Diari di un filosofo (1930-1934)


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Diari di un filosofo (1930-1934)

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INDICE

7 13

Prefazione di Marco Fortunato Nota del curatore DIARI DI UN FILOSOFO (1930- 1934)

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Scheggie Cicute Impronte Sguardi Scolii

PREFAZIONE

Questo volume propone, tutti (tranne Cicute) riediti per la prima volta dopo quasi novant'anni, cinque dei sei libri degli anni Trenta in cui Giuseppe Rensi realizzò il suo massimo distacco dalla forma-trattato e dalla forma-sistema adottando una scrittura >] e l'assorbimento in esso, perché il momento transeunte è nulla).

* * * Nelle persecuzioni che in ogni tempo sono state esercitate contro coloro che la pensano diversamente dalla maggioranza, si manifesta un pensiero ed uno scopo giusto: quello d'impedire lo spezzarsi dell'unità di coscienza, che consiste nell'accettazione irrazionale e cieca della tradizione, e che il lavorio della ragione, lasciato compiersi liberamente, ossia il «libero esame>>, infrange. Socrate, Gesù, poi i cristiani sotto l'Impero romano, poi gli eretici del medioevo, poi coloro che insorgevano contro le monarchie assolute, poi coloro che predicarono una forma di assetto sociale diversa da quello capitalistico esistente, sono stati tutti condannati e perseguitati giustamente come iniziatori delle «variazioni protestanti». Con tali persecuzioni e condanne, l'umanità non ha fatto altro che lo sforzo continuo per fermarsi, per riposare, per impedire un nuovo mutamento, per afferrare e tener ferma la stabilità, la permanenza, !'«Essere», quell'Essere di cui il Divenire è la negazione. Ma lo sforzo fu sempre vano. Persecuzioni e condanne non servirono a nulla. La > (Grote, Hist. of Greece, ed. Dent, IV, 290 [«un dono così inestimabile bastò da solo a imprimere negli spiriti della democrazia successiva

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CICUTE

la memoria di coloro che l'avevano acquisito al prezzo delle loro vite»]). Proposizione da cui si ricava appunto che se non vi fosse stata la «subsequent democracy» la quale ha spostato la visuale storica degli ateniesi e di tutti gli storici successivi, né i poeti d'allora avrebbero celebrato Armodio e Aristogitone, né questi sarebbero circonfusi tuttora d'un'aureola d'ammirazione e di gloria. La loro figura, la loro azione, sarebbero state una cosa diversa. Nulla meglio di queste ovvie constatazioni fa toccare con mano l'inevitabile . C ' è qualche cosa a cui si è corso dietro tutta la vita e che non è ancora raggiunto.

* * * Il giornale di questa mattina (o d'ogni mattina?). Un'automobile si è sfracellata contro un paracarro: un morto e due moribondi. Un'automobile ha schiacciato contro un muro una vecchia e una bambina. Un aviatore ha dovuto lanciarsi dall'apparecchio, il paracadute non si è aperto, l'uomo morì sul colpo. Tre operai sono rimasti sepolti a Nizza da una valanga di terra. Si è scatenato un nubifragio a Napoli: crollò un muro e le macerie uccisero quattro persone. Cadde un fulmine presso Berlino, tre ragazzi colpiti rimasero paralizzati. Quattro bambini trovarono una 161

CICUTE

spoletta che scoppiò loro in mano e li mutilò orrendamente. A Roma un fanciullo di quindici anni uccise con una fucilata una bambina di dieci, di cui era innamorato e che non gli corrispondeva. Una scossa di terremoto distrusse quasi interamente una città del Messico: i morti si contano a migliaia. Lotta religiosa in Palestina: gli arabi fecero irruzione contro «il muro del pianto» e massacrarono gli ebrei che pregavano. Gli indù e i mussulmani sono ancora venuti alle mani in India; si hanno a deplorare centinaia di morti e di feriti. La disoccupazione assume in tutto il mondo proporzioni allarmanti: tre milioni in Germania, e persino in America sei milioni. L'esercito comunista cinese ha occupato ancora una città sottoponendo gli abitanti a torture inaudite. In causa della terribile anarchia che sconvolge tutta la Cina, tremila cinesi sono periti nelle innondazioni. La Russia organizza comunisticamente la Cina, arruolando su larga scala i numerosissimi indigeni ridotti dalla disperazione al brigantaggio, per riversarla, nuova e terribile invasione barbarica, contro la civiltà occidentale ... Il giornale di stamane (o di ogni giorno?) è il microcosmo: lo specchio del mondo. Il mondo e la vita fanno terrore. Solo per un'incredibile superficialità e leggerezza si può vivere, pensando a lavorare o a divertirsi, a condurre avanti i propri affari o ad andare in campagna, a mangiare o a dormire, come se nulla fosse, come se disastri, rovina, morte non ci minacciassero, circondassero e incalzassero da tutti i lati, e senza tremar di continuo per la paura che il mondo e la vita devono incutere a chi li guarda con gli occhi attenti. Bisogna aver paura della vita esattamente nella stessa proporzione con cui si ha paura della morte.

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CICUTE

* * * Si passa attraverso la vita, come per un bosco infestato da assassini. Qui sta in agguato la «spagnuola», là un colpo d'aria e la polmonite, da questo lato l'automobile che ti travolge, più oltre la buccia di limone che ti aspetta per farti scivolare e rompere una gamba. «Mirer ad me aliquando pericula accessisse, quae circa me semper erraverint?>> (Seneca, De Tranq. Animi, XI, 7 [«Mi dovrei meravigliare che una buona volta mi abbiano raggiunto i pericoli che mi sono sempre girati attorno?>>]). Come, nelle grandi città, è diventato pericoloso traversar la strada e bisogna farlo con precauzione e attenzione, così nella vita si procede con paurosa cautela girando attorno di soppiatto ai punti pericolosi e cercando di sfuggire gli agguati. E vi si riesce per cinquanta, sessanta, ottant'anni; ma solo per cadere inesorabilmente nell'imboscata finale. La vita . Si evita il primo, il secondo, il terzo, ma solo per riserbarci inevitabile preda del quarto o del decimo.

* * * Per salvarsi non c'è che un mezzo: morire. Ad ogni momento si sente taluno, parlando di qualche grande catastrofe prevista pel futuro (guerra, epidemia, terremoto, o l'. Questa proposizione significa appunto il riconoscimento universale che l'unico mezzo per salvarsi è morire. Se pensi agli infiniti pericoli che insidiano l'uomo e al fatto che più si aumenta il tempo della vita più cresce la probabilità che nell'uno o nell'altro 163

CICUTE

si incappi, vedi che non è possibile salvarsi se non morendo. E la morte finisce per apparire proprio come lo scampo dalla miriade di disgrazie e di accidenti che d'ogni parte ci stanno attorno in agguato e nell'uno o nell'altro dei quali non possiamo evitar di cadere.

* * * Il più esatto concetto della felicità umana è sempre quello, in sostanza, che Solone espresse a Creso. Cioè in altre parole. Il massimo frutto che si può ricavare dall'esistenza è di giungere al porto del sepolcro essendo riusciti ad evitar di cadere, durante il corso della vita, in sofferenze troppo acute, in tormenti troppo dolorosi, in strazi morali troppo tragici, in traversie troppo gravi (essere preso e torturato, p.e. dai nemici in guerra o dagli insorti in guerra civile, o farti torturare dal chirurgo, doverti far da lui strappare un occhio o tagliare la lingua; veder i figli morti od uccisi o le figlie violate; rimanere assiderato sul ghiaccio dove di notte in una via deserta sei sdrucciolato svenendo, od essere bruciato vivo per una vampata di benzina inavvertitamente accostata al fuoco) . Né, fino a che non sei giunto in quel porto, puoi essere mai sicuro che non ti resti davvero da cadere nell'uno o nell'altro di questi orrori.

* * * Tirate tutte le somme, si scorge che la sola conclusiva buona sorte che possiamo aspettarci dalla vita è quella di morire tranquillamente e senza dolori nel proprio letto, anziché in altra guisa. Cioè: poiché la morte è l'avvenimento definitivamente disastroso 164

C!c:un;

che incombe ineliminabile sulla nostra vita, poiché questa per una via o per l'altra non può non dare come suo unico risultato la morte, così la buona sorte, soltanto nella quale le speranze della vita possono riassuntivamente e in ultima analisi appuntarsi, è quella di morire non d'una morte orribile (in un incendio, in un naufragio, in un terremoto, in uno scontro automobilistico, o simili), ma di morte «naturale».

* * * - Mi incontri in un momento disperato. Esco dal medico. Mi ha diagnosticato una malattia mortale. Un cancro all'intestino. Sono spacciato. Beato te che sei sano e puoi ancora considerare la vita con serenità! - Ma che differenza credi che ci sia tra te e me? Non ho una malattia mortale anch'io? Non morirò? Che vantaggio ho su di te? Cinque, dieci anni di vita di più? Pensa ai cinque o dieci anni della tua vita trascorsi da ultimo. Non ti sono passati letteralmente come un batter d'occhio? La differenza tra me e te è di questo batter d'occhio. È cosa importante? Rifletti profondamente sulla pregnante frase di Socrate nell' Apologia platonica: roç 6f:tv6v n oloµsvouç m:tcrf:cr8a.t, f:t d.,ro8a.voi3vta.t, dimrep d.ea.v&."t"rov ÈcroµÉvrov (35 A [«perché credono di subire qualcosa di tremendo se muoiono, quasi dovessero essere immortali»]). Come se fossero immortali! Come se perdessero, non un baleno, ma l'immortalità! Rifletti alle parole di Seneca: (Natur. Quaest., VI, XXXII, § 9-10 [)). Non si perde né la vita passata né la futura, ma solo il puntuale momento presente; e quindi sia breve sia lunga la vita, è la stessa cosa, perché morendo si perde sempre solo la stessa cosa: il momento presente. Kcù ò €>, nelle note non destinate alla pubblicità: quando è sola con sé - quando è sincera.

* * * Si sarebbe relativamente felici solo se si potesse passare attraverso tutta l'esistenza come passano i fanciulli attraverso la loro; cioè vivendo sempre soltanto nel momento presente senza preoccupazione d'un prima o d'un poi, e vedendosi sempre dinanzi a suo tempo, nemmeno sapendo come e da chi provengano, il cibo, le vesti, le case.

* * * La vita è aspirazione alla virtù quando si è nel vizio, e aspirazio-

ne (tentazione) al vizio quando si è nella virtù. Tentazione della virtù e tentazione del vizio; attrazione al diverso di quanto si fa, mai pace, posa definitiva, punto fermo. L'attrazione del diverso ci fa necessariamente scorgere attraverso un prisma di critica demolitrice quella qualsiasi condotta che attualmente si tiene, e della condotta che si tiene, qualunque sia, si è quindi necessariamente sempre scontenti.

* * * «Ninive sarà distrutta». Era probabilmente nella sua massima potenza, potenza paragonabile forse a quella odierna dell'Inghilterra o degli Stati Uniti. Eppure, attraverso e oltre questa prosperità e solidità il profeta ne ha saputo prevedere la caduta. Che profezia miracolosa! 176

IMPRONTE

Profezia facilissima, invece. Facilissima, perché tutto si distrugge. Tutto ciò che c'è di più grande, solido, sicuro, eterno, «aere perennius1> [«più duraturo del bronzo»], tutto si distrugge. Profetizzando la distruzione di qualunque cosa, per quanto formidabilmente robusta e potente, si è sicuri di cogliere sempre nel segno. La facilità, anzi la sicurezza, di tali profezie non vuol dir altro se non che tutto quello che noi uomini facciamo, anche le nostre costruzioni storiche più grandiose, «imperiture», sono pari alle casette di sabbia che plasma per giuoco un fanciullo, cenere e nulla, formazioni che, per uno sguardo che appena si allarghi alquanto, sono già svanite nel passato morto mentre ancora sono nel presente.

* * * Per tutta la vita ostinarsi irremovibilmente con sacrifici inauditi a cambiare la forma di governo ... del Portogallo, della Bulgaria, della Bolivia! E non poteva stare tranquillo? Che importanza hanno consimili cambiamenti? Così si scorge chiaramente, giudicando tali cambiamenti operantisi in quei paesi, e l'opera e i sacrifici ad essi dedicati, dalla sfera politica entro la quale noi ci moviamo. Ma tutto quello per cui noi stessi, nella nostra sfera politica, ci agitiamo e a cui dedichiamo sacrifici ugualmente ostinati, è, visto da una sfera politica più vasta, altrettanto privo di importanza. E c'è sempre una sfera vista dalla quale la nostra ha la stessa importanza di quel che ha, vista dalla nostra, la sfera politica del Portogallo, della Bulgaria, della Bolivia.

* * * 177

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Chi avesse detto ad un uomo politico di Atene, Sparta o Tebe: giova al tuo stesso paese che tu non ti opponga alla vittoria del tuo nemico, gli giova che tu lo lasci vincere, soggiogarti, dominarti, anzi che tu lo aiuti a ciò - avrebbe suscitato la più frenetica opposizione patriottica. Eppure, avrebbe avuto ragione.

* * * La sistemazione dello Stato di Atene o di Tebe, di Firenze o di

Venezia - e perché non anche quello dell'Italia unita? Cioè.Tanta fatica, tanto sangue, tanti nobili sacrifici per scavare e regolare piccole pozzette d'acqua e cementarne diligentemente e saldamente i margini, e poi viene immancabilmente il nuovo cavallone della storia umana che inonda, cambia, travolge, distrugge, spazza via tutto.

* * * Ho scritto altrove1 che «tempo perso» significa «tempo non impiegato secondo i propri gusti>>. Ma non basta. Va aggiunto che impiegare il tempo secondo i propri gusti, è impossibile, anche quando tutte le condizioni esteriori e materiali a ciò bastevoli, siano presenti. È impossibile psicologicamente. È impossibile per il funzionamento essenzialmente contraddittorio della nostra struttura psicologica. Tu accendi una sigaretta perché ti piace. Impieghi il tempo secondo i tuoi gusti. Ma no. Perché contemporaneamente ti spunta 1

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Scheggie, Biblioteca Editàce, Rieti, 1930, p. 66 (cfr. supra, pp. 77-78].

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il pensiero che è una sciocchezza, che ti fa male alla salute, che ti fa spendere danari, che dovresti smettere. E il tuo gusto non è più integralmente tuo gusto. È tempo impiegato contrariamente (perso) al tuo gusto di non sciupare quattrini o di non rovinarti lo stomaco. Tu scrivi e leggi perché ne hai la passione. Agisci secondo i tuoi gusti. Ma no. Perché tosto avverti che si tratta di un facchinaggio inutile e che è meglio andare a prendere il sole. E se vai a prendere il sole subito ti rimorde il pensiero che questo che ti pare ora il tuo gusto non lo è, ma è tempo perso al tuo gusto di scrivere o leggere. Non si può mai fare neppure il proprio piacere anche quando nulla di esteriore lo impedisca. Perché niente v'è che sia permanentemente, univocamente, senza antitesi, nostro piacere. Ciò che uccide e vanifica tutto, il mutamento, la contraddizione, la scissione di noi in noi stessi, per cui vogliamo e insieme non vogliamo, vanifica ed uccide anche il piacere. Mup(rov totou-crov tvavttroµa.-crov éiµa ytyvoµévrov,; 'lfUX~ yéµet ,;µ&v (Plat., Rep., 603 D [«La nostra anima è piena di innumerevoli contraddizioni di tal fatta, contemporaneamente presenti»]). «Tenuis enim mens est et mire mobilis ipsa» (Lucrezio, N, 750 [«Tenue infatti è la mente e mirabilmente mobile anch'essa»]).

