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Italian Pages 174/176 [176] Year 2013
SCAFFALE APERTO
Giuseppe Vatinno
AENIGMA Simbolo, Mistero e Misticismo
ARMANDO EDITORE
VATINNO, Giuseppe Aenigma. Simbolo, Mistero e Misticismo ; Roma : Armando, © 2013 176 p. ; 20 cm. (Scaffale Aperto) ISBN: 978-88-6677-249-1 1. Religione e misticismo 2. Psicologia e parapsicologia 3. Misteri e simboli CDD 100
© 2013 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-00-048 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
Sommario
Introduzione
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Capitolo primo: Misteri e simboli L’Hypnerotomachia Poliphili I Veda e i Vedanta Il tantra o yoga della potenza Sannyasin e sadhu, mistici indiani Varanasi: città sacra dell’India I maestri himalayani Il buddismo come filosofia di vita Civiltà nascoste: le favolose Agarthi e Shambhala Monte Verità e i convegni di Eranos La misteriosa Arca dell’Alleanza Il mistero degli Etruschi
13 13 20 23 29 32 34 37 40 44 47 50
Capitolo secondo: Il misticismo Il fenomeno della Luce Santa a Gerusalemme Il misticismo cristiano: l’esicasmo L’Estasi Monte Athos: terra di monaci, terra di Dio Apocalissi Le esperienze di “picco” Emmaus I misteri dei Vangeli apocrifi
53 53 56 59 62 70 73 77 81
Capitolo terzo: La porta della psicologia L’ipnosi: una porta verso l’inconscio La meditazione nella tradizione religiosa e psicologica
85 85 90
Il mitico mondo di Asgard e degli dèi del nord Metafisica del simbolo I grimori Dell’anima o della trasmutazione alchemica Capitolo quarto: Sviluppo scientifico della parapsicologia Il PEAR e lo studio della coscienza A che punto è la notte. Indagine sullo stato delle “scienze di frontiera” La sincronicità: una possibile chiave interpretativa Gli eventi estremali L’impregnazione mentale nelle esperienze di Milan Ryzl con Pavel Stepanek
97 100 105 108 113 113 123 132 142 144
Capitolo quinto: Epifanie San Paolo e il miracolo delle tre fontane La Basilica di San Paolo fuori le mura Le apparizioni mariane alla grotta delle Tre Fontane
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Conclusioni
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Indice analitico
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La cosa più bella che possiamo sperimentare è il mistero; è la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza. Albert Einstein
Introduzione
Non distruggo la corolla dei prodigi del mondo e non stermino con la ragione gli enigmi che incontro sul mio cammino nei fiori, negli occhi, sulle labbra… Lucian Blaga
Il tema di questo mio nuovo libro è il Mistero; ammetto di essere uno scrittore eterogeneo che spazia dalla scienza (sono un fisico) alla politica, all’ecologia ma, a guardar bene, vi è poi un tema unificante in questi interessi e cioè il sentimento del “mistero” per l’universo, per come si struttura la società, per le interazioni con il nostro ecosistema inteso nel significato più generale del termine. Il sentimento del mistero, come diceva Albert Einstein, è la cosa più bella che possiamo sperimentare ed è “la fonte di ogni vera arte e di ogni vera scienza”. La Scienza cerca di decodificare il mistero con gli strumenti della logica, del metodo, della matematica e così elabora modelli che svelano il passato e dispiegano il possibile futuro; la Scienza illumina perfettamente (o quasi) il buio cosmico e dentro il suo perimetro tutto “funziona” (anche se proprio le anomalie indicano possibili nuove vie, rivoluzioni). Ma una volta che la Scienza ci ha spiegato (o almeno ha tentato) il mistero del cosmo l’Uomo resta spesso con un senso di insoddisfazione direi esistenziale. Perché? 9
La risposta non è affatto semplice e implica una profonda riflessione sull’intima essenza dell’Uomo stesso; evidentemente, la sola Scienza, il solo capire il meccanismo di funzionamento delle “cose” non basta, non ci appaga, non ci completa. L’Uomo scopre e utilizza la Scienza per uscire da uno stato di minorità, quello cioè della superstizione, ma poi, per una sorta di magico destino, ecco che il Mistero cacciato dalla porta rientra dalla finestra e si struttura in nuove forme e si declina in nuovi modi e assume nuove sembianze, ma sempre lui è. Mi ha sempre colpito il fatto che nel “secolo dei lumi”, in Francia, fu abolita per legge la religione, ma poco dopo, come per incanto, comparve una nuova divinità: la “dea ragione”. È come se l’umanità, in effetti, non potesse proprio fare a meno del mistero, del simbolo, del fantastico. Ormai diversi anni fa scrissi un piccolo saggio dal titolo sicuramente curioso, Che fine ha fatto il drago di Foligno? Con questo scritto intendevo porre attenzione al fatto che la Scienza e la Tecnologia hanno stanato il “drago” del mistero, ma che poi, di tale drago, l’umanità aveva bisogno e se non lo trovava più cercava di ricrearselo. Utilizzai la città di Foligno perché per me, per il mio immaginario, si trattava della rappresentazione del medioevo fantastico in una terra, l’Umbria, ricca di miti e leggende, foreste, unicorni e draghi. E questo discorso sul mistero ci riporta anche al discorso sul simbolo e sul perché, alla fine, l’Umanità non possa vivere senza simboli a costo di crearne uno nuovo nella stessa Scienza o nella Tecnologia. Il territorio del simbolo è una “terra del crepuscolo”, una “terra dell’ovest”, una terra dove i sogni e le fantasie si incontrano, dove un arcobaleno magico indica una pentola del tesoro, come nelle antiche leggende irlandesi, ma è anche una terra dove monti altissimi e inviolabili, come l’Himalaya, indicano la “strada degli dei” all’umanità ansiosa di trovare un significato, una risposta ai suoi eterni dilemmi che l’accompagnano da quelle buie e tempestose notti della preistoria. Questa terra magica è anche l’India con i suoi monaci mendicanti che vide nascere due tra le più importanti religioni del mondo e cioè l’induismo e il buddismo, ma è anche il luogo di strani fatti, delle 10
sincronicità junghiane, una terra in cui materia e coscienza sembrano incontrarsi. È la terra dei filosofi, di Agarthi e Shimballa, dei riti e dei misteri, è quel confine tremolante e mal definito che il territorio della Scienza ci ha lasciato inspiegato. È il giardino dei misteri, è il luogo dell’anima, è il luogo del sogno, della notte, del crepuscolare, della Dea e della componente femminile, è l’armonia di segni arcani che promettono la conoscenza. È, forse, in definitiva, quello che l’Umanità ha sempre cercato e sempre continuerà a cercare. (Alcuni di questi capitoli sono rielaborazioni di articoli usciti su «Il Giornale dei Misteri» e «Luce e Ombra» e possono quindi presentare alcune ripetizioni. Inoltre non è detto che tutti i link web riportati siano ancora attivi).
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Capitolo primo
Misteri e simboli
L’Hypnerotomachia Poliphili1 Hypnerotomachia Poliphili, ubi humana omnia non nisi somnium esse docet. Atque obiter plurima scitu sane quam digna commemorat. La battaglia d’amore in sogno di Polifilo, dove si mostra che tutte le cose umane altro non sono che sogno e dove, nel contempo, si ricordano molte cose degne in verità di essere conosciute. (Didascalia all’inizio dell’opera)
Una immagine della HP e specificatamente l’elefante sormontato da un piccolo obelisco, nel secondo sogno che fa Polifilo. 1
In questo lavoro ho utilizzato la riproduzione dell’edizione aldina del 1499 edita da Adelphi in due tomi nel 2004.
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Il Rinascimento risulta essere un periodo particolarmente interessante nell’arco culturale umano e segna, di fatto, l’uscita dalle tenebre oscure del Medioevo; la riscoperta dei classici latini e soprattutto di quelli greci è la cifra di una ricerca di quella grazia antica, di quel “soave scrivere” che poi diventerà il tratto caratteristico dell’intera epoca. La trama allegorica è un tema tipico di questo periodo: nella potenza dell’allegoria, nel mistero salvifico del simbolo, si radunano e si concentrano profonde istanze di cambiamento interiore e di rinascita, in una sorta di “primavera dello spirito”. È l’alchemica trasformazione dell’anima che attraverso un percorso iniziatico si trasforma e salva. La forza del cambiamento deriva, ancora una volta, dall’amore, da quell’amore cortese che superata la mera fase materiale e carnale si sublima in un oro liquido di immenso valore, nell’essenza stessa della vita. Affascinante ed inquietante è questo processo di ascesi interiore, che porta all’“Uomo Nuovo”, conscio finalmente del suo ruolo cosmico. La “Battaglia d’amore in sogno di Polifilo”2, questa la traduzione del complesso titolo greco-latino, ha una trama volutamente articolata, resa da una lingua italiana volgareggiante e artificiosa, ricca di termini barocchi e latinismi e dal ricercato utilizzo di superlativi altisonanti, affollata di continue allusioni allegoriche ed accurate e leziose descrizioni architettoniche, in un linguaggio dal periodare boccaccesco intriso di ossessioni filologiche. Polifilo (dal greco “amico di Polia”) è nella sua stanza e cerca la sua amata Polia (in greco, letteralmente, “molte cose”) che non è più con lui; Polifilo si addormenta3 e si trova dunque trasportato in una “quieta pianura” da cui giunge in una foresta misteriosa, fitta ed intricata (che è un tema allegorico molto presente in questo tipo di narrazioni: basti pensare alla “selva oscura” in cui si perde Dante nella Divina Commedia), dove le piante e gli alberi costruiscono e costituiscono una vera e propria “architettura vegetale”, e dove il protagonista presagisce la presenza di fiere minacciose. Polifilo dun2 Il topos della “battaglia d’amore” è ben presente nelle opere medievali; cfr., ad esempio, l’Elegia di Madonna Fiammetta del Boccaccio. 3 Per l’insegnamento in sogno vedi, ad esempio, Mircea Eliade, Lo Sciamanesimo e le tecniche dell’estasi.
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que si mette a correre per la foresta, rivolgendo una preghiera salvifica al “Padre della luce”, Giove Diespiter4; esaudito il desiderio, Polifilo segue un canto soave, ma esausto cade sfinito ai piedi di una quercia e sprofonda in un altro sogno all’interno del primo (anche questo tema e cioè quello del “sogno nel sogno”, è caratteristico della letteratura misteriosofica). Nel secondo sogno Polifilo si risveglia e dopo aver scorto un lupo famelico vede un grande monumento, una piramide sovrastata da un alto obelisco, un colosso disteso, un cavallo alato ed un elefante sormontato da un altro piccolo obelisco; poi scorge una porta mirabilmente intarsiata che però nasconde un terribile drago che gli impedisce il ritorno; avanzando trova un’uscita e in seguito incontra cinque ninfe (i cinque sensi) che lo portano prima alle terme e poi al cospetto della loro regina Eleuterillide. Successivamente Polifilo viene condotto da due ninfee, Logistica (la Razionalità) e Telemia (la Volontà), davanti a tre porte (altro potente elemento simbolico), ciascuna con una scritta in quattro lingue, arabo, ebraico, greco, latino: “Gloria di Dio”, (Gloria Dei), “Madre dell’Amore” (Mater Amoris), “Gloria del Mondo” (Gloria Mundi) e scegliendo quella centrale, su suggerimento di Telemia, ritrova Polia, in veste di ninfa che però non riconosce. I due, dopo che Polia si è rivelata, vengono trasportati in nave da Cupido presso l’isola greca di Citèra (Κύθηρα) dove, secondo la leggenda, Venere, dea dell’amore, nacque dalla spuma delle acque. Qui vengono uniti da un matrimonio sacro cioè ierogamico (ἱερὸς γάμος). La descrizione a questo punto passa a Polia, alternandosi sempre però con quella di Polifilo, e vengono raccontati i casi del loro innamoramento. Inizia così il secondo libro. Polia, in realtà la nobile Lucrezia Lelli, originaria di Treviso, colpita dalla peste si vota a Diana, ma quando Polifilo le dichiara il suo amore ella lo respinge e Polifilo cade ai suoi piedi svenuto. Polia fugge e sogna sogni angosciosi con carnefici che la inseguono; svegliatasi dagli incubi, una saggia nutrice le suggerisce di andare al Tempio di Venere dove abbracciandolo lo fa rinvenire. Nel finale Polifilo prende tra le sue braccia Polia, che 4
Nome arcaico per Giove come “Padre della luce”, già in Gellio.
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improvvisamente però si dissolve nell’aria e il protagonista si sveglia a Treviso, all’alba del primo maggio del 1467, rammaricandosi che il sonno non fosse durato più a lungo e che fosse svanito al sorgere del sole; al doppio sonno/sogno di Polifilo corrisponde quindi un unico risveglio (da due livelli di profondità se ne condensa l’emersione in uno solo, quello della Realtà). Questa in estrema e semplificata forma la storia, come detto molto complessa. L’HP è un’opera densa di significati, interpretabili a livelli diversi, che ama nascondere preziosi tesori dietro il velo riccamente ricamato del simbolo. Tale specificità non poteva non attirare l’attenzione di psicanalisti ed in particolare di Carl Guastav Jung, che vi trovò forti richiami alla sua teoria degli archetipi e dell’inconscio collettivo. Ma chi ha scritto l’Erotomachia? L’opera, anonima, ambientata nel 1467, uscì a Venezia5 nel dicembre del 1499 con ristampa nel 15456 dalla celebre tipografia di Aldo Manuzio7. Notevole è l’apparato illustrativo con centosettantadue xilografie di elevato pregio stilistico; da un’analisi delle difformità stilistiche si individuano due illustratori che quasi certamente lavorarono su disegni originali dell’autore. L’autore è un Francesco Colonna (1433-1527), figura dissoluta e ribelle che molto probabilmente fu un frate domenicano, nato a Venezia ed affiliato all’Accademia dell’umanista Pomponio Leto, che prese l’abito nel convento veneziano dei santi Giovanni e Paolo, attivo tra Treviso e la città lagunare; minor seguito ha la tesi che si trattasse di un appartenente alla nobile famiglia romana dei Colonna8 che fu signore di Palestrina, nei dintorni di Roma, dal 1484, sebbene 5
Dato il tratto nettamente pagano dell’opera, essa poteva uscire solo nella tollerante Repubblica Serenissima di Venezia. 6 L’opera è così complessa dal punto di vista filologico che Manuzio dovette corredare la prima edizione di un’ampia pagina di Errata e gli eredi, nella seconda edizione del 1545, scrissero: “Ristampato di novo, et corretto con somma diligentia”. 7 L’opera riporta la dicitura Venetiis mense decembri, M.ID. in aedibus Aldi Manutii, accuratissime” (a Venezia, nel mese di dicembre 1499 presso la casa editrice di Aldo Manuzio, realizzato accuratissimamente). 8 Cfr. ad esempio, Calvesi M., Il sogno di Polifilo prenestino, Officina, Roma 1980.
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non sono mancate speculazioni, poco suffragate da prove, su altri possibili autori dell’opera, tra cui lo stesso Lorenzo de’ Medici, Signore di Firenze, o altri intellettuali dell’epoca come Leon Battista Alberti, ma un dato certo ed accettato dalla storiografia letteraria è che l’autore sia stato un raffinato intellettuale di scuola umanista, quindi perfettamente inquadrato, come detto, nell’humus culturale della sua epoca di riscoperta della classicità paganeggiante dei greci e dei latini. In ogni caso, seguendo una tipica tradizione del tempo, il nome dell’autore è stato pensato occultato in un acrostico costituito dalle iniziali illustrate dei trentotto capitoli in cui risultano divisi i due libri della Hypnerotomachia: POLIAM FRATER FRANCISCUS COLUNNA PERAMAVIT e cioè “FRATELLO”9 FRANCESCO COLONNA AMÒ INTENSAMENTE POLIA. Tra la sterminata rappresentazione enciclopedica di nomi e fatti contenuta nell’opera risalta spesso, e addirittura c’è chi la ritiene una sorta di narratura parallela, anche il riferimento all’Asino d’oro del latino Apuleio, altra opera iniziatica dell’antichità (centrale il tema del culto misteriosofico della Dea Iside) con il personaggio di Lucio trasformato in un asino, animale simbolo della sfrenata voluptas sessuale che si contrappone e fa da chiaroscuro alla componente sublimata dell’amore spirituale di Polifilo, in un eterno gioco di opposti e di cui un polo, la sessualità appunto, è visto come negativo e materiale contrapposto all’elevazione spirituale dell’amor cortese. Significativo a questo proposito il tema dello sposalizio mistico nel tempio di Venere; mentre la Dea pronuncia elevate parole spirituali, Polifilo guarda con concupiscenza le forme di Polia. Il protagonista non ha ancora compreso il valore della honesta voluptas. In definitiva, il tema centrale dell’enigmatica opera è quello del fatto che chi vuole accedere ai “misteri sacri” ed alla conoscenza superiore deve superare la dimensione animale, simboleggiata come detto dall’asino sensuale, deve vincere questa dynamisis irrazionale, il sesso (ma in realtà, in senso più ampio, potremmo riferire il discorso al concetto 9
“Fratello” potrebbe essere anche interpretato come Frater o “membro” dell’Accademia di Pomponio Leto.
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più vasto e generale di piacere materiale), per giungere ad una equilibrata armonia finale, a quell’harmonia mundi, che deve guidare l’iniziato. La sessualità forte e bestiale è adeguatamente rappresentata nell’opera dalla esibizione del membro di Priapo e dai canti nei trionfi di Pomona e Vertumno, mentre Hermes itifallico (cioè dal membro eretto) è celebrato nel trionfo di Cupido. Polifilo saprà imbrigliare tali forze telluriche solo quando percepirà la duplicità della natura umana e seguirà la strada della trasformazione spirituale. Dunque, il tema centrale e caratterizzante dell’opera è la descrizione delle psicomachie che devono portare il protagonista all’approdo “pneumatico”10, cioè spirituale in senso più propriamente gnostico. Questo approdo è raggiungibile solo con l’introspezione e quindi in tutta l’opera è ben presente il tema della meditazione come momento di elevazione spirituale e, dato il trasporto partecipativo con cui il Colonna descrive queste esperienze, c’è da ritenere che probabilmente esse furono il portato di vere pratiche meditative e tecniche immaginative conosciute dall’autore. Il parallelismo tra l’Asino d’oro e l’Hypnerotomachia è molto più spinto di quanto un’analisi superficiale potrebbe far apparire; infatti, anche il finale redentivo è molto simile; mentre l’asino/Lucio divora delle rose di Iside per tornare umano, così Polifilo mangia un magico pomo dell’albero di Venere per acquisire la nuova consapevolezza. Nell’utilizzo di tecniche erotiche per elevare la stessa mente possiamo vedere anche le influenze dell’opera di Marsilio Ficino ed ancora di Pico della Mirandola e noi moderni possiamo fare forse anche riferimento culturale alle tecniche del Tantra Yoga. Naturalmente, l’umanesimo rinascimentale che accompagna l’ascesa di Polifilo dalla materia al più puro spirito è completamente impregnato di istanze platoniche (il corpo come prigione) e neoplatoniche, specificatamente plotiniane11; pur tuttavia, alle influenze più puramente platoniche fa da contraltare un certo materialismo deri10 Per lo gnosticismo vi sono tre tipi di esseri: gli ilici, cioè i “materiali”, destinati alla perdizione, gli psichici, dotati di libero arbitrio e i pneumatici o “spirituali”, dotati della scintilla divina, che saranno comunque salvi. 11 La lezione della ascesi dalla materia allo spirito delle Enneadi (opera datata III-IV secolo dell’era cristiana) è chiaramente distinguibile nella HP; questo tema
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vato da tematiche filosofiche di Aristotele per i greci e Cicerone per i latini. Il tentativo di Colonna è quello di unire dunque una Venere spirituale con una Venere Urania e tellurica. Si tratta quindi di una alleanza tra volontà e piacere (di probabile derivazione aristotelica) simile a quella tra la volontà e l’amore riportata da Marsilio Ficino per giungere ad un sapiente esercizio della voluptas. L’Hypnerotomachia, nella sua complessità narrativa, è dunque un’opera determinante per capire lo spirito che animava quel momento magico (in tutti i sensi) di rinnovamento per l’umanità che fu il Rinascimento. Bibliografia Colonna F., Hypnerotomachia Poliphili, Adelphi Edizioni, Milano 2004 (due volumi riproduzione dell’edizione aldina del 1499, di cui il primo è una ristampa anastatica dell’originale). Colonna F., Hypnerotomachia Poliphili, Antenore, Roma 1964 (con riproduzione delle xilografie originali). Cruz E.A., Hypnerotomachia Poliphili: Re-Discovering Antiquity Through the Dreams of Poliphilus, Trafford Publishing, Bloomington 2006.
fa riferimento a testi ben più antichi, come i Veda e i Vedanta di matrice induista, in cui l’atman individuale si fonde nel Brahman universale.
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I Veda e i Vedanta12
La quercia chiese al mandorlo: parlami di Dio. E il mandorlo fiorì. (N. Kazantzakis)
L’induismo, nato nella regione della valle del fiume Indo, è stato il crogiolo che ha forgiato, a partire da tempi remotissimi, intorno a 4.000 anni fa, quella “filosofia religiosa” o “religione filosofica” che ha poi costituito la base di ogni “mistica” futura, da Platone a Plotino, al Sufismo, alla mistica cristiana, alla gnosi. I libri fondanti l’induismo si chiamano Veda, termine che in sanscrito indica la “conoscenza” o la “saggezza” e che è legato alla radice del verbo “vedere”, e sono attribuiti a un saggio la cui figura appare mitologica, Vyasa che fu anche l’autore del Mahabharata (che contiene il famoso Baghavad Gita o “Canto del Beato” che narra le vicende del dio Krishna e del guerriero Arjuna), imponendone la scrittura al “dio dalla testa di elefante”, Ganesha, che descrive la guerra, nel periodo dal XIV al XII secolo a.C., tra le tribù dei Pandava e dei Kuru, essendo il nonno dei protagonisti della vicenda. I poemi epici, il Mahabharata ed il Ramayana, ripropongono in chiave letteraria le guerre che si 12
A volte sono stati utilizzati i termini sanscriti originali ed altre volte quelli translitterati.
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combatterono tra i popoli invasori Ariani ed i popoli che risiedevano già nella valle del Gange. L’altra opera epica, meno importante, è, appunto, il Ramayana, ovvero il “viaggio di Rama”, di Valmiki, già costituito nel VI secolo a.C., in cui il giusto re Rama, considerato l’incarnazione (avatar) di Visnu, esiliato dal suo regno lo riconquista; Rama ha un ruolo di portatore di giustizia e virtù e consiste di due momenti: uno epico ed uno religioso e narra di vicende ambientate nell’India del Sud. Tradizionalmente i Veda sono divisi in quattro raccolte di opere cronologicamente distinte: i Saṃithā: Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda e Atharvaveda, 20001100 a.C. i Brāhmaṇa, 1100-800 a.C. le Upaniṣad o Vedānta (“fine dei Veda), 800-500 a.C. i Sūtra o Vedarga, 500 a.C. (Advaita Vedanta o “Vedanta Non Duale”, 800 d.C.) I Veda nascono quindi dai culti degli antichi Arii o Arya, una popolazione di lingua indoeuropea dell’Asia centrale che si stabilì in India verso il 1500 a.C.13 e fuse la propria cultura con quella delle popolazioni autoctone. Alla base dei Veda c’è il concetto filosoficoreligioso (trattato la prima volta nei Ṛgveda) del Brahman che è lo spirito universale dell’Universo; l’Atman è la scintilla divina racchiusa nel mondo materiale che poi si ricongiungerà alla fine dei cicli di reincarnazione nel Brahman; non vi è quindi alcuna differenza teorica tra il “conoscitore”, “il conosciuto” e la “conoscenza”. Le Upaniṣad o Upanishad (in pratica i Vedanta) rappresentano dei commentari ai Veda stessi e quindi li completano e contengono principalmente gli insegnamenti esoterici relativi al Brahman ed inducono ad una disciplina spirituale che consenta all’anima di raggiungere una “perfetta quiete” e sono caratterizzati da una sorta di disprezzo verso il ritualismo più propriamente vedico (in questo in sintonia con il buddismo). La società indiana era (ed è di fatto ancora) ripartita 13
I popoli Ariani che conquistarono la valle del Gange furono: i Kuru che si insediarono nei pressi di Delhi, i Pancala presso Kanauji, i Kosala a Oudh e i Kasi a Benares.
