307 71 1MB
Italian Pages 352 Year 2007
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MIMESIS
E
ETEROTOPI
Collana fondata da Ubaldo Fadini, Paolo Ferri, Tiziana Villani
La collana Eterotopie si propone di esplorare un versante importante del pensiero e della realtà contemporanei: quello in cui le trasformazioni, i processi di innovazione tecnica incontrano domande, soggetti, corpi e figure che dal passato sono transitate sino a noi. Si tratta di guardare in modo non dogmatico ma critico il corpo del nostro presente. In questo percorso sono presenti temi e autori che hanno voluto scommettere la propria ricerca nel tempo contraddittorio del mutamento. La collana ospita testi di filosofia, estetica, antropologia, architettura, che non si limitano a fotografare i problemi ma che intendono costituire un vero e proprio laboratorio di idee, incontri grazie ai quali possa essere possibile la messa in opera di un progetto forte e indipendente dalle mode.
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DOPO FOUCAULT GENEALOGIE DEL POSTMODERNO
A cura di
Eleonora de Conciliis Prefazione di
Bruno Moroncini
E
ETEROTOPI
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Atti del Convegno Foucault dopo Foucault. Genealogie del postmoderno, Napoli, 15-16 febbraio 2007. Il volume è stato pubblicato con il contributo della Provincia di Napoli.
© 2007 – MIMESIS EDIZIONI Redazione: Via Mario Pichi 3 – 20143 Milano Telefono e fax: +39 02 89403935 Per urgenze: +39 347 4254976 / +39 3394884523 E-mail: [email protected] Catalogo e sito Internet: www.mimesisedizioni.it Tutti i diritti riservati
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INDICE
PREFAZIONE di Bruno Moroncini
p.
11
INTRODUZIONE di Eleonora de Conciliis
p.
17
p.
25
di Michel Senellart
p.
33
POLITICA E PROFEZIA. DELL’IMPOLITICO FOUCAULTIANO di Paolo Primi
p.
53
LA LOGICA DELLA GOVERNAMENTALITÀ. STATO E DESIDERIO IN FOUCAULT di Pierandrea Amato
p.
85
PARTE PRIMA GENEALOGIA POLITICA DELL’OCCIDENTE
LA CONOSCENZA “DELLO” STATO di Pasquale Pasquino PARADOSSI E ATTUALITÀ DELLA SOGGETTIVAZIONE CRISTIANA
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TRA LA VITA E LA MORTE. LA BIOPOLITICA A PARTIRE DA FOUCAULT di Francesco Paolo Adorno
p. 111
FOUCAULT E I CAMPI di Carmelo Colangelo
p. 123
FOUCAULT E L’EPISTEMOLOGIA: SCIENZA DELL’UOMO E POLITICA DELLA VERITÀ di Antonella Cutro
p. 139
FOUCAULT E LA GENEALOGIA DELL’INFANZIA di Eleonora de Conciliis
p. 155
LA DISEGUAGLIANZA OBLATIVA: SOGGETTIVAZIONE/ASSOGGETTAMENTO di Laura Bazzicalupo
p. 177
PARTE SECONDA FORME DELLA SOGGETTIVAZIONE
FORZA E FORMA: LE DINAMICHE DEL DESIDERIO E LA COSTRUZIONE DEL SOGGETTO MORALE
di Salvatore Natoli
p. 201
L’ANERKENNUNG. DAL SAPERE AMOROSO AL LINGUAGGIO DELL’ADULAZIONE di Maria Paola Fimiani
p. 215
LA CURA DI SCRIVERE di Stefano Catucci
p. 231
FOUCAULT E IL PENSIERO DEL FUORI di Bruno Moroncini
p. 245
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MORTE DELL’UOMO ED EMERGENZA DEL SÉ: RI-LEGGERE MICHEL FOUCAULT di Jean Leclercq
p. 263
VITA E CONCETTO di Maurizio Zanardi
p. 281
LA ZONA GRIGIA. FOUCAULT E L’ANTROPOLOGIA di Marco Russo
p. 297
‘TRUE CRIME’. ESPERIENZA LETTERARIA DEL CRIMINE REALE di Hartmut Retzlaff
p. 311
FOUCAULT, WARHOL E L’ARTE CONTEMPORANEA di Alessandro Dal Lago
p. 323
NOTIZIE SUGLI AUTORI
p. 335
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Se vogliamo essere padroni del nostro futuro, dobbiamo porre fondamentalmente la questione dell’oggi. Perciò la filosofia è, per me, una specie di giornalismo radicale. Michel Foucault
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PREFAZIONE
Accingersi ad organizzare un convegno di studi sul pensiero e l’opera di Michel Foucault presenta una complicazione in più rispetto forse a qualunque altro autore o fenomeno culturale sia antico che moderno: quella di trovarsi di fronte nello stesso tempo ad un classico – piccolo o grande lo deciderà il tempo – e ad un contemporaneo. Classico per coloro che partecipi di una generazione più recente lo avvicinano e lo leggono già filtrato da quel tanto – fosse anche poco in termini di anni passati e libri pubblicati – di Wirkungsgeschichte, cioè di gadameriana storia degli effetti, e quindi lo studiano avendo a disposizione una griglia interpretativa in gran parte già pronta in cui almeno le questioni della periodizzazione, del repertorio dei temi e delle principali categorie utilizzate si possono considerare sufficientemente stabilizzate; contemporaneo invece per chi un po’ più avanti negli anni subiva l’impatto dei libri più noti di Foucault, dalla Storia della follia alla Nascita della clinica, dalle Parole e le cose all’Archeologia del sapere, da Sorvegliare e punire alla Volontà di sapere, senza contare scritti più brevi, da Raymond Roussel al Pensiero del di fuori, da Nietzsche, la generalogia e la storia a Microfisica del potere, dall’Ordine del discorso alla Governamentalità, per così dire in tempo reale, restandone stupito, affascinato, alle volte sconvolto, anche perché del tutto privo di pre-giudizi ermeneutici che potessero aiutarlo a collocare Foucault nell’alveo delle tradizioni filosofiche più accreditate, vale a dire nell’orizzonte d’attesa del già noto – e chi in quegli anni e anche dopo tentò di liquidarlo usando gli strumenti del pensiero moderno credendo in tal modo di esorcizzare la portata innovativa del suo pensiero, ne è rimasto, come sempre, scottato.
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Per coloro quindi per i quali Foucault era a tutti gli effetti un contemporaneo, l’uscita dei suoi libri era un vero e proprio avvenimento, li costringeva a delle torsioni del pensiero per le quali erano forse pronti come accade per ogni nuova generazione che voglia prendere posizione nella storia della cultura, ma allo stesso tempo impreparati dal momento che tutto o quasi quello che avevano studiato non aiutava in questo senso se non altro per il fatto di venir messo duramente in discussione proprio da ciò che avrebbe dovuto contribuire a far comprendere. Per questa, e per molte altre ragioni, la lettura in diretta, vergine, dei libri di Foucault non andava ad iscriversi in uno spazio d’esperienza già formato, ma era essa stessa parte integrante della costruzione di un’esperienza intellettuale integralmente nuova, e al pari di altre scoperte fatte negli stessi anni – per chi scrive Derrida, Lacan, Deleuze – costituiva un’avventura esistenziale prima ancora che teorica: come separare nella propria vita gli effetti dovuti agli incontri in carne ed ossa da quelli avuti con questi compagni di viaggio di poco più vecchi e conosciuti, quasi sempre e almeno all’inizio, solamente attraverso la loro identità cartacea? Già dunque mettere insieme questi due modi della ricezione di Foucault, farli dialogare e confrontare, costruendo un legame fra vecchi e nuovi lettori del filosofo francese, è un compito difficile. Se poi si aggiunge – ulteriore complicazione e divertente paradosso – il fatto che Foucault risulta essere un quasi contemporaneo anche per quelli per i quali è un classico, allora il compito può anche apparire impossibile. Per ragioni, infatti, di natura strettamente editoriale, legate a dispute legali sull’eredità, la messa a disposizione di tutti i possibili lettori del lascito foucaultiano, soprattutto dei seminari tenuti al Collège de France dal 1971 al 1984, l’anno della morte, è incominciata ufficialmente solo con la pubblicazione nel 1997, a vent’anni quindi dalla loro stesura e a tredici dalla morte del loro autore, delle lezioni del 1976-‘77 intitolate “Bisogna difendere la società”, dedicate, come è noto, ai temi delle guerre razziali e della biopolitica1, e non è ancora finita. Rispetto, allora, ad un ‘classico’ vero e proprio, il caso di Foucault presenta un’anomalia: non si dispone ancora di un corpus, se non del tutto, almeno sufficientemente stabile e compiuto. E per quanto si sia imparato da Derrida e dallo stesso Foucault che la compilazione definitiva del corpus di un autore è qualcosa d’impossibile in linea di diritto, sia per il carattere potenzialemente illimitato di ciò che potrebbe entrare a fare parte 1
Con l’unico precedente, se non pirata almeno ufficioso, della traduzione italiana dello stesso seminario presso l’editore Ponte alle Grazie di Firenze nel 1990 con il testo stabilito da Mauro Bertani e Alessandro Fontana.
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di un corpo testuale comunque definito, sia per l’irreperibilità della funzione stessa dell’autore, resta comunque vero che la pubblicazione in maniera più o meno cadenzata dei seminari, non di tutti e non secondo l’ordine cronologico2, che si è avuta negli ultimissimi anni, produce il rischio che dal rango ormai raggiunto di un pensatore essenziale del secondo Novecento Foucault possa scadere a quello di un eclettico produttore di mode culturali di breve durata e dubbia consistenza intellettuale.3 Esiste infatti una differenza fra la contemporaneità diretta, quasi, se mai potesse esistere una cosa simile, una contemporaneità a sé contemporanea, sperimentata da molti quarant’anni fa rispetto ad un autore come Foucault, e questa contemporaneità postuma cui lo costringe il ritardo nella pubblicazione dei seminari ancora inediti. Giacchè, anche a voler prendere sul serio il monito di Paquale Pasquino a non schiacciare la posizione di pensiero di Foucault su quella dei singoli argomenti che di anno in anno facevano l’oggetto dell’attività seminariale, stando attenti a non attribuire la loro scelta a delle consapevoli opzioni teoriche e politiche, ma più modestamente a esigenze didattiche e di ricerca empirica, ed usando come fonti delle grandi linee di pensiero solo i libri intenzionalmente costruiti come tali, è difficile negare lo sconcerto, non imputabile certamente ad un errore di lettura, che ha preso tutti coloro che, abituati a legare il nome di Foucault all’invenzione e/o alla scoperta della biopolitica, diventata una consolidata tradizione interpretativa, forte dei suoi autori di riferimento, della sua storia del concetto, dei suoi apparati categoriali e dei suoi risvolti etici, economici e politici, si sono trovati di fronte improvvisamente ad un ciclo di lezioni, quello degli anni 1978-‘79, che, sotto il titolo allettante e pieno di promesse di La nascita della biopolitica, si occupava in realtà, non senza qualche compiacenza, delle tesi del neoliberalismo economico tedesco e nordamericano della prima metà del secolo ventesimo, dimostrando così, non solo che la biopolitica non si identificava esclusivamente con il 2
3
Allo stato dei fatti: dopo la pubblicazione nel 1997 del seminario del 1976‘77 si sono avute quella del seminario risalente agli anni ‘74-‘75 Gli anormali nel 1999, poi nel 2001 L’ermeneutica del soggetto del 1981-‘82, in seguito nel 2003 Il potere psichiatrico degli anni 1973-‘74, e infine nel 2004, con un’accelerazione che però non ha avuto seguito, la pubblicazione simultanea del seminario del ‘77-‘78 Sicurezza, territorio, popolazione e di quello del 1978-‘79 sulla Nascita della biopolitica. Qualcosa di simile sta accadendo anche per la pubblicazione dei seminari di Lacan, sebbene in questo caso gli effetti siano molto meno dirompenti per quel che riguarda l’interpretazione complessiva della posizione clinica e teorica dello psicoanalista francese.
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nazismo e le guerre di sterminio a sfondo razziale, ma anche che, se messa a confronto con le politiche stataliste del New Deal roosveltiano o dello stalinismo sovietico, poteva rappresentare addirittura un passo avanti nella direzione di un ribaltamento delle relazioni di potere.4 Per ricapitolare: la ‘prima’ contemporaneità si dava sotto le insegne della scoperta e dell’invenzione, della scoperta di un nuovo modo di far filosofia, se tale era ancora la pratica di pensiero foucaultiana, e della corrispondente invenzione dei concetti – archivio, genealogia, partizione, evento: eccone solo alcuni che hanno fatto data nella storia della cultura filosofica e non del secondo Novecento. La ‘seconda’ al contrario rischia di essere ricordata, o di non essere ricordata affatto, per un suo certo carattere ‘scolastico’, vale a dire per una difesa eccessiva dei concetti già formati, dei confini disciplinari già segnati, dei risultati già raggiunti, ‘filosofia scolastica’ che, paradossalmente, fa sempre da pendant, se non da vera e propria protesi, a quella spinta compulsiva per la quale è giocoforza essere in ogni caso e ad ogni istante assolutamente attuali: è legge che quanto più un discorso tende a sclerotizzarsi, tanto più esso si offre sul mercato delle idee come il rimedio assolutamente necessario contro i mali che ci affliggono, noi, uomini e donne d’oggi, uomini e donne di questo tempo qui, di questa contemporaneità. La questione potrebbe essere considerata anche del tutto irrilevante se non fosse per il fatto che nel caso di Foucault il problema dell’attualità, vale a dire di cosa è attuale oggi e di quale ‘oggi’ si parli ogni volta che si dice ‘oggi’, è assolutamente decisivo. Avendo egli stesso individuato il compito della filosofia contemporanea, a partire ovviamente da quella che lui stesso praticava, nella necessità e l’urgenza di costruire, contro una tradizione che vedeva il coronamento della ricerca filosofica nell’elaborazione di un’analitica della verità, un’ontologia dell’attualità da intendersi in primo luogo come un’ontologia di se stessi, è impossibile parlare di Foucault e su Foucault senza domandarsi che cosa sia l’attualità, che cosa era attuale per Foucault, che cosa sia attuale per noi, e se ciò che era attuale per Foucault sia attuale anche per noi. Che cosa significa essere un filosofo del presente o fare un’ontologia dell’attualità? Cosa vuol dire afferrare il proprio tempo col pensiero? Esiste qualcosa come il proprio tempo? O il tempo è ciò che disappropria, destabilizza, catapulta fuori dal presente, e forse proprio per questo ci getta nel 4
Per una lettura di questo genere si veda il saggio di Jean-François Kervégan Aporie della microfisica. Questioni sulla «Governamentalità», apparso nel numero 3/2006 di «Filosofia politica», soprattutto pp. 438 e 443.
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cuore dell’attualità? Ogni volta dunque che ci si interroga su che cosa sia un’ontologia dell’attualità bisognerà essere ben consapevoli che la questione è perlomeno doppia: la domanda verterà sempre sia su che cos’è che accade oggi, e insieme se ciò che accade oggi è veramente attuale, è parte integrante o no del mio presente; per saperlo dovrò necessariamente interrogarmi su che cosa costituisce esattamente il mio presente, ossia sul valore di presenza del presente, sulla questione di una presentazione in generale e della sua possibilità. In altri termini, una cosa è l’attualità nel senso di quel che accade oggi (nell’oggi che era l’altro ieri il nazismo e le guerre razziali, nell’oggi che era ieri il neoliberismo economico, nell’oggi che è oggi le guerre asimmetriche e il fenomeno delle migrazioni), altra cosa è l’attualità nel senso di ciò che bisogna attualizzare, attraverso la ricognizione degli archivi, le ricostruzioni genealogiche e le invenzioni concettuali, per pensare quel che accade oggi. Ogni comprensione del presente è per Foucault l’attualizzazione di un evento anteriore. Quindi tanto più si è attuali quanto più si è intempestivi ed anacronici, niccianamente inattuali. Sono queste considerazioni ad aver guidato la preparazione del convegno di cui qui si mette a disposizione dei lettori il resoconto scritto: dal momento che si era consapevoli del carattere di filosofo alla moda acquistato da Foucault negli ultimi anni, sia per l’oggettiva importanza del tema della biopolitica nell’organizzazione della vita nell’attuale situazione di capitalismo globalizzato, sia per il legame, per quanto tenue, che attraverso il tema della cura di sé aggancia il nome di Foucault alla problematica del counseling filosofico, è sembrato necessario, pur attribuendo alla biopolitica e alla cura di sè lo spazio che oggettivamente meritavano, provare a riattualizzare altre stagioni concettuali, altre tematiche, altri nessi di pensiero, a ricondurre alla presenza un Foucault meno ‘classico’ e più ‘contemporaneo’, certi come siamo che disattualizzarlo era l’unico modo per restituirgli tutta l’attualità che gli compete. Per finire questa prefazione i ringraziamenti tanto sentiti quanto doverosi. In primo luogo ringrazio Ciro Cacciola, prima ancora che autorevole consigliere provinciale napoletano, amico e antico studioso di Foucault: a lui, alla sua insistenza, si deve se mi sono deciso a mettere in piedi queste giornate di studio su Michel Foucault e se la Provincia di Napoli si è addossata la buona parte dell’onere finanziario dell’organizzazione. In secondo luogo ringrazio il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Salerno – che, nella persona del suo direttore Enrico Nuzzo, dei colleghi che hanno partecipato al convegno con i loro interventi e di tutti gli altri che, lo so, hanno sostenuto da lontano, ma con attenzione ed amicizia, il
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compito scientifico-organizzativo in cui mi ero imbarcato – ha contribuito in tutti i sensi, economico, scientifico, tecnico e logistico, alla realizzazione dell’impresa. In terzo luogo ringrazio nelle persone dell’avvocato Gerardo Marotta e del mio vecchio amico Antonio Gargano l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che con la consuetà ospitalità ha messo a disposizione del convegno i prestigiosi locali della sua sede. Infine un ringraziamento a Eleonora de Conciliis perché senza il suo spessore filosofico, la sua disponibilità esistenziale e la sua efficienza organizzativa, questo convegno non avrebbe mai visto la luce. Bruno Moroncini
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INTRODUZIONE
...no, no, non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo. Michel Foucault
Questo volume raccoglie gli interventi di coloro che a Napoli, il 15 e il 16 febbraio 2007, hanno partecipato al convegno Foucault dopo Foucault. Genealogie del postmoderno, un convegno voluto da Bruno Moroncini e svoltosi sotto l’egida del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Salerno, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, con il contributo della Provincia di Napoli. A chi ne ha attraversato, per usare una terminologia foucaultiana, la verità-evento o, per usare una terminologia benjamiana, l’Erfahrung (l’esperienza solo in parte consapevole ma irreversibilmente metamorfica), nella doppia veste di organizzatrice e relatrice, spetta il compito di incorniciare i diversi testi – le diverse voci – in un preliminare ma non esaustivo orizzonte di senso, che, invece di celebrarne gli allori con un noioso catalogo, ne giustifichi l’opportunità editoriale. Perchè, chiederà infatti immediatamente il lettore smaliziato, organizzare un altro convegno – l’ennesimo – su Foucault? Perchè infoltire la giungla di pubblicazioni a lui dedicate che ormai crescono sugli scaffali delle librerie italiane? E perchè farlo con un volume che riunisce sotto un’unica etichetta – quella, quasi presuntuosa, dell’oltre-Foucault – due lemmi concettuali apparentemente lontani, ma in realtà problematicamente contigui, e cioè ‘le’ genealogie (la genealogia è di per se stessa esposta ad una pluralità di percorsi) e il postmoderno (a cui Foucault ha fornito uno sguardo provocatoriamente extra-filosofico rispetto a Lyotard)? Non si tratta di domande retoriche. Sia prima che dopo i convegni e le pubblicazioni di carattere celebrativo che hanno accompagnato il ventennale della morte (1984-2004), la ricerca su Michel Foucault non ha conosciuto
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soste: in Italia, in Europa e oltreoceano, i testi ma soprattutto i corsi e le interviste, ovvero l’impressionante mole dei Dits, sembra fungere per gli studiosi da sterminato territorio di culto e/o di caccia – a seconda del pedigree di provenienza, delle intenzioni e delle capacità di ciascuno. Per gli specialisti e i glossatori, la ‘parola’ di Foucault rinvia inesorabilmente ai problemi posti dalla sua parabola teorica: pur avendolo sequestrato in un gergo sempre più blindato ed avendolo sottoposto ad un’esegesi sempre più micrologica, l’eclettismo di Foucault – in termini volgari: le diverse fasi del suo pensiero – continua ad inquietare, a mostrare incongruenze, contraddizioni, punti morti, angoli oscuri dai quali la luce dell’analisi viene catturata e rifratta in forme imprevedibili. D’altra parte, proprio a causa di tale prismatica scomponibilità i non specialisti, ovvero quelli (e sono sempre di più) che si avvicinano a Foucault provenendo da ambiti di ricerca estranei al post-strutturalismo francese e allo stesso foucaultismo, leggono i suoi testi, ed ovviamente i suoi corsi (cioè i suoi non-libri, secondo l’ammonizione di Pasquale Pasquino, che di Foucault fu amico ma si è guardato bene dal diventarne un ermeneuta), come un immenso serbatoio di spunti, di piste, di sentieri solo accennati e subito interrotti a cui attingere per costruire i propri percorsi di ricerca. Al culto dei depositari del verbo si affianca l’irriverente saccheggio dei profani. Al proliferare di studi scritti ‘dentro’ Foucault si aggiungono i numerosi tentativi di scrivere ‘a partire’ da Foucault: il pensiero del fuoriFoucault, potremmo definirlo, che talvolta diventa un balbettìo su o contro di lui, talvolta invece si avventura, come lui stesso ha fatto, in nuove esplorazioni archeo-genealogiche. Il riflesso di questa oscillazione, che caratterizza sia gli specialisti (nella misura in cui risultano assoggettati o autonomi nei confronti del loro ingombrante anti-maestro), sia i neofiti saccheggiatori (a seconda della loro padronanza del complesso attrezzo genealogico), diventa chiaramente percepibile se si considera l’ossessione che, negli ultimi anni, sembra accomunarli tutti: la biopolitica. Da termine quasi marginale, da concetto esplicativo inserito con disinvoltura alla fine di un corso (‘Bisogna difendere la società’, del 1976) e di un libro (La volontà di sapere, dello stesso anno); da parola-specchietto usata dopo tre anni per il titolo di un altro corso (Nascita della biopolitica) che tratta, prevalentemente, di economia liberale, la biopolitica – sempre accompagnata dalla sua sorella cattiva, la tanatopolitica – è diventata ciò su cui l’intera macchina interpretativa degli studi foucaultiani tende ormai a lavorare, a misurarsi criticamente, quanto più cerca di corrispondere all’esigenza sollevata da Foucault negli ultimi anni di vita, quasi come una
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sorta di lascito etico: la necessità di elaborare un’ontologia dell’attualità che sia anche un’ontologia storica del sè. Ciò accade forse perchè la biopolitica, oltre ad essere una forma assunta dal potere-sapere nella civiltà occidentale, è anche una delle più micidiali trappole genealogiche che Foucault abbia disseminato nella sua opera. Da un lato, essa ‘nasce’ nel cuore della modernità, quando sovranità e disciplina vanno incontro a decisive metamorfosi governamentali; dall’altro lato, fa segno verso il postmoderno, ovvero conduce alla ri-proposizione del tema foucaultiano per eccellenza – la morte dell’uomo. In quanto manipolazione nuova, irreversibile della Lebenswelt magmatica che sopravvive all’umanesimo classico, la biopolitica dischiude orizzonti di analisi del presente che implicano una rottura irreversibile e, direi, inconsolabile, con ciò che il politico moderno, con il suo complicato ordine simbolico, aveva prodotto; perciò, con tutte le sue insidie post-umane, essa fa da ponte tra il moderno e il postmoderno, ma può farlo solo se smette di fungere da pretestuoso passepartout concettuale, per venire immersa nelle sabbie mobili della genealogia foucaultiana, e così contaminata dal suo stratificato, avventuroso percorso: dalla Storia della follia come da quella della sessualità antica e tardo-antica; Acheronta movebo: il motto virgiliano che Freud pose come epigrafe della Traumdeutung andrebbe utilizzato per navigare, oggi, nelle profonde acque dei corsi e dei testi di Foucault, per illuminare il carattere genealogico delle loro faglie e delle loro correnti – per mostrare la corrispondenza segreta tra la genealogia foucaultiana dell’Occidente e le attuali, violente metamorfosi imposte a quest’ultimo dalla mondializzazione. Foucault ha tracciato una doppia genealogia del moderno: quella del politico (delle tecniche di governo) e quella del soggetto (delle forme di soggettivazione), smontando le quattro caratteristiche fondamentali della modernità: la legittimazione veritativa del potere-sapere; la linearità del progresso come redenzione immanente dell’uomo; il movimento puro ed astraente della logica formale (con il suo complemento idealistico: la fede hegeliana nel superamento dialettico dell’accidentale); la fiducia nelle categorie di totalità, unità e coerenza del pensiero e dell’esperienza soggettivi. La modernità ha realizzato, sia sul piano individuale (etico-speculativo) che su quello collettivo (socio-politico), un plurivoco processo di soggettivazione/assoggettamento dell’umano – una griglia gigantesca di cui Foucault ha disegnato la mappatura genealogica (nonchè il rovescio folle) scavando nel premoderno: nel mondo antico con la storia della sessualità ma anche nel medioevo, con l’altrettanto incompiuta indagine sul pastorato
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e la confessione. Ma soprattutto, con la sua battaglia nietzscheana contro il trascendentale, Foucault ha abbozzato una rilettura di Kant (del suo illuminismo emancipativo), da cui la modernità esce decisamente ridimensionata e rimpicciolita, non semplicemente incompiuta o tradita – come ha invece sostenuto Jürgen Habermas, naturalmente contro Foucault. È solo a partire da questa spietata mappatura riduttiva, con la quale Foucault ha rivelato la consistenza prospettica dell’uomo occidentale (soggetto, individuo o popolazione), che si può pensare il postmoderno. E ciò proprio nella misura in cui la postmodernità sembra coincidere con un’inquietante, regressiva de-soggettivazione dell’Occidente, sotto il segno di una mancanza: quanto più il premoderno riemerge nelle forme del fondamentalismo religioso (islamico e cristiano), tanto più patiamo le conseguenze di una mancata rivoluzione anti-pastorale. Foucault ha denunciato questo fallimento nel corso del ’77-‘78 su Sicurezza, territorio, popolazione (cfr. lezione del 15 febbraio 1978, trad. it. p. 117: «il pastorato non ha ancora conosciuto il processo di rivoluzione profonda che lo congederebbe definitivamente dalla storia»), e nel farlo ha avviato un’indagine, anch’essa rimasta incompiuta, sulle metamorfosi del potere pastorale nelle tecniche di governo e di individualizzazione della modernità – tra le quali, appunto, la biopolitica. In tal senso, l’immenso lavoro di scavo lasciatoci da Foucault tende a funzionare come un grimaldello genealogico: da un lato, aiuta a comprendere ed interrogare le premesse e gli effetti (anche estetici) della globalizzazione; dall’altro, cerca di rovesciare l’epocale disgregazione dell’identità politica e soggettiva dell’Occidente in occasione di resistenza. Una potenzialità che rinvia, in altri termini, all’esigenza etica di ‘attualizzare’ Foucault, esplorando nuovi percorsi archeo-genealogici in grado di catturare il legame tra Foucault e ciò ch’è apparso ‘dopo’ di lui: il nostro paesaggio enigmaticamente post-umano. Il convegno napoletano, che in questa chiave di lettura ha raccolto studiosi più o meno ‘foucaultiani’, si è svolto secondo due direttrici di ricerca o indicazioni tematiche: ad una genealogia politica dell’Occidente ha fatto da contrappunto una riflessione genealogica sulle forme della soggettivazione che l’Occidente ha prodotto, con un intreccio inestricabile, una continua sovrapposizione tra i due piani che assomiglia, per così dire, ad un lavoro collettivo sulla pre- e la post-storia dell’estetica dell’esistenza – ad un montaggio benjaminiano di immagini guizzanti che, singolarizzandosi nei diversi approcci, interrompono il continuum canonico dell’interpretazione. Sembra quasi che i relatori siano stati obbligati a seguire, se non a rincorrere Foucault in una verace esperienza evenemenziale: a più di vent’anni dalla morte, egli continua a sfidare gli specialisti e ad attirare
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giovani studiosi, perchè sfugge – l’“elemento sfuggente”, nel pensiero di Foucault, è Foucault stesso. Nella prima prefazione, poi modificata, alla Volontà di sapere, c’è un’osservazione illuminante: «...forse non avrebbe senso fare la fatica di scrivere dei libri se questi non insegnassero a chi li scrive quel che non sa, se non lo portassero dove non aveva previsto e se non gli permettessero di stabilire un rapporto nuovo e insolito con se stessi». Quest’osservazione viene puntualmente confermata da un’intervista rilasciata nell’‘84 ad Alessandro Fontana: «Per alcuni, scrivere un libro significa sempre rischiare qualcosa. Quando si sa prima dove si vuole arrivare, viene a mancare una dimensione dell’esperienza, che consiste esattamente nello scrivere un libro rischiando di non venirne a capo». Ebbene, fare un convegno su Foucault è un po’ come, per lui, scrivere un libro: insegna a rischiare – perchè nei discorsi che lo decostruiscono, che lo scompongono (pronunciati spesso a partire da altri discorsi, cioè dai corsi), Foucault viene inseguito senza mai poter essere stanato. Ed è questo a renderlo fecondo per noi: egli fugge sempre dopo di sè, oltre la sua scrittura e la sua parola, verso un altrove che ancora non c’è o che ancora non riusciamo a vedere. Il plurale delle genealogie rinvia, allora, ad un nomadismo caleidoscopico che non ha nulla da invidiare all’anarchismo concettuale di Deleuze: il Foucault (anti)psichiatrico, il Foucault microfisico, il Foucault biopolitico, il Foucault estetico-resistenziale (che si rivela quasi monastico), il Foucault impegnato e quello erudito, ci dicono che forse, oltre ad essere deleuzeano (come lo stesso Foucault auspicava), il nuovo secolo sarà – è – foucaultiano. Ma è difficile capire se Foucault, con o senza Deleuze, ci traghetta verso un esodo definitivo dalla filosofia, o ci accompagna nella fatica di una sua epocale metamorfosi. Eleonora de Conciliis
Voglio ringraziare gli studiosi presenti in questo volume, i discussants e tutti coloro che, con la loro attiva partecipazione, hanno contribuito alla riuscita del convegno ed alla tempestiva pubblicazione degli atti. Un ringraziamento particolare va ad Antonella Cutro per la sua preziosa collaborazione.
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I GENEALOGIA POLITICA DELL’OCCIDENTE
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1 LA CONOSCENZA “DELLO” STATO di Pasquale Pasquino
1. Premessa Devo dirvi subito che mi spiace del fatto che non riuscirò a farvi sorridere. A questo scopo avreste dovuto invitare il mio vecchio compagno Bruno Accarino, il quale per sostenere che Jürgen Habermas è un filosofo importante dice che “non è un morto di fame”, o che traduce direttamente e direi correttamente dal tedesco alla lingua locale l’hedeggeriana Gelassenheit con “stare je’ttato”. Questo incipit non è del tutto fuori tema – come dicevano i miei professori del liceo – perché Michel Foucault alle lezioni del Collège de France parlando di prigioni, di isteria, e di discipline riusciva sempre a farci sorridere, noi che lo ascoltavamo. Ricordo di una volta, quando lavoravamo tutti e due assiduamente alla Bibliothèque Nationale della rue Richelieu, che venne al posto dove ero seduto per mostrarmi un testo di medicina, credo del secolo 17°, in cui si leggeva l’affermazione seguente: “Per verificare le mie teorie operai tre pazienti di cui alcuni morirono”! Quando a Napoli con Bruno Moroncini studiavamo filosofia alla fine degli anni ‘60, io conoscevo appena il nome di Michel Foucault. Nel 1972 fui mandato a Parigi da Ettore Lepore e Vincenzo Cilento, i miei straordinari maestri, per scrivere il mio dottorato sulla logica e l’ontologia dello stoicismo greco sotto la direzione di Pierre Hadot. Prima di partire Antonio D’Errico, psicoanalista e professore di psichiatria abbastanza anticonformista, mi disse di andare a sentire le lezioni di Foucault al Collège.
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Qualche anno dopo avevo un posto presso la sua cattedra di “Storia dei sistemi di pensiero”, ed alla fine degli anni ‘70 grazie a Foucault ottenni una borsa di studio della Humboldt Stiftung per lavorare al Max-Planck-Institut für Geschichte di Göttingen sulla Policeywissenschaft (l’antica dottrina dello stato amministrativo territoriale nella Germania di 6/700). Mettiamo subito le carte in tavola, io non sono uno specialista di Foucault, forse non capisco nemmeno bene che cosa questa espressione voglia dire. Ho lavorato con lui, ho goduto del privilegio della sua amicizia per 13 anni. E l’incontro con lui ha certamente cambiato il corso dei miei studi e, inevitabilmente, della mia vita, conducendomi dalla filosofia al diritto. La mia dunque più che una relazione accademica su Foucault sarà una testimonianza a partire dai suoi corsi. Foucault sul tema è sempre stato chiaro, e non mi stanco di ripeterlo: i corsi al Collège erano per lui spunti, stimoli, ipotesi di ricerca che lui metteva a disposizione del suo pubblico. A noi di riprenderli, di verificarli, di rovesciarli, di farne insomma un po’ quello che volevamo. Non c’era nei corsi, per lo più, una struttura sistematica, un’ipotesi conclusa. Spesso non c’era una conclusione. Ci sono poche letture intelligenti di quei corsi per quanto ne sappia. Non si può leggere quei corsi come dei libri. Foucault peraltro, a torto o a ragione, aveva chiesto che non venissero pubblicati. Mi è capitata fra le mani una lettura interessante di alcuni aspetti degli ultimi corsi pubblicati, che cerca di mettere alla prova le ipotesi accennate da Foucault circa il liberalismo economico ed il suo ruolo nella Germania del secondo dopoguerra; si tratta di un articolo di André Orléan che verrà pubblicato dalla rivista le Annales. Ed è proprio a proposito di questi corsi che vorrei portare la mia testimonianza, su un terreno naturalmente diverso da quello dell’economia. Vorrei parlarvi qui di quello che con Foucault chiamavamo “La conoscenza dello Stato”. 2. La connaissance “de” l’Etat Preparando queste note ho un po’ esitato, senza potermi decidere completamente. Mi sono domandato che cosa mi chiedevano gli amici organizzatori del convegno. E come vedrete ho esitato fra commentare il testo dei corsi di Foucault [in particolare quello del ‘78: Sécurité, territoire, population] e presentare frammenti delle mie ricerche su temi che Foucault aveva affrontato in particolare in quell’anno. Alla fine ho finito per fermarmi in una landa intermedia da dove non parlerò né dell’una né dell’altra cosa. Posso solo
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provare a spiegare perché. Ritornare sulle mie ricerche sulla statistica e sulla scienza dello Stato tedesche non aveva per me molto interesse e sarebbe stato certamente noioso per voi, anche se i miei lavori su questi argomenti sono o in tedesco o praticamente introvabili1. Quanto poi a un commento del testo di Foucault in questione, Sécurité, Territoire, Population, non sarebbe stata una impresa agevole, tanti sono i temi discussi in quel corso. Come ho appena accennato, i corsi del Collège non sono dei libri; sono qualcosa di più e qualcosa di meno. Qualcosa di meno, poiché l’autore non li ha pensati come libri, essi non hanno il carattere chiuso e sistematico di un testo scritto per la pubblicazione. Qualcosa di più, come sanno bene quelli che erano presenti a quei corsi, poiché si ritrova in quelle lezioni una ricchezza inesauribile, direi quasi un vortice di idee nuove, di ipotesi di lavoro, di piste di ricerca poste dinanzi agli occhi del lettore odierno, come lo erano state per le orecchie di chi aveva avuto la fortuna di ascoltare quei corsi. Tutto questo – talvolta in disordine – , più un’erudizione straordinaria ed un’eleganza dell’esposizione orale che mi avevano affascinato, come se mi trovassi improvvisamente di fronte all’epifania dell’intelligenza e dello spirito – se mi è concesso un termine hegeliano. Il 1978 era stato per me un anno in cui avevo avuto, grazie alla sua amicizia, scambi intellettuali particolarmente intensi con Foucault. È a partire dal ricordo vivo delle nostre conversazioni che vorrei presentare le mie osservazioni. Era stato naturalmente grazie ai corsi di Foucault – specialista di archeologia di saperi scomparsi – che avevo scoperto nel 1978 la “scienza della Polizia” (la dottrina dello Stato tedesco) ed è alla Bibliothèque Nationale che ho cominciato a leggere i testi della Cameralistica tedesca. Grazie a Foucault ed a Rudolf Vierhaus2 ho potuto trascorrere, fra il 1979 ed il 1983, due anni lavorando alla Stadt- und Universität Bibliothek di Göttingen, il che mi ha permesso dopo la morte di Foucault di avere un posto al CNRS in quanto specialista della dottrina politica e costituzionale tedesca. 1
2
L’utopia praticabile. Governo ed economia nel cameratismo tedesco del Settecento, in Quaderni della Fondazione Feltrinelli, Milano, n° 20, 1982, pp. 69-98; Polizia spirituale e polizia terrena: D. Reinkingk e V. L. von Seckendorff, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, VIII, 1982, pp. 325355; Politisches und historisches Interesse. Statistik und historische Staatslehre bei G. Achenwall (1719-1772), in Aufklärung und Geschichte, hrsg. von H. Bödeker u. a., Göttingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1987, pp. 144-168. Grande storico della Germania moderna e direttore, all’epoca, del MaxPlanck-Institut für Geschichte, che è stato per me un maestro.
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Un piccolo aneddoto merita forse di essere raccontato. Prima di recarmi in Germania (la scelta eccellente di Gottinga mi era stata suggerita da Franco Venturi!), negli anni della mia collaborazione più stretta con Foucault ero andato a trovare Jean Pierre Vernant, antichista come me e persona squisita, che ci ha lasciato da poco, per chiedergli se valeva la pena che mi presentassi al concorso del CNRS. Vernant mi aveva risposto, con l’onestà che lo caratterizzava: “Quello che lei studia, come quello che fa Foucault, d’altronde, è molto interessante. Ma in che disciplina si può presentare?”. Vernant, in realtà, aveva ragione. Per qualche verso – soprattutto se uno non è Walter Benjamin – è giusto sostenere che Man kann den Geist nicht habilitieren! Poco prima della sua morte, Foucault aveva il progetto di creare al Collège un Centro di studi, al quale voleva che fossi associato, per lo studio della “governamentalità”, segno evidente che dopo un lungo giro, voleva tornare ai temi affrontati in particolare nel corso del 1978. Qui non mi fermerò sul problema complesso dei rapporti fra questo corso e le sue ricerche precedenti e successive. So troppo bene che Foucault avrebbe risposto: “Non mi domandate chi sono!”. Ritornando con la mente alle nostre conversazioni del 1978, vorrei, invece, cercare di chiarire un aspetto che sembra, almeno a me, decisivo in questo percorso. Il nodo centrale del corso del 1978 emerge, mi sembra, con forza nelle ultime parole dello stesso: Quest’anno mi ero proposto di fare soltanto un piccolo esperimento di metodo per mostrare che, sulla base di un’analisi relativamente locale e microscopica delle forme di potere caratterizzate dal pastorato, era possibile affrontare i problemi generali dello stato, senza incorrere in paradossi o contraddizioni, a condizione però che [non si eriga] lo stato [a] realtà trascendente la cui storia potrebbe essere scritta a partire da questa stessa realtà. La storia dello stato deve potersi fare a partire dalla pratica degli uomini, a partire da ciò che fanno e dal modo in cui pensano: lo stato come modo di fare e di pensare. [Sicuramente] questa non è la sola possibilità di analisi a disposizione, se si vuole tracciare la storia dello stato, ma è una possibilità sufficientemente feconda. La sua fecondità, a mio avviso, è legata alla constatazione che tra il livello del micropotere e il livello del macropotere non esiste alcuna frattura: parlare del primo non significa escludere il secondo. Di fatto, un’analisi in termini di micropoteri si concilia senza alcuna difficoltà con l’analisi di problemi quali il governo e lo stato.3
3
Lezione del 5 aprile 1978, trad. it. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 261-262.
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Ecco dunque come io vedo il senso di quel corso nella evoluzione a zig zag della sua riflessione. Nel 1977, con Alessandro Fontana, avevamo pubblicato da Einaudi una raccolta di testi di Foucault col titolo di Microfisica del potere, un piccolo volume che ebbe un successo un po’ inatteso e suscitò un certo numero di dibattiti. Riflettendo sui dibattiti e sulle critiche che quella raccolta di testi aveva suscitato, Foucault si rendeva conto del fatto che l’analisi delle “discipline”, il nervo centrale di Surveiller et punir, poteva dar luogo ad un malinteso e portare la sua riflessione in un vicolo cieco, o, comunque, in una direzione che lui si rifiutava di sottoscrivere. Uno dei contributi essenziali di Foucault era stato quello di sbarazzarci del riduzionismo dell’analisi marxista che voleva ricondurre l’oppressione alla dimensione esclusiva dello sfruttamento economico, svuotando di senso e di ruolo le cosiddette “sovrastrutture”, a cominciare dal diritto. La “microfisica del potere” faceva apparire, al di qua ed accanto all’analisi marxista, il sistema multiforme dei meccanismi e delle tecnologie di potere. C’era, però, un effetto perverso di questo tipo di analisi che irritava Foucault, quello che consisteva nel ridurre a sua volta l’insieme della sua analisi ad una macchina di “denuncia”, mentre per lui il problema più importante era di capire il funzionamento e le ragioni di essere di istituzioni sociali – all’origine del suo libro, Surveiller et punir, la scelta della prigione, come forma essenziale della punizione. Accanto/oltre a questo riduzionismo della denuncia, che infastidiva Foucault esattamente come il riduzionismo marxista, ci rendevamo conto, inoltre, del fatto che l’analisi delle discipline era incompleta e che bisognava modificare la scala dell’analisi e passare dalla dimensione “micro” a quella “macro” – sono i termini che Foucault adopera alla fine del suo corso. La “gouvernementalité” appariva, dunque, come l’altra faccia e come il prolungamento, per così dire, dell’analisi delle discipline. In questo contesto la raison d’état – nel senso lato in cui l’intendeva Foucault, un senso sul quale si può discutere, ma che io condivido – rappresentava il corpus di sapere che collega il micro ed il macro sotto la forma delle scienze della società e dello Stato post-machiavelliane. Qui non posso fermarmi su questa questione ma credo, come Foucault, che la Riforma protestante e le guerre civili di religione fra 16° e 17° secolo costituiscano un tornante decisivo nella storia dell’Occidente, se le si considera dal punto di vista dell’ordine politico e di quello che rappresenta una minaccia nei confronti del medesimo4. 4
Su questi temi mi sono fermato in Political Theory, Order and Threat, in Nomos XXXVIII: Political Order, 1996, pp. 19-40.
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È entro questo quadro storico che bisognerebbe indagare le diverse strategie poste in atto per far ostacolo alla minaccia di disordine rappresentata dalla Riforma protestante. In particolare penso alla differenza fra la repressione preventiva dell’eresia da parte dell’Inquisizione in Italia e in Spagna, da un lato, e alla costruzione dello stato territoriale assolutista nel nord dell’Europa, dall’altro. Il caso dei principati tedeschi (Teutscher Fürstenstaaten) è una variante particolare del secondo tipo che presenta, a mio avviso, un interesse particolare. In Francia, in ogni caso fino ad un certo punto, la monarchia aveva potuto imporre con la forza la tolleranza religiosa ai cattolici estremisti; grazie alla gestione razionale delle proprietà regia aveva inoltre potuto sbarazzarsi del freno alla potenza indivisa del re rappresentata dagli Stati generali del regno. Al contrario, nei piccoli stati territoriali tedeschi, creati in base alla “pulizia religiosa” fondata sul principio «cujus regio ejus religio», fu la buona gestione della popolazione e del territorio che permisero la stabilizzazione e la crescita del potere del principe. Scegliendo un punto di vista un po’ diverso, non quello della storia politica sociale e religiosa dell’Europa, ma quello della teoria politica, si potrebbero confrontare due scritti contemporanei: il Leviathan di Thomas Hobbes (1651) ed il grande trattato tedesco sul governo di un principato, il Teutscher Fuerstenstaat di Veit Ludwig Seckendorff (1656). Mentre per il filosofo inglese la questione essenziale, insieme a quella del controllo politico delle guerre di religione, è la “giustificazione” del potere sovrano, o più precisamente, delle condizioni di razionalità dell’obbedienza – ex parte populi (non per nulla il primo testo politico pubblicato da Hobbes si chiamava De cive!); la questione affrontata da Seckendorff è, invece, quella della “gestione” razionale del territorio e della popolazione – ex parte principi, quella che Foucault chiamerà biopolitique! In questa prospettiva – ed è un punto importante sul quale desidero attirare la vostra attenzione – la “gestione” del territorio richiedeva la formazione di funzionari e la creazione di cattedre e di università (come quella di Halle, fondata alla fine del secolo 17° dal margravio di Brandeburgo, sulla quale tornerò fra poco) specializzate nell’insegnamento della Kameralistik, la scienza della polizia, dell’amministrazione e dello stato. Staats- und Verwaltungslehre sono i termini che verranno utilizzati più tardi. Vorrei qui aggiungere una osservazione supplementare a quelle di Foucault per quanto riguarda proprio il termine di Policeywissenschaft. Ma torniamo prima per un momento sul tema dell’educazione dei funzionari: i Beamter dello Stato territoriale tedesco. Chi conosce un po’ la storia delle Università tedesche, sa che alla fine delle guerre civili di religione e dopo la pace di Westfalia, un certo numero di principi tedeschi crearono delle
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nuove università con lo scopo esplicito di educare e formare i funzionari di cui aveva bisogno lo Stato territoriale. L’esempio certamente più interessante è quello di Halle, come ho accennato, dove lo stesso Seckendorff fu chiamato al posto di rettore. Un mutamento importante nella storia culturale tedesca, poiché esso rappresentò la fine del primato della teologia nell’insegnamento universitario della Germania protestante – il contesto certamente più avanzato della cultura accademica europea, e questo fino al 1933. «Scienze camerali» è il nome generale che venne dato a questa conoscenza dello Stato da parte di coloro che, per usare il linguaggio di Foucault, avevano il compito di descrivere e, al tempo stesso, di costruire il nuovo ordine di governo. Sembra dunque che l’educazione dei funzionari pubblici e la gestione delle risorse del territorio siano state, insieme alla giustificazione del governo del principe – che troviamo soprattutto nei teorici del diritto naturale – due elementi essenziali nella creazione dello stato moderno. Per tornare alla questione evocata poc’anzi, mi sembra di poter dire che il termine “polizia”/Policey abbia un’origine aristotelica. La voce greca « politeia » è una di quelle parole che hanno una lunga storia, fatta di trasformazioni e di malintesi spesso creativi, malintesi prodotti più di una volta da traduzioni canoniche ed al tempo stesso fuorvianti. Leonardo Bruni, nella sua bella ed infedele traduzione della Politica di Aristotele, traduceva politeia con respublica (donde il termine machiavelliano di repubblica). Ma la prima versione latina del testo di Aristotele, quella fatta per Tommaso d’Aquino da Guglielmo di Moerbecke, non traduce il termine, limitandosi ad un calco: politie/a. Credo che sia stato attraverso i testi in latino degli aristotelici protestanti tedeschi, come Arnisaeus e Conring, che il termine Policey sia entrato nel vocabolario del Mittelhochdeutsch. “Polizia”, dunque, come buon ordine della città – ora dello Stato. E scienza della polizia in quanto conoscenza dello Stato da parte dei funzionari dello Stato (che è qui genitivo oggettivo e soggettivo) – funzionari che sono, per utilizzare una bella metafora di Theodor Reinking, “gli occhi e le orecchie del principe”. O, ancora, Statistik come si dirà più tardi nel corso del secolo 18° per tradurre il latino di Conring (Notitia Rerum Publicarum), un altro tema al quale avevo, nella traccia dei corsi di Foucault, consacrato qualche ricerca5. Questo intervento non ha una conclusione. Finisce come il rapporto con Foucault, brutalmente interrotto dalla sua morte. La mia ricerca è andata avanti per linee e sentieri che lui mi aveva aiutato a trovare. Continuare, da solo, è stato più penoso naturalmente e più lento. La sua opera è un’ombra 5
Cfr. nota 1.
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e un grande frammento che campeggia sulla soglia di questo secolo. Un po’ come un labirinto, un po’ come una sfinge. Spero che a nessuno venga in mente di scrivere a proposito di Foucault uno di quei libretti – postBignami – che si intitolano “che cosa ha veramente detto il signor x”. Io quando è morto ho fatto il lutto della sua scomparsa scrivendo un testo6 nel quale cercavo di dire a me stesso che cosa mi aveva fatto pensare Foucault. E mi era parso che tre temi avessero attraversato la sua opera e colpito la mia mente, tre temi che si possono riassumere rozzamente sotto i concetti di cosa sia il soggetto, che cosa il potere o il governo e che cosa la verità o più esattamente la veridizione. Su tutti questi temi c’è ancora un grandissimo lavoro da fare. Io ho scelto per me il tema mediano: da dove viene l’autorità del potere/governo. Ma questa è una storia diversa, che però è cominciata per me alla Bibliothèque Nationale della rue de Richelieu, conversando con Michel Foucault!
6
Le Débat, n. 41, settembre-novembre 1986, pp. 93-99.
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2 PARADOSSI E ATTUALITÀ DELLA SOGGETTIVAZIONE CRISTIANA di Michel Senellart*
L’interesse di Foucault per il cristianesimo è legato ai due assi genealogici del suo lavoro. Innanzitutto, la genealogia del discorso moderno sul sesso, che fonda la verità del soggetto nel suo rapporto con la sessualità e lo obbliga a formularla per sé e per altri. «Dimmi chi sei»1: è questa l’ingiunzione fondamentale della nostra cultura, trasmessa dalle scienze umane (e più precisamente dalla psicanalisi), che sarebbe nata nel rituale cristiano della penitenza. In seguito, la genealogia delle forme di potere che hanno retto le società moderne e che sono caratterizzate dalla messa in opera di tecniche d’individuazione, analizzate da Foucault, in un primo tempo, nei termini di “discipline”, poi all’interno di una problematica allargata, di “governo”. Potere la cui origine, secondo lui, dev’essere cercata sul versante delle comunità religiose del Medioevo e, più a fondo, nelle procedure pastorali di condotta degli uomini elaborate nei primi secoli dell’era cristiana. Dunque, l’asse sessualità-verità2 e l’asse potere-individuo. Questi due assi, come Foucault * 1 2
Traduzione di Antonella Cutro. Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France, 1979-1980 (in corso di edizione, d’ora in poi citato con la sigla GV), lezione del 20 febbraio 1980. Questo rapporto sessualità-verità è al cuore del progetto di una Storia della sessualità, titolo che Foucault aveva preferito a quello di Sessualità e verità (citato da E. A. Clark, F, the Fathers and Sex, in Michel Foucault and Theology: the Politics of Religious Experience, a cura di J. Bernauer e J. R. Carrette, Ashgate Publishing, 2004, p. 40). Cfr. la nuova introduzione alla traduzione tedesca di La volontà di sapere, nel 1977: Sexualité et vérité, in Dits et Écrits, Gallimard, Paris 1994, tomo III, p. 136 (d’ora in poi citato con la sigla DE, seguita dal volume e dal n. di pagina).
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stesso non smette di ricordare, sono strettamente connessi l’uno all’altro. La storia della sessualità così come la esaminava nel 1975, contro l’«ipotesi repressiva» allora dominante, si presentava come il prolungamento su un nuovo terreno, dell’analitica del potere già applicata alla genesi della prigione. A partire dal 1978 con il concetto di «soggettivazione», si disegna una nuova articolazione intorno a cui Foucault, nel corso degli anni successivi, riorganizza la sua ricerca ormai concentrata sulla costituzione storica del soggetto nel suo rapporto con la verità e sulla definizione di un’etica della libertà. La maggior parte dei commentatori francesi, a proposito di questa svolta, si è interessata alla rilettura della filosofia antica proposta da Foucault3 e al suo significato nella prospettiva di un’etica della cura di sé. Ben pochi, invece, hanno prestato attenzione approfondita all’analisi del cristianesimo che egli sviluppa, in modo sempre più preciso, dopo il 19784. Questo fatto si spiega, forse, considerando il ristretto numero di testi disponibili (il corso Sul governo dei viventi, consacrato alla pratica della penitenza cristiana è ancora inedito e il manoscritto delle Confessioni della carne rimane inaccessibile). Ma ci sono senza dubbio altre ragioni, che riguardano la percezione stessa del cristianesimo e le resistenze o il rifiuto che suscita la sua storia. Tutto avviene, in effetti, come se in questa genealogia del soggetto moderno la filosofia greco-romana possa essere oggetto di una rivalutazione positiva, malgrado la distanza che ci separa da essa, mentre il cristianesimo non debba essere interpretato che in termini negativi di controllo e di assoggettamento. Il cristianesimo sarà la cultura del sesso colpevole e della vergognosa confessione, con la quale bisogna rompere interamente e che, di conseguenza, non esige studi circostanziati. Non è questa la lettura che fanno, invece, negli Stati Uniti, un certo numero di teologi e specialisti di studi religiosi, nell’ottica di una critica postmoderna della tradizione cristiana. Il loro sforzo, di cui testimoniano titoli di libri molto strani ai nostri occhi come Foucault and Teologie o Foucault and Religion, si inscrive senza dubbio all’interno di orizzonti assai differenti, poiché per loro si tratta di cercare di pensare, a partire da Foucault, tanto le condizioni di una nuova spiritualità religiosa quanto, al contrario, le condizioni di un superamento della religione attraverso la spiritualità. Tutti, tuttavia, sottolineano che è necessario prendere in considerazione, con la massima serietà, i testi di Foucault sul cristianesimo (e, 3 4
Cfr. per esempio Foucault et la philosophie antique, a cura di F. Gros e C. Lévy, Kimé, Paris 2003. Cfr. M. Senellart, Direction de conscience et apatheia: le problème du pastorat selon Foucault, ivi, pp. 153-174.
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in modo più generale, sul fenomeno religioso) per comprendere la natura del suo progetto filosofico. In questa comunicazione non cercherò di rispondere alla domanda che riguarda la possibilità di una spiritualità religiosa o post-religiosa foucaultiana, ma vorrei esaminare quale è il rapporto di Foucault con il cristianesimo a partire dal concetto di «soggettivazione», per vedere che cosa autorizza, in una certa misura, la lettura teologica che se ne fa e ne segna, allo stesso tempo, i limiti. Presenterò, in un primo momento, le grandi linee del dibattito teologico americano sul pensiero di Foucault. Poi rintraccerò le principali tappe dell’interesse di Foucault per il cristianesimo, attraverso i corsi degli anni ‘70-‘80. Ed infine, spiegherò quale statuto paradossale, al contrario dell’interpretazione corrente, possiede la soggettivazione cristiana nella sua riflessione. Come ha mostrato John McSweeney in un recente articolo dei Foucault Studies5, il dibattito teologico sul pensiero di Foucault ha seguito tre traiettorie principali: 1. Un’appropriazione teologica degli strumenti e degli schemi di analisi foucaultiani, come quello del sapere-potere nel campo della teologia della liberazione6 o dell’ermeneutica della scrittura7 o il concetto di potere pastorale nel campo della teologia pratica8. Questa tendenza molto marginale, apparsa all’inizio degli anni ‘80, non fa che rafforzarsi, chiaramente sul versante della teologia morale9, con la scoperta dei lavori dell’ultimo Foucault sulla genealogia dell’etica. Quest’applicazione di elementi del pensiero foucaultiano a degli oggetti che gli erano estranei, tuttavia, non rende evidentemente conto del suo progetto generale né delle scelte strategiche che guidano le sue analisi. 2. Una interrogazione sulla possibilità (o la necessità) di una teologia postmoderna: il significato del pensiero di Foucault – spesso associato a quel5 6 7 8 9
J. McSweeney, Foucault and Theology, in Foucault Studies, 2 (maggio 2005), pp. 117-144. Cfr. Sh. Welch, Communities of Resistance and Solidarity: A Feminist Theory of Liberation, Maryknoll, Orbis, New York 1985. Cfr. E. A. Castelli, Imitating Paul: A Discourse of Power, John Knox Press, Louisville et Westminster 1991. Cfr. H. Steinkamp, Die sanfte Macht der Hirten. Die Bedeutung Michel Foucaults für die praktische Theologie, Mayence, Grünewald 1999. Cfr. M. Pfannkuchen, Archäologie der Moral. Zur Relevanz von Michel Foucault für die theologische Ethik, LIT, Münster 2000.
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lo di Derrida e di Lyotard – in questa prospettiva, è stato discusso tanto sul versante delle teologie decostruttive, che esplorano le potenzialità religiose dell’età post-cristiana, quanto sul versante delle teologie «ecclesiali» tradizionali, in modo più o meno critico. Anche questo secondo tentativo rimane molto esteriore alla riflessione foucaultiana, di cui non permette di ricostruire il movimento interno. Tende ad irrigidire Foucault in un’attitudine post-moderna alla quale è difficile ridurlo, e a porre il problema teologico – quale teologia dopo Foucault? – nei termini di una alternativa (con o contro Foucault? con o contro il post-moderno?) che non appartiene affatto alla prospettiva di quest’ultimo. 3. Un’analisi dei punti di convergenza o di intersezione tra il pensiero di Foucault e il discorso teologico. Secondo questo terzo orientamento, che è anche il più recente, Foucault avrebbe intrattenuto, nel corso della sua opera, un rapporto costante con quello che chiama, in un’intervista del 1967, «il problema religioso»10. Attraverso le sue metamorfosi successive, il suo pensiero sarrebbe caratterizzato da un progetto etico fondamentale, definito come trasgressione, resistenza, distacco, esperienza di sé: il rifiuto delle forme di assoggettamento imposte dalla società moderna, in nome di un «fuori» che non si lascia ricondurre ad alcuna norma positiva, ad alcuna regola di interiorizzazione, ad alcun fine totalizzabile, ma si sperimenta, come nel linguaggio letterario, attraverso una continua «messa ‘fuori di sé’»11. Da qui due linee di interpretazione: quella di James Bernauer che vi vede l’espressione di una «teologia negativa»12 o di un «misticismo secolarizzato» (worldly mysticism)13 che conduce ad una forma di spiritualità meno estranea alla cultura cristiana 10
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M. Foucault, «Qui êtes-vous, professeur Foucault?» (settembre 1967, tradotto dall’italiano), DE I, p. 614 : «Per un lungo periodo, c’è stato in me una specie di conflitto irrisolto tra la passione per Blanchot, Bataille e l’interesse che nutrivo per certi studi positivi come quelli di Dumézil e Lévi-Strauss, per esempio. Ma in fondo questi due orientamenti, di cui l’unico comune denominatore era forse costituito dal problema religioso, hanno contribuito in eguale misura a condurmi al tema della scomparsa del soggetto» (corsivo mio). Trad. it. Chi siete voi professor Foucault?, in Conversazioni con LeviStrauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, a cura di P. Caruso, Mursia, Torino 1986, pp. 120-121. M. Foucault, La pensée du dehors (1966), in DE, I, p. 520; cfr. trad. it. di C. Milanese, Il pensiero del di fuori, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, p. 114. J. Bernauer, The Prisons of Man: An Introduction to Foucault’s Negative Theology, in «International Philosophical Quarterly» 27 (1987), pp. 365-380. Cfr. J. McSweeney, Foucault and Theology, cit., p. 126 e p. 128.
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di quanto pensino la maggior parte dei commentatori; quella di Jeremy Carrette che ugualmente svela la presenza di un «sotto-testo religioso» negli scritti di Foucault, ma non intende, come la precedente, reinscrivere il suo pensiero nel solco teologico14. Il paragone che Foucault fa tra il suo tentativo e la teologia negativa, ne Il pensiero del di fuori15, non serve ad altro che a suggerire, per Carrette, alcuni paralleli con il suo stile di pensiero, senza testimoniare alcuna preoccupazione teologica16. L’originalità di Foucault, al contrario, consiste secondo lui in una destabilizzazione delle categorie religiose tradizionali, attraverso l’elaborazione di una «corporeità spirituale»: «Una nuova ontologia del linguaggio, l’erotismo, la trasgressione e il tema nietzscheano della morte di Dio, è questo che Foucault riunisce negli anni ’60 per sviluppare una ‘corporeità spirituale’, una critica della religione [in altri termini] che valorizzerà il corpo».17 Bisogna ora rintracciare le principali tappe dell’interesse di Foucault per il cristianesimo. Lungi dallo scandire un percorso lineare, nel senso di un approfondimento progressivo, esse segnano il rilancio, il reinvestimento 14 15
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J. Carrette, Foucault and Religion: Spiritual Corporality and Political Spirituality, Routledge, Londres & New York 2000. ; Id. (a cura di), Michel Foucault. Religion and Culture, Routledge, New York 1999. M. Foucault, La pensée du dehors, cit., p. 521; trad. it. Il pensiero del di fuori, cit., p. 114 : «Bisognerà pure un giorno cercare di definire le forme e le categorie fondamentali di questo “pensiero del di fuori”. Bisognerà anche sforzarsi di ritrovare il suo procedimento, di cercare da dove esso ci viene e in quale direzione esso va. Si può benissimo supporre che sia nato da quel pensiero mistico che, dopo i testi dello Pseudo-Dionigi ha vagato ai confini del cristianesimo: forse si è conservato, durante un millennio o quasi, sotto le forme di una teologia negativa». Cf. J. McSweeney, Foucault and Theology, cit., p. 130: questo paragone, da parte di Foucault, come sottolinea Arthur Bradley (cfr. il suo Negative Theology and Modern French Philosophy, Routledge, Londres & New York 2004, p. 118) serve anche a mostrare come questi tentativi, a dispetto delle loro somiglianze, sono in realtà differenti. Si veda il seguito della citazione del Pensiero del di fuori, cit., p. 521, trad. it. cit., p. 114: «Ancora non vi è nulla di sicuro: poiché, se in una tale esperienza si tratta di passare “fuori di sé”, è finalmente per ritrovarsi, per svilupparsi e per raccogliersi nell’interiorità abbagliante di un pensiero che è di pieno diritto Essere e Parola, quindi Discorso, anche se esso è, al di là di ogni linguaggio, silenzio, al di là di ogni essere, il nulla». Cfr. ugualmente ivi, p. 537, a proposito della mistica (trad. it. p. 131): «...non è di questo che si tratta nell’esperienza del di fuori». J. R. Carrette, Foucault and Religion, cit., p. 61.
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permanente di ipotesi, di temi, di oggetti d’analisi nel quadro di una messa in questione in continua evoluzione. Attorno ad un nodo stabile – il cristianesimo considerato, prima di tutto, sotto l’angolatura della «volontà di sapere»18 o secondo il concetto nietzscheano ripreso da Foucault, della «volontà di verità»19 – Foucault moltiplica i «punti di vista» e fa variare le prospettive interpretative (punto di vista del «potere», del «governo», degli «atti di verità»). Constatiamo tuttavia due spostamenti importanti e paralleli: uno, che lo conduce dall’analisi del processo di cristianizzazione, che conosce nel XVI-XVII secolo una fase di straordinaria intensificazione20, a quella del cristianesimo stesso, di cui a partire dal 1978 cerca di comprendere la logica interna di sviluppo, mettendo in questione l’unità del concetto di «cristianesimo»21; l’altro che lo fa passare dal periodo compreso tra il XVI e il XVIII secolo – dalla pre-Riforma alla Chiesa post-tridentina – alla Chiesa dei primi secoli. Nella prima prospettiva, quella che orienta il punto di vista del «poteresapere», il cristianesimo appare come uno dei principali vettori del processo di disciplinarizzazione delle società occidentali. Nel 1974, tracciando uno schizzo della storia del potere disciplinare che tende a sostituirsi, a partire dal XVII secolo, al potere di sovranità, Foucault risale alle comunità
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Che prima di essere il titolo del primo volume della Storia della sessualità, nel 1975, era quello del primo corso di Foucault al Collège de France, nel 19701971. M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971 ; trad. it. L’ordine del discorso, in L’ordine del discorso ed altri interventi, Einaudi, Torino 2004, p. 10. Cfr. M. Foucault, Les anormaux. Cours au Collège de France 1974-1975, a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Gallimard-Le Seuil, Paris, «Hautes Etudes» 1999, lezione del 19 febbraio 1975 (cfr. trad. it. Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-1975, Feltrinelli, Milano 2000, p. 159): il XVI secolo segna «una fase di cristianizzazione in profondità» in rapporto alla cristianizzazione lacunosa e discontinua dei secoli precedenti (riferimento implicito ai lavori di J. Delumeau: in particolare cfr. Le Catholicisme entre Luther et Voltaire, Paris 1971). Si veda ugualmente ivi, p. 189 e p. 217. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France, 1977-1978, a cura di M. Senellart, Gallimard-Le Seuil, Paris, «Hautes Etudes» 2004, lezione del 15 febbraio 1978, p. 151; (d’ora in poi citato con la sigla STP; cfr. trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, 1977-1978, Feltrinelli, Milano 2005, p. 115): parola che ricopre «tutta una serie di realtà differenti», a cui Foucault, allora, preferisce quella di pastorato legato all’organizzazione della religione cristiana come Chiesa. Ma in GV, è del cristianesimo stesso che si tratta in permanenza.
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religiose del Medioevo. È lì, dice, che si è formato questo potere22, che in seguito si è spostato, trasformandosi, verso certe comunità laiche della pre-Riforma tra il XIV e il XVI secolo (Foucault prende come esempio i Fratelli della vita comune), e poi ha penetrato a poco a poco la società23 per divenire, nel XIX secolo, la forma generale dell’esercizio del potere in Occidente. Se egli sottolinea il ruolo critico e rinnovato dei nuovi ordini religiosi (cistercensi, domenicani e francescani) sul piano economico, politico e sociale24, per contro non attribuisce loro alcuna innovazione propriamente «spirituale». La disciplina, di cui sono i primi promotori, costituisce un certo tipo di potere sul corpo e non una forma di governo delle anime.25 È nel 1975, nel corso su Gli anormali, che la disciplina dei corpi viene correlata alla pastorale religiosa, questa tecnica di governo delle anime 22
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M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 19731974, a cura di J. Lagrange, Gallimard-Le Seuil, Paris, «Hautes études» 2003, lezione del 21 novembre 1973; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France, 1973-1974, Feltrinelli, Milano 2003, p. 49. È nel XVII secolo che i dispositivi disciplinari si liberano dal loro sostegno religioso (ivi, p. 75), con lo sviluppo dei grandi sistemi disciplinari dell’Età classica – l’esercito, prima di tutto, poi l’industria (pp. 75-76). Ivi, lezione del 28 novembre 1973, pp. 69-70. Se gli elementi di una riflessione sul rapporto dell’individuo con se stesso, nella pratica ascetica, sono già presenti nel corso del 1973, Il potere psichiatrico, essi tuttavia non possono essere già elaborati in termini di soggettivazione, per la griglia di analisi allora applicata da Foucault. È così che richiama (ivi, pp. 71-73) l’ideale ascetico dei Fratelli della vita comune, comunità di laici fondata da Gérad Groote nel 1383, e la cui ispirazione era molto vicina alla mistica renana. Foucault descrive brevemente il programma di questa comunità come una «pratica di esercizio di un individuo su se stesso», un «tentativo per trasformare l’individuo», la «ricerca di un’evoluzione progressiva dell’individuo sino alla salute» – in altri termini, un «lavoro ascetico dell’individuo su se stesso per la salvezza». Ma questo esercizio di sé su di sé, in vista della salvezza, come lo analizza? Non come una procedura di accesso alla verità, costitutiva di un certo modo di soggettivazione, ma come la matrice di un sistema di assoggettamento. Questa comunità, in effetti, voleva porre le basi di una riforma dell’insegnamento, «trasponendo nell’educazione una parte delle tecniche spirituali» (cfr. ivi, nota 4, p. 320 [J. Lagrange]). Da cui, nelle scuole fondate da essi a Deventer, Liegi, Strasburgo, l’applicazione di molti dei principi caratteristici dell’esercizio ascetico: divisione per età e livello, con programmi di esercizi progressivi; regola di clausura; cammino sotto la direzione costante di una guida. Foucault vede qui «il primo modello di colonizzazione pedagogica dei giovani» (ivi, p. 72), preludio alla «colonizzazione di tutta una società tramite l’azione dei dispositivi disciplinari» (ivi, p. 73).
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forgiata dalla Chiesa attorno al rituale di penitenza26. Disciplina dei corpi e governo delle anime appariranno così come due facce complementari, su piani istituzionali distinti, di uno stesso processo di normalizzazione. Il problema che interessa Foucault, allora, è quello dell’investimento del corpo, portatore di desiderio e di piacere, da parte del governo delle anime. Il Concilio di Trento, nel suo programma di cristianizzazione della società, non ha solo rafforzato l’economia sacramentale della penitenza, stabilita nel Medioevo. Ha anche suscitato il dispiegamento di tutto un apparato di direzione spirituale che ha fatto apparire la carne come l’oggetto di un discorso esaustivo – obbligo di dire tutto – ed esclusivo – non dirlo che al proprio confessore27. Come nella Volontà di sapere28 è la confessione che si trova al centro dell’analisi di Foucault. A partire dal 1978, Foucault inizia (per ragioni che non posso esaminare qui) a smarcarsi dalla sua problematica anteriore del potere-sapere. Questo sforzo si traduce attraverso un doppio scivolamento concettuale: prima di tutto, dalla nozione di potere a quella di «governo», «nel senso lato [...] di meccanismi e procedure destinate a condurre gli uomini, a dirigere le condotte degli uomini, a condurre le condotte degli uomini»29; dalla nozione di sapere, in seguito, a quella di verità (o di manifestazione di verità). Il primo corrisponde ai corsi sulla «governamentalità» del 1978 e 1979; il secondo al corso del 1980 Sul governo dei viventi. È il pastorato cristiano che rappresenta, secondo Foucault, la prima elaborazione sistematica di «un’arte di governare gli uomini». Quest’ultimo tuttavia, nel XVI secolo, non si costituisce più come reazione alla Riforma, ma dai primi secoli del cristianesimo, il governo della anime è definito dai Padri come l’«arte delle arti» o la «scienza delle scienze»30. Foucault, dunque, reinscrive la pastorale tridentina nella lunga durata della storia della Chiesa. Ritorna, da qui, alla sua tesi del corso del 1974, che faceva 26 27 28
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M. Foucault, Gli anormali, cit., lezione del 19 febbraio 1975, pp. 154-173. Ivi, pp. 180-181. Dove Foucault precisa, tuttavia, che la pastorale del XVII secolo «ha fatto una regola per tutto» di questo progetto di «‘messa in discorso’ del sesso [che] s’è formato, da molto tempo, in una tradizione ascetica e monastica» (La Volontè de savoir, Gallimard, Paris 1976, p. 29; cfr. trad. it., Feltrinelli 1993, pp. 2223). GV, lezione del 9 gennaio 1980. Cfr. il Riassunto del corso in DE, IV, p. 125 (trad. it. Sul governo dei viventi, in I corsi al Collège de France. I Rèsumés, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 91) Sulla prima occorrenza di questa definizione, cfr. la mia Nota a STP, pp. 406-407 (cfr. trad. it. pp. 289-290). Cfr. STP, lezione del 15 febbraio 1978, p. 154 (trad. it. p. 118) .
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dell’esperienza monastica medievale una delle matrici essenziali della forma del potere moderno. Tuttavia, con molte differenze importanti. 1. Il monachesimo non è più preso in considerazione in questa tardiva fase di evoluzione che è la riforma degli ordini religiosi nel XI-XII secolo31, ma nel suo periodo di nascita, nel momento in cui pone la questione della scelta – nei termini di Robert Markus – tra il deserto e la città32. 2. Esso è risituato all’interno di una concezione più generale del «governo», di cui costituisce senza dubbio la messa in opera più rigorosa ma non il fulcro di elaborazione iniziale. 3. Esso si caratterizza meno per la disciplina dei corpi e più per l’invenzione di un modo originale di rapporto dell’individuo con se stesso, attraverso la pratica dell’esame di coscienza, che Foucault, per la prima volta chiama «soggettivazione»33. A partire dal 1978, è ai testi fondatori del monachesimo occidentale che s’interessa Foucault e, sempre di più, all’evento che ha costituito l’apparizione dell’istituzione monastica in seno alla cultura cristiana34. È la prima volta, nel suo insegnamento, che Foucault tratta del «governo delle anime» in se stesso e non relativamente ad un’altra questione, che ne intraprende la genealogia a partire dalla pastorale della Chiesa antica e paragona quest’ultima alle forme classiche di direzione spirituale. Queste lezioni rappresentano per certi aspetti lo schizzo dei corsi del 1980 e del 1982. L’accento, tuttavia è messo sul tipo di relazione che unisce il pastore al suo gregge piuttosto che sul tipo di discorso richiesto da parte del diretto. Il corso del 1980 segna la seconda tappa dello spostamento in rapporto alla nozione di potere-sapere. Sono le pratiche della confessione nella pastorale monastica del IV secolo, che giustificano l’interesse di Foucault per le tecniche di direzione spirituale, sotto il triplice aspetto del rapporto al maestro, dell’esame di coscienza e della verbalizzazione dei pensieri. Com’è noto, si tratta per Foucault di descrivere, a partire dagli scritti di Cassiano, l’emergenza di una nuova tecnica di esame di sé, che implica la produzione di un discorso vero su di sé e nello stesso tempo un’obbedienza assoluta al direttore. Questo Corso risale, insomma, all’origine del processo di cui la pastorale tridentina segna insieme il punto di arrivo
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Cfr. tuttavia, in Il potere psichiatrico, cit., p. 73, un’allusione alla vita monastica dei primi secoli, a proposito dell’organizzazione in «decurie» di certi conventi dell’epoca cristiana arcaica. Cfr. R. A. Markus, The End of Ancient Christianity, UP, Cambridge 1990, p. 157: «City or Desert: two models of community». STP, lezione del 22 febbraio 1978, p. 187 (cfr. trad. it. p. 141). Cfr. su questo punto GV, lezione del 19 marzo 1980.
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e di riattivazione, ma in una prospettiva che non è più quella del 1975: è il rapporto del soggetto con la verità e non più, per lo meno non direttamente, la «fisiologia morale della carne»35 a costituire l’orizzonte problematico di Foucault. Come mostra questo rapido attraversamento del Corso, l’analisi foucaultiana del cristianesimo presenta una costanza molto forte, con l’accento posto, durante tutti questi anni, sull’importanza della Chiesa nella genesi dei dispositivi del potere moderno, sul ruolo motore, in questo processo, dell’ascesi monastica, sul posto centrale accordato al rituale di penitenza, sulla funzione decisiva della confessione nel rapporto d’obbedienza. La storia del cristianesimo che Foucault traccia, per quadri successivi, è una storia della religione dal punto di vista della sua organizzazione istituzionale e, più precisamente (poiché l’istituzione, per Foucault, non è in quanto tale che un punto di vista operativo36) delle pratiche che sottendono quest’ultima. È una storia che non si lega al contenuto dogmatico delle fede ma cerca di mettere in evidenza la «tecnologia di potere» sulla quale riposa. È, infine, una storia indifferente al problema della salvezza e interamente imperniata sul modo di costituzione del soggetto nel suo rapporto con la verità. Istituzionalizzazione, pastorato, soggetto d’obbedienza: questi sono i tre punti del triangolo all’interno del quale Foucault sviluppa la sua analisi del cristianesimo.
Quest’analisi conduce Foucault, a partire dal 1978, a confrontare la pratica cristiana della direzione di coscienza con quella dell’Antichità37. La loro comparazione, sempre più approfondita di anno in anno, fa emergere due modi opposti di soggettivazione: l’uno fondato su una dipendenza integrale, l’altro teso verso la ricerca dell’autonomia. Secondo il primo – il modo cristiano – il rapporto del soggetto con la propria verità si lega all’interno di una struttura di obbligazione che costituisce il dir vero come principio di obbedienza permanente. Per il monaco, esaminare la propria coscienza, scrutare il fondo della propria anima, produrre la propria verità, segreta e nascosta, non significa liberarsi dalla tutela del proprio direttore, ma al contrario rinforzare la propria dipendenza nei suoi riguardi. È per imparare l’obbedienza che si deve accettare di dire 35 36 37
M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 173. Cfr. STP, lezione dell’8 febbraio 1978, pp. 120-121 (cfr. trad. it. pp. 92-93). STP, lezione del 22 febbraio 1978, pp. 184-186 (cfr. trad. it. pp. 138-140); GV, lezione del 12 e del 19 marzo 1980; L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, a cura di F. Gros, Gallimard-Le Seuil, Paris, «Hautes Etudes» 2001, lezione del 3 marzo 1982, pp. 345-348 ; trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France. 1981-1982, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 342-346.
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tutto al proprio direttore, è non nascondendogli nulla che si testimonia la propria perfetta sottomissione. «Per ottenere questo risultato – scrive Cassiano – si insegna al novizio a non nascondere, per una falsa vergogna, alcuno dei pensieri che gli rodono il cuore, ma che, dal momento in cui questi pensieri sono nati, è obbligato a manifestare all’anziano»38. L’obbedienza, così, non ha altro fine che l’obbedienza stessa, quello stato di umiltà che consiste nel non voler più niente per sè stessi perché ci si riconosce infinitamente peccatori39. Nel corso del 1978, l’assoggettamento all’altro e la soggettivazione attraverso la produzione della verità appariranno ancora come dei momenti analiticamente distinti del processo di individualizzazione40. Ma è già chiaro che essi formano un tutto indissociabile, poiché il soggetto, scrive Foucault «[è] soggettivato estraendo dal lui stesso la verità che gli viene imposta»41. La soggettivazione si effettua così nella forma dell’assoggettamento. È questo accoppiamento del dire e dell’obbedire che Foucault, nel 1980, inscrive a fondamento della soggettività dell’uomo occidentale: Dire tutto di sé, non nascondere nulla, non volere nulla per sé, obbedire in tutto: questa congiunzione tra questi due principi è, credo, al cuore stesso, non solamente dell’istituzione monastica cristiana ma di tutta una serie di pratiche, di dispositivi che vanno, credo, ad informare quello che costituisce la soggettività cristiana e di conseguenza, la soggettivazione occidentale.42
Tale è la «cattiva» soggettivazione – quella da cui, oggi, dovremmo liberarci. Quanto alla pratica greco-romana della direzione di coscienza, essa fa apparire tutt’altro rapporto del soggetto con la verità. Essa si definisce, in effetti, in quanto stabilisce una relazione volontaria tra il diretto e il direttore, una relazione occasionale (a seguito di un problema, di una crisi, di un accidente dell’esistenza) e dunque limitata nel tempo o di lunga durata, nelle scuole di filosofia, talvolta per la vita intera, ma sempre finalizzata all’autonomia da conquistare. L’esame di coscienza, in questa pratica, ha per fine, non di 38 39 40 41 42
Cassien, Institutions cénobitiques, IV, 9 (citato da Foucault in GV, lezione del 19 marzo 1980). Cfr. STP, lezione del 22 febbraio 1978, p. 180 (cfr. trad. it. pp. 134-135). Ivi, p. 187 (cfr. trad. it. pp. 140-141). Ivi, p. 188 (trad. it. p. 141). GV, lezione del 19 marzo 1980. Cfr. ugualmente la lezione del 12 marzo: «La soggettivazione dell’uomo occidentale, è cristiana, non è greco-romana, da questo punto di vista [quello dell’esame di coscienza]».
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rafforzare la dipendenza del diretto, mostrando le prove della sua debolezza, ma al contrario di aiutarlo ad «assumere il controllo di se stesso e divenire padrone di sé, sapendo esattamente quello che ha fatto e misurando il grado del suo progresso»43. Essenzialmente volto verso il futuro, costituisce un «esercizio grazie al quale si potrà ormai essere più forti, essere meglio adatti, meglio adeguati nei propri comportamenti alle circostanze che potranno presentarsi. Si tratta, come per l’esempio dell’atleta, di poter attendere ai fini che ci si prefigge»44. La verità con cui si ha a che fare non è quella dei segreti del cuore che permette di spiegare la condotta malvagia, ma quella dei principi razionali di condotta che il soggetto scopre nella propria anima e grazie ai quali può guidarsi in modo autonomo45. Così il rapporto dirigente/ diretto, come scrive F. Gros, consiste nella messa in opera di «una pratica di sé e della verità in cui è in gioco la liberazione del soggetto piuttosto che la sua reclusione in una camicia di forza di verità»46. Tale sarà, in opposizione alla precedente, la «buona» soggettivazione (o la soggettivazione nel senso pienamente positivo)47, di cui si dovrebbe senza dubbio, non riprodurre il modello antico ma reinventare la formula nelle condizioni che governano, ormai, il rapporto dell’individuo con gli altri e con se stesso. È evidente che questo parallelo non permette di opporre la soggettivazione come rapporto attivo e positivo del sé con sé all’assoggettamento che costituisce l’altro modo «negativo» del rapporto con se stesso sviluppato dal cristianesimo. Non c’è, da un lato, un processo di assoggettamento attraverso l’oggettivazione del soggetto e dall’altro, una soggettivazione. Quest’ultima non è situata, in quanto tale, sul versante dello sforzo per rendersi autonomo. Essa non si compie necessariamente nella libertà del sé e non si annulla nell’obbedienza all’altro. La soggettivazione non è ancorata, in Foucault, ad una logica della liberazione, anche se è importante, dal suo punto di vista, che essa tende a questo fine. Essa non designa che «la formazione di un rapporto definito del sé con sé»48, quale che ne sia la natura. È per questo 43 44 45 46 47
48
STP, lezione del 22 febbraio, p. 185 (cfr. trad. it. p. 139). GV, lezione del 12 marzo 1980. Ibidem. F. Gros, Nota a L’ermeneutica del soggetto, trad. it. p. 458. F. Gros : «Un vero soggetto [è] dunque possibile, ma non più nel senso di un assoggettamento, bensì nella forma di una soggettivazione» (ivi, p. 459). Osserviamo un’inflessione in questo senso nel corso del 1982: cfr. L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 292-293, in cui Foucault oppone l’ascesi cristiana, come obiettivazione di sé in un discorso vero, e l’ascesi filosofica pagana, come soggettivazione di un discorso vero in una pratica di sé. GV, lezione del 12 marzo 1980, p. .
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che Foucault, nel 1980, descrive il rapporto del penitente cristiano con se stesso in termini di soggettivazione: È nella misura in cui devo interamente rinunciare alle mie proprie volontà che vi sostituisco la volontà di un altro, è perché devo rinunciare a me stesso che devo produrre la verità da solo, e non produrrò la verità su di me che nella misura in cui sarò in grado di lavorare a questa rinuncia a me stesso [...] Questo legame tra produzione di verità e rinuncia a sé mi sembra essere ciò che potrei chiamare lo schema della soggettività cristiana, diciamo più esattamente lo schema della soggettivazione cristiana, una procedura di soggettivazione che si è storicamente formata e sviluppata nel cristianesimo e si caratterizza in maniera paradossale con il legame obbligatorio tra mortificazione e produzione della verità di se stesso.49
Soggettivazione che si riassume, dunque, non nei termini della semplice mortificazione come condizione di accesso alla salvezza – morire alla vita del corpo per rinascere alla vita dello spirito – ma, secondo uno schema più complesso, nei termini di rinuncia a sé come mezzo e fine della scoperta di sé. Foucault dissocia la coppia mortificazione/salute per far apparire, tra questi due termini, il momento intermedio che costituisce la produzione della verità di sé. È in questa «veridizione di sé»50 legata all’abbandono di ogni volontà propria, che risiede, ai suoi occhi, il paradosso profondo della soggettivazione cristiana. Se egli descrive la via di una soggettivazione propriamente cristiana, distinta dalla soggettivazione antica, attraverso la messa in evidenza della sua struttura paradossale, è dunque per condannarla senza appello. Sarebbe interessante – ma non c’è tempo nel quadro di questa esposizione – interrogare, su questo tema, il rapporto di Foucault con Nietzsche, con il quale, fino all’ultimo corso sulla parrhesia, non smette di intrattenere un dialogo critico51. In un certo modo, dopo Sorvegliare e punire52 tutto il progetto foucaultiano si
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GV, lezione de 26 marzo 1980, p. . Ibidem. Cfr., per esempio, l’ultima lezione di Le courage de la vérité. Cours au Collège de France 1983-1984 (in corso di edizione): «non si tratta dunque di opporre alla morale non ascetica dell’Antichità pagana alla morale ascetica del cristianesimo. Non si tratta più, penso, di caratterizzare alla maniera di Nietzsche se volete, un ascetismo antico, quello della Grecia violenta e aristocratica [rispetto] ad una certa forma di ascetismo che separa l’anima dal corpo». Nietzsche è citato più volte in questo corso. Cfr. la domanda posta nella quarta di copertina: «si può fare la genealogia della morale moderna a partire da una storia politica del corpo?».
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può leggere come una rimessa in cantiere della Genealogia della morale. È in una prospettiva incontestabilmente nietzschiana, che si inscrive la «storia del soggetto»53 intrapresa da Foucault nei suoi ultimi anni. Sembra difficile, in queste condizioni, intravedere la possibilità di una lettura religiosa dei testi di Foucault sul cristianesimo. Quale rinnovamento teologico ci si può attendere da un pensiero, che non solamente rifiuta ogni orizzonte di trascendenza, ma denuncia anche il legame essenziale, nella tradizione cristiana, tra conoscenza di sé e sottomissione all’altro, per aprire il campo della sperimentazione di una soggettività nuova, attiva e libera? L’etica foucaultiana della cura di sé non è forse l’antitesi radicale della morale della rinuncia a sé? Non tutti gli autori, tra quelli che negli Stati Uniti sottolineano l’importanza della questione religiosa in Foucault, propongono tale lettura. Lungi dal voler trascinare Foucault sul terreno teologico, alcuni, come Jermey Carrette, cercano nella sua opera gli elementi di una spiritualità libera dalla teologia (o per lo meno, poiché la sua posizione non è priva di ambiguità, di ciò che egli chiama «il regime imperialista della teologia»54). Non è il caso, tuttavia, di James Bernauer, che analizza il pensiero di Foucault, lo si è ricordato, come una sorta di teologia negativa55, nel senso non di una critica delle rappresentazioni tradizionali di Dio, ma di una critica della figura dell’Uomo forgiato dalla moderntà, in luogo e al posto della trascendenza divina. La morte di Dio non segna l’avvento dell’Uomo, ma come ha mostrato Nietzsche la sua sparizione56. È la dichiarazione della 53 54
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STP, lezione del 22 febbraio 1978, p. 187 (trad. it. p. 141). J. Carrette, Beyond Theology and Sexuality: Foucault, the Self and the Que(e) rying of Monotheistic Truth, in Foucault and the Theology, cit., p. 218. Cfr. anche la nota 3 a p. 229, in cui quest’espressione designa le «costruzioni egemoniche dell’ortodossia attraverso le autorità eccelsiastiche nella storia occidentale», costruzioni che sono caratterizzate da a) la separazione del corpo e dello spirito, b) la soppressione politica della diversità nel sé e in Dio, c) il rifiuto del dialogo con le altre tradizioni religiose. Cfr. supra, nota 11; cfr. J. Bernauer, Michel Foucault’s Philosophy of Religion: an Introduction to the Non-Fascist Life, in Foucault and the Theology, cit., pp. 88-89. Ivi, p. 88. Cf. M. Foucault, L’homme est-il mort ? (giugno 1966), in DE, I, p. 542; trad. it. È morto l’uomo?, in Archivio Foucault 1. 1971-1970. Follia, struttura, discorso, Feltrinelli, Milano 1996, p. 125: «...essendo morto Dio, l’uomo non ha potuto non scomparire». Come precisa McSweeney (Foucault and Theology, cit., p. 134), questa interpretazione di Nietzsche, secondo la quale il posto di Dio rimane vuoto, non è priva di richiami a quella proposta da Heidegger nel suo articolo del 1943, Le mot de Nietzsche
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«morte dell’uomo» che costituisce il punto di partenza, in Foucault, di una «politica radicale di noi stessi»57, contro le forme di identità imposte dalla nostra cultura. Uno dei modelli di questo tipo di contro-condotta, secondo Bernauer, risiede nella mistica di cui Foucault stesso diceva che era stata «una delle prime grandi forma di rivolta in Occidente»58. La mistica si inscriverebbe dunque, all’interno della storia cristiana, in un rapporto di contestazione con l’istituzione religiosa e testimonierebbe, in tutt’altro modo rispetto alle pratiche pagane, attraverso questa resistenza della possibilità di una soggettività non assoggettata. Per illustrare questo punto, Bernauer si avvale dell’ultima lezione del corso del 1984, in cui Foucault dopo aver trattato della parrhesia cinica – questa libertà di parola, questo parlar franco che testimonia della sovranità del saggio – rintraccia l’evoluzione della nozione negli autori cristiani dei primi secoli. Essa vi appare, in un primo tempo, con un valore ambiguo. Un valore positivo, in un primo tempo, come virtù che caratterizza il buon cristiano rispetto agli uomini e a Dio. Rispetto ai primi, essa indica il coraggio di cui fa prova il martire di fronte ai suoi persecutori, manifestando la propria fede nello stesso tempo, per esempio, in cui rinforza quella degli altri. Rispetto al secondo, essa traduce la fiducia che il cristiano ripone nel suo amore e nella promessa della salvezza. Coraggio e fede sono indissociabili l’uno dall’altra, poiché è da quest’ultima che il martire trae la fermezza della sua anima. È nella relazione di fiducia in Dio che, nel cristiano, si ancora il coraggio della verità, e in questa prospettiva il martire, dice Foucault, «è il parresiaste per eccellenza». Ma la parrhesia appare ugualmente, in un secondo tempo, con un valore negativo. Con lo sviluppo del monachesimo collettivo e delle istituzioni pastorali, nel IV, V e VI secolo, il rapporto di fiducia, d’apertura di cuore, che lega l’uomo a Dio e che lo colloca «più vicino a lui, in una sorta di faccia a faccia», è percepito come arroganza e presunzione. Al «tema della parrhesia [come] fiducia si sostituisce il principio dell’obbedienza tremebonda». L’individuo, da solo, non è capace di stabilire il rapporto con Dio. È nella paura di Dio, nella diffidenza verso se stessi e nella rinuncia a sé che risiedono, ormai, le con-
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“Dieu est mort” in Chemins qui ne mènent nulle part, Gallimard, «Tel», Paris 1986, pp. 253-322. J. Bernauer, The Prisons of Man: An Introduction to Foucault’s Negative Theology, cit., p. 90. Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que la critique? (27 maggio 1978), in «Bulletin de la Société française de philosophie», 2 (aprile-giugno 1990), p. 59 ; trad. it. Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 72.
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dizioni della salvezza. Inversione dei valori della parrhesia che deriva dal principio dell’obbedienza dovuta a Dio e ai suoi rappresentanti sulla terra. «Laddove c’è obbedienza, non vi può essere parrhesia». Foucault distingue così due grandi poli dell’esperienza cristiana: un «polo parresiastico [...], in cui il rapporto con la verità si stabilisce nella forma di un faccia a faccia con Dio, e [...] di una fiducia umana che risponde all’effusione dell’amore divino»; e «un polo anti-parresiastico», «secondo il quale il rapporto con la verità non si può stabilire che nell’obbedienza timorosa e reverenziale nei riguardi di Dio, e nella forma di una sospettosa decifrazione di sé attraverso tentazioni e prove»59. Il primo sarà all’origine della «grande tradizione mistica del cristianesimo», il secondo, all’origine della tradizione ascetica. È attorno a questo secondo polo che si sono sviluppate le grandi istituzioni pastorali del cristianesimi, respingendo la mistica ai margini. Questa opposizione tra mistica e ascesi può sorprendere, poiché la mistica appare, molto spesso, come un’ascesi portata all’estremo del rigore e dell’abbandono de sé. Foucault, beninteso, non nega la presenza di una forte componente ascetica nella mistica, ma, imperniando la sua analisi sulla formazione del soggetto in rapporto alla verità, intende mettere in evidenza la differenza tra due modi di ascesi, uno ordinato ad una vita di perfezione, nel quale vera vita e vita di verità coincidono, l’altro fondato sulla paura, che fa della decifrazione di sé la condizione dell’accesso alla vera vita, in un altro mondo60. In questo senso, la mistica prolunga una certa concezione antica – stoica, neoplatonica ma anche gnostica – della saggezza «come stato di purezza, [...] nel quale si è inaccessibili [...] al peccato e all’impurità»61. Ed essa segna, nel corso di tutta la storia del cristianesimo, «il ritorno, la ricorrenza, di [...] questa nostalgia di uno stato di saggezza al quale si potrà accedere a partire da una purificazione particolarmente intensa, da un’ascesi particolarmente riuscita».62 La parrhesia mistica, tuttavia, si distingue dall’ideale di saggezza antica per la fiducia che essa ripone nell’amore divino. È questa dimensione fideistica, secondo Bernauer, che permette di descriverla, a differenza
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Fine dell’ultima lezione di GV. Fine dell’ultima lezione di GV. GV, lezione 13 febbraio 1980. Ibidem. In GV, l’opposizione ascesi/mistica è presentata sotto la forma del «dibattito tra l’inquietudine [legata alla presenza in sé del diavolo] e la purezza».
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della parrhesia cinica, come «un’apertura coraggiosa al mistero»63, ed è a questo titolo che essa nutrirà l’attitudine critica di Foucault: «Se una delle correnti della cristianizzazione, nel profondo della cultura occidentale, è la sua pericolosa stima dell’obbedienza, un’altra corrente, più fondamentale e promettente, è la fiducia nel fatto che l’amore è al centro del mistero, dinnanzi a cui noi viviamo le nostre proprie vite».64 Senza dubbio, Bernauer, che considera Foucault un mistico secolarizzato (a worldly mystic), non arriva fino al punto di teologizzare il suo pensiero. Affermando che la sua concezione della parrhesia è strettamente legata alla versione mistica di quest’ultimo65, egli fa tuttavia qualcosa di più che rilevare certe consonanze tra l’una e l’altra, e afferma che Foucault, nel suo tentativo, rimane profondamente debitore della propria cultura religiosa di cui lui stesso diceva, nel 1983, «di vergognarsi»66. È per questo che si potrebbe parlare, per lui, di una «filosofia» – e non di una semplice critica – «della religione», da cui il pensiero teologico contemporaneo dovrebbe trarre le proprie risorse. È certamente difficile sottoscrivere una tale interpretazione del pensiero foucaultiano. Per rimanere al solo problema della mistica, gli si possono muovere varie obiezioni. 1) In primo luogo, come finemente sottolinea J. McSweeney67, la relazione tra i due poli, parresiastico ed anti-parresiastico, si rivela, se esaminata, più complessa di quanto dice Bernauer. È una tensione interna al primo polo, in effetti, che fa nascere alla fine il secondo. Analizzando l’uso della parola parrhesia nel Nuovo Testamento, Foucault aveva mostrato che essa significava fiducia in Dio – l’assicurazione (parrhesia) che se noi domandiamo qualcosa secondo la sua volontà, egli ci ascolta68 – ma precisamente, una fiducia che non chiede «null’altro che non voglia Dio»: «la parrhesia è la fiducia che Dio ascolterà [...] i Cristiani [...] che, in quanto cristiani che hanno fede in lui, non gli chiedono altro che ciò ch’è conforme alla sua volontà»69. Circolarità essenziale, dunque, del rapporto del credente con Dio, che Fou63 64 65 66
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J. Bernauer, The Prisons of Man: An Introduction to Foucault’s Negative Theology, cit., p. 91. Ivi, p. 92. Ivi, p. 91. «Ho un retroterra cristiano molto forte, e me ne vergogno». Foucault Archives, Document D250(7): discussione del 21 aprile 1983 con P. Rabinow, H. Dreyfus, C. Taylor, R. Bellah, M. Jay e L. Lowenthal, 32 pagine, p. 11; citato da J. Bernauer, op. cit., p. 93. J. McSweeney, Foucault and Theology, cit., p. 137. Prima lettera di Giovanni, 5, 13-14. GV, lezione del 28 marzo 1984.
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cault definisce come «principio d’obbedienza»70. Sarà sufficiente perdere la fiducia nella capacità della volontà umana di volere ciò che Dio vuole, per aprire la via, non all’obbligazione di obbedienza, già presente, ma ad un’obbedienza fondata sulla paura e la diffidenza nei confronti di se stessi. Non è dunque possibile opporre, come fa Bernauer, la parrhesia mistica al principio d’obbedienza. 2) Secondo, il carattere sovversivo della mistica è sempre riferito da Foucault ad un certo contesto storico. È in rapporto al tipo di direzione imposta dal pastorato, nel Medioevo, che la mistica è apparsa (con tutta una serie di altre pratiche o comportamenti71) come una forma di resistenza. Il problema, per Foucault, non è quello di sapere se la mistica, oggi, costituisca un modello di stile d’esistenza non-fascista, ma molto di più quello di analizzare, di proporre, di sperimentare le forme di contro-condotta72 corrispondenti al tipo di governamentalità che è oramai il nostro. 3) Cercando di risalire alle origini dell’«esperienza del di fuori», nel 1966 – questa esperienza, in letteratura, di un decentramento radicale in rapporto al soggetto – Foucault formulava l’ipotesi che essa fosse nata, forse, «da quel pensiero mistico che, dopo i testi dello Pseudo-Dionigi, ha vagato ai confini del cristianesimo» e si era «mantenuto, per un millennio o quasi, sotto forma di una teologia negativa»73. Ma questa filiazione l’aveva formulata per scartarla, subito, a vantaggio di Sade e di Hölderlin. Questo stesso interesse, se non fascinazione, per la mistica e la presa di distanza da essa si trova in un certo numero di testi ulteriori, non più riguardanti la sparizione del soggetto nella scrittura letteraria, ma il rapporto a sé nell’ascesi spirituale. Paragonando il misticismo cristiano al buddismo, in un’intervista dal 1978, spiega che le tecniche di spiritualità dello zen, per lui, «tend[ono] ad attenuare l’individuo», mentre la mistica, anche quando predica l’unione di Dio e dell’individuo, «mira all’individualizzazione»74. La mistica, così, non si distingue veramente dal pastorato, che si definisce, prima di tutto, come un potere individualizzante. 70 71 72 73 74
Ibidem. Cfr. STP, lezione del 1 marzo 1978, pp. 208-218: l’ascetismo, la formazione di comunità, il ritorno alla Scrittura, la credenza escatologica (cfr. trad. it. pp. 153-164). Su questo concetto, cfr. STP, lezione del 1 marzo 1978 (sulla mistica come contro-condotta si vedano le pp. 215-217, trad. it. pp. 160-164). M. Foucault, La pensée du dehors, cit., p. 521 (cf. supra, nota 15), trad. it. Il pensiero del di fuori, cit., p. 114. M. Foucault, Michel Foucault et le zen: un séjour dans un temple zen (agostosettembre 1978), in DE, III, p. 621; trad. it. Michel Foucault e lo zen: un soggiorno in un tempio zen, in Il discorso, la storia, la verità. Interventi 19691984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 272.
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Questa breve discussione attraverso uno dei rappresentanti del dibattito teologico attorno a Foucault non pretende, da sola, di chiarire la questione del suo rapporto con la religione. Resta aperto, in particolare, il problema di sapere se esiste, in Foucault, una mistica della sollevazione, come essa nutre la sua attesa di una nuova «spiritualità politica»75 e quale legame essa intrattiene con la tradizione mistica occidentale. Non è questo l’obbiettivo della mia esposizione. Contro una lettura spesso semplificatrice, ho voluto mostrare non solamente l’importanza del cristianesimo nel lavoro di Foucault, il posto sempre maggiore che occupa nel corso degli ultimi anni, la sua funzione decisiva nell’articolazione della sua problematica finale, ma anche la complessità delle analisi di cui è oggetto, lungi da ogni approccio sommario e polemico. Abbiamo visto, così, che la soggettivazione cristiana non si riduce affatto all’assoggettamento, ma obbedisce, a seconda delle epoche, a delle logiche distinte lasciando il posto, entro i limiti che abbiamo ricordato, ad un’autentica pratica di resistenza e di insubordinazione. Questo non giustifica tuttavia, secondo me, l’interpretazione religiosa che ne propongono certi commentatori americani, nello spirito di una teologia postmoderna. Ma la loro insistenza su una forza critica e trasgressiva dell’esperienza mistica in rapporto ai poteri che ci governano, mette in luce una tensione profonda, senza dubbio irrisolta, nel pensiero di Foucault. Come conciliare, in Foucault, la cura di sé e il distacco da sé? Non sono forse le stesse pratiche di sé che permettono all’individuo di fare della sua vita un’opera d’arte e che tendono, nello stesso tempo, alla decostruzione della sua identità? Quale appropriazione di sé è possibile nella forma di una disappropriazione? La libertà passa per delle nuove forme di soggettivazione o, al contrario, per un sforzo di de-soggettivazione? È con questo enigma che ci rimane di confrontarci.
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M. Foucault, A quoi rêvent les Iraniens ? (ottobre 1978), DE, III, p. 694. Cfr. M. Leezenberg, Power and Political Spirituality: Michel Foucault on the Islamic Revolution in Iran, in Michel Foucault and Theology, cit., pp. 99-116.
