit., tomo ii, p. 190. 47 Ibi, p. 191. 48 Ibidem.

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Dio viene qui introdotto dialetticamente come il creatore. La creazione, infatti, come atto che suscita dal nulla la realtà corruttibile, è insieme, come pertinenza dell’essere intelligibile, fuori del tempo (cioè immobile). Ora la realtà del temporale viene speculativamente concepita tutta insidente nell’atto creativo. In tale atto il divenire ritrova la sua equazione razionale. Infatti quello che nell’e­sperienza appare come il semplice non essere dell’essere, visto nell’assoluto è l’atto intemporale che pone l’annullamento. Con ciò è conseguita la razionalizzazione del reale empirico49.

  Nell’atto intemporale, dirà Bontadini nell’ultima sua fatica speculativa, Per una teoria del fondamento, tutto il reale diveniente sta come immobile:   L’affermazione del­l’im­mobilità del Creatore equivale all’affermazione dell’immobilità di tutto il reale (nulla sussiste fuori di Dio, o dell’atto creatore che è identico a Dio), e perciò il dive­nire si presta ad essere concepito in una luce per cui non possa violare tale as­so­luta immobilità. In questa luce è affermata l’immobilità del tutto, senza che sia sop­pressa la realtà del divenire50.

  Come dire: dal punto di vista di Dio, che è il Concreto, tutto è immobile.   2. Immutabilità dell’Essere e apparire processuale dell’eterno   1. Dopo l’uscita di Ritornare a Parmenide, Bontadini rimproverò al suo allievo di aver la­sciato il divenire alle prese dell’assurdo. L’ente diveniente continua a divenire e il divenire è pur sempre la dimensione in cui l’ente oscilla tra l’essere e il nulla. Come sal­varlo dalla contraddizione? Da parte sua Severino, nel Poscritto di Ritornare a Parmenide, giunse alla piena comprensione che, una volta accettato che l’essere, in verità, è ciò che è e che non può non essere (tale essendo la verità del­l’es­sere, cui lo stesso Bontadini ha ceduto le armi), non si può più «ritornare indietro ed affermare che il non essere dell’essere non è più contraddittorio qualora sia inteso come quell’annulla49 Ibi, p. 192. 50 G. Bontadini, Per una teoria del fondamento, 1973, in Id., Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 14.

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mento che è “opera della Potenza e dell’Energia dell’Essere”: se l’impercorribile assurdo è che l’essere si an­nulli, questo dio creatore immaginato dalla ragione alienata, è il creatore dell’as­sur­do»51. Eppure il divenire dell’essere è cosa manifesta – e ciò determina l’aporia fondamentale della verità dell’essere perché, se da un lato (quello della immediatezza logica) è necessario affermare che l’essere è immutabile (e che perciò non diviene), dall’altro lato (quello della immediatezza fenomenologica) è necessario affermare il divenire dell’essere, che pure è ciò che appare. Si noti che, già negli scritti di Severino precedenti Ritornare a Parmenide (Po­scrit­to), la testimonianza del­la verità dell’essere è ben presente. In un saggio del 1956, La me­tafisica classica e Aristotele, la peculiare posizione di Parmenide rispetto a quella di Melisso emerge con nettezza. Ne La struttura originaria, opera del 1958, che ri­ma­ne tuttora il luogo in cui i principali teoremi della dottrina severiniana trovano la loro fondazione, si faceva vedere che la negazione della proposizione “L’essere (l’in­te­ro del positivo) è immutabile” è intrinsecamente contraddittoria. In quegli scritti – precedenti Ritornare a Parmenide (Poscritto) – il contesto del­l’im­mediatezza fenomenologica continua però ad essere inteso come l’evidenza originaria del­l’annullamento dell’ente, come un «orizzonte in cui la nascita e l’annul­lamento del­l’es­sere viene alla manifestazione»52, e la solu­zione dell’aporetica va in una di­re­zione che sembra confermare la metafisica della tradizione scola­sti­ca. Si dice: «La totalità del F-immediato [appartenente cioè al contesto dell’immediatezza fenomenologica] e, in generale, la totalità dell’essere diveniente, è solo in quanto l’intero immutabile è [...]. All’opposto l’intero immutabile è, anche se la totalità del divenire non è [...]. Se la totalità del divenire non appartiene ne­ces­sa­ria­ mente all’intero, e se l’immutabile intero è ciò per cui quella totalità è, che la totalità del dive­nire sia, è una decisione dell’immutabile»53. Ma la soluzione era solo apparentemente solidale alla tradizione, poi­ché in fi­lo­so­fia ciò che conta non è tanto la convergenza nei risultati, quanto la de­fi­ni­zione del fondamento su cui i risul­ta­ti poggiano. E, nel caso dei lavori di Seve­ri­no, quel fon­da­mento (la verità dell’essere come affermazione dell’eternità dell’ente in quanto ente 51 E. Severino, Poscritto, cit., p. 82, nota. 52 Id., La struttura originaria, cit., p. 547. 53 Ibi, pp. 553-554.

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e quindi la denuncia della contraddittorietà intrinseca del divenire) va nel senso della negazione più radicale di ciò che la metafisica tradizionale fa passare come l’e­vi­den­za originaria. Ciò che Severino non vedeva ancora con chiarezza era che il pensiero inaudito della verità dell’essere esige il tramonto della categoria dominante l’intero pensiero occi­den­ta­le, quella del divenire inteso in termini di essere e di non essere. Il Poscritto di Ritor­nare a Parmenide giunge a questa comprensione: se la verità dell’essere esclude la possibilità che l’essere non sia, è impossibile che l’apparire (l’Unità del­l’E­spe­rien­za, l’ambito dell’immediatezza fenomenologica) si strutturi nella forma dell’oscilla­zione tra l’essere e il non essere: è impossibile che quel­ l’o­scil­la­zio­ne appaia. A provo­care l’apparente contraddizione tra i due momenti della verità (lo­gos ed esperienza) è la definizione del divenire come processo dell’annullamento del­l’ente. Per Severino si tratta quindi di comprendere quanto segue:   Non appare che l’essere esca e ritorni nel nulla, bensì l’essere appare e scompare [...]. Il divenire che appare non è la nascita e la morte dell’essere, ma il suo comparire e scomparire. Il divenire è cioè il processo della rivelazione dell’immutabile54.

  Ciò che provoca l’apparente contraddizione tra l’affermazione dell’immutabilità del­l’essere e la presenza del divenire è proprio la definizione “ontologica” del divenire (come passaggio dal non essere all’essere e viceversa). Inteso in termini di ap­pa­rire e di scomparire, il divenire dell’essere non sta più in contraddizione con l’im­ mu­tabilità dell’essere, stante che ciò che incomincia ad apparire è una de­ter­mi­na­zione che è (eternamente) anche quando non è ancora apparsa, e continua ad essere anche quando scompare. Certo, «questo essere manifesto è, in quanto immutabile [...] altro da sé in quanto diveniente»55, ma questa diversità, che Severino chia­ma “differenza ontologica”, è tale per cui «uno dei due differenti [l’intero immutabile del­l’essere, l’apparire infinito dell’essere] non manca di alcuna positività [...] onde l’altro differente [la totalità di ciò che appare nell’Unità dell’Esperienza, l’apparire pro­ces­suale, finito dell’ente] non aggiunge alcuna positività al primo – e questo è pos­ 54 E. Severino, Poscritto, cit., pp. 88-89. 55 Id., Ritornare a Parmenide, cit., p. 29.

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sibile perché quest’altro è lo stesso primo in quanto astrattamente manifesto, e quindi è dif­ferente come un mancamento d’essere»56. Dunque, non c’è nulla di cui si possa dire che diviene in senso ontologico. Neppure dell’ap­parire attuale (di questo o di quel­l’en­te) si può dire che sia qualcosa che in­co­mincia ad essere. Anticipando e sviluppando un’obie­zio­ne che più tardi gli rivolgerà lo stes­so Bontadini57, Se­ve­rino af­ferma che «quando qual­cosa incomincia ad apparire – ossia si inserisce nel­l’o­rizzonte trascendentale [for­malmente intrascendibi­le] dell’apparire –, inco­min­cia ad apparire anche il suo ap­pa­ri­re, ossia incomincia ad apparire anche l’in­clusione del qualcosa nell’apparire tra­scen­dentale»58. Non solo è eterno l’ente che ap­ pare nel pro­ces­so del divenire, «ma anche il suo apparire è da sempre e per sempre, anche se non da sempre appare»59. L’in­co­minciare ad ap­parire esclude strut­tu­ral­mente l’inco­min­ciare ad essere60. A partire da qui, il seguito della riflessione severiniana può considerarsi una pro­gres­siva rigorizzazione e messa a punto del pensiero dell’eternità dell’ente in quanto en­te61. Interessante, per le implicazioni in ambito di antropologia e di filosofia della pra­tica, è lo sviluppo del tema della libertà.   2. La filosofia di Severino (come quella di Bontadini, del resto) nasce grande: i tratti fondamentali della testimonianza della verità dell’essere (l’afferma­zione dell’eternità dell’ente in quanto ente) sono ben delineati già nelle prime opere. Basta leggere La struttura originaria e Studi di filosofia della prassi per coglierne tutta la forza spe­culativa. Ma, in questi primi lavori, Severino pensa al divenire degli enti nel senso, ancora nichilistico, del loro passare dal non

56 Id., Poscritto, cit., p. 113. 57 G. Bontadini, Dialogo di metafisica, 1965, in Id., Conversazioni di metafisica, cit., tomo ii, pp. 206 ss. 58 E. Severino, Poscritto, cit., p. 110. Per lo sviluppo di questo tema, cfr. supra, Parte prima, cap. iii. 59 Ibidem. 60 Per lo sviluppo di questo tema, cfr. supra, Parte prima, cap. iii. 61 Tale messa a punto si rivelerà sempre più incompatibile con l’insegnamento della Chie­sa e ciò porterà il Filosofo davanti alla S. Congregazione per la dottrina della Fede, al Palazzo del S. Uffizio in Roma (1970). Seguirà l’allontanamento dalla Cattolica e il successivo arrivo a Venezia, dove Severino sarà tra i fondatori dell’attuale Facoltà di Filosofia all’Università degli studi di Ca’ Foscari.

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essere al­l’es­se­re (e viceversa), e tratta questa oscillazione come contenuto dell’evidenza originaria. Negli Studi di filosofia della prassi il pensiero, che prende a tema la libertà, resta sotto la soggezione di un discorso che dà voce al tratto tipico del ni­chi­lismo. Non tanto nel senso che si ritiene che il libero arbitrio o la contingenza della decisione siano qualcosa che appare, un contenuto presente (che anzi, proprio questo si esclude), quanto piuttosto perché la persuasione che l’ente è disponibile all’oscillazione tra l’esser e il nulla fa ritenere co­me possibile (non immediatamente assurda) la tesi che una determinata decisione (che appare) sarebbe potuta rimanere un nulla. La libertà è posta come problema origina­rio. Nel Poscritto di Ritornare a Parmenide Severino sostiene invece (come abbiamo visto) che l’apparire in quanto tale nulla dice circa le sorti di ciò che non appare più o di ciò che ancora non appare: «E se queste sorti» – egli scrive – «sono taciute dal­l’ap­pa­rire come tale, esse sono svelate “senza adombramenti” [...] dalla verità dell’essere che [...] dice che l’essere è e non può non essere e resta eterno presso di sé»62. Il concetto della li­bertà, come possibilità che una de­ terminata azione sarebbe po­tuta essere un niente, viene così denunciato quale espressione dell’alienazione nichi­li­stica della ragione. A partire da questa comprensione veritativa del senso del divenire (come apparire e scomparire dell’eterno), nel Poscritto di Ritornare a Parmenide Severino parla ancora della libertà come di un problema, ma ne parla attribuendo ad esso un si­gni­fi­cato prima inaudito: qui infatti la libertà è intesa come una de­terminazio­ne che si ri­fe­risce all’apparire e non all’es­se­re. Fermo restando che tutto è eterno (compresa questa o quella decisione dell’uomo) e che neppure la li­bertà o contingenza del­l’ap­pa­rire è qualcosa che appare, Se­ verino si chiede se gli enti che appaiono (com­preso l’ap­parire di questa o quella decisione dell’uomo) sa­reb­bero potuti non ap­parire. Il pro­blema della libertà interessa la stessa dottrina della li­bertà di Dio: «Se la ‘crea­zio­ne’ viene interpretata in termini di essere e di non essere [come possibilità della ver­ti­bilitas in nihilum del mondo] allora il concetto di creazio­ne è l’esplicita ne­ga­zio­ne del­la verità dell’essere. Ma se la creazione viene interpretata come una de­ter­mi­ na­zione che ri­guar­da l’apparire e lo scomparire dell’essere, allora la creazione è un’au­tentica possibilità della verità dell’essere [...], la 62 E. Severino, Poscritto, cit., pp. 86-87.

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possibilità che, nello spet­ta­co­lo e­ter­no del­l’apparire, giunga ad apparire ciò che sarebbe potuto non apparire; ossia che in quel momento dell’eterno che è l’attuale apparire, l’eterno si ri­veli più di quan­to non sia destinato ad apparire»63. Ma il pensiero dell’eternità dell’ente (la verità dell’essere, la sua necessità) por­terà ad escludere anche questo nuovo senso della contingenza o libertà dell’ente. In Destino della necessità Severino dirà che la supposizione tenuta aperta nel Poscritto non può essere mantenuta: «Poiché l’accadimento (il divenire) non è la creazione dell’ente, ma è il sopraggiungere dell’ente, cioè dell’eterno, nell’apparire, l’accadimento è, dunque, solamente in quanto appare. Un divenire “in sé”, che non appaia, è impossibile, è cioè un concetto del nichilismo»64. A questo punto ogni forma di li­bertà o di contingenza (anche quella prospettata nel Poscritto) appare come la negazione della verità dell’essere: «appunto perché l’apparire appartiene all’essenza dell’accadere, e cioè l’accade­re esiste solo in quanto appare e non può avere la possibilità di restare nel non ap­pa­ri­re lasciando che un altro accadere appaia»65. Siamo al superamento dell’etica e del­l’an­tropologia occidentale centrata sul con­cetto dell’uo­mo quale ente capace di agire con una certa potenza sulle cose.   3. Epistéme e “destino”   Introducendo qualche altro elemento di base della teoresi di Severino possiamo adesso (come fatto sopra per Bontadini) dare sintetico rilievo ad alcuni nodi essenziali del suo magistero:   • se, per Bontadini, l’andamento progressivo del pensiero occidentale porta alla riapertura della metafisica, per Severino tale an­da­ mento porta alla progressiva liberazione dell’Occidente dagli immutabili evocati dall’™pist»mh e cioè dalla forma del sapere “stabile” della tradizione metafisica; porta quindi all’affermazione che non può esistere alcuna realtà eterna. Lo sbocco inevitabile non è il ritorno della metafisica classica, ma l’imporsi di un

63 Ibi, p. 115. 64 E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 104. 65 Ibi, p. 105.

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pensiero per cui tutto (la totalità dell’ente) viene assunto come dominabile, manipolabile; • ad evocare la dimensione del divenire come venire all’essere dal niente da parte dell’essente è la stessa ™pist»mh – la quale dunque contiene in sé il principio del­la propria dissoluzione: «Se tutto preesiste (ed è conservato) nel dio, lo slegarsi dal niente e dall’essere da parte degli enti [la loro originaria disponibilità all’essere e al non essere] è impossibile; ma questo scioglimento è l’“evidenza”; dunque l’“evi­den­za” della libertà esige l’inesistenza del dio e di ogni immutabile che predetermini e an­ti­cipi il concreto divenire storico delle cose»66. è l’evi­denza del divenire ad esigere l’inesistenza di ogni immutabile che predetermini il divenire storico dell’ente. In questo senso la dottrina di Gentile, che sostiene l’im­possibilità di ogni ente che esista al di là del divenire concreto del pensie­ro (quella che Bontadini chiamava la superfetazione retorica dell’idealismo), si presenta co­me sviluppo conseguente all’assunto nichilistico dell’Occidente. La filosofia contem­poranea – che trova coerente espressione nel pensiero di Gen­ti­le, ma poi, per Severino, anche nell’opera di Leopardi67 e di Nietzsche68 – apre lo spazio della dominazione del sapere scientifico-tec­nologico69; • immediatezza dell’essere e immediatezza dell’incontraddittorietà dell’essere sono le colonne portanti della struttura originaria di cui ci parla Severino. Presenza del­l’es­sere e della sua incontraddittorietà. L’intento dei suoi scritti è di determinare nel mo­do più rigoroso il senso dell’originario e, dunque, della necessità: la ve­ri­tà dell’essere (la sua necessità), egli dirà, è ciò la 66 Ibi, pp. 35-36. 67 Cfr. E. Severino, Cosa arcana e stupenda: l’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997. 68 Cfr. E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999. 69 Ma la verità dell’essere, il destino della necessità, che appare al di là di ogni tecnica – e che è la forma stessa in cui appare il contrasto tra la verità dell’essere (l’apparire dell’eternità di ogni ente) e ciò che Severino chiama isolamento della terra (ossia l’isolamento della terra dalla struttura della necessità) –, è pure l’apparire della necessità del tramonto dell’isolamento (tema sviluppato nei più recenti capolavori speculativi di Severino: La Gloria, 2001, Oltrepassare, 2007 e La morte e la terra, 2011).

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cui negazione è autonegazione: è ciò senza di cui non si costituirebbe alcun pen­siero; • il senso inaudito dell’essere cui si rivolge Severino nei suoi scritti – in parte accolto dallo stesso Bontadini – sta concentrato in un testo de La struttura ori­gi­na­ria che è opportuno richiamare perché contiene la cifra fondamentale di tutto il suo pensiero:

 

Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non con­trad­di­zione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)70.

Il principio di non contraddizione è già l’affermazione dell’immutabilità (eternità) del tutto. Siamo, con ciò, oltre l’epistéme, oltre il principio di non contraddizione quale principio al quale guardano l’epistéme e l’intero pensiero occidentale: siamo al cuore del “destino” che è lo stare incontrovertibile della verità;   • l’opposizione del positivo e del negativo (essere e non essere) è l’uni­ver­sa­le concreto dell’opposizione: ciò che viene indicato con essa è l’opposizione del po­sitivo «ad ogni forma di negativo (e quindi anche l’opposizione al nulla)»71. Col che si intende dire che «il negativo non è soltanto il puro nulla (Parmenide), ma anche l’altro positivo (Platone)»72. La negazione che l’es­se­re non sia è un’individuazione (certo emergente) della concreta identitàincontrad­dittorietà dell’essere. In formula, e semplificando molto, potremmo indicarne la struttura così: [Essere = Essere] = [Essere ≠ Non Essere] = [Essere ≠ Nulla]. L’o­ri­ginarietà della struttura è data dalla relazione tra l’opposizione universale del po­si­tivo e del negativo e le sue individuazioni. La tesi per cui la proposizione parmenidea “L’essere è” è la posizione immediata dell’eterno (l’essere essendo l’intero semantico, ogni non-niente) ed è la stessa for­mu­lazione del principio di non contraddizione sarà, insieme alla comprensione se­ve­ri­nia­na del di70 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 517. 71 Id., Poscritto, cit., p. 117. 72 Ibidem.

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venire come apparire-scomparire dell’essere, oggetto di discussione non solo con Bontadini, che andava tendenzialmente portandosi verso la prospettiva se­ve­ri­nia­na (denunciando lo scandalo del divenire), ma anche con gli allievi, che alla magistrale lezione di Bontadini e di Severino han­no at­tinto. Nelle pagine che seguono darò soltanto qualche cenno, certo sommario e lacunoso, del fermento sollevato.   C. Gli allievi   1. Allievo di Bontadini e di Ma­sno­vo, Italo Mancini tiene fermo il valore esclusivo della se­matizzazione dell’essere in forza dell’opposizione al non essere ed afferma che «il principio di non contraddizione è la de­finizione del­l’essere; e l’uno e l’altra sorgono dal concetto di assolutezza che prende senso nella divaricazione originaria, cioè sotto la forza del non essere»73. Sembra che ci siano tutte le pre­messe per assegnare al Principio dell’es­sere una va­len­za lo­gi­co-ontologica im­me­dia­ta, stabilendo con ciò l’assoluta opposi­zione di ogni co­sa al nulla. Non aveva già sostenuto Se­ve­rino ne La struttura ori­gi­na­ria che il princi­pio di non contrad­di­zio­ne, in quanto af­fermante l’as­so­luta op­po­si­zio­ne dell’es­ sere e del non essere, ap­par­tie­ne al­l’essenza del fon­da­mento ed ha una por­ta­ta tra­scen­den­ta­le: si ri­ferisce cioè ad ogni ente? Ciò che impedisce a Mancini di applicare immediatamente al contenuto del­l’espe­rienza il principio parmenideo – orientando il suo pensiero nella direzione tracciata da Bontadini prima dell’uscita di Ritornare a Parmenide o, comunque, verso una pro­spettiva neo­ scolastica (Masno­vo) – è la presenza del divenire inteso in senso onto­ lo­gi­co: egli af­fer­ma che qui (nel­l’e­spe­rien­za, appunto) il non essere incide sull’essere. L’attestato del divenire spinge verso una deon­to­lo­ giz­za­zione della portata immediata del prin­ci­pio parmeni­deo del­ l’essere me­diante la sua riduzione al con­cetto di una funzione: a qualcosa che appartiene all’atto giu­di­cante. Così Mancini: «Questa ontologia della funzione [...] dove sco­pre il fun­zio­na­mento in­con­ traddittorio, visto che non può scoprirlo nel­l’es­se­re imme­diato del­l’e­ sperienza, in cui la vicenda tem­po­rale e quella del divenire testi­ moniano piut­to­sto una tangenza dell’es­sere e del non es­sere [le 73 I. Mancini, Linguaggio e salvezza, Vita e Pensiero, Milano 1964, p. 124.

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incidenze me­on­ti­che]? Ebbene, è il logo apofantico [il giudizio] la se­ de dell’in­contrad­dit­to­rietà. Le co­se cosmiche ri­ve­lano il loro è as­so­lu­ to solo quan­do, meglio, solo in quanto ven­gono affermate»74. Il che riporta a quella che Severino avrebbe chiamato una valenza formale del Principio: le cose so­no irriducibili al non essere solo in quan­to affermate, solo in quanto esse, nel giudizio apofantico, entrano in sintesi con l’es­se­re. Da parte sua, lo stesso Bontadini, per far fronte alla tesi di Severino, dovrà pro­ce­dere ad una formalizzazione del Primo Principio affermando che la verità è il “Prin­ci­pio di Cre­azione” quale risultato della dialessi teologica: che l’essere non sia (nel di­venire, quando non è) non è una vera contraddizione.   2. Non esente da ambiguità (nel senso di oscillazioni più o meno inattese verso la tesi severiniana) è la proposta teorica di Virgilio Melchiorre, pure lui allievo di Bontadini. In un breve scritto del 1982, egli si confronta col discorso protologico del suo Mae­stro e avverte che, se il fenomeno del divenire fosse contraddittorio – se il divenire fosse, in quanto tale, contraddittorio –, sarebbe pure irreale, ossia non sarebbe. «In altri termini» – egli scri­ve – «il problema del divenire dovrebbe essere così trascritto: il divenire si dà come unità di essere e di non essere; se questo non essere venisse inteso come originario, cioè come nulla, il divenire sa­reb­be contraddittorio; ma questa contraddizione non può darsi in forza del Principio di Parmenide. E dunque l’ipotesi che intende il non essere del divenire come reale è da rifiutare»75. Come intendere allora l’esperienza del divenire? Se l’esperienza dell’u­mano esi­ste­re «è quella di un divenire nel tempo, il tempo appunto come unità di essere e di non essere»76, come intendere questo non essere? A proposito di ciò che esce dal­l’o­riz­zonte dell’esperienza, Melchiorre si chie­de: «Su quale base possiamo […] in­di­care come dato dell’esperienza che quest’essere è da intendere come nulla 74 Ibi, p. 9. 75 V. Melchiorre, Note a G. Bontadini. Il testo è stato pubblicato per la prima volta, con il consenso di Melchiorre, nel saggio di C. Vigna Sulla declinazione della modalità di trascendere il finito. Lettera aperta a Virgilio Melchiorre, in La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 232. 76 Ibi, p. 233.

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[e­nantíon dell’essere] piuttosto che come éteron?»77. Ecco la risposta: «L’e­sperienza, in quan­to tale, deve ri­co­no­scersi ora nel silenzio e dar luogo alla forza del logos. Il lo­gos le im­pedisce di pronunciare l’identità fra quel non essere e il nulla, e pertanto quel non es­sere va inteso come tale solo in relazione all’attualità della mia esperien­za»78. Siamo nei paraggi della lezione severiniana: il divenire viene inteso come pas­sag­gio dal non appa­rire all’apparire di ciò che il logos impedisce di pensare come nulla (= come e­nantíon del­l’es­sere). Tanto più che lo stesso Mel­chiorre, rigettata la tesi del carattere reale della contraddizione del divenire, chiude con la seguente ine­vi­tabile (= necessaria) conclusione: «Se invece ci fermas­si­mo al solo rilievo d’una ne­ga­tività ipotetica, scoprendo poi che questa non è che la fa­ cies di una unità on­to­lo­gica con l’originario, il teorema della differenza co­me tra­scen­denza risulterebbe [...] im­proponibile: ciò che diviene risulterebbe solo co­me una de­termina­zione dell’Essere»79. Risulterebbe, cioè, come un apparire e uno scom­parire di ciò che, per altro, è da sempre salvo nella casa ospitale dell’essere, dove tutta la po­si­ti­vità dell’esistente è già tratta in salvo: il logos non consente di pen­sare che essa non sia. Il Principio della differenza ontologica intesa, come trascendenza assoluta, ossia come dipendenza ontologica del finito dall’Infinito, qui ancora non appare. Che anzi, ciò che viene in primo piano è invece il senso dell’Intero dell’Essere, dato dalla con­nessione del finito con l’Infinito, del di­ve­niente con l’Immutabile – dove l’Immutabile è ciò che contiene le determinazioni dell’Essere e tutto ciò che di positivo com­pete al divenire. Com’è noto, il teorema della trascendenza, nel senso forte della differenza onto­lo­gi­ca (dif­fe­renza assoluta) tra il finito e l’Infinito, tra l’ente e l’Essere come at­tua­lità pu­ra ed as­soluta è guadagnato da Melchiorre facendo ricorso all’esperienza del “male” come a ciò che rap­pre­senta una privazione della perfezione dell’essere e che, dunque, non può essere pre­dicato dell’Essere. Ma la considerazione del “male”, come privazione, introduce il tema della relazione tra un certo sostrato e il non essere di una certa forma (la privazione). Tale relazione è pur sempre un qualcosa (un “non-niente”) e, se il logos impedisce di pensare che l’essere non sia, dell’Essere farà parte, 77 Ibidem. 78 Ibi, pp. 233-234. 79 Ibi, p. 234.

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neces­sa­ria­men­te, anche quel qualcosa: in fine, dell’Essere sarà da predicare anche il “male”, come suo momento. Se Melchiorre non giunge a questa conclusione, è perché anch’egli ritiene che non di ogni “non-niente” si possa predicare l’essere necessariamente80. 3. Più smarcata e critica della posizione severiniana è invece la proposta teorica di un altro allievo di Bontadini e di Severino, Carmelo Vigna, il quale propone un deciso ritorno alla tesi tomistica della differenza reale di essenza e di esistenza – di contro alla tesi severiniana (cui aveva in parte ceduto lo stesso Bontadini) della identità di essenza e di esistenza. La sua critica all’impostazione bontadiniano-severiniana del discorso protologi­co si muove sul piano fenomenologico e logico, dunque sul piano dell’originario come struttura. In una Nota per Bontadini, discussa con il Maestro alla fine degli anni Set­tanta / inizio anni Ottanta, Vigna osserva che l’immediatezza fenomenologica attesta il pas­sare «dal non-essere-qualcosa all’essere-qualcosa e/o dall’essere-qualcosa al non-es­se­re qualcosa» e che questo passare è qualcosa di «formalmente altro dal pas­sare dal non-essere all’essere e dall’essere al non-essere»81.

80 Anche Francesco Totaro, allievo di Melchiorre (e di Bontadini), pensa alla totalità dell’essere come a ciò che «comprende l’essere determinato», sicché «anche il cadere nel nulla di una sola delle sue determinazioni esporrebbe al nulla la totalità dell’essere» e afferma che «alla svalutazione del determinato si arriva a dare soluzione allorché da esso viene definitivamente allontanata l’ombra del nulla e il suo non essere viene dichiarato come ‘apparente’ e cioè come il non apparire nel determinato di quell’essere che non può non competergli in quanto esso è determinazione di un intero (appartiene all’intero, il quale, a sua volta, non è senza ricomprendere in sé le determinazioni)» (F. Totaro, Per una metafisica dell’inattuale, in La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, cit., p. 214). Sennonché occorre poi fare i conti col problema del male come di ciò che, «a vario titolo, non merita di per­ manere e anzi diminuisce la dignità dell’essere» (ibidem). Il teorema della permanenza dell’essere va dunque applicato ad ogni essere determinato purché si intenda, egli precisa, che la positività va affermata «qualitativamente o nella perfezione dell’essenza e non come sommatoria dei suoi momenti» (ibidem). 81 C. Vigna, Nota per Bontadini, in La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, cit., p. 238.

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Il logos, da parte sua, dice che «l’essere si semantizza in relazione (di opposizione) al non essere. Del resto si tratta di una proposizione tautologica. Essa, tuttavia, consente di istituire im­media­ta­ mente la differenza formale tra la ragion d’essere e di non essere e la ragione di qual­cosa che è e di qualcosa che non è. Ogni qualcosa, in quanto si dà come de­ter­minato, lascia oltre di sé altro come non-nulla; il significato essere, invece, in quanto tale (cioè opposto a non essere), lascia oltre di sé altro come nulla. Éteron ed e­nantíon»82. L’errore di Bontadini e di Severino starebbe nell’avere addos­sato imme­dia­tamente il semantema essere al contenuto determinato dell’esperienza, il quale con­te­nuto, in quanto determinato, è un qualcosa-che-è, ossia un ente. Ciò significa che nel giudizio originario (che dice dell’essere dell’essente) l’essere (come non-non-esse­ re) «non è mai una predicazione in quid, quando soggetto del giudizio è un “qualco­sa che è”»83. Esse est aliud ab essentia, potremmo dire con Tommaso. In definitiva: «Se la contraddizione è l’identità dell’essere e del non essere e se nel di­ve­ni­re di “qualcosa che è” non compare questa identità, la contraddizione e il divenire di “qualcosa che è” non possono essere con­si­derati come due figure spe­cu­la­ti­ vamente equivalenti»84. Dunque, contraddittorio è che l’essere diventi niente, ma non vi sarebbe alcuna contraddizione nel dire che un qual­cosa, un ente, diventa niente. Al che, osservo di passaggio, lo stesso Bontadini avrebbe potuto replicare che quella contraddizione c’è e sta nell’affermazione che vi è un tempo in cui l’esistenza (lo “è”, l’actus essendi di quell’“ente”) non esiste – un tempo in cui quel positivo (l’esistenza di quell’ente) si identifica col negativo. Andrebbe poi precisato che l’affermazione dell’eternità dell’ente in quanto ente appartiene alla struttura originaria del sapere – il non controvertibile di cui parlano gli scritti di Severino – solo in quanto tale e­ternità viene pensata nella sua relazione all’opposizione universale del positivo e del negativo. Pensata in questa relazione, la negazione che l’ente non sia è la stessa originarietà del logos ed è l’affermazione che “dell’essere” non si può pensare che non sia – e “dell’essere” significa “della totalità concreta degli essenti”, di ogni 82 Ibidem. 83 Ibidem. 84 Ibidem.

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essente e di tutto l’essere, giacché l’essere che lascia al di fuori di sé il nulla non è né una totalità vuota, né la totalità in quanto distinta dalle sue parti, ma è la totalità di ciò che è. In ogni caso, escluso che la formulazione parmenidea del principio di non contraddizione (l’essere è) possa essere applicata immediatamente all’esperienza, escluso cioè che possa essere considerata come appartenente al contenuto fenomenologico immediato, Vigna torna al­la formulazione aristotelico-tomisitica della portata logico-ontologica del primo prin­cipio: è impossibile che qualcosa, nello stesso tempo e sotto lo stesso rispetto, sia e non sia. L’ente (questo ente) è quando è. Perché allora introdurre lo strato teologico del­l’essere? Perché mediare l’esperienza se il divenire non è in quanto tale con­trad­dit­to­rio? Perché, risponde Vigna, «il divenire di “qualcosa che è” dà notizia di una diva­ricazione originaria tra il significato essere e il “qualcosa che è”; ma dà anche notizia di una disequazione originaria»85. Di qui la necessità dell’inferenza meta­fi­si­ ca: «Se restassi, infatti, alla disequazione, porrei la disequazione come l’Intero del­l’es­sere. E mi contraddirei, giacché farei valere la stessa figura come totalità (in quanto non lascia nulla fuori di sé) e come non totalità (in quanto la sintesi del qual­cosa e del significato essere non toglie il progetto del possibile sopraggiungere di nuovi contenuti)»86. Ora, poiché l’Unità dell’Esperienza non può essere la To­talità del reale, giacché l’esperienza attesta un contenuto diveniente, mentre la Totalità del reale (l’essere) non può divenire in alcun modo, «si deve accedere necessariamente all’equazione del­l’es­sere con se medesimo co­m e situazione (ontologica) altra dall’esperienza»87. Ed è chiaro, in tale contesto, che la differenza ontologica è da intendere come dipendenza ontologica del diveniente dall’Immuta­bile.   4. Sul ritorno a Parmenide e sul concetto del Fondamento gli allievi di Severino si sono ritrovati e differenziati. Esplicita formulazione della tesi dell’eternità dell’ente in quanto ente ha creduto di trovare Luigi Ruggiu nel Poema di Parmenide Sulla natura. Nel Poscritto di Ritornare a Parmenide, Severino si era 85 Ibi, p. 240. 86 Ibidem. 87 Ibidem.

