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Italian Pages 400 [406] Year 2023
Massimo Donà Di fantasmi, incantesimi e destino Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità
Zeugma
Collana diretta da:
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 17 – Classici
Massimo Donà
Di fantasmi, incantesimi e destino Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità
Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma
www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]
Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 17 – aprile 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-386-0 ISBN – Ebook: 978-88-5529-393-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Massimo Donà, Dinamismi senza costrutto, disegno digitale
Ai miei studenti, per tutto quello che mi hanno insegnato e ancora continuano ad insegnarmi
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Preludio
Se per Severino l’errore, ossia l’alienazione della verità, «è il terreno in cui vanno via via crescendo le opere, le istituzioni, le res gestae – e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali – dell’Occidente e quindi anche ogni historia rerum gestarum»1, e se, sempre per il filosofo bresciano, come già per Vico, «la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore»2, è anche vero che il contenuto dell’errore si costituisce per il filosofo bresciano come qualcosa di rigorosamente impossibile. Ma se le cose stanno così, chi potrebbe sensatamente mettere in dubbio che sia «impossibile che l’impossibile abbia a manifestarsi in una qualsiasi esperienza»3? Ecco perché le motivazioni che sembrano sorreggere la negazione della verità sono «soltanto apparenze di motivazioni: non sono motivazioni reali, vere, perché per essere tali do-
1. E. Severino, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente, Rizzoli, Milano 2013, p. 8. 2. Ivi, p. 201. 3. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2008, p. 194.
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vrebbero fondarsi su quella verità originaria, che invece esse intendono negare»4. Insomma, il contenuto dell’errore non appare; e non può apparire proprio in quanto sussiste solo come persuasione relativa a quel certo contenuto. Ad apparire è cioè, per Severino, sempre e solamente la persuasione in cui consiste quella che chiamiamo erranza, ma mai il contenuto di tale persuasione: ossia l’errore. Per questo il nostro filosofo avrebbe potuto affermare che il distruggersi e il diventar niente delle cose viene affermato non già in quanto questo loro esser niente appaia – e cioè in quanto si esprima fedelmente il contenuto dell’apparire –, bensì in quanto questo contenuto viene interpretato secondo le categorie di quella saggezza pratica che sinora ha favorito la vita dell’uomo nel mondo.5
Insomma, tutti gli errori in cui l’Occidente ha creduto e continua a credere, pensando addirittura si tratti di contenuti effettivamente manifesti, sono meri «fantasmi». Ossia esistono solo in quanto determinati contenuti (pur costituendosi come contenuti di per se stessi «inesistenti») vengono ritenuti esistenti. Esistono, cioè, solo come contenuti di fede – di quella fede che, sola, può farli in qualche modo esistere. Ecco perché tutta la storia dell’Occidente è, per Severino, una semplice storia di fantasmi e incantesimi (in grado di incantare una miriade di esseri umani e di far loro credere che, ad essere, sia anzitutto quel che non-è) che, peraltro, sono e possono svelare quel che sono solo alla luce della verità. Sì, perché, a dimostrare la loro radicale inconsistenza, può essere solamente il Destino. Solo quest’ultimo potendo cioè mo-
4. E. Severino, Essenza del nichilismo, Paideia, Brescia 1972, p. 91. 5. Ivi, p. 94.
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strare la loro impossibilità; e per ciò stesso la loro costitutiva fantasmaticità. Ecco perché la verità concepita e pensata con tanto rigore da Emanuele Severino (il suo concetto di verità costituendosi come il più rigoroso tra tutti quelli elaborati nel recente o nel più lontano passato dal pensiero occidentale) è sempre stata un vero e proprio, nonché accanito ghostbuster. Un vero e proprio acchiappa-fantasmi, chiamato ad operare a partire dalla «serena» consapevolezza secondo cui tutto (e dunque anche ogni persuasione malata, ma anzitutto ogni errore, e dunque ogni fantasma) sarebbe perfettamente illuminato dalla luce della verità; perché «l’apparire infinito del destino è la Gioia»6. E l’umano è destinato ad inoltrarsi all’infinito nell’apparire infinito; e a sperimentare così «l’eterno oltrepassamento di tutte le contraddizioni del finito»7.
6. E. Severino, La potenza dell’errare, cit., p. 153. 7. Ibidem.
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In memoria del mio Maestro
Non è stato un semplice professore di filosofia. O almeno, non lo è stato per me. Ho avuto la fortuna di incrociarlo, nel mio percorso di vita a Venezia, nella seconda metà degli anni Settanta. È stato e continuerà a essere la prova del fatto che, là dove il discorso si impone, e non ti lascia vie di scampo – là dove a disegnarsi è cioè la verità, ossia qualcosa che non si lascia confutare, ma nello stesso tempo ti persuade senza farti sentire “incatenato”, ossia conducendoti per mano verso la luce di una Gloria “liberatrice” (che, lungi dal renderti schiavo, mostra la tua originaria “regalità”) –, ecco, là dove accade tutto questo, non è un semplice essere umano a parlare o a scrivere; ma il Destino in quanto tale a lasciarsi disegnare. Di tutto ciò è stato la prova Emanuele Severino, un filosofo che ha cominciato la sua carriera nelle aule dell’Università Cattolica, per proseguirla poi a Venezia e concluderla in quelle dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano; dove ha lasciato il segno, più o meno dai settanta ai novanta anni, su ancora tante altre generazioni di giovani studenti. Quando lo sentivi parlare non avevi l’impressione di aver a che fare solo con un uomo coltissimo e intelligentissimo;
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ma molto di più. A disegnarsi, davanti ai tuoi occhi e alle tue orecchie, era infatti il logos in quanto tale; qualcosa di non riducibile all’opinione (per quanto ben fondata) di un filosofo. Severino ha deciso della mia vita; me ne sono reso conto quando, dopo averlo ascoltato per la prima volta nell’aula A di San Sebastiano a Venezia, ho capito che quello sarebbe stato il mio destino. Che non mi ci sarei potuto sottrarre. Credo di poter immaginare, dunque – e solo perché ho avuto la fortuna di essere allievo di Emanuele Severino –, cosa potesse voler dire aver la fortuna di seguire le lezioni di Kant, di Hegel o di Heidegger. Severino è uno dei pochissimi, credo, che rimarrà nella memoria dei secoli a venire come un vero e proprio «gigante» del pensiero. Non ci ha mai raccontato la «storia della filosofia»; più precisamente, ci ha insegnato a pensare. Insegnava a porsi le domande che contano; e a farsi inquietare dalla potenza di una verità nei cui confronti non ci si può che fare testimoni, cercando di seguirne diligentemente il “dettato”. Ma, se la sua parola si annunciava e voleva essere fedele alla «verità», è bene ricordare che, per lui, farsi testimoni della verità significava porsi in ascolto di qualcosa che ben poco avrebbe avuto a che fare con ciò che per la tradizione occidentale aveva sempre significato una tale parola. Per lui, infatti, testimoniare la verità, ossia il Destino, significava riconoscere la regalità di ogni manifestazione dell’essente, e non – come si è sempre creduto, lungo la storia dell’Occidente – solo di una parte dell’essente (chiamata di volta in volta, «idea», «essenza», «Dio», «legge scientifica», ecc.). Perciò ci ha insegnato a considerare divina ogni esistenza. E ad averne un sacro rispetto.
Su Severino
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La «verità» e il mago Frestone
Ricordo ancora, come fosse oggi, la prima lezione che mi capitò di seguire, da studente, nella mitica Aula A di San Sebastiano a Venezia – una lezione che ha segnato la mia vita, anzi che l’ha letteralmente de-cisa. Decidendo del mio futuro, e consegnandomi anzitutto ad una inossidabile ossessione per la «verità». D’altro canto, la verità – lo capivo anch’io, già allora – non poteva evidentemente essere né mia né di Severino, essendo la medesima, nello stesso tempo, di tutti (essendone tutti gli essenti originaria manifestazione) e di nessuno (ché non è posseduta da nessuno degli umani che si impegnano a testimoniarla, allo stesso modo in cui nessuno degli essenti è posseduto da essa, come da una catena che in qualche modo lo «costringa»). La potenza di quelle parole – la ricordo come fosse ieri… – i riferimenti alla lampada accesa (una lampada effettivamente appesa al soffitto dell’aula A), al suo apparire, al suo costituirsi come apparire dell’eterno. Ecco: tutto ciò metteva chiarissimamente in luce come quel che Emanuele Severino stava cercando di far capire, a noi studenti, non fosse affatto la semplice opinione di un pur bravissimo professore di filosofia, ma, ben più radicalmente, qualcosa che si sarebbe dovuto poter riconoscere come significato originario dell’essente tutto inte-
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ro. Si badi bene, un significato già allora (per quanto fossimo solo verso la fine degli anni Settanta) concepito da Severino come di gran lunga eccedente l’imperfezione delle parole e dei concetti che avessero voluto farsene testimoni. Insomma, qualcosa mi stava facendo capire che, finalmente, avevo incontrato non solo un Maestro – al quale, peraltro, devo ancora tutto quel poco o tanto che sono riuscito a fare in seguito –, ma la concreta occasione per ricondurre la mia vita a quella che oggi Severino chiamerebbe, forse, «la Gioia originaria». Un concetto, quest’ultimo, che ancora non era stato tematizzato dagli scritti pubblicati sino quel momento; ma che già vibrava nelle parole tanto di Essenza del nichilismo quanto di Destino della necessità (uscito, quest’ultimo, non molto tempo prima della mia tesi di laurea, avvenuta nel 1981). Un concetto che vibrava già, nelle parole di quegli scritti, quale loro ultima e più autentica «destinazione». Per quanto solo in seguito – devo anche riconoscere – l’avrei davvero compreso. Capivo infatti che non si trattava solo di un’occasione per imprimere una svolta alla mia vita, per trasformarla e magari renderla più autentica (come sarebbe stato facile dire), ma del palesarsi del suo «essere già da sempre stata» (la mia vita) quel che peraltro solo allora cominciavo a vedere. Perché, proprio della possibilità che si trattasse di una «trasformazione»… quel discorso costituiva la più radicale messa in questione. Ma soprattutto, di quel discorso, mi affascinava il desiderio di venire criticato o interrogato, quasi auspicando di venire messo concretamente in questione. Di questo, le parole del Maestro si facevano già allora testimoni, conformandosi ad una dinamica argomentativa davvero straordinaria. È cosa nota, infatti – e il Maestro continua a ribadirlo anche nei volumi più recenti –, che, nell’orizzonte del Destino,
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«tutti i critici, con maggiore o minore potenza, sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i suoi scritti»1. Un contenuto che già allora veniva inteso come «verità», anzi come destino della verità. Ma già allora il Maestro sapeva bene che, se è vero che «senza errore non c’è verità… (ancor più vero è) che proprio l’errore con-ferma la verità, (ossia) la rende ferma»2. Insomma, la verità «sarà tanto più concreta quanto più l’errore sarà concreto, fiorirà e sarà robusto, coerente, razionale e suggestivo»3. Insomma, già allora avrebbe riconosciuto che «la verità non abbandona a se stesso l’errore: (solo perché) esso cresce secondo le leggi della verità»4. Insomma, Severino non ha mai temuto i discorsi volti a confutarlo, impegnati a scorgere dei supposti punti deboli all’interno del suo sistema filosofico; anzi li ha (in modo solo apparentemente paradossale) sempre cercati e reclamati… con grande avidità e assai curiosa soddisfazione. Questo mi sembrò sin da subito sconcertante; anch’io, infatti, come tutti, ero abituato a credere che, invece, nessuno che fosse convinto di sapere qualcosa in modo certo, anzi vero, potesse addirittura desiderare d’essere messo in questione, o quanto meno in difficoltà. Ma in realtà, come ho capito assai presto, anche se non subito, Severino amava (e lo ama ancora) che ci si impegnasse a confutarlo per un semplice, ma fondamentale motivo: perché già allora era perfettamente convinto di quello che ho appena ricordato: ossia, del fatto che l’errore non può che crescere conformemente alle leggi della verità.
1. E. Severino, La potenza dell’errare, cit., p. 178. 2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 179.
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Che l’errore, in senso proprio, non esiste (ad esserci essendo sempre e solamente l’errare, e mai l’errore… allo stesso modo in cui c’è il contraddirsi, ma mai la contraddizione). Cito da Tautotes (ma potrei citare da molti altri testi); «L’identità dei non identici è il nulla; ma nell’isolamento della terra il pensiero dei mortali, che in verità pensa il nulla (pensa il nulla, diciamo: non diciamo che non pensa nulla), crede di pensare che questa superficie è bianca, che questo è Socrate… e ciò che è morto e nullo, i mortali lo intendono come un certo significare non nullo – il significare in cui consiste l’identificazione dei non identici – il positivo significare del nulla… Che è un essente, certo… mentre non lo è, in alcun modo, l’identità dei non identici» – così si esprime Severino, in Tautotes5. Ma potremmo citare anche Ritornare a Parmenide: Il pensiero vive anche quando si contraddice: quando si contraddice, cioè, non si annulla. Ma… eccoci al punto: il contraddirsi non è un non pensar nulla, ma è un pensare il nulla. […] Il pensiero che si contraddice guarda il nulla. Si intenda: la negazione dell’opposizione nega il proprio fondamento e quindi nega se stessa: ciò che viene effettivamente pensato, in questa negazione (che è anche autonegazione), è il nulla. E in quanto il nulla si lascia guardare, indossa la veste del positivo.6
Ma se non c’è errore, ovvero, se c’è solo un errare perfettamente conforme alle leggi della verità (che cresce in modo perfettamente conforme alle leggi della verità), la verità non confuterà mai l’errore. Ma sempre e solamente il suo fantasma; il vero e proprio fantasma dell’errore.
5. E. Severino, Tautotes, Adelphi, Milano 1995, p. 156. 6. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 57.
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È di quest’ultimo, cioè, che essa mostra l’autotogliersi. Sempre che il suo autotogliersi non dica altro che la sua originaria conformità al «vero». O meglio, l’errore mostra di non esserci, e lo mostra nell’atto stesso del suo autotogliersi; perciò in questo autotogliersi, a darsi, è semplicemente l’errare – fatto impropriamente valere come espressione dell’originario autotogliersi dell’errore. Il quale, in verità, in virtù del proprio autotogliersi, non dovrebbe neppure riuscire a costituirsi. Eppure, è Severino stesso ad avercelo insegnato: se il soggetto dell’autotogliersi fosse nulla, ossia, non fosse, di cosa potremmo mai dire «che si autotoglie»? Per autotogliersi, dunque, l’errore deve esserci, per quanto, appunto, come l’autotoglientesi. Ma se l’autotoglientesi «è» – perché «deve» esserci, pena il non costituirsi neppure del suo autotogliersi –, in che senso verrebbe ad autotogliersi quel che, in ogni caso, «deve esserci», se non altro per potersi autotogliere (anche se non si sa bene in che senso, però, il medesimo verrebbe ad autotogliersi)? In che senso, cioè, si autotoglierebbe quel che comunque deve esserci? Non potendo certo costituirsi, l’autotogliersi, come un semplice annichilirsi (sempre stando al discorso testimoniato da Severino). Insomma, Severino mi ha fatto capire (e questo è quel che conta)… proprio seguendo rigorosamente il «cosiddetto» suo ragionamento, che se l’errore non è, a non essere sarà anzitutto il nulla, e non qualcosa di esistente… sarà il nulla, insomma, a costituirsi come il primariamente autotoglientesi. Lasciando, peraltro, del tutto inspiegato il senso di tale autotogliersi – che non può certo coincidere con l’annullarsi dell’autotoglientesi, ma con il semplice non fungere da contraddizione da parte del contraddirsi. Eccoci, dunque, alla questione decisiva: se il nulla non è (stante che esso non può essere), da cosa verrà mai determinato l’essere?
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Cioè, da cosa viene determinata la sua verità? Eppure tale verità altro non dice che l’esser sé di tutto; l’esser se di un tutto che sarà se stesso solo in quanto distinguentesi da qualcosa di altro da sé. Ma, insisto, da cosa potrà mai distinguersi la verità, se l’errore, di fatto, non c’è? Non è, dunque, proprio seguendo il discorso testimoniato dai testi di Severino che ci si trova a dover riconoscere che, da ultimo, l’unico vero errore consiste nell’erranza della verità medesima? La quale si ritroverebbe ad errare, in quanto costituentesi proprio essa, anzitutto, come non conforme al proprio nomos – non avendo di là da sé nulla che possa determinarla come verità? Come verità distinta dall’errore? Insomma, Severino mi ha insegnato tutto; anzitutto mi ha insegnato – nonostante e nello stesso tempo grazie al costituirsi, da parte del cosiddetto «suo discorso», quale testimonianza del Destino – che proprio l’errare è il senso originario della verità. Che proprio l’erranza, cioè, è l’inconscio di una verità che pur vorrebbe (vana pretesa!) distinguersi da quell’errare che è anzitutto il suo. Lo so… il discorso del Destino potrebbe redarguirmi, come fa Don Chisciotte con Sancio Panza, ed evocare un analogon del mago Frestone, che potrebbe esser stato proprio lui ad aver subdolamente convertito quei giganti (le contraddizioni) in mulini (in un semplice contraddirsi), per togliergli la gloria di vincerli (tale è l’inimicizia che gli tiene). Ma non è così… il «vero» «vince» su qualcosa che non si contrappone mai ad esso, proprio perché destinato a crescere secondo le sue leggi. Ad ogni modo, cari amici e care amiche, e caro Professore, chiuderei questa brevissima riflessione ponendomi (e ponendoLe) una domanda: e se fosse necessario (proprio per il
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suo stesso costituirsi come intrascendibile «erranza»), che – ad immagine del Chisciotte – anche il Destino (destinato, appunto, a vedere il contraddirsi come contraddizione, e a indicare il suo togliersi) non possa rinunciare, per nulla al mondo, a credere che: «alla resa dei conti, poco varranno le male arti di Frestone (cioè, le mie) contro la bontà della sua spada?»
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Follia e verità del divenire Il pensiero di Emanuele Severino
L’essenza dell’alienazione non ha nulla a che vedere con le forme di alienazione denunciate dal pensiero occidentale, quali il distacco da dio, dalla natura, dalla coscienza morale, dal possesso dei mezzi di produzione, dalla normalità psichica, dalla verità definitiva dell’episteme, perché tutte queste denuncie sono completamente immerse nell’essenza dell’alienazione. Da tempo nei miei scritti si tenta di mostrare che l’essenza dell’alienazione è la persuasione e insieme la volontà che le cose della terra, in quanto cose, siano niente. Emanuele Severino, Legge e caso
Introduzione Che quella di Emanuele Severino sia una delle proposte filosofiche più originali del nostro tempo è fuor di dubbio; valgano, ad attestarlo, gli «scandali» da essa provocati e i non pochi attacchi dalla medesima subiti da parte delle più diverse scuole filosofiche, sia laiche che cattoliche. Metafisici e teologi, alfieri del pensiero debole e dell’ermeneutica, analitici e continentali, tutti uniti in un incessante tentativo di demolizione di quello che resta – di là da tutto – uno degli impianti speculativi più potenti che la contemporaneità abbia sinora saputo offrire. Quella di Severino è infatti una filosofia che volteggia sulle vette e non ama brucare a fondo valle1.
1. E questo è vero sin dalle prime manifestazioni della medesima. Già negli anni ’50 che Emanuele Severino si dedica ad opere assai impegnative ed
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Pensiero allo stato puro, che sin dai suoi primi passi, ha ritenuto di doversi misurare con la filosofia classica, facendone un punto di riferimento costante – nella ferma convinzione che, solo tornando a confrontarsi con i venerandi maestri delle origini, sarebbe stato possibile corrispondere degnamente alle sfide che hanno sempre fatto grande la filosofia2.
oltremodo pretenziose. Si pensi che un volume come La struttura originaria esce nella sua prima edizione nel 1958. È dunque già a ventinove anni che il nostro pone le basi essenziali di tutto il suo sistema filosofico – alle pagine di quest’opera tutti i suoi scritti successivi infatti rimandano come al loro terreno fondante. In esse Severino delinea i primi tratti della struttura originaria della verità dell’essere – il luogo all’interno del quale, solamente, può diventare chiaro in che senso l’essenza dell’Occidente sarebbe «il nichilismo». Lo sguardo che vede l’essenza dell’Occidente, e quindi l’essenza del nichilismo (su tale concetto il nostro si soffermerà in un’altra sua grande opera, intitolata, per l’appunto, Essenza del nichilismo, 1972), non può che essere esterno alla medesima – esso, infatti, vede la follia dell’Occidente alla luce della Necessità e del suo Destino, e solo in quanto così situato, può portare alla luce l’inconscio che starebbe alle spalle della stessa struttura inconscia dell’Occidente: ossia la folle persuasione relativa alla nientità dell’essere – ciò che la fede nell’evidenza del divenire inevitabilmente sottintende e che costituisce appunto l’impossibile sfondo di una vicenda di cui ha comunque continua ancora oggi a decidere le sorti. 2. In questo senso il pensiero di Severino si propone anche come una delle più «grandi» letture dei classici della filosofia occidentale. La sua proposta assolutamente originale nasce cioè da un continuo e radicale confronto con i maestri dell’Occidente – un confronto che sin dalle prime opere giovanili viene portato avanti con grande maestria. Si pensi agli scritti che, tra il ’48 e il ’58 (ora raccolti in Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano 1994), e tra il ’55 e il ’63 il nostro compone in qualche modo a ritroso – dalla filosofia contemporanea alla metafisica classica. Da Heidegger e Gentile, da Fichte a Kant e Aristotele. Ma Severino continuerà a dialogare con i grandi classici (Nietzsche, Hegel, Tommaso, Platone, Anassimandro, Eraclito…) ancora nelle sue opere più recenti. Si pensi solo alla grande opera su Nietzsche (L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999). Dialogherà quindi con l’epistemologia contemporanea (Schlick, Carnap, Russel), con Habermas e con tutti i grandi della contemporaneità. Un confronto davvero incessante, che infonde di nuova luce quella che lui definisce la storia della follia. Mostran-
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Ma, se agli occhi di Severino il sapere filosofico non si configura come doxa, non si può neppure dire che gli si prospetti come una delle tante forme di episteme sinora succedutesi sulla scena dell’agone speculativo. Questo va chiarito fin da subito: se quella di Severino non si propone come una qualsiasi episteme, ciò è dovuto al fatto che non in essa non si fa riferimento ad un immutabile valevole come «rimedio» contro la precarietà e la contraddittorietà del cosiddetto mondo della vita reale. In questo senso la sua elaborazione filosofica è sempre stata anche una grande critica alla tradizione teologica cristiana3 – il cui rimedio sarebbe stato ai suoi occhi irrimediabilmente destinato ad essere sempre più decisamente accantonato. Nessuna cura potendo guarire la malattia, se non altro in quanto radicata su quel medesimo veleno da cui avrebbe dovuto in qualche modo guarire. E per ciò stesso impossibilitata a renderci «sicuri». Insomma, quella di Severino non è un’ennesima forma di episteme perché non si propone come «cura»; il suo logos, infatti, non vuole lenire alcun «dolore». D’altro canto, se il dolore, ossia il «tremendo» da cui ogni forma di episteme avrebbe voluto metterci in salvo, ha a che fare con quel divenire che nasconde il cuore stesso della follia metafisica (l’identificazione dell’essere e del nulla) – quello che purtuttavia ha accompagnato come un basso continuo le pur diversissime metafisiche dispiegatesi sino ad oggi nel corso della storia dell’Occidente –, allora nessuna cura potrà mai avere una qualche, sia pur blanda, efficacia.
done nel contempo la grandezza. Ché la follia dell’Occidente è per lui una «grande» follia. 3. Per quanto riguarda il suo confronto con il Cristianesimo ci limitiamo a ricordare qui un bel volume edito da Rizzoli e intitolato Pensieri sul cristianesimo (Rizzoli, Milano 1995).
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Ai suoi occhi è infatti la struttura stessa della malattia a rendere originariamente impotente qualsivoglia farmaco. Severino ha da tempo mostrato come, stante l’originarietà della fede nel divenire, stante la sua irrinunciabilità, qualsivoglia rimedio, proprio in quanto «secondo» rispetto a tale struttura, e soprattutto in quanto radicalmente «contraddetto» dalla medesima, è destinato a farsi da parte, ed a lasciare quindi spazio al pieno dispiegamento di rimedi efficaci proprio in quanto capaci di conformarsi alla effettiva contingenza del reale ed alla sua strutturale mutevolezza. Ossia, a rimedi «ipotetici», probabilistici – e mai assoluti. Antitetici, dunque, rispetto alla pretesa assolutezza del Dio della fede. Da cui la possibilità di un eccezionale dispiegamento della potenza della tecnica4, ossia di uno strumento vincente proprio in quanto fondato su una scienza da tempo libera da qualsivoglia pretesa di verità assoluta. Il fatto è che ogni possibile declinazione della scienza del l’immutabile, e quindi ogni teologia, un tempo costruite quali affidabili argini contro il potenziale distruttivo custodito dal 4. Per quanto riguarda tale questione rinviamo invece a Techne. Le radici della violenza, originariamente edito da Rusconi, Milano 1979 (da cui citiamo; ristampato da Rizzoli, Milano 2002). Volume nel quale Severino, dopo aver sviluppato un’analisi straordinariamente anticipatrice intorno a rilevanti questioni di attualità politico-culturale, mostra il senso autentico della civiltà della tecnica. Quel senso che può apparire solo là dove ci si riesca a porre dal punto di vista del Destino e della sua verità. Quel senso in base al quale è inevitabile «che l’incantesimo degli immutabili sia rotto, che cioè l’Occidente si liberi da ogni dio che rende impossibile la sorpresa del niente, e quindi da ogni dio che gli stessi abitatori dell’Occidente hanno evocato dal proprio terrore e cioè dalla propria volontà di dominio» (E. Severino, Tecnhe, cit., p. 378). Solo a partire dalla comprensione di tale inevitabilità è possibile comprendere anche l’inevitabilità del dominio della tecnica – perché, solo l’organizzazione della liberazione da ogni immutabile (in cui consiste appunto la “felicità” che la tecnica può dare agli uomini) può assicurare una efficace «organizzazione della possibilità di consumare tutto, ossia della possibilità di liberarsi di tutto» (ivi, p. 273).
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divenire (e soprattutto dalla sua struttura ontologicamente determinata), si sarebbero progressivamente mostrate incapaci di consentire l’effettivo dispiegamento di una dinamica (quella del divenire, per l’appunto) per “salvare” la quale erano comunque stati posti in essere. Insomma, o il divenire o l’essere; questo, il radicale aut aut che, sempre secondo Severino, ci si sarebbe sempre più chiaramente trovati costretti a dirimere. Ma l’Occidente non avrebbe saputo fare a meno di optare per il divenire – soprattutto di fronte alla constatazione di un sorprendente potenziamento dei rimedi realizzatosi in forma direttamente proporzionale alla sempre più decisa rinuncia alla loro epistemicità. Questo, il quadro entro cui si inscrive di fatto la proposta filosofica di Severino – che, pur mostrando con la massima lucidità all’Occidente intero il senso del suo destino, e la sua assoluta ineludibilità, non avrebbe comunque rinunciato a farsi testimone di un altro possibile percorso; anzi, di un vero e proprio altro Destino. Entro i cui confini, sempre e solamente, si sarebbero potuti accogliere tutti i sentieri che l’Occidente ha di fatto percorso e tutti quelli che lo stesso potrebbe comunque ancora percorrere, in quanto forma estrema del Nichilismo, ossia in quanto terra “isolata” da parte del mortale.
Le radici della Follia Che la volontà di potenza dovesse trovare nella Tecnica il suo più pieno e libero sviluppo, sempre secondo Severino, sarebbe stato già “scritto” nelle prime parole con cui il pensiero filosofico occidentale si affacciava sulla scena della storia. Parole grandiose, che avrebbero dato corpo ad un non meno grande “errore” – quello su cui sarebbe cresciuta una intera civiltà. Parole che, a partire da Parmenide, passando attraverso Platone ed Aristotele, avrebbero dato forma a quel sistema
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categoriale che costituisce di fatto ciò che ancora oggi chiamiamo «linguaggio dell’Occidente», e che si sarebbe incarnato, epoca dopo epoca, anche in tutte le sue opere, ovvero in tutte le sue più diverse espressioni. Severino comprende molto bene – e sin da subito – come sia stata la stessa indicazione parmenidea di qualcosa come un Sentiero della Notte a far sì che la follia metafisica (di cui siamo ancora tutti figli legittimi) potesse avere in qualche modo luogo. Certo, il Poema parmenideo indica anche un’altra possibilità – ma il suo linguaggio (o meglio, i frammenti linguistici che di esso ci sono di fatto rimasti) non esce dall’ambiguità5. Fermo restando che già in tale aurora si comprende e si esplicita la radicale impossibilità di qualsivoglia pensiero che intenda fare dell’essere e del nulla le componenti di una medesima dimensione; e quindi viene indicata con nettezza la nefasta
5. Se non altro in quanto – come rileva bene Severino in Essenza del nichilismo (1a ed. Paideia, Brescia 1972, da cui cito; 2a ed. Adelphi, Milano 1982)– lascia apparire ciò che, «sovrapponendosi alle cose che appaiono, ha impedito di vedere come un comparire e uno sparire dell’essere, e ha portato alla convinzione che l’annullamento dell’essere sia qualcosa di immediatamente dato nel divenire» (E. Severino, Il sentiero del Giorno, in Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 197-198). Da ciò la necessità del parricidio platonico – per rendere appunto pensabile il divenire. Insomma, fermo restando che per Severino il senso della doxa in Parmenide rimane un problema, se si intende che la doxa sia lo stesso apparire del molteplice e del divenire, e che la non verità della doxa sia costituita dall’opposizione tra il contenuto dell’apparire e il contenuto del logo veritativo, «allora – conclude Severino – la responsabilità dell’alienazione del senso del divenire risale a Parmenide, giacché si può affermare che il divenire che appare si opponga al logo che proclama l’immutabilità dell’essere, si può affermare questo solo se si ritiene che l’apparire attesti l’emergere e il ritornare nel nulla da parte dell’essere, e cioè solo se si interpreta inautenticamente il divenire che appare» (Id., Poscritto, ivi, pp. 98-99). E poi Parmenide è il primo ad evocare il senso ontologico della follia – e quindi a rendere possibile la sua assunzione come criterio guida di un possibile percorso (anche se da lui tale percorso è ritenuto assolutamente impercorribile).
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doppiezza caratterizzante chiunque intenda inoltrarsi per la via della “contaminazione ontologica” – quella che, per l’appunto, avrebbe finito per far credere che le cose possano tranquillamente oscillare dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. Questa, la radicale «impossibilità» di cui solo un logos «vero» avrebbe potuto farsi testimonianza. E proprio nell’intento di delineare i tratti fondamentali di un tale logos Severino porta a compimento il suo primo “capolavoro” teoretico: La struttura originaria (1958). Un discorso che doveva mostrarsi in grado di delineare i tratti essenziali del Destino (che a quel tempo Severino chiamava appunto «struttura originaria della verità») – inteso come dimensione in forza della quale ogni ente riposerebbe eternamente sicuro entro i confini di una “positività” necessariamente “libera” dalla propria negazione. Dove, a rendere la negazione della verità un che di immediatamente autonegantesi è proprio ciò che in quel volume viene ancora chiamato «principio di non contraddizione» – pur avendo di fatto ben poco ha a che vedere con ciò che storicamente era stato indicato con tale nome. D’altro canto, l’incontrovertibilità dell’ente e il suo necessario legame con il proprio essere non sottintendono, nel discorso testimoniato da Severino, la radicale identificazione dell’essere e del nulla operata invece dalle versioni classiche del medesimo principio; ovvero, da Platone e da Aristotele. Anzi, in esso ci si propone addirittura di risolvere l’aporia che già da Platone veniva riconosciuta quale estremo ed irrisolvibile ostacolo alla declinazione ontologica del “principio primo”. Importantissimo, a questo proposito, è il capitolo IV della «Struttura originaria»; dove Severino si propone di venire a capo della cosiddetta “aporia del nulla”. Certo, già nel Sofista Platone definiva i contorni del cosiddetto problema del “nulla” – rendendosi perfettamente conto che, per distinguere l’essere da quello (in conformità a quanto sancito dalla forma stessa del principium firmissimum), non si sarebbe potuto
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fare a meno di fare del “negativo” un “positivo”. Ossia, di fare del nulla “un essere”. E, per ciò stesso, di istituire quello che sarebbe diventato un nuovo senso del “non-essere”: l’eteron. Il “non-essere” come esser-altro. Ma il fondatore dell’Accademia, proprio così facendo, lungi dal risolvere il problema del “nulla”, avrebbe più semplicemente rimosso la sua carica destabilizzante, finendo per far valere il “principio della distinzione” come principio puramente ontico. Sono gli enti determinati, cioè, a potersi distinguere secondo il principium firmissimum – di certo non la pura positività e la pura negatività. Come a dire che, agli occhi di Platone, la potenza del “principio” sembra trovare un limite assolutamente insuperabile proprio là dove si sarebbe dovuta annidare invece la sua formulazione più radicale e originariamente fondativa. Non è forse vero, infatti, che, per potersi distinguere dall’altro-da-sé, un qualsivoglia ente deve poggiare innanzitutto sull’originaria distinzione tra la propria positività e il totalmente altro dalla medesima (ossia il nihil absolutum)? Severino, dunque, lucidamente consapevole di tutto ciò, torna a porsi la questione rimossa da Platone e ritiene di poterla risolvere mostrando anzitutto la differenza che distingue la positività del significare autocontraddittorio dal negativo che quest’ultimo comunque significa. Sì che del nulla si possa infine dire che ciò che esso significa è perfettamente distinto, anche se non separato, dalla positività di questo stesso significare. Insomma, ferma restando l’assoluta negatività del nulla, ossia la sua non significanza, il principio di non contraddizione – sempre secondo Severino – vale anche per esso nella misura in cui, appunto, la sua positività non venga impropriamente sovrapposta alla negatività in esso comunque significata6. 6. Una critica radicale a tale soluzione riteniamo di averla comunque formulata nel secondo capitolo della prima parte del nostro Aporia del fondamen-
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Dunque, mentre nel filosofo bresciano la deriva nichilistica sarebbe stata accuratamente evitata, tanto in Platone quanto in Aristotele, di contro all’intenzione di distinguere nettamente il positivo dal negativo, avrebbe finito per farsi strada – in modo sempre più evidente, peraltro – una convinzione che, in quanto relativa all’assoluta evidenza dell’esser-altro, si sarebbe mantenuta tutta interna all’orizzonte di un nichilismo originariamente inficiante tanto la positività del positivo quanto la negatività del negativo. Insomma, se da un lato è sicuramente vero che già Platone aveva ben inteso la gravità del monito parmenideo, Severino mostra bene come, proprio in forza di questa comprensione, Platone avesse poi finito per concettualizzare e dare forma compiuta a quel medesimo «impossibile» da cui Parmenide aveva cercato di metterci in guardia. Platone, cioè, proprio nel tentativo di mostrare che la realtà del molteplice e del divenire (le due dimensioni che Parmenide avrebbe voluto rimuovere) può venire categorizzata al riparo dai pericoli così attentamente indicati da Parmenide, avrebbe finito per inscrivere, anche se ben nascosta, nel cuore stesso dell’evidenza originaria, la follia consistente nella più radicale identificazione dell’essere e del nulla. L’ente, cioè, liberato dall’immediata identificazione con il nulla, rimane – sempre nell’orizzonte della prospettiva platonica – ancora perfettamente capace di farsi-nulla, e di venire all’essere a partire dal nulla. E Severino mostra bene come, se da un lato sia così riuscito a dar voce ad un senso del non-essere non immediatamente vocato al nulla (in quanto molteplice ed in quanto diveniente, l’ente “non-è” in quanto tale un niente), dall’altro il fondatore dell’Accademia, già per il semplice fatto di aver tollerato anche la semplice possibilità del suo divenire to (La Città del Sole, Napoli 2000). E precisamente nello spazio compreso tra la p. 210 e la p. 280.
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altro da sé, avesse fatto dell’ente qualcosa di originariamente identico al niente. Ma neppure Aristotele sarebbe sfuggito, ai suoi occhi, a un tale destino; anche lo Stagirita avrebbe finito per far valere il principio parmenideo (quello costituente l’ineludibilità della differenza tra essere e nulla) – lo stesso che nelle sue mani doveva trasformarsi nel cosiddetto «principio di non contraddizione» –, come legge valida per l’ente “sin tanto che esso non si sia fatto un niente”. Perché, quando l’ente non è più, ad essere niente è il niente, e non l’essente – come viene attentamente precisato da Aristotele nel Liber de intepretatione. Là dove il fondatore del Liceo specifica appunto che, certamente, l’essere è – ma solo quando è; allo stesso modo in cui anche il non-essere non è, ma anch’esso, solo quando non è. Ciò significando che si potrebbe senz’altro ipotizzare un tempo in cui l’essere, fattosi non-essere, per l’appunto, non sia. Per questo, se per un verso l’essere certamente “è”, per un altro verso, invece, tale esistenza gli competerebbe solo in quanto e per quel tanto che esso per l’appunto “fosse”. Fatto sta che anche Aristotele, e proprio nel disperato tentativo di evitare una qualsiasi nullificazione dell’essere, ovvero nel tentativo di risemantizzare il divenire, trasformandolo da passaggio dal nulla all’essere a passaggio dalla potenza all’atto, torna a dar corpo a quel divenir-altri-da-sé che implica, sempre e comunque, il non esser più di ciò che era (e che ora è, certamente, ma come “altro da ciò che era”). Questa, la struttura che avrebbe sempre più esplicitamente reso impossibile qualsivoglia forma di immutabile; stante che quest’ultimo, proprio in quanto strutturalmente “legiferante” anche sul non esser ancora di ciò che non è, non può evitare di vanificare la radicale imprevedibilità implicata da ogni divenire radicalmente inteso. Infatti, il divenire è originariamente “libero” – tutto potendo essere, a partire dal nulla. Ossia: nulla potendo essere pre-visto, di fronte all’abisso del negativo. Nes-
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suna catena può insomma vincolare la libertà intrinsecamente connessa alla follia relativa alla fede nell’impossibile nullità dell’essere (quello che ancora non è). Severino, insomma, proprio come Heidegger, anche se per ragioni assolutamente diverse dalle sue, vede nell’origine stessa del pensiero occidentale la ragione di un destino che ha per nome “nichilismo”7. Dunque, l’Occidente è interpretato come terra del nichilismo dall’uno per ragioni assolutamente diverse da quelle evocate dall’altro (se per Heidegger il nichilismo ha la sua condizione di possibilità nell’oblio del vero senso dell’essere in quanto ridotto ad “ente”, ossia in quanto non più inteso come “essenzialmente” identico al niente, per Severino, al contrario, proprio in tale identificazione consiste appunto la quintessenza del nichilismo, più o meno consapevole, dell’Occidente tutto intero). Ma la stessa soluzione al problema costituito dal nichilismo si prospetta nei due pensatori in modo radicalmente diverso. Infatti, là dove da Heidegger la possibilità di una effettiva fuoriuscita dal nichilismo viene affidata ad una sorta di ritrovata cura per l’ente concepito nella sua pura eventualità, e quindi nella sua originaria libertà, ossia ad un sostanziale ritorno alla parola pre-filosofica, in Severino il realizzarsi di tale possibilità dipende non tanto da una libera decisione del mortale, ovvero dalla libera assunzione di un diverso atteggiamento nei confronti dell’ente, quanto piuttosto da una originaria verità scolpita quale sfon-
7. Anche se, fermo restando l’accezione severiniana di “nichilismo” – secondo la quale, ad essere pensato, assunto e vissuto come niente, sarebbe appunto ciò che non è un niente –, «nessuna forma della cultura occidentale (nemmeno Nietzsche) è disposta a riconoscersi nichilista e tanto meno a tessere una apologia del nichilismo, ossia dell’atteggiamento che vive, pensa, assume come niente gli enti (le cose, le determinazioni concrete che ci stanno attorno: i non-niente) in quanto e per quel tanto che essi sono enti» (E. Severino, La follia (1), in Id., La strada, Rizzoli, Milano 1983, p. 78).
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do intramontabile dell’infinito dispiegarsi di un essente tutto costitutivamente necessario. La filosofia di Severino si svolge tutta, dunque, in un continuo confronto con la prepotenza del nichilismo dell’Occidente ed indica, senza inopportune timidezze, la dimensione inamovibile entro cui ogni errore – e quindi anche quello dell’Occidente – sarebbe comunque stato costretto a costituirsi. Una dimensione che, pur dicendo la più radicale impossibilità della contraddizione (e dunque di tutto ciò che la fede nichilistica continua a ritener per vero), non solo tollera, ma implica l’accadimento del contraddirsi; e quindi il manifestarsi del discorso che vuole l’impossibile. Altro è la contraddizione, infatti, altro il contraddirsi. D’altro canto, per il filosofo bresciano la verità non sarebbe neppure tale se non si contrapponesse all’errore come ad un dire originariamente autotoglientesi. Ossia, se non si realizzasse in quanto tale nello stesso originario togliersi da parte dell’errore. È solo alla luce della verità, infatti, che l’errore può manifestare la propria erroneità, e dunque mostrarsi come l’originariamente autotoglientesi. Ecco perché la verità cui dà voce la filosofia severiniana altro non è che lo strutturarsi, massimamente radicale, di una forma già portata alla luce nella sua essenza, anche se in un senso puramente “formale” – e per ciò stesso ancora nichilistico –, dall’elenchos aristotelico8. Una verità che dice per ciò 8. In questo senso ci sembra opportuno sottolineare che, se da un lato già in Gli abitatori del tempo, Armando, Roma 1978 (2a ed. Armando, Roma 1996), Severino prosegue nel suo tentativo di condurre nel linguaggio la struttura della civiltà occidentale, mostrando come ogni elemento specifico della nostra storia sia dalla medesima permanentemente avvolta – e peraltro, in un senso assai più radicale di quanto sarebbe potuto mai essere rilevato da Hegel o dal marxismo, dalla psicoanalisi o dall’ermeneutica heideggeriana (rispetto alle cui pur straordinarie analisi tale struttura è rimasta di fatto inesplorata, rimossa in un inconscio assai più profondo di quello individuato da Freud), dall’altro è anche evidente che neppure il principio di non contraddizione avrebbe potuto evitare di farsi espressione di quella
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stesso l’insuperabile positività del positivo e la corrispettiva e non meno insuperabile negatività del negativo. Una verità che implica cioè l’originario ed eterno essere identici a sé da parte di tutti egli enti. Una verità che, però, lungi dall’immobilizzare il tempo ed il suo inarrestabile scorrimento, contribuisce ad un suo ben più raffinato, nonché autentico intendimento. Infatti, quella di Severino non si costituisce – come troppi “critici” un po’ distratti continuano ancora credere – come una filosofia dell’assolu-
struttura profonda. Insomma, anche nel principio di non contraddizione, rigorosamente formulato da Aristotele nel IV libro della Metafisica, sarebbe rimasta viva ed operante, al fondo della sua struttura originariamente elenchica, la convinzione che l’ente sia niente; una convinzione che però entra nel linguaggio «nella forma mascherata della convinzione che il divenire dell’ente appare, o della convinzione che al di fuori dell’apparire l’ente può essere un niente» (E. Severino, Introduzione, in Id., La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 17). E questo vale, nella storia dell’Occidente – ed in primis in Aristotele –, anche quando si avverte che il principium firmissimum non vale solo per il pensare, ma anche per l’essere. Ché, ogni volta si intende poi l’essere (l’incontraddittorio) come di per sé indifferente a che sia o non sia. Non è un caso che, col principio di non contraddizione, si venga a dire semplicemente questo: che «quando l’essere è, è, e quando non è, non è». Insomma, già in Aristotele l’incontraddittorietà è intesa in senso semplicemente «formale» – e proprio per questo la si nega. «Appunto perché si lascia valere la supposizione di un momento in cui l’essere non sia» (ibidem). Insomma, agli occhi di Severino, «la concezione formalistica dell’incontraddittorietà dell’ente, che è in verità negazione dell’incontraddittorietà dell’ente, domina l’intera esistenza storica del principio di non contraddizione; sì che, in questo libro [Severino si riferisce qui alla Struttura originaria], si continua a chiamare «principio di non contraddizione» ciò che si mantiene al di fuori non solo del significato storico, ma dell’essenza stessa di tale principio» (ivi, p. 18). In questo senso, per Severino va addirittura rilevato che, se risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere, allora «il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con sé medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)» (ivi, p. 517).
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ta immobilità9; come una sorta di riproposizione, magari un po’ aggiornata, dell’astratta ontologia parmenidea. No, quella di Severino è una filosofia che vuole ammonirci a prendere coscienza del fatto che, assai più semplicemente, il divenire 9. In relazione a tale equivoco suggeriamo di leggere il dialogo tra Severino e Vattimo riportato in La legna e la cenere. Discussioni sul significato dell’esistenza (Rizzoli, Milano 2000). Anche in questo confronto appare chiaro, infatti, come le obiezioni mosse a Severino da parte di Gianni Vattimo muovano non solo, e non tanto a partire dalla convinzione che ad apparire sia davvero il divenire in senso ontologico. Certo, Vattimo sostiene anche questa accezione del divenire; ma la sua preoccupazione fondamentale sembra piuttosto quella legata alla necessità di salvaguardare la ricchezza e la complessità dell’esperienza intesa nel suo scorrere infinito. Vattimo sottolinea come si sia sempre sospesi tra un prima e un dopo… come il passato che ci sta a cuore non sia tanto il niente che eravamo, quanto piuttosto la nostra infanzia, come il futuro che ci sta a cuore non sia tanto il niente che tutti ci attende, quanto piuttosto la nostra vita futura, ancora da costruire. E in questo senso gli appare impossibile dare un senso a tale esistenza a partire dalla convinzione dell’eternità dell’essere. A Vattimo, insomma, preme sottolineare come la nostra esistenza sia fatta di bisogni, aspettative, desideri…; ma egli sembra non prendere in considerazione la quintessenza della tesi sostenuta nei testi di Severino: una tesi che non intende affatto mostrare la nullità di tali bisogni, di tali aspettative, del passato, del futuro, ma, assai più radicalmente (e quindi, al contrario di quanto crede Vattimo), sostenere non solo la rilevanza di questi ultimi, ma la loro originaria divinità, per dir così. La loro eternità – quella che compete loro là anche dove li si intenda come “elementi della vicenda storica di cui facciamo tutti parte”. Fermo restando che, sempre secondo Severino, si tratta appunto di ripensare alla radice il senso di tale “storicità”, ossia il senso del divenire. E quindi di cominciare pensare il divenire come l’entrare e l’uscire dall’apparire da parte dell’eterno apparire di ogni desiderio, aspettativa e bisogno. Ossia, di ogni passato e di ogni futuro. E, per ciò stesso, di pensare la loro eternità insieme alla follia di cui, nell’orizzonte del Nichilismo occidentale, sono tutti comunque espressione. Perciò Severino può sostenere che, venendo al tema della “spiegazione” dell’esperienza e della storia, va precisato come «negare la fede nella storia, non significhi negare l’esistenza di quel mondo di progetti, bisogni, angosce in cui consiste la nostra esperienza concreta. Significa negare che in esso si manifesti la verità» (E. Severino, Scetticismo e ontologia, in Id., La legna e la cenere, Rizzoli, Milano 2000, p. 91).
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non appare così come noi siamo ancora convinti di esperirlo, e che, proprio per questo, non si tratta affatto di convincersi della sua illusorietà. Anzi, il divenire, per il nostro, è assolutamente reale – potremmo addirittura dire “necessario” (da cui la tesi, portata rigorosamente a compimento in La Gloria, dell’infinità del divenire). Solo, non si deve intenderlo come un divenire annientante, ossia, come una dinamica in cui ne vada in qualche modo dell’essere e del nulla. Il divenire di cui la nostra esperienza è continua e fedele attestazione altro non è, insomma, che l’apparire e lo scomparire dell’eterno; anzi, l’apparire e lo scomparire dell’eterno apparire dell’ente. Da ciò una costante e rigorosa attenzione rivolta da Severino al tema dell’apparire dal 1964 al 2001, a partire da Essenza del nichilismo, passando attraverso Studi di filosofia della prassi e Destino della necessità, sino a La Gloria. Un’attenzione fondata sulla precisa consapevolezza del rischio che qualsivoglia (non sufficientemente rigorosa) elaborazione di tale tematica sempre comporta, se non altro in quanto si è comunque tentati a fare di ogni quidditas – ovvero, di ognuna delle infinite determinazioni di volta in volta accolte nel cerchio dell’apparire – un diveniente che, proprio in quanto tale, prima non sarebbe stato e poi non sarebbe più potuto essere. Insomma, stante l’incontrovertibilità del principio primo (vero e proprio cuore del Destino), Severino comprende molto bene come ogni modalità della manifestazione debba essere fatta cor-rispondere a quel Nomos, ovvero alla rigorizzazione logico-ontologica del principium firmissimum. Dunque, ciò che occorre fare, anzitutto, è intendere con la massima precisione possibile la struttura dell’apparire in quanto sempre duplicantesi in apparire non incominciante ed apparire incominciante. L’apparire di qualcosa è infatti sempre un incominciare ad apparire. O meglio, un apparire incominciante – ché, ad apparire, e quindi ad incominciare ad apparire, non è mai solo la cosa, ma sem-
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pre anche il suo apparire. Ma, ai suoi occhi, in tale cominciare non ne va dell’essere e del nulla. Ed è proprio a mostrare questa verità che buona parte dei suoi scritti è giustamente impegnata, nella lucida consapevolezza che proprio intorno alla questione del divenire si decide l’abissale differenza che separa (pur tenendole “insieme”) le voci della follia dal timbro del Destino.
Il senso del divenire Se la struttura originaria della verità, ossia la verità del Destino, implica l’eternità del tutto – in forza dell’abissale distanza che tiene separati il nulla dall’essere e che impedisce al primo di contaminare la stabile pienezza del secondo –, è evidente che l’entrare e l’uscire dal cerchio dell’apparire (ossia, il divenire) non possono coincidere con l’entrare e l’uscire dall’essere (al contrario di quanto riteneva invece Heidegger, per il quale, appunto, l’essere è lo stesso che l’apparire). Nulla entra ed esce dall’essere; neppure l’apparire. Tutto ciò che è, e quindi anche l’apparire (che, in quanto tale, non è un niente), è eternamente connesso all’essere. In che senso, dunque, gli enti si inoltrerebbero nel cerchio dell’apparire? E in che senso ne uscirebbero? E quindi: in che senso si avrebbe esperienza del mutare e della storia? Eterno è lo stesso incominciante apparire – la relazione tra il cerchio dell’apparire e la terra intesa nel suo incominciante apparire, ossia nel suo incominciante relazionarsi all’apparire, ossia, la relazione stessa “in quanto incominciante”. Ma, se la terra è tutto ciò che incomincia ad apparire, e quindi appartiene alla terra anche l’incominciante apparire della terra, alla luce del fatto che tutto è eterno, anche l’incominciante apparire lo è. Perciò, ad incominciare ad apparire è il non aver mai cominciato ad apparire da parte dell’incominciante apparire.
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Lo stesso dicasi del cessare. L’incominciare e il cessare né aggiungono né tolgono nulla al tutto eterno. D’altro canto, l’apparire incominciante è lo stesso suo apparire come così incominciante – ché, l’apparire è sempre apparire dell’apparire, ossia apparire di se medesimo. Esso implica una trinità originaria: e quindi è sempre apparire dell’apparire dell’apparire. Insomma, ad entrare e ad uscire dal cerchio dell’apparire è sempre l’apparire dell’apparire delle cose della terra. Anzi, l’eterno cerchio dell’apparire accoglie sempre e solamente l’eterno apparire dell’eterno apparire delle cose della terra, ossia l’eterno apparire del loro eterno apparire incominciante. Sì che, ad entrare nell’eterno cerchio dell’apparire, quando questo cielo azzurro comincia ad apparire, non è – come solitamente si crede – il cielo azzurro che era assente. Mai l’assenza potendo diventare presenza. La precedente assenza del cielo azzurro è anch’essa eterna – come la sua attuale presenza (come la sua incominciante presenza). Perciò, ad entrare nel cerchio dell’apparire, è un cielo azzurro eternamente presente. Ossia, l’eterna presenza del cielo azzurro. E non la sua assenza eterna. Il passaggio dal prima al poi si dà dunque come passaggio dalla presenza dell’assenza eterna del cielo azzurro alla presenza della sua eterna presenza. Ciò che appare è sempre l’eterno apparire del proprio apparire – e quindi, se ad apparire è l’assenza di qualcosa, l’apparire sarà l’eterno apparire dell’apparire di tale assenza. Mai tale assenza, “eternamente apparente come tale”, potrà trasformarsi in eterna presenza della presenza dell’esser presente di ciò che è presente. Se, ad apparire è un’assenza, ad esser eterno sarà per l’appunto l’apparire dell’apparire di tale assenza. A farsi presente, ad incominciare ad apparire, è, dunque, sempre l’eternamente presente – mai l’eternamente assente. Perciò, anche là dove, ad apparire, sia un’assenza, ad incominciare ad apparire sarà ancora una volta l’eterna presenza di una eterna assenza.
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Per lo stesso motivo il passare non è uno scomparire di ciò che in precedenza appariva – e quindi, quando appare l’eterno apparire dell’apparire del cielo azzurro, l’eterna assenza del cielo azzurro non scompare affatto. L’assenza del cielo azzurro non è stata dimenticata. Anche se essa si costituisce, in relazione all’apparire dell’eterno apparire della sua presenza, come un passato. Essa cioè continua ad apparire; solo, in modo diverso. Ossia, essa non cresce più – come a dire che i diversi modi dell’assenza del cielo azzurro (quelli che manifestavano comunque una identità nel diverso modo del loro apparire, tanto da consentirci di riconoscerli sempre come “assenza del cielo azzurro”) non mostrano più quell’identità che rendeva possibile il loro manifestarsi appunto come il dispiegarsi della medesima “assenza del cielo azzurro”. Perciò, nel suo farsi “passato”, l’ente rimane tutto ciò che esso, nella sua destinazione all’apparire, è riuscito a mostrare di sé. Anzi, nel configurarsi, da parte di qualcosa, come un “passato”, ad accadere è addirittura il compimento di un’identità. Ad apparire è in tal caso la totalità compiuta di un diverso, o meglio, l’essersi compiutamente portata nel cerchio dell’apparire da parte di una identità del diverso – che, per ciò stesso, si sarà fatto perfectum. Per questo stesso motivo, il presente altro non potrà essere che l’incompiutezza di tale crescita – ciò il cui essere la totalità di questo differenziarsi rimane un problema. Insomma, quando sopraggiunge il cielo azzurro, a sopraggiungere non è propriamente il cielo azzurro che era assente – infatti, esso appariva già, sia pur “come assente”. Quel cielo azzurro, ossia quello che era assente (e che appariva appunto nella propria assenza), si sarà piuttosto compiuto. A sopraggiungere, dunque, quando si fa innanzi il cielo azzurro, è il compimento del permanere di ciò che i diversi modi dell’assenza del cielo azzurro avevano di identico. Così come, a passare, quando sopraggiunge il cielo azzurro (quando appare il suo eterno apparire), non sarà la sua assenza – la quale deve
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anzi continuare ad apparire, affinché appaia il suo essersi fatta “perfetta”. Tale assenza non passa, dunque, ma si fa “passato”, e, in quanto tale, continua ad apparire. E quindi, a sopraggiungere è in tal caso solo il “suo esser passata”; sì che ciò che appare sia solo l’incominciante apparire del suo essersi fatta «passato», ovvero, l’essersi compiuto della sua identità (dell’identità dei suoi diversi modi di apparire) – ciò che implica tanto il continuare ad apparire dell’assenza del cielo azzurro, quanto il sopraggiungere del suo essersi compiuta, e quindi del suo essersi fatta perfecta. O anche: l’apparire della differenza tra l’incompiutezza dell’identità dei diversi modi dell’assenza del cielo azzurro e la sua compiutezza. La differenza tra il presente e il passato; o anche, la differenza tra il presente esser passato (della compiutezza) e il passato esser presente (dell’incompiutezza). Ma l’apparire di tale differenza non può non esser anche l’apparire di una qualche identità. Un’identità che sarà anzitutto la struttura originaria della verità, ma anche il cerchio intramontabile dell’apparire, in quanto esso stesso appartiene alla struttura della verità (ossia, al proprio contenuto intramontabile). Un’identità che è sempre anche identità determinata – quella che, nel succedersi costituito dal divenire ci consente di ri-conoscere la permanenza di questo o quell’essente, senza che si sia per ciò stesso costretti ad ammettere che qualcosa, in questo stesso divenire, appunto, divenga in qualche modo altro-da-sé. Infatti, sempre per Severino, «come divenire altro, il divenire è impossibile»10. D’altro canto, è solo isolando gli essenti, che il pensiero dei mortali dice che questa lampada, che era spenta, ora viene accesa (per esempio con un movimento della mano); il destino della verità invece vede che il “venire accesa” della lampada è il sopraggiungere di quell’eterno, che è la lampada accesa,
10. E. Severino, Tautotes, cit., p. 93.
44 nel cerchio dell’apparire (e di quegli eterni che sono le diverse posizioni assunte dalla mano in ciò che i mortali pensano come “movimento della mano”).11
Insomma, se da un lato il cerchio dell’apparire che non include questa lampada accesa è certamente isolato da essa e dal proprio includerla (in quanto il destino della verità è l’apparire finito del tutto – e nell’apparire finito il tutto non appare), dall’altro ciò che va tenuto ben presente è che, con l’apparire della lampada accesa, non sarà l’apparire che non include questa lampada a diventare includente la medesima. Anche l’apparire non includente, infatti, è un eterno – e, in quanto tale, «non può diventare altro da sé»12. Non può diventarlo in quanto è eternamente isolato dalla lampada accesa. E comunque, rileva sempre Severino, il divenire – inteso alla luce del destino della verità – non ha alcun bisogno che «quando la lampada accesa incomincia ad apparire (incomincia ad essere insieme all’apparire), sia il cerchio dell’apparire che non la include a diventare inclusivo di essa. Anzi, lo esclude»13. Perché, ad incominciare ad apparire, quando la lampada accesa comincia ad apparire, è appunto la lampada accesa, ma anche il suo incominciare ad apparire, ossia la sua inclusione nel cerchio dell’apparire…; insomma, ad incominciare ad apparire è quell’identità eterna che è il cerchio dell’apparire che include questa lampada accesa. Ma, per l’appunto, il cerchio dell’apparire che incomincia ad apparire «si distingue dal cerchio che lo accoglie, ossia è una parte di esso, che è la totalità dell’apparire»14. Sì che, nella indiveniente totalità dell’apparire, sono di fatto inclusi sia il cerchio che non include la
11. Ivi, pp. 185-186. 12. Ivi, p. 187. 13. Ibidem. 14. Ibidem.
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lampada accesa, appunto come “passato”, sia il cerchio che la include – appunto come “presente”. Dove, si badi bene, non si può obiettare che per lo meno la totalità dell’apparire, in quanto non includente l’incominciante apparire della lampada accesa, diventerebbe altro da sé, in quanto includente quell’incominciante apparire della lampada accesa. Infatti, l’incominciare ad apparire della lampada accesa ha come contenuto anche se medesimo. E quindi, quando la lampada accesa comincia ad apparire, l’incominciante apparire non ha bisogno di abbandonare un suo supposto non esser ancora contenuto dell’apparire. «Quando questa lampada accesa incomincia ad apparire, questo incominciante apparire ha già come contenuto se stesso»15. Ogni regressus in idenfinitum è in questo senso effetto dell’isolamento che separa «l’apparire, di ciò che incomincia ad apparire, dall’apparire dello stesso apparire»16. Ciò che accade, nel manifestarsi del divenire è dunque questo: stante che l’apparire non includente la lampada accesa è eternamente isolato dalla lampada accesa, «quando questa lampada accesa incomincia ad apparire, il cerchio dell’apparire che non la include non appare più solo, ma insieme ad esso comincia ad apparire il cerchio che la include, ossia la totalità dell’apparire è l’apparire dell’incominciare ad apparire»17. Insomma, l’apparire del comparire dell’eterno non può essere risolto nella trasformazione dell’esser non includente in esser includente il cerchio dell’apparire che include questa lampada accesa; tale apparire è piuttosto «l’indiveniente apparire del divenire, ossia del processo in cui dapprima appare quell’eter no che è il cerchio non includente, e poi appare il cerchio che include questa lampada accesa»18. 15. Ivi, p. 190. 16. Ivi, p. 191. 17. Ibidem. 18. Ibidem.
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Insomma, per Severino l’apparire del divenire non diviene; e «non solo nel senso, che è proprio di ogni essente, che non esce dal nulla e non vi ritorna, ma nemmeno nel senso che incomincia e cessa di apparire; e proprio per questo non si trasforma da qualcosa che non include in qualcosa che include il sopraggiungente, ma è l’indiveniente apparire del sopraggiungere»19. Insomma, è solo nell’indiveniente apparire che può venire ad apparire questo: ossia, che all’eterno che non include il sopraggiungente «si aggiunga l’eterno che lo include»20. Perciò l’indiveniente apparire del divenire manifesto dell’eterno non sopraggiunge – ma può costituirsi solo come l’indiveniente apparire del sopraggiungere di ciò che, incominciando ad apparire, appare appunto come l’eternamente incominciante, ossia come ciò che, in quanto tale, non è mai stato altro da tale suo esser così incominciante. E che dunque non è il risultato del divenir altro da parte del non apparire di tale cominciare – ché, anche quest’ultimo è il suo stesso eterno non apparire. In questo senso, allora, davvero «l’incominciare ad apparire non aggiunge nulla a ciò che appare»21. A dover venire riconosciuto è cioè il fatto che l’incominciante apparire non si aggiunge al qualcosa, e neppure aggiunge nulla alla totalità di ciò che appare – che, in quanto totalità, non può che comprendere anche tale incominciante apparire. Insomma, quando un essente comincia ad apparire accade che, «nell’indiveniente totalità dell’apparire incomincia ad apparire quell’eterno che è questo stesso incominciante apparire»22. E che è eterno nel proprio esser incominciante. Perciò esso deve cominciare ad apparire; ossia, l’incomincia19. Ibidem. 20. Ibidem. 21. Ivi, p. 193. 22. Ivi, p. 194.
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re ad apparire non è altro che l’incominciare ad apparire di quell’eterno che è lo stesso incominciante apparire di ciò che comincia ad apparire. Per questo, mai l’apparire si aggiunge a «ciò» che appare – d’altro canto, una tale eventualità impedirebbe allo stesso «qualcosa» di apparire. Per tutto questo, poi, va anche rilevato – sempre secondo Severino – come l’essente che appare sia sempre e solamente «l’identità con sé della relazione originaria dell’essente al proprio essere insieme al proprio apparire»23. Eppure l’identità, nel divenire, non può non costituirsi – anche se l’incominciante è il proprio eterno esser incominciante. Tra i diversi incomincianti insomma si costituisce di fatto una qualche identità. Certo, il succedersi è sempre il succedersi di eterni comincianti, dove mai qualcosa diventa altro da sé – mai il cominciare dell’incominciante valendo come il diventar cominciante da parte del non ancora cominciante. Eppure una determinata successione di comincianti può manifestarsi come permanenza di qualcosa – nel suo costituirsi comunque come identità di “diversi” comincianti, ognuno in se stesso eternamente cominciante. Un’identità si costituisce – al punto che ad un certo momento appare il farsi perfecta da parte di tale identità. Come a dire che una determinata situazione s’è compiuta. Dove, l’identità, però, non esclude, ma comprende lo stesso sopraggiungere del suo infinito differenziarsi. Di un differenziarsi che comunque non comporta, neppure per l’identità così differenziatesi, il suo divenir sempre altra da sé24. Tale 23. Ivi, p. 195. 24. Come Severino spiega bene in Destino della necessità (Adelphi, Milano 1980), e nella fattispecie nel capitolo intitolato Il permanere dell’identità: risolvimento di un’aporia, che inizia a p. 204 del medesimo volume. A questo proposito va ricordata, sia pur in sintesi, l’importante soluzione che Severino dà dell’aporia della permanenza – ripetendo in sostanza l’argomentazione già svolta in Studi di filosofia della prassi (1a ed. 1962, 2a ed. ampliata Adelphi, Milano 1984). Severino cerca di mostrare che il rilievo
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identità, infatti, non è mai separata, ovvero isolata dal proprio differenziarsi (sì che il differenziarsi si aggiunga ad essa, rendendo impossibile il suo essere ciò che è). Per questo il suo differenziarsi (che è «originario» – essendo la medesima eternamente compresa in un contesto che dice appunto la sua vera identità con sé, ossia il suo originario determinarsi o differenziarsi) è l’originario differenziarsi del legame tra l’intramontabile struttura della verità, l’apparire, il determinatamente identico e ciò che via via sopraggiunge. Un tema, quest’ultimo, specificamente analizzato anche nelle straordinarie pagine che, in Oltre il linguaggio (Adelphi, Mi-
secondo cui il permanere di una qualche determinazione nel corso del divenire sarebbe impossibile (per il semplice fatto che il legame sempre diverso con il sopraggiungente renderebbe per ciò stesso diverso ciò che dovrebbe invece rimanere, in quanto permanente, identico) si fonda sull’isolamento astratto del permanente rispetto al contesto di appartenenza. Cerca di mostrare, cioè, che, solo in quanto isolato dal proprio contesto, e quindi in quanto considerato come indifferente a tale contesto, l’identico può subire – per dir così – l’azione differenziante provocata dal mutare del contesto. E quindi vedere smentita la propria identità dal semplice mutare dei contesti. Quando il discorso aporetico afferma il differenziarsi di M’ da M’’ dice il vero – ma dice appunto solo che M’ differisce da M’’. Il che è vero anche alla luce della verità del Destino – ossia, per il discorso che non separa M dal proprio contesto. Ma per l’appunto come semplice differire di M’ da M’’ – differenza che non esclude però che si tratti pur sempre del differire di M, ossia di qualcosa di permanente. Il discorso apiretico, cioè, non dice ciò che crede di dire: ossia che v’è anche un altro differenziarsi di M, diverso appunto dal differenziarsi di M’ da M’’. Il fatto è che – sottolinea Severino: «M è certamente distinto dal contesto in cui si trova, ma non ne è separato; e, appunto perché non ne è separato, M, in quanto appartiene all’insieme di enti che include l’imminenza della pioggia, significa M’, e in quanto appartiene all’insieme di enti che include la pioggia, significa M’’. Se invece M viene separato dagli insiemi cui esso appartiene, accade che nonostante il differenziarsi di M’ da M’’, M appaia come qualcosa di indifferente alla sua appartenenza a un insieme piuttosto che a un altro, e cioè come un significare che si mantiene identico a sé, indipendentemente dall’insieme in cui esso si trova» (E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 209).
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lano 1992), vengono appunto dedicate al rapporto tra identità e differenza (parte III, cap. I). In esse il filosofo bresciano mostra molto bene in che senso la stessa struttura originaria della verità del Destino si costituisca come rapporto tra le identità di cui le differenze sono differenze e il loro differenziarsi – per Severino, infatti, «tale struttura è l’apparire del rapporto tra le identità (differenziantisi) della non verità e le identità (differenziantisi) della verità, che essendo innegabili (in quanto la loro negazione è autonegazione)»25, non possono venire travolte e tantomeno smentite dal loro differenziarsi. Per questo, nonostante tale suo differenziarsi, «l’originario è la struttura delle identità la cui negazione e autonegazione»26. Un differenziarsi che è infinito in quanto, mai, l’incominciare ad apparire da parte di un essente può impedire il sopraggiungere di qualsiasi altro essente. Ed è proprio a partire da tale acquisizione che Severino può rilevare – come viene chiarito in La Gloria, Adelphi, Milano 2001 –, come il divenire, pensato al di fuori della follia dell’Occidente (in conformità a quanto già chiarito in Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980), implichi la necessità del manifestarsi da parte del superamento della follia. O meglio, come sia la stessa relazione tra eternità dell’essente e struttura del divenire a comportare un legame necessario tra l’infinità del divenire e il necessario apparire del compimento della follia dell’Occidente – e quindi tra il divenire e l’apparire della Gloria. Infatti, se è vero che l’unione necessaria non può incominciare (necessario essendo ciò che non è soggetto ai limiti di questa o quella condizione), tutto quel che comincia può per ciò stesso anche venire oltrepassato; ossia, deve poter essere oltrepassato. Anche se, sia pur come “oltrepassato”, un permanente può cominciare ad appartenere necessariamente allo sfondo. 25. E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 158. 26. Ibidem.
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Ora, la contraddizione del finito è da sempre superata nel l’apparire infinito del Tutto concreto; e non potrebbe che essere così – stante che ogni contraddizione deve esser già da sempre superata nella verità, ossia in quell’originario autotogliersi della contraddizione in cui quella appunto consiste. Ma, tale tutto concreto è custodito nell’inconscio dell’apparire finito e della sua contraddizione; ché, mai l’apparire finito potrà esaurire in sé la totalità concreta ed infinita dell’essente. Ogni determinazione specifica della totalità dell’apparire finito potendo essere di fatto superata. Per questo all’infinito si dispiegherà il superamento della contraddizione costitutiva del finito. In questo senso, la totalità che appare attualmente è una totalità sempre e solo formale. D’altro canto, se fosse in qualche modo determinabile la figura definitiva della totalità, si darebbe una contraddizione non superata. Ossia, l’impossibile. Perciò esiste un apparire infinito e concreto del Tutto che, solo, può rendere infinito il dispiegarsi dell’apparire finito; ossia il progressivo superamento della contraddizione del finito. Infinito… perché l’apparire infinito e concreto del Tutto non può sopraggiungere nel cerchio finito dell’apparire – altrimenti l’apparire finito (il cerchio finito del Destino) verrebbe annientato. Su queste basi si dovrà allora riconoscere che la Gioia – che per Severino coincide con l’apparire infinito del destino – è in senso proprio l’inconscio dell’apparire finito; ossia, che è questo stesso in quanto già da sempre libero dall’esser in contraddizione con se medesimo, ed in quanto da sempre costretto a manifestarsi nella forma contraddittoria dell’apparire finito. Ossia, costretto a dispiegarsi infinitamente nell’infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie di quest’ultimo. Dove, proprio questo infinito dispiegarsi è ciò che Severino chiama «la Gloria». Ed è proprio in questo percorso che lo stesso isolamento della terra appare destinato al tramonto – come tutto ciò che entra nel cerchio finito dell’apparire. Infatti, se la terra non può imbattersi in un luogo inoltrepassabile, è necessario che anche il nichilismo (la terra isolata)
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venga oltrepassato. Oltrepassato continuando ad apparire, si badi bene. Ché, l’oltrepassato non è un dimenticato – come già abbiamo visto. Tutte le espressioni del nichilismo sono dunque condannate a venire oltrepassate in quanto conservate: ogni angoscia, ogni dolore, ogni felicità, ogni morte… – conservate nella luce che le oltrepassa. Perciò la gloria è il dispiegamento infinito oltre la solitudine della terra. E, conseguentemente, il luogo della totalità concreta è destinato a non apparire – mai apparirà, nel dispiegarsi infinito dell’apparire finito, il compimento dell’oltrepassamento eternamente compiuto della totalità delle contraddizioni. Anche se ognuno di noi “lo è”. Ognuno di noi – sempre per Severino – è questo luogo; e dunque è la Gioia. Ma per ciò stesso tale Gioia è nella nostra esperienza solo nella forma della Gloria. Questo siamo tutti noi: il luogo inaccessibile, che non può non contenere, come oltrepassato, il dispiegamento infinito della terra – che non può non contenerlo, se non altro in quanto infinità contenente l’infinità del dispiegamento compiuto dell’apparire finito. Ma, proprio per questo, noi stessi, nel nostro coincidere con tale totalità concreta, mai potremo accedere ad un tale luogo, se non all’infinito – ossia in quanto destinati ad un infinito superamento della nostra contraddittorietà. Perciò l’infinito concreto vive sempre e solamente nell’infinito astratto che compete all’apparire finito. Vi vive, appunto, come il suo eternamente inaccessibile inconscio. Perciò l’infinito di Severino ha tanto a che fare – ci sembra – con l’infinità fichtiana27.
27. A proposito di Fichte e del suo rapporto con Kant, ricordiamo qui l’importante studio pubblicato da Severino già nel 1960 e intitolato: Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960.
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Coerenza del divenire 1. Etica e Destino Quando ci si chiede quale etica debba essere oggi adottata dalla scienza e dalla tecnica, non si scorge che la tecnica, guidata dalla scienza moderna, è ormai la forma suprema di etica, e che l’etica della tradizione occidentale è una tecnica la cui potenza è stata oltrepassata dalla potenza della tecnica scientifica.28
Se, come precisa Severino, «“etica” è riconoscere che l’agire è sottoposto a vincoli»29, altamente problematica risulterà la tematizzazione di qualcosa come un’etica del Destino. È evidente, comunque, il fatto che un tale rilievo apre a diverse possibili letture o interpretazioni. Infatti, se da un lato lo si può intendere come riferimento ad un agire conforme al Destino (ossia, alla verità incontrovertibile della struttura originaria dell’essere), dall’altro vi potrebbe anche essere in esso il riferimento ad un ipotetico ethos connaturato al Destino inteso come vero e proprio soggetto dell’agire in quanto tale. Proviamo ad immaginare cosa potrebbe voler dire agire conformemente al Destino. E quindi ad ipotizzare un agire che corrisponda a quella struttura che dice appunto l’alienazione dell’agire – ovvero, la sua impossibilità. Non potrà non apparire chiaramente ed immediatamente l’aporeticità di una tale ipotesi. La semplice persuasione di poter agire conformemente al Destino è infatti la più radicale delle follie – più radicale ancora di ogni persuasione ignara del Destino, ossia di tutte quelle persuasioni secondo cui l’agire libero sarebbe fenomenologicamente evidente. Appunto perché vuole fare della follia dell’agire qualcosa che sia in grado di adeguarsi 28. E. Severino, Etica e tecnica, in Id., La buona fede, Rizzoli, Milano 1999, p. 47. 29. E. Severino, L’etica della scienza, in Id., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988, p. 69.
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ad una verità nel cui nome è proprio l’agire libero a mostrarsi come radicale espressione della follia. Che ci si possa adeguare, nelle azioni di qualsiasi genere – e che lo si possa fare liberamente, in forza di una deliberazione consapevole –, alla struttura del Destino è assolutamente impossibile. È infatti la semplice possibilità di una scelta libera, ossia di un’azione liberamente realizzata, a costituirsi come impossibile, alla luce della verità del Destino. Insomma, il Destino non si esplica in un insieme di regole e vincoli osservando i quali l’agire possa farsi in qualche modo «buono». Il Destino non fonda alcun ethos. E quindi non si può chiedere alla parola del Destino come ci si debba comportare per essere fedeli testimoni della sua “verità”. Non meno improbabile è poi che ci si possa riferire al Destino come “soggetto”. Certo, l’accadere è sempre un accadere conforme al Destino – anche là dove l’accadere si manifesta nella forma di ciò che Severino chiama “isolamento della terra”. Ma non si tratta di un accadere che possa venire inteso come “azione” del Destino. E neppure come un agire etico. Il Destino non agisce nella misura in cui esso non è un soggetto in qualche modo distinto dall’accadere di tutto ciò che accade – sì che quest’ultimo possa venire inteso come l’effetto del suo agire, e magari del suo agire volontario (o libero). Innanzitutto: nessun accadimento accade come ciò che sarebbe anche potuto non accadere – stante che l’accadere, ossia l’apparire di tutto ciò che appare è l’eterno apparire di sé medesimo. Anche le cosiddette possibilità alternative – se fossero tali (là dove si voglia concepirle come tali) – sarebbero eternamente tali. Ovvero, ciò che eternamente accade, appunto, nell’apparire del proprio apparire, come eterna possibilità alternativa. E poi, come concepire l’accadere di tutto ciò che accade al modo di un’azione? Dell’azione di un soggetto? Cosa sarebbe il Destino come soggetto distinto dal proprio agire? Il Destino come sostanza distinta dai propri accidenti?
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Il fatto è che il Destino cui si riferiscono i testi di Severino è piuttosto l’accadere stesso di tutto ciò che accade, dove l’accadere va inteso appunto come l’apparire di un apparire eternamente incominciante, in se stesso eterno (ossia, eterno nel proprio esser incominciante) e tale per cui ogni sua determinata configurazione, apparendo, è destinata a venire oltrepassata in conformità a quell’infinito succedersi di sempre diverse declinazioni della totalità dell’apparire, ognuna delle quali è sempre necessariamente se medesima. Solo in tal modo esso può farsi perfetta espressione di una Gioia valevole come già da sempre risolto superamento di ogni contraddizione. Insomma, il Destino non agisce, non si fa altro da sé (al modo dell’essere di Heidegger), magari ritrovandosi in una onticità mai esauriente quanto in essa venisse comunque a manifestarsi. No, il Destino cui danno voce i testi di Severino non è altro che l’eterno esser presso se stessi da parte di tutti gli enti che di volta in volta accadono, e quindi il loro già da sempre risolto esserci, da sempre libero dalla contraddizione e da ogni forma di impossibile negazione della loro originaria ed eterna positività. Il Destino è la totalità dell’accadere che ogni volta, in ogni sua specifica determinazione, abita ed incarna, per dir così, l’eterno oltrepassamento dell’errore che comunque deve apparire (affinché la verità possa essere ciò che è – ossia, eterna negazione dell’errore). Esso è l’eterno superamento del male e del dolore al medesimo comunque sempre e necessariamente connessi. Un oltrepassamento eterno che però non si manifesta se non nell’infinito dispiegarsi del progressivo oltrepassamento delle contraddizioni del finito, e quindi infine anche di quella contraddizione consistente appunto nell’isolamento della terra (condizione originaria del nostro essere-mortale). Perciò il nichilismo è destinato a venire oltrepassato, anche se, pur nella forma di un passato, continuerà ad apparire nella “trasfigurazione” operatane dalla Gioia. Certo, Severino non ci dice
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cosa significhi “in concreto”, per dir così, cosa comporti cioè l’apparire come un “passato” negato dalla Gioia; purtuttavia la destinazione alla Gloria da parte del tutto è conforme alla struttura originaria del Destino. Il Destino non agisce; il suo articolarsi non è eticamente valutabile. Il suo manifestarsi è infatti il semplice venire alla luce da parte di una verità in se stessa già salva; e che, in quanto tale, non “salva” affatto gli enti, ma dice piuttosto il loro stesso originario articolarsi veritativo, o anche, un articolarsi nel cui orizzonte i medesimi sono invero già da sempre salvi. Un agire etico è dunque pensabile solo in relazione all’uomo; anzi, all’uomo in quanto “libero”. L’ha compreso molto bene Kant; solo sul presupposto di una originaria libertà (ossia, per la presupposizione del factum della sua libertà), l’agire umano può essere giudicato buono o cattivo. Solo là dove la scelta si determini in relazione ad una possibile alternativa, e venga operata in base ad una precisa conoscenza della differenza tra bene e male, avrà senso chiamare in causa l’etica. Ossia, solo là dove a strutturarsi sia ciò che la filosofia ha definito appunto orizzonte del “libero arbitrio”. Ma alla luce dell’orizzonte ontologico delineato da Severino tutto ciò non ha senso alcuno – né l’uomo né il Destino possono accogliere il dispiegarsi di qualcosa come «il libero arbitrio». Ovvero, la semplice apertura alla supposizione che qualcosa sarebbe potuta essere diversamente da come è. Infatti, è solo per l’isolamento della terra che tale persuasione ha potuto crescere sino a venire addirittura considerata come un contenuto dell’evidenza fenomenologica. L’isolamento della terra, ovvero la persuasione che l’incominciare e il terminare determinino, quale suo limite ultimo, l’essere dell’essente; ciò sul cui fondamento, solamente, può accadere l’essere mortale del mortale. Ecco, è solo in relazione all’accadimento di tale dimensione e della persuasione connessa a quest’ultima che l’uomo si sarebbe potuto pensare
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“libero”. Libero di percorrere questa o quella strada. Di errare o di mantenersi al riparo del bene. È solo sul fondamento dell’isolamento della terra che l’uomo avrebbe potuto dar vita a quell’immenso corpo di riflessioni su di sé e sul proprio agire che chiamiamo “etica”. Stabilendo così il corpus delle regole conformandosi alle quali il nostro libero agire avrebbe potuto ritenersi eticamente buono. Eppure, è sempre Severino a dimostrare, e sempre con inflessibile rigore logico, come questo stesso isolamento stia nello stesso tempo alla base della progressiva consumazione di qualsivoglia possibilità del darsi di qualcosa come un’etica. Se l’originario è infatti la terra isolata, ossia il divenire pensato come unico terreno percorribile e in qualche modo affidabile, nessun valore (nessuna regola) può sfuggire alla potenza demolitrice della progressiva presa di coscienza del fatto che, già per il suo semplice voler valere anche in relazione a ciò che non è ancora accaduto, il valore etico (qualsivoglia valore etico) rende costitutivamente impossibile quel divenire che vorrebbe appunto regolare e rendere conforme a sé. D’altro canto, l’evidenza prima è, nell’orizzonte della terra isolata, il divenire; sì che ogni tentativo di difendersi dall’insostenibile imprevedibilità da quest’ultimo sempre e comunque implicata non potrà che venire destituito, almeno là dove esso mostri di rendere impossibile il contenuto dell’evidenza originaria. Ma il fatto è che ogni forma di stabilità – sia pur in misura diversa, a seconda che si tratti di un immutabile o di un parzialmente durevole – contraddice l’assoluta imprevedibilità implicata dalla fede costituente l’essere mortale del mortale. E quindi, sia pur progressivamente (innanzitutto liberandosi dagli immutabili, ma poi, necessariamente, anche da tutto ciò che in qualche modo – anche se ipotetico-parziale – finisce per depotenziare l’assolutezza dell’imprevedibile), ogni regola in qualche modo «stabile», che voglia aiutarci ad affrontare l’imprevedibilità dell’accadere, insinuandosi in quanto tale là
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dove il non esser ancora di ciò che è rende totalmente impossibile qualsiasi tipo di “pre-visione”, dovrà essere abbandonata. Insomma, alla luce della prospettiva delineata da Severino, non solo l’etica è destinata a farsi contingente, parziale e relativa; ossia, non solo il nichilismo è costretto a rinunciare a qualsivoglia forma di salvezza assoluta e definitiva – di più, esso non potrà che dirigersi verso una situazione nel cui ambito nessun valore (neppure un valore ispirato alla semplice ragionevolezza, al buon senso… e, in quanto tale, “relativo”) potrà venire assunto quale regola comportamentale o venire evocato per condannare questo o quel gesto (di quelli un tempo considerati criminali o comunque malvagi). Anche la forma ipotetica della previsione, infatti, implica il riconoscimento di qualcosa che, nell’orizzonte del nichilismo, non potrà essere in alcun modo riconosciuto. Ossia, il riconoscimento del fatto che l’accadere futuro sarebbe più consistentemente connesso ad una piuttosto che ad un’altra possibilità – in ciò consistendo uno dei significati della legge della probabilità. Certo, che un valore non venga vissuto come assoluto non implica, sic et simpliciter, che ad esso ci si rapporti in modo del tutto gratuito e libero. Ma, il valore che volesse regolare l’agire relativamente ad una determinata situazione storica, a certe condizioni culturali e sociali, e magari entro i limiti costituiti dall’accettazione di questo o quel costume di vita, non smetterebbe per ciò stesso di essere un valore esprimentesi intorno a ciò che non è ancora stato fatto – e quindi trascende il limite costituito dal già esistente. Altrimenti non sarebbe neppure un valore etico – ma un semplice contenuto storico, descrivibile e rinvenibile nell’ambito del già accaduto, e quindi privo di qualsivoglia potenza normativa nei confronti del “non ancora accaduto”. L’etica è tale, infatti, solo in quanto i suoi paradigmi assiologici si proiettano nel futuro, imponendosi sull’agire non ancora realizzatosi, e sappiano farsi capaci di orientarci in tale prospettiva.