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3 POLITICA E PROFEZIA. DELL’IMPOLITICO FOUCAULTIANO di Paolo Primi L’épreuve décisive pour les philosophies de l’Antiquité, c’était leur capacité à produire des sages; au Moyen Âge, à rationaliser le dogme; à l’âge classique, à fonder la science; à l’époque moderne, c’est leur aptitude à rendre raison des massacres. M. Foucault
1. Per la critica della violenza Vagliando le forme di enunciazione del diritto pubblico rapprese nei racconti di fondazione che ne stilizzano una prima guisa formulare, Jean Pierre Faye ha osservato come ogni cultura si origini mentre conferisce a se stessa la narrazione della propria violenza fondatrice. Il criterio politico dirimente per un’analisi dei sistemi sociali, l’operazione preliminare d’ogni critica sociale, consiste allora nel discernere i modelli narrativi espressi nel discorso delle violenze originarie. Si tratta di una critica – i cui assi principali concernono la genesi e la validità degli enunciati che definiscono ogni cultura. Terza in rapporto alla critica della ragione ed alla critica dell’economia politica, la critica della violenza si applica alla differenza dei linguaggi, la cernita degli effetti di narrazione interni ai sistemi di pensiero localizza una «differenza cruciale»: fra il «racconto della violenza fondativa degli dèi e dei principi», esercitata sui vinti e sulle vittime, e la «narrazione ebraica dell’esodo, dell’uscita dalla schiavitù».1 Nell’angolo d’incidenza formato dalle due serie si produce l’intero campo di tensioni e trasformazioni in cui sono implicate le condizioni di possibilità dell’«enunciazione» e della «soggettivazione» politiche. È noto 1
J. P. Faye, Violenza, in Enciclopedia, Einaudi, vol. XIV, Torino 1981, pp. 1081-1109: 1081.
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infatti che le due serie di enunciati che qualificano il nudo quoziente della violenza – «la terra era piena di violenza» (Genesi 6, 11) – non procedono nella storia costituzionale dell’Occidente in maniera disgiunta, ma si cristallizzano in ellittiche stazioni di conferimento. Esibiscono costantemente zone di contiguità e momenti di stridore, punti di sutura e aree di irreparabile lacerazione, continuamente archiviati e condensati in sintagmi spuri che non cessano d’ispessire il catalogo delle miscellanee politiche. Tutta una dinamica del cambiamento delle forme ha luogo, nella cui dispersione costante la «terza critica» s’inserisce inalandone la consistenza sporadica e ripercorrendone la diaspora2. Ma il punto qui non sta nel fornire una classificazione rigorosa o accidentale delle con-figurazioni disperse, quanto nel preservare analiticamente la differenza fra l’una e l’altra forma, «dato che proprio tale differenza intende cancellare, e persino eliminare dal campo della storia, l’ideologia nella quale sta radicata la preminenza definitiva d’una casta, detentrice del monopolio della violenza. Essa trae origine dalla maggior parte dei miti di fondazione, ed è ripresa nella strategia che, a partire dal XVIII secolo, tenta di trasformare la lotta di liberazione nazionale in consolidamento della guerra di conquista», atteso che «proprio il diritto di conquista verrà opposto alla dichiarazione dei diritti».3 Ma se il centro di ogni critica è assegnato necessariamente ad un sistema di antinomie, è inevitabile che la «terza critica» debba assumere esplicitamente nel proprio programma una decostruzione di quella strategia di cancellazione e delle tattiche di annessione parziale, di implicazione e di rovesciamento della «differenza» in funzione di una chiarificazione delle antinomie della ragione politica. Analogamente, se la nozione di libertà figura il tratto antinomico costante delle altre critiche, il tema della liberazione e la gamma delle sue fluttuazioni ne condensa qui il complesso degli elementi incongrui e delle opposizioni binarie. Il fatto che, all’improvviso e a propria insaputa, a partire dalla fine del Settecento, le rivendicazioni degli oppressi, le lotte di liberazione, coincidano quasi senza resti con lo spirito di conquista è probabilmente il fenomeno più rilevante per una critica della violenza così intesa. Forse Hannah Arendt si è avvicinata più di chiunque nel Novecento ad un’intelligenza degli esiti della cancellazione scaltra di quell’effetto di risonanza fra le due serie di enunciati violenti, a margine di quel «fatto veramente 2 3
J. P. Faye, Critica e economia del linguaggio, (1973), Cappelli, Bologna 1979, p. 14 (cfr. spec. l’Introduzione all’edizione italiana: Proposta di una “terza critica”, pp. 7-14). J. P. Faye, Violenza, cit., p. 1081.
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singolare» rappresentato dalla sparizione della nozione di libertà dal linguaggio rivoluzionario e dalla sua dislocazione «al centro del più grave fra tutti gli attuali dibattiti politici, la discussione sulla guerra e su un uso giustificabile della violenza».4 Per altro verso, lo spostamento lessicale che si registra all’interno del discorso occidentale sulla violenza e che, in numerose varianti, dalla prosa genealogica del conte de Boulainvilliers, passando per quella di un Montlosier, arriva intorno agli anni venti del Novecento fino alle solidificazioni ideologiche dell’hitlerismo, ricombina le sequenze di linguaggio in un amalgama semantico che dà luogo ad una struttura neutrale. Neutrum, né l’una né l’altra: ciò che vale come l’evento decisivo del discorso politico moderno è l’intreccio, dal 1789 circa, del doppio racconto dell’ánax argivo e del «Servo di Dio» deutero-isaico nella diagonale hegeliana che, in definitiva, neutralizza servo e signore nella figura istituzionale dello «Stato universale e omogeneo»5. La macchina filosofica tedesca scandisce, in altre parole, il connubio pindarico delle due catene narrative e collega violenza e diritto, la violenza sovrana dello Stato e il diritto rivoluzionario invocato dallo schiavo, in una strategia coerente di enunciazione, in un discorso della totalità e della neutralità in cui, attraverso la cancellazione della «differenza cruciale» dal campo della storia, si procede ad eliminare la storia stessa. 2. Sovranità e profezia Una ricognizione straordinaria delle regole di enunciazione politica e dell’ambito evenemenziale del trasformazionismo6 che le concerne nella modernità è stata avviata da Michel Foucault, in una forma che non ha avuto esiti espliciti all’interno della sua ricerca, nel corso di alcune lezioni tenute al Collège de France nel 1976, culminanti nella prima formulazione della nozione di «bio-politica»7. In quel corso si trattava di presentare una 4 5 6 7
H. Arendt, Sulla rivoluzione, con introduzione di R. Zorzi, Comunità, Milano 1989, p. 4. A. Kojève, Intervista a Alexandre Kojève di Gilles Lapouge, in Il silenzio della tirannide, a cura e con una Nota di A. Gnoli, Adelphi, Milano 2004, p. 239. J. P. Faye, Critica e economia del linguaggio, cit., p. 14. M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, testo stabilito e tradotto da M. Bertani e A. Fontana, Ponte alle Grazie, Firenze 1990; (lo schema generale adottato da Foucault nelle sue lezioni è improntato con tutta evidenza alla lettura di J. P. Faye, Introduzio-
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genesi del politico e, contemporaneamente, la messa a punto di una critica della ragione storica; si trattava di scandagliare il moderno processo di «statalizzazione» attraverso una strategia multiforme d’annessione e disattivazione del primo discorso esclusivamente storico dell’occidente. Discorso che occorre, in via preliminare, provare a redigere ancora, almeno nei suoi punti di salienza genetici e formali. Anzitutto, il suo punto d’emergenza, che Foucault localizza nel XVII secolo, a margine delle rivendicazioni popolari dell’Inghilterra pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria e delle contestazioni aristocratiche rivolte contro la centralizzazione assolutistica nella Francia di Luigi XIV. Quindi, la funzione politica – essa coincide con la contestazione di un certo discorso filosofico-giuridico assunto a schematismo della violenza sovrana ed intessuto di elementi mitemici. Si trattava, in altri termini, di posizionare il materializzarsi di «un discorso che si sviluppa interamente nella dimensione storica»8, in primo luogo nei termini di uno «storicismo politico» inteso a palesare e definire la violenza misconosciuta della conquista e della dominazione posta a fondamento di ciascun ordinamento. Al centro d’irradiazione diegetica di questa narrazione si profila in maniera estremamente problematica la nozione di “guerra” – evento storico reale e/o finzione mitico-giuridica. In secondo luogo, si trattava di situarla a ridosso di due eventi paradossali che ne determinano i punti iniziale e terminale – chiudendo su se stesso un certo ciclo politico del moderno. Innanzitutto, il paradosso della genesi della storicità come principio della razionalità politica moderna. Il discorso sulla guerra di conquista come origine e fondo incancellabile della relazione sociale, stratificazione permanente delle istituzioni, inizia a circolare proprio al termine di un processo di centralizzazione e di neutralizzazione della «guerra privata» entro le grandi unità statali alla fine del medioevo. E infine il paradosso della fine (della storia). In corrispondenza della faglia periodizzante della rivoluzione francese, si osserva allo stesso tempo una generalizzazione del nesso fra violenza e storia a principio d’intelligibilità esclusivo dei rapporti politici e la sua colonizzazione, attenuazione, mitigazione da parte di copiosi «apparati ideologici di Stato» in funzione di un suo disinnesco politico – la cui implicazione più cogente consisterà in un’eliminazione della politica stessa, altresì in un processo di de-politicizzazione.
8
ne ai linguaggi totalitari. Per una teoria del racconto (1972), Feltrinelli, Milano 1975). Ivi, p. 48.
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Se la storia è narrazione tanto quanto economia materiale9, l’esperienza moderna della storia si sviluppa per un effetto di dissonanza fra due catene narrative, ossia negli esiti d’una «controstoria»10. Variazione tipicamente romana di un tema teologico-politico indoeuropeo prolungatosi oltre il medioevo11, la funzione tradizionale del discorso storico collima con la produzione di titoli di legittimità. La teologia politica fa mostra dell’istanza meta-narrativa implicata nel racconto storico. Essa consiste concretamente nel giustificare e rafforzare, fondare e garantire, il diritto dello Stato raccontandone l’ininterrotta e prestigiosa genealogia attraverso la concatenazione degli eroi, delle gesta gloriose e delle dinastie. Si colloca, in effetti, fra giurisprudenza e liturgia, e riattiva in permanenza due aspetti correlati della rappresentazione indoeuropea del potere, quello magico (che abbaglia e soggioga) e quello giuridico (che obbliga, vincola alla struttura formale del patto e del giuramento), entrambi presenti come marche distintive del primo ordine nello schema tripartito in cui si organizzano i tratti salienti dell’ideologia indoeuropea (sovranità, guerra, prosperità) – «l’amministrazione sovrana del mondo si divide in due grandi province, quella dell’ispirazione e del sortilegio, quella del contratto e del cavillo procedurale, in altri termini la magia e 9 10 11
J. P. Faye, Critica e economia del linguaggio, cit., p. 79: «La storia è il gesto degli uomini che producono i loro mezzi di sussistenza – ma solo a partire dal momento in cui questo gesto conosce se stesso: in cui è riferito e narrato». M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 53. Il riferimento costante delle riflessioni foucaultiane sono evidentemente i lavori di Dumézil. Nell’ambito dell’esplorazione comparativa del mitologo francese sulle civiltà indoeuropee, i Romani occupano una posizione singolare: «presso di loro la mitologia – e una mitologia antichissima, ereditata in buona parta dai tempi indo-europei – pur essendo stata radicalmente distrutta a livello di teologia, ha prosperato sotto forma di storia [...] L’ideologia romana si presenta agli occhi dell’osservatore su due piani paralleli, che tra loro hanno solo più rare ed esigue occasioni: da una parte una teologia, semplice e netta su tutti i punti di cui sappiamo qualcosa, che definisce astrattamente, nonché pone in ordine gerarchico e raggruppa secondo queste definizioni divinità potenti, ma prive di avventure; dall’altra, una storia delle origini, che sviluppa le avventure significative di uomini che corrispondono per il loro carattere e la loro funzione a quelle divinità» (G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero. Aspetti mitici della funzione guerriera tra gli indo-europei, a cura di D. Rei e R. Scagno, con un saggio introduttivo di F. Jesi, Rosenberg & Sellier, Torino 1973, p. 10). «Insomma, la “storia romana delle origini” ha tenuto luogo di mitologia per questi uomini per cui tutti i valori si definivano in rapporto alla città, senza molto interesse per il mondo che la circondava né per i tempi che l’avevano preceduta» (Gli dei sovrani degli indoeuropei, Einaudi, Torino 1985, p. 142).
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il diritto [...] il mago che avvince, Varuna, e il Contratto personificato, Mitra, formano una coppia direttrice alla testa del mondo degli dèi».12 In rapporto a questo discorso, in cui è fissato il canone della «storia regia», è possibile valutare l’emergenza d’una nuova forma della narrazione storica coagulata in un’istanza di enunciazione che, dalla fine del medioevo, introduce «una sorta di rottura profetica»13 nella trama splendida e compatta della narrazione sovrana. Spezza la forma generale dell’obbligazione che quel discorso veicola e offusca lo splendore duraturo della complessa teologia indoeuropea del potere imperniata sulle tre funzioni di Sovranità, Forza e Fecondità, inibendo l’arcaico effetto di fascinazione cogente della Sovranità, che del resto «è la sola a contenere virtualmente le altre e può facilmente attualizzare tali virtualità»14. Disgrega, in definitiva, una rappresentazione del potere rimasta pressoché intatta fin dalle remote culture preistoriche indoeuropee, cristallizzata nel funzionalismo eminentemente statico e ordinatore delle figure ternarie. La storia di tipo romano era profondamente iscritta nel sistema indoeuropeo di rappresentazione e di funzionamento del potere; era senz’altro legata all’organizzazione dei tre ordini al vertice dei quali si trovava quello della sovranità; era di conseguenza necessariamente congiunta a un certo campo di oggetti e a un certo tipo di personaggi – alla leggenda degli eroi e dei re – poiché costituiva il discorso del duplice aspetto, magico e giuridico, della sovranità. Questa storia, basata sul modello romano e sulle funzioni indoeuropee, si è trovata a un certo punto (siamo verso la fine del medioevo) contrastata dalla storia di tipo biblico o ebraico, che noi definiamo come il discorso della rivolta e della profezia, del sapere [antagonista] e dell’appello al rovesciamento violento dell’ordine delle cose. Questo nuovo discorso non è più legato a un’organizzazione ternaria, come il discorso storico delle società indoeuropee, ma a una percezione e a una ripartizione binaria della società e degli uomini.15
L’esperienza specificamente moderna del politico è mediata da questa figura della storicità come rottura violenta dell’ordine – «storia-rivendicazione e storia-insurrezione»16 – che è, allo stesso tempo, crisi e critica dell’ordine sovrano. Attraverso la decostruzione dei due assi di funzionamento della «macchina mitologica» indoeuropea, quello della memoriz12 13 14 15 16
G. Dumézil, Gli dèi dei Germani. Saggio sulla formazione della religione scandinava, Adelphi, Milano 1974, p. 88. M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 56. G. Dumézil, Gli dèi dei Germani, cit., p. 70. Ivi, p. 58. Ivi, p. 61.
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zazione e quello della partizione, il discorso storico-profetico pone fine all’antichità e struttura il campo dell’esperienza moderna della storia e della politica. Risulta pertanto rovesciata l’antica funzione della memoria, prevalentemente orientata ad assicurare una sorta di oblio funzionale in merito alle brutalità della fondazione ed agli abusi permanenti del potere, nonché alla cancellazione delle pur lievi testimonianze sedimentatesi nelle frange ultrastoriche del mito.17 La partizione, infine, trasfigurata e pacificata nelle architetture gerarchiche e nella ritualità sacrificale cui dà luogo lo schema della segmentazione funzionale tri-partita, attraverso il prisma della semplificazione binaria di cui si fa latore il modello profetico – giusti/ingiusti, signori/sudditi, ricchi/ poveri, potenti/umili – si rivela essere l’origine remota di ogni violenza e il meccanismo metonimico caratteristico della ferocia della fondazione: il principio della parte per il tutto governa simultaneamente le procedure del sacrificio (separazione ed eliminazione) e quella della conquista (spartizione ed esclusione dalla distribuzione del bottino di guerra)18. La figura che funge da supporto centrale di tale meccanismo mitico è la gerarchia, la quale non è «una catena di comandi sovrapposti, o anche di esseri di dignità decrescente, e neppure un albero tassonomico, ma una relazione che si può succintamente definire inglobamento del contrario»19. Tale relazione gerarchica consiste nel rapporto tra un tutto e un elemento di questa totalità: «l’elemento fa parte dell’insieme, è in questo senso con17 18
19
Cfr. B. Lincoln, I re, i ribelli e la mano sinistra, in C. Grottanelli, Ideologie, miti, massacri. Indoeuropei di Georges Dumézil, Sellerio, Palermo 1993, pp. 175-188. René Girard, più o meno nel medesimo torno d’anni e situando le proprie ricerche antropologiche nella tensione fra i due modelli narrativi, quello mitico e quello profetico, ha ricollocato coerentemente il nesso fra partizione e oblio nella trama logica della fondazione, o del fondamento dei sistemi culturali. La violenza è qui l’operatore universale del sistema: essa consiste nella separazione-eliminazione di una parte e nella simultanea denegazione e cancellazione dell’operazione stessa. Il “meccanismo” che connette in maniera stringente sacrificio e conquista nella struttura della fondazione potrebbe essere facilmente ricostruito a partire dalla nozione di «mimetismo di appropriazione»: R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, p. 23. Un documento ulteriore del nesso fra sacrificio e predazione si trova nella contiguità fra caccia e spartizione del bottino registrata dai lavori di Marcel Detienne. L. Dumont, Homo hierarchicus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni, (I ed. fr. 1966), Adelphi, Milano 1991: Postfazione (1978), p. 582.
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sustanziale o identico ad esso, e nello stesso tempo se ne distingue o gli si oppone». E la sovranità è la sola a contenere virtualmente tutte le parti e ad attualizzarne le virtualità. Quello moderno, d’altro canto, non è stato il primo affrontamento delle due grandi morfologie del discorso storico, articolate entrambe sull’origine-violenza (in funzione del suo oblio o della sua anamnesi). Si può asserire piuttosto che la correlazione disgiuntiva fra la «storia romana della sovranità» e la «storia biblica della servitù e dell’esilio»20, in quanto configurazioni primarie delle due funzioni del discorso storico, abbia caratterizzato la stessa genesi del razionalismo occidentale, motivandone la strutturale segmentazione e specializzazione delle regioni ontologiche, religiosa e mondana. Si può, inoltre, senz’altro situare la sua prima irruzione storiografica nell’esperienza paleo-cristiana della rottura del monismo sacrale peculiare del sistema pagano. Non sembra pertanto errato collocare nell’alone semantico della secolarizzazione il primo decisivo impatto fra le due narrazioni, e considerare la fissazione duratura e vincolante della loro tensione polare nel cristianesimo d’impronta romana, inteso come il fattore logico e storico che ha «impedito la formazione di un blocco organico e monolitico tra ideologie (teologia) e potere (blocco dominante proprio di altre civiltà) mantenendo invece e preservando un dualismo drammatico».21 Una struttura dualistica che si reitera in una permanente dinamica di de-sacralizzazione, ovvero di scissione del nesso sacrale fra auctoritas (complesso magico-giuridico) e veritas – un’operazione che, contrariamente al modulo teorico dominante nello schema giusfilosofico romani20 21
M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 60. P. Prodi, Introduzione a P. Prodi e L. Sartori (a cura di), Cristianesimo e potere. Atti del seminario tenuto a Trento il 21-22 giugno 1985, EDB, Bologna 1986, p. 6; si veda inoltre: Id., Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Il Mulino, Bologna 1992. «La religione cristiana nella sua struttura interna è una religione come anche le altre religioni e perciò la sua forma valida è quella del culto (della polis) pubblico, oppure la fede cristiana trascende le religioni che si sono finora avute, la sua efficacia e la sua realizzazione consiste nell’abbattere le forme sacrali della religione ed il dominio del culto pubblico e nel condurre gli uomini all’ordine temporale del mondo, determinato dalla ragione, all’autoconsapevolezza della loro libertà?» (E.W. Böckenförde, Säkularisation und Utopie, Erbacher Studien, Festschrift für Ernst Forsthoff, 1967, p. 91, cit. in C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Giuffré, Milano 1992, p. 40).
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stico, predispone una certa dislocazione della verità in una sorta di dispersione prospettica ostinatamente parziale, dissimmetrica e refrattaria alla stregua metastorica dell’universale. Per Foucault è lecito situare «i grandi sblocchi, i momenti fecondi nella costituzione del sapere storico in Europa»22 proprio nelle adiacenze delle interferenze e degli affrontamenti tra storia della sovranità e controstoria biblico-profetica. Ma se nel primo urto si faceva questione in generale del processo di secolarizzazione, la posta in gioco del secondo impatto coincide con la genesi dell’idea di rivoluzione23, centro d’applicazione della riflessione e del funzionamento politici negli ultimi due secoli – e luogo enigmatico d’inabissamento del politico. Si potrebbe dire insomma che alla fine del medioevo, e poi nel XVI e nel XVII secolo, si è come dissolta una società che aveva ancora una coscienza storica di tipo romano e quindi era centrata sui rituali e sui miti della sovranità. Successivamente si è entrati in una società di tipo, diciamo, in mancanza d’un’altra parola, moderno (ma evidentemente tale parola è priva di significato). La coscienza storica di questa società moderna non è infatti più centrata sulla sovranità e sul problema della sua fondazione, ma sulla rivoluzione, le sue promesse e profezie d’affrancamento futuro.24
In quest’accezione, il gesto profetico, essenzialmente, disarticola quella che Furio Jesi ha definito la «macchina mitologica» implementata a regola di formazione degli enunciati politici. Collocato nella polarità di «mito» e «storia», tale modello possiede la prerogativa di «determinare un centro della collettività: di rendere attuale nella collettività il punto latente più lontano dai suoi bordi», in vista della «fondazione della collettività»25. Ma se nel suo funzionamento la macchina riconduce «al centro tutte le parti della collettività nell’attimo in cui il centro si disvela come tale», fa della collettività un «blocco unico» in cui «il centro permea uniformemente ogni parte» e «pone il centro a contatto diretto con l’esterno di essa» identificando «il centro con le marche di confine», con il bordo dell’essere26, la procedura profetica riporta la storia ad una dinamica di rifrazione infinita del centro, ad una sua demoltiplicazione 22 23 24 25 26
M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 61. Cfr. M. Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2004. M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 62. F. Jesi, La festa e la macchina mitologica, (1979), in Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, nuova ed. a cura di A. Cavalletti, Einaudi, Torino 2001, pp. 81-120: p. 87. Ivi, p. 88.
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prospettica, e contemporaneamente stilizza un movimento d’esodo, di auto-separazione, di infrazione della totalità e dei suoi universali normativi e cognitivi. A meno di non raddensarsi miticamente intorno ad un nuovo universale, ad una nuova gerarchia, ad una nuova essenza, la procedura profetica si limita a rinviare ad un movimento verso alcunché di radicalmente ‘altro’. 3. Bio- e post-storia Ma esattamente nel momento in cui il discorso storico inizia a tradursi in discorso rivoluzionario e la partizione binaria ad assumere i connotati della lotta di classe, su di un altro versante e grazie ad un’intensa «polivalenza tattica» degli enunciati storico-politici, ha luogo un’operazione devastante di riscrittura di quella controstoria «in un senso biologico e medico». Opaco momento di transizione ad un modello di universalità ricavato nell’economia di un processo di omogeneizzazione. L’operatore centrale di questa ricodificazione deriva dalla specifica trascrizione del discorso storico degli oppressi (nelle sue due prime sporgenze secentesche, puritana e aristocratica) nella nozione ebraica di guerra etnica, di «guerra delle razze». Il passaggio dal plurale al singolare, dalle razze alla razza diventerà il fattore semantico cruciale della strategia contro-rivoluzionaria – come del resto il transito dall’elezione (interpellanza sovrana) alla selezione (allevamento pastorale). Tra la casa di schiavitù egiziana e la terra promessa si dà la quarantennale stazione intermedia della purificazione nel deserto. Al tema della società binaria si sostituirà quello di una società biologicamente omogenea, costantemente minacciata da elementi estranei o aberranti. Ma soprattutto: il tema delle istituzioni statali necessariamente ingiuste, macchinario che prolunga nella durata e mette a regime l’oppressione esercitata dai vincitori, sarà riabilitato come agente meta-politico di una profilassi permanente, posto a tutela della integrità, superiorità e purezza della razza. Il razzismo si profila come un rovesciamento simmetrico del discorso rivoluzionario intorno ad un medesimo asse di rotazione: la sovranità dello stato – in definitiva un modo, il più aggressivo e coerente di utilizzare l’incisività della rivoluzione «a vantaggio della sovranità dello stato, d’una sovranità il cui splendore e il cui vigore sono assicurati ora non da rituali magico-giuridici, ma da tecniche medico-normalizzatrici».27 27
M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 63.
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Si tratta certamente del dispositivo – qui inteso come «tattica discorsiva»28 – più efficace impiegato nell’ottica di quella strategia permanente che tenta di ridurre la differenza fra le due violenze. Ma il transito dal diritto alla tecnica altera in maniera duratura le due modalità d’iscrizione linguistica della violenza. La sovranità dello stato ha investito, ripreso a carico, riutilizzato, all’interno della propria strategia, il discorso della lotta delle razze, ma a prezzo del trasferimento dalla legge alla norma, dal giuridico al biologico; al prezzo del passaggio dal plurale delle razze al singolare della razza; al prezzo, infine, del progetto d’affrancamento nella gestione della purezza. La sovranità dello stato ha trasformato tale discorso nell’imperativo della protezione della razza, come un’alternativa e uno sbarramento all’appello rivoluzionario che derivava anch’esso, a sua volta, dal vecchio discorso delle lotte, delle decifrazioni, delle rivendicazioni e delle promesse.29
Forse sarebbe il caso di leggere con attenzione entro la comune provenienza delle due catene narrative, quella rivoluzionaria e quella razzista, da un medesimo punto-sorgente, in parallelo con l’altra ricognizione delle declinazioni messianiche e fasciste della «democrazia totalitaria». Ma appare infinitamente più urgente, per ora, prolungare il discorso in una serie di osservazioni a proposito della strategia d’insieme attraverso cui l’efficacia del «discorso della storia» è stata ridimensionata in maniera tale da poter essere integrata nello stato. In altre parole, il gioco fra le due serie divergenti di quel discorso – del resto fin da subito assai mobile, instabile, fungibile – , va sistemato attentamente entro la scena in cui si svolge dal 1789 la politica, allestita in funzione di un certo «gioco» fra lo stato e la rivoluzione.30 28 29 30
Ivi, p. 125. Ibidem. M. Foucault, La grande colère des faits, (1977), in Dits et écrits, 2 voll., Gallimard/Folio, Paris 2001, II, n. 204, pp. 279-281. Si tratta di un’articolata recensione del libro di A. Glucksmann, Les Maîtres penseurs, Grasset, Paris 1977; trad. it. I padroni del pensiero, a cura di E. Klersy Imberciadori e A. Bressan, Garzanti, Milano 1977. Va ricordato che si tratta di un esponente di spicco di quei nouveaux philosophes (Bernard-Henri Lévy, Michel Guerin, André Glucksmann, Christian Jambet, Françoise Lévy, Jean-Paul Dollé, Guy Lardreau, Maurice Clavel, Philippe Sollers, Jean-Marie Benoist, Philippe Némo) la cui frequentazione da parte di Foucault – si vedano le recensioni foucaultiane ai loro lavori, la comune pratica del «giornalismo filosofico», una certa enfatizzazione del tema del gulag – fruttò la rottura con Deleuze, il quale ne denunciava per tempo l’inconsistenza filosofica e la volgarità delle
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Se, infatti, nel diciassettesimo secolo tutto un discorso filosofico-giuridico, intenzionato a reiterare il gesto teorico della fondazione della sovranità e dello stato, e coagulatosi nei pressi della grandiosa operazione hobbesiana, era stato mobilitato per squalificare o riqualificare gli enunciati teorici più consistenti del discorso storico31; la strategia messa in campo nel diciannovesimo secolo è inversa. Essa trova una coagulazione discorsiva, all’incirca con Hegel, nella forma della dialettica. Qui la “storia”, lungi dall’esserne il tratto distintivo, si presenta come il correlato di un’operazine intenta ad istituire una sorta di circolo fra stato e rivoluzione, entro cui la dialettica avrebbe funzionato, stando al resoconto teoretico foucaultiano, «come spostamento e ripresa di questo discorso nella vecchia forma del discorso filosofico-giuridico»: In fondo, la dialettica codifica la lotta, la guerra e gli scontri all’interno d’una logica (o sedicente tale) della contraddizione: essa li ricomprende nel duplice processo di totalizzazione e d’aggiornamento d’una razionalità insieme finale e fondamentale, in ogni caso irreversibile. La dialettica infine assicura la costituzione, attraverso la storia, d’un soggetto universale, d’una verità riconciliata, d’un diritto in cui tutte le particolarità avranno infine il loro posto ben ordinato.32
Sottoponendo ad una procedura di fraintendimento funzionale un’asserzione di Kojève, si potrebbe dire: «Succedono sempre nuovi avvenimenti, ma dopo Hegel e Napoleone non si è detto, non si può più dire nulla di nuovo»33. Le note essenziali del “dispositivo” – in primo luogo, l’inversione dell’asse temporale della rivendicazione e lo spostamento del suo centro focale dal ricordo della violenza subita all’imminenza di una soddisfazione già inscritta nel presente; e in secondo luogo, la ricodi-
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posizioni politiche: cfr. Intervista della rivista «Minuit» a Gilles Deleuze a proposito dei «nuovi filosofi» e di un problema più generale, in F. Aubral e X. Delcourt, Contro i «nuovi filosofi», trad. it. di M. Raggi, Mursia, Milano 1978. Th. Hobbes, Leviatano: cap. XXXVI, “Della parola di Dio e dei profeti”; Spinoza, Tractatus teologico-politicus: cap. I, “Della profezia”; cap. II, “Dei profeti”. Per una lettura della profezia in queste «due alternative del moderno», in termini esclusivi di «sovranità profetica», rinvio ad A. Vinale, Eccezione profetica. Faut-il défendre la souveraineté?, in V. Dini (a cura di), Eccezione, Dante & Descartes, Napoli 2007, pp. 153-187. M. Foucault, Difendere la società, cit, pp. 49-50. Intervista a Alexandre Kojève di Gilles Lapouge, in A. Kojève, in Il silenzio della tirannide, cit., p. 239.
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ficazione della differenza fra le due narrazioni in termini esclusivamente economico-politici34: esse residuano necessariamente l’elisione di quella «differenza cruciale» nel cui spazio di gioco si era data l’esperienza della storia e la circolazione del politico nella modernità. Simultaneamente, esse implicano l’affermazione dello sviluppo (economico) come forma cogente di un nuovo discorso storico-politico in cui si predispone, in vece di una impossibile partecipazione collettiva alla sovranità, una transizione da una semantica della giustizia ad una dell’utile. L’iniziale funzione del discorso storico, spezzare le procedure di misconoscimento e occultamento della violenza implicite nelle narrative sovrane, si rovescia ora in una temibile macchina preordinata a trasformare ogni istanza di enunciazione politica (sovrana o profetica) nel vettore di una «violenza extraeconomica».35 A riprova di questa nuova qualità del discorso storico-politico, il verbale filosofico della battaglia di Jena, con il medesimo gesto teorico, annuncia la «fine della storia» e l’inizio dei grandi massacri del XIX e del XX secolo. Certo, il fatto che uno degli enigmi più sconcertanti del nostro tempo coincida con una figura estrema della violenza, lo sterminio, non può essere spiegato che attraverso l’esame della sua infrastruttura istituzionale, il campo: a condizione però che lo si intenda rigorosamente come un «laboratorio» per porre termine alla storia36. E che lo si inquadri innanzitutto all’interno di quella “strategia” che implica nel genio costituzionale della forma-Stato post-rivoluzionaria l’antinomia cruciale della violenza, quella che il moderno ha codificato nella polarità fra Guerra (dello Stato) e Rivoluzione (degli oppressi), senza poterla realmente sopprimere. Riuscendo forse solo a trasferire, secondo una successione di «fasi di neutralizzazione e spoliticizzazione» culminanti in un assetto tecnico-amministrativo dell’interazione
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M. Cacciari, Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 27-54. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Le categorie del politico Saggi di teoria politica, a cura di P. Schiera e G. Miglio, Il Mulino, Bologna 1972, p. 164: «Un imperialismo fondato su basi economiche [...] considererà come “violenza extraeconomica” il tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi all’effetto di questi metodi “pacifici”. Esso impiegherà mezzi di coercizione ancora più duri». H. Arendt, Le origini del totalitarismo, con un’introduzione di A. Martinelli ed un saggio di S. Forti, Einaudi, Torino 2004, p. 599.
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umana37, la struttura formale di quell’«antinomia centrale della nostra ragione politica» – rilevabile, ancora una volta, a margine di un «fatto strano»: «la coesistenza, nelle strutture politiche, di meccanismi di distruzione su larga scala e di istituzioni orientate alla cura della vita degli individui».38 Questione d’attualità, l’obbligo della riflessione politica verte su ciò che accade e merita il nome di evento: dopo la storia, con l’imporsi di una «nuova dimensione della temporalità, che non sarà più quella della storia, ma quella della crescita economica».39 4. Bio-politica Non può essere una circostanza accidentale che la nozione di bio-politica, dopo una prolungata giacenza nei magazzini foucaultiani, sia stata reclamizzata proprio all’inizio degli anni novanta del Novecento. Il senso di questa congiuntura è rivelato da un succinto intervento di François Ewald del 1995, in cui si prospetta una lettura di Foucault «alla maniera di Kojève»40, altresì l’idea che il centro della riflessione foucaultiana sul potere orbiterebbe fin dagli anni settanta intorno al tema della «fine della storia»41. Stretta nella cogente semantica della post-histoire – liberaldemocratica o imperiale42 – , la nozione di bio-politica condenserebbe, 37 38 39 40
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C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Le categorie del politico, cit., pp. 167-183. A p. 179 si legge: «La decisione intorno a libertà e schiavitù non risiede nella tecnica in quanto tecnica». M. Foucault, La tecnologia politica degli individui, in Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 137. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (19781979), a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, p. 83 F. Ewald, Foucault e l’attualità, in «Futuro anteriore», I, 1996, pp. 51-60. L’intervento di Ewald apriva la seconda giornata del convegno organizzato nell’ottobre del 1995 dall’università di Bologna e dal servizio culturale dell’Ambasciata di Francia in Italia. Nello stesso numero: J. Revel, Foucault alla maniera di Kojève, pp. 61-67. Foucault commenta in maniera critica la presenza e la funzione del tema della «fine della Storia» nell’economia politica classica in Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 19882, p. 284. Ma si tratta evidentemente di qualcosa d’altro. Schematicamente, si potrebbero distinguere due opzioni di fondo nella pubblicistica relativa rappresentate da due saggi, entrambi scritti da specialisti di relazioni internazionali, editi quasi contemporaneamente: F. Fukuyama, La
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dunque, un’esigenza di riposizionamento complessivo della «filosofia politica» all’interno di una fase marcata dalla «fine della politica», simultaneamente fine della sua figurazione dinamico-profetica, il desiderio della rivoluzione, e della sua rappresentazione statica, l’apparato giuridicoistituzionale della sovranità. Noi viviamo forse la fine della politica, perché, se è vero che la politica è un campo che si è aperto per l’esistenza della rivoluzione, e se la questione della rivoluzione non può più porsi in quei termini, allora la politica rischia di scomparire.43
A partire dalla rovina di un certo «messianismo politico»44, la bio-politica è divenuta un tema prolisso. Appare perfino evidente riflettere alla bio-politica come alla cosa in questione del pensiero contemporaneo, se con tale espressione occorre prendere in esame «ciò che fa entrare la vita e i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti»45 del potere. Non imbarazza, neanche, asserire che, a datare dal Settecento circa, il bio-potere inizi ad esprimere la «forma generale» attraverso cui nelle società europee il potere si esercita, si legittima, si istituisce (funzionamento, giustificazione, programmazione)46. Non fosse che per una fluttuazione interna del termine che rischia di lasciare imprecisato ancora a lungo se non si tratti piuttosto di «una nozione fatua o criminale»: la fola banale consistente nel fatto che la politica ha sempre avuto a che fare con l’organizzazione di uomini vivi ed il surrogato linguistico della nozione alquanto logora di “totalitarismo”, surrogato in cui specificare il programma zootecnico del nazional-socialismo. Schematismo dominante attraverso cui si “razionalizza” in maniera coerente l’esercizio della sovranità politica moderna, il bio-potere si rapprende a principio logico di una costante reversibilità e di un temibile tropismo delle «forme di governo» (assolutistica, liberale, totalitaria). Un tropismo che trova il suo cardine nel supporto extra-legale degli assetti istituzionali, nella costante che nella gamma (tardo-)moderna dei regimi
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fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003; J.-M. Guéhenno, La fine della democrazia, Postfazione di F. Marcoaldi, Garzanti, Milano 1994. M. Foucault, No al sesso re, intervista di B. H. Lévy, in Dalle torture alle celle, a cura di G. Perni, Lerici, Cosenza 1979, p. 153. J. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, con una introduzione di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2000. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1993, p. 126. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 83-84.
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politici opera una marginalizzazione della questione dell’organizzazione dei pubblici poteri, dell’alternativa pluralistica e mono-partitica, ed in generale del modo di organizzazione del comando, in relazione alla comune sintesi della vita nella dimensione della forza-lavoro ed alla crescita delle risorse47. Intelaiatura giuridica ed assetto istituzionale orbitano, di fatto, attorno ad un referente letteralmente introvabile sotto il profilo d’una metafisica del soggetto costituente, del fondamento o della presupposizione naturalistica, ed il cui parametro principale, quello che ne individua contemporaneamente genesi e validità, collima piuttosto con un’aspettativa di crescita economica scandita in una sequenza di enucleazione sociobiologica della ragione politica moderna, da Hobbes a Beveridge: pace, nazione, sviluppo. Bio-politica è l’indicatore semantico di un intero ciclo storico. Significante fluttuante con funzione di denuncia (totalitarismo, crisi ecologica, ecc.) e con funzione descrittiva (l’ibrido sociale) del programma politico moderno relativamente ad una norma – la norma democratica e le patologie del potere. I cantieri storici nei quali Michel Foucault alloggia la sua inchiesta sul gioco tra le forme e le tecniche politiche48 si situano nelle adiacenze del moderno processo di «politicizzazione della vita» che le democrazie borghesi avviano, «a un livello di analisi esplicito e consapevole»49, a partire dalla rivoluzione francese. Scena originaria del moderno allestita fra Kant e Sade, essa rappresenta contemporaneamente, sul piano delle forme politiche, «la prima esperienza della democrazia»50 nel controluce costituzionale delle società di antico regime e, su quello delle tecniche di potere, la prima formulazione di un programma biopolitico coerente e perspicuo il cui ambito di pertinenza coincide con la gestione e la messa a regime dei tratti biologici della specie umana. D’altro canto, anziché dissipare la semantica della nozione, il collasso imminente e costantemente differito di “vita” e “politica” stilizzato nella confezione linguistica del termine enuncia anzitutto una precisa funzione agglutinante, consistente se non nel descrivere, almeno nel simulare una certa liquefazione delle distinzioni concettuali ed operative della teoria
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R. Aron, Teoria dei regimi politici, Comunità, Milano 1973, pp. 32 sgg. M. Foucault, Studiare la ragion di Stato, in Id., Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984, introduzione, traduzione e cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, p. 151. M. Foucault, La politica della salute nel XVIII secolo (1976), in Archivio Foucault 2, Feltrinelli, Milano 1997, p. 188. F. Furet, Critica della rivoluzione francese, Laterza, Bari 1987, p. 90.
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politica moderna, se non proprio la loro liquidazione. Se con la rovina delle distinzioni chiare ed univoche del costituzionalismo classico – interno/esterno, pace/guerra, polizia/politica –, l’esperto di jus publicum europaeum, geloso custode di antico linguaggio, si limita a notificare con riluttanza ritorsiva l’estenuazione della meccanica giurisprudenziale, attardandosi in una necrologia dello Stato costituzionale come soggetto della politica, ed a registrare l’ambiguo permanere dell’apparato, privo del suo canone semantico ed effettuale; l’inchiesta bio-politica registra immediatamente la dissoluzione della dottrina della sovranità e del suo trinomio – ordinamento, territorio, popolo – , e procede dalla generale regressione giuspubblicistica alla genealogia d’una nuova assiomatica adesiva all’effettualità del potere. Riformula istanze e spazi della politica verso una ridefinizione radicale del politico tale da metterne in mora perfino i suoi più formali présupposés51 – comando/obbedienza, privato/pubblico, amico/nemico. Il di-lemma della bio-politica fa mostra insieme dell’enigma, del punto di catastrofe e del luogo d’esito della politica moderna. 5. Il colpo di stato negativo Correlata alla teologia politica in una certa ossessione per i «neologismi politici» nel Novecento, il termine bio-politica esprime una fase del politico che le inchieste inserite nella traiettoria foucaultiana verificano a margine di due fenomeni concomitanti già segnalati da Hannah Arendt, l’ascesa del sociale e la regressione del giuridico52. Lo iato elusivo che ne costituisce il centro delinea lo spazio costante di un’esperienza e di un linguaggio ricavato ai margini dell’universo teologico in cui Dio, garante del senso e operatore del consenso, attrae la totalità del linguaggio, che nella politica occidentale si articola, tra il XIII e il XVII secolo, nella cogente
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J. Freund, L’Essence du politique, Sirey, Paris 1965; trad. it. parziale Che cos’è la politica? Essenza, finalità e mezzi, a cura di C. Angiò, con una nota introduttiva di A. Campi, Ideazione Editrice, Roma 2001. Su questa linea risultano indispensabili gli studi di J. Donzelot, L’invention du social. Essai sur le déclin des passions politiques, Seuil, Paris 1984, 1994; G. Deleuze, L’ascension du social, Postface a J. Donzelot, La police des familles, Éditions de Minuit, Paris 1977; trad. it. L’ascesa del sociale, in «aut aut», 167-168, 1978, ripubblicato in G. Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, introduzione e cura di U. Ladini, Ombre Corte, Verona 19962, pp. 95-103.
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assiomatica e nell’ingente simbolica della teologia politica medievale53. Il discorso vincolante ed abbagliante che aveva scandito per secoli lo svolgimento figurato e drammatizzato del diritto pubblico fin dall’arcaica rappresentazione del potere nelle religioni, nei rituali, nelle leggende e nei miti del folklore indoeuropeo, si dissipa nell’ambigua rovina del cerimoniale simbolico della sovranità e di quella sintassi fiabesca che coniugava meccanismi politici ed effetti di discorso intorno al referente unitario e radioso del monarca – simultaneamente «principio politico» e «potenza magica». La dislocazione delle agenzie di enunciazione dall’ordine della cerimonia religiosa a quello del controllo amministrativo, dai segni alle prestazioni, attuata nel quadro giuridico e istituzionale dello stato barocco determina, assieme all’eclissi del diaframma che modulava il sommo e l’«infimo», l’«infame» e il «favoloso» nella grammatica del potere54, la scomparsa del sovrano che regge in mani ad un tempo poderose e fragili gli enunciati, le leggi e le procedure dell’obbligazione politica. La Rivoluzione, durante la quale tutti i monarchi hanno perso assieme alla testa quel supporto del rituale teologico-politico rappresentato dal «corpo del re», lascia affiorare il vuoto ontologico nel quale aveva preso forma l’unità del lessico politico tradizionale, certificata dall’aureo cerchio di una corona e messa in scena grazie al gioco dell’origine e dell’oblio55, del mito di un’anteriorità fondatrice e del rito della sua riattualizzazione permanente nel sacrificio e nella festa. Ora la «grande assenza»56, il vuoto costruttivo dell’ordine classico e della struttura della rappresentazione, il «posto del re», il «centro estrinseco» dell’ordinamento si presenta nella frangia estrema del suo sviluppo 53
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Per la delineazione di un paradigma teologico e sacrificale della sovranità nei testi foucaultiani, il riferimento a E. Kantorowicz (I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989) è assiduo almeno quanto la ripresa da Bataille dei motivi dell’«economia generale». M. Foucault, La vie des hommes infâmes, in Dits et écrits, edizione stabilita sotto la direzione di D. Defert e F. Ewald, 2 voll., Gallimard, Paris 2001, II, n. 198, pp. 251-253. Sulla crucialità di questo testo del 1977 ha insistito G. Deleuze in una conversazione con Robert Maggiori, Fendere le cose, fendere le parole, in Pourparler (1972-1990), Quodlibet, Macerata 2000, pp. 113-126. C. Lévi-Strauss, Mythe et oubli, in J. Kristeva, J.-C. Milner, N. Ruwet (a cura di), Langue, discours, société. Pour Émile Benveniste, Gallimard, Paris 1975, pp. 294-300. G. Deleuze, L’uomo, un’esistenza incerta, in G. Deleuze, Divenire molteplice. Foucault ed altri intercessori, introduzione e cura di U. Fadini, Ombre Corte, Verona 1999, pp. 61-66: 61.
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istituzionale come il punto focale e lo specchio ustorio della forma di governo democratica.57 Nelle intenzioni di Michel Foucault, la nozione di bio-politica rappresenta, simultaneamente, il fulcro d’enunciazione dell’esito della moderna democratizzazione e l’esiguo documento di sintesi di un’inchiesta sulla «storia della sessualità» nell’architettonica del potere occidentale. L’operazione foucaultiana è atteggiata altresì in un gesto che lega in una medesima esperienza ed in una forma comune la morte di Dio e l’emergenza della sessualità nella cultura europea, insieme alla sua fenomenologia al livello del corpo produttivo e procreativo. Coincidenti nel tempo e nella struttura, esse si annodano intorno all’enigmatica costituzione del soggetto moderno, e non per insistere sull’animalità naturale dell’uomo o su una qualche costante antropologica, né sulla fine del regno storico di Dio, ma sulla «chenosi del Dio legislatore e garante dell’ordine dell’universo» (Quinzio) che il cristianesimo stesso ha trasferito nella struttura della soggettività. Il corpo è il luogo in cui l’investimento politico della sessualità moderna inscrive il soggetto, progettandolo in uno spazio vuoto e senza esterni, senza un «altrove» che garantisca una gerarchia degli enti e allestisca un sistema di regole di partizione degli oggetti e degli spazi in sacri e profani. Nelle architetture istituzionali di un sistema politico in cui la ricerca del principio gerarchico di gradazione delle parti in relazione alla totalità è sostituita da un’incessante infrazione ed interrogazione del limite, è infinitamente necessario sperimentare la forma vuota della partizione; se è vero che la scissione è, alla lettera, incorporata ad una vita ‘tolta’ alla calma naturalità del mondo profano e inviluppata nelle semantiche bifronti ed inestricabili della sopravivenza, simultaneamente autoconservazione ed intensificazione. Ma la de-naturalizzazione registrata nei verbali che articolano nelle figure del linguaggio e nei protocolli tecnici l’esperienza moderna del corpo, lungi dal proporsi come discorso comprensivo e conclusivo sulla secolarizzazione del potere, dissimula i tratti di una ambigua ri-sacralizzazione; indica le movenze di una ricostruzione del sacro «nella sua forma vuota, nella sua assenza, resa in questo modo lampante».58 57
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M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano 2004, p. 82. Su questo «luogo vuoto» residuato dalla teologia politica ed infittito nel processo di democratizzazione dell’esercizio del potere quale istanza «puramente simbolica» ha scritto pagine molto significative C. Lefort, “La question de la démocratie”, in Essays sur le politique. XIX-XX siécles, Seuil, Paris 1986, pp. 17-30 : 27. M. Foucault, Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, Feltrinelli,
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Se nei sistemi politici occidentali la sacralità del potere è raffigurata nell’immagine teologica del «doppio corpo del re», incarnazione «quasi divina» (Bataille) di colui che è ma insieme non è, che è identico a colui che lo sostituisce, all’infinito, ed è collocato al di là dei limiti della morte e dell’identità; l’assenza del Re non cancella, ma rende frenetico, sottile ed invasivo il sacro. In primo luogo, l’in-esistenza del Re possiede alcunché di minatorio ed allucinante, si presenta come la «forma tipica e inattaccabile» di esistenza del potere moderno, e si declina in almeno due forme d’assenza, invisibilità e parcellizzazione – un essere ascoso e sottilmente ubiquitario che si presenta nella forma di un «colpo di stato negativo»59. Ed in effetti, nella decisione ontologica di non-esserci che abolisce la fastosa liturgia teologico-politica del corpo del Re, è il corpo della società che diventa, nel corso del XIX secolo, il nuovo principio. È questo corpo che bisognerà proteggere, in modo quasi medico: invece dei riti attraverso i quali si restaurava l’integrità del corpo del monarca, si applicheranno ormai delle ricette, delle terapie quali l’eliminazione dei malati, il controllo dei contagiosi, l’esclusione dei delinquenti.60
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Milano 2004, pp. 55-72: p. 56. Cfr. G. Bataille, La sovranità, con un’introduzione di R. Esposito, Bologna 1990, pp. 177-199. G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Einaudi, Torino 1977, p. 4. Come ha compreso l’autore di questo incredibile saggio, l’anti-favola collodiana dell’homunculus moderno, transitante fra boschi, prigioni, scuole per apprendisti e campi di concentramento, che fin dal principio si smarca dalla formula sovrana del «c’era una volta... un re», per intercettare un’altra istanza, polimorfa, accuditiva, protettiva, pedagogica, femminile (la fata), raffigura la migliore introduzione immaginabile al problema bio-politico ed al macchinario antropogenetico che vi soggiace. Nel contesto di una revisione delle tematiche del femminismo alla luce della psicoanalisi, Angela Putino lavorava ad una nozione di bio-politica come figura eminente del devenir-femme del potere dopo il collasso dell’ordine simbolico della sovranità patriarcale, potere materno connotato, al contempo, da un’ansia di accudimento ed un riflesso d’abbandono, oblativo ed oscuro (Amiche mie isteriche, Cronopio, Napoli, 1996). In una direzione simile, ma in una prospettiva kojèviana, sembrano muoversi pure le “note pastorali” di L. Bazzicalupo, La diseguaglianza oblativa: soggettivazione/assoggettamento, compreso nel presente volume. Non si può omettere, in questo contesto, la precoce intuizione dei tratti “femminili” del potere moderno espressa da Tocqueville in termini di «dispotismo democratico» (La democrazia in America). M. Foucault, Potere-corpo, in Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 137. «Il “corpo” sociale cessa d’essere una semplice metafora giuridico-politica (come quella che si trova nel Leviatano) per apparire come una realtà biologica e un campo d’intervento medico. Il medico deve essere dunque il tecnico di questo corpo
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Nella piega «quasi medica» del «nuovo principio» alloggia il secondo tratto della ricostruzione sacrale del potere moderno. Sul corpo sociale ed individuale emerso alla luce di una mondanità che sembra non attribuire più alcun senso al sacro, e che pertanto pare non riconoscere alcuna possibilità di profanazione, si autorizza una «purificazione permanente»61 regolata sul principio della salute. Quel criterio nosografico – elaborato nelle alcove concentrazionarie in cui si forgia la corporeità moderna, in cui si organizza la presa clinica e poliziesca sul vivente – invisibile foyer del divenire della specie e della verità di ciascuno, autorizza «una profanazione vuota e ripiegata su di sé»62, la quale riconvoca il sacro nell’unica forma che gli consenta di presentarsi ovunque, l’assenza, e attraverso l’unico schema simbolico in grado di unificarne l’esperienza disparata, il rito di purificazione63. La sovranità assente resta il centro irriducibile ed inappariscente della bio-politica64 ed è forse per questo che la figura dello «stato d’eccezione» si trova al centro di un tentativo di ricostituzione della teoria giuridica della sovranità – un tentativo estremo e vano di ricuperare alla drammatizzazione giuspubblicistica quel «colpo di stato negativo» che le bio-politiche e le tutele medico-sanitarie, dissipando la finzione giuridica della legge e dell’eccezione, attualizzano in un permanente movimento di normalizzazione. All’incrocio di salute e morale, nel punto in cui funzionano le temibili macchine binarie della partizione normativa, la cui funzione consiste nell’assegnare qualifiche e squalifiche nella cornice benefica e tutelare di un complesso medico-amministrativo, si profila la sagoma del re contumace. Nei criteri selettivi e nelle pratiche massicce di “medicalizzazione” della sfera individuale e collettiva, alberga un monarca clandestino e ubuesco – «l’assenza del Re non solo non cancella, ma rende intollerabile potenza il luogo che al Re appartiene».65 Ciascuno può istallarsi sul labile segno tipografico che articola nella parola vita e politica – nello stile di un’appercezione catastrofica della sua ellissi, oppure in quello d’un’esposizione ontologica della sua sintassi. In effetti, è precisamente la caratteristica d’essere per metà codificata e per metà proietti-
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sociale, e la medicina, un’igiene pubblica» (M. Foucault, L’évolution de la notion d’«individu dangereux» dans la psychiatrie légale du XIXe siècle, in Dits et écrits, cit., vol. II, pp. 451-452). M. Foucault, Difendere la società, cit., p. 52. M. Foucault, Prefazione alla trasgressione, cit., p. 56. M. Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Il Mulino, Bologna 1932. G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 17. G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Einaudi, cit., p. 4.
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va a farne una figura seducente e allo stesso tempo evasiva – se non addirittura il centro d’attenzione permanente di una topica la cui figura fondamentale non sarebbe né la tensione fra l’infimo e il sommo del potere, né la disputa fra infra- e sovra-struttura circa la determinazione del sociale, bensì un luogo vuoto, un centro neutro. Nella morfologia della ‘parola’ si rileva, anzitutto, il centro neutro dell’oscillazione fra la vita e la politica per fissare precisamente in quel ne-utrum – né l’una né l’altra, né vita né politica – il grado zero del politico moderno66, dove questo è «esperienza indifferenziata, esperienza non ancora condivisa [partagée] della divisione [partage] stessa».67 Il tentativo di ‘disenigmaticare’ il luogo ineffabile ed effettuale in cui il re “ci non è”, ossia la lesione alloggiata nel soggetto moderno – che lo frattura incessantemente bloccandone l’identità con sé stesso ed esponendolo ad una contestazione permanente dei suoi confini –, condensa nella definizione della bio-politica le risultanze di un «pensiero negativo» in cui si preannuncia la potenza di una «negatività affermativa» (Blanchot) articolata a chiosa di una critica della razionalità politica dell’umanismo («individualità normativa»), vale a dire quel l’insieme dei discorsi attraverso i quali si è detto all’uomo occidentale: “Anche se non eserciti il potere, puoi pur sempre essere sovrano. E ancor meglio: più rinuncerai ad esercitare il potere e meglio sarai sottomesso a colui che ti è imposto, più sarai sovrano”. L’umanesimo è ciò che ha inventato volta per volta queste sovranità assoggettate che sono l’anima (sovrana sul corpo, sottomessa a Dio), la coscienza (sovrana nell’ordine del giudizio, sottomessa all’ordine della verità), l’individuo (sovrano titolare dei suoi diritti, sottomesso alle leggi della natura o alle regole della società), la libertà fondamentale (sovrana al suo interno, esternamente consenziente e “fatta a misura del suo destino”).68
6. L’impolitico foucaultiano Riprendendo una tesi intentata da Reiner Schürmann in un contesto teorico saturo di suggestioni foucaultiane69, è possibile schematizzare quanto 66 67 68 69
J. Baudrillard, All’ombra delle maggioranze silenziose ovvero la morte del sociale, Cappelli, Bologna 1985, p. 24. M. Foucault, Prefazione alla Storia della follia, in Archivio Foucault 1, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 49-58: 49. M. Foucault, Al di là del bene e del male, in Microfisica del potere, cit., pp. 5859. R. Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, a cura di G. Carchia, Il Mulino, Bologna 1995.
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asserito affermando che la politica è il luogo d’esposizione dei principi di validità e di intelligibilità, dunque dell’assiomatica che regola genesi e struttura dell’essere sociale. Non essendo la genesi nulla più che la positività della struttura, il principio rappresenta l’operatore appariscente della strutturazione determinata del campo dei possibili (condizioni di funzionamento, regole d’azione, leggi di trasformazione). Esso s’impone su di un insieme, ne dispone le parti, a comporre provvisoriamente un tutt’uno. Il dispositivo del principio si annette al proprio centro il punto di frizione fra un sistema di regole e un gioco delle irregolarità riassumibile in una figura del raddoppiamento costante e della inversione imminente fra un Diritto e un Rovescio, oppure un Torto – momento eminente di articolazione fra politica e polizia70. La politica si caratterizza meno per l’esercizio del potere in una società (sovranità) ovvero per l’interazione dei gruppi che la compongono (legame sociale), che non per quella anti-nomia fra rappresentazione (recto) e produzione (verso) che regola, fin dalla Fisica aristotelica, la sintassi vincolante inserita fra 1. la genesi della statualità europea a margine della teorizzazione della sovranità e della rappresentanza, e 2. l’incremento della «vita materiale» a margine della problematizzazione utilitaristica dello sviluppo e della crescita economiche. Se la politica è la superficie su cui scintilla il codice che governa l’ontologia d’un campo storico – nei termini della legge, del contratto e dell’istituzione – , il Genealogista ed il Giurista, di fronte allo sblocco tecnologico della produttività del potere nel moderno, di fronte alla «grande trasformazione», si trovano entrambi confrontati all’esigenza di un «nuovo diritto» pur costatando la definitiva introvabilità del nómos, ossia il collasso di quell’anti-nomia che ne garantiva il gioco dialettico. Le filosofie politiche si differenziano, infatti, quanto al modo in cui esse articolano la relazione metapolitica all’Uno nei termini della costruzione del luogo d’esposizione del principio che governa l’appropriazione e la partizione del sensibile, altresì dello spazio a struttura pubblica71. Ma altro è l’appropriazione e la partizione del territorio, con lo spartito che vi si annette in ordine alla sua rappresentazione, altro l’appropriazione e la partizione del vivente, pur
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J. Rancière, Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007, spec. cap. 2: “Il torto: politica e polizia”, pp. 41-60. C. Schmitt, Appropriazione/divisione/produzione. Un tentativo di fissare i fondamenti di ogni ordinamento economico sociale, a partire dal «nomos», in Id., Le categorie del politico, cit., pp. 293-312. Si veda anche: P. P. Portinaro, Appropriazione, distribuzione, produzione. Materiali per una teoria del “nomos”, con una lettera di Gianfranco Miglio, Franco Angeli, Milano 1983.
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nella coerenza complessiva dei paradigmi – nel XVII-XVIII secolo la reclusione dei poveri era un modo per vincolare quelli che, liberi da attività, sfuggivano alle limitazioni di tipo geografico e territoriale attraverso cui si esercitava la violenza percettiva e afflittiva della sovranità. Dal territorio alla popolazione, dalla conquista territoriale al sequestro di persona nelle corvées di fabbrica, il primo atto è sempre una presa – che essa si organizzi intorno al problema della società feudale di istituire il circuito sovrano tra protezione e obbedienza, quasi esclusivamente connotato in termini d’imposizione fiscale72, oppure intorno alla cattura e al sequestro del vivente secondo lo schema generale dell’imprigionamento (prehendere, prisio, prisum), a sua volta funzionale alla disponibilità del grezzo tempo della vita nell’apparato di produzione, al processo di adattamento e di costituzione della forza-lavoro. Nel punto di saldatura tra accumulazione capitalistica e organizzazione politica, il dispositivo del nomos resta intatto, in superficie: ad una cattura che articola un codice con un territorio, che localizza un ordinamento, fa seguito una segmentazione partitiva e un’effettuazione istituzionale della sua oggettivazione. Allo stesso schema rimanda la genesi della statualità moderna intorno a tre funzioni: 1. la funzione di pacificazione, garantita mediante il monopolio delle armi; 2. la funzione dell’arbitrato delle liti e della punizione dei delitti, garantita mediante il controllo delle funzioni giudiziarie (fiscali-distrubutive); 3. con l’aggiunta, dalla fine del Medioevo, della funzione di mantenimento dell’ordine, organizzazione dell’arricchimento, promozione della salute della popolazione. Accumulazione, spartizione, produzione. Ma lo slittamento interno al moderno veicolato da questa terza funzione economica di prosperità è incalcolabile. Basti solo accennare alla polarità che insiste sulla relazione di complemento e di supplemento fra la figura del contratto e quella dell’abitudine73, sul funzionamento interno al sistema di diritto classico di apparati per l’acquisizione delle abitudini come norme sociali. Il termine “abitudine” transita da un uso (humeano) critico degli obblighi tradizionali della società feudale in direzione dell’assunzione esclusivamente contrattuale dell’obbligazione giuridico-politica, ad un impiego prescrittivo nel XIX secolo – stregua positiva di una sottomissione 72 73
M. Rassem, Riflessioni sul disiciplinamento sociale nella prima Età moderna con esempi dalla storia della statistica, in «Annali dell’istituto italo-germanico», 1982, VIII, pp. 39-70. M. Foucault, Il potere e la norma, lezione al Collège de France, 1973, in Dalle torture alle celle, cit., pp. 113-115.
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permanente. Se il contratto si presenta come la forma giuridica del legame sociale fra proprietari, garanzia di giustizia distributiva e commutativa, tramite per cui gli individui stringono alleanze (matrimoni) a partire dalle loro proprietà, per converso l’abitudine è ciò che lega gli individui all’apparato di produzione, «ciò che lega coloro che non possiedono ad un apparato che non possiedono». S’impone un passaggio da un regime della proprietà ad uno dell’improprietà, e ciò in un senso assai radicale. La partizione proprietaria del sensibile transita nell’orbita di una «partizione normativa»74 – dalla legge sovrana alla norma tecnica ciò che muta è il sistema di opposizioni binarie costitutive di ogni società, le quali tradizionalmente segnano una soglia più o meno fissa fra bene e male, consentito e vietato, lecito e illecito, criminale e non criminale, ed ora risultano ridotte invece all’opposizione di tipo clinico, più semplice ed estremamente mobile, fra normale e patologico. Quest’opposizione infinitamente più semplice si avvantaggia della persuasione che ci sia una tecnica in grado di ridurre il patologico al normale attraverso mezzi di correzione tutt’affatto dissimili dal meccanismo punitivo. In breve, il nuovo assetto del nomos bio-politico «presenta questa duplice proprietà di essere anomizzante, vale a dire di ridurre costantemente ai margini un certo numero di individui, di produrre anomia, di far emergere dell’irriducibilità, e al contempo di essere sempre normalizzatore, di inventare sempre nuovi sistemi di recupero, di ristabilire ogni volta, di nuovo, la regola». A caratterizzarlo insomma «è un perpetuo lavoro della norma all’interno dell’anomia».75 In sintesi, il nomos si rovescia in maniera perdurante in un sistema dell’anomia, e questo in una maniera che eccede lo spazio chiuso della disciplina di fabbrica, ma che deborda e prolifera nei meccanismi più sottili ed effusivi del controllo. Ed al lato di questi mezzi di trasformazione anomizzante dell’individuo e della popolazione, o della paradossale produzione tecnica della natura umana in quanto regime della regolarità 74
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La locuzione partage normatif compare nella voce su Foucault per il Dictionnaire des philosophes, PUF, Paris 1984, richiesta a F. Ewald dal curatore dell’opera D. Huisman e poi redatta dallo stesso Foucault con lo pseudonimo di Maurice Florence: trad. it. in Archivio Foucault 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 250. Tuttavia, come efficacemente segnalato da S. Vaccaro (Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP, Mimesis, Milano 2005, p. 9 n.), la resa italiana proposta dalla traduttrice Sabina Loriga, «spartiacque normativo», perde ogni riferimento all’atto della partizione. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 63.
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antropologica, si squaderna tutta una tecnologia del comportamento, indifferente all’agibilità politica, cioè alla suscettibilità d’innovazione insita nell’azione umana, ed attenta invece al trattamento dei tratti biologici della specie. Si profilano due questioni interconnesse, l’impossibilità del nuovo e la chiusura definitiva delle nomotetiche tradizionali in direzione di una latente anarchia dell’essere. Problema a due facce. Esso è sul piano politico immediato il modello istituzionale di funzionamento dello stato democratico post-rivoluzionario76 e una figura cogente di quello schema di doppio stato analizzato da Ernst Fraenkel limitatamente al quadro “costituzionale” dello stato nazionalsocialista77. Si tratta della produzione dell’«ordine sociale» e della sua tensione dissociativa con il piano giuridico-istituzionale in cui si reificano le lotte per il riconoscimento, una tensione tra l’architettura del diritto e la meccanica dell’ordine formalizzata da Carl Schmitt con la sua divaricazione analitica di ordine e diritto al crepuscolo dello Stato moderno e mistificata con iattanza nella formula ebete e minatoria in cui si esprime il comune denominatore politico dei programmi di governo contemporanei: law & order.78 Ma su di un piano di generalità: si tratta dell’innesco fondamentale del «pensiero negativo» e del suo lungo definirsi, da Hume a Schopenhauer fino a Nietzsche79, in un ciclo politico dell’effettività e dell’efficacia, in una politica senza presupposti sostantivi, criteri di validità, teleologie trascendentali – precondizione teoretica indefettibile di una messa a fuoco della nozione di “potere” in quanto superficie di assorbimento complessivo 76
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M. Foucault, Il potere, una bestia magnifica, in Id., Biopolitica e liberalismo, cit., pp. 77-78: «il grande problema delle società occidentali, dalla fine del Medio Evo fino al XVIII secolo, è stato certamente il diritto, la legge, la legittimità, la legalità, e che con molta fatica è stata conquistata una società del diritto, il diritto degli individui, attraverso tutte le lotte politiche che hanno percorso, hanno scosso l’Europa fino al XIX secolo; ma nel momento in cui si credeva, o i rivoluzionari francesi, ad esempio, credevano di aver raggiunto una società del diritto, ecco che è acceduto qualcosa che è esattamente ciò che io cerco di analizzare, qualcosa per cui si è entrati in una società della norma, della salute, della medicina, della normalizzazione, che oggi è il modo essenziale di funzionamento della nostra società». E. Fraenkel, Il doppio Stato. contributo alla teoria della dittatura, introduzione di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1983. M. Foucault, Le citron et le lait, (1978), Dits et écrits, cit., vol. II, n. 246, pp. 695-698; Id., Nascita della biopolitica, cit., p. 147; Id., Tecnologie politiche degli individui, cit., p. 153. M. Cacciari, Krisis. Saggio sul pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1976.
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e referente spugnoso del “politico”, qualificato adesso esclusivamente in termini di “pratiche” dotate di efficacia, produttive di risultati specifici, di effetti localizzati nella società e correlate a strategie inafferrabili in ordine alla loro globalità. Il “politico” è effetto di una «tecnologia di potere», il suo piano di coerenza si staglia su di una modalità tecnica d’esercizio concreto. Una pratica, un esercizio ontologico, il cui senso d’attuazione risulta solo più problematizzato, mai trattato come reagente di una teoresi legislativa o di una missione storica. Il profilo di una «normatività tecnologica»80 – in cui si riassume quanto appena detto – delineatosi a partire da quella «smania per la regolamentazione» sottesa all’ipertrofia dell’attività produttiva moderna, in cui «al processo di socializzazione si accompagnò un processo di potenziamento»81, funge non solo da decostruzione permanente dei presupposti di principio che attualizzavano e convalidavano la codificazione e la pubblicità politica mantenendone in forma la dialettica, ma soprattutto nella definizione di un’ontologia della storia in cui si snoda la circolazione transalpina dell’impolitico (nietzscheano), inteso come «lo stadio critico della “grande politica”».82
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N. Irti/E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 35, 53-55, 82: «la norma non ha carattere politico, giuridico, morale, economico, ecc., ma è regola capace di impedire che l’operatività tecnologica resti subordinata a norme che ancora si illudono di regolare la tecnica» (p. 36). Soprattutto si discute un’accezione del regresso della normatività politico-giuridica, ed in generale dei criteri di validità, sul filo di una definizione “trascendentale” della tecnica come «l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi e di soddisfare bisogni» (p. 28). G. Oestreich, Polizia (Policey) e prudentia civilis nella società barocca della città e dello stato, in Filosofia e costituzione dello stato moderno, a cura di P. Schiera, Bibliopolis, Napoli 1989, p. 216. M. Cacciari, L’impolitico nietzscheano, in F. Nietzsche, Il libro del filosofo, Savelli, Roma 1978, pp. 105-120: 109-110. Il dimensionamento della «grande politica» nietzscheana in funzione di una critica dell’homo democraticus, era pure la posta in gioco della stroncatura di Foucault e Deleuze in M. Cacciari, “Razionalità” e “Irrazionalità” nella critica del Politico in Deleuze e Foucault, in «aut-aut», 161, 1977. In questa linea si è mosso anche Roberto Esposito, cui si deve la proposta più articolata sul nesso tra impolitico e grande politica (annidata nelle pieghe della bio-politica): cfr., oltre ai saggi degli anni novanta espressamente dedicati alla «tradizione dell’impolitico», Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004: spec. cap. III, “Biopotere e biopotenza”, pp. 79-114.
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7. Profili profetici dell’ontologia dell’attualità In effetti, è questa la stazione di conferimento dell’indagine foucaultiana sul potere, almeno se la si concepisce come una lunga ed articolatissima glossa alla Genealogia della morale. Pensare le condizioni di possibilità della «grande politica», diagnosticarne i labili lineamenti evenemenziali nella falda del presente, nelle ingenti lacune dell’attualità. Ed è questo anche il momento in cui si riattiva il gesto formale della profezia biblica quale preambolo teoretico della «critica sociale»83, restituito alla sua funzione specifica relativa al ruolo anti-mitologico della ragione storica. Né pratica mitico-divinatoria o scientifico-predittiva, né solenne momento proiettivo di gloriosi poteri costituenti, ma notificazione delle linee di fragilità del presente, la profezia è un discorso di verità e di libertà, sul proprio tempo e dal proprio tempo.84 Entrambi questi tratti, verità e libertà – che l’effettività tecnica, o la «forza normativa del fattuale», scevera dai presupposti teologici relativi ad una natura umana vera da liberare dall’alienazione o da redimere dalla propria colpevolezza creaturale in vista di una conciliazione pontificale della società con se stessa – , si riassumono in questa domanda sull’attualità, in questa interrogazione sulla qualità ontologica dell’attuale che ripete il gesto “profetico” di suscitare la Jetzt-Zeit come rottura e interruzione di un presente che reitera in eterno l’evento che lo ha istituito impigliando il tempo in una cristallizzata economia della verità85. La profezia è una procedura 83
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Cfr. M. Walzer, Politica e profezia, Edizioni Lavoro, Roma 1998. Il nesso (critico-negativo, de-stituente) tra momento mistico-profetico e momento impolitico si trova esplicitato in maniera rigorosa in M. Cacciari, Diritto e giustizia. Saggio sulle dimensioni teologica e mistica nel moderno Politico, in «Il Centauro», 2, 1981, num. monografico dedicato al tema Teologia politica, pp. 58-81. Per un serrato studio della nozione di profetismo biblico e della sua decostruzione entro il paradigma shakespeariano del moderno, mi limito a rimandare ad A. Vinale, Oracolo e profezia. Parola delle legge e sentimento di giustizia, Filema, Napoli 2002. È noto il rifiuto di Foucault per la posa profetica caratteristica dell’intellettuale sartriano, ed in genere per quel «beneficio del locutore» implicito nella struttura dell’enunciazione profetica (valga per tutti il rifiuto espresso in La volontà di sapere, cit., pp. 12-13), ma qui s’intende saggiare un altro paradigma della profezia. Senza poter dar conto qui della lettura foucauliana del Passagen-Werk di Benjamin, a proposito di questo tratto profetico benjaminiano rinvio a P. Amato, L’événement du temps. Le sujet de la prophétie chez Walter Benjamin, in «L’art du comprendre», 13, 2004, num. monografico dedicato al
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tesa a localizzare il crinale del presente, la barra che differisce il presente da se stesso, l’incrinatura a partire da cui è lecito segnare lo iato possibile fra una ricorsività arcaica ed un movimento attuale di separazione86. Essa marca, in primo luogo, il principio d’ordine, la partitura in cui si rapprende l’evento strutturante il campo della storia presente (stratificazione archeologica). Ed in secondo luogo ripristina una motilità differenziante del tempo divincolata dalla ripetizione incessante del passato, si abbina ad una movenza di liberazione fratturando l’evento a partire da cui si danno l’essere ed il linguaggio in cui esso viene pensato e razionalizzato (attualità). Ed è vero – asserisce Foucault – che nei miei libri cerco di cogliere un evento che mi è parso, che mi pare importante per la nostra attualità, pur essendo un evento anteriore. Ad esempio, per la follia, mi sembra che ci sia stata, ad un certo momento, nel mondo occidentale, una partizione tra follia e non follia; c’è stata, in un altro momento, una certa maniera di percepire l’intensità del crimine e il problema umano posto attraverso il crimine. Tutti questi eventi mi sembra che noi li ripetiamo. Noi li ripetiamo nella nostra attualità, ed io cerco di comprendere qual è l’evento sotto il segno del quale siamo nati, e qual è l’evento che continua ancora ad attraversarci.87
L’evento decisivo, a partire da cui si compone la scena politica moderna, è quello che definisce quel codice tanto difforme dalla legge quanto conforme ad un protocollo di normalizzazione, codice riferito ad un asse del discorso che non sostiene l’edificio del diritto, ma si pianta al centro delle «scienze umane». Un lento riallineamento del politico, dunque, che seleziona le due linee veicolari della teologia politica, quella di cui è latrice un’antropologia negativa impegnata a riparare alle conseguenze dello stato di peccato dell’uomo (sovrana), e quella derivata dall’insistenza cristiana sul «carattere sacro della vita», destinata a provvedere ai legittimi bisogni e necessità della vita terrena divenuta «bene supremo» (pastorale)88. L’economia politica e la socio-biologia ne delineano le cu-
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tema Penser le prophétisme – Le Clair et l’Obscur, pp. 179-197. Un’accezione non dissimile da quella qui proposta connota le ultime riflessioni di Mario Tronti; si veda per un denso consuntivo M. Tronti, Nessuna carezza per la parola del profeta, in «Il manifesto», 6 settembre 2001. G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, in Divenire molteplice, cit., pp. 7475. M. Foucault, La scéne de la philosophie, in Dits et écrits, cit., vol. II, n. 234, p. 574. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, introduzione di A. Dal Lago, Bompiani, Milano 1994, pp. 233-238.
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spidi teoretiche: «La teoria economica moderna, nasce intrecciata a un duro dibattito filosofico sulla natura umana, nell’intento in parte inconsapevole e nel progetto in parte esplicito di corrispondere ad essa, di aderire a tutte le sue pieghe, per le soluzioni di funzionamento sociale e di forma politica. Di qui, la forza di presa, la solidità empirica, la capacità di durata, delle nuove leggi economiche di movimento della società: concezione dell’individuo naturale, misurata sul rapporto tra esseri sociali. Si trattò all’inizio di scegliere tra due antropologie, una fortemente negativa, l’altra moderatamente positiva. Da un lato Hobbes e Mandeville, dall’altro Shaftesbury, Hutcheson, in parte Hume».89 Il modello di «individualità normativa» che ne risulta è ciò di cui la procedura profetica impone il rifiuto. E ciò non nella prospettiva di una liberazione dell’essenza fondamentale dell’uomo da un sistema repressivo legato alla razionalità tecnica o da un sistema dello sfruttamento legato alla strutturazione classista della società, ma in vista della «distruzione di ciò che noi siamo, e della creazione di tutt’altra cosa, di una totale innovazione»90. E ciò sarebbe stato impossibile senza l’evacuazione tecnologica del principio, dell’essenza e del valore, che sola rende possibile l’enunciato fondamentale della profezia: «produzione dell’uomo da parte dell’uomo» e ricerca costante di una «regola di produzione». Positivista radicale, il profeta è lo «storico allo stato puro».91 8. La posta in gioco In quanto stadio critico della «grande politica», il profetismo impolitico di Foucault consiste nella genealogia del processo di «politicizzazione» e delle premesse ivi presenti di una «grande politica». A tal fine, opera anzitutto una decostruzione dei presupposti onto-teologici del politico in termini di fondamento e di valore (critica dell’ideologia) e la ricognizione delle antinomie costitutive che lo destinano alla rovina (critica della ragione politica). Il preambolo fisso che da Sorvegliare e punire caratterizza quasi tutti gli interventi di Foucault sul tema del politico consiste nella giustapposizione e funzionalizzazione di un’alternativa che la linea 89 90 91
M. Tronti, Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 137. D. Trombadori, Colloqui con Foucault, 10/17, Salerno 1981, p. 66. P. Veyne, Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, a cura di M. Guareschi, Ombre Corte, Verona 1998, p. 49.
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di pensiero inscritta nella traiettoria dell’impolitico nietzscheano aveva rubricato in termini di «teologia politica» e «tecnica spoliticizzante», rifiutandone la polarità: sovranità e biopolitica – alla ricerca di un punto d’osservazione radicalmente altro. L’ambito che lo stile profetico foucaultiano intende provvisoriamente occupare si colloca nello spazio inabitabile compreso fra questi due poli, profilandone l’acuta minaccia d’ibridazione e l’indelebile eterogeneità. – Sarebbe adesso troppo lungo discutere tale antinomia, declinata come antinomia fra legge e norma, libertà e sicurezza, passione e interesse, sovranità politica e gestione tecnico-amministrativa, forma e tecnica, cittadinanza e pastorato, democrazia e liberalismo, ecc., valutarne la coerenza nella comune inabilitazione a pensare la matrice conflittuale, non ordinativa del politico – in cui la biologia politica risulterebbe semplicemente la raggiunta perfezione della teologia politica. A margine della liquefazione dei principi nell’effetualità del potere, nella sua assoluta positività, si dispone una politica della verità articolata su di una destituzione degli universali ed una invalidazione del principio d’ordine del politico. L’agibilità politica trae cospicue verifiche nella suscettibilità d’intercettare il vettore differenziale ed innovativo del presente e in un processo di soggettivazione catturato contemporaneamente fra un’istanza di disintegrazione ed un desiderio del radicalmente ‘altro’. Mentre il tratto limpidamente profetico del discorso foucaultiano traspare dalla focalizzazione teorica di un «nuovo diritto»92, né sovrano né bio-politico, concernente uno schema di politicizzazione e di «liberazione» difforme da quello precostituito nel «doppio legame» rappresentato dalla individualizzazione e dalla totalizzazione simultanee delle strutture del potere moderno93, intente a «far crescere contemporaneamente le forze assoggettate e la forza e l’efficacia di chi le assoggetta».94 92 93 94
M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 39. M. Foucault, Perché studiare il potere: La questione del soggetto, in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 244. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 38; Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993: «la disciplina è il procedimento tecnico unitario per mezzo del quale la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come forza «politica» e massimalizzata come forza utile» (p. 241). «La disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza). In breve, dissocia il potere del corpo; ne fa, da una parte, un’“attitudine”,
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La rivendicazione di un «nuovo diritto», né di cittadinanza né di sussistenza, assume da ultimo lo stilema profetico di un rifiuto del presente (democratico), ed i toni decisi di una critica della democrazia – arrischiata a demolire il «sistema complesso di equivoci e tensioni che caratterizzano fin dai suoi esordi la modernità politica»95, quella «contraddizione interna» fra principio sociologico e principio politico della democrazia che contraddistingue da almeno due secoli l’enigma e la verità della modernità politica, rappresi in una polarità dissociativa fra la consacrazione di un nuovo soggetto collettivo ed una dinamica tendente a dissolverne la consistenza unitaria ed a ridimensionarne l’affermazione simbolica. La posta in gioco? È indicata da quello che potremmo chiamare “il paradosso (dei rapporti) della capacità e del potere”. Sappiamo che la grande promessa o la grande speranza del secolo XVIII, o di una parte del secolo XVIII, riguardava la crescita simultanea e proporzionale della capacità tecnica di agire sulle cose e della libertà degli individui gli uni rispetto agli altri. D’altronde, si può osservare che l’acquisizione delle capacità e la lotta per la libertà hanno costituito gli elementi permanenti di tutta la storia delle civiltà occidentali (forse sta in questo la radice del loro singolare destino storico – così particolare, così diverso [dagli altri] nella sua traiettoria e così universalizzante, dominante rispetto agli altri). Ora, le relazioni tra la crescita delle capacità e la crescita dell’autonomia non sono così semplici come credeva il secolo XVIII. Abbiamo potuto constatare quali forme di relazioni di potere fossero veicolate attraverso delle tecnologie diverse (che si trattasse di produzioni a fini economici, di istituzioni finalizzate alla regolazione sociale, di tecniche di comunicazione): ne sono degli esempi le discipline collettive e, nello stesso tempo, individuali, le procedure di normalizzazione esercitate in nome del potere dello Stato, delle esigenze della società o di parti della popolazione. Dunque, la posta in gioco è: come disconnettere la crescita delle capacità e l’intensificarsi delle relazioni di potere?96
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una “capacità” ch’essa cerca di aumentare e dall’altra inverte l’energia, la potenza che potrebbe risultarne, e ne fa un rapporto di stretta soggezione [...] la coercizione disciplinare stabilisce nel corpo un legame di costrizione tra un’attitudine maggiorata ed una dominazione accresciuta» (p. 150). P. Rosanvallon, Il politico. Storia di un concetto, a cura di R. Brizzi e M. Marchi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 12. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232: 229-230.
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4 LA LOGICA DELLA GOVERNAMENTALITÀ. STATO E DESIDERIO IN FOUCAULT di Pierandrea Amato
1. La ricerca di Foucault degli anni settanta del Novecento sulle forme moderne di governo degli uomini sprigiona un’esperienza teorica che va oltre, probabilmente, le intenzioni dello stesso Foucault. Come se nella sua analisi si coagulasse un esercizio comune di rottura epistemologica radicale. Foucault è la voce di un’invenzione del ’68: la politica non è una faccenda esclusivamente politica. La genealogia foucaultiana del potere moderno fornisce la testimonianza di una condizione che diventa trasparente con la crisi dell’organizzazione fordista della società: la relazione comando-obbedienza non si compone unicamente all’interno di un apparato che legittima la durata e l’intensità dell’assoggettamento secondo un intervento di carattere prettamente istituzionale. L’ordine sociale non si stabilisce con una successione di congegni giuridici, ma tramite pratiche materiali complesse di varia natura. In questo senso la visione ‘miracolosa’ della nascita dello Stato moderno esprimerebbe un mitologema funzionale per chi oppone alla manifestazione di una forza politica sovversiva la razionalità del processo storico. Foucault (oltre Foucault) dunque oggi è prima di ogni altra cosa il nome di un problema al contempo determinato ed epocale: l’inabissamento dell’inclinazione teologica della sovranità si iscrive già nella traccia aurorale della politica moderna (lo Stato). Ed inoltre, il governo degli uomini si rivela come la presa in carico della ‘natura’ della popolazione: il potere fa della ‘vita’ l’origine della regolamentazione e della legittimazione del politico. Tuttavia, proprio la ricezione straordinaria della ricognizione genealogica foucaultiana, produce fatalmente una sottovalutazione della
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figura che soffocherebbe l’effettiva consistenza della politica moderna. In realtà, la delazione foucaultiana della centralità dello Stato nella composizione della civilizzazione europea, nell’ambito di una critica complessiva degli assiomi della filosofia politica classica, fa dello Stato il problema cruciale di Foucault nel tornante di anni tra il 1978-‘79 (l’epoca dei due corsi dedicati alla biopolitica, Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica), al cui apice si consuma il naufragio dell’ambizione, implicitamente legata al progetto di una storia delle pratiche materiali di assoggettamento (la storia della governamentalità), di rintracciare un’altra figura del potere – puramente rivoluzionario – oltre a quelle contemplate dal costituzionalismo classico: potere costituente/potere costituito. Ribaltando il presupposto logico della dottrina hobbesiana dello Stato, Foucault dimostra che la natura umana è il tessuto fondamentale della politica moderna, sia per ciò che concerne lo sviluppo della sua storia istituzionale sia per la specificazione delle procedure di polizia che sorvegliano le forme di esistenza moderne. Il governo degli uomini, secondo Foucault, non è un episodio prodigioso che si genera con l’apparizione dello Stato, ma con la capacità di attivare una mediazione permanente tra la vita e l’autorità politica. Piuttosto che imbrigliata con la promessa del trionfo della sicurezza sociale, la natura umana diventa la fonte di legittimazione di qualsiasi potere e, al contempo, la trama di relazioni in grado di suscitare il bene comune. Non è il fondo oscuro da cui difendersi per fare emergere una razionalità di governo, ma, piuttosto, la posta in gioco che ne alimenta e condiziona il funzionamento. Lo smascheramento foucaultiano della polarità fittizia tra la natura e la politica moderna, evidentemente, scalfisce l’idea della persistenza di schemi teologici nell’ambito della costituzione moderna degli apparati destinati a regolamentare un territorio determinato: il sovrano allora è un esito della dinamica politica e non viceversa (più precisamente: il sistema giuridicoistituzionale e il dispositivo bio-politico di governo degli uomini convergono e si intersecano nella patina naturale dell’esistenza). Da questo gesto di contrapposizione a Hobbes si specifica il centro di gravità delle ricerche di Foucault negli anni settanta: il potere non è un fenomeno monolitico, ma ciò che innerva qualsiasi legame sociale, determinando una rete circolare di rapporti. Non è, in altri termini, un’entità trascendente che troverebbe nell’esercizio verticale dell’autorità la propria rappresentazione. Lo Stato non è una figura neutrale, ma il riverbero della qualità delle relazioni sociali. Il (non)luogo in cui una massa molteplice di rapporti di forze riconosce la propria coerenza, ma senza che ciò implichi una struttura generale di comando. La vicenda istituzionale della politica moderna non è un avvenimento che ruota intorno alla magica generazione dello Stato, ma un processo mul-
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tiforme di assorbimento nelle procedure del potere secolare delle tecniche pastorali di disciplinamento cristiano. Naturalmente non si tratta di uno svolgimento lineare, ma scavato da increspature, tagli, vicoli ciechi. Una di queste fenditure, in realtà, diventa una rottura radicale con il consolidarsi della ragione di governo liberale: se l’esercizio del potere pastorale mortifica la volontà individuale, in modo da concepire una condotta contrassegnata dall’obbedienza assoluta, presupposto basilare per una meticolosa direzione delle coscienze dei fedeli, tendenzialmente la ragione liberale auspica, invece, un’esibizione della volontà di tutti – e non solo del sovrano come pretenderebbe la congettura hobbesiana – formalmente senza limiti: è questa la disposizione fondamentale per infiammare un dispositivo di controllo totale in una società (formalmente) libera. Quando gli economisti liberali svelano il carattere produttivo delle passioni umane, si fa strada un inedito interrogativo: come rendere virtuosa un’arte di governo che deve provocare economicamente la libertà senza che ciò incoraggi trasformazioni politiche e sociali radicali? Il ragionamento sullo Stato fa parte di quei temi, quando si scandaglia la riformulazione foucaultiana delle categorie politiche classiche, di cui generalmente ci si sbarazza: rappresenterebbe un accumulo mito-teologico che va abbandonato per intraprendere una genealogia materiale del potere moderno. La questione, indubbiamente, andrebbe messa da parte quando si procede oltre Hobbes, cioè pensando “l’istanza materiale dell’assoggettamento”. Non enfatizzarne il problema significa, sostanzialmente, deontologizzarne la natura (vale a dire fare a meno di qualsiasi teoria dello Stato). Il logoramento del principio teologico-politico della sovranità si accompagna con la demitizzazione della sua figura. Comporta la fine dell’idea di Stato come apparato: si dissolve la vicenda di Dio in terra; le procedure istituzionali si inquadrano nel sistema di governo degli uomini. La visione governamentale del potere in Foucault implica l’infrazione concreta dell’immagine compatta dello Stato, la disgregazione della sua rappresentazione splendente. Ne denuncia, in breve, la valutazione meta-fisica e ne interpreta, piuttosto, la conformazione genealogica. In Foucault, in altre parole, lo Stato non è una realtà trascendente, sottratta dalla composizione dei rapporti di forza mondani e dissociata dalle figure che concretamente la sostanziano. La ragione governamentale lascia affiorare il suo fondo oscuro. La sua costituzione tutt’altro che evenemenziale. Lacera, con un’archeologia complessiva del potere, la narrazione della sua discontinuità rispetto all’ordine pre-moderno e in questo modo ne riqualifica il valore per l’architettonica politica senza, però, limitarne la funzione euristica. L’idea governamentale della deco-
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struzione e non della distruzione dello Stato conclude il corso Sécurité, territoire, population: La storia dello Stato deve potersi fare a partire dalla pratica degli uomini, a partire da ciò che fanno e dal modo in cui pensano. Lo Stato come maniera di fare, lo Stato come maniera di pensare, ritengo che non è, certamente, la sola possibilità di analisi che si ha se si vuole fare la storia dello Stato, ma è una possibilità sufficientemente feconda – fecondità legata, nel mio spirito, al fatto che tra il livello del micro-potere e il livello del macro-potere non esiste alcuna frattura: parlare del primo non significa escludere il secondo. In effetti, un’analisi in termini di micro-poteri rinvia senza alcuna difficoltà all’analisi dei problemi quali il governo e lo Stato.1
L’assetto governamentale è ciò che permette allo Stato di perdurare in una società molecolare, versatile, parcellizzata che non ne avrebbe sopportato l’attitudine assolutistica: «lo Stato forse non è che una realtà composita e un’astrazione mitizzata la cui importanza è molto più circoscritta di quel che si crede. Ciò che è importante per la nostra modernità, cioè per la nostra attualità, non è tanto la statalizzazione della società, piuttosto quella che chiamerei la “governamentalizzazione” dello Stato. Viviamo nell’era della governamentalità, che è stata scoperta nel XVIII secolo. Questa governamentalizzazione dello Stato è un fenomeno particolarmente complicato, perché se di fatto i problemi della governamentalità, le tecniche di governo sono diventati realmente la sola posta in gioco politica e il solo spazio concreto di lotta e di contesa politiche, la governamentalizzazione dello Stato è stata pur sempre il fenomeno che ha permesso allo stato di sopravvivere»2. Il potere pastorale traccia la soglia genealogica del tipo di pratica di governo che innerva di sé, tramite una rete di norme micro-fisiche, l’esistenza dello Stato. O meglio, lo Stato, più che per il completamento tra politica e diritto, si costituisce proprio con l’affinamento politico dei metodi pastorali: «lo Stato moderno nasce, ritengo, quando la governamentalità è effettivamente diventata una pratica politica calcolata e meditata».3 L’esame delle strategie materiali di governo degli uomini e dei punti di resistenza nei confronti del potere, dunque, non vuol dire mettere da parte la questione dello Stato. Al contrario: se il problema della popolazione non
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M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, p. 262. Ivi, p. 89. M. Foucault, «Omnes et singulatim», in Id., Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, p. 132.
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elimina quello della sovranità, ma addirittura lo rende più intenso, come ammette Foucault in Sicurezza, territorio, popolazione, a maggior ragione ciò accade con lo Stato. Concludere che Foucault, proprio ridimensionando la funzione dello Stato, lo assume come un nodo cruciale nell’ambito della sua documentazione delle forme di disciplinamento moderno però, in fondo, è un’osservazione quanto mai ovvia. Non giustifica di per sé infatti la valenza specifica che l’idea dello Stato governamentale ricopre in quanto vettore, da un lato, di uno scompaginamento della filosofia politica classica, ed inoltre, come soglia critica per la caratterizzazione del biopotere contemporaneo. In realtà, la questione riveste una valenza straordinaria perché è il terreno in cui si consuma un cambiamento improvviso della ricerca foucaultiana, quando, come sostiene Deleuze, Foucault cerca di andare «oltre il potere»4. Ma ancora, più in generale, è il luogo dove la svolta impolitica foucaultiana diventa esemplare di una crisi generale che si dischiude alla fine degli anni settanta con il collasso della capacità di presa analitica sul reale dei simboli della politica moderna – lo Stato, la classe, il partito, il sindacato ecc. – senza però, al contempo, l’emersione di nuove forme di organizzazione politica in grado di inibire la diffusione globale del governo neoliberale. L’‘ultimo’ Foucault è il nome proprio di una catastrofe quotidiana che attraversa le società iper-industrializzate: il tramonto di un progetto collettivo di modificazione radicale di ciò che è. Dà corpo, in altre parole, ad un’aporia che si dipana intorno all’ambiguità costitutiva dello Stato come asse problematico fondamentale della ‘convergenza anti-nomica’ tra teologia-politica e bio-politica: o si attende la decisione della democrazia di promuovere la propria difformità dalla mentalità liberale, prospettando una ricomposizione rivoluzionaria dei rapporti sociali; oppure si pensa un evento fuori la strutturazione classica della soggettività politica – che scandisce perciò una critica profonda della democrazia – ma non per questo misero di conseguenze (im)politiche. La decostruzione governamentale dello Stato va ricondotta innanzitutto all’inclinazione del metodo genealogico foucaultiano: non esistono a priori storici, ma qualsiasi fenomeno si coagula nel gioco delle relazioni del mondo; e dunque va auscultato nelle sue traiettorie di provenienza, sviluppando però, in modo da non cadere nella morsa dello storicismo, una radicale infedeltà verso l’idea di origine. Foucault, in questo modo, dimostra che lo Stato non è il cuore di un apparato anonimo e funzionale, ma soltanto 4
G. Deleuze, Un ritratto di Foucault, in Id., Pourparler 1972-1990, a cura di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 137-158.
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un connettore di procedure di disciplinamento; e tuttavia rimane un fattore logico-discorsivo essenziale dei dispositivi di potere; un elemento organizzativo fondamentale degli impianti di sorveglianza di polizia. Attualmente, ad esempio, non è né un soggetto che governa i processi generali della società globale, ma neanche un nome senza più alcuna rilevanza politica. Piuttosto, è un principio che collabora all’attuazione delle sofisticate tecniche di governo destinate a promuovere e tutelare le forme ibride dell’esistenza contemporanea. In effetti sostenere che lo Stato è ridotto a mero esecutore amministrativo, più o meno violento, di decisioni economico-politiche meditate ad un livello sovra-statuale, significa paradossalmente, nell’ottica foucaultiana, ricondurlo alla sua mansione effettiva: predisporre l’euritmia sociale attraverso l’amalgama di differenti dispositivi di controllo della popolazione (il regime della legge, della disciplina e della sicurezza). L’afasia del principio della sovranità corrisponde alla veridicità dello Stato nell’ambito dell’elaborazione concreta, al di là della sua generazione ideologica, delle tecniche di governo degli uomini. In questo senso si capisce perché diventa in Foucault una griglia di orientamento in grado di circoscrivere sia la fisionomia della nozione di biopolitica e sia di delineare la semantica del conflitto oggi. Se, come si dimostra in Nascita della biopolitica, il liberalismo non è tanto una teoria economica, ma una tecnica di governo degli uomini che adotta una prospettiva bio-politica (procede mediante dispositivi fondati sulla polarità libertà ovunque / controllo ovunque), evidentemente ciò che intralcia la diffusione dei principi del neoliberalismo novecentesco costituisce un’ostruzione al pieno dispiegamento del bio-potere democratico. Allora, schematizzando forse eccessivamente la questione: se il liberalismo corregge, delimitandola, l’autonomia politica dello Stato, uno dei baluardi contro l’estensione del bio-potere risulta, appunto, lo Stato: ne ostacola l’espansione, disarticolando, con un’ingerenza di carattere specificatamente politico, le gerarchie sociali determinate naturalmente dall’economia di mercato. Se per un verso lo Stato, intervenendo con una specifica politica dei diritti, indebolisce la conflittualità strutturale della società civile, in modo da frustrare qualsiasi insorgenza rivoluzionaria, d’altro canto, limita una condizione della governamentalità liberale: la diffusione sociale del rischio che comporta la regolamentazione individuale dei desideri, bisogni, interessi. In altri termini, lo Stato, per quanto governamentalizzato, permane lo spazio potenziale della conservazione di una mediazione/differenziazione tra la politica e la vita (una soglia di dissonanza tra il bio-potere e il corpo della popolazione), che seppure favorisce un’ingerenza acuta di tutela dell’esistenza degli uomini, non ne dispone però l’annessione totale
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nell’intreccio del potere5. In questo modo sarebbe la piega dove emerge in Foucault una discrepanza tra la democrazia – la parola-spettro della sua genealogia del moderno6 – e il liberalismo (ciò non significa che lo Stato non adotta misure biopolitiche – anzi, Foucault concepisce un’analogia tra la pastorale e lo Stato assistenziale novecentesco – , ma che la biopolitica non è la logica interna della sua esistenza7). E se ciò è vero, di conseguenza, si potrebbe pensare che in Foucault si presenta uno scarto, mai una volta e per tutto definito, e per nulla scontato nella ricezione successiva di questi temi, tra la democrazia e la logica del bio-potere. In questo orizzonte, allora, lo Stato disegnerebbe una forma di resistenza ad un tipo di governo che amalgama liberalismo e democrazia e coagula le differenze individuali in un regime puramente formale di uguaglianza. La sua strategia si oppone, infatti, all’intenzione di estendere a tutta le società il modello della produttività (la produzione nella società liberale non è semplicemente un fenomeno economico, ma politico; o meglio ancora: biopolitico). Foucault rileva che nella cultura neoliberale non esistono diritti sociali, ma si contempla soltanto un generale diritto naturale alla sopravvivenza e, specularmente, si lascia spazio ad un conflitto diffuso tra il potere e il singolo vivente. Il risultato a cui sembra giungere Foucault – lo Stato come punto di resistenza al biopotere – è, però, indubbiamente deludente. Registra peraltro 5
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La mentalità di governo statale, secondo Foucault, ha una vocazione sociale. È infatti la logica assistenziale novecentesca l’erede delle teorie della ragion di Stato elaborate nella prima età moderna per conseguire, insieme alla conservazione dello Stato, anche un altro obiettivo implicito: il benessere della popolazione. Altre forme di governo, invece, non sono omogenee con le pratiche statali. Ad esempio, il totalitarismo è l’esito del governo del partito. Lo Stato totalitario, in sostanza, non rappresenterebbe l’espansione incontrollata dell’apparato statale, ma, al contrario, la sua crisi; la manifestazione di un suo limite e non la sua espressione radicale (Nascita della biopolitica; lezione del 7 marzo 1979). Cfr. M. Russo, Nascita della popolazione. Note sul fantasma della democrazia, in A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, Mimesis, Milano 2007, pp. 71-97. È proprio la messa a punto del discorso sulla biopolitica, in relazione al problema dello Stato, la novità teorica delle lezioni del 1978. Se nel corso del 1976, “Bisogna difendere la società”, il nodo fondamentale è il processo di «statalizzazione del biologico» della politica moderna, con Sicurezza, territorio, popolazione l’epicentro problematico diventa, con un leggero ma significativo spostamento di accento teorico, ciò che si potrebbe chiamare la governamentalizzazione (liberale) del biologico: il bio-potere si rivela un esito del governo liberale.
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su un piano teorico quanto sta avvenendo alla fine degli anni settanta nelle società occidentali: la crisi delle socialdemocrazie e la dirompente avanzata politica del liberalismo. La risposta alla diffusione dell’egemonia dell’economia di mercato sarebbe la difesa dal valore progressivo delle politiche di Welfare, cioè la tutela sociale di una fetta di popolazione più ampia di quanto non facciano le strategie liberali. Innanzitutto, si potrebbe dire: la scoperta dell’acqua calda. Più seriamente, si tratta di un esito talmente insoddisfacente – lo Stato è il garante di alcuni diritti sociali nei confronti del mercato e diventa l’unico supporto delle contro-condotte nei confronti del dominio neoliberale contemporaneo – , interno com’è alla logica dell’assoggettamento moderno, da spingere Foucault a deviare la sua genealogica della politica moderna verso il tema della cura di sé nell’antichità classica. Un gesto di spiazzamento teorico per rinvenire inediti movimenti di soggettivazione capaci di segnalare località collocate fuori la trama della pastorale politica (sia nella versione debole – la declinazione assistenziale – o forte – l’economia sociale liberale) che dovrebbero stimolare figure di diserzione dalle maglie del governo liberale. Una torsione che si lascia alle spalle il dilemma della relazione tra il potere e le forme di resistenza, verificando la consistenza di una singolarità im-potente e perciò radicalmente estranea alle regole della subordinazione (bio)economico-politica. Un’occasione di soggettivazione, in altre parole, non provocata tramite un processo di assoggettamento.
2. Si tratta, a questo punto, di verificare sia la posizione precipua dello ‘Stato’ nella genealogia foucaultiana della politica moderna e sia il suo ruolo di intralcio alla diffusione economico-sociale del bio-potere liberale. “Il mistero dello Stato” in Foucault è a tal punto decisivo che, con il problema della popolazione, è quello che giustifica il progetto di setaccio dei meccanismi moderni di disciplinamento sociale: «perché voler studiare un campo in fondo inconsistente, vago, cui corrisponde una nozione tanto problematica e artificiale come quella di “governamentalità”? La mia risposta sarà, immediatamente e sicuramente, questa: per affrontare il problema dello Stato e della popolazione»8. La prospettiva governamentale è dunque correlata con la definizione dello Stato oltre l’architettura istituzionale dei 8
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 92. Sulla «questione ineluttabile dello Stato» in Foucault, vedi J. Pratschke, Stati di salute, stati di guerra. Dalla biopolitica al dibattito sullo Stato, in Biopolitica e democrazia, cit., pp. 221-250. Sull’argomento, cfr. anche il numero di “Actuel Marx”, 36, 2004 (Marx e Foucault).
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sistemi di governo; peraltro la questione della statalizzazione della società europea – la consistenza del processo di istituzionalizzazione di una sequenza variegata di pratiche del potere – appare il centro di gravità delle ricerche foucaultiane sin da quando si concepisce – a cavallo tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta – l’indagine sulla formazione moderna di un sapere specifico della follia umana. Dalla lezione del 31 gennaio del 1979 di Nascita della biopolitica: «che si trattasse della follia, della costituzione di questa categoria e di quella sorta di oggetto naturale che è la malattia mentale, che si trattasse dell’organizzazione di una medicina clinica, o dell’integrazione di meccanismi e tecnologie disciplinari all’interno del sistema penale, in ogni caso la ricerca consisteva sempre nell’individuazione della progressiva statalizzazione, certo frammentaria, ma comunque continua, di un certo numero di pratiche, di maniere di fare e, se volete, di modi di governamentalità. Il problema della statalizzazione è al cuore stesso delle questioni che ho cercato di porre»9. La posizione nucleare dello Stato nell’impianto storico-archeologico foucaultiano, d’altronde, è ribadito anche dalla struttura d’insieme che sorregge le lezioni del 1978 al Collège; si propone infatti un’analogia tra il tema della statualità e lo sguardo gettato dietro le quinte delle strategie procedurali dei metodi di controllo moderni: la nozione di governamentalità si relaziona allo Stato come la segregazione alla psichiatria; le tecniche disciplinari al sistema penale; la biopolitica alle istituzioni mediche.10 Lo Stato è il principio e il fine della ragione governamentale. È l’esito di un’arte di governo politica; dunque, secondo Foucault, che rovescia la logica hobbesiana, la politica precede lo Stato e non viceversa. Si sviluppa come un’«idea regolatrice»: «nel pensiero politico che ricercava la razionalità di un’arte di governo, lo Stato è innanzitutto un principio di intelligibilità del reale, una certa maniera di pensare quelli che erano, nella loro natura e nei loro rapporti, una serie di elementi e di istituzioni già esistenti»11. Lo Stato è un principio discorsivo-procedurale per nominare-razionalizzareorganizzare una catena di elementi che preesistono alla sua costituzione. E, al contempo, si rivela anche un obiettivo che rende coerente una gamma molteplice di attività nel dominio della definizione extra-religiosa del disciplinamento sociale. Uno schema quindi esplicativo per valutare ciò che è; ma, al contempo, una griglia problematica per valutare ciò che deve essere. 9 10 11
M. Foucault, Nascita della biopolitica, a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 75-76. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 96. Ivi, p. 206.