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chiesto se la dÒxa di Parmenide fosse da intendere come l’apparire del molteplice diveniente e non come l’errata interpretazione che i mortali danno del­l’ap­parire: «Ma fino a che punto, scriveva Severino, siamo certi che Parmenide abbia inteso negare il molteplice?»88. Questo spunto viene ripreso da Ruggiu. La sua interpretazione è certo suggestiva: in Parmenide ci sarebbe già l’af­fer­ma­zione dell’eternità dell’essente e la negazione della dottrina errata dell’esperienza, non una negazione dell’esperienza in quanto tale89. Ma non solo in Parmenide si è creduto di trovare espressione esplicita dell’inaudita tesi di Severino. Luigi Vero Tarca rileva la presenza della tesi severiniana dell’eternità del tutto nel pensiero di Wittgenstein90. E ancora: Italo Valent afferma che la tesi dell’eternità dell’essere «è in linea di principio contenuta nell’esordio della logica he­geliana»91, per la quale il divenire (la dialettica) non è un movimento in cui ne va dell’essere, ma esprime solo «la ne­cessità che la parte si esplichi nel tutto che già è, e che il tutto a sua volta si esplichi come la parte che già è»92. Si tratta di interpretazioni ardite ma che portano al centro del discorso la contraddittorietà della concezione greco-occidentale del divenire e la tesi dell’eternità della totalità delle cose. Sul tema del Fondamento gli allievi hanno preso direzioni divergenti rispetto al dettato del Maestro. Se Valent è rimasto il più vicino all’impostazione severiniana, Tarca pensa all’eterno orizzonte del positivo come ciò che «si differenzia essenzialmente rispetto al negativo» e che pertanto «è anche l’orizzonte della differenza o della diversità, libera dal negativo»93. è il puro, perfetto positivo libero dal conflitto, libero dalla negazione. L’innegabile, egli dice, come negazione della negazione «può esistere solo costituendosi come negazione-positiva, quindi solo come entità differente dalla negazione, precisamente come tutt’altro dalla negazione, cosicché l’innegabile è il tutt’altro di sé (il puro positivo)»94. Partendo dal presupposto che «in fondo ogni negazione è 88 E. Severino, Poscritto, cit., p. 93. 89 Cfr. L. Ruggiu, Parmenide, Marsilio, Padova 1974. 90 Cfr. L.V. Tarca, Il linguaggio sub specie aeterni, Francisci, Abano Terme, 1986. 91 I. Valent, Dire di no. Filosofia Linguaggio Follia, Teda, Castrovillari 1995, p. 141. 92 Ibidem. 93 L.V. Tarca, Differenza e negazione: per una filosofia positiva, La città del sole, Napoli 2001, p. 234. 94 Ibi, p. 242.

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in qualche modo una forma di negazione ontologica»95 e che dunque ogni negazione è contraddizione, egli ripiega verso un concetto dell’innegabile libero da ogni valenza negativa. Tutto ciò, osserviamo, ci allontana dal concetto severiniano del Fondamento. La verità dell’essere di cui si parla ne La struttura originaria è proprio ciò la cui negazione è autonegazione: è cioè l’originaria negazione della propria negazione, è l’esser sé dell’essente, che è identico al suo esser altro dal proprio altro (dove tale esser altro non è la nientificazione del proprio altro). La proposta di Tarca sembra dunque incrinare la struttura formale del Fondamento e della stabilità del sapere – nella misura in cui essa (stabilità, necessità) è data dall’apriorico toglimento (negazione!) della propria negazione. Dal concetto severiniano del Fondamento si allontana anche il tentativo compiuto da Ruggiu di tenere fermo il carattere di struttura originaria «che spetta al plesso essere-dire-pensare-agire»96. Affermare che la posizione di ciascuno di questi momenti (essere, pensare, agire, linguaggio) «richiede necessariamente tutti gli altri»97 significa stabilire un nesso necessario tra la struttura trascendentale dell’apparire dell’essere (il logos) e la dimensione linguistico-pragmatica. Ma questo fa precipitare (per via della necessità del nesso) l’orizzonte trascendentale della struttura semantico-sintattica originaria (il Fondamento) nella dimensione empirica e processuale del linguaggio. 5. La prospettiva linguistico-ermeneutica della questione dell’essere è stata radicalizzata da Mario Ruggenini, vigoroso pensatore formatosi, pure lui, alla lezione di Severino. Si tratta, egli dice, di «parlare l’essere, renderlo veramente una parola, (non la parola, il nome decisivo)»98. Ciò perché «nessuna parola parla o si lascia intendere da sola e prima di tutte le altre, ma tutte parlano con la stessa forza e sullo stesso piano [...]. Il senso dell’essere, come di ogni altra cosa va dunque cercato tra le parole, dato che quella del parlante, non altra, è la prassi originaria che apre il mondo e che mobilita,

95 Ibi, p. 485. 96 L. Ruggiu, La filosofia come filosofia pratica, in Strutture del sapere filosofico (a cura di Carmelo Vigna), il Cardo, Venezia 1977, p. 79. 97 Ibi, p. 81. 98 M. Ruggenini, I fenomeni e le parole, La verità finita dell’ermeneutica, Marietti, Genova 1992, p. 188.

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orienta, rende comunque possibile ogni altra prassi, per riassumerne il senso al proprio livello»99. Bisogna dunque pensare la verità «come la verità del discorso. Come la verità che si annuncia e al contempo si nasconde nelle parole degli uomini, che si fa evento nel linguaggio e che in quanto tiene gli uomini in colloquio li fa esistere». Al contrario: «Il discorso della verità è [...] un discorso senza avvenire, se la verità è stabilita in se stessa e quello che una nuova rivelazione viene ad annunciare in ogni caso le preesiste, fermo nella sua inesorabile fissità»100. Ruggenini parte dalla considerazione che la verità del discorso è «la verità che si dà da pensare perché si fa dire e che dunque si produce o si nega nel colloquio»101. Linguaggio ed essere si implicano reciprocamente (un po’ come per l’idealismo si implicano reciprocamente pensiero ed essere) ed è nel linguaggio che si colloca il centro del divenire e che si produce la verità che si dà da pensare. Anche qui è appena il caso di rilevare che siamo ben distanti dalla “verità” di cui hanno parlato i grandi Maestri del pensiero tradizionale. E siamo distanti, estremamente distanti, dalla “verità dell’essere” (o destino della necessità) di cui parla Severino. La quale verità, tuttavia, non è certo qualcosa di indicibile. Che anzi, essa è il massimamente dicibile. Solo che non è in quanto detta che la verità dell’essere è verità. Se ciò si viene a pensare è perché si intende in senso biunivoco il nesso trascendentale-linguaggio e si crede che null’altro si riesca a pensare, e a dire, se non ciò che nel linguaggio e dal linguaggio resta prodotto102. Il Fondamento di cui parla Severino è invece ciò la cui negazione è autonegazione – tale è la verità (necessità) dell’essere, ossia la struttura semantico-sintattica che apre, da sempre e oltre il linguaggio, la dimensione trascendentale del Fondamento103.   99 Ibi, p. 189. 100 M. Ruggenini, La verità del discorso, in La persona e i nomi dell’essere. Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, cit., p. 183. 101 Ibidem. 102 La rinuncia al sapere stabile e alla forma apodittica della verità è carattere dominante del pensiero contemporaneo. La cosiddetta “svolta linguistica” ne è uno degli aspetti emergenti, ed altri allievi di Severino (ad es. Salvatore Natoli) ne hanno sviluppato i tratti – ma sempre in tensione con l’insegnamento del Maestro. 103 Cfr. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., Parte terza.

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Al cuore del destino

L’incidenza della lezione di Severino nell’ambito della filosofia italiana è stata ed è enorme, come è emerso anche da queste poche battute, e di tale lezione occorre riconoscere la rilevanza centrale nella filosofia contemporanea: come parlare di ontologia, di linguaggio, di nichilismo, di tecnica senza tenerla in debita considerazione? Ma ciò che più conta è la logica che la sottende e che la colloca al centro dell’essere nella testimonianza dell’essenza della verità: ogni essente è un non-niente; in quanto tale, ogni essente è eterno. Ritornando a Parmenide – il venerando e terribile Parmenide – Bontadini si è accostato a questa verità forse più di ogni altro.

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II

     

In dialogo con Bontadini e Severino

momenti filosofici   L’incontro con il pensiero di Bontadini e di Severino si fa imprescindibile per chiunque intenda affrontare la decisiva questione della verità dell’essere. La celebre polemica tra i due pensatori (per grandi linee ripresa nel capitolo precedente) e lo specifico delle tesi sostenute hanno alimentato la riflessione della cultura filosofica italiana da cinquant’anni a questa parte e sono destinate ad un coinvolgimento sempre più ampio. I testi contenuti in questo capitolo sono momenti di un dialogo di metafisica tra autori di diversa provenienza ma coinvolti tutti nello studio del senso della verità.     1. Dario Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza  

Dario Sacchi è docente di Filosofia teoretica alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Brescia). Allievo di Bontadini e autore di importanti lavori su Kant e Nietzsche ha sempre tenuto sullo sfondo della sua riflessione la domanda metafisica intorno alla totalità del reale.

  «Senza di lui, punto metafisica; ma con lui la metafisica è subito inceppata. Nec tecum, neque sine te»1. Con queste parole il filosofo neoclassico Gustavo Bontadini riconosceva la grandezza e insieme il limite del pensiero di Parmenide, “venerando e terribile” padre della metafisica. Il filosofo di Elea ha affermato la necessità che l’essere, il positivo, sia scevro del negativo. Ma a questa verità irrinunciabile egli ha poi sacrificato ogni ef-

1

G. Bontadini, Sèzein t¦ fainÒmena, cit., p. 144.

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Al cuore del destino

fettiva consistenza del mondo, dissolvendo il molteplice delle determinazioni nella pura luce dell’essere. «La neoclassica», scriveva Bontadini, «è, innanzitutto, neoparmenidismo [...]; ma soltanto nel senso, appunto, che Parmenide corrisponde a quella spinta iniziale, che subito deve essere rettificata. Il contributo, insostituibile, di Parmenide, sta dunque soltanto nell’“avvistamento” di quella contraddizione che si tratta di togliere attraverso una costruttiva interpretazione dell’Intero»2. La contraddizione in parola è la contraddizione del divenire e a Parmenide va ascritto il grande merito di averla per primo avvistata. Ma tutto sta nell’intendere il significato di questa asserita contraddittorietà del divenire. Dove si colloca tale contraddizione? Nel divenire in quanto tale, secondo quanto ha sostenuto Emanuele Severino in Ritornare a Parmenide (ma già prima, ne La struttura originaria), oppure in una sua errata (falsa) interpretazione, secondo la lezione della filosofia tradizionale di matrice aristotelico-tomista? Ad essere contraddittoria è la realtà del divenire, come ha finito per ammettere lo stesso Bontadini dopo l’uscita di Ritornare a Parmenide, oppure una certa comprensione del divenire? Il libro di Dario Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza3, va discusso e preso in seria considerazione soprattutto perché torna ad interrogarsi, insieme a Bontadini e a Severino, sulla centralità di questo tema così decisivo per la filosofia prima. L’intento dell’autore è portarsi oltre Severino ma anche oltre Bontadini, suo maestro di metafisica, attraverso un ripensamento della filosofia dell’essere di Tommaso d’Aquino. Per Sacchi si tratta, da un lato, di tenere fermo «l’autentico punto di vista di Bontadini» mostrandone «l’eterogeneità rispetto ai successivi sviluppi severiniani»4, dall’altro di rilevare «una certa limi2 Ibi, p. 147. 3 D. Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza, Edizioni Studium, Roma 2007. 4 Ibi, p. 25. Sviluppi che Sacchi interpreta come deriva radicalmente “immanentistica”. Ora, se per “immanentismo” intendiamo l’affermazione della identità dell’unità dell’esperienza e della totalità del reale, non c’è posizione più lontana dall’immanentismo di quella di E. Severino. Il fatto è che le categorie tradizionali di immanentismo e di trascendentismo solo equivocamente possono essere applicate per la comprensione di un pensiero che si colloca al di sopra rispetto a queste opposte visioni. Ma è probabile che Sacchi si riferisca alla lezione di C. Fabro (cfr. Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1964). Comunque sia, è certo che

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In dialogo con Bontadini e Severino

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tatezza insita in tale punto di vista e consistente fondamentalmente in un sostanziale univocismo per quanto attiene alla concezione dell’essere come tale»5. Il superamento di tale limite passa per la riconsiderazione della prospettiva filosofica dell’Aquinate. Ma Sacchi ritiene che tale prospettiva «possa attingere il massimo della sua solidità e del suo rigore solo quando se ne colgano esplicitamente le radici parmenidee (in armonia, ancora una volta, con l’indicazione bontadiniana)»6.   1. Nella “parte prima” (Prolegomeni a una metafisica di trascendenza), Sacchi imposta il tema che farà da sfondo al suo lavoro. Se è vero, egli dice, che l’essere è ciò che lascia al di fuori di sé il nulla mentre gli enti lasciano altro fuori di sé, giacché ciascuno di essi non è l’altro, viene da chiedere: «Come può qualcosa essere, essere reale, senza essere tutto l’essere, senza essere la Totalità? Sembra che ciò sia possibile solo a condizione che il non-essere penetri nell’essere frammentandolo e moltiplicandolo, e dunque solo a condizione che il non-essere abbia una qualche positività»7. L’essere è e non può non essere. Ma noi facciamo l’esperienza sconcertante del negativo perché abbiamo a che fare con la molteplicità degli enti e cioè con un essere frammentato e, come dire, turbato dalla presenza del non-essere: «Tutta la problematica ontologicometafisica nasce in definitiva da questo enigma iniziale: come pensare senza contraddizione quella compresenza di positivo e negativo, di essere e non-essere, in cui consiste la realtà così come la conosciamo?»8. Sacchi conosce la lezione del Sofista di Platone e sa che il non-essere, implicato nella considerazione della molteplicità degli enti, non significa propriamente il nihil absolutum, ossia il non-essere inteso come opposto (enantíon) all’essere, ma soltanto il non-essere inteso come diverso o altro (éteron) rispetto all’essere. Ritiene tuttavia che la riduzione platonica del non-essere all’alterità sposti il problema fondamentale della metafisica, senza risolverlo: «Comprendo benissimo l’opposizione fra il positivo e il negativo, ma come posso quella di Severino è la negazione più perentoria della tradizionale prospettiva trascendentistico/creazionistica. 5 D. Sacchi, cit., p. 25. 6 Ibi, p. 26. 7 Ibi, p. 31. 8 Ibidem.

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comprendere l’opposizione fra due positivi? Donde verrà questa opposizione se non da una qualche influenza del negativo (inteso proprio, contro le intenzioni, come nulla o non essere assoluto) che mi obbligherebbe naturalmente ad ammettere una qualche positività del medesimo?»9. Detto altrimenti: «Com’è possibile che vi sia alterità, molteplicità, relatività sul piano dell’essere, che per se stesso dice assoluta unità?»10. La metafisica di trascendenza sostiene l’impossibilità che la totalità del reale sia intesa come un’originaria molteplicità di determinazioni, ossia come la totalità sistematica delle parti: «La totalità del reale», egli dice, «non può essere concepita come composta di parti che stiano con lei in un determinato rapporto [come unità nella molteplicità]; essa è a rigore priva di parti perché, dovendo queste ultime essere necessariamente finite, non avrebbero con lei alcuna misura comune né, quindi, alcun rapporto. In altri termini, per l’infinito le parti non esistono; il finito, anche se suscettibile di estensione infinita, è sempre rigorosamente nullo rispetto all’infinito. Insomma, nessun essere può venire considerato come una “parte dell’infinito”: “panteismo”, monismo, immanentismo, che suppongono la persuasione opposta, sono per ciò stesso erronei»11. A questo proposito si può osservare quanto segue: se non si può pensare che l’infinito, e cioè il non-niente, lasci qualcosa fuori di sé, non si può neppure pensare che la parte sia un niente poiché differentiae entis sunt formaliter non nihil. Se dunque la parte è un nonniente, non è vero che tra l’infinito e le parti non vi sia alcuna misura comune. Finiti ad infinitum non est proportio, eppure l’essere “non-niente” si dice del tutto e delle parti. Lascia perplessi anche l’affermazione che ogni forma di alterità e di opposizione implica l’incidenza del non essere assoluto. Se ciò fosse vero, allora sarebbe vero che vi è un’incidenza del non essere assoluto anche sull’essere infinito: non è infatti il tutto (l’essere, il non-niente) ciò che si oppone al nulla? Non è forse l’opposizione del positivo e del negativo l’espressione della verità dell’essere? La questione della molteplicità degli enti e del loro rapporto all’essere viene comunque sviluppata nella “parte terza” del testo (La trascen-

9 Ibi, p. 32. 10 Ibidem. 11 Ibi, p. 38.

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denza analogica), dove l’autore affronta il tema cruciale della “analogia dell’essere”. Ci ritorneremo più avanti.   2. Passiamo adesso alla “parte seconda” del libro di Sacchi (La trascendenza univocistica), dove si considera il formidabile contributo di Bontadini alla fondazione della metafisica di trascendenza. Per Bontadini, e per Sacchi, l’interrogativo fondamentale cui la metafisica deve dare risposta è il seguente: coincide la “totalità del reale” (l’assoluto, l’infinito) con l’“unità dell’esperienza” intesa come la “totalità di ciò che appare”? E poiché ciò che appare è il divenire degli enti, l’interrogativo fondamentale si può formulare anche così: coincide la “totalità del reale” con la totalità del divenire? Si ripresenta il problema dell’essere e del non-essere, ma questa volta considerato in relazione al divenire degli enti. Per la soluzione di questo problema, Bontadini ha impegnato tutta la sua possente vis speculativa. Sacchi ne ripercorre i tratti salienti distinguendone tre fasi. Nella prima, la costruzione di una “metafisica di trascendenza” viene affidata al postulato della “razionalità del reale” e si configura quindi come soluzione fideistica del problema metafisico – dalla fede nella razionalità del reale segue l’impossibilità che l’unità dell’esperienza coincida con la totalità del reale perché, a garantire la razionalità, non è la sola unità della coscienza, ma «la circolarità dell’onnipotenza con la propria autocoscienza»12. In questa prima fase del suo pensiero, il giovane Bontadini riteneva che una metafisica puri intellectus fosse un compito ancora da eseguire. Ma un punto gli era chiaro: per la costruzione della “metafisica di trascendenza”, la via che passa per il “principio di causa” non è percorribile. Non lo consente la lezione di Hume e la sua critica dei vari tentativi di ricondurre il principio di causalità a quello di non contraddizione. Chi sostiene la verità del principio di causalità afferma che, se qualcosa incominciasse ad esistere senza una causa, sarebbe prodotta da se stessa, oppure sarebbe prodotta dal nulla. Nel primo caso – si dice – dovremmo pensare ad una cosa che esiste prima ancora di essere; nel secondo caso dovremmo pensare che il nulla produce qualcosa. In entrambi i casi avremmo a che fare con una contraddizione. Ma tale argomento contiene una “petizione di prin12 G. Bontadini, Abbozzo di una critica dell’idealismo, in Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1955, p. 120.

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cipio” che Hume ha ben messo in rilievo e che Sacchi riassume così: «Solo chi ritiene già che la cosa, che comincia ad esistere, deve avere una causa, può concludere che la mancanza di quest’ultima si traduca nella contraddittoria assunzione della cosa stessa a causa sui o nella non meno contraddittoria attribuzione al nulla della funzione causale. Ma chi nega veramente il principio di causalità elimina qualunque specie di causa, cioè non ne pone assolutamente nessuna (neppure la cosa stessa o il nulla) e non cade pertanto in nessuna contraddizione»13. Nella seconda fase del suo pensiero, Bontadini procede al riscatto speculativo del postulato ossia alla sua conversione nel principio stesso della metafisica. La “razionalità del reale” è proprio quella intelligibilità per cui appare che il tutto dell’essere è assolutamente scevro del negativo. Siamo alla fase “neoclassica” che Sacchi considera il capolavoro speculativo – la «svolta felice»14 – di Bontadini: «Il principio della metafisica afferma l’impossibilità che l’essere sia originariamente limitato dal non essere. Esclude cioè […] che il negativo possa essere assunto, originariamente, in funzione limitante»15. A questo punto, rileva Sacchi, «l’accento cade non più sull’essere di qualcosa che non era, come nell’approccio precedente, ma sul non-essere […] di ciò che era o che sarà»16. Cade sul non-essere «che penetra nelle ossa dell’essere»17. Ma va subito fatta una precisazione: ciò che per il “secondo” Bontadini fa problema non è tanto il non-essere di qualcosa perché, in questa fase del suo pensiero, che qualcosa non sia non è affatto percepito come un problema! Il principio della metafisica afferma infatti l’impossibilità che l’essere sia originariamente limitato dal non essere, dove l’avverbio “originariamente” dice appunto che la contraddizione del divenire si riferisce non al divenire in quanto tale, ma alla sua assolutizzazione – cosa che, del resto, Sacchi sa molto bene. L’accento non cade dunque “sul non-essere di ciò che era o che sarà”, ma sul non essere in quanto avente la forza di limitare l’essere, il che varrebbe quanto «attribuire al non essere la positività, 13 D. Sacchi, cit., p. 65. 14 Ibi, p. 66. 15 G. Bontadini, La metafisica nella filosofia contemporanea, in Dal problematicismo alla metafisica, cit., 211. 16 D. Sacchi, cit., p. 68. 17 G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, cit., tomo i, p. 92.

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come incidenza sull’essere, o forza limitatrice dell’essere»18. Bontadini ragiona così: la totalità del divenire è l’essere limitato dal non essere. Ora, se la totalità del divenire fosse la totalità del reale, l’essere sarebbe limitato dal non essere. Ma ciò è impossibile perché il non essere non è né può avere la forza di limitare. Dal che appare che il principio della metafisica, chiamato ad honorem “Principio di Parmenide”, si appoggia direttamente al principio di non contraddizione. Dunque la totalità del divenire non può essere la totalità del reale: «Il divenire deve venire dall’Immobile. Perché, se non venisse, sarebbe esso stesso originario, e perciò il non essere, in lui, limiterebbe originariamente l’essere. Deve venire senza far divenire l’Immutabile: noi ci rappresentiamo questa necessità mediante il Principio di Creazione»19. In questo modo Bontadini ritiene di aver fondato lo stesso principio di causa senza che si sia passati attraverso di esso per arrivare a Dio: «La causa è introdotta per salvare l’equazione dell’essere»20. In verità, il principio di causa continua ad essere presupposto perché la limitazione della realtà diveniente viene pur sempre intesa come l’effetto di un atto limitante e annullante, un atto che trattiene il “limitato” nella potenza, ossia nel non essere – un atto che non può essere opera del nulla, che non è. La limitazione non può essere “originaria” non già perché si avverta l’immediata impossibilità che l’essere non sia e che possa darsi, pertanto, un qualche annullamento, ma perché si ritiene che tale “originaria” limitazione implichi l’essere del “non essere” come “operatore” dell’annullamento, con ciò (pre)supponendo che, laddove si dà un annullamento, si dia pure un “operatore” dell’annullamento. In ogni caso, sviluppando la concettualità insita nel “Principio di Parmenide”, così come è stato pensato dal “secondo Bontadini”, Sacchi ne propone la seguente formulazione: «Se la totalità fosse in divenire, allora, prima di subire un incremento o dopo aver subito un decremento, essa sarebbe al tempo stesso illimitata (perché totalità) e limitata (perché incrementabile)»21.

18 Id., La metafisica nella filosofia contemporanea, cit., 211. 19 Ibi, p. 212. 20 Ibi, p. 213. 21 D. Sacchi, cit., p. 70.

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Lo stesso Bontadini aveva presentato la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio come una rettifica/inveramento del tradizionale argomento ontologico. Sacchi approva senz’altro questa mossa speculativa e ne sottolinea la forza in questi termini: «Ora non si attribuisce più l’essere a un’essenza infinita – con ciò prestando il fianco alla ben nota accusa di passare indebitamente dall’ordine ideale all’ordine reale – ma, viceversa, si attribuisce l’infinità all’essere; non si afferma che l’infinito deve esistere ma che l’esistente deve essere infinito»22. «Non riteniamo di esagerare», scrive Sacchi con tratto deciso, «se diciamo che a nostro avviso si tratta della più limpida e cristallina affermazione dell’esistenza di Dio cui la filosofia dell’Occidente sia mai pervenuta in tutta la sua storia»23. La terza fase del pensiero di Bontadini si inserisce nel contesto della polemica con Emanuele Severino, l’allievo più caro e più geniale, i cui scritti intendono mostrare che l’ente in quanto tale (e quindi non questo o quell’ente, ma ogni ente) è eterno. Alla fine Bontadini si persuase proprio di questo e cioè che ogni ente è eterno proprio perché ogni ente è un non-niente. D’altra parte Bontadini tenne sempre fermo che l’esperienza attesta il divenire degli enti inteso come il loro uscire dal nulla e il loro rientrarvi: egli sosterrà sempre che, per lo meno quell’ente che è l’“apparire” di qualcosa, deve annullarsi, quando il qualcosa scompare. La necessità di tener fermo da un lato il dettato del logos parmenideo, esprimente non già l’impossibilità che l’essere sia originariamente limitato dal non essere, ma l’impossibilità che l’essere non sia, e, dall’altro lato, il referto dell’esperienza, che attesta invece che qualche ente “diviene”, spinse Bontadini ad impostare dialetticamente la sua dimostrazione dell’esistenza di Dio. Non possiamo entrare nel dettaglio di questa dimostrazione. Né lo fa Sacchi che considera questa come la fase della «svolta infelice»24 del pensiero di Bontadini, che lo costrinse ad una «reformatio in peius»25 della sua protologia. Per Sacchi è questa la fase in cui l’allievo (Severino) «finì con l’assumere, almeno in parte, le vesti del cattivo maestro»26 mentre «sarebbe stato necessario che… 22 23 24 25 26

Ibi, p. 71. Ibidem. Ibi, p. 74. Ibi, p. 75. Ibi, p. 76.

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non sorgesse mai un terzo Bontadini, ossia che il nostro filosofo, lui per primo, reagisse diversamente alla provocazione che gli venne a un certo momento dall’illustre allievo, soprattutto astenendosi dall’inseguirlo sul suo terreno»27. Bontadini avrebbe dovuto correggere il protocollo logico «abbandonando il riferimento alla formulazione stricto sensu parmenidea del principio di non contraddizione e rimettendone in onore quella aristotelica, di per sé compatibilissima, come il Bontadini precedente [il “secondo” Bontadini] aveva egregiamente mostrato, con il recupero della perenne “anima di verità” del parmenidismo: ossia con il riconoscimento di ciò che non a caso egli aveva denominato “Principio di Parmenide” ad honorem»28. L’esplicitazione di questo principio comportava l’esclusione di un divenire assoluto, ossia originario, e non la negazione del divenire simpliciter; comportava, secondo la formulazione proposta da Sacchi, il riconoscimento dell’impossibilità che possa darsi un incremento o un decremento nella totalità dell’essere. Se adesso ci chiediamo perché la totalità del reale non può essere intesa come il processo dell’incremento e del decremento dell’essere, sembra che non si possa rispondere che in questi termini: ciò non è possibile perché l’essere non è incrementabile né decrementabile e cioè perché ad essere assurdo è il concetto stesso di un incremento e di un decremento dell’essere! Ma, se è vero che l’essere non può non essere, come si può pensare che l’essere di un certo essente diventi niente? Il tempo in cui l’essere di un essente qualsiasi non è, non implica forse che vi sia un tempo in cui l’essere non è? Il richiamo della lezione stricto sensu parmenidea è ineludibile e quello di Severino è stato tutt’altro che l’insegnamento di un “cattivo maestro”. Per definire la sua posizione, Sacchi deve procedere ad una nuova semantizzazione dell’essere e distinguere l’essere (l’actus essendi) dall’ente: a rigore, egli afferma, l’esperienza del divenire «attesta non già il non-essere dell’essere (= dell’actus essendi o di “ciò per cui” l’ente è) ma semplicemente il non-essere dell’ente. Ora, soltanto il nullificarsi dell’essere comporta un’effettiva contraddizione in termini: esso, però, è cosa che discenderebbe necessariamente dal divenire solo se il divenire coincidesse con la totalità del reale»29. 27 Ibi, p. 77. 28 Ibi, p. 78. 29 Ibi, p. 93.

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Sacchi è inoltre consapevole che «il compito più arduo consiste nel riuscire a pensare un ente il cui actus essendi non gli sia intrinseco (tale è la creatura cui intrinseca è solo l’existentia come “fatto” di essere), laddove in prima battuta è per noi del tutto naturale pensare gli enti della nostra esperienza come dotati di un “atto di essere” intrinseco […], ciò che d’altronde non ci consente di pensarli come divenienti senza incorrere nella contraddizione sopra formulata»30 e cioè nella contraddizione dell’essere che non è. Alla correzione del protocollo logico Sacchi dedica la “parte terza” del suo lavoro. Per quanto riguarda la confutazione della comprensione severiniana del divenire come apparire e scomparire dell’eterno (il versante fenomenologico dell’originario), Sacchi rileva che l’apparire propriamente esistente può solo passare «dal non includere all’includere ciò che sopraggiunge»31 dove questo passaggio è pensato come un passare dal non essere (includente) all’essere (includente). Tale considerazione basterebbe a segnare lo «scacco irrimediabile del neoparmenidismo»32. Sacchi è un critico serio e non può ignorare che questa obiezione Severino la conosce molto bene. Anzi, si può dire che sia stato proprio lui il primo a formularla e a discuterla a fondo nelle sue opere. In effetti si tratta di un punto cruciale sul quale sarebbe bene che la filosofia riflettesse ancora33. A Sacchi va riconosciuto il merito di essere ritornato sulla questione. Ma può egli pensare sul serio di aver liquidato il “neoparmenidismo” nelle poche, sia pure intense, pagine che dedica alla struttura dell’apparire?   3. Infine, qualche considerazione sulla “parte terza” del testo (La trascendenza analogica). L’autore si impegna a mostrare che «la prospettiva tomistica […] si rivela, entro il ciclo antico-medioevale, come la più vicina allo spirito profondo della speculazione parmenidea per essere stata quella maggiormente capace di raccoglierne l’eredità»34. Il rifiuto del molteplice ad opera del parmenidismo può «essere ricondotto […] a considerazioni attinenti alla pura ratio entis così da 30 31 32 33

Ibidem. Ibi, p. 142. Ibidem. Alla ripresa di questo tema ho dedicato il capitolo iii della Parte prima del presente lavoro. 34 D. Sacchi, cit., pp. 179-180.

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poterlo valutare commisurandolo alle sue motivazioni più autentiche»35. La ratio entis dice infatti dell’opposizione di contraddizione tra l’essere e il nulla: l’essere lascia fuori di sé il nulla. Come può dunque lasciare fuori anche tutti gli enti, che pure sono? A parere di Sacchi, è proprio la posizione degli eleati che ci consente di «cogliere quella dimensione trascendentale dell’analogia che storicamente ha trovato compiuta affermazione solo nel sistema tomistico e senza la quale tanto l’aristotelica rivendicazione della multivocità dei significati dell’essere, quanto la già ricordata affermazione platonica del diverso dall’essere, sono condannate a rimanere semplici richiami all’innegabilità dell’empiria contro la motivata contestazione parmenidea: richiami certo condivisibili ma insufficienti e impotenti sul piano genuinamente filosofico»36. Alla base della soluzione tomista sta il concetto dell’essere come actus essendi, ossia come perfectio omnium perfectionum, actus omnium actuum. Ebbene, nel caso del molteplice delle determinazioni considerate come enti, si deve riconoscere che la ratio entis «risulta ben essere, in senso proprio e non solo metaforico, limitata o contratta o coartata dalle differenze [essenze] alle quali si trova unita e che fondano, appunto, la molteplicità degli enti»37. La tesi di Sacchi è la seguente: «Il termine “essere” non è univoco né equivoco, ma analogo; a questo termine deve allora corrispondere un Essere sussistente ipostaticamente distinto dagli enti, ché se gli corrispondesse soltanto una natura essendi immanente agli enti e provvista di una unità esclusivamente ideale sarebbe univoco»38. Resta così confermato il valore dell’argomento ontologico «imperniato sull’equazione di intelligibilità e di realtà per l’Assoluto e solo per esso»39. L’analogia dell’essere non è dunque semplice analogia di proporzionalità (uguaglianza di rapporti: l’essere si dice di A, di B, di C…) ma è anche, e innanzi tutto, analogia di attribuzione e cioè rapporto di molti ad uno – dove l’uno è la stessa perfezione impartecipata dell’essere, l’Ipsum Esse subsistens di Tommaso «racchiudente in forma eminente e assolutamente unificata tutto ciò che ne35 36 37 38 39

Ibi, pp. 180-181. Ibi, pp. 184-185. Ibi, p. 188. Ibi, p. 193. Ibi, p. 192.

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gli enti vi è di perfezione più o meno diminuta»40. Ma poiché gli analogati secondi sono formalmente degli enti, la partecipazione dell’attributo analogico sarà intrinseca e allora si dirà che essi «posseggono l’essere in virtù del nesso di causalità che li lega all’analogatum prius»41, sicut effectus ad causam. Per la comprensione del senso dell’essere Sacchi rinvia, dunque, alla posizione di Tommaso e alla necessità di non confondere l’essere, l’actus essendi con l’existentia e cioè con l’esistenza intesa come modalità d’essere della realtà: d’accordo con la prospettiva tomista, egli afferma che «non è corretto pensare all’essere come se fosse in primo luogo una modalità o uno status dell’essenza, non è corretto cioè intenderlo primariamente come il semplice “fatto” di esistere»42. In quanto principio intrinseco della realtà, l’actus essendi non è un semplice accidente dell’essenza (Avicenna), ma è «la perfezione in cui ogni altra si risolve e alla quale ognuna si riduce […] e pertanto è il fondamento dell’intelligibilità di tutto, anche dell’ordine ideale o delle essenze»43. Dunque l’actus essendi non è un modo d’essere che si contrappone ad un altro, non è, ad esempio, il modo d’essere della realtà (l’esse existentiae) rispetto al modo d’essere della possibilità (l’esse essentiae), ma è quell’atto del non essere un niente per cui ciascun essente (quale che sia il suo modo d’essere) è uno stare presso di sé che si tiene fuori dal niente. A rigore, scrive Sacchi, «l’unica perfezione è quella di essere; tutto il resto non è che una sua restrizione o modalità. È l’essenza un modo d’essere e non viceversa»44. Sacchi riconosce che la nozione dell’essere, semantizzata per via della rigida opposizione al nulla, è «della massima importanza ed è assolutamente irrinunciabile»45. Qui sta «il punto più delicato di tutta la nostra trattazione»46 egli dice, perché non bisogna credere «di poter utilizzare l’imprescindibile (quoad nos) opposizione di essere e di nulla per esprimere il senso dell’essere: laddove tale senso è propriamente inesprimibile […] perché l’essere, lungi dal potersi ridurre a un mero dato d’esperienza, è il fondamento d’intelligibilità 40 41 42 43 44 45 46

Ibidem. Ibi, p. 193. Ibi, p. 251. Ibidem. Ibidem. Ibi, p. 194. Ibidem.

