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Italian Pages 125 Year 2008
Dogville. Della mancata redenzione.
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INTRODUZIONE
Da quando, in una giornata autunnale del 2003, vidi al cinema Dogville, non ho mai smesso di interrogarmi su questo che ritengo sia un capolavoro del cinema contemporaneo. Il presente saggio non vuole essere un testo di teoria cinematografica, tanto meno un’analisi tecnica di interpretazione del testo filmico. Per questo motivo, il saggio non si rivolge a un pubblico specializzato in studi cinematografici. Questo scritto è in realtà un saggio filosofico, ispirato da un film - appunto Dogville - che più di molti altri riesce a generare una serie di interrogativi fondamentali. Dogville chiama da subito lo spettatore a riflettere su quanto vede: questioni politiche, morali, religiose, legate al diritto ed estetiche si intrecciano traendo una dall’altra la linfa vitale. Spero che, con questo mio breve studio, io sia riuscito non a risolvere le questioni e le problematiche che il film apre bensì, al contrario, di complicarle ulteriormente, di rendere ancora più denso un testo che già di per sé rappresenta un coagulo di dubbi, perplessità, domande contro le quali siamo costretti a imbatterci. Fin dall’analisi formale, Dogville rivela una struttura essenzialmente dialettica, dove un registro è da subito legato indissolubilmente all’altro. I due registri di interpretazione - che definiamo “chiavi di lettura” - dei quali può avvalersi il film non rappresentano una dicotomia a esclusione, bensì due dimensioni che possono convivere senza escludersi a vicenda ma, anzi: traendo energia una dall’altra. Il doppio registro ri-
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guarda il binomio tra “chiave di interpretazione politica” e “chiave di interpretazione metafisica”. La prima chiave riguarda le condizioni sociali e culturali che definiscono ogni singolo uomo in relazione da subito ad altri uomini. Con la seconda chiave ci rivolgiamo alla speculazione filosofica rivolta alla comprensione dell’idea trascendentale di “uomo”, connessa a ciò che distingue l’uomo dalle altre specie animali. Dogville è in dissonanza con la nostra era: è al polo diametralmente opposto a tutta la televisione e a tutto il cinema correnti. Da un lato, è lontano anni luce dalla televisione massimalista e dal cinema imbarazzante che dominano la programmazione un po’ ovunque. Dall’altro lato, è un film politicamente scorretto in maniera feroce; molti lo hanno accusato di essere un film reazionario. Il punto è che nessuno può restare indifferente dinanzi a Dogville: siamo tutti vittime di uno “scossone” dinanzi a questo gioiello, ma è uno scossone paterno, buono che ci invita a riflettere e perciò a riprendere posto nel mondo. È un film che continua a perseguitarmi e che, credo, perseguiti molti degli spettatori che ha avuto. Dogville è un film che problematizza, che sciocca. È un’opera d’arte in questo senso perché, come credeva Franz Kafka, una vera opera d’arte non è tale quando ci insegna qualcosa, quando ci fa divertire o ci fa rilassare, ma quando ci scuote, ci fa precipitare nel buio, ci fa riflettere, ci fa male. E, per quanto ci logori e ci ascolti lamentarci, essa non ci dà risposta; sembra che sorrida nel fare ciò, perché sa che ci sta facendo del bene. Ci sta mantenendo uomini.
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CAPITOLO PRIMO Lo stile di “Dogville” e le problematiche estetiche
È indubbio che - prima di addentrarci nel fitto ricettacolo di problematiche filosofiche che Dogville propone - sia necessario soffermarsi sullo stile del film, particolarmente caratteristico e originale. In Dogville, forma e contenuto lavorano fianco a fianco, come due facce della stessa medaglia. Oltretutto, è fondamentale il lavoro che ha compiuto Lars Von Trier nel suo varcare i confini del cinema per contaminarsi con le altre modalità espressive. La critica ha parlato di cinema fusionale1, inaugurando una nuova dimensione per l’arte, proponendo una sintesi tra teatro, cinema e letteratura. La messa in scena, tutta la scenografia è ovviamente d’ispirazione teatrale; la voce over - il narratore onnisciente che nella versione italiana ha la voce di Giorgio Albertazzi - e la divisione per capitoli sono il momento decisamente letterario e romanzesco. Poi, ovviamente c’è il cinema: il primo dei mestieri di Von Trier… Il primo problema che ci troviamo dinanzi è relativo a quale sia lo spazio che Dogville può trovare all’interno della “famiglia” delle arti. Per Von Trier, le maggiori influenze provengono indubbiamente dal teatro: all’insegna di Brecht [...] Per la forma sembra, più di 60 anni dopo, la ripresa della pièce “Piccola città (1938)”, “La nostra città (1940)” di Thornton Wilder; per 1
Lietta Tornabuoni afferma: Lars von Trier intende lanciare con questo film il cinema “fusionale”, mix di teatro, letteratura, film. Sito web http://www.mymovies.it/dizionario/critica.asp?id=9777.
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il contenuto ne è la sua sconfessione rabbiosamente nichilista2. Ciò non toglie che quello che abbiamo sotto gli occhi sia un film a tutti gli effetti; la particolarità sta nel fatto che in Dogville il cinema “si fa violenza”, “tende verso l’esterno”, rompe con i principi che lo hanno caratterizzato nel corso dei decenni per aprirsi una strada nuova. Nel fare questo, il cinema abbraccia il teatro per sconfiggersi con le sue proprie mani.
1.1 Il principio di choc: il cinema contro il cinema
Per sviluppare la riflessione, l’immaginazione e l’insieme delle nostre facoltà interiori, all’arte è sempre necessario un principio di choc, un cortocircuito che crei smarrimento. Ai primordi, il cinema lo faceva e volentieri: è forse possibile che, dopo appena un secolo dalla sua nascita, il cinema non abbia più niente da dire? Può insomma il cinema generare ancora degli choc? A prima vista, guardando le produzioni plurimiliardarie di Hollywood, sembrerebbe di sì. Film di animazione sempre più sorprendenti, film di azione con sempre più esplosioni, violenza spinta fino al parossismo, effetti speciali tecnicamente più sofisticati: tutto questo è in grado di generare un autentico choc? Tutti questi artifici sono in realtà strumenti e mezzi di mercato, di guadagno. Lo spettatore intende soddisfare una fame interiore di questo tipo di immagini: la volontà di vivere espe2
Morando Morandini, Laura Morandini, Luisa Morandini, Il Morandini 2008. Dizionario dei film, Bologna, Zanichelli, 2007, pag. 430.
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rienze adrenaliniche, l’istinto di distruzione che lo spinge a godere di torture e di sevizie varie, la pulsione sessuale che lo porta a vedere la diva di turno che si spoglia ma, soprattutto, dopo una faticosa giornata di lavoro (nelle migliori delle ipotesi), lo spettatore contemporaneo non vuole né riflettere né pensare. Vuole essere immerso in un mondo fantastico, diverso, dove trionfa l’eroe, dove tutto scoppia e si fa male solo il cattivo. L’industria cinematografica sfrutta a suo vantaggio questi principi antropologici per tramutarli in denaro e in mezzi di controllo sociale. L’industria culturale, per dirla con Theodor Adorno, in questa maniera diviene l’arma più efficace in mano al capitalismo odierno. Il principio di questo cinema è quello dell’“aggiungere”: in realtà, assistiamo a film identici tra loro, che cambiano solo nell’essere tecnicamente più sorprendenti, grazie agli effetti speciali in più o maggiormente efficaci. Spesso infatti il soggetto, o l’intera sceneggiatura, sono meri pretesti per la costruzione bulimica di immagini: basta andare in un negozio di fumetti per avere centinaia di potenziali film. Ora: se la logica hollywoodiana è sotto il segno dell’“aggiungere”, quello che accade in Dogville è proprio l’inverso, ovvero sotto il segno del “togliere”. In questo, Dogville va contro il cinema. L’esclusività di Dogville sta nel fatto che lo choc viene generato sotto diversi criteri e registri. Sullo spettatore assuefatto alla televisione e al cinema di consumo è necessario operare da più fronti al fine di riabilitarlo allo choc, che d’altronde significa riabilitarlo alla riflessione, al pensiero, ovvero al suo autentico posto nel mondo. Quella di Von Trier è una terapia d’urto e in questo la forma del suo film viene incontro, anzi: fa tutt’uno col contenuto. Tutto è messo al servizio dello choc autentico, della messa in questione dei criteri e dei parametri di valutazione ormai
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immagazzinati nella coscienza comune in quanto imposti dal sistema. Dogville è un film che racconta del fallimento del cinema, ovvero della sua incapacità, oggi, di generare degli choc. Per restituire al cinema questa specificità, per far recuperare al cinema la sua capacità di scuotere le menti, il cinema stesso deve farsi violenza dichiarando la sua incapacità, perciò adottando nuove vie di rappresentazione. Gli choc di Dogville sono molti. Già l’apertura del film, per un fruitore non preparato al colpo, è un atto stridente nei confronti del cinema. Von Trier ci tiene da subito a dichiarare la falsità di ciò che stiamo osservando. Dogville è una città disegnata a terra, astratta, stilizzata; i personaggi stessi sono privi di profondità psicologiche. Essi sono complessi, hanno una dimensione esistenziale parecchio elaborata, ma sono stilizzati: sono pedine, sono semplici ruote del meccanismo. Cristiano Maria Bellei, a questo proposito, parla di: […] abitanti seriali, persone che vivono completamente assorbite in schemi di comportamento sempre uguali a se stessi3. Sembra di osservare una partita a Monopoli o un esperimento di laboratorio e noi, spettatori, siamo chiamati subito al gioco, non dobbiamo solo assistere. Von Trier adotta una serie di stratagemmi proprio al fine di fare col cinema dell’“anticinema” e, in questo, tenta di provocare lo choc nello spettatore per ricondurlo nella dimensione che più gli è propria: quella della riflessione e della messa in questione di se stesso.
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Cristiano Maria Bellei, “La Comunità Nuda” in Il messaggio dell’Imperatore. Simboli, politica e segreto, Torino, Giappichelli Editore, 2006, pag. 302.
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1.2 La logica del “togliere” e l’oltrepassamento dei limiti del cinema
Dogville procede per sottrazioni, per eliminazioni, per cancellature. A Dogville scompaiono le pareti delle case, i muri, le strade; al loro posto, solo dei segni bianchi sul set. La scenografia è scarna, fatta col minimo indispensabile, e a essere assente è lo stesso orizzonte insieme al paesaggio circostante. Dogville inizia dichiarando immediatamente la sua falsità, il suo essere film: [...] stilisticamente una dichiarazione sulla svergognata falsità del cinema4. Non tenta di imbrogliare nessuno riguardo alla veridicità degli eventi narrati. Dogville non esiste, quei personaggi non sono mai esistiti, quegli eventi non si sono mai verificati. In questo senso, la prima frattura del film è offerta proprio dalla “fusionalità” di diverse espressioni artistiche. L’impostazione e la costruzione scenografica sono teatrali, come teatrale è la continuità spazio-temporale alla quale si assiste. Come in una pièce, i protagonisti sono pochi e sono sempre gli stessi: non ci si muove dal luogo degli eventi narrati. Tutto accade in un’area ridotta di spazio, proprio come accade sul palco del teatro. Ma, attenzione: è cinema fusionale, non è teatro. Infatti, Von Trier non si è accontentato di riprendere una rappresentazione teatrale, ma ha introdotto la camera da presa all’interno dello spazio. L’occhio del regista si introduce sulla scena, naviga in essa, segue i personaggi all’interno della loro porzione; il montaggio amplia la visibilità sen4
Cfr. Morandini, op. cit., pag. 430.
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za per questo abbandonare la scena in questione (non ci sono flashback che possano raccontarci gli antefatti). Tale ampliamento però non intende mai visualizzare uno spazio che non sia quello in cui si svolgono gli eventi. Dogville è cinema fino a un certo punto, poi diviene teatro se non addirittura letteratura. Dogville è cinema in quanto è sempre presente l’occhio del regista che ha ritagliato un pezzo dello spazio degli eventi, ma non è cinema in quanto Von Trier abolisce (fin dove è possibile) la “materialità” del mondo, che invece è un principio irrinunciabile per tutta la storia del cinema. Dogville è cinema perché solo la macchina da presa è in grado di rendere le angolazioni necessarie per parlare dei fatti di Dogville, dal plongée ai primi piani. Ma Dogville non è cinema perché si contrappone fortemente alla classica concezione di cinema, che oggi appartiene alle produzioni hollywoodiane realizzate sotto il segno “dell’aggiungere”. Dogville è teatro in quanto non ci spostiamo mai nemmeno di un passo dallo spazio degli eventi: il set è e resta quello, tutto accade lì, tra un numero ridotto di personaggi, tutti ben distinti e caratterizzati. Ma Dogville non è teatro, in quanto è cinema: il teatro non ha la forza di rendere il primo piano o di montare differenti punti di vista. Nella scena nella quale Grace subisce la prima violenza sessuale, mentre la volante della polizia la cerca, vediamo prima l’inquadratura degli eventi che si svolgono all’interno della casa e poi, per merito di un taglio di montaggio, siamo spostati fuori dalla casa stessa. Data la mancanza delle pareti, possiamo vedere in profondità ancora Grace con sopra di lei Chuck intento a violentarla, mentre una serie di inquadrature montate tramite falsi raccordi ci mostra lo stupore dei cittadini di Dogville dinanzi alla polizia, intenti a scambiarsi impressioni e timori. Il teatro questo non sarebbe riuscito a farlo. Possiamo
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pensare anche alla scena del tentativo di fuga di Grace, quando riusciamo a vedere in trasparenza ciò che accade sotto al telone del camion, in mezzo al carico di mele. D’altronde, il teatro non può avvalersi di una voce fuori campo se non sfruttando un mezzo che di natura non gli è proprio e comunque tenendolo fuori di sé. La divisione in capitoli, le didascalie, la voce over sono invece letteratura. Ecco quindi il “cinema fusionale”, ovvero una modalità espressiva che oscilla continuamente tra l’essere e il non-essere, dove il cinema è anticinema sfruttando le altre modalità espressive e perciò senza ridursi in “teatro filmato”. Resta cinema, negando il cinema, per mezzo del teatro che, a sua volta, nega nel suo ridichiararsi cinema.
1.3 Lo straniamento in Dogville: vicinanza e differenza con Bertolt Brecht
Canzone di Jenny dei Pirati I Lor signori vedono: oggi sciacquo i bicchieri e per tutti rifaccio il letto. E se mi danno un penny io ringrazio fra i denti e son piena di cenci in un albergo di cenci e loro non sanno chi sono. Ma una certa sera si udrà un vociare giù dal porto
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e: che sono queste grida? si dirà. E io sorriderò in mezzo ai miei bicchieri e diranno: perché ride? perché? E la nave a otto vele e cinquanta cannoni alla fonda starà. II Mi dicono: va’, piccola, risciacqua i tuoi bicchieri e qualcuno mi allunga un penny E il penny viene preso e qualche letto vien rifatto (ma nessuno potrà più dormirci quella notte) e ancora di me non sanno niente Perché quella sera ci sarà un parapiglia giù al porto e: che cos’è questo subbuglio? si dirà E io sorriderò dietro la mia finestra e diranno: perché ride così? E la nave a otto vele e cinquanta cannoni spara sulla città! III Oh, allora smetterete di ridere, signori, perché tutto intorno a voi cadrà, la città sarà spianata, le muraglie crolleranno, solo un infimo alberguccio sarà immune da ogni danno e diranno: ma lì, chi ci sta? E tutta quella notte ci sarà un vociare lì d’intorno e: perché l’albergo è salvo? si dirà.
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E al mattino mi vedranno sulla soglia e diranno: guarda, c’era lei! E la nave a otto vele e cinquanta cannoni il pavese alzerà. IV E a mezzogiorno in cento discenderanno a riva, li vedrete avanzare nell’ombra, e prenderanno tutti, una porta dopo l’altra e li incateneranno e me li porteranno e diranno: chi dobbiamo ammazzare? E a metà di quel giorno sarà silenzio al porto quando chiedono: chi muore, adesso? E allora la mia voce dirà: tutti! E la nave a otto vele e cinquanta cannoni con me salperà5.
La celebre “Canzone di Jenny dei Pirati”, contenuta nell’Opera da tre soldi di Brecht, è stata considerata da molti critici una fonte di ispirazione per la costruzione della protagonista di Dogville. In realtà, la storia delle due donne è ben diversa: la Jenny della canzone trama la sua vendetta fin dall’inizio, vivendo in una condizione di schiavitù nei confronti dei benestanti e attendendo il giorno della resa dei conti. Invece, Grace vive nel finale una trasformazione radicale: per l’intero film, 5
Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi, (trad. it. a cura di Emilio Castellani), Torino, Einaudi, 1977, pagg. 34-35.
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la sua figura sembra essere molto più vicina alla Giovanna di Santa Giovanna dei Macelli - sempre di Brecht -, fino allo sterminio finale dove la sua arrogante natura cristica lascia spazio a una riappropriazione della natura umana. A parte questo però è senza dubbio vero che il confronto con le opere e la teoria di Brecht rimane un punto di essenziale importanza per comprendere il film di Von Trier. Entrambi gli artisti, Brecht e Von Trier, condividono la necessità di pensare forma e contenuto in diretta connessione e reciprocità. Possiamo evidenziare quali sono le soluzioni stilistiche adottate dai due e, di conseguenza, la teoria che soggiace a queste scelte per arrivare a mettere in luce come anche sul messaggio e sulle intenzionalità dei due ci siano punti di accordo, ma anche di distinzione. La teoria estetica brechtiana viene definita dallo stesso autore “antiaristotelica”: la rottura insanabile coi precetti contenuti nella Poetica6 viene ottenuta per merito dello “straniamento”, pratica artistica sulla quale Brecht ha fondato gran parte della sua produzione. Il rifiuto delle convenzioni aristoteliche, nonché della struttura imposta da tale tradizione, è motivato dalla sensibilità politica che animava il drammaturgo tedesco. L’estetica aristotelica presupponeva la necessità di concepire la narrazione come una dimensione distaccata rispetto alla sorte degli spettatori. Da questa straniazione, la narrazione poteva generare la nota “catarsi”, uno dei termini più ambigui, incerti e perciò variamente interpretati nella storia della filosofia. Nel senso brechtiano, la catarsi può essere intesa come godimento morale e personale provato dallo spettatore nel suo avere (o anche non avere) coscienza del fatto che le sorti subite dal personaggio non siano toccate a 6
Aristotele, Poetica, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1997.
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lui, dato che ciò a cui sta assistendo è “falso”. Provocando terrore o pietà, la catarsi funziona come eccitazione fisiologica e “purga” per il pubblico - come la ribattezza Nietzsche - e perciò principio di rinuncia della vita e della realtà. Brecht intende liberarsi della logica della catarsi dichiarando, attraverso diverse soluzioni di straniamento, in maniera esplicita la “teatralità” e perciò la non-realtà degli eventi che si succedono sul palco. In questo modo, lo spettatore viene coinvolto attivamente dall’opera: deve prendere coscienza di qualcosa, deve indignarsi, deve poter uscire dallo spettacolo con la volontà di cambiare il mondo. Questa è la precisa intenzionalità politica che è sottesa nel pensiero di Brecht. Nei suoi scritti, Brecht rivendica alcuni connotati vitali per la nascita di quello che lui stesso definisce “teatro epico”: proprio in relazione alla volontà politica della sua opera, Brecht intende il teatro come veicolo pedagogico e educativo. Il teatro deve riuscire a educare le masse e, per fare questo, deve avvalersi, da un lato di strumenti scientifici e, dall’altro, di elementi di divertimento. Come gli autori della letteratura naturalista francese, Brecht è essenzialmente un positivista, o meglio: è un materialista. L’errore commesso da molto teatro prima di lui, sostiene Brecht, è stato quello di separare nettamente arte e scienza: Spesso mi è accaduto di ascoltare, quando insistevo sui servizi inestimabili che la scienza moderna può rendere all’arte e in particolare al teatro, l’affermazione che l’arte e la scienza siano due campi dell’attività umana stimabilissimi, ma totalmente diversi. Questo è naturalmente un marchiano luogo comune […] Io devo
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confessare che non riesco a lavorare come artista senza servirmi di un bagaglio scientifico7. La scienza va reintrodotta nell’arte, perché solo la scienza può offrirci delle soluzioni pratiche e concrete per alleviare le sorti degli appartenenti ai ceti più poveri della società. Il teatro deve scientificamente avvalersi di un metodo in grado di illuminare le classi operaie riguardo al loro stato di subordinazione, in prospettiva di una rivoluzione sociale e di un radicale miglioramento dell’uomo. Questa praticità dell’arte di Brecht si accompagna alla convinzione dell’autore che l’opera debba divertire, debba far trascorrere allo spettatore una bella serata, in quanto ciò non è in contraddizione con l’intenzionalità scientifico-politica, bensì è uno strumento ulteriore per coinvolgere il pubblico e per comunicargli un messaggio. Da quanto detto, possiamo già sostenere che l’arte di Brecht è un’“arte redenta”: le sue opere si redimono nel loro stesso contenuto. Le finalità pratiche del suo teatro corrispondono a una continua fiducia nei confronti dell’uomo. La visione di Brecht, legata alle teorie socialiste, è una visione propagandistica, che si avvale di proposte concrete. In questo senso, l’opera si compone di elementi che soggiacciono a una interpretazione univoca: ogni simbolismo, ogni “gesto” è sociale e mette in risalto le brutture e le sozzure della società capitalistica odierna, promuovendo la rivoluzione sociale e la trasformazione dell’uomo attraverso l’adesione al credo comunista8. 7
Bertolt Brecht, “Teatro di divertimento o d’insegnamento?” in Scritti teatrali, (trad. it. a cura di Emilio Castellani, Roberto Fertonani, Renata Mertens), Torino, Einaudi, 2001, pag. 66. 8 Questo è ciò che Adorno non sopportava di Brecht: la sua arte, per quanto convinta di opporsi al sistema e all’ordine vigente, in realtà sfrutta gli
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La fiducia e l’ottimismo di Brecht nell’uomo si riflettono anche nella teoria relativa ai personaggi delle sue pièce: Brecht rifiuta qualsiasi teoria riguardante l’uomo eterno e metafisico sempre uguale a se stesso nella storia. Rifiuta qualsiasi stilizzazione dei personaggi, rifiuta qualsiasi idea trascendentale di uomo, ritenendo indispensabile riservare un’attenzione particolare all’ambiente e alla contestualizzazione sociale e storica dei personaggi: […] piccoli borghesi senza speranza (o quasi), ai quali piace spogliare l’uomo dei suoi contrassegni di classe per scoprire “l’uomo”, l’uomo in sé, l’uomo nudo9. È l’ambiente a essere responsabile dei fatti dell’uomo, delle sue atrocità e dei suoi errori. Brecht punta il dito contro il sistema economico e politico, unico responsabile delle sofferenze degli uomini. Per questo, è impossibile - o comunque inutile - prendersela con la “natura dell’uomo”: l’uomo, per Brecht, sarebbe buono o almeno migliore di quello che è oggi: E allora, voi attori degli operai potete, imparando e insegnando con la vostra raffigurazione, intervenire in tutte le lotte degli stessi identici strumenti di coercizione. L’arte dichiarativa, la struttura razionale, il calcolo e l’imposizione che quest’arte comporta sono il riproponimento delle modalità attraverso le quali la società capitalistica ha asservito a sé ognuno di noi. Questo processo positivistico e razionale, che ha condotto al capitalismo passando per Auschwitz, non viene osteggiato dagli artisti come Brecht, bensì confermato, perché quest’arte è altrettanto positivistica e razionale del sistema. Sarebbe come sostituire un ordine con un altro, mentre l’arte oggi nell’ordine dovrebbe portare il caos come, secondo Adorno, fa Samuel Beckett e non Brecht. 9 Cfr. Brecht, “La dialettica nel teatro” in op. cit., pag. 173.