* * * Le chiese: sfingetta, che vuoi? Che adombra l'irriguo barbaglio D ei lucestillanti occhi tuoi? Che fluttua nel tacito vaglio, Oscura Minerva, di questo Silenzio multiplice? E se

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Non cela un invito, perché Il tuo carezzevole gesto? Ma si risovvenne: ciò che Si voglia, sa alcuno dì noi? Fors'è quel che fai, quel che vuoi, Enigma, sfingetta, anche a te.

* * * Critica di Bergson, Le Roy, Mignone. L'universo è l'infinita forza eruttiva di creazioni infinitamente nuove, che infinitamente travalicano il breve compasso delle nostre concezioni filosofiche o scientifiche, nelle quali, foggiate, come invece sono, rispetto a un brevissimo tratto di tempo e di spazio, noi ci illudiamo di averlo racchiuso. La vita dell'umanità e quella stessa del nostro globo è durata sinora un minuto, e noi non possiamo nemmeno immaginare in quale prodotto miracolosamente nuovo domani sboccherà. L'Essere totale, o Vita, o Evoluzione creatrice (o Dio) va concepito così: cioè come sospinto dall'infinita forza eruttiva di creazione, in cui consiste, verso l'assolutamente nuovo, verso il «miracolo», che domani, inconcepibilmente, potrà aprirsi ai nostri occhi o realizzarsi in quella forma di Essere che ci sostituirà. Basti allargare ancor di più questa larga e bella concezione per vederne i lati manchevoli. Se l'universo è l'infinita forza eruttiva di creazioni infinitamente nuove, tutte queste creazioni, quali noi possiamo comunque pensare o immaginare o sognare, ci sono già state, non possono non esserci già state, in un punto o nell'altro del tempo o dello spazio infiniti. Nuove, se mai, esse non possono essere che per noi, per 180

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la limitatissima sfera che la nostra percezione o il nostro pensiero hanno avuto sin qui e per l'impercettibile punto del Tutto che è il nostro sistema solare. Non nuove per il Tutto, nel quale, se concepito come il vero Tutto del tempo e dello spazio, non può non esserci (stato) tutto.- Quel ; >; >]; ed. Kroner). Quei fatti sono per la storia piccoli fatti senza più colore specifico di male, in cui essa non vede più la sofferenza personale, che non hanno a che fare col divenire di quel tutto di cui essa parla e si occupa, col «processo» che essa traccia senza darsi pena di raccogliere i lamenti e penetrare e rivivere le angoscie dei singoli stritolati dalle ruote di quel >]). Hilty. - È inutile sperare in una propria forza per nascere ad una vita morale. Questa forza bisogna chiederla a Dio e attingerla da Lui.

* * * >.

* * * Sensazioni di prigionia. Un predecessore, Silvio Pellico, aveva questa esperienza: «Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda! Possibile! (dissi ricordandomi dove fossi) possibile! lo qui! E non era un sogno il mio?» (Le mie Prigioni, c. II). Ma in realtà l'esperienza esatta è la seguente. Il sogno è la cosa più dolorosa del carcere, perché esso riporta sempre alla consueta vita di libertà: si vive in esso nella propria casa, tra i membri della propria famiglia, tra le piante, nelle vie. Lo svegliarsi è straziante, perché dissipa come un fantasma questa che era pure la realtà di poco prima e ripiomba nella dura realtà attuale. Lo strazio dello svegliarsi non deriva dal fatto che sembri un sogno il carcere, ma dal fatto che risulta un sogno quella vita libera abituale a cui nel sogno si ritorna.

* * * Sensazioni di prigionia. Chi si trova improvvisamente caduto in qualche basso fondo dell'esistenza che gli era sino allora affatto sconosciuto - p. es. nella vita del carcere o in quella del sottosuolo poliziesco - resta come scisso in due uomini uno dei quali soffre la cosa, l'altro vi assiste. E quest'ultimo vi assiste e la osserva con interesse immenso come se leggesse un romanzo dalle tinte cupe. Calderon: LA vita è un sogno. 212

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Sigismondo può, indifferentemente, considerar come un sogno la torre e come realtà la reggia quando si trova nella torre, o come sogno la reggia e come realtà la torre quando si trova nella reggia, ovvero come realtà la torre e la reggia sogno quand'è nella torre, o come realtà la reggia e la torre sogno quand'è nella reggia. - Conclusione: torre o reggia, tutto è lo stesso. Si può a volontà raffigurarsi la reggia e la torre come un bello o brutto sogno, o la torre e la reggia come una brutta o bella realtà. Io, la mia reale persona, è chi soffre o chi assiste? Si può farla essere, a scelta, l'uno o l'altro.

* * * Si fa distinzione tra il male arrecato all'uomo dalla natura e il male arrecato all'uomo dall'uomo. Il primo (si dice) è operato da forze cieche contro cui è inutile protestare e indignarsi. Il secondo da agenti volontari. Esso viene ad esser aggiunto volontariamente a quello già grande arrecato dalla natura. Potrebbe non aver luogo, se gli uomini volessero. Contro di esso quindi la ragione di indignarsi c'è. Forse sarebbe più vero (e più atto a indurre serenità e rassegnazione) considerare entrambi i mali alla medesima stregua. Considerare cioè il male recato all'uomo dall'uomo come l'opera d'una forza naturale cieca, al pari di quello arrecatogli dalla natura. L'uomo che ti fa del male agisce mosso da impulsi o da ragioni, che, per il fatto di essere emersi nella sfera della coscienza ed apparire così moventi volontari, non sono, nel loro fondo sostanziale, forze naturali cieche meno del vento che strappa dal tetto la tegola che ti cade sul capo e ti uccide. L'uomo che ti fa del male, non ostante che te lo faccia per una sua decisione cosciente che egli 213

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stesso scambia per sua libera volontà, è nella sua realtà ultima una forza naturale cieca, come la tigre che pure ti fa del male e contro la quale ciò non ostante (tanto scorgi che è semplicemente forza naturale cieca) non senti indignazione morale. Fra il malvagio che ti ha aggredito, percosso, perseguitato, imprigionato, ucciso, e la tegola che ti è caduta sul capo o il cane che ti ha addentato, non c'è nessuna differenza, e devi considerare l'uno e l'altro caso al medesimo modo. Se l'uomo ti ha percosso, perseguitato, imprigionato, ucciso, ti ha colpito una disgrazia opera d'una forza naturale cieca, una disgrazia «naturale>>, come una caduta, un naufragio, uno scontro automobilistico, il morso d'un cane idrofobo. Ce ne persuadiamo meglio se consideriamo i potenti della terra e il male enorme che le loro gesta arrecano agli uomini. Un Napoleone, per esempio. Che costoro siano forze naturali cieche, come un bolide, un vulcano, un terremoto; che agiscano sotto l'impero di impulsi nella loro radice profonda ciechi, potenti onde di forze naturali; che siano una manifestazione, solo superficialmente venuta a galla nella sfera cosciente, del male naturale cieco - è un fatto da tutti facilmente riconoscibile e ammesso. Questo modo di considerare la cosa induce, abbiamo detto, serenità e rassegnazione. Induce a perdonare a chi ti ha fatto del male. E va sviscerato in tal guisa il senso del motivo per cui si deve perdonare a coloro che ci hanno fatto del male, addotto dal Vangelo: perché non sanno quel che si fanno.

* * * Sprofòndati con sostenuta e appassionata attenzione nello studio d'un grande sistema fùosofico, qualunque sia. Man mano che 214

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lo penetri, ti senti preso d'ammirazione e d'entusiasmo. Esso ti appaga pienamente, ti rapisce. La tua mente vi circola attorno e dentro con piena e crescente soddisfazione. D'un tratto, in uno di questi momenti in cui il tuo pensiero fa rivivere attivamente in sé il sistema ammirato ed amato, un lampo ti mostra improvvisamente una lacuna, una voragine. «Ma come va qui?» ti domandi. Dapprima, fai sforzi e ricorri ad espedienti concettuali per saldare la lacuna, colmare la voragine, persuaderti che non esiste. Poi, vuoi essere onesto davanti a te stesso, e riconosci che si tratta d'argomentazioni «volute>>, per amor del sistema, pel desiderio di salvarlo, ma che la voragine c'è. Appena fatto quest'atto di onestà, mille lampi ti illuminano altre mille voragini, e l'intera impalcatura del sistema precipita. Ed è così con tutti i sistemi. Tutti, come diceva Schopenhauer (W a.W u.V.,Vol. II, cap. 46) contengono un precipitato insolubile, o qualcosa d'analogo al «resto» che lascia il rapporto irrazionale tra due grandezze.

* * * La «certezza» mediante la «volontà». Se leggete un sistema di filosofia cattolica vi appare così bello, armonico, ben compaginato, che potete persuadervene, e, se ci mettete qualche fervore, ve ne persuadete. Potete essere cattolici, se volete. Così per ogni altro sistema. Lasciate entrare desiderosamente un sistema in voi, apritegli le porte, entusiasmatevene, inebbriatevene, ricevetelo con passione, fate sforzi per penetrarlo sino in fondo e farlo vostro e ne diventate convinti, qualunque esso sia. 215

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Questa, peraltro, è la confutazione di tutti i sistemi. Ognuno di essi è indifferentemente la verità se lo si fa diventar tale mediante un elemento non razionale del nostro spirito, la passione, la volontà; e qualunque di essi lo è solo per questa via.

* * * «Anche nell'esprimersi si deve evitare la bonaria chiarezza>>. >]).

* * * «Ringrazia Dio... ed ora tienti tranquillo». Ma non capisci che ringraziare Dio significa non stare tranquillo, e continuar invece ad agire sotto il Suo ordine e in Suo servizio contro il trionfo del Male? Se stessi tranquillo (cioè indifferente e inattivo di fronte al Male che trionfa) rinnegherei e abbandonerei quel Dio che tu mi comandi di ringraziare.

* * * ... Mi disse: «No; la mia fortuna non è consistita nella salvezza di cui parli; è consistita in un'altra. Ciò di cui posso veramente ringraziar Dio d'essermi salvato è un'altra cosa. E la mia vera fortuna, che mi ha procurato quest'altra, reale salvezza è stata quella di non aver avuto fortuna. La fragilità umana è immensa; immensa la facilità di deviazione in buona fede della coscienza umana. Se avessi avuto fortuna, se mi fossero piovuti sul capo onori e ricchezze, la mia visuale e il mio giudizio si sarebbero inconsapevolmente alterati, il male si sarebbe velato ai miei occhi, non l'avrei più conosciuto chiaramente e sicuramente come male, la «sofistica naturale», suscitata dalle fortune che avessi ricevute, mi avrebbe fatto trovare per esso (così accade, lo vedi bene, a x, y, z) attenuazioni e giu220

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stificazioni, sarei senza accorgermene e senza rendermene conto scivolato in mille transazioni morali, il vigile senso etico si sarebbe in me progressivamente falsificato, smussato, reso atono, avrei passo passo, mediante una successivamente crescente inavvertita automistificazione della coscienza, finito per rendermi solidale col male, sostenitore del male, pel quale sempre le scuse ci germinano numerose ed efficaci con perfetta sincerità nella mente quando nel subliminale il nostro interesse le genera. Ecco da che cosa, invece, mi sono salvato. Ecco quale fu la mia vera salvezza e come me la procurò la fortuna di non avere fortuna. Ti pare poco?».

* * * La differenza tra i furbi e gli ingenui. I furbi considerano spesso con commiserazione quelli che non lo sono, pensando che mancano dell'intelligenza sufficiente a capire le situazioni e a saper volgerle a proprio profitto. Ma è un errore. Per comprendere come stanno le cose e scorgere come si può fare per ricavarne vantaggio, non occorre una grande intelligenza. E l'intelligenza a ciò sufficiente la posseggono generalmente anche i non furbi. La differenza, invece, tra i furbi e quelli che non lo sono, è semplicemente la seguente. I secondi vedono benissimo, al pari dei primi, ciò che occorrerebbe fare per ricavare utilità dalle circostanze, quali si siano. Ma a differenza dei primi, per un'insormontabile ripugnanza morale, non possono farlo. È assai istruttiva a questo riguardo l'identificazione tra &tvot (furbi) e ci0tKOt (amorali) che fa Platone in Rep., 613 B e il contrapposto di oetvot a cro>. «Gli tornò a ridicolo un'adulazione la quale, vecchio com'era, non poteva dargli altro frutto che l'infamia>>. - Pazienza un vecchio! Non ha più un istante da perdere. Ma un giovane, al quale il tempo che ha dinanzi e i mutamenti che in esso si opereranno, permettono persino di sperare un premio per le sue manifestazioni di coraggio e di fermezza di carattere?

* * * -A che gli servirono tutte le sue bassezze, le sue servilità e adulazioni, l'avvilimento della sua coscienza, la menzogna alle proprie convinzioni? È morto. - A che gli giovò la sua rettitudine, la sua fermezza ed inflessibilità, il senso della sua dignità, il proposito osservato di non abbassarsi ai potenti? È morto.

* * * A parte. X (a parte). - È impossibile che faccia capire a Y quanto c'è di ignobilità e di bassezza nella sua crassa indifferenza per l'immoralità della cosa pubblica, nel suo supino adagiarsi in quel che c'è e approvare quel che c'è, nel suo essere tipicamente l'uomo guicciardinesco del Cinquecento che pensa solo al suo «particulare», nel non curarsi che dei suoi guadagni e dei suoi passatempi. Conosco la sua natura.

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Y (a parte). - È impossibile che faccia capire a X la sciocchezza incommensurabile che commette agitandosi e soffrendo per l'andamento iniquo e immorale della cosa pubblica, prendendosi tanto a cuore questa faccenda, trascurando così i suoi affari, i suoi interessi, i suoi successi, i suoi svaghi. A che gli serve? Chi gli è grato? Nessuno. Non capisce che anzi nessuno ama l'uomo di carattere, tutti lo vogliono via dagli occhi, perché la sua sola presenza costituisce un tacito rimprovero. E ciò per una vita che passa presto, che non lascia traccia, vivere la quale con senno pratico e epicureo è l'unica saggezza. È impossibile che glielo faccia capire. Conosco la sua natura.

* * * Affinché l'arte fiorisca occorre da un lato che tutte le fantasie che passano pel capo di qualsiasi uomo abbiano libertà di esprimersi, perché solo se tutte e di tutti lo possono, vengono anche alla luce quelle di colui che è veramente artista, mentre se questi sapesse di vivere in un'atmosfera in cui la libera espressione di alcune fantasie non sia tollerata, resterebbe paralizzato dall'incertezza e dal timore che le sue siano queste alcune. Occorre, dall'altro lato, che non vi sia pressione ufficiale la quale tenda a favorire manifestazioni di fantasia artistica d'un determinato significato religioso, politico, sociale, perché in questo caso si fomenta il deviamento o la soffocazione del movente estetico puro per opera di quello >.