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in “caste” o varna: sacerdoti, guerrieri, commercianti e servi; questo sistema sociale si rispecchiava nella dottrina della reincarnazione guidata dal karma o “principio d’azione”. Le Upanishad riflettono specificatamente le trasformazioni della società indiana centrata attorno al 500 a.C. con un passaggio da una religione formale e rituale, la cui base era il concetto di sacrificio agli dèi, ad una religione più intimistica, meno rituale e quindi più focalizzata sull’individuo. Gli Advaita Vedanta, o “Vedanta Non Duale”, furono scritti tra l’VIII ed il IX secolo d.C. da Adi Shnkara (788-820) e rinnovarono fortemente l’induismo come, a loro volta, i Vedanta avevano fatto circa 1000 anni prima. Il “Vedanta Non Duale” insegna che la Realtà può solo essere “Una” ed “Unica” ed è determinata dal Brahman (l’Assoluto), cioè dal Principio ispiratore di tutti i cosmi, presente tramite l’Atman o “scintilla divina” nelle singole anime individuali, chiamate Jiva, cioè “l’Atman identificato nella maya” fenomenica. Dunque, Brahman e Atman sono una sola cosa e la Realtà è intrinsecamente “Non Duale” anche se, per effetto della maya, appare poi separata in coppie di opposti. Il testo Vedantasara, cioè “l’essenza dei Vedanta”, è stato scritto da Yogindra Sarasvati nel XV secolo d.C., un monaco dell’Ordine samkariano Sarasvati, e compendia i Vedanta in un limitato numero di sutra, cioè versi, spiegando la dottrina metafisica della Non-Dualità (Advaita), che costituisce anche un poderoso edificio filosofico che completa definitivamente la letteratura vedica. In pratica, nel tempo, i Vedantasara sono divenuti una sorta di manuale per il Vedanta Non Duale, comprendenti circa 227 sutra o versi. Sono noti anche come Uttara-mimamsa (“Indagine successiva”) in relazione e contrapposizione alla Purva-mimamsa, cioè “Indagine anteriore”, che studia principalmente gli aspetti rituali. Si deve sempre ricordare che il fine di tutta la filosofia induista è quello di acquisire una coscienza-consapevolezza della fondamentale unità tra l’Atman ed il Brahman che porta alla liberazione, moksa, dal ciclo delle rinascite. In questo l’induismo è più esplicito rispetto al buddismo14 14 Il buddismo è stato spesso definito una “religione atea”, intendendo con questo termine il fatto che esso non parla di un dio né di un fine dopo la liberazione; potremmo dire che è atea a metà se si considerano le correnti materialiste della filosofia indiana che sono comunque di epoca pre-buddista, come i Nastika (nichilisti)
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sull’“unione coscienziale” con l’Assoluto; il grande edificio filosofico induista fornisce infatti una risposta in termini salvifici e positivi in quanto non solo libera dall’esistenza terrena – come il buddismo – ma porta all’identificazione in quell’Assoluto che è poi il Brahman, esemplificato nel pantheon induista con il dio Brahma. Il tantra o yoga della potenza Quando si è conosciuto l’atman supremo, che riposa in un posto nascosto, senza parti e senza dualità, quale Testimone, esente dall’essere e dal non-essere, si perviene alla condizione dell’atman universale. (Kaivalya Upanishad II, 23-24)
Una classica immagine dell’arte erotica tantrica induista. e i Pasanda (eretici) citati nei testi epici. Il Sutra di Brhaspati era il testo base del materialismo indiano, ma andò perduto.
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L’India, all’uomo occidentale, appare come un luogo misterioso ed esotico, quando non più propriamente magico ed esoterico. L’India, terra immensa e lontana, terra di fachiri e di atmosfere dolci ed incantate, India, terra promessa del sogno mistico, terra d’acqua (Oceano) e di cielo (Himalaya), che nasconde segreti capaci di sconvolgere la quotidianità. India, terra di Dèi e di Dee, solcata dal fiume sacro, il Gange. L’uomo occidentale ha dell’India una immagine particolare, mutuata dai testi sacri di una saggezza antica e potente, come i Veda e i Vedanta; una Terra di Spirito dunque, fatta di allontanamento dal mondo in una ascesi progressiva che porta, secondo la religione Indù, alla finale unione del principio umano, l’atman, con quello divino, il Brahman, nella mistica estasi del Samadhi. Eppure, quello dei Sannyasin itineranti non è l’unico aspetto che l’India offre; ne esistono altri, anch’essi misteriosi, che forse non sono molto noti in Occidente: è l’India di rituali nascosti ed oscuri, avvolti dalla tenebra dei secoli e tra la folta vegetazione della giungla; è il Tantra, con la “Via della Mano Sinistra”15 e il “Rituale segreto dei Cinque Elementi”16 che si presenta, a volte, in tutta la sua terrifica potenza, del resto già presente, a voler guardare bene la filigrana teologica Indù, in uno degli aspetti della trimurti, il dio Shiva17 che con la sua danza eterna crea e distrugge i mondi dell’illusione. Julius Evola (1898-1974) è stato un personaggio particolare nell’abbastanza conformistico panorama della cultura italiana del XX secolo; filosofo, pittore dadaista, teorizzatore politico, esoterista, studioso di dottrine orientali. Evola è stato per anni unicamente identificato come l’araldo di una destra nostalgica, chiusa in se stessa e votata ad officiare solo 15 Una distinzione abbastanza semplicistica, ma crediamo efficace, delle due visioni esoteriche è la seguente: i seguaci della “Via della Mano Sinistra” credono alla propria totale autorealizzazione e sono per il relativismo morale, mentre i seguaci della “Via della Mano Destra” sono assimilabili più alle religioni adamitiche ed alcune forme di induismo. 16 I Cinque Elementi sono chiamati Pancatattva (nel rituale induista e shivaita) cioè le cinque “sostanze” da usare messe in relazione con i cinque elementi: donna/ etere, vino/aria, carne/fuoco, pesce/acqua e cereali/terra. 17 Gli altri dèi sono Brahma e Visnù.
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il rito della memoria; certamente, e lo diciamo subito, Evola fu un uomo tradizionale e del tradizionalismo fece la sua bandiera contro una certa deriva dei valori che poi troverà piena e drammatica realizzazione nel periodo attuale; dunque, certamente fu anche un uomo di “destra” nelle idee e in certe forme di rappresentazione valoriale, ma inquadrarlo e limitarlo solo a questa “etichetta” appare riduttivo della sua ampia visione culturale che abbracciava, come detto, diversi campi del sapere e delle arti. Il rapporto tra Evola e l’esoterismo fu stretto, anzi strettissimo; ma l’esoterismo di Evola fu un esoterismo assai diverso da quello che vediamo spesso rappresentato al giorno d’oggi da pagliacci e buffoni che vogliono scimmiottare, magari anche da posizioni scientiste, l’Antico Sapere dei Saggi. L’esoterismo di Evola fu prima profonda conoscenza culturale e non vuoto nozionismo, fu attenta analisi dei testi sacri indiani (e non solo), specialmente i Veda e i Vedanta; fu attenta e ponderata riflessione su quei testi che ci parlano di una conoscenza antica e come tutti gli studiosi egli volle anche addentrarsi nei sentieri più scoscesi e meno frequentati dagli intellettuali alla moda e, quando questi sentieri non c’erano, piegò l’erba e gli alberi e scostò i ciottoli per tracciarli e se ora sono comode strade per il viaggiatore occidentale occorre ricordare chi per primo vi si avventurò. Il Tantra, parola che in hindi (dalla radice tan, che significa estensione) significa “trama”, “ordito”, “rete”, ma anche appunto “estensione”, “esposizione”, “trattato”, e lo Shaktismo, termine derivato anch’esso dalla parola sanscrita Shakti, che significa “forza”, “energia”, si diffusero in India nel IV secolo d.C. e rappresentarono indubbiamente un netto cambiamento nel clima religioso e culturale indiano; il Tantra e lo Shakti non sono sinonimi, ma comunque indicano entrambi un certo modo di vedere la vita e il mistero ed in questo senso possono venire non dico fusi o confusi, ma sicuramente accomunati dell’individuare nell’erotismo, nell’unione tra il principio maschile di Shiva e quello femminile di sua moglie, Pārvati, una forma di conoscenza ed un mezzo di potere sia materiale che spirituale. Il tantrismo è una delle risposte più appropriate dell’induismo18 al “pe18
Esiste però anche un tantrismo buddista.
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riodo oscuro” o Kali Yuga che caratterizza la nostra epoca19. Il tantrismo è dunque uno “Yoga della Potenza”20, un mezzo di evoluzione e controllo degli elementi cosmici attraverso l’azione realizzatrice. Lo stesso Evola dice: «Tutto il segreto consisterebbe nella formula apparentemente semplice di trasformare la passività in attività. Quando una passione o un moto dell’anima si manifesta, come un’onda che sorge, non si dovrebbe reagire né subire; bisognerebbe aprirsi e identificarvisi in modo attivo, conservando un sopravanzo di forza, tanto da non essere trasportati, ma da trasportare, intensificando lo stato in modo da provocare la completa emergenza della radice». Come si vede anche da queste poche righe scritte da Evola, siamo di fronte non certo ad un trattato di tecniche erotiche più o meno raffinate o più o meno orientaleggianti, ma ci viene dispiegata una sorta di filosofia psicologica che mira a comprendere il rapporto tra l’Uomo e le sue passioni più recondite, tra l’Uomo e le sue energie più riposte e segrete, velate dall’arcano del tempo e da un manto folto di stelle enigmatiche e potenti. Evola nel Tantra vede la ricerca e il confronto dialettico tra l’Uomo e il suo Lato Oscuro, l’Inconscio, il lunare, il notturno, il dionisiaco, la Hubris greca che spesso una visione superficiale ha voluto emarginare e rimuovere, ma che invece è sempre lì ad attendere il suo riconoscimento per quanto scomoda ed ingombrante sembra essere la sua presenza. Ed, effettivamente, scomoda e ingombrante questa presenza lo è, ma solo se non ci si vuole confrontare con essa, se non si vogliono “fare i conti” con la sua tellurica presenza; dopotutto, a ben guardare, tutta la psicanalisi del XX secolo, specificatamente quella junghiana, è stato un tentativo di confronto con l’oscuro, con il mistero, con il “non detto”, in definitiva proprio con l’inconscio nelle sue varie declinazioni, sia personale che collettivo. Questa dottrina evoliana trova esplicazione in un’opera espressamente ad essa dedicata, Lo Yoga della Potenza, che vide la sua prima 19 Non solo l’induismo parla dell’età oscura, ma anche, ad esempio, negli Edda nordici si parla di una equivalente “età del Lupo”. 20 Spesso Evola fa riferimento all’opera dell’intellettuale rumeno Mircea Eliade, specialmente per quanto riguarda lo studio dello Yoga.
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edizione nel 1949, per i tipi dei fratelli Bocca, e poi una seconda edizione, completamente rinnovata, che fu pubblicata vent’anni dopo, nel 1968, per le edizioni Mediterranee. Una terza edizione del 1972 che prese il posto di quella rapidamente esaurita del 1968 (interessante notare la coincidenza con l’anno della contestazione giovanile) ed una quarta corretta e con aggiornamenti di tipo lessicale, nel 1994. L’edizione francese Le yoga tantrique è del 1971, mentre quella americana, The Yoga of Power, è del 1992. L’edizione italiana del 1972 contiene una “nota del curatore”, il giornalista e scrittore Gianfranco De Turris, e una sorta di “introduzione” in forma di breve saggio dell’orientalista Pio Filippani-Ronconi, Julius Evola e la via della realizzazione, con postfazione della scrittrice Marguerite Yourcenar, Alcune ricette per un’arte di vivere meglio, inizialmente apparsa come articolo per “Le Monde”. Le opere di Evola prettamente dedicate alla sapienza orientale sono L’Uomo come Potenza, poi nuovamente titolato appunto lo Yoga della Potenza, e La dottrina del risveglio-Saggio sull’ascesi buddista, entrambe composte sul finire degli anni ’30 del XX secolo, ma uscite solo successivamente, come viene affermato esplicitamente in quella sorta di opera autobiografica che è Il cammino del Cinabro del 1963. Lo Yoga della Potenza è lo Yoga dell’azione contrapposta alla contemplazione, ricetta adatta, come detto, agli oscuri tempi del Kali-Yuga, come del resto dicono le dottrine del buddismo tantrico che vedono nel sesso e nel respiro le uniche “vie” rimaste per la salvezza; l’Uomo deve seguire quindi il Vajrayana, cioè la “Via della Folgore” e della “indistruttibilità”. Tuttavia, lo stesso Evola fa capire come la “Via” per conseguire il cambiamento non debba essere ingenuamente interpretata come l’atto meccanico amatorio21, ché si cadrebbe allora immediatamente proprio in quella visione materialistica che si vuole evitare, ma bensì debba intendersi in un senso superiore, al di là della legge del dharma e del karma; ma per essere in questa particolare condizione, dice Evola, occorre che l’azione sia “pura”, 21 Anzi, Evola afferma che tale interpretazione volgare e riduttiva, confinante spesso con forme di stregoneria orgiastica, si è avuta principalmente nel substrato pre-ario mentre lo shivaismo rappresenta una realizzazione di alto livello spirituale.
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liberata dall’ego. Proprio dalla difficile presa di coscienza del fatto che «l’appercezione magico-simbolica, la quale fa vivere ed agire l’individuo in una natura, in una luce, in uno spazio e in un tempo, in una trama di cause ed effetti qualitativamente diversi da quelli che definiscono l’ambiente naturale dell’uomo moderno (…). Nel caso della storia si è prodotta una modificazione che riguarda non soltanto le forme del pensiero soggettivo, ma anche le categorie fondamentali dell’esperienza oggettiva», Evola deriva la conclusione che il Tantra Yoga sia l’unica via rimasta all’Uomo per giungere ad una più fondamentale libertà. Il tema della “libertà” ottenuta tramite la pratica tantrica è un punto fondamentale nel pensiero evoliano. Detto questo, occorre anche notare come le pratiche prettamente sessuali siano presenti nel Tantra Yoga, ma non rappresentino l’unica forma realizzativa; infatti, per il Tantra, il sesso ha tre possibili fini: procreativo, di piacere e di liberazione. La pratica sessuale vera e propria è codificata nel cosiddetto Pancatattva (letteralmente “cinque elementi”), che nel tantrismo induista22 e shivaita indica il cosiddetto “rituale segreto”; tale rituale prevede anche la presenza di donne e sostanze inebrianti. Si noti come l’utilizzo del sesso per scopi iniziatico-magici sia attestato anche nel visnuismo e nel tantrismo buddista. Il rituale è strettamente codificato ed avviene in forma di gruppo con un “signore del cerchio” che guida gli altri. Tutti si accoppiano tra loro trattenendo il seme e sublimando così il piacere raggiungendo, a volte, lo stato di samadhi. LoYoga come Potenza di Evola non è solo dunque una esplicitazione filosofica, ma contiene in nuce i germi di tutta l’opera evoliana successiva che ruota intorno all’“agire disinteressato”, alla “impersonalità attiva” e di quell’arte di “trasformare i veleni in farmaci” che vogliono essere una dottrina salvifica per l’Uomo moderno.
22 L’utilizzo del sesso a fini sacrificali (la donna e il suo organo sessuale rappre-
sentano il fuoco del sacrificio) è anche attestato nelle Upanishad.
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Bibliografia Brandi A., La Via Oscura, Atanòr, Roma 2008. Evola J., La Yoga della Potenza, Edizioni Mediterranee, Roma 1968. Evola J., Metafisica del sesso, Atanòr, Roma 1958.
Sannyasin e sadhu, mistici indiani Colui il quale conosce questo supremo Brahman, costui diventa il medesimo Brahman. (Mundaka Upanishad, III, II, 9)
Un Sannyasin in meditazione alle fonti sull’Himalaya del fiume sacro, il Gange. 29
Un uomo seminudo medita su un masso presso la sorgente del sacro fiume Gange, sull’Himalaya; il suo aspetto decisamente ascetico; il viso scavato, la magrezza, la barba incolta, i capelli lunghi raccolti sulle spalle e terminanti in un volteggiare armonioso di riccioli scuri; dietro di lui un panorama mozzafiato: il cielo terso, limpidissimo, le nuvole bianche appoggiate alle cime maestose di vette inaccessibili, lo scenario suggestivo di rocce e ghiaccio che ricordano il suolo lunare e poi lo scrosciare di un’acqua gelida e sacra. Chi lo direbbe che da quel piccolo gettito d’acqua limpida nascerà uno dei più grandi e maestosi fiumi del mondo, il Gange (che in sanscrito è femminile), che per gli Indù è esso stesso una divinità personificata dalla dea Devi consorte di Shiva?; il fiume santo d’India che dopo un lunghissimo percorso dalla più grande e alta catena montuosa del mondo sfocia in un mare caldo e tropicale: il Golfo del Bengala. Ma torniamo al nostro uomo in meditazione: la sua figura ieratica si staglia netta nel gelo dell’Himalaya; sembra non sentire per niente la temperatura bassissima di questi ghiacciai inviolati. Chi è? È un Sannyasin, cioè un “rinunciatario” che ha fatto voto pubblico di rinuncia al sesso (tranne che per coloro che seguono la tradizione tantrica) e al proprio nome; una delle forme più estreme ed affascinanti del misticismo indiano. Tecnicamente, il Sannyasin è un uomo che ha raggiunto il Sannyasa, cioè l’ultimo stadio in cui è divisa la vita di un Indù, che segna la totale separazione dal mondo fisico, l’assoluta povertà e l’assenza totale di ogni desiderio, la pratica dello Yoga per giungere alla “liberazione”, la moksha, che si realizza con la comprensione che l’universo è l’unione dell’atman (l’anima individuale) col Brahman23 (l’anima universale). Un Sannyasin può essere qualsiasi uomo che abbia compiuto 50 anni o anche un giovane monaco che scelga questo tipo estremo di rinuncia. Sono noti principalmente due tipi di ordini di Sannyasin: gli ekadanda, caratterizzati da un bastone singolo e gli tridanda dal triplice bastone, vestiti da una caratteristica veste color zafferano che simbolizza la “rinuncia”. Diciamo che il termine Sannyasin in realtà viene utilizzato quasi come sinonimo di Sadhu (che il popolo chiama comunemente con il 23
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Brahma è la personificazione dell’Assoluto, il Brahman.
termine Baba, o l’ancor più prestigioso Babaji, termini che significano “padre”), in sanscrito “Uomo buono”, mentre la sola sostanziale differenza è quella della rinuncia pubblica al sesso e alla famiglia per il Sannyasin e la rinuncia privata per il Sadhu; per il resto il comportamento e lo stile di vita è così largamente sovrapponibile che possiamo parlare di loro, genericamente, come “mistici”. Essi sono, in India e Nepal, tra i 4 e i 5 milioni, vivono principalmente isolati, nelle foreste, nelle montagne e nelle grotte e sono solo dediti alla devozione per la loro divinità scelta; si riuniscono tuttavia per il grande “festival” del Kumbha Mela (il termine significa “andare verso il fiume”) che si svolge ogni tre anni, presso i fiumi Gange, Yamuna e Saraswati (mitico e invisibile), in una delle quattro città sante: Prayag (Allahbad), Haridwar, Ujjain e Nashik, a seconda della posizione nel cielo di Giove e del Sole. I mistici indiani spesso tengono pose forzate che possono provocare danni fisici o girano addirittura completamente nudi (i cosiddetti Nagha Sadhu), si ricoprono il corpo di cenere che simboleggia la fine e la rinascita e i simboli che portano sulla fronte indicano la divinità di cui sono devoti. Tuttavia sono anche noti per l’uso di droghe, come la marijuana che viene vista come una via per giungere più rapidamente alla illuminazione e il dio Shiva (i cui Sadhu sono chiamati Shaiva Sadhu) viene addirittura identificato con l’hashish, chiamato in India charrus. Invece i Sadhi seguaci del dio Visnhu (che praticano un ascetismo meno spinto) sono chiamati vaishanava Sadhu. Vi sono pure dei Sadhu femminili, cioè le Sadhvi, in genere donne anziane, non tutti i gruppi le accettano. Queste figure mistiche affascinano indubbiamente l’uomo occidentale che vede in loro l’archetipo dell’uomo spirituale in completa simbiosi con la natura, attraverso le montagne impervie, le grotte misteriose, le foreste oscure, il contatto con l’elemento sacro “acqua” simboleggiato, come detto, dal fiume Gange. È uno stile di vita di rinuncia al mondo e di profonda introspezione e conoscenza di se stessi (in questo differente in gran parte dal monachesimo cristiano). Il mistico indiano rappresenta tutto quello che l’uomo moderno ha smarrito nella sua ricerca di concretezza solo materiale, perdendo di vista quello che forse è il valore più importante: la spiritualità. 31
Bibliografia Radhakrishnan S., La Filosofia indiana, (due volumi), Edizioni Asram Vidya, Roma 1998.
Varanasi: città sacra dell’India Sono libero dalla forma, dal nome e dall’azione. Sono il Brahman, fatto di Esistenza, Coscienza e Beatitudine. (Upanishad)
Varanasi, nello Stato dell’Uttar Pradesh, con le caratteristiche gradinate, i ghats.