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uomini del vostro tempo e così, con la serietà dello studio e la serenità della scienza, contribuite a fare dell’esperienza di lotta un bene comune e, della giustizia, passione10. Su questo versante, è indubbio che Von Trier abbia fatto suo l’insegnamento di Brecht, ambientando Dogville in un contesto storico e sociale ben preciso, ovvero l’America anni Venti. Allo stesso tempo però, come vedremo il messaggio del film non si riduce al piano storico, ma coinvolge anche quello metafisico, cosa che Brecht avrebbe rifiutato. All’ottimismo di Brecht si sostituisce il pessimismo e il nichilismo di Von Trier, che si rivolge all’uomo in generale. I personaggi di Dogville infatti non evolvono, non manifestano alcuna profondità, ma rientrano nell’ordine della stilizzazione come fossero pedine di un gioco a scatola. La tecnica di Brecht, legata alla sua fiducia scientifica nei confronti del miglioramento, si avvale dello straniamento al fine di evidenziare il contenuto storico; questo contenuto viene messo in risalto attraverso il “gesto sociale”, il solo capace di rendere palese l’atto di accusa politico: Non ogni gesto può dirsi sociale […] Un gesto di dolore […] nella misura in cui rimane tanto astratto e generico da non superare il puro ambito animale, non è ancora un gesto sociale. Ma proprio a questo, cioè a “dissocializzare” il gesto, tende sovente l’arte. […] Il gesto sociale è il gesto rilevante per la società, il gesto che permette di trarre illazioni circa le condizioni sociali11. Veniamo allo straniamento: Brecht enuncia nei suoi scritti alcune delle possibili soluzioni, come ad esempio l’inserimen10 11
Cfr. Brecht, “La distribuzione” in op. cit., pag. 228. Cfr. Brecht, “Sulla musica gestuale” in op. cit., pag. 213.
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to dei titoli didascalici a scandire le singole scene, il ruolo dell’accompagnamento musicale - il quale deve palesare la sua presenza nell’opera, integrandosi con la stessa scenografia e ponendo l’orchestra stessa in condizione di visibilità allo spettatore - e della recitazione. Gli attori, dice Brecht, devono recitare senza identificarsi completamente col loro ruolo; devono sempre mostrare l’artificiosità e la falsità del personaggio che stanno interpretando. Gli attori devono restare loro stessi e, al contempo, rimandare al loro personaggio, giudicandolo: L’attore deve eliminare ogni tendenza troppo precoce a rivivere dentro di sé la parte12. In Dogville, lo straniamento si manifesta soprattutto a livello scenografico: l’introduzione dei titoli ai capitoli rappresenta un altro elemento di condivisione con la teoria di Brecht. Oltre a ciò - lo abbiamo visto - fondamentale in Dogville è la contaminazione con altre arti, prevista già nella teoria brechtiana: Così chiamiamo a noi tutte le arti sorelle dell’arte drammatica, non per creare un’“opera d’insieme” in cui tutte si annullino e si disperdano, ma perché ognuna di esse, insieme all’arte drammatica, dia a suo modo impulso e sviluppo all’opera comune; e il loro rapporto reciproco sarà proprio quello di straniarsi a vicenda13.
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Cfr. Brecht, “Teatro di divertimento o d’insegnamento?” in op. cit., pagg. 97-98. 13 Cfr. Brecht, “Breviario di estetica teatrale” in op. cit., pag. 148.
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Per quanto riguarda la musica e la recitazione degli attori le cose cambiano. Questo perché, in fin dei conti, Dogville è più “aristotelico” rispetto al teatro di Brecht. Per prima cosa, la sua struttura è di tipo tradizionale (fin troppo tradizionale): continuità spazio-temporale, consequenzialità degli eventi, un inizio, uno svolgimento e un finale con tanto di deus ex machina. Oltretutto, la recitazione degli attori è classica: essi non giudicano se non all’interno della loro storia, ma non prendono posizione contro (o a favore) il sistema; la loro è una recitazione a tutti gli effetti realista, se vogliamo. Gli attori non violano mai la linea immaginaria di demarcazione tra loro e il pubblico. Oltre a ciò, nel finale del film si ripropone prepotentemente la logica aristotelica della catarsi: il film, che nel suo corso ribadisce continuamente la sua esclusione dal mondo, si conclude con un evento - l’annientamento di Dogville e la vendetta di Grace - che genera nel pubblico un’emozione e un sollievo diabolici, dovuti alla soddisfazione provata nel vedere avvenimenti lontani da noi. Tuttavia, non si tratta di un’autentica “purga”, in quanto in realtà siamo noi stessi a essere chiamati in causa e giudicati: Tornando a casa non si può non essere sopraffatti da un incontenibile senso di piacere. La distruzione di Dogville, il crepitio delle armi, le grida di terrore diventano parte di un momento catartico in cui lo spettatore prende parte diretta a quello che ritiene in tutto e per tutto un atto di giustizia […] Eppure in tanta soddisfazione rimane un senso d’amarezza che suona come un monito. Ciò che siamo stati così solerti nel condannare in Dogville, saremmo in grado di aborrirlo nelle nostre città? E se il segreto fosse
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che è della nostra distruzione che abbiamo goduto, che erano nostre le grida delle quali ci siamo saziati le orecchie?14. La distinzione tra i due autori, lo abbiamo già visto, è profonda: in Brecht, la fiducia nel miglioramento dell’uomo e nel progresso scientifico determinano l’adozione di mezzi teatrali volti proprio a questo fine. L’uomo che recita non è uomo, ma figura sociale contaminata, appartenente a quella società malata che va riformata. In Von Trier non c’è la stessa fiducia scientifica per le sorti dell’uomo: Von Trier mette in scena l’uomo come è e come sempre sarà15. L’attore in questo caso deve solo interpretare, recitare e non contribuire con la recitazione al miglioramento della società, in quanto essa non è migliorabile perché è pur sempre fatta di uomini. Sia Brecht che Von Trier si avvalgono dello choc: non si tratta di messaggi e di contenuti esposti come fossero tesi, in maniera teorica e fredda. Riuscire a sorprendere il pubblico, in Brecht significa convincere la collettività del pubblico alla necessaria riforma sociale: […] il personaggio, come tutto il resto, non deve tanto convincere il pubblico, quanto sorprenderlo16. Walter Benjamin, autorevole interprete dell’opera brechtiana, sostiene:
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Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 337. O per lo meno, come vedremo nel corso delle pagine seguenti relative alla chiave di lettura socio-politica, una nuova società è possibile solo passando attraverso l’atto più aberrante per l’uomo, ovvero l’omicidio. 16 Cfr. Brecht, “Breviario di estetica teatrale” in op. cit., pag. 138. 15
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Il teatro epico, come le immagini di una pellicola cinematografica, procede a scossoni. La sua forma fondamentale è quella dello shock. I Songs, le didascalie, le convenzioni fantasmatiche staccano ogni situazione dall’altra. Così si generano intervalli che tendono a limitare l’illusione del pubblico. Essi paralizzano la sua predisposizione all’immedesimazione. Questi intervalli sono riservati alle sue prese di posizione critiche17. Il finale di Dogville suona in maniera diversa: se Grace lasciò Dogville o, se al contrario, Dogville aveva lasciato lei e il mondo in generale, è una domanda di natura così astuta che pochi ne beneficerebbero ponendola e pochissimi fornendo una risposta. Di certo non verrà fornita qui. Come vedremo, sono molte le problematiche che vengono messe in scena con Dogville, ma sono poche le risposte che se ne possono trarre. Il film mantiene il distacco che solamente la catarsi permette, in quanto a esso si può solo assistere e continuare a vederlo indefinitivamente. I suoi contenuti mettono sempre in moto e rilanciano il pensiero, in mancanza di una risposta esaustiva. Il film ribadisce il suo non appartenere alla vita, il suo distinguersi dal mondo e non pretende un miglioramento o una rivoluzione. In questo è catartico: coinvolge emotivamente gli spettatori, li fa riflettere, mette in discussione le convinzioni di ognuno, ma non dà risposte. L’immagine di Dogville non si redime: non esaurisce mai il suo senso, non giustifica mai i suoi mezzi in vista di un contenuto o di una finalità concreta. 17
Walter Benjamin, “Che cos’è il teatro epico?” in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: arte e società di massa, (trad. it. a cura di Enrico Filippini), Torino, Einaudi, 2000, pag. 133.
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In Brecht, l’arte non è più disinteressata: essa giustifica continuamente lo stile di cui si avvale, nonché le sue componenti formali, con la volontà di cambiare il mondo. L’opera trova una risposta con la patetica convinzione che l’arte possa riuscire a migliorare la vita. Per questo, lo spettatore deve essere uno spettatore rilassato in quanto se è vero che la sua opera favorisce il giudizio critico sul mondo e sulla volontà di cambiarlo, è pur vero che a questo stato ci arriva per merito (o per costrizione?) dell’opera stessa e non attraverso un libero ragionamento. Per questo, direbbe Adorno, l’arte di Brecht è tanto impositiva quanto il sistema che intende criticare. È senza dubbio vero però che per entrambi il mondo nel quale oggi viviamo è un inferno peggiore di quello raccontato da qualsiasi immaginazione mistico-religiosa, dove l’umanità rappresenta un ostacolo o un rudere di poco conto. Così è, ci dice Von Trier. Potrebbe anche non essere così, ci dice Brecht: Perché piuttosto non osserviamo questo: che i tempi tristi rendono il senso di umanità un pericolo per gli esseri umani?18.
1.4 Lo stratagemma dell’iper-visione
Detto tutto questo, risulta chiaro che il principio che ordina gli eventi di Dogville è quello dell’iper-visione. Straniato da ciò che vede, lo spettatore può osservare col giusto distacco 18
Cfr. Brecht, “La dialettica nel teatro” in op. cit., pag. 169.
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gli avvenimenti, ma ne resta continuamente coinvolto dal punto di vista emotivo: le immagini che vede sono troppo crude, troppo violente, troppo ingiuste per non sentire dentro di sé uno spasimo dell’anima, un coinvolgimento catartico, un’indignazione. Lo spettatore viene chiamato al gioco, in quanto il film necessita della sua riflessione per acquistare senso. Attraverso l’iper-visione, lo spettatore può concentrarsi esclusivamente sulla sua attività, quella che più gli è propria, ovvero quella di “attributore” e “costruttore” di senso. Questa pratica - che, come sapeva bene Benjamin, appartiene al fruitore cinematografico sui generis19 - aveva vissuto una profonda lacerazione nel corso dei decenni successivi alla nascita del cinema. Adorno, negli anni Cinquanta si è fatto il maggior interprete di questa visione: al contrario di quanto aveva sostenuto Benjamin, Adorno sottolineava le modalità attraverso le quali il cinema controlla le masse per ragioni di mercato e di coercizione sociale. Adorno vedeva nello spettatore del film uno schiavo, un uomo passivo e controllato dalle immagini: Sono i prodotti stessi, a cominciare dal più caratteristico di tutti, il film sonoro, a paralizzare quelle facoltà per la loro stessa costituzione oggettiva. Sono fatti in modo che la loro ricezione adeguata esiga bensì prontezza di intuito, capacità di osservazione e competenza specifica, ma anche da vietare letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore, se questi non vuole perdere i fatti che gli sgusciano rapidamente davanti20. 19
Cfr. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” in op. cit., pag. 35. 20 Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, (trad. it. a cura di Renato Solmi), Torino, Einaudi, 1997, pag. 133.
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Lo sviluppo dello star system attesta proprio questa operazione di controllo. Il punto è che lo stesso Adorno tornerà sui suoi passi: con l’avvento delle nouvelles vagues europee, si apre uno spazio nuovo anche per il cinema, che si può emancipare e che può così ambire all’arte, a patto però che si faccia violenza opponendosi al cinema stesso: È incontestabile che il cinema di papà corrisponde effettivamente a ciò che vogliono i consumatori, o forse meglio: che esso fornisce loro un canone inconscio di ciò che non vogliono, ovvero del diverso che viene loro propinato. Se così non fosse, l’industria culturale non sarebbe diventata cultura di massa […]21. Ebbene, Dogville fa proprio questo: restituisce allo spettatore cinematografico la funzione che gli era propria in origine e che era attestata dalle teorie benjaminiane. Si scrolla di dosso Hollywood e le logiche di rappresentazione filmica che ne sono alla base. Segna l’avvento di un cinema nuovo, che trova nell’oltrepassamento del confine del cinema e nell’apporto di altre modalità espressive uno spazio di originalità che solo può garantire lo choc e la riflessione allo spettatore. L’iper-visione abbatte i muri, le case; la sceneggiatura, la narrazione divisa per capitoli e la voce narrante abbattono gli ostacoli per lasciare lo spettatore solo con se stesso, ovvero con le sue domande senza risposta, con le immagini che si trova di fronte. Lo spettatore di Dogville non ha quasi più ostacoli: una sceneggiatura essenzialmente semplice, una serie di 21
Theodor W. Adorno, “Cinema in trasparenza” in Parva Aesthetica: saggi 1958-1967, (trad. it. a cura di Elena Franchetti), Milano, Feltrinelli, 1979, pag. 85.
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personaggi “teatralmente” configurati, una serie di eventi ordinati come il meccanismo di un orologio, una divisione per capitoli, un’area anch’essa “teatralmente” ridotta a pochi metri quadri. Tutto affinché lo spettatore possa dedicarsi alla pratica ermeneutica di attribuzione di senso in maniera esplicita e diretta. Se lo spettatore è sempre un costruttore di senso, in Dogville questo fattore viene posto in primo piano: tutto il film ruota proprio su questa attività vitale dello spettatore. Da subito, il film è come se dichiarasse la presenza di un vuoto che deve essere colmato. Un’assenza che, seppur presente in ogni film, qui viene dichiarata e resa palese, integrandosi con la forma stessa della messa in scena. Forma e contenuto si fondono proprio in questa operazione; l’iper-visione concede allo spettatore l’abolizione della materialità del mondo, ostacolo inoltrepassabile nel cinema come nella vita. Questa operazione non concede allo spettatore un potere assoluto, una conoscenza esaustiva ma, al contrario resta l’uomo che è sempre stato, pieno di domande e di dubbi sulle immagini che vede. Stavolta però in Dogville lo spettatore non deve investire la sua immaginazione per ciò che “è dietro”, per ciò che “è nascosto”, ma deve occuparsi integralmente dell’operazione di interpretazione degli eventi, investendoci tutte le energie a lui a disposizione. In tal modo possiamo vedere ciò che da sempre è sotto i nostri occhi, ma che non riusciamo spesso a vedere. Bellei parla, a proposito di questo, di comunità nuda22: Dogville manifesta la rappresentazione ai raggi X della nostra quotidiana vita sociale, apparentemente così armonica e corretta. All’inizio di questo paragrafo, abbiamo accennato a come il film si nutre della tensione dialettica irrisolta tra “distacco” e 22
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 327.
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“vicinanza”; proprio a partire da questo cortocircuito, Dogville riesce a choccare il suo pubblico, in quanto in ogni momento tira la corda per poi lasciarla subito dopo. Ora: questo rapporto di “distacco” e di “vicinanza”, che poi è la stessa pratica dello straniamento, come vedremo viene proposto attraverso varie modalità. La modalità alla quale abbiamo già accennato, che è anche la più evidente, riguarda il conflitto tra “coinvolgimento emotivo e fisiologico” - a cui siamo costretti dinanzi a contenuti così violenti ed espliciti - e “la natura di apologo” sulla quale ci soffermeremo nel prossimo paragrafo - che il racconto mantiene nel suo dichiararsi continuamente altro dalla realtà, fittizio in quanto nella vita non siamo dotati dello strumento dell’iper-visione, ma la nostra vista si imbatte continuamente contro muri e ostacoli. Lo stesso meccanismo di “distacco” e di “vicinanza” viene proposto attraverso un altro cortocircuito, ovvero nel conflitto tra gli attori prescelti da Von Trier e la tecnica registica adottata. Dogville è girato interamente con videocamere digitali ad alta definizione; nel film è costante un uso spasmodico di zoom (in e out) e di jump cutting (ovvero raccordo di montaggio “a salto”, che implica l’eliminazione di una porzione di tempo, generando delle piccole ellissi che a loro volta implicano la mancata identificazione di temporalità naturale e di temporalità filmica). Questo stile registico e il supporto prescelto ci fanno sentire il film particolarmente vicino, proponendoci la stessa immediatezza e confidenza che il filmino amatoriale girato da noi durante una festa può darci. Questo aspetto di “cordialità visiva” però si scontra col fior fiore di attori che Von Trier ha preteso per il film. Da Nicole Kidman a Lauren Bacall, da James Caan a Ben Gazzara: è come se durante la visione del filmino della nostra Comunione vedessimo compa-
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rire un importante attore di Hollywood! La scelta di questi giganti della storia del cinema è strategica: riequilibra il rapporto tra film e fruitore ridonando a tale rapporto una buona dose di distacco, messa in discussione dalla tecnica digitale di ripresa.
1.5 La natura di apologo di Dogville
Il fatto che il film si dichiari da subito tale - e perciò irreale, differente rispetto al mondo - fa di Dogville un apologo, ovvero una storia raccontata al fine di fare riferimento a qualcosa d’altro. Una narrazione che possiede quel tanto di astrattezza per farne un messaggio universale e rivolto a tutti in ogni luogo. Lo stesso film dichiara questo aspetto: nell’ottavo capitolo, Tom racconta a Grace di aver iniziato il suo romanzo, che narra le vicende di una cittadina assolutamente inventata; non sapendo come battezzare la cittadina, Grace gli propone di chiamarla “Dogville”, ma Tom non è d’accordo in quanto il romanzo deve essere universale, deve veicolare un messaggio rivolto a tutta l’umanità (ed è d’altronde il compito a cui il film Dogville adempie). Quello che accade a Dogville non accade nella vita reale, che però è fatta della stessa infamia, della stessa ipocrisia. Dogville parla del mondo, distaccandosi da esso. D’altronde, il film ha uno svolgimento classico: una situazione di partenza, un climax positivo, uno stravolgimento degli eventi, un epilogo catastrofico per conclusione. Mentre, altri registi come Alain Resnais e in tempi più vicini a noi Quentin Tarantino
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compiono l’operazione di rottura nei confronti del cinema (vitale per l’artisticità del film) lavorando proprio sulla temporalità, in Dogville la consequenzialità degli eventi viene narrata come nelle tragedie greche. Questa linearità d’altronde non appartiene alla vita vissuta da ciascuno di noi. Il tempo non viene decostruito o frantumato, ma è talmente lineare da risultare irreale, differente dal tempo esistenziale di cui ognuno di noi può fare esperienza. La consequenzialità logica degli eventi di Dogville ne fa appunto un apologo per la sua astrattezza e stilizzazione. Questa tipologia di costruzione d’altronde è propria di gran parte del cinema classico: si parte da una situazione iniziale (la quotidianità di Dogville), che viene messa in crisi da un evento imprevisto, a cui segue uno stato di pace e di gioia. In seguito, avviene la rottura dell’idillio e perciò la catastrofe, per poi giungere al finale. Nel finale però non c’è un ritorno alle condizioni di partenza, ovvero un lieto fine conciliatorio, ma una eliminazione totale, un azzeramento di tutto. Questa struttura è la struttura classica aristotelica con tanto di deus ex machina conclusivo (l’avvento del padre di Grace). La Poetica aristotelica fa da sottofondo ancora alla maggior parte dei film classici e commerciali, dalle commedie frivole ai kolossal hollywoodiani stracolmi di effetti speciali dei quali abbiamo parlato sopra. Il punto di distinzione fondamentale con Dogville è che quest’ultimo dichiara la sua falsità, mette da subito in guardia lo spettatore che sta partecipando a un gioco, che gli avvenimenti che sta osservando non sono accaduti e forse non accadranno mai, perché la vita funziona diversamente. Il gioco del cinema commerciale, “conciliante e culinario” direbbe Adorno, di “stupire” lo spettatore eternamente ingenuo - che riesce ancora a stupirsi dinanzi a stratagemmi
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tanto banali - si avvale di un meccanismo perverso, per merito del quale il film rinuncia a dichiararsi finzione e pretende (riuscendoci) di abbindolare lo spettatore facendogli credere che quanto sta accadendo sotto ai suoi occhi è vero. Gli effetti speciali tentano di fare proprio questo: ricostruire digitalmente il crollo di una diga o l’esplosione di un aereo, oppure un uomo che si arrampica sui grattacieli, dando l’illusione che tutto ciò sia accaduto o che stia accadendo realmente non dichiarando, neppure a livello di forma, la non realtà di tali manifestazioni. La struttura temporale di Dogville è la stessa, ma diviene apologo per merito del suo dichiararsi falso a livello di costruzione formale. Da un certo punto di vista, sembra quasi che Dogville sia una parodia: la logica degli eventi è talmente ben costruita, talmente classica che rasenta l’ilarità23, al punto da metterci in guardia proprio dalla falsità di ciò che vediamo24. Anche Jacques Rivette lavora spesso all’interno del solco che segna la distanza e la vicinanza tra teatro e cinema e adotta il teatro nel cinema per lo stesso fine di Von Trier: tenta lo straniamento proprio con l’irruzione del teatro nel film. Vedendo alcune scene dei suoi film come Chi lo sa?, oppure Alto, basso, fragile, lo spettatore fino a un certo punto crede di stare a vedere un film normale, dove per “normale” si intende classico, un film dove si tenta di ricostruire eventi che diano l’illusione di essere dinanzi a qualcosa che accade realmente. Lo 23
A questo proposito, l’utilizzo della colonna sonora può avvalorare la nostra tesi: pensiamo ai passaggi melodici, fiabeschi e sognanti che scandiscono i momenti lieti del film. 24 La stessa operazione, per altri versi, è seguita da David Lynch per Velluto blu, ma in Dogville la parodia è rafforzata dalla costruzione straniante.
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straniamento sopraggiunge di soppiatto: a un certo punto, i personaggi cominciano a comportarsi in maniera teatrale e noi scopriamo che stiamo dinanzi a una finzione. Ecco lo choc. La stessa operazione è compiuta da Tsai Ming-liang, non slittando nel teatro quanto nel musical. Dogville si apre invece da subito con lo choc formale, per arrivare poi allo choc narrativo del finale. Dicevamo che nella vita normale di ciascuno di noi non accade come in Dogville: la successione degli eventi non è disposta in maniera così simmetrica e chiara, non apparteniamo mai a una microcomunità in totale assenza del mondo circostante, non siamo così identici a noi stessi come i suoi personaggi. Quella che avviene sempre e in ogni momento è la mancata redenzione di Dogville e, come vedremo, non si tratta della risultante finale di un meccanismo. Mentre noi viviamo il nostro climax personale, un momento di particolare gioia, una gratificazione professionale o magari il raggiungimento di un traguardo tanto ambito, qualcun altro sta subendo un torto o un’infelicità forse proprio a causa degli eventi che ci hanno reso così felici. Non c’è consequenzialità piuttosto uno svolgimento parallelo di più destini lontani tra di loro; noi viviamo sempre la nostra Dogville, siamo responsabili di questa Dogville, perché contemporaneamente viviamo tutte le fasi narrate dal film. Dogville parla della stessa ipocrisia della vita vera e della società contemporanea, con la differenza che la nostra ipocrisia è addirittura maggiore, in quanto nella realtà non avvengono i fatti esasperati (e perciò maggiormente indicativi ed esaustivi) che vengono narrati nel film. E nella vita non finisce (quasi) mai come in Dogville. L’apologo sta in questo: Dogville parla di noi, raccontandoci la storia di una città mai esistita e che non esisterà mai.