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Lo Stato, più che una realtà politica concreta, secondo Foucault, è il nome della coagulazione di una serie di vettori di forza; la sintesi eccellente dei metodi con cui si anima il controllo sociale. In pratica, non esiste. È un’immagine politico-epistemologica per raccogliere l’evoluzione sociale, economica, istituzionale, culturale dell’Occidente. Se lo Stato non esiste, esiste, però, un discorso sullo Stato: una conoscenza specifica – la scienza politica moderna – di come si governano gli uomini garantendo la conservazione del potere (Foucault, notoriamente, affronta l’enigma dello Stato esplorando le analisi elaborate non appena il tema affiora come oggetto distinto di riflessione alla fine del XVI secolo nella dottrina della ragion di Stato). Non esiste una struttura coesa in cui risiede il centro unico del comando politico. Né una sostanza separata dalla massa rovente della società. Attenzione però: sostenere che lo Stato non esiste, è un ridimensionamento del suo spessore apparente; infatti significa, in un gioco tutt’altro che innocente da parte di Foucault, tutelarne l’immagine, salvaguardarne, nell’epoca della crisi della sovranità, quella in cui Foucault pensa e scrive, la sussistenza (non sopravvalutare il problema dello Stato quindi vuol dire, di fatto, custodirne la persistenza nello spazio delle tecniche che promettono la coesione sociale senza affidarsi agli effetti di veridicità stabiliti dai parametri dell’economia di mercato). Svalutare la storia istituzionale della politica moderna, esplorando i meccanismi concreti del governo degli uomini, disinnesca l’argomento capitale della critica liberale al dispositivo di governo statale: secondo la strategia governamentale, «lo Stato non è nella storia quella specie di mostro freddo che non ha cessato di crescere e di svilupparsi come una sorta di organismo minaccia dall’alto una società civile. Si tratta di mostrare come una società civile, o più semplicemente come una società governamentalizzata a partire dal XVI secolo ha messo in piedi qualcosa insieme di fragile, al tempo stesso ossessivo, che si chiama Stato»12. Se in Hegel – il modello compiuto dell’astrazione moderna della statualità: la verità coincide con la sintesi del reale predisposta dal potere politico – , la scienza dello Stato si legittima pensando lo «Stato come cosa razionale in sé» in quanto «realtà dell’idea etica», la prestazione foucaultiana – che si avvale senza dubbio della classica critica di Marx alla filosofia del diritto di Hegel – rintraccia la valenza ideologica di qualsiasi 12
Ivi, p. 183. Foucault, peraltro, non incalza soltanto la prospettiva liberale, ma anche la concezione marxista in cui lo Stato incarnerebbe una serie di funzioni (lo sviluppo delle forze produttive; la riproduzione dei rapporti sociali) che solo apparentemente ne riducono la posizione carismatica (cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 88).
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ipostatizzazione meta-fisica dello Stato, squalificando qualsiasi dottrina generale impegnata nella sua divinizzazione. Ciò comporta, specularmente, la destituzione di valore di qualsiasi giudizio disposto ad accogliere, come corno polemico del proprio discorso, l’architettura della filosofia politica di Hobbes e Hegel, mirando, dopo la dismissione della legittimità del politico, alla sua annessione da parte dell’economia. La figura rigida dello Stato, sintesi globale e ideale dei bisogni individuali, secondo Foucault, è enfatizzata, meglio essere chiari, più che dai fautori della statualità, dai suoi critici. Allora, se questo è vero, non è azzardato sostenere che forse con nessun altro interrogativo teorico come quello dello Stato la ‘situazione presente’ condiziona l’inclinazione delle ricerche foucaultiane degli anni settanta, materializzando la sua intenzione di prospettare un’ontologia dell’attualità. Ipotesi confermata quando Foucault legittima l’inattesa piega delle sue lezioni del 1979 – rivolte allo studio del neoliberalismo tedesco – proprio con il problema dello Stato e l’aggressione concentrica a cui è sottoposto (svalutazione che individua nell’analisi degli economisti liberali tedeschi del primo Novecento un antecedente eloquente e ragione per cui vale la pena esaminarne i principi dottrinali). Critica che si manifesterebbe con un discorso apparentemente oggettivo teso a propagare una generale «fobia di Stato» che, peraltro, non riguarda soltanto la prospettiva strettamente neoliberale. Foucault, infatti, prende le distanze anche da chi, pur sostenendo una posizione ostile rispetto all’economia di mercato, è incapace di cogliere la transizione verso il dominio della governamentalità liberale: «Credo [...] che si debba evitare di immaginare che, nel momento in cui si denuncia la statalizzazione o la fascistizzazione, o l’instaurazione di una violenza statale, e così via, si stia descrivendo un processo reale, attuale, che ci riguarda direttamente. Tutti coloro che partecipano alla grande fobia di Stato, che almeno sappiano che stanno andando nel senso della corrente e che, in effetti, un po’ dappertutto e da anni si annuncia una reale diminuzione dello Stato, della statalizzazione e della governamentalità statalizzante e statalizzata».13 Foucault mina il volto neutrale e mitico dello Stato. Frantuma la sua collocazione metafisica, la sua posizione immacolata ed indipendente («lo Stato non ha essenza. Lo Stato non è un universale, lo Stato non è una fonte autonoma di potere»14). Lo sforzo foucaultiano è diretto all’introduzione della questione all’interno di una storia più ampia e composita: «non si può parlare delle Stato-cosa come si trattasse di un essere che trae origine da se stesso e si impone per un meccanismo spontaneo, 13 14
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 159. Ivi, p. 79.
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come automatico, agli individui. Lo Stato è una pratica. Lo Stato non può essere dissociato dall’insieme delle pratiche che lo hanno fatto divenire effettivamente una maniera di governare, una maniera di fare»15. Vagliare la dinamica dello Stato non comporta la presupposizione della sua figura mediante un’astrazione filosofica-politica-giuridica, ma significa indagarne l’effettiva fisionomia e disseminazione governamentale. Esclusivamente considerando la sua pastorizzazione, ovvero rinunciando ad una definizione esclusivamente istituzionale delle pratiche di governo, si apprezza la specifica assicurazione sociale prodotta dal potere moderno: generare l’ordine dal disordine essenziale alla crescita del capitalismo. Nell’età dello scardinamento della sua potenza sociale, all’ombra di un lungo periodo di riflessioni dell’usura della sovranità, Foucault valuta la reale consistenza dello Stato attraverso l’anamnesi della sua formazione concreta. Si dà ragione della sua configurazione tangibile giacché la sua immagine iperbolica non riesce, in definitiva, a giustificare la conformazione – caotica socialmente e docile politicamente – della popolazione occidentale. Il discorso foucaultiano sullo Stato si rivela dunque, almeno per un verso, una critica ai suoi critici. Un modo per liquidare l’impronta fondamentale che domina la politica liberale: la paura dello Stato (sentimento che, come vedremo, provoca la prestazione essenziale dell’arte di governo liberale: la voglia di essere governati). Un’esaltazione retorica dello smarrimento sociale che poggia sull’idea che lo Stato sia destinato ad inglobare ciò che è altro da sé: la società civile. Rappresentazione, d’altronde, che alimenterebbe un ulteriore pregiudizio: la costituzione di un legame intrinseco – una ‘linearità evolutiva fatale’ – tra diversi modelli di Stato: quello amministrativo, assistenziale, totalitario. Eludere questa sedimentazione di luoghi comuni nell’ordine del discorso politico, allora, si rivela una causa dell’analisi foucaultiana del liberalismo. Foucault si incarica di un compito scientificamente elementare ma culturalmente delicato: scomporre la tassonomia politica liberale che compara l’esperienza dei regimi totalitari con quella dello Stato sociale. Prospetta, in questo senso, un vero e proprio schema di orientamento polemico nei confronti della filosofia politica del Novecento che, elevando la democrazia liberale a valore, considera qualsiasi altra forma di governo – anche di matrice democratica – sostanzialmente totalitaria. L’idea di una compattezza evolutiva delle forme diverse di Stato comporta:
15
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 203.
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1. l’intercambiabilità delle analisi. La parentela genetica tra le costituzioni di Stati permette che «un’analisi della sicurezza sociale e dell’apparato amministrativo su cui questa si fonda finirà col rimandare, grazie a qualche slittamento e giocando su qualche parola, all’analisi dei campi di concentramento». 2. «Svalutazione generale in direzione del peggio. Infatti, qualunque sia l’oggetto dell’analisi, qualunque sia la sua tenuità, la sua esiguità, qualunque sia il funzionamento reale dell’oggetto dell’analisi, sarà sempre possibile riportarlo, in nome di un dinamismo intrinseco dello Stato e in nome delle forme estreme che tale dinamismo può assumere, a qualcosa che rappresenterà il peggio». 3. «Il terzo meccanismo inflazionistico che mi sembra caratterizzare questo tipo di analisi è costituito dal fatto che esse permettono di evitare di pagare il prezzo del reale e dell’attuale, dal momento che, in nome del dinamismo dello stato, si può sempre ritrovare qualcosa di simile a una parentela o a un pericolo, qualcosa come il grande fantasma dello Stato paranoico. In questo senso, non ha molta importanza alla fine quale presa si riesca ad avere sul reale o quale profilo di attualità il reale presenti. È sufficiente ritrovare, attraverso la strada del sospetto [...] qualcosa come il profilo fantasmatico dello Stato, per non avere più bisogno di analizzare la realtà».16 Il senso dell’impresa della storia della governamentalità nei due corsi al Collège del 1978-‘79 si presenta, se osservata dall’ascesa socio-politica dell’economia di mercato, un tentativo di disarticolare la critica liberale dello Stato che si alimenta della sua descrizione come terrificante Leviatano. Nelle considerazioni conclusive dell’ultima lezione del 1978, ricapitolando l’orizzonte complessivo del ragionamento sull’assetto materiale del potere moderno, l’intenzione foucaultiana diventa trasparente: «vedete che si può perfettamente fare la genealogia dello Stato moderno e dei suoi apparati senza partire da una ontologia circolare dello Stato, come si dice spesso, che si autoafferma e cresce come un grande mostro o macchina automatica. Si può fare la genealogia dello Stato moderno e dei suoi differenti apparati a partire da una storia della ragione governamentale. 16
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 155-156. Foucault, dunque, lavora alla decomposizione dell’idea neoliberale che assimila lo Stato sociale e quello totalitario: «lo Stato assistenziale, lo Stato del benessere, non ha la stessa forma né, mi sembra, la stessa matrice, la stessa origine dello Stato totalitario, dello Stato nazista, fascista o stalinista» (ivi, p. 158).
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Società, economia, popolazione, sicurezza, libertà: sono gli elementi della nuova governamentalità di cui conosciamo, penso, ancora oggi le forme attraverso le sue trasformazioni contemporanee»17. Lo Stato demarca una specifica maniera di governare e non un apparato che riverbera una tensione teologico-politica assoluta. In effetti, si sviluppa qui l’idea che la coincidenza tra lo Stato e il principio di sovranità non è una combinazione di origine giuridica, ma un sistema di meccanismi, regole, discorsi garantito non dalla legge, ma dall’acquisizione di un sapere capillare sulla natura di ciò che si governa: è la conoscenza delle pulsioni e tensioni degli uomini a motivare l’instaurazione del (bio)potere contemporaneo.
3. Per valutare adeguatamente il peso del problema dello Stato nelle lezioni del 1978 e del 1979, è necessario esaminare la posizione di ciò che tradizionalmente rappresenta una sfida per qualsiasi potere, ma che nell’impianto generale della storia della governamentalità ha un ruolo eterodosso: il «desiderio». In una conversazione avvenuta in Giappone, il 25 aprile 1978 (a tre settimane dunque dalla conclusione del corso su Sicurezza, territorio, popolazione), oltre a confermare l’interesse per la questione dello Stato, Foucault introduce un elemento ulteriore. In riferimento al lavoro appena concluso al Collège: porto avanti «un corso sulla formazione dello Stato nel quale analizzo quelle che potremmo definire le basi dei mezzi di realizzazione statuale, in Occidente, in un periodo che va dal XVI al XVII secolo [...]. Nel corso di tale analisi ho finito per andare a cozzare contro una dimensione enigmatica che ritengo non possa più essere risolta attraverso una semplice analisi dei rapporti economici, istituzionali o culturali. Si tratta di quella specie di irresistibile anelito che spinge a volgersi verso lo Stato. Si potrebbe parlare di desiderio di Stato»18. Il «desiderio di Stato» – o «volontà» di Stato, come anche Foucault definisce questa disposizione – è una specifica tensione antropologica indotta dal liberalismo in quanto tecnica di governo che produce una valutazione negativa dello Stato: si tratta di concepire un vuoto di legittimazione politica e, simultaneamente, di sgomento sociale in modo da incoraggiare una declinazione del governo degli uomini come
17 18
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 258-259. M. Foucault, Metodologia per la conoscenza del mondo: come sbarazzarsi del marxismo, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 267.
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strumento di sorveglianza della popolazione19. La logica interna della democrazia liberale si radica in una volontà di sicurezza generalizzata, che si risolve in una vigilanza permanente dell’esistenza dei governati (la posta in gioco è la provocazione di una volontà che reclama di essere intensamente governata-rassicurata-ispezionata): «Desiderio di Stato» è una formula che definisce l’auto-produzione sociale del controllo. Prima però di esplorare la valenza di questa misura – il desiderio di Stato –, occorre rintracciare lo spessore del desiderio in quanto tale nell’economia di pensiero di Foucault, tenendo presente che, per quanto designi un principio cruciale per il senso complessivo delle analisi sul dispositivo biopolitico di sicurezza, rimane un fenomeno esaminato fuggevolmente nella riflessione pubblica foucaultiana. Nel cosmo delle variabili che compongono i lineamenti della popolazione – il clima, l’igiene, la circolazione della ricchezza, ecc. – , un soggetto oscuro per l’occhio remoto della legge del sovrano (non risponde alla logica dell’obbedienza: «il rapporto popolazione-sovrano non può essere ridotto a una pura funzione di obbedienza o, al contrario, di rivolta»20), e perciò tendenzialmente ostile all’ordine politico precedente la messa a punto delle tecniche dell’economia-politica, affiora una costante in grado di fornire un criterio all’addomesticamento sociale: il «desiderio». L’imprevedibilità anomica della società moderna rischia di corrodere qualsiasi potere costituito se non permanesse «un’invariante a far sì che, presa nel suo insieme, la popolazione disponga di un unico motore dell’azione: il desiderio [...]. Il desiderio è ciò in base a cui ogni individuo agisce. Desiderio contro il quale non si può nulla»21. Se il principio che domina la società civile è il libero 19 20 21
Il bersaglio principale del corso del 1978 è proprio il nesso tra tecniche di sicurezza e popolazione (cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 21). Ivi, p. 62. Ivi, p. 63. La prospettiva foucaultiana della consistenza economico-politica del desiderio è provocata, non c’è dubbio, dalla concettualizzazione elaborata – con Guattari – da Deleuze. In Deleuze il desiderio, notoriamente, non condensa un fenomeno naturale, ma è un evento in grado di lacerare qualsiasi politica repressiva, e seppure costituisce la sede dell’ingerenza del potere nella singolarità, di provocare infinite vie di fuga. È un eccesso nei confronti della linearità calcolante del potere; un flusso spersonalizzante in grado di concatenare le forme della produzione sociale. In Foucault, invece, costituisce il fondo dell’esercizio del bio-potere; coagula la soglia naturale mediante la quale si ordinano socialmente le azioni umane. È una falda in cui natura e cultura, individuo e popolazione, si fondano nella piena indeterminazione reciproca. In una serie di appunti scritti nel 1977, e consegnati a Foucault da François Ewald, Deleuze interviene direttamente sulla questione: «l’ultima
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sviluppo dell’interesse personale, diventa cruciale stabilire un ordine che si istituisca prima del dispiegamento sociale del proprio utile, in modo da tutelare la comunità dal flusso potenzialmente sedizioso delle passioni. In una realtà multiforme come quella moderna diventa insostenibile una repressione delle aspirazioni individuali senza minacciare la legittimità del potere che si alimenta con la produzione ininterrotta di ricchezza. La prescrizione disciplinare non si affida ad una regolamentazione sociale, ma naturale: si interviene direttamente sul vivente, condizionandone sogni, aspirazioni, angosce (in altre parole, la tecnica politica liberale è virtuosa se genera desideri sociali con la consistenza di un’esigenza naturale). Il desiderio, dunque, è all’origine di un processo di sorveglianza della vita immanente alla vita stessa. Ribaltando la logica della ragion di Stato, dove la «necessità» è un principio che tutela la conservazione del pubblico potere, nella logica liberale ciò che risulta incondizionato, rispetto a qualsiasi altra dimensione sociale, è l’interesse individuale. Tradizionalmente l’insorgenza del potere ha una ragione negativa: si rimettono ad un’entità superiore patrizia, che garantisce la sicurezza personale, alcuni diritti naturali; ovvero si è meno liberi, ma più protetti. Nella società liberale, al contrario, vivere vuol dire non concedere formalmente nulla di sé all’interesse generale. La preminenza assoluta dell’interesse personale, e la sua irriducibilità all’artificio giuridico del contratto, allora, impone a chi governa di favorire una condizione in cui l’utile particolare coincide con il beneficio-profitto universale. L’economiasociale liberale, sia chiaro, non decreta la fine della politica, ma la sua subordinazione alla razionalità del mercato (i teorici neoliberali avversano la regolamentazione politica del mercato, progettando il suo primato sociale: volta che ci siamo visti, Michel mi ha detto più o meno, con molta gentilezza e affetto: non posso sopportare la parola desiderio, anche se voi la impiegate in un altro modo, non posso evitare di pensare o di vivere il “desiderio = mancanza”, dove il desiderio si dice represso» (G. Deleuze, Desiderio e piacere, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di U. Fadini, Ombre Corte, Verona 2002, p. 83). Non ha senso adesso qui andare oltre, resta però da notare come Deleuze, con la formulazione eversiva e sociale della macchina desiderante, sia significativamente interno, seppure con un rovesciamento speculare della valutazione, alla visione classica che considera distruttivo il desiderio per il politico. Rimanendo perciò tangenziale, almeno ne L’anti-Edipo, alla compenetrazione tra economia e politica, ovvero alla fine dell’epoca del soffocamento politico del desiderio. In ogni caso, la posta in gioco di questo confronto rimane notevole. Non riguarda infatti esclusivamente una pur rilevante opzione di ordine teorico, ma interroga la qualità dell’azione politica e, in particolare, il tipo di relazione che il fuori mantiene con le istituzioni.
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«uno Stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato»22). Il mercato, in quanto fonte della relazione tra il prezzo e il valore della merce, si presenta come generatore di una verità a cui il governo politico deve ineluttabilmente sottostare per non opporsi alla natura e svelarsi perciò dispotico e illegittimo: «è il meccanismo naturale del mercato, insieme alla formazione di un prezzo naturale, a permettere di falsificare e di verificare la pratica di governo, qualora si valuti sulla base di questi elementi ciò che il governo fa, i provvedimenti che adotta, le regole che impone. Il mercato, consentendo nello scambio di collegare fra loro la produzione, il bisogno, l’offerta, la domanda, il valore, il prezzo e così via, costituisce in questo senso un luogo di veridizione, cioè un luogo di verifica-falsificazione per la pratica di governo»23. In questo orizzonte economico-politico fiorisce un quesito specifico della cultura liberale: l’utilità o meno del governo politico. L’abisso di qualsiasi filosofia politica, il buco nero della costituzione del potere, nel regime liberale non soltanto è reso inoffensivo politicamente, ma circoscrive la base di legittimità del bio-potere (la fonte della sua legalità). Governare e non reprimere il caos è la prestazione essenziale del liberalismo e il motivo della sua ostilità nei confronti dello Stato (che disegnerebbe, invece, il modello politico della liquidazione della volontà di ciascuno). La ragione di governo moderna produce un deposito naturale che fornisce, nell’universo delle differenze, un criterio di riferimento per la direzione degli uomini: il desiderio. Il desiderio, nel cosmo liberale delle passioni economiche, non è una pulsione fuori controllo, ma diventa la logica comune di condotte potenzialmente discordanti tra soggetti che non hanno nulla in comune: il loro essere-sociale è frantumato dall’esercizio dell’interesse privato e, quindi, dalla paura. Nel liberalismo, in altre parole, le passioni non sono immediatamente sociali, ma lo diventano perché sono normate dall’attivazione di congegni governamentali. Il desiderio è l’esito di ponderate strategie di governo, le quali però, a loro volta, sono influenzate dalla dinamica desiderante (il dispositivo della sicurezza è poroso: produce il desiderio e, al contempo, si scompone e ricostituisce secondo la formazione degli appetiti individuali). Le tecniche di sicurezza liberali rincorrono la strategia del paradosso della paura: isolano l’individuo dal tumulto sociale per assicurare la sua protezione; ma più l’individuo è isolato e più è lontano da una struttura efficiente di sorveglianza. Allora, si produce un circolo potenzialmente infinito in cui si elaborano dispositivi di sicurezza più sofisticati e parcellizzati (la situa22 23
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 108. Ivi, p. 39.
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zione ideale e paranoica al contempo della società contemporanea: essere sorvegliati per tutelare la propria privacy/libertà). La società fondata sulla libertà di tutti non può permettersi di escludere nessuno: nessun fuori che impedisca lo sviluppo virtuoso della polarità libertà/sicurezza; si tratta di assimilare tutto nel meccanismo governamentale in modo che tutto sia analiticamente tenuto d’occhio. Se lo scatenamento del desiderio non permette, in una realtà fondata sulla divisione del lavoro, una repressione sociale della sua carica destabilizzante, diventa fondamentale condizionarli alla radice, quando sbocciano nell’interiorità: il (bio)potere liberale è tale se calcola la qualità, la misura, l’intensità dei desideri, favorendo l’integrazione tra l’individuo e la folla, tra la persona e la popolazione. In questo modo uno sono tutti e tutti sono uno: la volontà individuale, mediante l’articolazione delle tecnologie della ragione governamentale, combacia con la ricchezza della comunità (natura e società si cannibalizzano vicendevolmente). È in fondo singolare che la pietra angolare dell’intero discorso foucaultiano sulla biopolitica, il fattore che risolve e compie l’architettura della storia della governamentalità – la logica del desiderio – sia discussa pubblicamente in una sezione della lezione del 25 gennaio del 1978. È vero che il materiale presentato da Foucault nelle sue lezioni, generalmente, si presenta ad uno stadio, per quanto ricco di suggestioni ed innovazioni teoriche, ancora parziale di sedimentazione concettuale ed elaborazione espositiva. Ma è altrettanto vero che in altre occasioni al Collège Foucault espone in maniera minuziosa ed esauriente la filettatura di un concetto rilevante per l’economia del suo discorso, sprigionando la sua intelligenza genealogica con una determinazione straordinaria. Inoltre, appare sorprendente questa reticenza foucaultiana se si pensa, anche solo in termini generali, quale sia dalla fine degli anni sessanta il rilievo della piega del discorso politico sul desiderio che, in particolare tramite una lettura innovativa dell’Etica di Spinoza, diventa un dispositivo sensibile di definizione di un’inedita ontologia politica (vedi, soltanto per citare un caso esemplare nell’ampio spettro di titoli, due celebri lavori di Deleuze che possono essere adottati come l’alfa e l’omega di questo vero e proprio evento filosofico e politico: Spinoza e il problema dell’espressione, 1968; e Spinoza. Filosofia pratica, 1981). Ma forse, a pensarci bene, proprio il peso concettuale assunto dal desiderio dopo il ‘68, soggetto dall’incandescente valenza teorica e politica, impone a Foucault, quando la sua analisi è ancora acerba, una sorta di discrezione genealogica. Tuttavia questa riluttanza si riverbera nell’intelaiatura generale del discorso sul desiderio che oscilla tra una prospettiva classica, legata alla logica naturale e spontanea del desiderio in quanto mancanza di essere (de-esse), ed una, invece, più complessa, che ne fa il vettore di
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ibridazione tra natura e cultura e dunque il garante dello slittamento tendenziale dal governo della sovranità e del popolo al dispositivo biopolitico della sicurezza (non è peraltro esagerato pensare che Foucault in Sicurezza, territorio, popolazione decripti il nocciolo essenziale dello spirito liberale messo poi alla prova negli ultimi trent’anni in numerose ricerche in diversi campi disciplinari: la libertà economica e la filosofia sociale del consumo è una pratica di assoggettamento impercettibile e ubiqua; e perciò oggi siamo sorvegliati più intensamente che in qualsiasi altro momento quando confidiamo nel pieno controllo delle nostre deliberazioni personali: quando siamo dei consumatori). Se per un verso l’analisi del desiderio in Foucault appare nel corso del ’78 ancora in una fase embrionale di gestazione, in realtà, questo giudizio è vero solo in parte. Provo a spiegarmi: che il nucleo fondamentale delle lezioni di Nascita della biopolitica – il corso di lezioni dove Foucault maneggia con una certa prudenza il repertorio concettuale dell’economiapolitica – presenti le dottrine degli ordoliberali tedeschi che governano la Germania federale dopo la seconda guerra mondiale, impiegando le conoscenze dell’economia sociale di mercato, senza rinunciare, al contrario del liberalismo classico, ad uno specifico intervento dello Stato, non riguarda, in fondo, la collocazione naturale del desiderio nelle società europea a capitalismo avanzato? È possibile in effetti pensare che il senso dello scandaglio dei principi neoliberali – in primo luogo: la legittimità dello Stato è fondata sulla libertà economica – , giustificato apertamente come il presupposto eziologico per esplorare la nozione di biopolitica, rispecchi l’intenzione di tastare un evento senza precedenti nella storia: un’immensa e libera invocazione di cura, protezione, controllo, governo dell’esistenza. Dunque, il nesso da sondare, ammessa la complicità tra il discorso sul desiderio in Sicurezza, territorio, popolazione e la descrizione della dottrina del neoliberalismo tedesco in Nascita della biopolitica, è quello che passa tra il desiderio, nell’ambito del liberalismo classico (Foucault in questo caso studia l’opera dei Fisiocratici, ed in particolare quella di François Quesnay sul governo economico), e la potenza dell’interesse individuale in età contemporanea. Ed è, in fondo, proprio alla luce di questa «dimensione enigmatica» – il desiderio di essere governati – , che si ricava la diversa inclinazione di Nascita della biopolitica rispetto al corso dell’anno precedente: non si approfondisce più la cogenza materiale del potere, ma si valuta la natura (economica) della libertà moderna. In altre parole, si concentra l’analisi sulla produzione, consumo e godimento del desiderio. Il bio-potere non disciplina il desiderio, ma lo crea. E perciò è in grado di controllare un fenomeno, formalmente, incontrollabile. Nel coacervo
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caotico e molecolare della socialità moderna, l’ordine si stabilisce generando la fonte potenziale del disordine come vettore di stabilità permanente: la natura è la tecnica essenziale del governo (bio)economico-politico. La sua gestione antropologico-politica è la garanzia dell’ordine in una società fondata sulla divisione del lavoro: un sistema di legami che, assicurando l’indefinita espansione del valore del capitale, dovrebbe però concepire un’instabilità politica esplosiva. Governare l’ingovernabile, senza reprimerlo, ma nutrendone la forza pre-sociale, è, secondo Foucault, la prestazione specifica del bio-potere per cristallizzare i rapporti di forza sociali. La complessità multiforme delle aspirazioni della popolazione costituisce la natura versatile del bio-potere: non è astratto e distante come quello giuridico, ma gassoso, penetrante, plurale. Il liberalismo, in effetti, coagulando socialmente le molteplici inclinazioni della volontà individuale, evita che nel corpo della popolazione affiori una parte che, al contempo, è dentro e contro di essa (quella che soffre maggiormente la divisione del lavoro amministrata e portata avanti dal capitale attraverso un monitoraggio totale dell’esistenza), turbi la produzione economico-politica fondata su una determinata gerarchia sociale ed economica. Il desiderio, in quanto vettore solo apparentemente naturale, ma in realtà inserito in una rete di controllo tecnologico-politico, non è più la promessa dell’instabilità del politico; rappresenta, al contrario, la sua fonte di legittimazione. Il liberalismo ne asseconda la metamorfosi permanente; ne favorisce e vaglia l’evoluzione, istituendo una situazione sociale temperata al cospetto di una tensione, quella desiderante, potenzialmente distruttiva. Ampliare a dismisura la mappa dei desideri, provocare in maniera indefinita e indistinta un nugolo incondizionato di differenze, è la garanzia dello sviluppo del mercato e, dunque, la sua disposizione di garante dell’omologazione socio-politica. Nel regime di sicurezza liberale non è un moto spontaneo ed incommensurabile; il desiderio è l’esito di una concatenazione affilata di tecniche di governo dal carattere essenzialmente extragiuridico (la prestazione fondamentale della ragione di governo liberale consiste nella cristallizzazione economica del desiderio, disattivando la sua potenziale carica politica). Desiderare nella società del consumo di libertà, in effetti, significa essere individuati. Il desiderio è la sintesi delle facoltà generiche dell’uomo integrate nel processo di produzione immateriale come destino tendenziale della società liberale. La proliferazione moderna dei bisogni impone un’intesa tra demografia e produzione che ha il proprio punto di equilibrio nella riconversione sociale delle aspirazioni individuali: la popolazione è tale quando desideraconsuma per lo più le stesse cose. Sulla cura del desiderio – il suo addome-
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sticamento preventivo – allora si gioca la più radicale distanza tra la logica della sovranità moderna e l’azione del bio-potere. Nel primo caso, sulla scia di una tradizione secolare, domina una razionalità negativa: l’aspirazione individuale va delusa se non si concilia con le intenzioni di chi governa. La dinamica sociale si definisce con l’antitesi tra chi governa e chi obbedisce giacché le passioni rappresenterebbero di per sé una minaccia permanente per la solidità del potere costituito. Il sovrano ostacola l’espressione del desiderio perché, in fondo, questa è la natura e l’opera della legge: incede mediante sanzioni. Con il bio-potere si tratta, al contrario, di agevolarne ed alimentarne la manifestazione; di rintracciare la corrispondenza più adatta tra il suo sviluppo e gli interessi di chi governa, ossia di inalvearne la tensione a favore della coesione della comunità: «il sovrano è colui che è capace di dire “no” al desiderio di un individuo. Il problema è capire come questo “no” al desiderio di un individuo possa essere legittimato e fondato sulla volontà stessa degli individui»24. Se la teoria politica, sin da Platone, si preoccupa di depotenziare la volontà individuale per garantire la coesione della collettività, uniformando le differenze, neutralizzandone la carica eversiva e placandone la virulenza pleonaxica, con l’espansione dell’economia di mercato, al contrario, va incalzata in quanto costituisce, come moltiplicatore di dissonanze sociali, la chiave per favorire un intervento normalizzatore che non punta a sedare le passioni multiformi della popolazione, ma a condizionare in senso governamentale direttamente la natura della natura umana. L’ambizione desiderante è ciò che muove la società, la trasforma e ricompone. Questo movimento pretende però, proprio per potersi consumare, un’azione di ispezione che ne custodisca la persistenza. Se l’autorità sovrana della legge ne argina violentemente la dilatazione, la prospettiva foucaultiana – in particolare con gli studi sulla storia della sessualità: il luogo d’elezione dell’intersezione tra disciplina del corpo e controllo della popolazione – rivela l’inconsistenza di un tema classico della filosofia politica nell’ambito della relazione tra governanti e 24
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 64. Foucault nelle lezioni al Collège del 1975, Gli anormali, verifica che l’«anomalia» è il veicolo in grado di promuovere un intervento medico-pedagogico sugli istinti, e quindi un investimento, mediante «una nuova anatomia del corpo», del desiderio (il desiderio descriverebbe in questo modo una «fisiologia morale della carne»). Solo con il XVIII secolo il carattere penitenziale del desiderio, però, con l’inclinazione ‘pubblica’ dell’economia, si incontra con la (bio)politica, stimolando «la disciplina del corpo utile» (M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2002, p. 173).
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governati: la repressione è soltanto una procedura accessoria della ragione liberale che amministra il desiderio. Promuovendo una serie specifica di relazioni, intervenendo in maniera prudente, ma in modo duraturo, frequentando le pulsazioni sociali dei governati, il desiderio è ciò che «produrrà al massimo l’interesse generale della popolazione»25. Descrivendo la strategia più sottile del liberalismo, Foucault individua nel commercio del desiderio (la dialettica tra spontaneità e routine) la costante che, imponendo una normatività naturale dinamica, (dis)attiva la prepotenza della volontà individuale e fornisce le coordinate per la persistenza di un’adeguata azione di governo: «produzione dell’interesse collettivo mediante il gioco del desiderio: ecco ciò che contraddistingue la naturalità della popolazione e la possibile artificialità dei mezzi per gestirla»26. Lo strato duraturo – il desiderio – di ciò che naturalmente varia – la popolazione – è il cuneo che permette di immaginare la persistenza di una natura umana su cui calibrare la logica governamentale in una società in costante trasformazione. Ma, sia ben chiaro, la «naturalità della popolazione», secondo l’economia liberale, non ha nulla di naturale: È [...] una naturalità diversa da quella del cosmo, che inquadrava e sosteneva la ragione di governo del Medioevo o del XVI secolo. È una naturalità che si oppone all’artificialità della politica, della ragion di Stato, della polizia, ma secondo modi del tutto specifici e particolari. Non si tratta dei processi della natura stessa, intesa come natura del mondo; è una naturalità specifica ai rapporti che gli uomini intrattengono tra loro, a ciò che avviene spontaneamente quando coabitano, quando sono insieme, quando fanno gli scambi, quando lavorano, quando producono [...]. In breve, è una naturalità di qualcosa che fino a quel momento, in fondo, non esisteva ancora e che, se anche non viene nominata, inizia almeno a essere pensata e analizzata come tale: si tratta della naturalità della società.27
La provocazione di una cultura del desiderio armonica con l’interesse dello Stato, determinata con una strategia della sorveglianza sociale, e non 25 26 27
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 63. Ivi, p. 64. Ivi, p. 254. Si deve ad un intervento recente di Adriano Vinale (Homo affectivus. La ragione sociale del desiderio, in Biopolitica e democrazia, cit., pp. 41-70), alla luce delle tesi di Sicurezza, territorio, popolazione, la messa a punto del senso del dissidio tra Foucault e Deleuze concepito, più che sulla polarità piacere/desiderio, sullo spessore del desiderio in quanto tale. Dissidio che si rivela peraltro, se si considera adeguatamente il carattere sociale della ‘naturalità’ in Foucault, meno radicale di quanto generalmente si ritiene.
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della repressione, nomina la prestazione specifica del bio-potere. Infatti, se la potenza economico-politica del desiderio è una scoperta del liberalismo classico, la sua specifica attitudine normativa è una caratteristica del neoliberalismo contemporaneo, quando il legame tra il potere e la vita tende a non conoscere alcuna mediazione socio-giuridica. Provocare il “desiderio di Stato” è la manifestazione estrema della mentalità di governo moderna. Costituisce inoltre l’elemento decisivo, all’interno della discussione sullo Stato, che induce Foucault a sollevare la questione del neoliberalismo novecentesco; ed ancora: diventa il motivo che lo spinge ad abbandonare l’analisi della relazione tra il potere e la libertà. È in questo contesto che sorge, d’altra parte, l’intenzione di Foucault dei primi anni ottanta di un’indagine della cura di sé come presupposto per schivare una specifica inclinazione ‘antropologica’: la disponibilità interiore all’obbedienza e alla volontà di essere normati. In altre parole, i punti di resistenza al bio-potere non saranno effettivi se, preliminarmente, non si avvia un processo di soggettivazione separato da qualsiasi intima lusinga di normazione. Se il dispositivo disciplinare regola tutto, anche le cose più piccole, e qualsiasi infrazione dell’ordine va registrata, «i dispositivi di sicurezza, invece, [...] lasciano fare»28. Il bio-potere non viviseziona determinati comportamenti fuori dalla norma, ma qualsiasi espressione della specie è fatta oggetto di calcolo, in modo da armonizzare i desideri della popolazione con quelli di chi governa. Adottando una strategia di protezione sociale della vita senza quartiere, più reticolare e quindi fatalmente più dispersiva di quella giuridico/disciplinare, si lasciano sussistere zone d’anomia; sono proprio queste macchie sociali eterodosse ad evocare il regime integrato ed economico della sicurezza, ad assecondare cioè l’idea che la libertà individuale si esperisce esclusivamente in un regime di controllo microfisico delle condotte. Le tecniche di sicurezza impongono la propria azione come l’inevitabile espressione di un’esigenza naturale. Un evento della morfologia sociale. Come se i gesti di chi governa i rapporti sociali fossero irreparabili, coestensivi alla vita della popolazione, alla sua crescita e difesa. La mentalità di governo liberale evoca lo spettro più ampio e sofisticato di procedure, dispositivi, complessi di regole e di pratiche che nel moderno, al cospetto di una società tentacolare che deve essere regolata, si affianca all’ordine della sovranità, trasfigurandone la struttura (Foucault più precisamente, a proposito della governamentalità, parla di «supplemento» della sovranità29). 28 29
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 45. Ivi, p. 173.
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Il desiderio dello Stato (desiderio di essere governati) è il cuore pulsante della biopolitica oggi. La vita pretende di essere regolata giacché, nella tarda modernità, si espone al pericolo-in/sicurezza della sua indeterminazione trascendente. Allora, la vita stessa produce la propria normazione, lamentando un monitoraggio permanente della propria datità. L’affinamento del capitalismo nel sistema della economia di mercato mondiale fa dell’homo oeconomicus del liberalismo – «l’uomo dell’impresa e della produzione»30 – lo strumento della perdita di rilevanza sociale della politica: si modellano le facoltà generiche dell’uomo in modo che siano produttive economicamente e inabili politicamente (la mentalità liberale è, in effetti, un progetto politico di spoliticizzazione che, però, non rinuncia alla logica del valore). L’homo oeconomicus è «la griglia di intelligibilità» di una nuova pratica governamentale che non riduce l’uomo all’economia, ma, in maniera più acuminata, rappresenta «l’interfaccia tra il governo e l’individuo»31, vale a dire la dimensione più agevolmente governabile di ciascuno. L’economia politica liberale è un potere che non conosce limiti. Ed allora, con la necessità di una sorveglianza globale ma con l’impossibilità però di fornire una vigilanza quotidiana dei corpi, poiché la ramificazione di ciò che va governato è sia tentacolare e sia, sul piano economico, se ostacolata con un eccesso di ingerenza disciplinare, improduttiva, si concepisce un impianto di controllo della popolazione che considera una dose di laissez faire ineluttabile. Questa è la ragione per cui in fondo il sovrano – Dio – è rigettato dall’economia («l’economia è una disciplina atea; l’economia è una disciplina senza Dio; l’economia è una disciplina senza totalità»32): è un sfera in cui non si detta la legge, ma si governa mediante la promozione della libertà, cioè canalizzando, a favore della riproduzione del (bio)potere, il desiderio. La fusione totale tra la vita e la politica è la prestazione fondamentale dell’economia di mercato e la ragione oggi della sua egemonia sociale. La tecnica di governo liberale, infatti, non considera le procedure di sorveglianza una risorsa istituzionale, ma dispone il controllo nei confronti della popolazione come una routine generalizzata. La governamentalità liberale modella la società della sicurezza biopolitica in quanto sa concepire il valore della libertà. Provocando il suo consumo 30 31 32
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 130. Ivi, p. 207. Ivi, pp. 231. Foucault sviluppa in questo senso l’idea di Marx di un conflitto radicale tra etica ed economia: se per l’economia il fine ultimo è la produzione di ricchezza, tutto è di fatto in vendita.
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incessante (la libertà «è qualche cosa che si fabbrica in ogni istante»33), favorisce la generazione di ricchezza e determina la produttività delle facoltà generiche dell’uomo. La ragione di governo liberale è consumatrice di libertà nella misura in cui non può funzionare veramente se non là dove effettivamente ci sono un certo numero di libertà: libertà di mercato, libertà del venditore e dell’acquirente, libero esercizio del diritto di proprietà, libertà di discussione, eventualmente libertà di espressione, ecc. La nuova ragione governamentale ha dunque bisogno di libertà, la nuova arte governamentale consuma della libertà. Se consuma libertà è obbligata anche a produrne. E se la produce, è obbligata anche a organizzarla.34
La libertà non è un fenomeno naturale, ma ciò che va creato di continuo. Ma concepire incessantemente nuove forme della libertà significa, inevitabilmente, una estensione senza precedenti dei sistemi di vigilanza (il controllo allora diventa «il principio motore della libertà»35). Si instaura «nel cuore stesso di questa pratica liberale, un rapporto problematico ogni volta diverso, continuamente mobile, tra la produzione della libertà e tutto ciò che producendola, rischia di limitarla e di distruggerla. Il liberalismo [...] racchiude in sé, nel suo stesso cuore, un rapporto di produzione/distruzione con la libertà»36. La libertà liberale si espande senza sosta fino al punto, fatale, di capovolgersi nel suo contrario. Vive del proprio perpetuo rovesciamento dialettico e si nutre della propria carne. Non conosce confini e perciò diventa il movente di qualsiasi catastrofe. Una libertà senza fine, da produrre e consumare, è il nome probabile della fine della libertà. È, in effetti, la logica interna del ribaltamento potenziale di qualsiasi biopolitica in una tanatopolitica.
33 34
35 36
Ivi, p. 67. Ivi, p. 65. Il consumo sostituisce la miseria come maglia per il controllo della popolazione e diventa, in quanto esposizione socio-economica del desiderio, lo stilema fondamentale per alimentare il disciplinamento sociale (M. Foucault, Prigioni e rivolte nelle prigioni, in Archivio Foucault 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, p. 172). Secondo questa prospettiva allora, oggi, il discredito sociale più acuto forse non si abbatte sulla povertà ma su una figura più ambigua e sfuggente: il non-consumatore. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 70. Ivi, p. 66.
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5 TRA LA VITA E LA MORTE. LA BIOPOLITICA A PARTIRE DA FOUCAULT di Francesco Paolo Adorno
I due corsi da poco tradotti in italiano, Sicurezza, territorio, popolazione del 1977-‘78 e Nascita della biopolitica del 1978-‘79 presentano due aspetti che vale la pena mettere in evidenza immediatamente. Il primo, abbastanza paradossale, è che, anche se Foucault annuncia che si occuperà della biopolitica, del biopotere, del potere sulla vita che si sviluppa agli albori dell’età moderna e che ne contraddistingue la governamentalità, l’arte di governare, in realtà in questi due corsi non solo il termine di biopolitica è presente una o due volte, ma si occupa poi di ben altro, e cioè, come è stato ampiamente notato, della storia dell’arte di governo dal XVI al XX secolo. Il secondo aspetto riguarda proprio la definizione di questa governamentalità. Come Foucault spiega chiaramente, il suo scopo non è descrivere il modo in cui i governanti hanno effettivamente esercitato la loro funzione, ma definire i concetti che li hanno guidati nella ricerca della verità del loro compito. Insomma il suo tentativo è capire in che modo a partire dal XVI secolo si è definito un criterio di veridizione dell’arte di governo, secondo quali concetti si è stabilito che un certo tipo di governo era falso, ingiusto e sbagliato e un altro era invece vero, giusto e corretto. Che Foucault ricordi all’inizio di ognuno dei due corsi la continuità teorica che contraddistingue il suo percorso teorico fin dalla Storia della follia, non può essere derubricato a semplice necessità del tutto esteriore. Non solo questa continuità esiste ma si stabilisce su un punto assolutamente essenziale, ovvero il fatto che gli oggetti teorici di cui si è occupato, follia, malattia, e quant’altro non sono degli oggetti naturali, ma sono costruiti e che appunto è di questa costruzione che ha sempre inteso fare la storia. Alla
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pari della follia, della malattia, della detenzione, neanche l’arte di governare è un “oggetto” naturale, malgrado il fatto che essa, almeno a partire dal XVII secolo, si consideri tale, quindi farne la genealogia è del tutto legittimo. Ma poi che senso può avere la genealogia delle modalità di formazione dei regimi razionali che hanno costituito un oggetto teorico, una pratica, un concetto che si autodefinisce come naturale, quando è già interno alla definizione stessa della genealogia il progetto di «una storia politica della verità» che prende tutto il suo senso in quanto storia delle modalità secondo le quali un certo concetto di verità ha funzionato politicamente1? In altri termini che scopo può avere la genealogia della governamentalità contemporanea che adotta esplicitamente un criterio naturalista per giustificare la propria azione e i propri oggetti, se non quello di offrire dei punti su cui attaccarla, da cui tentare eventualmente di rovesciarla? In questo senso, il progetto che include non solo i due corsi del 1978 e del 1979, ma anche quello del 1976, «Bisogna difendere la società», sembra avere un duplice scopo: svolgere sicuramente una genealogia della governamentalità che ha il suo punto iniziale nella genealogia del discorso storico sulle razze, ma anche e soprattutto sviluppare una critica politica dei saperi, in questo caso di un sapere specifico, ovvero l’economia politica, che indichi i punti deboli delle relazioni incestuose che si stabiliscono tra potere e sapere, che fanno dei saperi degli strumenti che strutturano l’esercizio stesso del potere. Questa critica politica dei saperi si svolge e inizia dal corso del 1976, «Bisogna difendere la società», seguendo essenzialmente un’unica direttrice, che è quella della genealogia dei rapporti tra diritto ed economia. Punto inaugurale di questa genealogia che Foucault svolgerà per tre anni è, come si sa, la critica alla concezione contrattualista del potere di Hobbes, che ravvede all’origine dello Stato una finzione per la quale il potere è un bene che si scambia contro un altro bene – la conservazione – , e che così facendo lo inserisce quindi in una prospettiva economicista, contribuendo a eliminare dal discorso politico la questione giuridica del bilanciamento dei poteri e quindi del loro eventuale conflitto2. Ma le cose diventano molto più complesse e interessanti nei due corsi seguenti, laddove è esplicitamente riconosciuta ad una serie di concetti appartenenti all’economia il ruolo di fondatori dell’arte di governare specifica della modernità. In effetti a partire e anche contro la teoria contrat1 2
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it. P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978, p. 56. Cfr. M. Foucault, «Bisogna difendere la società», trad. it. di M. Bertani e A. Ferrara, Feltrinelli, Milano 1998.
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tualista, Foucault mette in evidenza la preponderanza sempre crescente che l’economia, divenuta economia politica all’inizio del XVIII secolo con i fisiocratici, acquista nei confronti del diritto. La governamentalità, all’interno della quale l’economia politica diventa un principio regolatore, è scandita da diverse fasi che Foucault riassume efficacemente all’inizio del corso del 1978, ricordando la differenza tra la le legge, la disciplina e la sicurezza. Il sistema legale, che stabilisce l’opposizione tra il permesso e il divieto, è ciò che contraddistingue il funzionamento penale arcaico che dura fino al XVII-XVIII secolo. Il secondo, il sistema disciplinare, analizzato in Sorvegliare e punire, è messo in funzione dal XVIII secolo (e curiosamente Foucault non indica un termine a quo). Il terzo, è il sistema contemporaneo, che si interroga sul costo dei mezzi da utilizzare per raggiungere un certo numero di fini conservativi e che quindi si fonda sull’economia. Questi tre sistemi sono i sistemi che guidano e regolano l’arte governamentale, ovvero sono quei complessi teorici che stabiliscono la verità e la falsità delle pratiche di governo effettivamente svolte sul terreno. Foucault precisa d’altra parte che tra questi tre sistemi non esiste semplicemente un rapporto di sostituzione o di successione, ma una serie di momenti che diventano sempre più complessi perché si diramano in direzioni nuove: «anche qui, d’altronde, basta vedere l’insieme legislativo, gli obblighi disciplinari che i meccanismi di sicurezza moderni includono per vedere che non c’è una successione: legge, poi disciplina, poi sicurezza, ma la sicurezza è una certa maniera di aggiungere, di far funzionare in più dei meccanismi di sicurezza, le vecchie strutture della legge e della disciplina»3. È di questo terzo momento, quello della sicurezza, che include gli elementi della legge e della disciplina, ma facendone, soprattutto del primo, degli elementi secondari, che Foucault svolge la genealogia in questo corso e in quello successivo. Rapidamente l’analisi del modo in cui la pratica governamentale garantisce la sicurezza della popolazione diventa però l’analisi dell’economia politica in quanto regime di veridizione della governamentalità. In altri termini Foucault descrive una frattura, un momento di discontinuità tra la governamentalità della ragion di stato in cui, anche se in maniera sempre meno forte, è il diritto che stabilisce dei limiti all’attività di governo e quindi in qualche sorta indica all’arte di governo le direzioni in cui incanalare la sua azione, le dice che cosa deve fare per essere vera, e la governamentalità che dal XVIII secolo arriva fino a noi, in cui è 3
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, trad. it. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, p. 12.
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ormai l’economia a essere il principio di limitazione della governamentalità. Tra questi due momenti le discontinuità sono numerose, le differenze notevoli ma la loro coesistenza, per un periodo abbastanza limitato, è un dato acquisito, anche se a partire da alcuni elementi che Foucault elenca rapidamente, ma in maniera oltremodo suggestiva, si capisce che la storia ha preso secondo lui una direzione ben precisa che è appunto quella della connessione tra economico e governamentalità: «sono questi tre movimenti, credo, governo, popolazione, economia politica, a proposito dei quali si deve osservare che costituiscono a partire dal XVIII secolo, una serie solida che ancora oggi non si è certamente dissociata»4. Lo strumento teorico fondamentale che permette alla governamentalità economica di imporsi e di sostituirsi alla governamentalità giuridica è rappresentato dalla naturalità che è assegnata agli oggetti teorici di cui l’economia politica si occupa. Naturalità che l’azione del governo deve necessariamente rispettare se non vuole subire delle conseguenze disastrose. La costituzione dei prezzi, tanto per fare un esempio, ha un andamento naturale che deve essere rispettato pena una serie di conseguenze pesantemente negative sull’insieme della popolazione come, per esempio, carestie o epidemie. Ponendosi come limite dell’attività di governo a partire dalla presupposta naturalità degli oggetti e delle pratiche di cui il governo deve garantire un giusto andamento, sembrerebbe dunque che l’economico abbia una funzione pesantemente riduttiva dell’impatto che altri saperi possono avere sulla governamentalità. Costringere la riflessione sul buon governo della popolazione ai suoi soli aspetti economici, e in genere matematici e statistici, non significa nascondere qualcos’altro, che certo necessita di una definizione ulteriore, ma che dovrebbe essere preso in considerazione come un’alternativa possibile alla governamentalità economica e la cui esistenza è completamente messa tra parentesi da un’economia politica che dichiara esplicitamente di occuparsi di oggetti naturali? Sembra questo il caso tanto più in quanto in tale morsa dell’economia è presa e assoggettata la vita stessa delle popolazioni e degli individui. Insomma l’economia politica è diventato il sapere che gestisce, governa, guida, limita l’attività di governo e che diventa assolutamente centrale nella descrizione del nodo concettuale rappresentato dalle modalità di esercizio della biopolitica stessa. Ma in realtà di biopolitica, Foucault ne parla poco e, se vogliamo, male. Tutto il suo discorso si limita a ricordare all’inizio di Sicurezza, territorio, popolazione che la biopolitica è un sapere fondamentale dando una definizione 4
Ivi, p. 111.
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rapida del biopotere, in quanto serie di fenomeni che riguardano «l’insieme dei meccanismi grazie i quali, ciò che nella specie umana costituisce i suoi tratti biologici fondamentali potrà entrare in una politica», e a riprendere per vaghi accenni alla fine di questo corso, all’inizio e alla fine di Nascita della biopolitica che tutte le analisi sviluppate in questi due corsi che parlano di tutto tranne che almeno apparentemente di biopolitica, si inquadra appunto in un progetto generale che è quello dello studio della biopolitica. Malgrado questa vaghezza, e la rapidità degli accenni, in realtà tra biopolitica e economia ci sono sicuramente più relazioni di quante Foucault indichi esplicitamente in questo corso. Su queste relazioni è molto più esplicito in una conferenza del 1976, Les mailles du pouvoir, laddove spiega che la biopolitica, il biopotere ha lo stesso scopo della tecnologia anatomopolitica, ovvero quello di massimizzare la capacità produttiva dei corpi, nella loro generalità di appartenenti alla popolazione5. Insomma la biopolitica è quel supporto teorico che permette di pensare e di riflettere sulla governamentalità in quanto tecnologia di produzione di ricchezza, che è proprio quanto la riflessione su questa categoria tende a dimenticare. Sia detto tra parentesi, sia in questa conferenza che in Nascita della biopolitica, l’emergenza della biopolitica viene collegata alla nascita dell’utilitarismo e del radicalismo inglesi. A queste teorie d’altra parte Foucault oppone esplicitamente la connotazione fortemente giuridica del pensiero politico francese del XVIII secolo. Da una parte un discorso giuridico che consiste nell’opporre dei diritti originari agli abusi o all’estensione indefinita del potere sovrano e dall’altra, un discorso che limita il potere ponendogli in continuazione la questione della sua utilità o inutilità, la via rivoluzionaria e la via radicale e a ognuna di queste teorie corriponde una concezione specifica della legge e della libertà6. Da quando Agamben in un fortunato saggio ha richiamato l’attenzione della comunità filosofica sulla differenza che Foucault aveva ricordato tra zoè e bios nel pensiero politico, l’analisi della biopolitica e del biopotere è diventata uno dei topoi della riflessione contemporanea e le pubblicazioni su questo concetto, che descrive in realtà oggetto e funzionamento dell’esercizio del potere nelle società contemporanee, si sono moltiplicate 5 6
Cfr. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Dits et écrits, Gallimard, Paris 1995, vol. IV, pp. 192-194 (trad. it. in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 155-171). M. Foucault, Nascita della biopolitica, trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, p. 43.
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in maniera esponenziale7. Ma come si può vedere a una prima e rapida scorsa dei titoli in questione, l’attenzione è rivolta soprattutto a un nodo concettuale ben definito che va dalla biologia alla politica passando per l’analisi dei vari aspetti delle teorie politiche classiche alterati e messi in discussione dall’irruzione di questo nuovo concetto. Niente o quasi niente è invece stato scritto sul rapporto tra economia politica e biopolitica8. Dimenticanza di cui però sarebbe interessante capire le ragioni e che è tanto più grave quanto più chiaro è invece il rapporto che Foucault stabilisce tra questi due ambiti teorici. Probabilmente, un’analisi giuridico-filosofica articolata sulla nozione biologica di vita è inseribile più facilmente nel discorso filosofico di quanto lo sia un’analisi del modo in cui l’economia politica si è impadronita della vita – della popolazione o dell’individuo, non importa – , ma è anche sicuramente più prestigiosa e permette di far riemergere alla superficie del discorso una delle ossessioni irrisolte della filosofia, incapace dal XVII secolo in poi di trovare una definizione corretta della nozione stessa di vita. Ma questa insistenza, pur mettendo in evidenza in maniera forte tutto l’aspetto violentemente problematico del rapporto tra politica e biologia, ha una scarsa incidenza critica, poiché si limita a descrivere in maniera piuttosto opaca e anodina la verità, a tutti evidente almeno dopo che Foucault l’ha ricordata, “a rose is a rose is a rose is a rose”, la verità effettuale dell’esercizio del governo, entra rapidamente in difficoltà quando si tratta di indicare i punti deboli da cui eventualmente rovesciare o sbarazzarsi del discorso biopolitico, offrendo sporadici spunti per capire in che modo eventualmente sottrarsi alla biopolitica contemporanea. Certo le indicazioni di Negri e Esposito, che in una certa misura convergono, pur
7
8
Cfr. R. Esposito, Immunitas, Einaudi, Torino 2002; Id., Bios, Torino, Einaudi, 2004; G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995; Id., Mezzi senza fine, Bollati-Boringhieri, Torino 1996; A. Cutro, Michel Foucault. Tecnica e vita, Bibliopolis, Napoli 2004; S. Chignola (a cura di), Governare la vita, Ombre Corte, Verona 2006; P. Amato (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Mimesis, Milano 2004; A. Cutro (a cura di), Biopolitica, Ombre Corte, Verona 2005; L. Bazzicalupo e R. Esposito (a cura di), Politica della vita, Laterza, Roma-Bari 2003; P. Perticari, (a cura di), Biopolitica minore, Manifestolibri, Roma 2003; A. Vinale (a cura di), Biopolitica e democrazia, Mimesis, Milano 2007; il primo numero di Multitudes del marzo 2000, intitolato «Biopolitique et biopouvoir». Sul rapporto economia-biopolitica, cfr. M. Koivusalo, Le antinomie del “displacement” biopolitico, in Aut-aut, n. 298, 2000, pp. 63-80, ma tutto il numero è sulla biopolitica; da vedere anche il già citato numero della rivista Multitudes.
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con linguaggi e prospettive diverse, sono preziose9. Le analisi di Negri e Hardt, tengono sicuramente conto della produttività del potere biopolitico, ma la inquadrano in una prospettiva troppo ampia dal nostro punto di vista, poiché cercano di definire le coordinate generali del funzionamento della politica mondiale identificata dalla categoria dell’Impero. D’altra parte, se la massimizzazione della vita, o in altri termini il vitalismo biologico della politica contemporanea trova il suo punto fondamentale nella definizione di una frontiera, di un limite, di una differenza tra normale e patologico, tra sano e malato, tra immunità e contagio, l’allargamento del campo di applicazione del biopolitico dal corpo – individuale, sociale, politico – alla carne, come propone Esposito, è un gesto che di per sé è capace di reinserire la vita nel cerchio della politica sottraendola a una sua possibile biologizzazione. Ma questo interessante e ricco percorso interpretativo non tiene conto dell’abbraccio, assolutamente centrale nella riflessione di Foucault, in cui sono strette economia politica e biologia, che è invece lo snodo centrale su cui è articolato il recente lavoro di Laura Bazzicalupo che ha l’ulteriore merito di mettere l’accento su alcuni aspetti della tematizzazione della biopolitica in Foucault, lasciati in ombra dagli altri lavori10. In particolare due punti sono giustamente richiamati: il fatto che la biopolitica non è un meccanismo di conservazione delle vite, ma lavora per una loro massimizzazione e il rapporto tra l’ontologia della vita interna alla biopolitica e la tendenza epocale della filosofia novecentesca delusa dal tramonto del mito del progresso11. I lavori di Hans Jonas hanno messo costantemente in rilievo il nesso tra ottimizzazione dell’essere umano e ricerca scientifica, medica e biologica in particolare, e la difficoltà cui va incontro il tentativo di fondare razionalmente la necessità del progresso tecnico e scientifico che ne deriva12. In particolare l’ideologia del progresso sembra essere la principale imputata in questo processo intentato alla tendenza di reificazione del corpo, reso poi in-
9 10 11 12
Cfr. A. Negri, M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2000 e Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004. Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006. Cfr. ivi, pp. 47-48. Cfr. G. Sasso, Tramonto di un mito, Il Mulino, Bologna 1984. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. di P. Rinaudo, Einaudi, Torino 1990; Id., Tecnica, medicina ed etica, trad. it. di P. Becchi e A. Benussi, Einaudi, Torino 1997; Id., Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, trad. it. di A. Becchi, Einaudi, Torino 1999.
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definitamente utilizzabile13. Ma la dottrina del progresso è anche il luogo teorico in cui si è esplorata per la prima volta la possibilità di un prolungamento indefinito dell’esistenza umana e di un suo miglioramento materiale14. Ritornare a Foucault non ha quindi il senso di richiamare a una maggiore ortodossia nei confronti di colui che, in fondo, ha aperto questo campo di ricerche, ma di cercare di misurare le conseguenze del fatto che la biopolitica è una pratica eminentemente economica che ha come suo oggetto esclusivo la vita, la massimizzazione della vita, in vista di una sua possibile critica. Se sembra difficile sbarazzarsi o ridurre l’impatto sulla vita delle pratiche politiche quando si parte dalla biologia, sarà forse più facile operare in questo senso se si considera che la biopolitica appartiene a una governamentalità essenzialmente economica, facendo astrazione, almeno in un primo tempo, dall’inevitabile connotazione biologica e medicale del termine stesso di biopolitica. Una possibilità di allentare la presa con cui economia politica e biologia governano la vita è forse rappresentata da una possibilità lasciata inesplo13
14
La difficoltà, costantemente elusa, di considerare il corpo come semplice cosa a disposizione della ricerca è stata efficacemente messa in evidenza da J.-P. Baud, L’affaire de la main volée. Une histoire juridique du corps, Seuil, Paris 1993. Già Bacone aveva stilato una lista intitolata Magnalia naturae praecipue quoad usus humanos di tutti i miglioramenti possibili sul corpo umano. Ma si veda anche F. Bacon, De viis mortis, et de senectute retardanda, atque instaurandis viribus, in Graham Rees e Christopher Upton, Francis Bacon’s Natural Philosophy: A New Source, The British Society for the History of Science, Monographs, 5, 1984. Qualche tempo dopo l’immortalità è ritenuta come cosa che potrebbe rientrare nelle potenzialità umane: «Mi si potrà obiettare che non possiamo vivere per sempre. Allora domanderei volentieri quale difficoltà può esserci nel vivere un anno invece di un altro, e perché, quando se ne è vissuto uno, non se ne possono vivere cento, e poi mille e poi centomila, poiché non è necessario per vivere lo spazio di tutti questi tempi più di quello necessario per vivere una sola ora» (M.lle de Saint-Quentin, Traité pour établir la possibilité de l’immortalité corporelle, «Mercure Galant», novembre 1692, pp. 33-34 e gennaio 1693, pp. 120-124). Condorcet è d’altronde esplicito su questo punto: per quanto riguarda l’aspetto materiale dell’esistenza umana non gli sembra per niente assurdo «supporre che questo perfezionamento della specie umana deve essere considerato suscettibile di un progresso indefinito, che deve giungere un tempo in cui la morte potrà essere solamente l’effetto o di casi straordinari o della distruzione sempre più lenta delle forze vitali, e che infine la stessa durata dell’intervallo medio tra la nascita e questa distruzione non ha alcun termine assegnabile» (J. A. N. Condorcet, I progressi dello spirito umano, trad. it. di G. Calvi, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 209).
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rata che si trova proprio nel cuore e all’origine della messa in funzione del dispositivo biopolitico, laddove Foucault spiega che la governamentalità moderna nasce quando al “far morire e lasciar vivere” della sovranità subentra il “far vivere e lasciar morire” della modernità. Il primo simbolizzato dalla spada, è in realtà «un diritto di prendere, sulle cose, il tempo, i corpi ed infine la vita; fino a culminare nel privilegio di impadronirsene per sopprimerla». Il secondo è invece un potere che gestisce e organizza la vita e respinge nella morte tutto quello che non ritiene adatto, socialmente, politicamente, biologicamente a sopravvivere. Ma proseguendo in queste analisi che sono ormai conosciute da tutti, Foucault aggiunge una serie di considerazioni sulla morte che non hanno suscitato lo stesso interesse. Così come Elias15, mette in evidenza come la morte sia un evento diventato osceno, completamente desacralizzato e spinto progressivamente ai margini della società. Il morente viene ad occupare uno spazio asociale e la morte è stata rimossa sia a livello individuale che sociale. Ma questa cura con cui si cerca di evitare la morte, osserva Foucault, «è legata al fatto che le procedure di potere non hanno cessato di allontanarsene piuttosto che ad una nuova angoscia che la renderebbe insopportabile alle nostre società»16. Il potere sulla vita non riesce ad aver presa sulla morte che gli sfugge in continuazione e, per questo, sceglie di ignorarla e di rimuoverla, anche quando la infligge su scala industriale17. Certo la tanatopolitica costituisce il rovescio di tutte le politiche centrate sulla vita, di cui il nazismo rappresenta la figura estrema. Come Esposito ha mostrato in maniera convincente, la politica biologica del nazismo ha due aspetti: conservazione della vita all’interno di un gruppo individuato come degno, razzialmente, di essere salvato, e allargamento della morte al di fuori di questo gruppo. Per quanto riguarda il primo punto, le procedure messe all’opera per salvaguardare ed estendere la vita sono quelle che si possono definire “classiche”, biologia e medicina andando di pari passo indicano e producono delle tecniche capaci di eliminare o almeno di restringere progressivamente gli effetti nefasti delle malattie, della cattiva alimentazione o di abitazioni fatiscenti, facendo calare una
15 16 17
N. Elias, La solitudine del morente, trad. it. a cura di A. Cavalli, Feltrinelli, Milano 1985. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 122. L’utilizzazione di un regime metaforico da parte del nazismo per evocare lo sterminio degli ebrei, degli zingari e degli omosessuali è significativo di questa schizofrenia: cfr. V. Klemperer, LTI, La lingua del Terzo Reich, trad. it. a cura di M. Ranchetti, La Giuntina, Milano 2005.
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grande nuvola salutista sulle pratiche mediche del regime. Per il secondo punto, le modalità dello sterminio di tutti i gruppi etnici e religiosi considerati pericolosi per la vita e la salute degli ariani sono fin troppo note per tornarci sopra. La complementarietà di questi due aspetti è tale che «concludere che nella visione biomedica del nazismo sia saltato il confine tra guarigione ed assassinio è ancora poco. Bisogna arrivare a concepirli come due versanti di uno stesso progetto che fa dell’uno la condizione necessaria dell’altra: solo assassinando quante più persone possibile, si potevano risanare coloro che rappresentavano la vera Germania»18. Facendo però del nazismo il caso limite e, allo stesso tempo, esemplare della biopolitica contemporanea, si dimentica forse l’aspetto critico più produttivo del discorso di Foucault, ovvero il fatto che la politica si articola sulla vita per soddisfare imperativi di ordine economico: la biologia è uno strumento economico. Foucault osserva che il XX secolo è stato quello che in cui i massacri, gli olocausti, gli eccidi si sono moltiplicati senza soluzioni di continuità, a tal punto che può affermare che «i massacri sono diventati vitali»: ma come bisogna interpretare il fatto che la morte sia diventata vitale? Non certamente perchè garantiscono la salute biologica delle popolazioni risparmiate, o almeno non solo e non principalmente per questo, ma per dei fattori demografico-statistici per cui il potere che si esercita a livello della vita si occupa della sua fatticità, o meglio delle sue condizioni materiali. D’altra parte l’esempio utilizzato per riassumere questa situazione è quello della bomba atomica e non quello del nazismo: « La situazione atomica è oggi al punto di arrivo di questo processo: il potere di esporre una popolazione ad una morte generale è l’altra faccia del potere di garantire ad un’altra il suo mantenimento nell’esistenza»19. Il biopotere coglie la vita non in quanto fatto biologico, ma in quanto evento statistico, demografico ed economico. Ma se la biopolitica, rappresentata nelle sue manifestazioni estreme dal regime nazista, è anche essenzialmente una tanatopolitica, il modo in cui considera la morte dimostra una sostanziale volontà di eluderla quando non può eliminarla completamente, come per esempio succede nel caso della volontà di morire individuale che si manifesta nel suicidio. Foucault osserva che il suicidio è diventato rapidamente oggetto di analisi per la nascente sociologia del XIX secolo perché «faceva apparire, alle frontiere e negli interstizi del potere che si esercita sulla vita, il potere individuale e privato di morire». La condanna del suicidio che si ammanta di motivazioni teo18 19
R. Esposito, Bios, cit., p. 121. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 121.
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logiche e morali, è in realtà motivata da ragioni economiche e politiche. Rimane difficilmente comprensibile per un potere centrato sull’ottimizzazione biologica dell’esistente, la volontà di darsi la morte: «quest’ostinazione a morire, così strana e tuttavia così regolare, così costante nelle sue manifestazioni, così poco spiegabile quindi con particolarità o accidenti individuali, fu uno dei primi stupori di una società in cui il potere politico si era dato il compito di gestire la vita»20. Anche qui, di fronte al vuoto lasciato dalla scomparsa volontaria di un individuo, la biopolitica è comunque una tanatopolitica, poiché la morte è sempre un “oggetto” di cui occuparsi e da gestire, ma dal punto di vista rappresentato dalla necessità di ottimizzare la produzione di forze della vita stessa, dal punto di vista della difesa delle qualità essenziali della vita, e mai in se stessa. Ed è per questo che il suicidio rappresenta uno scandalo, lo scandalo politicamente assoluto, per le società contemporanee. Se la società è attraversata da infinite relazioni di potere che si scontrano con forme di resistenza, a quale resistenza quasi invincibile può andare incontro la diffusione della biopolitica se non a quella che le sottrae il suo stesso oggetto e le offre come magro pasto il puro nulla dell’assenza? Che, d’altronde, ci sia coscienza che questa sia l’ultima forma di opposizione al biopotere si capisce bene dalla violenza con cui si reagisce a ogni tentativo di autogestione della propria scomparsa. Certo non si tratta, almeno apparentemente, di una novità, ma della reiterazione del divieto cattolico di gestire un dono divino quale quello della vita, per cui quello che Dio ha dato, lui solo può toglierlo. Ciò che è invece nuovo è l’alleanza con la medicina che pretende di imporre i propri imperativi terapeutici e di gestire anche contro la volontà dell’individuo, il momento della sua morte ritardandola, se possibile, all’infinito. In altri termini, la vita nuda può e deve essere indefinitamente massimizzata fino al suo esaurimento totale, controllata e guidata in tutte le sue manifestazioni, per poi essere respinta al di fuori del politico e del sociale, quando ha esaurito tutte le sue possibilità produttive. Anzi, essa perde ogni interesse economico quando le sue debolezze resistono ad ogni trattamento, quando l’accanimento medico, psicologico, sociale, politico ha perso ogni speranza di renderla utilizzabile, quando dopo aver permesso che finanche lo spossamento della malattia potesse essere funzionale al potenziamento indefinito delle conoscenze mediche, non se ne può estrarre più niente e non può essere neanche stimolo a forme di riflessività dei saperi biopolitici su se stessi. L’unica forma di resistenza alla pervasività della biopolitica 20
M. Foucault, La volontà di sapere, cit. pp. 122-123 e anche Id., Un plaisir si simple, in Dits et écrits, cit., vol. III, pp. 777-779.
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sta forse nel rifiuto di sottoporsi a questo svuotamento progressivo di cui l’economia politica è l’artefice principale organizzandosi intorno all’evento della propria scomparsa che è per definizione aneconomico. E forse è proprio sulla definizione di una tanatopolitica, centrata su tutti i fenomeni aneconomici legati alla morte e non sulle analisi del modo in cui la governamentalità contemporanea si è costruita intorno a una biopolitica, che risiede la possibilità di una politica alternativa a quella imposta dalla preminenza dell’economia politica.
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6 FOUCAULT E I CAMPI di Carmelo Colangelo
Affrontare la questione della presenza, in Foucault, del tema dei campi – del lager, del gulag – significa anzitutto registrare una circostanza piuttosto singolare. Da un lato, leggendo i testi, non si può che rilevare una sorta di presenza diffusa dell’evento dei grandi stermini del Novecento: non sarebbe eccessivo dire che parte non trascurabile della genealogia foucaultiana della modernità (riflessione sull’esclusione, analisi del disciplinare, indagini sul biopotere, ecc.) porta in filigrana l’immagine sinistra del campo. Dall’altro, però, si deve constatare che in nessun momento, nel laboratorio nomade di Foucault, si è data una tematizzazione esplicita e compiuta di ciò che per sineddoche noi continuiamo a chiamare “Auschwitz” – nome, anzi, assente, come è stato notato, dal corpus foucaultiano1. Solo in modo eccezionale il lager è effettivamente preso in conto come tale; più frequente è la comparsa del gulag, ma in modo prevalentemente indiretto o allusivo. Quel che è certo, è che la posizione di Foucault circa i campi appare lontana da quella di coloro che in proposito partono dal presupposto (o arrivano all’idea) di una rottura radicale del tempo storico. Se ad esempio qualcosa accomuna le posizioni di pensatori tanto diversi come Hannah Arendt, Hans Jonas, Emmanuel Levinas, è il fatto che tutti intendono l’irruzione del mon1
M. Brossat, L’épreuve du désastre. Le XXe siècle et les champs, Albin Michel, Paris 1996, p. 141. Il secondo capitolo del volume è interamente dedicato al rapporto tra “disciplinare “ e “totalitario” e costituisce una buona base di partenza per un inquadramento generale delle modalità di considerazione dell’oggetto storico “campo” nella riflessione foucaultiana.
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do concentrazionario come il momento del darsi di una discontinuità storica fondamentale e non saturabile. Eppure chi, se non Foucault, può essere considerato un filosofo non continuista dell’evenemenzialità e del sapere storici? Si può davvero sostenere che nel suo pensiero l’evento lacerante dei campi si trovi ricoperto o saturato dall’approccio genealogico?
1. Per tentare di vederci chiaro non si può che cominciare chiamando in causa due luoghi assai noti, il capitolo quinto di La volontà di sapere e la lezione del 17 marzo 1976 del corso “Bisogna difendere la società”, luoghi che, se non tematizzano lager e gulag come tali, discutono però ciò che Foucault chiama la nascita del “razzismo di Stato” e, con essa, la logica di contemporaneità sovranità/biopolitica che a suo avviso contraddistinguerebbe i regimi totalitari. Ricordo sinteticamente i termini di un’argomentazione molte volte commentata, discussa o riutilizzata. Secondo Foucault, a partire dalla fine del Settecento si delinea una nuova dimensione del potere, nella quale non è più in causa soltanto il potere di “far morire” o di “lasciar vivere”, bensì soprattutto quello «di far vivere o di lasciar morire»2. È il punto di avvio di una politica il cui oggetto è rappresentato dagli uomini in quanto corpi viventi e dalla popolazione in quanto massa affetta da processi biologici complessivi. Si tratta di potenziare la vita, di consolidarne e incrementarne le virtualità, spingendo la morte sul margine esterno del campo dell’esistenza. Per Foucault, però, tale preccupazione porta con sé la possibilità strutturale che il potere di far vivere si tramuti in potere di votare alla morte: dietro il ritrovato di una cura totale della vita individuale e collettiva, dietro il capillare “far vivere” post-sovrano appare un “produrre la morte di massa” già pienamente attivo a partire dalle guerre primo-ottocentesche, con il loro inedito carattere “totale”. È in questo quadro che, secondo Foucault, si dà un vero e proprio progetto di separazione dell’umanità da se stessa, ovvero la pratica di una divisione violenta tra coloro che devono vivere e proliferare e coloro che, in quanto e perché disumanizzati, devono morire. È il momento in cui il bio-potere annette il razzismo ai dispositivi stessi dello Stato: la discriminazione razziale può valere infatti come tramite di una segmentazione del biologico, di un’introduzione di cesure nel continuum altrimenti indifferenziabile della specie, allo scopo di eliminare un pericolo per la razza, di purificare e omogeneizzare lo spazio sociale sopprimendo
2
M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 122.
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categorie definite nocive3. Foucault colloca qui i massacri del nostro tempo: «Mai le guerre sono state più sanguinose che dal XIX secolo in poi e, anche fatte le debite proporzioni, mai i regimi avevano praticato fino a quel momento sulle loro popolazioni simili olocausti. Ma questo formidabile potere di morte [...] si presenta ora come il complemento di un potere che si esercita positivamente sulla vita»4. In queste righe l’impiego, al plurale e in senso aspecifico, del termine “olocausto” lascia intendere che stermini e genocidi non vanno assunti come qualcosa di volta in volta precipuo di determinati regimi o contingenze politico-sociali, ma appartengono alla struttura stessa della modernità politica e costituiscono il risvolto necessario del progetto di potenziamento della vita che le è proprio. Per il Foucault del corso del 1976, i totalitarismi nazista e stalinista non sono altro che i momenti di massima tensione della promozione della vita e delle dinamiche letali proprie del bio-potere. Lungi dal rappresentare un momento d’interruzione della trama storico-politica, essi risultano essere il punto di massimo incremento di automatismi di potere già presenti a partire dalla seconda metà del Settecento: il momento in cui sia la forma disciplinare che la totalità dei tratti del bio-potere sono spinti all’estremo. «Si ha dunque nella società nazista questa cosa del tutto straordinaria: è una società che ha assolutamente generalizzato il bio-potere, ma che allo stesso tempo ha generalizzato il diritto sovrano di uccidere. I due meccanismi, quello classico, arcaico che dava allo Stato diritto di vita e di morte sui cittadini, e il nuovo meccanismo organizzato attorno alla disciplina, alla regolazione, in breve il nuovo meccanismo di bio-potere, si trovano a coincidere esattamente»5. Ed è in questo punto della ricostruzione foucaultiana che cade il riferimento esplicito al lager e alla soluzione finale. Per la sua estrema rarità, vale la pena di allegarlo per esteso: «Stato razzista, Stato assassino, Stato suicida. Tutto questo si sovrappone di necessità, portando allo stesso tempo alla “soluzione finale” degli anni 1942-43 (con la quale si sono volute eliminare, attraverso gli ebrei, tutte le altre razze di cui gli ebrei erano insieme simbolo e manifestazione) e poi al telegramma 71, con il quale nell’aprile del 1945 Hitler dava ordine di distruggere le condizioni di vita dello stesso popolo tedesco»6. Punto d’arrivo di una processualità 3 4 5 6
Cfr. Id., «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France 1976, Seuil/Gallimard, Paris 1997; trad. it. ‘Bisogna difendere la società’. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 165-170. Id., La Volontà di sapere, cit., p. 120-121. Id., ‘Bisogna difendere la società’, cit., p. 168. Ibidem.
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che prende avvio circa due secoli prima, la distruzione degli ebrei è tutt’altro che uno iato del corso storico ed è ben lontana dal costituire il dato di un’eterogeneità irrecuperabile per il discorso ricostruttivo: di essa è invece rilevato il senso generale in una parentesi in cui gli ebrei risultano essere anzitutto un supporto o un mezzo («à travers les Juifs») delle spinte mortifere dello stato nazista, le quali, in quanto tratto peculiare della scena biopolitica, in realtà prendono ad oggetto non tanto gli ebrei come tali, ma, per loro tramite simbolico, «toutes les autres races». La catastrofe ha un storia precisa, non è né il semplice esito di convinzioni aberranti momentaneamente prevalenti, né una sorta di improvviso e temporaneo smarrimento della civiltà: questo l’apporto fondamentale, preziosissimo, di una ricostruzione, che, come è stato opportunamente osservato, permette a Foucault di non schiacciare la totalità del quadro biopolitico sulla questione concentrazionaria7. Portato di tale ricostruzione è però anche quello d’immergere il campo in un’analisi globale, processuale, degli effetti del bio-potere, così che nazismo e lager risultano in fin dei conti essere immagini, certo privilegiate, di un topos che viene da molto lontano. Si può parlare di prospettiva “continuista”, o almeno di una visione dello sviluppo dei poteri moderni tesa a sottolineare più le concatenazioni che le rotture. E ci si può chiedere se con essa sia poi davvero presa in conto la specificità dei regimi totalitari e dei loro dispositivi; se qui non si consumi un appiattimento di differenze considerevoli, in nome della persistenza e della linearità. Laddove ad esempio una riflessione come quella arendtiana in The origins of Totalitarianism si struttura sull’idea di una peculiarità radicale dell’ideologia, del discorso, dei sistemi nazista e stalinista, Foucault colloca le forme totalitarie nel solco della progressiva trasformazione dei poteri moderni: quei regimi non avrebbero fatto altro che praticare con un po’ più di enfasi la loro biopolitica ed esercitare con più rigore il loro diritto sovrano di morte. In un’intervista del 1978, Foucault afferma: «I campi di concentramento? Si dice che siano un’invenzione inglese; ma ciò non significa né autorizza a sostenere che l’Inghilterra sia stata un paese totalitario. Se c’è un paese che nella storia d’Europa non è stato totalitario, è proprio l’Inghilterra, ma essa ha inventato i campi di concentramento che sono stati uno dei principali strumenti dei regimi totalitari. Ecco un esempio di trasposizione di una tecnica di potere»8. È una dichiarazione che sembra confermare la presen7 8
Cfr. ad esempio J. Rancière, Biopolitique ou politique?, in «Multitude», n. 1, 2000; N. Rose, La politica della vita stessa, in aut-aut, n. 298, 2000. M. Foucault, «Entretien avec Michel Foucault» (colloquio con D. Trombadori, 1978), in Dits et écrits, vol. II, Gallimard, Paris 2001, p. 910.
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za, in Foucault, dell’esigenza di una risoluta storicizzazione delle forme della violenza estrema, nonché di una loro ricomprensione nelle sequenze associative rinvenute nel corso della ricerca archeologica. Foucault intende soprattutto chiarire la rete di relazioni dissimulate che accomunano regimi democratici e regimi totalitari: legami che non riguardano valori e ideali, bensì tecnologie, pratiche, dispositivi di normalizzazione. Altrove si può in effetti leggere: fascismo e stalinismo non sono state altro che due «“forme patologiche”», «due malattie del potere», e «una delle numerose ragioni per cui esse sono per noi così sconcertanti sta nel fatto che, a dispetto della loro singolarità storica, esse non sono assolutamente originali. Il fascismo e lo stalinismo hanno utilizzato ed esteso dei meccanismi già presenti nella maggior parte delle altre società. Anzi, malgrado la loro follia interna, essi hanno in larga misura utilizzato le idee e le procedure della nostra razionalità politica»9. Ciò che insomma nel totalitarismo spiazzerebbe lo storico – ma non il genealogista – non è tanto lo scarto rispetto a un passato noto, bensì un perturbante sovrappiù di somiglianza con gli elementi di una lunga esperienza politica. La «follia» totalitaria non è un’invenzione, ma un’eredità, ed è analizzabile grazie all’individuazione dei meccanismi che vi hanno condotto. La stessa chiave di lettura sembra sottesa a un’affermazione che apre un altro notissimo studio dell’ultimo Foucault, Omnes et singulatim: «Il legame tra la razionalizzazione e gli abusi del potere politico è evidente. E non c’è bisogno di aspettare la burocrazia o i campi di concentramento per riconoscere l’esistenza di tali relazioni»10. Dove colpisce non solo il fatto che per un istante critica e analitica generali degli eccessi della ragione politica moderna possano ricomprendere l’oggetto storico “campo” allo stesso titolo dell’oggetto storico “apparato burocratico”, ma anche che, con ciò, l’elemento totalitario sia considerato già attivo al momento della genesi del potere moderno, come una sorta di elemento connaturato al controllo del territorio e della popolazione e alla statalizzazione di tutti i piani dell’esistenza. Un’altra intervista permette di verificare più in dettaglio la frequenza di tale approccio ‘processuale’ alla questione dei campi. Sollecitato a esprimersi a proposito dei luoghi di reclusione in U.R.S.S, Foucault, dopo aver affermato che le tecniche di punizione in questione sono da considerarsi «vicine al vecchio apparato penitenziario inventato nel Settecento», precisa: «L’Unione sovietica punisce secondo i metodi dell’ordine “borghese”, 9 10
Id., «Le sujet et le pouvoir» (1982), in Dits et écrits, cit., vol. II, p. 1043. Id., «Omnes et singulatim: Toward a Criticism of Political Reason» (1981), in Dits et écrits, cit., vol. II, p. 954.
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dell’ordine di due secoli fa. E lungi dal trasformarli, ne ha seguito la china peggiore; li ha aggravati e inaspriti. Ciò che ha colpito i telespettatori, l’altra sera, è che essi hanno creduto di veder passare, sotto i tendoni, tra cani e mitragliatrici, in mezzo ai poveri fantasmi resuscitati di Dachau, la catena immemoriale dei galeotti: lo spettacolo senza luogo né data con cui da due secoli a questa parte, incessantemente, i poteri fabbricano il terrore»11. Il tema del transfert di tecnologia disciplinare ritorna con nettezza, e con esso torna altrettanto chiaramente l’aspetto continuistico di un approccio che – grazie al metaforico, e in certo senso “visionario”, azzeramento delle distanze spazio-temporali – mette letteralmente sullo stesso piano reclusi sovietici, “morti viventi” del lager, forzati del Settecento, sotto il segno comune genealogico della produzione della paura. Non diversamente, poco oltre, Foucault dichiara di vedere nel lavoro forzato nei campi una pratica che non fa che riproporre le procedure ottocentesche di “riabilitazione” dei devianti attraverso la fatica: «È una cosa che era già iscritta nel sistema penale europeo del XIX secolo [...] Di questo lavoro presentato come desiderabile e come mezzo di reinserimento del delinquente nella società, ci si servirà come uno strumento di persecuzione fisica, imponendo al condannato dalla mattina alla sera il lavoro più insipido, monotono, brutale, faticoso, logorante e al limite mortale»12. In proposito, Michel Brossat non esita a esprimersi con una certa perentorietà: Foucault «rifiuta di prendere in considerazione ciò che costituisce il cuore stesso del problema: la differenza tra due tipi di campi»: tra quelli la cui struttura repressivadisciplinare ne fa «un caso dell’ordine penitenziario, ospedaliero, militare» – campi dunque come «ne esistono nei regimi semifascisti tra le due guerre in Polonia, Bulgaria, Grecia, Spagna» – e «quest’altro tipo di campi che rappresentano il codice di riconoscimento delle forme totalitarie, perché in essi per l’essenziale non si tratta di disciplinare e punire, ma di eliminare uccidendo attraverso il lavoro o altri mezzi più rapidi e massivi»13. L’obiezione è pertinente, almeno nella misura in cui non è illegittimo pensare che tra normalizzazione e terrore ci sia un salto, un cambio di scala, e non 11
12 13
M. Foucault, «Crimes et châtiment en U.R.S.S. et ailleurs...» (intervista con K. S. Karol,1976), in Dits et écrits, cit., vol. II, p. 64-65. Nella sua domanda l’intervistatore si era riferito alla trasmissione, alla televisione francese, del documento filmato di un campo di detenzione sovietico. Varrà la pena, più oltre, di accennare al tema della medializzazione dei campi nel corso degli anni settanta. Ivi, p. 70. M. Brossat, L’épreuve du désastre. Le XXe siècle et les champs, cit., pp. 168169.
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semplicemente un passo. Se è vero che l’uniformazione attraverso l’attribuzione della matricola e l’identità degli abiti, la gerarchizzazione capillare o l’accanita disciplinarizzazione del lavoro sono sicuramente segni di un’opera di normalizzazione, il proprio del mondo concentrazionario è però di situarsi in un punto in cui i corpi, più che essere normalizzati o disciplinati, sono piuttosto distrutti o parassitati. Se della società totalitaria è vero che è ancora una fabbrica d’individui, uno spazio di produzione di soggetti (terrorizzanti e terrorizzati: è una delle tesi del corso del 1976), i campi come tali sembrano sottrarsi a tale schema “produttivo”, se è vero che ciò a cui mettono capo non è altro che un ammasso di rifuti umani – il cumulo di corpi da bruciare, il mucchio di cadaveri ghiacciati da seppellire anonimamente. In questo senso, di fronte ad essi non è certo che una prospettiva continuista o gradualista possa conservare una valida tenuta ermeneutica e un adeguato coefficiente di antagonismo.
2. Ciò detto, noi sappiamo bene, d’altra parte, che tutto il pensiero di Foucault si presenta come una riflessione sulle eterotopie, come un impegno lucido e tenace per dire la differenza, l’irriducibilità di oggetti e pratiche singolari, l’estraneità dell’altro. Paul Veyne non è certo stato il solo a scorgere nel metodo di Foucault un’incitamento ad affrontare la storia come storia di “successioni di eterogeneità” e di pratiche reciprocamente irriducibili14. Del resto, in proposito è sufficiente rileggere qualche riga dello studio su Nietzsche, la genealogia, la storia (del 1971, dunque non molto anteriore alla maturazione esplicita della tematica “bio-politica”, in genere datata al 1974): «La genealogia non pretende di risalire il tempo per ristabilire una grande continuità al di là della dispersione dell’oblio; il suo compito non è mostrare che il passato è ancora lì, ben vivo nel presente, e che ancora segretamente lo anima [...] Seguire la trafila complessa della provenienza, significa al contrario mantenere ciò che è accaduto nella dispersione che gli è propria». E poco oltre: «Tutto ciò a cui ci si appoggia per rivolgersi alla storia e coglierla nella sua totalità, tutto ciò che permette di descriverla come un paziente movimento continuo – è tutto questo che si tratta di spezzare sistematicamente. Bisogna fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti. Sapere, anche nell’ordine storico, non significa “ritrovare”, e ancor meno ritrovarci. La storia sarà “effettiva” nella
14
Cfr. P. Veyne, «Foucault rivoluziona la storia» (1979), in Id., Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, Ombre Corte, Verona 1998.
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misura in cui introdurrà il discontinuo nel nostro stesso essere»15. Foucault insomma non ha lasciato dubbi di sorta circa la sua persuasione che «le famose continuità storiche hanno la funzione apparente di spiegare», ma in effetti con esse si tratta anzitutto del tentativo «di escludere la rottura dell’evento».16 È possibile allora che un corretto inquadramento delle modalità di apparizione del tema dei campi in Foucault non possa attenersi esclusivamente allo schema del “sinolo” di sovranità capillarmente “diffusa” e di bio-tanato-politica estrema proposto con La volontà di sapere e il corso “Bisogna difendere la società”. Il punto è che è bene non dimenticare che nel pensiero di Foucault sono essenziali ed insistenti le nozioni di limite e, attraverso Bataille, Blanchot, Klossowski, di esperienza-limite; che esso è cioè certamente tramato di una filosofia non dialettica dell’esperienza, del tempo vissuto e del tempo storico. Foucault d’altronde non si è mai stancato di ripeterlo: quegli autori sono stati per lui decisivi, nella misura in cui gli hanno permesso uno spostamento essenziale rispetto alla sua prima formazione universitaria, nutrita di hegelismo e di fenomenologia. Ora, nel definire l’esperienza-limite, egli ha affermato che essa consiste nel trovarsi in un punto dell’esistenza «che è il più vicino possibile all’impossibilità di vivere», un punto in cui un «massimo d’intensità» coincide con un «massimo d’impossibilità»17. E ha puntualizzato che tale esperienza è foriera di una disarticolazione dell’identità e dell’ordine dell’identità, di una dissociazione in cui il soggetto prova se stesso come radicalmente altro da sé. Un’esperienza, cioè, in cui non è in causa alcun movimento dialettico, bensì un strappo, uno sradicamento, uno spostamento violento, senza continuità e senza concatenazioni. Tenendo presente la centralità di questo approccio non dialettico dello stesso e dell’altro quale è rinvenibile in forme assai accentuate negli scritti di Foucault su Sade, Kant, Nietzsche, Bataille, non c’è forse la possibilità di rinvenire un filo che permetta di riconsiderare la questione dei campi? Ciò che è bene chiedersi è se lager e gulag non abbiano mostrato che le verità sull’uomo appaiono in prossimità della prova radicale dell’essere strappati a se stessi, della differenza dell’uomo rispetto a se stesso. L’esperienza della 15 16 17
M. Foucault, «Nietzsche, la généalogie, l’histoire» (1971), in Dits et écrits, cit., vol. I, pp. 1009 e 1015. Id., «Par-delà le bien et le mal» (colloquio con studenti, 1971), in Dits et écrits, cit., vol. I, p. 1094. Id., «Entretien avec Michel Foucault» (intervista con D. Trombadori, 1978), cit., p. 910.
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finitezza in causa con l’evento-campi non è semplicemente esperienza di un incontro con una morte intesa come limite “proprio” (eigen), che totalizzerebbe le possibilità dell’esistenza, ma è esperienza dell’illimitazione delle potenzialità di annientamento dell’uomo. Nello studio su Bataille intitolato «Préface à la transgression», Foucault ha evocato tale effettualità in modo per molti aspetti forse ancora insuperato, che è bene tenere sempre ben presente. L’esperienza della finitudine, in senso radicalmente moderno, ha assai poco a che vedere con la continuità e la presenza a se stessi: essa piuttosto è tout court «esperienza dell’impossibile». Il che vuol dire che quello nel quale viviamo da circa due secoli è un regno paradossale, allo stesso tempo determinato e però privo di confini: «il regno illimitato del Limite», un mondo cioè che si snoda «nell’esperienza del limite, che si fa e si disfà nell’eccesso che lo oltrepassa». Un campo in cui appare «il vuoto di un superamento in cui [la finitudine stessa] viene meno ed è manchevole».18 Ma se si ricomincia a sondare la riflessione foucaultiana sui campi a partire dall’angolo visuale di questo concetto radicale di finitudine (privo di misura comune, sia detto per inciso, con ciò che per lo più le rubriche filosofiche intendono con tale concetto), allora la presenza del modello della continuità non apparirà più tanto esclusiva. Qualche esempio servirà a dar conto dell’esistenza di una direzione di analisi del tutto diversa. Già nell’intervista sui sistemi punitivi sovietici, oltre alle affermazioni che ribadiscono la tematica della trasposizione di tecniche di potere, si può leggere questa frase: «Le torrette d’osservazione, i cani, le lunghe file di baracche grige sono “politici” perché figurano per l’eternità nell’armamentario di Hitler e di Stalin e perché servivano a sbarazzarsi dei loro nemici». Dove è difficile non restare colpiti dall’espressione «pour l’eternité», certo allusiva di un’imprescrittibilità specifica del campo, come luogo di un terrore irriducibile alle forme classiche della tirannia e di una modalità del potere non solo repressiva, ma votata alla produzione seriale di morte. Altrove, in un testo del 1977 intitolato «La grand colère des faits», Foucault parte da lontano, cominciando col porsi questa domanda: «Cos’è successo di non insignificante nelle nostre teste da una quindicina d’anni a questa parte?». Risposta: «una certa rabbia, una sensibilità impaziente, irritata verso ciò che accade, un’intolleranza per la giustificazione teorica e per tutto il lento lavoro di pacificazione assicurato giorno per giorno dal discorso “vero” [...] Oggi forse la morale del sapere è quella di rendere il reale acuto, insopportabile, aspro, spigoloso, inaccettabile. Irrazionale,
18
Id., «Preface à la transgression» (1963), in Dits et écrits, cit., vol. I, p. 263.
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dunque? Certo, se renderlo razionale significa pacificarlo [...]»19. Ciò che è in causa in questo vigoroso incipit è precisamente il campo e i tentativi di appianarne la verità catastrofica attraverso la ricostruzione di continuità storiche e teoriche. Foucault lo dice immediatamente, e a suo modo: «Per i filosofi antichi la prova decisiva era la loro capacità di produrre dei saggi; nel Medioevo, quella di razionalizzare il dogma; nell’età classica, quella di fondare la scienza. Nell’epoca moderna è la loro attitudine a rendere ragione dei massacri. I primi aiutavano l’uomo a sopportare la propria morte, gli ultimi ad accettare quella degli altri. Nel corso di un secolo e mezzo i massacri napoleonici hanno avuto una pesante discendenza. Ma è apparso un altro tipo di olocausto – Hitler, Stalin (il medio tra i due e il modello dei secondi si trova probabilmente nei genocidi coloniali)»20. Ecco dunque un luogo, amaramente ironico, in cui lager e gulag non sono più tanto risolutamente posti sullo stesso piano degli eccidi che li hanno preceduti, e in cui ad essi è riconosciuta qualcosa come un’altra consistenza, il tratto della rottura, e non della graduale china omicida-suicida del bio-potere. Una frattura che, per il Foucault di queste pagine, richiede di essere resa alla sua insopportabilità, più che inscritta in un divenire continuo e in ricostruzioni a carattere dialettico. Essa impone in effetti di porsi questa domanda: «come non essere più hegeliani?» Più precisamente: «non tanto come rovesciare Hegel, rimetterlo sui piedi o sulla testa, alleggerirlo del suo idealismo, imbottirlo di economia, frammentarlo, umanizzarlo. Ma come non essere per niente hegeliani». Ciò che è necessario, anzi, scrive Foucault in chiusura dell’articolo, è «fa[r] sorgere nel cuore del discorso filosofico più alto i fuggiaschi, le vittime, gli irriducibili, i dissidenti sempre redressés – insomma le “teste insanguinate” e le altre forme bianche che Hegel voleva cancellare dalla notte del mondo»21. In queste pagine, il totalitario è indicato come il “fuori” stesso della ragione, della tradizione, della storia politica: come il momento in cui la razionalità normatrice e tecnica porta avanti la propria azione nella chiave dell’autodistruzione delle sue stesse capacità. Spazi atroci di un “autre type d’holocauste”, eventi in cui l’umanità prova se stessa come alterità radicale o assenza pura di sé, lager e gulag appaiono come le zone di apertura di un’esperienza-limite a partire dalla quale la vita e la morte vengono come sottoposte a un’omogeneizzazione che sospende la possibilità di pensarle come piani in rapporto di separazione o di reciproca esclusione. 19 20 21
M. Foucault, «La grande colère des faits» (1977), in Dits et écrits, cit., vol II, p. 277. Ivi, p. 278. Ivi, p. 281.
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Ultimo esempio, questo tutto in negativo: un luogo cioè in cui Foucault esplicitamente ricusa la prospettiva continuista come utile o effettivamente significativa per la considerazione del totalitarismo rispetto a ciò che lo ha preceduto e (punto importante, da non sottovalutare) a ciò che lo ha seguito, ovvero l’orizzonte biopolitico liberale. La lezione del 7 marzo del 1979 del corso su Naissance de la biopolitique si apre con una precisazione su ciò che Foucault chiama una «ragione di moralità critica», ragione che deve portare a relativizzare la validità della prospettiva “fobica” (caratteristica dello stesso neoliberismo) intesa a scorgere nello stato in quanto tale, e nella sua attitudine tutelare-paternalistica, i germi del fascismo e della violenza. Occorre insomma rifiutare l’idea che «esista una parentela, una sorta di continuità genetica, d’implicazione evolutiva tra diverse forme di stato – lo stato amministrativo, lo stato assistenziale, lo stato burocratico, lo stato fascista, lo stato totalitario – considerate tutte, a seconda del tipo di analisi, come i rami successivi di un solo e identico albero che cresce in modo continuo e unitario, ovvero il grande albero dello stato». Questa idea mette in circolazione «una certa moneta critica che potremmo definire inflazionistica», aggiunge Foucault, allegando immediatamente le ragioni di una tale formula: «Dal momento in cui si può ammettere che tra le diverse forme di stato c’è una certa continuità o una certa parentela genetica, dal momento in cui si può attribuire allo stato un costante dinamismo evolutivo, diventa possibile non solo basare le analisi le une sulle altre, ma anche rinviare le une alle altre e far perdere a ciascuna la sua specificità. Per esempio un’analisi della sicurezza sociale e dell’apparato aministrativo su cui questa si fonda finirà col rimandare, grazie a qualche slittamento e giocando su qualche parola, all’analisi dei campi di concentramento. Passando dalla sicurezza sociale ai campi di concentramento, la specificità che viene comunque richiesta all’analisi finisce col diluirsi»22. Come non pensare al “continuismo” che connota tutta una parte della riflessione di Foucault nel corso al Collège de France di due anni prima e negli altri luoghi citati? Lo stesso accenno allo “stato burocratico” può costituire un indice lessicale significativo. Qui Foucault sembra autorizzare a rilevare la presenza, nel suo stesso tentativo ricostruttivo, di un elemento di parzialità, se non di qualcosa come un tratto non compiutamente congruo.
22
Cfr. M. Foucault, Naissance de la biopolitique, Seuil/Gallimard, Paris 2004; trad. it. Feltrinelli, Milano 2005, pp. 154-155, corsivo mio.
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3. Come risolvere la difficoltà rappresentata dalla presenza di queste due diverse opzioni, intitolabili, grosso modo e semplificando un po’, “continuista” e “discontinuista”? Si può certamente parlare, come è stato fatto a proposito della questione del rapporto tra sovranità e biopotere, di «oscillazione del discorso in direzioni opposte», di «smagliature logiche», di «esitazione di fondo tra due vettori di senso dai quali l’autore è parimenti tentato»23. Così come è sempre possibile, persino doveroso, formulare obiezioni a un certo Foucault in nome di un altro Foucault. Per cogliere la specificità della posizione foucaultiana in merito alla violenza totalitaria, possono però essere considerate anche altre possibilità, altre strade. Qui vorrei indicarne due, a mo’ di ipotesi di lavoro. La prima, in certo senso più estrinseca, può essere offerta da un inquadramento storico dei materiali fin qui richiamati. Si tratta di situare il pensiero di Foucault nella storia da cui è come accerchiato e che esso, con la sua energica autorità, ha per più di un verso contribuito a modificare e trasformare. Come ha opportunamente ricordato Annette Wieviorka24, nel corso degli anni sessanta e settanta il discorso sui campi, e in particolare sul lager, ha cominciato a subire un mutamento assai significativo, che ha coinvolto – attraverso il ricorso sistematico alla figura di un testimonesopravvissuto al quale è stato richiesto di essere “portatore di storia” – le condizioni stesse della scrittura dello sterminio e dei suoi dispositivi. Con sempre maggiore frequenza la violenza totalitaria è stata ritrascritta in un susseguirsi di esperienze individuali a cui il pubblico è stato in vari modi sollecitato a identificarsi. Di essa si è iniziato a parlare sempre meno nei termini di una ricostruzione del funzionamento della macchina totalitaria e sempre più, e con evidenti usi politici, a partire dal punto di vista delle vittime e delle loro testimonianze, intensamente cercate e sollecitate. Così, è bene ricordare che nel 1973, per la prima volta, alcune organizzazioni americane inscrivono nei loro programmi la necessità di “memorializzare” lo sterminio. Tra il 1962 e il 1979 si moltiplicano corsi universitari e programmi di ricerca sullo sterminio, e nello stesso periodo in Francia e negli Stati Uniti il tema della violenza totalitaria diviene ampiamente presente nella vita politica. D’altra parte comincia anche, e in modo massiccio, l’uso mediatico della Shoah. Proprio tra il 1976 e il 1977, 120 milioni di spettatori negli Stati Uniti decretano il successo del film Olocausto (diretto da Marvin Chomsky, già regista dello sceneggiato Radici), feuilleton televisivo patetico e assai pacificante. Ovunque l’intensità dell’ondata 23 24
R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2006, p. 26. Cfr. A. Wieviorka, L’ère du témoin, Plon, Paris 1998.
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emotiva è pari soltanto alla nettezza, se non alla virulenza, delle critiche che i sopravvissuti dispensano al prodotto holliwoodiano25. Gli anni settanta sono insomma l’inizio di quella che dagli stessi dirigenti statunitensi di fondazioni a vario titolo “memoriali” è stata definita – con accezione neutra, se non addirittura positiva – «l’americanizzazione dell’olocausto», fondata prevalentemente sulla sollecitazione emotiva del pubblico e sulla frammentazione dell’evento in immagini icastiche, al tempo stesso dolorose, rassicuranti e avulse da ogni effettiva contestualizzazione. Il lager, nelle stesse intenzioni esplicitamente formulate di produttori e direttori d’istituti, è usato per insegnare i valori tradizionali americani: ricordare anzitutto che gli uomini sono stati creati uguali, che ogni cittadino ha diritti inalienabili e che lo Stato non può sottrarglieli. Si tratta insomma di una temperie culturale nella quale si assiste con sempre maggior nettezza da un lato a un impiego in chiave ideologica della Shoah, proposta come una sorta di mostro storico prodotto da un’occasionale smarrimento della civiltà, senza alcun rapporto con le avventure della razionalità politica occidentale. Dall’altro, a una sorta di riduzione dell’esperienza-limite – della specificità della catastrofe in quanto incontro con un’alterità radicale – a esperienza soggettivabile, data per mediaticamente rivivibile e in effetti illusoriamente rivissuta, non senza dolciamare gratificazioni, da milioni di persone. A fronte di questo stato di cose, il compito dello storico-filosofo non poteva che essere duplice, e per certi versi strutturalmente paradossale: per un verso, anzitutto, reinscrivere in una continuità storica ciò che veniva offerto come abrupta apparizione del male assoluto, e farlo in un modo che risultasse chiaro che da tale continuità le stesse democrazie dell’Occidente non potevano essere tratte fuori; per l’altro, allo stesso tempo, alludere al campo (con estrema discrezione – parlandone cioè poco e in modo giusto) come lo spazio di una rottura storica radicale, come luogo di una esperienza che non può essere né vissuta né soggettivizzata in quanto tale, ma solo patita come distruzione e pensata come indice dell’illimitarsi del limite della finitudine umana. Un’altra possibilità, non tanto di sciogliere il nodo rappresentato dal tratto aporetico della discussione foucaultiana della violenza totalitaria, quanto d’intenderne logica e senso – possibilità forse più pertinente dal punto di vista teorico – è data invece dalla circostanza dell’assidua frequentazione da parte di Foucault dei testi di Maurice Blanchot. In parti25
In Francia i diritti dello sceneggiato televisivo furono acquistati da Antenne 2 alla fine del 1978 ed esso fu programmato all’inizio del 1979. Cfr. A. Wieviorka, L’ère du témoin, cit., pp. 129 e sg.