Varanasi (conosciuta nell’antichità anche come Kashi, chiamata nei Rigveda “la luminosa”), nello Stato dell’Uttar Pradesh, città sacra dell’India vedica, già nota agli islamici come Benares, è una delle città più antiche e suggestive del mondo, abitata da circa 3.000 anni 32
(5.000 per la tradizione vedica). La città sorge sulle rive del fiume sacro, il Gange24, nascente dalle perenni nevi del ghiacciaio Gangotri sull’Himalaya, e deve probabilmente il suo nome a due suoi affluenti, il Varuna (personificazione del dio indù del cielo, dell’acqua e dell’oceano celeste) e l’Asi. La leggenda vuole che lo stesso dio Shiva l’abbia fondata e che sia la sua città natale; essa viene posta al centro del mondo dalla cosmologia induista e la tradizione vuole anche che viverci per un dato periodo di tempo facendo abluzioni nelle sue acque oppure morirvi liberi dalla ruota delle rinascite, cioè ponga fine al ciclo delle reincarnazioni, chiamato samsara25. La città è citata nei poemi epici induisti: il Ramayana ed il Mahabharata. Varanasi è la città dell’India che più è vicina al mistero della morte; i riti sacri si svolgono tra le suggestive scalinate chiamate ghats26 (ve ne sono un centinaio), dove si riuniscono spesso i santoni ed i loro seguaci e anche le cremazioni avvengono in continuazione nei luoghi deputati nel centro cittadino; particolarmente suggestivo è poi il rito delle fiammelle, in cui dei piccoli lumini ardenti – che rappresentano i sogni delle persone – vengono affidati alle acque del fiume sacro; dunque, per l’uomo occidentale secolarizzato, l’incontro con Benares può risultare traumatico proprio per il contatto diretto che vi è con il tema della morte. Benares, dunque, o meglio Varanasi, è una città santa per l’induismo, religione ufficiale dell’India, ma lo è anche per il buddismo che dall’induismo è derivato e anche del giainismo, in questo ricordando un po’ il ruolo di un’altra famosa città santa, quella Gerusalemme che 24 L’altro grande fiume sacro è il Brahmaputra, che significa “figlio di Brahma”, che sorge sul monte Kailasa, ritenuto la dimora di Shiva, nel Tibet occidentale, e che poi si ricongiunge con il delta del Gange, nel Golfo del Bengala. 25 Ricordiamo che per l’induismo (utilizziamo per semplicità questo termine per intendere le tre fasi religiose, cioè quella vedica, quella brahmanica e quella induista propriamente detta) tale ciclo di nascite e morti assoggetta l’esistenza fenomenica guidato dalla legge del karma, parola sanscrita che significa “azione”, cioè la legge di causa ed effetto riguardo il valore morale delle azioni compiute (o non compiute) in vita; la moksha, cioè la “liberazione” dal ciclo del samsara, avviene tramite la disciplina morale, la conoscenza e l’amore di Dio. 26 Tra i più famosi ricordiamo il Dashashwamedh Ghat, creato secondo la mitologia indù dallo stesso dio Brahma e il Manikarnika Ghat, legato al dio Vishnu.
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è considerata sacra dalle tre religioni monoteiste e cioè il Cristianesimo, l’Islamismo e l’Ebraismo. Infatti, fu proprio a Sarnath, città poco distante da Varanasi, che Gautama il Buddha ebbe l’Illuminazione, sotto il famoso albero, e fu proprio a Benares nel 528 a.C. che tenne il suo primo sermone27 che costituisce quindi il primo centro di aggregazione per il buddismo. La città poi, come molte altre dell’area indiana, subì una forte dominazione islamica che ne mutò profondamente l’aspetto architettonico, urbanistico e religioso. Nel tardo Medioevo il mogol Aurangzeb (1658-1777) dominò la città e distrusse tutti i templi induisti; fu solo nel XVIII secolo che gli Indù tornarono al potere e ricostruirono molti siti distrutti, circa 1800 tra templi e santuari. Nel 1777 Ahilya Bai Holkar ricostruì con decorazioni in oro zecchino il millenario tempio di Shiva a Vishwanath distrutto dal mogol arabo; la città moderna ospita il famoso tempio alla “Madre India” voluto dallo stesso Mahatma Gandhi, che contiene raffinate mappe in marmo del Paese. I maestri himalayani Colui il quale conosce questo supremo Brahman, costui diventa il medesimo Brahman. (Mundaka Upanishad, III, II, 9)
La catena montuosa dell’Himalaya (letteralmente “dimora delle nevi eterne”), lunga più di 2500 Km e larga anche 200, contiene la montagna più alta del mondo: il Monte Everest (8.850 m.); una sorta 27 Nel Sermone di Benares o del “parco delle gazzelle” il Buddha enuncia le “quattro nobili verità” e la “via dell’ottuplice sentiero” che sono il fondamento del Dharma, cioè la legge che mantiene l’intero universo nell’ordine cosmico e il mondo nell’ordine morale. Le Quattro nobili verità sono: 1) Verità del dolore; 2) Verità dell’origine del dolore; 3) Verità della cessazione del dolore; 4) Verità della via che porta alla cessazione del dolore. La Via dell’ottuplice sentiero è costituita da: 1) Retta visione; 2) Retta intenzione; 3) Retta parola; 4) Retta azione; 5) Retta sussistenza; 6) Retto sforzo; 7) Retta presenza mentale; 8) Retta concentrazione.
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d’inaccessibile barriera naturale che divide l’India, il Nepal, il Bhutan e la Cina e comprende anche il Pakistan; cime inaccessibili sferzate da una natura meravigliosa, ma spesso implacabile e ostile. Qui nasce il fiume sacro dell’India, il Gange, da un ghiacciaio, il Gangotri, dominato dalle vette del Bhagirithi; qui si può ammirare il miracolo di un piccolo refolo d’acqua che nella sua corsa verso l’oceano diverrà poi uno dei fiumi più imponenti della terra che ha il delta, insieme al Brahmaputra, a sud-est, nel Golfo del Bengala. In queste terre aspre gli “uomini di Dio”, i Sannyasin (i “rinuncianti”) spesso sono venuti a cercare usbergo e protezione dal “secolo” che con i suoi ritmi e le sue implacabili incombenze produce, a lungo andare, un forte stress psico-fisico che queste montagne sembrano lenire. Il sistema dell’Himalaya, come noto, contiene anche varie grotte che offrono riparo ai viandanti, ai monaci erranti, ai visitatori; grotte naturali che in secoli di eremitaggio l’uomo ha plasmato cercando di adattarle alle proprie esigenze minimali; roccia dura ed aspra, ma pur sempre meglio dell’ambiente esterno dove il vento gelido spesso soffia in forma di implacabili bufere. 35
In questi luoghi nascosti si trovano, ancora saggi, anacoreti indù che passano il loro tempo meditando e recitando i sacri mantra descritti dai Vedanta, uno dei testi più suggestivi e più diffusi in India. Questi posti sono, come dicevamo, terribili e meravigliosi insieme; qui la natura si esplica al massimo di ogni qualità; è infatti sommamente crudele, ma anche sommamente bella, di una bellezza immacolata che induce una profonda opera di revisione spirituale della propria vita. Da queste grotte saggi uomini di preghiera cercano di indirizzare il loro pensiero positivo all’umanità. Ma chi sono questi uomini (e, più raramente, anche donne) che vogliono cambiare la loro vita da vette inaccessibili al resto dell’umanità? Uno dei più noti è stato sicuramente Swami Rama (1925-1996), allievo di Bengali Baba, che ha passato gran parte della sua vita sull’Himalaya ed ha scritto anche diversi libri (La mia vita con i Maestri Himalayani), compiendo una ammirevole opera divulgativa, soprattutto in Occidente; è da lui, ad esempio, che veniamo a sapere che i grandi saggi delle montagne non furono solo di religione induista, ma anche cristiana, come Sadhu Sundar Singh, nato nel Punjab e sikh di nascita e che si convertì successivamente al cristianesimo compiendo anche preziosi studi comparati del Bhagavad Gita e della Bibbia. Parlando di donne, ricordiamo anche una famosa santa induista, Anandamayi Ma o il famoso maestro Prabhat Swami, che visse tutta la vita in una grotta himalayana. Nell’Himalaya tutto cambia e tutto cambia perché la natura stessa è profondamente diversa da ogni altro luogo della terra; anche la spiritualità indiana viene declinata in modo diverso tra queste alte montagne; non si tratta più dell’induismo del caldo e umido centrosud dell’India; no, lo stesso gelo implacabile e l’atmosfera rarefatta fanno di queste montagne un posto in cui sia il buddismo (che qui si identifica nella particolare tradizione del buddismo tibetano Mahayana, o del “Grande Veicolo”) che l’induismo assumono forme particolari e, diremo, estreme, come estremo è il clima del luogo. 36
Ecco quindi che, anche dal punto di vista dell’antropologia culturale e dell’analisi delle religioni comparate, assistiamo all’affascinante fenomeno della nascita di questa “religiosità fredda”, plasmata dai ghiacciai ed adornata di magiche erbe medicamentose che vengono colte dagli sciamani nel breve periodo primaverile ed estivo. Il rapporto con la natura è qui, più che altrove, fondamentale. In queste terre, infatti, prima ancora della penetrazione buddista, nasce una religione animista, il bon-po, che poi si evolverà e sincretizzerà con l’insegnamento del Goutama Buddha. Questa è una terra magica; questa è una terra di prodigi come le tante leggende che si raccontano intorno ai poteri più che umani (come quello dei Lama lung-gom-pa di poter compiere lunghissimi salti) che i saggi, dopo anni ed anni di ininterrotta meditazione, dicono di riuscire ad ottenere. Sono i famosi siddhi che segnano ed incoronano l’agire di questi meditatori solitari. Dobbiamo, in conclusione, ammettere che l’India in generale e l’Himalaya in particolare hanno sempre avuto una valenza fortemente simbolica per l’Occidente; una valenza, anzi, ancora più complessa, di tipo archetipale, tanto che è noto anche un saggio eterno che dimora tra le nevi: è quel babaji descritto da Paramahansa Yogananda (1893-1952) nel famoso libro Autobiografia di uno Yogi. Chi di noi infatti può risultare immune dal fascino di una notte gelida di luna piena che ingialla la coltre bianca e misteriosa di nevi eterne? Chi di noi può dubitare che un dio, alfine, abiti tra queste cime misteriose? L’eterno fascino dell’Himalaya e dei suoi “uomini di Dio” è e resterà ancora vivo nei secoli futuri a illuminare un cammino di speranza per l’intero genere umano. Il buddismo come filosofia di vita Vogliamo parlare di una “religione” che non è pienamente una religione, ma che, per certi aspetti, può essere considerata una “filosofia di vita” o una vera e propria dottrina psicanalitica; infatti, 37
Una immagine del Buddha.
non a caso, il buddismo è stato definito una “religione atea” (come il gianismo) proprio per segnalare come l’elemento teistico, in essa, possa essere considerato quasi secondario rispetto all’impostazione intimistica o “psicologica”. Tuttavia il buddismo non può neppure essere considerato solo una semplice scuola psicologica o psicanalitica contenendo comunque elementi trascendenti; piuttosto, allora, dovremmo parlare di “filosofia religiosa”, intendendo con questo termine un insieme di norme e precetti per “vivere bene” dal punto di vista psicologico, ma che, nel contempo, ha un respiro ultramondano. Questo avviene mettendo in secondo piano l’elemento teistico sicuramente più presente nell’induismo, superandolo in un più generale “senso di trascendenza” (e qui è interessante notare i punti di contatto con la “psicologia transpersonale” dell’italiano Roberto Assagioli (1888-1974), nota come “psicosintesi”). Il subcontinente indiano è stato, come abbiamo visto, la patria di una delle più antiche religioni del mondo: quella legata ai 38
testi sacri dei Veda, che hanno nelle Upanishad (o Vedanta o “fine dei Veda”) il loro momento più alto; le Upanishad mettono in luce quattro elementi caratterizzanti quella che poi verrà chiamata successivamente religione induista: l’esistenza dell’“Assoluto”, identificato con il principio religioso del Brahman, l’esistenza individuale o Atman, il ciclo delle esistenze (tramite la reincarnazione) o “samsara” e la presenza del “karma” (il principio di “azione” che provoca le conseguenze di un atto). Secondo i Veda, la “liberazione” (o “moksha”) dal continuo ciclo delle esistenze (e quindi dal dolore) e dall’illusione di “Maya” si raggiunge con lo Yoga e si ha quando si perviene alla conclusione che nessuna differenza vi è tra l’“Assoluto” e l’“individuo” e cioè tra il Brahman universale e l’Atman individuale (come spiegato nella Advaita Vedanta, o “Vedanta Non Duale”). Tale visione non è soteriologica come, ad esempio, nel Cristianesimo. Il vedismo poi darà luogo al brahmanesimo, da cui nascerà il buddismo che – al contrario dell’induismo, ha come obiettivo l’“estinzione” individuale nel “nirvana”, uno stato di “non esistenza” – ad opera del Buddha (che significa l’“illuminato”), storicamente il principe Gautama Siddharta (VI secolo a.C.) ed inseguito Shakyamuni (“il saggio degli Shakya”). Il principe Siddharta viveva al Palazzo reale nel lusso e negli agi. L’incontro con il dolore del mondo lo fece vivere come asceta in una foresta; poi abbandonò le privazioni e trovò la “via di mezzo”. Siddharta allora si recò presso un albero asvattha o “ficus religiosa”, presso la città di Gaya, e cominciò a meditare raggiungendo l’“illuminazione”. Il Buddha predicò il “dharma”, cioè la “legge”, per 45 anni, interrompendosi solo da giugno a novembre per la stagione delle piogge; non lasciò testi scritti (i “sutra” confluiti nei “canoni” saranno poi scritti dai discepoli). Nel 486 a.C. morì (a causa di una intossicazione alimentare). Seguirono poi diversi “concili” fatti dai seguaci, che segnarono anche scismi e separazioni da cui emersero tre scuole: il “piccolo veicolo” (“Hinayãna”, oggi sopravvissuto come “dottrina degli anziani” o “Theravada”), il “Grande veicolo” (Mahayãna) e il “Veicolo del diamante” (Vajrayãna), in Tibet. Il buddismo si basa sulle “Quattro nobili verità” e l’“ottuplice sentiero” per raggiungerle. 39
Le prime sono: verità del dolore, verità dell’origine del dolore, verità della cessazione del dolore, verità della via che porta alla cessazione del dolore. L’ottuplice sentiero, che deriva dalla quarta “nobile verità” indica: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione. Come abbiamo accennato, la cosa interessante del buddismo è che, rispetto a Dio, alla sua origine, alla sua natura, Buddha non dice nulla, non vuole trattare dell’argomento. A tali domande, infatti, il Buddha “rispose con il silenzio”. La cosa è particolare perché Siddharta era un induista e tutto l’induismo (che allora, come detto, si chiamava vedismo e brahmanesimo) è incentrato sul rapporto tra Dio, l’Assoluto e l’uomo, o anima individuale o Atman. In questa ottica possiamo ritenere il buddismo una “religione atea” come è stato a volte definito; il buddismo non si occupa del rapporto tra Dio e l’uomo, ma bensì solo del suo benessere psicologico e spirituale e in questo senso si può considerare una “filosofia religiosa” o anche una “psicanalisi religiosa”. Un unguento salvifico per la nostra civiltà sempre più lontana da quella calma e da quella serenità che sono l’obiettivo del buddismo. Bibliografia Wallace B.A., Il buddismo come atteggiamento mentale, Ubaldini Editore, Roma 2001. Filippani Ronconi P., Le vie del buddismo, ECIG, Genova 1986. Assagioli R., Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio, Roma 1988.
Civiltà nascoste: le favolose Agarthi e Shambhala Agarthi o Agarttha (in sanscrito “l’irraggiungibile”) e Shambhala (“luogo di felicità”) sono due città mitologiche, capitali dei rispettivi regni sotterranei che rappresentano l’archetipo di città fantastiche e 40
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nascoste, regni d’Oriente (a volte citate come appartenenti al regno del Prete Gianni, un favoloso personaggio molto noto nel Medioevo) che sono la sede di un potere e una saggezza superiore. Secoli di sapienza, che secondo le leggende provengono dalla mitica città di Atlantide o dal continente di Iperborea (notare la somiglianza del nome con quello della mitica città degli dei nordici, Asghard), furono dunque condensati e idealizzati in questi luoghi fantastici. Diciamo subito che queste due città possono essere considerate, a volte, anche come la stessa città, mentre altre volte rappresentano città e civiltà diverse, ma questo fa parte del processo mitopoietico ben conosciuto dalla antropologia culturale. Dal punto di vista geografico, esse possono essere identificate in luoghi dell’Oriente come il Deserto del Gobi (situato tra la Cina e la Mongolia) o, addirittura, dopo un immane cataclisma che ne provocò l’esodo della popolazione, in un sistema di grotte sotto la catena montuosa dell’Himalaya, anche se René Guenon ne Il Re del Mondo del 1927 afferma che non devono necessariamente essere luoghi fisici, ma basta che siano ideali. Joscelyn Godwin (vedi bibliografia) ritiene, insieme ad altri studiosi, che la collocazione geografica iniziale della/delle città sia addirittura polare, e precisamente il Polo nord, e sia stata nota appunto come “Ultima Thule” nella Terra di Iperborea (“la Terra al di là del vento del nord”); è noto poi come questa città sia legata alla “ThuleGesellschaft”, cioè la società segreta che viene ritenuta dagli storici come la culla del partito nazionalsocialista tedesco. Queste due città rappresentano dunque due “tradizioni”: quella della “mano destra” e quella della “mano sinistra”, che alcuni (vedi Louis Pauwels e Jacques Bergier in Il mattino dei maghi) vogliono contrapposte, seguendo Agarthi, “città del sole”, una tradizione di luce, la seconda, Shambhala, una tradizione di tenebre. Tuttavia, il Guenon, ne Il Re del Mondo, si mostra decisamente contrario (come noi) a questa ipotesi che invece è adombrata in libri ed appunti come Il mattino dei maghi, testo base per quella corrente conosciuta come “realismo magico”. Le due città, o meglio l’unica unità archetipale urbanistica, cioè Agarthi/Shambhala, è retta da un “re sacerdote” che governa il mon42
do dalle oscure caverne poste sotto le più alte vette del globo stesso. Il primo a diffonderne il mito è stato Saint-Yves D’Alveydres (18421909) nel libro Mission de l’Inde (1886); questo può essere infatti considerato il libro capostipite del filone. Secondo il D’Alveydres, la città di Agartha, in cui l’umanità viveva inizialmente felice l’“età dell’oro”, è governata da un “Sovrano pontefice” di origine etiope che viene chiamato anche “Brahmatma”; si è rifugiato con il suo popolo sottoterra all’inizio di quello che gli indù definiscono il Kali Yuga o il “periodo oscuro” (per gli occidentali sarebbe l’“età del ferro”, cioè l’attuale). Agarthi rappresenta l’unione di spirito e tecnologia; i suoi abitanti utilizzano un alfabeto di 22 lettere chiamato “Vattariana”, che è una sorta di pre-sanscrito. Il mito delle due civiltà nascoste si è diffuso poi in seguito soprattutto grazie all’opera della teosofa Helena Petrovna Blawatsky (1831-1891), che in Iside Svelata parla del re di questa città e dei “Maestri della Fratellanza Bianca”, himalayani, come Morya e Koot Hooni che comunicherebbero al mondo per dirigerlo. Una fonte successiva del mito fu il romanzo Il Dio fumoso (1908) scritto da Willis George Emerson (1856-1918), che descrive il viaggio avventuroso di un marinaio norvegese che trova la città sotterranea di Agarthi ed addirittura vi soggiorna prima di fare ritorno alla civiltà, in cui non sarà creduto. Agarthi, sempre secondo la leggenda, ha 22 templi come i 22 arcani e le 22 lettere dell’alfabeto. Successivamente, Ferdinand Ossendowsky (1876-1945) in Bestie, uomini e Dei pubblicato nel 1922 afferma il ritorno del popolo in superficie nel 2029 e che la sua popolazione ha 800 milioni di individui. Dal punto di vista religioso, la città di Agarthi è descritta nel tantra Kalachakra del buddismo tibetano e sarebbe composta nella forma di un fiore a 8 petali contenenti ben 76 regni con capitale Kalapan, situata sotto la città indiana di Varanasi o Benares, sacra agli indù. Il mito di Agarthi è anche connesso alla teoria della “Terra cava”, che avrebbe appunto cinque entrate ed un sole centrale: polo nord, polo sud, Deserto del Gobi, Isola di Pasqua e Monte Epomeo ad Ischia, in Italia. 43
Per concludere, il mito di “città nascoste in montagne orientali” è un archetipo in senso antropologico junghiano molto ben assestato nella letteratura fantastica e probabilmente risponde ad un profondo desiderio umano: quello di credere che esista un posto migliore dove tutte le avversità sono vinte in una città magica, sotto le nevi di montagne eterne, a contatto con gli dèi… Chi non vorrebbe abitarci? Bibliografia Guenon R., Il Re del Mondo, Adelphi, Milano 1977. Joscelyn G., Il mito polare, Edizioni Mediterranee, Roma 2001. Ossendowsky F., Bestie uomini e Dei, Edizioni Mediterranee, Roma 2000.
Monte Verità e i convegni di Eranos
Una immagine d’epoca della sede dei Convegni.