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1.6 Tra apologo esistenziale e accusa storico-sociale
Ora si tratta di vedere il tipo di apologo in questione. In quanto apologo, Dogville risiede in una dimensione astorica ovvero non vincolata a una data circostanza -, ma contiene un messaggio universale che può essere accolto da chiunque. Ma, come accade in Brecht, lo stesso apologo se non vuole essere mito o favola deve necessariamente assumere una determinazione storica e geografica. L’apologo assolutamente astratto rischia di perdere efficacia; la poetica brechtiana, condivisa in questo da Von Trier, ritiene che l’assoluta estraneità dal mondo possa rendere l’opera troppo aleatoria e di complessa comprensibilità. In questo modo, il messaggio (politico in Brecht) sarebbe rivolto solo a una classe particolare della società, diciamo quella intellettuale. In realtà, risulterebbe una blasfemia dire che i racconti o i romanzi di Kafka siano inefficaci: come sapeva bene Adorno, in Kafka come in Beckett non traspare nulla che possa collocare storicamente, socialmente e geograficamente i personaggi, ma la critica alla società e la presa di posizione sul mondo sono integrate e montate con la forma stessa. Beckett e Kafka non parlano del mondo, bensì è il mondo che è stato introdotto nell’opera scardinandone la struttura semantica e sintattica e svuotando di senso gli eventi che vengono narrati. D’altronde, questa posizione può valere in letteratura, ma tutto diviene più complesso col cinema, che ha a che fare con immagini che non possono esimersi dal rimandare a un dato contesto. È sufficiente l’abbigliamento, il linguaggio parlato, i gesti, le automobili, lo scenario a collocare l’apologo necessariamente in
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un contesto determinato25. La bellezza di Dogville sta nel fatto che si offre come apologo storico, relativo alla nostra realtà odierna nonostante narri fatti relativi all’America della fine degli anni Venti e, allo stesso tempo, come apologo esistenziale relativo alla natura stessa dell’essere umano. Non possiamo infatti trascurare il fatto che Von Trier abbia realizzato Dogville come primo episodio di un ciclo di film dedicato all’America. La “Trilogia sull’America” già impone il dovere di comprendere il film anche nella sua chiave sociale e politica, tanto che il secondo film della serie, Manderlay, restringe il campo di Dogville rimodellando la dimensione universalistica e antropologica a una indagine più palesemente rivolta al Nuovo Continente. Questa visione viene rafforzata da un paio di altri elementi: sto pensando, da un lato alle immagini che si susseguono nel corso dei titoli di coda, fotografie d’epoca che testimoniano il degrado e il malessere di gran parte della popolazione americana. Dall’altro lato, penso anche al quinto capitolo del film dove, contemporaneamente all’arrivo della polizia, i cittadini di Dogville sono tutti presi a festeggiare il 4 luglio cantando a tavola America America, tessendo le lodi di Grace e mostrandole la loro riconoscenza e il loro affetto. Dogville è un tipico paese della provincia americana abitato da persone normalissime ma anche diaboliche per la loro normalità. “Sono tutte brave persone” dice Tom a Grace il 25
Da questo punto di vista, è esemplare il lavoro svolto da “Sua Maestà” Stanley Kubrick con Arancia meccanica: qui l’arredamento, il linguaggio adottato, le automobili, il vestiario erano tutti volti a rafforzare la dimensione straniante dell’apologo narrato. È impossibile collocare storicamente gli eventi del film, proprio per merito delle modalità di messa in scena; detto questo, è pur vero che, in alcuni passi, è lo stesso Arancia meccanica a cadere in fallo, lasciando trasparire rimandi al mondo inglese fine anni Sessanta.
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giorno del suo rocambolesco arrivo. La lettura più diretta e superficiale del film è quella recepibile da chiunque, ovvero l’accusa nei confronti dell’ipocrisia della società americana; questa fonda la sua sussistenza sulla gigante menzogna che propone, tramite i media, all’intero pianeta. La gigantesca menzogna americana è l’altra faccia del tanto esaltato sogno americano, ormai smascherato senza pietà. Le relazioni interpersonali, i diritti universali dell’uomo, l’accoglienza degli USA rappresentano solo la superficie di un incubo celato, fatto di odio reciproco e di sfruttamento. La chiave di lettura politica ci offre una differente maniera di intendere l’iper-visione: questa può essere intesa come un’ulteriore accusa rivolta alla società della “bulimia della visione”. Una società dove i mezzi di comunicazione di massa non hanno più tanto la funzione di rendere la verità quanto di costruirla, di forzarla per cercare lo scandalo. Nell’epoca dei telegiornali invasivi - le cui macchine da presa entrano nelle case per smascherare il dolore di genitori che hanno appena perso i figli, caratterizzati da interviste senza pietà fatte di parole strozzate dal pianto -, gli spazi realmente privati si sono ridotti a ben poca cosa, come se fossimo sempre dinanzi al patibolo del giudizio della collettività. La cronaca contemporanea ci ha ormai abituati a casi di questo tipo e i luoghi riservati al proprio dolore sono sempre più ridotti da quando i media hanno deciso di spogliarsi di qualsiasi buon senso. Crollano i muri delle case, scompaiono la privatezza e l’individualità e siamo abbandonati alla gogna prima ancora che la giustizia faccia il suo corso. Iper-visione come bulimia: la società contemporanea è fatta di persone che godono delle sventure altrui, che godono nell’osservare persone che vivono rinchiuse tra quattro pareti, che decidono volontariamente di privarsi
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della loro riservatezza al fine di svendersi agli occhi e alle pulsioni malsane del pubblico. La funzione della camera a mano, frenetica e inquisitoria, che segue passo passo i gesti degli abitanti della cittadina e che punta il suo occhio crudele sulle lacrime di Grace costretta a ripetere la lezione sullo stoicismo mentre vede fatte a pezzi le statuine di porcellana sulle quali aveva investito tutti i suoi guadagni, è un mezzo di tortura. Dogville, lo abbiamo detto, è un Monopoli, un gioco dell’oca, ma anche un esperimento di laboratorio per topi. Von Trier perseguita i personaggi e infligge loro gli eventi - in particolare a Grace - fino alla nemesi finale. E, mentre narra le sozzure delle quali l’uomo è capace, non smette mai di puntare il suo occhio sulle reazioni e sulle debolezze di questi poveri topi. Perciò, lo stile di Von Trier può essere interpretato anche come un’accusa rivolta alle modalità attraverso le quali i media riempiono la pancia degli spettatori idrofobi e ansiosi di farsi gli affari altrui. Una specie di parodia, un’accusa che viene lanciata utilizzando gli stessi mezzi dell’accusato. A questo proposito, potremmo azzardare un accostamento con un altro grande film della storia del cinema, ovvero Mio zio d’America di Resnais. L’analisi senza pietà del regista francese - che si avvale di teorie biologiche e scientifiche - dimostra una sorta di determinismo comportamentale a cui ogni essere umano soggiace per ragioni antropologiche. Questa indagine spietata è rivolta al mondo a cui noi stessi apparteniamo: Resnais non ha fatto altro che vivisezionare gli eventi che caratterizzano la vita di ognuno di noi. Quello che invece ha fatto Von Trier è stato non solo analizzare, osservare e comprendere scientificamente l’uomo, ma costruire e creare un mondo che non coincide pienamente con quello di cui facciamo esperienza.
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D’altronde, anche il film di Resnais è fatto di una sceneggiatura, di attori e di una ricostruzione sul set: non è affatto un documentario, perciò anche questo è un film di finzione, un mondo altro dal nostro. La differenza, come abbiamo già sottolineato, è che Dogville dichiara palesemente la sua presa di distanza dal mondo, il suo essere fittizio e costruzione artificiale. E, sempre come abbiamo già sottolineato, la forma del film implica un distacco che solo concede riflessione e choc; i temi e gli eventi trattati però sono talmente forti che non possiamo non essere coinvolti emotivamente e psicologicamente. Proviamo un forte senso di empatia nei confronti delle sorti di Grace, simpatizziamo con la sua figura, in particolare nel finale che arriva come una liberazione, l’esaudimento di un desiderio che tutti gli spettatori provano nel corso del film e che hanno paura di ammettere con loro stessi. Seppure Dogville, a ogni passo e a ogni fotogramma, pare ripetere che non è reale, magicamente e di quella magia della quale solo il cinema è capace ci coinvolge. Ci abbandoniamo a esso, soprattutto perché capiamo che dietro a quelle immagini ci siamo noi.
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CAPITOLO SECONDO Chiave di interpretazione politica
L’uomo costruisce la sua identità, i parametri attraverso i quali valuta il mondo e lo abita, le categorie e i valori che regolano la sua conoscenza e le sue modalità di comportamento sempre per merito dell’esistenza altrui. L’essere sociale dell’uomo, a partire dalla costruzione della propria personalità negli anni dell’infanzia, risulta a sua volta essere una necessità antropologica. Gli altri sono necessari in quanto le nostre stesse private valutazioni sono svolte operando con principi acquisiti in società. Oltretutto, il nostro stesso pensiero si relaziona sempre a qualcun altro o perché pensiamo a esso o perché pensiamo a noi stessi in relazione a lui. Le stesse speculazioni riguardanti la “natura intrinsecamente solitaria” dell’uomo, già per il semplice fatto di passare necessariamente attraverso un linguaggio condiviso in società, sono comunque intrinsecamente sociali. Io stesso che rifletto su di esse, o sulle risposte che posso trarre, mi rendo conto che sono sempre e comunque dovute al mio essere nato e cresciuto in una data epoca e gruppo sociale. Queste risposte sono sempre socialmente determinate. Qui veniamo al cuore del problema filosofico di Dogville, che svilupperemo nel corso del testo. Se l’uomo suo malgrado è sempre socialmente determinato, sempre prodotto da una società circostante, dalle conoscenze e dalle esperienze a lui imposte nel corso della vita, a venire sacrificata è la morale
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stessa. L’individuo rischia così di perdersi nella massa, declinando le proprie responsabilità agli eventi, all’educazione, addirittura alla politica. L’accusa sociale scredita le responsabilità del singolo individuo. Il punto è che nessun singolo uomo può esimersi dalle proprie responsabilità: l’uomo è l’unico animale responsabile, perché è l’unico ad avere coscienza di sé. Essere autocosciente significa essere consapevole della propria colpa. L’esperienza, irriducibilmente soggettiva e individuale della propria libertà nella sua natura noumenica e trascendentale esclusiva dell’uomo, costringe ognuno di noi ad assumersi le responsabilità delle proprie scelte. Il sentimento di libertà a priori nell’animo umano, non deducibile dall’esperienza nel mondo, è la nostra stessa condizione di esistenza in quanto animali morali. Come sentenzierà il padre di Grace durante il colloquio finale in macchina, ogni essere umano deve rendere conto delle proprie azioni e a ciascuno bisogna dare una possibilità, ovvero bisogna “giudicarlo”, anche “incolparlo” per ciò che compie. La dialettica opera su questo punto: la società stessa, gli altri non possono essere concepiti come un assoluto. La determinazione è legata dialetticamente alla libertà: ognuno di noi appartiene a qualcosa, è la risultante di eventi che hanno segnato la storia prima di lui, è fatto di tradizioni e di legami con gli altri. I legami e le influenze che hanno generato quell’io che sono adesso sono diacroniche - ovvero legate al passato, privato e collettivo -, nonché sincroniche - generate dal mio perpetuo incontro con altri e con me stesso, che mi giudico in base agli occhi altrui -. Il pensiero dialettico mantiene entrambe le dimensioni: la stessa condizione del determinismo e della predestinazione giunge a coscienza solo per merito delle facoltà riflessive irrinunciabili per l’uomo. Esso non può schiac-
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ciarsi sulla situazione, sulla storia e sulla società, altrimenti la storia e la società si manifesterebbero come un perpetuo essere identiche a loro stesse. Questa è la condizione degli animali, incapaci di generare cultura e che si evolvono solo biologicamente. A questo proposito, è palese che avere coscienza di qualcosa implica il nostro generare una crepa nell’assoluta necessità per merito della libertà. Parlare di Spirito Assoluto - e perciò di storia nell’accezione hegeliana - oppure di destino o di panteismo è un vacuo non parlare di nulla, in quanto non appartiene affatto all’esperienza quotidiana che ognuno di noi fa della vita. Invece, nella vita di ogni giorno ci affliggiamo per le nostre colpe, giudichiamo gli altri, amiamo, odiamo i singoli individui e le loro azioni. Non possiamo demandare questi sentimenti a entità assolute in grado di farsi reali responsabili di ciò che accade nel mondo. Siamo socialmente e storicamente determinati, ma ognuno è in grado di effettuare quel “salto” che lo può mettere nelle condizioni di osservare gli eventi e di riflettere su di essi. La giustizia si pone proprio nello spazio di questo salto: si rivolge alle responsabilità del singolo individuo che non può mai venire totalmente giustificato incolpando qualcosa che lo ha preceduto. Questo approccio può avere senso solo con gli animali. Per questo motivo Mosè, il cane di Vera, resta l’unico protagonista “invisibile” - ovvero solo disegnato a terra - fino all’inquadratura conclusiva: lui non è chiamato in causa, perché i cani non fanno che seguire la loro natura. Se si vuole insegnare qualcosa al cane, “antropomorfizzandolo”, non bisogna perdonarlo sempre e comunque, ma è meglio agire con esso come con gli uomini, attribuendogli la responsabilità dei propri comportamenti e delle proprie azioni.
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2.1 L’America sotto accusa
Von Trier è stato autore di un altro splendido film al vetriolo, che si proponeva a sua volta di accusare l’America fin dentro le sue stesse istituzioni. In Dancer in the Dark, l’ipocrisia di alcuni personaggi è la stessa di quella degli abitanti di Dogville. Siamo sempre nella provincia americana e lo choc arriva nel finale, come spesso accade in Von Trier. Tale choc è di grande efficacia, in quanto Dancer in the Dark è meno apologo di Dogville: le problematiche sono più concrete, i fatti narrati sono realistici e non sono ricostruiti sul set. Quando la protagonista viene condannata a morte e la botola si apre di scatto, un silenzio diabolico inonda le immagini e la nostra mente. Qui, l’atto di accusa è esplicito: le istituzioni americane, fatte della medesima sostanza degli americani stessi, hanno costruito il loro impero sull’ipocrisia e su una atroce mancanza di pietà. Non è un caso però che anche Dancer in the Dark implichi momenti eccezionali di straniamento, sempre per merito dello slittare del film in altre modalità di rappresentazione. Come in Ming-liang, alcune delle scene del film divengono musical, con la splendida Björk che si lascia trasportare dalla sua fantasia e immaginazione, trasformando il suo mondo in un palcoscenico teatrale dove tutti ballano e cantano e dove i rumori della catena di montaggio diventano ritmo e musica. Senza dubbio, questo film mantiene un contatto maggiore con la realtà, tanto che è più difficile sceverarne un messaggio di tipo universale che varchi i confini della società americana. Von Trier, come dichiara lui stesso, non è mai stato in America:
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“Come mai un film sull’America, un Paese in cui lei non è nemmeno mai stato?”. A questa domanda dell’intervistatore, Von Trier risponde così: “Questo film è molto simile agli altri che ho girato. Sono film pessimistici e sarcastici. L’America è un ottimo soggetto perché molto delle nostre vite ha a che fare con essa. Non si può negare il suo ruolo di dominio sul resto del mondo. Per questo sto facendo questi film sull’America, perché riempie il 60% del mio cervello. Le parole che ho immagazzinato, le esperienze della mia vita, almeno il 60% di esse - e non ne sono certo felice - è americano. Quindi di fatto io sono americano, ma non posso andare là a votare, non posso cambiare le cose perché vengo da un piccolo Paese come la Danimarca. Quindi faccio film sull’America e non ci vedo niente di strano”1. Questa mancata visita permette al regista quello sguardo distaccato che gli consente di affondare la lama quanto più profondamente. Von Trier con Dogville compie la stessa operazione di Kafka: anche lo scrittore cecoslovacco dichiarò di non essere mai stato in America, ma scrisse un romanzo sul viaggio di un emigrante nel Nuovo Continente. Anche qui, si tratta comunque di un apologo: situazioni anormali, irreali spinte all’estremo rompendo con qualsiasi estetica di tipo naturalistico. L’America di Kafka non esiste come non esiste Dogville, eppure i fatti narrati, gli eventi delle due opere palesano una realtà in maniera obliqua: attraverso la loro forma, prendiamo coscienza del mondo che ci circonda. Senza confondere arte e vita, senza pretendere di redimere il mondo per merito dell’arte, i due artisti dichiarano la falsità delle loro 1
Intervista tratta da http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?mod=interview&id=1443
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opere spingendo all’estremo gli avvenimenti. L’atto di accusa sociale in Kafka, ad esempio, non è tanto negli eventi quanto nell’assoluta normalità e leggerezza nelle quali tali eventi vengono vissuti dai protagonisti, come se tutto fosse perfettamente normale: Non è lo spaventoso a provocare lo choc, bensì la sua ovvietà2. L’impietosa autopsia che Von Trier esegue nei confronti della società americana addentrandosi nella provincia, mette in evidenza come il regista preferisce queste piccole comunità al fine di attaccare l’impero partendo dal “locale”: il microcosmo come rappresentazione del macrocosmo della nazione. L’America è nelle coscienze dei suoi abitanti, nelle loro convinzioni e nelle loro modalità di comportamento. Nell’immaginario di chiunque, essa è la patria del capitalismo maturo: nessun’altra zona del mondo ha abbracciato in maniera così radicale le teorie e le pratiche capitalistiche. Ovviamente, il capitalismo è entrato fin dentro le fibre esistenziali di ognuno dei suoi cittadini: in America si pensa e si vive in maniera capitalistica e profondamente individualistica. Il singolo cittadino americano è fin nelle ossa americanizzato, dato che la riflessione e il pensiero si muovono sempre attraverso categorie socialmente determinate. Von Trier vede in questo qualcosa di spregevole: gli americani sono cattivi, in quanto pensano e vivono “americanamente”. Da qui, il passo è breve: in realtà, guardare all’America significa guardarsi allo specchio, in quanto l’americanizzazione è un processo che ha investito l’intero pianeta. Gli americani sono nostri figli, europei quanto noi, ma il loro sviluppo si è svolto in maniera talmente autonoma che si sono distinti in 2
Theodor W. Adorno, “Appunti su Kafka” in Prismi: saggi sulla critica della cultura, (trad. it. a cura di Aa.Vv.), Torino, Einaudi, 1972, pag. 253.
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modo radicale da noi nel corso dei secoli. Oggi sono gli americani a plasmarci, imponendo una nuova logica, una nuova morale e una nuova vita. L’individualismo spinto agli estremi, di cui la società americana è la maggiore rappresentante, implica anche un ordinamento giudiziario e delle leggi efficaci al fine di controllare il caos che altrimenti ne verrebbe. Come sostengono tutte le teorie neoliberiste, la legge è necessaria al fine di regolamentare, rimanendone esterna, il gioco della libera concorrenza nonché della libera gestione della propria vita, delle proprie necessità e progettualità. La società civile, se vuole ancora sussistere come comunità organizzata, deve implicare necessariamente un codice di leggi rigido, spesso spietato. I reati di tipo finanziario, ormai ridotti a barzelletta nel nostro Paese, sono duramente puniti negli USA; superare il limite di velocità implica la reclusione carceraria e l’omicidio, come sappiamo bene, è punito in molti Stati con la pena di morte. Tutto per noi risulta incomprensibile, inammissibile così come sono inammissibili per noi una sanità privata e un sistema educativo generalmente privato. Qualsiasi processo di americanizzazione d’altronde sarà sempre parziale nei confronti del Paese che lo subisce. O meglio: l’americanizzazione viene acquisita ma particolarizzata in relazione alla storia, alla tradizione, alla mentalità del popolo “colonizzato”. Pensiamo al Giappone, il Paese che all’indomani della fine della guerra è stato trasformato radicalmente in matrice capitalistica e occidentale. Una trasformazione culturale, che ha provocato una sorta di oblazione del glorioso passato della nazione. Questo processo di ricostruzione non è riuscito però ad azzerare completamente l’humus culturale e spirituale del popolo giapponese. Ciò vale anche per l’econo-
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mia e per la società: il capitalismo giapponese è diverso rispetto a quello americano, in quanto la tradizione e la cultura del Sol Levante hanno una sensibilità maggiore per il principio della collettività e di fedeltà allo Stato. Questo ha creato una miscela formidabile, che ha fatto del Giappone una delle potenze più sviluppate degli scorsi decenni. Lo sviluppo tecnologico, il toyotismo, il boom economico che hanno fatto del Giappone il maggior costruttore di informatica e di elettronica, sono risultanti di un capitalismo vissuto attraverso una dedizione al lavoro, di uno spirito di sacrificio e di una identificazione del singolo con lo Stato che all’America proprio non appartengono. Il polo diametralmente opposto al capitalismo individualista americano è ovviamente il socialismo comunista, parimenti incomprensibile per noi italiani: abolizione della proprietà privata, statalismo economico, privazione di qualsiasi ambizione e progetto autonomo sono concetti e principi che non ci sono mai appartenuti. Gli italiani non sono in grado di sacrificarsi per il bene della nazione o della collettività, ma allo stesso tempo non sono individualisti. Non sognano la carriera personale, non ambiscono a lasciare il loro segno nella storia. La dimensione ideale italiana è una specie di via di mezzo, malsana e confusa: questo spiega il caos politico e istituzionale al quale soccombiamo da qualche decennio. La dimensione ideale della politica italiana è la famiglia, il clan, ovvero la comunità circoscritta. Il principio di comunità in Italia è costruito intorno ai gruppi: le tifoserie di calcio - all’interno delle quali ci si ritrova tutti fratelli -, la famiglia - altare dove vengono sacrificate le aspirazioni di molti connazionali - e poi il clan, ovvero la mafia, la destituzione della politica e della legalità, lo Stato contro lo Stato. In Italia, la legge è cattiva: non
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comprende le ragioni della persona, tanto che si riescono a trovare diverse soluzioni per raggirarla (nel clan, nella famiglia c’è sempre qualcuno che ci mette una toppa, che cambia una firma, che telefona a un amico di amici). Ed ecco lo Stato con il tasso di evasione pubblica più alto in Europa. La famiglia, il clan, ma anche il piccolo comune si oppongono allo Stato. E per opporsi alla legge, o quanto meno per raggirarla, essi non fanno leva solo sulle proprie forze, ma si rivolgono a qualcuno di vicino. Il caos totale si ha quando questo “qualcuno di vicino” entra in politica e contamina le istituzioni. La microcomunità entra nel palazzo e diventa istituzione. Questo è particolarmente significativo in relazione alla microcomunità dogvillese: Dogville in realtà è una falsa comunità, in quanto non presenta relazioni amicali tra i membri. Non c’è una reale condivisone di intenti e di principi: sono tutti gli uni contro gli altri. Ci si odia tra marito e moglie e l’unico negozio di Dogville è particolarmente cara, approfittando della mancanza totale di concorrenza. Gli stessi nuclei familiari sono privi di affetto, meccanici, senz’anima. Nessuno di loro è disposto all’accettazione e all’accoglienza, contrariamente a quanto spera Tom; non esiste nessun senso della comunità, in quanto ognuno spala la neve solo ed esclusivamente davanti alla porta della propria casa. Tutto è volto all’espressione dell’ego individuale di ciascun singolo membro: tutto è in funzione del singolo. Tom è proprio l’espressione di questo: lui, pseudointellettuale, cavaliere del “riarmo morale”, si rivela essere il più dogvillese di tutti. Dogville è solo il materiale a lui offerto per dimostrare tutte le sue capacità di oratore. Anche qui, per quanto il messaggio dei suoi discorsi voglia ambire a un respiro più collettivistico, le sue intenzioni sono esclusivamente egoistiche: lui vuole affermare se stesso tramite un
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messaggio di socializzazione. Rinuncia a Grace proprio per la sua ipotetica e infantile carriera di scrittore e di intellettuale. Vorrebbe operare su Dogville come fosse creta per modellarla secondo i suoi principi, senza però avere a cuore i principi stessi. La sua malafede sta proprio nel fatto di non credere in ciò che promuove e si arrabbia terribilmente quando gli viene detta la verità. Ne è testimonianza il fatto che, dinanzi alla possibilità che la “comunità” lo escluda, decida di appoggiare le decisioni altrui anche quando sono immorali per non dire abominevoli. Senza comunità, senza qualcuno su cui puntare il dito accusatore, senza qualcuno da riportare sulla retta via, lui non potrebbe esistere in quanto “moraleggiatore” e guida. Tom è fatto della stessa ipocrisia dei suoi concittadini, è fatto della stessa sostanza americana: non c’è neanche spazio per l’amore, ovvero per il paradosso del sacrificio e della condivisione. Quella di Tom, a ben vedere, è una pulsione erotica che è quanto di più individuale e di privato possa esistere. Non tiene veramente a Grace, ma a se stesso tramite Grace, sia per soddisfare le sue ambizioni sociali che i suoi istinti bestiali: No, Tom non è per nulla diverso dai suoi concittadini, anzi: è infinitamente peggiore dei suoi concittadini […] Tom è il carnefice che rende possibile il martirio senza sporcarsi le mani […] Non sta salvando Grace, Tom sta mettendo in scena la propria assoluzione3. L’unico principio che lega tutti i membri di Dogville è la schiavizzazione di Grace, in quanto è un atto che fa comodo a tutti ma non alla comunità - ovvero alla collettività -, bensì singolarmente a ogni membro. Grace diventa un corpo da 3
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pagg. 328-329.
