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Italian Pages 595 Year 1998
Giacomo LEOPARDI
Operette morali A
cura
di Cesare
Galimberti
Guida
Giacomo
Leopardi
Operette morali a cura di
Cesare Galimberti
Guida
Avvertenze
Alla seconda edizione (1986)
Il testo delle Operette morali è stato riveduto sulla edizione critica curata da Ottavio Besomi (Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979). Si è anche ritoccato qualche punto del commento. La Introduzione, pur non proponendo una interpretazione mente diversa, è stata notevolmente ampliata e interamente rifusa.
sostanzial-
Alla terza edizione (1990) Si è provveduto a integrare la nota 42 della Introduzione (p. 39) con il rinvio a un saggio di I. P. Couliano. Alla quinta edizione (1998) Introduzione,
testo leopardiano
e commento
sono
stati interamente
rive-
duti e corretti. In questa ristampa gli accenti sono stati uniformati all’uso corrente (Leopardi usa di norma solo l’accento grave. La forma vdto = vuoto è stata modificata in vòto. Per il pronome se = sé e per l'abbreviazione ec. = ecc. si è rispettata la grafia leopardiana). Nessun'altra modificazione di qualche rilievo è stata operata né è stata introdotta alcuna aggiunta, mentre si è eliminata la pagina dei cosiddetti Stralci per le Operette. È parso preferibile conservare al lavoro la fisionomia assunta tra il 1977 e il 1986, che lo caratterizza, nel bene e nel male, rispetto ad altri commenti e studi, precedenti e successivi.
Prima edizione 1977 Seconda edizione 1986 Terza edizione 1988 Quarta edizione 1990 Quinta edizione 1998
Guida 1998, Napoli via Port Alba, 19 http:/Awww.guida.it EMAIL [email protected]
ISBN 88-7188-292-X
Un libro metafisico*
1. «Non solo alla lingua francese, (come osserva la Staél) ma anche a tutte le altre moderne, pare che la prosa sarebbe più confacente del verso alla poesia moderna. Ho mostrato altrove in che cosa debba questa essenzialmente consistere, e quanto ella sia più prosaica che poetica». Fissata il 26 novembre 1821, l’osservazione nasce al centro della prima stagione leopardiana, quando l’andante spianato degli Idilli non si è ancora esaurito e l'armatura delle Cunzoni aspetta i più aerei fastigi, Alla Primavera, Alla sua Donna. Tuttora impegnato a dar forma al suo pensiero poetico in due nuclei vistosamente diversi per molti aspetti, ma mossi in profondità da una ragione unitaria ?, Leopardi ne misura il dislivello da una forma “ La definizione è di Leopardi; cfr. la lettera del 6 dicembre 1826 all’editore Stella: «... un libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico... un’opera che vorrebb’essere giudicata dall'insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente». Quanto al significato del termine vedi, nelle Operette, il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico (in questa edizione a pp. 191-209).
1 Zibaldone di pensieri, 2171-2172. (Nelle citazioni dallo Zib. si rimanda alle pp. dell’autografo).
2 Cfr. il mio Linguaggio del vero in Leopardi, Firenze 1959, pp. 11 ss.
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Introduzione
espressiva che già gli appare più adeguata a una nuova idea di letteratura. «Altrove» ha infatti mostrato che «la poesia sentimentale è unicamente ed esclusivamente propria di questo secolo» ed è poesia in un senso tutto diverso da quello antico; anzi, vista l’esemplarità della poesia «immaginativa» antica, è «piuttosto una filosofia, un’eloquenza, se non quanto è più splendida, più ornata della filosofia ed eloquenza della prosa». «Giacché il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia, dall’esperienza, dalla cognizione delluomo e delle cose, in somma dal vero, laddove era della primitiva essenza della poesia l'essere ispirata dal falso» 5.
Negli Idilli e nelle Canzoni, almeno nei momenti più alti e nuovi, Leopardi dà complementari esempi di poesia «sentimentale»: concitate o deserte meditazioni sul nulla che si dilata col progredire dei tempi storici o abbandoni all’infinito flusso dell’essere, che sono anche, però, consapevoli «finzioni», erette a personale difesa dall’assedio del nulla. E in misure e modi diversi persino il linguaggio reca, nelle scelte lessicali e fin nelle strutture morfologiche e sintattiche, l'impronta di quel Vero negativo ormai assimilato nel profondo. Sia la nozione di poesia «sentimentale», più chiaramente formulata l'’8 marzo, sia le attuazioni poetiche che l'hanno preparata e la
seguiranno sono certo lontanissime dalla inclinazione a evadere nella fantasticheria. E tuttavia il margine che il poeta non rinuncia a concedersi è pur sempre abbastanza ampio da consentirgli non solo possibilità di protesta o di «finzione», ma di esprimerle in versi, come facevano quegli antichi che obbedivano a una necessità naturale. Per questo Leopardi del ‘21, consapevole dei nessi intercorrenti tra processi filosofico-scientifici, situazioni sociali e destino personale, la
soggezione degli individui alle condizioni generali sopporta almeno tale eccezione. Nello sforzo di sottrarre i singoli alla sorte comune, il
7 ottobre propone anzi la possibilità di un'eccezione, per dir così, generalizzata: Si può dir che l’effetto della filosofia non è il distruggere le illusioni (la natura è invincibile) ma il trasmutarle di generali in individuali. Vale a dire
Il discorso è stato ripreso in termini analoghi da F. Bandini (G. Leopardi, Canti, introduzione, commenti e note di F. B., Milano 1975, pp. XVII ss.).
3 Zib. 734-735 (8 marzo 1821).
Un libro metafisico
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che ciascuno si fa delle illusioni per se; cioè crede che quelle tali speranze ec. siano vane generalmente, ma spera sempre per se, o in quel caso di cui si tratta, un’eccezione favorevole. Le illusioni così non sono meno generali,
comuni, ed uguali in tutti, benché ciascuno le restringa a se solo... L'effetto presso
a poco
è lo stesso.
Tanto
è sperare
o credere
una
cosa
ordinaria,
quanto sperare o creder sempre la stessa cosa come straordinaria, e come eccezion della regola. Tale è‘il caso inevitabile di tutti i giovani i meglio istruiti.
E la massima concessione possibile alla speranza, di fatto immediatamente rettificata: Vero è che la distruzione delle illusioni generali influisce sempre sulle individuali. Queste non potranno mai estirparsi del tutto, altrimenti l’uomo non esisterebbe più. Nondimeno s’indeboliscono, si rendono inattive ec. quando non sono fondate sopra una felice persuasione generale, e di principii, che
contraddica e resista al fatto e all'esperienza 4.
Nella tecnica letteraria stessa di Idilli e Canzoni, oltre che nelle posizioni di pensiero che consentono la concezione dei due cicli lirici, alla coscienza della morte oggettiva delle illusioni sopravvive «una specie di disperata speranza» 5. Ma, così assetato di vitalità da ricorrere a una sorta di petitio principii nell'affermare non caduca l’indole delle illusioni individuali («Queste non potranno mai estirparsi del tutto, altrimenti...»), Leopardi è però incalzato da una esigenza anche più forte, che lo rende infine insoddisfatto di una soluzione tutta soggettiva. A fargli apparire troppo precaria la consistenza delle illusioni individuali sarà la difficoltà di «creder sempre», ossia di regola, a eccezioni dalla regola, di chiudere gli occhi, al di là di qualche istante di grazia (la sospen-
sione della coscienza dell’Infinito e della Vita solitaria), al Vero svelato dalla ragione ©. Era, del resto, una possibilità limitata ai «giovani
4 Ivi 1863-1865 (7 ottobre 1821). 5È espressione usata da Leopardi (ibid.) a significare lo stadio estremo delle illusioni generali distrutte dall'esperienza. 6 La tensione tra i due poli si annuncia già, del resto, all’interno del rapporto tra Idilli e Canzoni (cfr. Linguaggio del vero ecc., cit., pp. 40 ss.). Della Vita solitaria si vedano i vv. 23-38 (Talor m'assido...).
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Introduzione
i meglio istruiti», non ancora disingannati dalla evidenza delle cose. Al disincantato venticinquenne essa verrà sempre più apparendo, nel 1823, una risorsa esaurita.
Non per questo, nel rinunciare alle «illusioni», Leopardi obbedisce a un impulso razionalistico, bensì a una spinta assai più profonda, che sul piano discorsivo non sempre gli è chiara fino in fondo7. Rinuncia, in verità, alle illusioni perché sono simulacri troppo pallidi, riconosciuti ormai come tali, di una realtà vissuta un tempo come presenza sensibile, indenne da qualsiasi dubbio9. Solo a illuminare più intensamente, se non a riconquistare, quella condizione perduta tende ora con tutte le sue forze di filosofo-poeta !°. Attraverso l’evocazione della beatitudine antica e fanciullesca si volge alla disperata ricerca di una condizione ignara non soltanto della ostilità della ragione alla natura, ma della distinzione stessa tra vero e falso, estranea persino alla possibilità del costituirsi di nozioni contrapposte o anche solo distinte; a uno stato, in definitiva, totalmente indifferenziato, alieno da qualsiasi distinzione: tra uomo e animale, tra mondo
animato
e mondo
inanimato,
tra soggetto
e oggetto;
a una
condizione anteriore a qualsiasi volontà di crescere, come l’esistenza
7 Basti pensare alla schematica contrapposizione vero/falso nella cit. p. 735 dello Zib. 8 «Un tempo» si chiarirà in qualche punto di lucidità somma (per es. nella canzone Alla Primavera, ma anche in Zib. 637-638) come istante di tempo mitico, simile al fiabesco una volta e al biblico in illo tempore (ai primordi della «storia»); per questa nozione vedi M. ELIADE, Trattato di storia delle religioni, Torino 1957, pp. 399-422. 9La «sterminata operazione della fantasia», la «immaginativa» propria degli antichi e dei fanciulli dava infatti vita non a impressioni passeggere, ma a credenze costanti e fisiche di meraviglie, che solo ora appaiono illusorie. Così pensa Leopardi fin dal Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (in Poesie e Prose, a cura di F. Flora, Milano 19498, 11, pp. 479-481). E cfr. la canzone Alla Primavera, vv. 28-38. 1° Di una convergenza, e non soltanto della inimicizia, tra poesia e filosofia
sarà sempre più convinto anche Leopardi: cfr. Zid. 1383 (24 luglio 1821), 1650 (7 settembre 1821), 1848-1856 (5-6 ottobre 1821), 3244-3245 (22-23 agosto 1823); 3269-3271 (26 agosto 1823), 3382-3383 (8 settembre 1823), 4160-4161 (zo dicembre 1825), ecc. Dapprima si riferisce, invero, alla filosofia antica con-
trapposta al razionalismo moderno, poi la sua visuale si allarga ancora (cfr. Linguaggio del vero ecc., cit., p. 8).
Un libro metafisico
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dei primi uomini-bambini nel mondo privo di varietà della Storia del genere umano, o successiva alla possibilità e al desiderio di mutare,
se non in un perenne movimento ciclico come quello dei morti nel Coro del Ruysch: stati di tensione vitale minima, rivolta tutta e soltanto ad assaporare «poco meno che opinione di felicità» !! 0 almeno
la sicurezza dal dolore della vita. 2. Se a questo mira Leopardi, non sorprenderà tuttavia il suo atteggiamento, da un certo punto in avanti, verso la filosofia moderna, espressione perfezionatissima della detestata ragione; né apparirà (o non apparirà soltanto) come un’altra delle «conversioni» che lo scrittore ha incoraggiato a distinguere nella storia della sua vita interiore !2.
Leopardi, in realtà, ha cercato di scoprire sempre e soltanto una
condizione libera dal dolore e dalla noia. Nella sua mente mutano solo i tempi e i luoghi in cui gli è parso che tale stato si sia manifestato o possa, di nuovo o per la prima volta, apparire: antichità e fanciullezza, la «aranitica valle» dei Patriarchi biblici, la California non ancora incivilita, il mondo futuro che balenerà all'orizzonte della Ginestra, la morte, la non-esistenza 13. Allo stesso modo mutano le
sue idee sui mezzi che possano consentire il raggiungimento della meta. Alla soglia delle Operette Morali è la filosofia, la filosofia mo-
11 Storia del genere umano: nella presente edizione a p. 57. Sono conclusioni raggiunte piuttosto dalla «poesia pensante» che dal «pensiero poetante» su
cui ha preferito insistere A. Prete (Il pensiero poetante, Milano 1980; per le due definizioni vedi in particolare le pp. 80-89). Ma dallo stesso «discorsivo» Zibal-
done emergono punte di questa soggiacente forma di «pensiero»; per es. nella conclusione di p. 2712: «... sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California, che non conosce il‘pensare» (21 maggio 1823: il corsivo è nel testo),
giustamente valutata nella sua radicalità da M. A. RIGONI, Leopardi e l’estetizzazione dell’antico [1976], in Saggi sul pensiero leopardiano, Napoli 19857, p. 27. L'aspirazione a non pensare e non agire non è, d’altra parte, in contrasto
col rimpianto per la ricchezza di vita propria degli antichi, poiché anche questa procurava la possibilità di dimenticare il dolore ed escludeva la noia. 12 Cfr. Zib. 143-144 (1 luglio 1820): «Nella carriera poetica...» 13 Cfr. nei Canti l’Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano, vv. 80-82 e 104-112, e nelle Operette soprattutto il finale del Dialogo di Tristano e di un amico (qui a pp. 514-515).
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Introduzione
derna a esser indicata, paradossalmente,
quale strumento
decisivo,
come risulta da alcune più radicali considerazioni zibaldoniane, in cui la questione viene messa a nudo dalla esasperazione dei termini.
Scrive il 21 maggio 1823 !4: Paragonando la filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perché i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare... E questo è il vero modo di filosofare, non già come si dice, perché la debolezza del nostro intelletto c'impedisce di trovare il vero positivo, ma perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro
raziocinio. Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco (Wieland), è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto...
In queste pagine esemplari alcuni punti fermi sono definiti nel modo più netto: la filosofia moderna coincide con il «vero modo di filosofare»; il suo metodo non dev'essere respinto, bensì praticato; esso consiste tutto e soltanto nel «disingannare e atterrare» (le sole costruzioni della filosofia moderna sono «sistemi in sostanza negativi») !5. Dunque — si deduce — dalla filosofia moderna bisogna espungere
tutte
le nuove
costruzioni,
le nuove
favole,
non
meno
dannose che false, come il progresso e l’amore universale, che caratterizzano — è necessario precisare — certo pensiero illuministico non meno che certo spiritualismo della Restaurazione 6. 14 Zib. 2709-2710 (il «pensiero» successivo, che approfondisce la questione, mette capo alla conclusione riportata nella nota 11); e cfr. 305 (7 novembre 1820); 1163 (13 giugno 1821); l’intero blocco di pp. 2705-2715 (21-22 mag-
gio 1823); 4190 (28 luglio 1826); 4192-4193 (1 settembre 1826); e le lettere al Bunsen del 3 agosto 1825 e allo Stella del 23 agosto 1827. 15 Ivi 2712.
!6Sul
danno
o sulla inutilità
del progresso
vedi
specialmente
Zib.
Un libro metafisico
Occorre
anzi
troppo a lungo leopardiano un che si presenta Massimamente come
realtà
aggiungere,
a questo
11
proposito,
che
è durata
la tendenza a considerare come centrale nel pensiero interno dibattito tra spiritualismo e materialismo ‘7, invece in esso come conseguenza e corollario di altro. lo interessa, infatti, il contrasto fra senso dell’essere
tutta
vivente,
insieme
una
e
infinitamente
«tempo» mitico evocato nel Discorso di un Italiano
varia
(il
e commemorato
nella canzone Alla Primavera o delle favole antiche), e visioni duali-
stiche — d'impronta spiritualistica o materialistica, teistica o atea — prodotte dalla ragione e che, inaugurate o aggravate dal Cristianesimo, si sono via via esasperate nella filosofia e nella vita moderna '8. 3973-3975 (11 dicembre 1823); sulla sua consistenza stessa, 4500-4501 (citazione da Rousseau) e 4507-4508 (8 e 13 maggio 1829); sulla distinzione tra guadagno delle masse e perdita dell’individualità, in seguito al progresso, 4368 (5 settembre 1828). Discorso del tutto diverso fa naturalmente Leopardi sul progresso inteso in senso puramente negativo, come pura distruzione di errori.
Sulla «fola e sogno» dell'amore universale cfr. ivi 889-892, da vedersi nel quadro della intera serie di «pensieri» che va da p. 872 a p. g11 (30 marzo-4 aprile 1821); sul sostituirsi della sua larva all'amore patrio, domestico ecc.: 4104 (27
giugno 1824). Sulla reale fiducia costruttiva di certo illuminismo si vedano il classico libro di P. HAZARD, La crisi della coscienza europea [1935], tr. it., Torino 1946 (specialmente i capitoli La felicità sulla terra e La scienza e il progresso) e il saggio di L. GOLDMANN, L'illuminismo e la società moderna tr. it., ivi
1967, pp. 47-48 e passim. Sulla posizione di Leopardi vedi G. GUGLIELMI, Manzoni, Leopardi e gli istituti linguistici, in Ironia e negazione, ivi 1974, pp. 44 e soprattutto 34: «il Leopardi lascia cadere proprio l'aspetto pratico dell’illuminismo, relativo al rinnovamento della società, l’idea dell'educazione come stru-
mento di adeguazione di realtà e ragione». !7 Non è possibile limitare la polemica leopardiana contro lo spirito e la «spiritualizzazione»
a polemica contro
il Cristianesimo,
se non
in quanto pro-
dotto e insieme causa ulteriore d’incivilimento. Oltre alle frecciate di Tristano nell’ultima Operetta (qui a pp. 498-501) e a posizioni univoche come quelle esposte in Zib. 1911-1913 (13 ottobre 1821) si vedano infatti, ancora nello Zibaldone, le pagine in cui, per es., il processo di «misera spiritualizzazione delle
idee» è visto in atto «da Omero in poi» (3613; 6 ottobre 1823) o la «spiritualizzazione della società» è considerata causa dell'impoverimento della lingua francese (2914; 8 luglio 1823), costantemente definita altrove serva della ragione.
Il lungo «pensiero» a p. 4111 (11 luglio 1824) contro il secolo «&minemment religieux, cioè spiritualista» (e insieme «secolo de’ lumi») può chiarire meglio di
altri luoghi l’atteggiamento dello scrittore (vedi, nella presente edizione, la n. 21 al Tristano).
18 Nel mondo moderno il reale è concepito e vissuto dualisticamente su
12
Introduzione
L'opposizione appare già in modo netto in una pagina dello Zibaldone che segue di pochi giorni alla distinzione tra poesia d’immaginazione
e poesia
di sentimento.
Isolando
una
questione
che
sentirà come attuale almeno fino al Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827), Leopardi trae ‘conseguenze spietate sull’indole del Cristianesimo e sul suo significato nella storia del pensiero e della sensibilità (nei giorni del «varcato Ticino» il solitario filosofo-poeta attraversa, senza possibilità di ritorno, fiumi infernali). Annota il 19 marzo 182119: La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de’ bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita... Ma se qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl’impe-
direbbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla natura e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la morte... Ora stando così la cosa ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore, ma per forza di verità, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire...; impediti,
dico, o dalla Religione, o dall’inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine, e di quello che ci
possa attendere dopo la morte?...
La deduzione è nettissima: Se la Religione non è vera, s’ella non è se non un'idea concepita dalla nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell’uomo: è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione...
Fino a una conclusione di crescente durezza:
. così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione della infelicità dell’uomo misero, ma non istupido né codardo, è l’idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell’uomo, e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragiona-
menti e meditazioni o i suoi pregiudizi. ogni piano: spirito e materia,
anima
e corpo,
ragione e passioni, individuo
e
società, individui e masse, e via discorrendo. E la vittoria sembra ormai certa per le astratte forze devitalizzanti: «... lo spirito ha consumato la materia» (Zib. 2912; 7 luglio 1823). 19 Ivi 814-818.
Un libro metafisico
13
Ora, si dà continuità fra gli errori «fabbricati dall'uomo», a partire almeno dal Cristianesimo fino all’«incivilimento non medio ma eccessivo del nostro secolo» 2, visti come gradi di un medesimo processo di dissacrazione del mondo. Del resto: «Non è egli un paradosso che la Religione Cristiana in gran parte sia stata la fonte dell’ateismo, o generalmente, della incredulità religiosa! Eppure io così la penso», afferma non il laico ma, semmai, il pagano Leopardi, disegnando «quasi un albero genealogico» dei progressi della incredulità dal giudaismo attraverso il cattolicesimo e le confessioni riformate 21.
3. Individuato il procedimento negativo come carattere specifico della filosofia moderna, preparata dal Cristianesimo,
Leopardi
decide a un certo punto di seguire fino in fondo quel «vero modo di filosofare». Senza mai smentire i suoi iniziali convincimenti sul mondo cristiano e moderno come epoche di esistenza impoverita ?2, non si limita, ora, al rimpianto, al lamento, alla protesta. Alla tattica, praticata nelle Canzoni e negli Idilli, di rimozione o di ribellione, sostituisce la paradossale strategia della messa in opera, fino alle conseguenze estreme, del metodo filosofico nuovo. Anziché condurre una battaglia di retroguardia, votata all’insuccesso, opera infine una disperata sortita dalla rocca delle illusioni, per non più rientrarvi: per attraversare invece, fino in fondo, le linee nemiche, usando le armi del nemico, fingendosi il nemico e anzi, in qualche modo, essendo il nemico. 20 Ivi 421-423 (dicembre 1820). Il corsivo è nel testo, in riferimento alla nozione di «civiltà media».
21 Ivi 1059-1062
(18 maggio
1821). Vedi ancora
1065, sul contributo
del Cristianesimo ai progressi della ragione. Benché altrove la discussione sia più articolata, la concezione del Cristianesimo come prodotto della «scienza» e della «esperienza del vero» domina anche la conclusione della Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto (vedi nella presente edizione le Pp. 537-538 e la nota 40 del commento). E anche nella Comparazione e nel Bruto minore, a cui fece da premessa nell’ediz. delle Canzoni del 1824, lo spunto è offerto dalla meditazione sul suicidio. 22 Basti ricordare il già citato passo del Tristano (1832) sul vigore degli antichi (qui a pp. 498-501): «... a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini,... gli antichi a confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini»; 0, dei Pensieri, il LXIX, che riprende Zib. 4308 (21 giugno 1828), sul diverso grado di dignità delle due temperie culturali.
14
Introduzione
Ormai chiuso alle «favole» della Incarnazione e Redenzione e dell'amore universale fondato su tali premesse 23, si è già appropriata la centrale verità negativa svelata o imposta da Cristo 24;
Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della virtù dell'innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d'ogni singolarità dell'animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo per natura è buono e felice, così la moltitudine (e l'individuo in essa) è malvagia e infelice.
Ma il rifiuto del mondo nel senso di società segna solo la prima tappa di un cammino che, attraverso dichiarazioni d’insoddisfazione in cui riecheggia la sola pars destruens di meditazioni agostiniane e pascaliane 25, metterà capo al rifiuto della natura e della vita e alla
individuazione del nulla come principio primo delle cose. Dal nulla che dilaga nella storia in forma di miseria morale e civile rappresentato nella canzone Ad Angelo Mai (1820) Leopardi arriverà, nel Cantico del gallo silvestre, a concepire il nulla come scaturigine di tutte le cose che sono 28. 23«Uno dei principali dogmi del Cristianesimo è la degenerazione dell'uomo...» osserva Leopardi il 1° maggio 1821, considerando poi «legato» con questo dogma quello della Redenzione e insistendo sulla degenerazione (e soltanto su di essa!) come «principale insegnamento del suo sistema» (Zib. 1004).
Si pensi anche al precoce fallimento (1819) del progetto di Inni cristiani (P. Pr I 426-428). 24 Zib. 112 (maggio 1820). Il tema ricompare nell’LxxxIv dei Pensieri, ma con una precisazione sulla novità di quella condanna che sembra riprendere antiche osservazioni zibaldoniane sulla responsabilità del Cristianesimo nella
corruzione della vita civile (116, 253, 254-255: tutte pagine del 1820). Il Pensiero LXXXV svolge infatti questo secondo motivo.
25 Questo tipo di rapporto, proposto per la prima volta da Vincenzo Gioberti (cfr. Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, raccolti da tutte
le sue opere ed ordinati da F. Ugolini, Firenze 1856, pp. 398 s., 402 s., 407 ss.), ha avuto lunga fortuna; su Pascal e Leopardi vedi almeno la lucidissima messa a punto di G. MACCHIA, Leopardi e il viaggiatore immobile [1980], in Saggi italiani, Milano 1983, pp. 259-261. 26 Cfr. nella presente edizione, p. 395. Sulla enigmatica ricchezza speculativa del Cantico vedi G. CERONETTI, Leopardi e il gallo cosmico, ne «La Stampa» del 18 novembre 1983, ora in L’occhiale malinconico, Milano 1998,
pp. 87-93.