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Ma allora, proprio per quanto appena indicato, anche nel l’orizzonte del nichilismo l’etica è destinata a farsi puro flatus vocis, in se stesso privo di qualsivoglia potenza persuasiva. Come a dire che, se già nell’orizzonte eterno del Destino l’etica è da sempre oltrepassata e destituita di ogni, anche flebile, potenza, è sempre in relazione al medesimo Destino che si dovrà riconoscere come, anche nel contesto della vicenda inaugurata dall’isolamento della terra (i cui presupposti, solamente, avrebbero reso possibile il suo trionfo e la sua enorme rilevanza storica), l’etica sia destinata a svuotarsi di ogni potenza normativa, e quindi a riconoscere (sia pur per tutt’altri motivi) la propria radicale impossibilità. Certo, l’etica comunque più resistente rispetto all’incombere del definitivo compimento di un tale destino è quella scientifica – e quindi assolutamente inevitabile è la subordinazione di ogni altro valore (religioso, morale…) a quell’uni co valore che è la potenza indefinitamente incrementabile dell’Apparato tecnico-scientifico. Infatti, stante che la scienza e la tecnica si propongono da ultimo – come ogni altra etica, peraltro – una sempre più efficace difesa dai rischi dell’imprevedibilità del divenire, è evidente che la loro etica sarà l’ultima a cedere il passo, se non altro in quanto in grado di adeguare al massimo grado il proprio apparato previsionale e normativo alla contingenza del possibile. Ma anche la scienza, in quando fondata sulla persuasione relativa alla dominabilità dell’essente, e quindi su quel divenire che di tale dominabilità è l’ultimo fondamento e l’imprescindibile condizione di possibilità, è destinata a riconoscere che il semplice fatto di essere dotati di un apparato normativo (per quanto ipotetico-deduttivo) costituisce un “limite” per l’espansione infinita della volontà di potenza in cui essa medesima consiste. Ossia, un limite anzitutto per quel divenire assoluto su cui, solamente, l’infinita potenza della tecnica può realmente esplicarsi.
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Da ciò, comunque, un paradosso oltremodo radicale – cui l’impostazione severiniana sembra necessariamente condurre: se l’efficacia del dominio è direttamente proporzionale alla libertà del divenire (ossia al suo non essere vincolato a nessuna legge in qualche modo stabile), ossia alla debolezza delle regole a cui quest’ultimo finisce per essere vincolato, è evidente che il dominio possa farsi massimamente efficace solo là dove la regola abbia condotto al massimo grado possibile la debolezza sua propria. Ossia, là dove quest’ultima si sia fatta totalmente impotente; o anche, dove essa abbia rinunciato in toto a regolamentare il “non ancora”. E quindi dove la sua impotenza si sia fatta davvero radicale. Insomma, la tecnica potrà farsi massimamente potente solo là dove riesca a sperimentare la propria più radicale impotenza. Paradosso irrisolvibile della tecnica e di ogni forma di dominio – quel dominio che è reso possibile, anzi necessario ed urgente, proprio da quella struttura del divenire che è nello stesso tempo destinata a manifestare la sua più radicale impossibilità. Ossia, la sua krisis definitiva. D’altro canto, ogni etica – per quanto relativa e contingente (come quelle dei pragmatismi contemporanei) – può sussistere solo in base all’assunzione assolutamente irrazionale di alcuni presupposti quali principi morali di ogni argomentazione. Ossia, sul fondamento di una fede – che, in quanto tale, non può che essere “irrazionale” ed “ingiustificata”30. Ma, davvero nell’ontologia severiniana nessun’etica trova diritto di cittadinanza? O, nello stesso definire l’eterno superamento di tutte le contraddizioni del finito in termini di “Gioia” si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che è stato fatto uscire dalla porta?
30. Tematica affrontata da E. Severino nel saggio Élenchos, in Id., La tendenza fondamentale, cit., pp. 89-109.
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Davvero, cioè, nel concetto di “Gioia” non fa comunque capolino qualcosa che ha intimamente a che fare con quanto è sempre stato al fondo delle diverse etiche elaborate dalla storia dell’Occidente? Quella di “Gioia” è espressione che rinvia senza mezzi termini ad una determinazione toto caelo soggettiva del “sentimento” – quella stessa che aveva fatto della filosofia, sin dalle sue origini, una sostanziale eudaimonia. Quella di Severino è d’altra parte una filosofia che mette fuori gioco il fondamento di ogni male e di ogni dolore: la morte. Indicandone non solo la non evidenza, ma addirittura la strutturale impossibilità. Per Severino, infatti, alla luce della «Gioia», non solo il male e il dolore manifestano il loro già da sempre accaduto oltrepassamento; un analogo destino attende in questo senso anche ciò che nell’orizzonte del nichilismo chiamiamo felicità o piacere. Eppure, per dire il risplendere eterno della compiuta verità dell’essere, Severino sembra non poter fare a meno di utilizzare una delle categorie che hanno più fortemente determinato le varie opposizioni categoriali, in primis quelle etico-morali, elaborate nel corso della storia dell’Occidente. Proprio quelle oppositività di cui il Destino dice la più radicale destituzione. Riconsegnando così la propria parola proprio a quelle istanze di cui la medesima si pone appunto come la più radicale delle messe in questione. 2. Tecnica e Destino Severino è molto chiaro a questo proposito: «se l’ente è ciò che oscilla tra essere e niente, allora appartiene all’essenza stessa dell’ente il suo essere prodotto, distrutto, creato, annientato, manipolato, trasformato, devastato, controllato, dominato, sfruttato senza alcun limite. Il limite, infatti, arresterebbe l’oscillazione dell’ente. La fede nell’esistenza del
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divenire, cioè nell’esistenza dell’oscillazione dell’ente, è fede nella dominabilità dell’ente e quindi è fede nell’esistenza delle forze che si contendono il dominio dell’ente»31. Perciò il limite, da epistemico, s’è fatto sempre più consapevolmente ipotetico e provvisorio – l’Occidente ha cioè preso coscienza del fatto che «il logos può avere soltanto la verità ipotetica e provvisoria del sapere scientifico. Cioè che può essere soltanto – anche ai propri occhi – una fede… e non perché la razionalità analitica sia «più vera», ma perché essa sembra più capace di ogni altra di trasformare il mondo conformemente agli scopi prefissi»32. La questione, cioè, non è più quella della verità, ma piuttosto quella della funzionalità del sapere. Il sapere tecnico-scientifico ha vinto la partita33, determinando la sconfitta della metafisica, per dir così, solo perché più funzionale ed efficace in rapporto all’ottenimento degli scopi che di volta in volta i mortali si propongono di raggiungere – appunto perché, adeguandosi sempre più coerentemente al senso ontologico del divenire ed alle sue reali implicazioni, il sapere tecnico rende meno incerta la vita degli umani, difendendola più efficacemente dal rischio che il divenire in
31. E. Severino, L’Occidente come storia del nichilismo, in Id., La tendenza fondamentale, cit., pp. 172-173. 32. E. Severino, La violenza del dialogo, in Id., Il parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985, p. 127. 33. Severino avanza una tesi assolutamente originale e meritevole della massima attenzione: che l’età della tecnica abbia avuto il suo primo grande interprete in Leopardi, un “poeta”. Allo stesso modo in cui sempre un poeta, o meglio un poeta tragico – vale a dire: Eschilo –, sarebbe stato l’iniziatore dell’Occidente in quanto tale, ovvero dell’Occidente in quanto dispiegamento di un grande, straordinario Errore (costituito appunto dal nichilismo). A questo proposito rinviamo a tre importanti opere di Severino, due dedicate a Leopardi ed una a Eschilo: 1) Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi, Milano 1989; 2) Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990; 3) Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997.
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quanto tale sempre implica. Insomma, il sapere ha preso coscienza della sua natura fondamentalmente pratica, lasciando spazio al manifestarsi della natura omnicomprensiva della “tecnica”34 – non più concepibile, dunque, come semplice attività specifica, distinta dalla poiesis o dalla praxis, e neppure dalla theoria. Una modalità che ha quindi finito per abbracciare ogni ambito delle cosiddette espressioni umane – anche il linguaggio. Ed è proprio a questo proposito che vanno assolutamente lette le bellissime pagine dedicate da Severino a tale tema in Oltre il linguaggio (Adelphi, Milano 1992) – dove si mostra appunto il senso autentico della cosiddetta “svolta linguistica” determinatasi nel corso del Novecento. Anche quella techne costituita dal “linguaggio”, infatti, partecipa del destino proprio di ogni forma di episteme, e quindi, proprio in quanto coerente rispetto al proprio fondamento – ovvero alla fede nel divenire –, e definitivamente convinta del fatto che, «nonostante il suo distinguersi dalla parola, il pensiero si presenta nella forma della parola»35, essa deve riconoscere l’impossibi-
34. Va dunque comunque precisato che per Severino il destino “tecnico” dell’Occidente non è tanto la “causa” – come sembrerebbe volerci dire invece Umberto Galimberti (che rimane comunque uno dei più significativi pensatori «educatisi» alla scuola di Severino) – dei cambiamenti culturali e filosofici che abbiamo sotto gli occhi, ma piuttosto l’effetto della piega presa dal pensiero filosofico negli ultimi due secoli. Certo, anche l’episteme era una “tecnica” – lo riconosce esplicitamente Severino –, ossia uno strumento atto a difendere i mortali dal pericolo costituito dal nulla, ma è il modo in cui si è sviluppato il pensiero moderno (sempre più consapevole, in questo senso, dell’inefficacia del rimedio metafisico) ad aver «reso possibile la tecnica del nostro tempo, cioè il nuovo rimedio con cui l’uomo tenta oggi di salvarsi dal nulla» (E. Severino, Le tracce e la terra, in Id., La legna e la cenere, cit., p. 131). È sempre nel medesimo saggio che, Severino – bontà sua – discute anche il mio Sull’assoluto. Per una reinterpretazione dell’idea lismo hegeliano, Einaudi, Torino 1992) 35. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 147.
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lità di qualsiasi nesso necessario. E quindi la tesi dell’insuperabilità della dimensione linguistica non può essere fondata sul riconoscimento di un nesso necessario tra l’uomo (pensiero) e il linguaggio, ma solo sulla loro inseparabilità dal divenire. Infatti, per l’Occidente l’unico nesso necessario che compete all’essente è quello con il divenire (il quale si configura comunque come una continua separazione degli essenti). Per questo, se è vero che «la riflessione sul rapporto tra la parola e la cosa non esce mai dalla parola»36, è anche vero che questo implica l’abolizione di ogni nesso immutabile solo per un motivo: quello per cui, nel vedere la cosa come già linguisticamente determinata, la si vede per ciò stesso inscritta in una lingua storicamente determinata, e quindi in una lingua cangiante, sempre diversa da sé, per tempo e luogo, ossia in una dimensione linguistica tutta dominata dal divenire (una dimensione linguistica che appare come tale, però, «solo all’interno dell’interpretazione che pone la parola, a cui il pensiero appare unito, come parola storica»37). D’altro canto, per Severino, la storicità della parola non appare se non per l’esercizio (mai definitivo, ma sempre e solamente problematico) dell’interpretazione; essa cioè non è qualcosa che appaia incontrovertibilmente. Insomma, «è sul fondamento di un atto problematico – l’interpretazione – che si afferma la problematicità della parola e dunque del pensiero»38. Ovvero: è per l’accadere di una certa “tecnica” – anche l’interpretazione è una “tecnica”, infatti – che appare la possibilità che la parola, in cui il pensiero respira, «sia storicamente determinata»39.
36. Ivi, p. 143. 37. Ivi, p. 143. 38. Ivi, p. 144. 39. Ivi, p. 145.
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D’altro canto, è certamente vero che la parola «è diveniente anche indipendentemente dal suo venire inserita, a opera dell’interpretazione, nel “contesto storico”»40, ma non per questo è impossibile che si dia un’identità dei diversi modi di parlare (pur non potendosi quest’ultima manifestare se non all’interno di un certo modo di parlare). Dal fatto che l’identità delle differenze non può manifestarsi se non all’interno di una differenza, non consegue infatti che «l’identità delle differenze non esista e non appaia»41. L’unica conseguenza di tale fatto è infatti che «essa è identità delle differenze non in quanto è una differenza, ma in quanto è l’identità che è e appare all’interno di una certa differenza»42. Certo, qualsivoglia espressione io usi, essa sarà un’espressione della lingua italiana, ma non per questo il significato da essa espresso sarà “l’identità che è” semplicemente per il suo essere un’espressione della lingua italiana. Certo, anche tale significato è assunto come identità nel suo ritrovarsi comunque avvolto da una delle differenze in cui si manifesta la lingua italiana, ma, ancora una volta, esso è assunto «come identità delle differenze non in quanto essa è una differenza, ma in quanto tale suo esser differente avvolge comunque una identità»43 – così come «le differenze sono e appaiono, solo in quanto non sono e non appaiono come differenze pure, separate dall’identità, ma in quanto avvolgono l’identità e appaiono in questo avvolgerla»44. Anche il linguaggio, insomma, di là da quanto reso evidente dall’eterna ed inviolabile luce del Destino, è una tecnica, e in quanto tale è destinato a non tollerare più alcun limite assoluto al proprio dispiegamento. Al proprio trasformarsi. Nessuna 40. Ibidem. 41. Ivi, p. 150. 42. Ibidem. 43. Ivi, p. 151. 44. Ibidem.
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“cosa” può costringerlo a sé, ossia alla propria fattualità. Nessuna cosa può cioè indirizzare e regolare il linguaggio, quale suo ultimo punto di riferimento. Così come la produttività resa possibile dalla tecnica contemporanea non tollera più alcun vincolo “etico”, estraneo alla semplice esigenza di sviluppo della potenza tecnica in quanto tale, allo stesso modo nessuna la tecnica linguistica si pensa più come semplice ancilla rerum. «All’interno della fede dell’Occidente nel divenire, la parola non riesce a essere parola della cosa. È inevitabile che finisca col rendersi conto di essere sempre parola di altre parole»45. Techne è termine greco che dice il senso originario del “fare” – del fare “produttivo”, s’intende. Quello stesso fare cui allude, sia pur secondo una diversa sfumatura, anche la poiesis. Techne e poiesis, però, non esauriscono la totalità delle possibili forme del fare. Non è un caso che i Greci dovessero tematizzare un’altra categoria, atta ad indicare appunto tutte quelle modalità dell’agire non-produttivo di cui è pur sostanziata la nostra esistenza: la praxis. Ovvero, ciò che costituisce la nostra esistenza in quanto insieme di “comportamnenti”. Aristotele avrebbe rigorizzato tali distinzioni con grande maestria. Eppure, sia pur nella loro reciproca distinzione, tali determinazioni del fare umano sono tutte accomunate dal fatto di essere comunque espressioni di una medesima delirante volontà – delirante, sempre secondo Severino, appunto in quanto pervicacemente persuasa di poter liberamente perseguire questo o quello scopo attraverso l’utilizzo di determinati strumenti (ma potremmo anche dire: per l’attivazione di determinati e specifici comportamenti). Certo, non sempre tali forme del fare producono “oggetti” concreti, oggettivati e sussistenti al di fuori di noi secondo una qualche determinazione materiale. Eppure, anche quando ci comportiamo in un certo modo, ed entriamo per ciò stesso in 45. Ivi, p. 160.
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relazione con l’altro-da-noi (sia tale “altro” fatto di cose, persone, idee…), tutti noi miriamo – consapevolmente o meno – al perseguimento di un certo “fine”. Sì che il nostro comportamento sarà sempre e comunque “teleologico”. E quindi diretto al perseguimento di uno stato inizialmente non-dato. Ha ragione, dunque, Severino, a mostrare – attraverso il dispiegamento di una logica davvero ferrea – come ogni “azione” esprima, volente o nolente, la quintessenza stessa della “volontà di potenza”; secondo cui, appunto, qualcosa che non-è dovrà poter essere condotta all’essere. Secondo cui, dunque, il contenuto ontologico del divenire costituirebbe l’evidenza suprema. Ma soprattutto, l’agente (chiunque sia persuaso di “agire”) vuole che il non essere “sia”, di là dalla possibilità che ciò accada indipendentemente dalla propria volontà, costituendo per ciò stesso una costante e radicale minaccia rispetto alla propria esistenza. Insomma, colui il quale agisce (o meglio, appare persuaso di poter/dover agire), lo fa cercando di guidare il passaggio dal niente all’essere in conformità ai propri desideri – sì che l’irruzione dell’assolutamente imprevedibile non lo travolga, magari ponendo fine alla sua stessa esistenza (o ai progetti di cui la medesima è sempre e comunque sostanziata). Chiunque agisca, in questo senso, è perfettamente convinto che la propria volontà, libera e volta alla realizzazione del proprio bene, possa trasformare la libertà del divenire ontologicamente inteso (del divenire in quanto passaggio dal niente all’essere e viceversa) in un’occasione fertile e propizia per la realizzazione di un dominio sicuro perché libero dal pericolo originariamente inscritto in quella stessa libertà – ossia, possa trasformare la libertà del divenire in straordinaria occasione per l’estrinsecazione più gratificante della propria libertà. Come a dire: dalla libertà dell’ente alla libertà dell’agente. Perciò ogni “azione” è tecnica. Ed ogni agente è un technites non meno potente, quindi, né del demiurgos platonico né del Dio cristiano. Ogni technites, infatti, decide del modo
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specifico in cui il niente ha da diventare essente – facendo di tale modo un ineludibile prodotto della propria techne. Ogni technites, nel far essere il niente, decide della «forma» dell’essente di volta in volta così costituentesi. E quindi anticipa ciò che altrimenti, ovvero in quanto liberamente insorgente, potrebbe destituire qualsivoglia “potenza” progettuale. Ma l’agente, divenendo sempre più consapevole della radicale novitas del diveniente, deve iniziare a convincersi del fatto che il prodotto del proprio “fare” potrebbe anche non essere quello da lui pro-gettato nella dimensione della volontà non ancora realizzata. E non è tutto – ché, se l’assoluta novitas istituita da ogni diveniente, per il semplice fatto del suo venire ad essere a partire dal niente, rende impossibile e folle qualsiasi fede epistemicamente anticipatoria, un destino analogo sarà riservato anche alla progettualità più debole, quella comunque disposta a farsi smentire e falsificare. Insomma, affinché la tecnica possa farsi davvero conforme alla struttura del divenire ontologicamente inteso, è necessario che l’agire prenda coscienza del fatto che i propri prodotti possono costituirsi come effettiva realizzazione solo del comportamento specifico che di volta in volta saprà di fatto realizzarsi. Per questo, non solo il Dio delle religioni epistemiche doveva tramontare; destinato ad abbandonare la scena essendo anche quel Dio minore che è lo stesso agente mortale, in quanto comunque persuaso di “poter” realizzare almeno qualcosa, e almeno secondo una qualche probabilità, di quanto inizialmente pre-visto, ossia del già-voluto prima che l’agire trovi la propria definitiva attuazione. Perciò la tecnica deve, in conformità al proprio progressivo ed inevitabile coerentizzarsi – secondo un’ottica rigorosamente severiniana – rinunciare non solo ad ogni progetto epistemico, ma infine anche alla forma ipoteticistico-probabilistica che oggi appare comunque vincente. Appunto perché già la semplice possibilità che il prodotto dell’agire (della techne)
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corrisponda alla libera progettazione anticipatrice è qualcosa che ostacola il pieno dispiegamento della libertà del divenire. E appunto per questo il destino della tecnica non può che coincidere con l’immediatezza del semplice farsi essente del niente, in quanto lasciata alla puntuale e gratuita coincidenza di volontà e risultato della sua azione. Dove, però, la volontà stessa coincide appunto con il semplice “comportamento” di fatto manifesto, ossia con l’azione di fatto manifestatasi là dove qualcosa sia venuto ad essere a partire dal proprio esser stato un niente. In questo senso, il destino della tecnica viene a coincidere con la totale espropriazione di ogni volontà progettante, ossia con il puro e semplice funzionamento di un agire risoltosi tutto nella perfezione del suo nudo, semplice e gratuito accadere. Ma allora, non si dovrà forse anche riconoscere, di là da quanto sostenuto sin qui da Severino, che vero destino della tecnica è quello disegnato dalla concezione heideggeriana dell’evento (Ereignis), e non il contrario? Ossia, le cose non potrebbero stare in modo tale che non tanto la tecnica venga a costituire il vero compimento del nichilismo, ma piuttosto che anche quest’ultima sia destinata prima o poi risolversi in quella gratuità del venire all’essere così ben tematizzata da Heidegger soprattutto in relazione alla questione dell’origine dell’opera d’arte?
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Rilevanza del concetto di «necessità»
Theorein: questa parola rimanda ad un ambito tematico che, se da un lato è fortemente connesso all’esercizio (o arte) del “vedere”, cioè a quell’esercizio che dell’ars architettonica è la cifra più significativa, dall’altro allude ad un modo del “vedere” che forse, di quello sensibile, si costituisce come condizione di “possibilità” e pre-supposto imprescindibile, ed in cui anzi, solamente, quest’ultimo riesce ad essere tale. D’altra parte, quando diciamo di contemplare (theorein) qualcosa (il filosofo contempla il mondo e dà voce alla “meraviglia” che quest’ultimo avrebbe fatto insorgere nel suo animo) non abbiamo essenzialmente a che fare con l’esser in qualche modo “visto” da parte di ciò che diciamo di contemplare? Contempliamo, senz’altro, nell’atto stesso in cui vediamo ciò che stiamo contemplando. Eppure, “vedere” non è, tout court, contemplare. Il vedere con gli occhi del corpo, infatti, è ciò su cui il contemplare si sofferma, si acquieta, appunto nel comprendere. Il contemplare, che è innanzitutto un “pensare”, dà nome e si interroga su ciò che il “vedere” vede, su ciò che il vedere sensibile incontra. Non pro-cedendo instancabilmente oltre, in certa di novitas, sempre inappagato da ciò che avrebbe già di fronte a
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sé, il contemplare è un gesto di arresto inevitabilmente “critico” nei confronti di tale frenesia – esso arresta ed interroga il “veduto”, e perciò «sta». Il suo fare è un fare che sta; è il fare nella sua originaria purezza, il fare del “presente”, dell’ora. Un fare il cui pro-cedere “procede” sempre sullo stesso, e proprio perciò è pre-supposto da ogni techne. Se la techne, infatti, è l’azione che si propone il raggiungimento di un fine che non era presente al suo inizio (un fare essenzialmente produttivo, dunque), il contemplare (theorein) è praxis allo stato puro; un fare che ha il proprio fine in se stesso, come sapeva bene già Aristotele – ma, di più, il fare della praxis teoretica è un fare che sprofonda nel medesimo, è sempre lì, ab origine, sin dal suo darsi originario, fermo sullo stesso, e proprio di questo perfetto «stare» in-forma il suo stesso incessante procedere. Cioè, non va neppure oltre se stessa, verso un oggetto esterno (per poi soffermarvisi), perché è essa stessa ad istituire l’oggetto in quanto tale. Essa è atto di pensiero, e dunque originaria posizione del proprio objectum; in questo senso il suo procedere è il procedere della riflessione filosofica, perché, sin dal suo cominciare, essa pone il proprio oggetto come determinatamente istituito. Diremo dunque, tornando così all’affermazione iniziale relativa al presupposto di ogni vedere determinato, che solo in tale procedere il vedere (con gli occhi del corpo) è ciò che è, ossia è un “vedere”. È il contemplare, infatti, che, riflettendo, piega e ri-piega in mille modi lo stesso, il suo “veduto”, e così lo connette al mondo, anzi lo fa mondo e lo “nomina”, cioè lo significa come veduto; e dunque significa un determinato atto come “vedere”. Solo allora il “veduto” diventa mondo, e viene riconosciuto come tale, potendo diventare oggetto di techne volta a buon fine, che sa che quel “veduto”, in quanto così significante, è predisposto a questo o quel genere di manipolazione tecnica. Ma, se il contemplare, che dà significato e dunque nomina, opera sul quid (che il vedere degli occhi del corpo – la sensi-
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bilità, direbbe Kant – semplicemente “riceve” ed “accoglie”) ab origine, ciò accade perché già il semplice fatto che un quid mi sia dato pre-suppone l’atto di un pensiero (il theorein) che, nel contemplare, appunto (nell’istituire qualcosa come la posizione di un “contemplato”), dia un sia pur minimo significato all’evento in quanto consistente anzitutto nel suo essermi dato. Io ricevo solo in quanto so di ricevere, cioè in quanto riconosco il ricevuto come un “ricevuto”: in ciò il fare originario del “vedere” di cui si diceva all’inizio – il “vedere” con gli occhi della mente (perciò Kant doveva istituire l’attività dell’Io già nella sfera passiva del conoscere – la sensibilità –, e strutturarla nelle due “intuizioni pure” dello spazio e del tempo, concepite come ciò attraverso cui renderemmo possibile l’esserci di un “mondo” quale quello della nostra esperienza). Dunque, proprio in base a quanto abbiamo visto sino a questo punto, dovrebbe poter venire facilmente compreso perché il concetto di «necessità» vada interrogato, nel suo stesso statuto di possibilità originante, da un theorein il cui “procedere arrestante” si propone come proprio compito quello di sviluppare una riflessione autonoma e rigorosa. Anzi, ci si dovrà interrogare sulla “morte”; sì, perché la vita sulla terra ha nella morte non solo il suo telos (fine), ma anche la sua vera arché (origine, principio) – nulla di più comprensibile ed in sintonia con un’autentica comprensione del mondo che sappia davvero interrogare la meraviglia da questo pro-vocata, di una riflessione sulla morte. Certo, perché, se la morte è “destino” eterno di una vita che in essa (nella morte), e solo in essa, trova la propria compiuta perfectio, il suo “stato” definitivo, è alla morte, appunto, che si tratta di pensare nell’atto in cui si edifica «la» dimora, l’autentica e sacra dimore dell’uomo. Se la morte è il vero oikos della “vita eterna”, di una vita che è davvero eternata solo in quell’ormai passata perfectio (una perfezione non più incrementabile) che coincide con il ni-ente della morte, e se ogni nascita, nel suo atto sorgivo originario, è possibi-
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le solo grazie al mettersi da parte, al ritrarsi del ni-ente di ciò che nasce, e dunque al morire della sua (del nascituro) morte originaria (perciò la vita è sempre “morte”; vita come perdita della perfectio originaria in cui l’ente, in quanto “morto”, era già perfettamente compiuto, ma, insieme, come inevitabile, perché unica possibile, modalità d’esistenza del nulla di quell’ente – perché è solo l’esistere, l’essere di un ente, il suo vivere, che può istituire la sua origine come “eterno passato” della sua perfetta ni-entità: solo di ciò che vive è infatti possibile dire che “era morto”, e che “morirà”. Mentre di ciò che, sic et simpliciter, non è, non è possibile dire alcunché, perché il mero nulla non è né morto né vivo), abitare secondo verità, autenticamente, la vita, è abitare la morte (di quello stesso che vive, nel suo stesso vivere). Ma, comprendere tutto ciò vuol dire appunto comprendere la «necessità» con cui la vita stessa si dice ai “mortali”, indicando l’abisso sempre incombente (perché già da sempre vivente “in noi”) di Thanatos. Comprendere tutto ciò esige anzitutto un’autentica comprensione della Necessità, che già secondo i Greci governava il mondo. Perciò è necessario riflettere sul concetto di «necessità». Sulla necessità di ciò che, in quanto necessario, ha perfettamente comprese, nel suo attuale determinarsi, anche tutte le altre infinite possibilità, che non possono realizzarsi altrimenti. Infatti, se nulla ha potuto configurarsi diversamente, il “tutto” delle altre possibilità (altre rispetto a quella posta come “necessaria”) è lì, in quella necessaria realtà attuale che è il ni-ente di ogni altra possibilità (ogni altra possibilità essendo in essa come ni-ente, appunto perché non è “altra”). Ogni altra possibilità è in quell’atto anch’essa come perfettamente realizzata – secondo necessità –, se davvero nulla è possibile altrimenti, ed ogni altro è dunque nella forma del medesimo; che è come dire che tutta la linea cronologica degli atti di volta in volta realizzantisi è in se stessa la totalità delle linee cronolo-
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giche possibili; infinito de-lirio dell’unica perfectio originaria, oltre la quale nulla è davvero in alcun modo pensabile. Ma proprio per questo l’atto, secondo diverse modalità, è sempre come positivo “ni-ente” di ciò che era ed è possibile: sua morte originaria. Infatti, se è vero che ogni ente è, secondo necessità, originaria morte della sua passata possibilità, nullificatasi nell’atto, è anche vero che l’essere di ogni ente è insieme morte di ciò che ora, in quanto negativum dell’esistente, è in quest’ultimo come tolto (ovvero nella forma dell’impossibile). Questo, per quanto riguarda il concetto lineare di Necessità – quello per cui ogni evento è radicale negazione della possibilità del proprio non –: ma è davvero, questa (da sempre objectum privilegiato delle grandi speculazioni filosofiche), l’unica modalità possibile dell’«esser necessario»?
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Oltre il giogo Colloquio con Emanuele Severino (1989)
La verità, come rimedio, soggioga il divenire angosciante del mondo. Questo giogo è ciò che la tradizione dell’Occidente chiama «Ragione». Poi, l’Occidente vorrà liberarsi dal giogo. Ma anche la liberazione dal giogo, come l’imposizione di esso, si mantiene in rapporto al senso greco del divenire, cioè del dolore che angoscia.1 Al di fuori dell’isolamento della terra, nel linguaggio che indica il non isolamento, la parola «destino» indica lo «stare» che l’episteme non può riuscire ad essere: lo «stare» che, quindi, ha un senso essenzialmente diverso da tutto ciò che lungo la storia dell’Occidente è stato chiamato «destino», «necessità», «stare», «episteme», «eternità», «inevitabilità» – le forme, queste, del soggiogamento del divenire e dell’andare nel niente.2 Il destino non è la semplice negazione della libertà: è una regione diversa da quella in cui la necessità e la libertà coincidono.3 La verità è il dire con necessità la necessità del Tutto – e questo «dire» è l’apparire della necessità che il tutto sia necessariamente (e della necessità di questo stesso apparire). Questo dire è necessario perché nemmeno un dio onnipotente può smentirlo; ciò che questo dire dice è la necessità del Tutto, ossia l’impossibilità 1. E. Severino, Il giogo, cit., p. 145. 2. Ivi, p. 384. 3. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 15.
76 che l’ente non sia. La verità della necessità è la relazione necessaria di questi due sensi della necessità.4 La verità del Tutto, eterno, appare. Abita eternamente nel cerchio eterno dell’apparire. Anche l’apparire, come ogni ente, è destinato all’essere e quindi è eterno. E la verità del Tutto, in quanto essa è ciò che di necessità è detto di ogni ente, è lo sfondo senza di cui non può apparire alcun ente. Essa è lo spettacolo eterno, che non sorge e non tramonta. Il destino della verità sta da sempre e per sempre alla luce… Ma il Tutto, di cui eternamente appare la verità, non appare tutto insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltra nella luce dell’apparire… Come il sole che, immobile, si inoltra nel cielo… Il «divenire» (l’accadimento) è l’inoltrarsi della terra nel cerchio dell’apparire. E anche il divenire è eterno. Per la verità, il divenire non è indipendentemente dal suo apparire, giacché il divenire è l’apparire dell’entrare e dell’uscire dal cerchio dell’apparire. E questo apparire, come ogni ente, è eterno… La destinazione della terra all’apparire appartiene a ciò che la verità dice delle cose e quindi è in accordo col loro cuore – giacché il vero cuore delle cose è ciò che di esse la verità dice.5
Donà Non c’è dubbio, professore, la speculazione filosofica, così come viene a delinearsi nei suoi scritti, è testimonianza della verità; di una verità esplicitamente istituentesi come apertura di una dimensione originaria all’interno della quale di ogni cosa va detta l’assoluta Necessità. Dire la verità, in questo senso, equivale a dire l’eternità del tutto, dell’eterna costellazione dell’essere, il cui stesso apparire e scomparire (lo spettacolo continuamente mutevole della vita) va dunque inteso come l’apparire e lo scomparire dell’eterno apparire dell’ente. 4. Ivi, p. 88. 5. Ivi, pp. 126-128.
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Insomma, parlare di Necessità vuol dire qui parlare di ciò che è Nomos incontrovertibile dell’essere in un modo – ci sembra di poter sostenere – che è radicalmente altro, diverso rispetto a quello in cui questa espressione è stata di volta in volta intesa lungo la storia dell’Occidente; basti pensare, a questo proposito, a ciò che con l’espressione «Necessità» intendevano nominare i greci, oppure i grandi protagonisti di quel mare magnum che è il mondo della cristianità. Potrebbe tratteggiare brevemente il senso fondamentale di questa differenza?
Severino Certo, dover riassumere in poche parole una questione di tale portata non è cosa da poco; proviamo comunque ad indicare i tratti essenziali con cui il concetto di Necessità si è presentato nella storia dell’Occidente, affinché sia più facile poi delineare, non più che per cenni, comunque, il senso inaudito che lo stesso concetto assume all’interno dei miei scritti. Già dai greci l’espressione Necessità veniva usata per indicare la dimensione che è sovrastante e dominante il divenire. La Necessità, dunque, in funzione di comando, di dominio; la Necessità nella figura del “padrone” – il necessario è ciò che padroneggia il divenire. E ci si potrebbe servire qui della figura hegeliana del servo-padrone: il divenire è il servo e la Necessità è il padrone. Invece, nei miei scritti questa contrapposizione cade in quanto si rivela l’inesistenza della figura del servo, quindi l’inesistenza della figura del padrone (perché sono due termini correlativi). Là la Necessità è l’Arché, che padroneggia il servo (il divenire), e invece nei miei testi si indica l’irrealtà del divenire, cade la figura del “servo-padrone”, e dunque il necessario non
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è ciò che soffoca la libertà del divenire. La Necessità va allora intesa come il cuore delle cose.
Gasparotti A questo proposito, quando Parmenide parla del cuore che non trema della ben rotonda verità si sta forse riferendo a qualcosa di analogo al senso non nichilistico che la Verità incontrovertibile (che lei ama definire come il cuore più autentico di ogni cosa) assume all’interno dei suoi scritti?
Severino Questo lo volevo dire in uno scritto a parte, ma… vi do la primizia. La cosa va intesa in questo modo: il cuore non tremante della verità, in Parmenide, allude ad un tremore, che è l’angoscia del divenire. Nel mio libro su Eschilo (Il giogo), ad esempio, dico che Parmenide è sul punto di rendere esplicito il rapporto tra “dolore” e “verità”. Ma, ciò che è massimamente importante è il fatto che il cuore non tremante non ha una semplice connotazione logico-ontologica, ma va posto in correlazione al tremore della non-verità (collegandoci cosi all’amēchaníē del frammento 4, su cui mi soffermo nel quinto capitolo del libro su Eschilo). E il tremore della non-verità è l’angoscia per il divenire che attraversa i dikranoi, che offusca la loro mente. Parmenide sta per parlare del rapporto tra verità e dolore, ma ancora non ne parla esplicitamente: d’altra parte l’espressione «il cuore che non trema della ben rotonda verità» è impensabile se non in rapporto a un «tremare». Da questo punto di vista Parmenide sta per dire quello che Eschilo dirà in modo definitivo ed esplicito, dando così forma a quello che diventerà il tema centrale della filosofia. Anche in Aristotele,
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nel Cristianesimo, in Hegel, e nel Marxismo verrà istituito un nesso essenziale tra felicità e verità (si pensi al marxismo: la felicità della società senza classi è in relazione alla “verità” di questa condizione). Perché solo nell’orizzonte della verità ci si può liberare dal dolore che angoscia, ovvero si può porre un rimedio al divenire inteso come nientificazione dell’essere; anche se la stessa liberazione dall’angoscia si mantiene in un essenziale rapporto al senso greco del divenire, cioè al tremore per l’impossibile. Laddove nei miei testi l’espressione “Necessità” indica quella Gioia (la Gioia del Tutto) in cui il mortale, ed il suo tremore, sono già da sempre “passati”; in cui l’impossibile evidenza del divenire nullificante non va neppure dominata, proprio in quanto è da sempre saputa come ciò che non ha alcun valore di verità.
Donà Come si determina ciò che lei chiama “Necessità” in relazione alle due classiche modalità in cui la medesima è sempre stata pensata nella storia dell’Occidente? Cioè, se da un lato la Necessità è stata pensata come Nomos incontrovertibile relativo a ciò che è immutabile, o meglio come espressione originaria di tale immutabilità, e dall’altro la si è anche fatta valere come ferreo Nomos del divenire, cioè di ciò che non è, in quanto tale, immutabile, bensì contingente (legge necessaria della storia, ovvero di ciò che è temporalmente determinato), qual è l’articolazione che questo stesso concetto assume all’interno dei suoi scritti?
Severino Innanzitutto, va detto questo: nei miei scritti la Necessità non è né astratto nomos di uno “stare” separato dalla mutevo-
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lezza, né astratto nomos del divenire, di un mutare inteso come irreparabile contingenza di ciò che è, ma non era e non sarà. Una Necessità, dunque, esprimibile in termini di «eternità del diveniente», una Necessità, cioè, in cui l’eterno non è mera soppressione della realtà del movimento, del cangiamento. Da ciò, la figura, accuratamente analizzata in Destino della necessità, dell’apparire come apparire (e scomparire) dell’eterno apparire dell’ente (esso stesso eterno). Il movimento, il divenire, sono infatti impossibili solo in quanto implicanti la nullificazione dell’essere. In questo senso l’impossibilità del non essere dell’essente è la stessa impossibilità che l’essente si manifesti in modo diverso da come si manifesta: questa, la doppia articolazione del concetto di Necessità presente nei miei scritti. Una doppia articolazione, però, in cui la “seconda” necessità non è in realtà seconda, ma è connessa necessariamente alla prima, è un altro modo di dire il senso della prima, è ciò che, insieme alla prima, viene a costituire il senso originario, e più autentico, della Necessità. Infatti, se si affermasse una via contingente dell’apparire, si negherebbe la necessità come impossibilità che l’essente non sia, si negherebbe l’eternità. Dunque: Necessità vuol dire “eternità” dell’essente: eternità vuol dire impossibilità del non essere. Se si affermasse che la storia è una delle possibili storie che si sarebbero potute mostrare, si negherebbe l’eternità dell’essente: da ciò l’inevitabilità del percorso.
Donà Veniamo ad affrontare ora il problema specifico della nonverità. Nei suoi scritti si mostra che la verità, in quanto tale, non è tale indipendentemente dal costituirsi del suo “non”,
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della non-verità, dunque. La non-verità, cioè, si rivela in qualche modo coessenziale alla verità. La non-verità come reale negazione della verità, come ciò con cui la verità deve incessantemente misurarsi nel suo stesso darsi come davvero incontrovertibile, in quanto implicante l’autonegarsi (in ciò la forza della struttura elenchica della verità) della non-verità, di una non-verità che, però, se non si strutturasse realmente, non potrebbe neppure mostrarsi come autotoglientesi. Ma, la non-verità è fede nell’esistenza dell’impossibile; il contenuto della non-verità è l’assurdo. Da qui il problema essenziale che la non-verità è per il pensiero, e dunque la domanda che a questo punto ritengo opportuno rivolgerle. La non-verità è pura persuasione dell’esistenza del modo non vero di essere da parte dell’essente, oppure va intesa come esistenza vera del modo non vero di essere?
Severino La persuasione alienata è la persuasione che ha come contenuto l’impossibile. Però come persuasione essente sottostà alla legislazione dell’essente. La persuasione il cui contenuto è l’impossibile, è un essente che implica d’altra parte una «chiamata». Dove, con l’espressione “chiamare” alludiamo al fatto che la totalità dell’essente (o del Destino), risponde a questa chiamata con l’apparire di essenti che sono correlati al modo in cui sono chiamati; che sono cioè gli spettacoli essenti configurantisi come gli eterni della Notte (o del Negativo). Quindi l’alienazione non è semplicemente una persuasione; essa è una persuasione il cui statuto ontologico è sì quello di ogni essente, ma si configura appunto come una chiamata alla quale la totalità dell’essente risponde con gli spettacoli dell’alienazione. Spettacoli che sono essi stessi degli essenti, ma si costituiscono come ciò che appare in relazione alla follia. Quando
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la follia esplode, appaiono gli spettacoli della follia. Dunque, non si tratta né di una semplice persuasione, né di uno statuto che sarebbe la realtà dell’impossibile: la non-verità non è la realtà dell’impossibile, ma quell’eterno che resterebbe nascosto se non fosse “pro-vocato” da questa chiamata in cui consiste la persuasione. Ma, per evitare le solite ed ingiustificate accuse di heideggerismo che ultimamente sembrano costituire una facile scorciatoia per evitare aprioristicamente l’impegno di un serio confronto con la proposta filosofica emergente dalle mie opere, forse è opportuno riformulare la risposta in questi termini (eliminando espressioni come «chiamata», «risposta»…): la persuasione isolante (che isola la Terra dalla Verità) è accompagnata dall’apparire di contenuti che sono i contenuti del «negativo» – dove, ciò che val la pena ribadire è che il loro statuto è lo statuto della Necessità. Essi sono ciò che appare in relazione alla persuasione isolante (d’altra parte la parola «chiamata» non faceva altro che enfatizzare l’essere in relazione). Là dove c’è la persuasione di distruggere, ad esempio, appaiono quegli spettacoli che noi definiamo «catastrofe», «orrore», «distruzione», «guerra». Spettacoli che, comunque, sono essi stessi degli «eterni».
Gasparotti Come interpreta, professore, la dilagante enfatizzazione del nostro tempo come tempo della libertà (enfatizzazione che forse finisce per lasciare assolutamente “impensato” un tale concetto)? Lei stesso, nei suoi testi, parla del moderno come tempo del tramonto degli immutabili. È veramente, il nostro, il tempo in cui Ananke (la Necessità come «giogo» della dominazione di cui lei parla nel volume su Eschilo) ha abbandonato definitivamente la scena per lasciare spazio all’incontrollabile sviluppo di una «libertà» ormai priva di ogni «vincolo»?
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Severino Ma… direi che non è vero. No, non siamo nel tempo dell’assoluta libertà; per esempio, nel senso delle equiparazioni – che fa anche Feyerabend – tra libertà scientifica, libertà metodologica e libertà politica. Perché, quel che rimane, nel tempo del tramonto degli immutabili, è la “forza”. Caduta la verità, è rimasta la forza. Ovvero, c’è una selezione delle libertà in cui domina quel tipo di libertà che consente la realizzazione (o meglio, ciò che si crede «la realizzazione») degli scopi che si vogliono perseguire. C’è la libertà totale, certo, che è una conseguenza del nichilismo, ma organizzata all’interno di una gerarchia guidata dalla potenza.
Donà È un gioco di forze, in realtà; e dunque i “vincoli” non vengono assolutamente eliminati…
Severino Certo, i vincoli non vengono tolti di mezzo. Perciò, mi sembra che Feyerabend non si renda conto del fatto che non c’è equiparazione tra le varie forme di libertà, o di svincolamento dalle strutture rigide, perché ci sono le strutture libere che “dominano” e le strutture libere che restano impotenti e dominate.
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Sul «niente»: voce delirante della necessità
Tutte le cose, in relazione alla previsione divina, si dice abbiano necessità assoluta… Se pur potesse avvenire qualcosa che poi non avverrà mai, non si aggiungerebbe nulla alla previsione divina, perché essa complica sia le cose che avvengono, sia quelle che non avvengono e pur potrebbero avvenire. Come nella materia molte cose sono allo stato potenziale, e non si realizzeranno mai, così al contrario tutte quelle cose che non avverranno, ma pur possono avvenire, se sono nella previsione di Dio, vi sono non allo steso potenziale, ma in atto… E tutto ciò che viene concepito il lui come essere, non c’è ragione che sia piuttosto che non sia. E tutto ciò che si concepisce in lui come non-essere, non c’è ragione che non sia piuttosto che sia.1
Già con Kant la contrapposizione libertà-necessità cominciava ad assumere una luce del tutto nuova. Rispetto al consolidarsi di una quaestio che, sia pur di antichissima memoria, continuava a ripresentarsi nella forma di una netta contrapposizione tra “imprevedibile libertà dell’accadere” e “sua inviolabile (e magari rigorosamente predeterminabile) necessità”, si prospettava infatti per la prima volta la possibilità di un’ipotesi di segno completamente diverso: e se libertà e necessità non si rapportassero conformemente ad un rigido aut aut come re1. N. Cusano, La dotta ignoranza, in Id., La dotta ignoranza – Le congetture, tr. it., a cura di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988, pp. 74-112.
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ciprocamente escludentisi? Se, cioè, il mondo della libertà si costituisse come senso essenziale ed ultimo dello stesso mondo da tutti esperito conformemente alla statica ripetitività nomotetica di un grande meccanismo dominato da una inflessibile «necessità» (che nella legge di causa-effetto avrebbe appunto la propria più perfetta imago sensibile)? A questo proposito la Critica del giudizio è un testo davvero esplosivo – non a caso tutto il Romanticismo tedesco doveva trovarvi la radice e la condizione di possibilità per un nuovo sentire e un’esperienza in questo senso sì autenticamente rivoluzionaria. Nella terza Critica, infatti, Kant sottopone il mondo fenomenico ad uno sguardo in grado di rilevarne il senso essenzialmente noumenico, e dunque «libero», di cui il finalismo possa fungere da cifra determinante. Il mondo, «esteticamente» considerato, cioè, è per Kant destinato a perdere quel carattere di mera necessità meccanicistica attribuitogli dalla Ragion pura. Ma, d’altra parte, già in quell’opera v’erano gli evidenti presupposti per una tale riconsiderazione; infatti, già nel primo grande testo kantiano l’insuperabile egoità delle strutture del fenomenico (ovvero, l’impossibilità di distinguere struttura soggettiva e struttura oggettiva, come se si trattasse di due ambiti ben distinti e contrapponentisi – si pensi alla necessità che Kant sa benissimo essere destinata a determinare soggettivisticamente anche il contenuto sensibile immediato, indicando un’originaria operazione che gli a-priori dell’Io metterebbero in atto già nel fare, del dato empirico, un qualcosa di temporalmente e spazialmente determinato) è condizione sufficiente per farci comprendere che il noumeno non è al di là dei fenomeni, delle cose, ma si costituisce piuttosto come struttura essenziale e veritativa di queste ultime; condizione sufficiente a comprendere che il modus della libertà (proprio del noumenico soggettivo, come verrà mostrato nella Ragion pratica) non è «altro»,
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tout court, dall’orizzonte in cui si costituiscono i fenomeni in quanto tali. Se essa (la libertà) è modalità esistenziale dell’Io, lo è per ciò stesso tutto ciò che, in esso, ovvero nel suo orizzonte categoriale, prende forma. Necessità deterministica e libertà incondizionata come oggettivo o soggettivo, dunque – modalità inseparabili, anzi addirittura in-differenziabili, dell’essere. Un essere che, nel farsi fenomenicamente necessitato da leggi causalistiche e determinabili, è quindi nello stesso tempo libero di non essere quel che è; nulla, cioè, avrebbe potuto farlo essere così come è venuto ad essere, così come nulla potrà farlo essere così piuttosto che altrimenti. Un essere che, però, può «non essere» così come è, solo in quanto è così come è; l’altra possibilità potendo cioè essere «altra» solo in quanto esista ciò rispetto a cui essa si dice appunto «altra». D’altronde, per l’Io essere liberi non può che voler dire essere liberi di scegliere qualcosa piuttosto che qualcos’altro. O meglio, la libertà dell’accadere di x implica che l’esser accaduto da parte della medesima non impedisca affatto di affermare che sarebbe anche potuto accadere, al posto di x, non-x. Insomma, qualcosa come una x accade «liberamente» solo se nulla lo costringe ad esser tale, e dunque se risulta effettivamente pensabile che esso sarebbe anche potuto non accadere (dove l’accadere di non-x è appunto il non accadere di x). Eppure, si diceva, in Kant il mondo di cui si rileva la strutturale libertà è lo stesso caratterizzato dalla necessità fenomenica; quello le cui x, per altro verso, non sarebbero potute non esser tali. Ma, non abbiamo appena rilevato che, affinché si possa dire che x sarebbe potuto non accadere (ovvero che il suo è un accadere libero), è necessario presupporre che quella stessa x – qualcosa come una x – sia veramente accaduta? La x, cioè, è libera solo in quanto accaduta; per questo, quel che accade – nel nostro esempio, la x – è libero solo in quanto
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non abbia lasciato essere quel che esso non è («non-x»); ovvero, solo in quanto sia necessariamente accaduto (per essere libero, ovvero, per potersi costituire come ciò che sarebbe anche potuto non accadere, deve essere necessariamente accaduto). Il non accadere di x sarebbe in questo senso il suo stesso (di x) non poter essere libero. D’altro canto, la stessa libertà di non-x (che invece non è accaduto), ovvero, la stessa libertà del non essere accaduto da parte di x (non-x non sta qui per y, z… o altro; ma dice il semplice non-esserci di x; ovvero non dice cosa ci sia al posto di x), il suo poter essere accaduto (che è poi il poter non esser accaduto del non esser accaduto da parte di non-x, l’essere accaduto di non-x, ovvero, il non essere accaduto di x) – ché, per l’accadere di x, il non accadere di x, ossia il non-x, non è propriamente accaduto – implica anche qui il non accadere di ciò che avrebbe anche potuto non accadere solo in quanto accaduto (anche a proposito di non-x, cioè, ci troviamo ancora una volta di fronte alla libertà di ciò che può non esser accaduto – come si deve dire, di non-x – solo in quanto accaduto: anche per non-x, cioè, devesi dire quanto già detto a proposito di x). O meglio, il non-x (che costituisce il non accaduto) è libero solo a condizione che il suo “non esser accaduto” sia accaduto. Perché, è dell’accaduto suo “non esser accaduto”, e solo di esso, che si può dire che sarebbe potuto non accadere. Ovvero, che sarebbe potuto accadere il non esser accaduto di x; cioè, che x sarebbe potuto non accadere. Ma, come abbiamo già visto, è solo di una x che sia accaduta (ancora una volta, dunque, dobbiamo presupporre la necessità di quello stesso di cui si vuole dire la libertà) che possiamo dire il poter non essere accaduta. Cioè, l’ipotesi relativa al non-x può essere evidentemente ricondotta – nel suo autentico significato – a quella già sviluppata a proposito della x. Infatti, se quel che sarebbe potuto accadere è il non esser accaduto del non accadere di non-x, quel che deve essere accaduto è quel non esser accaduto da parte di non-x che è lo stesso es-
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ser accaduto di x. E dunque, solo di quel che è, ovvero, di un positivo (necessariamente), si può dire l’esser libero, ovvero il suo poter non essere. Ma, quel che è è libero se e solo se il non-essere è ad esso attribuibile non solo in quanto possibilità futura, ma anche e più radicalmente nel suo attuale costituirsi come essente. Esso è libero, cioè, perché sarebbe già ora potuto essere diversamente; il non-essere può dunque essergli predicato ora, in quanto essente attuale. Ecco perché lo stesso non accadere di x (non-x) è, in quanto tale, un positivo significare, se non altro per il fatto che si costituisce come l’attuale possibile negatività di un “positivo”. Laddove, se x può essere posto come ciò che sarebbe potuto non accadere solo in quanto accaduto (allo stesso modo in cui può essere ipotizzato il non essere accaduto del non essere accaduto di non-x, in modo tale che anche per il non-x solo l’essere accaduto del suo non esser accaduto renda possibile la predicazione della sua libertà}, è chiaro che la necessità non può costituirsi se non come inevitabile presupposto della libertà; insomma, non solo è il mondo necessario a potersi costituire come libero, ma, ciò che più conta, in questo caso, è il fatto che la libertà si costituisce come una radicalizzazione, o un compimento, della necessità. La priorità, l’originarietà, sono dunque del necesse. Libertà, quindi, come possibile “estensione” della necessità, e non come altra possibilità, meramente opposta ad essa. Ma questo significa affermare che il nulla non ha senso se non in quanto predicato dell’essere. Infatti, se condizione di libertà per l’essente è il non-essere (il poter non-essere così come è), quest’ultimo potrà essere pensato solo come possibilità, o meglio come positiva possibilità dell’essente, ovvero come attributo dell’essere – e mai come soggetto di una struttura meramente autopredicativa. L’affermazione nulla = nulla è infatti un dire senza significato; che non ha senso proprio
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in quanto il nulla posto come soggetto non implica qualcosa in grado di fungere da soggetto di una predicazione – nessuna libertà, insomma, per il non essere da parte di alcunché. D’altra parte, dire che il nulla è nulla, che il non esistere di qualcosa è un non esistente, che esso cioè non esiste, equivale a dire che solo l’esistere esiste, e solo il positivo è esistente; e che proprio per ciò può darsi come soggetto di una predicazione. Ma questo vuol dire, paradossalmente, che non si può dire «nulla = (cioè è, ovvero esiste come) nulla». Solo di una positiva esistenza ha senso negare (o affermare) l’esistenza; mentre, del non esistere di quel che non esiste non si può dire che «non esiste» – perché ciò vorrebbe dire che solo l’esistente esiste. Ecco perché il non esistente si costituisce come un dire autotoglientesi; così costituendosi, il medesimo, proprio in quanto esplicitamente vocato a predicare la negatività del negativo, ma di fatto costituentesi come semplice predicazione positiva di un positivo. E poi, non è mai il nulla ad essere libero di essere (il nulla non ha possibilità negative rispetto alla propria assoluta negatività), perché, dicendo del nulla «che è» (la negatività del negativo è il positivo), verremmo in realtà a presupporre – già all’interno del soggetto – una struttura predicativa; infatti, il «nulla» soggetto di tale predicazione (positiva o negativa che sia) sta in realtà per «il non essere da parte di alcunché» – dove, se il soggetto è il «non essere», ci troviamo di fronte alla mancanza di un soggetto “positivo”, alla mancanza di qualcosa di cui predicare l’alcunché (come abbiamo appena visto a proposito della struttura autopredicativa del nulla). Ma se il soggetto è l’alcunché (di cui verrebbe ad essere predicato il non essere), allora la predicazione è possibile. Ma non solo… ché la positività originaria di tale struttura predicativa rende immediatamente “positiva”, e dunque possibile, anche la predicazione di cui quella struttura si costituisce appunto come soggetto – ovvero, la predicazione che è significante solo in
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quanto presupponente (già a livello dell’apparente negatività del suo soggetto – il nulla) l’esser noto del senso della positività quale originario soggetto di ogni possibile predicazione. La libertà è dunque sempre libertà di non essere quel che si è; libertà è sempre apertura di una possibilità negativa (per un positivo). Non può perciò esservi libertà d’essere per la negatività assoluta; se predicare l’essere del nulla – ormai dovrebbe esser chiaro – equivale ad istituire o una “apparente” struttura predicativa (che non è tale in quanto mancante del “soggetto”), oppure una struttura predicativa che in se stessa (nel suo soggetto) rivela una più originaria predicazione (quella in cui consiste il soggetto medesimo) la cui positività (il suo soggetto è “positivo”), solamente, funge da condizione di possibilità della positiva o negativa predicabilità del nulla (di una predicazione avente come soggetto il nulla). Ecco perché, se del nulla si può dire che è, questo va inteso solo quale conseguenza immediata della predicabilità negativa dell’essere (quella negativa predicabilità in cui consiste la sua – sempre dell’essere – libertà). Proprio perché il nulla «è», cioè per il fatto che è sempre una positiva determinazione, si dovrà paradossalmente anche dire l’impossibilità di qualcosa come la predicabilità (positiva o negativa) del nulla – e dunque si dovrà per ciò stesso riconoscere l’impossibilità di affermare che “il nulla è”. Tale giudizio, dunque, allude al fatto che l’essere è nulla. Insomma, il «nulla» è, perché esiste come possibilità concreta della libertà dell’essere; laddove, del nulla, non si può invece dire né che «è» né che «non-è». In ciò la “presupposizionalità” della necessità rispetto alla libertà, o, che è lo stesso, la presupposizionalità del necessario esistere di qualcosa che è, rispetto alla libera possibilità del suo “non-essere”. Il nulla, posto come soggetto di un giudizio, significa dunque sempre essere; ma – ciò che più conta –, se e vero questo, è anche vero che il suo (del nulla) valere solo come predicato di-
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ce, tout court, il suo ineludibile costituirsi come ni-ente, ovvero il suo originario costituirsi nella forma del “negativo-relativo”. Consideriamo, ad esempio, questo tavolo. Esso, è ciò che sarebbe potuto essere nulla, nel senso che “altro” sarebbe potuto esistere, al suo posto: in ciò il costituirsi della libertà del suo accadere. Se c’è libertà, infatti, c’è sempre perlomeno un’altra positiva possibilità; e mai il mero nulla. Perciò, come predicato, il nulla non è mai nulla, ma sempre ni-ente, cioè negazionedeterminata (nella forma del possibile) di quel che è; negazione che, dunque, non si spalanca sull’abisso del “nulla”, perché nel suo negare la determinatezza, si costituisce pur sempre come modo del positivo-determinarsi (sia pur altrimenti rispetto a ciò che viene negato). Il non-tavolo dice cioè la libertà del tavolo perché è apertura al determinarsi, da parte di tale negatio, come tutto ciò che non è tavolo. Apertura illimitata, per il fatto che ogni determinatezza possibile è, in quanto de-terminata, possibilità di sempre nuove modalità del determinarsi. Ma, se il tavolo è libero (si intenda per tavolo: l’accadere del tavolo), lo è proprio in quanto avrebbe potuto costituirsi, fin da ora, diversamente; il tempo dell’altro è per esso il tempo del medesimo. In quanto libero, esso è fin da ora (cioè nel suo esser quel tavolo che è) tutte le possibili determinazioni «altre» rispetto alla propria – nella forma della possibilità, appunto. Laddove, se la possibilità in cui il tavolo si apre all’altro ha come termine di perfetta realizzazione già l’ora (e non solo il «futuro»), essa (tale possibilità) ha, già in quanto tale, la sua perfetta attualizzazione (in quanto sua “attuale” possibilità – come non impossibile, e dunque capace di realizzarsi nell’hic et nunc) nella forma di una perfetta, attuale e contraddittoria, identificazione con l’esser tavolo di questo tavolo. Il realizzarsi del suo (del tavolo) poter essere albero, nuvola, penna, può cioè venire pensato come il concreto e attuale realizzarsi del suo esser tavolo nella forma dell’altro; come il suo potersi contemporaneamente realizzare come tavolo e albero,
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tavolo e nuvola… Perché è del tavolo, appunto, che sta dicendo il poter non essere tavolo, ma altro. Il tavolo è libero non solo, cioè, in quanto potrà attualizzarsi come albero, ma, più radicalmente, in quanto si sarebbe potuto già attualmente realizzare come albero. Ciò di cui è pensabile la possibilità è ciò di cui è pensabile il diventar atto (solo dell’impossibile devesi dire che non può, sic et simpliciter, attualizzarsi). E qui è lo stesso “ora” del tavolo, l’ora in cui il tavolo è tavolo, a potersi realizzare come “albero”. Ciò che si sarebbe potuto costituire diversamente da come di fatto si costituisce è libero in quanto la sua attualità è identità di ciò che di fatto è e della diversa possibilità non già realizzatasi, eppure in grado di realizzarsi in perfetta coincidenza con l’esser tavolo del tavolo. La libertà dell’ente, pensata in modo davvero rigoroso, è dunque apertura al suo potersi costituire come contraddictio in rebus, come fenomenico esser uno da parte del tutto (infatti la libertà, pensata nella sua massima apertura, è per A possibilità di essere ogni possibile NON-A – il tavolo, cioè, è libero, davvero libero, se può essere insieme albero, nuvola, penna, e tutto il resto). Ma è anche chiaro, a questo punto, che solo tale possibilità riuscirebbe a configurarsi come “non poter esser altrimenti” da parte del qualcosa; ovvero come perfetta realizzazione dell’assolutamente altro dalla libertà: ossia del necesse. Infatti, secondo la concezione lineare classica della Necessità, il “necessario” è ciò la cui esistenza è indiscutibile negazione di ogni altra possibilità; solo in questo senso la necessità è radicalmente escludente ed onticamente determinata. Secondo tale concezione (concezione portata ad un’estrema rigorizzazione da E. Severino), l’esclusione delle altre possibilità esistenziali (altre rispetto all’esistente fattuale) non è immediata esclusione del loro significato positivo, e dunque non è di per sé impossibilità del loro costituirsi come altre possibilità direzionali del necesse; impossibilità che deve proprio per ciò fondarsi su un Nomos altro dal mero esistere di quel che
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esiste. Da ciò, ad esempio, la fondazione spinoziana del necesse, tutta riportata ad un fondamento teologico di cui quello si costituisce appunto come conseguenza immediata: oppure l’obiezione severiniana al concetto aristotelico di “libertà”2, anche qui, fondata su un’originaria struttura elenchica messa in atto per mostrare l’impossibilità della contraddizione. Secondo tali modalità di pensiero, cioè, l’esser necessario non è mai l’esser necessario di quel che è necessario in quanto fondato sulla semplice sua esistenza (di ciò che è necessario in quanto semplicemente “esistente”); in esse la necessità non è mai evidenza immediata del mero essere di ciò che è; di quel che, solamente, potrebbe costituirsi come immediata ed innegabile evidenza della sua necessità; e ciò perché ivi l’esser necessario non è mai evidenza o principio primo, ma sempre conseguenza di un Nomos che riguarda solo una determinata sfera dell’essere: le determinazioni esistenti di fatto, e solo per ciò necessarie (il necessario, in questo contesto, dunque, non è comprensivo del non-essente di fatto). Laddove, ciò che qui si tratta di comprendere è appunto un senso della necessità in virtù del quale il “necessario” si costituisca veramente come qualcosa di là dal quale non sia pensabile alcunché. Un senso della necessità non lineare e cronologico – per cui l’esistere del tavolo, sia, sic et simpliciter, l’esistere di tutto ciò che poteva e dunque “doveva” esistere. L’esistere di là dal quale nessuna ipotesi sia in qualche modo formulabile, neppure “per assurdo”. Perché, solo un accadere capace di costituirsi come accadere della totalità del “possibile” (e, più precisamente, di un possibile che non lasci fuori di sé nulla, neppure la sua “esistenza attuale” – cioè di una potenza che sia, sub eodem, anche “atto”) può esser detto «necessario». 2. Si rimanda a questo proposito al terzo capitolo di E. Severino, Destino della necessità, cit.
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L’esser nulla dell’essere di ciò che è è dunque la nientità di un ente il cui determinato «ni» risulta appunto dall’originario ed a-temporale suo costituirsi come “identico” alle infinite altre possibilità positive che esso, in quanto tale, non è. Una ni-entità tutta positiva, dunque, quella in cui si determina la possibile libertà di tutto quel che è; possibilità in cui verrebbe a realizzarsi pienamente il non poter essere altrimenti da parte di un essente la cui «necessità» si costituisca come autentica, e perciò non ulteriormente incrementabile, perfectio. Libertà come estrema ed adeguata perfectio di un includibile necesse la cui apertura originariamente totalizzante si darebbe appunto come rinvenimento di una mai superata “origine”, ovvero di un esser già da sempre compiuto in cui l’ente potrebbe davvero fare esperienza della morte come dell’originario superamento di ogni “finitudine”, e dunque della penìa che fa della vita l’infinito ripetersi dell’originario e folle delirio di Eros. Ma, in questo senso, se ogni ente è l’a-temporale farsi di una totalità oltre cui nulla è più possibile, la cui necessità è vero volto di Dio nell’aprirsi di un infinito “altro” sancito dalla radicale libertà che del necesse è originaria condizione d’esistenza, l’esser scelto del tutto in ogni evento particolare e determinato è il perfetto coincidere di necessità e libertà – ciò che, in termini hegeliani, sarebbe diventato poi l’«originaria infinitudine del finito» (di un finito che non ad-tende più un telos di là dai propri confini, che non aspira più ad una vita oltre la vita – ogni fuoriuscita finirebbe infatti per determinarsi come mera estensione della propria finitezza, vano delirio infinito dovuto ad una fondamentale incomprensione del fatto che il proprio telos è già da sempre realizzato nella perfetta infinitudine custode della sua più perfetta “verità”). Perciò, se kantianamente diciamo che l’ente presente, o comunque fenomenologicamente esperibile, è in qualche modo (in quanto fatto objectum di un giudizio “riflettente”, o comunque “estetico”) anche libero, non diciamo – secondo l’ottica
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kantiana – che il fenomenico non è esclusivamente dominato dal necesse, e dunque che è anche «libero», bensì che la sua necessità trova proprio in ciò il suo radicale inveramento, ovvero il radicale svelamento della propria tragica includibilità. In ciò essa si fa ab-soluta, ovvero sciolta da ogni oppositio determinata. Smascheramento della tracotanza di un falso necesse che nel meccanicismo causale e lineare del fenomenico ha non più che un’illusoria imago dell’autentica ed irriducibile forza del non poter essere altrimenti – di quella forza che ogni ente realizza originariamente nella contraddictio che già la struttura della monade leibniziana faceva in qualche modo presagire. Cioè, se Kant cercava una via d’uscita al peso insopportabile di un mondo fenomenicamente tutto già prevedibile e ormai senza incanto in uno sguardo finalistico inteso come «condizione soggettiva dell’uso della nostra ragione, quando essa non vuol giudicare degli oggetti in quanto semplici fenomeni, ma vuol riferirli, insieme coi loro principi, al sostrato soprasensibile»3, in uno sguardo che sapesse in qualche modo «liberare» la nostra esperienza in direzione di una pur sempre pensabile “alterità” ontologico-gnoseologica, ciò che ormai dovrebbe esser venuto sufficientemente in chiaro è che nel sostrato sovrasensibile, invece, lungi dal trovar adeguata conferma l’intentio kantiana, il fenomeno scopre tutta la radicalità di un Necesse quale a nessuno sguardo è mai stato concesso accedere – Kant contra Kant, dunque. Perciò la volontà di libertà, che è propria del finito in quanto determinato, il costitutivo anelito che dice, tout court, l’ori ginario costituirsi di Eros come de-lirante volontà di morte (ma, ogni volontà di potenza è allora volontà di morte, se la vo3. I. Kant, Critica del giudizio, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1979, vol. II, pp. 305-306.
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lontà di potenza è strutturalmente volontà di rimuovere l’osta colo che ogni “limite”, in quanto tale, costituisce per il finito, e se telos di tale volontà, sua perfetta realizzazione, non può che essere il farsi in-determinato da parte del de-terminato, ovvero il suo togliersi), è in realtà volontà di catene incommensurabilmente più solide di quelle costituite dai deboli nomoi costituiti dalle leggi dei mortali. D’altra parte già Eraclito comprendeva che «tutte le leggi umane si alimentano dell’unica legge divina, poiché quella impone quanto vuole e basta per tutte le cose e ne avanza»4. Questo, l’absurdum che solo la grande esperienza idealistica avrebbe saputo definitivamente porsi davanti agli occhi, facendone la crux di una sfida mortale, dal cui esito, solamente, sarebbe dipeso il seguito della nostra storia. Infatti, già Schelling – senza dover fare riferimento alle note radicalizzazioni hegeliane – doveva sancire che, se «in rapporto all’Assoluto considerato assolutamente ogni antitesi scompare…», si dovrà necessariamente dire che «la libertà nel suo staccarsi dalla necessità è il vero nulla»5. Paradossalmente, dunque, si dovrà dire che, se qualcosa come una libertà può essere pensato “in antitesi” al non poter essere altrimenti, si tratta di tornare con lo sguardo proprio a quel “fenomenico” che per Kant, invece, sembrava costituirsi come oikos dell’“altro” dalla libertà. Là dove l’essere dell’uno è, tout court, negazione, esclusione nullificante di ogni altro (là dove la vita dell’uno è morte degli infiniti possibili altri – nel mondo della “debole” necessità lineare del fenomenico), là, davvero, resta sempre aperta la possibilità, la pensabilità di altre direzioni dell’accadere; perché in tale modalità del neces-
4. Eraclito, Frammento 4/144, in I presocratici. Frammenti e testimonianze, tr. it. di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1980, p. 177. 5. F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, tr. it. di S. Drago Del Boca, L. Pareyson e V. Verra, Mursia, Milano 1974, pp. 54-132.
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se le altre possibilità sono escluse, cioè negate, solamente dalla traccia consistente nella direzione di fatto esistente; e solo in essa, esse risultano negate. Ma quella traccia è appunto una delle possibili tracce e, in quanto tale, non esaurisce la totalità del positivo possibile. Altri spazi esistenziali restano perciò possibili, di là da quello di fatto costituitosi; al di là della sua traccia l’altro non viene posto nella forma dell’esser-tolto. Perciò questo, della necessità lineare del fenomenico, del meccanicismo causale, è il vero ed unico spazio del poter essere altrimenti; di ciò che Kant ritiene invece di poter attingere solo nell’insondabilità di una sfera noumenica che del necesse dovrebbe costituirsi come radicale ed originaria destituzione. Ma ciò era stato in qualche modo già avvertito da Schelling, secondo il quale appunto, se – come abbiamo visto – la libertà nel suo staccarsi dalla necessità è il vero nulla, è chiaro che «(essa) non può perciò produrre altro che immagini della sua nullità, cioè le cose sensibili e reali»6; i fenomeni, insomma, come mere rappresentazioni del delirio di una libertà che, in quanto altra dalla necessità, è mero nulla; il mondo come immagine del nulla, dell’impossibile. Il fenomenico è dunque il reale oikos della mera «libertà»: ovvero dell’impossibile, di ciò che, così posto, è davvero nulla. Il mondo, come luogo di un accadere «libero» in quanto nullificazione dell’«altro»; altro che esso appunto non esaurisce «positivamente» in sé (essendone la mera negazione), in quanto la sua necessità gli impedisce di comprendere tutte le possibilità che, in quanto “libero”, dovrebbero invece convenirgli – appunto perché la sua libertà dovrebbe comportare il «suo» poter essere altro, e non il mero poterci essere di un altro (perché la libertà cui ci si riferisce, dicendo la libertà dell’accadere, è proprio la libertà di quel certo accadere determinato costituente quella certa esperienza). Un accadere libero, dunque, in quanto de-terminato da ciò che in 6. Ivi, p. 54.
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esso, sic et simpliciter, non è; e dunque sempre condannato a non comprendere definitivamente in sé tutte le possibilità che per esso, in quanto «fenomeno», sono semplicemente altre, e cioè che in esso sono, tout court, impossibili. Condannato cioè ad aspirare al superamento di una condizione in cui l’esser libero non è in rebus il «suo» esser libero, e dunque a tendere al raggiungimento di quell’autentica libertà (quella assoluta – la «sua») che è paradossalmente, però, anche il suo assoluto non poter davvero esser altrimenti. Condannato a comprendere – potremmo dire ormai – quella che è, ab origine, la sua «verità». Ma condannato a comprendere insieme che esso, in quanto de-terminato (l’accadere fenomenico è sempre un accadere «determinato»), non potrà mai concretamente attingere alla propria vera libertà, che è poi compimento e radice ultima del proprio debole necesse. Perché la “verità”, per esso, non può che costituirsi come indeterminato; o meglio, come indeterminatezza di un determinato che, in quanto tale, in quanto meramente determinato, è apertura all’esser libero senza esserlo veramente, e insieme apertura al necesse senza riuscire, anche qui, a darsi come assoluta esclusione dell’altro» – accadere che proprio per ciò rinvia necessariamente a quel Verum assoluto in cui la sua libertà è perfetta necessità e la sua necessità è perfetta libertà. Verum di cui il mondo è quindi includibile testimonianza (sia pure imperfetta); libertà assoluta in cui il debole necesse fenomenico trova appunto quello stesso da cui è reso in qualche modo possibile; ciò per cui esso, pur non essendolo pienamente, si dà come modo del necessario; ciò per cui il significato del necesse è dato, e dunque, più o meno correttamente, è rinvenuto in questa o quella fatticità empirica. Libertà che – come afferma Kant – «secondo le leggi formali della libertà stessa, deve attuarsi nel mondo»7 – ri-velando così «un sostra7. I. Kant, Critica del giudizio, cit., vol. I, p. 37.
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to soprasensibile della natura, che lascia nondimeno interamente indeterminato»8. Perfectio «congetturabile»», ma non sperimentabile nella sua incontaminata assolutezza – al modo dell’Assoluto cusaniano – e che, proprio per ciò, è inesauribile fonte di vita. Perché, come sapeva bene anche Leopardi, il darsi della perfectio, nella sua definitiva compiutezza, nella sua originaria in-finitezza, sarebbe morte del finito e di quella fenomenicità che, solo nell’incolmabile mancanza (e nell’infinito anelito al suo superamento), ha la condizione originaria della propria existentia. Perciò, pensare l’assoluta libertà come verità originante (originante le imperfectiones del mondo) vuol dire pensare la morte assoluta come origine della vita, vuol dire pensare la ni-entità del positivo in quanto davvero «libero, in quanto determinazione di quell’originaria nullità dell’essere che non ha nulla a che vedere con la nullità caratterizzante una libertà astrattamente pensata quale quella del passo schellinghiano. Infatti, là dove nullità della libertà come opposta alla necessità è «per il determinato» nulla di ciò che, solamente, potrebbe farlo libero, nullità di ogni possibile altro che in esso è meramente negato, e dunque «morte» nel senso di originaria negazione di ogni sua possibile apertura ad altre possibilità (originaria impossibilità di ogni ad-tendere, di ogni tensione vitale, e dunque di ogni dynamis), là dove il positivo esistente è mera positività sospesa sull’abisso di un nulla ad esso totalmente estraneo, il nulla essente, invece, l’essere che è nulla di ciò che è assolutamente libero, è compiuta necessità nel senso che la totalizzazione in esso originariamente compientesi è davvero ciò che lo istituisce quale attuale e possibile infinità esistenziale cui nulla è davvero vietato, in cui tutto è in una identità ontica tanto radicale da farsi reale ex-istenza dell’infi8. Ivi, p. 39.
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nito, da farsi cioè ni-ente – niente in cui il nulla di cui si diceva prima è sempre «nella forma di una negatio determinata» –, dicendo il suo (di ciò che è appunto «assolutamente libero») esser già da sempre imago sensibile di quella «contraddizione» che rende ogni positivum qualcosa di «identico» al proprio altro, e dunque presenza indiscutibile di un necesse mai fenomenico, e in sé mai de-terminato. La stessa contraddizione che è compito precipuo del giudizio riflettente indicare quale dominio irrisoluto di una morte positiva e vivificatrice che istituisce l’ente da un lato come sepolcro vivente del mero nulla e dall’altro come vita sempre piena di quel ni-ente che già da Eraclito veniva indicato come forma sempre diversa di un’identità degli opposti che è, tout court, divina Verità d’ogni differente. «Il giudizio riflettente – afferma infatti Kant –, che, obbligato a risalire dal particolare della natura all’universale (al koinòs, potremmo dire, all’identico), ha dunque bisogno di un principio, che esso non può ricavare dall’esperienza…»9; un principio che sia dunque altro dall’orizzonte della finitezza, e che proprio per questo possa condurci alla nominazione di quell’infinito, di quel «divino» che di ogni realtà è «sostrato sovrasensibile» – ovvero può condurci a prender coscienza della sacra meraviglia che ogni cosa può generare, spingendoci così al vero «mistico»; quello che non prevede alcuna fuga dalle tentazioni del mondo, ma che del mondo, cioè della sua verità, si fa carico a pieno titolo, e che dunque in ogni cosa sa scorgere l’abisso di uno sprofondarsi estatico in cui attingere l’Absurdum (di cui essa – la cosa – è appunto perfetta esistenza). Un mistico che consiste dunque nel saper avere occhi per la monumentale imponenza che ogni cosa, in quanto contraddittoria totalizzazione, è per il nostro sguardo finito.
9. Ivi, p. 19.
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Verità e oblio della verità
Sappiamo, perché è Severino stesso a dircelo, che la verità della struttura originaria custodisce, nel proprio cuore, una ineliminabile contraddizione, da lui definita appunto «contraddizione C». Una contraddizione che impedirebbe all’ente (ad ogni ente) di manifestarsi nella sua eterna verità; ossia, per quel che esso è veramente. Il fatto è che, non apparendo il contenuto della totalità concreta dell’ente, non può in alcun modo apparire il contenuto vero dell’ente che appare; anche solo per il fatto che ogni ente è quello che è, è cioè il proprio esser-sé, solo in quanto connesso alla totalità dell’essente. È solo in questa relazione, o meglio in accordo con l’apparire di questa relazione, che l’ente può dire quel che esso è in sé stesso. Ma se non appare la totalità concreta dell’ente – quella che, solo, può de-terminare l’essente e renderlo manifesto nella sua verità –, ripeto, non appare neppure l’essente; o meglio appare sì l’essente, ma non per quello che esso è veramente. Così come non appare la totalità per quello che essa è veramente, ma solo nel suo significato formale. L’ente appare, anche perché non si potrebbe neppure dire che esso non appare per quel che esso è veramente, se in qualche modo il medesimo anche non apparisse (se non apparisse
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come l’ente di cui non si riesce a dire quel che è veramente). L’ente appare, certo; ma non nella sua verità. Questo evidentemente, sempre secondo Severino, va riconosciuto in relazione all’apparire finito; quello che ospita un sopraggiungente che mai potrà costituirsi nella sua manifestazione definitiva e inoltrepassabile. Per quanto, sempre secondo Severino, vada comunque posto anche un apparire infinito, quale orizzonte in cui quel che nella luce dell’apparire finito non si dice mai veramente, sarebbe manifesto invece nella sua verità eterna. Una verità eterna che comunque, sempre secondo Severino, mai potrà affacciarsi nell’orizzonte dell’apparire finito. Per questo la verità eterna, accolta dall’apparire infinito, è una verità necessariamente nascosta allo sguardo dell’apparire finito. Da cui quella che, in un altro nostro scritto, abbiamo definito l’ascosità costitutivamente implicata dalla verità. Concetto che, come abbiamo già mostrato, accomuna sorprendentemente Severino a Heidegger. La verità, insomma, non si dice se non come principio formale; che, dell’ente, riuscirebbe a dire solo questo: che esso non può essere diversamente da come è. Peccato che non ci dica «come» esso sia – appunto nella sua verità. Quella che potrebbe apparire, appunto, solo là dove apparisse la totalità concreta… che peraltro appare in relazione all’apparire di ogni essente – sia pur solo come esigenza formale. Appare, si manifesta… cioè, nascondendosi. Proprio come l’essere di Heidegger (fermo restando che – come abbiamo anche in questo caso già mostrato nel saggio citato poco sopra – anche Heidegger, almeno in un saggio, compreso in Segnavia, non riferisce più il tema dell’ascosità al rapporto essere-ente, ma a quello tra l’ente e la totalità dell’essente). Ma se le cose non appaiono mai (sempre nell’orizzonte dell’apparire finito) nella loro verità concreta, per quel che esse sarebbero «in se stesse» (per dirla con Kant), non solo viene a disegnarsi un interessantissimo rapporto (tutto ancora
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da indagare) tra Severino e Kant, tra la verità delle cose (che dice quel che esse sono in relazione alla totalità concreta, in relazione cioè all’unica realtà in grado di svelare quel senso eterno dell’essente che nell’orizzonte dell’apparire finito mai potrà apparire) e la cosa in sé kantiana, ma viene a costituirsi come altamente problematico anche il rapporto tra l’essente e l’ineludibile ascosità del suo significato eterno. Non solo, cioè, diventa impossibile dire cosa sia l’ente nella sua verità – in modo tale che dell’ente si debba dire che appare sempre per quel che esso non è (che l’ente è comunque e in ogni caso menzognero rispetto a sé) –, ma soprattutto non si può neppure dire cosa significhi, in relazione a questo ente menzognero, che qualcosa, del medesimo, si veli, e si nasconda alla manifestazione nell’orizzonte dell’apparire finito. Se nulla posso sapere del senso vero dell’essente (consegnato a quell’apparire infinito che al finito rimarrà sempre nascosto), nulla saprò dello stesso apparire infinito. Nulla potrò dire, di vero, neppure del nascondersi da parte di una supposta verità dell’essente in sé. A nascondersi non potrà che essere, insomma, il senso stesso del nascondersi. Il senso del nascondersi, cioè, non appare. Nulla potendo esso avere a che fare con il senso che il nascondersi riveste nell’orizzonte dell’apparire finito – là dove quel che si dice nascosto in verità appare… appare sempre, cioè, come quel che in qualche modo anche si nasconde. Potendo noi dire che si nasconde, solo di ciò che è apparso; di ciò di cui abbiamo comunque memoria, e che, in quanto ne abbiamo memoria, appare… cioè, non si nasconde. Ché, solo avendone memoria, possiamo dire di non vederlo più apparire, secondo un certo senso dell’apparire che andrebbe propriamente chiarito. L’orizzonte dell’apparire finito non può accogliere il senso vero neppure del nascondersi. Solo per questo è potuto crescere e ha potuto dominare il nichilismo – quasi sempre coin-
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cidente con la non consapevolezza della verità dell’essente (del Destino dell’essente). Cioè con il non apparire del senso del velamento della verità. Con il non apparire del velamento come velamento. Perciò l’Occidente ha potuto vivere sino ad ora nella totale inconsapevolezza di quel che al suo sguardo avrebbe continuato a rimanere nascosto. Questo è potuto accadere solo perché il velamento è sempre anche velamento del senso del velamento. E non solo della verità. Infatti, se non appare la verità, neppure può apparire la verità del velamento; o il velamento della verità. Se non appare la verità, neppure può apparire l’esser velamento del velamento – il quale si costituisce solo in relazione alla verità (che dunque deve apparire, affinché il velamento venga saputo e riconosciuto come tale). Ma attenzione; se non appare la verità delle cose concepite nella loro concretezza, se, cioè, le cose non appaiono mai per quel che esse sarebbero veramente (in relazione al senso concreto della totalità – in relazione a cui, solamente, la cosa può mostrarsi per quel che essa è veramente), neppure appare veramente ciò che nel discorso di Severino viene chiamato «verità»; e che ha a che fare con la sua (della verità) radicale innegabilità. Vero è infatti per Severino l’innegabile; ciò la cui negazione è autonegazione. Ma cosa significa appunto autonegarsi, là dove neppure l’autonegantesi potrà fare a meno di non essere quello che è? E soprattutto: chi si autonega? Sicuramente, si tratterà di un soggetto che non può sparire in virtù del proprio autonegarsi; altrimenti non potrebbe neppure venire riconosciuto il fatto che qualcosa stia testimoniando il proprio autonegarsi. O si dica appunto come autongegantesi. Ma se l’autonegantesi rimane ciò che è, pur autonegandosi (altrimenti non potrebbe neppure venire riconosciuto come l’autonegarsi che è), resta da chiedersi cosa comporti che quel che comunque rimane quello che è, si autoneghi?