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sfruttare a piacimento, da violentare, a cui impartire ordini. Può fare i lavori domestici nelle case che altrimenti andrebbero fatti da altri, anzi: riesce a rendere la vita anche migliore facendo quello che prima non era mai stato fatto e facendolo diventare poi necessario. L’individualismo esasperato di Dogville, fatto di persone che si odiano o che restano indifferenti l’una all’altra, attendeva solo un pretesto esterno su cui abbattersi al fine di far emergere un minimo di collante sociale, reinvestito subito però nell’adempimento delle singole volontà individuali. L’America, ovvero la Terra Promessa fondata sulla multiculturalità, si mostra come la grande menzogna che è. Qui, il melting pot non è mai stato totalmente assimilato: continua a esserci uno scontro interetnico nella popolazione anche solo a livello di convinzioni e di pregiudizi. Tanto che, non è un caso, le comunità emigranti provenienti da altri Paesi hanno creato delle mininazioni distaccate dal resto. Little Italy è una dimostrazione di tutto questo, altro che integrazione! Si è trattato della ricostruzione, propriamente italiana, di una comunità di contro alla collettività dello Stato. La diffusione mafiosa e il controllo sociale nel microcosmo hanno reso palpabile tutta l’italianità dei nostri connazionali. Ovviamente, non stiamo mettendo sul patibolo i difetti o le problematiche nelle quali incappa il sistema americano. Il problema è un altro. Il problema è l’ipocrisia con la quale viene promossa la gloriosa nazione degli Stati Uniti d’America all’estero. La facciata offerta a tutto il mondo, il cosiddetto “sogno americano”, lascia intendere un Paese fraterno, fatto di giustizia sociale, opportunità, amore e solidarietà. Le opportunità probabilmente ci sono tutte, ma non c’è l’aiuto di qualcuno, a meno che non sei italiano e non ti rivolgi agli abitanti di Little Italy. L’individualismo esasperato è lo stesso che ha per-
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messo al sistema americano di comandare il mondo, ma è anche lo stesso che porta alla urne il 50% degli spettanti diritto alle politiche nazionali. Detto questo, sono convinto che comunque anche il nostro sistema potrebbe guadagnare molto da una comprensione più attenta di quello americano. Ciò che viene accusato in Dogville, e che viene messo in luce dall’apologo, è proprio il problema della contraddizione tra ciò che appare e ciò che accade dietro, tra l’immagine che dell’America viene promossa in tutto il globo e il reale funzionamento dello stato sociale. Abbiamo già accennato al fatto che la struttura sociale americana, nonché la cultura e l’humus nei quali gli americani nascono e crescono i loro figli, presuppongono sempre un rigido sistema di leggi per non degenerare in anarchia e sopruso. D’altronde, questo è ciò che accade a Dogville, villaggio Senza Dio e senza Re4. Non c’è un parroco, un sindaco, uno sceriffo e nemmeno si va più a votare da parecchio tempo. In questo mondo senza legge ciò che regna è la prepotenza del più forte, dove il più forte è colui che può ricattare l’altro. Chi può essere consegnato alla giustizia o chi ha colpe da estinguere, è in perenne condizione di ricatto, perciò di sfruttamento perché quello che conta è il mio stato di vita, ovvero la soddisfazione dei miei bisogni. La legge, in questo contesto, è ovviamente il nemico perché le forze dell’ordine rispondono al bene collettivo (concepito in America come astratto). A Dogville, la polizia compare in negativo, non come organo di prevenzione o di punizione degli abusi, ma come ente di ricerca e di pedinamento. Per la prima volta a memoria d’uomo, le forze dell’ordine giungono nel villaggio: stanno cercando una fuggitiva, Grace, ma non spiegano perché e neanche si 4
Ibidem, pag. 303.
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impegnano per scovarla. Si limitano ad affiggere delle locandine con la sua foto in tutta la contea e, ritenuta complice in una rapina, viene affissa la sua foto con una taglia. La logica della taglia è quanto di più diabolico possa esistere ed è perfetta in un Paese come l’America. La taglia demanda la responsabilità al singolo cittadino e alla sua sete di denaro. L’americano avido o comunque egoista - e questo lo Stato lo sa - denuncerebbe chiunque per il proprio interesse o comunque ricatterebbe il ricercato per averne qualche guadagno. Tanto che, all’indomani dell’affissione della taglia, Grace è costretta a ristipulare il suo “contratto” di accoglienza: lei ora è costretta a lavorare di più e a essere pagata di meno. Dogville è l’unico posto dove Grace può restare per non farsi scovare ed, essendo ricercata, la compensazione non può restare la stessa di prima. La legge viene demandata all’egoismo individuale e le istituzioni si scrollano di dosso la loro responsabilità. La polizia arriva a Dogville diverse volte, inizialmente solo per affiggere un missing - che poi diviene un wanted - e ogni volta l’idea dei cittadini cambia, pur coscienti del fatto che la rapina della quale viene accusata Grace si è svolta nell’arco delle due settimane appena trascorse, nelle quali Grace non si è mai allontanata dalla loro città. La legge diviene un buon mezzo di ricatto e perciò di sfruttamento. Si attesta una duplice mancanza sia di senso della legalità che di pietà e di solidarietà. Credere alla giustizia e alle istituzioni avrebbe significato consegnare Grace alla polizia, poi il regolare corso della giustizia avrebbe deciso se punire la persona. D’altronde, come aveva detto il poliziotto nel corso della prima visita, sarebbe stato un loro dovere avvertire la polizia se avessero saputo qualcosa. Questo è anche quello che avrebbe desiderato Grace a un certo punto, volendo evitare di appesantire di responsabilità i cit-
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tadini di Dogville. Ma è meglio avere una schiava, una persona che fa il lavoro sporco che nessuno altrimenti avrebbe fatto. La cittadina cederà invece dinanzi alla possibilità di contattare il clan mafioso: d’altronde, Grace a quel punto è ormai diventata un nemico, un peso di cui liberarsi nella maniera meno dannosa possibile, una persona che soffre per delle colpe che gli altri rifiutano di ascoltare e di ammettere. Grace è la verità e Tom dovrà liberarsene perché i dogvillesi preferiscono tenersi la propria di verità. Lei è troppo diversa e col suo solo esistere non fa che mettere in evidenza i difetti di ognuno di loro. Non è più tempo di ricorrere alla legge, che metterebbe in cattiva luce la loro buona condotta da bravi cittadini: meglio rivolgersi a dei criminali, che sarebbero in grado oltretutto di offrire un buon riscatto economico.
2.2 Grace come straniero. La filosofia dell’ospitalità in Jacques Derrida
Il problema che il moralizzatore Tom mette continuamente in evidenza è la difficoltà che i cittadini di Dogville hanno di accettare. Loro stanno bene così come vivono e la cattiva fede della presunta rivoluzione morale promossa dal filosofo è incentrata sulla volontà di mettere alla prova l’egoismo di Dogville. C’è bisogno di qualcosa di nuovo, di un “dono” affinché i dogvillesi possano guardarsi allo specchio e cambiare il loro comportamento. “La città è marcia”, sostiene Chuck e lui stesso è il primo a detestare l’ambiente in cui vive. Il dono arriva e,
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come ogni dono è nella sua essenza, il suo arrivo è inaspettato e imprevedibile. Grace è lo straniero, colei che viene da fuori e che si dona alla comunità preesistente. È lo scandalo, il nuovo che propone se stesso. Lo straniero viene da lontano, pone la prima domanda - come asserisce Derrida - e chiede l’accettazione e la condivisione con la sua sola presenza. Lo straniero si distingue dalla comunità alla quale chiede l’accettazione, chiede di sopravvivere attraverso una richiesta disperata. Ma l’avvento dello straniero è un atto di ostilità nei confronti dell’ordine costituito, una messa in discussione dell’identità perpetuata fino a quel momento. Derrida ritiene che l’ospitalità giusta sia l’esatto contrario dell’ospitalità di diritto: La legge dell’ospitalità, la legge formale sottesa al concetto generale di ospitalità, appare come una legge paradossale, snaturabile o snaturante […] L’ospitalità assoluta esige che io apra la mia dimora e che la offra non soltanto allo straniero […] ma all’altro assoluto, sconosciuto, anonimo e che gli “dia luogo”, che lo lasci venire, che lo lasci arrivare e aver luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità (l’entrata in un patto) e neppure il suo nome. La legge dell’ospitalità assoluta impone di rompere con l’ospitalità di diritto, con la legge e la giustizia come diritto. L’ospitalità giusta rompe con l’ospitalità di diritto5. Questo in quanto la corretta ospitalità non può rientrare nei criteri della legge e del diritto. L’ospitalità istituzionalizzata è un atto di subordinazione del più debole, una violazione 5
Jacques Derrida, Sull’ospitalità: le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, (trad. it. a cura di Idolina Landolfi), Milano, Baldini & Castoldi, 2000, pag. 53.
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della privacy nonché un atto di xenofobia. Perché chiedere a chi viene da fuori? Perché imporre un controllo e una diffida a ciò che giunge da fuori? La domanda originaria dell’atto di ospitalità spetta all’ospitato, che con la sua sola presenza mette in questione e fa scandalo. Per paura del nuovo, della rottura delle convenzioni, la politica ha deciso di adottare un approccio regolarizzato: l’ospite ha dei diritti, ma ha anche e soprattutto dei doveri. È lui che deve dimostrare di non essere ostile e questo presuppone una cattiva fiducia proprio nei confronti dell’ospite. Dire che l’ospite ha dei diritti e dei doveri, significa metterlo in condizione di obbedienza e di subordinazione e perciò di falsa ospitalità. Questo è ciò che accade a Grace a Dogville fin dal primo giorno. La domanda che gli abitanti pongono a Tom alla prima riunione è proprio: “Perché accoglierla?” e già il porre la questione implica una erronea e malsana concezione dell’accoglienza stessa. Lei viene ospitata e questo è motivo di gioia, per lei come per Tom. Ma il fatto stesso che l’ospitalità possa essere messa al voto presuppone una concezione malata dello stesso principio: l’ospitalità diventerà ricatto, servilismo, come diretta conseguenza di un errato approccio proprio al principio di ospitalità. L’ospite, nella sua regolamentazione politica, resta e resterà il diverso, colui che magari avrà più doveri rispetto agli altri abitanti o che magari avrà più scorciatoie e diritti rispetto a essi. Avere sconti di pena e criteri di valutazione appositi, sia in negativo che in positivo, implica un’ospitalità condizionata che ribadisce le differenze tra membri della presunta società stessa. L’atto di ospitalità, sostiene Derrida, si dà senza proibizione, senza limiti. L’accoglienza avviene a pieno titolo solo in una zona precedente alla legge stessa. L’altro assoluto viene accolto da me senza che nessuno me lo abbia
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imposto: non mi dice il suo nome, non mi fornisce le sue generalità. Richiede solo di vivere e io l’accolgo prima di qualsiasi richiesta. Non c’è reciprocità nell’ospitalità, non c’è patto di restituzione come invece accade a Dogville. A Dogville, in America, l’ospitalità si offre sempre nella sua forma istituzionalizzata e ciò si traduce nell’invito di Tom a Grace: Dogville ti ha offerto due settimane, ora tu offri loro. L’ospitalità giusta non richiede una prova, uno scambio, in quanto è un atto personale di accoglienza indiscriminata che può essere solo privato: L’ipocrisia rende difficile esplicitare che alla base dell’accoglienza non vi è nient’altro che uno scambio, uno squallido dare per avere6. Nella nostra contemporaneità, la messa in questione della privacy nega la possibilità di una ospitalità onesta e corretta. Lo Stato ci impone di regolamentare l’ospite: dobbiamo fargli delle domande affinché venga controllato da subito dalle istituzioni. Non può nascondersi, altrimenti noi stessi saremmo perseguibili per favoreggiamento. Quando il meccanismo e il rapporto tra privato e pubblico viene messo in crisi a causa della regolamentazione pubblica di un atto privato e soggettivo come lo è la volontà di ospitare, è la stessa ospitalità che si snatura in istituzione e controllo sociale: […] lo snaturamento sempre possibile e invero virtualmente inevitabile, fatale, della violenza dello Stato o della legge: annullare il confine tra il pubblico e il privato, il segreto e il fenomenico, la privacy (che rende possibile l’ospitalità) e la violazione o l’im6
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 312.
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possibilità della privacy. Tale meccanismo impedisce l’ospitalità, il diritto all’ospitalità, che dovrebbe invece rendere possibile […]7. A Dogville non c’è privacy: per lo spettatore non ci sono pareti e muri, ma anche tra i cittadini non ci sono segreti, perciò tutto è rimesso ai giudizi della collettività. Neanche andare a prostitute costituisce un momento di privatezza e di pudore: tutti sanno tutto degli altri e l’ospitalità di Tom che Grace trova deve necessariamente richiedere il beneplacito della comunità fino alla degenerazione. Un’ospitalità a tempo determinato (due settimane di lavoro per farsi “voler bene”) risponde a una logica di razionalizzazione di un principio, quello dell’ospitalità, che non trova il suo fondamento nel logos quanto nel pathos, nella solidarietà, nella compassione. L’istituzione che deve rispondere al calcolo razionale è esclusivamente la giustizia, che però a Dogville manca: il comportamento privato e la morale individuale di ciascuno di noi non può declinarsi esclusivamente su argomentazioni razionali (come d’altronde fa Tom contribuendo alla catastrofe). L’approccio razionale è d’altro canto adottato anche da Grace nell’estenuante tentativo di giustificare i suoi aguzzini. Diventando umana, solo nel finale Grace prenderà improvvisamente una decisione: la cittadina, al chiaro di luna, le comparirà in tutta la sua terribile verità e solo a quel punto si convincerà sul da farsi. Nell’apologo di Dogville sembra esserci la messa in scena del pensiero di Derrida riguardo l’ospitalità. L’accoglienza, un’ospitalità istituzionalizzata fondata sul baratto, degenera in asservimento in quanto lo straniero resterà sempre tale e per7
Cfr. Derrida, op. cit., pagg. 76-77.
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ciò in condizione subordinata e di controllo: Grace, il dono che diventa diritto, il diritto che diviene abuso8.
2.3 Ipocrisia e pregiudizio a Dogville
Grace, come chiunque di noi, viene costruita in relazione alle circostanze e agli eventi. Lei viene prima di se stessa: straniera, fuggitiva nonché ricercata dalla polizia. Nel corso del film, ogni qualvolta si aggiunge un tassello e muta qualcosa di ciò che gli abitanti di Dogville sanno, il loro comportamento nei confronti della donna cambia. Questo è un elemento di profondissima ipocrisia, che testimonia di quanto l’ospitalità dogvillese sia in realtà un atto di coercizione volto alla soddisfazione dei privati bisogni di ognuno. A essere ipocrita non è il fatto di avere pregiudizi: il pregiudizio è la conditio sine qua non di ogni tipo di conoscenza. Ogni nostro giudizio e valutazione non parte mai da zero: dal nulla non viene nulla. È necessario che prima di qualsiasi giudizio su di una persona ci sia una zona di preconoscenza, magari anche non cosciente, che veicoli subito il nostro pensiero. Può magari non appartenere direttamente alla persona, in quanto venendo da fuori non si conosce veramente nulla di lei. Può però appartenere a noi, al nostro razzismo celato, oppure alla nostra esterofilia e al nostro pregiudizio nel credere le persone “di fuori” migliori di quelle che ci vivono accanto. Ognuno di noi viene valutato: la 8
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 323.
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scommessa, e la regola di una onesta convivenza civile, deve essere nella possibilità da dare a noi stessi di rompere le convinzioni radicate nella nostra mente. Dobbiamo essere disposti a cambiare. Aprirsi allo scandalo, e perciò al nuovo, significa essere abbastanza onesti con la nostra stessa ragione al fine di ammettere di essersi sbagliati sia quando credevamo che le cose fossero peggiori di quanto siano che quando credevamo fossero migliori. Compiere una ricerca forsennata ed esasperata al fine di trovare conferma di quanto pensavamo può portare a una pericolosa e disonesta distorsione della realtà. Grace è anche “già parlata”, dal momento stesso in cui approda a Dogville. Le cose si complicano quando a “determinare” Grace è l’avvento della polizia e l’affissione della locandina col suo volto. Vedere il volto di Grace sotto la parola “wanted”, per i cittadini di Dogville vale mille volte di più di averci vissuto accanto per tanti giorni: A Dogville non arrivano giornali, a Dogville non esiste televisione, eppure anche qui è la notizia a costruire la realtà e non viceversa9. Questa è sia la grettezza che l’ipocrisia di Dogville: esse non consistono nel fatto di nutrire dei pregiudizi e neanche nel fatto di non essere in grado di superarli (nell’idillio della prima metà del film, Grace riesce col duro lavoro, almeno apparentemente, a farsi voler bene). Esse consistono nel lasciarsi condizionare da una voce esterna, che ha la potenza dell’autorità e che si crede possa saperne di più di chi invece Grace l’ha conosciuta e di chi ha vissuto con lei, avendo la donna accudito i loro figli e rese migliori le loro giornate. Bisogna avere 9
Ibidem, pag. 317.
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paura di Grace perché è cattiva, è ricercata dalla polizia e un motivo dovrà pur esserci; non è stato sufficiente che l’ospite si sia spezzata la schiena per loro e abbia dimostrato la sua natura. È pur sempre lei ad aver bisogno di Dogville e non il contrario. L’abuso, la mancata ospitalità si rendono manifesti nell’ipocrisia di questi abitanti di uno sperduto villaggio americano: senza legge, ritengono che la soluzione migliore sia quella di sfruttare chi ha bisogno di loro, perché (per ora) il potere è dalla loro parte: Se Grace è raffigurata su quel volantino, significa che è lei ad avere bisogno di Dogville e non viceversa. La città comincia in maniera sommessa, ma decisa, ad assaporare il gusto del potere, il gusto dell’avere sull’altrui destino un diritto di vita e di morte10.
2.4 La responsabilità delle proprie azioni
Ogni essere umano è precostituito da una cultura e da una storicità indipendenti dalla sua volontà. Le stesse categorie di pensiero che adotta per comprendere il reale sono una determinazione sociale, storica e culturale. Sono perciò determinanti l’ambiente nel quale l’individuo è nato e cresciuto, l’educazione che gli è stata impartita, le proprie esperienze personali ma, allo stesso tempo, lo sono anche le entità spirituali che trascendono l’esperienza diretta o che comunque si mani10
Ibidem, pag. 318.
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festano solo in maniera obliqua e indiretta come la politica, la Storia con la “esse maiuscola”, le teorie economiche… Il concetto di colpa può, a ben vedere, essere rivolto anche a una collettività. L’uomo non nasce e non resta mai solo: la presenza di altri rimane come orizzonte di movimento e principio di attività per qualsiasi azione venga compiuta. La stessa determinazione della quale stiamo parlando è comunque relazionata al concetto di collettività: ogni entità spirituale, per quanto trascenda sia il pensiero che l’azione e la volontà di ogni singolo individuo, è però generata dagli uomini. Sono gli uomini a fare la storia, a fare la cultura, a fare la politica. Gli uomini sono in grado di fare ciò solo perché ognuno di loro è sempre “con altri”, seppur a volte non se ne rende nemmeno conto. Dicevamo: il concetto di colpa può appartenere a una collettività. Si può incolpare un sistema, una società, una concezione della politica, un intero popolo. Questo avviene quando si dimostra ingiusto incolpare un singolo individuo per un evento che invece dipende da date circostanze sociali, storiche e culturali. Avviene anche quando, essendo troppi coloro che sbagliano, si comincia a ritenere che in senso pragmatico sia più efficace rivolgere l’attenzione alla situazione che ha prodotto l’evento, le ragioni intrinseche e non tanto puntare il dito verso chi ha compiuto l’atto. Ora: se la colpa può anche riguardare un’intera collettività, una mentalità, una tradizione, una cultura, la giustizia non può concedersi questo lusso. La giustizia, come attesta la stessa Costituzione italiana, ha a che fare con le singole persone. Ogni cittadino è responsabile delle proprie azioni: questa è la strada seguita, ad esempio, per il processo di Norimberga. Senza soffermarsi sulla legittimità della pena di morte, che ci
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porterebbe troppo lontano, possiamo comunque sostenere che questo sia stato il caso più esemplare in cui la giustizia ha dimostrato di rivolgersi sempre a singoli individui. Il Nazismo, com’è risaputo, era un virus: Adolf Hitler aveva drogato intere generazioni e un intero popolo. Le sue perversioni erano entrate nella coscienza e fin dentro l’anima di milioni di persone. I responsabili delle stragi, le SS, erano tali a causa di Hitler o, in maniera ancora più evanescente, del Nazismo. Questo per dire che dinanzi alla giustizia la colpa è sempre colpa di qualcuno di preciso, dato che risalire alle entità determinanti è un esercizio inutile: Ragionevolmente non è possibile essere infuriati neppure contro Hitler; tanto meno contro Dio11. Con questo vogliamo sostenere l’impossibilità di dedurre direttamente da qualsiasi condizione sociale e culturale uno dei membri. Per quanto “vittime” di un processo di americanizzazione che si è ormai propagato in tutto il mondo, per quanto comunque perpetuamente legati a radici ancora più profonde che hanno a che fare col nostro passato più remoto, con le nostre tradizioni e “sangue”, per quanto la determinazione storica e sociale è una importante condizione antropologica dalla quale nessun uomo può esimersi, nessun uomo può realmente definirsi schiacciato su una di queste predestinazioni. Avere coscienza del nostro essere determinati, già ci distingue dall’animale che non ha coscienza di sé. Nessun singolo è deducibile dall’ambiente o dalle condizioni socio-culturali ed è in questa crepa, in questo iato che può darsi giustizia. Non possiamo incolpare le condizioni di degrado nelle quali vivono alcuni soggetti che delinquono, che giustificano loro stessi attraverso le colpe della società e della politica. Un cor11
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, (trad. it. a cura di Michela Ranchetti), Milano, Fabbri Editori, 2002, pag. 93.