La Comunità di Eranos è sorta tra le verdi montagne svizzere, vicino alla cittadina di Ascona e al Lago Maggiore, nel Canton Ticino. È nel 1899 che Henry Oedenkoven, un milionario, e la sua compagna 44
Ida Hoffmann – insegnante di musica e femminista –, insieme ai fratelli Karl e Arthur (Gusto) Gräser, decidono di fondare una comunità utopica, che certo non è la prima nel suo genere, ma che comunque ha avuto il pregio di sopravvivere fino ai nostri giorni. Per inquadrare bene dal punto di vista anche storico questi avvenimenti dobbiamo ricordare lo “spirito del tempo” di quel periodo sulla fine del XIX secolo e inizio del XX, pervaso di forti influssi romantici e quindi di attenzione a temi misteriosofici caratterizzati dalla cultura teosofica di Helena Petrovna Blawatsky. Il luogo fu scelto dopo attento studio; infatti, quelle montagne ticinesi erano “impregnate”, se così si può dire, di quella atmosfera che gli anarchici Michael Bakunin – il quale visse a Locarno dal 1869 al 1874 – e Errico Malatesta avevano portato con sé avendo a lungo soggiornato in questi posti insieme al teosofo svizzero Alfredo Pioda, consigliere nazionale locarnese. Quest’ultimo, già nel 1899, insieme alla contessa Constance Wachmeister e con l’aiuto di Franz Hartman, progetta un “convento laico teosofico” che chiama “Fraternitas” presso il monte Monescia, poi chiamato “Monte Verità”. I fondi per la realizzazione di Monte Verità furono trovati nel 1900. Dal 1904 al 1927 presso il Monte Verità sorge anche una casa di cura, un sanatorio elioterapico e nel 1909 la contessa “cosmica” Franziska Grafin zu Reventlow lascia Monaco per trasferirsi ad Ascona. Nel 1917 Theodor Reuss, capo dell’OTO (Ordine Templare d’Oriente) fa tenere sul Monte Verità un congresso massonico che culmina con una “Festa del Sole”. Il luogo dove essi fondarono questa comunità, come detto, porta il significativo nome di “Monte Verità”. Quel gruppo includeva persone che volevano “tornare alla natura”, ai suoi ritmi, ai suoi valori; la comunità aveva tutte le caratteristiche dell’utopia, compresa una forma di socialismo/comunismo primitivo in cui era abolita la proprietà privata; infatti era una “società” che voleva tornare a prima della storia e quindi i suoi membri vivevano e lavoravano la terra nudi ed avevano un aspetto senza dubbio primitivo; inoltre, erano vegetariani e anti-industriali. Nel 1920 Oedenkoven emigrò in Brasile con la sua compagna per fondare una nuova comunità e lasciò un gruppo di suoi collaboratori, 45
principalmente artisti, alla guida di quella società rurale. Nel 1926 la proprietà venne acquisita da un banchiere e nel 1964 tutta la tenuta viene donata al Canton Ticino. Da allora, soprattutto negli anni ’80 dello scorso secolo, Monte Verità è stato un luogo di ritrovo culturale sede di eventi ed incontri internazionali. Nel 1992 il luogo ospita un centro congressi del prestigioso Politecnico di Zurigo e Losanna, il Centro Stefano Franscini insieme a Casa Anatta, dove è ancora attiva, una comunità vegetariana che si rifà agli ideali originali della prima comunità fondata da Oedenkoven. Furono molti gli intellettuali, i teosofi, gli artisti, ma anche gli scienziati, che frequentarono Monte Verità; tra gli altri, i più famosi furono lo scrittore Hermann Hesse, lo psicologo Carl Gustav Jung, il pittore Paul Klee, il teosofo fondatore poi dell’antroposofia Rudolf Steiner, i dadaisti Hans Harp e Hans Richter, i pittori espressionisti svizzeri Ignaz Epper, Fritz Pauli e Robert Schürch. Presso Monte Verità, dal 1933, si tennero, nella “casa Gabriella”, i famosi “Convegni di Eranos”, in genere, dal 20 agosto fino al 29, organizzati dallo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung (dal 1933 al 1952) insieme alla olandese Olga Fröbe-Kapteyn, che si tengono tutt’oggi e rappresentano quindi la vera continuazione dello spirito iniziale del luogo. Eranos in greco significa “banchetto”, “occasione conviviale”, caratterizzata dal fatto che ognuno porta qualcosa da mangiare. Gli incontri di Eranos hanno costituito e costituiscono tuttora un’applicazione del concetto olistico alla cultura stessa in quanto i partecipanti si occupano dei più svariati campi del sapere, tra cui l’egittologia, lo studio degli archetipi, la psicologia, la sociologia, l’indologia, il buddismo, l’antropologia, la filosofia, lo zen, la fisica, la mitologia, la politica, il misticismo, la letteratura, la biologia in un’ottica di interconnessione. Particolarmente importante per la qualità dei suoi relatori l’evento del 1950 cui parteciparono, tra gli altri, lo studioso della filosofia iraniana Henri Corbin, il grande interprete della storia delle religioni Mircea Eliade, il biologo Adolf Portmann, lo psicanalista Erich Neumann, l’islamista Louis Massignon, unitamente alla fondatrice degli Eranos, Olga Fröbe. A far data dal 1988 si può individuare una nuova “fase” degli in46
contri di Eranos, meno mistica e più indirizzata verso la filosofia e le scienze, a cui hanno partecipato, fra i tanti altri, il Nobel biologo Ilya Prigogine e lo scrittore Elémire Zolla. Concludendo: lo “spirito del Monte Verità” è stato un affascinante esperimento utopico che ha influenzato molti dei più grandi intellettuali mondiali e che ancora continua nei Convegni di Eranos. La misteriosa Arca dell’Alleanza
Una immagine dell’Arca dell’Alleanza con i due Cherubini. L’arca del Patto (Esodo 25, 10-11)
10 «Faranno dunque un’arca di legno d’acacia; la sua lunghezza sarà di due cubiti e mezzo, la sua larghezza di un cubito e mezzo e la sua altezza di un cubito e mezzo». 47
11 «La rivestirai d’oro puro; la rivestirai così, sia dentro che fuori; le farai al di sopra una ghirlanda d’oro, che giri intorno». Così i primi versi del libro dell’Esodo. Lo stesso Dio di Israele chiese a Mosè e quindi al suo popolo nel deserto del Sinai, dopo aver lasciato da tre mesi la terra d’Egitto, di costruire un’“Arca dell’Alleanza” che doveva essere fatta di un legno particolare e pregiato, chiamato setim che è una varietà di acacia. L’Arca doveva essere ricoperta di oro purissimo e dotata di anelli affinchè potesse essere trasportata. Il coperchio dell’Arca era detto Propiziatorio e da lì Dio “parlava” al popolo di Israele. Sopra il Propiziatorio vi erano poi due Cherubini in oro battuto e nella Bibbia si dice che Mosè ascoltasse la voce di Dio che proveniva da un punto in mezzo ai due Cherubini stessi. L’Arca doveva contenere, tra le altre cose, le tavole di pietra su cui erano scolpiti i dieci Comandamenti. Questa Arca, insieme alle stanghe, al Propiziatorio ed ai due Cherubini doveva poi essere posta nella parte più sacra del tabernacolo, il Sancta Sanctorum o “Santo dei Santi” che originariamente, almeno finché re Salomone non costruì il Tempio, rappresentava il luogo di elezione della devozione del popolo di Israele. Indubbiamente, dal punto di vista sia artistico che storico possiamo dire che “arche” di vario tipo e foggia erano presenti proprio in Egitto ed in genere nell’area orientale, dove la Bibbia narra lo svolgersi di questi fatti. Nessuno poteva entrare dove era custodita l’Arca, solo l’Alto Sacerdote poteva accedervi una sola volta l’anno, e solo nel giorno dell’Espiazione. L’Arca fu trasportata seguendo il peregrinare degli israeliti. Dunque l’Arca è la rappresentazione del Patto siglato tra Dio ed il Popolo d’Israele, ma questo è limitativo; infatti, l’Arca fu anche utilizzata in guerra. Notevole e famoso è il caso del suo utilizzo durante l’assedio di Gerico28. Dio dice a Giosuè29 che – per vincere – occorreva che i soldati girassero intorno alle mura della città per sei giorni consecutivi preceduti dall’Arca. Così 28 29
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L’assedio di Gerico avvenne nel 405 a.C. circa. Figlio di Noun e “servo” di Mosè.
fecero gli israeliti ed il settimo giorno, dopo altri sette giri e dopo aver suonato i corni d’ariete, le mura di Gerico crollarono. L’Arca fu poi custodita per molto tempo nel Tempio di Salomone, fino al 586 a.C., quando fu rimossa dal Tempio stesso a causa dell’avvicinarsi delle truppe babilonesi guidate da Nabucodonosor. La mossa si rivelò sbagliata perché – si presume – il Tempio, non più protetto dall’Arca dell’Alleanza, fu saccheggiato e dell’Arca stessa si persero le tracce. Da allora è iniziata una continua ricerca dell’Arca da un punto di vista anche strettamente archeologico e professionale, tuttavia non è stata più ritrovata. La Chiesa ortodossa d’Etiopia ha affermato anche recentemente (giugno 2011), tramite il Patriarca ortodosso d’Etiopia, di possedere l’Arca poiché Menelik, figlio di re Salomone e della regina di Saba, la portò in quella terra e precisamente nella località di Tana Kirkos da dove – sempre secondo questa fonte – fu trasferita nella Chiesa di Santa Maria di Sion, vicino ad Axum. Anche ai giorni d’oggi si dice che essa sia lì custodita da un monaco chiamato l’Atang, cioè il “Custode dell’Arca”. Questo monaco è completamente dedicato all’Arca e non si può muovere dalla cappella dove è contenuta. Altra ipotesi è che l’Arca dell’Alleanza sia custodita sul Monte del Tempio e precisamente proprio dove sorgeva il Tempio di Re Salomone. Altre fonti ritengono invece che l’Arca si trovi lungo le rive del Mar Morto; altri ancora pensano che sia custodita sulle rive del fiume Giordano, come del resto riportato dal libro dei Maccabei che però è riconosciuto solo dalla Chiesa cattolica. I Mormoni, invece, ritengono che l’Arca abbia varcato l’oceano e sia giunta in America. Occorre anche dire che film come I Predatori dell’Arca perduta (Spielberg, 1981) hanno riportato in auge il tema, collocandolo però in una cornice storica prossima che è quella della seconda guerra mondiale, durante la quale i nazisti30 vogliono impadronirsi dell’Arca e ne vengono invece distrutti. 30
Il tema del “nazismo esoterico” è ormai molto conosciuto, come è conosciuta la propensione all’occulto di alti gerarchi del Reich, come Heinrich Himmler (1900-1945).
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In ogni caso, il mistero dell’Arca dell’Alleanza continua con tutta la sua suggestione da quasi 3500 anni. Il mistero degli Etruschi
Completamento della pittura murale rappresentante il demone etrusco dell’oltretomba Tuchulcha e dell’eroe Teseo, presso la Tomba dell’Orco II di Tarquinia.
Negli anni ’70 del secolo scorso uscì in Italia un film dal titolo particolare, o almeno a me così sembra tuttora: L’etrusco uccide ancora, del regista Armando Crispino; si trattava di un film che si inseriva in quella corrente tipica del cinema italiano del tempo nota come “giallo parapsicologico” e prendeva le mosse da una specie di serial killer (forse sotto l’influenza dei primi delitti del cosiddetto “mostro di Firenze”) che uccide quattro coppiette nell’antico territorio degli etruschi tra l’Alto Lazio e l’Umbria, delimitato geograficamente dalle città di Cerveteri e Spoleto. Il film era incentrato sulla figura del 50
dio etrusco della morte chiamato Tuchulcha (la cui unica immagine – ricostruita – deriva da un dipinto a muro del 325 a.C. rinvenuto a Tarquinia) che uccideva le vittime con una grossa clava, tipo quella di Ercole. Il fatto che gli etruschi abbiano avuto una lingua ancora non decodificata li avvolge, nell’immaginario, nell’alone del mistero e quindi tale tipo di film (e di narrativa) ben si adegua a quello che è divenuto un vero e proprio archetipo culturale. Fiorenti e potenti città etrusche sono state Volterra, Cerveteri, Tarquinia, Chiusi, Arezzo, Perugia, Bologna (Felsinea), Pisa. Ad esempio, solo nel 396 a.C. i Romani riuscirono a sconfiggere definitivamente la vicinissima città etrusca di Veio, che aveva in Fidene un confine diretto con Roma. Quello che conosciamo degli etruschi ci deriva da quanto leggiamo da scritti greci e latini; anche dal punto di vista strettamente antropologico e quindi linguistico, il popolo etrusco non fa parte della grande famiglia dei popoli indo-europei, il cui linguaggio comune è un proto-sanscrito che si parlava e scriveva in una zona geografica che può essere abbastanza ben identificata con l’attuale altopiano iranico. Invece il popolo etrusco era, sembra, di origine autoctona, quindi italica o forse anatolica (odierna Turchia) ma, ripetiamo, le sue origini sono avvolte in un fitto mistero. A favore della seconda ipotesi ci sono moderni studi sul DNA degli scheletri ritrovati nelle necropoli etrusche. Quello che più caratterizza il popolo etrusco è il loro sistema politico-religioso che reggeva il governo di una sorta di città-Stato, la dodecardia, sul tipo delle polis greche che spesso formavano leghe per combattere gli avversari di turno. Per quanto riguarda più propriamente i temi che ci interessano, sappiamo che il popolo etrusco aveva un forte senso religioso e quindi del mistero; lo vediamo soprattutto dai dipinti rupestri ritrovati e dagli accenni che si leggono nei documenti degli storici romani a loro contemporanei. Il rapporto degli etruschi con il mistero cosmico fu senza dubbio complesso, ma molto coinvolgente e di questo abbiamo prova anche 51
nelle tradizioni religiose e misteriosofiche che essi tramandarono ai loro vicini romani. Ricordiamo che ben tre Re del periodo regio romano erano di origine etrusca: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo; questo a designare un periodo storico iniziale di forte influenza etrusca sul mondo latino. Le loro divinità, dai nomi spesso poco pronunciabili (e stranamente simili a quelle pre-colombiane), sono divinità molto più misteriose rispetto a quelle dei romani o dei greci che, tutto sommato, avevano un pantheon religioso dalla struttura simile e basato su una “divinità Padre” (come del resto nella mitologia di tutti i popoli indo-ariani) e varie divinità che componevano la “corte” e che rappresentavano la deificazione di fenomeni naturali o di particolari aspetti dell’essere umano, come il fuoco, il tuono, il vento, la pioggia, il sole, ma anche l’amore, il potere, l’abilità, le arti, la marzialità. Così abbiamo: Timin per Giove/Zeus, Uni per Era/Giunone, Apula per Apollo/Saturno, Ferfules per Bacco/Dioniso e il misterioso dio dell’oltretomba, appunto Tuchulcha. Gli etruschi hanno lasciato di loro numerose vestigia archeologiche che ci fanno intravedere un mondo incredibilmente complesso e molto diverso da quello di tutti i popoli vicini. Il loro rapporto con il mistero, la morte, l’aldilà fu senza dubbio un rapporto tenebroso fatto di paura e soggezione per forze cosmiche che l’uomo non poteva capire. Un aspetto sicuramente interessante fu quello della magia etrusca, cioè di tutti quei rituali che permettevano ai re-sacerdoti, i Lucumoni, di “comunicare” in un certo senso con le divinità sia infere che superiori o celesti tramite riti che tendevano ad esaltare gli spiriti vitali della natura, come il sesso e l’ebbrezza, anche con l’utilizzo di droghe rituali. Bibliografia Pallottino M., Etruscologia, Hoepli, Milano 1983.
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Capitolo secondo
Il misticismo
Il fenomeno della Luce Santa a Gerusalemme
Nell’immagine la suggestiva cerimonia della Luce Santa nel Santo Sepolcro a Gerusalemme.
Dalla lettura dei Vangeli si sa che dopo la crocifissione il corpo di Cristo fu consegnato avvolto in un lenzuolo a Giuseppe d’Arimatea, che era un ricco membro della comunità di Gerusalemme, e quindi seppellito in un sepolcro scavato nella roccia, di sua proprietà. Sarà proprio in questa caverna che avverrà uno degli eventi più imponenti per la fede cristiana: la resurrezione. 53
Dopo che il cristianesimo, sopravvissuto al suo fondatore, soprattutto grazie all’azione organizzata – a livello mondiale – condotta dagli Apostoli guidati da Pietro e da Paolo di Tarso, era diventato la religione ufficiale dell’Impero romano, si pose la domanda di dove si trovasse il Santo Sepolcro. Già nel periodo in cui Elena (248-329), madre dell’Imperatore Costantino, visitò Gerusalemme, nel 326, era stato identificato un sito nella zona nord-occidentale della Città Vecchia. Costantino fece costruire una Chiesa sul sito che fu consacrata dieci anni dopo al posto di un precedente tempio pagano. Poiché il sito della crocifissione, cioè il Golgota (o “luogo del teschio”), era lì vicino (così riporta esplicitamente il Vangelo sinottico di Giovanni), si pensò bene di estendere la struttura della Chiesa fino ad inglobare sia il luogo dove morì Gesù sia quello dove fu sepolto. La Chiesa si chiamò del “Santo Sepolcro”. Nei secoli successivi il luogo santo fu distrutto una prima volta dai persiani nel 614 e poi nel 1009 dai musulmani di origine egizia. Le crociate dei cristiani furono fatte proprio per riprendere il controllo della Chiesa del Santo Sepolcro e quando nel 1099 i crociati guidati da Goffredo di Buglione (prima crociata) riconquistarono Gerusalemme ricostruirono la Chiesa dove ancor oggi si erge nonostante l’incendio del 1808. Naturalmente, dopo le crociate, i tanti diversi popoli ed etnie che abitavano la Palestina reclamarono il possesso del Santo Luogo. Nel 1852 le autorità ottomane che controllavano il territorio decretarono che ben sei confessioni avevano diritto all’utilizzo della chiesa: la Chiesa cattolica – con l’ordine francescano –, la Chiesa greco-ortodossa, la Chiesa ortodossa armena, che controllano l’area davanti al Santo Sepolcro; la Chiesa ortodossa copta d’Egitto, la Chiesa ortodossa etiopica e la Chiesa ortodossa siriaca-giacobita. Una cappella costruita dai frati francescani a nord della chiesa individua il punto in cui Maria Maddalena vide il Cristo risorto. Ed è in questa suggestiva cornice che si ripete ogni anno un fenomeno certamente insolito in occasione della cerimonia pasquale, il miracolo della “Santa Luce”, ossia la discesa del “Fuoco Divino” in seguito alle invocazioni della comunità ortodossa presente. Il rituale è compiuto nella tarda mattinata del Sabato Santo, prima della Pasqua, nella Chiesa della Risurrezione (ortodossa) e, dopo 54
aver controllato attentamente il luogo per evitare imposture, segue dei passi ben precisi: • Lo spegnimento di tutte le candele, sia all’interno del Santo Sepolcro sia all’interno della Chiesa della Risurrezione. • La processione intorno al Santo Sepolcro guidata dal patriarca di Gerusalemme – di origini greche – seguito dal patriarca armeno, l’episcopo copto, il clero delle tre Chiese e la folla dei credenti. • L’entrata del Patriarca greco all’interno del Santo Sepolcro che porte con sé un mazzo di trentatré candele – spente –; la chiusura del Sepolcro. • Le invocazioni a Gesù Cristo della comunità dei credenti che circonda il Santo Sepolcro e quelle del Patriarca, inginocchiato all’interno del Sepolcro. • Il ritorno del Patriarca tra i credenti con le candele che si sono accese da sole. I pellegrini possono accendere le proprie candele prendendo la Santa Luce dal Patriarca. Si osservi che anche se per un solo anno il fenomeno non avviene, un’altra delle confessioni che custodiscono il Santo Sepolcro subentra a quella ortodossa (tuttavia il miracolo si verifica solamente con la confessione ortodossa). Si nota la presenza di alcuni fenomeni particolari che sono associati all’apparizione della Santa Luce e all’accensione delle candele e cioè tuoni e fulmini di colore bianco e blu, di solito. Le persone che hanno assistito al fenomeno parlano di caratteristiche non comuni della Santa Luce: un colore ben diverso rispetto ad una fiamma normale ed il fatto – si dice – che non bruci; ed infatti i fedeli dicono che toccano le fiamme delle candele senza danno; il fenomeno dura trentatré minuti (gli anni di Cristo…) e poi tutto torna normale. La Santa Luce simboleggia la risurrezione di Cristo e le persone presenti dicono di percepire la presenza divina tra loro.
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Il misticismo cristiano: l’esicasmo Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. (San Paolo, 1Cor 13,12)
Nell’immagine, un esicasta. 56
Deserto africano. Un sole implacabile brucia il cielo terso. Siamo nel IV secolo dopo Cristo ed incontriamo un uomo vecchio, con una barba lunga, gli abiti laceri, gli occhi ridotti a piccole fessure, chiusi per difendersi dalla luce. Seduto sulla sabbia, il capo reclinato, ripete incessantemente una preghiera, sempre quella, sempre la stessa. Ora siamo nel XIV secolo nell’Europa orientale; sono dunque passati ben 1000 anni dall’incontro con quella figura ieratica e solitaria del deserto; ma osserviamo bene. Un monaco, un monaco di rito ortodosso con la sua tunica nera, nel silenzio della sua cella di un irraggiungibile e isolato monastero posto sulla sommità di una montagna, recita incessantemente una preghiera, una sola, sempre quella: “Signore Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Cosa unisce queste due realtà così distanti nel tempo e nello spazio? Cosa costruisce quell’ideale ponte nel cronotopo che ci presenta scene così simili, così suggestive nella loro potenza evocativa? La risposta è in una parola di origine greca. L’Esicasmo (appunto dal greco ἡσυχασμός, “tranquillità”, “quiete”), una dottrina ascetico-mistica cristiana incentrata sulla preghiera, costituita da san Gregorio Palamas, nel senso di un inquadramento dottrinario complesso ed articolato, nel XIV secolo, all’interno della Chiesa ortodossa su influenze delle esperienze dei Padri del deserto, nel IV sec. d.C., specificatamente san Giovanni Climaco (Ἰωάννης τῆς Κλίμακος), nel deserto di Gaza, in Egitto (famosa la preghiera dei monaci «a noi, piccoli e deboli, non ci resta altro che rifugiarci nel Nome di Gesù»). Tuttavia, il vero ispiratore anche se non teorizzatore del movimento fu Simone il Nuovo Teologo, già nell’XI secolo. Spesso Gesù pregava da solo (cfr., ad esempio, Marco 1,35: Gesù «molto prima del giorno, si levò, uscì e si ritirò in un luogo solitario, e là pregava»). L’Esicasmo, che è tuttora praticato particolarmente nei monasteri posti sul monte Athos (Repubblica del Monte Athos, in Grecia), può essere considerato una sorta di “yoga” cristiano che attraverso la preghiera-meditazione incessante e continuata realizza quella che è 57
chiamata la “custodia del cuore”, cioè una guida per l’anima stanca alla contemplazione di Dio. Tuttavia, l’esichia è un mezzo e non un fine; essa deve essere vista nel suo significato doppio di “tranquillità”, “pace” in relazione, tuttavia, al suo “distacco dal mondo”. La preghiera incessante diviene katastasis, cioè “stabile disposizione interiore”. L’Esicasmo ebbe un nuovo impulso, anzi una vera e propria ripresa grazie alla pubblicazione degli scritti mistici bizantini dal XVIII al XX secolo, che va sotto il nome di Filocalia. La Filocalia (che riprende il titolo di uno scritto di uno dei Padri della Chiesa, quell’Origene autore dell’Amore della bellezza divina) è una collezione di scritti (pubblicati a Venezia nel 1782) spirituali ed ascetici inerenti la tradizione ortodossa nel periodo che va dal V al XV secolo raccolti ad opera del monaco Nicodemo di Monte Athos, detto l’Agiorita, e dal vescovo Macario di Corinto. Ma, al di là del pur interessante ed affascinante studio della dimensione dotta e teologica dell’Esicasmo, cosa possiamo dire della sua azione concreta, della sua esperienzialità nel novero della mistica cristiana (e, si badi bene, non solo cattolica)? Come già accennato l’Esicasmo, tramite la preghiera, è una via per giungere alla contemplazione di Dio. L’Esicasmo, appunto, visto da questa particolare angolatura è difficilmente distinguibile dalle prassi utilizzate dal pensiero orientale come lo Yoga, che, guarda caso, in sanscrito, significa proprio “congiungimento”, “unione” tra quanto vi è di materiale e quanto vi è di spirituale. E, forse, non è un caso che questa forma di ascetismo mistico cristiano sia nato ed abbia trovato completa attuazione proprio nelle Chiese di Oriente piuttosto che in quelle d’Occidente (ma quello dello studio comparativo del misticismo occidentale ed orientale è un tema così complesso ed impegnativo che qui non possiamo neppure accennarvi). Dal punto di vista pratico, nell’esercizio spirituale quotidiano dell’Esicasmo possiamo vedere una forma anche di terapia, se è consentito il termine, psicologica di tipo transpersonale, ma basata, appunto, su una visione cristiana invece che su quella solita di tipo orientale. Nei monasteri spesso si ritrova la frase udita da Padre Ar58
senio l’anacoreta, “Fuge, Tace, Quiesce”, cioè “Fuggi (dal mondo), taci, riposa”. Un modo, per chi vuole e chi può, di estraniarsi tramite la meditazione indotta dalla preghiera dalla geometrica pericolosità di una società che persa la sua propria e genuina dimensione simbolica si attesta su una linea veramente bassa di valori; una società che può trovare anche in questa pratica, nata di fatto due millenni fa, un antidoto, una risposta e financo una vera “fondazione” o rifondazione della sua dimensione intimistica. L’Estasi Movesi l’amante ver la cosa amata. (Leonardo da Vinci)
L’estasi di Santa Teresa posta nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria in Roma, opera di Gian Lorenzo Bernini. 59
Quale fatto più insolito dell’estasi? Ce ne vogliamo occupare mettendo in luce qualche aspetto, ma non approfondendo troppo il concetto (molto complesso per i suoi correlati religiosi e anche scientifici). Un tema che è stato sempre presente nella spiritualità di tutti i popoli e di tutti i tempi (non necessariamente in esperienze strettamente religiose in senso convenzionale, come ad esempio nello sciamanesimo) e che, di recente, diciamo dal XIX secolo, si è anche cominciato a studiare scientificamente. Dunque cos’è l’estasi e come si manifesta? Quali sono i suoi correlati neurofisiologici, ma soprattutto, che ruolo riveste nella più generale esperienza del misticismo? L’estasi (dal greco ἐξ στάσις, dal latino ex-stasis, “essere fuori”), come è noto, è propria di individui che sperimentano un profondo contatto con un piano non materiale, il piano, appunto, dello spirito ed è da questa prospettiva principale che dobbiamo inquadrare il fenomeno. In genere, l’estasi avviene a seguito di una visione di una entità supposta soprannaturale e che comunica con l’umano tramite un rapporto molto soggettivo e personalizzato. Dal punto di vista dell’osservazione esterna lo stato di estasi è caratterizzato da un irrigidimento dell’individuo che la sperimenta nella posizione che aveva al momento dell’apparizione; spesso il volto assume una posizione beata, di sorriso, ed inoltre avvengono fenomeni emozionali intensi e di grande importanza per l’individuo. Intorno a sé tutto perde di valore e ci si concentra solo sulla propria dimensione personale e più propriamente spirituale. Dal punto di vista neurofisiologico i tracciati elettroencefalografici possono dimostrare uno “stato alterato di coscienza” che è simile alla trance ipnotica. Dal punto di vista biochimico vi è un grande rilascio di oppiogeni endogeni all’encefalo, le endorfine, responsabili della beatitudine sperimentata. Da notare che le persone intorno al soggetto in estasi quasi mai sono partecipi della visione. In un senso più allargato possiamo anche dire che l’esperienza estatica, propria ripetiamo di tutti i luoghi ed i tempi dell’umanità, 60
non prevede strettamente una “apparizione”, ma può anche essere vista come uno stato di beatitudine finalmente raggiunto; caratteristiche queste ed obiettivo finale dell’induismo e del buddismo che chiamano tale unione mistica con il nome di samadhi e, nel buddismo zen, satori. Classica è l’estasi del Buddha (“illuminazione”). Per quanto riguarda la religione cattolica, l’estasi mistica non è considerata, da sola, prova principale di una visione. Ad esempio, nel caso ricorrente delle apparizioni mariane, viene analizzato più il contenuto e la qualità delle “rivelazioni”, piuttosto che una supposta “verità” dello stato estatico. In tale ambito ricordiamo Santa Teresa d’Avila (1515-1582), famosa per le sue estasi mistiche. In tale stato, ricordiamolo, il soggetto sperimenta una sorta di sensazione di fusione con Dio e la Natura, in cui i confini individuali sono superati ed annullati in una visione finalmente più ampia ed omnicomprensiva. Tipico, ad esempio, il caso dell’induismo in cui il mistico sperimenta la fusione dell’anima individuale, cioè l’Atman, nel Brahman cosmico, come descritto nel testo sacro delle Upanishad. Anche le esperienze della mistica islamica Sufi riportano di tale fenomenologia e di tali vissuti, ripetiamo, necessariamente soggettivi, ma, non per questo, meno importanti ed affascinanti. Analoghe esperienze sono presenti nella mistica ebraica della Cabala e nelle religioni di stampo animistico. Bibliografia Ellwood R., Mysticism and Religion, Seven Bridges Press, New York 1998.