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Per chiamare in causa l’opposizione ontologica fondamentale: cosa significa che l’autonegarsi del nulla comporta comunque l’apparire di quel nulla di cui diciamo l’autonegarsi, e che comunque «è», sia pur come soggetto autonegantesi, che dunque è, ossia non è nulla? Cosa comporta in rapporto all’essere, che, non rapportandosi al nulla, ma ad un essente autonegantesi, che si definisce nulla, ma è (e dunque è un positivo – ché solo un positivo può autonegarsi), esso non riesca a determinarsi in rapporto all’altro da sé? E dunque non sia. Che esso non sia, cioè, l’essere che dice di essere. Comporta almeno questo: che neppure l’essere apparirà mai per quel che esso veramente è; ossia, come l’assolutamente opposto al nulla. Lo stesso si dovrà dire del negarsi che caratterizza il negatore del principio originario. O del Destino. Quel negarsi che caratterizza il negatore in quanto atto in virtù del quale, solamente, può venire riconosciuta l’impossibilità di negare il principio primo. Anche di esso, si dovrà dunque dire che non annulla il negare che, pur volendo contrapporsi al Destino, non vi riesce. Ma per Severino, mentre il negatore esiste (perché può esistere, senza problemi), la negazione del principio neppure può determinarsi come tale. La negazione della struttura originaria, cioè, non riesce neppure a costituirsi come negazione; secondo quanto già diceva Aristotele evocando la natura puramente vegetale di tale supposta negazione. Dunque, cosa significa riferirsi ad una struttura originaria là dove non può apparire (in quanto autonegantesi nella forma del suo non costituirsi neppure – del non costituirsi neppure da parte di tale negazione) l’altro da essa? Ovvero, ciò che dovrebbe/vorrebbe negarla? Vale a dire: la sua negazione. Certo, anche della struttura originaria si dovrà a questo punto riconoscere il non poter apparire per quel che essa ve-
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ramente sarebbe; per il non costituirsi come tale finanche della sua negazione. Quella che, sola, potrebbe determinarla. E per il non costituirsi neppure da parte di quella totalità concreta in relazione a cui, solamente, tutto quel che è può dirsi per quel che esso è veramente. Insomma, così come, per il non potersi in alcun modo relazionare da parte degli opposti assoluti (essere e nulla, struttura originaria e negazione della struttura originaria), non riesce a costituirsi neppure la loro supposta opposizione assoluta, e dunque non si costituiscono quelli che dovrebbero dirsi assolutamente opposti l’uno rispetto all’altro; che finiscono per indicare due realtà determinatamente diverse, ossia due relativamente opposti (due distinti, determinatamente diversi l’uno dall’altro). Ecco, allo stesso modo nessun essente dice quel che esso è veramente. Come non dice quel che essa è veramente, la struttura originaria. Come non dice quel che esso veramente è, l’essere. Perciò la struttura originaria non si distingue veramente dalla sua negazione, ma è essa medesima a negarsi, così come l’essere non si distingue veramente dalla sua negazione, ma sarà esso stesso a negarsi in quanto essere. Insomma, ogni essente mente rispetto a quel che esso è veramente. Perciò anche la verità mente rispetto a quel che essa sarebbe veramente. Mente, cioè, anzitutto là dove appare come innegabile; e non solo perché è essa stessa a negarsi, per quanto abbiamo già detto, ma perché non ci è dato sapere che cosa sia la negabilità sua propria (ossia l’altro da essa che è esso medesimo immediata autonegazione) – ovvero, ciò di cui essa dice appunto il non potersi manifestare, ossia l’immediato autonegarsi. Il fatto è che, non potendo manifestarsi qualcosa che funga davvero da sua (della verità) negazione, neppure so cosa possa voler dire «innegabile»; concetto che potrebbe avere sen-
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so solo là dove apparisse e fosse riconoscibile qualcosa come la negazione della verità; di cui la verità si costituisse appunto come immediata negazione. Negazione costituentesi come tale, peraltro, solo nell’immediato costituirsi come autonegarsi da parte della negazione della verità. Ecco perché, se non appare il senso della negazione della verità, neppure potrà apparire il senso della verità; che potrebbe essere quello che è solo in quanto capace di distinguersi dalla propria negazione. La verità è insomma l’immediatamente velantesi. Perciò, anche di quel che di essa appare, si dovrà riconoscere che non dice affatto quel che essa è veramente, in se stessa. La verità, concepita come negazione della contraddizione, si manifesta dicendo, di sé, di non essere quel che, di essa, propriamente si manifesta. Ossia, che non è negazione della contraddizione. Ed è proprio vero: se nessun ente è mai quel che di esso appare, almeno, nell’orizzonte dell’apparire finito, tutto finisce per dire, di sé, quello stesso che diceva già Jago, di se medesimo: ovvero di non esser mai quel che è. Ma, se così stanno le cose, Severino ha anche ragione: ché nulla potrà mai negare la verità. Metterla in questione. Cioè fare scacco matto alla sua potenza invincibile. Ma non per quello che Severino ha sempre esplicitamente riconosciuto, della verità. Bensì, per il contrario. Per qualcosa che Severino stesso riterrebbe assolutamente impossibile. Severino ha anche ragione, cioè, perché è la stessa verità a negarsi; prima che qualsiasi ipotetica negazione possa provare (per quanto sia impossibile) a farlo. Cioè a negarla. La verità è innegabile; nessuna non verità può in alcun modo negarla, ma solo perché è la stessa verità a costituirsi come immediata autonegazione. Aveva proprio ragione, insomma, il vescovo di Lincoln (cioè Roberto Grossatesta), ad affermare che: «la luce della verità è manifestamente inestinguibile e illumina pure il proprio an-
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nientamento, né si può in alcun modo corrompere»1. Basterà solo sostituire l’espressione «illumina pure il proprio annientamento», con quella che dice, della verità, o meglio della sua luce, che «illumina pure la propria negazione».
1. R. Grossatesta, La verità, in Id., Metafisica della luce. Opuscoli filosofici e scientifici, tr. it. di P. Rossi, Rusconi, Milano 1986, p. 225.
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Aporia e negazione Esistenza e «relazione»: ovvero, i modi dell’arché
Quello di relazione è un concetto decisivo per tutto il pensiero occidentale. Da sempre, infatti, la filosofia, nell’interrogarsi intorno alla questione del principio o della verità, finisce per riflettere più propriamente intorno al senso della relazione, intesa come ciò che non può essere confuso con alcuna delle cose esistenti, proprio perché tutte le tiene insieme – appunto, “relazionandole” reciprocamente. D’altro canto, i modi in cui tale concetto è stato di volta in volta inteso sono molti, e spesso irriducibilmente diversi l’uno dall’altro. Perciò, non è affatto scontato che, nel parlare di “relazione”, ci si intenda davvero. La questione è dunque oltremodo complessa, se non altro in quanto un modo del porre in relazione è ciò che ogni forma del dire, dell’intendere o del concepire, di fatto finiscono per determinare. Insomma, ogni teoria, ogni legge (da quelle metafisiche a quelle scientifiche, da quelle artistiche a quelle morali…) dicono in questo o quel modo “una forma” della “relazione”. Nello stesso tempo, però, va anche rilevato come l’esser in relazione costituisca appunto la forma originaria dell’esistere di ogni esistente. Tutte le cose stanno infatti in una qualche relazione – cosa può esservi, di più evidente? L’esperienza in quanto tale è sempre e comunque esperienza di un certo modo
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della «relazione»; o meglio, delle molteplici forme della «relazione»: da quella che fa di me il soggetto di un mondo che non può evitare di offrirmisi come oggettualità (relazione di soggetto-oggetto), a quella determinantesi come relazione tra gli esistenti, in quanto costituenti tutti insieme (nella loro infinita relazionalità) un medesimo mondo: il “mio”, quello di cui tutte le possibili diverse esistenze fanno e faranno comunque parte, appunto in quanto oggetti della mia esperienza, ecc. ecc. Questa, l’evidenza fenomenologica da cui sembra assolutamente impossibile prescindere. Eppure, già in questo semplice fatto, ossia nell’esser in relazione da parte di ogni cosa con tutte le altre, è custodita una questione davvero complessa: quella della strutturale ed imprescindibile infinità di un originario e molteplice rimando relazionale. Spieghiamoci meglio: è nell’esser in relazione che ogni cosa riesce a presentarsi come avente questa o quella forma determinata. La nostra esperienza, cioè, è tutta un pullulare di forme, l’una diversa dall’altra – forme di varia natura, ovviamente (forme geometriche, qualitative, modali, psichiche, assiologiche, conoscitive…), ognuna delle quali si presenta, certo, con un volto ben preciso – il proprio –, ma, nello stesso tempo, si configura in questo o quel modo solo in virtù di un plesso relazionale che, a ben vedere, invece, non è in alcun modo determinabile. Come dire che quel che determina ogni cosa, e che “in ogni cosa” si presenta con un volto chiaramente determinato, è strutturalmente ed originariamente indeterminabile, se non altro perché da nessuna “relazione” può essere a sua volta determinato (altrimenti «la relazione» finirebbe per essere trattata come una cosa tra le altre – di cui dovremmo riconoscere ancora una volta, appunto, l’esser-in-relazione). E poi, le relazioni da cui ogni cosa è intrinsecamente costituita sono ineluttabilmente infinite, dato che ogni cosa, fatta essere da una relazione, ed istituente a sua volta sempre un’al-
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tra relazione (come minimo – ché in realtà, «in» e «da» ogni esistente viene istituita una molteplicità già in se stessa infinita di relazioni1), è inscritta in un continuum «relazionale» di là dal quale vi saranno sempre “altre” cose, “altre” forme, all’infinito… – impossibile, dunque, l’individuazione di un limite ultimo in tale procedura di determinazione logico-strutturale. Bruno lo sapeva molto bene; da ciò la sua tesi intorno all’infinità del nostro universo. Anche a Leibniz sarebbe apparsa ben chiara l’ineluttabilità dei mondi infiniti (i “possibili”); ma, anzitutto, l’impossibilità, per questo mondo, di avere, se non altro dal punto di vista logico, un inizio ed una fine. In questo senso non dovrebbero proprio sorprendere le più recenti ipotesi nell’ambito dell’astronomia – quelle secondo cui infiniti sarebbero appunto i mondi al di là dalle galassie sinora conosciute. Non sorprendono certo la coscienza del filosofo, che da lungo tempo lo sa: che il mondo delle forme è “logicamente”, e dunque necessariamente, infinito. Fermo restando che tale infinità va comunque tenuta in stretto rapporto con il fatto che, come già rilevavamo, l’esi-
1. L’infinità relazionale – quella che caratterizza l’esistere di ogni determinatezza – è stata già concepita, nella storia del pensiero occidentale, sia come infinità di un mai esauribile rinvio ad “altro”, sia come attuale infinità delle relazioni da cui ogni ente sarebbe appunto costituito, in quanto qui ed ora già compiutamente in-finito. E non a caso – ché, a veder bene la cosa, non si potrà non riconoscere che la prima infinità altro non è se non ciò con cui ci si trova ad aver a che fare nel processo di enumerazione dell’attuale infinità relazionale. Come dire: l’infinità degli enti con cui questa o quella determinazione sono sempre connesse rende concreta la propria astrattezza formale solo nel dispiegarsi di una numerazione che rinviene, uno dopo l’altro, le infinite “determinanti” da cui ogni reale è necessariamente reso possibile. Insomma, l’infinito della totalità kantiana – immagine di un infinito processo temporale volto al rinvenimento delle condizioni da cui ogni cosa è fatta essere, e causa dell’inconoscibilità del “vero”, ossia della noumenicità essenziale di ogni “cosa in sé” –, non è altro se non il volto esperibile della infinità attuale della monade leibniziana.
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stente tutto appare sempre e comunque come parte di un medesimo mondo – e quindi della medesima infinità. Ciò che va tenuto ben presente è insomma che l’indeterminabilità dell’esistente, o meglio della sua intrinseca relazionalità, si dispiega e si costituisce tutta nella perfetta evidenza della sua non meno ineludibile “unità”. Non è un caso che ogni singolo esistente si presenti nell’atto stesso con cui il “mondo tutto”, di fatto, si manifesta. Infatti, ogni volta, in ogni singola e determinata esistenza, a presentarsi sono sia la perfetta determinatezza della forma di volta in volta in questione (questa o quella…), sia la perfetta «indeterminatezza» della sua relazionalità intrinseca; quella che si presenta appunto nello stesso presentarsi del mondo tutto come “uno”… ovvero, come il mio-mondo. O meglio, come il mondo della determinatezza in questione – che è essa stessa “una”, e solo in tale sua unità mostra la propria perfetta «determinatezza». Tutte le forme entrano a far parte della medesima esperienza, del medesimo sguardo – quello che le riconosce appunto come tali. E dunque sono tutte abbracciate da un legame, da una relazione, che è la loro stessa appartenenza ad un medesimo orizzonte (quello che la filosofia chiama “trascendentale”) – da una relazione, cioè, che, di là dal suo essere in se stessa indeterminata ed in-finita (fatta cioè di rinvii senza fine, che sempre nuove cose vanno ed andranno a costituire), è anche ciò che tutto “uni-fica”. Vera e propria koinonia sempre costitutivamente eccedente le diverse forme cui si potrebbe esser tentati di ricondurla (come è accaduto a Platone, che proprio da tale tentazione è stato condotto a postulare l’esistenza di un vero e proprio mondo delle “idee”). Eccoci, dunque, alla questione dell’unità-del-molteplice; connessa da un lato alla consapevolezza (espressa con il massimo rigore da Leibniz) del fatto che nessuna identità può esservi
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tra le cose (principio dell’identità degli indiscernibili) – anche solo per il fatto che ogni forma è radicalmente diversa da tutte le altre (da cui la stessa impossibilità della similitudine2) – e dall’altro alla necessità che le cose, pur nella loro assoluta diversità, vadano a comporre sempre e comunque “un” medesimo mondo. Sempre lo stesso – un mondo che è il medesimo per tutte. Anzi, che deve essere lo stesso, se si vuole poter dire che ogni cosa vi appartiene. Ma che, proprio in quanto identico nelle cose sempre diverse, entra in contraddizione con il principio leibniziano dell’identità degli indiscernibili. Almeno del mondo che ogni cosa porta alla presenza, si dovrà infatti dire che è «identico»… ossia, che è lo stesso per tutti gli esistenti. Fermo restando che nulla di uguale può esservi tra gli essenti. Perciò, non ci si può non chiedere cosa accada per il costituirsi dell’orizzonte trascendentale che tutto deve comunque accomunare (affinché sia in qualche modo giustificato l’apparire da parte di ogni esistente sempre e comunque nella forma di “un” mondo). Se nessuna identità è mai in alcun modo rilevabile – anche perché, già dal punto di vista semplicemente “logico”, essa non può esservi –, cosa significa poter fare riferimento sempre al medesimo mondo come a quello che in tutte le determinazioni rimarrebbe appunto sempre perfettamente identico a sé? È un fatto: da sempre, i filosofi, interrogandosi intorno al l’arché (ossia, al principio di tutte le cose, a ciò che tutto accomunerebbe in qualità di principio, e da cui ogni cosa è per
2. A questo proposito ci siamo già espressi – mostrando analiticamente l’impossibilità della “similitudine” e della “somiglianza” (in quanto presupponenti la possibilità dell’identità). Ed in particolare nel volume Sull’assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano, nonché in Aporia del fondamento (cit.).
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ciò stesso resa possibile), hanno riconosciuto la necessità di dar voce ad un tale “impossibile”. E hanno accettato la sfida; insomma, pur comprendendo sin da subito la problematicità di tale concetto, non hanno rinunciato a fare i conti con la sua enigmaticità. E ne hanno rilevato assai presto – perlomeno a partire da Anassimandro (almeno, dall’Anassimandro interpretato da Aristotele3) – la paradossalità; mettendo in chiaro e riconoscendo anzitutto la sua strutturale indeterminatezza… o, che è lo stesso, la sua costitutiva «infinità». Insomma, ci si è ben presto resi conto che l’arché non può avere né questa né quella forma; e che purtuttavia essa deve venire concepita e posta come presupposto di ogni esistente. Potremmo anche dire: si è ben presto compreso che essa si lascia definire solo in forma “negativa”. Ma consideriamo alcuni dei modi con cui si è di volta in volta cercato di render ragione di un tale principio – enigmatico, paradossale, eppur necessario. Se già Anassimandro riteneva di dover sottolineare l’inevitabile natura “negativa” del Principio (perciò l’avrebbe chiamato a-peiron), Eraclito parlava del Principio identificandolo piuttosto con l’Uno. Parmenide l’avrebbe invece chiamato essere, compiendo così un’operazione di straordinaria importanza. Ché, se non può essere una cosa, ossia se non si lascia in alcun modo determinare, il principio deve comunque valere
3. Di là dalla correttezza di tale lettura aristotelica, messa in discussione, con valide argomentazioni e precisi riferimenti filologici, da Giovanni Semerano (cfr. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori, Milano 2001), ciò che qui interessa è appunto il significato con cui, dopo Aristotele, è venuto confrontandosi l’intera storia dell’Occidente. Di fatto, la questione dell’a-peiron, inteso come in-finito o il-limitato, è divenuta dopo Aristotele una delle questioni centrali della riflessione filosofica – e con essa è divenuta centrale, inevitabilmente, la questione della natura «negativa» del Principio.
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come “ragione” di ogni determinatezza – come ciò da cui ogni determinatezza vien fatta essere in questo o quel modo. Ogni singolo e specifico modo d’essere “è” quel certo specifico modo d’essere in quanto viene reso “così” e così esistente. E dunque, di esso si dirà, necessariamente, che proprio in tale specificità (quella sua propria), esiste. D’altro canto, il principio di ogni cosa è innanzitutto quello che la fa “essere” – in quanto identità che tutto relaziona, e che in ogni cosa rimane sempre “identico a sé” –, e quindi non può che coincidere con l’essere che, di ogni determinatezza, di là dalla sua specifica diversità, deve venire appunto predicato. Ogni determinatezza, infatti, per essere quel che è, deve innanzitutto “esserlo”. Ma Parmenide comprende anche che, proprio per questo, ogni determinatezza, in quanto differente dalle altre, non potrà che costituire una radicale “negazione” dell’identica ragione per cui “esiste”. E dunque che, se “essere” dice “positività”, la determinatezza del determinato non può che dire «assoluta» negatività. Nessuna determinatezza dice infatti l’essere – e dunque ognuna costituisce il “non” di quest’ultimo. Insomma, le cose non sono; questo viene rilevato con la massima esplicitezza possibile già da Parmenide – che il mondo delle cose, dei diversi, non è. Perciò, alla luce del Principio – dell’essere –, delle cose tutte si dovrà dire che non-sono. Insomma, Parmenide inizia a mettere sull’avviso i mortali: se il Principio dice «essere», le cose che da tale principio vengono rese possibili ed in qualche modo giustificate, andranno pensate come sua (dell’essere) radicale negazione. Perché esse dicono – in quanto tali – il semplice «negarsi» dell’identità, ossia di ciò che è stato definito appunto “essere”. Perciò devono venire poste come non-essere. In questo senso Parmenide ci obbliga a fare i conti la negatività ontologica che, di ogni esistente, costituisce la vera e propria determinatezza.
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Ecco perché, alla luce del Principio, delle cose tutte si dovrà dire che non-sono. E dunque che solo in tale negatività può vivere (sempre nella prospettiva parmenidea) quell’essere che, in nessuna di esse, è mai semplicemente identico a sé. O meglio è identico a sé solo per quel tanto che, della cosa (questa o quella), si dovrà comunque dire che “è”, ossia che “esiste”. Platone, poi, sempre procedendo in questa direzione, comprende che, se omnis determinatio est negatio, e se in nessuna determinazione è possibile rinvenire l’essere come “distinto” dalla sua determinatezza specifica (ché altrimenti si finirebbe per fare dell’essere stesso un distinto, ossia una «determinatezza»), allora tale “negatività” deve già essere compresa nella dimensione del Principio. Non è un caso che, per lui, il Principio sia insieme a-peiron, uno ed essere. Ciò appare con chiarezza nell’esito di uno dei suoi più importanti dialoghi: il «Parmenide». Platone comprende infatti che il Principio non può che essere “aporetico”. Che esso è uno, ma che insieme non è uno, che è e insieme non-è; non è un caso che rilevanti aporie vengano da lui rilevate già a livello dell’esistente eidetico; quell’esistente che più di tutti è vicino al Principio; e che purtuttavia, nel rifletterne la costitutiva aporeticità, già lo dice in forma derivata e depauperata. Infatti, se già a livello eidetico (ben prima che nel mondo empirico ed individuale, dunque) l’uno e i molti sono perfettamente indistinguibili – ché, là dove è l’uno, è sempre anche l’altro –, e l’essere e il non-essere convivono nella più perfetta confusione, bisognerà anche riconoscere che in questo stesso orizzonte tali indistinguibili sono comunque già distinti in quanto tali. Insomma, anche ponendosi dal punto vista a partire dal quale il mondo appare come non-esistente, ci si scontra con determinatezze che, se sono, non sono ancora perfettamente «indistinte», ossia sciolte nella pura e semplice positività dell’essere.
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D’altro canto, è già a livello del Principio, ossia dell’Uno, che abita la «distinzione» (e non solo a livello di quella sua prima determinazione costituita appunto dall’orizzonte eidetico). La perfetta unità o identità con sé, propria del Principio, deve già essere distinta, perlomeno rispetto a se medesima, in quanto orizzonte che tutto accomuna e tutto rende suo «Verbo». Perciò Aristotele avrebbe preso coscienza del fatto che, stanti tali premesse, il vero nome del Principio dovrebbe essere quello di «essere». Quasi una sorta di ritorno a Parmenide, dunque – ma ad un Parmenide consapevole del fatto che la negatività degli essenti non può venire semplicemente distinta dalla perfezione del Principio. Non a caso Aristotele riconoscerà che l’essere “si dice in molti modi”. Che esso è questo stesso dirsi in molti modi – ossia che non v’è alcun essere “prima” dei suoi molteplici modi. Qui l’essere viene cioè a comprendere in sé tutte le accezioni precedentemente assegnate al principio; in questo senso, l’essere aristotelico è “uno, “indeterminato”, ma anche determinato e molteplice. Insomma, tutt’altra cosa rispetto a quella ridicola immagine (costruita a posteriori e considerata in modo critico soprattutto da Heidegger), secondo cui da Aristotele a Tommaso si sarebbe venuta costituendo una “fallace” ed impropria ontoteologia, nell’orizzonte della quale il principio sarebbe sempre più esplicitamente diventato un “ente”. Il fatto è che tanto in Tommaso quanto in buona parte del l’originaria teologia cristiana sarebbe al contrario venuta radicalizzandosi una vera e propria linea di teologia apofatica (secondo cui di Dio si può dire solo ciò che il Medesimo non è). Importanti sarebbero state soprattutto alcune correnti mistiche già confluite, ad esempio, nella grande opera di Dionigi l’Areopagita. Ma già l’essere aristotelico non è “altro” dalla negatività che il principio deve sempre già comprendere in se stesso
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(per poter rendere davvero ragione dell’esistere di tutto quel che esiste). Ed è facile rendersene conto – basta prendere in considerazione il principio logico dallo stesso Aristotele fatto valere quale forma originaria dell’essere in quanto tale. Ossia il principio di identità e non contraddizione. L’essere è sì quello che, in ogni cosa, si determina come sempre identico, ma è insieme anche ciò che dice l’esser diverso proprio di ogni cosa. Grazie al parricidio compiuto da Platone nel Sofista – ossia al rilevamento del fatto che il non essere non dice solo il nulla (l’assolutamente altro dall’essere), ma anche l’altro-essere (eteron) –, Aristotele avrebbe avuto buon gioco a ritenere che, ad esempio, nell’esser diversa da parte di questa sedia rispetto a quella finestra, fosse l’essere stesso a farsi diverso da sé, senza per ciò stesso condannarsi alla semplice nullità. Insomma, per Aristotele è la stessa intrinseca molteplicità dell’essere (ossia, la sua originaria categorialità) a far sì che tanto questa sedia quanto quella finestra “siano”, pur essendo l’una la “negazione” dell’altra. Tutto ciò presuppone comunque un convincimento di fondo: che il negarsi reciproco delle diverse determinatezze esistenti sia sic et simpliciter destinato alla “positività” – o meglio, al costituirsi di un’altra positività. Insomma, il negarsi reciproco degli esistenti dice per Aristotele (e dunque per la logica che ancora oggi informa il nostro senso comune) un fare-spazio ad altre positività; quelle che, con questa o quella determinazione in questione, possono convivere solo a patto di occupare spazi esistenziali altri rispetto al suo – sì che dove sia l’una, all’altra sia assolutamente vietato insediarsi. L’essere di tutto quel che è si configura insomma come rigorosamente “escludente” – ad esempio, l’essere di questa sedia esclude dal proprio orizzonte esistenziale tutto l’altro positivamente esistente, pur rendendolo nello stesso tempo possibile per la sua diversa determinatezza, ossia per il suo costituirsi come irrisolvibilmente separato e diverso da esso.
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Insomma, era già stato sancito quello che Leibniz avrebbe poi chiamato “principio dell’identità degli indiscernibili” – ché, proprio in forza del principio di non-contraddizione, A (questa sedia) non-è B (quella finestra), e dunque B vale come NON-A. O anche, l’essere di B non-è quello di A; ma un “altro” essere. Ecco perché l’essere è sempre anche diverso da sé, proprio là dove rimane comunque l’essere che è; ossia proprio là dove identifica gli enti nel dire appunto il loro non esser il proprio altro, ossia il loro essere irriducibilmente diversi. Già per Aristotele, dunque, il principio che tutto unifica (l’essere) è l’essere assolutamente diverso da parte di ogni ente rispetto ad ogni altro, ossia è l’essere in quanto valevole sempre come forma di una radicale alterità – la radicale alterità di ogni determinatezza rispetto a tutte le altre. Di ogni determinazione dell’essere rispetto ad ogni altra determinatezza. Non a caso, è proprio in tale non esser il proprio altro, che ogni ente, sempre per Aristotele, riesce a costituirsi come perfettamente identico a sé. L’esser-identico si costituisce, infatti, sempre, per il principio di non contraddizione, nell’atto stesso con cui viene sancito l’esser-diverso. E quindi l’essere identico non può che valere come il semplice essere identico a sé. Ma, se la determinatezza dice l’originaria molteplicità del l’essere, è chiaro allora che anche l’essere identico a sé, da parte di questa o quella determinatezza, dica l’esser identico a sé dell’essere in quanto altro o diverso da sé. Insomma, sempre sulla base di Aristotele e del principio di non contraddizione, si dovrà riconoscere che l’essere identica a sé da parte di ogni determinatezza è l’esser identico a sé dell’essere in quanto diverso da sé (in quanto “determinato”), e che l’esser diversa dal proprio altro, da parte della medesima determinatezza, è il suo esser diversa rispetto a quello stesso essere che, in quanto altrimenti determinato, è comunque anch’esso perfettamente identico a sé.
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Ogni determinatezza, insomma, è altra dall’esser identico a sé – da quell’esser identico a sé in cui si risolve ogni forma dell’esser diverso dell’essere in quanto tale (di un essere che è sempre diverso da sé, in quanto in qualche modo sempre determinato, ma che, proprio in tale esser diverso da sé, è sempre e comunque se stesso). L’essere, dunque, è sempre identico al proprio esser diverso da sé e diverso da quel suo esser identico a sé che si dà sempre e solamente nella forma di un’altra determinatezza. Davvero, quindi, l’esser diverso è ciò che rende ogni determinatezza identica a sé; che la fa essere quel che è, ossia una determinatezza, evidente come tale nel suo non esser le altre determinatezze (a loro volta presenti come quel che sono, ossia come identiche a sé nell’atto stesso con cui si distinguono da ciò che le medesime non sono), in modo tale che la relazione differenziante non si determini se non nel determinarsi di una identità con sé, sempre ed ineluttabilmente “determinata”. Come dire che la determinatezza della “relazione” è tutta nella determinatezza di “relazionantisi”, presenti sempre e solamente come identici solo a se stessi. Da ciò si dovrà quindi far conseguire che: quello dell’identità che tutto accomuna è necessariamente il volto di un’identità assolutamente chiusa in se stessa, e dunque costitutivamente incapace di presentarsi come “altro” rispetto alle determinazioni di cui essa dice appunto l’esser altre l’una rispetto all’altra. Insomma, l’esser diverso non è un “ente” – ma sempre e solamente l’ente è “diverso” da un altro ente rispetto a cui vige una relazione il cui volto identificante è tutto risolto nell’essere identiche a se stesse da parte delle determinatezze in questione. Nulla di determinato (che valga come elemento costitutivo di ciò che nelle determinazioni in questione dice appunto l’esser identico a sé) può venire dunque indicato quale forma dell’identità tra l’una e l’altra determinazione. Perché l’iden-
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tità tra l’una e l’altra – quella che ogni relazione implica, pur nel suo costituirsi nella forma dell’esser-diverso – si determina nel semplice determinarsi dell’una e dell’altra come semplicemente identiche a sé. D’altro canto, neppure si può dire che entrambe le determinazioni avrebbero questo di identico: ossia, il loro esser diverse ognuna dall’altra. Anche tale esser diverso, infatti, non è lo stesso, nell’uno e nell’altro caso. Ché in A (stia A per «questa sedia») il non esser B dice appunto il suo esser NON-B, e in B (stia B per “quella finestra”) il non esser A dice nient’altro che il suo esser NON-A. Dove, il NON-A e il NON-B hanno in comune solo il segno della “negazione” – quello stesso che, nella prospettiva aristotelica, significa sempre e solamente l’altro-positivo rispetto alla determinazione da esso negata (NON-A = B, C, D…). L’esser diverso dell’una rispetto all’altra si determina dunque da un lato come “NON-B” e dall’altro come “NON-A”. In nessun modo, quindi, l’identità tra le due si determina in quanto tale – neppure come il loro “reciproco esser diverse”. Mai si determina cioè un’identità che non sia quella di ogni determinatezza con se stessa – ossia mai si determina un’identità altra dall’esser identico di ogni determinazione con se medesima. Insomma, ciò che bisogna riconoscere, e proprio a partire da Aristotele (in quanto responsabile della definitiva formalizzazione del principio di non contraddizione), è che l’identità tra le determinazioni, ossia l’identità del molteplice, si determina sempre e solamente come identità di ogni determinazione con se medesima. E dunque che l’identità, in quanto “comune”, non si determina affatto. O meglio, che il suo determinarsi è un determinarsi come assolutamente incomunicabile4. Come ciò che non può venire 4. Questi temi vengono affrontati in un volume di straordinario interesse scritto da Roberto Esposito e pubblicato da Einaudi nel 1998. Si trat-
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messo in comune, se non come l’individualità che in ogni cosa sarebbe semplicemente identica a sé. E che dunque da nessun punto di vista ci consente di rilevare una qualche consonanza tra gli enti: neppure quella costituita dal fatto che ogni ente verrebbe a costituirsi come semplicemente identico a sé. Non è infatti neppure possibile dire che, di identico, in ogni ente, vi sarebbe perlomeno questo: che ognuno è semplicemente identico a sé. Perché, in tale caso, in comune tutti gli enti avrebbero perlomeno la proprietà di essere identici solo a sé, e dunque di non avere nulla in comune. Dove, è chiaro che anche questa semplice ammissione, di segno esclusivamente “negativo”, comporterebbe una qualche forma di determinazione della koinonia in questione. Non si può cioè dire che tutti gli enti avrebbero in comune il fatto di non avere nulla in comune; ché, già questo sarebbe un “comune” perfettamente determinato, anche se in forma negativa. Nel linguaggio dell’Occidente, infatti, la “negazione” è comunque una forma di determinazione – omnis negatio est determinatio. La nostra attenzione deve dunque necessariamente spostarsi sul piano dell’ontologia: anche qui si tratta di tornare a prestare ascolto ad Aristotele. A quello stesso Aristotele che doveva rendersi responsabile della radicale irrisolutezza del ta di Communitas. Origine e destino della comunità; un lavoro intento a decostruire un concetto così importante per tutta la storia della nostra civiltà come quello di “comunità” – un lavoro, quello di Esposito, che, proprio nell’impegnarsi ad una radicale rideterminazione della categoria in questione, riesce a mettere in luce gli straordinari paradossi ed i fulminanti cortocircuiti conseguenti l’impossibile identificazione operata dal «comune». Quella in base a cui, appunto, si dovrà senz’altro riconoscere che, se «il comune non è caratterizzato dal proprio, ma dall’improprio… e se, dunque, nella comunità i soggetti non trovano un principio di identificazione… ciò è vero innanzitutto perché il luogo assente della comunità: il nostro nonessere è sì il nostro essere altro-da-noi, ma – attenzione – anche dall’altro» (ivi, pp. XVI,,XVI-XVII, 139).
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«principio di non contraddizione». Perché è sempre lui ad aver posto l’essere come “principio” – oltre ad aver intrinsecamente connesso quest’ultimo alle sorti del principio di non contraddizione in quanto sua “forma” originaria. Dunque, è forse proprio a partire da un ripensamento della questione dell’essere che potremmo individuare una qualche via di uscita rispetto all’empasse provocata dal modo in cui il non-essere è stato pensato dallo stesso Aristotele, sulla scorta del precedente parricidio platonico. Si tratta cioè di fare i conti con l’essere, per ciò che esso sembra poterci ancora dire in rapporto ad una “negatività” che non sia semplicemente costretta nelle maglie dell’eteron, destinandosi a fungere da semplice apertura ad un “altro-essere”. D’altro canto, nel breve spazio qui a disposizione, non possiamo che sviluppare un abbozzo di analisi dell’essere in quanto tale – o meglio, della sua intrinseca valenza «relazionale». L’essere è anzitutto ciò che tutti noi predichiamo di ogni cosa, di ogni determinato – nella misura in cui se ne abbia una qualche cognizione, nella misura in cui ci sia dato come tale. Di esso, cioè, si deve dire che “è” (a prescindere dal modo in cui tale essere venga poi a configurarsi, ossia dal suo venire percepito come essere-reale, immaginario, materiale, ideale, ecc. ecc.). Di tutto, infatti, diciamo che “è”, già per il semplice fatto che ogni realtà “in qualche modo” appare. Il che significa che ogni cosa, per il suo semplice apparire come quella certa cosa, così e così determinata, “è”. Ecco perché è proprio l’essere, e solo esso, a fare, di ogni cosa, un elemento inscritto nell’orizzonte trascendentale della mia esperienza. Sì, proprio questo “è” indica il comune – ma un “comune” del tutto particolare. Ossia un comune che in nessuna cosa si presenta come sensatamente “distinguibile” dalle sue (di quella stessa cosa) molteplici determinatezze. Ché, altrimenti esso medesimo finirebbe per costituirsi come
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un-determinato. Ossia, come ciò che in questa sedia, ad esempio, dovremmo poter distinguere dal suo esser “di legno”, dal suo esser “bianca”, dal suo “pesare cinque chilogrammi”, ecc. ecc. Insomma, è del tutto evidente, che mai mi è dato individuare, in forma determinata, qualcosa come “l’essere” di questa sedia. Quasi si trattasse di una sua proprietà – come quelle che sono invece fenomenologicamente evidenti e individuabili anche ostensivamente. Sicuramente, di ogni proprietà di questa sedia si deve dire che, lì dove essa è, non è affatto individuabile sic et simpliciter, “in uno”, con la sua presenza, una qualsiasi altra proprietà della medesima sedia. Il bianco della sedia appare cioè come qualcosa che potrebbe essere detto anche di una sedia di metallo. Certo, in “questa sedia”, là dove appare l’esser bianco, appare anche l’esser di legno – e quindi ostensivamente, nell’indicare questo bianco, finisco per indicare anche l’esser di legno, ed anche ciò che pesa cinque chilogrammi. Ma, se almeno dal punto di vista logico-definitorio, mi è sempre possibile distinguere l’esser bianco dall’esser-di-legno, posso pur sempre immaginare l’esser bianco come proprietà di una sedia di metallo. Almeno in via ipotetica, cioè, posso senz’altro immaginare l’esser bianco in una diversa connessione, e quindi privo del legame con l’esser di legno. Sì che le proprietà di questa sedia siano tali, ossia tutte reciprocamente determinantisi, nella misura in cui – di là dall’inscindibilità del loro essere proprietà di questa-sedia – sono comunque pensabili l’una come priva dell’altra, secondo una relazionalità che è assolutamente “contingente” (ossia, che è, ma che potrebbe anche essere altrimenti – in un altro mondo, avrebbe aggiunto Leibniz). Ma… è possibile pensare qualcuna di tali proprietà come privata dell’essere? O meglio: è l’essere una proprietà? Un
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qualcosa di cui una qualsivoglia determinatezza potrebbe essere priva? No; ché, se, per l’esser-di-legno, il suo non dire l’esser-bianco significa che esso, oltre ad occupare uno spazio esistenziale in qualche modo distinto da quello caratterizzato dell’esserbianco (anche se in “questa sedia”, esso è indisgiungibile, e solo logicamente “distinguibile”, da esso), si lascia anche pensare come l’esser-di-legno di una sedia rossa (e quindi si lascia pensare anche come “privo” dell’esser bianco), per quanto riguarda invece l’essere in quanto tale, ciò non è affatto vero. Appunto perché ogni determinata proprietà dell’ente, ogni modo della sua determinatezza, “è”; ed anzi può costituirsi come l’esser-di-legno di una sedia bianca o di una sedia rossa, solo se “è”. Anzi, nell’esser così e così costituito, esso sarà riconoscibile come tale solo nella misura in cui, di esso, si possa in qualche modo dire che “è”. O meglio, sarà riconoscibile come tale nell’atto stesso del suo farsi riconoscere come “essente”. Delle determinatezze si può dunque dire che l’una non è l’altra e che l’altra non è l’una sempre e solamente nella misura in cui, in tale relazionarsi-distinguendosi, venga a costituirsi, per esse, sempre il medesimo “essere”. Lo stesso esistere positivo. Da ciò la necessità di ripensare la questione dell’essere; ovvero, il suo porsi come struttura originaria o principio del tutto. Come ciò che, pur implicando la forma dell’identità e della non-contraddizione, non ci costringe affatto a riconoscere che il “negare il proprio altro” significhi per ogni determinazione la semplice destituzione della valenza nullificante del “non-essere” (conformemente alle implicazioni fondamentali del parricidio platonico), e dunque il semplice costituirsi della possibilità di un altro “positivo”. Anche perché, in tale ottica, quel che non si spiega affatto è cosa significhi davvero, nell’esser identicamente “positive” da parte di tutte le determinazioni, l’esser ognuna “altra” dal
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proprio altro. Cosa significhi, per ognuna, essere un’altra positività – di là dal costituirsi da parte di un medesimo “esserepositivo”. Cosa significhi cioè il suo esser comunque “altro” da un’altra positività. Ossia, non si capisce non solo cosa significhi per due determinatezze l’esser ognuna altra dal proprio altro (o anche: cosa significhi, per esse, l’esser diverse), stante che, in rapporto alla loro “positività”, nulla le distingue; ma soprattutto in che rapporto stia tale loro esser diverse (di cui si tratta comunque di spiegare il senso) con la loro comunque identica “positività”. Insomma, non basta riconoscere, sulla scia di Platone, che, nell’esser-diverso, a costituirsi è la condizione di possibilità di un “altro” positivo. Del tutto oscuro rimane infatti, in questa determinazione esplicativa, proprio il senso dell’esser-altro. Di quell’esser-altro che vorrebbe appunto (già nelle intenzioni platoniche) salvaguardare l’essere dal suo altrimenti inevitabile sprofondamento nell’impossibile “negatività assoluta”. Non basta perché, per salvare la positività dell’esser altro, si finisce per non rendere in alcun modo ragione dell’esseraltro; e quindi si lascia nella più assoluta insensatezza la determinazione dell’alterità. È evidente, infatti: se l’essere, per ritrovarsi salvato “dal negativo”, viene semplicemente relegato nell’ambito dell’identità (ossia, di ciò che, nella “relazione” tra questo e quello, dice appunto quel che “non è altro”), con la conseguenza che l’esser-altro venga a costituirsi come ciò che, nel dispiegarsi, produce un qualche effetto solo sulla “determinatezza” (lasciando intatto l’essere che quella medesima determinatezza anche esprime), allora è chiaro: a restare del tutto ingiustificata è propriamente l’alterità. Quella che, non intaccando l’identità dell’essere in quanto tale, ossia non costituendosi come sua (dell’essere) originaria espressione, oltre a non trovare alcuna ragione in relazione al proprio accadere, finisce per non dire nulla dello stesso essere che, in essa, avrebbe dovuto trovare la propria salvezza.
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Ciò che va anzitutto tenuto presente è dunque il fatto che, nell’atto stesso con cui conformava l’essere alla forma del «principio di non contraddizione», Aristotele finiva per tradurre il non esser Non-A da parte di A in ciò che di fatto dice sempre e solamente il suo (di A) non esser B, il suo non esser C, ecc. ecc. Insomma, per corrispondere al dettato parmenideo, così come aveva già fatto Platone, anche Aristotele finiva per tradurre il non-essere in semplice «apertura ad un altro-positivo». Perciò, quando diciamo non-sedia, in realtà tutti noi (in modo perfettamente aristotelico) pensiamo esclusivamente allo spazio occupato da quella finestra, da questa luce, da quella libreria, da quelle nuvole, da questi rumori, ecc. ecc. – dove, ciò che finisce per non essere in alcun modo pensato è appunto l’autentico significato dell’espressione «non-sedia». Sempre ineluttabilmente risolta in pura forma vuota, che non dice alcunché, se non in quanto «riempita» di tutto l’esistente che chiamiamo appunto in “altro” modo. Dove, però, insistiamo, quel che non si capisce affatto è in che senso questi modi (l’esser finestra, l’esser libreria, l’esser luce…) siano «altri» da quello configurantesi come essersedia. Non si può cioè fare a meno di rilevare il totale oblio, nella cultura occidentale, dell’autentico significato della “negazione” – e dunque, in un altro senso, dell’alterità. «In un altro senso»… abbiamo detto, perché, a ben vedere, se non si acconsente passivamente al modo tradizionale di intendere la «negazione», e dunque l’alterità, diventa impossibile identificare l’una con l’altra tali espressioni – stante che «non-sedia» è un’espressione in cui viene detta, sia pur in forma negativa, solamente la “sedia”, mentre nell’esser-altro vengono chiamate in causa almeno due, o più, determinatezze. Solo nella relazione d’alterità, infatti, l’esser “non-sedia” viene predicato, ad esempio, dell’esser-finestra.
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L’Occidente ha rimosso l’enigmaticità del «negativo»; e quindi, oltre a non riuscire a pensare il concetto di «non-sedia» in quanto tale5, del non essere sedia da parte della finestra fa la semplice espressione dell’esser altra rispetto alla sedia da parte della finestra – lasciando del tutto inesplicato il significato di tale “alterità”. Sì da consegnare l’esser-altro alla medesima ambiguità inscritta, ai suoi occhi, nell’esser una “nonsedia” – anzi, complicandola, se così si può dire. In quanto, al già enigmatico significato di “non-sedia”, va ad aggiungersi il 5. Al massimo, l’Occidente ha saputo pensare quella che Nancy avrebbe chiamato l’inquietudine del negativo. Ossia l’effettualità di una “negazione” per la quale «il senso non è mai né dato né disponibile» (J.-L. Nancy, Hegel. L’inquietudine del negativo, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1998, p. 16). Del resto, anche Nancy ritiene che il compito (con Hegel e sulla scia di Hegel) sia ormai quello di penetrare in tale “negatività”, discorrendo l’immanente-infinità, «il cui unico punto di vista e d’ordinamento è quello della trasformazione» (ivi, p. 15). Da ciò la necessità di fare i conti con un mondo «che non è un semplice risultato e nemmeno ha risultati. È il mondo che risulta nel suo proprio movimento» (ivi, p. 15). Insomma, nel contesto del vertice speculativo costituito dal pensiero hegeliano, si sarebbe venuta a configurare, in modo sicuramente definitivo, l’idea secondo cui la natura quintessenzialmente “negativa” dell’esserci dice la semplice inquietudine del «positivo»; di un «positivo» la cui determinatezza non riuscirebbe appunto ad offrirsi se non nella propria incatturabile «alterità». Dove, il sé riuscirebbe a rivelarsi solo «come altro, infinitamente nell’altro» (ivi, p. 15). Ancora una volta, dunque, espressa peraltro nella sua forma più radicale, la «negazione» come condizione di impossibilità destinata a travolgere qualsivoglia pretesa di comprensione della determinatezza del positivo – cercando di afferrare la quale, appunto, ci si troverebbe continuamente rinviati ad un “altro positivo”, a sua volta incatturabile, e così via, all’infinito. Da cui il conclusivo riconoscimento del fatto che «il senso» è tutto in tale passaggio; e che «l’infinito o l’assoluto non si presenteranno in nessuna figura determinata» (ivi, p. 17); appunto perché il negativo continua di fatto a valere come semplice forma di esclusione della positività in esso e da esso negata… o, al limite, come rinvio ad “altre positività”. Anche queste ultime, comunque, se negate (e debbono esserlo, sempre in virtù del «vero» hegelianamente inteso), dicono sempre e solamente che il «vero» non sta in esse, e dunque che esse non possono venire in alcun modo “concepite”.
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fatto che tale negatività viene detta appunto di una finestra (la negatività della sedia, e non della finestra, si badi bene, viene detta della finestra). Anche se il tutto viene poi risolto nella convinzione secondo cui quello che può esser detto della “non-sedia” sarebbe appunto il suo fattuale costituirsi come una finestra. In questo modo l’Occidente ha finito per liberarsi (sia pure a buon mercato, e del tutto impropriamente) del problema costituito ab origine dal significato «negativo», ad esempio dalla “non-sedia” – riducendo quest’ultima ad «apertura», ossia a possibilità per l’esserci di una finestra. Il che significa: secondo l’Occidente dire “non-sedia” non ha alcun senso, se non si inscrive tale significato nella forma “relazionale” che fa di esso il modo per indicare tutti i possibili positivi che potrebbero esserci “al posto della sedia” (la finestra, le nuvole, la luce…) e che esistono anche quando esiste la sedia… solo, altrimenti posizionati nell’orizzonte dell’esistente. Lasciando del tutto inspiegato il significato di tale altrimenti. Proprio nel nostro tempo è apparsa comunque la formulazione più rigorosa di tale forma mentis: quella rinvenibile appunto nell’opera di Emanuele Severino. Secondo il quale, quel che si può e si deve dire è appunto che l’identità è sempre e solamente «tautologia» (vedi Tautotes6). Stante che, sempre secondo Severino, in ogni forma predicativa, a dirsi è necessariamente l’identità con se stessi.
6. Si tratta di un’importante opera in cui Emanuele Severino affronta la questione dell’identità con raro rigore speculativo. E lo fa confrontandosi innanzitutto con l’accezione aristotelica di tale concetto. Comunque, attraverso un serrato confronto con alcuni topoi essenziali della storia dell’Occidente, Severino intende far valere l’identità (o “tautologia”) come verità di ogni essente e quindi della totalità dell’essente, in quanto «apparire della differenza del non differente come negata…» (E. Severino, Tautotes, cit., p. 123) – da cui «l’apparire dell’originarietà della relazione» (ivi, p. 120). Per Severino, insomma, là dove il linguaggio dice che «il cielo è luminoso», l’ori
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Le parole del filosofo bresciano hanno mostrato con grande lucidità le conseguenze più rigorose di tale prospettiva: mostrando cioè che mai può darsi, e dunque mai si dà identità con l’altro da sé. E che tra A e B, dunque, può esserci solo “differenza”. Sì che l’identità sia sempre e solamente “determinata” – anzi che essa possa vivere solo «nella determinatezza» in forza della quale ogni cosa è sempre e solamente sé medesima. Ma, ancora una volta, ciò che tale prospettiva non riesce a dire è quale ruolo giochi l’essere nell’astratta distinzione di identità e differenza. Ché, se nessuna cosa può diventare od essere il proprio «altro», che ne è dell’essere? Che ne è, cioè, di quell’essere che, in A, non si lascia determinatamente distinguere da A, e in B non può esserlo neppure da B? E che pur tuttavia non può essere diverso in A e in B? Che ne è di un tale essere? Che ne è di esso là dove A (lo stesso A che non può venire determinatamente distinto dal proprio “essere” – a meno che non si voglia fare dell’essere una semplice determinatezza tra le altre) può essere semplicemente “diverso” da B? Che ne è di ciò che non può costituire un fattore di distinzione tra A e B? Questo dovrà essere anzitutto rilevato: se in nessun modo è spiegabile l’esser altro di A rispetto a B (proprio per il fatto che A può essere identico solo a se stesso – Leibniz docet –, e che nessuna relazione con l’esterno è concessa ad A, in quanto tale relazione implicherebbe comunque una qualche forma di
ginarietà della relazione implica che «il soggetto sia quella stessa relazione in cui consiste il predicato: è il cielo-che-è-luminoso ad essere il luminosodel cielo» (ivi, pp. 120-121). Ma questo significa che «l’apparire dell’essente è l’apparire dell’identità dell’essente… o anche che «l’essente è l’identità della relazione con se stessa» (ivi, p. 123).
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koinonia, e dunque di identità tra i diversi, ossia un “impossibile”), allora l’esser altro non può che costituirsi come l’esseraltro di un qualcosa rispetto a se medesimo. Ma allora, solo ciò che non risulta in alcun modo diverso da A, può esser altro da A: ossia l’essere. Infatti, non ha alcun senso dire che A è diverso da B – stante che ogni relazione implica una qualche identità, e che l’identità non è in alcun modo determinata. Non ha alcun senso dire che A è diverso da B in quanto tale relazione implicherebbe una qualche identità tra A e B – ossia tra due determinati –, e per ciò stesso la determinatezza dell’identico così istituentesi. Ma non si può neppure dire che, di «identico», in A e in B, vi sarebbe da un lato il NON-esser A da parte di B e dall’altro il NON-esser B da parte di A; perlomeno dal punto di vista del pensiero occidentale (ossia di quel pensiero che ha sempre fatto del “negativo” il semplice rinvio ad un “altro” positivo)… in quanto, nella prospettiva disegnata da quest’ultimo, dire NON-A o NON-B significa semplicemente indicare da un lato tutte insieme le forme positive del NON-A, ossia B, C, D, E… e dall’altro tutte insieme le forme positive del NONB, ossia A, C, D, E. Come non accorgersi, dunque, che da questo punto di vista l’esser NON-A non è l’esser NON-B? Ossia che si tratta di due negazioni determinate, dove la determinazione dell’una non è quella dell’altra, anzitutto in quanto, di là dalla determinatezza in esse “negata”, tanto nell’uno quanto nell’altro caso viene indicato solamente un insieme infinito di altre “determinatezze”, tutte peraltro specificamente individuabili e nominabili (sì che NON-A significhi davvero solo in quanto sostituito di volta in volta da B, da C, da D…). Insomma, se NON-A sta per C, NON-B può esser detto “identico” a NON-A solo se anche NON-B sta per C.
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Ma tanto NON-A che NON-B dicono in verità un insieme di determinatezze che da un lato escludono A e dall’altro escludono B. D’altro canto, nemmeno l’esser diverse delle determinatezze l’una rispetto all’altra può identificarle – appunto perché indica il loro esser-diverse, e non il loro esser identiche. Diverso, insomma, può esser davvero solo l’identico. Ossia ciò che non si distingue… ciò che non si distingue dal distinto, ma solo dall’identico. Ma il distinto è appunto la “determinatezza”. Cosa, dunque, non si distinguerebbe dalla determinatezza? Di certo non un’altra determinatezza. Ma solo l’essere… ossia ciò che non è in alcun modo determinato (ciò che non è “un determinato”). Ed in che senso l’essere si distinguerebbe solo dall’identico? Appunto, distinguendosi da se medesimo – ché solo esso è l’identico, ossia il non-distinguentesi. E come si realizzerebbe tale distinzione? Appunto, nel suo farsi “determinato” – ossia distinto da sé in quanto non semplicemente distinto dalla propria determinatezza (ché esso non è determinato, e dunque non può distinguersi da sé facendo di se stesso una determinatezza), ma identico alla medesima. L’essere, insomma, è distinto dalla propria indeterminatezza, in quanto dalla stessa perfettamente indistinguibile – ossia, in quanto originariamente “determinato”, e dunque altro da sé (dalla propria indeterminatezza). Insomma, solo per il suo essere già da sempre determinato (ed in quanto tale, “altro” solo dalle altre determinatezze – ché in rapporto a sé esso deve porsi come identico alla propria indeterminatezza, ossia indistinguibile da essa, e proprio per ciò nello stesso tempo originariamente altro da sé), l’essere si distingue. Distingue sé da se stesso, senza per
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ciò stesso lasciarsi concepire come semplicemente “determinato” – ossia come “un” determinato (pur essendo da sempre “determinato”… ma appunto in quanto perfettamente in-determinato). L’aporia dell’essere è quindi radicale; per ciò esso riesce a costituirsi come l’unico distinguentesi. Perciò diciamo male quando ci riferiamo alle determinatezze come ai «distinguentisi»; non sono esse, infatti, a distinguersi l’una l’altra – come già abbiamo rilevato. Esse non possono distinguersi l’una rispetto all’altra. Ché, davvero, nulla esse hanno in comune; e dunque nessuna “relazione” può venire istituita come relazione tra di esse. Insomma, solo l’identico può distinguer-si; distinguendo appunto sé da se medesimo. E solo in quanto il risultato di tale distinguersi sia l’essersi distinto da parte dell’identico nei confronti di se medesimo, solo per questo, ossia solo perché il distinto è l’identico (ossia ciò che è sempre identico a sé), solo per questo, il distinto così costituitosi può relazionarsi a ciò rispetto a cui esso si pone appunto come “distinto”; ossia il distinto può trovarsi in relazione all’essere – cioè, all’identico che è sempre se stesso, in ogni forma del suo determinato distinguersi. Questa, dunque, l’unica possibile relazione; quella in cui l’esser-altro è sempre l’esser altro dell’identico nei confronti di se medesimo. Quella dell’essere con le proprie determinazioni – che sono appunto i modi del suo essere “sempre” altro-da-sé… senza peraltro determinarsi mai come semplice «altro» (nel senso della non-contraddizione) rispetto alle proprie determinazioni. In questo senso l’essere dice davvero l’identico – quel che è tale (come avrebbe riconosciuto anche Hegel) solo nel distinguere sé da sé medesimo; conformemente a quanto accade in ogni tautologia (che neppure Severino riesca a pensare la tautologicità evitando di fare i conti con l’esser altro da sé
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da parte dell’identico, l’abbiamo già mostrato nel nostro Aporia del fondamento7). Perciò di A, B, C… ossia, di tutto, dobbiamo dire che «è». Perciò ogni determinazione (A, B, C…) altro non è che l’effetto originario dell’imprescindibile distinguere sé da sé da parte dell’essere – un effetto talmente originario da non riuscire neppure a costituire (nessuna determinazione vi riesce) qualcosa come un non-contraddittoriamente «altro» dall’essere in quanto tale. D’altra parte, il non-contraddittoriamente altro si troverebbe in quella situazione impossibile che abbiamo visto non consentirci di affermare, di alcuna determinazione, che essa possa essere «altra» da qualcos’altro – stante che in tal modo verrebbe appunto a costituirsi quella “relazione” di alterità che, in quanto “relazione”, finirebbe per negare la stessa alterità da essa chiamata in causa… quella che, dal punto di vista della non-contraddizione, dovrebbe propriamente impedire qualsiasi “identità” determinata, e dunque anche quella implicata dalla “assoluta alterità” (che, come abbiamo visto, dice che tra due altri deve esservi perlomeno questo in comune: che entrambi non siano il proprio altro… o anche, che abbiano in comune il medesimo mondo – quello di cui entrambi fanno parte e che, solo, consente loro di inscriversi nella relazione che dice appunto la loro reciproca alterità). Insomma, l’alterità possibile o reale è non solo e non tanto quella che non rende impossibile una qualche identità (l’identità è sempre “determinata”… anche quella di segno negativo, secondo quanto abbiamo già rilevato), ma, ancora più radicalmente, quella che non si distingue affatto dall’identità. Quella che si propone come articolazione dell’identità medesima,
7. Cfr. M. Donà, Aporia del fondamento, La Città del Sole, Napoli 2000 (testo ristampato in una nuova versione, con l’aggiunta di un capitolo, dalla casa editrice Mimesis, Milano-Udin 2008, con il titolo L’aporia del fondamento).
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facendosi così sua perfetta espressione. E che, solo in quanto non distinguentesi dall’identità, non è costretta a sancire un ferreo divieto nei confronti di quest’ultima. Perciò, ritenere che la legge secondo cui «A non è NON-A» possa essere tradotta – senza problema alcuno, anzi in modo perfettamente logico e consequenziale – nella forma «A non è B», o «A non è C»…, è quanto di più lontano dal vero possa essere pensato. In questo senso, l’Occidente ha finito per obliare il «vero»; insomma, lo ha obliato per aver pensato che questa fosse l’unica possibile traduzione della formula generale «A non è NON-A». Ecco perché l’Occidente non avrebbe saputo pensare la “negazione”. Anzi, proprio traducendo quest’ultima in una sorta di allusione ad altre positività, non sarebbe riuscito a comprendere che 1) dicendo che «A non è NON-A» si dice in verità che A non è l’essere – stante che nessun determinato è davvero “altro” dalla negazione di se medesimo, ossia da quell’unica negazione di sé che, per ogni determinato, vale appunto come il semplice «essere», e che non può condurre verso altre determinatezze, ossia verso una qualche forma di alterità che non sia quella di sé rispetto a se stessi (stante che il negare è sempre un “negare sé medesimi”, e che, per negare un’altra determinatezza, dovrei avere qualcosa in comune con essa – ma ciò è impossibile –, allora è evidente: nei confronti del proprio negativum, A è diverso nella perfetta identità o indistinguibilità da esso) –, e quindi che A non è se stesso in quanto non è l’essere, ma nello stesso tempo in quanto in esso, ad essere, è appunto il NON della propria determinatezza (perciò A è NON-A; dove ciò significa che A è quella negazione della determinatezza che non è un altro determinato, ma ciò che fa “essere” NON-A nell’essere stesso – nell’è – di A; insomma, A è NON-A in quanto «A è essere»; ossia in quanto la negazione di A, quella negazione che non è un altro determinato, e quindi coincide con «l’essere»,
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in quanto negazione, “esiste” appunto come «A», esiste nell’è che sempre predichiamo di ogni «A», ossia di ogni determinatezza), e che 2) traducendo il non esser NON/A da parte di A come il suo non esser B, C, D, si finisce per fare della già astratta ed improponibile distinzione di A dalla propria originaria “negatività” l’altrettanto impossibile distinzione tra un determinato ed altri determinati. A questo proposito va rilevata l’improprietà dell’espressione «altri determinati», la quale presuppone appunto che possa darsi una qualche alterità tra determinati, e che dunque i determinati possano relazionarsi (per dire appunto l’alterità dell’uno rispetto all’altro), violando così l’inviolabile: ossia l’assolutezza della loro alterità. Ciò che è inviolabile non tanto per il suo costituirsi come legge incontrovertibile od epistemica, quanto perché perfettamente insussistente ed impossibile in se stesso (come violare ciò che non si dà proprio, né come incontrovertibile né come controvertibile? Come violare una relazione di alterità assoluta che in quanto tale è un perfetto non senso, stante che ogni relazione, per quanto ipostatizzata, implicherebbe, per essere in quanto tale, una qualche identità tra i reali – o meglio, come abbiamo già visto, la loro perfetta identità?). Insomma, non esiste qualcosa come A, come B o come C – ad esistere è infatti sempre e solamente NON-A, NONB…, ossia il mondo in-finito in B, il mondo in-finito in A, ecc. ecc. Ad esistere è sempre e solamente quel negarsi dell’essere che dice l’identità sua propria: ossia il farsi NON-A da parte dell’essere, il suo farsi NON-B, il suo farsi NON-C. E per questo stesso motivo il vero soggetto di ogni proposizione è l’essere – di là da quanto siamo abituati a credere per il semplice fatto di usare un concetto come quello di «essere» sempre e solamente in qualità di “predicato”. Insomma, non è tanto questa sedia ad «essere»; quanto piuttosto “l’essere a sedieggiare”, “a finestreggiare”, per dir così.
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Certo, il tentativo di Severino è perfettamente comprensibile; ma rappresenta appunto l’extrema ratio della forma mentis occidentale, ossia di quel pensiero che non ha ancora deciso di confrontarsi con la «negazione» in quanto tale (avendola sempre trattata come semplice apertura ad un “altro- positivo”), e che forse non ha saputo farlo anche perché, pensando l’essere come “predicato”, ha dovuto porsi anzitutto il problema della sua “assicurazione”, o meglio dell’assicurazione delle determinatezze… concepite appunto come ciò cui semplicemente capita di “essere” (magari eternamente). Il fatto è che Severino vuole salvare gli enti – e lo fa nella forma più radicale, più estrema: dimostrando che gli enti sono già da sempre salvi. Che essi non vanno cioè salvati da un qualche pericolo. Ma tutto ciò, lo fa appunto a partire dalla convinzione secondo cui l’essere «non sarebbe» il determinato; e dunque a partire dalla convinzione secondo cui esso vale come “predicato” della determinazione in questione. Ecco il punto: se l’essere «capita» agli enti, nel senso che essi non sono l’essere, sic et simpliciter – anche se capita ad essi da sempre, secondo necessità – è comunque pensabile o in qualche modo ipotizzabile il loro separarsi dall’essere. O almeno la pretesa di poterli separare dall’essere. Certo, se l’essere si costituisce come un «predicato», e dunque “cade” sulle determinazioni, relazionandosi ad esse (anche nella forma «necessitante» teorizzata da Severino), è possibile sfidare la supposta epistemicità di un tale “legame”. Ovvero, è possibile proporsi l’impossibile (ossia: rompere la relazione, anche là dove essa venga intesa come incorruttibile). Il fatto è che, se l’uno non è l’altro, sic et simpliciter, tale differenza, per il suo semplice darsi come “differenza”, legittima la folle e diabolica (dia-ballein) impresa del principe della “separazione”, della “divisione” (come l’onnipotenza divina aveva reso possibile la folle impresa di Lucifero – che, cer-
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to, non avrebbe potuto scardinare l’ordine divino, ma, come di fatto è successo, anche per la teologia cristiana, avrebbe senz’altro potuto tentare di farlo, e avrebbe potuto proporsi di farlo all’infinito…). No; l’essere è soggetto, soggetto di ogni proposizione – solo esso, il sempre identico a sé può infatti distinguersi da se medesimo, senza far venire mai meno la propria originaria identità. Anzi, confermandola all’infinito. D’altro canto, chi potrebbe essere diverso, se non l’identico? E da chi potrebbe esserlo, se non da se medesimo? Ecco che l’essere si presenta quindi come sedia, come finestra, ecc. ecc. E non si distingue dalla finestra, «in quanto sedia». Ché, a distinguersi non è mai questa o quella determinatezza – la quale, in quanto tale, è già il distinguersi dell’essere da se medesimo… dell’essere in quanto identico a sé in questa stessa perfetta distinzione. A distinguersi, casomai, è la negazione della determinatezza – cioè la non-sedia –, ossia l’essere in quanto tale, in quanto identico. È sempre e solamente esso a distinguersi; e non dalla finestra; ma, ancora una volta, sempre e solamente dalla non-finestra. Ossia dallo stesso essere; che è appunto «negazione» di ogni determinatezza, e che anche nella finestra “si nega” affermandosi (negando cioè la propria perfetta «negatività»), dicendo così la propria perfetta identità con sé. Insomma, è solo la non-sedia a potersi distinguere dalla non-finestra; e non la sedia dalla finestra. Ché, come rileva giustamente anche Jean-Luc Nancy, non si deve risolvere la negazione in un’altra affermazione8. La
8. Si legga soprattutto J.-L. Nancy, Essere singolare plurale, cit. Di là dall’origine come abisso, come grande Altro, in queste pagine Nancy propone un altro senso della “negatività”. Propone cioè di accedere ad un “negati-
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non-sedia non può dunque risolversi nell’esser finestra della finestra (il “negativo” non può risolversi in un positivo determinato), ma solo nel non esser non-finestra da parte della non-sedia – dove, però, ancora una volta, dovremmo tener presente che, in tale non-essere «differenziante», a dirsi è solo questo: che l’essere non è «essere» solo in quanto identico a se medesimo. Ossia, che, solo in quanto identico, l’essere può esser diverso da sé (posto che non-sedia e non-finestra dicano appunto «essere»; ossia non un’altra determinazione, ma semplicemente l’esser-negato di entrambe, ossia il loro esser se stesse in quanto espressioni dell’identità con sé… di quell’identità con sé che, nel negarsi, non produce mai un vero e proprio “altro” positivo, ma l’alterità della semplice positività – quella stessa che dice sempre e solamente il costituirsi come «determinato» da parte dell’assolutamente non-determinato, ossia dell’essere). E dunque, la “relazione” non dice mai l’alterità dei diversi, ma solo l’alterità dell’identico – nessuna relazione connette cioè i diversi. D’altro canto, già il semplice riconoscere qualcosa come “diverso” è impossibile, se non a patto di vanificare l’assoluta differenza che l’esser diverso appunto dovrebbe implicare. Conformemente a quanto messo così ben in luce dallo Hegel – secondo il quale, appunto, la differenza è sempre differenza assoluta, e la “sintesi” dice non tanto il determinatamente positivo che accomunerebbe i diversi, quanto la vuota differenza tra essi, in se stessa assolutamente indeterminata, e quindi dialetticamente rovesciantesi in una perfetta identità. Salvaguardando la differenza assoluta, infatti, non ci si può non involvere nell’irrisolutezza propria del “dialettico” hegelia-
vo” che «non si converta più in positività, ma corrisponda al modo d’essere della disposizione-comparizione, che non è in senso proprio né negativo né positivo» (ivi, p. 21).
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no – quella che fa, appunto, del rovesciamento della differenza in identità indeterminata, la condizione incondizionata ed in-concepibile di ogni differenza, sempre costituentesi come differenza tra diversi “senza identità”, semplicemente “de-terminati”, e quindi sospesi sull’abisso della loro perfettamente inattingibile identità (come ho fatto vedere nel mio Sull’Assoluto, Einaudi, Torino 1992). In Hegel, quindi, il pensiero occidentale trova uno dei propri punti culminanti, in quanto nella sua filosofia il “negativo” in quanto possibilità di altro positivo viene portato alle estreme conseguenze. Il «negativo» vi viene pensato (almeno, a livello della sua espressione più alta – costituita dall’idea assoluta) come immediatamente rovesciantesi in una sorta di assoluta positività – in una positività senza alterità. Da cui lo scacco del suo dialettismo radicale (come abbiamo rilevato in un nostro lavoro sul “negativo” in Hegel9) e il paradosso dell’aporetico autonegarsi del «negativo» – che dunque “non viene pensato come tale”, proprio nel suo venire ipostatizzato nella forma di un trascendentale assoluto. Questo, dunque, il portato della prospettiva hegeliana: per un verso, il negativo originario comporta che, nella relazione d’alterità – quella che distingue ogni determinazione da ogni altra –, ad esplicitarsi sia appunto la contraddizione di un essere che è sempre e solamente diverso da sé (e mai identico a sé – per Hegel, infatti, l’essere non riesce ad essere ciò che è), e, per un altro verso, tale negatività “priva di identità”, ossia la negatività dell’essere, di ciò che è sempre e solamente altro-da-sé, si realizza sempre in una positività che, nell’ente determinato (nel Da-sein), ha solo una parvenza di relazionalità – stante che il non esser il proprio “altro” da parte del 9. Cfr. M. Donà, Fenomenologia del negativo, in «Il Pensiero», XXXIX, n. 1, 2000, pp. 47-73.
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determinato ha, secondo Hegel, la propria verità nell’assoluta irrelazionalità di un essere che è sempre e solamente uguale al “nulla” (anche a questo proposito rinviamo alle analisi più dettagliate svolte da noi nel già citato Fenomenologia del negativo). Laddove, secondo la nostra direzione di ricerca, invece, dell’essere si deve dire che il suo rapporto con il proprio negativo (con il non-essere o nulla) è tale per cui, nel nulla, l’essere non dice solamente il proprio astratto esser altro da se medesimo; ma l’essere perfettamente identico a sé, appunto in tale “negarsi”. Solo per questo, il suo negativo si mostra da sempre come “determinato”, e non come nulla. Perché, per essere “identico a sé” nel proprio non-essere, esso deve “rapportarsi” o “relazionarsi” ad un realmente “altro” da sé, ossia dalla propria in-determinatezza o negatività: e quindi al “determinato”. Solo in relazione a quest’ultimo, infatti, l’indeterminatezza dell’essere può non ritrovarsi costretta a farsi essa stessa “determinata” (ossia: semplicemente “altra” rispetto alla determinatezza). Ineludibile conseguenza di tutto ciò è dunque l’assoluta impossibilità di affermare qualcosa come l’identità dei diversi. A poter essere detto, in questa prospettiva, è infatti solo l’esser diverso dell’identico. O meglio, l’identità dell’esser-diverso. L’identità dell’universo, della totalità dell’esistente… inteso però, si badi bene, non tanto come infinita molteplicità di diversi (tutti originariamente relazionantisi), quanto come presenza di un determinato già da sempre negato – ossia valevole come presenza della semplice identità dell’essere con se medesimo (d’altronde, che ad essere presente sia sempre e solamente “un” determinato l’abbiamo analiticamente dimostrato in «Aporia del fondamento» – La Città del Sole, 2000; ristampato, in versione rivista e ampliata da Mimesis nel 2008).
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Nulla distinguendo, in senso proprio, questa sedia (la nonsedia che è qui presente, o meglio, la non-sedia in cui l’essere è di fatto qui presente) da quella finestra, da questa luce,…. in quanto, in ognuna, ad esser presente è di fatto sempre il medesimo mondo – ogni cosiddetta altra esistenza, infatti, non fa altro che confermare la presenza della sempre identica determinatezza. Nel senso che, a ben vedere, quella finestra, se analizzata come “altro” rispetto a questa-sedia, ossia se concepita a partire dalla persuasione che la vuole intendere come correlata, nella forma dell’esser-altro, appunto, a questa-sedia, mostrerebbe assai presto di non costituirsi come “un altro” – ma come l’apparire sempre della medesima sedia (vedi il già citato Aporia del fondamento’). La tesi secondo cui non si darebbe mai rapporto di alterità tra determinati, dunque, non si contrappone aprioristicamente alla tesi secondo cui, invece, «vero» sarebbe il loro esser realmente “altre” l’una dall’altra; ma riesce a costituirsi come originario risultato di un discorso capace di condurre alle sue estreme conseguenze la stessa tesi della possibilità dell’alterità tra determinati. Fare davvero i conti con l’essere diverso, da parte di un determinato, rispetto ad ogni altro determinato, significa quindi dover da ultimo riconoscere che l’uno è l’altro – o meglio che l’altro è l’esser altro da parte dell’uno. In ciò una straordinaria possibilità di sviluppo della monadologia leibniziana – secondo cui l’universo è fatto di monadi, ognuna perfettamente indivisibile, eppure comprensiva della totalità dell’universo. Ognuna “sola”, senza porte e senza finestre, infinita – tale, cioè, da comprendere tutto in se medesima, pur rimanendo sempre perfettamente identica a sé in questa o quella sua “determinazione”, e dunque nello stesso tempo non-composta… e in questo senso, dunque, perfettamente “spirituale”. Valevole cioè come luogo della perfetta identità di identità e differenza.
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In essa, infatti, identità e differenza sono davvero “lo stesso”. Insomma, ogni reale è così come io sono – cosa sono io, infatti, se non sempre “lo stesso”, in questa o quella mia determinazione? In questo o quel mio sentimento, in questa o quella mia azione? In questa o quella mia manifestazione? Sì, sempre io, al punto che mi è assolutamente impossibile concepire questa mia azione come semplicemente “correlata” o connessa a questo mio sentimento di paura. L’Io frantumato, messo in luce dal pensiero Novecentesco, non attesta insomma alcuna tragica scomposizione o deflagrazione dell’unità dell’Io; ma piuttosto dimostra una volta per tutte che, solo nell’assoluto mio esser sempre altro da me, io sono davvero me stesso. Dove, d’altro canto, potrei riconoscere di essere ancora io, se non là dove sono altro da ciò che ero prima di questo stesso riconoscimento? Spaesato potrà dunque essere solo chi pensava di potersi identificare con questa o quella sua determinatezza; mai, invece, chi sappia cor-rispondere ad un senso del “negativo” tale per cui, “attraverso di esso”, non ci si debba più sentire trasportati “altrove”, in un “fuori” che invero non è di fatto mai esistito.
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Grande trionfo, grande naufragio Il «destino» di un’errante verità
Considerai che anche nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero; dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra. Considerai che nel linguaggio di un dio ogni parola deve enunciare questa infinita concatenazione dei fatti, e non in modo implicito, ma esplicito, non progressivo ma immediato. Con il tempo, l’idea di una sentenza divina mi parve puerile o empia. Un dio – riflettei – deve dire solo una parola, e in quella parola la pienezza. Nessuna voce articolata da lui può essere inferiore all’universo o minore della somma del tempo. Ombre o simulacri di quella voce che equivale a un linguaggio, sono le ambiziose e povere voci umane tutto, mondo, universo.1
Prologo Con questa riflessione ci proponiamo di mostrare in quale senso e per quali ragioni la struttura del Destino (o della verità) venga a configurarsi nello stesso tempo come luogo della perfetta incontrovertibilità e come evento dell’irredimibile naufragio della verità incontrovertibile. Un naufragio che peraltro si dispiegherebbe e si paleserebbe non tanto vanificando il trionfo della sua incontrovertibilità, quanto piuttosto «nel» e 1. J.L. Borges, L’aleph, tr. it. di F. Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 117-118.
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«con» il disegnarsi di quello stesso trionfo (ossia, nel mostrarsi concreto e reale dell’incontrovertibilità). Una struttura “aporetica” è dunque quella di cui vorremmo rendere ragione; che ha forse anche a che fare (come tenteremo di far vedere) con l’infinita e assoluta assolutezza che pertiene all’identità che nessun discorso riesce a dire, ossia, con quel significato puro in cui «risuona» la contraddizione C, ossia ciò che rende il percorso tracciato dall’apparire finito irresolubilmente «infinito». Perché, forse – ma anche questo va appunto mostrato (e dunque, in quanto qui semplicemente annunciato, non potrà che apparire del tutto infondato), l’irrisolvibile identità in cui si raccolgono tutti i significati, non è «tutt’altra cosa» rispetto al nulla (o alla negazione della verità, in quanto impossibile – in quanto non costituentesi, cioè, se non come modo del contraddirsi, e mai come reale contraddizione) che sempre la struttura originaria deve indicare, ma mai sembra riuscire a “catturare”.
1 Il proposito che ci ha mossi a scrivere queste pagine può sembrare – e giustamente (in quanto semplicemente “annunciato”) – assai bizzarro, se non addirittura «insensato». Eppure riteniamo che quanto andremo mostrando dovrebbe renderne adeguatamente ragione… rendendo altresì ragione di questa stessa insensatezza. D’altronde, non è proprio con la più radicale «insensatezza» che ha forse a che fare, e originariamente, la verità…? Se è vero che nessuno può permettersi di definire sensata una verità destinata a fungere da condizione di ogni «senso». Ma procediamo con ordine. Cominciamo col ricordare come, per Severino, aver a che fare con la struttura del Destino significhi anzitutto aver a
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che fare con l’impossibilità di essere persuasi della contraddittorietà dell’ente; ovvero con qualcosa che ha la medesima struttura formale dell’evidenza riconosciuta già da Aristotele come propria del principium firmissimum, ma che, in quanto espressione del destino della necessità, ossia, in quanto situata «già da sempre al di là del nichilismo dell’isolamento della terra dal destino della verità», dice tutt’altro da quel che tale struttura finisce per indicare nel testo aristotelico (il IV libro della Metafisica). Ma, se in virtù di questa struttura, è necessario che quel che appare nell’apparenza e nell’illusione sia negato dalla verità, resta fermo che, secondo Severino, «nell’illusione apparirà come non negato ciò che invece può e deve esser negato»2. Eppure «è impossibile che appaia qualcosa come questa stanza illuminata e buia»3, ed è impossibile non solo nel destino della verità, ma anche nell’isolamento della terra, ossia in ogni configurazione dell’apparire, perché «l’esser altro da sé è nulla, e dunque è nulla anche questa stanza illuminata e buia»4. Ciò che appare, nell’apparire dell’apparenza e dell’illusione, è dunque solo il «positivo significare» di quel nulla che è assoluta assenza di significato – si dice nella Struttura originaria. Sì, perché la contraddizione, anche nella non verità, o meglio l’apparire della contraddizione «è possibile solo in quanto la contraddizione appaia come negata»5. Insomma, il suo «essere» è solo il positivo significare di ciò che dal destino viene negato. Ed è solo quest’ultima negazione «che fonda l’apparire dell’esser altro da sé»6. 2. E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, p. 79. 3. Ibidem. 4. Ibidem. 5. Ivi, p. 80. 6. Ivi, p. 81.
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Cosa è dunque per Severino la non-verità? «Nient’altro che il separarsi dalla negazione (della contraddizione), il cui apparire, nel destino, fonda l’apparire della contraddizione»7. Ma è proprio questo separarsi a non poter che apparire come negato, appunto – come negato «dalla negazione con cui il destino nega, insieme al proprio contrasto con la terra isolata, l’errare in cui questo isolamento consiste»8. Certo, nel linguaggio della non verità e della terra isolata, precisa Severino, «questo contenuto non appare come negato da tale negazione, ma appare come affermato e anzi come il terreno sicuro in cui i mortali possono nascere e vivere»9. Per quanto, «isolata dalla propria verità, la terra non sia un nulla, ma alteri il proprio volto e tale alterazione si costituisca come quella ricchezza e sovrabbondanza dell’errare e della contraddizione»10. Certo, «la terra isolata (la separazione astratta dell’astratto) non è nulla, (ma solo) in quanto è il positivo significare del nulla»11. Severino, comunque, ci mette sull’avviso; se il contenuto del positivo significare è nulla, non si potrà in alcun modo rilevare l’aporia secondo cui sarebbe necessario l’apparire di ciò che è nulla e che in quanto tale, invece, non può apparire. Perché questo può esser rilevato solo là dove sia stata separata la negazione della contraddizione da ciò di cui essa è per l’appunto negazione. Si separa il contenuto impossibile e poi, di questo, che, in quanto impossibile, è nulla, si dice il positivo significare.
7. Ibidem. 8. Ivi, p. 82. 9. Ivi, p. 83. 10. Ivi, p. 86. 11. Ibidem.
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Dunque, per Severino, impossibile è solo l’apparire della contraddizione come non negata. E non l’esser negato della medesima. La domanda comunque insiste, e non può non insistere: cosa vuol dire «negare l’inesistente», ossia l’impossibile? Ossia, ciò che «non-può essere» neppure nell’orizzonte del destino? Perché è proprio l’orizzonte del destino a mostrare che il nulla «non-è»; e non potrà mai essere. Ossia, che esso è impossibile. Cosa vuol dire dunque negare questo inesistente, se non affermarlo? In qualche modo, certo. Ma non ha alcuna importanza in quale modo esso venga affermato. Perché, quel che conta è qui il semplice suo venire affermato. Cosa significa, infatti, negare quel che non-è, se non affermarlo? Non è che per caso si tratti di una tematizzazione in cui, ad esser evocati, siano due diversi significati di «negazione»? Quella che dice il non esser dell’impossibile, e quella che nega tale impossibilità. Il fatto è che il negare qualcosa dicendone l’impossibilità (dicendo che quel qualcosa non-è) non può che fungere da esclusione; dicendo per ciò stesso che il negato è nulla. Da cui la sua esclusione dall’orizzonte dell’esistente. Anche se, proprio in tale escluderlo, lo significa (perciò il costituirsi della contraddizione è un positivo significare il nulla di cui si dice appunto l’impossibilità – un positivo significare che nello stesso tempo produce la sovrabbondanza di determinazioni di cui è fatta la terra isolata). Mentre quel che nega la negazione costituente l’impossibile forse non esclude… anzi, non esclude affatto. E non esclude perché nega custodendo quel che nega; dicendoci, del medesimo, solo che esso non è quel che dice di essere (senza dirci che, invece di essere, esso sarebbe nulla, o anche che, invece di essere quello che dice di essere, sarebbe altro da quello che
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dice di essere – ché per Severino è impossibile). Anche perché, se negasse il nulla, non vi sarebbe alcunché da negare. Di cui porsi appunto come negazione. Il fatto è che anche se non presupponiamo la separazione tra il negare e il contenuto della negazione, il negare, cioè la negazione della verità, avendo a che fare con l’impossibile, con quel «che è nulla», lo fa essere. O quanto meno finisce per dargli un volto… o per dirla al modo di Severino, lo fa essere come una sovrabbondanza di determinazioni in cui, ad esser significato, è appunto nulla. Insomma, il fatto è che non solo è nulla la contraddizione in quanto separata dalla negazione con cui il destino la nega; è nulla, infatti – ed è lo stesso Severino a riconoscerlo (questo, il fatto!!!) –, anche ciò che la sovrabbondanza di determinazioni significa positivamente (in quanto positivo significare del nulla – quello in cui si risolvono appunto tutte le determinazioni della terra isolata). D’altro canto, se non si desse la significazione del nulla, questo significato non potrebbe venire inteso, anche nell’orizzonte del destino, come la persuasione dell’impossibile; ossia, di quel che è nulla. E dunque non è vero che, solo se «separato dal suo esser negato dal destino, l’apparire della contraddizione è nulla», «sì che il suo apparire come ciò che non può apparire sia il positivo significare di tale nullità e impossibilità»12; infatti, se la negazione che rende possibile l’errare (quella che si costituisce come un tratto del destino) è un tratto del destino, proprio in quanto tale, quel che il destino nega, negandola, è appunto quella negazione in relazione a cui viene a costituirsi la contraddizione, che si dice “separata” dal destino senza esserlo, appunto perché originariamente negata dal destino. 12. Ivi, p. 87.
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Proprio la separazione dal destino è infatti l’impossibile; stante che il destino nega ogni contraddizione e dunque ogni separazione. Negando originariamente anche quel che, agli occhi del linguaggio della non verità, non appare come negato dalla negazione in cui consiste il destino. Nulla riesce infatti a sfuggire alle Erinni della verità; perciò anche quel che la terra isolata non vede come negato dal destino, lo è. Altrimenti il destino non abbraccerebbe la totalità dell’essente, e tanto meno abbraccerebbe il dire che lo nega – che nega cioè il destino (il dire che si costituisce come contraddizione significando positivamente il nulla, cioè l’impossibile). E la negazione della verità potrebbe rivendicare un qualche spazio di autonomia rispetto alla negazione costituita dal destino. E la verità non sarebbe verità di tutto; ossia, non sarebbe verità. Severino lo dice chiaramente: «il linguaggio che testimonia il destino deve dire che, proprio perché l’errare e il contraddirsi sono a loro volta una forma dell’errore e del contraddittorio, proprio per questo l’errare e il contraddirsi sono e appaiono soltanto all’interno del loro esser negati dalla negazione… che è un tratto del destino della verità»13 Dunque la verità trionfa su tutto, stante l’impossibilità di quella negazione che costituisce l’impossibile, e lo significa appunto come quel che «non» può essere. Anche in quanto concepito alla luce del suo positivo significare. Il quale (in quanto positivo significare) – ed è sempre Severino a precisarlo – è sì «la non nullità della terra isolata» (che è appunto il positivo significare del nulla), anche se, di tale positività (o non nullità), si deve dire che «non è nulla, solo in quanto è il positivo significare del nulla»14. 13. Ivi, p. 84. 14. Ivi, p. 86.