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di tutto (anche dell’ordine ideale e delle essenze)»47. E tuttavia l’actus essendi è pensabile ed è l’essere un non niente dell’essente, quale che sia la sua modalità di essere. Come pensare allora la “creaturalità” degli enti finiti? Sacchi distingue fra “atto di essere” ed “esistenza” ed afferma che «l’esse o actus essendi è un elemento strutturale dell’ente, mentre l’esistenza è un mero fatto, o stato, che come tale rimane estrinseco all’ente […] perché non ci rivela niente di ciò che ne forma l’intima costituzione, la quale per l’Aquinate è data appunto da un atto d’essere e da una essenza che lo contrae o lo limita»48. L’essere è un “elemento strutturale dell’ente” nella misura in cui ogni ente dice una certa relazione tra l’“essenza” (la determinazione, il “ciò che”) e l’“essere” (l’“è”). Ma la tesi di Sacchi è che, negli enti finiti, l’essere è “realmente” distinto dall’essenza: è possibile pensare l’essenza di questi enti e tuttavia non sapere se essi esistono. L’“essere” che a tale essenza conviene e che le consente di essere un contenuto del pensiero non è dunque l’“essere” che non si sa se ad essa convenga: non è l’“esistenza” dell’ente, che è un “mero fatto”. Per Tommaso «l’essere della cosa [esse rei], pur essendo diverso dalla sua essenza, non va tuttavia inteso che sia qualcosa di aggiunto sotto forma di accidente, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum accidentis»49. Poi però, spinto dall’urgenza di salvare la “creaturalità” del finito, anche l’Aquinate afferma che l’essere (l’esse) è qualcosa di “separabile” dalla determinazione finita e di “accidentale” rispetto ad essa, afferma cioè che l’“essere” della realtà finita è qualcosa di estrinseco (adveniens extra) e di facente composizione con l’essenza (et faciens compositionem cum essentia)50.

47 Ibidem. 48 Ibi, p. 253. 49 Tommaso, In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, n. 558. 50 Cfr. Tommaso, De ente et essentia, cap. v. L’essere è partecipato dagli enti finiti come qualcosa che non viene posto nella definizione della loro essenza. Quindi, in relazione alla questione “se qualcosa sia”, l’essere (l’esse) è un “accidente” (est accidens), «dal momento che tutto ciò che è fuori dell’essenza della cosa è detto accidente» (Tommaso, Quaest. Quodlib., ii, q. ii, art. I).

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Qui appare l’estrema lontananza dal cosiddetto “neoparmenidismo”51 per il quale, infatti, a tutti i modi dell’essere compete necessariamente l’essere, il che vuol dire che nessuno di essi riceve l’essere ab extra. Nell’ambito di questo quadro concettuale la totalità del reale è la totalità degli enti, ossia ciascuno di essi (enti) in quanto relato al tutto secondo necessità. Al pensiero dell’eternità dell’ente in quanto ente (pensiero che il “terzo” Bontadini ha accolto), Sacchi contrappone il tommasiano esse non est de intellectu essentiae, il pensiero della distinzione reale dell’essere dall’essenza – il che riporta a quel piano speculativo dove la “metafisica di trascendenza” gioca la sua partita decisiva52.   2. Aniceto Molinaro, Al di sopra dell’essere. Pensare e credere  

Aniceto Molinaro è stato docente di Filosofia teoretica alla Pontificia Università Lateranense. Da poco scomparso, la sua produzione sul tema della metafisica e della filosofia della religione si distingue per la grande chiarezza espositiva e per la profondità di un pensiero che afferma la presenzialità dell’essere e la sua incontraddittorietà: l’essere è e non può in alcun modo non essere.

  I testi raccolti nel libro Al di sopra dell’essere. Pensare e credere53 – si tratta di saggi apparsi su importanti riviste di filosofia e teologia a partire dal 1998 – vanno segnalati per la vasta articolazione concettuale che li contraddistingue nonché per la potenza e l’audacia speculativa dell’autore.   1. L’esposizione della “struttura originaria” del sapere (cui Molinaro dedica la “parte prima” del suo lavoro: Pensare) va diritta all’essenza del “fondamento” quale originaria apertura della “verità dell’essere”, da intendersi come l’apparire dell’essere nella forma

51 Ma sull’inadeguatezza della denominazione di “neoparmenidismo” per significare il contenuto degli scritti di Severino, vedi supra, Parte prima, cap. III, Appendice. 52 Per lo sviluppo della discussione su questo piano – che è quello della determinazione della verità dell’essere – rinvio ai capitoli i e ii della Parte prima del presente lavoro. 53 A. Molinaro, Al di sopra dell’essere. Pensare e credere, Abramo Editore, Catanzaro 2008.

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della non contraddizione. La struttura originaria, il “pensare”, è infatti «la manifestazione della manifestatività dell’essere, sicché dire: essere è verità, significa dire: essere è pensiero; e contraddittoriamente dire: non essere è non verità, significa dire: non essere è non pensiero»54. Gustavo Bontadini, di cui Molinaro si considera «discepolo “a distanza”»55, aveva rilevato che il pensiero non è che «la chiarità dell’essere, la sua manifestatività o, in atto, la sua manifestazione assoluta»56. Questa chiarità dell’essere, la sua luminosità (il suo apparire) è la definizione della “verità” secondo la formula classica dell’“adaequatio intellectus et rei”, formula che Molinaro (anche qui in linea con l’insegnamento di Bontadini) considera al di là di ogni comprensione gnoseologistica del rapporto tra l’essere e il pensiero: il significato della verità come “adaequatio” non va inteso «come adeguazione della cosa all’intelligenza o, inversamente, dell’intelligenza alla cosa [nella presupposizione dell’alterità dell’essere e del pensiero] ma come adeguazione dell’intelligenza e della cosa o tra l’intelligenza e la cosa»57. Questa adeguazione è la stessa «presenza reciproca, identità, manifestazione unitaria, necessaria e inoltrepassabile della cosa e dell’intelligenza: in assoluto, né verità della cosa senza verità dell’intelligenza, né verità dell’intelligenza senza verità della cosa»58. Su questo piano, che è quello della considerazione trascendentale del pensiero come puro conoscere, si assesta la concezione tradizionale dell’“intenzionalità” dell’atto conoscitivo e della sua portata ontologica. L’intenzionalità, scrive Molinaro, «non è un movimento», non è il tendere del pensiero verso l’essere: non lo è «perché tale movimento [questo tendere-in] presuppone che il pensiero, per se stesso privo di essere, va verso l’essere e, in questo “andare verso”, tende a riempirsi di essere»59. Il significato dell’intenzionalità viene ricondotto alla struttura dell’“adaequatio” che non significa propriamente “adeguamento” ma presenza immediata dell’essere: viene cioè ricon-

54 55 56 57 58 59

Ibi, p. 36. Ibi, p. 137. G. Bontadini, Studi sull’idealismo, cit., p. 201. A. Molinaro, cit., p. 45. Ibidem. Ibi, p. 30.

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dotto «a quella struttura in cui il pensiero mostra se stesso come l’originaria attestazione e manifestazione dell’essere» 60 . Posto che il “trascendentale” è l’apparire dell’intero dell’essere, la totale apertura dell’intero, Molinaro afferma che «la trascendentalità del pensiero è la trascendentalità dell’essere e che ciò che si intende con il termine di trascendentalità è l’ontologico, in quanto l’ontologia è l’identità dell’essere e del pensiero»61. Ma poiché il “non essere” appartiene allo stesso significato dell’“essere” (ed è in forza di questa “appartenenza” che si costituisce il principio di non contraddizione), la manifestazione dell’essere, e cioè il “pensare” (il “trascendentale”), è l’apparire dell’infinita opposizione dell’essere al non essere: «L’immediata negazione del non essere rientra nell’intelligenza stessa dell’essere»62. La struttura trascendentale e ontologica include inoltre il piano ontico e categoriale (ossia il piano dell’essente, del ciò-che-“è”) e Molinaro afferma che, per la determinazione del significato della verità e per la comprensione dell’essere, è necessario tenere ferma la «indissolubile unità» tra i due momenti (quello trascendentale-ontologico e quello categoriale-ontico), sottolineando «questa necessità come la condizione, anzi come il fondamento della verità, in quanto il trascendentale e l’ontologico decidono, in modo trascendentale e ontologico, della verità del categoriale e dell’ontico»63. L’indagine di Molinaro intorno all’originario sapere dell’essere – e cioè intorno all’essenza del fondamento – ne mette infine in luce il carattere della “incontrovertibilità”. La posizione del fondamento (che è posizione dell’essere incontraddittorio), è tale solo in quanto del fondamento appare (è posta) la sua capacità di togliere la propria negazione, vale a dire solo in quanto è posta (come tolta) la negazione del fondamento. Sulla linea di queste riflessioni, che tengono sullo sfondo i contributi teorici di Bontadini e del filosofo Emanuele Severino (citato, quest’ultimo, soltanto una volta nel testo che stiamo considerando, ma chiaramente presente in tutto lo svolgimento del lavoro quale interlocutore privilegiato), Molinaro configura il tema del fondamento nei termini dell’opposizione universale del positivo e del negativo «come quella opposizione che, nell’atto di venir negata, si ri60 61 62 63

Ibidem. Ibi, p. 48. Ibi, p. 84. Ibi, p. 53.

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propone e si impone assolutamente come negazione della propria negazione»64. In effetti la posizione concreta dell’originario è data dalla relazione di questi due momenti: la posizione dell’essere (nella forma della identità/non contraddizione) e l’apparire del toglimento della sua negazione. Ciò che Molinaro chiama la struttura dell’ontologico (ossia l’inseparabilità del pensare e dell’essere, l’apparire non controvertibile dell’essere che non può non essere) è il concreto del fondamento in quanto mostra la sua relazione con l’apparire della negazione della negazione del fondamento e cioè con la figura dell’“élenchos” inteso «come individuazione dell’opposizione universale»65.   2. Nella “parte seconda” del testo (Credere), Molinaro affronta il problema del rapporto tra la fede come «argomento delle cose che non appaiono»66, la religione come relazione al “mistero” e il pensiero di cui sono stati esposti i caratteri fondamentali (perché attinenti alla verità innegabile che è il fondamento). L’analisi di Molinaro procede a partire dalla lucida consapevolezza che la disposizione del credente e quella di colui che “sa” sono formalmente differenti e irriducibili l’una all’altra: se fede è “ritener per vero”, va subito osservato che questo termine – “per vero” – va inteso e si esplicita «nel senso della sua differenza con la verità e con il vero così come questi sono intesi nell’apparizione dell’evidenza: ciò che [dal credente] è ritenuto “per vero” non appare nel modo dell’evidenza né sulla linea della percezione né su quella dell’intelligibilità67. Per Tommaso la fede «non convince o piega la mente per l’evidenza della cosa, ma per l’inclinazione della volontà»68. Dal momento che «viste sono quelle cose che “sono presenti al senso” o all’intelletto» e che, d’altra parte, si dicono presenti all’intelletto «quelle cose che non superano la sua capacità»69, segue che, propriamente, «l’oggetto della fede è ciò che è assente dall’intelletto [fidei obiectum proprie est in quod est absens ab intellectu] – si credono infatti le cose assenti, mentre si vedono quelle presenti»70. 64 Ibi, p. 153. 65 Ibi, p. 155. 66 Eb 11,1. 67 A. Molinaro, cit., pp. 285-286. 68 Tommaso, De fide, a. 2. 69 Ibi, respondeo, ad 15. 70 Ibi, a. 9.

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In linea con la prospettiva tomista, Molinaro ne rende esplicito il dettato. Ma la radicale messa a punto di questa esplicitazione porta a riconoscere che, dando il proprio fermo assenso alle “verità di fede”, il pensiero «si esperimenta in una situazione che non corrisponde alla sua essenza»71 perché questa si colloca nella sfera dell’evidenza innegabile e necessaria dell’essere. Non essendo mosso dall’evidenza del proprio contenuto [ex rei evidentia], ma dalla volontà [ex inclinatione voluntatis], ne viene che «il pensiero che si comporta come fede contrasta e arresta il comportamento del pensiero come pensiero»72 sicché «il pensiero che crede è il pensiero che, in quanto tale, non è e non può essere credente»73. In questo contesto Molinaro può affermare che l’accoglienza del “mistero”, che avviene sotto la spinta della volontà, indica la “resa” della ragione, «la sua sottomissione»74 e che pertanto «tale disposizione della ragione non può consistere semplicemente nel prolungamento omogeneo dell’apertura della ragione alla trascendenza: in questa apertura accade una soluzione di continuità che prende la forma di un trascendimento della trascendenza. Accade una rottura di livello, un salto di qualità, una trasfigurazione che porta la ragione al di là di se stessa e del suo criterio essenziale: l’evidenza incontrovertibile»75. In quanto trascendimento della trascendenza, la fede si porta dunque al di là dell’essere, nel senso che si colloca al di là dell’evidenza (luminosità) incontrovertibile dell’essere. Seguendo l’andamento del testo di Tommaso (De fide, a. 1), Emanuele Severino afferma che, nella fede, «l’intelletto dà il suo assenso a una delle due parti della contraddizione in quanto esso è mosso dalla volontà; ma, per quanto fermo sia l’assenso prestato dall’intelletto ai contenuti della fede, tuttavia l’intelletto in quanto tale (quantum est ex seipso) resta “insoddisfatto” (“non est satisfactum”), “irrequieto” (“eius motus nondum est quietatus”) e si mantiene in un atteggiamento di “ricerca” relativamente ai contenuti cui (determinato dalla volontà) pur presta il proprio assenso […]. Ma se l’intelletto in quanto tale – ossia in quanto “ragione naturale” – è “inquie71 72 73 74 75

A. Molinaro, cit., p. 308. Ibidem. Ibi, p. 309. Ibi, p. 263. Ibi, pp. 263-264.

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tus” proprio là dove il credente è “quietatus”, l’intelletto vede allora la possibilità che le cose stiano altrimenti da come sono credute nella fede cristiana, cioè vede la possibilità che il cristianesimo sia, oltre che verità, anche errore. Ciò vuol dire che, nella logica oggettiva del tomismo, la “ragione naturale” riconosce la possibilità della discordanza tra ragione e fede»76. Sotto la spinta di una concettualità analoga, nel testo di Molinaro (che a tale concettualità rinvia pur senza citare direttamente Severino) si afferma che, mentre la “verità” del pensiero «è la forma e il contenuto dell’evidenza dell’incontrovertibile […] sia sul piano del principio, sia sul piano di ciò che ne deriva o vi si risolve» e che pertanto «la verità dell’affermazione è immediatamente la negazione della sua negazione», la “verità” della fede è invece «la forma e il contenuto della non evidenza e, quindi, della controvertibilità […] sia sul piano del principio, sia sul piano di ciò che ne deriva o vi si risolve» e che pertanto «la verità dell’affermazione e dell’adesione della fede non è né immediatamente né per deduzione la negazione della sua negazione»77. Quella che viene definita “verità” della fede non ha quindi «il carattere di evidenza incontrovertibile, di visione e di sapere, che è proprio della verità del pensiero: l’enunciato di fede è vero per chi crede e sulla esclusiva base della fede, ma per chi si situa sulla linea del pensiero, non è verità, in quanto non mostra i criteri in base ai quali il pensiero dichiara la verità»78. Con ciò Molinaro non intende dire che la “non verità” della fede sia immediatamente da qualificare come “errore”, ma sul fondamento di quanto egli ha fin qui concesso non può neppure escludere che di “errore” si tratti: il pensiero, «in quanto destinato alla verità come forma e contenuto dell’evidenza incontrovertibile, sotto l’imprigionamento e la determinazione estrinseca della volontà compie un’affermazione e dà adesione a ciò che è privo di tale evidenza e, quindi, è una non verità. Tale affermazione e tale adesione non sono in grado di escludere la propria negazione ossia di imporsi sull’affermazione contraddittoria»79. Infatti, tutto ciò che non è evidenza incontrovertibile, tutto ciò che sta la di là dell’orizzonte dell’evidenza incontrovertibile (che è incontrovertibile nella misura in cui ap76 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 334. 77 A. Molinaro, cit., p. 324. 78 Ibidem. 79 Ibi, p. 325.

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pare che la sua negazione è autonegazione) è controvertibile. Nel riconoscimento di questa impossibilità di escludere il contraddittorio, che poi equivale al riconoscimento della possibilità che la fede conduca al dispiegamento della verità, ma anche alla sua perdizione, sta l’audacia del pensiero di Molinaro – audacia cui si espose lo stesso Bontadini quando riconobbe la possibilità di una “capitolazione” della fede80. Segue il rilievo del «dissidio interiore alla fede stessa – il movimento verso il contrario»81 e l’affermazione per cui «l’autentico incontro, dialogo o altro, tra pensiero e fede consiste nel rigoroso mantenimento di questa diversità, ossia nel tener rigorosamente fermo il rapporto tra verità del pensiero e non verità della fede. Questa rigorosa diversità […] contribuisce a configurare i contorni del mistero della fede»82. Molinaro richiama la tesi dell’unica verità fontale per cui è impossibile che Dio comunichi verità di fede in contrasto con la verità della ragione ma, da quanto precede e da quanto si è fin qui concesso, appare che l’affermazione che il contenuto della fede sia “rivelazione di Dio” è essa stessa una verità di fede. Del pari, verità di fede è pure l’affermazione che «una determinata fede è una determinazione manifestativa e figurativa del mistero che la suscita»83: che il contenuto di una determinata fede sia eccedente la capacità della ragione umana perché contenuto della divina rivelazione, lo può dire il credente e questo dire è, ancora una volta, un enunciato di fede che è vero solo “per chi crede e sulla esclusiva base della fede”. Osservo inoltre che il “dissidio interiore alla fede”, il sentire l’attrazione verso la tesi contraria, il rimanere “inquieto” dell’intelletto, è l’atteggiamento proprio di chi dubita (dispositivo dubitantis), il che significa che l’intelletto di chi crede rimane nel dubbio – si fa esitante – proprio in rapporto al contenuto in cui egli crede.   3. A proposito di audacia del pensiero di Molinaro – audacia che poi significa espressione di eccezionale forza teoretica – vorrei, in

80 Cfr. G. Bontadini, Fuochi incrociati sopra la Chiesa, in Giornale critico della filosofia italiana, 1973, p. 116. 81 A. Molinaro, cit., p. 325. 82 Ibi, pp. 325-326. 83 Ibi, p. 321.

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chiusura, tornare alla “parte prima” del testo (Pensare) per mettere in evidenza il vertice della speculazione cui Molinaro è giunto. Nell’esposizione della struttura originaria egli considera l’essere nella sua semantizzazione per opposizione al nulla ossia «nella sua infinita e assoluta opposizione di contraddizione al non essere o nella sua incontraddittorietà»84. Egli osserva quindi che «tutto ciò che è, è compreso nell’essere e non si divide dall’essere»85. Posto dunque che l’essere non può non essere (Parmenide), Molinaro afferma che all’interno dell’essere «appare l’“altro”, che non è altro dall’essere, bensì è altro dell’essere»86. Questo altro dell’essere è l’“ente”, il “ciò-che-è”, la sintesi tra l’“essere” (l’“è”) e la sua determinazione. L’“ente” è appunto l’“essere determinato” di cui Molinaro dice che è «l’essere in sintesi inseparabile con la sua determinazione»87. Poiché l’essere è lo stesso che il suo non poter non essere, e poiché le determinazioni dell’essere non si aggiungono dall’esterno all’essere, ma sono determinazioni dell’essere che risultano dall’essere stesso, «la sintesi che è l’ente mostra di essere una sintesi originaria e assolutamente inseparabile, dal momento che l’essere è il legame incondizionato, tale cioè che lo scioglimento di o da questo legame è la stessa contraddizione»88. L’inseparabilità del legame tra l’essere e la sua determinazione vuol dire che l’essere non può cessare di avvolgere il ciò-che-“è” e che il ciò-che-“è” non può cessare di essere. L’essere è immutabile. Ma poiché l’apparire dell’essere è processuale, l’essere immutabile si rivela solo in parte. Si tratta quindi di pensare il rapporto tra la “Totalità Assoluta” (l’Intero Immutabile) e la “totalità di ciò che appare”. Scrive Molinaro «Il fatto che la Totalità Assoluta viene affermata metafisicamente significa che essa s’impone per immediatezza logica, ossia per l’autocontraddittorietà della sua negazione e non per immediatezza fenomenologica; ciò significa ancora che la Totalità Assoluta non appare come tale, non è presente nella sua Totalità. Questo però non solo non esclude, ma esige che ciò che appare, ciò che si rende ed è presente nell’ambito dell’apparire è necessariamente ed è impossibile che non sia un apparire della Totalità, una 84 85 86 87 88

Ibi, p. 92. Ibi, p. 93. Ibi, p. 97. Ibidem. Ibi, p. 98.

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sua apparizione: l’ente – ogni ente – che è ed appare non può non essere una appartenenza della Totalità»89. L’affermazione dell’assoluta inseparabilità dell’essere e della sua determinazione dice che l’ente (ogni ente) è eterno: dice cioè che è impossibile che l’essere, in quanto essere, e quindi ogni essere, non sia. È la tesi di Severino – tesi che, ad un certo punto, è stata accolta dallo stesso Bontadini e che anche Molinaro ora assume. Ma, come Bontadini, anche Molinaro considera il rapporto tra la “Totalità Assoluta” e la “totalità che appare” in modo tale che. [I] l’essere “inclusa” della seconda totalità nella prima non aggiunge alla prima alcuna positività; [II] l’essere “altro” della prima Totalità rispetto alla seconda non riduce la prima Totalità a parte della Totalità del reale; [III] l’essere della prima Totalità è “ciò per cui” la seconda “è”; [IV] la prima Totalità “è” anche se la seconda “non è”. Un siffatto rapporto «è quello che viene denominato creazione […]. La relazione o rapporto creazionale è tale che comporta insieme l’identità dei due estremi – e così supera il dualismo – e la distinzione degli stessi – e così super il monismo. Stando al lato della identità, si rileva che l’ente creato, in quanto e nella misura in cui è essere [positività] è contenuto nella Totalità assoluta: non l’accresce né la estende. Stando invece al lato della distinzione, si rileva che l’ente creato, proprio in quanto è ente e non essere, ossia in quanto è un determinato essere e nel suo complesso una infinita determinatezza di essere, non è la Totalità assoluta, se ne differenzia, è altro, è appunto creatura rispetto al Creatore, è essere determinato rispetto alla Totalità Assoluta dell’Essere»90. L’idea di fondo è che il significato autentico del divenire e della storia «risiede nel rapporto con la Totalità Assoluta in quanto sua apparizione»91. Dal punto di vista della strutturazione concreta dell’originario, ogni contraddizione è tolta nella misura in cui la realtà del divenire è della storia è pensata come tutta insidente nell’atto creatore, che è atto intemporale. Per dirla con Bontadini: «L’unica realtà è Dio. Ma Dio è creatore […] e pertanto con la sua realtà è posta anche quella del mondo come realtà da Lui realmente distinta (in forza dello stesso reale, peculiare rapporto di creazione) e libera-

89 Ibi, p. 173. 90 Ibi, p. 174. 91 Ibi, p. 179.

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mente o contingentemente posta. Dio + mondo = Dio; falso che Dio + mondo sia maggiore di Dio»92. Sennonché, riconosciuta l’inseparabilità dell’essere e della sua determinazione, riconosciuta cioè la verità dell’affermazione che ogni ente in quanto ente è eterno (fino a questo punto è giunto Bontadini), non si vede più come possa darsi una realtà rispetto alla quale l’essere sia posto liberamente e cioè come si possa parlare di «creazione», di «causazione», di «partecipazione dell’essere», di «attribuzione dell’essere»93 da parte della Totalità Assoluta. Se la sintesi è davvero inseparabile (Severino), non c’è forza né umana né divina che possa scioglierla o produrla.   3. Carlo Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio  

Carlo Arata ha insegnato Filosofia teoretica all’Università di Genova. Illustre esponente del personalismo teologico e poi testimone di un “svolta” che, nell’accadere della Parola – Ego Sum Qui Sum –, riconosce l’Evento unico di diritto ab aeterno, ha da sempre “duellato” col Principio di Parmenide. Gli ultimi scritti di questo autore (di recente scomparso) meritano la massima attenzione: interrogano e sorprendono l’intera “sapienza del mondo” denunciandone, con forza inaudita e grande lucidità di vedute, la configurazione diabolica e antiteistica.

  Il pensiero di Carlo Arata può essere suddiviso in due fasi. La prima accade all’interno del “linguaggio filosofico” e si caratterizza per un approccio ego-teistico all’ontologismo anselmiano. È in questo contesto che si delinea l’impegno ontologico-personalistico di Arata per la determinazione della “verità dell’essere”. Momenti cruciali di questa prima fase sono: a) l’incontro con Ego Sum Qui Sum di Esodo 3,14 e il confronto/scontro con il “Principio di Parmenide” dell’ontologia “neoparmenidea”, confronto che si conclude con la conversione del “Principio di Parmenide” nella logica ego-teologica del “Principio di Persona” (Aut Deus ut Persona aut nihil); b) la “svolta” della Metafisica della Prima Persona. Aut Deus ut Ego [Prima Persona], aut nihil – è la formula più comprensiva di questa fase del pensiero di Arata. 92 G. Bontadini, Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio, cit., p. 193. 93 A. Molinaro, cit., p. 105.

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La seconda fase è aperta dalle prime trentadue pagine del testo «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio”94. Siamo dinanzi ad una svolta ulteriore, davvero radicale. Di qui l’importanza di questo testo che, in Appendice, raccoglie alcuni degli scritti più significativi della “prima fase”. A queste trentadue pagine iniziali, così sconcertanti, tenterò di accostarmi dopo aver richiamato, insieme al filosofo Carlo Arata, qualche tratto della “prima fase” del suo pensiero.   1. L’incontro con Ego Sum Qui Sum si fa decisivo nello scritto La Metafisica della Prima Persona (Ego Sum Qui Sum) entro quella che, ad un certo punto del suo percorso speculativo, Arata ha presentato come una vera e propria “svolta”95. Non siamo alla svolta radicale di «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, ma ad alcuni passaggi che «fanno presagire il non presagibile: e cioè quella che in ogni caso, stante che qui tutto pur comunque accade nel “filosofico”, rimane la non presagibile, del tutto imprevedibile, sconcertante “sorpresa”, la folle “sorpresa” di Ego Sum Qui Sum quale Deus Qui de Se Sibi loquitur»96. L’incipit di La Metafisica della Prima Persona (Ego Sum Qui Sum) è dirompente e mette conto riportarlo per esteso: «La Metafisica della Prima Persona, sconcertante, certo provocatorio, anzi folle a dirsi, ma vero, non è una metafisica, bensì la metafisica: essa ed essa sola infatti è l’apparire incontrovertibile quanto non per questo meno abissalmente inesauribile dell’Ego Sum Qui Sum (non Qui est), dell’Ego Sum Veritas quale unica originaria insostituibile Verità dell’essere o Verità della Verità. E ciò perché essa sola è l’apparire dell’ontologico-veritativo quale originario porsi-dirsi che, unico, non è autoriflessività neutro-nichilisitica perché “nessuno”, bensì Actus ut Sum, Ego, Prima Persona»97. 94 C. Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, Morcelliana, Brescia 2004. 95 Lo scritto La Metafisica della Prima Persona (Ego Sum Qui Sum) è stato pubblicato in «Rivista di filosofia neo-scolastica», fasc. ii, 1989. Ora lo si trova in Appendice a «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, cit., pp. 7998. Segue, nell’Appendice, lo scritto A proposito della Metafisica della Prima Persona (Ego Sum Qui Sum), pp. 99-112, originariamente apparso in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia” dell’Università di Macerata, fasc. xxii-xxiii, 1989-1990, Giuffré Editore, Padova 1991. 96 C. Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, cit., p. 13. 97 Ibi, p. 79.

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La Metafisica della Prima Persona non è un semplice momento «di quel “filosofare nella fede” proprio della cosiddetta “Metafisica dell’Esodo”»98, ma è l’apparire della verità dell’essere all’interno di un dire che denuncia il «carattere irrimediabilmente neutro-nichilistico della vicenda metafisica occidentale quale metafisica della terza persona»99, tutta nel segno di una teologia del “neutro”, del “concetto” che, in quanto “nessuno”, è il “nulla stesso”: l’essere, l’Ipsum esse, il Das Logiche, il puro conoscere, il linguaggio. Né la Persona, di cui si parla in queste pagine, ha qualcosa a che spartire con una comprensione empirico-naturalistica dell’uomo: «L’essere “Persona” è l’essere stesso come tale. E cioè l’essere o è Persona o non è. L’essere infatti, alla radice, è non perché è… l’essere, e cioè appunto perché è [chiaro riferimento polemico al “neoparmenidismo” di Emanuele Severino], ma perché è Chi è. Dio dunque è Dio solo in quanto Persona assoluta, Chi unico originario quanto non per questo meno abissale, in cui insostituibilmente si decide il senso dell’essere»100. Alla base sta la lezione di S. Anselmo, «vero “Parmenide del pensiero cristiano”. Ché, secondo noi, l’idea di Dio quale quo maius cogitari nequit del Proslogion, riconosciuta nelle sue eccezionali, vorremmo dire anche, decisive virtualità specificamente personalistiche, è la premessa di diritto, meglio la condizione di fondo dell’intrinseco riconoscersi del concetto di persona quale primario concetto metafisico. E, proprio per questo, luogo privilegiato dell’istituirsi del personalismo teologico»101. In fondo, si tratta di tradurre il “Principio di Parmenide” nel “Principio di Persona”, liberando però quest’ultimo da ogni contaminazione logico/concettuale. Per Arata qui ne va del senso della verità dell’essere che l’Occidente, da Parmenide ai nostri giorni, avrebbe smarrito. La Dea del Poema di Parmenide «è soltanto una dea e non Dio. Proprio per questo infatti la Dea pure dice: egòn…, ma poi significativamente affida il messaggio della verità a un altro dire, diverso dal suo, quello appunto logico-razionale»102, dove risuona il celebre 98 99 100 101 102

Ibidem. Ibi, p. 83. Ibi, p. 84. Ibi, p. 86. Ibi, pp. 111-112.

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Al cuore del destino

«l’essere è, il non essere non è» (Fr. 6). Ora, scrive Arata, è proprio qui che risiede il “peccato originale” dell’occidente filosofico, «il peccato originale che, vera scure piantata alla radice dell’albero, è all’origine dell’avvio alienato e alienante del pensiero occidentale. È qui infatti che esplode l’alienante cecità parmenidea nei confronti dei primari decisivi diritti ontologico-veritativi della Prima Persona, Ego Sum Qui Sum»103. Alla luce della “svolta” de La Metafisica della Prima Persona, Arata ha riletto tutta la sua produzione precedente riconoscendovi delle anticipazioni rispetto allo sviluppo futuro del suo pensiero; anticipazioni ancora inserite entro un dire che, «se pur intensamente e rivelativamente presago, è comunque ancora linguaggio logico-concettuale, di cui la “svolta” propria e specifica della Metafisica della Prima Persona, essa ed essa sola, legittimamente smaschera e denuncia il carattere non veritativo, più precisamente neutronichilisitico»104.   2. Fin qui il pensiero di Arata precedente la grande “svolta”, quella che ho indicato come la “seconda fase” del suo pensiero, rappresentata dalle prime trentadue pagine di «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio. Il testo contiene una serie di scritti già apparsi in varie sedi scientifiche, scritti che costituiscono un unum organico, essendo tutti «nel segno del “personalismo teologico” o “teismo di diritto della verità”»105. Lo studio contenuto nelle prime trentadue pagine è invece l’elaborato inedito che decide del titolo del volume e che segna una “svolta” ulteriore rispetto a quella presente ne La Metafisica della Prima Persona”, una seconda “svolta” che rende problematico il contenuto della precedente produzione teorica. In effetti, già ne La Metafisica della Prima Persona si afferma che è decisivo il proporsi-dirsi inconfondibile della Verità dell’esse103 Ibi, p. 112. Da notare che la denuncia del tratto neutro/nichilisitico dell’intero corso della filosofia occidentale non ha nulla a che vedere con l’heideggeriana dimenticanza del senso dell’essere (Vergessenheit des Seins), né con l’accusa di nichilismo che il “neoparmenidismo” rivolge alla metafisica occidentale. 104 Ibi, p. 109. 105 Ibi, p. 9. Tra gli scritti vi si trova pure lo splendido “Principio di Parmenide e Principio di Persona” (pp. 35-64 ), apparso per la prima volta in «Rivista di Filosofia neo-scolastica», fasc. iv, 1977.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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re quale Ego Sum Qui Sum. «Accade però» – scrive Arata – «(e quale però!) che la Metafisica della Prima Persona […] sia a sua volta, al di là di ogni suo diverso presumere, nichilisticamente, irrimediabilmente inficiata alla radice come l’intero pensiero occidentale, come l’intero Occidente. Essa invero, la Metafisica della Prima Persona (Ego Sum Qui Sum), smascherata, non può non riconoscere che il dire così inconfondibilmente ego-teistico, che pare caratterizzarla, è esso pure, senza eccezione, un dire che, ancora e sempre, accade nel filosofico e perciò stesso nel linguaggio del filosofico»106. «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio è dunque al di là di ogni de Veritate, al di là di ogni de Deo e tutto ciò perché «decisivo nel decisivo, anche se certo follia oltre ogni follia […] viene meno ogni linguaggio quale linguaggio di diritto perché, Evento unico di diritto ab aeterno, accade la Parola. Accade la parola: Ego Sum Qui Sum»107. Al di là di ogni de Veritate e di ogni de Deo e di ogni pretesa “sapienza del mondo”, accade la “folle” sorpresa di Ego Sum Qui Sum quale Deus Ipse Qui de Se Sibi loquitur, «Auto-Rivelazione originaria, Evento unico di diritto ab aeterno»108. «Non aut Deus ut Persona, aut Deus ut Ego aut nihil […] bensì, decisivo nel decisivo, aut Ego, Ego Sum Qui Sum, ut Deus, aut nihil»109. Questa è la formula della grande “svolta”. Ma vediamo qualche tratto di questa Auto-rivelazione originaria rispetto alla quale Arata diventa semplice “amanuense”, semplice “uditore”. Ego Sum Qui Sum: «Parola unica di diritto […] pleno iure intollerante di ogni Tu di diritto, di ogni e qualsiasi Altri di diritto, di ogni e qualsiasi linguaggio di diritto, è pleno iure intollerante di ogni pretesa intersoggettività di diritto, pleno iure intollerante di ogni Noi di diritto, pleno iure intollerante di ogni pretesa Societas di diritto, pleno iure intollerante di ogni preteso Colloquio di diritto. Preteso Colloquio cristiano-trinitario incluso. Dio dice “Io” una volta sola, non tre volte»110. 106 Ibi, pp. 14-15. 107 Ibi, p. 15. 108 Ibi, p. 17. 109 C. Arata, A proposito di Ego Sum Qui Sum – La Gloria di Dio, in «Humanitas», 2, 2006, p. 319. Si tratta della Postilla al libro in oggetto. La Postilla tiene conto delle obiezioni avanzate da Emanuele Severino, da Aldo Magris e da Francesco Tomatis dopo l’uscita del libro che qui sto presentando. 110 C. Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, cit., p. 18.