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colare di quel Blanchot “politico” che, anche e soprattutto in riferimento alla violenza totalitaria e alla sua natura disastrosa, proprio tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta (all’altezza, per intenderci, di L’Entretien infini e L’Amitié) ha proposto la necessità di una singolare posizione per l’intellettuale effettivamente antagonista. Di fronte all’intollerabile, all’estremo delle esperienze spossessanti a cui le catastrofi novecentesche hanno esposto gli uomini, occorre, scriveva Blanchot (discutendo La specie umana di Robert Antelme), assumersi un duplice compito. Affinché venga davvero affermata la verità della specie portata da chi, sottoposto all’esperienza del campo, ha lasciato intravedere «l’esistenza umana pura e semplice vissuta come mancanza al livello del bisogno», è necessario «che, attraverso il tramite di un Soggetto esterno [...], lo spossessato sia non solo accolto come “altri” nella giustizia della parola, ma anche rimesso in situazione di lotta dialettica, affinché possa di nuovo considerarsi un potere»26. Secondo Blanchot, l’ignoto che è l’esistenza “impossibile” − lontana da ogni potere e possibilità − dell’uomo del campo impone cioè due esigenze, legate a un doppio linguaggio e in costante tensione reciproca, benché non ripartibili una volta per tutte. Egli le designa così: «nominare il possibile, rispondere all’impossibile»27. Da un lato, serve un discorso fatto di parole esplicative, che possa lottare, nominandola, contro la situazione dell’uomo al punto zero, in vista della realizzazione di una totalità che non escluda e non opprima. Dall’altro, allo stesso tempo, è necessaria una parola che, senza curarsi d’altro che di accogliere l’estraneo, tenti di rispettarlo proprio nell’irrimediabile, definitiva eterogeneità a ogni comprensione, nella sua strutturale esclusione da qualsiasi totalità e continuità, comunque pensata. La riflessione di Blanchot fa cioè emergere una distinzione tra il piano del possibile (della continuità, della dialettica) e quello dell’impossibile (della cesura, del non-potere), e li dichiara entrambi necessari, così ponendo la questione – difficilissima – della loro simultanea praticabilità. Per dirlo in breve, e in maniera certo un po’ schematica, il punto decisivo è che se è vero che l’esperienza-limite del campo reclama imperativamente un discorso teorico-politico animato dalla ricerca di una totalità e di una continuità che reintegrino l’inaudito sul piano della comprensione e pongano le condizioni per il non ripetersi della violenza e dell’ingiustizia, è anche vero che la statuizione di tale totalità, la declinazione di questa 26 27
M. Blanchot, «L’indestructible», in L’Entretien infini, Gallimard, Paris 1969, pp. 196-197; trad. it. L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977, pp. 179 e 181. Cfr. ivi, p. 68; trad. it. p. 65, corsivi nel testo.
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continuità, rischiano sempre di farsi foriere del più insopportabile degli abusi, nella misura in cui con esse può trovarsi negato ogni spazio all’irriducibile di una verità umana eterogenea a qualsiasi tipo di comprensione totalizzante. Perciò è sempre necessario che, oltre alla parola della continuità, si trovi il modo di formulare un’altra parola teorico-politica: quella che, tenendosi in contatto con la verità della specie – ovvero con la sua finitudine intesa come illimitazione del suo limite – , parlerà per rispondere ad essa e ad essa soltanto, per ricordare l’estraneità dell’uomo dei campi ad ogni comprensione appianante. In altre parole, per preservare la distanza dall’esperienza-limite proprio nello stesso momento in cui si risponde al dovere di avvicinarla con tutte le risorse del sapere di cui si dispone. Di qui una responsabilità inedita, senza comune misura con alcuna tradizione, fatta di due imperativi opposti, o meglio, di «due movimenti insieme necessari e incompatibili». Movimenti tra cui, ha scritto una volta Blanchot, «c’è una tensione costante, sovente molto difficile da sostenere e, in verità, insostenibile. Ma non si può rinunciare per partito preso all’uno o all’altro, né alla ricerca senza misura che esigono dagli uomini la loro necessità e la necessità di unire l’incompatibile»28. Non è impossibile che la riflessione foucaultiana sui campi e sul totalitario si situi nel solco delle urgenze così fortemente segnalate da Blanchot. Essa appare attraversata sia dall’esigenza di nominazione del possibile, di combattiva comprensione e riconoscimento delle continuità storiche, che da quella di risposta all’impossibile, di testimonianza intellettuale dell’irriducibile. Esigenze che in Foucault non smettono di mescolarsi e rinviarsi a vicenda, al di là di ogni ripartizione e di ogni opposizione semplice, e che in definitiva sembrano far segno all’enucleazione di un nuovo, ancipite compito teorico-politico, all’altezza della sfida posta al pensiero dalle catastrofi del nostro tempo. Come poi tale compito possa mettere capo a una prassi effettivamente incidente è stato certo tra i problemi di Foucault. E, al di là di ogni facile ricorso a monete critiche “inflazionistiche”, è forse ancora il nostro problema.
28
Cfr. G. Bataille, Choix de lettres 1917-1962, Gallimard, Paris 1997 (lettera di M. Blanchot a G. Bataille del 24 aprile 1962), p. 596.
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7 FOUCAULT E L’EPISTEMOLOGIA: SCIENZA DELL’UOMO E POLITICA DELLA VERITÀ di Antonella Cutro
1. Che cosa significa parlare di un ‘dopo’ Foucault e più precisamente quale contributo irrinunciabile per l’analisi politica offre il pensiero foucaultiano? Si potrebbe rispondere a questa domanda mostrando quanto l’idea relazionale del potere e la critica alla coppia sovranità/legge, sono i punti chiave di un altro modo di fare storia e analisi politica rispetto alla storia delle idee e dei concetti. La pubblicazione dei corsi al Collège de France, Sicurezza, territorio, e popolazione e Nascita della biopolitica, offre invece un’altra possibilità di analizzare la singolarità dell’approccio foucaultiano. L’elemento che sostiene le analisi sulla nascita della biopolitica e in vista del quale è ricostruita l’affermazione dei liberalismi del XX secolo, è precisamente una particolare posizione del problema della verità in rapporto all’analisi politica, nello specifico in rapporto al governo. Che tipo formulazione del problema della verità sottende l’analisi sulla biopolitica e come vengono messi in rapporto verità e governo? Questo rapporto prima di tutto emerge al livello metodologico. Nella prima lezione del corso Nascita della biopolitica Foucault dice che l’analisi dei liberalismi è fatta nella prospettiva di una genealogia dei regimi di veridizione: Si tratterà di fare la genealogia dei regimi di veridizione, ovvero l’analisi della costituzione di un certo diritto della verità a partire da una situazione di diritto, considerato che il rapporto tra diritto e verità trova la sua manifestazione privilegiata nel discorso, in cui si formula il diritto e in cui si enuncia ciò che può essere vero o falso. Il regime di veridizione, infatti, non coincide con una certa legge della verità, [ma] con l’insieme delle regole che consentono, a
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proposito di un discorso dato, di fissare quali sono gli enunciati che potranno esservi caratterizzati come veri o falsi.1
In secondo luogo, emerge al livello diagnostico. Uno dei punti più interessanti delle tesi foucaultiane è, infatti, che l’affermazione del liberalismo è legata all’affermazione del mercato come criterio di veridizione del governo. È il mercato che dice ‘la verità’ sul governo e perciò lo legittima; ‘dice la verità’ sulla sua bontà, cioè sulla sua efficacia, e sulla sua necessità cioè sulla sua opportunità. Ma Foucault non si ferma qui. Aggiunge che questo ‘dire la verità’ sul governo è anche immancabilmente un dire la verità su colui che ne è soggetto. Dunque, il mercato dice la verità sull’uomo: dice chi è e come deve essere l’uomo del liberalismo. Per designare questo dire la verità Foucault usa il termine scienza: da un lato l’economia diviene «scienza della sistematicità delle risposte secondo le variabili dell’ambiente», dall’altro il soggetto del liberalismo è soggetto ‘razionale’ nella misura in cui la sua condotta è «sensibile a delle modificazioni entro le variabili dell’ambiente e vi risponde in maniera non aleatoria, in modo cioè sistematico»2. Perciò nella sua diagnosi scienza del governo e scienza dell’uomo sono strettamente correlati. Per chiarire il rapporto tra verità e governo è necessario, dunque, chiarire che cosa intende Foucault quando parla di storia dei regimi di veridizione e cosa intende per ‘scienza’, dal momento che essa diventa l’elemento che regola, e perciò permette di definire, il rapporto tra l’uomo e il governo.
2. Prima di tutto c’è un problema ‘scienza’ in Foucault? Si potrebbe subito rispondere di ‘no’ poiché il nodo critico delle sue analisi è piuttosto quello delle scienze umane – quindi non la scienza ma le scienze – della cui costituzione fa la storia ne Le parole e le cose. L’obiezione è legittima. Tuttavia è possibile individuare delle coordinate per definire in che termini emerge la questione della ‘scienza’, analizzando degli ‘episodi’ del suo percorso spesso considerati di secondaria importanza e che in realtà non lo sono affatto. In particolare: da un lato, soffermarsi sul rapporto che Foucault intrattiene con la scuola epistemologica francese, precisamente con le questioni metodologiche e politiche poste da Cavaillès, Bachelard e 1
2
M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France 1978-79, Gallimard/Seuil, Paris 2004; trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Nascita della biopolitica. Corso al College de France, 1978-79, Feltrinelli, Milano 2005, p. 42. Ivi, p. 219.
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Canguilhem, attraverso il modo di fare storia delle scienze; dall’altro, andare a riscoprire la ‘sincronia’ e i legami di alcune tesi dell’archeologia con il senso e il ‘valore’ che la questione epistemologica assume, all’incrocio tra strutturalismo, marxismo e psicanalisi. Cominciamo con due riferimenti. Primo il 1968. Nel 1968 il Circolo di epistemologia sottopone a Foucault una serie di domande sul metodo archeologico, in particolare, sul rapporto che l’archeologia intrattiene con lo «statuto della scienza, la sua storia e il suo concetto»3. La Risposta sarà pubblicata sul numero 9 dei Cahiers pour l’analyse, dedicato alla ‘Genealogia delle scienze’. Le domande sui fondamenti metodologici e sull’efficacia dell’archeologia provengono da un luogo, il Circolo, che ha fatto della ‘scienza’ il nucleo centrale della sua riflessione. Perché Foucault è chiamato in causa? A che titolo? E cioè: a che livello la metodologia archeologica ha dei legami con la questione della scienza posta dal Circolo? Secondo il 1984. Nell’ultimo testo che revisionò prima della morte, e cioè l’Introduzione all’edizione americana de Il Normale e il patologico di Georges Canguilhem, Foucault ritorna agli anni della sua formazione, la fine gli anni ’50, e presenta la situazione della filosofia francese del dopoguerra come segnata da una netta dicotomia. C’è una linea che separa due modi di fare filosofia: da un lato una filosofia dell’esperienza, del senso, del soggetto, dall’altro una filosofia del sapere, della razionalità, del concetto. «Da un lato una filiazione da Sartre, Merleau-Ponty, dall’altro quella da Cavaillès, da Bachelard, da Koyré e da Canguilhem»4. Con grande insistenza viene sottolineata l’importanza che ha avuto la scuola epistemologica francese, in particolare per aver posto la questione della scienza, attraverso il rapporto tra storia e verità. Cavaillès, Bachelard, Canguilhem, ciascuno a suo modo, il primo per le matematiche, il secondo per la fisica e il terzo per la biologia, hanno fatto una storia delle scienze considerandole ‘razionalità’ regionali. Tale storia non ha la pretesa «di raccontare la scoperta progressiva di una verità inscritta da sempre nelle cose o nell’intelletto»5 ma piuttosto è «la storia di ‘discorsi veridici’, cioè di discorsi che si rettificano, si correggono, operano su se stessi 3 4
5
A Michel Foucault, in «Cahiers pour l’analyse», n. 9, 1968, p. 9; trad. it. A Michel Foucault, in Id., Il sapere e la storia. Sull’archeologia delle scienze ed altri scritti, a cura di A. Cutro, Ombrecorte, Verona, 2007, pp. 29-33. M. Foucault, La vie: l’expérience et la science, in «Revue de métaphysique et de morale», 90e année, n. 1, Canguilhem, janvier-mars 1985, pp. 3-14; DE IV, t. 361, pp. 763-776; trad. it. La vita: l’esperienza e la scienza, in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, p. 318. Ivi, p. 322.
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tutto un lavoro di elaborazione finalizzato al compito di ‘dire il vero’»6. La storia dei ‘discorsi veridici’, espressione che Foucault riprende da Bachelard, ricostruisce come i concetti e i metodi della scienza diventano veri, dunque come i primi diventano veritieri e i secondi efficaci, e di conseguenza come entrambi sono soggetti ad una continua rettificazione. Infatti, nel saggio Il ruolo dell’epistemologia nella storiografia scientifica contemporanea, Canguilhem sottolinea quanto lo sguardo dell’epistemologo delle scienze non è storico, cioè rammemorante7, poiché non ha la pretesa di stabilire un progressus tra gli eventi, consentendo di ritrovare dei precursori di idee e di concetti, e non cerca nel passato l’annuncio e le tracce della scienza attuale. Nel lavoro dello storico della scienza Canguilhem vede una operazione di integrazione: «l’integrazione di una somma di tracce»8. La totalità perciò vi è rappresentata come il risultato di una serie di connessioni: «una specie di piano continuo»9. Allo sguardo dell’epistemologo, invece, viene rivendicata una plurale «libertà di spostamento regressivo sul piano immaginario del passato integrale»10. Tale sguardo perciò non linearizza il divenire né lo totalizza ma è volto a mostrare come solo una parte di ciò che ieri si dava come scienza si trova fondata dal presente, nella scienza attuale. La verità scientifica non è dunque il punto di arrivo del divenire dello spirito umano nel suo cammino progressivo, ma il punto di partenza di una pratica che cerca di mostrare, in che modo e in quali condizioni, quello che la scienza considera vero si costituisce come tale. L’epistemologia, perciò, si presenta come uno studio ‘speciale e regionale’, cioè lo «studio critico dei principi, dei metodi e dei risultati di una scienza»11. Il grande piano della Scienza, opera della ragione umana nel suo progresso conoscitivo, si decompone in una pluralità di razionalità, di regioni di scientificità con loro i metodi e i loro oggetti. Il merito che Foucault riconosce, in particolare all’opera di Canguilhem, è di aver posto il rapporto tra storia e verità in termini di discontinuità e perciò di essere stato il ‘re’ nascosto di tutta una generazione di intellettuali francesi. «Ma eliminate Canguilhem – scrive nell’introduzione al 6 7
8 9 10 11
Ibidem. G. Canguilhem, Le rôle de l’épistémologie dans l’historiographie scientifique récente, (19761), trad. it. Il ruolo dell’epistemologia nella storiografia scientifica contemporanea, in Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, La nuova Italia, Firenze 1992, p. 2. Ivi, p. 4. Ivi, p. 5. Ibidem. G. Canguilhem, Philosophie et science, in «Revue de l’enseignement philosophique», 152, 1964-65, p. 10.
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Normale e il patologico – e non capirete più granché di tutta una serie di discussioni»12. Ed è questo il punto su cui soffermarsi. Che cosa si intende per storia dei discorsi veridici? Prima di tutto, una storia che fa della discontinuità il principio della ricostruzione decomponendo l’immaginaria continuità presupposta dalla storia della scienza; in secondo luogo, e di conseguenza, una storia che fa della verità non il punto di arrivo del divenire della conoscenza umana, ma il punto di partenza, perciò un prodotto della razionalità scientifica, il cui valore di verità dipende da precise condizioni; ed infine la storia dei discorsi veridici è una ‘contro-storia’ cioè una storia che procede contro la memoria ufficiale e cioè contro il supposto piano continuo in cui sono collocati autori e scoperte. Che legame c’è tra la storia dei discorsi veridici e la genealogia dei regimi di veridizione? Cosa hanno in comune e cosa invece di inconciliabile sul piano metodologico e nella finalità critica? 3. La figura di Canguilhem rappresenta anche un punto di riferimento per il Circolo di epistemologia. Non è un caso se i Cahiers pour l’analyse, il suo organo ufficiale, portano, come exergo di ogni volume, una frase di Canguilhem, che ha per oggetto il modo di concettualizzare: Lavorare un concetto significa farne variare l’estensione e la comprensione, generalizzarlo attraverso l’incorporazione dei tratti d’eccezione, portarlo fuori dalla sua regione d’origine, prenderlo come modello o al contrario cercargli un modello, in breve conferirgli progressivamente delle trasformazioni regolate dalla funzione di una forma.13
Il concetto perde la sua funzione di ‘contenere’ o ‘spiritualizzare’ la realtà. Non la sussume e non la trascende ma opera in una realtà che gli sfugge e non potrà essere compresa nella sua totalità. Il lavoro da fare sul concetto non riguarda solo l’analisi della sua portata comprensiva, della sua possibilità di incorporare l’eccezione, del suo essere un modello, ma anche e soprattutto la sua genealogia (cercargli un modello) e le sue trasformazioni storiche. Il lavoro sul concetto è il lavoro del concetto, è l’attività di concettualizzazione, che per Canguilhem è attività storico-critica. I membri del Circolo assumono come propria questa idea del concetto 12 13
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, cit., p. 318. G. Canguilhem, Dialectique et philosophie du non chez Gaston Bachelard (1963), in G. Canguilhem, Etudes d’histoire et de philosophie des sciences concernant la vie et les vivants, Vrin, Paris 1994, p. 206.
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e si concentrano in particolare sui criteri di formalizzazione delle scienze, sia umane sia di analisi. Se Canguilhem criticava la storia della scienza concepita come progresso della Ragione e rivelazione di una Verità da sempre inscritta nelle cose, anche questi normaliennes, allievi di Althusser e Lacan, assumono come oggetto polemico la Scienza, di cui però mirano a decostruire la vocazione ideale. Ed infatti il numero 9 dei Cahiers, dedicato alla ‘Genealogia delle scienze’, tematizza proprio lo smontaggio della Scienza ideale a cui è contrapposta la ricerca di un Ideale della scienza. Cosa si gioca in questa opposizione? L’obiettivo teorico del Circolo è la ricerca di un metodo di analisi formalistico ispirato alle scienze di analisi, alla matematica e alla logica. Gli antichi allievi di Althusser si confrontano, proprio sulle pagine dei Cahiers, con testi di logica, linguistica, psicanalisi e con tutte le scienze di analisi, che possano contribuire «alla costituzione di una teoria del discorso»14. Perciò per questi normaliennes, l’epistemologia è «storia e teoria del discorso della scienza»15. Il termine discorso è assunto nel senso di un processo del linguaggio che «obbliga la verità», a cui si contrapporre il discorso analitico, il discorso «che si riduce a mostrare delle unità che si producono e che si ripetono qualunque sia il principio che esso assegna alle trasformazioni che giocano nel suo sistema»16. Dunque il loro obiettivo è la ricerca di una teoria che tratti i concetti come elementi di una combinatoria. La riflessione sui criteri di formalizzazione del discorso è, infatti, il modo attraverso cui viene posto il problema della verità, cioè della validità/veridicità dei concetti scientifici e dell’effettualità, dei loro effetti di verità sul soggetto. Non è un caso se il primo numero dei Cahiers si apre proprio con un testo di Lacan, La scienza e la verità, lezione inaugurale del seminario tenuto all’Ecole Normale, nel 1965-66, su L’oggetto della psicanalisi, nel quale viene posto il problema dello «statuto del soggetto nella psicanalisi»17. Per Lacan, infatti, il soggetto della psicanalisi è tutt’uno con il soggetto della scienza. Entrambe facendo della verità una acquisizione provvisoria e falsificabile, la considerano non come punto di arrivo definitivo ma come movente della loro pratica. La ‘posizione’ del soggetto della psicanalisi, dunque, non coincide con la ‘posizione’ del soggetto/coscienza della filosofia. 14 15 16 17
Avertissement, «Cahiers pour l’analyse», 1966, n.1, p. 5. Ibidem. Ibidem. J. Lacan, La science et la vérité, in «Cahiers pour l’analyse», 1965, n.1, pp. 9-30 ; trad. it. La scienza e la verità, in Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 859.
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Lacan propone una lettura formalistica e non antropologico/umanista del discorso psicanalitico. La ricerca di un modello formalistico è, in realtà, il rovescio della critica rivolta a quelle scienze dallo statuto epistemologico incerto, le scienze umane, che fanno del soggetto/coscienza il referente dei loro discorsi. Le scienze umane diventano l’oggetto di un’aspra polemica, poiché in quanto discorsi a pretesa di verità hanno degli effetti ‘costrittivi’ sulla vita degli individui. L’obiettivo principale dei membri del Circolo è, dunque, di interrogarsi sulla scientificità della psicanalisi, e cercare di reintrodurre il soggetto nella scienza, eludendo la via psicologistica, attraverso l’uso della logica come nuovo strumento di una analisi concettuale. Con Scienza ideale si intende, dunque, il discorso a pretesa di verità, il discorso delle scienze umane, che obiettiva e obbliga il soggetto ad una posizione, vincolandolo ad una Verità. L’Ideale della scienza, è invece il termine con cui si riassume la ricerca di principi ideali di formalizzazione, cioè di una scienza che non supponga un soggetto. Attraverso il riferimento congiunto ad Althusser e a Lacan, i membri del Circolo pongono il problema della verità in due modi congiunti. Prima di tutto considerano la verità come ordine, come struttura significante, dunque come catena che colloca il soggetto in una posizione, assoggettandolo alle regole del suo ordine. In secondo luogo fanno della verità, del ‘dire la verità’, l’elemento distintivo del soggetto della psicanalisi, che appunto in questo si differenzia dal soggetto psicologico. È da qui, da questo luogo, che provengono a Foucault delle domande sulle possibilità di formalizzazione che derivano dal metodo archeologico, in particolare sul concetto di rottura epistemologica, attraverso cui la discontinuità viene eletta a criterio storiografico, e sulle conseguenze di questa scelta per una critica all’antropologia supposta delle scienze umane. Chiaramente ci sono molte differenze – che emergeranno nella Risposta di Foucault – tra la prospettiva del Circolo e la scelta metodologica dell’archeologia, prima tra tutte le professione di pluralismo che Foucault fa valere contro la ricerca di una Teoria del discorso. Tuttavia, nonostante Foucault sottolinei che il suo problema non è quello della scienza, né quello della conoscenza, né la ricerca di una teoria del discorso, ammette che le regole e i giochi che permettono l’apparizione di un certo tipo di discorso, sono le regole e i giochi da cui il soggetto è determinato. Le condizioni di esistenza di un discorso, ciò che l’archeologia prende in esame, sono anche le condizioni attraverso cui il soggetto viene situato e perciò supposto. 4. Che cosa hanno, dunque, in comune la storia dei discorsi veridici e la genealogia dei regimi di veridizione? Entrambe queste ‘storie’ fanno del
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‘discontinuo’ un criterio storiografico e considerano nietzscheanamente la verità un valore tra i valori, dunque un prodotto umano. Anche la storia epistemologica è, infatti, una storia genealogica. Canguilhem definisce le proprie ricostruzioni come delle genealogie logiche dei concetti e delle verità scientifiche. Tuttavia il campo della sua ricerca rimane quello ‘regionale’ della razionalità scientifica, dei suoi oggetti e dei suoi metodi, mentre la genealogia foucaultiana riguarda la governamentalità, cioè l’intreccio tra saperi e pratiche politiche. Ma la differenza maggiore tra le due, risiede in un elemento che Foucault stesso sottolinea, tra le righe. L’elemento su cui si articola la storia dei discorsi veridici è la coppia verità/errore mentre la genealogia dei regimi di veridizione si articola su quella vero/falso18. Questa è la differenza più importante che determina la diversa finalità delle due storie. Nella misura in cui la storia dei discorsi veridici è storia di come si producono le verità scientifiche, il lavoro critico dell’epistemologo coincide con uno smontaggio della supposta assolutezza di tali Verità. Questo non significa negare l’esistenza della verità della scienza, ma legare il dir vero della scienza alle condizioni che lo rendono dicibile. Per esempio, Canguilhem non nega l’utilità di un concetto come normalità in ambito medico, ma analizza i criteri in base a cui viene definita, mostrando come la norma media non è un dato ma un prodotto statistico.19 Foucault, invece, tracciando la sua genealogia dei regimi di veridizione, è interessato a come, attraverso quali saperi e quali pratiche, si afferma un certo ordine di cose che permette di discriminare il vero e il falso, e come questa partizione ha degli effetti sul soggetto. Il lavoro critico della genealogia foucaultiana è concentrato proprio su tali effetti di verità. Sotto questo punto di vista, pur mantenendosi lontano dalla prospettiva del Circolo, cioè dalla ricerca di Teoria del discorso, Foucault condivide l’idea della Verità come struttura costrittiva, come ordine – l’ordine di un discorso non monolitico ma plurale – che obbliga il soggetto. È da questa prospettiva che la questione biopolitica appare completamente centrata sul rapporto ‘strutturale’, posto in termini di veridizione, tra governo e soggetto. Foucault, da un lato mostra come l’economia diventa una razionalità di governo, cioè come il mercato diventa criterio di ‘veridizione’, ed in quanto tale legittima la politica, la sua bontà e la sua efficacia. Dall’altro sottolinea come l’economico diventa criterio di valuta18 19
Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 42. G. Canguilhem, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique, Publications de la Faculté de Lettres de Strasburg, 1943, 19662; trad. it. Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1988.
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zione di ogni altro aspetto della realtà. La psicologia comportamentista di Skinner combinata con la lettura bioeconomica del comportamento umano fatta di Becker, mostrano come l’economia diventa anche la base di una scienza dell’uomo. Foucault individua chiaramente la condizione che rende possibile questo stato di cose. Dal momento in cui viene definita razionale «ogni condotta che risulta sensibile a delle modificazioni entro le variabili dell’ambiente e che vi risponde in modo non aleatorio, e dunque sistematico»20 – da questo momento l’uomo può diventare il punto di presa indiretto attraverso cui regolare i meccanismi del mercato. Quest’uomo è, precisamente, «colui che risponderà sistematicamente alle modificazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente nell’ambiente»21. Foucault commenta perciò che questo uomo, l’homo oeconomicus, «è eminentemente governabile», nella misura in cui è oggetto di calcolo. Come è noto, Comte sottolineava che il calcolo, da cui la previsione, è la vera prestazione di ogni scienza. Soffermiamoci su questa ‘calcolabilità’ come possibilità di prevedere e quindi di governare e chiediamoci: qual è l’elemento a partire dal quale si può articolare una scienza dell’uomo? Nella Genealogia della morale, Nietzsche faceva risiedere la possibilità di rendere l’uomo «calcolabile, regolare, necessario»22 in quella contabilità della volontà, nella quale consiste la facoltà di fare promesse. Nel «continuare a volere quel che si è voluto una volta»23, nel pensare secondo causalità, nell’aver imparato «a vedere e ad anticipare il lontano come il presente», l’uomo ha imperato a diventare calcolabile, cioè «a fare di se stesso la sua propria rappresentazione, per poter alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di uno che fa una promessa»24. Il presupposto di questa ipoteca su di sé è il concatenamento degli atti volitivi. Nel momento in cui l’uomo può rispondere di sé come uno che fa una promessa, facendo di sé l’oggetto della propria volontà, è questo il momento in cui è diventato calcolabile. Il lavoro secolare svolto da quella che Nieztsche chiama eticità dei costumi – l’obbedienza ai costumi di qualsiasi genere siano, cioè al modo tradizionale di agire e valutare25 – è 20 21 22 23 24 25
M. Foucault, Nascita della biopolitica , cit., p. 219. Ivi, p. 220. F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), trad. it. Genealogia della morale, Adelphi, Milano 19681, 1992, p. 46. Ibidem. Ibidem. F. Nietzsche, Morgenröthe. Gedanken über die moralischen Vorurtheile, (1881); trad. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, Adelphi, Milano 20018, pp. 12-15.
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proprio quello di produrre l’individuo sovrano, cioè l’uomo «uguale soltanto a se stesso», l’uomo «dalla durevole volontà»26. È in questo prodotto che risiede per Nieztsche il vero problema politico ed etico dell’umano: «allevare un animale cui sia consentito fare promesse».27 Foucault, però, sullo stesso problema presenta un quadro differente. L’uomo del neoliberalismo, dice, è eminentemente governabile perché «è colui che accetta la realtà»28. Qual è l’elemento, implicato in questo ‘accettare’, nel quale risiede la possibilità di articolare una scienza dell’uomo? Prima di tutto questo ‘accettare’ non riguarda la volontarietà del soggetto, che è alla base del meccanismo giuridico della rappresentanza, e neppure il consenso come elemento fondamentale nelle società democratiche, ma un altro piano, che si potrebbe definire ‘inconscio’, strutturale. L’interdipendenza tra tecnologie di governo e soggetto di governo – per cui l’homo oeconomicus è il partner del governo – riguarda il piano ‘epistemologico’, precisamente il piano delle condizioni, attraverso cui si struttura una certa realtà e, parallelamente, si affermano certi modi di soggettivazione, nel senso ‘negativo’, di essere soggetti. È in quanto si dispone perfettamente su un certo asse di realtà, quello dell’economia estesa a criterio universale di valutazione, che l’homo oeconomicus ne è il soggetto elettivo. Ma che cosa ancora una volta lo rende calcolabile? Foucault, analizzando come il neoliberalismo americano reintroduce nell’analisi economica homo oeconomicus, sottolinea quanto questa operazione renda necessaria «un’analisi di ciò che egli è in quanto tale, una scomposizione dei suoi comportamenti e dei suoi modi di agire in termini di utilità, che si riferiscono a loro volta ad una problematica dei bisogni, poiché è a partire da questi bisogni che potrà essere caratterizzato o definito»29. Ma soprattutto e in particolare, i neoliberali – il riferimento è a Becker – vanno oltre la teoria classica dell’homo oeconomicus, considerato come partner del processo di scambio in quanto consumatore. Questo homo è anche produttore, non di beni, ma di sé. Il neoliberalismo considera «il consumo come un’attività di impresa attraverso la quale l’individuo, a partire da un certo capitale di cui dispone, produrrà qualcosa che sarà la propria soddisfazione»30. Questo uomo produttore della propria soddisfa-
26 27 28 29 30
F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit., p. 47. Ivi, p. 45. Ibidem. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 186. Ivi, p. 187.
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zione è un «imprenditore di se stesso»31. È questo uomo quello che ‘accetta la realtà’ perché gli oggetti della sua soddisfazione, intesi in senso materiale e immateriale, sono immanenti a questa realtà. L’elemento che lo rende calcolabile, prevedibile e uguale a se stesso, non è il concatenamento degli atti volontari, ma il fatto che non trascendendo questa realtà, essendo assolutamente dentro, non può che essere in quel modo, non può che stare a quelle condizioni di verità e, perciò, a certe regole e modi di divenire soggetto. Ciò che rende il soggetto calcolabile è l’intrascendibilità della ratio oeconomica, che lo rende regolare nella misura in cui i modi e gli oggetti attraverso cui produce la propria soddisfazione e dunque anche se stesso, sono da essa condizionati. Quindi, da un lato la prevedibilità dell’uomo dalla durevole volontà, di cui si può dire che l’azione sarà sempre l’effetto di quella volontà prima, dall’altro la prevedibilità dell’uomo che accetta la realtà, cioè l’uomo i cui comportamenti, modi di fare, e persino il cui rapporto con sé è determinato dalla realtà in cui è situato. Se per Nietzsche il problema etico e politico dell’umano è legato all’analisi storico-genealogica di come è stato possibile, attraverso il lavoro dell’uomo su si sé e il lavoro dell’eticità dei costumi, allevare un animale capace di fare promesse e in quanto tale governabile; il problema foucaultiano è invece quello di ricostruire storicamente come gli uomini sono governati dalla verità, cioè come le cose diventano vere e come in quanto tali sono oppressive32. La genealogia dei regimi di veridizione pone il problema dell’uomo ancora una volta nei termini di effetto di superficie del gioco tra saperi e pratiche, ma questa volta con un chiaro riferimento agli effetti di soggettivazione, incrociando scienza dell’uomo e investimento autoproduttivo di sé. Se la condizione di possibilità dell’allevamento33, di cui parla Nietzsche, risiede e fa presa sull’idea dell’uomo come soggetto di volontà, le condizioni di possibilità di un governo degli uomini, nel quadro che presenta Foucault, sono da cercare nei modi in cui la realtà si struttura e, di conseguenza, come le cose divenute vere governano gli uomini, regolandoli dall’esterno e fornendo una verità come principio interno di autoproduzione del sé. Infatti Foucault nota che l’idea di un governo degli uomini 31 32 33
Ibidem. Ivi, p. 43. Per una lettura che, invece, mette in evidenza i legami tra biopolitica foucaultiana e allevamento nietzscheano cfr. M. Cammelli, La «razza»: fra scienza e allevamento, in «Filosofia politica», n. 3, 2003, pp. 419-435.
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è concentrata più «sulla natura delle cose che sulla natura malvagia degli uomini»34, più su una azione indiretta che sull’uomo direttamente. La sua operatività è strutturale e strutturante. Pertanto la questione foucaultiana non è incentrata sulla docilizzazione dell’animale umano, in modo tale da metterlo in una condizione di asservimento ‘volontario’, quanto sulla verità istituita come fattore determinante nella costituzione di certi modi di vita e come struttura che obbliga a certe forme di soggettivazione.
5. Se si legge la ‘diagnosi’ sulla biopolitica attraverso il problema della veridizione, ci troviamo davanti ad una serie di questioni altre rispetto a quelle che si pongono nell’ambito di una storia dei concetti e delle idee. Non si tratta di riflettere sulla biopolitica nei termini di categoria politica, dunque, sulla problematicità del suo statuto ‘concettuale’. Non si tratta neppure di ricercare, facendo i conti con la rimozione della vita dall’ordine politico, l’origine dimenticata del rapporto vita/politica, come chiave di lettura del destino politico dell’Occidente. Il problema che Foucault pone, attraverso l’analisi dei regimi di veridizione, è piuttosto quello del rapporto verità/diritto, non in termini giuridici, ma in termini epistemologici. Analizzare i regimi di veridizione, cioè come l’istituzione di un certo diritto di verità stabilisce una partizione tra vero e falso, significa puntare l’attenzione sulla ‘costituzione della realtà’ e sui modi in cui il soggetto vi ‘accede’. La questione del diritto di verità, come questione epistemologica, è radicalmente politica, perché riguarda le condizioni che permettono di legittimare certe pratiche politiche e di conseguenza certi modelli di individualizzazione, e di indicare i soggetti che vi accedono, quelli adatti. In questo modo, non può che porsi, parallelamente, il problema degli operatori di selezione. Nel corso Difendere la società Foucault aveva ricostruito il funzionamento di una discriminante biologica nei razzismi dal XIX al XX secolo. Essa opera permettendo di fare una distinzione tra la buona e la cattiva razza. La necessità di operare una cesura, di distinguere tra noi e gli altri, e lo spostamento del criterio di selezione, è conseguenza di tutta una redistribuzione del sapere. Foucault infatti analizza, attraverso 34
M. Foucault, Securité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-78, Gallimard-Seuil, Paris 2004 ; trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78, Feltrinelli, Milano 2005, p. 48.
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la trasformazione della storiografia politica, come cambiano i criteri di attribuzione dell’identità di gruppo. Il passaggio dalla storia alla biologia come elemento individualizzante, è precisamente il passaggio dalla storia della stirpe alla storia della etnia, dalla stirpe alla nazione. I razzismi operano correggendo e particolarizzando la pretesa universalizzante del concetto di razza nel senso biologico. Laddove, infatti, la razza intesa nel senso biologico come razza umana presuppone una uguaglianza di fondo, il razzismo si pone come operatore di distinzione all’interno dell’umano. Stabilisce così una cesura nel continuum biologico, rendendo così possibile una selezione, all’interno di un piano omogeneo, tra chi deve vivere e chi deve morire.35 L’affermazione dell’economia come razionalità di governo, a partire dal XVIII secolo, e la generale riorganizzazione del sapere, porta ad una trasformazione dei criteri di individualizzazione del soggetto collettivo: non più il popolo ma la popolazione, dunque non più il bio/etnico ma il bio/ economico. Allora uno dei problemi che emerge dalla lettura foucaultiana è precisamente quello dei criteri che permettono di operare una selezione. All’interno di un unico piano di realtà, quello dell’economia, qual è il criterio che permette di selezionare all’interno del piano continuo della specie come soggetto bio/economico? La selezione si opera facendo una distinzione qualitativa tra le vite. È quanto emerge dall’analisi del concetto di capitale umano, fornito dalle teorie neoliberali. Il capitale umano è, infatti, preso in esame nella sua doppia veste di innato e acquisito. Sotto il primo punto di vita, la genetica, scienza allora ai primi sviluppi, permetterà di individuare i fattori di rischio-malattia presenti nel corredo genetico dell’individuo e di conseguenza le eventuali unioni a rischio. Il fattore di pericolosità si sposta dalla razza all’individuo, tuttavia l’individuo pericoloso non è quello che manifesta le stigmate della follia o della degenerescenza, ma colui nel cui corredo genetico ci sono dei difetti. Foucault ribadisce che il problema dell’applicazione della genetica alle popolazioni non ha niente a che fare con il razzismo, ma riguarda in generale la questione del miglioramento del capitale umano, ed in questo senso è un problema politico. Chiaramente, la possibilità di individuare i fattori di rischio presenti in un corredo genetico funziona da elemento selezionatore all’interno della vita biologica, perché permette di operare delle gradazioni qualitative e di 35
M. Foucault, Il faut defendre la société. Cours au Collège de France 19751976, Seuil-Gallimard, Paris 1997; trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, ‘Bisogna difendere la società’. Corso al Collège de France. 1975-76, Feltrinelli, Milano 1997, p. 220.
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individuare coloro che hanno un corredo genetico raro. Allora non più la buona e la cattiva razza, o l’individuo pericoloso che mette a rischio, con i suoi fattori di degenerescenza, la popolazione, ma la rarità del corredo genetico, come fattore su cui investire. Ma al di là di questo piano specifico, c’è un livello più generale di selezione che viene messo in questione attraverso l’analisi foucaultiana dell’economia come ratio di governo. Il mercato come criterio di veridizione del governo, non può che essere anche il criterio in base a cui qualificare le vite e i modi di vita, e distinguere tra chi sta alla realtà, questa realtà, e chi non sta alla realtà. Alla partizione tra le vite degne e vite indegne, subentra quella tra vite che entrano nel conto e quelle di scarto36. Tra ciò che per il mercato è visibile e perciò esiste, e ciò che è respinto verso la non esistenza di cui non si tiene conto. E questo comprende pratiche, discorsi, richieste, soggetti e forme di soggettivazione. La ‘discriminante di realtà’ opera non attraverso la partizione tra la buona e la cattiva razza, ma facendo una distinzione qualitativa e graduale delle vite, nel senso biologico e psichico, in base ad un criterio economico, tra ciò che è tenuto in conto e ciò che non lo è. L’effetto di questa discriminante non è meno tragico, perché sono sempre delle vite ad esserne l’oggetto: non più le vite indegne o infami, non più le vite che non meritano di essere vissute per una tara o un difetto razziale, ma le vite irrilevanti, le vite che non hanno diritto di realtà, che non sono in diritto di realtà37. È questo il punto: come all’interno di un medesimo ordine di realtà i giochi del vero e del falso danno diritto di esistenza a delle vite e ne respingono altre verso la non esistenza, convalidando certe norme e certi modi di agire e squalificandone altri, realizzando certi modi di essere soggetto, di pensare e di agire e derealizzandone altri, riconoscendo gli uni e disconoscendo gli altri. Porre il problema della biopolitica allora coincide col porre la questione della verità come problema politico, cioè come si instaura quell’ordine di parole, attraverso quali saperi, e di cosa, attraverso quali pratiche, che fa sì che la vita sia regolata, la vita della specie e la vita dell’esemplare umano, in quel modo e a quelle condizioni. Detto en passant, da questo punto di 36 37
Foucault prende come esempio di soggetto fuori dal conto, il Terzo-Mondo che viene considerato economicamente un soggetto debole perché non vi si fa un investimento adeguato sul capitale umano. «La bio-politica (Foucault) è portatrice di una tale oscillazione dal momento che seleziona, sceglie ed imprime quelle certificazioni di appartenenza ad un regime di cura in grado di assegnare valore alla parte di umanità che ne gode e disvalore a quella che ne è esclusa». A. Putino, Amiche mie isteriche, Cronopio, Napoli 1999, p. 59.
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vista si capisce come il rovescio di questa biopolitica, della biopolitica letta attraverso la verità come fattore politico, non può che essere la ricerca di altri giochi del vero e del falso, in cui il soggetto non sia supposto da un discorso che lo sovrasta, e perciò sia incalcolabile.38 Allora, per concludere, quale elemento irrinunciabile offre Foucault all’analisi politica? Con e oltre Foucault si tratta di fare una analisi del governo non come categoria di storia delle dottrine politiche ma attraverso la domanda: come ‘gli uomini sono governati dalla verità?’. Non si può più prescindere dal prendere in considerazione l’aspetto ‘soggettivo’, cioè il fatto che qualsiasi tecnica di governo è anche una tecnica del soggetto, un modo in cui il soggetto si trova eterodeterminato. Dunque non la teoria del governo ma l’effettualità del governo, non il governo giusto o ingiusto, legittimo o illegittimo, non in base a quale principio ma come gli uomini in quanto tali vengono – attualmente – governati. Questa analisi rimane una analisi storico-genealogica e rimanda a quell’aspetto, nietzscheano, di utilità della storia per la vita, che consiste nel porre criticamente il problema dell’uomo – di che cosa è divenuto – per fare sì che l’avvenire possa essere liberato da ciò che lo ipoteca.
38
A. Putino, Incarnazioni, in L’espressione, n. 2-3, 2005, p. 69.
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8 FOUCAULT E LA GENEALOGIA DELL’INFANZIA di Eleonora de Conciliis a Letizia Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze [...] nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Jean Jacques Rousseau, Emilio
Foucault non ha mai scritto un libro sull’infanzia, né le ha mai dedicato un corso. Tuttavia, a partire da alcuni spunti presenti nei suoi testi e soprattutto nei corsi dei primi anni settanta, è possibile ritagliare una sorta di genealogia dell’infanzia moderna, e forse anche postmoderna, servendosi di un presupposto squisitamente nietzscheano: non esiste l’infanzia come valore, o il bambino in sè, perchè l’infanzia è stori(c)a, è una creazione prospettica, una sorta di posta in gioco transvaloriale nel governo dei viventi – una specifica posizione d’inferiorità nelle relazioni di potere. Se l’uomo, come soggetto-oggetto delle scienze umane, è un’invenzione recente, anche il bambino è un’invenzione recente dell’uomo adulto1. Esso è un’invenzione alla seconda potenza, doppione artificiale di quel doppione artificiale che è l’allotropo empirico-trascendentale. Dacché è apparso l’uomo, è apparsa l’infanzia come suo doppio rimpicciolito, oggettivabile, disciplinabile, inferiore. Questo processo si è basato su un altro processo, quello di ominazione, ovvero su una caratteristica 1
Cfr. M. Foucault, Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2006, p. 13: «i bambini non inventano mai niente; sono gli adulti, invece, che hanno inventato i bambini e sussurrato loro mirabili segreti, anche se poi restano sorpresi quando i bambini glieli urlano a loro volta nelle orecchie».
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specifica in forza della quale il cucciolo umano rimane immaturo per lunghi anni2; pur se innestata su di un ritardo biologico, si tratta però di un’escrescenza storico-culturale: la ‘figura’ artificiale del bambino è il frutto delle moderne scienze del bambino3. Quali sono i contorni genealogici di questa figura? C’è, in Foucault, un’analitica del potere sull’infanzia? Dai testi e dai corsi sembra emergere un’infanzia double face, o, per così dire, a doppio bordo. Da un lato, essa è stata creata da e per l’assoggettamento, per cui alla domanda (proveniente, non a caso, dalla genealogia della follia): si può far parlare all’infanzia il suo linguaggio? l’infanzia ha un suo linguaggio?, si deve rispondere che, in quanto infans, il bambino non ha un suo linguaggio, ma ripete ciò che sente: è oggetto di un linguaggio che, nel soggettivarlo, lo inferiorizza. In tal senso i bambini appaiono sulla scena del moderno come degli infra-soggetti, come il rovescio, o la faccia assoggettata del soggetto: l’infanzia si presenta come una delle tante «condizioni d’inferiorità», sorta di ombre comparative del soggetto ‘forte’, costituite, nella modernità, da tutto un insieme di discorsi d’inferiorizzazione (medico, penale, sessuale, e ovviamente pedagogico).4 Dall’altro lato però, in qualità di anti-soggetto, il bambino incarna una possibilità di resistenza; e questo non perché venga risparmiato dal potere (non c’è soggettivazione che possa restare fuori dalle sue relazioni asimmetriche), ma perché esprime una resistenza al potere dal di sotto: fa finta di assecondarlo per poterlo ingannare. Come il ‘piccolo’ kafkiano, che resiste al potere paterno pur soccombendovi5, egli gioca con i grandi e con le loro regole: possiede la tipica furberia dell’inferiore, dell’isterico simulatore, la cattiveria dell’animale in gabbia. Il bambino sta sul bordo inferiore del 2
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Mi riferisco in particolare all’ipotesi della ‘fetalizzazione’ metabolica dell’uomo elaborata da Bolk nel 1926, e ripresa sia dall’antropologia filosofica di Gehlen e Plessner, che da Lorenz e Lacan: cfr. L. Bolk, Il problema dell’ominazione, a cura di R. Bonito Oliva, DeriveApprodi, Roma 2006. Secondo questa ipotesi, non solo “il bambino è il padre dell’uomo”, ma il carattere regressivo e conservativo della crescita umana minaccia di trasformare il prolungamento culturale dello stadio infantile o adolescenziale in una lenta atrofia biologica (neotenia), e infine nell’estinzione dell’uomo civilizzato. Cfr. AA.VV., Per una sociologia dell’infanzia, a cura di H. Hengst e H. Zeiher, Franco Angeli, Milano 2004. Su ciò cfr. P. Di Vittorio, La parabola della follia, in AA.VV., Moltiplicare Foucault vent’anni dopo, a cura di O. Marzocca, Mimesis, Milano 2004, pp.16-17. Su ciò cfr. E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, in Id., La coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1980; G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1997.
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linguaggio: mentre l’infanzia è un rassicurante prodotto-coperchio delle scienze umane, egli la eccede, le sfugge come inferiorità inquietante, astuta e malvagia, che dev’essere addomesticata, medicalizzata e indebolita. Riemerge infatti, dalle sabbie mobili del premoderno, una sorta di paura del mondo adulto di fronte al mistero linguistico che il bambino incarna, un’inconfessabile angoscia per la sua piccola trascendenza6, per il ‘fuori’ di questo non-essere infantile che sembra provenire dal nulla della morte.7
1. Infanzia e follia Com’è noto, nei capitoli di Storia della follia dedicati alla liberazione dei folli ed alla nascita del manicomio8, la pazzia appare come residuo del grande internamento. Siamo alla fine del Settecento, e si fa strada l’idea che la società bene ordinata debba proteggere ed assistere gli esseri più deboli e sventurati, cioè i bambini e i folli. Tale associazione è fondata sul nuovo concetto, illuministico, di specie umana, che preannuncia quello, ottocentesco, di sviluppo: l’uomo è caratterizzato da un enorme ritardo nella maturazione, che rappresenta la sua specifica deficienza; ciò rende necessario assistere i piccoli, ma consente anche di progettare un’utopica ‘coltivazione’ della pianta umana. Nello stesso tempo, vi è un ridimensionamento della follia: la follia non fa più paura come ‘bestialità’, non affascina più, e non è neppure una possibilità di errore che sta ‘dentro’ la ragione; decisamente rimpicciolita, essa viene ora paragonata alla piccolezza infantile: vi si scorge un’«animalità mite», «un segreto di natura, [...] e tuttavia [...] familiare che avvicina l’insensato 6
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La trascendenza del bambino, con i suoi segni demonici, rinvia alla sua antica e capricciosa sovranità: fino all’inizio del XX secolo un fanciullo o un adolescente poteva diventare re (Caligola rinvia a Luigi XIV, ma anche all’ultimo imperatore della Cina), e ancora oggi l’incarnazione del Dalai Lama in un bambino è accettata da buona parte dei buddhisti. «Secondo alcuni popoli, la massa dei morti è il vivaio da cui provengono le anime dei neonati», E. Canetti, Massa e potere, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano 1990, vol. I, p. 1051. In questa prospettiva, i bambini vengono dall’al di là del non-ancora e vanno verso quello del non-più: crescendo essi si abituano al mondo e dimenticano la trascendenza oscura da cui provengono, mentre i vecchi sembrano ricordarla ridiventando bambini, cioè preparandosi a morire. Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1994, in part. pp. 366-369.
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all’animale domestico e al bambino»9. In altri termini, per sentirsi superiore, per intronizzarsi come scienza e deificarsi (avocando così a sé la trascendenza ormai espulsa dalla follia), il neonato potere manicomiale deve potersi esercitare su qualcosa che è considerato naturalmente, biologicamente piccolo10, e allora: «il folle è un bambino»11, dirà Fournet nel 1854. Come il bambino sta al di sotto, al di qua della ragione, così il folle ne sta al di là, al di fuori; ciò che li accomuna, è la deficienza come inferiorità: con lo stesso gesto, la ragione espelle da sé sia l’infanzia che la follia.12 Nelle pagine dedicate al ‘quacchero’ Tuke13, Foucault è esplicito: per costui lo psichiatra è uguale al pedagogo; entrambi sorvegliano, puniscono ed esercitano un asimmetrico potere di linguaggio e giudizio sugli internati14. Tuke considera la follia uno stato di minorità che legittima la sovranità semidivina del guardiano, del pedagogo o dello psichiatra sul folle-bambino, il «prestigio dell’uomo di ragione, che assume per lui l’aspetto concreto dell’adulto, cioè a un tempo di dominio e di destinazione»15. Da un lato, l’adulto si moltiplica in padre-guardiano-medico-insegnante – catena di figure che intrappolano l’inferiore; dall’altro, la follia viene catturata, addomesticata, grazie all’asimmetria comparativa grande-piccolo, adulto9 10
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M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 369. Cfr. la “differenza di potenziale” nelle relazioni di potere efficacemente riassunta da un interlocutore di Foucault (A. Grosrichard) in una conversazione del 1977: «abbiamo sempre bisogno di qualcuno più piccolo di noi», in M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti 1957-1984, a cura di M. Bertani e P. A. Rovatti, Cortina, Milano 2006, p. 162. J. Fournet, Le traitement morale de l’aliénation, cit. da M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74, a cura di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p. 109. Una ben diversa correlazione tra infanzia (nonchè vecchiaia) e follia era stata invece quella tratteggiata da Erasmo da Rotterdam nel par. XIII del suo celebre Elogio della follia: non ancora nel segno dell’inferiorità, bensì in quello della graziosa, innocente giocosità. Su ciò cfr. i termini «dequalificanti» amentes e dementes usati da Cartesio nella Prima Meditazione, e l’analisi che ne fa Foucault ne Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, famosa appendice a Storia della follia (ed. cit., pp. 493-494), scritta per rispondere alle critiche di Derrida. Cfr. M. Foucault, Storia della follia, cit., pp. 418-419. Si tratta di Samuel Tuke, autore di Description of the Retreat (1813) e figlio del fondatore del Ritiro, William. Sono aiutati, in questo, dai sorveglianti veri e propri, come le suore o i frati nei seminari e nei conventi, mutuati dunque dalle gerarchie ecclesiatiche; l’autorità di queste figure intermedie (mediocri) deriva paradossalmente dal fatto che, pur essendo adulti (fisicamente grandi), obbediscono ai superiori. M. Foucault, Storia della follia, cit., p. 419.
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bambino: «Nel Ritiro [= asilo] tutto è organizzato in modo che gli alienati siano come minorenni. Li si considera bambini»16 che hanno solo più forza dei bambini veri e sono perciò più pericolosi. Nel complesso, alla fine del ‘700 la follia rappresenta «qualcosa che non ha diritto all’autonomia e non può vivere che innestato sul mondo della ragione. La follia è infanzia»17; ma, allora, vale anche la reciproca: l’infanzia è follia. Questa follia buona, mite, la si lascia parlare perchè parla un linguaggio inferiore: sia il folle che il bambino dicono solo stupidaggini e il loro brusio insensato, che confina col silenzio, necessita di cure specifiche. L’internamento dei folli e dei bambini è una sorta di semilibertà, una gabbia ortopedizzante in cui il bambino cresce e il folle rinsavisce: se quello dei folli costituisce l’accompagnamento verso la guarigione (= terapia), l’internamento dei bambini si delinea come un percorso obbligato verso l’età adulta (= disciplina). Il disciplinamento dell’infanzia è dunque parallelo a quello, riduttivo, della follia. Ma l’analogia tra infanzia e follia comporta anche un altro parallelismo, di carattere politico: la percezione della follia come inferiorità implica la percezione dell’infantilità e della puerilità anche nell’adulto come inferiorità. L’infanzia, oltre che un’età separata18, diventa così una categoria d’interpretazione e di governo del comportamento umano, una categoria biopolitica. Dal punto di vista genealogico, ciò che Foucault chiamerà potere psichiatrico eredita questa categoria dalla religione cristiana, per almeno tre ordini di ragioni: 1) è stata la confessione penitenziale ad esercitare per prima un potere-sapere pedagogico sull’infanzia in modo da differenziarla e valorizzarla rispetto all’età adulta; 2) il culto del dio-fanciullo (il bambino Gesù dell’iconografia religiosa), indicato dalla chiesa come modello piccolo (inferiore, cioè debole) ma allo stesso tempo 16 17 18
Ivi, p. 418. Ivi, p. 418, corsivo mio. Tra Cinque e Seicento, oltre alla letteratura per l’infanzia (da Perrault a La Fontaine), nasce l’iconografia dell’infanzia: mentre nel medioevo i bambini non erano oggetto di rappresentazione pittorica a sé, a partire dal Rinascimento la religione fornisce una nuova immagine pura e innocente, cioè ‘divina’, del fanciullo (cfr. le numerose Madonne col bambino); successivamente l’iconografia tenderà a separare la dimensione dell’età infantile da quella adulta: l’innocenza e la purezza diverranno caratteristiche da cogliere nella fisionomia individuale prima che spariscano, o da tutelare attraverso l’educazione. All’iconografia dell’infanzia appartiene anche Las Meninas di Velazquez, la cui celebre analisi apre Le parole e le cose: cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1996, pp. 17-30.
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irraggiungibile di purezza e innocenza, è stato il cavallo di Troia del pastorato cristiano sull’infanzia19; 3) nella modernità è stata soprattutto la controriforma ad aver bisogno, politicamente, di infantilismo, di infantilizzare la popolazione-gregge per indurre la credenza e l’obbedienza. La religione produce dei comportamenti puerili, e non sarebbe possibile senza di essi: l’autorità religiosa è un governo dei grandi sui piccoli. Ma, come governo sugli uomini-bambini, il pastorato va incontro a metamorfosi storiche. Perciò la domanda che bisogna porsi, è la seguente: in che modo il potere governamentale esercita oggi, avendola ereditata dal pastorato premoderno, la capacità di infantilizzare la popolazione?20
2. La “colonizzazione disciplinare e pedagogica della giovinezza”21 Il bambino moderno non è più un adulto in miniatura. Ciò non significa soltanto che (fatte le debite eccezioni) non può essere sovrano, ovvero incarnare ed esercitare il potere. Mentre nel medioevo era meno accentuato lo scarto tra comportamento adulto e comportamento infantile, il processo di raffinamento dei costumi ricostruito dalla sociologia storica22 indica una più forte modellazione sociogena dell’infanzia: la civiltà delle buone maniere, sia fuori che dentro le corti rinascimentali, porta con sè la possibilità di plasmare e trasformare il comportamento umano sin dalla nascita. In questo senso la moderna figura del bambino sembra essere, dal punto di vista genealogico, una sorta di cerniera tra disciplina e biopolitica: si può essere sorvegliati e puniti – individualizzati – fin dall’inizio della vita; il disciplinamento dell’infanzia è già in nuce biopotere, cioè governo dei piccoli viventi per mezzo di una tecnica comportamentale, di uno specifico sapere identitario. 19
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Il catechismo infantilizzato del bambinello è una tipica astuzia clericale: dalla controriforma fino a noi, si diventa cattolici grazie alla precoce identificazione col pargolo ‘divino’. Si tratta dunque di una trascendenza falsa e strumentale: in Las Meninas l’infanta Margherita, figlia di Filippo IV, rappresenta il ‘finto’ centro del quadro: cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 26. Sul liberalismo moderno come peripezia del pastorato cfr. ad es. B. Karsenti, La politica del “fuori”. Una lettura dei Corsi di Foucault al Collège de France (1977-79), in AA.VV., Governare la vita, a cura di S. Chignola, Ombre Corte, Verona 2006, pp. 71-90; cfr. inoltre L. Bazzicalupo, La diseguaglianza oblativa: soggettivazione/assoggettamento, saggio compreso in questo stesso volume. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 71. Cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1989.
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Per Foucault, la disciplina è una sorta di pedagogia ‘dura’ della rivoluzione industriale, che per la prima volta inquadra gli inferiori nel processo produttivo: «donne, bambini, invalidi»23. Il capitalismo ha bisogno di fabbricare adulti idonei al lavoro partendo dai bambini, che, a differenza dei folli e dei malati, ma esattamente come le donne, se adeguatamente addestrati sono in grado, con le loro piccole mani, di far funzionare le macchine (o di studiare: lo studio è il lavoro specifico dell’infanzia agiata). E, poiché l’infanzia umana è molto lunga, la disciplina sfrutta il suo «tempo evolutivo» come piattaforma biologica (ontogenetica) per assoggettarla e normalizzarla: gli anni dell’educazione-addestramento servono a valorizzare il più prezioso talento sociale dei bambini, l’imitazione24. Vero e proprio motore economico del meccanismo identitario (secondo l’assiona il tempo è denaro), il talento imitativo rende i bambini oggetti ideali della sperimentazione disciplinare, che mira a fabbricare un corpo abile e obbediente come un soldatino.25 Una volta entrata nell’universo delle case di correzione e degli asili, l’infanzia non è più selvaggia, ma viene civilizzata, resa funzionale (Durkheim) alla sua destinazione ‘adulta’: la disciplina e l’educazione impongono all’individuo il controllo del corpo come controllo consapevole della 23 24 25
Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, p. 129. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1449: «Il bambino si esercita in tutte le metamorfosi cui più tardi dovrà ricorrere». Su ciò cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1348: «Coloro che sono specialmente destinati a ricevere comandi, coloro che più di ogni altro vengono coinvolti in questo processo, sono i bambini. Sembra un miracolo che essi non crollino sotto il carico di comandi e sopravvivano alle iniziative degli educatori. Ma tutto ciò è per loro naturale come il mordere o il parlare e non è meno crudele di ciò che a suo tempo imporranno ai loro figli. [...] La forza con cui il bambino riceve ordini e la tenacia, la fedeltà, con cui li custodisce non sono meriti individuali. L’intelligenza o altri doni particolari non c’entrano per nulla. Ogni bambino, anche il più comune, non dimentica né disperde alcuno degli ordini con cui gli è stata fatta violenza». Sul modo in cui la disciplina estrae delle forze da ogni momento del tempo infantile e sull’uso della religione nell’educazione per ottenere l’obbedienza (con la relativa deificazione del maestro) cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 180 e sg. In queste pagine, attraverso l’esempio dell’obbedienza automatica durante il dettato e dell’insegnamento mutuale (che oltre ad economizzare il tempo fa interiorizzare la disciplina ai più grandi sotto forma di comando ai più piccoli), emerge una correlazione genealogica tra l’educazione claustrale ascetica (monastico-conventuale), il collegio gesuitico e il liceo di stato: la voce del maestro è sempre la voce di Dio che chiama per nome, conosce e ordina.
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sua stessa inferiorità. Nel bandire il disordine comportamentale, le nuove norme sociali normalizzano: indicano lo standard universale della forma corretta. Tuttavia, nelle fasce più basse della società l’imposizione è più dura: qui, anche attraverso il carcere e il riformatorio, opera una vera e propria coercizione fisica alla ‘buona condotta’. Lo standard comportamentale si configura come spettro comparativo valido per tutti (nel senso che tutti gli si devono conformare: le differenze sono permesse solo al suo interno), ma viene imposto con maggior forza alla plebe volgare e disordinata, cioè puerile. Questo giudizio conservatore (che la borghesia eredita dalla nobiltà premoderna) conferma la valenza politica del concetto di infanzia: poiché la plebe è inferiore, può fare cose pericolosamente ‘infantili’, ovvero resistere capricciosamente al potere disciplinare26. E si può, anche in questo caso, rovesciare l’assunto: se il popolo incivile è come un bambino, ogni bambino nasce plebeo; nel loro primitivismo, i bambini sono volgari e disordinati, mentre gli adulti volgari sono come bambini. Ecco perché i bambini empirici, i piccoli selvaggi plebei, devono essere ripartiti e organizzati in schemi trascendentali: sottoposti al partage e al quadrillage scolastici.27 La scuola (come carcerario soft) è il laboratorio disciplinare nel quale la ragione moderna, fredda e controllata, condanna ed evita l’incapacità infantile di discriminare, selezionare, ordinare, gerarchizzare e scartare. Nel bambino (ma anche nell’adulto puerile) viene così imbrigliato il non-senso dell’errare che, giudicato ormai come errore, produce disordine intellettuale: Locke, nei sui scritti sull’educazione, considera il fanciullo ignorante come un’incarnazione della sporcizia28. In altri termini, i bambini non istruiti, i bambini del volgo, sono spazzatura: se non vanno a scuola li aspetta il riformatorio. Ma su tutti i bambini, anche sui figli dei borghesi, la disciplina scolastica ha un effetto inferiorizzante: essi non devono formare 26 27
28
Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78, a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 42-45. Non a caso, nel corso sul potere psichiatrico Foucault ricorda che Bentham ipotizzò, tra l’altro, di utilizzare il Panopticon per condurre esperimenti sui bambini (M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 83), ovvero per seguire in loro «la genealogia di ogni idea osservabile»: una sorta di Truman Show ante-litteram che avrebbe consentito di separare i sessi fino all’adolescenza, o insegnare sistemi incompatibili fra loro (ad es. geometrie euclidee e non euclidee) a gruppi di bambini prima divisi e poi messi a confronto. Cfr. J. Locke, Pensieri sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1992. Su tutto ciò cfr. J. Scanlan, Spazzatura. Le cose (e le idee) che scartiamo, Donzelli, Roma 2006, pp. 84-87.
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un gruppo spontaneo, un branco che li farebbe sentire più forti dell’istituzione. Dividendoli dall’alto, esaminandoli29, si instilla in loro anche la rivalità: il confronto serve ad assoggettarli, a combattere la malvagità e la resistenza infantili. L’umiliazione dell’ignoranza, la vergogna per l’inferiorità, inducono infine ad accumulare “capitale scolastico” (Bourdieu) per ottenere vantaggi e privilegi sugli altri. Il «processo di manipolazione della psicologia scolare»30 è dunque un lavaggio del cervello che mi dice chi sono, quali sono le mie attitudini, cosa posso o non posso diventare: sono preso o escluso dalla realtà sociale fin da piccolo. Si realizza con ciò una sorta di ricatto identitario: ai bambini (inferiori) si promette di diventare adulti (superiori) attraverso l’introiezione comparativa delle regole e delle stesse relazioni di potere. L’adeguamento alla norma rende inoltre possibile creare la «frontiera esterna dell’anormale»31: costui serve a far sentire normali i bravi bambini, ed emerge perché c’è ora una regola da seguire docilmente32. I sistemi disciplinari fabbricano dunque il bambino-scolaro, l’adolescente che studia, si esercita, si auto-disciplina; ma per farlo producono anche il tipo da manicomio o
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30 31 32
Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 197 e sg. L’esame è il culmine della disciplina, la sacra cerimonia teatrale e tribunalizia del potere-sapere scolastico, che ha come scopo l’accertamento normalizzatore della verità: cosa sai? Il bambino normale è quello che passa l’esame, lo supera, vi si sottomette confermandone così il metodo valutativo. Esso verifica se c’è stato passaggio di conoscenza dal maestro all’allievo, e trae dall’allievo un sapere utile al potere del maestro; la docimologia permette inoltre di costruire un archivio scolastico degli alunni e dell’intero processo educativo. La combinazione procedurale, tipica dell’esame, di controllo gerarchico e sanzione normalizzatrice, avviene in un edificio che separa dal mondo esterno, ripartisce secondo le capacità e i meriti, premia o castiga. Per ottenere la disposizione scolastica, viene creato un campo di valori, in cui si è sottoposti alla classificazione: il passaggio alla classe superiore viene vissuto come segno di successo e di normalizzazione, mentre viene espresso un giudizio ‘morale’ su chi non ce la fa e rimane indietro, o su chi si ribella alla disciplina; solo nel XX secolo questo giudizio è diventato l’asettico profilo psico-pedagogico dell’allievo. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 179. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 200. In questo senso, anche il bambino troppo ‘al di sopra della media’ può diventare un problema: se la scuola produce uniformità e mediocrità, anormale è anche chi è troppo intelligente, chi capisce il gioco della disciplina e fa finta di giocarlo; costui non è un allievo modello, a meno che non si finga tale, ed è un ribelle potenziale; perciò la scuola (ad es. nei paesi anglosassoni) tende a gratificarlo ghettizzandolo nelle classi per superdotati.
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da riformatorio, che è una «scuola senza indulgenza»33. Se il bambino non obbedisce alle regole dell’istruzione obbligatoria, se resiste, è anormale (o criminale), cioè ulteriormente inferiorizzato: nei termini di Canguilhem, normale è il prototipo scolastico, come lo stato di salute organico. Siamo di fronte al completo rovesciamento della concezione umanistica dell’educazione, intesa come formazione armoniosa dell’uomo. La manipolazione disciplinare del corpo del bambino consente infatti di ‘piegare’ la sua anima in profondità; ma allo stesso tempo ciò significa farlo rimanere bambino: sottomesso ad un’istanza normalizzatrice che viene gradualmente interiorizzata come senso sociale ed unica forma possibile dell’individualità.
3. La psichiatrizzazione dell’infanzia Il potere pastorale, per esercitarsi, ha bisogno di soggettivarsi come trascendenza – ovvero come struttura metafisica di superiorità. Nell’Ottocento, definitivamente espulsa dalla follia, questa trascendenza sembra trovarsi ormai coagulata nel potere psichiatrico, che, accanto all’infanzia, è l’altro grande ibrido genealogico di Foucault – disciplinare, ma anche biopolitico. Nel XIX secolo, quando comincia a funzionare quella che egli chiama funzione psy34, tutta l’infanzia, come stato complessivamente ‘anormale’, patologico o inferiore rispetto allo stato adulto, emerge come oggetto del potere psichiatrico, viene psichiatrizzata. Ciò accade perché essa è passata attraverso il sistema disciplinare: in lei appaiono dei residui irriducibili alla disciplina, dagli scarti inassimilabili, degli anormali prodotti della norma che l’avvicinano in modo nuovo, ma diverso, alla follia. In tal senso il bambino costituisce la soglia, la porta attraverso cui il potere psichiatrico si è esteso – è diventato coestensivo – a tutta la società (cioè a tutta la popolazione), e di questa «disseminazione» dispotica35 Foucault dà conto nel corso del ’73-’74: «Mi sembra che la diffusione del potere psichiatrico si sia operata a partire dall’infanzia, vale a dire a partire dalla psichiatrizzazione dell’infanzia»36; «il principio di generalizzazione della psichiatria lo troviamo dal lato del bambino, e non dell’adulto»37. Ma «com’è potuto accadere che il potere psichiatri33 34 35 36 37
M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 253. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 90. Cfr. M Foucault, Follia e psichiatria, cit., p. 151. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 183. Ivi, p. 206.
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co, il quale sembrava essere legato al solo spazio manicomiale propriamente detto, abbia cominciato a fuoriuscire dal suo alveo e a espandersi? E quali sono stati [...] gli intermediari di questo processo? Credo sia possibile [...] individuare come tramite essenzialmente la psichiatrizzazione dei bambini anormali, e più precisamente quella degli idioti»38. Lo scarto infantile emerge come problema perché la scuola (fino all’università) ha adottato il sistema disciplinare, e la disciplina scolastica ha fatto apparire il “debole di mente”: l’idiota. Secondo Foucault, è attraverso questa figura che la società diventa preda del potere psichiatrico (che, nello spazio manicomiale, funziona a sua volta come un sistema disciplinare più duro). Grazie al concetto ibrido (perché immediatamente utilizzato in chiave psico-biologica) di sviluppo, la scienza ottocentesca giunge all’elaborazione teorica dell’imbecillità: se lo sviluppo è la norma, l’arresto o la lentezza sono l’anomalia, la subnormalità. Dunque, il bambino idiota o ritardato non è propriamente folle, ma si presta alla classificazione del potere-sapere psichiatrico, in tandem con la pedagogia. Egli è stupido, nel senso che non è razionale; la sua imbecillità non è una malattia, ma uno stato in cui le facoltà intellettuali non sono sviluppate a sufficienza39. Ciò implica due conseguenze di rilievo: da un lato, il puntuale rovescio biopolitico dell’assunto psichiatrico: l’idiota adulto è «come un bambino»; non è malato, ma «incarna un certo grado dell’infanzia»40, ha un cervello inferiore, subisce un arresto nello sviluppo e nelle facoltà mentali; d’altra parte, poiché la normatività presa come criterio di giudizio scientifico è quella dell’adulto disciplinato e razionale, che costituisce il termine ultimo e ideale dello sviluppo, l’infanzia tout court viene percepita come debolezza mentale, idiozia: «l’infanzia rappresenta un certo modo di attraversare più o meno velocemente i gradi dell’idiozia o del ritardo mentale»41. Per guarire un idiota, bisognerà educarlo come un 38 39
40 41
M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 180. Su tutto ciò cfr. ivi, pp. 189-190. L’idiozia teorizzata e tassonomizzata nell’Ottocento non ha dunque nulla in comune con l’idiozia filosofica intesa come stupore, come singolarizzazione del pensiero o come ‘potenza’ della ragione. Su ciò cfr. B. Moroncini, Anima idiotica. Saggio di stilografia, in AA.VV., Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, a cura di F. C. Papparo, Sossella, Roma 2000, e D. Tarizzo, Homo insipiens. La filosofia e la sfida dell’idiozia, Franco Angeli, Milano 2004. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 191. Ibidem. Perciò complementare all’idiozia infantile è la demenza senile: un’inferiorità prodotta dal sapere medico moderno che meriterebbe, a sua volta, un’indagine genealogica ‘a contropelo’.
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bambino, e bisognerà trattare i bambini come dei deficienti (cosa che fanno molti genitori). Nel complesso, la psico-pedagogia ottocentesca nasce e s’impone come una terapia dell’idiozia42; l’infanzia moderna ha trovato il suo nuovo pastorato, trasformandosi così in una trappola per adulti: «l’infanzia, come fase storica dello sviluppo, come forma generale del comportamento, diventa lo strumento principale della psichiatrizzazione. E direi che solo attraverso l’infanzia la psichiatria è arrivata a impadronirsi dell’adulto nella sua totalità»43. Da periodo temporale della crescita, da segmento ortopedizzabile, l’infanzia diventa una categoria biopolitica decisiva (fornita di un fenomenale supporto biologico: lo sviluppo), in grado di produrre e governare individui inferiori, piccoli, ritardati. In tal senso l’idiota, il malato44, il criminale e il folle sono tutti bambini sottomessi o da sottomettere: la puerilità si moltiplica e si riproduce nella clinica, nel manicomio e nella prigione.45 Non a caso, nel corso sugli anormali l’infanzia compare come categoria comparativa, che funge da relais tra potere psichiatrico e potere giudiziario: partendo dalla puerilità del criminale (egli è un bambino cattivo), si può 42 43 44
45
Cfr. ivi, p. 192. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-75, a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 270. È la malattia stessa come destino di vita debole, come de-vitalizzazione o addirittura pre-morte, a rendere inferiore il malato impedendogli di dire ‘no’, mettendolo a disposizione del potere medico ed escludendolo così dalla normalità della salute. Ma – se l’idiota è il negativo, il meno, in positivo che cosa impedisce al bambino di normalizzarsi, che cosa lo sottrae alla regola? L’istinto, cioè qualcosa di selvaggio e irriducibile, di primitivo: su di esso si esercita la durezza del potere psichiatrico-disciplinare. Foucault parla dell’affrontamento tra la volontà del maestro-medico e quella del bambino: mentre il bambino idiota vuole non volere, cioè non aggredisce ma si rifiuta alla disciplina come ‘ottuso’, l’istinto folle e aggressivo del ribelle non si piega alla volontà altrui. L’istinto è infatti una «forma anarchica di volontà che rifiuta di organizzare se stessa secondo il modello della volontà monarchica dell’individuo, e che pertanto respinge ogni forma di ordine e di integrazione all’interno di un sistema» (M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 197). Il bambino allora non si costituisce come volontà adulta, cioè capace di obbedire (ivi, p. 198): mentre l’idiota dice no ottusamente, il folle (ribelle per istinto) dice sì solo al suo delirio. Ma il maestro-prete-psichiatra-padre domina entrambi, trasformando il no in sì e il sì al delirio in sì al potere della realtà: egli è onnipotente per il bambino, è dio: con il suo sguardo coercitivo, ne ‘capta’ completamente la fisicità, il piccolo corpo, per assoggettarne la psiche.
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facilmente dimostrare che anche l’idiota, il debole di mente, è pericoloso per la società46: bisogna trovare la perversità criminale nell’evoluzione dell’individuo inferiore. Questa pericolosità giustifica l’intervento del potere psichiatrico-pastorale: è un dovere morale custodire al sicuro il gregge dei bravi bambini, proteggerli da quelli malvagi o dementi. La psichiatria pratica allora la «riduzione della criminalità al livello infantile»; descrive l’«immaturità psicologica», la «personalità poco strutturata» del delinquente; diagnosticando forme di infantilismo e di primitivismo, difetti o ritardi nello sviluppo, essa ‘colonizza’ il potere giudiziario47. I comportamenti anormali precoci, e perciò potenzialmente criminali, vengono sistematicamente medicalizzati48, e, con l’internamento della ‘cattiveria’ infantile, la vittoria del potere psichiatrico è completa: non si processa l’atto illecito del minore, ma la sua intera esistenza infantile, anormale e perciò criminogena.49 Così, secondo Foucault, dall’osservazione del mostro si ripiega su quella del bambino, sul «brulichio di anomalie primarie» offerto dall’inferiorità infantile: «il grande orco [...] è diventato Pollicino»50. L’antica trascendenza della mostruosità appare disseminata in una moltitudine di Pollicini anormali.
4. Infanzia e psicoanalisi Il processo di psichiatrizzazione del bambino poggia sempre sul vecchio principio: la follia è infanzia, e viceversa. La pazzia si nasconde e si origina negli anni della fanciullezza. Per il potere psichiatrico, essi costituiscono la chiave d’accesso alla follia: prevenire o stanare la malattia mentale, vuol dire lavorare sull’infanzia. Nell’Ottocento si è definitivamente passati 46
47 48 49 50
Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 202. Il potere psichiatrico, come la scuola, impone se stesso come l’unica realtà possibile: se vuoi esistere e crescere, devi obbedire (cfr. ivi, pp. 200-201). Contro la perversione degli istinti e la cattiveria infantile, esso ripete in forma più dura gli stessi contenuti dell’educazione ‘normale’ dicendo: ‘bisogna difendere la società’ (cfr. il corso foucaultiano del 1976). Cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 33 e sg. Cfr. ivi, p. 136. Cfr. ivi, p. 83. Ivi, p. 148. La figura-simbolo di questa metamorfosi, posta per così dire a metà tra il mostro e il bambino, è senz’altro quella di Pierre Rivière: cfr. il dossier curato da Foucault Io, Pierre Rivière... Un caso di parricidio del XIX secolo, Einaudi, Torino 2005.
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dall’antica inspiegabilità della follia alla sua etiologia infantile: dall’adulto folle si ripiega sul bambino anormale, anche perché entrambi, in quanto inferiori, sono analizzabili dal pastorato psichiatrico con un metodo confessionale: nei manicomi «ciò su cui viene interrogato l’adulto, in quanto folle, è la sua infanzia»51. Il potere psichiatrico si auto-intronizza come realtà superiore esercitandosi sul passato, su ricordi infantili talvolta fabbricati ad hoc grazie all’interrogatorio; colonizzata dalla scienza manicomiale52, l’infanzia diventa ora il «luogo di fondazione e origine della malattia mentale»53, perché ne consente l’anamnesi.54 Ma c’è di più: per il potere psichiatrico siamo tutti ‘bambini’. Esso rende psichiatrizzabile in quanto infantile l’intera popolazione: a partire dall’Ottocento, tutta la società viene monitorata e infantilizzata da questo nuovo sapere-potere pastorale – famiglia compresa. La famiglia – sorta di «casa di cura in miniatura» o di «caserma in formato ridotto», cioè di relais tra i diversi apparati disciplinari, ma soprattutto avida «consumatrice di psichiatria»55 – è infatti il «luogo privilegiato per la questione del normale e dell’anormale»56: dopo essere stata catturata dal potere disciplinare, anch’essa dev’essere pedagogizzata e psichiatrizzata insieme al bambino.57 È in questa prospettiva che Foucault, nel corso sugli anormali, insieme al mostro ritrae il protagonista assoluto della psichiatria di fine ‘800: il 51 52 53 54
55 56 57
M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 120. Cfr. ivi, pp. 153-161. Ivi, p. 184. Il potere specifico dell’anamnesi psichiatrica, nota Foucault, è legato al piacere che essa induce nel soggetto che racconta se stesso: si tratta di una trappola linguistica che obbliga l’infanzia – esattamente come la follia – a parlare un linguaggio che la inchioda alla sua inferiorità, anormalità, pericolosità, ecc. Il bambino, proprio come il folle, non deve stare zitto di fronte all’adulto: il suo silenzio è una forma di resistenza; egli dev’essere piuttosto ridotto al silenzio mediante l’imposizione di un linguaggio psico-pedagogico che copre il vuoto e, scrivendo sulla ‘cera vergine’ della sua psiche, dà forma alla sua identità. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 138. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 235. Cfr. l’analisi (anche economica) del rapporto tra la famiglia, la scuola e il potere manicomiale nella costruzione etiologica come nella terapia della follia, fornita da Foucault nel corso su Il potere psichiatrico, cit., in part. pp. 86-91 e 113-116: la rifamilizzazione disciplinare dell’‘800 costituisce la premessa all’analisi foucaultiana dei dispositivi di alleanza e sessualità contenuta ne La volontà di sapere; ma su tutto ciò cfr. la puntuale ricostruzione di M. Bertani, Nota storica su “Il potere psichiatrico”, in aut aut 323. Michel Foucault e il potere psichiatrico, Il Saggiatore, Milano 2004, pp. 52-86.
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bambino masturbatore58. Considerata ormai anomala, la sessualità infantile si esprime nella masturbazione, che viene perciò indicata come causa principale di ogni patologia organica. In una sorta di delirio etiologico, il potere psichiatrico organizza una vera e propria crociata contro l’onanismo: ai genitori (gli allievi più zelanti di tale potere) viene insegnato come impedire ai figli di masturbarsi per evitare futura impotenza e/o omosessualità59. Bisogna far confessare i Pollicini: i bambini devono dire tutto ai genitori come al medico, al parroco o al maestro60: devi dire la verità! ti sei toccato? hai avuto pensieri lascivi? ...Ma questo non significa affatto che il peccato della carne venga imputato al bambino: egli è idiota, dunque inconsapevole, dunque innocente: protetto dalla sua stessa inferiorità. Colpevoli sono i genitori che non l’hanno sorvegliato, oppure che lo hanno sedotto, che lo hanno toccato troppo – il bambino è un giocattolo erotico, dirà Freud, il quale smaschererà la crociata, distruggerà il mito dell’innocenza infantile, ma non intaccherà il sovrainvestimento di senso sulla sessualità familiare. Ne La volontà di sapere, dove analizza la nascita della psicoanalisi, Foucault dà una delle sue più famose definizioni del potere: il potere viene dal basso61; quindi anche il bambino esercita un potere: resiste. A che cosa? All’offensiva vittoriana della pedagogizzazione del suo sesso: si masturba; l’autoerotismo infantile rinvia forse ad una soggettivazione erotica antifamiliare, ad un piacere insensato, che perciò viene proibito. Ma in che posizione sta la psicoanalisi rispetto a questa ‘piccola’ forma di potere? Secondo Foucault, essa dice ai genitori: avete davvero un potere immenso sui vostri figli! siete padroni non solo del loro corpo, ma anche del loro desiderio masturbatorio62. Anche se la scuola s’impadronisce dei bambini
58 59
60 61 62
M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 60. Cfr. ivi, p. 209. All’inizio del XIX secolo, ricorda Foucault, si giungeva a lesionare gli organi genitali (compresa l’ablazione del clitoride: cfr. ivi, p. 226) per impedire la masturbazione, anche se una delle motivazioni (già biopolitiche) della ‘cura’ per l’infanzia era la volontà di ridurre la mortalità infantile (si pensi alle vaccinazioni obbligatorie). A fine secolo, con la classificazione delle perversioni (Krafft-Ebing, Kaan) e la necessità di normalizzare la sessualità in forma eterosessuale ed esogamica (cfr. ivi, p. 245), la psichiatria si conferma scienza dell’infantilità (sapere), che ha come oggetto del suo sadismo disciplinare (potere) il bambino da marchiare con le stigmate permanenti del riformatorio o del manicomio. Cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 159. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1993, p. 83. Cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 238.
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non appena raggiungono i sei anni (non a caso, è questa per Freud l’età dell’amnesia infantile), la psicoanalisi rassicura la famiglia più o meno con queste parole: non temete, il romanzo familiare è l’origine, perchè viene prima di ogni disciplina esterna (scolastica). La psicoanalisi rivolge alla famiglia un complesso discorso psichiatrico, che possiede un nuovo, seducente potere di normalizzazione: per promuovere una soggettivazione ‘normale’, bisogna far superare l’Edipo, cioè contrastare, da genitori colti e consapevoli, il desiderio incestuoso dei propri figli; così la famiglia, assediata dal dispositivo di sessualità, ipersessualizzata dall’incesto, viene nuovamente presa in trappola insieme al bambino. Sappiamo qual è il giudizio di Foucault (ma anche di Deleuze e Guattari)63 sulla psicoanalisi come forma soft di potere psichiatrico: con l’Edipo, Freud ‘assoggetta’ sia la famiglia che l’autoerotismo infantile come resistenza insensata, introducendo un modello relazionale strettamente familiare nel processo di sviluppo del bambino, il desiderio dei figli per i genitori – che a questo punto vedono sanata la ferita narcisistica causata dall’egotismo del piccolo masturbatore. Ma bisogna essere giusti con Freud64. Da un lato, la psicoanalisi ingrandisce l’infanzia, dopo che il potere psichiatrico l’aveva rimpicciolita come deficienza: la teoria degli istinti e la scoperta dell’inconscio rinviano 63
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Nell’Anti-Edipo, Deleuze e Guattari non solo ironizzano sul fatto che, per la psicoanalisi, ognuno di noi è ‘malato’ della sua infanzia; essi denunciano il ricatto freudiano: «o riconoscete il carattere edipico della sessualità infantile, oppure abbandonate ogni posizione di sessualità» (G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1998, p. 111) e l’elemento confessionale della psicoanalisi (cfr. ivi, p. 309). Se l’infanzia è produzione desiderante intrappolata nell’Edipo e dall’Edipo; se l’assoggettamento dell’adulto avviene attraverso la trasmissione intergenerazionale del modello edipico, noi siamo, fin da piccoli, colonie e colonne dell’Edipo: tutto si poggia «sul membro più piccolo della famiglia, il bambino» (ivi, p. 309). Tra la ragione-padre e il pazzo-minorenne (ibidem) vince sempre il primo, perché il secondo, inevitabilmente, diventa il primo: Deleuze e Guattari colgono l’inesorabilità della macchina identitaria edipica: «È il padre paranoico a edipizzare il figlio [...] Il primo torto della psicoanalisi è di fare come se le cose cominciassero con il bambino» (ivi, p. 313). L’imperialismo familiare di Edipo impone al bambino la sua identità, non solo sessuale, come un destino: prodotto socialmente dall’Edipo secondo la sua legge, perché procreato nel «regime della coniugazione» (ivi, p. 78), egli è destinato a inserirsi nel triangolo papà-mamma-io. Cfr. J. Derrida, “Essere giusti con Freud”. La storia della follia nell’età della psicoanalisi, Cortina, Milano 1994.
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ad una sorta di trascendenza infantile, ad un ‘fuori’, ad un ‘altro’ della ragione moderna. Siamo dunque di fronte ad un riscatto, ad una rivalutazione (narcististica) dell’infanzia: essa diventa l’età più importante, in un certo senso superiore allo stato adulto, nella quale l’inconscio si squaderna. D’altra parte, il discorso della psicoanalisi sul destino familiare dell’istinto, sulla soggettivazione del piccolo perverso-polimorfo, è opposto a quello, biologistico, della teoria dell’ereditarietà, che sfocerà nella tanatopolitica nazista: il destino razziale della popolazione ‘inferiore’ farà leva sull’inferiorità del bambino tarato, degenerato a causa della follia dei genitori65. Mentre l’eugenetica, fissandosi sul percorso evolutivo che porta dall’embrione all’adulto, si presenta come una tecnologia biologica degli istinti che costruisce, a partire dall’infanzia, idiozia, imbecillità o ritardo come inferiorità oggettive; la psicoanalisi elabora invece una tecnologia comportamentale della sessualità che ha di mira la normalizzazione economica degli istinti: il tentativo terapeutico di correzione linguistica del disagio offre un percorso soggettivo a ritroso – dall’adulto al bambino.66 Eppure, nonostante l’intronizzazione freudiana dell’infanzia, imporre il modello edipico (l’imperialismo di Edipo, nei termini di Deleuze-Guattari) equivale a infantilizzare irrimediabilmente la popolazione: edipizzare vuol dire inferiorizzare.
5. L’infanzia postmoderna Tutto ciò conduce al Novecento, e a noi: cosa succede all’infanzia nel XX secolo, e cosa le sta accadendo oggi? Si potrebbe affermare che il secolo scorso ha conosciuto una doppia biopolitica dell’infanzia: mentre nella sua prima metà il lato oscuro dell’Edipo 65 66
Cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., p 281. A sua volta, Elias sostiene che solo la psicoanalisi si è riavvicinata al corpo del bambino per interpretarne la ‘naturale’ indecenza occultata dalle buone maniere del processo di civilizzazione moderno. Le tendenze ‘incivili’ del bambino riguardo a cibo, sesso ed escrementi (cfr. fase orale, anale e fallica in Freud), fino al XIX secolo non venivano considerate anomale o perverse dalla funzione psy; la psicoanalisi, che pure nasce da tale funzione, ha avuto il merito di denunciare questa patologizzazione, spiegando perchè ciò che provoca piacere, una volta relegato nella sfera privata, susciti ripugnanza e angoscia; da questo punto di vista, la psicoanalisi è innanziutto terapia, cura del disagio psichico provocato dalla civiltà con lo stesso linguaggio della civiltà: cfr. N. Elias, Il processo di civilizzazione, cit., pp. 316-347.
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ha scatenato una biopolitica totalitaria, autoritaria, una sorta di rigurgito disciplinare (si pensi ai balilla e alla Hitler Jugend), una tanatopolitica di regime fondata sull’esaltazione dell’infanzia da portare al macello67; al contrario, la biopolitica postbellica degli anni ’50 e ’60, fondata sul boom economico, ha permesso finalmente di prendersi cura della qualità della vita del bambino (anche di quello anormale), ma nello stesso tempo lo ha deificato, trasformandolo in adolescente narcisista e consumatore – si è acceso il lato capitalistico, falsamente luminoso dell’Edipo. Nel corso sulla Nascita della biopolitica, Foucault osserva che il capitalismo postbellico tende a realizzare investimenti educativi sul bambino considerato come capitale umano, per formare nell’individuo competenze che, sulla lunga durata, producano un profitto socio-economico; questi investimenti vanno dal rapporto affettivo madre-figlio, all’istruzione vera e propria, fino alla formazione professionale68. Ma un passo ulteriore si verifica con il tramonto del “capitale scolastico”, come dell’organizzazione fordista del lavoro: al posto del valore della cultura imposto dalla ‘vecchia’ disciplina borghese (e psicoanalitica), si assiste alla deificazione del bambino nel medio del consumo (specchio della deificazione del capitale). L’infantilismo della pubblicità fa ridiventare il bambino un adulto in miniatura: vestiti, sesso, linguaggio, tutto contribuisce a esercitare sui piccoli viventi il potere di normalizzazione in maniera estremamente seduttiva, senza coercizione. Ma, ancora una volta, ciò comporta un rovesciamento: non c’è niente di meglio per un bambino che sentirsi trattare da adulto, e per un adulto trovare un modo per sentirsi ancora bambino. L’istupidimento generale prodotto dal linguaggio del consumo, che sequestra il corpo e semplifica la psiche in una giovinezza plastificata, coincide con l’estensione del ritardo infantile a tutta la popolazione; l’intero universo della pubblicità (e della politica televisiva) si basa su questo ritardo: lo produce e lo sfrutta.69 67
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Il culmine di questa tanatopolitica dell’infanzia è ovviamente l’esperienza del campo di concentramento, dove, secondo Bettelheim, il terrore sistematico conduce le vittime a vivere come bambini nel presente immediato, ma anche ad identificarsi con gli oppressori in funzione difensiva – per sopravvivere. Cfr. B. Bettelheim, Il prezzo della vita. La psicoanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani, Milano 1976. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 197879, a cura di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 189-190. Cfr. Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Secondo questo gruppo di ricerca, che utilizza esplicitamente il concetto foucaultiano di biopolitica, la società mercantile matura (= post-
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La biopolitica postmoderna fabbrica adulti-bambini: mentre l’‘alterità’ seducente (malefica, direbbe Baudrillard) del bambino empirico viene neutralizzata dalla sua deificazione consumistica, tutta la popolazione appare infantilizzata, e infantilizzare vuol dire inferiorizzare: l’homo oeconomicus può essere governato poco perché molto rimpicciolito. Nel corso sul potere psichiatrico, Foucault ha fatto la storia di una lotta contro l’imbecillità, contro il ritardo mentale dell’infanzia (e della follia). Ma era una finta lotta: l’Ottocento si è tanto interrogato sulle cause del ritardo mentale non per superarlo, ma per produrlo, e l’assoggettamento disciplinare-biopolitico dell’infanzia si è strutturato, fin nell’inconscio, come un double bind: cresci/resta piccolo, dove il primo ordine era quello, esplicito, di normalizzazione, e il secondo quello, implicito, d’inferiorizzazione: devi restare piccolo, devi obbedire all’autorità pastorale-parentale per diventare adulto nella società. In altri termini, non bisogna davvero guarire dall’idiozia infantile: deificare la debolezza puerile (restate bambini! bambino è bello!), vuol dire mantenere gli individui in uno stato di minorità. Ma, allora, la morte dell’uomo non coincide affatto con la morte dell’infanzia: il bambino è, anzi, il nuovo sovrano. Si prenda, ad esempio, il caso italiano. Nel nostro Paese l’infanzia, potentemente ri-mitizzata (soprattutto dalle madri a ogni costo), ha vinto su tutta la linea: la stupidità, invece di essere combattuta, viene incrementata con ogni strategia governamentale. E questo processo di infantilizzazione, che, privo di burattinai, è tanto più acefalo quanto più esteso nella società (perché coinvolge anche chi lo promuove), passa, ancora una volta, attraverso la retorica della famiglia: ri-sacralizzata, la famiglia sembra obbedire da un lato alla biopolitica vaticana, dall’altro è il tempio del consumo in cui, a furia di trattare i bambini come dei deficienti, lo diventano anche i genitori; una famiglia in cui i moderna) trova i suoi sostenitori, le sue periferiche desideranti, proprio negli ex soggetti emarginati (perché considerati inferiori) dal primo capitalismo: giovani donne e uomini, omosessuali. Se la pubblicità promuove un’etica del consumo, e se l’adolescenza è un’età di puro consumo (cfr. ivi, p. 12), la deificazione dell’adolescenza coincide con una «antropomorfosi del capitale» (ivi, p. 13) e si compie nella Jeune-Fille, «figura del consumatore totale e sovrano» (ivi, p. 22): «La funzione della Jeune-Fille consiste nel trasformare la promessa di libertà contenuta nel compimento della civiltà occidentale in surplus di alienazione, in approfondimento dell’ordine mercantile, in nuova servitù, in statu quo politico» (ivi, p. 13); questo processo, che equivale ad un rimpicciolimento, passa per la categoria biopolitica dell’infanzia: «Quello che si chiama ancora virilità non è altro che l’infantilismo degli uomini, e femminilità quello delle donne» (ivi, p. 30).
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figli tiranneggiano i genitori come piccole divinità, e questi a loro volta investono socio-economicamente sui figli. Foucault parlerebbe, forse, di una rifamilizzazione religioso-consumistica. L’infanzia globalizzata non ha vinto nella difesa dei suoi diritti: dilaga la violenza sui bambini (sfruttamento del lavoro minorile, traffico di organi, pedofilia, incesto), ma soprattutto la violenza dei bambini, con la sua stupidità amplificata dai media. Viene difeso l’assolutamente piccolo, il biologicamente inferiore: la vita dell’embrione; ciò che, relegato nel consumo identitario, dev’essere preservato dalla serietà dell’agire politico, o piuttosto condotto al gioco della politica dopo un’adeguata (servile, compiaciuta) infantilizzazione. Per usare il linguaggio dell’Anti-Edipo, la fine della costruzione soggettiva borghese non ha inaugurato nessuna schizoanalisi anti-capitalistica e rivoluzionaria, nessuna società senza padri e senza struttura simbolica70; al contrario il capitalismo, sfruttando al massimo la plastica stupidità del desiderio, sembra aver colonizzato l’infanzia schizoide, psicotica, insediandosi proprio nella sua follia e facendola diventare definitivamente idiozia, inferiorità71: la schizofrenia, in tal senso, non è il “limite” del capitalismo, ma il suo prodotto più insidioso72; non ha vinto il bambino folle, schizo e anedipico, ma il bambino idiota, in taluni casi ancora completamente succube dell’Edipo.73 70
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Nei termini di Deleuze e Guattari, il corpo del bambino è un corpo senza organi, senza soggettività. Su di esso agisce l’ordine edipico, la costruzione freudiana dell’Io, il Wo Es war, soll Ich werden, l’ortopedia del desiderio infantile ‘piegato’ dal potere molare. In quest’ottica mitico-rivoluzionaria, il bambino desiderante non manca di nulla: solo nell’Edipo manca del fallo, nell’ordine della rappresentazione manca della ratio, ecc.: «Il desiderio è rimosso proprio perché ogni posizione di desiderio, per quanto piccola, ha di che mettere in causa l’ordine stabilito di una società [...] il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario» (L’Anti-Edipo, cit., p. 129). In questo senso, l’abolizione dell’infanzia biologica ipotizzata grazie alla clonazione è possibile perché viene promossa l’infanzia psichica come idiozia: su ciò cfr. il romanzo di M. Houellebecq, La possibilità di un’isola, Bompiani, Milano 2005, pp. 56-58; 200-202. Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo, cit., pp. 278 e sg., in part. p. 280: «La schizofrenia non è dunque l’identità del capitalismo, ma al contrario la sua differenza, il suo scarto, e la sua morte». In questa prospettiva, cos’è il Sessantotto? È – direi provocatoriamente – la falsa vittoria del bambino occidentale. Poiché è stato inventato e prodotto già sempre come ‘piccolo’, come modello miniaturizzato e de-realizzato del soggetto, il bambino non può fare la rivoluzione: può solo sognarla. La filosofia-bambina del Sessantotto, che nasce dall’Edipo borghese per libe-
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Per Foucault anche il desiderio, sia esso infantile o adulto, viene prodotto, è un derivato: la sua genealogia, lontana da ogni vitalismo rivoluzionario, conferma che l’infanzia, in sé, non esiste; che è solo un effetto prospettico del processo di civilizzazione moderno, e, oggi, una posta in gioco della biopolitica74. Ma proprio questa consapevolezza ci invita a giocare la puerilità stessa come resistenza (e non come mito), a resistere fuori della stupidità post-soggettiva. Una mossa che, forse, Foucault formulerebbe così: bisogna resistere come bambini – come pazzi – al tentativo di farci restare bambini per farci diventare idioti! ...Alla domanda dell’antipsichiatria: che cos’è la follia se non è una malattia mentale? bisogna dunque ancora una volta rispondere: la follia è infanzia, è gioco75, è resistenza.
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rarsene (un esempio ne è appunto l’Anti-Edipo), nasce castrata: o si limita a sognare, a ‘mitizzare’, oppure, se produce da macchina desiderante, non riesce a produrre il reale, come avrebbero voluto Deleuze e Guattari – tende invece a produrre in forma psicotica tanto la violenza (il terrorismo) quanto la stupidità (quella del riflusso consumistico). Dal punto di vista genealogico, se il bambino non è la macchina desiderante originaria e perciò rivoluzionaria, ma ‘diventa’ macchina desiderante in negativo al termine di un lungo processo di assoggettamento, la soggettivazione, come conquista dell’interiorità razionale, culmina nel suo rovescio idiota, che viene prodotto proprio dall’intensificazione-inflazione della forma soggettiva: ciò che Norbert Elias ha definito individualizzazione di massa non è altro che un infantilismo di massa. Su ciò mi permetto di rinviare al mio Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di soggettivazione, Filema, Napoli 2006. In una conferenza del 1971 su Follia e civiltà, Foucault ha detto: «...il folle è un oggetto di gioco, con il folle si gioca, mentre non lo si fa con il malato. [...] In maniera ancora più singolare, il folle è un personaggio che si fa gioco degli altri, che gioca con la serietà della ragione, gioca con la serietà di quelli che non sono folli e se ne burla.[...] Dunque, la follia è il gioco». M. Foucault, Follia e psichiatria, cit., pp. 297-298.
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9 LA DISEGUAGLIANZA OBLATIVA: SOGGETTIVAZIONE/ASSOGGETTAMENTO di Laura Bazzicalupo
Questo saggio intende pensare il pastorato – al cui modello, per Foucault, risale genealogicamente la moderna governamentalità delle vite – nella prospettiva, esplicitamente evocata da Foucault stesso, dell’oblatività. Di pastorato si parla assai diffusamente negli studi foucaultiani, soprattutto dopo la pubblicazione dei corsi Sécurité, Territoire, Population e Naissance de la biopolitique: ma queste pagine intendono mettere in primo piano il carattere oblativo, altruista, sacrificale della gestione pastorale delle vite e la potenza obbligazionaria che suscita. Che significa diseguaglianza oblativa, relazione di cura, assistenza, servizio? È una relazione tra posizioni dissimmetriche in cui chi è in posizione di poterlo fare esercita una prassi di aiuto a vantaggio dello svantaggiato. Il discorso che regge l’oblatività è un regime di verità – religioso, scientifico, tecnico – dal quale chi eroga assistenza ricava autorevolezza. L’aiuto è offerto senza scambio, senza utile apparente. La mancanza, la deficienza di colui che riceve viene colmata. Si tratta di una relazione di potere che si esercita in duplice modo: seleziona quanti saranno avvantaggiati rispetto a quanti saranno lasciati nelle condizioni di disagio; ed esercita, su quanti sono assunti sotto tutela, un’opera performativa attraverso la gestione dei loro bisogni. Questo rapporto di diseguaglianza oblativa è interessante e problematico per quattro motivi che saranno oggetto di questo saggio: 1. perché si tratta di una relazione che mette in crisi il lessico politico liberale moderno, 2. perché è stato Foucault a mettere in evidenza, proprio nell’esercizio
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di potere oblativo a vantaggio del governato, il tratto caratterizzante del biopotere moderno, 3. perché questa prospettiva, in senso lato biopolitica, rimanda al nodo soggettivazione/assoggettamento e ne evidenzia le aporie, 4. perché la diseguaglianza oblativa si ripresenta oggi, nel declino della gestione assistenzale welfarista e in una realtà di de-soggettivazione e proliferazione dei dispositivi bioeconomici, con tratti che richiedono un approfondimento della lettura foucaultiana. Nella relazione dissimmetrica tra noi – che siamo stati bambini, che abbiamo avuto fame senza poterci procurare cibo, che abbiamo avuto bisogno di un tetto, che siamo stati malati, angosciati, confusi e che probabilmente lo saremo di nuovo, noi, che abbiamo perso il lavoro, e che saremo vecchi, dunque, tra noi viventi e qualcuno che ci aiuterà, ci curerà, per amore, scrupolo, interesse, volontà di potenza – tra noi e questo qualcuno – passa una corrente di potere. Un flusso di potere che nel soccorrerci ci manipola, ci orienta, ci individua in una soggettivazione che assumeremo in una con il cibo, la medicina, il calore, l’affetto. I foucaultiani conoscono questo flusso di potere. Cerchiamo ora di tenerne presente sia la sua strutturale necessità per la nostra sopravvivenza, sia il carattere affettivo con cui si veicola il nostro processo di soggettivazione, l’emotività di cui si carica; emotività assai ambigua che, da parte di chi dà, è facilmente sommersa dalla retorica del dono, della solidarietà, ma da parte di chi riceve è difficile da accettare, portata com’è da un’onda di destrutturazione della propria soggettività. C’è un dono che copre un conflitto sordo, un potere che si rivela indispensabile alla sopravvivenza e al nostro stesso costituirsi come soggetti, e che, prima o poi, tocca tutti noi: questo tema mi sembra adatto a costringerci a riflettere su qualunque ontologia disconosca la dipendenza e la relazionalità1, quindi tanto sugli evidenti limiti del lessico politico tradizionale liberale, quanto sulla ricchezza e sui limiti della prospettiva foucaultiana della biopolitica, nella quale si colloca d’elezione.