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In quanto si consideri possibile, cioè, una «positività» che abbia come contenuto il nulla (ossia, l’impossibile, cioè la contraddizione). Ma chiediamoci, a questo punto: cosa significhiamo quando, a venire significata, è appunto quell’insignificanza che non indica né un questo né un quello (nulla, cioè, di positivamente altro da quello che c’è)? Indichiamo il non indicabile che però, nello stesso tempo, indichiamo. Fermo restando che, se è la negazione istituita dal destino a far emergere e a rendere possibili le contraddizioni secondo cui il «non-indicabile» viene significato, verrà per ciò stesso smentito il suo (del non-indicabile) dirsi non-indicabile; sì che si debba riconoscerlo… esso non potrà che fungere da positiva significazione (da positivo significare), in cui, a venire indicata, è sempre una positiva significazione (quella in cui consistono appunto la contraddizione e il contraddirsi). Nessuno spazio rimarrà dunque per il nulla della contraddizione (come separato, come «altro», o meglio come assolutamente distinto dal destino e dalla sua negazione); ché, certo, essa (la contraddizione) viene detta, ossia, appare, sia pur come negata; ma non appare come altra dal destino. Costituendosi, la medesima, come semplice momento del destino. Di quel destino che costituisce lo stesso errore in quanto errore, e lo costituisce appunto negandolo. Insomma, Severino cerca di distinguere la separazione dalla distinzione; ma non può; ché la vera negazione della verità non può che dirsi assolutamente altra (cioè «separata»… nel linguaggio di Severino) dalla verità, stante che il negatore, quello vero, si distingue non volendo avere nulla a che fare col destino o con la verità. Quello che si lascia negare, e dunque comprendere nell’orizzonte del destino, è infatti solo il positivo significare di un nulla che non è nulla, perché non è assolutamente altro dall’orizzon-
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te dell’essere o del destino (ma in quest’ultimo originariamente compreso). E non il nulla che, in quanto contraddizione, non può che porsi come assolutamente altro dal destino della verità (dalla non contraddizione). Ossia, non può che riconoscersi impossibile; perché ogni separazione, per quanto radicale, finisce per relazionarsi, e dunque per lasciarsi determinare non contraddittoriamente da ciò rispetto a cui si dice separato. Ma, lo sappiamo bene (Aristotele docet): la contraddizione che accettasse di distinguersi dalla non contraddizione così come ogni altra determinazione si distingue da ciò che è altro da sé, non sarebbe contraddizione, ossia, sarebbe «altra» così come richiesto dal principio di non contraddizione (elenchos). E dunque non sarebbe assolutamente «altra». Perciò l’errore, l’universo variegatissimo dell’errore (della terra isolata), non è errore, in verità; in quanto tutto compreso nell’orizzonte del destino e da esso originariamente negato. In quanto così compreso, esso è una delle infinite determinazioni che attestano il trionfo della verità. Un trionfo assoluto; in virtù del quale (a partire dall’impossibilità di qualsiasi spazio esterno e autonomo rispetto a quello illuminato dal destino) si dovrà riconoscere che non vi è vera negazione del destino – quale sarebbe solo quella che riuscisse a costituirsi come assolutamente altra dal destino. Non c’è, perché anche il dirci assolutamente altri dal destino ci costituisce, anche solo in quanto persuasi di essere “altri” dal destino, e dunque determinati da quest’ultimo, come “relativamente altri” da esso – ossia, compresi in quest’ultimo. E dunque abbracciati dal suo intrascendibile orizzonte. Vale e dire, come espressioni di quel destino che solo a parole potremmo dire di voler negare. D’altro canto, è proprio distinguendoci da lui, che finiamo per venire risucchiati dal suo intrascendibile abbraccio. Fermo restando che tutto ciò che, per quanto espressione del destino, si dice altro dal destino, significa (positivamen-
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te) un impossibile che, per quanto impossibile, viene appunto indicato, e riconosciuto – in quanto indicato – come impossibile da indicare. O come indicabile in forma assolutamente paradossale. Quello che viene indicato dalla terra isolata è cioè un concetto paradossale, che non dice altro che questo: che v’è qualcosa che non è un qualcosa, e che devo indicare, anche se non posso dire cosa sia in positivo, perché è la negazione di ogni positiva determinazione. Che v’è qualcosa che viene positivamente significato, pur costituendosi come nulla, ossia come negazione di ogni significato positivo. Come negazione che non indica però nulla di diverso dal positivamente significante. Come negazione «inaudita», insomma; che ci impone di indicarla ma di riconoscere nello stesso tempo che, indicandola, nulla stiamo per l’appunto indicando: nulla di determinato o di positivamente significante. O meglio, che stiamo significando (negandolo) quel che «deve», ma non può esistere. Deve… o meglio dovrebbe esistere, riuscendo a costituirsi come oggetto determinato di un positivo significare. Ma non può; perché impossibile.
2 Sin dai tempi della Struttura originaria, Severino aveva individuato una contraddizione che questa struttura (la struttura originaria, appunto) sembra non poter risolvere. Va anche ricordato che Severino continuerà a considerarla irrisolvibile anche negli scritti successivi, sino a quelli più recenti. Sì, perché anche con il tramonto della terra isolata, «non tramonta la contraddizione C… ossia, non tramonta la contraddizione che è tale non perché il suo contenuto sia l’errore o il contraddittorio, e dunque il nulla, ma perché è la forma astratta della verità, è la stessa verità del destino, ma in quanto astratta,
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ossia è il destino della verità in quanto presenza finita dell’apparire infinito della totalità dell’essente e pertanto del destino della verità»15. In quanto apparire finito dell’infinito, il destino della verità non appare mai come totalità infinita dell’essente; e dunque, fermo restando «che ogni essente appare nel suo appartenere alla totalità infinita dell’essente, esso non appare mai nella concretezza totale delle sue determinazioni»16. Perché non appaiono mai, nell’apparire finito, la totalità delle relazioni che connettono ogni ente alla totalità infinita dell’essente. Nessun essente, dunque, precisa Severino, appare mai per quel che esso è veramente. O meglio «appare e come ciò che esso è (ad esempio come questa stanza illuminata, che è una delle determinazioni della terra) e non come ciò che esso è – giacché questa stanza illuminata è ciò che essa è solo nella sua relazione alla totalità infinita delle determinazioni»17. Insomma, questa stanza illuminata «non mostra ciò che in verità (ossia nell’apparire infinito del destino della verità della totalità concreta dell’essente) essa è, e non mostrandolo, essa appare nel suo non esser questa stanza illuminata»18. Certo, il concreto, ossia la totalità infinita dell’essente non potrà mai entrare nell’apparire finito, ci dice sempre Severino. Insomma, il superamento di questa contraddizione «è un cammino infinito, un indefinito allargarsi del cerchio finito – sì che la contraddizione del finito, in quanto finito, permanga all’infinito nel suo esser oltrepassata all’infinito»19. Ossia, permane all’infinito «nel cerchio finito, mentre in questo
15. Ivi, p. 88. 16. Ibidem 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ivi, p. 89.
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cerchio rimane nascosto quell’eterno che è l’oltrepassamento già da sempre compiuto della contraddizione C»20. D’altronde, sempre per Severino, è anche vero che questa contraddizione «originaria» «è anche la condizione del costituirsi della forma normale della contraddizione – cioè della forma dove il contenuto della contraddizione è il nulla»21. Ecco, noi cercheremo appunto di mostrare non solo che la contraddizione C è la condizione del costituirsi della forma normale della contraddizione, ma che in quest’ultimo (nel contenuto della contraddizione) a dirsi è lo stesso che si dice nella prima (nella contraddizione C). Certo, secondo Severino, l’errore, ovvero quel positivo significare, in cui, ad esser significato, è il nulla, può accadere e costituirsi «solo in quanto non appare il destino della totalità infinita e concreta dell’essente»22. Per quanto tale cerchio finito «non sia un errare, ma la negazione originaria dell’errore, ossia la dimensione la cui negazione è autonegazione»23 – anche perché è proprio nel cerchio finito dell’apparire che si costituisce la negazione dell’errare/dell’errore, ed è sempre tale verità originaria – quella che appare appunto nel cerchio finito dell’apparire –, ad «implicare necessariamente dell’essere dell’apparire infinito del destino»24. Perciò la «contraddizione C può apparire solo nello sguardo del destino»… «e perciò in esso appare che anche ogni determinazione della terra isolata è una contraddizione C»25. Ma non in quanto in essa sia positivamente significato il nulla, ma solo in quanto in essa il legame con il concreto co20. Ibidem. 21. Ibidem. 22. Ibidem. 23. Ibidem. 24. Ibidem. 25. Ivi, p. 90.
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stituito dalla totalità infinita e concreta dell’essente appare «astrattamente». Perciò l’oltrepassamento della contraddizione C non è la negazione del contenuto astratto (costituito dall’astrattezza del legame che connette il cerchio finito dell’apparire e le sue determinazioni con l’apparire infinito della totalità concreta dell’essente). Ma negazione «solo» della sua astrattezza. Nel cerchio finito dell’apparire, infatti, ad apparire è sempre e comunque «la stessa concreta e infinità totalità dell’essente in quanto astrattamente manifesta»26. Ragion per cui Severino non avrebbe potuto fare a meno di precisare che l’apparire della contraddizione C implica l’apparire «della negazione della contraddizione»27. Insomma, anche nel cerchio finito dell’apparire la contraddizione C deve «apparire come negata»28. Negata però da ciò che nessuna parola – precisa Severino in Oltre il linguaggio –, in quanto destinata all’infinito differenziarsi implicato dalla sua essenziale «storicità», potrà mai rendere manifesto; in quanto, a darsi, è qui una sporgenza che differisce dalle differenze. Il cui significato, cioè, oltrepassa la parola – sia in quanto è il significato in cui consiste il toglimento della totalità della contraddizione, sia in quanto è l’inconscio (è sempre Severino ad esprimersi così) del linguaggio. Certo, «il linguaggio è uno sviluppo che dice ciò che non si sviluppa, e continua a ridirlo, perché il linguaggio non dice mai una volta per tutte, e il suo finire di dire è la condizione perché esso abbia a ridire quello che ha detto»29. Ma esso parla sempre anche delle ulteriori determinazioni che «non 26. Ivi, p. 91. 27. Ivi, p. 92. 28. Ibidem. 29. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 178.
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appartengono all’essenza della struttura originaria, per quanto siano necessariamente implicate da essa»30; come quella costituita dalla totalità dell’apparire infinito del destino. Che appare, secondo Severino, solo in quanto comporta l’esser negato delle determinatezze contenute nell’apparire finito (che non sono mai quello che sarebbero là dove quella totalità potesse far capolino nell’apparire finito). Che appare cioè come ciò che implica necessariamente l’esser negato delle determinazioni manifeste nell’orizzonte finito del destino. Ma nello stesso tempo rende impossibile che «l’essenza della struttura originaria sia l’incontrovertibile»31. O meglio comporta che, nonostante la sua incontrovertibilità, tale essenza sia contraddetta da certi plessi concettuali»32. Ad ogni modo, sempre secondo Severino, l’esser negato della relazione astratta tra la determinatezza che appare e la totalità infinita delle determinazioni, implica l’esser già da sempre risolta da parte di questa astrattezza; il suo esser tolta nell’orizzonte dell’apparire infinito. Quello che il linguaggio non potrà mai catturare, peraltro; anche solo in quanto indicante sequenzialmente quel che è già tutto risolto da sempre. Perciò «che il significato appaia senza l’apparire della parola che lo indica, si può e anzi è necessario affermarlo (perché e solo perché l’incontrovertibile esiste)»33. Perché «la totalità degli essenti appare come totalità formale, astratta, e quindi contraddicentesi (sia pur in modo diverso da quello che impedisce all’incontrovertibile di essere tale)»34 – sì che anche la sua negazione (quella implicata dall’intrinseco legame con la totalità infinita dell’essente) non neghi 30. Ibidem. 31. Ivi, p. 180. 32. Ivi, p. 181. 33. Ivi, p. 190. 34. Ivi, p. 191.
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il contenuto di questa contraddizione, se non «in quanto formale, astratto, indeterminato»35. Insomma, per togliere davvero la contraddizione C bisognerebbe che apparisse concretamente il tutto dell’essente. Ecco perché «il significato dell’essenza linguistica dell’incontrovertibile è pur sempre il significato esplicito che è l’incontrovertibile in virtù del significato implicito a cui l’esplicito è necessariamente e originariamente unito e che è il sottinteso essenziale dell’esplicito»36. L’implicito essendo – sempre secondo Severino – «l’originario che appare ma che non appare nel e come linguaggio»37. D’altro canto, «è incontrovertibile che il Tutto non appaia nella sua concretezza»38. Insomma, la verità dell’originario «appare nel silenzio dei linguaggi storici»39. Certo, «la parola parla anche del silenzio; parla anche dell’indicibile – se l’indicibile è il Tutto, l’infinità del destino, che si mantiene da sempre al di fiori della contraddizione del linguaggio»40. Dunque, «è mostrandosi nel linguaggio che l’originario mostra il proprio trascendimento del linguaggio»41. Fermo restando che la cosa non può svanire, «perché è l’identità a cui si rivolgono i diversi modi di parlarne»42. Ma cosa è – dobbiamo chiedercelo – questa identità per Severino? Cosa, se non «l’esser sé dell’essente, il suo essere sé
35. Ibidem. 36. Ivi, p. 196. 37. Ivi, p. 197. 38. Ivi, p. 200. 39. Ivi, p. 206. 40. Ibidem. 41. Ivi, p. 207. 42. Ivi, p. 223.
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e non l’altro»43? – «in quanto essa, permanendo nell’apparire, è in relazione a ciò che non permane, che cioè sopraggiunge nell’apparire e ne esce»44. Insomma, ogni cosa «è l’identità a cui la parola si riferisce»45. Poi Severino, riferendosi, sia pur estrinsecamente a Wittgenstein, afferma che: «se si nega che il linguaggio abbia un significato unitario, sotteso alle diverse forme del linguaggio (Wittgenstein), è necessario che questo significato unitario del linguaggio stia dinanzi manifesto: è necessario che si capisca quello che si nega»46. D’altro canto, aggiunge Severino, se non esistesse l’identità a cui le differenze si riferiscono, non potrebbe esistere nemmeno l’identità delle differenze. Infatti, ogni differenza è identica a ogni altra nel suo essere un differente modo di parlare di qualcosa, ma se non esistesse alcuna identità a cui le differenze si riferiscono, esse non potrebbero essere un differente modo di parlare di qualcosa, appunto perché il qualcosa è appunto l’identità a cui le differenze si riferiscono. Il linguaggio non parlerebbe di niente.47
«Infinitamente cambiando, cambiando a ogni sfumatura, la notte permane, permane l’identità in cui consiste la notte che viene»48. Insomma, la notte che viene, precisa Severino, è l’identità «a cui si riferiscono le differenti parole che indicano la not-
43. Ivi, p. 224. 44. Ibidem. 45. Ibidem. 46. Ivi, p. 225. 47. Ivi, pp. 225-226. 48. Ivi, p. 229.
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te che viene»49. Sia pur cambiando, insomma, la notte permane – ossia, permane, continua Severino, «l’identità in cui consiste la notte che viene»50. Per quanto essa «appaia avvolta dalla differenza della parola»51. Ma in che cosa consiste, si chiede ancora Severino, «l’identità che è necessario che appaia come distinta dalla differenza, ossia come sporgente da essa?»52. Il fatto è che la parola «parla di una molteplicità infinita di identità; ogni identità si differenzia infinitamente nelle parole che la esprimono. (Ma) ciò a cui si riferisce quanto qui stiamo dicendo è un’altra identità, estremamente più complessa perché raccoglie in sé la totalità delle identità e del loro differenziarsi nella parole»… ossia «è il destino della verità»53. Fermo restando che lo stare del destino «è l’inconsistenza della sua negazione (ché «il destino sa perché la sua negazione è autonegazione»)»54. Severino precisa infatti che «al destino sfugge soltanto il niente, perché non sfugge niente. Il destino è nella parola, ma è il contenuto non smentibile della parola»55. Un contenuto che eccede la parola che lo dice; «se, e poiché la notte che viene appare, è necessario che la cosa in cui essa consiste appaia da ultimo come cosa, e non come cosa essa stessa avvolta dalla parola»56. Insomma,
49. Ivi, p. 228. 50. Ivi, p. 229. 51. Ivi, p. 230. 52. Ibidem. 53. Ivi, p. 231. 54. Ivi, p. 237. 55. Ivi, p. 239. 56. Ivi, p. 241.
164 come apparire infinito del Tutto, il destino della verità non appare nel cerchio dell’apparire che appartiene al destino in quanto apparire finito del Tutto. E tuttavia, come toglimento della contraddizione del finito, l’infinito è ciò che il finito in verità è… oltrepassando la forma finita del destino.57
Il finito è in verità infinito; ci dice Severino. Ed è questo suo esser infinito che dice la sporgenza della cosa dalla parola che la dice. Una sporgenza che, in quanto sporgenza dalla parola, è sporgenza dalla forma determinata (e perciò sempre finita) con cui si presenta ogni parola. Una sporgenza paradossale, dunque; come negarlo? Ché non si tratta di un altro-significato. Ma della totalità infinita dei significati, quella che nessun significato, esprimentesi sempre nel cerchio finito dell’apparire, potrà mai catturare. E mai indicare, appunto, come «altro-significato». Certo, questa identità di tutti i significati è detta dal linguaggio e nel linguaggio, ma come ciò che nessun linguaggio (nessuna espressione del cerchio finito dell’apparire) potrà mai de-finire, appunto perché costituentesi come infinitudine della totalità. Che, in quanto tale, è sempre la stessa, il vero e ultimo permanente; l’identità di tutti i significati. Che non significa alcunché – altrimenti sarebbe solo una delle parole che scorrono, una dopo l’altra, nel linguaggio. A questo punto abbiamo tutti gli elementi per provare a rendere ragione del rapporto, che abbiamo ipotizzato all’inizio, tra due forme relazionali; quella istituente la connessione tra questa identità e il linguaggio che la dice sempre diversamente e quella istituente invece la connessione tra l’essere e il nulla – un nulla che sembra non potersi mai dare come tale, ma sempre e solamente come essente.
57. Ivi, p. 244.
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Già nella Struttura originaria Severino rilevava, e con grande nettezza, che «l’appartenenza del significato nulla al significato essere è rilevabile immediatamente»58. Per lui, cioè, porre l’essere senza porre il non-essere «significa non porre nemmeno l’essere»59: Eppure, questo non-essere, se inteso come assoluto, come non essere assoluto, «ha il carattere di orizzonte dell’essere: il nulla è infatti l’assolutamente altro dall’essere, o è al di là, oltre l’essere»60. Da cui l’aporia: ché «se il non essere non è, non si può nemmeno affermare che l’essere non è non essere, perché il non essere, in questa affermazione, in qualche modo è»61. Anche se il fatto che il nulla, in quanto posto, sia, non significa «che il nulla significhi, in quanto tale essere»62. No, ad essere è insomma il nulla «che significa nulla»63. Ragion per cui, secondo Severino, la contraddizione del non-essere che è riguarderebbe solo il rapporto tra il significato nulla e l’essere ovvero «la positività di questo significato»64. Severino, infatti, distingue il nulla come significato incontraddittorio (il nulla che non è, o il nulla significante come nulla) dal suo positivo significare – fermo restando che quest’ultimo accade allorché, ponendo il nulla, viene posto l’altro dalla totalità dell’essere. Questa assoluta negatività è infatti «significante in modo così complesso da includere, nella struttura del suo significato, addirittura l’interno semantico, rispetto a cui si istituisce lo stes-
58. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 211. 59. Ibidem. 60. Ivi, p. 212. 61. Ibidem. 62. Ivi, p. 213. 63. Ibidem. 64. Ibidem.
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so senso della negatività assoluta»65. La soluzione dell’aporia del nulla, dunque, non implica per Severino la non esistenza del significato autocontraddittorio; «ma afferma che nulla non significa essere»66; ossia «esige l’inesistenza della contraddizione interna al significato nulla che vale come momento del significato autocontraddittorio»67. Severino dunque riconosce l’autocontraddittorietà dell’intero semantico costituito dalla positività del significare dell’assolutamente negativo. E la riconosce come condizione di possibilità «del sussistere del principio di non contraddizione»68. Ma, insiste Severino, «il nulla significa nulla, e quindi… se il nulla è nulla, il nulla non è e non significa nulla, e quindi non può nemmeno apparire»69; ma «il nulla è nulla, secondo quanto esige il principio di non contraddizione, solo in quanto il nulla è momento semantico del nulla come significato autocontraddittorio»70. Ma ecco il colpo di teatro; «l’aporetica del nulla – ci spiega Severino – sorge in quanto i due momenti astratti della concretezza costituita dal nulla come significato autocontraddittorio, sono astrattamente concepiti come irrelati l’uno all’altro. In quanto invece quei due momenti siano concretamente concepiti, il nulla-momento non vale come significato autocontraddittorio: appunto perché l’autocontraddittorietà è del concreto, di cui il nulla-momento è momento»71. Peccato che l’astratto, che è momento del concreto, sia originariamente tolto dal concetto concreto; questo, si deve dire 65. Ivi, p. 214. 66. Ivi, p. 215. 67. Ibidem. 68. Ivi, p. 216. 69. Ivi, p. 216. 70. Ivi, p. 217. 71. Ibidem.
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del nulla come momento incontraddittorio della contraddizione costituente il concreto. Peccato che il nulla momento, cioè, sia tale solo nell’aporeticità del significato autocontraddittorio valevole appunto come concreto. Ché non c’è mai stato per Severino un nulla davvero esistente come puro nulla che non è; perché non si può separare l’astratto dal concreto. L’astratto, d’altronde, può apparire come tale, solo alla luce del manifestarsi da parte del concreto – come astratto, cioè, rispetto a quest’ultimo. Severino, comunque, lo dice anche in questo modo: «proprio perché il nulla-momento è un distinto e non un irrelato all’altro momento, non accade che l’essere, riferendoglisi, nel rapporto di non contraddizione, non gli si riferisca»72. Ma il nulla, lo riconosce lo stesso Severino è l’assolutamente non significante. Dunque, l’originaria relazione tra il nulla momento (in quanto assolutamente non significante) e il suo positivo significare come l’assolutamente insignificante dice che mai si dà il nulla come astrattamente insignificante; ma sempre e solamente come significante la propria non significanza. Dove, la distinzione, che a più riprese Severino evoca, e che egli vuole distinguere dalla separazione astratta, dice appunto che l’uno non è mai senza l’altro – e proprio per questo Severino evoca la contraddittorietà del significato concreto del nulla. Ed è proprio alla luce di questa concretezza che appare la necessità, rilevata dallo stesso Severino, di non confondere il nulla momento con il suo positivo significare. Se i due significati astratti non si distinguessero non potremmo neppure rilevare la contraddizione del nulla (relativa al nulla nel suo significato concreto). Dunque il nulla significa l’assolutamente altro da ogni positività; ed è di questa assoluta insignificanza che il principio di 72. Ivi, p. 220.
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non contraddizione, in quanto espressione del Destino, significa (positivamente) il suo costituirsi appunto come assoluta insignificanza; producendo immediatamente la contraddizione costituita dal significato concreto dell’insignificanza. L’esclusione del nulla, il porlo come l’assolutamente altro dall’intrascendibile positività del significare, produce appunto la contraddizione rilevata dallo stesso Severino. Quel nulla viene significato come l’assolutamente altro dal l’essere; ma il significarlo in questo modo, per l’appunto, lo fa essere; e lo fa essere per il suo semplice venire significato; facendo essere ciò che significa appunto l’assolutamente altro dall’essere. Situazione perfettamente identica, dunque – come non rilevarlo? –, a quella che abbiamo visto venire tematizzata da Severino in Oltre il linguaggio, a proposito dell’identità di tutti i significati, concepita come quell’identità che tutte le significazioni indicano, continuando a differirla, senza mai riuscire cioè a condurla all’interno dell’apparire finito (dove il dire è sempre un significare) per quello che essa «deve» essere: il contenuto concreto della totalità infinita dell’essente. Anche in quel caso, il linguaggio deve dire che tale altro da ogni significato (che non è neppure un altro, altrimenti si risolverebbe in un significato – cosa che accade, peraltro, là dove il medesimo venga anche solo evocato) deve esistere come il già da sempre realizzato apparire della totalità infinita dell’essente e come l’esser già da sempre tolte da parte di tutte le contraddizioni, e dunque anche di quella che viene a costituirsi per il fatto che solo il linguaggio può evocare la cosa altra dal significato e dalla sua infinita differenziazione. Ossia, ciò che linguaggio non è. Cosa si distingue, d’altro canto, dalla totalità dell’essere? Nulla. Ma è proprio il dirsi così distinto dal nulla a produrre, nell’orizzonte della positività, la contraddizione costituita dal significato concreto del nulla. Vorremmo dirlo, tale nulla, ma quel che significhiamo non è quel che vorremmo significare,
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nella misura in cui è avvolto dalla positività del significare. Esso si costituisce dunque come il «non» del significato; di ogni positivo significare. Quel «non» che il significare non può che far valere come altro (come assolutamente altro) dal significare e dalla sua intrascendibile positività. Ma che non può costituirsi come altro dal significare, se non in quanto «significato» (stante l’originarietà della concretezza che dice il suo essere da sempre positivamente significato). Neppure l’assoluta alterità, infatti, può fare a meno di riconoscere che qualcosa connette e unifica (rendendoli in qualche modo relativamente altri) gli assolutamente altri. Entrambi, almeno, sono accomunati dal fatto di essere assolutamente altri l’uno dall’altro. Perciò il «non» – quello che, in quanto positivamente significato non è il nulla valevole come nulla di significato, appunto perché così significato – non indica qui un eteron. Ma qualcosa che semplicemente «non è» tutto quel che può essere detto dagli infiniti possibili significati, in quanto altri gli uni dagli altri. Qualcosa che tutti questi significati sono; sì che quello stesso che essi sono, nell’orizzonte del significare, non sia altro che l’infinito in cui, a venire semplicemente «negati» (ma non sostituiti da alcunché) saranno appunto tutti tali significati. Perciò questi ultimi non sono quello che dicono di essere. Perciò il finito è in verità in-finito. E solo in quanto tale, d’altronde, è destinato a svilupparsi all’infinito, sempre nell’ordine dell’apparire finito. Proprio come il nulla, che non è mai quella positiva significazione che, oltre a renderlo «momento» di una contraddizione, deve riconoscere di non riuscire mai ad afferrarlo o significarlo come astratta negatività (appunto in quanto sempre così «significato»). Ecco perché vien da sospettare che l’identità di tutti i significati, ossia l’apparire infinito in cui tutte le positività attraversanti l’apparire finito sono già da sempre risolte, sia lo stes-
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so che indichiamo quando escludiamo il nulla dall’orizzonte dell’essere, accorgendoci immediatamente che quel che vorremmo escludere è momento essenziale al costituirsi dell’essere in quanto essere, e dunque che quel indichiamo senza riuscire ad indicarlo è l’impossibile che deve darsi come altro dall’essere pur non potendo esserlo, un altro – proprio come l’apparire infinito… che deve essere posto come assolutamente altro dall’apparire finito, senza riuscire a costituirsi come «un altro», in quanto riconosciuto come ciò che lo stesso apparire finito in verità «è» (in ognuna delle sue determinazioni). Perciò, forse, anche del nulla si dovrebbe dire, sempre stando alla logica messa in campo da Severino, che esso è quel che ogni positività indica ed è (in quanto valevole come quell’assolutamente «altro» da essa che non è affatto un che di semplicemente «altro» dalla medesima).
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Identità e totalità Il pensiero di Emanuele Severino e il folle sogno della «verità»
In uno dei suoi ultimi e più impegnativi lavori teoretici (La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011), Emanuele Severino precisa qualcosa che dovremo tener presente, come sfondo, nel corso di tutto quanto andremo scrivendo nel seguito di questo scritto. Egli sottolinea cioè una importantissima implicazione: quella tra «destino» e «follia». E scrive: «Senza la follia estrema – come senza la più umile delle negazioni del destino – l’estrema non follia del destino sarebbe impossibile»1. Severino, cioè, riconosce, o meglio ribadisce qualcosa che, fin dai suoi primi scritti, si profila quale elemento fondante tutta la sua “critica” al pensiero dell’Occidente. Insomma, stabilito che quello dei mortali è un pensiero fondato su una radicale contraddizione, ossia su qualcosa di costitutivamente impossibile, che determinerebbe per ciò stesso la nullità di tutte le forme in cui l’Occidente doveva di volta in volta venire ad esprimersi (parole, opere, civiltà, forme dell’azione, fedi… ecc. ecc.), non va comunque dimenticato (non va “mai” dimenticato) che questa immensa mole di espressio1. E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, pp. 40-41.
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ni del niente (o meglio, di sue positive significazioni), la stessa che siamo soliti chiamare Occidente, è, sempre per Severino, essenziale allo stesso costituirsi da parte del destino, o meglio da parte della verità originaria dell’essente. Anche perché non bisogna neppure dimenticare che, se, «in quanto è isolata dal destino, la terra è necessariamente altro da ciò che essa è in quanto appare nello sguardo del destino… tuttavia questo altro non è il nulla»2. E ciò significa che questo pensiero, che pur avrebbe un contenuto nullo, nello stesso tempo «ha un contenuto non nullo; cioè, appunto, il volto che la terra mostra nel suo esser isolata, che è diverso dal volto che essa mostra nello sguardo del destino e che consente a tale pensiero di pensare qualcosa quando esso attribuisce alla terra una determinazione la cui unità con la terra è un contenuto nullo – ossia, consente al nulla di essere positivamente significante»3. Questo va sicuramente riconosciuto, sempre secondo Severino, per quanto si sia da parte sua appena affermato anche che questo pensiero (che la terra sia la regione sicura) è un pensiero «il cui contenuto in quanto tale è nullo»4. Già da queste prime annotazioni, dovrebbe risultare chiaro che uno dei problemi fondamentali con cui il pensiero di Emanuele Severino avrebbe dovuto fare i conti è quello del senso da assegnare all’identità-con-sé caratterizzante la terra isolata, o meglio, la follia dell’Occidente; e quindi il suo pensiero e le sue opere, che sono – come ribadito a più riprese dal filosofo bresciano – tutte espressioni del nulla: o meglio ancora, di quella «contraddizione in cui la solitudine della terra consisterebbe»5. 2. E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 54. 3. Ivi, p. 55. 4. Ibidem. 5. Ivi, p. 53.
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Diciamolo allora con le parole del nostro: l’identità con sé da parte della follia dell’Occidente indica anzitutto un elemento necessario dell’innegabile – «se ciò che è innegabile è l’esser sé dell’essente, ci ricorda infatti Severino, l’innegabilità è quell’innegabile che consiste nella necessità che il destino sia il fondamento stesso della propria negazione, ovvero sia ciò senza di cui tale negazione non può essere né apparire, sì che la negazione del destino sia negazione di sé stessa»6. In questo senso, la negazione del destino in cui consisterebbe la terra isolata non solo appare perché di fatto appare; essa appare, infatti, necessariamente, così come appare secondo necessità tutto quel che appare, o anche, tutto quel che sopraggiunge nel cerchio finito dell’apparire. Anch’essa, dunque, non può non apparire. Ma se non può non apparire, come tutto quel che non può non apparire, anch’essa dice il manifestarsi del destino. Un destino che, evidentemente, comprende da sempre anche l’apparire della follia estrema come quel che, in esso, comunque, non può non apparire, per quanto come “negato”. Cioè, come quell’autonegantesi senza di cui il destino non sarebbe quello che è. Severino lo dice anche in questo modo: «L’eternità (cioè l’esser sé) di ogni essente è insieme l’eternità di ogni evento, di ogni vicenda, di ogni storia, Anche degli eventi, vicende, storie che appaiono nella volontà interpretante. Il contenuto dell’interpretazione è sogno, illusione – e in esso appare la sconfinata vicenda dei mortali –, ma il sogno e l’illusione non sono un nulla, cioè sono anch’essi essenti, e pertanto anch’essi eterni»7. D’altronde, se il destino appare ovunque qualcosa appaia, allora esso apparirà «anche in tutte le obiezioni, esplicite e 6. E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 95. 7. Ivi, p. 96.
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implicite, che gli vengono rivolte – sta alle loro spalle, le sorregge, è il loro sottosuolo»8. Perciò, qualsivoglia obiezione al destino – e dunque tutto «il vasto mondo, intento a risolvere i propri giganteschi pro blemi»9 – è espressione originaria del destino. Come tutto quel che appare. Ossia, lo esprime (il destino) conformandosi al suo dettato; ossia, distinguendosi anzitutto dal dire del destino. Perché il destino, che dice l’eternità, ossia l’esser sé di ogni essente, dice in primis la «differenza dei differenti»; e dunque anche di quei differenti che sono appunto la follia da un lato e il destino dall’altro. Stante che «il destino degli essenti è originariamente l’apparire della necessità della differenza dei differenti, e insieme della necessità dell’esser sé e non l’altro da sé, da parte di ognuno dei differenti»10. D’altro canto, sempre secondo Severino, la differenza dei differenti affermata dal destino e alla luce del destino non è la stessa differenza dei differenti affermata all’interno della follia nichilistica. Non può esser la stessa anche solo per il fatto che, nell’orizzonte della terra isolata in quanto obiezione al destino, ossia in quanto negazione del destino, la «differenza dei differenti» non evoca le ineludibili implicazioni chiamate in causa da quell’esser sé intimamente connesso all’eternità degli essenti. Ma soprattutto perché, nell’orizzonte della follia, il differire dei differenti implica sempre anche il loro non differire, ossia quel loro «essere identici» che viene esplicitamente o implicitamente sostenuto nel linguaggio della follia. Certo, Severino sa bene che ogni differire è sotteso da un’identità. Cioè, sa bene che anche il differire che distingue l’affermazione della differenza in quanto dogma o fede della follia da quella inscritta nell’orizzonte del destino… ovve8. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 30. 9. Ivi, p. 29. 10. Ivi, p. 31.
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ro, anche «il differire di queste due differenze, è sotteso da un’identità»11. Si tratta, infatti, dell’identità che «necessariamente sussiste tra il significato di ciò che il destino nega e questo significato in quanto affermato dalla negazione del destino»12. Dell’identità sottesa alle due forme della differenza; quella che esiste insieme al loro differire. Per Severino, peraltro, è bene precisarlo, ogni differenza implica una qualche identità tra i differenti di cui essa sancisce appunto il differire l’uno dall’altro. Ma lasciamo in sospeso questo discorso; e torniamo a ricordare come, per Severino, la negazione del destino, sia pur come autonegazione, non implichi in alcun modo che il nulla riesca ad essere; «ciò che riesce ad essere un essente è piuttosto questo positivo significare, e non il nulla che è il contenuto contraddittorio (impossibile, cioè il non contenuto) della contraddizione»13. Insomma, questa contraddizione appare come negata – anzi, essa «può apparire solo in quanto appare come negata dal destino della verità»14. Potremmo anche dire che questo contenuto «è l’esser sé come negato»15. Dove, quel che va anzitutto rilevato è il fatto che qui Severino sembra non poter fare a meno di affermare che, a negarsi, non sia tanto il nulla – che è impossibile –, quanto il suo positivo significare. Perché quel che appare sarebbe appunto un «positivo significare», e non il nulla; o meglio quel positivo significare che vorrebbe significare il nulla (pur contraddicendo la negatività di quel che non dovrebbe significare alcunché, 11. Ivi, p. 33. 12. Ibidem. 13. Ivi, p. 76. 14. Ibidem. 15. Ibidem.
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appunto in quanto «positivo significare», in quanto tale destinato a rendere significante quel che non dovrebbe al contrario significare alcunché), ma di fatto significa solo il suo stesso negarsi. O meglio, il suo negarsi in quanto «positiva significazione», evidentemente. Ma il punto è: cosa comporta che quel significare che significa “nulla” si autoneghi? Cosa comporta, cioè, il suo negarsi? Cosa, di diverso, rispetto a quel che in esso, nello stesso tempo, viene comunque anche ad affermarsi? Per Severino, nell’apparire di quel positivo significare in cui consiste la contraddizione dell’annientamento (che non è l’apparire della contraddittorietà, ossia del nulla, di cui tale contraddizione è solo il positivo significare), ossia, nell’apparire in quanto esso è un tratto del destino della necessità, un tale significare appare come negato, anzi come necessariamente negato; sì che è impossibile separare questo significare dal suo esser negato, pensarlo (lasciarlo apparire) indipendentemente dal suo esser negato. […] nello sguardo del destino l’annientamento (e ogni impossibile ogni contraddittorio, ogni nulla) può apparire nel suo positivo significare solo in quanto tale significare appare come negato, sì che è impossibile che quel luogo sia e appaia come non negato.16
Ad «esser negato» sarebbe dunque solo quel positivo significare – ecco ciò che va detto, di là da ogni equivoco, sempre secondo il filosofo bresciano. Anche se non dobbiamo neppure dimenticare che tale positivo significare si nega, e non può che apparire come negato, solo in virtù del rapporto contraddittorio tra il suo stesso positivo significare e quel che tale positivo significare vorrebbe appunto significare. Tra esso, cioè, e il nihil negativum che il medesimo non può fare a meno di nominare; ma che, proprio 16. Ivi, p. 117.
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per il suo non potersi costituire che come significazione del nulla, dice appunto il proprio originario «esser negato». Appunto perché il suo positivo significare non significa quel che vorrebbe significare: ossia, l’assoluta negatività del nulla. Ossia, l’impossibile. O meglio ancora… quel che non può venire in alcun modo significato. Ma in che senso Severino può affermare che «nello sguardo del destino apparirebbe l’opposizione dell’essente al nulla, e non il nulla separato dall’opposizione»17, se quel che vorrebbe essere opposto all’essente si costituisce come il semplice negarsi di un «positivo significare,» e non come «un vero e proprio altro» rispetto all’essente? Il fatto è che, nelle differenze che non siano la differenza tra l’essere e il nulla, quel che differisce da A non è mai il negarsi di quel che così differisce. Sì che B, C, D…nell’opporsi ad A, non si oppongano al medesimo A «negandosi». Ecco perché l’opposizione tra un essente e qualsivoglia altro essente è radicalmente altra dall’opposizione tra l’essere e il positivo significare del nulla. Insomma, tra tutti i significati ve n’è almeno uno, vale a dire quello che nega l’esser sé e il differire dal proprio altro da parte dell’essente, il quale finirebbe per «negare se stesso»; non costituendosi come un esser sé che neghi, davvero, e solamente il proprio altro; ma piuttosto come originaria negazione solo di se medesimo. Questo, insomma, l’unico significato destinato a «non negare» l’altro da sé; in quanto, paradossalmente, proprio per essere anch’esso costretto a negare il proprio altro, pur dicendo di voler negare l’esser sé e il non esser l’altro da sé, non riesce a negare davvero quel che vorrebbe negare, ossia l’esser sé e il non esser l’altro da sé, e conseguentemente si ritrova a «negare» solamente se stesso.
17. Ivi, p. 118.
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Ecco in che senso anche la negazione della differenza e dunque del destino è «un’individuazione dell’esser sé dell’es sente»18; e dunque non è un apparire qualsiasi, «indifferente al proprio contenuto, ma è un certo apparire, ossia, appunto, un certo contenuto che appare»19. Ma proprio per questo, essa non riesce ad essere negazione dell’esser sé; e quindi si autonega. «Nega» cioè il suo stesso costituirsi come negazione dell’esser sé e del non esser il proprio altro. E proprio perché non è, neppure essa, il proprio altro. Insomma, proprio perché è anch’essa negazione dell’altro da sé, la medesima non è negazione dell’altro da sé, ma solo di se stessa. Ad ogni modo, una domanda non ha ancora avuto risposta: come si struttura, in questa prospettiva, il rapporto tra l’affermazione dell’esser sé e quella negazione dell’esser sé che sembra non potersi che negare, ab origine? Ossia, il rapporto tra l’affermazione dell’esser sé e quel contenuto (costituito dalla negazione dell’esser sé) che non può che apparire (come dice appunto Severino) originariamente connesso al proprio esser-negato? Certo, la negazione della differenza presuppone l’apparire dei differenti da essa negati (ci dice Severino, ragionando intorno all’elenchos), ma, ecco il punto: quali differenti apparirebbero, di fatto, là dove uno dei due venisse a costituirsi come «autonegazione», e dunque non come negazione dell’altro da sé – stante che esso si autonega, e si autonega proprio perché non riesce a negare l’altro da sé (quell’altro da sé costituito appunto dall’affermazione della differenza, di cui esso vuole essere vera e propria «negazione»)?
18. Ivi, p. 51. 19. Ibidem.
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Fermo restando che esso non riesce a negare l’altro da sé proprio perché lo nega; ossia, perché, di fatto, afferma quel che dice di voler «negare» (afferma cioè la differenza tra sé e l’affermazione dell’esser sé e del non esser l’altro da sé). Sì da «negare», nello stesso negare di esser l’altro da sé, nient’altro che il suo stesso costituirsi come sua (di quell’altro) «negazione». A prescindere da ulteriori possibili considerazioni intorno alle conseguenze implicate dal costituirsi, da parte della negazione della differenza, come vera e propria autonegazione, allo stesso modo in cui si costituisce come auto-negazione il positivo significare del nulla (questione intorno a cui ci siamo già espressi in L’aporia del fondamento…)20, ossia, a partire dalla considerazione secondo cui negare il destino significa dire nulla, e per ciò stesso autonegarsi, quel che si tratta di rilevare è a questo punto proprio la radicale problematicità del costituirsi come un esser sé da parte di quella «negazione della differenza» che sarebbe originariamente connessa al proprio esser negata. Che tipo di identità finisce per essere, cioè, quella realizzata dalla follia dell’Occidente in quanto negazione del destino, in quanto, cioè, obiezione alla necessità chiamata in causa dall’incontrovertibile esser sé dell’essente? Si può davvero dire che sia anch’essa espressione del destino, e dunque che si costituisca anch’essa come un eterno, ossia, come un esser sé – come vorrebbe appunto Severino?
20. È lo stesso Severino ad affermare che, se «tutto ciò che non è affermato con necessità, cioè incontrovertibilmente, appartiene alla terra isolata dal destino, la quale, così isolata, è appunto isolata dall’incontrovertibile… allora… tutto ciò che appartiene alla non verità della terra isolata (potremmo dire: tutte le opere e i pensieri dell’Occidente) è negazione del destino (potremmo dire: è una obiezione al destino), e quindi è il positivo significare di ciò che è impossibile che sia, ossia è il positivo significare del nulla» (ivi, p. 62).
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Fermo restando che, è proprio per il suo costituirsi anch’essa come un esser sé, che della medesima si rileva, sempre nelle pagine di Severino, l’originario «negarsi»; ovvero, il suo originario non esser sé. Insomma, l’esser sé della negazione del destino si caratterizza come il suo stesso non esser sé. Perciò quest’ultima significherebbe nulla. O meglio, verrebbe a dire il semplice e positivo significare del nulla. Resta dunque da chiarire cosa possa voler dire che l’apparire della terra isolata in cui consiste la negazione del destino, pur essendo anch’esso necessario – come tutto ciò che appare –, e dunque pur costituendosi anch’esso come un eterno, appare appunto come autonegantesi? Dato che l’autonegarsi non è un autoannularsi – l’annullarsi di qualsivoglia essente costituendosi, nel discorso del destino, come un “impossibile”… cioè, come nulla. Cosa vuol dire, insistiamo, che qualcosa (ossia, l’autonegantesi negazione del destino – l’autonegarsi di un dire che significa nulla) appaia come uno degli infiniti astri esterni della costellazione dell’essere e che nello stesso tempo esso appaia come autonegantesi? Questo, il problema che Severino non affronta sino in fondo. Il filosofo bresciano, infatti, si limita a dire – rilievo pur importante, quest’ultimo – che altro sono i contenuti dell’interpretazione malata che nega il destino dal punto di vista della follia, altro i medesimi visti alla luce del destino. Ma questo loro esser visti ed esperiti alla luce del destino, negli scritti di Severino, comporta l’unica ed esclusiva caratterizzazione costituita appunto dal loro esser-negati. E Severino ribadisce a più riprese come questo loro esser negati non impedisca affatto ai medesimi di costituirsi anch’essi come degli eterni – per lui, infatti, «l’eternità di ogni essente è insieme l’eternità di ogni evento, di ogni storia, anche degli eventi, vicende, storie che appaiono nella volontà interpretan-
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te… il sogno e l’illusione non sono un nulla, cioè sono anch’essi essenti, e pertanto anch’essi eterni»21. Perché, «il positivo significare della nullità della terra isolata appare nel cerchio del destino e vi domina nella sua immensa ricchezza e complessità»22. Non si tratta cioè di rilevare che l’Occidente e le sue infinite produzioni sarebbero nulla; o che esse in verità non appaiono; «non è – precisa, sempre Severino – che in questo cerchio non appaia nulla: appare, appunto, l’immensa ricchezza del positivo significare di tale nullità – e appare come positivo significare del nulla»23. Quel che va invece rilevato è appunto che «l’apparire di questo significare, cioè di questo essente, è l’apparire di qualcosa, la cui negazione è autonegazione»24. Certo, si tratta di sogni, di semplici apparenze… ma tutte queste, precisa il nostro, sono «determinazioni dell’essente: non sono un nulla»25. Perciò la negazione di questa legna che è seguita dal «suo» fiammeggiare, sarebbe negazione del destino. Insomma, tale negazione «può esistere e apparire solo in quanto appare ed esiste ciò che essa nega – sì che essa è negazione di se stessa»26. Perciò non si può affatto negare il sogno in cui consiste appunto la negazione del destino, ossia le infinite opere dei mortali; anche tale negazione (cioè il negare il sogno in cui consiste l’Occidente), infatti, in quanto negazione del destino, si autonegherebbe; così come si autonegano tutti sogni in cui
21. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 96. 22. Ivi, p. 292. 23. Ibidem. 24. Ibidem. 25. Ibidem. 26. Ivi, pp. 292-293.
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consiste l’Occidente. In quanto valevoli tutti, appunto, come esplicite o implicite negazioni del destino. Insomma, «nel destino della verità, l’apparire della follia estrema della fede nel divenir altro e nella “vittoria” sulla morte è unito con necessità all’apparire dell’eternità di ogni essente»27. Ma, detto tutto questo, Severino continua a non spiegare cosa significhi il negarsi della follia costituita dalla negazione del destino. Cosa comporti, cioè, questo suo negarsi. Fermo restando che il negantesi è comunque un eterno28, e dunque riesce comunque a costituirsi come un esser sé – pur 27. Ivi, p. 94. 28. Molto interessante è la distinzione operata a questo proposito da Severino in Tautotes. Mi riferisco alla distinzione da quest’ultimo operata tra il senso dell’eternità e della necessità che compete all’errore, in quanto anch’esso necessario ed eterno (come tutto quel che è) e il senso dell’eternità e della necessità che competerebbe invece alla determinatezza e all’eternità dell’essente in quanto la sua negazione è autonegazione. Ci spiega dunque Severino che, mentre l’eternità dell’errore sarebbe un’eternità autonegantesi, l’eternità della determinatezza indica invece una necessità che costringe solo la sua negazione ad autonegarsi. Perché l’esser sé della determinatezza, in quanto negazione dell’errore, ossia l’eternità della determinatezza, che pur nega l’errore, non è qualcosa di costretto ad autonegarsi. Dice dunque Severino: «Anche l’errore è necessario, ma nel secondo senso della necessità, cioè nel senso che è eterno; e non dunque nel senso che la negazione del suo contenuto sia autonegazione, cioè sia necessaria nel primo senso» (E. Severino, Tautotes, cit., p. 248). Ancora una volta, dunque, la differenza tra errore e verità, ovvero tra determinatezza dell’errore, in quanto negazione autonegantesi della verità, e determinatezza del vero, ovvero determinatezza considerata nella sua verità, viene risolta nel semplice autonegarsi della prima – che, in quanto tale, sembra non riguardare la seconda. Dove l’autonegarsi, comunque, non impedisce al negantesi di apparire; anzi, gli impone di apparire. D’altro canto, è lo stesso Severino a dirci che, comunque, finanche il senso concreto e autentico (corrispondente cioè alla verità del destino) dell’identità implica il negarsi di una differenza. Ma…non si tratta anche in questo caso di un autonegarsi? È lo stesso Severino a riconoscerlo, e con la massima esplicitezza,
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caratterizzandosi, questo suo esser sé, come il suo stesso non ad esempio, là dove afferma – sempre in Tautotes – che l’apparire dell’identità è l’apparire del non differire» (ivi, p. 122). Infatti, stante che – come il filosofo bresciano rilevava già in La struttura originaria e avrebbe ancor più determinatamente e compiutamente precisato in Tautotes – l’identità non è semplice identità di differenti (ché mai potrebbe esserlo!), ma, piuttosto, sempre e solamente identità della relazione (tra soggetto e predicato) con se stessa, va in questa prospettiva anche precisato (sempre in accordo con l’argomentazione severiniana) che la differenza tra soggetto e predicato, che pur appare (così come appaiono le differenze in cui consistono le cose del mondo), appare appunto solo come negata. Perché «tolto (originariamente tolto) l’isolamento del soggetto e del predicato, è (originariamente) tolto il loro differire» (ibidem). Insomma, solo in virtù di tale toglimento, «appare dunque l’identità della relazione (tra soggetto e predicato) con se stessa» (ibidem). La quale, insomma, appare, in-uno, con l’apparire – che è sempre anche apparire dell’identità della relazione con se stessa –, da parte del negarsi della differenza tra quel soggetto e quel predicato che “sono appunto identici” solo nell’esser identica a sé da parte della loro relazione. Una relazione, quest’ultima, che dice sempre, in-uno, anche il loro differenziarsi. Quello stesso che, in virtù dell’esser identica a sé da parte della loro relazione, appare appunto «come negato». L’identità con sé della loro relazione mostrerebbe dunque, in quanto tale, il non esser invero diversi da parte dei diversi – la cui «relazione», solamente, sembra poter essere definita identica a sé. Essendo essi, in quanto distintamente considerati, l’uno diverso dall’altro – d’altronde, è solo per questo loro esser diversi, che può darsi quella relazione che va riconosciuta appunto come l’unico vero soggetto dell’esser identici a sé (ovvero, quella relazione che, in quanto relazione tra differenziantisi, si nega, e, nel negarsi, dice appunto quell’identità che, solamente, è identica a sé). Solo a partire da tale rilievo, si può realmente comprendere in che senso, nel dirsi identica a sé da parte della loro (di quei diversi) relazione, sia anche detto che quei diversi, in verità non sono diversi – a partire dal fatto che l’uno è l’uno considerato nel suo esser originariamente insieme all’altro e l’altro, allo stesso modo, è anch’esso considerato nel suo essere originariamente relato all’uno. Ecco perché il differire dell’identico da se stesso, ci dice Severino, ovvero anche il differire della relazione da se stessa, «appare come negato» (ibidem). Ma come non riconoscere, allora – sembra chiedersi giustamente il nostro – che, «per apparire come negato, il negato deve comunque apparire» (ibidem)? Per quanto – ed è sempre Severino ad esprimersi in questi termini – il differire che appare «come negato», «deve sì apparire»… ma, appunto, «come negato» (ibidem). Per quanto, cioè, «la differenza che appa-
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esser sé (in virtù dell’originario autonegarsi implicato dal suo re non appaia mai isolata dal suo esser negata» (ibidem). Ossia, si costituisca per ciò stesso come l’impossibile. Ed è noto che l’impossibile – sempre secondo Severino – «non è e non appare» (ibidem). Eppure, qui, sia pur come negato, «l’impossibile appare (e, come positivo significare, è)» (ibidem). D’altro canto, le differenze «sono ed appaiono»; mai dimenticare, insomma (sembra ammonirci Severino), che «le differenze sono e appaiono» (ivi, p. 123). Per quanto le medesime appaiano «solo in quanto è ed appare l’identità della loro relazione con se stesse» (ibidem). Insomma, tutto quel che appare, sempre secondo il nostro, non sarebbe se stesso, «se non fosse negazione del suo differire da sé» (ibidem). Ecco in che senso non è vero, sempre secondo Severino, che il soggetto e il predicato considerati in se stessi, come puri noemi, non sarebbero; non è vero che essi, considerati isolatamente l’uno dall’altro, non esisterebbero neppure. Tutto questo, infatti, sempre secondo Severino, «non significa che il puro noema non esista» (ibidem). Ovvero, che non esista la molteplicità dei puri noemi. Questi ultimi, infatti, non esistono solo in relazione al loro costituirsi come soggetti di una relazione astratta dal predicato. Insomma, «solo nella sua relazione al predicato il puro noema è nulla» (ibidem). Là dove, invece, qualsivoglia significato «non è un nulla nella sua relazione al predicato», ossia, solo «nell’elemento della dianoeticità» (ibidem). Ma cosa significa, verrebbe anche qui da chiedere, che il differire, nel mostrarsi da parte dell’identità con sé, si neghi? I differenti appaiono, e, sia pur in quanto inscritti in una originaria e tautologica identità con sé che è poi quella della loro stessa relazione, quella stessa che si determina appunto in relazione all’originario negarsi da parte di differenti che, in verità (in forza dell’appena evocata tautologicità), non sono mai realmente differenti l’uno dall’altro. Severino, insomma risolve l’identità in questo originario negarsi della differenza tra l’uno e l’altro; che dunque si configura necessariamente come orizzonte intrascendibile, ossia come orizzonte dal quale mai sarà possibile sporgersi, come se si potesse trascendere la determinatezza del finito – per quanto quest’ultima si neghi. Stante che, è solo nel sempre possibile superamento di qualsivoglia determinatezza, e di qualsivoglia limite, cioè nel suo stesso farsi parola originaria dell’identità non nichilisticamente intesa, che questo superamento può farci sperimentare la concreta intrascendibilità dell’orizzonte disegnato da un differenziarsi che è intrascendibile, appunto, proprio in quanto, è sempre e solamente in relazione ad esso, in quanto negantesi, che, a mostrarsi è sempre e solamente l’identità. Perché, nel costituirsi di qualsivoglia ulteriore forma del differenziarsi (ottenuta per il superamento dell’attuale forma del differenziarsi), a determinarsi non potrà essere che il negarsi anche di questo ulteriore modo del differenziarsi. Almeno,
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immediato rapporto con il destino). È un eterno, ma questo eterno dice appunto il suo semplice e originario negarsi; ossia, esso appare come «un autonegantesi». Val la pena rilevare, a questo proposito, come ad un certo punto del già citato volume, Severino si impegni a precisare come quel che «è necessario che appaia come negato» sia quello stesso di cui si può anche dire che «non appare»29. «Infatti, la contraddizione – il positivo significare del nulla –, come tale, non appare: è necessario cioè che appaia come negata, nel suo esser negata»30. Insomma, il suo apparire come negata sembra qui significare lo stesso che il suo non apparire; non a caso, subito dopo, il filosofo bresciano, sottolinea come, «solo se separata dal suo essere e apparire come negata, la contraddizione appare come il luogo in cui l’impossibile è ed appare; ma, così, essa è separata da ciò da cui è impossibile separarla»31. Insomma, se non la separiamo dall’ineludibilità del destino, la contraddizione appare come negata in quanto “non-appare”. D’altronde, anche in queste pagine cosa comporti l’apparire come non apparente, ossia come “negato”, da parte di un qualcosa, non viene detto. Sicuramente, il suo esser-negato sembra comportare almeno questo: che il suo ineludibile esser-sé venga a costituirsi come il suo semplice e intrascendibile non esser se stesso. Ma – ed ecco ritornare «la domanda» – cosa direbbe, di diverso, il se stesso in quanto negantesi, o anche solo «in quanto a partire dal fatto che l’identità è originariamente e dunque necessariamente risolta in un semplice negarsi da parte di differenti il cui “non essere quel che sono” apparirà in ogni caso come vera e propria impossibilità di stabilire in che senso e come (o anche, in virtù di quali principi) il negantesi possa essere realmente “altro” da quel che, in tale negarsi, verrebbe appunto a negarsi. 29. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 234. 30. Ibidem. 31. Ibidem.
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negato», dal se stesso in quanto sempre anche «negante» l’altro da sé? Questo, e solamente questo, secondo Severino: il suo dover sempre e comunque apparire come altro da quel che il medesimo sarebbe, invece, alla luce della verità del destino. Ecco perché, anche là dove fosse illuminato dalla luce del destino – secondo una perfetta reciprocità –, l’essente (quello stesso che nella follia costituita dalla negazione del destino appare, ad esempio, come prodotto della volontà) si configurerebbe ancora una volta come altro da quel che il medesimo sembra destinato a dire, invece, in quanto vissuto come semplice prodotto della volontà. Certo, Severino deve porre questa alterità, anche a partire dal fatto che «la totalità del contenuto della terra isolata è, in quanto tale, nulla. Come contenuto della fede in cui consiste la terra isolata, tale totalità è quell’essente che è la totalità del positivo significare del nulla»32. Insomma, anche questa lampada è un positivo significare in cui, ad essere significato, è in verità il nulla. Perciò, il modo in cui appare, nella terra isolata, questa lampada, non può che esser altro dal modo in cui la medesima lampada appare invece nel cerchio del destino. Perché, nella prospettiva del destino, questa lampada non è un positivo significare in cui, ad essere significato, sia il semplicemente nulla; ma un eterno. Eppure, ancora una volta, non possiamo non riproporre, testardamente e ossessivamente, la nostra domanda: cosa rimane, nella lampada che si costituisce come significazione del nulla – come un significare che avrebbe quale proprio contenuto il semplice nulla – di quell’eterno che è la lampada in quanto illuminata dalla luce del destino? E viceversa, cosa, di quel che, nella persuasione della terra isolata, appare «come lampada», sarebbe presente anche nella 32. Ivi, p. 90.
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lampada accolta dallo sguardo del destino? E cosa invece non sarebbe presente in quest’ultima? E cosa, di quest’ultima non sarebbe invece presente nella lampada valevole come uno degli infiniti modi di significare il nulla? Si badi bene: per rispondere a questa domanda, si dovrà tenere anzitutto presente che, sempre secondo Severino, la traccia di X in Y (stia in questo caso Y per la lampada intesa secondo l’interpretazione della terra isolata e X per quella stessa lampada concepita conformemente al modo in cui essa appare allo sguardo del destino) «è la traccia di X non in una parte di Y, ma nella totalità di Y, ossia in Y in quanto Y è la totalità di se stesso»33. Ecco perché, anche quel che appare come non-negato nello sguardo nel destino, se lascia una parte di sé, o meglio, una traccia, di sé, in tutto quello che, di sé, appare, sia pur come negato, finanche nell’orizzonte della terra isolata, ecco… quello stesso qualcosa lascia, in quel che, di esso, appare nella terra isolata, una traccia non solo in una parte di quel che appare, dello stesso qualcosa, nel cerchio della terra isolata, ma in tutto ciò che va a disegnare la positiva determinatezza di quel che appare nella terra isolata. Insomma, una qualche traccia del destino deve comunque presentarsi anche in quel che appare come isolato dal destino, perché «la terra è necessariamente unita al destino della verità… anche perché l’apparire del destino è lo sfondo senza di cui non potrebbe apparire la terra»34. Non a caso, anche in La morte e la terra, Severino avrebbe chiaramente ribadito che «l’isolamento della terra dal destino implica con necessità l’apparire della terra non isolata»35. 33. Ivi, p. 260. 34. E. Severino, La Gloria, cit., p. 70. 35. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 68.
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E d’altro canto, come non riconoscere che «è necessario che ogni essente lasci la propria traccia in ogni altro essente»36? E che la lasci essendo «presente in ogni altro essente»37. O meglio, essendo presente in ogni altro essente «come negata»38. Insomma, se questo vale per ogni essente (per ogni X – perciò è necessario che una traccia di X non sia semplicemente presente in Y, ma sia presente in Y come negata, per dirla con Severino), a maggior ragione ciò varrà per tutto quello che, della lampada che appare nel cerchio del destino, sarà presente, sia pur come semplice traccia, nella lampada interpretata conformemente all’isolamento della terra. E infatti, se ciò che, del destino, è presente in tutto quello che viene interpretato dallo sguardo del mortale conformemente al modo in cui appare, dice in primis il proprio originario «negarsi», questa traccia sarà presente in ogni determinazione appunto nella forma dell’esser negato. Solo che, mentre questo esser negato è l’esser negato di qualcosa che in verità dice «altro» dalla lampada isolata dal destino (ossia, che dice appunto la lampada che appare conformemente al proprio necessario esser sé), e lo dice proprio in forza di questo stesso «esser-negato» (che è l’esser-negato della lampada in quanto espressione del destino), dovrà necessariamente apparire anche «il negarsi» di ciò che nega, invece, il destino della verità. Insomma, la negazione del destino della verità nega l’altro da sé ed è se stessa proprio in quanto si nega. Ma, anche ammesso che, come si impegna a mostrarci Severino, il negarsi di quel che nega il destino confermi la necessità dell’esser sé e dunque sia reso possibile dalla medesima; ossia, anche ammesso che l’aporeticità di questo esser sé, che è tale 36. Ivi, p. 257. 37. Ibidem. 38. Ibidem.
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solo negando se stesso, sia, come vuole appunto il nostro pensatore, un’aporeticità solo apparente, resta comunque aperto il problema costituito dal destino di quel che «non dice l’altro che appare in virtù del fatto che la lampada espressione del destino, nella lampada isolata, si negherebbe», ma dice piuttosto «lo stesso negarsi» di quel che, negandosi, sembra invece non riuscire a dar luogo ad un altro (così come, invece, il negarsi della lampada espressione del destino dà luogo ad un’altra lampada: quella che vale appunto come semplice significazione del nulla, ossia, quella lampada che tutti noi, abitatori dell’Occidente, pensiamo e ci illudiamo di avere davanti agli occhi… allo stesso modo in cui ci illudiamo di aver a che fare con la morte, ossia con il nullificarsi degli essenti). Stante che, quel che appare come il negantesi, in quanto espressione dell’impossibile negazione del destino, non si risolve affatto nell’esserci di un altro che possa davvero esistere al di là di quel che, in quanto negantesi, è appunto un semplice nulla. No, perché quel che appare come il negantesi, “appare” ugualmente nella sua perfetta positività. Non potendo essere se non questa sua stessa positività a «negarsi», appunto; a negarsi in quanto espressione del positivo significare del nulla. D’altronde, se non fosse essa medesima ad apparire, non potrebbe neppure apparire come un negantesi. E in ogni caso, quel che va sottolineato è che tale positività non può esistere come positività «altra» rispetto al suo negarsi; altra da sé in quanto negantesi. Ché, altrimenti, non vi sarebbe contraddizione e neppure l’autonegarsi del contraddittorio. Ma si distinguerebbero ancora una volta due semplicemente positivi; ognuno dei quali sarebbe negazione del proprio altro, senza che nessuno dei due sia in alcun modo costretto ad autonegarsi. Il positivo realizzantesi in questa lampada appare dunque come negantesi – questo ormai lo si è capito; ma il fat-
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to è che, a negarsi, di fatto e specificamente, in questo caso, non può essere se non la lampada che quotidianamente uso e tratto conformemente alla prassi in uso nell’orizzonte disegnato dalla terra isolata. E che pur continuo ad usare nel modo che mi viene suggerito dal suo significato (dal significato che essa ha nella terra isolata dal destino); per quanto «negantesi». Che, cioè, per quanto essa si costituisca come un originariamente «negantesi», continuo ad usare così come ero solito fare – a sottolineare il semplice fatto che, se è vero (come spiega bene Severino, anche e soprattutto nell’opera già citata) che l’apparire della verità non può venire inteso come qualcosa che ci muoverebbe a comportamenti diversi, a diverse volontà e a diversi progetti (perché progetti, volontà e comportamenti sono in quanto tali espressioni della negazione del destino in cui consiste la terra isolata), allora non possiamo aspettarci che finanche il palesarsi del legame che tiene insieme la lampada che uso tutti i giorni e il suo originario “negarsi” (e dunque il destino) provochi diversi comportamenti. Certo, non possiamo aspettarci questo; ma in cosa consiste, allora, il costituirsi come «altra» da parte della lampada in quanto inscritta nell’orizzonte del destino – ossia, in quanto manifestantesi in uno con il suo «negarsi»? O, ribadiamo: il suo costituirsi come «altra» dalla lampada che appare nella terra isolata? Perché – come abbiamo già più volte sottolineato – per Severino essa, in quanto espressione del destino, è davvero altra da quel che la medesima sembra essere nell’orizzonte malato della terra isolata. Il nostro lo ribadisce con la massima forza anche alla fine di La morte e la terra, là dove afferma, ad esempio, che in quanto appare nel destino, e dunque appare eternamente all’interno della destinazione di ogni cerchio, il contenuto del sogno o dell’errare in cui consiste la terra isolata è infinitamente più ampio
191 del contenuto che appare all’interno del sogno, ossia di ciò che il sogno crede di essere. Nel destino, dove ogni essente appare sullo sfondo della persintassi infinita, appare infatti ciò che il sogno della terra isolata è in verità.39
Ma Severino è anche consapevole di questo problema; ossia del problema costituito dal “come” il contenuto della terra isolata possa conformarsi al destino… secondo quella maggior ricchezza che sembra dover essere riconosciuta a tutto ciò che appare nella terra isolata, là dove questo stesso essente sia posto nella relazione che lo lega necessariamente alla terra del destino. «Il linguaggio testimoniante il destino – ad esempio – non sa dire ancora se anche la pura terra sia un dimenticare e un ricordare»40. Anche se sa almeno questo: ossia, che «qualora il ricordare appartenesse alla pura terra, ciò che esso attesterebbe sarebbe qualcosa di incontrovertibile, perché la pura terra è la terra in quanto appare nello sguardo del destino»41. Insomma, per Severino è necessario che ad ogni tratto della fede in cui consiste la terra isolata del cerchio originario corrisponda qualcosa nella pura terra di quel cerchio… Della quale la terra isolata è, in quel cerchio, lo stravolgimento più radicale, sebbene sia insieme ciò che le è più simile di quanto possano esserle simili le terre isolate degli altri cerchi.42
Insomma, questo altro modo d’essere sembra doversi configurare, secondo il ragionamento di Severino, come qualcosa 39. Ivi, p. 485. 40. Ivi, p. 492. 41. Ibidem. 42. Ivi, p. 490.
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di talmente altro, da rendere il modo in cui appare la terra in quanto isolata un «totale stravolgimento» del modo in cui quella stessa terra isolata appare invece alla luce della pura terra; cioè, del modo in cui la terra isolata appare in quanto illuminata dalla persintassi infinita. Uno stravolgimento che peraltro non esclude il fatto che la terra isolata possa riconoscere in quel suo vero modo d’essere ciò che vi sarebbe di più simile a se stessa. Quel che essa sarebbe, cioè, vera mente. O anche: il suo vero esser-sé. Eppure, questo suo vero esser sé non può fare a meno di “contrastare” con quel che di essa appare nella terra isolata; e che è esso stesso momento del destino, ossia è eternamente l’errore che è – apparendo come eternamente contrastante il suo vero modo d’essere. Ossia, quel che esso sarebbe vera mente. Infatti, è necessario che, nel cerchio del destino in cui questa terra isolata appare, la totalità concreta incontrovertibilmente apparsa di questa terra appaia, nella destinazione, nel suo esser già da sempre apparsa e nel compimento del suo contrastare la pura terra.43
Ma, l’apparire del contrasto non è l’apparire del modo concreto di questo stesso «contrastare»; che, per poter apparire come tale, necessiterebbe dell’apparire del modo specifico in cui si costituisce quel che appare alla luce della pura terra, o del destino della necessità. Di quel modo concreto, dunque, si sa solo che esso appare come incontrovertibile. Ma cosa sia in verità tutto ciò in quanto incontrovertibile… ossia, cosa, nella pura terra, appaia come incontrovertibile, non è dato sapere.
43. Ivi, p. 480.
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O meglio, si sa solo questo: che, se è vero che «ogni tratto della persintassi del destino lascia le proprie tracce nella terra isolata»44, è anche vero che «nella terra isolata quei tratti hanno un significato diverso da quello che essi mostrano all’interno della persintassi del destino»45. Non a caso, Severino può anche rilevare che «ciò che, in quanto isolata, la terra isolata mostra di sé, è l’Errore, ciò che non è, che è nulla, e la cui positività è pertanto il positivo significare del nulla»46. Ma nello stesso tempo, «il linguaggio che testimonia il destino rileva che anche ogni essente della terra isolata è un eterno»47. Anche perché «l’isolamento implica l’apparire della terra non isolata»48. Certo, il nostro sa bene che, «nonostante l’apparire, nel cerchio originario del destino, del linguaggio che lo testimonia…, la terra appare isolata»49, e che, essa, in quanto tale «contrasta la pura terra»50. E sa anche che «questo contrasto è il prevalere della terra isolata» – sì che sembri che «lo sfondo rimanga nel non apparire»51. Sembra dunque che anche la pura terra «rimanga nel non apparire»52. E – sottolinea Severino – «è inevitabile che così sembri»53.
44. Ivi, p. 88. 45. Ibidem. 46. Ivi, p. 67. 47. Ivi, p. 68. 48. Ibidem. 49. Ivi, pp. 65-66. 50. Ivi, p. 65. 51. Ibidem. 52. Ibidem. 53. Ivi, p. 66.
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Insomma, anche quando il linguaggio testimonia il destino, mostrando la non verità della fede, «la fede non tramonta, ed essa e il suo prevalere sono appena incrinati»54. Ecco… Severino denuncia qui una vera e propria asimmetria, dovuta al fatto che «il linguaggio che testimonia il destino non porta al tramonto l’isolamento della terra»55. Ma nello stesso tempo il filosofo bresciano rileva come l’esiguità di tale riduzione (la riduzione delle barriere che la fede pone tra sé e il dubbio) non impedisce che, «con l’apparire del linguaggio che testimonia il destino, tutto ciò che appare, quindi anche la terra isolata, mostri un significato diverso da quello mostrato in assenza di tale linguaggio»56. Dunque, la terra isolata non solo è altro, in verità, da quel che, di essa, appare in quanto isolata – non solo essa è “altro” là dove appaia avvolta dalla luce del destino. Non solo, cioè, è «altro» da quel che di essa appare in virtù dell’isolamento, là dove essa venga considerata alla luce della persintassi del destino… non solo questo va detto, ma anche che essa è «altro» (sempre da quel che della medesima appare in virtù dell’isolamento) finanche in forza della pur fragile asimmetria prodotta da una testimonianza del destino che, comunque, non impedisce il prevalere della terra isolata. Talmente altro, da rendere infine «indicibile» il destino in quanto tale. Per Severino, infatti, è relativamente alla distinzione tra linguaggio e destino che «il destino, in quanto distinto dal linguaggio, è l’indicibile»57. D’altro canto, per il nostro, non va neppure dimenticato che anche il linguaggio che testimonia la terra che salva – il 54. Ibidem. 55. Ivi, p. 65. 56. Ivi, p. 67. 57. Ivi, p. 128.
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linguaggio, cioè, che non contrasta più la totalità infinita delle determinazioni persintattiche – «è una testimonianza finita che, per quanto ampia, lascia pur sempre al di fuori di sé la totalità infinita della persintassi»58. Insomma, il cerchio del destino si troverà pur sempre avvolto dalla contraddizione C «implicata dalla differenza tra cerchio finito del destino e apparire infinito del destino»59. Non solo; ché, in tale cerchio è assente anche «la totalità del l’iposintassi»60. Tutto questo, prima del tramonto della terra isolata. Ché, fino ad allora, la fede in cui consiste la terra isola permane, inestirpabile, «anche quando il linguaggio che testimonia il destino mostra l’esser fede di tale fede, cioè la sua non verità, il suo essere negazione del destino»61. Permane, ma – rileva sempre Severino – «quando e in quanto appare come siffatta negazione, tale fede differisce da sé stessa quando e in quanto non appare con questo carattere»62. Ancora una volta, dunque, si indica una differenza; ma non se ne mostra il concreto costituirsi; non si mostra cioè il modo del «suo» costituirsi. Si dice infatti che la terra isolata, in virtù dell’oltrepassamento della medesima, per come quest’ultimo viene testimoniato dal linguaggio, si fa nuova; ché, un tale oltrepassamento, secondo la testimonianza che ne dà il linguaggio che indica il destino, «conduce nel cerchio originario una terra isolata che è nuova in ogni sua parte, sebbene essa venga e vada come quel gesto»63; ed «è nuova in un senso essenzialmente diver58. Ivi, p. 134. 59. Ivi, p. 135. 60. Ibidem. 61. Ivi, p. 460. 62. Ibidem. 63. Ivi, pp. 462-463.
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so da quello per cui basta che questa lampada si accenda o si senta una voce lontana perché incominci ad apparire una terra che è nuova rispetto a quella che circondava questa lampada spenta o il silenzio»64. D’altro canto, cosa renda non concretamente definibile la relazione tra le determinazioni iposintattiche della terra, e dunque lo stesso vero volto della terra isolata – o meglio, il vero volto di quella terra, che nello sguardo che nega il destino, appare appunto «come terra isolata» – appare problematico a dirsi. Conformemente ad un problema che, comunque, sempre per Severino dipende solo dal fatto che il linguaggio che testimonia il destino non è l’apparire del destino. «L’assenza delle determinazioni persintattiche può sussistere, infatti, solo in relazione al linguaggio che testimonia il destino, non in relazione all’apparire del destino, essendo essa la concretezza, appunto, del destino – la concretezza senza il cui apparire non potrebbe apparire alcunché»65. Ma è davvero e solo per questo che Severino definisce il destino, in quanto distinto dal linguaggio che lo testimonia, «indicibile»? A ben vedere, non si tratta di un problema semplicemente linguistico. Il problema, infatti, chiama in causa piuttosto la stessa possibilità che questa «concretezza» appaia – riguarda cioè il fatto che, ad apparire, «nell’apparire trascendentale originario e nella totalità attuale dell’incominciante è la forma astratta di tale contenuto»66. Ed è proprio tale forma astratta a consentirci di affermare «che tale contenuto rimane nascosto»67. Il fatto è che «appare la forma astratta, e non il contenuto concreto, anche dell’apparire infinito della totalità concreta 64. Ivi, p. 463. 65. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 254. 66. E. Severino, La Gloria, cit., p. 177. 67. Ibidem.
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dell’essente»68. Stante che tale apparire è comunque «l’oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto della totalità delle contraddizioni del finito e dunque, innanzitutto, delle contraddizioni del cerchio finito originario, dell’apparire del destino»69… ecco, stante tutto questo, si tratta di rilevare che ciò accade perché «lo sfondo (che ha un’unica struttura) – essendo esso la regione senza di cui non può apparire alcunché… ossia, essendo la stessa struttura originaria del destino della verità, e soprattutto essendo esso identico nell’apparire finito e nell’apparire infinito del destino… – , in quanto sfondo dell’apparire non attuale, è comunque un apparire diverso dall’apparire dello sfondo dell’apparire originariamente attuale»70. Perciò tutto quel che appare, nel modo in cui esso appare – non solo, dunque, le cose che appaiono avvolte dall’isolamento della terra –, non può che essere diverso da quel che apparirebbe là dove lo sfondo persintattico dell’essente apparisse, e non rimanesse nascosto all’apparire attuale. Insomma, la questione riguarda da ultimo la «determinatezza» in quanto inscritta nell’orizzonte attuale dell’apparire; e non solo l’essente così come esso viene vissuto alla luce dell’isolamento della terra – là dove esso si configuri appunto come «negazione del destino». La questione è cioè quella dell’identità dell’essente in quanto semplicemente «determinato»; ossia, dell’identità di tutto quel che appare, e il cui apparire lascerebbe comunque nascosta la totalità concreta e infinita della persintassi dell’essente. E non solo; ché essa lascia nascosta anche una totalità incominciante che comunque oltrepassa la totalità attuale di quanto è destinato ad apparire. E che, comunque, non coincide 68. Ibidem. 69. Ibidem. 70. Ivi, p. 179.
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con l’apparire infinito («giacché l’apparire infinito non è un oltrepassamento incominciante, ma è l’oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto della totalità del finito»71). Anche questa totalità incominciante che oltrepassa la totalità attuale di quello che è destinato ad apparire è destinata a non apparire attualmente «quanto al proprio contenuto concretamente determinato»72. Anch’essa, cioè, appare attualmente solo in relazione alla «sua forma astratta»73. Da cui la necessità di una molteplicità infinita di cerchi diversi dal cerchio originario; o meglio, la necessità di «un oltrepassamento infinito»74 che appartiene, in quanto tale, alla struttura del destino, e che costituisce quella che Severino definisce appunto la Gloria della terra. Un oltrepassamento infinito che, comunque, «non appare nella sua infinità» – stante che quel che appare concretamente nel cerchio originario dell’apparire è solo «un tratto infinitamente crescente, ma sempre finito»75. Secondo un gioco infinito in cui visibile e invisibile sembrano procedere in modo perfettamente complementare. Perché la terra «è accolta dal cerchio originario e dall’infinità degli altri cerchi, ed è accolta sia nel suo dispiegamento visibile sia in quello invisibile»76. D’altra parte, Severino è perfettamente consapevole anche del fatto che, col tramonto della terra isolata, la contraddizione della terra isolata non sarebbe totalmente oltrepassata. Il toglimento totale della
71. Ivi, p. 181. 72. Ibidem. 73. Ibidem. 74. Ivi, p. 197. 75. Ibidem. 76. Ivi, p. 198.
199 contraddizione che compete all’apparire di un qualsiasi essente finito è infatti l’apparire infinito della totalità concreta dell’essente; e tale apparire non può sopraggiungere nei cerchi finiti dell’apparire, come loro oltrepassamento.77
Solo la traccia di tale infinitudine può dunque essere presente nel finito; e solo nella forma della contraddizione C «il cui oltrepassamento è appunto un percorso infinito»78. Infatti, proprio perché «questa concretezza è il Tutto, che non può sopraggiungere nel cerchio finito, tale oltrepassamento è infinito»79. Insomma, «la terra è immersa in una contraddizione il cui oltrepassamento è infinito»80. Per cui, anche dopo il proprio tramonto, «essa (la terra isolata) si sviluppa all’infinito»81. Sì che ogni cosa sia, lungo questo percorso infinito, «sempre più se stessa e sempre meno in contraddizione con se stessa – il luogo in cui ogni essente è se stesso senza essere insieme in contraddizione con se stesso essendo l’apparire infinito della totalità degli essenti»82. Lungo uno sviluppo che però va tenuto insieme con la necessità che «la terra isolata nella totalità infinita dei cerchi compaia da ultimo, in ogni cerchio, non come un dispiegamento infinito – che, come tale, non potrebbe mai sfociare nel tramonto dell’isolamento della terra –, ma come un unico evento»83. Un unico evento implicante il fatto che «la questità totale della terra isolata sia da ultimo definitivamente conservata
77. Ivi, p. 309. 78. Ibidem. 79. Ivi, p. 310. 80. Ivi, p. 311. 81. Ibidem. 82. Ivi, p. 312. 83. Ivi, p. 316.
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nella Gloria della terra»84; conservata come oltrepassata, precisa Severino; «cioè, come passato, perfectum»85. In un unico evento non sopraggiungente, all’interno del quale quel che si differenzia (differenziandosi sempre e comunque in relazione al contesto di appartenenza) disegni sì, nel suo riapparire, una qualche differenza tra l’essente che appare e l’essente che riappare, ma senza che tale differenziarsi implichi «l’assenza, nel riapparire, di qualche aspetto di ciò che è apparso»86. Il problema è però che tutto quel che appariva, prima di riapparire, e che nel riapparire, dovrebbe rimanere conservato integralmente, è ora connesso, in virtù del suo ri-apparire, a quel che prima ancora non era apparso, e che, solo nel suo apparire ora connesso a quel che dice il suo costituirsi come un ri-apparire, consente di stabilire il suo essere ora diverso da quel che il medesimo sarebbe stato prima; insomma, la mancanza di ciò che rende ora il suo apparire un ri-apparire è tale solo alla luce di quel che ora lo determina come un riapparire – solo nell’orizzonte del ri-apparire, cioè, possiamo stabilire una differenza tra l’apparire e il riapparire. Si tratta di una questione che avrebbe creato più di qualche problema già a Hegel. Perché, è solo dal punto di vista del «concreto», che possiamo stabilire la differenza tra astratto e concreto – stante che l’astratto appare come tale solo in quanto separato da un concreto che, per quanto «come separato», appare; e dunque dice la concretezza, l’ineludibile concretezza di quel che definiamo «ancora privo di quel che avrebbe reso riconoscibile la sua astrattezza». L’astratto, insomma, appare sempre e comunque come concetto concreto dell’astratto; perché il concetto astratto dell’astratto può apparire come tale solo in relazione ad un concreto già connesso all’astratto 84. Ivi, p. 320. 85. Ivi, p. 321. 86. Ivi, p. 323.
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che si dice concepito astrattamente, ossia indipendentemente da ciò rispetto a cui non è affatto indipendente. Insomma, l’astratto, la terra isolata, non guadagna nel tempo la sua concretezza; ma è originariamente resa possibile da quest’ultima. E connessa, dunque, alla medesima, conformemente ad una intrascendibile immediatezza alla luce della quale, solamente, può apparire quella che abbiamo definito «la sua stessa astrattezza»; ossia il suo costituirsi come un “passato”. O anche, come un presente che si dice “passato” (in quanto «astratto» dalla concretezza che conviene solo al presente alla luce del quale esso appare comunque come “un passato”). Ma questo originariamente «concreto» si dice appunto distinto da quel che in esso si determina come il suo passato. Distinguendovisi in modo tale che quel passato (la terra isolata, nel nostro caso) appaia come l’originariamente negantesi; in quanto esso medesimo «originariamente concreto». In quanto, cioè, per distinguersi dal concreto, deve esso medesimo riconoscere, da ultimo, di essere totalmente inscritto in esso; di essere cioè una sua originaria espressione. Da cui il suo originario autonegarsi. Che potremmo anche definire «il suo non esser il finito che è». Fermo restando che la sua “determinatezza” è sempre e comunque la determinatezza che conviene alla sua «astrattezza»: a quell’astrattezza che dice l’originario negarsi della medesima, in quanto comunque appartenente all’infinita totalità dell’essente (che, in quanto tale, non può sopraggiungere), e dunque sua perfetta manifestazione. Sì che in essa, a manifestarsi sia sempre e comunque «il concreto»; quello stesso da cui la medesima si dice distinta, in quanto parte; ossia, in quanto astrattezza che sarà tale, comunque, solo in quanto distinta da un concreto di fatto già da sempre manifesto. Manifesto come infinità del concreto che in ogni astratto continuerebbe a dirsi e ridirsi all’infinito.