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Monte Athos: terra di monaci, terra di Dio
Una immagine di un monastero sul Monte Athos.
Il Monte Athos, maestoso e selvaggio1 a picco sul mare, detto anche Monte Santo2, la cui cima svetta fino a 2033 mt., e che dà il 1
La flora del Monte Athos ha una grande valenza ecologica dovuta a vari fattori come la variabilità ecologica stessa, la particolare topografia, l’isolamento peninsulare ed una forte influenza marina; ciò genera, naturalmente, una stratificazione climatica, con relativa variazione degli ecosistemi dal mediterraneo al subalpino; abbiamo dunque circa 1453 taxa, 539 generi e 103 famiglie, con una copertura di densa e fitta vegetazione con “macchie mediterranee” sulla costa e boschi di querce sempreverdi a partire dai 1100 mt. s.l.m. (cfr. Loretta Gratani, Direttrice dell’Orto Botanico di Roma, in Storia e spiritualità del Monte Athos citato in bibliografia). 2 Athos è il nome di uno dei giganti impegnato nell’epica della Gigantomachia, la sfida che gli uranidi portarono agli dei dell’Olimpo; in particolare, la mitologia vuole che il Monte Athos sia sorto dallo scontro tra il gigante Athos che risiedeva in Tracia e Poseidone il dio del Mare, della Terra e dei terremoti (il Nettuno dei romani e, in parte, il Seth degli egizi). Il mito ci è giunto in due versioni: nella prima il Monte Athos sarebbe il masso lanciato dal gigante contro Nettuno, nella seconda,
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nome all’omonima penisola3 nella Macedonia propriamente greca, è uno dei più famosi centri di spiritualità mondiali ed è collocato vicino alla città di Salonicco4, nella parte nord-orientale dell’Ellade; la particolare regalità di questa montagna5, come vedremo, ne aveva fatto un luogo di culto anche prima dell’era cristiana. Una leggenda, ma forse sarebbe più appropriato parlare di mitologia, riguarda il Monte Athos come analogo del Monte Ararat biblico, in quanto nel mito di Deucalione (l’equivalente di Noè dal punto di vista dell’antropologia comparata dei miti) è proprio uno dei luoghi6 del possibile approdo dell’arca che mise in salvo i rappresentanti delle specie viventi. In una prospettiva che individua il Monte Athos come luogo di “salvazione” collettiva si può già vedere come esso sia identificato come una sorta di nuovo “Eden spirituale”, luogo di rinascita e spiritualità (cfr. Storia e spiritualità del Monte Athos, citato in bibliografia). Interessante poi anche notare come il Monte Santo sia citato anche da Eschilo nell’Agamennone (“dimora di Zeus”) e da Omero (luogo dove “vegliava” Era, la moglie di Zeus). Insomma, nell’antichità il Monte Athos rivaleggiava con il più famoso Monte Olimpo come sede degli dèi e comunque queste frequentazioni ne facevano invece, sarebbe il masso sotto il quale il dio del Mare avrebbe schiacciato il gigante stesso, come del resto fece con Tifone sotto l’Etna e Polibote sotto l’isola di Coo. 3 Una volta, sembra si trattasse di un’isola, almeno da quanto ci tramanda lo storico greco Erodoto, che parla di canale navigabile fatto costruire dal persiano Serse (519 a.C.-465 a.C.) per evitare di girarle intorno. 4 Dal punto di vista politico-amministrativo la “Repubblica monastica del Monte Athos”, con capitale Karyai, dipende dallo Stato greco, ma nella forma di un territorio autonomo fin dal 1927 e prima anche sotto il dominio turco; l’assemblea, detta “Santa Assemblea”, è formata dai venti rappresentanti dei monasteri della penisola che elegge quattro membri dell’esecutivo. La Repubblica del Monte Athos dipende politicamente dalla Grecia e religiosamente dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Per raggiungere la piccola Repubblica l’unico mezzo è un battello che parte dalla città greca di Uranopoli e giunge al porto di Dafni, situato nella Repubblica. 5 Vi sono molte montagne che hanno un valore simbolico e sacrale; ricordiamo, ad esempio, il monte Olimpo in Grecia, il monte Fuji in Giappone, il monte Horeb nel Sinai, il monte (immaginario) Meru al centro del mondo nel cosmo induista. 6 Gli altri sono il monte Otri in Tessaglia o l’Etna in Sicilia.
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un luogo predisposto, come detto, naturaliter alla spiritualità. Una conferma a ciò si ebbe appena l’imperatore Costantino nel 313 sancì la vittoria del Cristianesimo; infatti fu proprio il Monte Athos uno dei primi posti dove furono distrutti i templi pagani e su cui sorsero i primi monasteri di tipo cenobita, in seguito distrutti dal nipote Giuliano l’Apostata, che tentò una restaurazione del paganesimo, ed infine ricostruiti da Teodosio I. Alla fine del IV secolo si trasferirono sul Monte i primi asceti cristiani alla ricerca di un luogo appropriato per esplicare la loro spiritualità, seguiti dai monaci nel X secolo. La tradizione cristiana vuole che il luogo sia stato visitato dalla vergine Maria e dall’apostolo Giovanni7. Uno dei primi eremiti del Monte Athos, del quale conosciamo la storia, è Pietro8, noto come san Pietro l’Athonita, che agì nel IX secolo. Egli era un soldato romano dell’Impero d’Oriente che fu catturato ed imprigionato da un califfo arabo durante la presa di Amorio (838 d.C.). Durante la detenzione si propose di praticare un monachesimo integrale ed iniziò lunghissimi digiuni. Una volta liberato corse a Roma dal Papa per prendere gli ordini monastici. Subito il monaco partì da Ostia per l’Oriente fino a giungere sul Monte Athos dove un’apparizione mariana gli indicò il luogo dell’agognato romitaggio. Il santo uomo trovò una grotta atta allo scopo, la liberò dai demoni, ed iniziò la sua ascesi spirituale. Dopo la sua dipartita furono trovate le sue relique e si creò un culto locale con la successiva costruzione di una chiesa ed estensione del culto. A Pietro l’eremita, seguì, come figura guida, Eutimio il Giovane (823-899) che era fuggito dal proprio monastero sul Monte Olimpo a causa di disordini seguiti alla elezione di san Fozio a Patriarca; a 7 La leggenda narra che Maria Madre di Gesù e l’apostolo Giovanni si trovavano a veleggiare lungo le coste athonite, verso Cipro, quando furono sorpresi da una tempesta che li costrinse a trovare riparo in una insenatura di un golfo. Passato il nubifragio Maria chiese a suo Figlio di donarle quel luogo soavissimo. Gesù benedisse quelle terre e predisse che, sebbene fossero in quel tempo ancora abitate da popolazioni pagane, in futuro sarebbero divenute rifugio di spiritualità per coloro che avessero lasciato il mondo; infatti, poi, in quei luoghi sorse il monastero di Iviron. 8 Vita Petri di Nicola.
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Eutimio seguì poi Giovanni Kolobo, che fondò un monastero che fu messo sotto la protezione dell’imperatore Basilio I. Altra figura determinante del cenobitismo athonita fu Sant’Atanasio, che si chiamava Avramios e che fu attivo tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo; di nobile famiglia, ebbe da giovane incarichi militari nell’Impero d’Oriente. Dopo la chiamata spirituale si recò sul Monte Athos dove prese inizialmente il nome di Barnaba per non farsi riconoscere, nutrendosi essenzialmente di frutti selvatici, e dove in seguito si mantenne come calligrafo. Successivamente visse in una capanna lottando in particolare contro il “demone” dell’accidia, che combattè con il lavoro manuale (che consigliò ai suoi confratelli) per giungere alla “illuminazione” divina grazie all’esicasmo. Nel 963 Atanasio ebbe dall’imperatore la crysobolla9 alla carta fondativa o dispensa per il cenobitismo sul Monte Athos. Il cenobitismo atanasieo segue i tratti del monachesimo studita10, che trova la sua più completa espressione nella riforma di san Teodoro e disciplina la vita dei monaci sul lavoro manuale, lasciando però del tutto intatta la possibilità di un esicasmo integrale dedito alla preghiera ed alla meditazione. Tra l’XI secolo e il XIV secolo vi è il “periodo d’oro” dei monasteri con la costruzione di tutti i principali edifici. Una particolarità di questo luogo è che esso è riservato (tutt’ora) solo ai maschi dopo un decreto dell’imperatore bizantino nel 1060. Da allora vi fu un impetuoso aumento della costruzione di monasteri tanto che già intorno al 1550 questa comunità monacale aveva raggiunto le ventimila unità ed il monte Athos divenne il centro propulsore di una particolare forma di devozione religiosa: l’esicasmo. L’esicasmo e la filocalia L’esicasmo (appunto dal greco ἡσυχασμός, “tranquillità”, “quiete”) è una pratica ascetica particolarmente impegnativa introdotta da san Gregorio Palamas (1296-1359) che prevede tuttora un rigidissi9 In greco Κρυσοβυλλὸς, sanciva un atto imperiale della cancelleria di Costantinopoli. 10 Prende il nome da uno dei Padri del Deserto, san Teodoro Staudita (758-826 d.C.).
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mo protocollo di comportamento spirituale, incentrato principalmente sulla pratica quotidiana della preghiera recitata ininterrottamente nella forma “Signore Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”; tale pratica ha lo scopo di dare la possibilità di contemplare la luce pura increata di Dio, rifacendosi, peraltro, alla mistica esperienza della contemplazione della Luce della Trasfigurazione (Matteo 17, 1-6). Un precursore dell’esicasmo fu san Giovanni Climaco (575 -650), nel deserto di Gaza, in Egitto (famosa la preghiera dei monaci “a noi, piccoli e deboli, non ci resta altro che rifugiarci nel Nome di Gesù”). Il periodo del rinascimento esicasta athonita nei secoli XIII e XIV ci tramanda i nomi di Massimo Kausokalyva e Nifone. Naturalmente tale pratica non è solo incentrata sulla preghiera – che però, come detto costituisce la parte predominante della “regola” monastica –, ma anche su un appropriato “comportamento” o “stile di vita” fatto del distacco dalle cose terrene e della assoluta sottomissione ad una guida spirituale. L’esicasmo si può anche configurare come una sorta di “Yoga cristiano”, perché le ripetizione continua della formula può portare ad una sorta di stato in cui la coscienza risulta alterata. Nella tradizione tardo-esicasta si situa la Filocalia (che riprende il titolo di uno scritto di uno dei Padri della Chiesa, quell’Origene autore dell’Amore della bellezza divina) pubblicata nel 1782 a Venezia da Nicodemo l’Aghiorita11 – su testi consegnatigli nel 1777 sul Monte Athos da Macario – che è una collezione di scritti spirituali ed ascetici inerenti la tradizione ortodossa nel periodo che va dal III al XV secolo permeati da una forte tensione mistica ed escatologica. Nell’opera sono presentati i trenta padri neptici che espongono, in un ordine cronologico, gli aspetti della dottrina ascetica per giungere alla costituzione dell’uomo interiore. Il libro ha anche un intento di richiamo, contro il degrado di quell’epoca, facendo nostalgici riferimenti al monachesimo dei tempi passati. Da ricordare anche una Filocalia redatta da Paissij Velicovsky nel 1793 e che influenzò la rinascita spirituale russa del XIX secolo. 11
Va ricordata anche una raccolta di santi canoni pubblicata da Agapios Leonardos, collaboratore di Nicodemo, a Venezia nel 1787.
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Ma torniamo alla vicenda di Gregorio Palamas; egli, prima di divenire vescovo di Tessalonica (ora Salonicco), era stato un monaco del monte Athos ed i suoi insegnamenti produssero nel XIV secolo delle grandi discussioni nella Chiesa Greco-Ortodossa in quanto gli esicasti furono sospettati di eresia con varie accuse, tra cui le principali furono quelle di aver voluto separare la “Luce” da “Dio” e quella di panteismo. Tuttavia, dopo aspre discussioni, gli esicasti ebbero la meglio sui loro avversari che furono associati ai cattolici romani, da cui gli ortodossi si erano scissi e dopo vari Concili l’esicasmo diviene ortodossia nell’Ortodossia. Il culto del santo Pietro illuminò nei secoli la fede religiosa, anche durante la turcocrazia, che avrà fine solo al termine delle guerre balcaniche del 1912 il luogo diverrà successivamente un protettorato greco pur sotto il controllo del patriarcato ecumenico di Costantinopoli. I monasteri I monasteri vantano di possedere tre frammenti della “Vera Croce”; attualmente la comunità dei monaci si aggira intorno alle tremila unità sparse nei venti12 monasteri situati sulla costa; alcuni monaci sono più propriamente eremiti. L’architettura dei monasteri è di stampo tipicamente bizantino con forme policrome di mattoni, ceramiche, legni. Oltre ai venti monasteri ci sono anche venti “Skita”13 o comunità che si differenziano però dai monasteri veri e propri. I due tipi di 12 I venti monasteri sono: Grande Lavra (X sec.), Vatopedi (IV sec.), Iviron (X sec.), Hilandar (X sec.), Dionysiou (XIV sec.), Koutloumousiou (X sec.), Pantokrator (XIV sec.), Xiropotamou (V sec.), Zografou (X sec.), Dochiariou (X sec.), Karakalou (III sec.), Filotheou (X sec.), Simonos Petra (XIII sec.), Aghios Pavlos (VIII sec.), Stavronikita (X sec.), Xenophontos (X sec.), Osiou Grigoriou (XIV sec.), Esfigmenou (V sec.), san Panteleimone (XI sec.), Konstamonitou (IV sec.). 13 I dodici skita sono: Agias Annas, Kafsokalyvíon, Timiou Prodromou, Agiou Andrea, Agiou Dimitriou, Timiou Prodromou Iviron, Agiou Panteleimonos, Profiti Ilia, Nea Skiti, Lakkoskiti, Evangelismou tis Theotokou, Bogoroditsa.
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skita sono individuati dalla loro “regola”. Vi sono gli “Idiorritmici” (dal greco “regola privata”) e i Cenobiti (dal greco “vita comune”). Gli Idiorritmici sono caratterizzati da diverse “famiglie” monastiche, ognuna con un capofamiglia e vivono in una sorta di “villaggio” con un luogo di culto comune. Ogni comunità ha dalle tre alle dodici famiglie di cinque o sei monaci ciascuna. I capi-famiglia eleggono poi un rappresentante di tutte le famiglie. È una forma di vita monacense semieremitica. I Cenobiti, fondati da san Pacomio (291-348), un monaco egiziano, fanno riferimento alla tradizione dei “Padri del deserto”; la loro tradizione è stata poi portata in Occidente da san Benedetto da Norcia ed è caratterizzata da una vita più collegiale e meno individuale degli Idiorritmici e molto simile ai monasteri veri e propri. Arte Occorre poi dedicare una particolare attenzione critica agli aspetti più salienti della magnifica iconografia athonita (tuttavia risalente solo al XII secolo) fatta di affreschi ed icone affini ai dipinti nel periodo postbizantino ed altri nel periodo turco. Gli spazi affrescati erano normalmente quelli adibiti al culto e cioè le chiese, i refettori ed i luoghi di meditazione. Gli affreschi più suggestivi giuntici in buono stato sono quelli che si possono ancora vedere a Ravducos, a Karyes, la capitale della repubblica monastica, e riguardano i cosiddetti corifei e cioè gli apostoli Pietro e Paolo. Pietro vi è dipinto con un rotolo bianco tra le mani, con chiaro riferimento alla Traditio legis paleocristiana mentre Paolo è raffigurato con un abito romano (l’Apostolo delle Genti era cittadino romano) e con i suoi scritti; ritratti di cifra stilistica analoga: una rappresentazione di san Pietro e un abbraccio tra Pietro e Paolo presso Vatopedi. Tra le icone, sempre del XII secolo, si deve ricordare una Theotokos (Madre di Dio), ora al monastero di Chiladari che conserva anche un affresco absidale. Famoso poi il frammento di affresco del 1447 che raffigura s. Atanasio presso il monastero di san Paolo. Le ultime grandi figure monastiche del Monte Athos si possono 68
riassumere nel patriarca ecumenico Gioacchino III (1901-1912), che è ricordato per la sua azione contro Ilarione14 e i suoi seguaci che furono accusati di onomatolatrismo, cioè di essere “adoratori del Nome”, che si concluse con una deportazione di circa mille monaci da parte dello zar Nicola II. Vi è poi padre Josif, greco, che visse nelle gelide grotte dell’Athos, e poi il Basilio di Iviron a capo del monastero di Stavronikita fino al 1990, Emilianos di Simon Petra e Giorgio di Gregoriou. Un mistico a noi vicino temporalmente è stato il monaco aghiorita Paisos (scomparso nel 1994), che fu eremita nella foresta dopo il monastero di Kutlumussiou. Il Monte Athos, fin dall’origine dei secoli lontani, avvolto nelle leggende omeriche, è sempre stato un luogo che ha maestosamente ispirato spiritualità e misticismo ed ha indicato agli uomini di tutte le epoche una strada per dare un senso alla propria vita in una difficile disciplina di rigore fisico, che ha avuto ed ha tuttora il compito di temprare lo spirito verso alte mete. Ancor oggi, il Monte Athos si offre all’Uomo del XXI secolo come un fulgido esempio di spiritualità ascetica che nulla ha da invidiare a quella più propriamente orientale. Nel contempo, la pratica di devozione nella preghiera incessante e totalizzante ci indica una via ancora – se possibile – più stretta per quel Regno dei Cieli, che il profeta di Galilea indicò più di duemila anni fa al genere umano. Bibliografia Anthony B., Cunningham M., Mount Athos and Byzantine Monasticism, Asgate Publishing, Aldershot (Uk) 1998. D’Antiga R., Storia e spiritualità del Monte Athos, CasadeiLibri Editore, Padova 1997.
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Ilarione, nel suo libro Sulle Montagne del Caucaso, aveva detto che quando in una preghiera si formula l’invocazione del Nome, Dio stesso è realmente presente.
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Apocalissi
Una bella immagine della donna e del dragone da una silografia di Albrecht Dürer.