1. La teoria politica avrebbe il compito di offrire una serie di termini per rendere leggibile l’esperienza della coesistenza e dunque anche la diffusa esperienza della dipendenza oblativa che emerge dalla debolezza e dalla diseguaglianza di condizioni, permettendo agli individui che 1
La natura aporetica del munus che crea un legame scavando nei soggetti un vuoto, che si rivela una «estraneità che li costituisce mancanti a se stessi» in R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p. xvii.
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vi sono coinvolti di organizzare significativamente il racconto della propria vita. Ma il lessico giuridico-politico moderno liberale non rende gran che leggibile il fenomeno. I lunghi anni di oscuramento del tema, relegato nell’ambito del privato e del caritatevole, e poi – mentre se ne derubrica il tratto donativo – nell’ambito della sicurezza e ordine pubblico, denotano il disagio di un discorso di verità, quello liberale, che ha – certo legittimamente – orrore del debito, non riesce a pensarlo: un discorso di diritti individuali e di autonomie, che nasce proprio sulle ceneri della dipendenza e del debito. Nella costellazione di concetti giuridici e politici moderni si sente soprattutto la difficoltà ad accettare aiuto e la diffidenza verso il servaggio della gratitudine: è tanto meno gravoso e violento pagare per saldare il peso del debito! Un regime di sapere, quello liberale, che nel saldo del debito vede l’equilibrio perfetto del sistema ricalcato sul modello del sistema-mercato – si pensi a Walras – e che, ciò non di meno, si vede messo in mora al proprio interno dalle imbarazzanti esperienze di fasi della vita sempre più lunghe di dipendenza e eteronomia e, dall’esterno, assediato dall’oscura marea degli esclusi, dei poveri – come oggi si torna a dire con termine un po’ arcaico – che preme alle porte del benessere, testimoniando un debito che non si salda: uno scandalo per la coscienza universalistica e giuridica. La quale coscienza si giostra tra tutorato e minorità meritevole di tutela, motivazioni di mission e figure di reciprocità, sottooccupazione, compensazione, redistribuzione, generici diritti umani e natura essenzialmente egoista del comportamento presociale. E questi – diciamolo – non sembrano strumenti adeguati per pensare una logica complessa che esorbita dallo schema riduttivo del soggetto autonomo, adulto consenziente, capace di scelte razionali con cui mercato e spazio pubblico si autorappresentano e che non si chiede come si sia diventati autonomi e per quanto tempo si possa dire di esserlo. L’attività di cura dunque – ad un tempo materia e modalità della prassi oblativa – è notoriamente una spina nel fianco delle teorie liberali, costrette a giustapporre alla teoria della giustizia e dell’autonomia, un’altra morale, un’altra logica e un’altra giustizia: una voce di donna, come recita il titolo del libro di Carol Gilligan, che si sottrae alla giustizia ugualitaria, astratta e neutrale in direzione del coinvolgimento personale, della parzialità di giudizio e dell’etica della cura2. La giustapposizione di due morali, o anche la moltiplicazione dei paradigmi, come fa Caillé, che accanto all’economi-
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C. Gilligan, Con voce di donna: etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1991.
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cismo avanza il modello del dono3, o Laville, che affianca all’economia di mercato un’area di imprese solidali4, non risolve la sostanziale sterilizzazione del tema del coinvolgimento oblativo. Queste teorie finiscono tutte col ribadire l’autorappresentazione razionale e utilitaristica del sistemamercato – privandola, peraltro, di tutta la complessità psico-sociale che la innerva e che a mio avviso, la rende non così estranea come si pretende alle dinamiche della dipendenza oblativa – e relegando la cura in un’area residuale e semi-utopica che ne disarma il senso politico. D’altra parte, l’essenzialismo delle teorie comunitarie che rispondono alla povertà disincarnata del lessico liberale, rilanciando presunte identità collettive e solidarietà organiche premoderne, non dà conto della complessità di questa relazione fenomenicamente presente, anche se in modo nuovo, nelle società disarticolate e individualistiche che tanto deplorano.
2. La riduttività del linguaggio giuridico è messa a fuoco da Foucault. Con Foucault, la cura è un dis-positivo. Evidenzia cioè il carattere positivo del potere, nel senso letterale del porre e del produrre effetti di verità e soggettivazioni. «Un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e a ordinarle piuttosto che a bloccarle e a distruggerle»5. Un simile dispositivo produce miglioramenti, implica discorsi, responsabilità, spazi terapeutici, confessioni, flussi selettivi di scelta, regimi di verità circa il bene del beneficato e, soprattutto, soggettivazioni che stabiliscono lo status di diseguale, debole, malato, deviante, peccatore. Ma non si limitano a questa individuazione dello stato di fallacia: il dispositivo è tale perché la forma di potere cui si è assoggettati, costituisce il nostro stesso essere soggetti e il rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso. Il potere determina le condizioni della nostra esistenza e dà forma alla traiettoria del desiderio. Dunque di fatto perde la sua natura di esteriorità che influenza e obbliga e acquisisce la dimensione vitale capace di strutturare quei tratti che accogliamo e proteggiamo come più nostri, più identitari. Ovviamente il carattere produttivo del potere era già in Hegel e in Nietzsche, nella cui Geneaologia della morale, la repressione regolativa si ripiega su se stessa dando luogo alla cattiva coscienza che costituisce l’identità 3 4 5
A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998. J. L. Laville, L’economia solidale, Bollati Boringhieri, Torino 1998. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano 1978, p. 120.
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stessa del soggetto6. Foucault procede, in Sorvegliare e punire e in Volontà di sapere, in direzione di un potere generativo sia nell’ambito politicoeducativo-terapeutico che in quello del potere sulla sessualità, nel senso di una produzione discorsiva del soggetto: il processo di soggettivazione è subordinazione e contemporaneamente formazione, Bildungskraft. La repressività implicita nelle individuazioni categoriali si rovescia in una proliferazione delle condotte che manifesta come quei soggetti deboli (trasgressivi o semplicemente carenti rispetto a quello che il regime di verità considera il loro bene, la loro entelechia, la loro natura) siano effetto, prodotto delle stesse tecniche e degli stessi discorsi; ma, ancor più radicalmente, le stesse condotte di resistenza al disciplinamento, quelle controcondotte che testimoniano la riottosità al progetto che vuole colmare il deficit, sono generate dal processo di soggettivazione messo in atto dal potere governamentale. La produttività del potere nei confronti della vita si definisce, dunque, come un processo di soggettivazione in cui il vivente viene implicato nei dispositivi che lo catturano, lo orientano, promuovono la sua salvezza. Una forma di strutturazione attiva dell’ambiente biologico. La naturalità o il bios, esibiti nel corpus vile del debole, sono il piano di immanenza dove si intersecano elementi materiali, discorsi e dispositivi tecnici. C’è un’affinità profonda tra oblatività e governo. Economia governamentale è la prassi di governo – priva di fondamento ontologico e che funziona solo attraverso pratiche che producono processi di soggettivazione – in vista di uno scopo esterno a chi governa e interno, conveniente, adempiente per ciascuno dei soggetti governati, secondo una intima verità circa le proprie carenze7. Lo spostamento, proprio di questo tipo di potere, in direzione del beneficato è il vettore della sua oblatività e deve farsi risalire alla sua ascendenza teologica e al progetto provvidenziale di salvezza che è sotteso a tutta la civiltà occidentale8. Un potere che modifica il suo oggetto 6 7 8
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1968. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (Corso al Collège de France 1977-78), a cura di M. Senellart, Feltrinelli, Milano 2005, lezione del 1 febbraio 1978, in particolare pp. 74-81. Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007, che approfondisce criticamente il passaggio non chiaro in Foucault tra il pastorato e le forme di governo politico (spostato da Foucault sulle controcondotte), arretrando il tema della frattura tra essere e prassi alla teologia divina e alla economia trinitaria (pp. 126-128). Cfr. anche L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 7-8. L’ascendenza al paradigma teo-
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governandone la formazione e lo sviluppo, all’interno di un progetto che ne adempia il destino di salute materiale e spirituale. Gli agenti multipli che Foucault elenca come gestori di pratiche di governo sono esattamente le figure dell’erogazione oblativa: il padre di famiglia, il superiore di convento, il pedagogo, il maestro. Governare significa anche «sostentare», fornire «le cure... in un’attività prescrittiva incessante, premurosa, sollecita, sempre benevola»9. La genealogia di questi dispositivi risale alla stagione premoderna del pastorato cristiano, nella connessione propria del diritto canonico, di potestas et benevolentia. «Il potere pastorale è fondamentalmente un potere che fa bene»10. Un potere che cura. Un potere oblativo e transitivo che è al servizio dei governati, uno per uno: il che implica tecniche personalizzate, molteplicità di iter gestionali, un incessante lavoro di scavo nelle biografie, nelle psicologie, nei corpi. Un governo della pluralità che però – ed è questo l’elemento paradossale della centralità del corpo animato, oggetto di cura – quanto più è individualizzato il percorso terapeutico, tanto più affonda per gli scopi e i meccanismi, nella genericità del biologico e della specie, tanto più si dissolve nella fantasmatica popolazione e nei suoi bisogni statisticamente accertati11: perché? Nella Volontà di sapere,
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logico e provvidenziale accentua il tratto oblativo della prassi di governo. Per Foucault, «il potere pastorale consiste esattamente nel fatto che ha l’autorità per obbligare le persone a fare tutto quello che è necessario per salvarsi: la salvezza è obbligatoria», M. Foucault, Sessualità e potere (1978), in Archivio Foucault 3. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 123. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 96, dove sottolinea che la benevolenza, carattere fondamentale del potere pastorale, è un tratto solo accessorio nella definizione greca e anche romana di potere (ivi, p. 101). M. Foucault, Sessualità e potere, cit., p. 122; «Diversamente dal potere tradizionale che si manifesta principalmente attraverso il trionfo su coloro che assoggetta, il potere pastorale assicura contemporaneamente il sostentamento dell’individuo e quello del gruppo. Non è un potere trionfante, è un potere benefico» (ibidem). R. Schurmann osserva: «Il double bind consiste nel fare sì che il compito dello Stato sia quello di unificare i propri membri in un corpo, organizzando nel contempo ognuna delle dimensioni dell’esistenza privata» e «il legame organizzativo, totalizzante, si declina di fatto e necessariamente con il legame atomistico-liberale»; questo doppio legame conduce all’isomorfismo sociale proprio attraverso la pretesa di unicità di ciascuno. Contro questa deriva, Schurmann vede nell’ultimo Foucault una risposta al potere non in chiave individualista ma anarchica: R. Schurmann, Costruire se stesso come soggetto anarchico, in AA.VV., Soggetto a variazione, a cura di F. Riccio e S. Vaccaro, BFS edizioni, Pisa, 2000, pp. 67-87, cit. p. 83.
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emerge un carattere della produttività del potere foucaultiano che ha molta rilevanza nella prospettiva che mi interessa: il potere dà forma alla traiettoria del desiderio. Dunque un punto significativo dell’analisi dell’oblazione consisterà nell’indagare il tipo di desiderio che viene, attraverso un gioco perverso di divieti, sollecitato e dunque che viene a costituirsi, costituendo il soggetto stesso. L’offerta oblativa – che nasce dalla pienezza di un sapere che definisce, valuta e che si assume il peso di adempiere il soddisfacimento dell’altro – privilegia una forma del desiderio orientato alla genericità degli istinti e dei bisogni che sia possibile governare e tornare a governare mantenendo uno stato di dipendenza e dunque il disquilibrio di potere. La mia ipotesi è che, se il potere oblativo gestisce e soccorre corpi animati, la soggettivazione, sia pure in modo ambivalente, farà perno sulla genericità, la naturalizzazione necessaria dei bisogni12. Non è un caso, quindi, che una teoria dei bisogni diventerà centrale via via che l’oblatività passa dal pastorato alla socializzazione della politica e alla connessa socializzazione dei rischi dello Stato sociale. C’è un potente che agisce per dovere, con sacrificio di sè13, con zelo, premura e infinita sollecitudine: anche questo tratto qui ci interessa. Oltre alla paradossale (considerata l’asimmetria delle potenze) finalità benefica, assolutamente primaria, il modello oblativo esige una dipendenza integrale, un’obbedienza che, ancora paradossalmente, nega la soggettivazione che va costruendo pretendendola irriflessiva e dunque immediatamente passiva, laddove un processo di soggettivazione adulto non dovrebbe non passare per la riflessività14. L’obbedienza e l’umiltà, la pratica del sentirsi ultimo degli uomini, non solo di chi è governato ma di chi ha il potere di 12
13 14
Cfr. il sistema dei peccati su cui faceva perno la gestione pastorale delle anime. I corpi erano implicati in peccati generici di eccesso, istinti deviati, bisogni abusati. Una teoria del bisogno lecito è sottintesa. Del corpo sessuato si doveva diffidare ma senza rinunciare a usarlo, piegandolo al modus lecito. Cfr. Sessualità e potere, cit., p. 126. Sulla pastoralità antiascetica e assoggettante e il significato soggettivizzante della controcondotta ascetica, cfr. la lezione del 1 marzo 1978, in Sicurezza, terrotorio, popolazione, cit., specie pp. 151-157. Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 103: col sacrificio «siamo al cuore della sfida, del paradosso morale e religioso del pastore»; cfr anche Sessualità e potere, cit., p. 123. Cfr. le penetranti osservazioni di G. Rametta che articola, a proposito di Deleuze, la coscienza non-posizionale, la coscienza posizionale e la riflessività all’interno dell’immanenza, per cogliere il luogo di innesto dei saperi e poteri biopolitici: G. Rametta, Biopolitica e coscienza. Riflessioni sull’ultimo Deleuze, in “Filosofia politica”, 1, 2006, pp. 29-42.
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governo, sono considerati il pedaggio per poter governare gli altri in modo desoggettivato, non per sé e in nome di se stessi, ma in nome degli altri ai quali ci si sacrifica. Il ribaltamento della soggettività sovrana, la paradossale impersonalità di questo processo di distruzione dell’orgoglio di sé mira ad una doppia servitù: a quella del governato, infatti, corrisponde il servizio del governante. E questa doppia impersonalità servile è tanto più paradossale in quanto si inserisce nella genealogia nietzscheana della morale e dell’altruismo come forme di volontà di potenza. La lettura nietzscheana del processo di soggettivazione come assoggettamento attraverso la riflessività della cattiva coscienza smaschera, così, un nodo di potere dissimmetrico, ma ne lascia inalterato l’enigma di impersonalità, di vuoto che «bandisce ogni forma di io, ego, egoismo come forme centrali e nucleari dell’individuo»15. Si delinea l’aporetico contrasto tra un obiettivo di controllo e di volontà di potenza, e un doppio vettore di potere che svuota e nega la soggettività sia del debole che del potente. Sono necessarie dunque delle precisazioni. Innanzitutto il momento di de-soggettivazione che svuota il soggetto da identificazioni false o fuorvianti rispetto alla verità del suo bene e della sua salvezza appare come un importante tassello del processo di soggettivazione indotto dal potere produttivo di cura. In secondo luogo, perché il ri-orientamento della soggettivazione possa darsi – dunque semplicemente perché la cura possa essere efficace e il potere effettivo – la de-soggettivazione, lo svuotamento deve investire il pastore stesso, il potente dunque16. Questo punto sembra indirizzare la lettura dei processi di potere oblativo nel senso di una radicale negazione delle soggettivazioni in quanto flussi di volontà di potenza a favore dell’emergere delle strutture del discorso di verità che ordinano identità sociali e ruoli. I vuoti simmetrici del soggetto che governa e di quello governato scavano le singolarità al solo scopo di rendersi recettivi e colmarsi con il pieno di identità, di beni, di condotte del discorso di verità. D’altra parte questa pratica di astensione dalla volontà di potenza può essere letta a sua volta come introduttiva a quella deprise, quella sottrazione ai meccanismi del potere sociale su cui si concentra l’ultimo Foucault. Riprendiamo il percorso. Il pastorato, la relazione diseguale e oblativa, è – Foucault lo dice esplicitamente – un momento decisivo e persistente 15 16
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 141. Cfr. M. Foucault, Il combattimento per la castità (1982), in Archivio 3, cit., p. 173: V. lo schema dei vizi e virtù nelle Collationes e nel De institutis coenobiorum di Cassiano, e il ruolo speciale dell’orgoglio, il peggiore dei vizi, che presume di aver superato la carne.
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della storia del biopotere occidentale e del suo procedere per soggettivazioni, anche quando sarà totalmente secolarizzato il fine di salvezza. Nella moderna socializzazione della politica, il governo ha infatti il dovere di essere servizio. La sua autorevolezza deriva proprio dal prendersi cura, nell’interesse del più debole, agendo su di esso al fine di incrementarne il benessere. L’ipotesi dell’economicizzazione della politica, che non ho la possibilità di argomentare qui,17 comporta che non solo, ovviamente, il governo assistenzialista del Welfare sia una riproposta secolarizzata – in contraddizione con l’impianto giuridico, imperniato sui diritti sociali – della gestione oblativa del pastorato. Non solo la crisi del Welfare trasferisce su un mix di imprese sociali no profit e di opere di carità, l’assetto e le modalità di potere oblativo, senza mutarne la logica biopolitica. Ma anche l’attuale governamentalità bioeconomica, management delle vite di quanti lavorano e consumano, mantiene tratti di personalizzazione, costruzione delle soggettivazioni, saturazione dei bisogni, tipici del pastorato, in una appiccicosa atmosfera di cura personalizzata del cliente, di beneficio e assistenza offerti a chi deve entrare nella relazione di mercato. Contrariamente all’auto-rappresentazione della scienza economica imperniata sull’autonomia e la scelta razionale, la prassi rivela una gestione dei flussi di desiderio tramite soggetti costruiti in modo tale che non possano non pensare di veicolare nel linguaggio del mercato i propri desideri esistenziali. Il corporeo, i bisogni, i desideri che accogliamo e proteggiamo come nostri, sono forme di sapere in cui si organizzano i flussi di energia; non sono che una serie di processi, costellazione di fatti in sé opachi, penetrabili solo a condizione che le linee di gestione siano appropriate, flessibili come l’oggetto cui si riferiscono. Ecco la persistenza del quadro pastorale biopolitico, nello Stato welfarista e ancora oggi, nella babele degli scambi che l’econometria pretende di rappresentare con elegante rigore. Il governo delle vite deve essere tale da cogliere la norma interna di ciascuno. Ma questa norma internalizzata è un sapere oggettivante: costruisce la genericità nei corpi singoli, stabilizza la omologazione dei bisogni che esistono nella misura 17
Il passaggio dal pastorato alla modernità viene da Foucault colto attraverso le figure interne al pastorato, delle controcondotte. Ma in senso più ampio, si determina, a mio avviso, la progressiva economicizzazione del potere politico e la presa in carico della vita attraverso le logiche economiche e mediche, processo segnato dalla consensualizzazione sociale sugli obiettivi di salvezza secolarizzata (e dunque di benessere e salute) che divengono il luogo di legittimazione più radicale della politica moderna: cfr. L. Bazzicalupo, Economia e dispositivi governamentali, in “Filosofia politica”, 1, 2006, pp. 43-55.
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in cui sono costruite, da un governo statale ma oggi più spesso sociale, le regolarità comportamentali, indirizzando, curando, selezionando. La sua autorevolezza conserva le tracce della pastoralità nella sapienza dei fini (il regime di verità senza il quale nessuna biopolitica ha senso) e nell’atteggiamento di cura. È fondamentale ribadire quanto abbiamo già accennato: questo sapere/potere plasma le soggettivazioni articolandole su quelle caratteristiche che seleziona come iscrivibili in un progetto di salvezza, dunque di adempimento; perciò seleziona quelle saturabili in modo oblativo. La modalità oblativa infatti – è questo il centro della mia argomentazione – mira all’effetto della saturazione dei bisogni, non all’ascolto della domanda. Se è vero che la piega economico-governamentale conferma il tratto di volontà di potenza che Nietzsche aveva disvelato nella tecnica, nella morale, nella scienza – l’effetto di dipendenza, di adempimento del bisogno che ne sono l’esito paradossale sembrano evidenziare una oscillazione tra quello che una prospettiva psicanalitica definirebbe codice materno – cura, dipendenza, soddisfazione e godimento gestito dall’altro – e una auto-rappresentazione che nega, come abbiamo visto, il debito, l’oblatività del codice materno per dichiararsi interna al codice paterno dell’autonomia, del differimento del godimento, della relazione competitiva.18 Nel caso del Welfare, i problemi di una gestione provvidenzialistica dei bisogni, in termini di soggettivazioni disciplinari e fordiste, emergono dalla logica stessa della sua opera oblativa: il modus della solidarietà e dell’aiuto si banalizza, perdendo il momento politico di elaborazione e riconoscimento intersoggettivo che è possibile quando sono i soggetti stessi che usufruiscono dell’aiuto a formulare domande e proporre soluzioni autogestite. Crescono gli apparati burocratici che definiscono i bisogni e il consumo di beni e servizi in un regime di sapere esperto che esclude la discussione. Si erogano cose, oggetti (farmaci, case, testi scolastici), secondo stereotipi quantificabili: e questo significa che le identità costruite dal potere oblativo sono riduttive, inchiodano gli individui in categorie rigide e li mantengono in una condizione di dipendenza non superabile. Non ha spazio, Voice, tutto quanto si riferisce alla singolarità eterogenea, che cerca disperatamente riconoscimento e che eccede le categorie generiche della vita – la sicurezza, la vecchiaia, la malattia, la riproduzione – che il Welfare codifica per pianificarne la cura. Emerge il carattere deprivato di soggettivazioni costruite all’interno di un regime curativo-disciplinare 18
Cfr. F. Fornari, La malattia dell’Europa, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 68 e sg.
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che non ascolta la domanda differenziante, ma sollecita identificazioni che possano prevedersi e essere gestite.19 Si può pensare che la crisi della disciplinarietà e del regime di sapere e potere oblativo del Welfare, faccia spazio, con il trionfo del mercato capitalista, non all’anti-governamentalità, come sembra sperare Foucault, ma a un regime pervasivamente eteronomo di soggettivazioni illusorie, sommerse dall’esplosione dei dispositivi?
3. Anche qui è necessario ripartire da Foucault, resi attenti al tema soggettivazione/assoggettamento che emerge dal pastorato oblativo. L’ anima, dice Foucault in un passo famoso di Sorvegliare e punire, dà forma al corpo20 e questo sembra significare che il processo di soggettivazione orientato dal potere debba passare per un movimento che lascia apparire il soggetto proprio quando assorbe il corpo stesso. Ma il senso di una disciplina o di una cura che produce gli stessi corpi su cui si esercita, non può andare in direzione di alcuna natura presupposta al processo stesso,21 poiché la natura appare sempre come ciò che è già disintegrato, dissolto nella dinamica di soggettivazione. Dunque gli spazi di resistenza (o di coscienza riflessiva o di critica) sono immanenti al piano della normalizzazione (o al piano del discorso inverso, presente nella normalizzazone, che ne eccede l’obiettivo, o più spesso, al piano della complessità dei discorsi che cooperano alla soggettivazione). Comunque, queste resistenze sono sempre interne allo stesso potere cui si contrappongono. Questo circolo molte volte sottolineato dagli interpreti foucaultiani evidenzia l’impasse, di cui Foucault è perfettamente consapevole, di resistenze prodotte dalla stessa radice di potere contro cui si sollevano. Su questa linea, Žizek sostiene che in Sorvegliare e punire e Volontà di sapere «il concetto di Potere rimane confinato all’interno delle procedure di disciplina-confessione-controllo che presero forma nel primo Cristianesimo» – e dunque «quando in alcune interviste più tarde (Foucault) 19 20
21
Cfr. L. Bazzicalupo, Senza scopo di lucro: pratiche di cura tra biopolitica e trasformazione dell’economia, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 1, 2006, pp. 15-28. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi 1975, p. 33: «l’uomo di cui ci parlano e che siamo invitati a liberare è già in se stesso l’effetto di un assoggettamento ben più profondo di lui ...l’anima prigione del corpo». Questo il nodo che differenzia il pensiero francese del secondo Novecento dal dispositivo di pensiero ancora dialettico della scuola francofortese: cfr. ancora G. Rametta, Biopolitica e coscienza, cit., p. 31.
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parla di potere e di contropotere, egli cambia impercettibilmente il terreno sul quale si muove e adotta una specie di ontologia generale del potere di tipo nietzscheano: il potere è a questo punto dappertutto e in ogni cosa; esso costituisce l’aria stessa che respiriamo, l’essenza della nostra vita. Questa ontologia generale del potere comporta anche un concetto diverso di soggetto come piega del potere; questo soggetto non corrisponde più al Sé che, mentre si aspetta di essere liberato dal potere repressivo, viene in realtà da esso costituito»22. Žizek legge dunque la svolta foucaultiana verso le «arti di vivere» dell’uomo libero dell’Antichità, in chiave mitica fantasmatica e la soggettivazione negli ultimi libri sulla cura del sé, come un tentativo di evadere dal circolo vizioso di potere-resistenza. Ora, gli scritti estetico-etici foucaultiani, che significativamente riprendono il concetto di cura strappandolo al potere dell’Altro e volgendolo all’askesis e al disciplinamento del sé, da una parte ribadiscono la necessità del processo di soggettivazione come disciplinamento riflessivo, dall’altra cercano, più esplicitamente che non nelle controcondotte, le tracce di una libertà non dicibile, non fondabile in modo positivo e ontologico, e perciò fatta slittare sul piano delle prassi e degli stili23. Occorre immaginare che a fronte di un processo di soggettivazione (economica) comunque eteronomo, appropriato dal discorso sociale e pastorale, si dia una prassi estetica che rivela la traccia etica di una libertà del vivente uomo, costretta a non potersi definire se non tradendo l’apertura, il fuori della libertà, e assumendo la giostra delle identificazioni simboliche e culturali necessariamente assoggettate. Uno schellinghiano presupposto di libertà come pura apertura ontologica, sempre daccapo resistente alle soggettivazioni pur necessarie, assoggettate. Foucault però, ricostruendo il biopotere produttivo di soggettivazioni, non può certo riconoscere queste tracce di libertà-come-apertura nelle re22 23
S. Žizek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Cortina, Milano 2003, p. 313. Valorizza decisamente il déplacement dell’ultimo Foucault dell’L’usage des plaisirs in direzione della «question du sujet» e della condotta individuale etico-estetica, J. Rajchman, Erotique de la vérité. Foucault, Lacan et la question de l’éthique, Puf, Paris 1994, pp. 11-23 e pp. 113 e sg. Su questa linea, cfr. l’interpretazione “anarchica” di Schurmann, cit.; M. Fimiani approfondisce il senso singolarizzante ed etico della stilizzazione in Foucault, ne L’arcaico e l’attuale. Levy-Bruhl, Mauss, Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 262 e sg. Queste tracce di libertà divengono visibili in quel piccolo libro molto importante (forse più degli ultimi volumi della Storia della sessualità) che è Il pensiero del fuori: quel fuori, dove sconfina il discorso dei folli o dei poeti (M. Foucault, Il pensiero del fuori, Studio Editoriale, Milano 1998).
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sistenze all’assoggettamento che da quello sono generate. In questo caso ha ragione Žizek, a mio avviso, nell’evidenziare il circolo della dipendenza reciproca: e forse, quello stesso circolo varrebbe la pena mostrarlo in tutta la sua complessità. Nel nesso soggettivazione/assoggettamento, manca infatti la messa a fuoco della reciprocità dell’influenza; questa viene affermata nel concetto di «relazione di potere», ma non valorizzata, quando, per esempio, si parla della gestione pastorale personalizzata, che pure sarebbe stato assai interessante investigare nella prospettiva del potere che il governato ha (e non può non avere) sul governante, magari facendo leva sul coinvolgimento emotivo di una relazione oblativa. Da un punto di vista ontologico-politico sarebbe assai significativa la dinamica di reciproca influenza in quanti sono dentro l’assoggettamento e però definiscono il punto di soggettivazione non nello stereotipo veicolato dall’influenza del governante, ma lo spostano, lo modificano, lo contrattano (e fin qui ci accompagna l’ultimo Foucault con la sua cura del sé e con il suo sottrarsi per essere meno governati) alterando il polo predominante, sociale e pastorale: questo implicherebbe infatti, nel sistema relazionale di potere, una logica sistemica della complessità e supporterebbe meglio le ipotesi di contingenza ed eccedenza. Del potere oblativo, interessa a Foucault non l’ontologia (politica) dei poteri, ma la pratica (economica), il come. Infatti si chiede «come le relazioni di potere agissero nello psichismo dell’individuo, nel suo inconscio, nell’economia del suo desiderio»24. Eppure, anche in questa prospettiva, nel focalizzare sulla vita psichica questo come, se ne sottolinea la sola logica binaria di resistenza/potere: ogni resistenza si riconduce ed è generata dal potere contro cui si oppone; repressione/desiderio: ogni desiderio è stimolato dalla stessa repressione che ne induce la proliferazione; aiuto/negazione: ogni forma di aiuto e di dono va ricondotta al gesto di potere che, incoraggiando la vita, la nega. Ogni potere favorendo la crescita, soggioga, e appunto, ogni soggettivazione emerge dall’assoggettamento. Si tratta certo di meccanismi di produzione (divieto produttivo), intensificazione e proliferazione (repressione proliferativa), ma rimane la sostanziale dipendenza dal vincolo negato per essere affermato, quella modalità del desiderio gestito in modo che «molto più che un elemento da espellere dall’individualità, costituisca il vincolo attorno a cui le persone annodano obbligatoriamente la loro identità nella forma della soggettività»25. La relazione oblativa che produce soggettivazioni è,
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M. Foucault, Sessualità e potere, cit., p. 128, corsivo mio. Ivi, p. 130.
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per usare l’espressione di Žizek, un abbraccio mortale26: il potere è al centro e la relazionalità solo apparente, poichè lo replica all’infinito. Quando l’analisi si riferisce alle soggettivazioni, esse non possono che ricondursi ai codici nei quali viene assoggettata quell’impossibile libertà. Tra questi codici, il supersapere psicoanalitico circa il desiderio, non può essere che un sapere/potere soggettivizzante. Non rileva nè la tesi psicoanalitica dell’eteronomia costitutiva e primaria dell’Io, nè la minaccia, da quella derivante, del misconoscimento della natura relazionale del desiderio a favore del circuito del bisogno e della sua saturabilità: elementi significativi che pure rimandano alla gestione pastorale delle vite. Forse, per cogliere il tratto oblativo della cura, occorre interrogare – in questa sede in modo marginale – quel sapere del desiderio che è la psicoanalisi, in quanto tale immessa da Foucault nel circuito del potere proliferante, non per contestare questo ruolo produttivo, ma per illuminare la dinamica psichica non solo del rovesciarsi del divieto nell’erotizzazione, ma anche del processo costituente della soggettivazione relazionale che sta nel desiderio.
4. Questo ruolo del desiderio nel processo di soggettivazione, può servirci per far luce sull’ontologia dell’attualità e sull’indebolimento delle prassi soggettivizzanti. Quando, con il declino della società pastorale del Welfare entrano in crisi le soggettivazioni disciplinari, il quadro si spalanca ad un’apparente anarchia liberista di identità autogestite. Esse, in realtà, come abbiamo accennato, sono strutturate da una forma di governo bioeconomico delle vite, ancora una volta pastorale, sia pur in modo nuovo. Le osservazioni di Judith Butler – che assume la formula foucaultiana della soggettivazione come assoggettamento alle pratiche performative, ma considera non approfonditi «i meccanismi specifici attraverso cui il soggetto è formato nella sottomissione» e inesplorata «la forma psichica assunta dal potere»27 – possono essere preziose per un duplice verso. 26
27
S. Žizek, Il soggetto scabroso, cit., p. 314. La lettura foucaultiana di Žizek ne sottolinea la prospettiva antidialettica e immanentista come circolo vizioso, e non dà credito quindi a quelle tracce (deleuziane) di una ontologia che disloca incessantemente la libertà come pura apertura, come non dà credito al pensiero francese del secondo Novecento che liquida, decostruisce il dispositivo di pensiero ancora dialettico che consentiva la critica. J. Butler, La vita psichica del potere, Meltemi, Roma 2005, p. 8; «Se, in senso nietzscheano, il soggetto è formato da una volontà che si ripiega su se stessa, assumendo una forma riflessiva, allora il soggetto è la modalità del potere che si volta su se stesso: il soggetto è l’effetto del contraccolpo del potere», ivi, p. 12.
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Innanzitutto viene indagata la logica ricorsiva della piega del potere28 per la quale l’io emerge a condizione di negare il suo formarsi nella dipendenza e si rivela separato da se stesso e irriducibile alla meccanica del potere che l’ha causato. In secondo luogo – e questo interessa più strettamente il mio tema – Butler misura, del postulato foucaultiano della soggettivazione come subordinazione, la valenza psicoanalitica dell’attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali si dipende in maniera fondamentale, e dunque lo sviluppa sullo sfondo di dipendenza primaria. Ed è sullo sfondo di dipendenza primaria che acquisiscono piena visibilità le esperienze di governo oblativo. La questione è cruciale d’altra parte nell’intero processo di soggettivazione: «Come avviene che la soggettivazione del desiderio richieda e istituisca il desiderio per l’assoggettamento?»29. Ciò su cui dobbiamo interrogarci, in definitiva, è il desiderio per l’assoggettamento, per la norma, desiderio reso produttivo da un potere pastorale e oblativo che ne indovina la speciale efficacia per il controllo delle vite: «Il postulato foucaultiano di soggettivazione come subordinazione e simultanea formazione del soggetto assume una valenza psicoanalitica specifica quando consideriamo che nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale»30. La scena della dipendenza primaria infantile nel vivente umano specificamente prematuro condiziona la vulnerabilità e la dipendenza dell’intero processo di formazione del soggetto, di cui diventa tramite indispensabile. Il desiderio primario di sopravvivere (definito già da Spinoza) veicola, attraverso l’attaccamento appassionato all’Altro da cui la sopravvivenza dipende, una speciale abusabilità e affettività del processo di soggettivazione: «Non esiste alcuna possibilità di non amare laddove l’amore è
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29 30
Il carattere inevitabilmente circolare del processo di soggettivazione/assoggettamento non implica un’agency di ripetizione. La reiterazione del potere che il soggetto riprende nell’azione propria «eclissa le condizioni della sua stessa emergenza», J. Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 19. C’è una relazione di contingenza e di inversione rispetto al potere che la rende possible, una eccedenza mai meccanica che «dissimula il proprio carattere auto-inaugurante», ivi, p. 21. Anche la lettura deleuziana di Foucault esalta la ricorsiva eccedenza delle soggettivazioni come differenti e incommensurabili: G. Deleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, specie pp. 109 e sg. J. Butler, La vita psichica del potere, cit., p. 22. Ivi, p. 12.
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intrecciato ai requisiti per la vita stessa»31. Nessun soggetto può emergere al di fuori di questa dipendenza: per quanto la dipendenza possa essere forclusa, essa rappresenta una radice aporetica che il soggetto adulto, per divenire tale, si rifiuta di sapere, separandosi da se stesso e dunque mai pervenendo a se stesso. Ma se la scena di dipendenza primaria fa da sfondo al ripetersi delle esperienze di diseguaglianza oblativa che ci soggettivano, sarà decisivo osservare quali forme del desiderio e, di conseguenza, quali soggettivazioni emergano dai dispositivi produttivi della cura. Quella scena ci permette, forse, di afferrare le coordinate psichiche del modus biopolitico della prassi oblativa. La soggettivazione prodotta dal potere oblativo è straordinariamente efficace perché passa attraverso la reiterazione della dipendenza fisica che è profondamente emotivizzata. La forma del desiderio, matrice della soggettivazione, plasmata dal potere produttivo appare dunque abusabile e pervertibile: e può essere orientata tanto verso il circolo della sussistenza biologica nella forma di bisogni standardizzati, inducendo le identità disciplinate dello Stato assistenziale, quanto verso un imperativo (incondizionato e superegoico) di godimento, godimento di beni, di cose, di simulacri che possono essere offerti, gestiti e soddisfatti dalla attuale bioeconomia. E quest’ultima forma di governo delle vite che passa attraverso l’ingiunzione al godimento amministrato dall’Altro porta con sé quell’attaccamento appassionato alla dipendenza dalla soddisfazione che riscontriamo nelle nuove fragili soggettività post-edipiche32. Nell’asfissiante offerta di beni che siamo condotti a desiderare, ciò che viene minacciata è la soggettivazione stessa, poiché l’attaccamento che la costruisce dovrebbe svilupparsi attorno al punto focale desiderato/proibito. La quantità infinita di beni offerti dalla oblatività bioeconomica per il nostro benessere, il nostro successo, la nostra fitness, insieme all’imperativo che ci obbliga a goderne, ci fa regredire allo status di impotenza e prematurità, ci rende incapaci di strutturare la domanda di riconoscimento e con quella di accedere alla catena delle identificazioni simboliche adulte. Il trionfo della oblatività materna perversa che dà cose e non lascia spazio alla mancanza e al contenimento, produce
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Ivi, p. 14. Sottolinea opportunamente la «dominante emotiva» delle relazioni di potere foucaultiane, E. de Conciliis, Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di soggettivazione, Filema, Napoli 2006, specie pp. 49 e sg., che rilegge la civilizzazione occidentale attraverso la chiave foucaultiana dei dispositivi di soggettivazione. In particolare, sulla dipendenza assoggettante disegnata sull’archetipo madre-figlio, cfr. pp. 139 e sg. S. Žizek, Il soggetto scabroso, cit., p. 475.
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la sfilata delle nostre fragili soggettivazioni immaginarie, mentre diventa impossibile la domanda/proibizione strutturante della soggettività, dunque il desiderio. È una oblatività che satura, ottura con dispositivi concreti, con cose, una domanda di relazionalità che viene tacitata. La dimensione del bisogno va distinta da quella del desiderio. Perciò può essere utile tornare alla distinzione freudiana tra bisogni e desideri. Entrambi si riferiscono a regimi di sapere oggettivanti. Il bisogno, il Not, veicola la pressione biologica cogente e non dilazionabile e spinge verso il soddisfacimento risolutivo33. Il desiderio è oltre il bisogno, non è rivolto verso le cose, di cui è possibile colmarsi, ma verso un soggetto il cui primo modello, da sempre perduto è costituito dall’Altro materno. Dunque il soggetto si struttura nel desiderio che gira intorno ad un un vuoto, ad una mancanza a essere34. 33
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S. Freud, L’interpretazione dei sogni, in Opere a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1980, vol. III, pp. 514 e sg.: «l’eccitamento prodotto dal bisogno cercherà uno sfogo», rimanendo invariato e «può esserci un cambiamento quando, nel bambino, con l’aiuto di altre persone, si effettua l’esperienza di soddisfacimento»; proprio alle tracce mnestiche di quel soddisfacimento, divenute segni, è legato il desiderio: «Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si avrà, grazie al collegamento stabilito, un moto psichico che tende a reinvestire l’immagine mnestica corrispondente a quella percezione ...dunque a ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio» (ivi, p. 516); v. anche Id., Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere, cit., vol. IV, p. 451; Id., Al di là del principio del piacere, vol. IX, p. 222, dove la spinta organica al soddisfacimento si rivela pulsione di morte. La spinta biologica, commenta Lacan, «sarà identificata a una tendenza pura e semplice alla scarica», mentre il Trieb, il Bedurfnis, l’esigenza pulsionale si allontana dalla natura per effetto della relazione del soggetto con l’altro: cfr. J Lacan, Il transfert e la pulsione, in Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), pp. 164 e sg., specie pp. 169-171. Cfr. J. Lacan, Il transfert e la pulsione, cit., p. 183: «oggetto che di fatto non è che la presenza di una cavità, di un vuoto, occupabile, dice Freud, da qualunque oggetto, e la cui istanza noi non conosciamo se non nella forma dell’oggetto perduto a. ...Non è introdotto a titolo del nutrimento primitivo, è introdotto dal fatto che nessun nutrimento soddiferà mai la pulsione orale, se non contornando l’oggetto eternamente mancante», è la lacaniana béance. Va ricordato, per inciso, che sul desiderio come centro strutturante della soggettivazione si innesta l’ontologia antiedipica deleuziana, che, nel desiderio, nega la mancanza ed esalta la produttività senza organi (disorganizzante), rispetto a cui il capitalismo produce socialmente mancanza-bisogno e consumo-godimento: G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo, Einaudi, Torino 2002, pp. 3-23. Ma qui mi riferisco al regime di verità psicoanalitico, per Foucault significativo nella misura in cui produce effetti di verità sulle nostre vite.
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Lacan approfondisce lo schema freudiano aprendo alla dinamica di soggettivazione dipendente che è cruciale nel tema dell’oblatività35. Innanzitutto rilancia, con la tesi del corpo-in-frammenti, lo status della nascita umana come prematurazione specifica e l’impotenza e discordanza del bambino; in secondo luogo richiama l’attenzione sul momento strutturale simbolico della formulazione della domanda36. Il soggetto nasce nel campo dell’Altro, ed è costretto a mediare i propri bisogni – obbligati come la dipendenza che veicolano – attraverso il tramite del significante37. L’angoscia inarticolata del corpo-in-frammenti del bambino viene modellata dal significante, assoggettata all’Altro. Potremmo dire che diviene domanda quando e se viene raccolta e interpretata come tale dall’Altro, da cui dipende quindi l’emergere del soggetto nella relazionalità38. Ora: per la teoria psicanalitica, la cura dei bisogni non è sufficiente a garantire il processo psicologico di soggettivazione dell’essere umano. Il vivente umano non è riducibile all’aggregato dei bisogni ma è desiderio di essere desiderato, dunque desiderio non di cose ma desiderio dell’altro, desiderio che l’Altro lo desideri, desiderio di essere la mancanza dell’altro, di scavare un vuoto nell’Altro39. Il soggetto si definisce 35
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A prescindere dai rapporti tra Lacan e Foucault, sui quali v. D. Tarizzo, Introduzione a Lacan, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 59 e sg. (che evidenzia la comune influenza di Merleau Ponty), Lacan ha in comune con Foucault la costruzione del processo di soggettivazione, di identificazione dell’Io come alienazione che a sua volta va fatta risalire ad Hegel. La domanda è il luogo simbolico, appartenente all’ordine del linguaggio, che si sostituisce al dato biopsichico del bisogno: domanda in cui si sfila il desiderio. Tra desiderio e domanda c’è relazione dialettica: «Il desiderio si produce nell’al di là della domanda, perché ...ne sfronda il bisogno; ma esso si scava anche nel suo al di qua, perché, domanda incondizionata della presenza e dell’assenza, essa evoca la mancanza ad essere (béance) ...In questa aporia ...il desiderio si afferma condizione assoluta», J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, vol. II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 625. «Se il desiderio è nel soggetto, questa condizione che gli è imposta dall’esistenza del discorso, di far passare il suo bisogno attraverso le sfilate del significante, se, d’altra parte bisogna fondare la nozione dell’Altro con un A maiuscola, come il luogo del dispiegamento della parola, bisogna porre che, essendo quello di un animale in preda al linguaggio, il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro», J. Lacan, La direzione della cura, cit., p. 624. Sulla parola intesa sempre come domanda che «chiama una risposta ...anche se non incontra che il silenzio», J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, in Scritti, cit., vol. I, p. 95. «Il desiderio dell’uomo si pone nell’ambito della mediazione, è desiderio di far riconoscere il proprio desiderio. Ha per oggetto un desiderio, quello
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dunque attraverso questa domanda che ne esprime la sua mancanza ad essere, il suo vuoto, e che chiede a sua volta non pienezza di cose, ma vuoto di desiderio per essere accolta e riconosciuta40. Questa troppo rapida incursione nella tematica psicoanalitica, si giustifica perché funzionale ad afferrare l’oscillazione cui è sottoposto il processo di soggettivazione prodotto dal potere oblativo – nel ripetere la figura della dipendenza primaria e la sua affettività abusabile – e il suo rischio di scacco. La sollecitudine oblativa, in un modello materno perverso, può assumere la cura, dare cose, saturare i bisogni senza interpretare la domanda e senza offrire il proprio stesso desiderio, il proprio vuoto e desiderio del figlio, quel desiderio che, quando è indirizzato all’essere che domanda, è il solo capace di soggettivizzarlo, di individualizzarlo41. La prassi oblativa offre, con sollecitudine e cura, cose in-differenti, standardizzate – in un circuito del bisogno/godimento che è un tutto-pieno e ha a che vedere con la pulsione di morte – tacitando e non accogliendo la mancanza e la domanda del desiderio che singolarizza il soggetto. Il suo modello di cura inabilitante è quello di una madre che satura i bisogni senza lasciar dire il desiderio, senza donare la sua propria mancanza e il suo proprio desiderio. Il circuito bisogno/godimento impedisce la soggettivazione adulta. La sua temporalità ripetitiva, autistica, autoerotica si chiude all’Altro. Sembra che questo circuito contribuisca a rendere leggibile una realtà come quella attuale in cui la ridda dei dispositivi, dei beni, delle cose che devono saturare i bisogni è infinita: un carosello di dispositivi che saturano il godimento senza promuovere le soggettivazioni adulte e singolarizzate che attengono all’altro circuito, quello della mancanza e del desiderio. Si riattiva la regressione allo stato di dipendenza e i singoli vengono sospinti alla fusione dipendente dalla soddisfazione oblativa, che impedisce l’accesso al desiderio vuoto, scavato e identificante, e attraverso la via faticosa della sublimazione, ai legami sociali ordinati simbolicamente. Non può essere articolata una vera domanda di cura, che sia veramente tale, una domanda soggettivata. Dunque
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d’altri», J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, cit., vol. I, p. 175; cfr. anche supra n. 37. «Il desiderio dell’uno trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro», J. Lacan, Funzione e campo della parola, cit., p. 261, il corsivo è mio. Gli studi sull’anoressia/bulimia diventano una prova di questo circuito perverso: J. Lacan, «È il bambino nutrito con più amore che rifiuta il nutrimento e si serve del suo rifiuto per esprimere un desiderio», J. Lacan, La direzione della cura, cit., p. 623; cfr. anche M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, Milano 2000, specie pp. 48 e sg.
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una domanda di desiderio: solo il circuito del desiderio, infatti è aperto in direzione dell’Altro42. La natura intersoggettiva, relazionale del desiderio e della domanda di desiderio, che ne illumina il senso politico, è stata messa in risalto, prima di Freud e di Lacan, da Hegel43. Il desiderio che ci rende soggetti è il desiderio dell’Altro, è desiderio di riconoscimento, è desiderio di essere desiderati. Il riconoscimento dell’Altro è costitutivo per il processo di soggettivazione umana, che, per darsi, deve essere mediato dallo sguardo dell’Altro, la cui differenza innesta il movimento del riconoscimento.44 42
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Sulla ripetizione come pulsione di morte: J. Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, in Seminario IX, cit., pp. 42-51. «Da un punto di vista clinico il circuito del godimento deve essere rubricato sotto il segno della pulsione di morte e dell’al di là del principio del piacere» la cui caratteristica è di essere «un circuito chiuso avviluppato su se stesso ...la temporalità è quella della compulsione a ripetere ...autistica e autoerotica che tende a escludere l’Altro», M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, cit., p. 58. Per Lacan, «Il desiderio viene dall’Altro e il godimento è dal lato della Cosa», Del Trieb di Freud e del desiderio dello psicanalista, in Scritti, cit., p. 857; cfr. anche La direzione della cura, cit., p. 613. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1976, specie pp. 153-164; ma naturalmente la relazione di Lacan con Hegel è mediata dal famoso seminario hegeliano di Kojeve (Introduzione alla lettura di Hegel, 1947, trad. it. Adelphi, Milano 1996, seguito da Lacan) centrato sul desiderio di riconoscimento (v. pp. 17-21). Il rinvio di Lacan a Hegel, in Funzione e campo della parola, cit., pp. 261 e sg., ma anche in Discorso sulla causalità psichica, cit., p.175. Ricostruisce in modo persuasivo la relazione tra la posizione hegeliana sul desiderio di riconoscimento, mediata dalla istituzionalizzazione dei ruoli diseguali e lo sguardo di Lacan che «resta fisso sul carattere disgiuntivo del desiderio» B. Moroncini, Teoria del discorso. J. Lacan e la sovversione del desiderio, in Id., Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz, Quodlibet, Macerata 2006, p. 18. Il riconoscimento hegeliano è però dialettico e reciproco (Fenomenologia, cit., p. 155); la ripresa lacaniana nello stadio dello specchio, è priva del momento conciliativo: l’immagine riflessa per la quale il bambino giubila non è costitutiva della soggettivazione, è immaginaria. D’altra parte anche Butler, nel tentativo di uscire dalla impasse foucaultiana della dipendenza sociale del potere di resistenza, si richiama a Hegel e al movimento dialettico del desiderio nella lotta per il riconoscimento. Evidenziando la ripetizione delle regole sociali nella misura in cui i soggetti vi si riconoscono, Butler sottolinea il rischio e l’eccedenza che, nella ripetizione, offrono spazio a «riconfigurare performativamente delle condizioni di vita» (La vita psichica del potere, cit., pp. 28-29). Butler sottolinea del famosissimo passo hegeliano signoria-servitù, il passaggio meno studiato alla successiva sezione Libertà della coscienza: stoicismo, scetticismo e la coscienza infelice evidenziando, al di là delle letture liberazioniste della dialettica servo-padrone, la riso-
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Non si può trattare la questione oblativa senza considerare che oggi la sarabanda di cose, di dispositivi che vengono offerti per saturare il circuito del godimento – danza immobile, attraversata dall’ombra lunga della pulsione di morte – copre la domanda, la voce del desiderio dei singoli e soffoca il processo di soggettivazione. Ci potremmo chiedere, con un po’ di ottimismo, se la svolta dell’economia in direzione della terziarizzazione, della nuova prevalenza dell’organizzazione, della relazionalità e dei servizi che producono socialità piuttosto che cose, apra spazi alla domanda di riconoscimento e di relazionalità oppure, più probabilmente, sia una contraffazione parodistica, un simulacro compensativo della domanda di socialità, che traspare sotto quella immensa quantità di detriti che scambiamo, doniamo, dis-poniamo, es-poniamo, pro-poniamo, e che, incapaci di produrre soggettivazioni, sono spettrali ombre della relazione che cerchiamo nell’Altro. Ci potremmo chiedere se, disperatamente, stiamo cercando di mantenere aperto uno spazio del desiderio di fronte a un Altro invasivo, un vuoto a fronte di una civiltà consumistica-materna invadente e saturante che fraintende costantemente la differenza costitutiva tra bisogni e desideri e prende la nostra fragilità e la nostra debolezza per bisogno, tratta il desiderio come se fosse bisogno di qualcosa, laddove è un grido silenzioso di emersione del desiderio antropogenico. Sommersi dalle cose, i singoli si de-soggettivizzano, sono larve anestetiche, compiacenti, dipendenti da chi satura il bisogno, regressivamente disposte alla fusione desoggettivizzante, asfissiante. Tutto torna dunque alla necessità di ripensare il gesto oblativo, la cura, il sottinteso di relazionalità affettiva. Ad una domanda di relazionalità, che implica riconoscimento del proprio desiderio, soggettività adulta e relazione con l’altro, non si può rispondere con la logica oblativa del consumo di cose. Ma il desiderio è debole perché non può nascere che dallo svuotamento del godimento dal corpo, non nasce se non quando, entrando nel campo dell’Altro ne è tuttavia separato, sbarrato: ma l’Altro elargisce solo cose per il godimento e null’altro.
luzione della libertà in autoasservimento, che, in una prospettiva ormai fuori della filosofia della storia, illumina ante litteram il tema foucaultiano dell’attaccamento alla subordinazione, del meccanismo attraverso cui i soggetti vengono istituiti e mantenuti. La corporeità che la coscienza infelice cerca di negare è la condizione e il potenziale disfacimento di questa soggettivazione (ivi, p. 35).
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II FORME DELLA SOGGETTIVAZIONE
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10 FORZA E FORMA: LE DINAMICHE DEL DESIDERIO E LA COSTRUZIONE DEL SOGGETTO MORALE di Salvatore Natoli
Vorrei entrare nell’argomento della mia relazione con una breve premessa che serve fondamentalmente a mettere in chiaro come, quando e perchè, dentro Foucault, viene a formarsi il tema della soggettivazione dell’individuo. Se dovessimo trovare delle parole che, in modo breve e schematico, ci diano il profilo complessivo del pensiero di Foucault, ebbene queste parole sono tre: soggetto, potere, verità. Tanto le cellule germinali del pensiero foucaultiano, quanto la curvatura delle sue linee evolutive appaiono tutte precontenute, in sostanza, nella Storia della follia, che già embrionalmente le custodisce. Se dunque si dovesse salvare un solo libro di Foucault per capire che cosa egli ci ha detto, basterebbe salvare la Storia della follia. Anche se la soggettivazione, così come emerge nell’ultima fase, lì è appena accennata, la si coglie tuttavia nella figura della dissidenza, nella misura in cui il folle è dissidente. Il folle è anche il (vero) sano, è anche il portatore di verità, però non è (ancora) soggetto, ovvero non è il soggetto che si viene a formulare nel momento in cui Foucault affronterà il tema del modo in cui si plasma la propria potenza. Il tema della soggettività lo possiamo infatti scrivere in questa forma: come si plasma la propria potenza? Questo è un modo non propriamente foucaultiano, ma certamente nello spirito di Foucault, per capire che cos’è, e come nasce il soggetto. Dentro Foucault, le cellule germinali che noi vediamo nella Storia della follia si sviluppano, grosso modo, in tre momenti, dove evidentemente ogni momento è a dominante: non è che gli altri elementi non ci siano,
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ma sono per così dire in seconda battutta, in controcanto, in contrappunto rispetto al tema che in quel momento Foucault svolge. Diciamo che il primo momento – o movimento – è relativo al rapporto tra discorso e verità. Userò spesso nella mia esposizione le proposizioni dinamiche da e a, proprio per mostrare le scansioni, la ritmica interna: da – a. In questa prospettiva, qual è la questione che emerge nel cosiddetto primo Foucault, se così lo vogliamo chiamare? È appunto il movimento dal discorso della verità, o sulla verità, alla verità dei discorsi, dove discorso della verità, o sulla verità, vuol dire la verità che parla, autofondandosi: rinvia a tutta la tematica del trascendentale e dell’autofondazione. È appunto questo che si dissolve: si dissolve il soggetto trascendentale. Se c’è un soggetto che muore, è il soggetto trascendentale: si tratta della morte dell’uomo imparentato con questo soggetto. La morte dell’uomo è strettamente collegata alla morte del trascendentale, anche se nel trascendentale non è ancora apparso l’uomo, perchè è con le scienze umane che appare la sua figura. Il trascendentale è piuttosto la rappresentazione, ed è il fondamento, è l’auto-evidenza della verità. Quest’auto-evidenza della verità, questa forma della rappresentazione si dissolve, attraverso l’archeologia, nell’archivio. Com’è noto, nell’archivio si dissolve il fondamento come apriori trascendentale, a favore di un’archeologia, di un apriori storico1; in altri termini, non il discorso della verità o sulla verità, ma la verità dei discorsi, ovvero: come si formano le strutture discorsive dentro cui si pongono enunciati significanti. Ecco, questo è il primo Foucault: serie, strutture, enunciati. È il periodo durante il quale egli deve combattere una grande battaglia contro l’accusa seria, a tutti nota, di essere un post-strutturalista; il periodo nel quale va dicendo: sì, io parlo di strutture, ma non dimenticate che parlo anche di soglie, di discontinuità, di punti vuoti2. La nozione di archeologia nasce proprio in polemica con le logiche continuiste: bisogna leggere il documento come un monumento3, e non il contrario. Noi vediamo un tempio, ed è la logica formale del tempio che ce lo fa vedere intero, è la sua struttura. Però quel tempio è anche quel monumento: non c’è una continuità. Questa è dunque la tematica – la dominante – del primo Foucault: non discorso sulla verità, bensì verità dei discorsi. Ma i discorsi fanno valere una verità: nei fatti, fanno valere qualcosa come vero, e dunque nei discorsi di 1 2 3
Cfr. M. Foucault, Archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980, in part. pp. 169 e sg. Cfr. ivi, pp. 218 e sg. Cfr. ivi, p. 11.
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verità c’è già, implicitamente, il potere. Il discorso di verità ha effetti di verità: non è dichiarativo, è performativo. Qui si disegna la grande mappa del sistema differenziato dei saperi: Le parole e le cose, ovvero la differenziazione delle discipline. I discorsi di verità sono discorsi potenti, il che era in fondo implicitamente contenuto nella Storia della follia: interniamo i folli, e nasce la psichiatria; l’atto di potere diventa la precondizione di una verità: dire la follia. Ma, allora, già nella dimensione della verità, per quanto la si analizzi nella sua forma enunciativa, questa stessa forma non è affatto un evento meramente dichiarativo, bensì effettivo: fa accadere cose, organizza mondo, appunto, nella forma della verità. C’è una connessione molto stretta tra verità e legittimazione; di più: la caratteristica fondamentale di questa connessione è la possibilità dell’enunciazione. Ragionando al modo dell’Archeologia del sapere, ci si può chiedere: come faccio a dire che il moto dei gravi di Galilei e la relatività sono due enunciati della fisica? Ci dev’essere un discorso, uno spazio di enunciabilità, in base al quale io capisco, indipendentemente dal merito dell’enunciato, che sono enunciati della fisica, cioè appartengono a un certo dominio. Questi domini, con il sistema delle scienze umane, progressivamente si articolano in regioni che hanno effetto di verità: sono gli ordini del discorso4. Il discorso è un sistema di ordini differenziati e non sovrapponibili. Sotto quest’aspetto le analisi di Foucault sulla differenziazione non sono dissimili da quelle di un autore che a primo acchito è quanto di più opposto e lontano da lui, Niklas Luhmann, che considera la complessità come differenziazione costante di un sistema-ambiente in sottosistemi5. Noi potremmo trascrivere in termini di teoria dei sistemi quanto Foucault dice in termini di microfisica, ma è stato fatto da pochi. Bisognerebbe intendersi e capire perchè non ci si sia arrivati. Spesso i dialetti prevalgono sui modelli speculativi. Nella cultura, spesso, si producono idiomatismi che impediscono il confronto tra modelli esplicativi alternativi, ma sotto alcuni aspetti compatibili. In ogni caso, con gli effetti di verità, si entra nell’analitica del potere: dominante è il discorso, in relazione agli effetti di verità, e quindi all’effettività del potere, soprattutto il potere di organizzazione. La disciplina dei corpi diventa il corpo disciplinare6. In Sorvegliare e punire, Foucault mo4 5 6
Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972. Cfr. N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari 1983. Cfr. S. Natoli, Sapere e dominio. Disciplina dei corpi e costituzione delle discipline in Foucault, in Id., La verità in gioco, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 68-108.
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stra che se vuoi l’efficienza del corpo, del gesto delle mani, devi conoscere l’anatomia: il passaggio più breve è il gesto più efficace7. Ciò che la disciplina del corpo ha determinato presuppone un corpo astratto, che è il corpo dell’anatomia (lo stesso discorso si può fare per la Nascita della clinica). In Sorvegliare e punire, la disciplina dei corpi diventa un’organizzazione seriale; ha una componente fortissima di serialità e di individuazione. Ed è qui che si inserisce la prima forma della soggettività. L’uomo antico, secondo il modello nietzscheano, era la singola individualità rispetto alla molteplicità anonima. Pensate all’Iliade: protagonista è il grande capo. E gli altri, chi sono? I senza nome, gli ignoti della storia. Almeno fino al medioevo: quando Foucault parla dell’organizzazione dell’esercito, nota che nell’esercito medievale vi erano alcuni capi che organizzavano una zuffa; l’elemento-massa poteva far riuscire a vincere nella lite: era una massa di persone a risultare potente. Non era importante altro se non l’effetto-massa, l’effetto-macigno. E poi c’era la cavalleria. Nel complesso, siamo di fronte a grandi individualità selezionate rispetto alle masse anonime, mentre nella modernità abbiamo un processo di organizzazione della serie, di universalizzazione, di individualizzazione seriale: l’anatomia è lo schema generale del corpo, che permette di organizzare ogni corpo. Puoi preparare la ginnastica perchè hai la tavola anatomica; sai che questo è il movimento più efficace per rafforzare questo muscolo, e lo applichi a quel corpo. Tutti i corpi sono singolari, ma la legge che presiede alla loro performatività è generale: è la teoria. Ecco perchè la disciplina dei corpi diventa corpo disciplinare. Il sapere è potere, il potere è sapere, e perciò il potere non può essere cieco (si pensi al Panopticon): deve vedere sempre di più. Una notazione di passaggio: la caratteristica del potere è quella di essere produttivo. Prima ancora di essere buono o cattivo, la caratteristica del potere per definizione, cioè perchè il potere sia potere, è che sia produttivo. Un potere è tale, quanto più fa fare; tanto meno è potere, quanto più interdice. Un potere d’interdizione è un potere basso, perchè non fa fare quello che vuole: impedisce alle persone di fare quello che vogliono, ma non fa fare ciò che lui vuole. Il vero potere è invece quello che fa fare ciò che vuole, perchè, tendenzialmente, è un potere che convince. Ecco perchè il rapporto tra potere e verità diventa così stretto: perchè la verità è la forma di legittimazione del potere. Hobbes, ad esempio, fornisce la legittimazione del potere; s’impone, nella filosofia politica moderna, perchè è la verità del potere. La testa del re dev’essere decapitata, dirà Foucault contro Hobbes, 7
Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, in part. pp. 147-185.
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e ciò perchè la differenziazione non è solo differenziazione tra i poteri. Se potere e verità, potere e sapere stanno insieme, la differenziazione della verità non può che essere differenziazione di potere. La differenziazione dei poteri è una disseminazione della verità. Ed anche qui emerge una lontana somiglianza con Luhmann, perchè anche Luhmann, quando parla della teoria dei sistemi, dice che il potere efficace è quello che fa fare. Ancora una volta, il potere è produttivo: nel potere abbiamo la produzione, l’individualità generalizzata; i tutti e gli ognuno. Culmine di questo sistema è la schedatura: tutti abbiamo un nome, un’identità, un indirizzo. Tutti siamo ritrovabili, tutti siamo reperibili, tutti siamo iscritti in qualche codice: a scuola, all’università, ecc. L’intera seconda parte di Sorvegliare e punire è centrata su questo tema8: il Panopticon è la dimensione estrema in cui siamo ridotti solo ad iscrizione, e il potere non è più visibile, ma invisibile e pervasivo. C’è anzi in questa parte il passaggio più interessante di Foucault, secondo il quale noi ci sentiamo sotto uno sguardo, indipendentemente da chi ci guarda. Ci sentiamo costantemente guardati, sotto ispezione.9 Per sintetizzare, allora, questo movimento: dall’analisi del potere sulla verità, alla verità del potere. Il passaggio decisivo, in quest’analitica della verità, è quello dalla fisica alla microfisica. Nella partizione delle prestazioni sociali, nella differenziazione delle competenze, il potere non può che essere distribuito. Il potere ha un dominio nel suo campo, in cui nessun altro può entrare, perchè non è possibile nè un diverso enunciato, nè un diverso dispositivo. Associamo così le due parole, enunciato e dispositivo: l’enunciato è una struttura dichiarativa; l’enunciato è possibile perchè c’è un atto procedurale. Una sentenza, ad esempio, è insieme un enunciato e un dispositivo. Questo è ciò che presuppone il tribunale: nessun altro la può emanare. E l’individuo è inscritto in quel sistema in quanto o chiede giustizia, o patisce giustizia: o c’è una richiesta di giustizia, oppure c’è la punizione. A questo punto, ci dobbiamo chiedere, cosa vuol dire microfisica? Vuol dire che, se il potere non è fungibile, nel suo ambito è assoluto. L’unica dimensione di esteriorità cui può dar luogo, è legata al fatto che si complica, come dimostra il famosissimo caso di Pierre Rivière10. Il giudice diventa colui che emette il giudizio, la verità, ma questa non può essere giudiziaria: necessita della consulenza del medico. Per cui noi abbiamo un titolare del dispositivo, però l’elaborazione 8 9 10
Cfr. ivi, in part. pp. 213 e sg. Cfr. ivi, pp. 220-221. Cfr. il dossier a cura di Foucault, Io, Pierre Rivière.... Un caso di parricidio nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2005.
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del dispositivo ha bisogno di altri settori che interferiscano con esso, con un’evidente logica di trascrizioni, di contaminazioni – contaminazioni che tuttavia operano secondo regole. Tutto questo produce dinamiche di trasformazione: include, ma anche esclude, produce dissidenza, non risolve. C’è una dimensione della società che non è contenuta nel potere, però ci sono tutti i titoli in virtù dei quali questa dimensione possa essere bandita. In tal senso, il potere è una grandissima macchina a dominante inclusiva, con effetti di margine, di esclusione: gli anormali (non a caso, Gli anormali è il titolo di uno dei più bei corsi di Foucault11). Il potere è una macchina di inclusione sotto dominazione, che produce effetti di esclusione a margine. Ad esempio, il folle cos’è, il malato o il sintomo? ...L’anormale dev’essere letto come il sintomo di una patologia del sistema, e non come segno della sua efficienza; qui vi è il recupero, la trascrizione, di cose che Foucault aveva appreso dal suo maestro, Canguilhem: la differenza fra il normale e il patologico12. La questione è infatti se esista qualcosa di in sè patologico, o se piuttosto la patologia non sia che un evento della normalità; o se la cosiddetta normalità, reprimendo, non patologizzi, perchè il potere, da repressivo che era, diventa un potere che crea soggetti conformi. Questa è la dinamica fondamentale per cui la repressione cade sempre a margine; non a caso – e qui c’è tutta la lettura foucaultiana del marxismo – anche gli antagonisti diventano conformi. Ed ecco, allora, spiegato il passaggio: dal potere della verità, alla verità sul potere. Il passaggio ulteriore è questo: dalla verità su di sè, al potere di resistenza come capacità di neutralizzazione del potere performante, o addirittura, e persino, di annullamento, di perdita di efficacia del potere performante. In altri termini, qui non è neanche il margine, la marginalità che libera – perchè c’è stata una lettura marginalista di Foucault: Foucault filosofo della dissidenza. Certo, lo è anche stato, perchè molte sue ricerche sono nate a partire dalla dissidenza; per esempio, Sorvegliare e punire nasce dalla ribellione nelle carceri, da una tentazione tra intellettualità e politica. Non dimentichiamo che di mezzo c’è il saggio sull’illuminismo, c’è la filosofia come pensiero dell’attualità. Però il margine, l’eccesso, indicano in Foucault una dimensione di attenzione alla dissidenza senza innamoramento per il rizomatismo. Foucault non è stato rizomatico, non ha seguito la deri11 12
M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-75, Feltrinelli, Milano 2004. Cfr. G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998.
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va che ha patito Deleuze attraverso Guattari. Deleuze è stato un grande filosofo, però Guattari lo ha ‘ammalato’ un pochino. Mi riferisco al processo del vitalismo e della spersonalizzazione: Foucault non avrebbe scritto La cura di sè, se avesse preso la via di Deleuze. La sua operazione è invece proprio il contrario: produrre una dissidenza che sia anche forma (da qui il titolo della mio intervento: Forza e forma), una dissidenza formata, non vitalistica, riunendo così quelle che sono le due anime di Nietzsche. Certo, Nietzsche di anime ne aveva tante, era folle davvero, ma in lui c’è questa doppia dimensione: da un lato, avanguardia, ivresse, ebbrezza13; dall’altro, Nietzsche è anche un grande filosofo della forma. È stato lui a sostenere che i Greci, proprio perchè hanno visto l’abisso della dismisura, hanno cercato la misura14. Non la naturalità dolce e levigata dell’apollineo settecentesco, ma la forma di Skopas: nel crogiuolo del dolore, cercare la forma. Heidegger ha ragione, sul fatto che Nietzsche andrebbe letto come Aristotele: bisogna tenerlo insieme. Ora, Nietzsche non è mai stato letto così aristotelicamente, ma è stato letto, fondamentalmente, per frasi – in questo modo ne è stata data una versione estetizzante. In Foucault, invece, c’è un rapporto molto profondo con Nietzsche: egli raggiunge i Greci, e l’ellenismo, attraverso Nietzsche. L’istanza speculativa gli viene da Nietzsche e lo dichiara: ci sono molte interviste in cui lo dice chiaramente. Siamo dunque giunti alla verità su di sè come condizione di resistenza alla performatività del potere. Mettiamola così: il soggetto non c’è. In parte perchè trascinato dai movimenti della vita, dalle dislocazioni; in parte perchè inscritto in sistemi, in ordini discorsivi. Dov’è la sua unità? Quando il soggetto funziona in modo razionale, è conformato al potere, quando vuole vivere la vita, la può vivere soltanto come ribellione, disastro, marginalità: non c’è nè da una parte, nè dall’altra. Dove si può istituire, allora, il soggetto? Qual è lo spazio dove può istituirsi? È forse utile a questo punto una notazione filologica, e cronologica: nel 1976 Foucault scrive La volontà di sapere, che è un libro decisivo perchè sta a metà tra l’analitica del potere e la cura di sè, e se voi leggete la prima edizione di Gallimard15, là lui presenta il piano dell’opera. Lo trovate nel 13 14 15
D’Annunzio, che leggeva spesso Nietzsche in francese, sottolineava sempre la parola ivresse: gli piaceva l’ebbrezza. Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1878, in Id., Opere, Adelphi, Milano 1967, vol. IV tomo III, pp. 279 e sg. Su Nietzsche e i Greci cfr. il mio La salvezza senza fede, Feltrinelli, Milano 2007. Cfr. M. Foucault, La Volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976.
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retro di copertina: non bisogna andare a cercare carte segrete. Dopo il primo volume, che è appunto La volontà di sapere, il piano prevedeva come secondo volume La carne e i corpi; terzo volume, La crociata dei giovani; quarto, La donna, la madre, l’isterica; quinto, I perversi; sesto, Popolazioni e razze. Ed è qui che appare per la prima volta, in modo esplicito, un termine oggi preso ampiamente a prestito, e divenuto di moda, la biopolitica, su uno schema di fondo che è quello che impiega Foucault: c’è stato un tempo in cui il potere era diritto di dare la morte; oggi il potere è produzione di vita16. Il che riassume tutto quanto detto finora: il potere che conforma, che produce vita, che ‘organizza’ le vite. È interessante il passaggio finale de La volontà di sapere, molto importante per le cose che stanno accadendo oggi – in cui Foucault parla del sangue, della biopolitica, della bontà delle razze e delle nazioni, ecc.; è evidente che sta parlando del nazismo17. Ebbene, qui Foucault pone una differenza indicativa: nell’aristocrazia il ‘sangue’ era la stirpe, ovvero il sangue ‘buono’ veniva dall’antico ed era ereditato; con la biopolitica, il sangue ‘buono’ è il sangue artificiale, deprivato della malattia e purificato, il sangue fabbricato. In un tempo in cui ormai la manipolazione genetica può farlo, riesce a farlo: bisogna tener presente che Foucault scrive queste cose nel ’76, e che a livello scientifico si sapeva già dove si sarebbe potuti arrivare. Oggi, dopo trent’anni, si produce la ‘vita buona’; tendenzialmente, non dovremmo neanche scartare la vita cattiva, se produciamo la vita buona18. Solo che il tempo intermedio è abbastanza lungo, e di scorie da eliminare ce ne sono tante, a partire da me, ad esempio, perchè vado invecchiando: il vecchio è una patologia della società, è un margine, ha un ambiente; glielo stanno costruendo, si amplia sempre di più... Ecco, questo è la biopolitica, produrre la vita, che però è una vita anonima, in cui gli individui sono singulatim, però non sono soggetti. Sono singolarizzati nel senso che sono entità numeriche, è chiaro: tutti sono uno, ma nessuno è se stesso. In questa situazione, Foucault si chiede che fare, e si accorge che nel vitalismo c’è una verità: in fondo il vitalismo vuole dire che c’è una vita che si esprime per se stessa, che non si padroneggia ma vuol essere se stessa, vuol essere la realizzazione del suo desiderio. È attorno a questa verità che viene poi fuori il Settantasette, attorno ad un vitalismo e ad una pulsionalità 16 17 18
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 119 e sg., in part. p. 122. Cfr. ivi, pp. 130-131. Cfr. S. Natoli, Vita buona vita felice, Feltrinelli, Milano 1990.
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che esige soddisfazione. Ma in quale spazio? La risposta è: il mio corpo. L’individuo è strettamente collegato alla sua corporeità. Ecco il passaggio decisivo: del vitalismo, Foucault prende l’economia libidinale, il corpo. C’è infatti uno spazio in cui ‘accade’ l’individualità, accade nella forma preliminare della vita o del desiderio, e sarebbe interessante vedere in che misura, al di sotto di tale scoperta, non agisca lo Hegel della Fenomenologia dello spirito19; non dimentichiamo inoltre che Foucault è un francese colto, che ha letto Kojève, che conosce Bataille, e che soprattutto è un grande contaminatore: il suo è un eclettismo mentale vertiginoso. Foucault è più grande come eclettico che come teoreta, ma si trova in quella singolare situazione in cui l’eclettismo diventa pensiero; ciò accade raramente, perchè di solito l’eclettismo diventa enciclopedia. Ma in lui c’è stata una simile torsione, che lo ha portato alla vita, al corpo vivente. Questa vita può essere un desiderio che si spreca, che si brucia, può essere un desiderio che è coartato, che trova nell’altro qualcuno che lo impedisce, e nell’impedimento si vede la resistenza: per non cedere, per resistere, bisogna ripiegarsi su di sè, quasi un raggomitolarsi, un diventare punto di resistenza. Ciò è stato notato con grande finezza da Deleuze nel suo saggio su Foucault20: l’ultimo Foucault è la vita che per non lasciarsi vivere, o per non essere ‘giocata’ dal potere (perchè la vita può essere giocata dal potere, come vedremo tra poco), ‘gioca’ il desiderio in una dimensione che feconda il potere. Il quale, in fondo, cosa fa? ...Il potere, oggi più che mai, va incontro al desiderio. La forma dell’asservimento consiste nell’assecondare il desiderio: tutti consumatori, tutti asserviti. Allora, il desiderio sono io, è la mia carne, il mio corpo; io sono potenza desiderante, sono libido, sono energia. Ma quest’energia, per non essere conforme, o per non essere difforme nella forma della devianza, deve contenersi, raccogliersi: è la valorizzazione semantica – che però appartiene più a Natoli che a Foucault – del termine continenza. La continenza non è l’inibizione del desiderio, ma il saperlo contenere per dargli autonomia; per essere titolare di scelta, io non devo assecondare il desiderio, lo devo governare. Si perviene così all’enkrateia degli antichi: costituirsi come soggetto nell’unico spazio dove gli altri non possono entrare; possono gravare, ma non possono entra19
20
Bisogna leggere a tal proposito la prolusione di Foucault al Collège de France, quando sostituisce Hyppolite (traduttore della Fenomenologia), in particolare il passo in cui, parlando proprio del debito che ha verso di lui, Foucault parla dell’ombra di Hegel, che abbiamo sempre cacciato e che ci torna sempre davanti: cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., pp. 54-55. Cfr. G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2002.
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re. E qual è questo spazio? L’io-corpo: non il soggetto trascendentale, ma il corpo vitale; è laddove c’è il corpo, che nasce il soggetto. Non so quanto su questo abbia influito, ad esempio, Merleau-Ponty; Foucault non lo cita quasi mai, ma è da lui che proviene la tematica della carne. Bisogna dunque diventare signore del desiderio. Dopo il ’76, com’è noto, c’è un lungo silenzio: otto anni in cui Foucault non scrive, però concede delle interviste significative. C’è inoltre, in un’altra versione (che verrà poi cambiata) della prefazione alla storia della sessualità pubblicata da Rabinow e tradotta in Italia da Feltrinelli21, una dichiarazione esplicita: Foucault afferma di voler rinunciare al modello precedente (quello il cui indice è stato riportato prima), perchè intende liberarsi dal «dilemma, allora [negli anni Settanta] dominante, tra una antropologia filosofica e una storia sociale»22. Vale a dire: non voglio costruire un’antropologia filosofica, non voglio fare una storia sociale. Cosa intendo fare, allora? Voglio scrivere un saggio sull’esperienza singolare: sull’esperienza della singolarità nella storia. Si tratta del rapporto di sè con sè, e del rapporto di sè con gli altri. Foucault procede con altre due affermazioni: «Vi era il rischio [se avessi continuato a scrivere le cose che avevo scritto sinora, cioè fino al ’76, alla biopolitica] di riprodurre, a proposito della sessualità, delle forme di analisi incentrate sull’organizzazione di un ambito di conoscenza o sullo sviluppo delle tecniche di controllo e di coercizione – come quelle realizzate precedentemente a proposito della malattia e della delinquenza»23; vi era cioè il rischio che continuassi a parlare dei sistemi biopolitici, mentre invece voglio fare altro: «mi sono detto che, in fondo, era meglio sacrificare un programma già definito al disegno generale di un percorso; mi sono anche detto che forse non avrebbe senso fare la fatica di scrivere dei libri se questi non insegnassero a chi li scrive quel che non sa, se non lo portassero dove non aveva previsto e se non gli permettessero di stabilire un rapporto nuovo e insolito con se stessi»24. La fatica e il piacere del libro consistono nell’essere un’esperienza. Qui c’è una mutazione forte, forse la più intensa, dentro Foucault, se vogliamo parlare di discontinuità: il ripiegamento su di sè, l’afferrarsi. È qui che il modello diventano gli antichi, ai quali egli arriva un po’ per caso. 21 22 23 24
Cfr. M. Foucault, Preface to the History of Sexuality, in P. Rabinow, The Foucault Reader, New York 1984, pp. 333-339, ora in Archivio Foucault 3. 19781985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 233-239. Ivi, p. 234. Ivi, p. 238. Ivi, p. 239.
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Agli antichi, Foucault arriva per via erudita – perchè non era un accademico, ma era certamente un amante della cultura erudita, della pratica documentaria, degli archivi: il tempo della sua vita passato alla Bibliothèque Nationale di Parigi è sterminato. Ed è stata questa dimensione del documentarismo, forse, ciò che ha limitato gli aspetti vitalistici del suo pensiero. Foucault era nei tempi lunghi; in ciò vi è la tradizione de Les Annales, oppure delle grandi performazioni comparative: Dumézil. Mentre i vitalisti giocano sempre sui tempi immediati, l’erudizione era per Foucault una terapia dell’anima, che non gli faceva fare il rivoluzionario di lusso (figura molto diffusa in quegli anni, che pretendeva di passare dal diritto universale alla felicità, alla felicità conquistata in qualsiasi altro modo...). In particolare, agli antichi Foucault arriva perchè, nella seconda parte della Volontà di sapere, si intrattiene a lungo sulla confessione, e quindi va a studiare tutti i trattati dei confessori a partire dall’età barocca – dal momento che studia soprattutto l’età moderna. Ma poi si accorge che la pratica della confessione è molto antica, e che la direzione spirituale gesuitica si radica nella grande tradizione monastica. E nella tradizione monastica scopre tecniche di educazione del sè prelevate per intero dalla tradizione stoica; in Cassiano, ad esempio, trova il cristianesimo, ma trova anche la precettistica della formazione di sè che veniva dagli stoici. Quindi Foucault si volge al mondo tardo-antico, dove trova tutta la tematica della carne; in ciò ha influito su di lui, non tanto Veyne, quanto Brown, che ha studiato la corporeità e l’esperienza del corpo (sprt. il tema della verginità) nella prima cristianità25. Per ragioni erudite, Foucault va di fonte in fonte, fino ad incontrare il mondo tardo-antico, e lì si ferma. Perchè si ferma? Perchè voleva trovare un governo di sè che avesse dominio senza inibizione, controllo senza rinuncia, umanità e grande individualità, senza trascendenza; voleva cioè trovare un individuo che esercitasse ascesi senza rinuncia. Il tema dell’ascesi slegato dalla rinuncia sta nella parola stessa: nel mondo antico gli asketai erano i pugili, erano gli atleti, ovvero coloro i quali attraverso l’esercizio – perchè askesis vuol dire proprio ‘esercizio’ – riuscivano ad ottenere performance corporee adeguate. L’ascesi è la modalità, l’esercizio attraverso cui si plasma la propria potenza, si amministra il desiderio – perchè di eccesso di desiderio si muore, e dunque lo si deve amministrare – , si dà forma alla forza. Bisogna intendere Foucault in questo senso quando parla di “stile” o di “estetica dell’esistenza”. Inoltre, “stile” viene da Nietzsche, che in un frammento 25
Cfr. P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Einaudi, Torino 1992.
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scrive: «Il grande stile nasce quando il bello prevale sull’immane»26, cioè quando, a fronte di forze laceranti, io preservo la mia forma, la mia aistesis. Ma in quale direzione va tutto questo? A Foucault piacciono gli stoici; prende invece un abbaglio su Aristotele, cadendo sotto un’ipoteca interpretativa assai banale: in fondo, sostiene, Aristotele non ha mai pensato alla spiritualità, ma è stato un teorico27. Ci sarebbe da fare qui un’obiezione molto forte, perchè l’unico libro, pare, che Aristotele abbia scritto come libro e pensato in modo organico è l’Etica Nicomachea, non la Metafisica. E l’Etica Nicomachea è un libro sulle forme di vita, non sulle forme dell’Essere o del concetto: è il primo grande libro sulle forme di vita, da cui dipendono sia gli epicurei, che, appunto, gli stoici. Quindi, quando Foucault parla di Aristotele, è subalterno ad un modo troppo tradizionale di pensare lo Stagirita, e non si accorge che Aristotele in parte già diceva quello che poi troviamo nelle scuole tardo-antiche. Ma, a parte ciò (che non è poi così rilevante): per Foucault il problema è darsi forma, stile, attraverso l’enkrateia. Praticare strategie su di sè. Di che tipo di strategie si tratta, e qual è la differenza col cristianesimo? Nel mondo stoico, quello che era importante, nella forma di sè, era l’azione riuscita, dove per azione riuscita s’intende l’incastro tra la propria potenza e la condizione in cui ci si trova. Centrale è il presente: si deve avere l’appuntamento con il momento. Quindi, la riuscita sta fondamentalmente nell’analitica degli atti – atti mancati ed atti riusciti. E allora la paraskeue greca, che Seneca traduce come instructio28, non significa essere più forti di altri, ma guadagnare quelle abilità per essere forti ad ogni momento, per signoreggiare sull’istante, per non essere mai passivi, in qualsiasi momento. L’abilità sta nel sapere, in questa situazione, qual è l’atto pertinente: devo conoscere la mia potenza – è il calcolo sugli atti. La differenza profonda rispetto al cristianesimo consiste esattamente in questo: il problema, nel cristianesimo, non è negli atti, ma nell’intenzione; non è nell’oggettività dell’atto riuscito che risiede il valore, perchè l’atto riuscito non vuol dire che in esso, lì, io sia per intero. L’intenzione suppone, sottintende uno schema, che è quello della perfezione. Per lo stoico, la perfezione sta nell’atto che riesce, per il cristiano sta nella totale sparizione 26 27 28
Cfr. F. Nietzsche, Umano troppo umano, in Id., Opere, cit., vol. IV, tomo III, p. 181. Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-82, Feltrinelli, Milano 2003, p. 19. Cfr. ivi, p. 85.
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della debolezza da cui è intaccato attraverso il peccato. E questa forza perfetta non gli può venire da se stesso, ma da Dio: questa forza dev’esserci in Dio. In tal senso, l’obbedienza è il cedere a Dio, perchè è Lui la vera potenza; dunque nel cristianesimo non c’è soltanto una logica di rinuncia, c’è anche una logica consapevolezza della propria fragilità. Si tratta di un tema di estrema importanza per affrontare il cristianesimo, anche perchè, accanto all’obbedienza, c’è la mistica, che rappresenta la dissidenza, la via personale a Dio, l’auto-realizzazione, il perseguimento della propria perfezione. Tanto nello stoicismo, quanto nel cristianesimo vi è il perseguimento della propria perfezione – perfezione della propria singolarità. Lo si può fare da sè, come dominio degli atti; lo si può fare con Dio. Ma, in entrambi i casi, ciò che è centrale è la perfezione, l’auto-perfezionamento. L’aspetto positivo di questa centralità dell’auto-perfezionamento, è l’autoriferimento: la resistenza nasce non tanto dalla capacità di antagonismo, quanto dalla capacità di sottrazione. Il potere diventa impotente perchè, se io mi sottraggo, non mi può persuadere – quindi io divento libero rispetto ad esso, mentre l’antagonista, in fondo, tende ad essere subalterno. Si può indicare, per concludere, quello che in Foucault è soltanto accennato, ma manca, e che dovrebbe essere realizzato come proseguimento del suo pensiero: centrale, in esso, è l’auto-perfezione come sottrazione al potere – aurorale la relazione d’alterità. In Foucault non ci sono gli altri, se non in termini di gioco di potere. L’altro, inteso nel senso del riconoscimento dell’Altro – diciamo, la linea Lévinas – manca, ma bisogna completare questa linea, perchè senza l’Altro torna, rapace, l’onnipotenza dell’Io.
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11 L’ANERKENNUNG. DAL SAPERE AMOROSO AL LINGUAGGIO DELL’ADULAZIONE di Mariapaola Fimiani
1. In un’intervista pubblicata solo dopo tre giorni dalla scomparsa, Le retour de la morale, Foucault raccontava come fosse importante avere alcuni autori «con cui si pensa», «con cui si lavora», ma «su cui non si scrive», perché restano veri «strumenti di pensiero».1 Tra questi c’è stato Heidegger, che leggeva nel 1950, prima di Nietzsche, certamente Kant (il testo dell’Introduction à l’anthropologie de Kant resta inedito per volontà testamentaria). All’elenco degli “strumenti di pensiero” è forse opportuno aggiungere Hegel. Bisognerebbe ricordare la giovanile memoire su Hegel,2 di cui non resta traccia, e le episodiche citazioni, non molte, ma concettualmente intense e cariche di suggestioni teoriche. Vorrei limitarmi a ricordare solo il richiamo alle affinità hegeliane che occupa l’inizio e la fine de L’herméneutique du sujet. Il corso dichiara in apertura l’ispirazione della Fenomenologia hegeliana per la questione della “spiritualità”, per il legame circolare tra il soggetto e la verità, e per l’implicazione, in questo legame, dell’idea di un soggetto come “divenire”3. E ancora alla Fenomenologia viene riconosciu-
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Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 269. La vérité et les formes juridiques, Table ronde, in Dits et écrits, Edition établie sous la direction de D. Defert et F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, IV, p. 627. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, edizione stabilita da F. Gros, trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 25.
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to, nella conclusione, il compito di raccogliere la sfida del mondo classico alla filosofia occidentale, quella di pensare un soggetto di esperienza capace di fare del proprio mondo il luogo di una prova.4 Ho provato a leggere, a partire dall’Uso dei piaceri, il testo di Foucault come una riscrittura della Fenomenologia dello spirito, in particolare per il tema dell’Anerkennung. Mi limiterò a richiamare i tasselli di questa prova di lettura,5 tentando di riassumerne il quadro argomentativo nei limiti di una provocazione elencativa di punti in discussione. Nell’introduzione a L’usage des plaisirs la critica del desiderio, compromesso con i due poli della repressione e della liberazione, appare la premessa per discutere di un’etica dell’atto6. È il piacere ad esprimere la presenza di una singolarità incarnata. Ma il piacere è solo l’elemento di una ruota che tiene insieme piacere, atto, desiderio. In questo circolo, il circolo dell’usage, dell’uso della vita, l’atto non esprime la potenza illimitata di una forza, ma la concreta e limitata manovra in un campo che piega il piacere e allerta il desiderio. L’atto descrive il profilo dell’ontologia di una forza piegata, incompatibile con una «ontologia della mancanza» e con una «natura che fissa la norma degli atti»: nella «grana dell’esperienza etica degli aphrodisia» è in gioco una forza flessa, che produce e si produce7. La finalità è l’elaborazione di un insieme dinamico – che include anche il bisogno, il momento e lo status8 – dove l’atto trova la sua stilizzazione e la sua qualificazione etica. Per l’etica dell’atto l’agente è chiamato a rispondere non tanto degli effetti di un’intenzione – effetti spesso differiti e discontinui, dunque anche involontari – quanto della elaborazione delle opportunità del proprio desiderio e della coerenza della relazione fra il desiderio e l’atto. La pienezza etica del soggetto sta nel fatto che l’atto permette all’agente di assumere l’esercizio di un sapere, il peso di una elaborazione, il rischio del proprio desiderio e di rispondere non a un “giudizio di valore” – come vorrebbe un’etica intenzionale o assiologica di qualsiasi tipo – ma a un 4 5
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Ivi, p. 436. Ho esposto una prima analisi argomentata in Le véritable amour et le souci commun du monde, in F. Gros (ed.), Foucault. Le courage de la vérité, Puf, Paris 2002. Un conciso estratto della tesi è, poi, ancora il mio La “vita filosofica”: Foucault e Hegel, in Politica della vita, a cura di L. Bazzicalupo e R. Esposito, Laterza, Roma-Bari 2003. L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 10-11. Ivi, p. 49. Ivi, p. 59.
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“giudizio di esistenza”. L’atto – diversamente dall’azione mossa da un valore, da una intenzione o da una causa, che consentono comunque al soggetto di sottrarsi, con le attenuanti del caso o con la confessione – è un modo di presenza del soggetto nella sua incarnazione e nella sua qualità. È la messa in opera di sé e del reale, come estratto di se stesso e pezzo di mondo: l’atto implica la responsabilità della presenza di un’opera ma anche il suo necessario abbandono. L’attore è, così, solo il “locatario” e non il “proprietario” dell’opera.9 Ciò comporta l’esclusione del carattere prioritariamente normativo e progettuale nell’operare. Nella Fenomenologia hegeliana il farsi dell’autocoscienza e l’esercizio della riflessività del vivente non sembrano altro dall’effettivo dispiegarsi degli orizzonti semantici del lemma tedesco Begierde.10 La Begierde consente di pensare la complicazione del sentire pratico, in quanto appetire e desiderare, dove il primo è il lato del piacere, il ciclo del bisogno e dell’appagamento, e il secondo è il lato della mancanza d’essere, della incolmabilità del vitale. Una coppia di momenti della pratica del sentire che l’atto lega, in Foucault, senza farli coincidere. L’appetito esprime, per Hegel, il conflitto pratico col mondo. Il desiderio è, invece, ciò che l’appetito diviene, esperienza dell’indipendenza del suo oggetto e della insopprimibilità del suo altro. Il desiderio è ciò in cui la vita diviene appetito di se stessa e affermazione della propria indipendenza. Una indipendenza che nasce dall’esperienza dell’indipendenza dell’altro. Il desiderio è la sua duplicazione e l’esistenza si radica in un’altra esistenza. Perciò: «L’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza».11 Lo spostamento dall’appetito o dalla pura concupiscenza alla figura del desiderio apre, com’è noto, lo svolgersi della contesa, la lotta per il riconoscimento. Quando il desiderio trova la via per l’appagamento in un altro desiderio, l’operare si duplica e l’operare duplicato è scontro per la vita e per la morte12. Ma la questione dell’Anerkennung segnala anche, è noto, la 9
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Che l’attore sia “locatario” e non “proprietario” dell’opera consegue dall’assegnare valore a chi fa uso del corpo (“usager”) piuttosto che lasciarlo strumento di chi controlla la realizzazione (“utilisateur”) (cfr. B. Andrieu, Les cultes du corps. Ethique et sciences, L’Harmattan, Paris 1994, pp. 214 e sg.) Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, con una presentazione di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 199. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1963, vol. I, pp. 150-151. Ivi, p. 157.
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inevitabilità, nel corso della contesa, del mostrarsi di una ineguaglianza. La paura della morte e la resa di uno dei due estremi dicono che la morte fisica toglierebbe anche l’indipendenza, che la sopravvivenza è condizione per un vivente perché divenga potere indipendente. L’operare duplicato produce, nella lotta, è noto, due opposte figure, l’una è il signore, l’altra il servo. Con l’emergenza della signoria si dà immediatamente l’ineguaglianza, il riconoscimento ineguale, ma si avvia anche l’esperienza dell’inversione. La paura della morte, il servizio, l’opera, dice Hegel, fanno del servo quel vero signore che, a sua volta, fa del signore un servo. La contesa perviene, così, all’esperienza della inversione dello stato di ineguaglianza, perché se «la verità della coscienza indipendente è, di conseguenza, la coscienza servile», così la verità della servitù è la signoria13. Con la verità della signoria si apre il cammino, dice Hegel, dell’“Io che è Noi” e del “Noi che è Io”.14 L’ambivalenza di senso della hegeliana Begierde, che oscilla tra piacere e desiderio, ci avverte, dunque, che è la elaborazione della sfera delle pulsioni vitali ciò in cui si origina il bisogno dell’altro e la difesa della propria e dell’altrui indipendenza. Nello svolgersi del ben noto trittico dell’Usage – i tre assi dell’esperienza, la Dietetica, l’Economica, l’Erotica – l’Erotica acquista il ruolo emergente della figura conclusiva di un movimento interno alla Dietetica e all’Economica, una figura in grado di esplicitare l’intero campo teorico della signoria compiuta o di quella vera indipendenza che pure le prime due sfere dell’esperienza assumono come propria certezza. È come dire, in termini hegeliani, che solo l’Erotica perviene alla verità di una certezza immediatamente posta nella sfera della Dietetica e dell’Economica. La Dietetica riguarda la correzione permanente della propria esistenza, il regime che pone lo stato della signoria, il «formarsi, esercitarsi, mettersi alla prova come individuo capace di controllare la propria violenza [...] di trattenere in sé il principio della propria forza vitale e di accettare la propria morte»15, il proprio limite, il pudore e il piegamento. La Dietetica espone, cioé, immediatamente, la condizione di quel potere virtuoso che sembra essere l’ossatura dell’Economica. Il governo di sé è premessa indispensabile per il governo degli altri. Così, la pratica di autogoverno si combina, nell’Economica, alla padronanza sull’oikos, sulla casa, sui beni e in generale sull’area di possesso personale, una padronanza cui è finalizzato, per lo più, il rapporto tra i coniugi, quando non quello con i figli 13 14 15
Ivi, p. 161. Ivi, p. 152. L’uso dei piaceri, cit., pp. 129-130; il corsivo è mio.
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e con gli schiavi16. Ma la certezza della signoria si accompagna, qui, a una ineguaglianza inalterabile. Non c’è dubbio che il passaggio dalla Dietetica all’Economica rafforza un vincolo associativo che regola il rapporto tra le forze, tuttavia la “partecipazione”, l’essere in comune, non si stabilisce, in tal caso, «nel rapporto duale fra due individui, ma attraverso la mediazione di una finalità comune, che è la casa: la sua conservazione e, inoltre, la dinamica del suo accrescimento»17. Questa conservazione è, infatti, terzo elemento, medio esterno, misura e criterio di una unione salda tra soggetti assolutamente ineguali. Così, la certezza dell’indipendenza o della signoria mostra di fatto, nel suo immediato porsi, la dissimmetria essenziale e la dominanza incontrastata. Si conosce, perciò, come l’opposto di se stessa. E allora una tale dissimmetria spinge a ricollocare la questione della signoria in un campo in cui questa incontra l’altro da sé come un altro potenziale signore, un altro soggetto libero, per status e per finalità, là dove è in gioco, dunque, l’amore per il giovane greco. È nell’“amore greco per i ragazzi” che si apre il luogo di emergenza del movimento dell’Erotica. La disuguaglianza tra l’adulto e il ragazzo, che gli antichi assimilano per lo più al rapporto pedagogico, è avvertita come variazione minima, «scarto liminare», une différence du seuil18. Si apre, così, la sfida, il fronteggiamento, all’interno di un processo attivato dalla duplicazione di soggetti liberi, dal porsi di quella uguaglianza ineguale legata all’«antinomia del ragazzo» greco19. Il carattere antinomico del ragazzo greco consiste, infatti, nell’essere oggetto e soggetto insieme. Il giovane «è riconosciuto come oggetto di piacere», ma, al tempo stesso, egli è «destinato a diventare uomo», a diventare un soggetto libero che ha cura della sua libertà morale. È nella pratica erotica che si compie l’esperienza della inversione, i rapporti diventano variabili e momentanei, i soggetti aprono i rispettivi ruoli al libero gioco del rovesciamento: «uno è padrone e l’altro è schiavo e, alla fine, lo schiavo è diventato padrone»20. Prende vita, dice Foucault, una relazione del tutto «privilegiata”, perché una permanente mobilità, la pratica del rovesciamento, appartiene al «cuore del rapporto», lo rende «valido e concepibile», ne è l’elemento che lo valorizza, ne fa un tipo di legame «ric16 17 18 19 20
Ivi, pp. 156 e sg. Ivi, p. 160. Ivi, p. 199. Ivi, p. 222. Cfr. Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità (1984), trad. it. in Archivio Foucault 3, cit., p. 302.
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co di complesse poste in gioco»21. L’Erotica racconta, allora, di uno spazio di «ritualizzazione» e di quelle pratiche di «corteggiamento» che disegnano il gioco alternato dell’attività e della passività del soggetto22. La questione dell’Anerkennung rilancia, qui, una permanente ma duale spinta all’autogoverno o all’esperienza dell’indipendenza, perché si fa presente il controllo dell’espansione e dell’eccesso delle forze, che, dai due lati estremi, si esercitano, alternativamente, come forza del desiderante e forza dell’attraente, come spinta a possedere l’altro e come spinta a concedersi all’altro. Si dispiega, così, una contesa che è una sorta di «ellisse»,23 di circuito a due fuochi, di pista a due forze, dove la complessità del gioco richiede la padronanza di sé dell’amante che modera la spinta al possesso dell’altro e la capacità dell’amato a “non cedere” e a sfidare l’altro nella potenza di sottomissione. L’ellisse dell’Erotica è il reciproco rinvio di due moderazioni, impegnate nell’esercizio alternato della propria dominanza sull’altro. Ma affinché il movimento produca l’indipendenza vera, la compiutezza della signoria, la sua elaborazione e la sua verità, bisognerà attendere che l’esperienza amorosa divenga Erotica filosofica. L’essenziale dell’Erotica, infatti, non è certamente il soddisfacimento sessuale, ma non è neppure, come lascia intendere la fase della pratica del corteggiamento, l’uso equilibrato dei piaceri in un atto indirizzato da un amante a un amato o, viceversa, nella risposta di resistenza dell’amato. È piuttosto la via attraverso la quale l’eros produce due amanti, è il movimento della duplicazione dei poteri etici espressi nella cura socratica. Socrate è il filosofo che appare sulla scena del rapporto amoroso.24 E il filosofo è colui che più di altri ha cura degli altri, è colui che ha cura della cura,25 perché è esercizio di cura e insieme invito alla cura. In presenza del filosofo il problema dell’ “amore degno” si trasforma nel problema del “vero amore”, le véritable amour, non l’amour vrai, non l’amore vero, reale, giusto, ma l’amore veritiero, sincero, che produce nel coinvolgimento del sé la verità, dunque l’atto d’amore come atto di verità, o il sapere amoroso, il pensare coinvolto nelle pulsioni, personale e intransferibile.
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L’uso dei piaceri, cit., pp. 198-199. Ivi, pp. 199 e sg. Ivi, p. 206. Ivi, pp. 233 e sg. Cfr. L’etica della cura come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., pp. 279-285.
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Con Socrate prende vita «il principio che impedisce di ‘cedere’»,26 la sottrazione meditante, stravagante27. Sono, così, «i giovani», dice Foucault ricordando le conclusioni del Simposio, «a essere innamorati di Socrate», ad amare la stessa relazione d’amore. Il giovane amato, al quale Socrate rifiuta di scambiare bronzo con oro, Alcibiade, diviene da amato amante, amante del maestro di verità e dell’atto amoroso di verità. È allora l’incontro con la cura socratica che fa delle forze in gioco non più un amante e un amato, ma due amanti, due soggetti di eros. Ed è l’incontro fra due amanti che segna, per l’Erotica filosofica, l’elaborazione e il compimento della signoria, la comune cura del mondo, che si fa a sua volta «segreto supporto» dell’amore.28 È opportuno anche sottolineare che il valore multiplo del curare, del therapeuein, immette nell’epimeleia quegli stessi elementi che, per Hegel, avevano segnato il volgersi della dipendenza servile in indipendenza signorile, e cioé l’operare, il servizio, la paura della morte. Therapeuein è un termine che concentra tre valori semantici: l’operare, l’esercizio ripetuto o il servizio, il culto del dio o l’apertura alla potenza.29 La stessa nozione di parrhesia – l’atto di verità che esprime la cura socratica come parrhesia «etico-filosofica»30 – tende a rafforzare la logica del compimento duale dell’amore e l’idea della duplicazione del potere etico. Introducendo la questione delle «forme aleturgiche», dei rituali di manifestazione e di produzione della verità31, l’atto di verità pone anche l’esigenza di distinguere, tra queste forme, le condizioni per le quali un’alethurgia possa dirsi parrhesia. L’esame dei rituali aleturgici dà conto delle modalità di manifestazione della verità, ma anche degli specifici tipi di obbligazione a dire. Dire il vero su di sé è stato sempre, nella cultura antica, un’attività multipla, praticata con 26 27
28 29 30 31
L’uso dei piaceri, cit., p. 241. Sulla complessità della figura di Socrate, sull’assimilazione a Eros e al suo vagabondare, sulla forza dell’ironia capace di “tagliare in due” l’interlocutore e di “rovesciare” i rapporti tra maestro ed allievo è utile leggere, per i noti legami con Foucault, il testo di Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 1988, pp. 87 e sg. L’uso dei piaceri, cit. pp. 242-243. L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 10-11 e 89. Discorso e verità nella Grecia antica, con un’introd. di R. Bodei, Donzelli, Roma 1996, pp. 59 e sg. Le courage de la vérité, corso inedito al Collège de France, documento sonoro disponibile presso il Fonds Michel Foucault dell’IMEC di Parigi (catalogato con la sigla C 69, 02-10), lezione del 1 febbraio 1984.