Un libro metafisico
15
Nelle Operette morali la sua visione si tinge di colori non più «cristiani» ma «gnostici», espressi da un costante senso di estraneità
al mondo, che si traduce talora in quadri mitologici 27: la caduta dalla indifferenziata beatitudine delle Origini, la discesa di Amore Sotèr nella Storia del genere umano, la incarcerazione dell'anima eletta nel Dialogo della Natura e di un’Anima, l'apparizione della Natura in
figura di sordo demiurgo nel Dialogo della Natura e di un Islandese, la individuazione del nulla come dio-che-non-è, come gnostico «proprincipio», nell’apocalittico Cantico 8. O si pensi, al di là delle Ope-
rette composte nel ‘24, a quella «gnostica» maledizione del creato che è il famoso pensiero zibaldoniano del 19-22 aprile 1826 (con l’illuminante appunto-progetto che lo commenta: «Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.») 29: 27 Basteranno le virgolette a precisare che di cristiano e di gnostico vivono in Leopardi soltanto certi motivi, in ogni caso reinterpretati fino al rovescia-
mento, qualche volta, dei significati originari? Sarà poi chiaro che non si pre-
sume minimamente di affrontare qui la questione dei rapporti fra cristianesimo e gnosticismo. La contrapposizione leopardiana fra «prime» e «ultime» mitologie e il rifiuto di queste, inventate dai platonici e «massime» dagli «uomini dei primi
secoli della nostra era» (Zib. 4239-4240; 29 dicembre 1826), può forse testimoniare la diretta conoscenza
di testi giudicati mistificanti
e artificiosamente
oscuri, e tuttavia attraversati, forse, per una rivisitazione in chiave negativa della
mitologia antica. 28 «La genesi del mondo e la sua escatologia... rispondono... ad una cupa fantasia tra gnostica e orientale in cui l’opera divina è guastata dal tremendo Arimane e dai geni del male» ha incidentalmente osservato V. CILENTO, Leopardi e l’antico, in AA. VV., Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano 1963, p. 607. In un geniale saggio Guido Ceronetti ha poi indicato rapporti di consonanza tra rappresentazioni della luna nei Canti e quell’«esemplare groviglio simbolico e cultuale» che fu la religione selenitica della Samaria al tempo di Simon Mago (Intattà luna [1970], in Difesa della luna, Milano 1971, pp. 78-81). E non a caso pensatori come Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi definibili, in qualche modo, come gnostico-manichei, avevano colto meglio di ogni altro il carattere negativo del pensiero leopardiano: vedi, rispettivamente, La
filosofia di Leopardi, Roma 1940 e, in particolare, Lineamenti di filosofia scet-
tica, Bologna 1919, pp. 97-105. (Cfr. A. DEL NOCE, G. Rensi tra Leopardi e Pascal, in Giuseppe Rensi, Atti della «Giornata rensiana», Milano 1967, pp. 100,
106 ss.: e l'intervento di M. F. Sciacca, ivi, p. 168).
29 Zib. 4174-4175. Illuminante (o almeno suggestivo), l'appunto, se si pensa alle rispondenze individuate da qualche storico delle religioni tra pensiero
16
Introduzione
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l’'andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza
propria e generale, è un’imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. questa imperfezione
è una piccolissima cosa,
un
vero
Ma
neo, perché tutti i
mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conse-
guenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla...
E, come nella realtà storica dell'Occidente si succedettero messaggio
cristiano,
gnosticismo,
manicheismo 39, da queste
posizioni
pare aprirsi la via alla conclusione estrema della metafisica leopardiana, il tardo abbozzo dell'inno Ad Arimane dio del male, identificato a un certo punto con la natura e con Dio 31:
Re delle cose, autor del mondo, arcana Malvagità, sommo
potere e somma
Intelligenza, eterno
Dator de’ mali e reggitor del moto, te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio.
4. Indubbio è l’uso che Leopardi ora fa delle conquiste negative della scienza e della filosofia moderna, da Copernico a Galileo e Newton, da Cartesio a Locke 32, ma soprattutto di quei filosofi che, a presocratico, platonismo, gnosticismo e speculazione indiana (cfr. U. BIANCHI, Prometeo, Orfeo, Adamo, Roma 1976, p. 26 e altrove). 30 Naturalmente ci si riferisce alla successione di questi eventi nella storia dell'Occidente cristiano, senza presumere di affrontare la questione dei rapporti intrinseci.
31 P. Pr. I 434-435. 32 «... Cartesio, Galileo, Newton, Locke ec. hanno veramente mutato faccia alla filosofia» (Zid. 1857; 5-6 ottobre 1821).
Un libro metafisico
17
differenza di Cartesio e Newton «nella prima restaurazione della filosofia», «sempre togliendo, niente sostituiscono» 33. Tanto nettamente settecentesco (anche in questo caso soltanto nella pars destruens) 34, il pensiero leopardiano tende a un punto d’arrivo tutto diverso dalla costruzione di una umanità di credenti nell’avvento di un perfetto ordine sociale. Se nella «utopistica» Ginestra spererà in una generazione di uomini così coscienti della propria miseria da sentir la necessità di non accrescere il male che ci è stato assegnato, ora, tra ‘23 e ‘24, prospetta forse una condizione
di vita rinnovata
almeno in singoli istanti, ma per i soli individui illuminati dai bagliori
d'incendio del pensiero moderno. Portato al limite, il metodo negativo del filosofare ultimo dovrebbe poter condurre a qualcosa di simile alla totale ignoranza del bambino e del selvaggio «più vergine», soli sapientissimi e non esclusi dalla felicità; al riparo, almeno, dalla ossessione del male e della morte. Certo, adempiendosi perfettamente, la filosofia giungerebbe all’autodistruzione, ma soltanto sulle sue rovine potrebbe spuntare un altro modo di conoscenza, fondato sulla immaginazione, sul cuore, sulle passioni stesse, e in grado di cogliere il «poetico»
della natura, della «università delle cose». Scrive il 22 agosto 182335: Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz'aiutarsi dell’immaginazione né del sentimento, né dar loro alcun luogo, ch'è il procedere di molti tedeschi nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla... Si può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire l'università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata a produrre un effetto poetico generale; ed altri ancora particolari; relativamente al tutto, o a questa o quella parte. Nulla di #
33 Ivi 2709-2710 (21 maggio 1823). indi34 Chiarisce la questione in modo netto ed efficace M. A. Rigoni, dei «discorso al oltre che, Settecento quel con cando una serie di rispondenze
i di Lumi», ha conosciuto anche il «discorso dell'Ombra», per usare espression Mettrie] La e Leopardi [Su negazione e mo (Illuminis citate lui da G. Gusdorf [1978-79], in Saggi ecc., cit., pp. 83-86).
35 Zib. 3237-3245. E cfr. 1839-1840 (4 ottobre 1821), 1856-1860 (5-6 ottoecc. bre 1821), 1961-1962 (21 ottobre 1821), 1975-1976 (23 ottobre 1821)
18
Introduzione
poetico si scorge nelle sue parti, separandole l'una dall’altra, ed esaminan-
dole a una a una col semplice lume della ragione esatta e geometrica: nulla di poetico ne’ suoi mezzi, nelle sue forze e molle interiori o esteriori, ne’
suoi processi in questo modo disgregati e considerati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi fredda, morta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico di un metafisico che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun’altra forza o agente impiega nella sue speculazioni, ne’ suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione... Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose; ed elle il possono, perocché noi ne’ quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università ch’esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse solo in armonia col poetico ch'è nella natura... Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; o la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano, della natura e delle cose, come altrove ho diffusamente esposto. Un pensiero come questo permette di vedere non soltanto quali
modi di conoscenza e di stile Leopardi rifiutasse, ma anche, fino a un certo punto, come la sua «filosofia» gli si venisse definendo, su quali basi gnoseologiche si proponesse di fondarla, quale scopo primario le assegnasse. L'indagine della «natura», cioè della «università delle cose», sentita come una totalità vivente di cui siamo parte,
costituisce senza dubbio il compito primo della filosofia 36. Il rifiuto di qualsiasi costruzione metafisica e l'adozione del metodo filosofico moderno in quanto metodo essenzialmente negativo non conducono però a un'ottica «matematica» 37, da applicarsi a una realtà meccanica; il reale è invece sentito — aprioristicamente, si dica pure — come
vivente. I mezzi per scoprirne il senso sono individuati nella immaginazione e nel cuore. Insomma: la poesia, intesa non come evasione
36 Cfr. ivi 4138-4139 (12 maggio 1825). 37 Matematico equivale a filosofico nel senso che il mondo moderno dà alla filosofia, non nell’idea che Leopardi ha di questa; cfr. infatti, per es., il Frammento sul suicidio: «... la politica segue ad esser quasi puramente matematica,
in cambio d'esser filosofica» (in questo vol. a p. 586).
Un libro metafisico
e fantasticheria ma come
meditazione
sulle cose, è la più penetrante
19
appassionata e disinteressata
forma di conoscenza
della realtà
vivente. (Adorata o maledetta, la natura apparirà pur sempre come entità vivente;
la materia
mata) 35. A questunica
stessa potrà essere
conclusione
concepita come
«positiva»
approda
ani-
l’accogli-
mento leopardiano della filosofia moderna: una difesa della poesia concepita
come
conoscenza
e come
strumento
di vita morale:
«Se
alcun libro morale potesse giovare, — afferma Eleandro nel Dialogo
che nella edizione del ’27 costituiva l'epilogo della raccolta — io penso che gioverebbero massimamente
i poetici: dico poetici, pren-
dendo questo vocabolo largamente, cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi» 39. Certo è una poesia — occorre insistere — che, senza spiegare né
insegnare niente, reca in sé la tensione che da sempre ha animato la
ricerca filosofica e religiosa. E la prosa delle Operette esprime allo stato puro tale tensione; sembra anzi, in alcuni dei momenti più alti,
rappresentare al vivo quegli assoluti che il pensiero filosofico ha negato all'uomo o immaginandoli, come ha fatto Platone, antecedenti alle cose e dunque divisi da esse, o negandone la realtà, come ha fatto la filosofia recente più significativa; e che il sistema del sensista Leopardi mira invece a restituire nella loro concretezza. «Si può dire (ma è quistione di nomi) — ha scritto nel ’21 4°, in un tentativo di paradossale inveramento del platonismo — che il mio sistema non distrugge l'assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò che si chiama relativo». Precisamente: Distrugge l’idea astratta ed antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto e imperfetto indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così e sono così fatti; perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità estrinseca e da qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative
38 Vedi soprattutto Zib. 4288-4289 (18 settembre 1827). 39A p. 418 della presente edizione. La volontà di understatement, nata dalla consapevolezza della infinità del male, induce però Leopardi a esaltare una poesia che appena «per mezz'ora» escluda pensieri vili e azioni indegne. 4° Zib. 1791-1792 (25 settembre 1821). Il corsivo è nel testo.
20
Introduzione
diventano assolute, e gli assoluti in luogo di svanire, si moltiplicano, e in modo ch’essi ponno essere e diversi e contrari fra loro; laddove finora si è supposta impossibile la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava assolutamente e indipendentemente buono -0 cattivo, restringendo la contrarietà, e la possibilità sua, a° soli relativi, e loro
idee.
Rivolto a superare le antinomie fondamentali del pensiero occidentale
4’, il progetto sembra trovare pieno adempimento
in rappre-
sentazioni di figure e oggetti (e moti e ritmi) che appaiono, per la prima volta nelle Operette, come «aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così e sono così fatti».
Si pensi, per fare un esempio solo, ai segni di speranza che rassere-
nano il finale del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez: «... quella canna che andava in sul mare a galla, e mostra essere tagliata di poco; e quel ramicello di albero con quelle coccole rosse
e fresche...» 42. Anche nei Canti che nasceranno dopo l'impegno speculativo e polemico delle Operette morali ogni aspetto del reale tenderà a manifestarsi in epifanie altrettanto umilmente assolute #3. 5. Magnanima accettazione del proprio destino («... il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande» afferma il Parini alla fine della Operetta a lui dedicata), nella «infelice» — e splendida — «scena del mondo» (La vita solitaria, 47): pare questa l’unica via di uscita, se può considerarsi tale, dalle conclusioni sul male intrinseco all'essere, che Leopardi non abbandonerà più. Di fatto, il «risorgimento» degli affetti cantato nel 1828 e che annuncia
4 Immediatamente prima Leopardi ha ipotizzato la possibilità di una «sostanza composta ma immateriale», dopo aver giudicato sciocco «il considerare l’idea dello spirito come essenzialmente inseparabile da quella di ente semplice, e il confondere l’idea astratta della composizione con quella della materia» (ivi 1790). 42 Qui a p. 362. 43 Naturalmente i rinvii fatti sin qui a momenti, aspetti e precedenti del pensiero leopardiano non ne escludono affatto altri anche decisivi, come la scoperta di un «pessimismo antico» messa in luce da S. TIMPANARO, Il Leopardi e
ifilosofi antichi, in Classicismo e illuminismo nell'Ottocento italiano, Pisa 1963, pp. 199-208.
Un
libro metafisico
21
la ripresa della poesia in versi con i cosiddetti grandi Idilli, non implica in alcun modo un qualsiasi acquisto di fiducia, bensì l’accentuarsi di un atteggiamento di fronte alle cose, di cui le Operette offrono già l'indicazione e non soltanto in quei momenti di moltiplicazione dell’assoluto 44. Il racconto delle vicende umane nell’Operetta che apre la raccolta prospetta già un tragico «lieto fine»: Amore figlio di Venere celeste scende come deus ex machina a consolare gli animi dei pochi eletti, esposti più degli altri alle ferite della fortuna e degli uomini. Ma già prima del suo finale intervento la rappresentazione del ciclico susseguirsi di fasi paurosamente dolorose e di fasi meno aspre ha suggerito un senso di superiore pacificazione. E anche dopo la Storia l’esistenza del mondo e di ogni creatura viene configurandosi come moto perennemente circolare. Che appare, certo, sotto specie di «perpetuo circuito di produzione e distruzione» # quando se ne vedano gli effetti sulle creature (non sul «mondo», alla cui conservazione
ciascuna
serve
continuamente);
anche,
tuttavia,
come
ritmo
perfettissimo, quando sia contemplato per se stesso, al di fuori di qualsiasi preoccupazione per le sorti dei singoli esistenti. E l’Islandese riceve la rivelazione del perpetuo circuito dalla Natura stessa,
44 Nemmeno più tardi muta la visione negativa leopardiana. Spetta a W. Binni il grande merito di aver rivelato la tensione appassionata della «muova poetica» dopo la fase dei «grandi Idilli»; ma non appare convincente la successiva
proposta di una convergenza con la tesi luporiniana di un Leopardi, a suo modo, «progressivo» (vedi, di BINNI, La nuova poetica leopardiana, Firenze 1947, la Premessa alla II edizione, ivi 1962, p. XI, e Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, introd. a G. LEOPARDI, Tutte le opere, ivi 1969,
poi nel vol. La protesta di Leopardi, ivi 1974; e di C. LUPORINI, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, ivi 1947, poi in volumetto autonomo, Roma 1980).
}
45 Dialogo della Natura e di un Islandese (in questa ediz. a p. 245). La stessa idea e la stessa immagine s'incontrano già nello Zib. in un pensiero del 20 agosto 1821, in forma di rettifica a un'impostazione tutta diversa: «La natura è
madre benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e specie che in esso si contengono, ma non degl’individui. Questi servono sovente a loro spese al bene del genere, della specie, o del tutto, al quale serve pure talvolta con proprio danno la specie o il genere stesso. È già notato che la morte serve alla vita, e che l'ordine naturale è un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangia-
menti regolari e costanti quanto al tutto, ma non quanto alla parti» (1530-1531).
22
Introduzione
che gli è apparsa come un'entità «di volto mezzo tra bello e terribile». Attraverso la scoperta del moto circolare che governa le cose Leopardi, che ha intanto distrutto qualunque schermo ideologico lo separasse dal contatto col reale, sembra finalmente esser giunto a quella meta che si era prefissa: . la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza
prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto 49.
Tutta spiegata, nuda ed aperta sta la Natura davanti all’Islandese: tutta spiegata appare la natura davanti all'autore delle Operette, in un regale distacco in cui la bellezza si fonde con una indifferenza che alle creature sembra crudeltà 47. Non nel dimenticare le
46 Zib. 2710 (21 maggio 1823). Il nodo di pensieri sintetizzato dalla rappresentazione
del Dialogo implica un’altra, complementare
conclusione,
che
sarà resa esplicita in termini discorsivi nello Zib. il 2 giugno 1824: ossia il con-
vincimento della totale inadeguatezza della ragione alla conoscenza del reale: «Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (vedi il mio Dialogo della Natura e di un Islandese, massime in fine) che
dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni
nostra proposizione, e la facoltà stessa di poterne fare e concepire dei veri, dico
quel principio Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura... Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille qualità, non delle apparenti, ma delle
dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione. Non può
una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione» (4099-4100). 47 E Mario Praz ha trovato infatti sostanziale rispondenza tra gli argomenti svolti da Leopardi e il discorso di Almani nella Justine di Sade sulla crudeltà della natura (cfr. La carme, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze 19483, p. 292).
Un libro metafisico
23
conclusioni negative della ragione e nel tornare a una qualche speranza o fiducia sta per Leopardi la possibilità di una visione pacificata; bensì nella totale rinuncia a qualsiasi speranza e fiducia. L'in-
tervento salvifico di Amore si annuncia soltanto dopo che il ritmo ciclico della storia umana si è dispiegato lungo la narrazione; e Plotino esorta Porfirio a sopportare la fatica della vita per amore delle persone care dopo avergli ricordato come l’esistenza si svolga secondo un ritmo d’incessanti ritorni. Ma l'esempio più alto ed evidente di questa conquistata coscienza è offerto dal Coro di morti del Ruysch, dove la perfetta circolarità della forma coincide con la rappresentazione forse più ardita nell'intera opera leopardiana: di un ritorno
dalla morte
al pensiero
della vita, visto dalla parte della
morte, nella assoluta abolizione di ogni schermo tra prima e dopo, al
di qua e al di là, soggetto e oggetto. La «ignuda natura» dei morti appare infine in comunione col fondo di tutte le cose, nel quale si
acquieta ogni affanno. È il punto d’arrivo nella ricerca del «poetico» della natura, che si svela infine come morte intrinseca all’essere. E dall'ultimo grado della meditazione si libera di nuovo, a contatto con il cuore delle cose, la poesia in versi del Coro; s'impenna sulla prosa
che ha accompagnato l’arrivo a quella soglia. Se è possibile parlare di un superamento delle premesse nichilistiche nel corso delle Operette morali 4, è anche possibile indivi-
duarne le premesse fin dalla Storia. Nell’iniziale visione totalmente negativa è latente la disperata pace degli sviluppi ulteriori: l’estatica contemplazione dell’Elogio degli uccelli e del Colombo, l’abolizione del rimpianto e della speranza che scaturisce dalla considerazione del perenne ritorno di un tempo che si richiama alle Origini nel Venditore d’almanacchi, linvocazione di Tristano alla morte nell’altro . Dialogo del ’32, in cui si placa anche la tensione polemica, risorta, derisoria come mai prima, a spazzar via le favole moderne, capaci
48 Anche se non secondo lo schema triadico sovrapposto alle Operette da Giovanni Gentile (cfr. il Proenio alle Operette morali, Bologna 1918, pp. XX ss.). Sulla questione vedi anche L. BLASUCCI, La posizione ideologica delle «Operette morali», in AA. VV., Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, Padova 1970, I, pp. 621 s., poi in Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna 1985, pp. 165 59)
24
Introduzione
pur sempre, se non d’impedire il raggiungimento di una meta ormai chiara, d’intralciare il cammino col ricatto delle mezze verità. E la scoperta manifestata soprattutto dal Coro, permessa e quasi prodotta dalla più rigorosa strategia negativa, costituisce un punto fermo per lo svolgimento di tutta l’opera successiva, anche al di fuori
delle Operette morali. La presuppongono i risultati più alti dei «grandi Idilli», la melodia infinita del Canto notturno, che torna su se stessa con lo stesso andamento ciclico della luna interrogata dal pastore, l’offrirsi delle cose come in un eterno presente («Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare»), come se lo
sguardo del poeta avesse riacquistato l’acume fanciullesco e antico rimpianto fin dal Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, «quando
ciascun
oggetto che vedevamo
ci pareva
che in certo
modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare» 49. Da tutta la successiva poesia leopardiana, pur così capace di nuova vita, pare ancora posarsi sulle cose lo sguardo dei morti del Ruysch. Si potrà certo obiettare che il modo di conoscenza qui attribuito a Leopardi è dedotto soprattutto dall’analisi di fatti stilistici. Ma sarà obiezione fondata sul rifiuto della forza conoscitiva propria del testo poetico, che non è riducibile a mero veicolo di un pensiero già compiuto, ed è invece capace di costituire un suo proprio senso che, al limite, può persino contraddire il significato del messaggio esplicito 5°,
6. Dalla individuazione della prosa come strumento espressivo peculiare
del
poetare
moderno,
alla decisione
di farsi
filosofo
moderno e alla composizione nel ‘24 della massima parte delle Operette morali, Leopardi muove con passo incalzante verso la meta e, correndo un rischio massimo, gioca tutte le sue carte nella scommessa. Si trattava, in realtà, di una somma di rischi. Facendosi filosofo, filosofo moderno, Leopardi doveva evitare di fermarsi a mezza strada, prima di avere sradicato tutti gli errori costruiti dalla mente
49 P. Pr., II, p. 480.
5° Per tutto il paragrafo rimando al mio Di un Leopardi «patrocinatore del circolo», in «Sigma», 8, dicembre 1965, pp. 23-42.
Un libro metafisico
25
umana, tutte le «verità positive». Convertendosi alla filosofia, aveva
candidato se stesso come ultimo filosofo, come affossatore della filosofia; e nessuna garanzia gli si offriva, d'altronde, nonché di giungere alla meta, di verificare l'ipotesi di un ritrovamento, a quel punto, di una condizione conoscitiva e vitale incontaminata.
Sul versante formale il pericolo, altrettanto grave, era costituito
dalla possibile resa ai modi caratteristici della prosa moderna di stampo francese o francesizzante. La lingua francese è infatti sottoposta nella sua forma alla servità della ragione 53; in essa, poesia e
prosa sono state livellate da quella stessa forza nefasta. La lingua italiana, privilegiata dalla sua indole antica 52, offre però allo scrittore i mezzi per sottrarsi a quella schiavitù: Tutto ciò ch'è precisamente definito, potrà bene aver luogo talvolta nel linguaggio poetico, giacché non bisogna considerar la sua natura che nell'insieme, ma certo propriamente parlando, e per se stesso, non è poetico.
Lo stesso effetto e la stessa natura si osserva in una prosa che senza esser poetica, sia però sublime, elevata, magnifica, grandiloquente. La vera nobiltà dello stile prosaico, consiste essa pure costantemente in non so che d’indefinito. Tale suol essere la prosa degli antichi, greci e latini. E v'è non pertanto assai notabile diversità fra l’indefinito del linguaggio poetico, e quello del prosaico, oratorio ec. Quindi si veda come sia per sua natura incapace di poesia la lingua francese, la quale è incapacissima d’indefinito.... né solo di linguaggio poetico, ma anche di quel nobile e maestoso linguaggio prosaico, ch'è proprio degli antichi, e fra tutti i modemi degl’italiani
(degli spagnuoli ancora, e de’ francesi prima della riforma)... 53.
L'impresa di Leopardi, scrittore italiano, è diretta a offrire alla letteratura nazionale una prosa filosofica, che essa non possiede. La
51 Zib. 1897 (10-12 ottobre 1821). 52 Ibid. Anche per i molti altri possibili rimandi allo Zib. a proposito dell'indole e delle vicende della lingua italiana e della lingua francese vedi S. BATTAGLIA, La dottrina linguistica del Leopardi, in AA. VV. Leopardi e il Settecento Atti del I convegno internaz. di studi leopardiani (1962), Firenze 1964,
pp. 11-47 (poi in L'ideologia letteraria di Giacomo Leopardi, Napoli 1968, pp. 85-135; in questo vol. vedi anche La situazione della lingua italiana, pp. 137-161). La questione è stata ripresa da S. GENSINI in Linguistica leopar-
diana, Bologna 1984. 53 Zib. 1901-1902 (12 ottobre 1821).