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retto operato politico dovrebbe sempre muoversi su questo doppio registro: risalire alle cause, intervenire sul degrado sociale che è assolutamente impersonale e comunque reprimere la criminalità di qualsiasi livello essa sia. La risposta: “Lo fanno tutti” è la sconfitta di ogni politica, nonché di qualunque sentimento morale. Reprimere la criminalità significa responsabilizzare l’agente, colui che ha compiuto l’atto. Per quanto costretto ad agire in quel modo, seppur giustificabile da un punto di vista umano, il colpevole deve necessariamente scontare la pena perché è sempre legato alla griglia civile della società alla quale appartiene. Essere costretti a delinquere significa comunque decidere, in quanto il sentimento di libertà e la legge morale sono fondamenti radicati nella nostra soggettività e non sono mai risultanti dall’esterno. È certo vero che la nostra concezione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato è a sua volta socialmente e storicamente determinata, ma il sentimento che proviamo nello scoprirci liberi o nell’avvertire la colpa o il giusto non sono deducibili da nessuna situazione sociale e storica: sono all’origine dell’uomo stesso. Perciò, l’uomo è l’unico animale che ha colpa in quanto è l’unico ad avere coscienza della colpa così come della morale e della libertà. Su che cosa sia giusto e sbagliato è ancora la società e legiferare dall’esterno, imponendo schemi e alienando le masse in maniera subliminale. Dire: “È colpa della natura umana” è come non dire assolutamente nulla. Come dire: “È colpa del destino”, “È colpa del sistema”, “È colpa della società”, “Siamo tutti responsabili”. Queste frasi suonano più come frasi fatte che come dichiarazioni aventi qualche senso. Quando parliamo di “colpa” stiamo parlando del momento nel quale l’individuo riesce a stac-
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carsi dalla sua condizione, pur rielaborando e riplasmando le sue determinazioni. Se l’individuo fosse totalmente determinato, allora sarebbe una sorta di automa, anzi: sarebbe una statua di sale. Se l’individuo fosse totalmente libero d’altronde sarebbe un vacuo soffio di vento, vuoto, senza coscienza. Nel salto che l’individuo compie rispetto a se stesso, egli diventa uomo di volta in volta colpevole o innocente o di fronte alla giustizia oppure di fronte a se stesso. Ciò che ci rende uomini è il nostro sentimento di libertà: ogni teoria e pensiero mistico sul destino, la predestinazione, gli accordi astrali e quant’altro non è detto che sia un mucchio di fandonie, ma è inutile. A noi scoprire che la nostra vita è determinata da una volontà superiore non cambierebbe assolutamente nulla, in primo luogo perché in un certo senso già sappiamo che è così. Infatti, il controllo sociale, la regolarizzazione industriale, la creazione di bisogni, la nostra condizione esistenziale di essere sempre in relazione ad altri, le decisioni che vengono prese per noi - senza parlare del “nulla succede per caso” promosso dall’avvento della psicoanalisi - sono strutture che forzano il nostro stesso pensiero, determinano che cosa sia giusto e che cosa no e creano continuamente l’uomo. In secondo luogo, sempre in relazione a quanto appena detto, se la forza trascendente decide per me lasciandomi ancora il mio sentimento di libertà, allora non stiamo dicendo praticamente nulla parlando di destino o di volontà divina. Le stesse esperienze che hanno segnato la mia vita precedente, la mia stessa memoria, il mio inconscio che continua indefinitivamente a rielaborare fasi appartenute alla mia infanzia sono tutti cordoni che fanno della mia vita una vita determinata sempre e comunque. Ma la vita non sarebbe tale senza il senti-
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mento di libertà che mi permette (anche solo illudendomi, ma per me è lo stesso) di compiere un atto al posto di un altro. Sarebbe bello se potessimo declinare la nostra esistenza ad altro o forse non sarebbe neppure bello. Non sarebbe e basta, perché in tal caso non saremmo uomini. L’arroganza di Grace sta proprio in questo: giustificando e perdonando i suoi aguzzini ogni sorta di nefandezza non fa che un torto a loro, nonché a se stessa. Come le viene detto dal padre, la sua arroganza sta nella convinzione che nessuno possa raggiungere il suo stesso livello etico e, così facendo, perdona agli altri ciò che non perdonerebbe mai a se stessa. Il suo perdono diviene il peggiore delitto. Fa un torto all’uomo e impedisce qualsiasi miglioramento: chi è lei per mettersi su un gradino superiore rispetto agli altri? Lei non è Cristo (questo lo vedremo nel prossimo capitolo) e non ha nessuna istituzione alla quale rivolgersi. Nel finale però Grace ha il potere che le permette di tornare l’essere umano che in fondo è sempre stata: Ciò che il padre non sopporta è la pretesa di superiorità di Grace mascherata di bontà, il suo mettersi al di sopra del mondo intero con la sua comprensione che alla fine non raggiunge altro risultato se non quello di perpetuare gli abusi12.
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Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 335.
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2.5 Punizione e mancata redenzione della colpa
L’uomo non può redimersi incolpando le condizioni che hanno determinato le sue azioni: l’uomo non può redimersi incolpando il peccato originale. Non può redimersi parlando di destino o di società alienante; non può redimersi incolpando la natura umana o la politica. Non può perché il sentimento della colpa resta la pietra angolare del suo comportamento, così come il sentimento della propria libertà. Siamo condannati a essere liberi e perciò stesso colpevoli. La colpa si dà nella libertà e sentirsi teologicamente colpevoli dell’atto di sfida rivolto a Dio nel mito del peccato originale o sentirsi colpevoli perché qualcuno sta soffrendo in qualche parte del mondo è una colpa disonesta, perché non riguarda lo spazio della mia esperienza concreta e non dipende dalle mie azioni in maniera diretta. Siamo indignati verso noi stessi, magari soffriamo per le sorti altrui in maniera sincera, ci mobilitiamo per migliorare le condizioni di vita del prossimo e questo è nobilissimo, ma sentirsi colpevoli può avvenire solo nella convinzione che, se mi fossi comportato diversamente, quel fatto non sarebbe accaduto. Il nostro tenore di vita è causa della morte di migliaia di bambini in Africa, ma non può cambiare niente (tanto che non sta cambiando nulla) in quanto essi sono troppo lontano dagli occhi e perciò dal cuore per sentirsi colpevoli. È facile digiunare un giorno, donare un paio di euro con un messaggio del cellulare alle popolazioni africane, oppure appendere dal balcone una bandiera della pace: questo è il tentativo di redimersi dalle colpe che appartengono a tutta una collettività e
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che incidono poco sulla nostra vita, in quanto non sono colpe vissute individualmente13. L’uomo non può redimersi incolpando qualcosa che lo trascende: l’uomo è responsabile delle proprie azioni e solo con questo assunto può esistere la giustizia sociale. Se la colpa è un sentimento privato, è ovvio che anche la punizione sociale non è un mezzo di redenzione totale: l’unico modo di redimere una colpa sarebbe quello di obliarla, cancellarla totalmente dalla propria coscienza. Se il sentimento della colpa resta presente nel cuore e nella mente di chi ha compiuto l’atto, essa resta incancellabile. Altre volte, il tentativo di redenzione si capovolge: dinanzi a un evento drammatico, tragico, magari un lutto di una persona cara, siamo costretti a cercare un colpevole14. Per redimere gli avvenimenti, vogliamo incolpare necessariamente qualcuno. Quando il responsabile è il caso, ovvero nessuno, si rischia la paranoia. Quando si dà la responsabilità a istituzioni, alla società, alla politica è ancora un approccio troppo astratto e si vuole a tutti i costi che qualcuno paghi. Questa colpa dovuta alla collettività non può tradursi nella punizione a singole persone che, prese una per una, sono assolutamente innocenti. O per lo meno, se crolla una scuola uccidendo i miei figli, la giustizia dovrebbe fare in modo che ciò non accada più, le 13
Uno sforzo potrebbe essere fatto in questo senso: risalire in maniera lucida alle cause delle guerre che sterminano interi popoli in Africa, alle condizioni di vita pietose alle quali è costretta la maggior parte degli abitanti del mondo e, in questa risalita, mettere in luce che tutto ciò ha a che fare col fatto che noi, in una sola settimana, consumiamo individualmente l’intero fabbisogno nutrizionale di una città intera di una zona povera del mondo, mostrando come le due cose siano strettamente legate. 14 A questo proposito, rimando alla visione de Il dolce domani di Atom Egoyan, 1997.
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scuole andrebbero costruite diversamente e i leader delle istituzioni politiche responsabili del controllo della manutenzione degli edifici pubblici dovrebbero dimettersi non perché colpevoli, ma perché percepiscono uno stipendio proprio per assumersi delle responsabilità di tal fatta. La redenzione non può darsi né giustificando un’azione demandando la responsabilità ad astratte entità né trovando a tutti i costi un colpevole quando esso non esiste. Il pensiero di Cesare Beccaria - fondatore della moderna filosofia del diritto e della emancipata concezione della giustizia promossa con l’Illuminismo - sembra cosciente di alcuni dei punti che stiamo attraversando. Ad esempio: il motto del suo capolavoro Dei delitti e delle pene è: È meglio prevenire i delitti che punirli15. Da buon illuminista, Beccaria era convinto che la colpa stessa, oltre a essere punita in maniera dignitosa anziché violenta, dovesse evitare che il reato si ripetesse. Per questo era necessario agire nel sociale e in modo scientifico; per questo era necessario vedere nel reato un sintomo e poi guarire la malattia. Oltretutto, il razionalismo di Beccaria si avvaleva della convinzione che sia la pena sia la prevenzione dovessero essere volte a un unico fine realmente importante, ovvero il miglioramento delle condizioni di vita della collettività, la risoluzione di problemi sociali. La legge e la giustizia sono perciò entità pratiche, che hanno a che fare non con la volontà divina - con la quale, secondo Beccaria, è inutile se non sbagliato mettersi di mezzo -, bensì con finalità che sono direttamente connesse al nostro vivere quotidiano e comune. Non bisogna punire perché qualcuno ha sbagliato, bensì perché dalla punizione è possibile il miglioramento della vita di chiunque, 15
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Fabbri Editori, 1996, pag. 146.
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anche del colpevole. La pena deve indurre i potenziali delinquenti a non commettere l’atto: la sua funzione è preventiva, ovvero deve fare da monito per chiunque e, in questo senso, la carcerazione a vita o qualsiasi altra pena è molto più efficace della pena di morte, che non è in grado di radicarsi nella coscienza degli uomini perché viene scontata nel giro di pochi secondi. La pena civile - ad esempio la detenzione - serve a tutela della società quando qualcuno sconta la sua condanna. Questo però non redime la sua colpa che ne è alla base - sarebbe una sorta di calcolo o di equazione perversa -, bensì lo riabilita affinché torni a reinserirsi nella società. Nei confronti della collettività egli è tornato a essere uguale a tutti gli altri, ha scontato la sua pena e può tornare a vivere come chiunque altro, ma la colpa non è redenta. Essa o viene obliata - perciò “non è più” - o resta in ciascuno di noi. Sul versante sociale e politico compare all’orizzonte qualche redenzione, ovvero il fatto che la colpa può renderci tutti migliori perché ha evidenziato il male a cui non dobbiamo tornare a soccombere. Non si tratta però di giustificare un reato, bensì di collocarlo all’interno di un utilitarismo comunitario proprio al fine di trovargli un senso, ovvero di redimerlo. Ma la colpa come sentimento soggettivo o non c’è - nel caso dei detenuti che non si sono mai pentiti -, oppure resta come irredimibile. Secondo quanto abbiamo appena detto, appare chiaro come il comportamento di Grace nel corso del film non possa avere alcuna efficacia: la clemenza elargita a costante comportamentale, sempre e comunque, diviene un delitto, un contributo al male. Restando convinti del fatto che il colpevole abbia sempre “fatto del suo meglio” e ritenendo che questo “meglio” sia abbastanza, arrivando da ciò al perdono indiscrimina-
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to si offende l’uomo nonché - ed è ovviamente la stessa cosa se stessi.
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CAPITOLO TERZO Chiave di interpretazione metafisica
Il contenuto di Dogville non si riduce a un atto di accusa rivolto agli Stati Uniti o, più in generale, alla società contemporanea. Possiamo infatti mettere in luce una seconda dimensione che ci riguarda in maniera ancora più profonda, perché sul banco degli imputati viene posto l’uomo nella sua natura originaria. Il pessimismo del film trova qui il suo apice in quanto, se il male è la condizione d’esistenza dell’uomo stesso, non c’è nessuna possibilità di riscatto, miglioramento o tanto meno di redenzione. Questa lettura metafisica - che si lega indissolubilmente con elementi di riflessione di tipo religioso - non esclude la lettura socio-politica in una sorta di aut-aut. Le due letture si compenetrano, sono le due facce della stessa medaglia e, nella dialettica di queste due chiavi di interpretazione, troviamo un pendant della dialettica già messa in evidenza tra la nostra natura sociale, il nostro essere perennemente “con altri” e la nostra libertà intrinsecamente soggettiva e privata, non deducibile dall’esterno e dagli eventi. La religione si situa proprio all’interno di questa dialettica tra privato e pubblico, tra libertà e giustizia, tra me e gli altri in quanto, pur rivolgendosi al singolo uomo, crea una comunità secondo criteri propri. Alla volontà di trovare una risposta a dubbi e a domande che ci connotano in quanto uomini, sempre soli e in balia del mondo, la religione risponde con la fon-
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dazione di una comunità, accompagnata dall’introduzione di un codice che rende tutto più vivibile, più chiaro e che può orientarci su come comportarci.
3.1 Sacrificio e redenzione cristiana
I Vangeli ci raccontano una buona novella: Cristo è giunto sulla Terra per redimere le colpe dell’uomo. Dio si è fatto uomo in Cristo e Cristo ha il compito di portare la buona novella fra gli uomini: tutto verrà mutato e l’uomo non sarà più quello di prima. Per il compimento di questa “rivoluzione antropologica” è necessario che Cristo si sacrifichi, che venga crocifisso e che resusciti nel terzo giorno. Col miracolo della resurrezione, l’uomo potrà convincersi dell’avvento di un nuovo tempo per tutti. Accettando la Passione e la tortura, Cristo dimostra come l’uomo liberamente, attraverso la fede, possa essere superiore al dolore stesso. Per merito del sacrificio di Cristo, le colpe sono state redente: affinché il Cristianesimo fondasse il nuovo uomo e con lui il nuovo mondo, era necessario che tutto accadesse secondo la volontà divina. Tutto è compiuto. E così, col volto illuminato dal sole, Cristo può lasciare il mondo degli uomini per tornare al Padre. Da lì in poi, il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Per la redenzione degli uomini era necessario che tutto ciò accadesse, affinché le loro colpe avessero un senso nella volontà divina. Era necessario che Pilato si lavasse le mani; che Erode perseguitasse tutti i giudei giustiziando selvaggiamente i neonati; che
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Cristo venisse umiliato e offeso sulla croce; che i discepoli si nascondessero e negassero di conoscere il Cristo. Quelle colpe sono state redente in quanto hanno permesso il mutamento1. La redenzione mette a posto tutto, conferisce un senso agli avvenimenti della storia. Il problema è che la morte del Cristo e la sua resurrezione restano enigmi ancora troppo astratti per essere compresi dalla gente. Milioni di pagine sono state scritte nel corso dei millenni sul significato della Passione del Cristo e sul valore della redenzione. Interi sistemi filosofici fanno a essa riferimento, poiché si tratta di un punto di teologia speculativa di grado elevatissimo. Per il popolo, per la massa, per la gente comune alla quale fin da principio Cristo dedica la sua missione, è troppo complicato comprendere la redenzione in questi termini. Se la redenzione si fosse limitata nella tradizione cristiana all’evento della resurrezione, gli uomini non sarebbero stati coinvolti così facilmente nell’alveo del Cristianesimo. Era troppo complicato da capire che il Cristo, nella sua morte, avesse già redento le colpe dell’uomo sulla Terra per mezzo della volontà divina la quale, per manifestarsi nel mondo, aveva dovuto sacrificare il proprio figlio. Questo lo sapevano anche i grandi geni fondatori del Cristianesimo: non è un caso che, in ordine cronologico e concettuale, nel Nuovo Testamento l’Apocalisse sia posteriore ai Vangeli. Qui tutto diventa più chiaro, viene fatto ordine su parecchi punti; diventa quasi impossibile non aderire ai dettami cristiani, in quanto subentra anche il timore per le sorti personali.
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In quest’ottica è esemplare il Vangelo apocrifo di Giuda, in cui traspare come anche il suo tradimento facesse parte di quel meccanismo perfetto che avrebbe portato alla nascita del mondo cristiano.
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A Patmos, Giovanni ha la rivelazione che avrebbe permesso al mondo di trasformarsi: ci sarà, in un futuro imprecisato, il fatidico “giorno del Giudizio” quando Dio scenderà sulla Terra per giudicare i vivi e i morti e verrà a fare ordine tra i colpevoli e i benevoli. Ci sarà chi sarà gettato nelle fiamme eterne dell’Inferno e chi sederà alla destra del Padre per l’eternità, nella rosa dei beati. Ecco: in tal modo tutto è molto più chiaro, più esplicito, meno speculativo e meno teorico. Giovanni reintroduce un fondamento della religione ebraica, ovvero il timore per il Giudizio divino e da qui alla fondazione della nuova comunità il passo è breve. Alla fine del tempo, ogni evento della storia e delle nostre singole storie personali avrà un senso, verrà giustificato e redento: bisogna solo attendere. Il messaggio cristiano rifiuta qualsiasi tipo di vendetta: al suo posto, pone la pietà e il perdono. Perché accade questo? Il tempo cristiano, la temporalità paolina sono caratterizzate da un punto finale, ovvero dall’avvento del Giudizio Universale. Nessuno può giudicare se non Dio e, nel giorno del Giudizio, tutto avrà un senso, tutti avranno ciò che spetta loro. Fino a quel giorno, noi uomini dobbiamo accettare il mistero dei disegni imperscrutabili del Signore. Siamo in attesa del Giudizio che, è garantito, avverrà senza avvisarci. Finalmente, nella redenzione il nostro agire secondo i dettami di Cristo troverà un compenso: potremmo finalmente risiedere nella gloria del Padre2. 2
L’Islamismo, da questo punto di vista, si distingue nettamente dal Cristianesimo: nella dottrina sciita, ad esempio, la giustizia è principalmente terrena. I fedeli devono adoperarsi nel punire i miscredenti; la vita ha ancora meno significato che nel Cristianesimo. Sacrificandosi per Dio, noi uomini siamo accolti per l’eternità nel Paradiso Celeste e, uccidendo mi-
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Vedremo come Grace può, per quasi l’intera durata del film, ben sovrapporsi alla figura del Cristo, corrispondendo ottimamente ai principi del Cristianesimo: i carnefici sono in realtà delle vittime e il comportamento da adottare è quello di “porgere l’altra guancia” fino a giungere a un totale stato di inazione, di trance come quello di un ragno imbrigliato nella sua propria tela. Ma tra un uomo e Cristo c’è una grande differenza…
3.2 Le varie modalità di redenzione
Possiamo distinguere quattro diverse modalità di redenzione dalla colpa, delle quali una fallace - nel senso che è solo illusoria - e le altre tre più concrete. La prima è la concezione di redenzione come giustificazione dell’atto: sono le attenuanti dell’atto compiuto che permettono, in ambito giuridico, la riduzione della pena se non l’assoluzione. Su questo livello, l’operazione compiuta è rivolta al principio di causalità efficiente, ovvero la causa viene declinata a un fattore esterno. Con il principio di causalità efficiente però a venire negata è la stessa colpevolezza e, senza colpa, non può darsi nemmeno la remissione del peccato. La seconda accezione è sempre legata al sistema giuridico, ma non con la causa efficiente che produce una redenzione gliaia di persone, non ci sostituiamo a Dio, ma offriamo al Giudizio di Dio le persone uccise. Quella della vita non è una grave perdita: noi occidentali, in realtà, siamo parecchio attaccati alla vita perché, oltre a essere cristiani, siamo ancora omerici: quanto più si vive, meglio è.
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solo illusoria, bensì con la causalità “finale”, ovvero teleologica. La giustizia - come sapeva bene Beccaria - si rivolge sempre a un telos finale: la colpa può così diventare utile in quanto veicolo di miglioramento per la società tutta. La punizione inflitta dalla legge può servire per prevenire i futuri reati: la legge funge da monito in vista di un miglioramento collettivo. Questo discorso presuppone una fiducia nel miglioramento: la colpa è utile alla sussistenza della società civile. Anzi: ogni società civile non può non fondarsi che sull’idea del bene e del male e ogni ordinamento deve decretare che cosa sia giusto e che cosa sbagliato. La persona che ha scontato la sua pena viene reintrodotta in società: non ha redento le sue colpe - perché queste continueranno a restare tali anche se non civilmente -, però può ambire a un sentimento di redenzione nella convinzione che, anche se indirettamente, ha contribuito al miglioramento del mondo. Se questo discorso sembra fin troppo astratto, potremmo concretizzarlo con il principio machiavellico de “Il fine giustifica i mezzi”. Se io ho commesso una colpa, per il bene della mia famiglia, della patria, del futuro dell’umanità posso considerarmi a buon giudizio redento dalle mie colpe, perché esse assumono un senso, non una giustificazione3. Nella chiave di lettura politica, Dogville non ammette neanche questo tipo di redenzione in quanto a Dogville - lo abbiamo detto più volte - non c’è legge: il finale è l’annientamento, la sconfitta di qualsiasi teleologia migliorativa. Se spunta lievemente all’orizzonte una speranza nei confronti di una società migliore - per la quale l’annientamento rappresenta la condizione necessaria -, in quanto speranza essa non può né essere telos né è sufficiente a redimersi. Se Grace avesse 3
È giusto che io venga carcerato, non ho la presunzione che la legge mi giustifichi, ma so di aver fatto bene!
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avuto la certezza che il suo atto fosse un atto volto al miglioramento del mondo, nel finale non avrebbe sofferto. Non possiamo sapere se l’annientamento condurrà a una società e a un mondo migliori, ma permettetemi di avere dei seri dubbi a riguardo: se il nuovo mondo sarà costruito su una sconfitta della politica, su un genocidio, su una repressione sanguinaria, sull’orrore e sulla vendetta, allora sarà un mondo costruito sulla menzogna, la cui prosperità sarà perennemente in bilico sull’orlo del precipizio, tra gli scheletri del passato e le proprie mani sporche di sangue. La terza e la quarta tipologia di redenzione sono particolarmente vicine, poiché riguardano entrambe la sfera religiosa e teologica. Prima troviamo la redenzione più propriamente “soggettiva”: ognuno di noi può ambire a essa. La redenzione soggettiva avviene attraverso l’adozione di un codice esterno che, prima dell’atto e della decisione in questione, non era mai stato adottato. È come aver compreso di aver sbagliato fino a quel dato momento. Molto spesso, redimersi in questo senso significa redimersi da una vita vissuta male, nella colpa. Se prima del gesto e dell’atto redentivi si era convinti che ciò che si stava facendo non fosse il male, a un certo punto - forse dinanzi a una improvvisa illuminazione dell’anima, forse dinanzi all’annuncio di una morte ormai prossima - si decide di accogliere un codice diverso. Si rinnega il proprio passato e si chiede perdono (al mondo? A Dio?) attraverso un’azione diametralmente opposta a ciò che si è sempre compiuto. Questo gesto è compiuto in extremis: è un pentimento agito, non solo un rimorso morale. Attraverso l’azione, ci si redime di una vita sbagliata, nella quale il giudizio di ciò che è sbagliato è attribuito in relazione al mutamento del codice di comportamento.
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Questo tipo di redenzione non trova un appagamento metafisico o trascendentale: è dell’uomo e per l’uomo. È un circolo chiuso che riguarda unicamente il soggetto. Accade questo al protagonista de Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino ma, in maniera ancora più esemplare, ne Il cattivo tenente di Abel Ferrara. In quest’ultimo film, la redenzione soggettiva ha un contrappeso esterno dato dalle visioni che il protagonista ha in chiesa. Cristo gli compare - molto probabilmente a causa delle allucinazioni prodotte dalla droga - e tace dinanzi a lui; il protagonista inizia a offenderlo e a inveire contro di lui, poi si prostra ai suoi piedi e chiede perdono. In questo film, una intera vita trascorsa nel vizio, nell’ingiustizia, nella violenza e nell’egoismo, tra consumo di droga e disinteresse per gli altri viene redenta da un gesto finale, attraverso il quale il tenente salva la vita a due giovani sacrificandosi per loro. Non possiamo sapere se il tenente finirà in Paradiso, dato che non sappiamo nemmeno se quest’ultimo esiste; non sappiamo nemmeno se i giovani poi ce la facciano a fuggire dai sicari. Sappiamo solo che il protagonista, per merito di una illuminazione, di una “piega dell’anima”, si pente e adotta - anche se solo per l’atto finale della sua vita - un nuovo codice, in questo caso quello cristiano del sacrificio. Nella redenzione soggettiva, quello che conta è che il soggetto abbia ritenuto giusto fare quella determinata cosa in quel determinato momento e, dato che di redenzione si tratta, quell’azione non sarà in linea col modo di vivere adottato fino a quel momento, ma segnerà una rottura. Si tratta di morire in pace, di sentirsi redenti più che di essere redenti dall’esterno4. Dogville, in realtà, è come Il cat4
La redenzione soggettiva può anche travalicare i confini della religione: può riguardare ad esempio la sfera civile o anche quella politico-ideologica. Se per una vita intera ho sfruttato gli altri, mi sono arricchito alle loro
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tivo tenente rovesciato: i due protagonisti capovolgono il loro codice, capendo di essersi illusi e di aver sbagliato nel corso del tempo. Il tenente è anti-cristiano (un demonio) per tutta la vita fino al finale e perciò si redime cristianamente; Grace è cristiana per tutto il film tranne che nella vendetta finale, dove si fa demonio. Sarebbe potuta essere una redenzione non cristiana quanto morale, umana, ma in Dogville non c’è spazio nemmeno per una redenzione di tipo soggettivo. Grace soffre nel vedere compiuta la sua volontà: sa, in un certo senso, di sbagliare. La quarta maniera di comprendere la redenzione è nell’orizzonte più propriamente teologico e trascendentale. È la redenzione cristiana e religiosa, l’espiazione anch’essa teleologica, ovvero volta al telos, al fine, al senso ultimo. Ogni atto dell’uomo è già stato redento dal sacrifico del Cristo, ma questo è insufficiente: l’uomo è troppo debole per capirlo. Perciò, nel giorno del Giudizio, Cristo tornerà a giudicare i vivi quanto i morti; le colpe saranno punite e tutto troverà un senso. Saremo finalmente a conoscenza del disegno del Signore e ogni atto, ogni singolo gesto che ha caratterizzato la nostra vita sarà giudicato. Dio farà da garante, ci aprirà gli occhi, ma per tutti ormai sarà troppo tardi. Con l’avvento del Cristo, noi siamo in grado di sapere qual è la volontà di Dio, perciò non brancoliamo più nel buio. È pur vero che, essendo i Testi Sacri nient’altro che inchiostro su carta e scritti da uomini comuni, magari stiamo seguendo quel codice per poi accorgerci, nel giorno spalle o anche solo non ho preso le difese dei più deboli ma ho ritenuto giusto fare ciò, il mio codice morale era di quel tipo. A un certo punto, per merito dell’esperienza posso cambiare codice, posso cambiare il mio giudizio riguardo a quanto facevo prima e posso pentirmi, redimendomi attraverso un’azione personale di segno opposto (che riterrò sia il bene).