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Perché, sempre per dirla con Severino, «il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente»87; per quanto il dispiegamento della terra sia «destinato a inoltrarsi nel cerchio dell’apparire del destino lungo un percorso che non è mai compiuto»88. Quel che va tenuto ben fermo è dunque che «la totalità della terra non può entrare compiutamente nel cerchio dell’apparire»89. Perciò Severino parla di una «interminabile trascendenza della terra rispetto a ciò che della terra va dispiegandosi nel cerchio dell’apparire»90. Eccoci così tornati all’invisibile, ossia al dualismo che sembra costringere la verità nel suo senso più concreto a non potersi mai fare presente così come sono presenti gli essenti nella loro impropria parzialità; ossia, in quella parzialità che dice appunto il loro essere di fatto sempre anche espressioni della terra isolata. E il loro essere in verità già da sempre «altri» da quel che, dei medesimi, si mostra nell’orizzonte finito della terra isolata. Ancora una volta, dunque, il dualismo che dice la sostanziale noumenicità del vero volto dell’essente. Senza che, di questo «altro» e più vero modo d’essere – anzi del suo unico “vero e concreto volto” –, si possa sapere alcunché… sempre a partire dal fatto che la finitezza del finito non può fare a meno di comportare la trascendenza del suo «vero». Per questo, la terra «come totalità infinita, non è destinata ad apparire; appunto perché l’insieme infinito di essenti che
87. Ivi, p. 155. 88. Ibidem. 89. Ivi, p. 159. 90. Ibidem.
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la costituiscono non può entrare compiutamente nel cerchio dell’apparire»91. Perciò, sempre secondo Severino, «noi saremmo il luogo inaccessibile alla nostra finitezza, ossia al cerchio finito dell’apparire in cui ogni esser Io del destino consiste»92. Perché il luogo inaccessibile è infinito; anzi «è la forma assoluta dell’infinità»93. Peccato che Severino intenda questa trascendenza come l’esser assente da parte di qualcosa che, nell’orizzonte dell’apparire finito, sarebbe appunto impossibilitato ad apparire. Là dove è stato lui stesso a spiegarci come, proprio in virtù della contraddizione C, si debba invece riconoscere che la verità del finito sta appunto nella sua stessa (del finito) originaria infinitudine94. Ecco il punto. Il fatto è che Severino, per tenere fermo il proprio sistema speculativo, non può che rimuovere il fatto che l’infinito non è in alcun modo “altro” dal finito; o meglio, lo è, ma in forma
91. Ibidem. 92. Ivi, p. 161. 93. Ibidem. 94. Solo che, già in Destino della necessità, Severino poteva anche affermare che «il Tutto è come apparire del Tutto, ossia come apparire infinito, e quindi si illumina nascondendosi al destino come apparire finito del Tutto» (E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 588), a partire da un ben precisa convinzione: secondo cui l’essere come apparire infinito da parte dell’apparire del Tutto può costituirsi come oltrepassamento di ogni contraddizione solo in virtù di un’infinitudine che rende il destino fatalmente nascosto a se medesimo. Conseguenza, questa della tematizzazione già operata, da Severino, della contraddizione C, nelle pagine giovanili di La struttura originaria, là dove il nostro affermava che «la contraddizione C consiste nel porre S formalmente e nel non porlo concretamente» (Id., La struttura originaria, cit., p. 348). Stante S per un significato qualsiasi, si dice infatti che «la posizione di S non implicante la posizione di una o più costanti di S, è una posizione formale, nel senso che in questa posizione la totalità delle costanti non è determinatamente posta» (ibidem).
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«contraddittoria», dovendosi appunto dire che esso è quell’altro dal finito che avrebbe come caratteristica quella di non esser affatto «un altro» (ché altrimenti sarebbe anch’esso un semplice «finito» – e non l’infinito che invece dice di essere). O meglio, Severino sa bene che l’infinitudine che compete al dispiegamento infinito della terra nel cerchio finito dell’apparire non può coincidere «con la totalità concreta dell’essente»95. Ma, per lui, l’incompatibilità tra un qualsiasi tipo di totalità e l’infinito è tale solo nell’orizzonte del nichilismo, ossia per lo sguardo che caratterizza la terra isolata. Ché, in verità, il dispiegamento infinito della terra non è per lui che un tratto della totalità concreta dell’essente. Stante che «la totalità concreta dell’essente non è identica, ma include questo insieme infinito (e anzi, un’infinità di insiemi infiniti)»96. Peccato che subito dopo lo stesso Severino, pur avendo negato che si possa parlare di incompatibilità tra infinitudine e totalità, e dunque avendo fatto valere la prima come semplice tratto della seconda… nel riferirsi più specificamente alla totalità concreta dell’essente, evochi qualcosa come «quell’insieme infinito di determinazioni di cui il dispiegamento infinito della terra sarebbe manifestazione»97. Insomma, quel che sembrava compreso o incluso nella totalità concreta (ossia, l’infinitudine), torna a qualificare la stessa totalità concreta. Ossia peccato che, dopo aver opportunamente distinto la totalità dall’infinitudine, Severino riproponga – come nulla fosse – la perfetta coincidenza dei due concetti. Certo, l’infinità in cui consisterebbe la totalità concreta dell’essente non è una totalità che chiude il dispiegamento infinito della terra entro un limite arbitrariamente posto; ma 95. E. Severino, La Gloria, cit., p. 156. 96. Ibidem. 97. Ibidem.
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rimane comunque intesa, nelle sue pagine, come «il contenuto eterno di questo stesso infinito dispiegamento»98. Che, proprio in quanto in-finito – ed è Severino stesso a riconoscerlo – «non può entrare compiutamente nel cerchio dell’apparire»99. Ma ancora una volta, l’implicito di questa affermazione è che la totalità infinita sia qualcosa di «compiuto»; ossia di necessariamente “finito”. Eppure «il compiuto» è proprio ciò che “finisce” nel proprio compiersi; d’altro canto, come potrebbe qualcosa apparire, se non si «de-terminasse» e dunque se non finisse là dove qualcos’altro da esso fosse in grado, proprio in quanto altro dal medesimo, di disegnarsi come «altro», sì da renderlo distinguibile come tale, sancendone in uno l’ineludibile “finitezza”? Perciò non si dovrà dire – come fa Severino – che la terra come totalità infinita «non è destinata ad apparire»100; che essa non è destinata ad apparire perché l’insieme infinito di essenti che la costituiscono sarebbe impossibilitato ad «entrare compiutamente nel cerchio dell’apparire»101. Anche perché non c’è alcuna compiuta infinitudine cui sia vietato di entrare nell’apparire; stante che l’infinito non è qualcosa che possa o meno entrare nell’apparire. Ad entrare nell’apparire essendo piuttosto sempre e solamente «la finitezza»; in relazione a cui, appunto, l’infinito indica solo la verità del suo apparire, che è sempre manifesta come tale là dove il finito venga appunto riconosciuto come quel che non è mai quel che è, e dunque là dove questa sua strutturale in-finitudine (da intendersi quindi come semplice negazione di una finitezza destinata a dire la determinatezza con cui esso sempre si manifesta) venga riconosciuta come 98. Ivi, p. 158. 99. Ivi, p. 159. 100. Ibidem. 101. Ibidem.
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palese e perfettamente presente «verità» di tutto quel che si manifesta. Perciò il vero volto del finito non è “altro” da quello che si presenta nel cerchio finito dell’apparire. O meglio, non può esserlo. Perciò l’esser sé dell’essente si costituisce in verità come il suo stesso originario non-esser-sé; un non esser sé che non può esser concepito come il suo esser altro da quel che è – è lo stesso Severino, d’altro canto, ad averci insegnato che l’esser sé non può esser altro da sé. Il punto è che il non esser sé dell’essente, considerato alla luce della concreta infinità della Gioia, non indica affatto «altro» da quel che appare alla luce dell’apparire finito. O ancora, non può indicare un altro. Ovvero, si può credere che esso indichi “altro”, solo là dove si creda che l’apparire dell’esser sé dell’essente comporti «l’apparire della totalità dei tratti persintattici che appunto costituirebbero la concretezza dell’esser sé»102. Ma, come stiamo vedendo, anche per Severino quella totalità indica una semplice infinitudine – e dunque qualcosa che non può assolutamente indicare una qualche, per quanto estesa e immensa, quantità di tratti… anzitutto perché l’infinito dice, come tale, la semplice «negazione» di qualsivoglia compiuta o definita parzialità (fermo restando che, a compiersi, può essere solo una parzialità, anche perché il compiersi indica comunque una qualche de-finitività… o anche, il non doversi in alcun modo più sviluppare… d’altronde, l’utilizzo del concetto di «compimento» può risultare familiare e comprensibile solo agli occhi di colui il quale abbia una qualche familiarità con l’esperienza dello «sviluppo», ossia di ciò che, solo, può mirare ad un qualche compimento).
102. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 43.
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Ecco perché non è affatto vero che, alla luce di quella «infinità di infinità»103 in cui consisterebbe il luogo inaccessibile della totalità dell’essente, si debba dire che altro è il «vero» modo d’essere di quel che, nell’orizzonte della terra isolata, appare come «mondo». Anche in ragione del fatto che, dicendo questo, Severino contravverrebbe al principio da lui stesso stabilito; secondo il quale è appunto impossibile che qualcosa sia altro da sé. In verità, sempre in conformità alla potenza della struttura originaria che Severino stesso ha saputo disegnare, riconoscendo in primis l’ineludibilità della contraddizione C e il suo costituirsi come momento imprescindibile della struttura originaria dell’essente, si dovrà dire, sempre di ogni essente, che esso in verità non sarà mai quel che, del medesimo, può apparire nell’orizzonte dell’isolamento della terra… senza che ciò ci autorizzi comunque ad affermare l’esser-altro di quel che, nel cerchio dell’apparire finito, appare nel modo in cui appare. Eppure, è lo stesso Severino a non corrispondere a questa impossibilità; affermando, per esempio, che «l’isolamento del qualcosa da ciò a cui esso è così unito implica che il qualcosa appaia in modo diverso, ossia come altro da come il qualcosa appare quando appare nella sua unione al qualcos’altro»104. In modo tale che questo rovesciamento comporti anche «l’alterazione della traccia del destino nella terra»105. Il fatto è che, in verità, se il destino avvolge già da sempre ogni essente ed ogni interpretazione, è impossibile che appaia altro da quel che l’omniavvolgente abbraccio del destino fa essere106; essendo proprio quest’ultimo (l’abbraccio del desti103. E. Severino, La Gloria, cit., p. 161. 104. Ivi, p. 69. 105. Ivi, p. 70. 106. Scriveva a questo proposito Severino che «la verità non si oppone al contenuto dell’errore come a qualcosa che sia riuscito ad essere e che, es-
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no) necessariamente responsabile anche del modo in cui appaiono le cose della terra isolata. Eterne, anch’esse, e inscritte nella Gioia del tutto, come lo stesso Severino ci spiega bene già in La morte e la terra. Solo che, quel che è, nel modo in cui il destino lo fa essere, dice, in-uno, anche il suo non essere mai quel che viene detto dalla sua (di quel che è, anzi, di tutto quel che è) determinatezza. Senza che ciò significhi che, della verità che di esso sancirebbe il destino, possa apparire solo una traccia; stante che la traccia, per apparire come traccia del destino, implica necessariamente l’apparire del destino in quanto tale. Ossia, del destino nella sua «concretezza»; in conformità a quella che non potremo mai ricondurre a una semplice «determinatezza». Stante che il determinato dice in ogni caso un modo della finitezza. Il destino, infatti, chiama in causa la molteplicità infinita dell’essente. Ma soprattutto… una molteplicità che non è infinita in quanto quantitativamente più articolata e complessa, ossia, in quanto più ampia estensivamente (come continua di fatto ad intenderla Severino sino a La morte e la terra). Perché qualsivoglia «determinazione» della totalità finirebbe per rendere intollerabilmente «finita» quella stessa totalità; ossia, sancirebbe la sua intrascendibile parzialità. Ovvero, il suo non esser mai la totalità che pur dice d’essere. D’altro canto, è proprio la parzialità del finito a costituirsi come realmente intrascendibile; stante che ogni suo oltrepassamento, là dove venisse a costituirsi come concretamente determinato, negherebbe di aver disegnato, proprio esso, il confine ultimo di quel che è. Così come negherebbe di poter-
sendo, ostacoli e limiti e giunga ad annientare il regno della verità; essa gli si oppone, in quanto pone la differenza tra ciò che è e ciò che è impossibile che sia. E la verità non si apre se non come opposizione alla propria negazione» (E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 453).
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si costituire come l’oltrepassamento già da sempre compiuto che sembra poter convenire solo alla totalità dell’essente (alla totalità dell’essente in quanto connessa a quella totalità infinita dei cerchi dell’apparire che non può non esser a sua volta connessa alla totalità infinita dello sfondo persintattico del destino). Ché, se esso fosse già da sempre «determinato», non sarebbe la totalità; tantomeno una totalità infinita. Insomma, a portarci fuori strada è proprio il concetto di totalità; che Severino connette a quello di infinito, facendoci credere che l’infinito qui chiamato in causa esprima una qualche «compiutezza». Come quella che caratterizzerebbe appunto ogni finito in quanto determinato e disegnabile secondo la sua propria determinatezza. Ecco perché Severino non riesce mai a dire quale sia l’altro modo d’essere dell’essente… quello in cui dovrebbe riuscire a mostrarsi la sua verità – la stessa che, in ogni caso, sembra potersi dare solo in relazione all’apparire concreto della totalità. Il fatto è che l’esser sé dell’essente, ossia l’essente inscritto nel cerchio finito dell’apparire conformemente alla verità originaria del destino, non riesce a «distinguersi». Appunto perché, per distinguersi, dovrebbe potersi distinguere anzitutto dalla totalità concreta dell’iposintassi e della persintassi del destino; quella che peraltro non può in alcun modo distinguersi, appunto perché ha a che fare con l’infinito. Così come è impossibile anche solo distinguersi dal nomos di cui tale infinitudine sarebbe originaria espressione. E secondo una impossibilità che ha a che fare, in questo caso, con il semplice fatto che la negazione del destino è originaria «auto negazione». E dunque con il suo originario non-costituirsi; in forza di quel suo non-costituirsi che, peraltro, si riflette in primis nel non-costituirsi da parte del nulla come altro dall’essere (come abbiamo mostrato in L’aporia del fondamento). Fermo restando che il «negarsi» da parte della negazione del destino è rilevabile solo là dove si sia preliminarmente co-
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stretta tale «negazione» a conformarsi alla legge del destino (ossia al differenziarsi dei differenti) – come abbiamo mostrato in Il tempo della verità (Mimesis, Milano 2010) e in Filosofia dell’errore (Bompiani, Milano 2012). Insomma, solo se la legge del destino è intrascendibile, il negarsi della sua negazione dice il non costituirsi, da parte di questa stessa negazione, come una negazione del destino. E d’altro canto, la legge del destino è intrascendibile appunto perché, chiunque volesse provare a distinguersi dal destino, sì da riuscire a trascendere la sua legge, proprio nel porsi al di là di quest’ultima, finirebbe per confermarne l’intrascendibilità (appunto, differenziandosi dalla medesima). Perciò la vera «negazione del destino» non si contrap-pone al destino ma, del «destino», dice piuttosto l’autentica destinazione. Evidenziando appunto come la differenza (ovvero, il nomos del destino) non possa mai differenziarsi da alcunché; e mettendo per ciò stesso in evidenza, sia pur paradossalmente, il non costituirsi come legge intrascendibile da parte della «differenza». Ossia, mettendo in evidenza che non tutto si differenzia: almeno la legge in cui consiste il differenziarsi, infatti, non lo fa. E non può farlo; perché, proprio là dove riuscisse a differenziarsi da una legge opposta, cioè altra da essa, finirebbe per stringere in un abbraccio mortale questa stessa supposta altra legge… in quanto destinata a rendere evidente almeno questo: che nessun nomos può porsi al di fuori dell’abbraccio disegnato dalla legge costituita dal «differenziarsi» (quello stesso che consente, al “supposto fuori rispetto al destino”, di costituirsi appunto come distinto da quest’ultimo). Neppure la legge che volesse dirsi indipendente dal differenziarsi potrebbe farsi «diversa», e per ciò stesso estranea rispetto al destino; appunto in quanto libera, e dunque altra, cioè non toccata dal suo abbraccio. E da esso, dunque, inevitabilmente «differenziantesi».
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Insomma, proprio perché nulla può sfuggire alla legge del differenziarsi, il differenziarsi non è legge intrascendibile; perché, almeno di essa, si deve riconoscere che non riesce in alcun modo a «differenziarsi». Perciò il differenziarsi non si differenzia; e dunque non è legge intrascendibile. E proprio nel mostrare (riuscendoci, peraltro!) la sua stessa e originaria «intrascendibilità». Per questo la legge intrascendibile è tale solo in quanto destinata a non esserlo; perché è essa medesima a mostrarsi non toccata dalle proprie implicazioni; ossia a riuscire a non distinguersi, ossia a non differenziarsi – per quanto senza porsi al di là del suo differenziarsi. Senza costituirsi, cioè, come altra da sé. Perciò il differenziarsi è nomos della totalità dell’essente nella misura in cui non lo è; lo è, cioè, non essendolo. Ma cosa dice tutto questo, se non che, a negare il destino, sarebbe in primis il destino medesimo? Il quale, proprio per questo, implica il semplice e originario non essere quel che è da parte di tutto quel che è – senza che ciò ci autorizzi ad affrontare il problema relativo all’essere altrimenti conformato da parte di tutto quel che è. Senza consentirci cioè di tradurre il me-on qui in gioco in un semplice eteron (secondo quanto avrebbe invece voluto il Platone del Sofista107). Solo in tale prospettiva ci è dunque dato capire per quale motivo la verità non abbia di contro a sé la propria negazione; essendo anche quest’ultima, in verità, originaria espressione del proprio non-esser-quel-che-è… ossia, perfetta manifestazione della propria «negazione» – anche solo in virtù del riconoscimento, in essa, del suo stesso originario negarsi. In quanto, cioè, l’apparire della sua determinatezza, e della determinatez107. Questione, questa, su cui ci siamo lungamente soffermati in Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004.
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za di ogni essente, vengano riconosciuti come manifestazioni di quel che, in verità, è sempre e comunque manifesto nel realissimo manifestarsi da parte del suo stesso originario negarsi. Sì che il suo apparire sia lo stesso suo negarsi; quel «negarsi» che, peraltro, non può venire in alcun modo riconosciuto, a meno che non appaia la «determinatezza» per esso appunto negantesi. A meno che non appaia, cioè, la realissima intrascendibilità del «differenziarsi» in quanto principio originario dell’essente (in quanto valevole, cioè, come lo stesso senso originario del destino) – quella intrascendibilità che è la stessa di fatto responsabile del suo (del principio del differenziarsi) originario costituirsi come espressione di quella che da ormai qualche anno abbiamo cominciato a definire aporia del fondamento.
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La questione dell’infinito nel pensiero di Emanuele Severino In margine a La Gloria
Se nell’inconscio del cerchio finito dell’apparire, l’oltrepassamento della contraddizione del finito (e ogni contraddizione è riconducibile alla contraddizione C) è l’oltrepassamento eternamente compiuto e concretamente totale, poiché questo oltrepassamento totale non può sopraggiungere, è necessario che nel cerchio finito dell’apparire l’oltrepassamento della contraddizione del finito sia un oltrepassamento infinito e mai compiuto, cioè che il sentiero che la terra percorre inoltrandosi nel cerchio dell’apparire non sbocchi in alcuno spettacolo definitivo, ma prosegua infinitamente, e sia pertanto il sentiero della Gloria. (Emanuele Severino, La Gloria)
Che nel pensiero di Emanuele Severino1 il concetto di «infinito» rivesta un ruolo «decisivo» è provato anzitutto dal suo
1. In questo saggio ci siamo confrontati, nello specifico, con le pagine di La Gloria, cit., e abbiamo scelto di non appesantire il tutto con troppe note. Anche perché, a qualsivoglia lettore di Severino, non sarà difficile rintracciare le molte citazioni di specifici passi tratti dal testo con cui Severino si propone di «risolvere» le questioni aperte da Destino della necessità, cit., e soprattutto non sarà difficile capire che, in fondo, tutto questo scritto è «una citazione» o «una parafrasi», più o meno implicita, delle pagine del testo in questione (insomma, una sorta di vero corpo-a-corpo con le pagine di quello che è stato e rimarrà sempre mio «maestro») animato peraltro dalla convinzione di poter mostrare come siano proprio le derive aporetiche connaturate al linguaggio
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aver strettamente a che fare con quella che il filosofo bresciano chiama propriamente la Gioia del Tutto. Ossia con la verità dispiegata e concepita nella sua massima concretezza. Quando si riferisce all’apparire infinito, infatti, il nostro intende indicare più specificamente l’apparire della totalità concreta dell’essente. E non è tutto; perché, l’apparire infinito costituisce, sempre nell’orizzonte del suo discorso, anche la condizione necessaria affinché si costituisca qualcosa come «l’esser sé dell’essente». Stante che l’esser sé dell’essente sarebbe contraddittorio se l’apparire infinito non fosse. È proprio quest’ultimo, cioè, a rendere concreto il toglimento della totalità delle contraddizioni del finito (ossia, del cerchio finito dell’apparire). E, giustamente, Severino precisa anche come questo cerchio infinito dell’apparire non sia il cerchio del destino in cui sopraggiunge la terra; il quale è, invece, rigorosamente «finito». Perciò diventa necessario, ai suoi occhi, che quest’ultimo oltrepassi ogni configurazione gli possa competere nell’orizzonte di quel che sopraggiunge – impedendo che una qualsivoglia configurazione della terra (del cerchio finito dell’apparire) si costituisca come «ultima» o definitiva. In ciò il motivo che lo legittima a sostenere che la configurazione costituita dall’isolamento della terra dal Destino non possa assolutamente chiudere il corso del sopraggiungere. Per questo, come ogni «oltrepassato», anche l’isolamento della terra sembra destinato a mostrarsi come un passato. O, in modo ancora più radicale, il cerchio finito dell’apparire del destino è destinato alla vita eterna. Nel senso, però, del suo non potersi che costituire come dispiegamento infinito della vita; un dispiegamento vocato altresì ad oltrepassare ogni propria specifica configurazione (e dunque anche l’isolamento della terra). del Destino a spingere questo stesso linguaggio a dare voce proprio a ciò che esso avrebbe in actu signato voluto mettere alle corde.
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Ma soprattutto, e ancora per il medesimo motivo, lo stesso «sopraggiungere» non sarà mai «compiuto» – e perciò è necessariamente destinato ad allargarsi all’infinito. Già in queste prime battute dovrebbe quindi essere emerso – e con sufficiente chiarezza – un primo elemento «problematico», all’interno di un discorso che non si fa certo scrupoli ad attribuirsi lo statuto di autentica testimonianza della verità. Di una verità che sembra anzitutto comportare – val la pena ricordarlo – l’impossibilità della contraddizione (pur concedendo che ci si possa contraddire). Il discorso di Severino, insomma, utilizza il concetto di «infinito» in due sensi: da un lato come indicazione di una totalità compiuta (che, solo in quanto tale, sembra poter implicare il toglimento della totalità delle contraddizioni), e dall’altro come testimonianza di quello svolgimento infinito che, invece, sembra non potersi mai dire «compiuto». Una differenza, quest’ultima, che non impedisce certo, a Severino, di sostenere che, in ogni caso, l’apparire infinito (già da sempre compiuto) «sarebbe anche», e assolutamente, questo cerchio finito (quello che mai può infatti compiersi); avendolo necessariamente liberato dalla totalità delle contraddizioni che competono al finito in quanto tale (rese tutte possibili dalla contraddizione C). È infatti solo in virtù di questa identità che la contraddizione del finito può nello stesso tempo dirsi eternamente oltrepassata – per quanto non tolta dal divenir-altro del finito (stante che, per Severino, quella del divenir-altro è la figura che più di ogni altra incarna la “malattia” costitutiva dell’Occidente). D’altro canto, la contraddizione compete all’esser-sé dell’essente solo là dove quest’ultimo non appare nella sua totalità. Mentre non lo sfiora neppure, là dove quest’ultimo riesce a manifestarsi alla luce dell’apparire infinito del destino, come l’assoluto esser-se-stesso di quel che è eternamente libero dalla contraddizione. Come espressione, cioè, di quella Gioia che
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Severino distingue appunto dalla Gloria – la quale compete, invece, all’infinitudine connessa al mai compiuto allargarsi della terra alla luce del cerchio finito del destino. Ossia, all’incompiutezza che caratterizza quello che abbiamo indicato come il secondo senso attribuito da Severino all’infinito. Quello che va riconosciuto, cioè, alla luce del fatto che nessun cominciante può «diventare» necessariamente unito all’apparire dello sfondo sul quale esso di volta in volta sopraggiunge. Infatti, se un’unione necessaria cominciasse ad essere, allora comincerebbe ad essere anche l’esser sé dell’essente – cominciando, come tale, a partire da una dimensione in cui esso non sarebbe ancora esistito. Ecco perché, sempre secondo Severino, l’incominciante apparire non incomincia ad essere, ma solo ad apparire. Sì che, ogni volta, esso cominci ad apparire, appunto, come eterno cominciante apparire – che, comunque, ribadiamo, in quanto cominciante apparire, non può apparire sempre nel cerchio dell’apparire (non può apparire, cioè, non cominciando ad apparire). Solo per questo il sopraggiungente non può apparire come inoltrepassabile – ché ciò significherebbe farlo diventare altro dal “cominciante” che esso è… e quindi eternamente unito allo sfondo (e dunque non-cominciante). Per questo il sopraggiungere della terra deve dispiegarsi all’infinito, sempre secondo l’accezione del concetto di infinito che dice appunto il semplice non potersi dire mai compiuto da parte dello spettacolo dell’apparire finito – dove, cioè, quel che appare è sempre un incominciante apparire. Sì che inoltrepassabile possa essere solo l’esser oltrepassati da parte di essenti sempre oltrepassabili, e l’oltrepassamento mai compiuto e definitivo… secondo quanto compete appunto allo svolgimento della Gloria. Ma è sin d’ora evidente che, all’interno di questo mai compiuto processo, consistente propriamente nell’oltrepassabilità caratterizzante qualsivoglia situazione determinata, la totalità degli essenti – precisa il filosofo bresciano – non appare.
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Fermo restando che, se quest’ultima non appare, allora, nel cerchio finito dell’apparire, ogni essente sarà destinato ad apparire diversamente da come esso sarebbe là dove apparisse invece alla luce della totalità degli essenti. Sì che il suo mostrarsi sia in quanto tale un essere in contraddizione (che, comunque, per Severino è cosa diversa dal suo invece impossibile essere qualcosa di contraddittorio). D’altro canto, sempre per Severino, anche quello dell’essere contraddizione (caratteristica che compete appunto ad ogni essente finito, in quanto compreso nel cerchio dell’apparire finito) è una ragione che spinge a riconoscere il suo dover essere incessantemente oltrepassato. Sì, perché quella che compete all’essente finito (in quanto impossibilitato ad apparire così come esso apparirebbe alla luce del cerchio infinito dell’apparire – impossibilitato ad apparire in questo modo per il semplice fatto che nel cerchio finito dell’apparire non può mai apparire il tutto concreto dell’essente) è la manifestazione della forma suprema della contraddizione. Per questo non solo ogni configurazione finita deve venire oltrepassata, ma lo stesso cerchio finito dell’apparire deve riconoscersi destinato alla Gioia – ossia, destinato a mostrarsi nell’apparire infinito della Gioia come espressione perfetta (e non “caduta”) del tutto concreto. E, sempre per l’identico motivo, dovrà riconoscersi già concretamente oltrepassata finanche la contraddizione propria dell’isolamento della terra. Per questo, la struttura originaria del «destino» vede la contraddizione avvolta da un “oltrepassamento” (indipendentemente dal quale le figure dell’isolamento apparirebbero come figure non negate – ed è impossibile che l’essente includa come «non-negato» l’errore) alla luce del quale, comunque, ancora non appare lo stato in relazione a cui la contraddizione può dirsi concretamente oltrepassata, ossia quest’ultima non appare avvolta dalla Gioia (riconducibile al proprio oltrepassamento eternamente compiuto), ma
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come semplice verbum della Gloria. Ossia, di un processualità necessariamente mai compiuta che, pur essendo da sempre avvolta dalla luce della Gioia, non ne conosce ancora il volto concreto. Ancora una volta, insomma, i due modi dell’infinità: quello concreto e compiutamente realizzato, da Severino connesso al concetto di Gioia, e quello indicante invece un processo comunque “glorioso” – in quanto già da sempre avvolto da quella stessa Gioia –, ma incapace (e per ciò stesso astratto) di vedersi per quel che esso peraltro deve già essere e che, solo, comunque, può rendere «gloriosa» la sua processualità. Ed è proprio in quanto apertura della scena costituita da tale processo glorioso che la terra isolata è comunque destinata al tramonto. Stante da un lato l’impossibilità, per la terra, di imbattersi in un luogo inoltrepassabile (la terra infatti non può mai «compiere» il processo degli infiniti oltrepassamenti – altrimenti diventerebbe un luogo inoltrepassabile, proprio in quanto «compiuto») – ragion per cui il sentiero della Gloria non può arrestarsi in alcuna configurazione inoltrepassabile della terra), e dall’altro il suo (sempre della terra) ritrovarsi comunque destinata ad oltrepassare definitivamente il proprio isolamento (pur conservandolo eternamente come eternamente passato). Sembra cioè necessario che sopraggiunga un essente da concepirsi come il luogo in cui la contraddizione dell’essente sia insieme oltrepassata e conservata. Conservata cioè come perfectum, e dunque come tramontata – ciò che nulla ha a che fare, comunque, con il sopraggiungente inoltrepassabile. Conservata quindi come già da sempre tramontata altrove rispetto al cerchio dell’apparire del destino – in un altrove che sarà poi lo stesso apparire infinito del tutto, concepito da Severino come l’inconscio più profondo del mortale e del cerchio finito dell’apparire». Da cui la distinzione di un’attualità «in sé», quale quella dell’apparire infinito, da un’attualità che compete invece il
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cerchio finito dell’apparire, rispetto a cui la prima si costituisce appunto come ciò che in quest’ultimo non appare (e perciò viene definita kantianamente «in-sé»). E che oltrepassa da sempre la destinazione della terra al dispiegamento infinito; che la oltrepassa in una dimensione che «non appartiene» però al dispiegamento infinito (o meglio, mai compiuto) della terra, e dunque non appare in quest’ultimo quanto al suo contenuto concreto e determinato (non appare, cioè, all’interno del cerchio originario in cui consiste il cerchio dell’apparire finito). Certo, secondo Severino, se per un verso è necessario che l’oltrepassante (il cerchio infinito come dimensione «in-sé») appartenga all’originario apparire trascendentale (al cerchio finito dell’apparire) – altrimenti non potrebbe neppure venire affermato ed evocato all’interno di quest’ultimo –, per un altro verso è invece necessario che l’oltrepassante non appartenga alla totalità attuale dell’incominciante (quella che si dispiega all’interno del cerchio trascendentale dell’apparire). Ciò che oltrepassa la totalità attuale del cominciante non appare infatti attualmente, ma nello stesso tempo anche questo non apparire può venire affermato solo nella misura in cui appare. Dove, a non apparire, sarebbe comunque solo il contenuto «concreto» dell’oltrepassante apparire, e non la sua forma astratta – che invece appare, e solo in quanto appare, ci consente di avere notizia dell’apparire infinito e concreto del tutto. Sì che il non contraddicentesi esser-sé dell’apparire finito (ciò che l’apparire finito è in verità, per quel che esso deve essere nell’orizzonte della Gioia) sia quello stesso che, nell’apparire finito, si mostra appunto come il contraddicentesi esser-sé. Eccoci così, di nuovo, alla stessa problematicità evocata poco sopra: l’esser-sé, nella concretezza assoluta del suo essere, viene concepito da Severino come l’esser-sé di una totalità infinita e concretamente determinata dell’essente. «Determinata», dunque… anche la totalità infinita in cui consisterebbe l’apparire infinito del destino dell’essente, sempre per il filoso-
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fo bresciano. Solo questa sua determinatezza, infatti, consente al nostro di intendere il luogo da essa disegnato come «un altrove». Ossia, come altro da quello disegnato invece dall’apparire finito del destino. Altro, ma da sempre costituentesi, appunto, come realizzato oltrepassamento dell’apparire finito (come oltrepassamento già da sempre compiuto, precisa Severino). Ché, senza tale già realizzato oltrepassamento, la contraddizione implicata dall’apparire finito non sarebbe già da sempre oltrepassata – e dunque ci si troverebbe costretti ad ammettere che una qualche contraddizione possa risultare non oltrepassata. Ma ciò è impossibile. Fermo restando che questo già da sempre realizzato oltrepassamento non destituisce affatto l’alterità dei due orizzonti – quello dell’apparire finito e quello dell’apparire infinito –; come dire che l’esser già da sempre oltrepassata nella Gioia da parte della Gloria caratterizzante l’apparire finito non fa venire in alcun modo meno l’alterità tra l’oltrepassante e l’oltrepassato. Ma, che le cose possano stare in questo modo è un problema; anche solo per il fatto che, se l’oltrepassamento è già da sempre realizzato, diventa quanto mai difficile comprendere come sia possibile che il dolore e il piacere che appaiono nell’isolamento della terra siano altro da ciò che essi mostrano di essere in quel cerchio finito che, se non attende un oltrepassamento che sarà invero già da sempre accaduto (infatti il dispiegamento della terra isolata è concepito da Severino come infinito, come ciò che non può mai giungere a farsi orizzonte inoltrepassabile), sembra destinato a manifestarli (quel dolore e quel piacere) in conformità ad un’astrattezza che, per quanto già da sempre superata, deve esser posta come nello stesso tempo anche insuperabile, data l’infinità del processo che disegna lo svolgimento dell’apparire finito del Destino. E dunque come destinata a non farci mai sapere cosa esse siano nell’orizzonte della Gioia. A non mostrarlo mai, cioè, all’in-
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terno di un’astrattezza il cui superamento sarà esso medesimo, dunque, un «in-sé»… rispetto al modo in cui il dolore e il piacere appaiono in una terra isolata che mai potrà assumere un volto definitivo, ossia guadagnare una compiutezza che, in quanto manifesta nell’orizzonte finito del destino, sarebbe in ogni caso oltrepassabile. E dunque non potrebbe mai essere la compiutezza che può comunque illudersi di essere. Quel piacere e quel dolore, dunque, pur dovendo procedere anche nella Gloria dispiegantesi dopo il tramonto dell’isolamento, non saranno mai l’infinito e saranno dunque sempre contraddizione. Per questo rimarrà sempre ferma la differenza tra l’infinito aprirsi della Gloria all’infinito e la Gioia dell’infinito. Queste, le parole di Severino; che insiste a porre la relazione tra la Gloria e la Gioia come un rapporto di vera e propria «differenza». Giustificando in questo modo il proprio concepire l’apparire infinito come un «altrove» rispetto al cerchio del Destino (all’apparire finito). Ancora una volta, dunque, ne consegue che, tra i due sensi dell’infinito, vige, secondo il nostro filosofo, un semplice rapporto di «alterità» – necessariamente pensato, riteniamo di dover precisare, sulla scorta del modo in cui l’alterità si presenta nell’orizzonte disegnato dal cerchio finito dell’apparire. Questo implica infatti che la struttura originaria del Destino faccia dell’esser-sé dell’essente qualcosa di assolutamente inseparabile dal suo escludere quel che si configuri come altro rispetto al medesimo: un altro che, in quanto escluso dall’esser-sé, non potrà che configurarsi, esso medesimo, come un irrimediabile «in-sé». Così si esprime, d’altro canto, lo stesso Severino, nelle pagine de La Gloria: egli afferma che, se, nell’inconscio del cerchio finito dell’apparire, l’oltrepassamento della contraddizione del finito è l’oltrepassamento eternamente compiuto e concretamente totale, poiché questo oltrepassamento totale non può sopraggiungere, è necessario che nel cerchio finito dell’appa-
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rire l’oltrepassamento della contraddizione del finito sia un oltrepassamento infinito e mai compiuto… cioè che il sentiero che la terra percorre inoltrandosi nel cerchio dell’apparire non sbocchi in alcuno spettacolo definitivo… ma prosegua infinitamente, e sia pertanto il sentiero della Gloria. Una Gloria, dunque, sempre necessariamente «ignara» del senso che quello stesso che nel suo svolgimento sopraggiunge avrà già da sempre guadagnato alla luce della totalità concreta contenuta nel cerchio infinito dell’apparire. Un infinito, dunque, quello che compete alla Gloria, destinato ad ignorare il secondo senso dell’infinitudine – che compete comunque a quello stesso che, per quanto inscritto nella sequenza dei sopraggiungenti, è anche già da sempre oltrepassato dall’infinitudine concreta della Gioia. L’alterità escludente viene dunque applicata, di fatto, dal discorso del Destino, allo stesso esser sé dell’essente rispetto a se medesimo. La differenza, cioè, non vale solo in rapporto al non potersi mai “congiungere” da parte del cerchio finito al cerchio infinito del Destino, ma finanche per l’esser-sé dell’essente in rapporto a se medesimo. A costituirsi, insomma, come un in sé rispetto a se medesimo è lo stesso esser sé (concepito in rapporto al suo stesso trovarsi illuminato dalla Gioia del tutto). Per questo l’esser-sé verrà a configurarsi come un «in-sé» in rapporto a quel che, del medesimo, si mostra in quanto avvolto dalla contraddizione nel cerchio finito dell’apparire. Perché il tutto che appare non sarà mai il tutto. In quanto non potrà mai contenere la totalità concreta delle determinazioni dell’essente. Ma allora quello che Severino sembra indicare come il problema non risolto costituito dalla possibilità che quello che attualmente appare sia la totalità concreta dell’essente, non è affatto un problema; se è vero che l’essente che appare, in quanto rapportantesi ai tratti categoriali della totalità concreta
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dell’essente, dovrà presentarsi in ogni sua parte con un volto diverso da quello che le compete nella situazione in cui quel problema non è ancora risolto. Ciò che appare attualmente non può infatti essere il volto della totalità concreta; appunto perché, nell’orizzonte della Gioia, il suo volto sarà comunque diverso da quello (problematicamente o meno che sia inteso) che lo caratterizza in quanto sopraggiungente, e dunque in quanto inscritto nell’orizzonte disegnato dal cerchio finito dell’apparire. Per questo è impossibile che l’apparire infinito sia un eterno che sopraggiunge nel cerchio finito dell’apparire» – d’altronde, se un tale sopraggiungere fosse possibile, il cerchio finito verrebbe immediatamente annientato dal sopraggiungere dell’apparire infinito. Quello che, solo, può dirsi compiutamente libero dalla contraddizione C – implicata appunto dal fatto che, nel cerchio finito dell’apparire, il Tutto che appare non sarà mai il tutto, ma solo l’apparire formale del medesimo. Perciò a Severino non resta che utilizzare il linguaggio psicoanalitico, e suggerirci che l’apparire infinito, in quanto verità dello stesso apparire finito, dovrà rapportarsi a quest’ultimo come l’inconscio freudiano alla coscienza. Non come un estraneo, però, bensì come ciò che l’apparire finito non può fare a meno di riconoscere come il più vero se stesso. Per questo, agli occhi del nostro, nella terra devono essere presenti inconfondibili tracce del destino; per quanto il Destino si ritrovi in tali tracce sostanzialmente «rovesciato». E quindi come altro da ciò che la stessa terra sarebbe là dove apparisse unita al Destino – ossia, alla totalità concreta dell’essente. Ancora una volta, dunque, l’istituzione di una incomponibile alterità nel cuore dell’essente. Alterità che non viene smussata, peraltro, neppure all’interno di quello che Severino concepisce come oltrepassamento concreto e compiuto della contraddizione (che attende neces-
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sariamente la terra, in quanto quest’ultima sappia riconoscersi come svolgimento della Gloria del Destino). Che peraltro viene messa anche radicalmente in questione, in quanto differenza, sempre dal discorso del Destino, là dove si precisa che, nell’oltrepassamento concreto e compiuto della contraddizione in cui consiste l’isolamento della terra, del dolore e dell’angoscia non appare soltanto la loro rappresentazione, ma la contraddizione o dolore reali in carne ed ossa… così come è reale e in carne ed ossa lo stesso oltrepassamento. Insomma, per un verso si fa penetrare la differenza nel cuore dell’essente (che proprio per questo, nello svolgimento della Gloria, non appare mai così come esso è dal punto di vista del compiuto oltrepassamento della terra isolata), e per un altro verso si rende assolutamente incomprensibile questa stessa differenza; dicendo appunto che il dolore e l’angoscia connaturate alla terra isolata appariranno, anche alla luce dalla totalità concreta, così come apparivano nell’orizzonte dell’apparire finito. In carne ed ossa… dice Severino. Cioè in tutta la loro terribilità – ossia, così come apparivano in quanto non ancora manifeste alla luce della totalità concreta. Ciò significa infatti che l’orizzonte della Gioia consente che le cose appaiano proprio così come apparivano là dove il significato concreto della Gioia non poteva essersi ancora reso manifesto. E dunque che il non isolamento lasci l’isolamento ancora isolato – rendendo del tutto incomprensibile il senso della differenza tra il non rovesciamento e il rovesciamento. Tra il non apparire del senso concreto della totalità e il suo apparire; stante che il suo apparire consentirebbe che le cose appaiano come apparivano in quanto non ancora connesse al suo apparire. Rendendo altresì incomprensibile cosa voglia dire che il necessario oltrepassamento della solitudine della terra comporti, per il destino della verità, il suo potersi manifestare non contrastato dall’isolamento della terra.
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Appunto perché, anche ad oltrepassamento avvenuto, le cose e le esperienze vissute nell’orizzonte isolato sembrano destinate ad essere ancora quello stesso che erano prima dell’oltrepassamento (che peraltro, dal punto di vista del Destino, è già da sempre avvenuto – sia pur in un “altrove” rispetto al sentiero disegnato dal dispiegamento infinito della Gloria). Continuando per ciò stesso a contrastare, invece, il destino della verità. In quanto eterne e dunque necessariamente identiche a sé (al sé costituito dal loro isolamento), anche se rapportantisi alla totalità concreta disegnata dal destinale oltrepassamento della solitudine della terra. D’altro canto, il dispiegamento infinito della Gloria comporta, proprio nella sua infinitudine, che quel che verrà da esso reso presente rimanga sempre quel che è (e quindi rimanga necessariamente ignaro del volto originariamente assegnatogli dall’eterna e dunque già guadagnata concretezza dell’apparire infinito), all’infinito. E dunque che anche l’apparire infinito appaia come «verità» di qualcosa che sarà comunque destinato a rimanere all’infinito ignaro della propria verità. Sì che la verità si trovi nell’impossibilità di diradare la caligine che avvolge l’essente – che lo avvolge, appunto, in quanto ignaro del proprio «altrove». E dunque si ritrovi finanche “condannata” a custodire il vero volto di un’umanità che, peraltro, non potrà mai conoscerlo, tale volto (mai conoscerlo, cioè, nella sua verità). Per quanto avvolto dal fascio luminoso già da sempre proiettato sul medesimo dalla verità concreta dell’essente. Insomma, sempre le due infinitudini: quella già da sempre guadagnata dagli essenti nel loro esser originariamente compiuti, e per ciò stesso oltrepassati in ragione di un’astrattezza resa peraltro riconoscibile, come tale, proprio dal rapporto con il cerchio infinito dell’apparire. In virtù del quale, solamente, l’infinità concreta può aver lasciato tracce visibili di se medesima lungo il sentiero della Gloria, e far così riconoscere l’astrat-
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tezza dell’astratto come condizione di insuperabile (e dunque da svolgersi all’infinito, senza possibilità di compimento) parzialità – sempre in rapporto ad un concreto che continuerà a manifestarsi all’infinito (appunto, come mai compiuto). Già da sempre compiuto e nello stesso mai compiuto: questo il destino dell’essente. Lo dice bene lo stesso Severino, e con la massima chiarezza, là dove evoca: «un dispiegamento che, per un verso, è già da sempre compiuto, e per un altro verso, invece, va manifestandosi all’infinito nel cerchio finito dell’apparire». Ma tale «differenza» non impedisce al nostro di sostenere anche che, nello svolgimento della Gloria, ossia nel processo del mai compiuto sopraggiungere di una terra isolata che, in ogni caso, non farà altro che rendere manifesta (nella forma finita e parziale che gli è propria) l’eterna e già da sempre compiuta totalità concreta, ossia, nel manifestarla (tale totalità), non potrà certo aggiungere alcunché al tutto eterno. Altrimenti quest’ultimo non sarebbe il tutto eterno; ma si ritroverebbe incompiuto e manchevole (proprio come l’orizzonte del cerchio finito rispetto a cui l’apparire infinito è appunto un «altrove» – dal quale, peraltro, il medesimo differisce nella forma radicale che, sola, può giustificare il suo costituirsi come “rovesciamento” del modo in cui lo si incontrerebbe dalla prospettiva dell’altrove). Lo svolgersi della Gloria, insomma, non può aggiungere nulla al cerchio della Gioia, ma differirà sempre dal medesimo. Allo stesso modo in cui l’incominciare ad apparire della terra non aggiunge mai niente al tutto dell’ente – nemmeno quell’ente che è lo stesso incominciante apparire dell’ente, ma nello stesso tempo differisce dall’eternità non sopraggiungente di quel che non sopraggiunge, e quindi costituisce un elemento dello sfondo dell’eterno apparire dell’ente. D’altra parte, qui, il problema chiamato in causa dal discorso di Severino è anche un altro (un problema che in questo
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contesto, peraltro, non possiamo certo affrontare – ché meriterebbe una specifica e approfondita trattazione): è cioè anche quello costituito dalla difficoltà di far stare insieme l’incominciare ad apparire di qualcosa che deve nello stesso tempo non esser mai cominciato ad apparire – stante che la terra sta eternamente nell’apparire comprendendo in sé quell’ente eterno che è il suo stesso cominciare ad apparire (ovvero, il suo accadimento) –, ma anche il suo cessare di apparire, con il fatto che il passaggio dal non apparire all’apparire e dall’apparire al non apparire presuppone da un lato che l’incominciare sia già cominciato (stante che il prima necessario affinché l’incominciare appaia come un effettivo cominciare appare, come tale, solo nel presente all’interno del quale, solamente, esso può apparire come il prima del cominciare, e rendere possibile l’apparire del cominciamento – lo stesso si dica anche per il “poi”, che non appare se non in quello stesso presente in rapporto a cui, solamente, esso può apparire come un poi) e che il cessare non sia affatto l’uscita dall’apparire di quel che, peraltro, cessa solo in quanto in qualche modo esca dall’apparire… se è vero che, per poter apparire come il suo esser uscito dall’apparire, il cessante deve necessariamente continuare ad apparire come “uscito”, e dunque deve nello stesso tempo non esser uscito dall’apparire. Per cui, così come il sopraggiungente appare come tale solo in quanto già sopraggiunto, allo stesso modo il cessante apparirà come tale solo in quanto non ancora cessato. Ad ogni modo è lo stesso Severino ad autorizzarci a muovere tali rilievi, se è vero che è proprio lui a premurarsi di precisare che l’apparire dell’incominciare può essere apparire del proprio cominciare solo in quanto non si riduce al proprio incominciare… ossia, non è un incominciare. E dunque che l’apparire dell’incominciare incomincia, ma nello stesso tempo non si esaurisce nel proprio incominciare… ma lo contiene.
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E cosa significa questo, se non che l’incominciare non comincia proprio in quanto contiene il proprio stesso cominciare? Insomma, se, nel prima in quanto “prima”, il poi può esser già compreso solo in quanto essi si relazionino all’interno di un medesimo apparire – in rapporto al quale, solamente, l’apparire dell’uno sarà sempre anche apparire dell’altro (e viceversa) –, allora i medesimi non possono che farsi figure di quel medesimo «presente» all’interno del quale, solamente, il prima può costituirsi come un «prima» e il poi come un «poi». E dunque il loro distinguersi (istituito dal presente, all’interno del quale, solamente, essi possono appunto distinguersi l’uno dall’altro) non implica davvero alcun nascondimento, ossia alcun non-apparire (né il non apparire del poi nel prima, e neppure il non apparire del prima, nel poi). Perciò il cessare non è un cessare e l’incominciare non è un incominciare. Perciò non è vero, come crede Severino, che l’ente che accade si mantiene nascosto sino a che incomincia ad apparire. Ad ogni modo, anche questa problematica – che abbiamo già precisato di non poter sviscerare, nella presente occasione, come sarebbe necessario –, è strettamente connessa al nostro tema; in quanto, anche in questo caso, ad emergere, è anzitutto il fatto che qualcosa venga posto come distinto e come non distinto insieme. Anche qui qualcosa viene posto come «prima» rispetto ad un «poi», e nello stesso tempo si dice che «il prima» appare solo nell’apparire del «poi» e il «poi» solo nell’apparire del «prima»; che il prima e il poi, dunque, possono dirsi distinti solo in virtù di quel non distinguersi che, solo, consente all’uno di essere sempre anche apparire dell’altro. Che indicano tempi diversi, cioè, in quanto il tempo del loro accadere sarà nello stesso tempo il medesimo: quello stesso «presente» nel cui orizzonte, solamente, il prima e il poi sembrano potersi manifestare l’uno come prima e l’altro come poi. Proprio come si è già visto doversi dire dell’infinito (dell’apparire infinito della totalità concreta) in rapporto a quel cerchio
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finito di cui lo stesso Severino si trova costretto a riconoscere il non esser altro dal primo. Anzi, di avere nel primo la condizione del suo stesso costituirsi come apparire di quella medesima Gioia (in cui consiste il primo, per l’appunto) che esso insegue e persegue attraverso l’oltrepassamento di qualsivoglia configurazione da esso solo provvisoriamente guadagnata (pur avendo guadagnato, in virtù della medesima, sempre anche una, per quanto parziale, comunque veritiera manifestazione della sua già da sempre guadagnata concretezza). Anche nello svolgersi della Gloria, infatti, sempre sulla base del discorso di Severino, si dovranno poter rintracciare le tracce di qualcosa che non sarà mai guadagnato (dal punto di vista del cerchio finito dell’apparire) proprio in quanto già da sempre guadagnato in un «altrove» che il medesimo apparire finito dovrà aver nello stesso tempo già da sempre guadagnato come il suo più autentico esser sé. Quello che dovrebbe finanche garantire che la sua incompiutezza sia insieme già da sempre compiuta nell’orizzonte dell’apparire infinito. La verità dell’incompiuta configurazione intrascendibilmente guadagnata (in ognuna delle infinite configurazioni del cerchio finito del Destino) rinvia infatti all’esser nello stesso tempo anche già da sempre compiuta da parte di quella medesima incompiutezza. I due infiniti, cioè, vengono già da Severino riconosciuti come insieme distinti e non distinti. Distinti in quanto, mentre la prima infinitudine sembra caratterizzare la parte in quanto destinata a non risolvere mai la propria finitezza – e dunque costretta a riconoscersi come infinità sempre puramente «potenziale» –, la seconda sembra invece alludere ad una compiutezza che non può svolgersi, proprio perché custodisce nel proprio cuore più profondo e intramontabile qualsivoglia possibile (anche suo) svolgimento. A dire che lo svolgersi della Gloria non svolge in verità nulla – come consegue anche dal semplice fatto che nulla potrà mai venire aggiunto (come abbiamo già visto), da parte di tale
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svolgimento, a quanto deve vivere come già da sempre compiuto nell’orizzonte concreto caratterizzante il cerchio infinito del destino. Insomma, ancora una volta: lo svolgersi è reale e infinito, ma nello stesso tempo esso non riesce a distinguersi dall’insvolgibilità di un eterno che, solo, di qualsivoglia finitezza, può dire il volto originario. Quello stesso che risulterà all’infinito (cioè «sempre») «rimosso», invece, dallo spazio mai compiuto del cerchio finito dell’apparire. In cui, a mancare, sarà dunque, ancora una volta, quel che, nello stesso tempo, lungi dal mancargli, ne illuminerà tutto lo svolgimento facendocelo riconoscere come itinerario “glorioso” di un’erranza in cui, a mostrarsi, sarà appunto un’eterna verità che purtuttavia mancherà sempre del proprio volto concreto. Il linguaggio della verità sembra dunque non poter che condurre Severino (o meglio, il linguaggio del Destino) a disegnare quella forma aporetica che è proprio esso a giudicare e qualificare come «impossibile». Mostrando che la stessa impropria distinzione tra l’infinitudine della Gloria e l’infinitudine della Gioia è destinata a sconfessarsi; o meglio a «negarsi» secondo un senso della «negazione», però, che la verità testimoniata da Severino non può riconoscere. Per quanto agisca nelle sue argomentazioni, rendendo palesemente riconoscibile l’incongruità di un’idea di infinitudine altrettanto incongruamente confusa con la nozione di totalità (la totalità concreta che competerebbe al cerchio infinito del Destino) che, in quanto concepita come «già da sempre risolta e compiuta», finisce per scivolare su quel piano della de-terminatezza di cui l’infinito è per definizione semplice «negazione». Ma può il discorso di Severino porsi in ascolto di una «negazione» che non si lasci risolvere nella semplice indicazione di qualcosa d’altro e di diverso dal negato? In conformità, peraltro, ad una riduzione forzatamente operata da Platone nel Sofista e ripresa da Severino nel quarto capitolo de La struttura originaria,
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là dove, per riuscire ad applicare il principio di distinzione all’essere e al nulla, il filosofo bresciano costruisce una raffinatissima macchina logica nel “disperato” tentativo di rendere pensabile il nulla non come semplice negazione-della-positività-dell’essere (ciò che gli avrebbe impedito di far valere il principio di distinzione o determinazione in rapporto all’opposizione ontologica originaria), ma come contenuto negativo (il nulla «significato», da lui distinto appunto dal «positivo significare» del nulla) concepibile ancora una volta come un semplicemente «altro» dall’essere. Il fatto è che, proprio come Platone, anche Severino rimuove la vera «negatività» – quella che risuona nel senso autentico del concetto di «in-finito», ma che Severino non può riconoscere e dunque finisce per ridurre ad un semplice «altrove», distinto appunto da una finitezza cui non potrà che venir consegnato il semplice fantasma della «vera infinitudine»… risolto dal discorso di Severino nel semplice non potersi dire mai compiuto (o anche, inoltrepassabile) da parte dello svolgimento di una finitezza costretta a tale indefinita destinazione proprio dall’aver lo stesso Severino preventivamente ma incongruamente concepito la vera infinitudine come semplicemente determinata «totalità». A destra e a sinistra del corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?), io preferisco sognare che queste superfici argentate figurino e promettano l’infinito. (Jorge Luis Borges, Finzioni)
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Risposta a Severino
Mi viene chiesto di rispondere a quanto Emanuele Severino scrive a proposito di un mio saggio uscito nel 2013 nelle pagine di «La filosofia futura»1. E lo faccio molto volentieri, anche perché le questioni che Severino mi pone sono «centrali»… se non decisive, ma poi anche per il debito che da tempo mi lega a quello che è stato il mio primo «maestro». D’altro canto, quasi tutto, di quello che so, in filosofia, lo devo a lui; ma soprattutto gli devo una scelta di vita di cui, a dire il vero, non mi sono mai assolutamente pentito. Ma veniamo subito alla questione. Comincerei col rilevare che, se per un verso, nella pagina dedicata al mio saggio vengono sviluppate varie osservazioni, tutte a loro modo importanti, una è comunque quella assolutamente pre-giudiziale; che, proprio in quanto tale, dovrà essere presa immediatamente in considerazione. Ci riferiamo al passo in cui Severino afferma che il dire secondo cui «X sarebbe e non sarebbe X» è un dire «contraddittorio». 1. Si tratta della risposta a un testo in cui Severino “commentava” un mio saggio uscito sempre nella medesima Rivista nel 2013. Questa mia risposta a Severino è stata pubblicata nel n. 3, 2014.
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Infatti, dal suo punto di vista, «la negazione non-escludente non è altro che la contraddizione»2. Ma stanno proprio così le cose? Cominciamo col chiederci a cosa faccia riferimento il mio maestro (ma direi più in generale, il logos filosofico) nel chiamare in causa un concetto come quello di «contraddizione». Di sicuro, egli ha in mente un dire volto ad affermare l’identità di quanto, nello stesso tempo, sembra destinato a dirsi nella forma di un vero e proprio differenziarsi. Cioè, il dire contraddittorio affermerebbe, sempre secondo Severino (ma non solo secondo lui!), l’esser identici di diversi pregiudizialmente riconosciuti come tali (cioè, come «diversi»). Ecco perché esso viene a costituirsi come un dire impossibile, o meglio… come qualcosa che appare destinato a togliersi da sé – stante la potenza intrascendibile della «non-contraddizione». D’altronde, se i diversi (di cui si dice appunto l’esser identici) vengono riconosciuti come «diversi» (stante che l’identità identifica sempre due diversi – un soggetto e un predicato –… almeno, secondo quella che Severino definirebbe la «logica astratta» dell’Occidente, inconsapevole del fatto che, nell’identità, a dirsi identici non sono mai due diversi, ma sempre e solamente il medesimo… la logica comune, infatti, è totalmente inconsapevole del fatto che l’identità dice sempre e solamente l’essere identico a sé dell’essente… e l’essente viene concepito come un che di originariamente «relazionale», costituito, almeno in questo caso, dalla relazione soggetto-predicato), come non accorgersi del fatto che, se fossero davvero ciò che dicono di essere (ossia: diversi), i diversi non potrebbero mai dirsi, nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista, anche identici (ossia, non diversi)? Se non altro perché il dire che li riconosce identici, è quello stesso che deve, in-uno, averli riconosciuti anche come diver2. E. Severino, in «La filosofia futura», n. 2, 2014, p. 145.
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si (come «uno» diverso dall’«altro»), e proprio per poter dire che «l’uno è l’altro». Insomma, proprio nel riconoscere che si tratta di due essenti (ognuno dei due escludente da sé il proprio altro) – dove nessuno dei due è l’altro, ma lo esclude – si sta originariamente vanificando la pretesa di affermare che tali «diversi» (riconosciuti appunto come diversi) possano essere anche non-diversi. Perché è questo stesso dire a presupporre il loro (dei «diversi») esser comunque anche diversi. Peraltro, solo del «diverso», si può dire il non-esser-diverso! Ecco perché, qui, il «non» sembra faticare ad «escludere» l’esser diversi dei diversi; stante il suo sussistere solo in base al loro costituirsi «come diversi» – se non fosse così, infatti, non gli si darebbe nulla da negare. Ma proprio per questo si tratterà di un negare che, di fatto, non negherà alcunché… sempre che «negare» significhi «escludere», però (precisazione decisiva, quest’ultima!). Tale negare, infatti, non esclude, davvero, e in alcun modo, il loro «esser diversi». Là dove, invece, sempre secondo Severino, il negare sembra non potersi costituire se non come un «escludere». Ecco, dunque, in base a cosa egli si sarebbe sentito autorizzato a rilevare la contraddittorietà del dire da cui abbiamo preso le mosse; tale dire, cioè (sempre quello secondo cui «X è e non è X»), appare come contraddittorio perché, nel proporsi di negare l’esser diversi dei diversi, esso (il negare, cioè, che nega tale differenza) presuppone che, quello che da esso viene negato, si ritrovi in verità nello stesso tempo anche affermato. D’altro canto, se nel negare, quel che viene negato, viene necessariamente anche affermato, il medesimo verrà per ciò stesso incluso, e non «escluso» sempre dalla medesima «negazione». Eppure… presupposto irrinunciabile del rilievo severiniano è che «il negare» escluda – ecco perché, se quel che dovrebbe costituirsi come esclusione, è costretto (per poter essere) ad
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includere quello stesso che, per altro verso, esso avrebbe invece voluto escludere, il suo escludere non escluderà alcunché. Dunque, stante il suo funzionare come un escludere (e solo per questo), il «negare» non riuscirà neppure a costituirsi, ma si toglierà originariamente da sé. E proprio in quanto espressione di un mero atto d’inclusione (inclusione della differenza di ciò di cui si vorrebbe dire il «non essere differente», concepito appunto come esclusione dell’esser-differente). Ma il punto è: siamo certi che dire che «X è e non è X» significhi che l’esser X da parte di X nello stesso tempo escluda il suo esser X? Insomma, siamo sicuri che dire che «X non è X» significhi escludere che X sia X? Questo, il punto. Non possiamo esserne così sicuri perché, se il «non esser X» da parte di X, significasse una semplice esclusione del suo – sempre di X – esser X, verrebbe da dubitare che possa esservi, da qualche parte, una X capace di esser la X che è. Ovvero, che possa esservi una X di cui si possa dire, proprio in quanto è quella X che è, il suo «non esser X». D’altro canto, se la X escludesse di poter essere X (in quanto posta come negante di esser la X che è), di cosa potremmo dire che «non è X»? E poi, cosa starebbe ad indicare la X evocata del dire secondo cui, comunque, «qualcosa non sarebbe X». Ad ogni modo, il fatto è che nessuno può credere che il trovarsi incluso all’interno di un orizzonte di senso ben preciso possa e tanto meno «debba» necessariamente «escludere» la sua esclusione. E non tanto perché lo diciamo noi o per qualche misterioso motivo… ma perché, proprio nel venire esclusa, l’esclusione finirebbe non ritrovarsi affatto esclusa. Insomma, fermo restando che ogni escluso è anche incluso, non ha senso alcuno affermare che qualcosa, se incluso, escluderebbe la «propria esclusione»; perché l’esclusione non sarebbe per ciò stesso mai stata esclusa. E proprio perché escludere l’esclusione significa affermarla, più che escluderla; ossia, com-
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porta il non essere ancora stata esclusa da parte dell’esclusione; proprio escludendola, infatti, finiremmo per rendere evidente che l’esclusione funziona ancora all’interno dell’orizzonte da cui la si sarebbe voluta/dovuta escludere. E dunque, in quanto funzionante, non può certo venire riconosciuta come «esclusa» dall’orizzonte da cui la si sarebbe invece voluta escludere. Perciò l’inclusione di quel che viene negato (inclusione necessaria già per il fatto che finanche il semplice esser negato, se non includesse quel che nega, non potrebbe neppure porsi come sua «negazione») non può escludere la sua esclusione. E sempre perché, proprio escludendola, non la escluderebbe affatto, ma finirebbe per riproporla (escludendola, cioè, mostrerebbe di non averla affatto esclusa); la riproporrebbe cioè come suo atto originario, tutt’altro che escluso, dunque… e proprio per averla voluta escludere, ribadiamo! Ma… si badi bene, l’escluderla non viene per ciò stesso meno, ma conferma piuttosto il suo (dell’esclusione) non essere stata affatto esclusa, e proprio in virtù dell’atto con cui la si sarebbe «esclusa» (ossia, in virtù dell’escluderla). Ma allora, se l’esclusione non può venire esclusa (perché escludendola la si includerebbe), nel «non» che non riesce ad escludere alcunché – e tanto meno l’esclusione –, a parlare dovrà essere sempre anche, e necessariamente, l’esclusione. Da cui non si riesce ad uscire; neppure escludendo «l’esclusione». Perciò l’esclusione viene ad assumere le fattezze di un vero e proprio “trascendentale” che, non perciò, comunque, ci impedisce di «negarlo» (tale trascendentale); o meglio, di pensare il suo esser-negato. Fermo restando che l’esser-negato, non escludendo l’esclusione – senza comunque far neppure mancare l’esclusione dell’esclusione (ché, anche quest’ultima, se venisse esclusa, dimostrerebbe di non essere affatto esclusa) –, ancora una volta, escluderà e insieme non escluderà l’esclusione. O meglio, non la escluderà, e proprio nell’escluderla.
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Conformemente ad una struttura relazionale che non comporta affatto l’impossibilità come forma di inemendabile esclusione. Sì che, al cospetto della domanda: ma… questo «non escludere» che non manca dell’escludere si distinguerà oppure no dal non-escludere che invece dovesse mancare dell’esclusione? E vi si distinguerà escludendo dal proprio orizzonte il nonescludere mancante dell’esclusione? Ecco, se questa fosse la domanda, la risposta non potrebbe che essere: no, ché neppure il non-escludere che mancasse dell’esclusione (dove cioè il non escludere riuscisse cioè ad escludere l’esclusione senza trovarsi costretto a riconoscere di non averla affatto esclusa – ciò che non potrà mai darsi!) potrebbe dirsi «altro» (nel senso dell’esclusione) dal non- escludere che non manca dell’esclusione… che non manca dell’esclusione proprio perché la esclude, e dunque manca della medesima. Anche perché, come abbiamo già visto, se il non-mancare fosse «altro» dal mancare, mancherebbe… e dunque non sarebbe altro dal mancare. Perciò, in questa prospettiva, il discorso di Severino non può liberarsi dai rilievi qui proposti così come si è sempre liberato, e peraltro con grande facilità, dalle obiezioni che di norma gli venivano mosse… rilevando che, proprio per contrapporsi al cosiddetto «suo» discorso, tali obiezioni dovevano comunque «distinguersi» dal medesimo, si da non poter fare a meno di confermarlo. Infatti, qui, non ci si contrappone affatto al suo discorso. E dunque non gli si rivolge, in senso proprio, un’obiezione. Quel che si sta indicando è piuttosto l’originario negarsi del Destino! Ovvero, il suo «negarsi da sé»; e proprio in ragione della mancanza di possibili obiezioni (ossia, di discorsi che possano porsi oltre l’orizzonte disegnato dal Destino, e dunque venirne esclusi).
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Non si vuole cioè istituire lo «spazio» di un’altra negazione, diversa da quella sancita dal Destino; ma si sta suggerendo piuttosto come sia invero la stessa intrascendibilità della forma escludente sancita dal Destino a «negarsi» (ché non è mai un «altro» a negarla, ma il medesimo, sempre e solamente, a negarsi), e proprio in quanto intrascendibile, e dunque priva di un altro da sé – è infatti sempre nel suo spazio che si apre e si disegna qualsivoglia possibile forma di alterità. Perciò il negarsi che compete al Destino (ma qui preferisco dire: alla forma della negazione escludente) non esclude alcunché… e dunque lo nega (cioè, nega il Destino) senza istituire alcuno spazio altro dal suo. Ma, nello stesso tempo, senza neppure «mancare», in senso proprio, di una qualche alterità… essendo proprio esso l’orizzonte intrascendibile e mai finito in cui si viene a costituire qualsivoglia alterità. E dunque tutte le obiezioni al Destino. Dove, quel che resta comunque da intendere è cosa dica davvero questo «non escludere» che nulla di diverso dall’escludere sembra poter esibire (stante che, se lo esibisse – qualcosa d’altro dall’escludere – non esibirebbe nulla di diverso dall’escludere, ma riproporrebbe l’intrascendibile forma dell’escludere)… e che dovrà necessariamente riverberarsi in tutti distinti di cui, nel suo spazio intrascendibile, si dice appunto il vicendevole e reciproco escludersi (dove l’escludersi, però, sarà sempre anche un non-escludersi). Anzi, forse non si tratta neppure di chiedere cosa esso dica o mostri (ché questa domanda presupporrebbe che qualcosa di diverso possa mostrarsi o essere detto, rispetto alla forma dell’esclusione). Il non-escludere mostra infatti il semplice negarsi dell’esclusione. Esso, cioè, mostra sempre un’esclusione «che si nega»; dove il negarsi, in ogni caso (credo sia quanto mai opportuno insistervi), non disegna nulla di diverso dall’esclusione che questo stesso «negarsi» mostra… sia pur come negata.
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Certo, un problema non da poco è quello che si pone alla luce di queste considerazioni, rimanendo in esse del tutto indeterminato (almeno, in queste pagine) cosa implichi questo «negarsi» – dato che nulla di «diverso» il medesimo sembra poter indicare rispetto all’esclusione per esso in qualche modo «negantesi». Il problema, però, rimane totalmente indeterminato e dunque aperto solo in queste pagine, ché qualcosa, in questa direzione, s’è già detto in altri scritti. Una cosa, comunque, possiamo ancora aggiungerla, in rapporto alle due possibilità evocate da Severino dopo aver rilevato che «questa non-esclusione può essere intesa in molti modi»3. Il fatto è che qui Severino ha perfettamente ragione: questa non-esclusione si costituisce (senza però «volerla essere») come «liberissima scelta senza alcun fondamento o giustificazione, cioè sciolta da ogni «saldo legame»4. Ed «è questo» (non si può dire, infatti, che «voglia essere questo») in quanto espressione dell’originario, vale a dire dell’arché – che in quanto tale, non può certo trovare ragioni fuori di sé, o in qualcosa che sia da essa presupposto –; «è questo» perché, «se la non-esclusione della negazione escludente si presentasse come impossibilità di essere esclusione di questa negazione, ne verrebbe che la negazione di tale impossibilità sarebbe dovuta all’accettazione del principio di non contraddizione»5. D’altro canto, vale comunque la pena ricordare che la «nonesclusione» della negazione escludente non esclude (e dunque non ne dice l’impossibilità) il suo essere anche esclusione della medesima, perché, come abbiamo rilevato, il «non» cui stiamo facendo riferendo non può escludere ciò di cui si costituisce 3. Ibidem. 4. Ibidem. 5. Ibidem.
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come semplice e non-escludente, ossia «originaria», negazione (o meglio può escluderla, ma proprio escludendola, si ritroverebbe a non averla affatto esclusa). E dunque escluderà… cosa? Nulla. O meglio, quel nulla che, proprio per il suo non poter essere escluso (se non facendosi positivo), risuonerà in ogni distinta ed escludente «determinatezza» nella forma del suo (di ogni determinatezza) semplice ed enigmatico «negarsi».
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Il respiro del destino
Quando ci troviamo di fronte a ciò che diciamo bello, a ciò che definiamo opera d’arte, non possiamo aggiungere o togliere nulla, o almeno poco: l’opera d’arte è in qualche modo intoccabile. Che cosa significa questo pensiero che ognuno di noi è in grado di pronunciare? Che cosa contiene questo pensiero apparentemente banale? Che cosa contiene di radicalmente profondo? Prendiamo per esempio Mozart: la sonorità della sinfonia Jupiter mostra il significato ultimo del contenuto sonoro della sinfonia, che in questo caso è stato nominato con il nome di un dio, ma che è da considerarsi come significato ultimo non in quanto è dio, ma perché l’immagine ha la potenza di evocare ciò che a noi appare come significato ultimo. Ci sono allora delle situazioni in cui l’immagine in quanto immagine è in grado di persuaderci che in essa si sta manifestando il significato ultimo di ciò che essa esibisce, ma che esibisce insieme nascondendo, perché una montagna esibisce sì il significato ultimo dei monti, in determinate ore della giornata e non per tutti, ma il significato totale, il significato ultimo del mondo rimane nascosto sullo sfondo.1
Non prenderemo in considerazione il rapporto tra la Zirkus Suite2 e l’opera filosofica (edita in quegli stessi anni – cioè nella seconda metà degli anni Quaranta) che venne pubblicata da
1. E. Severino, Del bello, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 18. 2. Si tratta di una suite in sette movimenti per strumenti a fiato, marimba e timpani, composta dal giovanissimo Emanuele Severino negli anni Quaranta e incisa su disco solo nel 2017.
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Emanuele Severino con il titolo La coscienza (un testo che, come dice lo stesso Severino, è ancora sostanzialmente influenzato dal magistero schopenhaueriano). Proveremo piuttosto a capire se possa esserci, anche nella prospettiva filosofica elaborata a partire dalla Struttura originaria (che risale al 1958), su su, sino ai testi più recenti (come, ad esempio, La Gloria, Oltrepassare, La morte e la terra, Intorno al senso del nulla, Dike e Storia, Gioia) – in cui la parola del Destino si fa sempre più «precisa» –, un qualche legame con quella pratica musicale che un tempo, come ama spesso ricordare Severino, sembrava dovesse diventare la sua principale attività. Soprattutto, cercheremo di capire sino a che punto e in che misura il pensiero che si vuole testimonianza del Destino risenta di ciò che la musica era stata per alcuni dei grandi Romantici operanti tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Ma quel che più ci interessa, forse, è mostrare per quali ragioni sia forse proprio (e «solo») quello musicale l’unico linguaggio in grado di offrirsi come soluzione del «problema» che, nel discorso filosofico di Severino – perfettamente consapevole, peraltro, anche del fatto che, se «il tentativo del linguaggio di indicare il destino non è un fallimento totale, il destino, in quanto appare in se stesso, libero dalla volontà e dal linguaggio, è comunque indicibile… infatti, fermo restando che l’indicibilità è detta, e quindi non è assolutamente indicibile, il suo esser detta non la risolve totalmente nel dicibile»3 –, si apre già con la Struttura originaria, e rimane sostanzialmente irrisolto sino alle opere più recenti. Il problema sorge a partire da quella che Severino definisce «contraddizione C» – la quale sarebbe determinata «dal non apparire di un certo ambito dell’essente»4. Il fatto è che il suo (di tale contraddizione) oltrepassamento totale «è (sem3. E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, p. 200. 4. E. Severino, La Gloria, cit., p. 83.
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pre per Severino) impossibile, in quanto comporterebbe il sopraggiungere, nell’apparire, del Tutto concreto dell’essente»5. Insomma, il tutto concreto dell’essente non può entrare nel cerchio finito dell’apparire. Sì che, non solo «ogni permanenza degli essenti della terra sia destinata ad essere oltrepassata»6, in quanto «l’oltrepassamento eternamente compiuto e concretamente totale non può sopraggiungere»7, ma – e in questo modo Severino fuga immediatamente ogni possibile perplessità – «l’oltrepassamento eternamente compiuto della contraddizione non può essere qualcosa che la terra riesca a raggiungere»8. Fermo restando che, sempre secondo il filosofo bresciano, «è necessario che l’essente appaia anche in un apparire che è l’apparire in-finito e concreto del Tutto, dove la totalità concreta della contraddizione è oltrepassata, e concretamente oltrepassata»9. Dunque, l’apparire finito rimane eternamente all’oscuro di cosa sia l’apparire concreto del Tutto; ché «l’apparire permane come apparire finito dell’infinito»10. A questo proposito, Severino è molto chiaro; ed è per questo che, a manifestarsi, nel cerchio finito dell’apparire, è per lui sempre un tutto solamente formale. Sì che «l’apparire infinito del destino non appaia nel cerchio finito del destino»11. Perciò la Gioia del destino (connessa per Severino all’apparire concreto del tutto, ossia, all’eterna soluzione della contraddizione C) «è l’inconscio della contraddizione del cerchio finito del destino»12. 5. Ibidem. 6. Ivi, p. 98. 7. Ivi, p. 102. 8. Ivi, p. 91. 9. Ivi, p. 82. 10. Ivi, p. 83. 11. Ibidem. 12. Ibidem.
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Insomma, per il nostro «è contraddittorio che il sentiero percorso dalla terra giunga in un luogo che non possa venire oltrepassato; ossia è necessario che la terra si dispieghi all’in finito»13. E permanga infinitamente nella contraddizione che le impedisce di conoscere la Gioia infinita del tutto. Allo stesso modo è per lui consustanziale al Destino lo scarto tra l’apparire concreto del Tutto (la Gioia) e l’apparire finito che di quest’ultimo ha una cognizione necessariamente astratta (o puramente «formale»), per quanto della medesima costituisca appunto l’indefinita e insieme irrisolvibile espressione (la Gloria). Dunque, siamo quella Gioia, per quanto ce la si rappresenti nella forma finita e contraddittoria che compete all’apparire finito; «noi siamo il luogo inaccessibile alla nostra finitezza, ossia al cerchio finito dell’apparire in cui ogni esser Io del destino consiste. Noi siamo la Gioia»14; ma la siamo nell’esperirla appunto come luogo inaccessibile. Proprio per questo, precisa subito dopo il nostro: «noi siamo la Gloria»15. Ecco perché «è necessario che la terra si dispieghi all’infinito nella Gloria»16. Così come è necessario che «la concretezza concreta del dispiegamento infinito della terra che è isolata in ogni cerchio e nella infinita costellazione dei cerchi sia destinata ad apparire nell’evento stesso in cui tramonta l’isolamento della terra»17. Dunque, la concretezza del dispiegamento infinito della terra isolata «è destinata ad apparire nella verità del destino che non è più contrastata dall’isolamento della terra»18. Appunto
13. Ivi, p. 86. 14. Ivi, p. 161. 15. Ibidem. 16. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 236. 17. Ivi, p. 476. 18. Ivi, pp. 476-477.
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perché «l’inoltrepassabilità di quel sopraggiungente che è la terra isolata è contraddittoria»19 Ed è proprio su questo sottilissimo ma decisivo legame che tiene insieme la Gioia e la Gloria – che le tiene insieme come qualcosa che, lungi dall’indicare una semplice differenza, dice che tutto ciò che si dispiega nella forma della Gloria è lo stesso che sussiste, come già da sempre salvo e vero, nella sua concretezza, nel sottofondo costituito dalla Gioia –, è su questo sottilissimo legame che si gioca anche il rapporto tra quella forma imperfetta in cui manifesta il Destino in quanto restituito dalle parole dell’apparire finito e quella forma perfetta del suo esistere che, comunque, l’apparire finito continuerà a vivere come costitutivamente «inaccessibile». Però, Severino sa anche che il linguaggio che testimonia il destino – e che lo testimonia nel tempo dell’isolamento, giacché è in questo tempo che appare ogni linguaggio – non sa ancora indicare quali configurazioni abbiano a mostrare gli eterni della terra che appaiono nel tempo intermedio, quello cioè in cui gli eterni della terra appaiono tra la configurazione attuale della terra (dove la terra isolata contrasta il destino – ma all’interno del cerchio stesso dell’apparire del destino) e il tramonto della terra isolata.20
Insomma, è chiara, nel discorso che viene concepito come espressione del Destino, la consapevolezza di uno scarto abissale tra la consapevolezza che la terra isolata debba tramontare e ciò che questo tramonto dovrà comportare rispetto a tutto ciò che, in quanto illuminato dal senso concreto del Destino, non apparirà più come appare ora, alla luce dell’isolamento in cui versa ogni discorso fatto nel tempo dell’isolamento. Alla luce,
19. Ivi, p. 522. 20. Ibidem.
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cioè, di un senso dell’infinito che, sempre secondo Severino, non ha nulla a che fare con l’infinito matematico o con quello della scienza e di ogni sapienza dei mortali. Alla luce di un senso dell’infinito che non coincide neppure con quello riconducibile all’infinito dispiegamento «che è la massima concretezza e non contraddizione dell’esser sé in quanto si mostra nel finito, cioè nella costellazione dei cerchi finiti del destino»21. Perché, «l’infinito, in quanto totalità concreta dell’essente che si mostra nell’apparire infinito, è, assolutamente, quel massimo della concretezza e della non contraddizione dell’esser sé dell’essente»22. Certo, del senso autentico dell’infinito il dire del Destino, in quanto fatto di parole pronunciate nel tempo dell’isolamento, non può dire alcunché – e qui sarebbe anche da rilevare la problematicità costituita dal fatto che il senso autentico (o meglio, il semplice fatto che un senso autentico dell’infinito debba esserci), o il fatto che debba accadere qualcosa come il tramonto della terra isolata, siano tutte enunciazioni fatte con un linguaggio ancora inscritto nell’orizzonte della terra isolata. Stante che ogni volta si fa cenno alla non accessibilità, per il linguaggio della terra isolata, al senso autentico della Gioia. Non meno problematico è poi il convincimento secondo cui le determinatezze valevoli come espressioni della terra isolata non verrebbero meno, con il concreto configurarsi del tramonto della terra isolata. Secondo cui, cioè, il dolore esperito nell’orizzonte del nichilismo, rimarrebbe tale (rimanendo davvero quello che era) anche quando la luce della Gioia avesse dispiegato un senso che per noi, oggi, è ancora sostanzialmente inaccessibile. Infatti, quando sarà avvolto dalla luce salvifica, esso non potrà più apparire ignaro di quanto reso manifesto da tale luce. O 21. Ivi, p. 436. 22. Ibidem.
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meglio, quel suo essere ignaro non sarà più «ancora mancante» della luce che, sola, avrebbe potuto mostrare il suo senso autentico – appunto perché ormai illuminato da quella luce (come a dire che l’astratto concretamente inteso non può apparire così come esso appariva quando veniva astrattamente inteso – allora, infatti, nessuna comprensione concreta poteva illuminare ancora, rendendola «vera», cioè concretamente intesa, la sua astrattezza). In ogni caso, anche nelle più mature rivisitazioni della struttura del Destino – come quella articolata nella pagine di Oltrepassare –, rimane fermo che «quando la terra isolata tramonta e la persintassi è libera dal contrasto con essa, la decifrazione delle tracce del Tutto nella persintassi e di questa nel Tutto (come la decifrazione delle tracce del Tutto nella terra isolata e di questa nel Tutto), è sì totale, ma è totale in relazione alle tracce in quanto determinazioni dell’isolamento, mentre questa totale decifrazione è impossibile in relazione alle tracce in quanto determinazioni che sono distinte dal loro esser isolate, giacché questa decifrazione sarebbe, daccapo, quell’apparire infinito del Tutto che non può entrare nella costellazione dei cerchi finiti del destino»23. Insomma, il linguaggio che pur testimonia il Destino (e dice l’essere già da sempre salvo di tutto l’essente) non può decifrare le tracce che il Destino lascia sul volto di ogni essente. Non può decifrarle, e quindi neppure può toccare con mano (per dir così), o comprendere, le concrete implicazioni dell’esser già da sempre salve da parte di tutte le configurazioni della terra isolata. Quelle tracce verranno finalmente decifrate solo quanto la terrà isolata sarà tramontata; sì, perché proprio il tramonto della terra isolata «implica anche la decifrazione delle tracce che il Tutto lascia da sempre nella terra isolata»24. 23. Ivi, p. 552. 24. Ivi, p. 553.
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Fermo restando che, se per un verso ogni configurazione deve poter venire oltrepassata, per un altro verso ogni decifrazione – comprende bene Severino – è avvolta dalla contraddizione C. E proprio per questo è astratta. Fino alla fine, cioè, il filosofo bresciano tiene fermo che «la decifrazione totale implica l’impossibile sopraggiungere dell’infinito nel finito»25. Eppure, ogni definizione e ogni contraddizione custodiscono realmente le tracce del Tutto, dell’Immenso. Di certo non le custodiscono, potremmo aggiungere a questo punto, come compiutamente decifrate o decifrabili (in conformità a quanto potrebbe scaturire solo dall’apparire da parte del Tutto infinitamente concreto della Gioia). Ma le custodiscono. La storia dell’essere, ossia il dispiegarsi del Destino, mostra insomma quel che insieme cela. Lo mostra perché rende riconoscibili le tracce della “struttura originaria”, e rende riconoscibile la destinazione del tutto alla Gioia; ma nello stesso tempo non consente mai la compiuta decifrazione di quelle tracce. Se non nella forma di una determinazione puramente «formale» della necessità di un certo esito. E se cominciassimo a sospettare che, forse, proprio questo abbia molto a che fare (assai più di quanto potrebbe sembrare) con il timbro più fortemente caratterizzante la Stimmung romantica, soprattutto in relazione al potentissimo convincimento (che avrebbe accomunato molti dei protagonisti di quella straordinaria avventura culturale) della superiorità del linguaggio musicale rispetto ad una “parola” sempre e comunque destinata – per dirla usando la metafora giovannea – ad essere «inizio», ma non compimento di un’opera di salvezza mai “concretamente” e autenticamente decifrabile da parte di un logos comunque impossibilitato a farsi «parola della cosa»… per dirla con il Severino di Oltre il linguaggio. 25. Ivi, p. 556.