26
Introduzione
presente situazione dell’Italia è caratterizzata dall'assenza di letteratura propria
moderna
e di filosofia moderna;
e se s'interpretano in
reciproco rapporto gli appunti alle pp. 1057-1058 e 1997-1998 dello Zibaldone 54, l'assenza di letteratura prosastica moderna appare come la conseguenza della mancanza di filosofia moderna. Né valgono a colmare il vuoto calchi eseguiti su modelli stranieri: la prosa italiana foggiata su schemi settecenteschi francesi ne ripete fatalmente l’aridità, la secchezza meramente geometrica, quindi si pone al di fuori di una tradizione che dev'essere ravvivata e non spenta. In Leopardi passione nazionale, coscienza linguistica, ricerca letteraria e tensione filosofica «negativa» tendono a convergere, in polemica sia con la restaurazione politico-sociale, il purismo linguistico, l’accademismo letterario, sia con il cosmopolitismo, «a vicendevole fratellanza delle scienze e delle arti, i miracoli dell’industria» 55, lo schematismo linguistico e letterario di origine francese, il carattere analitico della filosofia moderna: L'analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed
elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento
d'idee concomitanti, le dette parti o elementi d'idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza ch'è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì... non fa altro che esprimere idee già contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee madri, mediante l’analisi
che il progresso dello spirito umano ha fatto naturalmente di queste idee madri... Quindi la secchezza che risulta dall’uso de’ termini... 56,
Risalendo al ’21, un pensiero come questo appartiene, certo, a una fase ancora «antifilosofica»; tuttavia le posizioni raggiunte da Leopardi nel ’23 derivano, assai più che da un'inversione di rotta, da
un più rigoroso sviluppo di tali premesse. La scomposizione delle idee madri in idee particolari appare nel ‘21 come distruzione di totalità conoscitive, frantumate in verità positive particolari; nel ’23 il 54 17 maggio e 26 ottobre 1821. 55 Parole di Ludovico di Breme, citate con intenzione chiaramente ironica nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (in P. Pr., n, p. 482). 56 Zib. 1234-1235 (28 giugno 1821). I corsivi sono nel testo.
Un libro metafisico
27
procedimento analitico non è affatto rinnegato, bensì vagheggiato nelle sue conseguenze ultime: come sradicamento totale di verità positive sia generali sia particolari, e conquista di un Vero negativo.
Parallelamente, sul piano linguistico-stilistico, il rifiuto dei «termini» è mantenuto; ma l'attuazione di una prosa caratterizzata dalla ricerca dell’«indefinito» si concreta, nelle Operette, assai meno che negli Idilli e nelle Canzoni, come ricerca del «vago» e dell’«ardito» (meno che mai del «grandiloquente»): assai più, invece, come scoperta del senso negativo celato in tante voci o costruzioni «vaghe» «ardite» «poetiche» 57. Nel dibattere da vari angoli visuali la questione teorica e, al tempo stesso, nell’elaborare la sua nuova poetica di prosatore italiano moderno, Leopardi oscilla invero, nel giro di qualche anno, tra
ipotesi di soluzione anche distanti. Ma al disotto del susseguirsi di risposte anche divergenti è possibile scorgere un procedere, discontinuo ma graduale, verso il superamento di contrasti che dapprincipio sembravano insormontabili. Ad attenuare la constatazione che la «buona» lingua italiana non è mai stata «applicata» al «genere filosofico moderno e preciso», e a rafforzare il convincimento che essa possa e debba aprirsi anche a «quel genere filosofico che possiamo generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia, la psicologia (scienza de’ sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la logica, la politica più sottile ec.», che è «la parte principalissima e quasi il tutto degli studi e della vita d’oggidì», stanno le eccezioni registrate il 13 luglio 1821: gli scritti scientifici del Galilei, del Redi «e pochi altri», gli scritti politici del Machiavelli «e di qualche altro antico», «riusciti perfettamente quanto alla lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le cognizioni d'allora» 58. Con discorso più generale
il 30 ottobre la lingua italiana è giudicata capacissima di «stile preciso» e capacissima d’eleganza, anche se non
nei tempi moderni
57 Su questo procedimento vedi il cit. Linguaggio del vero in Leopardi, pp. 60 ss. (Spero che mi siano perdonati i rimandi a miei precedenti scritti, determinati dalla volontà di non ripetere argomenti svolti ampiamente altrove. La stessa intenzione
mi ha indotto a trattare qui per semplici cenni questioni
largamente discusse in molte note del commento).
58 Zib. 1316-1317.
28
Introduzione
(come si vede in Galileo 59, «purissimo italiano» se non elegante «dovunque è preciso e matematico»), e a differenza della lingua
francese, che è incapacissima di eleganza. Il 14 novembre Leopardi fa un’affermazione anche più larga: la lingua italiana essendo fra le lingue moderne formate la più antica di fatto e d'indole, la più libera ec. (tanto ch’ella vince in questa qualità la stessa latina sua madre) è sommamente capace di filosofia, per astrusa che possa essere, quando coloro che l’adoprano, sappiano conoscere e impiegare le
sue qualità, e le immense sue forze, e le forme di cui è suscettibile per sua natura, e volerla applicare alle cose moderne ec. 5°
A mano
a mano
che s’approssima il tempo delle Operette, la
meditazione leopardiana sui problemi che condizionano l’idea e la composizione del libro si concreta in blocchi di pagine dello Zibaldone via via più compatti. Tra il 1° e il 2 settembre
1823, a breve
distanza ormai dallo scatto inventivo del ‘24, Leopardi riempie di seguito ventidue
pagine,
dedicandole
interamente
alla situazione
dello scrittore italiano moderno. Motivi già dibattuti e spunti già proposti sono ripresi e immessi in un discorso che aspira all’organicità. I dati sono fissati in modo netto: assenza di lingua nazionale moderna in Italia, derivata dall'assenza di letteratura da più di centocinquant’anni, in coincidenza col sorgere e il progredire delle letterature europee, sensibili al movimento della cultura nuova: «Ciò singolarmente si può dire in quanto alla filosofia, la quale rinata dopo la detta epoca, e tutta nuova, fa parere più che pigmea la filosofia di tutti gli altri secoli insieme. Ella è divenuta la scienza, il carattere, la proprietà de’ moderni; ella regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna; ella ne è la materia e il subbietto; ella insomma è il tutto oggidì negli studi, e in qualsivoglia genere di scrittura; o certo nulla è senza di lei» 8. Gli scrittori italiani dei tempi recenti sono caduti in due errori opposti ed equivalenti: o hanno imi-
59 Cfr. ivi 2013. Su Galileo scrittore occorre vedere anche i giudizi, variamente impostati, a pp. 1312-1313 (13 luglio 1821), 2729 (30 maggio 1823), 4241 (6 gennaio 1827). 60 Ivi 2089. 61 Ivi 3321. La citata trattazione va da p- 3318 a p. 3340.
Un libro metafisico
29
tato la lingua e la letteratura antica, precludendosi la possibilità di essere scrittori vivi, o hanno imitato le letterature straniere e, di conseguen7a, i loro schemi linguistici, andando «a scuola dagli stranieri» e così seguendo «la barbarie venuta in uso». (Una barbarie — è
certo — non nazionale,
consistente
soltanto
nell’abbandono
ma piuttosto, visto che Leopardi non
della tradizione
è purista né nazio-
nalista né classicista in senso accademico, costituita dall’obbedienza a codici mentali ed espressivi tipicamente moderni). La constatazione
non
sembra
però impedire una via d'uscita:
da cercarsi non
certo nell’accettazione inerte del patrimonio linguistico italiano, ma nell’indole della nostra lingua, che è lingua «antica bensì, ma ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima»: volendo dare alla moderna Italia una moderna letteratura, conviene non già mutare la sua antica lingua, né disfarla, né rinnovarla, ma, salvi i suoi fondamenti, l'indole e proprietà sua, e tutti i suoi pregi secondo le loro speciali e proprie qualità, rimodernarla, e fare in modo che la lingua moderna italiana illustre sia propriamente una continuazione, una derivazione dell’antica, anzi la medesima antica lingua continuata 92.
Quanto più penetrerà nell’indole della lingua italiana, che è dinamica, tanto più, per questa via paradossale, lo scrittore ne attuerà il rinnovamento.
Consapevole del rapporto d’interazione che corre tra lingua e letteratura, Leopardi oscilla tra la speranza di un autentico rinnovamento linguistico affidato a scrittori che dovrebbero però fabbricarsi lo strumento con cui significare le loro idee, e la previsione di una nuova lingua foggiata da una nuova letteratura soggetta alle idee e al
gusto dominante 83: con mio dispiacere predìco che seppur avremo mai più lingua moderna pro-
pria, questa non nascerà dall'antica né a lei corrisponderà, ma nascendo dalla nuova letteratura, a questa sarà conforme: ed essendo di origine straniera, ci si verrà appoco appoco appropriando e pigliando forme nazionali (quai ch’elle saranno per essere; non già le antiche)...
62 Ivi 3324-3326.
63 Ivi 3333-3335:
Introduzione
30
Se «inutili allo scopo di dare all’Italia lingua e letteratura moderna propria» sono i letterati fermi alla tradizione cristallizzata e incapaci di pensiero, «non altrimenti che inutili» appaiono «coloro che tra noi pur pensano qualche cosa (ben pochi e poco), 0 che da’
paesi di fuori recano a noi qualche pensiero ec. i quali tutti non iscrivono italiano ma barbaro». Eppure, diviso tra speranze non confortate dalla realtà contemporanea e previsioni di uno sviluppo storico che avverrà nel segno della «barbarie», l'animo di Leopardi si orienta, nonostante tutto, nel senso della speranza, privo di altri
punti d'appoggio all’infuori di una non dichiarata ma trasparente fiducia nelle proprie forze. È, in realtà, un autoritratto il profilo dell’«italiano» che, come già nel Discorso intorno alla poesia romantica, si pone al di sopra dello scontro in atto dal 1816 tra conservatori e novatori, classicisti e romantici, paladini della tradizione nazionale e fautori di aperture europee, idolatri delle forme e agitatori di idee e problemi: incapaci, tutti, di operare una sintesi tra poli che soltanto in astratto appaiono contrapposti:
Quindi si consideri... la vera infelicità della condizione in cui si trova oggidì l'italiano che aspiri ad essere scrittor classico, cioè pensare originalmente, dir cose proprie del tempo, dirle in modo proprio del tempo, e perfettamente adoperare la sua lingua, senza le quali condizioni, e una sola che ne manchi,
non
si può mai né pretendere
giustamente,
né ragionevolmente
sperare l'immortalità letteraria. (Alla quale, e sia detto per incidenza, ben raro o niuno è che giungesse per mezzo
di opere scritte in lingua non sua;
come se noi spaventati dalle difficoltà che ho detto e son per dire, volessimo scrivere in francese piuttosto che in italiano) 54.
Il riferimento all'impresa individuale di Dante nel pensieropostilla del 2 settembre 182395 conferma che Leopardi pensa a un rinnovamento linguistico operato dall'iniziativa di uno scrittore nuovo. Sarà tuttavia un altro argomento, non deducibile da queste né da altre pagine, a svelare in modo decisivo la disperata fiducia che
a un certo punto prevale in lui: il fatto oggettivo che di là a qualche mese scelga di esser lui, nonostante tutti i segni riconosciuti avversi
È Ivi 3326-3327.
05 Ivi 3338-3340.
Un
libro metafisico
31
all'impresa, quello scrittore italiano moderno, prosatore e filosofo.
Se lo Zibaldone chiarisce tra il ’21 e il ’23 ragioni e modi del costituirsi nella mente di Leopardi dell'idea delle Operette, è l’esistenza delle Operette a rivelare al lettore d’oggi il senso più vero delle pagine zibaldoniane,
nelle quali le considerazioni
teoriche
non
si
esauriscono in sé ma si aprono alla progettazione; senza perdere, per questa loro natura eteronoma, vigore teoretico, eppure rinviando
oltre se stesse, a un piano più alto. Nei due tempi del processo co-
noscitivo leopardiano — dallo Zibaldone alle Operette morali — l’interpretazione della realtà storica si muta, davvero, nella sua trasformazione.
Scelta della prosa in accordo col pensiero moderno, seguìto solo in quanto distruttore di errori, antichi e nuovi, significa anche rifiuto
di schemi stilistici fissati da una letteratura filosofica e scientifica dominata dalla ragione «geometrica»; e la ricerca, al di là di essi, di un nuovo stile, atto a esprimere una visione totalmente spoglia d’inganni e, al di là di questa, il senso, non definibile in termini razionali, del rapporto profondo con la totalità, con la «università delle cose»,
non viziato da alcuno schermo ideologico, né antico né moderno. Una prosa, perciò, quasi assolutamente priva di abbellimenti, se non per ottenere effetti deformanti (come per es. nella Proposta di premi), del tutto aliena dalla floridezza lessicale e ritmica della tradizione avviata dal Boccaccio 66; spesso disadorna, invece, ma non nella soddisfatta compostezza di una scrittura filosofica o scientifica settecentesca; bensì come affiorante da un fondo di buio e di silenzio. E increspata da voci antiche, liberamente derivate da autori del Tre, del Cinque, del Seicento, o che rinviano alla origine latina; mai ripescate con
intenti puristici ma
sempre
a evocare
un «passato» non
definibile in termini storici 67; e, sintatticamente, prosa svariante da
una scansione aforistica ritmata secondo modi negativi a movimenti ampi, poggianti
su riprese, su ritorni; gravitante,
infine, intorno
a
66 Sul Boccaccio cfr. Zid. 1384-1386 (25 luglio 1821), sui suoi imitatori cinquecenteschi, 2536-2537 (30 giugno-2 luglio 1822). 67 C. Vossler considerò l’amore leopardiano per l’arcaismo come volontà di ritorno alla «semplice e fresca voce della gioventù dei popoli» (Leopardi, [1923], tr. it., Napoli 1925, p. 217).
32
Introduzione
pochi perni, costituiti da espressioni cariche di sensi simbolici, che riconducono ai centri della meditazione veramente filosofica: la felicità, la morte, il destino, il nulla. Se si riconosce che l’impulso motore della scrittura leopardiana è di tipo piuttosto conoscitivo che letterario e, d’altra parte, che il modello di esistenza al quale egli guarda per giudicare su quel metro il mondo contemporaneo non si può situare
in un
momento
storico
determinato,
occorre
prender
atto della difficoltà d’isolare un periodo di storia della prosa italiana (non si dice un autore) per trovarvi certe premesse di quei risultati. I ricorrenti arcaismi lessicali e sintattici rinviano a tutta la tradizione italiana fino a quel Settecento
in cui, effettivamente,
essa si tra-
sformò anche sotto l’urgere di un tipo straniero di prosa 68 formatosi in accordo con un pensiero razionalistico appagato dalle verità positive conquistate. Sulla scorta di giudizi formulati nello Zibaldone e delle scelte operate più tardi per la Crestomazia si potrà, al più, indicare una preferenza per il Cinquecento, visto come secolo della maturità prosastica 59. Ma, specialmente nell’operazione antologica, si tratta d’un Cinquecento tendente a uscire dai propri confini storici e a diventare categoria intellettuale e stilistica: se è vero, come è stato osservato, che il Cinquecento «reale» di Castiglione, Firenzuola, Gelli, Caro, Casa, Giambullari, Nardi, Porzio, Machiavelli, Guicciardini, Tasso, tende ad allargarsi in una sorta di Cinquecento
«emblematico», che comprende da un lato il supposto Pandolfini (in realtà Leon Battista Alberti), il Sannazaro, Pandolfo Collenuccio e, dall’altro, Galileo, Davanzati,
Bartoli e, ancora
sti Francesco
Alessandro
Maria
Zanotti,
Verri,
oltre, i settecentiGasparo
Gozzi 7°.
68 Da vedersi almeno G. FOLENA, Il rinnovamento linguistico del Settecento italiano [1965] in L'italiano in Europa, Torino 1983, pp: 5-66. 69 Vedi sulla questione M. MARTELLI, Leopardi e la prosa cinquecentesca, in «Filologia e critica», I, 1976, PP. 337-370, e poi in AA. VV., Leopardi e la let-
teratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani [1976], Firenze 1978, pp. 261-290. Sull’attenzione prestata al lessico di Guicciardini si leggono ricche e precise pagine di G. NENCIONI, Leopardi lessicologo e lessicografo [1980], in Tra grammatica e retorica, Torino 1983, pp. 281-295. 7° Cfr. G. BOLLATI, Introduzione a G. LEOPARDI, Crestomazia italiana. La prosa, intr. e note di G. B., Torino 1968, pp. LX-LXX.
Un libro metafisico
39
Soprattutto significativo è il caso di Galileo, esplicitamente dichia-
rato nell’Indice degli autori e dei libri della Crestomazia della prosa autore del secolo XVI e campeggiante nell'antologia come protagonista per una somma di ragioni sia linguistico-letterarie sia filosofiche 71. Se si terrà conto di questi dati e del fatto che anche all’interno di un determinato àmbito storico le preferenze e la reattività di Leopardi si manifestano specialmente di fronte a testi come quelli rac-
colti nelle sezioni Filosofia speculativa e Filosofia pratica della Crestomazia, si dovrà concludere che una ricerca, se non di «fonti», di premesse, di rispondenze nel passato a situazioni, quadri, spunti, modi stilistici delle Operette morali sarà più fruttuosa se orientata verso testi che potevano imporsi all'attenzione o riaffiorare alla memoria anzitutto per ragioni filosofiche. (Anzitutto, e non soltanto, s'intende; poiché Leopardi nega persino la possibilità di un pensiero separato dall’espressione 72).
6. Potrà persino accadere che la citazione esplicita e la nota dell’autore contribuiscano, anche in senso stilistico, al definirsi di quel tipo di prosa; e che, al tempo stesso, nella somiglianza di tratti e movenze formali con testi profondamente assimilati, citati o sottintesi, si avverta l’eco di un pensiero, il raggio di una visione ricono-
sciuta affine, sentita come passo decisivo nel cammino verso la «filosofia» ultima. Varietà di rapporti fra testo e note e, più in generale, tra esposi-
zione del pensiero dell’autore e precedenti posizioni offriva già il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, l'opuscolo composto nel 1815 che, nonostante la evidente immaturità, presenta aspetti di
non scarsa rilevanza nella storia dell’attività intellettuale e letteraria di Leopardi. Spetta in particolare a Giuseppe De Robertis il merito
di aver isolato dal discorso ideologico del Saggio una serie di momenti specialmente descrittivi che tendono alla contemplazione lirica e che hanno già l’aria arcana di certi punti delle Operette 73.
7! Cfr. G. BOLLATI, ibid, pp. XCHI-XCV. 72 Cfr. Zib. 1694 (13 settembre 1821). 73 Cfr. G. DE ROBERTIS, Saggio sul Leopardi, Firenze 19533, pp. 33-48.
34
Introduzione
Ma, in accordo con la poetica critica derobertisiana, l'accento batteva sui primi esempi di «irradiazione d’un personale sentimento nel mondo circostante» e su «certe variazioni trascritte con espertissima
mano, dov’egli parve talvolta scherzare all’imprevisto»; fino alla conclusiva proposta di accertare come il diciassettenne scrittore, «a furia di frugare nell’antico, negli antichi miti, abbia più volte scoperto sé a sé». Un altro filo sottile ma tenace congiunge invero, paradossalmente, il Saggio alle Operette: il piano di «rischiaramento», esibito ad ogni occasione nel pamphlet e apertamente dichiarato nei due
Dialoghi posti a suggello delle Operette, nell'edizione del 1827 e nell'edizione del ‘34. L'essenziale differenza che, in questa continuità, corre tra la polemica del Saggio e la polemica di Eleandro e di Tristano consiste in un diverso coefficiente di «illuminismo»: tutto italiamamente moderato, prudentemente conciliato con un cattolicesimo aperto alle conquiste della ragione, nel primo caso; portato, nei due Dialoghi, alle conseguenze estreme, fino alla negazione di princìpi e corollari fondamentali nell’illuminismo storico, premesse o mezzi essenziali alla sua battaglia contro le «tenebre». Negli anni dal
‘15 al 23 Leopardi passa da una posizione cattolico-illuminata all’abbandono della fede religiosa e al rifiuto di una ragione che, appena
superi quel grado di facoltà «naturale» che l’uomo ha in comune con gli altri animali 74, è all'origine dei tanto più funesti errori «artifiziali», «barbarizzanti» 75; fino alla scoperta di una linea negativa nella filosofia moderna (dunque nel più acuminato strumento della ragione), riconosciuta come l’arma più efficace per la distruzione di tutti gli errori, non soltanto di quelli popolari e antichi: anzi, di pre-
ferenza, di quelli prodotti dalla cultura e dalla società moderne (e in questa direzione si orienterà di preferenza la polemica dei tardi Pensieri). Affollate di citazioni e rinvii bibliografici, le pagine del Saggio attestavano, oltre all’ingenuo sfoggio del giovanissimo erudito, il definirsi di una forma mentale di tipo dialogico e anche, qua e là, la
74Cfr. Zib. 375 (3 dicembre
1820), 1681 (12 settembre 1821), 1825 (1
ottobre 1821).
75 Ivi 421-422 (dicembre 1820) e, nelle Operette, il Dialogo di Timandro e
di Eleandro (nella presente edizione cfr. pp. 434-435).
Un libro metafisico
35
nascente attitudine a incorporare la citazione e la nota a pie di pagina come elementi della complessiva composizione prosastica 75. In misura assai più ridotta il procedimento compositivo ricompare in
qualcuna delle Operette morali, a confermare come, senza confondersi l'una con l’altra, siano però indissociabili in esse invenzione
fantastica, contemplazione lirica, meditazione filosofica, dottrina libresca. La «Nota dell'Autore» aggiunge quasi sempre una pennellata indispensabile al colore della pagina o consente d’individuare esattamente il peso specifico del passo col quale entra in rapporto o permette l’istituirsi di rispondenze dottamente ironiche. Alla girandola d’insensatezze pensate dagli uomini sulla natura e la situazione della Luna, riferite dalla Terra nel Dialogo tra i due pianeti, fanno riscontro cinque note da Macrobio, da Tertulliano, da Sparziano, da Menandro rettorico, da Ateneo, dal Meursio, che attestano una ricorrente complicità tra cultura, vaniloquio e frode. Ancora, dunque, nello spirito del Saggio sopra gli errori popolari, dove questi autori sono già presenti tutti (e alcuni già compaiono nell’indice della Storia della Astronomia, compilata a quindici anni). Sennonché nell’Operetta due altre note rinviano alle «gazzette tedesche del
mese di marzo del 1824», alle Lettere americane di Gianrinaldo Carli pubblicate a Milano nel 1784 e alle Memorie enciclopediche dell’anno 1781, compilate dalla Società letteraria di Bologna: a documentare le recenti «scoperte» del sig. Gruithuisen e di Antonio di Ulloa, «errori» moderni, prodotti essi pure dall’instancabile orgoglio antropocentrico e affidati a quelli che sono i moderni strumenti della frode: gli atti accademici e soprattutto i giornali, i mezzi della nascente cultura di massa implacabilmente satireggiati poi nel Dia-
logo di Tristano e di un amico, nella Palinodia, nei Paralipomeni. Ma nel Saggio i numerosissimi antichi
e moderni nominati non
esaurivano l'elenco di autori ai quali Leopardi è debitore. E l’occultamento, certo intenzionale, di qualche fonte ampiamente sfruttata assume, almeno in un caso, un significato che va oltre i termini di un puro plagio. Nel capo quarto, Della magia, il silenzio steso sul nome di Scipione Maffei nasconde non solo debiti di natura erudita ma una precisa dipendenza ideologica. Attraverso il rapporto con questo 76 Cfr. G. DE ROBERTIS, 0p. cit., p. 44.
Introduzione
36
scrittore il Leopardi degli Errori popolari si svela infatti nel solco di una cultura cattolico-illuminata, settecentesca e italiana, caratterizzata dalla volontà di accordare tradizione e rinnovamento, ragione e
religione 77.
Qualcosa di simile può avvenire in qualche Operetta. L'indole culta della mente di Leopardi, il suo convincimento tempo palesi siano state oscurate
e si possa ricercarne
che verità un la traccia, il
suo senso della novità espressiva come riscoperta nelle voci antiche di primitivi significati perduti consigliano di affinare l'ascolto di ogni possibile risonanza e vibrazione anche in assenza di note e rinvii.
Può essere il caso di una parola isolata, come il si volve nel primo verso del Coro di morti nel Ruysch: a prima vista preferito alla forma si volge solo per la patina latineggiante, in accordo con la poetica del «pellegrino» che governa il lessico poetico e prosastico leopardiano; ma che a una lettura condotta con orecchio attento alla
fortuna della forma o del corrispondente vocabolo latino in autori frequentati da Leopardi, risulta ricco di risonanze precise e d’implicazioni semantiche che rimandano a contesti carichi di suggestioni. Le rispondenze con luoghi di Lucrezio, Cicerone, Orazio, Virgilio, Dante 78 rischiarano la scelta lessicale leopardiana di una luce più intensa. La parola appare come il primo passo del cammino intellettuale che si svolge nei versi seguenti: verso la scoperta e la rappresentazione di un perenne movimento ciclico sottostante alla barriera tra vita e morte, concepito sul modello di «quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose». E può riaffiorare nella prosa delle Operette il movimento di una frase, evocando una figura, un quadro, un mitologema. La reminiscenza (conscia o inconscia: ai fini che interessano la questione non 77 Nel capo quarto (Della magia) Leopardi attinge infatti largamente, senza mai citare la fonte, a scritti di Scipione Maffei sull’arte magica. L'appropriazione non si limita a citazioni e affermazioni singole, ma si estende all’impo-
stazione ideologica. Per questa via non il solo capitolo citato ma l’intero Saggio leopardiano si rivela non frutto di personale contaminazione tra fedeltà all’or-
todossia cattolica e atteggiamento filosofico illuministico, bensì erede di una linea di pensiero cattolico-illuminato che ha in Maffei un tipico rappresentante (v. C. GALIMBERTI, Scipione Maffei, Ippolito Pindemonte, Giacomo Leopardi e
la magia, nella «Rassegna della letteratura italiana», LIX, 1955 pp. 460-473). 78 Cfr., nel presente commento, la n. 2 a p. 298.