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Al cuore del destino

Ego Sum Qui Sum: «Chi unico, dunque, grazie a Sé e solo grazie a Sé. Chi unico dunque extra omnia e solo extra omnia»111; extra omnia, «extra dunque il cosiddetto essere, extra il cosiddetto pensiero, extra il cosiddetto linguaggio»112. Collocandosi extra l’essere, viene però da chiedersi se Ego Sum Qui Sum sia forse un “nulla”. Ma è chiaro che la risposta è no! Ego Sum Qui Sum è un non-nihil: è quel non-nihil che «è non perché è, bensì perché è Chi è»; è quel non-nihil che di Sé dice: «Io sono perché sono Chi sono: Chi unico e, proprio perché unico, so perché sono Chi sono»113. Se dunque Ego Sum Qui Sum è un non-nihil, la sua collocazione extra «il cosiddetto essere» è possibile a condizione che «il cosiddetto essere» non sia inteso come il non-nihil, ma come un certo non-nihil, rispetto al quale Ego Sum Qui Sum rivendica la propria unicità. Stando così le cose, si può dire che “l’essere non-nihil” (intendendo con il termine non-nihil la dimensione che oltre di sé non lascia alcunché) “include” sia «il cosiddetto essere» sia lo stesso Ego Sum Qui Sum della Auto-Rivelazione originaria. In quanto così “incluso”, sembrerebbe allora che il “senso” di Ego Sum Qui Sum resti “deciso” dal “senso” dell’“essere non-nihil” e cioè da quel “senso” dell’“essere essente” che, nella struttura originaria del sapere, appare nella forma dell’essere identico/non contraddittorio, ossia nella forma dell’opposizione del positivo e del negativo. Per Ego Sum Qui Sum – La Gloria di Dio, che è Gloria Sui, esaustività di ogni diritto, questa sua riconduzione al “senso” della “ve111 Ibi, p. 19. 112 Ibi, p. 24. Ferme restando tutte le differenze, mi pare si possa riconoscere una qualche “analogia” tra Ego Sum Qui Sum e l’“Uno” di Plotino che sta «al di là del Tutto, e perciò al di là dell’Essere» (Enneadi, V, 4, 2). Nel segno della neoplatonica epékeina tês usías si muove, tra gli altri, Schelling, che procede a partire da «ciò che viene pensato prima e sopra dell’essere» (Filosofia della Rivelazione, trad. it. di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, p. 351). In questa direzione si possono incontrare (per tenerci ai magna nomina) l’essere (Sein) di Heidegger, che è il niente (Nichts) rispetto agli enti, ma anche l’“assolutamente Altro” di Lévinas e il “totalmente Altro” di Barth. Ferme restando tutte le differenze! Ego Sum Qui Sum si colloca “al di là” della “Metafisica della terza persona” (Metafisica del neutro). Inoltre, ciò che è decisivo in ordine alla “svolta” radicale, Ego Sum Qui Sum non accade nel “linguaggio filosofico”: è il «no di diritto a ogni e qualsiasi preteso “linguaggio di diritto” ab aeterno» («Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, p. 15). Non dunque “Dio e la filosofia”(Lévinas), ma “Dio o la filosofia”. 113 C. Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, cit., p. 18.

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rità dell’essere” è tuttavia qualcosa di intollerabile. Arata non esita a denunciare l’ardire di Tommaso il quale afferma «che Dio deve dire sì al principio di non contraddizione»114 e la blasfemia delle pretese dimostrazioni dell’esistenza di Dio, il cui percorso si conclude con la teologizzazione del principio di non contraddizione. Che questo sia l’esito della metafisica classica e, in particolare, di quella pretesa rigorizzazione tentata da Gustavo Bontadini in ambito neoclassico, Arata lo aveva sostenuto con forza anche prima della grande “svolta” di cui stiamo trattando115, ma ora il significato della critica mostra tutta la sua pregnanza. Nella Postilla a «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, Arata ribadisce la sua ferma condanna contro un’operazione che «radicalmente smascherata nel suo tratto di una pratica magico-teurgica, avente il suo strumento in quell’infernale ordigno logico (il principio di non contraddizione) che costringe Dio a dire “Eccomi qui!”, viene detta “dimostrazione dell’esistenza di Dio quale Indivenibile Trascendente Creatore”. Operazione che [...] non comporta affatto la messa in trono di Dio, bensì piuttosto determina la messa in trono di quel suo regista principe, che è appunto il principio di non contraddizione. Principio di non contraddizione che, in attesa della sua compiuta “teologizzazione”, “divinizzazione” neoparmenideo-severiniana, nella sua antiteisticità, nulla ha a che vedere con Dio quale Dio come Dio e cioè con Ego Sum Qui Sum – La Gloria di Dio»116. Sovrana Sorgente delle Sue perfezioni, Ego Sum Qui Sum è «pleno iure intollerante di ogni e qualsiasi preteso autonomo significare (le cosiddette verità eterne o necessarie, prima fra tutte, pretenziosamente unica e decisiva, il principio di non contraddizione) a Lui comunque presupposto o presupponibile e cioè non da Lui e da Lui solo inventato, non da Lui e da Lui solo deciso»117.  3. Date queste premesse, chiediamoci: qual è il “senso” di questo inventare da parte di Ego Sum Qui Sum? Qual è il senso di questo Suo decidere? Perché qui siamo alla “negazione” del principio di non contraddizione «quale preteso paradigmatico autonomo signifi114 Ibi, p. 22. 115 Cfr. C. Arata, L’aporetica dell’intero e il problema della metafisica del 1971 e il già citato Principio di Parmenide e Principio di Persona. 116 C. Arata, A proposito di Ego Sum Qui Sum – La Gloria di Dio, cit., p. 312. 117 Id., «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio, cit., p. 19.

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Al cuore del destino

care di diritto»118. Di qui la Follia che è Ego Sum Qui Sum, «Follia unica di diritto al maiuscolo perché Dio è Dio, Dio di Dio, solo Dio come Dio quale Chi unico che è no di diritto al principio di non contraddizione»119. All’obiezione di chi rileva che, in quanto “non-niente”, e cioè in quanto comunque “essente”, Ego Sum Qui Sum cadrebbe sotto la giurisdizione del principio di non contraddizione, Arata replica così: dicendo no al principio di non contraddizione, Ego Sum Qui Sum «dice sì all’assurdo e come tale è follia. Assurdo, follia, del cui senso, però, decisivo nel decisivo, Dio e Dio solo, Esaustività di ogni diritto, decide, così come decide del senso di tutto, assurdo, follia compresi»120. Ma che cos’è questa “negazione”, questo “dire di no!” al principio di non contraddizione se non, appunto, una “negazione”, un “dire di no”, che non è un’“affermazione”, un “dire di sì”? Non è forse questa “negazione”, un “dire di no”, che è un “esser sé” come “negazione”, come “dire di no”? Un inventare che è un “esser sé” come inventare? Un decidere che è un “esser sé” come decidere? Un inventare da parte di Ego Sum Qui Sum, un “Suo” sovrano decidere il “senso” del tutto, che è un “esser sé” come “Suo” inventare e “Suo” decidere? Nella Postilla si invita a riconoscere il carattere originario, unico di diritto di Ego Sum Qui Sum: «Dio come Dio e cioè Ego Sum Qui Sum, Evento originario di diritto, extra omnia di diritto. Come tale extra l’Esse come Dio, extra il Pensiero come Dio o il Divino, extra il Linguaggio come Dio o il Divino. Linguaggio come Dio o il Divino che, al di là della pretesa “svolta” linguistica, è hegelianamente lo stesso Pensiero come Dio o il Divino […]. Ma, e quale ma, […] altro è il Pensiero come Dio o il Divino, altro, ben altro è Dio come Dio»121. Dunque, «altro» è il Pensiero come Dio, o il Linguaggio come Dio (o l’Esse come Dio) e «altro» è Dio come Dio. Ma che cos’è questo essere «altro» dal proprio altro da parte di Dio? Che cos’è questa esclusione di diritto dell’éteron se non l’“essere sé” da parte di Dio, dove questo “essere sé” è proprio il senso di quella verità dell’essere che Ego Sum Qui Sum afferma di inventare, di decidere? Se così sanno le cose, non segue allora che, proprio nel momento in 118 Ibi, p. 22. 119 Ibi, p. 30. 120 C. Arata, A proposito di Ego Sum Qui Sum – La Gloria di Dio, cit., p. 303. 121 Ibi, pp. 308-309.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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cui si avanza la pretesa di decidere del principio di non contraddizione (che è l’apparire dell’esser sé dell’essente), ci si trova collocati sul suo stesso terreno? Trovo implicita conferma di questo ritorno del primato dell’incontraddittorietà dell’essere alla fine della Postilla, laddove si dice: «Non dunque il giovanneo “In Principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”, bensì “In Principio è Dio e Dio è presso Dio e Dio è Dio”. E Dio è Dio: Ego Sum Qui Sum. Deus de Se, non de Deo»122. In «Principio è Dio»… e «Dio è presso Dio»… e «Dio è Dio»… Ma dire «Dio è Dio»… non significa appunto muoversi nel grembo del principio di non contraddizione, nel grembo di quella “verità dell’essere” il cui apparire è un tratto della verità: Veritas Qui de Se Sibi loquitur?   4. «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio si chiude con un interrogativo che coinvolge lo stesso “scrivente” individuo storico-anagrafico Carlo Arata rispetto al quale si pone questa alternativa: «o [egli] è per Grazia e solo per Grazia “uditore” di Ego Sum Qui Sum, Parola unica di diritto ab aeterno o invece, nella follia, è solo uditore-gestore della sua privata personale follia»123, vissuta come pretesa rivelazione divina! In effetti, viene il sospetto che Dio sia Dio non soltanto agli occhi di Dio, ma anche agli occhi di Arata, e che a parlare di Dio sia non soltanto Dio, ma anche Arata. Al limite, si potrebbe pensare che Ego Sum Qui Sum sia lo stesso Arata: ego sum, ego solus sum, Ego Deus sum. Il problema si fa decisivo e ritorna nella Postilla: «Ché se il libro [«Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio], meglio, lo scrivente, non è “uditore” della Parola divina, se Dio, Ego Sum Qui Sum, Gloria Sui quale Esaustività di ogni diritto, qui non parla affatto in prima persona, il libro, ben lungi dal costituire Deus de Se, Deus Qui de Se Sibi loquitur, il libro non sarebbe che uno dei tanti de Deo»124. Dunque, “follia” al minuscolo, delirio solipsistico di Carlo Arata? Oppure Follia al maiuscolo, Follia di Ego Sum Qui Sum, che “decide” del principio di non contraddizione come di ogni altro preteso autonomo significare? A “decidere”, scrive Arata, è Ego Sum Qui 122 Ibi, p. 318. 123 Ibi, p. 31. 124 C. Arata, A proposito di Ego Sum Qui Sum – La Gloria di Dio, cit., p., 315.

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Al cuore del destino

Sum «perché pleno iure Ultima Parola, che è pleno iure Prima Parola»125. Ma ciò vuol dire che «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio si pone come l’Evento originario, Evento unico, di diritto, mentre lo scrivente-uditore Arata e la realtà del “mondo” sono per Grazia e solo per Grazia, di fatto e solo di fatto.   4. Angelo Scola: verità, fede, salvezza  

Angelo Scola, già Patriarca di Venezia e attuale Arcivescovo di Milano, è stato allievo di Bontadini e di Severino alla Cattolica di Milano negli anni Sessanta. La posizione del Cardinale Scola si distingue per l’attenzione rivolta al senso della struttura originaria intesa come originaria apertura al senso dell’essere. Nel 2009 il Dipartimento di Psicologia generale dell’Ateneo patavino ha organizzato un Convegno sul tema “Il morire tra ragione e fede”. Severino e Scola hanno aperto i lavori della giornata di studio. La trascrizione di questo incontro è contenuta in «Humanitas» 64 (6/2009). Il testo che segue raccoglie (con qualche integrazione) gli scritti che ho presentato in occasione di quello storico incontro.

  Gustavo Bontadini ha spiegato che l’“Unità dell’Esperienza” – e cioè l’unità che compete alla totalità del contenuto dell’esperienza presa nella sua “attualità” ed “obiettività” – «è non solo punto di partenza, ma l’unico punto di partenza del sapere in generale»126. L’esposizione rigorosa dell’“Unità dell’Esperienza”, e la messa a punto della sua “funzione metodologica” in relazione alla costruzione del sapere metafisico127, stanno alla base di una filosofa che Bontadini avrebbe chiamato “neoclassica” per via della comprensione “costruttiva” (inferenziale, metempirica) del “principio di non contraddizione”128. Anche Emanuele Severino ha meditato a fondo la figura dell’“Unità dell’Esperienza”. Il concetto severiniano di “struttura originaria” si presenta, infatti, come lo strutturarsi dell’immediatezza e quindi come la posizione della totalità di ciò che è noto per sé. Ma la “struttura originaria”, cui fanno riferimento i testi di Severino,

125 Ibidem. 126 G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, cit., p. 129. 127 Cfr. La funzione metodologica dell’Unità dell’Esperienza, in G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, cit., tomo I, pp. 33-63. 128 Cfr. Per una filosofia neoclassica, in G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, tomo i, pp. 260-289.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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contiene qualcosa di impensato da Bontadini e dal pensiero occidentale, vale a dire l’affermazione dell’impossibilità che l’ente non sia. Su questo punto sarebbe esplosa la grande polemica con Bontadini il quale ha comunque finito per accogliere la tesi dell’eternità dell’ente in quanto ente – ma assumendo questa tesi in posizione dialettica rispetto all’attestato dell’esperienza e riponendo la sua verità nel Principio di Creazione129. Severino ha poi fatto vedere che la struttura originaria è “contraddizione” (è un contraddirsi) perché, pur essendo l’incontrovertibile (pur essendo ciò la cui negazione è autonegazione), è un che di finito: è posizione del Tutto ma, poiché nell’originario il Tutto si manifesta processualmente, ciò che viene posto come il Tutto non è il Tutto pieno, concreto e compiuto dell’“ente” dove è risolta ogni contraddizione del finito130. Da questa considerazione di fondo prende corpo la riflessione sul rapporto tra verità, fede e salvezza. Ne presento di seguito, per sommi capi, le tappe principali. Il confronto con la posizione del Cardinale Angelo Scola, che questi temi ha sempre posto al centro della sua riflessione (e che cercherò di esporre, sempre per sommi capi), darà il senso dell’abissale diversità che assume la configurazione di quel rapporto nello sguardo del “destino” e in quello epistemico/teologico.   1. In Studi di filosofia della prassi Severino sostiene che l’adesione alla parola di Cristo, ossia la fede riposta in Lui, è ciò che può liberare la verità dalla contraddizione – nel senso che può essere ciò che apre la verità originaria del finito al massimo dispiegamento dell’essere che le è consentito. Ma proprio perché soltanto lo può, proprio perché tale liberazione si presenta come una possibilità, si apre nel contempo la possibilità opposta e cioè che quell’apertura venga meno e che l’accoglimento della parola di Cristo sia ciò che tiene legata la verità alla contraddizione e all’alienazione più abissale131. 129 Cfr. Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio, in G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, cit., tomo ii, pp. 189-194. Sul dialogo di metafisica tra Bontadini e Severino rinvio a quanto esposto nel capitolo ii di questa Parte seconda. 130 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. viii. 131 Cfr. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, cit., primo studio, Parte prima, cap. ii.

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Al cuore del destino

La tesi sostenuta negli Studi di filosofia della prassi è dunque questa: il cristianesimo sta presente, dinanzi alla verità, come un “problema” autentico e cioè come un contenuto che non appare né come qualcosa di autocontraddittorio, né come qualcosa la cui negazione è negazione della verità. E si afferma che, rispetto a questo come ad ogni altro “problema” autentico, è inevitabile che la verità prenda posizione (anche l’astenersi dal prendere posizione è una presa di posizione) e che pertanto la verità è necessariamente nella fede: quale che sia la scelta operata, la verità è essenzialmente unita alla fede. Ciò non significa che la verità sia necessariamente unita ad una fede in particolare, ma «è proprio perché il problema esiste che la verità si trova ad essere una scelta, si trova cioè praticamente impegnata»132. In questo testo, scrive Severino, «la verità vede la propria salvezza come qualcosa che è possibile che stia nelle sue mani, ossia come qualcosa il cui accadimento è possibile che dipenda dalla libera scelta della verità stessa»133. In Essenza del nichilismo l’attenzione si concentra su due contraddizioni ulteriori rispetto a quella inerente alla struttura originaria in quanto apparire finito del tutto. La prima è determinata dall’isolamento della “terra” dalla verità dell’essere. Posto che la “terra” è tutto ciò che incomincia ad apparire e cessa di apparire, l’atto per cui essa viene isolata dalla verità è l’inizio della “vita” dell’uomo nella non-verità: è l’atto per cui l’uomo volta le spalle alla verità e concepisce se stesso come un ente che ha una certa potenza su se stesso e sulle cose. La seconda è l’alienazione metafisica, ossia la storia dell’Occidente in quanto testimonianza della terra isolata: la storia del nichilismo. Nell’orizzonte concettuale di Essenza del nichilismo, la salvezza si configura dunque come liberazione della verità dal contrasto con l’isolamento della terra – dove l’isolamento è l’atto per cui accade qualcosa come il “mortale” e l’alienazione ontologica dell’Occidente. In questo contesto prende nuova forma anche il tema delle implicazioni pragmatiche della verità, ossia il tema dell’essere “nella fede” da parte della verità. Qui si ribadisce la tesi per cui la verità «non può non compromettersi»134: la verità si determina come “prassi” e cioè come “decisione”, come “volontà”, come “fede”, e ciò significa che «la decisione determinata che 132 Ibi, p. 118. 133 Ibi, “Postille”, p. 328. 134 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 168.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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di fatto accade […], accade all’interno dello sguardo dove la verità la vede come ciò da cui potrebbe dipendere la salvezza della verità»135. La differenza rispetto agli Studi di filosofia della prassi è che la libertà della decisione non è più intesa come la possibilità che quell’ente (quell’eterno) che è la “decisione” sarebbe potuto non esserci (tratto nichilistico ancora dominante negli Studi), ma come la possibilità che quella decisione sarebbe potuta non apparire. In Essenza del nichilismo si afferma inoltre che la fede è contraddizione non solo nel senso che ciò di cui si è certi, nella fede, non è la struttura originaria incontrovertibile (secondo quanto già spiegato negli Studi di filosofia della prassi136), ma anche nel senso che la fede è la radice stessa dell’alienazione essenziale ossia dell’errore: «La volontà di sottrarre la terra al destino [e cioè allo stare incontrovertibile della verità] è il fondamento e l’essenza della fede in quanto tale […]. La fede è volontà di potenza non solo perché è una prevaricazione sulle altre fedi, ma perché è la stessa volontà di impadronirsi della terra sottraendola al destino»137. Il pensiero dell’eternità dell’ente trova ulteriore sviluppo in Destino della necessità. Qui viene alla luce che lo stesso tentativo di comprendere la libertà come determinazione dell’apparire (e cioè come libertà dell’apparire) è una forma di nichilismo: la libertà, scrive Severino, «appartiene all’essenza del nichilismo»138. Ad essere un eterno non è soltanto ciò che sopraggiunge, ma anche il modo determinato secondo cui il sopraggiungente sopraggiunge. Pensare che la “decisione” sia un ente libero, nel senso che sarebbe potuto non sopraggiungere (che sarebbe potuto non apparire), è lo stesso che isolare dal Tutto l’accadere di quella decisione, il che significa pensare come non necessario (come accidentale) il legame che unisce quell’accadere a tutti gli altri enti: «Negando ogni legame necessario col Tutto […], l’isolamento nega insieme il legame necessario richiesto dall’eternità del Tutto e quindi nega l’eternità del Tutto»139. 135 Ibi, p. 435. 136 Cfr. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, cit., primo studio, Parte seconda, cap. i. 137 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 384. 138 Id., Destino della necessità, cit., p. 19. 139 Ibi, p. 116.

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Al cuore del destino

Se ogni “decisione” è eterna e, se tutto ciò che accade, è destino che accada, allora la salvezza della verità non può dipendere da una libera decisione della verità: «Nessuna decisione […] può condurre al tramonto dell’isolamento. Ogni decisione si fonda infatti sull’isolamento della terra. Nessun salvatore (artefice di salvezza) è possibile. Ma ogni decisione appartiene al destino dell’accadimento. Se il tramonto dell’isolamento della terra è destinato ad accadere, allora è necessità che tutte le decisioni siano prese e il decidere portato al suo compimento»140. In Destino della necessità appare dunque che «la verità non è in relazione alla possibilità di avere in mano la propria salvezza»141. Posto che la fede è la radice stessa dell’errore, segue che, per la salvezza della verità, si richiede proprio il tramonto della fede e quindi dell’agire, della decisione, della volontà isolante – tramonto che non significa annullamento della follia e neppure dell’errore (che, in quanto si mostra nella follia dell’errare, è un contenuto positivamente significante), ma apparire dell’errore e della follia come un che di “passato”, di “oltrepassato”. In La Gloria e in Oltrepassare Severino fa vedere che la salvezza del destino della verità dalla contraddizione dell’isolamento «non è affidata a una decisione, a una volontà libera [a una fede], ma è necessità»142, la necessità per cui «l’essenza autentica dell’uomo è destinata alla manifestazione autentica dell’Immenso»143.   2. Allievo di Bontadini e di Severino, anche Angelo Scola ha meditato a lungo sul tema dell’“unità dell’esperienza”. In riferimento alla via “neoclassica” perseguita da Bontadini, egli scrive che si tratta della «più grande dimostrazione (mostrazione) dell’esistenza di Dio […], una rigorizzazione della cinque vie di S. Tommaso»144 ed è significativo che rinvii non al celebre scritto Per la rigorizzazione della teologia razionale, ma all’altrettanto «celebre articolo di G. Bontadini, “Per una filosofia neoclassica”»145. 140 Ibi, pp. 448-449. 141 E. Severino, Studi di filosofia della prassi, cit., p. 328. 142 Id., La Gloria, cit., pp. 383-384. 143 Id., Oltrepassare, cit., p. 537. 144 A. Scola, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, Milano 1991, p. 35. 145 Ibidem.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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In Per la rigorizzazione della teologia razionale Bontadini dà per acquisito che, ad essere contraddittorio, è il divenire in quanto tale perché «implica il non essere (ad un certo momento, il non esser stato) dell’essere»146. Ma questa considerazione della contraddittorietà del divenire in quanto tale inserisce nel corpo della dimostrazione dell’esistenza di Dio un elemento senz’altro estraneo alla tradizione classica – un elemento che è segno di quell’accostamento alla “verità dell’essere” di cui ha parlato Severino e che Bontadini ha in parte accolto ed elaborato nella sua “dimostrazione dialettica”. Non è a quest’ultimo sviluppo che guarda Scola, ma all’elaborazione teorica di Bontadini risalente al periodo che precede l’uscita del tanto discusso Ritornare a Parmenide di Severino. Di questa elaborazione teorica l’articolo Per una filosofia neoclassica riassume i guadagni essenziali. Il discorso è fondamentalmente riconducibile al teorema aristotelico della eteronomia del divenire ripensato alla luce (a) del principio che ad honorem lo stesso Bontadini chiama “Principio di Parmenide” – «L’essere non può essere originariamente limitato dal non essere (è contraddittorio che l’essere sia limitato dal non essere)» – e (b) del “teorema della Creazione” che toglie la contraddizione di un divenire assolutizzato: «L’essere limitato dal non essere è il divenire. La Totalità del Reale non può essere, pertanto, costituita dal divenire. Che anzi il divenire non può essere che un’appendice dell’Immutabile […] in se stesso indifferente (non necessitato) alla posizione dell’Unità dell’Esperienza, e quindi dell’uomo»147. 146 G. Bontadini, Per la rigorizzazione della teologia razionale, in Id., Conversazioni di metafisica, tomo ii, cit., p. 295. 147 G. Bontadini, Per una filosofia neoclassica, in Id., Conversazioni di metafisica, II, cit., p. 285. L’assolutizzazione del divenire – la sua identificazione alla “Totalità del Reale” – dà luogo ad una situazione contraddittoria – la limitazione della “Totalità del reale” da parte del non essere – e la contraddizione si risolve nella posizione del rapporto di “dipendenza ontologica”: l’Immutabile produce il diveniente ex nihilo sui et subiecti. È il risultato di quella metafisica puri intellectus che Bontadini aveva già abbozzato a conclusione dello scritto La metafisica nella filosofia contemporanea dove si legge che, a ben vedere, questa dimostrazione dell’Immutabile è «lo stesso argomento ontologico della tradizione». Non si tratta però «di passare dall’ordine logico all’ordine reale – il passaggio contro cui protestarono tanto san Tommaso, quanto Kant – ma di mediare l’esperienza alla luce della ragion di essere e di non essere. Per questo diciamo che l’argomento è ontologico. E per questo si incontra con quello della

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Al cuore del destino

Muovendosi in una direzione che lo ha portato ad approfondire il nesso con l’“esperienza religiosa” e l’“esperienza di fede”, Scola definisce la struttura originaria del sapere in termini di «esperienza integrale ed elementare della persona»148. Tale esperienza nasce dall’impatto dell’io in azione col reale ed implica di per sé il riferimento alla dimensione dell’intero. In quanto apertura originaria al senso del Tutto, l’esperienza umana viene quindi concepita in relazione con il “senso religioso” inteso come interrogazione intorno al “perché” ultimo delle cose. Cerchiamo allora di capire come si colloca, in tale contesto, il problema del rapporto tra la ragione e la fede, tra la verità e la libertà. Punto di partenza è il rilievo della disequazione originaria tra l’orizzonte intrascendibile dell’apparire in quanto apparire dell’essere, della totalità, e l’apparire dell’essere soltanto nell’“ente” e cioè in qualcosa che è “così e così” determinato. Questa situazione originaria istituisce la natura del simbolico: l’“essere”, il senso del Tutto traspare nell’“ente”. Rinviando allo sviluppo di una «ontologia simbolica», Scola scrive che l’essere si comunica nel segno: «L’essere nel segno si ri-vela interpellando il soggetto a cui è destinato affinché quest’ultimo possa acconsentirvi. In quanto evento, l’essere si dà sempre in un segno; in quanto è rivelazione, l’evento dell’essere interpella sempre una coscienza che lo possa accogliere. La libertà dell’uomo deve concorrere necessariamente con la ragione nell’assenso dell’essere»149. La struttura simbolica del reale – per cui ogni “ente” è “segno” dell’essere – provoca dunque la risposta dell’uomo e svela la natura della fede: «In questo senso si deve riconoscere che la struttura ultima dell’atto di coscienza, che si rapporta (intenziona) alla realtà, ha la forma di fede (non però di un generico concetto di credenza). Quindi la fede così tradizione (depostane l’astratta apriorità): perché non fa uso del principio di causa. Il Principio di Parmenide fonda, bensì, il principio di causa (giacché la causa è introdotta per salvare l’equazione dell’essere), ma non passa attraverso di esso per arrivare a Dio. Come fonda, logicamente, l’esistenza di Dio (conseguenza principe), così fonda il principio di causa (conseguenza secondaria, cosmologica)» (G. Bontadini, Dal problematicismo alla metafisica, cit., p. 213). L’incontro con il pensiero di Severino avrebbe, come sappiamo, modificato l’impianto logico della “dimostrazione”. 148 A. Scola, Questioni di antropologia teologica. PUL-Mursia, Roma 19972, p. 203. 149 Ibi, p. 243.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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concepita non è estrinseca alla ragione, ma in certo senso ne costituisce la verità. Infatti, lungi dal confondersi con la ragione, ne rappresenta il fondamento critico»150. Il dato «incoercibile» e «incontestabile nella sua tenacia» – da cui partire nell’indagine intorno al senso della realtà – è che «qualcosa si dà a qualcuno»151: ogni ente che si fa innanzi «veicola l’avvenimento di qualcosa che lo oltrepassa e che si dà a qualcuno attraverso l’ente stesso»152. Intenzionando questo o quell’ente determinato – spiega Scola – «in realtà io aderisco all’“essere” che mi interpella nella singolarità di questo ente»153. In questo movimento di adesione all’evento dell’essere che interpella la libertà, l’“esperienza integrale ed elementare dell’uomo” prende la forma della decisione, della scelta, della presa di posizione rispetto alla provocazione dell’essere. Su questa base Scola può considerare l’originario in termini di implicazione reciproca di fede e di ragione: «Ragione e fede non sono due sfere d’acciaio che possono al massimo toccarsi, ma restano sempre estrinseche. Si implicano l’un l’altra in un intero in cui, pur essendo sempre intrecciate, mantengono la loro autonomia»154. In tale contesto la fede cristiana viene pensata «come l’attuazione, per grazia, di questa struttura originaria della fede»155. A questo punto può essere interessante approfondire la posizione di Scola tenendo sullo sfondo le considerazioni di Severino circa il rapporto tra verità e fede perché è chiaro che Scola chiama “fede” quella che per Severino è la radice stessa dell’errore ossia l’isolamento della terra dalla verità. Il discrimine tra le due posizioni è la diversa concezione della qualità del “vedere” di cui la fede si fa carico. Va infatti precisato che, per Scola, l’esperienza religiosa «non rappresenta qualcosa di qualitativamente diverso rispetto all’esperienza umana elementare, ma ne costituisce la pienezza o l’inveramento»156, pienezza che implica una dimensione di affida150 Ibidem. 151 A. Scola, Quale fondamento? Note introduttive, in «Rivista Internazionale di Teologia e di Cultura. Communio», 2001, n. 180, p 16. 152 A. Scola, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, in dialogo con P. Flores D’Arcais, Marsilio, Venezia 2008, p. 74. 153 Ibidem. 154 Ibidem. 155 A. Scola, Questioni di antropologia teologica. PUL-Mursia, Roma 19972, p. 243. 156 Ibi, p. 204.

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Al cuore del destino

mento: la fede. L’esperienza cristiana va invece pensata in posizione di continuità e di discontinuità rispetto all’esperienza umana e religiosa: continuità per la ragionevolezza dell’ipotesi della Rivelazione e discontinuità o rottura stante l’assoluta «inesigibilità dell’evento della Rivelazione»157. In questa prospettiva l’esperienza cristiana si configura come incontro di libertà: all’origine vi è la libertà infinita dell’evento rivelatore (Dio), la cui “presenza” mette in gioco la libertà finita dell’uomo. Perché l’evento rivelatore si veda, occorre che la libertà finita dell’uomo “decida” per Lui e cioè “decida” di vedere: «La verità non coincide con il risultato effettuale della decisione dell’uomo, essa infatti è pura donazione: si manifesta da sé e per sé (momento fenomenologico) e tuttavia, questa stessa verità, nella sua trascendenza assoluta, esige per attestarsi l’atto di tale decisione»158. Ma che cosa si intende per “verità” laddove il senso del suo essere manifesta da sé e per sé si lega ad una “decisione” e cioè al consenso che la fa propria? Ciò che per attestarsi esige l’atto della decisione (l’atto della volontà) non può essere infatti ciò che si mostra da sé e per sé: non può essere ciò la cui negazione comporta la negazione della struttura originaria.   3. La manifestatività della fede cristiana (l’“esperienza cristiana”) si riferisce all’annuncio di Gesù, ossia all’apparire delle cose dette da Gesù. Ma ciò di cui si parla nell’annuncio (il kérygma) è ciò che può essere negato senza contraddizione: è l’apparire di ciò che è incapace di imporsi sulla propria negazione perché annuncia l’“invisibile” – secondo la nota definizione di Eb 11,1 la fede è, infatti, “argomento delle cose che non appaiono”. Su queste basi, Severino può dire che «se, affinché ci sia fede, è necessario che appaia l’annuncio degli invisibili, e dunque è necessario che appaia la controvertibilità di ciò che è annunciato (il suo oscillare tra il sì e il no), l’apparire della controvertibilità di ciò che è annunciato è il fondamento della fede. Ma l’apparire della controvertibilità di ciò che è annunciato è il dubbio […]. Questo vuol dire che il dubbio è il fondamento della fede»159.

157 Ibi, p. 205. 158 A. Scola, Quale fondamento? Note introduttive, cit., p. 25. 159 E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 19952, pp. 93-94.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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Il “neoclassico” Bontadini aveva riconosciuto che tra la ragione e la fede non c’è «incompatibilità formale; per lo meno sino a tanto che l’esercizio della ragione non abbia portato alla negazione dei contenuti della fede»160. Se dunque il “fedele” «crederà che la ricerca [e cioè l’indagine razionale] non potrà mai andare, definitivamente, contro la sua fede»161, il “filosofo” rileva invece che il contenuto della fede può essere negato senza contraddizione e cioè senza che ciò implichi la negazione della “ragione”. Per Scola l’esperienza cristiana, che è «originariamente anche esperienza ecclesiale»162, è invece essenzialmente il riconoscimento di una presenza, è «l’incontro con il fatto obiettivo di Gesù Cristo che l’uomo è messo in condizione di cogliere – per la grazia della fede – nel suo significato pieno, come profondamente altro, assolutamente gratuito, ma nello stesso tempo profondamente corrispondente alla propria persona, e perciò capace di esaltare e compiere la sua natura razionale, oltre che di mettere in moto la radice della sua libertà che è dipendenza»163. Ma in che senso si parla dell’incontro con Gesù Cristo come di un “fatto obiettivo”? L’incontro con una “persona” è davvero un che di evidente? Inoltre, l’affermazione che la fede in Cristo è mossa dalla volontà spinta dalla potenza infinita della grazia, è forse qualcosa rispetto alla quale si può dire che, se la nego, nego l’innegabile? Si deve comunque tener fermo che la certezza della fede in Cristo non va in alcun modo confusa con l’evidenza che è propria della struttura originaria. Come s’è visto, Scola fa richiamo al valore dell’evidenza “simbolica”. È in questo contesto che trova spazio il progetto di iscrivere la fede nella struttura originaria e la denuncia di una ragione che cerca il fondamento del sapere solo in se stessa e che per questo «si concepisce come “separata” (ab-soluta) dall’atto con cui la coscienza, ed in particolare la coscienza “credente”, si riferisce alla verità […]. Comunque si qualifichi l’ambito assegnato alla fede (razionale, arazionale, sovrarazionale), essa resta assolutamente estrinseca alla ragione»164. Si tratta dunque di riconsiderare il senso della “ra160 161 162 163 164

G. Bontadini, Conversazioni di metafisica, cit., i, p. 199. Ibi, p. 196. A. Scola, Questioni di antropologia teologica, cit., p. 207. Ibi, p. 208. Ibi, pp. 241-242.