* * * 241

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Tutta la storia è uno sforzo - e uno sforzo vano - per realizzare !'«utopia» dello Stato platonico: i saggi al governo, l'aristocrazia della classe superiore e dominante consistente nella virtù e nella povertà. Questa ]). A che scopo? - Quando a tre quarti d'una vita passata a coltivare i campi o a scrivere libri, a governare gli uomini o a radunare ricchezze, la visuale improvvisa e definitiva che tutto quello che hai fatto scompare come te in breve travolto senza lasciare traccia, ti affaccia in tutto il suo significato abissale quella domanda, il senso finale della vita ti si è conclusivamente dischiuso e la suprema sapienza umana è raggiunta.

* * * 243

IMPROtrrn

A che serve? A che scopo? Quando questa domanda ti si presenta alla fine di tutto ciò a cui hai dedicato successivamente la vita, non hai ancora raggiunta la suprema sapienza. Ma quando quella domanda ti si presenta anche dopo che hai rinunciato a tutto; quando anche di fronte alla rinuncia ti chiedi «a che serve?»; quando avverti che il tuo io, nel miglioramento e nella purificazione del quale tutta la tua vita è ora, soltanto, concentrata, dura un attimo, scompare tra breve, e la sola immortalità che si può aver il coraggio filosofico o scientifico di attribuirgli è quella del suo assorbimento nella totalità dello spirito o Dio; quando, perciò, ti spunta insopprimibile il pensiero: «che serve, dunque, quello che ho fatto di me? che ne importa a me, se io sono estinto? che ne viene a me? gli elementi cattivi del mio io saranno annientati, i buoni assorbiti in Dio; qualunque cosa io faccia, il risultato resta lo stesso» - quando sei giunto a questa fase di riflessione, allora sì hai raggiunto la suprema sapienza.

* * * Operare è inutile. Nulla di quello che tu fai lascerà traccia dopo il brevissimo spazio di cinquanta o cento anni. Non resta che godere del momento che passa. Ma è possibile, posto che si sa che passa, e che dopo un istante viene la morte? Come godere veramente (con senso di riposo e sicuro appagamento) d'un vagone ferroviario che sai devi lasciare tra mezz'ora? L'inutilità di operare e l'impossibilità e la vanità di godere sono così le due branche della tanaglia che stringono sino al soffocamento lo spirito umano.

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IMPRONTE

* *

*

... Rimane: il lasciare memoria di te. Era una cosa su cui gli antichi contavano.Vedi Sallustio. E potevano contarvi perché il loro mondo era unico e totalitario e pareva dover restare eternamente («aere perennius>>) così; perché, anche, relativamente pochi si consacravano nel!' ordine intellettuale alle occupazioni atte a procacciare la tO~l]tOUvt(l)v, 8eoù· ei s· 07111 èµoì cpaivetm Sei Akyew, ou6eìç cp8òvoç. (Plat., Leggi 641 D [«Sostenere fermamente, o straniero, che le cose stanno davvero così, quando molti sono in disaccordo, sarebbe proprio di un dio; ma se devo dire come la penso, non c'è alcun problema»)).

* * * Notrc vie est partie cn folic, partic en prudcncc: qui n'en cscrit que revercmment et rcgulicrement, il en laisse cn arrière plus dc la moitié. (Montaigne, III, 5 [«La nostra vita è parte nella follia, parte nella saggezza: chi ne scrive solo rispettosamente e rcgolatamente, ne lascia indietro più della metà•])

* * * Muse dc l'Amnésic, fais-mois tout oublicr, toute lcur philosophie, toute Jcur morale, toutc leur politiquc!

Muse dc l'lnconséqucncc, arrachc-moi à tout systèmc; poussc-moi à mc contrcdirc afin quc jc sois simplc et vrai! (H. B. Brcwstcr, L'Ame pai'enne [«Musa dell'Amnesia, fammi dimenticare tutto, tutta la loro filosofia, tutta la loro morale, tutta la loro politica! Musa dell'Incoerenza, distoglimi da ogni sistema; spingimi a contraddirmi affinché io sia semplice e vero!»]).

A Niccolò Cuneo

Più si acquista la consuetudine del pensiero filosofico, e più si tocca con mano che il filosofo è artista. Non già uno che sa, ma uno che guarda. Non uno che sa; che conosce tutte le soluzioni che si sono date ad un problema, che è al corrente della ]), la si crede, se ne è certi, e le religioni e le filosofie che la insegnano possono sempre sicuramente contare d'aver con sé la maggioranza.

* * * ... Multoque in rebus acerbis Acrius advertunt animos ad religionem (Lucr. III, 53 263

S>]), il Paganesimo aveva proclamato il «non fare agli altri...», che pur si continua a dire principio peculiarmente cristiano e dal Cristianesimo per la prima volta introdotto nel mondo. Già con Pittaco (Epitt., fr. 68, Stob.: yyvaSµT) nµropiai;cxµEtvrov [«il perdono è migliore della vendetta»]), e poi ampiamente con Platone (Critone, Gorgia) il Paganesimo prescriveva di non far male ai nemici. Con Marco Aurelio pervenne a prescrivere di amarli e beneficarli; né già col tono del Vangelo (Mat. V, 43, 44) cioè col tono di chi vuol significare: così fanno i più, irremissibilmente perversi, ma voi, scarsa cerchia di eletti e privilegiati, farete in quest'altra guisa; bensì per il riconoscimento che amare chi ha offeso dev'essere dote o condizione propria della natura umana in universale: tòtov av0pd>1tou (Comment in Epist. ad Galatas, III, 5, p. 486-7, Venezia 1769 [«Lo stridore dei testi ebraici ha insudiciato ogni eleganza di espressione e la bellezza della lingua latina. Uno su quanti oggi legge Aristotele? Quanti conoscono i libri o il nome di Platone? A malapena se ne occupano ancora in qualche cantuccio dei vecchi sfaccendati. Invece tutta la terra parla dei nostri contadini e pescatori, il mondo intero li celebra»]). Fu dunque una completa e annichilatrice vittoria sopra la civiltà greco-latina che quella pazzia raggiunse e che si vantava inizialmente d'aver raggiunto. Con quale effetto? Con quello di ricostruire poi lentamente e faticosamente tutto quanto aveva distrutto, Stato, istituzioni politiche e culturali, arte, vita di buon gusto, di raffinatezza, di lusso, persino le forme della religione pagana; con l'effetto di mettersi poi a ricuperare a stento i rottami e gli avanzi di quella civiltà, rottami a cui essa stessa l'aveva ridotta, di ricollocarli in onore, di venerarli, di entusiasmarsene, di imbeversene, di sforzarsi da quei rottami (libri parzialmente scampati dalla distruzione cri275

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stiana, opere d'arte infrante e sepolte, ma non interamente potute annientare) di far tornare alla luce, di ricostruire, di indovinare, di studiare e rifar propria quella civiltà che aveva spezzata e dispersa. Così tutte le pazzie. Così fu per quella della rivoluzione francese. Così sarà per quella comunista.

* * * Quando tutti saranno cocainizzati (come, del resto, oggi tre quarti degli uomini sono fanatizzati, esaltati, squilibrati, psicastenici) i pochi o l'unico che avranno ancora il cervello non guasto saranno considerati come pazzi dalla maggioranza che vorrà si ragioni e si agisca a modo suo e solo ciò che è a modo suo riputerà ragione (e quale altro criterio v'è mai per distinguere la «ragione>> dalla > e gente che dice ?

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ScUAJIDI

* * * «Sanctissima divitiarum maiestas» (Giov., I, 112 [«Più sacra di ogni cosa è la maestà del denaro»]). «Il danaro è l'unica cosa che importi. Esso dà la salute perché permette ogni agio e ogni cura, l'amore, l'alta cultura, l'autorità, la notorietà, l'ammirazione, le amicizie, la devozione, la tranquillità e la sicurezza e quindi la pace spirituale. lo l'ho ottenuto. Ciò è tutto. La questione della vita, di quest'unica vita, io l'ho così ottimamente risolta. - E tu credi di poter guardarmi con disprezzo dall'alto in basso, perché questo danaro l'ho ottenuto vendendo la mia coscienza? Poveruomo! Sei un miserabile straccione sull'ultimo gradino della scala e ti illudi di poter giudicare chi col danaro può dominare il mondo, chi mediante il danaro occupa la sfera elevata nel mondo! Da questa sfera elevata abbassando fuggevolmente lo sguardo su di te, son io che posso giudicarti. E ti giudico così: non mi desti nemmeno compassione, mi desti il riso: - il riso che merita la tua ciclopica imbecillità>>. Xp~µata, XP~µat'àv~p (Alceo, fr. 50, Bergk [«Il denaro è l'uomo»]).

* * * L'esperienza della vita porta a questa ineluttabile conclusione: che hanno ragione i birbanti e le cocottes e quanti più sono affini agli uni e alle altre. La realtà dà ad essi indiscutibilmente ragione, poiché sono essi che trionfano, poiché è stoltezza pensare ad un altro mondo in cui ciò sia riparato (ed essi, agendo così, mostrano con tutta evidenza di essere sicuri che è una stoltezza), poiché 287

nemmeno il cosiddetto giudizio della storia sopravviene a dar loro torto, celebrando al contrario la storia il birbante o il personaggio senza scrupoli che riuscì nella sua vita a conquistare il successo, il quale si riflette, abbacinandoli, nell'animo degli storici, quasi sempre incoscientemente adulatori; e rendendo invece vano in forza del suo stesso moto ogni sacrificio per fini impersonali (a che servirono i sacrifici per le «patrie>> Atene e Sparta,Venezia e Firenze, o per far trionfare in esse l' una o l'altra forma di governo, se queste > o >, non ci accorgiamo più che la parola è materialmente identica al primo «porti», che si tratta proprio dello stesso segno, dello stesso suono, della stessa parola, tanto il significato diverso, la «scelta» che noi facciamo d'un significato diverso, prevale sull'identità esteriore, materiale, fenomenica. Se si ascolta una partita a palla, dormicchiando o scrivendo, essa 295

ScUAROI

è soltanto i colpi sonori, le grida, il romore. Se la si guarda, tutto questo non si avverte più, sparisce, e la partita è i movimenti del giuocatore, la traiettoria delle palle, le vicissitudini del giuoco. Ascoltala mentre dormicchi o scrivi, e la tua sensazione è «che romore fanno!>>. Assistivi come spettatore interessato: se qualcuno ti domandasse poi: «hanno fatto romore?>>, la domanda ti parrebbe insensata; non è il romore ciò che tu hai avvertito. Odi un cane che abbaia mentre vuoi riposare. Il cane è tutto e soltanto le urla fastidiose che ti impediscono il riposo. Giuochi col tuo cane; il suo abbaiamento è lo stesso; ma tu non lo avverti quasi più; sono le movenze, gli slanci, le carezze, le manifestazioni di vivacità e d'attaccamento che ti dà il tuo cane, ciò che tu avverti. Che cosa fai? - La risposta può essere diversissima (ascolto, siedo, respiro, vivo, ecc.) e sempre conforme a verità. Il «che faccio» è un numero illimitato di cose che non si può mai esaurire nella risposta, e di cui l'una o l'altra ed è enunciata e corrisponde a verità secondo l'intenzione e il bisogno del discorso. Che hai fatto stamane? Ho scritto, ho pensato, sono stato seduto, sono stato in stanza. La medesima domanda ammette queste risposte, questi aspetti diversi del medesimo fatto, secondo che chi domanda è, per es., uno che si interessa della mia opera intellettuale, o il mio medico che vuol conoscere se ho fatto moto abbastanza, o un membro della mia famiglia che ha bisogno di sapere perché ci sono macchie nel vestito o dove c'è da riordinare. Il medesimo evento (che cosa si è fatto stamane) ammette diversissime risposte, tanto esso è inesauribile, e tutte vere. Il fatto puro, per sé è inesauribile. La determinazione proviene solo dall'intento che abbiamo enunciandolo. La proposizione esaurisce solo quella parte del fatto che è nell'intento, assunta arbitrariamente per tutto il fatto.

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ScUARDI

Così, in generale, l'oggetto. ~o, nella realtà obbiettiva, cioè indipendente dalla coscienza, è un numero illimitato di determinazioni, di cui alcune soltanto, scelte e sintetizzate secondo il bisogno, formano l'oggetto per noi. Ed esse vengono scelte e sintetizzate diversamente secondo la diversità del bisogno: secondo, ad es., che si voglia considerare l'oggetto per la vita pratica abituale, o dal punto di vista scientifico, e di una o d'un'altra scienza.

* * * Vuoi riuscire a produrre qualcosa al mondo? Concentra le tue forze. Dèdicati ad un solo oggetto, fa' un lavoro solo. Sì. Ma ciò ti toglie la possibilità d'ogni ampio sviluppo spirituale e ti preclude i diletti intellettuali che ogni altro uomo può godere. Il tuo proposito di produrre qualcosa di notevole e quindi di concentrarti, ti chiude in un carcere.Vuoi dare al mondo un'opera saliente di metafisica, di diritto, di matematica, di scienza naturale? Allora, non puoi abbandonarti alla delizia di lasciarti cullare dal verso di Virgilio o di Foscolo; non puoi gustare il delizioso tocco di A. France; non immergerti nelle grandi visioni umane d'un Leopardi, d'un Tolstoi, d'un Dostoiewski; non seguire il profondo e delicato movimento spirituale d'un Montaigne, d'un Arnie!, d'un Pascal; non leggere Shakespeare e Goethe; non informarti largamente della storia dell'umanità; non insomma seguire volta a volta le esigenze del tuo spirito, dovunque esse ti chiamino. Tu diventi un forzato dell'opera tua. A Gibbon, dopo aver finito la sua storia, pareva d'aver ricuperata la libertà. «I will not dissemble the first emotions ofjoy on the recovery of my freedom» [«Non nasconderò le prime sensazioni di gioia per la riconquista della mia libertà»].

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* * * Il ragazzo che giuoca considera il giuoco come una cosa seria e vi dedica una seria attività (tanto che se ne accalora e spesso litiga e scambia busse) sempre nell'istesso tempo avendo presente l'avvertimento che non si tratta d'una realtà sostanziale e che il mondo del giuoco non è il mondo della vita vera. Questa è la soluzione. Bisogna per tutta la vita aver qualcosa di analogo a quel che è giuoco per i ragazzi: qualcosa che ci interessi come una cosa seria a cui dedicare una seria attività, e che nell'istesso tempo ci lasci l'avvertimento che non è nulla di essenzialmente importante.

* * * Giovani e vecchi hanno un'intuizione opposta del mondo e della società. Per quelli c'è progresso, e la loro azione è efficacissima per intensificarlo, anzi per risolvere definitivamente, una buona volta, questa volta, i mali lasciati indietro dalle passate generazioni. Ai secondi appare che i mali continuano ad esservi e a persistere tali e quali, che è vano ogni sforzo per allontanarli, che il progresso è inesistente, che la storia è «aliter sed eadem». Chi ha ragione? La risposta è data dall'argomento con cui Galileo mostrava la superiorità del sistema copernicano sul tolemaico: che, cioè, tutti quelli che cominciano a pensare nel primo modo, finiscono, costrettivi dall'ammaestramento dell'esperienza, col pensare nel secondo; ma nessuno dal secondo torna al primo.