Un libro metafisico
37
è essenziale) assumerà valore eccezionalmente alto se si riveli parte di un contesto filosoficamente significativo. Potrà ripetersi, anche per le Operette morali, la scoperta di un rapporto con una certa tradizione di pensiero, come quella permessa per gli Errori popolari
dalla individuazione del marchese Maffei tra i persuasori occulti del libello. Ma, libera da qualsiasi calcolo, del tutto aliena da ambizioni erudite, la consonanza nascerà ora tra un pensiero che sta facendo il vuoto alla ricerca di un primum incondizionato, ed esperienze speculative già orientate
in questo senso.
Ed è il caso, crediamo, di
alcuni riscontri proposti dal presente commento
La Storia del genere umano, che occupa un posto assolutamente
privilegiato nella raccolta per la sua funzione di preludio, per l’ampiezza delle intenzioni dichiarata dal titolo, per le dimensioni stesse, offre un esempio che sembra degno d'attenzione. Già le «larve» Verità e Sapienza ricordano, non solo nei nomi, la qualità di Eoni gnostici: già l’intera Storia si svolge come narrazione di una Caduta o di ricorrenti Cadute da una condizione di totalità indifferenziata, da una sorta di pleroma secolarizzato. Ma il finale intervento di Amore figlio di Venere celeste sollecita ricordi anche più precisi, riscontri ad verba 79. E non si tratta di un esempio isolato: in un’altra
Operetta tutta dedicata ai misteri massimi delle cose, nemmeno essa strutturata dialogicamente (non si dà dialogo tra personaggi umani sui misteri massimi) la sorpresa si rinnova. Anche dal Cantico del gallo silvestre, soltanto in apparenza pura invenzione o contraffazione scoperta, in realtà liberissima variazione su un tema rabbinico, sbucano a un tratto i fantasmi di Valentino e di Basilide 8°. 79 Cfr. la n. 80 a p. 74 e le nn. 113 e 116 a p. 85. Agli amanti del «certo» si ricordi che gli Excerpta Theodoti si trovano di norma inseriti negli scritti di Clemente Alessandrino fra gli Stromata e le Eclogae propheticae: dunque anche nell’edizione settecentesca posseduta dalla Biblioteca Leopardi (Opera, recognita per Ioannem Potterum, Venetiis 1757). Clemente è poi autore citatissimo
nella Storia della Astronomia e nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e presente due volte nello Zibaldone. 80 V.la n. 21 a pp. 395-396 e la n. 33 a p. 400. Di Ireneo la Biblioteca Leo-
pardi possedeva l'edizione del Massuet (Parisiis 1720). La familiarità con i testi di eresiologi (e frammenti e testimonianze di eretici) fu per Leopardi precocis-
sima: nel 1814-15 costituiva in due quaderni manoscritti una raccolta di Fragmenta Patrum Graecorum Saeculi secundi, et Veterum Auctorum de illis testi-
38
Introduzione
Sono raffronti che, se si potesse dimostrare che Leopardi non conobbe quei testi, assumerebbero significato anche più forte: tanto
prodigiose dovrebbero allora apparire le somiglianze nel modularsi, in narrazioni così distanti, di certi ritmi e figure. Ne deriva, in ogni caso, un qualche accertamento della ipotesi sulla presenza di una componente gnostica in Leopardi. Che aiuta a superare le posizioni
dilemmatiche di chi ha visto in lui il più radicale materialismo e una anima
naturaliter christiana,
polemica
antiplatonica
e momenti
di
mitologia platonizzante 8. Non si tratta, naturalmente, di ridurre a una radice gnostica ogni aspetto della sua filosofia, connessa per tanta parte con gli immediati precedenti del sensismo e del materialismo settecenteschi, ma
di definire
almeno
il particolare colore che sensismo
e
materialismo poterono ricevere anche da essa. Che fu del resto (sia detto per tranquillità di chi paventi ancora interpretazioni «antistoriche») presenza sotterranea ma costante nel pensiero europeo, anche se in strati profondi e a lungo ignorati nella storia della cultura: nel pensiero poetico stesso che prepara e accompagna lo scoppio della Rivoluzione francese e l’avvento, i bagliori e il tramonto del mondo romantico: nella immaginazione di Blake, Novalis, Nerval, Poe, e poi nelle invenzioni narrative di Dostoevskij e di Kafka8:; anche di
monia, che comprende, fra l’altro, una trattazione ampia e analitica su Barde-
sane (Fragmenta Patrum Graecorum. Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta, 1814-1815, a cura di C. Moreschini, Firenze 1976, pp. 66-101).
81 «L'immaginazione è esclusa da questa prosa, come forza dello spirito, generatrice d'’illusioni, e contraria al vero. Ma ci sta in forma di mito o di favola... Di questi miti e invenzioni lo scrittore trovava notabili esempi in Platone» (F. DE SANCTIS, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, Bari 1953, p. 287). Un dualistico conflitto di materialismo e platonismo ha visto in Aspasia L. SPITZER, L’Aspasia di Leopardi [1963], in Studi italiani, Milano 1976,
Pp. 251-292. S. Timpanaro ha poi affrontato analiticamente il problema dei rapporti con Platone, distinguendo «il radicale antiplatonismo ideologico» dalla viva suggestione artistica esercitata da Platone sulle Operette, e in particolare
sulla Storia del genere umano (Il Leopardi e i filosofi antichi, in Classicismo ecc., cit., pp. 214-217). Vedi infine il più articolato Il materialista e le idee [1978] di M. A. RIGONI in Saggi ecc., cit., pp. 55-72. 82 Cfr. ]. DORESSE,
La Gnose, in AA. VV., Histoire des religions (Ency-
clopédie de la Pléiade), 1, Paris 1972, p. 420. Un ampio quadro di derivazioni o
Un libro metafisico
39
alcuni, dunque, tra i protagonisti — come Leopardi — della letteratura occidentale, nel tempo che va dalla Rivoluzione francese alla Romantik e dalla Décadence al secolo presente. 7. Si è qui cercato a più riprese d’indicare alcune premesse speculative e culturali al costituirsi delle Operette, sorprendendole nel momento
in cui stanno per incarnarsi in figure, in soluzioni nar-
rative, in movimenti
ritmici 83. Resta naturalmente inteso che i qua-
dri più ampi e relativamente organici delle idee leopardiane sono offerti dallo Zibaldone di pensieri, che può costituire da solo un ricchissimo oggetto d'indagine (non piccola parte della bibliografia lo concerne infatti in modo esclusivo e diretto). Ma in uno studio sulle Operette o sui Pensieri, i rinvii allo Zibaldone, largamente praticati, del resto,
in questa
introduzione
e nel commento,
conteranno
in
modo più specifico quando tendano già ad assumere una certa fisionomia formale. Anche su questo aspetto la letteratura critica è, in verità, vastissima: basti accennare alle ricerche sul passaggio di pensieri e spunti suggestioni o rispondenze offre, tenendo conto anche della filosofia moderna e contemporanea e in parte riprendendo conclusioni di altri, soprattutto dei grandi Quispel e Jonas, G. FiLoRAMO nella Introduzione (1. Gnosi e cultura
moderna. 2. Alla riscoperta dello gnosticismo) a L'attesa della fine. Storia della Gnosi, Roma-Bari 1983. Per Dostoevskij in particolare, vedi N. BERDJAJEV, La concezione di Dostojevskij [1921], tr. it., Torino 1945. Sulla presenza gnostica nella letteratura americana è da vedersi Agone [1982] di H. BLOOM (tr. it. Milano 1985). Per Leopardi, assente da tutti questi panorami, sembra impossi-
bile negare almeno clamorose rispondenze strutturali quando si parta, per es., dalla magistrale Phénoménologie de la Gnose [1952-1956], in En quéte de la Gnose di H.-C. PUECH, Paris 1978, 1, pp. 185-213: si pensi soltanto alla citazione dal Corpus hermeticum (X 10) a p. 203 («Le monde est beau, mais il n’est pas bon»: ‘O KaXòc k6opoc, odk EOTL 8e aya86c) che non può sembrare troppo diversa da affermazioni o immagini leopardiane riferite alla Natura: la «illaudabil maraviglia» di Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, v. 46, la «forma smisurata di donna... di volto mezzo tra bello e terribile» che appare all’Islandese. Dopo aver rinviato alla presente Introduzione, non considera però «necessaria» la reminiscenza di qualche lettura J. P. COULIANO (I miti dei dualismi occiden-
tali [1987], tr. it, Milano 1989, pp. 300-302).
83 Una analitica ricerca sullo sviluppo di propositi, disegni, abbozzi ha condotto O. BESOMI in Tra preistoria e cronaca delle Operette (prefaz. alla edizione critica, Milano 1979, pp. XIII ss.).
40
Introduzione
avviate da Luiso, Zumbini, Della Giovanna, estese e approfondite da Gentile
e De
Robertis,
poi sistematicamente
messe
a profitto da
Fubini nel suo commento 84. AI di là dei risultati particolari la questione essenziale resta, però, quella del tipo di rapporto tra la «filo-
sofia» esposta nello Zibaldone e la visione delle cose che traspare dalle Operette: certo più vicini, i ragionamenti zibaldoniani, pur nella enunciazione di taglio saggistico e talvolta aforistico, ai modi del pensiero discorsivo; e tutta incorporata, la concezione
che regge
le Operette, con la rappresentazione fantastica, con le figure e i ritmi stessi dello stile. Ogni proposta di soluzione presuppone invero determinati con-
vincimenti su questioni generali e particolari. Si tratta di decidere se la visione affidata all’espressione poetica abbia in sé valore conoscitivo; se, passando dall’enunciazione tica, un
autore
rinunci
discorsiva all’espressione poe-
necessariamente
alla tensione
conoscitiva
o
invece la modifichi e anche la accentui (come Dante dal Convivio alla Commedia); se, d'altra parte, nel caso di Leopardi, le Operette morali si debbano considerare opera autenticamente poetica. Rinviando al commento per i singoli casi in cui la questione si pone, ci si accontenta qui d’insistere sulla inevitabile connessione tra le diverse risposte possibili e i citati convincimenti. Si veda per esempio come il Luporini, incentrando il suo saggio quasi esclusivamente sullo Zibaldone, abbia duramente limitato il valore, anche poetico, delle Operette: «Dalle Operette morali non si penetra nello Zibaldone, ma viceversa. E ciò perché in quelle il Leopardi, presentandosi al pubblico si tiene come un passo indietro (qualche volta più di un passo indietro) e maniera e stilizza non poco, letterariamente, la sua posizione» 85: dove il processo di stilizzazione è visto,
evidentemente, come blocco opposto alla conoscenza e alla manifestazione del vero, e dove l’affermata presenza di una maniera letteraria sembra mettere in discussione il raggiungimento di risultati veramente poetici. 84 F, P. LuIso, Sui «Pensieri»
di G. Leopardi, in «Rassegna nazionale»,
CVIII, 1899; B. ZUMBINI, Studi sul Leopardi, Firenze, 1902-1904; G. DE RoBERTIS, Saggio cit. Per i commenti di Della Giovanna, Gentile, Fubini si rinvia alla Nota bibliografica.
85 Leopardi progressivo, in Filosofi ecc., cit., pazzinat
Un libro metafisico
41
Sospendendo il discorso, si rinvierà solo a qualche dato di fatto, a mostrare almeno come Leopardi abbia sentito il problema. Anzitutto a quelle pagine dello Zibaldone in cui afferma la convergenza di poesia e filosofia, e anche il primato della poesia (della lirica, per eccellenza)
come
forza conoscitiva:
poi al fatto che nei «privati»
appunti dello Zibaldone Leopardi rimanda più di una volta a qualcuna delle Operette, per indicarvi la prima scoperta di una verità, che ora si sforza di dimostrare per via discorsiva, come se quelle folgorazioni conservassero una carica di certezza indiscutibile 86. Si ricorderanno infine i tempi nella stesura dello Zibaldone: che si accelerano nel ’20-°21 quando i primi abbozzi di dialoghi fanno presentire le Operette, e nel ’23, alla vigilia delle prime venti invenzioni,
per decrescere negli anni successivi fino a spegnersi nel ’32 subito dopo i due ultimi Dialoghi 87. 8. Nate certo anche da una situazione di disagio personale e storico, le Operette morali appaiono quasi del tutto libere da quel tanto di misero che le sventure private e collettive portano con sé. A tal punto l’analisi razionale, la disincantata osservazione del mondo e la cultura storica e filosofica permisero a Leopardi di accertare come il
male da lui patito non derivasse soltanto dalle condizioni sue né toccasse soltanto lui, ma minasse in molte forme la società contemporanea: non solo: come sia inscindibile dalla condizione stessa dei viventi.
Eppure, benché la lucidità del pensiero domini il libro, e l’intervento del cuore e dell’immaginazione subentri, più che in termini di risentimento, nei modi del distacco più sovrano, le idee e persino
86 Zib. 4079-4081, 23 aprile 1824 (rinvio al Dialogo della Natura e dell’Anima [sic]; 4092, 21 maggio 1824, e 4130-4132, 5-6 aprile 1825 (al Dialogo di un Fisico e di un Metafisico); 4099-4100, 3 giugno 1824, e 4130 (al Dialogo della
Natura e di un Islandese); ancora 4130 (al Cantico del gallo silvestre) ecc.: cfr. L. BLASUCCI,
La posizione ecc., in Leopardi ecc., cit., pp. 169-170.
Natural-
mente nel passaggio dallo Zibaldone alle Operette sono state espunte poche affermazioni che colpivano direttamente e scopertamente verità di fede capitali, e che la censura non avrebbe lasciato passare: vedi in particolare, nella presente
edizione, le note 31, 35, 36, 37 al Dialogo di Plotino e di Porfirio (pp. 462-466).
87 Cfr. G. DE ROBERTIS, Saggio cit., pp. 64-65.
42
Introduzione
la forma delle Operette sono state troppo spesso ricondotte ai limiti psicofisici dell'uomo Leopardi. È noto che il poeta protestò subito,
in una lettera a Luigi de Sinner del 24 maggio 1832, contro l’interessata affermazione del cattolico-liberale Tommaseo, che fossero le
sofferenze fisiche a determinare il suo pessimismo: ... ce n’a été que par effet de la làcheté des hommes, qui ont besoin d’étre persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu'on ne doit qu'à mon
entendement.
Avant de mourir, je vais protester contre cette
invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutòt que d’accuser mes maladies.
In realtà, anche quando furono sostenute in clima positivistico con intenti «scientifici» 88, tesi simili valsero di fatto a esorcizzare un pensiero sgradito. Questo, talvolta inconscio, secondo fine aiuta
certo a spiegare il giudizio che ha pesato a lungo sulle Operette morali e sui Pensieri, che quella visione esprimono nel modo più netto. Si pensi alle tante riserve del De Sanctis stesso, naturalmente sospettoso di fronte alla «misantropia» di quel «repulso» e infastidito da certi caratteri tipici della sua prosa, fatti discendere (con diagnosi esatta, ma con valutazione fondata su criteri inaccettabili) da premesse di ordine intellettuale e morale: «... ecco un lavoro finito, degno di ammirazione, ma senza eco e senza effetto letterario, perché frutto d’ingegno solingo, e sente di biblioteca, e non esce di popolo» 89. O si ricordi il fastidio del Croce verso «quella parte dell’opera del Leopardi che è da riconoscere francamente viziata: le più delle Operette morali, e, in verso, segnatamente la Palinodia e i Paralipomeni», chiaramente provocato dal dispetto ideologico: «... personaggi, che sono meri nomi; dialoghi, che sono monologhi; prosa lavoratissima ma estrinseca, e che tiene sovente qualcosa del vaniloquio accademico. E in verso e in prosa irrise la fede del nuovo secolo, l’incessante accrescimento e ampliamento dello spirito
88 Si allude agli studi «psicoantropologici» di Lombroso, Sergi, Patrizi. 89 Op cit., p. 273; corsivi nostri.
Un libro metafisico
43
umano, il progresso, e irrise il liberalismo e i tentativi di riforme e rivolgimenti, e gli studi di economia e di scienze sociali, e la filosofia dei nuovi tempi che si affermava nei grandi pensatori di Germania,
e la filologia che si permetteva di rompere gli schemi tradizionali e scoprire parentele tra le lingue indeoeuropee, e insomma ogni cosa che desse indizio di vitalità, di inventività, di ardimento» 9°. (Dove sembra, sia detto per inciso, di riascoltare gli argomenti e le espressioni satireggiati da Tristano). Ebbene: per motivare il «malsano» di questa parte dell’opera di Leopardi, anche Croce chiamò in causa il suo corpo malato: «... si sentì, al primo avviarsi verso la gloria e l’amore, premuto, avvinto e sopraffatto da una forza brutale, da quella che egli chiamò la ‘nemica Natura), che gli spezzò gli studi, gli proibì i palpiti del cuore, e lo rigettò su sé stesso, cioè sulla sua offesa base fisiologica, costringendolo a combattere giorno per giorno per sopportare o lenire il malessere e le sofferenze fisiche che lo tormentavano invincibili» 9?. Perché
parentesi
queste
e rese
premesse
inoffensive,
zioni, diversamente
venissero
sono
contraddette
state necessarie
o
messe
tra
altre interpreta-
orientate; e con esse la forza speculativa e poe-
tica delle Operette morali acquista via via finalmente — o riacquista in modi più consapevoli 9 — il suo spicco. Si tratta anzitutto delle nuove letture di Giovanni Gentile e, su tutt'altro versante, dei rondisti; quindi di una serie ormai lunga di contributi 93. Più di recente,
9° B. Croce, Leopardi [1922], in Poesia e non poesia, Bari, 1935°, pp. 110112. 91 Ivi, p. 108.
92 Non è infatti possibile ignorare che, prima della «sistemazione» desanctisiana, la prosa delle Operette fu descritta e valutata in modo perfetto da PIETRO GIORDANI: v. in particolare Delle Operette morali del Conte Giacomo Leopardi, in Scritti editi e postumi, a cura di A. Gussalli, tomo Iv, Milano 1865. Né può trascurarsi — è stato rilevato — la giustezza della tempestiva recensione di G. MONTANI, «Operette morali» del conte Giacomo Leopardi [1828], in Scritti letterari, a cura di A. Ferraris, Torino 1980. Ma non si dimentichino, soprattutto, le folgoranti intuizioni, anche sulle Operette, di qualche eccezionale lettore straniero, da Schopenhauer a Nietzsche (cfr. almeno E. BIGI, Leopardi, in Firenze I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, | i Di 1955, II, pp. 395 SS.). colo fasci il di ricor si da» a «Ron 93 Per Gentile si rinvia alla nota 48. Dell
44
Introduzione
poi, anche il problema del rapporto tra malattia e pessimismo è stato decisamente riaffrontato da Timpanaro, che ha capovolto le conclusioni «ottocentesche», affermando che l’esperienza della malattia non fu certo, per Leopardi, irrilevante rispetto alle conclusioni del pensiero: ma finì col diventare, anziché un peso negativamente condizionante, «un formidabile strumento conoscitivo» 94. Dopo questa perfetta messa
a punto la questione può conside-
rarsi chiusa. E altrettanto si dovrebbe ormai poter dire di un’altra, non diversissima, questione: sul rapporto tra Leopardi e il suo tempo, sulla presunta origine del suo pessimismo da una «delusione storica» 95. Liberato il pensiero di Giacomo dall’ombra di una segreta solidarietà con le idee di Monaldo e, in genere, con atteggiamenti reazionari, spiegato con altri argomenti il suo rifiuto del progresso e
dedicato al Testamento letterario di Giacomo Leopardi (1921), con pensieri dallo Zibaldone scelti, annotati e ‘ordinati in sei capitoli, e con prefazione dovuta
a V. Cardarelli. Vedi quindi almeno, di R. BACCHELLI, Canti e Operette morali, scelta e commento di R. B., Milano 1946 (poi in Leopardi e Manzoni, ivi 1960). Quindi, di M. FUBINI: Operette morali, studio introduttivo e commento di
M. F., Firenze 1933 (Torino 19663); di G. DE ROBERTIS soprattutto il Saggio cit; di P. BIGONGIARI, Dal Logos al Dialogos. La struttura atemporale delle Operette morali [1937], in Leopardi, Firenze 1976; di E. BIGI, Tono e tecnica delle ‘Operette morali’ [1950], in Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, pp. 111-142; di G. COLLI, prefaz. alle Operette morali, Torino 1959 (tre pagine che rivendicano la forza filosofica del libro); di S. SOLMI, La vita e il pensiero di
Leopardi, Le due «ideologie» di Leopardi, Ancora su le due «ideologie» di Leopardi [1966-1971], in Studi leopardiani. Note su autori classici italiani e stranieri, Milano 1987; di G. GETTO, Poesia e letteratura nelle «Operette morali» [1965], in Saggi leopardiani, Firenze 1966 (Messina-Firenze, 19772); di M. Paz-
ZAGLIA: introduzione alle Operette morali, Bologna 1966 (con la decisa sottolineatura del Leopardi «metafisico» rispetto al luporiniano «moralista»); di L. BLASUCCI,
La posizione ecc., cit.; di S. CAMPAILLA,
La vocazione di Tri-
stano, Bologna 1977; di N. BoNIFAZI, La pantomima del riso e le Operette morali, in Lingua
mortale.
Saggi leopardiani,
Firenze
1981; di R. REGNI,
Ragione architettonica delle Operette morali, nella «Rassegna della letteratura italiana» 1981; ecc. 9% S. TIMPANARO, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Classicismo ecc., cit., pp. 157-158. E si vedano le proposte di approfondimento avanzate da A. Prete nella sua introduzione alle Operette morali, Milano 1976, PrO gnco:
95 Cfr. C. LUPORINI, op. cit., p. 227.
Un libro metafisico
45
delle istanze liberali, il citato saggio del Luporini ha proposto il profilo di un Leopardi impegnato, essenzialmente, a superare con spirito «progressivo» i limiti delle ideologie moderate del primo Ottocento. E se altri studiosi hanno procurato di rendere la tesi più verosimile 96, occorre pur dire che si tratta di tentativi che rimangono sempre all’esterno di un pensiero e di un’opera che reagirono, senza alcun dubbio, a un certo contesto socio-culturale, ma per rifiutarlo in blocco; così come rifiutano qualsiasi altro ordinamento, qualsiasi
altra possibile struttura sociale o politica appena diversa da una società primitiva o, al più, «antica»: appena minacci di oltrepassare il compito di permettere un reciproco aiuto fra tutti e intervenga, con
nuovi errori, a turbare le relazioni che sole hanno senso tra gli indi-
vidui. (Basti ricordare il convincimento, espresso nella lettera del 24 luglio 1828 a Pietro Giordani, che «la società umana abbia principii ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno,
ma
nessuno
Annotava
possa esser buono») 97.
il 12 maggio
1825, alcuni mesi dopo aver portato a
termine il grande blocco delle Operette 98: Ad ogni filosofo, ma più di tutto al metafisico è bisogno la solitudine. L'uomo speculativo e riflessivo, vivendo attualmente, o anche solendo vivere nel mondo, si gitta naturalmente a considerare e speculare sopra gli uomini nei
loro
rapporti
scambievoli,
e sopra
se
stesso
nei
suoi
rapporti
cogli
uomini. Questo è il soggetto che lo interessa sopra ogni altro, e dal quale non sa staccare le sue riflessioni. Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste in sostanza molto limitate, perché alla fine che
cosa è tutto il genere umano (considerato solo nei suoi rapporti con se stesso) appetto alla natura, e nella università delle cose? Quegli al contrario che ha l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di sé cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo
96 Cfr. specialmente S. TiMPANARO, cismo ecc., cit., pp. 133 Ss.
Alcune osservazioni
ecc., in Classi-
97 Quanto alla «utopia» prospettata nella Ginestra, rinvio al mio Messaggio e forma nella «Ginestra», in Poetica e stile, a cura di L. Renzi, Padova 1976, PP: 47-73. 98 Zib. 4138-4139. Corsivi nostri.
46
Introduzione
luogo, come per chi vive nel mondo i più interessanti e quasi soli interes-
santi rapporti sono quelli cogli uomini: l’interessa la speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della natura, del mondo, dell’esistenza, cose per lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti relativi alla società.