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del Giudizio, che la volontà di Dio era esattamente l’opposto di ciò che abbiamo fatto. A parte questa discutibile tesi, è indubbio che per merito del Cristo la redenzione soggettiva e quella oggettiva abbiano potuto coincidere pienamente, ma non ne avremo mai la garanzia. O per lo meno, la garanzia ce l’ha solo chi ha fede e perciò non si tratta di autentica garanzia, quanto piuttosto di una scommessa, come avrebbe sostenuto Blaise Pascal. Se la scommessa viene vinta, i nostri atti terreni decreteranno la nostra posizione questa volta “oggettivamente”, ovvero attraverso una valorizzazione dall’esterno. Su questo versante è significativo un altro film di Von Trier, ovvero Le onde del destino: l’introduzione nel finale della presenza simbolica di Dio - o di una entità superiore che comunica il suo consenso agli eventi che hanno caratterizzato il film - decreta l’espiazione delle azioni della protagonista Bess, moralmente decretabili dalla gente ma redente dal sigillo sacro dell’intervento divino. Sarebbe scorretto ricercare in Dogville una redenzione di questo tipo: la mancanza di un garante metafisico è palese e il film mette in scena proprio l’uomo in assenza di Dio e di fede. La fede si rivela un fardello troppo pesante, oltre il limite della sopportazione che l’uomo può concedersi. Magari, nel giorno del Giudizio, il Signore saprà collocare al giusto posto Grace e i dogvillesi, ma probabilmente saranno tutti giudicati alla stessa maniera: colpevoli perché, in fondo, tutti uomini. È lei stessa ad accorgersi nel finale, per merito di una diversa illuminazione della città, che tra i gangster e gli abitanti della cittadina non c’è alcuna differenza. Scopre la scorrettezza di giudicare solo i primi e non i secondi, come aveva sempre fatto negli ultimi tempi. Il sentimento del perdono, scandalo per la ragione dell’uomo, cede al suo opposto, alla vendetta, in quanto a Dogville
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non c’è legge, ovvero l’arbitro necessario a regolarizzare la convivenza civile. Grace diviene vendicativa, rinuncia al perdono ma non alla pietà. In questo complesso stato d’animo, come vedremo, Grace soffre di una “mancata redenzione”.
3.3 Il problema dell’introduzione del codice
Ora dovremmo soffermarci su una questione che è già stata introdotta nelle pagine precedenti. Abbiamo definito la religione cristiana come un codice di comportamento, un sistema di valori che determina che cosa sia bene e che cosa sia male. Tutte le religioni fanno affidamento a dei codici analoghi, anche se per contenuti spesso molto divergenti. Lo stesso meccanismo è d’altronde adoperato da ogni singolo codice di tipo civile, nonché dai codici più strettamente morali e privati. Anche gli animali adottano un codice, solo che esso è infinitamente più semplice di quello umano. Il codice animale è radicato in un perpetuo presente e, se muta nel corso dei secoli, è un mutamento esclusivamente dovuto all’evoluzione biologica. Il punto è che gli animali non riflettono su loro stessi, non si pongono la domanda sul loro essere e, in questo senso, non sono coscienti di seguire un codice. Nell’uomo, dicevamo, tutto è parecchio più complesso: a determinare il nostro codice di comportamento, le nostre valutazioni del mondo e il nostro codice morale sono intricati e complessi fattori. Per quanto la determinazione storica, sociale e culturale definisca sempre l’orizzonte del nostro operare e
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pensare, ogni uomo è tale in quanto non si identifica mai completamente con questi fattori. Il suo solo riflettere ed essere cosciente di essi implica quel distacco che rappresenta il suo sentimento di libertà, che è lo spazio di ogni responsabilità e moralità. Quello che possiamo sostenere è che ogni singolo uomo - a prescindere dal livello di civilizzazione al quale la sua società appartiene, a prescindere dalla cultura, dalla provenienza, dall’epoca - senza dubbio si regola in base a un codice. Ogni uomo ritiene giusto qualcosa e sbagliato qualcos’altro: bene e male sono a fondamento del suo operare e sentire il mondo. Il punto è che negli uomini il codice può variare: si può cambiare idea, ci si può redimere (almeno con se stessi) adottando un codice diverso, convincendosi che quello adottato in passato non fosse quello giusto ma, anche a prescindere dalla volontà degli uomini, il codice nel corso della storia muta incessantemente. Spesso tra le diverse generazioni, tra padri e figli non si riesce a comprendersi. Spesso i codici sono sincronicamente molteplici come avviene quando, tra membri della stessa generazione, c’è incomunicabilità. Nelle ultime due modalità di redenzione che abbiamo descritto sopra risulta evidente una cosa: il Cristianesimo funziona come qualsiasi codice. Ci viene detto che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Al contrario della legge però la ragione la conosceremo solo alla fine dei tempi. La fede fa affidamento sulla scommessa per la redenzione finale, ovvero la svalutazione della vita terrena e sensibile, vuota in realtà di senso in prospettiva di una realtà “vera”, altra da quella terrena, dove tutto diventerà chiaro. Gli stessi concetti di “colpa” e di “male”, sui quali gli uomini sono stati e saranno giudicati da Dio, sono stati introdotti da Cristo stesso. Prima non c’erano concetti analoghi sui quali definire e valutare il proprio comportamen-
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to: gli uomini saranno anche colpevoli, ma la colpa è introdotta nell’atto stesso del giudizio. Il codice si è radicato fortemente in noi, ma il punto è - come sostiene Ludwig Wittgenstein che non ci è stato mai detto perché tal cosa sia giusta e tal altra no. Diamo per buono il codice perché è talmente radicato in noi da non porci la questione. Per esempio: è ovvio che avere pietà sia giusto. Ma perché è ovvio? Questo non è un principio inventato di sana pianta, in una data circostanza storica, in un dato contesto culturale e sociale? La pietà è stata fondata dal Cristo, così come gran parte della morale alla quale noi facciamo riferimento, ma che sarebbe poca cosa se a essere fondati non ci fossero anche il male e con esso la colpa: Mi viene da pensare che una fede religiosa non possa essere altro che un appassionato decidersi per un sistema di riferimento. Dunque, benché sia una “fede”, è anche un modo di vivere o di giudicare la vita. È un modo appassionato di adottare una “certa” concezione5. L’avvento di Cristo rappresenta la fondazione della pietà e del perdono e questo risultava incomprensibile alle menti pratiche di un popolo, quello romano, che fece del proprio sistema di diritto una gloria che è rimasta nel corso dei millenni. La pietà e il perdono non trovano dimora nel diritto: sono il salto nel vuoto, l’irrazionale proprio in quanto la pietà e il perdono esemplari non richiedono nulla in cambio, ma sono un atto morale senza baratto e restituzione. Un ordinamento giudiziario non può ammettere questo e sarebbe altrettanto nocivo confondere le due sfere. Non stiamo dicendo che nell’antica Roma non esistessero concetti come la pietà e il perdono, 5
Cfr. Wittgenstein, op. cit., pag. 123.
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ma sicuramente essi ricoprivano un significato ben diverso. La pietas di Virgilio, ad esempio, è traducibile come “devozione”, rispetto per la volontà degli dèi; nel diritto romano compaiono sia il perdono che la pietà, ma inseriti in un contesto giuridico e la loro essenza diverge nei confronti della grande frattura che la storia dell’umanità ha vissuto con l’avvento del Cristo. Se si vuole condurre una comunità sul cammino dell’adozione di un nuovo codice, il processo è molto delicato: se questa operazione viene imposta dall’esterno, le conseguenze sono terribili. È il caso dello “scontro di civiltà” e dei paradossi della “democrazia d’esportazione”. L’operazione richiede un processo lunghissimo di assimilazione, che comunque non è detto abbia buon fine. Affinché una entità esterna influisca sul sistema preesistente, è necessario che inizialmente si partecipi allo stesso circolo, che ci si comprenda, che si giochi lo stesso “gioco linguistico”. Cristo e Grace hanno un destino simile: il primo si è fatto uomo tra gli uomini per portare la buona novella. Grace vive il suo climax positivo con la convinzione che i dogvillesi siano migliori di quello che sono e Tom vede in Grace la possibilità di mettere allo specchio la gente di Dogville al fine del “riarmo morale” e del miglioramento della comunità. Prima di fare questo, Grace diventa dogvillese, ovvero si amalgama con la città. Grace e Dogville non instaurano un rapporto di esclusione totale e di totale incomprensibilità, quasi la prima fosse un alieno provenuto da un pianeta lontano anni luce. Come asserisce Tom - in uno dei suoi tanti sconclusionati tentativi di comprendere e di giustificare gli avvenimenti -, il fatto che a Grace venga rimproverato di passare per la scorciatoia tra i cespugli di uva spina rappresenta un ulteriore segnale di integrazione. Ma sarà proprio la degenerazione
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di tale integrazione la condanna della protagonista. Dello stesso sviluppo è stato vittima Cristo, che ha pagato col sacrificio della vita la sua volontà di farsi uomo in Terra e di vivere tra gli uomini, responsabili della sua crocifissione. Per Grace, la decisione finale di vendicarsi rappresenta la presa di coscienza di due punti essenziali: primo, ogni singolo individuo è responsabile delle proprie azioni; secondo, Grace può e deve giudicare chi le ha fatto del male perché, seppure diversa dai dogvillesi, il fatto stesso che abbiano convissuto così tanto tempo, il fatto stesso che abbia instaurato con loro una comunicazione implica una vicinanza che concede alla vendetta di avere un senso. Come vedremo, quello di Grace non sarebbe stato un autentico perdono, ma un tentativo di razionalizzare gli eventi per infine giustificarli. È dove non c’è possibile giustificazione che dovrebbe subentrare il perdono, il quale però rappresenta un fardello troppo pesante per l’uomo. Nelle prossime pagine verrà sviluppata proprio questa serie di problematiche. Qui ci interessava sottolineare come l’introduzione di un codice presupponga che si stia sempre su uno stesso piano. Questo è significativo, perché Grace è molto più vicina agli abitanti di Dogville di quanto si possa pensare e ciò che regola gli equilibri è esclusivamente il potere. Sono tutti uomini, in particolar modo nel finale del film: la vendetta legittima i dogvillesi di una responsabilità. Essi vengono riconosciuti in quanto uomini.
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3.4 La disumanità del Cristo e l’umanità di Grace
Grace è un personaggio cristico, come ce ne sono tanti nella letteratura di Fëdor Dostoevskij. Grace, come il Cristo, è una “idiota”: la sua superiore sensibilità, la sua totale diversità nei confronti del contesto che la circonda ne fa un mistero, un essere incomprensibile che la maggioranza decreta appunto come “idiota”. Il principe Myškin, protagonista de L’idiota, soffre per le pene altrui, si carica di colpe che non ha, perdona e accetta gli errori degli altri, rifiuta di punire e accetta gli eventi del destino senza battere ciglio. La sua stessa esistenza è incomprensibile: egli è un passo avanti rispetto agli altri, ha una coscienza più sviluppata e un’anima che lo portano a sapere ciò che gli altri non ammettono o disconoscono. Ritiene di aver scoperto il segreto dell’esistenza, ma non incolpa coloro che invece non l’hanno fatto. In questa maniera però resta isolato, resta l’unico e viene messo alla gogna, deriso e apostrofato come “idiota”. La stessa sorte del Cristo. Cristo non è uomo, Grace sì. Che cosa intendiamo con questa asserzione? Cristo è l’avvento del nuovo uomo: siamo tutti fatti della sostanza della Bibbia, non v’è dubbio, anche se non solo di quella. L’uomo c’era già prima di Cristo e noi siamo fatti anche di quei secoli precedenti al suo avvento; oltretutto, non ogni evento che ha trovato forma nella storia e nella nostra esperienza quotidiana è riconducibile al Cristo o per lo meno non solo a lui. D’altronde, abbiamo già accennato a come sia stato l’avvento del Cristianesimo a segnare il solco all’interno del quale tutta la storia della civiltà occidentale si è sviluppata, determinando tante - anche se non tutte - delle no-
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stre categorie di valutazione, dei nostri sentimenti morali, delle nostre convinzioni e dei nostri codici di comportamento. L’uomo è diventato uomo e lo diventa in ogni attimo della storia. Cristo può essere inteso “uomo” in relazione all’uomo di oggi perché ne ha fondato la sostanza, ma certo non può esserlo in relazione agli uomini che abitavano il mondo il giorno del suo avvento, tanto che fece la figura dell’“idiota”. In fondo, abbiamo visto che anche tutti noi siamo lontani anni luce dai dettami di Cristo. Quando ci comportiamo secondo il credo cristiano, a parte una piccola porzione della nostra umanità, noi non lo facciamo per redimere le nostre colpe. La maggior parte di noi, per lo meno coloro che credono, concepiscono la religione come una richiesta di aiuto o una richiesta di perdono dovuta alla paura del Giudizio Universale. Cristo non è umano: le sue diverse immagini che ci sono state tramandate (differenti in corrispondenza dei diversi Vangeli, compresi gli apocrifi) sono state messe in luce da Harold Bloom: Il Dio ebraico, come la divinità di Platone, è un folle moralista, mentre Gesù Cristo è un labirinto teologico […]6. Bloom insiste evidenziando la natura soprannaturale del Cristo, ma come “contraltare” della visione di Bloom andrebbe ricordata La fede filosofica di Karl Jaspers. In quest’opera, il filosofo sottolinea nettamente la natura polisemica, contraddittoria e complessa di Gesù Cristo all’interno dei vari Vangeli, nonché in ogni singolo Vangelo. In questo modo, il Nuovo Testamento ha potuto rappresentare nel corso dei secoli una 6
Harold Bloom, Gesù e Yahvè: la frattura originaria tra Ebraismo e Cristianesimo, (trad. it. a cura di Daniele Didero), Milano, Rizzoli, 2006, pag. 18.
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moltitudine incredibile di interpretazioni e di letture, generando scismi e concili vari. Il Cristo di “Ama il tuo prossimo come te stesso” è il Cristo di “Non sono venuto a portare la pace, ma la spada” e di “Chi non è con me, è contro di me”. Il Cristo fa miracoli alleviando le pene dei sofferenti, ma altre volte si sottrae a questo compito; si dichiara il figlio di Dio, ma spesso rivendica l’unicità del Padre. Questa natura complessa lo avvicina spesso allo Yahvè di Bloom7 Cristo è lontanissimo dall’uomo, è fin troppo enigmatico, è un paradosso in dissonanza con la natura umana. Cristo è più Dio che uomo come sostiene la dottrina armena - o più uomo che Dio, ma è un uomo “straordinario”, diverso da chiunque altro - come sostiene il culto ariano di una delle prime eresie - e perciò stesso comunque distinto dall’uomo comune. Cristo non si lascia andare al normalissimo istinto di risposta all’altro, ma accetta, fa miracoli come fossero magie; non parla come gli uomini, non risponde quando dovrebbe rispondere. Ben diverso è Yahvè, il dio del Vecchio Testamento. Per Bloom, il dio degli ebrei è lontanissimo dalla figura del Cristo: lui è il vero uomo. Si contraddice, si arrabbia, poi si calma e poi si arrabbia nuovamente. Fa ironia sugli eventi, li comprende a volte sì e a volte no, come qualsiasi uomo sulla Terra. Grace è il Cristo convinto da Yahvè (il padre) a cambiare comportamento, a punire chi va punito. Nei Vangeli, il Padre a cui Cristo si rivolge è un Padre già neotestamentario. Non è più l’iracondo Signore della Terra che ha spazzato via intere città colpevoli di immoralità, che ha inondato il mondo per annientare i suoi abitanti, che ha devastato torri erette come segno di sfida a lui. 7
Karl Jaspers, La fede filosofica, (trad. it. a cura di Umberto Galimberti), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005.
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Insomma: con quanto è stato detto in questo capitolo, possiamo sostenere che Grace è umana e che prova a fare il Cristo il quale, contrariamente a quanto siamo convinti egli sia, è una figura divina che con l’uomo ha ben poco a che fare. Grace riacquisisce la sua umanità nel finale, ridiventando un essere umano; Grace si scopre vittima e carnefice, non solo vittima, non solo carnefice. Vediamo da vicino un paio di casi che manifestano l’ambiguità della figura di Grace. Cominciamo col dire che, seppure evidentemente costruita sul calco del Messia evangelico, Grace nel corso della sua convivenza nella cittadina lascia trapelare alcuni momenti di umanità, come quando perde la pazienza sia col bambino impertinente che le impone di punirlo che col cieco bugiardo, per il quale prova una specie di piacere morboso nel metterlo dinanzi alla impossibilità di negare il suo handicap. Detto questo però è innegabile che lo spirito di sottomissione e di abnegazione resti costante nel corso del film. Basti pensare alla presentazione della protagonista: quando viene avvicinata da Tom il giorno del suo arrivo, la vagabonda non riesce a darsi pace per il fatto di aver “rubato” un osso a un cane per sfamarsi; si fida ciecamente delle buone intenzioni di Dogville, vedendo in essa una “bella città”, deliziosa e senza cattiveria; si commuove del fatto di aver trovato dei regali nel bagaglio dinanzi alla possibilità di venire cacciata dalla comunità; si presta a compiti che non occorre svolgere e che prima nessuno si era mai sognato di fare, facendo poi diventare queste operazioni dei bisogni e dei doveri per i quali si pretende un suo impegno. Grace oltretutto è votata all’astinenza sessuale con Tom: rifiuta di appagare il suo desiderio carnale, deludendo pesantemente il suo fidanzato, nonostante ormai nel villaggio il suo corpo venga sfruttato da chiunque tranne che da lui. La sua presunzione - come la
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chiamerebbe l’amorevole padre - si palesa in maniera totale verso Chuck, che viene ritenuto da lei un debole e rimanendo convinta del fatto che la sua guaina dura e violenta sia un’attestazione di fragilità che richiede maggiori sensibilità e affetto.
3.5 Pietà, perdono e il male come loro condizione
Dire che Cristo abbia fondato l’uomo, significherebbe dire che la stessa pietà non è un concetto antropologico e naturale, ma che ha avuto comunque un’origine culturale. La pietà stessa è un prodotto della storia o una condizione esistenziale e metafisica propria dell’idea di uomo, come sosteneva Jean Jacques Rousseau? Questa è una domanda faziosa, che ha la stessa consistenza delle considerazioni fatte nei capitoli precedenti sulle speculazioni riguardanti lo spirito storico, il destino o l’ordine prestabilito da Dio. Questa domanda non ha a che vedere con la nostra esperienza: sapere se la pietà sia un fattore storicamente determinato o una condizione di esistenza, non ci serve. L’uomo, come ci compare sotto gli occhi, è sempre un concentrato complesso di determinazioni e di influenze sociali e storiche, esperenziali e private, consapevoli e inconsapevoli, innate e culturali. Quello che ci preme sapere invece è se la pietà sia una caratterizzazione inamovibile dell’uomo. L’uomo spesso ha pietà, d’accordo; ma è giusto avere pietà? D’altronde, l’uomo ha sempre pietà? Se fosse veramente un carattere distintivo della sua esistenza, non dovremmo neanche stare qui a parlarne. L’uomo ha pietà a volte e questo sen-
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za dubbio per merito del messaggio cristiano. Prima del Cristo, lo abbiamo visto, l’uomo non conosceva la pietà come la intendiamo noi oggi. Se parlassimo di condizioni antropologiche o metafisiche riguardanti l’idea di uomo, non potremmo però comprendere la storia. Grace manifesta una complessa ambiguità, la stessa ambiguità della quale ogni essere umano è fatto. Prova pietà per gli abitanti di Dogville, li giustifica, saprebbe anche assolverli, tanto che lo fa. Il problema è che l’invocazione del Cristo sulla croce - Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? - trova una risposta: il padre di Grace, il risolutore, giunge veramente a Dogville e offre a Grace il potere, ovvero la possibilità di rispondere ai torti subiti. Grace si capovolge nel finale: decide di vendicarsi, di superare la sua arrogante mania pietistica. Si riscopre essere umano, cosa che non era quando faceva il Cristo: No, non ci sarebbe nessuna forma di salvezza nel perdonare gli atti che quella comunità ha compiuto, farlo significherebbe esporre i deboli alle loro angherie, farlo significherebbe tradire il significato profondo dell’essere uomini. Grace è l’uomo tradito dall’uomo […]8. Da questo punto di vista, il film attesta il fallimento del Cristianesimo nonché la sua inattuabilità. L’uomo non è fatto per il Cristianesimo, perché il Cristianesimo stesso non è riuscito a realizzare l’uomo auspicato e promosso dal Cristo. Questo è quanto per esempio risulta in Viridiana di Luis Buñuel, nonché nella Santa Giovanna dei Macelli di Brecht. La degenerazione del potere cristiano ha determinato un uomo 8
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 336.
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che, seppure intrinsecamente cristiano, paradossalmente è l’esatto opposto di ciò che il messaggio originario del Vangelo promuoveva. La profondità del personaggio di Grace, come vedremo meglio in seguito, sta nel fatto che il suo atto di vendetta non viene svolto in maniera spietata, ma lascia trasparire anche un dolore e una sofferenza per l’eliminazione finale che attesta dialetticamente che la pietà resta un carattere proprio dell’essere umano così come la vendetta stessa. Rifiutare la pietà non significa redimersi - anche se di una redenzione acristiana quanto piuttosto liberarsi per diventare veramente uomini, ovvero vendicativi. Se non fosse così, la vendetta sarebbe un buon veicolo di redenzione acristiana. Una domanda che si palesa alla visione di Dogville è: fin dove può arrivare il perdono? Ci è permesso di perdonare tutto a tutti? Per Paul Ricoeur, il problema è mal posto. Per sua stessa definizione, il perdono o è senza limiti oppure non è: C’è il perdono come c’è la gioia, come c’è la saggezza, la follia, l’amore. L’amore, precisamente. Il perdono appartiene alla stessa famiglia9. Il perdono non può soggiacere ad alcun calcolo, non può relazionarsi a una scala di valutazione. Il perdono trova sostanza solo nell’imperdonabile, in ciò che sembra quanto di più mostruoso sia accaduto, nel torto e nella vergogna più atroci subite: è lì che trova dimora il perdono, se vuole essere perdono autentico e non solamente “buona coscienza” o “immagine sociale”. A ben vedere, tutte le religioni - chi in una 9
Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, (trad. it. a cura di Daniella Iannotta), Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003, pag. 662.