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* * * Avenarius: le > (Svet., Cal., § 30 [«oh se il popolo romano avesse un solo collo!>>]). Chi ha passione per i libri, ha cominciato col mettersene insieme ed ordinarne amorosamente una piccola scansia, poi una grande libreria, e finisce col sentire la necessità prepotente, irresistibile, e naturalmente sempre motivata, di avere nei suoi scaffali numerose edizioni delle stesse opere e sul suo tavolo ogni libro che per qualsiasi ragione gli muove una punta d'interesse o curiosità, quantunque non abbia nemmeno il tempo di tagliare interamente le carte a tutti. E rammenta dopo ciò quanto scrive il Gibbon dell'esaltazione e del fanatismo per la virtù e la purità nei primi cristiani: «The desire of perfection became the ruling passion of their soul; and it is well known that, while reason embraces a cold mediocrity, our passions hurry us, with rapid violence, over the space which lies between the most opposite extremes>> (Decline and Fall, C. XV [«La brama della perfezione diveniva la passione dominante del loro animo; ed è ben noto che, mentre la ragione adotta una fredda mediocrità, le nostre passioni ci spingono, con rapida violenza, oltre lo spazio che si stende fra gli estremi più opposti»]). La fuoruscita dai confini della ragionevolezza, cioè il pencolare 301

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verso la pazzia, sembra una proprietà essenzialmente costitutiva proprio dell'essere che possiede la ragione.

* * * Un desiderio continua ad essere incriticabile, ad apparire così essenziale e importante che senza il suo appagamento non si può vivere - finché non è soddisfatto. Quanto più dura la resistenza, e durasse anche anni, tanto più esso ci sfavilla dinanzi come affascinante, bello, degno, e tanto più continuano a sorgere in noi ragioni che dimostrano che è tale. Solo quando è soddisfatto, il suo oggetto risulta insignificante, privo d'importanza, punto necessario, e si scorge che si poteva benissimo farne a meno. Esempio tipico il desiderio d'un libro. Quante volte non ti è accaduto di sentire che se non hai quel libro ti manca un elemento capitale della tua cultura, di resistere a lungo alla tentazione di acquistarlo, ma invano, ché più resistevi più quel libro ti appariva indispensabile e vergognoso l'esserne privo; e, quando finalmente hai ceduto e lo hai acquistato, dopo un'occhiata all'indice e ad alcune pagine, vederti improvvisamente venir meno il bisogno di esso, cosicché non lo hai letto più per gran tempo seppure lo hai letto mai! Non accade diversamente circa il desiderio d'una donna.

* * * Di primo acchito, risulta che si posa sul terreno solido, fuori delle ubbie e delle montature, solo facendo criterio della nostra condotta il piacere.

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Ma: se è sfrenato brucia e divora, e nel divorare e bruciare tormenta; se è raffrenato, lo stesso raffrenarlo è cruccio e pena, e, pel senso che lascia che la contentezza completa non è raggiunta e il godimento è imperfetto, costituisce uno stillicidio continuo di inappagamento e infelicità. Osserva un tuo vizio qualsiasi. Se fumi, provi l'impressione di essere in condizione di inappagamento e di rinuncia, qualora tu ti debba limitare a un piccolo numero predeterminato di sigarette al giorno; e avverti che, per avere la sensazione dell'appagamento, bisognerebbe che (evitando insieme l'inconveniente opposto di sentirsi a poco a poco divorar sempre più le carni dal tuo stesso vizio) lasciassi del tutto senza confine il numero delle sigarette da fumare, e che assolutamente ogni volta che la rappresentazione «fumare una sigaretta» ti passa per la mente, tu potessi, senza pensarvi su, accenderne una. Ogni piacere è, alla medesima stregua nella direzione della temperanza e in quella della sfrenatezza, distruttore di sé stesso.

* * * Si diventa sempre più fastiditi delle proprie abitudini e della loro tirannica tenacia, e sempre più impotenti a liberarsene. Si finisce col praticare i singoli atti che un'abitudine impone (per es., quello di accendere la sigaretta dopo ogni pasto) non più col senso: «godiamo un piacere», ma col senso: «sbrighiamoci a pagare il solito tributo all'abito tiranno».

* * * 303

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In fondo allo spirito d'ogni più grande martire di qualsiasi più grande idea, v'è forse un elemento di meschinità. Per un mondo così piccino, effimero, stolto, inguaribile! Come ha avuto egli la mente così ristretta da non riuscir a vederne la trascurabilità? Come ha potuto prendere sul serio e sul tragico questa cosa da nulla? Come mai fu così attaccato alle vicende infime di questo mondo, così pieno di esse, così scosso e agitato da esse, da darvi l'importanza estremamente esagerata che vi ha dato? Fino a morirne!

* * * Come, più l'umanità procede, più si spezzi in tanti circuiti di coscienza assolutamente separati, eterogenei, incomunicanti, lo si vede dalla diversa valutazione dello sport nello sviluppo che esso ha attualmente preso. Per coloro che se ne interessano e se ne appassionano, lo sport è l'elemento della vita sociale di gran lunga più importante d'ogni altro, la più vibrante attrattiva dell'esistenza, veramente un mondo che del tutto li assorbe e nel quale soltanto vivono: l'intero mondo. E questo mondo, questo «tutto il mondo», per le sfere degli uomini di pensiero, di studio, di affari, è ignoto, vano, inesistente, o appena sogguardato distrattamente con una venatura di disprezzo.

* * * Le sfere della fama. Un matematico, un fisico, di celebrità mondiale è ignoto al suo connazionale poeta o romanziere. Il nome del poeta o romanziere,

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che ha sì grande eco negli ambienti «colti», suona nuovo, non dice nulla al contadino, al commerciante e spesso anche all'impiegato postale a cui egli porge una sua raccomandata. Possiamo essere nel medesimo tempo celebri e ignorati; e sentirci l'uno e l'altro, a seconda degli ambienti, dei . Dunque tu dovresti fare sempre il contrario del come giudica la tua mentalità, 310

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del come ti consiglia la tua «ragione», del come ti comanda la tua . Dovresti affidarti ad un altro, abbandonarti totalmente a lui e ai suoi consigli, e seguirli ciecamente, qualunque cosa in contrario paia a te.

* * * Gli errori che commette la coscienza - e che si esperimentano non solo nei conflitti di senso morale tra uomo e uomo, ma nei contrasti che avvengono in uno stesso uomo, il quale ad epoche diverse condanna sé stesso - sembrerebbero richiedere il rifiuto assoluto di accettare la coscienza per direttiva e l'affidamento di tutta la nostra condotta ad un'autorità: i «direttori di coscienza>> del cattolicesimo. Ma, a parte che è da ultimo in realtà impossibile aderire spiritualmente (non soltanto subirla automaticamente) ad una direttiva altrui, contro la mia cosdenza, se questa disapprova, anche i «direttori di coscienza» sono coscienze, e quindi fallibili come tutte le altre, «coscienze erronee» come ogni altra coscienza.

* * * O la coscienza: e questo è «costruire il mondo con l'animo» (Gabelli) e lasciare la porta dell'aberrazione individuale sempre aperta (dr. il cannibalismo approvato dagli Stoici). O l'autorità del fatto esterno: e questa è la stasi e il dominio permanente dell'immoralità che esiste, pel solo fatto che esiste. Non si può credere alla coscienza (Gabelli).Vero. Ma nemmeno al fatto esterno. Non si può prendere come fondamento la coscienza, che è 311

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spesso, o può essere, allucinazione cervellotica. Ma nemmeno il fatto esterno che non offre alcun criterio di valore.

* * * La coscienza è sempre erronea. Fallacia delle certezze della

nostra coscienza circa le questioni morali ed estetiche, misurata dalla fallacia delle nostre credenze circa il futuro, dove la vivacità e l'ardore del desiderio fa l'effetto e produce il senso della certezza. Sicurezze religiose; queste dimostrano, appunto perché sono sicurezze, l'incertezza d'ogni altra nostra sicurezza.

* * * Nel perpetuo conflitto tra le varie coscienze umane, occorrerebbe un'autorità che stabilisse quale di esse è secondo ragione, ossia quale pronunciato della «ragione>> è veramente tale. Ma si tratta d'un'idea inattuabile. Prima di tutto l'autorità è una coscienza umana, erronea al pari di tutte le altre, anzi, come l'esperienza attesta, per solito più erronea delle altre, la prima che sbaglia, quella che commette gli errori più gravi: per ciò avviene che mai la storia ci presenti il caso d'un'autorità che duri e che sempre ci mostri la autorità di continuo rovesciata. Inoltre, l'autorità impiega e deve impiegare la forza: a ciò le coscienze interiormente non s'arrendono, e tanto meno quanto più sono nobili; non si produce dunque che un meccanismo d'unità meramente esteriore. Bisognerebbe che l'autorità fosse, con sincerità ed adesione spontanea, non con semplice rassegnazione, intimamente consentita. Ma se ciò fosse sinceramente possibile, se ciò avvenisse, non ci sarebbe più biso312

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gno d'autorità, perché ci sarebbe già l'accordo. Il fine dell'autorità esclude il bisogno dell'autorità.

* * * O la coscienza - e il capriccio, le idiosincrasie, le vedute individuali, singolari, eccentriche, i quacqueri e i «Natunnenschen», l'antipatriottismo, i disertori, la distruzione di tutto ciò che fu socialmente fatto, la «razionalizzazione>> pazzesca, il giacobinismo, il bolscevismo; in arte, il mio gusto personale, strano, aberrante, selvaggio; la vita dell'umanità che comincia da me, io che sono giudice sovrano e rigetto tutto, tradizioni, costume, fede, morale. L'Unico stimeriano. lo, effimero, che critico e correggo l'umanità come il compito d'uno scolaro di ginnasio. O l'autorità (del potere, del costume, dello spirito del tempo, del popolo, della «massa», della «nazione>>) - e la mia coscienza è soppressa, benché sia dovere che essa parli e io non possa far capo che ad essa. La necessità che io rinunci al mio pensiero, a me. Il ritorno al più fosco assolutismo.

*

* *

O coscienza, giudice supremo del bene e del male - e individualismo, critica, demolizione, , le parole «leggi supreme dell'universo». Bisogna esporre non solo traducendo le parole dalla lingua antica nella lingua moderna, ma altresì traducendo i concetti dall'atmosfera mentale antica in quella moderna; traducendo non solo la lingua ma la concettualità antica nella nostra. Lo stesso si dica delle traduzioni vere e proprie. Ecco un esempio:

* * * Traduzioni imperfette. «At Romae ruere in servitium consules, patres, eques» (Tac. Ann., I, 7).Tutti i volgarizzatori, italiani, francesi, tedeschi, antichi e moderni (Davanzati, Petrucci,Valeriani, Botta, Giani, Panckoucke, Goelzer, Manner) traducono noi immettiamo un contenuto del tutto diverso da quello che vi immetteva un romano. Il contenuto che vi 318

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immettiamo noi è «persona che rappresenta gli interessi del paese all'estero». Il contenuto che vi immettevano i romani corrisponde a quello che per noi hanno le parole «re e ministri». Peggio ancora con «cavalieri>>. Udendo questa parola, un lettore moderno pensa ineluttabilmente a persone insignite d'un'onorificenza, o, tutt'al più, ad uomini che, un tempo, dopo un solenne cerimoniale, potevano andar armati in certa guisa a combattere sotto vincoli d'onore e di fede. Udendo la parola «eques» (a prescindere qui dall'origine storica di essa) un romano, e specialmente del tempo di Tacito, pensava a quello a cui noi pensiamo udendo le parole trov trov 1tollrov ( Crit., 48 c. [«Considerazioni di quelli che con facilità mandano a morte e poi richiamerebbero in vita, se ne fossero capaci, senza alcun senno, cioè considerazioni di questi che sono il volgo»]). E il popolo che ora celebra l'uomo ieri perseguitato, tratta in-

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tanto al medesimo modo altri suoi membri, che saranno celebrati dalle generazioni successive. Né della contraddizione alcuno si accorge. La generazione che celebra il perseguitato o discacciato d'un tempo, dice di coloro che essa discaccia e perseguita: «abbiamo ragione di agire così, è la volontà generale che lo esige, sono in odio a tutti, sono individui deleteri»; e del perseguitato d'un tempo oggi celebrato, non dice: «la nazione lo ha perseguitato», ma: >]. - Il vestito che guarisce. Se è vera (e vi è certo molto del vero) la teoria di Lange-James sulle emozioni, secondo la quale l'atteggiamento esteriore si ripercote e si traduce in un modo di essere psichico e in fine in uno stato organico totale, si deve concludere che il vestito possiede in alto grado la virtù di guarire ed imbellire.

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ScUAROI

Se metti un vestito elegante, e più particolarmente un vestito proprio d'un corpo robusto, per es., un vestito sportivo, non è possibile, entro quei panni, trascinare un'attitudine cascante, di debolezza fisica, di decadimento, di deperimento, di malattia. Esso serve assai di più che l'affermazione «sono sano, sono forte», i cui effetti reali di sanità e forza il James illustra in Esperienza religiosa. È la proclamazione in faccia al pubblico che sei sano e forte. Devi prendere un atteggiamento conforme, e tale atteggiamento, e la coscienza che hai di dire col tuo vestito a tutti d'essere sano e forte, fa fluire nel tuo corpo un'onda di forza e sanità. Non c'è né doccia né corrente elettrica che tempri e riscuota come un vestito di quel tipo. Così pure se indossi un vestito elegante, se sai che è bello, non puoi portarlo male, e involontariamente l'attitudine del tuo corpo e del tuo viso, il modo di camminare e di sedere, si stilizzano in conformità all'eleganza del vestito, e i tuoi stessi lineamenti percorsi dal senso della bellezza che hai su di te, che porti con te, prendono un'espressione conforme di eleganza, compostezza, bellezza. È analogo il fatto che molte volte la malattia altrui serve a guarirci. Se soffri di qualche malessere o abbattimento fisico, e un'altra persona della tua famiglia cade indisposta, tu guarisci immediatamente. Non solo perché le cure che essa richiede ti fanno dimenticare e sorpassare i tuoi malanni; ma proprio per un senso di contrasto, per un paragone che inconsciamente tu vuoi istituire vantaggioso a te. > (De Im. Christi, l,VIII, 2 [> (Sylvestre Bonnard [, «L'evangile de K.risnamurti», «Le message du Buddha», «Le chemin de la croix>>, «La vie d'Ivan le terrible», «Nabuchodonosor et le triomphe de Babylone>>, «Les Problèmes de la vie mystique», «Essais de psychologie matérialiste», «La crise mondiale», «La crise britannique>>, >? E come acquistare il senso che è inammissibile dire, ciò che invece sembrerebbe correttissimo, «l'amico, il treno, l'automobile venturo?>>. Osservazioni che dimostrano come le lingue, al pari di ogni altra cosa, siano formazioni del capriccio e dell'assurdo.