Subito respinto dallo spettacolo della guerra quotidiana sanzionata dalla civiltà moderna,
fattori costitutivi
Leopardi ne indica presto le radici nei
di ogni società
appena
diversa
dallo stato
di
natura '°°. Quindi, scavando ancora, ne mette in luce la prima radice
negli strati più profondi della natura stessa. Il pensiero di questo alloghenés '°* scopre infine che, in antitesi al «solido nulla» !°2 della vita snaturata e al male della natura rifiutati con orrore, «non v'è altro bene che il non essere» !°. A un nulla patito come disvalore e sofferenza intrinseci al vivere oppone in definitiva il Nulla come sola dimensione sovranamente libera da limiti, punto a cui tende nel suo ciclico moto Ogni creata cosa. E nel tentativo di concepire una con-
dizione libera dal male e dal dolore ripercorre così, o preannuncia, le esperienze estreme della meditazione filosofica e religiosa dell’Occidente 104,
99 Cfr. ivi 890-891 (30 marzo-4 aprile 1821) e, nel presente commento, le note 103 e 104 alla Storia del genere umano. 100 Vedi, nelle Operette, soprattutto La scommessa di Prometeo e nello Zib.
specialmente le pp. 3773-3810 (25-30 ottobre 1823). !°! «Straniero al mondo» (sulla nozione vedi H. JonAS, Lo gnosticismo, tr. it., Torino 1973, pp. 69-71, e H. C. PuECH, En quéte de la Gnose, cit., 1,
pp. 207-213); o anche, con altra parola carica di destino, absent (cfr. lettera a Giampietro Vieusseux del 4 marzo 1826). 102 Zib. 85: «Jo mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla». 103 Ivi 4174-4175 (22 aprile 1826). La limitatezza e il male dell’esistere, gnosticamente contrapposti alla «infinità vera, per dir così, del non esistere, del nulla» coinvolgono la totalità delle cose: «Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano sola-
mente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro
modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi». !04 Rivive, da un lato, motivi biblici, platonici, gnostici; precorre d’altro canto motivi che riappariranno, per esempio, in Nietzsche, in Heidegger (cfr. fra
Un libro metafisico
47
È dunque naturale e giusto, anche se può riuscire insostenibile
ai credenti in magnifiche sorti, che in tale visione le cose degli uomini appaiano prive di consistenza. (Grazie alla coscienza della «nullità del genere umano» '°5 si salvano invece, in realtà, i pochis-
simi beni che non si fondano su premesse orgogliosamente costruttive: l'amicizia, la compassione, la luce della poesia). Sarà da vedere ora, nella presente rovina delle ideologie, se le Operette, percorse da un senso metafisico che riduce a sé ogni altra preoccupazione, psicologica storica sociale politica, cesseranno dav-
vero di essere un libro inattuale.
1977, 1985
Cesare Galimberti
l’altro, dopo alcuni spunti cardarelliani, G. GABETTI, Nietzsche e Leopardi, in 1937; «Il Convegno», 1923-1924; G. AMELOTTI, Filosofia del Leopardi, Genova e tra 156-157; pp. cit., ecc., Atti Rensi, Giuseppe in Caracciolo, A. l'intervento di ou un gli studi più recenti M. A. RIGONI, «C'est un homme ou une pierre
arbre...» in Saggi ecc., cit., pp. 99-109).
os Così Leopardi definì l'argomento del suo Copernico in una lettera del
presente 21 giugno 1832 a Luigi De Sinner (cfr. la nota introduttiva a p. 437 del commento).
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Le Operette morali apparvero in quest'ordine: Delle Operette morali del conte Giacomo Leopardi. Primo saggio, nell’«Antologia», gennaio 1826 (furono pubblicati il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare); le medesime Operette furono ristampate nel «Nuovo
Ricoglitore» di Milano nei numeri del 15 marzo e del 16 aprile 1826; Operette morali del conte Giacomo Leopardi. Primo saggio, Milano, Stella 1826 («Estratto dal Nuovo Ricoglitore n. xv e xvI»); Operette morali del conte Giacomo Leopardi, Milano, Stella 1827 (il vol. comprende le prime venti
Operette, compreso il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio ed escluso il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, che, composto nel
1825, sarebbe dovuto entrare nel 1 vol. [n delle «Opere»] dell’ediz. 1834 ed entrò infine nell’ediz. del 1845); Operette morali di Giacomo Leopardi. Seconda
edizione
con
molte aggiunte
e correzioni
dell'autore,
Firenze,
Piatti, 1834 (raccoglie le venti Operette della ed. del ’27, più il Dialogo di un
venditore d’almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico, composti nel 1832); Operette morali di Giacomo Leopardi. Terza edizione corretta, ed accresciuta di operette non più stampate, vol. 1, Napoli
1835 («Opere di Giacomo Leopardi, vol. 11»): il vol. contiene le prime tredici Operette, disposte secondo l'ordine delle precedenti edd., ma escluso il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio; il vol. 1 non uscì perché
50
Nota del curatore
l’opera non ottenne il publicetur; Prose di Giacomo Leopardi. Edizione corretta, accresciuta, e sola approvata dall'autore, Italia 1835. (Si tratta della precedente ediz., con frontespizio sostituito); Operette morali, nel vol. 1 di Opere di Giacomo Leopardi, Edizione accresciuta, ordinata e corretta, secondo l’ultimo intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri, Firenze, Le Monnier, 1845. La presente edizione riproduce il testo nuovamente fissato dal Besomi (Operette morali, edizione critica a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fon-
dazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979), che peraltro si discosta soltanto in pochissimi punti, elencati a pp. LXXXII-LXXxIV, dal testo del Moroncini (Operette morali di Giacomo Leopardi. Edizione critica ad opera di Francesco Moroncini, Bologna, Cappelli, 1929, voll. 2). Non si è adottata, però, la lezione frazioni (anziché fazioni) alla fine del capitolo settimo del Parini, che non risulta nel suindicato elenco di innovazioni e che è forse dovuta a lectio facilior del tipografo; per la medesima ragione non si sostituisce far lume con fare lume nella quattordicesima battuta di dialogo del Copernico (sc. 1); evidenti errori di stampa sono poi il conosciute (per conosciuti) nel capitolo nono (riga 31 nell’ediz. Besomi) del medesimo Parini, e di giubilo (per il giubilo) nel capitolo terzo (riga 37) dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, la lenguas per las lenguas nella seconda nota dell'Autore a La scommessa
di Prometeo, lo stimo per la stimo nella battuta numero
dieci del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, della mia fante per dalla mia fante nella seconda battura di dialogo della sc. 1v del Copernico. Ecc. Per quanto riguarda i testi raccolti nella Appendice, la Comparazione
delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte si ripropone secondo la edizione Moroncini, il Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio (già presente nella raccolta moronciniana) secondo il testo riveduto dal Besomi (di fatto, coincidente). Tutti gli altri testi riproducono l’edizione Besomi, che presenta alcune innovazioni di un certo rilievo rispetto alla edizione Flora. Secondo l’edizione Flora è stato però ripubblicato il cosiddetto Frammento sul suicidio, non incluso nelle due edizioni critiche. Le Note poste da Leopardi alla fine delle Operette sono state qui incorporate nel commento, naturalmente seguite dalla indicazione (N.d.A.). Con la indicazione (N.ms.d.A.) sono state contraddistinte le note manoscritte, riportate in apparato sia dal Moroncini sia dal Besomi.
Nelle citazioni (nella introduzione e nel commento) da altri scritti leopardiani si rinvia, quando sia necessario alla individuazione del passo, alla edizione curata dal Flora (Tutte le opere di Giacomo Leopardi, a cura di
Francesco Flora: Le poesie e le prose, 2 voll, Milano, Mondadori, 19493 [indicate con l'abbreviazione P. Pr.]; Le lettere, ivi 1949). Per lo Zibaldone di
Nota del curatore
1
pensieri si è seguita l'edizione curata dal Binni e dal Ghidetti (vol. 11 di Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969); nelle citazioni si rimanda alle pagine dell’autografo, riportate sia nella edizione Binni-Ghidetti sia nella edizione Flora (Milano, Mondadori, 19493, voll. 2). I nomi chiusi tra parentesi senza indicazioni bibliografiche si riferiscono o a lessicografi (Tommaseo, Tommaseo-Bellini, Battaglia ecc.) o a commentatori e annotatori delle Operette morali. Delle edizioni commentate o annotate alle quali si è fatto ricorso, si dà qui di seguito l’elenco: R. Fornaciari (Prose scelte), Firenze, Barbèra 1891; N. Zingarelli, Napoli, Pierro, 1895; I. Della Giovanna (Le prose morali), Firenze, Sansoni, 1895 (ristam-
pate con prefazione di G. De Robertis, ivi 1957); G. Gentile, Bologna, Zanichelli, 1918; M. Porena (Prose scelte), Milano, Hoepli, 1921; I. Sanesi, Firenze, Sansoni, 1931;
M. Fubini, Firenze, Vallecchi 1933 (Torino, Loescher, 19663; poi in G. Leopardi, Opere, Torino, Utet, 1977); R. Bacchelli (Canti e Operette morali. Scelta), Milano, Garzanti, 1946
(poi in Leopardi e Manzoni, Milano, Mondadori, 1960); S. Solmi (in G. Leopardi, Opere, tomo 1), Milano-Napoli, Ricciardi, 1956 (poi in volume singolo: Torino, Einaudi, 1976);
E. Sanguineti (in Opere di Giacomo Leopardi, a cura di G. Getto), Milano Mursia, 1966 (poi in vol. singolo, a cura di G. Getto e E. Sanguineti,
ivi [G.U.M.] 1982); E. Ghidetti
(in G. Leopardi,
Tutte le opere, con
intr. e a cura di
W. Binni, vol. 1), Firenze, Sansoni, 1969 (19833); S. Orlando, Milano, Rizzoli (B.U.R.), 1976 (19844); O. Besomi,
Milano,
Fondazione
Mondadori,
1979 (oltre che per la
introduz., per i cappelli introduttivi alle singole Operette);
P. Ruffilli, Milano, Garzanti, 1982 (1984°).
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Dialogo della Moda e della Morte
Fattore unificante di questa Operetta è la meditazione sulla caducità delle cose umane, che le conduce alla morte anche per opera di quella sua
rappresentante squisitamente moderna che è la moda. Alla «vezzosissima Dea» Parini aveva dedicato Il Mattino, reagendo alle sue stravaganze con una satira amabile, drammatizzata, al più, da impennate moralistiche. Essa si converte qui in una fuga di metafisica potenza: in una incarnazione, tutta
propria del mondo moderno e proiettata nel futuro, della «morte-in-vita», in
un momento del cotidie morimur, reso visibile anche negli aspetti più modesti dell’esistenza dalla mentalità di un’epoca dimentica dei manentia, mercantilisticamente rivolta al transeunte, di cui la merce offre il modello. Per-
ciò Walter Benjamin ha tratto da Leopardi l’epigrafe «Moda: Madama morte! Madama morte!» per preporla a un pensiero sulla moda, in cui si legge: «Essa è in conflitto con l'organico; accoppia il corpo vivente al mondo
‘inorganico, e fa valere sul vivente i diritti del cadavere. Il feticismo, che è alla base del sex-appeal dell’inorganico, è la sua forza vitale. Il culto della merce lo mette al proprio servizio» (Angelus novas. Saggi e frammenti, tr.
it., Torino 1962, p. 146). Anche in questo dialogo, col tono di divertissement settecentesco, proprio delle battute più rapide e saltellanti, s’incrociano cadenze funebri; ne risultano effetti generali grotteschi, piuttosto tetri che divertiti.
100
MoD.
Operette
Madama
Morte, madama
morali
Morte *.
MOR. MOD. MOR. MOD. MOR.
Aspetta che sia l’ora, e verrò senza che tu mi chiami. Madama Morte. Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrari. Come se io non fossi immortale. Immortale? Passato è già più che 1 millesim’anno ? che sono finiti i tempi degl’immortali. MOD. Anche Madama petrarcheggia come fosse un lirico italiano del cinque o dell’ottocento 3? MOR. Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo 4,
1 L'invocazione,
settecentescamente
aggraziata,
rimanda
certa autonomia del significante, a un luogo dantesco (Inf. x
però,
per
una
118), e l'eco, sia
pur inconscia, non resta isolata nella struttura del Dialogo, ma si coordina con altri elementi diretti a un effetto unitario: il colloquio si svolge tra due personaggi in movimento, come talvolta avviene in Dante (cfr. Inf. xv 37 ss.) e non mancano altre reminiscenze o addirittura «allusioni» (in senso pasqualiano) alla I Cantica. Sono tutti fattori collaboranti, per associazione di situazione e di espressioni, alla resa di un quadro infernale. 2 Petr., R. V. E LI 77. A indicare il divario fra i tempi degli immortali e dei mortali, Leopardi ha scelto un verso della canzone Spirto gentil, traendolo
da una stanza imperniata sul contrasto fra magninimi antichi e «gente nova» dominante in Roma: «Passato è già più che ’1 millesim’anno Che ’n lei mancàr quall’anime leggiadre Che locata l’avean là dov’ell’era. Ahi nova gente oltra misura altera, Irreverente a tanta et a tal madre!». Il tema del contrasto fra grandezza e felicità antica e miseria moderna, è già proprio delle Canzoni leopar-
diane. Quanto all'inserimento di un verso in un contesto prosastico, si tratta di un artificio caratteristico
della «letteratura carnevalizzata»
(cfr. M.
Bachtin,
Dostoevskij, Torino 1968, pp. 142, 154) e che contribuisce a differenziare il modo in cui sono ripresi nelle Operette motivi delle Canzoni.
3 «La maggior fama degli scrittori del cinquecento fu a que’ tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch’erano servili imitatori del Petrarca e quindi del trecento, e si veda nell’Apologia del Caro, la misera presunzione ch’avevano di scrivere come il Petrarca...» (Zid. 2533; 30 giugno-2 luglio 1822); «Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel xvi secolo...» (ivi 4246, febbraio 1827); «Altro ostacolo alla durata della fama de’ grandi scrittori, sono gl’'imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v'è frase che non si sia mille volte sentita, a
leggerlo, pare egli stesso un imitatore...» (ivi 4491; 20 aprile 1829). 411 Trionfo della Morte fa propriamente parte dei Trionfi; il termine «rime»
Dialogo della Moda e della Morte
101
e perché parlano di me quasi da per tutto. Ma in somma levamiti d’attorno. MOD. Via, per l’amore che tu porti ai sette vizi capitali5, fermati tanto o quanto, e guardami.
MOR. Ti guardo. MOD. Non mi conosci? MOR. Dovresti sapere che ho mala vista, e che non posso usare occhiali, perché gl’Inglesi non ne fanno che mi valgano, e quando ne facessero, io non avrei dove me gl’incavalcassi 5. MOD. Io sono la Moda, tua sorella. MOR. Mia sorella? MOD. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità 7? MOR. Che m'ho a ricordare io che sono nemica capitale della memoria 8. MOD. Maio me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vadi9 a questo effetto per una strada e io per un’altra. MOR. In caso che tu non parli col tuo pensiero o con persona che tu abbi dentro alla strozza 9, alza più la voce e scolpisci meglio le
si deve dunque intendere nel senso generico di poesie in volgare. Peraltro, anche nel Canzoniere trionfa il motivo della morte. 5 In quanto affrettano la morte. 6 «Mala vista» ricorda il dantesco «mala luce» (Inf. x 100); il Della Gio-
vanna rinvia, d’altra parte, al Petrarca, Tr d. Morte, 1 37-38: «Io son colei che sì importuna e fera Chiamata son da voi, e sorda e cieca»; ma è proposta inaccettabile, poiché Leopardi stesso legge: «... Chiamata son da voi, e sorda e cieca Gente,...», e spiega: «gente sciocca, di corta veduta, di poco intendimento, di
giudizio torto». Si avverta l’effetto dissonante ottenuto con lo stabilire un rapporto fra la
morte e i tipi di occhiali fabbricati in Inghilterra e con l’allusione alla mancanza di naso della Morte, tradizionalmente immaginata in figura di scheletro. 7 Leopardi inventa una «sua» genealogia mitica, alla maniera del Parini in
più luoghi del Giorno, ma anche di Platone e degli gnostici. In questo punto va individuato il centro logico e poetico della Operetta, quanto mai serio. 8 Nel Trionfi petrarcheschi, testo ben presente al Leopardi, sulla Morte trionfa la Fama. 9 Sprezzatura ricavata dall’uso toscano parlato. 1° Anche «strozza» rimanda a Dante (Inf. vI 125).
102
Operette
morali
parole; che se mi vai borbottando tra’ denti con quella vocina da ragnatelo ', io t'intenderò domani, perché l'udito, se non sai, non mi
serve meglio che la vista. MOD.
Benché sia contrario alla costumatezza, e in Francia non si usi
di parlare per essere uditi '?, pure perché siamo sorelle, e tra noi possiamo fare senza troppi rispetti, parlerò come tu vuoi. Dico che la nostra
natura
e usanza
comune
è di rinnovare
continuamente
il
mondo '3, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe ‘4, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata e non manco di fare giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v'appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi !5 che io fo che essi vimprontino per bellezza; sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni, mettendo per costume che tutti gli uomini del paese abbiano a portare il capo di una figura '6, come ho fatto in
1 Qui il Casini ha sentito un’eco celliniana: «Menando certe sue manuzze di ragnatele, con una vocerellina da zanzara» (Vita 11 66). L'eterogeneità delle fonti cui Leopardi ricorre è essenziale al carattere mescidato del suo lessico in queste prime Operette più spiccatamente «menippee».
!? Giovanni Della Casa prescrive nel Galateo (capo xxm): «Non istà bene alzar la voce a guisa di banditore; né anco si dee favellare sì piano, che chi ascolta non oda». La frecciata contro l’uso di conversare in quella Francia che pure «è il centro della conversazione, e la cui vita e carattere e costume e opi-
nioni è tutto conversazione» (Zib. 4032; 15 febbraio 1824), va letta nel quadro della costante polemica leopardiana contro quella società nemica alla naturalezza del vivere. 13 Meta comune, nonché alla Moda e alla Morte, ai progressisti derisi nel
Dialogo di Tristano e di un amico. !4 Nella Palinodia. Al Marchese Gino Capponi Leopardi assocerà nella derisione l’aspetto dei «barbati eroi» (vv. 257 ss.) e i loro ideali di rinnovamento. Lo stesso motivo si ritrova nei Paralipomeni (1 5, 8). !5 Con tatuaggi. 16 «Ippocrate nel libro De aere, aquis et locis (p. 29, classe 1 dell’edizione
del Mercuriale Venezia, 1558, fol. ° ap. Juntas, in due tomi, ciascuno diviso in due classi) parla di una nazione che chiama de’ Macrocefali, presso i quali sti-
mandosi yevvarétaror [i più nobili] quelli ch’avessero la testa più lunga era legge che a’ bambini ancor teneri, quanto più presto colle mani si riducesse la
Dialogo della Moda e della Morte
103
America e in Asia !7; storpiare la gente colle calzature snelle; chiuderle il fiato e fare che gli occhi le scoppino dalla strettura dei bustini; e cento altre cose di questo andare. Anzi generalmente
par-
lando, io persuado e costringo tutti gli uomini gentili a sopportare ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi, e qualcuno a morire gloriosamente, per l’amore che mi portano. Io non ti vo’ dire nulla dei mali di capo, delle infreddature, delle flussioni di ogni sorta, delle febbri quotidiane, terzane, quartane ‘5, che gli uomini si guadagnano per ubbidirmi, consentendo di tremare dal freddo o affogare dal caldo secondo che io voglio, difendersi le spalle coi panni lani e il petto con quei di tela, e fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno. MOR. In conclusione io ti credo che mi sii sorella e, se tu vuoi, l'ho
figura della testa in modo che fosse lunga e così si facesse crescere obbligandola
con fasce e altre stretture. Aggiunge ch'al tempo suo questa legge e questo costume non s’osservavano più, ma che i bambini naturalmente nascevano colla testa così figurata, perché prodotti da genitori che tale l'avevano... Or vedi la parte 1 della Cronica del Perù di Pietro de Ciega..., capitolo XXVI, cart. 66, p. 2-67, p. 1 e capitulo L, cart. 136, p. 2 ed altrove, circa la stessa costumanza di figurar le teste de’ bambini a lor modo, propria di molte popolazioni selvagge
dell'America meridionale...» (Zib. 3961-3962, 9 dicembre 1823). 17 «In proposito di quest’uso, il quale è comune a molti popoli barbari, di
trasfigurare a forza le teste; è notabile un luogo d'Ippocrate, de Aere, Aquis et
Locis, opp. ed. Mercurial. class. I, p. 29, sopra una nazione del Ponto, detta dei Macrocefali, cioè Testelunghe; i quali ebbero per usanza di costringere le teste dei bambini in maniera, che elle riuscissero più lunghe che si potesse: e trascu-
rata poi questa pratica, nondimeno i loro bambini nascevano colla testa lunga:
perché dice Ippocrate, così erano i genitori» (N.d.A.); e «Buffon t. 3 p. 30 e
162. - de Cieza, Chron. del Perù, car. 66.67 e 136» (N. ms. d.A.)
18La climax, sottolineata dall’omoteleuto, segna il culmine di un discorso artifitutto impostato in senso espressionistico: dal verbigrazia che lo apre con ciosità ostentata, alla serie di verbi fortemente icastici, dalle insistite ripetizioni
e, e anafore («mille fatiche e mille disagi... dei mali di capo, delle infreddatur spalle le («... conclusive antitesi alle febbri...») delle flussioni di ogni sorta, delle modo ancorcoi panni lani e il petto con quei di tela», «fare di ogni cosa a mio
cfr. ché sia con loro danno»). Quanto all'uso di sforacchiare e abbruciacchiare cagioni insite ed vere principali, Zib. 1240-1241 (29 giugno 1821): «Una delle
la sua immensa della vera e propria ricchezza e varietà della lingua italiana, è Osserviamo radici. sue le frutto larghissimo a mette che facoltà dei derivati,
verbi fresolamente le diverse formazioni che dalle sue radici ella può fare de’
104
Operette morali
per più certo della morte '9, senza che tu me ne cavi la fede del parrocchiano 2°. Ma stando così ferma, io svengo; e però, se ti dà l'anima di corrermi allato, fa di non vi crepare, perch’io fuggo assai, e correndo mi potrai dire il tuo bisogno 2'; se no, a contemplazione della parentela, ti prometto, quando io muoia, di lasciarti tutta la mia roba, e rimanti col buono anno.
MOD.
Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle
due si vincesse
la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di
galoppo; e a stare in un luogo, se tu ne svieni, io me ne struggo. Sicché ripigliamo a correre,
e correndo,
come
tu dici, parleremo
dei
casi nostri.
MOR. Sia con buon’ora. Dunque poiché tu sei nata dal corpo di mia madre, saria conveniente che tu mi giovassi in qualche modo a fare le mie faccende. MOD. Io l'ho fatto già per l’addietro più che non pensi. Primiera-
quentativi o diminutivi. Colla desinenza in eggiare, come da schiaffo, da vezzo, da arma, da poeta, o poetare, da verso, schiaffeggiare, vezzeggiare, armeggiare, poeteggiare, verseggiare (e così da vano o vanare, vaneggiare, e pargoleggiare, e
spalleggiare ec. e da favore, come favorare, e favorire, così favoreggiare); in icciare...; in icchiare..., in ellare..., in erellare...; in olare...; in igginare...; in uzzare...; in acchiare...; come da foro foracchiare; in ecchiare...; in azzare...; in eare..., in ucchiare..., in onzare...; ed in altri modi ancora, che neppure qui finisce il novero, senza contare i sopraffrequentativi, o sopraddiminutivi, come ballonzolare, sminuzzolare ec. ec. ovvero diminutivi de’ frequentativi o viceversa... La pazza idea per tanto (ch'è l’ultimo eccesso della pedanteria) di voler proibire la formazione di nuovi derivati, è lo stesso che seccare una delle principali e più
proprie ed innate sorgenti della ricchezza di nostra lingua... Io non dubito (e l’esempio portato lo conferma) che nella immensità e varietà della facoltà certa stabile e definita ch’ella ha dei derivati, e nell’uso che ne sa fare e ne ha fatto, la lingua nostra non vinca la latina, e la stessa greca». La polemica leopardiana
contro la lingua francese e i francesismi ha dunque un senso opposto alla polemica puristica, poiché sorge come difesa non di un patrimonio immobile ma di una facoltà creativa, che fa della lingua italiana una espressione di vita proiettata
verso il futuro, in contrasto con la «geometrica» fissità — simile a morte — della lingua francese, espressione esemplare del razionalistico mondo moderno. 19 Evidente freddura, sulla bocca di un tal personaggio. 20 Senza bisogno di presentare il certificato di nascita, che — com’è noto —
giaceva negli uffici parrocchiali. 21 Altra reminiscenza dantesca? (cfr. Inf. xv 121-124).
Dialogo della Moda e della Morte
105
mente io che annullo o stravolgo per lo continuo ?2 tutte le altre usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi
dal principio del mondo. MOR.