In questo capitolo ci occupiamo di un tema più che mai valido per la nostra epoca così difficile e inquieta: quello dell’Apocalisse (premettendo che, data la vastità del tema, il nostro sarà poco più che una breve excursus). Intanto cominciamo a chiamarla al plurale, cioè “le Apocalissi”… anche se l’Apocalisse per antonomasia (scritta, presumibilmente, sul finire del I secolo dopo Cristo) è quella di san 70
Giovanni (il discepolo che era il più giovane ed il “più amato” da Cristo), che fa parte del canone del Nuovo Testamento; ma pochi sanno che, in realtà, il genere cosiddetto appunto apocalittico è addirittura un genere letterario precedente ben consolidato nella tradizione non solo ebraica ma, più in generale, dell’area medio-orientale. Ad esempio, nella Bibbia, oltre al testo giovanneo, è considerato di genere apocalittico-profetico anche il Libro di Daniele, scritto nel II secolo a.C., durante la cosiddetta cattività babilonese. Il più antico scritto di genere apocalittico è però, il Libro dei Vigilanti, datato al V-IV secolo a.C., ma nel novero ci sono diversi Libri di Enoch e poi l’Apocalisse di Abramo, il quarto Libro di Ezra, l’Apocalisse siriaca di Baruc ed altri ancora, facendo caso a parte i discorsi escatologici dei Vangeli sinottici (vedi, ad esempio, Mc 13; Mt 24; Lc 21). Il termine Apocalisse viene dal greco ἀποκάλυψις e precisamente dal verbo kalyptein nel senso di “coprire” e quindi con il composto apo (separazione) il verbo assume il significato letterale di “separare dal nascosto” quindi di “manifestare, rivelare, rendere noto”. Questo “nascosto” risulta essere il “mistero ultimo”, cioè quella che è la “Verità” rispetto al significato delle cose umane e divine svelatesi nell’azione concreta di Dio nella storia umana. Ci occuperemo ora dell’Apocalisse attribuita a san Giovanni, apostolo e figlio di Zebedeo e che, incredibilmente, attrasse per tutta la vita anche l’interesse dello stesso fondatore della Fisica moderna, quell’Isaac Newton autore di un Trattato sull’Apocalisse. L’Apocalisse giovannea (scritta nell’esilio dell’isola di Patmos) inizia così: “Rivelazione (appunto ἀποκάλυψις) di Gesù Cristo, la quale gli diede Dio, per indicare ai suoi servi le cose che debbono avvenire presto, e manifestò inviando mediante il suo angelo al suo servo Giovanni” (Ap. 1,1). Ma cosa è dunque l’Apocalisse? Di cosa tratta? Perché è così misteriosa? Perché attira ancora l’attenzione di noi uomini del XXI secolo? Intanto, anche nella nostra lingua, intuiamo subito che il termine è legato non solo alla disvelazione di qualche segreto, come l’origine 71
del termine greco ci suggerisce, ma anche a qualcosa che “stravolge” l’ordine, che è tragicamente distruttivo e “conclusivo” di un’epoca. Infatti, il genere apocalittico – si veda anche l’abate calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202) con le opere Apocalypsim Nova e De Septem Sigillis – è un genere che svela una conclusione della fine dei tempi di tipo catastrofico con terribili fenomeni naturali cosmici che vengono così a purificare un’umanità persa nel peccato. È dunque un genere che tratta della “fine dei tempi “ e delle “cose ultime” e dei terribili e meravigliosi (nel senso latino di inusuali ed insoliti) fatti ad essa collegati. L’Apocalisse contiene elementi di “millenarismo” o chialismo (in greco chilias “ciò che riguarda il numero mille”), cioè la dottrina dei “mille anni” che fa riferimento ad una seconda venuta di Cristo (la parusia) che si definisce l’“Alfa e l’Omega” e quindi la sconfitta definitiva di Satana, dopo una lotta finale tra il Bene ed il Male. L’Apocalisse rivela dunque il “piano di Dio” nella storia dell’umanità. Il libro inizia con la descrizione della maestà di Dio e della figura di Gesù, che di Dio è l’inviato; egli ha il compito di fare conoscere il messaggio datogli dal Padre. Il profeta e apostolo Giovanni, “rapito dallo spirito del Signore”, riceve il messaggio e lo rende noto alle sette Chiese dell’Asia Minore (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi, Filadelfia e Laodicea); iniziano poi le “visioni”: dopo quella iniziale di Dio, Giovanni vede un “Trono” e l’“Agnello” che riceve da Dio le linee del piano sull’azione del Padre nella Storia umana. L’Agnello spezza quindi i sette sigilli; sono aperti i sigilli che sono tutte visioni sull’intervento di Dio nel mondo; prima del settimo, Giovanni ha la visione della “Chiesa trionfante”. Poi vengono le sette trombe e la manifestazione del male, del peccato e di come resistergli tramite il Vangelo. Viene dunque svelato il cuore del messaggio: la lotta tra il Bene ed il Male rappresentati dai simboli della “Donna vestita di sole” e dal gigantesco “Dragone rosso” (“il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e Satana”). Nel cielo si combatte la guerra tra le legioni di Michele e di Satana. La lotta tra l’Agnello e la Bestia. 72
Cristo vincerà l’“antico dragone” e la Morte e darà il Regno al Padre. Il libro di Giovanni si conclude con la descrizione del Paradiso simboleggiata dalla perfezione della Nuova Gerusalemme celeste in una apocatastasi finale. Il libro di Giovanni ebbe difficoltà ad essere incluso nel canone della Chiesa primitiva (ed ancor più in quella orientale); questo perché contenutisticamente assai diverso dai vangeli canonici (anche se, naturalmente, con affinità con quello di Giovanni che è di tipo profetico). È in definitiva un libro misterioso, terribile ma anche meraviglioso, ricco di tanti contenuti simbolici (si pensi al famoso numero della “bestia che sale dal mare”, 666, intellegibile tramite la Ghematriah con Nerone Cesare), che parla direttamente alle paure e alle angosce dell’uomo, ma che è valido soprattutto per l’inquieto uomo moderno, all’eterna ricerca di un senso del proprio esistere. Bibliografia Newton I., Trattato sull’Apocalisse, Bollati Boringhieri, Torino 1994. Ratzinger J., Papa Benedetto XVI, Giovanni, il veggente di Patmos, udienza generale del 23 agosto 2006, Città del Vaticano. Stefani P., L’Apocalisse, il Mulino, Bologna 2008.
Le esperienze di “picco” La mia anima è aspra, immensa e serena. Dietro di me, intuisco la presenza degli altri. Davanti a me, sento il fluttuare di destini… (Mircea Eliade, Gaudeamus)
Vogliamo cominciare da un libro pubblicato da non molto, Trasformazioni15, del parapsicologo Massimo Biondi, per parlare di 15
Trasformazioni, il mistero di scoprirsi cambiati, Oscar Mondadori, Milano
2005.
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quelle che vengono chiamate “esperienze di picco o di vetta” e che costituiscono un drastico cambiamento nella linea evolutiva della personalità. Il libro si apre infatti con un caso, in un certo senso, emblematico. Un uomo è disperato a causa del fatto che i suoi affari vanno a rotoli e sente che trascinerà in questa spirale tutta la sua famiglia ed anche gli amici. È dunque fermo su un ponte quando delle immagini cominciano ad attraversargli la mente; vede la sua famiglia sola e abbandonata, insomma si “immagina” un mondo senza di lui. A questo punto avviene un cambiamento imprevisto quanto decisivo: questo uomo non si suiciderà più, ma riguadagnata la fiducia in sé e nel prossimo riprende la sua vita, sentendosi una “persona nuova”. Oppure un giornalista ateo entra in una Chiesa ed improvvisamente “sente” una voce che gli sussurra la frase “Vita spirituale” e la sua vita come d’incanto cambia e diviene religioso. Esperienze come questa, come è noto, sono ormai consolidate nella letteratura psicologica. Vi sono cambiamenti rapidissimi della percezione della propria 74
vita e del proprio ruolo che imprimono, improvvisamente, un andamento del tutto diverso alla propria esistenza, magari proprio nella direzione opposta, come nel celebre caso letterario della conversione dell’Innominato nei Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni. Il celebre psicologo americano William James (1842-1910) fu il primo a studiare scientificamente la questione e giunse alla conclusione che tali modaità di “conversione” erano di due tipi: una era quella in cui la scoperta di un “senso” della vita avveniva solo dopo una lunga ricerca e l’altra quando ciò avveniva improvvisamente. La psicologia ci insegna che la personalità, in genere, non muta dopo l’adolescenza; solo di recente la comunità scientifica ha cominciato a pensare che questo possa anche non essere un assioma assoluto e che ci possano essere cambiamenti non patologici della personalità durante l’intero arco dell’esistenza. Un altro caso di “conversione” di tipo religioso è quello dello scrittore russo Lev Tolstoj (1828-1910), che in un bel giorno di primavera, verso i 50 anni, in un bosco “ritrovò Dio”, dopo aver perso la fede a 16 anni. Ancora un caso celebre fu quello del Buddha (“L’illuminato”), al secolo Siddharta (“colui che ha conseguito lo scopo”), che ebbe una notte, dopo anni di vita ascetica, l’“illuminazione”, cioè comprese il reale e vero significato del Tutto. Tra gli esempi del secondo tipo studiati da James vi è quella di Alphonse Ratisbonne, un giovane ebreo francese che dopo che gli fu regalata, durante un viaggio a Roma, una medaglietta religiosa si convertì improvvisamente alla religione cattolica. Altri episodi come quello del filosofo francese Simon Jouffroy (1796-1842) ci mostrano invece un andamento opposto: da una certezza di fede in una sola notte, una analisi razionale lo fece divenire ateo, facendogli perdere qualsiasi interesse alla vita. William James spiega tutto ciò con il fatto che la psiche sotto i colpi poderosi di residui inconsci può, ad un certo punto, “cedere” e mutare drasticamente. Questo ci porta ad ipotizzare che nella mente umana si possa, per così dire, “nascondere” un’altra personalità, anche del tutto differente da quella che aveva dominato fino ad allora. 75
Tale ipotesi, cioè dell’esistenza di un inconscio, prese piede scientificamente grazie ai primi esperimenti di ipnosi, effettuati nel XIX secolo. Ma torniamo ad un “cambiamento” classico, molto noto nella letteratura anglosassone: quello di Mister Ebenezer Scrooge, che nel celebre racconto Cantico di Natale del 1843 di Charles Dickens vive proprio questa intensa e per certi versi drammatica esperienza. Scrooge era un uomo solo, avido, arido con il prossimo; fu la notte di un Natale a cambiarlo, quando ricevette la visita di tre “spiriti” chiamati nel racconto “del Natale passato”, “del Natale presente” e “del Natale futuro”. Risvegliatosi nel giorno di Natale, Scrooge cambiò radicalmente vita: divenne generoso, aperto con gli altri, passeggiando e scherzando con la gente si «sentiva leggero come una piuma, felice come un angelo, allegro come uno scolaretto». Un altro caso famoso è quello del celebre Malcom X (la “X” sta al posto del vero cognome, “Little”, e denota la discendenza sconosciuta da un ignoto schiavo africano) che si trovava in prigione; era ateo, violento, ignorante; un religioso musulmano gli chiese di provare ad inginocchiarsi e pregare; e Malcom X lo fece e divenne un devoto credente musulmano. Allora cambiò, divenne un altro uomo, si fece una grande cultura e divenne un leader dei diritti civili dei negri d’America, insieme a l’altro grande leader Martin Luther King: entrambi furono uccisi. Il primo a studiare scientificamente questi cambi improvvisi della visione del sé e del mondo è stato lo psicologo americano William R. Miller, che raccolse in maniera dettagliata le storie di queste “conversioni”. Lo studio portato avanti su 55 soggetti delineò la modalità del fenomeno: vi era sempre stata una “crisi scatenante” e poi un completo “rivolgimento” della propria vita interiore; la maggiore percentuale di casi riguardava cambiamenti di tipo spirituale, ma vi furono anche casi di cambiamenti, per così dire, “laici”, a cui seguì una sorta di “allargamento della coscienza” (psicologicamente si parla di un insight). Questo tipo di cambiamento aveva avuto caratteristiche positive e durature. 76
Lo stesso psicologo ha introdotto, per questo tipo di esperienze, il termine quantum change (termine mutuato dalla meccanica quantistica), riferendosi al fatto che un piccolo ed improvviso cambiamento di personalità produceva un fenomeno totalmente nuovo. In pratica, quello che si è potuto constatare nello studio di queste esperienze di cambiamento è che dei soggetti, in un forte stato di negatività, di disperazione, di perdita di fiducia in se stessi e negli altri, improvvisamente (quantum change) sono passati nello stato esattamente opposto. Questo “opposto” significa una vita basata su sentimenti autentici, sull’onestà, sulla serenità, sulla schiettezza dei rapporti umani; in poche parole, i soggetti cha hanno avuto un quantum change hanno anche incontrato il loro “vero sé”. La più nota esperienza storica di conversione radicale delle proprie convinzioni di vita è stata sicuramente quella di Saulo di Tarso, poi divenuto san Paolo. Saulo stava andando da Gerusalemme a Damasco a “caccia” di cristiani, quando improvvisamente fu circondato da una intensa luce ed udì una potente voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Da questa esperienza non riuscì più a vedere per tre giorni fin quando uno dei settanta Discepoli, Anania, imponendogli le mani gli rese, in Damasco, la vista, come narrato negli Atti degli Apostoli. L’esperienza di Paolo di Tarso potrebbe definirsi il prototipo del quantum change spirituale. Emmaus Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino. (Luca 24, 13-35)
L’episodio di Emmaus, riportato dal Vangelo di Luca (con breve accenno anche in quello di Marco 16, 12-13), è, a ben vedere, uno dei più commoventi della Buona Novella e rientra in quelle che sono classificate come le “apparizioni del Cristo risorto”; uno dei più commoventi perché è pervaso da un forte senso mistico che accompagna questa misteriosa vicenda soprannaturale dall’inizio alla fine. 77
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio – La cena di Emmaus (1606), Pinacoteca di Brera.
Gesù era stato crocifisso da qualche giorno e grande era lo sgomento dei suoi seguaci, gli apostoli ed i discepoli. Gesù di Nazareth aveva rappresentato per loro diverse cose; per alcuni era stato un grande profeta, il messia, inviato da Dio per salvare Israele ed il mondo intero. Per altri era stato un capo politico (o almeno così avevano sperato) che avrebbe liberato finalmente gli ebrei dal giogo imperiale romano; per altri, infine, era stato entrambe le cose: un re-sacerdote che poteva liberarli dai romani e la promessa testamentaria di Dio fatto uomo. Palestina, 33 dopo Cristo (prendiamo per buona la data stabilita dal monaco Dionigi il Piccolo nel VI secolo d.C.). Da pochi giorni, tutto era improvvisamente finito; l’allegria degli odorosi ramoscelli d’ulivo che aveva riempito l’aria la domenica delle palme era svanita ed aveva lasciato il posto alla più cupa disperazione rappresentata da quello che poi, in seguito, sarà chiamato lo “scandalo della croce”. 78
Gesù infatti era stato processato e condannato al supplizio della croce, insieme a due ladri (ad uno, identificato in alcuni Vangeli apocrifi con il nome di Dimas, Gesù rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”. Luca 23, 16-43). Gesù il Cristo, l’“Unto” da Dio, aveva fatto la fine dei comuni malfattori e grande era, come detto, lo scoramento presso i suoi seguaci. Dopo la sua morte già era avvenuto un fatto sovrannaturale: le “pie donne”, Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo, recatesi al sepolcro lo avevano trovato vuoto e presidiato da due angeli (“due uomini in vesti sfolgoranti”); anche Pietro, accorso dopo il loro racconto, lo trovò vuoto. Questa notizia che avverava del resto la stessa promessa di Gesù (“resusciterò in tre giorni”) si era già diffusa, ma i suoi seguaci scappavano da Gerusalemme per tornare ai loro luoghi di provenienza; fuggivano attoniti, senza più parole e senza più speranza. Ecco, in questo contesto si inserisce l’episodio noto come la “cena di Emmaus”. Due discepoli di Cristo stavano (si deduce che la vicenda avvenga la domenica santa, “il primo giorno dopo il sabato”, cioè due giorni dopo la morte di Gesù) recandosi nel vicino villaggio di Emmaus (7 “miglia”, circa 11 km a nord-ovest di Gerusalemme) e “discorrevano” e “discutevano” degli incredibili avvenimenti accaduti a Gerusalemme negli ultimi giorni e di cui erano stati testimoni, quando uno sconosciuto, improvvisamente, si “materializzò” a poca distanza da loro e accelerando li raggiunse nel loro cammino. I due discepoli, di cui uno sappiamo chiamarsi Clèopa, non riconobbero Gesù (“ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”) perché egli stesso fece in modo di non essere riconosciuto, probabilmente per non spaventarli. Ascoltò un poco i loro discorsi e poi chiese loro di cosa stessero parlando; uno dei due rispose che il forestiero non doveva certo conoscere gli avvenimenti di Gerusalemme altrimenti avrebbe saputo della morte in croce di un “grande profeta”, noto come Gesù di Nazareth. Lo sconosciuto allora si mostrò molto interessato all’argomento e 79
raccontò loro come nella Bibbia fossero chiare le profezie rispetto al sorgere di un messia; parlò loro dottamente di Mosè e dei loro Padri dimostrando una incredibile conoscenza del Libro e rimproverandoli della superficialità dei giudei nel riconoscere i profeti. I due rimasero meravigliati della sua erudizione e lo ascoltarono con attenzione ed ammirazione. Nel frattempo stava cominciando a fare sera e poiché Gesù mostrava di voler continuare il cammino da solo ed essi erano giunti in prossimità di una locanda, uno di loro disse a Gesù: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Una frase potente, mistica, quasi un mantra che ci ricorda la solitudine e la debolezza umana, soprattutto quando “il giorno già volge al declino”. Gesù accetta il loro invito e li segue nella locanda. L’aria già calda della primavera della Palestina invitava ad una sorta di rilassatezza e di pace, un forte senso di serenità che giunge ancora a noi, leggendo queste parole, dopo tanti secoli. I tre entrano e si siedono intorno ad una tavola rustica e viene portato loro il desco e della frutta. Ed ecco che Gesù, solennemente, prende in mano il pane, lo spezza e lo dà loro e poi mesce del vino rosso ed egualmente lo dà loro da bere. Il momento è solenne; i due riconoscono nella celebrazione dell’eucarestia che quello che ritenevano inizialmente uno sprovveduto straniero è in realtà proprio Gesù, il Cristo che è risorto. I discepoli non fanno in tempo a meravigliarsi, si voltano verso di lui, commossi ed emozionati, ma ecco che lui, Gesù, improvvisamente, come era apparso, scompare. I due torneranno a Gerusalemme (Luca 24, 36-43 e Giovanni 20, 19-23) ad annunciare agli apostoli che il Cristo è veramente risorto, come avevano detto le pie donne a Pietro. In questa nuova occasione Gesù ricomparve loro istruendoli sulla predicazione. Un’apparizione sacra, la luce della speranza che illumina i loro cuori. Quella luce della speranza che, in definitiva, anche noi figli del XXI secolo ancora cerchiamo. 80
I misteri dei Vangeli apocrifi
Nell’immagine, il Quinto Vangelo di Tommaso.
I Vangeli apocrifi (dal greco απόκρυφα, cioè “nascosto”) cristiani, cioè quelli non riconosciuti nel “canone” della Bibbia o “Libro” (operazione che si suole porre intorno al IV secolo dopo Cristo e poi codificata con il Concilio di Trento nel 1546, con catalogazione proposta nel Concilio di Firenze nel 1442), sono presenti fin dalle origini del cristianesimo. I quattro Vangeli considerati “canonici” sono quelli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni (tutti, presumibilmente, risalenti poi ad un protovangelo comune indicato, tra gli studiosi, come “fonte Q” molto probabilmente scritto intorno al 40-60 d.C.), mentre l’intero gruppo 81
dei testi del Nuovo Testamento è considerato in 27, vergati ipoteticamente dal 51 al 95 d.C. I Vangeli apocrifi furono invece probabilmente scritti a partire dal II fino al IV secolo d.C., soprattutto, ma non solo, in ambienti gnostici (dal greco γνῶσις, cioè “gnosi” o “conoscenza”) e comunque fuori dal percorso ortodosso del cristianesimo nascente. Alcuni vangeli gnostici furono ritrovati a Nag Hammadi (scritti in copto, cioè in egiziano con alfabeto greco) presso un monastero cenobita in Egitto, nel 1945 (altri, invece, li conosciamo tramite citazioni patristiche). C’è da dire che gli autori dei Vangeli apocrifi spesso si identificavano, loro stessi, con gli apostoli che erano vissuti in media due secoli prima (fenomeno, quello dell’immedesimazione noto come pseudo-epigrafia); dunque la Chiesa lasciò libera consultazione ai testi, salvo intervenire nei casi di evidente eresia, ma non li inserì mai nel canone. In questi scritti apocrifi occorre dividere quelli propriamente gnostici da quelli che non lo sono. Questo in quanto gli scritti di derivazione gnostica hanno come struttura di insegnamento quella filosofica a connotazioni escatologiche. Invece gli altri, soprattutto i cosiddetti “Vangeli dell’infanzia”, narrano dei miracoli compiuti da Gesù quando era bambino. Il contenuto è di tipo magico-fiabesco con evidenti influenze della letteratura fantastica orientale come Le mille e una notte; tra questi, il Vangelo arabo dell’infanzia o Il Vangelo delle pseudo Matteo narrano dei miracoli compiuti da Gesù tra i 5 ed i 12 anni. Da notare che, come per il caso dei vangeli canonici, anche per quelli apocrifi sembrerebbe esistere un substrato culturale o “fonte” comune anche se per essi il lavoro di comparazione critica è molto più complesso data l’eterogeneità del tratto narrativo. In questi vangeli viene descritta una figura di Gesù che vive la sua infanzia come un bambino “particolare”, “speciale”, che ha dei “poteri” di cui non si rende pienamente conto. Ad esempio, in un episodio, ha un normale diverbio tra fanciulli ma una reazione scomposta provoca l’apparente morte del suo “contendente”; allora, il bimbo Gesù, dopo essere stato implorato dai genitori dell’altro fanciullo, lo resuscita. Ugualmente fa con un uccellino. Spesso, inoltre, in questi Vangeli, assistiamo ad una figura del Cristo molto umanizzata e che ha più o meno esplicite relazioni con la Maddalena evangelica. Insomma, 82
il mondo dei vangeli apocrifi è molto ricco di eventi strani, magici e favolistici, che devono essere però valutati come contributi molto posteriori ai Vangeli canonici e che, come detto, presentano fondati dubbi di storicità.