* * * «Comment ne pas se rendre à l'hypothèse qui fait sortir le monde vivant d'une série de hasards lourdement censurés par la 389

SCOLI!

mort? Hasard et mort grands artisans du monde vivant: voilà où nous mène le mutationnisme moderne. C'est la théorie meme des atomistes grecs... Aucun dessin, aucun but, aucune préméditation. Rien n'est voulu, calculé, concerté en vue de quoi que ce soit. Les etres varient désordonnément au gré de leurs variations chromosomiques, ils s'arrangent tant bien que mal des structures dont les a dotés le hasarcb> O- Rostand, L'Evolution est-elle révolue? in «Nouv. Revue Franç.>> 1 II '32 [«Come non arrendersi all'ipotesi che fa derivare il mondo della vita da una serie di casi pesantemente censurati dalla morte? Caso e morte grandi artefici del mondo della vita: ecco dove ci conduce il mutazionismo moderno. È la stessa teoria degli atomisti greci ... Nessun disegno, nessun fine, nessuna premeditazione. Niente è voluto, calcolato, combinato in vista di un fine purchessia. Gli esseri variano disordinatamente secondo le loro variazioni cromosomiche, si adattano bene o male alle strutture di cui li ha dotati il caso»]). Per me non v'è, infatti, dubbio che l'uomo è nato da un caso, e precisamente da un caso (un colpo, una percossa, una malattia) che produsse una dislocazione nei gangli cerebrali d'una scimmia antropomorfa. In una parola, per me, la razza umana è sorta da una scimmia impazzita. Me lo conferma il fatto evidente che l'istinto profondo e costante dell'uomo è essenzialmente pazzesco. La pazzia sta sostanzialmente nel crearsi un mondo di sogno e nel prendere tale mondo per realtà, in luogo della realtà visibile e tangibile (l'uomo che si crede imperatore, o dio sole, o fatto di vetro ecc.). Ora da quando ci sono ricordi di storia umana noi vediamo sempre dominare collettivamente appunto questo fenomeno: la creazione d'un mondo di sogno e la credenza che esso sia una realtà più reale 390

di quella che ci sta dinanzi agli occhi. Dal feticismo o animismo primitivo, agli dèi olimpici, al cattolicesimo dei nostri giorni, quel fenomeno, il fenomeno tipico della pazzia, continua a ripetersi e a perdurare ineliminabile. Non si può spiegare se non con l'ipotesi, che la pazzia sia radicata per la stessa origine dell'umanità nel suo istinto più profondo.

* * * Quando si vuole annunciare ad altri la morte di taluno non bisogna mai dire «è morto il tale», bensì «il tale è morto». Nell'attimo che intercorre tra le parole «è morto» e l'enunciazione del nome, nel cervello umano, nel cervello dell'ascoltatore, fa a tempo a vibrare fulminea una costellazione di trepidanze. Fulminea: «chi? mio figlio? mio padre? quale dei miei amici?». In quell'attimo tutta questa raggiera di timori fa a tempo a balenare. Lo constatiamo chiaramente quando è a noi che l'annuncio d'una morte vien dato e vien dato in quella prima forma. Se si vuol evitare all'interlocutore questa brevissima sì ma ansiosa e penosa vibrazione di tremori bisogna usare nell'annuncio la seconda forma, e cominciare col nome di colui che è morto.

* * * Tutta la natura è un impulso di acquisizione e invasione violenta e prepotente. Perché un grano di fromento non si contenta di procrearne due o tre, ma ne procrea cento o mille? Che cosa significa ciò se non sete, cupidigia, sforzo (sforzo che lasciato a sé vediamo di generazione in generazione allargarsi con progressione 391

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fantastica) per impadronirsi della massima possibile estensione di suolo? Così la gramigna ricopre, invade, conquista, con velocità che dimostra la potenza di siffatto impulso, un terreno vastissimo. Ma del pari il sempre più fitto pullulare di uomini, il gorgogliare sempre più numeroso d'una o d'altra stirpe, d'uno o d'altro popolo, non è che estrinsecazione di questo stesso sforzo, presente in ogni stadio della natura, per estendersi quanto più si può sulla terra, per assoggettare a sé terra: e la guerra (che nel regno vegetale si manifesta con l'avvizzimento che una pianta o una specie fa incombere, soffocandole, su altre) non è che un mezzo per l'attuazione di tale sforzo. Dai più umili fili d'erba alle più gloriose razze umane, il fenomeno e il motore degli eventi è sempre il medesimo: la brama prepotente con cui l'essere vivente vuol estendere esclusivamente sé stesso, accaparrare spazio e suolo esclusivamente per sé. Tale prepotenza esclusivamente accaparratrice è l'essenza dell'Essere. Bisogna che l'Essere sia annientato e sparisca, affinché essa, iniquità capitale e fonte d'ogni altra iniquità, sia eliminata dall'universo.

* * * Udii un argentino dire: il bisogno più urgente del mio paese è quello di aumentare la sua popolazione d'alcuni milioni di uomini, affinché tutto il suolo che esso contiene venga occupato. Perché? Dov'è il fondamento razionale di questo desiderio? Che, quando gli uomini ci sono, si desideri la terra occorrente a nutrirli, si capisce. Ma a che scopo desiderar uomini perché c'è la terra? Perché c'è acqua desiderar gente che la beva, perché c'è aria gente che la respiri? Che beneficio arreca ciò a quelli che ci sono? Poiché un beneficio non può essere arrecato che a quelli che ci sono,

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ed è, ancora, un assurdo, volere, non già che quelli che ci sono abbiano benefici, ma che ci sia gente, che ora non c'è, per averne. Non si tratta che della manifestazione incosciente d'un impulso assolutamente cieco: quello per cui si diffonde per tutta la superficie libera d'un campo, con violenta rapidità, la gramigna.

* * * Quando si considera la vita d'un grande pensatore del passato, ciò che solo ha importanza di lui è appunto la sua figura di pensatore, la sua opera di pensiero. Nessuna importanza sembrano invece, a' nostri occhi, aver nella vita di lui i suoi incidenti economici, finanziari, i modi, la facilità o la difficoltà di guadagnarsi la vita, la possibilità di guadagnarsela più o meno largamente, di alloggiare o vestire più o meno bene, di viaggiare, di villeggiare, di andare a teatro o simili. Queste sono linee secondarissime nel quadro, il cui profilo centrale ed essenziale è lo sviluppo che colui ha dato alla sua opera di pensiero. E tale prospettiva sotto cui noi scorgiamo la cosa, ci sembra stia anche per lui, che anche per lui i fatti ora accennati siano linee secondarissime nel quadro della sua vita, e l'opera di pensiero la linea saliente e centrale. Invece nella vita vera e vissuta del pensatore (e basta, in generale, per constatarlo, leggere gli «epistolari», p. es. quello del Leopardi) sono quegli incidenti e quei fatti, la necessità del vitto quotidiano, dell'alloggio, del mantenimento della famiglia, il lavorio per raggiungere una qualche agiatezza, che hanno una importanza predominante e costituiscono la sua preoccupazione costante e la sua fatica; mentre lo sviluppo della sua vita di pensiero resta fuori della sua attenzione principale e diuturna, e non diventa prominente se non in rari pe393

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riodi, quando, quei bisogni parendo pel momento soddisfatti, esso emerge in prima linea come la preoccupazione di lusso. Tunc aliis oppressa malis in pectora cura Illa quoque expergefactum caput erigere infit. Lucr.,V, 1207 [«Allora anche quel pensiero penoso si sveglia e comincia a sollevare la testa contro l'animo già afflitto da altri mali»)

Come momento di assoluta ed esclusiva importanza nella vita del pensatore, esso è costrutto soltanto dai suoi storici.

* * * «Ihr klagt iiber die Flucht der Zeit: sie wiirde nicht so unaufhaltsam fliehen, wenn irgend etwas, das in ihr ist, des Verweilens werth ware>> (Schopenhauer, Neue Paralipomena, § 305 [«Vi lagnate della fuga del tempo: non fuggirebbe così inarrestabile se qualcosa in esso fosse degno di trattenersi»]). Giustissimo. E non si potrebbe esprimere la cosa in modo più scultorio. - Ma come mai allora avviene che quanto più siamo occupati, e specialmente in cose di maggior valore, tanto più il tempo fugge veloce, e invece procede più lento quando non facciamo nulla, cioè quando in esso, non solo di cose che meritino di permanere, ma nemmeno di cose quali si siano, non c'è assolutamente nulla?

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Un giorno in cui non avvenga in te nessun cangiamento fisiologico, né alcun cangiamento esterno. Una notte di sonno profondo dopo la quale la tua coscienza sveglia, saltando via, per così dire, la notte, si ricongiunge con sé stessa qual era all'atto dell'addormentarsi. In questi casi non c'è più tempo. Che cos'è dunque il tempo? Il cangiamento; ciò che distrugge.

* * * Si dice ora che sia stato scoperto un fungo, il quale, mangiato, dà un senso di euforia e di benessere e agisce potentemente sul cervello inducendo nell'individuo uno stato di beatitudine che gli fa vedere le cose e le vicende del mondo sotto un aspetto roseo e ottimistico. È, del resto, lo stesso effetto che si poteva già ottenere con la morfina. Illazione. Per vedere le cose ottimisticamente bisogna alterarsi il cervello: essere pazzi. Risposta. - Colui che mangia quel fungo o si fa iniezioni di morfina, e in seguito a ciò vede tutto l'universo sotto un aspetto roseo, può dire: l'effetto di questo elemento nel mio organismo è stato di infrangere le barriere in cui era chiuso il mio cervello, di liberarlo dalle sue limitazioni, dalle sue oscurità, dalla sua pesantezza terrena, di ampliare la sfera della sua visione, di dargli l'ala, di farlo veramente vedere oltre la portata comune umana; come nei momenti di esaltazione puramente spirituale (p. e. artistica) noi sentiamo di arrivare ad una visione più alta di quella a cui giungiamo normalmente, e che riconosciamo superiore e vera sebbene tosto ricadiamo da essa nel modo abituale di scorgere le cose, così 395

la visuale vera è quella che si ha sotto l'azione del fungo o della morfina. E, in realtà, ci si pensi un momento: chi può dire se la verità sia quella che apparisce al cervello che è sotto tale azione o al cervello che è in istato di sobrietà?

* * * Si crede di poter fondare, estendere o assicurare la fama d'un uomo dedicando al suo nome una strada o una piazza. Invece, dopo qualche tempo il nome è conosciuto e resta nel pubblico come il nome della strada e della piazza e non più come il nome dell'uomo. Questo, nessuno sa più chi sia; perché la piazza o la strada abbia quel nome nessuno più lo sa. Il nome dell'uomo, che doveva in tal guisa restar celebre, non è conosciuto e ripetuto che come denominazione d'un luogo. È il luogo, a cui (perché mai?) si è dato quel nome, e non l'uomo, che tiene vivo il nome nella memoria della gente. Il nome rimane nel ricordo non già congiunto con l'uomo e proprio dell'uomo, ma congiunto col luogo e proprio soltanto del luogo. - Non parrebbe che si potesse toccare maggiore celebrità di quella che raggiunge un pontefice. Eppure finiscono per diventare sillabe seguite da numeri romani. L'individuo non c'è più. Chi sa chi sia Benedetto IX o Pio IV? - Vi è una lotta per la vita (per la vita nelle memorie) anche tra i morti. Lottano tra di loro per restare nel ricordo, nella storia; i meno dotati sono soprafatti da coloro che lo sono di più; progressivamente quelli scompaiono e questi restano, finché siano anch'essi soprafatti nella lotta per l'esistenza nel ricordo, che si fa

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sempre più aspra, man mano che la storia prosegue e i partecipanti alla lotta (le «celebrità») crescono quindi di numero. - Nella migliore condizione, da questo rispetto, furono i primi: i greci e i romani. Le «celebrità>> erano ancora poche; essi rimasero, e, per essere rimasti allora, continuano e forse continueranno arimanere. Ma se si pensa al processo della storia umana o al fatto che questa, non solo si svolge oggi su di un'estensione di gran lunga più vasta, ma si svolgerà nell'avvenire durante un tempo immensamente più lungo di quello in cui si è svolta fino ad ora, si tocca con mano che ogni «celebrità» è oramai impossibile. Ogni «celebrità» resta a galla un momento e poi perisce sommersa nel flutto delle nuove «celebrità» senza posa irrompenti.

* * * La storia corona la malvagità. Ecco un pessimo che ha ottenuto dalla sua malvagità il maggior beneficio che possa ottenere un uomo: quello della fama; quello di essere ricordato permanentemente; quello di prolungare la sua vita al di là dei limiti umani. L'immortalità (sia pure relativa), è, anch'essa, un premio, non della bontà, ma della malvagità.

* * * La natura corona l'amoralità. Una fanciulla diventa bella o cresce in bellezza solo se ha almeno una punta di civetteria: si vedono fanciulle originariamente brutte diventar belle, o quasi, unicamente sotto l'aculeo spasmodico di piacere ad un uomo, e diventar tanto più belle a quanti

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più uomini vogliono piacere. La serietà, l'austerità, la rigidità, la religiosità rigorosa fanno invece crescere brutta una fanciulla, o le fanno perdere la bellezza che originariamente aveva.

* * * Provinciale, montanaro non mai disceso dal suo villaggio alpestre in città, mancante totalmente della percezione del mondo in cui oggi viviamo, è chi non avverte che scrivere e parlare in italiano è oramai scrivere e parlare, non in una lingua, ma in un dialetto: in ladino o in friulano, o, tutt'al più, in croato o in bulgaro. I grandi veicoli del pensiero umano sono oggi il francese, il tedesco, l'inglese. Chi non scrive o parla in una di queste lingue, scrive o parla non per l'umanità, ma per il suo villaggio, per la sua contrada, per le quattro comari e i quattro contadini che si radunano nella piazza del borgo. Crescendo la mondialità della specie umana, forse qualcuna di quelle tre lingue diventerà alla sua volta un dialetto, e forse si aggiungerà, come veicolo del pensiero umano, qualche lingua orientale. Ma tutte le altre sono già ora (non ostante le montature del provincialismo nazionalista), non il grande fiume che convoglia la nave del pensiero umano, ma piccoli rivoli collaterali semistagnanti, buoni solo a servire ai bambini per farvi navigare le barchette di carta.

* * * Si consideri come due diverse specie viventi, noi e i gatti ad es., costruiscano in modo differentissimo il mondo dei medesimi oggetti. Noi e i gatti viviamo nello stesso mondo, nelle stesse stan-

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ze, tra gli stessi mobili. I nostri mobili, le nostre stanze sono anche loro, poiché anch'essi ne usano e sanno magistralmente usufruirne per loro profitto e comodo. Pure quale differenza d'interpretazione e costruzione di questo mondo di stesse cose! Anche per essi le nostre cose - persino i nostri libri - hanno un senso, anch'essi vi danno un'interpretazione, vi scorgono rapporti. Ma quali significati e rapporti alieni dalla ragione per cui le cose nostre sono state costruite, cioè falsi, essi vi scorgono! Per il gatto, che passa dalle finestre e penetra nell'appartamento altrui e a cui diventa famigliare l'appartamento altrui come quello del suo padrone, né finestre né porte hanno il senso vero, quello cioè per cui sono state costruite, né la separazione umana di proprietà nemmeno materialmente esiste, e finestre, porte, stanze, abitazioni di proprietari diversi, tutto si dispone nella sua testa in un modo che rispetto al nostro è quello di chi avesse profondamente diversa l'intuizione delle dimensioni spaziali. Il mondo di senso, di interpretazioni, di rapporti che i gatti ricavano dai nostri oggetti, è costruito su di un piano eterogeneo al nostro, il quale, come sappiamo, e non il loro, è quello che corrisponde alla verità, cioè allo scopo per cui gli oggetti furono fatti; costruzione, dunque, d'un mondo su di un piano falso che corrisponde all'incapacità del loro cervello di comprendere quello vero. Il cervello è una specie di radio che riceve onde e comunicazioni. Secondo la sua formazione, ne riceve più o meno. Quando un cervello d'uomo lungo la vita con la meditazione si slarga, esperimenta di scorgere rapporti curiosissimi, impreveduti, che prima non scorgeva. Se l'allargamento potesse essere maggiore, e tale da distanziare il nostro cervello come il nostro distanzia quello d'un gatto, chissà quali rapporti si scorgerebbero e come risulterebbe il reale.