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Al cuore del destino

gione” e di capire che «l’evidenza della verità non coincide con l’evidenza incontrovertibile della ragione, ma è più ampia»165. Sull’esistenza di altre forme di “verità”, non riducibili all’evidenza incontrovertibile, va però tenuto presente ciò che afferma Severino quando osserva che «tra l’incontrovertibile e il controvertibile – ossia tra l’assoluto stare del de-stino della verità e ciò che non è assoluto stare, tra il destino la cui negazione è autonegazione e tutto ciò che, pur tentando di “stare”, non sta come ciò la cui negazione è autonegazione – non c’è medio»166.   4. A proposito della questione della salvezza, Scola prende le mosse da un tema classico: «Come definire altrimenti che con la parola enigma il fatto che l’uomo è, ma non ha in sé il fondamento del suo essere?»167. La contingenza dell’“ente”, e cioè l’affermazione che l’“ente” è, ma potrebbe non essere, è per Scola una «evidenza originaria»168. Questa natura enigmatica ed ec-centrica dell’uomo che «è, ma non ha in sé il fondamento del suo essere», rende l’esistenza “drammatica” ed impone all’uomo la domanda di salvezza, che è salvezza dal dolore e dalla morte. Scola afferma che «Cristo scioglie l’enigma dell’uomo, ma non ne pre-decide il dramma. Anzi, in certo senso, lo radicalizza. Infatti vivere ogni circostanza, rapporto, atto – in cui il dramma si manifesta – “in Cristo” chiede il nostro sì o il nostro no a Lui»169. Ad essere chiamata in gioco nel “dramma” (e cioè nell’impatto col reale dell’io in azione) è la libertà: «Esistendo, agendo, io inesorabilmente dico sì o no all’essere che mi chiama. Non posso non pronunciarmi!»170. In forza della morte/resurrezione di Cristo, la morte «non è più un cadere nel nulla, ma vera nascita nell’abbraccio del Padre»171. Per mezzo di Cristo, la morte «è stata ingoiata dal di sotto»172 ed il «pun-

165 Ibi, p. 254. 166 E. Severino, Studi di filosofia della prassi, cit., p. 309. 167 A. Scola, Hans Urs von Balthasar: uno stile teologico, Jaca Book, Milano 1991, p. 31. 168 Ibidem. 169 A. Scola, Se vuoi, puoi guarirmi, Cantagalli, Siena 2001, p. 101. 170 Ibi, p. 104. 171 Ibi, p. 25. 172 1Cor 15,54.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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golo del peccato»173 è stato sconfitto. In Cristo l’uomo è già nella Gloria, anche se resta in attesa della piena manifestazione della «Gloria futura che dovrà essere rivelata in noi»174. Per la riflessione teologica vi è dunque già “nella fede” (secondo la dialettica del già ma non ancora) una qualche pregustazione della conoscenza che avremo in futuro: in forza della “vita nuova” in Cristo «noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la Gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di Gloria in Gloria, secondo l’azione dello spirito del Signore»175. Nell’abbraccio del Padre tutto l’essere è “salvo” e Tommaso può dire che il corpo di Cristo risorge «integralmente, senza alcuna diminuzione [integraliter, absque omni diminutione], altrimenti la resurrezione non sarebbe stata perfetta, se non fosse stato reintegrato quanto era caduto con la morte»176 e che la resurrezione del Figlio di Dio è il concreto oltrepassamento della morte, sicché era conveniente che il corpo di Cristo risorgesse con le cicatrici che Egli conservò «non per l’incapacità di sanarle, ma per portare in perpetuo il trionfo della sua vittoria»177. Lo stesso Tommaso ricorda poi la promessa fatta dal Signore ai suoi fedeli: «I capelli del vostro capo sono tutti contati»178. E ancora: «Nemmeno un capello del vostro capo perirà»179. Ciò detto, si consideri come la distanza della prospettiva teologica, rispetto a quanto indicato negli scritti di Severino, non potrebbe essere più radicale. Nello sguardo del destino l’essere è da sempre salvo dal nulla e dall’errore dell’isolamento ed è necessario che la salvezza, ossia la manifestazione della verità non più contrastata dall’errore, ad un certo punto incominci ad apparire. Non c’è dunque bisogno di un Salvatore che assicuri la permanenza nell’essere e lo stare degli essenti nella beata compagnia con tutto l’essere: «Gli essenti hanno bisogno di salvezza solo in quanto sono separati dal destino della necessità, dunque dalla totalità dell’essente e tra loro – anzi, in quanto ognuno è separato da se stesso, cioè dal suo essere […]. La volontà 173 1Cor 15,56. 174 Rm 8,18. 175 2Cor 3,18. 176 Tommaso, S. theol., iii, q. 54, a. 3. 177 Ibi, a. 4. 178 Mt 10,33. 179 Lc 21,18

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Al cuore del destino

salvifica è l’errare, cioè la violenza della volontà isolante, che da un lato rende un nulla l’essente in cui consiste la terra […], dall’altro, volendo salvare questo nulla, pensa che questo nulla sia un essente»180. Nel cerchio dell’apparire del destino la Gloria è, innanzi tutto, la necessità del dispiegarsi all’infinito degli eterni e del loro sopraggiungere al di là di ogni limite inoltrepassabile. Dire che tale infinito dispiegamento è necessario significa che è implicato dall’esser sé dell’essente – e non qualcosa di cui l’“uomo” partecipi per “grazia”. Procedendo nella Gloria, verso l’apparire della Gioia del Tutto – che è l’apparire infinito in cui già da sempre appare il concreto toglimento della totalità delle contraddizioni del finito –, l’“uomo” procede verso se stesso, essendo destinato alla «più ampia arcata dell’Immenso»181. In tale contesto, la morte non è l’annullamento della volontà singola, ma il suo “compimento” – ed è l’istante che precede il farsi innanzi del Tutto182. In prospettiva teologica, la Gioia è totalmente dispiegata in Dio – la cui essenza eternamente realizzata non implica però l’esistenza del mondo e neppure dell’uomo – ed è ciò di cui l’uomo partecipa ricevendola “ab alio” per via della sua adesione a Cristo. Ciò che per il “destino” è “necessità” – la salvezza della verità già da sempre esistente e destinata ad apparire –, per la teologia è invece “grazia”: è incontro tra la libertà infinita di Dio e la libertà finita dell’uomo che dà il proprio assenso e così partecipa, nel Figlio, della Gloria del Padre. Non si tratta di una identificazione di nature tra le quali non vi è proporzione possibile. La “grazia” (la libera volontà di Dio) non può fare ciò che alla “ragione naturale” appare contraddittorio: il finito non può diventare il già da sempre esistente Infinito. La completa uguaglianza con l’eternità di Dio di cui parlano i grandi mistici da Eckhart a Taulero a Silesius implicherebbe poi la soppressione e non il perfezionamento della natura umana. È dunque impossibile che la 180 E. Severino, La Gloria, cit., pp. 356-357. 181 Ibi, p. 699. Per la fondazione della necessità della Gloria – e cioè della necessità che ogni sopraggiungente sia oltrepassato e che quindi sia oltrepassato anche quel sopraggiungente che è il contrasto tra il destino e l’isolamento della terra dal destino – e per la determinazione della modalità dell’oltrepassamento, rinvio a E. Severino, La Gloria, cit., capp. iii e xii e Id., Oltrepassare, cit., capp. ix e x. 182 Cfr. E. Severino, La morte e la terra, cit., cap. xii.

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In dialogo con Bontadini e Severino

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totalità infinita dell’essere entri compiutamente nel cerchio finito dell’apparire. Ma nulla impedisce che, ad un certo punto, il tutto infinito possa in qualche modo apparire e che il finito possa così avanzare (in indefinitum) nella luce infinita dell’essenza divina:   Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal è sempre qual s’era davante;   ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom’io, a me si travagliava183.   Il “lume” infinito è quella “sola parvenza” che, nella sua assoluta concretezza semantica, non può mostrarsi nell’apparire finito della struttura originaria. La contraddizione del finito deriva da questa disequazione originaria il cui toglimento è dato dal dispiegamento del finito in un percorso infinito di sempre più concreta manifestazione del tutto infinito. Ma tale percorso di liberazione all’infinito dalla contraddizione è qualcosa che ha da venire? E secondo quali modalità? Il sapere epistemico/teologico/religioso e la testimonianza del “de-stino” della verità sono solidali nell’affermazione della destinazione alla salvezza. Ma tale solidarietà è soltanto nel risultato perché il fondamento in base al quale nel “de-stino” appare quella destinazione è qualcosa di abissalmente diverso dal fondamento che orienta il pensiero della tradizione epistemico/teologica/religiosa – così diverso che quest’ultima, nello sguardo del “destino”, appare come l’espressione di una ragione alienata.  

183 Dante, Paradiso, xxxiii, vv. 109-114.

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III

     

La verità dell’essere e la metafisica classica

A. Per una rigorizzazione della metafisica classica. La proposta di Leonardo Messinese in dialogo con Emanuele Severino e Gustavo Bontadini   Leonardo Messinese è professore ordinario di Storia della Filosofia moderna alla Pontificia Università Lateranense. Il suo dialogare con le tesi di Bontadini e di Severino si è fatto, nel corso degli anni, sempre più serrato e può essere considerato uno dei tentativi più seri ed audaci (nel senso positivo del termine) di avvicinamento, in ambito cattolico, alle posizioni di Severino1. Lo spessore teorico del contributo di Messinese – che coinvolge l’intero impianto speculativo del discorso di Severino – merita un approfondimento speciale, anche perché ci consente di tornare sui temi fondamentali esposti nella Parte prima di questo lavoro.   1. Affermazione “teologica” e comprensione non nichilistica del divenire   Il testo che prenderò in esame2 è la ripresa di un confronto ormai decennale che impegna Messinese “in dialogo” con Severino sulla 1 Nel suo recente Né laico né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia, Edizioni Dedalo, Bari 2013, Messinese introduce alla comprensione dei fondamenti della filosofa severiniana accettando «la sfida di raccordare gli scritti di Severino dalla scrittura “facile” con quelli dalla scrittura “difficile”» rivolgendosi idealmente «a chi segue il filosofo bresciano dalle pagine del “Corriere della sera” per aiutarlo a fare un passo in avanti nella comprensione del suo pensiero» (p. 10). Davvero un bel lavoro che prende in esame anche i Corsi di lezione, tuttora inediti, tenuti da Severino all’Università Cattolica negli anni Sessanta. 2 L. Messinese, L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino sulla “struttura originaria” del sapere, Mimesis, Milano 2008.

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“struttura originaria del sapere”. L’autore intende «confrontarsi nuovamente con il pensiero di Emanuele Severino, scelto quale eccellente banco di prova per indagare in modo aperto sul valore teoretico della metafisica classica»3. Il lavoro si articola «in tre parti strettamente connesse le quali, mettendo in luce la distinzione tra un “primo” e un “secondo” Severino, mostrano la possibilità di giovarsi, sia pure in modo diverso, di entrambe le fasi del pensiero severiniano al fine di offrire un contributo alla rigorizzazione della metafisica classica»4. Nel dialogo con Severino si inserisce, quale interlocutore privilegiato, Gustavo Bontadini che al progetto di una “rigorizzazione della teologia razionale” si è applicato con impareggiabile forza speculativa. L’indagine di Messinese si propone di «confermare pienamente» gli esiti speculativi della riflessione di Bontadini «pur attraverso un itinerario che, in alcuni passaggi logici, si è discostato da quello del Maestro della Università Cattolica di Milano»5. Il “primo” Severino, “rigorizzatore” della metafisica classica, va ripreso e “messo a punto” alla luce della giusta critica del “secondo” Severino alla persuasione nichilistica per cui l’uscire e il ritornare nel nulla da parte dell’ente sarebbe attestato dall’esperienza – persuasione alla quale consente lo stesso Bontadini. Il “secondo” Severino lascerebbe però «inintelligibile il darsi della dimensione dell’ente che appare e che scompare»6. Di qui la necessità di “superare” Severino, ma anche di accogliere e sfruttare gli aspetti della critica al nichilismo per un’ulteriore definizione della struttura della metafisica classica e per una comprensione non nichilistica del Principio di Creazione da considerare, secondo la lezione di Bontadini, nella sua unità col Principio di Parmenide. Si tratta dunque, per Messinese, di procedere con Severino, ma oltre Severino, e con Bontadini, ma oltre Bontadini, per «riaffermare il valore della metafisica classica e la convergenza speculativa di parmenidismo e aristotelismo»7. Cercherò ora di seguire i tratti di fondo di questo discorso per discuterne le tesi portanti.   3 4 5 6 7

Ibi, p. 24. Ibidem. Ibi, p. 26. Ibidem. Ibidem.

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1. La “parte prima” del testo (cha ha per titolo: “Il sapere metafisico come verità originaria”) è una lucida esposizione ed analisi critica de La struttura originaria, capolavoro di Severino, che Messinese affronta tenendo sullo sfondo gli sviluppi dell’intera produzione del filosofo.   Sono teoremi fondamentali de La struttura originaria: α) l’affermazione del valore ontologico del principio di non contraddizione: la tesi dell’identità dell’essenza e dell’esistenza; β) l’affermazione per cui tutte le proposizioni che hanno per soggetto l’intero semantico – ad esempio “L’essere è” o “L’intero è l’intero” – sono il concreto realizzarsi dell’immediatezza logica e cioè del principio di non contraddizione; γ) il carattere logicamente immediato dell’affermazione per cui il positivo oltrepassa l’orizzonte dell’immediato fenomenologico in quanto orizzonte del divenire. In effetti, posta immediatamente l’immutabilità dell’intero dell’essere – posto cioè che l’affermazione della immutabilità dell’essere vale come formulazione del principio di non contraddizione –, è immediatamente posta la distinzione tra l’intero immutabile e la totalità del divenire.   Il punto (γ), il rilievo della immediatezza dell’affermazione per cui il positivo oltrepassa la dimensione dell’essere diveniente, significa «che il piano metafisico appartiene al sapere originario e vi appartiene in modo categorico»8 e questo costituisce, per Messinese, «il contributo più rilevante di Severino per una rigorizzazione della metafisica classica»9. Ma è soprattutto il punto (α), la tesi dell’identità dell’essenza e dell’esistenza, che dobbiamo scrutare più da vicino perché, a sostenere la distinzione proposta da Messinese di un “primo” e di un “secondo” Severino, è proprio l’interpretazione di questa tesi insieme alla determinazione del senso dell’esperienza – in un “primo” tempo considerata da Severino come attestante l’annullamento dell’ente, in un “secondo” tempo considerata invece come la dimensione in cui l’ente incomincia ad apparire e cessa di apparire. Ciò che deve essere chiaro, scrive Messinese, è che «per il Severino de La struttura originaria [il “primo Severino”] l’affermazione 8 9

Ibi, p. 46. Ibidem.

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dell’identità dell’essenza con l’esistenza non implicava l’affermazione dell’eternità di ogni singolo ente. Questo, da un lato, perché egli riteneva che la verità dell’essere affermata dal logo [la tesi dell’immutabilità dell’essere] dovesse essere messa in relazione con la verità del divenire attestato dalla fenomenologia; e, dall’altro lato, perché la stessa verità del logo circa gli enti approdava ad affermazioni ulteriori rispetto a quella incontrata finora della “immutabilità” simpliciter considerata, fino a porre l’esistenza dell’essere F-immediato [ossia dell’essere fenomenologicamente immediato…] nella “decisione” dell’immutabile»10. Il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità con sé dell’essenza, ossia la sua differenza dalle altre essenze, ma l’identità o “non alterità” dell’essenza con l’esistenza – questa è, in effetti, la cifra del pensiero di Severino – e tuttavia, osserva Messinese, per il “primo” Severino tutto questo «non escludeva affatto la tesi della “creazione” degli enti»11.   2. Ne La struttura originaria si dice che, in relazione alla permanenza assoluta dell’orizzonte dell’intero immutabile, il divenire dell’ente – come “nascita” e “annullamento” di cui va affermato l’essere “pienamente reale” nell’ambito della totalità dell’immediato fenomenologico – si rivela come un “apparire” e uno “scomparire” dell’essere. Si tratta quindi di chiarire in che senso si dice che l’intero immutabile è l’intero dell’essere tenendo fermo che l’ambito della realtà diveniente è una positività che è “altra” dall’intero immutabile. La soluzione prospettata ne La struttura originaria si articola nei seguenti passaggi:   A) la positività dell’essere diveniente non aggiunge nulla all’intero immutabile: tutta la positività e cioè tutto l’essere contenuto nell’orizzonte del divenire “è” immutabilmente, ossia appartiene all’intero dell’essere che, in quanto si determina come orizzonte dell’immutabile, è “altro” dall’essere diveniente; B) poiché la totalità del divenire sta “oltre” l’intero immutabile come un positivo che ad esso nulla aggiunge, allora non è autocontraddittorio progettare l’iniziale nullità o l’annullamento della tota10 Ibi, p. 162. 11 Ibidem.

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lità dell’essere diveniente. Sarebbe anzi autocontraddittorio affermare il contrario perché ciò vorrebbe dire che, nella totalità dell’essere diveniente, vi è una qualche positività non contenuta nell’intero immutabile; C) segue che la totalità del divenire “è” solo in quanto “è” l’intero immutabile e che, all’opposto, l’intero immutabile “è” anche se la totalità del divenire “non è”.   Se, dunque la totalità dell’essere diveniente non appartiene necessariamente alla dimensione dell’intero, inteso come includente la totalità del divenire e l’intero immutabile, e se l’intero immutabile è ciò per cui la totalità del divenire “è”, allora l’esistenza della totalità del divenire è una “decisione” dell’Immutabile. A prescindere dall’affermazione per cui il divenire come generazione e annullamento dell’essere sarebbe un contenuto fenomenologico – sia pure da intendere, in rapporto alla strutturazione concreta dell’originario, come processo dell’apparire e dello scomparire dell’essere –, a prescindere dunque da questo aspetto, che va sottoposto alla critica del “secondo” Severino alla comprensione nichilistica del divenire, Messinese ritiene che la determinazione del rapporto tra l’Immutabile e il diveniente quale risulta dalla sequenza sopra indicata, resti valida: da “rigorizzare” in senso non nichilistico, ma sostanzialmente valida.   3. Particolarmente istruttivo, ai fini della proposta teorica avanzata da Messinese, è il confronto tra la “teologia” filosofica di Severino, quale appare nel testo de La struttura originaria, e la “teologia” di impostazione classica. Il “primo” Severino, osserva Messinese, «sebbene parlasse di una “differenza” tra il parmenidismo e l’aristotelismo, non ravvisava in questa differenza una contrapposizione irriducibile»12. Considerando il testo della prima edizione de La struttura originaria (1958), Messinese riporta il passaggio in cui Severino dice che l’aristotelismo “riguadagna” il teorema eleatico della immutabilità dell’essere attraverso l’introduzione di una struttura logica “nuova”, basandosi il procedimento aristotelico sul concetto di “limitazione dell’essere” e non invece direttamente sul principio che l’essere non è non essere. 12 Ibi, p. 170.

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Posta dunque la distinzione tra il carattere immediato (parmenideo) e quello mediato (aristotelico) dell’“affermazione teologica”, nel processo mediazionale dello Stagirita il “primo” Severino vedeva assicurato il “guadagno” dell’esistenza del mondo «ora affermato non soltanto sul piano “fenomenologico”, ma anche sul piano del “logo”»13 – guadagno facente perno sul teorema del primato dell’atto sulla potenza e quindi sulla distinzione tra atto puro e atto misto a potenza, come distinzione tra due realtà ognuna a suo modo reale. Il “secondo” Severino rileverà invece che l’argomentazione aristotelica è tutta calata nella prospettiva per la quale l’impossibilità che l’essere non sia non è avvertita immediatamente come l’assurdo impercorribile sicché l’aristotelismo, compresa la versione neoclassica di Bontadini, non “riguadagna” ma “tenta di riguadagnare” (come si dirà nella seconda edizione de La struttura originaria) il teorema eleatico della immutabilità. Il tentativo sarebbe però destinato al fallimento così come al fallimento sarebbe destinato il tentativo di dedurre il “principio di causa” basandosi sul concetto della “limitazione dell’essere”: l’argomento partirebbe dal presupposto che la limitatezza (l’annullamento) dell’ente sia un “effetto” e cioè che, laddove vi sia una limitazione, vi sia qualcosa da cui la limitazione deriva. A questo proposito Messinese osserva che il vero punto della questione non sta tanto nella denuncia della petizione di principio contenuta nell’aristotelismo, quanto piuttosto nel sopraggiungere della consapevolezza, tipica del “secondo” Severino, per cui l’esperienza non attesta alcun annullamento dell’ente. Messinese ritiene infatti che, nella prospettiva che è propria dell’aristotelismo, la dimostrazione dell’esistenza di Dio «ha lo scopo di rimuovere la contraddizione del non essere dell’essere» e il discorso di Bontadini, che guardava alla logica sottesa nella metafisica classica, «non era fondato sul principio di causa» ma sulla considerazione che «il divenire ha un causa perché altrimenti si dovrebbe rilevare un incremento/decremento dell’essere»14. Ferma restando la bontà della critica di Severino alla concezione nichilistica del divenire, rimarrebbe comunque valido l’assetto di fondo della metafisica classica: vi è un limitante (sarebbe que13 Ibi, p. 172. 14 Ibi, p. 177.

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sta l’essenza dell’argomento) «perché altrimenti si verrebbe ad affermare la contraddittoria identificazione dell’essere e del non essere»15. Nella questione sollevata da Severino si tratterebbe allora di rilevare «un altro precedente presupposto [della metafisica classica], a partire dal quale si origina l’intero movimento speculativo della teologia razionale aristotelica. Tale presupposto è che si dia, effettivamente, il non essere dell’essere»16.   2. Immutabilità simpliciter dell’essere e immutabilità secundum quid   1. Veniamo alla “parte seconda” dello scritto di Messinese (Il pensiero metafisico come illusione e nichilismo originario). Sono analizzati gli sviluppi del pensiero di Severino che introdurrebbero «vere e proprie modificazioni della posizione precedente»17 e che spiegherebbero la distinzione delle due fasi – il “primo” e il “secondo” Severino – nonché le ragioni della polemica con Bontadini. La “svolta” coincide con la denuncia della “dimenticanza del senso dell’essere” rivolta all’intera tradizione filosofica occidentale per la quale “l’essere è, ma quando è” e “il non essere non è, ma quando non è”, ciò che implica la persuasione (inconscia) che l’ente in quanto ente (e cioè un non-niente in quanto non-niente) sia niente. La metafisica greca, evocatrice di una comprensione nichilistica del divenire, ha così incubato il principio della dissoluzione di ogni immutabile che non sia la stessa affermazione del processo del divenire (affermazione esemplarmente rappresentata dall’idealismo attualistico di Giovanni Gentile), insofferente ad ogni forma assoluta ed eterna che, dall’esterno o dall’interno del processo, ne prestabilisca la direzione rendendone apparente lo sviluppo. La necessità di porre l’Immutabile mediante una dimostrazione, scrive Messinese, «costituisce la costante della metafisica greca e di quella cristiana. Per [il “secondo”] Severino, però, si tratta di una di15 Ibi, p. 179. 16 Ibi, p. 180. 17 Ibi, p. 198.

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mostrazione contraddittoria, in quanto essa è sì posta per negare l’identità del positivo e del negativo, ma sul fondamento di tale contraddittoria identità. […]. Per la metafisica classica, quindi, l’opposizione di essere e di non essere non è affermata simpliciter, immediatamente – come pur si dovrebbe fare – ma si ritiene che debba essere fondata su qualcosa d’altro. Questo “altro” è il principio dell’“ex nihilo nihil”, per la prima volta affermato da un seguace di Parmenide, Melisso, il quale non si accorgeva, nella sua formulazione del logo parmenideo, di pervenire ultimamente alla negazione di questo ultimo»18. Per questa via – che è quella “melissiana” – si afferma: a) che il divenire è contraddittorio solo se assolutizzato (perché, in tal caso, si dovrebbe riconoscere che dal nulla si genera qualcosa: il nulla sarebbe la materia dell’essere); b) che l’essere può convenire come non convenire alle determinazioni, sicché occorre pensare che queste ultime siano unite al loro essere in forza della causa produttiva ossia in forza dell’Immutabile – salvo poi rendersi conto, ed è il tratto tipico del pensiero contemporaneo, che l’Immutabile vanifica il divenire del mondo. Rispetto a questa lettura della metafisica classica, che mi sembra la più aderente alla lettera e allo spirito (melissiano) della tradizione filosofica, il principio dell’identità di essenza e di esistenza, enunciato ne La struttura originaria, differisce abissalmente. Ben presto apparirà il fallimento di ogni tentativo di mediare tale principio in quanto la forma della mediazione implica comunque la persuasione che, all’ente in quanto ente, l’essere può convenire come non convenire. In effetti è proprio la necessità di tenere ferma la tesi dell’alterità dell’essenza dall’inesistenza che porterà il “secondo” Severino a denunciare come nichilistico il progetto della posizione di un medio (il Principio di Creazione) garante dell’“essere” della determinazione.   2. Messinese si propone di «riscattare la metafisica classica dall’accusa di nichilismo, seguendo la stessa via severiniana (ma anche bontadiniana) della contraddittorietà implicata nella negazione dell’opposizione assoluta dell’essere al non essere»19. In che modo? Innanzi tutto rilevando che non è in discussione il “che” del18 Ibi, pp. 211-212. 19 Ibi, p. 213.

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la incontraddittorietà del divenire – inteso in termini di comparire e di scomparire dell’essere – quanto piuttosto il “come” di tale incontraddittorietà. Se il limite di Bontadini è la sua scorretta valutazione del referto dell’esperienza – va dunque accolta la tesi del “secondo” Severino per cui non si dà attestazione dell’annullamento dell’ente –, il limite della posizione del “secondo” Severino starebbe invece nell’incapacità di render conto del “come” sia garantita la salvezza della totalità dell’ente diveniente – salvezza che, ne La struttura originaria, trovava assicurazione nel concetto di “creazione”. La relazione tra la totalità degli enti che appaiono e l’intero dell’essere, intesa dal “secondo” Severino (a partire da Ritornare a Parmenide/Poscritto) non più come “dipendenza ontologica” della parte dal Tutto dell’essere ma come “differenza ontologica” per cui l’essere, in quanto sottoposto al processo dell’apparire e dello scomparire (e perciò astrattamente manifesto), non è l’essere in quanto concretamente avvolto dal Tutto, è ritenuta incapace di spiegare il “come” dell’incontraddittorietà del divenire. Messinese afferma che è proprio riflettendo sull’autentica fenomenologia del divenire (e cioè sulla struttura del variare attestato dall’esperienza) che si è “necessitati” «non certo a “esprimere il divenire in termini di creazione e nientificazione” delle cose – dove la “creazione” è oramai intesa da Severino come “produzione” nichilistica delle cose – ma a rendere “intelligibile” il divenire mediante la creazione intesa quale “partecipazione” dell’essere da parte di Dio creatore»20. In prospettiva aristotelico/tomista – si è qui al nucleo incandescente della teologia razionale – si fa dunque urgente riscattare speculativamente il concetto metafisico di causa. Severino rilevava, nella celebre “prova” dell’esistenza di Dio ex motu (omne quod movetur ab alio movetur), la presupposizione dell’esistenza di una “causa” del movimento. Perché, se c’è qualcosa che diviene, deve esservi (ossia è necessario che vi sia) qualcosa che produce il divenire? Non implica, tale assunzione, la qualifica degli enti divenienti come “effetto” di una “causa” che li produce? Messinese riconosce a Bontadini il merito di aver compiuto «un notevole passo in avanti nel processo di giustificazione del principio della “causalità metafisica”, anche a motivo che egli ha preso in at20 Ibi, p. 237.

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tenta considerazione la critica “humiana” al concetto di causa»21. In sostanza, si tratterebbe di capire che, «se l’ente non fosse “tratto da”, verrebbe meno la permanenza dell’essere»22. La causa (la potenza attiva, il motore) va introdotta per evitare la contraddittorietà dell’incremento dell’essere. E per quale motivo tale incremento è assurdo? Perché esso implica il non essere (ad un certo momento) dell’essere. Con ciò, dice Messinese, ci troviamo «nel fulcro dell’intero processo di “rigorizzazione” della teologia filosofica operato da Bontadini: la causalità metafisica è fondata sul Principio di Parmenide»23. In un mio studio sul pensiero di Bontadini24 avevo sostenuto che neppure per questa via che tiene ferma la contraddittorietà del non essere dell’essere – via che Bontadini ha percorso dopo aver riconosciuto che il divenire come annullamento dell’essere è in quanto tale contraddittorio – si riesce a fondare il principio di causa. Infatti, una volta affermata la contraddittorietà dell’annullamento, non si può più affermare che la limitazione dell’ente che diviene sia l’“effetto” di un atto limitante, né si può reintrodurre dialetticamente l’annientamento dicendo che esso è colmato dalla pura positività dell’atto creatore. Nella “parte terza” del suo lavoro, quella che elabora in concreto la proposta teorica della convergenza tra l’argomento ontologico parmenideo e la prospettiva cosmologica aristotelico/tomista (sugli sviluppi di questa “parte terza” mi soffermerò più avanti), Messinese prende le difese di Bontadini e risponde che, come il principio di causa, anche l’affermazione di una “limitazione” «non giace come un presupposto […] ma è anch’essa fondata sul Principio di Parmenide»25. Poi, però, lo stesso Messinese riconosce che «l’argomento dialettico di Bontadini è reso debole dalla determinazione del “non” dell’esperienza, il quale viene inteso come “non essere”»26. Per uscire davvero da quel “presupposto” resta allora da capire come sia da intendere il “non” dell’esperienza una volta che si sia esclusa la sua traduzione nei termini di “non essere”. 21 Ibi, p. 254. 22 Ibidem. 23 Ibi, pp. 253-254. 24 Cfr. G. Goggi, Dal diveniente all’Immutabile, cit. 25 L. Messinese, cit., p. 332. 26 Ibidem.

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3. Posto che l’esperienza non attesta il non essere dell’essere – per questo lato la rigorizzazione della metafisica classica procede secondo la “via severiniana” dell’opposizione assoluta dell’essere al non essere –, vi è un tuttavia un aspetto della comprensione bontadiniana del “logo” di Parmenide che Messinese ritiene invece di dover ripensare più a fondo. Il riferimento è alla tesi per cui l’immutabilità simpliciter «dell’essere è solo un momento (= un astratto) rispetto alla concretezza della verità costituita dalla Prima Veritas, il “Principio di Creazione”, nella quale l’immutabilità dell’essere non viene smentita, ma è pensata in modo più concreto»27 – ed è questo il lato per cui la rigorizzazione della metafisica classica procede secondo la “via bontadiniana” della identificazione del Principio di Parmenide col Principio di Creazione. Messinese distingue quindi tra due sensi dell’immutabilità: tra «1) “immutabilità” simpliciter dell’essere intesa come “eternità” e attribuita ad ogni ente, e 2) “immutabilità” dell’essere secundum quid, per la quale ogni ente deve essere preservato dal non essere […]. In altri termini, ciò che dovrà essere adeguatamente calibrato è il significato della “eternità” attribuibile a ciascun ente»28. La proposta teorica di Messinese ruota tutta intorno a questa distinzione dei due sensi dell’“immutabilità” dell’essere – e, perciò, dell’“eternità” attribuibile all’ente – che nella “parte terza” del suo lavoro il nostro autore discute e approfondisce. Ma intanto si fa chiaro in che senso Messinese pensi che sia possibile portarsi oltre Severino e oltre Bontadini. Affermando il principio dell’assoluta immutabilità del Tutto, senza per ciò sopprimere la realtà del divenire, che è tutta insidente nell’atto creatore, Bontadini si sarebbe portato «nei pressi del risultato al quale era pervenuto il “primo” Severino ne La struttura originaria, dove il divenire ontologico veniva “interpretato” come un apparire e uno scomparire dell’immutabile»29 e dove la realtà del divenire era assicurata nella sua “distinzione ipostatica” dall’intero immutabile inteso ancora come Dio creatore che pone il mondo liberamente o contingentemente. A questo punto della trattazione, il testo di Messinese espone la struttura concettuale e le analogie presenti nel pensiero di Severino (nelle sue “due” fasi) e di Bontadini. 27 Ibi, p. 256. 28 Ibidem. 29 Ibi, p. 265.

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Per quanto riguarda il rapporto tra esperienza e “logo”, l’analogia più vistosa sta nella considerazione per cui il “primo” Severino «aveva sì “integrato” il dato dell’esperienza diveniente con il logo che afferma l’immutabilità dell’essere, ma aveva comunque ammesso, come dato fenomenologico, il divenire in senso “ontologico” degli enti»30. In relazione all’orizzonte dell’intero immutabile, diceva Severino ne La struttura originaria, il divenire (nascita e annullamento dell’ente) va inteso come “apparizione dell’immutabile”: come un apparire e uno scomparire. La differenza maggiore rispetto a Bontadini «risiedeva essenzialmente nel non ritenere necessaria una “dimostrazione” per affermare l’esistenza di Dio, perché tale affermazione era già contenuta in una comprensione concreta del logo, era cioè ricavata sulla scorta del teorema dell’immutabilità dell’essere in quanto essere»31. Il “secondo” Severino avrebbe invece ritenuto inaccettabile il teorema della creazione (in quanto implicante la possibilità del non essere degli enti) intendendo la differenza ontologica non più nel senso della dipendenza ontologica, ma come «differenza tra la “totalità degli enti” e la “totalità di ciò che appare” della prima totalità»32. Per Messinese, la disputa tra Severino e Bontadini giunse, alla fine, «a una sorta di punto morto perché Severino, per amore della verità del logo parmenideo, non riuscì a scorgere che il rapporto strettamente unitario tra Principio di Parmenide e Principio di Parmenide ad honorem (o di Creazione), effettivamente presente in Bontadini, era pienamente giustificato, anche se malamente espresso; mentre quest’ultimo, per amore di quella che riteneva essere la verità dell’esperienza – il “non essere” conficcato nel cuore dell’esperienza –, non riuscì a scorgere che la critica severinana al divenire nichilistico era anch’essa giustificata, ma non per questo veniva meno la possibilità di un’affermazione dialettica dell’esistenza di Dio o, meglio, la dimostrazione della trascendenza dell’Assoluto»33. Vorrei qui osservare – con ciò prendendo le distanze dalla lettura di Messinese – che, accostandosi al dettato de La struttura originaria, Bontadini introduceva nel suo discorso un principio che non ap30 31 32 33

Ibi, p. 270. Ibidem. Ibi, p. 271. Ibidem.