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gli altri. Ma è lo statuto dell’altro, la cui presenza è necessaria, a rimanere il problema di massima attenzione nella problematizzazione dell’obbligo a dire32. Fra le forme aleturgiche, infatti, solo la parrhesia produce eticamente il soggetto. Ciò accade perché la fonte dell’obbligo, che qui diviene compito morale, è un altro soggetto il cui statuto è estremamente variabile, fluido, indeterminato, certamente non istituzionalizzato. Non è il confessore o il direttore di coscienza, non il magistrato, non il medico, lo psichiatra o lo psicoanalista, nessuno che sia investito di una qualificazione data dall’istituzione o garantita da saperi speciali. Questo altro è soltanto colui che è capace di qualificare eticamente la verità e che non è isolabile né definibile nei suoi ruoli, nelle sue funzioni, nelle sue determinazioni, perché è solo un soggetto disposto alla parrhesia: la qualificazione dell’altro è solo il suo essere, a sua volta, parrhesiastes. Se la fonte di obbligazione dell’atto di verità di tipo parresiasta è sempre un altro soggetto parresiasta, questo atto di verità si colloca dentro un originario raddoppiamento e la parrhesia risulta una pratica duale, un esercizio a due, e soprattutto una relazione antagonista tra uguali per qualità morale e per finalità etica. Nella cura socratica critica dell’amore e pratica dell’in-comune si combinano in un intreccio che la cura ellenistica e romana non saprà conservare.
2. Nella ricostruzione del paradigma dell’epimeleia dell’Herméneutique, l’ellenismo diviene l’età d’oro della cura, quella che mostra certamente ricchezza, visibilità, leggibilità del fenomeno33. Ma alla dilatazione dell’analisi delle tecniche di vita corrisponderà una torsione decisiva nella pratica della cura, con l’effetto di un immobilismo della dominanza, dove la duplicazione rafforza gli stati di dominio e si consuma nella solitudine. Un punto centrale segnala una prima trasposizione del paradigma. La finalizzazione della cura assume l’esclusivo obiettivo del sé. L’assolutizzazione del sé cresce sul progressivo ritrarsi dello sguardo sull’altro e sul mondo – condizioni primarie dell’epimeleia socratica – 34 e su una 32 33 34
Ibidem. L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 278. Ivi, p. 12. Con la figura di Alcibiade la cura socratica resta una “piega della politica”, si è detto, laddove l’autofinalizzazione della cura, da Platone agli stoici, porta a una progressiva rinuncia della politica (cfr. J.-F. Pradeau, Le sujet ancien d’une politique moderne. Sur la subjectivation et l’éthique anciennes dans les Dits et écrits de Michel Foucault, in Lectures de Michel Foucault. Sur les Dits et écrits, volume 3, Textes réunis par P.-F. Moreau, Ens éditions, Lyon 2003, pp. 42, 49-50).
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sempre più forte preoccupazione dell’«errore»35. La sostanza della cura non sarà più il «formare», ma il «criticare» per «correggere», e la cura si precisa come instructio difensiva nei confronti di tutto ciò che di sociale, istituzionale, pubblico, esterno, produce illusioni e deviazioni dalla buona natura razionale. Il direttore di coscienza aiuta ad «uscire», a venir fuori dall’errore.36 Secondo L’herméneutique, nel mondo ellenistico-romano la pratica della direzione di coscienza fa sempre riferimento a tessuti di appartenenza in qualche senso predisposti e gerarchizzati. Se per le classi meno favorite le pratiche di sé erano fortemente legate a gruppi religiosi, istituzionalizzati e organizzati intorno a culti definiti e a procedure ritualizzate, per le classi elevate, colte, aristocratiche, la cura di sé si collocava all’interno di reti socialmente preesistenti, relazioni anche dette “amicali”. Laddove lo stesso rapporto amicale, specie per la cultura e la società romane, connotava una gerarchia di individui legati fra loro da obbligazioni e servizi. Così il rapporto di cura si fa sempre più mediato dal tipo di relazione sociale. In realtà la relazione di direzione, in epoca imperiale, esige neutralità ed estraneità: è solo a partire da un punto esterno e neutro dello sguardo e del soggetto di discorso che è possibile esercitare con efficacia la direzione di coscienza.37 Con le eccezioni di Filodemo che richiama il rapporto amoroso38 e dello «zoccolo affettivo» che nutre la relazione di Frontone e Marco Aurelio39, non c’è dubbio che la cura sui abbia progressivamente compiuto la totale diserotizzazione dell’ascolto della verità nella parola del maestro40. La componente emozionale dell’atto la si abbandona al «discorso retorico» della «moralizzazione popolare», all’eloquenza che inganna e persuade, che prova a sorprendere chi ascolta e a impedirgli di esercitare il giudizio. La sfera dell’affettività non è più la vita presa nel movimento del proprio pensiero, ma scade nella esibizione di «elementi drammatici» e in «una sorta di teatro»,41 si contrae nell’effetto della seduzione, della suggestione, dell’adulazione del discorso indirizzato e trasmesso. Questo rischio della cattura della componente affettivo-emozionale da
35 36 37 38 39 40 41
L’ermeneutica del soggetto , cit., p. 85. Ivi, p. 118. Ivi, p. 357. Ivi, pp. 121-122. Ivi, pp. 140-141. Ivi, p. 309. Ivi, p. 358.
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parte delle tecniche del dire è avvertito, nell’esame della trasformazione della cura in età imperiale, come il veleno dell’adulazione e della retorica. Nel contesto dell’analisi delle forme della cura ellenistico-romana la parrhesia viene adottata a qualificare eticamente la direzione di coscienza per sottrarla ai rischi delle più correnti pratiche dell’adulazione e della retorica. Ciò spiega come il senso stesso del “parlar franco” si misuri sulle tecniche di difesa dalle deviazioni e alterazioni nell’esercizio del potere di chi prende parola, svuotandosi anche dell’elemento proprio della parrhesia greca e socratica che poneva tra gli elementi di forte connotazione il coraggio, la sfida, il rischio, il contrasto, l’antagonismo con l’interlocutore. Ciò che importa, nel nuovo quadro della cura, è che la parrhesia conservi «un significato tecnico molto preciso» e aiuti a comprendere il ruolo del linguaggio e della parola nell’ascesi spirituale del filosofo o del maestro di coscienza42. Il problema della parola riguarda, dunque, innanzitutto «le regole di comunicazione». Queste coinvolgono soltanto, però, il lato della direzione e non quello del diretto. Ciò che s’impone al discepolo, come dovere e come procedura – come dovere morale e come procedura tecnica – è il silenzio, un certo silenzio organizzato, obbediente a un certo numero di regole plastiche, implicanti anche un certo numero di segni d’attenzione che sono dati. Dunque una tecnica e un’etica del silenzio, una tecnica e un’etica dell’ascolto, oltre a una tecnica della lettura e della scrittura, esercizi di soggettivazione del discorso vero43. Al discepolo si affidano le tecniche che aiutano l’«incorporazione» del discorso44 e tutte quelle pratiche del tacere che sono finalizzate a una soggettivazione accompagnata da una progressiva marginalizzazione della dimensione comunitaria.45 Lo stesso esercizio della scrittura è finalizzato alla memoria e alla elaborazione di discorsi recepiti o di sentenze e frammenti di discorso, di strumenti adatti a funzionare come effettivi principi razionali di azione. Nell’Ecriture du soi del 1983, il diario e la corrispondenza ripropongono la sostanza di un esercizio solitario46. II diario e la corrispondenza sono, infatti, tipologie di scrittura che confermano l’assolutizzazione del sé come 42 43 44 45 46
Ivi, p. 327. Ivi, p. 331. Cfr. T. Bénatouïl, Deux usages du stoïcisme: Deleuze, Foucault, in Foucault et la philosophie antique, sous la direction de F. Gros et C. Lévy, Editions Kimé, Paris 2003, p. 42. È anche il giudizio di L. Jaffro, Foucault et le stoïcisme. Sur l’historiographie de L’herméneutique du sujet, in Foucault et la philosophie antique, cit., pp. 58-61. Cfr. La scrittura di sé (1983), in Archivio Foucault 3, cit., pp. 202 e sg.
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finalità propria della cura, la diserotizzazione del rapporto di cura, l’asimmetria – talora la condizione pattuitaria e di utile scambio – tra il direttore e il diretto, una sostanziale coerenza e convergenza con l’obiettivo dell’educazione al silenzio e all’ascolto. La parrhesia, esercizio esclusivo del direttore, non apre, dunque, alla duplicazione e alla moltiplicazione, ma si chiude e si concentra su se stessa, è allertata nel combattimento costante contro due avversari, contro un avversario morale e contro un avversario tecnico. L’avversario morale è la “flatterie”, l’adulazione, l’avversario tecnico è la retorica. Sono strette le implicazioni tra retorica e adulazione: sono avversari che si legano, perché il «fondo morale» della retorica resta l’adulazione e lo strumento privilegiato dell’adulazione resta la retorica. Bene inteso, il suo uso tecnico e le sue «astuzie».47 Si aprono, così, piani differenziati di un’unica battaglia: in realtà il rapporto con la retorica è un rapporto complesso, insolubile, di rifiuto ma anche di parziale intricazione48, pone probabilmente un problema di misura, anche difficile, laddove il vero nemico resta l’adulazione. L’adulazione diviene l’unica tecnica di cui dispone l’inferiore per «conciliarsi il sovrappiù di potere» del superiore. Così l’uso della parola intende far profitto del potere del superiore, aspira ad ottenerne i favori e la benevolenza. L’adulatore si serve del linguaggio per ottenere dal superiore ciò che vuole, per far proprio il potere dell’altro. Si attiva una speciale dialettica, aggiunge Foucault, tra l’adulatore e l’adulato. Si produce una polarità bloccata, per la quale ciascuno dei due, l’adulatore e l’adulato, impedisce all’altro un movimento di trasformazione o di inversione. L’adulatore non perviene a un effettivo rovesciamento o all’acquisizione del potere, non sottrae al superiore la superiorità facendola sua, perché in realtà servendosi della superiorità del superiore l’inferiore non fa che rafforzarla. Così l’adulato, da parte sua, ritrova nella «flatterie du flatteur» un’immagine di sé falsificata e abusiva, che lo confonde e lo pone in uno stato di indebolimento nei confronti dell’adulatore, nei confronti degli altri, nei confronti di se stesso. Sicché l’adulatore non acquista il sovrappiù di potere e l’adulato resta impotente e cieco.49 47 48
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Ivi, p. 332. Sull’“imbarazzo” di Foucault a proposito dei rapporti tra retorica e filosofia cfr. L. Jaffro, Foucault et le stoïcisme, cit., pp. 54 e sg. La stessa melete o meditatio avrebbe origine, per Foucault, dalla retorica in quanto esercizio dell’immaginazione finalizzato all’improvvisazione e all’anticipazione di una situazione reale (cfr. Conférences à l’Université de Toronto, 1982, III, p. 7, dattiloscritto inedito attualmente depositato all’IMEC di Parigi, catalogato con la sigla D 243). L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 334-335.
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Non è difficile pensare, nel richiamo alla dialettica della flatterie, ancora a una analogia con i temi hegeliani del «linguaggio della disgregazione», figura della scissione tra «soggetto» e «sostanza», e dunque di quella «spiritosità medesima», diceva Hegel, che pratica la negazione ma prepara il terrore.50 Comunque sia, la cura ellenistica combatte la dipendenza e promette l’autarchia, sottrae alla suggestione, ma rafforza la solitudine, consuma la pratica duale, multipla della cura socratica, in coerenza con lo svuotamento dell’Erotica e con il farsi insidiosamente presente della Retorica.
3. Nel contesto attuale delle identità fragili e della massima differenziazione, il rilancio del paradigma del riconoscimento e il ritorno a Hegel hanno prodotto un largo terreno di discussione, espressivo di filosofie sociali e politiche del riconoscimento che non formano un insieme omogeneo. L’elogio dell’Anerkennung ha certamente rappresentato la segnalazione di un diverso inizio della modernità. Nel ritorno della filosofia e della teoria sociale alla centralità della lotta per il riconoscimento si sono incrociati il rifiuto dell’atomismo costruttivista hobbesiano, che vede nel conflitto la spinta all’autoconservazione, e l’esigenza di radicare proprio nel conflitto il sostegno etico della convivenza. La lettura hegeliana di Habermas ha corretto il materialismo e l’economicismo di Marx e ha individuato il compimento della lotta nel riconoscimento simbolico e nell’uso di un linguaggio comunicativo. La critica alla ragione strumentale e l’ideale della ragione comunicativa assegnano alla lotta per il riconoscimento, nella critica habermasiana, una funzione integrante e non antagonista, il senso complessivo di una prospettiva di liberazione e di conciliazione.51 Axel Honneth conserva di questa eredità il profilo di una teoria sociale normativa. Si confligge e ci si confronta, affidandosi al bisogno e all’accettazione dell’altro, per ottenere la “fiducia”, il “rispetto” e la “stima”, le tre finalità interne alle esperienze dell’amore, del riconoscimento giuridico e della solidarietà. Hegel sconta la rinuncia a una
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Meriterebbero, in proposito, una riflessione adeguata la hegeliana Schmeichelei e, più in generale, la sezione della Fenomenologia dedicata allo “spirito estraniato” e al mondo della cultura (cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. II, pp. 46 e sg.). Per la critica esplicita di Foucault al carattere utopico di una comunicazione perfettamente trasparente cfr. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, cit., p. 291.
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«intersoggettività forte», aggiunge Honneth, perché l’ethos pubblico si confonde con i vincoli etici collettivi, con la «sostanza» dei costumi e lo «spirito del popolo». Il nuovo senso dell’«eticità», diversamente dal modello «sostanzialistico» hegeliano, deve mantenere un intervallo tra l’«autorealizzazione individuale» e la «normatività collettiva»52. Ciò ha lasciato pensare a una componente più marcatamente agonistica nella teoria honnethiana del riconoscimento. Eppure, l’idea di una realizzazione «post-tradizionale». di riconoscimento, conclude Honneth, comporta una nozione minima di eticità, quella di un orizzonte di valori aperto e compatibile con i più diversi fini di vita53. La solidarietà non si esercita senza riferimenti a principi giuridici. La stima sociale o il sentimento dell’esperienza solidale non si consegue se non sulla base di fini comuni e condivisi e, nella sostanza, è la relazione giuridica a stabilire i limiti normativi per la formazione di orizzonti di valori fondanti la comunità. Nella teoria sociale di Honneth, il riconoscimento sembra così riaffermare la centralità degli «obiettivi dell’agire comune», del valore dell’opinione pubblica orientata in senso discorsivo, della politica ricondotta al discorso razionale nell’ambito della sfera pubblica, con l’idea che la sfera pubblica sia luogo dell’«agire comunicativo» piuttosto che di un «confronto strategico». Comunicazione dialogica e scontro di forze restano, così, i due binari della teoria del riconoscimento e segnano i profili delle due opposte figure, per Honneth, dell’«intellettuale democratico» e dell’«intellettuale di sinistra».54 In area francese, la ripresa del tema della lotta per il riconoscimento resiste alla tentazione francofortese di esaltarne la funzione integrativa a danno della dimensione agonistica. L’aperta opposizione tra la teoria del riconoscimento e l’etica della discussione è dichiarata come netta e irriducibile. I conflitti simbolici non riducono la forza dei conflitti economici e istituzionali, né l’attualità di una teoria del lavoro e del dominio: la lotta per il riconoscimento è l’affermazione di una differenza verticale nello spazio sociale diviso e non l’integrazione in un ordine sociale pacificato. La sfera del politico non è la sfera pubblica del discorso ma è la polarizzazione delle identità in lotta e la società non è l’insieme di spazi di riconoscimento ma 52 53 54
A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002, pp. 17-79. Ivi, pp. 207-209. Eredità e rinnovamento della teoria critica. Axel Honneth a colloquio con l’Internationale Studiengruppe zür Kritischen Theorie, a cura di M. Salonia e T. Fath, in «Iride», 47, XIX, aprile 2006, p. 40.
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un campo di forze divise di fatto dagli squilibri reali. In questo contesto di idee, il ritorno alla Fenomenologia dello spirito produce un legame paradossale tra “politicizzazione” e “hegelianizzazione”, tra “radicalizzazione della critica” e “appropriazione di Hegel”.55 La riscrittura foucaultiana di Hegel sembra sfuggire al doppio uso del riconoscimento, così diviso tra etica del discorso e scontro tra polarizzazioni reali, tra pratica di una ragione comunicativa e rovesciamento risolutivo delle strutture materiali, culturali, istituzionali di dominio. La sfera del politico non è, per Foucault, la ricomposizione di tipo dialogico e neppure il conflitto frontale tra linee di confine definibili per una battaglia finale. Il politico va innanzitutto sottratto alla definizione binaria di essere o tutto quanto pertiene alla sfera pubblica e dello Stato, o ciò che è definito dall’onnipotenza di una lotta tra due avversari. Ma se la liberazione totale da una presupposta alienazione non è pensabile, se non è pensabile un riscatto finale dal dominio della ragione strumentale o dalle oppressioni del lavoro, della vita sociale o del potere giuridico-istituzionale, è pur vero che l’“esperienza” è il campo che immette il soggetto attivo nella triangolazione della verità, del potere e dell’etica e lo consegna alla pratica di quei «giochi strategici» che producono «relazioni di potere» sottratti agli «stati di dominio»,56 legami che consumano costumi, regole, comunità incompatibili con quelle modalità di relazione dalle «intensità multiple», dai «colori variabili», dai «movimenti impercettibili», che introducono «l’amore laddove dovrebbe valere la legge, la regola, l’abitudine»57. È qui che il soggetto etico è chiamato a uno spostamento libero, fuori dai ruoli e dalle posizioni definite, nell’area di una struttura spaziale multipla e non binaria, per una «partita che non si è mai certi di vincere». La sfera del politico è, dunque, per Foucault, ciò che riassume il campo complesso di movimento della «differenziazione etica».58 Il divenire della cura e la lotta duplicante, emersa dalla produzione della sfera etica, mantengono sullo sfondo della soggettivazione un contesto polemologico e guerriero, che intreccia agonismo e antagonismo. La scena agonica primaria delle finalità della cura, quella che raccoglie gli effetti dell’enkrateia e dell’eccellenza, lascia apparire immediatamente
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Cfr. l’utile bilancio di S. Haber, Hegel vu depuis la reconnaissance, in De la reconnaissance. Don, identité et estime de soi, «Revue de Mauss», 23, 2004, in part. pp.78 e sg. L’etica della cura come pratica della libertà , cit., p. 275. De l’amitié comme mode de vie, in Dits et écrits, cit., IV, p. 164; per il tema della philia, si veda anche L’uso dei piaceri, cit., p. 204. Cfr. Le courage de la vérité, cit., lezione dell’8 febbraio 1984.
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promozione, sfida e competizione. Ma la lotta per il riconoscimento segnala, si è detto, il doppio piano dello scontro. La “fenomenologia dello spirito” ripensata come “polemologia”59 lascia attivo l’antagonismo, che nell’agonismo trova la propria condizione di possibilità. I due piani dell’agonismo e dell’antagonismo si legano in una speciale modulazione complementare. L’antagonismo non risulta spento dall’agonismo60, che pure suggerisce di assorbire il conflitto nel gioco ludico e nella relazione dell’amore veritiero. Al contrario, l’agonismo della padronanza e dell’eccellenza, dell’apertura plurima degli amanti, decide di un secondo piano del conflitto come suo effetto concomitante, perché si impone come la condizione di apertura del quadro dell’antagonismo. Infatti, è il movimento della “differenziazione etica” a riattivare un partage, una scissione verticale, uno scontro reale permanente, senza conciliazione e senza tempo, tra le forze che concorrono all’amore veritiero e quelle che lo opprimono. Così, il persistere di uno scontro duale assegna all’analisi un doppio strato micrologico. Nelle maglie della microfisica del potere si insinua una microfisica delle relazioni amorose, amicali, societali, che mutila il riconoscimento e lo riduce entro i confini di aree dense, ma liquide, di soluzioni lente, parziali, provvisorie dei conflitti.
59
60
La lettura di una riscrittura foucaultiana della hegeliana Fenomenologia introduce a una sorta di “polemologia dello spirito”, ha detto Bernard Stiegler, commentando il mio (qui citato) Le veritable amour et le souci commun du monde, nel testo di presentazione del seminario del 5 ottobre 2005 al Collège International de Philosophie, Trouver de nouvelles armes – Pour une polémologie de l’esprit (organisé par G. Collins, M. Crépon, C. Perret e B. Stiegler). Che l’antagonismo risulti spento dall’agonismo è sostanzialmente il bilancio suggerito in D. Deleule e F. P. Adorno, L’héritage intellectuel de Foucault, in «Cités», 2, 2000, pp. 99 e sg.
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LA CURA DI SCRIVERE di Stefano Catucci
Tornare ai testi che Michel Foucault ha dedicato alla letteratura è anche un modo per discutere alcuni dei problemi emersi in questo convegno. Penso a un interrogativo posto con molta precisione da Michel Senellart: c’è continuità fra le pratiche che permettono a un individuo di fare della propria vita un’opera d’arte, di costituirsi come soggetto autonomo, e quelle che tendono invece alla distruzione della sua identità? Penso al rilievo di Salvatore Natoli sulla mancanza, nel Foucault che riflette sui modi della soggettivazione, di una relazione con il problema dell’alterità. E penso anche alla volontà in più occasioni richiamata da Foucault, e oggi citata sempre da Natoli, di scrivere un saggio sulla dimensione singolare dell’esperienza: un tema, quest’ultimo, che attraversa le opere di Foucault già a partire dall’Introduzione del 1954 a Sogno ed esistenza di Ludwig Binswanger. Credo che attraverso i testi nei quali egli ha affrontato, in modo diretto o indiretto, temi letterari, si possa tentare una possibile risposta a quelle domande, e al tempo stesso trovare esempi di una riflessione ostinatamente centrata sulla singolarità, fino al limite della tematizzazione del pronome “io”. L’oscillazione che di solito viene attribuita a Foucault, quella tra un periodo di eclissi e uno di ritorno del soggetto, ha trovato proprio nei suoi scritti sulla letteratura il momento di una continuità mai venuta meno. E se “continuità” non significa necessariamente “unità”, ma può indicare anche un percorso di trasformazione, proprio in quei testi si possono trovare spunti apparentemente isolati ma destinati a riemergere, come un fiume carsico, negli studi degli ultimi anni, sia pure con uno strumentario concettuale molto diverso e con uno sfondo teorico che, ormai, non lasciava
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più spazio all’esperienza letteraria. Rinvio ad uno studio di Judith Revel, Foucault, le parole e i poteri1, per il disegno della relazione che lega fra loro quei due momenti del percorso foucaldiano. Mi limito perciò a poche osservazioni che proseguono l’intuizione di Revel e la sviluppano intorno al nucleo rappresentato, come vedremo, dal tema della scrittura. Com’è noto, Michel Foucault ha dedicato a temi letterari un numero molto limitato di saggi pubblicati, salvo un’unica eccezione, negli anni sessanta e considerati per molto tempo soltanto scritti d’occasione: introduzioni, brevi lavori per riviste come «La Table Ronde», «Tel Quel» o la «Nouvelle Revue Française», testi appena più ampi e impegnativi per «Critique», un solo libro, Raymond Roussel. Anche chi ha preferito leggerli in una chiave limitativa, ad ogni modo, non poteva sfuggire all’evidenza del fatto che qui, al margine dei suoi studi maggiori, Foucault avesse trovato il modo di precisare alcuni luoghi centrali del suo pensiero: quelli che, prendendo a prestito un’espressione usata da Eugen Fink a proposito di Husserl, potremmo chiamare «concetti operatori» non solo del discorso archeologico, ma dell’intero progetto critico della sua filosofia. Concetti come quello di “trasgressione”, per esempio, messo a fuoco nel saggio su Bataille; quello di “resistenza” o meglio, per rimanere al vocabolario utilizzato da Foucault negli anni sessanta, di “contestazione”, messo al centro dello scritto su Blanchot; la messa in questione della dialettica, mai così chiara, nei testi editi, come nelle pagine appena citate e in quelle dedicate a Klossowski (La prosa di Atteone), a Sade e ai romanzi del terrore (Il linguaggio all’infinito); quello di “documento”, che tre anni prima de L’archeologia del sapere risuona come un basso continuo nelle sue considerazioni su Flaubert e sulla “biblioteca”. Quei concetti che altrove “agiscono”, ma non sono apertamente messi in questione, vengono invece analizzati ed esplicitati proprio tramite il confronto con un’esperienza, quella letteraria, che funziona quasi come un pretesto – un pre-testo – per un pensiero che raggiunge alcuni dei suoi vertici speculativi proprio quando è meno vincolato dal rigore della ricostruzione storiografica, dalla necessità di procedere con metodo, in breve dall’ordine del discorso accademico. Tornando, nei primi anni settanta, a scrivere di Roussel – è questa appunto l’unica eccezione a cui facevo riferimento – , Foucault parlò del libro che gli aveva dedicato nel 1963 come del suo «giardino segreto». In fondo, però, è l’intero suo rapporto con la letteratura a poter essere definito con questa immagine e a suggerire l’idea di un pensiero che matura in disparte i suoi frutti. Pro1
Cfr. J. Revel, Foucault, le parole e i poteri, Manifestolibri, Roma 1996.
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prio per questo, non appena l’opera di Foucault si è storicizzata e analisi di tipo filologico hanno cercato di penetrare in questo giardino, i saggi sulla letteratura sono stati rivalutati, rivelandosi una preziosa chiave d’accesso. Con la convinzione che, nel momento in cui ha cercato di riannodare una riflessione sul soggetto, guardando dietro di sé Foucault non potesse fare altro che pescare nelle esperienze di pensiero compiute, a suo tempo, nel contatto coi suoi pretesti letterari. Una lettura anche molto sommaria di quegli scritti permette di isolare subito alcuni caratteri del suo sguardo sui testi letterari. In primo luogo, Foucault sembra coltivare un’idea di letteratura, e al tempo stesso un rapporto con la letteratura, molto diverso da quelli che dominano nel campo della critica, sia essa di tipo filosofico o letterario nel senso più stretto del termine. Se volessimo riassumere il suo atteggiamento in uno slogan, potremmo dire: né con l’estetica, né con l’ermeneutica. Il suo sguardo, infatti, non si limita mai all’apprezzamento estetico, non mette in gioco questioni formali o di stile, non vede nei testi una fonte di conoscenza e neppure una fonte di piacere. Il piacere, per essere più precisi, non satura il suo orizzonte di aspettative nei confronti di un testo letterario, sebbene un tipo di piacere speciale, quello del «riso», venga più volte da lui reclamato come un aspetto cruciale dell’apporto non solo critico, ma dissacratorio che può provenire dalla letteratura: basti pensare all’esempio borgesiano che apre Le parole e le cose per rendersi conto di come questo «riso filosofico», affine a quello che Nietzsche riservava alla pudenda origo dell’origine della morale, svolga in Foucault un ruolo di notevole importanza. D’altra parte, è lontanissimo dal suo modo di leggere l’imperativo del commento al testo, dunque dell’interpretazione, a maggior ragione nella forma storicistica della contestualizzazione e in quella romantico-psicologica della ricerca, dietro a un testo, di un autore e delle sue presunte intenzioni. L’interesse per l’esempio rappresentato dall’opera di Roussel, con tutta la sua volontà di dare scacco all’interpretazione con l’aiuto di un trucco, e forse di un inganno, è precisamente una dichiarazione di intenti anti-ermeneutica. Più che schiudere una dimensione estetica o aprire su un orizzonte di interpretazioni, la letteratura e l’arte in genere – lo stesso discorso, infatti, si potrebbe fare per gli scritti dedicati alla pittura – sono per Foucault il tramite di un’esperienza che mette in gioco il limite, il sogno, l’alterità, il “fuori”, il confine tra storia e non-storia, tra linguaggio e rumore: interroghiamo l’atto del narrare, interroghiamo noi stessi come soggetti di parola. Sono temi che gli ordini del sapere e del discorso neutralizzano tramite strategie di limitazione o di assorbimento: com’è noto, Foucault non è stato mai
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tanto vicino a Hegel come quando ha descritto il modo in cui le dinamiche del discorso metabolizzano in nuovi sistemi d’ordine le forzature che lo avevano esposto al rischio del disordine. L’antagonista viene reso conforme, per riprendere un’espressione richiamata qui da Natoli. La letteratura, invece, ci sottopone un’esperienza costitutivamente eterodossa, refrattaria alla dialettica del discorso. La sua resistenza non può essere omologata nelle trasformazioni che ridefiniscono gli interdetti o gli imperativi di cui l’ordine ha bisogno, e proprio per questo ha qualcosa di «strutturalmente esoterico». È un linguaggio, quello della letteratura, che «consiste nel sottoporre una parola, apparentemente conforme al codice riconosciuto, a un altro codice la cui chiave è definita in questa stessa parola; in modo che quest’ultima è sdoppiata all’interno di se stessa: essa dice ciò che dice, ma aggiunge un di più muto che enuncia silenziosamente ciò che esso dice e il codice secondo il quale lo dice». Il suo esoterismo non sta in un segreto nascosto dietro parole cifrate, ma nel suo installarsi «in un risvolto essenziale della parola», per cui «non tanto nel suo senso, non nella sua materia verbale, ma nel suo gioco, una tale parola è trasgressiva»2. Ed è, appunto, il gioco che mette in questione il riannodare le fila del discorso ordine su ordine, il rimescolare in nuove strutture le sue resistenze, trasgressione dopo trasgressione. È possibile, concede Foucault, che la letteratura non abbia avuto sempre questo ruolo. Ma oggi, e comunque da Mallarmé in poi, è così: «la letteratura sta poco a poco per diventare [...] un linguaggio la cui parola enuncia, nel tempo stesso in cui dice e in quello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola».3 Che Foucault abbia individuato proprio nella letteratura la possibilità reale di un atto di resistenza, o meglio di contestazione, è una diretta conseguenza di questo modo di guardare all’esperienza di cui essa è tramite. Averle assegnato però un simile compito, o una simile opportunità, permette di guardare diversamente anche alla storia della letteratura, alle epoche nelle quali non si faceva carico – o non lo faceva in modo privilegiato – di esplicitare questo «risvolto essenziale della parola». Non riguardata da un punto di vista estetico-artistico, la letteratura non può essere vista neppure come un repertorio storico di opere, come una Biblioteca, termine al quale fa ricorso lavorando su Flaubert. Essendo esperienza, la letteratura consiste in un determinato modo d’essere del linguaggio, in 2 3
M. Foucault, La follia, l’opera assente (1964), trad. it. in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971, p. 105. Ivi, p. 107.
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una maniera di usare la parola che mette in mora l’ordine discorsivo. Se ripensiamo alle strategie del discorso che Foucault descrive nella lezione inaugurale al Collège de France, vediamo subito qual è il vincolo a cui l’uso letterario della parola non si conforma: la volontà di verità. Lo statuto di finzione, detto altrimenti, non lega la letteratura né al piano delle verità comunemente accettate, né tantomeno all’obbligo di verità in cui più tardi, negli ultimi anni del suo lavoro, Foucault riconoscerà uno degli eventi fondativi della cultura occidentale moderna. L’esenzione dalla verità è il cardine intorno a cui ruota, in Foucault, l’anomalia del discorso letterario. Può pronunciare una parola che mentre dice se stessa ridefinisce il codice entro cui parla perché non è condizionata da quell’obbligo. Può diventare una via di fuga dalle modalità di soggettivazione dominanti perché non è tenuta a rispettarne il principio primo. Può mettere in opera una trasgressione perché non è legata a quel laccio. Questo significa che solo prima della definizione di quell’obbligo, cioè solo prima dell’estensione della confessione come sacramento al di là delle mura dei monasteri, è possibile che la letteratura abbia avuto un ruolo differente. E che non a partire da Mallarmé, ma molto prima, essa abbia cominciato a svolgere quella funzione che negli scritti degli anni sessanta era stata limitata alla modernità più recente. Certo, questa revisione della cronologia proposta da Foucault salta con disinvoltura da una sua fase di riflessione a un’altra. Ma d’altra parte, se è possibile leggere nel Foucault degli scritti sulla letteratura un anticipo dei temi trattati negli ultimi libri e negli ultimi corsi al Collège de France, non sarà impossibile leggere in questi una correzione o un aggiustamento di tiro di quelli, come se fossero tra loro intimamente in dialogo. L’idea è che Foucault abbia riconosciuto nella letteratura il luogo di un’esperienza della parola “altra” rispetto alle altre sfere dell’uso del linguaggio nella misura in cui essa si dichiara discorso di finzione, e che per converso un discorso di finzione possieda un simile statuto di alterità solo nella misura in cui è circondato da discorsi che postulano la volontà di verità. Il corollario di questa tesi è che la letteratura appaia a Foucault, fin dal principio, il luogo di un’esperienza singolare. Sottratta, cioè, a quella tendenza universalizzante che è propria, invece, di ogni discorso improntato alla ricerca di verità. E che nel suo desiderio di scrivere un saggio sull’esperienza singolare vada ricercata la ragione di quella strategia retorica davvero spinta fino ai limiti della letterarietà che contraddistingue una parte imponente dei suoi lavori. Si ricorderà, a questo proposito, come concludendo la sua esposizione orale di Storia della follia alla prova di dottorato egli abbia concluso che ci sarebbe voluto, per rimanere all’altezza del piano di un discorso aderente al tema,
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«il talento di un poeta» – e che Canguilhem, presidente di commissione, commentò «vous l’avez».4 In questione, però, c’è precisamente la scrittura, e il fatto che spostando l’asse della sua riflessione verso le pratiche attraverso cui si costituisce il soggetto Foucault abbia dato progressivamente sempre più peso all’esperienza della scrittura – un peso, almeno, che controbilancia quello assegnato dai riflessi pavloviani dell’estetica al piano della scrittura. Nel corso su L’ermeneutica del soggetto Foucault cita a memoria, a questo proposito, un passo dell’undicesima Lettera a Lucilio di Seneca nella quale si dice: «non dobbiamo limitarci a scrivere più di quanto non dobbiamo limitarci a leggere. La prima occupazione è destinata a deprimere ed esaurirà l’energia spirituale. La seconda a snervarla e a dissiparla. Dobbiamo invece ricorrere, di volta in volta, all’una e all’altra [...], di modo che la composizione scritta formi il corpo di un’opera con quel che la lettura ha raccolto»5. E poco prima si era diffuso sul problema tecnico della lettura ad alta voce, necessaria per articolare con proprietà testi nei quali le parole, tanto nella scrittura greca quanto in quella latina, non erano graficamente separate le une dalle altre6, ma soprattutto sul fatto che lettura, scrittura e rilettura facevano parte, nell’antichità, di «un’unica attività» riconducibile a quell’insieme da lui definito «pratiche del sé»7. Ma se torniamo indietro da questi ultimi corsi verso i testi degli anni sessanta, scopriamo che nello stesso periodo in cui ha prodotto la maggior parte dei suoi saggi sulle letteratura Foucault ha lavorato a una prima stesura dell’Archeologia del sapere nella quale riflette a lungo su quello che chiamava, allora, le souci d’écrire. Un’espressione che alla luce delle ultime preoccupazioni teoriche di Foucault mi permetterei di tradurre la cura di scrivere. L’aspetto più significativo di questa versione dell’Archeologia del sapere, il cui dattiloscritto è conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi e comincia ormai a essere studiato e divulgato, consiste precisamente nella presenza di una serie di riflessioni sulla scrittura che mancheranno del tutto, invece, nell’edizione poi pubblicata. Una riflessione sulla presa di parola, sulla forma del saggio, ma soprattutto sul bisogno di scrivere, sul4 5 6 7
D. Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1991, p. 133. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. Feltrinelli, Milano 2003, p. 540. Cfr. Seneca, Lettere a Lucilio, XI, 84, 2. Cfr. ivi, p. 319. Ivi, p. 322.
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la coazione a scrivere. A mano a mano che la scrittura si compie, sostiene Foucault, il soggetto scrivente indietreggia, si perde, viene integralmente consegnato al gioco del linguaggio. Da questo punto di vista si può dire che qui, davvero, le pratiche attraverso cui un individuo si costituisce come opera d’arte e le pratiche della distruzione del soggetto finiscono per coincidere, sono la stessa cosa. La cura della scrittura è il processo che libera dall’istanza di autorialità, dal problema dell’identificazione tra soggetto psicologico e soggetto della parola scritta. Chi scrive non si ritrova in ciò che ha scritto, ma vi si perde. Lo smarrimento di sé, avvenuto proprio nel mezzo di una cura, di un’attività, della quale tradizionalmente il soggetto viene ritenuto sovrano, comporta d’altra parte una trasformazione del sé che coincide con quella dei modi di soggettivazione con i quali ci si costituisce come individui. Natoli citava un’intervista nella quale Foucault dichiarava che i libri realmente interessanti da scrivere sono quelli che portano dove non si vorrebbe, che insegnano quel che non si sa. È un’affermazione che si ritrova di frequente nei suoi testi, anche se con altre parole, e che indica come spossessamento e smarrimento del sé siano legati a questa pratica espropriante, esteriorizzante della scrittura. Proprio perché espropria e disperde, la scrittura – ogni scrittura – mina quella che, nella versione pubblicata dell’Archeologia del sapere, Foucault definisce «una morale da stato civile»: l’identificazione tra l’io che scrive e il soggetto della scrittura come tale. E d’altra parte proprio perché vanifica quell’identificazione, la scrittura – ogni scrittura – si trova nell’impossibilità di realizzare quell’obbligo di dire la verità su se stessi in cui si condensa la soggettivazione occidentale moderna. Neppure testi esplicitamente autobiografici possono rispettare quell’obbligo: non possono farlo né quando lo assumono come condizione in grado di collocare ciò che viene scritto nella prospettiva del conseguimento della salvezza, e perciò di rendere la scrittura di sé in qualche modo esemplare, come nelle Confessioni di Agostino; né quando fanno di quell’obbligo un patto dichiarato con il lettore, come avviene per esempio nella prima pagina delle Confessioni di Rousseau. Non sarà mai possibile, infatti, eliminare lo scarto che nell’elaborazione della scrittura passa attraverso il medium della finzione e non sarà mai possibile, perciò, procedere a quell’identificazione tra il soggetto esterno e quello interno alla scrittura. Anche quando si promette di dire «tutta la verità» su se stessi, si costruisce un personaggio indipendente dalla sua vita reale: basterebbe prendere un passo famosissimo delle Confessioni di Agostino, quello citato da Wittgenstein
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all’inizio delle Ricerche filosofiche8, per rendersi conto immediatamente di come il semplice racconto dell’apprendimento del linguaggio sia appunto l’effetto di una finzione letteraria che inventa e ordina, non potendo aderire al vissuto che intende confessare. La letteratura esplicita questa condizione finzionale, e dunque si presta ad essere letta e analizzata in rapporto alla distruzione di questo vincolo identitario. Ma, come già ho ripetuto poco fa, ogni scrittura porta con sé, per Foucault, questo tratto inventivo che produce, e non riproduce, il senso della soggettività. Il rapido confronto con la versione inedita dell’Archeologia del sapere mostra dunque in che modo Foucault abbia individuato nella scrittura una modalità della “trasformazione del sé” molto prima di avere esplicitamente tematizzato il sintagma e il problema. Poiché rappresenta il caso più nitido di questo processo, la letteratura passa per Foucault dallo stato di pretesto a quella di disegno di una forma di vita. E d’altra parte nel compiere questo passaggio la sua specificità si stempera e Foucault la lascia sfilare in secondo piano prendendo in considerazione, piuttosto, altre modalità dello scrivere. La scrittura, in altri termini, è una pratica del sé la cui posta in gioco non è estetica, non dipende dalle caratteristiche formali o stilistiche del linguaggio, ma dalla capacità di insediarsi in quel «risvolto essenziale» della parola che è precisamente il luogo in cui un’esistenza singolare costituisce il proprio senso d’essere. Già nello scritto del 1964 su La follia, l’opera assente, Foucault si era chiesto: «perché la nostra cultura ha formulato chiaramente fin dal XIX sec., ma anche fin dall’età classica, che la follia era la verità dell’uomo messa a nudo, e poi invece l’ha collocata in uno spazio neutralizzato e pallido dove era come annullata? Perché ha raccolto le parole di Nerval e di Artaud, perché essersi ritrovata in esse e non in essi?»9. 8
9
Cfr. Agostino, Confessioni, I, 8: «Quando [gli adulti] nominavano qualche oggetto e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla. Che intendessero ciò era reso manifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall’espressione del volto e dal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall’accento della voce, che indica le emozioni che proviamo quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Così udendo spesso le stesse parole ricorrere, al posto appropriato, in proposizioni differenti, mi rendevo conto, a poco a poco, di quali cose esse fossero segni, e, avendo insegnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà». Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999, pp. 10 e sg. M. Foucault, La follia, l’opera assente, cit., p. 101.
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Perché avere accettato l’espressione letteraria della follia e non avere tributato un simile riconoscimento a chi, tramite la scrittura, aveva prodotto una nuova costituzione del proprio sé? Ponendo questa domanda, Foucault mostra paradossalmente come la strada di una riflessione sulla letteratura e sulla scrittura non debba passare di necessità per i suoi gesti estremi, ma sul processo che la fa coincidere con una nuova definizione del sé. Il testo più interessante, da questo punto di vista, si intitola La scrittura di sé ed è un saggio pubblicato nel 1983: subito dopo, dunque, il corso del 1982 sull’Ermeneutica del soggetto nel quale i temi di quel saggio sono già affrontati, specialmente nella lezione del 3 marzo. Mantenendo tutte le cautele che Foucault ripete sull’impossibilità di riattualizzare le tecniche ellenistiche e romane del sé, dunque sul controsenso di un’operazione di rilancio della morale antica, troviamo comunque in quel saggio e in quella lezione lo schizzo di una possibilità di intendere il rapporto fra la scrittura e il sé in modo diverso da quello attestato a partire dall’età cristiana, non vincolato, cioè, a quell’obbligo di verità che abita la scrittura come un compito impossibile, e proprio perciò infinito. Si tratta, infatti, di un’attività complessa, nella quale lettura e scrittura, annotazioni diaristiche e appunti di citazioni, esami di coscienza e pratica epistolare, invio di trattati e definizione della condizione di “maestro” vanno insieme. Un’attività, oltretutto, che mostra come il soggetto non pervenga mai a costituirsi in solitudine, ma possa farlo solo in relazione ad altri, siano essi gli interlocutori vivi dello scambio epistolare o del rapporto magistrale, siano invece quelli che si manifestano solo tramite le parole dei libri. Foucault prende in considerazione due modelli di scrittura del sé: quello degli Hypomnemata, «notazioni relative a ricordi grazie ai quali [...] sarà possibile, per mezzo della lettura o degli esercizi di memoria, rammentarsi di tutte le cose che sono state dette» o lette10, e quello delle lettere. Negli Hypomnemata si assiste ad un processo di dispersione del soggetto, il quale scrive, raccoglie citazioni e annota frasi, non perché si riconosca in un autore o in una scuola di pensiero, ma perché quelle parole, quel giorno, in quel momento, gli hanno detto qualcosa di importante per lui, e raccogliendole diventa un soggetto di sintesi solo perché, mentre vi si dissemina, le raggruppa. È, scrive Foucault, un esercizio dispersivo che tuttavia promette una riunificazione: «la ricerca del disparato non esclude la sintesi, ma questa non è operata nell’arte di comporre un insieme; deve stabilirsi nello scrittore stesso, come risultato degli Hypomnemata, della loro costituzione (e, dunque, nel gesto stesso di scrivere), della loro consultazione (e, dun10
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 321.
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que, nella loro lettura e rilettura)»11. Sottolineiamo: non l’atto di comporre un insieme: non è la figura del compositore, sovrano dell’opera, ad assicurare la sintesi, ma lo scambio puntuale con i testi raccolti, il confronto fra ciò che si è annotato, ciò che si pensa e ciò che si fa. Anche per questo nell’ultimo Foucault la letteratura scivola in secondo piano rispetto a una scrittura che non è artistica, dato che nel nostro modo di intendere l’attività letteraria tendiamo sempre a mettere un sovrappiù di sovranità estetica. Negli Hypomnemata, osserva Foucault usando un’espressione di Plutarco, la scrittura è etopoietica, produce ethos. E questo è appunto il carattere che si può estendere dall’esempio antico al carattere della scrittura come tale, secondo la prospettiva delineata da Foucault: la scrittura è infatti un gesto che produce una trasformazione del sé, o quantomeno lo mette alla prova, è una tecnica che produce luogo etico, una via della costituzione di sé che non assicura l’identità secondo i moduli della sua costituzione moderna in soggetto di conoscenza e di verità. Con lo scambio epistolare entra in gioco, invece, il ruolo dell’altro. Non nella forma antagonistica che caratterizza la relazione fra il soggetto e il potere, ma in un rapporto di essenziale reciprocità. Fra la parola del maestro e quella di chi lo riconosce come tale c’è un influsso scambievole, non un conflitto né una gerarchia a senso unico, anche perché scrivere una lettera non è solo un modo per impartire consigli all’altro, o per offrirgli un esempio di vita, ma anche per rivolgere quei consigli a se stessi, di impegnarsi a rispettarli come se provenissero dall’insegnamento di un maestro, prima ancora che l’altro risponda effettivamente con una sua lettera. La pratica epistolare è perciò «una sorta di ginnastica che si rivolge anzitutto all’altro, ma che viene rivolta anche verso se stessi, e che proprio in virtù di tale corrispondenza consente di mantenere se stessi in una permanente condizione di autodirezione». Come nel caso degli Hypomnemata, anche nelle lettere il confronto con la scrittura, tanto delle parole proprie come di quelle altrui, stabilisce una forma di confronto che apre i processi della costituzione del sé a una sfera pubblica, senza rinchiuderli nel foro interiore di un’individualità isolata. A differenza però di quel che avveniva con gli Hypomnemata, l’esposizione di sé all’altro comporta che il processo di autocostituzione si sottoponga costantemente a un esame, e quindi a un rischio, che non lascia mai il soggetto da solo con se stesso, anzi lo spinge a vivere come se fosse sempre in pubblico, secondo una massima che può essere fatta risalire a Platone. Osserva allora Foucault: «questa procedura del racconto di sé nel11
M. Foucault, La scrittura di sé (1983), trad. it. in Archivio Foucault 3. 19781985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 208.
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la quotidianità della vita» è «differente dalla pratica della corrispondenza all’epoca di Cicerone o dalla pratica degli Hypomnemata, raccolta di cose lette e ascoltate. Negli Hypomnemata si trattava di costruire se stessi come soggetto di azione razionale, nel caso dell’annotazione monastica delle esperienze spirituali si tratterà di stanare dall’interno dell’anima i moti più nascosti, in modo tale da potersi affrancare da essi. Nel caso del racconto epistolare di sé si tratta di far coincidere lo sguardo dell’altro con il proprio, quando si commisurano le proprie azioni quotidiane alle regole di una tecnica di vita»12. Troviamo qui le radici di un’idea che Foucault avrebbe riformulato per descrivere la relazione tra filosofia e prassi, da lui pensata non in rapporto di inclusione analitica, come se una filosofia contenesse già i principi da osservare nel proprio comportamento, ma in una forma di verifica permanente che commisuri in modo puntuale, e caso per caso, la vicinanza e la distanza fra ciò che si pensa e ciò che si è. Tanto la pratica dello scambio epistolare quanto la stesura degli Hypomnemata, d’altro canto, mostrano per Foucault come alla scrittura fosse assegnato, in epoca ellenistica, un privilegio decisivo nei confronti della lettura. Essendo intesa infatti come una forma di esperienza, e non come una tecnica di decifrazione o di interpretazione, la lettura appare «immediatamente connessa alla scrittura» e, per meglio dire, proiettata verso di essa e da essa garantita. Dalla lettura, spiega Foucault, non ci si attendeva «il fatto di riuscire a comprendere quel che un autore voleva dire, bensì la costituzione per se stessi di un arsenale di proposizioni vere» delle quali appropriarsi come di una «solida trama» di punti di riferimento, secondo un procedimento che solo superficialmente può essere giudicato eclettico13. L’appropriazione doveva fare in modo che, a partire dalla proposizione considerata vera, ci si potesse costituire come un soggetto «che pensa secondo verità» e che, «da soggetto che pensa in modo vero», si potesse diventare «soggetto che agisce come si deve»14. Ma per compiere questo processo di appropriazione occorreva che la lettura fosse «prolungata, rinforzata, riattivata per mezzo della scrittura», in modo tale che «la composizione scritta» potesse «mettere in corpo (corpus)» quel che la lettura aveva raccolto. La formazione del corpus era perciò l’esito al quale l’esercizio della lettura era diretto, «ma a costituire e a garantire tale corpus» poteva essere «solo la scrittura».15 12 13 14 15
Ivi, p. 216. Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 318. Ivi, p. 316. Ivi, p. 318.
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Come produzione di un corpus, dunque, la scrittura si manifesta come una tecnica del sé attraverso la quale il soggetto all’occorrenza si modifica o si mantiene, si definisce come soggetto in grado di pensare e di agire secondo il vero, risponde non al dovere, ma all’impegno di dire il vero su se stesso solo nella reciprocità dello scambio con un altro, fosse pure con quel sé “altro” che viene generato dal gesto dello scrivere. Fatte salve le incolmabili differenze che ci allontanano dall’esempio e dal mondo ellenistico-romano, non pare dubbio che riflettendo sulla scrittura Foucault abbia intravisto una forma della cura di sé la cui posta in gioco è la ridefinizione del soggetto moderno. La scrittura consegna infatti ad una piega del linguaggio nella quale opera un paradigma finzionale che esenta dall’obbligo di verità, ovvero dall’adesione a una verità di sé indipendente dall’atto della scrittura. Esteriorizzandosi nello scritto, il moderno soggetto di conoscenza si perde e si trova come impigliato in una rete più ampia, che non si limita perciò a catturarlo ma lo libera. È la rete di un linguaggio svincolato dai cardini sui quali ruota l’ordine del discorso e proprio perciò più aperta, meno vincolante. Ed è un linguaggio che nella parola letteraria ha trovato il suo pretesto esemplare, ma che trasferisce i suoi privilegi all’intero ambito della pratica di scrittura. Questa, d’altra parte, rivela di essere sempre connessa a un esercizio del sé nella misura in cui mette a repentaglio la sovranità del soggetto che scrive e lo dissemina nelle parole scritte. Occorre certo provocare un cortocircuito fra i primi testi di Foucault sulla letteratura e gli ultimi sulla problematizzazione del soggetto, fra la stesura inedita dell’Archeologia del sapere e lo sviluppo non accademico dei suoi testi editi, del suo procedimento storico e filosofico, per giungere ad una simile conclusione. Ma è mia convinzione che la scrittura come luogo di resistenza non vitalistico all’ordine del discorso, oltre che come tecnica della soggettivazione precipitata nel “fuori” del linguaggio, e dunque non ripiegata sul proprio sé, sia una delle opportunità individuate da Foucault per evitare il rischio di sigillare i rapporti fra il soggetto e il potere. Lo si ricorderà, è un rischio evidenziato con molta chiarezza da Deleuze: «ciò di cui Foucault ha coscienza, e in misura crescente dopo La volontà di sapere, è di rinchiudersi progressivamente nei rapporti di potere. Quindi invoca dei focolai di resistenza in un “faccia a faccia” con i focolai del potere; ma da dove dovrebbero arrivare queste resistenze? Foucault si domanda: come oltrepassare la linea, come superare i rapporti di forze? Oppure si è condannati a un tête à tête con il potere, sia che lo si detenga sia che lo si subisca?»16. Attraverso una riflessione sulla scrittura 16
G. Deleuze, Pourparler (1990), trad. it. Quodlibet, Macerata 2000, p. 132.
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passata prima per il setaccio della letteratura, poi per un confronto con le pratiche del mondo antico, ma poi ricondotta ad un esame della propria attività di saggista, Foucault ha richiamato la nostra attenzione su un’attività che sottrae il soggetto non solo all’obbligo, ma anche alla volontà di verità. Una scrittura etopoietica che davvero dà all’esistenza la forma di un’opera d’arte perché la fa rifluire in quel soggetto singolare che la scrittura produce, e di cui questa non è semplicemente il prodotto. Una scrittura intesa come esperienza dalla quale si esce trasformati, sia che si tratti di scrittura letteraria sia che si tratti di scrittura saggistica. Un’indicazione, quest’ultima, che potrebbe suggerire anche qualcosa sullo stile dell’opera di Foucault, sui suoi registri retorici, sul suo tentativo di introdurre anche nella ricostruzione storica il piglio di un’invenzione concettuale e teorica che spesso la sottrae a verifiche di tipo scientifico e accademico.
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13 FOUCAULT E IL PENSIERO DEL FUORI di Bruno Moroncini
I testi che in Italia sono conosciuti come gli Scritti letterari1, non costituiscono affatto, a mio giudizio, una produzione laterale di Foucault, come si è pensato soprattutto da un certo punto in poi, da quando cioè i temi legati al nome di Foucault sono diventati quelli, molto più pressanti, pieni e complessi, della biopolitica e della cura di sè. Da allora, gli scritti letterari sono un po’ scomparsi. Cercherò dunque di radicalizzare, almeno in parte, ciò che su questi testi ha già detto Stefano Catucci aprendomi la strada, tentando di mostrare come essi, ed in particolare uno di cui mi occuperò con maggiore attenzione, quello su Maurice Blanchot – il cui titolo, Il pensiero del fuori, dà il titolo al mio stesso intervento – , non siano interessanti soltanto in riferimento al problema della scrittura in generale, al problema del rapporto fra generi letterari ed esposizione filosofica, e, in particolare, al tentativo di comprensione, da parte di Foucault, della propria scrittura, ma aprano la strada ad una comprensione più profonda almeno di tutta la prima produzione di Foucault, se non di tutto il suo pensiero. Vorrei provare dunque ad andare ancora più a fondo nella lettura di questi testi, tentando di dare il giusto peso alle affermazioni di Foucault, soprattutto a certi termini che egli utilizza nel saggio sul pensiero del fuori, cercando contemporaneamente di mettere in rapporto questo testo, che è del 1966, con testi precedenti o quasi contemporanei, cioè con tutto quel primo Foucault di cui oggi ci si occupa poco, ma che per chi – come me e 1
Cfr. M. Foucault, Scritti letterari, ed. it. a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1996 (Ia ed. 1971).
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molti altri – cominciò a leggerlo a partire dalla scoperta della Storia della follia, ha tutto un altro rilievo: penso in primo luogo a Le parole e le cose, che viene pubblicato nello stesso anno, ma anche, in secondo luogo, ad un testo come Malattia mentale e psicologia2, che ha due stesure, una del ’543, oggi difficilmente reperibile, fortemente segnata dal clima di quegli anni rivolto all’elaborazione di una psicologia materialista (Foucault arriva addirittura a riferirsi a Pavlov), ed una del ’62, che, dopo aver modificato in profondità la prima versione, diventa quella canonica; e penso infine all’Introduzione alla traduzione francese di Sogno ed esistenza di Binswanger4. Credo che questi testi, insieme a quelli letterari e soprattutto a quello su Maurice Blanchot, abbiano un rapporto diretto con l’elaborazione teorica che Foucault svolge a partire dai suoi interessi e dalla sua formazione psicologica, cioè dai primi anni ’50 fino alla fine degli anni ’60. L’ultimo testo che ho raggruppato in questa produzione e secondo questo criterio è la lezione inaugurale al Collège de France sull’ordine del discorso (che è del ’71), le cui prime righe, iscrivendo il desiderio del parlante di trovarsi da sempre immerso nel discorso, esonerato quindi dall’obbligo di istituirsi come l’inizio assoluto di ciò che si accinge a dire, echeggiano quasi alla lettera le tesi dello scritto su Blanchot: quando dico ‘io parlo’ e incomincio a parlare in realtà il linguaggio mi precede da sempre, mi precede indefinitamente, è quel fuori che avvolge la mia parola destituendola dalla pretesa arcontica di essere un puro inizio.5 Qual è l’oggetto della riflessione iniziale di Foucault? Se, come ha notato Salvatore Natoli, Foucault è un pensatore eclettico, ciò non toglie che gli interpreti siano costretti prima o poi a mettere un punto alla pura e semplice registrazione del variare degli interessi, dei temi e delle prospettive di ricerca e degli accenti etici e politici, vale e dire a stringere un nodo o fare una piega, stabilire insomma una significazione principale 2 3 4
5
Cfr. M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, ed. it. a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 1997. Di questa prima stesura che era intitolata Malattia mentale e personalità esiste una traduzione italiana di S. Sciacchitano pubblicata sulla rivista «Scibbolet», n° 1, 1994, pp. 232-254, n° 2, 1995, pp. 303-326, n° 3, 1997, pp. 295-323. Cfr. M. Foucault, «Introduzione» a L. Biswanger, Sogno ed esistenza, trad. it. di L. Corradini e C. Giussani, SE, Milano 1993. Su tutta questa prima produzione foucaultiana fino a Storia della follia si veda F. Gros, Foucault et la folie, Puf, Paris 2004 (1° ed. 1997). M. Foucault, L’ordine del discorso, trad. it. di A. Fontana, in Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001, p. 11.
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all’interno del discorso di Foucault, fosse anche provvisoria, perchè altrimenti, se restassimo medusizzati dalla pura frammentazione dell’eclettismo, non ne potrebbe scaturire mai e poi mai, come nota ancora Natoli, un costrutto teorico – e allora a che pro’ studiare Foucault? Per prima cosa sgombriamo il campo da un equivoco possibile: dall’inizio alla fine della sua riflessione, Foucault non è mai stato un filosofo; Foucault è sempre stato altro6. Il suo esordio, ad esempio, è la psicologia, più esattamente la psicopatologia. Quest’ultima è la prima cosa che studia e che insegna. Foucault prende le mosse dalla tradizione della psichiatria ed in particolare dalla psicopatologia fenomenologica ed esistenziale (il che spiega la traduzione in francese del testo di Binswanger e la stesura dell’introduzione che l’accompagna) e, cosa che non andrebbe mai dimenticata, legge l’Antropologia pragmatica di Kant7. Le due cose, in realtà, sono legate. Per capire perchè Foucault decida di scrivere un testo come la Storia della follia, è interessante considerare la situazione generazionale degli intellettuali dell’epoca; ciò che sta al centro della loro riflessione è questo: se si vuole tentare un discorso sull’“uomo” (termine da mettere tra virgolette perchè nel caso di Foucault è ambiguo e sovradeterminato), bisognerà partire dalla patologia psichica. Non si possono prendere le mosse dal canone, dalla normalità, ma esattamente dal suo opposto, cioè dall’elemento patologico. Credo che ciò sia dovuto – al di là di tutti gli andirivieni di Foucault rispetto alla psicanalisi, che adesso non posso e non voglio ricostruire – all’apertura che rappresenta, nell’ambito delle scienze umane, del loro sviluppo e della loro crisi, l’avvento della psicanalisi freudiana. Tutti sappiamo che i Tre saggi sulla teoria sessuale, i quali sembrano ripetere una tradizione canonica degli studi sulle patologie sessuali, in re6
7
Si veda a questo proposito l’intervista del 1978 La scena della filosofia in cui, rispondendo alla domanda dell’interlocutore sui suoi rapporti con la sfera del teatro, Foucault dichiara: «Lei ha ragione. Quel che fa sì che io non sia un filosofo nel senso classico del termine – e forse nemmeno un filosofo, o comunque un buon filosofo – sta nel fatto che io non m’interesso all’eterno, non mi interesso a quel che resta immobile e stabile al di sotto del dileguare delle apparenze. Io mi interesso invece all’evento» (trad. di M. Bertani in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, cit., p. 216). Sulla centralità della kantiana Antropologia pragmatica nella formazione e nel successivo sviluppo del pensiero di Foucault ha richiamato l’attenzione M. Fimiani nel suo Foucault e Kant. Critica clinica etica, La Città del Sole, Napoli 1997. Come è noto Foucault ha tradotto l’Antropologia pragmatica dedicandole un commento rimasto a tutt’oggi colpevolmente inedito.
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altà non partono dalla sessualità normale, ma dalle perversioni: la presunta normalità – nel senso di ciò che si dà di fatto, all’inizio – è la perversione. E quello che diventa ‘normale’ è ottenuto a prezzi molto alti, perchè ciò che Foucault chiamerebbe il processo di soggettivazione è il risultato di dispositivi estremamente potenti e rigidi, tra i quali il primo e il più importante che Freud individua è il complesso edipico. È l’Edipo che decide della direzione che deve assumere il mio desiderio erotico e istituisce i confini all’interno dei quali posso scegliere il mio partner sessuale – e tutto ciò in base alla mia appartenenza sessuale che è un’appartenenza logica e non meramente empirica – : come prima cosa, per esempio, escludo i consanguinei; poi quelli del mio stesso sesso, e ciò spiega perché la ricerca del partner assomigli ad una via crucis. Dunque, se la normalità è il risultato, è la patologia che ci dà la chiave per poter pensare l’uomo, per poterlo pensare nel senso dell’antropologia così come è stata inaugurata da Max Scheler: si può pensare l’uomo, nella sua differenza dall’animale, soltanto in riferimento al mondo8. In questo senso, ho l’impressione che Foucault parta dall’antropologia, e che tenti di fare dell’antropologia (come del resto l’ultimo Merleau-Ponty ha fatto con la fenomenologia) un’ontologia fondamentale – un’ontologia nella quale il problema è l’essere al mondo dell’uomo. È per questo che l’Antropologia pragmatica di Kant entra nel suo percorso. Si tratta di un possibile filo, che non sarà l’unico ma è almeno facilmente rintracciabile dall’inizio della produzione foucaultiana fino al ’67-’68, forse fino al ’70 e a Sorvegliare e punire. Con questo testo sembra inaugurarsi una questione diversa, sembra aprirsi tutta un’altra dimensione della ricerca di Foucault, ma ho un’ipotesi (su cui tornerò alla fine), che permette di legare questo libro proprio ai testi 8
A differenza dell’animale che «vive estaticamente immerso nell’ambienteproprio», l’uomo «è quella X capace di comportarsi in modo illimitatamente ‘aperta al mondo’»: Cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (1928), trad. it. di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2000, p. 124. Il nome di Scheler compare non con questo testo ma con una conferenza di poco precedente nel seminario heideggeriano del 1929-1930 dedicato ai concetti di mondo, finitezza e solitudine in cui si tematizza la posizione dell’uomo rispetto all’animale e alla pietra esattamente in riferimento al rispettivo rapporto col mondo: cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, trad. it. di P. Coriando, Il melangolo, Genova 1992, p. 95. Su tutta la questione mi permetto di rinviare al mio Mondializzazione e privazione: una riflessione sul mondo fra Heidegger e Marx, edizione elettronica in «Kainos. Rivista on-line di critica filosofica», n° 3, ottobre 2003, www.kainos.it.
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ai quali ho accennato e sui quali mi soffermerò, in particolare a quello su Maurice Blanchot. Non potendo ricostruire qui per motivi di tempo tutta la complessità di un testo come Malattia mentale e psicologia, la cui analisi minuziosa farebbe vedere però una cosa che mi sta molto a cuore, vale a dire l’emergenza sempre più chiara e lampante del nome di Lacan nelle considerazioni di Foucault (vi sono infatti enunciati di quest’ultimo che sembrano, se non copiati, almeno straordinariamente simili ad alcune fra le più note affermazioni di Lacan), mi limiterò a mostrare la centralità del patologico nel pensiero foucaultiano partendo direttamente dalle ultimissime pagine di Le parole e le cose. Sono le pagine, come è noto, in cui si decide la fine dell’epoca delle scienze umane come modello dei saperi. E, in concomitanza con questa fine, della morte dell’uomo in quanto soggetto-oggetto delle scienze umane. Quali sono gli elementi del panorama culturale che, secondo Foucault, sono lì a testimoniare dell’erosione del modello delle scienze umane, della sua fine e dunque della morte dell’uomo? Foucault ne enumera tre, e sono tutti e tre estremamente importanti per quello che sto cercando di dire: 1) una nuova dimensione del linguaggio che è legata allo strutturalismo, ovvero la linguistica saussuriana; 2) un’esperienza letteraria che si lega ai nomi di Mallarmè, Bataille, Blanchot ed altri, che poi sono appunto quelli che diventano oggetto dei cosiddetti scritti letterari; 3) infine, due pratiche discorsive che sembrano appartenere all’ambito delle scienze umane ma che all’epoca in cui Foucault scrive (nel ’66), ne rappresentano a suo giudizio anche il possibile o il definitivo oltrepassamento: l’etnologia e la psicanalisi9. A questo punto, si possono ormai sostituire alle etichette i nomi, che sono due: Levi-Strauss sta per etnologia, e Lacan sta per psicanalisi. Sono questi i nomi in gioco.10 Ora, etnologia e psicanalisi, e dunque antropologia e psicanalisi lacaniana, vengono invocate in vista di un superamento del modello delle scienze umane, rispetto all’oggetto della vita patologica, della vita mala9
10
Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1970, pp. 400-414. Su queste pagine rinvio al mio «“La psiche è estesa, di ciò non sa nulla”. Il problema dello spazio in psicoanalisi», in R. Conforti (a cura di), La psicoanalisi tra scienze umane e neuroscienze. Storia, alleanze, conflitti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, soprattutto pp. 566-570. Sulla presenza di Lacan in Foucault si veda C. Sini, Teoria scientifica, pratica discorsivo-sociale e psicoanalisi in Foucault, in E. Morpurgo (a cura di), La psicoanalisi tra scienza e filosofia, Loescher, Torino 1981, poi ripreso in C. Sini, Semiotica e filosofia. Segno e linguaggio in Peirce, Nietzsche, Heidegger e Foucault, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 175-239, in particolare p. 194.
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ta, che è, appunto, il modello da cui si parte, il principio. Foucault lo dice già in Malattia mentale e psicologia: la patologia non è una deviazione dalla norma, anche se prendiamo la norma come media statistica; in realtà la patologia è un modo positivo di stare al mondo da parte dell’esistente, non è un modo negativo, per cui se la patologia è un errore, è un errore che denota un modo d’essere, e questo modo d’essere ci aiuta a comprendere, a porre il problema dell’uomo (se possiamo ancora usare questo termine; ovviamente Foucault, a questo punto, direbbe di no) che è molto diverso e più produttivo dell’altro – nel caso cioè in cui partissimo dal canone, dalla norma.11 Allora (limitandomi qui soltanto alla psicanalisi e tralasciando l’etnologia, anche perchè in queste pagine Foucault è molto esplicito rispetto alla psicanalisi), qual è il carattere della psicanalisi? Secondo Foucault la psicanalisi, a differenza delle scienze umane che «avanzano verso l’inconscio solo volgendo a questo le spalle, attendendo che esso si sveli a mano a mano che, come a ritroso, si produce l’analisi della coscienza», punta invece verso l’inconscio «direttamente e deliberatamente»12. In altri termini, la psicoanalisi, secondo Foucault, pur muovendosi nella stessa direzione delle scienze umane, inverte tuttavia lo sguardo, indirizzandolo verso il punto, di per sé inaccessibile ad ogni conoscenza trascendentale del soggetto umano, in cui l’ordine della rappresentazione e l’intera sfera della coscienza si articolano o «piuttosto restano spalancati sulla finitudine dell’uomo»13. Per essere ancora più chiari, la psicoanalisi, «a differenza delle scienze umane, le quali pur tornando sui propri passi verso l’inconscio, rimangono sempre nello spazio del rappresentabile, avanza per scavalcare la rappresentazione, per superarla dal lato della finitudine»14. Se inconscio e finitudine fungono nel discorso di Foucault quasi da sinonimi, tuttavia non bisognerà né interpretare il primo nel senso del magma pulsionale, consegnandolo così ad una irresponsabile deriva romantica, né leggere la seconda in base al dispositivo di certa antropologia filosofica che nella carenza e bisognosità originarie del soggetto umano vede la specificità di questo strano allotropo empirico-trascendentale che è l’uomo; inconscio e finitudine indicheranno invece la regione in cui, restando la rappresentazione come sospesa «sul limitare di se stessa, aperta in qualche modo sulla chiusura della finitudine», prendono forma 11 12 13 14
Cfr. M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 71. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 400. Ibidem. Ibidem.
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le tre figure – Morte, Desiderio e Legge-Linguaggio – attraverso cui si fonda «la vita, con le sue funzioni e le sue norme».15 Per manifestarsi nella riflessione di Foucault, l’interesse per il problema della vita non deve attendere il seminario del ’76, ‘Bisogna difendere la società’, e l’invenzione della biopolitica. Esso si presenta dall’inizio, dal momento che la vita, vista dalla prospettiva che riguarda l’uomo, non è mai riducibile alla sfera del bisogno e quindi non è mai integralmente traducibile in uno schema razionale e trasparente. Se la vita resiste alla rappresentazione è perché essa non può mai essere disgiunta dall’insistere muto della morte, dalle vicissitudini impensate ed impensabili di un desiderio senza oggetto e soprattutto dall’incidenza del linguaggio inteso non tanto come libera capacità espressiva, quanto come quella legge che determina al di là della coscienza il pensiero e l’azione dei soggetti. Sostenere che la vita sfugge alla rappresentazione non vuol dire farla slittare sul lato dell’irrazionalità, significa al contrario comprendere che, se essa è pensabile solo a partire e mediante leggi, forme e strutture, queste ultime si sottraggono tuttavia in linea di principio alla rappresentazione cosciente. Mi sembra che in tutte e tre le determinazioni della vita individuate secondo Foucault dalla psicanalisi – la pulsione di morte, il desiderio e il linguaggio-legge – sia leggibile, soprattutto nell’ultima, il nome di Lacan. È con quest’ultimo, più ancora che con Freud, che si consuma il debito residuo che la psicanalisi può avere con le scienze umane: avanzando direttamente verso l’inconscio, la psicanalisi rompe in maniera definitiva con qualunque tentativo di costruire «una teoria generale dell’uomo, o un’antropologia, o qualcosa del genere»16, tentativo in cui le scienze umane restano necessariamente impigliate. E se vi restano impigliate è perché esse, procedendo verso l’inconscio a mo’ dei gamberi, finiscono per eludere il problema principale per la comprensione dell’umano, vale a dire l’elemento psicopatologico o, detto in forma popolare, la follia. Andando direttamente verso l’inconscio, la psicanalisi va, secondo Foucault, incontro alla follia, si dirige, consapevole del rischio, verso un luogo che, pur costituendoci da parte a parte, resta inaccessibile alla trasparenza del pensiero, a qualcosa che, pur essendo pensiero, è impossibile da pensare, ad una modalità di quella esistenza che è la nostra e che è ad un tempo reale ed impossibile. Non tuttavia verso tutte le forme di 15 16
Ivi, p. 401. Ivi, p. 403.
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follia: avendo studiato molto bene tutta la tradizione psichiatrica, Foucault non dice: verso tutte le forme di psicosi, ma specifica: solo verso la schizofrenia. La paranoia non può essere messa in gioco, perchè è già un grande sistema difensivo rispetto al desiderio, mentre la schizofrenia è il luogo – direbbe Deleuze – degli spostamenti, dei tracciati, delle linee di fuga, che deterritorializzando vecchi ordinamenti, aprono a nuovi spazi di esistenza (e solo così la schizoanalisi di Deleuze ha un senso, perchè non c’è niente da esaltare nella povera vita dello schizofrenico). Ebbene, questa è la direzione che assume la psicanalisi lacaniana: essa, rispetto al modello delle scienze umane, ci porta verso il fuori, il fuori rappresentazione. Pur aprendosi verso il proprio impensato, vale a dire verso quei territori in cui la vita dell’uomo si oggettiva – riproduzione della vita biologica, produzione e gestione della ricchezza, produzione della cultura – , le scienze umane corrispondenti – scienze del vivente in generale, scienze dell’economia e scienze del linguaggio – finiscono sempre per restare dentro o per essere rivolte verso il dentro, ritengono cioè che l’uomo possa sempre essere pensato indipendentemente da queste necessità e da questi limiti (trasformando se occorre i limiti stessi in potenzialità), possa insomma sempre riprendersi da questa dispersione nei saperi positivi riconducendo se stesso e i saperi da cui è costituito all’interno dell’ambito del trascendentale. Ora, rispetto a questa nuova direzione di pensiero tematizzata alla fine de Le parole e le cose, la domanda che bisogna porsi è: il ‘fuori’ che viene teorizzato a partire da Blanchot e nel saggio su di lui, piuttosto che essere un’immersione in un altro ambito, una specie di vacanza che Foucault si sarebbe preso rispetto alle cose più importanti, non prosegue invece letteralmente questo discorso? In altri termini, se io comincio a leggere un testo di Maurice Blanchot (o di Raymond Roussel, o di Georges Bataille, o una poesia di Mallarmè), che esperienza sto facendo? È l’esperienza di una trasposizione espressiva del vissuto (nel senso dell’Erlebnis di cui parla la tradizione fenomenologica o la filosofia della vita), è un’esperienza dei contenuti che si sono accumulati progressivamente nel soggetto e che ci vengono comunicati in bella forma, oppure è l’esperienza del linguaggio in quanto tale, cioè di quel Linguaggio-Legge, non separabile dalla Morte e dal Desiderio, cui la psicanalisi ci conduce nel suo avvicinamento alla regione dell’inconscio e della finitudine? Credo che sia quest’ultimo l’approccio che Foucault mette in opera quando comincia e leggere questi testi letterari, che ovviamente sono rubricati come lette-
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ratura, ma che modificano la nozione di letteratura, perchè implicano la questione di che cosa sia la letteratura moderna.17 L’attacco del testo su Blanchot è folgorante: «la verità greca, vi si dice, ha tremato un tempo, in questa sola affermazione: ‘io mento’. ‘Io parlo’ mette alla prova tutta la finzione moderna»18. Come sempre Foucault parte da una partizione, dal taglio che inaugura il discorso: da un lato c’è un modo antico di affrontare la questione del linguaggio, dall’altro quello moderno. Nel mondo antico, la questione della verità è quella che si compendia nella frase-enunciato “io mento”: è il paradosso del mentitore. La questione si apre perchè vi è confusione, nell’enunciato ‘io mento’, tra il soggetto parlante e ciò di cui si parla. Questo paradosso pone allora, nell’antico e nel moderno, la questione della verità e del linguaggio in questi termini: come si sfugge al paradosso, come si evita l’effetto di vertigine che esso tende a produrre su colui che lo enuncia? Foucault sa benissimo, però, che nella logica moderna il paradosso è stato risolto, perchè basta gerarchizzare i due tipi di enunicato e distinguere tra l’enunciato in cui ‘io mento’ riguarda il soggetto parlante, e l’enunciato in cui invece il soggetto diventa quello dell’enunciato, e non quello dell’enunciazione; distinguere, potremmo dire lacanianamente, fra il je e il moi. Fatto questo, il paradosso viene risolto. La forma moderna della verità in rapporto al linguaggio, quella che è inaugurata dalla letteratura moderna, e che dunque, come la patologia, ha portata ontologica e non è semplicemente uno sviluppo nella storia delle arti, consiste nel fatto che la frase di partenza è: “io parlo”. Essa non presenta quella duplicità specifica dell’“io mento” che sidera colui che l’enuncia, il quale deve poi trovare una soluzione logica alla questione che la frase gli pone. Le due sottofrasi in cui è possibile scindere “io parlo”, vale a dire la stessa “io parlo” e l’altra “io dico che parlo” non producono alcun effetto paradossale, sono perfettamente compatibili fra loro. Invece, se una difficoltà viene ad accompagnare la frase “io parlo”, questa dipende dal fatto che l’enunciato in questione sembra presentarsi a colui che l’enuncia come l’inizio del discorso, più precisamente come ciò attraverso cui il discorso ha inizio o ancora come ciò attraverso cui “io” incomincio a parlare ed entro nel discorso. 17 18
Sul rapporto letteratura-psicoanalisi in Foucault si veda J. Rajchman, Michel Foucault. La libertà della filosofia, trad. it. di E. Moriconi, Armando, Roma 1987, p. 29. Cfr. M. Foucault, Il pensiero del di fuori, in Id., Antologia. L’impazienza della libertà, Feltrinelli, Milano 2006, p. 41.
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“Io parlo” dunque si presenta contemporaneamente come l’inizio assoluto del discorso e come ciò attraverso cui si entra, si prende posto in un discorso che già esiste. Da un lato l’“io parlo” sembra porre la propria sovranità nell’assenza, oltre di quello che lui stesso inaugura, d’ogni altro discorso, dall’altro però «il vuoto in cui si manifesta l’esiguità senza contenuto dell’“Io parlo”», funziona come «un’apertura attraverso la quale il linguaggio può diffondersi all’infinito, mentre il soggetto – l’“Io” che parla – si spezza, si disperde, e si sparpaglia fino a sparire in questo spazio nudo»19. La stranezza dell’“io parlo” è che questo inizio, che si pensa come assoluto, in realtà non lo è affatto, perchè il linguaggio, questa volta, precede l’“io parlo”, lo rende possibile, rende possibile che l’“io parlo” si dia. Vale a dire, l’“io parlo” non è un inizio, e dunque non è sovrano, non ha nessun valore di archè, ma al contrario è una fessura attraverso la quale passa, o si dà, il ‘fuori’ di ogni discorso possibile – cioè ognuno di quei discorsi di verità che Foucault tematizzerà nell’Ordine del discorso, quelli fondati su regole di esclusione quali l’interdetto, il partage, la volontà di verità, ecc. Sembra che l’“io parlo” stia in un deserto, ma in realtà questo deserto nel quale al povero “io parlo” sembra di situarsi, è la indefinita superficie della proliferazione del linguaggio. Questo linguaggio che ha le sue leggi, le quali non sono però le stesse leggi del discorso dettate da quelle regole di esclusione che lo fondano, ma che sono altre, ebbene, questa realtà ‘altra’ del linguaggio ‘passa’, trova la possibilità di essere ‘parola’ attraverso l’“io parlo”.20 Qui i termini di Foucault, che sono lingua, parola e discorso, vanno presi e analizzati attraverso le fonti. I primi due rinviano esplicitamente alla coppia saussuriana langue e parole in cui la langue è la struttura, mentre la parole è l’esecuzione singolare della langue. Fra essi viene ad insinuarsi
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Ivi, p. 42. In realtà questo linguaggio «non è parlato da nessuno» e in esso «ogni soggetto non vi disegna che una piega grammaticale» (ivi, p. 58). Si dovrebbe aprire a questo punto l’immensa questione dell’influenza su Lacan, Foucault e su di un’intera generazione di intellettuali francesi del magistero non solo linguistico di figure come Émile Benveniste e Roman Jakobson, in particolare della loro teoria dei deittici o shifters: cfr. É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, in particolare il saggio risalente al 1946 «Struttura delle relazioni di persona nel verbo», trad. it. di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, Milano 1971, pp. 270-281 e R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, in particolare «Commutatori, categorie verbali e il verbo russo» (1957), ed. it. a cura di L. Heilmann, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 149-169.
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il termine discorso21. Ricordo en passant che nel ’69 Lacan svolge il suo seminario dal titolo Il rovescio della psicoanalisi, in cui elabora la teoria dei quattro discorsi, che diventa la chiave strutturale per pensare il procedimento analitico, e che Lacan fa molte distinzioni rispetto al linguaggio: per lui il discorso si riferisce all’istituzione, e questo è molto vicino a quello che Foucault dice sui discorsi istituzionali22. Da una parte quindi ci sono i discorsi con le loro regole, con le partizioni fra l’enuciabile e il non enunciabile, dall’altro la langue, la lingua, che indica invece una proliferazione di frasi che non soggiace alle leggi proprie del discorso, ma semmai soggiace ad un altro tipo di legge, forse quella del Linguaggio-Legge che Foucault aveva ritrovato in Lacan: leggi del significante, leggi legate alla retorica dello spostamento e della condensazione. Chi ha letto il saggio di Foucault su Roussel e il testo stesso di Roussel, Come ho scritto alcuni miei libri, sa che tutta la paccottiglia romantica sulla creazione letteraria che attingerebbe la propria ispirazione alle fonti più intime dell’esperienza, viene fatta fuori, perchè il procedimento in realtà è, si potrebbe dire, tutto di testa: si prendono due parole molto simili [ad esempio billard (biliardo) e pillard (predone)], vi si aggiungono altre parole identiche ma con significati differenti (ad esempio lettres che vuol dire sia segni tipografici sia missive), si formano con queste parole così trovate due frasi distinte e infine si costruisce un racconto che debba iniziare con la prima frase e finire con la seconda23. Questo percorso viene ovviamente complicato all’infinito 21
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Tra le fonti del concetto di discorso sono da considerare due saggi di Èmile Benveniste, e cioè le Note sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana del 1956 e I livelli dell’analisi linguistica del 1962, entrambi ripubblicati nei Problemi di linguistica generale (trad. it. cit., pp. 93-107 e 142-156); gli Elementi di semiologia (1965) di Roland Barthes dove si parla del discorso come di una «parola estesa» (trad. it. di A. Bonomi, Einaudi, Torino 1966, p. 18); il paragrafo 34 di Essere e tempo di Heidegger (ed. it. a cura di A. Marini, Mondadori, Milano 2006, pp. 461-477: va notato che Marini traduce il tedesco Rede con ‘parlare’ a differenza di Chiodi che lo aveva reso con ‘discorso)’. Uno dei primi in Italia a richiamare l’attenzione sulla distinzione fra linguaggio e discorso in Foucault è stato Salvatore Natoli, di cui si veda Linguaggio e discorso. L’enunciato e l’archivio in Foucault (1983), in Id., Teatro filosofico, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 131-151. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi 19691970, ed. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001. Sulla teoria dei quattro discorsi mi permetto di rinviare al mio Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 155-216. Cfr. R. Roussel, Come ho scritto alcuni miei libri, ed. it. a cura di P. D. Lombardi, in Id., Locus solus, Einaudi, Torino 1975, p. 265. Per il saggio di Fou-
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con un procedimento del tutto astratto, che non ha nessun contenuto di esperienza, che non ha vita, ma che è quello che fonda la costruzione del testo letterario di Roussel. Utilizzando questo procedimento Roussel scrive pagine e pagine, e potrebbe andare avanti all’infinito, naturalmente, perchè questo è un metodo di costruzione infinita del testo, un metodo che somiglia molto alla Filosofia della composizione di Edgar Allan Poe, in cui lo scrittore americano spiega come ha costruito il poema Il corvo, prendendo le mosse unicamente dalla parola nevermore e dalla sua ripetizione24. Ci troviamo di fronte a procedure che costituiscono la dimensione del linguaggio, e non più quella del discorso, e che sono esattamente ciò che Foucault, sulla scorta di Blanchot, chiama il ‘fuori’. Il fuori non è l’elemento affettivo-passionale, ma è questa dimensione o superficie del linguaggio, che non ha alcuna profondità – il che spiega tra l’altro, secondo me, la tesi principe dell’Archeologia del sapere, ovvero la positività degli enunciati: non bisogna leggere dietro, in alto, sotto gli enunciati per scoprirne il senso nascosto o implicito, essi non hanno altro senso al di fuori di ciò che dicono, e non c’è bisogno di andare oltre; il problema sono piuttosto le procedure che li legano, che li mettono in relazione: è questo il vero problema, non la loro presunta profondità. Questa superficie del linguaggio è dunque, per Foucault, il fuori. Rispetto a ciò da cui siamo partiti, cioè i testi precedenti o vicini alla Storia della follia, che ruolo ha, qui, la patologia – così come viene ripresa nelle pagine finali de Le parole e le cose? Si potrebbe dire che essa è un certo modo di abitare questa dimensione del linguaggio. Ritengo che la questione letteraria, cioè il riferimento ai testi letterari da parte di Foucault, non abbia un carattere eclettico o enciclopedico (come se cioè Foucault avesse detto: adesso mi occupo anche di quest’altra fetta dello scibile), non risponde all’eclettismo, ma ad una necessità interna del suo pensiero. In fondo, ciò rinvia al compito che trovate enunciato nella prima versione della Prefazione alla Storia della follia, una versione che Foucault non ripubblica più nelle successive edizioni del suo libro25. La ragione più
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cault vedi M. Foucault, Raymond Roussel (1963), trad. it. di M. Guareschi, Ombre corte, Verona 2001. Cfr. E. A. Poe, Filosofia della composizione, in Id., Opere scelte., ed. it. a cura di G. Manganelli, Mondadori, Milano 1971, pp. 1307-1322. La Préface in questione compare nella prima edizione di Folie et Déraison. Historie de la folie à l’âge classique (Plon 1961) per scomparire a partire dalla riedizione del 1971. I lettori italiani che ebbero la fortuna di acquistare la prima traduzione italiana della Storia della follia pubblicata da Rizzoli nel 1963 furono anche gli unici che la lessero; tutti quelli che fecero uso delle edizioni
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ovvia di questa scomparsa può esser fatta risalire alla critica che nell’introduzione all’Archeologia del sapere Foucault rivolge al suo libro precedente ritenuto responsabile di dare «un peso troppo considerevole, e d’altra parte molto enigmatico, a ciò che vi veniva designato come “esperienza”, mostrando in tal modo quanto vicini si fosse ad ammettere un soggetto anonimo e generale della storia»26. Come scrive Gilles Deleuze: «La critica che Foucault muoverà alla Storia della follia consisterà nel fatto che essa si richiamava ancora ad un’esperienza vissuta selvaggia, alla maniera dei fenomenologi, o ai valori eterni dell’immaginario, alla maniera di Bachelard».27 Se è vero che nel programma enunciato dalla prefazione del 1961 alla Storia della follia viene chiaramente indicato il compito di fare «una storia di questa grande divisione, lungo tutto il divenire occidentale», cioè di seguire «nella sua continuità e nei suoi scambi» facendola apparire in tutta la «sua tragica ieraticità»28, la partizione fra la ragione e la follia, è anche vero che l’obiettivo dichiarato resta quello di parlare/far parlare della/la “esperienza della follia”, di provare a raggiungere «nella storia, questo grado zero della storia della follia, dove essa è esperienza indifferenziata, esperienza non ancora condivisa della divisione stessa»29. È vero che la follia nel suo «stato selvaggio», la follia nella «inaccessibile purezza primitiva», non potrà mai essere del tutto liberata da quell’insieme storico – «nozioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici» – che la tiene «prigioniera»; ebbene, ciò non toglie che uno studio strutturale non può esimersi dal tentativo di
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successive sia francesi che italiane ne ignorarono alle volte persino l’esistenza. Penso di non sbagliare se ritengo che anche per riavere a disposizione il testo francese della prefazione si sia dovuto aspettare la pubblicazione del primo volume di Dits et écrits edito nel 1994. Ora la traduzione italiana è disponibile in M. Foucault, Antologia. L’impazienza della libertà, cit., pp. 9-17. M. Foucault, L’archeologia del sapere, trad. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1971, pp. 23-24. G. Deleuze, Foucault, trad. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Cronopio, Napoli 2002, p. 73. Lo stesso Blanchot nel suo omaggio a Foucault ricorderà come «almeno in due occasioni Foucault» si fosse rimproverato «di essersi lasciato sedurre dall’idea che vi sia una profondità della follia, che questa costituisca un’esperienza fondamentale che si colloca al di fuori della storia e di cui i poeti (gli artisti) sono stati e possono ancora essere i testimoni, le vittime e gli eroi»: cfr. M. Blanchot, Michel Foucault come io l’immagino, trad. it. di V. Conti, Costa & Nolan, Genova 1988, p. 10. M. Foucault, «Prefazione alla Storia della follia», in Id., Antologia. L’impazienza della libertà, cit., p. 12. Ivi, p. 9.
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«risalire alla decisione che lega e separa al tempo stesso ragione e follia»30. Anche se è gioco forza riconoscere che della follia è possibile soltanto una definizione negativa – la follia come “assenza d’opera” – ; se di conseguenza bisogna rassegnarsi al fatto che non esiste alcun linguaggio comune fra la ragione e la follia; e se infine la follia è destinata a rimanere in/nel silenzio; resta vero tuttavia che la sfida consiste nel saper fare «l’archeologia di questo silenzio».31 Fin qui la Préface del ’61. Ma, se la follia è in realtà ciò che si dà attraverso la lingua, attraverso quella lingua che appunto individuiamo nelle pratiche letterarie di Roussel, di Blanchot, di Bataille o nelle poesie di Mallarmè, allora il problema cambia: la follia ha incontrato la propria voce senz’alcun bisogno di dover ipotizzare un soggetto – un autore – titolare di questa esperienza selvaggia e primitiva. In verità la follia non è nulla di selvaggio e primitivo e soprattutto non è nulla di extra-linguistico: se è extra discorsiva, dal momento che il discorso si basa sulla partizione fra la ragione e la follia, non è tuttavia extra-linguistica: il suo luogo di manifestazione infatti non è altro che l’“io parlo”. A dimostrazione della bontà della tesi che vado sostenendo potrebbe bastare il fatto che la frase della prefazione del 1961 sulla quale ho richiamato l’attenzione, vale a dire che scopo di quell’opera non è altro, in fin dei conti, che tentare di fare «l’archeologia di questo silenzio» che è la follia, è praticamente identica ad un passaggio del testo di Blanchot Thomas l’obscur, in cui parlando della morte del personaggio di Anna si dice che «il silenzio, il vero silenzio, quello che non è fatto di parole uccise, di pensieri possibili, aveva una voce»32. È l’“io parlo” che dà voce alla follia e alla morte, cioè al non detto del discorso, alla sua parte oscura. Non si tratta dunque più di raggiungere un’esperienza della follia che si darebbe prima
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Ivi, p. 14. Ivi, p. 10. M. Blanchot, Thomas l’obscur (nouvelle version), Gallimard, Paris 1950, p. 102. Sarebbe egualmente decisivo, sebbene impossibile da fare in questa sede, ricostruire tutta la lettura condotta da Foucault dell’altro ‘romanzo’ di Blanchot Le Très-Haut (Gallimard, Paris 1948), imperniata sul carattere onnipervasivo e inattacabile della Legge – «La legge incombe, scrive Foucault, sovranamente sulle città, sulle istituzioni, sui comportamenti e sui gesti; qualunque cosa si faccia e per quanto grandi siano il disordine e l’incuria, essa ha già dispiegato la sua potenza [...] Le libertà che si possono prendere non sono capaci d’interromperla» (M. Foucault, Il pensiero del di fuori, cit., p. 50) – che richiama imperiosamente la dimensione della Legge-Linguaggio scoperta dalla psicanalisi lacaniana nonché il suo rapporto stretto con il desiderio – nel romanzo di Blanchot il nome del protagonista è Sorge, cioè cura.
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del linguaggio, ma di comprendere che nell’esperienza del linguaggio inaugurata dalla finzione letteraria propria della modernità, nell’esperienza del linguaggio come di ciò che cancella il soggetto e depotenzia il discorso, la follia trova la propria voce, la propria modalità espressiva. Questa era l’idea di un pensiero del fuori quale volevo ricostruirla rispetto alla produzione di Foucault precedente a Sorvegliare e punire. Faccio infine due ipotesi sul Foucault successivo, visto che poi è quello di cui oggi si parla di più. In primo luogo, quando Foucault scrive Sorvegliare e punire il suo interesse per Bentham non è forse soltanto quello per l’autore del Panopticon, ma per il Bentham autore della Teoria delle finzioni33. Bentham è stato il primo teorico del linguaggio ad aver strutturato una moderna ontologia linguistica; questo aspetto del suo pensiero era stato fortemente valorizzato da Lacan soprattutto nel seminario sull’etica della psicanalisi, a partire da una indicazione di Roman Jakobson34. Il Fictitious, il fittizio, in Bentham, non è altro che l’ordine del linguaggio. Di fronte ad esso stanno solo i corpi nella loro nuda realtà, i corpi intesi come fasci di bisogni e di pulsioni. La mia ipotesi è che il ragionamento di Foucault che viene consegnato nel ’66 al saggio dal titolo Il pensiero del fuori, in realtà non scompare affatto. In realtà sarebbe proprio Bentham a fare da cerniera tra il saggio del ’66, dove in riferimento alla moderna finzione letteraria – parte ciò di ciò che Foucault definisce anche la ‘finzione occidentale’35 – si tematizza una certa dimensione del linguaggio inteso come legge, e la centralità nel libro del ’75 sulla nascita del moderno sistema carcerario dalla finzione linguisticosimbolica nella costituzione delle relazioni di potere. L’ambito del linguaggio come ordine del fittizio, della finzione, in realtà, libera le relazioni di potere, dà la possibilità di leggerle, di comprenderle, di individuarle, proprio perchè libera i corpi dal fatto di dover essere immediatamente animati o di dover esprimere immediatamente razionalità – perchè la razionalità si è ormai letteralmente staccata, fa ormai parte delle strutture, non dei corpi: il modello dell’uomo non è più, infatti, quello aristotelico dell’animale razionale. Da un lato ci sono le strutture della lingua, dall’altro ci sono i corpi. A questo punto, possiamo anche cominciare a leggere le relazioni di 33 34 35
Cfr. J. Bentham, Teoria delle finzioni, ed. it. a cura di R. Petrillo, Cronopio, Napoli 2000. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, ed. it. a cura di G. B. Contri, Einaudi, Torino 1994, pp. 17 e sg. M. Foucault, Il pensiero del di fuori, cit., p. 43.
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potere che investono i corpi, come se fossero il fuori degli ordini di senso idealizzanti (quelli giuridici, o per esempio quelli di un certo storicismo), che occupano la sfera, non più delle scienze umane, ma dei saperi moderni e contemporanei. In secondo luogo, questo modello del pensiero del fuori, che implica l’espropriazione del soggetto come autore, mi sembra cozzare con il modello della cura di sè, se questa è invece il tentativo di ripristinare il rapporto di sè con sè. A me sembra che, se si va nella direzione di Blanchot, questo è difficilmente praticabile: tutta l’idea della cura di sè fondata sull’uso dell’etica classica, dell’etica antica da Platone agli stoici, sarebbe oggettivamente difficile da praticare nella modernità, dal momento che ci troviamo in un società di massa, mentre l’etica antica è un’etica individualista e aristocratica36. A meno che (ma questa è un’ipotesi molto azzardata) Foucault non abbia pensato ad un’altra possibilità di trascrizione. Come molti altri intellettuali francesi nello stesso periodo – Lacan, Barthes, ecc. – e secondo una moda inaugurata da Kojéve, in verità per esclusive ragioni di lavoro, Foucault ha fatto un viaggio in Giappone, e, se non come gli altri che hanno consegnato ad un libro, ad un commento durante un corso di lezioni o ad una digressione lungo un seminario, il resoconto della propria esperienza, ponendo l’accento soprattutto sull’effetto straniante dell’impatto con una realtà sociale e culturale radicalmente diversa da quella occidentale, anch’egli ha tutttavia disseminato qua e là qualche scarna osservazione sulla realtà del mondo giapponese.37 A guidare Foucault nel suo viaggio in Giappone sembra essere stato l’interesse per il modo con cui una cultura e una storia differenti da quella occidentale hanno trattato la questione del corpo: seguendo l’invito del traduttore giapponese della Volontà di sapere, autore anche dell’intervista già citata La scena della filosofia, Foucault si sarebbe interessato soprattutto del teatro Kabuki e di tutte le tecniche del corpo proprie della cultura giapponese, ivi comprese le arti marziali, al fine di arricchire la propria conoscenza delle modalità di assoggettamento del corpo ottenuto attraverso una rete di saperi e di discorsi.38 36
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Questa sembra essere stata alla fine anche l’opinione di Foucault: cfr. l’intervista Il ritorno della morale rilasciata nel 1984 poco prima della morte, trad. it. di S. Loriga in M. Foucault, Archivio Foucalt. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 264. Nella stessa intervista Foucault insiste sul concetto dello stile. Soprattutto sull’importanza dell’Ars erotica orientale messa a confronto con la Scientia sexualis occidentale: cfr. per esempio M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 52-53. Cfr. M. Foucault, La scena della filosofia, cit., p. 229.
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È a questo punto che vorrei introdurre la mia ipotesi azzardata che aiuterebbe però a giustificare la presenza di tutta la tematica della cura di sé all’interno dell’itinerario complessivo di Foucault. Mi domando cioè se l’interesse di Foucault per le pratiche del corpo giapponesi, invece di essere dovuto alla volontà di analizzare tutte le varianti della matrice di ogni assoggettamento, vale a dire della matrice sapere/potere, non potesse derivare da quello che mi permetterei di chiamare puro e semplice Snobismo, cioè dall’aspetto formale, cerimoniale, artistico ed estetico di tutte queste pratiche. Da questo punto di vista, allora, la cura di sé che dovrebbe culminare in un’estetica dell’esistenza non richiederebbe più di essere pensata né nel senso di un’etica del Maître rivolta alla padronanza di sé e al controllo delle passioni, né tantomeno secondo il principio di un’estetica romantica che confonde la costruzione della propria vita con la creazione dell’opera d’arte, ma si dispiegherebbe nella direzione di una stilizzazione della vita, di una iscrizione integrale della vita nella forma della cerimonia e del rituale. Iscrizione che nel momento in cui inserisce la vita in un orizzonte di senso la sottrae contemporaneamente alle moderne modalità dell’assoggettamento: dopo aver enumerato i tre modi con cui anche una società feudale (che il Giappone continerebbe ad essere almeno dal punto di vista culturale) riconosce l’importanza dei corpi degli individui e si dispone ad esercitare un potere su di essi – costringendo il corpo ad emettere dei segni che testimoniano assoggettamento e servilità, sottoponendolo ad ogni forma di violenza compresa la morte e mettendolo al lavoro – tuttavia Foucault è costretto a notare che «detto questo, è necessario precisare che il potere, nella società feudale, è indifferente a tutto il resto. Ovvero: al fatto che le persone siano, o meno, in buona salute, al fatto che si riproducano oppure no [...] Al modo in cui la gente vive, a come si comporta, a come agisce, e al modo in cui lavora».39 Di contro alla storia occidentale che in quanto storia inaugurata dalla lotta delle autocoscienze per il riconoscimento e innervata dalla volontà di verità e dalla spinta della rivoluzione permanente culmina alla fine nella biopolitica e attraverso le guerre razziali nella tanatopolitica40, l’esempio, già intravisto da Kojéve, del Giappone feudale sopravissuto al ciclone della modernità, potrebbe valere come il modello di un’altra direzione della storia da contrapporre ad un Occidente ormai al tramonto.41 39 40 41
Ivi, p. 230. Su questo punto ha insistito con forza Roberto Esposito nel suo Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 114-157. Su questi punti mi permetto di rimandare al mio La scena del presente. ‘Storicismo’ e ‘fine della storia’ in Michel Foucault, in G. Cantillo e F. C. Papparo
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Al fuori costituito dalla sfera del linguaggio in opposizione alle interdizioni del discorso che senza soluzione di continuità si sarebbe trasformato nel fuori rappresentato dalle relazioni di potere rispetto agli ordini ideali del diritto e dello stato, o per dirla in un altro modo dal visibile di contro all’enunciabile42, si sarebbe infine sovrapposto e non sostituito un fuori etico-ontologico incarnato in tutti quegli eventi, passati o contemporanei, che si potrebbero leggere come un al di qua o un al di là della storia occidentale (fra di essi, ad esempio, andrebbe annoverato certamente tutto il dossier sulla rivoluzione iraniana43), eventi altri rispetto alle sue forme di dominio, indifferenti alle sue forme di vita. Eventi fuori.
42 43
(a cura di), Genealogia dell’umano. Saggi in onore di Aldo Masullo, Guida, Napoli 2000, pp. 365-397, soprattutto 382-384. Su questa opposizione visibile-enunciabile e sul potere come pensiero del fuori ha molto insistito Gilles Deleuze: cfr. Foucault, cit., pp. 69-124. Cfr. M. Foucault, Taccuino persiano, ed. it. a cura di R. Guolo e P. Panza, Guerini e associati, Milano 1998. Su questo punto molto discusso e contestato della riflessione politica di Foucault si veda ora il dossier curato da Andrea Cavazzini Foucault, l’islam e la filosofia, pubblicato sul numero 1/2005 della rivista «La Rosa di nessuno» edita da Mimesis (Milano 2005).
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14 MORTE DELL’UOMO ED EMERGENZA DEL SÉ: RI-LEGGERE MICHEL FOUCAULT di Jean Leclercq*
A Catherine ...mi sembra che la scelta filosofica con cui oggi dobbiamo confrontarci sia la seguente: optare per una filosofica critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di una ontologia dell’attualità: è questa forma di filosofia che, da Hegel alla Scuola di Francoforte, passando per Nietzsche e Max Weber, ha fondato una forma di riflessione all’interno della quale ho cercato di lavorare.1
1. Una citazione emblematica come struttura Voglio iniziare questa riflessione sulla “morte dell’uomo” e l’emergenza del sé, appoggiandomi su una citazione ampia, possente, dettagliatamente spiegata da Michel Foucault: non bisogna dimenticare che Cartesio ha scritto delle Meditazioni e le meditazioni sono una pratica di sé. Ma la cosa straordinaria nei testi di Cartesio, è il fatto che egli sia riuscito a sostituire un soggetto fondatore di pratiche di
* 1
Traduzione di Antonella Cutro M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 261.
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conoscenza ad un soggetto costituito grazie a delle pratiche di sé. Questo è molto importante. Anche se è vero che la filosofia greca ha fondato la razionalità, essa sosteneva sempre che un soggetto non poteva avere accesso alla verità se non realizzando prima su di sè un certo lavoro che lo rendeva suscettibile di conoscere la verità – un lavoro di purificazione, una conversione dell’anima stessa. [...] Penso che Cartesio abbia rotto con tutto ciò, dicendo: “Per accedere alla verità, è sufficiente che io sia non importa quale soggetto che possa vedere ciò che è evidente”. L’evidenza viene sostituita all’ascesi nel punto in cui si congiungono il rapporto con sé e il rapporto con gli altri, il rapporto con il mondo. Il rapporto con sé non ha più bisogno di essere ascetico per esser un rapporto con la verità. È sufficiente che il rapporto con sé mi riveli la verità evidente di quello che vedo per apprendere definitivamente questa verità. [...] Dopo Cartesio, è un soggetto della conoscenza non sottoposto all’ascesi che nasce. [...] Dopo Cartesio, si ha un soggetto della conoscenza che pone a Kant il problema di sapere che rapporto c’è tra soggetto morale e soggetto di conoscenza. [...] La soluzione di Kant è stata di trovare un soggetto universale che, nella misura in cui è universale, poteva essere il soggetto della conoscenza, ma che esigeva tuttavia un’attitudine etica – precisamente questo rapporto con sé che Kant propone nella Critica della ragione pratica. [...] Kant dice: “io mi devo riconoscere come soggetto universale, cioè costituirmi in ciascuna delle mie azioni come soggetto universale, conformandomi a regole universali”. Le vecchie domande erano dunque reintrodotte: “come posso costituire me stesso come soggetto etico? Riconoscermi da me stesso come tale? Ho bisogno di esercizi d’ascetismo? o piuttosto di quella relazione kantiana con l’universale che mi rende morale conformandomi alla ragione pratica?”. È così che Kant introduce una nuova via in più nella nostra tradizione grazie alla quale il sé non è semplicemente dato ma costituito in rapporto a sé come soggetto.2
Ecco dunque una riflessione radicale, per la filosofia e la sua storia, che, come quella fatta nella Storia della follia nell’età classica, pone al cuore del dispositivo epistemologico Cartesio e la sua “scoperta” del cogito. In realtà, in linea con l’epistemologia di Cavaillès – e la sua razionalità formale che si voleva mettere al riparo dai presupposti delle filosofie della coscienza – Foucault considera il momento cartesiano come una rottura decisiva radicale, tanto per il campo filosofico quanto per il campo della storia delle idee. È, dunque, un rapporto tra il soggetto e la verità che entra in una situazione aporetica, a tal punto che le nozioni di «stile di vita» o «esistenza estetica» sono riarticolate, a vantaggio di un accentuarsi del soggetto che 2
M. Foucault, A propos de la généalogie de l’éthique: un aperçu du travail en cours, in Dits et Écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Paris, Gallimard, 1994, vol. IV (1980-1988), pp. 410-411 (trad. it. in appendice a H. L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Ponte alle Grazie, Firenze 1989).