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Questo però è scetticismo, perché ne viene che il reale e il vero non hanno esistenza obbiettiva. Non si dica, con Ardigò e Guastella da un lato e con gli idealisti assoluti dall'altro, che la fondamentale affermazione scettica, che cioè quello che si percepisce o si pensa, poiché si percepisce e pensa diversamente, non può mai corrispondere al vero, è tacita affermazione dell'esistenza d'una verità fuori del dato mentale, con la quale questo involontariamente si confronta (come se si supponesse l'esistenza d'un caldo fuori del corpo caldo), mentre l'ipostasi-verità non c'è. Perché il fatto del diverso modo di percepire, pensare, costrurre il reale obbliga a concludere che: o il reale, pur obbiettivamente esistente, si presenta diverso alle diverse menti; ovvero, se il reale non ha esistenza in sé ed è l'io che lo crea, l'io lo crea (almeno nelle diverse specie) diversamente. Nell'un caso e nell'altro, resta ineliminabile e senza risposta possibile la domanda: dunque, il reale com'è?

* * * Si finisce per avvertire nettamente che non si può reggere alla vita e salvarsi dall'essere divorato dai dolori, se non facendo risolutamente e definitivamente proprio il principio: «non me ne importa più nulla di nessuna cosa»; né dei genitori, né dei figli, né degli amici, né della patria, né dell'umanità, né della mia professione, attività, arte, riputazione, né del mio patrimonio e benessere, né della mia salute, né della mia vita. Tanto dall'aver a cuore queste cose, dal preoccuparsi di ciò, sorgono ad ogni momento ansie, crucci, strazi, disperazioni. - «Non me ne importa nulla»! E bisogna essere capaci di scorgere che il sentimento che tale triviale frase esprime è proprio quello stesso che professarono i pensatori

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più nobili che l'umanità abbia avuto: gli Stoici e Budda. Non cercare che le cose avvengano come vuoi, ma volere che avvengano come avvengono (Epit., Ench., 8); abbandonare tutto al «demone>>, alla sorte, tò napaoouvat mivta tc'p omµoviqi, tj'j wxn (Id., Diatr., IV, IV, 39). «Colui (dice Sakia Mouni) il quale ha compreso che il dolore deriva dall'affetto, si ritira in solitudine come i rinoceronti» (Flaubert, Pensieri, p. 31). Questo vuol dire «non me ne importa nulla»; questo si può fare quando «non me ne importa nulla».

* * * Quanto più il pensiero diventa alto, tanto più scorge con perfetta chiarezza che tutto è inutile.Tutto è travolto dallo scorrimento universale, proprio da un x,stµappouç, come diceva Marco Aurelio (xs1µ6.ppouç iJ t&voÀ(;)v aitia, IX, 29 [«la causa di tutte le cose è un torrente travolgente»]). Quelli che ci appaiono come supremi valori spirituali, sono essenzialmente effimeri: domani diventano cose incomprese, o ridicole, o superstiziose. L'umanità, nei suoi vizi, nei suoi errori, nell'incapacità di raggiungere una sistemazione ragionevole, è assolutamente inguaribile. Lo stesso pensiero più alto, adunque, appunto perché arriva alla netta percezione di tutto questo, è quello che conclude che non resta se non vivere come un animale: dormire al sole, mangiare, bere, fare all'amore; che è dal gatto che bisogna prendere il modello della vita. E chi quindi più di tutti forse si avvicinò alla verità nella questione della condotta che da ultimo risulta la sola logica, fu Epicuro.

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Qualunque cosa ti interessi, essa ti dà preoccupazioni, inquietudini, ansie, lagrime, dolori. Non c'è che un mezzo per essere in pace: ed è di non interessarti di nulla. Per riuscire a non interessarti di nulla devi scorgere che nulla val la pena che tu te n'interessi, che tutto è vano. Quando hai così raggiunta la pace, senti che l'hai raggiunta piombando senza appoggio e resistenza nel vuoto, o veramente buttandoti, come in un buio abisso, nel Nulla.

* * * Quando riempito di cibo sufficiente, giaci comodamente in una sedia a sdraio, all'aria libera, in un giorno sereno e soleggiato, hai netto il senso di qual è lo scopo della vita. La vita non ha altro scopo che questo: vivere, vivere negli individui. Il benessere che, in quella situazione, tu senti, non è tanto un benessere che senti tu, quanto il benessere che sente sé stesso, la vita che si compiace di sentirsi vivere, suo unico scopo. Vivere delle cose elementarissime, aria, luce, cibo; questo è ciò che vuole la vita.Vivendo di esse e in esse, tu obbedisci alla volontà della vita, realizzi in te e mediante te lo scopo della vita: ti rendi, adunque, stromento docile della volontà della Vita, dell'Essere, del Tutto (della volontà di «Dio»). Il resto, ciò che va al di là della vita vissuta in quelle cose primordiali e elementari, aria, luce, cibo; il resto, come p. es. il pensiero, l'arte, la scienza, le costruzioni della civiltà, è aberrazione dal vero solo scopo della vita - degenerazione.

* * * Tu hai bisogno ardente, essenziale d'una cosa. La sospiri, perciò, 402

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la invochi con tutta l'anima. È meno verosimile che la sorte te l'accordi appunto perché ne hai bisogno e la brami. Poniamo che tu stia discorrendo con un amico d'una terza persona, e, mentre discorri di essa, la incontri. «Che combinazione!>> tu dici. Cioè: che caso singolare, raro ad avvenire, questa coincidenza del tuo discorso con l'amico intorno ad una persona e dell'incontro di questa. Combinazione che avviene assai più di rado, che è assai più difficile che avvenga, che non il tuo incontro con quella persona quando non ne parli e non vi pensi. Nel primo caso, infatti, a differenza che in questo secondo, occorre una coincidenza di due eventi, che evidentemente non può avvenire se non assai più di rado che il presentarsi d'uno solo dei due eventi. È chiaro che in un numero determinato di gettate di dadi sarà assai più raro e difficile che si presentino il tre e il sei insieme che non il tre e il sei da sé. Allo stesso modo è molto difficile e pressoché impossibile che si presenti la combinazione dei due eventi «tuo bisogno e brama d'una cosa» e «tua acquisizione di questa cosa», ed è molto più probabile che si presentino ciascuno dei due eventi isolati: tua brama per una cosa che non ottieni, tuo ottenimento d'una cosa a cui non pensavi neppure. - Quello che brami non lo ottieni appunto perché lo brami. Ne rendi inverosimile, o difficilissimo, l'ottenimento appunto col tuo bramarlo, cioè con la più complessa combinazione che il tuo bramarlo rende necessaria.

* * * Contro le «incasellature». Chi potrebbe dire, senza ricorrere a cavilli, che differenza di

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natura c'è tra odi di Shelley come la Mascherata dell'Anarchia e Alla Libertà e le orazioni di Demostene? Splendido slancio di eloquenza, commosso sentimento della dignità umana, fatti politici reali da cui il moto dell'animo dei due autori prende le mosse, tutto è in un caso e nell'altro lo stesso.

* * * Perché si resta sotto all'automobile benché si sappia che camminando per le strade bisogna stare attenti ad essi? Perché in qualche momento in cui si dovrebbe stare attenti, non si sta più attenti di stare attenti. «Dovevi stare attento!». Per poterlo, dovevo stare attento di stare attento. Per poter ciò, stare attento di stare attento di stare ' ' attento. E il regressum in infinitum. E l'impossibilità logica di questo che fa sì che si resta sotto all'automobile.

* * * 'AAciowp [«Genio maligno>>] .

Quando la Grecia è ormai in inoltrata decadenza, sorgono in essa contemporaneamente due uomini, di nobili sensi, onesti, retti, ben intenzionati: Arato e Cleomene. Due uomini che, con uno sforzo concorde, avrebbero forse potuto salvarla. Ed ecco che questi due uomini, lanciando i loro rispettivi Stati uno contro l'altro, finiscono per rovinarla del tutto. E ve li lanciano perché il patriottismo li costringeva a farlo. Perché la visuale sicura, evidente, indiscutibile degli interessi delle loro rispettive patrie li obbligava ineluttabilmente a guerreggiarsi. - Sembra veramente che un ge-

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nio maligno, proprio col presentare ed imporre agli uonùni saggi ed onesti una visuale altamente nobile e morale, una visuale di patriottismo, di dovere civico, di supremo interesse pubblico, si diverta a mandare in rovina le cose umane.

* * * I tragici greci prendevano la materia dei loro dramnù dalle leggende e la accettavano tal quale anche quando ne scorgevano inverosinùglianze o contraddizioni (dr. Croiset, Oedipe-roi de Sophocle, p. 181). Ciò vuol dire che subordinavano la loro mente, la loro ragione, che avrebbe potuto far la critica di quelle leggende, alla creazione anonima e impersonale che aveva generato le leggende medesime, e riconoscevano la superiorità di questa produzione impersonale, anonima, scaturita dal seno del popolo, rispetto alla mente individuale per quanto forte e geniale e alle produzioni che questa avrebbe potuto creare. E il fatto che il popolo greco non ammetteva generalmente nelle tragedie se non le leggende già così anonimamente formate e note, e sempre gli stessi loro dati principali, dimostra che tutto il popolo greco era dello stesso pensiero: che cioè la produzione collettiva, impersonale, anonima ha più pregio di quella individuale, e che non è ammissibile che questa si sostituisca a quella. È anche interessante il fatto che i Greci assistevano in teatro sempre ad eventi già noti, con soluzioni o catastrofi già conosciute. Niente di nuovo; nessun intreccio ignoto, inaspettato. Ciò prova il loro buon gusto. La loro attenzione, così, non era stornata e avvinta da uno svolgimento di fatti ignoto e dall'ansia di conoscerne il 405

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* * * L'o-OÀOç òvetpoç [«abbaglio funesto>>]. La nostra vita è un continuo inganno. Noi siamo incessantemente durante tutta essa presi nel laccio dell'inganno. Siamo ingannati dalle nostre brame, passioni, desideri, giudizi di valutazione, cioè dall'Essere in noi e attorno a noi, cioè dagli Dèi o da Dio. Qualunque oggetto, fatto o conseguimento (un podere o una casa, un libro o una donna) nel momento in cui vi aspiriamo ardentemente, risulta alla nostra ragione, con evidenza insuperabile, meridiana, matematica, quale la meta che bisogna raggiungere, che è doveroso raggiungere, spesso ad ogni costo, e spesso essa ci risulta la sola meta che dia pregio alla vita. Dopo anni, quando abbiamo realizzato l'aspirazione, e quando la sua realizzazione ci ha impigliati e racchiusi in una sistemazione 419

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di vita che non possiamo ormai più dissolvere e mutare, noi constatiamo con altrettanto insormontabile evidenza che l'oggetto, il fatto, il conseguimento, non solo non hanno nessun valore, ma non sono che fonte di noia e dolori. Ci accorgiamo di . Siamo presi in un o-OÀ.Oçovetpoç dopo l'altro.Tutta la nostra vita non è che un o-OÀ.Oç ovetpoç. Zeus ci trascina lungo essa di inganno 1n inganno.

* * * doA.6µ11nv o' érn:éttav 8sou / riç o.v~p 8vatòç éLAi>ss1; (Esch., Pers., 93 [«Ma chi fra i mortali potrà sfuggire al fraudolento inganno di un dio?»]). - Il fatto che solo dopo dieci o vent'anni ci si accorga che fu un errore quell'atto decisivo della nostra vita che abbiamo allora compiuto con l'evidenza che era una cosa ottima. - Avvenimenti come quelli narrati da Zweig in Ventiquattr'ore della vita d'una donna o da Tolstoi nell'episodio Anatol-Natasa in Guerra e Pace (Parte VIII, c. X e s.), dimostrano come improvvisamente la ragione scorga un determinato atto come alcunché che si deve assolutamente fare e senza del quale la vita non merita più d'essere

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vissuta. Un determinato atto che poco dopo appare una pazzia. Fu una pazzia quell'atto, o è una pazzia il giudizio che dopo portiamo su di esso?

* * * (Alceo, 73). «Ancora un poco e son morto e tutto è finito. Se ciò che fo ora è conforme alla natura di un essere intelligente, socievole e isonomo a Dio, che cerco io di più?» (Marco Aurelio, VIII, 2; e spesso similmente altrove). Dall'istesso punto di partenza, cioè la brevità, l'effemerità, l'insignificanza, la nullità della vita, uno trae la conseguenza «godi», l'altro trae la conseguenza «virtù». E ha ragione tanto l'uno quanto l'altro.

* * * Il mistero del dolore che sveglia o della sensazione non sentita. Spesso accade che ci si corica col mal di capo e ci si addormenta ugualmente; ma dopo un'ora il dolore a poco a poco risveglia e ci si ritrova risvegliati col preciso mal di capo che si aveva prima di addormentarsi. Poiché il dolore è sempre quello, identico, c'era prima e c'era dopo, e fu quello che si sentì chiaramente aver a poco a poco risvegliato, così è evidente che il mal di capo, lo stato di dolore continuò ad esserci anche durante il sonno. 421

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Come è possibile? Dov'era, di chi era, in che coscienza stava la sensazione che, essendoci, tale e quale, così prima, come dopo del sonno, e avendoti risveglialo, sei costretto a dire che abbia continuato anche durante il sonno? Durante il sonno la sensazione non l'hai sentita. E come può una sensazione non sentita esistere, ed esistere al punto di aver a poco a poco scosso dal sonno? Del pari. Come può avvenire che ci si muova nel sonno per essere stati leggermente toccati, senza sentirlo, cioè sotto l'azione di una sensazione non sentita? Mistero ... o banalità spiritualistica, che si dissipa se si pone anima = cervello, e se si pensa che durante il sonno, esisteva, non il dolore, ma la situazione cerebrale originatrice del dolore, la quale durante il sonno cessò momentaneamente di originarlo, quasi stanca di farlo, e, dopo un po' di riposo, riprese a produrlo; e che il toccamento, il quale, non sentito, pure determinò un movimento nel sonno, lo determinò mediante un processo puramente meccaruco.

* * * Perché nasce, dura, cresce tra gli individui (e anche tra i popoli) la discordia? Perché quando è una volta nata non è più possibile o è difficilissimo ritornare in pace? Per la viva coscienza del bene. Cioè, perché non avviene già che uno dei due individui tra i quali è nata la discordia abbia la coscienza di essere nel male e nel torto (in tal caso il ritorno alla pace sarebbe facilissimo); ma avviene che ciascuno dei due è sicuro che egli è nella ragione e nel bene, e l'altro nel torto e nel male. È, vale a dire, perché il bene, la ragione, il giusto è ravvisato dai due con vivissima sicurezza in modo opposto,

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che non può tornar la pace, nessuno volendo e potendo chiudere gli occhi al bene, alla ragione, al giusto (a quello che egli vede come tale) e rinunciarvi. Proprio dalla viva, irriducibile, tenace coscienza del bene, nasce la discordia, ossia il male. Come pensare a un ordinamento morale o a un reggimento spirituale del mondo?