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partiene alla logica della metafisica classica per la quale si può ben pensare, ad esempio, che un uomo «in una certa epoca non esisteva, poi è esistito e di nuovo non esisterà più, aliquando non erat, postmodum fuit et iterum non erit»34, senza che questo non susciti alcuno scandalo: nec hoc est mirum. Ciò che per il filosofo classico è rifiutato dalla ragione non è il divenire in se stesso, ma l’assolutizzazione del divenire. Certo, Bontadini dirà che lui quello “scandalo” (del divenire come tale) l’aveva provato e che aveva riposto conclusivamente la contraddizione nella assolutizzazione del divenire, in quanto quella contraddizione l’aveva scorta, preventivamente, nel divenire come tale. Ma qui i conti non tornano: chi vede, infatti, che il divenire è in quanto tale contraddittorio non prolunga (e complica) il discorso per considerare che cosa accade nel caso in cui il divenire sia pensato come assoluto. Si aggiunga, inoltre, che, una volta denunciata la contraddittorietà dell’annullamento (e cioè della identificazione dell’esistenza con la non esistenza), non si può più, in un secondo momento, reintrodurre l’annullamento come ciò che viene posto dall’atto intemporale della creazione.   4. La traduzione bontadiniana del Principio di Parmenide ad honorem nel Principio di Creazione suppone che sia in vista la “grande contraddizione” del divenire – suppone cioè che sia accolta la tesi (prima inavvertita) dell’eternità dell’ente in quanto tale –, anche se poi tale accoglimento viene stravolto dall’affermazione per cui l’identificazione dell’ente col nulla (il tema dell’annullamento) è opera della potenza del creatore. Ebbene, l’intento di Messinese è di rivalutare la metafisica classica come metafisica dell’essere ponendovi al centro proprio la dottrina della creazione intesa come ciò che «esprime la stessa concezione dell’essere presente nel Principio di Parmenide, con in più il guadagno di una concezione non contraddittoria dell’esperienza»35. Il passo innanzi di Messinese – la sua «adesione critica al pensiero di Bontadini»36 – sta nell’aver denunciato la “difettosità” dell’ar34 Tommaso, In duodecim libros metaphysicorum Aristotelis expositio, n. 745. 35 L. Messinese, cit., p. 272. 36 Ibidem.

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gomento in base al quale il Maestro della Cattolica pensava di salvare l’esperienza del divenire dell’ente: tale “difettosità” «consiste nel ritenere che, da una parte, il “non essere” dell’essere debba essere affermato; dall’altra, che tale “non essere”, visto nell’atto creatore ponente e annullante, il quale è un “puro positivo”, possa essere convertito nella pura positività»37. Ma per Messinese bisogna aderire criticamente al pensiero dello stesso Severino e ciò significa scorgere che, se è vero che l’esperienza non attesta l’incremento e il decremento dell’essere, ciò tuttavia non significa ancora «mostrare quale sia la “ragion d’essere” della “processualità” dell’apparire»38. La tesi del nostro autore è che «la “creazione” […] è introdotta speculativamente per escludere che la ragion d’essere della processualità dell’“apparire” sia vista in una processualità dell’essere, vale a dire nell’incremento e nel decremento dell’essere dell’esperienza»39. Detta altrimenti, la tesi – che adesso cercherò di discutere – è che la processualità «ha la sua ragion d’essere nell’assoluta positività dell’Essere che si partecipa in modo finito nel mondo»40.   3. Il “che” e il “come” del nesso finito-Infinito: il Principio di Creazione   1. La “parte terza” del testo in esame (Il pensiero metafisico come teoria dell’essere e “salvezza” del mondo) si impegna a giustificare l’affermazione del valore assoluto dell’essere che viene predicato dell’ente, ossia il suo “non poter non essere” – il suo prescindere dal “tempo” –, senza che ciò implichi l’affermazione dell’“eternità” dell’ente. Per Messinese la verità della metafisica classica «consiste precisamente in codesto “prescindere dal tempo”»41. In tale prospettiva, dire di ogni determinazione che “è”, «significa affermare il suo essere in modo assoluto. Tuttavia questo non vuol dire nello stesso tempo, come invece sostiene Severino, che, a motivo di tale opposi37 38 39 40 41

Ibi, pp. 272-273. Ibi, p. 273. Ibidem. Ibidem. Ibi, p. 292, nota 33.

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zione assoluta dell’essere al non essere, l’essere di ogni determinazione è “eterno”, ma semplicemente e radicalmente […] significa affermare il legame dell’ente all’essere, senza nulla più»42. Se il “logo” dice del valore assoluto della predicazione dell’essere e se il divenire attestato dall’esperienza (distinta ma non isolata dal “logo”) non presenta in alcun modo il non essere degli enti che sopraggiungono e dileguano – anche su questo punto, come sappiamo, Messinese ha accolto la lezione del “secondo” Severino –, tuttavia il processo dell’apparire per cui si dice che questo ente prima “non” appariva, e poi “non” appare più, attesta una “irriducibilità” del “non”. La comprensione del senso dell’ente che diviene, e che pertanto è unito al suo “non” apparire ancora e al suo “non” apparire più, deve fare i conti con questo “non”, fermo restando che il divenire va inteso come entrare ed uscire dell’ente dall’apparire e che la comprensione nichilistica del divenire (e quindi il “non” inteso come “non essere” di ciò che non appariva e di ciò che non appare più) «non è verità, ma una interpretazione errata di ciò che appare»43.   2. L’essere attestato dall’esperienza originaria appare “in parte” in quanto appare processualmente: incomincia ad apparire e cessa di apparire. Ma, poiché l’esser niente dell’ente è impossibile, si rileva l’impossibilità di trattare la totalità di ciò che appare come se fosse la totalità assoluta degli enti. In tal caso, infatti, ciò che sopraggiunge sarebbe niente prima di apparire e precipiterebbe nel niente una volta uscito dal contesto dell’apparire. A questo proposito il “secondo” Severino introduce il tema della “differenza ontologica” che è la differenza tra la parte in quanto appare – nell’apparire infinito del Tutto – nella sua concreta relazione alla totalità degli enti e la parte in quanto appare – nell’apparire finito del Tutto – nel processo del comparire e dello scomparire degli enti e quindi nel suo non essere concretamente avvolta dalla totalità degli enti. È qui che Messinese presenta la sua richiesta di “integrazione” del “dato” fenomenologico ed è proprio a questo punto che la soluzione del “secondo” Severino – soluzione che si arresta alla differenza ontologica senza tradurla nel senso della dipendenza ontologi42 Ibi, pp. 292-293. 43 Ibi, p. 299.

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ca (della differenza metafisica) – appare a Messinese come «una sorta di sentiero interrotto», un «passo indietro compiuto da Severino rispetto all’intera tradizione metafisica»44 e rispetto al guadagno della “vera trascendenza” cui era giunto il “primo” Severino nelle pagine de La struttura originaria. Se, infatti, per dare piena intelligibilità del divenire dell’ente anche Severino «deve introdurre il nesso finito-infinito, analogamente a quanto accade nella metafisica classica, che riferisce l’essere diveniente all’essere immutabile»45, vi è tuttavia una fondamentale differenza tra le due posizioni: mentre la metafisica classica «determina il rapporto finito-infinito e lo determina in termini di “creazione”»46, con ciò ponendo «sia il “che” della relazione (= l’apparire finito è unito all’apparire infinito) sia il “come” della relazione (= l’apparire finito è unito all’apparire infinito in quanto è “creato”)»47, Severino invece, «da quando non riconosce più il valore del concetto metafisico di creazione, pone indubbiamente il “che”, ma non il “come”, del nesso finito-infinito; a questo “che”, tuttavia, non ci si può arrestare, in quanto esso non è sufficiente a mostrare la ragion d’essere del “finito” che, insieme con l’infinito, costituisce il nesso medesimo»48. Dunque, non si tratta di «negare la valenza trascendentale del Principio di Parmenide»49, ma di pensarlo più “concretamente” nella sua relazione al Principio di Creazione come posizione della totalità dell’esperienza, nella direzione (già segnata da Bontadini, ma oltre lo stesso Bontadini nel senso che s’è detto) di quella «convergenza di una “metafisica dell’esperienza” di ascendenza aristotelica con la “metafisica dell’essere” di derivazione parmenidea»50.   3. In sede di riflessione critica si può osservare che la tesi dell’eternità dell’ente in quanto ente afferma sì l’eternità di tutto ciò che è, ma nel modo in cui esso è. La processualità (il variare di cui si fa esperienza) è la vicenda di quell’eterno che è l’accadimento dell’ente: se l’ente che accade (se 44 45 46 47 48 49 50

Ibi, p. 301. Ibi, p. 311. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ibi, p. 312. Ibidem.

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la vicenda dell’accadimento) non incominciasse ad apparire, l’accadimento dell’ente sarebbe niente. Il “secondo” Severino potrebbe dunque replicare così: la “ragion d’essere” del variare di ciò che appare è lo stesso “destino della necessità” dell’ente. Severino potrebbe anche aggiungere che è proprio il destino dell’ente ad implicare che il sopraggiungere degli enti nell’apparire non si arresti mai dinanzi ad alcuna delle configurazioni via via sopraggiungenti – la “gloria” di cui egli parla negli scritti più recenti è appunto, innanzi tutto, la necessità che ogni determinazione sopraggiungente nel cerchio dell’apparire del destino sia, a sua volta, oltrepassata. Inoltre, è vero che se non ci fosse nient’altro “oltre” l’essere diveniente di cui facciamo esperienza, se cioè l’unità dell’esperienza venisse a coincidere con l’Atto puro gentiliano, «l’essere sarebbe segnato dalla identificazione [contraddittoria] di essere e non essere […]»51 ed è vero che la contraddizione è tolta «affermando che l’essere dell’Esperienza non è tutto l’essere, ma è contenuto nell’essere»52, ma da ciò non segue che “tutto l’essere” debba essere ulteriormente determinato in rapporto agli enti che divengono – e cioè in rapporto a quella “parte” dell’essere che non appare nella sua concreta relazione al Tutto – secondo il rapporto di “creazione”. Si aggiunga che l’essere “contenuto” nel Tutto, che si dice di quella “parte” del Tutto che è l’essere dell’esperienza, non è una proprietà accidentale della “parte”, nel senso che la “parte” è ciò che essa è solo nel Tutto dell’essere che la avvolge. Se dunque il Tutto non può cessare di avvolgere la parte (giacché la totalità concreta dell’ente è inclusiva di ogni “non niente”), e se la parte è ciò che essa è solo nella sua concreta relazione al Tutto, da ciò segue che la parte ha nel Tutto la sua verità (ossia che il Tutto è la verità della parte). Da ciò segue anche che la parte, in quanto appare nella sua concreta relazione al Tutto, è altro da sé in quanto non appare in tale concreta relazione: in quanto così non apparente, essa si dà in una sorta di “mancamento”. Il che tuttavia non significa, né può significare, che la parte “è” (esiste) come ciò che sarebbe potuto “non essere”. In effetti, il “non essere” della parte è ciò che lo stesso Messinese intende negare: «Solo se si considera “astrattamente”, cioè separata51 Ibi, p. 314. 52 Ibidem.

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mente, la totalità dell’ente dell’esperienza dal Tutto dell’essere, si può giungere a ritenere che la “libertà” della creazione neghi la verità del logo, in quanto implicherebbe la possibilità che l’essere non sia. La “libertà” della quale si parla non determina “nichilisticamente” l’essere dell’esperienza, ma ci dice piuttosto qualcosa sia dell’“essenza” dell’Assoluto, di Dio creatore, sia dell’“essenza” dell’essere che è-nella-relazione con l’Assoluto»53. Messinese afferma che «non è necessario che la totalità dell’esperienza sia»54 e che dunque essa propriamente “non è”, ma poi aggiunge che l’espressione “non è” «si identifica con: “non è come assoluto”, o “non è come ens a se”. Non è corretto obiettare, quindi, che, pensando l’ente come “creato”, si suppone che esso “sarebbe potuto non essere” – intendendo dire che qui sarebbe all’opera una concezione nichilistica dell’essere. In tale obiezione non si ha presente in modo adeguato la relazione concreta – la relazione di “creazione” – che costituisce l’essere dell’ente»55. Qui però bisogna che ci soffermiamo un po’ sul senso di questo “non essere come assoluto” da parte dell’ente finito.   4. Il senso del per aliud nella posizione dell’identità   1. Siamo al cuore della proposta teorica contenuta nel testo in esame e cioè la distinzione tra i due sensi dell’immutabilità (e dell’eternità) dell’ente. Messinese afferma che «l’ente, in quanto è una determinazione dell’essere, cioè un qualcosa-che-non-può-non-essere, reclama, di per sé, l’originaria posizione della inseparabilità di essenza ed esistenza»56. È la tesi severiniana della non alterità dell’essenza dall’esistenza e cioè della implicazione immediata dell’esistenza da parte della totalità delle essenze. Egli si trova così d’accordo con Severino nell’intendere la distinzione tra essenza ed esistenza in termini di non separazione o non separabilità della determinazione dal suo “è”. L’inseparabilità dice appunto della impossibilità della separazione. 53 54 55 56

Ibi, p. 319. Ibi, p. 321. Ibidem. Ibi, p. 368.

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Subito dopo, però, lo stesso Messinese si affretta a precisare che «la non accidentalità [e pertanto la necessità] del rapporto […] non implica, di per sé, l’eternità di ogni ente»57. Ma così l’inseparabilità di essenza e di esistenza non conviene più “di per sé” alla totalità concreta dell’ente, ossia alla totalità intesa come ciò che include in sé tutto ciò che è un non niente, ma solo alla totalità intesa come ciò che è distinto (e che, in quanto così distinto, è “altro”) da quella sua parte che è l’ente che appare nell’apparire finito del Tutto. La soluzione ritenuta valida da Messinese «consiste nel porre l’inseparabilità di essenza e di esistenza – che significa la loro “relazione concreta” – per aliud, cioè in virtù della creazione»58. Egli afferma che questa è la posizione del “primo” Severino ne La struttura originaria dove «era già presente la tesi dell’identità di essenza e di esistenza, ma dove non veniva ad essere negata la loro “distinzione reale”»59. C’è però da dire che, nella posizione del “primo” Severino, era ancora operante la persuasione che l’uscire e il ritornare nel niente degli enti fosse qualcosa che appare – ed è chiaro che ciò che si configura nei termini di un incremento/decremento dell’ente non può essere pensato come “parte” della totalità dell’intero immutabile. Di qui la necessità di concepire l’alterità tra quel positivo che è l’intero immutabile, posto come la totalità del positivo, e quell’“altro” positivo – la totalità degli enti che appaiono – che, non aggiungendo nulla all’intero immutabile, viene pensato come una “decisione” dell’Immutabile. Quando però ci si avvede che la tesi della identità di essenza e di esistenza si struttura originariamente con l’affermazione della necessità che ciò che appare non sia l’uscire e il ritornare nel niente da parte dell’ente che appare – siamo alla posizione del “secondo” Severino –, allora la distinzione tra quei due positivi, intesa come distinzione tra ciò che è “per sé” immutabile e ciò che lo è solo “in forza di altro”, non ha più ragione d’essere, anzi appare essa stessa come viziata dal nichilismo della persuasione che l’ente sia niente. Della impossibilità che l’esperienza attesti l’annullamento dell’ente, Messinese è ben consapevole: sa bene che il divenire è il

57 Ibidem. 58 Ibidem. 59 Ibidem.

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processo dell’apparire e dello scomparire dell’eterno e che l’apparire del processo non è qualcosa che incomincia o cessa di apparire. Tuttavia egli continua a ritenere che il rapporto tra l’Intero immutabile e la totalità degli enti che appaiono debba essere inteso in termini creazionistici affinché sia determinata la “ragion d’essere” dell’entrare e dell’uscire dall’apparire. Si tratta, egli dice, di considerare «il significato non nichilistico della “creazione”» cosicché «l’atto creatore non è più visto come la negazione dell’identità dell’essenza con l’esistenza, ma come affermazione concreta di quell’identità, nel senso che non soltanto l’identità di essenza ed esistenza è affermata, ma si dice pure che essa è “per aliud” – cioè in virtù della creazione – e non “per sé”»60. Da parte mia osservo che l’introduzione di quel “per aliud” va a compromettere irrimediabilmente la tesi dell’identità di essenza e di esistenza: quel “per aliud” significa infatti che vi è una parte della totalità del non niente (e cioè la totalità degli enti che appaiono) che è solo per la sua relazione alla totalità del non niente pensata come ciò rispetto a cui quella relazione (la posizione degli enti che appaiono, la relazione esistente tra il Tutto e una sua parte) nulla aggiunge all’essenza del Tutto immutabile – e che dunque, proprio in quanto nulla aggiungente, quel “per aliud” impone che sia pensata come ciò che potrebbe non essere.   2. Si consideri che l’identità con sé di una qualsiasi determinazione finita – sia A tale determinazione – vale come identità logicamente immediata se è pensata nella sua relazione all’universale concreto dell’identità che è inclusivo della totalità delle connessioni logicamente immediate. Se l’essere sé di A viene assunto come distinto dall’universale concreto dell’essere (essendo A una determinazione dell’universale concreto), la stessa proposizione “A è A” si presenta come proposizione logicamente mediata – dove il medio è l’universale concreto dell’identità, il concreto di cui A è un momento. Va cioè tenuto fermo quanto dice Severino nel par. 18 del cap. vii de La struttura originaria (uno dei luoghi fondamentali de La struttura originaria che lo stesso Messinese discute nella”parte prima” del suo lavoro): l’identità logicamente immediata è solo l’identità con sé dell’universale concreto, mentre l’identità con sé di questo o 60 Ibidem.

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di quel significato – assunto come campo semantico “distinto” dall’universale concreto dell’identità – viene affermata “per aliud” e cioè è mediata dal rilievo che questo o quel significato è una determinazione dell’universale concreto al quale appartiene “per sé” di essere se medesimo. In tal senso si dice – ed è necessario dire – che l’identità con sé delle determinazioni finite, in quanto identità logicamente immediata, implica l’universale concreto dell’identità (che include in sé la totalità di ciò che è identico a sé) sicché, propriamente, il significato concreto delle determinazioni finite è il medesimo: la posizione dell’intero semantico. Dire che l’identità con sé di questo o di quel significato – inteso come distinto dal suo valere come una determinazione dell’universale concreto identico – è “per aliud” significa dunque che l’identità con sé dell’essente non è il “proprium” di questo o di quell’essente (ad esempio di A o di B) sicché, considerando un altro essente (ad esempio C), non si possa dire anche di esso che è identico a sé. L’identità originaria è l’identità della totalità del positivo e quindi l’identità della totalità degli enti presi nella loro cooriginarietà. L’affermazione per cui ogni ente si oppone assolutamente al niente – e sia questa la notazione decisiva – appartiene alla struttura originaria del “logo” in quanto l’ente che si prende in considerazione non sia isolato dal suo essere un non niente – non isolamento che significa l’originarietà della sintesi dell’essenza e dell’esistenza giacché l’essere un non niente è ciò che conviene all’ente-che-è-un-nonniente – e non sia isolato dalla totalità concreta dell’ente cui compete “per sé” di opporsi assolutamente al nulla. L’identità con sé di questo o di quell’essente – inteso come distinto dall’universale concreto dell’identità – è dunque “per aliud” nel senso che è fondata sull’opposizione universale del positivo e del negativo che è l’originarietà di tutte le determinazioni in quanto siano intese nella loro reciproca relazione61.   3. Non si confonda il senso del “per aliud” qui sopra richiamato – rinviante alla comprensione dell’esser sé della parte come “distinta” dalla totalità e della totalità come “distinta” dalla parte – con il senso del “per aliud” quale appare nello scritto di Messinese, che si ri61 Su questo tema cfr. supra, Parte prima, cap. II.

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ferisce invece al tema della “partecipazione” dell’essere e cioè al concetto di “creazione”, concetto che suppone la tesi tomista dell’inesistenza di “relazioni reali” tra il creatore e la creatura62. La “relazione” è infatti, come s’è visto, “necessaria” da parte delle creatura ma è “non necessaria” da parte del creatore. In questo modo però (e nonostante il tentativo di Messinese di tenere lontano lo sguardo da tale esito inevitabile) accade che la creatura sia trattata come ciò che “per sé” è nulla. Il “per aliud”, cui si riferisce la tesi severiniana dell’esistenza di una sola proposizione logicamente immediata, significa invece che l’esser sé dell’essente (il suo essere non niente) va concretamente pensato come l’esser sé dell’universale concreto includente in sé le parti che non sono un niente – sicché le identità di A o di B assunte come significati “distinti” l’uno dall’altro, o l’identità della stessa totalità dell’ente intesa come “distinta” dalle sue parti, appaiono come identità logicamente mediate dall’identità dell’universale concreto. Nello sguardo della struttura originaria, ad essere un non niente sono sia le parti sia la totalità in quanto distinta dalle parti. Il Tutto concreto dell’ente è infatti la relazione di ogni parte ad ogni altra parte, di ogni parte al Tutto e del Tutto ad ogni parte – e dunque anche la relazione del Tutto ad una sua parte è un non niente (un eterno) e cioè non è il Tutto concreto dell’ente, altrimenti la relazione del Tutto ad un’altra parte sarebbe un niente. Si potrebbe osservare che questo tema è centrale già nel “primo” Severino (il luogo della fondazione è il sopraccitato capitolo de La struttura originaria) dove però la relazione tra il Tutto e la parte si lascia interpretare nel modo in cui viene sostanzialmente intesa da Messinese quando, sulla linea tracciata da Bontadini (ma con le precisazioni che si sono fatte a questo proposito), egli afferma che l’immutabilità «appartiene all’Essere assoluto, absolute» mentre «appartiene all’essere partecipato solo in quanto questo è visto coincidere con l’atto creatore, quindi non indipendentemente dal riferimento al Dio creatore»63. In effetti, la relazione biunivoca della parte e del Tutto (che viene negata da Tommaso, da Bontadini e da Messinese) si fa impensabile nel contesto di una interpretazione nichilistica del divenire – dove 62 Cfr. Tommaso, S. contra Gent, ii, 12. 63 L. Messinese, cit., p. 320.

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il divenire è inteso come annullamento dell’ente –, ma si fa pensabile secondo necessità laddove ci si avvede (come pure Messinese si avvede) che il divenire non implica alcun annullamento ma è solo il processo per cui l’ente, che è eterno e già da sempre salvo nell’abbraccio dell’apparire infinito del Tutto, compare e scompare nel cerchio finito dell’indiveniente apparire trascendentale.   5. Sulla dottrina della creazione   Per chiudere, un cenno ad alcune questioni di metafisica, contenute nell’ultimo capitolo del testo in esame, legate alla dottrina della creazione. Al tema della partecipazione dell’essere – intesa come pura dipendenza ontologica che prescinde dal riferimento al divenire e al tempo – si riferisce la distinzione di essenza e di esistenza negli enti finiti che Messinese discute confrontandosi con autori quali C. Fabro, C. Vigna, V. Melchiorre (solo per citarne alcuni) e che si impegna ad introdurre al di là di ogni sua presupposta affermazione. Si pone qui il problema di come intendere tale “reale” distinzione a fronte della tesi severiniana dell’alterità dell’essenza dall’inesistenza. Messinese – che sostiene con forza questa tesi – ritiene di poter superare la difficoltà affermando che l’originarietà della relazione non va compresa astrattamente: non va cioè separata dall’atto creatore «nel quale è l’esse di ogni ente»64. In tal senso la dottrina di Tommaso, per cui l’essere “fa composizione” con l’essenza, va intesa come espressione della «dipendenza metafisica della “sintesi originaria” di essenza ed esistenza dall’atto creatore e costituisce la fondazione ontologica della “finitezza” degli enti»65. La “deduzione” del rapporto di creazione, ossia di dipendenza totale della creatura dal Creatore quanto all’essere, introduce anche al tema della “analogia entis” che il nostro autore pensa in riferimento ad una certa ed ineliminabile (perché originaria) univocità dell’essere: «Altro, infatti, è la “semantizzazione” in chiave univoca [“parmenidea”, per opposizione al nulla] dell’essere in quanto essere, altro è la struttura metafisica dell’ente (essere-essenza) che da quella semantizzazione non è affatto negata perché, anzi, consente di ripor64 Ibi, p. 371. 65 Ibi, p. 372.

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tare la “analogia proportionalitatis” [= uguaglianza di rapporti: a:b=c:d=e:f…] alla “analogia attributionis” (= relazione di molti all’Uno), coniugando in modo più persuasivo identità e differenza»66. Per Messinese la dottrina della “creazione” è il “medio” che rende compossibile «a) l’opposizione dell’essere al non essere e b) la differenza metafisica tra la totalità dell’esperienza e il Tutto dell’essere»67; tiene ferma la “consistenza ontologica” del mondo [che la visione severiniana dell’eternità di ogni ente avrebbe compromesso «ponendo in primo piano la Totalità dell’essere»68 come relazione biunivoca del Tutto e della parte] e il suo assoluto “far riferimento ad altro”, la creazione tomisticamente intesa come “relatio quaedam”69. Su queste basi il nostro autore ritiene che sia possibile recuperare il concetto “metafisico” di “contingenza”: se, infatti, il “logo” che afferma l’identità dell’essenza e dell’esistenza (come “actus essendi”) non implica in senso assoluto l’affermazione dell’eternità dell’ente, e se «la concreta affermazione dell’“immutabilità” dell’essere non esclude, ma anzi implica l’affermazione del Dio creatore – e in tale affermazione l’eternità dell’ente non è negata simpliciter, ma è affermata secundum quid, che non è il senso severiniano – allora anche della negazione della “contingenza” dell’ente si deve dire che essa non può essere sostenuta in nome della verità dell’essere»70.   L’originalità del contributo teorico di Messinese – che è anche il vertice speculativo della sua proposta – sta nel tentativo di pensare l’inseparabilità di essenza e di esistenza senza che ciò comporti l’affermazione dell’eternità “per sé” degli enti. In fondo, tutto sta nel capire se la “distinzione” tra necessità (immutabilità) “absolute” dell’essere e necessità (immutabilità) “secundum quid” possa venir pensata senza contraddizione, e cioè senza che questo equivalga ad una contraddittoria negazione del senso della necessità. Su questa “distinzione” si incardina il lavoro di Messinese che porta ad esecuzione il programma bontadiniano di rigorizzazione 66 Ibi, pp. 332-333. 67 Ibi, p. 350. 68 Ibi, p. 346. 69 Cfr. Tommaso, S. Th., i, 45, 3, resp. 70 L. Messinese, cit., pp. 360-361.

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della teologia razionale – programma che riconosce la validità della metafisica classica a condizione che se ne recuperi la radice/premessa eleatica. La tesi sostenuta è appunto, come s’è visto, che «il “Principio di Parmenide” è anche il Principio della metafisica classica, e che esso si determina concretamente come il “Principio di Creazione”»71. Si tratta dunque di tornare a riflettere, ad altissima quota come ci propone di fare Messinese, sul senso dell’essere. E allora non si può che accogliere il suo invito a soffermarsi nella considerazione di quella “porta” che separa la verità dalla follia: «Per discutere efficacemente sulla determinazione della “verità originaria” dell’essere, e cogliere l’apparire del mondo, è necessario ritornare “al bivio di Parmenide”»72.     B. La fede, la ragione, l’Infinito. Colloquio filosofico con Leonardo Messinese   La proposta teorica di Messinese viene ripresa e ulteriormente approfondita ne Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, dove si ribadisce quanto sia decisivo sostare sul piano metafisico indicato da Severino «innanzitutto in quel punto dal quale egli intende “dominare” l’intero corso della storia della filosofia e della civiltà occidentale […]. Quel “punto” è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno, della quale parla il poema di Parmenide, ovvero è la semplice verità della immutabilità dell’essere che si oppone alla folle persuasione del suo divenire. Quella porta può essere chiamata il “bivio” di Parmenide»73. L’approfondimento si riferisce al tentativo di sviluppare un senso non nichilistico della dimensione dell’agire all’interno di una concezione non nichilistica della “contingenza” degli enti. Con tale espressione – concezione non nichilistica della “contingenza” degli enti – Messinese intende significare che l’immutabilità/eternità degli enti va riconosciuta, ma affermata come ciò che ad essi compete in virtù del rapporto di creazione. Nelle pagine che seguono discuterò questa tesi 71 Ibi, p. 388. 72 Ibi, p. 392. 73 L. Messinese, Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, Edizioni ETS, Pisa 2010, p. 19.

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che sta alla base del modo in cui il nostro autore intende rileggere l’intera problematica della prassi (con particolare attenzione al tema della salvezza) senza incorrere nell’accusa di nichilismo, ossia nella follia dell’identificazione dell’ente col ni-ente. Tutto questo si inserisce nel contesto di una “rigorizzazione della metafisica classica” e si avvale dei fondamentali contributi speculativi riconosciuti alla teoresi di Severino e del grande maestro della cattolica, Gustavo Bontadini. Il senso di tale “rigorizzazione” è stato determinatamente discusso da Messinese ne L’apparire del mondo, testo che ho presentato nella precedente sezione di questo capitolo e che sta costantemente sullo sfondo delle pagine de Il paradiso della verità. Poiché il senso della proposta teorica e del summenzionato approfondimento presuppone che sia ben definito il quadro della “rigorizzazione”, è proprio questo quadro che ora vado ad esporre nuovamente richiamandone e precisandone i tratti fondamentali.   1. Le “due fasi” del pensiero di Severino   Messinese sostiene che si tratta di procedere con Severino e con Bontadini, ma oltre Severino e oltre Bontadini. Del pensiero di Severino andrebbero tenute distinte due fasi, entrambe contenenti un contributo fondamentale in ordine al programma della “rigorizzazione”.   1. Vertice speculativo della prima fase è il rilievo secondo cui il sapere metafisico – l’affermazione che la totalità del positivo è oltrepassante il piano fenomenologico – non è un’ulteriorità da conseguire, ma appartiene alla struttura stessa dell’immediato e cioè all’essenza del fondamento: «Una tale assunzione del rapporto tra fondamento e metafisica», scrive Messinese, «costituisce il contributo più rilevante di Severino per una rigorizzazione della metafisica classica»74. Resta con ciò inteso che «Dio è primo non soltanto “per se stesso”, ma anche per il nostro conoscere, per il nostro sapere»75. In effetti, posto che l’affermazione “l’intero dell’essere è immutabile” o “l’intero dell’essere non si annulla” è una L-immediatezza – è cioè una immediatezza logica ossia un modo della formulazione 74 Ibi, p. 138. 75 Ibi, p. 139.

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del principio di non contraddizione –, allora l’intero dell’essere, come assoluta immutabilità, non può essere la dimensione aperta dall’orizzonte del divenire: non può essere la totalità dell’essere Fimmediato, ossia il positivo costituito dall’essere fenomenologicamente presente76. In questa prima fase del suo pensiero, Severino riteneva che l’esperienza fosse l’attestazione dell’uscire degli enti dal nulla e del loro rientrare nel nulla. Veniva perciò a configurarsi una situazione di questo tipo: da una parte egli teneva ferma l’eternità di ogni essente, dall’altra considerava il divenire che appare – pensato come effettivamente attestante il processo della nascita e dell’annullamento dell’essere – in relazione all’intero immutabile dell’essere ed affermava che, così concretamente considerato, il divenire è il comparire e lo scomparire dell’immutabile. La tesi dell’impossibilità che l’ente non sia spingeva ad interpretare l’accadimento dell’ente in tal senso: generazione e corruzione sono l’essere F-immediatamente noto, dunque non sono irreali, tuttavia absolute o simpliciter non si dà nascita né annullamento dell’essere. Scrive a tal proposito Messinese: «Il “non essere”, pur ritenuto manifesto nell’esperienza, non poteva costituire una”ferita” inferta all’essere; questo perché, in forza della necessità logica, quel non essere doveva essere interpretato come apparire e scomparire dell’essere»77. Il rapporto tra l’intero immutabile e la totalità della realtà diveniente veniva quindi così espresso: 1) l’intero immutabile è altro dalla totalità della realtà diveniente; 2) la totalità della realtà diveniente non contiene alcuna positività che non sia già contenuta nell’intero immutabile; 3) in quanto non aggiunge nulla all’intero immutabile, che dunque va pensato come la totalità del positivo, la totalità della realtà diveniente si presenta come ciò di cui non è autocontraddittorio progettare l’iniziale nullità o l’annullamento, anzi, come ciò di cui è contraddittorio affermare la necessità dell’appartenenza all’intero immutabile – in tal caso, infatti, si verrebbe a pensare che la totalità della realtà diveniente possiede una qualche positività non già contenuta nell’intero immutabile. Severino esprimeva tutto questo dicendo che il diveniente è nel cerchio dell’immutabile come ciò che, al di fuori di quel cerchio, sa76 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. XIII. 77 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 192.