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Certo, per Severino «la parola può essere parola della cosa, solo se la cosa è il destino della verità e dell’essere – solo se la fede dell’Occidente tramonta»26. Ma, all’interno di questa fede, la parola è destinata a vedere sfumare in modo sempre più radicale il proprio rapporto con la cosa. Perché, la potenza della fede nel divenire (che indica il cuore del Nichilismo) è tale da costringere l’Occidente a liberarsi anche di quell’immutabile costituito dal «reale» concepito come unico vero oggetto del discorso (perché anche l’identità esterna alla parola, in quanto esterna alle differenze segniche, in quanto identità che non è a sua volta differenza, è destinata, nell’orizzonte disegnato dal nichilismo, a tramontare in virtù del tramonto di ogni forma di immutabile; un tramonto che non può non implicare anche il tramonto di quelle identità o strutture semantiche «che pretendono di porsi al di sopra del movimento storico di cui riconoscono l’esistenza»27). Per Severino, infatti, c’è senz’altro un senso nichilistico del costituirsi come altra dal linguaggio da parte della realtà – ed è all’interno di questo senso nichilistico che il linguaggio è destinato a rivelarsi semplice parola di (del) nulla, che nulla ha di contro a sé come reale contenuto del proprio dire, risolvendosi da ultimo in semplice parola di parole (da cui il topos dell’ermeneutica infinita di tanto post-heideggerismo). Ma c’è anche un senso non nichilistico in virtù del quale l’alterità di parola e cosa è non solo salvaguardata, ma riconosciuta come originariamente responsabile di uno scarto incolmabile che ci impone di distinguere non solo la dimensione che appare da quella del linguaggio, ma anche la totalità dell’essente da quella che appare. Consentendoci così di evocare il Destino (che è tale oltre il linguaggio che lo dice) come ciò che, per quanto «avvolto da una parola “storica” – cioè 26. E. Severino, Otre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 161. 27. Ivi, p. 159.
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dall’infinito differenziarsi di una parola che viene interpretata come parola storica –, è l’identità a cui si riferiscono le diverse lingue che possono parlare di esso, in quanto la lingua che qui parla del destino è una lingua qualsiasi, che, in quanto qualsiasi, è quel che vi è di identico in ciò a cui si riferiscono tutte le lingue che possono parlare del destino della verità»28. D’altronde, a nulla servirebbe obiettare che l’identità è indicibile; se non altro in quanto anche questo verrebbe «detto». La sporgenza dell’identità cui ogni differente «dire» fa riferimento è infatti «proprio quel che viene detto»29. Insomma «essa si distingue dalle differenze del dire non perché sia l’indicibile, ma perché differisce dalle differenze»30. E, quel che più conta, è che per Severino, da ultimo (lo ricordiamo anche senza poterne rendere qui compiutamente ragione, in quanto non possiamo certo seguire tutto il complesso ragionamento che viene svolto nelle pagine di Oltre il linguaggio) «il significato oltrepassa la parola non solo in quanto esso è il significato in cui consiste il toglimento della totalità della contraddizione – il toglimento che già da sempre è presente nell’apparire infinito del Tutto, la forma infinita del destino della verità –, ma anche in quanto è il destino come apparire finito del Tutto. Non testimoniato dal linguaggio, esso ne è «l’inconscio»… E, come toglimento della contraddizione del finito, l’infinito è ciò che il finito in verità è (per quanto come apparire infinito del Tutto esso non appaia nel cerchio dell’apparire che appartiene al destino in quanto apparire finito del Tutto)»31. Insomma, il timbro di questi ragionamenti non può non far tornare in mente i grandi turbamenti vissuti dagli artisti e dagli
28. Ivi, p. 231. 29. Ivi, p. 230. 30. Ibidem. 31. Ivi, p. 244.
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intellettuali tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento in quella congerie di opere, riflessioni e testimonianze che va sotto il nome di Romanticismo. Lo ricorda bene anche Enrico Fubini, che almeno sino all’Illuminismo si sarebbe continuato a collocare la musica all’ultimo gradino nella gerarchia delle arti, e che fosse necessario, o quanto meno opportuno, ritrovare l’innocenza degli antichi e della loro semplicissima monodia (conformemente anche all’idea rousseauiana di una musica vocata a consentire il recupero di un linguaggio originario capace di esprimere un’umanità ancora incorrotta); anche con l’Illuminismo, dunque – ne sarebbe rimasto convinto anche Wagner –, cioè con il suo melodramma, invece di restituire all’uomo l’espressione originaria, invece di redimerlo, si sarebbe finito per accentuare e riconfermare la scissione tra linguaggio proposizionale e linguaggio dei suoni: Il linguaggio s’era fatto duro e articolato, atto a esprimere esclusivamente concetti; la musica era diventata un fatto puramente edonistico, una piacevolezza da salotto, inadatta a comunicare passioni. La loro unione nel melodramma non poteva essere quindi che un fatto estrinseco, un accostamento eterogeneo.32
Solo con Rousseau il linguaggio musicale, da semplice tecnica d’intrattenimento, cominciava a proporsi come fondamento di ogni linguaggio. È con Rousseau, cioè, che avrebbe avuto inizio, in senso proprio, il Romanticismo. Unica lingua capace di esprimere l’assoluto e il divino, quella musicale sarebbe cominciata ad apparire come l’unica lingua capace di trascendere le particolarità a cui apparivano legati tutti gli altri linguaggi.
32. E. Fubini, Il pensiero musicale del Romanticismo, EDT, Torino 2005, p. 3.
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Per quanto alcuni romantici avessero più propriamente privilegiato il recupero della vocalità e del teatro musicale come sole autentiche espressioni dell’uomo. Resta fermo, comunque, che almeno Wackenroder, Hoffmann e Schopenhauer si mostravano convinti che solo la musica potesse consentirci di guadagnare l’universale e di trascendere così le sue concrezioni sempre individuali e particolari (potremmo anche dire: astratte). Una svolta, insomma, rispetto alla scarsa considerazione, a lungo imperante (almeno sino all’illuminismo, come abbiamo appena ricordato), e sino ad allora indiscussa, della musica, soprattutto in relazione alla sua costitutiva impotenza a «significare». Il fatto è che ogni significazione è in quanto tale un’astrazione; perché nessun significato, di quelli configurabili con il linguaggio proposizionale, riesce a dire la cosa rendendo manifesta la totalità delle relazioni che la fanno essere quella che è. E di questo ci si dimostra perfettamente consapevoli nelle grandi riflessioni dei Romantici. Se musica e linguaggio proposizionale avevano finito per divorziare, facendo dell’universo dei suoni un semplice trastullo per individui annoiati da un linguaggio ormai irrimediabilmente malato, molti, e da ultimo anche Wagner e Nietzsche, si sarebbero convinti che solo l’arte musicale potesse salvare l’essere umano da quella che appariva come una sempre più devastata e ormai tragica condizione di alienazione. Ma già Wackenroder aveva individuato proprio nella magìa e nell’incanto esercitato dalla musica la possibilità di liberarsi dal vortice insensato cui sembra destinarci la ruota del tempo. Lo rileva con chiarezza anche Fubini che: «la superiorità della musica sulla parola è sancita senza mezzi termini nelle pagine di Wackenroder»33.
33. Ivi, p. 15.
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Appena risuonarono la musica e il canto, la rombante ruota sparì di mano al santo ignudo; e colui il quale era sempre vissuto in una grotta, a girare senza posa e senza pace la ruota del tempo… «che con fragore scrosciante lo trascinava nel suo assurdo vortice, esperì la trasfigurazione e l’ascesa al cielo… che avvennero al suono della musica che, come notte incantata di luna, segnava l’amore dei due innamorati»34. Ma a quale tipo di musica si riferisce qui Wackenroder? L’autore di questa favola (La meravigliosa favola orientale di un santo ignudo) era lo stesso che aveva sempre sostenuto la netta superiorità della musica strumentale su quella vocale. Certo, il Romanticismo nel suo complesso aveva visto crescere due tipi di convincimenti: da un lato l’apologia della musica strumentale pura (nel sonatismo romantico, nel sinfonismo) e dall’altro una convinta predilezione per la sinfonia a programma, per il poema sinfonico e il Lied… per non parlare del fiorire di melodrammi romantici, a rimarcare la necessità di una proficua collaborazione-contaminazione tra il linguaggio delle parole e quello dei suoni. Più chiaro di tutti, però, sarebbe stato Hoffmann che, parlando di Beethoven, ebbe a dire che la musica è la più romantica di tutte le arti perché ha per oggetto l’infinito. Essa, dunque, solo in quanto musica puramente strumentale, «espri merebbe un indistinto “anelito infinito”»35. Insomma, la musica che aveva consentito al santo ignudo di elevarsi verso il cielo, affrancandosi così dalla ruota del tempo, poteva anche essere vocale, ma, se anche così fosse stato, rileva acutamente Fubini, «il testo poetico si sarebbe stemperato nel puramente musicale, nell’indeterminato, nel «mondo ruotante di suoni» in cui andavano riflettendosi i sentimenti
34. Ivi, p. 14. 35. Ivi, p. 20.
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degli innamorati che «si scioglievano e fluttuavano come un unico fiume senza rive»36. Interessante anche la caratterizzazione del mondo sonoro in termini di mondo ruotante di suoni. A liberarci dalla malata circolarità cui anche il santo era sempre stato costretto dalla ruota del tempo, sarebbe stata dunque un’altra circolarità – in questo caso, però, liberatoria, perché capace di farci riconoscere il pulsare dell’infinito in quanto tale. Sempre per rimanere alla leggenda narrata da Wackenroder, può essere utile rilevare come la musica rivelatasi capace di liberare le mani del santo dalla rombante ruota del tempo e di quietare lo sconosciuto desiderio che continuava ad affliggere la sua anima, nonché di far scomparire la sua forma umana, e di trasfigurarla, trasformandola in «un’immagine spirituale bella come un angelo, intessuta di vapore leggero, un’immagine che stava sospesa fuori della grotta, e stendeva, piena di nostalgia, le braccia snelle al cielo, e s’innalzava secondo le note della musica in un movimento di danza, dalla terra verso l’alto»37, era una musica eseguita da «incantevoli istrumenti che suscitavano un mondo nuotante di suoni che ora scendevano ora salivano, a ondate»38; una musica eterea che, soprattutto, «saliva ondeggiando nell’ampiezza del cielo dalla barca»39. La musica proveniva da una barca; la barca a bordo della quale due innamorati si erano abbandonati alle meraviglie della solitudine notturna; una «barchetta leggera con la quale risalivano in quella notte il fiume che scorreva accanto alla grotta rocciosa del santo»40. 36. Ivi, p. 22. 37. W.H. Wackenroder, La meravigliosa favola orientale di un santo ignudo, in «Scritti di poesia e di estetica», tr. it., Sansoni, Firenze 1967, p. 142. 38. Ivi, p. 141. 39. Ibidem. 40. Ibidem.
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Insomma, era come se la musica andasse dispiegandosi per effetto dell’amore dei due; o meglio, a partire «dal» loro amore. Dall’amore che li aveva spinti ad abbandonarsi alle meraviglie della physis, o meglio della sua notte – nella solitudine che solo la notte, molto probabilmente, avrebbe potuto consentire, quale incantevole donazione all’amore corrisposto. Sembra di sentire l’eco della notte novalisiana; quella degli inni dedicati dal più grande poeta romantico ad una oscurità che tutto sarebbe riuscita a custodire per l’eternità, sottraendo gli essenti a quella incessante nientificazione con cui l’impulso fabbrile che ci domina durante il giorno sembra travolgere tutto. Solo la notte, insomma, o meglio la «vera» notte, per dirla sempre con Novalis, può custodire ciò che luce del giorno sempre e comunque finisce per de-terminare, e dunque per restituire allo sguardo degli umani nella forma astratta che di ogni cosa è destinato a testimoniare l’isolamento costitutivo. D’altronde, è di notte che gli amori si compiono, che si compiono in un atto che suggella l’unità che durante il giorno può essere solo astrattamente significata. Perciò la musica evocata dalle parole della leggenda wackenroderiana non sarebbe potuta sorgere se non quale frutto di un amore che, in ogni caso, avrebbe atteso la notte per cantare ed elevare al cielo le melodie di una gioia sconosciuta agli umani, o, per dirla con Severino, agli abitatori del tempo della terra isolata. Che era fuggita dalla luce accecante di un sole che nulla avrebbe potuto rendere vera mente visibile, se non nella forma isolata che finisce per alimentare un’insopprimibile nostalgia «di cose belle e sconosciute»41; una nostalgia che solo l’amore di quei due giovani avrebbe potuto in qualche modo placare – di quei due giovani che, con la loro barca, stavano provando a risalire il fiume. Una nostalgia che invano il vecchio santo aveva a più
41. Ivi, p. 140.
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riprese tentato di soddisfare alzandosi su, dando «alle mani e ai piedi un movimento dolce e tranquillo, ma inutilmente!»42. Il vecchio santo «cercava qualcosa di sicuro che prima di allora non aveva conosciuto, alla quale afferrarsi e tenersi at taccato»43. Ma prima di quella visione d’incanto non sarebbe stato possibile venirne a capo; su qualsiasi “verità” avesse cercato di far confluire la propria nostalgia, si sarebbe trattato di un appiglio costitutivamente insicuro, destinato a franargli tra le mani, come era sempre accaduto a tutte le vecchie verità metafisiche, travolte tutte, una dopo dall’altra, dall’infernale incedere del tempo e dalla potenza incondizionata del divenire. Il vecchio sapeva che quel «girare inesausto dell’eterna ruota, la continua corsa uniforme e ritmica del tempo»44 non poteva venire interrotto. Lo sapeva bene; perciò «scoppiava selvaggiamente a ridere pel fatto che in mezzo al terribile ruinare del tempo ci fosse qualcuno che potesse pensare a piccole occupazioni terrestri»45. Si sentiva trascinato da quella ruota – rileva Wackenroder –; ma sapeva anche che non poteva far nulla a causa di quel frastuono, niente poteva intraprendere; la violenta angoscia, che lo affaticava in un lavoro senza riposo, gli impediva di vedere o di udire qualunque cosa… ché tutti i sensi ne erano avvinti e la sua angoscia faticosa sempre più era presa e trascinata nel vortice di quella selvaggia impressione.46
E «sempre più mostruosi si scatenavano l’un sopra l’altro i suoni uniformi»47.
42. Ibidem. 43. Ibidem. 44. Ivi, p. 139. 45. Ibidem. 46. Ivi, p. 138. 47. Ibidem.
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Ecco, di contro all’incanto sonoro che, solo, avrebbe potuto innalzarlo al cielo, liberandolo dall’insostenibile frastuono generato dalla ruota del tempo, di contro a quella liberatoria melodia, il suono del giorno, e del tempo che in esso sempre si dipana, sarebbero apparsi come necessari ma insopportabili suoni uniformi. Pure astrazioni isolate dal «vero», essi non avrebbero fatto altro che ripetere sempre il medesimo rumore, risonante come inintonabile stridìo, ovvero come baccano privo di qualsivoglia identità – alla luce del quale nulla si sarebbe reso udibile nella propria inimitabile ed irripetibile sonorità. Conformemente, cioè, alla sua vera e propria «identità con sé»; la stessa che, solo nel riflesso delle infinite corrispondenze o relazioni che ogni cosa intrattiene con il tutto, si sarebbe lasciata riconoscere. E che, più di ogni altra arte, proprio la musica sembra in grado di rendere sensibilmente «percepibile». Perché, proprio in quanto non destinata alla significazione sempre parziale del logos (già con Hoffmann viene messa a tema la questione della non significatività della musica), la musica ha forse a che fare con quel significato «che oltrepassa la parola»48 e che consente a Severino di affermare che «proprio perché il significato oltrepassa originariamente la parola, la volontà isolante può dargli la parola»49. Ma non questo accade alla musica, alla quale sono stati dati e continuano ad esser dati infiniti significati che mai, peraltro, riusciranno a risolvere in sé l’identità della forma musicale a cui fanno tutti riferimento, quasi sempre nel tentativo di dirne il significato (o meglio di affidarne il significato alla parola). E… se proprio la musica avesse a che fare con «quel toglimento della contraddizione che proviene dalla volontà che isola la terra ed evoca la parola… con quel toglimento che è
48. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 242. 49. Ivi, p. 243.
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l’eterno apparire infinito del significato puro, che già da sempre oltrepassa, eterno, la parola»50? Con quel significato puro che Severino connette all’identità che tutte le parole non fanno altro che «distinguere» o «differire»51, dicendola appunto in modo sempre diverso? D’altro canto, già per Friedrich Schlegel, uno dei fondatori del Romanticismo, «la prerogativa dell’arte era l’unità»52. Insomma, è nel pieno del Romanticismo tedesco che si fa strada un’idea di arte caratterizzata da ciò che Schlegel tematizza rivendicando sì una sua «peculiare regolarità»53, ma concependo l’arte non come l’avrebbero intesa gli antichi – ossia, come caratteristica esprimente un’aurea misura toto caelo sconosciuta alla natura, perché sempre contraddetta dalle sue mai evitabili deformità e stravaganze –, e neppure come l’avrebbe concepita una forma mentis tutta votata al «particolare» ed assoggettata alla regola che vincola e limita54, ma a partire dalla consapevolezza che «non solo il tutto si diffonde senza limiti in ogni direzione, ma anche il più piccolo particolare è doppiamente inesauribile… sì che ogni punto nello spazio, ogni momento del tempo (e ve ne sono infiniti) sia ricolmo»55. Ecco… quanto di questa Stimmung risuona nell’idea severiniana di un «Immenso che comincerebbe ad indicare (nelle pagine di Oltrepassare) che il Tutto infinito della Gioia – quel50. Ibidem. 51. Non a caso Severino può dire che «la parola parla della cosa, parlando invero dell’identità a cui si riferiscono le differenze della parola che parla della cosa» (E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 235). 52. F. Schlegel, Frammenti di estetica, tr. it., a cura di M. Cometa, Aesthetica, Palermo 1989, p. 27. 53. Ivi, p. 28. 54. «L’ardente bramosia di penetrare il particolare sconvolgono così violentemente l’uomo che spesso il potere della natura gli sottrae ogni libertà» (ibidem). 55. Ibidem.
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lo destinato ad apparire col tramonto della terra isolata – è destinato ad apparire in un’infinità di modi diversi»56? E che è così destinato in quanto inscritto in una «sequenza infinita in cui consiste la configurazione suprema della Gloria, dove ognuna delle forme infinite della Gioia oltrepassa e conserva nell’apparire quelle da cui è preceduta»57? In modo tale che, per quanto la costellazione infinita dei cerchi dell’apparire rimanga comunque avvolta «dalla contraddizione C – in quanto non si potrà mai pervenire a quella decifrazione totale delle tracce lasciate in ogni parte dal Tutto che implicherebbe l’impossibile sopraggiungere dell’infinito nel finito»58 – questa decifrazione totale sia comunque destinata a sopraggiungere… «perché altrimenti le parti sopraggiungenti non sarebbero concretamente oltrepassate, cioè sarebbero degli inoltrepassabili»59? Il fatto è che, per Severino, così come «è necessario l’oltrepassamento di quel sopraggiungente che è la terra isolata, allo stesso modo la concretezza di tale oltrepassamento richiede il concreto apparire della terra isolata, cioè l’apparire e la decifrazione delle tracce lasciate in essa dal Tutto»60, e «l’apparire dell’infinita ricchezza e concretezza del Tutto, in quanto esso è in relazione a quella sua parte che è la terra isolata»61. Certo, ogni immediatezza fenomenologica – lo si diceva già ne La struttura originaria (1958) – si presenta come originariamente oltrepassata dall’essere (in virtù dell’immediatezza logica), ma non per ciò si potrà credere che questo comporti «la presenza del contenuto concreto dell’essere oltrepassante, 56. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 551. 57. Ivi, p. 554. 58. Ivi, pp. 555-556. 59. Ivi, p. 557. 60. Ibidem. 61. Ivi, pp. 557-558.
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in modo tale, cioè, che il significato “essere” resti disponibile per la presentazione di quel contenuto concreto»62. Intuizioni, queste, che verranno adeguatamente sviluppate nei volumi seguenti, fino a La Gloria, ad Oltrepassare e oltre – sino a Storia, Gioia – nei termini di una destinazione alla Gioia concepita come luogo inaccessibile della totalità, che però non solo «abita nell’inconscio dei mortali», ma «ogni Io del destino è»63. Un luogo che va concepito da ultimo come quell’infinità di infinità (perché anche il cerchio finito dell’apparire «è un’infinità di cerchi finiti»64) che ognuno di noi già da sempre sarebbe. Perché, «al di sotto della nostra fede di essere uomini – una fede legata alla fede nell’esistenza del divenire –, noi siamo l’occhio eterno che eternamente vede la verità assolutamente innegabile del Tutto»65. Siamo già abitatori della verità, siamo già da sempre sue originarie espressioni. Così come lo è ogni essente. Perché la sintassi totale e pertanto infinita dell’essente in quanto essente è un sapere infinito, una ricchezza infinita che nessun Dio ha mai posseduto e che invece appare anche in quei cerchi che, voltando le spalle allo spettacolo supremo che sta loro dinanzi, hanno evocato gli Dei, cioè le volontà che guidano nel modo più potente il divenir altro.66
Che appare ovunque – di cui, cioè, appare sempre e comunque la verità, per quanto la medesima «non appaia tutta insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltri nella luce dell’appari-
62. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 416. 63. E. Severino, La Gloria, cit., pp. 160-161. 64. Ivi, p. 161. 65. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 15. 66. E. Severino, La Gloria, cit., p. 467.
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re. Vi si inoltri rimanendo ciò che è, inalterabile e immutabile, come il sole che, immobile, si inoltra nel cielo»67. Eterno è l’essente, ma anche il suo apparire, insieme a tutte le cose che appaiono; eterna ogni identità (ogni cosa), il cui apparire sempre e comunque avvolta dalle differenze dice semplicemente che essa (l’identità) non si presenta mai al di fuori della differenza – «anche se non in quanto così avvolta, essa è l’identità delle differenze»68. Come la musica, che appare sempre avvolta dai significati che la dicono (siano questi ultimi anche le semplici sigle con cui indichiamo le note – Do, Re, Mi, ecc.), ma non in quanto così significata, essa è ciò che queste sigle pur indicano. Un’identità, questa, di cui proprio l’incanto del suono sa farsi speciale testimone, annunciandosi nella forma dello «svolgimento» – che compete a ciò che mai può apparire tutto insieme, nel cerchio finito dell’apparire in cui anche la musica si inoltra, pur annunciando qualcosa che “incanta” solo in relazione alla totalità del suo svolgimento. Fermo restando – ecco il punto – che questo incanto la musica lo rende possibile e percepibile finanche nella parzialità che, di ogni nota, dice insieme il suo non riuscire mai a restituire la propria verità concreta e totale (la stessa di cui il suo incanto è sempre anche «sensibile» testimonianza). D’altro canto, già nella Struttura originaria si rilevava – sia pur in altro contesto – che «il diverso è identico, ma per accidens: in quanto cioè il diverso è il contenuto astratto dell’identico… insomma, il momento del significato complesso non è immediatamente gli altri momenti, ma è gli altri momenti mediante un superamento del proprio immediato determinarsi»69. I momenti, insomma, si distinguono affinché possa costituirsi 67. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 127. 68. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 151. 69. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 276.
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l’identità che dice il loro esser identici «in quanto distinti»… ossia, in quanto momenti distinti di un’apofansi. Insomma, i diversi sono identici; ma possono esserlo solo in virtù di quel distinguersi di là dal quale, e indipendentemente dal quale, nessuna identità riuscirebbe mai ad essere. Ciò che Severino, nelle pagine de La struttura originaria, dice a proposito del «significato originario», è quanto mai utile per capire quanto lo stesso filosofo bresciano avrebbe finito per dire, nel corso degli anni, a proposito del rapporto tra linguaggio e realtà. La realtà, ovvero la cosa che il linguaggio dice – che quest’ultimo dice come altra da sé – è appunto un’identità che, certo, non si costituisce mai indipendentemente dal suo distinguersi nel linguaggio che la dice, ma non per questo, in quanto identità, dovrà rinunciare a porsi come negazione del differire di cui è comunque fatto il linguaggio. Ecco, proprio questa «identità», è ciò che il differire di cui è fatto il linguaggio continua necessariamente ad indicare, là dove si dispiega rendendo manifeste le proprie distinzioni, ovvero il distinguersi in cui consiste il suo svolgimento. Là dove distingue, cioè, quello di cui rimane nostro compito intendere appunto l’esser identico. Ma, di ciò di cui dice l’esser identico, il linguaggio può solo mostrare il distinguersi; ché, anche l’uguaglianza o identità che esso pone – che esso pone nell’apofansi in cui consiste il significato originario – esibisce una «complessità», e dunque chiama in causa il differenziarsi… come ciò di cui rimane comunque possibile testimoniare l’esser-negato (in quanto differenziarsi). Ecco in che senso «il momento del significato complesso non è immediatamente gli altri momenti, ma li è mediante un superamento del proprio immediato determinarsi (quello che Severino definisce «inclusione del distinto nell’apofansi»)»70. 70. Ibidem.
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Ogni significato, per Severino, è posto «solo se tutte le sue costanti sono poste»71 – per costanti di «S» Severino intende tutti quei significati che costituiscono il significato «S» –; ma, sempre secondo il nostro, «S è di fatto posto anche se quel significato (tutte le sue costanti) non è posto; ed è appunto questa posizione di S, in cui S è di fatto posto, e insieme non può essere posto, che costituisce la contraddizione C»72. Per dirla in modo più semplice, potremmo rilevare come, proprio in questa prospettiva, venga a configurarsi una contraddizione di questo genere: ogni cosa appare come ciò che chiama in causa la totalità di quel che va a costituire il suo significato, il suo esser quello che è (perché il suo esser quello che viene reso possibile dalla totalità infinita dell’essente), ma nessuna cosa, nel suo mostrarsi, rende mai manifesta la totalità concreta dell’essente. A venire evocata è cioè solo la forma di tale totalità. Sì che la contraddizione così costituentesi sia comunque una contraddizione «in sé», e non una contraddizione «posta» – se è vero che non appare, perché non viene mai posto, «quel significato la cui non posizione provoca la contraddizione»73. Ecco perché, proprio in virtù di tale contraddizione, secondo Severino, si viene «a dire qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre dicendolo (questo stesso qualcosa)»74. Si viene a dire cioè la totalità concreta dell’essente (perché ogni essente chiama in causa la totalità dell’essente) – per quanto quel che appare sia sempre e comunque un certo essente in relazione solo ad alcune delle sue condizioni. Perciò, quel che si viene a dire evocando la totalità dell’essente (quella che ogni essente evoca come ciò che in esso viene comunque a mostrarsi), non è mai la totalità dell’essen71. Ivi, p. 340. 72. Ivi, p. 345. 73. Ibidem. 74. Ivi, p. 347.
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te; e quel certo essente, che, non apparendo come concreta manifestazione della totalità, può finanche venire isolato da quest’ultima, e venir trattato come se fosse qualcosa di autonomo e libero dal vincolo costituito da un tutto che in verità né condiziona né vincola (ché non indica cioè nulla di estrinseco od esterno rispetto a quel che appare quale suo semplice elemento). Nelle sue ultime opere, Severino definisce questa totalità concreta «orizzonte della Gioia» – orizzonte il cui progressivo manifestarsi darebbe luogo ad un processo che viene definito “glorioso” proprio perché vocato alla manifestazione della verità di tutto quel che già appare, pur non apparendo ancora (nel cerchio finito dell’apparire) per come esso sarebbe vera mente (già da sempre, peraltro) alla luce della totalità concreta; quella che risulta dal già da sempre realizzato oltrepassamento di ogni determinazione finita, cioè di ogni determinazione che sarà, proprio in quanto finita, inevitabilmente assoggettata alla contraddizione C. Ed è proprio intorno a tale scarto – allo scarto tra apparire finito e apparire infinito, tra l’essente concepito come distinto e l’essente concepito nella sua identità (quella che potrebbe apparire solo là dove tutte le distinzioni si conformassero a disegnare la concretezza del significato originario) –, che si muove e si concentra tutta la grande riflessione romantica sulla musica. Cifra della consapevolezza che i grandi protagonisti del Romanticismo tedesco hanno avuto della pratica musicale tout court. Elio Matassi l’ha spiegato molto bene in un volume dedicato appunto alla Musica; l’ha spiegato, mostrando anzitutto come fosse proprio questa la cifra di tutta la grande ricerca musicale svoltasi tra Haydn, Mozart e Beethoven. Matassi ripercorre, in quelle pagine, il grande commento di Hoffmann alla Quinta di Beethoven, mostrandoci con grande lucidità come lo sforzo di E.T.A. Hoffmann sia stato sostanzialmente
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e anzitutto quello di rendere ragione dell’assoluta esemplarità della forma d’arte musicale. È solo con Hoffmann, ci spiega Matassi, che la musica romantica, con il suo ben noto privilegio della forma espressiva puramente strumentale, «apre le porte di un regno sconosciuto scandito dall’ineffabilità del suo linguaggio»75. E l’apice di questa potenza rivelativa sarebbe stato raggiunto, sempre secondo Hoffmann, proprio dalla musica di Beethoven: «anche la musica strumentale di Beethoven ci introduce nel regno del misterioso e dello smisurato. Raggi incandescenti trafiggono la notte profonda di questo regno così che noi percepiamo ombre giganti, che ondeggiano su e giù, ci circondano soffocandoci sempre di più, e distruggono tutto in noi eccetto il dolore dell’immensa malinconia nella quale ogni piacere, prima cresciuto fulmineamente con suoni giubilanti, ora sprofonda e scompare; e solamente in questo dolore, che nutrendosi di amore, speranza e piacere – senza però distruggerli – vuol far scoppiare il nostro petto nel pieno fragore armonico di tutte le passioni, noi continuiamo a vivere da incantati visionari»76. Passo quanto mai interessante, questo di Hoffmann. Che dice molto, di quello che stiamo cercando di mostrare. La musica (e quella di Beethoven in forma particolarmente potente, sempre secondo Hoffmann) avrebbe il potere di introdurci nel regno dello «smisurato» – che è in quanto tale misterioso. D’altronde, cosa può esservi, di smisurato, se non «l’apparire dell’infinito dispiegamento della Gloria della Gioia (che, peraltro, pur apparendo nel suo dispiegamento infinito, non dice mai tutti gli infiniti modi in cui il Tutto concreto appare in relazione a ciò che, pur essendo un dispiegamento infinito, 75. E. Matassi, Musica, Guida, Napoli 2004, p. 12. 76. E.T.A. Hoffmann, Ludwig van Beethoven, 5. Sinfonie (April/Mai 1810), in Id., Schriften zur Musik. Nachlese, Winkler Verlag, München 1963, p. 36.
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è pur sempre un finito rispetto all’inesauribilità del Tutto, e quindi non esaurisce l’inesauribile sopraggiungere della Gloria della Gioia)»77? Dove, dunque, se non in questo regno smisurato (eccedente ogni misura e dunque ogni determinazione anche persintattica) – esperito da Hoffmann come notte profonda – può risuonare qualcosa di «analogo» all’inesauribile sopraggiungere della Gloria della terra? Che, in quanto «inesauribile», allude al già da sempre avvenuto oltrepassamento dell’esser contraddittorio (nel senso della contraddizione C) da parte dell’esser se stesso caratterizzante il finito… un oltrepassamento che però «non può sopraggiungere»78 – stante che non può certo sopraggiungere «la concretezza massima già da sempre manifesta nel Tutto inesauribile»79. Insomma, il Tutto assolutamente concreto non può sopraggiungere, «perché il Tutto in relazione ad una parte (cioè alla terra isolata) non è il tutto assolutamente concreto, ma è, esso stesso, che è l’infinita concretezza del Tutto, una parte dell’infinito Tutto assolutamente concreto»80. Ecco la notte oscura che mai sopraggiungerà e mai si farà illuminare dalla luce che testimonia il sopraggiungere di tutto quel che sopraggiunge; che ci attende, certo, ma come ciò di cui mai potremo fare esperienza nei termini di un «sopraggiungente». Di cui mai, cioè, il tempo, ovvero lo svolgimento secondo il prima e il poi – in cui consiste appunto l’esperienza custodita da quello che Severino definisce «il cerchio finito dell’apparire» –, potrà disegnare i confini (appunto perché costitutivamente sconfinato o smisurato), mostrandone la “determinatezza”. Rendendola cioè traducibile in «concetto», ossia in parola. In quella 77. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 677. 78. Ivi, p. 683. 79. Ibidem. 80. Ivi, p. 544.
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parola che, come abbiamo già visto, altro non è che il velo destinato a coprire l’identità ad essa già da sempre connessa, ma mai riducibile alla medesima. Il tempo, infatti, per quanto non consenta di determinare i confini dell’identità originaria (che non ha confini, e perciò ha a che fare con lo «smisurato»), dello smisurato comunque parla – anzi, sempre e solamente di quest’ultimo parla, ogni volta che qualcosa sopraggiunge. Parlando di ciò che, rispetto al sopraggiungente e al suo manifestarsi, costituirà sempre e comunque il non manifestantesi, dal punto di vista del cerchio finito dell’apparire. Parla cioè di una notte trafitta da raggi incandescenti – quelli che Severino chiamerebbe le «tracce» del Destino. I quali producono ombre giganti che ondeggiano su e giù come un alone… che circonda ogni essente, ma che lo sguardo della terra isolata non sa riconoscere. Quell’ombra che ha forse a che fare con il senso più autentico della morte – quella stessa che i mortali interpretano come semplice annichilimento della vita e del vivente… ma che in verità indica la possibilità di una vera nascita. Quella attesa all’interno dell’orizzonte che i mortali chiamano vita, ma che, in verità, è proprio essa la vera morte (perciò Severino può dire, in modo solo apparentemente paradossale, che «nei cerchi dell’apparire del destino, non sono i nati ad attendere la morte, ma i morti ad attendere la loro nascita, ossia il sopraggiungere della terra che salva»81 – vera morte è infatti, per il filosofo bresciano, «la vita vissuta all’interno dell’isolamento della terra»82). Quel sonno il cui significato autentico indica «il mantenersi al di fuori dello sguardo del destino della verità, il chiudersi in un luogo dove non appare il destino»83 – quel sonno popolato dai sogni di cui è fatto un mondo che, mantenendosi al di fuori dello sguardo 81. Ivi, p. 694. 82. Ivi, p. 690. 83. Ivi, p. 692.
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del destino, «è diverso dal contenuto che appare nello sguardo del destino, ed è diverso perché si è isolato dal destino»84. Ombre giganti sono dunque quelle che circondano le cose della terra isolata (i sogni prodotti dal sonno in cui consiste la vita dei mortali, in quanto da ultimo riconducibile, dal punto di vista del destino, ad una vera morte), perché del tutto sproporzionate rispetto alle misure “oniriche” che le cose presentano al cospetto dello sguardo della terra isolata. Rispetto alla loro pochezza, e dunque alla maschera errante in cui va ogni volta a depositarsi la follia dei mortali. Ma, allo sguardo dei mortali, esse non possono che apparire come ombre. Infatti, la loro configurazione concreta è toto caelo ignota al nostro sguardo; e lo è proprio in virtù dell’isolamento da quest’ultimo originariamente prodotto. Ombre oscure, dunque, sono quelle generate dai raggi incandescenti del Destino. Pure ombre; ché di semplici «tracce» si tratta. Sì, di tracce della verità del Destino; che, in quanto tali, dovranno comunque apparire, e soprattutto apparire anche là dove, a darsi, sia la terra isolata che il Destino concede allo sguardo del mortale. E che appaiono in ogni caso come segni (per quanto ancora imperfetti) di quel che non è segno di nulla, se non di sé. O meglio, del proprio semplicissimo «esser-sé». Del significato di cui ogni parola, comunque, può farsi – perché lo è – originaria testimonianza. Di quell’identità sotto la cui ombra, dunque, ogni piacere sprofonda e scompare – per dirla con Hoffmann –, lasciando spazio ad una malinconia mai priva, comunque, di «amore», «speranza» e «piacere». Appunto perché attesa dalla terra che salva. Vale a dire: dal necessario oltrepassamento della terra isolata; e dunque dal «totale e concreto apparire delle tracce del Tutto nella terra isolata e delle tracce di questa in quello»85.
84. Ibidem. 85. Ivi, p. 544.
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Amore, speranza e piacere che, pur non implicando la sparizione «nemmeno di un filo d’erba dell’infinito dolore della terra isolata»86, consentono da un lato alla speranza di procurare vero piacere (in quanto del tutto estranea alla vana e infondata speranza familiare ai mortali… almeno a partire dall’imprudenza di Pandora; una speranza, quest’ultima, radicata nella convinzione che nulla in verità li attenda oltre una vita da miserevoli condannati a morte), e dall’altro, all’amore, di farsi espressione di quella infinità di connessioni in cui l’identità non vive come meta di fatto irraggiungibile (quale è per il filosofo platonico, amante per definizione condannato a non poter soddisfare il proprio tragico desiderio), ma come risultato già da sempre guadagnato in virtù di un Destino che nulla mai abbandona a se stesso. Perciò il piacere procurato da queste inaudite accezioni della speranza e dell’amore sarà sì infinito, ma, in virtù del medesimo, non si darà mai qualcosa come l’annientamento del dolore; infatti, «l’oltrepassamento della volontà, del piacere, del dolore e della contraddizione non è il loro annientamento. Tutto ciò che è oltrepassato è conservato eternamente. E dunque nessuna morte può essere annientamento di ciò che muore»87. Questo è infatti per Severino la Gloria: l’autentico senso del tempo. Il senso, cioè, che il tempo mostra nello sguardo del destino. L’autentico senso del passato e del futuro. Del passato, che nel dispiegamento della terra è totalmente e definitivamente conservato, in ogni cerchio del destino, non solo nell’essere ma anche nell’apparire.88
In attesa della Gioia, ossia di quell’infinito «che non appare nel cerchio finito, ma ne è l’inconscio»89; e che, dunque, nel 86. Ivi, p. 545. 87. E. Severino, La Gloria, cit., p. 365. 88. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 205. 89. Ivi, p. 176.
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cerchio finito dell’apparire, non potrà che sembrare una notte. Molto simile, dal punto di vista formale, al buio dell’inconscio freudiano. Buio inestirpabile, nell’ottica del cerchio finito; ché la Gloria altro non è che «il mai compiuto allargarsi della terra nella luce del cerchio del destino»90. Quel buio in cui tutti i dolori di cui è manifestazione il cerchio finito sono già da sempre manifestazioni della Gioia del cerchio infinito del destino; pur non potendola illuminare iuxta propria principia… ma solo in forma indiretta, in quanto illuminati da raggi incandescenti che trafiggono la notte che cela il cerchio infinito dell’apparire, restituendone una semplice «traccia». Eppure queste figure dell’isolamento «si conservano nel loro essere oltrepassate»91; perché «nell’oltrepassamento concreto e compiuto della contraddizione, del dolore e dell’angoscia non appare soltanto la loro «rappresentazione» o la loro «idea», ma la contraddizione, il dolore e l’angoscia in carne ed ossa»92. Fermo restando, ribadiamo, che nella struttura originaria del destino la contraddizione è avvolta da un oltrepassamento dove tale struttura è soltanto oltrepassamento formale, ossia è negazione della contraddizione ma non appare ancora come lo stato in cui la contraddizione è concretamente oltrepassato; mentre nella totalità dell’essente la contraddizione è avvolta dalla Gioia, ossia dal proprio oltrepassamento eternamente compiuto e concreto – giacché la Gioia, come apparire infinito del Tutto, è l’apparire dell’oltrepassamento eterno della totalità e cioè della concretezza della contraddizione.93
90. Ivi, p. 177. 91. E. Severino, La gloria, cit., p. 123. 92. Ivi, p. 78. 93. Ivi, pp. 123-124.
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Perciò ogni esperienza del dolore è insieme esperienza della Gioia. Sebbene inconscia (ché non appare nel cerchio finito del destino), l’esperienza della Gioia stabilisce così i tratti di ogni forma visibile dell’esperire, e quindi anche i tratti del dolore e dell’angoscia.94
Sistole e diastole; ogni dolore e ogni contraddizione sono eterni e vengono conservati come tali anche nell’oltrepassamento già da sempre compiuto nell’orizzonte dell’apparire infinito del Destino; ma nello stesso tempo, alla luce di un oltrepassamento solamente inconscio – almeno, dal punto di vista dell’apparire finito –, l’esser avvolto dalla Gioia, anche da parte del dolore più lancinante, proietta un’ombra gigante, sempre per dirla con Hoffmann. Imago di un’oscurità che solo pochi raggi (“tracce”, nel linguaggio severiniano) riescono a trafiggere alimentando un’incrollabile speranza (che sarà tale, cioè speranza, non per l’irredimibile dubitabilità che minerebbe l’effettiva costituzione del suo volto concreto, ma in virtù della specifica configurazione di questa stessa concretezza – non in relazione al “che”, ma al “come” di tale configurazione). Una notte che chiama in causa un’esistenza che «non diviene secondo il tipo di divenire di cui l’apparire è apparire»95, ma che, pur evocando la totalità del divenire, non comporta affatto – è sempre Severino a precisarlo – «che resti annullato il “perdurare” e la “sequenza temporale”… e non significa neppure che resti annullato il divenire e il tempo intesi in senso non nichilistico»96. Il divenire indica infatti una processualità infinita (un’infinita serie di oltrepassamenti) che mai potrà, facendosi defini-
94. Ivi, p. 124. 95. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 300. 96. Ibidem.
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tiva, impedire ulteriori oltrepassamenti di quel che di volta in volta sarà giunto ad apparire. Per questo – e ciò è molto importante – la struttura del destino dice anche l’eternità del divenire. Se è vero che, solo in virtù di questa processualità infinita, l’oltrepassamento della terra isolata può farsi svolgimento della Gloria; e la Gioia può trafiggere la notte che allude alla sua natura inconscia (in rapporto al cerchio finito dell’apparire), rendendoci fondatamente speranzosi in relazione al fatto che, se «la destinazione è l’apparire della necessità della Gloria (ossia della necessità che in ogni cerchio del destino sopraggiunga, in modo appropriato a quel cerchio, la terra che salva)»97, e se, comunque, l’Infinito assolutamente assoluto non potrà mai essere decifrato totalmente («la decifrazione totale delle tracce dell’Infinito assolutamente assoluto è impossibile»98), le sue tracce troveranno comunque una plausibile decifrazione «nell’apparire come tracce dell’Indecifrabile»99. Insomma, l’oltrepassamento della terra isolata da parte dalla terra che salva può accadere «senza che sia necessario (e anzi essendo impossibile) che appaia il contenuto concreto dell’Indecifrabile»100. L’identità, che i diversi modi del dire dicono «distinguendola», fanno sì che essa – non essendo nessuno dei modi in cui la medesima sempre continuerà a dirsi – riesca a dirsi in ognuno di essi, senza risolversi in nessuno dei medesimi. Senza, cioè, lasciarsi catturare da questa o quella significazione, da questa o quella parola, ma in tutte le parole continuando a «risuonare» come Infinità concreta di un Infinito assolutamente assoluto che, lungi dal prescindere dalle parole che lo dicono, e dunque dai distinti di cui continua a fungere da identità, solo 97. Ivi, p. 425. 98. Ivi, p. 499. 99. Ibidem. 100. Ivi, p. 500.
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in essi potrà farsi presente come pura traccia sonora – crediamo di poterci a questo punto permettere di dire. Quella che, sola, a qualsivoglia parola, consente di farsi espressione di uno spirito puramente strumentale (ammesso che il “puramente strumentale” indichi non tanto la musica concretamente priva di parole – come le sinfonie, i quartetti, ecc. –, quanto quella capace di elevare le parole e trasfigurarle, sino a renderle puro segno dell’Infinito assolutamente assoluto). Perciò, per tornare alla Meravigliosa favola orientale di un santo ignudo messa in forma da Wackenroder, diventa del tutto inessenziale chiedersi – come pur si è fatto, e fin troppo spesso – se la musica evocata dal testo del grande romantico fosse strumentale o vocale. Quella ascoltata nella notte stellata dal santo, rileva giustamente Fubini, era indubitabilmente musica vocale (poteva essere un Lied), forse intonata dai due amanti sulla barca che risaliva il fiume, ma una lettura meno letterale del testo ci può permettere un’interpretazione assai più estensiva: è vero che vi è la presenza di un testo poetico, ma esso si stempera nel “puramente musicale”, nell’indeterminato, nel “mondo nuotante di suoni” in cui si riflettono i sentimenti degli innamorati che “si scioglievano e fluttuavano come un unico fiume senza rive”.101
Così, peraltro, si ridimensiona finanche la vexata quaestio tipicamente romantica relativa al più o meno fondato primato della musica strumentale; potendoci sempre riconoscere nell’individuazione dell’inaudita potenza dell’esperienza musicale, riconosciuta finalmente capace di rendere anche sensibilmente percepibile (anzi, in primis, sensibilmente percepibile – ché l’intelletto è capace solo di parole) una dimensione (l’identità) in cui i distinti (come gli innamorati) fluttuino come 101. E. Fubini, Il pensiero musicale del Romanticismo, cit., p. 22.
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un unico fiume senza rive. Ossia, come identità non determinata… come smisurata arché che, in ogni distinto, continuerà a dire la propria assolutamente assoluta infinità. Molto interessante, poi, il fatto che la traccia del Destino – nel fluttuare sempre differenziantesi delle parole (del logos) che se ne fanno testimonianza – sia riconosciuta come vero e proprio appannaggio del “sentire”; nella fattispecie, del senso dell’udito. Molto interessante anche in relazione alle raffinatissime riflessioni di un altro importante protagonista dell’epopea romantica: K.W.F. Solger. Secondo il quale si sarebbe anzitutto trattato di capire come, «nella percezione del molteplice, essa (la bellezza) ad un tempo conosca l’essenza e l’unità, e come, in essa, anche la percezione e la sua unità siano del tutto una sola ed unica cosa: e ciò proprio nella percezione e per suo tramite»102. Contingenza del molteplice e mutevole aspetto delle cose, ed essenzialità dell’unità – che però sempre secondo Solger, non va risolta nella «vuota forma del concetto, bensì nel concetto ch’è tutto nella cosa»103. Ossia, nella realtà a cui ogni concetto cerca di far segno, ma che, rispetto ad ogni segno (cioè, ad ogni parola), indica un’unità (quella della cosa stessa, che viene in ogni caso percepita come un «questo») necessariamente «altra» dal concetto che comunque la significherà. Dove, la contingenza attribuita al mutevole, e dunque alle infinite parole vocate a dire la cosa, non allude affatto all’irrilevanza di questa stessa mutevolezza, ma, ben più semplicemente, al suo non poter mai catturare quel che la medesima continuerà comunque, imperterrita, ad indicare. Al suo riconoscersi vocata a salvarsi attraverso la morte. Quella che i mortali considerano morte, direbbe Severino, ma che in ve102. K.W.F. Solger, Erwin. Quattro dialoghi sul bello e sull’arte, tr. it. di M. Ravera, Morcelliana, Brescia 2004, p. 123. 103. Ivi, p. 122.
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rità consiste «nell’apparire, non più contrastato dal prevalere della terra isolata, da parte dello sfondo del cerchio del destino, e dunque nell’apparire, non più contrastata da quel prevalere, da parte della destinazione di questo cerchio» (fermo restando che «il prevalere della terra isolata è il suo non apparire come isolata, ma come terreno sicuro, testimoniato dal linguaggio»)104. D’altro canto, «la destinazione è una dimensione che, destinando al dispiegamento infinito che compete alla terra, ne oltrepassa l’isolamento»105. Perciò il dispiegamento è infinito. Perché «la struttura originaria del destino non è la totalità della persintassi infinita della verità, e non lo è perché si mostra nella forma limitante del linguaggio»106. Insomma, con la cosiddetta morte «sarebbe compiuto il sopraggiungere della terra non in quanto esso è tale: in quanto esso è tale, infatti, è infinitamente incompiuto: ossia, è Glo ria»107. Compiuto può essere infatti solo il sopraggiungere della terra isolata. Perciò rivolgersi ai morti, sempre dal medesimo punto di vista, è rivolgersi agli eterni, ai loro troni eterni – precisa ancora Severino. Perché «i troni dei morti sono la sapienza del destino, non più contrastato dall’isolamento della terra; mentre nei troni dei vivi questa sapienza è ancora contrastata da tale isolamento»108. Una configurazione del discorso sulla morte, questa, che mostra evidenti consonanze (che poi queste consonanze implichino che il discorso dei Romantici e quello di Severino dicano realmente lo stesso, conformemente, appunto, alla verità essenziale di questo inconfutabile con-suonare, è altra faccenda, ossia è cosa che qui non possiamo evidentemente approfon104. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 419. 105. Ibidem. 106. Ivi, p. 421. 107. Ivi, p. 429. 108. Ivi, p. 430.
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dire – per quanto mi sembri già interessante che determinate consonanze vi siano… e che una prospettiva che riconosca la verità nell’infinito, e nello scarto incolmabile tra finito e infinito –, fermo restando che ogni finito, anche per Severino, è ciò da cui il finito continua a sentirsi abissalmente separato, destinato com’è ad un infinito oltrepassamento che mai riuscirà a coincidere con l’Infinito assolutamente assoluto del Destino) con il discorso di molti tra i protagonisti del Romanticismo. Si pensi solo al componimento holderliniano An die Ruhe, dove la morte viene identificata, herderianamente, con il «sonno» ristoratore. Ce lo ricorda anche Michele Cometa, nel suo bel volume Il romanzo dell’infinito. Nelle cui pagine si precisa che l’idea che la morte non fosse che un passaggio, un momento cruciale della metamorfosi dei viventi in creature sempre più complesse e «divine» era per altro un adagio della filosofia dei «germi» à la Bonnet, condivisa poi dagli illuministi tedeschi da Lessing a Mendelssohn.109
Già Herder, comunque – cui guarda con attenzione anche il giovane Holderlin (negli anni di Tubinga), e precisamente nel saggio Tithon und Aurora, svolge una lunga dissertazione «sulla necessità d’una morte che salvi dal “sopravvivere a se stessi”, dal trascinarsi in un’interminabile vecchiaia e decadenza»110. Ma – ed è bene precisarlo subito –, che la morte possa salvare (anzi, che essa debba salvarci) non è un’idea che va concepita come semplice rievocazione dell’antica tesi platonico-socratica che vedeva la morte soccombere a favore dell’immortalità dell’anima. In quel contesto, infatti, la supposta provvidenzia-
109. M. Cometa, Il romanzo dell’infinito, Aesthetica, Palermo 1990, pp. 91-92. 110. Ivi, p. 91.
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lità del morire aveva la sua ragione nel fatto che solo un tale evento avrebbe consentito all’anima di liberarsi da un corpo ingombrante e inadatto alla sua (dell’anima) costitutiva immortalità. Mentre, qui, la valenza salvifica del morire dipende dal suo salvarci dal sopravvivere a noi stessi. Dal suo salvarci in quanto tali. In quanto «sonno che prelude ad un vigoroso risveglio»111. Il fatto è che non si dovrebbe sopravvivere a se stessi – ciò, infatti, significherebbe rinunciare a se stessi; come ebbe a precisare, con potentissima intuizione, Novalis. Secondo quest’ultimo, infatti (quanto severiniana una tale affermazione!): «l’uomo consiste nella verità – Se rinuncia alla verità rinuncia anche a se stesso. Chi tradisce la verità tradisce se stesso»112. Perciò, solo «il poeta resta eternamente vero. Egli persiste nel ciclo della natura»113. Perché solo il poeta «riunisce l’infinito»114. Ma il poeta – va anche detto – è tale solo in quanto vocato a superare la rigidità che vincola l’infinito differenziarsi delle parole alla pluralità contenuta nella pagina; ossia, è tale solo in quanto anela alla musicalità del verso. Ecco perché Novalis avrebbe potuto affermare: «i rapporti musicali mi sembrano proprio i rapporti fondamentali della natura»115. Gli essenti, infatti, vanno concepiti come infinite individualità connesse ad un senso originariamente musicale («infinite individualità di questi esseri – loro senso musicale e individuale»116). Ciò che, dal punto di vista figurale, ha il suo corrispettivo (in quanto musica visibile) negli arabeschi, nei disegni e negli ornamenti. 111. Ivi, p. 90. 112. Novalis, Opera filosofica, tr. it., Einaudi, Torino 1993, vol. I, p. 374. 113. Ivi, p. 269. 114. Ivi, p. 268. 115. Novalis, Opera filosofica, cit., vol. II, p. 648. 116. Ibidem.
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È infatti la loro infinità a rendere infinito il significato originario; quello che ogni dire vorrebbe forse dire, ma non riesce a dire nella sua concretezza, in quanto costitutivamente infinito. «Riguardo all’infinito – infatti –, ogni giudizio determinante è un giudizio infinito, nel senso in cui si dice che ogni negazione di un particolare nel particolare è un giudizio infinito»117. Sì, perché «apparenza e verità assieme costituiscono soltanto una realtà vera e propria»118. Eccolo, l’Infinito assolutamente assoluto di Severino. Rispetto a cui tanto la parola (l’apparenza) quanto la verità (il contenuto che l’apparenza manifesta, distinguendolo anzitutto da se stessa) finiscono per costituire una semplice astrazione. Stante che «il principio d’identità è principio della verità – della realtà»119. Ragion per cui l’apparenza altro non è che «verità relazionata a se stessa»120. Da cui il principio di contraddizione (che sta per «principio di non contraddizione») – «principio appunto dell’apparenza»121, sempre secondo Novalis. Ma l’unità di realtà (verità) e apparenza (espressione – in genere linguistica – della verità), ancora una volta chiamata in causa, non dice né parola né cosa: dice piuttosto (come avrebbe detto anche F. Schlegel) qualcosa cui ogni arte forse tende, da ultimo. Dice «musica». Dice qualcosa che, anche secondo il già più volte citato Wackenroder, potremmo anche concepire come lingua che nessuno ha mai parlato e di cui nessuno conosce la patria. E che pur tuttavia penetra nei cuori e nei più riposti nervi di ognuno. Che, guarda caso, tutti in qualche
117. Novalis, Opera filosofica, cit., vol. I, p. 128. 118. Ivi, p. 144. 119. Ivi, p. 145. 120. Ibidem. 121. Ibidem.
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modo comprendono, quand’anche non ne conoscano l’alfabeto. La comprendono e quindi ne godono. Per quanto riguarda il linguaggio verbale, invece, va rilevato come l’ignoranza delle sue regole formative renda assolutamente impossibile esprimersi e farsi comprendere con il medesimo; ma anche toccare il cuore di qualcuno che ci stia ascoltando o quanto meno leggendo. Per questo E.T.A. Hoffmann parlava della musica concependola, proprio in quanto musica strumentale, come unica arte in grado di esprimere con assoluta purezza la propria essenza peculiare, non reperibile altrove. Quella che troverebbe un perfetto controcanto nella forma letteraria e pittorica dell’arabesco o nella grottesca; quella che caratterizza, ad esempio, i romanzi di Jean Paul o di Diderot, le opere di Sterne, ma anche le opere pittoriche che sarebbero esplose con gli arabeschi floreali dello Jugendstil, nella seconda metà dell’Ottocento. Forme aperte, fondate su un principio costruttivo assolutamente libero; espressioni di quella assolutamente incondizionata identità che ogni forma chiusa è destinata a testimoniare in virtù di un vero e proprio tradimento. Forme aperte, consegnate all’infinito oltrepassamento di ogni confine-chiusura, e consapevoli di poter solo così trovare quel timbro «eterno» che in esse si annuncia, quale destinazione vocata a consentire l’apparire incontrovertibile «dell’identità sottesa ai differenti e delle differenze dell’identità ad esse sottesa»; e quindi a rendere esperibile «l’apparire di quell’identità suprema che è l’esser essente di ogni essente»122. Ad infuturarsi secondo una ritmica che dice la più lucida consapevolezza del fatto che sì, l’isolamento della terra deve tramontare, per quanto nello stesso tempo, tale tramonto non possa apparire; se è vero che, per «poter tramontare totalmente, esso rinvia all’infinito il proprio tramonto»123. 122. E. Severino, La terra e la morte, cit., p. 544. 123. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 435.
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Per questo l’eterno, che comunque lascia le proprie tracce in ogni espressione della terra isolata e in tutte le sue parole, non potrà che farsi suono, ritmo, ovvero libero svolgimento di più o meno complesse corrispondenze (come un vero e proprio “arabesco”, dunque) – quelle che nessuna parola potrà mai con-tenere e subordinare a sé. E che purtuttavia delle parole, di tutte le parole, si fa costante «negazione» – allo stesso modo in cui si fa negazione infinita di tutte le differenze destinate a svolgerne l’eterna e intramontabile struttura, l’identità in cui consiste propriamente l’eterno. Non a caso, di lì a non molto, doveva venire alla luce la riflessione con cui Hanslick doveva provare a fondare la tesi relativa all’assoluta insignificanza (o autosignificanza – che poi significa che nessuna parola potrà mai dirne il significato) della musica; concepita come il manifestarsi di quell’identico che supporta ogni parola, eccedendo in ogni caso l’atto con cui quest’ultima vorrebbe comprehenderlo. E che mai giungerà alla propria fine, nell’orizzonte del cerchio finito dell’apparire, proprio perché nel medesimo, essa rimane l’unica voce in grado di fungere da traccia reale e concreta dell’Infinito assolutamente assoluto in cui consiste l’Eterno. O anche, dell’infinito apparire disegnato dal cerchio infinito dell’apparire in cui consiste l’Io del Destino. Vale a dire: «l’apparire concreto, in ogni cerchio del destino, dell’Infinito, che però non potrà mai essere l’Infinito assolutamente assoluto (altrimenti si affermerebbe l’impossibile sopraggiungere, nel finito, dell’Infinito assolutamente assoluto), in quanto costituentesi come l’Infinito assoluto e concreto in quanto è in relazione ai cerchi finiti»124. Testimonianza autentica, comunque, dell’Indecifrabile identità che sembra legittimata a riconoscere le proprie tracce solo in ciò che, di ogni significazione, indica appunto l’ineliminabi124. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 499.
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le «oltre». Non come significato, comunque; ma come pura risonanza, in quest’ultimo, di quanto, molto più semplicemente, nega di essere il significato che vorrebbe comunque farsene testimonianza. Che nega cioè di esser qualsivoglia “significato”. Secondo quanto, agli occhi dell’antiromantico Hanslick, ci si sarebbe dovuti affrettare a comprendere, riconoscendolo una volta per tutte (un antiromanticismo – o formalismo puro – il suo, che paradossalmente, viene a configurarsi come rigorizzazione ultima della medesima tensione che aveva animato tutti i grandi autori romantici), a partire dalla convinzione secondo cui le leggi del bello in arte sarebbero inseparabili dalle caratteristiche particolari del suo materiale. A partire da tale convinzione, infatti, Hanslick ritiene che la tecnica musicale non vada intesa come semplice strumento per consentire al compositore di esprimere i propri sentimenti o per suscitare nell’ascoltatore determinate emozioni, e tanto meno per significare questo o quello. Per Hanslick, cioè, la musica è musica; musica e basta. Affermando che le idee espresse dal compositore sono anzitutto e soprattutto idee musicali, il nostro teorico e profondo conoscitore della musica, intende quindi la scrittura musicale come semplice simbolo della dinamica dei sentimenti o dei significati. Ossia, del loro «ritmo». Rileva Fubini, commentando Il bello musicale di Hanslick, che per il teorico tedesco «la musica avrebbe accompagnato bene anche testi opposti, proprio perché la musica non esprime la collera di Orfeo che ha perduti Euridice, ma null’altro che un movimento rapido e appassionato che può adattarsi altrettanto bene alla collera come ad un’intensa gioia»125. Certo, da tale impostazione non poteva non derivare il primato della musica strumentale – in cui l’equivoco della subordinazione al significato (che è proprio esso, invece, stando 125. E. Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Einaudi, Torino 1973, p. 136.
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quello che stiamo vedendo, a venire subordinato al ritmo e ai timbri dell’evento sonoro) sarebbe necessariamente stato superato. In ogni caso, va anche sottolineato come quello che avrebbe sempre potuto risolversi in un astratto formalismo alla Herbart, destinato a ridurre il bello musicale a mera simmetria proporzionale, si mantiene invece all’interno di una prospettiva che, alla musica, crede di poter/dover consegnare un vero e proprio contenuto – o, per dirla secondo la nostra reinterpretazione di Severino, di doverle consegnare «il contenuto». Non si tratta, infatti, di mere forme vuote, risolvibili in puri rapporti matematici, ma del ritmo e delle dinamiche dello Spirito, dice Hanlsick con linguaggio tipicamente ottocentesco; ma noi potremmo tranquillamente tradurre: della dinamica dell’Infinito assolutamente assoluto, o dell’identità – che è anzitutto identità tra forma e contenuto. D’altronde, già per Hanslick, la musica non è affatto risolvibile in semplice forma vuota – che sarebbe spettato al musicista-paroliere riempire di significato: perché destinata ad esaurire in sé i propri significati, se è vero che tutto quello che vi è, in essa, si risolve in musica. Insomma, la musica nega qualsivoglia significato nella misura in cui quest’ultimo venga concepito come estrinseco al materiale sonoro, come un «di più» rispetto ad esso, di cui quest’ultimo finirebbe cioè per avere disperato bisogno… al fine di poter «significare qualcosa». Essa nega qualsivoglia significato e dunque si presenta come arte «asemantica», perfettamente intraducibile nel linguaggio ordinario, anche se «pensieri e sentimenti scorrono come sangue nelle vene del bello e ben proporzionato corpo sonoro»126. In essa, infatti, scorre la vita, perché altro non dice, la medesima, se non lo scorrere della vita medesima; i suoi inciampi, le 126. E. Hanslick, Il bello musicale, tr. it. di M. Donà, a cura di L. Rognoni, Minuziano, Milano 1945, p. 197.
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sue accelerazioni, le sue dilatazioni e le sue divagazioni, ovvero il suo ritmo. Dicendo per ciò stesso l’identico che, proprio in tali digressioni e in tali dinamiche, continua a mostrarsi: la cosa di cui ogni significato dice appunto il ripresentarsi, offrendosi senza sconti o “gelosie” all’eterno differenziarsi che è la vita della sua identità. Mostrandoci così che l’eterno, pur rimanendo eterno, «vive»; mostrando, da ultimo, di vivere nella vita di ogni dinamica esistenziale, di ogni sopraggiungimento, di ogni compimento, di ogni digressione e di ogni spegnimento, di ogni accelerazione e di ogni rallentamento. Rendendo altresì evidente che non vi sono mai da una parte l’eterno e dall’altra la vita come divenire; mostrandoci insomma quello stesso che da sempre i testi di Severino si impegnano a mostrare, e a mostrarlo con un linguaggio sempre più coerente: che la vita è sempre e solamente vita «dell’eterno». Un eterno che è insieme già da sempre compiuto e sempre ancora da compiersi, in modo tale che la terra isolata, ossia la contraddizione C possa palesarsi nel suo esser tolta, alla luce dell’eterno concepito come «Infinito assolutamente assoluto»; ciò che era chiaro, quale compito paradossale del vero musicista, già agli occhi di Beethoven – che perciò poteva scrivere alla giovanissima Emilie che il vero artista «vede che l’arte non ha limiti; eppure avverte anche oscuramente quanto lontano egli sia dalla meta e, mentre viene forse ammirato dagli altri, si rattrista di non essere ancora giunto là dove il suo genio migliore gli illumina il cammino soltanto come un sole lontano»127. Vera e propria «attesa del tramonto della terra isolata… come Gloria della Gioia»128. L’artista non può fare a meno di spingersi tanto lontano, secondo Beethoven; che, guarda caso, si sentiva proprio per que127. L. van Beethoven, Autobiografia di un genio, tr. it., a cura di M. Porzio, Mondadori, Milano 2005, p. 70. 128. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 599.
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sto afferrato dal Destino («Ma ora mi afferra il destino!»129). E riteneva che bisognasse abbandonare qualsiasi preoccupazione «circa l’esito delle proprie azioni e considerare identico qualsiasi avvenimento»130. Vera e propria testimonianza del «destino», che, in ogni sua differente manifestazione, continua a dire sempre lo Stesso. Saggezza estrema, degna di un vero testimone del Destino della necessità. Perciò il compositore poteva rilevare che gli uomini che possiedono la vera saggezza «non si curano del bene e del male di questo mondo»131. Beato, dunque, colui che è in grado di assolvere a tutti i compiti della vita «nella perfetta indifferenza al loro esito!»132 – scriveva con grande convinzione il nostro. Invitando per ciò stesso il destino a mostrare tutta la propria potenza: «Mostra la tua potenza, destino! Noi non siamo padroni di noi stessi; ciò che è stato deciso deve essere, e allora sia così»133. Non è un caso che, proprio in questa fiduciosa attesa, il genio beethoveniano ritrovasse la potenza dell’eterno, ossia del Destino in quanto struttura atta a garantire l’eternità di ogni essente; e che, ad esempio, nella Nona Sinfonia, tutto fosse pensato come presagio dell’esplosione della Gioia nella famosissima Ode. Lo vide bene un allievo di Wagner, Aleksandr Serov, che vi colse un procedimento da lui descritto come trasformazione di una singola idea attraverso una catena di metamorfosi, che non ci avrebbero mai deviato o distolto dal l’immagine principale del tema. «Egli riteneva che la sinfonia consistesse in una serie di momenti all’interno di un grande progetto monotematico, at129. L. van Beethoven, Autobiografia di un genio, cit., p. 117. 130. Ivi, p. 121. 131. Ibidem. 132. Ibidem. 133. Ivi, p. 123.
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traverso il quale Beethoven aveva dischiuso l’Ode alla Gioia quale simbolo dell’Elisio»134. L’uso implacabile del motivo non poteva lasciare dubbio alcuno, sempre secondo Solomon. Gli sembrava infatti oltremodo evidente: non poteva che trattarsi di un disegno intenzionale. Per la similitudine di profili melodici «che si muovevano verso l’alto o verso il basso in figurazioni di scale per grado congiunto»135. Sforzi ascensionali che venivano ogni volta frustrati, tanto da ricondurre l’ascoltatore ad uno stato di sempre ripristinata tensione o instabilità. Tutto volgendo a presagire la figura ricurva che doveva caratterizzare la melodia della Gioia. Quel tema Beethoven lo stava attendendo, paziente e inquieto nello stesso tempo, e quando arrivò, scrisse: «Questo sì. Ah! Adesso è scoperto»136. D’altro canto, ogni frammento era stato vissuto dal genio beethoveniano come variazione anticipatrice dell’Ode alla Gioia, come sua divinazione – precisa ancora una volta Solomon. Tutta la sinfonia appariva cioè come una ricerca del Re maggiore; «ogni passaggio in Re maggiore implicava infatti un momentaneo punto d’arrivo – ma non un asilo permanente – nel viaggio che procedeva verso il tema in Re maggiore della Gioia»137. Ossia verso l’identità di cui tutto è speculum in aenigmate; falsa e vera nello stesso tempo. La cui falsità o veridicità, cioè, fungono da semplici proprietà delle parole con cui la medesima si lascia sempre anche evocare, ma mai render presente in quanto tale – perché continuamente contrastata dall’isolamento che ce la fa attendere e vivere come sempre di là da venire (dal punto di vista del cerchio finito dell’apparire). 134. M. Solomon, Su Beethoven. Musica, mito, psicoanalisi, utopia, tr. it. di G. Zaccagnini, Einaudi, Torino 1998, p. 20. 135. Ivi, p. 21. 136. Ivi, p. 23. 137. Ivi, p. 25.
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Eppure proprio il Re maggiore sembra qui volersi far intendere come «simbolo di una potenziale trascendenza»138; della trascendenza, cioè, rispetto ad ogni parola e ad ogni significato (i quali rimarranno sempre ignari del senso custodito dalla Gioia che da sempre li attende). Beethoven lo sapeva bene, che ogni giorno lo avrebbe condotto (come scrisse in una lettera a Wegeler) sempre più vicino alla meta che percepiva, ma che non era in grado di descrivere. Ma solo di suonare. Rendendola esperibile in virtù di sequenze sonore, melodico-ritmico-armoniche, il cui divenire (il cui essere incessantemente oltrepassate) non poteva venire vissuto come progressiva nientificazione – e dunque all’insegna del dolore che accompagna l’assenza di quel che scompare nientificandosi, e di quel che comincia ad apparire come costitutivamente instabile e destinato esso stesso al nulla –, ma come musica che non avrebbe mai cessato di apparire; che passando, non sarebbe passata, venendo piuttosto a configurare, con i suoni di volta in volta sopraggiungenti, un’unica armonia. Vale a dire un’identità che solo i suoni sarebbero riusciti a far vibrare nell’aria, senza soffocarla o tradirla, magari incatenandola alla rigidità di significati irrimediabilmente «isolati» – che il linguaggio da sempre cerca di connettere e articolare, unificandoli, ma che ogni volta finiscono per reclamare una propria autonomia. Significando anche indipendentemente dalla sintassi che li vuole tenere insieme – che dicono ognuno, cioè, la mancanza degli altri, per la solitudine connessa ad un originario non conformarsi allo svolgimento che li “vuole” forzatamente e violentemente uniti. D’altronde, nel linguaggio dei suoni (continuiamo a chiamare «linguaggio» quello musicale, anche se quello che stiamo rilevando non ci consentirebbe di trattare quello proposizionale e quello musicale come linguaggi secondo un medesimo 138. Ibidem.
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significato del termine), nessun suono significa indipendentemente dal legame che lo mostra insieme ad altri suoni – i quali, anche se passati, suonano, con quelli di volta in volta sopraggiunti, in una indissolubile unità –, anzi esso è suono solo in quanto connesso ad altri suoni conformemente a questa o quella determinata unità. Si prenda ad esempio l’incipit della famosissima Quinta Sinfonia (opera tanto felicemente commentata da Hoffmann): Sol Sol Sol Mib. Tre Sol della durata di un ottavo l’uno e un mi bemolle, della durata, invece, di due quarti. Ecco, il primo Sol (quello che avvia il tema dopo una pausa di un ottavo) non è musica; perché esso non porta all’apparire nulla, indipendentemente dalla collocazione ritmico-armonica che lo vede inscritto nel contesto di quelle prime due battute (di due quarti l’una). E soprattutto, con il sopraggiungere del mi bemolle a scendere, i primi tre Sol ribattuti (tutti con la medesima durata, peraltro) non escono affatto di scena. Come sembra accadere, invece, quando una persona, dopo aver fatto tre passi per entrare nella stanza da cui non era stata ancora accolta, una volta entrata, si ritrova a vivere il proprio esser ancora fuori dalla porta con struggente nostalgia – perché l’esser ancora in corridoio sembrerà a quella persona una situazione ormai uscita dall’apparire (pur potendovi rimanere nella forma del ricordo). Solo per il loro (di quei tre suoni) continuare ad apparire, cioè – ossia, per il loro non esser affatto usciti di scena –, l’unità sonora costituita dalla sequenza qui presa in considerazione riesce a costituirsi; e a farsi musica, da cui ogni forma di «privazione» e di «dolore» (ragioni della nostalgia) saranno necessariamente negati. Quella prima frase della Quinta Sinfonia non dice insomma l’uscire dall’apparire e l’entrare nell’apparire da parte di questa o quella nota; ma piuttosto lo svolgersi di un’unità che, lungi dal costituirsi come «ineffabile» (se non per il linguaggio che voglia descriverla – come
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quello che stiamo articolando in queste pagine) rispetto alla luce che su di essa riesce a diffondere il cerchio finito dell’apparire, sarà concretamente restituita proprio dal comporsi in perfetta unità da parte di quelle note. Che suonano davvero insieme. Nel motivo che suona come un ta ta ta taaaa, passato, presente e futuro non sopraggiungono l’uno sull’altro, o peggio ancora l’uno scalzando l’altro, ma si fanno presenti in un’attesa che, neppure essa, mancherà mai di quel che verrà ad aggiungervisi. Ma che, in quel che verrà, troverà appunto il proprio suono; il quale si lascerà rinvenire solo grazie a quel che «verrà» – che verrà, ma non venendo dopo, sì da costringere a farsi «passato» (e dunque a risolversi in un semplicemente ricordato) quella determinata cellula sonora. Ma consegnando piuttosto alla medesima una espansione in cui quel supposto passato non rimarrà come semplicemente rammemorato, ma suonerà conformemente ad una perfezione come quella che solo la composizione nel suo insieme avrebbe potuto consegnargli. La musica dice insomma un’unità nel cui orizzonte i differenti davvero «non sono differenti», pur senza mancare della distinzione che li distingue l’uno dall’altro, ma che né all’uno né all’altro consente di essere una determinatezza che si possa anche concepire separatamente dall’intero compositivo. La musica non consente l’errore costituito dall’astrazione… così frequente, invece, nel linguaggio proposizionale. Così frequente, cioè, là dove i momenti astratti di una unità (ossia di una esistenza – che è sempre il dispiegarsi di una serie di differenti) possono lasciar credere di riuscire a manifestare quella esistenza anche se separatamente considerati. Ad esempio noi tutti crediamo che la determinata immagine (spazializzata) di una persona (la persona che ho incontrato in quella stanza due ore fa, e con la quale posso aver chiacchierato magari per cinque minuti) – un’immagine che è sempre relativa a questo o quel momento del mio confronto
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con la medesima (un momento che peraltro non esiste, se non nell’illusione dello scatto fotografico), e che io riesco comunque (o credo di poterlo fare) ad astrarre dalle infinite immagini che di quella persona possono essermi state consegnate nel corso di una vita – mi restituisca ciò che quella persona è. In verità quella persona e la sua vita non si offrono mai in immagini spaziali fisse (come nei fotogrammi di una pellicola, o nelle istantanee che possono essermi state restituite dalla macchina fotografica); tali immagini sono una semplice «illusione». Sono il frutto di un’astrazione che pensa di poter esibire un’immagine in grado di valere come presenza di quella certa persona, ma in realtà esibisce un mero simulacro della medesima. Si tratta infatti un’immagine funerea che nulla potrà mai restituirmi della vita di quella persona (una persona che non è mai «altro» dalla sua vita – ossia dallo svolgimento che ne disegna appunto l’identità). Come una vera e propria natura morta. Quasi una statua priva di vita che, di quella persona (o meglio della sua vita), potrà costituire solo una infedelissima immagine. Mentre nella musica, ossia nell’orizzonte temporale in cui si dispiega una realtà che non prende mai spazio (se non nella rappresentazione sempre impropria restituita dalla partitura), non si dà neppure la possibilità di confondere l’astratto col concreto. L’astratto, infatti, nello svolgimento musicale, in senso proprio non si dà. O meglio si dà come l’originariamente negato; come ciò che, dunque, non può certo venire confuso con l’esistenza di quel che per esso verrà di volta in volta alla luce. Quel Sol ribattuto tre volte, anzi, il singolo Sol che sopraggiunge nel secondo ottavo della prima battuta, non può venire confuso con la musica di cui sembra costituirsi come semplice momento, e venire concepito come immagine astratta dell’intero costituito dalla Quinta Sinfonia. Quel singolo Sol, se estrapolato dal contesto disegnato da tutte le battute di cui è composta la Quinta Sinfonia, non restituisce alcunché della
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Quinta Sinfonia. Esso, infatti, è il Sol della Quinta Sinfonia; e, in quanto separato dalla Quinta Sinfonia, non appare neppure come momento astratto di tale composizione. Se suonato come singolo e isolato Sol esso è infatti una semplice nota (e forse non è neppure musica). Se così estrapolato, esso non è altro che un Sol. E non si dà neppure la possibilità che lo si fraintenda e si pensi che, a presentarsi, in esso, sia una cellula o una parte della Quinta Sinfonia. Solo se prendo in considerazione una cellula che sia già in sé uno svolgimento, per quanto minimo (si tratti anche solo della prima battuta), io posso infatti riconoscere, in essa, una traccia della Quinta Sinfonia. Il singolo Sol, insomma, non dice nulla di ciò che, solo nel contesto della Sinfonia, contribuisce al costituirsi di un’armonia esperibile appunto come identità vivente. Un’armonia in grado di esser «vita». Che contribuisce al costituirsi di tale «identità» non in quanto sopraggiungente che spetterebbe al sopraggiungere delle note, una dopo l’altra, unificare – quasi avessimo originariamente a che fare con delle cellule originariamente separate. Che contribuisce a tale costituirsi, cioè, solo in quanto si manifesti per quel che esso (quel Sol) è ab origine: nota necessaria al palesarsi di quell’eterno costituito ad esempio dalla Quinta Sinfonia. Di un eterno che non si palesa, mai – e quindi non è mai tale –, se non nello svolgimento di cui è fatta qualsiasi musica, così come qualsiasi esistenza. Nessuna nota prende spazio, infatti, se non nel contesto di una sequenza temporale in virtù della quale, solamente, l’iden tità con sé di una determinata Sinfonia può restituire ad ogni nota la sua più propria identità – che non sarà mai «la sua», quella di una determinata e singola nota (anche se le conviene originariamente), ma che solo per essa potrà comunque dispiegarsi ad immagine e somiglianza dell’identità in cui consiste invero il significato originario, ossia l’Infinito assolutamente
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assoluto in cui è custodito il Destino. Come ciò che, nel dispiegarsi di un infinito oltrepassamento, dunque, va verso ciò che mai, di fatto, gli sarà comunque mancato (come non mancano le note che seguiranno, alle prime quattro; quelle in cui si disegna appunto l’incipit della Quinta Sinfonia), stante che il significato originario, che ad ogni nota compete, affida ogni nota alla Gioia di un destino che, lungi dal temporalizzarsi (e dunque lungi dal farsi altro, in quanto temporalizzantesi, dalla propria eternità), è sempre perfettamente se stesso, tutto intero, e mai mancante, proprio nello svolgersi di un essere che vive solo nell’infinito oltrepassamento di qualcosa che, in ogni caso, mai sarà venuto in alcun modo a mancare (pur facendosi passato). Ciò che al linguaggio, e alla forma sempre spazializzata delle sue concettualità, mai sarà dato comprendere… e tanto meno ancorare alla propria determinatezza – d’altronde Severino è chiarissimo a questo proposito: «la struttura originaria è l’essenza linguistica dell’originario, che è indicato dal linguaggio ma non vi è contenuto»139. Perché la medesima, nei suoi infiniti momenti, mai sarà riducibile al differire in cui tali concettualità si lasciano anche risolvere, ma solo ad un distinguersi tale per cui l’esser sé – che per esso verrà comunque a disegnarsi – né cominci né finisca; in modo tale che né cominci né finisca alcuno dei suoi tratti (alcuno dei momenti specifici del suo perenne svolgimento). Momenti specifici che, infatti, non sussistono mai come fisse datità valevoli come tali, «nonostante» lo svolgimento della loro distinzione – ma vivono appunto solo nell’infinito inoltrepassabile che ogni oltrepassamento specifico finisce per inverare, mostrando di fatto che nessuna determinatezza, ossia nessun confine, può davvero limitare la sua intrascendibile infinitudine. Anche solo per l’insuperabilità della contraddizione C; ché, anche quella che
139. E. Severino, Storia, Gioia, Adelphi, Milano 2016, p. 242.
294 appare dopo il tramonto della terra isolata, cioè della volontà, e che non può essere costituita dalla volontà della terra isolata, ma dalla volontà del destino, ossia dall’apparire della necessità della contraddizione C… è contraddizione tra il modo, peraltro sempre più concreto, in cui la totalità infinita degli essenti appare nei cerchi del destino e l’inesauribile concretezza di tale totalità.140
Insomma, quello informante di sé ogni determinazione del vivente (ed evocante il disegno temporale in cui tutti i momenti statici – che vorrebbero «prendere spazio» e lo prendono, di fatto – si risolvono, affidandosi ab origine alla propria «negazione»… facendosi, cioè, da un lato passato, nella forma del non-esser-più, e dall’altro futuro, nella forma del non-esser ancora) è un anelito – come quello già sperimentato da Mozart – a «mutare il significato in suono, la costruzione linguistica in musicale, facendo sì che il senso minacciato approdi in salvo nel porto sicuro dell’arte»141. Un anelito a negare gli infiniti significati in cui si disegna il destino della terra isolata, e alludere per ciò stesso ad un’eternità che non è quella che appare nella dimensione non veritativa della terra isolata (pur non avendo un significato soltanto diverso dalla medesima, come Severino precisa in Intorno al senso del nulla), ma quella che non può non apparire nel cerchio originario del destino della verità. E che, anche nel cerchio della terra isolata, dovrà comunque risuonare – ché, se non esistesse una qualche comunanza o risonanza tra l’eternità che si manifesta nell’orizzonte della terra isolata e quella resa manifesta dal cerchio del Destino, si dovrebbe ammettere che il destino, negando la non verità, non sarebbe negazione della negazione di ciò che esso afferma e che in esso appare, ma sa140. E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., pp. 209-210. 141. J. Vogel, Lettera sguercia / scritto inzuppato, postfaz. a W.A. Mozart, Lettere alla cugina, tr. it. di C. Goff, SE, Milano 2000, p. 72.
295 rebbe negazione di qualcosa di diverso da ciò che esso afferma… e quindi la negazione di ciò che il destino della verità afferma rimarrebbe come non negata dal destino – che peraltro non sarebbe il destino.142
L’infinito inaccessibile (in virtù della contraddizione C) deve insomma risuonare in ognuno dei passi necessari ad approssimarsi (all’infinito) alla sua già da sempre realizzata Gioia – quella di cui ogni risonante passo potrà dunque farsi manifestazione, anzitutto negando di essere quello che è, e facendosi per ciò stesso «decifrabile» traccia dell’eterno che continua a sopraggiungere (nello sguardo costituito dal cerchio finito dell’apparire), e che ci spinge sempre più lontano di quanto potremmo aspettarci. Come sapeva molto bene Beethoven, che non si vergognava certo di essersi spinto tanto lontano; e di «amare la verità sopra ogni altra cosa»143. Che amava incondizionatamente Goethe, peraltro, il quale aveva già capito (da cui la sconfinata ammirazione nei suoi confronti, da parte del compositore) che, solo in virtù dello svolgimento essenzialmente metamorfico dell’identità, il mondo guadagna e si approssima sempre di più al principio dei principi (che Goethe definisce Ur-phänomen) e alla sua infinita assoluta assolutezza. Goethe, infatti, aveva già intuito che il divenire non implica affatto caduta o dispersione, e tanto meno allontanamento dalla pienezza dell’origine (come un certo romanticismo di impostazione fichtiana – debitore di una certa lettura del pensiero aurorale di Anassimandro – ha sempre rischiato di credere), ma ha piuttosto a che fare con quell’infinito dispiegamento connesso alla natura sempre finita dell’infinito – che d’altro canto non potrebbe neppure essere tale (cioè in-finito) se non in relazione ad un finito di cui riconoscere l’esser già
142. E. Severino, Intorno al senso del nulla, cit., p. 196 143. Ludwig van Beethoven, Autobiografia di un genio, cit., p. 86.
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da sempre negato, e di cui continuare a mostrare l’inconscia (e inaccessibile, dal punto di vista del cerchio finito dell’apparire) «infinitudine». Ossia di cui, lungi dal poter restituire il volto concettualmente determinato (e dunque linguistico), potremo al massimo intonare il respiro.