Gran
miracolo,
che tu non
abbi
fatto quello che non
hai
potuto! MOD. Come non ho potuto? Tu mostri di non conoscere la potenza della moda. MOR. Ben bene: di cotesto saremo a tempo a discorrere quando sarà venuta l’usanza che non si muoia. Ma in questo mezzo io vorrei che tu da buona sorella, m’aiutassi a ottenere il contrario più facilmente e più presto che non ho fatto finora. MOD. Già ti ho raccontate alcune delle opere mie che ti fanno molto profitto. Ma elle sono baie per comparazione a queste che io ti vo” dire. A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita 23. Oltre di questo ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi,
22 Si noti l’uso di lo dopo per, normale nelle Operette, secondo la codificazione bembiana (Prose d. volg. lingua, m).
23 Lo spunto sarà ripreso — come nota il Fubini — nel Dialogo di Tristano e di un amico. Ma è motivo ricorrente nello Zibaldone: «Il corpo non era in così basso luogo presso gli antichi come presso noi. Par che questo sia un vantaggio nostro, ma pur troppo le cose spirituali non hanno su di noi quella forza che hanno le materiali...» (125); «Il vigore e il ben essere del corpo conferisce alla
serenità dell'animo, e la serenità dell'animo al vigore e al ben essere del corpo. Come per lo contrario la debolezza o mal essere del corpo, e la tristezza dell’animo. Così la natura aveva congegnata e ordinata ogni cosa alla più felice condizione dell’uomo» (358; 27 novembre 1820); «Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l'animo, e in genere come lo stato dell’animo corrisponda a quello del corpo, vedi alcune sentenze degli antichi nella nota del Grutero a Velleio, II, 102, sect. 2» (473; 5 gennaio 1821); e soprattutto: «Oggidì è cosa molto
ordinaria che un uomo veramente singolare e grande si distingua al di fuori per un volto o un occhio assai vivo, ma del resto per un corpo esilissimo e sparutissimo, e anche difettoso. Pope, Canova, Voltaire, Descartes, Pascal. Tant'è: la grandezza appartenente all’ingegno non si può ottenere oggidì senza una continua azione logoratrice dell'anima sopra il corpo, della lama sopra il fodero. Non così anticamente, dove il genio e la grandezza era più naturale e spontanea, e
106
Operette
morali
che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell'animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte 24. E quando che anticamente tu non avevi altri poderi che fosse e caverne, dove tu seminavi ossami e polverumi al buio 25, che sono semenze che non fruttano; adesso hai terreni al sole; e genti che si muovono e che vanno attorno co’ loro piedi, sono roba, si può dire, di tua ragione libera 25, ancorché tu non le abbi mietute, anzi subito che elle nascono. Di più, dove per l’addietro solevi essere odiata e vituperata, oggi per opera mia le cose con meno ostacoli a svilupparsi, oltre la minor forza della distruttrice cognizione
del vero inseparabile oggidì dai grandi talenti, e il maggior esercizio del corpo riputato cosa nobile e necessaria, e come tale usato, anche dalle persone di gran genio, come Socrate ec. E Chilone uno de’ sette savi, non credeva alieno dalla
sapienza il consigliare come faceva, eù tò owpa dokew [esercitar bene il corpo] (Laerzio), e questo consiglio si trova registrato fra i documenti della sua
sapienza. In particolare poi quanto alla politica, oggidì l’uomo di stato si può dir che sia come l’uomo di lettere, sempre occupato alle insaluberrime fatiche del gabinetto. Ma nelle antiche repubbliche chi aspirava agli affari civili; e nella sua giovanezza fortificava necessariamente il corpo cogli esercizi, la milizia ec. senza i quali sarebbe stato quasi infame; e lo stesso esercizio della politica era pieno di
azione corporale... Così anche la vita di qualunque altro uomo di genio era sempre piena di azione nell'esercizio stesso delle sue facoltà...» (207; 11 agosto
1820). E v. anche le pp. 830-832, 1599-1602 («... il pieno ben essere e floridezza del corpo, è perfezione, non
mica accidentale,
ma essenziale e propria del-
l’uomo e ordinata dalla natura... Insomma egli è più che evidente che la nosologia cresce di volume, e la salute umana decresce, in proporzione della civiltà...») ecc. ecc. Ed è il tema della canzone A un vincitore nel pallone («Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi» 38-39). Anche per questo aspetto della sua polemica contro lo «spiritualismo» moderno, paradossale figlio del Cristianesimo, Leopardi prelude a Nietzsche.
24 È il «secol morto» della canzone Ad Angelo Mai 4. 25 Possibile ricordo foscoliano: «... infinite Ossa che in terra e in mar semina morte» (Sep. 14-15). In Leopardi il quadro è meno grandioso ma più
grottescamente macabro, grazie alla precisazione che segue («che sono semenze che non fruttano»), condizionata dall'immagine dei «poderi», e grazie alla deformazione espressionistica conferita dai suffissi agli «ossami» e ai «polverumi». 26 Di tua proprietà. Così come sono già proprietà dell’inferno i dannati nell’ultima zona dell’ultimo cerchio, prima ancora d’esser morti. Ma il motivo, che
pervade tutta la canzone Ad Angelo Mai, troverà nuova forza nella poesia del Novecento: si pensi alla «ghiacciata moltitudine di morti» che popola lo spazio abitato dal montaliano Arsenio o, ancora in Montale, alla «morte che vive» delle Notizie dall’Amiata.
Dialogo della Moda e della Morte
107
sono ridotte in termine che chiunque ha intelletto ti pregia e loda, anteponendoti alla vita, e ti vuol tanto bene che sempre ti chiama e ti volge gli occhi come alla sua maggiore speranza 27. Finalmente perch’io vedeva che molti si erano vantati di volersi fare immortali, cioè non morire interi, perché una buona parte di se non ti sarebbe capitata sotto le mani ?8, io quantunque
sapessi che queste
erano
ciance, e che quando costoro o altri vivessero nella memoria degli uomini, vivevano, come dire, da burla, e non godevano della loro fama più che si patissero dell’umidità della sepoltura 29; a ogni modo intendendo che questo negozio degli immortali ti scottava, perché parea che ti scemasse l’onore e la riputazione, ho levata via questusanza di cercare l'immortalità, ed anche di concederla in caso che pure alcuno la meritasse. Di modo che al presente, chiunque si muoia, sta sicura che non ne resta un briciolo che non sia morto, e che gli conviene andare subito sotterra tutto quanto, come un pesciolino che sia trangugiato in un boccone con tutta la testa e le lische 3°. Queste cose, che non sono poche né piccole, io mi trovo 27 Giustamente il Fubini rimanda ad Amore e morte 96 ss.: «E tu, cui già dal cominciar degli anni Sempre onorata invoco, Bella Morte, pietosa, Tu sola al mondo dei terreni affanni, Se celebrata mai Fosti da me, s’al tuo divino stato
L'onte del volgo ingrato Ricompensar tentai, Non tardar più, t'inchina A disusati preghi, Chiudi alla luce omai Questi occhi tristi, o dell’età reina». Si può rinviare
anche al finale del Dialogo di Tristano e di un amico: «... ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa... Troppo sono maturo alla morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono spiritualmente...
durare ancora quaranta o cinquant’anni...»: dov'è riproposto il rapporto tra morte-in-vita
e morte come fine dell’esistenza, paradossalmente preferibile.
28 [allusione è diretta a Hor., Carm. III 30, 6-7: «Non omnis moriar, multaque pars mei Vitabit Libitinam». 29 I] foscoliano vivere nella memoria dei posteri è diventato un vivere «da burla». Qualsiasi compromesso è escluso dal coerente materialismo leopardiano. 30 S’infittiscono i modi negativi, in accordo con la rappresentazione del-
l'annullamento totale operato dalla morte («non ne resta un briciolo che non sia morto»); l’immagine del pesciolino mantiene peraltro in una tonalità «comica» anche questo più cupo passaggio dell’Operetta. Il motivo della impossibilità, nei tempi moderni, di conseguire la gloria e della sostanziale vanità di questa troverà più ampio sviluppo nel Parini. Accennandovi qui, la Moda mostra di aver ormai assunto sugli uomini una potenza che non tocca più soltanto barbe,
capelli, vestiti. Che essa, figlia della Caducità, condizioni ora anche le idee, è il segno del suo trionfo definitivo e della sua aperta alleanza con la Morte, che
viene infatti stretta formalmente in questa chiusa del Dialogo.
108
Operette
morali
aver fatte finora per amor tuo, volendo accrescere il tuo stato 3! nella terra, com'è seguito. E per quest’affetto sono disposta a far ogni giorno altrettanto e più; colla quale intenzione ti sono andata cercando; e mi pare a proposito che noi per l’avanti non ci partiamo dal fianco l'una dell’altra, perché stando sempre in compagnia, potremo
consultare insieme secondo i casi, e prendere migliori partiti che altrimenti, come anche mandarli meglio ad esecuzione. MOR. Tu dici il vero, e così voglio che facciamo.
3! Dominio, regno. L'Operetta termina lasciando intravedere possibili sviluppi del patto appena stretto: la Proposta che segue può offrire un esempio del dominio esteso dalla Moda (e per lei dalla Morte) sulla mente degli uomini
moderni, affascinati dalla prospettiva di trasformare secondo i dettami delle idee
correnti la stessa immutabile natura umana.
Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi
L'Operetta, composta dal 22 al 25 febbraio 1824, «ricorda un po’ il fare satirico dei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini» (Della Giovanna), ma rivolgendosi a un oggetto tutto moderno: a quel dominio della tecnologia sugli uomini, di cui Leopardi poteva scorgere il fatale imporsi, non fondandosi su esempi offerti dalla società italiana, in questo senso ancor arretrata, bensì traendo coerenti deduzioni dalle premesse fondamentali della cultura moderna e dagli effetti di alcune invenzioni esemplari. V. infatti, per «Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perché al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia la lussuria e l’ignavia. Ora queste non sono madri ma sorelle di quell’ef| fetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri, né forza e impeto e ardore il primo aspetto, Zib. 21-22:
d’animo, né grandi azioni che per lo più sono pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come sono la gloria l'amor della patria la libertà ec. ec. cerca i solidi cioè i piaceri carnali osceni ec. in somma
terrestri, cerca l'utile suo proprio sia consistente nel danaro, o altro,
diventa egoista necessariamente... E però non c'è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un
110
Operette
morali
popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staél ec. ma barbaro; al che noi c'incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati». Per il secondo aspetto v., invece,
ivi 978: «Per l'invenzione della polvere l'energia che prima avevano
gli
uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicché ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare. Biblioteca Italiana, t. v, pag. 31. Prospetto Storico-filosofico ec. del conte Emanuele Bava di S. Paolo, 2° ed., ult. estratto (23 Aprile 1821)». (Il Bava aveva scritto: «Del resto l'invenzione della polvere ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare, poiché per essa l'energia che prima avevano gli uomini, si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli
uomini»: nota di F. Flora in Zib., a cura di F. F., Milano 1949, I 1605). Sulla insensatezza e inutilità delle scoperte e invenzioni modeme Leopardi impernierà più tardi (nel ’35, secondo il Bosco, Sulla datazione di alcuni Canti leopardiani, in Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano 1963, p. 621) la Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Stilisticamente, la Proposta sfrutta, forse più di ogni altra Operetta, effetti di pastiche, in accordo sia con il contraddittorio disegno dell’Accademia di far costruire macchine atte al miglioramento morale dell’uomo, sia con la natura delle divinità olimpiche contemporaneizzate, sia, infine, con l’intento di satireggiare lo «spirito di gravità» dei dotti poi bollato da Nietzsche, la loro «chiacchiera».
L'Accademia dei Sillografi* attendendo di continuo, secondo il suo principale instituto2, a procurare con ogni suo sforzo l’utilità
! Sillografi furono detti gli autori di ciMot, genere poetico tra il burlesco e il satirico, tipico dell'età ellenistica (ma non si dimentichino i X{Mot di
Senofane che — come si vedrà — Leopardi dovette ricordare anche nel concepire l’Operetta successiva). Cfr. Zib. 4035: «ZiMoc, ciMot, o Moi si fa derivare da IMoc occhio tapà Tò Bracetew Todo {Mouc. Vedi Scapula e Menagio, ad Laert., in Timon., IX, 111... Da c{Moc occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde
oMalvew
sarebbe quasi far l’occhiolino, in senso però di deridere ec. La
metafora è naturale, perché il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione
risiede e si esprime cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22 Febbraio 1824)». 2 Statuto; anche la forma grafica è illustre, in accordo con la sostenutezza accademico-burocratica del periodare e di qualche tipica locuzione «atten-
dendo... e stimando... ha tolto a considerare diligentemente... maturo esame si è risoluta...».
e dopo lungo e
Proposta di premi fatta dall'Accademia
dei Sillografi
111
comune, e stimando niuna cosa essere più conforme a questo proposito che aiutare e promuovere gli andamenti e le inclinazioni Del fortunato secolo in cui siamo, come dice un poeta illustre 3; ha tolto a considerare diligentemente le qualità e l'indole del nostro tempo, e dopo lungo e maturo esame si è risoluta di poterlo chiamare l’età delle macchine 4, non solo perché gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno
tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari eser-
3 Cioè G.B. Casti (1721-1803) negli Animali parlanti (XVII 106, 6), come ha chiarito W. BINNI, Contributo minimo al commento delle Operette morali, in «Rass. Lett. It.» LXVII, 1963, p. 129, e ora in La protesta di Leopardi, Firenze 19745 il verso suona esattamente:
«Dei fortunati secoli in cui siamo».
4La definizione, di stampo prettamente giornalistico, opera un effetto di
voluta dissonanza col tono sostenutissimo del discorso, svelandone espressamente la funzione: non evocativa, come nella Storia del genere umano, ma satirica; sulla scia dell'indicazione stilistica sopravviene subito, infatti, la dichiara-
zione aperta: «... perché gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati... oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita». Per questo suo punto di vista Leopardi si colloca in contrasto sia con l'orientamento dominante nelle ideologie ufficiali del mondo moderno (da Bacone in avanti) sia con la prassi delle società tecnologiche; e su una linea ideale che, da un lato, si annuncia nelle civiltà tradizionali e, dall’altro, riaffiora nelle fasi avanzate della civiltà
industriale dell'occidente. Cfr., per il primo aspetto Chuang Tze: «Ho udito dire
dal mio maestro: se uno utilizza macchine, allora compie macchinalmente tutti i suoi atti; chi compie macchinalmente tutti i suoi atti, ha alla fine un cuor di macchina: ma se uno ha un cuor di macchina nel petto, perde la pura semplicità, diviene incerto nei moti del suo spirito; incertezza nei moti dello spirito è qualcosa di incompatibile con il vero Senso» (cit. da W. HEISENBERG, Natura e
| fisica moderna. tr. it., Milano 1957, p. 17); per il secondo aspetto cfr., per es., $. BUTLER:
«... ogni giorno le macchine
guadagnano terreno rispetto a noi. Ogni
giorno noi siamo maggiormente sottomessi a loro. Ogni giorno più uomini sono
sottoposti al loro servizio, come schiavi incaricati di averne cura; ogni giorno più
uomini consacrano tutte le forze della loro vita allo sviluppo della vita meccanica La conseguenza finale di tutto ciò non è che una questione di tempo. Ma è un fatto che verrà un’epoca in cui le macchine avranno la supremazia reale sul mondo e sui suoi abitanti», Darwin among the machines, in «The Press», Christchurch, New Zeeland, 13 giugno 1863; poi in The Shrewsbury Edition of the Works of Samuel Butler, London 1923-1926, I 208-212; tr. di L. Schwarz.
112
Operette
morali
cizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano
le cose umane e fanno le opere della vita. Del che 5 la detta Accademia prende sommo piacere, non tanto per le comodità manifeste che ne risultano, quanto per due considerazioni che ella giudica essere importantissime,
quantunque
comunemente
non avvertite.
L'una si è
che ella confida dovere in successo di tempo gli uffici e gli usi delle macchine venire a comprendere oltre le cose materiali, anche le spirituali; onde nella guisa che per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da molti 5 Formula di transizione di tipo ostentatamente aulico, seguita, ancora, da un’espressione burocratico-accademica («la detta Accademia»). 6 Questa premessa medesima va letta in chiave ironica, se si tien conto di
Zib. 4198-4199: «Se una volta in processo di tempo l’invenzione per esempio dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più generale; se i palloni areostatici e l'aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne divverà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi
ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati
concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo
in continui ed estremi timori di difficoltà, stenteranno a comprendere come si
potesse menare e sopportar la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicar coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l’uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo,
non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l’uso del fuoco, della navigazione ec. ec... E credete a me che la considerazione detta sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione. (Bologna, 10 Settembre, Domenica, 1826)». Il corsivo è nostro. Si noti, di passaggio, come anche in questo caso Leopardi anticipi in sede artistica alcune con-
clusioni fondamentali del suo pensiero, per riprenderle poi in modi discorsivi. Di conseguenza, appare talora necessario servirsi dello Zib. come di uno strumento di verifica e non come di una serie di premesse definite dalle quali si deva partire.
Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi
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simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio (e facciasi grazia alla novità dei nomi), qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi 7, qualche filo di salute o altro ingegno8 che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degl’'insensati, de’ ribaldi e de’ vili, dall’universale noncuranza e dalla miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi, e dagli altri sì fatti incomodi, i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a distornare che già non furono gli effetti dei fulmini e delle grandini9. L'altra cagione e la principale si è che disperando la miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del genere umano, i quali, come si
7 Foggiando questi composti Leopardi ha sfruttato fino in fondo la «facoltà dei derivati e dei composti» da lui riconosciuta propria della lingua italiana (Zib.
1240-1241; 29 giugno 1821), ma di regola individuata e attuata solo nell’uso di verbi modificati da prefissi e suffissi. 8 Latinismo, per «macchina», «meccanismo», «F ilo di salute si chiamò quel filo metallico che negli ordigni elettrici serve a disperdere l'elettricità atmosferica nella terra o nell'acqua» (Fanfani). 9 A pp. 4199-4200 dello Zib. (12 settembre 1826) è citata la Bibliotheca di Fozio (cod. 72) a proposito di paragrandini e parafulmini che Ctesia, negli Iva d, afferma di aver posseduto. Sulla fatalità ed eternità dei mali, non causati da determinate situazioni storiche (nemmeno dunque, in fondo, dalla società moderna, colpevole però di credere in rimedi, privi di consistenza), Leopardi insiste qui in forma eufemistica («sì fatti incomodi, i quali da parecchi secoli in qua sono meno possibili a distornare...»; che si tratti di eufemismo
appare chiaro dalla precisazione che segue: «disperando la miglior parte dei filo-
sofi di potersi mai curare i difetti del genere umano»). Nella Palinodia. A Gino Capponi il tono sarà perentorio: «Valor vero e virtù, modestia e fede E di giu-
stizia amor, sempre in qualunque Pubblico stato, alieni in tutto e lungi Da’ comuni negozi, ovvero in tutto Sfortunati saranno, afflitti e vinti; Perché diè lor
natura, in ogni tempo Starsene in fondo. Ardir protervo e frode, Con mediocrità,
regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumu-
late o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge
Lei in pria Scrisser natura e il fato in adamante; E co’ fulmini suoi Volta né Davy
non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, né con un Gange Di poli-
il tici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e perin Fieno mondi i congiurati tutti arme ribaldo: incontro all’alme eccelse In cultor petuo; al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de” forti Il debole,
0 de’ ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento,
nostro il propresso 0 lungi Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener
prio albergo E la face del dì non vengon meno» (vv. 69-96).
114
Operette morali
crede, sono assai maggiori e in più numero che le virtù; e tenendosi
per certo che sia piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire in suo luogo un altro, che di emendarlo; perciò lAccademia dei Sillografi reputa essere espedientissimo '° che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio.
E deliberata di concorrere con ogni suo potere al progresso di questo nuovo ordine delle cose, propone per ora tre premi a quelli che troveranno le tre macchine infrascritte !!. L'intento della prima sarà di fare le parti e la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l’amico assente; non lasci di sostenerlo quando l’oda riprendere o porre in giuoco; non anteponga la fama di acuto e di mordace, e l’ottenere il riso degli uomini, al debito dell'amicizia; non divulghi, o per altro effetto o per aver materia da favellare o da ostentarsi, il segreto commessogli !2; non si prevalga della familiarità e della confidenza dell'amico a soppiantarlo e soprammontarlo più facilmente; non porti invidia ai vantaggi di quello; abbia cura del suo bene e di ovviare o di riparare a’ suoi danni, e sia pronto alle sue domande e a’ suoi bisogni, altrimenti che in parole. Circa le altre cose nel comporre questo automato 3 si avrà l'occhio ai trattati di Cicerone e della Marchesa di Lambert sopra l’amicizia‘4. L'Accademia pensa che l’invenzione di questa così fatta macchina non debba essere giudicata né impossibile, né anche oltre modo difficile, atteso che, lasciando da parte gli automati del Regiomontano, del Vaucanson e di altri, e quello che in Londra disegnava
!° Utilissimo, vantaggiosissimo. È un altro latinismo pretto, in armonia, del resto, col costrutto infinitivo.
!! Altro vocabolo di foggia accademico-burocratica.
1? Affidatogli, alla latina. Già il Della Giovanna e lo Zingarelli rimandano a Hor., Sat. I 4, 81-85: il luogo è quasi tradotto da Leopardi ed è possibile che
quel «commessogli» sia stato suggerito dal commissa del testo oraziano. 13 Per «automa»: è forma più vicina al gr. avrépatoc («automa» è un falso singolare, ricavato dal plur. «automati»), usata, per es., dal Salvini e da Bernar-
dino Baldi nella trad. del trattato Degli automati overo machine semoventi di Erone Alessandrino (Venezia 1589). 14 Cioè al Laelius, de amicitia, testo frequentato con assiduità da Leopardi nel 1821 (cfr. i numerosi appunti in Zib. 532 ss.), e al Traité de l’amitié di Anne
de Lambert (1647-1733), moralista citatissima nello Zib.
Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi
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figure e ritratti, e scriveva quanto gli era dettato da chiunque si fosse; più d’una macchina si è veduta che giocava agli scacchi per se medesima '5. Ora a giudizio di molti savi, la vita umana è un giuoco, ed alcuni affermano che ella è cosa ancora più lieve, e che tra le altre, la forma del giuoco degli scacchi !6 è più secondo ragione, e i casi più prudentemente ordinati che non sono quelli di essa vita !7. La quale oltre a ciò, per detto di Pindaro, non essendo cosa di più sostanza che un sogno di un'ombra '8, ben debbe esserne capace la
veglia di un automato. Quanto alla favella, pare non si possa volgere in dubbio che gli uomini abbiano difficoltà di comunicarla alle macchine che essi formano, conoscendosi questa cosa da vari esempi, e
in particolare da ciò che si legge della statua di Mennone '9 e della testa fabbricata da Alberto magno, la quale era sì loquace, che perciò san Tommaso di Aquino, venutagli in odio, la ruppe 2°. E se il pappagallo di Nevers?!, con tutto che fosse una bestiolina, sapeva rispondere e favellare a proposito, quanto maggiormente è da cre-
dere che possa fare questi medesimi effetti una macchina immaginata dalla mente dell’uomo e construtta dalle sue mani; la quale già
15 Progettarono e costruirono automi Giovanni Miiller di Kénigsberg (il Regiomontano: 1436-1476) e Giacomo de Vaucanson (1709-1782); quanto all’automa capace di giocare agli scacchi, pare che Leopardi si riferisca a invenzioni del meccanico austriaco W. Kempelen (1751-1801) e del tedesco Leonhard Maelzel (1783-1855), costruttore dell’automa di cui narra anche Poe in Maelzel’s Chess-Player. 16 «Giochi di bambini» giudicò Eraclito le opinioni umane (fr. 70) e giocattoli considerò gli uomini anche Platone (Leggi, 803, 804 e anche 685). 17 Le allusioni precedenti si rivelano determinate da una visione delle cose che affonda le radici nella sapienza antica e cristiana, ultimamente rinvigorita
dalla sensibilità barocca.
18 Cfr. Zib. 2672 (10 febbraio 1823): «La vie, disoit Pindare n'est que le réve d'une ombre (Pyth., VIII. v. 136); image sublime, et qui d’un seul trait peint
tout le néant de l'homme» (Leopardi cita dal Voyage du jeune Anacharsis del
(la vita Barthélemy). L'immagine offre lo spunto a un’esasperazione ulteriore e docome «veglia di un automato»), adeguata all'idea di un mondo popolato minato da macchine. 19 Cfr. Strab. xVII 813; Juven. XV 5 (Zingarelli).
20 S. Alberto Magno fu maestro di S. Tommaso d'Aquino.
21 «Vedi
il Vert-vert
del Gresset»
(N.d.A):
del poemetto
burlesco
o. ].B. Gresset (1709-1777) è infatti protagonista un linguacciuto pappagall
di
116
Operette
morali
non debbe essere così linguacciuta come il pappagallo di Nevers ed altri simili che si veggono e odono tutto giorno, né come la testa fatta da Alberto magno, non le convenendo infastidire l’amico e muoverlo a fracassarla. L’'inventore di questa macchina riporterà in premio una medaglia d’oro di quattrocento zecchini di peso, la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste 22, dall’altra il
nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE FAVOLE ANTICHE
23,
La seconda macchina vuol essere un uomo artificiale a vapore,
atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime. L'Accademia reputa che i vapori, poiché altro mezzo non pare che vi si trovi, debbano essere di profitto a infervorare un semovente e indirizzarlo agli
esercizi della virtù e della gloria 24. Quegli che intraprenderà di fare 22 Proverbiali
per
la loro
amicizia,
ormai
troppo
anacronistica;
infatti
«Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo, e invece v'è entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l’uno amico all’altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissima» (Zib. 104); e «se i poeti non fossero così scimuniti, lascerebbero i Patrocli e i Piladi e i Nisi e gli altri frit-
tumi antichi, e farebbero argomento di poema e di tragedia queste amicizie moderne molto più nobili e degne», cioè «quelle amicizie che due o tre persone stringono insieme per aiutarsi scambievolmente nelle truffe, tradimenti, ec. in
somma in ogni sorta di malvagità squisita ed eroica» (Dialogo Galantuomo e Mondo). Il ricorso alla mitologia è considerato possibile soltanto in chiave di nostalgia disincantata (come nella canzone Alla Primavera) o di satira del mondo moderno, se non dei tempi storici tutti.