* * * Un figlio di genitori coscienziosamente irreligiosi, il quale si dà in braccio alla religione, colpisce i genitori al cuore: li abbandona e li rinnega nelle idee che hanno più care, fa sua l'idea a loro più avversa, sanziona e proclama con loro scorno il trionfo di questa sullo spirito che è a loro più vicino, anzi che fa quasi parte del loro stesso spirito. Se egli avesse sufficiente apertura mentale ciò però dovrebbe bastare a provargli la falsità della religione. Perché il fatto che un figlio operando quello che egli scorge come il sommo bene, come il bene che non si può a meno d'eseguire senza essere disperati e perduti, cagioni, proprio con questa sua effettuazione di ciò che ai suoi occhi è il massimo «bene», un dolore mortale ai suoi genitori, dimostra ad evidenza che le cose del mondo, e qui del mondo spirituale, sono sistemate e procedono in modo del tutto incoerente e crudelmente assurdo e che quindi nessun Dio vi presiede. È palmare che non può presiedere un Dio (ma solo, se mai, un demonio, di cui noi siamo il giocattolo, 1ta.iyvtov, come diceva Platone) a un mondo in cui conflitti, strazi, tragedie, dolori mortali nascono, non già da odio o malvagità, ma, per suprema ironia, precisamente dalla volontà di «bene», ossia da ciò che il «bene» stesso, la volontà del , è quello che fatalmente li produce, per essere il bene in 423

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modo incoercibile visto disparatamente o oppostamente dai vari spiriti. Perciò il figlio dell'esempio in discorso dovrebbe, se avesse sufficiente intelligenza, proprio dalla irresistibilità con cui gli appare il dovere di diventar religioso, proprio dalla chiarezza e imperiosità con cui la «voce di Dio» lo chiama a sé, dedurre che la religione è falsa e Dio non esiste.

* * * Un figlio di genitori coscienziosamente non credenti si dà in braccio alla religione. Con ciò fa quel che egli scorge come bene. Fa insieme quel che i genitori vedono come cosa rovinosa e riprovevole, ossia come male. Egli dà un dolore mortale ai genitori (lo stesso dolore che essi avrebbero nel vedere un loro figlio sano e promettente diventare a poco a poco cieco o rachitico o scemo). Il dare un dolore agli altri, e specie ai genitori, è male. Pure il figlio non può a meno di dare questo dolore ai suoi, cioè di commettere questo male. Non può a meno di commettere il male in forza del bene, sospintovi cioè da quel che egli scorge come bene. Perché cioè la sua ragione e la sua coscienza gli dicono che ciò che egli fa è bene, è dovere, è il dovere più profondo della vita. Per dovere, per il bene, per la visione certa e irresistibile del bene e del dovere, egli commette, per forza, sospintovi dal più impellente imperativo categorico della propria più sincera e buona coscienza, il male di ferire profondamente l'animo dei genitori. Un figlio di genitori morigerati si dà a quella vita che si chiama abitualmente >. Socrate risponde: «Ti pare che sia piacevole aver l'anima costituita di vasi che perdono sempre e che bisogna di continuo affaticarsi a riempire? Conviene, invece, che una volta riempito il vaso dell'anima, esso rimanga in tale stato, e non ci sia altro da desiderare». Callicle replica: >, in quanto io posso usarne del pari a mio beneplacito con un altro mio senso, la vista?

* * * Avviene del dolore come del romore nelle grandi città. Tu ti accorgi che un grande romore, p. e. quello del passaggio d'un automobile, non cessa se non per farti sentire un romore minore, p. e. quello della radio dell'appartamento di fronte, che quel primo romore più forte semplicemente copriva. Così del dolore. Sottostiamo non a un solo dolore, ma a una stratificazione di dolori. Uno, intenso, vivissimo, ti assorbe tutto. Ti pare che sia il solo che incombe su di te. Ma la cessazione di esso ha questo solo effetto di farti sentire la presenza d'un altro, che esisteva sotto il primo, e che dianzi, per la intensità di quello, era semplicemente non avvertito. Viviamo sotto strati di dolore, uno soggiacente all'altro, e che per la presenza di quest'altro non è percepito, ma è pronto a far sentire la sua punta appena quest'altro scompare.

* * * 435

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Sono arrivato al punto che per me capire, avere l'apprensione immediata, che la vita individuale e collettiva è inutile e assurda, è l'unica prova di intelligenza, di comprensione profonda delle cose; e che attribuire un pregio, un valore, un fine alla vita è la prova tipica che si possiede un cervello inguaribilmente bambinesco. «Qui rerum naturam, qui vitae varietatem, qui imbedllitatem generis humani cogitat... tum vel maxime sapientiae fungitur munere>> (Cic., Tusc., III, XVI, 34 [«Chi medita sulla natura delle cose, sulla mutevolezza delle vicende della vita, sulla debolezza del genere umano ... allora specialmente adempie al compito del sapiente»]).

* * * Lo sviluppo della civiltà toglie necessariamente sempre più la credenza in Dio. Non per ragioni intellettuali, per il progresso delle scienze o simili. Ma perché quanto più la civiltà avanza e si fa complessa, tanto più abbiamo l'avvertimento immediato di vivere in balìa del caso assoluto. La credenza in Dio reggeva ancora all'epoca della civiltà del villaggio e dell'artigianato, quando tutto procedeva al modo consueto, quando l'andamento delle cose era in generale costante e previdibile, quando quasi mai elementi d'imprevisto e d'accidente venivano a turbarlo. Il falegname o il fabbro con la sua bottega, il piccolo proprietario col suo campo, erano quasi altrettanto certi del loro lavoro e del loro pane per domani quanto del fatto di rivedere il sole spuntare sull'orizzonte. Quando mai accadeva che un padre di famiglia uscendo la mattina di casa venisse schiacciato da un veicolo? Una volta in parecchi anni. Era un fatto eccezionale.Tutto procedeva con una tranquillità uniforme, su cui si poteva quasi sicuramente contare. Si vedeva, 436

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per così dire, regnare un ordine stabile e solido, e si poteva quindi concepire l'esistenza di Dio. - Oggi, all'incontro, tutto procede nel modo più impensato, non si sa assolutamente più quale il domani sarà, l'uomo che oggi ha un'azienda o un lavoro prospero non sa se domani non dovrà andar a mendicare, colui che è oggi milionario non sa se domani non dovrà fare per vivere il facchino del porto. Ogni mattina leggiamo sui giornali che in una sola giornata ventine d'individui sono rimasti sotto gli automobili, e persino sotto gli aeroplani. Non si è più certi se uscendo di casa la mattina potremo rientrarvi vivi la sera. Sentiamo nettamente di essere in preda del puro accidente. E questo senso che l'epoca moderna dà all'uomo d'essere di continuo nelle mani del caso assoluto, toglie a poco a poco e finisce per escludere del tutto la possibilità di credere in Dio.

* * * Si insegna bene solo quello che non si sa. Quando non conosci un periodo storico, una scienza, un sistema di filosofia, e lo vai imparando, lo sforzo che fai per comprenderlo e penetrarlo suscita nella tua mente una folla di argomenti e di idee che servono all'interpretazione e alla spiegazione di ciò che non sai e vuoi apprendere e comprendere. Siccome hai la volontà e il bisogno di comprendere ciò che non sai e devi insegnare, te lo fai diventar lucidissimo anzi tutto a te stesso. Ne «scopri» l'interpretazione come una cosa nuova, e, quando insegni, presenti agli altri questa interpretazione e spiegazione che sei riuscito a farti per te. Essa è ancora fresca, viva, risente dell'attività fervida e chiara che hai dovuto mettere in opera per comprendere tu stesso. Dai a coloro

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a cui insegni gli argomenti limpidi, elementari, che hanno servito a te per capire. Fai che coloro a cui insegni, seguano, anzi rifacciano essi stessi, il processo che serve alla penetrazione della scienza o del sistema in questione, e che ha servito or ora a te. E insegni benissimo. - Quando la cosa l'hai capita, ricapita, ripensata ormai da anni, quando la sai, tutto entro la tua mente si riassume in due o tre frasi aride. Tu sai oramai perfettamente che quelle due o tre frasi aride rendono esattamente il problema. Lo vedi dentro di te perfettamente dilucidato da quelle due o tre frasi. La cosa è tanto chiara! Non ti pare possibile che occorra a farla capire più di quelle due o tre frasi. Usarne un maggior numero ti parrebbe un parlare a deficienti, a bambini; e sopratutto ti darebbe la noia che desta lo spiegare lungamente cose evidenti. Insegni con quelle due o tre frasi, e insegni male. Insegni male, perché sai.

* * * I tre nemici. Esame mattutino Che cosa mi farà Che cosa mi farà Che cosa mi farà

di coscienza. oggi di male la Natura? di male lo Stato? di male l'Uomo?

* * * Quando «l'ingénu>> vede formarsi qualche costruzione politica o sociale fondata sul delitto e sull'immoralità, che ha per sua arma la falsificazione delle coscienze, la corruzione in grande stile, la menzogna, e per base il servilismo e la bassezza, dice: è impossibile 438

che duri; le supreme incrollabili leggi dell'eticità vi ostano, insuperabilmente. Per illuminare «l'ingénu>>, basterebbe forse fargli leggere, tutta d'un fiato e senza interruzione, la storia da Alessandro il Macedone alla conquista romana della Grecia, quella di Costantino, di Giustiniano e Teodora, quella della rivoluzione francese, dei due Napoleoni, quella inglese da Elisabetta fino quasi alla metà del '700. Allora forse «l'ingénu>> si accorgerebbe quale sorta di cinematografo sia la storia umana; e come quasi tutti i grandi personaggi storici, gloriosi e ammirati, fondarono la loro potenza e la loro gloria sul delitto e sull'immoralità. La realtà - la storia - è la più dolorosa e gigantesca confutazione delle esigenze elementari e somme della morale, e dell'ingenuità di coloro che credono che queste possano aver la menoma influenza sulle cose del mondo.

* * * E se licito m'è, o som1no Giove Che fosti in terra per noi crocifisso, Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? (Purg.,Vl, 118).

Questo si chiedeva Dante al suo tempo, vedendo le cose politiche e sociali andare a rovescio. Questo ripetiamo noi al tempo nostro. Questo ha ripetuto ogni generazione. Che vuol dire se non che il «sommo Giove» tiene sempre gli occhi rivolti altrove? Che egli non cura né regge le cose umane? Ossia che (almeno praticamente) non esiste? Che tutto quindi procede senza l'ombra di reggimento divino in balìa del mero caso?

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Dov'è la provvidenza? domandava (e, non ostante la risposta di Musonio, giustamente) un romano quando Galba fu assassinato (Epitt., Diatr., III, X:V, 14). È a più di un millennio di distanza la stessa domanda di Dante.

* * * Quanto più si diventa colti, tanto più si diventa necessariamente disperati. La conoscenza della storia ti dà la disperante certezza dell'assoluta inguaribilità dell'umanità. La conoscenza della scienza quella della fine di tutto il nostro mondo e quindi dell'inutilità di ogni cosa. Ha ragione l 'Ecclesiaste: «Dove è molta sapienza vi è molta molestia; e chi accresce la scienza accresce il dolore>> (I, 18).

* * * Ricetta di felicità. Comprare una cartella d'una lotteria di miliardi, coltivare caldamente la speranza e la quasi certezza di vincere, predisporre già nel pensiero come si vivrà quando si avrà vinto. Poi quando l'estrazione viene, e non si ha vinto, comprare una cartella della nuova lotteria e comportarsi nel medesimo modo. Quindi acquistare la cartella d'una terza e via così. In tal modo vivi felice, d'una felicità rosea, piena: - predsamente come e perché vivono felici coloro che credono fermamente nell'immortalità dell'anima. Questo è anche il grande beneficio umano arrecato dalle lotterie. Come, insomma, avviene nel campo dell'amore che talvolta si 440

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sogna di tenere in braccio la donna che si desidera, e, pur non tenendola, la soddisfazione è quasi uguale a quella che si ricaverebbe dal tenervela realmente, così in generale uno dei migliori mezzi per passare il tempo, anzi per essere felici, è quello di supporre, fantasticare, sognare esistente e conseguito ciò che ardentemente si desidera; di immergersi tutto in questa fantasticheria e in questo sogno, di svolgerlo lungamente ad occhi aperti in tutti i suoi particolari. Tra vita di sogno e vita di realtà c'è la differenza d'un fùo.

* * * Un senso di sostanzialità puoi averlo forse sintanto che il piccolo villaggio in cui vivi, o l'ambiente sociale della città in cui dimori, che conosci e ti è proprio, viene da te tacitamente concepito come il centro del mondo, e te centro di questo centro. Dal momento che il tuo sguardo s'allarga e vedi che l'ambiente in cui vivi (qualunque sia), in cui hai affondato le radici della tua vita e tessuta questa stessa vita, è, nell'enorme vastità dello spazio e del tempo, perduto in una lontananza infinita e smarrito come in un pelago senza fondo e senza confini, anche tu perdi ai tuoi stessi occhi ogni sostanziabilità ed ogni ombra di permanente valore, e ti senti veramente come colui «mortua cui vita est prope iam vivo atque videoti» (Lucr., III, 1046 [«che conduce una vita quasi da morto già mentre è vivo e vede»]).

* * * Noi vediamo nella natura che la vita si regge sulla reciproca distruzione; le specie viventi non possono vivere che nutrendosi 441

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l'una dell'altra; tutto è in natura organizzato e fondato sulla necessità di questo mutuo divoramento. Non è diversamente nel campo umano, spirituale e sociale. La proiezione in questo di quella situazione è la concorrenza: le industrie, le case commerciali, le banche che si erigono le une sulla rovina delle altre; la notorietà, la fama che si fonda oscurando un'altra notorietà, un'altra fama. Credette Cimabue nella pittura ...

L'~ere; questo è, ipso facto, il Male.

* * * In tutti i campi, il puro e semplice fatto dell'incremento, dello sviluppo, della piena fioritura d'una data situazione, produce automaticamente la rovina della situazione stessa. Si gustava la musica, quando si andava a teatro tre o quattro volte durante un carnevale e l'andarvi era un avvenimento. Ora che coi grammofoni e la radio si ascolta la musica con ogni comodità e facilità a tutte le ore di tutti i giorni e di tutte le notti, la musica comincia a dare veramente un senso di nausea.

* * * La storia greca sembra essere un raccourci della storia in gene-

rale. Da Pericle che corona l'edificio di grandezza a Demostene che stende disperatamente le braccia a puntellarlo ormai crollante, corrono appena cent'anni. Si direbbe che sono passati dei secoli. I

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Trenta Tiranni, che hanno una parte così momentosa nelle narrazioni della storia umana, durarono al potere appena un anno: oggi simili governi non si esautorano nemmeno in dieci. In due anni Alessandro disfa il più grande impero del mondo e ne costruisce uno suo sulle rovine di quello; e in un tempo di poco più lungo, la nuova fantastica costruzione si sfascia. Sembra che, contrariamente a quanto si crede quando si afferma che questa nostra è l'epoca della velocità, il ritmo della storia si sia oggi rallentato in confronto col periodo greco.