Severino e gli altri
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Leopardi, tra filosofia e poesia In dialogo con la lettura severiniana di Leopardi*
La nobile natura, unendo la ragione alla poesia (avendo l’ardire di non detrarre alcunché alla verità) diventa e sa di diventare la suprema forma di volontà di potenza: la nobile natura è la ginestra che col suo profumo consola il deserto, pur sapendo che “preso” soccomberà anch’essa alla potenza del fuoco annientante (La ginestra, vv. 300-01).1
Prologo L’Occidente ha sempre pensato che l’essere delle cose fosse intimamente legato al nulla che lo precede; lo stesso cui tutte da ultimo si consegnano. Ha sempre pensato, conseguentemente, che solo un Dio potesse salvarci. Che solo un’episteme, mostrando il fondamento incontrovertibile di tutto, potesse donarci felicità. Uno sguardo epistemico a cui sembrano potersi sollevare, comunque, solo i vivi, almeno secondo Leopardi – che, agli
* Volevamo render noto subito al lettore come questo saggio vada concepito quale ripresa e parziale sviluppo della critica da noi già impostata alla lettura severiniana di Leopardi; come ripresa e sviluppo, cioè, di quanto da noi già argomentato nella nota 15 del terzo capitolo (Il canto della mimesi) di Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, Bompiani, Milano 2013. 1. E. Severino, In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell’uomo, Rizzoli, Milano 2015, pp. 91-92.
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occhi di Severino, incarna una delle forme di massima coerenza del nichilismo occidentale. Eppure, la verità dell’Occidente è vista davvero, secondo il recanatese, solo dai morti. Da coloro, cioè, che si trovano definitivamente affidati a quel nulla da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna senza motivo alcuno. Da questo punto di vista (quello dei morti), a meravigliare e ad apparire stupefacente, nonché stupenda, è la dunque vita, e non la morte. Perché nella morte non v’è nulla che possa generare insicurezza; l’ignuda natura, nella morte, appare infatti «sicura»; a stupire potendo essere, invece, sempre e solamente la vita. A differenza di quanto accade ai vivi, che si meravigliano invece per il nulla da cui tutto proviene e in cui tutto sprofonda. Insomma, che qualcosa sia: questo è veramente assurdo; inspiegabile, dal punto di vista più alto. Quello che vede il cuore più profondo delle cose tutte. Anche perché solo là dove ci si solleva al punto più alto della sapienza, secondo Leopardi, ci si inoltra in quel pensiero dei morti a partire dal quale lo sguardo oltrepassa ogni limite e raggiunge i suoi estremi confini. È qui che la vita appare come l’assolutamente inspiegabile ed insensato. Ma insieme stupefacente – «cosa arcana e stupenda», appunto. Ché in verità tutto è nulla; lo capisce bene Leopardi, sempre secondo Severino. Anche il principio di Dio, infatti – agli occhi di Leopardi – è costituito dal nulla. Ogni cosa, cioè, si volge ab origine al nulla; e non ad un certo punto, ovvero, solo prima di morire. Tutto è creato dal nulla e al nulla le cose tornano come al loro telos naturale. Anche perché solo questa materia-nulla è infinita, senza limiti; da nessun esistente potendo la medesima venire limitata, o costretta in qualche modo a ritirarsi. Il mondo dell’esistente non può nulla contro di essa; se è vero che anche «l’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» svanirà prima di lasciarsi intendere.
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Per questo l’essere è puro caso; caso che, solo, può accadere nel nulla che tutto abbraccia. E il cui accadimento non ha appunto alcuna spiegazione; né potrebbe mai averla. L’uni co «perché» (l’unica ragione) dell’esistere essendo appunto costituito(a) dal nulla; che rende nulla, quindi, lo stesso essere, come «pensier grave» costituito da semplice “dolore”, che può anelare solamente alla morte; quale unico rimedio (per quanto paradossale) all’angoscia per la morte. La morte è dunque, da questo punto di vista, sia il male più temuto che il sommo rimedio del male. Ma poi Severino mostra anche come, in Leopardi, venga a disegnarsi la figura costituita dal «coro dei morti» quale metafora contrapposta a quella riconducibile all’Inno a Zeus dell’Agamennone, in cui ci si rivolge al sacro seggio dell’eternità – quello su cui siede il Padre degli dèi. Il coro dei morti, lungi dal cantare il Dio vincitore eterno sulla morte (in virtù del quale ci si propone di cacciare il dolore che culmina nella morte), spegne ogni illusione, tra quelle di norma allestite dalla tradizione filosofica occidentale. Merita anche precisare, comunque, che in esso, a cantare non sono affatto i morti, bensì il genio che vede il «vero» vedendo, in-uno, lo spegnimento di tutte le illusioni generate dalla tradizione filosofica occidentale. Il genio è insomma il vero morto; anzi, l’unica voce con le cui inflessioni ai morti sembra consentito cantare. Ché questi ultimi, in quanto tali, non avrebbero nulla da dirsi o da dire. D’altronde, se l’essere esce provvisoriamente e casualmente dal nulla, nulla sarà anche la sua capacità di contrapporsi al nulla medesimo e di arginare la morte. Solo il genio, cioè, nella fantasia immaginativa di Leopardi, funge da espressione massimamente intensa della forza dell’esistenza; che, nel vedere la morte e la nullità di tutte le cose, riesce a guadagnare quella vicinanza estrema al nulla che, sola, sembra consentirgli di vedere, di là da ogni illusione, l’unica verità non smentibile,
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costituita appunto dall’infinita vanità del tutto. Nel canto dei morti, ormai l’episteme non vede altro eterno che «il nulla da cui provengono e in cui ritornano le cose».1 Perché solo nel niente «è niente anche l’estrema angoscia del niente»2. D’altronde, «i morti risvegliati dal canto del genio tentano di parlare del nulla rimanendo nel nulla»3; fermo restando che (ed è quel che più ci interessa) questa immagine, e quel che c’è, di impossibile, in essa (ossia nel nulla che parla, cioè nella voce del genio), è per Leopardi (sempre secondo la lettura di Severino) dotata di una «forza» che, sola, in quanto «forza della visione del nulla, sembra consentirci di sopportare il nulla che in essa si mostra»4. Perché, come dice lo stesso Leopardi, qui citato da Severino, «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria»5. Passo misterioso, questo… che cercheremo di interrogare; cercando anzitutto di capire cosa implichi il fatto che «il poetico che canta l’eternità del nulla si presenta appunto come il canto che viene cantato dal nulla, cioè come immagine massimamente difforme dalla verità che vede la nullità del nulla»6. Il fatto è che, per sopravvivere alla visione vera del nulla, il mortale «si solleva nella forza della voce che canta la nullità del tutto»7. Ossia, si consegna alla voce del «genio». Che solleva dal nulla, proprio cantando e guardando al nulla. Ma come è possibile? Bell’enigma! 1. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 47. 2. Ibidem. 3. Ivi, p. 48. 4. Ivi, p. 49. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Ivi, p. 50.
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Sopportare il nulla, cantandolo e conoscendone l’eternità Abbiamo già ricordato come, secondo il filosofo bresciano, quella di Leopardi si costituisca come una delle più vertiginose espressioni del pensiero occidentale proprio perché capace di portarne alla luce il fondo autenticamente nichilistico. Quello che, a lungo, la nostra tradizione avrebbe invece continuato a rimuovere, senza riconoscerlo mai nella sua reale abissalità. Con Leopardi, insomma, ben prima che con Nietzsche, sarebbe venuto in chiaro come, agli occhi dell’Occidente, il contenuto della verità si fosse quasi sempre risolto nella esibizione «della nullità di tutte le cose e dell’infelicità della vita»8. Ma ora, nella voce del «genio» la vicenda costituita dal pensiero del nostro tempo viene inaugurata da una forma di episteme agli occhi della quale non si vede altro eterno che il nulla. Il mortale si trova al sicuro, nel nulla cantato dal genio; liberato, com’è, dall’angoscia per il nulla. La liberazione della mente dall’angoscia per il nulla – precisa infatti Severino – è data proprio dalla profonda notte del nulla medesimo. Sì, perché «nel niente è niente anche l’estrema angoscia del niente»9. Ed è abbastanza comprensibile che una consapevolezza di questo genere, se lasciata «sola», per dir così, rischiasse di rendere impossibile la vita. Se nulla fosse mai venuto a soccorrere questa lucida consapevolezza, rileva Leopardi (giustamente citato da Severino), «ogni uomo, ogni fanciullo, infatti, alla prima facoltà di ragionare… si sarebbe ucciso infallibilmente di propria mano» (Zibaldone, 216). Il fatto è che, fortunatamente (potremmo senz’altro dire),
8. Ivi, p. 285. 9. Ivi, p. 47.
304 tra la seconda metà dell’agosto e i primi giorni dell’ottobre 1820, i Pensieri10, rendono completamente esplicito il principio secondo cui sarebbero già la semplice positività del sentimento e della cognizione del nulla – cioè il loro essere non un nulla, ma un essere – a produrre una dimensione (illusoria) capace di consentire all’esistenza di non soccombere e sprofondare immediatamente nel nulla.11
Certo, per Leopardi – ci ricorda sempre Severino – la «sventura» è l’apparire della verità; ma prima o poi le illusioni sembrano destinate a tornare. A consentire all’esistenza di non soccombere e sprofondare nel nulla è infatti l’emersione di determinate illusioni; illusioni che consisterebbero «nel mirare a certi “illusori vantaggi” proprio attraverso la descrizione dell’infelicità e della nullità della vita»12. In ogni caso, non si tratta, sempre secondo il filosofo bresciano, dell’emersione di uno spettacolo o di una prospettiva diversi o in qualche modo alternativi rispetto a quelli messi a fuoco dalla visione veritativa concernente appunto la nullità di tutte le cose. Importante sottolineare questo fatto, perché non vengano a prodursi pericolosi fraintendimenti relativi al possibile configurarsi di uno scenario realmente e positivamente “alternativo” rispetto a quello messo in luce dalla verità. Che da Leopardi, sempre secondo la lettura severiniana, non viene invece assolutamente disegnato. La radice dell’illusione – quella che non resta comunque mai distrutta (neppure nel tempo della sventura, precisa sempre Severino) – custodisce dunque un segreto: che la sventura
10. Di norma, Severino, citando i Pensieri, fa riferimento allo Zibaldone. 11. E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, p. 135. 12. Ivi, p. 136.
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stessa sia «un dolore pieno di vita»13, almeno, quando non affoghi nella noia. Che la pienezza della vita e dunque la capacità di disegnare illusioni “rasserenanti” non si contrappongono astrattamente alla visione dolorosa della nullità dell’essente. Ma sono come miracolosamente generate dal modo in cui quest’ultima finisce per imporsi allo sguardo del filosofo. Una stranissima pienezza sembra essere, dunque, quella connessa al dolore provocato dal tempo della sventura e dalla visione del «vero»; sì, perché si tratta, ed è sempre Severino a dircelo, commentando Leopardi, di «una pienezza che in verità è vuoto e nulla, ma che non è sentita come vuoto e nulla, sì che sentire il pieno della vita, nella sventura, è ancora una volta un illudersi»14. Infatti, se tale pienezza è il volto del nulla, sentire in essa qualcosa di rasserenante equivale a sentire come rasserenante quello stesso nulla che, sempre secondo Leopardi, è quanto di più doloroso vi sia. Ma, se le cose stessero davvero così, Leopardi si contraddirebbe nella forma più eclatante. E proporrebbe una tesi del tutto scombiccherata. Assurda e insostenibile. Diversamente da come noi, nel nostro Misterio grande. La filosofia di Giacomo Leopardi, abbiamo cercato di rendere ragione del fatto che, all’uomo di genio – pur mettendo lui in luce la medesima nullità (il nulla di senso) riconosciuta dalla filosofia nel cuore delle cose e tutte e dell’umana esistenza15 –, 13. Ibidem. 14. Ibidem. 15. A parte il fatto che, nel libro (già citato) da noi dedicato a Leopardi, abbiamo preliminarmente messo in questione il modo in cui Severino interpreta il nulla delle cose tematizzato da Leopardi (il quale non intendeva affatto riferirsi all’assolutamente altro dall’essere, bensì al “nulla di senso”), volevamo qui ricordare anche che, sempre nel medesimo volume, avevamo altresì cercato di mostrare come l’effetto benefico delle opere del genio non dipenda tanto da una misteriosa intensificazione della visione del nulla delle cose, e neppure dalla capacità di costruire mondi fittizi in cui ci si possa
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lo spettacolo terribile della nullità procuri un qualche sollievo all’animo umano, secondo Severino questo stesso sollievo (destinato a rendere in qualche modo – sia pur temporaneamente – sopportabile l’esistenza) avrebbe a che fare con una non ben determinata «pienezza» paradossalmente prodotta proprio dal sentimento vocato in realtà a sentire e riconoscere, nel modo più lucido e potente, la nullità delle cose. E dunque con una semplice illusione di pienezza, valevole come maschera fuorviante della nullità; che non si capisce come possa rallegrare il cuore, se, nonostante le incomprensibili illusioni offerte dalla poesia, lo sguardo della filosofia continua ad avere davanti agli occhi quel che più fa male, all’animo degli umani. Il fatto è che, secondo il filosofo bresciano, è sufficiente riconoscere che «la stessa visione del nulla, quanto più essa è intensa e profonda – quanto più è autentica la sua verità –, tanto più essa avverte la propria forza, e cioè, daccapo, avverte come pienezza la propria nullità, e dunque si illude»16. D’altro canto, il semplice fatto di avvertire come pienezza la propria nullità significa «illudersi»; ché, propriamente parlando, tale «nullità» non è la «pienezza» che viene avvertita in relazione alla medesima. Perciò, vivere come pienezza quella nullità significa non rendersi conto di quel che si ha di fronte agli occhi; significa
ritrovare finalmente liberi dalle limitazioni di questo mondo, quanto piuttosto dal fatto che l’arte non si costituisce come forma di conoscenza. «Insomma, in quanto artista, oppure in quanto fruitore, posto al cospetto dell’opera d’arte, l’uomo non è mai soggetto di conoscenza (fermo restando che «l’uomo soffre solo perché “conosce”») – ossia, non è “soggetto”, tout court. Ma “vive”, finalmente, e si entusiasma – perché non “conosce”, ma “è”. È cioè quel nulla di senso che la sua stessa conoscenza gli ha fatto incontrare – ma lo è nella forma del suo stesso esser negato. Ossia, nel suo tornare a farsi “cosa”, sia pur nello specchio dell’anima. Anzi, ad essa (all’esser cosa della cosa) ormai resosi perfettamente identico» (M. Donà, Misterio grande, cit., p. 224). 16. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 136.
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non vedere quel che i propri occhi comunque vedono. Cioè, significa commettere un radicale errore; e non un errore qualsiasi, ma l’errore essenziale – lo stesso che avrebbe corrotto l’intero Occidente, non a caso… costantemente illuso di avere di fronte agli occhi l’essere del nulla e il nulla dell’essere (prodotti dal divenire nichilisticamente inteso). L’errore essenziale che avrebbe autorizzato Severino a definire «follia» l’intero pensiero dell’Occidente – da sempre convinto, per l’appunto, sia pur illudendosi, di aver quotidianamente a che fare con il diventar essere da parte del nulla e il diventar nulla da parte dell’essere; ovvero, con l’essere di quel che non-è e con il non-essere di quel che è. D’altro canto, il vedere la pienezza come nullità o il vedere la nullità come pienezza non dicono proprio questo? Ossia, non reclamano entrambe queste visioni un medesimo impossibile vedere? Il vedere quel che, secondo il Destino, non dovrebbe essere in alcun modo possibile vedere? E che, proprio in quanto impossibile, costituisce una vera e propria illusione. Vedere che l’essere e la sua pienezza non sono, e che il nonessere, invece, è. Allo stesso modo in cui è illusoria, sempre secondo Severino, la persuasione consistente nel vedere il diventar nulla da parte dell’essere e il diventar essere da parte di quel che sarebbe stato nulla (il morire e il nascere). Ma il fatto è che chi vede la pienezza del nulla, sempre dal punto di vista leopardiano, non si illude affatto; perché vede le cose per come esse stanno veramente. Insomma (questo, il punto!), sempre secondo Severino interprete di Leopardi, costui né nasconde né dissimula la verità. Questo, il punto. In che senso, dunque intensificando questa stessa visione, dovremmo riuscire a produrre una serie di illusioni capaci di rendere sopportabile la vita? «L’opera del genio viene intesa, da Leopardi, come una coscienza e un linguaggio che non si nascondono e non dis-
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simulano mai la verità»17. Fermo restando che la verità, sempre per lo sguardo nichilistico di chi riconosce la reale nullità dell’essente, è qualcosa che non viene affatto nascosto dall’illusione prodotta dal genio. Lo sguardo del genio, infatti, vede lo stesso nulla già riconosciuto dallo sguardo della filosofia. Leopardi lo dice chiaramente nello Zibaldone. Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie, servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio apre il cuore e ravviva. (Zibaldone, 259/260)
E come spiega Severino questa capacità, attribuita all’opera di genio, di aprire il cuore e ravvivare, se, quel che l’opera di genio finisce per mettere in luce è di fatto la stessa nullità dell’essente… destinata a rendere sempre e necessariamente infelice la vita? Come spiega cioè questa sua capacità di farsi «rimedio»? Rimedio «contro l’angoscia provocata dalla visione del nulla». Quello che anch’essa ha di fatto davanti agli occhi. Severino la spiega chiamando in causa una sorta di vaghissimo processo di «intensificazione»; evocando cioè «l’intensità di tale visione». Un’intensità che avrebbe anzitutto a che fare con «la purezza della verità della visione, precisa Severino. Ma
17. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 281.
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anche con la potenza con cui l’opera di genio sarebbe in grado di esprimere la purezza della verità del linguaggio»18. Interessante questa precisazione. Interessante perché destinata ad evocare una “misteriosa” capacità, da parte del nulla riconosciuto dalla visione del nichilismo, di farsi oggetto di una visione che non è semplicemente vera, ma altresì «intensa»; di una visione, cioè, che, proprio in quanto intensa, sarebbe in grado di trasformarsi in rimedio. Rimedio nei confronti di quella stessa infelicità che proprio la visione del nulla dell’essente è destinata a provocare – se messa in luce e rilevata, però, da uno sguardo puramente e astrattamente filosofico. Ossia, se non supportata dalle illusioni generate dalla poesia; che poi – ed è questo il punto! – supporterebbero lo sguardo filosofico (insistiamo)… in modo alquanto singolare: limitandosi a confermare la medesima nullità da quest’ultimo tanto lucidamente riconosciuta. Solo… rendendola «più intensa»! Una visione in grado di «aprire il cuore e ravvivarlo» proprio in virtù di tale processo di intensificazione; e che la rende capace di sollevare l’anima al di sopra del nulla e della finitezza da essa medesima messi così lucidamente a fuoco. «Verso l’eterno», anzi come «il porsi stesso nella dimensione dell’eterno»19. Insomma, la vita si potenzia, e si innalza «al di sopra del nulla»; per quanto, a dimostrarsi capace di ingrandire l’anima, sarebbe proprio lo spettacolo di questa stessa nullità: «lo stesso spettacolo della nullità… par che ingrandisca l’anima…, e la innalzi» (Zibaldone, 260). Il porsi nella dimensione dell’eterno, insomma, verrebbe a coincidere con lo stesso spettacolo della nullità. Come spiegarselo?
18. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 148. 19. Ivi, p. 149.
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Vedere la nullità e – come per un gioco di prestigio – intensificare questa stessa visione al punto da trasformarla nel porsi stesso dell’eterno in quanto tale. Uno sporgersi «verso l’eterno» in cui sarebbe l’eterno stesso ad offrirsi per contribuire a sollevare l’anima al di sopra del nulla così intensamente messo a fuoco. In ogni caso, l’anima riuscirebbe a sentirsi eterna per poco; fermo restando che, per quanto affidata ad un tale sentimento per poco, ossia, in un momento passeggero, l’anima non si senta affatto semplicemente passeggera. Essa, infatti, si sente eterna; sia pur – ribadiamo – in un momento passeggero. Sì, sia pur in questo momento passeggiero, l’anima si sente eterna. Leopardi è chiarissimo a questo proposito: «l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria» (Zibaldone, 261). Insomma, è proprio e solo la visione della nullità dell’essente a far sentire l’anima eterna; a farla sentire sollevata, quindi, dalla tristitia comunque generata da quella medesima visione (quella della nullità delle cose). Ma soprattutto, l’anima si trova vivificata e rafforzata – e intensificato si ritrova anche il suo sentire –, proprio là dove, a spalancarsi, davanti ai suoi occhi, sia la nullità di ogni cosa. Ossia, di fronte allo spettacolo in cui, a mostrarsi evidente è di fatto la sostanziale inconsistenza e la nullità di tutto, di ogni forza e di ogni anima. Certo, Severino precisa: «soddisfazione e consolazione non provengono dalla visione del nulla, in quanto visione del nulla, ma dalla forza e vitalità della visione del nulla – che sono sì forza e vitalità di tale visione, ma proprio per questo anche differiscono da essa, poiché sono la purezza della verità della visione, e il suo riverbero nell’anima»20. Il fatto è che – ci dice appunto Severino – «la forza e la vitalità della visione del nulla differiscono dalla visione del nulla… appunto perché sono la purezza della verità della visione, 20. Ibidem.
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e il suo riverbero nell’anima»21. Ma, proprio per questo, nello stesso tempo, aggiungiamo noi, «non differiscono». Se è vero che, a riverberarsi nell’anima, altro non è che la purezza di una visione in cui, a venire messo a fuoco, altro non è che il nulla. Severino, insomma, è costretto a distinguere la visione del nulla in quanto tale – riconosciuto appunto dalla filosofia moderna – dalla forza e dalla vitalità di tale visione. Le stesse che verrebbero a disegnare appunto l’illusione che il genio non può mai separare dalla visione di quel medesimo nulla. Si tratta però di capire bene perché mai la forza e la vitalità connesse alla visione del nulla, in cui nulla di diverso dal nulla verrebbe di fatto reso manifesto, dovrebbero procurare soddisfazione e consolazione. Forza e vitalità che Severino, d’altro canto, identifica con «la purezza della verità della visione, e il suo riverbero nell’anima»22. Dove, peraltro, quel che si fa davvero fatica a capire, è perché mai una forza coincidente con la purezza della visione (del nulla) – con una visione in cui, a venire riconosciuto, sembra essere propriamente e solamente il nulla (da cui la “purezza” di tale visione, in cui nulla di diverso dal nulla, appunto, sembra poter rendere impuro il nulla resosi così manifesto) – possa differire dalla visione del nulla, se tale forza e tale vitalità non dipendono da altro che dalla purezza della visione. Ossia, dal fatto che, in tale visione, a lasciarsi vedere sarebbe nient’altro che il «nulla». Da dove, quindi, la differenza appena evocata da Severino? Se, a venire riverberato nell’anima, è il puro nulla; se si tratta appunto di una visione la cui intensità sembra non dipendere da altro che dalla sua purezza. Ossia, dal fatto che, in essa, a lasciarsi vedere sarebbe propriamente e semplicemente il nulla. 21. Ibidem. 22. Ibidem.
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Se le cose stanno così, davvero questa domanda non può avere risposta. Ma Severino precisa ulteriormente la questione. E afferma che la già citata «intensità» della visione in questione (di per sé dolorosissima) dipende dal fatto che il genio poetico «non può separarsi dall’illusione di essere eterno»23. Insomma, la forza e l’intensità della visione del genio sembrano in grado di condurre l’anima «al di sopra del nulla al quale l’anima pur si vede consegnata: insomma, l’anima sa il proprio nulla; ciò nonostante si innalza al di sopra di esso, nell’eterno»24. Dove resta del tutto incomprensibile, dunque, come da una intensificazione della visione del nulla, possa scaturire l’illusione di eternità. Il cuore si rallegra, spiega Severino, e all’anima si apre il cuore, perché «esce dal finito, dall’effimero in cui era rinchiuso, ed è soddisfatta di se stessa»; della propria disperazione – anche se, aggiunge Severino: «non della disperazione in quanto tale, ma del modo in cui anch’essa si mostra nel linguaggio del genio»25. In questa situazione esso, il cuore, è felice, perché si sente sottratto «alla nullità del tutto e si sente eterno – ossia si illude»26. Si illude, dunque; ed è felice perché non vede le cose per come esse stanno. La felicità, infatti – è sempre Severino a precisarlo –, è ciò che «la conoscenza vera dell’annientamento e della nullità del tutto vede impossibile»27. Il cuore del genio si crede eterno – questa l’illusione essenziale, per l’Occidente. L’anima si sente innalzata ed eterna; ma si sente tale, per l’appunto, in virtù di un’illusione. Ché scambiare la nullità delle cose per una promessa di eternità è 23. Ivi, p. 150. 24. Ibidem. 25. Ibidem. 26. Ibidem. 27. Ibidem.
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illusorio, ma anzitutto ha a che fare con l’impossibile. Impossibile essendo infatti che, proprio vedendo il nulla che si è, ci si possa sentire sospinti verso l’eterno. Non si tratta cioè solo di riconoscere – come fa Leopardi, secondo Severino – l’ineludibile illusorietà di una promessa di eternità generata dalla visione del nulla; ché bisognerebbe piuttosto riconoscere che la trasfigurazione del nulla in eterna positività è un’operazione costitutivamente impossibile; impossibile essendo anzitutto non solo che il nulla «sia», ma addirittura che sia eternamente. «Oh, infinita vanità del vero» (Zibaldone, 69). Furore dei poeti, dei poeti lirici, che infiamma l’animo e illude. Ma agli occhi di Leopardi, sempre secondo Severino, anche la calamità, a volte, sembra avere la forza di rivelare al nostro animo la verità sgombra dalle illusioni e insieme di generare un furore simile a quello dei poeti lirici. E dunque una potentissima illusione. Anche nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (1822), Leopardi evoca – soprattutto nella conclusione – i sapienti che, pur «vedendo la sventura e la nullità della vita, tentano di consolarsi con le illusioni della vita futura»28. Per quanto le illusioni come svaniscono nel tempo della sventura, così svaniscono nel tempo del genio; e precisamente: nel tempo del genio svaniscono tutte le illusioni fuorché quelle legate alla forza e alla grandezza con cui il genio mostra la forza e la vanità di tutte le illusioni (e quindi anche di quelle che non possono essere separate da questo suo mostrare la verità).29
Il genio desidera la «gloria»; e alla luce di questo desiderio, ossia mascherate con il suo volto, rifioriscono le illusioni, rileva sempre Severino in Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi. Gloria e felicità che il genio crede di poter ottenere 28. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 281. 29. Ivi, pp. 281-282.
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«dalla sua stessa capacità di esprimere la vanità delle illusioni e il nulla delle cose»30. Ancora una volta il medesimo problema; e dunque la stessa domanda di prima: cosa ci consentirebbe di “illuderci” intorno al fatto che, per il semplice fatto di esprimere il nulla delle cose, ci si possa “salvare” da quel medesimo nulla, sentendosi addirittura «eterni»? Certo, il genio ardisce sollevare gli occhi mortali incontro alla verità; e proprio questo ardimento sembra consentirgli di affidarsi ad imprescindibili illusioni. Verità generatrice di illusioni, insomma (?). Illusioni che, «per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione restano ancora nel mondo e compongono la massima parte della nostra vita»31. Insomma, la ragione vede il nulla delle cose, e dunque il «vero» che tutte le abbraccia, ma, nello stesso tempo, e proprio a partire da questa visione, sembra in grado di far attraversare buona parte della vita degli umani dalle illusioni. Sì, perché «non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane»32. Per quanto si possa perderle, infatti, prima o poi esse riaffiorano; tornano a fiorire, a dispetto di tutta l’esperienza. Anche a Leopardi era accaduto: di essersi disperato «propriamente per non poter morire, e poi riprendere i soliti disegni e castelli in aria intorno alla vita futura»33. Le illusioni tornano; «svaniscono nel tempo della sventura… ma ritornano dopo che questa è passata, o mitigata dal tempo e dall’assuefazione»34. 30. Ivi, p. 282. 31. Ibidem. 32. Ibidem. 33. Ivi, p. 283. 34. Ibidem.
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Generate dall’intensificazione di cui abbiamo detto poco sopra; sintetizzate con la lucida visione del vero che la filosofia moderna sembra aver da tempo guadagnato. Anche qui, comunque, un altro punto particolarmente interessante; perché Severino insiste a sostenere (ritornandovi più volte nelle pagine seguenti) che là dove la ragione e la filosofia si unissero all’illusione poetica, le medesime (cioè la ragione e la filosofia), in quanto separate dall’illusione (ossia la verità in quanto separata dall’errore, cioè la filosofia moderna), non potrebbero evitare di venire dissimulate, nascoste e dimenticate. E ha ragione; perché la ragione e la filosofia, in quanto separate dall’illusione poetica, non appaiono certo all’interno di un orizzonte caratterizzato dalla relazione tra ragione e illusione poetica. Nella relazione, infatti, i relati non possono apparire così come apparirebbero in quanto «privi della relazione» in cui si trovano propriamente inscritti. A parte il fatto che lo stesso esser privi di quella determinata relazione ha a che fare con l’«impossibile», in quanto il medesimo sembra sì poter apparire, ma solo se appare la relazione di cui, nell’esserne privi, ci si dice propriamente privi; e dunque, solo in quanto quelli che dovrebbero esser separati dalla relazione, non lo siano affatto. Ma per lo stesso motivo neppure si può dire che dal genio (fermo restando il suo saper tenere insieme «vero» e «illusione poetica») il vero separato dall’illusione sia stato realmente nascosto, dissimulato o dimenticato – come invece afferma Severino. Certo, le opere del genio fanno sentire la nullità delle cose, la «rappresentano al vivo»; rappresentano la verità con forza e grandezza, così come rappresentano «il vano delle illusioni». Sollevano gli occhi sulla verità; ma è appunto questo stesso ardimento (che fa puntare gli occhi sulla verità) «la forza e
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la grandezza dell’illusione poetica alla quale la verità rimane unita»35. Infatti, se «in quanto separata dalla vita, la verità annienta la vita che la guarda e che si pone in rapporto con essa; unita alla vita della poesia, invece, la medesima fornisce piuttosto il contenuto alla forza e alla grandezza con cui l’illusione poetica canta il nulla e l’infelicità umana»36. Insomma, il contenuto che viene messo a disposizione della forza e della grandezza con cui l’illusione poetica canta il nulla, altro non è che questo stesso nulla così cantato. Si tratta di un nulla trasfigurato, certamente; un nulla capace di rovesciarsi nell’eterno della vecchia metafisica. Ma come si fa a dimenticare quella visione che, certo, nello sguardo del genio, è ormai connessa alle illusioni della poesia, ma che può sempre venire concepita come isolata da queste ultime? Per quanto questo stesso suo esser così concepita non dica il suo esser vera mente isolata dalle illusioni della poesia. Il dimenticato, infatti (ossia, la nullità delle cose isolata dalle illusioni poetiche) non può esserlo. Fermo restando che quel che non può essere dimenticato, deve in qualche modo anche esserlo; deve cioè darsi anche nel suo esser dimenticato, affinché, di questo stesso esser dimenticato, si possa negare l’esser dimenticato. Certo, la nullità è qui (nelle opere di genio) dimenticata nella sua pura astrattezza; in quanto è unita alla vita della poesia. Comunque, proprio in quanto così unita, «fornisce il contenuto alla forza e alla grandezza con cui l’illusione poetica canta il nulla e l’infelicità poetica»37. L’illusione poetica, insom-
35. Ivi, p. 285. 36. Ibidem. 37. Ibidem.
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ma, sembra nutrirsi di quello stesso nulla che ci si può anche limitare a “cantare”. Senza poterlo peraltro mai sostituire con altri contenuti, per quanto meno spettrali. Insomma, a rallegrare il cor sarebbe, nelle opere del genio, quello stesso nulla che, allo sguardo della filosofia moderna, sempre secondo Severino, appare latore di dolore e tristitia inconsolabili. Quello stesso nulla, solo… intensificato dalle illusioni poetiche; che poi, sempre secondo il Leopardi interpretato da Severino, non dicono nulla di diverso da tale «nulla»… solo, lo rendono capace di trasfigurarsi, e fanno giungere la filosofia a quella sommità resa possibile dal tentativo «di rimettere l’uomo in quella condizione in cui sarebbe stato, s’ella (la filosofia, cioè la natura in quanto corrotta) non fosse mai nata»38. Qui Severino cita Leopardi; e rileva: certo, l’uomo non può tornare indietro, perché quello che si è imparato non si dimentica. Insomma, lo stato naturale non può essere restaurato; eppure, la filosofia, se unita alla poesia, può consolare: può aprire il cuore e ravvivare. Insomma, da essa l’anima del lettore può venire ravvivata, ma soprattutto nobilitata, come se potesse tornare ad una sorta di stato naturale (pur non potendo farlo); ma può venire ravvivata solo per breve tempo (per mezz’ora, dice Eleandro nel Dialogo di Timandro e di Eleandro), spinta «dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria» (Zibaldone, 261). Una forza che impedisce al genio di avere un pensier vile o di compiere un’azione indegna. Ma che indica in ogni caso una forza che è la stessa posseduta dallo sguardo rivolto alla morte perpetua di tutto; quello capace di riconoscere il nulla delle cose tutte. Anche il genio, d’altronde, si duole del fato, nel riconoscere «l’evidenza dell’uscire e del risprofondare nel nulla, nel riconoscere l’evidenza
38. Ivi, p. 297.
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dell’infelicità del vivente»39; la vede e ne sostiene la vista, ma, magicamente (cioè, incomprensibilmente, anche dal punto di vista severiniano), ingrandisce l’anima del lettore, la innalza e la soddisfa in se stessa. Riuscendo a farlo in virtù di una non meno misteriosa «forza» in grado di trasfigurare quel nulla che di norma affligge e nuoce in un nulla rigeneratore. Una forza di cui non sarebbe dotata – anche, qui, del tutto incomprensibilmente – la filosofia moderna, o meglio la filosofia in quanto separata dalla poesia. Al punto che Leopardi (cfr. Il dialogo di Timandro e di Eleandro) ritiene che sarebbe meglio dimenticare la verità, ossia la filosofia. «L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è che non bisogna filosofare»40. Severino, qui, cita Leopardi, sottolineando, con il sommo poeta, come la filosofia cerchi e desideri invano di rimediare al male da essa stessa messo in luce; perché «non può riuscire a dimenticare se stessa»41. Insomma, «la filosofia si riduce ormai (come filosofia moderna) a desiderare invano di rimediare a se stessa»42. Ma – ecco il punto! –, sempre secondo Severino, anche se unita al genio poetico, e dunque alle illusioni della poesia, «la filosofia non cessa di essere dannosissima; e non cessa nemmeno di desiderare invano di rimediare a se stessa»43. Quanto al contenuto, infatti, anche la filosofia del genio (ossia quella unita alle illusioni della poesia) sa che il desiderio di rimediare a se stessa è vano. Sa che ogni tentativo in questa direzione «è destinato a fallire»44. 39. Ivi, p. 303. 40. Ivi, p. 307. 41. Ivi, p. 308. 42. Ivi, p. 309. 43. Ivi, p. 310. 44. Ivi, p. 311.
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Eppure, aggiunge Severino, «solo unendosi all’illusione poetica la filosofia raggiunge il punto più avanzato nella direzione di quel tentativo»45. Il discorso qui oscilla paurosamente. E allude ad un punto avanzato del tentativo di porre rimedio al male originario, senza spiegare cosa consenta di definire tale tentativo «un punto avanzato», per l’appunto. Tuttavia la forza con cui la poesia esprime, nel genio, l’estrema distruttività della filosofia e l’infinita grandezza del “gran nulla” rende possibile l’ultima forma di sopravvivenza consentita a chi sa che “il tempo delle grandi illusioni è finito”. Non solo – continua Severino –. Il genio sa che la filosofia non può essere dimenticata, ma egli non tralascia di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio del misero e freddo vero, come dice Eleandro nel suo ultimo intervento.46
Certo, una volta conosciuta, la verità non può venire dimenticata – rileva altresì Severino. Eppure, tentare di far dimenticare lo studio del misero e freddo vero «non è una semplice velleità, propria di chi non conoscerebbe il rigore del pensiero filosofico»47. Perché «l’unione della verità alla poesia è una forma di dimenticanza solo della verità in quanto separata dalla poesia»48. Cioè, a venire dimenticata non sarebbe la verità in quanto tale, ma (insistiamo) solo la verità in quanto separata dalla poesia. Come abbiamo già più volte ricordato. Solo la verità separata da quella poesia «che ormai è il solo grembo che consente il fiorire e rifiorire delle illusioni»49. 45. Ibidem. 46. Ibidem. 47. Ivi, p. 312. 48. Ibidem. 49. Ivi, p. 313.
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Eppure, ed è lo stesso Eleandro a riconoscerlo, la verità dura, trista, misera, fredda (quella sconsigliata e deplorata) costituisce anche «il contenuto delle opere di Eleandro, ossia dell’opera stessa del genio»50. D’altronde, è lo stesso Severino a rilevarlo: la verità può produrre questi effetti contraddittori, appunto perché quando produce la nobiltà e la lontananza dalla viltà e indegnità essa è unita alla poesia, è il contenuto delle opere poeticomorali che giovano “massimamente”; mentre quando è fonte di bassezza d’animo, iniquità, disonestà e perversità, e insomma dell’opposto della nobiltà, essa può produrre questi effetto appunto in quanto è separata dalla poesia.51
Peccato che non vi sia alcuna ragione capace di rendere comprensibile questo doppio possibile esito; che non si capisca affatto, cioè, per quale ragione, se «unita alla poesia, la verità renda nobili, mentre, separata, tolga ogni nobiltà»52. Stante che il contenuto di quella verità che dovrebbe rendere nobili (in quanto unita la poesia) è il medesimo di quella che sembra destinata invece a togliere ogni nobiltà. D’altronde, in quanto detto poeticamente, quel contenuto viene (lo ribadiamo) semplicemente «intensificato»; ragion per cui dovremmo al limite riconoscere, al contrario (almeno, dal punto di vista logico), che il dolore provocato dalle opere di genio è ancor più intenso di quello provocato dalla filosofia moderna (dalla filosofia separata dalla poesia). Perché procurato da una visione ancora più intensa del male di vivere.
50. Ibidem. 51. Ivi, pp. 313-314. 52. Ivi, p. 314.
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Come può Severino giustificare insomma il fatto che veder quel nulla più intensamente (appunto, grazie al genio poe tico) produca illusioni, e soprattutto conduca il lettore verso quell’eterno che del nulla costituisce appunto la più radicale antitesi? Eterno è infatti l’essere; che mai, secondo il logos, può diventare nulla. Eppure, tale intensificazione, già per il fatto di produrre qualcosa di positivo (le illusioni, per l’appunto), è illusoria; ché comporta che si ritenga possibile che il nulla generi qualcosa di essente (le illusioni). O si faccia «essere». Dal nulla all’essere, insomma: questo il fondamento dell’illusorietà della rigenerazione provocata dall’unione di poesia e filosofia. Forse, allora, che il cor si rallegri, in virtù di tale illusoria poiesis, dipende dalla semplice possibilità (intorno a cui ci si illuderebbe, per l’appunto) che quel che non è nulla, sembri qualcosa. Ma Leopardi, sempre secondo Severino, rappresenta il punto estremo della coerenza dell’Occidente. Per questo che «il nulla sia e l’essere non sia» costituisce ai suoi occhi (quelli di Leopardi) l’unica verità, che non possiamo più rimuovere o nascondere, al punto in cui si profila la testimonianza del genio recanatese. Per questo, quel che la poesia può fare, nel venire in soccorso della filosofia – destinata al paesaggio deprimente illuminato, di fatto, dal suo sguardo –, non è altro che intensificarne la visione. Non certo sostituirne il contenuto, o nasconderlo. Ma rendere più intensa, e dunque più lucida, la consapevolezza di quel male originario. Che esibisce appunto la nullità di tutto. Che questa azione intensificatrice può solo rendere ancora più “evidente”, dunque. Più intensamente evidente. E più vivida. Capace per ciò stesso – ecco il punto! – di produrre una pienezza che in verità è vuoto e nulla, ma che non è sentita come vuoto e nulla, sì che sentire il pieno della vita, nella sventura, è ancora una volta un illudersi – secondo quanto già rilevavamo all’inizio di queste pagine.
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Fermo restando che Leopardi non parla mai di quella unità di filosofia e poesia che gli attribuisce Severino. E tanto meno di una unità che determinerebbe la rimozione della filosofia separata dalla poesia. Leopardi si limita infatti ad attribuire un potere medicamentale agli scritti poetici e alle opere di genio (questo fa anche nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, così come nello Zibaldone). Per lui, la filosofia dovrebbe venire cancellata dal mondo; e non, semplicemente, la filosofia in quanto separata dalla poesia. Ma la filosofia tout court. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro lo dice chiaramente, il recanatese; che la filosofia è «dannosissima»; anche solo per il fatto che non è in arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute. Certo, anche la poesia (le opere di genio) vede il nulla che causa tanta infelicità (senza bisogno di unirsi alla filosofia); ma, a differenza della filosofia, che se ne dispera (perché essendo chiamata a conoscere, e riconoscendo, da ultimo, che nulla è realmente conoscibile – perché nulla ha senso –, non può che generare afflizione), non patisce alcuno scacco. Insomma, nulla di simile alla delusione esperita in relazione al bisogno di conoscere. D’altronde, il poeta può non patirlo solo per un motivo: perché ha rinunciato ad interrogarsi. Come a dire che, in quanto poeti, non si è più soggetti di conoscenza. Il poeta, infatti, non vuole un senso (come abbiamo spiegato in modo ben più articolato nel già citato Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi); il poeta, cioè, si fa cosa tra le cose. E non domanda. Non si interroga più animato dalla speranza di trovare delle risposte; ossia, di rinvenire, prima o poi, un senso positivo (che mai potrà essere rinvenuto) che possa fungere da credibile risposta alle nostre domande. Perciò, nel Dialogo già citato, Leopardi dice chiaramente che il poeta
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(cioè lui stesso) potrà anche ridere di questa intrascendibile insensatezza. Come aveva fatto Democrito53. Non interrogandosi più, il poeta vede da fuori la ridicolaggine del filosofo che vive il nulla di senso, ossia, il nulla che abbraccia ogni cosa, come una prova provata dell’inimicizia della natura; come un suo dispetto nei nostri confronti. Come una messa in questione delle nostre pretese pratico conoscitive. Solo «ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo» – afferma esplicitamente Leopardi. Sa bene, infatti, il nostro, che «ridere dei nostri mali è l’unico profitto che se ne possa cavare e l’unico rimedio che vi si trovi»54. Come a dire che la vera disperazione «ha sempre nella bocca un sorriso», e proprio in ragione della lucida consapevolezza – attribuibile appunto al filosofo, ma anche al poeta – del fatto che a tale infelicità «non si possa riparare in nessun modo»55. Cosa fare, dunque, se non ridere, di fronte all’assurdità della vita, ma ancor di più, di fronte all’assurdità della nostra pretesa che la vita non sia assurda? Come sapeva bene anche Kafka, che, non a caso, leggendo agli amici i propri “destabilizzanti” e “agghiaccianti” racconti, finiva sempre per ridere a crepapelle.
53. Il riferimento è al dialogo di Luciano in cui vengono contrapposti il riso di Democrito al pianto di Eraclito (Una vendita di vite all’incanto). 54. G. Leopardi, Dialogo di Timandro e di Eleandro, in Id., Operette morali, Garzanti, Milano 1988, p. 266. 55. Ibidem.
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Emanuele Severino, lettore di Giacomo Leopardi e Giovanni Gentile
In che cosa consiste l’essenziale della metafisica? Nel legame che essa stringe (o che, più esattamente, cerca di stringere) fra la dimensione empirica dell’apparenza e la dimensione soprasensibile della verità. L’esperienza, dunque, come uno dei due poli tra i quali si instaura (o si assume che debba instaurarsi) questo rapporto, è non meno importante per l’indirizzo continentale che per quello empiristico della metafisica europea.1
Cominciamo ricordando anzitutto questo: che, per Emanuele Severino, il cosiddetto tramonto degli immutabili è determinato, in modo necessario, dalla fede nel divenire; una fede che peraltro «è fondamento del legame che unisce il pensiero al divenire e all’instabilità del linguaggio… un legame che rompe ogni altro legame e ogni altro nesso necessario che l’episteme si illude di stabilire tra le cose»2. E dunque anche quello che connette pensiero ed essere (un legame condotto alla sua massima radicalizzazione dalla prospettiva idealistica). Proprio a questo proposito, giunge quanto mai opportuno l’idealismo attualista di Giovanni Gentile a mostrarci che l’affermazione di un essere trascendente il pensiero richiede 1. M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano, vol. I, Le premesse storiche e filosofiche. Croce e Gentile, Bibliopolis, Napoli 2005, p. 12. 2. E. Severino, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 1997, p. 105.
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che tale essere si comporti come un immutabile, rispetto al divenire evidente dell’esperienza, cioè del pensiero: un immutabile che quindi anticipi il divenire, e lo vanifichi: vanificandone la “serietà”. Sì, perché, se per un verso, sin dalle proprie origini il pensiero occidentale sembra essersi fondato sull’evidenza del divenire, «solo un poco alla volta quest’ultimo sarebbe riuscito a liberarsi da ciò che, lungo la storia dell’Occidente, lo aveva ostacolato, rendendolo impossibile e inintellegibile, in quanto in contrasto con la sua evidenza originaria»3. Una volta riconosciuta l’evidenza del divenire, il divenire non si sarebbe potuto accontentare di rimanere una parte del tutto; doveva cioè diventarlo, il tutto; e lo sarebbe diventato proprio grazie alla distruzione di ogni immutabile. Insomma, se il divenire c’è, e appare, allora «l’unico che può esistere è il divenire»4. Il divenire, dunque, non può che essere “assoluto”, nulla potendo normarlo, condizionarlo o limitarne la portata innovativa – «il sopraggiungente è novità assoluta, non anticipata e non predeterminata, nella misura in cui esso è un niente che diventa essere»5. In quanto predeterminato dall’immutabile, infatti, il divenire – rileva sempre Severino – sarebbe «solo apparenza»6. Eppure, lungo la storia dell’Occidente, «la persuasione che il divenire sia l’evidenza originaria è stata contrastata dalla persuasione che gli immutabili e gli eterni esistono»7. Una persuasione che avrebbe finito per rendere impossibile la stessa 3. E. Severino, Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando Editore Milano 1996, p. 117. 4. Ibidem. 5. Ibidem. 6. Ivi, p. 118. 7. Ibidem.
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evidenza del divenire. Per questo, da ultimo, il divenire avrebbe finito per distruggere gli immutabili, da sempre ineluttabilmente vocati a depotenziarne l’assolutezza. Ecco perché l’attualismo gentiliano sarebbe pervenuto alla definitiva distruzione della realtà presupposta al pensiero – con cui, peraltro, il divenire era stato da ultimo identificato. Pervenendovi a partire dalla consapevolezza secondo cui quest’ultima (la realtà presupposta al pensiero) non avrebbe potuto fare a meno di impedire lo sviluppo del pensiero (= divenire). Cioè, del pensiero in quanto pensiero in atto. Quest’ultimo, infatti, sarebbe stato costretto ad adeguarsi ad una realtà presupposta rispetto alla quale avrebbe dovuto necessariamente riconoscere la propria sostanziale impotenza. Il pensiero e il divenire avrebbero finito per riconoscersi come totalità del reale. Insomma, neppure il divenire (il divenire della realtà concepita come esterna al pensiero) poteva venire presupposto al pensiero; neppure esso si sarebbe lasciato concepire come antecedente del pensiero, ché in questo modo avrebbe finito per rovesciarsi in immutabile «che daccapo e in modo altrettanto inflessibile avrebbe reso impossibile l’autentico divenire in cui consiste il pensiero in atto»8. Le sue leggi, cioè, si sarebbero rivelate in ogni caso prestabilite – al punto da farsi limiti invalicabili per le manifestazioni empiriche del divenire della realtà. E il suo divenire sarebbe diventato un semplice «divenire dipinto»9. Da ciò la serietà della storia tematizzata da Gentile; una storia che tutto sarebbe destinata a travolgere, rispetto a cui nulla, cioè, sembra potersi imporre quale condizione immutabile (permanente) della storia medesima. Una storia costretta a riconoscere quindi un unico immutabile: il proprio divenire. 8. Ivi, p. 119. 9. Ivi, p. 121.
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Da cui, peraltro, la debolezza delle critiche rivolte da Spirito a Gentile. La fede nell’evidenza del divenire, infatti, «è certamente un immutabile – rileva Severino – ma è quell’unico immutabile che consente al divenire di mantenersi aperto come divenire»10. D’altro canto, cosa anticiperebbe questa anticipazione?, si chiede il filosofo bresciano. «Di tutto ciò che sopraggiunge anticipa che esso esce dal niente, ossia anticipa il suo non essere anticipabile»11. Insomma, l’anticipazione in cui consiste la coscienza che tutto è divenire, «è quell’anticipazione che riconosce e conferma la nientità originaria di ciò che sopraggiunge, e quindi non la trasforma in un già esistente, e quindi non vanifica il processo del divenire»12. Certo, poi la filosofia – che, in quanto attualismo, apre lo spazio ad una volontà di potenza destinata a separare l’ente dall’essere, e a non poter più tollerare alcun immutabile diverso dall’assolutizzazione del divenire medesimo – è essa medesima destinata a venire travolta dalle forze cui lo spazio così apertosi avrebbe consentito di manifestarsi: le forze della prassi. E in particolare «la dominazione del mondo che ha ormai distrutto ogni altra forma di dominazione del mondo… la dominazione tecnologica»13. Lo spazio da essa aperto è infatti lo spazio della «separazione di ciò che è dal suo «è»; ossia è il divenire, la dialettica, la storia»14. Uno spazio in cui ha necessariamente maggior gioco la potenza che crea e produce con maggior libertà – in quanto libera da qualsivoglia ipotetica limitazione alla potenza della sua creatività. Come quelle religiose o economiche; rispetto a 10. Ivi, p. 123. 11. Ivi, pp. 123-124. 12. Ivi, p. 124. 13. Ivi, p. 127. 14. Ivi, p. 126.
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cui solo la tecnica può dirsi indifferente, sì da travolgerle tutte, senza alcun tentennamento. Finendo per travolgere «tutti gli dèi immutabili dell’Occidente, ed anche la Verborgenheit heideggeriana, così come la teoria e l’escatologia marxista che, come gli altri dèi immutabili, rendono anch’essi impossibile la storia…. mentre la produzione scientifico-tecnologica non si sovrappone al processo creativo e distruttivo della storia, ma vi si immedesima e lo guida dall’interno»15. Insomma, la scienza, con le sue previsioni ipotetiche, lascia comunque l’ultima parola al divenire; inscrivendovisi e cercando sì di guidarlo, ma senza porre al medesimo alcun limite invalicabile. È lo stesso Severino, d’altro canto, a ritenere questo esito inevitabile proprio a partire dalla convinzione relativa all’evidenza del divenire, o meglio, del pensiero concepito come divenire (nell’accezione gentiliana, in particolare – quella più radicale, che meglio di ogni altra sembra preparare il terreno al dominio incontrastato della tecnica). Un esito inevitabile, che avrebbe costretto l’Occidente a liberarsi di tutto ciò che, in quanto determinazione dell’immutabile, avrebbe limitato la potenza creativo-distruttiva del divenire. Limitandola al punto tale da rendere il divenire “mera apparenza” – come abbiamo visto poco sopra, riferendoci a quanto scritto dallo stesso Severino. Insomma, se c’è l’immutabile, il divenire viene da ultimo afferrato dall’immutabile, che lo incatena e lo pre-comprende, impedendogli di essere quello che è. Infatti, in quanto afferrato dall’immutabile, quel che ancora non è, è già qualcosa; e dunque non è nulla. E dunque il divenire non è divenire. Ché, c’è divenire solo dove si dia un vero e proprio passaggio dal nulla all’essere. Insomma, se v’è un immutabile, il divenire diventa impossibile; di là dal15. Ivi, p. 131.
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la convinzione che ha formato il senso comune e che, anche a partire dall’evidenza del divenire, fa credere ai più che un Dio vi sia e sovrintenda alle vicissitudini della storia, o che un senso unitario della storia possa profilarsi, e si tratti solo di rintracciarne le coordinate. Ecco, di là da tali convinzioni, quel che ognuno dovrebbe ammettere è invece che il divenire a partire dal quale (o per difenderci dal quale) siamo tutti ricorsi all’idea di una realtà immutabile, viene da quest’ultima destituito di qualsiasi fondamento. Ossia, viene reso letteralmente impossibile. Perciò, chi crede davvero nell’esistenza di una realtà immutabile, e non intende rinunciare a questa persuasione, dovrebbe da ultimo rinunciare al divenire – pur essendo proprio a partire dalla convinzione di aver a che fare con il divenire, che si è giunti all’ipostatizzazione di una realtà immutabile. Anche Leopardi, come Gentile, sempre secondo Severino, ritiene che si possa essere felici solo voltando le spalle alla verità secondo cui tutto sarebbe nulla; secondo cui, cioè, saremmo tutti circondati dal nulla del passato e dal nulla del futuro. E dunque da una identità di essere e nulla cui sembra destinarci la stessa natura temporale che ci rende così originariamente sospesi tra un passato e un futuro. Anche Leopardi, cioè, proprio come Gentile, ritiene che la verità coincida con la coscienza relativa all’intrascendibilità del divenire. Stante che, ovunque si provi a fuggire, nel passato o nel futuro, non ci si potrà che trovare nella medesima nullità; e dunque nel non essere dell’essere – nel non essere da parte di quel che solo ora, nel presente, per l’appunto saremmo. Anzi, Leopardi è il primo che, in piena modernità, si rende lucidamente consapevole del fatto che «l’esistenza del divenire implica l’inesistenza di ogni eterno e di ogni immutabile, sì che la ragione non ha più come contenuto l’eterno, l’immutabile e l’infinito; ma permane (la ragione) come esperienza, visione evidente e incontrovertibile del divenire dell’essen-
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te e quindi della struttura che compete all’essente in quanto esso diviene»16. Insomma, Leopardi e Gentile: due tra le più coraggiose radicalizzazioni del Nichilismo. E dall’altro Severino. Ed è proprio nei testi dei primi due giganti che l’Occidente si lascia definitivamente alle spalle (ma la stessa cosa sarebbe accaduta anche con Nietzsche, che andrebbe dunque aggiunto ai due italiani) l’illusione secondo cui la nullificazione universale sarebbe evitabile grazie al provvidenziale intervento di un eterno finalmente capace di precomprendere ogni accadimento e ogni solo apparente novità. O meglio, in Leopardi tale illusione rimane in vita, ossia un eterno si profila all’orizzonte, ma solo nell’orizzonte disegnato dallo sguardo incantato e in qualche modo «sereno» del poeta o dell’artista. Dall’altro lato, dicevamo: Severino. Solo lui. Sì, perché nelle forme classiche di episteme (quanto meno da Platone a Hegel) si cerca di tenere ancora insieme l’evidenza del divenire e la posizione dell’immutabile (concepito e tematizzato per salvaguardare il divenire da un esito inevitabilmente catastrofico). Ma questo è impossibile, e Severino lo spiega con grande chiarezza ne Il sentiero del Giorno. Nella storia del pensiero metafisico, “Dio” viene dapprima pensato come ciò senza di cui il “mondo” non potrebbe esistere; ma poi ci si rende conto che “Dio” non può esistere, perché altrimenti impedirebbe l’esistenza del “mondo”. Giacché le cose del “mondo” possono essere state per davvero un niente e possono per davvero ridiventare niente, solo se non sono pre-contenute in “Dio” (solo cioè se non esiste la dimensione divina, rispetto alla quale la nientificazione e la creazione degli enti – che sono ritenute un dato evidente – sarebbero irreali).17
16. E. Severino, Il nulla e la poesia alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, p. 170. 17. E. Severino, Il sentiero del Giorno, cit., p. 181.
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Insomma, se esistesse un immutabile, nessuna contingenza sarebbe consentita – in quanto destinata a farsi mera apparenza. L’Occidente, comunque, ha optato per la contingenza come cifra della totalità dell’essente; solo Severino avrebbe scelto l’immutabile. O meglio, l’immutabilità della totalità del l’essente. Le posizioni intermedie, infatti, come Severino ha mostrato con grande potenza argomentativa nel corso di tutta la sua riflessione, sono destinate a tramontare. Cioè, ferma restando la fede nell’evidenza del divenire, il destino avrebbe necessariamente fatto, di quest’ultima, l’unica fede dell’Occidente. Mettendo fuori gioco come totalmente residuali le forme di ancoraggio a qualcosa di immutabile. E dunque l’Occidente in toto, per quel tanto che esso pretenda di «affermare l’Essere immutabile sulla base della fede che l’essente sia nel tempo»18. L’Occidente non ha mai voluto rinunciare alla fede nell’evidenza del divenire; all’evidenza di ciò che nella nostra tradizione hanno sempre significato parole come storia, processo e “dignità dell’uomo” (il riferimento, qui, è a Pico della Mirandola, e al suo De hominis dignitate)19. Solo Emanuele Severino, dunque, ha preso sul serio le conseguenze di un pensiero vocato ad affermare l’eternità dell’es-
18. E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015, p. 58. 19. Imprescindibile, insomma, il riferimento al magnifico Discorso sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola, che proprio dell’infinita metamorficità della natura umana fa una vera e propria condizione di felicità. Per Pico, infatti, «l’uomo è il più felice degli esseri animati… un miracolo grande… opera di natura indefinita… non costretto da nessuna barriera… quasi libero e sovrano artefice si plasma e si scolpisce nella forma che avrà prescelto…» (Giovanni Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, Editrice la Scuola, Brescia 1987, pp. 3-7). Potremmo definire “nichilismo felice” una prospettiva di questo genere, che ritiene l’essere umano capace di diventare qualsiasi cosa in quanto non ancorato ad alcuna forma immutabile.
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sente (e anzitutto la conseguente affermazione dell’eternità del tutto); o meglio della totalità dell’essente – anche perché se qualcosa è eterno, il divenire è destinato a rivelarsi apparente. Per quanto, nelle opere del filosofo bresciano l’affermazione dell’eternità dell’essente (in quanto essente) non venga assunta come «vera» solo perché, stante la sua veridicità, il divenire sarebbe destinato a mostrarsi in tutta la sua illusorietà. Nei testi di Severino si mostra, più semplicemente, che l’essente non può non essere eterno. Neppure si pone qualcosa di eterno per alleviare l’angoscia provocata dal divenire; dove anche l’eterno così posto rimarrebbe oggetto di una fede del tutto ingiustificata. Per quanto non di rado, perlomeno in actu signato, l’eterno sembri essere reclamato dal divenire come ciò senza di cui quest’ultimo non avrebbe neppure potuto costituirsi come divenire. La metafisica classica (in particolare quella tomista, ma in verità già a partire da Melisso – come si mostra in Ritornare a Parmenide) ha cercato l’essere immutabile, sforzandosi di dimostrarlo a partire dalla convinzione secondo cui «l’immutabilità dell’essere sarebbe fondata sul principio dell’ex nihilo nihil»20. Insomma, si dice: se l’essere è stato nulla – e non si vede neppure l’assurdità di tale ipotesi –, nulla si sarebbe potuto generare. Perciò vi dev’essere un principio che renda possibile tale generazione. Un principio, per l’appunto, immutabile. Anche nel discorso di Bontadini, rileva Severino – un discorso secondo cui, se l’essere diviene, è naturale che in qualche tempo non sia stato –, si afferma che l’essere non è originariamente limitato dal non-essere, anche perché, se fosse così, quest’ultimo diventerebbe una positività (nella misura in cui fosse in grado di arginare il positivo). Ma il positivo non è il negativo; dunque, il non-essere non limita affatto l’essere…
20. E. Severino, Ritornare a Parmenide, Paideia, Brescia 1972, p. 33.
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e solo per questo il divenire (in cui l’essere è limitato dal nonessere) non è l’originario, «ossia è trasceso dall’essere illimitato (immutabile) e limitante»21. Insomma, dall’antichità sino al Novecento, là dove si evochi la necessità di un essere immutabile, la si evoca perché senza di esso – così, almeno, si crede – il divenire risulterebbe contraddittorio. Peccato che – come mostra in lungo e in largo Severino – il divenire è contraddittorio in quanto tale, e non per le conseguenze ricavabili dalla sua struttura in rapporto al principio dell’ex nihilo nihil. Il fatto è che – in ciò la radicalità della tesi che viene a disegnarsi nelle opere del bresciano –, se l’essere non può non essere, allora l’essere (ogni essente) «è» eterno; ossia è per l’eternità. Insomma, l’essere immutabile (nella prospettiva disegnata da Severino) è l’essere in quanto tale; e non solo un certo tipo di essere – ossia, quello salvato dalle conseguenze cui l’essere sarebbe destinato in quanto diveniente (quello reso manifesto dalla nostra esperienza). La sua cioè non è l’episteme evocata ad esempio in Legge e caso22; quella che precede l’accadimento dei puri fatti; e che apre «il Senso immutabile ed eterno al quale ogni fatto deve adeguarsi»23. Quella, cioè, ritenuta intollerabile anche da Leopardi (che la definiva «amor di sistema»), anche se per motivi opposti rispetto a quelli evocati da Severino. Per Leopardi, infatti, non è possibile giudicare le cose avanti le cose, prima che esse siano; per questo il recanatese è il primo (prima di Nietzsche, prima di Gentile e di chiunque altro) a condurre il nichilismo alle proprie conseguenze più radicali. È il tema specifico e fondamentale «che sarà sviluppato da tutta la filosofia contemporanea e che Leopardi porta per pri21. E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 39. 22. Opera di Severino pubblicata da Adelphi nel 1979. 23. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 53.
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mo alla luce»24: quello dell’impossibilità di dire alcunché delle cose, prima che esse siano. Che poi significa riferirsi all’impossibilità di qualsivoglia episteme (moderna o antica). Fermo restando che Leopardi crede sia possibile un Essere onnipotente; possibilità che ai suoi occhi resta comunque unita alla tesi secondo cui «nulla sarebbe assoluto né quindi necessario» – insomma, quell’Essere può sussistere ab aeterno. Anche se lo stesso Dio, per lui, sarebbe potuto non esistere. Da cui l’infelicità costitutivamente caratterizzante l’umana esistenza; alleviata solo dal canto della poesia, che, pur «dicendo il proprio annientamento, s’innalza al di sopra di esso e s’illude, in silenzio, di essere eterno»25. Ma per l’appunto, s’illude. Oltre la nullità dell’essere, infatti, vi sono pure illusioni. Pure fantasie sono dunque quelle che ci fanno credere di essere «in qualche modo» eterni. Agli antipodi del pensiero oltre-metafisico proposto da Emanuele Severino, dunque; per quest’ultimo, infatti, illusorio (radicalmente illusorio) è piuttosto che l’essente possa non essere. Ossia, che vi siano dei tempi (il passato e il futuro) in cui l’essente non sia. Insomma, Leopardi (insieme a Nietzsche e a Gentile; comunque successivi al recanatese) contra Severino. Tutto il resto, qualsiasi altra posizione, mediana tra questi due opposti convincimenti, si sarebbe rivelata impossibile. E per ciò stesso destinata a naufragare; in quanto fondata su un’insostenibile “polarità”. Eccolo, uno dei guadagni più importanti dell’esegesi operata da Severino nei confronti della storia della metafisica: per lui, cioè, oltre il nichilismo radicale rigorizzato da Leopardi, Nietzsche e Gentile, può esservi solo il discorso del Destino. O la contingenza universale e il caso oppure la necessità; nel gergo severiniano, il Destino. 24. Ivi, p. 54. 25. Ivi, p. 155.
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Questo, l’esito cui le stringenti argomentazioni severiniane conducono il lettore. Perciò le moltissime obiezioni “parziali” al discorso di Severino sono risultate tutte tragicamente fallimentari. Non è possibile smussare il senso epistemico dell’essere; ossia, tenere in piedi tanto uno spazio per la libertà dell’agire quanto la potenza del logos severiniano; oppure, uno spazio per il Dio cristiano e uno spazio per la cogenza dell’argomentazione severiniana. In troppi hanno tentato mediazioni di questo genere. Perché il discorso di Severino è assolutamente stringente; ineleudibile. Se l’essere è eterno, tutto è eterno. Se dobbiamo affermare l’eterno, non possiamo affermare – per quanto parzialmente – la contingenza dell’essere. Se l’essere è eterno, nessun Creatore può esser tenuto in vita. Il Creatore, infatti, presuppone il nichilismo, ossia la fede nel divenire, e dunque la convinzione (più o meno consapevole) relativa alla nullità dell’essere; ma è anche destinato a naufragare proprio in base a tale convinzione. Sì, perché il Nichilismo non lascia spazio ad alcun rigurgito epistemico; l’hanno definitivamente mostrato tanto Leopardi quanto Gentile. Se il nulla e l’essere trafficano, contaminandosi reciprocamente, e se questo è il senso dell’originario, nulla sembra poter depotenziare o sanare le ferite determinate da tale contaminazione. Nessun vaccino sembra poter salvare l’essere o predeterminarlo, sottraendolo ad una destinale e irrimediabile nullificazione. Così come nessuna legge e nessun principio sembrano capaci di depotenziare (condizionare o limitare) la potenza creativa di una volontà intenta ad operare su quel che, in quanto nulla, deve sì potersi offrire ad una manipolazione assolutamente libera da vincoli di sorta, ma senza riuscire a liberare l’uomo dall’infelicità: come mostra bene Leopardi. Ché, è proprio la cognizione del vero (del «vero» nichilisticamente inteso – relativo, cioè, alla consapevolezza della nullità del tutto) a destinare gli umani ad una irrimediabile infelicità.
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Ma proviamo ad utilizzare proprio Leopardi per cercare di capire se, davvero, questo esito tragico – messo così potentemente a tema da Severino – sia davvero ineludibile. E chiediamoci anzitutto: è proprio vero che, come rileva sempre Severino, «là dove la ragione raggiunge il più grande dei suoi “grandi effetti” – là dove essa si unisce alla poesia –, là essa avrebbe bisogno di ciò che essa stessa distrugge e da cui essa è distrutta»26? Che là essa avrebbe bisogno dell’immaginazione; ossia delle illusioni che essa medesima sembra aver anche il compito di distruggere. Come rileva lo stesso Leopardi. Certo, essa (la ragione), unendosi alla poesia, riesce a sopportare la visione del nulla. Infatti, come dice Leopardi – opportunamente citato, qui, da Severino –, «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria»27. Insomma, il canto della poesia sarebbe in grado di dare forza alla visione della morte – secondo quanto ci suggerisce l’allievo di Bontadini. Il poetico, cioè, proprio differenziandosi dalla verità, sembra in grado di far crescere la forza da cui l’animo riceve vita. Certo, si tratta del poetico «che canta l’eternità del nulla», ma «si presenta come canto intonato dal nulla, e dunque come immagine massimamente difforme dalla verità che vede la nullità del nulla»28. Infatti, qui il nulla non è nulla; ma canta, addirittura. Il canto, cioè, si propone di difenderci dalla visione della verità, da cui il canto del genio, peraltro, neppure può separarsi – in quanto questo canto svela tutti i perché della vita, svelando che «essi non possono ricevere alcuna risposta dal nulla che circonda la vita e l’esistenza; e questa è la risposta che li risolve tutti»29. 26. E. Severino, Cosa arcana e stupenda, cit., p. 387. 27. Ivi, p. 49. 28. Ibidem. 29. Ivi, p. 51.
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La vita è ignota, perché nulla può farla presagire, fondata, com’è, sul nulla. Infatti, «che l’essere sopraggiunga “in mezzo al nulla” è puro caso»30. La voce che libera dalla paura della morte illude, certo; perché fa del nulla un essente… facendolo addirittura cantare; ma «per liberarmi con verità da questa angoscia non posso che pensare all’eternità della morte, risponde il coro dei morti»31. Insomma, «il mortale è posto al sicuro non nell’eternità di Dio, ma nell’eternità della morte»32. Sarebbe il nulla, insomma, a salvarci dalla profonda notte del nulla. Ma in un modo assolutamente paradossale. Ché, se il nulla presente davanti allo sguardo della poesia fosse il nulla concepito come “assolutamente” altro dall’essere, davvero non si capirebbe come tale visione, «quanto più sia intensa e profonda, tanto più possa avvertire la propria forza, avvertire come pienezza la propria nullità, e per ciò stesso illudersi»33. D’altro canto, è lo stesso Severino a precisarlo, citando Leo pardi: questa visione del nulla di tutto è la “morte della vita”… il nulla dell’esistenza. Ma aggiunge, subito dopo – in modo difficilmente concepibile –, che comunque «l’esistenza e la vita possono essere o senza vigore o intense e vigorose nel loro sguardo sul nulla: la noia è il loro indebolimento estremo; l’opera del genio, nell’unità di poesia e filosofia, è il loro estremo vigore»34. Certo, anche Leopardi lo riconosce. È il recanatese, infatti, ad affermare:
30. Ivi, p. 53. 31. Ivi, p. 47. 32. Ibidem. 33. E. Severino, Il nulla e la poesia alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit., p. 136. 34. Ibidem.
339 le sue opere, quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita… servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. E così quello che veduto nella realtà delle cose, accora e uccide l’anima, veduto nell’imitazione o in qualunque altro modo nelle opere di genio, apre il cuore e ravviva.35
Ma, insistiamo, cosa può rendere uno spettacolo tanto avvilente (quello stesso che veduto nella realtà delle cose accora e uccide) vera e propria fonte di entusiasmo, rendendolo addirittura capace di aprire il cuore e ravvivare? Come può la coscienza della verità, ossia la visione della nullità di tutto, «avvertire come pienezza la propria nullità, e dunque illudersi»36? Evidentemente, accade qualcosa (che però va spiegato) in grado di rendere rincuorante quel che, di norma (ossia, nella «noia»), sembra destinato ad accorare e uccidere l’anima. O meglio a consentire «il prevalere sulla noia, da parte della forza del sentimento del nulla… ossia il prevalere dell’illusione sulla ragione»37. Eppure, il sentimento del nulla sembra non potersi ritrovare dotato di alcuna forza particolare, stando al contenuto della visione che nella noia appare destinato ad accorare e uccidere l’anima. Non v’è motivo perché quel che rende infelici possa, se detto poeticamente, entusiasmare e rallegrare il cuore; se 35. G. Leopardi, Zibaldone, Mondadori, Milano 1997, vol. I, pp. 270-271. 36. E. Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 136. 37. Ivi, p. 147.
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non guardando al modo in cui si struttura il vedere che lo vede. Un vedere che può sì volgersi ad un medesimo spettacolo, ma dovrà necessariamente differenziarsi in quanto strutturantesi come vedere del poeta o della poesia. Lo abbiamo mostrato anche nel nostro Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi (Bompiani, Milano 2015), che lo sguardo del poeta è caratterizzato dal suo non costituirsi se non come apprezzamento della natura imitativa del nulla rappresentato poeticamente. D’altronde, lo dice chiaramente il poeta recanatese: «il fonte del diletto nelle arti non è il bello, ma l’imitazione»38. Insomma, il nulla provocherebbe piacere proprio in quanto imitato; in quanto capace di distinguersi dal nulla che di norma rende infelici. E dunque, a piacere, è qui anzitutto l’essersimile del simile – «il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile)»39. A piacerci e a rallegrarci il cuore sarebbe insomma la costitutiva indeterminatezza caratterizzante l’oggetto indicato quale ragione del diletto estetico. A piacerci sarebbe il puro e semplice rapporto d’imitazione. Ossia, la lontananza del nulla “poeticamente detto”. «Così sempre nel presente ci piace e par bello solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezioni di somiglianze e di rapporti»40. Ci piace cioè quel che rende radicalmente inutilizzabile la cosa imitata. Rendendola lontana e vaga; come vago è appunto il linguaggio poetico. Rendendola lontana e vaga in quanto «immagine»… destinata a negare la propria determinatezza. Ma quale sarebbe la determinatezza del nulla cui sembrano rivolti tanto lo sguardo del filosofo quanto quello del poeta? Quella che lo fa essere radicalmente opposto all’essere; ma che, 38. G. Leopardi, Zibaldone, cit., vol. I, p. 6. 39. Ivi, p. 3054. 40. Ivi, vol. II, p. 3054.
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proprio in quanto così determinato, lo rende anche capace di cancellare l’essere da esso per l’appunto negato. Di sostituirvisi. Dando vita al divenire, ossia all’incessante cancellazionesostituzione dell’essere da parte del nulla e del nulla da parte dell’essere. E dunque all’implicita identificazione di essere e nulla. Ché, quando l’essere diventa nulla (facendosi cancellare-sostituire dal nulla), l’essere è nulla; così come quando il nulla diventa essere (facendosi cancellare-sostituire dall’essere), l’essere è nulla. Tutto quello che è, insomma, almeno per chi crede nell’evidenza del divenire, è nulla. Ecco lo spettacolo che accora e uccide l’anima. Ecco, è proprio di questa aporetica determinazione, che implica un’inconscia identificazione dell’essere col nulla, che l’imitazione poetico-artistica (l’opera di genio) è negazione. “Imitazione”, e dunque «negazione», destinata a rendere vago e lontano l’imitato. Facendo, per ciò stesso, di tale “replica”, un’incantevole messa in luce del non-essere dell’essere e dell’essere del non-essere. Una messa in luce dell’illusorietà del reciproco annientarsi e sostituirsi dell’essere e del nulla. Fondata peraltro sul loro non riuscire mai davvero a determinarsi; cui consegue il non-essere dell’essere e l’essere del non-essere. Che potremmo anche ridurre a manifestazione del non-essere dell’essere. Ché l’essere del non-essere non dice nulla di più o di diverso rispetto al «non-essere»; da cui l’essere è evidentemente già implicato. Ma allora va anche riconosciuto che, ad accorare e uccidere l’anima, nella situazione di noia, non è tanto la nullità dell’essere in quanto «negazione della positività» (ciò che è detto appunto dall’imitazione prodotta dal genio); quanto piuttosto la convinzione che l’essere e il mondo siano in verità pura apparenza; perché, ad esserci, davanti ai nostri occhi, sarebbe il semplice nulla in quanto assolutamente altro dall’essere. Mentre, davanti agli occhi del genio si profilerebbe il semplice non-essere quel che è da parte di tutto quel che è. Un
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«non-essere» che verrebbe a configurarsi come provvidenziale liberazione dall’incubo di una irrimediabile nullificazione dell’essere. La quale, per poter accadere, presuppone che altro sia il nulla, altro l’essere; che il nulla sia qualcosa di “semplicemente altro” dall’essere (anzi, l’assolutamente altro da quest’ultimo). Che il nulla sia un eteron. Fermo restando che, se dicesse un semplicemente altro dall’essere, il nulla non sarebbe nulla, e la contrapposizione tra essere e nulla chiamerebbe in causa la semplice contrapposizione tra due positività. Che, sole, potrebbero sostituirsi l’una all’altra, in virtù di una inclinazione sostitutiva valevole come inflessibile “aut aut”. D’altro canto, siamo proprio sicuri che le espressioni più radicali del nichilismo moderno-contemporaneo si siano fatte testimoni di tale strutturazione oppositiva (potremmo anche dire: astrattamente oppositiva)? Che in esse, cioè, l’intrascendibilità del divenire sia stata davvero concepita (secondo quanto ha sempre voluto farci intendere Severino) come evidenza del passaggio dal nulla all’essere e dall’essere al nulla (quasi che le cose, divenendo, passassero davvero da un opposto all’altro… quasi che, facendosi altro, l’uno escludesse di essere quel che è, e si lasciasse sostituire dall’altro)? Siamo davvero sicuri che le cose stiano così? Torniamo a Gentile; e in particolare al modo in cui è stata da lui operata l’identificazione del divenire con l’inquietudine del pensiero in atto. Il tema da cui abbiamo preso il via in queste pagine. Tema centrale anche nella lettura severiniana del divenire “secondo Gentile”. Il fatto è che, per il filosofo di Castelvetrano, l’essere che Hegel aveva reso identico al non-essere nel divenire, e che, solo, è reale, non è quello che il tedesco aveva definito assoluto indeterminato, «ma l’essere del pensiero che è soggetto del definire e, in generale, pensa: ed è, come vide Cartesio, in quanto pensa, ossia non essendo (perché, se fosse
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il pensiero non sarebbe quello che è, ossia un atto), e perciò ponendosi, divenendo»41. Sulla scia di Spaventa, insomma, anche per Gentile il pensare è un negare; un negare quel che viene pensato. Un negare che non annichila, comunque, e quindi non sostituisce l’essere con il nulla. Ma afferma negando. Nelle ultime pagine del suo capolavoro (la Teoria generale dello Spirito come Atto Puro), Gentile sostiene, a proposito della natura, che essa «è lo stesso non-essere della nostra vita interiore; dell’atto per cui siamo a noi stessi»42; un non essere «interno al nostro atto medesimo: come ciò che noi dobbiamo pur non essere, e diventare, con l’atto stesso onde ci poniamo»43. Forma determinata del nostro non essere, ossia di quell’ideale momento a cui dobbiamo contrapporci, «e che dobbiamo a noi contrapporre per essere un determinato reale»44. Insomma, lo spirito umano non può raggiungere «come reale niente che sia fuori di sé stesso»45. Eppure si trova sempre alle prese con qualche cosa; vuoi il fatto, vuoi la natura, «con cui ripugna alle sue più profonde esigenze che s’identifichi»46. Ma quella di «fatto» è per Gentile una categoria astratta; che si risolve sempre e solamente nell’atto spirituale che lo pone. Perciò l’atto è negazione; negazione senza di cui nessun positum (nessun fatto) potrebbe mai venire riconosciuto; an-
41. G. Gentile, Teoria generale dello Spirito come Atto Puro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 56. 42. Ivi, p. 241. 43. Ibidem. 44. Ibidem. 45. Ivi, p. 233. 46. Ibidem.
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che solo in quanto oggettivazione della potenza in-condizionata dell’Io. Insomma, «il positivo, di cui il pensiero, come puro universale, ha bisogno, non può essere il positivo posto dal sogget to»47: ma nello stesso tempo «l’universale non è mai positivo in quanto adempie alla sua funzione nella conoscenza. Non è qualcosa di estraneo al soggetto e presupposto da esso, ma una posizione ed esplicazione reale della sua stessa attività»48. Insomma, per Gentile non si danno mai da un lato un puro essere e dall’altro un puro non-essere, astrattamente contrapposti, ché «l’essere come puro essere sarebbe estraneo al nonessere come puro non-essere, e non ci sarebbe quell’incontro e quell’urto dei due, da cui Hegel vede sprizzare la scintilla della vita»49. Per Gentile, cioè, «il divenire è identità di essere e non essere; poiché diviene l’essere che non è»50. Per questo è alquanto problematico sostenere, come fa Severino, che il divenire in Gentile indicherebbe lo stesso contenuto già concepito dal pensiero greco come unità di essere e non essere; per quanto ottenuto abbandonando «ciò che nel pensiero greco e in ogni prospettiva realistico-naturalistica avrebbe impedito a questo contenuto di porsi come legge della realtà e come evidenza originaria»51. E d’altro canto è lo stesso Severino ad offrirci l’occasione per mettere in questione tale idea; quella secondo cui il divenire tematizzato da Gentile equivarrebbe al divenire concepito come passaggio dal nulla all’essere e dall’essere al nulla.
47. Ivi, p. 84. 48. Ivi, p. 85. 49. Ivi, pp. 55-56. 50. Ivi, p. 55. 51. E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 117.
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Un divenire che tanto faceva problema, comunque, già agli antichi – tanto da convincerli a sostenere, a salvaguardia dalla contraddizione, il principio dell’ex nihilo nihil. Sì, perché è lo stesso Severino che, in Gli abitatori del tempo, e più precisamente nel capitolo dedicato a Gentile, ci ricorda come nei Sistemi di logica come teoria del conoscere il fondatore dell’attualismo si limitasse a ribadire la convinzione secondo cui «la presupposizione del divenire renderebbe il divenire un immediato e un immutabile, anche se le differenze che lo costituiscono sono successive»52. E cita Gentile, quanto mai chiaro a tale proposito: Né importa che queste differenze si spieghino successivamente, nel tempo, una dopo l’altra: poiché tutti i momenti del tempo al pensiero, che se li rappresenta nella serie per cui si stende lo sviluppo della realtà nel suo insieme, sono compresenti, e formano quell’istante estratemporale in cui s’intuisce la realtà pensata, tutta insieme.53
Insomma, per Gentile: il divenire con cui si ragguaglia la verità, è il divenire dell’unità, che è il vero divenire, non quello del molteplice (dei molti fatti, che sorgono e cadono, nel regno aristotelico dell’alterna vicenda di phtorà e di genesis… declino e generazione): che è quel divenire apparente e reale essere, che abbiamo visto… e l’unità è eterna.54
Come già per Agostino, quindi, anche per il fondatore del l’attualismo, immediato e intrascendibile è proprio l’eterno
52. Ivi, p. 121. 53. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. I, Le Lettere, Firenze 2003, p. 99. 54. Ivi, p. 109.
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presente in cui l’essere in ogni caso non è. Insomma, «la verità è assoluto eterno valore appunto perché divenire»55. D’altronde, già per Agostino parlare del divenire significa parlare di quel contraddittorio ma intrascendibile presente in cui, a mostrarsi, sono sempre e solamente l’essere di quel che non è più (il passato) e l’essere di quel che non è ancora (il futuro). E in cui il presente-presente non indica nulla di diverso da tali forme della negatività (che solitamente chiamiamo passato e futuro, ma in verità dicono un medesimo presente). Secondo quanto il vescovo d’Ippona scrive nell’undicesimo libro de Le Confessioni. Ma allora anche in Gentile viene a profilarsi un’altra idea di «negazione»; non riducibile a semplice opposto dell’essere. Così come nella negazione o indifferenza immaginata dall’illusione poetica leopardiana, anche in Gentile, a svelarsi non è altro che una verità di norma oscurata da quell’alternanza di positivo e negativo di cui crediamo d’essere tutti quotidianamente spettatori. Relativa al negarsi senza annientarsi da parte di un essere che, se non è, è divenire (piuttosto che «divenire»).
55. Ivi, p. 110.
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Essere e totalità Severino-Rosmini: critica di una critica
Rimane che l’idea dell’essere sia innata nell’anima nostra; sicché noi nasciamo colla presenza, colla visione dell’essere possibile, sebbene non ci badiamo che assai tardi.1
Dichiariamo subito l’intenzione di questo saggio: quel che ci proponiamo di mostrare è che possono essere rivolte al discorso della struttura originaria le medesime (o almeno in parte «medesime») obiezioni che il discorso della struttura originaria (il pensiero di Emanuele Severino) rivolge all’innatismo rosminiano. D’altro canto, l’anno di stesura di questo testo dedicato al Rosmini (1955) ci consente di rivolgere al pensiero di Severino le medesime obiezioni da lui rivolte a Rosmini, in quanto in quegli anni il filosofo bresciano stava già elaborando il contenuto de La struttura originaria (pubblicato nella sua interezza, comunque, solo nel 1958). È lo stesso Severino a dircelo, nella prefazione del volume Adelphi che ripropone il saggio uscito originariamente nel 1955, in un volume di saggi dedicati al roveretano (e pubblicato, in occasione del centenario della sua morte, dalla casa editrice Vita e Pensiero di Milano), e al-
1. A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, in Opere di Antonio Rosmini, vol. IV, Città Nuova, Roma 2004, p. 62.