23 «Il titolo è scherzosamente foggiato sul verso petrarchesco: ‘Primo pittor de le memorie antiche’, in proposito di Omero (v. Trionfo della Fama, cap. III, v. 15)» (Della Giovanna).
24 Leopardi gioca — con terribile serietà — sul doppio senso di «vapori» (come «spiriti» e come «sostanze aeriformi») e di «infervorare», per far credere
ironicamente che soltanto la forza d'impulso atta a far funzionare le macchine
possa spingere agli spirituali «esercizi della virtù e della gloria». È il suo modo di deprimere i moderni entusiasmi per le macchine: in particolare per le esemplari
macchine a vapore cfr. Palinodia. Al Marchese Gino Capponi, 44-45 e 146 ss.: «Vapor, tipi e choléra i più divisi Popoli e climi stringeranno insieme»; «... per opra Di possente vapore, a milioni Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl’immensi tratti... Copriran le gazzette». (Per l’altro senso di «vapore» v., per es., Purg. XI 6 e il biblico Sapientia vapor est virtutis Dei Sap. VII 25. È, del resto, lo stesso passaggio per cui Leopardi usa «spirito» nel senso di «respiro» nella Storia del genere umano).
Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi
questa
macchina,
vegga i poemi
e i romanzi 25, secondo
117
i quali si
dovrà governare circa le qualità e le operazioni che si richieggono a questo automato. Il premio sarà una medaglia d’oro di quattrocento cinquanta zecchini di peso, stampatavi in sul ritto qualche immaginazione significativa della età d’oro, e in sul rovescio il nome dell’inventore della macchina con questo titolo ricavato dalla quarta egloga di Virgilio, QUO FERREA PRIMUM DESINET AC TOTO SURGET GENS AUREA MUNDO ?f. La terza macchina debbe essere disposta a fare gli uffici di una donna?7 conforme a quella immaginata, parte dal conte Baldassar 25 Il Fubini rinvia giustamente a queste battute del dialogo Galantuomo e Mondo: «M... Chi diavolo ti ha dato ad intendere che nel mondo si trova compassione? G.V.E. Mi scusi. Me l'avevano detto i poeti e i romanzieri. M. Già me lo figurava. Lasciali cantare ai bambocci». 26 Sono
i vv. 8-9. Riappare, in chiave grottesca, la vocazione
di Leopardi
all’utopia. Sul mito dell'età dell'oro aveva meditato nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica e nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi (P. Pr. 1 431), proponendone poi una interpretazione razionale in Zib. 2679-2680 (4 marzo 1823). 27 Si noti la climax ascendente stabilita dall'A. fra le tre invenzioni e confermata dalla crescente entità dei premi proposti dall’Accademia: al sommo delle aspirazioni riappare l’idea di una donna perfetta, secondo l'esempio tratteggiato anche dal Castiglione 0, con esasperazione massima, cantato da Leopardi stesso nella canzone Alla sua Donna. Si ripresenta anche nella Proposta la
tendenza, già chiara nella St. d. gen. um., a identificare la felicità suprema dell’uomo
con
l’amore, ricambiato, per una donna di perfetta virtù e bellezza.
Siamo di fronte a un nodo del pensiero e della psicologia di Leopardi: incline
per un verso a una concezione di tipo platonico-stilnovistico-petrarchesco e, per
un altro, incapace d’interpretarla in chiave puramente simbolica, anzi propenso a cercare l’identificazione con donne di questo mondo, pur essendo razionalmente avvertito del carattere mistificatorio di un tal processo sentimentale; cfr., infatti, Zib. 1017-18 (6 maggio 1821): «per l’una parte il desiderio e la speranza del vero amante è più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da prequalunque altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell’amore, il che quella di indefinita sensibilmente più (cioè infinita sentare all'uomo un'idea altra qualunque di meno concepir può ch'egli e passioni), altre le presentano inseidea ec. Per l’altra parte notate, che appunto a cagione di questo infinito, sorla è tempeste, sue alle mezzo in parabile dal vero amore, questa passione,
gente de’ maggiori piaceri che l’uomo possa provare»; e 3304-3310 (29-30 agosociali sto 1823); dove Leopardi attribuisce all’uso dei vestiti e alle convenzioni «Ora che ne sono derivate l'origine dell'amore sentimentale e della tenerezza:
118
Operette
morali
Castiglione, il quale descrisse il suo concetto nel libro del Cortegiano ?8, parte da altri, i quali ne ragionarono in vari scritti che si troveranno senza fatica, e si avranno a consultare e seguire, come
ezian-
dio quello del Conte. Né anche l'invenzione di questa macchina dovrà parere impossibile agli uomini dei nostri tempi, quando pensino che Pigmalione in tempi antichissimi ed alieni dalle scienze si poté fabbricare la sposa colle proprie mani 29, la quale si tiene che fosse la miglior donna che sia stata insino al presente. Assegnasi all'autore di questa macchina una medaglia d’oro in peso di cinquecento zecchini, in sulla quale sarà figurata da una faccia l’araba fenice del Metastasio posata sopra una pianta di specie europea 3°, dall’altra parte sarà scritto il nome del premiato col titolo: INVEN-
TORE DELLE DONNE FEDELI E DELLA FELICITÀ CONIUGALE. L'Accademia ha decretato che alle spese che occorreranno per questi premi, suppliscasi con quanto fu ritrovato nella sacchetta di Diogene 31, stato segretario di essa Accademia, o con uno dei tre
essa inclinazione, esso amore ingenito e naturalmente fortissimo e ardentissimo,
trovando il mistero, e i loro effetti congiungendosi nell'animo umano colla idea
del mistero, o vogliamo dir con un'idea oscura e confusa, oscurissimi e confusissimi, ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento volte meno sensuali e carnali di prima (poiché la detta idea non viene immediatamente dal senso ec.), e finalmente
quasi mistici debbono essere i pensieri e gli affetti che risultano di questa mescolanza di sommo desiderio e tendenza naturale, e d’idea oscura dell’oggetto di tal desiderio e tendenza»; e in nota: «E però l’uomo si rappresenta la donna in genere, e in ispecie quella ch’egli ama, come cosa divina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ec.». (I corsivi sono nostri). 28 Specialmente nel 1. 11, dove il Magnifico Giuliano de’ Medici esalta le qualità della perfetta Donna di Palazzo. 29 Cfr. Ov. Met. x 243 ss. Ma lo spunto viene dal cit. 1. 111 del Cortegiano; vi afferma infatti Giuliano: «dirò di questa Donna eccellente, come io la vorrei; e formata ch'io l’averò a modo mio, non potendo poi averne altra, terrolla come
mia, a guisa di Pigmalione». Leopardi introduce un elemento di voluta dissonanza stabilendo un paragone fra lo stato della tecnica nei tempi mitici e i suoi progressi moderni. 3° «Quasi a dire che le donne fedeli, rare sempre, in Europa non si trovano» (Fubini). Per l’accenno alla Fenice cfr. Metastasio, Demetrio, a. IT, sc. III: «È la fede degli amanti Come l’araba fenice: Che vi sia, ciascun lo dice; Dove sia, nessun lo sa». 31 Ironicamente è indicata per le spese la «sacchetta» di Diogene, il quale,
Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi
119
asini d’oro che furono di tre Accademici sillografi, cioè a dire di Apuleio, del Firenzuola e del Macchiavelli 32; tutte le quali robe pervennero ai Sillografi per testamento dei suddetti, come si legge nella storia dell’Accademia. Îà
professando povertà assoluta, la ebbe sempre vuota; e opportunamente s'immagina che il filosofo sia stato segretario dell’Accademia, poiché dichiarava di cer-
care l’uomo perfetto.
32 È significativo che il fondo per i premi da assegnarsi per l'invenzione
dell'ottimo amico, dell’uomo virtuoso e della donna perfetta si deva costituire “con un asino, sia pure d’oro, come quelli rappresentati da scrittori che ebbero un'idea non ottimistica della natura umana, quali Apuleio di Madaura (II di sec. d.C.), autore dei Metamorphoseon libri XI (conosciuti anche col titolo
Asinus aureus: cfr. Aug, De Civ. D. XVIII 18), Agnolo Firenzuola (1493-1543), che volgarizzò liberamente l’opera latina (L'asino d’oro), e Niccolò Machiavelli, spunto dal che compose il poemetto allegorico Dell’asino d’oro, traendone lo a l’altro: Grillo di Plutarco. «Non dà l’un porco a l’altro porco doglia, L’un cervo delfine alla legge si spoglia», e crocifigge amazza, solamente l’uomo L’altr'uom
eseml’operetta machiavelliana (VINI 142- 144); ed è dichiarazione ironicamente Sillografi. accademici illustri più dai nutrita , nell’umanità fiducia della plare
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Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
Composto dal 2 al 6 marzo 1824, il Dialogo ripropone, in modi fiabeschi, il motivo dell’estinzione della umanità, ma come fatto già avvenuto insensibilmente: a più forte conferma della inconsistenza del genere umano, che potrebbe scomparire del tutto senza che le altre creature se ne accorgessero. Il Della Giovanna ha supposto una possibile derivazione del tema dal vi dei Discours en vers di Voltaire; ma la satira dell’antropocentrismo ha radici nelle origini stesse della speculazione occidentale, sia pur con un riferimento all’assolutezza di Dio rispetto alle creature, sostituita qui, per l’incredulo Leopardi, dall’assolutezza della Natura («La natura è lo stesso
che Dio», si legge già in Zib. 393; 9-15 dicembre 1820). Il cammino percorso dalla mente di Leopardi per giungere al Folletto potrebbe esser questo: da un richiamo ai ZiMor di Senofane nel Discorso di un Italiano (19; ‘intorno alla poesia romantica, corrispondente a due luoghi dello Zib. e toro un e cavallo un e. 1469, 8 agosto 1821), al Dialogo tra due bestie p. nel Già al Dialogo di un cavallo e un bue (o Dialogo del cavallo e del bue). Discorso Leopardi osserva infatti, sia pur con tutt'altro intento: «delle stesse e con quebestie diceva Senofane che se i buoi se gli elefanti avessero mani, allora i uomini, gli fanno che ste potessero dipingere, e fare quelle cose i buoi e cavalli dipingendo gli Dei li avrebbero fatti di natura cavallina, va che di figura bovina, e dato loro un corpo simile al proprio. È aggiunge
122
Operette
morali
gli Etiopi si figuravano i loro Dei neri e camosci, e i Traci d’occhio cilestro e colore vermiglio...» (P. Pr 11 538; il corsivo è nel testo). Dalla citazione,
fatta per sostenere la naturalezza delle figurazioni poetiche di tipo antropomorfico, Leopardi passerà per gradi alla derisione dell’antropocentrismo fatta da esseri extranaturali, nonché extraumani (ma negli abbozzi di dialogo citt. aveva scelto, secondo il suggerimento di Senofane, un cavallo e un toro o bue).
FOL.! Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio 2? Dove si va? GNO.3 Mio padre m'ha spedito a raccapezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga 4, e
in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non 5 gli apparecchino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non
si contentassero
di polizzine per moneta,
come
hanno
fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il
meno credibile 7.
! Spirito vagante per l’aria, secondo la tradizione popolare. 2 «Sabazio è il Dioniso o Bacco dei Traci, dio dell’eterna vicenda della vita e della morte nella natura: dai cabalisti considerato il più antico degli gnomi» (Gentile). Si noti la contaminazione di elementi classici e medievali e si avverta
il rimando, attraverso la veste fiabesca, alle forze primigenie della natura. 3Gli gnomi sono spiritelli sotterranei, che, secondo i cabalisti, custodirebbero i metalli preziosi nascosti nel sottosuolo. 4 L'espressione dà rilievo al carattere meschino e fastidioso, più che dannoso, dell’agire umano sugli elementi naturali. 5 Costrutto latineggiante: «dubita che». 6 L'uso della cartamoneta è equiparato a costumi primitivi, con una sottoli-
neatura derisoria evidente in quel «si contentassero»; cfr. Palinodia 57-59: «Ben molte volte Argento ed or disprezzerà, contenta A polizze di cambio» (corsivo nostro).
7 Perché l’uso di monete di ferro, istituito da Licurgo, oltreché riuscire scomodo, sarebbe segno di un’austerità tramontata da troppo tempo; cfr. Zib. 1170: «... Sparta..., avendo poco uso della moneta per le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi, cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi stazionaria, 0 certo la sua civiltà o corruzione, fu sempre di molti gradi minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi indietro» (16 giugno 1821).
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
123
FOL.
Voi gli aspettate invan: son tutti morti,
diceva la chiusa di una tragedia 8dove morivano tutti i personaggi. GNO. Che vuoi tu inferire? FoL. Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta9. cNo. Oh cotesto è caso da gazzette !°. Ma pure fin qui non s'è veduto che ne ragionino. FOL.
Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più
gazzette !!? GNO. Tu dici il vero. mondo ?2?
Or
come
faremo
a sapere
le nuove
del
8Il Rutzvanscad il giovine di Zaccaria Valaresso, parodia, pubblicata nel
1724, dell’Ulisse il giovane di Domenico Lazzarini (1668-1734). 9 Nel Dialogo di un cavallo e un bue: «Non si trovano più, che la razza è perduta». Con le intenzioni satiriche s’intreccia, via via più netto e profondo, il motivo della morte del genere umano; cfr. Zib. 644-646 (11 febbraio 1821): «Non c'è forse persona tanto indifferente per te, la quale, salutandoti nel partire per qualunque luogo, o lasciarti in qualsivoglia maniera, e dicendoti Non ci rivedremo
mai più, per poco d'anima che tu abbia, non ti commuova,
non ti pro-
duca una sensazione più o meno trista. L'orrore e il timore che l’uomo ha per una parte, del nulla, per l’altra, dell'eterno, si manifesta da per tutto, e quel mai più non si può udire senza un certo senso... E così la morte di qualcuno ch'io conoscessi,
e non mi avesse mai interessato in vita; mi dava una certa pena, non
tanto per lui, o perch’egli m’interessasse allora dopo la morte, ma per questa considerazione ch'io ruminava allora profondamente: è partito per sempre — per
sempre? sì: tutto è finito rispetto a lui: non lo vedrò mai più: e nessuna cosa sua avrà più niente di comune colla mia vita» (i corsivi sono nel testo). t0 L'unico, in realtà, degno di essere divulgato, se non fosse assurdo pen. sare alla diffusione di una notizia del genere. 11 Nelle edd. precedenti all'ultima Leopardi aveva satireggiato più pesantemente il moderno potere dei giornali: «morti gli uomini, non si trova chi voglia stampar le gazzette, perché ci metterebbe la spesa, non avendo chi gli comperasse le menzogne a contanti». Sulla «gazzette», «anima e vita Dell’universo, e di savere a questa Ed alle età venture unica fonte», cfr. Palinodia 19-21, 151-153;
206; e sulla «profonda filosofia dei giornali» il Dialogo di Tristano e di un amico.
12 «Mondo» può essere sinonimo sia di «società» sia di «cosmo»: di qui il
malinteso tra lo gnomo, che considera ancora le cose da un punto di vista antro-
pocentrico, e il folletto, che qui afferma una visione cosmocentrica.
124
Operette
morali
FOL. Che nuove? che il sole si è elevato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato 0 ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l'uno all’altro come uovo a uovo !3. GNO.
Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non
si stamperanno più lunari.
FOL.
Non sarà gran male, che la luna !4 per questo non fallirà la
strada. GNO. E i giorni della settimana non avranno più nome. FOL. Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non ven13 Una serie di negazioni annulla, per dir così, le opere più superbe — ma in fondo vacue — dell’uomo, in contrasto con la rappresentazione dell’eternità
della natura. È motivo di meditazione prediletto da Leopardi: cfr. La sera del dì di festa 33-39: «Or dov'è il suono Di quei popoli antichi? or dov'è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l'oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo,
e più di lor non si ragiona»; e La ginestra 292-296: «Sta natura ognor
verde, anzi procede Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni
intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: E l’uom d’eternità s’arroga il vanto». Per l’immagine dei regni scoppiati come bolle già il Della Giovanna e lo Zingarelli hanno opportunamente rimandato all’Ariosto (Orl. fur xxXIV 76, 3-7): «Vide un monte di tumide vesciche, Che dentro parea aver tumulti e grida; E seppe ch’eran le corone antiche E degli Assirii e de la terra lida, E de’ Persi e de’ Greci...»; la figurazione è, del resto, quasi imposta dalla corrente metafora
del gonfiarsi e sgonfiarsi delle cose umane, letterariamente elaborata già dall’Alberti nel Somnium riscoperto con altre Intercenali da E. GARIN, Venticinque Intercenali inedite e sconosciute di L. B. Alberti, in «Belfagor» 1964, pp. 377-396. Il sistema d’implicazioni apparirà però anche più complesso, se si
rifletterà sul fatto che nella Sat. Im 229 l’Ariosto ha identificato il monte scalato dagli uomini per conquistare la luna con la «ruota di Fortuna»: di quella che qui «si ha cavato la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione,
se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani». 14 Ierofania privilegiata, da Leopardi e in tutta l’età romantica, la luna (che illumina anche i paesaggi dei due Canti appena citt.) viene contrapposta nella sua realtà eternamente ciclica alla vanità del nominare umano. Il motivo troverà il massimo svolgimento nel Dialogo della Terra e della Luna.
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
125
gano? o forse pensi, poiché sono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?
GNO.
E non si potrà tenere il conto degli anni 15.
FOL.
Così ci spacceremo
misurando saremo
per giovani anche dopo il tempo;
l’età passata, ce ne daremo
vecchissimi
non
istaremo
meno
aspettando
e non
affanno, e quando
la morte
di giorno in
giorno. GNO.
Ma come
sono andati a mancare
quei monelli 16?
15 Si conclude la disputa tra il personaggio che guarda alla realtà delle cose e quello che tiene conto dei loro nomi, meri flatus vocis, e nemmeno innocui se, definendo, mettono a nudo la miseria della condizione umana. In modi scher-
zosi il Folletto riprende infatti il grande tema del finale dell’Inno ai Patriarchi:
dove si raffigura la minacciata beatitudine dei californiani, ai quali «inopinato il giorno Dell’atra morte incombe» (109-110). Cfr. Al Dial. del cavallo e del bue: «Cavallo. Sapevano quali erano le malattie delle quali si poteva morire, e
appresso a poco se sarebbero morti o no, e in genere pochi morivano senz’averlo preveduto
con
sommo
spavento
© dolore,
e sentita
la morte
innanzi
tempo...
Così che la morte era per loro uno spasimo...». Per la contrapposizione delle cose alle idee e ai nomi v. Zib. 2487 (22 giugno 1822): «Quel che si dice, ed è verissimo, che gli uomini per lo più si lasciano governare dai nomi, da che altro
viene se non da questo che le idee e i nomi sono così strettamente legati nell'animo
nostro,
che fanno
un tutt'uno,
e mutato
il nome
si muta
decisamente
l’idea, benché il nuovo nome significhi la stessa cosa? Splendido esempio ne furono i romani, esecratori del nome regio, i quali non avrebbero tollerato un re chiamato re, e lo tollerarono chiamato imperatore, dittatore, ec...»; e 1608 (2 settembre 1821): «L'ideologia comprende i principii di tutte le scienze e cognizioni, e segnatamente della scienza della lingua. Ma vicendevolmente si può
dire che la scienza della lingua comprende tutta l'ideologia». 16 Dopo aver ricordato che monello significa nel Seicento «guidone, biante, furfante, finto mendicante» (cfr. Lippi, Malmantile m 67 e VII 69), per assumere poi i significati di «furbo, malizioso», di «ragazzaccio, discolo» e di «fanciullo vivace», osserva il Folena: «Nelle Op. mor. del Leopardi monello compare consapevolmente nell’acceziorie arcaica che abbiamo visto caratteristica del "600, anche se non del tutto tramontata dall’orizzonte ottocentesco, e compare con un sapore volutamente ambiguo (‘furfante-fanciullo’) così intonato all’amara
moralità del Dial. di un folletto e di uno gnomo...: la domanda dello gnomo: ‘Ma
come sono andati a mancare quei monelli?, chiudendosi proprio sull’irrisoria anfibologia di quel termine, riprende, con un'aggiunta di ironica commiserazione e di aerea evasività, l’espressione iniziale dello stesso Gnomo ‘questi furfanti degli uomini’; e si lega così finemente alla risposta del Folletto sulla follia del genere umano...; il tema è concluso poi con una nota ancor più sprezzante e
126
FOL.
Operette
morali
Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangian-
dosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri,
parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male 17. GNO. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta !9, come tu dici. FOL.
Tu che sei maestro in geologia !9, dovresti sapere che il caso
non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamente
che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti 2°. E certo che
canagliesca dello Gnomo: ‘Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitassero...’. Questo arcaismo e l’ambigua risonanza risultante dal conflato dei due significati entrambi
illuminati dalla moralità leopardiana, quello di ‘mariuolo’ e l’altro di ‘fanciullo’ che il Leopardi avrà conosciuto vivo e popolare nella sua Recanati, sono per l'appunto il risultato di una ricerca, testimoniata dalla correzione che mi pare qui felicissima (e che ci assicura anche della singolarità semantica); nell’ultima stesura dell’ed. napoletana del ’35 monelli ha sostituito proprio mariuoli che è nell’autografo napoletano ed era stato conservato sia nell’ed. milanese del ’27 che in quella fiorentina del ’34...» (Semantica e storia di ‘monello’, in «Lingua nostra» XVII, 1956, p. 71).
!7 «Discorso in grande sopra questa razza umana che finalmente si finge estinta, sopra le sue miserie, i suoi avvenimenti, la sua storia, la sua natura ec...
discorrere con quella maraviglia che dev'essere in chiunque si trovi nello stato naturale, delle nostre passioni, dell’ambizione, del danaro, della guerra, del suicidio, delle stampe, della tirannia, della previdenza, delle scelleraggini ec. ec.» (Dial. tra due bestie p. e. un cavallo e un toro); «Si può far derivare l'estinzione della specie umana dalla sua corruzione, effetto ben probabile anche in filosofia considerando l’indebolimento delle generazioni...» (Al dial. del cavallo e del
bue). Rispetto a questi abbozzi il Dial. di un folletto e di uno gnomo rappresenta un acquisto già per la sostituzione a due animali, soggetti alle leggi di natura, di
due personaggi soprannaturali — un infero e un supero —, in posizione di netta trascendenza rispetto all'uomo. L'equiparazione di tutte le attività umane come rivolte alla distruzione dell’uomo stesso non è meno perentoria di quella pre-
sentata da Dante in Par. xI 1-9 (è anzi avvertibile qualche rispondenza verbale). Cfr. ancora il Dial. tra due bestie: «Cagioni dell’infelicità umana, la vita non naturale, la scienza (e questa darà materia ne’ vari suoi rami a infinite considerazioni e ridicoli), le opinioni ec.». 18 Estirpare. 19 In quanto abitante nel sottosuolo. 20 «Oh tanti altri animali si trovavano antichissimamente che ora non si
conoscono altro che per l’ossa che se ne trovano, ec.» (Dial. tra due bestie); «Di
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
127
quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
GNO.
Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo
fosse fatto e mantenuto per loro soli 2!. FOL. E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li
folletti 22. cNO.
Tu folleggi veramente 23, se parli sul sodo.
FoL. Perché? io parlo bene sul sodo. gno. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi? FoL. Per gli gnomi, che stanno sempre sotterra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne 24? GNO. Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle 25? FOL. Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i
alcune specie perdute di uccelli. V. Biblioteca Italiana t. 6. p. 190 dopo il mezzo»
e «Il Mammut grandissimo quadrupede. Non è ben deciso se distinguasi dall’Elefante o se sia la cosa stessa; la specie se n'è perduta, e soltanto trovansene
dei resti e dei grossi ossami nella Siberia e altrove. Casti. An. Parlanti. C. 10. nota (a) alla st. 63» (Al dial. del cavallo e del bue). 21 Nel Dial. tra due bestie: «Credevano poi che il mondo fosse fatto per loro»; nel Dial. di un cavallo e un bue: «Gli uomini credevano che il sole e la luna nascessero e tramontassero per loro...». 22 «L'articolo li invece di i mi par qui usato per canzonatura, e oggi sa di marchigiano e di romanesco» (Della Giovanna); ma è più probabile che Leopardi rispetti anche in questo «parlato», in realtà tutto letterario, la norma fissata dal Bembo, secondo cui «dopo la particella per» si usano lo e gli (li) (Prose
d. volg. ling. 11). 23 Si noti la paronomasia folletti-folleggi. Anche folletto e gnomo finiscono con l'apparire soggetti a un «altro», che non ha nome. 24 Più tardi la domanda di Leopardi si farà sempre più generale e libera da
sottintesi satirici: «Che fa l’aria infinita...» (Canto notturno 87 ss.).