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rebbe potuto non essere e potrebbe non essere sicché, se la totalità della realtà diveniente non appartiene necessariamente all’intero immutabile – e se l’intero immutabile è ciò per cui la totalità della realtà diveniente esiste –, allora quest’ultima “è” in forza di una libera “decisione” dell’intero immutabile78. In tal modo, osserva Messinese, la posizione della trascendenza teologica «viene ad essere esplicitata rilevando che l’intero, come immutabilità, non è l’essere dell’esperienza poiché quest’ultima è diveniente […]. In virtù di questa distinzione, quindi, si ha che “l’intero immutabile è altro” o “sta oltre” la totalità dell’essere fenomenologicamente immediato»79. Per Messinese, ciò che va tenuto fermo in vista della “rigorizzazione” della metafisica classica è appunto questa valenza teologica dell’Intero immutabile: la sua alterità e la non necessità della sua relazione alla totalità dell’essere che diviene. Insieme alla già considerata tesi dell’appartenenza dell’affermazione dell’intero immutabile alla struttura stessa del sapere immediato e cioè all’essenza del fondamento – la cui concreta affermazione è appunto la posizione dell’immutabilità dell’intero dell’essere –, la vena d’oro contenuta nel contributo speculativo del “primo” Severino starebbe nella messa a punto della relazione tra l’immutabile e il diveniente – la differenza ontologica – in termini di dipendenza ontologica.   2. Della “seconda fase” del pensiero di Severino va invece tenuto fermo il rilievo essenziale, condiviso da Messinese, che l’uscire e il ritornare nel niente, da parte degli enti, non è affatto un contenuto che appare. Non si tratta di sovrapporre all’affermazione del divenire ontologico (l’uscire dal niente e il ritornarvi) un senso (il divenire come comparire e scomparire dell’eterno) che va ad integrare ciò che, relativamente al contenuto che si manifesta, appare come nascita e morte dell’ente, ma di riconoscere che l’affermazione dell’immutabilità dell’ente si struttura originariamente come l’impossibilità che l’annullamento appaia – e infatti l’annullamento non appare e l’apparire si configura originariamente come comparire e scomparire dell’eterno. Che l’ente sia eterno, e che l’apparire sia il luogo della manifestazione processuale dell’eterno, è dunque ciò su cui Messinese conviene. Ma si tratta di capire bene che cosa si debba intende78 Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., cap. xiii. 79 L. Messinese, Il paradiso della verità, p. 148.

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re con l’affermazione che ogni ente è eterno: è la «questione fondamentale»80. Il “secondo” Severino esplicita il senso della necessaria inclusione dell’essere (della positività, dell’esistenza) nelle determinazioni (essenze) di cui si predica l’essere – necessaria inclusione già posta al centro de La struttura originaria – mostrando che ogni forma di contingenza appartiene all’essenza del nichilismo81 ed è quindi un modo della negazione della verità dell’essere. Su queste basi, la dottrina della creazione non può trovare più alcuno spazio: alla luce della verità dell’essere, la “decisione” dell’immutabile in ordine all’essere o al non essere del diveniente appare infatti come un residuato della comprensione nichilistica dell’ente. Per Messinese l’esito “anticreazionistico” del pensiero che mette a tema l’eternità dell’ente va invece discusso. Indicando in modo sintetico la sua tesi e il senso del dialogo che da anni va conducendo con Severino, egli avverte che, a suo avviso, «il passaggio dalla prima alla seconda fase del pensiero severiniano non è “teoreticamente” inevitabile»82.   3. Il contributo di Bontadini alla “rigorizzazione” della metafisica classica si colloca a questo punto. Il filosofo della Cattolica riteneva di dover integrare il Principio di Parmenide (l’impossibilità che l’ente non sia) col Principio di Creazione. Il fatto è che, per Bontadini, l’esperienza del divenire mostra un qualche annullamento dell’essere (per lo meno di quell’ente che è l’apparire dell’ente) e il Principio di Parmenide «è ciò che permette di cogliere la contraddizione che appare nell’ordine dell’esperienza in rapporto alle esigenze della ragione, ma non ciò che consente pure di togliere la predetta contraddizione»83. Di qui la dialettizzazione dei due cespiti della struttura originaria del sapere – l’esperienza che attesta il divenire dell’ente e il Principio di Parmenide che afferma l’immutabilità dell’ente – compresi come momenti astratti della verità che risiede nel Principio di Creazione. Per salvare i fenomeni «non era necessario negare il “non essere” dell’esperienza, poiché codesto non

80 Ibi, p. 113. 81 Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., capp. iii-v. 82 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 77. 83 Ibi, p. 190.

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essere sarebbe una “ferita inferta all’essere” soltanto allorquando l’esperienza non fosse messa in relazione con l’atto creatore»84. Mostrare in che senso la tesi di Bontadini «possa e debba essere accolta»85 significa però, per Messinese, andare oltre Bontadini perché ormai Messinese condivide, con Severino, non solo la tesi dell’eternità dell’ente (alla quale eternità però, come già accennato e come vedremo nei prossimi paragrafi, verrà assegnato un significato diverso da quello che viene indicato negli scritti di Severino), ma anche la tesi che in alcun modo l’esperienza attesta il non essere dell’essere. Egli tuttavia ritiene (anche questo vedremo nei prossimi paragrafi) che, per rendere intelligibile l’esperienza del variare, sia ineludibile il rinvio al Principio di Creazione inteso nella sua essenziale unità col Principio di Parmenide. Il procedere di Bontadini mette in risalto la distinzione tra i due principi, mentre ciò che egli avrebbe dovuto rilevare – incalza Messinese nell’esporre la sua tesi di fondo – è che «il suo [di Bontadini] “Principio di Creazione”, in ultima analisi, è lo stesso “Principio di Parmenide” assunto nella sua compiuta concretezza»86. E ciò perché «la differenza del “Principio di Creazione” rispetto al “Principio di Parmenide” storico non sta nel venir meno della trascendentalità della “opposizione” di essere e non essere e della “permanenza” dell’essere, come se questa valesse soltanto per Dio e non anche per gli enti; la differenza sta piuttosto nel riaffermare quella medesima opposizione e quella medesima permanenza, ma in modo che sia “salvata” anche l’esperienza»87. Ma c’è da dire che questo vertice speculativo sarebbe stato intravisto dallo stesso Bontadini quando affermava che, nella luce dell’atto creatore (che è immobile), resta affermata l’immobilità (ossia l’indivenienza) di tutta la realtà, senza che per ciò sia soppressa l’esperienza del divenire88. 4. In tale contesto si inserisce il tentativo di Messinese di andare al recupero di un ulteriore aspetto della cosiddetta “prima fase” del pensiero di Severino. 84 Ibi, p. 192. 85 Ibi, p. 191. 86 Ibi, p. 193. 87 Ibidem. 88 Cfr. G. Bontadini, Per una teoria del fondamento, in Id., Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1996

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Negli Studi di filosofia della prassi il filosofo mostrava che la struttura originaria – la quale è incontrovertibile, ma finita – è costretta a fare i conti col “problema” ossia con ciò che, pur non apparendo come negazione della struttura originaria, è qualcosa la cui negazione non implica la negazione della struttura originaria. In quegli Studi Severino ammetteva la possibilità che ciò che si presenta come “problema” venga ad apparire, in un secondo momento, come verità. Su questa base Messinese afferma che «la volontà deve essere intesa innanzitutto come un originario “protendersi” della coscienza, in quanto finita, rispetto alla verità stabile della quale questa si appaga in quanto “ragione”, un protendersi che costituisce la coscienza secondo una maggiore concretezza. A motivo della sua finitezza, cioè del suo non eguagliare l’essere, la coscienza non si arresta all’ordine del “significato” in quanto puro apparire di alcunché – cioè della evidenza fenomenologica e logica – e tende perciò a realizzare un rapporto più concreto con l’essere nella prospettiva “ideale” […] di conseguire realmente l’Assoluto. La coscienza, quindi, è questa circuminsessione di ragione e di volontà»89. Fermo restando che tra l’incontrovertibile e il controvertibile non corre alcun medio, sicché ciò che non appartiene all’orizzonte dell’incontrovertibile, ossia ciò di cui non appare l’impossibilità della negazione, è, per essenza, controvertibile, Messinese ritiene che sia possibile fondare una «antropologia rigorosamente filosofica, cioè una antropologia che, nel determinare l’essenza dell’uomo, sia capace di giustificare l’uomo non soltanto quale manifestazione fenomenologico-logica dell’essere […], ma anche come “animal symbolicum”»90 ossia come un protendersi interpretativo verso l’orizzonte assoluto dell’essere. Messinese spiega che «il porsi dell’“interpretazione”, quando sia liberata dal contesto nichilistico, ha la sua giustificazione nell’attuale determinarsi astratto della relazione tra il significato finito e il significato infinito»91. Muovendosi in tale direzione si profila, per il nostro autore, la possibilità di un riscatto veritativo dell’interpretazione e dei contenuti che appaiono all’interno di essa.   89 L. Messinese, Il paradiso della verità, pp. 62-63. 90 Ibi, p. 64. 91 Ibi, p. 65.

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5. In quanto espressione della volontà che tiene fermo qualcosa di cui non appare l’impossibilità della negazione, l’interpretazione è però “fede”: è essenzialmente negabile, senza contraddizione. A questo punto, vorrei per un momento sospendere l’esposizione della proposta di Messinese e incominciare a muovere qualche rilievo critico. Si è infatti tentati di chiedere: «Che cos’è essenzialmente negabile se non la “non verità” e cioè l’errore?». Sia “S è P” una connessione che, per la struttura originaria, appare come “possibile” ossia come ciò che non si presenta attualmente né come negazione della struttura originaria né come ciò che è negato da essa. Immaginiamo che “S è P” sia tenuto fermo come “vero” dalla volontà interpretante e, quindi, dalla fede. Immaginiamo anche che, in un secondo momento, si accerti la presenza di un insieme di determinazioni per cui si debba dire che “S è P” è necessariamente implicato dalla struttura originaria del sapere. Chiediamoci ora: «“S è P”, in quanto separato/isolato dal processo della sua fondazione – e tenuto fermo come “vero” dalla fede –, è lo stesso “S è P” in quanto appare in sintesi con tale processo?». Se la risposta è (come dev’essere) negativa, allora si deve riconoscere che “S è P”, separato/isolato dall’apparire dell’impossibilità del contraddittorio – e tenuto fermo come “vero” dalla fede –, non è “S è P” in quanto distinto da tale apparire. In quanto separato/isolato dall’apparire della sua necessaria implicazione da parte dalla struttura originaria, “S è P” è dunque “non verità” ossia è una forma della negazione della verità. Si badi: “S è P” non significa “S non è P”. Ma, tanto “S è P” separato/isolato dalla verità, quanto “S non è P”, sono forme diverse della negazione della verità e cioè sono “errore”, come avrà modo di precisare lo stesso Severino92 – ed è impossibile che la negabile “non verità” diventi l’innegabile “verità”, ossia diventi quell’altro da sé che è, appunto, la “verità”. Ciò tuttavia non toglie che tra l’errore e la verità vi sia un qualche elemento semantico in comune. Se così non fosse, infatti, la verità non sarebbe negazione dell’errore: non potrebbe nemmeno affermare che, separato/isolato dall’apparire della sua necessaria implicazione da parte della struttura originaria, “S è P” è negazione della verità. Per quanto riguarda poi l’interpretazione, si può aggiungere che è certamente vero che il contenuto su cui essa cade non può essere, da 92 Cfr. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, cit., Postille, pp. 311-312.

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ultimo, interpretazione: l’interpretazione è sempre interpretazione di “qualcosa”. Ma non è in quanto interpretato che quel contenuto può appartenere alla dimensione veritativa: in quanto interpretato, quel “qualcosa” è ciò su cui cade la rete della volontà interpretante e cioè della volontà che stabilisce nessi negabili, controvertibili. Portando lo sguardo verso gli scritti più recenti di Severino – scritti nei quali si sostiene la necessità che il contrasto tra la verità e l’errore sia, ad un certo punto, oltrepassato –, Messinese rileva interessanti aperture sul tema dell’interpretazione laddove si afferma che gli essenti della terra isolata, oltre che essere essenti della terra isolata dalla verità, sono anche “essenti” e che, in quanto essenti, possono costituire «un residuo irriducibile di non isolamento»93, cioè qualcosa di non necessariamente implicato dall’isolamento della terra. Va in ogni caso rilevato che tutto ciò che appartiene al contesto della terra isolata, e nella misura in cui è appartenente a tale contesto, non può essere qualcosa che incomincia ad appartenere alla terra che salva (ossia alla terra che sopraggiunge col tramonto dell’isolamento), né può essere “confermato” dalla terra che salva. Tutto ciò che nella terra isolata appare sul fondamento della volontà interpretante è infatti di per sé negabile: è “fede”, “non verità”, “errore” – e l’errore appartiene all’essenza della verità in quanto essa è, per essenza, negazione dell’errore.   2. La “coscienza finita” e il rapporto fede-ragione   1. Introdotto il tema della “non verità” della “interpretazione” e della “fede”, per Messinese si fa decisivo il confronto sul tema del rapporto tra ragione e fede. Il punto di partenza è, di nuovo, la ripresa e la valorizzazione di quanto il “primo” Severino sosteneva nei suoi Studi di filosofia della prassi laddove, rilevata la finitezza della struttura originaria della verità – e, quindi, la contraddizione da cui quest’ultima è affetta in quanto posizione formale della totalità –, il filosofo si interrogava sulla possibilità che l’accoglienza della fede fosse la via per la massima apertura dell’essere consentita al finito. 93 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 65.

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C’è da aggiungere che la possibilità indicata da Severino comprendeva gli opposti: era cioè anche possibilità che, proprio l’accoglienza della fede, fosse la via della perdizione della verità. In ogni caso, in quel testo campeggiava l’idea per cui la verità, trovandosi “nel problema”, si trova “nella fede” – e quindi nella “non verità”. Messinese discute questa tesi ed afferma che «è lecito parlare di […] “non verità della fede”, non però nel senso che la “non verità” della fede debba essere qualificata come “errore”, ma […] nel senso che la verità, nella forma della fede, non ha il carattere della verità come evidenza incontrovertibile»94. Sennonché, negli scritti successivi agli Studi di filosofia della prassi, Severino perviene all’identificazione della fede con la radice stessa dell’errore. Poiché fede è “tenere fermo come vero” ciò che non è la verità dell’essere – che è l’apparire del non controvertibile –, la fede è, in quanto tale, isolamento dal destino della verità: è cioè “errore” e l’“errore” determina il contenuto di ogni fede. Su questa prescissione della fede dalla “verità”, intesa come la dimensione del non controvertibile, Messinese prende le distanze ed afferma che la coscienza del credente «non ha bisogno, per costituirsi, di separarsi dai legami della verità; al contrario, secondo la “protensione” naturale che caratterizza la “coscienza finita” dell’uomo, tale coscienza è persuasa di determinare una parte della dimensione di quanto essa sa perfettamente che resta nel nascondimento, se messo in relazione all’incontrovertibile»95. Sullo sfondo sta l’autocoscienza della fede come “argomento delle cose che non appaiono” (Eb 11,1). Per Severino è chiaro che, poiché “le cose che non appaiono” sono quelle di cui il contraddittorio è possibile sicché, rispetto ad esse, l’intelletto in quanto tale non può che essere esitante, la fede è inseparabile dal dubbio. Si badi: la fede è, essenzialmente, un tenere “per vero”, diversamente non sarebbe fede ma dubbio. E tuttavia il dubbio – sia pure isolato nell’atto di fede e lasciato nell’inespresso – è necessariamente legato alla fede che dunque appare, nello sguardo della verità, come isolamento. Messinese afferma che «la notte per la quale la fede appresta il proprio lume è la stessa notte dalla quale il logos riconosce di essere circondato. La “notte” della fede cristiana non è, in quanto tale, il contenuto affermato al posto del “giorno” – cioè del logos – ma è la 94 Ibi, p. 90. 95 Ibi, p. 101.

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notte che appartiene al giorno “attuale”, alla verità che si manifesta attualmente nella sua “finitezza”»96. Si potrebbe tuttavia replicare che, proprio perché è di un contenuto di cui non appare l’impossibilità del contraddittorio che la fede dice: “Tu sei vero” e cioè “Tu non sei smentibile” – se infatti non si esprimesse in questi termini quel dire non sarebbe espressione di fede –, proprio per questo la fede si presenta come volontà che quel contenuto, che pure appare come “smentibile”, sia “non smentibile” e cioè sia altro da sé. In tal senso, la “notte”, e cioè la contraddizione che investe la fede (e non solo la fede cristiana), non è riconducibile, come pensa Messinese, a quella da cui è affetta la struttura originaria in quanto apparire finito e cioè come “coscienza” finita: in quest’ultimo caso la contraddizione (il contraddirsi) è determinata dalla posizione formale del significato originario. Nel contesto dell’apparire finito, ogni determinazione che appare non si mostra nella totalità delle sue relazioni agli altri enti e alla totalità assolutamente concreta e infinita dell’ente: appare l’essere “x” (dove “x” sta per un qualsiasi non niente), ma non appare tutto ciò che è implicato dall’essere “x”, sicché ciò che non è “x” è posto come “x”. Ne La struttura originaria, Severino chiama “contraddizione C” questa forma della contraddizione (del contraddirsi), rilevando che il suo oltrepassamento è dato non dalla negazione del suo contenuto, ma dall’apparire sempre più concreto del suo contenuto – mentre ciò che rimane nascosto è l’apparire infinito della totalità dell’essente, in cui da sempre appare l’oltrepassamento già da sempre compiuto di tale contraddizione. Diverso è il caso della contraddizione (del contraddirsi) della fede. Fermo restando che ogni contraddirsi è possibile solo nel contesto dell’apparire finito del Tutto – che è l’apparire in cui consiste la “contraddizione C” –, bisogna però considerare che, nella situazione aperta dalla fede, ci si trova dinanzi ad un contenuto che non appare nella luce dell’incontrovertibilità e che, pertanto, appare nel “buio” del dubbio. D’altra parte, la fede è la certezza che di quel contenuto dice: “Tu sei la Luce”. La fede è dunque precisamente questo: la contraddizione per cui ciò che sta dinanzi come qualcosa di “non luminoso” e cioè di “controvertibile”, di “non certo”, viene pensato come qualcosa di “luminoso”, di “non controvertibile”, di “certo”. In questo caso non abbiamo a che fare con l’apparire della forma astratta della verità 96 Ibi, pp. 101-102.

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di un certo significato, bensì con il non apparire della verità di un certo significato che tuttavia viene tenuto fermo come vero. La fede si costituisce come (tentativo di) isolamento dalle oscillazioni del dubbio e afferma che il proprio contenuto si trova nella “luce” dell’incontrovertibilità, pur senza avere coscienza dell’operazione che sta compiendo e senza riflettere esplicitamente sul senso dell’incontrovertibilità. Ma un non-luminoso/luminoso, un noncerto/certo – e ciò a cui la fede attribuisce la “luminosità” e la “non dubitabilità” è un contenuto che appare come “non luminoso” e “dubitabile” – è qualcosa di inesistente.   2. Nella sua attenta disamina della tesi tomista dell’armonia di ragione e fede, Severino ha denunciato la presenza di una duplice incoerenza: da un lato si lascia che tale armonia agisca come verità di ragione portandosi sul versante della gnosi (che riconduce i contenuti della fede nel campo della “ratio naturalis”), dall’altro si evita di qualificarla come verità di ragione, portandosi sul versante del fideismo. Messinese riconosce che la tesi della natura armonica di ragione e fede «ha un valore teologico» e cioè «è affermata nell’orizzonte della fede»97, ma ritiene che questo non comporti le conseguenze riscontrate da Severino e argomenta la sua posizione appoggiandosi ad un noto testo di Tommaso. Per l’Aquinate va detto che «se, nelle affermazioni dei filosofi, si trova qualcosa di contrario alla fede, questo qualcosa non appartiene alla filosofia, ma è un abuso della filosofia per difetto della ragione»98. Il nostro autore osserva che, pur avendo anche questo rilievo «formalmente valore “teologico” e non filosofico, non è tale da escludere per la ragione naturale una sorta di “controllo” al quale essa possa provvedere autonomamente»99. Citando sempre Tommaso e il suo commento al De Trinitate di Boezio, Messinese scrive che «per il credente che ravvisa un tale contrasto è possibile, procedendo dai principi della filosofia, confutare un errore di questo genere o mostrando che è assolutamente impossibile o mostrando che non è necessario»100. La strategia di Tommaso non sarebbe dunque “fideistica” e il contrasto tra la ragione e la fede «può essere sempre dileguato: non nel senso che non possa97 Ibi, p. 82. 98 Tommaso, Super Boetium De Trinitate, q. II, n. 3. 99 L. Messinese, Il paradiso della verità, p. 82. 100 Ibidem.

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no darsi di fatto tesi opposte, e neppure nel senso che l’insorgere di questa opposizione possa essere definitivamente superato; piuttosto nel senso che sarà sempre possibile mostrare la “non necessità” di ciò che contraddice l’affermazione di fede»101. Viene tuttavia da chiedersi: in base a che cosa affermiamo che è sempre possibile mostrare la “non necessità” di ciò che contraddice l’affermazione di fede? Il punto è che, se fosse davvero impossibile dimostrare la falsità delle convinzioni di fede quanto al loro contenuto, si dovrebbe dire che o quel contenuto viene pensato come ciò che per la struttura originaria è necessario che rimanga un problema (ma una fede che consideri “problema” il proprio contenuto è una “non fede”), oppure che l’affermazione di quel contenuto appartiene all’ambito di ciò che va affermato secondo necessità e che, dunque, è necessariamente implicato dalla struttura originaria, ma allora esso non sarebbe più oggetto di fede, quanto piuttosto di un sapere non controvertibile: si sarebbe infatti dimostrata l’impossibilità della negazione di quel contenuto. Si ripropone quindi l’interrogativo di fondo: la tesi della impossibile dimostrazione della falsità del contenuto di fede è sostenuta dalla fede o è una verità di ragione? Se diciamo che è sostenuta dal lume della ragione naturale, allora ci portiamo nel territorio della gnosi, dove viene meno il loro carattere di gratuità/soprannaturalità dei contenuti della fede. Se invece diciamo che è sostenuta dalla fede, allora non possiamo escludere che la verità si costituisca come la smentita più radicale di quei contenuti.   3. Messinese afferma che il rapporto tra la fede e la ragione non è un rapporto di contrasto, «ma di eterogeneità – in riferimento ai rispettivi “lumina”»102. Ma poi egli riconosce, con le parole del filosofo Aniceto Molinaro, che la verità della fede «è la forma e il contenuto della non evidenza e, quindi, della controvertibilità» e cioè che «la verità dell’affermazione della fede non è né immediatamente né per deduzione la negazione della propria negazione»103. Ora ciò che è controvertibile è (per definizione) il “dubitabile”, mentre l’orizzonte occupato dalla ragione è l’ambito del non controvertibile e quindi del “non dubitabile”, sicché il rapporto tra la di101 Ibi, p. 88. 102 Ibi, p. 89. 103 Ibi, p. 90, nota.

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mensione della fede e quella della ragione si presenta proprio nella forma di una opposizione di contraddizione. E poiché ciò di cui si dubita è ciò di cui non si ha fede, si profila la situazione in cui, in riferimento ad uno stesso contenuto che è insieme una certezza (per la fede) e un problema (per la ragione), la stessa coscienza si trova ad essere in contraddizione perché è, insieme, “credente” e “non credente”, “certa” e “non certa”. Messinese ritiene di poter superare questa contraddizione distinguendo i due atteggiamenti della coscienza – la disposizione del credente e quella di chi conosce in modo “scientifico”104 – e considerando l’alternanza di tali atteggiamenti nell’unità della coscienza. Sfruttando un testo delle Postille degli Studi di filosofia della prassi e osservando che, quando è la verità ad avere fede, la contraddizione non sussiste «perché la certezza della fede è sempre una determinazione particolare all’interno della coscienza veritativa che dubita del “controvertibile”, la quale funge da orizzonte di manifestazione»105, Messinese afferma che, in modo analogo, la contraddizione non sussiste neppure quando a fungere da orizzonte di manifestazione è la fede perché, «quando si ha a che fare con la coscienza credente […], il dubbio della ragione è soltanto un contenuto particolare […] rispetto a tale orizzonte»106. Ma, quando è la verità che “decide” di aver fede, la problematicità della fede non è persa di vista sicché, da ultimo, la verità non ha fede ma dubita della fede alla quale pure è unita – ciò che lo stesso Severino afferma chiaramente in quelle Postille. Si tratta però (e soprattutto) di riflettere sulla circostanza per cui la fede è pur sempre l’apparire di un contenuto che è incapace di imporsi sulla propria negazione e rispetto al quale l’intelletto come tale continua ad esitare, dal che segue che il dubbio rimane essenzialmente legato al credere e che la contraddizione tra il “credere” e il “non credere” è strutturale alla stessa fede, la quale può costituirsi solamente come un dubitare in cui la dubitabilità del contenuto viene lasciata nell’inespresso. Al “secondo” Severino – che denuncia il carattere nichilistico della volontà in quanto tale e quindi della fede che è essenzialmente unita alla volontà – Messinese contesta di essere giunto «a spezzare 104 Cfr. Tommaso, De fide, a. 1. 105 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 96. 106 Ibidem.

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ogni filo che possa “legare” la fede alla “verità”, quando non si tratti del particolarissimo caso della “verità che è nella fede” in quanto la stessa verità non è mai la manifestazione concreta del tutto»107. S’è infatti visto che Messinese si muove nella direzione indicata dal “primo” Severino negli Studi di filosofia della prassi dove si diceva appunto che l’essere “nel problema” della verità si determina come un essere “nella fede” che è un essere nella “non verità”. Andrebbe tuttavia precisato il senso di questo “essere nella fede” da parte della verità senza confonderlo con l’essere “nel problema” e quindi nella contraddizione – che resta concretamente oltrepassata solo nell’apparire infinito del Tutto. Il cosiddetto “secondo” Severino avrà infatti modo di chiarire che, propriamente, la verità non può essere “nella fede” se non nel senso in cui essa vede che il contrasto con l’errore – e quindi con la fede – non è stato ancora oltrepassato. Nel momento in cui emerge il tratto nichilistico della volontà, la tesi degli Studi di filosofia della prassi, per cui soggetto fondamentale della decisione di aderire a determinanti contenuti di fede è la stessa verità, non può essere più mantenuta. Ma qui emerge anche la differenza tra il teologo Messinese, che affida la salvezza all’adesione della fede, e il filosofo Severino per il quale, invece, la salvezza della verità, ossia il manifestarsi della verità non più contrastata dall’errore (manifestarsi che è destinato ad apparire)108, è salvezza dall’errore in cui la fede consiste.   3. Parmenide e la metafisica classica   1. La proposta teorica di Messinese – che intende mostrare come sia possibile l’oltrepassamento della coscienza teoretica nella coscienza pratica «senza incorrere nell’accusa di nichilismo»109 – si riassume dunque nel tentativo di tenere ferma la verità dell’essere (l’impossibilità che l’essere non sia) e di mostrare, nel contempo, «la verità che appartiene alla dimensione pratica»110: una proposta di «valorizzazione dell’ermeneutica in chiave di verità»111 che vuol es107 Ibi, p. 100. 108 Cfr. E. Severino, La Gloria, cit., capp. iii e xii. 109 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 119. 110 Ibi, p. 120. 111 Ibi, p. 123.

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sere «una ridiscussione della tesi severiniana circa la radicale non verità dell’agire, insieme a una ridefinizione della ontologia metafisica»112. La strategia seguita consiste, come s’è visto, nel tentativo di sviluppare «il significato non nichilistico della “volontà libera” in riferimento alla struttura della coscienza finita»113. Ma ciò è possibile solo se si riesce a far vedere che «il trinomio “essere, intelligibilità, necessità” – come ha messo bene in luce Bontadini – a dispetto delle apparenze non si oppone al teorema creazionistico, ma piuttosto lo implica. Nello stesso tempo, poiché in virtù del predetto teorema è dato accedere a una concezione non nichilistica della contingenza sul piano di una dottrina generale dell’essere, si può mostrare un’analoga concezione non nichilistica della contingenza sul piano dell’agire umano. Infatti anche questo “ambito dell’essere” è da considerare in riferimento alla creazione, cioè alla permanenza dell’essere che è assicurata dall’atto creatore»114. Nel seguire le linee essenziali della “rigorizzazione” proposta da Messinese che, per sostenere la sua tesi, deve confrontarsi col significato dell’opposizione del positivo e del negativo (opposizione di cui egli riconosce il carattere trascendentale), proverò adesso ad avanzare qualche rilievo critico, entrando così nel cuore di questo dialogo di metafisica.   2. Un primo appunto si riferisce all’interpretazione del Parmenide di Bontadini ma poi, più in generale, del Parmenide che sorregge l’impianto della metafisica classica. Se infatti è vero che, sotto Aristotele e Tommaso, si scorge il pensiero di Parmenide (nel senso che si può dire che vivessero della sua premessa), si tratta poi di capire quale sia il Parmenide che la metafisica classica valorizza. Chi mai si è accorto che ad essere contraddittorio è l’annullamento dell’ente? Chi ha scorto nel divenire, inteso come l’ambito in cui si dà il non essere dell’ente, la contraddizione originaria? Per Tommaso – il quale legge Aristotele – non c’è nulla di strano nel dire che «un uomo […] in una certa epoca non esisteva, dopo è

112 Ibidem. 113 Ibi, p. 120. 114 Ibi, p. 124.

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esistito e di nuovo non esisterà più»115; per l’Aquinate questo dire esprime la semplice descrizione del divenire. La contraddizione sopraggiunge solo quando si ipotizzi che la regione del divenire (e cioè dell’essere che passa dal non essere all’essere) sia la totalità del reale perché, in tal caso, il nulla sarebbe ciò da cui proviene la realtà – e il nulla non può essere un positivo da cui qualcosa possa venire. Che questo o quell’ente non sia, non è affatto avvertito come un che di contraddittorio. Ma è proprio questo che rileva l’autentico Principio di Parmenide e cioè l’immediata impossibilità che l’ente non sia. Bontadini dirà che il divenire si presenta contraddittorio perché, ad ogni “secondo battito”, il positivo mostrato nel “primo battito” non è, ossia si identifica col negativo116. Ma questo lo dirà dopo essersi confrontato con le pagine in cui Severino, in Ritornare a Parmenide e nel Poscritto di Ritornare a Parmenide, sosteneva con forza inaudita che l’immutabilità dell’ente è data dalla stessa impossibilità che l’ente non sia – impossibilità che era già stata potentemente indicata ne La struttura originaria. Al riconoscimento dello “scandalo” del divenire, Bontadini è dunque giunto ad un certo punto del suo percorso speculativo; negli scritti precedenti questo autentico “punto” di svolta, non vi è sentore della “grande contraddizione” del divenire, e non vi è sentore perché è in essi dominante la tesi di fondo della metafisica classica e cioè che, ad essere contraddittorio, non è il divenire considerato in se stesso «ma solo in quanto sia concepito come l’assoluto o l’originario o, comunque, come indipendente»117. In un mio lavoro dedicato al pensiero di Bontadini avevo pertanto distinto la fase “neoclassica” del suo pensiero (a sua volta preceduta da un atteggiamento problematicistico in rapporto alla possibile costruzione del sapere metafisico) dalla fase “neoparmenidea”, segnata dall’assunzione di quella impossibilità di non essere da parte dell’ente – assunzione da ultimo disattesa per via dell’introduzione del Principio di Creazione che re-introduce il non essere dell’essere come opera della potenza e dell’energia dell’Essere118. Ho quindi cercato di mostrare come la stessa “rigorizzazione” della me115 Tommaso, In Metaph, n. 745. 116 Cfr. G. Bontadini, Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Id., Conversazioni di metafisica, cit. 117 Cfr. G. Bontadini, Appunti di filosofia, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 46. 118 Cfr. G. Goggi, Dal diveniente all’Immutabile, cit..

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tafisica classica in versione “neoparmenidea” (versione che ha il merito di essersi accostata alla verità dell’essere) procedeva sulla base della strutturale e implicita persuasione nichilistica per cui l’essente è pensato come un ni-ente. In quel mio lavoro avevo dunque sostenuto, in linea con la lettura che il cosiddetto “secondo” Severino ha dato della metafisica classica e del suo culminare speculativo nel teorema della creazione, un’interpretazione della stessa che, al di là della sua esplicita intenzione di trattare dell’ente in quanto ente, la risolve in una teoria dell’ente in quanto diveniente. Pensare le determinazioni, e cioè le “essenze”, come ciò rispetto a cui l’“essere” può convenire come non convenire – Tommaso dice: come qualcosa rispetto a cui l’essere è un «accidente»119 –, significa infatti pensarle come indifferenti all’essere o al non essere, e ad essere così indifferente è appunto l’ente diveniente. Ora, ciò che Messinese contesta è proprio questa risoluzione della metafisica classica in una teoria del divenire – e cioè in una “fisica” –, nonchè il modo a suo avviso inadeguato di intendere la creazione per cui accade che lo stesso Tommaso «venga ad essere invocato come il difensore di una metafisica che […] rende essenzialmente ragione dell’ente diveniente»120. Al fine di «ripristinare la metafisica classica nella sua intenzione fondamentale e […] dare a quest’ultima un’esecuzione tale da consentirle di mantenersi rigorosamente sul piano dell’essere»121, il nostro autore si incarica dunque di mostrare che il sapere della metafisica «non si costituisce come un ordine concettuale che pretende di “imporre” l’essere (= l’immutabilità) al divenire (al processo di produzione e distruzione degli enti)»122 e che l’orizzonte della metafisica non è il tempo, «anche quando si dovesse acclarare che, nella vicenda storica della metafisica, il tempo sia stato inteso nichilisticamente»123. Poiché questo programma di metafisica si sviluppa convergendo nel significato filosofico della “creazione”, il punto che si tratta di discutere è il seguente: il concetto di creazione esprime la verità dell’essere nella sua compiuta concretezza (come appunto afferma 119 Cfr. Tommaso, Quaest. Quodlib. ii q. ii, art. iii. 120 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 131. 121 Ibi, p. 134. 122 Ibi, p. 203. 123 Ibi, p. 207.

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Messinese), oppure appartiene anch’esso all’essenza del nichilismo e cioè alla dimenticanza del senso dell’essere?   4. Differenza ontologica e dipendenza ontologica   1. Si consideri il modo in cui Messinese giustifica l’affermazione di una vera e propria “trascendenza ontologica”. Innanzi tutto egli riconosce che, sul piano strettamente fenomenologico, il processo del divenire non può essere inteso come un provenire degli enti dal non essere e un procedere verso il non essere come nihil absolutum – ciò che appare non è infatti l’annullamento, ma l’incominciare ad apparire e il cessare di apparire dell’ente e del suo apparire. Se tuttavia non vi fosse altro essere al di fuori di quello attestato dalla totalità del F-immediato, se cioè l’essere che si dà nell’esperienza – che è esperienza del sopraggiungere e del dileguare degli enti – adeguasse la totalità dell’essere, allora tale sopraggiungere e dileguare costituirebbero un incremento e decremento rispetto alla totalità dell’essere posta in equazione con la totalità del F-immediato. Stante l’impossibilità di tale incremento/ decremento, «si deve necessariamente affermare che l’essere dell’esperienza non è tutto l’essere, che questo “essere” deve fare riferimento ad altro essere, del quale è manifestazione»124. Si è già detto dell’immediatezza dell’affermazione per cui il positivo oltrepassa la totalità dell’esperienza. Che l’essere sia il “grembo” della totalità dell’F-immediato è quanto già emerso dalle considerazioni svolte in precedenza. Ma ciò che adesso va indagato più a fondo è il senso di questa “ulteriorità” o eccedenza della totalità assoluta dell’essere rispetto all’esperienza: è il problema del rapporto tra l’apparire finito (il piano originario del significato) e l’apparire infinito dell’essere. Ne La struttura originaria l’alterità tra l’essere in quanto immutabile e l’essere in quanto diveniente si configura come differenza tra due positivi uno dei quali (l’orizzonte dell’essere F-immediato) nulla aggiunge alla totalità del positivo – venendo così posto come ciò che sarebbe potuto non essere e che potrebbe non essere. La differenza ontologica si precisa nel senso della dipendenza ontologica del creato dal creatore. Ma in quel testo, sappiamo, è ancora dominante la persuasione che la nascita e l’annullamento dell’essere sia124 Ibi, p. 198.