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Capitolo terzo
La porta della psicologia
L’ipnosi: una porta verso l’inconscio Aggressi sunt mare tenebrarum quid in eo esset exploraturi. Edgar Allan Poe
L’ipnosi è sempre stata avvolta da un alone di mistero che, anche nel terzo millennio dominato dalla Scienza e dalla Tecnologia, non si è ancora completamente dissolto. Il temine ipnosi deriva dal greco “hypnos” che significa “sonno” e fu introdotto, per la prima volta, dal medico inglese James Braid agli inizi del 1800 in relazione 85
alla fenomenologia che si manifestava con i cosiddetti “esperimenti magnetici” o di “suggestione”, che in quel periodo andavano diffondendosi, soprattutto in Europa. Una definizione moderna può essere quella del Centro Italiano Ipnosi Clinica e Sperimentale secondo cui l’ipnosi è «la manifestazione plastica dell’immaginazione creativa adeguatamente orientata». In definitiva, per usare un linguaggio più chiaro, l’ipnosi è una tecnica che porta il soggetto a sperimentare uno stato alterato di coscienza ed in questa accezione possiamo trovare riferimenti all’ipnosi addirittura in tavolette egiziane di 3.000 anni fa. Il primo ad occuparsi scientificamente dell’ipnosi fu F.A. Mesmer (1734-1815) che fece una teoria del “magnetismo animale” condannata dall’Accademia delle Scienze di Parigi nel 1784. Sul finire del XIX secolo troviamo opposte due scuole, la “scuola di Nancy” con A. Liébeault e H. Bernheim e gli studi di Jean Martin Charcot, presso l’ospedale parigino di Salpetriére. Infatti, mentre per i primi l’ipnosi era un fenomeno naturale, per il secondo era legata a episodi isterici, cioè una manifestazione sostanzialmente patologica. Questa interpretazione aprì la strada agli studi di Sigmund Freud (1856-1939), il fondatore della psicanalisi; anzi, si può dire che Freud iniziò la sua pratica medica proprio con l’ipnosi, ma poi, dopo un primo periodo, l’abbandonò per utilizzare appieno le nuove tecniche psicanalitiche che andavano affermandosi. L’abbandono dei metodi ipnotici da parte di Freud (che andò costituendo poi una teoria più globale basata sulla sessualità) segnò un declino dell’ipnosi durante le due guerre mondiali. Dopo questo periodo dobbiamo aspettare il 1949, quando negli USA venne fondata la “Society for Clinical and Experimental Hypnosis”; nel 1957 venne fondata una seconda società l’“American Society for Clinical Hypnosis” e nel 1969 fu fondata una sezione di psicologi dell’“American Psychological Association”. Il principale utilizzatore di tecniche ipnotiche in ambito psicoterapeutico è stato invece lo psicologo M. Erickson che utilizzò ampiamente, come base terapeutica, l’ipnosi. Successivamente Erickson fu utilizzato come base da Richard Bandler e da John Grinder, per sviluppare la PNL, Programmazione Neuro-Linguistica (PNL), 86
che utilizza metodi suggestivi ed ipnotici al fine di raggiungere certi obiettivi. In Inghilterra, nel 1955, fu fondata la British Medical Association ed in Italia, nel 1960, si formò la AMISI, “Associazione Medica per lo Studio dell’Ipnosi”. In questo modo, l’ipnosi uscì dal cerchio del magico e misterioso per divenire anche strumento di cura in medicina o comunque di esplorazione degli stati alterati di coscienza. Ma veniamo ora a cosa può fare effettivamente l’ipnosi. Un primo utilizzo è sicuramente quello della modifica della “percezione” del mondo esterno, creando “illusioni”, cioè facendo comparire come vero e presente ciò che non esiste nella realtà effettuale. Inoltre, grazie all’ipnosi, è possibile modificare la percezione del dolore e, in genere, delle sensazione corporee. In questo si avvicina ad altre tecniche come, ad esempio, il training autogeno o il biofeedback o “retroazione biologica”, che permettono di modificare condizioni fisiologiche indipendenti dalla volontà, come il ritmo respiratorio e la temperatura cutanea. Inoltre si può agire sul sistema muscolare ed endocrino e pare anche su quello immunitario. Tramite l’ipnosi è anche possibile modificare il ricordo di eventi passati e trarre alla coscienza eventi nascosti nell’inconscio del soggetto ed, in generale, agire a livello neurovegetativo. Tramite l’ipnosi un soggetto addestrato può imparare a controllare la sua emotività e tramite l’“ipnosi regressiva” si possono fare emergere ricordi di periodi passati, anche di vissuti particolarmente dolorosi per il soggetto. È chiaro che non tutti i soggetti sono ugualmente sensibili all’azione ipnotica e quindi occorre valutare i risultati caso per caso. Le attuali tecniche permettono all’ipnotista di dare delle “suggestioni”, dette appunto ipnotiche, al soggetto e questo implica una sorta di “patto” tra i due. L’ipnotista deve avere chiaro l’obiettivo da raggiungere e, naturalmente, esso deve essere condiviso dal soggetto su cui si esperimenta in modo da dare la massima efficacia all’intervento. Attualmente, l’ipnosi è utilizzata in medicina nel controllo del dolore (analgesia) e nella psicologia clinica, nelle forme della ipnositerapia per forme ansiose e dipendenze, oltre che in ostetricia, come preparazione al parto. È chiaro che, data la delicatezza dell’argomento, l’uti87
lizzo dell’ipnosi è strettamente riservato a professionisti del settore, principalmente medici e psicoterapeuti. L’ipnosi è anche utilizzata in ambito extraclinico, come in quello sportivo o dello spettacolo o nello studio dei cosiddetti fenomeni paranormali. Nei campi extramedicali l’ipnosi è usata in diversissime forme, come ad esempio l’autoipnosi, che può essere utile ad un soggetto per condurre modifiche del suo stato di coscienza ordinario. In campo parapsicologico l’ipnosi è stata utilizzata da sperimentatori come il famoso Ian Stevenson, che l’ha impiegata per supportare con metodo scientifico ipotesi riguardanti il supposto fenomeno della reincarnazione; si deve tuttavia prestare la massima attenzione a possibili fenomeni concomitanti di ipermnesia e cioè la possibilità di creare “falsi ricordi”. È diffusa la credenza che l’ipnosi possa portare ad una sorta di “controllo della mente”, mentre in realtà è più corretto dire che l’ipnosi può dare suggestioni di tipo allucinatorio in cui il soggetto ipnotizzato crede di vivere una realtà diversa; in questo caso è penalmente responsabile di eventuali reati chi ha indotto all’ipnosi e non l’ipnotizzato. La regressione ipnotica in parapsicologia Vogliamo ora affrontare, per quanto brevemente, l’utilizzo con protocolli scientifici del metodo dell’ipnosi regressiva per ottenere informazioni su presunte vite antecedenti. A tale scopo ci occupiamo di due autori. Il primo, già citato, è Ian Stevenson che è stato Professore di psichiatria presso l’Università della Virginia negli USA. Il Prof. Stevenson, per molti anni, ha raccolto dati, in tutto il mondo, su oltre 4000 bambini, relativamente a vite precedenti utilizzando il metodo dell’ipnosi regressiva. Nel suo famoso libro, Reincarnazione. 20 casi a sostegno, Stevenson riporta che in diversi casi i bambini portavano i “segni” di morti violente avvenute in altre vite. L’opera di Stevenson è interessante perché coinvolge istituti e riviste scientifiche di un certo rilievo; infatti, prima del suo volume, alcuni lavori uscirono per il «Journal of Nervous and Mental Disease» («Rivista delle Malattie Nervose e Mentali») nel 1977 e per l’«American Journal of Psychiatry» («Rivista Americana di Psichiatria») nel 1979. Un altro scienziato, 88
il cecoslovacco Milan Ryzl, laureato in fisica e chimica, ha studiato vari fenomeni definiti paranormali, dalla cosiddetta “teoria dell’impregnamento psichico”, in cui sembrano esserci evidenze sperimentali che il pensiero lasci una sorta di “traccia”, l’impregnazione mentale (di cui parleremo a parte, in seguito). Un uso della tecnica della ipnosi regressiva è riportato nel suo libro Gesù il più grande medium di tutti i tempi utilizzando l’ipnosi per sviluppare supposte facoltà extrasensoriali. Basandosi sui risultati di questa tecnica Ryzl utilizzò l’ipnosi regressiva per entrare in contatto con una “forma energetica” che sosteneva di essere Gesù e con la quale dialogò, tramite un soggetto ipnotizzato. Interessante è il resoconto di questo dialogo in cui emerge, nell’esperimento del 20 maggio 1949, soggetto Milena, una “teoria” per cui le “anime” o “flussi”, dopo aver lasciato il corpo fisico, si addensano alle estremità di un cilindro che ha al suo centro la Terra. Oltre il cilindro ci sarebbe, secondo il resoconto riportato dal soggetto in stato di ipnosi, un altro “piano”. Le anime tenterebbero in tutti i modi di attraversare tale barriera, ma risulterebbe che solo una piccola quantità riesca a passare mentre le altre, dopo un periodo più o meno lungo di stazionamento, “ritornano” in corpi umani. Si tratta, è bene chiarirlo, solo di affascinanti tentativi di utilizzare una tecnica nel campo della parapsicologia; i risultati riportati potrebbero, come già detto, essere frutto solo di autosuggestione e/o falsi ricordi, ma in ogni caso, a nostro parere, vanno conosciuti. Da notare che la “trance” o, come viene chiamata nei Paesi di lingua anglosassone, il “channeling”, può essere considerata una sorta di auto-ipnosi, in cui il soggetto sperimenta un nuovo stato di coscienza (escludendo i casi di frode deliberata). Sembra quindi, come è anche logico, che l’utilizzo dell’ipnosi possa aprire nuovi e floridi campi di indagine scientifica nel campo della psicologia degli stati alterati di coscienza e della parapsicologia. Bibliografia Bona A., Vita nella vita. Ipnosi regressiva e vite precedenti, Edizioni Mediterranee, Roma 2001. 89
Casiglia E. et al., Ipnosi sperimentale e clinica, Editrice Artistica Bassano, Bassano del Grappa 2006. Granone F., Trattato di Ipnosi, UTET, Torino 1989. Ryzl M., Gesù il più grande medium di tutti i tempi, Armenia, Milano 1975. Stevenson I., Reincarnazione. 20 casi a sostegno, Armenia, Milano 1975.
La meditazione nella tradizione religiosa e psicologica
La meditazione.
Uno degli aspetti più importanti delle religioni e delle filosofie orientali è quello della meditazione. Questa pratica è una sorta di “ripulitura” dei “canali spirituali” che permette di raggiungere grandi traguardi sia nel campo più strettamente religioso sia in quello fisiologico; infatti il corretto meditare porta, oltre ai benefici spirituali propriamente detti, anche dei benefici fisici in termini di riduzione dello stress e dell’ansia che ci assalgono sempre di più a causa del concitato stile imposto dai ritmi della vita moderna. 90
Meditare vuol dire dunque ricongiungersi alle vere radici del proprio essere; meditare vuol dire recuperare pienamente quel profondo rapporto tra il microcosmo dell’uomo ed il macrocosmo rappresentato dalla Natura di cui facciamo parte. Prendendo come esempio una religione, quella induista1, che ha fatto della meditazione uno dei suoi cardini, potremmo dire che essa porta alla ricongiunzione finale della scintilla divina individuale, cioè l’Atman2, con l’Assoluto, l’Universale, cioè il Brahman3, come abbiamo già detto più volte in precedenza. In questa ottica occorre anche notare come la meditazione presenti aspetti di grande concordanza anche con la preghiera intesa nella sua accezione più vasta: preghiera (in Oriente recitazione dei mantra) che anche al di là del significato strettamente religioso permette un autentico contatto con “qualcosa di diverso”, e cioè con quel quid che possiamo definire in tanti modi, ma che, in definitiva, è riconducibile ad una sorta di “principio unificatore” che sta poi alla base di ogni altra esperienza umana. C’è anche da dire che, secondo l’induismo, il recitare delle formule religiose, non importa se esse si chiamino “Padre Nostro” oppure si tratti del noto mantra del buddismo tibetano “Om Mani Padme Hum” (“La perla è nel Loto”), mette in contatto l’essere umano con quelle che vengono chiamate “forme pensiero” che sembrano, dopo tanti secoli, rappresentare quasi una realtà a sé stante, compiuta, solida, tridimensionale. Come detto, sono state soprattutto le filosofie e le religioni orientali ad essersi occupate di meditazione, quindi, anche nell’ambito di queste, esistono molte differenti tecniche. 1 Termine di origine persiana e di primo utilizzo europeo che designa la religione dell’India nelle sue fasi vedica, brahmanica e induistica vera e propria. 2 Termine filosofico-religioso sanscrito (derivante dalla radice an, respirare) con cui si indica il soffio vitale o anima; più in generale indica il “Sé”. Nei testi sacri dei Vedanta, precisamente nelle Upanishad, l’Atman è identificata alla fine dei cicli evolutivi con la sostanza universale o Brahman. 3 Il Brahman è l’Assoluto o forza suprema al di sopra di tutte le divinità. Il termine deriva dalla radice sanscrita brh, che significa “effondersi”. In termini personali e religiosi può essere identificato col dio Brahma.
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Ma cosa significa esattamente “meditare”? Il Nuovo Zingarelli, dizionario della lingua italiana, riporta come significato principale “considerare a lungo e attentamente; fare oggetto di riflessione”. In senso etimologico “meditare” viene dal termine latino meditor, cioè riflettere, esercitarsi. Tuttavia, nel campo di cui ci occupiamo “meditare” ha un significato diverso e cioè quello di liberare la mente dalla vorticosa danza dei pensieri che si seguono e susseguono incessantemente per fare finalmente posto ad una sorta di vuoto in cui resta solo il nostro “Sé”, cioè la parte più legata all’autocoscienza, al senso di esistere. Per giungere a questo stato occorre naturalmente, come già detto, una tecnica; anzi, esistono più tecniche che possono essere utili al raggiungimento dell’obiettivo del fermare il flusso vorticoso dei pensieri e lasciarci, finalmente, unici spettatori della nostra mente. Ad esempio, all’interno della disciplina dello Yoga4, vi è il Pranayama5 che è basato sul seguire il ritmo del respiro, oppure, nel mondo occidentale, si è sempre più affermato il cosiddetto Training autogeno, che permette di modificare alcuni parametri fisiologici solo con la mente. Sia il Pranayama che il Training autogeno sono ambiti più vasti della sola meditazione, ma includono questa come asse portante per il raggiungimento degli obiettivi proposti. Nell’induismo la meditazione si chiama Dhyana6, intendendo con esso un profondo stato di contemplazione religiosa. Il buddismo giapponese, lo Zen, deriva addirittura la sua radice semantica dalla parola “meditazione” (dove vengono utilizzati principalmente i Koan, racconti senza senso che permettono di creare il vuoto mentale atto alla pratica della meditazione). 4
“Yoga” deriva dalla radice sanscrita “yuj” che significa aggiogare l’attenzione per usarla nella meditazione. 5 In sanscrito “Prana” significa respiro, flusso vitale e “Ayama” significa controllo. Quindi Pranayama significa controllo del respiro nel senso di estensione/ contrazione. 6 Dal verbo sanscrito “dhyai” cioè pensare; da essa deriva il cinese “ch’an” e il giapponese “zen”.
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Sempre nello Zen si pratica lo Zazen e cioè la “meditazione seduta” (nella posizione del loto) fissando l’attenzione su un oggetto o anche su meditazioni astratte fino a raggiungere il vuoto mentale e quindi poi l’illuminazione. Meditazione induista L’induismo fu probabilmente la prima religione istituzionalizzata che codificò la pratica della meditazione 4500 anni fa. Come detto i devoti indù chiamano Dhyana la meditazione che consiste nella visualizzazione fisica del dio o della dea, concretizzati con una formula. Dice infatti Krishna al guerriero Arjuna nel Gita XVIII, 72: «Hai inteso bene, o Arjoon, ciò che ti ho detto con la mente rivolta soltanto a quello? Hai soffocato la distrazione del pensiero che sorge dall’ignoranza?». Meditazione buddista La meditazione buddista, principalmente nell’accezione tibetana, consiste nel liberare la mente dal flusso costante ed ininterrotto dei pensieri che si affollano in essa, come alte onde in un mare in burrasca. Il suo fine è appunto il raggiungimento del vuoto mentale e la successiva illuminazione o samadhi, cioè quello stato di coscienza in cui oggetto e soggetto coincidono, portando ad un’unione mistica con l’Assoluto. Il Dalai Lama associa direttamente la felicità alla meditazione. Che la meditazione apportasse benefici in termini di rilassamento a chi la pratica era ben noto, ma solo da poco gli scienziati sono riusciti a dimostrare tramite un’indagine strumentale che questo è vero. Infatti la meditazione buddista attiva proprio quei siti cerebrali legati alle sensazioni di felicità e benessere cosmico. 93
Meditazione trascendentale (o anche TM da “Trascendental Meditation”) Questa tecnica meditativa fu proposta per la prima volta nei primi anni ’60 del Novecento da Maharishi Mahesh Yogi, laureato in Fisica e guru dei Beatles. La struttura base di questo metodo è quella di recitare un mantra fin quando la mente si acquieta e così si può sperimentare finalmente una chiara consapevolezza di sé. La tecnica TM è anche stata studiata scientificamente. Infatti, nel numero 45 del 1972 della rivista internazionale «Le Scienze», nell’articolo Fisiologia della meditazione di Fallace e Benson, sono riportati interessanti risultati sperimentali. Le sedute giornaliere sono in genere in numero di due ciascuna di 15-20 minuti. Il risultato più importante è quello di una forte diminuzione dello stress, il che significa, in termini chimico-fisiologici, una diminuzione del lattato ematico, aumento della resistenza elettrica cutanea, diminuzione della produzione di anidride carbonica e incremento dell’intensità delle “onde alfa” a 9 Hz nell’elettroencefalogramma. Il suo fondatore spiega questi benefici con una completa sintonia della mente con il “campo unificato” in una visione solistica della realtà. Osho Al secolo Baghwan Shree Rajneesh. Secondo Osho “la meditazione”, nel senso comune del termine, è «qualcosa a metà tra la concentrazione e la contemplazione. La concentrazione è focalizzata su un punto; la contemplazione ha un raggio d’azione più ampio, la meditazione è un frammento di quel raggio». Ma Osho le ha dato un altro significato. Nella meditazione «tu sei colui che osserva e puoi osservare la totalità di ciò che accade… ci si limita ad essere consapevoli tramite l’osservazione». «Sedetevi e semplicemente giocate con l’idea che non state facen94
do nulla. Improvvisamente, nel vuoto mentale, accadrà qualcosa che vi porterà all’illuminazione. E questo avverrà in uno dei sette giorni della settimana. Non oltre». Gurdjieff 7 L’insegnamento di Gurdjieff verte tutto sul fatto che l’uomo è “addormentato” e deve essere “risvegliato” alla vita. Solo così si giunge ad essere veramente consapevoli. In questa ottica si seguono varie tecniche di risveglio che comprendono, ovviamente, anche la meditazione e la visualizzazione di immagini mentali. Il Training autogeno (“Allenamento che si genera da sé”) In Occidente ha avuto grande seguito il Training autogeno, inventato da J.H. Schultz, che, in pratica, è una ginnastica mentale per apprendere come concentrare l’attenzione all’interno del proprio corpo. In questo modo si giunge ad uno stato di distensione e di rilassatezza e di eliminazione dello stress. È stato anche definito come una sorta di “Yoga occidentale” che promuove un cambiamento nella sfera psicofisica e un’autoinduzione della calma, ottenuta mediante un rilassamento interiore. Il Cristianesimo In questa religione “meditazione” indica una forma di preghiera silenziosa, fatta secondo alcune regole orientative, al fine di approfondire un mistero della fede o una verità teologica. 7
Georges Ivanovitch Gurdjieff (Alexandropoll, Russia 1877 - Neuilly, Francia 1949).
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Anche in questo caso la meditazione giunge alla contemplazione del mistero divino8. Il modo classico per meditare, nel cristianesimo, è esposto da Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali: egli individua l’attenzione, l’intelligenza, la volontà, la memoria, l’immaginazione; vi è, curiosamente, anche un riferimento al ritmo del respiro, come nel Pranayama. Il passaggio dalla meditazione ad una fase più mistica come la contemplazione è stato colto da Giovanni della Croce. Conclusione La meditazione è un termine che fa uno strano effetto; da un lato è ormai una parola molto usata (ed anche abusata) mentre dall’altro canto, quando si tenta di definirla rigorosamente, sembra sfuggire in un colorato caleidoscopio di definizioni che a volte si sovrappongono mentre altre volte portano a campi molto lontani. Ma cosa è veramente la meditazione? Forse la vera risposta non sta tanto nelle definizioni tecniche ed accademiche o nelle varie accezioni in cui è presentata da religioni e filosofie, ma dentro di noi. La meditazione è tecnica psicologica, fisiologica ma anche preghiera, slancio mistico, ricerca dell’equilibrio, della quiete della mente, della serenità. La meditazione è tutto questo. Ma anche altro. Tutto quello che noi sentiamo quando decidiamo, finalmente, di stare bene.
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Cfr., ad esempio, Luca 2,19: «(Maria) serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».
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Bibliografia AA.VV., Dizionario delle religioni orientali, Vallardi, Milano 1993. Baggi S., Ceppellini S., Training autogeno, De Vecchi, Milano 1991. Chaudhuri N.C., L’induismo, Dall’Oglio, Milano 1979. Iyengar B.K.S., Teoria e pratica del Pranayama, Edizioni Mediterranee, Roma 1984. Lamparelli C., Tecniche di meditazione orientale, Mondadori, Milano 1985. Martini C.M. (Cardinal) (a cura di), Storia ed attualità di 2000 anni di speranza, De Agostini, Novara 1997. Osho, Iniziazione alla meditazione. Il risveglio della consapevolezza, Edizioni Mediterranee, Roma 1999. Rajneesh B.S., Discorsi sul TAO-TE-CHING di Lao Tzu, Edizioni Mediterranee, Roma 1989. Scaligero M., Tecniche di concentrazione interiore, Edizioni Mediterranee, Roma 1990.
Il mitico mondo di Asgard e degli dèi del nord Una terra gelida, persa nell’estremo nord del pianeta; qualcuno la identifica con l’“Ultima Thule” di Virgilio, altri con la patria degli iperborei, altri con la parte artica della Norvegia, ma in realtà Asgard è un “non luogo”, la dimora degli dèi vichinghi, la patria del Re Odino e del potente Thor, il dio della folgore e del tuono; essa è collegata alla Terra da un ponte d’arcobaleno siderale chiamato Bifröst che è sorvegliato dal dio guardiano Heimdallr. La mitologia nordica (chiamata anche norrena) narrata dall’Edda “prosastica” o snorrica e da quella “poetica” è ricca di dei, di mostri, di giganti, di nani, di semidei, di elfi, di umani, di spiriti domestici ed acquatici, di fabbri (grandi conoscitori dei segreti dei metalli), di eroi e di Re; una specie di Olimpio nordico in cui il buio e la tenebra fanno da sfondo all’eterno gioco degli dèi, in attesa della guerra finale, il giorno di Ragnarock, in questo non dissimile dai loro colleghi orientali. Gli dèi predominanti fanno parte della classe degli Asi 97
Martin Eskil Winge, “Lotta di Thor con i giganti” (1872).
contrapposti ai Vani. Ma su tutto regna inesorabile, come nell’antica Grecia, il Destino, il Fato. Una terra, quella del nord, abitata dalla magia, come si legge nell’iscrizione in una pietra di Hordaland nella Norvegia sud-occidentale: “Ek gudija ungandiR”, “Io, il sacerdote, immune alla magia”. Ma vediamo chi sono questi dèi, “signori delle terre del ghiaccio”. Odino (Wotan in tedesco antico, Woden in anglosassone, il cui nome discende dall’indoeuropeo WAT, che significa “furore ispirato”, vedi ad esempio il latino vate), sposato con la dea Frigg (da cui il nome del giorno della settimana “venerdì”, in antico nordico 98
frjadagr, in inglese friday e da cui anche il nome del pianeta Venere in islandese, Friggjarstjarna, lett. “stella di frigg”); Odino, “signore delle rune”, non è che lo Zeus germanico, anzi da questo ne ha declinato caratteristiche morfologiche. Dalle fredde foreste teutoniche, dall’albero cosmico, il frassino Yggdrasill (che è lo stesso albero Laeraor che si staglia all’entrata del Valhalla), alle montagne ghiacciate dell’artico, Odino, dio della magia (il cui culto era principalmente nella Scandinavia meridionale e orientale, cioè in Danimarca e Svezia, quasi assente in Norvegia settentrionale ed Islanda), regna incontrastato sui viventi e sulle cose. Thor, suo figlio prediletto, dio del tuono, adorato principalmente in Norvegia, invece è una vera furia della natura con il suo martello Mjollnir (letteralmente, lo “stritolatore”, donatogli dal nano Brokkr) che ha la caratteristica di tornare in mano a chi lo lancia; Thor a lungo contrasterà la figura divina del nuovo dio, il “bianco Cristo”, arrivando a fondere e confondere insieme il martello e la croce; sua moglie è la bellissima dea Sif; la sua dimora nel “Paese della forza” in un castello con 540 stanze. In tutto questo, come in Grecia, gli dei stanno a guardare intromettendosi spesso nelle vicende degli umani. Su questo l’eterna lotta tra Bene e Male simboleggiata dallo scontro tra Thor e i Giganti e Loki (dal nordico logi, fiamma), personificazione di un dio negativo ed ostile, una sorte di Lucifero nordico, figlio di Laufey e del gigante Farbauti, padre/madre della dea Hel, signora degli inferi, del lupo Fenrir e del serpente Miogarosormr, è anche spesso ambiguo ed ambivalente, padre delle streghe. Interessante anche notare l’estremo rispetto che gli dei e gli uomini del nord hanno per la natura che fa parte armoniosa della loro vita, sia pure una natura – come detto – fredda ed ostile. La compagnia degli dèi è allora spesso rallegrata dal buon fuoco, dalla abbondante cacciagione, cibi speziati, dal forte vino rosso, e da birra che scorre libera nei banchetti divini. Potremmo però dire che la mitologia è un archetipo universale comune a tutte le civiltà; nelle passioni degli dei e in quelle degli uomini ciascuno può riconoscere un comune tratto. Il cielo di Norvegia è spesso solcato dalle folgori divine, ma ormai il nostro mondo materializzato non le vede più; tuttavia, in certe 99
notti boreali, quando la luce del sole rischiara il cielo, alzando un poco lo sguardo verso l’alto, ancora si può vedere un arcobaleno che si staglia contro il gelido cielo del nord… Bibliografia Chiesa Isnardi G., I miti nordici, Longanesi, Milano 1991.