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maniera, chi in un’altra - ammettono la misericordia e perciò il perdono divino solo a patto che ci sia il pentimento e la richiesta sincera di assoluzione dalle proprie colpe. Se vediamo il finale di Dogville, notiamo che nessuno intende neanche minimamente chiedere scusa e perdono per ciò che è stato fatto subire a Grace. Il perdono è possibile: la sua stessa e semplice esistenza attesta questo. Per esistere - come asserisce Derrida anche a proposito dell’ospitalità - non può soggiacere a un principio utilitaristico e pragmatico: deve essere disinteressato e non istituzionalizzato. La politica non ha nulla a che vedere col perdono che proviene invece dal sentimento morale soggettivo. La richiesta di perdono diventa cosa necessaria: la colpa ha a che fare col male e il male, insieme alla colpa, non può esistere se non come coscienza che si ha di esso, ovvero nell’ammissione del peccato e perciò nella richiesta del perdono. Tutto questo presuppone che chi ha colpa e chi presumibilmente dovrebbe perdonare appartengano allo stesso circolo ermeneutico e che giochino lo stesso gioco linguistico. Lo stesso Paolo, nella Lettera ai Romani - come evidenzia Ricoeur - parla della necessità dell’esistenza del male, che solo permette alla grazia di concretizzarsi. L’avvento della legge divina ha decretato il bene e il male, la colpa e il giusto in relazione ad atti che già esistevano al mondo prima del suo avvento: Che diremo dunque? Che la legge è peccato! No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge né avrei conosciuto la concupiscenza se la legge non avesse detto: “Non desiderare”. Prendendo occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono
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morto […] Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento […] Io trovo quindi in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me10. Il Cristianesimo non ha fondato solo i concetti di “pietà” e di “perdono”, ma anche quelli di “male” e perciò di “peccato”. Esso fonda una nuova comunità, uno stravolgimento di quanto era prima. Grace arriva a Dogville e Dogville già esiste; Cristo giunge sulla Terra e gli uomini già sono lì. La pretesa, della quale il responsabile maggiore nel film è Tom, che venga seguita una nuova logica comportamentale non presuppone il fatto che gli uomini (e i dogvillesi) ce la facciano, anzi: essi sono troppo deboli, troppo legati ancora a ciò che sono sempre stati. Essi sono colpevoli, ma solo in quanto la colpa viene introdotta nel momento stesso della valutazione del loro agire. Gli abitanti di Dogville stentano a considerarsi colpevoli di quanto accaduto; Grace non perdona, ma è vero anche che nessuna richiesta di perdono è stata pronunciata nel corso del film, tanto meno nel finale. Lo stesso Tom, con la pistola puntata alla nuca, è troppo impegnato fino alla fine con le sue disquisizioni filosofiche e concettuali, campate in aria e senza fondamento, ridicole e coresponsabili di quanto è accaduto. Grace prova a fare il Cristo e tenta di perdonare gli atti subiti giustificando i colpevoli in relazione alle loro abitudini, alla loro appartenenza a quel contesto; in realtà, il perdono cristiano non presuppone giustificazioni. Il perdono cristiano, così come avviene nel pensiero di Ricoeur, non declina la re10
San Paolo, Lettera ai Romani, cap. 7, vv. 7-10, v. 13, v. 21.
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sponsabilità per quanto avvenuto ad altri. Il perdono avviene senza mediazioni razionali, è disinteressato ed è uno scandalo per la sua natura trascendentale, nel senso che “sorvola” gli eventi e concede la possibilità di guardare al futuro. Il perdono non viene concesso in vista di un guadagno o di una soddisfazione personale, tanto meno non intende spostare le responsabilità ad altri, persone o entità astratte che siano: Ora: se la carità tutto scusa, questo tutto comprende l’imperdonabile. Altrimenti essa stessa verrebbe annientata […] Il perdono si rivolge all’imperdonabile oppure non è11. Il perdono rompe la catena infinita delle responsabilità: se risalissimo ai responsabili di gradino in gradino, cercando di capire chi ha determinato cosa, arriveremmo a Adamo ed Eva, poi a Dio stesso e avremmo fatto una fatica a vuoto. Adottando un approccio razionale, arriveremmo alla conclusione di Wittgenstein, alla quale abbiamo già fatto una volta riferimento: ragionevolmente non potremmo accusare nemmeno Hitler. Tutto il discorso cristiano può reggere solo per merito della Carità, il sentimento cristiano per eccellenza, che può essere tradotto anche con Amore nel suo senso universale: amore per gli uomini, amore per il prossimo. La stessa legge, senza la Carità, si svuota di senso; l’Amore deve essere la ragione per la quale gli uomini decidono di comportarsi in un certo modo, altrimenti l’azione stessa non ha alcun valore. L’atto compiuto senza Amore, ma per imposizione esterna o per stare in pace con la propria coscienza, agli occhi di Dio non ha nessun valore12. Sappiamo bene che, se questo fosse bastato agli uomini, l’Apocalisse sarebbe stata inutile. 11
Cfr. Ricoeur, op. cit., pag. 663.
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L’Amore solo permette che l’atto di pietà o di perdono sia un atto assolutamente libero, soggettivo, non motivato da cause esterne o da principi utilitaristici, ma disinteressato e rivolto all’intera umanità, a prescindere dalla gravità della colpa. Il perdono di Gesù è Amore ma l’uomo, e perciò Grace, non riesce a reggere questo fardello: Grace non riesce ad amare chi l’ha perseguitata, violentata e sfruttata. La sua unica possibilità è tentare di giustificare l’accaduto ma, come era facilmente prevedibile, fallisce. Affinché ci sia Amore è necessario ci sia il male, la sua figura dialetticamente opposta, l’odio. Se si è uomini, a volte facciamo trionfare l’Amore, altre volte a trionfare è l’odio. Torniamo a Dostoevskij e alla celeberrima novella de “Il Grande Inquisitore” contenuta ne I fratelli Karamazov. L’Inquisitore si trova davanti a Cristo, alla verità, e lo perseguita con le sue atroci domande; la sua logica non lascia scampo, la sua razionalità è dirompente e il Cristo non fa che tacere. A lui basta mostrarsi per essere la verità, in quanto è la verità stessa che non ha bisogno né di giustificazioni né di razionalizzazioni per essere partecipata e vissuta anziché compresa. La verità è lo scandalo del Cristo: la rottura, il paradosso, l’incomprensibilità:
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Cristo introduce nel mondo la sua parola di pietà e, nel fare questo, fonda il nuovo uomo, che è ancora lungi dal sorgere. Non è un caso infatti che l’attualità del Cristianesimo sia essenzialmente una forma di potere e gestione di esso. Sorta come un’autentica “religione dell’uomo”, il Cristianesimo si è rovesciato in “religione di Stato”. D’altronde, in America del Cristianesimo originario è rimasto ben poco. Il messaggio della pietà, della compassione, dell’amore reciproco, del sacrificio per l’altro non appartiene alla morale e alla vita americana. Questo è fuori di dubbio.
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Non rispondere, taci! E che potresti dire? So bene che cosa vuoi dire. Ma Tu non ha il diritto di aggiungere nulla a quello che hai già detto una volta. Perché sei venuto a disturbarci? […] Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con la promessa di una libertà che essi [gli uomini], nella loro semplicità e nel loro disordine innato, non possono neppure concepire, della quale hanno paura e terrore, perché nulla è mai stato più intollerabile della libertà per l’uomo e per la società umana! […] Guarda e giudica, ormai sono passati quindici secoli, guardali bene: chi sono quelli che hai creduto di innalzare fino a te? Te lo giuro, l’uomo è stato creato più debole e più meschino di quello che Tu credessi! […] Stimandolo tanto, hai agito come se Tu non avessi più compassione di lui, perché gli hai chiesto davvero troppo […] Se Tu lo avessi stimato meno, gli avresti anche chiesto meno e questa sarebbe stata una cosa più vicina all’amore, perché il suo fardello sarebbe stato più leggero. L’uomo è debole e vile13. Gli uomini sono mai stati pronti a Cristo? L’Inquisitore pone proprio questa questione: a quali uomini si rivolgeva il Cristo? Tutti avrebbero saputo accogliere la sua parola? Ma i fatti non dimostrano proprio il contrario? Veramente gli uomini sono diventati migliori grazie al Cristianesimo? Ma migliori o peggiori rispetto a che cosa? In realtà, la religione cristiana non ha portato gioia, pace e amore in quanto ha fondato in se stessa questi concetti. Il perdono non era una mancanza del mondo precristiano; la pace, la pietà e l’amore esistevano ricoprendo tutt’altro significato. 13
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, (trad. it. a cura di Pina Maiani e Laura Satta Boschian), Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1998, pagg. 338-343.
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Cristo ha introdotto contemporaneamente tutti gli elementi di un nuovo codice di comportamento, giudicando gli atti degli uomini secondo questo codice, senza sincerarsi - ci dice Dostoevskij - se questo codice non fosse inadeguato per l’uomo: In Dostoevskij, il problema della libertà fa tutt’uno con quello del male e della colpa, dal momento che questi ultimi sono inesplicabili a prescindere da essa. Senza questo legame con la libertà infatti non esisterebbe la responsabilità del male, ma responsabile del male sarebbe Dio stesso14. L’uomo è uomo: l’uomo perdona, ma odia spesso e volentieri. L’uomo ama, ma desidera spesso la punizione degli altri. L’uomo è sociale, ma anche incredibilmente egoista. L’uomo è libero: il Cristianesimo ha voluto questo. Dogville ci ricorda in maniera dirompente e crudele la natura indispensabile del male. Il male esiste in quanto, senza di esso, non potrebbe esistere la colpa e, senza la colpa,non potrebbero esistere le “cose belle” del Cristianesimo: l’Amore, la Carità, il Perdono, la Pietà. Il punto è che il Cristianesimo non si è opposto a un concetto di male già presente, ma ne ha fondato uno ex novo, il “peccato”, e su di esso ha costruito il proprio codice. Per continuare a considerare l’uomo libero, e perciò responsabile, è necessario il peccato e perciò il male. Sarebbe scorretto sostenere che l’uomo romano o greco fosse meno libero, solo che a mutare è stato il codice in relazione al quale si definisce lo stesso concetto di “libertà”. 14
Giuseppe Di Giacomo, Estetica e letteratura: il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma, Editori Laterza, 2003, pag. 177.
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CAPITOLO QUARTO Vendetta e mancata redenzione
Nel finale, lo spettatore prova una sorta di piacere per le sorti della cittadina. Questo dimostra chiaramente la complessa e ambigua natura umana: da un lato, siamo capaci di empatia, di pietà e dobbiamo questo al nostro essere cristiani “nelle ossa”, a prescindere dal nostro essere religiosi o atei. D’altro lato, godiamo nel vedere soffrire persone che hanno commesso delle azioni nefaste e terribili. Il bene e il male sono figure dialetticamente racchiuse a vicenda: una non può stare senza l’altra. La complessità dell’essere umano sta proprio in questo: in quanto libero, l’uomo può decidere di respingere il male per seguire la strada del bene. Il bene può sussistere finché sussiste il male; il bene e il male sono i principi che caratterizzano ogni essere umano e tali principi vengono definiti da codici che indossiamo come abiti per toccare il mondo e vivere in esso. L’adozione del codice, lo abbiamo visto, può travalicare la nostra stessa volontà (noi siamo cristiani nostro malgrado); può essere anche la presa di posizione di chi vuole cambiare vita e riscattarsi; può essere vissuto più o meno consciamente. Il punto è che senza codice noi non saremmo uomini: viene prima il codice - che determina il sentimento di colpa, di responsabilità e perciò tutto il registro emotivo del nostro sentire - e poi noi viene il nostro io. Spesso, adottiamo contemporaneamente più codici alla volta (sul posto di lavoro, allo sta-
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dio, nelle questioni familiari) e ciò potrebbe essere causa di nevrosi. Ma quando un codice fallisce, quando diventa responsabile della nostra sofferenza o accettiamo la nostra sorte ritenendo giusto che sia così, oppure ammettiamo che nel codice c’è qualcosa che non va (anche se è ipocrita ammettere questo solo quando a pagarne le conseguenze siamo noi in prima persona). A quel punto, ci accorgiamo che il codice, qualsiasi esso sia, è relativo, precario, non assoluto né è dato una volta per tutte. Il Cristianesimo è riuscito a inaugurare un codice di comportamento talmente potente da essere entrato nelle ossa di ciascuno di noi, milioni e milioni di persone in tutto il mondo. È un codice che ha avuto più successo di altri e, come qualsiasi codice, ritiene di essere l’unico, quello giusto, la regola da seguire. Deve essere rigido e, anche se è un codice relativo come qualsiasi altro codice nel mondo, esso deve dare l’idea che sia l’unico, il più giusto, la strada maestra, la Verità. Esso non sbaglia nel fare ciò: coloro che devono aprire gli occhi in realtà siamo noi, i singoli uomini. Se a definirci è sempre un codice che ci anticipa, è pur vero che nessuno di noi può mai esaurirsi in esso. Nella vita si cambia direzione, si rimette in gioco tutto, si cambia opinione: il codice viene mutato, girato, plasmato dalla nostra esperienza, oppure viene strappato e riscritto da capo. Il nostro essere liberi è la nostra condanna, ma non si tratta di scegliere di essere liberi quanto piuttosto di riconoscersi come tali: uomini, buoni e cattivi, giusti e sbagliati, spregevoli e divini contemporaneamente, misericordiosi e vendicativi, vittime e carnefici.
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4.1 Il mito delle Erinni: l’origine umana della vendetta
Il tema della vendetta ci rimanda direttamente alle problematiche legate alla colpa e alla redenzione, nonché al problema di fondo rappresentato dal ruolo della determinazione storica e sociale dell’individuo in rapporto alla sua natura. La vendetta appartiene all’uomo, al contrario degli animali. Se ad accomunarli è la rabbia, a distinguerli è il fatto che mentre l’uomo è in grado di pianificare una vendetta, di farsi segnare l’anima dal passato, il massimo che sa fare l’animale è difendersi. La vendetta non riguarda la difesa, ma la volontà di farsi giustizia per un torto subito. Secondo il mito, le Erinni - divinità mitologiche dedite alla vendetta, violente e terribili - nascono in tempi remoti, precedenti all’avvento delle divinità olimpiche. La loro precedenza sottolinea la loro importanza all’interno del sistema divino greco. Il mito narra di come le Erinni condividono con Afrodite la sorte che ha condotto alla loro nascita. Infatti, al pari della dea della bellezza, le Erinni hanno origine dal sangue versato da Urano al momento dell’evirazione per mano di Crono, ovvero del tempo. Crono, attraverso l’atto di amputazione, di rottura dell’“uno” originario, dà origine alla storia nonché alla coscienza stessa. Con l’origine del “due” - ovvero della molteplicità - il tempo può riversarsi nelle sorti del mondo per merito della nascita della coscienza. Con la nascita della storia e della coscienza - e perciò dell’uomo stesso -, contemporaneamente nascono la bellezza e la vendetta. La vendetta segna il tempo esistenziale dell’uomo, la sua storia, in quanto la vendetta è un carattere fondamentale della natura
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della coscienza: segna il trascorrere del tempo umano, mette in relazione il presente col passato e traccia la direzione verso il futuro. La vendetta, già per il mito greco, aveva le sembianze di una forza terribile destinata a scandire la storia degli uomini a ogni loro passo. Questa prorompente forza demoniaca però non ha un potere assoluto sull’uomo: ci si può opporre alle Erinni attraverso la forza della razionalità e della saggezza. Non è di poco conto constatare che le Erinni appartenevano all’ordine divino dei Titani, ordine precedente all’avvento dell’Olimpo: appartenevano al caos originario, alle barbarie dei primitivi. L’avvento di Zeus, di Apollo, di Atena invece demarca l’origine di un nuovo ordine contraddistinto dalla razionalità e dalla giustizia. Un altro mito riguardante l’origine delle Erinni narra della loro provenienza dalla notte, dall’oscurità, dal buio. Nell’iconologia della storia dell’arte, le troviamo spesso rappresentate con torce o fiaccole tra le mani ed è impossibile, a questo proposito, non ripensare al finale di Dogville. Di questa seconda versione della nascita delle Erinni ci narra Eschilo nelle “Eumenidi”, ultimo episodio del ciclo dell’Orestea dedicato alle gesta dell’eroe Oreste. Nelle “Eumenidi”, Clitemnestra invoca le Furie - così saranno infatti ribattezzate le Erinni nella tradizione romana - al fine di vendicare il suo assassinio. Il matricidio di Oreste deve essere punito, ma Oreste ha dalla sua parte gli dèi greci: Apollo ma soprattutto Atena. Atena, dea della giustizia, imparziale e saggia come sempre, riesce a mettere sotto giudizio le azioni di Oreste in un processo regolato da lei stessa. In questo processo, sia Oreste che le Erinni hanno la possibilità di esporre le loro ragioni per rimettersi al giudizio del Collegio dei Saggi della città. Le Erinni rivendicano continuamente la loro maggiore età - ov-
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vero la nobiltà dovuta alla loro vecchiaia - nei confronti di quelle divinità giovani che, come Apollo, sono senza rispetto per le divinità delle origini. Il processo volge a favore di Oreste: i voti alla fine sono pari e Atena decreta l’assoluzione dell’eroe greco. L’assoluzione di Oreste provoca l’ira delle Erinni, che giurano di tormentare la Terra con atroci veleni, di distruggere tutte le case e di scaricare il loro odio su tutte le generazioni future. Atena, dall’alto della sua saggezza, riesce a riportare le Erinni alla ragione, rivendicando che nessuno ha mai messo in questione la loro importanza e la loro autorità. Atena riesce a evitare la catastrofe re-inserendo le Erinni all’interno di un contesto legale e razionale. Le dee della vendetta devono continuare a operare per merito della loro anzianità e la radice del loro operare, il “tremendo”, non deve essere assolutamente abolito ma sfruttato all’interno di una regolamentazione che dia maggior forza alle istituzioni politiche. Le Erinni si tranquillizzano, sigillando un patto di alleanza con Atena e con gli dèi dell’Olimpo nonché con l’uomo e con gli eventi della storia. Non avrebbe potuto essere altrimenti, dato che già i greci avvertivano come la vendetta fosse una caratteristica che non può essere totalmente rimossa dal comportamento umano: sarebbe inutile, nonché nocivo, ritenere che sia possibile cancellare la vendetta dalle sorti dell’uomo, dato che appartiene al suo animo e alla sua natura terrena. Atena, ovvero la giustizia, deve essere in grado di arginare e di regolarizzare questo sentimento umano per non far precipitare il futuro dell’uomo nel caos e nell’anarchia:
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Il potere delle Erinni si fonda sul terrore che incutono; ora: in previsione di una possibile destituzione, esse cercano di preservare non più il loro ruolo, ma il “tremendo” su cui il loro ruolo si fonda. Una volta ammessa la possibilità di una sconfitta le Erinni, piuttosto che dismettere del tutto il loro potere, sono pronte a delegarlo. Abilmente i demoni assumono i toni di benevoli consiglieri: preservare il “deinon” è un precetto utile per l’etica individuale, ma anche una garanzia per la stabilità della città. Da forza incontrollata, demonica, il tremendo diventa paradossalmente, per via di questo ragionamento, il limite costitutivo dell’ordine, il deterrente che garantisce una vita regolare e civile1. Dinanzi a un regolare processo, la vendetta non può che dichiarare la sua sconfitta, in quanto la sua natura intrinseca non può che perire dinanzi alla razionalità delle leggi. La giustizia e la vendetta sono in netta opposizione. Però, ci dice il mito, questo non significa affatto che la legge e la regolamentazione del vivere civile siano in grado di rimuovere totalmente la vendetta, ma che esse siano state fondate proprio con l’intenzione di regolare queste forze demoniache insopprimibili nell’uomo. La vendetta non è una colpa, bensì si pone prima della colpa stessa. È l’uomo prima della legge e del codice, che decretano che cosa possa dirsi colpa e che cosa no. Dato che il “tremendo” su cui fa leva la forza della vendetta comporterebbe il caos, il terrore e la distruzione totale della città e del genere umano - come accade in Dogville -, pragmaticamente la soluzione adottata dai greci e da tutto l’Occidente a venire è quella di erigere dei sistemi di leggi in grado non di azzerare e nientificare la vendetta (cosa che sarebbe impossi1
(a cura di) Monica Centanni, “Commento alle Eumenidi” in Eschilo. Le tragedie, Milano, I Meridiani, Mondadori, 2007, pag. 1117.
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bile), ma di evitare proprio quella distruzione irrazionale della quale le Erinni sono capaci. Atena è riuscita ad ammansire le Erinni in maniera anche furba, se vogliamo. Le Erinni saranno ribattezzate, nella tradizione letteraria greca, Eumenidi per cercare di preservarne il valore positivo, per addolcirle e per continuare a tenerle a bada. Con la vendetta bisogna scendere sempre a patti. Atena, ovvero il logos, si inserisce all’interno delle sorti umane nella seguente maniera: l’animo umano e la sua “libertà” non sono declinabili in senso assoluto alla razionalità, ma anzi sono i due poli opposti che regolano il nostro comportamento, il perdono e la vendetta, hanno a che fare più col pathos, ovvero col rifiuto della razionalizzazione che è in grado di spostare la responsabilità delle azioni dalle singole persone a entità più astratte. Noi viviamo pateticamente nel mondo: Atena, o meglio la legge, nasce in questo spazio proprio al fine di regolare razionalmente la nostra convivenza, tutelandoci da noi stessi.
4.2 Le diverse figure della vendetta
Alcuni film propongono delle esemplari figure della vendetta: ne La fontana della vergine di Ingmar Bergman, un uomo profondamente religioso dinanzi all’omicidio della figlia si trasforma in una furia assetata di vendetta, uccidendo i responsabili con freddezza attraverso un rituale pagano. In questa prima accezione, la vendetta è direttamente connessa all’ira di senechiana memoria che acceca la ragione. Qui non
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c’è pianificazione: l’atto compiuto dal protagonista ci riguarda tutti, in quanto ognuno di noi si comporterebbe probabilmente allo stesso modo dinanzi alla stessa sciagura. La fede del protagonista Töre viene obliata dalla furia e non è un caso che anche qui, accecato dalla rabbia, il protagonista - come faranno i gangster di Grace - decida di avventarsi anche su un bambino appartenente al gruppo degli assassini. Per redimere la sua colpa, pentito di quanto ha commesso, Töre si rivolge a Dio, gli chiede perché mai non sia riuscito a evitare tutto questo e, in segno di remissione dei peccati, offre a Dio la costruzione di una chiesa lì dove sgorga l’acqua di una fontana, attraverso la quale le colpe possano essere purificate e redente: Ma tu vedi Dio! Tu vedi, vedi la morte di un’innocente, vedi la mia vendetta e non l’hai impedito. Io non ti capisco. Eppure adesso chiedo il tuo perdono. Non conosco altro mezzo per conciliarmi con queste mie mani. Non conosco altro modo per vivere. Ti faccio voto, o Signore, qui, in penitenza del mio peccato, di edificare una chiesa con queste mie mani2. Al secondo livello, abbiamo invece la vendetta che caratterizza tutta la sceneggiatura di Kill Bill, di Tarantino. Anche qui, in assenza di un’autorità, divina o civile, in grado di riparare ai torti subiti, l’unica soluzione è rappresentata dalla vendetta privata e personale. Qui la vendetta si offre come qualcosa di lucido, di pianificato: diventa una missione per la protagonista, che dedica la sua vita a questo intento. Qui la vendetta copre una funzione redentrice: c’è un godimento per la ferocia e per la violenza e si attribuisce senso ai torti subiti proprio per merito di questa personale missione di elimina2
Sergio Transatti, Ingmar Bergman, Roma, Il Castoro, 1999, pagg. 54-55.