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si vuole conoscere, del soggetto pensante in quanto cogito. La vena epistemologica dell’ermeneutica del principio delfico accresce la vena etica della pratica che trasforma e stilizza il sé, quella che il soggetto dovrebbe tuttavia originariamente mettere alla prova, al fine di giungere ad una dimensione cognitiva. Così, nel rilevare che la posta in gioco è ormai nel rapporto «soggetto-verità», Foucault considera che, nella vena epistemologica, il soggetto è «capace di verità» ma di una verità che non lo salverà; al contrario, nell’altra vena il soggetto, nella sua situazione, non è capace di verità, ma essa può ancora salvarlo e soprattutto «trasfigurarlo». In effetti, il punto di arrivo di questa conoscenza di sé è una teoria della soggettività, ma secondo il criterio dell’evidenza, che sostituisce la cura di sé che era una prassi della soggettività secondo una ascesi veritativa. In questo senso, come corollario, l’accesso alla verità è meno pratico che ontologico, tanto che le dimensioni terapeutica, curativa, pratica sparirebbero a vantaggio di una pretesa universalizzante dell’imperativo di cui si sa che la normalizzazione è il più grande pericolo. Dunque, non è tanto l’oblio dell’essere ad esser in gioco, ma quello della vita filosofica, precisamente come nodo tra vita e verità. Un soggetto d’esperienza e la visione del mondo come luogo di una prova ma anche il piacere come singolarità che manifesta la vita, poiché Foucault pensa la morale come un esercizio della riflessione il cui oggetto è una dinamica che fa sì che si congiungano l’atto, il desiderio e il piacere. È proprio ne L’uso dei piaceri che Foucault ha chiaramente mostrato la connessione di questa triade: il desiderio che porta verso l’atto, poi l’atto legato al piacere e quello che suscita di nuovo il desiderio. Il tutto rimane in una pratica temporalizzata: quella di un presente, cioè di un far presente, in cui due dimensioni sono essenziali; prima di tutto, il fatto della quantità del piacere (frequenza degli atti) e in seguito, la posizione del soggetto (il suo valore attivo). Un’articolazione che mostra come, a contare, è meno l’imperativo etico, nella sua pretesa universalizzante, e di più l’individualizzazione dell’azione, da un punto di vista quantitativo, articolata con l’elaborazione di una vera «pratica di sé» in cui potere e libertà auto-posizionata – soprattutto quella del «dir vero» – acquistano la loro funzione reale, al punto che si provoca questa «métanoia» insieme teoretica e pratica, che lascia apparire una dimensione «spirituale» nell’atto di verità. Il «momento cartesiano» porta, infine, la rottura al suo apice, nella misura in cui il cogito si identifica come una cosa pensante, che esclude la dimensione «spirituale» prima nel senso in cui la intendeva l’antichità, poi nel senso in cui la comprende il medioevo, facendole subire tuttavia una trasformazione importante. A tale riguardo le strutture interne dell’atto di
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conoscenza non sono simili nemmeno al processo degli esercizi spirituali, proprio perché esiste un metodo per cui il processo cognitivo abbandona, secondo Foucault, la sua dimensione pratica e trasformatrice. La «nozione di conoscenza dell’oggetto» si va a «sostituire» a quella di «accesso alla verità», al punto tale che Foucault aggiunge nel corso del 6 gennaio 1982, che «la verità non può più salvare il soggetto» nella misura in cui il dominio della rappresentazione cambia il rapporto rappresentativo del soggetto. La gnoseologia e l’epistemologia hanno trovato il loro padre fondatore, ma esse segnano anche un’autonomia del soggetto. 2. Saggio d’archeologia intra-foucaultiana: «la lacuna bianca» Prima di ritornare su quest’importante lettura e sulle sue multiple poste in gioco, suggerisco di ritornare, per un momento, alle linee guida della tematizzazione annunciata nell’anno 1966, a proposito di quest’«uomo» che doveva scomparire o, più esattamente, di una certa concezione dell’uomo, quella nata nel XIX secolo e ancora presente, malgrado tutto, nella fenomenologia, che doveva sicuramente estinguersi davanti all’avanzata dello strutturalismo. Diciamo subito che questo risalire indietro, nel pensiero foucaultiano, non riguarda tanto il lavoro relativo alla messa in evidenza dell’episteme delle epoche allora studiate da Foucault, quanto, e di più, la volontà di ritornare sulla sua riflessione emergente relativa alla soggettività. Conviene ritornare su questa situazione descritta da Foucault: «appartengo ad una generazione di persone per le quali l’orizzonte della riflessione era stato definito da Husserl in generale, più precisamente da Sartre, più precisamente ancora da Merleau-Ponty. Ed è chiaro che verso gli anni ‘50-‘55 [...] quest’orizzonte per noi si è come ribaltato. Si è bruscamente cancellato e ci si è trovati davanti ad una specie di grande spazio vuoto»3. Così, davanti al mutamento radicale allora in opera nelle scienze umane, i limiti della fenomenologia sono apparsi clamorosamente e l’«uomo» ha cessato di essere il punto di riferimento delle ricerche, ma un uomo, è bene ricordarlo, con cui si intende dopo il XIX secolo, «questo» uomo che deve divenire «oggetto di conoscenza» perché esso diventi «soggetto della 3
M. Foucault, Foucault répond à Sartre (entretien avec J.-P. Elkabbach), in «La quinzaine littéraire», n. 46, 1-15 marzo 1968, pp. 20-22; trad. it. Foucault risponde a Sartre, in Archivio Foucault 1, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano 1996, p. 196.
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propria propria libertà e della sua propria esistenza»4. Ecco, dunque, una formula che ci interessa mettere in esergo per misurarne, secondo me, la radicale dimensione prospettica e l’ampiezza creativa ch’essa racchiude, rispetto a quella che diventerà una «ermeneutica del sé». In questo senso, il progetto delle scienze umane si presenterà come uno studio dei condizionamenti umani, che crede di giungere alla pretesa che queste sveleranno i loro segreti e che, di conseguenza, permetteranno all’uomo di autoprodurre se stesso. Positivismo e marxismo si sono certamente inscritti in quest’attitudine epistemologica, pensando che lo studio della natura e/o della storia permetterebbe di rivelare i meccanismi che consentono all’uomo di governare la propria esistenza. Ora, per Foucault, c’è qui una prevalenza dell’empirico sul trascendentale. In questo quadro, la fenomenologia si è naturalmente costituita come un critica, ma anche come una conferma del progetto delle scienze umane. Una critica perché essa ricorda che il vissuto del soggetto è irriducibile all’oggetto, anche se esso vi si radica, e una conferma, perché questa filosofia s’ispira ancora all’immagine dell’uomo postulata dalle scienze umane, quella che ne fa un «doppio empirico-trascendentale», vale a dire un luogo ambiguo in cui la cosa accede al pensiero, senza tuttavia che la distanza tra la cosa e il pensiero sia pienamente superata. Foucault scrive così: «per il fatto di essere un allotropo empirico-trascedentale, l’uomo è anche il luogo del disconoscimento – di quel disconoscimento che espone sempre il suo pensiero a venir sopravanzato dal suo essere; e che gli consente, ad un tempo, di recuperare se stesso a partire da ciò che gli sfugge [...]. In questa forma, il cogito non sarà pertanto l’improvvisa scoperta illuminante che ogni pensiero è pensato, ma l’interrogazione sempre ripresa al fine di sapere come il pensiero abita fuori di sé e sia tuttavia vicinissimo a se medesimo, come esso possa essere sotto la specie del non pensante. Il cogito moderno riconduce appunto l’intero essere delle cose al pensiero, ma ramificando l’essere del pensiero fin dentro la nervatura inerte di ciò che non pensa».5 È dunque Merleau-Ponty ad essere qui al cuore dell’argomento, poiché secondo lui l’uomo è questo essere empiricamente situato ma che trascende il suo essere situato: è un allotropo empirico-trascendentale. Ma allora, in questo essere ambiguo, chi è che «ha» il primato? L’empirico o il trascendentale? Secondo Husserl, la risposta è netta: è il cogito, scoperta di un pensiero 4 5
Ivi, p. 192. M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie de les sciences humaines, Gallimard, Paris 1966; trad. it. Le parole e le cose. Una archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1976, p. 347; p. 349.
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puro, che deve alla fine fondare insieme il vissuto e l’essere. O, secondo il capovolgimento heideggeriano, il quale sottolinea che la teoria rischia continuamente di disconoscere l’esperienza esistenziale per la quale l’uomo si sperimenta interpellato dall’Essere, Merleau-Ponty penserà di sottolineare continuamente il primato del vissuto sulla scienza e dell’essere sulla coscienza. Tanto che, rinunciando a fondare l’empirico attraverso il trascendentale, si produce l’effetto contrario: il pensiero si sperimenta come sostenuto da un essere che lo oltrepassa e che non può mai riassumere totalmente. Foucault scrive: «Sotto i nostri occhi il progetto fenomenologico non cessa si svolgersi in una descrizione del vissuto, che è empirica suo malgrado e in una ontologia dell’impensato che mette fuori circuito il primato dell’“io penso”»6. In altri termini, il soggetto proposto da Merleau-Ponty è un soggetto mancato: la riflessione è sempre in ritardo in rapporto all’esperienza silenziosa che la deborda da tutte le parti. Essa è, da allora, votata al compito indefinito di dire ciò che si compie in se stessa senza poter sperare di avere mai l’ultima parola. L’uomo, dichiara Merleau-Ponty, è una «piega» che si fa nell’essere ma che può anche ad ogni momento disfarsi. E Foucault aggiunge: «Ed ecco che in tale Piega la filosofia si è assopita in un sonno nuovo; non più quello del Dogmatismo ma quello dell’Antropologia»7. Da allora invece di considerare l’uomo come una ripresa indefinita delle sue proprie condizioni empiriche, Foucault dichiara che occorre riconoscere il fallimento di questo progetto e che, in questa prospettiva, «l’uomo scompare in filosofia, non più come oggetto di sapere ma come soggetto di libertà e di esistenza»8. In tal modo, ciò che permette ancora di prevedere la sparizione dell’uomo è l’irruzione, accanto alle «scienze umane», di tre contro-scienze: la psicanalisi, l’etnologia e la linguistica, tre discipline che mettono in evidenza, ciascuna a suo modo, un «inconscio» che sfugge al soggetto e che gli impedisce di possedersi in tutta trasparenza. Foucault nota: «Laddove tutte le scienze umane avanzano verso l’inconscio solo volgendo a questo le spalle, attendendo che questo si sveli a mano a mano che, come a ritroso, si produce l’analisi della coscienza, la psicanalisi invece punta verso l’inconscio direttamente, deliberatamente, – non già verso ciò che deve esplicitarsi a poco a poco nel rischiaramento progressivo dell’implicito, ma verso ciò che è là e sfugge, che esiste con la saldezza muta di una cosa, di un testo chiuso su se medesimo, o d’una lacuna bianca in un testo visibile, che in tal modo si preserva».9 6 7 8 9
Ivi, p. 351. Ivi, p. 367. M. Foucault, Foucault risponde a Sartre, cit., p. 193. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 400.
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Foucault qui fa allusione alla psicanalisi come l’ha interpretata Lacan, perché quest’ultimo si rifiuta di fare dell’inconscio un pensiero implicito che sarebbe suscettibile di essere tematizzato progressivamente dalla coscienza. L’inconscio è costituito da parti crollate del discorso, esso rassomiglia ai bianchi di un testo e sfugge così alla coscienza. La psicanalisi spossessa il soggetto di se stesso e lo assoggetta ad un altro ordine, quello del discorso. Dal canto suo, «l’etnologia mostra come avvenga nella cultura la normalizzazione delle grandi funzioni biologiche, le regole che rendono possibili o vincolanti tutte le forme di scambio, di produzione e di consumo, i sistemi che si organizzano intorno o sul modello delle strutture linguistiche»10. L’allusione a Lévi-Strauss è manifesta: questi mostra, in effetti, che la cultura è un insieme di regole che presiedono agli scambi degli individui a loro insaputa. Tuttavia, Foucault non confonde l’inconscio individuale della psicanalisi con l’inconscio sociale dell’etnologia, perché questi due inconsci sono come due assi che si incontrano ad angolo retto: «ad ogni istante la struttura propria dell’esperienza individuale trova nei sistemi della società un certo numero di scelte possibili (e di possibilità escluse); inversamente, le strutture sociali trovano in ciascuno dei loro punti di scelta un certo numero di individui possibili (e altri che non lo sono)».11 Si comprende ancora il ruolo essenziale della linguistica in rapporto all’etnologia e alla psicanalisi, nella misura in cui la lingua è un sistema di segni che opera, in ciascuno dei suoi punti, diverse scelte possibili per chi le utilizza (escludendo le altre scelte): «Avremo con la linguistica una scienza perfettamente fondata nell’ordine delle positività esteriori all’uomo (suo oggetto è infatti il linguaggio puro) e che, traversando l’intero spazio delle scienze umane, arriverà al problema della finitudine (infatti solo attraverso il linguaggio e solo in esso il pensiero può pensare: in modo che il linguaggio è in sé una positività che vale come il fondamentale)».12 Foucault appare, in questo senso, come il filosofo che tira le conclusioni di Lévi-Strauss e di Lacan, ma delle conclusioni che sono il risultato di una «archeologia» delle scienze umane il cui fine è di mettere in evidenza i fondamenti sui quali si sono edificate, nella Renaissance (1550-1750), nell’età classica (1750-1800) e nell’età moderna (1800-1950), differenti tipi di sapere (o di episteme), nella misura in cui è solo nell’epoca moderna che l’uomo appare come «oggetto del sapere destinato a diventare soggetto della propria esistenza». In questo senso, l’uomo tale quale viene definito, non esisterebbe 10 11 12
Ivi, p. 404. Ivi, p. 407. Ivi, p. 407.
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nei periodi precedenti ed è da notare che, per Foucault, la successione delle epistemi si effettua in maniera inconscia e discontinua: è in questo senso che parla di archeologia e non di storia, dal momento che quest’ultimo termine richiama una successione continua e cumulativa dei saperi. Se lo si misura idealmente, nelle Parole e le cose questo limite è ancora più sottolineato della conoscenza, vince sull’esistenza e sulla nozione di uomo finito, in tutti i sensi di questo aggettivo. Si ricorderà, a questo punto, che Foucault pone un interessante parallelo tra l’uscita dal sonno dogmatico di Kant e la necessità di uscire dal sonno antropologico, descritto e richiamato ne Le parole e le cose. Non è questo il luogo per fare il bilancio delle discontinuità apportate dal XVIII secolo che si stava chiudendo, secolo in cui il tempo diventa principio organizzatore dello spazio ed elemento che annuncia la non-validità dell’idea di una permanenza dell’umanità, come se la nota tesi di Koyré fosse portata, per ciò che riguarda l’uomo, al suo eccesso, poiché la finitudine dell’uomo è anche la firma della sua impossibile eternità. Comunque sia, Foucault predica il risveglio da questo sonno antropologico, dal momento che l’uomo ha un effetto anestetizzante sulla pratica filosofica, tanto che il gesto critico sarà di indicare la morte dell’uomo, che porta in sé la morte del soggetto unico (soprattutto al livello della ricerca di una soggettività fondatrice o trascendentale) e delle sue attività sintetiche, per aprire verso lo spazio delle pluralità della discorsività, nozione che da allora si dirà al plurale. Con molta finezza, Dekens fa osservare che «il concetto d’uomo ha un effetto narcotico sull’esercizio della filosofia» e che si «potrebbe dire, per seguire la metafora kantiana, che esso mantiene il pensiero in uno stato di minorità confortante, poiché l’uomo assicura il tranquillo mantenimento dell’unità del reale [...] indicare in che cosa l’uomo è morto significa effettuare un nuovo gesto critico che alla maniera del gesto kantiano, libera lo spazio per una analitica della finitudine, al secondo grado, più critico della critica, privo di dialettica umanista»13. O detto altrimenti, «Foucault ci conduce verso un trascendentalismo in cui il soggetto non occupa più il posto del re, ma è situato in un campo che egli non ha stabilito da sé, in cui egli è pensato in ciò che gli dà questo strano privilegio di dirsi da sé soggetto del suo discorso».14 13
14
O. Dekens, L’Épaisseur humaine. Foucault et l’archéologie de l’homme moderne, Paris, éditions Kimé 2000, pp. 25-26. Lo stesso autore nota: « La designazione di un concetto d’uomo come figura dialettica e l’analitica della finitudine che l’accompagna non sono possibili e comprensibili che attraverso una metodologia critica, che elabora degli strumenti attraverso cui comprende il reale che hanno la funzione, nel discorso di Foucault, dell’a-priori, e qualche volta anche di categorie», ivi, pp. 11-12. Ivi, pp. 50-51.
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3. Etica ed «estetica dell’esistenza»: il coraggio del dandysmo Arrivati a questo punto della riflessione, cominciamo col porre un quadro metodologico15 senza perdere di vista il filo conduttore del cammino percorso, che si potrebbe articolare in tre punti. Prima di tutto, si deve notare che il soggetto non è, per Foucault, una sostanza; esso è una forma di cui osservare le costituzioni e le mutazioni storiche. La pratica del sé servirà, allora, a trasformare le forme storiche che sono date. In secondo luogo, la libertà è una pratica storica, legata a questa trasformazione, che permette delle scelte o delle forme di vita. In terzo luogo e come corollario, il soggetto deve definire o circoscrivere ciò su cui deve lavorare, per liberarsi, per trasmutarsi, al fine di pervenire non alla verità, ma ad un «dir vero» per lottare contro tutte le forme di totalizzazione o di potere. In questa misura, non è giustificato dire che la verità non conta per Foucault; in effetti, anche se «il mondo in sé» non esiste (come per Nietzsche d’altronde), Foucault cerca sempre le collusioni del potere e del sapere, i «giochi» del vero e del falso che danno luogo ad una certa logica al mondo. Sono questi ultimi, con i loro poteri propri, che modellano i corpi e i comportamenti, comprese anche le regole morali. Da cui l’interesse di Foucault per le strutture disciplinari e i discorsi loro afferenti che costruiscono la sessualità e i rapporti dei corpi. Ritorneremo su questo punto. Queste tre articolazioni permettono di comprendere che la moralità è dell’ordine di una «pratica di sé» e non di una norma, di un valore, di una legge, cioè di un imperativo. È un sé praticato che si costituisce e poi s’instaura in «soggetto morale» o, più esattamente, «come soggetto morale». In tal misura, il processo segna il momento dell’emergenza dell’«individuo» che è una circoscrizione, un taglio, che diviene precisamente l’oggetto della pratica morale, poi il luogo della definizione d’una posizione in rapporto ad un precetto fissato, per arrivare poi, in seguito, alla messa in opera di un «certo modo d’essere» che diviene il termine del compimento del soggetto, apparso in questo processo. In questo quadro, le prospettive pragmatiche, poetiche, cognitive ed epistemiche si articolano e mostrano la necessità di un controllo, di una prova, di un perfezionamento e di una trasformazione del sé. È in questo senso che Foucault affronta le «tecniche del sé» come «tekhne tou biou», vale a dire come i «modi di vivere»16 – lette nel quadro 15 16
Riprendo qui le analisi di J. Rajcham, Foucault: l’éthique et l’œuvre, in Michel Foucault philosophe. Rencontre internationale, Paris, 9-11 janvier 1988, Seuil, Paris 1989, pp. 254-255. Ho mostrato altrove che l’opera di Pierre Hadot Exercices spirituels et phi-
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di una storia delle mentalità e di una «storia della verità» per cui la nozione di «giochi di verità» conta molto, questi «giochi del vero e del falso», dice Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019
losophie antique (1981; trad. it. Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 2006) è una fonte essenziale per L’uso dei piaceri e La cura di sé (1984). Ma il dialogo tra i due intellettuali è costantemente turbato. In ogni caso, una importante fonte di ispirazione di Foucault si trova in una lettura feconda di Pierre Hadot. Lo si veda per esempio in Usage des plaisirs et techniques de soi, testo pubblicato nel 1983 e ripreso in M. Foucault, Dits et Écrits. 1980-1988, tomo IV, cit., p. 542 (per l’allusione e Pierre Hadot). Tuttavia, ciò che Pierre Hadot chiama «esercizi spirituali», Foucault lo chiama «tecniche del sé» ma, fa notare il primo, che il secondo centra tutta l’impresa sul «sé» e sembra sottovalutare, da un lato, la parte di virtù necessaria alla portata etica di questo lavoro su di sé e, dall’altro, il legame quasi sostanziale tra la ragione umana e la ragione divina, di cui la prima è una parte che deve ritrovare la seconda che la comprende, come il cosmo. Si veda P. Hadot, Réflexions sur la notion de ‘‘culture de soi’’, in Michel Foucault philosophe. Rencontre internationale, Paris, 9-11 janvier 1988, cit., pp. 266-267. In effetti, per Pierre Hadot Foucault manca il rapporto con la saggezza, intesa come un modello di esistenza, secondo tre aspetti o tre criteri. La pace dell’anima come «ataraxia», la libertà interiore come «autarkeia», e la coscienza cosmica come «megalopsuchia», da cui si delinea una dilatazione dell’io che si trasfigura e realizza la sua propria grandezza, nel mondo. Quello che Pierre Hadot non ammette sono queste nozioni di stilizzazione, di estetica dell’esistenza che, secondo lui, sono connotate da un di più di soggettività, di individuazione, di compiacenza introspettiva, e non da un sentimento di appartenenza ad un tutto di cui il soggetto si scopre come parte. Questo stesso rimprovero, che indica una mancanza di razionalità e di universalità, che sia quella del mondo ideale o del Primo motore aristotelico o del Logos stoico, si trova in E. Narducci (Quaderni di Storia, 22, 1985) e M. Vegetti (Foucault et les Anciens, in Critique, 43, 1986, pp. 925-932). Entrambi insistono sull’abisso che separa Foucault dalla lettura del campo della filosofia antica, in particolare nella comprensione del contesto storico (portata scientifica della filosofia, ma anche la sua portata critica di discorso sociale fissata nella Politeia), che è una critica di cui Pierre Hadot non tiene conto, a causa della preminenza della nozione di forma di vita. Pertanto, a questo proposito, alcune considerazioni: la critica di Pierre Hadot (quella di un dandysmo baudelairiano presente in Foucault) non è forse troppo poco documentata sull’opera e il progetto foucaultiano per essere veramente operativa? Non parte, troppo rapidamente, da una forma di apriorismo che confonde estetica ed etica, rimproverando a Foucault un non-pensiero dell’universale, basato su un dandysmo dello spirito? Questo significherebbe non considerare che il dandysmo manifesta la ricerca di una poetica della storia, di un’estetica dell’esistenza, di una messa in evidenza di uno stile di vita che non è sprovvisto della sua parte di ascesi e, per Foucault, di morale, ma nel senso di un «ethos» rapportato al mondo.
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Foucault, «attraverso i quali l’essere si costituisce storicamente come esperienza, cioè come possono e devono esser pensate».17 Tale etica comporta, dunque, certamente, un momento soggettivo ma anche un momento pragmatico, che è quello dell’indagine storica, della sperimentazione, ma fuori da ogni legge o da ogni sanzione, in un senso molto nietzscheano. È quello che Foucault chiama, in modo programmatico ma tardivo, una «ontologia critica di noi stessi come prova storico-pratica dei limiti che possiamo superare, e dunque come lavoro di noi su noi stessi in quanto esseri liberi»18. Come dice bene J. Rajcham: «Foucault non si domandava come le pratiche di sé veicolassero le decisioni di una cultura, ma come poteva accadere che una cultura avesse dato loro una posizione particolare».19 In questa ottica, si ricorderà che il precetto di Delfi va considerato, per Foucault, sotto il punto di vista della cura, prima di essere compreso da quello della conoscenza. È in tal misura che la pratica della cura (di fatto il primo imperativo) informa il rapporto con la verità, poiché è attraverso quest’ultimo che la prima avviene. È un processo di trasformazione, di soggettivazione e di veridizione. Insomma, questa prova del sé provoca una distanza, un raddoppiamento nel sé, che è quello di un soggetto che si mette alla prova e si osserva alla presenza effettiva di questa prova, con le trasformazioni afferenti all’incoatività della prova. Quest’uso etico è meno quello della fase riflessiva, ben nota in una certa corrente della filosofia francese, e più quello della fase produttiva della soggettività dove la problematizzazione del sé e l’interrogazione sulle capacità del sé sono essenziali nell’elaborazione di una criteriologia o di un protocollo della costruzione di questo sé. C’è dunque un raddoppiamento incoativo del sé, portato all’infinito, operato attraverso la prova che produce la soggettività, facendo della «vita» non un dato, ma un continuum, un processo sperimentato, senza fine. È tutto il tema del «bios» nel senso foucaultiano. Foucault è chiaro su questo punto: «sì, io scrivo una genealogia dell’etica. La genealogia del soggetto come soggetto delle azioni etiche e la genealogia del desiderio come problema etico. Se prendiamo l’etica nella filosofia greca classica o nella medicina, quale sostanza etica scopriamo? Sono gli aphrodisia che sono nello stesso tempo gli atti, il desiderio 17 18
19
M. Foucault, Usage des plaisirs et techniques de soi, in Dits et Écrits, 19801988, tomo IV, cit., p. 542. M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières?, in P. Rabinow, The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, pp. 32-50 (cfr. Dits et Écrits, tomo IV, t. 339, cit., pp. 563-578; trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 229. J. Rajcham, Foucault: l’éthique et l’œuvre, in Michel Foucault philosophe. Rencontre internationale, Paris, 9-11 janvier 1988, cit., p. 253.
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e il piacere. Qual è il modo dell’assoggettamento? È l’idea che occorre fare della propria esistenza un’esistenza bella; si tratta di un modo estetico».20 È, in ogni caso, in questo senso che Foucault pensa la priorità dell’«epimeleia heautou» sullo «gnothi seauton» e considera che la scomparsa del primo aspetto, a vantaggio del secondo, segna la rottura epistemica nel rapporto della «filosofia», cioè una «forma di pensiero che si interroga, non su ciò che è vero o falso, ma su ciò che fa sì che ci possa essere vero e falso», con la «spiritualità», cioè «la ricerca, la pratica, l’esperienza attraverso la quale il soggetto opera su se stesso delle trasformazioni necessarie per aver accesso alla verità».21 20 21
M. Foucault, A propos de la généalogie de l’éthique: un aperçu du travail en cours, in Dits et Écrits, cit., tomo IV, p. 397. Si veda su questo punto M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Gallimard, Seuil 2001, p. 443 e sg. (trad. it. L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003, sprt. pp. 410-436). Bisogna qui citare una bella analisi di Béatrice Han: «Secondo Foucault, il primo momento della soggettività, cioè l’Antichità greca e romana, si caratterizza per una impossibilità di dissociare filosofia e spiritualità. “Dopo Platone, dopo questo Alcibiade fondatore, agli occhi della tradizione platonica, di tutta la filosofia, si pone la domanda seguente: a quale prezzo posso avere accesso alla verità? ...Qual è l’elaborazione che devo fare di me, quale è la modificazione di essere che devo effettuare per potere avere accesso alla verità?”. Il modo di soggettivazione proprio dell’Antichità presenta dunque una doppia caratteristica: in primo luogo, l’idea che un soggetto di conoscenza atemporale e staccato, capace di conoscere obiettivamente e fuori contesto, non esiste. Correlativamente, il soggetto non è come tale oggetto di conoscenza; la “conoscenza di sé” alla quale Socrate invita non è una conoscenza dell’individuo nelle sue particolari idiosincrasie, né una conoscenza del soggetto nelle sue determinazioni empiriche. Questa conoscenza di sé rivela tutt’altro ordine, essendo conoscenza metafisica dell’intelligibile nel sensibile, dell’anima nel corpo: ‘la conoscenza del divino è la condizione della conoscenza di sé’, non si tratta mai di un sapere dell’individuale come oggetto di conoscenza. Così “la questione del rapporto tra soggetto e conoscenza, credo che, spontaneamente, noi la poniamo nella seguente forma: ci può essere una obiettivazione del soggetto? [...] In questa cultura di sé dell’epoca ellenistica e romana, quando si pone la questione del rapporto tra soggetto e conoscenza, non si pone mai la questione di sapere se il soggetto è obiettivabile, se si può applicare al soggetto lo stesso modo di conoscenza che si applica alle cose del mondo”. La seconda caratteristica della soggettivazione antica è l’idea di una circolarità tra trasformazione del sé e accesso alla verità, attraverso la quale si definisce la correlazione tra spiritualità e filosofia. Siccome l’individuo allo stato naturale non si qualifica come soggetto di conoscenza, si deve trasformare da sé e rendersi degno della verità. Ma inversamente, questa trasformazione di sé è facilitata e
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4. Il caso del cristianesimo come antinomia: il sesso passato al setaccio A tal riguardo, è interessante osservare come Foucault ha preso in considerazione il modo in cui il cristianesimo ha investito il campo della cultura, influendo sulle visioni del corpo e le espressioni della sessualità (intesa come dispositivo storico)22. Scrive così: «al posto di chiedersi quali sono gli elementi del codice che il cristianesimo ha potuto riprendere dal pensiero antico e quali sono quelli che ha aggiunto per conto suo, per definire quello che è permesso e quello che è vietato nell’ordine di una sessualità, supposta costante, converrebbe domandarsi come, sul piano della continuità il trasferimento o la modificazione dei codici, le forme del rapporto a sé (e le pratiche di sé che sono loro legate) sono state definite, modificate, elaborate e diversificate [...] forse gli uomini si trovano di più nell’ordine degli in-
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accelerata dalla rivelazione del vero. Per esempio il saggio platonico, per poter raggiungere la conoscenza, deve purificarsi per mezzo di pratiche ascetiche; con questo mezzo, arriverà alla contemplazione del mondo intelligibile e avrà l’intuizione della sua vera natura come anima (in opposizione alla prigione del corpo). Ma come contrappunto questa rivelazione giustificherà le pratiche ascetiche e le renderà più facili da applicare, facilitando così di nuovo la contemplazione [...]. La conoscenza del vero non è dunque compresa in modo puramente gnoseologico, ma come l’operatore di una trasformazione di sé; e al contrario, solo il soggetto che si trasforma da sé potrà arrivare al vero [...]. Per un certo verso, il modo di soggettivazione antico forma un’antitesi esatta della struttura antropologica: essa è caratterizzata, da una parte dalla definizione immediata del soggetto trascendentale come soggetto di conoscenza a priori e, d’altra parte, dal raddoppiamento del trascendentale nell’empirico proprio alle figure dell’originario. Come vedremo, la soggettivazione antica opera su dei presupposti esattamente inversi: da una parte, il soggetto nel suo stato naturale è incapace di conoscere, a meno che non si rende ‘degno della verità’, poiché la formazione stessa della conoscenza non è compresa come un processo di ordine epistemologico né come un fine in sé ma come una trasformazione spirituale del sé da parte di se stessi, una ‘conversione’. Per un altro verso, il soggetto come tale non è considerato come oggetto di una possibile conoscenza: così “laddove noi moderni pensiamo alla questione ‘obiettivazione possibile o impossibile del soggetto in un campo di conoscenze’, gli Antichi pensavano ‘costituzione di un sapere del mondo come esperienza spirituale del soggetto’». B. Han, Analytique de la finitude et histoire de la subjectivité, in Foucault au Collège de France: un itinéraire, a cura di G. le Blanc e J. Terrel, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux 2003, pp. 184-186. Si veda per esempio il testo Usage des plaisirs et techniques de soi, in Dits et Écrits, 1980-1988, tomo IV, cit., pp. 539-560.
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terdetti che in quello dei piaceri»23. È, in ogni caso, sotto l’angolatura della confessione che il «problema» viene mantenuto dal cristianesimo. Questa è, secondo Foucault, una confessione in tutti gli usi del termine, e obbliga a delle pratiche e a dei rapporti di verità, in cui fede e dogmi congiungono la «cura animarum», al posto delle cure della vita spirituale. Per Foucault, nella confessione dei peccati, il credente – che non è mai solo ma preso in un sistema (catalogo dei peccati e delle penitenze, tradizioni morali, ecc.) che lo precede e in una relazione di potere (l’obbedienza) con il confessore – costruisce la propria soggettività, i suoi fantasmi, i suoi desideri, le sue azioni, in una messa in discorso. Egli crea, su di sé, degli oggetti di sapere, e opera una partizione tra forze del bene (Dio) e forze del male. In questo senso, l’«epimeleia heautou» diventa una «epimeleia ton allon», questa cura degli altri che è al cuore delle pratiche pastorali. Ma, secondo Foucault, il cristianesimo, con la sua morale e i suoi sistemi repressivi, fa anche del soggetto un soggetto di desideri controllati, dal momento che egli è detentore di una morale a pretesa universale, che ha origine in una morale immanente al suo momento di apparizione ma anche in una legge divina organizzata istituzionalmente. Pertanto, secondo Foucault, pensare che l’austerità sessuale sia il frutto del cristianesimo è un errore di interpretazione, nella misura in cui esso dà un senso nuovo a delle pratiche che lo precedono. Egli scrive così: «ma la pretesa morale cristiana non è nient’altro che un frammento d’etica pagano introdotto nel cristianesimo»24. Anche l’Antichità conosceva i suoi sistemi di repressione, ma l’autonomia del soggetto resta meglio demarcata, com’è noto, attraverso il lavoro di sé su di sé. Si potrebbe dire che se l’Antichità insegna, con l’esercizio, un’estetica dell’esistenza, il cristianesimo mette in opera una rinuncia del sé e perciò un processo di «soggettivazione». Si tratta di dirsi bene, di mostrarsi secondo la verità, dunque di pervenire anche ad una obiettivazione del sé attraverso il sé, da sé attraverso sé, per arrivare ad una verità del sé, che si produce secondo rapporti complessi con gli altri e attraverso le forze sopra-soggettive che sono quelle di Dio e del diavolo25. In questo senso, si può misurare come la «tecnica 23 24 25
Ivi, p. 560. M. Foucault, Sexualité et solitude, in Dits et Écrits, 1980-1988, tomo IV, cit.; trad. it. Sessualità e solitudine, in Archivio Foucault 3, cit., p. 150. Si potrebbe qui indicare la distinzione che Foucault fa, per esempio, tra Marco Aurelio e Cassiano, giocando sullo statuto della rappresentazione e in particolare della sua origine. Così Cassiano pone la questione della provenienza della rappresentazione: essa viene da Dio o è dia-bolica? Si assiste allora all’apparizione di una psicologizzazione e, sottolinea Foucault, si constata
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di sé» diviene, nel regime cristiano, un deciframento di sè, tanto che ciò che esso chiama la «sostanza etica» non è più costituita dagli «aphrodisia», ma attraverso le nozioni di desiderio, di concupiscenza, di carne, di discernimento di sé, dunque del dubbio sulla provenienza degli elementi, ecc. Foucault fa così osservare: «questo nuovo io cristiano doveva essere esaminato costantemente poiché questo io ospitava la concupiscenza e i desideri della carne. A partire da questo momento, l’io non era più qualcosa che bisognava costruire, ma qualcosa a cui bisognava rinunciare e che bisognava decifrare. Di conseguenza, tra il paganesimo e il cristianesimo, l’opposizione non è tra la tolleranza e l’austerità, ma tra forme di austerità che sono legate ad una estetica dell’esistenza e forme d’austerità che sono legate alla necessità di rinunciare a sé, nella decifrazione della propria verità».26 Secondo questa analisi, che gli è propria, Foucault mostra bene come il cristianesimo riprende delle pratiche che lo precedono, ma introducendo una rottura tra desiderio e piacere, cercando, da una parte di purificare il desiderio (cioè di farlo passare per le tecniche di discernimento) e dall’altro lato, di fare dell’austerità (motore decisivo della pratica degli esercizi spirituali) un fine in sé. Egli dichiara quanto segue: «Sant’Agostino chiama ‘libido’ il principio del movimento autonomo degli organi sessuali. È così che il problema della libido – della sua forza, della sua origine, dei suoi effetti – diventa il principale problema della volontà. La libido non costituisce un ostacolo esterno alla volontà; essa ne è parte, una componente interna. La libido non è neppure la manifestazione di desideri mediocri; è il risultato della volontà, allorchè essa supera i limiti che Dio le ha inizialmente fissato. Di conseguenza, ingaggiare una lotta spirituale contro la libido non significa che dobbiamo, come in Platone, volgere il nostro sguardo verso l’alto e richiamare alla memoria la realtà che abbiamo un tempo conosciuto e poi dimenticato. La nostra lotta spirituale deve consistere, al contrario, nel volgere senza sosta il
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che il soggetto ha per compito di «obiettivarsi in un discorso vero». Ugualmente non mancheremo di ricordare come lo storico delle mentalità insiste sul legame tra esercizi spirituali, conoscenza di sé, confessione su di sé (vale a dire la produzione di un discorso vero su di sé destinato ad un altro che diventa direttore di coscienza) e confessione di sé. C’è un ricentramento sul sé che assume le forme di un egocentrismo della coscienza e lega questo sé ad un necessario accesso al vero, invece il movimento greco rimane nei limiti fissati dall’analitica della finitudine. M. Foucault, A propos de la généalogie de l’éthique: un aperçu du travail en cours, in Dits et Écrits, cit., tomo IV, p. 406.
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nostro sguardo verso il basso o verso l’interno, allo scopo di decifrare, tra i movimenti dell’anima, quelli che provengono dalla libido. [...] per di più, questo compito richiede non soltanto una certa padronanza, ma anche una diagnosi della verità e dell’illusione. Esso esige una costante ermeneutica del sé. [...] non è la capacità di restare padrone di sé, persino in presenza degli esseri più desiderabili, a costituire la purezza; questa consiste nello scoprire la verità dentro di sé, nello sventare le illusioni che si manifestano dentro di sé, nel sopprimere le idee e i pensieri che lo spirito produce continuamente».27 5. Conclusione: vivere la soggettività fuori da tutte le provenienze Per concludere, diciamo che Foucault ci conduce verso l’esigenza etica della «parrhesia» greca, nella misura in cui essa congiunge il dire e il fare, il parlar franco e il vero, il sé e l’alterità, la legge morale rapportata alla libertà e al dovere, ma anche ad una pratica rischiosa e personale del rapporto con la verità, articolata su una trasformazione e su una trasfigurazione esistenziale. La nozione di franchezza e di rapporto non sofistico con il linguaggio appare allora decisiva, come quella del rapporto tra opinione e verità, tra implicazione e ricerca della sincerità. In questo caso, la «parrhesia» offre al soggetto di configurarsi eticamente perché essa richiede che egli si dica in modo franco e libero, per arrivare così ad una «etica effettiva della verità». Essa offre un criterio di eticità del soggetto ed una nuova soggettività etica, di cui non si deve sottovalutare la portata intersoggettiva poiché essa è, secondo Foucault, una «eto-poietica». La «parrhesia» è uno stile di vita, un’estetica, e una pratica veritativa che non rifiuta lo scandalo, da cui, d’altronde, l’interesse di Foucault per le pratiche dei Cinici che egli legge come espressione di una nudità, pratica certo, ma soprattutto esistenziale, quella del viver-vero. Frédéric Gros l’ha ben compreso, quando scrive: «l’etica cinica della parrhesia è una messa alla prova della vita attraverso la verità: si tratta di vedere fino a quale punto delle verità sopportano di essere vissute, e di fare dell’esistenza il punto di manifestazione intollerabile della verità. Forse ci sono due sensi profondamente differenti di verità, ai quali Foucault rimane irriducibilmente attaccato: la verità come regolarità e struttura armonica; la verità come rottura e scandalo intempestivo. Due estetiche dell’esistenza, due stili molto differenti di coraggio della verità: il coraggio di trasfor27
M. Foucault, Sessualità e solitudine, cit., pp. 152-153.
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marsi lentamente, di mantenere uno stile in una esistenza mobile, di farlo durare; il coraggio, più puntuale e più intenso, della provocazione, quello di far esplodere attraverso la propria azione delle verità che tutti sanno ma che nessuno dice, o che tutti ripetono ma che nessuno si impegna a far vivere, il coraggio della rottura, del rifiuto, della denuncia. In questi due casi, non si tratta della fondazione di una morale che ricerca il bene e si allontana dal male, ma dell’esigenza di un’etica che persegue la verità e denuncia la menzogna. Questa non è una morale da filosofo, è un’etica dell’intellettuale impegnato».28 Di certo, queste pratiche non sono, per Foucault, destinate a creare un legame tra il soggetto e la verità, o a fare del soggetto (o dell’anima) il luogo di una verità, insomma a porre le basi di una «ermeneutica del soggetto» o di un «deciframento della verità». Si tratta piuttosto di acquisire delle verità apprese, dei «discorsi veri», senza interrogarsi, come preconizzava il cristianesimo, sulla provenienza di certe idee, per farne il discernimento e integrarle in uno statuto ontologico in cui il controllo delle rappresentazioni assume un’importanza decisiva. Ora, se è così, e rispetto alle osservazioni avanzate nella nostra analisi de Le parole e le cose, si potrebbe avanzare l’ipotesi che tutta l’opera di Foucault resti uno studio di un’ampiezza unica, e forse ineguagliabile, della soggettività, ma in un senso molto preciso: «[...] studiare la costituzione del soggetto come oggetto per se stesso: la formazione delle procedure con cui il soggetto è portato ad osservare se stesso, ad analizzarsi, a decifrarsi, a riconoscersi come un ambito di sapere possibile. Si tratta insomma della storia della “soggettività”, intendendo con questo termine il modo in cui il soggetto fa l’esperienza di se stesso in un gioco di verità in cui è in rapporto con se stesso».29 Ricorderò, infine, che Foucault amava citare questo testo di Epicuro: «non è mai troppo presto né troppo tardi per prendersi cura della propria anima. Si deve dunque filosofare quando si è giovani e quando si è vecchi». Per commentarlo subito: «si deve essere per se stessi e per tutta la vita, il proprio oggetto. Da ciò deriva l’idea della conversione a sé (ad se convertere), l’idea di un movimento dell’esistenza con cui si fa un ritorno
28 29
F. Gros, La parrhêsia chez Foucault (1982-1984), in Foucault, Le courage de la vérité, a cura di F. Gros, Puf, Paris 2002, pp. 165-166. M. Foucault, «Notice ‘‘Foucault’’ pour le Dictionnaire des philosophes de Huisman», in Dits et Écrits, cit., tomo IV, p. 633; trad. it. Foucault, in Archivio Foucault 3, cit., p. 250.
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a se stessi (eis heauton epistrephein)»30. Non c’è forse qui un programma pienamente realizzato, forse non compiuto, ma di cui ci restano da assumere tutte le virtualità che esso nasconde, alcune secondo il movimento di una certa filosofia che muore, ma altre secondo un’altra che nasce o che emerge, dipende?
30
M. Foucault, L’herméneutique du sujet, in Dits et Écrits, cit., tomo IV, pp. 354-356; trad. it. L’ermeneutica del soggetto, in M. Foucault, I corsi al Collège de France. I Résumés, Feltrinelli, Milano 1999, p. 109.
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15 VITA E CONCETTO di Maurizio Zanardi
1. Una linea di demarcazione La vie: l’expérience et la science1 è l’ultimo testo cui Foucault poté dare l’imprimatur. Pubblicato sulla “Revue de métaphysique et de morale” del gennaio-marzo 1985, il testo è una modificazione della prefazione che Foucault aveva scritto per la traduzione americana de Il normale e il patologico di Georges Canguilhem. A Foucault, assai provato dalla malattia, non riuscì di scrivere un nuovo testo in onore del suo maestro. Ma quello pubblicato resta uno scritto di straordinaria importanza. Un testo importante e sorprendente. Importante perché sorprendente. Ancora una volta, non è la prima volta, quella potente macchina di invenzione concettuale che va sotto il nome di “Michel Foucault” sembra aprire un ignoto campo di indagine: formula un nuovo problema, delinea con pochi ma intensi tratti il piano su cui dovrà essere teoricamente affrontato, offre alcuni materiali e indicazioni per una nuova costruzione di pensiero. Nello tesso tempo, l’apertura del nuovo campo di indagine sembra corrispondere alla profonda vocazione del programma di lavoro di Foucault2 e alla 1 2
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, in Archivio Foucault, vol. 3, a cura di A. Pandolfi, trad. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 317-328. La materia del pensiero di Foucault, quella con cui entra in contatto, è discontinua, costituita, come si sa da L’ordine del discorso (trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1972), dalla produzione aleatoria dei discorsi – non c’è un logos “continuo” che “duri” in tutti i discorsi e li riduca all’unità del suo senso – e dalle procedure che, dall’esterno e dall’interno dei discorsi stessi,
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piega che ha preso, a partire dagli anni ottanta, in direzione di un’ontologia dell’attualità. Giorgio Agamben ha giustamente notato che «l’ultimo testo che Michel Foucault e Gilles Deleuze hanno pubblicato prima di morire ha, in entrambi i casi, al suo centro il concetto di vita» e che «questa coincidenza testamentaria (in un caso e nell’altro si tratta, infatti, di qualcosa dell’ordine di un testamento) va al di là della segreta solidarietà fra due amici».3 Un unico problema, dunque: la vita. Due modi di pensarlo. È sul modo foucaultiano che intendo soffermarmi. Che io sappia, il modo deleuziano è stato più lungamente, da Agamben stesso ad esempio, commentato e sviluppato. Quello foucaultiano mi sembra, invece, una miniera ancora in gran parte inesplorata. La vie: l’éxperience et la science è un testo teso e violento. Teso per le forze, le direzioni e le istanze eterogenee che lo attraversano; violento per la nettezza dei tagli che opera. Non è un testamento sereno. Il suo lascito reclama, per chi vorrà farlo proprio, una presa di posizione, una decisione nel campo della filosofia. Quale decisione e perché è necessario decidersi? Qual è la posta, la “cosa”, in gioco? Perché la cosa richiede “decisione”? La posta in gioco, come suggerisce il titolo del testo, sembra essere la vita, ma la vita richiede, come si vedrà, che ci si decida per il “sapere”, la “razionalità”, il “concetto”. Hegelismo di Foucault? Foucault che si decide per la decisione già presa da Hegel? Astuzia di Hegel nei confronti di chi nella lezione inaugurale (2 dicembre 1970) al corso del Collège de France dichiarava che la sua analisi del “discorso” era «ben poco fedele al logos hegeliano», pur non nascondendosi, bisogna ricordarlo, che il «cammino con il quale ci si scosta da Hegel» finisce per ricondurci a lui in altro modo? La decisione per il concetto che ci viene lasciata in eredità da Foucault finisce col misurare quanto il ricorso contro Hegel «sia ancora, forse, un’astuzia ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile
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tentano di scongiurare e padroneggiare i pericoli e i poteri dell’alea. E poiché il discorso è ciò attraverso cui e per cui si lotta, la posizione di Foucault non si limita ad una ricostruzione della storicità dei discorsi ma si impegna in una affermazione del caso, ossia di ciò che non solo inaugura la specificità dei discorsi ma continua ad aggirarsi in essi, minacciandoli dall’interno. Una tale materia obbliga perciò nello stesso tempo a una genealogia dei discorsi e a un’invenzione concettuale capace di “cogliere” e sostenere, per amore del caso, gli “eventi discorsivi” che vengono a interrompere le strutture del discorso. G. Agamben, L’immanenza assoluta, in La potenza del pensiero, Neri Pozza, Milano 2005, p. 377.
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e altrove»? L’eredità di Foucault è il trasferimento, in altra forma, dell’eredità di Hegel? Insomma, il tentativo di «sfuggire realmente a Hegel» – che Foucault si proponeva, in accordo con la lezione di Hyppolite, come uno degli esiti del suo programma di lavoro4 – è definitivamente fallito? Non credo. Anzi, proprio la ripetizione di temi tipicamente hegeliani – la vita, il sapere, la razionalità, il concetto – finisce col sottrarre il testo di Foucault alla presa di Hegel. Del resto, non si sfugge ad Hegel fuggendo i suoi temi o semplicemente rovesciandone la logica: un’altra idea della vita e del concetto, dunque anche della filosofia, è necessaria. La cosa notevole è che Foucault fa leva sulla storia della biologia di Canguilhem, e sulla filosofia della vita che vi è implicita, per far avanzare la relazione tra una nuova definizione della vita e l’ontologia dell’attualità, ossia quell’ontologia che si contrappone alle filosofie della vita che si identificano con l’esperienza-intuizione del senso o significato “interiore” della vita, del “vitale” come unità esplosiva, differenziante e divergente, della vita che si tratterebbe di liberare dalle operazioni “intellettuali”, pratiche e concettuali, che ne solidificano lo “slancio”. Proprio in nome della vita Foucault mi pare intenda invece promuovere: 1) una teoria non vitalista della vita; 2) una vitalità del concetto (una vitalità della filosofia come invenzione di concetti), perché vitalismo e necessità del superamento del concetto si tengono strettamente nelle filosofie della vita; 3) un primato dell’attualità come “errore” della vita, in cui la vita rivela la sua specifica “capacità”. (Sebbene il terzo punto sia nell’esposizione di Foucault l’ultimo, esso va considerato logicamente il primo. È l’attualità a illuminare la vita e reclamare il concetto, e non la Vita ad anticipare il senso dell’attualità e a spiegare la genesi del concetto). Che siano queste le esigenze in cui si articola il desiderio di Foucault, lo mostra la violenza con cui nel testo viene tracciata una netta linea di demarcazione tra la filosofia di Canguilhem e quella di Sartre e MerleauPonty. Dopo aver segnalato che l’importanza del ruolo della filosofia nelle discussioni politiche e scientifiche in Francia negli anni sessanta non è separabile dall’insegnamento del Canguilhem storico della scienza biologica – al punto tale che, «se si cancella Canguilhem», quasi nulla si comprende delle discussioni tra i marxisti francesi, della specificità della sociologia di Bourdieu, di Castel e Passeron, e finanche di «una parte del lavoro teorico compiuto dagli psicoanalisti e, in particolare, dai lacaniani» – , Foucault passa a considerare la linea di demarcazione, la divisione fondamentale, che ha attraversato tutte le contrapposizioni intellettuali in Francia a partire 4
Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., pp. 54-60.
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dalla fine della guerra, e al cui tracciato Canguilhem ha contribuito in modo assai significativo, ma senza clamore, quasi silenziosamente: ...mi sembra che si potrebbe ritrovare un’altra linea di demarcazione che attraversa tutte queste contrapposizioni. È quella che separa una filosofia dell’esperienza, del senso e del soggetto, da una filosofia del sapere, della razionalità e del concetto. Da una parte, la filosofia di Sartre e di Merleau-Ponty; dall’altra, quella di Cavaillès, di Bachelard, di Koyré e di Canguilhem. Probabilmente questa divisione ha origini lontane e se ne potrebbe seguire la traccia lungo tutto il XIX secolo: Bergson e Poincaré, Lachelier e Couturat, Maine de Biran e Comte.5
Dunque, Canguilhem militerebbe nel campo opposto a quello di Bergson. La nettezza di una tale demarcazione è quantomeno singolare, se solo si considera il profondo interesse per la filosofia di Bergson e l’esplicita adesione ad alcune delle tesi dell’Evoluzione creatrice – proprio quelle relative al “significato” della vita – che Canguilhem manifesta nel corso tenuto ai suoi studenti dell’Università di Strasburgo6. Il corso si svolge nel 1942, mentre Canguilhem lavora al Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico che porta a termine l’anno successivo. E proprio in quel testo non è difficile rintracciare le affinità con la filosofia di Bergson. Ad esempio: la concezione della vita come «potenza dinamica di oltrepassamento». O ancora: la teoria dello «sforzo spontaneo» con cui la vita lotta «contro ciò che costituisce un ostacolo al suo mantenimento e al suo sviluppo intesi come norme». Insomma, il tema della «norma fondamentale», del finalismo operativo della vita: la vita come «polarità dinamica» che si attua come invenzione di forme e loro sfondamento, o liquidazione, per re-agire all’infedeltà dell’ambiente.7 In un tale quadro la demarcazione stabilita da Foucault è sintomatica del suo pressante desiderio di separare Canguilhem, e la filosofia che ha avuto a che fare con il suo insegnamento, da ogni derivazione da quella ontologia della vita, della vita come Tutto, tutto vivente, che ha in Bergson il suo fondatore. L’avanzamento di una filosofia del sapere, della razionalità e del concetto, nel cui solco Foucault vuole collocare il lavoro e l’influenza di Canguilhem, non può non marcare la più grande distanza dalla filosofia 5 6 7
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, cit., p. 318. Cfr. G. Canguilhem, Commento al terzo capitolo dell’“Evoluzione creatrice”, in G. Deleuze, G. Canguilhem, Il significato della vita, a cura di G. Bianco, Mimesis, Milano 2006, pp. 53-96. Cfr. G. Canguilhem, Il normale e il patologico, a cura di M. Porro, Einaudi, Torino 1998, pp. 90-118.
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che interpreta il concetto come costitutivamente incapace di penetrare il significato, il reale, della vita. Proprio nell’Evoluzione creatrice Bergson aveva sferrato il suo attacco filosofico al “concetto”. Un attacco che non disconosceva la “necessità” del concetto ma se ne proponeva il superamento. Non potendo qui ricostruire i passaggi dell’argomentazione di Bergson8, vorrei almeno ricordare che per lui il concetto, come la scienza, appartiene all’ambito dell’azione. Per dirla in breve, il concetto non è di natura speculativa: non vede per vedere; vede per rispondere agli interessi della pratica. Il concetto non vede la vita dall’interno, nella sua durata, come tempo, ma dall’esterno, come estensione, al fine di estendere la nostra azione sulle cose. Il concetto è una forma di adattamento: opera dei tagli nella continuità del divenire per produrre un’azione utile. L’azione ha bisogno dell’appiglio offerto da ciò che è solido. Il concetto offre una “presa” all’azione solidificando lo slancio incessante della vita. Da questo punto di vista, il concetto fissa, e dunque uccide, l’interiorità della vita. L’operazione stabilizzatrice del concetto, il suo carattere “intellettuale”, è però pur sempre un prodotto dello slancio vitale. Il concetto è, per così dire, natura naturata. La filosofia, come visione dall’interno della vita – pensiero non concettuale, “metafisica” senza concetto – ha il compito di disfare quel “fatto” che è il concetto, di sciogliere la sua solidità nel flusso che pure gli ha dato origine. Se il concetto è una “caduta” del vitale, la filosofia lo riconduce all’onda creatrice e ascendente della vita da cui proviene. La filosofia riconduce l’“evoluto” all’evoluzione. Essa è parte dello slancio con cui la vita oltrepassa, destabilizza, l’utile illusione della stabilità, della realtà della forma, dell’identità. La filosofia non appartiene all’ambito “intelligente” della scienza. In quanto pura speculazione della vita, vita colta «dall’interno» attraverso «un superiore sforzo di intuizione», la filosofia ri-apre alla creazione, all’attività originaria: «Così intesa, la filosofia non è soltanto il ritorno dello spirito presso di sé, il coincidere della coscienza umana con il principio vivente da cui emana, una presa di contatto con lo sforzo creatore. Essa è l’approfondimento del divenire in generale, il vero evoluzionismo e quindi il vero prolungamento della scienza [...]».9 L’elogio foucaultiano del concetto non può trovare un alleato in una tale filosofia della vita. Da qui l’esigenza di separare con forza, con violenza, Canguilhem da Bergson, Canguilhem da Canguilhem, visti i motivi berg8 9
Cfr. al riguardo i capitoli III e IV di Henri Bergson, L’evoluzione creatrice, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005, pp. 155-300. Ivi, p. 300.
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soniani che ne attraversano la filosofia. Si tratterà allora di trovare in Canguilhem gli elementi che lo strappano ad una filosofia del senso, dell’esperienza, del soggetto, perché in gioco è, come sentiremo, il rapporto con il presente, con l’attualità. Riconducendo all’esperienza dell’originario, anche se si tratta di un originario che non abbandona il presente, perché continua a rappresentarne il senso, quella filosofia separa dal presente e non sembra obbligare alla “lotta”, come fa invece la filosofia del sapere, della razionalità, del concetto: Apparentemente, la seconda è rimasta, allo stesso tempo, più teorica, più ancorata a dei compiti speculativi e anche più distante dagli interrogativi politici immediati. E, tuttavia, è quella che, durante la guerra, ha preso parte, e in modo molto diretto, alla lotta, come se la questione del fondamento della razionalità non potesse essere dissociata dall’interrogazione sulle condizioni attuali della sua esistenza. È anche quella che, nel corso degli anni sessanta, ha avuto una parte decisiva in una crisi che non coinvolgeva semplicemente l’Università, ma lo statuto e il ruolo del sapere. Ci si può domandare perché un simile tipo di riflessione si sia trovato, seguendo la sua logica peculiare, così profondamente legato al presente.10
Riassumendo: nel movimento di idee che ha preceduto e seguito il ’68 la filosofia ha avuto in Francia un ruolo importante. Ma l’ha avuto secondo due “trame” tanto eterogenee da poter essere separate da una netta linea di demarcazione. Una di queste due forme di pensiero, quella apparentemente più votata alla speculazione, e perciò più lontana dagli «interrogativi politici più immediati», è stata quella che ha preso parte alla lotta durante la guerra e ha avuto un ruolo fondamentale nella crisi dello statuto e del ruolo del sapere negli anni sessanta. Un tale prender parte alla lotta e aver parte nella crisi del sapere, un tale esser-parte-in-lotta, non è avvenuto per caso. Il prender parte è stato una necessità logica. Proprio «seguendo la sua logica peculiare» la forma di pensiero incentrata sul sapere, la razionalità, il concetto, si è trovata legata al presente. Canguilhem storico della biologia e della medicina sta da questa parte, dalla parte di chi prende parte. Sappiamo, infatti, della sua partecipazione alla Resistenza. Ma Foucault ci dice che fu per logica che si prese parte. Quale logica attraversa, dunque, la filosofia del sapere, della ragione e del concetto? Perché essa conduce irresistibilmente al prender parte nel presente, diversamente dall’altra filosofia? Perché obbliga alla decisione che espone e alla critica del sapere? Perché proprio una filosofia del sapere e 10
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, cit., pp. 318-319.
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della ragione impone la messa in crisi dello statuto del sapere? Perché una filosofia del concetto prende parte alla lotta e non semplicemente contempla il concetto della lotta, la lotta come divenire del concetto? 2. Logica e lotta In verità, già Canguilhem aveva usato la “logica” per spiegare l’impegno nella Resistenza del filosofo e matematico Jean Cavaillès (che abbiamo visto citato da Foucault come uno dei nomi militanti nel campo del concetto): «Cavaillès è stato resistente per logica»11. Commentando questo giudizio di Canguilhem sulla scelta di Cavaillès, ma si potrebbe dire la stessa cosa per scelta di Canguilhem, Alain Badiou ha scritto: In quel “per logica” si regge la connessione tra il rigore filosofico e la prescrizione politica. Non sono la preoccupazione morale o, come si dice, il discorso etico ad aver prodotto, a quanto pare, le figure più grandi della filosofia come resistenza. Il concetto sembra essere stato in materia una guida migliore della coscienza o della spiritualità [...].12
E ancora: Il “per logica” di Canguilhem deve intendersi come un doppio scarto. Prende le distanze da un “per necessità sociale” che dissolverebbe la scelta in rappresentazioni collettive apprendibili dalla sociologia storica. Si allontana inoltre da un puro imperativo morale che dissolverebbe la scelta in disposizioni dottrinali esterne alla situazione in questione. In realtà, la scelta non trova la sua intelligibilità né nel collettivo oggettivo né in una soggettività d’opinione, ma in se stessa, nel processo sequenziale dell’azione, proprio come un assioma non è intelligibile che attraverso il dispiegamento della teoria che esso sostiene.13
Così Badiou legge il “per logica” con il quale Canguilhem interpretava l’impegno e la morte di Cavaillès. Che cosa intende, invece, Foucault per “logica peculiare” che ha condotto alla lotta e alla critica del sapere? Si potrebbe dimostrare, con una più diffusa analisi del testo di Badiou, ma non è questo il luogo, che anche se con traiettorie e accenti diversi Foucault 11 12 13
Prendo questa espressione dalla citazione di uno scritto di Canguilhem da parte di Alain Badiou nel suo Metapolitica (trad. it. di M. Abruzzese, Cronopio, Napoli 2001, p. 20). Ibidem. Ivi, p. 23.
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e Badiou danno conto in modo assai simile della relazione “necessaria” tra concetto e impegno. Per quanto riguarda Foucault, il “per logica” rimanda alla questione dell’Aufklärung e al modo in cui essa è stata eredita in Francia. La “logica peculiare” che ha finito col legare la filosofia del sapere, della razionalità e del concetto al presente è quella inaugurata dalla questione Was ist Aufklärung: Una delle ragioni principali è forse la seguente: la storia delle scienze deve la sua dignità filosofica al fatto di trattare un tema che è stato introdotto forse un po’ surrettiziamente, e quasi per caso, nella filosofia del secolo XVIII. Per la prima volta, a quell’epoca, il pensiero razionale è stato posto di fronte al problema non solo della sua natura e del suo fondamento, dei suoi poteri e dei suoi diritti, ma a quello della sua storia e della sua geografia, a quello del suo passato immediato e delle sue condizioni di esercizio, a quello del suo momento, del suo luogo e della sua attualità. Si può assumere come simbolo di tale questione, attraverso cui la filosofia ha fatto, della sua forma presente e del legame con il suo contesto, un’interrogazione essenziale, il dibattito che è stato intrecciato sulla “Berlinische Monatsschrift” e che aveva per tema: Was ist Aufklärung?14
La logica che conduce necessariamente alla lotta e alla critica è quella inaugurata dalla filosofia moderna quando, interrogandosi sull’Illuminismo, finisce con l’interrogarsi non tanto, come nell’interrogatorio che ha luogo nel tribunale della Critica della ragion pura, sul fondamento, i diritti e i poteri della ragione, ma principalmente sul suo «momento», il suo «luogo», «la sua attualità». Allo scritto di Kant Was ist Aufkärung Foucault dedica, com’è noto, due luminose riflessioni pubblicate lo stesso anno in cui consegna La vie: l’expérience et la science. Kant avrebbe fondato, secondo Foucault, le due grandi tradizioni in cui si è divisa la filosofia moderna: l’“analitica della verità” e l’“ontologia del presente” o ’”ontologia di noi stessi”. È nella tradizione dell’“ontologia di noi stessi” che si afferma la necessità logica del prender-parte-alla-lotta nel presente. In quella tradizione, infatti, sapere, razionalità e concetto sono sotto condizione dell’attualità. “Attualità” è ciò che nel presentarsi del presente si presenta come evento, “differenza” senza concetto, “segno” senza significato: segno che non esprime un senso; segno di nulla, il cui senso singolare consiste proprio nell’interruzione del senso. Evento senza senso che lo anticipi o soggetto che lo produca, dunque. Del resto, se ci fosse un soggetto dell’evento – si chiami questo soggetto Spirito, Storia o Vita – l’evento non sarebbe più tale, non coinciderebbe 14
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, cit., p. 319.
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con la singolarità del suo accadere, col suo essere, per così dire, causa sui. Per ritornare alla «divisione fondamentale» tracciata da Foucault, le filosofie dell’esperienza, del senso e del soggetto non sono in grado di dire, salvare nel concetto, la singolarità dell’evento, l’attualità. Pre-giudicano, con l’istanza del senso e del soggetto, la risposta alla questione che l’interrogazione sull’Illuminismo porta con sé e con cui non smette di inquietarci: «Che cos’è la nostra attualità? Qual è il campo attuale delle esperienze possibili?».15 Il concetto è la risposta all’evento senza concetto. Nel cogliere l’accadere di ciò che non ha – non è – concetto, il concetto coglie anche le nuove possibilità aperte dall’evento. Attuale è sia ciò che nell’“oggi”si presenta come evento, sia la possibilità, creata dall’evento, «di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo». Il dire concettuale della filosofia trova così nell’evento del presente «la propria ragion d’essere e il fondamento di ciò che dice»16. Sapere, razionalità e concetto trovano in ciò di cui non hanno sapere, ragione o concetto, in ciò che non hanno voluto, la ragione d’essere del sapere, ragionare, creare concetti. La filosofia incontra nel non filosofico il fondamento della propria pratica e le possibilità per rilanciare «il lavoro indefinito della libertà». Conviene, a questo punto, ricordare alcuni passaggi dell’interpretazione foucaultiano del testo di Kant, che possono aiutarci a chiarire la relazione logica tra ontologia del presente e pratiche di libertà, perché “lotta” per Foucault significa sempre lotta per la libertà. (Sul primato della libertà e sull’interpretazione dell’Occidente come destinato alla lotta per la libertà, evidenze che accomunano la riflessione di Foucault a quella della Arendt, ci sarebbe molto da riflettere. Ma certo la necessità della “cura di sé” resterebbe incomprensibile al di fuori di un tale primato della libertà: la cura di sé non è che un’articolazione della lotta per la libertà. Da questo punto di vista, l’ontologia di noi stessi non è «una teoria o una dottrina, e nemmeno un corpo permanente da sapere che si accumula»; bisogna pensarla come un ethos. Il concetto reclama una “vita filosofica”; impone la sperimentazione di un possibile superamento dei «limiti che ci vengono posti» (i testi sull’Illuminismo lo chiariscono assai bene).
15 16
M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault, cit., p. 261. Ivi, p. 254.
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3. Eroismo Il presente come Aufklärung non appartiene a un’«età del mondo», a una «distinzione» storica già costituita; non porta i segni di un evento prossimo – non è «annuncio» di un evento; non rappresenta l’«aurora di un compimento». L’Aufklärung è Ausgang, “uscita” dallo stato di minorità, pura procedura di emancipazione, «pura attualità», che non può essere compresa né in riferimento a una totalità di cui sia parte, né in relazione a un evento imminente o a un compimento che, per quanto futuro, stia già iniziando. Nessun finalismo dà senso a una tale “uscita”; né in essa si rivela un significato storico o vitale altrimenti nascosto: il presente è l’accadere di un processo di emancipazione senza archè o telos, di nulla mancante, risolto nel suo aver luogo come “uscita da”. Si tratta sia di una pratica di libertà in atto che di un compito: qualcosa che accade, sta accadendo, e che bisogna continuare a far procedere. L’Aufklärung è insieme un processo di cui si fa parte collettivamente e «un atto di coraggio da compiere personalmente». Si può esserne attori nella misura in cui se ne fa già parte, senza averlo deciso; nello stesso tempo il processo procede nella misura in cui gli individui «decidono di esserne gli attori volontari», si decidono per l’evento di libertà che non hanno deciso. Detto in altro modo: si diviene soggetti facendo procedere, soggettivando, un processo-evento da cui si viene colti. Nello stesso tempo, il processo procede solo attraverso una tale soggettivazione. Non c’è soggetto che guidi il processo, né il processo stesso è soggetto, giacché esso non produce automaticamente nell’individuo il coraggio di farlo proprio. Ma, dall’altra parte, il processo non dura, non procede, se non attraverso il coraggio, la decisione di rischiare, con cui lo si fa proprio. Si sceglie l’evento da cui si viene colti. Pathos e azione libera sono indiscernibili. Insomma, la modernità è una relazione con l’attualità che consiste, come indicato da Baudelaire17, nel: ... riafferrare qualcosa di eterno che non sta né al di là dell’istante presente, né alle sue spalle, ma in esso. La modernità si distingue dalla moda che non fa che seguire il corso del tempo; è l’atteggiamento che permette di affermare ciò che vi è di “eroico” nel momento presente. La modernità non è un fatto di sensibilità al presente che fugge; è una volontà di “eroicizzare” il presente.18
17 18
Cfr. C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Opere, a cura di G. Roboni e G. Montesano, Mondadori, Milano 2006, pp. 1285-1288. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault, cit., p. 223.
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Si potrebbe dire che l’atteggiamento della filosofia moderna sta nella costruzione di concetti che eroicizzano il presente, ché portano sub specie aeternitatis l’eroismo che già vi alberga. Non è il presente, hegelianamente, ad esporre il concetto, ma è il concetto a eroicizzare l’attualità, perché ne coglie la differenza assoluta, l’irriducibilità, ciò che nel presente non fugge: il processo di emancipazione che insiste nell’“uscire”, con una serie di atti di libertà, non solo dagli stati di cose, dai limiti stabiliti, ma anche dal flusso storico, dalla storia come flusso. La filosofia moderna non produce solo effetti filosofici. I suoi concetti, proprio perché rendono eterno lo spezzarsi della storia nel presente, l’interruzione del suo flusso, si costituiscono come forze che collaborano direttamente all’invenzione di altri «andamenti di vita», di nuovi rapporti con gli altri e con se stessi. La filosofia intensifica le pratiche di libertà che nel presente stanno già interrompendo le condizioni di possibilità, il trascendentale storico, dell’apparire del soggetto, ossia le condizioni di riconoscibilità di un individuo come soggetto. C’è un inevitabile “ascetismo” nell’atteggiamento moderno: Tuttavia, per Baudelaire, la modernità non è semplicemente una forma di rapporto con il presente; è anche un tipo di rapporto che bisogna stabilire con se stessi. L’atteggiamento deliberatamente moderno è legato a un indispensabile ascetismo. Essere moderno non significa accettare se stessi per quel che si è nel flusso dei momenti che passano, significa assumere se stessi come oggetto di un’elaborazione complessa e ostica [...]. L’uomo moderno, per Baudelaire, non è colui che parte alla scoperta di se stesso, dei suoi segreti e della sua verità nascosta; è colui che cerca di inventare se stesso. Questa modernità non libera l’uomo nel suo essere proprio; essa gli impone di elaborarsi da sé.19
Il coglimento dell’eroismo del presente chiama a mutare il rapporto con se stessi, a rompere con l’interiorizzazione degli schemi storico-sociali che dettano le condizioni di riconoscibilità di un soggetto come tale. Essere moderni non significa realizzare sé, la propria interiorità o verità nascosta, liberare il “proprio” essere. Il gergo dell’autenticità e del vissuto qui è davvero bandito. Di più, è qualcosa contro cui bisogna lottare. E la lotta assume i caratteri di un allontanamento, di un’“uscita” dallo stato di minorità che è nello stesso tempo “invenzione”. Più si procede nell’invenzione, più si “esce”. Più si esce, più si inventa. Il richiamo all’ascetismo non ha nessun tratto mortificante20. Anzi, si potrebbe dire che l’ascetismo 19 20
Ivi, p. 225. Dopo la critica nietzscheana degli “ideali ascetici”, una rivalutazione
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è un esercizio inventivo di sottrazione o evasione. Baudelaire identificava l’asceta nella figura del dandy e l’esercizio dell’invenzione di sé nell’arte. L’estetica dell’esistenza di Foucault si rifà certo a un tale indicazione – si pensi alla similitudine che Baudelaire stabilisce tra il dandy e il filosofo stoico. Ma in una conferenza tenuta a Tokyo ne 1978 Foucault aveva indicato in altre pratiche di libertà il tratto che potremmo chiamare l’eroismo del nostro presente o il suo ascetismo collettivo: D’altronde, non basta dire che oggi questi giochi di potere intorno alla vita e la morte, alla ragione e alla sragione, alla legge e al crimine, hanno acquisito un’intensità che era sconosciuta nell’immediato passato; penso che si debba dire anche che la resistenza e le lotte in atto non hanno più la stessa forma. Ormai la cosa fondamentale non consiste più nel partecipare a questi giochi di potere, in modo da far rispettare al massimo la propria libertà o i propri diritti; questi giochi non sono più accettati. Non si tratta più di scontri all’interno dei giochi, ma di resistenza al gioco e di rifiuto del gioco stesso. È questo che caratterizza un buon numero di lotte e battaglie.21
In queste riflessioni la nostra attualità compare come avvento di un processo di uscita dai giochi, una nuova forma di resistenza che definirei sottrattiva o evasiva, perché non procede all’interno delle relazioni stabilite dai giochi. E poiché attraverso i giochi di potere si produce ciò che un soggetto è in verità, vale a dire gli schemi di costruzione di un soggetto riconoscibile, la nuova forma delle lotte induce una soggettivazione irriconoscibile per il trascendentale storico che detta le norme per acquisire lo statuto di soggetto. In questo contesto, il concetto che eroicizza l’attualità spinge nella direzione di un prender parte alle lotte che non prendono parte ai giochi di potere.
21
dell’ascesi, una sottolineatura della sua necessità, non so quanto debitrice a Foucault, è anche in Deleuze: «Ascesi perché no? L’ascesi è sempre stata la condizione del desiderio e non la sua disciplina o interdizione. Scoprirete sempre un’ascesi se vi metterete a pensare al desiderio» (G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, Ombre Corte, Verona 1998, p. 105). Vorrei ricordare, inoltre, che Deleuze e Guattari pubblicheranno nel 1991 un appassionato elogio del concetto nel loro mirabile Che cos’è la filosofia?. M. Foucault, La filosofia analitica della politica, in Archivio Foucault, cit., p. 106.
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4. L’errore Dopo questo lungo giro per tentare di chiarire quale logica spinga la filosofia del sapere, della ragione e del concetto alla lotta e alla critica, torniamo alla lettura foucaultiana del senso dell’opera di Canguilhem. Diversamente dalla filosofia tedesca che ha messo in rilievo la questione dell’attualità attraverso una riflessione storica e politica sulla società, in Francia sono stati gli storici della scienza, è questa la tesi di Foucault, ad ereditare ed articolare la questione del “presente”, a cogliere l’attualità come “differenza” nella storia del sapere. Koyré, Bachelard, Cavaillès, Canguilhem hanno mostrato «una razionalità che aspira all’universale sviluppandosi nella contingenza», che procede con andamenti spezzati, per «rettifiche parziali». Una razionalità che si legittima da sé, ma che non può essere dissociata nella sua storia dalle coercizioni che l’assoggettano: «una ragione, quindi, che produce degli effetti di affrancamento soltanto alla condizione di riuscire a liberarsi di se stessa».22 Canguilhem, nota Foucault, si è distinto per il vigore con cui ha ripreso il tema della discontinuità nella storia della scienza. Ha mostrato l’irrompere dal “nulla” – quel “nulla” che le filosofie dell’evoluzione ritengono impensabile – di nuovi enunciati che interrompono improvvisamente consolidate regolarità discorsive e inaugurano nuove coerenze, nuove norme. La storia delle scienze per Canguilhem non è interpretabile come l’illuminarsi progressivo della verità. La storia delle scienze non è la storia della rivelazione della verità. Finanche nell’ambito di una medesima scienza sorgono nuovi oggetti, si definiscono nuovi fondamenti, avvengono cambiamenti di scala, fratture. La storia della scienza è segnata dall’accadere di modi di dire il vero che non sono deducibili da quelli che li hanno preceduti. L’“attualità” di un modo di dire il vero non è contenuta virtualmente nel passato della scienza: storicità evenemenziale degli universali. Per questa ragione, la storia della scienza è soggetta a continui rifacimenti. Ma non basta: Canguilhem ha mostrato che la stessa storia delle discontinuità è in sé discontinua. Canguilhem ha esercitato la sua passione per l’eterogeneo e l’evento anche nell’affrontare i problemi specifici della medicina e delle scienze della vita. La passione per l’eterogeneo lo ha condotto ad affrontare, nota giustamente Foucault, la questione della specificità della malattia come problema decisivo per lo sviluppo delle scienze della vita. E infatti, conviene ricordarlo, ne Il normale e il patologico Canguilhem si impegna a demolire la teoria positivista della malattia come «l’espressione esagerata 22
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, cit., p. 321.
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o ridotta di una funzione normale», per cui i fenomeni patologici andrebbero considerati «qualitativamente» identici a quelli normali. Secondo questa teoria, dunque, il corso della vita si presenta come intrinsecamente unitario, modulato da mere differenze di grado tra i fenomeni. Ma in questo modo, è la critica di Canguilhem, l’alterità, la specificità, della patologia viene annullata, con conseguenze negative per la comprensione delle dinamiche della vita. La tesi sostenuta ne Il normale e il patologico è che la malattia è un evento, l’accadere di un «altro andamento di vita», lo stabilirsi di una «nuova» norma: è sufficiente ascoltare il giudizio angosciato del vivente ammalato per comprendere che non c’è nessuna omogeneità tra lo stato normale e quello patologico, che la malattia è un «nuovo modo di comportarsi in relazione all’ambiente»23. Da questo punto di vista, la valutazione della malattia da parte del malato si dimostra «il concetto adeguato della malattia, in ogni caso più adeguato del concetto dell’anatomo-patologo»24. La «clinica», l’ascolto del pathos del vivente, porta alla luce non solo che l’andamento della vita è spezzato da eventi, da nuovi irriducibili andamenti, ma anche che la vita è una «potenza dinamica di oltrepassamento» che si avverte, grazie al discorso del vivente, precipitare nell’impotenza. Nel giudizio che il malato dà del suo stato come ostacolo e male, qualcosa da evitare e correggere, la vita rivela a se stessa il suo sforzo spontaneo a «lottare contro ciò che costituisce un ostacolo al suo mantenimento e al suo sviluppo intesi come norme». Il desiderio di ritorno alla normalità del malato, il desiderio di salute, non è dunque desiderio di ritorno ad uno stato di cose, ma alla normatività della vita, ossia alla sua potenza di istituire norme in grado di vincere i pericoli che la minacciano. Le norme patologiche non sono della stessa qualità di quelle biologiche: «La malattia è anch’essa una norma di vita, ma è una norma inferiore, nel senso che essa non tollera alcun allontanamento dalle condizioni in cui vale, incapace com’è di trasformarsi in un’altra norma».25 Ma c’è di più: è proprio l’evento della malattia – che illumina la normalità come «perduta» capacità di lotta e di invenzione di norme – a provocare «l’attenzione speculativa che la vita dedica a se stessa per il tramite dell’uomo»26. Il bisogno di conoscenza nasce nella vita dall’angoscia che essa prova nel vivente umano di fronte alla malattia. È la vita stessa a fare di 23 24 25 26
G. Canguilhem, Il normale e il patologico, cit., p. 62. Ivi, p. 67. Ivi, p. 148. Ivi, p. 74.
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sé, attraverso l’uomo, un oggetto di conoscenza, per superare o aggirare gli ostacoli che si oppongono alla sua plastica normatività, per tentare di venire a capo sia delle anormalità (norme patologiche), sia delle tensioni che si manifestano con l’ambiente. Giustamente Foucault commenta che «attraverso la chiarificazione del sapere sulla vita e dei concetti che articolano questo sapere, G. Canguilhem intende comprendere che cosa ne è del concetto nella vita»27. Giustamente sottolinea che questo modo bio-logico di considerare la conoscenza conduce a interpretare, diversamente da Bergson diremo noi, l’attività di formazione dei concetti come «un modo di vivere e non di uccidere la vita»; come la produzione di «innovazioni» messe a disposizione della lotta con cui la vita si sforza di in-formare l’ambiente. La produzione di concetti fa perciò pienamente parte dell’attività con la quale la vita tenta di «costruire» l’ambiente. Dare forma a dei concetti è «un modo di vivere in una relativa mobilità e non un tentativo di immobilizzare la vita». La valutazione della vitalità del concetto sembra essere il punto di massima lontananza di Canguilhem da Bergson: il concetto non “uccide” la vita. Foucault sembra essere riuscito a trovare la convincente linea di demarcazione tra i due. Ma a ben vedere, proprio la ricostruzione delle tesi di Canguilhem che abbiamo tentato più sopra, e al cui interno va collocata la rivalutazione del concetto, sono in gran parte in consonanza, per esplicita ammissione di Canguilhem, con la filosofia della vita di Bergson. Si concede sì una vitalità al concetto, ma all’interno dell’orizzonte del senso della vita come slancio indivisibile, che ha se stesso come propria norma e che proprio perciò è continua creazione di norme con cui superare le resistenze dell’ambiente. Per strappare davvero Canguilhem alle filosofie dell’esperienza, del senso e del soggetto, bisogna guardare altrove, al suo incontro negli anni ’60 con la biochimica, con le nozioni che la biologia ha preso dalla teoria dell’informazione. La scoperta di patologie ereditarie dovute ad un errore, sempre possibile, di interpretazione dell’informazione relativa alla sequenza degli aminoacidi apre, come nota Foucault, ad un nuovo concetto del vivente, ad un’altra nozione della vita. Al suo livello fondamentale la vita si mostra capace di errare, di sbagliarsi nella trasmissione delle informazioni, dunque anche di quelle relative alle vittorie riportate sui pericoli che la minacciano. Essendo capace di errore, la vita è capace di interrompere la sua legge di sviluppo. Se la vita è sempre capace di errore, non è più possibile definirla secondo un senso o significato cui ricondurre i suoi eventi. Non potenza di oltrepassamento è la vita nella sua 27
M. Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, cit., p. 327.
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radice, ma potenza, eventualità, di “errare”. La vita è affetta da un’alea invincibile che «prima di essere malattia, deficit o mostruosità, è una sorta di perturbazione nel sistema informativo, qualcosa di simile a uno ‘sbaglio’».28 In questo quadro il ruolo del concetto cambia radicalmente. Non si tratta più di un informazione al servizio dell’evoluzione, ma di una risposta che la vita dà all’alea, di un coglimento dei modi improvvisi e imprevisti di darsi dell’alea. Il concetto coglie l’errore e, per dir così, lo eroicizza. Nella vita l’alea è più originaria dell’evoluzione. È all’alea che bisogna chieder conto dei processi evolutivi. Ma essa, scrive Foucault, sembra dar conto anche della vita umana come «errore singolare» che non smette di tramandarsi. Se l’uomo non fosse un «errore singolare», un’informazione sbagliata, come potrebbe spiegarsi il suo costitutivo disadattamento, il suo «non trovarsi mai del tutto al proprio posto», destinato a «errare», a «sbagliarsi»? E non è questa erranza, questa “uscita da”, che la filosofia moderna ha colto ponendo all’uomo il problema di una soggettivazione dell’evento, dell’alea, dell’errore? Il soggetto come piega dell’errore, come capacità di insistere nell’erranza, di darle consistenza? Filosofo dell’errore, Canguilhem è ora davvero separato dal vitalismo di Bergson. Ora vita, concetto e attualità possono sperimentare più liberamente la loro relazione errante.
28
Ibidem.
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16 LA ZONA GRIGIA. FOUCAULT E L’ANTROPOLOGIA di Marco Russo
Lo sfondo generale del mio contributo è se e come oggi possiamo porre la domanda sulla condizione umana. Oggi, dico, quando per un verso si parla di post-umano, fine dell’umanesimo e del soggettivismo e per l’altro si parla continuamente di soggettività, diritti umani, dignità dell’uomo, dialogo interumano, destino dell’umanità. Un bel contrasto, dove vale al tempo stesso l’esigenza di uscire da un lessico troppo connotato, anche legato a vicende catastrofiche, e la difficoltà, se non l’impossibilità di uscirne, sottolineate proprio da termini come “post” e “fine”, che si aggirano attorno ai sostantivi che vorrebbero superare. Un contrasto indicativo, forse, proprio della condizione umana oggi, nel senso che la nostra è l’epoca che, potendo agire e modificare la “natura” umana, è costretta a decidere operativamente quale immagine, idea e fisionomia dare all’uomo. Ma per poter decidere occorrono dei riferimenti, che sono quelli messi in discussione, soprattutto in virtù dei nuovi poteri di intervento e modifica. Sicché sembra che la condizione umana oggi, sia quella caratterizzata dall’assenza tendenziale di condizioni. Una condizione umana senza condizioni, incondizionata, sebbene sia un paradosso teorico, descrive probabilmente bene delle tensioni di fatto, nelle quali rientra la circostanza che chi ha più forza o anche solo credito − goduto magari per tradizione − detterà le condizioni in assoluto. Di questo nuovo e più virulento condizionamento non sempre il pensiero post-soggettivistico, post-umanistico, pare consapevole. Perciò ipotizzo l’opportunità di una riconsiderazione dell’antropologia come riflessione sulla condizione o “natura” umana. Riconsiderazione che ha come obiettivo minimo di sottrarre questa riflessione all’automatismo
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post-moderno che induce a vedere in essa la proposizione di un modello universale di uomo. I modelli, intanto, sono sempre in agguato nell’antropologia e, almeno, in ogni teoria politica e morale. E questo fa parte precisamente della riflessione sulla condizione umana. È più infido ignorare questo dato che farne oggetto di considerazione teorica, storica e pratica, come proprio il post-umano rischia di fare. Inoltre, la riconsiderazione dovrebbe servire a chiarire un po’ i termini del discorso. Rilevando, per esempio, che l’antropologia, già nella sua vicenda storica, ha una valenza diversa dal mero modello, ma al contrario si propone come fenomenologia dell’umano. Cioè una cartografia di quello che c’è, che vediamo giorno per giorno. È un compito da lungo assorbito dalle scienze, dagli istituti statistici, demografici, da “osservatori” di vario genere e specie. Ma la sfida, per la filosofia, sta nel non farsi assorbire, mantenere autonomia sia dalle cartografie ufficiali, sia evitando teoremi onnivalenti. Parrà strano solo a chi ignora questa sfida che buona parte di essa viene dalla riconsiderazione dell’antropologia. In tale prospettiva, il lavoro di Foucault è emblematico. Le sue indagini sui meccanismi di sapere/potere (sino alla loro fusione tecnocratica nel paradigma biopolitico) mostrano infatti con inaudita lucidità i condizionamenti agenti di volta in volta sugli uomini, determinandone comportamenti e mentalità individuali e collettive. I condizionamenti più insidiosi della modernità, sono avvenuti sotto la maschera dell’umanesimo. D’altro canto, però, il suo smascheramento è avvenuto al prezzo di un accecante impoverimento dell’esperienza umana, della sua “reale” condizione. Sicché l’anti-umanesimo foucaultiano mentre fa vedere la rete di regolamentazioni in cui siamo invischiati, nasconde l’opaca molteplicità della provincia umana, di cui fa parte l’instabile rapporto con il non-umano, in cui, usando parole classiche, possiamo includere l’ontologia, la natura, la logica, l’universo. Nasconde la condizione umana, anche qui nella sua valenza classica, di osservazione dell’umano, volto a comprendere anche le modalità con cui si articola o si azzera il senso della nostra esperienza. La cosa interessante è che Foucault aveva ben individuato il luogo confinario dove si situa la provincia umana, si snoda la condizione umana. Tra i codici fondamentali di una cultura che ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche, e le teorie scientifiche o filosofiche che interpretano o spiegano perché esistono quei codici, o l’ordine che essi introducono, fra queste due regioni si estende un campo più confuso, più oscuro, più arduo probabilmente da analizzare [...] Tale regione “mediana”, nella misura in cui manifesta i modi di essere dell’or-
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dine, può quindi darsi come la più fondamentale: anteriore alle parole, alle percezioni e ai gesti ritenuti atti a tradurla con maggiore o minore precisione o felicità (ecco perché tale esperienza dell’ordine, nel suo essere massiccio e primo, svolge costantemente funzione critica); più salda, più arcaica, meno dubbia, sempre più “vera” delle teorie che tentano di dare a quelli una forma esplicita, un’applicazione esaustiva, o un fondamento filosofico. In ogni cultura esiste quindi [...] l’esperienza nuda dell’ordine e dei suoi modi di essere.1
Di questa regione parla l’antropologia, prima e dopo la sua comparsa moderna (diciamo quella di cui si occupa la filosofia seconda di Aristotele, la filosofia pratica della tradizione, insieme ai suoi sfuggenti nessi con la filosofia prima). Attorno ad essa ha girato sempre Foucault con le varie genealogie di cui gli siamo debitori. La attraversa ma come uno spazio vuoto, riempito soltanto dagli oggetti epistemici, dalla storia dei codici culturali. La natura, i sensi, le emozioni, le espressioni, i simboli, i riti, tutto quanto c’è di estremo, animale, abitudinario, o anche di auratico, inafferrabile, vago, insomma i segni elementari dell’umano sono assenti. Al più sono indici epistemici, nomi inventariati dai regimi di verità. La zona grigia diventa una distesa di sabbia bianca, dove sparisce il volto dell’uomo e restano solo le iscrizioni storico-culturali. Non è un caso che lo sguardo plebeo, basso, torbido, materiale, che Foucault ritiene proprio del genealogista2, tenda a trasfigurarsi in «positivismo felice»3, in dotta scienza della costituzione delle oggettività o codici culturali.
1. La serrata critica foucaultiana all’umanismo unisce piano epistemologico e piano politico, cioè l’idea di una conoscenza degli universali, della struttura di fondo del reale, e l’idea di un potere centrale, istituzionale, che è al servizio degli uomini, li protegge, li forma, ne promuove i fini essenziali, compresa la loro felicità. Si tratta di 1 2
3
M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1985, pp. 10-11. «La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria»; con la sua «bassa curiosità da plebeo» mostra una miriade di avvenimenti aggrovigliati, muovendo da ciò che è più vicino «il corpo, il sistema nervoso, gli alimenti, la digestione, le energie». Perciò essa cerca verità piccole e non appariscenti, «esige la minuzia del sapere, un gran numero di materiali accumulati e pazienza», M. Foucault, Microfisica del potere, trad. it. di P. Caruso, Einaudi, Torino 1977, pp. 29, 48, 44. M. Foucault, L’ordine del discorso, trad. it. di A. Fontana, M. Bertani, V. Zini, Einaudi, Torino 2004, p. 36.
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aggirare il più possibile gli universali antropologici (ovviamente anche quelli di un umanesimo che fa valere i diritti, i privilegi e la natura di un essere umano come verità immediata e atemporale del soggetto) per interrogarli nella loro costituzione storica [...] rifiutare il ricorso filosofico a un soggetto costituente non significa fare come il soggetto non esistesse e eluderlo, a vantaggio di un’oggettività pura; questo rifiuto mira a fare apparire i processi propri in cui il soggetto e l’oggetto “si formano e si trasformano”, l’uno in rapporto all’altro e l’uno in funzione dell’altro.4
La prima e più insidiosa conseguenza dell’umanismo è di persuaderci che vi è l’uomo, essere dotato di caratteristiche peculiari, via via meglio conosciute5. Le conoscenze, in quanto pretese oggettivazioni di facoltà e modalità umane, vengono utilizzate per organizzare e giustificare assetti sociali e regole di condotta che meglio corrisponderebbero alla natura dell’uomo e delle cose. In nome dell’uomo, dei suoi bisogni e dei suoi fini materiali e spirituali s’impone un regime di sapere/potere atto a soddisfare tali bisogni, tra cui il bisogno di un senso e di un ordine complessivo entro cui iscrivere la vita umana. La politica dei fini legittima i suoi mezzi per controllare il corretto funzionamento sociale, la sua “messa a norma” in vista dello scopo. In nome dell’uomo hanno operato il nazismo, lo stalinismo, e poi Cristo, lo Stato, la Rivoluzione. Perciò Foucault dice che è «una piccola prostituta del pensiero»6, l’ideologia che proprio per la sua flessibilità e vaghezza, ha assunto diverse forme, sino a diventare dominante negli ultimi due secoli. È diventata dominante perché «l’antropologia costituisce forse la disposizione fondamentale che ha governato e diretto il pensiero filosofico da Kant fino a noi»7; non è più una forma possibile, una tendenza, una coloritura, ma il regime di verità, il codice culturale di riferimento moderno, nato dall’incontro tra metafisica del soggetto e saperi esperti, specialistici. La metafisica 4 5
6
7
Archivio Foucault 3. 1978-1985, trad. it. di S. Loriga, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 251. Bisognerebbe «chiedersi se veramente l’uomo esiste. Si crede che supporre, per un solo istante, ciò che il mondo e il pensiero e la verità potrebbero essere se l’uomo non esistesse, è giocare al paradosso. Siamo a tal punto accecati dalla recente evidenza dell’uomo, da non aver nemmeno più serbato nel nostro ricordo il tempo tuttavia poco remoto in cui esistevano il mondo, il suo ordine, gli esseri umani, ma non l’uomo», M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 346-347. M. Foucault, Che cos’è un filosofo, trad. it. di A. Cutro, in “Kainos”, rivista di critica filosofica on line n. 6 (Dopo l’umano). «L’umanesimo serve a colorare e a giustificare quelle concezioni dell’uomo a cui è costretto a ricorrere» (Archivio Foucault 3, cit., p. 227). M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 367.
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del soggetto è l’idea che vi sia una struttura o realtà ultima delle cose e che ciascun individuo, in quanto portatore di logos, possa conoscere tale realtà. Vi sono varie declinazioni di tale metafisica, a seconda di come si valuti il logos e come il reale. Ma resta costante il nesso tra soggetto conoscente e oggetto da conoscere, nesso che si traduce nella progressiva stabilizzazione di verità fondamentali, sorreggenti la totalità dell’esperienza. A un certo punto − lungo il Settecento − è il nesso stesso a diventare la chiave del conoscere; va fatta un’analisi minuta e concreta del soggetto, del logos per verificare come si fa esperienza e si vengono costituendo gli oggetti. In virtù dell’antropologia − titolo generico per indicare le scienze umane − questo spostamento verso una sempre più esplicita e analitica autotematizzazione del soggetto, delle sue prestazioni e dei mezzi con cui opera tali prestazioni, ha due conseguenze principali: l’ibridazione tra empirico e trascendentale, il continuo allargamento e reinvestimento della parola “uomo”. L’ibridazione, o allotropia, quasi riformulando paralogismi e antinomie della ragione denunciate da Kant nella dialettica trascendentale, mostra le inevitabili aporie, gli scambi surrettizi della filosofia umanistica, che si riferisce al tempo stesso al soggetto metafisico, logico, e all’uomo determinato, concreto; si riferisce a un sapere globale, di principi (la filosofia) e alle scienze speciali; fa perno su dati “positivi”, posti dal sapere e però li prende per realtà, come la sua descrizione più fedele, scambiando valore universale e provenienza particolare. È il contrasto “dialettico” tra essenza umana e produzione infinita di quest’essenza attraverso il sapere. Ma è un contrasto efficiente, perché genera zone d’ombra, l’essenza rispetto all’apparenza, cioè l’Altro rispetto alla conoscenza e al pensiero umani, i quali devono quindi sempre procedere oltre. L’origine, l’impensato, il trascendentale, la libertà... sono le proiezioni ipersignificanti dell’essenza, ovvero le linee di opposizione che la istituiscono, e contemporaneamente la frantumano nell’eccedenza empirica della storia, della natura, del linguaggio. Tale alterità, quel che sta alle spalle del pensiero e delle sue oggettivazioni, rilancia sempre di nuovo il compito di promuovere, ampliare e sviluppare la conoscenza dell’uomo, per vederne realizzata finalmente l’essenza, una volta tolta l’alterità, l’alienazione − che però si riproducono, in quanto l’essenza è proiezione in avanti e all’indietro, è altra rispetto al dato attuale. È un cattivo infinito, ma funziona bene, perché alimenta indefinitamente se stesso. Spezzare questo cattivo infinito, rompere il circolo dell’autoriflessione con i suoi efficienti sdoppiamenti tra essere ed essenza, significa risvegliarsi dal sonno antropologico e affrontare un diverso compito, «come abbiamo costituito noi stessi come soggetti del nostro sapere; come abbiamo costituito noi stessi come soggetti che esercitano o subiscono relazioni
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di potere; come abbiamo costituito noi stessi come soggetti delle nostre azioni»8. Si tratta di un rovesciamento epistemologico che cancella d’un colpo universali, essenze, soggetto, autoriflessione, assieme alla politica “ortopedica” dei fini. Al loro posto subentra l’analisi degli a priori storici − i codici culturali, i sistemi di sapere/potere − e una politica delle singolarità, che slitta verso l’etica9, l’invenzione della propria esistenza in controluce rispetto agli anonimi codici che via via scopriamo condizionarci. Il risveglio dal sonno antropologico, per continuare la parafrasi kantiana di Foucault, equivale a riconoscere che non è la nostra conoscenza a regolarsi sugli oggetti, ma gli oggetti sulla nostra conoscenza. Solo che la conoscenza non è nostra.
2. Cos’è che non va nel pur brillante reimpasto critico foucaultiano? Nella cancellazione della zona grigia, come si diceva più sopra. Cioè di quella zona di frontiera tra teoria e prassi, discorso ed esperienza, che è un connotato tipico della filosofia occidentale, diventato parossistico nell’età dell’uomo, che parla il linguaggio totalmente riflessivo dell’autocritica. L’allotropia che Foucault ha ben individuato e poi creduto di poter abbandonare, ritenendolo un difetto di pensiero derivato dal sonno antropologico, resta la croce, salute e malattia, della condizione post-moderna. Genealogia e archeologia ne fanno parte, con la loro irrisolta tensione tra uno storicismo sempre più marcato e lo strutturalismo dei codici; la conferma, poi, viene dal tardo richiamo all’illuminismo. Però abbattendo l’umanismo, Foucault ha forse creduto di aver abbattuto anche gli equivoci dell’allotropia, della ragion dialettica (quella che, è noto, ha generato l’impresa critica di Kant). Con 8 9
Archivio Foucault 3, cit. p. 231. Accenno a qui a un motivo che non potrò sviluppare. Che la formidabile “microfisica del potere” di Foucault sfoci nella cura individuale di sé, è una inconseguenza da non trascurare: a meno che non consegua da una politicizzazione di ogni aspetto del reale, determinato dal regime di potere/sapere dominante, cui si sfugge solo nel ridotto della propria singola esistenza. Ma in questo caso è il presupposto a essere opinabile, poiché solo alcuni spazi sono o diventano sensibili politicamente (sempre le condizioni di sussistenza, il benessere minimo, e mutevolmente i “centri di riferimento” schmittiani). Anche questo potremmo rilevarlo mediante una fenomenologia dei comportamenti medi, più che con codici epistemici. Peraltro, che la enunciazione della cura di sé avvenga nello stesso periodo in cui per la prima volta Foucault si occupa di politica “macrofisica”, la biopolitica, è da un lato segno di qualcosa di irrisolto sul piano teorico, e dall’altro segno del suo genio inquieto, che va oltre gli schemi che produce e, soprattutto, induce.
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la conseguenza di una insufficiente elaborazione teorica delle operazioni genealogico/archeologiche10 (insufficienza poco visibile per la geniale forza analitica di quelle operazioni e certo anche per la maneggevolezza degli strumenti usati)11; e, inoltre, di aver dissolto l’intricata geografia della provincia umana, attorno a cui problematicamente ruota la modernità, la vichiana età dell’uomo. La mia ipotesi è che ciò dipende da una sovradeterminazione della nozione di antropologia, che a sua volta dipende, detto in modo stilizzato, da un’irrisolta sovrapposizione di Heidegger e Nietzsche12. Con sovradeterminazione intendo il carico epocale attribuito all’antropologia come compimento della metafisica13. Ora, per accettare un simile carico occorre non solo accettare la lettura della storia occidentale in termini di una concezione dell’essere (quella metafisico-obiettivante, appunto)14, ma occorre anche 10
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È stato notato a proposito dei giochi di verità: vanno intesi contemporaneamente «come campo epistemico che “rende possibile” il sapere di un’epoca e come operazione individuale mediante cui il soggetto, “costituendosi come oggetto”, forma un’interpretazione riflessiva della propria natura? In altri termini come possono queste ultime metamorfosi dell’a priori storico definire al tempo stesso l’attività costituente del soggetto e condizionare dall’esterno le forme prese dalla soggettivazione portando i modelli dei saperi anonimi utilizzati per la costituzione di sé?». B. Han, L’ontologie manquée de Michel Foucault, Millon, Grenoble 1998, p. 26. Cosa è l’enfatica ontologia di cui parla l’ultimo Foucault? Dispositivo, strategia, regime di verità, normalizzazione, disciplinamento, assoggettamento... La grandezza di Foucault sta anche nell’aver creato un lessico di rara efficacia. Un lessico di “pronto uso” che invece per l’autore era uno strumento sperimentale, da sottoporre a verifica. Prendo spunto dalla insistita affermazione secondo cui Nietzsche e Heidegger «sono le due esperienze più fondamentali che ho fatto», e sebbene Heidegger sia «il filosofo fondamentale [...] l’ha spuntata Nietzsche», Archivio Foucault 3, cit., pp. 268-269. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. it. di M. E. Reina, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 181. È probabile che Foucault conoscesse questo testo e che la sua lettura kantiana ne fosse sensibilmente influenzata. «L’inizio della metafisica nel pensiero di Platone è nello stesso tempo l’inizio dell’”umanismo” [...] Con il compimento della metafisica anche l’”umanismo” (o, detto in modo greco, l’antropologia) si spinge su “posizioni” estreme e perciò al tempo stesso incondizionate», M. Heidegger, Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 190-191. In esso si tratta di portare l’uomo «alla liberazione delle sue possibilità, alla certezza della sua destinazione e alla assicurazione della sua “vita”. Ciò si realizza come formazione di un atteggiamento “morale”, oppure come redenzione dell’anima immortale, come sviluppo di forze creatrici, come educazione della ragione, come cura della
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sapersi muovere nel circolo ontico-ontologico, in modo da tenere desta la loro differenza e consentire la Destruktion della metafisica, la rimeditazione radicale della tradizione ontologica. Entrambe le premesse sono respinte da Foucault, poiché non è nel pensamento dell’essere, in una ontologia fondamentale, né in una ermeneutica decostruttiva, che si effettuano le genealogie degli a priori storici, legate piuttosto, nietzscheanamente, alla dispersione, ai rapporti di forza, al discontinuo, all’assoluta immanenza, alla dimensione materiale, marginale, plebea della storia. La dimensione “ontica” della zona grigia, si direbbe; che viene però sorvolata, se non cancellata, a causa della sua sovradeterminazione metafisica. Sicché di quella zona restano solo più le epistemai, che devono avere funzione ontologica (o trascendentale) ma hanno natura ontica (o empirica). Il fatto è che a una critica ontologica non conviene una risposta “ontica”, sostituendo cioè l’ontologia con le epistemai storicamente costituitesi. Altrimenti si mette sullo stesso piano quel che si vuole poi differente. Vi è quantomeno una pre-comprensione di quel che è essere, ragione, soggetto, tempo, spazio, identità, differenza...; pre-comprensione su cui la ricerca storica, comunque scandita, non ci dà risposte, se non facendone “oggetti” che nascono e tramontano nelle vicende storiche. La storia dei saperi è storia di positività e nulla può e forse vuol dire sui propri presupposti ontologici. Per Heidegger − il quale, per la logica stessa del suo discorso, prosciuga a pochi indicatori formali tutta la dimensione ontica − è giusto l’oblio delle domande ontologiche ciò che unisce metafisica e antropologia, facendo dell’essere l’oggetto di un sapere umano, o il prodotto di una autoriflessione del soggetto. La gaia scienza di Foucault, invece, depone o fa rifluire le domande ontologiche proprio nell’anonimato delle pratiche e dei saperi storici, reputando sufficiente aver tolto di mezzo il “troppo umano” dell’antropologia, per sfuggire all’umanismo metafisico. Togliere il troppo umano e ricondurre tutto alle anonime epistemai significa che queste ultime devono al tempo stesso occupare il luogo dell’ontologia e tenersi al livello materiale e concreto della dimensione ontica. Con il risultato di un’irrisolta oscillazione tra i due piani15. Come storia concreta è troppo sbilanciata
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personalità, come risveglio del senso comunitario, come disciplina del corpo, o come appropriata combinazione di alcuni o di tutti questi “umanismi”» (ivi, p. 190). Si tenga conto che, poiché parla di valori, della verità come errore, di sovvertimento della metafisica, di volontà − parla un linguaggio solo invertito, non diverso dalla tradizione − Nietzsche «è il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale» la quale «col pensiero di Nietzsche ha iniziato il suo incondizionato compimento» (ivi, pp. 182; 191). «La genealogia delle scienze umane di Foucault entra in scena in un irritante ruolo di doppio. Da un lato recita il ruolo empirico di un’analisi di tecnologie
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sull’epistemico; come storia epistemica è troppo sbilanciata sul concreto. Questa irresolutezza non è un “errore” teorico-metodologico di Foucault, ma il problema, anche pratico, della modernità come età dell’uomo: quello di stanare le surrezioni, i raddoppi, gli scambi di livello tra condizione e condizionato, reale e ideale, ideologia e ontologia, fatto e diritto, conoscere e pensare, i quali avvengono e si ripropongono perché non c’è un’istanza terza cui fare appello, e se c’è proviene dallo stesso terreno della contesa, ed è quindi sospettabile. L’errore, dopo aver lucidamente individuato il problema, è stato semmai dimenticarlo.