Metafisica del simbolo
Il simbolo può essere visto come la “controparte” inconscia della ragione. Una affermazione certamente “pesante” ed anche alquanto enigmatica. Cosa vogliamo intendere con questo? 100
Intendiamo dire che non esiste solo la realtà razionale, esterna, solare, manifestata dall’archetipo maschile (inteso come patrimonio comune di forme originarie ed utilizzato in tale veste originariamente dallo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung), dal numero, dalla misura, dal “ritmo” geometrico, ma che con essa convive una realtà “irrazionale” (cioè che segue regole diverse da quelle logiche), interna, lunare, manifestata dall’archetipo femminile, appunto simbolica. Se il maschile è l’azione plasmante, allora il femminile è la riflessione creatrice. Il termine greco deriva da symbolon, cioè “segno di riconoscimento”, derivato a sua volta dal verbo symballein, che significa “mettere insieme”, composto da syn “con” e bàllein “gettare, mettere”. Quindi il simbolo è qualcosa che “unisce”, “mette insieme” proposizioni diverse, a volte addirittura contrapposte; e poiché la contraddizione o meglio la compresenza degli opposti pare essere una costante di natura, ecco che il concetto di simbolo diviene centrale nella interpretazione (non usiamo il termine “spiegazione”) della realtà, comprendendo questo termine in una accezione sicuramente generale anche il mondo “spirituale”, l’intimo dell’uomo. Il grande fisico Niels Bohr, parlando di meccanica quantistica, aveva eletto come suo motto il seguente: Contraria sunt complementa, cioè i “contrari sono complementari”; in questo caso si trattava di unire due “opposti” fisici: la contemporanea natura sia ondulatoria che corpuscolare che mostravano le particelle e gli atomi. Insomma il concetto di simbolo è un potente strumento interpretativo (conoscitivo?) della realtà fenomenica interiore. Prendiamo ad esempio il concetto di maschile e femminile espresso nella filosofia cinese dallo yang e dallo yin relativi all’aspetto rispettivamente femminile e maschile della realtà. Il simbolo che lo rappresenta è il seguente:
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A parte i colori dello sfondo (resi in toni di grigio in questa illustrazione), in esso sono fusi gli elementi di due colori contrapposti (in questo caso il bianco e l’oro). Quindi vi è fusione, ma fusione che contiene già il seme dell’“altro”, del diverso, del complementare. Infatti, all’interno dei campi sono contenuti i colori “opposti”. Come se il maschile (yang) contenesse già in sé il germe del femminile e viceversa. Solo la potenza simbolica permette di raffigurare, nella pienezza visiva, questa apparente “contraddizione” che in realtà va a risolversi poi in una “unione originale”, che nella antica filosofia cinese è chiamata t’ai-chi. La parte scura rappresenta lo yin mentre quella chiara lo yang. Da questa polarità derivano i cinque elementi, che poi generano il mondo (il simbolismo si ritrova poi anche nel libro divinatorio de I-ching, dove lo yin è rappresentato negli esagrammi dalle linee spezzate e lo yang da quelle continue). I numeri pari sono relativi allo yin ed i dispari allo yang. A tal proposito, cioè della rappresentazione di un simbolo, possiamo anche porci il problema se il simbolo sia solo di tipo grafico, pittorico, legato al senso della vista. Si intende subito che questo non è: infatti per ogni senso (si potrebbe affermare) esiste una forma simbolica percepita da esso; sia un profumo, una immagine, un suono, un rilievo, un sapore. La riflessione specifica su questa simbologia si è svolta principalmente nella filosofia taoista, infatti il suo libro sacro, cioè I-ching (“Libro dei mutamenti”) rappresenta tutta la realtà in esagrammi divinatori in cui ogni cosa è rappresentata da opportune combinazioni dei due elementi fondamentali. Prendiamo ora un altro simbolo orientale molto noto, quello dell’OM. L’OM è una parola sacra dell’induismo che ha un valore mantrico, cioè di sillaba magica, che ripetuta molte volte conduce alla illuminazione, cioè al samadhi. Il simbolo grafico è composto da tre curve ed un punto. Le curve 102
Il simbolo induista dell’OM.
rappresentano lo stato di veglia, il sogno, l’inconscio, mentre il punto, isolato da un semicerchio, rappresenta la coscienza assoluta che domina gli stati di coscienza. Anche in questo caso si vede come il concetto simbolico (in questa forma grafica) racchiude in sé una potente macchina interpretativa della realtà interiore degli esseri viventi. Ovviamente un simbolo, per sua definizione, necessita di una chiave di lettura, di una interpretazione che lo “insensi”, cioè gli dia un significato. Questa è certamente una operazione multiunivoca e cioè le interpretazioni legate al simbolo possono essere più di una; ciò non toglie importanza a questa modalità rappresentativa ma invece, in alcuni casi, la rafforza ponendo il mondo dell’individuo al centro del macrocosmo esperienziale. Non c’è una verità contrapposta ad una falsità, ma ci sono tante verità quante l’animo umano riesce a vederne. Quelle fornite prima sono quelle “ufficiali” di una certa categorizzazione filosofico-religiosa ma nulla e nessuno vieta di dare altre rappresentazioni. Ecco perché l’inconscio, il mondo dei sogni, l’intimo dell’individuo hanno il loro alfabeto naturale nel simbolo; perché l’inconscio è privato e personale e solo un alfabeto universale (di tipo archetipale), fatto di simboli però interpretabili personalmente, può spiegarlo. Il simbolo è la variabile parametrica dell’inconscio, la sua geometria, la chiave interpretativa che magicamente ricompone il senso dei mondi interiori. 103
Si pensi ora a quella particolare corrente artistica che va sotto il nome di metafisica e che ha nel pittore Giorgio De Chirico il suo più grande esponente.
Giorgio De Chirico, Piazza, 1925.
Queste piazze squadrate, divise da un sole freddo ed inquietante, queste linee dolorose ed acerbe che tagliano di netto lo spazio dell’immagine, queste ombre di statue e manichini non sono a loro volta potenti simboli evocativi? Attraverso essi proviamo infatti sensazioni; il più delle volte angoscianti, di tipo agorafobico, ma attraverso essi riusciamo anche a capire qualcosa di più del nostro intimo, delle sensazioni elementari ed elementali che ci scuotono, che non ci fanno dormire, che ci fanno trasalire in una giornata, per esempio, di sole in cui ci troviamo in una piazza deserta mitopoietica di simboli felliniani. Razionalmente non dovremmo occuparcene eppure irrazionalmente, tramite l’inconscio e guidati dai simboli, invece ce ne (pre) occupiamo. Un’altra corrente d’arte che si rifà pesantemente ai simboli è poi il surrealismo, fondato da André Breton, che anzi fa del simbolo il motore primo della propria espressione, andando fatalmente (anche per la contemporaneità storica) ad impattare con la psicanalisi freudiana. 104
Salvador Dalì, Persistenza della memoria, 1931.
In tempi recenti del potere fascinante del simbolo sulle masse si sono appropriati i mass media, quelli che nel 1972 Gerhard Wehr definì con successo i “persuasori occulti”. Fa comunque riflettere che il secolo scorso, cioè il Ventesimo, sia stato proprio, ai suoi inizi, uno dei secoli più “simbolici” della storia umana; un secolo pieno di dubbi e di incertezze, un secolo di ripensamento quasi di umiltà rispetto agli eccessi positivistici del Diciannovesimo. I grimori I grimori (l’origine del cui nome ha probabilmente a che fare con la parola “grammatica”, in francese antico gramaire) sono antichi libri che contengono descrizioni ed “istruzioni” per svolgere rituali magici ed hanno la loro origine in un periodo buio ed oscuro, ma 105
senza dubbio affascinante e misterioso: il Medioevo. Poiché tali testi erano considerati eretici occorreva proteggerli accuratamente dagli sguardi indiscreti e quindi invalse la tradizione ermetica, da parte dei maestri, di prestarli ai propri studenti di arti magiche affinché li copiassero e li conservassero a loro volta, dopo averli con pazienza e devozione ricopiati a mano (e questo era considerato un esercizio del cammino iniziatico). Il più famoso dei grimori che sono giunti a noi è senza dubbio La chiave di Re Salomone che è scritto in greco e data il XIII secolo; nel XVI secolo i grimori poterono essere pubblicati a stampa e questo permise una relativa diffusione insieme ad un clima più tollerante anche frutto della controriforma protestante. I grimori permettevano nel loro intendimento originale di avere “contatti” sia con angeli che con demoni a seconda di quello che il mago professava; in ogni caso i grimori davano anche accurate ed artisticamente assai raffinate de106
scrizioni dei sigilli protettivi o amuleti che dovevano essere utilizzati dall’operatore magico per svolgere il proprio compito in sicurezza. Tale sigilli erano spesso ricoperti di arcane simbologie e scritte misteriose che potevano fare riferimento sia a leggendari alfabeti occulti, angelici o diabolici che a lingue antiche la cui origine si perdeva nei meandri dei tempi, come il copto e l’aramaico; forte era anche l’influenza astrologica. Il secolo dei Lumi, professando un umanesimo antropocentrico, nato in Europa, inseguì una visione razionale del cosmo e del suo funzionamento; si stamparono le famose Enciclopedie e venne avviato finanche il culto della “dea Ragione”, ma evidentemente l’Uomo, coacervo di forze opposte che spesso sono in tumultuosa dialettica interna e qualche volta meravigliosamente raggiungono un equilibrio operativo, non poteva stare senza mistero e magia e così l’ancor scientifico XIX secolo accanto ad un grande sviluppo tecnologico vede il ritorno – per reazione – degli studi magici con la pubblicazione nel 1801 del libro The Magus di Francis Barrett tratto da un altro famoso grimorio di Heinrich Cornelius Agrippa (1486-1535) che lo illustra nella sua opera De Occulta Philosophia. Eliphas Levi (1810-1875), uno dei più importanti studiosi di occultismo, scrisse poi molti libri in cui affrontava la magia da una prospettiva potremmo dire moderna o para-scientifica e alle forze cosmiche di angeli e demoni vennero sostituite le forze che la scienza andava via via scoprendo, magari influssi elettrici o magnetici piuttosto che spiritelli, elfi e coboldi. Nel 1889 fu ripubblicato poi il Libro La chiave di Re Salomone, a cura di MacGregor Mathers che fu utilizzato dalla famosa Confraternita della Golden Dawn (o dell’Alba Dorata) prima e dall’Ordo Templis Orientis poi; il famoso “mago” inglese Aleister Crowley (1875-1947), la “Bestia 666” come amava lui stesso definirsi, pubblicò una versione minore, appunto La chiave minore di Salomone, che mise alla berlina molti segreti che tali dovevano restare provocando molti problemi alla Golden Dawn. C’è anche da dire che molti dei testi di grimori messi in vendita nel XIX secolo non erano altro che falsi o rifacimenti di testi originali modificati. Un discorso a parte si può fare per il Necronomicon o “libro delle leggi dei morti” scritto dallo stregone pazzo yemenita Abdul 107
Alhazred; in realtà tutto era nato dalla fantasia dello scrittore americano di Providence, Howard Lovecraft (1890-1937); si tratta di uno pseudolibro che può anche essere visto come un grimorio moderno perché contiene rituali di invocazione, anche se in forma letteraria. I grimori nel XX secolo trovarono nuova energia dai movimenti cosiddetti new age e dalla Wicca che fu fondata da Gerald B. Gardner (1884-1964) e riportò in auge l’antico culto pagano della Dea Madre e del Dio Cornuto, altrimenti identificato con Pan, il dio delle foreste. Anche nei nostri tempi per certi versi oscuri e ipertecnologici (alcuni parlano della nostra epoca come quella che i testi sacri induisti e buddisti chiamano del Kali Yuga o appunto della Grande Oscurità) sono pubblicati con sorprendente regolarità grimori di ogni tipo e per ogni esigenza, soprattutto nell’apparente secolarizzata società occidentale, se è vero come è vero che poi la base di questi movimenti magici è proprio sul promontorio più avanzato della tecnologia mondiale, la California, lo Stato più alternativo, creativo degli Usa. Questo nostro breve excursus è solo un piccolo contributo per cercare di capire come riposto negli ancestrali recessi del tempo e dello spazio aleggi ancora inossidabile il desiderio dell’Uomo di cambiare gli eventi e dominare la Natura e il Mistero. Dell’anima o della trasmutazione alchemica L’antica scienza della trasmutazione dei metalli e la psicologia sono più connesse di quanto un’analisi superficiale possa rivelare. A prima vista infatti ci si potrebbe domandare cosa c’entri l’alchimia, che è una proto-scienza (vi sono indizi che sia stata sviluppata fin dal Neolitico insieme al pensiero magico) e che poi si è evoluta nella chimica moderna con la psicologia. Materia e mente insieme? Perché no? Ma vediamo come possano connettersi questi due concetti a prima vista tanto lontani. L’alchimia, nel suo aspetto pratico, come meno in generale la chimica, tratta fondamentalmente della conversione (tramite una sostanza specifica) da un metallo ad un altro, cioè da uno “stato materiale” 108
Immagine alchemica tratta da Wikipedia.
ad un altro “stato materiale”; orbene, se applichiamo un’analogia tra operazioni sulla materia ed operazioni sulla psiche, potremmo estendere il significato delle operazioni alchemiche sulla materia alla mente. Il fine generale dell’alchimia è quello di trovare la mitica “pietra filosofale” o “lapis philosophorum” capace, tra le altre cose, di trasmutare (più che solo mutare) i metalli cosiddetti “vili” come il piombo in metalli “nobili” come l’oro. Cioè si tratta di un tentativo di realizzare la massima qualità metallica. La altre due proprietà del nobile “lapis” sono quelle di dare l’immortalità e l’onniscienza. Nel XVIII secolo l’alchimia aveva trovato importanti fautori in Europa come, ad esempio, anche il famoso fisico Isaac Newton (fu 109
l’economista John Maynard Keynes a renderlo noto nel 1936, tramite dei manoscritti di Newton che aveva acquisito ad un’asta). Dunque la trasmutazione procedeva in quattro operazioni sulla materia: “putrefazione” (“nigredo” o “opera al nero”), “calcinazione”, “distillazione” (“albedo” o “opera al bianco”) e “sublimazione” (“rubedo” o “opera al rosso”) sulla materia bruta tramite gli agenti chimici dello zolfo (proprietà di essere “combustibile”) e del mercurio (proprietà di essere “volatile”) e, da Paracelso in poi, del “sal” o sale. Tali operazioni avvenivano nel “forno alchemico” o “Athanor” (dal greco “immortale” o dall’arabo “il forno”). L’alchimia è la “scienza del simbolo” per eccellenza. Quindi, all’oro e all’argento corrispondono rispettivamente il sole e la luna nella grande operazione di congiungere e superare gli opposti (come nella filosofia taoista). Ma dietro al concetto squisitamente fisico della trasmutazione degli elementi vili in oro si adombra il concetto psicologico della trasmutazione dell’individuo dalla gretta materialità alla “spiritualità” alchemica. Infatti, le tre fasi della nigredo, della albedo ed infine della rubedo sono ben utilizzabili per descrivere il procedimento di trasformazione mentale o “ricerca spirituale” prima esposto. In questa ottica, l’“opera al nero” è la distruzione del mondo precedente fatto di sovrastrutture, l’“opera al bianco” è il periodo di macerazione e distillazione dei contenuti dell’esperienza precedente ed, infine, l’“opera al rosso” è la sublimazione finale verso l’“uomo nuovo” che ha trasceso i limiti della materialità grezza ed ha raggiunto quindi lo stato di una piena realizzazione delle sue potenzialità. Tali operazioni avvengono nell’“Athanor” che è il corpo umano. Tali concetti alchemici furono molto utilizzati dal grande psicanalista svizzero Carl Gustav Jung, che scrisse tre grandi libri sul tema: Psicologia e alchimia (1944), Saggi sull’alchimia (1948) e Mysterium Conjunctionis (1956). L’alchimia quindi, anche al tempo d’oggi, è ancora uno scrigno brillante di segreti tesori. 110
Bibliografia Evola J., La tradizione ermetica, Laterza, Bari 1931. Eliade M., Arti del metallo e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 1980. Jung C.G., Psicologia e Alchimia (1935, Eranos Jahrbuch), Bollati Boringhieri, Torino 1981.
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Capitolo quarto
Sviluppo scientifico della parapsicologia
Il PEAR e lo studio della coscienza In USA lo studio dell’interazione tra coscienza e realtà
Nell’immagine i grafici-simbolo che mostrano la probabile presenza di fenomeni non completamente spiegabili con le sole teorie a disposizione.
Il PEAR (Princeton Engineering Anomalies Research) – il cui programma è stato completato qualche anno fa – fu istituito presso l’Università di Princeton, Usa, (http://www.princeton.edu/~pear/) nel 1979 da Robert G. Jahn, ex Preside – nella stessa Università – della Scuola di Ingegneria e Scienza applicata, al fine di studiare in modo rigoroso l’interazione tra la coscienza umana ed alcuni processi che 113
avvengono utilizzando macchine come – ad esempio – un distributore casuale di biglie, un pendolo, un robot elettro-meccanico. In pratica si tratta di realizzare fenomeni di micro-psicocinesi1 su dispositivi sperimentali che normalmente hanno un comportamento dettato dalle leggi del caso e che invece – durante gli esperimenti – mostrano piccole, ma misurabili fluttuazioni da tali leggi. Quando il numero di prove è molto alto (come nel caso del PEAR con più di venti anni di esperimenti) anche piccoli scostamenti dal valore medio sono significativi. Al progetto lavorano fisici, ingegneri, psicologi e umanisti che hanno in agenda esperimenti per cercare di capire come la coscienza “costruisca” e rappresenti il mondo esterno. Gli scienziati impegnati al PEAR sono: Robert G. Jahn, che è il Direttore del programma ed è professore di Ingegneria e Scienza applicata occupandosi di propulsione al plasma, fluidodinamica e quanto-meccanica, e all’Università di Princeton, Brenda J. Dunne, psicologa sperimentale che è la responsabile del laboratorio, York H. Dobyns, fisico, il coordinatore scientifico del progetto e l’analista dei dati. Membri emeriti del PEAR sono: G. Johnston Bradish, Coordinatore Tecnico che ha disegnato e costruito alcuni dispositivi sperimentali che aiutano gli esperimenti principali, Roger D. Nelson, che è uno psicologo sperimentale e si occupa di ideare esperimenti, di utilizzare modelli statistici ed interpretare i dati e Arnold L. Lettieri Jr. che si è occupato dei rapporti con i mezzi di comunicazione dal 1997 al 2003. Ma torniamo agli esperimenti. L’ipotesi di Jahn è che la base dei cosiddetti “fenomeni paranormali” sia la meccanica quantistica2. La parapsicologia non è ancora accettata pienamente come “scien1
Tradizionalmente i fenomeni paranormali, o fenomeni Psi (dall’iniziale della lettera greca che significa “anima”), si possono classificare in fenomeni ESP (Extra Sensory Perceptions, Percezioni Extra Sensoriali: telepatia, chiaroveggenza e precognizione) e fenomeni PK (o psicocinetici, a loro volta suddivisi in micro-pk e macro-pk). (Cfr. P. Cassoli in http://digilander.libero.it/cspbologna/). 2 Tale ipotesi teorica è molto presente nella parapsicologia quantitativa.
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za”, ma dopo una fase pionieristica di indagine sui fenomeni, si è passati ad una fase catalogativa, seguita da un fase quantitativa e poi da una fase di ipotesi teoriche. Gli studi quantitativi in parapsicologia sono iniziati nel 1884 con l’opera di Charles Richet che utilizzò delle carte da gioco. Ma la vera spinta propulsiva verso una parapsicologia di tipo scientifico venne con William Mc Dougall (1871-1938), uno psicologico sperimentale che pose le basi di un laboratorio di parapsicologia presso il Dipartimento di Psicologia della Duke University. Fu poi con Josef Banks Rhine (1885-1980) che la parapsicologia riesce a strutturarsi come disciplina scientifica. Rhine, psicologo, assistente di Mc Dougall, si fece disegnare delle apposite carte con dei simboli (un cerchio, una stella, un quadrato, un’onda, una croce), le “carte Zener” – dallo psicologo percettivo Karl Zener – per studiare i fenomeni della telepatia, chiaroveggenza e precognizione (indicati complessivamente come fenomeni ESP dal termine inglese Extra Sensory Perception). La presenza di simboli geometrici chiari e facilmente identificabili fu dovuta all’inizio di una fase scientifica dello studio dei fenomeni. Tuttavia, si vide poi che l’utilizzo di carte che contenevano immagini atte a destare anche un forte contenuto di tipo emotivo poteva servire ugualmente se non meglio allo scopo. Anomalie uomo-macchina
Nell’immagine tre tipi di esperimenti: il distributore di biglie, il generatore di numeri casuali e il pendolo. 115
La maggior parte degli esperimenti3 effettuati al PEAR è per vedere se un operatore umano riesce ad “influenzare” il funzionamento di diversi dispositivi meccanici, elettronici, acustici ed ottici con esperimenti di micro e macro psicocinesi e “visione a distanza”. Normalmente l’output (cioè l’“uscita”) è strettamente casuale e un eventuale discostamento può essere attribuito solo alla presenza di un operatore umano. In venti anni di lavoro sono stati fatti migliaia di esperimenti con diverse centinaia di soggetti, con milioni di prove e sono stati osservati effetti abbastanza piccoli, dell’ordine di qualche parte su 10000 (in media). Questo tipo di esperimenti ha rivelato notevoli differenze individuali e di genere, cioè tra maschi e femmine. Inoltre, i risultati ottenuti appaiono essere influenzati da rituali di gruppo, svolgimento in siti sacri e da avvenimenti teatrali e musicali mentre invece i dati registrati durante incontri di affari o conferenze accademiche non mostrano cambiamenti dalla “norma” (cioè dalla distribuzione media attesa per un evento casuale). Quindi, da un’analisi sia quantitativa sia qualitativa dei dati registrati si può inferire che negli esperimenti si sono manifestati effetti (seppur piccoli) e che questi effetti sono con buona probabilità connessi ad eventi e luoghi ad alto “contenuto emotivo”, avvalorando l’ipotesi di una sorta di “atmosfera” o “coscienza emotiva” che avvilupperebbe il pianeta. 3 In un esperimento tipico di micro-pk un generatore casuale binario emette 200 bit dopo che un tasto è stato premuto. I bit sono una serie di “1” e “0”. Al soggetto viene chiesto di “influenzare” il numero di uno e zeri nel senso di produrre un punteggiare maggiore di 100, uno minore di 100 oppure non fare nulla (prova di controllo). In un singolo esperimento di 150 prove, in 50 il soggetto deve influenzare il risultato nel senso di >100, in 50 prove