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tri saggi giovanili (il volume, che si intitola Heidegger e la metafisica, è stato pubblicato da Adelphi nel 1994, e comprende la tesi di laurea di Severino dedicata appunto a Heidegger e altri saggi pubblicati tra il 1948 e il 1958). Così si esprime infatti il nostro: Il saggio su Rosmini è, o meglio contiene un ampliamento, nella dimensione storica, di temi di La struttura originaria. Si tratta di temi che appartengono al periodo iniziale della composizione di questo libro, e le pagine in cui erano stati formulati sono stati soppressi nella seconda edizione.2
Severino mette in questione, dunque, la possibilità, sostenuta dal roveretano, che il significato «essere» possa apparire «indipendentemente» da tutte le sue determinazioni; o anche: che l’astratto possa apparire indipendentemente dal concreto – ossia, come astrattamente astratto. Senza essere originariamente sussunto all’interno del concreto – e fatto così valere come concetto concreto dell’astratto. Ma cominciamo ricordando come Severino istituisce la contraddizione C; e come, per essa e in relazione ad essa, la struttura originaria dovesse venire riconosciuta quale apertura originaria della contraddizione. Rileviamo anzitutto che, per il filosofo bresciano, «porre un qualsiasi significato appartenente alla totalità dell’immediato senza porre tutte le costanti di questo significato importa che ciò che effettivamente si pone nella posizione di quel significato, non sia quanto si intende porre»3. O anche: «il fondamento è certamente l’apertura originaria della contraddizione, ma nel senso ben preciso che la posizione della totalità dell’immediato non è posizione di tutti quei significati (le costanti),
2. E. Severino, Heidegger e la metafisica, cit., p. 28. 3. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 356.
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la cui posizione è necessariamente implicata dalla posizione di tale totalità»4. Dunque, anche Severino, come Rosmini, riconosce che originaria è la parzialità che caratterizza ogni semantizzazione, ovvero la posizione di ogni significato (e dunque che la posizione di un significato è posizione di un limite semantico, come Severino stesso rileva nel saggio su Rosmini). Rosmini, però, direbbe che è parziale in quanto “altra” almeno da quel significato «essere» che sta prima di ogni significazione e posizione semantica, e che può essere concepito come inconsapevolmente presente in noi, senza che l’intelletto ne sia consapevole. Presente in noi, cioè, come non «posto» da noi. Mentre, per Severino, la parzialità di ogni semantizzazione è la parzialità di ogni contenuto in quanto non manifesto insieme a tutte le sue determinanti; cioè, insieme a tutti quei significati (le costanti) la cui posizione è necessariamente implicata dalla posizione della totalità. Per Severino, insomma, ogni semantizzazione (la posizione di un significato) è posizione di un limite semantico; per quel tanto che – come rileva ancora il filosofo bresciano nel saggio sull’Innatismo rosminiano – quel significato non è l’intero semantico. Ma – e questo è quel che più conta, per lui – se è vero che ogni contenuto è limitato, è anche vero che l’intero semantico (ciò che quel significato sempre parziale non-è) deve essere in qualche modo posto, nella e con la posizione dello stesso contenuto limitato. Il limitante, cioè, verrà posto, ogniqualvolta venga posto il significato limitato (non si può, cioè, porre il significato limitato senza porre l’orizzonte limitante – perché porlo in questi termini «è contraddittorio»5). 4. Ivi, p. 352. 5. E. Severino, L’innatismo rosminiano, in Id., Heidegger e la metafisica, cit., p. 554.
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Resta dunque da chiarire in che senso verrebbe a prodursi la contraddizione C; ossia, in che senso il limitante debba esser posto, ma nello stesso tempo non riesca a farsi posizione di tutti i significati (il limitante) senza i quali nulla sarebbe posto. Senza i quali, cioè, quel che effettivamente si pone nella posizione di quel significato, non sarebbe quel che si intende porre. In che senso, cioè, si produca questa assenza, stante che non si può porre il significato limitato senza porre l’orizzonte limitante6. Ad ogni modo, è sempre Severino a rilevarlo: «tener fermo un certo significato senza porre l’orizzonte semantico che lo oltrepassa significa ammettere che la limitatezza in cui consiste tale significato è determinata dal nulla»7. E dunque che la limitatezza del significato, insieme al significato, svanisce nel nulla. Insomma, v’è qualcosa, nella struttura stessa dell’immediata presenza di quel che è presente, che spinge la presenza immediata oltre di sé. Senza spingere peraltro oltre l’esperienza; ma facendoci sprofondare piuttosto nel cuore della stessa struttura essenziale dell’immediatezza. In quella struttura in forza della quale si dovrà anche riconoscere che «l’orizzonte dell’immediatezza è l’orizzonte rispetto al quale (e dentro al quale) può sopraggiungere ogni mediazione»8. Rispetto al quale, cioè, si può parlare, sempre secondo Severino, di una contraddizione infinita: quella «provocata dal non apparire della totalità dell’essente – la contraddizione cioè il cui toglimento è l’apparire del Tutto compiuto e concreto»9. D’altronde, si può parlare della contraddizione della verità solo in quanto si abbia presente la contraddizione 6. Cfr. ibidem. 7. Ivi, p. 556. 8. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 354. 9. E. Severino, La Gloria, cit., p. 45.
351 del cerchio finito dell’apparire del destino della verità. Che consiste nella manifestazione finita del Tutto, ossia nel non essere, tale manifestazione, l’apparire del Tutto che d’altra parte, come significato formale, è manifesto nel cerchio del destino come luogo semantico in cui appaiono tutte le determinazioni che appaiono.10
Insomma, v’è qualcosa che eccede il contenuto dell’immediatezza; e che Severino concepisce come contenuto concreto del Tutto; il quale appare sì nell’orizzonte dell’immediatezza (e non la eccede, dunque, in senso astratto), ma solo nel suo significato «formale» – per questo, all’interno dell’immediatezza, nulla, di quel che appare, appare come potrebbe apparire se il tutto apparisse nella sua determinazione anche contenutistica (e non solo in quella «formale»). Eccoci di nuovo, così, all’originaria parzialità e limitatezza del contenuto effettivamente esibito dall’immediatezza esperienziale. Parzialità che non riesce a comprendere il tutto; che in esso è infatti compreso solo in senso formale. Insomma, cosa sia il tutto contenutisticamente inteso non ci è dato sapere; perché la valenza contenutistica di questo tutto eccede l’originario. Ecco, è proprio in questo senso che possiamo cominciare ad intravvedere una nascosta solidarietà tra la prospettiva rosminiana e quella severiniana. Ché, anche in Severino, sembra venire a costituirsi una posizione astratta indipendente da ciò che, non apparendo, non è implicato (anche se lo è – «implicato» – dal punto di vista formale) dal concretamente manifesto, quantomento dal punto di vista contenutistico; non è implicato, cioè, dall’apparire di quel che appare. Se, per Rosmini, quindi, il separare è distinto dal distinguere nel senso che «per separarlo (il separato) basta percepire lui
10. Ivi, p. 52.
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stesso e nulla più; mentre per distinguerlo da noi dovremmo negare noi stessi, e quindi esserci percepiti, giacché non si può negare ciò che non si conosce»11, anche in Severino – che pur ritiene quantomeno problematico e discutibile che l’indipendenza semantica sia anch’essa, come il distinguere, un fatto («che l’indipendenza semantica sia «un fatto», che sia contenuto di esperienza, è cosa discutibile»12) –, nonostante la contraddittorietà da lui riconosciuta ed attribuita al concetto di «significato indipendente», viene comunque a costituirsi una sorta di significato «indipendente»: quello costituito appunto dall’apparire del destino, o meglio dal destino che originariamente appare, e che «è l’apparire finito del Tutto, ossia è l’apparire finito di sé stesso in quanto Totalità concreta e infinita dell’essente»13. Insomma, se l’apertura originaria dell’intero è puramente formale (come Severino ribadisce anche in La Gloria), l’apparire del Tutto, o meglio l’apparire formale del Tutto non può essere il Tutto; ossia, il Tutto concretamente inteso – inteso come tutto formale e insieme contenutistico (comprendente tutte le determinazioni che lo compongono), non appare. Ossia, non è posto; «posto» essendo solo il significato formale del tutto. Il tutto contenutisticamente inteso è infatti posto come ciò che, proprio in quanto «non appare», può essere definito come «il toglimento eterno della totalità delle contraddizioni dell’apparire, dunque anche di quelle che competono al cerchio dell’apparire finito del destino»14. Ad apparire è infatti solo il suo esser destinato (all’infinito) ad apparire in relazione al toglimento di quella totalità delle contraddizioni che, nell’originario, nell’immediatamente pre11. A. Rosmini, Sistema filosofico, Paravia, Torino 1924, 75, p. 45. 12. E. Severino, L’innatismo rosminiano, cit., p. 560. 13. E. Severino, La Gloria, cit., p. 28. 14. Ibidem.
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sente, non sono ancora tolte (per quanto nella Gioia, quel medesimo toglimento – il toglimento della totalità delle contraddizioni –, che è la Gioia concepita come toglimento eterno della totalità delle contraddizioni –, sia già da sempre realizzato). Un toglimento totale che, per Severino è «l’essenza inconscia dell’uomo»15. Che, certo, si inoltra nella terra, ossia nel cerchio finito dell’apparire del destino, ma mai, nel dispiegarsi del cerchio finito dell’apparire, potrà costituirsi come orizzonte inoltrepassabile (perché ogni determinazione del tutto che si inoltri nel cerchio finito dell’apparire sarà diversa da quel che essa è alla luce del cerchio dell’apparire infinito o della Gioia). Mai mostrerà, dunque, quanto meno allo sguardo determinante che fa di ogni essere un distinto, la propria concreta determinatezza. La quale si costituirà sempre (nel dispiegarsi del cerchio finito dell’apparire) come “significato limitato”; anzi, come quel significato limitato che, non sapendo nulla di ciò che esso già è alla luce dell’apparire infinito (o della Gioia), dovrà essere necessariamente riconosciuto come concetto astratto dell’astratto. Il concreto, infatti, evoca la semplice esigenza che una valenza contenutistica della totalità vi sia, ma non appare mai come tale (nella sua valenza contenutistica) nell’orizzonte dell’apparire finito; e lascia dunque i significati limitati che appaiono nell’orizzonte finito dell’apparire del tutto “drammaticamente” privi di quel che li eccede davvero (ad eccederli davvero non essendo il significato formale del tutto, che essi invece implicano esplicitamente, ma solo il suo contenuto). Nel saggio sull’innatismo rosminiano, dunque, Severino denuncia la contraddittorietà del significato indipendente (e dunque la sua ineffettualità), denunciando di fatto, senza rendersene conto, anche la contraddittorietà, ossia l’assenza, di quel significato limitato in cui consiste l’essente reso manife15. Ivi, p. 29.
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sto dal cerchio finito dell’apparire. O meglio, l’assenza di quel che esso sarebbe veramente (alla luce della Gioia, ossia della già da sempre guadagnata totalità concreta di cui l’apparire finito patisce l’assenza). Denunciando già, di fatto, la separazione che rende il contenuto manifesto (nell’orizzonte dell’apparire finito) «astrattamente astratto» (in quanto non manifesto in relazione alla limitazione intesa come unità del limitante e del limitato – l’intero semantico). In quanto separato, cioè, da quel concreto che, nell’orizzonte dell’apparire finito, mai potrà manifestarsi in quanto tale. Di cui l’apparire finito, cioè, non sa nulla. E che in esso, dunque, vive solo come «inconscio». Così come inconscio è, sempre secondo Rosmini, il significato «essere», valevole quale condizione di possibilità di ogni conoscenza. Il rilievo mosso da Severino a Rosmini si struttura quindi in questo modo: «l’innatismo rosminiano implica l’ammissione dell’indipendenza semantica del significato «essere». Poiché questo è un significato limitato, quell’ammissione è contraddittoria, e quindi tale innatismo si risolve in una contraddizione»16. Insomma, il concetto rosminiano di essere non avrebbe nulla a che fare con il “concetto classico di essere” (in virtù del quale l’essere viene concepito come sintesi concreta di essere e determinazioni dell’essere, come sintesi assoluta che occupa l’intero); e dunque un essere, come quello rosminiano, sciolto dalla sua relazione con l’altro momento (quello costituito dalle determinazioni dell’essere), si configura come concetto astratto dell’astratto (quello che il concetto classico dell’essere esclude; in quanto escludente sia l’indipendenza che l’astrattamente astratto). Come quel concetto astratto che Hegel avrebbe voluto originariamente risolto nel concreto (perché dal suo punto
16. E. Severino, L’innatismo rosminiano, cit., p. 562.
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di vista, ci dice Severino, l’indipendenza semantica si risolve in una contraddizione che rende l’essere astratto originariamente superato dall’essere determinato, concepito appunto come verità del divenire). E che invece Rosmini ritiene in grado di permanere come incontraddittorio. Per Rosmini, infatti, «l’idea dell’essere non ha bisogno di alcuna altra idea ad essa aggiunta per essere intuita» onde ella «soprastà nella mente, anche tutta sola e nuda come la si giunge a contemplare a forza di quelle astrazioni. Dunque, ella non ha bisogno d’altro per essere intuita, è intuibile e conoscibile per se stessa»17.» Insomma, l’essenza dell’ente è conoscibile per sé; e per essa conosciamo tutte le cose – sempre secondo Rosmini. Per questo si tratta di una idea innata. Insomma, ci dice Severino, Rosmini identifica l’innatezza con l’indipendenza semantica. Ma non solo; perché in Rosmini si dà anche la precedenza della posizione del significato «essere» rispetto a qualsivoglia orizzonte posizionale. Ed in effetti per Rosmini «l’osservazione del fatto ci attesta che la notizia dell’essenza dell’ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione»18. Cioè, per lui, l’essenza dell’ente «è nota all’uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero»19. Severino, però, ritiene che, rilevare che qualcosa debba esser noto affinché si possa affermare che qualcosa esiste (sostenere che debba esser noto il significato di esistenza), non significa che questo suo dover essere noto sia un esser noto «prima» del giudizio. E poi, se per Rosmini la presenza del significato essere non equivale alla consapevolezza di tale presenza, porre l’essere
17. A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, cit., pp. 28-29. 18. A. Rosmini, Sistema filosofico, cit., 34, p. 15. 19. Ibidem.
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non è porre la posizione dell’essere. E soprattutto l’intuizione dell’idea dell’essere sembra precedere il momento in cui si diventa consapevoli di questo stesso intuire. Ma a Severino tutto ciò sembra assolutamente insostenibile; e non solo perché il fatto che un significato debba esser posto non significa che esso esista «prima» di ciò che reclama il suo esser posto! Ma anche perché in Rosmini l’isolamento dell’idea dell’essere non accade (a suo parere) sul piano posizionale; ma su quello del semplice esistere, da parte di questa idea. Del suo esistere come «non posta». Perciò nel discorso del roveretano non riesce neppure a costituirsi quella indipendenza semantica che lo stesso Rosmini vorrebbe per altro verso assolutamente sostenere. E dunque neppure viene a costituirsi la contraddittorietà connessa alla «posizione» del semantema che si vorrebbe indipendente. Ma viene piuttosto ad agire il presupposto gnoseologistico relativo all’esistenza di un significato «non presente». Che sarebbe presente nella mente, senza che sia presente il suo esser presente. Ma qui Rosmini, ci dice ancora Severino, avrebbe dovuto allearsi più a Locke che a Leibniz, e mostrarsi quanto meno consapevole del fatto che «non si apre orizzonte di pensiero se l’essere non è intuito»20. Doveva cioè schierarsi contro Leibniz; «per quel tanto che il principio leibniziano dell’esistere nella mente senza essere attualmente inteso contiene una valenza contraria al concetto, fondamentale per la filosofia rosminiana, che non si apre orizzonte di pensiero se l’«essere» non è intuito»21. Nulla intuiamo senza accorgercene, avrebbe detto Locke! Ma proprio a questo proposito lo stesso Severino sembra non accorgersi che nessun significato appare riuscendo a rendere contenutistica20. E. Severino, L’innatismo rosminiano, cit., p. 568. 21. Ibidem.
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mente manifesta la totalità di quel che lo limita (come limitante, come eccedenza rispetto al significato limitato che sempre viene posto). E dunque sembra non accorgersi del fatto che c’è sempre qualcosa di cui si deve riconoscere l’esistenza, ma di cui non si riesce a dire l’esser posto – se non a livello puramente formale. Dove, ad esser posta è cioè solo l’esigenza che un tutto concreto e contenutisticamente determinato si dia: ma non il suo darsi concreto. Eppure Severino dice che essere nell’intelletto senza essere inteso significa stare al di fuori dell’orizzonte dell’intendere, o dell’esperienza. Per quel tanto che qualcosa è affermato al di fuori dell’esperienza, cioè dell’immediato, è necessario mediare tale affermazione… per cui tutte le considerazioni che promuovono a proposito dell’essere nella mente senza essere attualmente inteso, hanno un valore di assoluta gratuità nella misura in cui intendono valere come affermazioni immediata di un contenuto metaempirico.22
Ma – ribadiamo –, non è un contenuto metaempirico anche il senso concreto della totalità? Il quale dovrebbe comprendere tanto il valore formale quanto quello contenutistico del concetto in questione (che per il Severino maturo sarà appannaggio solo dell’apparire infinito del tutto). Quel senso concreto che peraltro, sempre per Severino, vale come già da sempre risolto nell’apparire infinito. Per questo, il disvelamento della Gioia indica un passato (un «eterno passato», ovviamente) rispetto al dispiegamento infinito che non si arresta in alcuna configurazione definitiva della terra. Severino è chiarissimo a questo proposito: «in quanto è a sua volta un essente, il toglimento della totalità delle contraddizioni non è un futuro che ancora non esista, ma 22. Ivi, pp. 568-569.
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è a sua volta un eterno, un percorso già sempre e per sempre tracciato»23. Già da sempre tracciato, e dunque già accaduto, rispetto ad ogni tappa del dispiegamento infinito della gloria. Passato rispetto ad ogni tappa di quel percorso, perché l’immutabile oltrepassa l’originario. Perché «l’apparire formale del Tutto non può essere il Tutto»24. E il Tutto concepito nella sua massima concretezza, come toglimento eterno della totalità delle contraddizioni, «è l’essenza inconscia dell’uomo»25. L’abbiamo già rilevato; ma meritava ribadirlo, per mostrare come anche in Severino finisca per agire il presupposto gnoseologico. Nonostante tutto. In fondo, in un passo dei Nuovi saggi sull’intelletto umano citato da Severino, viene disegnato lo stesso rapporto che Severino vede costituirsi tra apparire infinito e apparire finito. Anche Leibniz, infatti, finisce per distinguere (sia pur in forma linguisticamente diversa) l’apparire di un contenuto sempre limitato (dal punto di vista dell’apparire finito) dal costituirsi della totalità dei contenuti che potrei comunque pensare (apparire infinito); quella totalità che, se riuscissi a pensare, mi impedirebbe di pensare pensieri sempre nuovi. Infatti se riuscissi a pensarla, ciò determinerebbe il «toglimento della totalità del finito»26. Ma l’apparire finito è dato; ed è il contenuto dell’immediatezza. È il contenuto originario. E con esso si dice originaria anche la contraddizione che mi fa ammettere che quel che appare non è mai così come appare nell’assenza della totalità di quel che lo limita e lo determina; e quindi l’apparire fini23. E. Severino, La Gloria, cit., p. 28. 24. Ibidem. 25. Ivi, p. 299. 26. Ivi, p. 29.
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to non è tolto; e d’altro canto, se fosse tolta la contraddizione dell’immediato, vi sarebbero gravi conseguenze anche per il concreto. Infatti, verrebbe a costituirsi un concreto che, non conoscendo l’astrattamente astratto – in quanto, dal suo punto di vista, il finito, ossia l’astratto, sarebbe sempre concretamente inteso –, neppure esso potrebbe pensarsi veramente “come tale”, non avendo più un astrattamente astratto da cui distinguersi (stante che l’esser tolto dell’astrattamente astratto coinciderebbe con il suo originario costituirsi come concretamente astratto). E dunque sarebbe costretto a riconoscere anch’esso la propria irredimibile astrattezza. Il concetto concreto dell’astratto si rovescerebbe facendosi astrattamente astratto. E l’apparire infinito si rovescerebbe, catastroficamente, in un intrascendibile apparire finito rispetto a cui l’apparire infinito non potrebbe che costituirsi al modo di un contenuto eternamente inconscio e irraggiungibile; ma non perché – come vorrebbe Severino – già da sempre raggiunto, dal punto di vista dell’apparire infinito. Infatti, l’apparire infinito si mostrerebbe come irrimediabilmente finito. Dice Leibniz: Non è possibile che riflettiamo sempre espressamente su tutti i nostri pensieri: altrimenti lo spirito riflettendo all’infinito su ciascuna riflessione non potrebbe passar mai ad un nuovo pensiero. Per esempio, acquistando coscienza di un certo pensiero presente, dovrei pensare che vi penso e pensare che penso di pensarvi, e così all’infinito. È invece necessario che si tralasci la riflessione su tutte queste riflessioni, e che vi sia qualche pensiero cui si dà corso senza fermarvisi; altrimenti si resterebbe sempre sullo stesso contenuto.27
27. G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, tr. it., a cura di M. Mugnai, Editori Riuniti, Roma 1982, libro II, § 19, p. 112.
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Non vi sarebbe svolgimento, infatti; e penseremmo davvero sempre il medesimo: e peraltro un medesimo paradossalmente finito (per i motivi appena addotti). Ma, cosa vuol dire che l’idea dell’essere sarebbe intuita senza che ce ne si accorga? Rileva Severino: «basta distinguere, come del resto è fatto da Rosmini, tra posizione del significato e posizione di questa posizione del significato»28. L’esperienza attesta il passaggio da un pensiero all’altro; ma, se la posizione dell’idea dell’essere potesse non venire posta, si darebbe un rimando all’infinito; perché «se tutti i pensieri fossero pensati, sussisterebbe il rimando all’infinito»29; ma l’esperienza attesa il passaggio da un pensiero all’altro; ossia, il rimando ad un altro finito. Sempre finito. Che destituisce l’ipotesi di un pensiero davvero in grado di pensare tutti i pensieri pensabili. D’altro canto, per Rosmini, noi «nasciamo colla presenza, e colla visione dell’essere»30. L’uomo non esiste mai come essere inconscio; cioè non è mai un “semplice esistere”. È sempre come l’esser posto dell’esistere. Eppure, per il roveretano l’idea dell’essere gode di una fantomatica indipendenza semantica assolutamente contraddittoria; per lui, cioè, l’idea dell’essere «precede ogni orizzonte posizionale e in tal modo si annulla»31. Ma soprattutto, l’innatezza che Rosmini vorrebbe attribuire all’idea dell’essere, è sostenuta in base ad argomenti che potrebbero «dimostrare l’innatezza di tutte le idee»32. Severino ne è convintissimo: tutto quanto «si dice qui dell’idea dell’essere può essere detto di ogni altra idea»33. 28. E. Severino, L’innatismo rosminiano, cit., p. 569. 29. Ibidem. 30. A. Rosmini, Nuovo saggio sull’origine delle idee, cit., p. 62. 31. E. Severino, L’innatismo rosminiano, cit., p. 572. 32. Ivi, p. 573. 33. Ibidem.
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Ma, sempre per Severino, nessuna convenienza di un predicato ad un determinato soggetto giustifica il dover essere già precedentemente noti da parte dell’universale che funge da predicato di una qualsiasi affermazione determinata. Per Severino, cioè, «la manifestazione della convenienza in questione è appunto essa il giudizio, che, dunque, per realizzarsi, non solo non presuppone che il significato predicato sia noto prima del giudizio, ma rende possibile che il significato, in quanto eventualmente antecedente, sia riferito al soggetto del giudizio». Insomma, che il significato posto come predicato anteceda il giudizio non è richiesto dalla struttura del giudizio in quanto tale. «Ma è un semplice accadimento o una semplice effettualità dell’orizzonte posizionale che precede il giudizio»34. Eppure, là dove concepissimo in questo modo anche il rapporto tra apparire finito e apparire infinito nell’ultimo Severino, dovremmo riconoscere che, anche nel suo discorso, la semplice implicazione trascendentale del Tutto concretamente inteso da parte del significato limitato in cui consiste la determinazione che appare nel dispiegarsi infinito dell’apparire finito, non si limita a valere come implicazione logico-ontologica all’interno di una semplice e reciproca implicazione di natura sostanzialmente atemporale tra apparire finito e apparire infinito. Ma costringe a riconoscere che, ogni volta, il sopraggiungere del sopraggiungente può venire concepito come espressione e manifestazione della verità del Destino (della Gioia) solo se il Destino concepito come totalità concreta dell’apparire infinito, dal punto di vista dell’apparire finito, precede il cominciamento di tale sopraggiungere. Ad ogni modo, precedenza o antecedenza hanno senso solo dal punto di vista dell’apparire finito. Peccato che questo sia l’unico punto di vista da cui può essere espresso il contenuto dell’immediato o dell’esperienza! 34. Ivi, p. 575.
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O anche, dell’originario. L’unico punto di vista possibile (dato che quello dell’apparire infinito è un punto di vista inconscio – anche per Severino, come abbiamo già visto); quello a partire dal quale si dovrebbe ogni volta riconoscere che l’orizzonte della Gioia precede il dispiegarsi della Gloria. Infatti, il dispiegarsi della Gioia, dal punto di vista dell’apparire finito (l’unico a partire dal quale abbia senso qualcosa come un dispiegarsi), è comunque un già accaduto – anche se non in qualche momento determinato dello sviluppo infinito. Già accaduto, cioè, rispetto ad ogni ipotetico cominciamento dello sviluppo; che, in quanto cominciamento, dunque, smentirà di essere il cominciamento che dice di essere; anche solo per il fatto che la determinazione del suo accadimento istituisce, in quanto tale, un «prima»; un inaggirabile “prima” rispetto al tempo del suo accadimento. Già accaduto, dunque, ma – ribadiamo – non in qualche tempo determinato. Secondo una nozione di «prima», cioè, che assomiglia molto a quel prima assoluto che Hegel individuava nell’inizio in contrapposizione al cominciamento; ossia, nel «vero», o nel fondamento da cui lo stesso cominciamento (ogni possibile cominciamento) è reso possibile, e a cui il processo da esso medesimo svolto tende irresistibilmente come alla meta del proprio infinito dispiegarsi. Si tenga comunque presente che anche l’inconscio messo a tema dalla riflessione psicoanalitica, quanto meno a partire da Freud, non indica semplicemente qualcosa di accaduto in un certo tempo; ma qualcosa che ogni tempo della coscienza presuppone quale fondo inindagabile, anche in quanto e proprio in quanto coestensivo all’orizzonte della coscienza. Secondo quanto dovremmo dedurre a partire dal fatto che, già secondo Freud, ogni determinazione psichica è inconscia (ossia, anche tutto ciò di cui sono cosciente è inconscio, e non “è stato inconscio” prima di emergere alla coscienza… in un
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tempo precedente, o determinatamente precedente). Anzi, è sempre inconscia; nel suo esser cosciente, cioè, essa nega di essere quel che è (ossia: oggetto della coscienza). E dunque dice di non apparire (mai) per quello che essa è veramente. Trovandosi incessantemente costretta a negare di essere quel che dice di essere, e mostra, di sé stessa. Ossia, nega di essere quel che essa, in quanto significato limitato, e dunque in quanto contenuto parziale, dice di sé, senza poter mai esibire quel che la rende possibile e la determina davvero (e che non coincide mai con le poche e limitate determinanti che riusciamo ogni volta ad indicare e ad aver presenti). Anche perché, questo suo reale limitante non potrà mai apparire come finito, nell’orizzonte di un apparire che, in quanto finito, è costretto a far apparire le cose secondo uno svolgimento temporale conforme all’ordine del prima e del poi. Perché il vero limitante è quel significato concreto della totalità che ogni essente finito in realtà manifesta quale semplice negazione del suo stesso significato. E che va in ogni caso concepito come “passato” – come passato rispetto a qualsivoglia cominciamento o tappa dello svolgimento… anche solo perché, col sopraggiungere del sopraggiungente, ossia in relazione ad ogni ipotetico cominciamento, quell’intero appare già come fine che, solo, avrebbe potuto muoverci a proseguire il cammino (senza tale fine, infatti, non ci si impegnerebbe a superare ogni limite, e a cercare una totalità che, non avendo mai potuto esperire nel corso del tempo o della storia, neppure potremmo far valere come totalità resasi manifesta in questo o quel determinato passato cronologico). Come fine che, se non ci convincessimo di aver già esperito, sia pur in un eterno passato, mai accaduto nel tempo dello svolgimento cronologico, neppure potremmo porci come fine da raggiungere. Nessuno di noi, infatti, si propone di raggiungere abracadabra; perché di abracadabra non possiamo aver nostalgia – come
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si può avere nostalgia di qualcosa di perduto, ma di già esperito. Che pur non appare come oggetto della coscienza attuale; ma di cui la coscienza attuale ha comunque memoria… potendone senz’altro provare «nostalgia» (ossia vivendolo come qualcosa di «già vissuto»), se brama di adeguarvisi. Se brama di condurre l’orizzonte finito dell’apparire a farsi concretamente infinito. Eccolo: l’inconscio che non appare… e di cui non abbiamo assolutamente coscienza, e purtuttavia possiamo ricercare e bramare negando ogni volta il finito che saremo riusciti a significare. L’ignoto che non dice dunque un semplice presupposto gnoseologico; di cui, cioè, abbiamo coscienza, e che poniamo, pur non potendo fare a meno di porlo come il non posto; e dunque come «negazione» di tutto quel che saremo di volta in volta riusciti a porre, in positivo. L’ignoto che dice una meta mai raggiunta ma nello stesso tempo già da sempre raggiunta, in virtù di una negazione che, d’altro canto, mai potrà indicare un contenuto positivo valevole appunto come Totalità concreta. Un ignoto che, dunque, non si contrappone astrattamente al noto; come un semplicemente altro da quest’ultimo; altro dal noto essendo sempre qualcosa di noto, a sua volta. Un ignoto che ci motiverà così a non fermarci mai nel percorso che cerca quell’inizio da cui tutto è stato e continua ad esser reso possibile, ma che mai coinciderà, sic et simpliciter, con quello che di volta in volta saremo riusciti a conoscere, del medesimo. Un ignoto che coincide quindi con l’essere rosminiano, concepito quale oggetto di una intuizione originaria che ogni determinata conoscenza dovrà presupporre, per quanto non nella forma di una semplice precedenza cronologica, ma come quell’apparire infinito che anche per Severino qualsiasi testimonianza del linguaggio di fatto testimonia, e che, «proprio perché testimonia la totalità infinita, è una testimonianza fi-
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nita (di quella stessa totalità infinita) la quale, per quanto ampia, lascerà pur sempre al di fuori di sé la totalità infinita della persintassi»35.
35. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 134.
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Heidegger, Severino e il mantra dell’ascosità
Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce. Lc 8,17
Che, per certi versi, la prospettiva filosofica di Heidegger e quella di Severino si trovino agli antipodi, appare evidente anche solo leggendo il seguente passo tratto da Dell’essenza della verità: «L’essenza della verità si svela come libertà, e questa come il lasciar-essere e-sistente che svela l’ente. Ogni comportarsi che si tiene aperto si libera nel lasciar-essere l’ente, e di volta in volta si comporta in rapporto a questo o quell’ente»1. Insomma, l’essenza della verità avrebbe a che fare, per il filosofo tedesco, con quella che, agli occhi di Severino, costituisce invece il cuore stesso dell’alienazione che domina, inavvertita, tutto lo sviluppo della storia dell’Occidente. Così comincia infatti Destino della necessità: «La libertà appartiene all’essenza del nichilismo, ossia all’alienazione che, completamente inavvertita, guida e domina lo sviluppo della civiltà occidentale»2. 1. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, in Id., Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 147. 2. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 19.
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Da un lato il «vero», obliato dalla metafisica occidentale (e, nella forma forse più radicale, dalla modalità tecnica di rapportarsi all’essente), avrebbe a che fare con la «libertà» – una libertà peraltro intesa (assai “curiosamente”) da Heidegger come un lasciar essere che, solo, ci metterebbe in rapporto con la totalità dell’essente («la libertà, come lasciarsi coinvolgere nello svelamento dell’ente nella sua totalità in quanto tale, ha già disposto ogni comportarsi in uno stato d’animo in relazione all’ente nella sua totalità»3) –, dall’altro invece la convinzione (riconducibile a Severino) secondo cui il «vero» avrebbe a che fare con quel rapporto intrinseco con la totalità che, al contrario, finisce per fare, di ogni essente, un “eterno”. Il quale, lungi dal rendersi disponibile a quel modo di comportarsi che avrebbe a che fare con il “lasciar-essere”, e dunque con la libertà (che per Severino «appartiene, come la non libertà, all’essenza della terra isolata e del nichilismo»4), dice per il filosofo bresciano l’assoluta infondatezza finanche della semplice persuasione di poter disporre di un qualche comportamento, da parte dell’essere umano. E a maggior ragione di quel comportamento esemplificato dalla tecnica, che tanto per Severino quanto per Heidegger sembra non avere comunque l’ultima parola. Una cosa è certa, comunque: tanto per Severino (secondo il quale «che la volontà voglia avere potenza sul divenire del mondo e che il mondo sia un divenire che è disponibile alle diverse forme di potenza che intendono determinarlo e dominarlo, sarebbe qualcosa che da sempre è considerato come l’evidenza e la verità assolutamente indiscutibile»5) quanto per Heidegger (secondo il quale, allo stesso modo, «l’uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si vie-
3. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, cit., p. 147. 4. E. Severino, Testimoniando il destino, Adelphi, Milano 2019, p. 183. 5. E. Severino, Immortalità e destino, cit., p. 128.
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ne diffondendo l’apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell’uomo»6), anche l’oblio della verità (incarnato anche dalla “tecnica” in quanto modo specifico di rapportarsi all’essente), che pur accade, può essere un modo di manifestarsi della Verità (o del Destino, in termini severiniani): anche per Heidegger infatti «se ci apriamo autenticamente all’essenza della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore»7. Severino direbbe che, anche nell’orizzonte costituito dalla terra isolata, vengono a disegnarsi quelle che lui intende come delle vere e proprie “tracce” della verità (che, secondo lui, appunto, devono darsi!). Ma la consonanza tra la prospettiva disegnata da Heidegger e quella disegnata da Severino non riguarda solo una concezione della tecnica concepita come oblio che può anche finire per disegnare le condizioni di possibilità per una sorprendente liberazione dall’oblio. La consonanza è infatti assai più radicale. Il fatto è che, secondo Heidegger questa doppia possibilità dell’oblio (di nascondere ma nello stesso tempo anche di manifestare), ha la propria condizione di possibilità nella stessa struttura di un «Aperto» che, dell’Essere, ci dice appunto questo: che, nel suo manifestarsi come ente e nell’ente, finisce per custodire anche una propria costitutiva ascosità – connessa al fatto che, a manifestarsi, nel suo stesso manifestarsi, è sempre e solamente l’essente (l’ente). Heidegger lo dice con la massima esplicitezza, che «la verità è lotta originaria in cui, sempre in un particolare modo, viene conquistato l’Aperto in cui sta dentro ogni cosa e da cui emerge, ritirandovisi, ciò che si manifesta e si costituisce come ente. Comunque questa lotta erompa e si storicizzi, sempre, 6. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 21. 7. Ivi, p. 19.
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attraverso di essa, si costituiscono, separandosi, i lottanti: l’illuminazione e il nascondimento»8. Perché «il sorgere è come tale già sempre incline al chiudersi. In quest’ultimo esso rimane albergato… (così, il nostro traduce Eraclito) il sorgere (dal nascondersi) concede il suo favore al nascondersi»9. Insomma, anche per Heidegger, così come per Severino, alla struttura originaria del Vero sembra convenire un aver a che fare con l’ente nella sua totalità. Lo dice bene, il pensatore tedesco, nel saggio Dell’essenza della verità (compreso in Segnavia); dove si propone di rendere conto, in modo peraltro abbastanza “convincente” (per dir così), della doppia natura della verità – quella che ce la fa apparire sempre come “doppia”, ossia come costitutivamente ambivalente. Affidata, com’è, ad una offerta in cui quel che verrebbe di volta in volta offerto, sembra essere nello stesso tempo sottratto, e dunque non offerto. In molti testi Heidegger riferisce questa originaria ambivalenza della verità (in relazione a cui il manifestare è sempre anche un nascondere) a quella che egli stesso definisce «differenza ontologica». In Essenza del fondamento, ad esempio, Heidegger rivendica con forza il ruolo essenziale, nel suo pensiero, della differenza tra verità ontica e verità ontologica – fermo restando il loro costituirsi come tali anche in uno stretto rapporto, in quanto si appartengono l’una all’altra. Ma, in Dell’essenza della verità, invece di istituire una differenza assoluta tra l’essere e l’essente, in modo tale da trattare il loro rapporto come semplice «ipostatizzazione» del rapporto che regola le differenze (sempre relative) tra gli essenti (differenti, infatti, sono sempre e solamente gli essenti gli uni dagli altri… Insomma, non basta dire che quella che distingue l’es8. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 45. 9. M. Heidegger, Aletheia, in Id., Saggi e discorsi, cit., p. 185.
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sente dall’Essere è una «differenza assoluta», ipostatizzando una forma che pertiene agli essenti in quanto essenti… Per non dire che poi, sarebbe anche possibile mostrare come le stesse differenze determinate – quelle che distinguono gli essenti gli uni dagli altri – siano tutte, in verità, delle «differenze assolute»… dove, la differenza assoluta che sempre e solamente viene indicata ed evocata si presenta appunto come «negata» in ragione della sua costitutiva «impossibilità») Heidegger «ragiona» in modo abbastanza simile a Severino. Certo, a proposito della cosiddetta «differenza ontologica», basterebbe ricordare ad Heidegger che l’essere non è altro dall’ente. Solo tra enti ci si può dire altri, gli uni dagli altri. L’essere è infatti tutto negli enti che appaiono; è in essi come l’originariamente negantesi (in quanto «essere» – anche solo per il suo non riuscire a distinguersi dal nulla) nel Da-sein che sempre e solamente si presenta. Nell’«è», in un «è» che si presenta sempre e solamente come predicato di una qualche determinatezza. Ma, nel testo compreso in Segnavia, Heidegger svolge il proprio ragionamento in modo sorprendentemente diverso da quanto avrebbe continuato a fare in più di qualche saggio; e rileva anzitutto come «il comportarsi dell’uomo sia pervaso nel suo stato d’animo dall’evidenza dell’ente nella sua totalità»10. Una cosa è certa, rileva sempre Heidegger: questa totalità «non si lascia mai comprendere dall’ente che di volta in volta è manifesto, appartenga esso alla natura o alla storia»11. E precisa: nonostante determini costantemente la disposizione di tutto, questa totalità rimane sempre l’indeterminato e l’indeterminabile, e coincide allora per lo più, di nuovo, con ciò che vi è di più cor-
10. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, cit., p. 148. 11. Ibidem.
372 rente e di meno pensato. Essa non è un niente, ma un velamento dell’ente nella sua totalità.12
Non è un semplice niente-nullo, direbbe lo Heidegger di altri testi. Ed è ancora a questa velatezza che il nostro si riferisce in La questione dell’essere (sempre compreso in Segnavia), là dove afferma che «la svelatezza riposa nella velatezza dell’essere-presente»13. Insomma, anche il lasciar-essere «è in sé contemporaneamente un velare»14. Anche «il dire» in grado di lasciarsi alle spalle l’approccio impositivo caratterizzante la tecnica, ossia anche il dire poetico, quello che lascia-essere (Severino direbbe: anche il dire del Destino), sembra comportare il velamento della totalità. Anche il dire veritativo comporta – direbbe dal canto suo Severino – il manifestarsi “astrattamente” da parte della totalità concreta dell’essente (che nelle ultime opere Severino identifica con l’apparire infinito del Destino). Perché condannata a dare luogo a quella che Severino chiama appunto «contraddizione C». D’altro canto, Severino lo precisa bene già in La struttura originaria, che il fatto «che la struttura originaria sia contraddizione è essa stessa a mostrarlo – è essa stessa a mostrarsi come contraddizione»15. Una contraddizione connessa al fatto che la determinazione «tutto», valevole come “costante” di ogni determinazione, non si manifesta totalmente, o concretamente, nella struttura originaria. Il tutto si manifesta cioè come tutto solamente «formale». E dunque non si manifesta nella sua verità. 12. Ibidem. 13. M. Heidegger, La questione dell’essere, in Id., Segnavia, cit., p. 364. 14. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, cit., p. 148. 15. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 73.
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Ma proprio questo rende ogni essente diverso da quello che il medesimo sarebbe, se apparisse alla luce della totalità concreta. Insomma, poiché l’originario è e significa ciò che esso è e significa solo nel suo legame col tutto, nel non manifestarsi del tutto, l’originario non è l’originario. Ogni essente chiama in causa la totalità degli essenti; indipendentemente da tale totalità, nessun essente sarebbe quello che è. Ma il tutto concreto non appare. E dunque non dovrebbe apparire neppure ciò che può dire quel che esso è veramente solo in relazione al manifestarsi della totalità. Eppure le cose appaiono. Ma necessariamente – si dovrà anche rilevare – esse appaiono diversamente da come apparirebbero se il tutto concreto (che, solo, le fa essere quello che sono) apparisse nella sua concretezza. In actu signato ogni ente chiama in causa la totalità concreta, ma in actu exercito esso finisce per chiamare in causa una totalità ineludibilmente astratta. Non molto diversamente, nel testo su cui ci stiamo soffermando, Martin Heidegger rileva che «nel lasciar essere che svela e contemporaneamente vela l’ente nella sua totalità, accade che il velamento appaia come ciò che è in primo luogo velato»16. Severino direbbe che, in virtù del non manifestarsi da parte del tutto concreto, non solo a configurarsi è la differenza tra apparire finito ed apparire infinito, ma anche la necessità, per l’apparire finito, di non potersi mai risolvere in un inoltrepassabile, e dunque nel suo non potersi mai trasformare in apparire infinito. Perciò, anche secondo Severino, alla luce dell’apparire finito, a rimanere velato è il senso stesso del velamento. Del nascondimento. Insomma, non potendo accedere all’apparire infinito (non potendosi risolvere in esso), l’apparire finito 16. M. Heidegger, Dell’essenza della verità, cit., p. 149.
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rimarrà “eternamente ignaro” del vero senso del velarsi da parte dell’apparire infinito, o anche, della totalità concreta). Perciò, ad essere velato, è anzitutto il velamento. O meglio, il suo senso concreto. Perciò la terra isolata può accogliere anche la non consapevolezza che il tutto sia costitutivamente velato; l’errore può sempre trasformarsi nella non consapevolezza di essere nell’errore. Solo per questo è possibile lo sguardo implicato dal fare tecnico. Che non potrebbe neppure darsi, indipendentemente dall’isolamento della parte dal tutto. E dunque dalla rimozione del fatto che, ogni volta che appare una parte, a mostrarsi è sempre il tutto (sia pur in forma astratta). Heidegger rileva poi che la non-essenza essenziale all’essenza «non diventa mai inessenziale nel senso di indifferen te»17. Ma chiama in causa un ambito «non ancora esperito della verità dell’essere (e non solo dell’ente)»18. Epperò, sempre per Heidegger, «questo rapporto col velamento vela se stesso, lasciando la precedenza all’oblio del mistero e scomparendo in esso»19. Perciò l’essere umano, per lo più, si contenta di questo o quell’ente o della sua rispettiva evidenza. Insomma, «si attiene a ciò che è praticabile e controllabile, anche là dove è in gioco la realtà prima e ultima»20. Perciò lo sguardo scientifico, il modo rappresentativo di rapportarsi all’essente, il modo isolante e parcellizzante, tanto per Severino quanto per Heidegger avrebbero potuto finire per dominare la scena. Perché l’ente non appare mai per quel che è; così come esso apparirebbe, cioè, alla luce della manifestazione dell’apparire infinito. Alla luce della totalità dispiegata.
17. Ibidem. 18. Ivi, p. 150. 19. Ibidem. 20. Ibidem.
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Perciò, tanto per Heidegger quanto per Severino, a rendere possibile l’alienazione e il nichilismo è la stessa verità; ovvero la sua contraddizione intrinseca (la contraddizione C per Severino e l’ambivalenza di un essere che appare sempre e solamente nell’ente e come ente, per Heidegger), ovvero, la sua costitutiva ambivalenza o doppiezza. Perciò, di fatto, tanto Heidegger quanto Severino finiscono per perpetuare quell’antichissima idea (risalente a Platone, ma ancora più chiaramente a Plotino, ma forse già ad Eraclito e ad Anassimandro), costitutivamente metafisica, secondo cui l’essenziale, da ultimo, avrebbe a che fare con una sorta di misteriosa ed indecifrabile «identità» che tutte le parole continuano indefesse a distinguere e differire. Ma che, in quanto avvolta dalle differenze che la indicano, non si presenta mai al di fuori della differenza; «anche se non in quanto così avvolta, essa è l’identità delle differenze»21. D’altro canto, l’infinito assolutamente assoluto non potrà per Severino mai essere decifrato totalmente. Fermo restando che, se l’Infinito assolutamente assoluto non potrà mai essere decifrato totalmente («la decifrazione totale delle tracce dell’Infinito assolutamente assoluto è impossibile»), le sue tracce troveranno comunque una plausibile decifrazione «nell’apparire come tracce dell’Indecifrabile»22. Heidegger e Severino, insomma, si mostrano perfettamente sodali nel costituirsi come estreme radicalizzazioni di un percorso che mai avrebbe condotto il pensiero occidentale di là dalla convinzione che si parla e si scrive sempre e solamente di ciò di cui non si potrebbe né parlare né scrivere – con buona pace del tormentato Wittgenstein e dei suoi un po’ avventati verdetti aforismatici.
21. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 151. 22. E. Severino, La morte e la terra, cit., p. 499.
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Contro la metafisica Severino interprete del Neopositivismo logico
Sul rifiuto della metafisica esplicita e dell’occulta varietà di apriorismi, tutti gli aderenti alla concezione scientifica del mondo sono d’accordo.1
1 Potremmo cominciare rilevando che l’interesse dimostrato da Emanuele Severino per la scuola neopositivista, e in particolare per il Circolo di Vienna – cioè, per filosofi e scienziati del calibro di Carnap e Schlick, di Wittgenstein e Neurath, e per tutti gli altri importantissimi esponenti di una delle più grandi proposte antimetafisiche della modernità – non è così strano come potrebbe sembrare a prima vista. E non è affatto strano anzitutto per un motivo. Ossia, per il fatto che solo una filosofia che si è sempre fatta carico di restituire al sapere un fondamento finalmente e davvero inconcusso poteva essere proficuamente intrigata da una proposta epistemologica che poteva dirsi «antimetafisica» proprio per una simmetrica pretesa di indicare anch’essa
1. L. Lentini - E. Severino, Il Circolo di Vienna, in A. Bausola (a cura di), Questioni di storiografia filosofica, vol. IV/1, Il pensiero contemporaneo, La Scuola, Brescia 1978, p. 746.
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il vero fondamento della conoscenza; solo, a partire dalla convinzione secondo cui il medesimo avrebbe dovuto farsi “rigorosamente” empirico. E questo, a partire da una convinzione fondamentale: quella secondo cui qualsivoglia conoscenza pretenda di “varcare” il limite costituito dall’esperienza, è destinata a naufragare – e non certo per imparare a navigare. Ritrovandosi piuttosto a formulare delle proposizioni del tutto insensate; ovvero, non tanto e non solamente scorrette o infondate, quanto del tutto prive di senso. Appunto perché non riferibili ad alcun fatto empirico intorno a cui ci si possa, se non intendere, quanto meno confrontare. Severino lo dice chiaramente nella bellissima ed esemplare introduzione al saggio dedicato da Schlick alla questione del “fondamento della conoscenza”. Ce lo dice ricordandoci che la critica neopositivistica alla metafisica raggiunge un punto limite; «una radicalità difficilmente superabile»2. Dai protagonisti di questa scuola filosofica, infatti, «la metafisica viene bandita non già perché proceda da principi infondati, o perché contenga affermazioni false o illegittime, ma perché le proposizioni di cui è composta sarebbero assolutamente prive di significato»3. Proposizioni che non si riferiscono all’esperienza – come sarebbero appunto le proposizioni metafisiche – non sono infatti né verificabili né falsificabili. In relazione a tali asserti, cioè, sembrano non esservi fatti di cui l’esperienza possa dirci se esistano o meno. In questo senso essa si riferisce a qualcosa che esisterebbe «al di là di ogni esperienza possibile»4. Perciò i suoi (della metafisica) problemi sarebbero solo degli pseudo-problemi. Che equivalgono a 2. E. Severino, Introduzione, in M. Schlick, Sul fondamento della conoscenza, tr. it. di E. Severino, La Scuola, Brescia 1983, p. XII. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. XIII.
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domandarsi se Cesare sia o meno un numero primo, «o se Re prillico esista o no»5. Insomma, quale sfida avrebbe potuto farsi più radicale di quella elaborata dal Neopositivismo logico? Quale obiezione più radicale alle pretese della Metafisica, di quella fondata sulla convinzione di poter mostrare che la Metafisica non parla affatto del mondo o della realtà… ma si limita ad «esprimere un sentimento della vita posseduto dal metafisico»6. Da ciò la convinzione dichiarata di Carnap secondo cui i metafisici non sarebbero altro che musicisti falliti; se non altro perché la musica sembra capace di esprimere in modo molto più raffinato e potente il semplice sentimento della vita. È noto come il pensiero severiniano abbia sempre sottolineato il fatto che alla verità competa essenzialmente misurarsi con le infinite possibili forme dell’errore; e che solo in rapporto all’errore, la verità possa palesare la propria supposta incontrovertibilità. Ecco perché nessuna sfida avrebbe potuto appassionarlo più di quella provocata da una prospettiva filosofica intenzionata a mettere fuori gioco la metafisica proprio in rapporto alla struttura del fondamento. Contrapponendosi nella forma più radicale possibile alla non empiricità attribuita alla metafisica, sì da costituirsi, agli occhi di quest’ultima (e, nella fattispecie, della prospettiva severiniana), come un vero e proprio «grande» errore. Meritevole, per ciò stesso, della massima attenzione. Severino ha capito perfettamente che, se per un verso «le critiche più radicali e più rigorose mosse alla filosofia e alla metafisica, che è il cuore del filosofare, vanno ricercate nella filosofia stessa e nella sua storia»7, per altro verso, più del5. Ibidem. 6. Ibidem, p. XIV. 7. Ivi, p. IX.
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la sofistica, dello scetticismo, dell’empirismo e del criticismo kantiano, più del positivismo e di tanta filosofia ermeneutica, si sarebbe dimostrato capace di sferrare veri e propri colpi mortali alla metafisica proprio il risultato di quel processo di purificazione interna del positivismo (ancora minato da «ingenti infiltrazioni e persistenze della metafisica»8) che siamo soliti definire «neopositivismo». E che doveva configurarsi al termine di un ben preciso itinerario avente, tra le sue tappe fondamentali, le filosofie di Stuart Mill, di Ernst Mach e di Bertrand Russel. Dunque, Severino è lucidamente convinto del fatto che proprio «col neopositivismo la critica alla metafisica raggiunga un punto limite, ossia una radicalità difficilmente superabile»9. In quanto finisce per trattare le proposizioni della metafisica allo stesso modo in cui Aristotele aveva trattato i negatori del principio di non contraddizione. Considerandoli sostanzialmente come delle piante; ossia come degli esseri non dotati di parole; che credono di significare qualcosa, articolando le loro proposizioni, mentre in verità non dicono alcunché. Così fa dunque anche la metafisica, quantomeno agli occhi di Carnap. Che emette dei semplici suoni, senza riuscire a significare alcunché. Ossia, non articolando, di fatto, alcun significato. Come il negatore del principio di non contraddizione; che, a rigor di logica, non sembra neppure autorizzato a definirsi negatore del principio. Una critica alla metafisica avviata da Wittgenstein e ripresa subito dopo da Schlick e da Carnap, in particolare. Una critica che, precisa ancora Severino, «avviene sulla base di una riflessione sulla natura del linguaggio»10.
8. Ivi, p. XII. 9. Ibidem. 10. Ivi, p. XIV.
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2 Sì, perché, ritengono i neopositivisti logici, solo l’uso corretto del linguaggio sembra consentirci di costruire un sapere fondato. Perciò si è anche ritenuto che fosse quanto mai opportuno liberarsi anzitutto dell’arbitrarietà e dell’equivocità caratterizzanti i linguaggi naturali (quelli comunemente parlati dagli esseri umani); e dunque di procedere alla costruzione di un linguaggio artificiale determinato, e soprattutto da tutte le imperfezioni e le incongruenze che inficiano quello quotidiano. O quanto meno di purificare il più possibile la sua supposta naturalità. Da ciò l’uso sempre più massiccio del linguaggio simbolico (capace di rappresentare tutti le tipologie di relazioni logiche); i cui simboli e le cui connessioni possiederebbero «esclusivamente il significato univoco che, mediante regole univoche, si è deciso di conferir loro»11. Insomma, a partire da Wittgenstein si doveva decidere di fondare il sapere umano su una serie di proposizioni atomiche, da cui sarebbe dipesa la verità o la falsità delle proposizioni molecolari. Le uniche ritenute capaci di «parlare della realtà (e cioè di affermare qualcosa intorno alla realtà)»12. Ma il fatto è che tanto Wittgenstein quanto Schlick, ed anche il primo Carnap, finiscono per fondare la conoscenza su qualcosa di troppo simile alle proposizioni della metafisica; ossia, su proposizioni atomiche o elementari che rifletterebbero un semplice “dato” della «mia» esperienza; dell’esperienza cioè del parlante o dello scrivente – che non può certo fondare un sapere intersoggettivo e pubblico, controllabile e valido per tutti.
11. Ivi, p. XVI. 12. Ivi, p. XVIII.
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Sì, perché un linguaggio che voglia essere realmente intersoggettivo, non potrà essere commisurato alle mie esperienze, sempre rigorosamente individuali (ossia, percepibili solo da me); ovvero, a quelle di nessuno dei parlanti. Il linguaggio potrà cioè farsi realmente intersoggettivo – e dare vita ad un sapere comune – solo là dove rinvenga la sua base nel linguaggio medesimo. E non, dunque, in una realtà extralinguistica, che per ognuno sarà «la sua». Ecco perché proposizioni fondamentali potranno essere considerate solo quelle che sono costantemente formulate dalla maggioranza degli uomini; o, meglio ancora, «dalla maggioranza di quegli uomini (gli scienziati) che tra gli uomini godono di un credito particolare come osservatori dell’esperienza»13. Eccole, dunque, le mitiche «proposizioni protocollari»; che avrebbero il compito di indicare le circostanze di luogo, tempo ecc. in cui sono state formulate. Ma, soprattutto, in virtù della svolta operata da Neurath, l’eventuale contrasto tra una proposizione protocollare e un’altra proposizione qualsiasi non poteva più prevedere (come avrebbero voluto Wittgenstein, Schlick e il primo Carnap) che venisse espulsa dal sistema del sapere l’altra proposizione (confermando l’inamovibilità delle proposizioni protocollari). Con Neurath sarebbe cambiato tutto. Con Neurath, infatti, si accetta che possa anche essere tolta una proposizione protocollare. Sì, perché anche una proposizione protocollare o di osservazione potrebbe essere falsa. Se una determinata proposizione protocollare dice che «N ha percepito un certo oggetto in un certo luogo e in un certo tempo», chi può rendermi persuaso della veridicità di una tale osservazione? «Non può essersi sbagliato chi ha redatto il protocollo? Non può aver voluto scherzare o ingannare?»14. 13. Ivi, p. XX. 14. Ivi, p. XXI.
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Il fatto è che v’è un margine di incertezza in tutto quel che diciamo e di cui possiamo anche aver fatto esperienza; perciò Neurath avrebbe proposto di utilizzare il linguaggio della fisica per formulare le proposizioni protocollari; da cui la qualifica della prospettiva fatta propria da Neurath in termini di vero e proprio «fisicalismo». A questa posizione poi si sarebbe aggregato anche Carnap. Ma cosa fa di specifico la fisica? Risolve ogni espressione linguistica in termini quantitativo-calcolabili. Sulla scia di quanto già stabilito a suo tempo da Descartes e Galilei. Insomma, solo riducendo l’esprimibile al «quantitativo», il linguaggio della scienza sembra potersi fare realmente universale, nonché oggettivo e intersoggettivo. Una cosa, comunque, sarebbe rimasta ferma, agli occhi dei neopositivisti: che tali proposizioni descrivono semplici «fatti» (quelli osservati appunto). D’altronde, rileva giustamente Severino, in un bel testo scritto insieme a Luigi Lentini, e dedicato al Circolo di Vienna, la concezione scientifica del mondo non riconosce nessuna conoscenza incondizionatamente valida derivata dalla pura ragione, nessun “giudizio sintetico a priori” del tipo di quelli che stanno alla base dell’epistemologia kantiana e di tutta l’ontologia e la metafisica pre e post-kantiana.15
Ma… come non riconoscerlo? Che i fatti, per l’appunto, possono mutare; «il fatto potrebbe cambiare o essere sostituito da un fatto diverso»16. E poi, certe proposizioni protocollari, intorno alle quali sembra esistere un effettivo accordo intersoggettivo, possono sempre entrare in contraddizione con altre proposizioni, cui, allo stesso modo, potremmo non voler rinun-
15. L. Lentini - E. Severino, Il Circolo di Vienna, cit., pp. 745-746. 16. E. Severino, Introduzione, cit., p. XXIII.
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ciare. Sin tanto che la riduzione al linguaggio quantitativo della fisica rimane ancorato ad un non meglio identificato appello ai fatti, si rimarrà sempre affidati ad una costitutiva incertezza. Per questo alla scienza non resta che accontentarsi della coerenza interna tra le proposizioni ritenute per l’appunto scientifiche. Non ha più senso, cioè, evocare una supposta corrispondenza tra le proposizioni fondamentali e la realtà esterna. E dunque, «che si tengano ferme certe proposizioni invece delle proposizioni opposte non dipende (più) dalla verità in sé di tali proposizioni, ma solo da una decisione arbitraria»17. O meglio da un consenso meramente fattuale che solo certe proposizioni sarebbero state in grado di ottenere. Ecco, nel saggio pubblicato dall’editore La Scuola di Brescia, Schlick difende, «contro l’ala fisicalistica del neopositivismo, l’impostazione empiristica originaria del movimento neopositivistico»18. Ma a questo scritto replicheranno tanto Neurath quanto Carnap; dando vita a quella direzione specificamente “convenzionalistica” rigorizzata da Carnap nel saggio sulla Sintassi logica del linguaggio (1934). Ormai lo scontro si va configurando come scontro tra coerentismo linguistico e ancoraggio al riferimento fattuale. Eppure, sta diventando sempre più chiaro anche questo: che esistono infinite logiche, «ognuna delle quali può essere scelta, e solo una volta scelta impone il rispetto delle regole secondo le quali si costruisce»19. Ma proprio a questo punto non meno chiara appare anche la debolezza intrinseca caratterizzante una prospettiva come quella teorizzata dal Neopositivismo logico. Perché, anche dopo essersi liberati dall’ancoraggio ai fatti, il discorso scientifico rimane affidato ad una arbitrarietà e ad una incertezza costitutive. 17. Ibidem. 18. Ivi, p. XXIV. 19. Ibidem.
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Per questo Severino può sottolineare (cosa peraltro giustissima) come tale epistemologia radicalmente antimetafisica abbia finito per costituirsi come un’ennesima forma di scetticismo, «in cui si conferisce un valore assoluto (un valore di verità assoluta) alla tesi che afferma il valore convenzionale di ogni logica»20. Molto più solida sarebbe apparsa, invece, agli occhi del filosofo bresciano, la posizione antimetafisica wittgensteiniana-schlickiana; nonostante il difetto consistente nel ritenere che l’unico modo di verificare un asserto sia quello usato nella scienza della natura e nella vita quotidiana: ossia, il riferimento all’esperienza. Sì, perché il problema rimaneva, dal loro punto di vista, quello relativo all’esistenza (o meno) di proposizioni fondanti e incontestabili su cui tutto l’edificio del sapere potesse davvero fondarsi. Almeno per costoro, infatti, si trattava di contrapporre all’insensatezza della metafisica un fondamento, esso sì, veramente solido. Sicuramente più solido di quello rivendicato dalle «fantasie» dei visionari metafisici. Mentre, per la versione convenzionalistica del neopositivismo logico, queste proposizioni non sono più possibili; per quella che sarebbe diventata la versione più radicale del neopositivismo, infatti, ogni proposizione (anche quelle protocollari) può venire sostituita, modificata o eliminata… senza problema alcuno. Ma… paradosso dei paradossi: anche questo radicale convenzionalismo avrebbe continuato a porsi come l’unica prospettiva filosoficamente affidabile; da cui il paradosso scettico. Relativo al fatto che la sostituibilità di ogni proposizione viene affermata all’interno di una proposizione tutt’altro che sostituibile e tanto meno cancellabile. In ogni caso, a meritare d’essere fatte oggetto di riflessione sono, dal nostro punto di vista, anzitutto il senso e le implica20. Ivi, p. XXV.
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zioni di questo passaggio dalla posizione (diciamo per brevità) «empirica» a quella rigorosamente «convenzionalistica». E, proprio per capire tale passaggio sembra particolarmente utile ricordare che l’antimetafisicismo neopositivistico nasce sì come volontà di ri-fondare l’edificio del sapere, ossia di fondarlo diversamente da come era stato fatto dalla metafisica, ma comunque di fondarlo. Anzi, di fondarlo in modo persino più solido di quanto fosse riuscita a fare la metafisica. D’altro canto, il saggio che Schlick dedica al «fondamento della conoscenza» lo riconosce fin dalle prime pagine; che tutti i grandi tentativi di fondare una teoria della conoscenza sono nati dal «desiderio di possedere, nella nostra conoscenza, una certezza assoluta»21. Il nostro si riferisce a questa ricerca come ad uno sforzo meritorio e legittimo, certo; uno sforzo mosso a rintracciare quella “rocca naturale” che «preesiste ad ogni costruzione e che non è, essa, in alcun modo pericolante»22. Un sforzo che, peraltro, sembra accomunare anche i “relativisti” e gli “scettici”, rileva Schlick – anche se loro non lo ammetterebbero mai. Dunque, se all’inizio le proposizioni protocollari sembrano capaci di esprimere semplici «fatti», e se questi ultimi appaiono, agli occhi di Schlick, tutt’altro che incerti (incerti potendo essere, per lui, solo le nostre asserzioni e il nostro sapere), non può certo stupire che proprio essi vengano ritenuti capaci di costituire «il solido sottosuolo, al quale ogni nostra conoscenza deve tutto ciò che essa può possedere di valido»23. In quanto proposizioni «che registrerebbero i dati puri e semplici dell’osservazione e che stanno temporalmente all’inizio»24.
21. M. Schlick, Sul fondamento della conoscenza, cit., p. 3. 22. Ivi, p. 4. 23. Ivi, pp. 5-6. 24. Ivi, p. 11.
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Questa, d’altronde, sarebbe stata la pretesa fin troppo metafisica di tutta la prima fase del neopositivismo logico; convinto di dover contrapporre alla pseudofondatezza della metafisica classica un’articolazione maggiormente fondata proprio in quanto ancorata ai dati (o fatti) empirici. Anche se sarebbe stato lo stesso Schlick a riconoscerlo, e molto presto: che avrebbe costituito un notevole miglioramento di metodo «il fatto che, per raggiungere il fondamento della conoscenza, non si andasse più alla ricerca di fatti primari, bensì di proposizioni primarie»25. Insomma, è lo stesso Schlick ad ammetterlo: «se ci si domanda con quale sicurezza si può affermare la verità delle proposizioni protocollari concepite in questo modo, si è obbligati a riconoscere che tale sicurezza è esposta ad una folla di dubbi»26. Perché, giunti alle proposizioni primarie (liberate dalla pesantezza dei fatti non condivisibili), ci si sarebbe trovati a fare i conti con la medesima incertezza caratterizzante ed inficiante l’iniziale ancoraggio ai fatti. Insomma, il fondamento che avrebbe dovuto costituirsi come ben più solido di quello metafisico (e proprio in quanto non corrispondente ad alcuna realtà in grado di verificare o falsificare le proposizioni protocollari di fatto) appariva già a Schlick, e con sempre maggior chiarezza, uno pseudo-fondamento; o meglio, un fondamento radicalmente impossibile. Dall’incertezza dell’ancoraggio ai fatti alla non meno costitutiva incertezza e infondatezza caratterizzante anche le proposizioni protocollari ormai autonomizzate dal riferimento al fatto realmente esperito. Ché, ognuna delle proposizioni protocollari avrebbe potuto venire inficiata da uno o più errori – fermo restando che ci si sarebbe potuti ingannare per disattenzione o intenzionalmente; rileva ancora Schlick. 25. Ivi, p. 12. 26. Ivi, p. 13.
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Insomma, le proposizioni protocollari (secondo Schlick) avrebbero «lo stesso carattere di tutte le altre proposizioni della scienza: esse sono ipotesi e niente altro che ipotesi»27. Fermo restando che già a proposito della prima posizione assunta da Schlick, si può rilevare il fatto che, in quanto posto come descrizione di un fatto, il fondamento può sempre venire smentito da qualsivoglia altro fatto; in quanto fatto, cioè, esso non può mai vincolare a nulla. Come tutti i fatti, dunque, anch’esso vale solo fin tanto che la realtà di fatto lo confermi. Dunque, se a qualcuno poteva esser sembrato che la natura fattuale empirica potesse garantirci contro l’assoluta inverificabilità delle proposizioni metafisiche, in realtà la supposta maggior solidità del sapere scientifico (più solida rispetto all’assoluta inverificabilità delle proposizioni più radicali della metafisica – come quelle relative all’essere) si sarebbe assai presto rivelata totalmente illusoria. E per il semplice motivo che anche le proposizioni protocollari (secondo quanto precisa lo stesso Schlick) possono venire costantemente corrette; «e tali correzioni hanno luogo anche abbastanza frequentemente, quando cioè eliminiamo certe indicazioni protocollari, dichiarando conseguentemente che esse debbono essersi realizzate in seguito ad un errore»28. Insomma, i fatti cui continuano a riferirsi le proposizioni protocollari potrebbero anche dipendere da un’allucinazione; insomma, il nostro animo potrebbe esser stato completamente offuscato. Per questo, da ultimo, la teoria delle proposizioni protocollari non avrebbe offerto alcun reale a chi fosse stato alla ricerca «di un solido fondamento della conoscenza»29.
27. Ivi, p. 14. 28. Ivi, p. 15. 29. Ivi, p. 17.
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E in ogni caso è lo stesso Schlick a riconoscerlo; che, con il profilarsi dell’abbandono della teoria empiristica e l’assunzione di una teoria sempre più esplicitamente convenzionalistica (a partire dalla quale ogni proposizione protocollare doveva essere scelta in base a semplici ragioni di convenienza), a perdere ogni significato sarebbe stata finanche la differenza tra proposizioni protocollari e altre proposizioni. Insomma, con l’imporsi della teoria convenzionalistica, sarebbe apparso normale che le proposizioni protocollari venissero scelte in base a pure ragioni di convenienza: di convenienza o, meglio ancora, di «idoneità alla realizzazione degli scopi che ci prefiggiamo»30. Anche se precedentemente le cose stavano in modo affatto diverso. Prima, infatti, si era fermamente convinti del fatto che, se lo scopo che la scienza ha da perseguire è quello di «fornire una descrizione vera dei fatti»31 – e per Schlick «lo scopo non può essere diverso da quello che la stessa scienza persegue: fornire una descrizione vera dei fatti»32 –, ritenere di poter fare affidamento sulle “proposizioni protocollari” significasse, per noi (neopositivisti), qualcosa di radicalmente diverso dal convenzionalismo coerentista; ossia, «designare certe proposizioni alla cui verità si sarebbe dovuta commisurare, come su un modello, la verità di tutti gli altri giudizi»33. Ma un tale modello – è ancora Schlick a riconoscerlo, e con la massima onestà – «risulta ora altrettanto relativo quanto tutti i modelli che vengono usati nella fisica»34. Certo, Carnap avrebbe gioito dell’eliminazione definitiva dalla filosofia di ogni residuo di «assolutismo». Fu così che si 30. Ibidem. 31. Ivi, p. 18. 32. Ivi, pp. 17-18. 33. Ivi, p. 18. 34. Ibidem.
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passò dalla ricerca della verità alla ricerca della concordanza delle proposizioni tra di loro. E in questo senso era ormai chiaro, anche agli occhi di Schlick, che «la verità non può consistere in altro che nella concordanza delle proposizioni tra di loro»35. Insomma, dalla concordanza con la realtà alla pura e semplice coerenza; un esito da cui l’ancor «metafisico» Schlick (così mi vien da definirlo, in quanto ancora convinto che la scienza debba opporre alla filosofia una più fondata idea di verità) avrebbe preso radicalmente le distanze. A lui, infatti, la teoria della coerenza «sembrava del tutto insostenibile»36. Ma in ogni caso la teoria filosofica fatta propria dai più radicali tra i neopositivisti era ormai quella della concordanza; e ad essa, in ogni caso, si era dovuti giungere. Anche perché, in verità (di questo, Schlick sembra rendersi conto e non rendersi conto, nello stesso tempo) la radicale fattualità del reale indicato dalle proposizioni protocollari rendeva già essa il reale medesimo discutibile, e dunque mai realmente affidabile. Avremmo potuto sempre prendere un abbaglio, nel farci testimoni di questa o quella fattualità. Insomma, se è fattuale, il fondamento sarà anche necessariamente e costitutivamente incerto. E dunque non potrà mai assicurarci intorno allo stato di una realtà situata comunque al di fuori dal linguaggio che la nomina. Per questo non ci sarebbe potuti rifiutare di prendere congedo da questa intollerabile incertezza; insomma, sarebbe stato meglio liberarsene e rimanere nell’ambito del linguaggio, abbandonando anzitutto il criterio di concordanza (con il reale), e accontentarsi della coerenza logica tra le diverse proposizioni… di cui è comunque fatto l’edificio della conoscenza. 35. Ibidem. 36. Ivi, p. 20.
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Questa, dunque, la situazione: si sarebbe voluto un fondamento più affidabile – quanto meno più affidabile di quello totalmente inverificabile caratterizzante il sapere metafisico –, ma ci si sarebbe accorti che il nuovo fondamento era destinato ad apparire altrettanto incerto di quello criticato, opinabile e tutt’altro che solido. Per questo, ci si doveva ben presto accorgere che l’unica forma di solidità poteva essere forse… quella costituita dalla «coerenza». Perciò si sarebbe passati dal realismo al convenzionalismo.
3 Ecco perché pretendere di contrapporre alla metafisica e alle sue inverificabili verità (inverificabili perché non riconducibili a fatti misurabili e quantificabili dell’esperienza) un fondamento radicalmente «empirico» e «fattuale» doveva rivelarsi una pia illusione; questa sfida, cioè, avrebbe finito per rovesciarsi contro gli stessi antimetafisici. Potremmo dire che il negatore della fondatezza metafisica (ossia, il neopositivismo logico) doveva finire per negare, da ultimo, se medesimo; proprio come accade, almeno secondo il fondatore della metafisica (Aristotele), al negatore del principio primo. D’altro canto, qual è la forma di tale negazione? Quella costituita dall’evocazione di un’altra verità. Altra e più vera, per l’appunto, di quella criticata. Insomma, così come il sostenitore del principium firmissimum poteva facilmente mostrare al negatore (in ciò l’azione dell’elenchos) di essere lui stesso costretto ad affermare la differenza tra la propria posizione e quella del sostenitore del principio; e dunque ad utilizzare quel medesimo principio che, a parole, invece, avrebbe voluto negare. Sì, perché il principio da lui negato dice semplicemente questo: che ogni determinatezza è se stessa se e solo se diversa da ogni altra.
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Ma, dire che questo principio è falso, e quindi contrapporre al medesimo un altro principio, non poteva che significare distinguere il proprio principio da quello negato, e dunque non negare affatto il principio senza di cui non ci si sarebbe potuti neppure distinguere dai sostenitori del principio… appunto, quali suoi negatori. Ecco: una cosa analoga sarebbe accaduta ai neopositivisti; costretti a riconoscere anch’essi di non poter affatto contrapporre a quello della metafisica un altro criterio di verità. Ossia, di non poter contrapporre ai principi assoluti della metafisica quelli empirici in virtù di una loro supposta maggiore affidabilità; come se questi ultimi potessero venire considerati più affidabili in ragione del riferimento all’esperienza e alla sua pura fattualità (che Kant avrebbe definito quintessenzialmente «fenomenica»). D’altro canto, come è possibile contrapporre ad un «vero» intenzionato a valere per ogni forma di realtà (empirica e meta empirica), una verità interessata a valere solamente per l’empiria? Ossia, per una sezione più piccola di realtà. Anche perché la stessa parte di realtà che potremmo definire «empirica» sottostà ai principi primi della metafisica; questi ultimi, infatti, valendo per l’essere in quanto essere, non valgono certo per la sola empiria, ma di sicuro anche per essa. Insomma, quella che i neopositivisti considerano l’inverificabilità di quel che vale per l’essere – perché non vi sarebbe nulla di fenomenico valevole come «essere», o perché l’essere non è un fatto empirico, come lo sono invece gli alberi, le nuvole e il risotto allo zafferano –, è l’inverificabilità in termini empirici solo di una zona dell’essere (quella non riconducibile alle cose spazio temporali da cui è occupata la mia esperienza). Che però non impedisce all’essere di venire predicato anche degli alberi, delle nuvole e dei risotti allo zafferano. Insomma, le proposizioni protocollari della metafisica indicano la verità dell’essere, senza limitarsi a circoscrivere una verità parziale,
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valevole in rapporto a qualcosa di esistente al di fuori dell’esperienza sensibile. Il fatto è che la verità della metafisica (ad esempio il principium firmissimum) vale, già per i metafisici, anche per l’albero e per la bicicletta di mio nipote. Insomma, vale sì per le cose non empiriche, ma sempre anche per quelle empiriche; vale cioè per ogni possibile forma d’esistenza (anche per quelle che a noi è dato solo immaginare). Solo che, nel valere anche per le cose empiriche (ossia, per i «fatti»), delle medesime, questa verità dice qualcosa di assolutamente non empirico. Ecco il punto! Lo dice dicendo il loro stesso non potersi fare che identiche a se medesime e diverse da tutto quanto è altro da esse. Non indica cioè un fatto. E non potrebbe in alcun modo farlo proprio in quanto proposizione fondamentale che rende vere tutte le altre. È evidente, infatti, che nessun fatto può mai imporre agli altri fatti qualcosa di relativo al suo modo d’essere in quanto esprimente quel che, del medesimo, dice la sua semplice “fattualità”. Insomma, per valere come verità di ogni proposizione, ossia come condizione di possibilità di ogni altra proposizione, la proposizione protocollare della metafisica (come ad esempio il principio di non contraddizione), non può limitarsi a descrivere un fatto. E, diciamolo pure con la massima esplicitezza possibile, non perché riferentesi a oggetti non fattuali e dunque non ben identificabili (quale potrebbe essere un’eventuale esistenza extraterrestre – fattuale, ma appartenente ad altri ambiti di realtà, e dunque configurantesi come fatto non ancora sperimentato, ma in linea di massima sperimentabile… d’altronde, chi può negare la possibilità che prima o poi ci tocchi incontrare un extraterrestre?). Insomma, le verità della metafisica non si riferiscono a fatti; ma non tanto perché relative ad oggetti fantasmatici, pu-
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ramente illusori od esistenti come allucinazioni nella mente del metafisico. Esse non parlano cioè di un’altra realtà; ossia, di una realtà diversa da quella che appartiene all’esperienza sensibile. Dunque, le verità della metafisica dicono qualcosa di vero (perché negarle significa affermarle) proprio perché non si riferiscono a fatti (e non «pur non riferendosi a fatti»); non a caso, esse si limitano ad indicare le condizioni di possibilità dei fatti… anzi, le condizioni di possibilità di qualsivoglia forma d’esistenza. Con buona pace dei neopositivisti. Ecco perché non avrebbe avuto alcun senso chiedere ai metafisici di esibire le condizioni di verificabilità delle loro proposizioni fondamentali (o protocollari), come se alla loro forma linguistica potesse corrispondere «qualcosa» di determinatamente esistente (e concordante con la loro significazione) all’interno dell’esperienza sensibile o in qualche altra dimensione dell’esistere. Il criterio di verità delle proposizioni metafisiche, infatti, si risolve nel semplice criterio di incontrovertibilità. Unico principio in grado di rendere davvero solido l’edificio della conoscenza. Solido in quanto non affidato ai capricci della contingenza; ma sempre e necessariamente “vero”. Indipendentemente dalle realtà di cui il medesimo può sempre fungere da «principio». Per questo il «negare» tali proposizioni fondamentali non poteva che risolversi in una radicale autonegazione da parte della prospettiva neopositivista. Appunto perché nessun fatto può contrapporsi al principio di non contraddizione, se non distinguendosi dal principio medesimo, e proprio in virtù del suo dettato. Destinando all’assoluta arbitrarietà proprio le proposizioni protocollari che si sarebbero volute contrapporre alla supposta solidità della metafisica in virtù di una loro altrettanto supposta maggior solidità. Destinandole al naufragio proprio per aver assunto e
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fatto proprio il criterio della solidità (che ha la sua espressione più radicale nella forma dell’incontrovertibilità); lo stesso che aveva sempre consentito al principio della metafisica di trionfare su ogni sua possibile negazione. E che l’avrebbe destinata al trionfo anche rispetto ad una prospettiva costretta a consegnare all’assoluta arbitrarietà il proprio costrutto teorico; a fare cioè, proprio dell’infondatezza, la propria ragione ultima. Ritrovandosi così nella perfetta impossibilità di criticare la metafisica. Assolutamente solido rimanendo in questo senso solo il «principio»; quello stesso che si mostra davvero «in-negabile», «in-scalfibile» e dunque «in-controvertibile». Insomma, il fatto di usare questo stesso principio, anzi pretendere di aver guadagnato una reale solidità, addirittura più forte di quella, solo apparente, della metafisica… in virtù del l’esito coerentista riservato al neopositivismo logico, avrebbe finito per rilegittimare proprio quella metafisica che si sarebbe voluto mettere fuori gioco. Infatti, ed è lo stesso Schlick a rilevarlo: chi è convinto che come criterio di verità non si debba porre nient’altro che la coerenza, deve considerare un qualsiasi racconto fantastico come altrettanto vero di un resoconto storico o delle proposizioni contenute in un libro di chimica, a condizione solamente che quelle fantasie siano state così abilmente inventate da non contenere alcuna contraddizione. Io posso descrivere, con l’aiuto della fantasia, un mondo grottescamente stravagante: il filosofo della coerenza deve credere nella verità della mia descrizione, a condizione solamente che io abbia cura della reciproca compatibilità delle mie affermazioni e che, per precauzione supplementare, eviti ogni collisione con i modi usuali di descrizione del mondo, trasferendo il teatro della mia narrazione su una stella lontana che non possa più essere oggetto di alcuna osservazione.37 37. Ivi, pp. 25-26.
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Fu così che anche la supposta favola metafisica venne nuovamente autorizzata a considerarsi affidabile. Insomma, dal contrasto alla metafisica, alla sua rilegittimazione; e dunque alla necessaria rilegittimazione anche della sua pretesa incontrovertibilità. Da cui il destinale autotoglimento cui sembra essersi voluta condannare una grande avventura culturale come quella rappresentata dalla scuola del Neopositivismo logico. E il naufragio della sua inizialmente potentissima carica antimetafisica.
Indice
Preludio In memoria del mio Maestro
p. 9 p. 13
Su Severino La «verità» e il mago Frestone
p. 17
Follia e verità del divenire. Il pensiero di Emanuele Severino
p. 25
Rilevanza del concetto di «necessità»
p. 69
Oltre il giogo. Colloquio con Emanuele Severino (1989)
p. 75
Sul «niente»: voce delirante della necessità
p. 85
Verità e oblio della verità
p. 103
Aporia e negazione. Esistenza e «relazione»: ovvero, i modi dell’arché
p. 111
Grande trionfo, grande naufragio. Il «destino» di un’errante verità
p. 147
Identità e totalità. Il pensiero di Emanuele Severino e il folle sogno della «verità»
p. 171
La questione dell’infinito nel pensiero di Emanuele Severino. In margine a La Gloria
p. 213
Risposta a Severino
p. 233
Il respiro del destino
p. 243
Severino e gli altri Leopardi, tra filosofia e poesia. In dialogo con la lettura severiniana di Leopardi
p. 299
Emanuele Severino, lettore di Giacomo Leopardi e Giovanni Gentile
p. 325
Essere e totalità. Severino-Rosmini: critica di una critica
p. 347
Heidegger, Severino e il mantra dell’ascosità
p. 367
Contro la metafisica. Severino interprete del Neo positivismo logico
p. 377
Zeugma
Lineamenti di Filosofia italiana | Classici Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ
1. Pasquale Galluppi, Memoria sul sistema di Fichte. 2. Carlo Invernizzi, Lucentizie. L’enigma del tempo. 3. Massimo Adinolfi - Massimo Donà (a cura di), Trovarsi accanto. Per gli ottant’anni di Vincenzo Vitiello. 4. Luca Basile (a cura di), Croce e la revisione del marxismo. Antologia di testi critici. 5. Nicola Magliulo, Segni del presente. Prospettive di filosofia italiana contemporanea. 6. Vincenzo Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I - Dalla storia alla logica. II - Tra Logica e Fenomenologia. 7. Massimo Donà, Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile. 8. Mario Capanna - Massimo Donà - Luigi Vero Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino. 9. Vincenzo Vitiello, L’Ora e l’attimo. Confronti vichiani. 10. Antonio Rosmini, Dell’amicizia. Alcuni inediti giovanili.
11. Massimo Donà, Apologia dell’immediato. Percorsi evoliani. 12. Gaetano Rametta, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel. 13. Leonardo Messinese, Nel castello di Emanuele Severino. 14. Vincenzo Vitiello, Immanuel Kant. L’Architetto della Neuzeit. Dall’abisso della ragione il fondamento della morale e della religione. 15. Augusto Vera, La Fenomenologia dello Spirito di Hegel. 16. Gaetano Rametta, Filosofia come «sistema della scienza». Introduzione alla lettura della Prefazione della Fenomenologia dello spirito di Hegel. 17. Massimo Donà, Di fantasmi, incantesimi e destino. Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità.
Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 17 - Classici
Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Potermi confrontare con Emanuele Severino – quello che considero uno dei massimi esponenti del pensiero contemporaneo – è stato per me un dono del destino. Che mi ha fornito le ragioni per fare della filosofia una vera e propria ragione di vita. Ma soprattutto, è stata la possibilità di misurarmi con il rigore di una argomentazione stringente e spesso vertiginosa, a consentirmi di rilevarne anche le falle costitutive – peraltro rinvenibili proprio portando alle estreme conseguenze quella che rimane comunque una formidabile sintassi speculativa. Indipendentemente dalla quale, mai sarei riuscito a disegnare una prospettiva metafisica fondata da un lato sull’originaria aporeticità del ‘vero’ e dall’altro su un inedito senso della ‘negazione’.
Comitato scientifico:
Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
ISBN ebook 9788855293938
Massimo Donà è nato a Venezia nel 1957. Si è laureato con Emanuele Severino nel 1981 e, da più di vent’anni, è docente di filosofia teoretica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo L’aporia del fondamento (prima edizione: La città del Sole 2000, seconda edizione aggiornata e ampliata: Mimesis 2008), Sulla negazione (Bompiani 2004), Il tempo della verità (Mimesis 2010) e Teomorfica. Sistema di estetica (Bompiani 2015). Per le edizioni Inschibboleth: Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile (2018) e Apologia dell’immediato. Itinerari evoliani (2020).
€ 14,00