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zione. La rabbia di Black Mamba non è furia cieca, ma razionale: pianifica le sue mosse fino allo scontro finale. Non è un caso che Kill Bill, al contrario di Dogville, sia un film che non intende sviluppare qualche discorso di tipo metafisico o filosofico. Questo film è puro godimento visivo: le atrocità si redimono nel piacere provato dallo spettatore. La protagonista redime il suo passato, ritrova addirittura la sua figlioletta e compie la strage alla quale ha ambito per molto tempo. La vendetta diventa mezzo di redenzione poiché la rabbia, passando attraverso la ragione, diventa pianificazione e perciò stesso godimento. Nella vendetta, Black Mamba trova il senso della vita. La vendetta redime nella spietatezza. Ma la vendetta di Grace, la vendetta con pietà, non redime un bel nulla. Isolata sulle montagne rocciose americane, in assenza di Dio e della legge, Dogville si è sempre retta con equilibri interni fragilissimi, legati tra loro per mezzo dell’egoismo spicciolo di ciascun singolo abitante. L’avvento di Grace spezza questi equilibri: Grace, come Cristo nel mondo, comunica e inaugura l’avvento di concetti sconosciuti a quelle persone come la carità, il perdono, la pietà, l’amore reciproco. Ma questi concetti riescono a trovare sostanza soltanto nel loro rapporto dialettico con la propria negazione. Cristo non ha portato solo amore, ma anche il peccato, una colpa nuova sconosciuta agli uomini fino a quel momento, ovvero la mancata adozione dei nuovi precetti. A Dogville si viveva, nessuno ha chiesto un cambiamento. Il cambiamento è avvenuto per caso, come un dono dal Cielo. Dogville comincia a migliorarsi, secondo le convinzioni di Tom ma, in poco tempo, Grace diventa fastidiosa:
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[…] cosa c’è di più fastidioso, per chi vive attaccato allo scoglio della propria purezza identitaria, di vedere l’“altro” che si fa uguale, che si sforza per essere assimilato? Più questo sforzo ha successo e più appare minaccioso; più l’“altro” si avvicina a noi e più questa somiglianza ci sembra indecente come un segreto inconfessabile. Che l’“altro” torni al suo degno ruolo: criminale, schiavo, vittima colpevole dei giusti3. Nell’ultima riunione, dove Grace tenta di spiegare le sue ragioni, la conclusione dei dogvillesi è che si è con loro o contro di loro, attaccando frontalmente Tom e costringendolo a prendere una posizione. Grace è così divenuta un nemico, perché rappresentante di una verità diversa dalla loro e perciò rischiosa, pericolosa. A ben vedere, i cittadini di Dogville non fanno che vendicarsi dato che Grace, secondo il loro perverso codice, è colpevole. Per questo, la legano a una catena quando il furto di dieci dollari dalle casse del padre di Tom viene attribuito senza remore a lei, incapace di difendersi e di fuggire. Il male è un concetto che fonda l’idea stessa di uomo perché qualsiasi uomo, in quanto sempre “con altri”, si affida a un codice e il codice, qualsiasi esso sia, si affida a un’idea precisa di bene e di male. Nel codice di Dogville, “bene” è il mantenimento dell’identità egoistica e il rifiuto dell’aiuto del prossimo; “male” sono i tentativi di trasmettere un’etica altruistica: Ogni individuo può commettere i più atroci abomini se essi sono compresi all’interno di una visione comune che li rende leciti4. 3 4
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 324. Ibidem, pag. 332.
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Il problema di Grace, che la costringe a soffrire per tutto il corso del film, è la sua convinzione che Dogville sia il bene e che la “grande città”, i gangster e il clan del padre siano il male. Non ammette, se non nel finale, che anche Dogville anzi, soprattutto Dogville, sia impregnata del male. Solo con l’illuminazione finale, Grace riuscirà a porre tutto nella giusta collocazione, valutando col giusto metro, libera dal suo pregiudizio cristico che le è costato una schiavitù forzata e un numero ripetuto di stupri. È inutile il discorso di Grace per cui, se anche lei fosse nata e cresciuta lì, si sarebbe comportata allo stesso modo. Come abbiamo detto più volte, il singolo individuo non è giustificabile esclusivamente in base alla sua provenienza, alla sua educazione, al suo retaggio culturale: questo provocherebbe l’estinzione di qualsiasi società civile. La stessa legge, che ha il dovere di valutare questi fattori, è comunque chiamata a giudicare sempre singole azioni di singole persone. Il singolo individuo, di fronte alla giustizia, è sempre responsabile delle sue azioni e non è ammessa l’ignoranza di tale codice nel decretarlo colpevole o innocente. Non si tratta di giudizi universali legati all’idea metafisica del bene e del male: il codice decide che cosa è bene e che cosa è male e il codice va rispettato. Il problema che sorge in molte parti del mondo, e in maniera dirompente a Dogville, sta nella mancata identificazione di “legge” e di “codice”: quando mancano le istituzioni, o addirittura una regolarizzazione civile, il codice - per quanto ingiusto e scorretto - non ha alcun freno e nessuna possibilità di mutamento. Grace viene accolta in una comunità, che in realtà non ha strumenti di coesione e di condivisione sociale seri. Grace riesce a rendere Dogville migliore, ma anche peggiore: Dogville
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cambia, ma resta in assenza di un regolamento legale a essa indispensabile. Di fronte all’assenza della giustizia, terrena o divina che sia, l’intervento è quello della mafia, ovvero della banda capeggiata dal padre di Grace. La mafia ha sempre fatto della vendetta un marchio di fabbrica, rifiutando e opponendosi fortemente all’ordinamento sociale e civile previsto dalla Costituzione e dalle istituzioni democratiche. A Dogville però non c’è sostituzione, dato che non c’è Stato, non c’è politica, non c’è legge. Il poliziotto che affigge la locandina di Grace resta una figura esterna, scompare immediatamente. Non c’è un sindaco né uno sceriffo o quanto meno un parroco o un prete. La giustizia si fonda sull’equipollenza tra reato e pena, non già per redimere il colpevole quanto piuttosto per riabilitarlo e per garantire la corretta e pacifica convivenza civile. La vendetta non appartiene affatto a questa logica. La vendetta non guarda al bene della collettività, ma segue il razionalismo bieco dell’“occhio per occhio”. La vendetta, così come abbiamo visto per l’ospitalità e il perdono, non può appartenere alla politica e alla diplomazia, in quanto viene vissuta come atto intrinsecamente soggettivo, legato all’orgoglio personale, alla rabbia per il torto subito, al riscatto personale.
4.3 La complicata vendetta di Grace
La vendetta di Grace è particolarmente problematica: è svolta in maniera fredda, cosciente, non come accesso d’ira funesta. Non agisce di propria mano, con l’eccezione dell’ucci-
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sione di Tom - “Ci sono cose che vanno fatte da soli” -. In questa pianificazione fredda, Grace è simile alla protagonista di Kill Bill. Si distingue da lei però proprio perché non prova godimento per ciò che ha deciso, anzi: soffre nel vedere le immagini della distruzione totale. Mentre in Kill Bill il godimento subentrava come redenzione degli eventi, in Dogville la vendetta non serve a redimere un bel nulla. La sofferenza provata da Grace, il suo viso voltato al momento dell’esecuzione di Tom, le sue lacrime dinanzi a Dogville in fiamme attestano la consapevolezza della mancanza di un’alternativa. Se l’evento della vendetta e della distruzione di Dogville viene vissuto con sofferenza, ciò significa che non ha alcun valore redentore. Grace si abbandona a sentimenti di pura rabbia personale quando, per esempio, comanda ai sicari di uccidere prima i figli di Vera, poi lei perché: “Questo glielo deve”. Questa frase pronunciata in questo contesto testimonia una costante dimensione umana, legata alla volontà di riscattare i torti subiti. Altrettanto umano è il senso del potere, il godimento nell’acquisizione delle capacità di mettere le cose a posto, di ripagare le offese delle quali si è stati vittima. Ma la mancata redenzione sta nel fatto di scoprire come l’unica soluzione possibile fosse quella della eliminazione totale, che non rappresenta affatto una rivalsa ma un evento vissuto con sofferenza. Risparmiare il cane significa risparmiare l’animale uccidendo invece l’uomo, l’unico responsabile del male. L’uomo, in ognuna delle sue manifestazioni: il cieco, la disabile, la serva, addirittura i bambini. Nessuno di loro può redimere le proprie colpe, declinando la responsabilità al proprio stato fisico, alla propria malattia o immaturità. In questo calvario, non viene risparmiato neanche il neonato: d’altronde, perché anch’esso uomo, fatto per far soffrire. Uccidere un
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neonato non significa punire una colpa, ma radicalizzare un atto di eliminazione totale fin dalle viscere, uccidendo quelli che sarebbero stati i futuri dogvillesi. L’eliminazione radicale è oltretutto l’espressione del fallimento di ogni tipo di politica. Tuttavia, sulla linea di Kill Bill qualche redenzione sarebbe potuta risultare: se Grace fosse partita col sorriso sulle labbra, avrebbe per lo meno trionfato. Ma Grace non vive un trionfo, bensì una sconfitta: ha sacrificato il perdono in nome dell’eliminazione radicale, unica soluzione corretta nei confronti di Dogville. Se seguiamo la lettura metafisica e vediamo negli abitanti di Dogville gli esseri umani sui generis - l’assassinio del neonato e la grazia concessa a Mosè -, allora non si dà redenzione in quanto l’uomo è tale e resterà tale fino alla notte dei tempi. Nessun Cristianesimo è riuscito realmente a migliorarlo, anzi: non ha fatto altro che generare il concetto di peccato per ciò che ci appartiene antropologicamente e nostro malgrado. Non può essere redento l’uomo attraverso l’eliminazione totale di ogni appartenente al genere: non c’è nessuno che merita il Paradiso Terrestre e la grazia. L’unica a rivelarsi realmente un essere umano fino in fondo è Grace, che finalmente si libera della sua maschera da Cristo per farsi uomo tra gli uomini. Ma Grace non si redime. Grace, chiusa in macchina, fa aprire le tendine per assistere alla distruzione. Il padre le chiede se sta veramente bene, se per caso non abbia freddo: no, Grace non ha freddo, ma rabbrividisce per quanto sta vedendo. Grace soffre per ciò che accade. Soffre perché sa che non c’è possibilità di alternativa e perciò di futuro. Uccidere i bambini non è risultante della rabbia, ma di una lucida presa di posizione: meglio che l’uomo scompaia totalmente dalla faccia
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della Terra. La strage di Dogville assomiglia al Diluvio Universale: non si fa distinzione, perché anche qui periscono tutti, perfino i bambini. Uccidere gli innocenti significa uccidere i futuri colpevoli. Annientare Dogville per il bene dell’essere umano - come viene detto dal narratore nel corso del finale del film - può avere anche questo significato: eliminare paradossalmente l’uomo per il bene dell’uomo stesso. L’equazione morbosa e terribile è una ulteriore attestazione della mancata redenzione. Se Grace avesse graziato i bambini, o almeno il neonato, si sarebbe potuto parlare di giudizio e di giustizia, perciò di Apocalisse, come sostiene Bellei: Quello del Giudizio Universale è un Cristo che scende dalla croce per chiedere conto agli uomini delle loro azioni, non c’è più spazio per il perdono in un simile scenario, non c’è più alcun margine per la comprensione della natura umana5. Ma qui Dio non c’entra: c’entra l’uomo. L’“uomo Yahvè”, direbbe Bloom. Chi ha avuto colpa è stato punito. Se è vero che gli innocenti non devono perire per le colpe dei genitori, è anche vero che qui non siamo sul fronte della giustizia, ma della vendetta: tutti devono scomparire, perché non c’è nessuna possibilità di miglioramento per l’uomo. Non è una punizione, perché anche la punizione rimanda alla legalità e al calcolo razionale dell’equipollenza: è la stessa Grace a contraddire il padre su questo punto. Mentre il padre le propone una punizione severa, la donna boccia subito questa possibilità, in quanto la punizione servirebbe solo a incattivire ulteriormente quella gente, a farla diventare ancora peggiore di quanto sia 5
Cfr. Bellei, “La comunità nuda” in op. cit., pag. 335.
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già. La vendetta, almeno quella di Grace, ha più a che fare con la mancanza di alternative. Se seguiamo la lettura socio-politica, vediamo che anche qui non c’è nessuna possibilità di redenzione: se i dogvillesi sono vittime di una mentalità e di un sistema perversi, il film non mostra nessuna possibilità di mutamento, bensì mostra il fallimento stesso di ogni possibile politica sociale. Il male sociale è talmente radicato in queste persone, che in tale contaminazione nessuno è riuscito a sottrarsi: nemmeno i bambini. L’unica soluzione, anche se a malincuore, è l’eliminazione di questa società con la speranza che le altre siano diverse. Il processo di rieducazione sarebbe una tortura, se non assolutamente inutile: Non basterebbe una punizione esemplare: la città non capirebbe e diventerebbe ancora più crudele, avrebbe ancora più paura. Dogville deve scomparire […] Quello che distrugge Dogville è il fuoco di una vendetta senza possibilità di replica […]6. La speranza aperta dalla possibilità che Dogville non sia tutto il mondo, ma una determinata società americanamente ipocrita, è rappresentata dalla possibilità di una società nuova la quale però, per essere fondata e per trovare luce, deve passare attraverso l’eliminazione di quella attuale. Sarebbe comunque una fondazione sull’ipocrisia e sulla violenza, dato che per questa nuova nascita si è dovuti passare necessariamente attraverso l’eliminazione totale, ovvero tramite il fallimento di qualsiasi politica e socializzazione.
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Ibidem, pag. 336.
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CONCLUSIONI
Ciò che Dogville mette in scena è una totale e mancata redenzione. La redenzione come risoluzione e acquisizione di senso non si riversa in nessuna dimensione riguardante l’opera. L’opera stessa, l’immagine artistica della quale si compone, al contrario di quanto accade nella poetica brechtiana non si redime in un messaggio univoco e nella fiducia nell’arte come strumento di miglioramento del mondo. Dogville resta come un pungolo nel cervello, continua a tormentarci; ha una struttura propria di un film a tesi, ma la sua natura astratta e stilizzata non ci permette di trarne delle risposte esaustive e univoche. È un film che non si redime formalmente e che dichiara di avere coscienza di ciò fin dal suo mostrarsi iniziale. L’immagine artistica non si esaurisce mai in interpretazioni altrettanto esaustive e univoche, anche quando si è convinti del contrario come in Brecht. Gli autori che credono però nella natura redentiva dell’immagine artistica, nella capacità di cambiare il mondo per mezzo dell’arte - e perciò di confondere arte e vita - realizzano delle immagini che non esplicano mai la loro sconfitta nei confronti del mondo. Brecht è convinto che stia facendo del bene al mondo. Von Trier, dal canto suo, mette solo in scena un apologo pessimista e nichilista sull’uomo in generale, che apre un baratro alla riflessione e, se vogliamo, alla prassi politica. Gli elementi formali che configurano il film non si esauriscono nella totalità del messaggio (o della morale conclusiva):
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tali elementi restano senza senso finché non siamo noi a darglielo, un senso, ogni volta nuovo e diverso. Ma non si tratta di redimere l’immagine, perché alla prossima visione o nel corso del film siamo da subito destabilizzati e costretti a rimettere in discussione tutto, noi stessi nonché ciò che stavamo pensando riguardo al film medesimo. Dogville rivendica la partecipazione attiva dello spettatore per acquisire un senso mai definitivo. Riflettere e non avere risposte: questa è un po’ la tragedia umana, almeno per coloro che non credono nella redenzione finale. Dinanzi a Dogville, noi siamo Grace o i cittadini assassinati nel finale? Abbiamo detto che simpatizziamo con Grace nel corso di tutto il film, che la sua natura la riconduce alla figura del Cristo e che, a prescindere dalla nostra volontà, siamo tutti (anche) cristiani. Ma simpatizziamo ancor di più con lei nel finale, quando si libera della maschera da buon Cristo e decide di vendicarsi per tutto quello che ha subito. Usciamo soddisfatti dal cinema, siamo felici di ciò che è accaduto. Ma se ciò accadesse anche nella nostra vita? Se venisse a mancare la legge e le nostre colpe venissero punite col sangue? Noi siamo Grace o siamo Dogville? L’apologo non ci dà risposta. Probabilmente, noi siamo un po’ dell’una e un po’ dell’altro: a volte siamo Grace, altre volte siamo Dogville. Ma c’è poi una tale differenza tra i due? La mancata redenzione del finale va a braccetto con la natura irrisolvibile dell’immagine che stiamo osservando. Grace ha “fatto bene”, senza dubbio, ma se tutti ci comportassimo come lei, che cosa accadrebbe al mondo intero? E non sarebbe ulteriormente nocivo e ingiusto perdonare gli altri e continuare a subire? Il messaggio di Von Trier è di un pessimismo e di un nichilismo assoluti: non c’è redenzione in quanto è mostrata una
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totale sfiducia nell’uomo sia nella chiave di lettura metafisica che in quella socio-politica. L’unico finale possibile per l’uomo è la sua eliminazione totale, la scomparsa anche dei più piccoli, a meno che non si decida di convivere col male che fa tutt’uno con esso. L’unico finale possibile per la nostra società è di nuovo la stessa eliminazione, in quanto non c’è Grace capace di strappare gli appartenenti a questa società dalla loro radicata concezione del mondo. A questa visione demoniaca e senza via di uscita, noi possiamo rispondere con alcune riflessioni, tutto ciò per il bene della sopravvivenza del genere umano o per il miglioramento delle nostre modalità di convivenza civile. Una corretta pedagogia e educazione dovrebbero essere rivolte alla fissazione di nuovi valori ai quali la società futura dovrà fare riferimento. Questo è un punto delicatissimo, in quanto si corre sempre il rischio di imporre esternamente un nuovo modello di vita. Ma se la situazione nella quale la società attuale imperversa oggi resterà la stessa in futuro, allora continueremo a farci guerra tra di noi, a morire tristi e soli, a restare ignoranti e senza storia. L’operazione di rieducazione va valutata sul lunghissimo raggio, ma d’altronde è pur vero che le proprie radici, legate a modalità di comportamento incorporate fin nel profondo, sono dure a morire, come sapeva Pol Pot mettendo i kalashnikov in mano ai bambini di otto anni, per puntarli contro i genitori in quanto i bambini erano gli unici ancora non totalmente contaminati dal sistema che si voleva annientare. Ma è sufficiente l’eliminazione del passato? Non è forse vero che, anche eliminando i vecchi valori, qualcosa resta nel sangue che scorre nelle vene dei nuovi figli? La Rivoluzione Comunista in Russia - col riassetto sociale che ha comportato attraverso il superamento delle vecchie credenze
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e classi aristocratiche - è riuscita nel suo intento? Non è forse vero che senza un retroterra religioso rappresentato dal credo ortodosso, per quanto si sia tentato di annientarlo riducendolo a mezzo di potere in mano ai padroni, la Rivoluzione Bolscevica non avrebbe potuto servirsi del culto della personalità e della comunità su cui il potere leninista e quello stalinista hanno costruito la loro storia? E allora? L’unica possibilità è radere al suolo tutto e ricominciare da capo? Quello che noi possiamo fare è evitare che “qualche Grace” abbia i mezzi per la sua vendetta perché noi, al contrario di Dogville, abbiamo delle leggi. Le leggi devono riuscire a non offrire a nessuno la possibilità di vendicarsi e, allo stesso tempo, devono riuscire a tutelare gli sfruttati. Devono perseguire i colpevoli con dignità, reintegrandoli nella società. I colpevoli non vanno lasciati in pasto agli uomini che, deboli come sono, non farebbero altro che sporcarsi le mani dello stesso sangue. La razionalità della legge, la sua freddezza, il suo essere lontana dagli eventi è la sua forza. D’altronde, in Dogville viene narrata l’assenza della legge: tale assenza si volge per tutto il film a favore dei cittadini dogvillesi, intenti a sfruttare Grace come se fosse una schiava, concentrati a fare ciascuno il proprio egoistico interesse fino a ridurre Grace a poco più di un animale da soma, con tanto di catene. Nel finale, è Grace a sfruttare l’assenza della legge: la donna attua la sua vendetta per merito di quella stessa assenza che l’ha vista vittima fino a poco prima. Ciò che si è verificato è uno spostamento del potere, indiscriminato, “anarchico”, cosciente che al di là dell’eliminazione non può darsi soluzione. Un potere sofferto, anche pentito, non conciliatorio né tanto meno redento. L’assenza di legge comporta l’eliminazione totale: con
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la legge - almeno si spera - questa viene almeno rinviata di qualche tempo.
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BIBLIOGRAFIA
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L'AUTORE
Alessandro Alfieri è nato a Roma nel 1982. Nel 2005 consegue la laurea triennale col massimo dei voti, con una tesi dal titolo Immagine ed estetica nell’epoca dell’arte elettronica presso la facoltà di Filosofia de “La Sapienza” di Roma, con relatore prof. Di Giacomo, titolare della cattedra di Estetica. Presso la stessa facoltà e cattedra, nel 2008 consegue la laurea Specialistica in “Studi teorico-critici”, ancora con votazione di 110 e lode su 110, con una tesi intitolata Vita dell’immagine. Adorno, Warburg e l’arte contemporanea. Nel 2008 frequenta il Master in “Critica giornalistica in teatro, cinema, musica e televisione” dell’Accademia d’arte drammatica “Silvio d’Amico”, con conseguimento della borsa di studio dell’Accademia ottenuta in base ad una graduatoria finale degli allievi. Collabora dal 2005 col mensile di spettacolo e cultura “ESTRA” come responsabile della rubrica cinema, realizzando recensioni ed anticipazioni. Collabora col sito web “www.recensito.net” come autore di recensioni di mostre d’arte, concerti e spettacoli teatrali; con “www.fucine.com” scrivendo saggi di approfondimento e relativi al mondo del cinema, ed è direttore responsabile del sito “www.ipercritica.com”, testata specializzata in saggi critici ipertestuali. Gestisce in proprio la “Guida di Filosofia” del celebre sito Guide.supereva.it, con contributi relativi alla storia della filosofia ed alla riflessione filosofica attuale. Stagista e assistente presso la “Lithos edi-
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Alessandro Alfieri
trice” di Roma, ha pubblicato saggi su riviste specializzate del settore cinematografico, tra cui Benjamin, Adorno e la contemporaneità (Cinecritica, settembre 2008, n.50/51) e Heidegger e il cinema. Percorsi possibili per un difficile confronto (di prossima pubblicazione). Attualmente si occupa di cinema contemporaneo, di estetica dell’audiovisivo e delle varie forme di linguaggio multimediale, tenendo, da Gennaio 2009, dei corsi di approfondimento presso l’associazione “Annarella” di Roma, all’interno del progetto “Formazione e Arte Roma11”.
Dogville. Della mancata redenzione.
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INDICE
Introduzione, pag.
CAPITOLO PRIMO Lo stile di Dogville e le problematiche estetiche, pag. 1.1 Il principio di choc: il cinema contro il cinema, pag. 1.2 La logica del togliere e l’oltrepassamento dei limiti del cinema, pag. 1.3 Lo straniamento in Dogville: vicinanza e differenza con Bertolt Brecht, pag. 1.4 Lo stratagemma dell’iper-visione, pag. 1.5 La natura di apologo di Dogville, pag. 1.6 Tra apologo esistenziale e accusa storico-sociale, pag.
CAPITOLO SECONDO Chiave di interpretazione politica, pag. 2.1 L’America sotto accusa, pag.
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2.2 Grace come straniero. La filosofia dell’ospitalità in Derrida, pag. 2.3 Ipocrisia e pregiudizio a Dogville, pag. 2.4 La responsabilità delle proprie azioni, pag. 2.5 Punizione e mancata redenzione della colpa, pag.
CAPITOLO TERZO Chiave di interpretazione metafisica, pag. 3.1 Sacrificio e redenzione cristiana, pag. 3.2 Le varie modalità di redenzione, pag. 3.3 Il problema dell’introduzione del codice, pag. 3.4 La disumanità del Cristo e l’umanità di Grace, pag. 3.5 Pietà, perdono e il male come loro condizione, pag.
CAPITOLO QUARTO Vendetta e mancata redenzione, pag. 4.1 Il mito delle Erinni: l’origine umana della vendetta, pag. 4.2 Le diverse figure della vendetta, pag. 4.3 La complicata vendetta di Grace, pag.
Dogville. Della mancata redenzione.
CONCLUSIONI, pag. BIBLIOGRAFIA, pag. FILMOGRAFIA, pag. L'AUTORE, pag. INDICE, pag.
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