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no qualcosa che appare, sicché l’impossibilità che l’essere non sia (essenzialmente implicata dall’esser sé dell’essere) si limita ad integrare ciò che si ritiene che appaia – ossia il divenire come annullamento – col senso del divenire inteso in termini di comparire e scomparire dell’immutabile. Nel Poscritto di Ritornare a Parmenide quell’elemento nichilistico, ancora presente nel linguaggio che testimonia la necessità dell’essere, viene meno e il rapporto tra l’essere in quanto immutabile e l’essere in quanto diveniente (la differenza ontologica) si configura come differenza tra l’astratto e il concreto: venuta meno la comprensione del divenire in termini di essere e non essere, la differenza ontologica si presenta come differenza tra l’essere astrattamente manifesto – e cioè l’essere che, sopraggiungendo e dileguando, appare in parte – e l’essere concretamente avvolto dal Tutto – e cioè l’essere che appare nella sua concreta relazione al Tutto. Nei lavori successivi al Poscritto, il tema della differenza ontologica intesa non più come dipendenza ontologica, ma come differenza tra l’essere che appare in parte – l’apparire finito dell’essere che è la dimensione in cui gli enti incominciano e cessano di apparire – e il Tutto dell’essere nel suo concreto contenuto – l’apparire infinito e non processuale della totalità degli essenti, dove gli enti appaiono nella totalità delle relazioni e quindi della positività che ad essi conviene –, andrà precisandosi sempre di più. Severino potrà così affermare che, per un verso, il finito “non è” l’Infinito e che è impossibile che quest’ultimo, considerato nella sua assoluta concretezza, sopraggiunga nell’apparire finito – il quale non può diventare quell’altro da sé che è appunto l’apparire infinito del Tutto –, ma che, per altro verso, il finito “è” l’Infinito nel senso che è nell’Infinito che il finito appare secondo la totalità delle relazioni che gli competono. Dove è chiaro che l’Infinito non è qualcosa che se ne sta al di là del finito e indipendentemente da esso, ma è la stessa totalità del positivo posta nella sua concretezza semantica – che è l’oltrepassamento del finito e quindi anche dell’apparire finito dove l’ente appare in modo processuale125. 125 Ciò che appare nell’apparire finito, dirà Severino, «non è un duplicato di se stesso in quanto appare nell’apparire infinito, ma è quello stesso che appare nell’apparire infinto. Altrimenti l’apparire infinito dovrebbe essere anche l’apparire di questo duplicato, il che è impossibile perché, dovendo in qualche modo differenziarsi dall’originale, il duplicato conterrebbe qualcosa che non appartiene al contenuto dell’apparire infinito.. Il finito

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Ne Il paradiso della verità Messinese osserva che, in conseguenza del «mutamento essenziale intervenuto nella sua “filosofia prima” rispetto a La struttura originaria, [il secondo] Severino non esprime più la distinzione tra il Tutto dell’essere (= Dio) e la totalità dell’esperienza (= mondo) in termini di alterità, ma di “inconscio”»126. Si rileva quindi, criticamente, che in questo modo viene meno quella “alterità” metafisica tra Dio e il mondo (la differenza ontologica declinata nel senso della dipendenza dell’ente dall’essere) che invece Messinese vuole tener ferma. Siamo pertanto alla resa dei conti con la posizione del cosiddetto “secondo” Severino. Scrive Messinese: «Il punto di convergenza tra me e Severino […] può essere indicato nel modo seguente: “ciò che” consente di affermare non nichilisticamente il variare dell’esperienza è “ciò che se ne sta nascosto” rispetto all’esperienza (= il Tutto). La discussione, invece, verte sulla determinazione del Tutto, ossia dell’Apparire infinito. Ebbene: in base a che cosa si stabilisce che questo “ciò che sta nascosto” rispetto all’apparire finito sia la totalità infinita degli essenti, oppure sia il Dio creatore?»127.   2. Ne L’apparire del mondo, Messinese aveva già avanzato l’argomento a suo parere decisivo. Severino, egli afferma, vede bene che la totalità del F-immediato è una parte della totalità degli essenti. Se così non fosse, infatti, il sopraggiungere e il dileguare degli enti sarebbe lo stesso che il loro iniziare ad essere e cessare di essere. Per l’intelligibilità del divenire è dunque necessario introdurre il nesso finito-Infinito. Ma porre tale nesso, spiega Messinese, significa porre il “che” della relazione, non ancora il “come” – dove il “come” è l’unione del finito e dell’Infinito in forza della “creazione”. In altri termini: il semplice nesso finito-Infinito non sarebbe sufficiente a dare “ragione” del finito ossia della processualità dell’apparire. Ne Il paradiso della verità Messinese ribadisce questa tesi: posto che anche l’accadere degli enti è un eterno (come ogni essente) e che dunque (stante l’immutabilità dell’essere) è necessario riferire la totache appare nell’apparire infinito è appunto il finito che appare qui ora» (E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 227). 126 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 130. 127 Ibi, p. 200.

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lità dell’esperienza a ciò che trascende l’esperienza, tuttavia la “ragion d’essere” del variare dev’essere ulteriormente cercata. La giustificazione addotta da Severino – il riferimento del finito all’Infinito inteso come totalità assoluta e infinita degli essenti – non basterebbe ai fini della “intelligibilità” del variare dell’esperienza. Ma perché non basta? Messinese sa bene che, nei testi di Severino, la “ragion d’essere” è il destino della necessità per cui si afferma l’impossibilità che il variare dell’esperienza (il sopraggiungere degli enti) sia qualcosa che sarebbe potuto non apparire. La giustificazione della necessità dell’accadimento in prospettiva severiniana viene da Messinese riproposta rilevando che «(1) se non ci fosse il suddetto “variare”, non ci sarebbe quell’ente (= quell’insieme di enti) che è l’accadere dell’ente; (2) ma l’accadere è un eterno, come ogni altro ente; (3) dunque, è necessario che sia ciò che fa sì che l’accadere “sia”, ciò che dà ragione del variare dell’esperienza»128. Messinese ribadisce tuttavia che tutto ciò non è ancora sufficiente ai fini di un’adeguata spiegazione del “variare” dell’esperienza: si tratta di andar oltre questo modo di intendere il nesso finito-Infinito, affermando l’essere trascendente e creatore. Come giustifica Messinese tale affermazione? Innanzi tutto vorrei osservare che, rispetto alla ripresa sintetica che ne fa Messinese, il discorso di Severino sul “perché” dell’accadere va integrato col rilievo essenziale per cui la “necessità” dell’accadimento è l’apparire della contraddizione che si costituisce nel momento in cui si neghi l’accadere: l’apparire di quella contraddizione risponde alla domanda sollevata da Messinese a proposito del “perché” del variare129. Ma, tornando al tema del nesso finito-Infinito e alla “necessità” di determinare ulteriormente il senso di ciò che trascende la totalità degli enti che appaiono, Messinese si esprime in questi termini: se il finito «non è simpliciter l’infinito, non si deve pure rimarcare che la 128 Ibidem. 129 Precisando il senso del fondamento (o della “ragione”) del variare sopraggiungente del contenuto dell’apparire, Severino dirà: «Da un lato, gli eterni sopraggiungono perché è necessario che sopraggiungano – e ciò significa che la non necessità del sopraggiungere è un aspetto centrale del nichilismo. Dall’altro lato, perché, in quanto negazione dell’errore, l’essere della verità implica necessariamente l’essere dell’errare e della forma più radicale dell’errare e tale forma è l’isolamento della terra, che si fonda sul sopraggiungere della terra» (E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 252).

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“dimensione di infinito” del finito si differenzia dall’infinito in se stesso?» 130. La “differenza” tra il finito e l’infinto starebbe dunque a significare che «la irriducibile trascendenza dell’essere rispetto alla totalità dell’apparire, affermata anche da Severino, possiede una densità maggiore di quella che il filosofo è portato a riconoscere quando, per un verso afferma risolutamente l’altro, ma poi identifica l’“altro” alla “dimensione infinita” dell’essente che si nasconde ed è destinata a rimanere nascosta»131. Ebbene, come va inteso questo “essere” di “densità maggiore” rispetto alla totalità degli essenti di cui parla Severino? Se tale “essere” trascendente non è un nihil absolutum, allora è esso stesso un non nihil – e cioè non sta oltre la dimensione della totalità dell’essente. Si aggiunga che, in quanto se ne sta semplicemente “oltre” (o in quanto è semplicemente “altro”) rispetto al finito, l’Infinito non è neppure Infinito, ma è una parte della totalità di ciò che è, la quale è autenticamente “infinita” solo nella misura in cui include il “finito” – che mostra il suo volto autentico e assolutamente determinato solo in quanto appare nell’apparire infinito ossia in relazione alla totalità assolutamente concreta degli essenti. Si può dunque rispondere a Messinese rilevando che non vi è, né può esservi, densità maggiore di quella costituita dall’Infinito inteso come il Tutto determinatissimo della totalità degli essenti – e che un “altro” (una positività eccedente) rispetto ad essa, a rigore, è niente! Si dirà allora che non solo la relazione dell’essente A all’essente B, a tutti gli altri essenti e alla totalità di queste relazioni, si distingue dalla relazione dell’essente B a tutti gli altri essenti e alla totalità di queste relazioni, ma che anche la totalità dell’essente si distingue dalle sue parti (da quegli eterni che sono A, B…) sicché, in quanto così distinta, non è neppure la totalità assolutamente concreta dell’essente ma è, essa stessa, “un” non niente. Il Tutto assolutamente concreto – potremmo dire “il” non niente – è dunque la totalità di queste relazioni: è la relazione di ogni parte ad ogni altra parte, di ogni parte al Tutto e del Tutto ad ogni parte. Messinese si preoccupa, invece, di scorporare l’essere infinito dalla totalità degli essenti e quindi dalla sua relazione al finito – ciò che gli consente di tener fermo il concetto di creazione. La tesi del nostro autore si riassume infatti in questa affermazione: «L’infinito come 130 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 214. 131 Ibidem.

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“dimensione infinita” dell’essente che resta nascosto è tale in relazione all’apparire finito dell’essere, mentre l’Infinito, nella sua assolutezza, è tale in relazione a se stesso e non all’apparire finito»132. Resta così affermata la necessaria relazione del finito all’Infinito, ma viene consegnata al nulla la relazione dell’Infinito al finito: univocità della relazione finito-Infinito. Se infatti l’Infinito nella sua assolutezza è in relazione a se stesso e non anche all’apparire finito (ossia alla totalità degli essenti che appaiono nell’apparire finito), se cioè la relazione dell’Infinito al finito non è necessaria da parte dell’Infinito, allora tale relazione è qualcosa che “è” soltanto in forza di “altro” – dove questo “altro” è la libera decisione dell’Infinito. Tutto ciò resta confermato dallo scritto di Messinese laddove egli precisa che la creazione appartiene all’ordine dell’essere e non del divenire (in effetti la creazione è un atto intemporale) e significa che l’ente, «il finito, è tutto ciò che è a motivo della sua “partecipazione” all’essere in virtù dell’atto creatore, nel quale perciò consiste essenzialmente il suo “essere”»133. Dove la partecipazione dell’essere vuol dire che al “finito” l’essere inerisce soltanto “in forza di altro” essendo il finito qualcosa cui l’essere un “non nulla” non conviene “per sé”, essendo cioè qualcosa cui l’esistenza potrebbe non convenire.  5. Sull’eternità dell’ente   Riportando e sottoscrivendo le parole di Aniceto Molinaro, Messinese afferma che «l’atto creatore dell’Essere Assoluto salva l’ente creato dal nulla, custodendolo nella sua assoluta positività come opposizione infinita al non essere»134. Sennonché l’ente non ha bisogno di essere “salvato”, a meno che non si ritenga (contraddittoriamente, stante l’eternità dell’ente in quanto ente) che esso sia ciò che, come tale, e cioè in riferimento alla propria natura, è un nulla. Lo schema di questo modo (contraddittorio) di intendere il rapporto tra il finito e l’Infinito si trova nell’opuscolo De aeternitate mundi di Tommaso. Scrive infatti l’Aquinate: «Ciò che conviene a una cosa per sé, le inerisce per natura prima di ciò che possiede sol132 Ibi, pp. 214-215. 133 Ibi, p. 202. 134 Ibi, p. 202, nota.

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tanto da un altro; ora, la creatura ha l’essere da un altro e, abbandonata a se stessa e considerata in se stessa, è nulla; quindi, secondo la natura, le conviene prima il nulla che l’essere, e non occorre che per questo sia contemporaneamente nulla ed ente, perché non vi è una precedenza del nulla rispetto al tempo; infatti, ritenere che una creatura sia sempre esistita, non significa ritenere che essa, in qualche tempo, sia stata nulla, ma ritenere che la sua natura sia tale per cui, abbandonata a se stessa, sarebbe nulla». Analogamente, Messinese ritiene che l’inseparabilità dell’essenza dall’esistenza (e cioè la non accidentalità del loro rapporto) sia, negli enti finiti, “per aliud” e cioè in virtù dell’atto della creazione. Ma tutto questo suppone che il finito, considerato in se stesso, sia nulla – ed è appunto questa supposizione ciò che appartiene all’essenza del nichilismo. Nella precedente sezione di questo capitolo ho discusso criticamente le tesi de L’apparire del mondo osservando che il discorso di Messinese ruota tutto intorno alla distinzione di due sensi dell’immutabilità/eternità dell’essere: l’immutabilità/eternità simpliciter dell’essere (che egli riconosce nel senso severiniano dell’eternità dell’ente in quanto ente) e l’immutabilità/eternità secundum quid per la quale l’“ente” (ogni “ente”) viene inteso come ciò che deve essere preservato (e quindi protetto, “salvato”) dal non essere. Quando Messinese scrive che la creazione «non afferma il divenire dell’essere, ma la “relazione” dell’accadere all’essere, all’eterno»135 e che pertanto la «concreta intelligenza della immutabilità dell’ente in quanto ente non esclude, ma implica la creazione dell’ente»136 che eliminerebbe «alla radice l’affermazione di un incremento o decremento dell’essere»137, quando dunque egli si propone di pensare in modo concreto l’immutabilità dell’essere procedendo lungo la via bontadiniana dell’identificazione del Principio di Parmenide col Principio di Creazione (con ciò intendendo l’immutabilità/eternità simpliciter dell’essere come momento astratto della verità dell’essere), è alla sopra accennata distinzione dei due sensi dell’immutabilità/eternità dell’essere che questo discorso si riferisce. Vorrei tuttavia osservare, riprendendo quanto già indicato nel mio precedente scritto, che è proprio il senso della l’immutabilità/eternità secundum quid degli “enti” ciò che il pensiero dell’immutabilità/ 135 Ibi, p. 201. 136 Ibi, p. 202. 137 Ibidem.

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Al cuore del destino

eternità dell’ente non può far passare. Ogni limitazione del senso della necessità – e l’affermazione dell’immutabilità/eternità secundum quid è una limitazione della necessità – è infatti una negazione della necessità. Lo è perché il concetto della necessità secundum quid è fondato su una comprensione dell’essere per cui l’ente viene inteso come ciò che, considerato in se stesso, è un nulla. Nello sguardo della verità dell’essere, dire che l’identità/eternità conviene all’essente “A” per aliud significa che, se consideriamo “A” come distinto dall’universale concreto dell’essere, di cui “A” è momento, l’affermazione dell’identità/eternità dell’essente “A” si presenta come logicamente mediata, dove il “medio” è l’universale identico concretamente determinato al quale “per sé” o immediatamente conviene l’esser sé e quindi l’identità/eternità. L’esser sé dell’ente è la stessa originarietà o immediatezza logica in quanto è l’universale concreto – e tale non è né la semplice universalità astratta dell’esser sé, presente in ciascuno degli essenti, ma distinta dalla loro totalità concreta, né la semplice individuazione dell’universalità astratta che si individua in ciascuno degli enti da cui pure si distingue, sibbene la relazione tra l’universale e l’individuale, ossia la totalità assolutamente concreta dell’esser sé degli essenti. Ma è chiaro che ciò nulla ha a che vedere con l’affermazione per cui l’essere, e quindi l’immutabilità/eternità, conviene all’essente “A” per partecipazione dell’essere, perché l’ente cui l’essere conviene per partecipazione (e cioè il “creato”) è un ente, un non-niente, originariamente pensato come ni-ente. L’Infinito di cui parla Messinese quando si riferisce all’Altro, come a ciò che sta oltre la totalità degli essenti, non riesce dunque ad essere l’autentico Infinito nella sua assolutezza perché ad essere autenticamente Infinito è l’universale concreto (= la totalità degli essenti) che include originariamente l’identità di ogni essente, compresa la propria identità. In quanto distinta dalla sue parti, la totalità presenta invece una valenza solamente formale: è cioè una parte della totalità autentica degli enti che è tale solo nella relazione del Tutto a ciascuna delle parti – e nella relazione di ciascuna parte a ogni altra parte e al Tutto. La relazione parte-Tutto è dunque biunivoca. Se infatti è vero che ciascuna delle parti “è” solo in quanto ad essere è la totalità degli enti – e che ciò viene affermato perché l’ente in quanto ente è eterno –, è pure vero che la totalità degli enti “è” solo in quanto ad essere è ciascuna delle parti: nessuno degli enti può infatti mancare al

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La verità dell’essere e la metafisica classica

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Tutto, neppure quell’ente che è la relazione del Tutto alla parte138. Il concetto della “partecipazione” dell’essere esprime invece l’univocità della relazione tra la parte e il Tutto: dice che la parte è “in virtù” della sua relazione al Tutto, mentre nega la necessità di quel non niente che è la relazione del Tutto alla parte – con ciò consegnando quel non niente nelle braccia del nulla. Date queste premesse, la tesi per cui l’Infinito nella sua assolutezza è posto come la totalità del positivo, mentre la parte viene pensata come ciò il cui “essere” sta tutto in forza dell’atto creativo, appare come un esito connesso alla permanenza del nichilismo. E allora ciò che Messinese chiama passaggio dal “primo” al “secondo” Severino non è qualcosa di teoreticamente “evitabile”, ma si presenta come un procedere le cui movenze sono “dettate” dall’urgenza di tener fermo quel senso della verità dell’essere e, quindi, della “necessità” dell’ente, che da sempre si apre al di là del nichilismo – senso al quale fanno riferimento già i primi scritti di Severino.   Il finito è concretamente se stesso, e cioè non è contraddizione, solo in quanto appare nel luogo infinito in cui è infinitamente se stesso. Severino chiama “Gioia” l’ambito della determinatezza assoluta del finito: ambito che è l’apparire infinito del Tutto (la totalità assolutamente infinita degli essenti) in sé includente tutto ciò che è identico a sé. E sarebbe interessante soffermarsi (cosa che mi impegno a fare in altri scritti) sulle riflessioni di Severino, luminose e gravide di sviluppi, circa la necessità che il “Tutto infinitamente concreto” sia destinato ad apparire quando tramonta l’isolamento della terra, senza che questo smentisca l’impossibilità che il “Tutto assolutamente assoluto” sopraggiunga139. Messinese si avvale invece della parola “creazione” per indicare «la relazione della coscienza finita all’essere infinito»140 distinguendo così due significati di “trascendenza” e di “alterità” rispetto al finito: «1) quello che è presente nella “differenza ontologica” nel senso affermato da Severino, che è un significato “debole” di trascendenza, in quanto si riferisce alla dimensione degli essenti che resta attualmente nascosta; 2) quello della “differenza metafisica” intesa nel senso del138 E tuttavia «la relazione del finito all’Infinito differisce dalla relazione dell’Infinito al finito» (E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 501) perché il modo in cui l’Infinito è presente nel finito differisce dal modo in cui il finito è presente nell’Infinito. 139 Cfr. E. Severino, Oltrepassare, cit., cap. ix. 140 L. Messinese, Il paradiso della verità, cit., p. 215.

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la filosofia classica, che è un significato “forte” di trascendenza in quanto si riferisce all’Apparire infinito in senso assoluto, cioè precisamente alla trascendenza in senso pienamente “teologico”»141. Se tuttavia andiamo alla radice di quella “forza”, scopriamo che essa intende (è cioè il tentativo di) separare la totalità assoluta dell’essere da quella “parte” che è l’apparire finito. Ma la forza che è autenticamente stante è quella della verità dell’essere – che è il non controvertibile in quanto della potenza isolante della negazione (e cioè del contraddittorio tentativo di tenere isolato ciò che è necessariamente relato) è l’originaria negazione.   In chiusura del commento al precedente scritto di Messinese (L’apparire del mondo), ho sottolineato la decisività dell’invito che quel pregevolissimo lavoro contiene: ritornare al bivio di Parmenide. Non meno pregevoli mi sembrano le pagine de Il paradiso della verità che, se pur nella distanza della critica, ho cercato di presentare e commentare. Ancora una volta l’invito è quello di considerare le cose quali si mostrano «nella pura luce dell’essere»142 nella consapevolezza che l’apparire dell’essere è da sempre, essenzialmente e per sempre, apparire della verità dell’essere: «Il viaggio della ricerca della verità è originariamente compiuto e l’uomo deve soltanto riconoscere che egli, nel paradiso della verità, abita da sempre»143. Ma vi abita secondo il senso della necessità che appartiene all’apparire del destino.

141 Ibidem. 142 Ibi, p. 217. 143 Ibidem.

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nota bibliografica

Il fondamento e l’élenchos: pubblicato in «Marcianum» iii (2007) n. 1; qui presente con alcune integrazioni. L’intero semantico e le sue parti. Note su Le radici forti del pensiero debole di Gianfranco Basti: pubblicato in «Divus Thomas» (GennaioAprile 2001). Il divenire dell’eterno e la verità dell’accadere. È la rielaborazione di due distinti articoli: Il divenire dell’eterno. Replica al saggio Il divenire e l’eterno di Alessandro Martinetti, pubblicato in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» (Ottobre-Dicembre 2006) e La verità dell’accadere. In dialogo con A. Martinetti, pubblicato in «Divus Thomas» (Gennaio-Aprile 2010). Bontadini, Severino e il ritorno di Parmenide: pubblicato in Filosofie nel tempo. Storia filosofica del pensiero occidentale e orientale, Spazio Tre, Roma 2006, opera diretta da Giorgio Penzo, vol. iii, tomo ii, sezione viii. Dario Sacchi, Lineamenti di una metafisica di trascendenza: pubblicato in «Marcianum» iv (2008) n. 1. Aniceto Molinaro, Al di sopra dell’essere. Pensare e credere: pubblicato in «Marcianum» v (2009) n. 1. Carlo Arata, «Ego Sum Qui Sum». La Gloria di Dio: pubblicato in «Marcianum» iv (2008) n. 1. Angelo Scola: verità, fede, salvezza. Lo scritto unifica (con integrazioni) la relazione presentata al Convegno sul tema “Il morire tra ragione e fede” organizzato nel 2009 dal Dipartimento di Psicologia generale dell’Ateneo patavino – il testo si trova in «Humanitas» 6 (2009) – e il contributo preparato per gli Atti del medesimo Convegno. Per una rigorizzazione della metafisica classica. La proposta di Leonardo Messinese in dialogo con Emanuele Severino e Gustavo Bontadini: pubblicato in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica» (Luglio-Settembre 2010). La fede, la ragione, l’Infinito. Colloquio filosofico con Leonardo Messinese è un inedito.

 

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INDICE DEI NOMI

Agostino, 40 Anselmo, 193 Arata C., 191-200 Aristotele, 20, 22, 24, 28-31, 38-42, 62, 84-86, 120, 139, 141, 143, 145, 152, 254 Avicenna, 84, 180 Barth K., 196 Basti G., 51-59, 61-66, 69-71, 74, 7778, 80-85, 87-91 Boezio S., 250 Bontadini G., 100-101, 120, 128, 133-144, 147-151, 154, 156160, 162-163, 168-170, 173177, 182-184, 188, 190-191, 197, 200-201, 204-206, 209, 215-216, 220-221, 223-227, 230, 236, 240, 243-244, 254255 Brouwer L.E.J., 58 Cantor G., 53-54, 56-57, 60, 63-65, 67-68 Carnap R., 18 Dante, 213 Eckhart G., 212 Fabro C., 52, 78, 170, 237 Gentile G., 135-136, 149, 157, 221 Gödel K., 57, 63-64, 78 Goggi G., 101, 138, 224, 255 Habermas J., 39 Hegel G.W.F., 29-32, 35-36, 49, 136 Heidegger M., 196 Hilbert D., 56 Hume D., 173-174 Husserl E., 22

Kant I., 22, 78, 169, 205 Leopardi G., 157 Lévinas E., 196 Magris A., 195 Mancini I., 159 Maritain J., 133 Martinetti A. 99 Masnovo A., 133, 139, 159 Melchiorre V., 160-162, 167, 237 Melisso, 147-148, 152, 222 Messinese L., 215-254, 256-257, 259266 Molinaro A., 182-191, 251, 262 Natoli S., 167 Neumann J. von, 56-57, 71 Nietzsche F., 39, 157, 169 Olgiati F., 134 Parmenide, 42, 49, 58, 74-75, 78-79, 83, 94, 101, 104, 126-127, 133, 138-141, 143-153, 155, 158160, 164-165, 168-170, 175, 177, 189, 191, 193-194, 197, 205-206, 216, 222-227, 230, 239, 243-244, 253-255, 258, 263, 266 Paolo di Tarso, 21 Perrone A., 52 Popper K.R., 20 Platone, 17, 19, 57, 78-79, 81, 94, 126-127, 145, 148, 158, 171 Plotino, 196 Rosmini A., 29 Ruggenini M., 166-167 Ruggiu L., 164-166 Sacchi D., 99, 169-171, 173-182

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270 Schelling F.W.J., 196 Scola A., 200-201, 204-210 Severino E., 11, 13, 17-18, 25, 27, 30, 33, 35-37, 42, 48, 51-54, 57-60, 65-75, 77-81, 83-84, 86, 88-89, 91-97, 100-102, 104-105, 107, 109, 114-117, 120-126, 128, 133, 143-148, 151-160, 162171, 176-178, 182, 184, 186187, 190-191, 193, 195, 200208, 210-212, 215-223, 225-226, 228-234, 236, 239250, 252-253, 255-256, 258261, 265 Suárez F., 78

Indice dei nomi Tarca L.V., 165-166 Taulero G., 212 Tomatis F., 195 Tommaso d’Aquino, 21, 24-25, 2831, 34, 53-55, 58-65, 77-78, 8088, 90-91, 134, 139, 141, 163, 170, 179-181, 185-186, 197, 204-205, 211, 227, 236-238, 250, 252, 254-256, 262 Totaro F., 162 Valent I., 165 Vigna C., 99, 160, 162, 164, 166, 237 Visentin M., 99 Wittgenstein L., 165 Wolff Ch., 78

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Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1 Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire 2 Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas 3 Antonino Trusso, L’uomo allo specchio 4 Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma 5 Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire 6 Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi 7 Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione 8 Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze 9 Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità 10 Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione 11 Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, 12 Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri 13 Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari 14 Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson 15 Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano 16 Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner 17 Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura 18 Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” 19 Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico 20 Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger 21 Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento 22 Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze 23 Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche 24 Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni 25 Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty 26 Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene 27 Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica 28 Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste 29 Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità 30 Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti

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31 Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire 32 Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo 33 Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James 34 Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione 35 Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica 36 Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco 37 Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan 38 Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica 39 Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità 40 Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini 41 Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer 42 Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti 43 Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa 44 Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno 45 Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran 46 Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo 47 Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica 48 Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, 49 Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana 50 Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese 51 Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica 52 Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea 53 Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche 54 Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, 55 Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I 56 Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio 57 Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante 58 Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis 59 Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici 60 Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill 61 Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo 62 Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas 63 Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter 64 Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo 65 Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae

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66 René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti 67 Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male 68 Franco Manti (a cura di), Res publica 69 Luca Marchetti, Oltre l’immagine 70 Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini 71 Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel 72 Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale 73 Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa 74 Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant 75 Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana 76 Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini 77 Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi 78 Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona 79 Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino 80 Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale 81 Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia 82 Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé 83 Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico 84 Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità 85 Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn 86 Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica 87 Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) 88 Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida 89 German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi 90 Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl 91. Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro 92. Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali 93. Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino 94. Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo 95. Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone 96. Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte 97. Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno

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98. Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia 99. Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano 100. Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche 101. Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij 102. Aldo Trucchio (a cura di), Cartografie di guerra. Le ragioni della convivenza a partire da Kant 103. Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar 104. Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” 105. Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento 106. Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne 107. Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente 108. Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti 109. Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne 110. Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica 111. Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer 112. Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka 113. Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità 114. Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) 115. Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida 116. Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare 117. Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea 118. Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica 119. Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo 120. Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto 121. F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel 122. Soardo Andrea, Accade l’accadere 123. Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni 124. Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto 125. Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele 126. Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile 127. Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente 128. Auguro Ponzio, In altre parole 129. Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi 130. Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti

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131. Di Bernardo Mirko, I sentieri evolutivi della complessità biologica nell’opera di S. A. Kauffman 132. Marrone Pierpaolo, Etica, utilità, contratto 133. Marsili Marco, Libertà di pensiero. Genesi ed evoluzione della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti politici dal V sec. A.C. 134. Cortella Lucio, Mora Francesco, Testa Italo (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu 135. Cavarra Berenice e Rasini Vallori (a cura di), Passaggi. Pianta, animale, uomo, in preparazione 136. Elio Matassi, Il giovane Lukács. Saggio e sistema 137. Giacomo Fronzi, Theodor W. Adorno, Pensiero critico e musica 138. Emma Palese, Ex Corpore. Antologia Filosofica sul Corpo 139. Andrea Campucci, Nietzsche: la fine della ragion pura 140. Umberto Lodovici, Religione e politica. Il contributo di Jacques Maritain 141. Tonino Infranca, Lavoro, Individuo, Storia 142 Matteo G. Brega, L’estetizzazione del quotidiano. Dall’Arts and Crafts all’Art Design 143. Romolo Capuano (a cura di), Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della Pereidolia e dei suoi segreti 144. Bruno Accarino, Ostilità. Il mosaico del conflitto 145. Nicoletta Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla 146. Marianna Esposito, Oikonomia. Una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss 147. Georgia Zeami Francesca Presti, Daimonicità del lógos. Socrate nel Protagora e nel Gorgia 148 Marcello Barison, Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio, 2011 149. Fabio Vander, Relatività e Fondamento. Filosofia di Aristotele 150. Giorgio Cesarale, Hegel nella filosofia pratico-politica anglosassone dal secondo dopoguerra ai giorni nostri 151. Francesco Valagussa (a cura di), Immanuel Kant. Prima introduzione alla Critica della capacità di giudizio 152. Marcello Ghilardi, Arte e pensiero in Giappone. Corpo, immagine, gesto 153. Pietro Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica. Un Seminario, alcuni saggi e materiali per uno schizo-umanesimo 154. Rosa Marafioti, Il ritorno a Kant di Heidegger. La questione dell’essere e dell’uomo 155. Giancarlo Lacchi, Ludwin Klages Coscienza e immagine. Studio di storia dell’estetica 156. Maurizio Guerri, Necessità dell’estetica e potenza dell’arte 157. Susan Petrillo, Augusto Ponzio, Luciano Ponzio, Interferenze 158. Anna Castelli, Lo sguardo di Kafka. Dispositivi di visione e immagine nello spazio della letteratura 159. Silvia Capodivacca, Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud 160. Maurizio Guerri, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in Ernst Jünger 161. Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli (a cura di), Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica. A partire da Michel Foucault 162. Alfio Fantinel, Tracce di assoluto. Agonia dell’infinito in Giordano Bruno 163. Lisa De Luigi, Animalia. Teoria e fatti della macchina antropogenica

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164. Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione 165. Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida 166. Paulo Barone, Utopia del presente 167. Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera 168. Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica 169. Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia 170. Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze 171. Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria 172. Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva 173. Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi 174. Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori 175. Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur 176. Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti 177. Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora 178. Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio 179. Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? 180. Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio 181. Riccardo Corsi, Incroci simbolici 182. Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica 183. Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti 184. Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento 185. Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty 186. Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali 187. Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza 188. Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura 189. Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. 190. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito 191. Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi 192. José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro 193. Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo 194. Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico 195. Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune 196. Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento 197. Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder 198. Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari 199. Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou

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200. Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento 201. Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione 202. Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura 203. S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme 204. Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti 205. Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch 206. Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia 207. Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero 208. J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione 209. Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura 210. Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea 211. Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath 212. Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione 213. Luca Mori, Tra la materia e la mente 214. Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno 215. Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica 216. Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere 217. Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana 218. Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico 219. Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger 220. Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza 221. Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali 222. Liliana Nobile, Democrazie senza futuro 223. Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita 224. Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale 225. Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica 226. Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin 227. Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka 228. Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia 229. Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine 230. Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento 231. Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze 232. Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo 233. Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso 234. Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume 235. Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim 236. Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità

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237. Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile 238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica 269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia 270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità

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273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (1970-2010) 274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter 284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno 285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi. Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas 286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici 287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner 288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire 289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione, traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore 290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso storico 291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e l’apologia dell’apparire 292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi 293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere 294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della ἀλήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger 295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale 296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti 297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger 298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella 299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana. Dottrine, testi, contesti e lessico 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher  301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte 302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità 303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere 304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia 305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica 306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello

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Zarathustra di Nietzsche 307. Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia» 308. Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe 309. Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi 310. Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive filosofiche sulle scienze della vita 311. Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza 312. Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in Friedrich Nietzsche 313. Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica 314. Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico 315. Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e narrazione della sua trasmutazione 316. Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario 317. Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto 318 Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco 319 Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch 320 Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont 321. G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804) 322. Leonardo V. Distaso - Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín: un’indagine storica ed estetica 1933-1945 323. Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e nellʼebraismo 324. Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone 325. Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014, 326. Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore di Giovanni Invitto 327. Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni 328. Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione 329. Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo Michelstaedter 330. Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion 331. Francesco Rizzo, Fenomenologia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio, etica, estetica 332. Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena

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Finito di stampare giugno 2014 da Digital Team - Fano (PU)

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