25Il primo strato o crosta (ma la metafora è richiamata da quella che la precede: il «corpo» della terra).
128
Operette
morali
moscherini 25 si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei. GNO. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io
saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzione, per la quale, tra l'altre cose che facevano a questo e a quello,
s'inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel'aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori.
FOL. Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella 27. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo 28: benché
si potevano
numerare,
anche
dentro
ai termini
della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che
erano fatti espressamente per coloro uso, non si accorgevano però mai che il mondo si rivoltasse. gno. Anche le zanzare e le pulci erano fatte per beneficio degli uomini 29? 26 Moscerini. Cfr. ancora il Dial. di un cavallo e un bue: «B. Dunque anche i topi e le mosche crederanno che il mondo sia fatto per loro. C. Io non so niente ma se lo credono, son bestie pazze». 27 «Forse l’aut. pensava a quel che Cicerone dice nel De natura Deorum (lib. IT, cap. 60): ‘Nos a terrae cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agros necessariam, nos aeris, argenti, auri venas, penitus abditas, invenimus’. — Anzi in
qualche punto questo dialoghetto pare una confutazione della tesi che Cicerone dimostra (omnia quae sint in hoc mundo, quibus utantur homines hominum causa facta esse et parata) nei capp. 61 e segg. del libro 1; libro che l’aut. cita poco appresso» (Della Giovanna). 28 Le stesse considerazioni nel Dial. di un cavallo e un bue. Leopardi torna
a giocare sul doppio significato di «mondo»; per cui v. anche il Dialogo Galan-
tuomo e Mondo: «M. ... Che ha da fare il Mondo colla natura?». 29 «Veggasi quel che dice in proposito il Tassoni nel suo curioso quesito
Perché siano state create le mosche (Dei pensieri diversi. Lib. rx, Ques. xx)» (Della Giovanna).
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
FOL.
129
Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come
essi dice-
vano. GNO. In verità che mancava loro occasione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci. FOL.
Mai porci, secondo Crisippo 3°, erano pezzi di carne apparec-
chiati dalla natura a posta per le cucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale. GNO. Io credo in contrario che se Crisippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima3', non avrebbe immaginato uno sproposito simile.
FOL. non
E anche quest'altra è piacevole; che infinite specie di animali sono state mai viste né conosciute
dagli uomini
loro padroni; O
perché elle vivono in luoghi dove coloro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime
altre specie non se ne accorsero
prima
degli ultimi tempi 32. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvedevano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie 33: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fossero, come dire, moccoli da 3° «Sus vero quid habet praeter escam? cui quidem, ne putisceret, animam ipsam, pro sale, datam dicit esse Chrysippus. Cicerone, de Nat. Deor. lib. 2, cap. 64» (N.d.A.). Lo stoico Crisippo visse nel ITI secolo a.C. 31 Altri giochi di parole, permessi dai diversi significati, propri o traslati, di anima (in Cic., propriamente, «principio vitale» e non «anima») e sale.
32 La serie di negazioni pone qui in rilievo l’infinita ignoranza umana di fronte al cosmo. Cfr. Zib. 2936-38 (10 luglio 1823): «E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l'immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benché a noi per verità ed in ‘ sostanza nulla serva? poiché nén ci porta in niun modo alla felicità... Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell’opera di cui non vediamo né potremo mai vedere nemmeno i limiti? né arrivar mai ad intendere né anche a sufficientemente ammirare l’artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della
massima parte di lei?...». In modo del tutto perentorio, alla fine dello Zib. (4525;
16 settembre 1832): «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla» (e cfr. la chiusa del Dial.
di Tristano e di un amico). 33 Arredi.
130
Operette
morali
lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende 34. cno. Sicché, in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini 35. FOL.
Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le man-
chi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede
che si rasciughi 3°. ono. E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare 37, e non hanno preso le gramaglie. FoL. E il sole non s'ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio 38, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo 39.
34 Cfr. il Dial. di un cavallo e di un bue: «delle stelle... credevano che queste fossero come tanti moccoli da lanterna infilzati lassù per far lume alle signorie loro».
35 Cfr. ivi: «e quando cascava giù dal cielo qualche scintilla come fa la state, avranno creduto che qualcuno su nell’alto andasse smoccolando le stelle per servizio degli uomini suoi padroni». L'espressione «smoccolando le stelle» è nel Boccalini (v. E. BIGI, Tono e tecnica delle «Operette morali», in Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, p. 123).
36 Analoghe considerazioni nel Dial. di un cavallo e un bue. Soprattutto in questo finale dell’Operetta Leopardi ha attuato con mezzi stilistici semplici ma
sapientissimi l'intenzione esposta nel Dialogo tra due bestie: «Si avverta di conservare l'impressione che deve produrre il discorrersi dell’uomo come razza già perduta e sparita dal mondo, e come di una rimembranza, dove consiste tutta
l'originalità di questo Dialogo, per non confonderlo coi tanti altri componimenti satirici di questo genere dove si fa discorrere delle cose nostre o da forestieri, selvaggi ec. o da bestie, in somma da esseri posti fuori della nostra sfera». Il poli-
sindeto, l’uso di espressioni «generali», l’insistenza della negazione (qui a significare un modo di essere del tutto trascendente rispetto alla conoscenza e al potere dell’uomo) conferiscono alla prosa un movimento da requiem, diversissimo dal ritmo scoppiettante — tra lucianeo e settecentesco — di molte battute che precedono.
37 Il movimento degli astri torna a suggerire, in modo più forte, l'eterno ritmo ciclico delle cose. 38 Georg. 1 466-467.
39 Ai piedi della quale Cesare cadde.
Dialogo di Malambruno e di Farfarello
Dopo aver satireggiato la presunzione del genere umano, spodestato dai suoi prodotti stessi (la moda, le macchine) o giudicato dopo la sua fine da esseri mitologici o fiabeschi, Leopardi introduce in scena un altro personaggio soprannaturale, a colloquio però, questa volta, con un uomo, sia pur
esperto nell'arte magica. Nel Dialogo — composto fra il 1° e il 3 aprile del ‘24 — l’uomo ricompare, per la prima volta dopo la St. d. gen. um., in una luce che non è più di satira. La meditazione del poeta si è tutta concentrata, senz’ombra di riso che non sia schermo a una commozione troppo scoperta, sul problema essenziale della felicità e del senso della esistenza, già lungamente discusso nello Zib., specialmente tra il 12 e il 23 luglio 1820 (165 ss.). Identificando felicità con piacere, ma senza ridurre il primo termine al secondo, come i sensisti coerenti, bensì trasferendo inconsciamente nel concetto di «piacere» i caratteri della felicità o beatitudine intesa come | esperienza dell'infinito (di un infinito, peraltro, negato come realtà oggettiva), Leopardi metteva capo a conclusioni fatalmente negative: «Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o conge-
132
Operette morali
nita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita» (Zib. 165). Già allora avvertiva l'impostazione suo malgrado non sensistica del discorso e si affrettava (excusatio non petita) a negare possibili deduzioni: «le illusioni sono... affatto naturali, animali, atti dell’uomo e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all’istinto, il quale abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione. Applicate queste considerazioni a quello che soglion dire gli scrittori religiosi, che il non poter trovarci noi mai soddisfatti in questo mondo, i nostri slanci verso un infinito che non comprendiamo, i sentimenti del nostro cuore, e cose tali che appartengono veramente alle illusioni, formino una delle principali prove di una vita futura» (ivi 181).
MAL.! Spiriti d’abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte, Alichino 2, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando per la virtù dell’arte mia, che può sgangherare la luna83, e inchiodare il sole a mezzo il cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio servigio. FAR. Eccomi.
l Nome atto a suggerire un’aura magica. ? Per Farfarello, Ciriatto, Alichino v. Dante Inf. xXI-XXII; per Astarotte v. il Libro dei Giudici 2, 13, il Libro dei Re 7, 3; 12, 10 e il C.xxv del Morgante del Pulci; per Baconero, Il Malmantile racquistato di Lorenzo Lippi
(1606-1665).
3Cfr. il capo IV, Della Magia, del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: «Si credé... che i magi avessero il potere di trar giù dal cielo la luna con incantesimi. ‘Carmina vel coelo possunt deducere lunam; Carminibus Circe socios mutavit Ulixi’; disse Virgilio; e Seneca: ‘Hoc docta Mycale thessalas docuit nurus,
Unam
inter omnes
luna quam
sequitur magam, Astris relictis”. Orazio fa
dire a Canidia: ‘movere cereas imagines, Ut ipse nosti curiosus, et polo Deripere
lunam vocibus possim meis’: e Ovidio a Medea: Tubeoque tremiscere montes, Et mugire solum, manesque exire sepulchris: Te quoque, luna, traho’»; e un po”
più avanti: «Orazio scrive di un’altra maga: ‘Quae sidera excantata voce Thessala Lunamque coelo deripit. Egli scongiura Canidia, ‘Per... libros carminum valentium Refixa coelo revocare sidera’». E cfr. L'arte magica annichilata di Scipione Maffei (in Opere, Venezia 1790, Il 66-67), che Leopardi ebbe certo presente fin
dalla composizione del Saggio, dove s'incontrano le stesse citazioni da Orazio (v. C. GALIMBERTI, Scipione Maffei, Ippolito Pindemonte, Giacomo Leopardi e la
magia, nella «Rass. Lett. it.» LIX, 1955, pp. 460-473).
Dialogo di Malambruno
e di Farfarello
133
MAL. Chi sei? FAR. Farfarello, a’ tuoi comandi. MAL. Rechi il mandato di Belzebù? FAR. Sì recolo; e posso fare in tuo servigio tutto quello che potrebbe il Re proprio4,
e più che non
potrebbero
tutte
altre
creature
insieme. MAL. Sta bene. Tu m'hai da contentare d’un desiderio. FAR. Sarai servito. Che vuoi? nobiltà maggiore di quella degli
Atridi 5? MAL. No. FAR. Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa7 quando sarà scoperta? MAL. No. FAR. Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte 5? MAL. No. FAR. Recare alle tue voglie una donna più salvatica 9 di Penelope? MAL. No. Ti par egli che a cotesto ci bisognasse il diavolo? FAR. Onori e buona fortuna così ribaldo come sei? MAL. Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo se volessi il contrario !°.
4 Il re in persona. 5 Comincia una girandola di riferimenti a personaggi, luoghi e fatti straordinari per nobiltà e rarità. 6 Alla serie di proposte, via via più allettanti e singolari, di Farfarello, comincia a contrapporsi una serie di nudi no; in corrispondenza con l’aspirazione più intensa dell’uomo, a vivere felice, la tendenza leopardiana a un linguaggio di segno negativo raggiunge concentrazione
e secchezza massima.
7 «Città favolosa, detta altrimenti E! Dorado, la quale immaginarono
gli Spagnuoli, e la credettero essere nell'America meridionale, tra il fiume del| l’Orenoco e quel delle Amazzoni. Vedi i geografi» (N.d.A.); e nel ms.: «Marti‘ niere, v. Manoa e Dorado. La Harpe, Stor. de’ viaggi, t. 23, p. 200-1». 8 «La sconfinata ambizione di Carlo v fece credere a’ suoi tempi ch'egli sognasse di stabilire la monarchia universale (v. ROBERTSON, La storia dell’impero di Carlo V lib. XII)» (Della Giovanna). 9 Aggettivo scelto a demitizzare la fedeltà e castità di Penelope.
10 Cfr. Zib. 2473 (13 giugno 1822): «... un giovane della detta natura [sensibile], e del detto abito [magnanimo e virtuoso] deve, entrando nel mondo, sperimentare e più presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini,
e il danno della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della
134
Operette morali
FAR. In fine, che mi comandi? MAL. Fammi felice per un momento di tempo. FAR. Non posso !!. MAL. Come non puoi? FAR.
Ti giuro in coscienza che non posso.
MAL. In coscienza di demonio da bene. FAR. Sì certo. Fa conto che vi sia de’ diavoli da bene come v'è degli uomini.
MAL. Ma tu fa conto che io t’appicco qui per la coda a una di queste travi, se tu non mi ubbidisci subito senza più parole. FAR.
Tu mi puoi meglio ammazzare, che non io contentarti di quello
che tu domandi. MAL. Dunque ritorna tu col mal anno, e venga Belzebù in persona. FAR. Se anco viene Belzebù con tutta la Giudecca e tutte le Bolge, non potrà farti felice né te né altri della tua specie, più che abbia potuto io !?.
necessità di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch'è destinata in questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera» (v. anche 3133); 0, più
recisamente, ivi 112: «Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della
virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità d'animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto dire la società, e
così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali nemici dell’uomo...» (considerazione ripresa nell’LxxxIV dei Pensieri; e cfr. Zib. 611). V. ancora, sul fatale contrasto fra mondo e virtù, il I e il XVI dei Pensieri, le canzoni Nelle nozze della sorella Paolina e Bruto minore, la Palinodia, il dialogo Galantuomo
e Mondo, la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, Per la novella Senofonte e Machiavello ecc. ecc. LA questo punto le parti in qualche modo s’invertono: alle negazioni di Malambruno, rispondenti al suo desiderio di un piacere infinito, fa riscontro il non posso di Farfarello, segno della impossibilità, per qualsiasi creatura, di attingerlo o procurarlo; è l’inizio di una lunga sequenza di risposte di eguale intona-
zione, che si estinguono infine in un’affermazione conclusiva di estensione massima e dove la negatività riappare allo stato puro e con fermezza totale («assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere»). 12 Nel ms., in margine: «tutto l’inferno dell’Odissea, dell’Eneide,
della divina Commedia e del Paradiso perduto». Dopo qualche digressione di stile
«comico» (l'ipotesi sui diavoli e sugli uomini dabbene, l’assurda eventualità che si possa ammazzare un diavolo, il riferimento alla topografia del regno di Belzebù), riprende la meditazione, scopertamente seria, e resa ancora con nega-
Dialogo di Malambruno
MAL. FAR.
e di Farfarello
135
Né anche per un momento solo? Tanto è possibile per un
momento,
momento,
anzi per la metà di un
e per la millesima parte; quanto per tutta la vita.
MAL. Ma non potendo farmi felice in nessuna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dall’infelicità? FAR. Se tu puoi fare di non amarti supremamente 13,
zioni
sempre
costantemente
più fitte (costrutti
o prefissi
di senso
negativo
accompagnano
le parole felice, felicità e le voci del verbo potere). Così come
esclude a qualsiasi essere, anche soprannaturale (a Giove stesso nella St. d. gen. um.), la capacità di essere e zione inventiva la possibilità per concentrarsi tutto sulle negative (nella direzione dei è superata da lui soprattutto
camente
render felice, Leopardi preclude alla sua disposidi dar vita a scenari popolati da figure e vicende, sue conclusioni, simili a sentenze desolatamente Pensieri). L'eredità razionalistica sei-settecentesca per il segno conferito agli aforismi, non — romanti— per una fede nell'uomo o nelle cose rappresentata per mezzo di
grandi personaggi e quadri significativi. Questo è il solco incolmabile che divide Leopardi anche da Goethe, anche nella elaborazione di uno spunto come questo del Malambruno, che, per la natura dei personaggi e per la qualità della richiesta del mago, ha indotto più di un commentatore a pensare al Faust.
(«Oggi — annoterà Leopardi in Zib. 4479; 1 aprile 1829 — ... basta appena a far impressione poetica tutta la novità e l’ardire che è nel Fausto o nel Manfredo.— Può servire a un Discorso sul romanticismo»;
e in una lettera a Francesco
Puc-
cinotti del 5 giugno 1826 confessa: «Le Memorie del Goethe hanno molte cose nuove e proprie, come tutte le opere di quell’autore, e gran parte delle altre scritture tedesche; ma sono scritte con una così salvatica oscuriti e confusione, e mostrano
certi sentimenti
e certi principii così bizzarri, mistici e da visionario,
che se ho da dirne il mio parere, non mi piacciono veramente molto»). 13 Non mancano, tra le continue querele di Leopardi sul male della vita, momenti in cui si fa luce in lui l’intuizione, o il sospetto, che la vera fonte dell’infelicità consista nell’amor proprio. Con la condizione posta qui da Farfarello consuona, per es., questo paradosso dello Zib. (4266; 30 marzo 1827): «Bisogna, per provar piacere
in qualunque
azione
ovvero
occupazione,
cercarvi qualche
. altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica)»; anche più significativo è il Preambolo al volgarizzamento del Manuale di Epitteto: dove, dopo aver riconosciuto, sia pure suo malgrado, che il «far guerra feroce e mortale al destino», seppur congeniale agli spiriti antichi (grandi e forti più dei moderni), «dall’un lato non può aver alcun frutto, e dall’altro lato è pieno di perturbazione, di travaglio, d’angoscia e di miseria gravissima e continua», Leopardi giunge a dire che «veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed
astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle
136
Operette morali
MAL.
Cotesto lo potrò dopo morto.
FAR.
Ma
in vita
non
lo può
nessun
animale 14: perché
la vostra
natura vi comporterebbe prima qualunque altra cosa, che questa '5. cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli altri Stoici, viene a dir questo appunto,
cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dover amar se medesimo con quanto si possa manco
di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma, sì della filosofia di Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben
essere dello spirito di ciascuno in particolare». Osservazioni simili gli erano state suggerite già nel ’21 da una pagina di Madame de Lambert, e le aveva concluse
identificando il contentarsi di se stessi con la definizione della sapienza data da Cicerone (Omnia tua in te posita ducere, nel cap. 2 del Laelius) (Zib. 633-636; 9 febbraio 1821). Così in Zib. 4239-4240 farà un elogio della pazienza come virtù somma (31 dicembre 1826), riprendendo poi il discorso a p. 4267 (31 marzo 1827), subito dopo il cit. paradosso sulla natura del piacere: «Per il
Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell’assalto nervoso al petto... Consiste in una non resistenza,
una rassegnazione d’animo, una certa quiete dell’animo
nel patimento...» (4239-4240). Invece che nel Manuale di filosofia pratica, che non scrisse, Leopardi lasciò che queste intuizioni passassero, in modo più conforme alla sua indole, nell'opera poetica. A dimostrare l'autenticità di questo atteggiamento anche sul piano dell’esperienza vissuta, si vedano, d’altra parte,
almeno la lettera del 5 gennaio 1821 a Pietro Giordani e quella del 7 settembre 1825 al fratello Carlo. 14 «Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci
d'altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perché il suo amor proprio non cesserà, e perché quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete
uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, ma in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza
di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice (30 Agosto 1826, Bologna) né in questo mondo, né in un altro» (Zib. 4191-4192); e cfr. 4477. !5Ormai tra i due interlocutori non esiste più disputa: il dialogo, come spesso nelle Operette, tende al monologo. È Farfarello a recare, qui e più avanti,
gli argomenti più adatti a chiudere lo spiraglio che per un istante egli stesso
Dialogo di Malambruno
MAL.
e di Farfarello
137
Così è 16,
FAR. Dunque !7, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità pro-
pria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice. MAL. Né anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perché nessun diletto mi farà né felice né pago !8. FAR. Nessuno veramente !9. MAL. E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice. aveva dischiuso. Cfr., fra tanti altri luoghi, Zib. 2410-2414 (2 maggio 1822): «Dalla mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e immutabile delle cose, quanto è maggiore
e più viva la forza, il sentimento,
e l’azione e attività
interna dell’amor proprio, tanto è necessariamente maggiore l’infelicità del vivente, o tanto più difficile il conseguimento d'una tal quale felicità. Ora la forza e il sentimento dell’amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la vita, o il sentimento vitale in ciascun essere; e specialmente quanto è maggiore
la vita interna, ossia l’attività dell'anima, cioè della sostanza sensitiva, e concettiva. Giacché amor proprio e vita son quasi una cosa, non potendosi né scompagnare il sentimento dell’esistenza propria (ch’è ciò che s'intende per vita) dall’amore per l’esistente, né questo esser minore di quello, ma l'uno si può sempre esattamente
misurare coll’altro. E tanto uno vive, quanto si ama, e tutti i senti-
menti di chi vive sono compresi o riferiti 0 prodotti ec. dall’amor proprio: il quale è il sentimento universale che abbraccia tutta l’esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve n°ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o produzioni di questo, ch'è tutt'uno col sentimento dell’essere, o una parte essenziale del medesimo».
16 Formula caratteristica del dialogare socratico-platonico.
17 Si raccolgono ormai le fila dei giudizi sparsi nelle battute precedenti, che vengono portati a conclusione da Farfarello secondo i procedimenti della
tecnica maieutica e ordinati secondo il classico schema del sillogismo: ulteriore conferma del rigoroso tessuto logico sotteso anche ai dialoghi tra personaggi fantastici e situati su sfondi favolosi.
18 Le parole di Malambruno, lungi dal porre obiezioni, aggiungono ormai
corollari alle conclusioni generali di Farfarello. 19 Da qui in avanti le nagazioni più nette, che hanno assunto funzione di a ribadire struttura portante, vengono riprese tali e quali dall’interlocutore, mi farà diletto nessun ... «M. dialogo: del e anche nel ritmo il motivo conduttor infeessere di lascerò non io M._... . veramente Nessuno F. mai né felice né pago. mai...». Non F. però... mai non Ma M. lascerai... Non F. lice.
138
Operette morali
FAR. Non lascerai: perché negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa 2°. MAL. Tanto che dalla nascita insino alla morte, l’infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante. FAR.
Sì: cessa,
sempre
che dormite
senza
sognare,
0 che vi coglie
uno sfinimento o altro che v’interrompa l’uso dei sensi ?!. MAL.
FAR.
Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita ?2.
Non mai.
20 Cfr. Zib. 712 (3 marzo 1821): «... l’infelice è veramente e positivamente infelice; quando anche il suo male non consiste che in assenza di beni; laddove è pur troppo vero che non si dà vera né soda felicità, e che l’uomo felice, non è
veramente tale»; 4137 (3 maggio 1825): «... E siccome... l'assenza della felicità negli essere amanti se medesimi importa infelicità, segue che la vita, ossia il sen-
timento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt'uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi»; 4498 (4 maggio 1829): «L'assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch'è lo stato più ordinario della vita, non è né indifferente, né bene, né piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d'altronde i mali
non fossero più che i beni, né maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente
la bilancia della vita e della sorte umana
dal lato della infelicità.
Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama
noia». Sulla noia v. poi Zib. 174-176, 3713-3715 (17 ottobre 1823) ecc. 21 Zib. 2861 (29 giugno 1823): «In ciascun punto della vita, anche nell’atto del maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v'ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopi-
mento o sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena, tanto maggiore
quanto
egli o per età, 0 per carattere
e natura,
o per circostanze
mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior sen-
sibilità ed esercizio della vita, e viceversa»; v. anche 172, 290-292 (21 ottobre 1820), 1779 (14 settembre 1821). 22 «Né va stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderandolo perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre. E non godendo mai né potendo mai veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre, come nel sonno, nel letargo ec...» (Zib. 3551; 29 settembre 1823).
Dialogo di Malambruno
e di Farfarello
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MAL. Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere 23. FAR. Se la privazione dell’infelicità è semplicemente meglio dell’infelicità. MAL. Dunque 24? FAR. Dunque se ti pare di darmi l’anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela.
23 Cfr. Zib. 4074-4075 (20 aprile 1824): «Il piacere è piuttosto una privazione
o una
depressione
di sentimento
che un
sentimento,
e molto
meno
un
sentimento vivo. Egli è quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore... (19 aprile, Lunedì di Pasqua, 1824). Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poiché la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poiché naturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine e perfezione, che è la felicità». Per questa via Leopardi arriverà alla
famosa pagina dello Zib. datata 22 aprile 1826 (4174-4177): «Tutto è male. Cioè
tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male... Non v'è altro bene
che il non essere...». 24 Questo «dunque», ripetuto da Farfarello, permetterà per l’ultima volta l’artificio consistente nella ripresa della battuta da parte dell’interlocutore. La
chiusa è segnata anche da una ripresa dello stile «comico», ma di senso tragico
per l’allusione che contiene alla morte immediata come a sola liberazione possitra bile dalla sventura di esistere. L'Operetta si conferma, anche per questa via, risposte Il) «comica»; ouverture I) strutturate: e le più rigorosamente pensate e là negative di Farfarello alla richiesta di felicità di Malambruno, percorse qua diada venature «comiche»; III) intermezzo «comico», ma di fondo tragico; IV) logo serratissimo, tutto dominato da negazioni, sulla impossibilità dell’esistenza felice; V) rapidissimo «congedo» di significato tragico, sfiorato da una sfumatura comica.
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