3. Foucault si è dovuto ripetutamente scrollare di dosso l’etichetta di “strutturalista”; noi possiamo aggiungere che avrebbe dovuto anche liberarsi della possibile qualifica di “storicismo raffinato”. Se vale l’ipotesi proposta, la sua perfetta consapevolezza che noi ci muoviamo ad anello tra i due estremi, è stata offuscata dal sospetto che dietro l’anello vi fosse il soggetto/fondamento della metafisica moderna, e che sbarazzandosi dell’anello, si potesse giungere alla gaia scienza che non deve ricondurre l’accadere a nient’altro che all’accadere stesso, ai rapporti di forza. Se ci si chiede cos’è l’accadere, cosa i rapporti di forza, come li si scandiscono, e dove, in base a cosa essi accadono e si scandiscono, la risposta può solo essere tautologica, accadono perché accadono, si scandiscono perché si scandiscono, sono forti perché s’impongono. E se anche così fosse, della tautologia, che è una figura logica, di pensiero, comunque dovremmo render conto. Per ridare consistenza filosofica alle operazioni genealogiche, senza né ripristinare l’idea di un soggetto/fondamento né tantomeno un sistema speculativo dell’esperienza, occorre ripartire dalla zona grigia, di cui si occupava la peri ta anthropeia philosophia16 la quale poteva collocarla gerarchicamente, dopo o in conseguenza della filosofia prima, mentre la modernità
16
di potere che debbono spiegare il contesto funzionale sociale della scienza dell’uomo; in ciò le situazioni di potere interessano come condizione di formazione e come effetti sociali del sapere scientifico. Dall’altro la stessa genealogia recita il ruolo di tecnologie di potere che debbono spiegare come siano in genere possibili discorsi scientifici sugli uomini; in ciò, le situazioni di potere interessano come condizioni costitutive per un sapere scientifico.», J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 278. Aristotele, Etica nicomachea, 1181b, trad. it. di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993, p. 239.
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la sbalza al centro senza però più conoscere quale sia la periferia, dunque in una posizione liminare e indefinita. L’incertezza di questo posizionamento è strettamente connessa allo statuto di quanto umano non è, allo statuto dell’ontologia. Ma per conoscere questo statuto si deve passare per la conoscenza dell’umano, dei suoi mutevoli “mondi vitali”, cui appartengono anche le forme del sapere. E da ciò scaturisce l’arduo e labirintico intreccio tra gnoseologia e ontologia, fatto e principio, individuale e generale. Scaturisce tutto il peso, teorico e pratico, della condizione umana, quale viene configurandosi da Montaigne a Kant. Con una precisazione, però: il pur incerto territorio degli uomini, mantiene un primato fattuale, sia perché altrimenti si introducono istanze e principi “esterni” che sono proprio quanto viene messo in discussione, gravando su di essi, e non sui fatti, l’onere della prova, la pretesa di valere e di poter anzi spiegare i fatti stessi; sia perché la debordante evidenza della molteplicità di volti dell’umano, della terra e anche dei cieli, è il fatto per eccellenza che connota il moderno, il fatto − si pensi emblematicamente al descubrimiento del nuovo mondo − che mette a soqquadro e resiste all’inserimento in ordini noti e precostituiti. Il primato introduce una dissimmetria nel circolo tra fatto e principio; è la dissimmetria a rendere incerta la posizione della provincia umana, e a rendere problematico l’equilibrio tra fatto e principio, condizione e condizionato. Il richiamo post-kantiano al corpo, alla singolarità, alle masse proletarie o democratiche, alla volontà di potenza, sino al ritorno «alle cose stesse», alla «fatticità», all’«empirismo trascendentale», al «primato del non-identico» cioè dell’oggetto, e alle «pratiche», ne sono tutti indicatori. Nell’ambito delle considerazioni svolte, mi limito a dire che sarebbe un guadagno sia dal punto di vista teorico, sia da quello dell’effettivo lavoro genealogico, ricondursi alla zona grigia, mediante un ripristino di quello sguardo fenomenologico da cui Foucault proviene17 ma che si è lasciato alle spalle, per quella sovradeterminazione di cui parlavo. Del resto quando leggiamo che «il compito della filosofia non è di scoprire ciò che è nascosto, ma di rendere esattamente visibile ciò che è visibile, di far apparire ciò che è così vicino, così immediato, così intimamente connesso a noi, da non poter essere percepito. Mentre la scienza ha il compito di conoscere ciò che non vediamo, la filosofia deve far vedere ciò
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«Vorrei prendere ancora una volta le distanze dalla fenomenologia, che rappresentava il mio orizzonte originario», M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, trad. it. di M. Bertani et al., Einaudi, Torino, 2001, p. 313.
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che vediamo»18, vediamo risorgere involontariamente, quanto inevitabilmente, questa provenienza del genealogista.
4. A prescindere da ulteriori valutazioni teoriche, c’è un nesso storico tra osservazione e antropologia. Storico nel senso generico che Erodoto o Tucidide sono considerati padri dell’antropologia in quanto hanno avuto uno sguardo paziente e acuto sulle “cose umane”, e nel senso specifico che ha indotto Hegel a chiamare «ragione osservativa» quella moderna. Quando lungo il Settecento cominciano a moltiplicarsi scritti e, soprattutto in Germania, anche cattedre di antropologia, il termine non indica una disciplina precisa, ma un genere discorsivo che s’interessa, sino al pettegolezzo, di tutta la scena mondana in cui si muovono gli uomini. Dalla fisiologia alla medicina, dalla storia della terra a quelle delle genti e delle nazioni, dagli usi e costumi alla psicologia individuale, dalla psicopatologia della vita quotidiana alla storia naturale; arti, mestieri, viaggi, avvenimenti, teatro, letteratura, arte, ...ogni cosa sembra incuriosire e pare utile a farsi un’idea di sé. Contenitore indefinito, genere parassitario, l’antropologia cammina in parallelo con la formazione della borghesia e la costituzione dell’“opinione pubblica”. Il suo spazio − un po’ come le riviste settimanali di oggi − sta tra Tristram Shandy e Faust, la Nona sinfonia e Così fan tutte, la fenomenologia dello spirito e la ricchezza delle nazioni. Foucault lo sa bene, perché è partito dall’Antropologia pragmatica, dove tra sensi, passioni, rappresentazioni oscure, strilli di bambini, smorfie, giochi di società, battute di spirito, dottrina dei temperamenti, delle razze, storia delle generazioni umane, si squaderna la Lebenswelt, il vero “oggetto” del discorso antropologico tra Settecento e primo Ottocento. Il “terreno” del mondo della vita fatto di corpi, comportamenti, abitudini, credenze, rappresentazioni; è un terreno quotidiano, ma stratificato, policentrico, politematico; un terreno-mondo, dove cioè questi molti centri, molti lati si intrecciano e si rinviano reciprocamente formando un orizzonte, una totalità vaga, sfumata, mobile, eppure ostinatamente presente. Via via questi mondi vitali vengono emergendo come spazio primario dell’esperienza che circonda e precede ogni riflessione e sistemazione concettuale e che pertanto non riesce ad essere incasellato. Questo stretto legame tra antropologia e mondo è fondamentale. Non perché l’uomo sia al centro del mondo (come un po’ ingenuamente si ripete anche leggendo titoli come La posizione dell’uomo nel cosmo, o I Gradi del mondo organico e l’uomo), ma perché per comprendere anche solo il profilo fisico dell’uomo occorre guardare al mondo, nel senso 18
Archivio Foucault 3, cit., pp. 103-104.
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di saeculum e di universum, Mondo della vita e non epistemai (economia, linguistica, biologia), dunque. Anche quando quel mondo sarà ripartito tra le varie scienze umane, quel che esso rappresenta, i motivi della sua insorgenza, restano. Ampliando peso e significato della tradizionale filosofia pratica, esso è sorto poiché né speculazione né scienza, né sistema teorico né saperi particolari potevano averlo ad oggetto, e tale si è mantenuto, come tale continua a provocare la riflessione, sia sul piano categoriale, sia sul piano descrittivo. Foucault sa bene tutto ciò e però lo ha voluto dimenticare, al punto che l’archeologia trascura perfino il semplice dato storico del termine “antropologia”, per nulla coincidente con la nascita delle scienze umane. È proprio perché il mondo della vita non riesce ad avere fissa dimora, non ha patria, che nasce il genere “antropologia” − per questo e non perché ad un certo punto tutto viene ricondotto all’uomo, ridotto ad antropologia. Poi le due cose, riduzione antropologica ed emersione tematica del mondo della vita, si intrecciano, tendono anzi a sovrapporsi. Ma o la sovrapposizione viene ripensata in termini di intreccio (il circolo empirico-trascendentale) oppure la sovrapposizione, comunque avvenga (ad opera delle scienze o di teorie filosofiche), cancella la “questione” stessa dell’antropologia, e, con essa, quella di cosa sia la condizione umana oggi.
5. Vorrei adesso brevemente utilizzare come caso di scuola l’antropologia filosofica tedesca di primo Novecento. Nelle letture correnti essa viene immessa nel cortocircuito umanismo/antropologia/metafisica; si fa un rapido riassunto del modello di uomo che proporrebbero e si passa al post-umano e alla post-antropologia. Anche qui mi pare sufficiente un elenco tematico, per segnalare che quanto vogliamo capire ora dipende molto da quello che non abbiamo capito prima, a causa del cortocircuito. Insisto sul semplice indice tematico, perché ci si è talmente assuefatti a rubricare l’antropologia sotto una concezione “umanistica”, che non si percepisce neanche più il dato documentario dei suoi contenuti. Da Scheler a Plessner, da Cassirer a Anders troviamo analisi su questi argomenti: rapporto mente-corpo, organismo e funzioni superiori, astrazione e sensibilità, linguaggio e percezione; percezione, immaginazione e movimento; analisi del corpo fin dalla sua costituzione anatomica e sensoriale, dal suo posizionamento ambientale e dalle sue prestazioni tecnico-manipolatorie (stazione eretta ed espansione del campo visivo, plasticità dei movimenti della mano; coordinazione sensomotoria, virtualizzazione dell’azione per mezzo di abiti, segni e strumenti; specificità dei diversi sensi, fenomeni cinestesici, sinestesie; gestualità, espressioni
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mimiche, sessualità, emozioni, passioni). Dalla nozione di ambiente si passa all’analisi della “mondità”, cioè dell’iscrizione del corpo nelle dimensione dell’“essere-con” altri, dell’“intelletto generale”, dell’acquisizione di abiti mentali e comportamentali, nella sfera culturale, cioè della “coltivazione” e della gestione politica di modi di essere e di fare (ruoli, simboli, divieti, riti, istituzioni, tecniche, saperi). Insomma c’è n’è un bel po’, ed è in sostanza la tarda eredità dell’antropologia primo-moderna, dopo l’assestamento delle scienze umane, e in generale dei parametri scientifici quale criterio della conoscenza. Il motivo conduttore è certo la relazione bios/logos, o, in termini classici, la “natura umana”, ma da intendere nell’ampiezza analitica approssimativamente riassunta, che rinvia all’esigenza di dare ragione dei molteplici aspetti con cui c’è “uomo”, si fa esperienza (sono corpo, emozione, desiderio, sognatore, lavoratore, amante, amico, nemico, elettore, consumatore, paziente... parlo, immagino, penso, ascolto musica, guardo immagini, tocco corpi, rido, piango, odio, amo...). Tutto ciò richiama il senso di mondo della vita che dicevamo coestensivo all’antropologia, e si traduce in una domanda del tipo: come va pensato l’uomo affinché tanti disparati aspetti possano essere compresi come caratterizzanti e costitutivi del suo essere; come vanno connessi, senza introdurre una gerarchia precostituita? Faccio notare che una domanda del genere, il problema che solleva, almeno, è quanto resta di principio escluso dalle singole scienze umane, dalle tecnoscienze, e dalle teorie filosofiche che affondano tutto nell’inferno della metafisica. Lavorino su un aspetto, o su molti ma utilizzando un modello esplicativo predeterminato (evoluzionismo, neurobiologia, sociobiologia, cognitivismo; umanismo, scientismo, soggettivismo, fondazionalismo), il problema è dissolto, e con esso la possibilità di interrogare la nostra esperienza. L’approccio epistemico foucaultiano corre lo stesso rischio. Basterebbe menzionare il dialogo con Chomsky, dove Foucault sostiene che la natura umana è solo più un «indicatore epistemologico»19, una cornice che individua un oggetto e guida una ricerca. Con il che non solo si accetta una versione predeterminata di natura − quella scientifica − , ma se ne deve dedurre che cambiata la cornice epistemica, l’oggetto cambia del tutto, rivelandosi inesistente. Il caso della natura è particolarmente forte per via del suo essere un classico tema antropologico e per la sua articolazione attuale pressoché del tutto in mano alle tecnoscienze. In esso si vede bene l’effetto dell’approccio foucaultiano: facendone un indicatore, lo consegna al sapere dominante e fine. Che si possa fare diversamente, leggervi qualcosa di più 19
N. Chomsky-M. Foucault, Della natura umana, trad. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 13.
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oltre a quello che ne dice la biologia, per esempio seguendo i fili tematici sopra accennati, non è dato. Sicché proprio il lavoro del genealogista sembra rimettersi al regime di verità da lui individuato. Paradossalmente, lo sguardo plebeo qui finisce coll’assomigliare allo “sguardo monocolare” che Nietzsche denunciava nell’intellettualismo socratico. Si potrebbero fare considerazioni analoghe anche rispetto alla biforcazione finale, in Foucault, tra biopolitica ed estetica dell’esistenza: alla penetrante individuazione del nuovo meccanismo di potere fa da controagente la fuga del singolo. Cioè, alla fine, di chi ha già salvato se stesso leggendo e conoscendo; per gli altri, le masse, pazienza. Forse, il ripristino di una capacità guardare, di una sensibilità fenomenologica, aiuterebbe a non sottostare al regime discorsivo vigente, osservando con “occhi di mosca” quello che c’è. Da sempre il compito filosofico più arduo, poiché solo dalla complicata ampiezza di quello che c’è, otteniamo un adeguato darne ragione e adeguate proposte teoriche e politiche (sottolineo politiche, che riguardano i più. La politica “pedagogica” dei fini, in questo senso, non è molto diversa, né peggiore dell’etica della cura di sé, della salvezza personale). Tradotto nell’agenda foucaultiana: si tratta di riandare a quel testo sull’Antropologia pragmatica che non doveva mai trovare luce e che forse è il cuore segreto della sua opera. 20
20
È la tesi di M. Fimiani, sostenuta in Foucault e Kant, La Città del Sole, Napoli 1997, e ripresa in L’arcaico e l’attuale, Boringhieri, Torino, 2000. Concordo con essa, ma non sull’elemento della continuità in cui rientrerebbe la “svolta etica”, la quale mi pare piuttosto la conferma dell’irrisolto nodo teorico che ho cercato di evidenziare.
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17 ‘TRUE CRIME’. ESPERIENZA LETTERARIA DEL CRIMINE REALE di Hartmut Retzlaff
Le seguenti considerazioni s’intendono come nota all’osservazione di Surveiller et Punir: «La littérature policière transpose à une autre classe sociale cet éclat dont le criminel avait été entouré. Les journaux, eux, reprendront dans leurs faits divers quotidiens la grisaille sans épopée des délits et de leurs punitions. Le partage est fait; que le peuple se dépouille de l’ancien orgueil de ses crimes; les grands assassinats sont devenus le jeu silencieux des sages»1. La restituzione del crimine alla grisaille du peuple non può svolgersi tramite un’operazione di storicismo sociologico; anzi, in un contesto di orizzonti liquidi, deve tener conto di uno sdoppiamento generale: lo sdoppiamento in termini di classe, sesso, razza, in termini di percezione dell’Io, in termini di percezione del mondo in cui viviamo, sdoppiato anche mediaticamente. Comincerei con due racconti dell’estate newyorkese del 1999 in occasione di una cena fra appartenenti alla borghesia ebrea:
1
M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris 1999 (riedizione), p. 82. (trad. it. di A. Tarchetti, Einaudi Torino 1993, p. 75: «La letteratura poliziesca traspone ad un’altra classe sociale quello splendore da cui il criminale era stato circondato. Saranno i giornali, a riprendere nella loro cronaca quotidiana il grigiore senza epopea dei delitti e delle punizioni. La spartizione è fatta, che il popolo si spogli dell’antico orgoglio dei suoi crimini; i grandi assassini sono divenuti gioco silenzioso dei saggi»).
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1. Senior partner di uno studio di avvocati business: Una Panamense di colore, attiva da quindici anni nello studio, ha una figlia con bebé, da poco divorziata. La figlia vive, dal momento del divorzio, dalla madre, dove ha anche partorito il bebé. Una sera, un amico dell’attuale compagno della figlia si presenta, nasce una lite, la madre cerca di proteggere figlia e nipote. Nella sparatoria moriranno madre e bebé. La figlia sola sopravvivrà con gravissime ferite. 2. Insegnante di una scuola privata della classe superiore “liberal”: Uno degli alunni comincia un job estivo al bar di un Golf-Club. Non c’è bisogno materiale, ma “i ragazzi devono conoscere la vita”. Entra una coppia nel bar, l’uomo va al bagno, la donna, ovviamente molto attraente, scambia qualche battutina col ragazzino, l’uomo torna dal bagno, vede parlare la donna “con qualcun altro”, tira fuori la pistola e ammazza “l’altro”. In tutti e due i casi, il contenuto moralizzante del racconto – che è centrale per le leggende metropolitane – è essenziale. Ogni volta si è toccato un tabù sessuale, ovvio nel caso della figlia divorziata con i suoi rapporti poco regolari, subcutaneo nella conversazione del minorenne con la preda femminile. Un altro criterio dell’urban legend, l’anonimità dell’autore2, sarà garantito quando le vicende saranno raccontate per la terza o quarta volta. Ma anche secondo una concezione più profonda, questi racconti sono delle leggende. Che l’uomo sia buono o cattivo, rimane, finché non traduca la sua bontà o malvagità in azioni buone o cattive, pura opinione. Prima deve agire. Come ha decretato André Jolles nel suo famoso saggio sulle Forme semplici: «Nel crimine, il criminale si contraddistingue qualitativamente dagli altri cattivi»3. Santi e Criminali sono, così, persone che concretizzano il concetto del Buono e, corrispettivamente, del Cattivo. Chi agisce da Cattivo è un modo di concretizzazione di un’entità astratta, del Cattivo ‘in sè’. Jolles parla di Anti-Leggenda: «All’Inimitabile, che comunque dovremmo cercare 2
3
J. H. Brunvand, in Folklore. A Study and Research Guide, New York 1976, elenca quattro elementi della urban legend: 1) la sua comparsa incontrollabile e la diffusione con sempre nuove varianti; 2) il suo contenuto di humor or horror, che nel caso dell’horror, assume un carattere moralizzante – l’horror svolge una funzione punitiva per le contravvenzioni alla norma; 3) il risultato deve sempre essere una storia riuscita; 4) le storie non devono per forza essere inventate (anche se, nella maggior parte dei casi, lo sono) – ciò che interessa è la vita narrativa dei fatti. A. Jolles, Einfache Formen, Tübingen 1930, p. 29.
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d’imitare, si deve poter contrapporre una figura, da non seguire sotto alcuna circostanza, che ci dà la coscienza concreta di cosa non imitare. Al Santo si deve contrapporre un Non-Santo, alla Leggenda un’Anti-Leggenda»4. Proprio la centralità della figura del “Non-Santo”, però, scinde L’Antileggenda, nella concezione di Jolles, dall’urban legend. Perchè, se nel nel concetto di urbanità si concentra la socializzazione moderna, diversa dalla «sentita appartenenza dei membri» della comunità, e se la socializzazione è caratterizzata principalmente da scambio e razionalità di scopi e di valori («Zweckrationalität», «Wertrationalität»), qui si elencano in stile puramente weberiano caratteristiche astratte5. Sotto la preponderanza dell’astratto, il modo di concretizzazione non giace più sul delinquente, di cui non si capisce più cosa deve ancora personalizzare, bensì sulla vittima. Mentre il santo abbisogna del miracolo e il delinquente del delitto per lasciare traccia, il cadavere sta là già da sempre, e abbisogna soltanto della scientifica per ottenere carattere significativo. Il cadavere è il momentum centrale di ciò che Mark Seltzer6 descrive come wound culture, la quotidianità non-eroica della ferita, fin dall’inizio del ‘900. Il contesto di questa wound culture consiste in una vita urbana, nella quale l’individuo non riesce a contrastare la tempesta di stimoli nelle grandi città. Così, la sintomatologia si sposta dallo choc di simmeliana memoria (contro il quale l’individuo poteva mobilitare l’atteggiamento blasé) al trauma (dove la ferita ormai fa parte della personalità, che non dispone più delle risorse dell’Io da impegnare nella sua difesa). Dall’altro lato, già il delinquente che Hegel liquidò come figura eroica prestatale7, nell’‘800 fu sostituito dall’individuo pericoloso, a cui fa riferimento anche Foucault. La restituzione del crimine al popolo, di cui parla Foucault, negli Stati Uniti si chiama true crime. Ed è soltanto il true crime, l’Anti-Leggenda senza eroi, che tematizzerò nel corso delle mie considerazioni. 4 5 6 7
Ivi, p. 51. Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 5a edizione, Tübingen 1972, pp. 21-22. M. Seltzer, Serial Killers. Death and Life in America’s Wound Culture, New York-London 1998. G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse. Mit Hegels eigenhändigen Notizen und den mündlichen Zusätzen, ed. tasc., Frankfurt a. M. 2002, § 93, Zusatz (cfr. l’edizione italiana a cura di F. Messineo, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 377: «Nello Stato, non possono più esservi eroi: questi si presentano soltanto nella situazione di incultura»).
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La «cultural interestedness» nell’assassinio, di cui parla Sara Knox8, viene ultimamente amplificata da complessivi cambiamenti nel campo di mass media: una moltiplicazione di coloro che offrono la merce “notizia”, la spettacolarizzizazione dei processi penali che portano persino alla fondazione di una rivista specializzata: «Communication and the Law». True crime è da collocare in questo contesto mediatico. Si tratta di un racconto di seconda mano che pretende in senso doppio di essere realista: una volta, perché parte veramente dai fatti. Ma anche, una seconda volta, perché crea veramente realtà, realtà letta e percepita come “vera”. Ciò che è accaduto ad Atlanta, Georgia, negli anni ’80, assume un valore simbolico. Esempio del prosperoso Sud degli Stati Uniti (sun belt), è la patria di un marchio di bevande analcoliche conosciuto a livello globale, patria anche delle giovani ditte High Tech, per non parlare della CNN. La maggioranza degli abitanti di Atlanta sono dei neri, il sindaco è un ex-protagonista delle lotte per i diritti civili. Dal 1979 al 1980, ventotto bambini di colore saranno uccisi. Alla sottovalutazione di questa serie di assassini non appartiene soltanto la connotazione sessuale dei delitti, ma anche l’appartenenza razziale delle vittime: «murder by its statistical nature, becomes nature of race» dice Sara Knox9. L’FBI interviene soltanto quando la tredicesima vittima non è più dei quartieri poveri della Inner City. L’altro motivo per l’intervento è la fondazione di un comitato cittadino da parte della madre di una delle vittime. L’autore James Baldwin, nel suo grande réportage The Evidence of Things not Seen10, racconta come «la situazione economica e sociale delle vittime» conducesse alla «indifferenza ufficiale nei confronti della macellazione dei bambini». Secondo Sara Knox, «the anxious need of the authorities to aggregate, contain, and explain»11 porta all’identificazione dell’individuo pericoloso, accusato degli «Atlanta Child Killings». 8
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10 11
S. L. Knox, Murder. A Tale of Modern American Life, Durham-London 1998, p. 18; cfr. anche W. Lesser: Pictures at an Execution. An Inquiry into the Subject of Murder, Cambridge 1993, p. 1: «I’m interested in our interest in murder.» S. L. Knox, Murder, cit., p. 157; cfr. U.S. Department of Justice (Bureau of Justice Statistics), Violent Crime, Washington, D.C. 1994, p. 3: «Black males had the highest homicide rate (72 per 100,000 population), followed by black females (14 per 100,000), white males (9 per 100,000), and white females (3 per 100,000)» J. Baldwin, The Evidence of Things not Seen, New York 1985, p. 54. S. L. Knox, Murder, cit., p. 155.
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Prima incongruenza: la incommensurabilità delle cause di morte – fra nove cause di morte, si identificano cinque tipi diversi di morte, altre quattro vittime sono troppo decomposte per identificare la causa di morte. Seconda incongruenza: l’incommensurabilità del reo – oltre al physique du rôle non adeguato, Wayne Williams era stato arrestato per l’uccisione di due uomini adulti. Nonostante queste incongruenze, il pubblico accetta la presentazione dell’individuo pericoloso, perché, come scrive James Baldwin, «la comunità produce il trasgressore per rinnovare se stessa».12 Il precedente racconto è il distillato di tre racconti diversi: da un lato quello dell’agente FBI che si occupò del caso, dall’altro lato quello dello scrittore interessato, mentre la terza è una sociologa australiana che ha vinto una borsa di ricerca per gli Stati Uniti. Tocchiamo qui un problema essenziale della narrazione dell’assassinio, lo sdoppiamento dell’autore: all’autore del crimine si accompagna l’autore della narrazione. La narrazione di finzione colloca l’autore in una posizione esterna al testo e obbedisce così al postulato che l’opera sia autonoma. L’opera autonoma mira soltanto ad essere riuscita, la sua comunicazione è intransitiva. Perciò, il suo testo è un sistema semiotico che fa riferimento a qualcos’altro, ad un proprium che non si materializza testualmente, ma che esiste solo in questo riferimento. La costruzione di “senso” è allora compito del lettore, la retorica del testo si scopre retorica della lettura. Questa scoperta è il più importante contributo del decostruttivismo.13 True crime elimina la finzione che scinde l’autore del testo dall’io del testo. L’agente FBI, tuttavia, mira ad una narrazione coerente; ma la coerenza della narrazione non corrisponde ad un’eventuale coerenza dei fatti. Anche l’agente FBI concede a un certo punto la possibilità che la maggior parte dei casi dei bambini ammazzati possa non avere alcun nesso col condannato14. La coerenza è retta da centinaia di campioni di tessuto e di capelli e dal profilo dell’assassino, profilo escogitato prima dell’arresto di Wayne Williams. Col cosiddetto profiling si seppellisce un secolo di illuminismo criminologico: Thomas Byrnes, nel 1886, con il suo saggio Professional Criminals of America, aveva rotto con la riduzione del criminale ad un tipo. Nello stesso momento, però, la tipizzazione del delinquente è consona ad una società 12 13 14
J. Baldwin, The Evidence of Things not Seen , cit., p. 122. Cfr. P. de Man, Allegories of Reading: Figural Language in Rousseau, Nietzsche, Rilke, and Proust, New Haven 1982. J. Douglas, Mindhunter. Inside the FBI Serial Crime Unit, New York 1995, p. 217.
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dove tutto subisce la standardizzazione. L’individuo, dunque anche l’individuo pericoloso, si trasforma in una persona statistica. La persona statistica, però, – questo il dilemma del profiling – per un detective non ha più valore. Per illustrare il dilemma del profiling, rimando all’episodio del cosiddetto Beltway Sniper oppure Washington Sniper, un cecchino che, nell’ottobre 2002 fra Washington D.C. e l’Interstate Highway 95 della Virginia, colpiva gente che faceva benzina, caricava la macchina nel parcheggio del supermercato, ecc. Uccise dieci persone e ne ferì gravemente tre. I profilers dell’FBI disegnavano il quadro di un assassino bianco della classe media che commetteva i suoi agguati dopo il lavoro, agendo da solo. Alla fine risultò che agivano in due, John Allen Muhammad e Lee Boyd Malvo, erano neri e disoccupati. Un altro caso sarebbe il cosiddetto Unabomber (Theodore John “Ted” Kaczynski), che è stato condannato per sedici omicidi, più sette tentati omicidi. Anche in questo caso furono coinvolti i profilers dell’FBI – senza successo. L’Unabomber, promettendo che dopo la pubblicazione della sua dichiarazione programmatica, il famoso Unabomber Manifesto, avrebbe smesso di commettere i suoi attentati, riuscì a far pubblicare il suo documento sul New York Times e il Washington Post del 29 settembre 1995. Il fratello minore di Kaczynski, leggendo il Manifesto sul giornale, riconobbe il linguaggio del fratello maggiore e condusse gli investigatori all’abitazione di Kaczynski, una capanna nelle montagne del Montana. In questo caso, Kaczynski non fu incastrato dai profilers, ma dalla critica stilistica. Non esiste un caso risolto dai profilers. In più, il profilo del delinquente implica nella sua applicazione concreta un modello di determinismo che ci riporta di nuovo all’‘800. La pura povertà, però, non ci porta a torturare bambini nello scantinato, come ha osservato Kate Millett.15 Di regola, i delinquenti seriali s’informano nella letteratura specializzata e particolarmente nel true crime su cosa contraddistingue il vero delinquente seriale. Ugualmente di regola, agiscono sperando nelle ripercussioni pubbliche – nelle parole di un serial killer: «I want crowds around me to listen to my solitude».16 Così il serial killer diventa espressione perfetta della società mediatica, si nutre di informazioni ed è efficace per mezzo delle informazioni.
15 16
K. Millett, The Basement. Meditations on a Human Sacrifice, New York 1979, p. 58. M. Seltzer, Serial Killers, cit., p. 54.
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L’attrazione che true crime esercita sugli autori della cultura high brow, consiste nel carattere poco formalizzato del genere. Quest’apertura del genere permette all’autore di abbandonare la sua posizione esterna al testo e di mettere in gioco se stesso come soggetto – fino alla dissoluzione dell’Io, fino alla fusione con la vittima, o con l’autore del crimine: « (...) I was Sylvia Liken. She was me.» «I become Gertrude. I invent her, conceive her, enter into her, even into the long afternoons of her end (...)»17.
L’abbandono del tradizionale ruolo d’autore coincide con profondi cambiamenti nell’orizzonte dei valori nel mondo vissuto, che rende la coerenza narrativa sempre più problematica. Critica dell’autorità e crisi del ruolo d’autore coincidono. Come ha osservato Roland Barthes nella sua Leçon, la scomparsa della lettaratura maestra non significa la distruzione della letteratura in sè: «De toute façon, la maîtrise littéraire disparaît, l’écrivain ne peut plus faire parade. D’autre part et ensuite, mai 68 a manifesté la crise de l’enseignement: les valeurs anciennes ne se transmettent plus, ne circulent plus, n’impressionnent plus [...]. Ce n’est pas, si l’on veut, que la littérature soit détruite; c’est qu’elle n’est plus gardée [...]».18 Nel nostro caso, l’autore lascia il distretto protetto della Letteratura con la “L” maiuscola per recarsi nelle strade aperte del true crime. Eppure, qui, high brow e low brow s’incontrano senza salutarsi. Dieci anni dopo la pubblicazione del libro di Baldwin, l’agente FBI Douglas non menziona neanche minimamente il grande scrittore nero. E ancora tre anni più tardi, la sociologa Sara Knox, nella sua difesa di Baldwin, non meziona Douglas. Quello che Knox chiama «the move to self-reflective narrative»19 non trova un linguaggio in comune col bisogno di 17 18
19
K. Millett, The Basement, cit., p. 14; 290. R. Barthes, Leçon, Paris 1978, pp. 40-41 (si tratta della lezione inaugurale della cattedra di Semiologia letteraria tenuta da Barthes al Collège de France il 7 gennaio 1977, paragonabile a quella altrettanto celebre tenuta da Foucault al Collège nel 1971, L’ordine del discorso; cfr. la trad. it. di R. Guidieri in R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 2001, pp. 192-193: «Ad ogni buon conto, il magistero letterario scompare, lo scrittore non può più fare sfoggio. D’altra parte e in secondo luogo, il maggio ‘68 ha reso palese la crisi dell’insegnamento: i vecchi valori non si trasmettono più, non circolano più, non impressionano più [...]. Se vogliamo, non è che la letteratura sia distrutta; è che non è più custodita [...]».) S. L. Knox, Murder, cit., p. 10.
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concretizzazione dell’agente FBI. L’evidenza delle cose non viste, questa la traduzione italiana del titolo del libro di Baldwin, si scontra con l’evidenza di più di settecento campioni di capelli e tessuti che inducono il pubblico e le istituzioni a credere incastrato l’assassino con l’arresto di Wayne Williams. In tal senso, Baldwin offre una contro-narrazione che non si interessa più dei possibili autori dei vari delitti, bensì delle narrazioni che creano da una moltitudine di delitti una serie, che si possa ricondurre ad un soggetto identificabile, visto come autore di questa serie, visto come l’individuo pericoloso. Col nascere della metropoli moderna – Manhattan, verso la metà dell’‘800, registrava una crescita di popolazione di quasi il 60 % per decade – nel cuore del paesaggio urbano si crea un paesaggio diverso che pretende di essere natura. È, invece, costruito artificialmente, assorbe il lavoro della società – lavoro che, diversamente da quello svolto nel paesaggio urbano e razionalista intorno, non porta frutti, ma viene ingoiato. Il Central Park, inteso così, è «una macchina botanica che rende se stessa materia prima di ‘lavorazione’»20, dunque un automa. In questo terreno automatico, apparecchi bioeconomici si muovono sotto forma di joggers, skaters, ciclisti, che a Wall Street o in passerella magari sfrutteranno i risultati del loro moto senza meta. Qui, invece, seguono scopi astratti, sono indifferenti agli altri che sono indifferenti a loro, celebrano un auto-riferimento della fisicità che forse coincide coll’autoerotismo persino nel godimento. Nelle intenzioni di Frederick Law Olmsted, il superintendent del Central Park, la sua creazione era luogo di conciliazione fra le classi sociali21. Il parco, nel frattempo, è diventato soggiorno casualmente contemporaneo di individui disparati e disperati. Così segue una trasformazione essenziale della sfera pubblica, spesso concepita come cornice di una discorsività astratta e generica nella quale si poteva sviluppare l’intimità borghese, in direzione di «a radical mutation and relocation of the public sphere, now centered on the shared and reproductable spectacles of pathological public violence».22 20 21 22
H.-D. Bahr, Die Maschine als Garten, in «Theatro Machinarum» 2 (1980), p. 69. Per il pensiero di Olmsted, rimando a The papers of Frederick Law Olmsted, a cura di C. C. McLaughlin, C. Beveridge e D. Schuyler, Baltimore 1977. M. Seltzer, Serial Killers, cit., p. 254.
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Sotto questi auspici, l’incontro degli individui nella sfera pubblica, non è più concepibile come scambio simbolico, bensì come scontro fisico, come mutilazione dei corpi coinvolti, mutilazione che può anche assumere connotati erotici – visto che altri incontri fra corpi non sono più oggetto dell’esperienza quotidiana. «During the night of wednesday, April 19, 1989, a young woman was attacked, brutally beaten, raped, sodomized, robbed, and left bound and gagged, bleeding, naked, and unconscious in Central Park, Manhattan. Within a few days the case of the Central Park Jogger was known worldwide. She was not expected to survive. She did, but she had been permanently damaged. Some of her attackers would admit that they had committed these vicious crimes for no better reasons than that ‘it was fun’ and ‘it was something to do’. They had been - to use their term - ‘wilding’»23. «She had lost 75 percent of her blood. Her skull had been crushed, her left eyeball pushed back through its socket, the characteristic surface wrinkles of her brain flattened. Dirt and twigs were found in her vagina, suggesting rape.».24
Una settimana dopo, una donna nera sarà violentata e quasi decapitata, ancora una settimana dopo, un’altra donna nera sarà derubata, violentata, sodomizzata e poi buttata giù dal quarto piano in una tromba per l’areazione. Nello stesso anno, 3254 violenze carnali vengono denunciate al NYPD. Guardando tanta «senseless violence against women», perché proprio quella del Central Park diventa un simbolo e cosa sta simbolizzando? Sospettato è un branco di giovani neri e ispanici, domiciliati in un complesso di public housing che confina con l’angolo nordest del Central Park. Ciò che funge da scintilla a Harlem è il fatto che poliziotti bianchi indagano per una vittima bianca e, come prima misura, arrestano quattro ragazzi neri e due ragazzi ispanici. Nelle parole di un pastore nero: «The first thing you do in the United States of America when a white woman is raped is round up a bunch of black youths».25 «A vocal element of the community argued that the whole problem was that black and Hispanic youths were accused of raping a white girl.»26. Questo vocal element era una donna nera nei corridoi del tribunale. Ciò che ha detto veramente viene riportato come segue: «White slut comes into 23 24 25 26
T. McKenna, Manhattan North Homicide, New York 1996, p. 1. J. Didion, After Henry, New York 1882, p. 254. Ivi, p. 265. T. McKenna, Manhattan North Homicide, cit., p. 5.
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the park looking for the African man [...]. Boyfriend beats shit out of her, they blame it on our boys [...]. How about the roommate, anybody test his semen? No. He’s white. They don’t do it to each other.»27 Qui, riassunto in poche parole, vediamo ciò che più di un secolo di coesistenza delle razze non ha potuto eliminare: la coscienza afroamericana di potersi riferire soltanto a una storia di colonizzazione in cui i bianchi si consideravano come portatori di civilizzazione, servendosi volentieri della forza muscolare dei neri, guardando però la loro supposta animalità come concorrenza sessuale per l’uomo bianco. Un libro un po’ démodé dice: «The penis, virility, is of the Body. [...] But in the deal which the white man forced upon the black man, the black man was given the Body as his domain while the white man preempted the Brain for himself. By and by, the Omnipotent Administrator discovered that in the fury of his scheming he had blundered and clipped himself of his penis [...]. So he reneged on the bargain. He called the Supermasculine Menial back and said: “[...] I will have access to the white woman and I will have access to the black woman. The black woman will have access to you – but she will also have access to me. I forbid you access to the white woman”».28 «[...] the action of the White Republic in the lives of Black men, has been and remains, emasculation.»29. Solo in questo contesto si capisce perchè McKenna insiste a caratterizzare la vittima come attractive.30 Negli USA, al momento del fatto in questione, vivono 64 milioni di persone sotto l’età di sedici anni, tre quarti di loro nelle grandi città, un quinto in famiglie al di sotto della soglia di povertà, un decimo, tornando a casa dalla scuola, non trova un adulto a casa – sempre ammesso che frequenti la scuola.31 Nel maggio 1987, il sindaco di di Washington, Marion Barry, successivamente noto alla cronaca per storie di puttane e crack, visitò una classe di tredicenni di una scuola secondaria scientifica in un quartiere dalle condizioni sociali piuttosto precarie. Alla domanda chi avesse già perso una persona conosciuta perché assassinata, quattordici dei diciannove alunni davano conferma. Nell’estate dello stesso anno, a Detroit, 102 persone non 27 28 29 30 31
J. Didion, After Henry, cit., p. 297. E. Cleaver, Soul on Ice, New York 1968, p. 153. J. Baldwin, The Evidence of Things not Seen , cit., p. 21. T. McKenna, Manhattan North Homicide, cit., p. 4. K. Zinsmeister, Growing up scared, in «The Atlantic Monthly», Vol. 265, n. 6 (June 1990), pp. 49 e sg.
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ancora dell’età di sedici anni, muoiono a causa di ferite da arma da fuoco, la maggior parte per mano di altri bambini. Non richiede una particolare spiegazione il fatto che la miseria qui descritta riguarda soprattutto bambini neri. Quando gli agenti arrestano Yusef Salaam, la sera del 20 aprile 1989, egli non ha alcuna speranza di essere trattato correttamente. La sua dichiarazione di avere soltanto quindici anni non viene accolta perché il suo abbonamento metrobus lo dichiara sedicenne (un fatto burocratico della MTA che arrotonda l’età sulle tessere). La pm responsabile dichiarerà molto più tardi come l’età del ragazzo sia stata «non chiara». Quando si presenta l’avvocato David Nocenti che si occupa del ragazzo nel contesto di un programma per giovani in situazioni precarie, viene allontanato perché civilista e federal lawyer, quindi non competente del caso. Finché la madre del giovane non avesse nominato un avvocato penalista e la pm, per conseguenza, comunicato a McKenna che l’indagato era eventualmente, o di fatto, minorenne, l’indagato restava nelle mani di McKenna. Durante il processo, persino gli esperti dell’accusa non riuscirono a incastrare i giovani per mezzo di tracce di terra e campioni di capelli. L’unica prova rimane l’interrogatorio di McKenna al minorenne prima dell’intervento del penalista (Bill Kunstler, eroe di tante cause perse, avvocato del civil rights movement). Quando il giudice chiede a Yusef Salaam cosa facesse a Central Park, e riceve come risposta: «Walk around», la pm chiede al ragazzino nero di Harlem: «Did you have jogging clothes on?». Aveva «sports equipment», «a Bicycle»32? I parametri della classe media bianca diventano parametri della giurisdizione. La giuria dichiara Salaam colpevole. Procuratori e ispettori festeggiano il successo con un banchetto da Ёorelini’s, un rinomato locale di Little Italy, oggi completamente ingoiato da Chinatown. Nel 2002, quando Yusef Salaam e i suoi amici avevano già scontato la loro pena – dieci anni, i migliori anni della loro vita – un ergastolano, Matias Reyes, ammise di aver commesso il fatto. Il minore dei fenomeni da indagare è la reinterpretazione del giardino della riconciliazione fra le classi sociali verso un campo di allenamento secondo le norme consumistiche della classe media bianca. Più importante è il giardino come luogo di fusione fra uomo e natura. Il giardino è stato sempre, da Adamo ed Eva, connotato eroticamente, fino alla “bella giar32
J. Didion, After Henry, cit., p. 272.
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diniera”. Era soltanto una questione di tempo che l’oasi della sensualità, dello sconfinamento, trovasse il suo posto definitivo nella scacchiera di Manhattan. Questo posto è bianco. Quello che rimane dell’erotico nella natura urbanizzata, si ritrova nell’autoreferenzialità dei jogger provvisti di sports equipment. Vorrei concludere con un episodio che ho trovato anni fa nel Lansing State Journal33. In quest’episodio troviamo un ulteriore sdoppiamento, dove una persona si scinde in testimone e pubblico. A North Lansing, Michigan, un pensionato va al Grand River per dare da mangiare alle anatre, trova un cadavere in riva, dimentica le anatre, chiama la polizia, concede, però, poco tempo alla polizia e ai giornalisti, perché non vuole perdere i primi telegiornali regionali che parleranno del fatto.
33
“River North: Body Found”, in «Lansing State Journal», June 20, 1999.
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18 FOUCAULT, WARHOL E L’ARTE CONTEMPORANEA di Alessandro Dal Lago
Cerco di affrontare qui una questione di carattere relativamente marginale, l’idea foucaultiana di arte contemporanea. Marginale non perché la questione non sia di un qualche interesse, ma perché i testi che Foucault ha lasciato sulle arti, e sulle arti visive in particolare, sono pochi e abbastanza occasionali. Tutti ricordano l’analisi di Las Meninas di Velazquez, che apre Le parole e le cose1; esiste un volumetto uscito recentemente che raccoglie alcuni testi su Manet2 e poi, naturalmente, Ceci n’est pas une pipe3, che non so fino a che punto sia un testo di commento artistico, e non invece una riflessione su alcune questioni richiamate tra l’altro in questo stesso convegno da Bruno Moroncini, sui deittici e, aggiungerei io, sulla teoria dei frames4. Anch’io sono d’accordo sul fatto che Foucault non affronta le questioni artistiche né da un punto di vista estetico, né da un punto di vista ermeneutico: non si mette ad interpretare, oppure a ricondurre l’opera di un artista, soprattutto visivo, all’interno di una filosofia. L’interesse dei testi sull’arte di Foucault sta invece altrove: nel fatto di illuminare, da un altro punto di vista, alcune questioni fondamentali del suo pensiero, soprattutto l’ultimo. 1 2 3 4
Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1996, pp. 17-30. M. Foucault, La pittura di Manet, Abscondita, Milano 2005. M. Foucault, Ceci n’est pas une pipe, Editions Fata Morgana, Montpellier 1973, trad. it. Questo non è una pipa, Studio Editoriale, Milano 1988. Cfr. B. Moroncini, Foucault e il pensiero del fuori, in questo volume. Cfr. anche A. Dal Lago e S. Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2006.
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Il punto di partenza delle mie considerazioni è costituito da un testo abbastanza noto: la recensione di Foucault a due libri di Deleuze, dal titolo Theatrum Philosophicum5 – un testo, tra l’altro, splendidamente scritto. Molti hanno parlato della capacità di Foucault di scrivere bene; la mia impressione è che scrivesse tanto meglio, quanto più lavorava a testi occasionali (pensate ad esempio a La vita degli uomini infami6). Si vede che quando assumeva una posizione un po’ laterale nei confronti dei suoi temi, Foucault si sentiva più libero di scrivere in un modo, direi, non semplicemente figurale, ma immaginoso. Il testo in questione, Theatrum Philosophicum, si riferisce a due notissime opere di Deleuze, Differenza e ripetizione e Logica del senso, ed esprime a mio parere il rapporto che Foucault ha intrattenuto con questo grandissimo filosofo, il quale ha scritto su di lui7, mentre Foucault ha scritto su Deleuze, appunto, solo cose occasionali. Il tema affrontato nella recensione è la capacità di Deleuze di compiere un gesto filosofico contro Platone; ma non si tratta del solito rovesciamento del platonismo, quanto piuttosto di una posizione non metafisica di costituzione dell’oggetto. E a questo proposito Foucault sbeffeggia un po’ di filosofi (i quali mi perdoneranno: da sociologo, io non ne sono molto toccato). Sono pochissimi quelli che si salvano, appena tre: Duns Scoto, Spinoza e Nietzsche. Tutti gli altri vengono fatti a pezzi. Foucault amava molto queste operazioni di decostruzione della tradizione filosofica in occasioni marginali, quando cioè non era costretto a fare a sua volta il pensatore, non giocava seriamente il suo ruolo di maestro del pensiero. In sostanza, Foucault dice che Deleuze è forse l’unico autore contemporaneo capace di pensare le cose come simulacri. Una breve precisazione: il tema del simulacro divenne di moda, una trentina d’anni fa, grazie a un altro autore, allora à la page ma di certo meno rilevante di Foucault e Deleuze, Jean Baudrillard. Secondo quest’ultimo – debitore in realtà di Guy Debord, e quindi di Lukács – i simulacri sono le finzioni del capitale. In quanto finzioni, si suppone che da qualche parte ci sia una verità più o meno occultata. Ora, per Deleuze (e Foucault) le cose non stanno così: le cose non hanno un fondo metafisico, né una ragione, né un essere obliato o travestito. Sono invece riproduzioni senza originale: questo è il simulacro, nient’altro. Ecco dunque il concetto di ripetizione di un simulacro in Deleuze, inteso da un sociologo, cioè in maniera banale. Dietro il “fuori” 5 6 7
M. Foucault, Theatrum Philosophicum, “aut aut”, 277-279, 1997. Cfr. M. Foucault, La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault 2. 19711977. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, pp. 245-261. Cfr. G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2002.
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non c’è niente. A me viene in mente il mondo di Truman Show, ma senza trucchi, manipolazioni o regie. È un bel modo, forse un po’ sinistro ma realistico, di affrontare il problema del mondo, perché da un lato non si pone un rapporto fenomenologico tra l’oggetto e il soggetto che lo ricostruisce attraverso l’intenzionalità, e, d’altra parte, si esclude anche un punto di vista dialettico. C’è invece questa cosa, al tempo stesso terribile e affascinante, che si può chiamare il mondo come ostensione senza referente. Foucault dice che il prossimo secolo, forse, sarà nel segno di Deleuze. Ho qualche dubbio in proposito. Infatti, la filosofia contemporanea mi sembra vivacchiare all’ombra dell’edificazione e della santità, non dell’anarchismo ontologico di Deleuze (ma della tendenza all’edificazione dirò qualcosa alla fine di questo intervento). Il Deleuze di Foucault, così come l’operazione che fa Deleuze, non è assolutamente edificante, è anzi un pugno contro la tradizione filosofica, quindi contro la rappresentazione, contro la dialettica, contro il platonismo. In altri termini, il Deleuze di Foucault ci invita positivamente a pensare al di fuori della tradizione che ha costituito la filosofia, dalla Ionia a Jena. A me ha sempre incuriosito in questo testo un esempio che, si potrebbe dire, convoca il diavolo nell’acquasantiera, e cioè un artista, ma non un artista qualsiasi, bensì l’artista pop per definizione, Andy Warhol. Il testo è noto, ma lo riporterò ugualmente. Tra parentesi, la traduzione italiana sembra una vendetta inconsapevole della filosofia scolastica contro Foucault. Il traduttore infatti rende la parola betîse – fondamentale nel Flaubert di Bouvard e Pécuchet, un’opera chiave per comprendere Foucault – con “bestialità”, e quindi animalizza qualcosa che non ha assolutamente niente di animale, ed è invece una parola parzialmente intraducibile, ma che potremmo rendere con “stupidità”, nel senso di piattezza, ottusità – come quando mio padre ingegnere mi diceva “sei una bestia” perché non riuscivo ad apprezzare la bellezza di qualche teorema: non voleva dire che ero un animale, voleva dire che proprio non capivo, ero ottuso, thick as a brick. Ora, è proprio a partire dalla betîse che si assiste a una delle poche incursioni, brevi ma estremamente significative, di Foucault nell’arte contemporanea. La traduzione che segue è ovviamente modificata. Grandezza di Warhol con le sue scatole di conserva, i suoi incidenti stupidi e le sue serie di sorrisi pubblicitari: equivalenza orale e nutritiva di queste labbra dischiuse, di questi denti, di queste salse di pomodoro, di questa igiene da detergente; equivalenza di una morte nel vano di un’automobile sventrata, all’estremità di un filo telefonico appeso a un palo, tra i bracci sfavillanti e azzurrognoli di una sedia elettrica. “Una cosa vale l’altra”, dice la stupidità, sprofondando in se stessa, e prolungando all’infinito ciò che è per quello che
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dice di sé: “Qui o altrove, sempre la stessa cosa; che importa la variazione di qualche colore o una luce più o meno forte; come è stupida la vita, la donna, la morte. Come è stupida la stupidità”. Ma se si contempla bene in volto questa monotonia senza limiti, ciò che di colpo si illumina è la molteplicità stessa – senza nulla in cima, al centro o al di là – , crepitio di luce che corre ancora più rapida dello sguardo e volta a volta illumina queste etichette mobili, queste istantanee imprigionate che ormai per sempre, senza nulla formulare, si fanno segno: tutt’a un tratto, sullo sfondo di questa inerzia equivalente, la zebratura dell’evento squarcia l’oscurità e il fantasma eterno parla in questa scatola, in questo volto singolare, senza spessore.8
Va detto che, pochi anni prima, Warhol aveva organizzato a Parigi una mostra intitolata Death and Disaster, che in America non aveva avuto nessuna fortuna perché, secondo alcuni critici, ricordava troppo agli abitanti di New York come fosse sgradevole la loro esistenza. Infatti vi si mostravano incidenti stradali, vittime di omicidi e così via. Invece a Parigi la mostra ebbe un successo straordinario; vi erano esposte alcune serigrafie della serie Electric Chair. Ciò è abbastanza importante, perché nel testo citato ritrovate il riferimento alla sedia elettrica: questo crepitio superficiale, questa piattezza che Foucault chiama stupida è la piattezza del reale, la cui presenza è fondamentale in Warhol – ed è per questo che Foucault lo cita, anche in altri contesti: insieme a Deleuze, egli lo amava moltissimo. Quella di Warhol non è rappresentazione, non è immagine, non è figura, non è arte secondo il senso comune, ovvero qualcosa che ci rimanda a forme che esistono nella realtà, ma è qualcosa di più della realtà, è un’altra realtà, una terza realtà, rispetto al soggetto e al mondo della vita. Proviene dal mondo della vita ma è qualcosa di più, ed è esattamente quello che Foucault ha ritrovato in Deleuze. Perché questo esempio? Ho una mia piccola interpretazione, che vi sottopongo prima di parlare dell’altro protagonista di questa breve considerazione meta-artistica o meta-foucaultiana, cioé l’evento. Sono convinto che Foucault pensasse che l’arte non è una pratica da sottoporre all’estetica o alla filosofia, ma è un altro modo di pensare. E questo, anche se i suoi riferimenti artistici – tranne Warhol – sono un pochino tradizionali e figurativi (Magritte era un virtuoso un po’ meccanico del trompe l’oeil, e Manet era certamente un pittore rivoluzionario, che però si muoveva ancora all’interno della moderna tradizione figurativa, cioè di un’arte precedente all’avanguardia – mentre invece Warhol, anche se lavora con le immagini, appartiene ormai a un altro mondo). 8
M. Foucault, Theatrum Philosophicum, cit., pp. 69-70.
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Concedetemi una digressione. Credo che la filosofia abbia un grosso problema con l’arte contemporanea perché, come dice A. C. Danto, l’arte contemporanea è un tipo di filosofia, un tipo di pensiero che non lavora, come fanno i filosofi, con l’argomentazione, l’analisi, la scrittura, ecc., ma che è uscita un po’ dalla sua legittimità tradizionale, dalla figuralità e anche dal mondo delle immagini, per entrare in quello delle idee (e non mi riferisco solo all’arte concettuale)9. È difficile, per esempio, concepire Marcel Duchamp solo come un simpatico goliardo. Era molto di più: uno che ha scavalcato il bordo, il limite dell’arte (l’arte come farsi della rappresentazione), reinventandola come modo di pensare. I ready-made non solo sbeffeggiavano l’arte moderna (questo la filosofia potrebbe tollerarlo), ma erano un modo di fare filosofia, esibendo il gesto artistico come strategia cognitiva, iscrizione, mise en abîme. Questo vale anche e soprattutto per Warhol: possiamo avere simpatia o no per lui, ma non possiamo non riconoscere la portata concettuale della sua opera. Marylin Monroe e Mao, serigrafati e colorizzati, sono ipostasi delle nostre divinità mercificate. Anzi, sono puri e semplici simulacri nel senso di Deleuze e di Foucault. Io ritengo in particolare che Warhol sia riuscito a pensare il fantasma della merce che si è involato fino a diventare l’unica realtà. Ha perso tutti i riferimenti al valore d’uso, ma in questo modo è divenuto “fantasma in sè”, qualcosa che trascende sia la Erscheinung sia il noumeno. Foucault e Deleuze pensavano in fondo a un mondo fatto esclusivamente di queste irreali realtà. In generale, la filosofia non ama molto l’arte contemporanea perché questa o è concettuale (Duchamp, Y. Klein ecc.), oppure esprime con forza, anche se è legata ancora alle immagini, un certo tipo di pensiero (Warhol). C’è naturalmente l’arretratezza dell’estetica filosofica, che si vede sottratta dall’arte contemporanea la tradizione moderna, così confortevole con i suoi impressionisti, il suo Van Gogh e al limite il suo Picasso, così umani, si potrebbe dire, da scatenare le considerazioni di Heidegger su un paio di vecchie scarpe o i proclami sulle colombe della pace. Ma c’è anche la sensazione di una sorta di concorrenza sleale. L’artista non si limita a dipingere o a scrivere poesie, ma pensa! Ed ecco che Foucault, nel quadro di una recensione di Deleuze, chiama in causa Warhol. Cita la grandezza di un artista il quale sembrerebbe essere il corrispettivo di Deleuze. Deleuze stesso dice qualcosa del genere, cita spesso Warhol nei suoi libri e nei due recensiti da Foucault. È come se tutti pensassero un accesso plurale a questa sorta di oggettività piatta, senza fondo, che è il mondo in cui viviamo. E quest’accesso 9
A. C. Danto, The Philosophical Disenfranchisement of Art, Columbia University Press, New York 2004, seconda edizione ampliata.
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non è dato solo dalla filosofia (dalla metafisica o dall’estetica), ma anche da altre pratiche di conoscenza, che sono artistiche, cioè pratiche in cui si fa qualcosa e così facendo si pensa qualcosa. Questo non lo dico perché esiste un libretto piuttosto divertente, nel suo cinismo, che si chiama La filosofia di Andy Warhol10, ma perché l’opera di artisti come Duchamp e Warhol, tra concettualismo e pop art, rappresenta un altro modo di pensare e di dare un senso al mondo, scavalcando così le tradizioni consolidate di pensiero. È per questo che trovo estremamente interessante il testo di Foucault. Un’altra piccola digressione. Foucault aveva già compiuto un’operazione del genere nel caso di Manet, e cioè della modernità in pittura. Perché, si chiede Foucault, i “borghesi”, che pure cominciavano a tollerare, se non ad apprezzare, gli impressionisti erano così scandalizzati da Manet? Perché, risponde, Manet rinuncia alla prospettiva, sopprimendo così (e questo è molto filosofico) la distanza rassicurante tra soggetto e oggetto, che tradizionalmente cerchiamo nella storia dell’arte11. Ci fa vedere Olympie nuda, senza ombre; è come se noi avvertissimo il sentore di quella carne. Ed è proprio per questo, a causa della prossimità, che qualcuno andò nel Salon dov’era esposto il quadro e cercò di bucarlo con un ombrello (i borghesi raccontati da Maupassant frequentano le mondane, ma non amano trovarsele tra i piedi quando si danno all’arte). Olympie è troppo vicina allo spettatore, è estranea a quella distanza tra soggetto e oggetto che (con tutte le sue variazioni) è un po’ l’anima dell’impresa filosofica, il suo cuore rassicurante e borghese. Analogamente, che cosa fa ancora Manet quando dipinge Le fusillement de Maximilien? Mostra i soldati messicani, quelli che fanno fuori davvero Massimiliano, e li veste con divise francesi. Come per dire: si vede che è stato ammazzato dai francesi, dall’imperatore suo parente che non l’ha salvato12. Ma soprattutto, abolendo la prospettiva e dipingendo una scena sordida, Manet abbassa la rappresentazione artistica e fa una sorta di cronaca, offensiva nei confronti di chi guarda il quadro perché gli ricorda brutalmente la realtà, non la sublima nell’epopea. Anche qui c’è un effetto di pensiero, perché Foucault non dice semplicemente che Manet ‘innova’ rispetto alla storia dell’arte tradizionale, ma che Manet 10 11 12
A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Milano, Bompiani 1994. M. Foucault, La peinture de Manet, Seuil, Paris 2004. Massimiliano d’Asburgo, fratello minore dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, venne fucilato dai repubblicani di Benito Juarez il 19 giugno del 1867. Aveva assunto la corona messicana su consiglio di Napoleone III, che aveva promesso di lasciare le truppe francesi a sua protezione; quando però i repubblicani insorsero Massimiliano fu lasciato solo sia dai francesi che dal fratello Francesco Giuseppe.
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vi mostra un altro modo di far vedere che è quello di convocare, e non di rappresentare, un evento. Dunque, il protagonista di queste vicende, e in particolare nel passo che ho citato tratto da Theatrum Philosophicum, è l’evento. Foucault sembrerebbe istituire una sorta di doppio regime: in un senso affine a quanto sostiene Bruno Moroncini13, trovo che Foucault istituisce una sorta di gioco tra questo esserci ottuso, opaco, senza un aldilà, senza fondo, e ciò che invece lo squarcia, l’evento. Se ci pensate, l’opera di Foucault, così discontinua, difficile da riportare a una tradizione di pensiero o a una manualistica, rappresenta esattamente questo gioco tra l’opacità delle pratiche, dei sistemi di pensiero, delle ideologie, e gli eventi che le rompono o le interrompono, indipendentemente dal soggetto filosofico. Ed ecco un esempio che, dal mondo più meno marginale dell’arte, ci riporta a quello della storia, e cioè degli eventi che fanno la storia. È giusto o no rivoltarsi? Lasciamo aperta la questione. Ci si solleva, questo è un fatto; è in questo modo che la soggettività (non quella dei grandi uomini, ma quella di chiunque) si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale. Un delinquente rischia la propria vita contro dei castighi abusivi; un folle non ne può più di essere rinchiuso e avvilito; un popolo rifiuta il regime che l’opprime. Questo non rende innocente il primo, non guarisce il secondo e non assicura al terzo l’avvenire promesso. Nessuno, d’altronde, è obbligato a essere solidale. Nessuno è obbligato a pensare che queste voci cantino meglio delle altre ed esprimano il nucleo profondo della verità. Basta che esistano e che abbiano contro tutto quello che si ostina a farle tacere, perché abbia senso ascoltarle e cercare di capire che cosa vogliono dire. Una questione di morale? Forse. Sicuramente, una questione di realtà. Le disillusioni della storia non conteranno nulla: proprio perché esistono simili voci, il tempo degli uomini non ha la forma dell’evoluzione, ma quella della “storia”.14
La piattezza dell’ostensione senza referente non esclude l’evento, la rottura (nella forma del grido, della protesta, della lacerazione, dell’azione). Anzi, lo rende molto più pensabile di quanto non avvenga nella dialettica di soggetto e oggetto, in cui lo subordina eternamente a un senso. E questo mi porta a fare un’altra breve considerazione rispetto a ciò che si è detto. C’è stato il Foucault archivista, che ovviamente era uno studioso serio, ma lavorava affinché noi lavorassimo, perché noi continuassimo a 13 14
Cfr. B. Moroncini, Foucault e il pensiero del fuori, in questo volume. M. Foucault, Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3: Estetica dell’esistenza, etica, politica. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Milano 1998, p. 135.
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fare ricerca. C’è stato il Foucault che la filosofia contemporanea ha inserito in una storia del pensiero che parte da S. Agostino e (da un certo punto di vista) finisce con i contemporanei: è il gioco filosofico per cui chi parla per ultimo è il saggio supremo. C’è stato il Foucault militante. Ci sono stati diversi Foucault. Ebbene, tutti questi Foucault esistono, ma nessuno di loro è Foucault, nessuno di loro esaurisce Foucault. Perché? Lascio la questione agli storici della filosofia. Saranno loro che ci spiegheranno chi è il ‘vero’ Foucault; è anche possibile che, nel giro di qualche anno, troveremo un Foucault completamente diverso, il Foucault in cui tutto si tiene, e che viene santificato o liquidato in un capitolo secondario di una storia del pensiero. Mi chiedo allora se anche il Foucault che ci invita a pensare l’arte come altro tipo di pensiero non abbia qualche diritto di cittadinanza. Non lo dico perché non sono un filosofo di professione, ma perché non esiste solo il modo di pensare della filosofia. Esistono forse altri modi di pensare l’opacità e la piattezza che ci circondano, e quindi altri modi di pensare l’evento capace di squarciarle... Per quanto alla fine – forse anche a causa di alcune ambiguità dei suoi ultimi libri – sia identificato con la cura di sé, l’estetica o l’etica dell’esistenza ecc., Foucault è sempre stato un pensatore dei margini, ha sempre spiazzato tutti. In particolare, quando ha taciuto per qualche tempo dopo La volontà di sapere, che poteva essere ancora concepito come una continuazione dei suoi studi sul potere. Spiazzando gli archivisti, rispunta improvvisamente come storico dell’estetica dell’esistenza e della cura di sé nella filosofia tardo-antica. Foucault è stato sempre uno che si collocava altrove. Mi domando se noi, suoi lettori, riusciamo a rendere conto di questa sorta di atteggiamento che consiste nel collocarsi altrove, che non è precisamente l’alterità, ma semplicemente il non essere dove ti cercano. Quando Foucault studia un sistema di pensiero è sempre capace di collocarsi in una posizione tangenziale E questo vale anche per le filosofie edificanti tardo-antiche. Fargli condividere quello che andava studiando in Seneca o Epitteto, ovvero la costruzione di uno stile di vita morale e autocontrollato in tempi procellosi, è forse uno dei più grossi abbagli (non si sa se interessato o inconsapevole) della critica contemporanea. Basterebbe, a questo proposito, il passo di un’intervista concessa poco prima di morire. La questione dello stile implica anche quella dell’esistenza. Come si può fare dello stile di vita un grande problema filosofico? È una questione difficile. Non sono sicuro di poter dare una risposta. In effetti, credo che la questione dello stile sia centrale nell’esperienza antica:
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stilizzazione del rapporto con se stessi, stile di comportamento, stilizzazione del rapporto con gli altri. L’Antichità non ha mai smesso di chiedersi se fosse possibile definire uno stile comune a questi diversi ambiti di comportamento. [...] Uno stile di esistenza, è ammirevole. Lei ha trovato i Greci degni di ammirazione? No. Né esemplari, né degni di ammirazione? No. Come li ha trovati? Non un granché. Sono inciampati subito in ciò che mi sembra essere il punto di contraddizione della morale antica: da un lato, una ricerca ostinata di un certo stile di esistenza e, dall’altro, lo sforzo di renderlo comune a tutti, stile a cui si sono avvicinati, più o meno vagamente, con Seneca ed Epitteto, ma che ha avuto la possibilità di esprimersi soltanto all’interno di uno stile religioso. Mi sembra che l’Antichità sia stata un “profondo errore”.15
In questo atteggiamento di distanza io trovo una straordinaria moralità, che, per quanto mi riguarda, è più importante del resto. Trovo che in molta filosofia contemporanea vi sia una sorta di ripiegamento, anzi di espansione su due piani, che probabilmente Foucault non avrebbe amato: uno è l’etica come sistema di prescrizioni, e l’altro è la pedagogia. Concordo, con Eleonora de Conciliis16, sull’antipatia di Foucault verso la pedagogia: non c’è niente di pedagogico nel pensiero di Foucault, che si sarebbe ritratto con orrore all’idea che il suo pensiero diventasse precetto. Quello che Foucault ha scritto negli ultimi anni della sua vita – sull’estetica dell’esistenza, la cura di sè, ecc. – mi ricorda piuttosto (anche se il panorama è completamente diverso, e non ha niente a che fare con Foucault) Das individuelle Gesetz di Simmel17, cioè una legge che vale per sé, ma che non si può mai universalizzare e che non diventa assolutamente prescrizione.18 Ora, c’è un grosso settore della filosofia contemporanea – ed è quello che mi interessa come sociologo della cultura, cioè come persona che guarda incuriosito il mondo che lo circonda, quindi anche il mondo della filosofia – che invece sta ruotando proprio in senso contrario. Salvatore Na15 16 17 18
Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3: Estetica dell’esistenza, etica, politica, cit., pp. 263-264. Cfr. E. de Conciliis, Foucault e la genealogia dell’infanzia, in questo volume. Cfr. G. Simmel, Das individuelle Gesetz (1913), trad. it. La legge individuale e altri saggi, Pratiche editrice, Parma 1995. Cfr. A. Dal Lago, Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, Manifestolibri, Roma 2007.
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toli lo scrive esplicitamente19: la filosofia è per natura pedagogica, perché la filosofia per natura insegna; è il filosofo che conosce la buona vita, la vita immortale – e di conseguenza è il filosofo che insegna a noi esseri umani, a me sociologo per esempio, o all’uomo della strada, a chiunque, come si vive. Questo è un gesto importantissimo, e io trovo interessante che il pensiero di Foucault sia stato ritradotto in qualche misura, o riletto all’interno di una prospettiva che è, in fondo, abbastanza pastorale. C’è un certo tono pastorale che avverto nella filosofia contemporanea: la vita felice, la vita migliore... Poi si passa, naturalmente, dagli spazi molto alti a luoghi modesti e un po’ sordidi – per esempio, la consulenza filosofica e poi la filosofia pratica, quella che va nelle mani dei nostri ragazzi. I nostri ragazzi non leggono più Heidegger o Nietzsche (autori difficili); molto spesso tra gli autori che costituiscono lo sfondo delle loro letture, arriva il consulente filosofico con la sua valigetta, e, un po’ come Harvey Keitel in Pulp Fiction, “risolve problemi”. Non sto scherzando: c’è una produzione immensa di libri sul counseling che spiegano come si vive meglio o si muore bene a 100, a 50 euro (oppure a 100 dollari) all’ora. Tutto questo – si potrebbe dire – ha a che fare con un certo tono pastorale che in questo momento sembra aggirarsi, come uno spettro pratico, nella filosofia. Non solo perché alcuni tra gli autori più pastorali della filosofia italiana organizzano convegni sulla consulenza filosofica, ma perché il pensiero viene ridigerito e trasformato in pillole, e queste pillole elargite al pubblico. La filosofia diventa non solo la vita migliore, ma la vita migliore che si può apprendere con un master, oppure con alcune centinaia di euro. Penso che Foucault avrebbe riso fragorosamente di tutto questo. Il Foucault che si colloca sempre altrove avrebbe detto probabilmente: così come ho lavorato sul diritto carcerario del Settecento o sulla psichiatria dell’Ottocento, ora mi pongo il problema dell’esistenza di queste nuove pratiche conoscitive che hanno sicuramente un elemento edificante, e lo hanno perché sono pastorali. Chissà, se fosse vissuto, avrebbe lavorato sulla storia della morale moderna, delle pratiche edificanti, fino ad arrivare a queste nuove forme di autocontrollo (o di eterocontrollo) che vengono teorizzate in suo nome. Forse avrebbe pensato che, con la crisi della psicanalisi, la cura del profondo sarebbe stata sostituita da una cura piatta e universale, adatta a un mondo di simulacri. A mondo banale, terapie banali. Che c’entra il discorso sull’arte con tutto questo? Molto poco, lo ammetto. C’entra forse la capacità di Michel Foucault, filosofo, pensatore, storico, sovvertitore dei sistemi di pensiero – insomma, un cattivo maestro, 19
Cfr. S. Natoli, Vita buona vita felice, Feltrinelli, Milano 1990.
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uomo dai costumi non esattamente casti fino all’ultimo periodo della sua vita – di far emergere ogni tanto, dalle sue ricerche, un’attenzione verso altri modi di pensare, di produrre pensiero, che non si fanno catturare dai sistemi disciplinari – perché una delle cose interessanti dell’arte contemporanea, è che è difficilmente disciplinabile. Sarà venduta e corrotta, ma non è disciplinabile. E lo stesso vale per Deleuze: pensate all’importanza che Deleuze ha dato al pensiero per immagini, al cinema, ecc. Tutto questo ci porta – mi piacerebbe lavorarci – all’immagine di Foucault come il pensatore libertino per eccellenza della seconda metà del XX secolo. C’è da chiedersi se questa immagine (arbitraria quanto volete) non sia più morale di quella edificante e pastorale che la critica contemporanea gli sta infaticabilmente cucendo addosso. Foucault come pensatore dell’evento che squarcia la bêtise (la tradizione, il luogo comune, la filosofia delle scuole, la pedagogia del pensiero). Ecco perché, a conti fatti, io lo trovo, insieme a Deleuze, più affine a Manet, Duchamp e Warhol che non a Epitteto, a Hadot o ai loro ripetitori con valigetta ventiquattr’ore.
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NOTIZIE SUGLI AUTORI
FRANCESCO PAOLO ADORNO è professore associato di Filosofia della storia presso l’Università di Salerno. Ha studiato presso le Università di Napoli e di Paris VIII. Studioso di Foucault e di filosofia politica e morale moderna, ha pubblicato, oltre a saggi su Arnauld e Pascal, il volume Le style du philosophe. Foucault et le dire-vrai, (Paris 1996) e il recente La disciplina dell’amore. Pascal, Port-Royal e la politica, Roma 2007. PIERANDREA AMATO è ricercatore di Filosofia teoretica all’Università di Messina. Nell’ambito dei temi sollevati dalle ricerche di Foucault, oltre ad interventi su riviste italiane e francesi, ha curato la miscellanea La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività (Milano 2004) e pubblicato il volume Antigone e Platone. La “biopolitica” nel pensiero antico (Milano 2006). LAURA BAZZICALUPO è docente ordinario di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Salerno. Studiosa di Arendt, Musil, Broch, a cui ha dedicato numerosi saggi, ha curato alcune voci per l’Enciclopedia del pensiero politico (Laterza, Roma-Bari 2000), e, insieme a R. Esposito, l’antologia Politica della vita (Laterza, RomaBari 2003); da diversi anni analizza criticamente il paradigma biopolitico; il suo ultimo volume è Il governo delle vite. Biopolitica e economia (Laterza, Roma-Bari 2006). STEFANO CATUCCI insegna Estetica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Camerino. Studioso del pensiero tedesco e francese d’inizio Novecento, ha pubblicato studi su Husserl e Lukàcs; ha collaborato al Dizionario di Estetica della Laterza curato da G. Carchia e P. D’Angelo (Roma-Bari 1999) e curato l’edizione italiana degli Scritti di Estetica di L. Popper (Palermo 1997); è tra i fondatori della rivista «Forme di vita» ed autore dell’Introduzione a Foucault della Laterza (RomaBari 2005). CARMELO COLANGELO è ricercatore in Filosofia morale presso l’Università di Salerno. Ha studiato presso le Università di Napoli e di Ginevra. Tra i suoi lavori: Limite e melanconia. Kant, Heidegger, Blanchot (Napoli
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1998), Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski (Macerata 2001), L’apprentissage du regard (Genève 2004). Ha pubblicato studi su Merleau-Ponty, Lévinas, Canetti, Bataille, Foucault, Maldiney, Tocqueville. Ha curato l’edizione italiana degli scritti politici di Blanchot (Nostra compagna clandestina, Napoli 2004). ANTONELLA CUTRO svolge attività di ricerca presso l’Università di Salerno e si è occupata del pensiero politico di Hannah Arendt. Tra le sue pubblicazioni foucaultiane, il volume Michel Foucault. Tecnica e vita. Biopolitica e filosofia del bios (Napoli 2004) e l’articolo Deleuze/Guattari e Foucault: la vita ‘al di là’ di Edipo (L’espressione, 2003\1); oltre ad aver curato l’antologia Biopolitica. Storia e attualità di un concetto (Verona 2005), ha tradotto e curato la raccolta di testi di Michel Foucault, Il sapere e la storia. Sull’archeologia delle scienze e altri scritti (Verona 2007). ALESSANDRO DAL LAGO insegna Sociologia all’Università di Genova, e coordina la rivista «Conflitti globali». Studioso di Weber e Simmel, ha curato e introdotto opere di Arendt, Jonas, Veyne, Simmel, ed il secondo volume dell’Archivio Foucault; ha dedicato numerosi studi all’analisi della società contemporanea (in particolare ai rituali del calcio e al fenomeno dell’immigrazione); tra le sue pubblicazioni più recenti, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre (Verona 2003), Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale (Milano 2004) e (insieme a S. Giordano) Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea (Bologna 2006). ELEONORA DE CONCILIIS svolge attività di ricerca presso l’Università di Salerno ed è caporedattrice della rivista di critica filosofica on line «Kainos»; oltre a saggi su Arendt, Baudrillard, Canetti, Lévinas e Scholem, ha pubblicato studi su Simmel e Kafka; insieme a H. Retzlaff ha curato l’edizione italiana della Clavis fichtiana seu leibgeberiana di Jean Paul (Napoli 2003); tra le sue pubblicazioni più recenti La redenzione ineffettuale. Walter Benjamin e il messianismo moderno (Napoli 2001) e Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di soggettivazione (Napoli 2006). MARIAPAOLA FIMIANI è docente ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Salerno, di cui è attualmente Prorettore; studiosa di Foucault, a cui ha dedicato numerosi saggi, tra cui Foucault e Kant. Critica clinica etica (Napoli 1997, trad. fr. 1998) e Le véritable amour et le souci commun du monde (in Le courage de la vérité, a cura di F. Gros, Paris 2002); tra
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le sue pubblicazioni ricordiamo L’arcaico e l’attuale. Lévy-Bruhl Mauss Foucault (Torino 2000), Lévy-Bruhl. La différence et l’archaique (Paris 2000) e Antropologia Filosofica (Roma 2005). JEAN LECLERCQ ha compiuto gli studi di teologia all’Università di Bruxelles e di filosofia all’Università di Lovanio; dal 2004 dirige il Centre Maurice Blondel dell’Università Cattolica di Lovanio, dove insegna Scienze religiose e Filosofia; è autore di diversi studi su Maurice Blondel e sulla filosofia cristiana medioevale; ha al suo attivo interventi, oltre che su Michel Foucault, Pierre Hadot e Kant, su pensatori del Novecento francese quali Jean-Luc Marion, Michel Henry, Paul Ricoeur e Jacques Derrida. BRUNO MORONCINI è professore ordinario di Antropologia Filosofica presso l’Università di Salerno; studioso di Bataille, Derrida, Blanchot, Lacan e Benjamin, al quale ha dedicato numerosi saggi; tra le sue pubblicazioni più recenti: La comunità e l’invenzione (Napoli 2001); Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia del tragico moderno (Napoli 2004); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (Napoli 2005); Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz (Macerata 2006). SALVATORE NATOLI è professore ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Milano “Bicocca”; tra i suoi volumi ricordiamo: L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (Milano 1989); Vita buona vita felice (Milano 1990); Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia (Milano 1991); Libertà e destino nella tragedia greca (Brescia 2002); Stare al mondo. Escursioni sul tempo presente (Milano 2002) ed il recentissimo La salvezza senza fede (Milano 2007); a Foucault ha dedicato diversi saggi, ora raccolti nel volume La verità in gioco (Milano 2005). PASQUALE PASQUINO, studioso del pensiero politico e costituzionale dell’Europa moderna e contemporanea, è Direttore di ricerca presso il CNRS di Parigi, docente presso il Centre de Théorie et Analyse du Droit, nonchè Global Distinguished Professor in Law and Politics presso la New York University; oltre ad aver collaborato con Michel Foucault durante i suoi primi anni di insegnamento al Collège de France, ne ha tradotto e curato numerosi testi, tra cui La volontà di sapere e (insieme ad A. Fontana) la celebre raccolta Microfisica del potere. PAOLO PRIMI ha svolto i suoi studi in Italia e in Germania; oltre a studi su Heidegger e Nietzsche, ha pubblicato un saggio su Foucault e Schmitt, il
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Nodo letale. Note su bio-potere e sovranità (in La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, a cura di P. Amato, Milano 2004). HARTMUT RETZLAFF, germanista, ha studiato scienze politiche e scienze delle religioni presso le Università di Marburgo e Berlino; lavora al Goethe-Institut d’Italia. Il suo campo di ricerca va dall’epistemologia del ‘700 europeo (estetica, pedagogia, naturalismo), al Romanticismo tedesco (poetica, giurisprudenza, teoria della guerra), al true crime americano. Ha pubblicato diversi saggi su Jean Paul di cui ha curato, con E. de Conciliis, l’edizione italiana della Clavis fichtiana su leibgeberiana (Napoli 2003). MARCO RUSSO è ricercatore in Filosofia teoretica presso l’Università di Salerno. Tra le sue pubblicazioni: La provincia dell’uomo (Napoli 2000), Massa e potere nell’antropologia inconcettuale di Canetti (in “Filosofia politica” 3, 2002); Critica dei sensi e critica dello schematismo trascendentale (in “Rivista di estetica” 2, 2003), Animalitas (in “Discipline Filosofiche”, 1, 2002), Segno, significato, mimesi (in “Il Pensiero”, 2, 2004); Nascita della popolazione (in Biopolitica e democrazia, a cura di A. Vinale, Milano 2007). MICHEL SENELLART è professore di Filosofia Politica all’École Normale Superiéure des Lettres et Sciences Humaines di Lione; tra i suoi volumi, Machiavélisme et raison d’État (Paris 1989) e Les Arts de gouverner. Du regimen médiéval au concept de gouvernement (Paris 1995); curatore dell’edizione dei corsi inediti tenuti da Michel Foucault al Collège de France, ha curato in particolare quelle di Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica; attualmente sta lavorando all’edizione del corso Sul governo dei viventi. MAURIZIO ZANARDI insegna filosofia nei licei. Ha scritto saggi su Agostino, Machiavelli, Lutero, Hegel e sulla politica contemporanea. È tra i fondatori della casa editrice “Cronopio”.
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ETEROTOPIE
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Collana fondata da Ubaldo Fadini, Paolo Ferri, Tiziana Villani AMATO Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività, pp. 200, ISBN 8884832330, scritti di Pierandrea Amato, Claudia Giordano, Sandro Gorgone, Paolo Primi, Emilio Raimondi, Ugo Rossi, Giuseppe Saccone, Adriano Vinale, euro 16,00 ARTAUD Antonin, CsO: il Corpo senz’Organi, a cura di Marco Dotti, 2003, pp. 155, ISBN 8884831644, euro 11,00 (seconda edizione in preparazione) BATAILLE Georges, La condizione del peccato, a cura di Andrea Sartini, 2002, pp. 100, ISBN 8888791000, euro 8,00 BAZZANELLA Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, 2005, pp. 200, ISBN 8884832632, euro 12,00 BERNI Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault, 1998, pp. 113, ISBN 8887231273, euro 8,26 BERTUCCIOLI Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito, 2004, pp. 251, ISBN 8884831709, euro 16,00 BONAIUTI Gianluca - SIMONCINI Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, 2004, pp. 364, ISBN 8884832268, scritti di Gianluca Bonaiuti, Alessandro Simoncini, Didier Bigo, Ayse Ceyhan, Michele Chiaruzzi, Emilio Diodato, Dimitri D’Andrea, Elspeth Guild, Raffaele Laudani, Achille Lodovisi, Giovanna Procacci, Emmanuel Terray, Massimiliano Tomba, euro19,00 BUCHBINDER David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili, 2004, pp. 143, ISBN 8884832160, euro14,00 CARBONE Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto, 2001, pp. 281, ISBN 8884830273, euro 14,46 CARMAGNOLA Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale, 2000, pp. 185, ISBN 8887231877, euro 12,39 COZZO Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, 2004, pp. 335, ISBN 8884832152, euro18,00 DAL BO Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida con un inedito di Jacques Derrida: I limiti del consenso, 2002, pp. 218, ISBN 8884830575, euro 13,00 DE BEAUVOIR Simone, La donna e la creatività, a cura di Tiziana Villani, 2001, pp. 80, ISBN 888483046X, euro 8,50 DELEUZE Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant, a cura di Tiziana Villani e Luisella Feroldi, 2000, pp.70, ISBN 8887231753, euro 7,75 DELEUZE Gilles, Istinti e istituzioni, a cura di Ubaldo Fadini e Katia Rossi, 2002, pp. 123, ISBN 8884830990, euro 8,00 DELEUZE Gilles, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, a cura di Sandro Palazzo, 2004, pp. 132, ISBN 8884832918, euro 12,00 DE MICHELE Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana, 2000, pp. 206, ISBN 8887231605, euro 12,39
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DINO Alessandra, La violenza tollerata. Mafia, poteri,disobbedienza, 2006, ISBN 8884833426, pp. 239, euro 18,00 FABBRI Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/decostruzione, 2006, pp. 181, ISBN 8884833693, euro 16,00 FADINI Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale, 1999, pp. 282, ISBN 8887231281, euro 14,46 FERRI Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet, 1999, 20012, pp. 206, ISBN 8887231591, euro 12,40 FOUCAULT Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di Salvo Vaccaro, 2001, pp. 100, ISBN 8884830028, euro 8,30 GALLUZZI Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità, 2004, pp. 189, ISBN 8884831822, euro 16,00 LEGHISSA Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione, 2004, pp. 160, ISBN 888483256X, euro 13,00 MAISTRINI Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard, 2004, pp. 128, ISBN 8884832608, euro 12,00 MARCENÒ Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina, 2004, pp. 250, ISBN 8884832594, euro 18,00 MARZOCCA Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia, 1998, pp. 212, ISBN 8887231109, euro 13,43 MELLO Patrizia (a cura di), Spazi della patologia patologia degli spazi, 1999, pp. 242, ISBN 888723129X, scritti di Francesco Gurrieri, Romano Del Nord, Patrizia Mello, Ubaldo Fadini, Massimo Canevacci, Luisa Leonini, Massimo Ilardi, Tiziana Villani, Michele Sernini, Lucilla Frattura, Ferdinando Terranova, Ezio Manzini, Elena Pacenti, Donatella Cozzi, Giandomenico Montinari, Giuseppe Cardamone, Andrea Grillo, euro 14,46 MONTANARI Moreno, Il Tao di Nietzsche, 2004, pp. 235, ISBN 8884832217, euro 16,00 MOULIAN Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo, a cura di Davide Danti, 2003, pp. 283, ISBN 8884831504, euro 14,00 PAQUOT Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco, traduzione di Enrico Rudelli, 2002, pp. 90, ISBN 8884830591, euro 8,50 PASTORE Luigi, LIMNATIS Nectarios G. (curr.), Prospettive sul postmoderno. 1, Profili epistemici, 2006, pp. 224, ISBN 8884833299, euro 18,00 PASTORE Luigi, LIMNATIS Nectarios G. (curr.), Prospettive sul postmoderno. II, Ricerche etico-politiche, 2006, pp. 224, ISBN 8884834929, euro 18,00 PETRILLI Susan, PONZIO Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza, 1999, pp. 430, ISBN 888723132X, euro 14,46 PIRRONE Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo, 2002, pp. 240, ISBN 8884830915, euro 13,00 POIDIMANI Nicoletta, Oltre le monocolture del genere, con una postfazione di Porpora Marcasciano, 2006, pp. 155, ISBN 8884832683, euro 14,00 PREBISCH Raúl, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa, 2005, pp. 203, ISBN 8884832611, euro 17,00
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RICCIO Franco, VACCARO Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore, 2000, pp. 278, ISBN 8887231702, scritti di Theodor W. Adorno, Hans G. Gadamer, Marx Horkheimer, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Franco Riccio, Keith Ansell-Pearson, James A. Leigh, Vincent P. Pecora, Arieh Botwinick, Scott Lash, Salvo Vaccaro, euro 14,46 R ODDA Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento, 2006, ISBN 8884833396, di prossima uscita SCOLARI Raffaele, Paesaggi senza spettatori, 2006, pp. 120, ISBN 888483421X, euro 14,00 SCOPELLITI Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari, 2005, pp. 252, ISBN 888483175X, euro 17,00 SIMONE Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani, 2002, pp. 117, ISBN 888483080X, euro 9,00 THEA Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte, 2003, pp. 124, ISBN 8884831407, euro 12,00 VACCARO Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano, con due testi di Gilles Deleuze, 1997, pp. 289, ISBN 8887231028, scritti di Franco Riccio, Rosi Braidotti, Jordi Terré, Paolo Fabbri, Franco Berardi Bifo, Pieraldo Rovatti, Salvo Vaccaro, Fabio Polidori, Federico Montanari, Comunità filosofica Uazzapallah, Mario Coglitore, Gaspare Polizzi, Tiziana Villani, euro 14,46 VACCARO Salvo Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità, 2004, pp. 209, ISBN 8884832020, euro 16,00 VACCARO Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione, 2002, pp. 190, ISBN 8884830877, scritti di Abel Béjaoui, Noam Chomsky, William Church, Alessandra Dino, Vittorio Giacopini, Pina Lalli, Robert Nideffer, Alan Pittman, Gordon Poole, Jean Seaton, Danny Schechter, Tamara Straus, Salvo Vaccaro, R.S. Zaharna, euro 12,00 VACCARO Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’information sur les prisons), 2005, pp. 222, ISBN 888483385X, euro 17,00 VERCELLONI Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa, 2005, pp. 271, ISBN 8884833663, euro 16,00 VIRILIO Paul, La velocità di liberazione, a cura di Ubaldo Fadini e Tiziana Villani, 2000, pp. 190, ISBN 8887231907, euro 12,39
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MIMESIS
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Saggi e narrazioni di estetica e filosofia
ADORNO Theodor, CANETTI Elias, GEHLEN Arnold, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, a cura di Ubaldo Fadini,1995, pp. 107, ISBN 8885889964, euro 11,36 AGOSTINI FABIO - S. MARCHESONI Stefano, Dispositivi e affetti. Le passioni tristi tra etica e pedagogia, 2005, pp. 113, ISBN 8884833760, euro12,00 A NGELERI Emanuele, Natura, artificio e ricerca dell’uno, 2005, pp. 224, ISBN 8884833078, euro 17,00 ANGELUS Silesius, L’altro io di dio. 414 epigrammi dal Viatore cherubico di Angelus Silesius (Johannes Scheffler), traduzione, prefazione e postfazione a cura di Luciano Parinetto, con delle illustrazioni di Salvatore Carbone, 1993, pp. 205, ISBN 8885889255, euro 15,49 (esaurito) ‘ARABI (IBN) Nuhyi al-Din, Il nodo del sagace ovvero l’idea di uomo universale nell’‘Uqlat al-Mustawfiz, introduzione, traduzione e note di Carmela Crescenti, 2000, pp. 194, ISBN 8887231346, euro 15,49 ARECCHI Alberto, Abitare in Africa. Architetture, villaggi e città nell’Africa subsahariana dal passato al presente, 1998, pp. 216, ISBN 8887231257, euro 16,01 ARECCHI Alberto, DELISSE Louis François, Architettura magica. Le facciate “ricamate” di Zinder, capitale degli Haussa del Niger, 1999, pp. 139, ISBN 8887231400, euro 13,43 ARECCHI Alberto, DIALLO Mamadou, Il liuto e il tamburo. Il Mali e la sua musica tradizionale, 2000, pp. 118, ISBN 8887231400, con un CD musicale allegato, euro 15,49 ARECCHI Alberto, La casa nella roccia. Architetture scavate e scolpite, 2001, pp. 188, ISBN 8887231931, euro 15,49 ARECCHI Alberto, Somalia e Benadir. Voci di un dramma infinito, 2001, pp. 138, ISBN 8884830249, con un CD di musiche originali del Corno d’Africa, euro 17,04 ARECCHI Alberto, Popoli d’Africa. Un lungo viaggio, dal Mediterraneo al Capo di Buona Speranza, attraverso mille culture diverse, 2002, pp. 191, ISBN 8884831156, euro 15,00 ARECCHI Alberto, BOYM Michele, JUNOD Henri-Alexandre, Tamburi dell’Africa australe. Il Mozambico attraverso tre secoli. Canti e racconti dei Ba-ronga, 2002, traduzione e cura editoriale di Alberto Arecchi, 2002, pp. 191, ISBN 888483094X, con un CD di musica mozambicana, euro 17,00 A RECCHI Alberto, I mausolei dei re longobardi a Pavia, 2006, pp. 64, ISBN 8884834961, euro 8,00 ASTORI Roberta (a cura di), Lo specchio della magia. Trattati magici del XVI Secolo, 1999, pp. 106, ISBN 8887231354, scritti di Agrippa, Cardano, Della Porta, Paracelso, euro 10,32 ASTORI Roberta, Formule magiche. Invocazioni, giuramenti, litanie, legature, gesti rituali, filtri, incantesimi, lapidari dall’Antichità al Medioevo, 2000, pp. 142, ISBN 8887231745, euro 13,43
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BACCARINI Emilio, CANCRINI Tonia, PERNIOLA Mario (a cura di), Filosofie dell’animalità. Contributi ad una filosofia della condizione animale, Clinamen, Annuario del Dipartimento di Ricerche Filosofiche dell’Università di Roma “Tor Vergata”, n. 1, 1992, pp. 238, ISBN 8885889328, scritti di Mario Perniola, Marcello Massenzio, Emilio Baccarini, Tonia Cancrini , Paola Linguiti, Riccardo Dottori, Porfirio, Marta Cristiani, Fabrizio Scrivani, Marcella D’Abbiero, Maria Teresa Ricci, Simona Argentieri, Annamaria Laserra, Carlo Ferrucci, Maurizio Mori, euro 15,49 BELL David, Tyneside: di navi, canzoni, scioperi, uomini delle chiatte e… Garibaldi, 2006, pp. 160, ISBN 8884834872, euro 15,00. BERTINI Fabrizio, BONVECCHIO Claudio, FINI Massimo, PARSI Maria Rita, SEGATORI Adriano, TABOGA Teresa, TONCHIA Teresa, Appuntamento con la morte. Un’opportunità da non perdere, a cura di Angela Deganis, 2005, pp. 111, ISBN 8884832780, euro 12,00 BIRUNI (AL), L’arte dell’astrologia. Il più completo trattato di astrologia della cultura islamica, a cura di Giuseppe Bezza, introduzione di Antonio Panaino, 1997, 20053, pp. 200, ISBN 8884833752, euro 17,00 BONESIO Luisa - SCHMIDT DI FRIEDBERG Marcella (a cura di), L’anima del paesaggio tra geografia ed estetica, 1999, pp. 136, ISBN 8887231559, scritti di Herbert Lehmann, Martin Schwind, Carl Troll, Heinrich Lützeler, euro 13,43 BONITO OLIVA Rossella - TRUCCHIO Aldo (a cura di), Paura e immaginazione, 2006, ISBN 888483335, di prossima uscita BONVECCHIO Claudio (a cura di), Il sacro e la cavalleria, 2005, pp. 211, ISBN 8884833094, euro 17,00 BORGIA Francesco, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas, 2006, pp. 150, ISBN 8884833353, euro 14,00 BOSC Ernest, Belisama. L’occultismo celtico, a cura di Alberto Arecchi, 2003, pp. 115, ISBN 8884831431, euro 12,00 B OTTO Fabio, Madre della filosofia. L’inganno consueto, 2005, pp. 128, ISBN 8884831849, euro 13,00 BRUNO Giordano, Il sigillo dei sigilli e I diagrammi ermetici, a cura di Ubaldo Nicola, traduzione di Emanuela Colombi, 1995, 20053, pp. 127, ISBN 8884833779, con un elenco delle immagini autografe nei testi bruniani originali, euro 13,00 BRUNO Giordano, L’arte della Memoria. Le ombre delle idee, a cura di Manuela Maddamma, 1996, 20013, pp. 225, ISBN 8885889778, euro 15,50 BRUNO Giordano, La magia e le ligature, a cura di Luciano Parinetto, 2000, pp. 151, ISBN 8887231389, euro 13,43 CAPRA Sisto, Albania proibita. Il sangue, l’onore, e il codice delle montagne con la versione integrale del Kanun di Lek Dukagjini e saggi di Gjon Gjomarkaj e Arben Xoxa, 2000, pp. 246, ISBN 888483001X, euro 17,04 CAPRA Sisto, STARNONE Gavino, Albania anno zero. Dopo la guerra che succede?, 1998, pp. 148, ill. col., ISBN 8887231508, euro 13,43 CARDANO Girolamo, Metoposcopia. Manuale per la lettura della fronte, a cura di Alberto Arecchi, 1994, 20032, pp. 206, ill., ISBN 8884831989, euro 14,00 D’AMIA Giovanna, L’isola degli artisti. Un laboratorio del moderno sul lago di Como, 2005, pp. 161, ISBN 8884833515, euro 16,00
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DAS AREIAS Almir, Cos’è Capoeira. Tra danza e lotta: un’arte strumento di libertà, a cura di Luiz Martins de Oliveira (Mestre Baixinho), 2005, pp. 81, ISBN 8884833857, euro 11,00. DI BONA Maurizio & theHand, Chi ha paura di Giordano Bruno. Viaggio ragionato sul libro del Nolano che non s’ha da scrivere né scrivere, 2006, pp. 96, ISBN 8884833280, euro 13,00 ERACLITO, Fuoco non fuoco. Tutti i frammenti, traduzione e commento a cura di Luciano Parinetto, 1994, 20002, pp. 223, ISBN 8885889220, testo greco a fronte, euro 15,49 (in ristampa) ERMETE TRISMEGISTO, Corpo ermetico, Asclepio. Scritti teologico-filosofici, vol. I, a cura di Pierre Dalla Vigna e Carlo Tondelli, 1988, 20005, pp. 219, ISBN 885889026, euro 17,04 ERMETE TRISMEGISTO, Estratti di Stobeo: Kore Kosmou. Scritti teologico-filosofici, vol. II, a cura di Tiziana Villani e Carlo Tondelli, 1989, 20005, pp. 149, ISBN 88885889107, euro 14,46 ERMETE TRISMEGISTO, L’ogdoade e l’enneade, Definizioni ermetiche, a cura di Patrizia Alloni, 1995, pp. 109, ISBN 8885889530, euro 10,33 ERMETE TRISMEGISTO, Liber hermetis. Scritti astrologici, prefazione di Pierre Dalla Vigna, traduzione e note di Guido Pellegrini, 2001, pp. 156, ISBN 8884830435, euro 15,50 FADINI Ubaldo - PASCUCCI Giammario, Immagine-desiderio. Contributo ad una genealogia del moderno, 1999, pp. 185, ISBN 8887231338, euro 14,46 Filloramo Andrea, Come organizzare una scuola di qualità, ISBN 8884834260, di prossima uscita FIRMICO Materno, In difesa dell’astrologia. Matheseos Libri, I, a cura di Emanuela Colombi, 1997, pp. 92, ISBN 8885889565, testo latino a fronte, euro 10,33 GAVAZZI Iris, Il vampiresco. Percorsi nel brutto, 2004, pp. 144, ISBN 8884832527, euro13,00 GILARDONI Andrea, I meccanismi dell’obbedienza e le tecniche della resistenza. Materiali per un laboratorio teatrale storico-psicologico, 2005, pp. 195, ISBN 8884833949, euro 19,00 GRASSANI Enrico, L’altra faccia della tecnica. Lineamenti di una deriva sociale prodotta e subita dall’uomo, 2002, pp. 124, ISBN 8884831180, euro10,33 ILDEGARDA DI BINGEN, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, a cura di Luisa Ghiringhelli, 1998, pp. 291, ISBN 8887231117, euro 18,08 ISVARAKRSNA, Samkhyakarika. La dottrina fondamentale dello Yoga Sutra, a cura di Massimo Vinti e Piera Scarabelli, 2006, ISBN 8884833302, pp. 120, euro 13,00 LESCE Francesco, Un’ontologia materialista. Gilles Deleuze e il XXI secolo, 2004, pp. 127, ISBN 8884832942, euro 12,00 LESSING Gotthold Ephraim, Il teatro della verità. Massoneria, Utopia, Verità, a cura di Luciano Parinetto, tavole di Salvatore Carbone, 1997, pp. 175, ISBN 8885889751, euro 15,49 LULLO Raimondo, Trattato di astrologia, 2003, pp. 125, ISBN 8884830745, euro 12,00 MCCULLY Robert, Jung e Rorschach, 1988, pp. 284, ill., ISBN 8885889085, euro 18,08 METRODORA, Medicina e cosmesi naturale ad uso delle donne: la antica sapienza
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SICA Anna - ARONSON Arnold, New York Theatre from tradition to Avant-garde, 2005, pp. 192, ISBN 8884831733,euro 15,00 SOTERO M. - ROGORA G. - GANDOLFI D., Corpo simbolo Rorschach. Processi simbolici e archetipici al test di Rorschach in medicina psicosomatica, 1990, pp. 137, ISBN 888588914X, euro 13,42 STEELE Ken (con Claire Berman), E venne il giorno che le voci tacquero. Un viaggio nella follia e nella speranza, a cura di Giuseppe Ribaldi e Barbara D’Avanzo, 2005, pp. 167, ISBN 8884833612, euro 14,00 TASINATO Maria, Elena, velenosa bellezza, seguito da una traduzione dell’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini, 1990, pp. 74, ISBN 8885889123, testo greco a fronte, euro 7,75 TASINATO Maria, Tempo svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, 1990, pp. 93, ISBN 8885889158, euro 10,33 THEA Paolo, Gli artisti e gli “spregevoli”. 1525: la creazione artistica e la guerra dei contadini in Germania, con un saggio di Karl-Hartwig Kaltner sulle guerre contadine in Austria, 1998, pp. 172, ISBN 8887231206, euro 14,46 TORRES Yólotl González, Il culto degli astri tra gli Aztechi, a cura di Annelisa Addolorato, 2005, pp. 149, ISBN 8884830370, euro 17,00 TOTOLA Giorgia, Donne e follie nell’epica romana. Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, 2002, pp. 85, ISBN 8884830834, CD-ROM multimediale in allegato, euro 13,00 TRIPALDI Fabio, L’ossessione dello spirito, 2004, pp. 284, ISBN 8884832373, euro 16,00 TRUSSO Antonino, L’uomo allo specchio, 2006, pp. 217, ISBN 8884834171, euro 18,00 VACCARO Salvo - COGLITORE Marco (a cura di), Michel Foucault e il divenire donna, prefazione di Tiziana Villani, 1997, pp. 217, ISBN 8885889832, scritti di Rosi Braidotti, Lois McNay, Deborah Cook, Mary Tijattas, Jean-Pierre Delaporte, Jana Sawicki, Karen Vintges, Judith Butler, Hélène Cixous, in appendice Quattro interventi di M. Foucault sulla sessualità, euro 15,49 VAN SEVENANT Ann, Il filosofo dei poeti. L’estetica di Benjamin Fondane, 1994, pp. 126, ISBN 8885889212, euro 11,88 VEDA BHARATI Swami, Bishma. Vivere e morire secondo il Mahabharata, 2006, pp. 99, ISBN 8884834945, euro 13,00 VILLANI Tiziana, I cavalieri del vuoto. Il nomadismo nel moderno orizzonte urbano, 1992, pp. 83, ISBN 8885889395, euro 7,75 VILLANI Tiziana e DALLA VIGNA Pierre (a cura di), Guerra virtuale e guerra reale. Riflessioni sul conflitto del Golfo, 1991, pp. 94, ISBN 8885889174, scritti di Mario Perniola, Carlo Formenti, Pierre Dalla Vigna, Tiziana Villani, Felix Guattari, Jean Baudrillard, euro 8,78
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