* * * La morale non è altro che un «così si fa» che diventa un «così

si deve fare». Così si fa! Che cosa me ne importa? Che ragione c'è che io sia tenuto a riconoscere che il «così si fa», ciò che fanno i più, la moltitudine, o\ 1toÀÀ.OÌ., debba diventare anche per me un «così si deve fare»?

* * * In tutte le tue aspettazioni - dal pranzo imminente o dal prossimo ritrovo tra amici, sino all'andamento politico della tua patria, ai destini dell'umanità, al fato che ti attende dopo morte - la soluzione spiacevole, dolorosa, disperante è la vera. L'altra, è quella che si vuole, che si desidera. E appunto perciò è falsa: perché cioè è il tuo desiderio che essa si avveri, la tua volontà, che te la fa apparire probabile, verosimile, certa. La forza d'intelligenza sta nel tener fissa davanti a sé la soluzione spiacevole, dolorosa, disperante, perché sebbene disperante, e appunto per questo che è disperante, è la vera.

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* * * Tutto ciò che facciamo, scrivere dei libri, fare all'amore ecc., è in fondo, in senso largo, un passatempo: un modo di vivere senza pensare alla vita. Ora forse il più interessante e drammatico di tutti questi passatempi è quello di essere in miseria assoluta, di dibattersi per procurarsi giorno per giorno da vivere, e di star a vedere, con l'istessa intensità d'aspettativa con cui il giuocatore attende di constatare se il numero su cui la roulette si ferma è quello sul quale egli ha puntato, se i vari tentativi che per ciò si fanno riescono o no. Perché è per moltissimi così interessante la caccia? Per atavismo. Perché era il mezzo con cui gli antichissimi nostri progenitori si procacciavano il cibo. Se quella forma di procurarsi il cibo è rimasta nel sangue degli uomini come alcunché di interessante e divertente per sé, anche quando non ce n'è più bisogno per il cibo, vuol dire che ogni forma di «caccia>> giornaliera al cibo può presentare lo stesso interesse e divertimento.

* * * Per chi ha scritto durante tutta la vita, ogni avvenimento, lieto o doloroso, che lo tocchi, si prospetta immediatamente come , «essere», questo selvaggio continuerà nella vita immortale a pensare così, o potrà pensare col pensiero d'un Newton e con un pensiero ancora più grande? E in tal caso sarà ancora lui? ritroverà e si sentirà sé stesso? E Newton penserà col suo pensiero o con quello probabilmente ancora più profondo d'un matematico di qualche millennio 451

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venturo, rispetto al quale pensiero anche quello di Newton potrà risultare arretrato, infantile, barbaro? Con quale pensiero finiremo per pensare nella pretesa vita immortale? Ancora una volta, né con quello del selvaggio, né con quello di Newton, né con quello di me, né con quello di te, né con quello di lui: - cioè con nessuno.

* *

*

Nella vita futura «ritroveremo i nostri cari». - Durante la tua esistenza quaggiù ti furono care persone, e sei stato loro caro, la cui contemporanea convivenza con te non è possibile. P. e., le donne che hai successivamente amate e da cui lo fosti. Ti sarà permesso scegliere quale di queste persone «care» vuoi ritrovare al di là e con cui convivere eternamente? E se quella che tu scegli per ciò (e a cui pure furono prima o dopo di te cari altri uomini) ne scegliesse un altro?

*

* *

Sputare fuori la vita come un boccone troppo disgustoso; scrollarla giù dalle spalle come una croce troppo pesante.

* *

*

Tilgher scrisse una volta che la caratteristica del mio pensiero è . Ha colpito nel centro. È la rivolta contro il reale, in quanto questo è prevalentemente costituito di male. È (miticamente espresso) la rivolta contro Dio. La rivolta contro Dio, la bestemmia, è (contrariamente all'attitudine stoica) 452

l'espressione suprema della moralità e della religiosità. È l'esplosione dell'indignazione etica dell'individuo che non può tollerare il male e patteggiare col male, e che, vedendo la realtà intessuta sopratutto di male, vedendo la storia umana quasi esclusivamente dominata e condotta da uomini quali Falaride, Dionigi, Tiberio, Caracalla, i Borgia, Pietro il Grande, mai da uomini come Socrate, rarissime volte da uomini come gli Antonini (bisogna frugare nella memoria per trovare altri nomi da mettere accanto a questi ultimi; ma come invece si affollano da sé altri nomi da mettere accanto ai primi!) pensa che l'essenza della realtà (miticamente: Dio) tenga assai più di Dionigi e Falaride che di Socrate e degli Antoniru; e perciò la maledice.

* * * La morte sarebbe ancora tollerabile se non ci fosse altresì la

morte della morte. - Se l'uomo che muore affettuosamente rimpianto nelle braccia dei suoi, continuasse a vivere nella memoria entro il loro cuore. Se i suoi non se ne andassero progressivamente dimenticando, e se nella seconda generazione di lui non rimanesse già più che il vago nome, e nella terza o nella quarta anche questo non venisse obliterato. Se non ci stesse dinanzi il senso di questa nostra totale estinzione e disparizione, di questo nostro contare nella eternità, ossia nella realtà, nell'Essere, quanto una leggera nebbia momentaneamente apparsa e tosto dispersa senza lasciar più nemmeno l'ombra d'una traccia.

* * * 453

SC:OLII

Ho imparato il latino, il greco, il francese, il tedesco, l'inglese. Ho radunato nel mio cervello una vasta cultura. Con che frutto? Ora muoio. Tutto ciò che ho imparato e che ho raccolto nella mia mente, si disperde come nebbia ad un soffio di vento. Forse il frutto fu che ciò ha servito a sviluppare le mie idee, ad arricchirmi di idee, e quindi a scrivere, a pubblicare? Anche ciò fra pochi anni è dimenticato e scomparso, è esattamente come non fosse stato. Tutto si riduce in nulla. Quando questi pensieri vengono a galla, si è maturi per la fine, per la morte, per il ritiro nella foresta come gli indiani, per il Nirvana. Non importa più di nulla: genitori, figli, parenti, amici, patria, umanità, politica, arte, letteratura, cultura, fama. Più di nulla d'umano. Si ha il senso che tutto ciò che è umano sia distaccato, vanificato, lontano. Se ne è visto, se ne sente, il nulla. La sentenza di Terenzio si rovescia: . Cioè: il mio me è destinato a perire completamente, i suoi elementi si dissiperanno per sempre nel tutto o Cosmo; ed io devo essere consapevole di questo mio totale annientamento, e accettarlo, e riconoscere che esso solo e la sua accettazione sono il vero sradicamento del «caro io» (a cui invece, mediante l'una o l'altra forma di immortalità, per quanto vaga, si sta aggrappati), sono la vera rinuncia e «abnegatio sui» in cui consiste l'essenza della religione. Solo il Tutto o Cosmo vive eterno. Gli individui passano per sempre, e non servono con la loro successione che a far persistere la vita del Tutto, come le goccie che passano e cadono a far persistere l'arcobaleno.

* * * Spinoza. lo, o questo o quell'ente individuale, non sono necessario alla vita dell'Essere, o Tutto, o Natura naturans, o Dio. Io, o questo o quel singolo individuo, possiamo benissimo sparire e spariamo in effetto, senza che ciò nuoccia menomamente alla vita dell'Essere 455

o Tutto o Dio. Questo è: i modi finiti sono contingenti. Ma alla vita dell'Essere, o Tutto, o Dio, è però necessaria la totalità successiva (cioè che si svolge in successione, con l'eterna sostituzione di nuovi individui a quelli che spariscono) delle singole individualità, perché questa vita di tutte esse, è la stessa vita dell'Essere, l'Essere vive solo in tale e mediante tale totalità di individui e sparita questa anch'egli sparirebbe. Questo è: esistono modi infiniti, ed essi sono non contingenti, ma necessari.

* * * Dio e l'individuo. L'individuo è nulla. Esso non serve che alla vita dell'Essere, Cosmo, Tutto (Dio). Rispetto alla totalità della sostanza (dice Marco Aurelio, X, 17) l'individuo è un grano di fico, rispetto alla totalità del tempo un giro di trapano. Così Spinoza; così, e più, le filosofie indiane. Ora, questo è precisamente ciò che rende impossibile l'atteggiamento stoico di acquescenza e accettazione, o la rassegnazione cristiana (c'è in ciò qualcosa della stessa viltà del cittadino che acquesce a qualunque potere o tirannide). IITutto, il Cosmo, l'Essere (Dio), è il Moloch che si nutre delle nostre carni, e la cui vita si erige sulle nostre morti. Insorgervi contro e maledirlo. Certo, questa è l'attitudine dell'«angelo ribelle•>, secondo la mitologia cristiana. Ma è una ribellione naturale e dignitosa. Quanto in ciò meglio degli Stoici Leopardi nel passo famoso della sua lettera 24 maggio 1832 a De Sinner! «Quels que soient mes malheurs... j'ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d'une prétendue

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felicité future et inconnue, ni par une !ache résignatioro> [«Quali che siano le mie disgrazie... io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso né con delle frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione>>] . L'antitesi è tra il Tutto che vuole l'individuo a puro e semplice servizio del suo permanere come Tutto: nascite, morti, ancora nascite e ancora morti delle individualità perché ciò serva unicamente alla perenne e perennemente nuova e giovane vita del Tutto - e l'individualità che vuole essere per sé. Si vedrà se vincerà Dio o l'Individuo.Vincerà il primo se continueranno nascite, morti, ancora nascite e ancora morti, unicamente perché regga e viva il Tutto.Vincerà il secondo se il cerchio delle nascite e morti sarà spezzato e l'individuo conquisterà la vita eterna senza più morire né nascere. Cioè se l'individuo diventerà esso Dio. Vincerà, anche, l'individuo se, risultando quanto ora detto impossibile, egli, come il ragazzo spartano, di cui narra Seneca (Ad Luc., Ep. LXXVII, 14) che fatto schiavo, al primo ordine umiliante datogli, esclamò: ] e si spezzò il capo nel muro, si rifiuterà di servire più a lungo con la sua vita e la sua morte unicamente ali' esistenza del Tutto, al suo perdurare, al procedere capriccioso del suo corso, e, lasciandosi estinguere come individuo e come specie, farà sparire l'Essere, cioè ucciderà il Tutto, trascinerà nella sua morte anche la morte del suo tiranno. E' la soluzione di Schopenhauer.

* * *

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«Imperscrutabile>>. Perché alcunché (il mondo, il male nel mondo, le sventure che colpiscono i buoni ecc.) risulta assurdo alla ragione umana, così ci deve essere un'altra ragione davanti alla quale l'assurdo si spiega, sparisce, e quindi diventa per noi, non assurdo, ma «imperscrutabile». Perché il mondo, l'unico mondo che si conosce, è iniquo e assurdo, così ci deve essere il Bene Sommo o Dio. Dalla constatazione del male si ricava l'esistenza del bene. È il ragionamento della pazzia. E non si capisce che, poiché noi non conosciamo che una sola ragione, la nostra, dire: «ci dev'essere un'altra ragione», equivale a mettere un segno negativo davanti a ragione (all'unica data, la nostra); ossia quella cosiddetta altra ragione, risulta non-ragione, puro caso o meccanismo.

* * * Rifugiarsi nel «mistero», nell', è una vecchia e vana cantafera. Bisogna saper comprendere che dire «mistero», «imperscrutabilità>>, è porre la negazione di ciò che (soltanto) noi conosciamo come ragione, di ciò che ci risulta l'unica ragione esistente, ossia riconoscere appunto che si tratta di assurdo o di caso, che per debolezza mentale mascheriamo con le parole ragione non-nostra, superiore, divina.

* * * Rècati presente la mentalità del bambino. Si mette in testa un cappello di carta a punte con pennacchio pure di carta, prende in mano un'asta di legno con un pezzo più breve di legno inchiodato 458

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a croce verso una delle estremità: la spada. La realtà è: bambino, cappello di carta, pezzo di legno. Sopra questa che è la realtà il bambino costruisce un mondo di fantasie e di sogno: egli è Carlomagno alla testa dei suoi paladini, o uno dei tre moschettieri, o quel moderno generale d'esercito le cui gesta lo hanno maggiormente colpito. Questo mondo, da lui costruito, di fantasia e di sogno, è pel bambino più reale della realtà (bambino, cappello di carta, pezzo di legno); e sotto quella costruzione di fantasia e di sogno, questa realtà per lui scompare del tutto. È la mentalità in cui domina totalmente la fantasia; la mentalità fantastica, a rigor di termini pazza. È la stessa mentalità dell'uomo primitivo. Ed è, proprio la stessa, quella dell'uomo religioso.

* * * Che la credenza religiosa sia una pazzia lo si vede dai casi estremi (mania religiosa ecc.). Ma dal fatto appunto che la vediamo chiaramente pazzia in questi casi estremi, risulta che ogni anche più lieve traccia di credenza religiosa (il menomo distacco dal puro e semplice materialismo) è il germe di quella pazzia: il germe che sviluppato dà quell'esplicito risultato di pazzia, che in quei casi estremi si fa pienamente palese. E' proprio esattamente vero relativamente alla credenza religiosa quello che Cicerone dice delle passioni. «Aegritudo autem ceteraeque perturbationes amplifìcatae certe pestiferae sunt: igitur etiam susceptae continuo in magna pestis parte versantur» (Tusc., IV, XVIII, 42 [«Ma la tristezza e le altre passioni, almeno quando aumentano, sono rovinose: dunque anche al loro insorgere hanno immediatamente una tendenza in gran parte distruttiva»]).

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Scorn

* * * Il carattere essenziale della pazzia è quello di prendere come cosa realmente esistente un fantasma mentale, per quel fantasma mentale non contando, non vedendo, spesso distruggendo l'esistenza di persone vive e concrete. In altre parole, il carattere della pazzia è di attribuire l'esistenza ad alcunché che non è visibile e tangibile, carattere che è altresì proprio della mentalità primitiva o infantile, essa pure fantastica, e, in un certo senso, ..ACL ç èxpfiv 7tEJt0t'Tl1CéVClt tÒV UlÒV 'tO'U 8EOÙ. 0EÒç CÒV OÙo' èm tOùt'

ènéµ..a.en. Ttç oè 7t(l)7t0tE, 7tEµ>], 67 [«Essendo Dio, non fu certo mandato per restare nascosto»], 70 [«Chi mai, inviato come messaggero, e dovendo annunciare quanto ordinatogli, si mantiene occulto?»]; ed. Glockner).

* * * Bisogna essere pazzi, letteralmente, non metaforicamente, per credere che Dio abbia «salvato>> il mondo, come il Cristianesimo favoleggia, che abbia avuto bisogno per salvarlo di ricorrere a quel modo stranissimo, che l'abbia salvato in quel tempo e non prima, lasciando fuori tutta la splendida umanità greco-romana, e in quel luogo, lasciando fuori l'umanità dell'Estremo Oriente e del Nuovo Continente. Anzi che abbia avuto il bisogno di «salvare»; cioè, invece di mettere sin da principio l'umanità in condizioni di stabile salute, si sia divertito a lasciarla precipitare per poi salvarla. Basta, a una mente non soggiogata dalla «vertigine mentale», dalla